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Autore: Yvaine0    27/11/2011    6 recensioni
Ero in treno da un'ora verso il nulla più totale.
Perchè? Probabilmente tutto era iniziato quando mio fratello aveva iniziato a parlare. Fin da subito aveva capito la sua vocazione: sparare stronz-...sciocchezze. E così, litigio dopo litigio, nostra madre era impazzita e aveva deciso di spedirci tutti e due a vivere da qualche parte lontani da loro.

Pan Fletcher, diciottenne, ragazza di città, si ritrova catapultata in un mondo a lei estraneo, caratterizzato da laboriosità, aria pura, e sentimenti sinceri. Armata di mp3, di un bizzarro interesse per le mucche e di un rassicurante manuale di sopravvivenza create da lei stessa, affronta questa avventura che la vita le regala senza ben sapere cosa pensare di tutto ciò che le sta per accadere.
"Che diavolo ci fai qui?"
"Che diavolo ci fai TU qui! Questa è casa di mio nonno!"
"Io qui ci vivo!"
Fissai il ragazzo in cagnesco per qualche istante. "Bè, anche io!"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cows and jeans'
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Cows and jeans

21


 
"Mi sei mancata da impazzire!"

Emily mi strinse a sè. "Anche tu mi sei mancata" rispose, serena e pacata come sempre. 

"Ho un sacco di cose da raccontarti!"

"Anche io". La sentii ridacchiare. "Iniziavo a pensare che non saresti più tornata".

"E secondo te come sarei resistita laggiù?" Feci un passo indietro per guardarla in faccia e rimasi spiazzata.

"Che hai fatto ai capelli?" rantolai, sorpresa.

Emily scoppiò a ridere, passandosi una mano tra i cortissimi capelli azzurro cielo. "Ecco perché avevo messo il cappello, temevo non mi avresti riconosciuta" mi confidò, raccogliendo la mia tracolla. "Ma la getti a terra così?"

Diedi un'alzata di spalle, senza riuscire a smettere di fissarla. Cosa diavolo aveva combinato? Dov'era finito i suoi lunghi, lisci, bruni e rassicuranti capelli? "Ci sono solo i vestiti lì dentro".

"Le cose importanti?" mi sorrise, sapendo già la risposta. 

"Nello zaino".

Ridemmo.

In prima liceo avevamo fatto una gita scolastica all'estero. Avevo portato una valigia piena di vestiti e cose oggettivamente utili, mentre nello stesso zaino che avevo in quel momento avevo riposto l'mp3, il cellulare, un libro -immancabile anche in gita- e una carrellata di barrette di cioccolata da sbattere -metaforicamente parlando- in faccia a chi si rifiutava di donarmi un pezzetto del panino che non avevo puntualmente voglia di comprare. Ero stata pronta a tutto, all'epoca. Avevo la musica per evitare di avere a che fare coi cretini, e un libro per non doverli nemmeno vedere. Persino quando sapevo di essere nel torto, mi preparavo uno stratagemma per vendicarmi dell'antipatia altrui. Già a quel tempo Emily aveva ribattezzato il mio zainetto come "ripostiglio delle cose importanti", l'unico bagaglio che non trascinassi in giro con goffaggine lasciando che urtasse ogni spigolo o che non gettassi a terra con incuranza una volta giunti in albergo.

Sbattere in faccia ai compagni che io avessi la cioccolata e loro no, era stato decisamente importante, allora. Ero stata troppo pigra per fare la fila al negozio e prendere un panino. Avevo rasentato lo stato di pigrizia-seriamente-preoccupante, ne ero consapevole. Era stata Emily a trascinarmi con sè a fare la fila ad ogni pasto, intrattenendomi con le sue gentili chiacchiere prima che mi causassi uno scompenso intestinale.

Avrei dovuto sbattere in faccia la cioccolata anche a lei, ora? Era cambiata tanto quanto sembrava? Era forse diventata 'una delle tante', una degli 'idioti'?

"Hai cercato di scroccare il pranzo a qualcuno in treno?"

Questa volta risi solo io, riconoscendo che dopotutto la mia amica era sempre lì, anche se sul capo aveva una sorta di ispida scopetta azzurra.

"A quanto ricordo mi devi una pizza, dai tempi dell'ultima scommessa, quindi..." lasciai la frase in sospeso, sicura che avrebbe capito. Infatti mi sorrise e fece cenno di andare. "Facciamo tappa da Antonio's, ho capito!"

"Così si ragiona!" approvai, afferrando il manico del trolley e incamminandomi con la mia migliore amica. Quanto mi piacevano quelle parole. Migliore amica. Miglioreamicamiglioreamica. Sorella, sarebbe stato più opportuno. Emily era la sorella che non avevo, era la persona che mi era sempre stata vicino, un'amica che, conoscendo la mia pigrizia, quando si ammalava mi chiamava a tenerle compagnia, sapendo che avrei pagato pur di ottenere un po' di germi influenzali. 

"Forza, raccontami qualcosa. Come procede la vita in città?" domandai, curiosa.

Emily ridacchiò. "Be', ho provato a girare con i ragazzi della bilioteca, te li ricordi?"

"Certo". Eccome se me li ricordavo. Quando mettevamo piede nella biblioteca pubblica c'erano immancabilmente anche loro quattro: due ragazzi e due ragazze. Attaccavano bottone ogni volta e non smettevano di parlare con noi finché non ce ne andavamo per la disperazione. Insomma, sapevamo anche noi che in una città come la nostra le persone che mettevano piede tra quegli scaffali erano ben poche -eccezion fatta per gli universitari-, anche a noi faceva piacere ogni tanto parlare con qualcuno a conoscenza del fatto che Anne Hathaway non era solo un'attrice famosa (*), ma ci sarebbe piaciuto anche poter respirare senza che nessuno ci chiedesse quanta anidride carbonica avessimo appena espirato. Tra l'altro non eravamo topi di biblioteca con una cultura mastodontica, al contrario loro:  a noi piaceva semplicemente leggere senza spendere ingenti capitali in libreria.

"Si sono rivelati molto più stupidi di quanto sembrassero" mi confidò. "Hannah e Amber stanno insieme, lo sapevi?"

"Sono sempre state molto affiatate" risposti con un'alzata di spalle. "ma in effetti non avrei pensato. Stanno insieme anche gli altri due?"

"No, anzi, ci hanno provato spudoratamente per tutto il tempo. Dopo una serata mi avevano già fatto pentire di aver accettato di uscire con tutti loro".

Ridemmo. 

"Poi ho passato un po' di tempo con Sarah Harrison".

"Del corso di spagnolo?"

"Proprio lei".

Annuii. Sarah Harrison era una ragazza minuta e silenziosa, che parlava poco e solo con alcuni compagni di scuola. Ogni tanto la si vedeva passare giorni e giorni in compagnia di qualcuno per poi ritornare nel suo banco in fondo a destra nell'aula di spagnolo, chiusa in se stessa come di consueto. 

"E' mostruosamente appiccicosa!" esclamò Emily, guardandomi con gli occhi sgranati. Ancora non riuscita a crederci, era evidente.

Risi. "Te l'ho sempre detto! Secondo te perché finiva sempre col tornare a star da sola?"

Emily si strinse nelle spalle. "Pensavo che le sue compagnie la sfruttassero opportunisticamente, non che lei non lasciasse respirare chiunque le abbia rivolto la parola più di due volte in un giorno!" si giustificò.

Tipico da parte sua, vedere del buono in tutti.

"Pan ha sempre ragione!" le ricordai, con falsa sicurezza di me.

"Ah, ma davvero?"

"Assolutamente!" confermai.

Questi suoi racconti mi stavano facendo provare un'egoistico sentimento di soddisfazione. Almeno due dei suoi tentativi di socializzare erano falliti, non perché qualcuno avesse rifiutato la sua presenza (sfido che qualcuno potesse farlo!), ma poiché nessuno era stato adatto a lei. Io invece lo ero. Mi sentivo importante, molto.

"Be', se lo dici tu!" Emily alzò gli occhi al cielo. "In questo caso non posso darti torto, l'ho rivalutata completamente" mi accontentò. 

Ridacchiai, più concentrata sulla sensazione di essere necessaria che mi aveva pervasa che non sulle sue parole. Era così strano che fossi veramente importante per qualcuno. O forse non era strano, tutti sono importanti per qualcuno, ma io non me ne capacitavo. Ero sempre stata quella che si faceva i fatti suoi, affogando nei propri libri e nella propria musica. Non ero una persona carismatica, non ero troppo simpatica, ero saccente e scontrosa. Non ero nemmeno in grado di scegliere cosa fare della mia vita. Avevo iniziato canto, per esempio, solo perché mia madre pensava fosse giusto che facessi qualcosa di buono nella vita anziché sprecare tutto il mio tempo a nascondermi dietro blocchi di carta e inchiostro. Persino una delle cose più importanti nella mia vita mi erano state insegnate per obbligo: la musica, appunto. Come potevo risultare una persona indispensabile per qualcuno? Avevo sempre considerato Emily una persona indispensabile per me, avevo spesso pensato che forse avrei dovuto lasciarla stare con chi preferiva, io non ero certo la compagnia ideale.

"Il treno per Hogwarts è in partenza dal binario nove e trequarti!"

Cosa?

Quelle parole mi risvegliarono di colpo, riportandomi alla vita reale. "Come dici?"

Emily rise. "Sapevo che non mi stavi ascoltando".

"Stavo fantasticando, scusa" sussurrai, con un mezzo sorriso imbarazzato. "Dicevi?"

Lei sorrise, comprensiva. "Che oltre a Sarah ho rivalutato anche Mariah del corso di matematica. Giro con lei, ultimamente. Ah, te lo dico subito: venerdì c'è l'ultima festa prima della scuola in un locale del centro, tu sei ufficialmente invitata, ti faccio entrare io!"

Ci misi quasi un minuto intero per metabolizzare ciò che mi aveva detto. Provavo una sensazione strana, orribile. Non era delusione perché non avevo nemmeno capito bene cosa volessero dire quelle parole. Era più un brutto presentimento che altro. "Mariah chi?"

"Mariah Thompson, la conosci di sicuro".

Ci pensai su. Il cognome mi era familiare, ma c'era qualcosa che mi suonava strano nell'udirlo. Come se conoscessi un nome simile, ma non uguale. "Mariah... Thompson... mora e riccia?"

"Precisamente" confermò.

Sgranai gli occhi fermandomi sul posto. Era preoccupazione, quella sensazione. Preoccupazione mista a delusione e -in quel momento- un pizzico d'ansia. "Giri con Marijuana Thompson?!" 

Emily si volse verso di me, dopo qualche altro passo. "Non chiamarla così, non è carino da parte tua".

"Lily, se la chiamano tutti così, un motivo c'è!" esclamai, sconvolta.

Marijuana Thompson era conosciuta in tutta la scuola come una ragazza festaiola e sregolata. Non una sgualdrina, no -ci mancava solo quello!-, la sua colpa era perlopiù passare quasi tutto il suo tempo in un alternativo mondo di sballo e fegati usurati dagli alcolici. C'erano più probabilità, infatti, di trovarla a farsi trascinare da qualche parte, ubriaca fradicia, dalle sghignazzanti amiche, piuttosto che sobria. Era una a cui piaceva divertirsi, o almeno così lei si giustificava con chiunque le chiedesse cosa avesse al posto del cervello -una bottiglia di rum, per inciso. Non era certo una persona con cui i genitori speravano che i figli si accompagnassero.

Si divertiva. Passata metà delle sue serate a vomitare, ma diceva di divertirsi.

Le piaceva sperimentare, anche. Era a modo suo avventurosa, diceva. Qualunque tipo di droga ci fosse in circolazione, lei l'aveva provata. Proprio questa sua sete di avventure le era valso il soprannome di Marijuana. Non c'era persona, eccezion fatta per le sue amiche, che non la chiamasse a quel modo e, per la miseria, il motivo era chiaro.

"Tu non la conosci, è simpatica".

Sbuffai, incredula. "Certo, anche io sono simpatica quando mi scolo una botte di vino e mi metto a cantare l'inno di Hogwarts a squarciagola in mezzo alla strada! Farei ridere chiunque!" osservai, sarcastica, stendendo un velo pietoso sul fatto che la scena da me descritta sarebbe stata più ridicola che divertente. La differenza tra queste due parole era sostanzialmente segnata dallo stesso confine che separa 'ridere con te' e 'ridere di te'.

Dubitavo, inoltre, che Emily potesse esserle amica perché trovava divertente ridere della Thompson. Non sarebbe stato da lei, non era in grado di essere meschina, ormai la conoscevo troppo bene per non saperlo. Questo non faceva che allarmarmi di più, tuttavia: che si fosse bevuta il cervello, oltre che tagliata i capelli?

"Pan!" esclamò, esterrefatta. Scrollò il capo e sospirò pazientemente. "Chiudiamo qui il discorso, non ho intenzione di fare questa discussione con te. Conoscendola ti rimangerai tutto".

"Come no" commentai poco convinta, riprendendo a camminare lentamente.  

"Per favore, smettila di essere sarcastica".

Sbuffai, ricacciando indietro tutta l'acidità che mi era nata dentro. Non potevo credere che proprio Emily mi dicesse certe cose. Ci eravamo sempre trovate d'accordo sulla necessita di evitare certe compagnie, certe 'avventure' nocive sia alla nostra salute che alla nostra dignità. Eppure ora girava con Marijuana Thompson. Qualcosa non quadrava.

"Okay" approvai infine, sforzandomi di sorridere. "Discorso chiuso, ne riparleremo quando capiterà. Ora mi devi una pizza!"

Quando lei ricambiò, non mi ci volle nessuno sforzo per iniziare a sorridere veramente.


 

Dopo tre ore di chiacchiere, risate e bagagli trascinati pigramente, la macchina di Emily partì lasciandomi proprio di fronte al cancello aperto di casa mia. Lo richiusi alle mie spalle. Non ero di certo a Sperdutolandia: in città la cautela non era mai troppa. 

Abbandonate senza alcuna cura le varie borse in mezzo al giardino, mi avvicinai alla prima traccia di presenza umana che ebbi modo di udire: qualcuno che inveiva a mezza voce nel garage. Con un mezzo sorriso mi avvicinai al portone del capanno prefabbricato accanto alla casa. "E' permesso?" domandai allegra, bussando. 

"Sì, un attimo e vado a prendere i soldi!" prese tempo una voce a me familiare. Proveniva da sotto l'auto di mamma. 

"Che diavolo stai facendo?" chiesi, sospettosa. Entrai nel capanno e mi appoggiai al muro, attendendo che quel grosso cretino emergesse da sotto la macchina rossa.

Uno sbuffo, un'imprecazione. "Che vuoi? Niente mancia, te la sei giocata!"

Risi. Non mi aveva riconosciuta lo squilibrato. "E quando mai tu mi hai dato dei soldi? Nemmeno quando sei in debito!"

"Come osi? Stai dicendo che non ti pago? Diamine, mi hai preso per uno straccione?" si lamentò Joshua strisciando a fatica sul pavimento ruvido. "Sai con chi stai parlando?"

Inarcai un sopracciglio, osservandolo mentre si alzava goffamente in piedi, dandomi le spalle. "Oh, sì. Con un grandissimo idiota di nome Joshua Fletcher, diciassette anni, del segno dei pesci, mi pare. No, forse acquario. Ma sei sicuramente un idiota, tanto da non ricordarsi del ritorno a casa della sua dolce sorellina".

Joshua si voltò a fulminarmi con lo sguardo, ma rimase spiazzato nel vedere niente po' po' di meno che me. "Oh, sei tu!"

"Chi pensavi che fossi, Josh? La fattorina della pizza?" lo stuzzicai, inarcando le sopracciglia.

Lui tossicchiò e arrossì. "No, certo che no". Aveva sempre avuto una cotta per la ragazza delle pizze, fin da quando era venuta a portare la consegna per la prima volta. A detta sua -e anche di mamma e George, in realtà- avevamo la stessa voce. Sinceramente non pensavo di avere una voce così insopportabile, ma ho sentito dire (e l'ho sperimentato) che tutti rimangono traumatizzati sentendo la propria voce registrata, per cui...

"No, certo che no" ripetei, ridendo sotto i baffi. "E' routine, in fondo" commentai, divertita. "Se la tratti così non avrai alcuna speranza con lei, comunque. Dovresti essere più educato".

"Già rompi? E dire che non sei neppure entrata, ancora!" sbottò mio fratello, uscendo a grandi passi dal garage.

"Anche tu mi sei mancato!" gli gridai dietro. 

"Ah, vedo che hai sistemato tutte le tue cose!" osservò, vedendo le valigie sparse per il prato. 

"Già!" ridacchiai, seguendolo. "No, sul serio, che stavi facendo?"

"Mi hanno fatto una multa. Io non lo farei, comunque" mi confidò con naturalezza, armeggiando con la serratura per aprire la porta di ingresso.

Gli lanciai un'occhiataccia e raccolsi le mie cose. "Di cosa parli?" Glissai sul fatto che stesse nascondendo una contravvenzione sotto l'auto di nostra madre, tanto era inutile lamentarsi, alla fine l'avrebbe spuntata ad ogni modo. Non sarebbe stato più semplice limitarsi a cestinarlo o, chessò, pagarla? Certo che lo sarebbe stato, ma non sarebbe stata una soluzione abbastanza trasgressiva da suscitare l'entusiasmo dei suoi amici.

"Buttare le cose nel prato".

"Perché no? Non abbiamo mica un..."

"Sì, invece".

"Non sai neanche cosa stavo per dire!" protestai.

"Un cane."

Sbuffai, infastidita. Non era giusto. Perché doveva vincere sempre lui? "Okay, lo sai" brontolai, raggiungendolo sulla soglia. "Ma rimane il fatto che non ce l'abbiamo".

Joshua rise e spalancò la porta. Una sorta di mostro a quattro zampe color crema corse verso di noi e, lasciandomi di stucco, spiccò un salto proprio di fronte a mio fratello, finendo per piazzargli poco delicatamente le zampe anteriori in mezzo al petto. "Ehi, bello!" lo salutò lui, accarezzandolo, una volta ripreso l'equilibrio.

"E quello che diavolo è?"

"Un cane".

"Un cane?!"

"Sai cos'è un cane?" mi prese in giro.

Gli diedi un pugno. "Certo che so cos'è un cane, idiota! Che diavolo ci fa qui?!"

"E' nostro, l'abbiamo preso poco dopo che sei partita" rispose con semplicità, riportando la bestia con le zampe per terra. 

"E'... vostro?"

Bè, ovviamente. Cosa mi aspettavo? Dovevano pur rimpiazzarmi in qualche modo!

"Pan, parlano cinese laggiù? Hai bisogno di riabituarti alla nostra lingua?"

Lo fulminai con lo sguardo, per poi puntare lo sguardo sospettoso sul grosso cane che mi stava annusando le ginocchia. Mi faceva il solletico. "Sei simpatico quasi quanto il nonno, te l'ha mai detto nessuno?"

"No, in effetti sei la prima. Considerato il tuo senso dell'umorismo il vecchio dev'essere un specie di comico".

"Ah, certo, senz'altro!" risposi, sarcastica. "Senti, puoi farlo smettere? Mi sta sbavando su tutta la gamba!" protestai, frapponendo la valigia tra me e la bestia. Non che non mi piacesse, era un bel cane, ma mi stava antipatico a priori, solo per il fatto che fosse stato acquistato appositamente per rimpiazzarmi. Nessuno me lo aveva detto esplicitamente, va bene, ma era palese! 

Joshua rise e spinse fuori il bestione con naturalezza. Questi corse in mezzo al prato e si mise tranquillamente a fare i bisognini davanti a noi. "CHE SCHIFO!" Scioccata, realizzai cosa avesse cercato di dirmi mio fratello poco prima, in un modo così chiaro che solo la Sfinge avrebbe potuto fare di meglio. "Ho lasciato la mia roba nel ...!" non riuscii nemmeno a concludere la frase, orripilata.

"Nel cesso del cane!" completà Josh, scoppiando a ridere come un perfetto idiota. 

Sbuffai sonoramente, scocciata, trascinando dentro le mie cose. "Felice di vederti, comunque" sibilai, irritata, mentre trascinavo i bagagli in direzione della mia camera. 

Erano bastati un paio di minuti con mio fratello a farmi saltare i nervi. Casa dolce casa!

Non mi ero ancora resa conto di essere di nuovo tra le mura tra cui ero cresciuta e mi sentivo già catapultata in un mondo che non era il mio. Sperdutolandia non era casa mia, quella da cui ero partita a inizio estate neppure. Il luogo in cui ero approdata questa volta sembrava addirittura più assurdo di quello che mi ero lasciata alle spalle prima di far saltare i nervi ai miei genitori, nonostante ad un primo sguardo paresse lo stesso. Qual'è il posto giusto per me?

Trascinai i bagagli su per le scale, senza che mio fratello si degnasse di darmi una mano, e entrai in camera mia.

La osservai a lungo: la scrivania ingombra, il letto fatto, gli scaffali pullulanti di libri. Il comodino era praticamente vuoto, vi era solo la lampada. Tutto quello che lo aveva occupato prima dell'estate era accuratamente riposto nel mio zainetto. Poi volsi lo sguardo verso la finestra e mi sentii come se mi mancasse l'aria. Ho le sbarre alle finestre, fu il mio primo stupido pensiero. Superato quell'attimo di confusione mi accorsi che non erano sbarre, ma un'impalcatura. "Josh" gridai, affacciandomi alla porta. "perché c'è l'impalcatura?"

"Stanno verniciando!" rispose, scocciato, nemmeno gli avessi appena chiesto di espormi chissà quale assurda legge fisica.

Ignorai la sua scortesia. "Oh" commentai, sentendomi stupida. Stavano verniciando la casa. Non me ne ero accorta prima solo perché avevano iniziato dal retro, dove la mia stanza di affacciava.

Mi sentivo soffocare, ancora. Forse era colpa delle sbarre di ferro che si frapponevano fra l'interno e l'esterno, mi dissi. Andai ad aprire la finestra, ma la situazione non migliorò. Mi sentivo ancora in trappola. Intrappolata tra i palazzi che circondavano casa mia, soffocata da quell'aria pesante, umida e inquinata che non ero più abitata a respirare.

"Be', non è iniziata benissimo, ma questa vacanza promette ancora bene" mi dissi, sottovoce. In realtà lo dicevo solo per autoconvincermi: era chiaramente iniziata da schifo e avevo la netta sensazione che non sarebbe migliorata presto. 

 

DubbiDomandeDelucidazioni:
(*)http://en.wikipedia.org/wiki/Anne_Hathaway_(Shakespeare) l'ho trovato solo su Wikipedia Inglese. Insomma, non è una notizia particolarmente importante, è lecito non saperlo. Io stessa l'ho scoperto solo il mese scorso, studiando Shakespeare. In sintesi 'Anne Hathaway' è la moglie di Shakespeare.

In der Ecke - Nell'angolo: 
Ciao a tutti! Sono tornata :D sempre in ritardo, ma meno della scorsa volta. ^^" Mi sono tolta quasi tutte le interrogazioni, ora dovrei essere piuttosto libera per un po'.^^
Non ho molto da dire se non che Pan è solo all'inizio della sua riscoperta del 'mondo da cui proviene'. 
Se avete domande da fare, come sempre potete rivolgermele tranquillamente. Inoltre, vi segnalo un paio di cose, giusto per rompere un po' le scatole, visto che è un po' che non lo facevo! xD
Allora, nella mia pagina su facebook ( 
https://www.facebook.com/pages/Yvaine0/201269919939034 ) c'è un album con le immagini -create con un sito opportunamente creditato nella descrizione dell'album- rappresentanti i volti di alcuni personaggi femminili. Per esempio ci sono Aggie e Pan, appartenenti a questa storia. In seguito ne aggiungerò altre, se ad alcuni di voi fa piacere seguirmi potrete farlo lì oppure aggiungendomi come YvaineZero Efp. :D 
Ok, ora basta perché inizio a sentirmi una operatrice telefonica. °-°
Vi ringrazio per essere giunti fino a qui, se avete voglia fatemi sapere cosa pensate del capitolo. ^^

  
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