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Autore: Quintessence    22/10/2011    12 recensioni
Cosa striscia sotto la superficie? Cosa scuote violentemente il Cuore di Usagi, da quando è uscita dalla bolla di Pharaoh90? E cosa ha visto in quel momento, tanto da renderle gli occhi due voragini vuote, il sorriso una linea informe, i boccoli una massa appassita? Perché la ragazza solare, divertente e amabile che tutti conoscono è diventata all'improvviso scostante, grigia, e spenta? E perché evita così strenuamente Mamoru? Una storia che indaga la più profonda oscurità dell'animo umano, la depressione che spinge a chiudersi nel dolore, la paura di se stessi e la lotta strenua contro l'incomunicabilità delle proprie stesse emozioni.
Qual è la cosa che ti fa più paura...?
Genere: Horror, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inner Senshi, Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Terza serie
Capitoli:
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Si va al termine ... In realtà ancora una volta il capitolo termina con una rottura che spero non vi dispiacerà ma almeno vi terrà sulle spine fino alla prossima settimana. Eh, sì, lo so... Prima di Domenica prossima di sicuro niente aggiornamenti; domenica prossima c'è Lucca e io sarò presente... Quindi prendetevi 9 giorni di Karma. Bimbarossa che mi ha recensito mi ha fatto anche riflettere su diverse questioni che legano l'horror a Sailormoon, quindi volevo ringraziarla anche qui del suo commento, e spero che questo capitolo possa affascinarla almeno un po'. Chiaramente spero questo per tutti voi, che ringrazio sentitamente per la vostra partecipazione, gentilezza, presenza. Una ultima cosa; il capitolo è quello che determina il genere della storia, per cui ha elementi di horror che forse potrebbero disturbare una lettura giovane. Considererei la storia una PG13 perché non è una rating rosso... In ogni caso, se questo dovesse essere un problema per chiunque o reputate che abbia fatto male i miei conti, segnalatemelo. LoveLove.


3/4 ~ DENTRO PHARAOH90


La porta si chiude con una sorta di nota definitiva, che la lascia nervosa nel letto.
Sembra stranamente grande, a Usagi, quella montagna di larghe lenzuola setose, quel materasso morbido, tanto da sprofondarci. Vuole il suo Mamo-Chan vicino, per non sentircisi persa, e piccola, e insignificante. Sarebbe facile chiamare il suo nome, adesso. Anche solo sussurrarlo... Sa che lui lo sentirebbe nel cuore e nella mente e che accorrerebbe, subito. Che le direbbe che l'ama, Mamoru, e lentamente la sua voce succhierebbe via la paura.
Le sue braccia la avvolgerebbero per coccolarla, per allontanarla dal freddo, il suo caldo respiro che gioca sopra le sue orecchie mentre si attorciglia fra le pieghe del suo cuore, che pompa sicuro e con forza sotto la pelle pallida. Lentamente, realizzerebbe che i loro cuori battono all'unisono. Si sorprenderebbe, come sempre, di essere così perfetta fra le sue braccia. Il suo respiro si calmerebbe, le sue palpebre stanche scaverebbero il loro percorso e...
No! Svegliati! Non puoi dormire!
...si chiuderebbero placidamente, e il suo cervello cadrebbe nell'oblio del riposo...
Non provarci nemmeno! Non osare addormentarti!
Ma è impossibile ascoltare quella voce urgente e pungente nel retro della sua mente, mentre il limbo sembra diventare il letto, il letto un dolce turbinio di niente. Non importa che sappia che l'orrore l'aspetta dall'altra parte della coscienza, il suo corpo si rifiuta di muoversi. I suoi occhi, di stare aperti. Con un senso di panico crescente cerca di aprirli, Usagi, per evitare quella letargia che piano afferra il suo corpo. Ma anche il panico sembra ovattato sotto chili, e chili di cotone di inconscio. Si focalizza sull'immagine del suo Mamo-Chan, che la stringe mentre si addormenta e il respiro si fa più regolare, e il suo corpo annega, così stanco, nel sollievo del sonno.
SVEGLIATI!
Così si addormenta, Usagi.

*

Alla fine, il sonnifero funziona anche se mischiato alla cioccolata. Finisce la sua tazza di tè, Mamoru, e poi l'appoggia vuota sul comodino. E finalmente, quando Usagi dorme, non c'è più il muro subconscio che ha tirato su attorno a sé; il terrore, la disperazione, la speranza perduta che fluttuano dentro di lei corrono come belve lungo il legame, entrando anche in lui con la forza di un tornado, lungo le braccia, sulle mani grandi, tanto che improvvisamente è costretto a lasciare la mano di Usagi, a cadere sul pavimento, la testa fra le mani.
Non ha pensato -non ha immaginato- nemmeno per un secondo, Mamoru, che Usagi nascondesse una cosa simile.

*

Dolore. Era la prima cosa che ricordava. E l'ultima che avrebbe dimenticato. Le fiamme le bruciavano la pelle, ghiaccio plumbeo le scuoteva le vene. E nel frattempo, la sua testa sembrava in procinto di spezzarsi nettamente. Se la luce flebile del suo Cuore Puro l'aveva tenuta in vita con le forze che proteggevano l'universo intero, non faceva nulla per lenirle il dolore. Lo sforzo sciolse immediatamente la sua trasformazione, e tutta l'energia si perse nel cercare un sentiero in quella sconosciuta dimensione. I livelli che il dolore aveva raggiunto erano talmente alti che Usagi non riuscì nemmeno a considerare l'idea di urlare -In effetti, era così catturata da quell'agonia da riuscire a malapena a pensare forza, devi rimanere cosciente.
Un secondo dopo il dolore se n'era andato, lasciandola barcollante, ansimante, quasi impazzita. L'improvviso attraversamento della parete della bolla che aveva provocato quell'orribile sofferenza aveva atrofizzato gli altri sensi completamente; le orecchie le fischiavano e non vedeva nulla. Deglutì, mentre con le unghie scavava un passaggio verso la coscienza, verso la fine di quella inaspettata agonia. Fortunatamente, anche se con una esasperante lentezza, il processo ebbe successo. La sua forza, e la luce del suo cuore l'aiutarono a rialzarsi. Sfortunatamente, ebbe anche l'effetto collaterale di farle recuperare lentamente l'udito e, con enorme disappunto, l'olfatto.
Il tanfo la raggiunse per primo, un misto di cenere, carne putrefatta, sangue, e la schifosa, oscura e basilare essenza di morte. La raggiunse come un colpo fisico, come un ceffone, come una mano che prende la gola e stringe, sempre più forte, talmente forte che per un momento le sembrò di avere le vie respiratorie intasate. Usagi esitò, incespicò, cadde di nuovo.
Si coprì il naso con tutte e due le mani, e disperatamente cominciò a tentare di prendere respiri corti e poco intensi, e solo attraverso la bocca. L'aria era così spessa che quasi riusciva a sentirla, mentre le inondava il palato e la lingua: un gusto di fango, una coltre di invisibile bava non sua. Smise di respirare, il conato di vomito chiarissimo nello stomaco e sul viso. Non respirò finché il viso non divenne quasi completamente ceruleo. E solo allora, boccheggiò in uno spontaneo riflesso. Solo per soffocare, di nuovo. Riprese fiato e lo bloccò ancora. Il ciclo si ripeté per diversi minuti.
È solo puzza, solo odore, dovette dirsi con forza, se solo un fetore ti butta giù in questo modo come puoi anche solo sperare di salvare Hotaru?
Si ordinò di alzarsi, e le sue membra ubbidirono; prese un respiro profondo, cercando di adattarsi al fetore. Quasi le fece male, quando si calò nei suoi polmoni, il fumo che le bruciava gli occhi e il sapore che le invadeva la bocca.
Abituatici. Abituatici e basta, e vai avanti.
La testa le girava come una bobina, la vista sfuocata e le ginocchia deboli. Mise con difficoltà un passo davanti all'altro, e lentamente si drizzò sulla schiena, abbandonando la pancia con le mani. Quei movimenti meccanici e ordinati l'aiutarono a concentrarsi; un momento dopo la sua percezione oculare aveva messo a fuoco diversi elementi, e l'odore migliorava secondo dopo secondo, sfumando più lontano. Rallegrata da quella piccola vittoria, Usagi raggiunse la spilla e provò a trasformarsi. Nulla accadde. Disorientata, staccò il cuore dal fiocco e prese a scuoterlo, come se ci fosse qualche strano pezzetto magico rotto all'interno, che agitandolo potesse tornare a posto. Di nuovo, nulla.
Si concesse una rassegnata alzata di spalle prima di pinzare di nuovo la spilla sull'uniforme. Sperò almeno che, se avesse avuto bisogno di combattere, il potere sarebbe venuto spontaneo ad obbedirle.
Con cautela -anche più del necessario, visto che la fuku non la proteggeva più- Usagi si avventurò verso il fulcro della bolla, la luce scoppiettante prima lontana e poi, passo dopo passo, sempre più vicina. Anche se da lontano sembrava bianca, appena mosse qualche passo si accorse che non lo era. Era rossastra, lungo i bordi, e più si avvicinava più il rosso si faceva distinto, forte. Qualcosa dentro di lei le disse di prepararsi. Un odore come quello doveva avere sicuramente una fonte. E di sicuro, non si sarebbe rivelato nulla di piacevole.
Il buio intorno a lei si era rischiarato adagio, mentre camminava, diventando ombra più che oscurità. Quando si fermò per cercare di mettere a fuoco qualche elemento in più, riuscì a distinguere solo figure scure, che si contorcevano lungo i lati della sorta di strada che stava percorrendo. Allarmata dal fatto che -perché subito credette che fossero umani- potessero essere in pericolo, si avvicinò in fretta ad uno qualsiasi di loro, e si inginocchiò alla distanza di un braccio. Era ancora molto buio, si rese conto, non riusciva a capire che cosa ci fosse di sbagliato, e perché quel poveretto stesse emettendo suoni soffocati che altro non potevano essere, se non manifestazioni di dolore.
« Va tutto bene? » -Sussurrò Usagi, non abbastanza coraggiosa da scommettere e allungare una mano, perché una vocetta cavillante le suggeriva di stare lontana... Ma loro potevano essere feriti, e...
Stai lontana.
...e se lei avesse potuto aiutarli, forse...
Stai lontana!
Ma Usagi non era mai stata una di quelle che se ne sta lontana, che si volta e se ne va. Allungò la mano, e la figura si voltò verso di lei con straordinaria rapidità, afferrandole il polso con una forza sorprendente. Usagi cadde all'indietro, con un suono acuto, più di sorpresa che di dolore, strattonando il braccio disperatamente mentre il suono che quella cosa stava emettendo diventava più chiaro. Era una risata. Stava ridendo -una risata gorgogliante, rauca, che la investì completamente e le fece rombare il sangue nelle orecchie.
Usagi, così abituata alle risate e a ridere lei stessa, non avrebbe mai creduto che un giorno avrebbe preferito un grido di dolore ad una risata.
« Lasciami! » -Gridò con forza, e continuò a tirare, scalciando quella massa indefinita, presa improvvisamente dal panico, vedendo altre di quelle cose... centinaia di quelle cose fare il loro percorso doloroso verso di lei, verso il punto in cui era stata afferrata. La cosa le morse il polso. Usagi gridò di dolore, questa volta, e di angoscia, mentre le risate intorno a lei crescevano, ruggendo di piacere.
Liberati! Forza! Fagli del male se è necessario!
Sì, annuì, e la sua mano libera raggiunse con uno scatto secco la testa -testa...?- della cosa, mentre quella continuava a tenere i denti affondati e a contorcerli convulsamente nella sua mano. Sentì la sua stessa carne completamente lacerata, il dolore lancinante le fece quasi perdere conoscenza. Tutto intorno a lei era viscido, e scivoloso, non riusciva a muoversi adeguatamente, in mezzo a quella melma, e... Trovò i capelli in qualche modo, nel buio, li afferrò con determinata disperazione, e tirò. Con grande sollievo del suo polso, la cosa smise di mordere. Alzò la testa china, mentre Usagi tirava con più veemenza, piegandogli il collo, allontanandola da sé, via, portandola sotto la flebile luce che la strada emanava; e all'improvviso, vide esattamente che cosa l'aveva attaccata.
Era la faccia di Naru, che stava fissando. La sua amica di infanzia, che le sorrideva largamente, maligna, in silenzio, con la bocca striata del suo sangue. Lo sguardo serrato, di chi è pronto a uccidere. Le labbra di Usagi si spalancarono, ma non ne uscì nulla. Il grido le si bloccò in gola. Tutto dentro di lei si ghiacciò per lo stupore. No. Non poteva essere lei.
« Naru-Chan...? » -Riuscì a sussurrare, senza credere, senza capire, mentre Naru si leccava le labbra impregnate di liquido rosso, fissando con desiderio un'altro pezzo del braccio di Usagi, prendendolo di mira. Lei ebbe solo il tempo di accorgersi che stava per attaccare ancora, e la testa scattò di nuovo, affondò di nuovo i denti, mordendola con forza. Da destra, un'altra di quelle cose l'attaccò. Il suo cervello, del tutto ovattato dalla sorpresa, dal dolore del nuovo morso e dal terrore, vide solo la luce riflettersi sugli spessi e pesanti occhiali che solo Umino avrebbe mai potuto portare.
E questa volta, il grido di Usagi esplose con violenza. Tirò di colpo i capelli di Naru, concentrando tutta la forza che aveva in corpo nella mano sana, sentendo le sottili ciocche rossicce rompersi sotto il pugno serrato con un suono malato, netto. Sentì il suo stesso urlo rotto nelle orecchie dalla risatina divertita di Naru, in una macabra e devastante melodia. Usagi non seppe nemmeno come, ma riuscì convulsamente a liberarsi; un secondo dopo, i suoi occhi guardavano il centro della strada, le sue gambe correvano ad una velocità che non credeva di poter raggiungere, il polso sanguinante giaceva nella mano sinistra, e i singhiozzi senza lacrime la scuotevano tanto violentemente da doversi costringere a restare in piedi. Si fermò un centinaio di metri dopo. Sebbene non fosse nei suoi piani, si voltò. La penombra le impedì di vedere qualunque cosa che fosse più distante di un centimetro.
« N-Naru-Chan? »
La sua amica non doveva essere lì. Come era possibile che l'avessero portata lì? Doveva salvarla. Doveva uscire di lì al più presto, con Hotaru-Chan, e poi tutto sarebbe stato a posto. Naru... Naru-Chan non l'avrebbe mai attaccata di proposito. Doveva tornare indietro a prenderla. Dio, non voleva tornare indietro.
Non farlo, non tornare, è una trappola. Ti fa vedere ciò che vuole che tu veda.
Usagi gelò, e l'orrore le invase le membra. Come poteva anche solo pensare di non tornare indietro? Che razza di persona era, anche solo considerare l'idea di non tornare indietro era vomitevole! Si forzò sui suoi piedi, e si precipitò nel buio della strada che aveva appena percorso, la luce del suo cuore unica e debole guida.
« Naru-Chan! Naru-Chan!!! » -Dov'erano finite tutte quelle figure? Ce n'erano così tante solo poco tempo prima, tutte sdraiate sul ciglio della strada. Non riuscivano nemmeno a camminare! Dov'erano finite, tutte? Aveva corso così veloce, era andata così lontano? Spiccò una corsa disperata al contrario, verso il suo punto di partenza, gridando.
« NARU-CHAN! UMINO-KUN! » -Si avventurò ancora più in là, con strilla sempre più acute, grida sempre più roche, drammaticamente vuote e la cui unica risposta era un'eco silenziosa, serrandosi il polso che continuava a pulsare di dolore e perdere sangue. Non riusciva a trovarli. Era sicura, non era la strada sbagliata, o sì? Forse nel buio aveva girato in tondo, credendo di andare dritta. Era come se non ci fosse mai stato nulla. Perché, perché non c'erano?
Perché non sono reali, Usagi... Accettalo. Accettalo e basta, e vai avanti!
Senza sapere cosa stesse facendo, il suo cervello padrone delle sue membra e il cuore distante chilometri, si ritrovò sulla strada. Non conosceva il posto e non aveva idea di dove dirigersi esattamente; solo seguire la luce e gli scoppiettii della battaglia le sembrò plausibile. Si ritrovò a fissarsi il braccio insanguinato. Come poteva essere sicura che fossero solo illusioni? Se non erano reali, perché aveva ancora i segni dei morsi sul braccio? E se l'unico motivo per cui non riusciva a trovarli fosse stato che era scappata, la prima volta? Come faceva a sapere che Naru, e Umino, e forse altri innocenti non erano là fuori, da qualche parte, e che l'unico motivo per cui non avrebbero mai avuto aiuto era... La sua codardia?
Rassegnati. Accettalo e basta, e vai avanti!
Di loro spontanea volontà, i suoi piedi cominciarono a muoversi. In avanti. Verso la luce. Verso Hotaru. Doveva ricordare, Hotaru.
Non erano reali. Non erano reali. Accettalo.
Ma il dubbio che lo fossero, e che avesse abbandonato i suoi amici, i suoi compagni, la seguiva ad ogni passo.

*

Il polso pulsa, doloroso. Lo prende con l'altra mano, Mamoru, e lo abbraccia stringendolo sul suo corpo. Non riesce a fare molto di più che starsene sul pavimento, mentre onde di emozione si riversano su di lui, minacciando di affogarlo. Vede quello che lei ha veduto, sente ciò che lei ha sentito. Sta camminando, adesso, lo vede nella sua testa. È una strada buia, quella che sta percorrendo, e gli occhi sono strabuzzati dal terrore sul viso pallido. Il sangue le scorre dal braccio dai buchi di molti morsi, ma lei sembra non accorgersene.
Nella lotta, uno dei due codini si è quasi sciolto, e una ciocca lascia una scia nella polvere dietro di lei. La luce con cui il cuore l'avvolge fa sembrare le trecce due corde dorate, come corde da impiccagione.
Con un rumore angoscioso arranca, Mamoru, finché non riesce a sdraiarsi sul pavimento, la pancia verso il basso. Cerca di orientarsi, di trovare la porta della camera con gli occhi, ma è troppo difficile distinguere la realtà dalla fantasia, dal terribile momento, con l'immagine di Usagi che si manifesta sotto i suoi occhi e il mobilio della camera. Decide di chiudere gli occhi; le scene continuano a correre, dietro le palpebre, come un film dell'orrore, ma almeno la vista del suo appartamento non interferisce e non gli dà la nausea.
Il peso delle emozioni di questo fantasma di Usagi lo schiaccia al suolo, ma in qualche modo vuole raggiungere la Usagi vera, quella nel suo letto, per prenderle la mano, lenire l'incubo; si sforza di muoversi, Mamoru. Prima senza successo.
Poi, un centimetro alla volta. I pochi metri di tappeto che lo separano dal letto sembrano infiniti chilometri. Focalizza la sua attenzione su di lei, Mamoru.
Perché un centimetro alla volta, ha intenzione di raggiungerla.

*

Non sapeva quanto a lungo avesse camminato per quella strada anonima e vuota. Quelli che potevano essere minuti sembravano eoni, senza un riferimento. Non aveva nemmeno un punto di aggancio noto per misurare la distanza. Per quanto ne sapeva, nell'ombra poteva muoversi in cerchio e non accorgersene, anche se seguiva con meticolosa attenzione la luce rossa. Poteva essere distante abbastanza da ingannarla, e spostarsi per farla impazzire in quel labirinto. Ma non c'era null'altro a cui aggrapparsi, null'altro a fare da bussola. Solo polvere sotto i suoi piedi, e una oscurità infinita a destra e a sinistra. La luce rossa si faceva più pungente, e la puzza più insopportabile ad ogni passo. Più d'una volta dovette fermarsi perché le tempie smettessero di pulsare.
È la direzione giusta. Se la luce si avvicina, se le cose peggiorano, è giusto. Coraggio, vai avanti.
Forzò tutta l'attenzione sui suoi piedi, la fatica di sollevarli quasi insormontabile; le sue Mary-Janes insozzate oramai strascicavano nella polvere, sollevandone pezzi e sbuffi. Grigio. Grigio, grigio, grigio; ogni tanto si fermava, di nuovo, per sfregarsi gli occhi e guardarsi la divisa, il blu della gonna e il rosso del fiocco, solo per assicurarsi che altri colori esistessero.
Con gli occhi puntati verso il basso, l'improvvisa intrusione di una linea di austero giallo in quella che era stata fino a quel momento una infinita distesa senza colore la fece esitare. La polvere diventava asfalto solo pochi passi dopo il punto in cui si era fermata. Confusa, alzò lo sguardo e si accorse di essere nel bel mezzo di una strada di città, contornata da edifici che si stagliavano in alto, emergendo dalle ombre intorno a lei. Sollevò del tutto la testa, e si voltò per guardare la via da cui era venuta; dovette strizzare gli occhi più volte prima di rendersi conto di quello che stava guardando. I suoi occhi avevano incontrato una strada continua, affiancata da negozi, e lampioni, proprio come se avesse sempre camminato nel centro della città.
La strada polverosa che aveva appena finito di percorrere era semplicemente svanita.
In qualche modo, non ne fu del tutto sorpresa.
Piuttosto rassegnata, riprese a camminare in avanti, cercando qualche riferimento familiare per capire in quale parte della città si trovava. Sapeva che era Tokyo, anche se la sua mente non era in grado di distinguere il distretto. Intorno a lei tutti i palazzi erano in rovina, derelitti, inquietantemente fermi. Agitandosi nervosamente, si fermò di nuovo in mezzo alla strada, il suo cervello in attesa. Come se Ami potesse spuntare fuori, e gridare Hey Usagi! Ho capito tutto, seguimi!
Che cosa avrebbe dato per avere Ami con sé. Chiunque di loro, in realtà. Era passato tanto tempo, da quando aveva affrontato l'oscurità da sola. E forse era stato un male. Era diventata coccolata, sicura che un arcobaleno magico l'avrebbe sempre salvata. Se si fosse trovata in pericolo, il fulmine avrebbe distrutto la minaccia, trattenendola finché Usagi non fosse fuggita. Se fosse stata confusa, e senza idee, la nebbia rilassante l'avrebbe protetta e le avrebbe dato tempo di pensare. Se avesse avuto bisogno di caricare un attacco, di prendere la mira, catene dorate avrebbero tenuto fermo il nemico. E se fosse stata con le spalle al muro, un anello di fuoco l'avrebbe circondata come un muro gentile, le fiamme respingenti il pericolo.
E, sopra qualunque altra cosa, velluto nero sarebbe accorso a un suo solo cenno. Di forza, coraggio e giustizia... la sua ombra protettrice. Sempre al suo fianco.
Ma lui non c'era, adesso, forse quando lei ne aveva più bisogno. Nessuno di loro era con lei; era sola, con le ginocchia screpolate e le mani sanguinanti, e il coraggio che piano piano stava venendo meno.
Avrai presto Hotaru, con Te -si forzò a dirsi, con fermezza- E se sei qui da sola, probabilmente c'è un motivo.
Rimise insieme i nervi scoperti, e si avvolse di una invisibile, e immaginaria, e invincibile armatura. E si convinse -doveva convincersi- che sarebbe stato abbastanza.

*

Restava poco, della città che un tempo era stata Tokyo. Orgogliosa, mentre rizzava la schiena nella grandezza del vetro scintillante delle torri, le strade con tinte al neon, la metropolitana fitta come un labirinto, e il guazzabuglio di persone... Tutto quello che di lei era restato erano palazzi scheletrici, e strade che minacciavano di crollare. E per quanto riguardava l'umanità, erano tutti rimasti. In pile grottesche di corpi alte quanto un albero, gettati uno sopra l'altro disordinatamente, come rifiuti a ricoprire la strada. Qualcuno era stravaccato sulle porte, nel gesto di aprirle, come se un confuso uomo di sabbia avesse sbagliato momento per fare visita. Molti erano stati impiccati, a qualsiasi cosa che offrisse un appiglio. Lampioni, grondaie, tetti, balconi. Alcuni con il filo di ferro, altri con quello spinato. Qualcuno aveva avuto la sfortuna di essere stato trucidato; gli erano stati cavati gli occhi, e poi ficcati in bocca, oppure la pelle gli era stata divelta, pezzo a pezzo, da qualche animale. Qualcuno era morto con piaghe orribili sul corpo, bolle di pus sulla faccia o sulla pancia. Alcuni di loro erano stati colti dalla morte nel tentativo di strapparsele di dosso, con le unghie e con i denti, tanto che avevano la bocca e le dita impastate del proprio stesso sangue e del proprio stesso pus. Si vedeva che alcuni si erano ammazzati. Giacevano con coltelli piantati in pancia, ancora fra le mani, oppure con le ossa scomposte e fuori dal corpo, bianchi luccichii macabri, dopo essersi gettati dalla finestra. Qualcun altro infine giaceva in pezzi, tagliato in due o tre o quattro o mille parti. Le mani a metri di distanza dalle braccia, i moncherini preda delle formiche e delle mosche affamate. E non c'era nessun dubbio che fossero stati macellati da una forza sconosciuta. Nessuno era stato tanto fortunato da meritare una sepoltura. Non c'era nessun nesso né logica per quella orribile distruzione. Solo una triste e definitiva nota perentoria.
E attraverso tutto questo, Usagi camminava in avanti, terrorizzata in modo quasi malsano. Si faceva strada fra le macerie, senza osare neppure alzare lo sguardo in qualsiasi direzione. C'erano molti corpi lungo il suo cammino. Qualche pezzo, una testa o un braccio, giacevano sulla strada. Fortunatamente la maggior parte erano stati ammazzati sui marciapiedi e non era costretta a guardarne le agonie.
Cadaveri. Sono solo cadaveri. Cadaveri.
Si ripeteva quella parola, nella mente, perché doveva costantemente ricordarsi di non soffermarsi sul fatto che era tutto quello che rimaneva di persone che aveva conosciuto, o che un tempo avevano attraversato la sua strada, o che semplicemente erano esistite insieme a lei. E finché sarebbe stata in grado di non fare attenzione, di camminare con cura e di non guardare, sarebbe stata anche in grado di evitare il peggio. Stava attraversando il distretto della Juuban, ma non se ne accorse finché non passò accanto al Crown Arcade. Non si fermò, passo oltre, gli occhi fermamente puntati in avanti, proibendosi mentalmente di gettare occhiate all'interno.
Non guardare.
Non avrebbe guardato...
NON guardare!
La sua testa la tradì abbastanza a lungo da dirigere lo sguardo dentro per un secondo, da vedere oltre le finestre macchiate di una indefinita sporcizia. E poi, i suoi piedi la seguirono come in trance, camminando oltre i pezzi di metallo attorcigliato e il vetro distrutto, ultimi residui di una porta scorrevole.
Il Crown era spaventosamente silenzioso e in pace. Nessun campanello, nessun suono di gettoni buttati nelle macchine, e niente parolacce di ragazzini troppo giovani, dopo una sconfitta ad un videogioco di lotta. Le ci volle un momento per interpretare quello che stava vedendo; per un minuto pieno di speranza, aveva pensato che la sala giochi fosse ancora viva. Cominciò a camminare, nel grande spazio, prima di fermarsi a fissare lo sguardo in una sorta di affascinata nausea.
All'interno, forme rivoltate erano congelate in una strana imitazione della vita. Erano morti tutti in modo particolarmente violento, bruciati fino ad essere irriconoscibili, semplicemente sadicamente fortunati ad essere ridotti ad un cumulo di cenere che avesse ancora una parvenza umana. Quelli che potevano essere due ragazzini stavano ancora giocando una partita. E un gruppo di ragazze sedeva in un angolo, a mangiare indisturbato. I corpi ancora sporti l'uno verso l'altro, a formare un guscio protettivo per i loro segreti importantissimi, come qualsiasi cricca di ragazze farebbe, come se qualcuno fosse in pericoloso ascolto.
E quando si voltò verso il bar... Il caro Motoki, in piedi, immobile e senza vita accanto al suo amato bancone, una statua fatta di cenere, una mano stesa a pulire lo spesso strato di polvere accatastato dappertutto.
Usagi non riuscì a piangere. Non aveva niente da versare, lo scenario era troppo tragico anche per le lacrime. Stanca, solo stanca, si concesse un momento di riposo sul suo sgabello solito, vicino al bancone, e guardò l'espressione vuota e scolpita nella cenere che un tempo doveva essere il suo viso.
« Ciao, Motoki-Senpai. Un Choco-Shake Deluxe, per favore. Sai come mi piace! » -Chiuse gli occhi e immaginò la risposta.
« Ma certo, Usagi! » -L'avrebbe messo proprio di fronte a lei, un enorme bicchiere colmo di una torre di cioccolato, panna montata, una spolverata di cacao e una ciliegia immersa nella nutella. Quasi quasi, le sarebbe spuntata la bava, e avrebbe sorriso nel modo che era solita fare in direzione della sua prima cotta da cuore tredicenne- « Ecco qua! Non bere troppo veloce, Usagi, o ti verrà il mal di testa! »
Ma quando aprì gli occhi, il bancone era vuoto di tutto, tranne dello spesso strato di vomitevole sporcizia, e Motoki continuava a sorriderle con una bocca senza denti su un viso senza espressione, catturato per sempre nell'atto di pulire ciò che non sarebbe mai più stato pulito. Usagi non avrebbe mai più guardato il Crown nello stesso modo.
« Arigatou, Motoki... » -Si alzò lentamente, si mise una mano in tasca e ne cavò gli ultimi 500 Yen che vi erano rimasti. Divertente. Anche in quella situazione non ne aveva abbastanza. Come sempre.
« Tieni il resto » -Sussurrò, e mise le monete gentilmente sul tavolo.
Quando uscì, non si voltò nemmeno una volta.

*

Ore dopo, era sicura che sarebbe presto impazzita davvero.
Pensava di poter fare finta di nulla, dopo il fruit parlor, pensava di essere più forte di quanto avesse pensato prima. Che potesse ignorare la distruzione intorno a lei, la crudeltà senza senso, mettendo semplicemente un piede davanti all'altro. Attraversò strade che avevano nomi familiari, ma che non emanavano nessuna luce familiare nel suo cervello spento. Tutto, lentamente, sembrava chiudersi su di lei; edifici, e alberi, e lampioni, guardie del suo cammino come maligne sentinelle.
Idee formate a metà fluttuavano accendendosi nella sua testa, e spegnendosi subito dopo come lucciole malate. Aveva provato ad andare a casa. E poi, a casa di Mamo-Chan. Dopo aver cercato per ore la strada giusta, aveva capito che la città in cui camminava era deformata, la teneva prigioniera, e la guidava esattamente dove la città voleva, non dove lei desiderava. Perciò, si era detta semplicemente di andare dritta. Di continuare. Come una sonnambula. Come intorpidita.
Se avesse sentito qualcuno che singhiozzasse a destra, o un colpo alla sua sinistra, oppure un grido di aiuto... Usagi, Usagi... che poteva essere il vento, o la sua mente spezzata... Sarebbe semplicemente andata avanti, ignorandoli, e continuando a contare ogni passo con andatura disordinata, sull'asfalto incrinato.
« Ussss... saag...iiii... »
Corri.
Esplose in una corsa sbandata, incespicante, slittante, testa china, e sentì la pelle strapparsi sui suoi palmi, sulla guancia, sui gomiti e sulle ginocchia quando alla fine rovinò a terra.
« Vorrei che fossi qui... » -Mormorò a se stessa, mentre sentiva il sangue cominciare a gocciolare pigramente dalle ferite. Il sapore salato delle lacrime, però, non venne. Sentì il sangue entrarle in bocca, mentre riposava una guancia bruciata sulla strada lurida. Perché non le era stato concesso di portarlo con lei, in quell'agonia? Perché? Perché non poteva essere lì, a rassicurarla di non essere impazzita, che tutto intorno a lei era falso, a controllarle i nervi con la preoccupazione nei suoi occhi blu profondi?
« Vorrei che fossi qui » -Ripeté ancora, cercando di alzarsi dolorosamente. Senza accorgersi di cosa l'aveva fatta inciampare- « Vorrei... »
« vorreichefossiquivorreichefossiquivorreichefossiquivorreichefossiquivorreichefossiqui... » -La frase diventò una gorgheggiante litania che lei respirava, attraverso le labbra screpolate. Anche se, naturalmente, non voleva davvero che lui fosse lì. Quanto terribile per lui sarebbe stato testimoniare gli edifici distrutti, la città morta, i cadaveri lungo la strada, e il cielo che bruciava, come una sorta di quadro che non si vuole fissare troppo a lungo.
E allora, al posto di desiderarlo, Usagi finse che lui fosse lì con lei, a condurla avanti, a guidare i suoi passi mano nella mano, un vestito giallo apposta per una festa. Cadde in ginocchio, accanto ad un accatastato e impolverato e vetroso frammento di innocenza rubata, e un conato la scosse miserabilmente. Singhiozzò più volte per cerare di vomitare, senza successo. Si aggrappò ad un lampione per non svenire, ferma sulle ginocchia, la nenia intorno a lei sempre più forte.
« vorreichefossiquivorreichefossiquivorreichefossiquivorreichefossiquivorreichefossiqui... »
Quando riuscì finalmente a vuotare lo stomaco, si pulì la bocca con una mano lercia di polvere e si alzò ancora, ancora una volta, con l'aiuto del palo: si voltò a guardare cosa l'aveva fatta cadere. Ogni millimetro del suo corpo gelò, il cuore le saltò in gola tanto velocemente da farla sobbalzare. Il rombo della paura la pervase ancora, scuotendola incontrollatamente.
I suoi occhi si posarono su quello che era uno spettro -doveva essere uno spettro- probabilmente esistente solo nella sua mente. Il suo Mamo-Chan, riverso in mezzo alla strada. Senza nemmeno sapere come, strisciò fino al suo corpo, dondolando, mentre la folla di cadaveri sordi registrava il suo grido senza speranze. E gli echi tornarono da lei, a ricordarle la sua frase, a ricordarle il suo pensiero, la sua nenia.
« vorreichefossiquivorreichefossiquivorreichefossiquivorreichefossiqui... » -Si chiuse le orecchie con insistenza, senza riuscire a fermare la voce nella sua testa.
Non toccarlo! Mamo-Chan è a casa, a casa! Sta tenendo viva Chibi-Usa! Non è lui, lascialo stare! Stai lontana, e vai avanti.
E poi, mentre la voce si spegneva e la sua gola bruciava di fiamme infernali per lo sforzo, tutto il corpo fisso su un unico dolore, lui aprì gli occhi. Un'espressione sofferente e nauseata gli permeava il viso, e gli occhi blu erano contornati di rosso.
Non toccarlo!
Usagi respirò più forte, si chinò su di lui stringendogli la mano con forza, cercando di fare uscire le parole.
« Mamo-Chan... Mamo-Chan...? »
« vorreichefossiquivorreichefossiquivorreichefossiqui... » -E finalmente, nell'oscuro silenzio brulicante di echi spaventosi, lui mosse la bocca a fatica. Respirava con un rumore graffiante, roco e infermo, quasi mugolante. Un grumo di sangue gli si formò piano in bocca. Usagi lo sollevò.
« U... ssssssaaaa... Koooo... »
Corri! Vattene!
« Mamo-Chan, Mamo-Chan, è tutto a posto... Sono qui, io... » -Lui si piegò in avanti, in un movimento scomposto e malato. Lei lo aiutò, sorreggendolo, cercando di tenerlo fermo. Un conato rischiò di soffocarlo. Stava soffrendo orribilmente, e Usagi lo vedeva con precisione. Immagini dei cadaveri appesi, squartati e bruciati le invasero la testa, e avevano tutti il viso del suo Mamo-Chan. Strozzò la voce per parlare.
« Mamo-Chan, cosa c'è? Cosa... » -Aveva qualcosa in gola, si accorse Usagi, ma era troppo terrorizzata e dolorante per cercare di tirarlo fuori, per aiutarlo. Mamoru finì il lavoro da solo, gli occhi riversi e la faccia paonazza. Con uno spasmo definitivo, dalla sua bocca uscì una massa informe, molliccia, pulsante e grande più o meno come una palla da tennis, coperta di sangue e polvere, che poteva benissimo essere uno dei suoi organi interni- « Mamo-Chan! »
E allora Mamoru parlò, la voce aspra, rigata, satinata, gli occhi iniettati di sangue. Lei gli serrò la mano, e lui tentò di rispondere al tocco. Disse una sola parola, otto lettere che le invasero il cervello chiudendolo in una morsa devastante, sommergendolo di gelo e di disorientamento, oscurandole quasi il cuore per l'orribile peso che portavano.
« Ucci... dimi. »

*

Pochi passi e molte dimensioni più in là, Mamoru si spinge verso il bordo del letto, trasformato in una sfera tremolante mentre le lacrime cadono, in armonia con le straziate grida di Usagi.
La sua mano è stretta sul nulla.  

   
 
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