Dove cresce la carice
III
Crepuscolo
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Il cocchiere arrestò la corsa al trotto degli Irish draught[¹]
dal manto baio. Il ritorno dei coniugi Mór era stato
previsto per quella mattina. A giudicare dalle epistole sempre meno
frequenti, tutta la servitù s’era allestita e
fatta cosciente di dover attendere ancora del tempo prima di veder
nuovamente tornare i due proprietari. Tuttavia, un pomeriggio di quelli
ch’annunciavano sventura, il fattorino
s’accanì sul picchiotto di bronzo, consegnando la
missiva che annunciava il ben poco lieto ritorno.
Tra i corridoi si bisbigliava che, in
fondo, non fosse tanto male vivere senza di loro: la signorina Abaigeal
non parlava con nessuno e si limitava a lasciar fare loro tutto
ciò che Lady Sadhbh disponeva – e Lady Sadhbh non
era certo austera e rigida come la contessa Mór. Il clima di
Sedge Hall non era mai stato così rilassato e calmo come in
quei giorni; la giovane proprietaria passava la maggior parte delle sue
giornate nella stanza misteriosa – così tutti
erano soliti chiamarla, poiché Abaigeal non aveva mai
permesso a nessuno di entrare lì dentro –, la
governante si concedeva il lusso di gestire la casa seduta sulla
poltrona di fronte al vasto camino della sala principale, sorseggiando
un bicchierino di whiskey, e i domestici s’organizzavano per
pulire solo quelle parti della casa che la contessa aveva
più a cuore, dimentichi della soffitta e della cantinola,
luoghi in cui non l’avevano mai vista andare –
c’era chi diceva che avesse la fobia dei ragni, altri quella
dei topi.
Abaigeal accolse i due genitori
all’entrata del muro di laterizi, con le mani strette alla
coperta che le copriva le gambe. Chinò leggermente il capo
in gesto di saluto, mormorando un semplice: «Bentornati,
padre e madre.»
«Buongiorno, cara.»
La contessa si limitò ad un distratto cenno della mano,
mentre con impacciata grazia tentava di togliersi i guanti di raso
bianco che s’impigliavano tra le pellicine delle dita
– che, a differenza di quelle della figlia, non erano poi
così affusolate come voleva far credere. «Hai
mangiato adeguatamente?»
«Sì»
rispose, e la mano del padre si portò a carezzarle la testa
in un gesto dovuto e privo d’affetto.
«Bene» le disse il
patriarca, sorpassandola per entrare nella tenuta. «Questo
è importante.»
Abaigeal s’affacciò
distrattamente con lo sguardo alla finestra del suo studio: con gli
occhi puntati sulla penosa riunione, Fearghus osservava e non capiva.
S’aspettava un incontro di quelli raccontati nei romanzi che
tanto piacevano alla ragazza, quelle storie irte di peripezie e dei
finali lieti e favolistici che vedevano il protagonista vivere una vita
serena e gioiosa. Abaigeal, però, non le appariva affatto
felice: aveva il viso mortificato e le mani che stringevano la coperta
di lana bianca sulle gambe immobili, in antitesi con le braccia pallide
e tremolanti. Il vetro era troppo opaco perché riuscisse a
capire se stesse piangendo, e tuttavia s’accorse facilmente
della mascella indurita e degli occhi gonfi, mentre la vedeva
sciogliersi con rabbia la sofisticata acconciatura su cui
s’era incaponita dalle prime luci dell’alba.
Aveva un vestito più carino
di quelli ch’era solito vederle addosso: era d’un
delizioso lampasso d’amamelide[²], ricamato con lussureggianti
fili d’oro che impreziosivano il petto minuto e la vita
sottile. S’era coricata la sera prima con in testa una
spropositata abbondanza di fiocchetti bislacchi, stranezza che lui
aveva commentato con un semplice: «A che ti servono tutti
quei nastri?»
«È per i
boccoli» aveva sbuffato infastidita la ragazza, mentre si
lasciava avvolgere dalle pesanti coperte che il giovane le aveva messo
addosso. «Così i capelli sono più
graziosi.»
Fearghus non riuscì a
trattenere la pena. Abaigeal, dalla personalità eccentrica e
un po’ svampita, non gli era mai parsa così
fragile come in quel momento, riflessa nel vetro della stanza dei
quadri, con il suo bel vestito, i suoi bei capelli ed una solitudine
che la tormentava, trascinandola nel baratro di quell’incubo
che si ostinava a chiamare vita.
Se solo avesse potuto sarebbe andato a
dirle che era stupenda e che non aveva bisogno del conforto dei
genitori per crederlo; tuttavia s’accorse lesto che
ciò che lui aveva visto in quelle settimane, lei non
l’avrebbe mai potuto apprezzare: riflessa nello specchio,
ciò che le sarebbe sempre apparso era l’orrenda
immagine d’una ragazza nata per sbaglio, un terrificante
aborto della natura, l’anomalia illogica d’un corpo
nato con le gambe e incapace di usarle. Un fallimento, progettato da un
burattinaio sadico e negligente.
Ciò che vedeva lui non
contava poi molto. Gli era capitato spesso di soffermarsi sui
lineamenti sottili della ragazza, sul naso socratico solcato da mille
lentiggini e sugli occhi cerulei, persi a fissare un panorama che aveva
visto mille volte, ma ch’era in grado di rapirla ogni volta.
Forse non era bella davvero, Abaigeal; eppure gli pareva la donna
più aggraziata che avesse mai visto, e non sapeva se fosse
dovuto all’affetto o al mero giudizio d’un uomo
che, lentamente, s’affacciava al sentimento platonico e
irraggiungibile: Abaigeal era una giovane aristocratica e lui un povero
bastardo che non aveva alcuna ragione d’insozzarla con le sue
mani sporche e peccatrici, nonostante la coscienza
gl’intimasse subdolamente che, forse, avrebbe potuto renderla
felice, portandola via da quel mondo misero e disgraziato.
Quale presunzione, la sua. Un vagabondo
stanco, con le gambe indolenzite dal troppo viaggiare e il cuore
sedotto dalla tenerezza d’una fanciulla non ancora donna e
tuttavia così amabile e raffinata, dolce e leggiadra come i
quadri che dipingeva, come le storie che immaginava. Attese impaziente il ritorno della ragazza, con la devozione
d’un cane che avesse visto il proprietario tornare dalla
vendemmia. E lui si sentiva proprio in quel modo, una bestia selvaggia
sfiorata dal sorriso malinconico di lei, addomesticata dalle sue
maniere cortesi e piene di premure.
La osservò spingersi con la
carrozzella dentro la stanza, mentre richiudeva cautamente la porta
dietro di sé. Non vi pensò molto Fearghus, prima
d’abbracciarla come avrebbe dovuto fare suo padre e sua madre
prima di lui. La strinse, impacciato da quel gesto troppo audace, che
in sé pareva più la stretta d’un
fratello rattristato che d’un amante fedele. «Abby,
piccola Abby.»
Ed Abaigeal pianse, mentre si lasciava
cullare dalla voce roca e gentile del suo ospite che le raccontava una
storia, in quella debole e opaca speranza di poterla veder tornare a
sorridere. Era l’unica cosa
che aveva imparato a fare da quando l’aveva conosciuta, e
l’unica cosa che l’aveva sempre fatta ridere. Ma
più s’ingegnava per intricar la trama,
più lei singhiozzava e si faceva piccola contro il suo
torace. «Ti hanno fatto del male» le aveva detto
poi, incapace di trattener oltre il tormento, «e nonostante
questo tu provi ancora affetto per loro.»
«Perché non mi
vogliono?» aveva singhiozzato, come fosse il capriccio
d’una bambina viziata. «Perché non
possono amarmi?»
Fearghus non sapeva risponderle, e non
provò ad inventare scuse, perché proprio non
c’era tagliato – lui – per
quelle.
«Perché sono due stupidi ciechi.» Prese
tra le mani il viso della giovane, lasciando che lo sguardo disperato
di lei si rifrangesse nell’ambra del suo. «Sono
ciechi perché non ti vedono affatto, Abby. Non vedono quanto
tu sia meravigliosa e simpatica e allegra. Non vedono quanto tu sia
brava nella pittura, né vedono quanto tu sia eccezionale nel
raccontare le storie. Non possono vederti. Ed è per questo
che non ti meritano affatto.»
Abaigeal tirò su col naso,
sprofondando ancora una volta nell’abbraccio sicuro e paterno
del ragazzo, che le stringeva la piccola vita, le baciava i capelli,
cercando di colmare il vuoto insanabile d’una
consanguineità distaccata e indifferente al suo dolore. La
cullò per tutta la notte, parlandole di tutte le cose a cui
pensava, cercando d’allontanar quei pensieri infausti e
straziati, mentre sentiva il piccolo cuoricino assopirsi e la testa
rossa farsi pesante sul suo petto.
Lì, persa nel mondo che
Fearghus continuava a narrarle, Abaigeal si sentiva un po’
meno fragile.
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If you want to I can save you
I can take you away from here
So lonely inside
So busy out there
And all you wanted was
somebody who cares.
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⚜
⚜
NOTE:
[¹] Cavalli
originari dell’Eire, Connemara.
[²] Una
gradazione di giallo.
[³] La
melancolia, a quei tempi, era considerata una forma molto grave di
depressione, che sui soggetti immunodepressi portava a perdita di peso,
inappetenza, allucinazioni e, nei casi più gravi, anche alla
morte. In questa storia è chiaramente da intendersi nella
sua accezione antica, non in quella moderna.
[⁴] Pena del
taglione, è un principio di diritto consistente nella
possibilità riconosciuta a una persona che avesse ricevuto
intenzionalmente un danno causato da un'altra persona, di infliggere a
quest'ultima un danno, anche uguale all'offesa ricevuta (Wikipedia).
[⁵] L’inno
di Dublino, risale al XVIII secolo.
[⁶] «Quella
fu la fine della dolce Molly Malone
ma il suo fantasma spinge ancora il carretto
per strade strette e larghe
gridando
"vongole e cozze vive!»
[⁷] Cimitero di
Cork.
[⁸] Le bolge sono i
gironi dell’ottavo cerchio dell’Inferno dantesco.
La settima è quella riservata ai ladri, che hanno le mani
legate dietro la schiena da serpenti e subiscono orribili metamorfosi.
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Lo sclero di ℰver ❞
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