The night of the hunter

di Hi Ban
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The night of the hunter ***
Capitolo 2: *** Fullmoon ***
Capitolo 3: *** Ain’t your fairytale - It ends tonight [Epilogo] ***



Capitolo 1
*** The night of the hunter ***


The night of the hunter




The night of the hunter



Whatever you do, don't be afraid of the dark
Cover your eyes, the devil inside
One night of the hunter
One day I will get revenge
One night to remember
One day it'll all just end, oh.

[The night of the hunter – 30 Second to Mars]





Hinata si rilassò sulla sedia nel momento esatto in cui la campanella annunciò l’inizio della pausa tra un’ora e l’altra, perciò la conseguente fine della tortura a cui la stava sottoponendo osservare quel foglio su cui continuava a trovare imperfezioni. Il professore decretò la fine del tempo per scrivere e in un attimo il suo foglio scomparve dal banco, liberandola anche da quell’ansia che continuava a tormentarla; sapeva che, in fondo, non c’era nulla che non andasse, il compito era andato alla perfezione, ma fino a quando aveva modo di rileggerlo lei non riusciva a smettere di trovare qualcosa che non andava. Cosa che, di per sé, era abbastanza sciocca visto che non si poteva di certo dire che la giovane Hyuuga avesse problemi di sorta a scuola. Non era molto socievole, timida com’era parlare era davvero un’azione ardua per lei, ma era davvero un’ottima studentessa. Nemmeno suo padre, Hiashi, poteva avere da ridire su ciò e quella era sicuramente una grande cosa.
Mentre la classe si svuotava lentamente, lei metteva ordine sia tra i suo pensieri sia sul banco, ritrovandosi in un attimo immersa in una calma surreale. Le bastava poco per scivolare lentamente in quella quiete che era anche una delle caratteristiche principali della giovane. Hinata era davvero una ragazza semplice e posata, non aveva eccedenze, ogni suo gesto era misurato e poteva vantare anche una gentilezza che di quei tempi era sopravvalutata oltre che quasi impossibile riconoscere in giro.
A volte, però, era proprio quella sua peculiarità a portarla incontro a svariati problemi.
«Ehi, Hinata!»
In un attimo la voce che riconobbe come quella del suo migliore amico venne accompagnata dalla faccia del suddetto, che entrò letteralmente nella classe come una furia.
«Hinata!» ripeté con uno dei suoi soliti sorrisi un po’ strafottenti, ma che non volevano trasmettere nessuna superiorità.
Era semplicemente Kiba, era il suo modo di essere, selvaggio e sgangherato, con quell’energia e quella vitalità che nessuno riusciva mai a comprendere. Era stato il primo amico di Hinata – ed unico – per il semplice fatto che era stato lui a parlarle per la prima volta. Si era avvicinato e aveva iniziato a chiederle questa e quella cosa, dopodiché le cose erano andate al loro posto da sole, come se fosse stato ovvio che i due sarebbero dovuti divenire amici.
L’unico aspetto di Kiba che poteva essere visto con un po’ di curiosità – biasimo e critica da chi non lo conosceva – era la sua aria un po’ selvaggia, appunto. Non erano, però, i capelli sparati in tutte le direzioni o il suo modo di fare spartano e incoerente, ma proprio quel qualcosa nel ragazzo che lo faceva sembrare più legato del necessario a quei cani che tanto amava.
E la famiglia Inuzuka aveva davvero molto cani, di grande e piccola taglia, e Kiba dimostrava in ogni occasione il suo attaccamento a quegli animali.
Tesseva sempre le lodi di Akamaru, quello che probabilmente preferiva e Hinata aveva anche avuto modo di vedere il suddetto cane. Era davvero bello e giocherellone, aveva convenuto, e ciò che più apprezzava di quel grande cane era la sua intuitività. Sembravano davvero in sintonia, padrone e cane, e quello era un legame che alla Hyuuga piaceva molto, anche se era certa di non poterlo comprendere appieno.
«Ciao, Kiba-kun» rispose con un sorriso, felice di vederlo.
Purtroppo i due non erano nella stessa classe, ma quello non era di certo un ostacolo alla loro amicizia. «Ah, non ci crederai! Il compito di letteratura giapponese è andato bene! Grazie davvero!» ululò quasi e in un attimo avvolse Hinata in quello che doveva essere un abbraccio, ma sembrava più un modo per stritolare la Hyuuga.
«Pre–prego Kiba-kun» mormorò rossa sia per la mancanza di aria sia per l’imbarazzo; non era abituata a quelle dimostrazioni di affetto così esplicite e dubitava che ci si sarebbe mai abituata.
Kiba, di per sé, non era un tipo granché espansivo, ma capitava invece che si facesse prendere dall’entusiasmo e agisse sotto l’effetto dell’euforia. Era sovente che grazie ai ripassi last minute di Hinata riuscisse a superare uno di quei compiti che altrimenti gli avrebbero garantito un’insufficienza e la sua reazione era puntualmente molto affettuosa.
Ad Hinata non dava fastidio, anzi, la faceva sentire accettata quel comportamento – sentimento che la sua famiglia non le suscitava per una serie di svariati motivi –, ma era davvero molto timida.
Quando si staccò da lei esordì in un sorriso a trentadue denti, tanto che Hinata non poté non sorridere di rimando.
«Su, cosa fai ancora lì seduta? Prendi il pranzo e andiamo fuori!» disse con enfasi, mentre già la trascinava fuori dalla classe. La maggior parte degli studenti quel giorno se ne stava dentro.
Hinata avrebbe voluto fargli presente che fuori stava per mettersi a piovere, tanto erano neri i nuvoloni che coprivano Konoha, ma smontare la felicità del ragazzo era impossibile. Era come distruggere una roccia a mani nude: impossibile, appunto.
In un attimo furono al solito posto in cui passavano le pause, ovvero sotto un mandorlo molto vecchio, dalla corteccia scura e dai rami secchi; aveva davvero un’aria datata e non solo perché non c’era neanche una foglia ad adornarlo – non era il tempo giusto.
Il cielo minacciava davvero un grande temporale, ma da quella vasta e cupa volta non cadeva neanche una goccia. C’era solo un senso di fremente imminenza in quelle nuvole che componevano una fitta tela dalle gradazioni di grigio.
«Uh, che brutto tempo, speriamo non piova, devo fare il bagno ad Akamaru» si lamentò con enfasi, mentre si lasciava cadere sul prato, con le mani dietro la testa.
Hinata scosse piano la testa al sentire il suo ragionamento, ma fu quantomeno felice di sapere che la sua principale preoccupazione fosse solo quella e non nulla di più grave. Poteva quasi dire con certezza di odiare quando Kiba era di cattivo umore per qualche cosa. Era come se qualunque fonte di luce si fosse spenta anche nel mondo di Hinata, perché, in fondo, l’Inuzuka era colui che era stato capace di portare un po’ di chiarezza nel suo mondo, che le sembrava sempre terribilmente spento. Felice e spensierato com’era, riusciva a riflettere su Hinata la sua positività e alla ragazza quella non era una cosa che era passata inosservata, a livello puramente sentimentale. Già da tempo la ragazza aveva capito che lui era davvero una parte molto importante della sua personale realtà, più di quanto lei stessa avrebbe mai immaginato, ma non ne aveva mai fatto la minima parola con il ragazzo. Non voleva rovinare tutto, non ora che sembrava aver trovato il suo posticino in quel mondo grigio che sembrava non voler avere nulla a che fare con lei. L’affetto mancato della sua famiglia era qualcosa che aveva trovato completamente nella fiducia che Kiba aveva in lei e tanto bastava.
«Ehi, oggi passi da casa mia? Così mi dai una mano con Akamaru! È da tanto che non lo vedi» disse ad un trattò, strappando Hinata dalle sue riflessioni.
«Sono venuta da te ieri» gli fece presente candidamente, mentre lui scrollava le spalle.
«Akamaru ha la memoria corta come il padrone» e così dicendo si ticchettò due dita sulla fronte, con quel suo solito sorriso sbarazzino che irritava tanti, ma scaldava come non mai Hinata.
Lei arrossì e poi annuì, conscia che accettare su due piedi per lei non sarebbe stato un problema. Suo padre non c’era quasi mai e aveva più volte ribadito la sua visione della cosa per quanto riguardava Hinata: non era di nessuna utilità e perciò era un peso pari a quello della roba vecchia.
Ormai quelle parole non le facevano più male come le prime volte che gliele aveva rivolte ma le lasciavano sempre quel senso di vuoto che non riusciva mai a riempire del tutto.
«Perché hai quella faccia? Al posto di cento hai preso novantanove virgola nove periodico al test?» la schernì bonariamente, nel tentativo di strapparle un sorriso.
Kiba ci provava sempre a farla sorridere, anche a modo suo, con le sue sgangherate battute, spesso senza senso, semplicemente perché non gli piaceva neanche un po’ vedere quell’ombra cupa nei suoi occhi chiari. Si sentiva quasi infastidito e insofferente come un cane quando gli veniva accarezzato il pelo al contrario con forza. Era contro natura, qualcosa che non si sforzava nemmeno di accettare e perciò improvvisava spesso e si comportava da stupido, tutto purché lei sorridesse. Nessuno a Konoha poteva dire di non conoscere le vicende che si svolgevano sotto il tetto di casa Hyuuga; era quasi di dominio pubblico e per Hinata non restava che una neanche discreta compassione da parte degli altri abitanti. Veniva quasi trattata con le pinze, perché la reazione di Hiashi Hyuuga era imprevedibile.
Lei accennò un sorriso e portò la sua attenzione sul pranzo; takoyaki.
In un attimo le venne in mente la situazione della cucina quel mattino. Nel momento in cui era entrata nella stanza per prendere il suo pranzo e recarsi a scuola aveva trovato i suoi genitori intenti a discutere fittamente, con uno sguardo preoccupato. Non l’avevano neanche degnata di attenzione e avevano continuato a discutere con serietà. Non aveva potuto attardarsi nella stanza più di quanto lo richiedesse il prendere il pranzo, ma era comunque riuscita a captare qualche parola.
Parlavano degli attacchi che stavano colpendo Konoha da quasi un mese ed era quello l’avvenimento proprio sulla bocca di tutti; la popolazione era allertata e ognuno presagiva con terrore i più truci avvenimenti che presto avrebbero macchiato ancora il paese.
Anni prima Konoha era stata lo scenario di nuove morti in seguito ad aggressioni, uguali a quelle che la stavano sconvolgendo adesso ed era stato appurato che tutto era da imputare ad un animale; per l’esattezza un lupo.
Così come era avvenuto tutto, poi era terminato e tutti avevano ripreso, pian piano, a vivere fuori dagli schemi dettati dal terrore. Allora, la paura di finire tra le fauci di quella bestia era stata alta, Hinata aveva avuto sì e no otto anni, ma ricordava le descrizioni agghiaccianti che erano state fatte delle aggressioni. Sangue, lacerazioni, morsi. Qualcosa dentro di lei le diceva che no, le voci non erano state ingigantite poi più di tanto.
Era ovvio, si disse, che il centro della discussione fosse quello: le morti che erano avvenuto per mano dell’animale erano già tre e nessuno voleva che le prossime morti prima che tutto finisse nuovamente fossero le loro o dei propri cari.
Un brivido le attraversò la schiena e Kiba se ne accorse.
«Hai freddo?»
«No… sì» esitò, incerta se quello fosse l’argomento migliore da trattare; erano a scuola, l’unico luogo in cui la paura sembrava essere stata lasciata fuori dalle mura della struttura. Lì c’erano solo alunni che imparavano e professori che insegnavano, era come se fosse rimasto l’unico posto dove si poteva ricercare nuovamente la normalità che era stata squarciata da quei tragici avvenimenti.
Tutti, però, avevano paura e quella era solo una maschera. Tuttavia, perché distruggere anche quella?
«Cosa c’è, Hinata?» chiese con la fronte aggrottata, assottigliò lo sguardo e la nota vivace venne sostituita prontamente con il sospetto e l’intento di indagare con il fine di scoprire.
«Oh, nulla, davvero» si affrettò a rispondere, conscia che se quella era una situazione difficile di cui discorrere, per Kiba e per la sua famiglia la questione rappresentava qualcosa di decisamente più complicato da gestire.
Si poteva riassumere tutto semplicemente facendo riferimento alla caratteristica di ogni umano che si trova in una condizione del genere. La paura si trasformava in un irrazionale modo di agire, benché spesso avesse basi fondate. A Konoha non erano ovviamente mancati coloro che tentavano di trovare un capro espiatorio che mettesse a tacere anche solo per un attimo i loro timori. Forse non ci credevano nemmeno, forse sì, ma restavano comunque intenti a cercare qualcuno a cui addossare la colpa. Potevano anche non essere più in un’era incivilizzata, ma la mente umana restava la stessa in situazioni come quelle.
«Ti preoccupano le aggressioni» disse semplicemente, tirandosi su a sedere. Non sembrava essere una cosa che lo impensieriva più del dovuto, ma la mascella irrigidita era segno che non era esattamente così.
Da una semplice supposizione era passata ad ipotesi, dopodiché si era trasformata in una potenzialmente sicura tesi ed infine c’era chi aveva decretato che la causa era quella: visto l’attaccamento che la famiglia Inuzuka aveva mostrato per i cani, si era giunti alla fallace conclusione che loro dovessero avere ovviamente a che fare con le aggressioni. Cani e lupi non erano forse simili? Ci si era davvero convinti che potesse essere così e ora una delle più vecchie famiglie della cittadina veniva guardata con sospetto. C’era, purtroppo, anche chi decideva di agire ed era questo che impensieriva l’Inuzuka.
Immediatamente Hinata si sentì in colpa per aver tirato fuori una argomento del genere, ben sapendo quali erano le circostanze attuali. Anche la sua famiglia spesso le aveva fatto intuire che anche loro erano propensi verso quella via di pensiero, ma lei, ovviamente, non ci credeva.
Lei conosceva Kiba e anche la sua famiglia: come potevano c’entrare?
«Mi dispiace, Kiba-kun… mi dispiace davvero» tentò di scusarsi a bassa voce, sforzandosi di rendere il suo tono di voce più convincente. Purtroppo ne uscì un flebile sussurro che le fece tingere di rosso le guance. Perché era sempre così dannatamente timida e impacciata?
«Ehi, non preoccuparti! Vedrai che tra un po’ la smetteranno!» esordì con un sorriso, come a volerla rincuorare.
Era lui a rassicurare lei, mentre Hinata sapeva che doveva essere il contrario, perlomeno in quella situazione. Ma da quando lei aveva memoria era sempre lui a cercare le parole per tranquillizzare lei, non il contrario.
«Anche se non capisco cosa dovremmo c’entrare noi… dove ce lo devo avere nascosto un lupo, sotto al letto?!» borbottò quasi esasperato e Hinata lesse nei suoi occhi socchiusi una stanchezza che andava al di là di quella fisica.
«O-ovvio che non c’entrate nulla voi! Sono loro… sono loro che cercano qualcosa che li faccia sentire al sicuro…» mormorò, cercando di mettere insieme frasi con cui svolgere il suo ruolo da amica in quel momento. Stava ripetendo ovvietà e cose già dette e si rese conto che l’unica cosa che voleva sentire Kiba era l’unica vera rassicurazione, perciò si affrettò ad aggiungere: «Io ti credo, so che non c’entri.» Non c’era esitazione nel suo tono e in un attimo Kiba fu nuovamente animato dalla sua vivacità.
«Ah, Hinata-chan, se fossi un cane adesso ti gratterei la testa!» E esordì con una sottospecie di risata che a Hinata sembrava più che altro un latrato.
Lei sorrise ed arrossì, conscia che quello era più o meno il suo modo sgangherato di dirle che la trovava tenera.
«In quel caso dovrei darti anche i croccantini…» aggiunse pensieroso, per poi saltare letteralmente su.
«Ho questi però!» Iniziò a rovistare nelle tasche della giacca che portava, dopodiché piazzò letteralmente sotto al naso di Hinata un sacchetto schiacciato e annodato male.
«Su, prendi! Li ha fatti Hana!» la informò e in un attimo gli occhi della Hyuuga brillarono letteralmente. Dolci alla cannella: lei li adorava e chiunque la conoscesse un po’ lo sapeva.
La sorella di Kiba era davvero molto brava a farli e ogni volta tramite Kiba gliene mandava un po’.
Con mano esitante li prese e con cura scartò la carta sgualcita. Già sentiva l’odore della cannella e non poté non sorridere.
«Grazie» pigolò, sotto lo sguardo soddisfatto e saputo di Kiba.
Rimasero in silenzio per un po’, mentre una lieve brezza invernale li calava completamente nel paesaggio circostante. Non c’era praticamente nessuno nel cortile, preferivano tutti starsene al caldo dentro e più volte Kiba li aveva criticati; era una persona che si adattava difficilmente alle preferenze altrui e non mancava mai di tentare di far cambiare a qualcuno la sua opinione su qualcosa.
«Credo che sia ora di andare» esordì ad un tratto Hinata, riportando entrambi nella realtà e fuori dalle loro riflessioni. Fecero per alzarsi, quando all’improvviso qualcosa li trattenne.
«Inuzuka, Hinata» esordì a mo’ di saluto una voce, che entrambi scoprirono appartenere a Shino Aburame.
Hinata mormorò un saluto, arrossendo lievemente quasi immobilizzata dalla sua presenza. Non sapeva come mai, ma quando c’era lui nei paraggi lei si sentiva sempre a disagio, quasi in soggezione.
«Aburame» disse in tono strafottente Kiba e quella volta il suo intento era davvero di voler apparire superiore. Non aveva mai negato di mal sopportare il ragazzo che ora se ne stava compostamente appoggiato all’albero poco distante da loro.
Quando era arrivato?
«Perché lei è Hinata e io sono Inuzuka?» chiese palesemente scocciato, ma nel suo tono c’era ancora una traccia di ironia, non era completamente serio e la Hyuuga ne fu felice.
L’Aburame lo ignorò totalmente.
«Sono sempre di più quelli che credono che voi c’entriate qualcosa» disse in tono monocorde, come se l’argomento fosse più che palese e avessero parlato di quello fino a quel momento.
Ciò di cui stava parlando, comunque, era ovvio, ma né a Kiba né a Hinata era chiaro il perché del suo intervento.
«Tu sei tra quelli» constatò semplicemente l’Inuzuka, tentando di mantenere quella calma che era sempre solito perdere prima tempo. Non era un ragazzo molto paziente ed era più incline all’assecondare la parte di sé che adorava mettere zizzania e lasciarsi immischiare in risse o accese discussioni. La presenza di Hinata riusciva a limitare quella sua parte impaziente, ma in fondo Kiba era fatto per il novanta percento di spregiudicatezza e per il restante di giudizio mancato.
«Che acume, Inuzuka. Capiresti le motivazioni anche tu se aprissi gli occhi» gli fece presente con pacata tranquillità.
Hinata trasalì e nemmeno lei seppe bene perché; quella frase era stata come una folata di vento troppo forte che le si era abbattuta addosso portando con sé insinuazioni che la disturbavano come un rumore molesto.
«Non me ne frega niente di quel che hai da dire, Aburame» ribatté in un ringhio, sporgendosi in avanti, con i pugni chiusi per la rabbia. Ogni cosa di lui faceva capire che quelle insinuazioni lo avevano irritato più del dovuto.
Solitamente a scuola nessuno avanzava allusioni a riguardo, era davvero una sorta di porto sicuro. Eppure Shino lo aveva appena fatto.
Hinata fu quasi tentata di intervenire, poggiare una mano sulla spalla di Kiba e chiedere a Shino di smetterla, ma era davvero bloccata. Poi lei in quella questione non c’entrava davvero nulla. I due sembravano star portando avanti una discussione che aveva un inizio radicato in ben altre questioni che certamente non avevano avuto inizio in una semplice pausa pranzo.
Fece passare il suo sguardo preoccupato da Kiba a Shino e viceversa, soffermandosi poi su quell’ultimo; sembrava il ritratto di una calma che all’Inuzuka mancava evidentemente.
Se ne stava compostamente appoggiato al tronco e osservava ciò che accadeva da dietro i suoi occhiali scuri, che portava anche se non ve ne era una reale necessità. Era così da quando Hinata lo aveva visto la prima volta, ma non aveva mai saputo il perché né se ne era interessata più del dovuto.
Forse era proprio la presenza di quelle lenti scure, che creavano una specie di muro tra il ragazzo e il mondo, ad intimidire Hinata; era come se lui fosse superiore e non si capiva mai dove guardasse.
La osservava, non la osservava, la Hyuuga non riusciva a capirlo e questo la intimoriva quasi.
«Smettila di comportarti come un animale, Inuzuka, non sei uno di loro per il momento» riferì con una sorta di ironia sommessa che Hinata non riusciva ad interpretare. Si costrinse a credere che non ci fosse altro che il riferimento alla passione per i cani del ragazzo.
Kiba non sapeva proprio cosa ribattere e si limitò a ringhiare qualcosa all’indirizzo del ragazzo; probabilmente erano improperi della peggior specie.
«Complimenti per il test, Hinata. È una fortuna che la presenza di Inuzuka non ti abbia attaccato più del dovuto» disse ad un tratto e questa volta si rivolse proprio alla Hyuuga, che sussultò sorpresa.
Si sentiva a disagio; quando si era girato verso di lei? La stava già guardando prima o solo adesso?
Forse quelle erano tutto cose a cui qualsiasi altra persona non avrebbe fatto caso, ma per Hinata erano uno scoglio enorme.
C’era di nuovo quella sottile ironia che proprio non riusciva a comprendere, ma si concentrò di più su ciò che aveva detto. Come faceva a sapere del test? Lui era un anno avanti a loro e la sua classe si trovava dal lato opposto della scuola.
Arrossì e biascicò un ringraziamento che si perse nel vento che iniziava a soffiare più pesantemente. Si stupì maggiormente quando realizzò un altro piccolo particolare che era passato piuttosto inosservato rispetto a tutto il resto.
Shino non si fermava quasi mai a parlare con qualcuno, era una persona discretamente solitaria.
Qualche volta l’aveva salutata, ma non si era mai rivolto a lei e tantomeno a Kiba. Non che lei sapesse, perlomeno.
Lo vedeva pranzare da solo e tornare a casa mai in compagnia di qualcuno; la sua era un’altra tra le famiglie più datate del paese.
«Ora puoi anche andartene, Aburame, non sia mai che uno dei tuoi scarafaggi tenti il suicidio in tua assenza» berciò sprezzante Kiba e quel tono scosse un po’ Hinata. Non fu tanto per ciò che disse, quanto più per la cadenza puramente carica di odio che utilizzò.
L’Inuzuka scoccò un’occhiata alla ragazza con la coda dell’occhio, trovandola vagamente scossa; anche se la Hyuuga non gli aveva mai detto nulla, lui l’aveva osservata e sapeva che la presenza dell’Aburame non la metteva di buon umore. Forse aveva un po’ esagerato con il tono, ma in quel momento si sentiva dell’umore per rispondere così.
Shino non rispose, ma fece qualche passò avanti, giungendo davanti a Kiba. Lui aggrottò la fronte, ma non si mosse; Hinata attese che succedesse qualcosa che però, contro ogni logica, non avvenne.
L’Inuzuka non si avventò su di lui né Shino fece qualcosa di avventato.
«Presto potrebbe essere notte di caccia. Fa’ attenzione a quel che fai, Inuzuka, fa’ attenzione a quel che fai a lei» mormorò talmente piano che Hinata non sentì l’ultima parte, dopodiché così com’era venuto se ne andò.
«Cosa…» iniziò soltanto la giovane, mentre la voce si riduceva ad un sussurrò inudibile.
Kiba si riprese subito e si voltò di scatto, mentre sul suo volto troneggiava un’espressione per lo più confusa.
«Quel ragazzo ha qualche problema qui» e si batté una mano sulla fronte.
Vedendo che Hinata sembrava anche più perplessa di lui, esordì con una risata – il solito latrato di Kiba, per intenderci.
«Hinata, hai davvero una faccia buffissima! Akamaru converrebbe con me» annuì con un sorriso malandrino, non prima di averle messo un braccio sulle spalle e strinta a sé. Il tutto, ovviamente, con una grazia mancata tipica del ragazzo.
Le guance della Hyuuga, ovviamente, si tinsero di un leggero rosso, ma in cuor suo fu più che felice di quella dimostrazione di normalità, che sembrava essere stata minata completamente dall’incontro con l’Aburame. Erano sempre piuttosto pesanti gli attacchi rivolti dagli altri nei confronti dell’Inuzuka, ma quello sembrava avere un qualcosa di sottinteso che era difficile comprende per tutti.
«Su con la vita! Quello è solo un idiota, nulla di cui preoccuparsi. Probabilmente ha solo qualche insetto di troppo nel cervello» disse sghignazzando, facendo riferimento a quella che era la reale passione di Shino.
Non era certamente un mistero che trovasse interessanti gli insetti, ma molti l’avevano ritenuta quasi una cosa insana, giudizio che Hinata riteneva completamente sbagliato. Non conosceva Shino, ma a prescindere non apprezzava che la gente venisse criticata senza sapere come in realtà stavano le cose. Guardò per un attimo l’amico di sottecchi e vide che nei suoi occhi vispi era calata un’ombra scura che faceva comprendere perfettamente ad Hinata quanto in realtà fosse anche solo scocciato dall’incontro con il ragazzo. Per lei era un libro aperto e viceversa; non sapeva nemmeno lei se nel suo caso fosse una buona o una cattiva cosa che il ragazzo comprendesse tutto di lei.
«Ehi, ma di che test parlava scusa?» chiese ad un tratto, mentre ancora la teneva stretta.
Il continuo cambio di discorso, per allontanarsi quanto più possibile da ciò che era appena accaduto, non passò inosservato alla Hyuuga. Non glielo fece notare né quello era il suo intento.
«Di inglese.»
«Cento, come al solito! Ah, la mia Hinata!» disse e sembrava quasi un padre orgoglioso della figlia. Così dicendo si incamminarono per tornare nella scuola.
Hinata non disse nulla e assecondò la sua volontà di dimenticare quanto successo, ma in un secondo momento si ricordò che un altro frammento di discussione che aveva sentito tra i suoi genitori conteneva il nome della famiglia Aburame.


***


Quello stesso giorno Hinata era solo passata da casa per lasciare la cartella e avvisare qualcuno che quella sera si sarebbe fermata a casa di Kiba. Da quel punto di vista, il disinteresse dei suoi famigliari nei suoi confronti era una maggiore possibilità di fare ciò che voleva, ma lei non era interessata ad approfittare della situazione. Quando usciva avvisava, chiedeva anche il permesso come ogni figlia che si rispetti, benché sapeva che la risposta sarebbe stata sempre sì. Forse per loro era una liberazione, ma non si soffermava più del dovuto su quell’aspetto.
In più, se fosse uscita senza chiedere, Hiashi avrebbe trovato un pretesto per far valere la sua opinione negativa sulla figlia e quella non era una cosa che Hinata voleva. In cuor suo la ragazza sperava ancora che, con buoni comportamenti e altro, un giorno sarebbe stata vista con occhi migliori dal padre. La madre non era completamente contro di lei, semplicemente si comportava con una freddezza nei suoi confronti che forse era peggio del modo di fare di Hiashi.
In quel breve lasso di tempo che aveva passato in casa, comunque, aveva avuto modo di parlare proprio con sua madre, che l’aveva fermata nell’atrio.
«Hai detto che esci, dove vai?» chiese, ma era una domanda scontata e quasi inutile.
Si poteva quasi dire che Hinata facesse la spola da casa sua a quella di Kiba, dove riceveva sempre un’accoglienza calorosa e un benvenuto pieno di dolci alla cannella. L’Inuzuka, invece, non poteva di certo fare la stessa cosa; anche se non si contavano quei maligni pregiudizi nei confronti della sua famiglia, gli Hyuuga erano noti a Konoha proprio per la loro ristretta e ben selezionata cerchia di conoscenti. Mal sopportavano con neanche troppa indiscrezione il fatto che Hinata frequentasse qualcuno che non ne faceva parte, ma non si opponevano più del necessario.
«Da Kiba» rispose semplicemente e avrebbe tanto voluto che, per una volta, il suo tono non suonasse così pieno di colpe o facilmente discutibile.
Le sarebbe piaciuto davvero tanto poter difendere la sua amicizia con il giovane di fronte alla sua famiglia, che era palesemente schierata contro di loro.
«Hinata, tesoro, sai cosa ne pensiamo» le fece presente e, per un attimo, in quel ‘tesoro’ Hinata ci vide davvero un po’ di preoccupazione e interesse per la figlia. Forse non era motivato correttamente, era qualcosa di ipocrita che si trovava dietro quelle parole, ma c’era quel fantasma di maternità che la Hyuuga cercava disperatamente in ogni parola.
Era più che convinta, inoltre, che la madre, in fin dei conti, non avesse colpe; semplicemente pensava alla famiglia, al volere di suo marito. Forse nemmeno Hiashi era da biasimare e quella era una considerazione che si ripeteva spesso; anche lui si occupava solamente di tenere alto il vanto della famiglia, lei era solo una piccola eccezione, come potevano tenere conto di lei se c’era in ballo qualcosa di ben più grosso?
Kiba le aveva fatto notare svariate volte e con una certa enfasi che non si poteva anteporre qualcosa ad una figlia, neanche se si trattava di tutta la famiglia. Bisognava trovare dei compromessi.
Hinata alla fine era giunta alla conclusione che una compromesso lo aveva trovato lei, nella sua testa; non contraddiceva il padre e continuava per la sua strada, certa che un giorno avrebbe trovato il suo posto da qualche parte. Aveva Kiba, andava bene così. Forse, poi, le cose sarebbero anche cambiate, ma per il momento sopportava la questione.
«Io non la penso come voi» mormorò, ma fu fiera di sé poiché non aveva abbassato lo sguardo. Non aveva lasciato che i lunghi capelli le coprissero il volto né che gli occhi fossero nascosti dietro la frangia scura.
«Non sono una buona compagnia, gli Inuzuka. Kiba non lo è, dovresti darci ascolto.»
Di nuovo quella piccola nota di apprensione che smosse qualcosa dentro Hinata. Non voleva darvi adito, lei conosceva Kiba e sapeva cosa era meglio per se stessa.
«Io li conosco… lo conosco… non sono cattivi, non potrebbero» esitò per un attimo, ma non si lasciò abbattere nemmeno dalle guance che sembravano pungere sotto degli spilli, segno che erano divenute rosse.
«Ogni cosa sembra riportare a loro» le fece presente, quasi lei stessa avesse compassione della figlia. «Non c’è nulla, solo i pregiudizi» asserì candidamente, conscia che forse avrebbe semplicemente dovuto dare ascolto alla madre per quella volta, assecondarla e poi riprendere come sempre quella che era la sua quotidianità.
«Hinata, gli Inuzuka non sono benvisti» iniziò e il tono si era fatto duro. Non ebbe tempo di finire la frase, che una terza voce – questa volta maschile – si intromise nella discussione.
«Vuoi forse portare altra vergogna su questa famiglia frequentandoli?» il tono era secco, imperioso e austero.
Hiashi Hyuuga si trovava alle spalle di Hinata e la fece sussultare vistosamente. Sia le parole sia il tono avevano avuto un effetto devastante sulla tenacia che Hinata aveva ostentato fino a quel momento.
«Loro c’entrano qualcosa e c’è chi se ne sta già occupando. Ora ti conviene andartene in camera tua» continuò come se le sue parole avessero un potere ipnotico sulla figlia, che adesso avrebbe fatto esattamente come le era stato detto.
Lei, però, non si mosse. Per un attimo la sua mente le fece presente che era quello il motivo per cui la madre non voleva che lei andasse; semplice apparenza familiare.
«Avresti dovuto frequentare qualcuno come Aburame, non un randagio come quell’Inuzuka. Non mi stupisce, però, che le cose siano andate così» aggiunse e il tono era tagliente, tanto che Hinata sentì come una sferzata di rancore abbattersi sulla sua schiena. Non aveva avuto il coraggio di voltarsi, quelle parole l’avevano letteralmente inchiodata a terra.
«Cosa… cosa c’entrano gli Aburame?» Hinata mise da parte le offese, lasciò correre tutto quello che stava succedendo, che era di per sé piuttosto strano e si concentrò su quel qualcosa che l’aveva tormentata tutto il giorno.
«Sono persone rispettabili» le concesse di sapere, ma era altro che interessava ad Hinata.
Voleva sapere cosa si stavano dicendo a riguardo i genitori quel mattino, voleva venire a conoscenza di cose che, evidentemente, non la riguardavano.
«Va’ in camera tua» la riprese semplicemente allora e Hinata si voltò verso di lui.
«Perché sono tanto importanti?» chiese, ma lo sguardo non era puntato in quello del padre. Non riusciva nemmeno a credere di essere lei a parlare.
«Hinata…» la ammonì sua madre.
«Non credo siano cose che tu debba sapere.»
«Loro… se ne occupano» sussurrò semplicemente e trasalì al lampo di ira negli occhi di Hiashi. C’era anche un qualcosa che le fece capire di aver ragione; la famiglia di Shino sapeva qualcosa riguardo alle morti ed era ancora quella che stava provvedendo a mettere fine a tutto.
Non avevano prove però… non potevano fare nulla alla famiglia di Kiba se non avevano qualcosa che confermasse tutto.
Un conato di vomito le mozzò il respiro. Mosse qualche passò verso il padre, verso l’uscita di casa. Sapeva cosa voleva fare.
«Va’ in camera tua Hinata. Ora.» Non ammetteva repliche.
La Hyuuga lo superò senza guardarlo in faccia. Sapeva di avere lo sguardo di sua madre su di sé e che Hiashi stava per perdere la pazienza.
«Hinata!» urlò brusco, al che la ragazza iniziò a correre sotto i richiami irati di suo padre.




La seconda parte di questa storia la posterò domandi per il semplice motivo che sarebbe venuta troppo lunga tutta insieme… e poi perché non l’ho finita, sì, ma facciamo finta di niente!*fischietta*
Ammetto di non aver mai trattato tutto il team otto e mi sono anche resa conto di non saperli gestire un granché; il fatto che sia un’Au non aiuta!XD
La canzone utilizzata per questo capitolo è Night of the hunter dei 30 second to Mars.
Non ho altro da dire se non che spero possa piacere e non sia un totale disastro da cestinare all’istante!XD
Oh, sì, quelli che leggete sono proprio accenni Kiba/Hinata, yep!*fugge*

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Capitolo 2
*** Fullmoon ***


Fullmoon



She should not lock the open door
(run away, run away, run way)
Fullmoon is on the sky and He's not a man anymore
See the change in Him but can't
(run away, run away, run away)
See what became out of her man... Fullmoon.

[Fullmoon – Sonata Arctica]





Hinata aveva corso senza fermarsi un attimo fino a casa di Kiba e l’unica cosa che c’era nella sua mente era il desiderio di giungere fino dagli Inuzuka. Sapeva di aver tenuto un pessimo comportamento in presenza del padre e che una volta tornata a casa quella sera Hiashi non gliel’avrebbe fatta passare liscia, ma in quel momento l’unica cosa che le importava era allontanarsi dalla tenuta degli Hyuuga. In verità, una parte di lei si sentiva quasi in colpa per l’atteggiamento avventato che aveva tenuto, ma ormai era tardi per ripensarci ulteriormente. Con uno sforzo immane relegò in un angolo della sua mente quella piccola parte di lei che continuava a chiedersi se sua madre non avesse avuto altre motivazioni – come l’affetto e non l’apparenza – per fermare la figlia quel pomeriggio.
Con il petto che doleva e la testa che sembrava in procinto di scoppiare, Hinata rallentò la sua corsa fino a fermarsi davanti ad un grande portone di legno scuro. Si appoggiò sulle gambe che sentiva deboli come non mai. Se possibile avrebbe preferito non arrivare mai più a correre con tanta lena, il risultato faceva tanto male nel ricordo anche quando iniziava a svanire.
La tenuta degli Inuzuka era davvero molto vasta; non ci viveva solo una famiglia, ma praticamente tutti; era un sorta di cascina e tutti erano legati in quel punto. Non aveva mai ben capito perché; gli Hyuuga, per esempio, benché vantassero un’unità familiare priva di falle, non abitavano nella stessa struttura, come un unico grande quartiere. Nella stessa zona, quello sì, ma non più di così. Era come se gli Inuzuka avessero tenuto quelle usanze tipiche dei clan – cosa che vantava di essere in epoche precedenti – e che perciò vedeva tutti i membri legati tanto gli uni agli altri da dover condividere lo stesso territorio. Vivevano in case diverse, certo, ma queste erano tutte vicine.
Anche quella era una cosa molto criticata – «Sembrano un branco. E chi è che sta in branco? Un lupo, in branco con altri lupi!» –, ma ad Hinata piaceva. Tutto dava davvero un senso di unità e non era solo apparente come quella che era abituata a conoscere lei.
Sobbalzò per lo spavento quando sentì contemporaneamente un rumore di passi secchi alle sue spalle e il cigolio del vecchio portone che si apriva.
Davanti si trovò la faccia sorridente di Kiba, ma voltandosi incontrò dei volti a lei sconosciuti.
«Ehi, finalmente sei arrivata! Akamaru era… oh, merda» borbottò, portando immediatamente la sua attenzione sulle tre persone dietro ad Hinata. In uno scatto si portò affianco alla giovane a fronteggiare coloro che erano appena arrivati.
Hinata sapeva cosa volevano, non era di certo la prima volta che un comizio di poche persone fronteggiava con velenose accuse un membro di quella famiglia. I pregiudizi erano più facili da sbandierare che andare in cerca della verità.
Guardò di sottecchi Kiba, trovandolo intento a fissare ad occhi socchiusi i tre uomini e vi lesse quella che era palese scocciatura; più volte si lamentava di quegli ‘attacchi’ subdoli come una grande perdita di tempo ed era vero; all’Inuzuka non davano reale fastidio, più che altro lo scocciavano.
Dalla sua parte, infatti, il ragazzo aveva la verità. Sapeva di non c’entrare nulla con le morti, nessuno della sua famiglia aveva a che fare con i lupi e perciò nessuno poteva avanzare accuse.
«Mi pare che abbiate già detto abbastanza a mia sorella oggi» li schernì con il solito sorriso malandrino, ma c’era rigidità nei suoi movimenti.
A quanto pareva per quel giorno i tre si erano già fatti vedere dagli Inuzuka, convenne Hinata, già piuttosto preoccupata per la piega che avrebbe potuto prendere la situazione.
«Evidentemente non siamo stati abbastanza chiari» disse burbero, con l’aria di chi sa tanto da poter stare su un gradino più su rispetto agli altri.
«Hana veramente ha fatto capire molto bene al vostro amico l’importanza che hanno i gioielli di famiglia» e qui non poté non esordire anche con una risata piuttosto divertita.
Hinata non riuscì proprio a non immaginarsi la scena descritta da Kiba, perché conosceva abbastanza Hana e sapeva che era davvero una ragazza in grado di fare una cosa del genere. Più volte, per prendere in giro il fratello e metterlo in imbarazzo, aveva detto ad Hinata che era inutile cercare virilità in Kiba: le palle che non erano state date a lui le aveva lei.
Secondo Hinata quella ragazza era davvero un mix di forza ed eleganza; anche Kiba le voleva bene, benché più volte si lamentasse di lei. Tipico di ogni fratello che si rispetti.
I tre parvero irritarsi molto alla sua ultima insinuazione e sembravano pronti a scagliarsi contro Kiba. «Ve lo ripetiamo ancora, magari prendete il suggerimento sul serio; andatevene subito o finirete bruciati insieme ai vostri cagnacci» ringhiò e Kiba fremette.
Hinata sussultò; quelle minacce erano rudi e volgari, inudibili e la cosa che la sconvolgeva maggiormente, oltre alla reale possibilità che fosse fatta un’azione avventata, era il fatto che qualcuno avesse realmente detto una cosa del genere. La paura a quel punto non era più una scusante, benché fossero in un’era moderna tutto quello che stava accadendo dimostrava ampiamente il contrario. Le minacce, i pregiudizi così tendenziosi e la necessità di scaricare il peso su qualcun altro, tutti segni di una mentalità chiusa e spaventata.
«Uno di quei cani potrebbe venire a mordervi il culo se non ve ne andate!» sbottò con rabbia e Hinata, senza nemmeno pensarci, poggiò una mano sul suo braccio, come a voler contenere la sua rabbia.
«Kiba-kun…» mormorò, mentre lui si voltava verso di lei, con un sorriso allegro sul volto, nettamente in contrasto con quanto appena detto e al tono.
«Non è ingraziandoti una Hyuuga che risolverai la questione» gli fece presente con odio l’uomo a sinistra di quello che aveva parlato fino a quel momento. L’altro non aveva ancora aperto bocca. «Io non mi sto ingraziando nessuno.»
«In più lei non è nemmeno una vera Hyuuga, è lo scarto» asserì velenoso uno dei tre.
Quelle parole colpirono come una frustata Hinata, ma a reagire con veemenza fu Kiba, che sembrava averne risentito anche di più.
«Brutti bastardi!» iniziò con il chiaro intento di lanciarsi contro di loro, che indietreggiarono, colpiti da quello scatto.
Hinata fu quasi tentata di chiudere gli occhi per evitare di vedere.
«Sta’ fermo, razza di idiota! Possibile che fai sempre di testa tua?»
La mano affusolata di Hana Inuzuka si poggiò con forza sulla spalla del fratello, che si voltò sorpreso; presa com’era dall’osservare con terrore quanto stava per accadere, Hinata non si era accorta del suo arrivo.
«Hana! E tu che ci fai qui?» Kiba sembrava quasi offeso.
«Sono venuta a fermare una testa di rapa che sa solo fare cose stupide» lo rimbeccò secca, voltandosi poi verso la Hyuuga e sorridendole con calma.
«Ciao, Hinata! Ho fatto i dolci alla cannella!» esultò, come se la cosa più importante in quel momento fosse quella.
Aveva, in un singolo e solo attimo, alleggerito la tensione che c’era nell’aria, tanto che ora al posto delle urla irate di Kiba c’erano solo i suoi lamenti sommessi per l’arrivo di Hana – tempestivo e azzeccato, secondo Hinata.
«Me la sarei cavata anche da solo» le fece presente con un cipiglio rabbioso.
«Oh, certo, saresti riuscito a far svenire Hinata per l’ansia, quello è sicuro» disse e vide Kiba arrossire; sul volto della ragazza si era disegnato lo stesso ghigno che spesso assumeva l’Inuzuka. Malandrino, ma meno arrogante di quello del fratello.
«E voi, perché non ve ne andate semplicemente? Non vorrei evirare qualcun altro, ma se la situazione lo richiede…» e con un gesto della mano fece intendere che beh, lo avrebbe fatto così come aveva messo ko l’altro loro compare.
Incuteva anche un po’ di timore, pensò Hinata; i tre borbottarono qualcosa e l’unica cosa che giunse alle orecchie dei tre fu un «bestie».
Kiba fu nuovamente pronto a lanciarsi sui tre, che ora erano di spalle, intenti ad andarsene, ma Hana gli mollò uno scappellotto anche piuttosto forte.
«Si può sapere che ti prende oggi? Sei un incosciente!»
«Se li avessi sotto mano gliela farei vedere io!» ribatté fiero di sé, ignorando la sorella.
«Le loro sono solo parole senza fondamento, devi lasciarli perdere. Non è aggredendo tutti che passeremo inosservati e poi se non abbiamo colpe di che dobbiamo preoccuparci?»
Lui non rispose e la ragazza continuò: «Non ci sono state più aggressioni da qualche settimana, probabilmente di questo passo inizieranno anche a scemare le voci.»
«Non è questo il punto, Hana! Attaccano spesso anche mamma e papà! Non hanno il diritto di chiamarci bestie e poi–»
Hinata, benché fosse una discussione tra i due e lei non c’entrasse nulla, decise di intervenire, completamente d’accordo con Hana. Non voleva che Kiba si cacciasse nei guai. Anche se non poteva comprendere appieno il loro stato d’animo in relazione a quanto stava accadendo voleva arginare la rabbia dell’Inuzuka e convincerlo a desistere dall’attaccar briga a destra e a manca.
«Hana ha ragione, Kiba-kun… cioè, non hanno prove… non metterti nei guai per delle cose non vere» terminò, abbassando lo sguardo quando non riuscì più a reggere quello forte di Kiba su di sé.
Lo aveva forse fatto arrabbiare con ciò che aveva detto?
«Aaaah, Hinata! Senza te e Akamaru sarei perso!»
In un attimo, la Hyuuga si ritrovò stritolata in quanto di più simile ad un abbraccio Kiba riuscì a simulare e non poté non spalancare gli occhi, completamente sorpresa. Racchiusa in quella morsa, senza potersi muovere, percepiva la risata di Kiba risuonare nel suo petto e comprese che ora non c’era più ira nelle sue intenzioni.
«Ah, quanto siete melensi! Kiba, levati dai piedi e va’ a fare qualcosa di utile, io mi prendo Hinata e la salvo da un troglodita come te» borbottò con finta acidità, strappando la Hyuuga dalla presa di Kiba, che assunse involontariamente l’espressione di un cagnolino a cui hanno tolto l’osso di gomma preferito.
«Ma io avevo fatto venire Hinata per farla stare con me!»
«E invece starà con me che non la vedo da un sacco! Tu la vedi a scuola ogni santo secondo, sarà stanca di vedere la tua brutta faccia» lo rimbeccò con un’occhiataccia.
Hinata se ne stava in mezzo ai due che discutevano esattamente come fratello e sorella; in cuor suo non poteva negare di sentirsi felice a quelle attenzioni che le dedicavano, tanto da contendersela, seppur per gioco.
«Smettila di rompere e vai a pulire la cacca dei cani» così dicendo prese Hinata e se la trascinò via, mentre la giovane Hyuuga biascicava un saluto all’indirizzo dell’amico.
Lo lasciarono indietro fuori dal cancello mentre borbottava qualcosa come «ma l’hai vista ieri». Per fortuna, in un baleno giunse a fargli compagnia il fedele Akamaru.


***


Hinata aveva passato un gran bel pomeriggio a casa Inuzuka quel giorno, tanto da dimenticarsi per tutto il tempo trascorso con quella famiglia i problemi che si era lasciata dietro con la propria. Non voleva pensarci, non mentre mangiava i dolci di Hana, non mentre Kiba faceva incursioni in casa per scherzare con lei e infastidire la sorella. Non mentre si trovava a discutere di cose normali come la scuola, i voti, le vacanze natalizie e tutto tranne di ciò che stava accadendo. Non avevano più parlato di quanto successo fuori, eccetto per un breve e dettagliato racconto su come sempre quei tizi avessero infastidito Hana al ritorno dalla clinica veterinaria dove lavorava al centro di Konoha e lei gli avesse dato il ben servito di cui aveva già sentito parlare.
L’avevano invitata a fermarsi a casa loro per cena e aveva accettato con risolutezza e senza prima aver detto di voler avvertire qualcuno; gli sguardi che le avevano lanciato Kiba e Hana l’avevano fatta sentire tremendamente strana e quel qualcosa che si agitava dentro di lei si era fatto più palese. Si sentiva in colpa per il comportamento che continuava a tenere, ma erano successe troppe cose in un solo giorno e lei aveva fatto delle scelte di cui certamente non si pentiva, ma semplicemente doveva ancora assimilare. Era anche la prima volta che si fermava a cena a casa loro, benché vi passasse la maggior parte dei pomeriggi.
«Brava Hinata! Finalmente fai vedere chi sei!» aveva ululato Kiba in risposta e da li sembrava aver avuto inizio una catena di eventi che aveva portato fino alla silenziosa cena che stavano consumando in silenzio quella sera.
«Fa bene a ribellarsi a Hiashi, ma di certo non deve diventare una pazza spericolata come te! Stare con te la travierà verso il male!» aveva sbottato seccata Hana, mentre iniziava a preparare la cena.
Kiba, di rimando, seduto su una delle sedie intorno al tavolo accanto ad Hinata aveva sbuffato sonoramente: «Anche tu con ‘sta storia? Io non travio nessuno, Hinata ha una sua testa! Io la indirizzo solo verso scelte più consone!»
«Certo, costringerla è proprio sinonimo di indirizzare!»
Mentre l’ennesimo battibecco prendeva piede, Hinata si era sentita in dovere di rassicurar Kiba, felice di ciò che aveva detto su di lei. Il suo modo di esprimersi non era mai propriamente aulico, forse non sceglieva le parole giuste e tutto il resto, ma riusciva sempre a rincuorarla o spronarla con pensieri anche piuttosto profondi.
«Non dovresti dare ascolto a Shino» disse quasi incerta, con un tono di voce calmo e pacato. Hana smise di tagliare le verdure e per poco non fece cadere il coltello per terra.
«Shino chi?» chiese in tono tagliente e circospetto.
«Aburame, scema, quanti Shino conosco? Sai, quello con gli occhiali e che sembra uno stalker maniaco…» soffiò con fare annoiato, mentre prendeva a distruggere la tovaglia, sfilacciandola.
«So chi è» il tono seccato che utilizzò fece distogliere l’attenzione di Kiba dal suo passatempo.
«Si può sapere che ti prende?»
«Stanne alla larga» asserì semplicemente e subito dopo si pulì velocemente le mani sullo strofinaccio e fece per uscire dalla stanza. «Devo parlare con mamma o papà» ripose alle occhiate confuse e confuse dei due rimasti nella stanza.
«Non ci sono, sono a Suna per non so bene quale cagata, non te l’hanno detto?»
Lei aveva per metà imprecato sotto lo sguardo di Hinata e Kiba; il secondo sembrava particolarmente intento a studiare ogni movimento della sorella, come se da esso potesse comprendere cosa la turbasse. Hinata, dal canto suo, aveva ipotizzato che non voleva parlasse con lui visto che gli Aburame erano più o meno a capo di coloro che sostenevano che il lupo che uccideva la gente nei boschi di Konoha avesse a che fare con gli Inuzuka.
Ricordava anche che, tempo prima, suo padre aveva argomentato la sua posizione in merito – contro la famiglia di Kiba – affermando che un cane non era poi tanto dissimile da un lupo e un cane mal addestrato poteva divenire facilmente selvaggio. Aveva anche detto che nessuno sapeva quanti cani potessero allevare in quella loro grande cascina fuorimano, ma Hinata una volta ci era andata. Con Kiba. C’erano solo cani normali e giocosi che venivano allevati dalla famiglia, per poi venire venduti o regalati.
Nulla di più.
Da quel momento in poi la discussione si era limitata a monosillabi e poco prima di cena Kiba e Hinata erano andati a fare una passeggiata nella loro tenuta dietro la casa.
Fuori il tempo non sembrava voler migliorare e man mano che le ore passavano il cielo si faceva sempre più buio. Alle otto, quando raggiunsero Hana per la cena, era già completamente buio, ma i nuvoloni impedivano alla luna e alle stelle di essere viste.
«Hana, vuoi dirmi che diavolo ti prende?» sbottò ad un tratto, mentre tutti e tre se ne stavano intorno al tavolo a mangiare le pietanze cucinate dalla maggiore degli Inuzuka.
Lei portò la sua attenzione su di lui e lo guardò come se non capisse; Hinata, così come Kiba, vide immediatamente quella luce guardinga negli occhi dell’Inuzuka.
«Perché hai reagito così quando ho detto di Shino?»
Diretto e conciso, tipico di Kiba.
Lei strinse le labbra e fece tintinnare la forchetta nel piatto, soppesando parole che sembravano difficili da pronunciare.
«Perché sai che la loro famiglia non ci vede di buon occhio.»
«Non lo hai forse detto tu che non è importante quel che dicono?» le chiese di rimando, con un mezzo sorriso pregno di un’ironia passiva.
«Non è un buon motivo per frequentare gente che la pensa così» asserì con un tono che voleva far intendere che la questione era chiusa lì.
Evidentemente Kiba non la pensava allo stesso modo e riprese a parlare, mentre Hinata occupava il suo posto in silenzio e con gli occhi che scattavano da un’Inuzuka all’altro. Si sentiva quanto mai un’esclusa e quella sensazione di disagio prendeva sempre più piede in lei.
«Eravamo amici una volta, io e lui» le fece presente, come se ciò avrebbe cambiato le carte in tavola.
Hana non rispose, ignorando il fratello che la osservava in attesa e continuando a mangiare.
Intanto la Hyuuga si chiedeva come mai il nome degli Aburame fosse destinato a uscire spesso nelle discussioni di quel giorno; avevano un ruolo importante in qualche questione, ma qualcosa le diceva che andava ben oltre i possibili pregiudizi verso gli Inuzuka.
Non ricordava nemmeno che i due fossero stati amici, ma per quanto ne sapeva erano anni che non si parlavano; Hinata addirittura credeva che non si conoscessero.
«Non lo so Kiba!» scattò allora, stanca di dover sottostare a quella pressione psicologica messa in atto dal fratello, con l’intento di farla parlare. «Chiedi a mamma e a papà, loro me lo hanno detto!»
«Tu per caso li vedi in casa?»
«Ovvio che no, stupido, aspetta che tornino e rompi le scatole a loro!» era esasperata, si capiva benissimo, ma in quelle ultime poche battute sembrava essere tornata una calma che prima era stata annientata dalla tensione portata dall’argomento.
Continuarono con le loro frecciatine durante tutta la cena, ma non ripresero l’argomento; così come era iniziato – di colpo – era finito. Di tanto in tanto chiamavano in causa la Hyuuga e il resto della serata passò tranquillo e in totale calma.
Verso le nove, Hana annunciò di avere da fare alla clinica; il proprietario di un cane aveva chiamato, reclamando l’aiuto di una veterinaria. La Inuzuka non se lo era fatto ripetere due volte, affermando che avrebbe fatto piuttosto tardi. Ad Hana non dispiaceva particolarmente fare i turni di notte né dover stare a lavorare fino ad orari improponibili; salvo rare eccezioni, il suo lavoro la soddisfaceva veramente e non aveva motivo di lamentarsi.
«Non distruggere la casa o ti farò scavare la tua tomba con i denti» lo minacciò prima di uscire e ricordando ad Hinata per l’ennesima volta il luogo in cui poteva trovare i suoi dolci.
«Che racchia, portati un ombrello, altrimenti poi ti bagni e rompi le scatole per un’intera settimana» le fece presente svogliatamente, mentre faceva zapping alla televisione, seduto in maniera piuttosto stravaccata di fianco ad Hinata.
Quella sera si sentiva davvero molto stanco.
«Uh, è vero, è davvero nuvoloso. Non si vede nemmeno una stella!» si lamentò; detto ciò, prese ed uscì. In casa rimasero solo loro due, in una stanza illuminata soltanto dal bagliore colorato dei vari canali che Kiba faceva passare svogliatamente uno dopo l’altro.
«Cavoli, ‘sta sera sono davvero distrutto!» ed esordì in un sonoro sbadiglio, seguito subito dopo da quello di Akamaru, accucciato ai suoi piedi.
«Se vuoi vado» gli fece presente con una punta di imbarazzo nella voce.
Fino a quel momento non ci aveva fatto particolarmente caso, non davvero perlomeno, ma aveva davvero passato la serata fuori casa senza avvertire nessuno; ora era notte, completamente buio e tornare a casa da sola forse sarebbe stato un problema. Non si era mai azzardata a dire di essere una ragazza coraggiosa, anzi. Il minimo rumore, anche quello più giustificabile, se sentito nel momento sbagliato poteva avere effetti devastanti.
«Non dire idiozie! Non devi darla vinta a quel capellone! Se vuoi possiamo anche mandargli dei biglietti minatori in cui diciamo che i cattivi Inuzuka, mezzi lupi mezzi cani, hanno rapito la tenera Hinata che ora…» e qui abbassò la voce, per dare più pathos alla situazione.
La Hyuuga attese di sentire la fine della frase; sapeva che da Kiba non poteva aspettarsi nulla di serio. «… che ora sta digerendo un pasto cucinato dalla donna-lupo-cane Hana Inuzuka! Anche mezza racchia, ma forse lei l’hanno scambiata all’ospedale prendendo le sue piume da corvaccio per dei peli di cane…» aggiunse pensieroso, mentre Hinata sorrideva.
Senza Kiba non sapeva proprio come avrebbe potuto fare per passare le sue giornate senza sprofondare nella tristezza. Forse non tutti riuscivano a comprendere il ragazzo, ma ogni cosa che usciva dalla sua bocca aveva il potere di risollevare l’umore di Hinata, di farla ridere e distrarre.
«Kiba-kun… davvero tu e Shino siete stati amici?» chiese ad un tratto Hinata, portando a galla quello che era stato il suo chiodo fisso per tutta la serata.
Lei, prima di incontrare Kiba, non aveva mai interagito quasi con nessuno, si era semplicemente limitata a guardare da fuori, osservando qualcosa che non riusciva a raggiungere. Kiba lo aveva visto alcune volte, ma non vi aveva mai davvero fatto caso. Non sapeva nulla riguardo alle sue precedenti amicizie e, per quanto riguardava quelle attuali, praticamente passava tutto il suo tempo con lei, ma sapeva che in classe aveva stretto amicizia con Naruto Uzumaki.
Non sapeva altro.
Kiba la guardò per un attimo, prima di riportare la sua attenzione sulla televisione davanti a lui. Era stato per un singolo attimo, ma nei suoi occhi solitamente ironici e indagatori aveva letto una nota di quella che la Hyuuga aveva riconosciuto come malinconia.
«Eravamo amici all’asilo, poi per un po’ nel periodo delle elementari, ma dopo ha smesso di parlarmi» denocciolò brevemente, senza mettere particolare enfasi o sentimento in ciò che diceva. Sembrava non importargli nulla di ciò che aveva detto, ma Hinata lo conosceva da tempo e sapeva che mentiva.
Era qualcosa che lo disturbava ancora in qualche modo; strinse le labbra, dispiaciuta di aver portato a galla questioni che per lui erano fonte di tali sensazioni.
«Ehi, perché quella faccia? Non è mica morto nessuno! Semplicemente i suoi amati insetti saranno stati allergici al pelo di cane e chi non metterebbe dei moscerini prima di un amico?» sghignazzò, tentando di alleggerire la situazione.
Non poteva ingannare Hinata, perché il latrato che in quel momento stava spacciando per la sua solita risata allegra non raggiungeva neanche gli occhi e quello diceva tutto.
«Mi dispiace…»
Era vero, era davvero ciò che provava Hinata, ma in quel momento si sentiva particolarmente stupida; voleva esprimere conforto per l’amico, fargli capire che era dalla sua parte, che lei c’era, ma non sapeva quali parole usare. Non sapeva come esprimersi, come gestire quella situazione e come comportarsi da amica. Riusciva a dire un semplice ‘mi dispiace’, sia per la sua situazione con Shino sia per quanto stava succedendo in quel periodo.
«Dai, su, è storia vecchia. Era ovvio che sarebbe successo, ha smesso di rivolgermi la parola nel periodo in cui ci sono state le prime aggressioni. Poteva, da buon Aburame, parlare con uno dei membri della famiglia che si tiene un lupo buono buono sotto al letto?»
La risata era scomparsa e nel suo tono c’era solo una vaga rassegnazione.
«Su, che sarà mai? Ci sei tu adesso! » Così dicendo, mentre Akamaru abbaiava festoso, fece per avventarsi su di lei, già con le guance rosse per l’imbarazzo, ma si fermò subito dopo: «Non è che sei allergica al pelo di cane, vero?» Il sopracciglio inarcato e l’espressione seriamente incuriosita, come se quella fosse una questione a cui era necessario trovare risposta, fecero ridere Hinata che esordì con un suono basso e misurato.
«Aaaah, Hinata, sei tenera come un cucciolo!» disse abbracciandola finalmente, scuotendo anche Hinata con la sua risata fresca a potente.
Rimasero a parlare a lungo, di cose che non avevano il minimo nesso tra di loro, senza rendersi conto che il tempo passava.
Da casa di Hinata non si era fatto sentire assolutamente nessuno, ma la Hyuuga sapeva che era giunto il momento di tornarci. Volente o nolente quella era davvero una cosa che andava fatta e non poteva evitarlo.
«Credo sia ora di andare» pigolò ad un tratto, mentre Kiba e Akamaru improvvisavano un valzer in mezzo alla camera dell’Inuzuka. Il cane arrivava giusto alla testa del padrone, tanto che si divertiva a fare un passo avanti, uno indietro e tre leccate in faccia a colui che gli stava davanti.
«Cosa? Ahia, Akamaru! Ti ho detto che lo schema è un-due-tre, un-due-tre, non leccata-un-pestata-due-altra-leccata-tre! Perché a casa?» disse, questa volta rivolto alla ragazza.
«Beh… è tardi, dovrei andare davvero. Ci vediamo domani» aggiunse quasi a mo’ di scusa, viste le due facce abbacchiate che la osservavano – una, in verità, era un muso.
«Resta un altro po’! Tanto Hiashi non ha ancora mandato la cavalleria e poi il lupo non lo sguinzaglio fino a mezzanotte!»
«Sono le undici e quaranta, Kiba-kun» gli fece bonariamente presente, alzandosi dal letto e andando incontro alla coppia di ballerini.
«Ah. Merda. Ok, se proprio ci tieni ad andare ti accompagno però» asserì e quella non era certo una proposta.
In nessun caso Hinata si sarebbe sognata di rifiutare. Poi, tra l’altro, Kiba era solito riaccompagnarla a casa anche quando da lui passava solo il pomeriggio, la sera era scontato che avrebbe offerto la sua compagnia.
«Su, Akamaru, adesso si fa la passeggiata delle undici e qualcosa!» Akamaru abbaiò e il padrone ululò qualcosa.
Hinata e Kiba si avviarono verso la porta, quando qualcosa vibrò nell’aria, come una secca frustata che si abbatté sui due.
In quello stesso istante, l’Inuzuka si fermò di colpo, una mano in prossimità del petto, gli occhi spalancati e quasi spaventati. Akamaru guaiva in direzione del padrone.
«Kiba-kun…? Cosa…» Hinata era spaventata da quell’improvvisa reazione, non sapeva cosa dire né cosa fare.
Il ragazzo era ancora fermo ed immobile al centro del soggiorno, mentre il respiro si faceva più affannato. Non parlava, non si muoveva, ma stringeva convulsamente la mano all’altezza del cuore, stropicciando la maglia scura.
«Cosa sta succedendo?» chiese, riuscendo a far uscire quelle parole che sembravano bruciarle la gola. Si sporse verso di lui, ignorando i fremiti che stavano scuotendo anche lei. C’era qualcosa che non andava, Kiba non stava bene ed era qualcosa di grave; anche Akamaru lo aveva intuito e guaiva. Si muoveva freneticamente dal padrone alla porta, come se volesse dire qualcosa, ma Hinata era troppo presa da quanto stata accadendo per farvi caso.
Kiba continuava a non rispondere e lei era sempre più in preda al panico. Cosa gli stava succedendo?
«Kiba-kun…» sussurrò, mentre stringeva una mano intorno a quella libera del ragazzo. Era quasi un lamento, il suo, che rivelava la sua angoscia relativa al non poter aiutare l’amico.
Intanto le sue condizioni non sembravano migliorare; era sempre immobile, gli occhi fissi sul pavimento, ma non sembravano realmente vedere.
«Hi-Hinata» gridò quasi ad un tratto, con una voce strozzata che fece tremare tutto della ragazza.
Lei sobbalzò violentemente al suo urlo e in quel momento credé davvero che il suo cuore non avrebbe retto.
«Hinata. Va’… va’ ora» le sussurrò in un mormorio pieno di sofferenza.
Hinata si impose di calmarsi, ma la vista le si era già appannata di lacrime, tanto era la sua disperazione. Non c’era più tempo per chiedere chi o cosa, stava accadendo tutto troppo velocemente e Kiba stava davvero male, era l’unica cosa che capiva. Si rese conto che ad essere scossa dai tremiti violenti non era solo lei.
Di colpo Kiba si accasciò a terra, in un movimento rigido e pesante, tanto che risuonò nella stanza. Akamaru a quel punto uggiolava rumorosamente e sembrava soffrire davvero con il padrone.
Hinata non riusciva a capire nemmeno il senso delle parole appena pronunciate da Kiba; non avevano senso, perché doveva andarsene e lasciarlo solo ora che soffriva?
Si inginocchiò al suo fianco, muovendo le mani in gesti frenetici e sussultanti, ma senza sapere neanche lei cosa fare.
«Dimmi come posso aiutarti» lo pregò, mentre tentava di fermare le sue lacrime. Quelle, di certo, non sarebbero servite a nulla.
Lui ormai si era riversato a terra, su se stesso, la mano stringeva quella piccola di Hinata convulsamente e tra un lamento e l’altro le intimava di andarsene.
Akamaru abbaiava all’impazzata e si era portato al fianco del padrone.
«Devo… de-devo chiamare Hana, lei saprà…» Non riusciva a convincere nemmeno se stessa. Cosa poteva fare, Hana?
Sembrava troppo critica quella situazione, disperata e priva di sbocchi per risolverla. Kiba ormai gridava, Akamaru assordava Hinata con i suoi latrati e lei, nel piccolo soggiorno di casa Inuzuka implorava qualcuno nella sua mente affinché potesse aiutare l’amico.
Ad un tratto tutto cessò. Kiba smise di contorcersi, i respiri si calmarono leggermente e allentò di poco la stretta sulla mano della ragazza. Comunque non si alzava, stava fermo e Hinata era ancora più preoccupata di prima.
Il cane uggiolò, quasi sorpreso anche lui.
«Hinata… va’, ti… ti prego» disse nuovamente e dalla sua voce trapelava il dolore, come se quelle parole fossero troppo per lui.
Come se l’atto del parlare non fosse possibile; la voce era roca e flebile, quasi ruvida.
Quasi inumana.
«Kiba-kun, come posso… tu stai male, non posso andarmene!» esordì con un singhiozzò, sconvolta e al limite di tutto.
Lei non capiva più nulla; ogni cosa sembrava essere sprofondata in un baratro nero e loro due sembravano completamente sommersi dall’oblio. Il Kiba scherzoso di prima non c’era più, la calma era stata squarciata senza preavviso e in un momento di totale silenzio Hinata si rese conto di avere paura. Aveva tanta paura che non riusciva nemmeno a muoversi.
Kiba ad un tratto fece un rigido movimento in avanti, secco; urlò di nuovo e le grida erano tanto forti che si chiese come mai nessuno fosse venuto a controllare.
I suoi parenti forse dormivano e, benché le case fossero relativamente nello stesso territorio, a loro, in fin dei conti, non potevano giungere più che come un rumore molesto.
La casa di Kiba, inoltre, si trovava un po’ più indietro rispetto alle altre proprio perché la sua famiglia gestiva personalmente una piccola e modesta cascina, più che altro un capannone, in cui avevano anche altri animali.
«Scappa!»
C’era disperazione in quell’urlo e in un attimo, mentre Hinata si alzava di scattò guidata unicamente dalle gambe, i tasselli di quell’enigma presero disposizione nella sua mente.
Gli era tutto piuttosto chiaro e, se possibile, aveva ancora più paura. Di urlare, anche.
«Kiba-kun…» soffiò con terrore, mentre lo vedeva stringersi le braccia intorno a sé, come a volersi proteggere da quel dolore che lo opprimeva.
«Dimmi come posso aiutarti» era una richiesta annegata in tutto il dolore che provava Hinata e la voce non risultava più di un flebile sussurro. Kiba lo sentì e voltò appena la testa verso di lei.
I capelli, già di solito scompigliati, erano maggiormente arruffati e, anche se le era permessa la vista di solo un quarto del volto dell’amico, la Hyuuga comprese che era madido di sudore.
«Non puoi… Hinata» ammise con fatica, mentre respirava con affanno.
In ogni singola parola da lui pronunciata si poteva percepire la consapevolezza di Kiba relativa a quanto stava accadendo.
«Non è vero, io… chiamo aiuto, posso…»
Sussultò quasi sconvolta, Hinata, quando lo sentì tossire una risata smorzata.
«Ti ringrazio, Hinata, ma…» Il braccio su cui poggiava gran parte del suo peso per poter stare sollevato dal pavimento non resse e un sonoro crac accompagnò la caduta di Kiba.
Farfugliò qualcosa, ma non tentò di riportarsi su. In quelli che alla Hyuuga parvero secoli, fece in modo di potersi voltare verso di lei, gli occhi serrati a causa del dolore.
Fremeva come se fosse arso dalla febbre.
«Il lupo… il lupo sono io… Hinata» sussurrò tra la sofferenza e l’affanno.
Di scatto apri gli occhi e li puntò su Hinata. La giovane fu certa come non mai che il suo cuore in quel momento avesse perso un battito.
Le pupille dilatate erano sfere nere e il bianco dell’occhio era irritato, i capillari non avevano retto e ora il rosso faceva da sfondo a quello scuro colore che sembrava il peggior cielo da tempesta notturno.
Kiba, prima di emettere uno straziante urlo, gridò ad Hinata di fuggire.
Con le lacrime agli occhi si lanciò di volata verso la porta, spalancandola e buttandosi letteralmente fuori.
Alta in cielo, una luna piena maestosa e argentea sembrava starsene lassù con aria di sfida. Le nuvole si erano diradate per lasciare spazio a quella sfera chiara e lucente. Toccava a lei, ora, decidere le sorti di chi stava sotto i suoi pallidi raggi.
Hinata si lanciò uno sguardo alle spalle, tremante e con la mente poco lucida. Non sapeva cosa fare, ma quando intravide cosa stava accadendo nel soggiorno che aveva appena lasciato a pensare per lei fu l’istinto di sopravvivenza che non credeva nemmeno di avere.
Non pensava che una cosa del genere sarebbe potuta realmente accadere, una trasformazione tanto brutale che Hinata non riuscì a togliersi quelle immagini dalla mente.
Ciò che aveva visto era Kiba, il suo Kiba-kun, trasformarsi in qualcosa che di umano non aveva più nulla. Forse sotto quel radicale cambiamento esteriore, sotto le zanne e gli artigli taglienti, il pelo irsuto e gli occhi famelici che la osservavano, c’era ancora l’Inuzuka umano di qualche ora prima, ma non riusciva proprio a vederlo. Tutto era impresso a fuoco nella sua mente e stentava a credere a quella possibilità; i rantoli affannati, lo stridente rumore degli artigli che si facevano strada sul pavimento, il brutale schiocco di qualcosa che andava in frantumi sotto il peso del cambiamento.
Iniziò a correre a perdifiato, ignorando le fitte all’addome, le gambe che sembravano sul punto di cedere, la gola che doleva e il freddo che le si abbatteva addosso come frustate violente. Non seppe nemmeno lei perché, ma aveva iniziato a correre dentro il boschetto dietro la casa di Kiba, probabilmente il primo posto che aveva individuato; altre lacrime si riversarono sulle sue guance quando si rese conto di essersi messa in trappola da sola.
Credé di cedere davvero sotto il peso della paura e dell’agitazione quando sentì il rumore delle foglie che venivano calciate dalle zampe in corsa di un animale.
Kiba stava arrivando. No, non Kiba, quello non era lui, non poteva. Aveva visto la trasformazione, ma non poteva essere così. Non aveva senso, non poteva…
Hinata voleva urlare. Voleva anche fermarsi, rannicchiarsi per terra e tremare spaventata, fuori dal mondo. Voleva che tutto smettesse, che i rumori dietro di lei fossero meno vicini e che qualcuno venisse a svegliarla da quell’incubo.
C’era solo lei in quel bosco, però.
Lo sentiva avvicinarsi e tremava al solo pensiero di trovarsi vicino a quell’essere che aveva preso il posto di Kiba. Correva e continuava a correre, non sapendo minimamente dove stava andando, con l’unica consapevolezza che i rami la graffiavano violentemente mentre lei disperatamente fuggiva. Ancora non riusciva a credere come tutto potesse essere accaduto, come realmente il lupo che aveva ucciso degli innocenti fosse stato al suo fianco per così tanto tempo.
Kiba, però, non sapeva di essere lui, non poteva saperlo.
Mentre correva tante domande si accavallavano l’una sull’altra nella sua mente e il suo cuore sembrava sul punto di esplodere. In ogni suo gesto c’era disperazione; doveva trovare un modo di salvarsi, lei non voleva morire!
Un gemito basso le sfuggì dalle labbra e si perse tra il rumore delle sue scarpe che calpestavano il fogliame e i latrati rabbiosi di quella bestia.
La sua mente le ripeteva solo di trovare un posto in cui nascondersi, forse ce l’avrebbe fatta a sopravvivere…
Lo sentiva sempre più vicino e sapeva che se avesse rallentato anche per un solo attimo sarebbe stata la fine.
Nella foga dettata da quella consapevolezza inciampò, rovinando a terra con un grido strozzato. Chiuse gli occhi con forza, non avendo nemmeno il coraggio di muoversi; stava arrivando e lei si era rassegnata. In quel momento l’unica cosa che il suo cervello concepiva era che il suono delle foglie sotto il peso di passi rabbiosi le investiva le orecchie e le giungeva tanto forte da farla tremare. Era la fine.
Le era addosso ormai.
Hinata lanciò un gridò straziante quando sentì qualcosa toccarla bruscamente. Da un luogo impreciso del suo corpo giunse una fitta atroce, ma non ebbe tempo neanche di rendersene conto. Su di lei non c’erano né zanne né artigli. Non sentiva il fiato caldo e putrido dell’animale sulla pelle. Nello stesso momento in cui lui aveva gridato, qualcosa aveva guaito con la stessa forza, altrettanto doloroso era stato il suo lamento. Una sorta di ovattata boato era giunta alle sue orecchie.
Senza nemmeno riflettere, ricollegò quel dolore a Kiba; stava forse soffrendo anche lui?
«Kiba-kun!»
Aprì gli occhi con forza e spasmodica necessità di vedere.
Era accasciato a pochi metri da lei, fitte di dolore lo contorcevano e guaiti lo percuotevano. La visuale di Hinata, comunque, era impedita per metà dalla figura che si ergeva davanti a lei.
«Sta’ indietro, Hinata» le disse la voce di colui che riconobbe come Shino.
Non c’era ansia né agitazione, solo tranquillità in lui.
Cosa ci faceva lui lì?
Non poté non trattenere un sospiro di sollievo; non era sola, non era sola, non era sola.
Quel barlume di speranza scomparve quando udì nuovamente il lupo lamentare il suo dolore.
«Cosa… cosa è successo? Cosa gli hai fatto?» chiese esitante, la voce le uscì strozzata e incredula.
Stava soffrendo, perciò anche Kiba provava le stesse sensazioni.
«Non è importante per ora. Avviati, poco più avanti troverai un rifugio, è degli Aburame, aspettami lì» le riferì semplicemente, il tono di voce piuttosto misurato nonostante ciò che stesse accadendo.
Era come se la cosa non lo stupisse minimamente.
Le aveva semplicemente impartito quelle indicazioni, ma non aveva aggiunto altro; non si era nemmeno voltata verso di lei, che se ne stava ancora sdraiata per terra, voltata per metà verso l’agghiacciante scena.
«Ma… Sh–Shino, lui è Kiba, lui…»
Non riusciva a trovare le parole adatte, non sapeva come spiegargli tutto quello che era accaduto; avrebbe mai creduto, un ragazzo posato e serio come Shino, che un suo vecchio amico era una bestia ora agonizzante davanti a lui?
Quasi gridò nuovamente quando vide ciò che Shino recava in mano. Riusciva a vedere, da lì, appena la parte posteriore, ma sapeva riconoscere un fucile quando ne vedeva uno. E l’Aburame ne recava uno in mano.
Aveva sparato a Kiba.
«No! Shino, ti prego, lui è Kiba! Non…»
Mosse una mano verso di lui, come a volersi aggrappare alla sua giacca per trattenerlo da ogni azione volesse compiere.
«Lo so, Hinata» asserì con calma e Hinata intuì che si era appena aggiustato gli occhiali sul naso. Era calmo, mentre la Hyuuga tremava come una foglia.
«Cosa… cosa vuol dire che lo sai?» chiese con un fil di voce; quel che aveva appena detto era stata una botta in pieno petto per Hinata.
«So che quello è Inuzuka.»
Nello stesso istante in cui parlo, Kiba – o ciò che aveva preso il possesso di Kiba, l’animale in cui si era trasformato – ringhiò sonoramente e con uno scattò si riportò sulle zampe malferme. Hinata sussultò dallo spavento.
«No!» gridò disperata quando Shino sparò di nuovo.
Lui questa volta si voltò appena, ma Hinata non riuscì a capire se la stava guardando o no.
«Non l’ho ucciso, gli ho iniettato un sedativo» spiegò magistralmente.
Perché Shino si trovava lì e per di più con del sedativo?
«Sta iniziando a piovere, fa’ come ti ho detto» le disse ancora, ma senza essere brusco. Shino era il ragazzo più calmo che la Hyuuga avesse mai incontrato, l’esatto opposto di Kiba. Quella situazione avrebbe ispirato confusione a chiunque, invece lui osservava la scena come se fosse qualcosa di poco conto. Di normale.
In effetti stava piovendo e si intensificava di attimo in attimo; la tempesta che era stata preannunciata per tutto il giorno stava per verificarsi.
Hinata fece passare lo sguardo dal lupo a Shino e viceversa, dopodiché lui ripeté: «Va’, Hinata. Non lo uccido.»
A fatica si alzò e si appoggiò ad un albero per non ricadere a terra; le gambe non sembravano voler collaborare.
Iniziò a camminare nella direzione indicatale da Shino e prese a camminare, voltandosi di tanto in tanto verso l’Aburame e Kiba. Guaiva ancora e a tratti lanciava ululi più forti.
Senza neanche accorgersene il suo passo si era fatto più svelto e in un attimo giunse ad una piccola struttura; era una specie di stanzino piazzato proprio in mezzo al bosco. Al massimo ci sarebbero state due persone in grado di muoversi senza pestarsi vicendevolmente. Nonostante sembrasse piuttosto vecchio come edificio, le pietre di cui era composto sembravano così perfettamente incastrate l’una con l’altra da dare l’impressione di non poter essere abbattuto nemmeno con un terremoto. A modo suo, quella caratteristica sollevava ed inquietava Hinata allo stesso tempo.
Con cautela aprì la porta e scoprì una stanza vuota; per terra vi era quella che la Hyuuga riconobbe come una botola aperta e vi intravide una scala. Si guardò intorno senza realmente vedere le paresti scure e quasi claustrofobiche intorno a sé; si disse che sicuramente sarebbe stata più al sicuro lì, visto che Shino le aveva detto di andarci. Dubitava che lui le avrebbe fatto del male, quello era certo.
Kiba, però…
Scese la scala improvvisata e si trovò in quello che era un vero e rifugio sotterraneo. La luce era poca ed irradiata da una piccola lampadina affissa al soffitto; era utilizzato, quel luogo, perché l’odore di vecchio era appena accennato e non era così sporco da dare quell’impressione.
C’erano due porte, una a destra e l’altra a sinistra, ma non le passò nemmeno per l’anticamera del cervello di aprirne una.
Con movimento rigidi, incerta sul da farsi, si sedette su una sedia poggiata di fianco al muro; tentò di racimolare tutta la calma che ancora le rimaneva e solo allora si rese conto di star battendo forte anche i denti. La vista era leggermente sfocata e nella sua mente si agitavano i più cupi pensieri.
Si rese conto che non si era mai sentita così stanca e terrorizzata, le lacrime ancora le bagnavano le guance, fredde come ghiaccio.
Tutto il suo corpo doleva a causa della corsa e dei tagli provocati dai rami contro cui si era graffiata; non riusciva neanche a comprendere dove facesse meno male.
Non si accorse nemmeno di aver chiuso gli occhi e in un attimo la realtà le fu preclusa in favore di un sonno senza sogni.



Nell’altro capitolo avevo proprio scritto che avrei aggiornato il giorno dopo!XD Ah, che gran umorista che sono, non c’è che dire!*ride da sola*
Nh, sappiate che, comunque, credevo davvero che sarei riuscita a postare in tempo, nonché a finirla, ma invece vi ritrovate con un aggiornamento dopo mesi e la storia non è nemmeno ancora finita. Almeno avete imparato che non sono attendibile con le scadenze, assolutamente no!*risatine nervose*
Il problema è che il finale proprio non vuole uscire e io sono bloccata lì, con le idee in mente ma la totale incapacità di metterle nero su bianco: è avvilente la cosa, assolutamente sì!ç__ç Comunque dovreste essere felici che ho deciso di postare questa parte almeno, o sarebbe uscito un polpettone finale di venti e pussa pagine!XDXD
Mh, chiedo umilmente perdono per le scarse descrizioni della trasformazione: ho letto un solo libro sui licantropi e non posso dirmi poi così ferrata in materia, perciò abbiate pietà di una povera stordita *in ginocchio sui ceci*
Questa volta non faccio pronostici su quando mi ritroverò ad aggiornare di nuovo, ma spero di riuscirci in tempi decenti. Se trovate errori di sorta, sappiate che è perché io sono inutile quando si parla di correggere le mie storie e la mia beta è ammmmmmmalata e sparge schifosi bacilli in giro!:| Sì, è il mio vano tentativo di discolparmi dei possibili orrori che potreste trovare qui sopra *indica le ventordici pagine qua sopra*
So che non è un granché, ma valeva postarlo almeno per la canzone che ho citato la sopra!XD
Ringrazio immensamente liu_Qgirl, Vaius, Falsa dea molto adorata per le bellissima recensioni!^^

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Capitolo 3
*** Ain’t your fairytale - It ends tonight [Epilogo] ***


Ain’t your fairytale


I have always known the storm would come
Listen now my young ones
This is not a story I tell
of midnight, moon and sun...
Are you ready to walk the forbidden road?
Learn again what we tried to forget?
The dark can now take over you.

[Ain’t your fairytale – Sonata Arctica]




Più tardi fu svegliata dal rumore di una porta che si chiudeva. Sussultò con spavento e si sentì il cuore in gola; sembrava voler esplodere da un momento all’altro.
«Sono io» la rassicurò una voce bassa e monocorde.
Shino la osservava dall’altro lato della stanza e in mano recava ancora il fucile di prima.
Sospirò impercettibilmente e si rilassò per quanto lo permettesse un frangente del genere.
«Cosa è successo a Kiba?» chiese immediatamente, il tono allarmato e gli occhi chiari spalancati dalla preoccupazione. La voce le era uscita acuta e strozzata, ma in quel momento l’unica cosa che le importava era Kiba.
E, in più, voleva sapere.
«È in una delle celle qui sotto» rispose semplicemente, posando il fucile a terra e appoggiandosi al muro di fronte a lei. Era nella penombra della stanza, ma Hinata riusciva a scorgerlo piuttosto bene. Sembrava anche abbastanza stanco, ma forse era solo un’impressione sbagliata.
«Celle?» azzardò a chiedere, sempre più stupita da quanto stava accadendo.
Sapeva che c’era qualcosa che doveva conoscere e che era essenziale per comprendere tutto quello che stava succedendo; quello che sapeva era solo una parte, non riusciva a mettere insieme quei pezzi di puzzle che si agitavano nella sua mente.
«Gli Aburame, tempo fa, erano un clan che dava la caccia ai licantropi, lo siamo tutt’ora. Questo rifugio era usato già a quel tempo» spiegò con calma, come se fosse la cosa più normale del mondo. Hinata fu percorsa da un brivido, in attesa che continuasse. Voleva sapere come stava Kiba, ma era evidente che lui non glielo avrebbe detto facilmente. Non aveva detto che era morto, poteva aggrapparsi a quello e ascoltare ciò che aveva da dire.
«Non è più zona degli Inuzuka, correndo ti sei allontanata parecchio» aggiunse rispondendo ad una sua muta domanda.
Sapeva di avere il fiato sospeso, neanche respirare fosse l’azione più dolorosa mai compiuta; era conscia del dolore che si estendeva su buona parte del corpo, ma rispetto a prima aveva smesso di tremare. Si sentiva solo incredibilmente debilitata e stanca come mai lo era stata.
«Inuzuka è un licantropo, ma questo lo sai» esordì brevemente, aggiustandosi gli occhiali sul naso. Hinata si ritrovò inconsapevolmente ad annuire, anche se una parte di lei ancora voleva negare quanto accaduto; come poteva veramente essere successa una cosa del genere?
Non credeva nemmeno all’esistenza di creature sovrannaturali come quella e, in verità, erano cose che l’avevano sempre spaventata. Provava terrore quando si trattava di storie inventate, come doveva comportarsi ora che era tutto vero? Lei lo aveva visto, non poteva negare assolutamente nulla.
«La famiglia degli Inuzuka è portatrice del gene dei licantropi, lo è da anni. Non in tutti si risveglia, la cosa diviene sempre più rara di anno in anno.»
La professionalità con cui espose tutto fu un ulteriore prova per Hinata che tutto era reale; Shino ci conviveva da sempre probabilmente e quello spiegava perché avesse smesso di parlare con Kiba, rompendo ogni legame. L’Inuzuka le aveva detto che, più o meno, aveva smesso di rivolgersi a lui alle elementari e perciò nel periodo delle prime aggressioni.
Era già stato Kiba allora?
«Le prime aggressioni, allora…» iniziò, ma lasciò la frase in sospeso con un gemito strozzato. «No, non era Inuzuka, quello. Sempre un membro della sua famiglia, ma lui era troppo piccolo.»
Hinata continuava a non capire molto e Shino si lasciò andare ad un breve sospiro.
«Il gene si risveglia intorno ai sedici, diciassette anni, allora Kiba ne aveva soltanto otto.»
Storse la bocca lui stesso quando si rese conto di averlo chiamato per nome. Hinata avrebbe tanto voluto che non ci fossero quegli occhiali scuri ad ergersi come un muro nella discussione, la faceva sentire a disagio.
«La sua famiglia avrebbe dovuto liberarsene quando si sono accorti che in lui si era risvegliato» proferì e c’era una che di sprezzante in ciò che aveva detto.
Hinata sussultò violentemente e strinse le mani intorno a sé, come a volersi proteggere da tutta la confusione che c’era, sia fuori che dentro la sua mente.
«La sua famiglia lo sapeva?» chiese sconcertata, mentre nella sua mente passavano i volti dei gentili e un po’ eccentrici dei signori Inuzuka, poi di Hana. Cosa avrebbe detto una volta tornati a casa? Non li avrebbero trovati e probabilmente si sarebbero allarmati.
«Sì, ma hanno preferito tentare di arginare la cosa senza eliminarla definitivamente. Solo i genitori e qualche altro membro della famiglia, ma in sostanza era una questione segreta.»
Era evidente che allora la sorella non lo sapeva o quella sera non li avrebbe lasciati da soli. Era a conoscenza di qualcosa, come la questione degli Aburame, ma ignorava tutto il resto.
Hinata ancora non riusciva a crederci; stavano davvero discutendo di una cosa del genere, mentre lei avrebbe dovuto essere nel suo letto e crogiolarsi nel calore delle coperte; poi si sarebbe svegliata, come al solito avrebbe incontrato Kiba e sarebbe stata una domenica come tutte le altre.
«Ma Kiba non poteva saperlo, lui…»
«Non lo sapeva, no, dopo ogni trasformazione perde la memoria per quanto riguarda quanto accaduto» asserì conciso.
Sospirò pesantemente a quella scoperta e non poté non chinare il capo, ringraziando gli dei che le cose stessero così. Se Kiba non sapeva nulla voleva dire che non era cosciente delle sue azioni, non era colpa sua.
Si aggrappava a quelle consapevolezza, Hinata, ignorando quella parte di sé che, in continuazione, le ripeteva sibilando che però aveva ucciso delle persone. E quella non era una colpa che si poteva cancellare con un tratto deciso. Quella rimaneva e macchiava ogni cosa.
«Si trasforma con la luna piena…»
«Esatto» le fece eco Shino, mostrando ancora una volta quanto lui fosse informato sulla faccenda e in un angolo del suo cervello Hinata comprendeva finalmente tutti i doppi sensi con cui aveva farcito la conversazione a scuola solo quel pomeriggio.
Come poteva essere passato così tanto?
«Si trasforma con la luna… se è con la luna piena… perché allora i suoi genitori non…» iniziò, ma lasciò cadere la frase nel vuoto non sapendo come concluderla. In verità, Hinata non sapeva proprio più cosa pensare. Lei si basava unicamente sulle sue conoscenze riguardanti i licantropi in versione parecchio romanzata, ma era un tentativo di comprendere meglio la situazione che la faceva progredire a tentoni. Tutto sembrava diverso dalle versione proposte tramite i libri e lei temeva che più a fondo avrebbe potuto trovare qualcosa che andava ben oltre l’immaginazione cinematografica a riguardo.
«La luna piena fa da scenario ad ogni trasformazione, ma non la scatena sempre. Non c’è qualcosa che scandisca con regolarità il mutamento da forma umana a bestia, è casuale. È un pericolo che non po’ essere tenuto sotto controllo» qui si era fermato per un attimo, sembrava voler studiare ogni reazione di Hinata per comprendere fin dove potesse spingersi a parlare. Di rimando, Hinata aveva aggrottato le sopracciglia e si era imposta di non mostrare alcun segno di debolezza. Lei voleva sapere e capire, quello era il suo unico interesse.
«I suoi genitori hanno ritenuto che Inuzuka non fosse un problema visto che ultimamente non sembrava essere stato soggetto alla trasformazione; è stato da incoscienti, hanno fatto affidamento sul fatto che questa notte la luna piena sarebbe stata visibile difficilmente e che ciò avrebbe influito.»
Hinata avrebbe voluto chiudere per un attimo gli occhi, solo pochi secondi, per poi riaprirli. In seguito le sarebbe piaciuto molto che intorno a sé si fossero materializzate le pareti chiare della camera di Kiba e che davanti a lei ci fosse proprio quel ragazzo. Purtroppo sapeva che non era possibile e fece di tutto per ignorare quel groppo in gola che sembrava volerla soffocare.
«Forse hanno solo sperato che Kiba potesse guarire… hanno solo sperato, la speranza non è un reato» concluse con incertezza, non tanto perché insicura di ciò che aveva detto – lei viveva di speranza – quanto più perché non sapeva come interpretare il volto di Shino. Non poteva vedergli gli occhi e quello era limitante, molto.
«Uccidere è reato.»
«È loro figlio… volevano solo un futuro migliore per lui, loro hanno solo provato a…»
«Hanno ignorato la cosa, deliberatamente, mettendo davanti una sola vita a discapito di tutte le altre che in questo modo venivano sacrificate.»
Quelle parole giungevano smorzate e quasi ovattate alle orecchie di Hinata, come se il suo cervello volesse preservarla dalla durezza di cui era pregne. Si stupì lei stessa nel constatare come, però, Shino fosse calmo e pacato, nessuna traccia di ira o altro a segnare i lineamenti. Nel tono c’era solo una placida consapevolezza. Forse compassione mista a rispetto per il parere della ragazza, che comunque non avrebbe mai tentato di comprendere o assecondare.
«Non è colpa sua… non è colpa loro» pigolò quasi rivolta a se stessa, abbassando lo sguardo.
«Ad ogni modo, ci penserò io a mettere a posto le cose» disse risulto e nella sua voce vi era una nota di quella che ad Hinata parve quasi rassegnazione. Lo sguardo della Hyuuga volò in un attimo nella stessa direzione in cui probabilmente guizzarono per un secondo quelli di Shino: il fucile abbandonato li a terra.
«Cosa– No! È Kiba, lui non… Shino, ti prego…» la sua tenacia era scemata in brevi sussurri in cui pregava il ragazzo davanti a sé di non fare nulla di avventato.
Lui voleva uccidere Kiba, il suo amico, colui a cui doveva praticamente tutti i suoi sorrisi, l’unica nota colorata in un mondo perennemente grigio.
Non poteva permettere che compiesse un’azione tanto spietata, non poteva permetterglielo perché nel momento in cui avesse fermato definitivamente il cuore del ragazzo, quello di Hinata avrebbe cessato di tenerla in vita nello stesso istante.
Shino sospirò e ciò lasciò Hinata perplessa.
«Ucciderà ancora» le fece presente e lo disse anche se era conscio che Hinata già lo sapeva, ma ne soffriva comunque.
«Non c’è qualche modo per evitare che…» Hinata si rifiutava con tutta se stessa di mettere la parola uccidere nella stessa frase in cui compariva il nome dell’amico.
La Hyuuga era immobile sulla sedia e si sentiva sprofondare in un mare di panico e afflizione mentre si rendeva conto a poco a poco che non c’era nulla che realmente si potesse fare; lei non aveva idea di come aiutarlo, neanche quella volta, quando davvero aveva bisogno di lei.
Eppure non sapeva come fare; di suo conosceva poco i licantropi, ma anche se non fosse stato così Kiba non era un lupo mannaro come gli altri.
«Da duecento anni a questa parte l’unica soluzione è stata uccidere i portatori del gene. Ciò ha garantito la sicurezza di tutti» spiegò e Hinata comprese che quella da lui detta era la realtà.
Perché mentirle? Dubitava che il ragazzo odiasse davvero Kiba e se ci fosse stato un modo per salvarlo lo avesse fatto; era un licantropo, certo, ma uccidere qualcuno che poteva essere salvato non era da Shino.
Lo sguardo della ragazza si fece vuoto, privo di qualunque traccia di vitalità. Si sentiva svuotata, come se qualcuno l’avesse scossa fino a quel momento, con l’intento di far uscire da lei tutto ciò che la rendeva viva. Sapeva di essere più pallida del solito, con gli occhi chiari come due pezzi di vetro che sembravano sul punto di andare in frantumi.
Fino a quel momento aveva resistito solo perché una parte di lei aveva impedito che la consapevolezza le si abbattesse addosso, cercando scuse, soluzioni e possibili vie d’uscita da quell’incubo. Non aveva trovato nulla, il mondo le era crollato addosso, l’immagine di un sorridente Kiba le straziava l’anima attimo dopo attimo. Non avrebbe più rivisto nulla dell’Inuzuka che conosceva.
Era successo tutto troppo in fretta, senza preavviso e lei non aveva avuto modo di prepararsi ad un colpo del genere. Sentiva che qualcosa le veniva strappato via con una lentezza straziante e tentare di trattenerlo era come afferrare l’aria tra le mani. Impossibile.
Non ricordava di avergli detto che era stata felice di averlo conosciuto, anche se forse lo aveva compreso da solo. Non aveva mai ricambiato uno dei suoi tanti abbracci di Kiba come era giusto che fosse, anche se si era ripromessa che un giorno avrebbe messo da parte l’imbarazzo. Forse lui sapeva come stavano le cose anche in quel caso, ma restava il fatto che Hinata non aveva fatto nulla di suo, era stato sempre lui ad interpretare le cose.
Anche quella volta la Hyuuga non aveva fatto nulla e ora lo stava lasciando in una cella distante non sapeva quanto da lei a morire.
Probabilmente stava piangendo di nuovo, ma solo perché si sentiva inutile, non c’era nulla che potesse fare anche volendo.
Puntò lo sguardo su Shino, che non aveva più aggiunto nulla e si alzò in piedi.
«Vorrei vederlo» biascicò e quella richiesta uscì dalle sue labbra quasi inconsapevolmente.
L’Aburame storse le labbra in una smorfia appena accennata e poi le fece cenno verso la porta a destra.
«È una cosa sciocca, Hinata. Quello non è Kiba, è solo una bestia» disse in tono monocorde, sperando che quelle parole crude e altrettanto vere bastassero a dissuaderla.
Lei non annuì nemmeno, ma si avviò verso la porta di legno scuro. Non sapeva perché, forse per farsi più male ancora, ma poggiò davvero una mano sulla maniglia. Ed era davvero sul punto di abbassarla, per entrare, percorrere il lungo corridoio che si sarebbe trovata davanti e giungere da Kiba.
Ma si fermò, tolse la mano dal pezzo di ottone come se si fosse scottata e scattò indietro, con un gridò che vene comunque nascosto dalle urla che giungevano dall’interno.
Kiba.
Sussultò violentemente e indietreggio, andando a sbattere contro Shino, che la prese per le spalle e la allontanò da quella porta, quasi potesse esserle d’aiuto spostarsi da quella fonte di dolore, sia per chi gridava sia per lei.
Lei si lasciò trascinare, ma i suoi occhi rimanevano puntati sul legno e le orecchie pronte a captare ogni singolo lamento.
«Kiba-kun…» mormorò quasi sconvolta e Kiba la fece voltare verso di lui con una certa facilità.
«Non è colpa sua, Shino-kun… lui non è cattivo, lui è Kiba!» disse con disperazione e tenacia, mentre tutto intorno a lei sembrava vorticare e pronto ad inghiottirla.
Non voleva che tutto accadesse, non voleva! Non era giusto.
«Non ucciderlo, ti prego» disse un soffio appena udibile, tra i suoi stessi respiri mozzati dal dolore e quelli che non sembravano più guaiti animaleschi, ma umani.
«Cosa…» chiese sbalordita. Kiba era di nuovo lui?
«Si sta ritrasformando, segno che sta sorgendo il sole. Devi tornare a casa, Hinata» le disse fermezza, benché il suo tono tradisse una certa pressione.
«Ma se è lui voglio vederlo… ora è Kiba non un lupo» ribatté con una forza che veniva dimezzata dal tremore che ancora la percorreva.
Le urla, intanto, si intensificavano.
«Sono quasi le sei, presto sorgerà il sole e lui sarà di nuovo umano, ma ora non lo è.»
«Allora aspetterò.»
«Devi andare a casa, non puoi restare qui» mormorò di nuovo, abbandonando la presa sulle spalle della giovane, che ora si sentiva quasi persa senza un tocco di normalità in quella situazione del tutto incomprensibile per lei.
«Perché?» si sentì solo in grado di chiedere.
«Perché la trasformazione per ritornare umano fa più male di quella per diventare un licantropo e le urla si intensificano man mano che prosegue» asserì con calma, aggiustandosi gli occhiali sugli occhi.
Hinata spalancò gli occhi, ma non disse altro; era straziante sentire quelle urla, non voleva nemmeno immaginare come sarebbero potute essere dopo. Ringrazio con tutta se stessa il fatto che Kiba non ricordasse nulla di ciò che viveva alcune notti, anche il dolore doveva essere precluso ai suoi ricordi. «Kiba non morirà, Hinata» le disse ad un tratto.
La ragazza non capiva, non ci riusciva davvero più. Era troppo difficile.
Quelle poche parole rimbombavano nelle sue orecchie rendendole difficile anche comprenderle, invece di portare speranza – Kiba non morirà, così aveva detto – la confondevano e la inquietavano.
Sentiva le mani formicolare e la testa pesante. Voleva chiudere gli occhi, ma non si illudeva nemmeno più che riaprendoli sarebbe tutto finito.
In verità, tutto doveva ancora cominciare, quello era solo un macabro incipit in cui lei si poteva solo rendere conto che non c’era nulla di simile a quei pochi film che Kiba era riuscito a farle vedere sul sovrannaturale e a quei libri che lei aveva letto di sua spontanea volontà.
Era ovvio che tutto quello era ben diverso dalla finzione e la sostanziale differenza era che di solito si poteva sempre contare in un lieto fine.
La realtà era più dura, deludeva, quella era una consapevolezza che Hinata aveva compreso solo ora che si trovava dinnanzi ad una situazione che minacciava di distruggerla in tutti i sensi.
«Va’, Hinata» la esortò con garbo e corrugò la fronte all’ennesimo urlo del ragazzo nella cella.
La Hyuuga chiuse davvero gli occhi e annuì piano. Si sentiva stordita e pesante, come se una parte di sé si fosse completamente slegata da lei. Sentiva dolore da qualche parte, ma non riusciva a focalizzare nemmeno il punto preciso. Si faceva man mano più pressante, ma non riusciva proprio a comprendere da dove venisse. Forse doveva solo dormire e lasciare fuori il mondo dalla sua mente per un po’, ma più il tempo scorreva, più le sembrava di avere addosso una forza invisibile che la costringeva verso il basso.
Mentre Shino le diceva che fuori ad aspettarla c’era un altro Aburame che l’avrebbe accompagnata a casa, Hinata pensava solo a Kiba a poca distanza da lei e alla sua impossibilità di correre da lui e essergli d’aiuto, in qualunque modo.
Le parole di Shino erano l’unica cosa che riusciva a focalizzare, ma anche aggrapparsi ad esse era divenuto complicato, come aggrapparsi ad una roccia che però era troppo scivolosa, era impossibile restare attaccati.
Probabilmente lo aveva detto solo per rassicurarla; perché non ucciderlo se fino ad un attimo prima aveva detto che era l’unica soluzione possibile? Illuderla per non farla soffrire ingiustamente, forse, acuire un dolore che sarebbe esploso in seguito, come un fiume in piena che l’avrebbe completamente travolta.
Eppure aveva colto qualcosa di significativo in quelle parole, il tono le era sembrato intriso di totale veridicità, Shino non stava mentendo.
Forse c’era qualcosa in quelle parole che al ragazzo appariva chiaro, mentre ad Hinata era totalmente oscuro. Forse il senso che vi attribuiva l’Aburame era completamente differente da quel che ci si sarebbe potuto aspettare.
«Non lo…» la voce le si affievolì pian piano fino a divenire un sussurrò che non sentì nemmeno lei. Non lo voglio abbandonare. Non lo voglio lasciare. Non voglio. Era tutto quello che Hinata voleva dire, ma le parole non uscivano dalla sua bocca.
Si voltò, mentre la porta si apriva e un ragazzo sulla ventina si scostava per farla passare avanti. Hinata non vi badò particolarmente, ma doveva essere il cugino di Shino; non disse nulla, né lui fece diversamente.
Sentì la porta chiudersi dietro di lei e si chiese soltanto perché.
Perché tutto fosse destinato a terminare quella notte, perché tutto aveva smesso di esistere in un attimo, senza che lei avesse avuto il tempo di accorgersene. Perché quel mondo che le sembrava così irrimediabilmente sbagliato era quello reale, quello in cui, per anni, aveva vissuto ad occhi chiusi senza rendersi conto di quanto tutto fosse triste, doloroso e pericoloso. Perché la sua vita non era una favola, ma era una macabra storia su cui stavano calando tenebre e oscurità.
Perché.
Non venne mai nessuno a darle una risposta.


***


Shino era seduto per terra con la schiena appoggiata al muro, in attesa che qualcosa cambiasse. Sapeva cosa stava aspettando, sarebbe stato evidente e difficilmente ignorabile una volta successo, ma teneva comunque lo sguardo ben fisso dinnanzi a sé.
La stanza era buia se non per una misera illuminazione offerta dallo spiraglio di luce proveniente dalla porta socchiusa poco più in là. Puzzava di vecchio, chiuso, muffa e sangue, un connubio che i primi tempi aveva provocato in Shino conati di vomito. Ora, tuttavia, ci era abituato, era solo uno sgradevole sentore che giungeva smorzato e poco invadente alle sue narici: in quella stanza ci era stato più spesso di quel che avrebbe voluto.
Ora era lì e attendeva.
Alla fine era davvero accaduto tutto ciò per cui i suoi genitori lo avevano messo in guardia. Non per un attimo si era sognato di non credere a quanto gli avevano detto, benché fosse stato appena un bambino quando gli avevano riferito quelle assurde verità per la prima volta.
Aveva completamente accettato quella dura realtà, tuttavia una piccola parte di lui si era sempre rifiutata di credere che un giorno avrebbe davvero tenuto tra le mani quel fucile per puntarlo contro Kiba Inuzuka. Per ucciderlo definitivamente.
Forse quel lato di lui era ancora il piccolo Shino che giocava nel parco con Kiba, l’unico che gli aveva rivolto la parola e non si era lasciato intimidire dall’invalicabile muro degli occhiali scuri che portava sempre. Quelle stesse lenti scure che ora si rigirava tra le mani, mentre la testa era alta e lo sguardo fisso sul muro dinnanzi a lui.
Shibi Aburame, quando gli aveva detto di non dare più retta a quell’assillante ragazzino con quegli strani segni rossi sulle guance, era stato schietto, gli aveva detto la verità. Gli aveva rivelato quel segreto che legava quelle due famiglie da più tempo di quanto lui potesse immaginare. E non aveva parlato di un’eventualità neanche allora, quando forse era troppo piccolo per accettare tutto, aveva parlato di un semplice fatto futuro di cui lui stesso si sarebbe dovuto occupare. Sarebbe successo, nulla avrebbe potuto impedirlo.
Il ragazzo che ora stava steso in una posizione più rigida del normale a poca distanza da lui, a separarli solo spesse sbarre di ferro arrugginito, era la prova che le parole del padre erano state più vere di quel che aveva creduto Shino.
Kiba non aveva accettato subito quella separazione; ci erano voluti anni prima che accettasse l’essere ignorato e liquidato con frasi mordaci e più cattive di quanto lui potesse comprendere.
Non aveva davvero capito, Inuzuka, ma aveva smesso di assillarlo per tentare di capire, quando probabilmente dentro di lui continuavano ad agitarsi domande e quesiti a cui non poteva rispondere nemmeno ora che se ne stava nudo e reduce da una trasformazione di cui non aveva ricordo.
Sospirò, Shino, con una pesantezza che rendeva palese la sua stanchezza. La sua frustrazione, la sua fredda rabbia e, perché no, il suo dolore.
Non stava per uccidere una persona qualunque portatrice di quel gene di morte, ma il suo primo ed unico amico.
Non poteva esternare nessuna delle sensazioni contrastanti dentro di sé, il pandemonio nella sua mente era un’intrecciata trama di dolorosi pensieri, doveri morali, ricordi e patti trascendenti alla sua volontà.
Era stato uno sciocco a credere di poter svicolare a quella situazione, quella parte di sé che si era illusa ora pagava con la tristezza che rendeva il fucile che recava in mano cento volte più pesante. Hinata se n’era andata da quasi mezz’ora e Kiba aveva smesso di urlare da una ventina di minuti; presto si sarebbe svegliato.
Giusto in quel momento un grugnito giunse dal ragazzo, che si mosse con insistenza sul terreno freddo della cella, provocando un tintinnio di catene.
Con suo stupore, Shino si rese conto di non ricordarsi nemmeno come avesse fatto a legarlo giusto poche ore prima. Forse era stato troppo occupato a pensare ad Hinata, che sarebbe sicuramente morta se lui non fosse arrivato in tempo. Doveva ammetterlo, era successo tutto più in fretta di quanto avesse potuto immaginare; non si poteva sapere quando si sarebbe trasformato, eppure lui, in un certo senso, se lo era sentito ed era uscito in perlustrazione.
Quella sua intuizione sarebbe stata da lodare negli anni a venire, ma lo Shino che si era illuso per anni non riusciva a gioirne. Gli occhi di Hinata erano impressi nella sua mente e la consapevolezza di quel che sarebbe successo di lì a poco glielo impedivano.
Era totalmente diviso, Shino, tra ciò che doveva fare e ciò che voleva fare; alzarsi e uscire dalla stanza oppure continuare a stare seduto fino a che Kiba non si fosse svegliato, realizzando tutto. Il respiro si fece più leggero, segno che si stava davvero svegliando. Era giunto il momento, non c’era altro che potesse fare a quel punto.
Si rimise gli occhiali e attraverso le lenti scure lo osservò aprire gli occhi, rimanere attonito e sconvolto per un attimo, per poi tirarsi su di scatto. Si osservò, scoprendosi nudo, poi si guardò intorno, scorgendo finalmente lui.
Stupore, confusione, irritazione.
Il suo tono palesava molto più rabbia di quella che poteva manifestare a gesti a causa delle catene; «Che cosa…? È uno scherzo, Aburame?»
Fece tintinnare con più forza le catene, che battevano contro di loro producendo quel fastidioso rumore metallico.
Shino poggiò per terra il fucile.
Il modo sprezzante in cui aveva pronunciato il suo nome era stato quasi sconvolgente, mai aveva visto Kiba tanto irato; in fin dei conti, però, come poteva non esserlo?
«Non è uno scherzo, Inuzuka» si limitò solo a dire, perché Shino, sempre piuttosto abile con le parole, ora non sapeva come esprimere ciò che sarebbe successo di lì a poco.
Forse si illudeva ancora che se non lo avesse detto ad alta voce sarebbe cambiato qualcosa.
Eppure si sbagliava. Sapeva che tutto quello sarebbe successo, non era mai stata solo una leggenda poco veritiera usata come monito. Era la realtà, ce l’aveva davanti agli occhi ed era suo compito distruggerla per far sì che anche quel capitolo di quella favola del terrore terminasse.
«Non prendermi in giro! Che diavolo ci faccio qui nudo e legato come un idiota?» sbraitò, ma tanto nessuno lo avrebbe sentito.
«Rispondimi!» urlò ancora, dal momento che da Shino non proveniva nessuna risposta.
Da dietro gli occhiali scuri, poté vedere il cambiamento di Kiba; ora era agitato, la sua rabbia aggressiva era passata a difensiva e probabilmente si chiedeva sempre con più insistenza cosa stesse succedendo.
Forse era davvero il momento di darci un taglio.
«Non ho mai mentito quando ho detto che voi Inuzuka centravate qualcosa con queste morti» iniziò e batté sul tempo Kiba, che si stava lanciando in un’altra serie di domande urlate a squarciagola.
Lui chiuse la bocca con un colpo secco e strinse la mascella; evidentemente credeva che fosse solo l’ennesima stupida diceria sulla sua famiglia, infondata. Come dargli torto? Lui non poteva saperle quelle cose, nessuno gliele aveva mai detto, così come quasi nessuno nel clan era a conoscenza di quella sconvolgente verità. Più passava il tempo, meno generazioni venivano colpite; Kiba non aveva avuto quella fortuna.
Nelle favole il lupo cattivo era sempre l’antagonista, il mostro, non poteva vivere una vita felice dal momento che era destinato a rendere infelice quella di qualcun altro.
Lui, però, non aveva scelto di essere il cattivo.
«Ancora con queste stronzate?» sbottò con un ghigno sprezzante.
«Non sono stronzate, Inuzuka, è la verità.»
Kiba esordì in una risata bassa e gutturale, gli occhi ridotti a due fessure; lui non ci trovava senso in tutto quello, così come Hinata non era riuscita a capirci nulla.
«Si può sapere che problemi hai? Perché mi hai legato? Perché sono nudo e in una cella?» asserì con rabbia.
Era il momento delle risposte.
«Tu c’entri con le morti, Inuzuka, la tua famiglia si porta dietro questa maledizione da secoli» disse in tono monocorde, rievocando una storia che gli era stata ripetuta tante volte da fargliela imparare anche se non avesse voluto.
Inuzuka, bestie, lupi, luna, morte.
E poi il tutto si era ridotto ad Inuzuka e morte, cosa che aveva reso a tutti molto più semplice debellare quella minaccia con l’uccisione dei portatori del gene errante.
Per Shino era difficile allo stesso modo, che la serie di parole chiave fosse dimezzata o arricchita con termini scabrosi non aveva importanza.
«Tu sei pazzo! Io non ho ucciso assolutamente nessuno!» sbraitò ancora, me nei suoi movimenti c’era agitazione, i suoi occhi saettavano veloci per la stanza poco illuminata.
Era spaventato.
«Sei un lupo, Inuzuka, trasformandoti i tuoi vestiti si lacerano fino a strapparsi completamente, quando ti ritrasformi resti nudo» e fece un gesto eloquente con la mano verso la sua condizione di evidente nudità.
Continuò, non dandogli tempo di aprire bocca: «Non si sa cos’è a scatenare le tue trasformazioni, solitamente quando c’è la luna piena, ma non sempre.»
Shino se lo era sentito nelle ossa che quella notte sarebbe successo e così era stato.
«Questa notte ti sei trasformato e io ti ho sparato alla parte superiore della zampa destra, quella davanti.»
Kiba non gli staccava gli occhi di dosso, la bocca era socchiusa e i muscoli contratti. Con calma si portò una mano sulla spalla, dove si rese conto con stupore che effettivamente gli doleva. Spalancò gli occhi e una nuova scintilla di paura animò il suo sguardo.
«Tu stai mentendo, non posso aver ucciso, non ne ho il minimo ricordo, non è–»
«Non ricordi niente della trasformazione il giorno dopo, è come svegliarsi da una lunga dormita, con l’unica differenza che ti senti indolenzito» commentò con una dimestichezza che lasciava l’amaro in bocca anche a lui.
Non era particolarmente esaltante avere conoscenze tanto approfondite di tematiche simili, né tantomeno lo era informare l’ex migliore amico di tutte quelle mostruosità.
Ora Kiba tava tremando. I tremiti lo scuotevano e nei suoi occhi la rabbia aveva lasciato spazio a totale agitazione.
«Tu come… come sai tutte queste cose tu?» chiese allora, tentando di foggiare una sicurezza che non gli apparteneva più.
Quella situazione era fuori da ogni logica, era impossibile accettarla del tutto anche a distanza di anni, esserne il fulcro e la causa e sapere tutto nell’arco di pochi minuti era senza dubbio devastante.
«La mia famiglia debella da generazioni ciò che voi siete da secoli» disse semplicemente, come se effettivamente fosse tutto all’ordine del giorno.
Uccidere chi uccide per non essere a propria volta uccisi.
Ad un tratto le catene produssero un forte fragore: Kiba aveva abbandonato le braccia lungo i fianchi, aveva smesso di tentare di liberarsi. Nei suoi occhi c’era sconcerto e orrore.
«Tu ricordi qualcosa?»
«Io… vagamente, solo dei tratti, ma…» rendendosi conto di quel che stava dicendo – stava ammettendo di essere un mostro, una bestia o qualunque cosa intendesse Shino – strinse i denti «saranno solo dei sogni, qualcosa che ho sognato tempo fa.»
Nemmeno Kiba credeva alle sue malferme parole.
Ciò che lui vedeva nella sua mente erano immagini troppo vivide per essere solo dei semplici ricordi che la sua mente rievocava a causa della paura.
Più l’Inuzuka si sforzava di ricacciare indietro tutti quei ricordi che non sapeva gli appartenessero, più la sua mente li rievocava. Sentiva le tempie pulsare, come se fosse uno sforzo immenso riportare a galla sprazzi di quel che era accaduto poche ore prima. Si lasciò andare tremante, ignorando il freddo del pavimento e della parete a contatto con il suo corpo.
Lui non ci capiva più nulla, era tutto fin troppo surreale; in più, il solo pensare di essere stato lui ad aver ucciso quelle persone gli dava il volta stomaco, come poteva accettare come se nulla fosse?
Poi un particolare per nulla scontato giunse alla sua mente e lo fece trasalire: dov’era Hinata?
Se era vero quel che l’Aburame diceva… era quasi certo che l’amica fosse stata con lui quella sera, ma non riusciva a rievocare nessun immagine o ricordo che gli assicurasse che fosse giunta a casa sua, sana e salva.
Non aveva ancora deciso se crederci o no – la razionalità gli diceva di spaccare la faccia a Shino per tutte quelle idiozie, ma i sensi e il suo istinto gli dicevano che tutta quella faccenda non gli era sconosciuta; fatto stava che Hinata non era lì e lui non sapeva se realmente aveva fatto qualcosa di poco umano quella sera.
«Dov’è Hinata?» saltò su, solo intenzionato a sapere se la ragazza stesse bene.
Se c’era una cosa che per sicuro non poteva sopportare era la possibilità che Hinata fosse nei guai o in pericolo; che lui ne fosse la causa era totalmente impensabile e inaccettabile.
Shino aggrottò la fronte, ma non si esentò dal rispondere: «È al sicuro, è andata via meno di mezz’ora fa» lo aggiornò brevemente.
Kiba espirò con forza, come se avesse trattenuto il fiato senza accorgersene.
Hinata stava bene. Il sollievo per quella consapevolezza schiacciò completamente, anche se per breve tempo, tutto il resto. Purtroppo ci volle poco prima che le preoccupazioni e la diffidenza tornassero a prendere possesso di lui.
Shino era fermo ed immobile, non diceva una parola. Kiba provò ad imitarlo, lo osservò senza fiatare per qualche minuti. Ci volle davvero poco prima che la rabbia e la frustrazione lo attanagliassero con forza.
Come faceva ad essere così calmo dopo avergli detto una cosa del genere? Semplicemente voleva dire che non era vero, aveva mentito. Eppure non poteva averne la certezza, perché Shino celava perfettamente tutto. Fin troppo bene e quegli occhiali Kiba li aveva trovati da sempre un ostacolo, qualcosa di inopportuno. Tenevano alla larga tutti e tutto e in quel momento non gli permettevano di capir se ci fosse del vero in quanto aveva detto.
Perché Kiba non voleva crederci, ma non era da Shino fare scherzi stupidi come quello.
«Dammi una buona motivazione per cui dovrei crederti, Aburame!» sbottò allora, completamente intenzionato a non mostrare il dubbio che tuttavia condizionava i suoi pensieri.
«Trovi un motivo migliore per cui io debba tenerti legato e nudo in una cella?» chiese con freddo sarcasmo.
«Non puoi davvero aspettarti che io creda ad una stronzata del genere! Tu sei pazzo, ecco qual è la verità!»
Poi borbottò anche qualcosa che assomigliava molto a ‘con tutti quegli insetti’, ma Shino volontariamente lasciò correre.
«Vuoi farmi credere che il motivo per cui hai smesso di parlarmi e hai iniziato ad evitarmi è questo? Il fatto che mi trasformo e uccido la gente come in uno dei peggiori film di serie c? Tu sei pazzo» ripeté con maggiore enfasi, traendo forza dal fatto che il suo ragionamento, comunque, filava più di quello di Shino.
«Hai rincorso Hinata nel bosco, questa notte. Se non fossi arrivato l’avresti uccisa» espose con voce calma e pacata Shino, ignorando tutte le proteste e i latrati del compare nella cella.
L’Inuzuka, di rimando, si zitti immediatamente e aggrottò le sopracciglia.
Tirare in ballo Hinata, evidentemente, doveva essere l’unico metodo per convincerlo, altrimenti Shino non gli avrebbe detto quel che aveva rischiato di fare.
«Ti sei trasformato davanti a lei, lei ha visto Kiba lasciare il posto ad un essere mostruoso che non eri tu, Inuzuka.»
Fu quasi uno shock il flash di immagini che si riversarono nella mente dell’Inuzuka: un’Hinata in lacrime e che chiamava il suo nome; riusciva a rievocare chiaramente il respiro affannato della ragazza mentre correva con passo malfermo come se ce l’avesse di fianco in quel preciso istante. Eppure in quei pensieri c’era qualcosa di malsano, qualcosa di orribile che lo disgustava.
Insieme ai conati di vomito, Kiba sentiva affiorare in sé una certa consapevolezza e non seppe se la voglia di vomitare fosse dovuta alle immagini o alla comprensione che si faceva strada in lui.
«Lei mi ha… ha visto» borbottò senza logicità, erano solo parole dette ad alta voce volte a prendere atto di quanto veramente stava succedendo ed era successo.
«Sta bene, ma è scossa. Non si meritava una cosa del genere» asserì Shino, tirandosi in piedi di colpo.
Kiba portò il suo sguardo su di lui, lo osservò avvicinarsi alle sbarre di ferro di quella cella improvvisata. Per un attimo si sentì davvero un animale e la cosa lo disgustò maggiormente.
Era tutto così malsano e sconvolgente che per un attimo fu tentato di prendersi la testa tra le mani, chiudere gli occhi ed abbandonarsi all’oblio. Sarebbe stato meglio, ma sapeva che non era qualcosa che doveva fare. Doveva affrontare e sconfiggere ciò che gli si parava davanti, anche se era difficile da comprendere.
«Credi sia colpa mia, Aburame? Io non ne sapevo nulla! Non l’avrei mai messa in pericolo, idiota!» gli sbraitò contro, come se quella reazione spropositata e irriverente potesse risolvere almeno in parte quella situazione. Non era così, a sicuramente lo aiutava un po’.
Shino si aggiustò gli occhiali sul naso, aggiustando la presa sul fucile che teneva nell’altra mano. Kiba ci aveva già fatto caso, ma preferiva ignorare la cosa.
«Anche se lo avessi saputo le cose non sarebbero cambiate, Hinata e chiunque altro sarebbe stato in pericolo.»
Kiba si alzò in piedi e con uno scattò si portò di fronte a Shino: a dividerli vi erano solo le sbarre di ferro arrugginito.
«Ringrazia che ci siano queste o a quest’ora ti avrei già dato la lezione che meriti» ringhiò con rabbia l’Inuzuka.
«La tua arroganza non ti aiuterà, Inuzuka. Nessuno ti aiuterà, né i tuoi familiare né Hinata. Forse l’unico che può farlo sono io.»
Quelle parole per Kiba non avevano il minimo senso; erano tutte idiozie infondate, eppure doveva ammettere che il tono usato dal ragazzo di fronte a lui era quanto di più serio avesse mai sentito e si ritrovò più inquietato di quel che avrebbe dovuto al sentire quel che aveva da dire.
«E perché i miei genitori non mi avrebbero dovuto dire nulla?» lo sfidò con rabbia, certo che non avrebbe potuto trovare una risposta che lo avrebbe convito.
I suoi genitori gli volevano bene e se veramente fosse stato qualcosa di inumano… beh, era certo che non lo avrebbero tenuto all’oscuro di tutto.
«Hinata ha detto che è perché sono i tuoi familiari, ti vogliono bene, un figlio si protegge, non si distrugge. Può anche essere vero, Hinata ci credeva quando lo ha detto, ma mi permetto di aggiungere che forse il modo di proteggerti è stato quello sbagliato.»
Kiba strinse le labbra e non disse nulla; Shino lo osservò da dietro le lenti scure e si chiese se avesse accettato o meno quella verità. Era conscio che rivelargliela su due piedi poteva risultare complicato e difficile da accettare, ma aveva un compito da portare a termine, benché la cosa non lo entusiasmasse. Anzi. Le parole di Hinata, poi, lo avevano gettato in uno stato confusionale ben più devastante di quel che effettivamente dava a vedere.
«Hinata è sempre gentile, non riesce davvero a vedere del male in qualcuno» commentò ad un tratto Kiba, senza quel sempiterno sfondo di ironia. Le labbra erano incurvate leggermente, un sorriso di quelli che nascevano principalmente quando l’oggetto del discorso era Hinata.
«Ho davvero rischiato di…» non voleva aggiungere l’ultima parola semplicemente perché il solo pensiero era orribile, dirlo ad alta voce sarebbe stato addirittura atroce.
«Sì. Poteva succedere ogni giorno che le stavi accanto, ogni minuti che spendevi a parlare con lei. Era in costante pericolo, ma nessuno lo sapeva.»
Non lo aveva ancora accettato del tutto, convenne l’Aburame, ma la possibilità che Hinata potesse essere realmente stata ferita da lui lo aveva fatto ragionare e meditare.
«Io non le avrei mai fatto del male.»
«Tu no, ma il lupo sì.»
Frasi brevi e concise che ruppero il silenzio dell’angusto luogo in cui si trovavano.
«Non c’è un modo per evitare che accada?»
Shino aggrottò impercettibilmente la fronte e non rispose.
La cosa fece irritare Kiba, che in quel momento si trovava in un campo sconosciuto che metteva a dura prova la sua emotività e le sue reazioni. «Allora?» urlò ancora, in attesa.
Odiava non riuscire a controllarsi, ma provava quasi repulsione per se stesso. In lui albergava qualcosa che mieteva vittime, che uccideva, come poteva anche solo tentare di rimanere calmo? In quel breve arco di tempo non aveva compreso appieno quale fosse il momento esatto in cui aveva smesso di mentire a se stesso, eppure aveva accettato, aveva capito.
Kiba, tuttavia, dubitava seriamente che sarebbe riuscito a convivere con qualcosa del genere; come l’avrebbe guardato Hinata adesso? Con che faccia avrebbe osato guardarla lui? E i suoi genitori? Hana?
Si sporse con rabbia di più verso Shino e in un gesto repentino gli afferrò gli occhiali, sfilandoglieli con malagrazia dal volto.
Erano state davvero rare le volte in cui lo aveva visto senza quell’impenetrabile muro di difesa, eppure era come se avesse sempre saputo cosa si nascondeva dietro le lenti scure.
C’era solo Shino, il ragazzino che un tempo era suo amico e che poi, per motivazioni che lui allora non aveva potuto comprendere, lo aveva abbandonato.
Shino.
Quante cose erano cambiate?
Eppure, a quanto pareva, lui era sempre stato così. Un mostro.
«Non mi sono mai piaciuti gli occhiali scuri e tu li hai sempre portati. Rompipalle» si giustificò con gli occhiali ancora in mano, sotto lo sguardo indagatore di Shino.
«Allora? Su, spara. Anzi, no, credo di aver capito dove vuoi arrivare. È più o meno come per la storia dell’essere nudo in questa prigione che puzza» commentò con fare disinteressato, benché dentro di sé Kiba si sentisse scosso e tremante.
Il ghigno sul suo volto, però, voleva mascherare tutto quel tumulto interiore.
Ci riusciva? Non lo sapeva, ma finalmente negli occhi di Shino riusciva a leggere qualcosa che prima gli era sconosciuto. Anche l’Aburame era una persona come le altre, dopotutto.
«Di cosa parli?»
«Di motivazioni ovvie. Sono nella cella nudo perché sono un lupo squartatore, hai un fucile in mano perché devi… uccidermi.»
Il suo voler essere così spavaldo era stato reso vano dall’incrinarsi della voce sull’ultima parola. Essere ucciso. Morire. Lasciare mamma, papà, Hana, Akamaru.
Hinata.
Shino non ribatté; in verità si sentiva vagamente spaesato senza gli occhiali, ma sapeva anche che a quel punto celare tutto era inutile.
Non c’erano più segreti ora, eppure Shino non sapeva cosa fare. O meglio, come fare. Suo padre glielo aveva spiegato, eppure, benché lui fosse sempre stato conscio che quel giorno sarebbe venuto, ora si trovava impreparato.
Semplicemente perché non si poteva insegnare ad uccidere un amico.
«In fondo è giusto. Io non voglio fare male a nessuno, non voglio fare male ad Hinata, non voglio fare male a chiunque mi capiti davanti. È giusto.»
Kiba parlò senza sentimento, completamente intento a pensare a quante volte aveva rischiato di uccidere colei che gli era sempre accanto. L’unica vera ragione per cui era pronto a sacrificarsi, poiché era più importante di qualsiasi altra cosa.
Hinata non doveva rischiare nulla per lui; in quel disperato frangente, l’unica cosa di cui era certo Kiba era che non l’avrebbe fatta soffrire più del dovuto e che sacrificarsi per lei non era né azzardato né inutile.
Era Hinata, semplicemente lei.
«Sei coraggioso, Inuzuka.»
«E tu palloso! Almeno adesso puoi smetterla di chiamarmi Inuzuka, no? Giuro che non ti azzanno» esordì con quel latrato di risata che aveva.
Era incredibile vedere come riuscisse a fare ironia anche in un momento del genere, ma forse quella era una delle più grandi doti di Kiba.
Shino per un attimo vacillo; non ce l’avrebbe fatta.
Eppure fu proprio il sorriso dell’Inuzuka a fargli comprendere che quello era il suo dovere, il suo obbligo e che era giusto rispettarlo.
«Oh, beh, dille che… che mi dispiace. E beh, che deve sorridere di più. E che io la–» amo. Shino lo interruppe prima che potesse terminare la frase.
«Voleva vederti, prima di andare via. Gliel’ho impedito» sentiva che era giusto farglielo presente e visto che Kiba conosceva Hinata meglio di chiunque altro poteva benissimo trarre da sé le conclusioni: ovvero che la Hyuuga non lo aveva abbandonato nemmeno in quel momento e che aveva davvero tentato di fare del suo meglio. Voleva stargli vicino sempre. Quella era sicuramente una cosa che Kiba poteva capire da sé.
Negli occhi del ragazzo-lupo, per un breve attimo, passò un lampo di rabbia – perché non l’hai fatta venire da me, idiota.
Si limitò a storcere la bocca in una smorfia: «Mi scoccia dirlo, ma mi tocca ammettere che hai fatto la cosa giusta.»
Shino abbozzò un mezzo sorriso.
Kiba lo guardava dritto negli occhi: come poteva fare quel che doveva fare?
Il ragazzo parve comprendere da solo, perché accennò ad uno dei suoi ghigni malandrini.
Gli porse gli occhiali e poi si voltò verso la parete.
«Dille tutto, eh. E anche tu… beh, sappi che non mi sei mai veramente stato antipatico. Dicevo per dire. Mi sei mancato.»
Parlava velocemente, quasi avesse fretta.
L’Aburame non seppe cosa rispondere; sorrise. Kiba non poteva vederlo, ma non contava veramente in quel momento.
Entrambi i due ragazzi presenti in quel momento si sentivano in balia di qualcosa di più grande di loro, ma attanagliati da qualcosa di ancora più incomprensibile. Come potevano voltare così le spalle a certi legami? Eppure dovevano farlo. Uno era voltato di spalle e l’altro teneva in mano un fucile. Era così che dovevano andare le cose e lo sapevano entrambi. Le dinamiche della faccenda erano oscure a tutti e due, ma alla fine sia Shino che Kiba sapevano che sarebbe andata a finire così. Quella era una lotta eterna tra due forze che si sarebbero contrapposte all’infinito. Non era una favoletta né un romanzo da leggere e riporre sullo scaffale. Quella era la vita vera, reale, orribile e grottesca. Era un lato della verità che tutti si sforzavano di ignorare, benché alla fine venisse sempre a galla.
E una volta accettata bisognava fare quel che la situazione richiedeva.
Shino aumento la presa attorno al fucile, Kiba strinse le spalle involontariamente.
«Ho fatto una promessa ad Hinata, spero di poterla mantenere» Shino parlava a voce bassa, mentre Kiba se ne stava lì, fermo ed immobile. Non attendeva una risposta, voleva solo dirgli le cose come stavano. «È una promessa che forse non capirà, ma spero che un giorno ci possa riuscire.»
Tirò su il braccio con il fucile e si rimise gli occhiali.
Kiba non morirà, Hinata.
«È giusto così, un giorno capirà.»
Kiba non morirà.
No, non sarebbe morto: stava uccidendo il mostro dentro di lui in fin dei conti, no?
Non avrebbe ucciso Kiba.
Quella promessa probabilmente non riusciva a capirla nemmeno lui, ma forse sarebbe giunto il giorno per comprendere anche per lui.
Non morirà.
Stava salvando l’Inuzuka, stava uccidendo la bestia.
«Addio, Kiba.»
Seguì un lungo lamento, un latrato angoscioso proveniente dall’esterno: l’addio di Akamaru.



It ends tonight




The walls start breathing
My minds unweawing
Maybe it’s best you leave me alone
A weight is lifted
On this evening
I give the final blow.

[It ends tonight – The All-American Rejects]




C’erano alcuni ricordi che Hinata a volte non sapeva nemmeno di avere.
Kiba una volta l’aveva portata sulle spalle perché lei era caduta; erano andati al parco e lei era inciampata. Aveva tentato di non piangere, ma le faceva davvero male il piede ed era rimasta piuttosto interdetta quando Kiba l’aveva osservata per un attimo e poi era scoppiato a ridere.
Fragorosamente, tenendosi la pancia e poi cadendo in ginocchio.
Lei non aveva avuto il coraggio di dire nulla fino a che lui non si era minimamente ripreso, tanto che, tra uno sbuffo di risata e l’altro, aveva parlato lui.

«Ah, Hinata! Eri proprio buffa!» e cominciò a ridere di nuovo.
La Hyuuga proprio non riusciva a vedere cosa ci fosse di buffo, di divertente – il piede le faceva ancora male – ma vederlo così divertito l’aveva colpita: aveva smesso di piangere e si era girata. Kiba la osservava sorridendo.
«Io cado un sacco di volte quando corro, mia madre mi dice sempre che sono un impiastro» commentò, forse un po’ indispettito da quel che effettivamente pensava la madre. Poi aggiunse: «Però non piango! Tanto un attimo dopo arriva Akamaru che mi lecca e mi spinge su!»
L’Inuzuka si era avvicinato a lei e si era piegato, dandole la schiena.
Esitante, dopo averlo osservato sconvolta, aveva accettato il suo aiuto.
Anche lei non aveva motivo di piangere, anche lei aveva qualcuno che la aiutava a rialzarsi, qualsiasi volta fosse caduta.


Eppure lei non era riuscita ad aiutarlo, Kiba era morto, Akamaru ora era solo. Lei era sola. Doveva imparare anche ad alzarsi da sola, benché le sembrasse che intorno a lei tutto si stesse sgretolando e non ci fosse più nulla di sicuro.


Raramente Hinata si era concessa qualche momento solo per pensare. Aveva sempre creduto che per spazzare via quell’immagine distorta che tutti si erano fatti di lei – debole, inutile ragazza, un disonore per la casata – fare qualcosa, qualsiasi cosa, stare in movimento, agire fosse il modo migliore. E pertanto era così che aveva sempre fatto.
Eppure, in quel momento, in seguito a tutto quello che era accaduto, starsene ferma di fronte a quella piccola finestra ad osservare il nulla era l’unica cosa che le veniva naturale fare. Si sentiva pesante per muoversi, stanca per agire, impossibilitata a fare qualunque cosa. Mai come in vita sua sentiva che starsene lì, ad osservare la luce del giorno scomparire per lasciare spazio alla notte buia, fosse la cosa migliore da fare.
Ultimamente, tutto quello che le accadeva avveniva con una velocità impressionante, ma poi nella sua mente era ricordato con una lunghezza e una lentezza quasi dolorosa.
Era stato solo un attimo il momento in cui suo padre era giunto il camera sua, quel pomeriggio, e le aveva sbattuto in faccia l’atroce verità che, in fondo, sapeva già.
Chiuse gli occhi, la primogenita degli Hyuuga, e rievocò alla mente le parole di Hiashi. Dure, secche, una punta di soddisfazione nel farle sapere che alla fine era andato tutto come avevano previsto loro.
Era chiaro che in quel mondo non c’era posto per ciò che voleva lei. In fondo, poi, chiedeva solo un po’ di pace e considerazione. E Kiba.
No, non c’era posto per i suoi desideri.
«Kiba Inuzuka è stato trovato morto nella foresta dietro casa sua.»
Glielo aveva comunicato come se Kiba non fosse stata l’unica persona che Hinata avesse avuto affianco per molti anni. Il suo unico amico. La sua unica ancora di salvezza dalle ingiustizie da cui non sapeva difendersi da sola. L’unico.
Si era voltata di scatto, le labbra avevano tramato, le gambe avevano voluto cedere, ma la ragazza non glielo aveva permesso.
«Come… cosa…» non era riuscire nemmeno a formulare una frase di senso compiuto.
Una parte di lei, in verità, sapeva che presto una notizia del genere sarebbe giunta, la promessa di Shino nascondeva un significato che lei non aveva colto, ma che di certo non riguardava la reale sopravvivenza di Kiba a quella notte.
Si sentiva come svuotata, come se la morte dell’Inuzuka fosse seriamente la cosa più sciocca ed irreale a cui pensare. Ed effettivamente per lei era così, perché non aveva senso credere che Kiba non ci fosse più, non poteva essere.
Hiashi non aveva aggiunto altro, se n’era andato e non aveva inflitto sulla figlia, non le aveva fatto sapere che alla fine le cose sarebbe andate sempre diversamente da come avrebbe voluto lei.
Non c’era altro da aggiungere, poi. La morte di Kiba avrebbe ottenuto un inscenamento credibile e tutti avrebbero creduto che la sua fosse stata realmente una morte accidentale. C’erano tanti segreti ormai che soltanto uno in più non faceva alcuna differenza, mantenerlo era fin troppo semplice e credere alle bugie era divenuto qualcosa di automatico. Tutto, pur di mantenere la pace.
Una situazione del genere, comunque, non aveva un modo per essere gestita, quello Hinata lo sapeva, eppure, mentre se ne stava ferma ed immobile, in attesa, sapeva cosa fare. A gradi linee, certo, ma ne era conscia semplicemente perché il secondo atto di quella tragedia aveva già una trama, lei doveva solo recitare le battute.
Quando la sera prese possesso della scena e la luna si mostro parzialmente con lo sfondo della notte buia, lei capi che era il momento di andare. Sapeva dove andare, uscì senza dire nulla a nessuno. Nessuno era venuto a chiederle nulla, era semplicemente come se nella grande stanza di Hinata al momento non ci fosse nessuno. Uscire ed andare fu semplice.
Prima di abbandonare tutto – era quel che stava facendo, no? – e di dire addio a ciò che lasciava si diede un’occhiata allo specchio, ricambiando lo sguardo dell’Hinata riflessa. Era pallida, assente.
Morta.
Quella non era più Hinata.


Shino l’aveva osservata a lungo quando era arrivata prima di muovere anche un solo muscolo o fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Il ragazzo si aspettava di vederla, così come si aspettava di non vedere mai più il suo volto. Non conosceva poi così bene Hinata, perché solo ora che se la trovava davanti poteva capire di non sapere cosa aspettarsi da lei.
«Cosa ci fai qui, Hinata?» glielo aveva chiesto perché lo voleva sapere davvero, non era solo una domanda con cui distruggere l’opprimente silenzio che si era creato.
Perché Hinata era lì?
Lui aveva ucciso Kiba.
Perché Hinata era lì?
In un certo senso lui l’aveva ingannata.
Perché Hinata era lì?
Non gli rispondeva, continuava ad osservarlo senza rispondergli.
Perché Hinata era lì?
Kiba era…
«Grazie, Shino-kun» soffiò con una lentezza straziante, che insieme a quelle parole dilanio la calma dell’Aburame con una forza devastante.
Perché era lì e gli diceva grazie?
Non aveva senso nulla di quel che stava accadendo, Shino non aveva la più pallida idea di cosa fare, benché avesse precedentemente dovuto fare fronte a situazioni quasi peggiori.
Aveva ucciso, perché ora non poteva mantenere la calma dinnanzi ad Hinata, che lo stava anche ringraziando?
«Perché mi ringrazi?» si fece forza e lo chiese, perché anche quella era una domanda necessaria, che aveva bisogno di una risposta altrettanto esplicativa.
Quella serata era fatta di verità, forse non c’era nemmeno spazio per rimorsi, tristezza e dolore. C’era qualcosa di diverso, di inaspettato, qualcosa che preannunciava una svolta che Shino non conosceva e che forse non voleva nemmeno capire.
Hinata abbassò lo sguardo, quasi quell’azione la aiutasse a capire meglio cosa fare, cosa dire. O meglio, come agire, perché era già tutto prestabilito, lei doveva solo portare il tutto alla fine.
«Tu mi hai detto che lo avresti salvato… ho capito. Ho capito» lo ripeté due volte, come voler imprimere quella consapevolezza anche a sé stessa. Aveva capito?
Sì, aveva capito. Shino lo aveva liberato da un male che Kiba non poteva nemmeno capire, perché non ricordava di essere un mostro in alcune ore della sua vita. Era innocente quanto colpevole, Hinata non sapeva se quello era davvero l’unico modo per salvarlo, ma comunque Shino lo aveva fatto. E Hinata aveva anche capito che Shino lo aveva davvero ucciso per salvarlo, non come obbligo del suo clan. Se così non fosse stato non ci avrebbe messo molto a farlo e non avrebbe rassicurato lei con promesse difficili da comprendere.
Aveva ucciso il mostro, aveva salvato Kiba.
Shino non aveva altro da aggiungere, non lo sapeva proprio cosa ci fosse da dire in quel caso. Ma Hinata parlò ancora e Shino non capì di nuovo.
«Mi… dispiace, Shino-kun, mi dispiace davvero» lo guardò negli occhi, la Hyuuga, con una forza tale da spingere Shino a spalancare i suoi, dietro le lenti scure.
«Di cosa parli» non era una domanda, era solo qualcosa che necessitava disperatamente di una risposta.
La sentiva fin troppo bene, Shino, quella sensazione di vertigine. Si sentiva come se si trovasse sull’orlo di un precipizio e bastava un solo passo per salvarsi così come per cadere.
Lui forse era già troppo avanti per tornare indietro e non cadere.
«Ieri notte… ieri notte è finito tutto, io non lo avevo capito, non me ne ero accorta» gli disse, la voce non era più ferma ma tremava e lei accettava una consapevolezza che prima era stata solo un pensiero poco definito; in un attimo si era trasformata in realtà.
Prima che l’Aburame dicesse qualcosa, lei continuò con quelle frasi a metà che proprio non riusciva a finire.
«Credo di meritarmi la solitudine, ora» Hinata si portò a sedere sul pavimento freddo con una lentezza esasperante, quasi temesse di collassare se solo avesse fatto un movimento di troppo. Le gambe erano distese dinnanzi a lei e le mani erano poggiate in grembo.
Shino non parlava.
Se fosse stato un film, come quelli che andavano a vedere lei e Kiba, a quel punto sicuramente a lato sarebbero iniziati a comparire i titoli di coda, mentre una colonna sonora avrebbe accompagnato il tutto. Poi però il film finiva, la finzione terminava, la vita era uguale a quella di prima.
La Hyuuga, invece, stava mettendo fine davvero a tutto.
Un lampo di comprensione balenò nella mente di Shino quando la vide toccarsi la gamba.
«Ti ha morso.»
Lo disse di getto, senza pensarci, senza alzare la voce. Constato, conscio che mai avrebbe accettato. «Mentre correvo mi ha… non me ne ero accorta, ma dubito faccia differenza. O-ora lo sono anche io, Shino-kun?» fece quella domanda certa che la risposta sarebbe stata sì, ma quel poco di speranza che le era rimasta l’aveva spinta a chiederlo.
Non ricordava esattamente quando Kiba fosse riuscito a farle quella ferita alla gamba, per l’adrenalina in circolo per un bel po’ non aveva nemmeno fatto caso al dolore e poi quando era tornato lancinante se ne era accorta. E non era stato possibile negare l’evidenza notando il segno di denti strascicati che erano riusciti ad aggrapparsi alla carne solo per un attimo, ma che erano riusciti nel loro intento.
Shino si tolse gli occhiali e fissò gli occhi in punto indefinito dietro alla ragazza.
Fino a quel momento, nessuno era rimasto contagiato da quella maledizione semplicemente perché chiunque si fosse scontrato con un licantropo moriva, non c’era tempo per nessuna trasformazione. Hinata si era salvata, ma Shino non la vedeva cosa, la questione.
Non poteva vederla così.
La Hyuuga era una persona importante per lui, era la ragazza che aveva osservato per anni a quella parte, mentre lei giocava con Inuzuka lui era dietro un albero ad osservare.
Però era anche un Aburame, lui aveva distrutto quello che prima era stato il suo migliore amico ed ora toccava a lei.
Erano su piani diversi, non si sarebbero mai avvicinati.
Rimasero solo più in silenzio, a lungo; Hinata non disse nulla, Shino fece altrettanto.
Hinata sedeva con la testa bassa, quasi in attesa che la colonna sonora finisse, per lasciarsi il giusto tempo prima di ricominciare a capire e decidere cosa fare.
Shino si chiese semplicemente per quanto tempo avrebbe potuto giocare su due livelli differenti Non c’era più nulla da dire.
Tre vite erano finite quella notte.
Quella di Kiba, quella di Hinata e quella di Shino.
In fondo, però, lo sapevano tutti e tre che la loro non era una favola, no? Nessuno aveva assicurato che ci sarebbe stato il lieto fine.


Hinata respirò forte, mentre vedeva la vecchia vita dietro di lei e quella nuova si affacciava dinnanzi a lei, spaventosa; non sapeva davvero cosa aspettarsi, cosa sarebbe successo di lì in poi non lo poteva proprio immaginare.
Una nuova vita che iniziava da dove era finita l’altra. Tutto era finito quella notte così come era ricominciato, le tinte scure che si prospettavano come future compagne non sarebbero andate via, Hinata lo sapeva.
Stava iniziando la sua eterna notte di fuga, in cui il suo cacciatore era la morte. La vera corsa iniziava nel momento in cui Hinata muoveva il primo passo avanti. Scappava dal mondo, dalla morte, da se stessa.
Quella notte buia, scappando via da tutto si rese conto di non poter più avere paura: anche se chiudeva gli occhi per non vedere il male, quello era dentro di lei, non sarebbe mai potuto andare abbastanza lontano.


Shino osservava due bambini giocare, rincorrendosi. Sembrava si stessero divertendo. Hinata Hyuuga e Kiba Inuzuka.
Perché non vado anche io? Se lo chiedeva, ogni tanto. C’era un po’ di tentennamento nel rispondersi e poi era sempre lo stesso: non poteva, lui era un Aburame.
Ora la bambina era caduta, piangeva mentre lui rideva. Ora lui le stava dicendo che quando cadeva non piangeva perché il suo cane lo aiutava a rialzarsi.
E se… e se fosse andato con loro? Se avessero giocato insieme e fossero diventati amici?
Anche lui avrebbe avuto qualcuno che lo aiutava a rialzarsi.
Kiba e Hinata uscirono dal parco, lei sulle spalle di lui.
No, Shino, non si poteva proprio.



Shino chiuse gli occhi. Non si poteva allora e nemmeno in quel momento.
In quell’orribile presente non era rimasto più nessuno di quei tre bambini di tanto tempo prima.




Ok, questa volta ci ho messo decisamente un sacco a postare, credo che ‘lenta’ non sia un termine abbastanza esplicativo per descrivermi XD
La storia l’avevo finita già da un bel po’ di tempo, ma per un motivo o per un altro è sempre rimasta sul computer, ogni tanto la aprivo e poi la richiudevo, fino a che non me ne sono completamente dimenticata (qui tento di discolparmi: ho cambiato computer e sono andata in letargo per un po’ *schiva pomodoro*).
Ho messo insieme il penultimo capitolo e l’epilogo perché quest’ultimo contava solo quattro o cinque pagine e, onde evitare di metterci secoli per chiudere il tutto, ho preferito fare un capitolo unico.
Il finale è volutamente aperto, non volevo farla finire completamente male e perciò ho lasciato un po’ di speranza.
Uuuh, è stato brutto rileggerla XD Mi ha messo tristezza, anche se non è poi tutta questa drammaticità, ma credo di essere io stessa il mio principale motivo per cui non mi discosto troppo dal comico/fluff/generale: diventa difficile rileggere quello che scrivo e mi passa la voglia XD
Ringrazio coloro che hanno letto e chi ha inserito la storia in una delle tre categorie: spero mi perdoniate per l’enorme ritardo!:/

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