Schiuse gli occhi
che l’alba era appena
iniziata, lasciando filtrare un velo leggero di luce così pallida,
da far sembrare lo spazio racchiuso tra quelle quattro mura etereo,
quasi magico, come appartenente ad un mondo totalmente separato da
quello che lo aspettava oltre la sua soglia.
E forse era
davvero così.
Fin dalla prima
volta in cui aveva mosso i primi passi su quel parquet chiaro, nel
suo cuore spaventato, si era fatta spazio la sensazione di aver dato
il via ad un meccanismo che gli avrebbe cambiato totalmente la vita
e, di lì in avanti infatti, ogni volta che vi aveva fatto ritorno –
che fosse col sorriso, con la rabbia o le lacrime – quella stessa
sensazione era sempre rinata dentro di lui.
Per Justin, il
loft era diventato una sorta di accogliente nido; qualcosa da cui non
riusciva a separarsi; ed anche in quel preciso momento non riuscì a
resistere dallo stringersi come un bambino al cuscino, soprattutto
quando i suoi occhi chiari incontrarono la schiena di Brian.
Durante tutta la
notte non era riuscito ad addormentarsi, e per tutto quel tempo in
cui era rimasto pienamente vigile, non aveva sentito muoversi neanche
di un millimetro il suo uomo, né aveva percepito un suono provenire
da lui, se non quel lieve fischio che emetteva quando respirava, e a
cui ormai si era abituato ad ascoltare ogni volta che dormivano
insieme, quasi fosse la sua ninna nanna.
Inspirò
profondamente, con gli occhi puntati su quella pelle perfetta,
lievemente rischiarata dalla luce, ed allungò una mano con
nell’intento di
lasciarci una dolce carezza. Giunse quasi a toccarla con la punta
delle dita, ma si bloccò e le richiuse a pugno, quasi si fosse
scottato o si fosse già arreso al dover vivere lontano da momenti
come quelli.
Si morse le labbra
e, con gli occhi divenuti ormai liquidi per le lacrime, scostò con
attenzione le coperte e scivolò fuori dal letto, percependo il peso
di un gigantesco macigno sullo stomaco.
Col fiato corto e
la gola che bruciava nello sforzo di trattenere urla e pianto, prese
i pantaloni e li infilò di malavoglia, proseguendo poi con il resto
degli indumenti che la sera precedente aveva abbandonato a terra.
Inviò un
messaggio a Jace perché lo passasse a prendere con la jeep sotto
casa e, dopo essersi avviato verso la porta ed essersi infilato il
giubbotto, tornò a fissare Brian attraverso le ante lasciate semi
aperte, mentre le lacrime sfuggivano al suo controllo e scendevano
lentamente lungo la linea del naso e sulle guance candide.
Ne sentì un paio
infrangersi sulle labbra e le leccò via, imprimendosi il loro gusto
salato sulla lingua. Strinse i denti con forza per impedirsi di
singhiozzare come un bambino, fino a quando non si ritrovò a
tapparsi la bocca con il palmo della mano, scosso dai fremiti, mentre
si sorreggeva alla porta scorrevole per non crollare e correre verso
il letto, alla ricerca di un conforto tra le braccia di Brian.
Con le ultime
forze rimaste, si costrinse a chiudere gli occhi e a voltarsi. Aprì
la porta con rabbia disperata e, dopo esser avanzato di un passo, se
la richiuse alle spalle, per poi appoggiarcisi con la schiena e
strisciare per tutta la sua lunghezza, fino ad accoccolarsi a terra
ed abbracciare le proprie gambe, immergendovi anche la testa ed
abbandonandosi ad un pianto strozzato, certo che Brian non avrebbe
potuto sentirlo.
*'*'*
Nel momento in cui
percepì il rumore della porta scorrevole che raggiungeva il termine
del suo percorso, Brian sollevò lentamente le palpebre. Finalmente
non era più costretto a fingere di dormire.
Respirò
sommessamente e, deglutendo a fatica, si concesse di piangere una
sola minuscola lacrima, che percorse leziosa la sua pelle, fino a
cadere e bagnare il cuscino, in una macchiolina più scura.
Fissò lo sguardo
in un punto a caso e si costrinse a ignorare il suo cuore che, per
ogni singolo battito, sembrava potergli urlare di alzarsi da quel
letto e correre giù per le scale a rotta di collo, così da fermare
Justin e confessargli finalmente quelle dannate parole.
Per
favore, non andartene.
Si passò una mano
sul viso, come a voler cancellare quei pensieri, e si tirò su, per
poi protendersi verso il comodino ed afferrare il pacchetto di
sigarette.
Di solito non
amava fumare appena sveglio, ma saturarsi i polmoni con il fumo,
pareva essere l’unica
momentanea soluzione per colmare il vuoto che si era creato dentro il
suo petto, nel momento in cui il corpo di Justin aveva abbandonato il
letto, lasciando solo il proprio calore ed il profumo a ricordargli
la sua presenza.
Accese la
sigaretta e si appoggiò con la schiena alla testata del letto,
lanciando una lunghissima ed intensa occhiata al lato vuoto al suo
fianco, e a quelle coperte arricciate sul fondo, immaginando per un
brevissimo istante, di vederci Justin beatamente assopito, con i
capelli arruffati a coprirgli parte del viso e le labbra lievemente
socchiuse, che come sempre sembravano invitarlo ad essere baciate.
Prese una prima
boccata, e nel soffiare via il fumo, distese le labbra in un sorriso
di scherno per se stesso e per quei pensieri che lo facevano sembrare
quella che, fino a qualche anno fa, avrebbe definito una patetica
checca innamorata.
Eppure, ogni volta
che pensava al sorriso del suo Justin, percepiva distintamente la
sensazione di uno strappo sul cuore; una lacerazione che forse non
sarebbe stato capace di ricucire – non da solo almeno – e che lo
obbligava a respirare con più forza per non impazzire o affogare in
quel lancinante dolore.
Ed erano quelli i
momenti in cui non si trovava poi più così tanto ridicolo; perché
il male che lo colpiva era così fottutamente reale da fargli passare
perfino la voglia di schernirsi, o continuare a fingere che fosse
tutto perfetto.
Inspirò
altre boccate di fumo – una dietro l’altra,
profonde tanto da togliergli il fiato – finché la sigaretta venne
bruciata e consumata fino al filtro, e le sue dita la schiacciarono
sul posacenere. Soffiò via l’ultima
nuvola di fumo e si alzò stizzito dal letto, dirigendosi verso le
ampie vetrate, incurante della propria nudità. Posò lo sguardo
sulla strada sottostante, ed un profondo cipiglio si disegnò sulla
sua fronte, quando vide una jeep scura accostare.
Non
aveva bisogno di guardare al suo interno per capire che alla sua
guida stava Jace, e che avrebbe portato via il suo piccolo artista
lontano da Pittsburgh; così come non era necessario che gli
spiegassero il motivo per cui Justin aveva acquistato proprio quella
jeep. Era fin troppo
ovvio che anche in quel dettaglio si potesse leggere quanto quel
ragazzino sentisse la sua mancanza.
Sorrise
malinconico; e nell’istante
in cui riuscì a vedere quella familiare chioma bionda e luminosa
comparire all’improvviso
per poi sparire dentro l’abitacolo,
poggiò il palmo della mano sul vetro, come a voler indirizzare una
carezza verso di lui; e mentre qualcosa andava a stritolargli il
cuore nell’ennesima
morsa dolorosa, le sue labbra trovarono la forza di separarsi e di
soffiare via parole diverse da quelle che vibravano nel suo animo:
«Buon viaggio, raggio
di sole.»
*'*'*
Da quando avevano
iniziato il loro viaggio, esattamente quasi cinque ore prima, Justin
non aveva aperto bocca, se non per dargli un fievole e distratto
saluto. Si era limitato ad adagiarsi sul sedile, poggiando la testa
al finestrino, ed aveva fissato gli occhi blu chiaro e orribilmente
opachi per la tristezza, verso il proprio lato della strada.
Per contro, Jace,
non aveva fatto altro che alternare le proprie occhiate tra la strada
e la figura rannicchiata al suo fianco, visibilmente preoccupato.
Da quando si erano
incontrati, per quante volte lo avesse visto triste o in preda ad un
pianto isterico, il designer newyorkese, non aveva mai visto il suo
migliore amico tanto spento e apatico come in quel momento. Nel giro
di poco più di un giorno, era riuscito a vedere lati ed espressioni
sconosciute su quel viso angelico: dalla preoccupazione più
drammatica, alla felicità più pura, fino a quella tristezza
soffocante.
Superò con la
jeep il gigantesco cartello verde che annunciava l’ormai
imminente arrivo nella Grande Mela e, schiarendosi la voce, si decise
a parlargli prima che il loro viaggio terminasse, e che quindi Justin
si ritrovasse di nuovo immerso nella realtà di essere un’artista
sulla cresta dell’onda.
«Allora...» iniziò,
lanciando altre occhiate fugaci alla sua destra. «...vuoi passare un
attimo da casa, o vuoi che ti porti direttamente in ufficio da Gary?»
Justin per contro si limitò a sollevare le spalle, con noncuranza,
senza staccare gli occhi dal panorama che sfrecciava ai lati. Jace
arricciò le labbra, un po’
contrariato, e si decise a riprovare: «Senti, se vuoi possiamo
fermarci prima a fare colazione e poi...»
«Jace,
non m’importa.»
sbottò Justin interrompendolo. «Va’
dove preferisci, ok?»
«Allora penso
opterò per il primo ospedale della zona.» ribatté in tono
sarcastico il designer. «Mi pare che qui qualcuno abbia proprio
bisogno di un calmante!»
Gli occhi blu
chiaro di Justin finalmente abbandonarono la strada e si posarono su
Jace, decisamente costernati. «Scusa.» mormorò fievolmente. «So
che non devo prendermela con te. È solo che...»
«Non
volevi tornare a New York.» aggiunse Jace, al posto dell’altro;
che annuì, per poi sbuffare e lasciarsi affondare nel sedile.
«Vorrei
sapere chi cazzo me l’ha
fatto fare di venire fin qui...» borbottò, inarcando le
sopracciglia chiare. «...non potevo restarmene alla cara vecchia
Pittsburgh?! No, dovevo combinare un casino, come sempre. Bella
trovata, Justin Taylor!» proseguì ironizzando sulle sue scelte.
«Adesso sono intrappolato qui, ed ho le mani legate.»
«Be’...puoi ancora
mollare tutto.» replicò tranquillamente Jace, sollevando le spalle
e distendendo le labbra in un sorrisetto furbo. «Tu dimmi di tornare
indietro, o di andare chissà dove...e lo farò. Basta solo che tu lo
dica...»
Justin ricambiò
quel sorriso con uno appena accennato, prima di sospirare e negare
con la testa. «Non posso mollare tutti così.»
«Gary se ne farà
una ragione...» pronunciò con noncuranza, prima che nella sua testa
balenasse la convinzione che aveva maturato in quei mesi, secondo cui
il manager si era preso una bella cotta per il piccolo artista.
Perciò fece una lieve smorfia e aggiunse: «...almeno credo.»
«Non è solo per
Gary. Ho delle promesse da mantenere.»
«Se
ti riferisci a quella stronzata fatta a Brian, sta certo che se anche
non la manterrai, ti riprenderà nel suo letto molto
volentieri.» fece
schioccare la lingua e continuò: «E poi, insomma, dopo tutti questi
anni saprai come prenderlo
per la gola no? E
non mi riferisco alle tue doti culinarie.»
Justin
finalmente si lasciò andare ad una breve risata. «Non parlo di
Brian. Parlo dei proprietari delle gallerie a cui ho già detto ‘sì’,
o agli altri impegni presi.»
«Ripeto: secondo
me ti prendi troppo seriamente. Sei un’artista,
per la miseria! È un tuo dovere fare i capricci e rendere la vita
impossibile al prossimo!»
«Vorresti dirmi dove l’hai
sentita questa?»
Jace
gli lanciò un’occhiata
di sbieco e scosse la testa con rassegnazione. «Tutti gli artisti
sono così...solo tu ti dai alla misericordia! Pensa anche a
quel...come si chiama...» ci pensò un po’
su, per poi esclamare: «Sam Auerbach! Lui sì che è un vero
artista. Un caprone insopportabile e arrogante!»
Nel
sentir pronunciare quel nome, Justin percepì un lungo brivido
attraversargli la schiena. Non aveva mai davvero conosciuto Sam, ma
sapere come quell’uomo
avesse quasi rovinato il matrimonio tra le sue più care amiche, gli
era bastato. Decise comunque di non parlarne con Jace, e proseguì
nella conversazione: «Quindi dovrei diventare uno zotico incivile
secondo te?»
«Già...e sarebbe
molto arrapante.» mormorò l’altro,
umettandosi le labbra, e fingendo un’espressione
sensuale.
«Sei
completamente matto.» rise l’artista.
«Comunque non ho nessuna intenzione di diventare come
quell’Auerbach.
Neanche se significasse guadagnare milioni di dollari in più. Io
sono solo Justin Taylor, non posso essere nessun
altro.»
Jace
sollevò le sopracciglia, ammiccando. «Be’...non
so se sia la sua cafonaggine il motivo di tutto il suo successo, ma
in Europa ha davvero fatto faville.»
«Sì, ho letto
qualcosa.»
«Chissà
perché però ha abbandonato così all’improvviso
l’America
e se n’è
andato a Milano...» mugugnò Jace, con la fronte leggermente
aggrottata. «...insomma, ha rischiato parecchio. In America era una
specie di dio, ma in Europa in pochissimi lo conoscevano.»
Justin
si ritrovò a deglutire a disagio. Lui conosceva bene uno dei motivi
per cui Sam si era allontanato di tutta furia dall’America;
e quel motivo rispondeva al nome di Lindsay Peterson. «L’hai
detto anche tu, no? È un’arrogante...»
balbettò quindi in risposta. «...probabilmente voleva semplicemente
provare qualcosa.»
«Probabile.»
convenne Jace. «Comunque, sembra proprio che farà ritorno nella
madre patria.»
«Cosa?!»
schizzò Justin, facendo sobbalzare anche l’altro.
«E perché mai?!»
«Ehi
calma. Cos’è
tutta questa agitazione?» gli chiese stranito dalla sua reazione.
«Non sapevo fossi un suo fan!»
«Non
lo sono infatti!» borbottò in risposta il biondo
artista, in preda
all’ansia.
Non voleva neanche immaginare la reazione che avrebbero potuto avere
Mel e Linz nel venire a conoscenza di quella notizia. «Allora?
Dimmi, sei sicuro che abbia intenzione di tornare?»
Jace
gli lanciò un’occhiata
stranita, per poi rispondere: «Così ha rilasciato in un comunicato
alla stampa. Ha detto che non avrebbe preso altri impegni in Europa
perché sarebbe rientrato in America. Non so altro.»
«Cazzo...»
mormorò Justin, lasciandosi cadere a peso morto sul sedile.
Le
sue due amiche avevano superato ormai da tempo la “Crisi Auerbach”,
così come si divertivano a definirla tutti loro – oltre all’altro
nomignolo, ovviamente molto meno sottile, inventato da Brian – ma
conosceva fin troppo bene Melanie, e sapeva quanto rancore fosse in
grado di covare anche a distanza di anni; e quanto questo avrebbe
potuto far male, se fosse stato risvegliato.
Ciò
che lo spaventava di più però, era il motivo per cui Sam, da un
momento all’altro,
avesse deciso di far ritorno in America. Ovviamente non c’era
niente a sostenere la sua preoccupante tesi che quel motivo fosse
Linz, ma neanche si sentiva di scartarla completamente. Per non
parlare del fatto che, a prescindere da quello che lo aveva spinto al
suo ritorno, non osava neanche immaginare cosa avrebbe potuto
scatenare un casuale incontro.
Era risaputo
infatti, che gli artisti americani facessero spesso tappa a Toronto
con le loro personali, quindi le possibilità che il disastro
avvenisse, non erano poi così remote come si era augurato.
Perso
comunque in tutte le sue congetture, Justin non si era neanche reso
conto del modo in cui Jace aveva preso a fissarlo da qualche minuto,
finché questo non lo riscosse con una delle sue domande a
bruciapelo: «Ti sarai mica scopato anche lui? Ma non era decisamente
etero?»
«Eh?
Cosa?» chiese l’artista,
riscuotendosi dai propri pensieri. «No! Cioè, sì!» si affrettò a
rispondere e quando si accorse dell’espressione
dell’amico
sempre più allucinata, rettificò: «Non me lo sono scopato io.»
«Che
significa quel ‘io’?»
domandò immediatamente il designer, e Justin si ritrovò ad
imprecare mentalmente contro se stesso. «Si è divertito Brian con
lui?»
«No...»
«E allora chi?»
«Prometti
di non dirlo ad anima viva.» sibilò il ragazzo, puntando un dito
contro l’altro.
«Promettilo sulla tua collezione di mocassini italiani!»
«Oddio. Stai per
rivelarmi un segreto di stato?»
Justin fece una
smorfia. «Qualcosa del genere.»
«D’accordo,
prometto.»
«Jace, ti taglio
le palle se te lo lasci sfuggire con qualcuno!»
«Ho
promesso!» sospirò esasperato, prima di protendere l’orecchio
verso l’amico.
«Allora, dimmi un po’
questo super segreto.»
Le
labbra dell’artista
si arricciarono indecise sul da farsi. Le mordicchiò per un po’
finché, con un respiro profondo, si decise a confessare: «Con Linz.
È stato con Lindsay»
«Linz?!» replicò
Jace, quasi strillando il nome. «Ma non è lesbica?!»
«Evidentemente
sarà diventata etero per qualche minuto, che vuoi che ti dica! Non
sono comunque affari che ci riguardano!»
«Be’...oddio...»
mormorò il designer, aggrottando la fronte. «Un pensierino con quel
rozzo ce lo farei anch’io.
Ma Melanie lo sa?»
«Sì.»
«E sono ancora
tutti vivi?»
Justin scoppiò a ridere. Effettivamente se l’era
sempre chiesto anche lui come Linz e Sam fossero riusciti a scampare
alla morte dopo che la verità era stata rivelata. Insomma, Melanie
Marcus non era certo ricordata per la sua assoluta calma. A quello ci
pensava per tutti quanti il caro ZenBen. «A quanto pare sì.»
rispose comunque, prima di sospirare. «Per questo sono preoccupato.»
«Temi
che si potrebbe scatenare l’inferno
in famiglia?»
«Diciamo che Mel
non è una dal perdono facile...e che è meglio non buttare sale su
certe vecchie ferite.»
«Vuoi
avvertirle?»
«Non so. Tu che
dici, dovrei?»
Jace ci pensò su
per un attimo, prima di negare con la testa. «Aspetterei ancora un
po’ a dare l’allarme. In fondo non sappiamo ancora se lo farà
davvero...magari siamo fortunati e cambia idea!»
«Ho sempre
creduto molto poco alla fortuna.» ribatté l’altro, piegando le
labbra in una piccola smorfia.
«Eppure ne hai
avuta parecchia.»
«Dipende dai
punti di vista.»
«D’accordo,
come vuoi.» sospirò sollevando le mani dal volante, ed indicò con
un cenno della testa un cartello sospeso a poca distanza da loro.
«Allora Taylor...casa o Gary?»
Justin si morse
l’interno della guancia, indeciso sul da farsi, fissando lo sguardo
sulle due direzioni stampate in bianco su uno sfondo verde, per poi
indicare il lato destro. «Andiamo da Gary.» annunciò in seguito,
prima di aggiungere con uno sguardo stranamente deciso: «Vorrei parlargli.»
*'*'*
«Mamma, mamma!»
si sentì chiamare da una voce squillante. «Dai, sbrigati!»
Melanie osservò
il suo bambino saltellare ovunque mentre pesticciava la neve caduta
durante la notte, sorridendo e scuotendo la testa, ormai rassegnata
al fatto che non sarebbe riuscita a riportarlo a casa asciutto e
pulito.
A stento era
riuscita a farlo pranzare e a fargli fare il suo quotidiano riposino
pomeridiano, quando il piccolo si era accorto del bellissimo manto
bianco che ricopriva l’intera città; fino al momento in cui, le
sue ragioni, non avevano dovuto cedere alle richieste di quel bambino
bellissimo, quanto terribilmente persuasivo.
E quel
particolare, gli ricordava decisamente qualcuno...
«Gus, non
correre!» esclamò, cercando di assumere un’espressione di
rimprovero.
«Dai, mamma!
Corri!» strillò in risposta lui, come a confermare che in realtà
non aveva ascoltato neanche una parola di quello che gli aveva detto.
La donna si
concesse un lungo sospiro rassegnato e, dopo aver sbuffato, si decise
a correre dietro a quella piccola peste, così da riempirsi le
orecchie di quelle sue urla felici e delle sue risate che tanto le
scaldavano il cuore.
«Vieni qui,
piccola peste!» gridò lei, cercando di acciuffare il bambino.
«Tanto non mi
prendi, tanto non mi prendi, mamma!» la canzonò lui, prima di bloccarsi
all’improvviso, con lo sguardo fisso davanti a sé. Melanie alzò
gli occhi, seguendo la stessa direzione di quelli del figlio, fino ad
incrociarli con una figura slanciata e familiare che, nel suo
cappotto di pelle decisamente costoso, e con gli occhiali scuri
inforcati, avanzava con le mani affondate nelle tasche, verso di loro. «Papà!»
strillò allora Gus, con la voce colorata di entusiasmo; e prese a
correre come un pazzo.
«Ehi.» lo salutò
Brian, accogliendolo tra le sue braccia, per poi tirarlo su. «Ma che
bel cappotto che hai! Chi te l’ha comprato? Deve avere sicuramente
buon gusto!»
«Tu!» esclamò
il bambino, stringendosi forte al suo collo.
«E oltre al buon
gusto, anche un sacco di soldi.» intervenne Mel, dopo averli
raggiunti, con quella sua solita punta di acidità nella voce. «Un
cappotto di Hugo Boss per un bambino di sette anni. Non è un tantino
esagerato?»
«No, se lo sa
portare con classe.» replicò Brian, innalzando uno degli angoli
della bocca in un sorrisetto spavaldo. «E dato che Gus è mio
figlio, non ci sono dubbi a riguardo. Il sangue non mente, anche
quando ci sono due lesbiche in mezzo.»
«Guarda che è
figlio anche di Linz.»
Lui scrollò le
spalle ed ammirò i lineamenti dolci del bambino, perfettamente
identici ai suoi quando aveva la sua stessa età; perché c’era
stato un periodo della sua vita in cui, perfino lui, era parso
innocente. Gli sorrise, prima di baciargli una guancia morbida e
arrossata dal freddo, e riportò l’attenzione su Mel. «Ma Linz è
una borghese. Lesbica, ma comunque borghese.»
Melanie sospirò
esasperata, e si decise a cambiare argomento, pur sapendo che lo
avrebbe fatto innervosire. «Come mai da queste parti comunque?»
piegò le labbra in un ghigno furbo ed aggiunse: «Per caso hai
improvvisamente deciso di distrarti diventando il padre dell’anno?»
«Io sono già
il padre dell’anno.» precisò Brian, scandendo bene le parole. «E
poi distrarmi da cosa? Sono in vacanza e comunque la Kinnetik va alla
grande.»
«Sto parlando di
Justin.» ribatté lei, arrivando dritta al punto. Lo vide piegare le
labbra all’interno della bocca lievemente stizzito, ed aspettò che
le rivolgesse il suo solito sorrisetto sarcastico, prima di
aggiungere: «Non mi sembravi particolarmente rilassato a casa
di Debbie.»
«Dimmi Mel, sei
mai stata scopata da un uomo?»
Lei lo fulminò
con lo sguardo, indicando il bambino con il movimento degli occhi.
Attese che Brian lo posasse a terra per lasciarlo andare a giocare
con la neve, e rispose, con le sopracciglia inarcate: «No, ma questo
che c’entra?»
«Bene.» sorrise
lui, spingendo appena la lingua contro la guancia. «Allora posso anche
consigliartelo: va’ a farti fottere.»
«Che razza di
stronzo.» lo apostrofò, incrociando le braccia. «Era solo un modo
come un altro per sapere come stai!»
«Se proprio devi
compatire qualcuno, va’ a casa del tuo amico Theodore.»
«Teddy sta bene,
per fortuna.» rispose acida. «Per una volta sembra che gli vada
tutto liscio. Cosa che non posso certo dire di te.» sollevò le
sopracciglia e rettificò: «Almeno per quanto riguarda
l’amore...visto che per il resto sei il bastardo più ricco e
fortunato che io conosca!»
«Che vuoi farci,
la fortuna è cieca.»
«In certi casi
invece, penso seriamente che la tua faccia se la ricordi benissimo!»
sbuffò, assottigliando lo sguardo. «Ci manca solo di scoprire che
perfino quella si è presa una cotta per te!»
Brian sorrise
ironico. «Be’, direi che non sarebbe certo l’unica.»
«Fortuna per me
che ne sono totalmente esente!»
«Ma perché
invece di metter bocca nella mia vita non pensi alla tua di
famiglia?» sbottò lui improvvisamente. Pochi come Mel sapevano
farlo innervosire tanto. «Perché non attingi un po’ alla tua
proverbiale oggettività e non ti accorgi di come stanno le
cose?»
«E sentiamo professor Kinney, come starebbero le cose?» gli rispose a tono lei.
Lui riacquistò la
calma e la sua perfetta espressione da schiaffi, per poi passarsi la
lingua sulla bocca, e lasciar increspare le labbra nell’ennesimo
sorriso ironico. «Davvero non ti accorgi che Gus non è felice?»
«Gus è
felice.» obbiettò Melanie, sempre più furiosa. «È amato. E io e
Linz non gli facciamo mancare niente!»
«Già.» annuì
lui con sarcasmo. «‘Niente’, a parte la sua famiglia.»
«Che diavolo stai
dicendo?»
«Avanti
Melanie...sei davvero così cieca da non vedere che Gus è molto più
felice qui che a Toronto? O forse non vuoi vederlo, perché
significherebbe ammettere a te stessa di aver fatto una gigantesca
stronzata quando sei scappata da qui.»
«Io non sono
scappata! Io...»
«Sì che l’hai
fatto.» l’interruppe lui, sovrastandola con la sua voce. «Tu e
Linz ve ne siete andate per paura.»
«Volevamo soltanto
vivere tranquille! In una città dove i nostri diritti sarebbero
stati riconosciuti...dove non saremmo state trattate come cittadine di
seconda classe, o peggio!»
«Certo, ma
adesso?» chiese lui, in tono retorico. «Adesso che quella stronzata
della proposizione quattordici è finita...adesso che Gus sta
cercando di dirvi in tutti i modi possibili che è qui che vuole
stare...adesso, come cazzo la metti?»
«La storia della
proposizione quattordici sarà anche finita, ma non ci vengono ancora
riconosciuti quei diritti che ci spettano dalla nascita! A Toronto
invece sì, e...»
«E che ne è
stato di quell’avvocato che con il suo patetico idealismo si
batteva perché questo avvenisse anche qui?» le domandò Brian a
bruciapelo, zittendola all’istante. «E poi chi cazzo se ne frega
se c’è qualche stronzo che ancora non ci accetta! È solo della
felicità di mio figlio che m’interessa, non dell’approvazione di
qualche coglione che si sente in dovere di giudicare.»
Dopo qualche
attimo di silenzio, Melanie sospirò sommessamente e lanciò uno
sguardo amorevole verso Gus, prima di arricciare le labbra e
rispondere: «Wow. Con un’arringa del genere, avresti dovuto fare
l’avvocato.»
«Sono molto più
bravo a gettare fumo negli occhi, che a difendere la gente.» soffiò
in risposta, nel momento in cui comprese di aver fatto centro, e che
gli animi si erano finalmente placati. «Comunque sia...» riprese a
parlare, spingendo la lingua all’interno della guancia.
«...Jennifer è davvero brava nel suo lavoro. Potrà trovarvi una
bella casa ad un ottimo prezzo.»
«Brian...» provò
a ribattere lei, senza risultato.
«Fatti dare il
numero da Ted, quando vi sarete decise.» concluse lui, voltandosi
per raggiungere suo figlio; mentre Melanie si ritrovò a stringersi
di più nel cappotto, raggelata dalle parole di Brian, più che dal
freddo vento dicembrino.
*'*'*
Dopo aver varcato
la porta in vetro scorrevole dell’agenzia in cui lavorava Gary, ed
esser stato sommerso di complimenti da ogni persona che incontrava –
di cui, la maggior parte, neanche conosceva – Justin, affiancato da
Jace, raggiunse la porta scura dello studio del suo manager.
Diede un paio di colpi con le nocche, ed attese di essere invitato a entrare:
«Avanti.» sentì pronunciare, e spinse sulla maniglia.
«Ciao, disturbo?»
esordì, quando gli occhi scuri di Gary si posarono su di lui,
riempendosi di sorpresa.
«Ehi, Justin!»
esclamò, lasciando ricadere la penna sulla scrivania, per poi fare
un cenno di saluto in direzione di Jace. «Non pensavo saresti corso
immediatamente qui.»
«A dire il
vero...» iniziò Justin, facendo correre gli occhi ovunque nella
stanza. «...sono venuto qui perché devo parlarti.»
«Non guardare
me.» intervenne il designer, sollevando le mani in segno di resa.
«Io non ne so niente. L’ho solo accompagnato.»
Le sopracciglia di
Gary si inarcarono a formare un’espressione stranita. «Ok...»
pronunciò con voce fievole. «Accomodati e spiegami tutto.»
Sia Justin che
Jace presero posto sulle poltrone scure in silenzio, finché
l’artista non si umettò le labbra e, intrecciando le dita tra
loro, prese a parlare: «Ecco, io volevo ringraziarti per tutto
quello che hai fatto per me in questi mesi. Se non fosse stato per
te, probabilmente non sarei arrivato dove sono...» si soffermò per
un attimo, e finalmente si decise a guardare Gary negli occhi,
trovando in quei pozzi scuri un evidente disagio. «...e ti sono
grato anche per questi ultimi contratti che sei riuscito ad ottenere,
ma...»
«Ma?» incalzò
il manager.
«Ma non credo di
voler più andare avanti così.» rispose deciso, con voce ferma.
«In che senso?»
domandò Gary allarmato.
«Nel senso che,
rispetterò gli impegni presi fin’ora, ma non voglio prenderne
altri per adesso.» sospirò profondamente e aggiunse: «Ho bisogno
di tempo per me...io, non mi sento più neanche un’artista. Mi
sembra solo di essere una macchina che dipinge a comando, senza più
ispirazione, senza più passione.» strinse le mani a pugno e,
visibilmente dispiaciuto – poiché una parte di sé lo faceva
sentire un ingrato – concluse: «Mi dispiace Gary, ma davvero...ho
bisogno di tornare a casa per un po’.»
L’altro scosse
la testa dopo qualche secondo passato perfettamente immobile.
«Justin, il mondo dell’arte non è un gioco. Non puoi ancora
permetterti di fare quello che vuoi...è vero, sei sulla cresta
dell’onda e le persone sborsano quantità esorbitanti di dollari
per i tuoi quadri, ma questo non significa che sei sistemato.» fissò
i suoi occhi neri in quelli azzurri del giovane artista e,
incrociando le mani alle labbra, continuò: «Non è il momento per
prendersi una vacanza. Questo è il tempo che devi sfruttare al
meglio, dopo di che avrai tutti i giorni che vuoi da trascorrere a
Pittsburgh. Quando le persone saranno disposte a fare anche la fila
sotto casa tua per avere un tuo quadro da esporre, allora potrai
permetterti di fare ciò che vuoi...»
«Mi pare che la
gente faccia già la fila per avere un suo quadro.» intervenne Jace,
che fino a quel momento aveva seguito lo scambio di battute con
attenzione. «Così come le gallerie. Justin è il più richiesto tra
gli artisti emergenti...»
«Esatto.» lo
interruppe Gary. «Artisti emergenti. Il che significa che non
si è ancora consolidato il suo piedistallo. Se molla adesso, butterà
nel cesso tutti gli sforzi fatti.»
«Ma io non riesco
più a dipingere come vorrei!» prese in mano una stampa ridotta di
uno dei suoi ultimi quadri, poggiata sulla scrivania di Gary, e la
sventolò in aria con rabbia. «Questo non sono io!»
«Fino a prova
contraria, è stata la tua mano a dipingerla...»
«Ma è solo uno
scarabocchio casuale! Terribilmente accademico!»
Gary sollevò le
spalle. «I critici non lo pensano affatto. Nessuno lo pensa.»
«Io non voglio
dipingere per i critici o la gente.» ribatté Justin, sibilando le
parole. «Io voglio dipingere prima di tutto per me, per le emozioni
che sento! E adesso non sento niente...sono vuoto.»
«Non è forse una
sensazione anche questa?» replicò il manager, prima di sbuffare.
«Ascolta, lavoro in questo mondo da molti anni prima di te e so come
va e quanto può essere spietato. Se molli adesso, hai chiuso...lo
capisci?» si soffermò per guardarlo attentamente e, piegando le
labbra in un sorriso comprensivo, disse: «Hai davvero intenzione di
gettare il tuo sogno così? Proprio ora che ce l’hai in pugno?»
«Non credevo che
per seguire un sogno dovessi rinunciare a tutto il resto.» ribatté
il ragazzo, con tono asciutto. «Non pensavo significasse annullare
me stesso.»
«Non è così.
Non sarà per sempre così.»
«Che cazzo
dovrebbe fare allora?» sbottò Jace, visibilmente innervosito. Se
c’era una cosa che proprio non sopportava del lavoro di Justin, era
proprio il fatto che dovesse veder sacrificata la sua anima per il
solo scopo di ottenere fama e soldi.
«Stringere i
denti.» sentenziò Gary. «Dipingere come ha fatto fin’ora...e
quel tempo per te che tanto desideri arriverà prima di quel che
pensi.» si passò la lingua sulla bocca e picchiettò con un dito
sulla scrivania, come se fosse indeciso se pronunciare o meno altre
parole; prima di schiudere le labbra e scegliere di parlare: «Voglio
essere sincero con te, Justin.» si accomodò meglio sulla poltrona e
riprese: «Da quando sei arrivato in questa agenzia, non posso negare
che le entrate per noi siano salite alle stelle. Anche il mio capo è
letteralmente impazzito per i tuoi quadri ed ha puntato molto su di
te...il che significa che, se tu ci molli adesso, metterai l’intera
agenzia in una brutta situazione.»
«Ah...quindi è
solo una questione di soldi. Solo per il vostro interesse.» commentò
Jace, con un tono decisamente acido ed un sorrisetto caustico.
«È sempre
una questione di soldi, Jace. In qualsiasi situazione.» scrollò le
spalle con noncuranza e disse, rivolto a Justin: «Ho semplicemente
voluto metterti al corrente di tutto, prima che tu prendessi la tua
decisione. Oltre al fatto che hai una penale da pagare se recidi il
contratto prima della scadenza...ma di quello eri già a conoscenza e
comunque non sarebbe un problema per te.»
«Quanto brutta
sarebbe la situazione?» domandò allora l’artista.
«Abbastanza dal
dover fare qualche taglio, suppongo.»
«Licenziamenti?»
approfondì, mentre il suo stomaco prendeva ad attorcigliarsi per il
senso di colpa.
Gary arricciò le
labbra e si prese qualche secondo prima di rispondere. «Forse.»
sentenziò poi. «Non saprei dirtelo con certezza. Non è una
possibilità da scartare.»
«Praticamente ho le
mani legate.» commentò Justin, inarcando le sopracciglia bionde in
un’espressione contrariata.
«Non vorrei che
tu la vedessi così.» rispose l’altro. «Mi dispiace che tu ti
senta così, ma la situazione è questa e io non posso farci niente.
Dipendesse da me, ti darei tutto il tempo che vuoi...»
«Certo, come no.»
borbottò Jace, roteando gli occhi.
Gary finse di non
averlo sentito e si rivolse ancora all’artista. «L’unico
consiglio che posso darti, è quello di dipingere.»
«Ma se ti ha
appena detto che non riesce più a farlo come vorrebbe, come cazzo
puoi chiedergli una cosa del genere?!»
«Jace, calmati.»
intervenne Justin, posando una mano sulla spalla dell’altro, per
farlo rilassare. Apprezzava questo suo forte senso protettivo, ma
quella era una questione che doveva risolvere da solo. Si prese
qualche secondo per riflettere e, dopo aver respirato profondamente,
chiese: «È necessaria la mia presenza alle mostre?»
«Non sarebbe di
certo un male per te ma, a parte quella della prossima settimana qui
a New York, a cui sarebbe meglio tu partecipassi, direi di no.
Perché?»
«Se io riesco a
dipingere abbastanza per sistemarmi per...che so, le prossime mostre
fissate...a quel punto potrò prendermi la vacanza che mi spettava?»
«Justin, se non
fosse stato necessario, io non ti avrei richiamato qua.»
«Lo so.»
replicò, seppur la sua voce non suonasse poi più tanto convinta.
«Ma ne ho davvero bisogno Gary. Non ce la faccio davvero più. Mi
sento in trappola.»
Il manager si
passò una mano tra i capelli lentamente, prima di concedersi un
piccolo sbuffo. «Tu cerca di combinare qualcosa con quelle tele. Io
cercherò di tenerti fuori dalle mostre.»
«Come hai fatto
l’ultima volta?» domandò Jace, con una punta di amarezza nella
voce, ricordandogli come, del mese di vacanza promesso, non erano
rimasti che un paio di miseri giorni, appena goduti.
«Ve l’ho già
detto. Non dipende da me.»
Justin si alzò
dalla poltrona, seguito immediatamente dal designer. Si soffermò con
lo sguardo sul suo manager, prima di passarlo sulle stampe
miniaturizzate dei suoi quadri e mormorare: «Cercherò di farti
avere quei quadri presto. Voglio almeno passare Natale a casa.»
«D’accordo.»
convenne Gary. «Ci sentiamo per la mostra allora.»
«Ok.» confermò
il giovane artista, prima di salutarlo con un cenno ed uscire dallo
studio, seguito dall’amico. Percorse un paio di metri del lungo
corridoio, e si preparò alla filippica che – ne era certo – Jace
gli avrebbe riservato.
«Che diavolo stai
pensando di fare?» indagò infatti, puntuale come aveva previsto,
l’altro.
«Mi sembra ovvio.
Dipingere.»
«Ma se hai appena
detto che non riesci a farlo!» esclamò con un’espressione
confusa. «Che riesci a produrre solo roba terribilmente
accademica.»
«È la verità.»
replicò il più giovane, proseguendo verso l’uscita, fino a
raggiungere la propria jeep. «O almeno, lo era.»
«In che senso?»
chiese Jace, sempre più stranito.
Justin sollevò
gli occhi verso il cielo, incontrando la scia bianca di un aereo che,
inevitabilmente lo riscosse dentro, facendolo pensare alla sua Pittsburgh.
Durante tutto il viaggio non aveva fatto altro che pensare alla sua
città e alle persone che lo aspettavano lì. Aveva preso
la decisione di chiudere per un po’
con la sua vita da artista, augurandosi di riuscire a vincerla anche
contro Brian, sperando che non si comportasse come uno stronzo e che
accettasse di averlo al proprio fianco, ma non aveva pensato alle
conseguenze del suo gesto per l’agenzia che si occupava di lui.
Era troppo grato a quelle persone per abbandonarle così, perciò l’unica
possibilità che gli restava, era mettere anima e corpo su ogni
tela, lasciandosi ispirare da quella nuova sensazione di speranza - ora
che finalmente aveva ricevuto una conferma dell’amore di Brian - mista alla malinconia scaturita dalla nostalgia di casa che era tornata ad albergare dentro di lui.
Sospirò sommessamente, avvolto da quelle due emozioni, e si voltò verso Jace. «Nel senso che adesso ho un
altro motivo per dipingere. Qualcosa che finalmente mi spinge a
farlo.» mormorò poi, prima di chiudere gli occhi ed aggiungere con un sorriso luminoso: «La
voglia di tornare a casa, da Brian.»
*'*'*
In casa Bruckner –
Novotny regnava un silenzio perfetto da quando Hunter era uscito per
studiare a casa di un compagno di università, seguito da Ben per una cena con
dei colleghi, mentre Mel e Linz erano passate a trovare le loro
vecchie amiche insieme ai bambini.
Non era una
situazione abituale – in quella casa il caos totale la faceva
sempre da padrone – specie negli ultimi giorni, eppure Michael non
si sentiva a proprio agio in tutta quella calma.
Dopo aver letto
almeno un paio di fumetti, mangiando sul divano un panino poco
salutare – per cui suo marito gli avrebbe rifilato una filippica infinita,
se solo lo avesse visto – lanciò un’occhiata
fugace all’orologio e
decise di andare a farsi un giro.
Scrisse un
biglietto per la sua famiglia e, dopo averla attaccata al frigo con
una calamita a forma di Capitan Astro, s’infilò
il giubbotto ed affrontò la sera gelata di Pittsburgh per
raggiungere Woody’s.
Nell’ultimo
periodo non aveva avuto troppo tempo per trascorrere qualche serata
in compagnia dei suoi più cari amici perciò, trovarsi nuovamente
solo in quella colorata via, gli riportò alla mente mille vecchi
ricordi che lo fecero sorridere di nostalgia.
La sua vita lo
rendeva felice; la sua famiglia anche di più, ma c’erano
momenti in cui ripensare a tutti gli anni passati su quella strada,
tra una bevuta, un incontro
interessante, o anche solo la semplice risata in compagnia di Brian,
Emmett e Ted per una sciocca battuta, lo lasciavano invadere da una
lieve malinconia.
Era stata sempre
la stessa routine per anni ed anni: uscivano insieme, ballavano,
ridevano e sì...si drogavano e bevevano, finché Brian non trovava
qualcuno che poteva intrattenerlo per qualche ora, ed erano costretti
ad aspettare i suoi comodi per riportarlo a casa, ovviamente troppo
ubriaco o fatto per guidare.
Erano notti che a volte lo
lasciavano con l’amaro
in bocca, perché Brian si scopava chiunque, ma non concedeva mai
questo privilegio a lui, eppure in un modo o nell’altro
riusciva comunque ad amarle, perché alla fine la consapevolezza che
nessuno di quei tizi significasse qualcosa per il suo migliore amico,
lo rincuorava. Sapeva che Brian sarebbe sempre rimasto con lui.
Già...fino a
quella notte.
Un po’
il suo cuore gliel’aveva
già detto che prima o poi sarebbe arrivato quel fantomatico lui,
anche se per uno come Brian sembrava impossibile, e anche se una
parte di sé aveva sempre sperato che sarebbe stato il suo ruolo...ma
non era così che erano andate le cose.
Un ragazzino
biondissimo, con un corpo filiforme ed un sorriso accecante, era
piombato nelle loro vite, e si era insinuato a poco a poco in quella
di Brian.
All’inizio
si era convinto che sarebbe stata la solita scopata di una notte e
fine dei giochi, eppure – ripensandoci negli anni – avrebbe
dovuto capirlo fin dall’inizio
che sarebbe stato diverso; che quel moccioso avrebbe fregato il Dio
dei gay.
Avrebbe dovuto
prestare più attenzione a come era cambiata l’espressione
di Brian nel momento in cui l’aveva
visto; così come avrebbe dovuto accorgersi di come si fosse formato
qualcosa tra quei due fin dal primo scambio di sguardi.
Justin Taylor era
il nome di quel lui.
Justin Taylor era
fatto appositamente per Brian Kinney; e a Michael non era rimasto
nient’altro
da fare se
non ingoiare quel boccone amaro e pensare alla propria vita.
Una vita che poi si era rivelata comunque bellissima, e che gli
aveva regalato prima Ben, poi Hunter. Una
vita che – nonostante la nostalgia del passato che ogni tanto
tornava ad abbracciarlo, da inguaribile romantico qual’era
– valeva molto di più.
Sorrise sincero,
soffermandosi ad osservare il tendone rosso che caratterizzava
Woody’s e, con passo
deciso, attraversò la strada fino a raggiungerlo.
Varcò l’entrata,
salutando con un cenno della testa qualche ragazzo conosciuto, finché
scrutando tra i tavoli, riuscì ad individuare Emmett e Ted.
«Ehi
ragazzi!» salutò
entusiasta, prendendo posto tra loro. Passò lo sguardo da uno
all’altro
– che nel frattempo gli avevano risposto con un piccolo cenno della
testa ed un sorriso appena accennato – ed aggrottò la fronte,
stranito dal loro comportamento e da quell’aria
funebre che aleggiava su entrambi. «Ma...che vi succede?»
«Niente.»
sbuffò Emmett, facendo una smorfia schifata. «Solo che questo mondo
fa schifo.»
«E
adesso diventerà anche più crudele.» borbottò Ted, indicando con
un’occhiata
la porta da cui aveva appena fatto il suo ingresso Brian. «Non
bastava che fosse una giornata di merda...Dio doveva proprio mandarci
anche te ad infierire sulle nostre disgrazie?» gli chiese quando fu
più vicino, e dal pubblicitario ricevette in risposta solo un’alzata
di sopracciglia ed uno sguardo di sufficienza.
«Mickey...»
chiamò Brian sedendosi sull’ultima
sedia libera. «...che ci fai da queste parti senza il maritino?»
«Che
fai adesso? Sfoghi la tua acidità su di me per non pensare al tuo
quasi-maritino appena
volato a New York?» replicò Michael con un sorriso ilare, ma
dall’occhiata
che ricevette dai tre suoi più cari amici, capì che non era proprio il momento adatto
per sfoggiare la felicità della sua famigliola.
«Lo
dico e lo ripeto...» mugugnò Emmett, girando oziosamente lo
stecchino nel suo Cosmopolitan. «Il mondo è uno schifo.»
Brian
inarcò le sopracciglia e si protese verso di lui per dargli una
falsa pacca amichevole, tinta del suo onnipresente sarcasmo. «Cos’è
tutto questo pessimismo, Martha
Stewart dei gay?»
L’altro
posò il suo sguardo azzurro su di lui con fare scettico e, dopo aver
preso un sorso del cocktail rosa shocking, rispose: «Ti interessa
davvero, o mi stai solo prendendo in giro?»
Il
bel pubblicitario sollevò le spalle. «Lo sai che sono sempre
disposto ad ascoltare i drammi altrui...»
«Perché
ti fa sentire meglio?» sibilò acidamente Ted, e Brian gli sorrise.
«Esattamente.»
«Bene.
Ignorerò le tue egoistiche parole e fingerò che tu me l’abbia
chiesto per puro interesse e affetto...» riprese a parlare Emmett.
«...e ti dirò che, per la mia solita e proverbiale fortuna in
amore, ho finito per prendermi una bella cotta per un uomo che non mi
ricambierà mai!»
«Vedo
che continua a piacerti vedere il tuo cuore in un cassonetto.»
commentò Brian, a cui seguì la domanda di Michael.
«Di
chi si tratta?»
«Di
Jace.» replicò Ted per l’altro,
così da accelerare i tempi. Era certo che il suo migliore amico
avrebbe “allungato il brodo” partendo dalla preistoria, o con
qualche aneddoto della zia Loola.
«Chi?»
domandò allora Brian, fingendo di non ricordare affatto il ragazzo.
«L’amichetto
del tuo Justin.» ribatté il contabile, con una punta di
soddisfazione nella voce; a cui l’altro
rispose con l’ennesima
occhiata di sufficienza.
Michael,
sorpreso, si protese verso Emmett. «Perché non ci
hai detto niente?»
chiese, per poi continuare: «Eri strano...ma non pensavo fosse per
questo. E poi, lui lo sa?»
«No.»
Brian
ordinò una birra ed iniziò a giocherellare con uno degli stecchini
presi dal tavolo. «Di certo non combinerai niente se pensi di
poterglielo comunicare con la telepatia. Vuoi che ti scopi?
Diglielo.»
«La
fai facile tu.» commentò sarcastico il più giovane dei quattro.
«Non hai mai ricevuto un rifiuto in vita tua. Non sai quanto possa
far male.»
«Ti
sbagli.» replicò l’altro
con noncuranza, così da dare poca importanza alle sue parole.
«Justin mi ha detto no, la prima volta che gli ho chiesto di
sposarmi.»
«Ha
fatto...cosa?»
chiese, con il tono di voce più alto di almeno un’ottava,
Emmett, scambiandosi occhiate incredule con Michael.
«Oddio.»
intervenne Ted, trasformando poi la sua espressione sorpresa in una
più ironica. «Credo di sentirmi meglio. Allora anche Brian Kinney
ha le sue grane in amore...c’è
ancora un po’
di giustizia in questo mondo!»
«E
sentiamo, Theodore...» sibilò in risposta il pubblicitario in tono
caustico, avvicinandosi a lui per dargli un buffetto dispettoso sul braccio.
«...com’è
che hai ripreso a bere? Quali atroci dispiaceri hai deciso di
annegare nell’alcool?
Hai forse visto la tua immagine riflessa?»
«Ah-ah.»
finse una risata l’altro,
prima di prendere un sorso della sua birra. «Sappi che te lo dico
solo perché non sei certo messo meglio di me, visto che ti ritrovi
un fidanzato che vedi più sulle riviste che dal vivo...» Brian gli
rivolse un sorrisetto nervoso, e lui si decise a proseguire: «Ho
chiesto a Blake di sposarmi.»
«Teddy,
ma è fantastico!» esclamò Emmett. «Sia chiaro, il ricevimento lo
organizzo io! E non voglio niente...sarà il mio regalo di nozze!»
batté le mani entusiasta, ma quando si trovò davanti
all’espressione
da funerale di Ted, arricciò le labbra e, con un po’
di indecisione, chiese: «Perché...ci saranno le nozze, vero?»
Il contabile
scosse la testa, prima di trasfigurare le sue labbra in una smorfia
di sofferenza – e un tantino ridicola, a detta di Brian – per
piagnucolare: «Ha detto no!» si gettò verso il suo capo per un po’
di conforto, e per poco non rischiò di schiantarsi a terra, quando
quest’ultimò
indietreggiò all’improvviso,
in un guizzo contrariato.
«Ricaccia
immediatamente indietro quelle penose lacrimuccie da lesbica e
tieniti lontano dal mio cappotto.» sibilò Brian, aggrottando la
fronte e schivandolo come se avesse la peste. «Non voglio certo
rischiare che quelle inutili perdite di cloruro di sodio annacquato
possano rovinare il tessuto di questa meraviglia.»
Ted gli rivolse
un’occhiataccia e
commentò: «Sai sempre essere di conforto tu.»
«Faccio del mio
meglio.» replicò l’altro
con uno dei suoi soliti sorrisetti.
«Ma
perché ti ha detto no?» domandò allora Michael, stranito dalla
situazione. «Insomma, Blake ti ama.»
«Anche
Justin ama Brian.» intervenne Emmett, prima di voltarsi verso di
lui. «E a tal proposito...com’è
che ti ha detto no?»
Brian
scrollò nuovamente le spalle. «Credeva l’avessi
fatto solo perché mi ero spaventato con la bomba al Babylon.»
Gli
altri tre sollevarono contemporaneamente le sopracciglia, come a
confermare i dubbi del piccolo artista; poi, fu Michael a riprendere
la parola: «Ma Ted non è Brian.»
«No,
direi proprio di no.» ribatté prontamente il pubblicitario, dopo
aver rivolto uno sguardo attento a Ted, osservando ogni minimo
particolare del suo aspetto.
Il
contabile ricambiò quell’attenzione
con l’ennesima
occhiata caustica, prima di tornare mogio e mugugnare: «Non lo so
che gli è preso. Ero convinto anch’io
che mi amasse e volesse passare il resto della sua vita con me...»
«Non
c’è
bisogno di sposarsi per questo.» replicò Brian, quasi infastidito
da quelle parole. «E di certo, una stupida firma, su un altrettanto
stupido foglio, non ti assicurerà che starete insieme felici e
contenti come una coppia di lesbiche per il resto della vostra
patetica vita.»
«Smetterai
mai di essere così stronzo?» borbottò Emmett.
«E
perché mai? È il mio fascino.» replicò l’altro,
piegando le labbra in un sorriso furbo.
«Stupidaggini
a parte, mi scoccia ammetterlo ma...Brian ha ragione.» Michael posò
una mano sul braccio di Ted per confortarlo ed aggiunse: «Essere
sposati non è certo una garanzia a prova di qualsiasi cosa.»
«Fatto
sta che non lo saprò mai...» sospirò il contabile, prima di bere
ancora. «Ricordate? Mi ha detto no.»
«Aspetta
ad arrenderti...magari cambia idea come Justin.» replicò Michael, e
l’altro
si sforzò di sorridergli.
«O
non lo farà, e tu potrai tornare al Babylon ad affogare il tuo
dolore nell’alcool
e a rendermi ricco.»
Gli
occhi degli altri tre si posarono per l’ennesima
volta su Brian, stizziti; dopo di che, Emmett chiese, rivolto verso
Michael: «E tu? Che
tragico melodramma personale avresti da sottoporci?»
«Io?» replicò
il negoziante sorpreso e a disagio.
Ted si protese
immediatamente verso di lui ed assottigliò lo sguardo in modo minaccioso. «Trova
immediatamente un motivo per cui lamentarti e dire che la tua vita fa
schifo, o vattene all’istante!
Non hai alcun diritto di stare al nostro tavolo altrimenti!»
«Ehm...» mugugnò
Michael preso alla sprovvista, passando gli occhi ovunque alla
ricerca di una risposta.
«Allora?»
incalzò Brian, ed il suo migliore amico fece una smorfia
preoccupata.
«Che
Hunter ha bocciato l’ultimo
esame?» tentò,
balbettando le parole; ed i suoi amici si alzarono dal
tavolo – come risposta indignata alle sue parole – lasciandolo
solo come un’idiota
e con il conto da pagare.
*'*'*
“Shattered”
– Trading Yesterday
Era ormai notte
fonda quando, dopo aver salutato gli altri, Brian fece ritorno alla
sua adorata Corvette ammirandone, mentre si avvicinava, le linee
sinuose e quel colore lucido ed elegante; sorridendo appena e
ripensando allo sguardo stupito di Justin quando l’aveva
visto arrivare al Diner per la prima volta, su quel bolide d’epoca...
Al quel tempo –
doveva ammetterlo – quell’acquisto
era stato una sorta di sfizio; una distrazione per concentrarsi su
qualcosa che non fosse il pensiero del suo raggio di sole tra
le braccia di un altro...eppure, nonostante tutto, era stato perfino
divertente notare il modo in cui quegli occhi blu chiaro si erano
spostati sottecchi e curiosi nello squadrare il suo prezioso
gioiellino verde.
Justin aveva
sempre dimostrato di avere un gusto fine ed un occhio di riguardo per
certi “dettagli”, esattamente come lui; e forse, ripensandoci col
senno di poi, quell’acquisto poteva essere visto anche sotto la
luce di una sorta di dispetto nei suoi confronti. Uno sfogo
infantile, certo, ma che per qualche secondo – quando quelle
pupille scure, parzialmente nascoste da quei ciuffi dorati, si erano
ridotte per lo stupore – gli aveva concesso una piccola
soddisfazione.
Scosse la testa,
con un sorriso amaro e lo sguardo malinconico, mentre nella sua mente
riaffioravano vari ricordi legati a quei due sedili in morbida pelle
chiara; e con un piccolo sbuffo, entrò nell’abitacolo,
per poi girare la chiave e far rombare il potente motore nel silenzio
della notte.
Ingranò la marcia
ed imboccò la strada di casa finché, all’improvviso
e senza neanche riuscire a spiegarsene il motivo, si trovò a
percorrere una via totalmente diversa, ma che al contempo conosceva
perfettamente.
Costeggiò il
marciapiede illuminato dalla luce gialla dei lampioni, rallentando in
modo progressivo, fino a quando l’auto
non raggiunse una breve scalinata bianca, con un portone del medesimo
colore.
«Ma
che cazzo sto facendo qui?»
borbottò tra sé, lanciando un’occhiata
verso una delle finestre che mostrava l’interno
di una delle stanze, completamente immersa nel buio.
Si prese qualche
altro secondo per osservare, e nel posare lo sguardo su quegli
scalini candidi, fu inevitabile ricordare gli sporadici momenti
trascorsi lì insieme a Justin, quando lo aiutava con gli esercizi
per la mano, o quando semplicemente lo aveva accompagnato da sua
madre.
Non aveva mai
messo piede oltre quella soglia, eppure – forse per il semplice
fatto che quel piccolo genio aveva vissuto lì – sentiva quel posto
stranamente familiare.
Un altro sorriso
amaro si disegnò sulle sue labbra e, dopo aver preso un respiro più
profondo degli altri, fece per ringranare la marcia ed andarsene,
quando una luce lo sorprese accendendosi.
Voltò di scatto
la testa, e in quello stesso momento, ogni sua ipotesi di fuga venne
resa vana dal suono di una voce familiare che chiamò il suo nome:
«Brian? Brian, sei tu?»
Sul portico si
stagliava la figura filiforme di Jennifer, avvolta in una camicia da
notte candida e di seta, che la copriva fino alle ginocchia. Lo
osservava stupita ed insicura allo stesso tempo, probabilmente
domandandosi se ciò che i suoi occhi le stavano mostrando, non fosse
solo una stupida visione.
La
vide accostare la porta e muovere un paio di passi verso l’auto,
stringendosi con entrambe le mani i lembi della vestaglia, per
proteggersi dal freddo. Scese i primi scalini lentamente e si
avvicinò allo sportello. «Grazie a Dio sei tu!» esordì
sospirando, mentre il finestrino si abbassava. «Mi hai fatto
prendere un colpo, lo sai?»
«Non
c’è
il tuo baldo cavaliere a proteggerti?» mormorò Brian, ticchettando
le dita sul volante, senza trovare il coraggio di guardarla negli
occhi.
«No, Tuck è
fuori città per lavoro. Siamo solo io e Molly.» gli sorrise lei,
prima di porre quella domanda a cui Brian sapeva di non poter
sfuggire ormai; e a cui, oltretutto, neanche sapeva come rispondere:
«Che ci fai qui?»
Lui arricciò le
labbra, abbozzando un sorrisetto sarcastico. «Mi sono perso.»
«Ti
va di entrare?» gli domandò allora lei, e Brian non poté che
notare quanto le sue doti di attore – o bugiardo che dir si voglia
– facessero letteralmente schifo nel momento in cui si trovava a
fronteggiare un Taylor, o comunque qualcuno che, in un modo o
nell’altro,
aveva fatto parte di quella famiglia.
Ovviamente,
Jennifer non aveva creduto neanche per un secondo a quella sua
facciata di strafottente indifferenza, perciò si ritrovò a
mugugnare un assenso, e a scendere dalla
sua adorata Corvette, per poi seguirla fin dentro casa.
«Bel
posto.» commentò,
osservandosi distrattamente intorno, prima di fare il proprio
ingresso in cucina.
«Mi
prendi in giro?» rise
lei di gusto. «In
confronto a casa tua, o al castello di cui mi ha parlato Justin,
questa è una catapecchia.»
«È
accogliente.» borbottò
lui in risposta, e la donna non riuscì a fare a meno di sorridere
ancora. Suo figlio aveva decisamente ragione: vedere Brian in
difficoltà, era uno spettacolo imperdibile.
«Vuoi
qualcosa da bere?» gli
chiese. «Un thè, una
camomilla...» si voltò
verso di lui ed incontrò il suo sguardo scettico. «...o
forse è meglio un goccio di bourbon.»
«Adesso
si ragiona, mamma
Taylor.»
Jennifer
aprì uno degli sportelli della vetrina, ed afferrò una bottiglia di
Jim Beam vuota per metà. Ne versò due dita in due bicchieri e ne
porse uno a Brian. «Hai
sentito Justin?» chiese
poi, diretta.
«Vedo
che hai gusto.» ribatté
invece lui, indicando la bottiglia, in modo da sviare la domanda.
«Ogni
tanto mi concedo qualche piccolo piacere...»
mormorò, e dopo aver preso un sorso di quel liquido ambrato, sorrise
furba. «...e la
testardaggine di mio figlio, non è certo nata a caso. Da qualcuno
l’ha
ereditata, perciò...»
«No.»
rispose Brian, certo di non avere scampo. «Non
l’ho
ancora sentito.»
A
quella confessione, Jennifer abbassò lo sguardo dispiaciuta. «Io
gli ho parlato per appena un paio di minuti. Non è neanche passato
di qui prima di tornare a New York.»
«Justin
è fatto così. Non ama particolarmente i saluti della partenza.»
«O
forse non li ami tu...e non facendolo con te, si è reso conto che fa
molto meno male andarsene senza salutare nessuno.»
commentò lei, senza alcuna traccia di rimprovero nella voce.
«Vero
anche questo.»
«Pensi
che tornerà presto?»
Brian
terminò il suo bicchiere con una sola sorsata e lo appoggiò sul
tavolo, chiudendo gli occhi mentre il liquido gli scorreva nella
gola, bruciandola. «Non
lo so.» mormorò poi,
fissando un punto a caso. «In
quello che fa non esistono orari o tempi.»
Jennifer
abbozzò un sorriso senza allegria. «È
sempre stato così bravo, ma non credevo che sarebbe arrivato così
in alto.»
«Io
sì.» confessò
candidamente lui. «Hai
messo al mondo un genio.»
«E
tu l’hai
aiutato a crescere e a ricominciare a vivere...»
replicò lei, con un groppo alla gola. «...se
non fosse stato per te, non so che avrei fatto. Forse non sarebbe
neanche più qui e...»
«Ma
non è successo.» la
interruppe. Non voleva neanche lontanamente pensare alla possibilità
di una realtà in cui non era riuscito a salvarlo da quel pavimento
scuro di quel dannato parcheggio. «Lui
c’è,
quindi non pensiamoci più.»
La
donna annuì, regalandogli uno sguardo dolce e ricolmo di
gratitudine. «Hai
ragione, ma non ti ringrazierò mai abbastanza.»
«Non
serve. Non l’ho
fatto né per te, né per me...né per nessun altro.»
«Lo
so. L’hai
fatto solo per Justin.»
convenne lei, e Brian sollevò le sopracciglia, come a voler dare
ovvia conferma alle sue parole.
«Comunque sia, te l’ho
già detto una volta e, anche se ti sembrerà strano, la mia idea non
è mai cambiata...» gli sorrise sinceramente, e un brivido corse a
solcare la schiena di lui, nel constatare quanto in quel momento
Jennifer somigliasse al suo raggio di sole. «...mi sarebbe
davvero piaciuto essere tua suocera.»
«Una gran
bella suocera.» replicò Brian, assumendo la sua classica
espressione ilare.
«Stai per caso
cercando di comprarmi?»
Lui piegò le
labbra all’interno
della bocca, ed innalzando una delle sopracciglia, rispose: «No
mamma Taylor, ho solo un
debole per ‘le
bionde’.»
Jennifer rise e
restò a guardarlo per qualche secondo, prima di avvicinarsi. «Vieni
qua.» sussurrò appena, per poi alzarsi sulle punte e circondargli
le spalle ampie in un abbraccio; in cui lo sentì irrigidirsi di
sorpresa.
Da quello che le
era sempre stato raccontato da suo figlio, sapeva che Brian non era
tipo da smancerie e dimostrazioni d’affetto
troppo dirette. Lui era fatto a modo suo; ed aveva anche un modo
tutto suo di dire e fare le cose.
Si aspettò
pertanto di sentirsi immediatamente allontanare ma, a dispetto di
quelle sue previsioni, percepì i muscoli della schiena larga
dell’uomo lasciarsi
lentamente andare – rilassandosi – per poi sentirlo poggiare il
mento sulla sua spalla, e stringerle la vita così da ricambiare il
suo gesto d’affetto.
Brian respirò
profondamente, trovando nel profumo di Jennifer qualche traccia di
quello di Justin.
Non avrebbe saputo
dirne il motivo, ma sentì distintamente un nodo stringersi nella
gola e qualche lacrima pizzicargli gli occhi.
Forse
per l’odore
fresco del detersivo che era sempre stato abituato a sentire sui
vestiti puliti di Justin, o quello dello shampoo che percepiva tra i
capelli; forse per l’idea
di essere stretto da colei che aveva dato vita all’uomo
di cui era innamorato, e a cui, come lui, era legata da un filo
invisibile e indistruttibile...
O
forse più semplicemente perché in quell’abbraccio
poteva sentirsi realmente amato e accettato per quello che era – a
prescindere da tutto quello che aveva sempre fatto o detto –
esattamente come con il suo Justin.
*'*'*
Da quella strana
notte – in cui l’inaspettato
abbraccio di Jennifer era riuscito a calmare almeno di un poco il suo
malessere – erano passati due giorni, che Brian aveva trascorso in
ogni loro singolo attimo in compagnia del suo bambino, sia per
godersi fino all’ultimo
della sua compagnia e del suono della sua risata, sia per non pensare
al suo Justin, da cui ancora non aveva ricevuto né una chiamata, né
un messaggio...probabilmente troppo impegnato con il lavoro per
farlo; o almeno questo era ciò di cui si era convinto e che, per
quanto gli facesse male, aveva accettato.
Il tempo dei
saluti però era nuovamente arrivato, insieme a quella consumante
sensazione di malessere che lo colpiva ogni volta che doveva
allontanarsi da Gus; perciò respirò a fondo, nel tentativo di
infondersi un coraggio che in realtà non aveva, ed afferrò la
manina calda di suo figlio – così piccola e soffice rispetto alla
sua, che quasi sembrava sparire nel suo palmo – e a testa alta,
per non vederne gli occhioni verdi lucidi di lacrime, si avvicinò
svogliatamente all’auto
dove Michael e Ben stavano ancora caricando i bagagli.
«Fatto.» affermò
Ben, dopo aver sistemato anche l’ultimo.
Chiuse il portellone e si sfregò le mani con un sorriso amaro
dipinto sul volto. Michael accanto a lui non parlava, né accennava a
volerlo fare. Si limitava a tenere gli occhi bassi, quasi volesse
scappare da quella situazione imbarazzante e soffocante di tristezza
a cui ogni volta erano obbligati.
«Ok.» mormorò
Mel, tenendo in braccio Jenny Rebecca. «Allora, ci rivediamo per
Natale?»
«Certo.» si
scrollò Michael. «Dovete venire assolutamente. Altrimenti, mia
madre chi la sopporta!» si avvicinò per baciare la sua piccolina
sulla fronte, e accarezzò affettuosamente Gus sulla testa.
Come per riflesso
incondizionato, il bambino strinse più forte la mano del padre e si
accostò maggiormente a lui, quasi volesse nascondersi dentro al suo
corpo. «Non voglio andare a Toronto.» piagnucolò poi.
«Tesoro, dobbiamo
andare a casa.» gli rispose Linz, accoccolandoglisi davanti
«Casa mia è
qui!» strillò pieno di rabbia. «È
qui con papà!»
Brian ingoiò a
fatica il nodo amaro stretto nella gola e sollevò il figlio per
baciarlo sulla fonte. «Ci vediamo presto, Gus.» cercò di
tranquillizzarlo, quando in realtà anche lui avrebbe voluto tornare
a essere solo un bambino per poter piangere, strillare e battere i
piedi. Gli faceva così male lasciarlo andare; ogni volta era come se
gli strappassero con la forza un pezzo di sé. «Venti giorni al
massimo e saremo di nuovo insieme. Faremo un sacco di cose, te lo
prometto.»
«Non voglio
andare via.» ribadì e strinse più forte la presa sul collo e sul
cappotto di Brian.
L’uomo
non riuscì a desistere dall’accarezzargli
la testa dolcemente e, senza neanche rendersene conto, rivolse uno
sguardo supplichevole a Linz, quasi le stesse dicendo: “non
portarmelo via”.
«Cerco di
liberarmi prima quest’anno.
Così resteremo più tempo.» provò a tranquillizzarlo allora
lei, stringendosi nelle spalle e soffrendo per quell’orrenda
sensazione che le bruciava in mezzo al petto...perché era così
triste ogni volta dover allontanare quelle due anime che sembravano
incastrarsi così bene nel loro abbraccio.
«È
ora di andare.» soffiò Melanie, quasi le costasse pronunciare
quelle parole e Linz si avvicinò a Brian per prendere Gus.
«No!» strillò
più forte il bambino, aggrappandosi con tutte le forze a suo padre,
finché fu proprio lui a lasciarlo andare.
«Gus, ascolta.»
gli disse dolcemente, quando fu tra le braccia della madre. «Se non
sono troppo impegnato con il lavoro, cerco di venire a Toronto il
prossimo fine settimana, ok?» tra le lacrime che scendevano copiose,
il bambino annuì, tirando su con il naso e Brian gli sorrise
accarezzandogli una guancia. Si sporse per baciarlo sulla testa e vi
sostò per qualche secondo, respirando il profumo dell’innocenza
tra quei capelli castani; un’altra
delle sue tante eredità. «Chiamami appena arrivi a casa, ok?»
aspettò che il figlio annuisse ancora e si sforzò di sorridere più
sinceramente. «Intanto io vado ad appendere il tuo capolavoro.»
«Torneremo
presto.» cercò di rassicurarlo Linz, dopo averlo baciato sulle
labbra e Brian annuì appena, incapace di non collegare quella stessa
promessa a quella dell’altra
persona che neanche due giorni prima se n’era
andata. Sembrava un circolo vizioso in cui, ogni fottuta
volta, le persone che più amava erano destinate ad allontanarsi da
lui. Lui che era sempre stato il primo a volerlo fare, era
quello che era sempre rimasto a Pittsburgh, mentre guardava gli altri
andarsene.
Salutò con un
cenno della testa Melanie e baciò Jenny, prima di accendersi una
sigaretta e – dopo aver concesso un ultimo sorriso a suo figlio –
voltarsi senza dire una parola per raggiungere la Corvette.
Non voleva vederli
andar via; se ne sarebbe andato via prima, così che potesse
illudersi ancora per qualche attimo che, se mai li avesse cercati,
sarebbero stati sempre lì.
Ingranò la marcia
e partì sgommando alla volta del suo loft; per poi entrarci
stancamente, come se ogni passo lo prosciugasse dell’energia
vitale.
Richiuse la porta
scorrevole alle sue spalle e s’immerse
nel silenzio assordante della sua casa, che fino a qualche giorno
prima era illuminata da un raggio di sole, e resa ridente e
chiassosa da una vocina argentina.
Per un attimo
immaginò di vederli ancora lì, impegnati a disegnare sul pavimento,
sporchi di pastelli colorati; e non avrebbe neanche avuto il coraggio
di arrabbiarsi se avessero macchiato il suo pregiato parquet, per
quanto era felice di essere circondato dalla loro confusione.
Avrebbe preso una
birra dal frigo e sarebbe rimasto ad osservarli ammirato, mentre
dentro si sentiva esplodere di gioia per quei sorrisi ed il suono
delle loro risate.
Immaginò di
vedere Gus sollevare lo sguardo e rivolgergli il sorriso più bello
che potesse fare, prima di sollevarsi da terra e corrergli incontro;
ed immaginò anche Justin che l’osservava
felice, con quel suo sguardo blu luminoso, mentre si alzava e lo
raggiungeva per regalargli uno dei suoi baci.
Li avrebbe stretti
entrambi a sé e avrebbe respirato a fondo il loro profumo, fino a
saturarsene i polmoni e inebriarsi la mente. Avrebbe annullato se
stesso per riempirsi di loro e dell’amore
che sapevano rivolgergli.
Forse, sarebbe
stato anche capace di sussurrare un “ti amo”; anzi due...
Uno soffiato
all’orecchio di
Justin, l’altro
pronunciato strofinando il suo naso con quello di Gus...perché era
quella la realtà. Lui li amava; li amava da morire e avrebbe dato
tutto, ogni più microscopica briciola di sé stesso per
poterglielo dire...per tenerli per sempre con sé.
Ma la realtà era
anche fatta di un loft solitario; e mentre vide svanire quella
fantasia perfetta, emblema della sua felicità più rosea, permise a
una lacrima di lasciarsi cadere dall’angolo
dell’occhio lungo la
sua guancia.
Scosse la testa,
come per scrollarsi di dosso il dolore e avanzò a passi lenti, fino
al divano, dove il disegno di suo figlio e di Justin giaceva
indisturbato.
Lo
prese con delicatezza tra due dita e si lasciò sprofondare tra i
guanciali bianchi e soffici, perdendosi in quei colori vivaci;
scavandoci dentro alla ricerca di una traccia dei suoi due infiniti
amori e provare a trattenere un po’
di loro per sé...così da sentirsi un po’
meno solo.
***
Note finali:
Here i am...di nuovo!
Ebbene sì, sono tornata ad infestare questo fandom con un capitolo che manco mi piace, ma che era necessario per spargere indizi qua e là, tanto per dare una piega alla storia. XD
In pratica - come avrete visto - non succede niente di che, solo un paio di precisazioni e qualche lacrimuccia.
Premetto che neanche questa volta ho avuto il tempo di rileggere il capitolo, perciò se trovate errori...perdonatemi! Ho
saputo che tra una settimana avrò un esame intermedio - di cui
io manco sapevo niente. Come al solito cado dalle nuvole! - e mi sono
ritrovata a dover studiare dieci capitoli indigeribili in meno di una
settimana! Fantastico!
Insomma, per farla breve, non volevo farvi aspettare ancora...quindi ho
terminato il capitolo e l'ho messo su NVU...senza guardare ad eventuali
orrori sparsi nei paragrafi!
Detto questo, ci tengo anche a dirvi che mi
dispiace se la parte della discussione tra Justin/Jace/Gary risulta un
tantino confusa e un po' incoerente dal punto di vista di Justin, ma ora come ora non potevo spiegare bene le cose...lo farò nel prossimo capitolo, o almeno spero risulterà comprensibile! XD
A questo punto posso passare alla parte più importante, prima di strisciare verso i libri! -.-''
Ringraziamenti-time: Un grazie a tutti coloro che hanno letto questo capitolo, arrivando fino in fondo senza addormentarsi - ed ammetto che non era affatto facile! - grazie a chi ha inserito la storia tra le seguite, le preferite o le ricordate...ma soprattutto GRAZIE a: mindyxx, SusyJM, FREDDY335, electra23, klaudia62, Thiliol, Giohs, oo00carlie00oo, asterix_c, silver girl, Clara_88, OfeliaCuorDiGhiaccio ed EmmaAlicia79 per aver commentato lo scorso capitolo! *w* Grazie davvero!
Quindi vi saluto e piagnucolo verso la scrivania. -.-''
Un bacione e alla prossima.
Veronica.