A sue spese, Rose aveva
imparato a riconoscere l’indissolubile legame di proporzione tra la meraviglia
dei suoi sentimenti e la tacita sofferenza che faceva loro da contrappeso;
aveva compreso il risvolto di ognuno di quegli attimi di felicità, perché essi avevano
un prezzo, un costo superiore al loro valore, che lei, tremante, doveva pagare
nel tempo con l’angoscia che scaturiva dallo squarcio al centro del suo petto –
una ferita infetta destinata a ucciderla lentamente, tra un bacio e l’altro, con
una lacrima dolce o un sorriso amaro, sale sui margini frastagliati del suo
cuore spezzato.
Amari spiccioli contesi
Per ogni estatico istante
Dobbiamo pagare un'angoscia
In pungente e tremante rapporto
Con l'estasi.
Per ogni ora d'amore
Aguzze elemosine d'Anni –
Amari
spiccioli contesi –
E scrigni colmi di lacrime!
(E. Dickinson)
Aveva troppo freddo perché potesse essere davvero colpa
dell’aria pungente di quel pomeriggio e Rose se ne accorse quando, varcata la
soglia dei Tre Manici di Scopa, realizzò che stava ancora tremando. Si strinse
nella giacca e passò rapidamente in rassegna la stanza, fino a trovare Scorpius
proprio nell’istante in cui anche lui alzò lo sguardo su di lei. Era seduto a
un tavolo con i suoi compagni di Casa – Albus immancabilmente al suo fianco – e
nel momento in cui i loro occhi si incrociarono le rivolse un sorriso.
Subito lo stomaco le si serrò in una morsa, il fastidioso
promemoria dell’effetto che solo lui sapeva farle, ma Rose rabbrividì ancora
mentre il suo ragazzo lasciava gli amici tra le risate e le andava incontro.
Quando Scorpius si chinò per baciarla, si trattò di un
contatto fugace e tenero, per nulla imbarazzato e allo stesso tempo non troppo
intimo per il luogo in cui si trovavano. Normalmente, Rose sarebbe arrossita
per quella manifestazione pubblica del loro rapporto, ma in quel momento fu
colpita dalla semplicità con cui lui l’aveva salutata e presa per mano,
trascinandola fuori dal locale come se le occhiate curiose di tutti i presenti
fossero l’ultimo dei suoi pensieri.
C’era qualcosa di amaramente rassicurante nel modo in cui
Scorpius Malfoy non si curava di nascondere la sua relazione con Rose. Prima di
lei, c’erano state un paio di altre ragazze – brevi frequentazioni, le aveva definite lui – ma nessuna con cui
avesse mai ritenuto opportuno farsi vedere insieme. Rose lo aveva osservato da
lontano, all’epoca, soffocando una bruciante gelosia con la vanitosa
consolazione che se per lui fossero state importanti non le avrebbe tenute
nascoste; e adesso eccola, a crogiolarsi in quello stesso pensiero di falso
conforto riferito a se stessa, nella situazione diametralmente opposta.
«Stai bene?», le domandò mentre camminavano affiancati per le
strade di Hogsmeade.
Annuì. «Fa un freddo cane.»
«Andiamo in un posto caldo», propose lui, guardandosi intorno
come se le insegne dei negozi potessero dargli un’idea su come spendere quel
pomeriggio insieme.
Lei gli strinse una mano. «Veramente mi andrebbe di stare un
po’ da soli», suggerì con un sorriso timido. «Facciamo una passeggiata fino al
Lago?»
Scorpius inclinò la testa, un po’ confuso, ma poi annuì, si
slacciò il mantello e glielo sistemò sulle spalle. «Tutto quello che vuoi.»
Quella replica così affettuosa le congelò il sorriso sulle
labbra e Rose lasciò che un brivido le infiammasse la pelle nei punti in cui le
dita sottili che tanto desiderava l’avevano sfiorata. Non sentiva nient’altro
che il prepotente battito del suo cuore, ritmico nelle vene e attraverso la
carne infreddolita di tutto il corpo, fino alla pancia, alla gola, alle
orecchie. Percepiva dentro di sé il tumulto fastidioso dei propri sentimenti,
che riecheggiava instancabile tra le pareti vuote dello spazio in cui si
riservava di essere sincera con se stessa, quello stesso spazio in cui a
contare era ciò che non sentiva: i
sentimenti di lui.
Perché Scorpius Malfoy era il fidanzato perfetto, era
premuroso, gentile e dolce, tuttavia – cruda e innegabile realtà – non era
affatto innamorato di lei. Non che non fosse coinvolto, anzi, non di rado lei
cercava conforto nell’intensità dei suoi baci, nella rassicurante stretta delle
sue mani quando stavano insieme; ma il sentimento era tutt’altro e lei, che ne
era consumata ogni giorno di più, lo sapeva bene.
Camminavano in silenzio, affiancati, Scorpius la teneva per
mano e di tanto in tanto le accarezzava il dorso con il pollice. Sembrava
sovrappensiero, ma Rose lo conosceva abbastanza da sapere che aveva intuito il
suo conflitto interiore e le stava lasciando tempo per decidere come
affrontarlo – e magari risolverlo senza coinvolgerlo.
Lei, d’altra parte, non desiderava altro che seppellire quei
pensieri assillanti sotto la placida serenità che le provocava la vicinanza di
lui, come era solita fare quando era turbata e non riusciva a venire a capo dei
suoi problemi. Quelli, però, la inseguivano sempre con una tenacia che gli
stati d’animo più positivi non sapevano emulare.
«A cosa pensi?», gli chiese lei, anticipando una domanda che
non voleva sentirsi porre e sperando, al contempo, di distrarsi.
Scorpius si voltò a guardarla come se la vedesse di nuovo
dopo un periodo in cui era stata lontana – e forse era proprio così. «Mi
domandavo se fossi arrabbiata con me.»
Sempre sincero, sempre attento. Come poteva un ragazzo tanto perspicace
non rendersi conto del fatto ovvio quanto crudele che lei provava per lui più
di quanto lui avrebbe mai potuto provare per lei?
Perché era questo che faceva a pezzi Rose, la velenosa
certezza che lui non fingeva affatto, e non le mentiva mai e non le domandava
nulla e non le prometteva altro che niente. E, soprattutto, la privava della
possibilità di odiarlo abbastanza da lasciarlo andare via.
«No», disse piano. «Scusami.»
Sapevano entrambi che non era la verità e che il perdono che
chiedeva era solo per quella clemente bugia con cui sperava di rimediare a
colpe che non sentiva neanche di avere.
Scorpius si portò alle labbra le loro mani intrecciate e le
depositò un bacio sulle dita: un’assoluzione che Rose non aveva neanche fatto
in tempo a meritarsi.
«Hai ancora freddo?»
Lei scrollò le spalle e gli si fece più vicino. «Sto bene.»
Le lasciò la mano solo per cingerle le spalle, mentre
camminavano abbracciati in direzione del Lago. A guardarli, sarebbero parsi
semplicemente una coppia di ragazzi molto presi l’uno dall’altra, come
d’altronde li giudicavano tutti i loro compagni di scuola. Rose sorrise amara
al pensiero di come le sue amiche avevano liquidato i suoi timori, suggerendo
che fossero soltanto il frutto di una paranoia infondata, perché Scorpius
Malfoy stravedeva per lei e non si era mai comportato meno che alla perfezione
nei suoi confronti.
Le acque del Lago Nero erano immobili e scure, promettevano
abissi inquietanti e pieni di creature magiche antiche, eppure a Rose piaceva
l’atmosfera di placido torpore che si respirava sulla riva deserta.
Scorpius lo sapeva, quindi si limitò a lasciarle scegliere il
punto in cui sedersi ad ammirare il paesaggio lacustre, mentre lei si toglieva
il suo mantello dalle spalle e glielo restituiva, per non rischiare di
sporcarlo.
Presero posto sotto una quercia che doveva avere almeno cent’anni
più di loro e quando Rose si voltò per afferrargli il viso con le mani,
Scorpius non oppose alcuna resistenza. Si baciarono con la tenera impazienza di
due adolescenti, nella più impalpabile dolcezza – di lui – e con un’urgenza soffocante – di lei.
Scorpius le afferrò i polsi, non per liberarsi dalla sua
stretta, ma per farle sentire che anche lui era lì e la desiderava, tanto
quanto lei desiderava lui. Ma questo Rose lo sapeva benissimo, glielo
rammentava la morbida carezza della sua lingua contro la propria, la
delicatezza dei suoi morsi sulle labbra, il respiro affannoso tra un bacio e
l’altro. Si mosse per porsi di fronte a lui, sedendogli in braccio, del tutto
indifferente all’impudenza della propria posizione.
Con gli occhi chiusi, mentre si riempiva la bocca del suo
sapore, i polmoni della sua aria, le mani della familiare rigidità delle sue
spalle, Rose sentì che Scorpius la voleva e si concesse di pensare che
nient’altro avesse importanza. Rincorreva con la mente la sensazione delle sue
dita sotto l’orlo del maglione quando un piccolo suono la riportò a
concentrarsi sulle labbra che stava baciando: il fiato corto – di lui, di lei – era una fragile
testimonianza dell’urgenza con cui il desiderio di stare insieme superava la
necessità di respirare, quasi l’erronea convinzione di aver bisogno di ossigeno
fosse stata solo una distrazione, prima di quel momento.
La scoperta continua di non essere l’unica vittima di
quell’attrazione insostenibile la salvava ogni volta dalla paura di esserne
travolta. Ma se da un lato era vero che Scorpius la desiderava, dall’altro Rose
sapeva benissimo che c’era molto di più tra loro: si rispettavano, erano felici
di passare del tempo insieme, si volevano bene. Per questo, quando si decise a
riaprire gli occhi, lo fece ancora una volta con l’ingenua speranza di veder
svanire la propria ingrata insoddisfazione.
E invece, sollevate le palpebre, nel grigio screziato
d’argento degli occhi del suo ragazzo, Rose riuscì a scorgere solo l’assenza di
qualcosa che non avrebbe saputo descrivere, ma che era certa avrebbe
riconosciuto se ci fosse stata, qualcosa che nel calore di quel metallo fuso
avrebbe dovuto raggiungerla con la stessa violenza con cui si sentiva
squarciare il petto ogni volta che vi annegava. Percepì soltanto il dolore di uno strappo, da qualche parte a metà strada tra lo stomaco e il cuore: quella stessa scintilla che si accendeva in lei ogni volta che lo guardava aveva preso a crescere senza controllo e a fare terra bruciata, implodendo e trascinandosi dietro ogni cosa. Perché ogni pensiero razionale, ogni studiata e costruita convinzione crollava di fronte all’enormità di una semplice assenza: il richiamo di un sentimento riconoscibile da un suo simile, l’estatica meraviglia radicata in punti inaccessibili dell’essere umano, oltre la mente, oltre il cuore.
Tutto ciò che restava erano soltanto spiccioli, il resto di
un tutto che continuava a essere niente. E che valore poteva avere ciò che le
costava così tanto?
Uno zellino, due
zellini.
Frammenti di un cuore spezzato che crollavano sotto il peso
di legami mancanti e si arrendevano al suolo in frantumi.
Un tintinnio, poi due,
poi dieci, monete che suonavano più rumorose di quanto avrebbero avuto il
diritto di fare.
Schegge aguzze conficcate nella carne dall’interno: laddove
un battito ritmico avrebbe dovuto assicurare la vita, ogni pulsazione era
invece un nuovo squarcio nel petto.
Un’elemosina che non
valeva la pena ricevere, un sorso di vita che prolungava solo l’agonia prima
dell’inevitabile fine.
Scorpius la guardava confuso, forse allarmato dalla sua
immobilità o dal leggero tremore del suo labbro inferiore.
«Non posso più farlo», dichiarò Rose in un sussurro
strozzato.
Lui inclinò la testa, confuso. «Io non capisco.»
Gli posò le mani sulle spalle e si sollevò leggermente, per
allontanarsi da lui, che non cercò neanche di trattenerla. «Che stiamo facendo,
Scorpius?»
«Ci stavamo baciando.» Il ragazzo sollevò una mano e le
sfiorò un fianco, un gesto troppo delicato per essere un tentativo di attirarla
nuovamente a sé.
Rose si mise a sedere per terra accanto a lui, lo sguardo
dritto davanti a sé per non incrociare il suo; poi, quando le fu intollerabile
averlo anche al margine del suo campo visivo, chiuse gli occhi inspirò forte
prima di parlare. «Non so neanche perché stiamo insieme.»
Lui si mosse in modo da trovarsi di fronte a lei, le strinse
un braccio con dita gentili e attese che lei tornasse a guardarlo. «È perché
insieme stiamo bene», disse
semplicemente.
Rose scosse la testa. «Non c’è equità in questo rapporto.»
«Tu mi piaci», insisté Scorpius. «Non so in che altro modo
dimostrartelo. Mi piaci», ripeté. «Sono preso da te e voglio stare con te.»
Lacrime amarissime le affollarono gli occhi mentre soffocava
la traditrice soddisfazione indotta dalla verità nelle sue parole. Ma come
spiegargli ciò che mancava, se non
tramite un paragone con ciò che provava lei? Come descrivergli ciò che avrebbe
dovuto sentire anche lui senza esporsi, aprire il cuore a nuove ferite,
allentare la stretta su quei frammenti destinati a precipitare?
Io sono innamorata di
te.
Ma forse lui non era tanto inconsapevole, perché mai aveva
pronunciato le parole sbagliate, mai aveva ingenuamente adottato definizioni
inopportune per il loro rapporto.
E tu non sei innamorato
di me.
Rose non avrebbe avuto paura se si fosse trattato di semplice
attesa, perché la sua forza era nella capacità di amare per entrambi mentre
aspettava che lui fosse pronto. Ciò che la distruggeva, invece, era la
consapevolezza che quel momento non sarebbe mai arrivato, la certezza che il
tempo davanti a lei si sarebbe dilatato all’infinito e poi aggrovigliato e
annodato e attorcigliato intorno a lei fino a strangolarla.
Ammetterlo – a lui, a
se stessa – e lasciarsi uccidere con rapida pietà dalle parole pronunciate
ad alta voce – io sono innamorata di te –
o crogiolarsi nel dolore di ciò che non sarebbe mai stato detto – e tu non sei innamorato di me – per
aggrapparsi a pochi spiccioli amari?
«In che direzione stiamo andando?», domandò esitante. Non
voleva forzarlo, né mettergli pressione, ma doveva quantomeno fargli notare che
il problema non stava in una semplice condizione momentanea, bensì
nell’impossibilità di un futuro insieme. «Tu pensi mai che possa esserci
qualcos’altro al di là di questo», indicò con un dito prima se stessa e poi
lui, «e che tu non lo raggiungerai mai?»
Non aveva inteso muovergli un’accusa, ma addolcire la domanda
con un clemente noi l’avrebbe resa la
peggiore delle bugie.
Scorpius la guardò sgomento, incapace di replicare, e Rose si
alzò in piedi, approfittando di quel momento in cui era rimasto interdetto; si
scosse via la polvere dai vestiti, con un sorriso sulle labbra amaro come il
veleno che sentiva in bocca da quando l’insoddisfazione aveva coperto il sapore
meraviglioso dei suoi baci.
«Dovresti rifletterci su», gli suggerì con tenerezza, perché
non sarebbe stata capace di rivolgerglisi meno che dolcemente.
Terrorizzata da ciò che lui avrebbe potuto rispondere, lo
anticipò rivolgendogli l’ennesimo sorriso, poi si voltò e si allontanò a grandi
passi, lasciandolo solo con i suoi pensieri.
***
Era dal pomeriggio precedente che lo evitava. Rose era
tornata al Castello imponendosi di non pensare a quanto gli aveva detto, ma
dopo una cena consumata per mantenere le apparenze – lo stomaco serrato in una morsa, le spalle rivolte a lui, al suo
tavolo, alla sua Casa – nella solitudine del proprio letto non aveva più
potuto ricacciare indietro le lacrime. Era stata orgogliosa di se stessa per
non essersi accontentata di ciò che lui aveva da offrirle, per aver
riconosciuto ad alta voce che quello che avevano non era abbastanza, neanche
lontanamente, ma adesso si odiava per quel dolore autoinflitto con cui doveva fare
i conti. Perché era facile dirsi insoddisfatta tra le sue braccia, quando tutto
ciò che mancava era un di più e
l’ossigeno le riempiva i polmoni, il sangue le pulsava nelle vene e lo stomaco le
si contorceva soltanto per un sentimento travolgente. Adesso che era sola,
invece, avrebbe voluto prendersi a schiaffi per aver rinunciato a tutto ciò,
per aver definito elemosina quel tanto che la rendeva in grado di respirare,
muoversi, vivere. Avrebbe dato qualunque cosa per poter tornare indietro e
cancellare ciò che aveva detto, perché forse non c’era bisogno di avere di più
e bastava che stessero bene insieme, che si desiderassero e si volessero bene,
forse non serviva altro che la possibilità di respirare, muoversi, vivere,
perché come poteva esserci altro se non c’era neanche quello?
Aveva pianto e soffocato i singhiozzi in un cuscino che non
sapeva affatto di lui, il naso premuto contro il cotone candido nella speranza
di rintracciare un odore familiare che non aveva ragione di esserci. Si era
fatta violenza immaginandosi senza di lui, certa che prima o poi il bruciore
lancinante dell’assenza si sarebbe affievolito e avrebbe lasciato spazio a
qualche altro tipo di sofferenza; le avrebbe provate tutte, prima o poi, ma per
adesso le sarebbe bastato riuscire a estirpare quel vuoto a cui non sapeva dare
contorni, perché avrebbe preferito strapparsi dal petto grovigli di spine e
schegge, trovarsi lacerata e ferita e distrutta, ma non vuota, non vuota di un
vuoto che non si può riempire, che soffoca con il peso del suo niente. Rose non
aveva immaginato, quando gli aveva detto di riflettere, che le sarebbe costato
così caro essere onesta con se stessa, non aveva pensato che il coraggio avesse
un prezzo tanto alto e che non avrebbe potuto pagarlo soltanto con i pochi
spiccioli che aveva raccolto e a cui si era affidata per respirare, muoversi,
vivere.
Magari sarebbe bastato scusarsi, aveva pensato quella notte
per lenire un dolore a cui non era certa di poter sopravvivere, per arginare la
sofferenza e rimandarla, pietosamente, a quando fosse stata in grado, almeno,
di respirare da sola. Lo aveva formulato e poi rifiutato, quel pensiero codardo
e soprattutto ingenuo, perché assuefarsi ancora un po’ all’elemosina non
l’avrebbe salvata dalla sua incapacità di tenersi insieme da sola.
Magari sarebbe bastato scusarsi, aveva pensato di nuovo quella
mattina, a colazione, quando si era seduta al tavolo dei Grifondoro – dandogli ancora le spalle, ma senza la forza
di fingere di poter mangiare – e lui avrebbe intrecciato le dita alle sue e
le avrebbe baciato il dorso della mano, perdonandola ancora una volta. E lei
sarebbe stata disposta a implorare quel perdono che lui le avrebbe concesso
senza esitare, perché Scorpius non aveva idea di cosa ci fosse di sbagliato in
lui, ma certamente non aveva mai trovato niente di sbagliato in lei, neanche
quando era stato incapace di comprenderla, neanche quando si era visto
restituire quegli spiccioli amari che, pur non essendo abbastanza, a lei sembravano
servire – per respirare, muoversi, vivere.
Magari sarebbe bastato scusarsi, pensò un’ultima volta quel
pomeriggio, mentre lui le si avvicinava nel cortile semideserto della scuola,
scusarsi e rimangiarsi tutto, fingere di aver avuto una brutta giornata, un
momento difficile, un attimo di confusione.
Uno zellino, due zellini.
Raccogliere gli spiccioli prima che lo facesse qualcun altro,
imparare ad amare ciò che aveva, a riconoscere l’importanza di poter respirare,
muoversi, vivere.
Un tintinnio, poi due,
poi dieci, monete sparse tra i frammenti di un cuore spezzato; ma cosa avrebbe
potuto raccogliere – ferendosi le dita, il prezzo per aver lasciato cadere
tutto – se non ciò che era ancora intero e utilizzabile?
Scorpius le andò incontro a passo tranquillo, l’espressione
impassibile.
Elemosina o cocci?
Poco, troppo poco, o niente?
Magari sarebbe bastato scusarsi, o magari non sarebbe
servito. Forse lui le avrebbe detto che non era innamorato di lei – e il cuore le si sarebbe spezzato di nuovo
– ma che un giorno avrebbe potuto esserlo – e
lei avrebbe raccolto i cocci, li avrebbe stretti al petto e avrebbe sopportato
il dolore della ferita meglio di quello dell’assenza.
Rose sorrise, perché di tutte le speranze che aveva nutrito
in ventiquattr’ore quella era certamente la più ingenua. Sorrise anche mentre
lui si avvicinava e il sapore amaro delle parole che stava per ascoltare le
inondava la bocca.
Ti prego, non lasciarmi, implorò un’ultima volta, incapace
di resistere.
Magari sarebbe stata abbastanza forte da non scusarsi.
Ti prego, lasciami
andare.
Scorpius la guardò e nel metallo fuso dei suoi occhi Rose
vide qualcosa che non c’era mai stato prima, una consapevolezza nuova, una
scintilla che la terrorizzò e la emozionò allo stesso tempo.
In ogni caso, prima o poi avrebbe dovuto ricominciare. A
respirare, muoversi, vivere.
«Dobbiamo parlare.»
Note
Questa storia si è classificata ottava, con premio speciale
"Miglior finale" al contest "Hold my Angst (Flash contest –
Edite ed inedite) – Seconda edizione" indetto da BessieB sul forum di EFP.
Fa parte della serie Anima nuda, per la quale costituisce un
secondo prequel, successivo alla one-shot Non ne troviamo cicatrice, sul pairing Albus/Scorpius, che
spiega il punto di vista di quest’ultimo, che qui resta celato. Pertanto,
questa OS precede direttamente la long.
Come per tutti gli scritti di questa serie, il titolo è
tratto da una poesia di Emily Dickinson, la stessa di cui ho riportato un
estratto prima del testo.
Grazie per la lettura!
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Futeki