Bloody
Rose
Capitolo
Tre
Disagio: è questo ciò che prova Hanabi mentre
percorre con gli occhi il lungo sentiero sterrato che supera gli
imponenti cancelli della tenuta, per poi sparire fra un albero e
l’altro, odiosa via di fuga per chiunque.
Quel sentiero, lo sa, è stato percorso mesi prima dalla
sorella e dall’amante.
Cerca di immaginare la scena, la gioia che Hinata deve aver provato, ma
quando si azzarda a visualizzare il volto di Minato non può
nutrire che rabbia, e allora il volto svanisce, si disperde nella sua
mente diventando vapore giallo e azzurro, pronto a dissolversi del
tutto.
Le dà la
nausea.
Afferra con le mani due lembi dell’abito che indossa e
solleva la gonna da terra, attenta a non sporcarla, pronta a tornare
fra le mura della tenuta tanto odiata.
Cammina, cammina, e poi solo pensieri confusi, calcoli insensati, due
nomi che da ben una settimana le vorticano nella mente accompagnati da
problemi di altra natura, futili fastidi di cui vuole fare a meno
almeno per quel giorno.
Ino le apre celere la porta senza proferir parola; quando fa il suo
ingresso nel salone, scorge subito l’elegante figura del
proprio cugino, Neji, intento a conversare amabilmente con un altro
ospite.
Sabaku no Gaara era tornato a far loro visita la mattina precedente,
quando Neji aveva avuto la straordinaria idea di rallegrarla con un
po’ di compagnia – come se la presenza di un uomo
simile potesse distoglierla dal pensiero della sorella.
Hanabi sospira teatralmente, rivelando ai due gentiluomini la propria
presenza.
«Cugina, vedo che non hai perso tempo,» osserva
Neji, spostando gli occhi su di lei, un braccio poggiato su un
bracciolo della poltrona su cui è seduto, l’altro
intento a reggere un bicchiere di quello che agli occhi di Hanabi
sembra brandy, «hai trovato piacevole la
passeggiata?»
Orribile.
«Sì, è stata deliziosa. Avevo bisogno
di respirare un po’.»
Neji annuisce, soddisfatto. «Ormai l’autunno
è alle porte. Meglio godersi quel poco sole che rimane prima
di prepararsi ai mesi freddi.»
Non ti preoccupare,
cugino. In questa casa c’è talmente tanto freddo
che non ho bisogno di prepararmi a nulla: anni di gelo mi hanno resa
immune a siffatte sciocchezze.
Hanabi nota ogni cosa, nulla le sfugge, sicché volge lo
sguardo verso il nobile Gaara, che fa ondeggiare ritmicamente il
liquore nel proprio bicchiere, come ipnotizzato dal suo infrangersi
contro quelle pareti di fine vetro.
Non è riuscita a parlare granché con lui, ma
Hanabi si è fatta un’idea piuttosto distaccata del
carattere messo in bella mostra in quei pochi giorni e in quelle
rarissime volte in cui c’era stato qualche scambio, il
necessario per far felice Neji, una bella messinscena d’una
normalità inesistente.
Un uomo tranquillo, senza pretese – comune ma al tempo stesso
infinitamente distante dall’essere solo quello e
nient’altro.
Hinata sarebbe stata
più in sintonia con Gaara di quanto non sia io.
Qualcuno bussa alla porta.
Hanabi leva lo sguardo, spalanca le palpebre: gli occhi scuri di Sai,
che si posano fin da subito su di lei; un lieve imbarazzo, una
consapevolezza improvvisa. Tutto è dettato dal rapporto
conflittuale nato fra di loro in quei due mesi, tutto la spinge a
spostare la propria attenzione dove ritiene più opportuno.
Quei due mesi, piena estate, la mancanza della sorella, la rabbia.
Avverte una fitta, Hanabi, come di rimpianto, come se le proprie azioni
non fossero state del tutto sbagliate; ciò nonostante, evita
di far riemergere i ricordi, perché non sentirsi in colpa
è l’ultima cosa che le serve.
Allora prende un respiro profondo e attende che lui parli.
Una riverenza e la
sua
voce che riempie il silenzio.
«Vorrei scusarmi per l’interruzione, ma ho bisogno
urgente di parlare con voi, Lady Hanabi. Vostro padre mi ha ordinato di
riferirle novità importanti.»
Come sempre,
pensa la Hyuuga, muovendo qualche passo verso la porta, quasi
impettita, con un fremito di rabbia a incendiarle lo sguardo lilla
– e mentre si fa vicina al servo di suo padre, Hanabi non
bada al cugino, né a Gaara, ma punta solo a Sai, decisa a
uscire e superarlo.
Decisa a capire cosa accadrà da quel momento in avanti.
La porta si chiude di nuovo.
Questa volta la luce che illumina il lungo corridoio è
tenue, inquieta, fa da sfondo a una conversazione che non
piacerà né a lei, né a Sai.
Anche se lui, in fondo, non prova niente.
Anche se lui, in fondo, sa che non è affatto così.
«Riesco a percepire il vostro rancore» esordisce
Sai, prima che lei possa dire alcunché. «Ma
suppongo che gli ordini di vostro padre annienteranno le vostre
speranze di stare alla larga da me.»
Belle parole, le sue –
così irritanti.
«Credo di non afferrare dove vuoi andare a parare.»
«Immagino che non vogliate capire, ma fa lo stesso»
Sai va verso la parete e picchietta un dito contro il muro ingrigito
dagli anni, per poi voltarsi e posarvi la schiena. Dal suo sguardo non
scaturisce nulla, sebbene Hanabi abbia la sensazione che quella sia
solo una facciata, l’ennesima. «Dopo la fuga di
vostra sorella con il duca Namikaze, vostro padre ha tentato in ogni
modo di nascondere alla società l’imbarazzante
avvenimento. Nessuno immagina – come potrebbero?
D’altronde, le figlie del conte Hyuuga non sono mai state,
nemmeno in passato, amanti della città; e Londra
è sempre stata una meta occasionale, nulla
più.»
«A questo punto, tuttavia, scansare inviti a balli, cerimonie
e ricevimenti di dubbio gusto si è rivelato un problema non
trascurabile. Il conte si vede oramai costretto a farvi partecipare
voi senza Lady Hinata, sperando che i nobiluomini e le
nobildonne di Londra o di qualunque posto ove vi recherete non facciano
caso alla sua assenza.»
«Come se gliene fosse mai importato qualcosa»
bofonchia Hanabi.
«La sua incredibile abilità nel nascondersi ai
balli per non conversare con nessuno è un vantaggio che non
possiamo sottovalutare,» considera Sai, una nota
d’ilarità nella voce, «vostro padre ha
pensato a tutto. Questa strategia presuppone che parliate amabilmente
con chiunque chieda di Lady Hinata, ma esige un controllo su quel che
avrete l’ardire di raccontare.»
«Che cosa vuoi dire?»
Sai sorride, si sistema accuratamente la giacca. «Forse ci
sto girando troppo attorno? Eppure avrei giurato che sareste arrivata
alle vostre conclusioni prima che io potessi finire di esporvi il
piano.»
«State insultando la mia intelligenza?» un violento
rossore assale le guance di Hanabi.
«No, tutt’altro: la elogiavo, ma temo che il
messaggio non vi sia giunto come avrebbe dovuto. Per farla breve e non
prendervi in giro, mi è stato affidato il compito di
scortarvi in ogni vostra uscita.»
L’orrore scaturito dal viso della ragazza deve essere
così palese che, appena un attimo dopo, Sai scoppia a ridere
sguaiatamente, fregandosene dell’offesa recatale con un tale
atteggiamento.
«Non osare ridere!»
«Dovreste vedere la vostra faccia, Lady Hanabi, capireste
perché mi è impossibile contenermi»
risponde Sai, scuotendo il capo.
Rancore e disagio sono sentimenti di cui Hanabi cerca di sbarazzarsi
immediatamente, senza intravedere risultati; il sorriso che danza sulle
labbra del ragazzo le impedisce anche solo di pensare a qualcosa di
abbastanza tranquillo da riportarla alla normalità, fredda e
impassibile come ogni Hyuuga dovrebbe essere.
Ma uno Hyuuga così non è forse troppo freddo,
troppo
vuoto?
Uno Hyuuga, in effetti, è ciò che Hanabi non
vuole più essere, ma
desiderare
allontanarsi è facile, accontentare un
capriccio è fare una strada perennemente in salita.
«C’è qualcosa nel modo in cui mi
guardate, Lady…
dove
state andando?»
Girare i tacchi e fuggire.
O almeno tentare sapendo che Sai la seguirà da lì
a poco, continuando a deriderla, schernirla, senza che lei possa dire o
fare qualcosa per impedirlo, complice l’enorme confusione che
le annebbia sgradevole la mente.
Passi affrettati.
Così
prevedibile.
«State scappando da me, per caso?»
«Affatto!»
«Allora potreste anche fermarvi e sentire ciò che
ho da dire» dichiara Sai inseguendola.
Hanabi lo ignora e prosegue spedita, evitando di lanciare occhiate
dietro di sé.
Al termine del corridoio li attende l’ampio salone
d’ingresso, dove un paio di guardie sorvegliano
l’enorme portone perfettamente immobili, imitazioni di statue
dalla dubbia utilità.
Dalla precipitosa fuga di Hinata con Minato Namikaze, il padre aveva
aumentato prontamente la sorveglianza, posizionando alcune guardie a
ogni ingresso della maestosa tenuta.
Fin dal primo momento in cui le aveva viste, mesi addietro, Hanabi si
era chiesta a che diavolo servissero, e ora che è
lì, decisa a liberarsi di Sai, non può che porsi
la stessa, identica domanda.
Non ci sono stati altri
omicidi, pensa fra sé e sé,
e non credo che il duca abbia
intenzione di tornare qui, quindi perché
sorvegliare chiunque entri ed esca dalla tenuta?
«Trovo ammirevole la velocità con cui vi muovete
malgrado le vesti che indossate, Lady Hanabi, ma gradirei poter
concludere la nostra conversazione
da fermi.»
La voce di Sai le giunge pacata, sebbene in essa vi sia una punta di
esasperazione non indifferente.
Hanabi si ferma col fiatone fra le due guardie a cui quel giorno
è affidata la sorveglianza; mettendo da parte ogni altro
pensiero non inerente la propria fuga, e scoccando
un’occhiata all’immenso portone
d’ingresso con espressione disperata, decide di provare a
fregare quell’insolente spia di Sai.
Poggia le mani sul chiavistello e lo solleva con forza.
«Avete intenzione di uscire?»
Hanabi si volta e abbozza un sorriso – non
c’è nulla di buono nella soddisfazione che le
piega le labbra, ma Sai non ha il tempo né la voglia di star
lì a chiedersi cosa passi per la testa della ragazza.
«Sentite, voglio solo informarvi delle intenzioni di vostro
padre, non mi sembra di aver da dire null’altro che
questo» insiste poi, guardando da lei al portone che si
schiude lentamente, permettendo a un raggio di luce di penetrare nel
salone semi deserto.
«Non ho la benché minima voglia di
ascoltare» dice Hanabi, spingendo nuovamente il portale, che
si spalanca abbastanza da consentirle di fare un passo fuori.
«Se vorrò udire altro, consulterò mio
padre. E ora lasciami stare.»
Le ultime parole sono pregne d’irritazione
tutt’altro che trattenuta, caricata quanto basta a lasciare
interdetto Sai, che s’immobilizza per una frazione di
secondo, il necessario perché la nobile lo noti.
«Che c’è? Sono riuscita a scoraggiarti,
forse?»
Una risatina soffocata: una delle guardie tradisce il divertimento per
così poco, meritandosi uno sguardo freddo da Sai e la
benevolenza istantanea di Hanabi – o almeno così
sembra, data l’espressione soddisfatta impressa sul suo volto
orgoglioso.
Avevo detto a Naruto che
sarebbe stato facile contenerla, che non mi avrebbe mai dato problemi, pensa
la spia,
sentendosi
preso in giro, ma a quanto pare ho fatto male i miei calcoli. Peccato.
Fa per muoversi, prendendo in considerazione l’idea di
attaccare al muro quella donna impudente, ma l’ennesimo
ostacolo gli si para di fronte sotto la forma di un ordine perentorio.
E, per l’ennesima volta, non può agire come
vorrebbe.
«Vi ordino di non lasciarlo passare. È mio volere
fare una passeggiata
da
sola, senza disturbi di alcun genere!»
«Vuoi muoverti
adesso?»
Sasuke è scettico, ma come dargli torto?
Naruto non è tipo da dare ragione all’amico, ha
passato anni interi a battagliare con lui su qualunque argomento
possibile con l’unico intento di ottenere ragione –
sport, politica, donne, nobiltà, ogni tema è
stato motivo di scontro fin dall’adolescenza
– ma ora non può non pensare che
sì, Sasuke ha ragione, diamine, è troppo presto
per agire.
È un passo falso che potrebbe mettere tutti in pericolo.
«Senti, so bene che è irragionevole»
sbuffa, grattandosi nervosamente la nuca. «Portare Hinata a
Londra con tutto quello che sta avvenendo… con tutte quelle
spie pronte a ucciderci pur di ricondurla dal conte –
ma non posso aspettare oltre.»
Non ha imparato niente.
Perché va bene concordare su una cosa, ma agire come vuole
Sasuke è impossibile per Naruto.
E dunque uno sbuffo – Naruto ha smesso di contarli da quando
ha messo piede nella tenuta dell’Uchiha – e un
rimprovero fatto di mutismo, giacché Sasuke è un
esperto di minacce silenziose.
«Non ti fermerò. Tanto è inutile
parlare con te, preferisci metterci tutti nei guai.»
«Chi mette nei guai chi?»
Sakura entra nel salone in cui stanno conversando, al seguito la sua
cameriera personale, una ragazza dall’espressione piuttosto
allegra con cui Naruto non ho mai avuto occasione di parlare.
«Ma no, Sakura… stavamo discorrendo
della situazione…»
La voce di Naruto si spegne, mentre il cervello cerca di elaborare una
risposta plausibile; non vuole rendere partecipe la donna della propria
avventatezza, sa bene che questo farebbe infuriare Sasuke.
In quei giorni di tensione e frenetici preparativi, entrambi avevano
provato a tenere Sakura all’oscuro di tutto, conversando solo
quando necessario e lontano da orecchie indiscrete; ciò
però non sembrava aver tenuto fuori la donna, che ogni
giorno per ben due mesi aveva lanciato loro occhiate interrogative ed
estremamente sospettose.
Perché Sakura stupida non è mai stata.
«Piuttosto, Hinata dov’è?»
borbotta infine Naruto, deciso a distogliere Sakura dalla loro
conversazione e da quei dubbi che le attraversano il viso, lievi eppure
ben visibili persino a un tipo poco sveglio come lui.
«Hinata? Oh, è nelle sue stanze. Credo stia
sistemando alcuni dei vestiti che le hai comperato. Era molto sorpresa
quando le ho detto che erano in arrivo altri abiti.»
«Sperando siano di suo gradimento.»
«Lo sono, fidati,» ride Sakura, scuotendo il capo,
«anche se in verità accetterebbe qualsiasi regalo,
l’importante è che sia da parte tua.»
Naruto arrossisce vagamente, cercando tuttavia di dissimulare
l’imbarazzo con un forzatissimo colpo di tosse.
«Beh, visto come stanno le cose… credo che
andrò a sincerarmi di persona che sia tutto di suo
gusto.»
Fa finta di non notare il puro ribrezzo insito negli occhi di Sasuke
quando si alza dalla poltrona, consapevole che la loro discussione non
è ancora finita, anzi, probabilmente è appena
iniziata; le iniziative suicide non sono mai piaciute
all’Uchiha, che ora si vede persino costretto a tacere per
via di Sakura, di cui non è mai stato in balia, ma che per
uno strano scherzo del destino pare esercitare una sorta di dominio
dovuto alla gravidanza imminente, indi per cui non può che
limitarsi a guardare Naruto mentre si avvia verso la porta scappando.
Perché sì, Naruto ne è consapevole:
sta scappando da una violenta discussione solo grazie a Sakura.
Non può trattenere un sorriso a quel pensiero.
Imbocca un corridoio pieno di porte e stanze deserte, luoghi vuoti che
non hanno mai ospitato nessuno e che presto si riempiranno di bambini
urlanti dai capelli rosa e gli occhi verdi – o magari neri, e
saranno antipatici come Sasuke, copie esatte che tormenteranno i suoi
figli dalla mattina alla sera, prendendoli in giro.
Naruto si blocca in mezzo al corridoio, interdetto.
Figli.
Sta già… no, non sta pensando di avere dei figli
suoi, non è possibile.
Oppure, ormai pienamente conscio dei propri sentimenti per Hinata, ha
già iniziato – seppur involontariamente
– a progettare di avere una famiglia, una casa tutta per
loro, e addirittura dei pargoli, perché pienamente
cosciente che lei diverrà sua moglie?
Progettare simili eventi senza neppure averle chiesto la mano.
A ben pensarci, però, ha progettato ben altro senza porsi
problemi di sorta, quindi perché fermarsi lì?
Riprende a camminare con la testa ingombra dai più disparati
pensieri, su cui tuttavia l’ultimo prevale, poiché
intimo e caldo – ben più di quanto avrebbe potuto
immaginare – tanto da spingerlo a pensare che
sciacquarsi il viso possa servire a calmare i bollenti spiriti.
Cristo, cosa mi prende
ora?
Giunge alla stanza di Hinata dopo non pochi minuti, passati a sbattere
mentalmente la testa al muro e a rallentare il passo per far
sì che il corpo torni innocuo e incontaminato da desideri
che non può soddisfare.
Si schiarisce la voce e abbassa la maniglia, aprendo lentamente la
porta.
Il suo primo pensiero è che avrebbe dovuto bussare.
Hinata gli dà le spalle, ferma davanti all’alto
specchio posto in un angolo ben illuminato dall’enorme
finestra che occupa la parete alla sua destra, un paesaggio gradevole
di campagna a colorare la vista.
Ma non è quello che monopolizza la sua attenzione.
Hinata si sta infilando uno degli abiti che le ha regalato senza la
biancheria, che giace in un angolo del letto, abbandonata come nulla
fosse.
Naruto geme interiormente e le osserva le spalle nude, la schiena
liscia e candida, cosparsa qua e là di piccoli nei appena
visibili; lo sguardo scivola sui fianchi morbidi e sinuosi in parte
nascosti dalla stoffa di raso azzurro dell’abito, che cela
alla sua vista quel che viene dopo, privandolo di una visione
senz’altro gradevole.
La ragazza non si è accorta di lui: sta fissando qualcosa
nel proprio riflesso sullo specchio – qualcosa che
lui non riesce a vedere – così pensierosa da non
notare nemmeno il suo, di riflesso, immobile sulla porta, incapace di
staccarle gli occhi di dosso e con il cuore che batte a mille.
Poi un calore diffuso attraversa le guance del duca, accompagnato da un
altro, troppo intimo, troppo inopportuno – eppure sentirlo
tale gli sembra sbagliato, un insulto quasi.
Perché trovarla bella, desiderarla a dismisura…
quello no, non può essere sbagliato, non ci può
essere vergogna alcuna nell’amare non solo il suo
spirito, ma anche il suo corpo, e di conseguenza dar vita a istinti
naturali, dirette conseguenze di una passione che cresce giorno dopo
giorno.
Quella pelle scoperta, la pelle candida.
La vuole toccare
– farle capire quanto male gli fa non poterla
sfiorare con le dita, saggiare la morbidezza della sua pelle.
Sussultare, voltarsi di scatto.
Non spostarsi, il corpo preda di una febbre incurabile.
«Hinata?»
Un rumore – un soprassalire lieve che distrugge la
contemplazione – e lei che si volta, probabile preda di un
imbarazzo crescente, una vergogna che verrà taciuta quando
si sarà vestita, tornando innocente
com’è sempre stata.
«Scusa, avrei dovuto bussare» si affretta a dire
Naruto, abbassando il capo.
«Non… non importa. Non ti devi scusare.»
Di certo,
pensa Naruto, consapevole,
non
percepisco le mie scuse come veritiere. Non posso pentirmi. Io
voglio…
Respira a stento, emettendo un rantolio che non può
contenere la tempesta emotiva che ha dentro di sé, il
segnale che il suo corpo è sveglio e attende
l’evolversi della situazione.
Per la prima volta Naruto comprende ciò che deve fare
– anche a costo di risultare sfacciato, arrogante, persino
pretenzioso agli occhi di Hinata.
Così fa un giro su se stesso, non provando nemmeno vergogna
nel guardarla e nell’essere guardato con lo stupore che ci si
aspetta da chi viene colto alla sprovvista dalla violazione di una
intimità che Naruto vuole approfondire a ogni costo.
Hinata ha impresso disorientamento nelle labbra appena dischiuse e
negli occhi lilla inevitabilmente spalancati. Le mani invece sono
impegnate a tirare su l’abito, quanto basta per coprire i
seni, di cui si riescono a intravedere giusto le rotondità.
«Naruto, cosa…»
«Se devo essere onesto, ero venuto qui per chiederti se gli
abiti che ti ho portato ti piacessero,» la interrompe il
duca, una sicurezza che cresce man mano che le parole scorrono, veloci
«, ma credo che il mio intento sia cambiato per strada.
Mentre venivo qui ho iniziato a… fare pensieri che sarebbe
lecito non comunicarti, pensieri adatti al calore che ci ha
accompagnati durante l’estate; niente che abbia a che vedere
col tiepido arrivo dell’autunno.»
Una mano passa avida fra i capelli, il battito del cuore non dissimile
da un tamburo che suona ritmicamente una ballata immaginaria e
contorta, la creazione di un limite già superato.
Hinata, immobilizzata da uno sbigottimento crescente, sembra aver perso
la facoltà di respirare.
Pende dalle sue labbra, incapace di opporsi.
«Ero certo di aver represso tutto prima di entrare, ma temo
che la vista parziale del tuo corpo nudo abbia mandato tutto in malora.
Mi è difficile staccarti gli occhi di dosso, ora.
Non… non desidero fare altro. Guardarti ancora, nuda, di
fronte a me.»
L’ennesimo sospiro – ma non è di Naruto,
stavolta.
Hinata si mordicchia il labbro, abbassa lo sguardo.
«Sono sempre stato bravo a trattenermi. Per rispetto verso di
te. Provare rispetto verso una donna come te è la cosa
più bella che mi sia mai capitata,» mormora
Naruto, studiandosi una mano, aperta e vibrante di azioni incompiute,
gesti trattenuti, «rispetto a ciò che mi
è stato insegnato, questo è un paradiso
confortante che mi migliora ogni giorno di più – o
meglio ho questa sensazione, non pretendo di essere un uomo privo di
peccati, non lo sono mai stato, lo sai. Credo di avertelo ripetuto fino
allo sfinimento per ricordarlo persino a me stesso. Perciò
mi limito a esporti questa mia sincerità. Non sono in grado
di nasconderti nulla che tu non percepisca già.»
Un movimento del capo di Hinata simile al consenso, poi i suoi occhi
tornano a guardarlo.
Vi è una sottile consapevolezza, in quello sguardo.
Imbarazzo, tensione, una mente che elabora in fretta parole che
attendono di avere un suono e di essere udite per la prima volta.
Ciò nonostante, lei continua a tacere, limitandosi a muovere
alcuni passi verso Naruto, l’attesa di una risposta divenuta
un tormento dagli occhi lilla e un’innata bravura nel celare
le proprie intenzioni.
Quando ormai gli è davanti, troppi pochi centimetri a
dividerli, Hinata allunga una mano e gli sfiora un braccio con le dita,
finendo però per passare oltre, andando a catturare la
maniglia della porta.
Resosi conto del gesto, Naruto s’irrigidisce, un nodo alla
gola che sa di tensione.
Tira la porta verso di loro, Hinata, e nel farlo poggia il proprio
corpo contro il suo, rimanendogli premuta contro finché la
porta non si chiude con un
clic
che mozza il fiato a Naruto.
Quiete –
solo
due respiri che si mandano messaggi l’un l’altro
per colmare il millesimo vuoto.
Infine, il viso di Hinata che si alza e l’ultimo messaggio,
il più profondo che è in grado di consegnargli.
E la mano di Naruto, oramai tremante, distrutta dall’attesa,
si leva verso l’alto e affonda fra i capelli di lei mimando
una risposta – e spingendola verso di sé
la razionalità si perde in due occhi che si serrano
bisognosi.
Hanabi spintona Sai e lo fa cascare su una sedia, furiosa.
Gli dà le spalle dopo avergli lanciato una penetrante
occhiata di scherno, dopodiché si mette a cercare qualcosa
in uno dei cassettoni della sua stanza, un rovistare affrettato che non
sfugge a Sai, che attende con una mano su una guancia –
gonfia e visibilmente violacea – e il sapore del proprio
sangue sulle labbra e sulla lingua.
Hanabi si volta di nuovo con una piccola pezzuola di cotone e una
boccetta trasparente in cui si intravede un liquido giallognolo,
l’espressione ora indecifrabile.
«Quello sarebbe…?» domanda Sai,
adocchiando la boccetta ma evitando di esprimere pensieri
tutt’altro che positivi al riguardo, la sensazione che
quell’innocuo contenitore racchiuda tutto fuorché
del disinfettante.
«Oh, ti prego,» sbuffa Hanabi, notandolo,
«non crederai che ci sia del veleno, spero!»
Sai abbassa la mano e sposta gli occhi scuri verso la finestra
cautamente dischiusa, le tende mosse da un vento che si avverte appena.
«Tutto può essere.»
Hanabi torna vicino a lui e strappa via il tappo che sigilla la
boccetta. «Se avessi voluto toglierti di mezzo, ti avrei
avvelenato questa estate,» inveisce, imbevendo moderatamente
il fazzoletto, «ma sei ancora qui. Ringraziami.»
Sai sorride divertito
–
non può aver detto davvero così.
«Quindi vi aspettate un grazie per avermi risparmiato la
vita.»
Hanabi si china su di lui e gli posa la pezzuola sulla guancia.
«Sarebbe il minimo,» ammette, passandogliela con
premura su un angolo della bocca, dove cola qualche goccia di sangue,
«soprattutto dopo oggi. Se non li avessi fermati, sarebbe
finita molto male.»
Sai le punta un occhio addosso, la freschezza del cencio ad alleviare
il dolore. «Siete stata voi ad aizzarmeli contro, Lady
Hanabi.»
Sospirando, Hanabi gli prende il mento fra le dita e con un gesto lo
costringe a guardarla apertamente in faccia.
Il calore della sua mano lo coglie di sorpresa.
«Quando mio cugino dice che certe guardie non hanno il dono
dell’intelligenza, suppongo non scherzi. Avevo ordinato loro
di non lasciarti assolutamente passare, non gli ho detto di
oltraggiarti fisicamente nel caso in cui tu avessi insistito. Tra
l’altro, non hai nemmeno evitato che accadesse.»
«Perché avrebbero potuto farlo loro –
evitarlo, intendo,» risponde Sai, piccato, «io
avevo – e ho ancora, non dimenticatelo – il compito
di informarvi dei piani di vostro pad-»
Il fazzoletto gli preme sulla bocca, serrandogli il respiro.
«E tu non dimenticare che sentire le parole di mio padre
è l’ultima cosa che
m’interessi» afferma la Hyuuga, la fronte corrugata
e un battito di ciglia all’ennesimo cambio di espressione.
Gli libera la bocca con un gesto distratto, e mostrando maggior
delicatezza comincia a disinfettargli il labbro spaccato, per poi
tornare a inzuppare la pezzuola con quel suo bizzarro liquido
giallastro.
È tutta concentrata in quelle operazioni mentre Sai la
studia attentamente, passandosi un dito sul labbro per una frazione di
secondo, un fremito involontario a contatto con la ferita.
«Ti fa male?»
Hanabi inarca un sopracciglio, interrogativa.
Sai scuote il capo. «Solo vagamente.»
«Già. Scommetto che stanno peggio loro –
considerando, ovviamente, che hai rotto il naso
a entrambi.»
«È esasperazione quella che sento?»
azzarda Sai, massaggiandosi il collo indolenzito.
Una delle guardie l’aveva strattonato per la camicia, prima
di dargli un pugno che era costato molto sia a lui che al collega.
Hanabi chiude la boccetta e la rimette nel cassettone, prima di
rispondergli: «Indovinato. Hai imparato per caso a
identificare i sentimenti altrui?» aggiunge, nel vano
tentativo di punzecchiarlo.
«Mi riesce difficile, in verità, quando si tratta
d’altri, tuttavia trovo del tutto facile farlo con
voi.»
«Oh, sono un libro aperto?»
«Senza alcun dubbio.»
Hanabi si posa le mani sui fianchi e lo fissa tacendo – ha il
tipico sguardo indagatore, lo tira fuori ogni volta che un particolare
attira la sua attenzione.
In quel caso specifico, Sai si rende che conto che le proprie parole
hanno attivato un complesso meccanismo fatto d’analisi e
sospetti, più un diritto del tutto inesistente di
impicciarsi degli affari altrui credendo di fare del bene.
«Ora… sono curioso di sapere cosa vi passi per la
testa.»
«Io invece sono interessata ad altro,» ribatte
Hanabi, rilassandosi contro il cassettone, una ciocca di capelli a
sfiorarle la guancia pallida come il latte, «e voglio solo un
po’ di verità. Dici di essere privo di sentimenti,
di non capire quelli altrui, eppure quando parli di me diventi
improvvisamente empatico...»
«Siete ovvia persino per un tipo come me,
certamente,» la interrompe Sai, sospirando – non
gli sembra nulla di particolare, quel discorso, «e non ci
vedo nulla di strano.»
«Ne sei così
sicuro?
Non pensi che sia per qualcosa in particolare?»
Gli occhi chiari di Hanabi paiono inchiodarlo sulla sedia, ora, e
questo non è niente di buono.
«Vorrei evitare di chiedere chiarimenti in merito alle vostre
insinuazioni, Lady Hanabi…»
«Così però confermi i miei
sospetti» replica Hanabi, un sorrisetto non troppo trattenuto
a illuminarle il viso.
Pensandoci bene, Sai comincia a prendere in considerazione
l’idea di alzarsi e andarsene, ma un sentimento non dissimile
dalla testardaggine lo invita a restare lì, in balia della
nobildonna.
In balia, inconsapevole, di un interrogatorio fuori dagli schemi.
«Vostra cugina non sa
nulla, a quanto ho capito.»
Gaara solleva il bicchiere e lo fa ondeggiare davanti al viso, seguendo
il vorticare leggero del liquore in esso contenuto, gli occhi tuttavia
puntati anche sul nobile Hyuuga, la cui immagine attraverso il
bicchiere è deforme ma ugualmente rigida.
Un tasto dolente sta per venire a galla.
«Non potrei comunicarle la novità nemmeno
volendo,» mormora Neji, le mani vuote, il bicchiere posato
sul tavolino basso che gli è accanto, «tuttavia,
se sapesse... non si comporterebbe così. Questa estate
è stata un inferno per noi. Non che
prima le cose
andassero meglio.»
Gaara si muove impercettibilmente sulla poltrona; infine, posa
anch’esso il bicchiere. «Mio fratello continua a
dire che sarebbe meglio evitare di mettere al corrente anche la giovane
Hyuuga. La fuga di sua sorella Hinata ha già creato
abbastanza scompiglio.»
«È stata clamorosamente
egoista.»
La voce di Neji è un sospiro lieve, esausto, che giunge alle
orecchie di Gaara come la conferma di un affetto sincero verso la
cugina perduta – o salva, ma quello è ancora da
vedere, perché certi piani avventati rischiano davvero di
mandare tutto all’aria.
«A Londra mi avete convinto rischiando molto,» dice
Neji all’improvviso, fissandolo con quelle sue glaciali iridi
lilla, «cosa avreste fatto se avessi deciso di non
collaborare?»
«Vi avremmo ucciso. O rapito, così da evitare
spiacevoli incidenti,» è la risposta del nobile
Gaara, detta troppo alla leggera per sembrare vera – anche se
lo è, di questo non c’è da dubitare,
«ma non ci siamo soffermati su eventuali imprevisti.
Naruto,» nel pronunciare il nome del duca abbozza un sorriso,
«aveva la certezza della vostra collaborazione. Diceva che
voi avevate
–
e avete – tutti i motivi per aiutarci.
Motivi validi,» aggiunge pacato, «non troppo
diversi dai suoi.»
Neji lo scruta pensieroso, le parole che si levano fra di loro
invisibili, dopodiché riversa l’attenzione sui
bicchieri posati sul tavolino: uno mezzo pieno, l’altro vuoto.
Poi le sue labbra si piegano lievemente verso l’alto,
giacché un ricordo torna a fargli visita, e annuisce un
poco, quel tanto che basta a confermare quelle parole dal sapore
inconsistente.
Perché quei motivi sono troppo chiari, e il ricordo che gli
riempie la mente non fa che renderli ancora più dolorosi.
«Possiamo procedere, allora.»
Stavolta le parole di Gaara chiudono tutto, anch’esse
dolorose.
Iniziano i giochi.
Fine Capitolo Tre
Note
dell'autrice: dopo anni e anni e
anni
dall'ultimo aggiornamento, finalmente torno. Un po' zoppicante, ma
l'ispirazione è quella che è - e possiamo dire
che l'esitazione ad aggiornare sia nata dopo una veloce rilettura di
tutta la storia, ma sorvoliamo sul mio essere schizzinosa verso tutto
ciò che esce dalla mia testa malata. Ehm. In ogni caso cosa
posso dire? Il capitolo - anche questo - è dedicato a Katia,
perché la storia è per lei e sarà
sempre per lei (e mi scuso pure qui per il mio addomentarmi davanti al
pc praticamente tutte le sere, suppongo le nostre conversazioni, Katia,
non siano così divertenti messe a 'sto modo atroce
ç__ç). Ehm. Cos'altro dire? Passano gli anni, ma
vedo con piacere che c'è ancora gente che scova BR (che sta
per Bloody Rose, eh, non pensate) e... sì, insomma, le liste
parlano da sole.
Vi ringrazio per leggere ancora questa storia, ringrazio le due-tre
personcine che anche solo con un minuscolo 'mi piace' ai post su BR
sulla
mia pagina facebook mi fanno sentire il loro affetto per
questa Long e... niente. Credo di aver detto tutto. Ringrazio la mia
beta,
Yume_no_Namida,
per il velocissimo betaggio, e ringrazio soprattutto i vecchi lettori
che mi hanno sostenuta negli anni passati.
Bene, ora vado! Un bacione,
Mokochan