CAPITOLO
18
- LE STRADE DI ERRANIA
-
La
Regina guardava Aran con occhio attento. Nulla, né la sua
espressione, né il suo sguardo, lasciavano presagire quale
sarebbe stata la sua risposta.
Il ragazzo rimase composto, attendendo che la madre dicesse qualcosa.
Lui e Freya avevano scontato la loro punizione e oramai erano tornati
liberi di andare dove volevano, ma per recarsi a Errania aveva comunque
preferito domandare il suo permesso. La Regina non aveva affatto
apprezzato la loro piccola gita notturna e mostrarsene consapevoli era
il modo migliore per evitare che diventasse eccessivamente restrittiva.
Aran cercò di non pensare al fatto che, nonostante quella
sua dimostrazione di trasparenza, le stava tenendo nascosto un fatto
piuttosto importante: nelle sue vene scorreva qualcosa di
più del semplice sangue. Rabbrividì. La scoperta
era tanto recente da risultargli ancora troppo difficile da assimilare.
Com'era possibile che non se ne fosse mai accorto prima? Non ce n'era
stata mai nessuna traccia; nessun segnale concreto gli aveva mai fatto
pensare di essere portatore della magia.
Nei giorni seguiti a quel pomeriggio nel bosco, lui e Freya avevano
deciso di sospendere ancora per un pò l'esplorazione della
Biblioteca; c'erano ben altre cose che occupavano i loro
pensieri. Tolti allenamenti e lezioni, avevano trascorso
tutto il loro tempo a parlare. Avevano discusso di tutto ciò
che aveva accomunato le loro vite per ore intere, ma anche di tanti
altri argomenti all'apparenza insignificanti; avevano fatto ipotesi, le
avevano smentite e avevano variato argomento quando non riuscivano a
trovarne altre. E mentre parlavano Aran aveva compreso che qualcosa
legato a quel misterioso potere inquietava Freya.
Non aveva fatto domande, esattamente come lei non insisteva mai quando
capiva che lui ancora non se la sentiva di dire qualcosa; aveva
però pensato che vedere un posto nuovo le avrebbe
risollevato il morale. Ottenuta udienza da Mirea aveva
perciò avanzato la sua richiesta; voleva far trascorrere a
Freya una giornata diversa dalle solite.
Inaspettatamente, sua madre sorrise: «Ti sei sempre recato a
Errania senza bisogno del mio consenso, Aran» disse, le mani
giunte di fronte a sé con la solita imperturbabile eleganza.
«È sempre stata una delle tue mete
preferite.»
Lo conosceva bene. La prima volta che gli era stato concesso di andare
a Errania aveva nove anni; al proprio fianco aveva Darragh e un soldato
scelto della guardia personale di sua madre, il quale per l'occasione
aveva rinunciato alla propria armatura in modo da non attirare troppa
attenzione. Ricordava molto bene quel giorno: Mirea non aveva ancora
mostrato i propri eredi al pubblico e nessuno avrebbe mai potuto
riconoscerli; per un momento, breve se paragonato all'interezza della
sua esistenza, si era sentito uno qualunque.
Si era quasi sentito in colpa per quel sollievo: accogliendolo Mirea
gli aveva dato tutto quello che si potesse desiderare e al giovane
sembrava di mancarle di rispetto. Nonostante questo, alla fine era
stata proprio la sensazione di leggerezza che ne era derivata a rendere
Errania il luogo ideale in cui scappare. Non credeva che la madre fosse
a conoscenza delle sue ragioni, ma fin da quel primo giorno le era
stato facile capire quanto il centro città lo affascinasse:
era ritornato al castello trattenendo a stento l'euforia e le aveva
raccontato tutto per filo e per segno, come se lei non avesse mai visto
la capitale del regno che governava. E quando era stato abbastanza
grande da recarvisi da solo, il senso di libertà era
diventato totale e irrinunciabile.
Mirea l'aveva lasciato fare; crescendo Aran era diventato sempre
più responsabile e accorto e non le aveva mai dato alcuna
ragione per imporgli restrizioni riguardo il suo giorno libero. Ora, il
Principe voleva assicurarsi di fare tutto nel modo migliore: doveva
dimostrare di meritare ancora quella fiducia. Per lui era fondamentale,
poiché averla significava che, nonostante la sua voglia di
libertà, la stava ripagando di tutto quello che gli aveva
dato.
«Ritenevo giusto consultarvi, madre» rispose.
«Volevo essere certo di avere ancora la vostra
fiducia.»
La Regina tornò alla sua consueta espressione di
serietà. I suoi occhi, al pari dell'abito intessuto d'oro
che portava, brillavano nella luce del primo mattino; quello sguardo
aveva sempre avuto il potere di metterlo in soggezione. Poi, ancor
più inaspettatamente del sorriso di poco prima,
arrivò il tocco delle sue mani sulle spalle. La madre si
pose di fronte a lui e lo studiò con ancora più
attenzione, come se volesse carpire il significato della sua
affermazione senza che lui dicesse una parola.
«Cosa ti fa pensare il contrario, figlio mio?» gli
domandò, senza che nulla sul suo volto cambiasse. Solo la
stretta delle sue mani si fece più salda.
Qualcosa nell'animo di Aran gli disse che da quella risposta sarebbe
dipeso qualcosa d'importante, anche se non avrebbe saputo dire cosa.
Guardò la madre negli occhi e rispose: «Temevo che
il mio comportamento potesse aver cambiato la vostra opinione nei miei
riguardi. Sono consapevole che un incubo non può essere una
giustificazione valida alla violazione del coprifuoco.»
Lo sguardo della Regina Mirea si fece ancora più intenso. Il
giovane ebbe l'impressione che una parola in particolare, fra quelle
che aveva appena pronunciato, avesse attirato la sua attenzione:
incubo. Fino a quel momento, non credeva nemmeno che ne avrebbe
parlato. La madre discuteva spesso sia con lui che con Darragh, ma le
loro conversazioni riguardavano principalmente la loro istruzione. I
figli non erano abituati a parlare con lei di faccende che riguardavano
la propria sfera emotiva. Aran aveva imparato ben presto a sbrigarsela
da solo, nel privato della sua anima, senza mai lasciar trapelare nulla.
Ciò che teneva occupata la sua mente in quel periodo era ben
più serio di quello che aveva affrontato in passato; eppure,
la sua abitudine alla riservatezza persisteva ancora. Era consapevole
di non poter più tenere nascosto quello che stava passando,
ora che quegli strani poteri si erano fatti vivi; inoltre, non credeva
nemmeno che fosse giusto nei confronti di sua madre: si parlava di
magia, una cosa molto più concreta di sogni e incubi. Prima
di farsi avanti, però, aveva bisogno di prendersi il tempo
necessario a capire come gestirli per conto proprio. O meglio, con
l'aiuto di Freya. Era l'unica persona con cui riuscisse a trovare le
parole adatte per esprimere il proprio stato d'animo.
Quando la Regina tornò a parlare lo fece senza smettere di
sottoporlo a quell'attento esame. «Qualcosa ti turba,
Aran?» domandò. Il suo atteggiamento era tanto
imperturbabile da rendere impossibile capire fino a che punto
l'affermazione del figlio la preoccupasse.
In un angolo della mente di Aran, la logica cercava di imporgli di
parlare, ma in quel momento non sarebbe stato capace di farlo nemmeno
volendo. Producendosi nel sorriso più genuino che gli
riuscì, rispose nuovamente: «Assolutamente no,
madre. Non è stato nulla più che un brutto
sogno.»
La pausa che seguì ebbe un che di strano. Il giovane ebbe la
netta sensazione che sua madre sapesse qualcosa di cui era decisa a
tenerlo all'oscuro; ma era un pensiero talmente folle che s'impose di
accantonarlo. Stava semplicemente diventando paranoico a causa di tutte
le strane coincidenze che riguardavano lui e Freya, si disse.
Poi, però, arrivarono le parole di Mirea:
«Esistono sogni e sogni.»
Aran dovette fare uno sforzo ancora maggiore per reprimere quel
sentore, ma infine non ebbe nemmeno il tempo di porsi ulteriori
domande. Detta quella brevissima frase, la Regina si scostò
da lui e tornò a sedersi dietro la sua scrivania, tanto
ordinata da sembrare quasi irreale. Ogni giorno sua madre sbrigava
tutte le faccende inerenti la gestione del regno seduta a quello
scrittoio, eppure sulla superficie lucida non c'era mai nulla che fosse
dove non doveva essere. Era sempre stato così, fin da quando
lui poteva ricordare. Chissà come sarebbe stata quando
Darragh avrebbe preso il suo posto, si chiese distrattamente.
«Tu e Freya potete recarvi a Errania senza alcun
problema», lo riscosse la voce perentoria della madre.
« Mi sembra giunto il momento che lei abbia una visuale
completa del mondo in cui ora vive. Vi chiedo solo di prestare estrema
attenzione e di evitare di dare nell'occhio. Sai perfettamente che ho
sempre fatto di tutto per scongiurare qualsiasi voce nei riguardi tuoi
e di tuo fratello; avrete tutto il tempo perché si parli di
voi quando diverrete il volto di questo regno.»
Era vero: Mirea era sempre stata molto attenta a non esporli
più del necessario. Avere il suo consenso in quella
circostanza significava avere anche la sua fiducia; finalmente, Aran
poté tirare un sospiro di sollievo.
«Vi ricordo anche che violare una seconda volta il coprifuoco
non vi è consigliabile» concluse poi la Regina, in
un chiaro avvertimento. «Farete meglio a rientrare per
tempo.»
«Naturalmente, madre» ribatté lui,
rivolgendole un rispettoso inchino. «Vi ringrazio.»
Il colloquio era terminato. Aran si voltò e in tre falcate
ebbe varcato la porta, che richiuse poi alle proprie spalle. Prima che
il battente si riaccostasse completamente, sentì che lo
sguardo della Regina l'aveva seguito fino all'ultimo istante.
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La mattina seguente partirono appena dopo il comparire delle prime luci
dell'alba. Soldati e servitori li osservarono mentre
percorrevano il tragitto verso le scuderie, salutando rispettosamente
entrambi al loro passaggio. Per Freya era un enorme sollievo che gli
abitanti del castello si fossero abituati a lei, seppur lentamente.
Sellarono i cavalli in silenzio. Le stalle erano vuote e gli unici
rumori che infrangevano la quiete erano quello delle briglie che
tintinnavano e dei cavalli che sbuffavano nel freddo pungente. Quando
gli sguardi dei due ragazzi s'incrociarono, entrambi sorrisero; per un
istante gli occhi di Aran indugiarono in quelli di Freya. La giovane
sapeva molto bene il motivo di quell'occhiata: il Principe era
preoccupato per lei. Non poteva biasimarlo: da quando il suo potere
aveva inspiegabilmente risvegliato quello di Aran, il ricordo della
scomparsa di sua madre era tornato a galla, rendendola costantemente
irrequieta.
Era qualcosa che Freya non aveva assolutamente previsto, quando aveva
deciso di mostrare cosa era in grado di fare. L'angoscia di allora
l'aveva travolta con una forza insospettabile e insieme a essa era
arrivata un'ineluttabile consapevolezza: era diritto di Aran sapere
come il mistero che avvolgeva le loro comuni capacità avesse
portato Eleana a sparire per sempre. E anche per Freya era fondamentale
che lui sapesse: in pochi mesi tra di loro era nato qualcosa di tanto
profondo da andare oltre ogni comprensione, un legame che li aveva
spinti a voler condividere ogni cosa con l'altro senza riserve. Quella,
fra tutte le ragioni per cui era giusto che Aran sapesse, era
certamente la più importante. Se non glie ne avesse parlato,
avrebbe infranto tutto ciò che avevano costruito, oltre alla
promessa di essere sincera. Doveva raccogliere il coraggio e farlo.
Il pensiero smise di martellare nella sua mente solo quando la ragazza
fu in sella a Stellato. Si concentrò su quello che si
apprestava a fare in quel momento, senza lasciare spazio a nient'altro;
sarebbe stato da stupidi rischiare di cadere da cavallo
perché non era in grado di mantenere la presa su quello che
si agitava nella sua testa. Quando Aran partì, saldamente
ancorato al dorso della sua Nieva, Freya e Stellato lo seguirono.
Nonostante tutto, la giovane era sinceramente emozionata. Era passato
diverso tempo dall'ultima volta che aveva visto una città;
inoltre, era certa che Errania sarebbe stata la più
interessante che avesse visitato fino a quel momento. Era ancora
piuttosto amareggiata di aver esplorato così poco di
Concivis e Plametia, ma con la capitale sarebbe stato diverso: aveva
tutto il tempo di approfondire ancora di più ciò
che prima aveva solo assaporato.
Entrarono a Errania attraversando la porta sud. Nel passarvi sotto la
ragazza provò lo stesso fremito di soggezione che aveva
avvertito la prima volta che aveva visto quelle mura insormontabili:
senza quei passaggi strettamente sorvegliati nessuno sarebbe mai potuto
entrare all'interno della città. Il mattino era ancora
giovane, eppure un gran via vai animava già la strada
principale, su cui Aran e Freya si mantennero; la maggior parte della
folla sembrava diretta alla piazza principale, dove quel giorno si
sarebbe tenuto il mercato. I due ragazzi s'immisero nel flusso e lo
seguirono, tenendo saldamente le redini dei cavalli per non rischiare
di perderne il controllo.
La giovane si guardò intorno da sotto il cappuccio del
pesante mantello, che le copriva interamente il capo e i lati del viso.
Il freddo l'avrebbe costretta a tenerlo alzato, ma quella mattina Malia
aveva insistito per svegliarsi con lei e acconciare le sue spesse
ciocche di capelli. Ora le sue orecchie a punta erano perfettamente
nascoste: non avrebbe corso il rischio di attirare l'attenzione.
Il suo sguardo indugiò sugli edifici che delimitavano la
via: le case addossate alle mura erano semplici, più in
legno che in pietra, ma non per questo meno dignitose; i vicoli che le
separavano, sebbene angusti e in terra battuta, erano puliti e sgombri.
Per quel poco che Freya ne sapesse quella era la zona abitata dai meno
abbienti e, nel vedere quello spettacolo di ordine e
semplicità, si ritrovò a provare un peculiare
senso di sollievo. Ricordò che anche Concivis e Plametia
erano così: forse era vero che nel Regno di
Riagàn veniva garantita una vita decorosa a tutti,
indipendentemente dalla classe sociale; forse doveva smettere di
preoccuparsi che qualche realtà nascosta continuasse a
sfuggirle.
Proseguirono per un tempo indefinito. Più il centro di
Errania si avvicinava, meno legno si scorgeva nelle costruzioni che
impedivano loro di vedere il sole e capire quanto fosse trascorso. Gli
edifici si facevano sempre più grandi, sempre più alti e i
vicoli iniziavano ad assumere le sembianze di vere e proprie stradine.
Freya beveva con gli occhi ogni singolo dettaglio che riusciva a
cogliere; registrava ogni suono a lei nuovo; cercava di catturare gli
odori e i profumi che caratterizzavano la capitale. Quelle piccole cose
rappresentavano per lei l'essenza della città,
ciò che le sarebbe tornato alla memoria quando vi avrebbe
ripensato in futuro.
Poneva ad Aran tutte le domande a cui riusciva a pensare: era stato il
Principe stesso a raccomandarle di chiedere tutto quello voleva, il
giorno precedente, e anche il maestro Athal l'aveva incoraggiata a non
trattenere la curiosità. Ogni città, le aveva
spiegato, era una piccola riproduzione dell'interezza di
Riagàn: comprendere Errania le sarebbe stato molto utile per
imparare a conoscere l'organizzazione del Regno senza che il maestro
dovesse tenere una lezione appositamente per lei. Aran, quelle cose, le
sapeva a memoria fin da quando era piccolo.
Freya proseguì con i suoi quesiti fino al momento in cui
giunsero prossimi alla loro destinazione. I primi banchi del mercato li
accolsero già lungo l'ultimo tratto della strada principale;
da quel punto in poi, il vociare di venditori e acquirenti si fece
sempre più assordante, impedendo ai due giovani di
interloquire fra loro. Era la massa di gente più grande e
rumorosa che la giovane avesse mai visto; per un istante si
sentì soffocare all'idea di trovarsi in mezzo alla calca,
una volta smontata da Stellato.
Il tempo di indugiare nel timore fu ben poco. Appena che Freya ebbe
formulato il pensiero, Aran la fece fermare di fronte a un edificio
piuttosto modesto, se confrontato agli altri della cerchia alta;
lì lasciarono i cavalli legati ai pali di posta. Il Principe
allungò qualche Placca d'oro a un uomo alto e smilzo che
stava alla porta, il quale le accettò senza battere ciglio:
sembrava conoscere il giovane e sapere di non essere nella posizione di
fare domande sulla loro identità. Aran lo
ringraziò, usando la sua consueta gentilezza, poi si
avviarono verso la piazza centrale.
Certa che Aran non le avrebbe permesso di perdersi Freya
continuò nella propria contemplazione. Il mercato di Errania
era immenso e ospitava una varietà impressionante di
mestieri e prodotti provenienti da paesi, villaggi e fattorie
sparpagliati nel circondario della capitale. Ogni volta che girava la
testa la giovane trovava una vista diversa ad attenderla: un banchetto
di verdure e frutta fresche, un chiosco di dolciumi, una bancarella di
ninnoli e gioielli dall'aria preziosa. Nel vagare del suo suo sguardo,
Freya non mancò di notare un dettaglio: tutte le botteghe e
i negozi erano chiusi. Senza esitazione domandò
delucidazioni alla sua guida.
«Nel giorno di mercato i negozianti e gli artigiani restano a
riposo, è la legge» spiegò Aran mentre
continuavano a camminare. «In primo luogo per potersi recare
anche loro a comprare quello che può necessitargli; in
secondo per fare in modo che i produttori provenienti dai centri urbani
più piccoli e dal circondario possano avere la loro
giornata di guadagno senza la concorrenza dei mastri
cittadini.»
Freya assimilò le sue parole, pensierosa. Non avrebbe mai
pensato a una motivazione del genere. In effetti, sembrava il tipo di
legge che rispecchiava il modello di regno di cui Mirea tanto aveva
parlato durante il loro primo incontro: un luogo in cui tutti, seppur
chi più e chi meno, potessero godere di una parte del
benessere. Voleva scoprire se ce ne fossero altre, ma per il momento
decise di accantonare la sua vena inquisitoria e concentrarsi su quello
che aveva davanti.
Trascorsero la mattinata in quel modo. Gradualmente riuscirono entrambi
a rilassarsi, perdendosi uno accanto all'altra in quel mare di persone
impegnate nella loro vita di tutti i giorni. La gente, capì
Freya, era molto più affascinante di quanto avesse pensato
fino a quel momento. Bastava osservare i loro volti, le loro mani, i
loro gesti per capire che ogni uomo, donna e bambino aveva una propria
storia, un proprio modo di essere e una qualche strada da seguire. Se
la prima volta in cui era stata nella civiltà era riuscita a
notare solo le cose che la dividevano dagli altri e la spaventavano,
adesso vedeva finalmente quello che la rendeva simile a loro, perfino
nell'unicità di ogni individuo.
Stavano camminando fra due bancarelle di lane e tessuti quando ne
parlò ad Aran. «Capisco perché ti piace
tanto questo posto» disse, guardandolo negli occhi con la
solita schiettezza e sorridendo.
Il giovane sembrò sinceramente stupito.
«Davvero?» chiese.
Freya annuì. «Sì, davvero»
rispose. «Ammetto che all'inizio non avrei mai creduto di
poterlo apprezzare anche io. Tutto questo chiasso è strano
per qualcuno che ha passato gli ultimi anni nel silenzio della foresta
a parlare con animali e piante.» Si zittì un
istante, persa nel ricordo di tutti gli istanti in cui aveva
temuto che avrebbe smarrito la capacità di parola. Leggere,
a mente o ad alta voce, e parlare con la gentilezza che le aveva
insegnato sua madre a qualunque creatura vivente l'avevano salvata da
quell'eventualità. Eleana le aveva sempre detto che un
giorno avrebbe avuto a che fare con altri individui e l'aveva preparata
a quel momento, fin dalla sua prima parola; rimasta sola era stato
più difficile, ma aveva cercato di non dimenticarsi mai come
si facesse. «Solo adesso capisco quanto le persone
contribuiscano alla vita» concluse quando si riprese.
Aran la guardò con quella che lei intuì essere
malinconia. Freya non voleva che lui fosse triste all'idea della sua
passata solitudine, di cui vedeva i lati negativi perfino lei, che
aveva imparato a considerarla come un'alleata. Istintivamente lo prese
per mano, intrecciando le dita alle sue con tutta la delicatezza di cui
fosse capace. Come sempre lui ricambiò la stretta.
Quando proseguirono, lasciandosi alle spalle le meravigliose stoffe
arcobaleno, l'attenzione di Freya venne catturata da un banco che
metteva in mostra meravigliosi oggetti di legno. Dopo averle lasciato
tutto il tempo per ammirarli e chiedere a un perplesso artigiano ogni
sorta di informazione sul suo lavoro, Aran non potè
più impedirsi di scoppiare a ridere. La sua risata fu tanto
lunga e sincera che ci volle un attimo prima che riuscisse a respirare
di nuovo normalmente.
«Cosa c'è di tanto divertente?» chiese
la ragazza, attonita. Non le sembrava di aver fatto nulla di strano.
Sulle labbra del Principe perdurava il sorriso. «Il tuo
entusiasmo per le piccole cose è meraviglioso»
rispose. «Solitamente sono i banchi degli orafi a ricevere
tante attenzioni.»
Gli unici gioielli che Freya avesse mai avuto erano la chiave delle
Saghe di Finian, sempre che si potesse considerare tale, e il
medaglione di sua madre. Non aveva mai pensato alla
possibilità di possederne altri, forse perché non
ne vedeva la necessità. Fu l'esternazione di Aran
a far nascere in lei la curiosità nei confronti di quella
diramazione dell'artigianato: era la prima volta che rifletteva sulla
manualità e l'abilità che un simile lavoro doveva
richiedere. Avrebbe certamente prestato più attenzione, si
disse.
Presi dalle loro conversazioni, i due giovani si accorsero che aveva
iniziato a piovere solo quando le gocce si fecero spesse e pesanti.
Corsero a cercare un riparo sotto gli scrosci violenti, i piedi che a
ogni passo schizzavano l'acqua che scivolava alle canaline di scolo.
Perfino in quel momento Freya riuscì a pensare
all'ingegnosità di quel sistema, che impediva l'allagamento
delle strade lastricate: ne aveva letto in riferimento alle
città del Regno di Adamas, nel sud-est.
Lontani dalle locande, uniche attività aperte quel giorno,
Freya e Aran puntarono a rifugiarsi nel vano di un grosso portone fino
a che la pioggia non si fosse almeno diradata. Vi giunsero
completamente inzuppati e nello slancio della corsa si ritrovarono a
fermarsi solo contro lo spesso arco in pietra, l'una addosso all'altro.
I loro corpi erano attaccati, tanto vicini che Freya poteva sentire il
cuore di Aran battere furioso appena al di sopra del proprio; e quando
finalmente si guardarono realizzarono che i loro volti erano
altrettanto prossimi, più di quanto lo fossero mai stati
prima.
Rimasero così. La giovane non sapeva perché Aran
non si muovesse, ma sapeva benissimo perché non lo stava
facendo lei: semplicemente, non ci riusciva. Era come se una forza
invisibile l'avesse immobilizzata e lei non potesse fare nulla per
contrastarla. Gli occhi di lui, che non aveva mai avuto a una distanza
tanto breve, erano ancora più belli di quanto Freya avesse
mai notato: c'erano delle sfumature più chiare, in quel mare
di grigio ardesia, che prima di allora non aveva potuto vedere.
Poi, c'era quel miscuglio di sensazioni completamente indefinibili. Le
ricordavano in qualche modo quello che aveva sentito la primissima
volta che l'aveva visto, ma non erano decisamente la stessa cosa. Sul
volto di Aran non c'era alcuna traccia d'imbarazzo, piuttosto un
riflesso di quelle stesse emozioni. La ragazza era abituata a vederlo
esprimersi con sincerità, quando era con lei, ma quella
volta la totale trasparenza di quello che lui stava provando la
colpì con un'intensità del tutto nuova.
Nessuno dei due comprese quello che stava succedendo, né
notò il proprio volto avvicinarsi sempre più a
quello dell'altro, fino a che un tuono non irruppe nell'aria uggiosa.
Tutto intorno a loro parve tremare. Aran e Freya trasalirono, colti
alla sprovvista, e come di riflesso si allontanarono, continuando a
guardarsi negli occhi.
La schiena di Freya arrivò a toccare il lato opposto
dell'arco e la pietra le parve tanto meno solida e affidabile, se
paragonata all'abbraccio di Aran. Era stato tutto talmente sconvolgente
che non seppe nemmeno arrossire, limitandosi a spalancare sempre di
più le palpebre nella confusione che la stava assalendo. Non
sapendo cosa fare, volse la propria attenzione ai mercanti che
sbaraccavano e lentamente abbandonavano la piazza, respirando
profondamente. Che cos'era stato, quell'istante?
Aran, che pareva turbato quanto lei, non parlò fino al
momento in cui la pioggia rallentò e poterono finalmente
mettersi alla ricerca di una taverna in cui mangiare. «Vieni,
possiamo andare» mormorò.
Stringendosi nei mantelli, i due ragazzi iniziarono a camminare in
direzione della seconda cerchia, dove certamente avrebbero trovato un
luogo caldo, asciutto e discreto. Alla fine s'infilarono in una locanda
pulita e modesta, il genere di posto dove si può mangiare in
tranquillità senza temere situazioni indesiderate. Si
sedettero a un piccolo tavolo posto in un angolo, giusto accanto al
fuoco su cui arrostiva un bel pezzo di carne. Quando lo stomaco di
entrambi brontolò sonoramente i due giovani scoppiarono a
ridere; la tensione che lo strano avvenimento di prima aveva steso tra
di loro finalmente evaporò.
Ordinarono una minestra saporita e fumante, arricchita da qualche
boccone di selvaggina, e due boccali di sidro. Sebbene quest'ultimo
appartenesse alla sua nuova vita, il cibo semplice le
ricordò inevitabilmente quella vecchia; mentre soffiava sui
cucchiai fumanti, venne trascinata indietro nel tempo. Il suo palato
stava quasi per dimenticare quel sapore.
Terminato il pasto arrivò il momento per le spiegazioni su
cui il maestro Athal aveva tanto insistito; sinceramente incuriosita,
Freya si concentrò al massimo, desiderosa di porre numerose
domande al riguardo. Fu proprio lei a dare inizio alla lezione
improvvisata: «Quindi, stando a quanto ho capito, la
città è suddivisa in cerchie che si sviluppano
attorno la piazza principale» esordì.
Aran annuì, spostando il proprio boccale a lato
perché niente stesse fra di loro. Stava prendendo molto sul
serio il suo compito. «Esatto. Ogni città di
Riagàn è organizzata esattamente alla stessa
maniera, seppur rispettando la diversa conformazione di
ognuna» iniziò. «Abbiamo tre cerchie: la
prima, quella più interna e prossima alla piazza,
è abitata dal governatore, dai funzionari di stato e dagli
esponenti della nobiltà; la seconda, quella intermedia e in
cui ora ci troviamo, è occupata da mercanti, artigiani e
costruttori di ogni sorta e ospita taverne e locande; infine la terza,
a ridosso delle mura, è abitata dai membri delle maestranze
più umili, ma non per questo meno necessarie al
funzionamento del Regno. Ogni singolo individuo è
fondamentale per il meccanismo.» Si fermò un
attimo e bevve un sorso, prima di proseguire. «A loro volta
le cerchie sono suddivise in quartieri. Ognuno di essi ospita le case e
le botteghe di un diverso ordine di lavoratori.»
Trascorsero le prime ore del pomeriggio in quel modo: Aran spiegava,
Freya interveniva con le proprie domande e memorizzava tutto
ciò che c'era da sapere sul sistema del Regno di
Riagàn. La pioggia continuava a battere sulle piccole
finestre della locanda, non facendo nulla per invogliarli a tornare
all'aria aperta; ma scoprire quanto fosse complesso e magistralmente
organizzato il governo di Mirea fu per Freya motivo sufficiente a non
annoiarsi: nulla sembrava lasciato al caso o al disordine fra le mani
della Regina.
Tutto veniva deciso e predisposto direttamente dall'alto. Ogni singolo
cittadino svolgeva un mestiere affidatogli dal governo stesso in base
alla propria cerchia, della quale Freya percepì nuovamente
il ruolo di divisore sociale, oltre che urbano; la famiglia di origine
era altrettanto decisiva: era estremamente raro che i figli fossero
destinati a un lavoro diverso da quello che i genitori avevano avuto
prima di loro. Fin da bambini tutti sapevano perfettamente quale
sarebbe stato il proprio ruolo. A ogni ordine veniva indirizzato un
numero differente di persone in base alla necessità, in modo
che nessun prodotto o maestranza venisse mai a mancare. La paga minima,
seppur diversa in base alla levatura del mestiere, era garantita a
chiunque in cambio del contributo dato al prosperare del Regno.
Perfino le abitazioni venivano assegnate da Mirea e dai suoi emissari,
che ne stabilivano anche modalità e tempi di costruzione. I
nobili solevano avere sia una residenza in città che una
più grande nelle campagne, ma quest'ultima veniva concessa
solo dopo un'approvazione formale e pagata interamente con denaro
privato. Non che fosse un problema: essi disponevano di tesori
famigliari alquanto cospicui, accumulati in generazioni di servizio
alla corona.
Erano infatti i nobili a controllare e sorvegliare gli allevamenti e le
fattorie del circondario, responsabili del rifornimento di carne,
verdura e cereali alle città, così come qualunque
altro negozio o bottega entro le mura: quel ruolo di supervisori
garantiva loro ricchezza e titolo, che la Regina aveva il potere di
revocare in caso di mancato adempimento degli obblighi.
Tutto, in sostanza, dai beni alle ricchezze, passava dalle mani del
governo di Riagàn, che ridistribuiva poi alla popolazione in
base a leggi ferree e importanza del ruolo ricoperto. Nessuno moriva di
fame e perciò nessuno mendicava per le strade,
così come nessuno vi era costretto a vivere
poiché non aveva un tetto sulla testa. Sembrava tutto
incredibilmente perfetto, come un ingranaggio oliato al punto da non
incepparsi mai.
Ognuno dei cittadini del Regno di Riagàn pareva avere
ciò che gli fosse strettamente indispensabile per vivere e
questo era certamente conforme a quello che la Regina le aveva sempre
detto. Qualcosa, però, strideva: davvero l'unico modo
perché esistesse un equilibrio era stabilire ogni cosa senza
che la gente potesse decidere alcunché? L'ordine del Regno
pareva meraviglioso, fino a che non si pensava al fatto che i sudditi
non avessero nemmeno la libertà di scegliere il mestiere di
cui avrebbero voluto vivere. E l'istruzione? Aran le aveva detto che
tutti avevano la possibilità di imparare il lavoro che
avrebbero dovuto svolgere, ma se mai avessero voluto conoscere di
più? Se mai avessero desiderato una vita diversa, avrebbero
avuto il diritto a quel tipo di ambizione? La risposta aveva il
potenziale di accendere in lei una certa inquietudine.
Le domande continuarono ad assalirla anche quando il temporale
cessò e finalmente poterono uscire. Aran pagò il
dovuto all'oste. Nel vedere nuovamente le piccole Placche rettangolari
luccicare Freya pensò che il Principe avrebbe dovuto anche
illustrarle nel dettaglio il sistema monetario, ma non l'aveva fatto.
Giunti all'esterno, il giovane rispose a quel dubbio. «Per
oggi hai già dovuto subire abbastanza i miei
sproloqui» disse, sorridendo. «Ho pensato che ti
sarebbe piaciuto vedere la piazza senza i banchi del mercato, prima di
avviarci.»
Gli occhi di Freya s'illuminarono e la ragazza annuì: la sua
curiosità prese di nuovo il sopravvento. Aveva cercato di
studiare i bellissimi edifici a ridosso della piazza, quella mattina,
ma la folla e le bancarelle gliel'avevano impedito. Doveva
assolutamente recuperare. Ritrovato il proprio spirito,
seguì Aran lungo le vie cercando di lasciarsi trascinare da
esso.
Come il giovane aveva detto, la piazza era completamente sgombra e fin
dalla via principale si poteva avere una bellissima visuale della sua
interezza. Freya si sorprese di non essersi accorta che fosse tanto
grande: la fontana che zampillava al suo esatto centro era parecchio
più distante dai palazzi di quanto avesse immaginato.
Nonostante la pioggia avesse cessato di cadere l'aria era fredda e
umida, perciò pochissime persone facevano loro compagnia in
quel vasto spazio. La giovane trasse un respiro profondo, assaporando
lo strano fascino del silenzioso cuore della città.
Giunti alla grande vasca centrale, Freya e Aran si sedettero sul bordo
in pietra, fianco a fianco. Lo sguardo di lei seguì per un
lungo istante tutto il perimetro percorso dagli edifici, fino a
fermarsi sul più grande e maestoso di tutti: un palazzo
talmente alto da svettare al di sopra di ogni altro, che affacciava
sulla piazza una lunga scalinata; al culminare dei gradini una selva di
colonne finemente scolpite sorreggeva un ampio porticato, al cui
termine si apriva il portone di entrata.
Senza riflettere, Freya si alzò e prese a camminare in
quella direzione. Aveva già letto qualcosa a riguardo, nelle
Saghe di Finian:
era il luogo di culto più importante dell'intero Regno di
Riagàn. Impiegò un attimo a rammentare
il nome dell'unico dio che gli umani adoravano: non aveva mai letto
nulla sull'argomento nei libri presenti al castello ed era da tempo che
non tornava su quel capitolo delle Saghe. Poi, un lampo: Creantis,
lucente entità della creazione. Così veniva
chiamato.
Aran, nel frattempo, l'aveva raggiunta. Stava dietro di lei, in
silenzio, lasciandole come sempre il suo tempo. Certe volte lei non
capiva proprio come potesse avere tanta pazienza di starle dietro nella
sua scoperta di tutte quelle cose che lui conosceva già alla
perfezione.
Quando Freya parlò, lo fece quasi senza accorgersene:
«L'Altissimo Tempio di Creantis...»
mormorò. Non c'erano sicuramente costruzioni del genere
nelle Foreste di Confine.
«Una volta, forse. Molto tempo fa» rispose Aran,
stranamente serio. «Ora è il Palazzo di Governo:
vi si tengono tutte le riunioni fra i funzionari e il governatore.
Inoltre, è la residenza di quest'ultimo, la meglio protetta
della città.»
Freya tacque, interdetta. Solo allora, distogliendo l'attenzione dai
bellissimi bassorilievi, si accorse delle quattro guardie appostate
all'ingresso; il portone era chiuso, probabilmente da più
che un semplice chiavistello, piantonato e controllato a vista. Sempre
più confusa, iniziò a riepilogare quello che
ricordava dalle Saghe:
il popolo di Riagàn, come pressoché ogni altro,
era profondamente legato al culto della propria divinità.
Creantis faceva parte della vita delle persone in ogni gesto; la fede
era vera, spontanea, poiché a ognuno era garantita la
libertà di credere o meno senza rischio di alcuna punizione.
Era una religione semplice, che raccontava di un dio accogliente e
comprensivo con i giusti, intransigente e irremovibile con i malvagi.
Come poteva la gente di Riagàn aver permesso che il suolo a
lei più sacro divenisse luogo di scambi di potere?
Eppure, mentre il suo sguardo correva alle lame taglienti delle
alabarde portate dalle guardie, ebbe la certezza che quello non poteva
essere il tempio di cui aveva letto; non poteva essere quel luogo di
raccoglimento sempre aperto a chiunque cercasse conforto nei momenti di
dolore, o benedizione nei tempi di gioia. E, con sconcertante
immediatezza, sopraggiunse il pensiero che dovesse essere opera della
Regina Mirea.
Non sentendo giungere nulla da parte sua, Aran proseguì:
«Il maestro ha tentato di accennarmi qualcosa, molti anni fa,
ma era un argomento che arrecava dispiacere a mia madre. Ha preferito
essere lei a parlarmene» disse, le sopracciglia aggrottate.
«Mirea ha lottato a lungo contro il credo violento e crudele
dei nostri antenati, quando è salita al trono. Ha dovuto
prendere delle decisioni molto difficili e invise ai più per
debellarlo. I principi cruenti su cui il culto si fondava erano
radicati al punto che l'unica soluzione fu abolirlo per legge. Da quel
momento, Riagàn è uno stato fondato sulla
ragione.»
La confusione venne presto sostituita da un sentimento d'inquietudine.
Come potevano la versione dell'autore delle Saghe e quella di Aran
dipingere il culto in due modi tanto divergenti? Le
possibilità erano solo due: o il libro che sua madre le
aveva sempre detto essere fonte di verità mentiva, oppure ad
Aran era stata raccontata una bugia. Entrambe non fecero altro che
aumentare l'angoscia di Freya, consapevole che qualunque fosse la
risposta uno dei due aveva creduto a una menzogna.
Più il silenzio di lei si protraeva, più Aran
sembrava agitarsi. «Ti senti bene?» le
domandò infine, visibilmente preoccupato.
Uno sforzo sovrumano e Freya riuscì a ricomporsi. Prese un
profondo respiro, sorrise. «Sì, è solo
che... Questo non è il culto di Creantis che conoscevo
io» mormorò.
Per un istante, la giovane rimase in bilico sul sottile filo del
dubbio: stava a lei decidere se esprimere le proprie riflessioni o
meno. Poi, qualcosa le disse che non era il momento adatto per
sollevare simili questioni; era stata una giornata bella e preziosa,
una di quelle che avrebbe sempre conservato nel profondo della propria
anima: non poteva rovinarla con le sue solite macchinazioni. C'era
già così tanto da risolvere.
Sorrise ancora e lentamente vide il volto di Aran distendersi fino a
che non la ricambiò. Avrebbe voluto vederlo sempre
così, si disse, sereno, pieno di gioia e meraviglia.
Camminò al suo fianco in completo silenzio, cercando di
concentrarsi sulla sua felicità, e altrettanto in silenzio
montò in sella a Stellato per riprendere la strada del
ritorno.
Eppure, il dubbio aveva oramai iniziato a scavare un solco
incancellabile.
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