Capitolo
III
Siamo
scivolati sui sassi e sbucciati le ginocchia per vedere cosa
c’è,
alla fine dell’arcobaleno.
E'
ammirevole
la
perseveranza mostrata da chiunque
nell'
amare ciò che è stato, ammirevole.
Eppure, se è stato non è.
E
qualcosa dovrà pur voler dire.
Ogni
cosa viene nutrita direttamente dal cuore,
dimmi,
cosa farai quando tutto andrà in pezzi?
Da
dove si inizia?
Non
posso più rifugiarmi da te quando tutto crolla.
L’acqua
calda parve darle un ulteriore aiuto a sciogliere parte della
rigidità che il suo corpo assumeva durante quei momenti. I
muscoli si stavano
lentamente rilassando, grazie al potente getto d’acqua
bollente che cadeva
dall’ampio diffusore. I capelli blu erano sparsi lungo la
schiena e le spalle,
persa la piega riccia a cui li aveva abituati in quegli ultimi mesi,
lunghi
almeno sino a sotto le scapole. Non si era accorta di quanto fossero
cresciuti.
Non si
accorgeva di molte cose da tempo.
Guardò
l’ombra opaca che la superficie traslucida delle piastrelle
le
restituiva: un corpo sinuoso ma forse abbandonato a se stesso da troppo
tempo.
Girò un paio di volte su se stessa, lentamente, come
studiandosi con l’occhio
freddo e distaccato della scienziata, privo cioè di una
qualsiasi affettività
nei confronti di quel riflesso. Era strano relazionarsi con se stessa a
quel
modo, per una che adorava il proprio aspetto fisico e lo poneva sempre
ai primi
posti. Si era anche adorata, moltissimo, e probabilmente continuava a
farlo
attraverso l’impeccabile stile di cui andava decisamente
fiera -le permetteva
infatti di uscire di casa sempre al meglio- ma per quel corpo privo di
abiti e
di coperture aveva perso interesse. Per essere sinceri, aveva preferito
dimenticarsi di avere una fisicità, perché averla
significava ricordarsi che
sotto gli strati –abbastanza parchi a dire il vero- di
stoffa/pizzo/maglia
esistevano braccia, gambe, mani, occhi, tutte parti che avevano goduto
per
tanto, troppo tempo di un corpo a sé affine o almeno
ritenuto tale, e che ora
nei più piccoli gesti si trovavano a dover fare i conti con
quel vuoto che una
rottura inevitabilmente comporta. Non era mai stata brava a gestire i
sentimenti, forse anche a causa dell’estrema
razionalità che le derivava dalla
mente geniale ereditata dal padre e che la portava ad analizzare sino
al
midollo ogni singolo frammento della sua vita. Ma questa volta, stava
facendo
un lavoro decisamente pessimo. Rabbia, diffidenza, amore erano tutte
emozioni
che riusciva a far stillare in modo più o meno dilagante,
rimanendo comunque
capace a dosarne ognuna di esse almeno ai limiti della
normalità. Ma la
mancanza, quella cronica e non sanabile di qualcosa che si sa di aver
allontanato per una buona causa, ma che continua a rimanere come
ricordo di una
parte complementare in ogni gesto, quella proprio non era alla sua
portata.
Passava dalla repressione ostinata, quasi convulsa, al lasciarsene
completamente travolgere senza alcun tentativo di contenimento, esclusa
la posa
rigida delle braccia allacciate ai fianchi come fasce elastiche.
Spinse
il regolatore del getto verso il basso, arrestando così il
flusso d’acqua che si ridusse a poche gocce che, restie,
continuarono a cadere
dal piatto in acciaio, scivolando sulle curve dolci e tratteggiandone i
contorni tondi. Sospirò, mentre con la destra cercava di
raggiungere
l’accappatoio rosa sporgendosi il meno possibile al di fuori
del perimetro
della doccia. Dopo averlo afferrato vi si avvolse, godendo della
sensazione
della spugna morbida e calda a contatto con la pelle umida.
Infilò
le ciabatte di gomma, abbandonando il bagno immerso nel vapore
per uscire nella ampia camera da letto.
Un
brivido inaspettato le corse lungo la spina dorsale. L’aria
era
decisamente fredda in quella stanza. Si guardò intorno e
notò con rammarico di
aver dimenticato la porta finestra aperta, lasciando via libera ai
venti freddi
autunnali. Starnutì, e in quel momento si rese conto che
avrebbe pagato quella
svista con una bella dose di malanni stagionali.
Paradossalmente,
tanto era coriacea per i dolori da trauma quanto
totalmente alla mercé dei colpi d’aria, di freddo,
di caldo e di qualsiasi
altro tipo. Le bastava un nulla per ammalarsi: capelli umidi, vestiti
troppo
leggeri, sciarpa dimenticata. E ora era addirittura nuda e fradicia
sotto i
colpi di un vento freddo; l’indomani, se non già
la sera stessa, sarebbe stata
a letto con il naso gocciolante e i rantoli della tosse.
Sbuffò
mentre chiudeva le ampie ante e tirava la tenda, andando poi a
cercare un secondo asciugamano per frizionare i capelli e sedendosi
sullo
sgabello di fronte alla sua postazione abituale per il trucco
giornaliero.
Prese una spazzola e iniziò a passarla tra i ciuffi
turchini, di solito gonfi
di permanente e/o bigodini. Erano davvero lunghi.
Quando
furono abbastanza malleabili, li divise in ciocche e iniziò
lentamente ad intrecciarli, dando così loro modo di
mantenere un minimo di
piega pur evitando quegli arnesi infernali che gli esseri umani e i
parrucchieri continuavano a chiamare semplicemente bigodini. Fosse
stato per
lei, sarebbero stati fuori legge. Purtroppo però erano
un’alternativa meno
deleteria per la salute della sua adorata chioma rispetto al poco
gentile ferro
per ricci, che evitava accuratamente di usare se non in determinate
occasioni.
Teneva molto ai suoi capelli. Chiuse l’acconciatura con un
elastico estratto
dalla scatola in vimini in cui conservava tutti i vari accessori,
prendendovi
subito dopo un paio di forcine con le quali fissò la parte
alta della cute,
imprigionandovi i ciuffi più corti e quindi meno stabili.
Si
guardò allo specchio per qualche minuto, in silenzio. Gli
occhi
celesti osservavano critici ogni centimetro del viso, soffermandosi
sulle linee
viola che si scavavano ai lati dei grandi occhi azzurri. Era stanca,
davvero
stanca. Sospirò, infastidita da quell’aspetto
sciatto e soprattutto dal motivo
per il quale si trovava ad averlo.
Forse
Vegeta aveva ragione –non doveva saperlo, MAI- nel dire che i
terrestri erano estremamente fragili e che bastava un niente per
colpirli. Si
sentiva vulnerabile, priva di quello scudo di orgoglio che
l’aveva sempre
difesa. Strinse un pugno e lo sbatté sul ripiano di marmo,
nervosa. In quel
momento, si stava ampiamente detestando.
Si
alzò dallo sgabello, una smorfia di disgusto sul viso niveo,
mentre
si avvicinava all’ampia cabina armadio nella ricerca di
qualcosa di leggermente
più decente della tenuta sfoggiata quella mattina. Era quasi
ora di pranzo, di
sicuro lo scimmione avrebbe preteso una seconda razione abbondante di
cibo e di
certo non gli avrebbe dato la soddisfazione di farsi nuovamente trovare
nelle
condizioni di qualche ora prima.
Lasciò
cadere l’accappatoio sul pavimento, andando ad afferrare
prima
un paio di mutande e un reggiseno che infilò rapidamente,
quasi nel timore che qualcuno
–a caso eh- potesse irrompere
in quella stanza da un momento all’altro e sorprenderla nuda.
Una volta messa
al sicuro la propria dignità, sempre che farsi sorprendere
in quel completino
striminzito che poco lasciava all’immaginazione potesse
essere definito
dignitoso, andò alla ricerca ben più lenta e
minuziosa di qualcosa da mettere
sopra di esso.
Aprì
un numero indefinito di cassetti, frugando dentro ad ognuno come
alla ricerca precisa di qualcosa, senza degnarsi poi di richiuderli una
volta
finito, sino a che non si lasciò convincere da un vestito in
cotone pesante
scuro, traforato e quindi semitrasparente, a maniche a tre quarti e
dalla
generosa scollatura. Lo infilò, compiacendosi del modo in
cui le cadeva
addosso, per poi ritornare nella camera da letto ed indossare
nuovamente i
leggins chiari e le calze, ma decisamente ora facevano un effetto
diverso.
Respirò
a fondo, godendo di quella ritrovata percezione di sé in
abiti
finalmente più vicini alla propria personalità e
beandosi della siluette lunga
e affusolata che uno dei tanti specchi –ed erano davvero
tanti- presenti in
quella grande stanza le restituiva. Si avvicinò ad uno degli
interruttori
presenti sul muro e dopo aver composto un codice specifico,
aspettò qualche
secondo che i robot che aveva personalmente costruito per tenerle in
ordine la
stanza facessero il loro lavoro, riassettando il disordine che sempre
la
ragazza si lasciava alle spalle.
Adagiò
la lunga treccia sulla scapola destra, ancora umida, mentre
apriva la porta della stanza per dirigersi verso la cucina. Avrebbe
sfamato
quell’essere e poi si sarebbe diretta ai laboratori; aveva
ancora qualche
prototipo da mettere a punto, tutte cose di sua invenzione, e visti i
risultati
dei momenti di nullafacenza della mattina era meglio trovarsi qualcosa
da fare.
Non prima però di aver sfilato fiera di fronte alla scimmia
e di avergli reso
le frasi brucianti della mattinata a cui non aveva replicato per un
motivo che
in quel momento venne lasciato a lato della sua mente, il
più lontano possibile
da tutti gli altri pensieri.
Scaraventò
l’ennesima onda di energia contro uno dei marchingegni
costruiti dalla terrestre e da suo padre, violentemente, come a sfogare
quel
nodo neurale che continuava ad assillarlo da qualche ora –o
da qualche giorno-
e che nonostante i suoi sforzi non riusciva a mettere a tacere. Era
come se ad
ogni colpo riuscisse a buttare fuori parte delle proprie frustrazioni.
E ne
stava lanciando tanti, tantissimi, pur di eliminare da dentro se stesso
quei
pensieri.
Evitò
una delle proprie onde, rimbalzatagli contro dai robot che
l’attorniavano minacciosi. Quella terrestre aveva fatto un
buon lavoro,
dopotutto. Non fece in tempo però a concludere quel pensiero
che il colpo
appena evitato lo investì in pieno, ritornando indietro a
causa proprio degli
ammassi meccanici che aveva appena finito di lodare.
Venne
scaraventato al suolo, volando di qualche metro e trovandosi
faccia a terra e subito circondato dagli avversari robotici, che
lampeggiando
seguivano i suoi movimenti come ombre bioniche e minacciose, pur non
avendo la
capacità di offendere. Vegeta non si mosse subito, rimanendo
immobile sul
pavimento per lunghi secondi.
Come
aveva potuto farsi colpire? Come aveva potuto lasciarsi
sopraffare da quei miseri aggeggi? Un lampo d’ira
balenò nei suoi occhi neri
mentre un’aura potente lo avvolgeva quasi completamente
facendo vibrare appena
le pareti di quella che era divenuta la sua palestra personale. La
collera
aumentava con il trascorrere dei secondi, mentre la mente convogliava
tutto il
rancore per quel maledetto passo falso su un’unica immagine,
che anche
controvoglia prese possesso totale della sua mente.
Di
solito quando ci si arrabbia si dovrebbe vedere nero, ma per lui,
che di nero ci aveva ammantato tutta la vita, provare collera per colpa
di
qualcun altro significava in quel momento vedere assolutamente, e
dannatamente,
azzurro.
Si
issò di scatto, lanciandosi contro i suoi avversari
meccanici con
una ferocia scaturita da quell’improvvisa visione
totalizzante. Più tentava di
scacciarla dai suoi pensieri più lei
prepotentemente vi rientrava. Senza motivi, senza lasciapassare, senza
fare
rumore. Afferrò
il primo robot, lo
accartocciò tra le sue dita, quasi godendo nel veder
zampillare ovunque pezzi
di metallo, circuiti, olio lubrificante, come se tra le sue mani si
stesse
spegnendo l’ennesima vita. Non una a caso, la sua.
Non
poteva e non avrebbe mai perdonato a quella maledetta donna
l’essere riuscita a farsi un comodo posto nella sua mente.
L’avrebbe spazzata
via, anche a costo di estrarla dal suo cervello con le proprie mani,
anche a
costo di doverselo mangiare, il cervello. Altrimenti, opzione molto
più allettante
per l’indole sanguinolenta del Saiyan, avrebbe fatto a pezzi
la fonte di tutti
quegli scompensi. Aveva spazzato via innumerevoli esseri viventi, di
certo non
sarebbe stato uno in più a cambiargli l’esistenza.
Allora
perché non l’aveva ancora fatto?
Di
nuovo un ringhio, ferino, mentre sfondava l’occhio bionico di
un
secondo robot, affondandovi il braccio sino al gomito e strappandovi la
centralina con la mano, spiaccicandola poi come aveva fatto con il
primo. Il
fatto di star distruggendo i suoi attrezzi da allenamento non era
un’opzione
contemplabile in quel momento, preferiva decisamente bearsi di quello
che con
un pizzico d’immaginazione –e di conoscenza del
primo attore- era la
riproduzione incruenta, non per i robot ovviamente, di una carneficina
in piena
regola.
Il
ghigno sadico e lo sguardo folle sul suo volto non lasciavano
spazio ad obiezioni. Era come impazzito, ammesso che mai fosse
rinsavito, o
meglio era come se si trovasse immerso nella sua condizione ferina
senza la
trasformazione fisica. Era uno scimmione violento e scatenato senza
peli né
coda, ma il cumolo di ferraglia-cadaveri che continuava ad aumentare
vicino al
portellone d’entrata della GR faceva da muto testimone a
quell’improvvisa
ferocia ritrovata. E più ne distruggeva, più
questo lo rendeva fiero di quello
scatto d’ira che si stava protraendo molto più del
normale, tornando a
catapultare la testa del Saiyan all’interno di una scena
infinitamente ripetuta
nella sua testa e nella sua vita: una battaglia, il dove e il quando
non erano elementi
fondamentali, in cui il Principe faceva la parte del protagonista
ammassando
intorno a sé un numero sempre crescente di carcasse
deturpate dalla sua sete di
sangue e dal divertimento che aveva sempre tratto dallo sterminio di
esseri
inferiori, ridendo dell’insulsa resistenza che gli opponevano
pur di
contrastare l’inevitabile. Quanti genocidi avesse compiuto
sino a quel momento
non era in grado di dirlo, di certo però in ognuno vedeva
riflessa
quell’immagine di se stesso che ridendo maciullava esistenze
come si strappano
fogli di carta straccia. Il tutto con il consueto riso maligno e
compiaciuto a
far da cornice al tutto.
Se gli
avessero chiesto dove si trovava in quell’esatto momento, non
avrebbe nemmeno saputo rispondere. Prigioniero di se stesso, stava
dando sfogo
a quella repressione né voluta ma nemmeno mai rifiutata di
cui incolpava un
paio di maledetti occhi azzurri, andando a cercare rifugio in
ciò che gli era
congenito e naturale –l’omicidio di massa- alla
disperata ricerca di
quell’identità che Lei
aveva
lentamente sopito con quelle sciocchezze umane. Ogni colpo sferrato era
un’immagine di quella donna che credeva di aver infranto e
quindi estirpato dai
suoi pensieri, ma più si affannava nella propria folle
impresa più si rendeva
conto di quanti fotogrammi il proprio cervello avesse registrato.
Frustrato, la
pazzia nei suoi occhi si acuiva e riversava la bile nera nelle mani,
facendola
scorrere attraverso le vene come carburante per la propria rabbia ormai
del
tutto incontrollata. Uno stato di incoscienza lo stava lentamente
avvolgendo,
quasi arrivando a fargli credere d’essere altrove, e che
quelli non fossero
circuiti ed olio per motori, ma sangue e arti che le sue mani sozze del
sangue
dei propri avversari continuavano a reclamare solo per il proprio
piacere.
Dentro
la sua testa urlava una bestia che credeva morta con Freezer,
quella che aveva creato nei lunghi anni di sudditanza e che lo aveva
tenuto
intatto in tutti quei momenti in cui aveva dovuto obbedire e se per
qualche
motivo, spesso per capriccio, non l’aveva fatto, subire senza
possibilità di
rivalsa i castighi di quell’essere tanto più forte
di lui. Ma ora, in quella
navicella, i latrati disumani di quella fiera si levavano colmi di una
frustrazione che non aveva mai provato prima. Tutto di quella sua nuova
condizione gli dava alla testa, lo faceva sentire in gabbia, eppure non
se ne
era ancora andato. Poteva farlo, esattamente come poteva uccidere
quella
maledetta oca giuliva che assillava le sue giornate con quella voce
insopportabile.
Eppure, era ancora lì. Lei era viva. Lui era sulla terra. A
questa
considerazione meccanica l’animale si lanciò a
terra come pervaso da un dolore
lancinante, mandando versi agghiaccianti e di immane potenza.
Quella
situazione doveva finire, il più presto possibile.
L’aver
addirittura buttato del tempo a guardare lei
aumentava esponenzialmente i latrati che rimbalzavano nel cranio,
nonostante il
buon motivo che l’aveva portato ad una tale azione. Avrebbe
posto un termine a
tutte quelle assurdità la notte stessa.
Sarebbe
andato via, lontano, quel tanto che bastava per recuperare la
propria lucidità. L’aria terrestre e l’azzurro
del suo cielo ormai gli avevano dato alla testa, oltre che
sui nervi.
Andò
avanti così sino a che l’ultimo dei robot non
cadde a terra,
ridotto ormai ad una massa aggrovigliata di pezzi fumanti e non
facilmente
riconoscibili. Si fermò, immobile, al centro del trainer con
i muscoli ancora
vibranti per l’esplosione violenta a cui erano stati
sottoposti sotto una
gravità così pesantemente alterata. Sulla fronte
come su tutto il corpo
colavano rivoli di sudore, andando a solcare le cicatrici che lo
percorrevano,
così fitte da sembrare una trama intricata di un qualche
tessuto. Un abito
quasi, fatto di anni passati a dispensare morte e a chinare il capo per
chi era
più forte di lui. Alcune di esse infatti non derivavano
dalle battaglie, ma
dalle punizioni subite. Rimase per qualche secondo così,
come immobilizzato in
quella posa rigida, poi tutto intorno a lui perse concretezza e
scivolò nel
buio. L’ultima cosa che riuscì a distinguere fu il
portellone della GR aprirsi
di scatto e una vocina insopportabilmente acuta che farfugliava
qualcosa, il
tutto accompagnato dall’ennesima esplosione azzurra.
Pensò che probabilmente il
cervello doveva essersi definitivamente ammutinato ad ogni barlume di
volontà.
Lo maledì, o almeno tentò di farlo, ma oltre ad
una voce che parve fare il
percorso inverso e invece che uscire dalla bocca, rotolare
rovinosamente verso
le viscere, persino i pensieri si ingarbugliarono perdendo
definitivamente ogni
logicità. Da lì in poi fu solo il silenzio
dell’incoscienza.
Prima di tutto, scusate il
ritardo ma sono piena di esami –tra cui uno questo SABATO, ma
si può? -.-‘ –
quindi tardo nell’aggiornare e nello scrivere. Gomen ne :/
Per quel che
riguarda questo capitolo, intanto è solo la prima parte
poiché altrimenti
sarebbe risultato decisamente troppo lungo. Sul dono della sintesi
abbiamo già
discusso ;) non mi sbilancio più di tanto perché
preferisco lasciare i commenti
finali per la seconda parte.
Quindi,
Enjoy!
Ah, ovviamente i commenti
sono sempre ben
accetti!
Xoxo
Stella*
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