StevRog
Keep your fire
burning inside
The first time I ever
saw you
You had that far away look in your eyes
And heaven's eyes shined down upon you
And the whole room filled up with light
Now the cruel world it's gonna try and change you
Try to hang you up and mess with your pride
[Slash ft. Chris
Cornell – Promise]
Accosto la volante al ciglio della strada e mi lascio
sfuggire un’imprecazione. Ho sempre detestato i giri di ricognizione nei
quartieri degradati come questo, soprattutto di notte, il momento della
giornata in cui tutto il marcio viene fuori e si confonde nell’oscurità delle
vie poco illuminate.
Lo detesto perché mi ricorda il mio passato da ribelle,
perché mi capita di incappare in tanti piccoli Roger disgraziati che non sanno
cosa fare della loro vita e ricorrono a qualsiasi forma di delinquenza pur di
sopravvivere in questo mondo crudele; così mi ritrovo scisso tra il senso di
dovere derivante dal mio lavoro e l’istinto di lasciar correre, chiudere un
occhio e fare finta di niente, come tanti poliziotti magnanimi hanno fatto con
me al mio tempo.
Scendo dall’auto e poso la schiena sulla carrozzeria, per
poi frugarmi in tasca alla ricerca di sigarette e accendino. Mi guardo attorno:
la strada è deserta, la luce della luna piena è talmente forte da compensare la
scarsa illuminazione data da alcuni lampioni fulminati per metà; ogni tanto
qualche folata di vento trascina alle mie orecchie qualche rumore lontano, per
il resto tutto tace. Fa anche un freddo cane e io ho tutta l’impressione di
star perdendo tempo prezioso qua fuori, ma il mio superiore mi ha imposto una
nottata di sorveglianza perché, a detta di qualche soffiata anonima, in questo
quartiere ci sono dei movimenti loschi e sospetti ultimamente.
Mi accendo una sigaretta e prendo una boccata di fumo, per
poi ributtarlo fuori con uno sbuffo irritato. Che stronzata, è dall’alba dei
tempi che in questa zona si radunano tutti i criminali, le gang e i teppistelli
di strada, come se fosse una novità.
Los Angeles è una città criminale nella sua interezza e lo
sarebbe anche con una pattuglia a ogni metro.
Ma anche questo fa parte del mio lavoro e lo devo fare.
Una folata di vento più forte delle altre tenta di spegnere
la mia stecca di tabacco e io mi volto nel tentativo di proteggerla, stringendomi
nella giacca della mia divisa. Quest’autunno si prospetta molto rigido.
Mi guardo attorno per l’ennesima volta con fare annoiato e
allora noto una figura esile e slanciata che, all’altro lato della strada,
svolta veloce l’angolo e cammina a passo spedito sul marciapiede dismesso.
Affilo lo sguardo nel tentativo di capirne di più: sembra essere una ragazza a
giudicare dalla corporatura e dai capelli lunghi, a una seconda occhiata noto
anche i suoi abiti succinti e luccicanti che riflettono la luce della luna.
Incrocio le braccia al petto e guardo altrove. Non appena si
accorgerà della mia presenza, se la filerà in fretta così come è arrivata.
Mi porto nuovamente la sigaretta alle labbra, inspiro ed
espiro; ma quando il fumo si dirada davanti al mio volto, mi sorprendo nel
constatare che la ragazza di prima non se n’è ancora andata, anzi, sta
attraversando la strada ed è diretta nella mia direzione. Inarco un
sopracciglio: curioso, in genere le prostitute si tengono lontane dalla polizia
per evitare di incorrere in qualche guaio.
“Ehi, sbirro!” mi richiama in tono concitato, quando si
trova a pochi metri da me.
“Non sono interessato a nessun servizio, grazie. Se sparisci
dalla mia visuale entro trenta secondi, farò finta di non averti mai
incontrato” affermo cercando di mostrarmi neutrale, ma finisco per risultare
leggermente seccato.
“Mi hai preso per pazza? Non sarei mai venuta a chiederti
niente! Ma c’è bisogno del tuo aiuto, si tratta di un ragazzo!” ribatte
piccata, ma sul finire la sua voce si fa stridula e ansiosa.
Ora che ce l’ho più vicina, posso osservare meglio il suo
viso: i lineamenti marcati e dai tratti mediterranei sono distorti da qualcosa
simile alla preoccupazione, sembra molto agitata.
Okay, forse è il caso che la stia a sentire. Una puttana non
verrebbe mai a chiedere aiuto a uno sbirro, se non per una ragione davvero
importante.
“Un ragazzo?” indago, riponendo il mozzicone nel mio
posacenere portatile.
“È a circa un centinaio di metri da qui, poco dietro
quell’angolo” spiega, accennando alla viuzza dalla quale è sbucata. “Io e due
mie amiche l’abbiamo trovato a terra, è cosciente e vigile ma non ha detto una
sola parola, non sappiamo se è ferito! Gli abbiamo chiesto se è stato
aggredito, se riesce ad alzarsi, ma non ci ha risposto… non fa niente a parte
fumare e fissarci con gli occhi sgranati! Jenny e Siria sono rimaste con lui,
io mi sono allontanata per cercare aiuto e…”
“D’accordo, non preoccuparti, adesso me ne occupo io.
Portami da lui” la interrompo in tono fermo.
Non sembra un caso tanto eclatante perché se ne occupi la
polizia, magari il ragazzino ha esagerato con la droga e adesso è sotto shock,
capitano troppo spesso eventi del genere; tuttavia la mia interlocutrice mi
sembra in ansia ed è chiaro che lei e le sue colleghe non sanno come gestire la
situazione.
La seguo per il marciapiede e, una volta svoltato l’angolo,
avvisto un capannello di gente radunato sul ciglio della strada; oltre alle due
ragazze già menzionate, qualche altra persona deve essersi accostata, forse
qualche ragazzino ribelle diretto a qualche festa nei paraggi.
Io e la prostituta – mi sono scordato di chiederle il nome,
cazzo – affrettiamo il passo e raggiungiamo il gruppetto, da cui si leva un
mormorio sommesso.
Afferro il mio distintivo e lo sollevo in aria in modo che
sia in bella mostra. “Polizia, fate largo, lasciatemi passare. Su, che state
aspettando? Levatevi, d’ora in poi me ne occupo io!” sbotto, mentre i ragazzini
presenti indietreggiano e si scostano di malavoglia, borbottando e bisbigliando
tra loro.
Dopo essermi liberato il passaggio, muovo un altro passo
avanti e poso lo sguardo sulla figura accovacciata sul bordo del marciapiede e rannicchiata
su se stessa.
Il mio cuore perde un battito e mi pietrifico sul posto.
Quella cascata di capelli biondi.
Quel corpo minuto e fin troppo magro.
Quella carnagione chiara e i lineamenti troppo dolci per
appartenere a un adulto.
E quegli occhi.
“Steven” mi lascio sfuggire tra le labbra in un sussurro.
Nei mesi precedenti avevo incontrato tante persone, risolto
molti casi, eseguito molti arresti, ma quel ragazzo non aveva abbandonato la
mia mente nemmeno per un secondo, vi si era impresso in maniera indelebile. Avevo
serbato nel mio cuore la speranza che quel biondino avesse seguito i miei
consigli e avesse abbandonato la vita di strada per trovare qualcosa di meglio,
avevo segretamente sperato di rivedere anche solo per un istante il suo volto
paffuto, il suo sorriso che sembrava uno spicchio di sole e il suo sguardo così
sfrontato e fragile allo stesso tempo…
Ma mai avrei pensato di potermelo trovare davanti in quello
stato, avvolto da vestiti troppo leggeri e in preda a forti tremiti, col
mozzicone di uno spinello ormai spento ancora tra le dita.
E quegli occhi… le sue iridi sono colme di un terrore
talmente immenso da spegnerle e incupirle.
Un brivido – forse di freddo, ma non ne sono sicuro – mi
attraversa il corpo e allora mi riscuoto all’improvviso, tornando alla realtà.
Devo fare qualcosa, non so cosa. Strano che un poliziotto
tutto d’un pezzo come me sia in difficoltà, vero?
Per prima cosa devo scoprire cosa è successo a Steven, magari
provare a trascinarlo in centrale o in qualsiasi posto caldo e protetto, dove
possa stare meglio. Normalmente penserei a un comune viaggio mentale dettato da
qualche sostanza stupefacente, ma nel suo sguardo ho letto di più: una lucidità
fin troppo viva.
Mi accuccio davanti a lui in modo da poter essere alla sua
altezza, sento il suo sguardo insistente addosso, intento a studiare ogni mio
singolo movimento, all’erta.
“Ehi Steven, ti ricordi di me? Sono l’agente Meddows-Taylor.
Roger. Ci siamo incontrati un bel po’ di tempo fa, hai presente?” mormoro col
tono più pacato possibile, ho paura che anche una sola parola o un solo
movimento troppo brusco possano spaventarlo.
Lui annuisce, è un gesto appena percettibile ma che mi
attraversa il cuore come un lampo.
Si ricorda di me.
“Agente, che cos’ha?” mi domanda un ragazzino dai capelli
quasi del tutto rasati.
Mi volto nella sua direzione e gli lancio un’occhiata in
tralice. “Di’ un po’, ti sembro un medico in grado di dare una diagnosi alla prima
occhiata? Sto cercando di capirlo!”
“Secondo me ha fumato troppo” suppone una delle amiche della
prostituta che mi ha chiesto aiuto.
“Magari è ferito ed è per questo che non riesce ad alzarsi”
aggiunge un’altra ragazza.
“Ma se non sta sanguinando!” osserva qualcun altro.
“Magari ha una frattura.”
“O magari…”
Scatto in piedi, facendo sobbalzare tutti, e incenerisco con
lo sguardo quei mocciosi uno per uno. “Quando vi ho detto di spostarvi
intendevo proprio levarvi dai piedi! Questo ragazzo ha bisogno di aria e
di stare tranquillo, così come io ho bisogno di concentrazione per capire
cos’ha! Ora, siccome tutti voi state violando la legge almeno in un modo, vi
conviene smammare se non volete fare un giretto in centrale!” sbraito,
decisamente stufo di averli attorno.
Le tre prostitute non se lo fanno ripetere due volte: girano
sui tacchi e spariscono dietro l’angolo, veloci come la luce.
“Senti un po’, sbirro: la strada è nostra, io voglio sapere
cosa è successo a questo ragazzo e poi sono pulito!” mi sfida invece un tipo
sulla ventina dai lunghi capelli e l’aspetto trasandato.
“Ah sì? Quindi non ti dispiacerà mostrarmi cosa rende così
gonfia la tasca della tua giacca” insinuo, accennando con sospetto
all’indumento in jeans che indossa.
Lui subito abbassa lo sguardo e indietreggia di un passo,
per poi allontanarsi insieme ai suoi amici.
Lascio correre e torno a concentrarmi su Steven; ci saranno
altre occasioni per indagare sul traffico di droga. Finalmente la strada è
deserta e posso provare a comunicare con Steven.
Non avrebbe mai parlato con tutta quella gente sconosciuta
intorno a lui.
Mi accomodo sul marciapiede al suo fianco e mi sporgo un po’
in avanti per poterlo scrutare in viso. “Ehi Steve, adesso siamo solo io e te,
puoi stare tranquillo” esordisco, piuttosto a disagio. Non sono per niente
bravo con le parole, la delicatezza non è il mio forte.
Steven mi scruta con gli occhi sgranati; qualche ciocca
bionda gli ricade sul viso, ma non si preoccupa di scostarla.
Vorrei tanto farlo io, come l’altra volta. Vorrei tanto
stringerlo a me, essere il suo appiglio e proteggerlo da qualsiasi cosa abbia
vissuto, ma non mi azzardo a sfiorarlo per paura di infastidirlo.
“Cazzo, ho sperato davvero di non ritrovarti in una
situazione del genere. Mi sarebbe piaciuto rivederti, ma non in questo stato”
commento con un sospiro. Dal momento che lui sembra incapace di parlare, forse
è meglio che per il momento lo faccia io. Magari troverò qualcosa che lo faccia
reagire e aprire.
“Come mai sei qui fuori senza una giacca?” gli chiedo, dando
una veloce occhiata alla t-shirt in cotone che indossa. Decisamente troppo
leggera per una serata autunnale.
In tutta risposta, lui serra le labbra, abbassa lo sguardo e
stringe più forte tra i polpastrelli la stecca d’erba consunmata. Quella
domanda sembra averlo infastidito.
Okay, devo continuare su quella strada.
“Qualcuno te l’ha rubata? O l’hai dimenticata da qualche
parte?”
Steven mugugna appena e si accuccia ancora di più,
stringendosi le braccia attorno al corpo, senza smettere di tremare come una
foglia; ora ha di nuovo sollevato lo sguardo e mi fissa spaventato, quasi
disperato.
Quegli occhi sono come una pugnalata. Li ho conosciuti così
sfrontati e pieni di luce, li ho visti riempirsi di lacrime e trasudare
fragilità, ma in quel momento sono lo specchio del terrore di un’anima
duranmente calpestata.
Cosa ti è successo, Steven?
Sospiro nuovamente mentre mi sfilo la giacca, sono coperto
abbastanza per poter stare senza. La poggio con delicatezza sulle spalle del ragazzino,
sperando che questo lo aiuti almeno un minimo; nel farlo, sto bene attento a
non sfiorarlo nemmeno una volta con le dita, dal momento che sembra restio a
qualsiasi contatto.
Proprio lui, così espansivo e affettuoso.
I suoi lineamenti si addolciscono appena mentre si stringe
forte nella giacca, senza tuttavia riuscire a placare i tremiti. Sta male e non
solo per il freddo.
“Steven, porca puttana, dimmi qualcosa! Ti hanno aggredito?
Cosa ti è successo? Qualsiasi cosa sia, la possiamo affrontare!” sbotto, sempre
più esasperato e confuso. Ecco, ho esagerato, proprio ciò che dovevo evitare.
Ma lui non pare impressionato, anzi, continua a fissarmi.
Mi impongo di ricambiare lo sguardo con fermezza, ma quegli
occhi così tristi mi terrorizzano e mi fanno male.
“Devo… fare… devo farmi una doccia” soffia infine in un
sussurro quasi impercettibile, la sua voce è roca e trema come il suo corpo.
Il cuore mi si strizza nel petto: da una parte sono
sollevato perché finalmente ha parlato, dall’altra non so come interpretare
quelle parole.
“Una doccia?” indago, addolcendo il più possibile il tono
della voce.
“Sì. Mi farò una doccia per schiarirmi le idee e… domani
sarà tutto come prima.”
Bene, ora devo pesare con la massima attenzione ogni singola
parola che pronuncio.
“Prima di che cosa, Steven?” mi arrischio a domandare
dopo qualche istante di silenzio.
“Non voglio parlarne” ribatte subito, distogliendo lo
sguardo dal mio; non mi sfugge però il lampo di sofferenza che attraversa il
suo poco prima di posarsi altrove.
Sospiro per l’ennesima volta. Non sono stato addestrato a
risolvere casi del genere, non ho idea di come fare, ma una cosa è certa: mi
sforzerò più che posso per aiutare Steven, non posso lasciarlo da solo ora. Ha
bisogno di me, lo sento.
“Steve, forse dimentichi che sono un poliziotto: se qualcuno
ti ha fatto del male, ti ha minacciato o ti ha rubato qualcosa, è mio dovere
proteggerti e fargliela pagare!" tento ancora in tono rassicurante.
Quanto vorrei essere come quella tizia di Law&Order in
questo momento… perché in tv sembra tutto più facile?
“Non è successo niente” farfuglia Steven atono. “Ora torno a
casa, mi faccio una doccia e tornerà tutto normale.”
Detto questo, getta il mozzicone a terra e fa per alzarsi,
ma io lo inchiodo con lo sguardo.
“Tu non vai da nessuna parte in queste condizioni!”
“Sto bene.”
Punta i piedi a terra e scivola via dal bordo del
marciapiede, rannicchiandosi sulle gambe, ma queste ultime tremano ancora
troppo perché possa sollevarsi, così è costretto a poggiare il palmo di una
mano a terra per non perdere l’equilibrio e la mia giacca gli scivola dalle
spalle.
Ma non ci faccio tanto caso, perché è allora che lo noto.
Un piccolissimo dettaglio che si perde nella penombra, ma ai
miei occhi spicca con terrificante chiarezza, in netto contrasto col grigio
chiaro del marciapiede.
È una minuscola traccia di sangue, proprio nel punto in cui
era seduto lui.
Una fitta mi attraversa il cuore mentre sposto lo sguardo
verso di lui.
Istintivamente gli poso una mano sul braccio e lo stringo
forte, sia per sostenerlo sia per trattenerlo qui. Lui sobbalza appena a quel
gesto e si volta di scatto a fissarmi.
“Steven, c’è del sangue sui tuoi pantaloni” mormoro, e
quelle parole pronunciate ad alta voce sono l’ennesima pugnalata della serata.
Gli occhi di Steven si riempiono di lacrime e allora crolla,
si accascia nuovamente sul marciapiede coprendosi il viso con le mani; i
singhiozzi prendono a scuotergli il corpo insieme al tremore, sembra ancora più
piccolo ed esile del solito, con le ciocche chiare che si appiccicano alla sua
pelle pallida e ghiacciata.
Non posso vederlo in queste condizioni.
Allora agisco d’istinto, che vadano al diavolo tutte le
raccomandazioni e le procedure da bravo poliziotto: mi accosto a lui e lo
avvolgo tra le braccia, attirandolo al mio petto e posandogli il mento sul capo.
Lo sento tremare ancora e ancora, come una foglia, e cerco di infondergli tutto
il mio calore; strofino i palmi delle mani sulle sue braccia nude nel tentativo
di scaldarle, poi porto le dita tra i suoi capelli e glieli carezzo piano nella
speranza di confortarlo, mi spingo fino alla nuca e infine sul suo viso dolce,
dove calde lacrime mi bagnano i polpastrelli.
Lui sussulta a ogni mio gesto, la paura gli scorre ancora
addosso eppure si aggrappa a me con tutte le sue forze, stringe la mia camicia
tra le dita e affonda il viso nella mia spalla, bisognoso di protezione.
“Ora sei con me, nessuno ti farà più del male, d’accordo? Te
lo prometto, Steve, è tutto finito. Andrà tutto bene, anche se ora ti sembra
una stronzata ti prometto che andrà tutto bene, ci sono qui io” mormoro tra i
suoi capelli mentre lo cullo dolcemente. Sento le lacrime pizzicare agli angoli
degli occhi, ma le scaccio subito: non posso cedere anch’io, Steven ha bisogno
di qualcuno che gli infonda sicurezza.
Mentre traccio con le dita il profilo dei suoi lineamenti –
le sopracciglia, le palpebre serrate, il naso delicato, gli zigomi arrotondati,
le labbra sottili – mi domando se possa esistere una creatura più dolce, in
tutta la sua meravigliosa fragilità. Mi domando come possa qualcuno anche
solamente pensare di fargli del male, di commettere una qualsiasi violenza nei
suoi confronti.
Più ci penso, più sento montare una rabbia ardente dentro di
me. Tutto ciò è fottutamente sbagliato e se solo avessi di fronte il bastardo
che ha osato abusare di Steven, non esiterei per un istante prima di sparargli.
Vorrei soltanto sfogare tutta la mia ira su quel pezzo di merda che non merita
di vivere e di respirare la nostra stessa aria.
Scosto per un istante la mano dal viso di Steven e la
stringo a pugno, la vista mi si offusca per un istante. Troverò quel bastardo
di uno stupratore, costi quel che costi.
“Sai che facciamo ora?” rompo il silenzio, recuperando la
mia giacca da terra e sistemandola nuovamente sulle spalle di Steven. “Ti porto
in centrale, dove si sta al caldo e c’è tutto ciò di cui hai bisogno, così poi
mi racconti ciò che è successo con più calma.”
Lui mugola piano e non accenna a scostare il capo dal mio
petto né ad aprire gli occhi.
“Che c’è?”
“Voglio tornare a casa e dimenticarmi tutto.”
Sbuffo appena. “Steven, per favore…”
“Non ci voglio più pensare.”
A quel punto decido di giocarmi l’unico asso nella manica
che ho. “Se ti riporto a casa, non potrò restare con te.”
Finalmente lui solleva il capo e mi scruta, le palpebre
ancora socchiuse e pesanti. “Vengo con te.”
Mi apro in un sorriso soddisfatto e mi metto lentamente in
piedi, aiutando anche lui a fare lo stesso. È ancora parecchio scosso e fa
fatica a reggersi in piedi, così gli circondo le spalle con un braccio e lo
conduco lentamente verso l’auto della polizia, percorrendo il centinaio di
metri che ci separano da essa.
Noto con soddisfazione che tutti coloro che hanno circondato
Steven poco prima si sono veramente volatilizzati, lasciando la via deserta;
meglio così, non ho nessuna voglia di parlare con qualcuno o dare spiegazioni.
Aiuto Steven a posizionarsi sul sedile del passeggero, prima
di prendere il posto alla guida. In genere i posti anteriori dell’auto sono
riservati solo agli agenti di polizia, ma oggi sono da solo e poi non sto
trasportando un criminale, quindi si può fare un’eccezione.
Prima di mettere in moto, accendo la luce di servizio e ni
soffermo per qualche istante a osservare Steven: sembra così diverso da come lo
ricordavo, così sciupato e stanco; gli occhi cerchiati di rosso e i lineamenti contratti
lo invecchiano, lo fanno apparire più grande di quel che è. E in realtà quanti
anni avrà, una ventina? Secondo quale malata logica un ragazzo di vent’anni
dovrebbe avere uno sguardo così serio e smarrito?
Avvio il motore e insieme a esso il riscaldamento, che
imposto al massimo. Steven trema ancora nonostante l’aria nell’abitacolo sia
molto più calda che all’esterno, ma comincio a sospettare che il tremore non
dipenda solo dalla bassa temperatura.
“Ehi Steve, forse è meglio che ti porti all’ospedale prima
di andare in centrale, potrebbe essere necessario…” osservo, ma sono costretto
a interrompermi quando lui scuote vigorosamente il capo.
“No, non ce n’è bisogno.”
Gli poso una mano sulla spalla e cerco le parole più adatte
per esprimere ciò che ho in mente. “Ascoltami… sei consapevole che dovrai
sottoporti a una visita prossimamente per provare che sei stato davvero vittima
di una violenza? Potrebbe esserci anche del DNA e…”
“Non devo provare niente, non devo denunciare nessuno, devo
solo fare finta che non sia successo e andare avanti, come ho sempre fatto.”
Mi batto un pugno sulla coscia: ecco, questo mi fa davvero
incazzare.
“Hanno abusato di te e non vuoi denunciare il fatto? Non
vuoi che quel bastardo venga punito? Ma cosa cazzo stanno sentendo le mie
orecchie?” ringhio.
“Non ne ho voglia. Tanto prima o poi mi passerà.”
“Porca puttana, non è una cosa che passa, lo capisci? E se
lo rifacesse? E se si accanisse su qualche altro ragazzo?” Ormai sono fuori di
me dalla rabbia, potrei stringere il volante tra le mani e spezzarlo in due da
quanto sono incazzato. Devo darmi un contegno, questo mio atteggiamento non fa
che peggiorare la situazione e indisporre Steven.
“La prossima volta starò più attento.”
Prendo un profondo respiro e stringo i pugni per placare il
leggero tremore che mi attraversa le mani. Perdo per qualche istante lo sguardo
fuori dal finestrino e, quando ho la certezza di aver ripreso il controllo di
me stesso, lo poso di nuovo su Steven. “Non è una ferita che si rimargina così,
con uno schiocco di dita, semplicemente ignorandola. I segni che ti sono
rimasti sul corpo svaniranno, ma c’è una ferita più profonda che resterà aperta
e continuerà a tormentarti. L’unico modo per aiutarla a guarire è affrontare
questa situazione.”
Steven mi scruta confuso, sbatte un paio di volte le ciglia
e io per un istante mi perdo dentro quei due pozzi senza fondo, troppo torbidi
per essere decifrati.
“Magari… non l’hanno fatto per male” sussurra.
Spalanco occhi e bocca per un istanto. “Hanno?! Mi
stai dicendo che era più di uno?!”
Quanto vorrei uscire da questa fottuta auto e svuotare il
caricatore della mia pistola contro la prima cosa che mi capita a tiro…
Gli occhi di Steven si fanno lucidi e si affretta ad
abbassare il capo, rendendosi conto di aver rivelato più di quanto non volesse.
Curioso, una scena simile l’abbiamo già vissuta un’altra
volta. Solo che allora stavamo parlando dei suoi alleati, ora dei suoi
carnefici.
“E come fai a dire che non l’hanno fatto per male? Li
conoscevi?” Mi accosto di più a lui e lo strattono appena per una spalla, nel
tentativo di farlo riscuotere. “Dimmi cosa ti hanno fatto quei bastardi!”
Due lacrime silenziose gli rigano il viso mentre si muove a
disagio sul sedile. “Andiamo, ti prego” sibila.
“Prima voglio che tu mi dica qualcosa.”
“Roger…” geme il mio nome in preda alla disperazione.
“Perché tutta questa fretta di andarcene?”
Le sue guance vanno a fuoco. “Non voglio… più stare seduto,
mi… mi fa male” ammette, mordendosi il labbro inferiore.
Cazzo, come ho fatto a non pensarci? Sono un completo
idiota.
Senza aggiungere una sola parola, premo sull’acceleratore e
schizzo via per la strada, diretto verso la centrale. Fanculo il pronto
soccorso e qualsiasi altra cosa: la priorità ora è arrivare nel luogo più
vicino in cui Steven possa scendere dall’auto, mettersi in piedi e provare –
forse – un po’ di sollievo.
Mentre guido come un matto per le vie di Los Angeles, lancio
di tanto in tanto qualche sguardo a Steven, approfittando dei semafori rossi:
lui guarda fuori dal finestrino e sembra immerso nei suoi pensieri, le labbra
serrate e un’espressione leggermente accigliata. È davvero un capolavoro di
dolcezza, coi capelli dorati e mossi che gli incorniciano quel viso d’angelo.
Solo ora rifletto sul fatto che non l’ho ancora visto
sorridere oggi, ovviamente. Il sorriso è una delle cose che più mi ha
ammaliato di lui quando l’ho conosciuto: gli compariva sul viso ogni dieci
secondi, anche quando non c’era niente da ridere, ed era in grado di illuminare
un’intera stanza.
Chissà se lo rivedrò di nuovo.
“Stavo camminando in direzione di uno dei locali che
frequento di solito, quando a un certo punto due tipi poco più grandi di me mi
hanno fermato e mi hanno chiesto se mi andava di fare baldoria.”
Quasi mi prende un colpo quando la voce di Steven riempie
l’abitacolo senza alcun preavviso.
Forse dovrei dire qualcosa, ribattere, incoraggiarlo a
continuare il racconto, ma non ci riesco. Tengo lo sguardo fisso sulla strada e
resto in ascolto, aspettando che continui in maniera spontanea, così come ha
cominciato.
“Io ero già un po’ brillo e fatto perché ero già stato in un
altro locale, così non mi sono posto tanti problemi e ho accettato, anche
perché mi hanno detto che un loro amico aveva dell’erba eccezionale. Mi sono
fidato e li ho seguiti fino a casa loro, poco distante da lì: era un buco
squallido e in realtà non c’era nessuna festa. Non appena sono entrato, il loro
amico – un tipo sulla quarantina – mi ha sorriso in un modo inquietante e per
nulla rassicurante e io ho cominciato a sentirmi a disagio. All’improvviso… non
era più divertente.”
Una serie di lampi di luce si susseguono davanti ai miei
occhi, al ritmo delle pugnalate che vengono inferte al mio cuore. Steven era
partito con un tono fermo e neutrale, ma man mano che il suo racconto andava
avanti si era sempre più incrinato fino a spezzarsi sulle ultime parole,
testimone di quanta fatica gli stesse costando ripercorrere quei momenti.
Fanculo anche alla centrale: mi fermo nel primo posto libero
che trovo e chi se ne fotte se non è un parcheggio vero e proprio, se sono in
seconda fila o addirittura in mezzo alla strada. Non riesco a guidare con
quell’orribile racconto nelle orecchie.
Mi volto verso Steven con gli occhi spalancati, ma ancora
una volta non riesco a dire niente, mi limito a immergermi nei suoi occhi lucidi
e attendere che continui.
“Una volta dentro, il tizio sulla quarantina ha chiuso la
porta alle mie spalle. I due che mi avevano adescato erano dietro di me per
impedirmi di scappare mentre lui si avvicinava, era così disgustoso…” Le
lacrime scivolarono per l’ennesima volta sul suo viso. “È stato orribile, li
sentivo ovunque e… mi hanno fatto male, molto male. E poi… mi hanno buttato
fuori come un sacco della spazzatura… oddio, quanto sono stato ingenuo! Avrei
potuto scappare, difendermi, o forse non avrei nemmeno dovuto accettare… io…”
Scendo dall’auto, sbatto con forza la portiera al lato del
guidatore e in un attimo circumnavigo il veicolo, per poi spalancare lo
sportello anteriore; mi chino il tanto necessario per trovarmi alla sua altezza
e lo stringo in un abbraccio disperato, quasi possessivo. Steven si scioglie
come il burro tra le mie braccia, posa la testa sulla mia spalla e le sue
lacrime mi piovono sulla camicia, copiose e amare.
Non posso credere che abbia davvero vissuto tutto ciò. Non
posso credere che sia lo stesso ragazzo che, al nostro primo incontro, mi aveva
apertamente provocato e aveva avuto la sfacciataggine di farmi intendere che
sarebbe volentieri andare a letto con me. Era così libero, così spontaneo, così
meravigliosamente malizioso… e ora quei tre rifiuti umani l’hanno trasformato
in un ragazzo che a malapena vuole essere sfiorato, che ha perso tutta la
sicurezza in se stesso e la sua dignità.
Digrigno i denti mentre gli accarezzo dolcemente la schiena,
stando attento che le mie dita non giungano troppo in basso – ogni volta che mi
avvicino anche solo sbadatamente all’altezza della vita, lo sento sobbalzare e
ritrarsi da quel contatto.
Chissà cosa ti hanno fatto, Steven.
Gli poso un leggero bacio sulla tempia. Non è un gesto da me,
non sono fatto per tanta dolcezza, ma questo ragazzo è in grado di farmi
superare ogni limite. Il suo forte bisogno d’affetto è così palpabile che mi
s’insinua fin nelle ossa.
Steven mi strattona appena la camicia, invitandomi a entrare
nell’auto, e io lo accontento; siamo scomodi, ammassati su un solo sedile, e io
sono costretto a stare in equilibrio precario in un angolo, ma non ha nessuna
importanza: siamo stretti in un abbraccio così forte e così intricato che
nessuno cadrà, nessuno lascerà andare l’altro.
“Non mi importa se collaborerai, se mi darai dei nomi, se
farai la visita o meno,” mormoro, e le lacrime tornano a pungere agli angoli
degli occhi, “io farò giustizia. Che tu lo voglia o meno, li troverò e darò
loro ciò che meritano. Pezzi di merda pervertiti.”
Steven, col viso affondato nel mio petto, inspira forte e
poi solleva lentamente il capo, in modo da incrociare il mio sguardo. Il suo
viso trasuda gratitudine e commozione, pare essersi acceso di una flebile ma
meravigliosa luce. “Perché, Roger? Perché ti interessa così tanto?”
Perché mi interessi tu.
Non trovo le parole adatte per descrivere ciò che provo,
così compio il primo gesto che mi viene in mente per spiegarglielo: mi sporgo
appena verso di lui e poso le mie labbra sulle sue, dolcemente, senza alcuna
intrusione di nessun tipo.
Oggi troppe persone hanno già violato il suo corpo.
A quel contatto così delicato, Steven scoppia di nuovo a
piangere e si stringe forte a me, nascondendo il viso nell’incavo del mio
collo.
Rabbrividisco quando il suo respiro mi solletica la pelle
nuda, ma non voglio perdere la lucidità. Non ora, non oggi.
Intreccio le mie dita ai suoi capelli. “Per favore, Steven.
Ti prego, combatti con me. Di cos’hai paura?”
Lui non risponde, il respiro spezzato dai singhiozzi.
“Sei abbastanza forte da poter affrontare anche questo. E
quando non sarai abbastanza forte, ci sarò io. Non ti lascerò da solo, te lo
prometto.”
Gli prendo il viso tra le mani e glielo sollevo delicatamente,
in modo da poterlo guardare negli occhi. “Affronteremo tutto questo? Te la
senti?”
Le labbra di Steven si flettono lentamente in un sorriso
dolce, genuino, pieno di speranza come la scintilla che attraversa il suo
sguardo.
Quel sorriso che mi è tanto mancato.
Poi posa le sue labbra sulle mie, con la stessa dolcezza con
cui l’ho fatto io poco fa, facendomi assaporare il gusto salato delle sue
lacrime misto alla sua dolcezza.
E, anche se non dice niente, quella risposta mi basta.
♠ ♠
♠
Non so nemmeno io come commentare quello che avete appena
letto. Nasce da un’idea che mi è balenata in mente tempo fa, ma che avevo
scartato quasi subito e poi è tornata a bussare nuovamente alla mia porta.
Pensavo che non sarei mai stata in grado di scrivere di una tematica così
delicata, invece l’ho fatto. Sempre con la mia solita dose di fluff – che starà
pure cominciando a stancarvi, ma dovete capire che nella mia testa Steven =
fluff, SEMPRE, facciamocene una ragione XD
Inoltre mi piaceva l’idea di dare una sorta di sequel alla
mia So
think on me and get on your way, che ha inaspettatamente riscosso
molto successo. Insomma, che Roger in versione poliziotto facesse successo me
l’aspettavo, ma non pensavo che sarebbe piaciuta anche questa strana coppia! Io
adoro Steven e Roger come migliori amici combinaguai, ma ammetto che non mi
dispiacciono anche in versione ship, specialmente in questo AU ^^
Vi parlo subito di titolo e citazione iniziale: provengono
entrambi da Promise, brano bellissimo del primo album solista di Slash, in
featuring con Chris Cornell. Questa canzone mi sta davvero ossessionando in
questi ultimi giorni, poi boh, parla di loro, potevo non inserirla? XD
Come nel prequel, il titolo contiene la morale finale della
storia, quindi è ricollegabile alla vicenda solo alla fine ^^
Piccolo fun fact sulle immagini che ho messo in cima: mi
sono messa alla ricerca di qualche foto in cui Steven non stesse sorridendo,
dato che in questa storia è stato serio per quasi tutto il tempo e volevo
trovare un’immagine ‘intonata’, ma ragazzi, È IMPOSSIBILE! Questo ragazzo
sorride SEMPRE, è impressionante! XD
E ora passiamo alla parte difficile.
La cosa più dolorosa di questa storia è che gran parte degli
avvenimenti non me li sono inventati: Steven ha veramente subito degli abusi
quando era ragazzino (a quattordici anni precisamente, anche se nella storia ne
aveva venti per adattarla a quella precedente), c’è stato un periodo in cui
frequentava spesso locali gay per il semplice gusto di stare in compagnia e
fare festa – ormai sappiamo tutti che ama la gente, ma proprio chiunque – e un
po’ tutti si approfittavano di lui, anche se all’epoca era un ragazzino in
preda agli ormoni e non se ne preoccupava più di tanto. Però nella sua
autobiografia (fonte da cui sto prendendo tutte queste informazioni) ricorda
con particolare sofferenza un evento in particolare, che si è svolto
praticamente uguale a come l’ha raccontato nella shot – ho ricalcato quasi del
tutto le parole del libro – e che l’ha profondamente sconvolto. Non mi sono
inventata nemmeno il dettaglio della doccia e di quanto stesse tremando: lui
stesso dichiara di essere tornato a casa dopo l’accaduto, essersi buttato sotto
la doccia e solo allora si è reso conto di quanto stesse tremando.
Non ne ha mai fatto parola con nessuno fino alla
pubblicazione del libro, nel 2011 (se non erro).
Quando stavo leggendo la sua autobiografia e sono arrivata a
questo passaggio, vi giuro che è come se mi avessero preso a pugni. Dalle
rockstar ti aspetti di tuto, okay, ma qui stiamo parlando di un ragazzino di
quattordici anni che è stato abusato.
Anche per questo motivo sono stata dubbiosa fino all’ultimo
se scrivere questa storia: trattandosi di un fatto realmente accaduto, avevo
paura di non affrontarlo col giusto rispetto nei confronti di Steven. Che voi
direte: sì, ma non leggerà mai questa shot (speriamo, altrimenti vado a
sotterrarmi all’istante, ma dubito conosca l’italiano XD). Ma non importa, non
voglio in alcun modo mancargli di rispetto e spero di non aver turbato nemmeno
voi, cari lettori! Ho cercato di essere il più delicata possibile, e forse è
anche per questo che ci ho messo così tanto fluff: per mitigare un po’ l’enorme
dramma che c’è dietro ^^
Ho solo qualche altro riferimento da spiegare, allora…
Quando Roger cita “quella tizia di Law&Order”, si
riferisce nella fattispecie alla serie tv “Law&Order – Unità Vittime
Speciali”, in cui vengono appunto trattati casi delicati come reati a sfondo
sessuale. La “tizia” è la mitica e leggendaria Olivia Benson – partita come
semplice detective per poi arrivare a Tenente – che è dotata di un’enorme
sensibilità ed empatia nei confronti delle vittime, grazie alla quale riesce
sempre a farle aprire, parlare e trovare le parole giuste per confortarle.
Ecco, diciamo che Roger non è proprio così, ma se l’è cavata
lo stesso alla grande :3
Poi, per chi non ha letto il prequel: quando Roger riflette
sul fatto che per strada nel quartiere disagiato ci sono tanti piccoli Roger,
fa riferimento a una cosa che ha detto nell’altra storia, ovvero che prima di
diventare poliziotto anche lui ha sperimentato sulla pelle la vita di strada,
motivo per cui rivede in Steven un se stesso più giovane ^^ ovviamente è tutta
una dinamica inventata da me per questo AU, nulla di reale!
Altro riferimento che potrebbe servire: nell’altra storia
Steven è stato arrestato a seguito di un tentato furto d’auto commesso con la
sua gang di strada, ma è stato l’unico a essere beccato. Non volendo tradire i
suoi amici, non ha voluto fare nomi, ma a un certo punto mentre parlava si è
tradito ammettendo che non era da solo e aveva dei complici. Per questo Roger
vive una sorta di deja-vu quando Steven gli rivela che ha subito violenze da
più di una persona.
Il resto dei riferimenti spero di averli spiegati bene nella
storia :)
Grazie di cuore a chiunque sia giunto alla fine di questa
lettura, mi rendo conto che è stata difficile e sicuramente vi avrà spezzato il
cuore, come a me lo ha spezzata scriverla T.T ma in questo periodo sono in vena
di drammatico, che ci possiamo fare? :P
Alla prossima!!! ♥
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