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Autore: Anto1    12/03/2012    6 recensioni
Serventi è di nuovo in circolazione. La sua smania di sconfiggere Gabriel lo porta a fare un patto con un demone. Prima di combatterlo, però, il Gesuita dovrà fare i conti con qualcosa di altrettanto oscuro: il suo stesso potere.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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“Giada… Giadina… vieni, lascia che il tuo amico si prenda cura di te. Vieni, Giada, vieni!” era la voce di Ben. Così si faceva chiamare il suo amico, così le aveva detto di chiamarlo quando si erano conosciuti la prima volta, in quella stanza grigia e stretta. Era stato il suo unico amico quando si era trovata completamente sola, delusa dalla vita e dagli affetti. Prima, quella voce la spaventava; un male acuto si sprigionava per tutto il suo corpo, a sentire quel suono; si ritrovava ad urlare per scacciarla via, per scacciare via quella voce subdola e sensuale, attraente e dolorosa; si chiudeva in stanza per non rendere partecipi gli altri del suo malessere. Spesso, quella voce le trasmetteva potenti ed improvvisi sbalzi d’umore, che la invogliavano a ballare, saltare e a cantare senza sosta. Ma quella canzone era sempre la stessa, e ormai lei l’aveva imparata a memoria:

 Vieni, vieni, bella bimba,
vieni, vieni, verso me,
camminiamo verso l’onda scura
un mondo ameno ti si svelerà
finché lui non verrà
Guardando l’oscurità
Avverrà un prodigio
Basta aver fiducia
Resta con me
Il tuo dolore cesserà
E vivrai in eterno
La tua serenità
 Era una canzone che da molte settimane le frullava nel cervello, e che raggiungeva automatica le sue labbra; ma la voce che le pronunciava non era affatto la sua: era quella di Ben. Potente, virile, strana come se provenisse dal fondo di un pozzo scuro. Una voce e una canzone che la portavano in una stanza grigia, stretta e buia, dove non c’erano finestre e l’aria era ridotta al minimo. Ma lei lì non aveva nemmeno la necessità di respirare; non era come nella realtà, dove quando sentiva la voce di Ben, le si mozzava il respiro in gola, come se dovesse morire soffocata da un momento all’altro. No, lì no: Ben era lì, ed era l’unica cosa che contava. Durante le prime volte in cui era stata in quella stanza, si era sentita schiacciata da un terrore insostenibile, inspiegabile; perché Ben non era affatto brutto. Era tutto nero, sì, nero come la pece, e nudo. Ma aveva un fisico statuario; era alto forse due metri, e il suo corpo era scolpito e asciutto, robusto ed esile allo stesso tempo; aveva un viso d’angelo, dai lineamenti perfetti, e capelli lunghi, rossi e liscissimi. Però quegli occhi… quegli occhi erano bianchi, vuoti; occhi che vedevano tutto, perfino dentro la sua anima; occhi che sapevano qual era il suo potere, e volevano sfruttarlo. Col passare del tempo, si era abituata a guardarli, a farsi sondare l’anima, e lo aveva desiderato, aveva cominciato ad amarlo. Oggi Ben era più bello che mai, e le sorrideva dolcemente.

“Vieni a sederti sulle mie ginocchia” le aveva suggerito lui, facendole cenno.
Lei ebbe un attimo di esitazione; si lambiccò il cervello, cercando di fargli riprendere le sue funzioni cognitive, chiedendogli di aiutarla. Ma era da tempo che il suo cervello l’aveva abbandonata: da quando lui aveva cominciato a controllarlo. Poco ricordava della sua vita prima d’incontrare Ben. Aveva avuto una madre? Sì, forse la signora che le dava spesso da mangiare era sua madre, ma ne ricordava a stento il volto. Smise di lottare contro qualcosa che non poteva sconfiggere, e obbedì all’ordine.
Lentamente, si alzò dalla sedia sgangherata su cui si era seduta, e attraversò i pochi passi che la separavano da Ben. Si sedette su di lui: era ancora più bello visto da vicino: bello e spaventoso. Le braccia dell’uomo le cinsero la vita, forti, sicure e terribili; erano rassicuranti, erano protettive, e tuttavia erano una catena, una catena di morte, da cui lei non poteva né voleva staccarsi. Le labbra di lui si avvicinarono al suo orecchio; vi sussurrarono qualcosa: sul volto di Giada si dipinse un sorriso divertito, quasi diabolico. Stava diventando come lui.
“La prego, dottoressa Munari, la prego, venga immediatamente, appena può! Mia figlia oggi si è di nuovo comportata in modo strano!” disse concitata Lorena Bernardo.
“Che ha fatto, di preciso?” la voce della psicologa giunse calma dall’altro lato del telefono.
“Si è chiusa in camera tutto il giorno, e quando l’ho chiamata per il pranzo, non ha mangiato niente. Guardava il piatto come imbambolata, e cantava sempre la stessa canzone. La prego, venga… un momento!”
Aveva sentito la porta della camera di sua figlia cigolare, e passi strascicati che si avvicinavano al soggiorno, dove era lei ora; pochi secondi dopo, Lorena se la ritrovò davanti, e dovette reprimere un grido: non era la sua Giada! Che le era successo in capo a tre ore che non l’aveva vista? Sembrava ancora più dimagrita, come se non avesse mangiato per giorni; il viso bianco; i capelli arruffati avevano perso tutta la loro nera lucentezza; gli occhi erano vacui, inespressivi, spenti.
“Giada, amore, che cosa…”
Un brivido percorse la sua schiena, quando Giada parlò con una voce roca e brusca, una voce che pareva venisse dall’inferno. Un suono così orrendo da fare accapponare la pelle, e che ora stava formulando quella stessa, odiosa canzone.

Vieni, vieni, bella bimba,
vieni, vieni, verso me,
camminiamo verso l’onda scura
un mondo ameno ti si svelerà
finché lui non verrà
Guardando l’oscurità
Avverrà un prodigio
Basta aver fiducia
Resta con me
Il tuo dolore cesserà
E vivrai in eterno
La tua serenità

“Stai chiamando Claudia Munari, donna?” chiese, con quella stessa voce.
Sua madre si sentì mancare, ma, benché terrorizzata, riprese subito il controllo, quello che bastava per fare un cenno di risposta con la testa.
Giada sorrise “e allora dille di portare anche Gabriel Antinori, lei capirà
Guardando l’oscurità
Avverrà un prodigio
Basta aver fiducia
Resta con me
Il tuo dolore cesserà
Evivrai in eterno
La tua serenità”

Gabriel era alla Congregazione, e stava preparandosi per una riunione che avrebbe avuto luogo mezz’ora dopo. Era appena arrivato, grondante di sudore per il caldo soffocante; si tolse il giubbino di pelle e lo gettò sulla sua poltrona, con noncuranza. Guardò i fascicoli che gli avevano dato da leggere per quel giorno: niente d’interessante, se per interessante si dovrebbe chiamare un dibattito sul rapporto che il Cristianesimo aveva avuto nel corso dei secoli con le altre religioni.
“Un rapporto basato sulla reciproca intolleranza. Spero non parlino solo di questo alla riunione, altrimenti avrò sprecato tre ore della mia vita.” Pensò, con un sorriso amaro.
In realtà, era da molto tempo che pensava di stare sprecando la sua vita: da quando, mesi fa, l’aveva spietatamente lasciata, da quando lei gli aveva detto di non cercarla più. Ma era andato avanti, non l’aveva più pensata per non farsi ancora più male; si era fiondato sul lavoro per dimenticarla, e lo aveva fatto egregiamente. O almeno, così credeva. Ma che cosa stava facendo, stava pensando a Claudia?! No, non andava bene, doveva concentrarsi, doveva leggere… ma lo squillo del suo telefono contribuì a distrarlo. Rispose alla chiamata, atono e disinteressato; per poi ricevere come un pugno nello stomaco, nel sentire quella voce, quella voce, cara, dolce, e tuttavia preoccupata.
“Pronto, Gabriel? Sono… sono Claudia.” Come se avesse avuto bisogno di specificarlo; avrebbe riconosciuto la sua voce fra mille.
“Claudia, che sorpresa! Come stai?” dall’altro lato del telefono, Claudia sentì un brivido: la sua voce calda e affettuosa era più di quanto potesse sopportare. Deglutì, facendosi forza: doveva andare avanti.
“Gabriel, ho bisogno del tuo aiuto. La madre di una mia paziente è preoccupata per sua figlia. La ragazza si comporta in modo strano, non mangia più, non esce, molto spesso canta e fa movimenti strani, l’ho constatato io stessa. C’è dell’altro: oggi la ragazza ha chiesto esplicitamente di te. Dobbiamo andare a vedere che cosa le è successo.”
“S… sì, ci vediamo a casa tua? Così andiamo insieme!”
Silenzio. Claudia considerò la proposta. Non poteva farlo, non poteva averla lasciata, non cercarla per mesi e poi chiederle questo, così, come se tra loro non fosse successo niente, come se non ci fosse stato niente di speciale, come se avesse voluto negare di averla baciata, di averla desiderata, una volta. La stava ancora pensando?
“Va bene, ci vediamo a casa mia fra mezz’ora.” Riagganciò subito, per non sentire ancora di più quella voce amata che ora le trafiggeva il petto come la lama di un pugnale.
“Claudia!” urlò lui, disperato. Voleva dirle di più di quelle semplici e distanti parole. Avrebbe voluto dirle che la sua figura occupava ancora i suoi sogni; che aveva fatto più volte l’amore con lei nella sua mente, sentendola sua come se fosse davvero successo; che l’aveva sentita ansimare sotto di sé, e muoversi disperata sul suo corpo per avere di più; che aveva sussurrato di amarla mentre lei gli denudava il petto, baciando la sua pelle.
“Claudia…” si ritrovò a baciare quel cellulare, quel cellulare attraverso cui aveva sentito la sua voce, immaginando di baciare quell’orecchio che era stato appoggiato sulla cornetta fino a poco tempo fa, di baciare quelle labbra che avevano emesso una voce così dolce, e quella mano che aveva retto l’apparecchio.
“Gabriel, stai bene?”
Si voltò di scatto, imbarazzato. Isaia era sulla porta, e lo stava fissando con sguardo enigmatico, come se lo vedesse per la prima volta.
“Io… il cellulare è nuovo!” fossero state altre circostanze, avrebbe riso per quella battuta stupida, ma ora non c’era tempo: si rimise il giubbotto di pelle e si preparò ad uscire.
“Che stai facendo? La riunione inizia tra dieci minuti!” esclamò Isaia, sconvolto.
“Sostituiscimi, devo andare con urgenza all’Università.”
E, meravigliato di sé stesso per aver mentito, perché quella donna l’aveva spinto a mentire, perché l’amore lo stava cambiando, si precipitò fuori da quella stanza, giù per le scale, fuori da quella Congregazione che ormai era diventata un’insopportabile prigione, sussurrando il nome di Claudia ad ogni passo. L’avrebbe finalmente rivista!
 “Amore mio, sto arrivando, aspettami!”


 

 Volevo dirvi due cose: scusate se forse nel primo capitolo ho sbagliato il nome di Serventi, ma non mi ricordo come si chiama quella mummia ambulante; secondo, qualcuno mi dice come si può cambiare il genere della fan fiction? Vi spiego: questa non è solo introspettiva, ma è pure romantica e altro, ma non so come mettere più di un genere, e ci ho provato tante volte. Grazie! Spero che questo capitolo non vi abbia annoiata. P.S.: sì, Giada è la ragazza che era in "Amore e Psiche", mi è piaciuto il personaggio e ho deciso di darle più spazio in un'altra storia. Anto1.
 

  
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