warning: post-movie; slash;
internalized homophobia; h/c;
I
personaggi appartengono agli aventi diritto
Prizrak Volgograda
———————— 01. Red Blood, Red
Peril
————————
Illya era uscito dall’ufficio di Waverly con lo stesso cipiglio
marmoreo con cui era entrato: pugni serrati e rabbia scalpellata
lungo muscoli d’acciaio, pronta a esplodere in faccia al primo
temerario che avesse ignorato la nota in piccolo a fondo pagina –
tenere fuori dalla portata dei cretini.
Perfino nei suoi
momenti tranquilli (rari e che generalmente coincidevano con una
vittoria personale o una pacca d’approvazione, più o meno figurata,
da parte di Gaby) Illya era un cane addestrato a mordere – e
mordeva, Dio se mordeva quel colosso biondo.
Ma, la rabbia, come
qualsiasi altro sentimento, non era mai di un unico colore;
possedeva sfumature che sul volto di Illya sbiadivano, sino a
diventare visibili soltanto a un occhio attento. Per tutti Illya era
un enorme semaforo rosso: il rosso della Madre Russia, il rosso del
sangue, il rosso di una muleta [1]
agitata davanti agli occhi di un toro collerico. Napoleon
aveva, però, occhi per l’arte, per le donne e per i dettagli, e
sebbene il russo non rientrasse nei primi due, aveva visto in lui
nuove sfumature nella lieve contrazione della mascella e nel rigore
più marcato delle spalle.
Nell’ufficio del
Direttore, qualcosa lo aveva infastidito più del solito – il che,
conoscendo la rinomata mancanza di joie de vivre di Kuryakin,
poteva spaziare dagli insulti personali a una foto di gattini troppo
sfocata esposta sulla parete della stanza.
Chiederlo al diretto
interessato, non rientrava tra le scelte più sagge.
«Perché quel muso
lungo, Peril? Waverly ha cercato di farti inginocchiare davanti al
cammeo della Regina?» D’altra parte Napoleon poteva vantare una
lunga lista di scelte discutibili.
Illya si fermò
ruotando il capo verso di lui. Se avesse potuto uccidere con uno
sguardo, l’uomo sarebbe crollato al suolo con un buco di
ventilazione aperto tra gli occhi. Fortunatamente, i russi non
avevano ancora sviluppato quel genere di tecnologia.
Solo sorrise, anche
quando una gomitata di Gaby per poco non gli incrinò una costola.
«Devo prenderlo per un no?»
Il gomito di Gaby si
spinse più in profondità. Sentì la punta dell’osso premere con
cattiveria, piccola e spigolosa – ovvio che andasse così d’accordo
con Peril, erano entrambi straordinariamente portati per la
violenza!
Illya ruotò anche il
busto.
La tedesca si
affrettò a riabbassare il gomito. Il contatto era cessato, ma
Napoleon poteva sentire i nervi di lei fremere mentre lo fissava,
all’erta. Gli passò per la mente la possibilità che si stesse
preparando per difenderlo da un possibile assalto (gli era giunta
voce di come Gaby fosse riuscita a mettere l’uomo al tappeto, ai
tempi del loro soggiorno a Roma, e sarebbe stato disposto a pagare
oro pur di assistere al rematch), ma era più probabile fosse
preoccupata per la precarietà dell’incarico di Illya. Come sovietico
del gruppo aveva già un piede fuori dalla porta, non serviva che una
scusa qualsiasi per ricevere il benservito dall’U.N.C.L.E. e tornare
a essere il lacchè di Oleg.
Illya, però, si
limitò ad annientare quell’unico passo che li distanziava.
Tra le sue labbra,
Napoleon vide le lente sfiatate che elettrificavano l’aria.
Si morse il labbro
inferiore. Era in questi momenti che il proprio cervello iniziava a
giocare brutti scherzi: quando gli capitava di fissarsi su
particolari che, prima, avrebbe trovato insignificanti – il modo in
cui le labbra di Illya si schiudevano e i denti si serravano, il
suono che produceva il suo respiro appena prima di parlare, simile a
quello di una spina cresciuta sullo stelo di una rosa, la piccola
ruga che si accentuava tra le sopracciglia aggrottate, le ciglia
bionde e straordinariamente lunghe...
Sarebbe tornato
volentieri a quel prima, pur di cancellare i pensieri che
venivano dopo.
Si impose di
mantenere la posizione, ingoiando fiato e accento russo.
«Se hai finito di
dire idiozie, cowboy, nuova missione ci attende.»
Il pensiero esplose
assordante come una cartuccia calibro .40, lasciandosi dietro una
strage di neuroni e coriandoli di buon senso: quanto forte lo
avrebbe picchiato Peril, se in quel momento si fosse sporto a
raccogliere le sue parole e il suo respiro direttamente dalla sua
bocca? L’effetto sorpresa gli avrebbe dato il tempo di scappare, ma
per quanto a lungo e fino a dove?
«Almeno per questa
volta riuscirete a comportarvi come le spie che siete o farete fare
tutto il lavoro a me?»
Oh, che Dio
benedicesse Gaby e il suo meraviglioso tempismo.
Napoleon si tirò
indietro, salvo e ancora tutto d’un pezzo, eccetto per quella
(non così tanto) piccola parte di sé che si ancorò al broncetto
(adorabilmente) offeso di Illya.
Gaby, di contro, ne
uscì intaccata, all’apparenza immune. Si avviò lungo il corridoio
sventolando la mano, e quando la sua spalla sfiorò il braccio di
Illya, sembrò solo un caso fortuito.
Prima che Napoleon
potesse imitarla – spallata a parte –, la porta dell’ufficio di
Waverly si aprì sull’occhiata indecifrabile dell’inglese e sul cenno
della mano con cui lo chiamava a sé. «Mister Solo, una parola se
permette.»
Il se permette
fu un’aggiunta cortese nel perfetto stile britannico del Direttore,
che tuttavia non prevedeva rifiuto.
Napoleon si voltò a
cercare lo sguardo di Illya. Non lo trovò, il russo aveva
approfittato della sua distrazione per andarsene.
«Se proprio devo.»
«Sarebbe il caso,
sì.»
Nulla di quanto Waverly ebbe da dirgli gli piacque.
Volgograd festeggiava.
Tra le strade
ampollose del centro, la gente marciava agitando bandiere e
intonando inni alla gorod-geroy [2].
Rodina Mat' Zovët!
Vy slyshali tovarishcha Pavlova? Otvetit'. Bor'ba. Torzhestvuyet.
Rodina Mat' Zovët. [3]
Il coro, come la
folla, correva lungo l’intero Viale degli Eroi, rimbalzando tra le
mura dei mastodontici stalinskie e sfiorando le acque gelide del
Volga. Mucchi di neve erano ammassati ai lati della strada, ancora
così bianca da far venire voglia di assaggiarla – e ogni bambino di
Volgograd sarebbe stato pronto a giurare che, in Russia, la neve era
più buona.
L’auto avanzava in lenti rimbalzi, mettendo a dura prova i nervi di
Gaby: premeva il pedale dell’acceleratore, lo rilasciava, lo
premeva, lo rilasciava e, di tanto in tanto, si sporgeva con un
braccio fuori dal finestrino urlando in un russo che zoppicava molto
meno di quanto non facesse la macchina.
Napoleon la guardò
ammirato. «Ti sei portata avanti coi compiti.»
La donna sorrise,
con la coda dell’occhio cercò Illya, e sulle labbra di lui, trovò
con soddisfazione l’ombra di un minuscolo sorriso orgoglioso. Durò
poco; quando un ragazzino avvolto nella bandiera rossa andò a
sbattere contro la fiancata dell’auto, Illya piantò occhi
incandescenti fuori dal finestrino, e il cupore che lo aveva
accompagnato nelle ultime ore tornò con prepotenza.
Seduto accanto a
Gaby, Napoleon alzò gli occhi allo specchietto retrovisore per la
settima volta consecutiva, ma Illya non ne aveva mai ricambiato lo
sguardo. Non che potesse biasimarlo, non questa volta.
L’ennesima frenata
brusca lo riportò con l’attenzione sulla strada. «In compenso, le
tue doti di autista stanno riuscendo nell’intento di farmi rimettere
la colazione.»
Gaby non apprezzò la
battuta.
«D’accordo» sibilò
stizzita. Non aggiunse altro, ma Napoleon lo percepì comunque come
la sirena prima di un bombardamento e dopo qualche istante, i freni
gemettero sotto al tacco delle scarpe di Gaby, inchiodando l’auto
con ferocia.
Il contraccolpo
colse di sorpresa entrambi gli uomini: Illya aveva sbattuto appena
in tempo i palmi al sedile davanti per reggersi ed evitare di
sbattervi la faccia, mentre Napoleon, salvato dalla cintura di
sicurezza, ciondolava col naso a pochi centimetri dal cruscotto.
Quando si voltarono
a guardarla, Gaby stava già minacciando Solo con la punta
dell’indice: «Innanzitutto un bicchiere di vodka e qualche boccata
di sigaro non si possono definire colazione.»
Napoleon non osò
ribattere (anche se, per dovere di cronaca, doversi mescolare alla
fauna della prima classe gentilmente offerta dall’U.N.C.L.E. era una
ragione più che valida per vodka e cubani).
«E ora fuori di qui,
tutti e due! Non ne posso più di questa folla, andremo a piedi!»
Napoleon portò la
mano alla fronte. «Sissignora.»
Illya gli tirò
un’occhiata di sbieco. «Far sbottare autista, quando ancora manca
strada a punto d'arrivo, è proprio colpo di genio, Cowboy.»
Quantomeno aveva
ritrovato la parola.
«Ditemi che è solo un brutto sogno.»
Soprabito, giacca,
gilè e camicia erano incollati alla schiena di Napoleon da una
patina di sudore ghiacciato. La vista della piccola casetta in
tronchi d’albero, che poteva benissimo passare per l’orrenda dimora
di una strega slava, non migliorò la situazione.
Le decorazioni
ostentatamente pompose e gli edifici dall’aspetto sciovinista erano
rimasti nel centro città; mano a mano che si erano allontanati verso
i margini di Volgograd, il panorama era cambiato. Abbandonati auto e
Viale degli eroi, le strade si erano fatte più agibili ed era stato
possibile trovare un taxi che li portasse fino al luogo di
rendez-vous con il contatto sovietico che aveva trovato loro
Waverly, direttamente in prestito dal KGB. Era stata solo
questione di tempo prima che anche Oleg arrivasse a mettere becco in
quella missione.
Ma la mèta era stata
ben altra.
A piedi e con
valigie a seguito (quella di Solo era la più grande), avevano
seguito l’Agente Ivanov in quella che Napoleon giurò essere la
camminata più lunga della sua vita. E quando la loro guida si era
fermata davanti alla porta di un’izba, lui aveva avuto un tuffo al
cuore.
«Benvenuti nella
vostra nuova dimora» annunciò Ivanov. Da quando l’avevano
incontrato, aveva parlato solo in russo, lanciando di quando in
quando occhiate derisorie all’indirizzo dell’unico americano
presente.
Illya accolse la
notizia senza particolare enfasi.
«La
strumentazione?» domandò in lingua.
«Troverete tutto
dentro, armi comprese. Sempre che lo yankee pigdog [4]
sia in grado di usare delle pistole vere.»
La risatina che aveva
colorato la battuta dell’agente si spense quando Gaby – mani ai
fianchi e una quantità improbabile di insolenza contenuta in corpo
tanto piccolo – gli si piazzò di fronte.
«Che cos’hai
detto? Mhm?»
Dietro di lei, Illya
le poggiò le mani sulle spalle, a volerla trattenere e, al contempo,
pronto a proteggerla qualora ce ne fosse stato bisogno.
Non aveva distolto
lo sguardo da Ivanov. «Pensala come vuoi, il cowboy è un pomposo
idiota dalla lingua lunga, ma non fallisce un colpo. Sottovalutarlo
non gioverà né a te, né alla missione.» Nell’inflessione russa
danzò, molto poco velatamente, una minaccia.
L’espressione di
Ivanov si incattivì, ma lasciò che il discorso si chiudesse.
In una diversa
circostanza, Napoleon avrebbe apprezzato (sottolineato, registrato e
ricordato negli anni a venire) il modo in cui Gaby e Illya avevano
preso le sue difese, ma in quel momento ogni sudatissima
cellula del suo corpo gli urlava di fare dietro-front e tornare in
patria, alla civiltà, dove avrebbe potuto prendere personalmente a
calci il culo di Waverly.
Ciondolò con il capo
in avanti, sospirando pesantemente. «Vediamo se ho capito bene…» Al
contrario di Ivanov, lui aveva continuato a parlare in americano «In
questi giorni il progetto di una non meglio specificata arma
segreta, per di più rubato dai vostri archivi, verrà venduto
a qualche criminale che ha deciso di fare il turista nientemeno che
nell’ex Stalingrád . La nostra missione è
quella di trovarlo, impedire lo scambio, evitare ove possibile di
ucciderlo e farci uccidere e, presumibilmente, consegnare quei
gentiluomini a qualsiasi giustizia i nostri nuovi amici del KGB
abbiano in serbo per loro. Il tutto, usando la tana di Baba Yaga[5]
come quartier generale. Ho dimenticato qualcosa?»
Il monologo non
ottenne gli effetti sperati.
«Sì, dimenticato che
questa è Russia, Cowboy.» Illya si fece consegnare le chiavi, caricò
sulle spalle il piccolo borsone con cui era arrivato e recuperò
l’elegante valigia bianca a pois di Gaby. Quando aprì la porticina
dell’izba, in un cigolare sinistro (che Napoleon contrassegnò
mentalmente come “prova numero uno” a supporto della teoria della
strega), il concetto di apparenza ingannevole assunse tutto
un nuovo significato.
Le dita piccole e
sottili di Gaby colpirono la spalla di Napoleon con una pacca che
raccoglieva nel palmo beffa e sollievo. «Adesso puoi smettere di
lagnarti, Solo. Pericolo scampato.»
«Preferisco
avvalermi della facoltà di rimandare ogni nuovo commento alla fine
del giro panoramico.»
La tedesca sollevò
gli occhi al cielo serale di Volgograd, ma un sorriso divertito si
stemperò sulle labbra rosse.
«Fai pure strada,
Peril» riprese lui. Picchiettò la schiena di Illya alla base, appena
sopra la curva dei glutei, percependo sotto i polpastrelli il
sussulto che attraversò l’intera colonna vertebrale.
Non l’aveva
programmato; senza pensarci la sua mano aveva puntato il sedere
dell’altro, riaggiustando la mira all’ultimo secondo, quando quel
minimo di istinto di sopravvivenza che ancora gli rimaneva aveva
dato l’allarme, appena in tempo per evitare un incidente diplomatico
e di vedersi amputate mani, braccia e testa a mani nude.
Illya si voltò a
guardarlo con un’occhiata torva che lo inchiodò sul posto. Non aprì
bocca: proseguì ed entrò, precedendolo.
Napoleon non fu
sicuro di come interpretare il suo silenzio; lo seguì osservando per
qualche istante di troppo la sua schiena ancora tesa e il capo
biondo che si reclinava in avanti per non battere la testa contro lo
stipite.
L’interno non era
nulla di ciò che ci si sarebbe aspettato e tutto quello che si
poteva desiderare.
Del legno che
rivestiva l’esterno, non vi era praticamente traccia: muri
verniciati di bianco perimetravano l’intera izba, il fuoco di un
camino rimasto acceso aveva scaldato l’ambiente e, se non fosse
bastato quello, l’impianto di riscaldamento era istallato e
funzionante. Lo spazio non era molto e l’arredamento spartano, ma
dopo qualche tentativo fallito, Illya riuscì a trovare
l’interruttore che dava accesso a quella che, per qualche giorno,
sarebbe stata la loro base operativa: una rete sotterranea di stanze
perfettamente ammobiliate, dotate di tutti i comfort possibili
«Addio Baba Yaga,
benvenuto chardonnay.»
e perfino di
un’ottima cantina.
Il
cuore della base operativa era formato da un’elegante salone a
pianta circolare con tre ingressi ad arco, diviso a metà dal lungo
divano dal rivestimento bordeaux su cui Gaby aveva preso posto.
Attaccata alla
cornetta di un telefono a dischi, aveva preso contatto con Waverly
per informarlo del loro arrivo sani e salvi in Russia.
Fresco di doccia,
Napoleon le era passato accanto.
«Sì, Solo è riuscito
ad allietarci tutti con una delle sue scene madri» l’aveva sentita
dire, ridacchiando mentre arricciava il filo della cornetta sulla
punta dell’indice. «Ivanov è già andato, verrà a prenderci domani,
come previsto.»
Non si era preso la
briga di ascoltare il resto. Prendere d’assalto la cucina e
convincere Illya a fargli compagnia, gli era sembrato un passatempo
più fruttuoso.
Nonostante le prime
ritrosie, il russo era rimasto seduto al bancone dalla superficie di
marmo, immerso nello studio di file top secret che riguardavano la
missione; una fotografia nello specifico aveva conquistato ogni
stilla della sua attenzione.
Napoleon si sporse a
guardarla. Era uno scatto rubato al profilo sfocato di un uomo
biondo: taglio militare, mascella pronunciata e corporatura
massiccia; reggeva una ventiquattrore, quasi sicuramente con i
progetti rubati al KGB. La foto, comunque, non aveva l’aria di
essere recente; Napoleon riuscì a riconoscere sullo sfondo uno degli
edifici della città, di cui nel pomeriggio era sicuro di aver visto
solo lo scheletro sventrato a metà, mentre la foto lo mostrava
ancora intero, prima dell’assedio del ‘42.
Dai fornelli, un
pentolino di sugo borbottò pretendendo attenzione. Lo ignorò,
catturato dall’espressione assorta con cui Illya accarezzava i
contorni della foto, ripassando con lo sguardo più e più volte il
profilo dell’uomo immortalato.
Napoleon sapeva di
chi si trattasse, Waverly l’aveva informato. Quanto potesse essere
importante per Illya, invece, era qualcosa che aveva sottovalutato.
Si aspettava un
ribollire di rabbia mal trattenuta (forse perfino lo stesso russo se
l’aspettava), invece i suoi tratti, di solito spigolosi, si erano
ammorbiditi. Lo aveva perfino sentito sussurrare qualcosa in lingua
e sebbene il russo di Solo fosse un po’ arrugginito, non aveva avuto
dubbi sulla traduzione: con una malinconia che gli aveva aperto un
buco nel petto, aveva chiesto “Cos’hai fatto?”
Gli occhi di Illya
si erano tinti di tristezza, quelli di Napoleon di stizza.
Avrebbe voluto
saperlo anche lui cos’avesse fatto quel tale: cos’avesse fatto per
ferire così in profondità Peril, tanto da lasciarlo disarmato
perfino della sua rabbia; cos’avesse fatto per essersi meritato
l’affetto del russo e trovare comunque il coraggio di tradirlo;
cos’avesse fatto per essere riuscito a rendere lui, Napoleon,
geloso.
La parola fu uno
schiaffo all’orgoglio – non era pronto ad accettarlo.
«Dmitriy Kiselyov»
si costrinse a pronunciare.
Illya sollevò
immediatamente il capo, gli occhi così limpidi – lo stesso azzurro
delle acque ghiacciate del Volga – che Napoleon vi lesse senza
problemi lo smarrimento, come se il russo si fosse dimenticato di
essere in quel bunker sotterraneo insieme a lui.
«Era un tuo diretto
superiore nonché tuo mentore, durante i primi anni al KGB, dico
bene? E dopo quanti anni di amicizia ha deciso di tradire te e la
“Madre Russia”?»
Illya era un’insieme
di ferite invisibili rimarginate al contrario, dietro la
pelle e Napoleon non provò alcuna pena ad affondare il coltello in
quella che portava il nome di Dmitriy; se avesse potuto
gliel’avrebbe grattata via, tutto pur di non sentire più la propria
testa definirlo geloso.
Poteva sopportare
l’idea di, cosa?, avere una cotta per il proprio partner? Aveva un
aspetto più che gradevole, un corpo che di certo si poteva dire
desiderabile e, Dio!, se amava stuzzicare quel gigante, ma
questo era solo perché Napoleon aveva occhi per guardare e buon
gusto per apprezzare. La gelosia non era contemplata, significava
qualcosa di più. Significava guai, di quel tipo che nemmeno Solo
sarebbe stato in grado di gestire.
Illya scattò in
piedi, rovesciando lo sgabello su cui sedeva.
«Non guardarmi così,
Peril. Avresti dovuto sapere che Waverly ha spie come noi e spie che
controllano le sue spie.»
Il boccone si
incastrò a metà gola e il russo dovette sforzarsi per mandarlo giù,
dando tempo a Napoleon di rincarare la dose: «Perfino il tuo vecchio
capo, si fida così tanto del suo miglior agente operativo, che si è
sentito in dovere di inviarci un Peril 2.0.»
«Agente Ivanov non è
qui per prendere mio posto.» Illya trovò a stento le parole.
«Forse, ma per
quanto mi riguarda preferisco avere nel mio team il russo che sa
riconoscere un nemico qualora se lo trovasse davanti.» Non stava
grattando, stava scorticando brandelli interi di pelle.
Illya sbatté una
mano al bancone, schiacciando sotto il palmo la fotografia di
Dmitriy. «Io so benissimo quale è nemico e, se per portare a termine
missione, devo ucciderlo, allora ucciderò! E se tu continua a
insistere, pianterò un coltello anche in tua gola!»
Nonostante la
minaccia – e lo sguardo corso al set di coltelli impilati accanto ai
fornelli – Napoleon sospirò. Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce,
ma trovò confortante il fatto che l’istinto dell’assassino non
avrebbe rischiato di incepparsi davanti all’ex mentore e che Peril
non intendesse farsi uccidere tanto facilmente. Aveva ancora delle
remore a riguardo, ma per ora decise di farselo bastare.
«Uff, non so perché
Waverly si preoccupasse tanto» mentì.
Illya sbatté le
ciglia; la confusione durò pochi istanti, poi arrivò l’indignazione.
«Era un test?» la domanda tritata e sputata tra i denti.
«E lo hai superato a
pieni voti, Peril. Bravo.» Non gli ci volle molto per capire
che il russo stava contando i passi che servivano a raggiungere il
set di coltelli. D’accordo, forse avrebbe potuto gestirla un po’
meglio.
Scivolando di lato, Napoleon
si piazzò accanto al bancone per sbarrargli la strada, proprio poco
prima che l’odore di bruciato iniziasse ad aleggiare nella cucina.
«Maledizione, il mio sugo!»
Troppo tardi. Si
affrettò ad abbassare la fiamma del fornello, ma nel pentolino non
era rimasto altro che una poltiglia informe e bruciacchiata.
Illya sorrise – il
cervello di Napoleon non mancò di registrarlo, stampando una foto
mentale. «Ottimo lavoro, cowboy.»
«Non mi piace questo Ivanov. Non abbiamo bisogno di un secondo
Illya, uno è più che sufficiente.» Gaby non si era fatta pregare per
condividere con i due agenti la propria indignazione.
Napoleon soppresse
una risata a quel discorso così familiare. Tossì, portando il dorso
della mano su labbra già involontariamente incurvate.
Illya lo fulminò con
gli occhi. «Agente Ivanov è necessario per missione. Dmitriy
Kiselyov conosce ubicazione di molte safe house russe, tra
cui le due a Volgograd: una questa, l’altra controllata da Ivanov.
Inoltre, Agente Ivanov è collegamento tra noi e compratore di
progetto di arma rubato.»
Gaby fece spallucce,
in quel suo modo di schiacciare i “no” altrui sotto il tacco della
sua logica affilata. «Non c’è comunque un modo per levarcelo di
torno? Avete entrambi una pistola: usatela.»
Ah, se solo fosse
stato così semplice. Napoleon si sfilò dal colletto della
camicia un tovagliolo rimasto immacolato. Lo poggiò sul tavolino di
cristallo, accanto al piatto vuoto che aveva ospitato la sua
porzione di “testaroli alla Napoleon”. «Per quanto ammiri la
tua intraprendenza, hun [6],
temo che non sia così semplice. Sai come si dice: perfino Dio è
all’oscuro di quel che accade nel KGB. Quella non è gente che ami
condividere, a meno che un’altra agenzia non si accorga dei loro
casini e non mandi i suoi tre agenti... beh, i suoi due
agenti più carismatici e Peril –»
«Potrei strappare
tuo carisma insieme a tua lingua, se solo volessi.»
«Per l’appunto: i
due agenti più carismatici e Peril a controllare che la
situazione non sfugga di mano.»
«Questo non
significa che fosse necessario aggiungere altro testosterone russo»
riprese Gaby.
Illya inarcò un
sopracciglio, curioso. «Avresti preferito donna russa?»
«Perché, tu no?»
Illya ebbe il buon senso di non rispondere e lei continuò «Sarebbe
stata più sveglia di quell’Ivanov. Quell’idiota non si è nemmeno
accorto che Solo conosce il russo.»
«O forse sapeva
benissimo.»
Ci fu una pausa, in cui Gaby stropicciò
l’orecchio con cui aveva torturato il quotidiano russo, spiegazzandolo
per riuscire ad inquadrare i due uomini. «Illya, non difenderlo.»
Napoleon riportò la
mano alla bocca, ricacciando in gola l’ennesima risata. Chiunque
altro, al posto della tedesca, avrebbe pagato cara l’insolenza –
solo un russo può dare ordini a un altro russo! –, ma davanti
alla smorfietta seccata di lei, Illya borbottò qualcosa nella sua
lingua natia e fece spallucce, nella perfetta imitazione di un
bambino troppo cresciuto beccato dalla madre a imprecare in chiesa.
Soddisfatta, Gaby
tornò al quotidiano.
Il divano era
diventato una sua proprietà; aveva lasciato spazio sufficiente
affinché Illya potesse prendere posto accanto a lei e aveva usato le
sue cosce come poggiapiedi.
Il russo non si era
lamentato, accolta la cosa come normale amministrazione, le mani
callose si muovevano lungo i suoi piedi in un massaggio distratto.
Napoleon ne studiò
per un attimo le dita lunghe che risalivano la caviglia sottile, il
pollice accoccolato sotto l’incavo dell’osso tibiale che disegnava
piccoli cerchi sulla pelle, per poi scivolare di nuovo con entrambe
le mani sulla curva sinuosa del dorso del piede in un su e giù che
sarebbe potuto rientrare perfettamente nella definizione di erotico.
Se quel genere di massaggi aveva fatto parte dell’addestramento di
Peril, avrebbe quasi potuto rivalutare quei suoi famosi metodi
russi.
«I nostri occhi sono
più su, Solo.» Gaby lo colse in fragrante.
Le labbra rosse e
carnose erano nascoste dal bordo del quotidiano poggiato alla bocca,
ma il sorriso furbo si era esteso agli occhi, come se già non fosse
bastato il tono allusivo con cui si era pronunciata.
«Mia cara Gaby, io
sto solo godendo dello spettacolo che voi due state offrendo.
D’altronde il mio unico difetto…»
Illya tossì.
Napoleon lo ignorò.
«È la debolezza alla carne.»
«E non, invece, le
mani di Illya?»
Arrivò a tradimento,
come un colpo sotto la cintola, e la faccia da poker di Napoleon (il
ghignetto seduttore, il sopracciglio ammiccante, il volto piegato di
appena qualche grado verso la spalla destra) rischiò di sgretolarsi.
Oh piccola adorabile saputella – Waverly sapeva sceglierseli
davvero bene i suoi agenti, anche troppo.
Illya allontanò le
mani dai piedi di Gaby e li guardò con occhi spalancati, ogni
sottinteso sfuggito.
L’americano fu grato
dell’ottusità che l’altro riusciva a dimostrare in certe momenti,
rasentando un’ingenuità quasi tenera.
Si schiarì la gola e
reclinò il capo dal verso opposto. «In effetti, ora che ci penso,
avrei anche io bisogno di un massaggio.» Batté la punta dell’indice
sulla bocca, scivolando in una carezza leggera sul labbro inferiore.
«Ma per quanto mi stuzzichi l’idea di proporvi una cosa a tre e
passare la serata a insegnare al nostro Red Peril come dare piacere
a una donna, direi di tornare a focalizzarci sulla nostra missione.
Inoltre, per esperienza so che i baci russi sono alquanto
pericolosi.»
Schioccò un
occhiolino a Illya, ammirandone il rossore del volto e lo sbuffo
infastidito.
Gaby scrollò le
spalle, inflessibile come una roccia. «A me non hanno dato
quell’impressione.»
«Questo è perché
miei baci e the kiss non sono stessa cosa. Tu, quindi, non
sai proprio niente, cowboy.» Il rossore sul volto del russo già
svanito.
Napoleon li guardò
stupito. In qualche modo l’aveva intuito, se l’era aspettato – gli
indizi erano ovunque, a partire dalla naturalezza con cui si
incastravano perfettamente l’uno al fianco dell’altra - ma Peril
aveva ragione: non sapeva niente. E una parte di sé avrebbe
preferito continuare a ignorare, così da non dover venire a patti
con la scarica di gelosia che gli aveva appena attraversato il petto
all’idea di un bacio tra loro, all’idea di essere stato escluso da
Illya.
Si mosse
nervosamente sulla seduta della poltrona.
Preferiva ignorare.
Ma più la partnership forzata andava avanti, più il resto di lui
sentiva di volere tutto. E l’ultima volta che aveva avuto
quel genere di impulso non era finita bene: aveva dovuto scegliere
tra quindici anni in una prigione federale o farsi mettere al collo
il guinzaglio della CIA.
Questa volta,
temeva, non ne sarebbe uscito vivo.
Sorrise con una
leggerezza misurata al millimetro e sollevò le mani in segno di
resa.
[ 4.262w ] |
Prizrak Volgograda =
Il
fantasma di Volgograd
[1] Drappo di stoffa rossa che
il torero agita durante la corrida per provocare il toro
[2] Città
eroina. Nel 1945, a Stalingrado (ora Volgograd) viene assegnato il titolo di
Città Eroina per il coraggio che i cittadini dimostrarono durante la
Battaglia di Stalingrado.
[3] La madre patria chiama! Hai
sentito compagno Pavlov? Rispondi. Combatti. Trionfa. La madre patria
chiama. (Jakov Fedotovič Pavlov è stato insignito del titolo di Eroe
dell'Unione Sovietica per il suo ruolo nella difesa in quella che da lui ha
preso il nome di Casa di Pavlov durante la battaglia di Stalingrado.)
[4] E' un insulto (duh), non
l’ho tradotto perché non so quale sia l’equivalente corretto in italiano e
comunque mi sembrava più sensato in lingua
[5] Personaggio della mitologia
slava, in particolare di quella russa, descritta come una vecchia strega
alta, magra e orribile, con i capelli scompigliati, il naso di ferro e i
denti e il seno di pietra.
[6]
Letteralmente “unna”. È un gioco di parole, in inglese “hon” è un petname,
abbreviativo di “honey” che potremmo tradurre come “dolcezza”. Ma per chi ha
per caso letto la mia fic
She was their hun, not their hon saprà già che è il nomignolo con cui
Napoleon chiama affettuosamente Gaby.
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Preciso già da subito che
non conosco il russo, potrei quindi aver scazzato alla grande le
traduzioni
– ho fatto del mio
meglio nell'incrociarle con tutti i traduttori che conosco e
nel controllare su internet.
Io e questa minilong
abbiamo una lunghissima storia d'amore e odio (soprattutto odio); me
la trascino dietro ormai da due anni, da quando ho iniziato a
scriverla per un contest indetto da _Akimi, di cui mi era perfino
capitato il pacchetto definitivo (Canzone: Gloria in Excelsis deo;
Luogo: Volgograd, Russia; Genere: Introspettivo; Prompt: Saudade).
Poi, però, è arrivato Illya a scombinarmi tutti i piani e addio.
Iniziata come semplice oneshot
– i tre vanno,
incasinano, salvano il mondo e fine della fic
– a un'idea se ne è
aggiunta un'altra e un'altra ancora, l'introspezione di Napoleon ha
preso il là e ovviamente il contest si è concluso mentre io ero
ancora nel bel mezzo della stesura del primo capitolo.
Ho rinunciato al contest,
ma nonostante tutto alla fic c'ero affezionata e quando quest'anno
ho partecipato al BBI, ho deciso che ne avrei approfittato per
portarla finalmente a compimento.
Missione compiuta, la fic
è terminata, il risultato in realtà ancora per certi versi mi fa
cringiare, ma dopo averla rimaneggiata perfino a fine BBI, ho deciso
che non ci posso fare niente e posso volerle bene anche così. Anche
perché l'alternativa è riscriverla da capo e so che non avverrà mai,
inoltre ho altri progetti a cui dedicarmi e aver finito questo, dopo
tutto questo tempo, mi rende comunque felice.
E sapete un'altra cosa che
mi rende felice di questa fic? La splendida fanart che
Miryel
ha disegnato apposta per Prizrak Volgograda, claimandola al BigBang.
E se non l'avete ancora vista, vi invito tutti ad amarla e kudarla
qui
♥
Scritta per
il BBI10 @LandediFandom |
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