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Autore: _unaStella    16/02/2012    2 recensioni
Assassino. Assassino. Una vocina nella sua testa tentava di ricordarle che erano quegli occhi ad aver ucciso/ferito/torturato non solo gli amici più cari, ma una quantità indefinibile di persone e distrutto altrettanti pianeti. Allora perché non aveva paura?
Una storia forse un po' diversa che dà ampio spazio ai pensieri, su come un rapporto sia difficile quando entrambi gli elementi coinvolti hanno da fare i conti prima di tutto con sé stessi.

Avviso: per quanto riguarda l'IC dei personaggi, Vegeta in particolare, mi baserò molto anche sui giudizi ricevuti nelle recensioni, dato che è la prima volta che lo uso in una fic.
Detto questo, hope you'll enjoy!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo III

 

 

 

Siamo scivolati sui sassi e sbucciati le ginocchia per vedere cosa c’è, alla fine dell’arcobaleno.

 

 

 

E' ammirevole

 la perseveranza mostrata da chiunque

nell' amare ciò che è stato, ammirevole.
Eppure, se è stato non è.

E qualcosa dovrà pur voler dire.

 

 

Ogni cosa viene nutrita direttamente dal cuore,

dimmi, cosa farai quando tutto andrà in pezzi?

Da dove si inizia?

Non posso più rifugiarmi da te quando tutto crolla.

 

 

L’acqua calda parve darle un ulteriore aiuto a sciogliere parte della rigidità che il suo corpo assumeva durante quei momenti. I muscoli si stavano lentamente rilassando, grazie al potente getto d’acqua bollente che cadeva dall’ampio diffusore. I capelli blu erano sparsi lungo la schiena e le spalle, persa la piega riccia a cui li aveva abituati in quegli ultimi mesi, lunghi almeno sino a sotto le scapole. Non si era accorta di quanto fossero cresciuti.  

Non si accorgeva di molte cose da tempo.

Guardò l’ombra opaca che la superficie traslucida delle piastrelle le restituiva: un corpo sinuoso ma forse abbandonato a se stesso da troppo tempo. Girò un paio di volte su se stessa, lentamente, come studiandosi con l’occhio freddo e distaccato della scienziata, privo cioè di una qualsiasi affettività nei confronti di quel riflesso. Era strano relazionarsi con se stessa a quel modo, per una che adorava il proprio aspetto fisico e lo poneva sempre ai primi posti. Si era anche adorata, moltissimo, e probabilmente continuava a farlo attraverso l’impeccabile stile di cui andava decisamente fiera -le permetteva infatti di uscire di casa sempre al meglio- ma per quel corpo privo di abiti e di coperture aveva perso interesse. Per essere sinceri, aveva preferito dimenticarsi di avere una fisicità, perché averla significava ricordarsi che sotto gli strati –abbastanza parchi a dire il vero- di stoffa/pizzo/maglia esistevano braccia, gambe, mani, occhi, tutte parti che avevano goduto per tanto, troppo tempo di un corpo a sé affine o almeno ritenuto tale, e che ora nei più piccoli gesti si trovavano a dover fare i conti con quel vuoto che una rottura inevitabilmente comporta. Non era mai stata brava a gestire i sentimenti, forse anche a causa dell’estrema razionalità che le derivava dalla mente geniale ereditata dal padre e che la portava ad analizzare sino al midollo ogni singolo frammento della sua vita. Ma questa volta, stava facendo un lavoro decisamente pessimo. Rabbia, diffidenza, amore erano tutte emozioni che riusciva a far stillare in modo più o meno dilagante, rimanendo comunque capace a dosarne ognuna di esse almeno ai limiti della normalità. Ma la mancanza, quella cronica e non sanabile di qualcosa che si sa di aver allontanato per una buona causa, ma che continua a rimanere come ricordo di una parte complementare in ogni gesto, quella proprio non era alla sua portata. Passava dalla repressione ostinata, quasi convulsa, al lasciarsene completamente travolgere senza alcun tentativo di contenimento, esclusa la posa rigida delle braccia allacciate ai fianchi come fasce elastiche.

Spinse il regolatore del getto verso il basso, arrestando così il flusso d’acqua che si ridusse a poche gocce che, restie, continuarono a cadere dal piatto in acciaio, scivolando sulle curve dolci e tratteggiandone i contorni tondi. Sospirò, mentre con la destra cercava di raggiungere l’accappatoio rosa sporgendosi il meno possibile al di fuori del perimetro della doccia. Dopo averlo afferrato vi si avvolse, godendo della sensazione della spugna morbida e calda a contatto con la pelle umida.

Infilò le ciabatte di gomma, abbandonando il bagno immerso nel vapore per uscire nella ampia camera da letto.

Un brivido inaspettato le corse lungo la spina dorsale. L’aria era decisamente fredda in quella stanza. Si guardò intorno e notò con rammarico di aver dimenticato la porta finestra aperta, lasciando via libera ai venti freddi autunnali. Starnutì, e in quel momento si rese conto che avrebbe pagato quella svista con una bella dose di malanni stagionali.

Paradossalmente, tanto era coriacea per i dolori da trauma quanto totalmente alla mercé dei colpi d’aria, di freddo, di caldo e di qualsiasi altro tipo. Le bastava un nulla per ammalarsi: capelli umidi, vestiti troppo leggeri, sciarpa dimenticata. E ora era addirittura nuda e fradicia sotto i colpi di un vento freddo; l’indomani, se non già la sera stessa, sarebbe stata a letto con il naso gocciolante e i rantoli della tosse.

Sbuffò mentre chiudeva le ampie ante e tirava la tenda, andando poi a cercare un secondo asciugamano per frizionare i capelli e sedendosi sullo sgabello di fronte alla sua postazione abituale per il trucco giornaliero. Prese una spazzola e iniziò a passarla tra i ciuffi turchini, di solito gonfi di permanente e/o bigodini. Erano davvero lunghi.

Quando furono abbastanza malleabili, li divise in ciocche e iniziò lentamente ad intrecciarli, dando così loro modo di mantenere un minimo di piega pur evitando quegli arnesi infernali che gli esseri umani e i parrucchieri continuavano a chiamare semplicemente bigodini. Fosse stato per lei, sarebbero stati fuori legge. Purtroppo però erano un’alternativa meno deleteria per la salute della sua adorata chioma rispetto al poco gentile ferro per ricci, che evitava accuratamente di usare se non in determinate occasioni. Teneva molto ai suoi capelli. Chiuse l’acconciatura con un elastico estratto dalla scatola in vimini in cui conservava tutti i vari accessori, prendendovi subito dopo un paio di forcine con le quali fissò la parte alta della cute, imprigionandovi i ciuffi più corti e quindi meno stabili.

Si guardò allo specchio per qualche minuto, in silenzio. Gli occhi celesti osservavano critici ogni centimetro del viso, soffermandosi sulle linee viola che si scavavano ai lati dei grandi occhi azzurri. Era stanca, davvero stanca. Sospirò, infastidita da quell’aspetto sciatto e soprattutto dal motivo per il quale si trovava ad averlo.

Forse Vegeta aveva ragione –non doveva saperlo, MAI- nel dire che i terrestri erano estremamente fragili e che bastava un niente per colpirli. Si sentiva vulnerabile, priva di quello scudo di orgoglio che l’aveva sempre difesa. Strinse un pugno e lo sbatté sul ripiano di marmo, nervosa. In quel momento, si stava ampiamente detestando.

Si alzò dallo sgabello, una smorfia di disgusto sul viso niveo, mentre si avvicinava all’ampia cabina armadio nella ricerca di qualcosa di leggermente più decente della tenuta sfoggiata quella mattina. Era quasi ora di pranzo, di sicuro lo scimmione avrebbe preteso una seconda razione abbondante di cibo e di certo non gli avrebbe dato la soddisfazione di farsi nuovamente trovare nelle condizioni di qualche ora prima.

Lasciò cadere l’accappatoio sul pavimento, andando ad afferrare prima un paio di mutande e un reggiseno che infilò rapidamente, quasi nel timore che qualcuno –a caso eh- potesse irrompere in quella stanza da un momento all’altro e sorprenderla nuda. Una volta messa al sicuro la propria dignità, sempre che farsi sorprendere in quel completino striminzito che poco lasciava all’immaginazione potesse essere definito dignitoso, andò alla ricerca ben più lenta e minuziosa di qualcosa da mettere sopra di esso.

Aprì un numero indefinito di cassetti, frugando dentro ad ognuno come alla ricerca precisa di qualcosa, senza degnarsi poi di richiuderli una volta finito, sino a che non si lasciò convincere da un vestito in cotone pesante scuro, traforato e quindi semitrasparente, a maniche a tre quarti e dalla generosa scollatura. Lo infilò, compiacendosi del modo in cui le cadeva addosso, per poi ritornare nella camera da letto ed indossare nuovamente i leggins chiari e le calze, ma decisamente ora facevano un effetto diverso.

Respirò a fondo, godendo di quella ritrovata percezione di sé in abiti finalmente più vicini alla propria personalità e beandosi della siluette lunga e affusolata che uno dei tanti specchi –ed erano davvero tanti- presenti in quella grande stanza le restituiva. Si avvicinò ad uno degli interruttori presenti sul muro e dopo aver composto un codice specifico, aspettò qualche secondo che i robot che aveva personalmente costruito per tenerle in ordine la stanza facessero il loro lavoro, riassettando il disordine che sempre la ragazza si lasciava alle spalle.

Adagiò la lunga treccia sulla scapola destra, ancora umida, mentre apriva la porta della stanza per dirigersi verso la cucina. Avrebbe sfamato quell’essere e poi si sarebbe diretta ai laboratori; aveva ancora qualche prototipo da mettere a punto, tutte cose di sua invenzione, e visti i risultati dei momenti di nullafacenza della mattina era meglio trovarsi qualcosa da fare. Non prima però di aver sfilato fiera di fronte alla scimmia e di avergli reso le frasi brucianti della mattinata a cui non aveva replicato per un motivo che in quel momento venne lasciato a lato della sua mente, il più lontano possibile da tutti gli altri pensieri.

 

Scaraventò l’ennesima onda di energia contro uno dei marchingegni costruiti dalla terrestre e da suo padre, violentemente, come a sfogare quel nodo neurale che continuava ad assillarlo da qualche ora –o da qualche giorno- e che nonostante i suoi sforzi non riusciva a mettere a tacere. Era come se ad ogni colpo riuscisse a buttare fuori parte delle proprie frustrazioni. E ne stava lanciando tanti, tantissimi, pur di eliminare da dentro se stesso quei pensieri.

Evitò una delle proprie onde, rimbalzatagli contro dai robot che l’attorniavano minacciosi. Quella terrestre aveva fatto un buon lavoro, dopotutto. Non fece in tempo però a concludere quel pensiero che il colpo appena evitato lo investì in pieno, ritornando indietro a causa proprio degli ammassi meccanici che aveva appena finito di lodare.

Venne scaraventato al suolo, volando di qualche metro e trovandosi faccia a terra e subito circondato dagli avversari robotici, che lampeggiando seguivano i suoi movimenti come ombre bioniche e minacciose, pur non avendo la capacità di offendere. Vegeta non si mosse subito, rimanendo immobile sul pavimento per lunghi secondi.

Come aveva potuto farsi colpire? Come aveva potuto lasciarsi sopraffare da quei miseri aggeggi? Un lampo d’ira balenò nei suoi occhi neri mentre un’aura potente lo avvolgeva quasi completamente facendo vibrare appena le pareti di quella che era divenuta la sua palestra personale. La collera aumentava con il trascorrere dei secondi, mentre la mente convogliava tutto il rancore per quel maledetto passo falso su un’unica immagine, che anche controvoglia prese possesso totale della sua mente.

Di solito quando ci si arrabbia si dovrebbe vedere nero, ma per lui, che di nero ci aveva ammantato tutta la vita, provare collera per colpa di qualcun altro significava in quel momento vedere assolutamente, e dannatamente, azzurro.

Si issò di scatto, lanciandosi contro i suoi avversari meccanici con una ferocia scaturita da quell’improvvisa visione totalizzante. Più tentava di scacciarla dai suoi pensieri più lei prepotentemente vi rientrava. Senza motivi, senza lasciapassare, senza fare rumore.  Afferrò il primo robot, lo accartocciò tra le sue dita, quasi godendo nel veder zampillare ovunque pezzi di metallo, circuiti, olio lubrificante, come se tra le sue mani si stesse spegnendo l’ennesima vita. Non una a caso, la sua.

Non poteva e non avrebbe mai perdonato a quella maledetta donna l’essere riuscita a farsi un comodo posto nella sua mente. L’avrebbe spazzata via, anche a costo di estrarla dal suo cervello con le proprie mani, anche a costo di doverselo mangiare, il cervello. Altrimenti, opzione molto più allettante per l’indole sanguinolenta del Saiyan, avrebbe fatto a pezzi la fonte di tutti quegli scompensi. Aveva spazzato via innumerevoli esseri viventi, di certo non sarebbe stato uno in più a cambiargli l’esistenza.

Allora perché non l’aveva ancora fatto?

Di nuovo un ringhio, ferino, mentre sfondava l’occhio bionico di un secondo robot, affondandovi il braccio sino al gomito e strappandovi la centralina con la mano, spiaccicandola poi come aveva fatto con il primo. Il fatto di star distruggendo i suoi attrezzi da allenamento non era un’opzione contemplabile in quel momento, preferiva decisamente bearsi di quello che con un pizzico d’immaginazione –e di conoscenza del primo attore- era la riproduzione incruenta, non per i robot ovviamente, di una carneficina in piena regola.

Il ghigno sadico e lo sguardo folle sul suo volto non lasciavano spazio ad obiezioni. Era come impazzito, ammesso che mai fosse rinsavito, o meglio era come se si trovasse immerso nella sua condizione ferina senza la trasformazione fisica. Era uno scimmione violento e scatenato senza peli né coda, ma il cumolo di ferraglia-cadaveri che continuava ad aumentare vicino al portellone d’entrata della GR faceva da muto testimone a quell’improvvisa ferocia ritrovata. E più ne distruggeva, più questo lo rendeva fiero di quello scatto d’ira che si stava protraendo molto più del normale, tornando a catapultare la testa del Saiyan all’interno di una scena infinitamente ripetuta nella sua testa e nella sua vita: una battaglia, il dove e il quando non erano elementi fondamentali, in cui il Principe faceva la parte del protagonista ammassando intorno a sé un numero sempre crescente di carcasse deturpate dalla sua sete di sangue e dal divertimento che aveva sempre tratto dallo sterminio di esseri inferiori, ridendo dell’insulsa resistenza che gli opponevano pur di contrastare l’inevitabile. Quanti genocidi avesse compiuto sino a quel momento non era in grado di dirlo, di certo però in ognuno vedeva riflessa quell’immagine di se stesso che ridendo maciullava esistenze come si strappano fogli di carta straccia. Il tutto con il consueto riso maligno e compiaciuto a far da cornice al tutto.

Se gli avessero chiesto dove si trovava in quell’esatto momento, non avrebbe nemmeno saputo rispondere. Prigioniero di se stesso, stava dando sfogo a quella repressione né voluta ma nemmeno mai rifiutata di cui incolpava un paio di maledetti occhi azzurri, andando a cercare rifugio in ciò che gli era congenito e naturale –l’omicidio di massa- alla disperata ricerca di quell’identità che Lei aveva lentamente sopito con quelle sciocchezze umane. Ogni colpo sferrato era un’immagine di quella donna che credeva di aver infranto e quindi estirpato dai suoi pensieri, ma più si affannava nella propria folle impresa più si rendeva conto di quanti fotogrammi il proprio cervello avesse registrato. Frustrato, la pazzia nei suoi occhi si acuiva e riversava la bile nera nelle mani, facendola scorrere attraverso le vene come carburante per la propria rabbia ormai del tutto incontrollata. Uno stato di incoscienza lo stava lentamente avvolgendo, quasi arrivando a fargli credere d’essere altrove, e che quelli non fossero circuiti ed olio per motori, ma sangue e arti che le sue mani sozze del sangue dei propri avversari continuavano a reclamare solo per il proprio piacere.

Dentro la sua testa urlava una bestia che credeva morta con Freezer, quella che aveva creato nei lunghi anni di sudditanza e che lo aveva tenuto intatto in tutti quei momenti in cui aveva dovuto obbedire e se per qualche motivo, spesso per capriccio, non l’aveva fatto, subire senza possibilità di rivalsa i castighi di quell’essere tanto più forte di lui. Ma ora, in quella navicella, i latrati disumani di quella fiera si levavano colmi di una frustrazione che non aveva mai provato prima. Tutto di quella sua nuova condizione gli dava alla testa, lo faceva sentire in gabbia, eppure non se ne era ancora andato. Poteva farlo, esattamente come poteva uccidere quella maledetta oca giuliva che assillava le sue giornate con quella voce insopportabile. Eppure, era ancora lì. Lei era viva. Lui era sulla terra. A questa considerazione meccanica l’animale si lanciò a terra come pervaso da un dolore lancinante, mandando versi agghiaccianti e di immane potenza.

Quella situazione doveva finire, il più presto possibile. L’aver addirittura buttato del tempo a guardare lei aumentava esponenzialmente i latrati che rimbalzavano nel cranio, nonostante il buon motivo che l’aveva portato ad una tale azione. Avrebbe posto un termine a tutte quelle assurdità la notte stessa.

Sarebbe andato via, lontano, quel tanto che bastava per recuperare la propria lucidità. L’aria terrestre e l’azzurro del suo cielo ormai gli avevano dato alla testa, oltre che sui nervi.

Andò avanti così sino a che l’ultimo dei robot non cadde a terra, ridotto ormai ad una massa aggrovigliata di pezzi fumanti e non facilmente riconoscibili. Si fermò, immobile, al centro del trainer con i muscoli ancora vibranti per l’esplosione violenta a cui erano stati sottoposti sotto una gravità così pesantemente alterata. Sulla fronte come su tutto il corpo colavano rivoli di sudore, andando a solcare le cicatrici che lo percorrevano, così fitte da sembrare una trama intricata di un qualche tessuto. Un abito quasi, fatto di anni passati a dispensare morte e a chinare il capo per chi era più forte di lui. Alcune di esse infatti non derivavano dalle battaglie, ma dalle punizioni subite. Rimase per qualche secondo così, come immobilizzato in quella posa rigida, poi tutto intorno a lui perse concretezza e scivolò nel buio. L’ultima cosa che riuscì a distinguere fu il portellone della GR aprirsi di scatto e una vocina insopportabilmente acuta che farfugliava qualcosa, il tutto accompagnato dall’ennesima esplosione azzurra. Pensò che probabilmente il cervello doveva essersi definitivamente ammutinato ad ogni barlume di volontà. Lo maledì, o almeno tentò di farlo, ma oltre ad una voce che parve fare il percorso inverso e invece che uscire dalla bocca, rotolare rovinosamente verso le viscere, persino i pensieri si ingarbugliarono perdendo definitivamente ogni logicità. Da lì in poi fu solo il silenzio dell’incoscienza.  

 

 

Prima di tutto, scusate il ritardo ma sono piena di esami –tra cui uno questo SABATO, ma si può? -.-‘ – quindi tardo nell’aggiornare e nello scrivere. Gomen ne :/ Per quel che riguarda questo capitolo, intanto è solo la prima parte poiché altrimenti sarebbe risultato decisamente troppo lungo. Sul dono della sintesi abbiamo già discusso ;) non mi sbilancio più di tanto perché preferisco lasciare i commenti finali per la seconda parte.

Quindi,

Enjoy!

 

Ah, ovviamente i commenti sono sempre ben accetti!

 

 

Xoxo

Stella*

  
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