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Autore: Daisy Pearl    23/01/2012    20 recensioni
Avete mai pensato che possa essere la cattiva la protagonista di una storia?
Marguerite non è nè santa nè dolce. Tutt'altro.
Lei sà giocare ad un gioco particolare, un gioco di sguardi ed è abituata a vincere.
Ma cosa potrebbe accadere se un paio di begli occhi verdi dovessero batterla per la prima volta in questo strano gioco?
Bè leggete e scopritelo!
Attenti agli sguardi!
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Gioco di...'
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GLANCES GAME -- GIOCO DI SGUARDI




CAP 1
 
Mia madre era una donna bellissima. Ricordo tutte le volte in cui verso le 8 di sera, dopo aver consumato un modestissimo pasto (non potevamo permettercene di migliori), si metteva davanti allo specchio in camera e non si muoveva da lì per almeno un’ora.
Ricordo quanto era aggraziata quando si sedeva su quella morbida sedia e fissando il suo riflesso sorrideva compiaciuta guardandosi da ogni angolazione.
Sapeva di essere bella, e pensava che questa era l’unica cosa che le importava e che le permetteva di vivere. Di solito dopo essersi contemplata per diversi minuti prendeva la spazzola color avorio e iniziava a spazzolarsi i lunghi capelli biondi, sorridendo radiosa alla sua immagine.  
Posava la spazzola con dolcezza sul tavolino di fronte a lei e passava all’acconciatura della sua chioma d’orata: a volte li attorcigliava in un magnifico scignon che le dava un’aria da gran donna di classe, altre faceva una coda alta e ancora li lasciava sciolti adornandoli con una serie di scintillanti mollettine. 
Dopo di che arrivava il momento del trucco : iniziava a cospargere il suo bellissimo viso di fondotinta e phard, poi si passava sotto agli occhi un filo di matita nera e  metteva l’ombretto scuro che faceva risaltare i suoi occhi azzurro cielo.
E poi, una volta conclusa l’opera, passava altri minuti a contemplarsi.
Era in quei momenti che provavo una ceca venerazione nei confronti della donna che mi aveva messa al mondo.
Infatti adoravo quando, guardandosi,  il suo sguardo si illuminava e tutto il suo viso sembrava sopraffatto da quel silenzioso scoppio di euforia e felicità. Penso che quell’ora davanti allo specchio era l’ora più bella della giornata per lei.
Io tutto quel tempo lo passavo seduta sul suo lettone, con una bambola di pezza in mano a fissarla con la bocca spalancata e vedendola come una meravigliosa principessa che presto avrebbe ritrovato il suo regno.
Poi però tutto cambiava, distoglieva lo sguardo dalla sua immagine e i suoi occhi sembravano riempirsi di nubi , il suo sguardo si faceva cupo e triste mentre lo  posava su di me.  
Ogni volta che accadeva desideravo che almeno una volta le si illuminasse il viso quando si rivolgeva a me, e invece rimaneva impassibile, io ero solo un piccolo peso nella sua vita o forse raramente arrivavo ad essere un giocattolino con cui passare il tempo, ma il più delle volte stava meglio senza di me. E io facevo di tutto per esserle utile per farle capire che l’adoravo.
Quando era triste mi avvicinavo a lei e le mettevo una manina sui capelli, poi lei mi guardava con gli occhi pieni di lacrime e mi diceva di andare in camera mia. Ed io povera piccola bimba delusa ,me ne andavo a piangere silenziosamente abbracciando la mia bambolina sperando che mi desse l’amore che mia madre continuava a negarmi.
Era solita uscire verso le dieci dopo essersi vestita in uno di quei suoi soliti modi buffi. L’abbigliamento che preferiva erano minigonne, calze a rete, tacchi vertiginosi e decolté da paura. Quanta era bella la mia mamma. Prima di andarsene mi diceva di andare a dormire e se ero fortunata mi dava un buffetto sulla testa.
Cosi io mi mettevo sotto le coperta per renderla orgogliosa di me, a quel punto usciva. Dopo 10 minuti mi alzavo dal letto, prendevo la mia inseparabile bambola e andavo in camera di mia madre.
Aprivo il suo armadio e, ridacchiando gioiosa, afferravo alcuni dei sui vestiti più strani: una sciarpa di pelliccia, una gonna corta che però a me arrivava fino ai piedi e i tacchi.
Dopo essermi vestita, o meglio, mentre navigavo in quegli abiti, mi mettevo davanti al suo specchio e cominciavo a guardarmi come faceva lei, mi spazzolavo, mi riguardavo, tentavo di truccarmi, ma ogni sera di più sembravo un clown, e lei la mattina vedendomi con quegli scarabocchi in faccia si arrabbiava dicendo che i trucchi costavano troppo per sprecarli in quel modo, e con tono severo aggiungeva che non dovevo farlo mai più. Io piangevo, ma poi ogni sera tornavo d’avanti a quello specchio e mi mettevo in faccia tutti i colori che trovavo. Poi mi ammiravo e mi sentivo anche io un po’ principessa e anche i miei occhi, nerissimi, si illuminavano.
Immaginavo palazzi, balli, fate come quelle delle fiabe che mi ero dovuta leggere da sola perché mia madre non aveva voglia di passare più tempo del necessario con me.
Il pomeriggio lo trascorreva sempre dalle sue amiche e chiedeva ad una vecchia signora che abitava sotto di noi di salire ogni tanto a darmi un’occhiata. Miss Doris si chiamava e mi adorava, letteralmente.
 Non so per quale ragione, ma mi riempiva di regali, mi portava i biscotti e il te alle 5 di pomeriggio.
Al contrario non le piaceva per niente la mamma e quando io tutta sognante le confessavo che da grande avrei voluto essere come lei, Doris esclamava “o santo cielo, spero che non accada mai” , ma non voleva mai spiegarmi il motivo di tale disprezzo.
Fu lei che mi insegnò a leggere, e fu lei una delle poche persone a cui sentii di dovere qualcosa.
Ce ne sarebbero state altre due: il signor Alan Black e Dave Sullivan.
Il giorno in cui incontrai per la prima volta Alan Black fu uno dei giorni peggiori della mia vita, ma si rivelò fondamentale per la mia esistenza.
Avevo 4 anni ed era una sera come tutte le altre, in cui guardavo quella splendida donna bionda ammirarsi nello specchio. Però quella sera era diversa.
Non si era vestita come al solito, cioè lasciando metà del corpo scoperto, ma indossava un semplice dolcevita azzurro che non ricordavo avesse e dei jeans. La guardavo perplessa.
Forse per la prima volta mia madre mi sorrise radiosa e sentì il bisogno di dare una spiegazione.
“Oggi è una serata speciale Mar, verrà qui un signore e voglio che tu faccia la brava per tutto il tempo e sai perché?” mi chiese quasi euforica. Scossi la testa.
“Perché verrà per propormi un affare che, secondo lui mi cambierà la vita. E io, Mar, non vedo l’ora che finalmente la mia vita cambi!” sorrise “Devi assolutamente stare in camera tua e fare la barava ok?”.
In quel momento qualcuno bussò alla porta.
 Lei sistemò i capelli e sembrò improvvisamente agitata, non avevo mai visto mia madre agitata.
Poi si rivolse nuovamente a me “Su, da brava, và in camera tua e non fiatare ok? Lui non sa che ho una figlia, mmm?”.
Pronunciai un debole “Si” e delusa dal fatto che la mamma non volesse condividere le sua vita con me,  andai in camera mia e chiusi la porta. Ma ero decisa ad ascoltare tutto.
La mia principessa aprì la porta e si sentirono dei passi pesanti che accompagnavano il dolce ticchettio degli inseparabili tacchi di mia madre. “Signor Black!” lo salutò gioiosa lei.
“Signorina Jones” rispose lui.
“Mi chiami jaqueline”.
“D’accordo jaqueline, come desidera” acconsentì lui.
“La potrei chiamare anche io col suo nome no? E potremmo darci del tu.” Attaccò lei allegramente.
“Non credo sia il caso, signorina, vede, io non sono il genere di cliente con il quale lei è abituata a trattare, e poi, francamente , penso proprio che io e lei dopo questa sera non ci rivedremo più, quindi non vedo che utilità abbia che ci diamo a meno del tu o se lei mi chiama o meno col mio nome.”
“ah” ribattè semplicemente la mamma, e potevo immaginare il suo sguardo incupirsi. Poi in lei si risvegliò un briciolo di orgoglio e replicò “Allora mi chiedo come mai lei abbia deciso di aiutarmi.”
Il suo tono era molto freddo.
“Primo, lei si deve rendere conto dell’importanza che avrà nella sua vita questa opportunità, secondo: io non sono né un angelo né un salvatore e quindi non si illuda che l’aiuto che le sto dando sia dettato dalla mia buonanima, io non faccio mai niente per niente. Allora signorina è disposta a stare alle mie condizioni?” chiese l’uomo con voce profonda.
“ Sisi, alla fine quel che chiede mi sembra giusto, lei mi sta offrendo un’opportunità e non vedo perché  non dovrebbe desiderare qualcos’altro, e penso…”
“Signorina Jaqueline” venne interrotta bruscamente mia madre.
Lei ammutolì, e io non resistetti alla tentazione di sbirciare al di la della porta della mia camera. La aprì dolcemente e posai l’occhio sulla piccola fessura.
Dalla posizione dove mi trovavo riuscivo a scorgere solamente le spalle dell’uomo. Aveva lunghi capelli neri crespi legati da una bassa coda  ed indossava una giacca nera.
Era parecchio più alto di mia madre ed era a dir poco enorme, non perché fosse grasso, ma perché  era imponente. Quell’uomo mi metteva in soggezione anche se non mi stava guardando, forse quella sensazione era dovuta al fatto che vedevo l’effetto che aveva sulla mamma.
Lei lo guardava dritto dritto negli occhi e sembrava essersi persa. Lo fissava con la bocca spalancata, probabilmente in un’altra occasione avrei riso nel vedere quella scena, ma non fu quella volta. Ero preoccupata, sentivo che quella non era una persona di cui potersi fidare.
La signora Doris mi diceva sempre che le persone che aiutano gli altri per il proprio tornaconto sono delle persone meschine e che è meglio diffidare da loro.
 E quell’uomo mi sembrava entrasse nella categoria. Intanto mia madre sembrava avesse ripreso il controllo delle proprie azioni, e desolata invitò l’uomo ad accomodarsi.
Una volta che entrambi furono seduti la conversazione riprese.
“Mi parli della sua proposta, non sto più nella pelle” attaccò mia madre mentre gli occhi riprendevano a brillare.
“Allora signorina, io le posso procurare 3 cosa per aiutarla: 10000€ per cominciare una nuova vita per iniziare. Di questa somma lei può farne quello che vuole; può comprarci i suoi costosissimi cosmetici, può prendersi una modesta macchina, potrebbe anche gettarli dalla finestra se vuole. Quello che lei farà con quei soldi non sarà affar mio, fa parte del contratto.”  Mia madre quasi cadde dalla sedia per la felicità “ Ommioddio grazie signor back, quei soldi saranno una fortuna per me!”
“Non mi ringrazi il bello deve ancora venire” aggiunse l’uomo.
La mamma incrociò le braccia sul petto e ancora radiosa esortò l’uomo  a continuare.
“Molto bene. Sono entusiasta che la mia prima offerta sia di vostro gradimento. La seconda cosa che posso offrirle è un lavoro onesto che le permetta di farsi un nome più che rispettabile, a differenza di quello attuale”. Sentendo queste parole la mamma si rabbuiò, ma l’uomo proseguì imperterrito.
“ Lavorerà in un call center, domani mattina sarà il suo primo giorno. Si metta una camicia ed una gonna lunga, non come una delle sue. Deve apparire come una donna rispettabile. Eviti di esagerare col trucco e non metta tacchi vertiginosi. Alle 8 puntuale in via del rame 84, basta che si presenti col suo nome. Le faranno firmare un paio di documenti per mettere in regola l’assunzione. Pensa di potercela fare?”
“Assolutamente si”  rispose sbarrando gli occhi.
 Notavo che era incredula, non pensava che tanta fortuna sarebbe arrivata tutta in un colpo solo, entrando così da una porta sotto le sembianze di Alan Black.
 E anche io, vedendo i suoi cambiamenti d’umore, iniziavo ad essere meno scettica nei confronti di quell’uomo che sembrava che fosse entrato nella nostra casa come per magia. Ero convinta che la nostra vita sarebbe cambiata. Sorrisi tra me e me.
 Forse la mamma avrebbe trovato il tempo di stare di più con me, sarebbe stata più serena, e finalmente avremmo avuto la nostra felicità. Iniziai a fantasticare sulle meravigliose favole che mi avrebbe raccontato, sui giochi che avremmo fatto.
Mi immaginavo che mi tenesse per mano e che mi accompagnasse a scuola quando avrei iniziato le elementari, e che le altre bimbe sarebbero state invidiose di una mamma bella come la mia.
Mentre ero persa nei miei fantastici pensieri l’uomo riprese il suo discorso.
“Nella terza e ultima cosa che posso offrirle è contenuta la mia ricompensa” .
la mamma lo guardò stupita. Come me si chiedeva cosa significasse.
“La priverò di un grande peso. Lei condurrà una vita stupenda e felice senza alcuna preoccupazione salvo che per se stessa. Forse un giorno vorrà rivedermi per ringraziarmi, ma io sarò molto lontano da qui. Le chiedo un piccolo sacrificio: mi dia sua figlia.”
Ci fu un lungo secondo di silenzio. Le parole di quell’uomo mi colpirono il cuore come una freccia. “Ma…ma come fa… lei come sa?” balbettò mia madre guardandosi intorno con agitazione.
 “ E poi come… come può chiedermi una cosa simile?” L’uomo rise. Una risata glaciale.
“Andiamo Jaqueline. Lei non ha mai prestato attenzione a sua figlia. Un figlio dovrebbe essere un dono e non un peso. Ma per lei la sua bambina è un peso, non è così?” La mamma lo fissava sbigottita.
Poi incontrò i suoi occhi e il suo sguardo si perse nuovamente. 
“E’ stata solo frutto del suo lavoro, non era né desiderata né voluta. Lei piuttosto che lasciarla per strada ha preferito tenerla con se, ma a volte se ne pente vero?” .
sempre fissando gli occhi dell’uomo mia madre annuì. Cosa stava facendo, mi chiesi disperata dentro di me.  Perché non mi voleva? Perché perché?
 “ Beh si fidi, con me sua figlia sarà al sicuro, farà grandi cose, e sicuramente diventerà più forte, sa, l’odio dei bambini farà si che il loro potere aumenti quando saranno adulti. Non sentirà più parlare di noi. Ma comunque le posso assicurare che questa è la scelta giusta. Non si sente già meglio? Come se un grosso macigno che si trovava sul suo petto le fosse appena stato rimosso.”
Lei annuì nuovamente.
“Bene!” esultò l’uomo. “Allora la chiami!”.
“Margherite!” chiamò mia madre, lo sguardo ancora vacuo mentre si perdeva negli occhi del signor Black. Tuttavia io non mi mossi.
Non riuscivo a capacitarmi che tutto quello stesse accadendo proprio a me.
Quella che all’inizio sembrava una benedizione si stava tramutando in un brutto incubo.
 Ero triste, delusa e amareggiata. Non pensavo che mia madre sarebbe stata capace di vendermi.
Sapevo che non mi adorava quanto la signora Doris, ma pensavo che almeno un po’ di bene me ne volesse, in fondo ero pur sempre sangue del suo sangue.
 A quanto pare era fin troppo egoista. Era una donna giovane, e aspirava a una vita migliore, cosa le sarebbe importato se io ne facevo parte o meno?
Le lacrime iniziarono a scorrere poco per volta sul mio visino da bambina, e ben presto furono così tante che non riuscì più a vedere oltre il velo di acqua salata che mi oscurava la vista. Piangevo silenziosamente, nel mio angolo nascosta dietro quella porta.
“Margherite…” chiamò di nuovo quella donna che non riuscivo più a vedere come la mia mamma, come la principessa dei miei sogni o come una donna da adorare.
Avevo solo 4 anni ma avevo già capito molto del mondo.
Quello in cui vivevo era un mondo spietato dove nessuno era disposto a fare del bene ad un’altra persona , era un luogo composto da gente egoista, e la cosa peggiore era che la mia principessa senza regno era la peggiore di tutti.
Nemmeno lei si salvava dalla rovina della terra. Mi feci coraggio, tirai su col naso e tentai di asciugarmi le lacrime con la maglietta, aprii la porta del tutto e, sentendomi arrivare il signor Black, si voltò, entusiasta di poter contemplare il suo ultimo acquisto, io.
Era un uomo davvero immenso, aveva dei lunghi capelli neri legati da una coda bassa che ricadeva sulla sua ampia nuca, portava degli occhiali con la montatura trasparente e aveva un po’ di barba sul viso, probabilmente non si radeva da qualche giorno.
Era un uomo molto elegante: portava una camicia bianca seminascosta dalla sua impeccabile giacca nera e dei pantaloni, anch’essi scuri.
Ma il particolare,di quell’uomo, mi colpirono gli occhi, meravigliosi occhi neri, cupi, che erano sicuramente bellissimi, ma anche un po’ inquietanti.
Quegli occhi puntarono immediatamente i miei del loro stesso colore.
Distolsi lo sguardo, lo posai sui miei piedi, sentivo che se non l’avessi fatto, mi sarei potuta perdere come era successo alla mamma, che continuava a fissarci con lo sguardo spento.
“Marguerite giusto?” chiese l’uomo rivolgendosi a me.
 Non risposi. Le lacrime iniziarono a scorre sul mio volto, ma non staccai gli occhi da terra. L’uomo, accorgendosi del mio dolore silenzioso, aggiunse “Coloro che ci feriscono e che ci fanno stare male, non meritano che noi versiamo nemmeno una lacrima per loro.”
Si avvicinò a me, si abbassò e mi tirò su il mento col le dita.
“capito?” chiese mentre io disperatamente cercavo di non incrociare il suo sguardo.
Accorgendosene mi bloccò il viso dolcemente e ribadì “ Hai capito piccola Mar?”.
I miei occhi erano completamente persi nei suoi, erano un tutt’uno e ogni cosa che lui diceva, anche se non potevo comprenderla fino in fondo, mi appariva sensata e giusta. Era sparita la tristezza e il dolore, sentivo davvero che non valeva la pena di piangere per quella donna.
La odiai. Non so se una bambina piccola come lo ero io avesse la capacità di odiare, ma provai un sentimento cosi forte contro mia madre che non poteva essere altro che odio.
“Questo è il mio più grande desiderio Mar. Io ho sofferto anche più di te, ma ho capito poi. Nessuno ci amerà mai, tanto vale che nemmeno noi amiamo! Vieni via con me, e sapremo eliminare l’egoismo delle persone, ci riscatteremo vedrai. Qualunque posto è migliore di questo”.
La cosa che mi sorprese di più fu che io davo perfettamente ragione a quell’uomo, certo era inquietante, ma anche a me voleva offrire un’opportunità come aveva fatto con mia madre.
 Lei continuava a fissarci e sembrava che non avesse sentito quello che il signor Black mi aveva appena detto.
Intanto quest’ultimo sorrise e si alzò.
 “Andiamo Mar” .
“La mia, la mia bambola…” mormorai. Volevo portarla con me, era tutto ciò che di più caro avevo.
Il signor Black rise rumorosamente, poi disse “Non ne avrai bisogno. E’ stupido legarsi alle persone, figuriamoci alle cose!” e continuò a ridere.
“Andiamo!” mi prese per mano. Ero sconvolta. Avevo distolto il mio sguardo dai suoi occhi, ma mi sentivo ugualmente stordita. La mamma si alzò e ci aprì la porta.
“Grazie signorina Jones” sorrise cordiale l’uomo.
“Grazie a lei signor Black”. Aspettò che fossimo usciti dalla casa e poi richiuse la porta alle nostre spalle. Non mi salutò. Mi sentivo come un automa.
 Mi facevo guidare da quello strano uomo che era piombato nella mia vita più veloce di un fulmine e più sconvolgente di un uragano. Era una forza della natura, non un essere umano, e io avevo paura. Mi fece salire sul sedile posteriore di un taxi e lui si accomodò di fianco a me.
“All’aereoporto, grazie” disse semplicemente.
Sfinita dalle troppe emozioni mi addormentai,  non avevo più le forze per pensare né quelle per lottare. Mi risvegliai un paio di volte mentre volavamo sfrecciando nel buio della notte verso una destinazione ignota.
L’ultima parte del nostro viaggio si concluse la mattina dopo su un altro taxi.
Non ci eravamo rivolti la parola per tutta la durata del tragitto.
L’auto si fermò dinnanzi ad una piccola casetta a due piani. Pensai che fossimo arrivati quindi feci per scendere, ma il signor Black mi fermò rivolgendomi le prima parole di tutto il viaggio “Scendo solo io.”
Fu quasi brusco. Sbuffai mentre per l’ennesima volta mi salivano le lacrime agli occhi e mi appollaiai sul sedile posteriore di quel taxi guardando fuori dal finestrino quello strano omone che si incamminava verso la porticina della piccola villetta.
Vidi che suonava ripetutamente, e dopo quelli che ormai dovevano essere 5 minuti buoni la porta si aprì. Apparve una signora che doveva avere all’incirca una sessantina d’anni a giudicare dal colore grigiastro dei suoi capelli e dalla camicia da notte che doveva senz’altro appartenere ad un altro secolo.
 Probabilmente la signora stava dormendo, dopotutto era pur sempre mattino presto. Infatti non appena vide il visitatore alla porta gli aveva rivolto uno sguardo assonnato, ma improvvisamente si ridestò come se conoscesse quell’uomo spregevole e si mise una mano davanti alla bocca per lo stupore. Una volta ripresa da quello che sembrava uno shock iniziò a sbraitare contro quell’uomo.
 Dalla mia postazione non riuscivo a sentire niente, ma quella strana scena mi incuriosiva. Dopo un po’ la donna sbuffò ed entrò in casa. Ritornò sull’uscio con un ragazzino alle calcagna.
Credetti di aver capito cosa stava facendo il signor Black, stavo comprando un altro bambino come me.
Il bimbo se ne stava dietro la signora aggrappandosi alla sua vestaglia e lei gli accarezzava amorevolmente la testa come per rassicurarlo.
Mi chiesi come poteva una donna così legata a quel bimbo sbarazzarsi di lui di lì a pochi minuti, ma ero convinta che il signor Black l’avrebbe ripagata in maniera più che soddisfacente, così come aveva fatto con quella donna che fino a qualche ora prima reputavo mia madre.
Mi salirono nuovamente le lacrime agli occhi mentre osservai come la signora faceva avanzare riluttante il bambino in direzione di quel mostro.
 Quest’ultimo intanto si era inginocchiato per guardare direttamente in faccia il piccolo, ma non appena i loro sguardi si incrociarono, il signor Black indietreggiò quasi spaventato e si rialzò in piedi, in tutta la sua altezza, girò le spalle al bimbo e alla signora e si incamminò verso il nostro taxi, mentre la donna lo guardava con un’espressione incredula dipinta sul volto.
Egli risalì in macchina e ripartimmo.
Mi voltai a guardarlo. Senza nemmeno farlo apposta incontrai il suo sguardo e lui sbarrò gli occhi quasi fosse sorpreso.
“Incredibile”  disse scuotendo la testa “Hai uno sguardo magnetico”, poi fece un sorriso quasi diabolico che mi gelò il sangue nelle vene e aggiunse “Bene, molto bene!” come se fosse soddisfatto di qualcosa che solo lui poteva capire.
Ben presto giungemmo ad un’enorme cancellata di rame. Scendemmo dalla macchina e vidi che dietro quel cancello si celava un giardino dalle dimensioni gigantesche, colmo di alberi cespugli e fiori. In lontananza si intravedeva una villa dalle dimensioni tali da rendere giustizia al parco che la precedeva.
Rimasi quasi abbagliata da tale visione. Il signor Black frugò nella tasca della sua giacca e ne estrasse una mazzo di chiavi d’orate.
Ne cercò una e, una volta trovatola, la infilò nella toppa del cancello, la girò, e quest’ultimo si apri di fronte a me.
L’uomo si rivolse verso di me, sorrise e disse “Benvenuta nella tua nuova casa, Margherite”.

   
 
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