❝
Lo sclero di
ℰver❞
CAPITOLO I
Ricordi il suo nome? |
Se ne sta tranquilla sulla balaustra della vasta terrazza della casa
sul mare. È una cosa stupida, anche perché con
quel freddo avrebbe potuto fare tante cose, decisamente più
sensate di quella – ammesso che potesse avere il buonsenso di
pensarci.
Il vento agita le pagine di una lettera che sembra inghiottire ogni sua
convinzione. Guardandola, si sente sempre mancare un po’ il
respiro. Magari avrebbe potuto nasconderla sotto il letto e lamentarsi
con la professoressa d’averla smarrita per la quarta volta.
In fondo, non ci era mica tagliata per una cosa del genere.
«Dovrai pur fare
qualcosa, Hoshino.» Ricorda di averle sentito
dire qualcosa del genere.
Ed in effetti lei qualcosa la vuole fare davvero.
«Voglio nuotare.»
«E allora accetta quella proposta e partecipa.»
«Ma lì si fa agonismo.»
«E allora?»
«Non voglio competere.»
«E cosa vuoi fare?»
«Voglio nuotare!»
«Ma come fai a nuotare se non fai agonismo?»
Mentre rimembra la conversazione disastrosa avvenuta con la docente,
decide di fare una passeggiata lungo la spiaggia.
Come se gliene fregasse ancora delle medaglie, dei trofei. Tuttora ce
li ha tutti, e l’unica cosa che fanno è quella di
accumulare polvere. Eppure sua madre non vuole buttarli, fiera
dell’unica cosa decente che sa fare sua figlia.
Il vento si fa più insistente e la sabbia le si rifrange
contro ogni parte del corpo, appiccicosa a causa delle gocce
d’acqua salmastra che le impiastricciano i piedi nudi e la
stoffa di jeans che le ricopre le caviglie. I capelli corti le si
scompigliano, alcune ciocche ribelli si sfilano dalla piccola coda che
ha fatto frettolosamente. Ben le sta, la prossima volta almeno ci
penserà due volte prima di andare lì.
Rimane a fissare un punto impreciso d’innanzi a
quell’orizzonte troppo vasto ed il suo occhio non riesce a
tenere il passo con il magnifico blu che ha di fronte: l’aria
è tersa, e limpida le risulta quella linea che divide
beffardamente l’oceano dal cielo – supponendo che
entrambi, da qualche parte, abbiano una fine.
Pensa a tante cose, in quel momento. Così tante da non
riuscire a porre un filo che interconnetta tutti i suoi impulsi
nervosi. Anche questo giorno sta volgendo al termine; si sente
consumare dal Sole calante e dalla mestizia che crogiola il suo animo
perplesso e spaesato, mentre ciò che rimane della sua
attenzione viene rapito dalla macchinosa danza di un gabbiano dal
piumaggio spento, vittima dell’ennesima petroliera di
passaggio.
Lo afferra tra le piccole mani, richiudendo accuratamente le ali
dapprima spiegate. Per qualche motivo, ha paura che quelli siano gli
ultimi istanti di vita del volatile, ormai caduto sotto la morsa del
veleno nero. La scena le incute un certo timore, mentre lo osserva
divincolarsi in malo modo da una stretta che aveva creduto essere
confortevole; il venerando pennuto s’accascia a terra, fissa
il cielo con le belle iridi scure e più non si muove.
«Avresti voluto tornare al cielo, immagino.»
L’eco delle sue parole si perde nell’atmosfera
tetra del primo crepuscolo, celando una malaugurata premonizione. Forse
anche lei non sarebbe più riuscita a tornare
all’acqua come avrebbe voluto fare.
Forse qualcuno avrebbe davvero deciso per lei, per la sua vita. Forse
non sarebbe più stata destinata al suo elemento.
Allora sì, sarebbe stato meglio fare la fine di quel
gabbiano.
Ripensa alla lettera che ancora scotta sul tavolo della veranda.
L’ha lasciata lì perché non debba
sentirsi ancora osservata da quella risma, che imprime sulla cellulosa
a basso costo la decisione più difficile, quella
più detestabile. È come se le bruciasse via quel
po’ di ossigeno che le serve per riprendere fiato: condannata
ad un’infausta apnea, si sente come quando
l’avversaria della corsia accanto le sta davanti e non
può permettersi di sprecare neanche una bracciata,
perché significherebbe che ha perso.
La verità è che lei avrebbe potuto nuotare veloce
quanto le pareva, ma tanto il tempo l’avrebbe sempre
raggiunta.
Avverte di nuovo quel senso di vuoto colmarle la cassa toracica.
L’ironia della sorte è che non si può
riempire il nulla con altro nulla, o almeno è quello che si
era sempre detta. Eppure, in quel momento, sommersa
dall’attacco di panico che ha preso possesso di lei, si
chiede se non sia stato il suo destino a portarla lì, a
vedere il mare, ad osservare lo spegnersi del gabbiano, a pensare di
partecipare davvero a qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita per
sempre.
Socchiude gli occhi, mentre l’oscurità si porta
via la nitidezza delle cose intorno a sé: forse se si
concentra riesce ancora a vedere le belle lampade a sospensione della
balconata di casa. Il buio la fa da padrone ben presto, ma il suo
sguardo è ormai abituato alle ombre – poco importa
che siano quelle del cuore o del mondo.
Otto anni.
La vecchia sé stessa avrebbe cercato
d’intravedere, in quello scorrere inesorabile delle lancette,
qualche positività. Dopotutto, era sempre stata brava a
sorridere mentre nascondeva le lacrime. Dopo il nuoto, era decisamente
la sua specialità.
Inizia a sentire freddo; si stringe nelle spalle, sfregandosi gli
avambracci con le mani e appressando il viso nella calda sciarpa di
lana grezza che le punge il naso arrossato. Mentre ritorna verso la
luce della calda dimora, ripensa che ormai quegli anni passati
lì siano stati sufficienti e che forse la sua sensei ha
ragione. Forse deve davvero tornare a casa, quella vera.
Qui, in fondo, cosa mi
è rimasto? Ci riflette su.
Mette un piede davanti all’altro per inerzia, senza neanche
pensare d’accelerare il passo stanco: se avesse potuto
nuotare nell’aria forse sarebbe stata più veloce,
ma non è questo il mondo in cui poterlo fare. Si maledice
per essere nata nell’universo sbagliato; la sé
stessa che può notare nell’aria sarebbe
decisamente più felice: dannata ragazza
dell’universo giusto.
Alza lo sguardo verso la balconata ormai prossima. La sagoma longilinea
dell’ormai adulto fratello si staglia lottando contro le luci
che le offrono una visione sfocata del corpo atletico del suo
consanguineo, ma nonostante questo riesce a distinguere chiaramente le
salde mani di lui stringere la missiva incriminata. La alza verso di
lei, facendo il gesto di consegnargliela.
«Cos’hai deciso?» Il tono della sua voce
è calmo, ma fitto di quell’impazienza che la
sorella ha ormai imparato a distinguere.
Sarebbe stato meglio chiederle “Hai deciso?”, ma si
rende conto che non vi è spazio per un’ironia che
lui non riuscirebbe a cogliere. È serio. Anche lei dovrebbe
esserlo, ma le è stato insegnato che il metodo
più semplice per defilarsi dalle scelte è quello
di riderci su, per cui non riesce davvero ad essere onesta con il
giovane uomo che le sta di fronte. Un po’ si sente in colpa.
«Cosa vuoi sentirti dire?» gli chiede senza mezze
misure. «Tanto anche se decidessi di non andarmene, tu mi
cacceresti a calci in culo, giusto?»
«Non farei mai una cosa simile.»
«Ma ci penseresti.»
Afferra la busta color avorio, indugiando sui caratteri dai tratti
energici. Ha ancora un po’ paura di leggere quello che vi
è scritto, ma non può farne a meno.
Oggetto:
Convocazione Nazionali Giappone
Classe:
200 metri, stile libero
Sezione:
Femminile
Girone:
Eliminatorie
Batteria:
5ª
Alla Sig.rina Mizuko Hoshino.
Analizzato il quadro agonistico e la rapida ascesa in competizioni
della suddetta disciplina di nuoto a stile libero, il comitato
organizzativo per il Trofeo Nazionale Annuale, valuta la candidata alla
1ª selezione come IDONEA.
Con la presente la invitiamo a ritornare quanto prima in Giappone,
previa consultazione del personale preparatorio e della scuola di
appartenenza, per essere trasferita in un istituto locale per
l’ufficializzazione della sua partecipazione ai nazionali di
nuoto agonistico.
Certi di un suo riscontro positivo, le inviamo cordiali saluti.
Staff per il Trofeo Nazionale Annuale.
Tokyo, 2012-12-12
Sbuffa, innervosita.
«Analizzato il quadro agonistico» borbotta, facendo
il verso al cerebroleso che ha inviato quella lettera. «Ma si
può davvero scrivere una cosa del genere?»
«Perché, cosa volevi che ti scrivessero? Ciao
Mizuko, tutto bene in Francia?» Il fratello è
più sarcastico del solito, per quanto riesca a constatare.
Quando fa così vorrebbe solo prenderlo a pugni.
Non risponde, ma rimane in silenzio a fissare l’oceano mentre
viene inghiottito dall’ultimo albore crepuscolare.
È subito sera.
Prende coscienza del freddo improvviso, la cui testimonianza si cela
nelle piccole nuvolette del suo respiro mozzato a contatto con
l’aria frizzantina che la circonda. Sorride come
un’ebete, nel ricordare l’infanzia passata fingendo
che quelle nubi improvvisate uscissero da una sigaretta invisibile,
stretta tra l’indice e il medio della sua mano destra.
Un tempo le ci voleva davvero poco per essere felice. Cosa diavolo era
cambiato?
Ragiona attentamente e con dignitoso raziocinio – o almeno
questo è quello che pensa. «Ne, Kaito.»
«Che c’è?»
Si sente fissata, ma non ha alcuna intenzione di ricambiare lo sguardo.
«Il mare in Giappone è ancora lo stesso?»
È ormai abituato alle bizzarre domande che gli pone ogni
volta, per cui non si stupisce di vederla così assorta nei
suoi pensieri sconnessi. Quesiti che non avrebbero mai avuto senso per
qualcuno, ma per lei… quella è un’altra
storia.
«Suppongo di sì» si limita a
risponderle, assecondando la vista della sorella e concedendosi anche
lui di guardare l’orizzonte troppo scuro per poter essere
ancora apprezzabile.
La giovane sospira, frustrata all’idea di essere ancora
vittima di un burattinaio astratto che si diletta a tirare i fili della
sua vita a proprio piacimento. La verità è che
non c’è mai stata una vera scelta da fare, lei
questo lo sa bene.
Deve solo chinare il capo ed accettare per l’ennesima volta
d’essere quell’involucro fatto di carne che
affronta il cambiamento sorridendo, come ogni bambola sa fare. E in
effetti, se ci pensa, non ha mai visto una bambola triste. In fondo, cosa
importa… sono vuote.
Già. Vuote.
⚘
Le gocce gli cadono dalla chioma scura; una per volta scivolano veloci
lungo i capelli lisci per precipitare nuovamente nell’acqua
che riempie la vasca, creando piccoli cerchi che si disperdono tra le
pareti del piccolo abitacolo.
Non riesce ancora a sentire Makoto chiamarlo. Forse è ancora
troppo presto.
Poggia la schiena contro la parete bianca di ceramica; si sente
più stanco degli altri giorni, ma non sa spiegarsi il
motivo. Fissa il delfino posto sulla mensola d’innanzi allo
specchio: da quando era piccolo, aveva sempre trovato una certa
affinità con quel mammifero. Gli piaceva il suo modo
elegante di nuotare e la fierezza dei salti, a contatto con
l’aria densa delle gocce che il suo maestoso tuffo generava.
Rivede nella sua mente lo sguardo del rosso al club di nuoto ormai
abbandonato, il suo incedere pretenzioso, la voce carica di rabbia. Si
chiede cosa possa essere successo per averlo fatto cambiare
così repentinamente, ma prima che possa rispondersi una
stilettata dritta nel petto sembra trapassarlo, mentre ripensa al suo
primo anno di medie, alla loro sfida, alle lacrime del compagno troppo
orgogliose per poter abbandonare le sue ciglia.
Forse è davvero colpa sua, se Rin è in quelle
condizioni. Prima di adesso non ci ha mai riflettuto troppo, per paura
di trovare risposte scomode che avrebbero generato solo altri sensi di
colpa.
S’immerge sotto il pel d’acqua, lasciando le bolle
che fuggono dalla bocca salire veloci a cercare la luce che penetra
dalla finestra. Ha gli occhi chiusi, e
nell’oscurità delle palpebre serrate si susseguono
una serie di ricordi confusi, sbiaditi e senza apparente significato:
l’alone nebbioso del suo passato plasma la fisionomia di un
Makoto molto più giovane di adesso, un Nagisa decisamente
piccolo e Rin, con ancora stampato in volto quel ghigno che aveva
imparato a riconoscere come suo carattere distintivo.
Lì, sperduto nel buio della mente, vede la vecchia
felicità dell’infanzia svanire via e
l’acqua voltargli le spalle. Come quella volta.
Riemerge di colpo, non abbastanza svelto da evitare di ripensare a quegli occhi. Si
sente scosso; avrebbe giurato di rivedere l’immagine distorta
dell’amico mentre vince la loro recente sfida, ma
ciò che gli si palesa davanti è la malinconica
vista di uno sguardo dalle gemme preziose, l’una zaffiro e
l’altra rubìno. Deglutisce a fatica, ingoiando
parte dell’acqua della vasca, la quale scivola veloce lungo
l’esofago, a strozzargli la gola che si ribella a suon di
piccoli colpetti di tosse.
«Haru?»
Sente i passi rassicuranti di Makoto farsi strada nel bagno mentre
riprende ancora fiato. Lo sente avvicinarsi al bordo della vasca, ma
ancora non riesce a guardarlo. Respira col diaframma, certo di riuscire
a ritrovare il contegno.
«Tutto bene?»
«Perché lo chiedi?» Sa di aver fatto una
domanda stupida. In fondo da quando è entrato
l’amico, non ha spiccicato parola e non s’azzarda
neppure a guardarlo.
Makoto si gratta la testa. Trattare con Haru, a volte, può
risultare complicato. «Immaginavo che… beh, la
faccenda di Rin, sai…»
Si volta finalmente a guardarlo. Nel suo sguardo non vi è
nulla che possa tradirlo, eppure in cuor suo avverte ancora il disagio
per essersi concesso, anche solo per un istante, un ricordo proibito.
«Va tutto bene.» Afferra la mano
dell’amico che come sempre è il miglior sostegno
al suo improvviso mal di vivere.
Sente di essersi ripreso, ma non appena poggia il piede sul tappetino
di spugna, un terribile macigno si salda attorno al suo petto come il
più terrificante degli abbracci. Mantiene il controllo,
nonostante tutto. Non vuole che l’amico si preoccupi
inutilmente.
Si avviano a passo svelto verso l’istituto, con le cravatte
ben annodate attorno al colletto delle camicie lise. Il sole accecante
s’afferma litigioso contro il freddo frizzante
dell’aria di dicembre, mentre attorno ai due amici un clima
sempre più natalizio prende vita attraverso lustrini e luci
colorate – decisamente una cosa che non potrebbe essere
più indifferente agli occhi azzurri del giovane nuotatore
prodigio, che certo non ha mai apprezzato le convenzioni sociali.
Natale può significare solo una cosa: fa troppo freddo per
andare in acqua. La cosa lo urta parecchio, ma sa che esternando una
simile puerilità il castano rischierebbe di scoppiargli a
ridere in faccia, osservandolo con sguardo dolce e divertito al tempo
stesso. Non ha decisamente voglia di rischiare d’essere preso
in giro.
Camminano silenziosi lungo la stessa strada di sempre, ma lo sguardo
cobalto del meno alto non riesce a giovarsi del bel panorama terso
dell’oceano alla loro sinistra, che come sfondo leggiadro
diletta gli intraprendenti pescatori. Non riesce a bearsi di
quell’immensità, poiché la mente
intrisa di pensieri sconnessi ancora non vuol saperne di lasciar andare
il nefasto ricordo sortogli di sfuggita mentre era ancora nella vasca.
Erano anni che quello sguardo non sorgeva spontaneo ad irretirgli la
mente; in cuor suo sperava di essersene disfatto.
Dopo tanti anni passati a rimuginarci su, ancora non gli è
chiaro come lo faccia sentire tutta quella storia. Non sa se provare
tristezza, rabbia, delusione, felicità…
è uno di quei ricordi cogitabondi e sopiti, fitti di mistero
e che perciò devono essere dimenticati, o in altro modo si
rischierebbe d’impazzire. Questo è ciò
che si è sempre detto per giustificare la sua
incapacità di porre un freno a quelle domande senza mai
risposta.
«Haru.» Non ha bisogno di fissare l’amico
per capire come si sente.
Per quanto voglia lasciarlo fuori da tutta questa faccenda, si rende
conto che ormai ha compreso tutto. «Ho una domanda da
farti.»
L’aitante giovane presta subito l’orecchio. Per
qualche motivo, Haru sembra imbarazzato. «Tu… ti
ricordi il nome…»
«Eh?»
«Fammi finire» lo rimbecca il corvino, sbuffando.
Non è semplice per lui parlarne, figurarsi ammettere di star
pensando ancora ad una sciocchezza simile. «Ti ricordi il
nome di quella bambina?»
Makoto gli appare sempre più perplesso. Non è la
prima volta che gli fa domande strane, ma questa le batte decisamente
tutte. Se Nagisa o qualcun altro avessero posto a lui la stessa
domanda, probabilmente si sarebbe limitato a voltar loro le spalle e a
fare finta che fossero pazzi. La trova tuttora la soluzione
più logica.
«Haru…» Lo sguardo intenso
dell’amico si oscura di una certa preoccupazione.
«Non è che…»
Vuole chiedergli se ci sta ancora pensando. In effetti, si dice il
moro, è una domanda del tutto lecita. Si stupirebbe se non
gliela facesse. «Voglio solo ricordarmi il suo
nome.»
«In realtà te lo ricordi perfettamente, non
è vero?» sbotta Makoto, grattandosi nervosamente
la nuca. «Non ne avevamo già parlato?»
No,
vorrebbe rispondergli, non
l’abbiamo mai fatto. Se l’avessero
fatto, probabilmente lui non starebbe lì a cercare
disperatamente di dimenticarsi del peggiore tra i fantasmi del suo
passato. Distoglie la mente dal dolce ricordo del sorriso sdentato che
si allontana, soffermandosi sul volto incupito dell’amico.
Vorrebbe dirgli ancora che va tutto bene, come la sua presunzione gli
ha imposto quella mattina, quando Makoto era giunto a casa sua con la
speranza che anche quella fosse una giornata normale.
Beh, non lo è. Non lo è affatto.
Il castano si schiarisce la gola, riacquistando la sua solita
lucidità. Sa bene che turbare Haru risultandogli seccato non
è un buon metodo per lasciare che si confidi, per cui decide
di deporre l’ascia da guerra, inseguendo il deflusso rapido
dei pensieri in piena del bruno.
«È passato tanto tempo,
però…» Cerca di pensare con tutte le
sue forze a quel nome incastrato nella sua memoria, quel nome
addormentato e che ricorda molto bene. Quel nome che deve avere il
coraggio di pronunciare, se questo può liberare
l’amico dai propri incubi. Lo vuole, lo desidera con tutto il
cuore.
Che Haru torni ad essere libero.
«Si chiamava…»
⚘
«Mizuko Hoshino. Yoroshiku
onegai shimasu[1].»
Percepisce i mormorii dei suoi compagni di classe. È
abituata a tutto questo: probabilmente si staranno già
chiedendo chi sia, cosa ci fa nella loro scuola, perché si
è trasferita a dicembre e soprattutto da dove sono sbucati i
suoi occhi diversi ed intimidatori.
Il sorriso perlaceo che rivolge ai compagni è lo stesso di
sempre, bello e sfavillante come quello di tanti anni prima. Si sente
spaesata, come se quel luogo non gli appartenesse più come
un tempo, ma è certa di celare il suo disagio:
lì, dopotutto, non la conosce nessuno.
I mormorii si levano sempre più crescenti, mentre un ragazzo
alza la mano, scambiando una gomitata di assenso con il suo vicino di
banco.
«Sei fidanzata?» Delle risatine si levano dal fondo
dell’aula. Ha già capito che l’ultima
fila è da evitare come la peste.
«No» risponde senza scomporsi.
«È morto.»
Capisce subito che il suo scherzo non è stato considerato
tale dal resto dei presenti, poiché un silenzio glaciale
scende a rendere l’aula improvvisamente fredda. Non
è mai stata molto brava, con quel tipo di goliardie.
«Scherzavo.»
Sente levarsi dei sospiri di sollievo e qualche risatina nervosa, ma il
clima rimane teso fino a quando il sensei non le chiede di sedersi da
qualche parte. Con sua insolita sorpresa, vede le mani di molti alzarsi
per cederle i propri posti. Rimane impalata come uno stoccafisso, senza
pronunciare parola.
Non è più abituata a socializzare, si dice. Forse
avrebbe dovuto ricominciare. China rispettosamente il capo, scegliendo
uno dei posti accanto alla finestra: almeno, da lì, avrebbe
potuto guardare il cielo, se proprio la vista le impediva di vedere
l’azzurro dell’oceano.
Sposta distrattamente lo sguardo alla sua destra, osservando le
fattezze del suo vicino di banco. Sembra diverso rispetto al resto
dell’omogeneità maschile. Capisce subito che deve
praticare qualche tipo di sport che gli permetta di avere un fisico
decisamente più allenato e asciutto del resto dei ragazzi
presenti: forse basket, magari judo.
Risalendo su a fissargli l’ampio petto nascosto
dall’uniforme scolastica, si sofferma sui corti capelli blu e
su uno sguardo che non riesce subito a focalizzare a causa degli spessi
occhiali rossi che gli circondano le cavità oculari.
Il ragazzo si volta nella sua direzione e arrossisce, distogliendo lo
sguardo immediatamente, nonostante tenti ancora di studiare i suoi
movimenti con la coda dell’occhio; le sembra quasi tenero,
mentre è intenta ancora a comprendere il pigmento che gli
caratterizza l’iride. Non si preoccupa affatto di apparire
sfrontata, d’altronde prima o poi dovrà comunque
fare la sua conoscenza.
«Ohi» biascica d’un tratto, facendola
sobbalzare. «Ho qualcosa in faccia?»
La ragazza sbarra gli occhi, trattenendo a stento una risata. Se
qualcuno vedesse lei in quel modo, probabilmente penserebbe che
è pazzo, no di certo darebbe la colpa alla sua faccia.
«No.»
«E allora che hai da guardare?» È
infastidito e, a giudicare dal rossore delle goti, piuttosto
imbarazzato.
«Ah.» Deve trovare qualcosa di sensato da dire, ma
sa perfettamente che le sue sinapsi si divertono da morire a vederla in
difficoltà. «Beh. È che non riesco a
vedere il colore dei tuoi occhi.»
Rimane a fissarla imbambolato, incerto se credere di aver capito male o
pensare che sia davvero fuori di testa. Eppure, nonostante il suo
penetrante sguardo, si rende conto che non ne è affatto
spaventato, al contrario: perché diavolo un tappo del genere
avrebbe dovuto incutergli timore?
Con l’indice si porta gli occhiali più vicini
all’attaccatura del naso, sbuffando. «Tecnicamente
sono color malva.»
Lo fissa. Teme di scoppiargli a ridere in faccia da un momento
all’altro, ma si contiene; non ha voglia di apparire
maleducata. «Sono viola.»
«No, malva»
la rimbecca nuovamente il ragazzo. «Viola è un
altro colore.»
«Che diavolo di differenza vuoi che ci sia tra malva e
viola?!»
Ecco. Niente, non riesce proprio ad avere un bel carattere; tuttavia,
il suo interlocutore non sembra scomporsi minimamente. Si lascia
sfuggire una risata supponente e decisamente isterica, mentre la guarda
con fare superiore. «La malva possiede delle note purpuree
che la rendono decisamente differente da un comunissimo
viola.»
La ragazza si sporge di colpo verso di lui, suscitandogli un improvviso
rossore.
«C-che stai facendo?» È perplesso, ma
lei non ha alcuna intenzione di rispondergli.
Lo fissa negli occhi, con lo sguardo di chi ha intenzione di svelare un
mistero. Finita l’indagine si rimette a sedere composta sulla
sua sedia, incrociando le gambe e imitando qualcuno che si sistema gli
occhiali. «Non è presente alcuna nota purpurea nei
tuoi occhi.»
«Certo che sì!» Questa volta
è lui a sporgersi verso di lei, alzando di scatto gli
occhiali all’altezza della fronte ed indicandole
l’iride con il dito. «La vedi? Eh!?»
Lo fissa con sufficienza, preoccupata che possa accecarsi da un momento
all’altro. Quel tipo è davvero strano –
ma, in fondo, non sembra poi così male. Sorride sorniona,
nascondendo il ghigno nella sciarpa di lana. «Ora che mi fai
vedere meglio, si nota qualcosina.»
La vena che ti sta per
uscire dall’orbita, vorrebbe continuare, ma si
trattiene, contenta che quella risposta sia sufficiente a risollevargli
il morale. Sta per voltarsi nuovamente verso la finestra, pronta a
perdersi in malinconici pensieri, quando il compagno si schiarisce la
gola.
«Ryugazaki» si limita a dire.
Gli concede uno dei suoi migliori sorrisi, sorprendendosi di quanto sia
autentico. Quel ragazzo strano e dall’aria allucinata gli sta
già simpatico. Si sorprende di quanto abbia voglia di
parlare con lui, nonostante la lezione stia ormai per cominciare:
è la prima volta, dopo tanto tempo, che parla di qualcosa
che non sia il nuoto.
Economia domestica.
Fantastico,
pensa, maledicendosi per non essere mai stata attenta durante le
lezioni della docente francese. È la materia dove va peggio,
se possibile, dopo la matematica.
Si china a prendere il quaderno dalla sua cartella, scorgendo in mezzo
ai banchi un portachiavi a forma di pinguino che ricorda esserle
famigliare. Aguzza lo sguardo, rimanendo rigida sotto al banco.
Il ragazzo la studia come fosse ormai un caso clinico.
«Ohi.»
«Ai.»
Nell’alzarsi velocemente, sbatte violentemente la testa
contro la faccia inferiore del banco. «OUCH!»
«Stai bene?!» La voce del giovane è
troppo vicina, tanto da averle sfondato il timpano.
Metà della classe sta sogghignando, mentre l’altra
si sta ancora chiedendo cosa sia stato quel tonfo sordo. Mizuko fa un
cenno timido con la mano, a tranquillizzare quei pochi che, insieme a
Ryugazaki, hanno manifestato un po’ di preoccupazione.
Bene. È lì da pochi minuti ed è
riuscita a collezionare una serie di figure di merda che potrebbero
bastare per anni. Si chiede come sia possibile che il contegno che era
solita portare in Francia non abbia deciso di accompagnarla anche in
Giappone.
Dopotutto, la città d’Iwatobi è il
luogo dove è nata, dove ha imparato a nuotare, dove per la
prima volta ha nuotato in una vera gara, con vere persone che
facevano il tifo e gridavano il suo nome.
Eppure, da quando ha rimesso piede in quel luogo, non le è
mai sembrato così sconosciuto come adesso: la placida
città portuale di un tempo le appare priva di stimoli,
un’istantanea del suo passato che non è
più in grado di concederle niente. Un’insolita
malinconia le piomba addosso, se ripensa a quanto abbia pianto pur di
non dover lasciare quel posto.
Alla ricreazione le si affiancano tutti, curiosi d’ascoltare
la bella favola della ragazza giunta d’oltreoceano. Una
favola che però lei non sa raccontare.
«È vero che vieni dalla Francia?»
«Sì.»
«Com’è il tempo lì, in questa
stagione?»
«Freddo.»
«Hai difficoltà a parlare il giapponese dopo tanti
anni?»
«No.»
«Ohi.» Un ragazzo si sporge dalla calca, in preda
ad un’isterica domanda. «È vero che sei
una nuotatrice professionista?»
Domanda sbagliata.
Serra la mascella, pronta a gettare veleno contro il povero
malcapitato, ma si accorge, alzando lo sguardo, che lui la sta fissando
con gli occhi sbarrati.
Immersa nelle sue grandi pozze rosate, Mizuko si vede riflessa come nel
più limpido tra gli specchi. Rimane a bocca aperta, mentre
l’eco del suo passato sfiora le mille sfumature dai petali di
ciliegio di quegli occhi a lei tremendamente familiari.
«Mizu-chan» lo sente sussurrare.
Per un istante, è contenta di sentirsi chiamare con quel
nomignolo. Cerca di non apparire troppo sorpresa, ma prima che possa
rendersene conto è già in piedi, stritolando il
giovane come fosse un pupazzo di pezza.
«Nagisa-kun!»
«Sei cambiata tantissimo!»
Nagisa non riesce ancora a credere che la giovane ragazza di fronte a
sé sia l’ingenua e dolce Mizuko che tanti anni
prima faceva parte del loro stesso circolo di nuoto.
Ripensano con nostalgia ai bei tempi andati, seduti lì sulla
terrazza della scuola, certi di non essere disturbati. È
contento di potersi concedere un po’ di tempo in compagnia di
una vecchia amica, una conoscenza del passato che ritorna nel suo
presente come se non se ne fosse mai andata.
Si sente in difetto a non averne ancora parlato con Makoto e Haruka, ma
si convince che fare il ruolo dell’egoista, per quella volta,
non possa nuocergli più di tanto.
«Quindi era vero che ti eri trasferita in Francia.»
«Sì, assolutamente.»
«E com’era lì?» La sua domanda
cela un innegabile senso di curiosità.
Mizuko se ne rende conto, ma non riesce a mentirgli, per quanto sia
convinta che le sue parole possano risultargli presuntuose. Poggia le
mani dietro la schiena, fissando il cielo. Forse a Nizza, in quel
momento, il cielo non è poi così azzurro.
«Era davvero adorabile» dice infine, persa
nell’unico blu che le è consentito vedere.
«È vero che hai frequentato un’accademia
di nuoto professionale?»
«Già.»
«Racconta!»
L’entusiasmo del giovane amico l’aveva sempre
colpita, ma rimane sorpresa di vederlo così interessato alla
sua vita passata: non le era mai sembrato tipo da interessarsi alle
vicissitudini degli altri, nonostante fosse un rinomato impiccione.
«Cosa vuoi sapere?»
«Ogni cosa!» Sente le dita sfiorare la pelle
morbida del compagno. La sua mano è decisamente
più robusta dell’ultima volta che ne ha percepito
la presenza. «Non biasimarmi! Sei scomparsa da un giorno
all’altro senza dire niente!»
Vorrebbe ancora scusarsi per quel comportamento, ma si convince che con
il racconto della sua vita fino a quel momento potrebbe fare ammenda
per l’incresciosa fuga di tanti anni prima.
Sospira, soffocando una risata accondiscendente. «Gomen nasai[2].
Neanch’io sapevo che sarei dovuta partire.»
Lo sguardo che il ragazzo le rivolge non potrebbe essere più
dolce di quello che le riserva proprio lì, tra un boccone
del bento[3]
e l’altro.
Mizuko si sorprende di quanto sia cresciuto il piccolo bimbo che tanti
anni prima si tuffava in piscina con la spensieratezza di una
gioventù ancora tutta da vivere; non avrebbe mai creduto che
quegli occhi così fugaci e dediti solo alla leggerezza
dell’attimo, potessero risultarle or ora così
affidabili e saldi pur nella loro ancora celata acerbezza.
«Sono stata un’atleta in una scuola molto antica
che ha come scopo la formazione di nuovi talenti per
l’agonismo a livello nazionale.»
«Sugoi[4],
Mizu-chan! Sei davvero diventata una professionista!?»
Non vuole affatto deludere le aspettative dell’amico, ma
invece di rispondere a quella domanda con la sicurezza di cui un
esperto del settore si farebbe vanto, rimane in silenzio, nascondendo
ciò che le risulta essere disagio. Nagisa rimane a fissarla,
confuso.
«Mizu-chan, ho detto qualcosa di sbagliato?» La sua
preoccupazione è resa tangibile dal modo in cui le stringe
la mano, spaventato all’idea di averle arrecato
dell’imbarazzo.
Gli sorride mestamente, rifiutandosi d’intristire il tanto
entusiasta biondino. «No, affatto.»
«E allora cosa? Sembri così triste.»
Ridi, è la
cosa migliore. Fa ciò che la sua mente gli ha
acutamente suggerito, ottenendo l’effetto sperato: Nagisa
sembra tranquillizzarsi.
«Ma che dici!» lo rassicura, grattandosi la nuca
coperta dai corti capelli biondi. «È solo che
tornare dopo tanto tempo… beh…»
«Dev’essere stata dura per te, in questi
anni.» Come si aspettava, l’amico è
davvero cresciuto.
«Sì, forse è così.»
«Le aspettative che le persone si saranno fatte su di te
devono metterti sotto pressione.»
«Già.»
Rimangono in silenzio per un po’ di tempo. Vorrebbe chiederle
così tante cose, Nagisa, da non riuscire a trovare un filo
conduttore per rendere il discorso sensato. Non gli capita poi spesso
di poter incontrare una persona dopo così tanto tempo.
«Ne, Mizu-chan» la chiama infine, ponendo lo
sguardo rosato sulle nuvole bianche che passano veloci sopra le loro
teste. «Sei molto diversa, non è vero?»
La ragazza china lo sguardo; d’un tratto le proprie scarpe le
paiono molto più interessanti di quella scomoda
conversazione. Nagisa comprende che non riceverà mai una
risposta alla sua domanda, ma nonostante ciò continua, certo
che lei lo stia ancora ascoltando.
«Prima eri solare e piena di vita, adesso
sembri…» Vorrebbe continuare, ma la voce di lei
risuona grave nell’aria improvvisamente pesante.
«Le cose cambiano sempre, Nagisa.» È
tutto quello che riesce a dire, prima di sentire la gola divenire
insopportabilmente stretta. Sa che continuando a parlare un singhiozzo
potrebbe tradirla, per cui sceglie nuovamente la via del silenzio.
«Mizu-chan…»
«…»
«So che magari può sembrarti presuntuoso da parte
mia, cioè… io non sono un esperto di problemi
così grandi… però…
sì, beh… puoi parlarne con me, se vuoi.»
Mizuko avverte l’impellente desiderio di abbracciarlo, ma si
trattiene, certa che una manifestazione d’affetto come quella
avvenuta in classe sia più che sufficiente per quella
giornata. Gli afferra un lembo della manica, decisa a risollevargli il
morale: non ha alcuna intenzione di essere considerata come la ragazza
sensibile che non riesce a sopportare l’idea di essere stata
costretta a lasciare la propria casa.
Perché, in fondo, è di questo che si tratta.
«Va tutto bene, Nagisa.» Gli sorride, ma in quella
smorfia il biondo non riesce a riconoscere nulla che appartenga alla
bella immagine della bambina che ricorda con tanta affezione.
«Allora, perché sei tornata?»
«È complicato.»
«Davvero?»
«Davvero.»
Altri monosillabi, altri groppi alla gola. Si sente davvero una frana,
nonostante abbia creduto di riuscire a fingere s’accorge di
non esserne in grado. È una sconfitta che le brucia
più di tutte le altre.
Quando sta per cedere, pronta per vomitare via tutto ciò che
il suo piccolo corpo non riesce più a contenere, Nagisa
scoppia a ridere. «Pensare a quando ti vedranno Mako-chan e
Haru-chan.»
Sbarra gli occhi, sorpresa. «C-che?»
«Ma sì! Non puoi non ricordarteli!»
«N-no, li ricordo! M-ma…» Si maledice
per non essere in grado di nascondere il nervoso.
D’improvviso, come un tuono che rimbalza violento contro le
finestre di una casa facendole sobbalzare, il suo cuore si ritrova in
preda ad un tumulto d’emozioni che non è in grado
di gestire: gli occhi blu che tanto le ricordano l’oceano le
sfrecciano davanti come ricordi incustoditi e la cui presenza
è stata celata solo dal tempo.
«Frequentano anche loro questa scuola!» sbotta
divertito Nagisa, senza sapere cosa si celi dietro
l’apparente silenzio della compagna. «Mi sorprende
che siano così in ritardo per il pranzo.»
Mizuko scatta in piedi, con gli occhi sbarrati e il sudore che comincia
a formarglisi dietro la nuca.
No. Cosa
dovrebbe fare? Sa di non essere nelle condizioni ottimali per poter
fronteggiare una situazione di quel tipo: potrebbe anche riuscire ad
ingannare Nagisa, ma non crede di essere all’altezza degli
altri due vecchi compagni di squadra.
«Eh…» Una serie sconclusionata di parole
le rimane impacciata in gola, mentre un nodo sempre più
evidente le si forma all’altezza dell’ugola.
Parlare non le è mai sembrato così complicato
come in quel momento. «Io…»
Voglio andarmene.
È quello che vorrebbe dire al biondino dagli occhi spaesati;
se prima gli aveva dato solo una mera impressione del suo malessere,
ora è ovvio che le cose siano più gravi di quelle
che ha cercato di fargli sembrare.
Indietreggia di qualche passo, guardando di sbieco la porta. I battiti
impazziti del cuore le rimbombano incessanti dentro la cassa toracica,
rendendo inesorabile il tempo che scorre veloce ad annullare la
distanza tra i due compagni: Nagisa è al suo fianco, e la
scuote come fosse vittima d’un improvviso sonno ad occhi
aperti.
«Mizu-chan!» si sente chiamare e le note di quella
voce sono terribilmente impaurite.
Mentre cerca di tornare padrone del suo corpo scosso dai tremiti, sente
il suono stridente del metallo della porta che sfrega contro
l’uscio. Trattiene il fiato, mentre Nagisa si volta in
direzione delle due figure che emergono dall’ombra delle
scale interne.
Quando la poca lucidità le impone di voltarsi, Mizuko
incrocia quello sguardo che tanto le ricorda il blu di casa.
NOTE:
[1] Letteralmente: “Vi
prego di considerarmi anche in futuro”. Italianizzata,
è uno pseudo-formale “Piacere di
conoscervi”.
[2] Lett. “Chiedo
perdono”.
[3] Vassoio contenitore con
coperchio, di varie forme e materiali, adibito a servire un pasto.
[4] Lett.
“Fantastico”.
|