Se n’era reso conto un
pomeriggio d’inverno, sotto la luce insofferente di un sole pallido, e la sua
reazione era stata fuggire, se da lui o da se stesso non
gli fu mai chiaro. Il frastuono della consapevolezza lo aveva inseguito e
raggiunto, scacciando il velo opaco del dubbio con la delicatezza di un tornado
che si abbatte su un dente di leone, appena abituato a flettersi sotto una
brezza leggera. Sradicato dal suo terreno da una forza sconosciuta – forse
nemica o semplicemente nuova – Scorpius ne era stato completamente
sopraffatto, solo per scoprire, in seguito, che il suo passaggio non aveva
lasciato alcuna traccia visibile.
Non ne troviamo cicatrice
C’è una certa inclinazione di luce,
i pomeriggi d’inverno –
che opprime, come il peso
di musiche di cattedrale –
Una ferita celeste, ci apporta –
non ne
troviamo cicatrice,
ma una interna differenza –
dove stanno i significati –
Nessuno può insegnarla – altrui –
è il sigillo la disperazione –
un’imperiale afflizione
inviataci dall’aria –
Quando viene, il paesaggio ascolta –
le ombre – trattengono il fiato –
quando va, è come la distanza
nell’aspetto della Morte.
(E. Dickinson)
Risvegliarsi era lottare contro gli abissi che lo
risucchiavano intrappolandolo in un turbinio di ombre, e la luce che lo investì
attraverso le palpebre chiuse mentre riprendeva conoscenza era una ferita che
lo invitava a lasciarsi scivolare di nuovo a fondo.
Scorpius inspirò, scoprendo che era ancora in
grado di espandere i polmoni, nonostante le piccole fitte di dolore provenienti
da tutto il corpo. L’aria gli bruciò la gola, riportandogli alla bocca l’eco
del sapore amaro di qualcosa che dovevano avergli fatto bere mentre era
incosciente.
Aprì gli occhi e riconobbe immediatamente il soffitto dell’infermeria,
che si era ritrovato a fissare durante lunghissime notti insonni a seguito di
infortuni dovuti al Quidditch. Tuttavia, quella volta
stava appena calando la sera, lo dedusse dalla luce rossastra del sole morente
che attraversava le ampie finestre, gettando un alone infuocato sui letti
vuoti. Il pulsare doloroso del suo braccio sinistro gli rammentò che c’era una
ragione più che valida se era stato affidato alle cure di Madama Chips, perciò
provò a muovere la testa per guardarsi e fare l’inventario dei danni.
«Sei sveglio», osservò una voce tranquilla, mentre uno
strappo all’altezza dell’addome gli causava una smorfia di sofferenza. Albus gli si avvicinò, per entrare nel suo campo visivo
senza costringerlo a sollevare la testa. «Ricordi cosa è successo?»
Una scoperta come un
lampo di luce, il riflesso del sole invernale sui suoi capelli, una paura
soffocante e poi la fuga.
Ricordava eccome, Scorpius, di aver
mormorato parole di scuse ai suoi compagni e di essere – scappato – andato via, senza sapere bene perché e senza alcuna idea
sulla direzione da prendere.
«No.»
Albus gli rivolse un’espressione
affettuosa, celando a stento la preoccupazione. «Hai avuto un incidente con il
Platano Picchiatore.»
L’affiorare di un mezzo sorriso gli rivelò che aveva un
labbro gonfio e tumefatto, ma Scorpius non riuscì a
trattenere l’ilarità. «Ora è tutto chiaro.»
Chiaro era stato soltanto
il bisogno di allontanarsi, quindi aveva scelto una direzione a caso e messo in
moto le gambe, ma non avrebbe dovuto saperlo, forse, che non si può sfuggire a
un pensiero?
Aveva camminato a lungo, distratto dalle proprie riflessioni,
e non si era accorto di quanto si trovasse pericolosamente vicino all’albero
magico finché un ramo non si era abbattuto sul suo polpaccio destro.
«Qual è il verdetto?», domandò, cercando di mantenere un tono
leggero.
«Contusioni e abrasioni ovunque, qualche escoriazione e una
botta in testa che ti ha fatto perdere i sensi, ma che Madama Chips ha escluso
essere pericolosa», replicò Albus, tenendo il conto
con le dita delle voci dell’elenco. «La ferita al braccio, invece, ha richiesto
dei punti.»
Scorpius spostò lo sguardo verso l’origine
del dolore più intenso. Strinse il pugno sinistro e vide l’avambraccio
gonfiarsi sotto le bende intrise di sangue. «Fa male», disse in tono neutro,
più come una riflessione che non per lamentarsi.
«La fasciatura va cambiata», spiegò Albus,
guardandosi intorno. «Vado a cercare Madama Chips per dirle che sei sveglio.»
«No, aspetta.»
Aveva parlato senza riflettere, come senza riflettere aveva
provato a scappare – da chi? Lui o se
stesso? – ed era finito contro un albero e poi in infermeria. Albus lo guardava, in attesa che aggiungesse altro, e Scorpius desiderava solo essere capace di maggiore
autocontrollo, per scegliere con più cura ogni parola da pronunciare, ogni
azione da compiere.
Veleno era stata quell’idea
che aveva messo radici nella sua testa – perché un pensiero è forse l’unica
cosa davvero irreversibile del mondo e la consapevolezza un peso opprimente
sull’anima – quando il frastuono della conoscenza aveva sovrastato il piacevole
silenzio dell’ignoranza.
«Ti manderà via, se la chiami», spiegò in un sussurro, una
resa – a chi? Lui o se stesso? – che
gli costava più di quanto avrebbe voluto e a cui giurava, internamente, di non
piegarsi mai più.
Albus lo guardò perplesso, poi sorrise.
«Allora devi proprio decidere», asserì divertito, «me e il braccio dolorante, o
una fasciatura meno stretta?»
«Te», rispose lui immediatamente, la prima infrazione a quel
giuramento che riformulò, silenziosamente, mentre pregava di riuscire ad
attenervisi.
Se Albus ne fu confuso, non lo
diede a vedere. Iniziò a sciogliere le bende, tastando con dita delicate il suo
avambraccio e concentrandosi per non fargli male. Scorpius
rimase in silenzio: il dolore strisciante del tessuto contro i lembi della
ferita era un gradito promemoria della superiorità della carne e spazzava via ogni
voluta di quel fumo che gli annebbiava la mente.
«Conosci un incantesimo?», domandò Albus,
ancora concentrato sul rimuovere gli ultimi strati di bende.
«No.»
«Allora faremo alla vecchia maniera.»
Il taglio era netto e profondo, squarciava il braccio
parallelamente al senso in cui correvano le vene bluastre sotto la pelle
chiara, nello stesso punto in cui suo padre aveva il Marchio della sua
appartenenza, in una vita passata, alla fazione oscura al seguito di Lord Voldemort.
«Resterà una brutta cicatrice», gli fece notare l’altro, in
tono contrito.
A Scorpius però non importava,
perché aveva imparato fin da piccolo a non dare troppo peso ai segni visibili.
Sapeva per esperienza che quelli più importanti non lo erano, perciò, mentre
fissava le mani del suo migliore amico che pulivano delicatamente la ferita dal
sangue rappreso, realizzò che in verità non gli dispiaceva affatto avere
addosso una traccia di quel giorno in cui tutto era cambiato.
«Va bene così», mormorò.
Albus interruppe il suo lavoro per alzare
gli occhi su di lui. Verdi, come il colore che aveva sempre immaginato che
avrebbe avuto la vita, se avesse dovuto attribuirgliene uno; verdi come foreste
di alberi rigogliosi, distese d’erba infinite, rampicanti che rivestono il
freddo grigio della pietra di un’esistenza nuova. Un raggio di luce debole tra
i suoi capelli scuri, dissimile e uguale a quello di qualche ora prima, che lo
aveva turbato e spinto a fuggire – da
chi? Lui o se stesso? – lontano, senza meta.
Aveva avuto paura, Scorpius, quando
si era scoperto a guardarlo diversamente dal solito – o era il modo in cui lo
guardava di solito a essere diverso da come avrebbe dovuto?
Albus pareva in attesa, forse di una
parola o un cenno che spiegassero cosa gli passava per la testa, o forse
perché, tutt’a un tratto, il suo migliore amico doveva aver cominciato a sembrargli
troppo distante. E lui avrebbe voluto dirglielo, che la distanza non era niente, che non era abbastanza, perché
non si può sfuggire a qualcosa che ti sta aggrappato al cuore in maniera così
invasiva. E invece tacque.
«Non posso lasciarti solo nemmeno per un momento», commentò Albus, tornando a pulirgli la ferita. «Appena mi distraggo
finisci contro un albero.»
Scorpius prese a fissarlo – gli occhi verdi, i capelli scuri – e si
sforzò di ridere per una battuta che avrebbe trovato divertente se non fosse
stato distratto dal suo tumulto interiore, una ferita invisibile crudelmente aperta
– in quel punto profondo in cui giacciono tutte le cose cariche di significato.
«Senti chi parla», provò a scherzare a sua volta, un
tentativo che sperò non sembrasse troppo fiacco, «quanti danni hai fatto mentre
io soffrivo tutto solo?»
La risata di Albus gli vibrò nelle
orecchie e nel petto, strappandogli il primo sorriso sincero di quella
conversazione, che tuttavia gli morì sulle labbra un istante dopo, congelato
dall’angoscia che lo divorava.
«Nessuno, ho rimediato il compito di Trasfigurazione da
copiare», si difese lui, ma Scorpius non lo stava più
ascoltando.
Non aveva avuto paura, invece, la prima volta in cui aveva
pensato di poter stare con un ragazzo; non si era sentito turbato o
preoccupato, sebbene avesse distrattamente considerato il fastidio di doverlo
ammettere ad altri, oltre che a sé. Eppure nel profondo, mentre si riconosceva
diverso, era stato orgoglioso di se stesso, perché aveva creduto che non poteva
esserci niente di male nella capacità di amare qualcuno a prescindere dal fatto
che fosse un maschio o una femmina. Si era detto che andava bene, che forse era
persino una cosa bella, e che si sarebbe preoccupato di convincere gli altri di
tutto ciò solo se e quando fosse stato necessario.
Neanche per un istante aveva immaginato che, dopo qualche
tempo, avrebbe rinnegato quelle considerazioni, e avrebbe ritenuto sbagliato ciò che provava, un sentimento
da nascondere e soffocare e non perché di un uomo per un altro uomo: di
sbagliato c’era soltanto il desiderio per qualcuno che non solo non lo avrebbe
mai ricambiato, ma che addirittura non ne avrebbe mai sospettato l’esistenza.
Era un tradimento, un’indelebile macchia sull’innocenza e la purezza della loro
amicizia, e Scorpius non si era mai sentito così
sporco in vita sua.
«Chi è che sarà così generoso da salvarci da un brutto voto?»
«Rose», rispose Albus soddisfatto.
«Ho riscosso tutti i favori che mi doveva e sarò comunque in debito con lei per
il resto della mia vita, ma ne è valsa la pena.»
«Comodo avere una cugina geniale», commentò distrattamente,
mentre ammirava la fasciatura pulita sul suo braccio, bianca quasi quanto la
sua pelle. «Grazie.»
«Comodo avere te in infermeria», ribatté l’altro,
rivolgendogli un sorriso di scuse. «Le ho detto che avevi avuto un incidente e
che io aspettavo che Madama Chips mi lasciasse entrare per farti compagnia,
quindi nessuno di noi avrebbe avuto il tempo per i compiti.»
Scorpius rise. «Quindi si è convinta per pura
pietà?»
Albus scrollò le spalle, poi distolse lo
sguardo dal suo, lasciandolo libero di vagare per la stanza. «Credo fosse
piuttosto preoccupata per te.»
Detestava la sensazione di sollievo che provava a non
sentirsi più i suoi occhi puntati addosso: era il segno della colpa che lo
corrodeva, la paura di essere scoperto a dire o a fare – o a provare – qualcosa di inappropriato. Rimase immobile, a
fissarlo come a volersi imprimere nella mente tutti i dettagli del suo viso
prima di un addio che non ci sarebbe stato – se non in quel punto profondo in
cui giacciono tutte le cose cariche di significato. Lo guardava e giurava che
non avrebbe mai ceduto alla tentazione di dividere con lui quel peso sbagliato,
non avrebbe mai accettato di lasciarsi guardare con empatia o, peggio ancora,
con l’espressione ferita di chi si sente tradito. E se non poteva tornare
indietro – perché sapere era l’unica cosa
irreversibile del mondo e la consapevolezza un peso opprimente sull’anima –
allora sarebbe andato avanti, soffocando e nascondendo e mentendo – a chi? Lui o se stesso?
Perciò, quando Albus tornò a posare
gli occhi su di lui, Scorpius era perfettamente
preparato e represse la scarica che gli attraversò la pelle, ricacciando
indietro le emozioni contrastanti che quel verde – il colore della vita –
suscitava in lui.
«Penso che sia innamorata di te», mormorò Albus,
assottigliando lo sguardo.
Un sussulto lo scosse, ma fu lesto a combatterlo prima che
affiorasse in superficie.
“Chi?”, avrebbe
voluto chiedere, un istante prima di ricordare che parlavano di sua cugina.
«Rose?», domandò, sinceramente confuso.
L’amico annuì, serio, e lui si chiese se quell’occhiata
attenta che gli stava rivolgendo fosse in grado di ripercorrere i pensieri
negati – mai cancellati – che si agitavano dentro di lui. Decise di no, perché
se Albus avesse sospettato qualcosa non lo avrebbe
guardato in quel modo – non lo avrebbe guardato affatto.
E allora Scorpius pensò a Rose, la
caparbia e intelligentissima strega che conosceva solo in quanto cugina del suo
migliore amico, e fonte riluttante di compiti di scuola da copiare. Pensò che
era bella e gentile – e giusta – e
credette che forse, un giorno, avrebbe imparato ad amare qualcos’altro, qualcun
altro, che fosse meno sbagliato.
«Dovresti chiederle di uscire», suggerì Albus
divertito, mentre sfiorava distrattamente con l’indice un livido che iniziava a
prendere forma sul dorso della sua mano.
Scorpius si sentì arrossire e odiò quel
sangue traditore che non solo correva rapido nelle vene al ritmo di un cuore
impazzito su cui non aveva potere, ma che osava anche affiorare sotto la pelle
chiara delle guance colorandole di imbarazzo. Albus
se ne accorse e il suo sorriso si fece più ampio – perché, naturalmente, ne fraintese
la ragione.
«Be’…», iniziò, mentre pensava che magari, un giorno, sarebbe
riuscito a mantenere il controllo sulla carne e sul sangue di cui era fatto, se
proprio non poteva averne sui suoi pensieri. O che, addirittura, avrebbe potuto
scegliere quali sentimenti assecondare e quali, invece, lasciar andare.
«Credo che lo farò.»
Non fu uno sforzo o una menzogna raccontata – a chi? Lui o se stesso? – per mettere a
tacere ciò che si agitava dentro di lui, bensì la naturale risoluzione di
quello stesso conflitto, lo scioglimento del nodo che gli serrava la gola e lo
stomaco e sigillava sentimenti indesiderati da qualche parte dentro di lui – in
quel punto profondo in cui giacciono tutte le cose cariche di significato.
Albus sorrise, timidamente incoraggiante,
e la fitta di delusione causata dalla sua approvazione fu l’ennesimo tradimento
di un corpo che aveva giurato di non piegarsi a un pensiero solo perché
irreversibile; ma quando lui gli prese la mano, stavolta con decisione, in un
gesto amichevole, intuì che desiderare con tutto se stesso qualcosa non gli
avrebbe assicurato di poterla ottenere. Una smorfia involontaria gli deformò il
viso, mentre iniziava a figurarsi lo sforzo che gli sarebbe stato richiesto da
quel momento.
«Che c’è?», chiese subito Albus,
preoccupato dalla sua espressione sofferente e tornando a guardare il braccio
fasciato. «Ti fa ancora male? Pizzica? Cosa senti?»
Scorpius esitò, mentre realizzava che la
finzione che avrebbe dovuto portare avanti per chissà quanto tempo iniziava in
quell’istante. Desiderò di poter dire la verità al suo migliore amico un’ultima
volta, di proteggersi dietro una sincerità dovuta – a chi? Lui o se stesso?
«Niente», scandì piano, dolorosamente consapevole della risposta a quella domanda che continuava ad agitarsi dentro di lui. «Non sento niente.»
Note
Questa storia si è classificata seconda, con il punteggio di
33.5/35, al contest “Angst, Potter?” indetto da
Nemesi01 sul forum di EFP.
Fa parte della serie Anima nuda, per la quale costituisce un
vero e proprio prequel, in quanto racconta il momento in cui tutto inizia tra Albus e Scorpius, perlomeno per
quanto riguarda i sentimenti di quest’ultimo.
A questa one-shot ne segue un’altra, Amari spiccioli contesi, sul pairing Scorpius/Rose,
che nasce proprio in seguito al consiglio che Albus
dà qui al suo amico.
Come per tutti gli scritti di questa serie, il titolo è
tratto da una poesia di Emily Dickinson, la stessa di cui ho riportato un
estratto prima del testo.
Grazie per la lettura!
Come sempre, mi trovate su Instagram e Facebook.
Futeki
[Storia vincitrice dell'oscar per il Miglior attore protagonista,
giudicato da Sia_, agli Oscar della Penna 2022 indetti sul forum Ferisce la penna.]