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Autore: SidRevo    10/10/2011    13 recensioni
Trecentosettanta miglia e un anno e mezzo a dividerli...
Quando il tempo – per quanto sia “solo tempo” – riesce solo a ferire, invece che rimettere le cose al loro posto; quando due persone, in quel loro ostinarsi a complicare le cose, nascondono l’innata capacità di ritrovarsi sempre e comunque, e la facilità con cui sanno rincontrarsi senza smettere mai di amarsi; quando si tratta di Brian e Justin.
Tratto dal capitolo: “«Se ci muoviamo, per le…nove di questa sera saremo lì!»
«Jace, sono stanco.» ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo, allora domani!»
«Quale parte del ‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come Brian.
«Oh, tu verrai. Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino alla realtà dei fatti.”

So che è l'ennesima “sesta stagione” che viene pubblicata, ma ho voluto provare a dare una mia versione, visto che non ho altro modo per esorcizzare la mancanza di questo superbo telefilm! Spero vi piaccia!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Brian Kinney, Justin Taylor, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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10.See you soon.

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6x10 – See you soon.


“Gone away” – SafetySuit



Schiuse gli occhi che lalba era appena iniziata, lasciando filtrare un velo leggero di luce così pallida, da far sembrare lo spazio racchiuso tra quelle quattro mura etereo, quasi magico, come appartenente ad un mondo totalmente separato da quello che lo aspettava oltre la sua soglia.
E forse era davvero così.
Fin dalla prima volta in cui aveva mosso i primi passi su quel parquet chiaro, nel suo cuore spaventato, si era fatta spazio la sensazione di aver dato il via ad un meccanismo che gli avrebbe cambiato totalmente la vita e, di lì in avanti infatti, ogni volta che vi aveva fatto ritorno – che fosse col sorriso, con la rabbia o le lacrime – quella stessa sensazione era sempre rinata dentro di lui.
Per Justin, il loft era diventato una sorta di accogliente nido; qualcosa da cui non riusciva a separarsi; ed anche in quel preciso momento non riuscì a resistere dallo stringersi come un bambino al cuscino, soprattutto quando i suoi occhi chiari incontrarono la schiena di Brian.
Durante tutta la notte non era riuscito ad addormentarsi, e per tutto quel tempo in cui era rimasto pienamente vigile, non aveva sentito muoversi neanche di un millimetro il suo uomo, né aveva percepito un suono provenire da lui, se non quel lieve fischio che emetteva quando respirava, e a cui ormai si era abituato ad ascoltare ogni volta che dormivano insieme, quasi fosse la sua ninna nanna.
Inspirò profondamente, con gli occhi puntati su quella pelle perfetta, lievemente rischiarata dalla luce, ed allungò una mano con nellintento di lasciarci una dolce carezza. Giunse quasi a toccarla con la punta delle dita, ma si bloccò e le richiuse a pugno, quasi si fosse scottato o si fosse già arreso al dover vivere lontano da momenti come quelli.
Si morse le labbra e, con gli occhi divenuti ormai liquidi per le lacrime, scostò con attenzione le coperte e scivolò fuori dal letto, percependo il peso di un gigantesco macigno sullo stomaco.
Col fiato corto e la gola che bruciava nello sforzo di trattenere urla e pianto, prese i pantaloni e li infilò di malavoglia, proseguendo poi con il resto degli indumenti che la sera precedente aveva abbandonato a terra.
Inviò un messaggio a Jace perché lo passasse a prendere con la jeep sotto casa e, dopo essersi avviato verso la porta ed essersi infilato il giubbotto, tornò a fissare Brian attraverso le ante lasciate semi aperte, mentre le lacrime sfuggivano al suo controllo e scendevano lentamente lungo la linea del naso e sulle guance candide.
Ne sentì un paio infrangersi sulle labbra e le leccò via, imprimendosi il loro gusto salato sulla lingua. Strinse i denti con forza per impedirsi di singhiozzare come un bambino, fino a quando non si ritrovò a tapparsi la bocca con il palmo della mano, scosso dai fremiti, mentre si sorreggeva alla porta scorrevole per non crollare e correre verso il letto, alla ricerca di un conforto tra le braccia di Brian.
Con le ultime forze rimaste, si costrinse a chiudere gli occhi e a voltarsi. Aprì la porta con rabbia disperata e, dopo esser avanzato di un passo, se la richiuse alle spalle, per poi appoggiarcisi con la schiena e strisciare per tutta la sua lunghezza, fino ad accoccolarsi a terra ed abbracciare le proprie gambe, immergendovi anche la testa ed abbandonandosi ad un pianto strozzato, certo che Brian non avrebbe potuto sentirlo.



*'*'*


“Please dont go” – Barcelona



Nel momento in cui percepì il rumore della porta scorrevole che raggiungeva il termine del suo percorso, Brian sollevò lentamente le palpebre. Finalmente non era più costretto a fingere di dormire.
Respirò sommessamente e, deglutendo a fatica, si concesse di piangere una sola minuscola lacrima, che percorse leziosa la sua pelle, fino a cadere e bagnare il cuscino, in una macchiolina più scura.
Fissò lo sguardo in un punto a caso e si costrinse a ignorare il suo cuore che, per ogni singolo battito, sembrava potergli urlare di alzarsi da quel letto e correre giù per le scale a rotta di collo, così da fermare Justin e confessargli finalmente quelle dannate parole.
Per favore, non andartene.
Si passò una mano sul viso, come a voler cancellare quei pensieri, e si tirò su, per poi protendersi verso il comodino ed afferrare il pacchetto di sigarette.
Di solito non amava fumare appena sveglio, ma saturarsi i polmoni con il fumo, pareva essere lunica momentanea soluzione per colmare il vuoto che si era creato dentro il suo petto, nel momento in cui il corpo di Justin aveva abbandonato il letto, lasciando solo il proprio calore ed il profumo a ricordargli la sua presenza.
Accese la sigaretta e si appoggiò con la schiena alla testata del letto, lanciando una lunghissima ed intensa occhiata al lato vuoto al suo fianco, e a quelle coperte arricciate sul fondo, immaginando per un brevissimo istante, di vederci Justin beatamente assopito, con i capelli arruffati a coprirgli parte del viso e le labbra lievemente socchiuse, che come sempre sembravano invitarlo ad essere baciate.
Prese una prima boccata, e nel soffiare via il fumo, distese le labbra in un sorriso di scherno per se stesso e per quei pensieri che lo facevano sembrare quella che, fino a qualche anno fa, avrebbe definito una patetica checca innamorata.
Eppure, ogni volta che pensava al sorriso del suo Justin, percepiva distintamente la sensazione di uno strappo sul cuore; una lacerazione che forse non sarebbe stato capace di ricucire – non da solo almeno – e che lo obbligava a respirare con più forza per non impazzire o affogare in quel lancinante dolore.
Ed erano quelli i momenti in cui non si trovava poi più così tanto ridicolo; perché il male che lo colpiva era così fottutamente reale da fargli passare perfino la voglia di schernirsi, o continuare a fingere che fosse tutto perfetto.
Inspirò altre boccate di fumo – una dietro laltra, profonde tanto da togliergli il fiato – finché la sigaretta venne bruciata e consumata fino al filtro, e le sue dita la schiacciarono sul posacenere. Soffiò via lultima nuvola di fumo e si alzò stizzito dal letto, dirigendosi verso le ampie vetrate, incurante della propria nudità. Posò lo sguardo sulla strada sottostante, ed un profondo cipiglio si disegnò sulla sua fronte, quando vide una jeep scura accostare.
Non aveva bisogno di guardare al suo interno per capire che alla sua guida stava Jace, e che avrebbe portato via il suo piccolo artista lontano da Pittsburgh; così come non era necessario che gli spiegassero il motivo per cui Justin aveva acquistato proprio
quella jeep. Era fin troppo ovvio che anche in quel dettaglio si potesse leggere quanto quel ragazzino sentisse la sua mancanza.
Sorrise malinconico; e n
ellistante in cui riuscì a vedere quella familiare chioma bionda e luminosa comparire allimprovviso per poi sparire dentro labitacolo, poggiò il palmo della mano sul vetro, come a voler indirizzare una carezza verso di lui; e mentre qualcosa andava a stritolargli il cuore nellennesima morsa dolorosa, le sue labbra trovarono la forza di separarsi e di soffiare via parole diverse da quelle che vibravano nel suo animo: «Buon viaggio, raggio di sole



*'*'*



Da quando avevano iniziato il loro viaggio, esattamente quasi cinque ore prima, Justin non aveva aperto bocca, se non per dargli un fievole e distratto saluto. Si era limitato ad adagiarsi sul sedile, poggiando la testa al finestrino, ed aveva fissato gli occhi blu chiaro e orribilmente opachi per la tristezza, verso il proprio lato della strada.
Per contro, Jace, non aveva fatto altro che alternare le proprie occhiate tra la strada e la figura rannicchiata al suo fianco, visibilmente preoccupato.
Da quando si erano incontrati, per quante volte lo avesse visto triste o in preda ad un pianto isterico, il designer newyorkese, non aveva mai visto il suo migliore amico tanto spento e apatico come in quel momento. Nel giro di poco più di un giorno, era riuscito a vedere lati ed espressioni sconosciute su quel viso angelico: dalla preoccupazione più drammatica, alla felicità più pura, fino a quella tristezza soffocante.
Superò con la jeep il gigantesco cartello verde che annunciava lormai imminente arrivo nella Grande Mela e, schiarendosi la voce, si decise a parlargli prima che il loro viaggio terminasse, e che quindi Justin si ritrovasse di nuovo immerso nella realtà di essere unartista sulla cresta dellonda. «Allora...» iniziò, lanciando altre occhiate fugaci alla sua destra. «...vuoi passare un attimo da casa, o vuoi che ti porti direttamente in ufficio da Gary?» Justin per contro si limitò a sollevare le spalle, con noncuranza, senza staccare gli occhi dal panorama che sfrecciava ai lati. Jace arricciò le labbra, un po contrariato, e si decise a riprovare: «Senti, se vuoi possiamo fermarci prima a fare colazione e poi...»
«Jace, non m
importa.» sbottò Justin interrompendolo. «Va dove preferisci, ok?»
«Allora penso opterò per il primo ospedale della zona.» ribatté in tono sarcastico il designer. «Mi pare che qui qualcuno abbia proprio bisogno di un calmante!»
Gli occhi blu chiaro di Justin finalmente abbandonarono la strada e si posarono su Jace, decisamente costernati. «Scusa.» mormorò fievolmente. «So che non devo prendermela con te. È solo che...»
«Non volevi tornare a New York.» aggiunse Jace, al posto dellaltro; che annuì, per poi sbuffare e lasciarsi affondare nel sedile.
«Vorrei sapere chi cazzo me l
ha fatto fare di venire fin qui...» borbottò, inarcando le sopracciglia chiare. «...non potevo restarmene alla cara vecchia Pittsburgh?! No, dovevo combinare un casino, come sempre. Bella trovata, Justin Taylor!» proseguì ironizzando sulle sue scelte. «Adesso sono intrappolato qui, ed ho le mani legate.»
«Be
...puoi ancora mollare tutto.» replicò tranquillamente Jace, sollevando le spalle e distendendo le labbra in un sorrisetto furbo. «Tu dimmi di tornare indietro, o di andare chissà dove...e lo farò. Basta solo che tu lo dica...»
Justin ricambiò quel sorriso con uno appena accennato, prima di sospirare e negare con la testa. «Non posso mollare tutti così.»
«Gary se ne farà una ragione...» pronunciò con noncuranza, prima che nella sua testa balenasse la convinzione che aveva maturato in quei mesi, secondo cui il manager si era preso una bella cotta per il piccolo artista. Perciò fece una lieve smorfia e aggiunse: «...almeno credo.»
«Non è solo per Gary. Ho delle promesse da mantenere.»
«Se ti riferisci a quella stronzata fatta a Brian, sta certo che se anche non la manterrai, ti riprenderà nel suo letto molto volentieri.» fece schioccare la lingua e continuò: «E poi, insomma, dopo tutti questi anni saprai come prenderlo per la gola no? E non mi riferisco alle tue doti culinarie.»
Justin finalmente si lasciò andare ad una breve risata. «Non parlo di Brian. Parlo dei proprietari delle gallerie a cui ho già detto
, o agli altri impegni presi.»
«Ripeto: secondo me ti prendi troppo seriamente. Sei un
artista, per la miseria! È un tuo dovere fare i capricci e rendere la vita impossibile al prossimo!»
«Vorresti dirmi dove l
hai sentita questa?»
Jace gli lanciò un
occhiata di sbieco e scosse la testa con rassegnazione. «Tutti gli artisti sono così...solo tu ti dai alla misericordia! Pensa anche a quel...come si chiama...» ci pensò un po su, per poi esclamare: «Sam Auerbach! Lui sì che è un vero artista. Un caprone insopportabile e arrogante!»
Nel sentir pronunciare quel nome, Justin percepì un lungo brivido attraversargli la schiena. Non aveva mai davvero conosciuto Sam, ma sapere come quell
uomo avesse quasi rovinato il matrimonio tra le sue più care amiche, gli era bastato. Decise comunque di non parlarne con Jace, e proseguì nella conversazione: «Quindi dovrei diventare uno zotico incivile secondo te?»
«Già...e sarebbe molto arrapante.» mormorò l
altro, umettandosi le labbra, e fingendo un’espressione sensuale.
«Sei completamente matto.» rise l
artista. «Comunque non ho nessuna intenzione di diventare come quellAuerbach. Neanche se significasse guadagnare milioni di dollari in più. Io sono solo Justin Taylor, non posso essere nessun altro.»
Jace sollevò le sopracciglia, ammiccando. «Be
...non so se sia la sua cafonaggine il motivo di tutto il suo successo, ma in Europa ha davvero fatto faville.»
«Sì, ho letto qualcosa.»
«Chissà perché però ha abbandonato così allimprovviso lAmerica e se nè andato a Milano...» mugugnò Jace, con la fronte leggermente aggrottata. «...insomma, ha rischiato parecchio. In America era una specie di dio, ma in Europa in pochissimi lo conoscevano.»
Justin si ritrovò a deglutire a disagio. Lui conosceva bene uno dei motivi per cui Sam si era allontanato di tutta furia dall
America; e quel motivo rispondeva al nome di Lindsay Peterson. «Lhai detto anche tu, no? È unarrogante...» balbettò quindi in risposta. «...probabilmente voleva semplicemente provare qualcosa.»
«Probabile.» convenne Jace. «Comunque, sembra proprio che farà ritorno nella madre patria.»
«Cosa?!» schizzò Justin, facendo sobbalzare anche laltro. «E perché mai?!»
«Ehi calma. Cos
è tutta questa agitazione?» gli chiese stranito dalla sua reazione. «Non sapevo fossi un suo fan!»
«Non lo sono infatti!» borbottò in risposta il biondo
artista, in preda allansia. Non voleva neanche immaginare la reazione che avrebbero potuto avere Mel e Linz nel venire a conoscenza di quella notizia. «Allora? Dimmi, sei sicuro che abbia intenzione di tornare?»
Jace gli lanciò un
occhiata stranita, per poi rispondere: «Così ha rilasciato in un comunicato alla stampa. Ha detto che non avrebbe preso altri impegni in Europa perché sarebbe rientrato in America. Non so altro.»
«Cazzo...» mormorò Justin, lasciandosi cadere a peso morto sul sedile.
Le sue due amiche avevano superato ormai da tempo la “Crisi Auerbach”, così come si divertivano a definirla tutti loro – oltre allaltro nomignolo, ovviamente molto meno sottile, inventato da Brian – ma conosceva fin troppo bene Melanie, e sapeva quanto rancore fosse in grado di covare anche a distanza di anni; e quanto questo avrebbe potuto far male, se fosse stato risvegliato.
Ciò che lo spaventava di più però, era il motivo per cui Sam, da un momento all
altro, avesse deciso di far ritorno in America. Ovviamente non cera niente a sostenere la sua preoccupante tesi che quel motivo fosse Linz, ma neanche si sentiva di scartarla completamente. Per non parlare del fatto che, a prescindere da quello che lo aveva spinto al suo ritorno, non osava neanche immaginare cosa avrebbe potuto scatenare un casuale incontro.
Era risaputo infatti, che gli artisti americani facessero spesso tappa a Toronto con le loro personali, quindi le possibilità che il disastro avvenisse, non erano poi così remote come si era augurato.
Perso comunque in tutte le sue congetture, Justin non si era neanche reso conto del modo in cui Jace aveva preso a fissarlo da qualche minuto, finché questo non lo riscosse con una delle sue domande a bruciapelo: «Ti sarai mica scopato anche lui? Ma non era decisamente etero?»
«Eh? Cosa?» chiese l
artista, riscuotendosi dai propri pensieri. «No! Cioè, sì!» si affrettò a rispondere e quando si accorse dellespressione dellamico sempre più allucinata, rettificò: «Non me lo sono scopato io.»
«Che significa quel
io?» domandò immediatamente il designer, e Justin si ritrovò ad imprecare mentalmente contro se stesso. «Si è divertito Brian con lui?»
«No...»
«E allora chi?»
«Prometti di non dirlo ad anima viva.» sibilò il ragazzo, puntando un dito contro laltro. «Promettilo sulla tua collezione di mocassini italiani!»
«Oddio. Stai per rivelarmi un segreto di stato?»
Justin fece una smorfia. «Qualcosa del genere.»
«Daccordo, prometto.»
«Jace, ti taglio le palle se te lo lasci sfuggire con qualcuno!»
«Ho promesso!» sospirò esasperato, prima di protendere lorecchio verso lamico. «Allora, dimmi un po questo super segreto.»
Le labbra dell
artista si arricciarono indecise sul da farsi. Le mordicchiò per un po finché, con un respiro profondo, si decise a confessare: «Con Linz. È stato con Lindsay»
«Linz?!» replicò Jace, quasi strillando il nome. «Ma non è lesbica?!»
«Evidentemente sarà diventata etero per qualche minuto, che vuoi che ti dica! Non sono comunque affari che ci riguardano!»
«Be...oddio...» mormorò il designer, aggrottando la fronte. «Un pensierino con quel rozzo ce lo farei anchio. Ma Melanie lo sa?»
«Sì.»
«E sono ancora tutti vivi?»
Justin scoppiò a ridere. Effettivamente se lera sempre chiesto anche lui come Linz e Sam fossero riusciti a scampare alla morte dopo che la verità era stata rivelata. Insomma, Melanie Marcus non era certo ricordata per la sua assoluta calma. A quello ci pensava per tutti quanti il caro ZenBen. «A quanto pare sì.» rispose comunque, prima di sospirare. «Per questo sono preoccupato.»
«Temi che si potrebbe scatenare l
inferno in famiglia?»
«Diciamo che Mel non è una dal perdono facile...e che è meglio non buttare sale su certe vecchie ferite.»
«Vuoi avvertirle?»
«Non so. Tu che dici, dovrei?»
Jace ci pensò su per un attimo, prima di negare con la testa. «Aspetterei ancora un po’ a dare l’allarme. In fondo non sappiamo ancora se lo farà davvero...magari siamo fortunati e cambia idea!»
«Ho sempre creduto molto poco alla fortuna.» ribatté l’altro, piegando le labbra in una piccola smorfia.
«Eppure ne hai avuta parecchia.»
«Dipende dai punti di vista.»
«D’accordo, come vuoi.» sospirò sollevando le mani dal volante, ed indicò con un cenno della testa un cartello sospeso a poca distanza da loro. «Allora Taylor...casa o Gary?»
Justin si morse l’interno della guancia, indeciso sul da farsi, fissando lo sguardo sulle due direzioni stampate in bianco su uno sfondo verde, per poi indicare il lato destro. «Andiamo da Gary.» annunciò in seguito, prima di aggiungere con uno sguardo stranamente deciso: «Vorrei parlargli.»



*'*'*



«Mamma, mamma!» si sentì chiamare da una voce squillante. «Dai, sbrigati!»
Melanie osservò il suo bambino saltellare ovunque mentre pesticciava la neve caduta durante la notte, sorridendo e scuotendo la testa, ormai rassegnata al fatto che non sarebbe riuscita a riportarlo a casa asciutto e pulito.
A stento era riuscita a farlo pranzare e a fargli fare il suo quotidiano riposino pomeridiano, quando il piccolo si era accorto del bellissimo manto bianco che ricopriva l’intera città; fino al momento in cui, le sue ragioni, non avevano dovuto cedere alle richieste di quel bambino bellissimo, quanto terribilmente persuasivo.
E quel particolare, gli ricordava decisamente qualcuno...
«Gus, non correre!» esclamò, cercando di assumere un’espressione di rimprovero.
«Dai, mamma! Corri!» strillò in risposta lui, come a confermare che in realtà non aveva ascoltato neanche una parola di quello che gli aveva detto.
La donna si concesse un lungo sospiro rassegnato e, dopo aver sbuffato, si decise a correre dietro a quella piccola peste, così da riempirsi le orecchie di quelle sue urla felici e delle sue risate che tanto le scaldavano il cuore.
«Vieni qui, piccola peste!» gridò lei, cercando di acciuffare il bambino.
«Tanto non mi prendi, tanto non mi prendi, mamma!» la canzonò lui, prima di bloccarsi all’improvviso, con lo sguardo fisso davanti a sé. Melanie alzò gli occhi, seguendo la stessa direzione di quelli del figlio, fino ad incrociarli con una figura slanciata e familiare che, nel suo cappotto di pelle decisamente costoso, e con gli occhiali scuri inforcati, avanzava con le mani affondate nelle tasche, verso di loro. «Papà!» strillò allora Gus, con la voce colorata di entusiasmo; e prese a correre come un pazzo.
«Ehi.» lo salutò Brian, accogliendolo tra le sue braccia, per poi tirarlo su. «Ma che bel cappotto che hai! Chi te l’ha comprato? Deve avere sicuramente buon gusto!»
«Tu!» esclamò il bambino, stringendosi forte al suo collo.
«E oltre al buon gusto, anche un sacco di soldi.» intervenne Mel, dopo averli raggiunti, con quella sua solita punta di acidità nella voce. «Un cappotto di Hugo Boss per un bambino di sette anni. Non è un tantino esagerato?»
«No, se lo sa portare con classe.» replicò Brian, innalzando uno degli angoli della bocca in un sorrisetto spavaldo. «E dato che Gus è mio figlio, non ci sono dubbi a riguardo. Il sangue non mente, anche quando ci sono due lesbiche in mezzo.»
«Guarda che è figlio anche di Linz.»
Lui scrollò le spalle ed ammirò i lineamenti dolci del bambino, perfettamente identici ai suoi quando aveva la sua stessa età; perché c’era stato un periodo della sua vita in cui, perfino lui, era parso innocente. Gli sorrise, prima di baciargli una guancia morbida e arrossata dal freddo, e riportò l’attenzione su Mel. «Ma Linz è una borghese. Lesbica, ma comunque borghese.»
Melanie sospirò esasperata, e si decise a cambiare argomento, pur sapendo che lo avrebbe fatto innervosire. «Come mai da queste parti comunque?» piegò le labbra in un ghigno furbo ed aggiunse: «Per caso hai improvvisamente deciso di distrarti diventando il padre dell’anno?»
«Io sono già il padre dell’anno.» precisò Brian, scandendo bene le parole. «E poi distrarmi da cosa? Sono in vacanza e comunque la Kinnetik va alla grande.»
«Sto parlando di Justin.» ribatté lei, arrivando dritta al punto. Lo vide piegare le labbra all’interno della bocca lievemente stizzito, ed aspettò che le rivolgesse il suo solito sorrisetto sarcastico, prima di aggiungere: «Non mi sembravi particolarmente rilassato a casa di Debbie.»
«Dimmi Mel, sei mai stata scopata da un uomo?»
Lei lo fulminò con lo sguardo, indicando il bambino con il movimento degli occhi. Attese che Brian lo posasse a terra per lasciarlo andare a giocare con la neve, e rispose, con le sopracciglia inarcate: «No, ma questo che c’entra?»
«Bene.» sorrise lui, spingendo appena la lingua contro la guancia. «Allora posso anche consigliartelo: va a farti fottere
«Che razza di stronzo.» lo apostrofò, incrociando le braccia. «Era solo un modo come un altro per sapere come stai!»
«Se proprio devi compatire qualcuno, va’ a casa del tuo amico Theodore.»
«Teddy sta bene, per fortuna.» rispose acida. «Per una volta sembra che gli vada tutto liscio. Cosa che non posso certo dire di te.» sollevò le sopracciglia e rettificò: «Almeno per quanto riguarda l’amore...visto che per il resto sei il bastardo più ricco e fortunato che io conosca!»
«Che vuoi farci, la fortuna è cieca.»
«In certi casi invece, penso seriamente che la tua faccia se la ricordi benissimo!» sbuffò, assottigliando lo sguardo. «Ci manca solo di scoprire che perfino quella si è presa una cotta per te!»
Brian sorrise ironico. «Be’, direi che non sarebbe certo l’unica.»
«Fortuna per me che ne sono totalmente esente!»
«Ma perché invece di metter bocca nella mia vita non pensi alla tua di famiglia?» sbottò lui improvvisamente. Pochi come Mel sapevano farlo innervosire tanto. «Perché non attingi un po’ alla tua proverbiale oggettività e non ti accorgi di come stanno le cose?»
«E sentiamo professor Kinney, come starebbero le cose?» gli rispose a tono lei.
Lui riacquistò la calma e la sua perfetta espressione da schiaffi, per poi passarsi la lingua sulla bocca, e lasciar increspare le labbra nell’ennesimo sorriso ironico. «Davvero non ti accorgi che Gus non è felice?»
«Gus è felice.» obbiettò Melanie, sempre più furiosa. «È amato. E io e Linz non gli facciamo mancare niente!»
«Già.» annuì lui con sarcasmo. «‘Niente’, a parte la sua famiglia.»
«Che diavolo stai dicendo?»
«Avanti Melanie...sei davvero così cieca da non vedere che Gus è molto più felice qui che a Toronto? O forse non vuoi vederlo, perché significherebbe ammettere a te stessa di aver fatto una gigantesca stronzata quando sei scappata da qui.»
«Io non sono scappata! Io...»
«Sì che l’hai fatto.» l’interruppe lui, sovrastandola con la sua voce. «Tu e Linz ve ne siete andate per paura.»
«Volevamo soltanto vivere tranquille! In una città dove i nostri diritti sarebbero stati riconosciuti...dove non saremmo state trattate come cittadine di seconda classe, o peggio!»
«Certo, ma adesso?» chiese lui, in tono retorico. «Adesso che quella stronzata della proposizione quattordici è finita...adesso che Gus sta cercando di dirvi in tutti i modi possibili che è qui che vuole stare...adesso, come cazzo la metti?»
«La storia della proposizione quattordici sarà anche finita, ma non ci vengono ancora riconosciuti quei diritti che ci spettano dalla nascita! A Toronto invece sì, e...»
«E che ne è stato di quell’avvocato che con il suo patetico idealismo si batteva perché questo avvenisse anche qui?» le domandò Brian a bruciapelo, zittendola all’istante. «E poi chi cazzo se ne frega se c’è qualche stronzo che ancora non ci accetta! È solo della felicità di mio figlio che m’interessa, non dell’approvazione di qualche coglione che si sente in dovere di giudicare.»
Dopo qualche attimo di silenzio, Melanie sospirò sommessamente e lanciò uno sguardo amorevole verso Gus, prima di arricciare le labbra e rispondere: «Wow. Con un’arringa del genere, avresti dovuto fare l’avvocato.»
«Sono molto più bravo a gettare fumo negli occhi, che a difendere la gente.» soffiò in risposta, nel momento in cui comprese di aver fatto centro, e che gli animi si erano finalmente placati. «Comunque sia...» riprese a parlare, spingendo la lingua all’interno della guancia. «...Jennifer è davvero brava nel suo lavoro. Potrà trovarvi una bella casa ad un ottimo prezzo.»
«Brian...» provò a ribattere lei, senza risultato.
«Fatti dare il numero da Ted, quando vi sarete decise.» concluse lui, voltandosi per raggiungere suo figlio; mentre Melanie si ritrovò a stringersi di più nel cappotto, raggelata dalle parole di Brian, più che dal freddo vento dicembrino.



*'*'*



Dopo aver varcato la porta in vetro scorrevole dell’agenzia in cui lavorava Gary, ed esser stato sommerso di complimenti da ogni persona che incontrava – di cui, la maggior parte, neanche conosceva – Justin, affiancato da Jace, raggiunse la porta scura dello studio del suo manager.
Diede un paio di colpi con le nocche, ed attese di essere invitato a entrare: «Avanti.» sentì pronunciare, e spinse sulla maniglia.
«Ciao, disturbo?» esordì, quando gli occhi scuri di Gary si posarono su di lui, riempendosi di sorpresa.
«Ehi, Justin!» esclamò, lasciando ricadere la penna sulla scrivania, per poi fare un cenno di saluto in direzione di Jace. «Non pensavo saresti corso immediatamente qui.»
«A dire il vero...» iniziò Justin, facendo correre gli occhi ovunque nella stanza. «...sono venuto qui perché devo parlarti.»
«Non guardare me.» intervenne il designer, sollevando le mani in segno di resa. «Io non ne so niente. L’ho solo accompagnato.»
Le sopracciglia di Gary si inarcarono a formare un’espressione stranita. «Ok...» pronunciò con voce fievole. «Accomodati e spiegami tutto.»
Sia Justin che Jace presero posto sulle poltrone scure in silenzio, finché l’artista non si umettò le labbra e, intrecciando le dita tra loro, prese a parlare: «Ecco, io volevo ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me in questi mesi. Se non fosse stato per te, probabilmente non sarei arrivato dove sono...» si soffermò per un attimo, e finalmente si decise a guardare Gary negli occhi, trovando in quei pozzi scuri un evidente disagio. «...e ti sono grato anche per questi ultimi contratti che sei riuscito ad ottenere, ma...»
«Ma?» incalzò il manager.
«Ma non credo di voler più andare avanti così.» rispose deciso, con voce ferma.
«In che senso?» domandò Gary allarmato.
«Nel senso che, rispetterò gli impegni presi fin’ora, ma non voglio prenderne altri per adesso.» sospirò profondamente e aggiunse: «Ho bisogno di tempo per me...io, non mi sento più neanche un’artista. Mi sembra solo di essere una macchina che dipinge a comando, senza più ispirazione, senza più passione.» strinse le mani a pugno e, visibilmente dispiaciuto – poiché una parte di sé lo faceva sentire un ingrato – concluse: «Mi dispiace Gary, ma davvero...ho bisogno di tornare a casa per un po’.»
L’altro scosse la testa dopo qualche secondo passato perfettamente immobile. «Justin, il mondo dell’arte non è un gioco. Non puoi ancora permetterti di fare quello che vuoi...è vero, sei sulla cresta dell’onda e le persone sborsano quantità esorbitanti di dollari per i tuoi quadri, ma questo non significa che sei sistemato.» fissò i suoi occhi neri in quelli azzurri del giovane artista e, incrociando le mani alle labbra, continuò: «Non è il momento per prendersi una vacanza. Questo è il tempo che devi sfruttare al meglio, dopo di che avrai tutti i giorni che vuoi da trascorrere a Pittsburgh. Quando le persone saranno disposte a fare anche la fila sotto casa tua per avere un tuo quadro da esporre, allora potrai permetterti di fare ciò che vuoi...»
«Mi pare che la gente faccia già la fila per avere un suo quadro.» intervenne Jace, che fino a quel momento aveva seguito lo scambio di battute con attenzione. «Così come le gallerie. Justin è il più richiesto tra gli artisti emergenti...»
«Esatto.» lo interruppe Gary. «Artisti emergenti. Il che significa che non si è ancora consolidato il suo piedistallo. Se molla adesso, butterà nel cesso tutti gli sforzi fatti.»
«Ma io non riesco più a dipingere come vorrei!» prese in mano una stampa ridotta di uno dei suoi ultimi quadri, poggiata sulla scrivania di Gary, e la sventolò in aria con rabbia. «Questo non sono io!»
«Fino a prova contraria, è stata la tua mano a dipingerla...»
«Ma è solo uno scarabocchio casuale! Terribilmente accademico!»
Gary sollevò le spalle. «I critici non lo pensano affatto. Nessuno lo pensa.»
«Io non voglio dipingere per i critici o la gente.» ribatté Justin, sibilando le parole. «Io voglio dipingere prima di tutto per me, per le emozioni che sento! E adesso non sento niente...sono vuoto
«Non è forse una sensazione anche questa?» replicò il manager, prima di sbuffare. «Ascolta, lavoro in questo mondo da molti anni prima di te e so come va e quanto può essere spietato. Se molli adesso, hai chiuso...lo capisci?» si soffermò per guardarlo attentamente e, piegando le labbra in un sorriso comprensivo, disse: «Hai davvero intenzione di gettare il tuo sogno così? Proprio ora che ce l’hai in pugno?»
«Non credevo che per seguire un sogno dovessi rinunciare a tutto il resto.» ribatté il ragazzo, con tono asciutto. «Non pensavo significasse annullare me stesso.»
«Non è così. Non sarà per sempre così.»
«Che cazzo dovrebbe fare allora?» sbottò Jace, visibilmente innervosito. Se c’era una cosa che proprio non sopportava del lavoro di Justin, era proprio il fatto che dovesse veder sacrificata la sua anima per il solo scopo di ottenere fama e soldi.
«Stringere i denti.» sentenziò Gary. «Dipingere come ha fatto fin’ora...e quel tempo per te che tanto desideri arriverà prima di quel che pensi.» si passò la lingua sulla bocca e picchiettò con un dito sulla scrivania, come se fosse indeciso se pronunciare o meno altre parole; prima di schiudere le labbra e scegliere di parlare: «Voglio essere sincero con te, Justin.» si accomodò meglio sulla poltrona e riprese: «Da quando sei arrivato in questa agenzia, non posso negare che le entrate per noi siano salite alle stelle. Anche il mio capo è letteralmente impazzito per i tuoi quadri ed ha puntato molto su di te...il che significa che, se tu ci molli adesso, metterai l’intera agenzia in una brutta situazione.»
«Ah...quindi è solo una questione di soldi. Solo per il vostro interesse.» commentò Jace, con un tono decisamente acido ed un sorrisetto caustico.
«È sempre una questione di soldi, Jace. In qualsiasi situazione.» scrollò le spalle con noncuranza e disse, rivolto a Justin: «Ho semplicemente voluto metterti al corrente di tutto, prima che tu prendessi la tua decisione. Oltre al fatto che hai una penale da pagare se recidi il contratto prima della scadenza...ma di quello eri già a conoscenza e comunque non sarebbe un problema per te.»
«Quanto brutta sarebbe la situazione?» domandò allora l’artista.
«Abbastanza dal dover fare qualche taglio, suppongo.»
«Licenziamenti?» approfondì, mentre il suo stomaco prendeva ad attorcigliarsi per il senso di colpa.
Gary arricciò le labbra e si prese qualche secondo prima di rispondere. «Forse.» sentenziò poi. «Non saprei dirtelo con certezza. Non è una possibilità da scartare.»
«Praticamente ho le mani legate.» commentò Justin, inarcando le sopracciglia bionde in un’espressione contrariata.
«Non vorrei che tu la vedessi così.» rispose l’altro. «Mi dispiace che tu ti senta così, ma la situazione è questa e io non posso farci niente. Dipendesse da me, ti darei tutto il tempo che vuoi...»
«Certo, come no.» borbottò Jace, roteando gli occhi.
Gary finse di non averlo sentito e si rivolse ancora all’artista. «L’unico consiglio che posso darti, è quello di dipingere.»
«Ma se ti ha appena detto che non riesce più a farlo come vorrebbe, come cazzo puoi chiedergli una cosa del genere?!»
«Jace, calmati.» intervenne Justin, posando una mano sulla spalla dell’altro, per farlo rilassare. Apprezzava questo suo forte senso protettivo, ma quella era una questione che doveva risolvere da solo. Si prese qualche secondo per riflettere e, dopo aver respirato profondamente, chiese: «È necessaria la mia presenza alle mostre?»
«Non sarebbe di certo un male per te ma, a parte quella della prossima settimana qui a New York, a cui sarebbe meglio tu partecipassi, direi di no. Perché?»
«Se io riesco a dipingere abbastanza per sistemarmi per...che so, le prossime mostre fissate...a quel punto potrò prendermi la vacanza che mi spettava?»
«Justin, se non fosse stato necessario, io non ti avrei richiamato qua.»
«Lo so.» replicò, seppur la sua voce non suonasse poi più tanto convinta. «Ma ne ho davvero bisogno Gary. Non ce la faccio davvero più. Mi sento in trappola.»
Il manager si passò una mano tra i capelli lentamente, prima di concedersi un piccolo sbuffo. «Tu cerca di combinare qualcosa con quelle tele. Io cercherò di tenerti fuori dalle mostre.»
«Come hai fatto l’ultima volta?» domandò Jace, con una punta di amarezza nella voce, ricordandogli come, del mese di vacanza promesso, non erano rimasti che un paio di miseri giorni, appena goduti.
«Ve l’ho già detto. Non dipende da me.»
Justin si alzò dalla poltrona, seguito immediatamente dal designer. Si soffermò con lo sguardo sul suo manager, prima di passarlo sulle stampe miniaturizzate dei suoi quadri e mormorare: «Cercherò di farti avere quei quadri presto. Voglio almeno passare Natale a casa.»
«D’accordo.» convenne Gary. «Ci sentiamo per la mostra allora.»
«Ok.» confermò il giovane artista, prima di salutarlo con un cenno ed uscire dallo studio, seguito dall’amico. Percorse un paio di metri del lungo corridoio, e si preparò alla filippica che – ne era certo – Jace gli avrebbe riservato.
«Che diavolo stai pensando di fare?» indagò infatti, puntuale come aveva previsto, l’altro.
«Mi sembra ovvio. Dipingere.»
«Ma se hai appena detto che non riesci a farlo!» esclamò con un’espressione confusa. «Che riesci a produrre solo roba terribilmente accademica
«È la verità.» replicò il più giovane, proseguendo verso l’uscita, fino a raggiungere la propria jeep. «O almeno, lo era.»
«In che senso?» chiese Jace, sempre più stranito.
Justin sollevò gli occhi verso il cielo, incontrando la scia bianca di un aereo che, inevitabilmente lo riscosse dentro, facendolo pensare alla sua Pittsburgh.
Durante tutto il viaggio non aveva fatto altro che pensare alla sua città e alle persone che lo aspettavano lì. Aveva preso la decisione di chiudere per un po
con la sua vita da artista, augurandosi di riuscire a vincerla anche contro Brian, sperando che non si comportasse come uno stronzo e che accettasse di averlo al proprio fianco, ma non aveva pensato alle conseguenze del suo gesto per lagenzia che si occupava di lui. 
Era troppo grato a quelle persone per abbandonarle così, perciò l
unica possibilità che gli restava, era mettere anima e corpo su ogni tela, lasciandosi ispirare da quella nuova sensazione di speranza - ora che finalmente aveva ricevuto una conferma dellamore di Brian - mista alla malinconia scaturita dalla nostalgia di casa che era tornata ad albergare dentro di lui.
Sospirò sommessamente, avvolto da quelle due emozioni, e si voltò verso Jace. «Nel senso che adesso ho un altro motivo per dipingere. Qualcosa che finalmente mi spinge a farlo.» mormorò poi, prima di chiudere gli occhi ed aggiungere con un sorriso luminoso: «La voglia di tornare a casa, da Brian.»



*'*'*



In casa Bruckner – Novotny regnava un silenzio perfetto da quando Hunter era uscito per studiare a casa di un compagno di università, seguito da Ben per una cena con dei colleghi, mentre Mel e Linz erano passate a trovare le loro vecchie amiche insieme ai bambini.
Non era una situazione abituale – in quella casa il caos totale la faceva sempre da padrone – specie negli ultimi giorni, eppure Michael non si sentiva a proprio agio in tutta quella calma.
Dopo aver letto almeno un paio di fumetti, mangiando sul divano un panino poco salutare – per cui suo marito gli avrebbe rifilato una filippica infinita, se solo lo avesse visto – lanciò unocchiata fugace allorologio e decise di andare a farsi un giro.
Scrisse un biglietto per la sua famiglia e, dopo averla attaccata al frigo con una calamita a forma di Capitan Astro, sinfilò il giubbotto ed affrontò la sera gelata di Pittsburgh per raggiungere Woodys.
Nellultimo periodo non aveva avuto troppo tempo per trascorrere qualche serata in compagnia dei suoi più cari amici perciò, trovarsi nuovamente solo in quella colorata via, gli riportò alla mente mille vecchi ricordi che lo fecero sorridere di nostalgia.
La sua vita lo rendeva felice; la sua famiglia anche di più, ma cerano momenti in cui ripensare a tutti gli anni passati su quella strada, tra una bevuta, un incontro interessante, o anche solo la semplice risata in compagnia di Brian, Emmett e Ted per una sciocca battuta, lo lasciavano invadere da una lieve malinconia.
Era stata sempre la stessa routine per anni ed anni: uscivano insieme, ballavano, ridevano e sì...si drogavano e bevevano, finché Brian non trovava qualcuno che poteva intrattenerlo per qualche ora, ed erano costretti ad aspettare i suoi comodi per riportarlo a casa, ovviamente troppo ubriaco o fatto per guidare. 
Erano notti che a volte lo lasciavano con lamaro in bocca, perché Brian si scopava chiunque, ma non concedeva mai questo privilegio a lui, eppure in un modo o nellaltro riusciva comunque ad amarle, perché alla fine la consapevolezza che nessuno di quei tizi significasse qualcosa per il suo migliore amico, lo rincuorava. Sapeva che Brian sarebbe sempre rimasto con lui.
Già...fino a quella notte.
Un po il suo cuore glielaveva già detto che prima o poi sarebbe arrivato quel fantomatico lui, anche se per uno come Brian sembrava impossibile, e anche se una parte di sé aveva sempre sperato che sarebbe stato il suo ruolo...ma non era così che erano andate le cose.
Un ragazzino biondissimo, con un corpo filiforme ed un sorriso accecante, era piombato nelle loro vite, e si era insinuato a poco a poco in quella di Brian.
Allinizio si era convinto che sarebbe stata la solita scopata di una notte e fine dei giochi, eppure – ripensandoci negli anni – avrebbe dovuto capirlo fin dallinizio che sarebbe stato diverso; che quel moccioso avrebbe fregato il Dio dei gay.
Avrebbe dovuto prestare più attenzione a come era cambiata lespressione di Brian nel momento in cui laveva visto; così come avrebbe dovuto accorgersi di come si fosse formato qualcosa tra quei due fin dal primo scambio di sguardi.
Justin Taylor era il nome di quel lui.
Justin Taylor era fatto appositamente per Brian Kinney; e a Michael non era rimasto nientaltro da fare se non ingoiare quel boccone amaro e pensare alla propria vita. Una vita che poi si era rivelata comunque bellissima, e che gli aveva regalato prima Ben, poi Hunter. Una vita che – nonostante la nostalgia del passato che ogni tanto tornava ad abbracciarlo, da inguaribile romantico qualera – valeva molto di più.
Sorrise sincero, soffermandosi ad osservare il tendone rosso che caratterizzava Woodys e, con passo deciso, attraversò la strada fino a raggiungerlo.
Varcò lentrata, salutando con un cenno della testa qualche ragazzo conosciuto, finché scrutando tra i tavoli, riuscì ad individuare Emmett e Ted.
«Ehi ragazzi!» salutò entusiasta, prendendo posto tra loro. Passò lo sguardo da uno allaltro – che nel frattempo gli avevano risposto con un piccolo cenno della testa ed un sorriso appena accennato – ed aggrottò la fronte, stranito dal loro comportamento e da quellaria funebre che aleggiava su entrambi. «Ma...che vi succede?»
«Niente.» sbuffò Emmett, facendo una smorfia schifata. «Solo che questo mondo fa schifo.»
«E adesso diventerà anche più crudele.» borbottò Ted, indicando con un
occhiata la porta da cui aveva appena fatto il suo ingresso Brian. «Non bastava che fosse una giornata di merda...Dio doveva proprio mandarci anche te ad infierire sulle nostre disgrazie?» gli chiese quando fu più vicino, e dal pubblicitario ricevette in risposta solo unalzata di sopracciglia ed uno sguardo di sufficienza.
«Mickey...» chiamò Brian sedendosi sull
ultima sedia libera. «...che ci fai da queste parti senza il maritino?»
«Che fai adesso? Sfoghi la tua acidità su di me per non pensare al tuo
quasi-maritino appena volato a New York?» replicò Michael con un sorriso ilare, ma dallocchiata che ricevette dai tre suoi più cari amici, capì che non era proprio il momento adatto per sfoggiare la felicità della sua famigliola.
«Lo dico e lo ripeto...» mugugnò Emmett, girando oziosamente lo stecchino nel suo Cosmopolitan. «Il mondo è uno schifo.»
Brian inarcò le sopracciglia e si protese verso di lui per dargli una falsa pacca amichevole, tinta del suo onnipresente sarcasmo. «Cos
è tutto questo pessimismo, Martha Stewart dei gay
L
altro posò il suo sguardo azzurro su di lui con fare scettico e, dopo aver preso un sorso del cocktail rosa shocking, rispose: «Ti interessa davvero, o mi stai solo prendendo in giro?»
Il bel pubblicitario sollevò le spalle. «Lo sai che sono sempre disposto ad ascoltare i drammi altrui...»
«Perché ti fa sentire meglio?» sibilò acidamente Ted, e Brian gli sorrise.
«Esattamente.»
«Bene. Ignorerò le tue egoistiche parole e fingerò che tu me l
abbia chiesto per puro interesse e affetto...» riprese a parlare Emmett. «...e ti dirò che, per la mia solita e proverbiale fortuna in amore, ho finito per prendermi una bella cotta per un uomo che non mi ricambierà mai
«Vedo che continua a piacerti vedere il tuo cuore in un cassonetto.» commentò Brian, a cui seguì la domanda di Michael.
«Di chi si tratta?»
«Di Jace.» replicò Ted per l
altro, così da accelerare i tempi. Era certo che il suo migliore amico avrebbe “allungato il brodo” partendo dalla preistoria, o con qualche aneddoto della zia Loola.
«Chi?» domandò allora Brian, fingendo di non ricordare affatto il ragazzo.
«L
amichetto del tuo Justin.» ribatté il contabile, con una punta di soddisfazione nella voce; a cui laltro rispose con lennesima occhiata di sufficienza.
Michael, sorpreso, si protese verso Emmett. «Perché non c
i hai detto niente?» chiese, per poi continuare: «Eri strano...ma non pensavo fosse per questo. E poi, lui lo sa?»
«No.»
Brian ordinò una birra ed iniziò a giocherellare con uno degli stecchini presi dal tavolo. «Di certo non combinerai niente se pensi di poterglielo comunicare con la telepatia. Vuoi che ti scopi?
Diglielo
«La fai facile tu.» commentò sarcastico il più giovane dei quattro. «Non hai mai ricevuto un rifiuto in vita tua. Non sai quanto possa far male.»
«Ti sbagli.» replicò l
altro con noncuranza, così da dare poca importanza alle sue parole. «Justin mi ha detto no, la prima volta che gli ho chiesto di sposarmi.»
«Ha fatto...
cosa?» chiese, con il tono di voce più alto di almeno unottava, Emmett, scambiandosi occhiate incredule con Michael.
«Oddio.» intervenne Ted, trasformando poi la sua espressione sorpresa in una più ironica. «Credo di sentirmi meglio. Allora anche Brian Kinney ha le sue grane in amore...c
è ancora un po di giustizia in questo mondo!»
«E sentiamo, Theodore...» sibilò in risposta il pubblicitario in tono caustico, avvicinandosi a lui per dargli un buffetto dispettoso sul braccio. «...com
è che hai ripreso a bere? Quali atroci dispiaceri hai deciso di annegare nellalcool? Hai forse visto la tua immagine riflessa?»
«Ah-ah.» finse una risata l
altro, prima di prendere un sorso della sua birra. «Sappi che te lo dico solo perché non sei certo messo meglio di me, visto che ti ritrovi un fidanzato che vedi più sulle riviste che dal vivo...» Brian gli rivolse un sorrisetto nervoso, e lui si decise a proseguire: «Ho chiesto a Blake di sposarmi.»
«Teddy, ma è fantastico!» esclamò Emmett. «Sia chiaro, il ricevimento lo organizzo io! E non voglio niente...sarà il mio regalo di nozze!» batté le mani entusiasta, ma quando si trovò davanti all
espressione da funerale di Ted, arricciò le labbra e, con un po di indecisione, chiese: «Perché...ci saranno le nozze, vero?»
Il contabile scosse la testa, prima di trasfigurare le sue labbra in una smorfia di sofferenza – e un tantino ridicola, a detta di Brian – per piagnucolare: «Ha detto no!» si gettò verso il suo capo per un po di conforto, e per poco non rischiò di schiantarsi a terra, quando questultimò indietreggiò allimprovviso, in un guizzo contrariato.
«Ricaccia immediatamente indietro quelle penose lacrimuccie da lesbica e tieniti lontano dal mio cappotto.» sibilò Brian, aggrottando la fronte e schivandolo come se avesse la peste. «Non voglio certo rischiare che quelle inutili perdite di cloruro di sodio annacquato possano rovinare il tessuto di questa meraviglia.»
Ted gli rivolse unocchiataccia e commentò: «Sai sempre essere di conforto tu.»
«Faccio del mio meglio.» replicò laltro con uno dei suoi soliti sorrisetti.
«Ma perché ti ha detto no?» domandò allora Michael, stranito dalla situazione. «Insomma, Blake ti ama.»
«Anche Justin ama Brian.» intervenne Emmett, prima di voltarsi verso di lui. «E a tal proposito...com
è che ti ha detto no?»
Brian scrollò nuovamente le spalle. «Credeva l
avessi fatto solo perché mi ero spaventato con la bomba al Babylon.»
Gli altri tre sollevarono contemporaneamente le sopracciglia, come a confermare i dubbi del piccolo artista; poi, fu Michael a riprendere la parola: «Ma Ted non è Brian.»
«No, direi proprio di no.» ribatté prontamente il pubblicitario, dopo aver rivolto uno sguardo attento a Ted, osservando ogni minimo particolare del suo aspetto.
Il contabile ricambiò quell
attenzione con lennesima occhiata caustica, prima di tornare mogio e mugugnare: «Non lo so che gli è preso. Ero convinto anchio che mi amasse e volesse passare il resto della sua vita con me...»
«Non c
è bisogno di sposarsi per questo.» replicò Brian, quasi infastidito da quelle parole. «E di certo, una stupida firma, su un altrettanto stupido foglio, non ti assicurerà che starete insieme felici e contenti come una coppia di lesbiche per il resto della vostra patetica vita.»
«Smetterai mai di essere così stronzo?» borbottò Emmett.
«E perché mai? È il mio fascino.» replicò l
altro, piegando le labbra in un sorriso furbo.
«Stupidaggini a parte, mi scoccia ammetterlo ma...Brian ha ragione.» Michael posò una mano sul braccio di Ted per confortarlo ed aggiunse: «Essere sposati non è certo una garanzia a prova di qualsiasi cosa.»
«Fatto sta che non lo saprò mai...» sospirò il contabile, prima di bere ancora. «Ricordate? Mi ha detto
no
«Aspetta ad arrenderti...magari cambia idea come Justin.» replicò Michael, e l
altro si sforzò di sorridergli.
«O non lo farà, e tu potrai tornare al Babylon ad affogare il tuo dolore nell
alcool e a rendermi ricco.»
Gli occhi degli altri tre si posarono per l
ennesima volta su Brian, stizziti; dopo di che, Emmett chiese, rivolto verso Michael: «E tu? Che tragico melodramma personale avresti da sottoporci?»
«Io?» replicò il negoziante sorpreso e a disagio.
Ted si protese immediatamente verso di lui ed assottigliò lo sguardo in modo minaccioso. «Trova immediatamente un motivo per cui lamentarti e dire che la tua vita fa schifo, o vattene allistante! Non hai alcun diritto di stare al nostro tavolo altrimenti!»
«Ehm...» mugugnò Michael preso alla sprovvista, passando gli occhi ovunque alla ricerca di una risposta.
«Allora?» incalzò Brian, ed il suo migliore amico fece una smorfia preoccupata.
«Che Hunter ha bocciato l’ultimo esame?» tentò, balbettando le parole; ed i suoi amici si alzarono dal tavolo – come risposta indignata alle sue parole – lasciandolo solo come unidiota e con il conto da pagare.


*'*'*


“Shattered” – Trading Yesterday



Era ormai notte fonda quando, dopo aver salutato gli altri, Brian fece ritorno alla sua adorata Corvette ammirandone, mentre si avvicinava, le linee sinuose e quel colore lucido ed elegante; sorridendo appena e ripensando allo sguardo stupito di Justin quando laveva visto arrivare al Diner per la prima volta, su quel bolide depoca...
Al quel tempo – doveva ammetterlo – quellacquisto era stato una sorta di sfizio; una distrazione per concentrarsi su qualcosa che non fosse il pensiero del suo raggio di sole tra le braccia di un altro...eppure, nonostante tutto, era stato perfino divertente notare il modo in cui quegli occhi blu chiaro si erano spostati sottecchi e curiosi nello squadrare il suo prezioso gioiellino verde.
Justin aveva sempre dimostrato di avere un gusto fine ed un occhio di riguardo per certi “dettagli”, esattamente come lui; e forse, ripensandoci col senno di poi, quell’acquisto poteva essere visto anche sotto la luce di una sorta di dispetto nei suoi confronti. Uno sfogo infantile, certo, ma che per qualche secondo – quando quelle pupille scure, parzialmente nascoste da quei ciuffi dorati, si erano ridotte per lo stupore – gli aveva concesso una piccola soddisfazione.
Scosse la testa, con un sorriso amaro e lo sguardo malinconico, mentre nella sua mente riaffioravano vari ricordi legati a quei due sedili in morbida pelle chiara; e con un piccolo sbuffo, entrò nellabitacolo, per poi girare la chiave e far rombare il potente motore nel silenzio della notte.
Ingranò la marcia ed imboccò la strada di casa finché, allimprovviso e senza neanche riuscire a spiegarsene il motivo, si trovò a percorrere una via totalmente diversa, ma che al contempo conosceva perfettamente.
Costeggiò il marciapiede illuminato dalla luce gialla dei lampioni, rallentando in modo progressivo, fino a quando lauto non raggiunse una breve scalinata bianca, con un portone del medesimo colore.
«Ma che cazzo sto facendo qui?» borbottò tra sé, lanciando unocchiata verso una delle finestre che mostrava linterno di una delle stanze, completamente immersa nel buio.
Si prese qualche altro secondo per osservare, e nel posare lo sguardo su quegli scalini candidi, fu inevitabile ricordare gli sporadici momenti trascorsi lì insieme a Justin, quando lo aiutava con gli esercizi per la mano, o quando semplicemente lo aveva accompagnato da sua madre.
Non aveva mai messo piede oltre quella soglia, eppure – forse per il semplice fatto che quel piccolo genio aveva vissuto lì – sentiva quel posto stranamente familiare.
Un altro sorriso amaro si disegnò sulle sue labbra e, dopo aver preso un respiro più profondo degli altri, fece per ringranare la marcia ed andarsene, quando una luce lo sorprese accendendosi.
Voltò di scatto la testa, e in quello stesso momento, ogni sua ipotesi di fuga venne resa vana dal suono di una voce familiare che chiamò il suo nome: «Brian? Brian, sei tu?»
Sul portico si stagliava la figura filiforme di Jennifer, avvolta in una camicia da notte candida e di seta, che la copriva fino alle ginocchia. Lo osservava stupita ed insicura allo stesso tempo, probabilmente domandandosi se ciò che i suoi occhi le stavano mostrando, non fosse solo una stupida visione.
La vide accostare la porta e muovere un paio di passi verso lauto, stringendosi con entrambe le mani i lembi della vestaglia, per proteggersi dal freddo. Scese i primi scalini lentamente e si avvicinò allo sportello. «Grazie a Dio sei tu!» esordì sospirando, mentre il finestrino si abbassava. «Mi hai fatto prendere un colpo, lo sai?»
«Non c
è il tuo baldo cavaliere a proteggerti?» mormorò Brian, ticchettando le dita sul volante, senza trovare il coraggio di guardarla negli occhi.
«No, Tuck è fuori città per lavoro. Siamo solo io e Molly.» gli sorrise lei, prima di porre quella domanda a cui Brian sapeva di non poter sfuggire ormai; e a cui, oltretutto, neanche sapeva come rispondere: «Che ci fai qui?»
Lui arricciò le labbra, abbozzando un sorrisetto sarcastico. «Mi sono perso.»
«Ti va di entrare?» gli domandò allora lei, e Brian non poté che notare quanto le sue doti di attore – o bugiardo che dir si voglia – facessero letteralmente schifo nel momento in cui si trovava a fronteggiare un Taylor, o comunque qualcuno che, in un modo o nellaltro, aveva fatto parte di quella famiglia.
Ovviamente, Jennifer non aveva creduto neanche per un secondo a quella sua facciata di strafottente indifferenza, perciò si ritrovò a mugugnare un assenso, e a scendere dall
a sua adorata Corvette, per poi seguirla fin dentro casa.
«Bel posto.
» commentò, osservandosi distrattamente intorno, prima di fare il proprio ingresso in cucina.
«Mi prendi in giro?
» rise lei di gusto. «In confronto a casa tua, o al castello di cui mi ha parlato Justin, questa è una catapecchia.»
«È accogliente.
» borbottò lui in risposta, e la donna non riuscì a fare a meno di sorridere ancora. Suo figlio aveva decisamente ragione: vedere Brian in difficoltà, era uno spettacolo imperdibile.
«Vuoi qualcosa da bere?
» gli chiese. «Un thè, una camomilla...» si voltò verso di lui ed incontrò il suo sguardo scettico. «...o forse è meglio un goccio di bourbon.»
«Adesso si ragiona,
mamma Taylor.»
Jennifer aprì uno degli sportelli della vetrina, ed afferrò una bottiglia di Jim Beam vuota per metà. Ne versò due dita in due bicchieri e ne porse uno a Brian.
«Hai sentito Justin?» chiese poi, diretta.
«Vedo che hai gusto.
» ribatté invece lui, indicando la bottiglia, in modo da sviare la domanda.
«Ogni tanto mi concedo qualche piccolo piacere...
» mormorò, e dopo aver preso un sorso di quel liquido ambrato, sorrise furba. «...e la testardaggine di mio figlio, non è certo nata a caso. Da qualcuno lha ereditata, perciò...»
«No.
» rispose Brian, certo di non avere scampo. «Non lho ancora sentito.»
A quella confessione, Jennifer abbassò lo sguardo dispiaciuta.
«Io gli ho parlato per appena un paio di minuti. Non è neanche passato di qui prima di tornare a New York.»
«Justin è fatto così. Non ama particolarmente i saluti della partenza.
»
«O forse non li ami tu...e non facendolo con te, si è reso conto che fa molto meno male andarsene senza salutare nessuno.
» commentò lei, senza alcuna traccia di rimprovero nella voce.
«Vero anche questo.
»
«Pensi che tornerà presto?
»
Brian terminò il suo bicchiere con una sola sorsata e lo appoggiò sul tavolo, chiudendo gli occhi mentre il liquido gli scorreva nella gola, bruciandola.
«Non lo so.» mormorò poi, fissando un punto a caso. «In quello che fa non esistono orari o tempi.»
Jennifer abbozzò un sorriso senza allegria.
«È sempre stato così bravo, ma non credevo che sarebbe arrivato così in alto.»
«Io sì.
» confessò candidamente lui. «Hai messo al mondo un genio.»
«E tu l
hai aiutato a crescere e a ricominciare a vivere...» replicò lei, con un groppo alla gola. «...se non fosse stato per te, non so che avrei fatto. Forse non sarebbe neanche più qui e...»
«Ma non è successo.
» la interruppe. Non voleva neanche lontanamente pensare alla possibilità di una realtà in cui non era riuscito a salvarlo da quel pavimento scuro di quel dannato parcheggio. «Lui cè, quindi non pensiamoci più.»
La donna annuì, regalandogli uno sguardo dolce e ricolmo di gratitudine.
«Hai ragione, ma non ti ringrazierò mai abbastanza.»
«Non serve. Non l
ho fatto né per te, né per me...né per nessun altro.»
«Lo so. L
hai fatto solo per Justin.» convenne lei, e Brian sollevò le sopracciglia, come a voler dare ovvia conferma alle sue parole. «Comunque sia, te lho già detto una volta e, anche se ti sembrerà strano, la mia idea non è mai cambiata...» gli sorrise sinceramente, e un brivido corse a solcare la schiena di lui, nel constatare quanto in quel momento Jennifer somigliasse al suo raggio di sole. «...mi sarebbe davvero piaciuto essere tua suocera.»
«Una gran bella suocera.» replicò Brian, assumendo la sua classica espressione ilare.
«Stai per caso cercando di comprarmi?»
Lui piegò le labbra allinterno della bocca, ed innalzando una delle sopracciglia, rispose: «No mamma Taylor, ho solo un debole per le bionde.»
Jennifer rise e restò a guardarlo per qualche secondo, prima di avvicinarsi. «Vieni qua.» sussurrò appena, per poi alzarsi sulle punte e circondargli le spalle ampie in un abbraccio; in cui lo sentì irrigidirsi di sorpresa.
Da quello che le era sempre stato raccontato da suo figlio, sapeva che Brian non era tipo da smancerie e dimostrazioni daffetto troppo dirette. Lui era fatto a modo suo; ed aveva anche un modo tutto suo di dire e fare le cose.
Si aspettò pertanto di sentirsi immediatamente allontanare ma, a dispetto di quelle sue previsioni, percepì i muscoli della schiena larga dell’uomo lasciarsi lentamente andare – rilassandosi – per poi sentirlo poggiare il mento sulla sua spalla, e stringerle la vita così da ricambiare il suo gesto daffetto.
Brian respirò profondamente, trovando nel profumo di Jennifer qualche traccia di quello di Justin.
Non avrebbe saputo dirne il motivo, ma sentì distintamente un nodo stringersi nella gola e qualche lacrima pizzicargli gli occhi.
Forse per lodore fresco del detersivo che era sempre stato abituato a sentire sui vestiti puliti di Justin, o quello dello shampoo che percepiva tra i capelli; forse per lidea di essere stretto da colei che aveva dato vita alluomo di cui era innamorato, e a cui, come lui, era legata da un filo invisibile e indistruttibile...
O forse più semplicemente perché in quell
abbraccio poteva sentirsi realmente amato e accettato per quello che era – a prescindere da tutto quello che aveva sempre fatto o detto – esattamente come con il suo Justin.



*'*'*


“See you soon” – Cold Play



Da quella strana notte – in cui linaspettato abbraccio di Jennifer era riuscito a calmare almeno di un poco il suo malessere – erano passati due giorni, che Brian aveva trascorso in ogni loro singolo attimo in compagnia del suo bambino, sia per godersi fino allultimo della sua compagnia e del suono della sua risata, sia per non pensare al suo Justin, da cui ancora non aveva ricevuto né una chiamata, né un messaggio...probabilmente troppo impegnato con il lavoro per farlo; o almeno questo era ciò di cui si era convinto e che, per quanto gli facesse male, aveva accettato.
Il tempo dei saluti però era nuovamente arrivato, insieme a quella consumante sensazione di malessere che lo colpiva ogni volta che doveva allontanarsi da Gus; perciò respirò a fondo, nel tentativo di infondersi un coraggio che in realtà non aveva, ed afferrò la manina calda di suo figlio – così piccola e soffice rispetto alla sua, che quasi sembrava sparire nel suo palmo – e a testa alta, per non vederne gli occhioni verdi lucidi di lacrime, si avvicinò svogliatamente allauto dove Michael e Ben stavano ancora caricando i bagagli.
«Fatto.» affermò Ben, dopo aver sistemato anche lultimo. Chiuse il portellone e si sfregò le mani con un sorriso amaro dipinto sul volto. Michael accanto a lui non parlava, né accennava a volerlo fare. Si limitava a tenere gli occhi bassi, quasi volesse scappare da quella situazione imbarazzante e soffocante di tristezza a cui ogni volta erano obbligati.
«Ok.» mormorò Mel, tenendo in braccio Jenny Rebecca. «Allora, ci rivediamo per Natale?»
«Certo.» si scrollò Michael. «Dovete venire assolutamente. Altrimenti, mia madre chi la sopporta!» si avvicinò per baciare la sua piccolina sulla fronte, e accarezzò affettuosamente Gus sulla testa.
Come per riflesso incondizionato, il bambino strinse più forte la mano del padre e si accostò maggiormente a lui, quasi volesse nascondersi dentro al suo corpo. «Non voglio andare a Toronto.» piagnucolò poi.
«Tesoro, dobbiamo andare a casa.» gli rispose Linz, accoccolandoglisi davanti
«Casa mia è qui!» strillò pieno di rabbia. «È qui con papà!»
Brian ingoiò a fatica il nodo amaro stretto nella gola e sollevò il figlio per baciarlo sulla fonte. «Ci vediamo presto, Gus.» cercò di tranquillizzarlo, quando in realtà anche lui avrebbe voluto tornare a essere solo un bambino per poter piangere, strillare e battere i piedi. Gli faceva così male lasciarlo andare; ogni volta era come se gli strappassero con la forza un pezzo di sé. «Venti giorni al massimo e saremo di nuovo insieme. Faremo un sacco di cose, te lo prometto.»
«Non voglio andare via.» ribadì e strinse più forte la presa sul collo e sul cappotto di Brian.
Luomo non riuscì a desistere dallaccarezzargli la testa dolcemente e, senza neanche rendersene conto, rivolse uno sguardo supplichevole a Linz, quasi le stesse dicendo: “non portarmelo via”.
«Cerco di liberarmi prima questanno. Così resteremo più tempo.» provò a tranquillizzarlo allora lei, stringendosi nelle spalle e soffrendo per quellorrenda sensazione che le bruciava in mezzo al petto...perché era così triste ogni volta dover allontanare quelle due anime che sembravano incastrarsi così bene nel loro abbraccio.
«È ora di andare.» soffiò Melanie, quasi le costasse pronunciare quelle parole e Linz si avvicinò a Brian per prendere Gus.
«No!» strillò più forte il bambino, aggrappandosi con tutte le forze a suo padre, finché fu proprio lui a lasciarlo andare.
«Gus, ascolta.» gli disse dolcemente, quando fu tra le braccia della madre. «Se non sono troppo impegnato con il lavoro, cerco di venire a Toronto il prossimo fine settimana, ok?» tra le lacrime che scendevano copiose, il bambino annuì, tirando su con il naso e Brian gli sorrise accarezzandogli una guancia. Si sporse per baciarlo sulla testa e vi sostò per qualche secondo, respirando il profumo dellinnocenza tra quei capelli castani; unaltra delle sue tante eredità. «Chiamami appena arrivi a casa, ok?» aspettò che il figlio annuisse ancora e si sforzò di sorridere più sinceramente. «Intanto io vado ad appendere il tuo capolavoro.»
«Torneremo presto.» cercò di rassicurarlo Linz, dopo averlo baciato sulle labbra e Brian annuì appena, incapace di non collegare quella stessa promessa a quella dellaltra persona che neanche due giorni prima se nera andata. Sembrava un circolo vizioso in cui, ogni fottuta volta, le persone che più amava erano destinate ad allontanarsi da lui. Lui che era sempre stato il primo a volerlo fare, era quello che era sempre rimasto a Pittsburgh, mentre guardava gli altri andarsene.
Salutò con un cenno della testa Melanie e baciò Jenny, prima di accendersi una sigaretta e – dopo aver concesso un ultimo sorriso a suo figlio – voltarsi senza dire una parola per raggiungere la Corvette.
Non voleva vederli andar via; se ne sarebbe andato via prima, così che potesse illudersi ancora per qualche attimo che, se mai li avesse cercati, sarebbero stati sempre lì.
Ingranò la marcia e partì sgommando alla volta del suo loft; per poi entrarci stancamente, come se ogni passo lo prosciugasse dellenergia vitale.
Richiuse la porta scorrevole alle sue spalle e simmerse nel silenzio assordante della sua casa, che fino a qualche giorno prima era illuminata da un raggio di sole, e resa ridente e chiassosa da una vocina argentina.
Per un attimo immaginò di vederli ancora lì, impegnati a disegnare sul pavimento, sporchi di pastelli colorati; e non avrebbe neanche avuto il coraggio di arrabbiarsi se avessero macchiato il suo pregiato parquet, per quanto era felice di essere circondato dalla loro confusione.
Avrebbe preso una birra dal frigo e sarebbe rimasto ad osservarli ammirato, mentre dentro si sentiva esplodere di gioia per quei sorrisi ed il suono delle loro risate.
Immaginò di vedere Gus sollevare lo sguardo e rivolgergli il sorriso più bello che potesse fare, prima di sollevarsi da terra e corrergli incontro; ed immaginò anche Justin che losservava felice, con quel suo sguardo blu luminoso, mentre si alzava e lo raggiungeva per regalargli uno dei suoi baci.
Li avrebbe stretti entrambi a sé e avrebbe respirato a fondo il loro profumo, fino a saturarsene i polmoni e inebriarsi la mente. Avrebbe annullato se stesso per riempirsi di loro e dellamore che sapevano rivolgergli.
Forse, sarebbe stato anche capace di sussurrare un “ti amo”; anzi due...
Uno soffiato allorecchio di Justin, laltro pronunciato strofinando il suo naso con quello di Gus...perché era quella la realtà. Lui li amava; li amava da morire e avrebbe dato tutto, ogni più microscopica briciola di sé stesso per poterglielo dire...per tenerli per sempre con sé.
Ma la realtà era anche fatta di un loft solitario; e mentre vide svanire quella fantasia perfetta, emblema della sua felicità più rosea, permise a una lacrima di lasciarsi cadere dallangolo dellocchio lungo la sua guancia.
Scosse la testa, come per scrollarsi di dosso il dolore e avanzò a passi lenti, fino al divano, dove il disegno di suo figlio e di Justin giaceva indisturbato.
Lo prese con delicatezza tra due dita e si lasciò sprofondare tra i guanciali bianchi e soffici, perdendosi in quei colori vivaci; scavandoci dentro alla ricerca di una traccia dei suoi due infiniti amori e provare a trattenere un po di loro per sé...così da sentirsi un po meno solo. 

*** 

Note finali

Here i am...di nuovo! 
Ebbene sì, sono tornata ad infestare questo fandom con un capitolo che manco mi piace, ma che era necessario per spargere indizi qua e là, tanto per dare una piega alla storia. XD 
In pratica - come avrete visto - non succede niente di che, solo un paio di precisazioni e qualche lacrimuccia. 
Premetto che neanche questa volta ho avuto il tempo di rileggere il capitolo, perciò se trovate errori...perdonatemi! Ho saputo che tra una settimana avrò un esame intermedio - di cui io manco sapevo niente. Come al solito cado dalle nuvole! - e mi sono ritrovata a dover studiare dieci capitoli indigeribili in meno di una settimana! Fantastico! 
Insomma, per farla breve, non volevo farvi aspettare ancora...quindi ho terminato il capitolo e l'ho messo su NVU...senza guardare ad eventuali orrori sparsi nei paragrafi!
Detto questo, ci tengo anche a dirvi che mi dispiace se la parte della discussione tra Justin/Jace/Gary risulta un tantino confusa e un po' incoerente dal punto di vista di Justin, ma ora come ora non potevo spiegare bene le cose...lo farò nel prossimo capitolo, o almeno spero risulterà comprensibile! XD 
A questo punto posso passare alla parte più importante, prima di strisciare verso i libri! -.-'' 
Ringraziamenti-time: Un grazie a tutti coloro che hanno letto questo capitolo, arrivando fino in fondo senza addormentarsi - ed ammetto che non era affatto facile! - grazie a chi ha inserito la storia tra le seguite, le preferite o le ricordate...ma soprattutto GRAZIE a: mindyxx, SusyJM, FREDDY335, electra23, klaudia62, Thiliol, Giohs, oo00carlie00oo, asterix_c, silver girl, Clara_88, OfeliaCuorDiGhiaccio ed EmmaAlicia79 per aver commentato lo scorso capitolo! *w* Grazie davvero
Quindi vi saluto e piagnucolo verso la scrivania. -.-'' 

Un bacione e alla prossima. 
Veronica.

   
 
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