Mike e il mio amico Mike
Kim,
per il tuo decimo
compleanno efpiano avevo pensato a qualcos’altro,
qualcosa di più,
ma come nella vita
reale… non riesco mai a farti i regali
che vorrei T.T
Scusami davvero per
questa triste storia:
non sarà una
Pattum, ma… ti vanno bene i due Mike della
band? ^^
Ma bando alle
ciance…
AUGURI! *____*
Per dieci anni di
creatività, di crescita, di scoperte,
dieci anni in cui hai
sperimentato, sbagliato, riprovato,
ma soprattutto
emozionato, stregato, commosso e divertito
con le tue SPLENDIDE storie.
Grazie, a nome di tutto
EFP,
per esserci ancora dopo
dieci anni,
per le meravigliose
recensioni, i consigli, la sincerità, l’entusiasmo.
Grazie per svegliarti
ogni giorno e dedicarti col cuore alle
tue e alle nostre storie,
grazie per essere
un’amica, una lettrice, una sostenitrice e
una fonte inesauribile di genuina fantasia.
Da parte mia, GRAZIE
per non esserti persa nemmeno una mia
storia e per averle recensite tutte da quando mi sono iscritta
– e, a
proposito, grazie per avermi iscritta!
Grazie per supportare
sempre le mie idee e le mie
iniziative, grazie per apprezzare le mie storie anche quando a me non
piacciono.
GRAZIE,
perché da dieci anni accedi ogni giorno a questo
sito
e sei semplicemente KIM
:3
Altri cento di questi
anni efpiani!!! ♥
L’auto sfreccia nel gelo della notte, prendendo in pieno le
pozzanghere formatesi sull’asfalto e sollevando schizzi a
ogni metro.
Devo dire che Mike giuda in modo un po’ troppo sfrenato
quando beve molti caffè, ma dopotutto sono tranquillo, ci ho
fatto l’abitudine.
Non faccio in tempo a tamburellare il ritmo di una canzone
sulle ginocchia che il cantante cambia stazione radio, dandosi allo
zapping
compulsivo e borbottando tra sé e sé.
“Mi stai facendo venire la nausea, Patton. Riesci a lasciare
almeno una canzone per intero?” lo
rimprovera Trey dal sedile posteriore
con uno sbuffo.
“È colpa mia se in radio passano solo musica di
merda?”
sbotta lui, armeggiando con la manopola del volume.
“No, è colpa tua se non hai nemmeno un CD in
macchina come
alternativa” gli faccio notare.
“Oh, questa lasciala!” strilla
all’improvviso Trey,
sporgendosi per potersi affacciare tra i due sedili anteriori.
Tendo l’orecchio e mi rendo conto che in sottofondo si
propagano le note della nostra Epic.
Non posso fare a meno di scoppiare a ridere di gusto nel
vedere l’espressione schifata di Mike. “Anche qui?
Ma basta, e che cazzo!”
ringhia, cambiando stazione con violenza; sembra sul punto di sfasciare
l’autoradio.
Lo capisco, anche io sono stufo di sentire ovunque il nostro
più famoso singolo, non lo possiamo evitare nemmeno ai
concerti e abbiamo
cominciato a odiarlo, ma la scena è talmente esilarante che
vorrei tanto avere
qualcosa per riprendere Patton, mentre il fumo gli esce dalle orecchie.
“Spruance, mettiti la cintura” intima Mike in tono
serio
qualche istante dopo.
“Sì, mamma” chiosa il chitarrista con un
sospiro.
“Lo sai che quando sali sulla mia macchina ci sono delle
regole da rispettare.”
“Per esempio non bere troppo caffè?”
insinuo con aria
innocente.
“La caffeina, essendo un eccitante, aiuta a rimanere svegli
e attenti. Se la gente ne bevesse di
più…” comincia a sproloquiare Mike,
punto
sul vivo.
Ma per fortuna ci pensa Trey a interromperlo. “Sì,
certo.
Che programmi avete per la serata?”
Mi stringo nelle spalle. “Dormire, probabilmente.”
“Beh, allora… stavo pensando di lavorare al testo
per quel
pezzo che ci ha presentato Bill, almeno me lo tolgo dalle palle.
Sì, si può
fare” riflette Mike tra sé.
Mi stiracchiò e sento le ossa della schiena scricchiolare; a
volte stare ore e ore seduto alla batteria non è
così salutare. “Invidio la tua
voglia di lavorare e pensare ai nuovi pezzi ventiquattro ore al
giorno.”
“Ma lo sai, Puffy, per me la musica è uno
svago…”
All’improvviso l’auto vira con violenza verso
destra e la
fiancata sfiora il guardrail, le gomme stridono sull’asfalto
bagnato.
Col cuore in gola, sgrano gli occhi e sono costretto a
sorreggermi al sedile.
“Porca puttana” sento borbottare Mike.
“Patton, che cazzo succede?” strilla Trey.
È un istante. Riesco appena a voltarmi verso il mio amico e
vedere il suo sguardo colmo di panico, i suoi disperati tentativi di
riprendere
il controllo sul mezzo, che slitta impazzito sulla strada.
Poi è tutta una serie di botti, colpi, batoste, frammenti
che volano in aria, urla, dolore, panico, sbalzi, esplosioni.
Tenuto stretto al mio posto dalla cintura, vedo il veicolo
sfasciare la barriera, riversandosi nel dosso oltre la strada. Poi
serro gli
occhi terrorizzato, incapace di guardare.
Le unghie conficcate nel tessuto del sedile.
Il cuore che batte all’impazzata.
Le orecchie talmente piene di quel frastuono da non
accorgermi se sono mie o degli altri le grida che sento.
Ho l’impressione che il mondo intero si ribalti, si
distrugga, si rovesci.
E in pochi istanti, così come è cominciato,
finisce tutto.
Attorno a me cala un silenzio surreale, interrotto solo dal
continuo scorrere delle auto in lontananza.
Mi sembra quasi appartenere a un altro mondo, la strada su
cui ci trovavamo qualche istante fa.
Resto immobile, il cuore mi pulsa fin dentro le tempie a una
velocità spaventosa.
Resto immobile perché non so che fare, non so nemmeno cosa
cazzo sia successo, non riesco a realizzarlo.
Qualche istante dopo, quando l’adrenalina inizia a scemare,
pian piano capisco e allora subentra la paura.
Abbiamo appena avuto un incidente spaventoso che ha
accartocciato la nostra auto.
Abbiamo visto la morte in faccia.
Invece sono ancora vivo. Respiro, il mio cuore batte.
Ho delle sensazioni che mi fanno capire che sono ancora qui.
Per esempio, il braccio destro mi fa male, a partire dalla spalla fino
alla
punta delle dita. Non riesco a capire se qualcosa me l’abbia
infilzato, se sia
ancora attaccato al resto del corpo o se ho soltanto preso un brutto
colpo.
Però sto bene. Sono vivo.
E Mike?
E Trey?
“Cazzo” mi lascio sfuggire tra i denti. Devo
assolutamente
trovare un modo per uscire di qui e controllare le condizioni dei miei
amici,
anche se sono davvero terrorizzato all’idea di ciò
che potrei scoprire. Ma non
potrei mai vivere nella consapevolezza di non averli assistiti, nel
caso ne
avessero avuto bisogno.
Sento qualcuno singhiozzare e mormorare alla mia sinistra,
ma non capisco da dove provenga il suono di preciso.
Però…
Questo significa che uno dei due è sveglio, è
vivo!
Nell’angusto spazio a mia disposizione, provo a voltarmi e
quel che vedo mi lascia spiazzato: Mike è cosciente, sta
piangendo
disperatamente con le mani a coprirgli il viso e il petto scosso dai
singhiozzi, mentre farfuglia qualcosa a proposito del fatto che per lui
sia
finita e che se lo sentiva.
“Mike” provo ad attirare la sua attenzione, con la
gola
secca e la voce roca.
Lui all’improvviso sembra riscuotersi, mi scruta con gli
occhi sgranati, pieni di lacrime e terrore, come se mi vedesse per la
prima volta.
“Puffy…”
Mi si stringe il cuore, sembra un bambino spaventato. Non
l’ho mai visto così prima d’ora. Se solo
penso che stavo per perderlo…
Scaccio quei pensieri e il fastidioso nodo in gola che mi si
è formato e cerco di riprendere il controllo.
“Ehi. Sì, sono qui” lo rassicuro.
“Siamo morti. Entrambi. È per quello che riesci a
vedermi,
vero?” mormora, la voce tremante e rotta.
Mi viene quasi da ridere. “No, siamo entrambi vivi.”
Distolgo lo sguardo da lui e cerco di allungare il collo –
il braccio mi brucia terribilmente a quel movimento – per
cercare di capire le
condizioni di Trey. “Ehi” cerco di richiamarlo.
La figura del chitarrista è riversa e inerme sul sedile,
stretto anche lui dalla cintura. Mike gli aveva detto di
allacciarla.
“Trey?” Sollevo il tono della voce.
Ma lui non reagisce.
Cazzo. E adesso?
È uno strattone a riscuotermi nuovamente; Mike ha allungato
una mano e si è aggrappato con disperazione alla mia
maglietta, mentre piange
ancora più forte di prima. “Io non voglio morire
adesso, non voglio morire! Ho
ancora così tante cose da fare, la musica e poi…
è tutta colpa mia, non dovevo
guidare, non devo guidare più… devo scappare
dalla macchina, andare via”
blatera tra i singhiozzi.
Mentre i suoi occhi vagano per l’auto distrutta in cerca di
una via di fuga e le sue dita stringono forte la mia maglietta, sento
il suo
respiro accelerare e mi rendo conto che, oltre al profondo shock,
rischia anche
un attacco di panico.
In questo momento la cosa che mi spaventa e mi inquieta di
più è la sua reazione, non la situazione in cui
ci troviamo. È sempre stato
così distaccato, così padrone di sé
anche nei momenti più folli, che ora averlo
così fuori controllo mi spiazza. Non so come gestirlo.
Deglutisco a vuoto. “T-tranquillo Mike, ti porto io fuori di
qui. Te lo prometto, okay? Stai calmo, andrà tutto
bene.”
Andrà tutto bene per davvero? Come faccio a rassicurarlo, se
non lo so nemmeno io?
Non mi sono mai ritenuto una persona particolarmente tenace
e coraggiosa, sono solo un ragazzo che se ne sta tranquillo e vive la
sua vita
senza grandi colpi di scena, ma adesso è tutto nelle mie
mani e so che devo
fare qualcosa.
Okay, devo pensare con ordine.
Il primo passo è slacciarmi la cintura, che cede facilmente.
Una volta libero, devo capire se la portiera – o quel che ne
rimane – si può
aprire.
“Puffy?” Mike mi richiama con un filo di voce.
Gli rivolgo giusto un’occhiata: si stringe le braccia al
corpo e guarda davanti a sé con gli occhi spalancati.
“Sì?”
Non posso muovere il braccio destro, mi fa troppo male, così
dovrò tentare con la mano sinistra.
“Dov’è Trey?”
Mi mordo il labbro inferiore. “È dietro”
ribatto, cercando
di mantenere un tono neutrale, quasi allegro.
Cerco a tentoni la levetta per aprire lo sportello e la
tiro. Si apre. Oh, perfetto!
“È morto, vero? Non ce l’ha fatta.
L’ho ucciso! È per questo
che non parla… Trey…” grida Mike
isterico, per poi scoppiare di nuovo a
piangere.
“No, non è vero, non è così.
Ascoltami: lui è ancora vivo,
infatti noi dobbiamo uscire dalla macchina così, quando
arriveranno i soccorsi
per aiutarlo, faranno ancora più in fretta” gli
spiego con calma, come se
stessi parlando a un bambino. In effetti sembra proprio quello
l’attuale stato
mentale del cantante, ha vissuto un grosso trauma.
“Non voglio morire, non voglio!” strilla ancora
lui,
serrando gli occhi con forza. È come se nella sua mente
stesse rivivendo di
nuovo l’incidente.
Mi sta facendo paura. Devo darmi una mossa.
Scendo dall’auto e mi accorgo che siamo stati proprio
fortunati: non si è ribaltata. O meglio, non so dire cosa
sia successo, ma in
ogni caso siamo atterrati dritti, giusto un po’ inclinati
verso destra.
Mi metto in piedi a fatica e a quel punto mi accorgo di
tutti i dolori che mi attraversano il corpo, primo fra tutti quello al
braccio,
ma per fortuna le gambe sembrano integre e riesco a camminare
più o meno bene.
Mentre circumnavigo il veicolo distrutto, mi costringo a non
osservarlo, non
soffermarmi sui dettagli; la realtà è ancora
troppo dura e concreta da
accettare, non voglio sapere in che condizioni è.
Una volta giunto alla portiera ammaccata e deformata del
lato del guidatore, la spalanco con forza e questa si scardina
completamente,
uscendo dalle guide. In altre occasione avrei riso a trovarmi con uno
sportello
d’auto tra le mani, ma ora non ne ho voglia; lo scaravento di
lato, in mezzo
agli altri rottami che si sono staccati e sono finiti a terra, e cerco
di
chinarmi per scrutare e parlare a Mike.
Lui mi fissa come se fossi un alieno, le iridi scure ancora
piene di lacrime.
“Ascoltami, devi liberarti della cintura di sicurezza. Ce la
fai?” gli chiedo.
“Sono in trappola.”
“No, adesso ti faccio uscire. Però, per favore, ti
devi
togliere la cintura. Riesci a muoverti e a farlo?”
Finalmente lui sembra capire ed esegue ciò che gli ho
chiesto. Apparentemente non ha problemi gravi alle braccia e alle mani,
ma noto
una smorfia di dolore ogni volta che muove la testa. Forse
l’ha sbattuta e ha
un trauma cranico, forse è per questo che si comporta in
maniera strana.
“Okay, adesso prova a uscire.”
“Mi fa male la gamba destra” piagnucola.
Deglutisco e mi domando se sto facendo la cosa giusta: nei
film, quando capitano incidenti di questo tipo, intimano ai malcapitati
di non
muoversi fino all’arrivo dei soccorsi. Ma Mike ha il respiro
accelerato e temo
che la situazione non migliorerà se rimarrà
ancora dentro questa fottuta
macchina.
“Così tanto da non riuscire a muoverti?”
Mi fissa con un’espressione spaventata e non ribatte, ma
pian piano si muove e posa a terra il piede sinistro.
Gli regalo un sorriso incoraggiante e gli tendo una mano per
aiutarlo; lui la afferra e la stringe forte, poi con un mugolio si
trascina
definitivamente fuori. La gamba destra non riesce a sorreggerlo bene,
così si
appiglia a me per mantenersi in equilibrio e mettersi in piedi.
Non solo: mi abbraccia. Con disperazione, con necessità,
come non aveva mai fatto prima. Mi si butta letteralmente addosso,
fregandosene
dei miei e dei suoi dolori, stringendomi come se fossi il suo unico
punto fisso
in mezzo a un uragano.
Mi viene quasi da ridere al pensiero che sia proprio Mike
l’artefice di un gesto del genere, proprio lui che evita gli
abbracci e
qualsiasi contatto troppo invasivo, che preferirebbe essere torturato
piuttosto
che raccontare e manifestare i suoi sentimenti.
Eppure cosa mi resta da fare se non ricambiare? Anche se
posso farlo solo col braccio sinistro, lo stringo forte a me e lo
lascio
accoccolare sulla mia spalla, lo sento tremare come una foglia e
sobbalzare per
via dei singhiozzi, sembra così fragile mentre mi sommerge
di lacrime.
attorciglia le dita ai miei dreadlocks e li tira, respira
affannosamente e si
lascia sfuggire qualche rantolo strozzato.
“Quindi tu sei vivo… e lo sono
anch’io… Puffy, ti voglio tanto
bene…”
Sento le lacrime pungermi agli angoli degli occhi, ma non
devo cedere, non è il caso. Devo essere forte e padrone di
me, almeno io.
La verità è che non me l’aspettavo.
“Anche io. Ti fa male la gamba?”
“Mi fa male ogni singola fottuta parte del corpo.”
Scoppio a ridere e non so nemmeno perché. È tutto
così
surreale…
“Oh mio dio!” Una voce alle nostre spalle mi
raggiunge,
riportandomi alla realtà. Tuttavia non mi preoccupo di
voltarmi e qualche
secondo più tardi una figura maschile
dall’età non meglio identificata entra
nel mio campo visivo. “Che casino… ragazzi, state
bene?”
“Non che uno possa ritenere di star bene dopo aver quasi
perso la vita” commento con una risatina nella speranza di
stemperare
l’atmosfera, ma la mia uscita è veramente infelice.
“Scusami, è una domanda stupida. Vi serve
qualcosa?”
Mike si stringe ancora di più a me e inizia a mugolare col
volto ancora seppellito nella mia spalla; non smette di tremare, non
reagisce
neanche quando lo chiamo.
Come se non bastasse, attorno a noi si sta raccogliendo un
gruppo di persone che, oltre a non essere di nessun aiuto, non fanno
che
mormorare, piagnucolare e commentare. Tra l’altro qualcuno ci
ha addirittura
riconosciuti come membri dei Faith No More.
Disperato, sollevo lo sguardo sul mio interlocutore. “Senti,
il mio amico ha un attacco di panico, lo porto lontano di qui
perché tutta
questa gente lo innervosisce. Potete per favore chiamare i soccorsi?
C’è un
altro ragazzo nella macchina.”
“Li abbiamo già chiamati, arriveranno a
breve.”
Sollevato, annuisco e trascino Mike qualche metro più in
là,
evitando come posso gli ostacoli disseminati a terra. Lui cammina a
fatica e
non sembra intenzionato a lasciarmi andare, questo complica ancora di
più la
situazione.
Mi fermo accanto a una gomma che è saltata via dalla
macchina e mi guardo attorno: la quiete che ci circonda mi provoca
un’orribile
sensazione alla bocca dello stomaco. È tutto esattamente
uguale a prima, eppure
mi sembra di essere precipitato in un altro mondo.
“Ehi, Mike.” Con movimenti goffi, provo ad
allontanare
delicatamente il cantante da me, voglio guardarlo in faccia per capire
il suo
stato.
Lui fatica a stare in piedi, così si appiglia alla mia
manica, ma non oppone resistenza. Ora il suo respiro sta tornando
regolare,
anche se nei suoi occhi alberga un’espressione allucinata.
“Vuoi sederti?” gli chiedo con premura.
“No.”
“Hai bisogno di qualcosa?”
Ma lui sembra non sentire la mia domanda: i suoi occhi sono
persi alle mie spalle, ispezionano la scena che si sta svolgendo dietro
di me.
L’auto distrutta, la gente radunata tutta intorno, le sirene
dell’ambulanza che
cominciano a percepirsi in lontananza.
E un lampo di consapevolezza e improvvisa lucidità gli
attraversa gli occhi. Come se si fosse risvegliato, come se avesse
capito.
Prende un profondo respiro per poi espirare bruscamente,
infine mi lascia andare di scatto e mi dà le spalle. Gli fa
male stare dritto
in piedi senza appiglio, ma non lo dà a vedere.
“Voglio un caffè.” Il suo tono
è fermo e irremovibile,
sembra appartenere al solito Mike. È tornato in
sé.
La cosa mi spiazza: come diavolo ha fatto a cambiare così
repentinamente?
“Non credo sia possibile” mormoro.
“Come sarebbe a dire? Stavo per morire e non posso avere
nemmeno un fottutissimo caffè?” ringhia,
allontanandosi di qualche passo. Trema
vistosamente, ma stavolta per la rabbia.
“Cerca di ragionare: a meno che non abbiano una macchinetta
del caffè sull’ambulanza…”
provo a ribattere, ma lui mi interrompe con un grido
isterico.
“Io sto ragionando, okay? Lo sto facendo! E voglio un cazzo
di caffè, adesso! E voglio bruciare la mia merdosa patente,
tanto non guiderò
mai più, e voglio che questa macchina sparisca e anche tutta
questa gente che è
qui senza fare niente, sono tutti rincoglioniti! Potevano almeno farmi
un caffè
e…”
Faccio un passo verso di lui e cerco di attirare la sua
attenzione posandogli una mano sulla spalla, ma lui si ritrae come se
l’avessi
scottato; si volta di scatto e mi fulmina con un’occhiata
talmente truce da
farmi paura. Temo davvero che voglia farmi del male. “Non
toccarmi” sibila.
Prendo un profondo respiro e mi porto una mano sulla fronte.
Capisco il trauma, ma sembra quasi volermi prendere per il culo.
“Anch’io ero dentro quella macchina, so
cos’hai vissuto, ma…”
“Ma vaffanculo Bordin, vai a farti fottere! Ho visto la
morte in faccia, ho pensato che fosse finita e ho quasi ucciso altre
due
persone! Questo lo capisci, eh? Capisci cosa vuol dire essere
responsabile di
una cosa del genere, eh?! No, non lo capisci, non capisci mai un cazzo!
E ora è
pieno di gente che ci guarda e ci fa le foto e domani su tutti i
giornali
usciranno una valanga di articoli che parlano di noi e del nostro
incidente,
mentre io sarò in un fottuto ospedale e non
riuscirò a dormire per via degli
incubi, porca puttana! Voglio un caffè!”
D’accordo, il mio lavoro qui è ufficialmente
finito. Ho
aiutato Mike finché poteva, gli sono stato accanto mentre
era in crisi e ora il
mio ruolo è fargli da bersaglio mentre sfoga tutto lo stress
accumulato.
Dopotutto mi va bene così, rispecchia perfettamente
ciò che
è il nostro rapporto. Non mi arrabbio, non lo farei mai e
non ne ho motivo,
soprattutto non ora che il cantante non è in sé.
Non ribatto, mi limito a osservarlo mentre continua a
imprecare e bofonchiare tra sé, cercando di camminare come
può e incespicando
ogni due passi.
Forse dovrei fermarlo, rischia di peggiorare la sua
situazione, ma non so come fare. In genere è Bill quello che
riesce a farlo
calmare.
Già, Bill. Avrei proprio bisogno di lui in questo
momento…
ma no, meglio che non ci sia, sarebbe tremendamente in ansia.
E devo pure avvisare mia moglie…
“Siete voi i ragazzi che hanno avuto
l’incidente?”
Mi volto lentamente e mi ritrovo faccia a faccia con un
giovane paramedico che mi scruta con le sopracciglia aggrottate.
“Sì. Io sono Mike e lui è il mio amico
Mike” gli spiego con
un sorrisetto, indicando il cantante che ancora borbotta per i fatti
suoi a
qualche metro da me, poi torno serio. “Come sta
Trey?”
“Intendi…”
Annuisco. “L’altro ragazzo che c’era in
auto.”
“Lo stanno portando fuori.” La sua espressione
è
imperscrutabile, non riesco a cogliere nessun indizio.
“Comunque, come vi è
saltato in mente di uscire dalla macchina e andarvene a zonzo
così? Potreste
avere delle fratture e dei traumi gravi, dovevate restare fermi! Tu
riesci a
salire in ambulanza? Vado a recuperare il tuo amico Mike
che zoppica
terribilmente…”
“Non sarà così facile
convincerlo” lo avverto, ma lui mi
ignora e si avvicina a Mike. Quest’ultimo si innervosisce
subito e inizia a
urlargli contro, chiedendogli del caffè.
Stufo di quella faccenda, lascio il povero medico a
combattere con quella causa persa di Mike e mi avvicino alla macchina,
da cui
una squadra di soccorritori sta portando fuori un Trey ancora privo di
sensi.
“Come sta?” chiedo loro allarmato, facendo qualche
passo
avanti.
“Fai largo, per favore. Stai indietro” mi intima
distrattamente qualcuno.
Hanno già disposto una barella con cui trasporteranno il
corpo del chitarrista.
Sospiro. “Vi prego, ditemi qualcosa sulle sue condizioni!
Sono un suo amico, ero con lui in macchina…”
Una ragazza della squadra mi lancia un’occhiata preoccupata.
“Anche tu sei una vittima dell’incidente? Ti
accompagno subito in ambulanza e
cerco di capire quali sono i danni… cosa ci fai in giro? Ti
fa male qualcosa?”
mi domanda apprensiva, piazzandomisi di fronte.
Scuoto il capo. “Non me ne vado finché Trey non
sarà fuori
da quell’auto.”
“Ma…”
“Niente ma! Ho già perso un
amico per un incidente
del genere, non ho intenzione di andarmene così”
sbotto.
E mi rendo conto di quanto siano dolorose quelle parole: ho
già vissuto tutto ciò, Cliff se
n’è andato per un incidente stradale, questo
è
un fottuto deja-vu.
Tutto comincia a farsi sfocato mentre la realtà mi crolla
addosso ancora e ancora. I paramedici mi dicono che Trey è
vivo, il suo cuore
batte e il respiro è regolare, che la situazione
è stabile e probabilmente ha
solo battuto la testa e perso i sensi; ma l’unica cosa a cui
riesco a dare
importanza è il suo corpo disteso sulla barella mentre lo
portano dentro una
delle due ambulanze a nostra disposizione.
Allora una lacrima sfugge al mio controllo, qualcosa dentro
il mio cuore si spezza, i dolori e la tensione iniziano a farsi sentire
tutti
insieme.
“Vi prego, posso salire con lui? Non
posso…” imploro i
medici, correndo verso l’ambulanza, ma i portelloni si
richiudono troppo
velocemente e il mezzo schizza via sulla stessa strada bagnata con il
guardrail
sfasciato su cui viaggiavamo anche noi. Con gli occhi pieni di lacrime,
lo
osservo mentre si allontana.
“Andiamo?” La ragazza di poco fa mi è
piombata nuovamente a
fianco e stavolta non ci sono scuse, mi porterà dentro
l’ambulanza.
Annuisco senza incrociare il suo sguardo – detesto mostrarmi
così fragile – e la seguo.
Una volta all’interno mi mordo il labbro per trattenere i
singhiozzi e mi passo la manica sinistra sugli occhi, poi mi guardo
attorno:
hanno immobilizzato la gamba a Mike e – incredibile!
– gli hanno dato un caffè
fumante in un bicchierino di plastica, che ora sorseggia con fare
soddisfatto.
Sembra essersi calmato per il momento, anche se ha lo sguardo perso nel
vuoto e
la mente altrove.
Mi fanno sedere su un lettino accanto a lui.
Io non lo guardo.
Lui non mi guarda.
Sa che sto piangendo, ma non dice niente e a me va bene
così.
Preferirei essere invisibile in questo momento.
“Puffy! Porca puttana!” Bill irrompe nella stanza
come un
uragano: è pallido come un fantasma, si torce nervosamente
le dita e ha gli
occhi sgranati. Mi si precipita addosso e si trattiene dallo stringermi
in un
abbraccio solo perché nota il mio braccio destro
completamente ingessato e il
resto delle medicazioni sparse per il corpo.
Rido. “Billy, dai, calmati, siamo ancora vivi!”
“E meno male, mi è sceso un infarto quando ho
saputo
dell’incidente! Quell’altro che rischia di andare
in overdose, voi che
accartocciate una macchina… cazzo, avrò bisogno
di uno psicoterapeuta per stare
ancora in questa band!” commenta lui in tono lugubre, per
nulla divertito.
Sospiro e mi stringo nelle spalle. “Mi dispiace. Poteva
andare peggio. A Roddy non l’hai detto, vero?”
Bill scuote il capo e si accomoda accanto a me. “Ci manca
solo che per l’ansia si spari una doppia dose e allora
toccherebbe a lui venire
d’urgenza al pronto soccorso. E hai già avvisato
la tua donna?”
“Sì, ci raggiungerà anche lei. Sai,
Mike ha dato di matto
dopo l’incidente” gli racconto. Ancora mi sembra
incredibile ciò che è successo
e che ho vissuto.
“Perché, quand’è che non
dà di matto?” sogghigna lui.
Ridacchio a mia volta. “Si comportava come un bambino, gli
è
venuto un attacco di panico, mi ha abbracciato, ha detto di volermi
bene…”
Il bassista sgrana gli occhi incredulo. “Stava male
davvero.”
“I medici hanno detto che ha avuto uno shock enorme che
l’ha
portato prima a regredire quasi a uno stato infantile, poi a sfogare
tutto con
una crisi isterica, e che probabilmente non ricorderà niente
dell’accaduto.”
“Come se non fosse in sé? Insomma, come quando
sale sul
palco?”
Scoppio a ridere e gli batto una pacca sulla spalla con la
mano sana. “Esatto. Sai, si sente responsabile
perché era alla guida, penso che
a scioccarlo sia la consapevolezza di aver quasi ucciso due persone,
oltre che
di essere quasi morto.”
Bill si fa serio e mi scruta, i suoi occhi sono pieni di
malinconia. “Non fate mai più scherzi del
genere.” Detto ciò, mi si avvicina e
mi stringe cautamente in un abbraccio, stando attento a non farmi male.
Ricambio come posso e mi rendo conto di quanto sono
fortunato a poterlo fare ancora una volta. Non avrei mai sopportato di
andarmene e lasciare da solo Bill, uno dei miei migliori amici, oltre a
tutte
le altre persone che amo.
Quando sciogliamo l’abbraccio, lui ha gli occhi lucidi, ma
cerca di nasconderlo e si mette in piedi, stiracchiandosi.
“Bene, è giunto il
momento di andare a trovare Patton. Sai
dov’è?”
Mi metto in piedi a fatica, una fitta mi attraversa la
schiena. “Penso sia con Trey.”
Insieme ci incamminiamo nella stanza accanto, in cui il
chitarrista è tenuto sotto osservazione, dal momento che
ancora non ha ripreso
conoscenza.
Eppure siamo costretti a ricrederci quando, ancora in corridoio,
sbirciamo oltre la porta aperta e vediamo Trey schiudere timidamente
gli occhi;
Mike, accanto a lui su una sedia a rotelle, si sporge verso di lui con
preoccupazione e impazienza.
Trey mormora qualcosa che non siamo in grado di sentire,
allora Mike gli afferra una mano e la stringe forte tra le sue. I suoi
movimenti sono limitati dalla gamba fasciata e dal collare che gli
blocca il
capo, ma da quel piccolo gesto emerge tutto l’affetto che
prova per il suo
amico e il sollievo nel vederlo di nuovo vigile.
Anche io tiro un sospiro e mi rilasso: non conosco benissimo
Trey e probabilmente non ci avrò mai il rapporto che scorre
tra lui e Mike, ma
mi sono affezionato a lui e sono contentissimo che si stia riprendendo.
“Si vogliono bene” mormora Bill, colpito da quella
scena.
Sorrido tra me. Probabilmente Mike non ricorda niente di
quello che è successo sul luogo dell’incidente, e
se mai si ricordasse non
ammetterebbe mai di avermi abbracciato e di essersi appigliato a me, ma
non fa
niente. Il mio dovere è stato fatto, mi va bene anche
così.
Io e Bill ci scambiamo uno sguardo pieno di significato e so
che ha capito, non c’è bisogno che glielo dica.
“Entriamo?” mi chiede.
“Entriamo.”
♠
♠
♠
Io veramente non so nemmeno cosa dire a riguardo di quello
che avete appena letto, non lo so e non so nemmeno se sono soddisfatta
o meno, boh,
so solo che è un delirio e spero possa piacere a qualcuno :D
Però la stesura di questa storia mi è servita per
arrivare a
una conclusione – anzi, consolidarla: voglio troppo bene a
Puffy :3
So che forse non sono riuscita a caratterizzarlo
egregiamente, nonostante sia la voce narrante, ma capitemi, questo
batterista è
troppo enigmatico e lo devo ancora capire bene :P
Per quanto riguarda gli eventi narrati, ho un po’ di note e
precisazioni
da fare!
Allora, la storia si basa su un evento realmente accaduto a
metà degli anni Novanta, ai tempi di King For A
Day… Fool For A Lifetime,
ovvero il primo album in cui non c’è Jim Martin
come chitarrista e che la band
ha registrato con Trey Spruance. Quest’ultimo era
già da prima amico di Mike
Patton, in quanto chitarrista dei Mr. Bungle, ma che è
rimasto nei Faith No
More solo per l’album sopracitato.
Nell’incidente d’auto (di cui si sa poco e niente)
sono
stati davvero coinvolti Mike Patton, Mike “Puffy”
Bordin e Trey Spruance, e a
quanto pare era proprio il cantante a essere alla guida; è
stato davvero
orribile per loro che l’hanno vissuto, hanno rischiato grosso
ed è stato un
momento di grande paura e anche riflessione.
Tutto il resto me lo sono immaginato io, dato che non si sa
praticamente niente ^^
Quando Puffy accenna a Cliff, l’altro suo amico che ha perso
la vita in un incidente stradale, si riferisce a Cliff Burton, che
è stato il
bassista dei Metallica fino al 1986 – anno in cui il tour bus
della sua band ha
avuto un brutto incidente. Sono riusciti a salvarsi tutti tranne lui.
Mike Bordin, Cliff Burton e Jim Martin erano veramente amici
e hanno suonato insieme in una band quando erano ancora molto giovani.
Per quanto riguarda la moglie di Puffy, il batterista ha
sposato Merilee nel 1994, dopo che erano fidanzati da dieci anni
– non è una
cosa romantica? *-* – quindi al momento
dell’accaduto dovrebbero essere,
secondo i miei calcoli, novelli sposi.
Quando Mike Patton sclera e pretende di avere un caffè, ho
fatto riferimento alla sua reale ossessione per questa bevanda, non
riesce a
vivere senza o a iniziare una giornata… si può
definire una dipendenza XD
Quando Bill parla di “quell’altro” che
rischia di morire di
overdose, si riferisce a Roddy, il tastierista della band, che proprio
in quel
periodo stava combattendo con la sua dipendenza da eroina.
Infine: il titolo è tratto dal testo di Digging
The Grave,
singolo proprio di quel periodo ^^
E niente, è il caso di chiudere qui queste chilometriche
note XD
Grazie a chiunque abbia letto, chi frequenta questa
categoria sa che in genere i FNM ispirano demenzialità ma
stavolta ho voluto
rischiare, provare a raccontare un episodio un po’ diverso e
dal sapore più
drammatico, spero sia piaciuto :)
Alla prossima!!! ♥
E ANCORA TANTI AUGURI KIM *___________*
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