History repeating. [the next generation of TVD]

di Kary91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** 1. Here we go again ***
Capitolo 3: *** 2. The return ***
Capitolo 4: *** 3. Family Ties ***
Capitolo 5: *** 4. Ordinary People ***
Capitolo 6: *** 5. Lost Girls ***
Capitolo 7: *** 6. Smells like teen spirit. ***
Capitolo 8: *** 7. The turning point (part. 1) ***
Capitolo 9: *** 7. The turning point (part. 2) ***
Capitolo 10: *** 8. History Repeating ***
Capitolo 11: *** 9. Brave New World (part 1) ***
Capitolo 12: *** 9. Brave New World (parte 2) ***
Capitolo 13: *** 10. There Goes the Neighborhood. ***
Capitolo 14: *** 11. By the Light of the Moon ***
Capitolo 15: *** 12. Miss Mystic Falls (p. 1) ***
Capitolo 16: *** 12. Miss Mystic Falls (p. 2) ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Premessa.  Questa storia non tiene conto della maggior parte degli avvenimenti successivi alla seconda stagione. In particolare, Tyler non è mai stato trasformato in ibrido, Elena è umana e Alaric è ancora vivo.

Buona lettura!

 

Caroline sospirò, indirizzando un’occhiata malinconica alla luna: era la vigilia del plenilunio e l’indomani Tyler avrebbe attraversato quello stesso viale per allontanarsi il più in fretta possibile dalla sua famiglia. Dalla sua casa, dai suoi figli. A Caroline era bastato ascoltare il tono di voce con cui l’uomo si era rivolto ai bambini tutta la sera, per intuire quanto li amasse; quanto avesse bisogno di sentirli protetti e al sicuro, specialmente durante le notti di luna piena. Non avrebbe mai permesso al lupo di avvicinarsi a loro.

Con la consapevolezza ancora velata per ciò che stava per promettere a sé stessa, Caroline comprese che lei stessa avrebbe fatto il possibile per aiutarlo ad assolvere quel compito.

da She’s watching over us.

 

History repeating.

 

 

vobcqo

Immagine realizzata da Dreem.

For I am finding out that love will kill and save me
But the same love will take this heart that's barely beating
And fill it with hope beyond the stars.

 

The beauty and the tragedy. Trading Yesterday

 

 

Mystic Falls, Settembre 2035.

Jeremy Gilbert si girò più volte nel letto, prima di costringersi ad aprire gli occhi; un ticchettio fastidioso aveva incominciato a diffondersi nella stanza da una buona manciata di minuti, impedendogli di prendere sonno.

“Hazel” chiamò a bassa voce, stropicciandosi gli occhi. Si allungò per premere il bottone di accensione della lampada. “Haze, senti anche tu questo rumore?”

“Uhm…” la moglie farfugliò qualcosa nel dormiveglia, prima di voltarsi dall’altra parte.

Jeremy allontanò le coperte dal suo corpo e, controvoglia, si avvicinò alla parte della stanza da cui proveniva il rumore; frugando nei cassetti del comò tirò fuori un paio di fazzoletti di stoffa e due o tre vecchie cravatte che nemmeno ricordava più di avere. Con gli occhi impastati dal sonno, Jeremy infilò una seconda volta la mano nel cassetto: i suoi polpastrelli entrarono in contatto con una superficie fredda e liscia. Nel momento esatto in cui Jeremy attirò a sé l’oggetto, il ticchettio cessò. Osservò il vecchio orologio di famiglia con aria confusa; d’un tratto, nei suoi occhi, si accese una scintilla di consapevolezza e l’uomo voltò l’aggeggio. L’ago della bussola ricavata dalla parte superiore dell’orologio oscillava ancora leggermente. Istintivamente, Jeremy si avvicinò alla finestra. Dopo essersi assicurato che la moglie stesse ancora dormendo, sollevò lo strumento di fronte a lui: l’ago rimase immobile. Confuso e sollevato al tempo stesso, Jeremy scoccò un’ultima occhiata alla bussola prima di riporla nel cassetto: doveva essersi sbagliato, rifletté fra sé e sé, prima di tornare a letto. Lo strano ticchettio non si fece più sentire per il resto della notte.

*

A quasi trecento metri di distanza, qualcuno si stava allontanando a passo svelto dal viale in cui vivevano i Gilbert. La mano della persona tremò appena, quando il suo indice sfiorò il campanello di casa Forbes. La donna che venne ad aprire la porta in vestaglia aveva corti capelli scompigliati e un’aria piuttosto stanca. I suoi occhi erano spenti: ricordavano qualcuno che è invecchiato tanto in poco tempo. Tuttavia, quelle iridi, si illuminarono all’istante quando riconobbero i lineamenti della ragazza che sorrideva sulla soglia.

“Caroline?”

Caroline Forbes sorrise. Aveva l’aspetto di una diciassettenne, ma il suo sguardo era profondo e maturo, da donna adulta.

“Ciao, mamma.”

Si sforzò di ricambiare il suo sorriso. Un’unica lacrima solitaria riuscì comunque a sfuggire al suo controllo. Caroline si lasciò stringere dalla donna, riconoscendo oltre la sua spalla colori e forme che a lungo avevano costituito il suo mondo.

“Sei tornata” dichiarò Liz, accarezzando con tenerezza i capelli biondi della ragazza: erano ancora ondulati e morbidi, della stessa tonalità e con lo stesso profumo di quando aveva stretto sua figlia a sé per l’ultima volta, dieci anni prima.

“Sono tornata” ripeté Caroline, in tono di voce rassicurante. Sciolse l’abbraccio della madre, così da poterla guardare negli occhi. “Questa volta per restare.”

 

Nota dell’autrice.

Il capitolo è stato betato da May_Z .

 

Anzitutto, buona sera (buon mattino? Uhm).  Chi ha letto It calls me home” o il ciclo di “Cappuccetto rosso” sa  che sto armeggiando da un po’ di tempo per portare alla luce questo progettino folle.

La storia che avete in questo momento tra le zampe è ambientata a una trentina d’anni di distanza dal telefilm. I veri e propri protagonisti della vicenda saranno i nuovi giovani di Mystic Falls, figli dei nostri beniamini ormai adulti: Elena, Jeremy, Tyler, Matt e Bonnie. Per chi volesse farsi un'idea dei personaggi ho inserito un piccolo specchietto di presentazione al capitolo successivo. Nei prossimi capitoli verranno introdotti man mano i vari giovanotti (sono nove, non spaventatevi!). Ovviamente  anche i personaggi del telefilm saranno presenti all’interno della trama - in particolare Caroline.

La bussola, che fa una breve comparsa nel prologo, è stata inserita lì per un motivo ben preciso. Della serie: “tornerò ancora a rompervi le scatole”.

Credo di aver detto tutto, per ora!

Un abbraccio!

Laura

 

 

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Capitolo 2
*** 1. Here we go again ***


Chapter 1.

Pilot. -Here we go Again-

 

 

 

Ma anche se ogni molecola del mio essere si è trasformata fino a rendermi irriconoscibile, il mondo continua a girare.

 I bambini crescono, e il passare del tempo smagrisce i loro volti paffuti.

 I ragazzi innamorati si scambiano sorrisi di nascosto, parlando del più e del meno.

I genitori dormono, mentre veglia la luna, e si svegliano quando i raggi del sole li scuotono dolcemente dal sonno.

Mangiano, lavorano e amano.

 I loro cuori non smettono mai di pompare.

 

 da I diari di Stefan, strane creature.

 

 

“… E quella che abbiamo appena superato era l’aula di chimica. Fine del tour, Bethany.”

Caroline Lockwood si sistemò una ciocca bionda dietro l’orecchio. Cercò di individuare la cresta di capelli scuri del suo migliore amico tra la folla, ma quel pomeriggio, nel corridoio, non vi era alcuna traccia di Alexander Gilbert. Non faticò a immaginarlo ancora mezzo addormentato sul banco, provato dalla doppia razione di storia avuta quella mattinata. Sorrise alla nuova compagna di corsi, rallentando per stare al suo passo.

“Hai bisogno di qualche altra informazione?”

Bethany arrossì; lentamente, allungò un braccio in direzione degli armadietti.

“Non è che conosci il nome di quel ragazzo, per caso?” domandò, indicando uno degli studenti. Caroline scosse il capo con un cipiglio a metà fra l’esasperato e il divertito: conosceva fin troppo bene il giovanotto che aveva catturato la sua attenzione.

“Ehi, fighetto!” lo richiamò a quel punto, avvicinandosi agli armadietti con Bethany al seguito.

Il fighetto in questione aveva le spalle appoggiate all’armadietto e le braccia incrociate sul petto; i colori vivaci del giubbotto erano in aperto contrasto con le ciocche di capelli scuri che incorniciavano il viso dai lineamenti marcati del ragazzo. Era un giovanotto attraente, anche se il suo mezzo sorriso sghembo e canzonatorio era proprio il genere di dettaglio che infondeva a Caroline una sorta di fastidio istintivo, costringendola a ignorare i tipi come lui. Fortunatamente con Mason Lockwood non aveva bisogno di porsi quel tipo di problemi, poiché il “bel faccino” in questione non era altri che il suo fratellino.

Nel sentirsi chiamare fighetto, Mase scoccò un’occhiata in direzione delle due ragazze. Quando individuò il sopracciglio leggermente inarcato di Caroline, sorrise; poi la salutò con un cenno del capo – ignorando l’espressione paonazza di Bethany – tornando subito dopo a fissare il via vai di studenti con aria inespressiva.

“È mio fratello” spiegò semplicemente Caroline, allontanandosi dal corridoio. “Lascialo perdere, Bethany…” si raccomandò, circondando le spalle della nuova amica con un braccio. “ ... fatti questo favore.”

Bethany sospirò con aria malinconica, quasi come se la ragazza le avesse appena consigliato di liberarsi del suo animaletto domestico.

“Perché è così carino?”

Caroline roteò gli occhi; attirò a sé la borsa che conteneva la sua attrezzatura da lacrosse per evitare di colpire qualcuno.

“Coraggio. Ci attende una pallosissima lezione di fisica…” annunciò a quel punto, afferrando Bethany per un braccio e guidandola fuori dal corridoio. Per la fretta, quasi non si scontrò con un ragazzo che si stava muovendo nella loro direzione.

“Scusa, Oliver!” gli gridò di rimando prima di allontanarsi. Il giovanotto scosse il capo come per minimizzare e continuò a percorrere il corridoio.

-

“ … E ce la fa!” commentò ironicamente Mason, nell’individuare l’andatura rilassata del migliore amico fra i passi affrettati degli altri studenti.

Oliver Gilbert stava sfogliando un fascicolo di fogli con aria concentrata, all’apparenza per nulla turbato dal caos che regnava attorno a lui. Gli occhi nocciola si sollevarono distrattamente dalla pagina non appena Oliver riconobbe il tono di voce canzonatorio dell’amico.

“Ehilà, Mase!” esclamò. Gli rivolse un sorriso luminoso mentre le dita della mano destra andavano a recuperare la matita che aveva incastrato dietro un orecchio.

“Il ritardo di oggi è dovuto a?” lo canzonò Mason, iniziando a camminare al suo fianco.

“Che?”

Oliver riprese a studiare il suo fascicolo annotando qua e là alcune piccole modifiche. Mason aveva sempre avuto l’impressione che l’amico talvolta faticasse a notare ciò che gli succedeva attorno, e aveva finito  per invidiare il modo in cui sembrava essere in grado di estraniarsi dalla realtà senza il minimo sforzo. Spesso l’aveva persino sorpreso a fischiettare con aria distratta sotto la pioggia, senza la minima traccia di un ombrello. Oliver era un tipo pacato, amichevole, incline al sorriso per natura. Raramente a Mason era capitato di vederlo turbato o nervoso per qualcosa; di rado si arrabbiava. E quel tratto del suo carattere aiutava a tenere a bada gli scoppi di collera che molto spesso avevano per protagonista Mase.

“Lascia perdere” commentò il giovane Lockwood, dando di gomito all’amico. Oliver ricambiò, dopo avergli scoccato un’occhiata divertita. Mason stava per lasciarsi sfuggire una seconda gomitata, quando la sua attenzione venne d’un tratto catturata da un particolare alla loro sinistra: qualcuno lo stava fissando.

Non era il tipico sguardo che riceveva spesso dalle sue compagne di corsi; qualcuno lo stava osservando con aria apprensiva, quasi malinconica: qualcuno lo stava osservando come se lo conoscesse da sempre.

“Oliver…” mormorò a quel punto, tirando la manica della felpa dell’amico. “… quella ragazza la conosci?”

Aveva i capelli biondi e un’aria vagamente nervosa, come se il fatto di trovarsi in un corridoio pieno di studenti la facesse sentire a disagio.

“Di chi stai parlando?” Oliver scrutò con curiosità la zona del corridoio che l’amico stava tenendo d’occhio. “Io non vedo nessuna ragazza sconosciuta.”

Ed effettivamente Mason se ne accorse non appena volse di nuovo lo sguardo in quella direzione: la ‘bionda dall’aria insolita’ non c’era più.

“Se ne è andata” commentò in tono di voce asciutto, passandosi una mano sotto il mento. “Niente, è che mi è sembrato di…” era sicuro di non avere mai incrociato quella ragazza a scuola prima di quel momento. Eppure, in un certo senso, il suo viso aveva un che di familiare.

“Di cosa? Pronto? Mase!”

Mase aggrottò le sopracciglia con aria pensierosa.

“Mase” lo chiamò ancora Oliver, ma questa volta con minor convinzione. Finalmente il ragazzo si volse in direzione dell’amico.

“Oliver?”

Oliver scosse il capo con aria divertita.

“ Andiamo in classe, che è meglio” concluse, abbozzando un sorriso.

-

Dall’altro lato del corridoio Caroline Forbes si stava allontanando in fretta, maledicendosi per la stupida idea che aveva avuto. Mystic Falls le era mancata; le era mancata quella scuola sulle cui pareti stava aggrappato il suo mondo di adolescente: il mondo della Caroline umana. Era una Caroline lontana la ragazza che aveva attraversato quei corridoi in passato, spettegolando in compagnia delle coetanee; una Caroline di cui ormai conservava solo un ricordo. Provava affetto per lei nella maniera tenera in cui si vuole bene a una sorellina minore e aveva sentito il bisogno di riviverla - anche se solo per una manciata di minuti - non appena aveva riconosciuto il chiacchiericcio vivace degli studenti diretti verso la scuola.

Tuttavia, non le era stato possibile: gli stessi armadietti che per anni avevano simboleggiato per lei la quotidianità adesso le erano estranei, così come le aule animate da studenti di cui non conosceva nulla – né i nomi, né le loro storie. Si sentiva un’estranea all’interno della sua stessa città, della sua stessa scuola. Quell’ambiente che un tempo era stato così familiare per lei, adesso non le portava nient’altro che disagio.

E poi il suo sguardo aveva riconosciuto qualcosa, qualcuno in quella calca di volti sconosciuti. Si ricordava di lui, del ragazzo dall’aria distaccata che aveva individuato vicino agli armadietti.

L’aveva conosciuto da bambino, il piccolo Mason Lockwood. Lui era quel ragazzino timido e insicuro, il primo tra i piccoli Lockwood che aveva ricambiato il suo sguardo. Il bimbo che l’aveva sorpresa ad ascoltare le favole che il padre raccontava a lui e ai fratelli, prima di metterli a letto. Mason era il ragazzino che aveva stretto a sé dieci anni prima, spostandolo appena in tempo dalla traiettoria di un camioncino per evitare che venisse investito.

Mason era il motivo per cui Caroline era stata costretta a riaffacciarsi al passato quello stesso pomeriggio, incontrando una persona che faceva parte del sua vecchia vita e che ormai era cresciuta, maturata. Era un Tyler adulto quello che le aveva stretto la mano quel giorno. Un Tyler cambiato, come tutto a Mystic Falls. E, nonostante gli occhi grigi e l’atteggiamento riservato di suo figlio tentassero di indicarle il contrario, Caroline rivedeva in Mason parte di quel Tyler Lockwood che un tempo era stato suo amico.

E più tardi anche qualche cosa di più.

 

***

Florida, Jacksonville University

Katherine Pierce si stava annoiando.

Non che ci fosse nulla di strano in questo: non erano molte le cose che riuscivano a mantenere vivo a lungo l’interesse della vampira; si stufava facilmente, Katherine.

Eppure, la decisione di trasferirsi di straforo all’università di Jacksonville era sorta proprio in seguito ad un suo capriccio. Dopo aver trascorso l’ultimo decennio a scorrazzare per l’Europa in compagnia di Damon, Katherine aveva d’un tratto avvertito il desiderio di prendersi una pausa, di cambiare aria per un po’.

La Florida le era parsa fin da subito la meta ideale per una sosta; ricordava ancora bene le spiagge gremite di stranieri svogliati, i corpi scolpiti e abbronzati dei surfisti e il chiacchiericcio vibrante degli adolescenti appollaiati sui muretti. Il sangue fresco e le menti particolarmente duttili dei giovani avevano spinto Katherine a tentare la fortuna con un college e così, da due mesi a quella parte, la vampira si era stabilita alla Jacksonville University, occupando uno degli appartamenti nella parte più popolare del campus.

Non era stato difficile per lei adattarsi alla vita frenetica degli studenti universitari; la divertivano i festini del sabato sera che si trascinavano fino all’alba, così come i biondini ubriachi che facevano a gara per attirare la sua attenzione: tanto gagliardi la sera, ma completamente fuori gioco il giorno successivo, quando si svegliavano con un’emicrania e diversi vuoti di memoria (che molto spesso non avevano a che fare con l’alcool).

Ed era proprio l’ennesimo ragazzo biondo quello che Katherine stava osservando con interesse quel pomeriggio; il giovanotto sedeva con i gomiti appoggiati alle ginocchia, lo sguardo completamente assorbito dal libro che reggeva tra le mani.

Di tanto in tanto, scoccava un’occhiata di sfuggita al cellulare per tenere d’occhio l’orologio sul display: aveva l’aria da bravo ragazzo, accentuata dalla massa di capelli biondo scuro che incorniciavano un viso dai lineamenti pacati; l’espressione rilassata del giovane, tuttavia, si tese leggermente quando il ragazzo si accorse che qualcuno lo stava osservando. Katherine gli sorrise con una punta di malizia nello sguardo, adagiando il mento sul pugno chiuso.

“Cosa studi, biondino?” domandò, accennando con il capo al libro aperto sulle sue ginocchia; il giovanotto le sorrise debolmente, a metà fra l’imbarazzato e il divertito.

“Legge” si limitò a rispondere, prima di scoccare l’ennesima occhiata al cellulare.

“Stai aspettando qualcuno?” lo interpellò la vampira con un accenno di broncio, notando il gesto. Il giovanotto tornò a ricambiare il suo sguardo: la schiettezza di Katherine lo stava mettendo visibilmente a disagio.

“Un amico” ammise infine, tornando a concentrarsi sul libro. “Lo accompagno all’aeroporto.”

“Perché non vieni con me, invece?” domandò Katherine a quel punto, avvicinandosi ulteriormente; aveva voglia di arruffare la frangetta del ragazzo, ma dimenticò quei pensieri all’istante quando il suo sguardo incontrò quello del giovanotto: aveva gli occhi castani, un paio di iridi dal taglio particolare, che risvegliarono in Katherine un’insolita sensazione di déjà-vu.

Erano occhi, quelli, che non si scostavano poi molto dai suoi, scuri e profondi, ma non schivi. Occhi che si sforzavano di suggerirle qualcosa.

“Vieni con me.”

E nel pronunciare quelle parole, Katherine si assicurò di avere lo sguardo del ragazzo alla stessa altezza delle sue iridi. Prima che il biondino avesse tempo di risponderle, tuttavia, un secondo giovane fece capolino alle sue spalle, e gli diede una pacca amichevole sulla nuca.

“Jeff” lo richiamò con un sorrisetto divertito, scoccando poi un’occhiata incuriosita a Katherine.

“Ricki! Eccoti.”

Il ragazzo di nome Jeff sorrise, infilando il libro nella tracolla.

“Andiamo?” domandò l’altro, passandosi il borsone da una spalla all’altra.

Katherine esaminò il nuovo arrivato con un guizzo divertito nello sguardo: aveva un’aria più scomposta rispetto al biondino, a cominciare dai ciuffi di capelli scuri che gli ricadevano disordinatamente sulla fronte. Voltò nuovamente lo sguardo in direzione di Jeff.

“Resta” Cercò nuovamente di imporsi, facendo scontrare le due paia di iridi. Tuttavia, il suo tentativo di ammaliamento non funzionò; Jeff sorrise educatamente a Katherine e sistemò il libro di testo nella borsa a tracolla.

“È stato un piacere…” si congedò, ignorando l’occhiatina di scherno scoccatagli dall’amico. “… ma dobbiamo proprio andare.

Stranamente, Katherine non replicò; incuriosita, si limitò a tallonare i due ragazzi con lo sguardo, chinando appena il capo per contemplare il fondoschiena dell’ultimo arrivato. Arricciando le labbra in una smorfia soddisfatta, la vampira tornò a rivolgere la sua attenzione sul biondino di nome Jeff, domandandosi se il ragazzo fosse a conoscenza della verbena che portava addosso.

 

________________________

Nota dell’autrice. 

 

Capitolo betato da May_Z

Allora, anzitutto una premessa: non ho mai scritto su Katherine e questo è il mio primo tentativo in assoluto. Spero non risulti troppo OOC *si nasconde dalla Ecate*.

Tornando a noi… Ecco il primo capitolo! Sono emozionata, ecco. I miei pargoli crescono, vagano per il sito, e non posso che esserne felice. In questo episodio pilota avete fatto conoscenza con alcuni dei nuovi protagonisti: c’è Caroline (Lockwood) con la sua amata attrezzatura da lacrosse sempre a portata di mano. Ci sono Mason (alias, fighetto) e Oliver. E poi abbiamo una nostra vecchia conoscenza, Caroline Forbes, che inizia a rivelarci qualche cosuccia sul suo passato… E su Mason. Entrambi i ricordi citati da Caroline a proposito del piccolo Mase sono presenti su Efp sottoforma di one-shot che potete tranquillamente considerarli dei “prequel” di questa storia.

Passando a Katherine… a quanto pare che la nostra doppelgänger ha fatto conoscenza con il maggiore dei fratelli Donovan. Nel prossimo capitolo torneremo a Mystic Falls e incontreremo un altro paio di nuovi personaggi, ma prima o poi sentiremo sicuramente parlare ancora di Kath.

Detto questo, i prossimi capitoli arriveranno sicuramente molto più distanziati rispetto a questi primi, così avrete tutto il tempo per familiarizzare con i nuovi personaggi. Ci sto litigando ultimamente, perché sono tanti e ognuno reclama il suo spazietto personale, ma mi impegnerò al massimo per rendere la trama al meglio.

Credo di aver detto tutto.

Vi ringrazio ancora per la fiducia che avete dato al prologo: sono rimasta in stato di shock per una manciata buona di minuti nel rincasare e trovare le vostre recensioni. Spero di non deludervi!

Ancora grazie, e al prossimo capitolo!

 

 Un abbraccio

Laura

 

 

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Capitolo 3
*** 2. The return ***


 

Chapter 2.

The return.

 

 

 

Richmond, Virginia Commonwealth University

 

L’orologio dell’aula di chimica segnava le dieci meno un paio di minuti, quando Julian riuscì finalmente a introdursi nella stanza. Sbuffando gettò lo zaino a terra e si affrettò a tirare fuori l’astuccio, ignorando l’occhiataccia del professor Ringle.

“Appena in tempo, signor Morgan.”

L’insegnante adagiò il foglio del compito sul banco dell’allievo, la parte bianca rivolta verso l’alto. Julian dubitava che la sua presenza in aula avrebbe fatto alcuna differenza per il risultato del test: la sera precedente aveva studiato sì e no un paio d’ore per poi cadere addormentato sui libri ancor prima che si facessero le undici. Si era svegliato giusto una mezz’oretta prima di raggiungere l’aula, la guancia piatta come la superficie del libro su cui si era addormentato. Le formule chimiche che non aveva fatto altro che ripetere al lavoro ruzzolavano nella sua testa senza alcun criterio, alimentando il nervosismo del ragazzo. Sospirando, Julian si maledisse per non essersi fatto almeno un caffè.

“Potete incominciare adesso.” annunciò infine il professore, controllando l’orologio.

Julian voltò il foglio e, con riluttanza, si concentrò sulla prima domanda. Le parole, tuttavia, non ne vollero sapere di restarsene tranquille in fila: le lettere sembravano mescolarsi fra loro, formando nuovi vocaboli dal significato inesistente.

“Perfetto, ci mancava solo questa…” borbottò il giovane, impugnando la matita e sforzandosi di mettere a fuoco solo le prime parole a inizio riga.

La dislessia era stata un’avversaria fastidiosa per la sua carriera scolastica, ma fortunatamente, con l’aiuto degli insegnanti, era riuscito ad affievolire il difetto almeno in parte, aprendosi così una strada in direzione dell’università. Tuttavia, il fastidio era qualcosa che tornava a scocciarlo di frequente nei momenti di maggior tensione o di particolare vulnerabilità emotiva. Il primo test di chimica del semestre per cui sapeva di non aver studiato a sufficienza era effettivamente il genere di situazione in cui la vecchia dislessia interveniva per dire la sua.

Julian sbuffò una seconda volta, tamburellando con le dita sul banco. In preda allo sconforto, scoccò un’occhiata ad entrambi i lati per esaminare i suoi compagni di banco. Alla sua destra sedeva Josh Caver, capitano della squadra di pallanuoto: niente che potesse servirgli per ottenere la sufficienza in un compito scritto. Dall’altra parte c’era una ragazza che Julian non conosceva se non di vista: tizia ordinaria, capelli di un colore indefinibile tra il rosso e il castano, e camicetta sportiva, una rosicchia-matite professionista a giudicare dall’estremità rovinata di quella che aveva in mano. La ragazza teneva il capo chino sul compito e scribacchiava in maniera rapida e fitta, come se stesse cercando di infarcire il suo foglio con il maggior numero di informazioni nel minor tempo possibile.

Sfortunatamente, come in ogni film che si rispetti, la sgobbona di turno non aveva la minima intenzione di offrire qualche spunto al compagno di banco, considerato il modo in cui si sforzava di coprire i paragrafi già scritti con l’avambraccio.

Secchiona.

Julian incominciò ad avvertire le prime avvisaglie di agitazione; le mani gli prudevano talmente tanto che fu costretto a cacciarsele in tasca.

Quella sensazione aveva un significato ben preciso per lui. Quando a Julian prudevano le mani in quel modo o aveva fatto il pieno di punture di zanzara oppure, cosa ben più probabile, nel suo corpo stava prendendo il sopravvento quel qualcosa che lui aveva quasi affettuosamente soprannominato il fruscio. Era la parte di se stesso che più apprezzava, la particolarità che lo rendeva diverso: speciale agli occhi di sua madre Bonnie e terribilmente irritante a quelli fermi e razionali di suo padre David. Il fruscio era una sorta di mormorio smorzato che avvertiva di tanto in tanto; era una voce che gli sussurrava di spingersi oltre, di agire, e che lo sorprendeva nei momenti di maggiore tensione, rabbia o paura... Fino a qualche anno prima non era mai stato in grado di interpretare quelle indicazioni confuse dettate dal suo istinto e si era limitato ad ascoltare, consapevole che qualcosa di strano stava incominciando a prendere forma: solo, non sapeva darle un nome. Il fruscio si era tramutato in qualcosa di più tangibile durante gli ultimi anni di liceo. In quel periodo, grazie anche all’aiuto della madre, aveva imparato a comprendere il significato di quello che sentiva, tramutandolo in qualcosa di più concreto. Qualcosa che gli sarebbe stato utile nelle situazioni di pericolo. A un paio d’anni di distanza da quel periodo, Julian continuava a chiamare quella stranezza fruscio, ma probabilmente i suoi coetanei si sarebbero limitati a denominarla “magia”.

Stremato per via del turno serale al pub e teso come non si sentiva da tempo, Julian non impiegò molto a decidere che, se non avesse dato retta a quel prurito fastidioso ai polpastrelli, l’ansia l’avrebbe steso  prima ancora che la lancetta dell’orologio sfiorasse il numero 11. Esaminò l’aula alla ricerca d’ispirazione. Scambiare il suo compito con quello della compagna di banco sarebbe stata la cosa migliore da fare, ma Julian dubitava esistesse qualche formula in grado di condurre a qualcosa di simile.

“Signor Morgan: il naso sul suo compito, prego” lo ammonì il professor Ringle con aria severa e qualcosa di vagamente simile al divertimento inciso nello sguardo.

L’insegnante si era fatto una cattiva idea su di lui sin dal primo giorno di lezione e Julian sospettava che c’entrassero qualcosa i ritardi cronici e le difficoltà di apprendimento che lo caratterizzavano. Era abituato a sentirsi schernito dall’insegnante, e non era difficile intuire dal suo ghigno soddisfatto che l’uomo aveva percepito il suo disagio. Sbuffando, Julian distolse lo sguardo da Ringle. Fu in quel momento che i suoi occhi si spostarono con aria distratta sul dispositivo di allarme anti incendio.

Dimenticò il compito e anche lo sguardo sospettoso dell’insegnante. Il ragazzo focalizzò la sua attenzione sull’allarme e tentò di indirizzare l’insolita sensazione che avvertiva – il fruscio – verso il punto desiderato: non successe nulla.

Nonostante le mani gli prudessero sempre di più, l’allarme rimase silenzioso. Julian sospirò e tornò a concentrarsi: il fruscio aumentò d’intensità eppure, il ragazzo ne era convinto, c’era qualcosa che lo bloccava. Distolse lo sguardo, guardandosi freneticamente attorno con aria ansiosa, ma l’unica persona che pareva aver notato il suo nervosismo era Ringle. Il ghigno sul suo viso si era allargato a formare una sorta di mezzaluna particolarmente inquietante. Un dubbio fece capolino nella testa del ragazzo, punzecchiandolo con insistenza.

Julian lo scacciò, tentando per l’ultima volta di focalizzare la sua attenzione sull’allarme; alla fine avvertì qualcosa di simile al sollievo avvicinarsi. Chiunque aveva tentato di opporre resistenza contro le sue manovre stava allentando la presa.

Dapprima si udì uno scatto. Pochi secondi dopo,l’allarme incominciò a ululare e una pioggia artificiale iniziò a inondare i banchi degli alunni.

 “Tutti fuori, in fretta!” annunciò Ringle, chinandosi, per evitare che l’acqua gli schizzasse le lenti degli occhiali.  A Julian non piacque per niente l’occhiata che l’insegnante gli scoccò: aveva un che di inquisitorio e ciò non poteva fare altro che aumentare nel ragazzo la sensazione di prurito ai polpastrelli.

Se Ringle sapeva cosa aveva fatto, significava che era stato lui a tentare di impedire che l’allarme scattasse. E questa supposizione spianava la strada a un’altra ipotesi ben più preoccupante: Ringle doveva essere come lui. E Ringle lo detestava.

Con un brivido, Julian si affrettò a recuperare lo zaino e, prima che chiunque riuscisse anche solo ad abbandonare la sedia, il ragazzo era già scomparso.

***

Erano passati solo due mesi dall’ultima volta che Ricki Lockwood aveva attraversato quel vialetto, eppure due mesi sono anche troppi per qualcuno abituato a percorrere la stessa stradina almeno tre o quattro volte al giorno. Quando era bambino passava forse più tempo in strada che nel giardino a causa di tutte le volte in cui il pallone da calcio superava la recinzione della tenuta. Per questo i vicini dei Lockwood avevano imparato a guardarsi intorno con aria circospetta prima di avventurarsi fuori dalle rispettive case, temendo l’arrivo di una pallonata improvvisa.

Ricki si avviò lungo l’ultimo tratto di viale con andatura rilassata. Tirò fuori le mani dalle tasche solo quando raggiunse il cancello di casa Lockwood e, mentre una delle due correva a strofinare con vigore i capelli arruffati, la seconda si avvicinò al campanello. Prima che l’indice del ragazzo sfiorasse il bottone del citofono, il suo sguardo notò una vettura parcheggiata dall’altro lato della strada: Ricki la riconobbe come la macchina dello sceriffo Fell. Il proprietario dell’auto aveva le braccia conserte sul petto e stava osservando la tenuta dei Lockwood con aria vigile, il fianco appoggiato al retro della macchina. Aveva qualcosa in mano: un taccuino, forse.

Il ragazzo appoggiò il gomito alla cassetta delle lettere e prese a fissare l’uomo in maniera altrettanto intensa; il sospetto si insinuò in lui, cerchiando le iridi scure del ragazzo di diffidenza. Perché lo sceriffo stava osservando a quel modo casa sua?

I suoi pensieri si spostarono istintivamente in direzione del padre. Che Fell avesse iniziato a notare qualcosa di strano in lui?

Ricki scacciò via quelle supposizioni, sfregandosi il capo con forza: come se così facendo potesse allontanare anche il fastidioso presentimento.

“Guarda un po’ chi si rivede!”

Il gomito del ragazzo scivolò per la sorpresa e la sua testa si trovò ad avere un incontro molto ravvicinato con la cassetta delle lettere.

“Maledizione!” esclamò il giovane Lockwood, massaggiandosi la tempia che aveva appena sbattuto. La ragazza che gli aveva rivolto la parola scosse il capo con aria divertita.

 “Tu non cambi mai, Ricki Lockwood. Sempre goffo e sempre maldestro.”

“E tu sei sempre la solita rompipalle Vic, grazie tante per l’ennesimo infarto” ribatté il ragazzo.

Vicki Donovan sorrise.

“Mi chiedo come tu abbia fatto a giocare da attaccante a calcio per tutti questi anni, quando non riesci a fare più di dieci passi senza inciampare o andare a sbattere contro qualcosa…

“La vogliamo finire?” la rimbeccò Ricki arrossendo. Scrutò la sua espressione maliziosa e le lentiggini che accarezzavano appena il naso della ragazza: nemmeno lei era poi così diversa rispetto a qualche anno prima.

Certo, fisicamente qualcosa era cambiato. La divisa da cheer-leader che aveva incominciato a portare a quattordici anni ora le aderiva perfettamente al corpo, mettendo in risalto il fisico slanciato che aveva ereditato dalla madre. E poi c’erano i capelli. Vicki cambiava acconciatura tanto spesso quanto Ricki inciampava. Ma per il resto, Richard Lockwood continuava a vedere Victoria Donovan come la ragazzina petulante e un po’ suonata di sempre, sorella del suo migliore amico.

 “Ehi, un momento…

Ricki si voltò giusto in tempo per individuare la macchina dello sceriffo allontanarsi dalla tenuta dei Lockwood. “Per caso hai notato se lo sceriffo viene spesso da queste parti?” domandò alla ragazza, indicando la vettura con un cenno brusco del capo.

Vicki si sistemò una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio.

“Veramente no. Non ci ho mai fatto caso” commentò, appoggiandosi a sua volta alla cassetta delle lettere.

“Allora, hai conosciuto qualche ragazza al campus?”

Ricki scoccò distrattamente un’occhiata al suo orologio da polso e ancora una volta si passò una mano fra i capelli. Era la seconda settimana di novembre: un venerdì. Non ci sarebbe stata la luna piena fino all’ultimo giovedì del mese.

“Ricki!” Victoria schioccò le dita a pochi centimetri di distanza dagli occhi del ragazzo. “Non vorrai imitare Oliver fin da subito, non vi siete nemmeno ancora visti.”

Ricki si sorprese a sorridere: nel sentir nominare Oliver la sua mente evocò prontamente l’immagine di Mase, e il ragazzo si trovò a realizzare quanto gli fosse mancato suo fratello in quei due mesi di lontananza. Quanto gli fossero mancati tutti, in realtà.

“Eh?” domandò a quel punto, sorridendo a mo’ di scusa. Vicki si schiarì la voce.

“Ragazze.” ripeté in tono di voce fermo, rivolgendogli un’occhiata allusiva. Ricki distolse lo sguardo.  Era perfettamente a conoscenza dei sentimenti di Vicki nei suoi confronti, e il fatto che la giovane non si fosse mai fatta problemi a nasconderlo lo innervosiva e esasperava al tempo stesso.

Perché Vicki era la sorella di Jeff; nient’altro che la sorella del suo migliore amico.

“Le cose non sono cambiate, Vic.” dichiarò, decidendosi finalmente a premere il bottone del citofono: il cancello dei Lockwood scattò automaticamente poco dopo, permettendogli di entrare.

“Come hai detto tu, Ricki Lockwood non cambia mai!”

Vicki inarcò un sopracciglio, prima di mettersi a correre in direzione di casa Donovan.

“Potrei anche essermi sbagliata!” esclamò, salutandolo con un cenno della mano. Il ragazzo scosse il capo. sorridendo appena, prima di tornare a infilarsi le mani in tasca.

“Ricki la peste è tornato per scombussolarvi l’esistenza!” annunciò a quel punto a voce alta , avviandosi verso l’ingresso della villa.

“Tu!” Richard non faticò a immaginare l’indice di Caroline Lockwood puntato sulla sua schiena.

“Sei tornato e nessuno mi aveva detto nulla! Che famiglia di antipatici!” strillò la ragazza, precipitandosi di corsa in direzione del fratello.

“Fratellone!” esclamò, gettandogli le braccia al collo con slancio.

“Ciao, sorella!” Ricki rise, stritolando Caroline in un energico abbraccio. “Mi sei mancata.” Ammise.

La ragazza gli scoccò un bacio sulla guancia.

“ Hai fatto la brava mentre ero via?” la prese in giro il maggiore, ammonendola con lo sguardo.

“E tu hai distrutto altre telecamere molto costose?” ribatté la sorella, inarcando un sopracciglio.

Ricki arrossì.

 “È successo solo una volta. E la potreste smettere tutti quanti di sfottere il mio lato maldestro? Ho molte altre qualità…

…Che al momento mi sfuggono.”

A completare la frase di Ricki era stato un ragazzo che stava raggiungendo i due fratelli dall’ingresso. Aveva un’aria canzonatoria, profondi occhi castani e capelli scuri che formavano una cresta scompigliata  sul capo del ragazzo.

 “Onestamente, Xander, mi sarei preoccupato se non ti avessi trovato qui” Richard sorrise tendendogli la mano; Alexander “Xander” Gilbert la strinse ricambiando il sorriso. “E sarei anche rimasto sorpreso se non ti avessi beccato a mangiare” aggiunse, accennando al pacchetto di patatine che l’adolescente teneva tra le mani.

Xander fece spallucce.

“Ho tenuto d’occhio la tua sorellina per te” annunciò poi, appoggiandosi a Caroline con un gomito; la ragazza gli diede una spintarella. “Qualche maschietto le gironzola attorno, ma nulla di grave.” aggiunse.

“Tienimi aggiornato” si raccomandò Ricki, cingendo le spalle della sorella con un braccio.

“Gli unici maschi che mi gironzolano attorno sono questo svitato del mio migliore amico e il mio altrettanto rompiscatole fratello minore” dichiarò Caroline, scompigliando i capelli di Xander.

“Non i capelli. I capelli no, per favore!” si lamentò il ragazzo. Bloccò i polsi dell’amica per impedirle di rovinargli il crestino.

“Tornando a parlare di fratellini rompiscatole…” Ricki si diede un’occhiata attorno come se pensasse che avrebbe potuto individuare il più giovane dei Lockwood spuntare fuori all’improvviso. “Dov’è Mase?”

Caroline diede una scrollata di spalle.

“Probabilmente è da qualche parte a fare sconcerie con le ragazze più gran… Nonnina! Sei venuta a trovare Ricki?”

Una donna aveva appena raggiunto il giardino dei Lockwood e stava osservando il vialetto con aria pensierosa; Carol Lockwood volse lo sguardo in direzione della nipote e la scrutò sorpresa, come se non si fosse accorta dei tre ragazzi prima di quel momento.

I suoi occhi proseguirono poi in direzione di Ricki.

“Oh ciao, tesoro, sei tornato!” sorrise con aria docile e abbracciò il nipote più grande.

“Come è andato il viaggio?”

Richard si lasciò stringere; Carol Lockwood era ancora una bella donna nonostante avesse ormai superato la sessantina. Le poche rughe che le attraversavano il viso mettevano in risalto la limpidezza dei suoi occhi chiari, senz’altro il dettaglio che più colpiva nel suo viso bonario da nonna.

“Tutto a posto. Tu però mi sembri più magra del solito… Che combini, nonna?” commentò Ricki, scrutandola vagamente preoccupato. L’anziana signora sorrise.

“Tua nonna sta invecchiando, Richard, tutto qui. Vostro padre è già tornato?  Ho bisogno di parlargli” chiese. Caroline scosse il capo e rubò un paio di patatine a Xander.

“Non ancora, ma penso che rincaserà presto questa sera” commentò, appoggiandosi al fratello maggiore. La donna annuì.

“Bene, allora passo più tardi. A presto! Comportatevi bene.” si raccomandò la donna accarezzando i nipoti con lo sguardo, prima di incominciare ad allontanarsi.

“Sicuro!” la rassicurò Ricki, osservandola raggiungere la casa adiacente.

“Mio cugino che fine ha fatto?” domandò in quel momento Xander alludendo a Jeffrey e accartocciando il pacchetto di patatine.  “Credevo che sareste tornati assieme.”

Jeff e Ricki erano migliori amici sin dai tempi dell’infanzia; frequentavano entrambi l’università di Jacksonville, ma, mentre Jeff seguiva i corsi di giurisprudenza, l’indole creativa e poco ordinaria di Ricki l’aveva convinto a optare per il cinema, dando origine a diversi battibecchi in famiglia (in particolare per voce di nonna Lockwood).

Ricki si sfregò i capelli con forza, rivolgendogli un’occhiata pensierosa.

“Il suo corso terminava oggi, quindi ci raggiunge domani mattina. Sempre che non sia troppo impegnato con la moretta che ha conosciuto ieri alla fermata dell’autobus: lo mangiava con gli occhi, vi dico. Eccolo!” gridò improvvisamente, sottolineando la sua esclamazione con un fischio: sorrise al ragazzo che li stava raggiungendo facendo oscillare la tracolla. “Ma guardate un po’ chi si rivede!” annunciò,  tendendo la mano per stringere quella del fratello minore.

“Non mi piace quest’aria da fighetto che stai mettendo su.” commentò poi con un sorriso, mentre Mason si lasciava abbracciare. “Mi fregherai tutte le ragazze così!”

“Lo sto già facendo.” gli fece notare il minore nello stesso esatto momento in cui Caroline stava esclamando “Tutte tranne Vicki!”

Ricki fece una smorfia.

“Ti preferivo timidoso balbettone.” constatò, ricordando con un sorriso divertito il bambinetto insicuro e titubante che era stato il piccolo Mason Lockwood.

“Era dolcissimo!” concordò Caroline, scoccando al fratellino un’occhiata nostalgica. “Perché non sei rimasto così?”

Mason inarcò un sopracciglio.

“Perché non ho più sette anni.” Ribatté, cercando di sfuggire alla presa del fratello, che aveva incominciato a infastidirlo, strofinandogli un pugno sul capo. “Piantala!” si lamentò, allontanandosi da Ricki. 

“No, che non la pianto!”

“Cretino!”

Si azzuffarono per gioco, come avevano sempre fatto sin da quando erano piccoli; lentamente, lo sguardo di Mason iniziò a farsi meno nervoso e più rilassato, ed era una cosa che capitava di raro.

“Beh, ben tornato a casa Ricki!” si annunciò da solo il maggiore dei fratelli Lockwood continuando ad arruffare i capelli di Mason, mentre Xander e Caroline ridevano della loro baruffa. “Ben tornato a casa.”

Nota dell’autrice.

 Capitolo betato da May Z

Visto che mi dimentico sempre, lo scrivo all’inizio. Da poco è nato anche un gruppo facebook interamente dedicato a History Repeating, con foto, anticipazioni, indicazioni sul quando mi degnerò di postare ogni volta (XD)e via dicendo. Lo trovate QUI

Anyway, ecco il secondo capitolo!

Spero che mi perdonerete se in questa parte mi sono concentrata sui personaggi nuovi e ci sono pochi riferimenti ai vecchi, ma avevo bisogno di presentarli bene, e prendere un po’ di spazio tutto per loro era l’unico modo. Ad ogni modo, vi tranquillizzo dicendo che nel prossimo capitolo tornerà Caroline (Forbes) e non solo. Elena e farà la sua prima comparsa e anche altri vecchi personaggi.

Mi chiedete in tanti che fine hanno fatto Stefan e Damon; beh, Damon, come ha accennato Katherine al capitolo precedente, ha vagabondato per l’Europa una decina d’anni in compagnia della vampira. Stefan era con Caroline, ma verrà detto qualcosa di più nel prossimo capitolo, quindi non aggiungo altro. Se i fratellini torneranno a Mystic Falls? No. Non credo. Anche se sicuramente ne sentiremo ancora parlare.

Passando al capitolo di oggi… Allora, anzitutto abbiamo fatto amicizia con il figliolo maggiore di Bonnie: quell’Harry Potter pasticcione di nome Julian. Credo che sarà l’unico pargolo che avrà uno storyline un po’ distaccato dagli altri. E poi ci siamo spostati a Mystic Falls per assistere al ritorno a casa di  Ricki che avevamo già intravisto nel capitolo precedente. Qui entra in scena un’altra vecchia conoscenza, Carol Lockwood, nelle sue nuove vesti di nonna *O*

E poi, oltre ai pargoli già conosciuti nel capitolo pilot (Caroline Lockwood e suo fratello fighetto Mason), ecco che spunta fuori il primogenito dei fratelli Gilbert, Xander, con tanto di crestino e pacchetto di patatine. E quasi mi stavo dimenticando di Vicki *shame on me* abbiamo conosciuto anche lei.

Pian piano ogni personaggio verrà trattato un po’ più a fondo, questi primi capitoli sono più che altro introduttivi, e servono più che altro a conoscere la nuova “Mystic Falls” e a apprendere un’idea approssimativa circa ciò che hanno fatto i nostri beniamini durante questi 30 anni di vuoto tra la serie TV e la fan fiction.

Ultima cosa; il titolo del capitolo è tratto dall’episodio 2x02 di TVD (‘the Return’, per l’appunto).

Basta così; riesco a vedere il fumo che esce dalle vostre testoline e non voglio trattenervi ancora. Solo una cosa: grazie, grazie, grazie.

Un abbraccio e al prossimo capitolo!

 

Laura

P.S. Grazie mille a Fiery

  che ha letto il capitolo prima della  pubblicazione.

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Capitolo 4
*** 3. Family Ties ***


Chapter 3.

Family Ties.

Tyler: “You were right. I shouldn’t have come home.”
Caroline: “No, you just should never have left.
And you shouldn’t leave again.”

2x21. The sun also rises

 

“Grazie.”

Caroline Forbes sorrise nell’accettare la tazza che la madre le stava porgendo.

“Lo sai che cosa mi è mancato maggiormente della vita a Mystic Falls? Questo.” sottolineò con un cenno del capo, indicando la sua vestaglia rosa e i piedi scalzi che spuntavano da uno dei lembi.

“ Poltrire in pigiama accoccolata sul divano… con una bella vestaglia rosa addosso!”

“Mi stupisce sempre il fatto che dopo tutto questo tempo ti stia ancora alla perfezione.”  mormorò Liz con un pizzico di malinconia nello sguardo, sfiorando una manica della figlia.

 “A New York, tutti questi comfort non li avevi?” riprese poi il discorso di Caroline, prendendo posto accanto a lei.

“L’ultima volta che sei stata qui, mi hai descritto per filo e per segno le meraviglie dell’appartamento a Manhattan; non c’erano divani, lì?”

“Ce n’erano eccome.” ammise la vampira, incrociando le gambe sotto la vestaglia.

“Però mancava il dettaglio più confortevole in assoluto.”

“Le pantofole di paperina?”

“La mia mamma.” annunciò Caroline, sorridendole con dolcezza.

“Di certe cose si continua ad averne bisogno anche da adulti.”

Liz accarezzò con tenerezza il capo della figlia; per quanto si sforzasse di prestare attenzione allo scorrere del tempo, avere Caroline al suo fianco significava dimenticarsi di essere invecchiata, almeno per un po’.

In fondo, non era solo il suo aspetto a rendere Caroline ancora una bambina ai suoi occhi.

Non aveva bisogno di osservarla, per avvertire l’illusione che il tempo si fosse fermato: le bastava ascoltarla, sorridere della parlantina luminosa e confusionaria che ancora la caratterizzava, nonostante si addicesse ben poco a una donna di mezza età.

E riaverla a casa, tornare ad avere a che fare con i suoi discorsi interminabili, le sue lamentele, i suoi gesti d’affetto, significava per Liz avere accesso a una seconda possibilità. Per lei e per Caroline.

Questa volta sua figlia sarebbe stata la sua unica preoccupazione; l’unico pensiero a cui prestare interesse. Averla nuovamente a fianco nelle vesti di adolescente, significava poter rimediare una volta per tutte alle mancanze che avevano fatto capolino nel loro rapporto in passato.

Era più facile per lei, inquadrare l’eterna fanciullezza della figlia in questi termini.

Non come una condanna: ma come un’opportunità.

E ogni tanto, Liz era anche riuscita a convincersi di potersi aggrappare a questa prospettiva.

“Me la spieghi una cosa?” Domandò improvvisamente sollevando un lembo della tenda per dare un’occhiata fuori.

“Perché non sei più tornata?”

Caroline posò la tazza ancora calda sul tavolo e nascose le mani nella vestaglia.

“Sono anni che vivo fuori da Mystic Falls.” rispose con tranquillità, voltandosi verso la madre.

“Ma tornavi sempre, alla fine. Ogni mese inizialmente. Un po’ più di rado con il trascorrere del tempo. Questo fino a dieci anni fa. Perché?”

Caroline strinse le labbra con nervosismo.

“In qualche modo durante quel periodo, mi sono resa conto che Mystic Falls non era più casa; non per me. Era tutto cambiato; non riconoscevo più il Mystic Grill, perfino il nostro viale aveva qualcosa di diverso. Sapevo che tornando indietro ogni mese, avrei fatto più fatica ad accettare il fatto che Mystic Falls continuerà sempre a crescere, ad invecchiare. E con lei, anche la sua gente.” Aggiunse con una leggera durezza nel timbro di voce.

“Con o senza di me.”

Liz si limitò ad annuire, lo sguardo velato da una patina di rassegnazione che ben si amalgamava alla stanchezza incisa fra i suoi lineamenti.

 “Ma adesso sei qui.” mormorò infine, allungando il braccio in direzione della figlia. Caroline sorrise.

“Con te.” Aggiunse la ragazza, stringendo la mano della madre.

“Perché proprio ora?” domandò ancora Liz, non riuscendo a nascondere una punta di curiosità nel tono di voce; Caroline sospirò.

“E’ complicato.” commentò, sistemandosi una ciocca di capelli intrappolata nella vestaglia.

“Ho incontrato papà, un mese fa.” ammise infine, ricambiando lo sguardo della madre.

 “Mi ha detto della sua malattia e ho sentito il bisogno di andarlo a trovare. Stranamente, una volta tanto, non è stato di molte parole.”

Un’ombra leggera appannò per un istante le iridi chiare della ragazza.

“ Ma ho saputo che le cose stanno iniziando a farsi un po’ complicate per le famiglie fondatrici.”

“Se te ne ha parlato, saprai anche che questo non è esattamente il momento migliore per tornare a Mystic Falls.” La ammonì la donna stringendo con più forza la mano della figlia.

“Lo sceriffo Fell si comporta in modo strano, ultimamente. Immagino si domandi come mai da anni non si tengano più riunioni del Consiglio.”

“Credi che papà abbia detto loro della maledizione sui Lockwood?”

Pronunciò quel nome a fatica, quasi il tempo avesse contribuito a farle dimenticare il modo di articolarlo a voce alta.

Lo sguardo di Liz venne attraversato da un lieve barlume di comprensione.

“Sei tornata per lui, vero?” domandò, scrutandola con aria indagatrice.

“No.”

Caroline scosse il capo con aria decisa.

“No. Sono tornata per te. E per i ragazzi…” aggiunse con un sospiro, richiamando alla memoria lo sguardo ostile del giovane Mase.

“So di non avere voce in capitolo a riguardo, ma li ho visti. Ho conosciuto alcuni di loro quando erano ancora bambini e per tutto il tempo che sono rimasta a osservarli, non ho potuto fare a meno di notare le somiglianze con i loro genitori. E di pensare che se solo le cose fossero andate diversamente, forse in quel gruppo di bambini ce ne sarebbero stati anche di miei.”

Liz strinse con maggior forza la mano della figlia.

“Volevo solo assicurarmi che stessero bene.” ammise semplicemente, permettendo poi a un sorriso timido di fare capolino sul suo viso, spazzando via la malinconia incastonata fra i suoi tratti.

In quei pochi secondi, la Caroline adulta lasciò nuovamente posto a quella adolescente.

 “Stanno bene, tesoro.” la rassicurò la madre, prima di raccogliere la tazza di cioccolata calda ormai vuota per andarla a riporre nel lavandino.

“Non vedo perché dovrebbe essere altrimenti. Sono solo dei ragazzi.”

Un sorriso amaro arricciò gli angoli delle labbra della vampira, mentre la ragazza si sollevava dal divano, stringendosi nella vestaglia.

“Anche noi lo eravamo.”

***

I heard that you're settled down
That you found a girl boy and you're married now.

Someone like you - Adele

 

“Eccolo qui il mio ometto preferito!”

Jeffrey sorrise istintivamente avvertendo quelle parole mescolate allo scricchiolio delle assi.

“Come sapevi che ero qui?” domandò, spolverando la base di una sediolina di plastica, liberandola dalla polvere.

Elena attraversò il pavimento tremolante della casetta sull’albero e si chinò per sedersi, avvolgendo in un abbraccio il suo primogenito.

Era la stessa casetta in cui aveva trascorso la maggior parte della sua infanzia, improvvisandosi esploratrice assieme a Matt o divertendosi a fingersi donnina di casa in compagnia di Bonnie e Caroline.

La casetta che, una decina di anni prima, lo stesso Matt aveva in parte ricostruito con l’aiuto di Tyler e Jeremy, per evitare che i loro irrequieti figlioletti ruzzolassero giù attraverso qualche trave rotta.

“E’ stato facile intuire dove ti saresti catapultato non appena tornato a casa. Da piccolo amavi questo posto.”

spiegò semplicemente la donna, separandosi da Jeffrey.

“…e poi ho ricevuto una soffiata.” aggiunse con un guizzo divertito nello sguardo, indicando l’uscita con il pollice.

Il ragazzo scoppiò a ridere.

“Papà.” Commentò, scuotendo il capo. La madre annuì.

“Mi sei mancato, Jeffers.” ammise infine rivolgendogli un sorriso malinconico.

“Anche voi mi siete mancati.”

Jeffrey sospirò allungando le braccia, per distendersi.

 “Ma la Florida mi piace. I corsi sono interessanti… e poi c’è Ricki con me.”

La madre annuì, sistemandosi più comodamente sulla sediolina.

“Sai Jeff, per quanto non mi piaccia saperti così lontano, sono contenta  che tu abbia deciso di viaggiare; di uscire per un po’ da Mystic Falls, farti un po’ più di spazio nel mondo all’infuori di questa cittadina.”

“Che è un po’ quello che volevi fare tu alla mia età.” Commentò Jeffrey passando il dito tra le scanalature del tavolino in legno.

“E l’ho fatto.” Elena ammise, evocando nella sua testa frammenti di un passato ormai sbiadito.

“Ho viaggiato per anni, Jeffrey. C’erano cose, dei dettagli, che avevo voglia di lasciarmi alle spalle, almeno per un po’. E non ci sarei mai riuscita restando qui.”

“Ma poi sei tornata.” le fece notare il figlio con aria confusa.

“Hai sposato papà. Riallacciato i rapporti con la gente del posto. Perché?”

Elena rimase in silenzio per qualche istante, osservando con un pizzico di tenerezza il volto del suo primogenito.

“Certe volte, le cose che lasciamo indietro non hanno voglia di fare altrettanto con noi; alla fine, mi sono resa conto che per quanto stessi cercando di dimenticare Mystic Falls, una parte di me era decisa a non scordarla. E quella parte ha vinto, alla fine.”

“Meglio così.” concluse Jeffrey, intrecciando le dita dietro la nuca.

Elena sorrise; il suo sguardo saettò rapido in direzione della scaletta, quando lo scricchiolio delle assi iniziò a farsi più marcato.

“C’è una riunione di famiglia, qui?”

Matt si arrampicò a fatica lungo l’apertura, spolverandosi poi i capelli corti con la mano.

“Ricki mi ha detto che hai fatto colpo!” aggiunse dopodiché, ammiccando in direzione del figlio.

Jeffrey si grattò il capo con aria imbarazzata.

“Ricki non è in grado di tenere la bocca chiusa.” Mormorò stringendosi contro il muro, affinché il padre potesse prendere posto a fianco a lui.

“E’ tale e quale a Tyler.” commentò Elena con un guizzo divertito nello sguardo. 

“Due pettegoli di prima categoria; peggio delle donne.”

“Se è come il padre, significa che sposerà una bionda anche lui?”

Il viso di Victoria fece capolino incorniciato dalle assi.

“Forse dovrei prendere in considerazione l’idea di tingermi i capelli…”

“Non hai ancora intenzione di rinunciare a corrergli dietro?” la prese in giro suo fratello, mentre la ragazza si arrampicava agilmente all’interno della casetta.

“Non nell’immediato.” rispose Vicki con aria soddisfatta, stampandogli un bacio sulla guancia.

“Bentornato, fratellone!”

“Ho come l’impressione che queste assi non reggeranno ancora a lungo.” Commentò Elena osservando con aria preoccupata il pavimento della casetta.

“Forse dovremmo spostare la riunione di famiglia al piano di sotto…”

 “Ehilà famiglia Donovan!”

Un richiamo canzonatorio li raggiunse dal cortile proprio in quel momento; gli occhi di Vicki si illuminarono.

“Sbaglio o è la voce del mio figlioccio, questa?” domandò Matt, mentre la figlia si affrettava a scendere le scale; Jeff le andò dietro ridendo.

“Eeeesatto!” annunciò allegramente Ricki, dando una pacca al tronco dell’albero.

“Ah e comunque, papà!” esclamò improvvisamente Jeff, prima di arrampicarsi sulla scaletta.

“La ragazza di cui parlava questo stordito qua sotto… non credo che sarei riuscito a uscirci.”

“ E perché mai?”

Jeffrey diede una scrollata di spalle.

 “Trovo che assomigliasse un sacco alla mamma.” ammise tranquillamente, prima di voltarsi per raggiungere Ricki.

Nell’udire le parole del figlio, Elena sgranò gli occhi.

“Ha detto che mi assomigliava?”

“Ma dai…”

Matt scoppiò a ridere, suscitando l’irritazione della moglie.

“Non starai mica già pensando che fosse…”

“No.” Concluse la donna in tono di voce secco.

L’ultima cosa al mondo che aveva voglia di figurarsi era suo figlio in balia dei capricci di una certa Katherine Pierce.

“Sarà meglio per lei di no.”

***

“Buongiorno mamma e papà!” esclamò Xander allegramente, facendo ingresso in cucina. “Yum, biscotti!” aggiunse, notando la teglia che la madre aveva appena appoggiato sul tavolo.

“Non ci provare, non sono per te.” Hazel lo ammonì, inarcando pericolosamente un sopracciglio. Il figlio sollevò le mani in cenno di resa.

 “Ehilà, Xander bello!”

Jeremy gli diede una pacca sulla spalla, voltandosi poi per posare la tazzina da caffè nel lavandino.

“Hai già invitato mezzo vicinato alla partita di domani?”

Xander scosse il capo con aria canzonatoria.

“Direi più tre quarti del vicinato.” annunciò, allungando una mano in direzione della teglia; la madre la schiaffeggiò, prontamente.

“Te le taglio quelle dita.” lo minacciò, indicandolo con il cucchiaio di legno.

“Devo scappare al lavoro.” comunicò a quel punto Jeremy scoccando un bacio veloce alla moglie e sistemandosi alla svelta i capelli ancora arruffati.

 “Buona giornata.” gli augurò dolcemente Hazel, prima di notare la manciata di biscotti che il marito teneva nascosta dietro la schiena. Colpì la mano di Jeremy con il cucchiaio, sotto lo sguardo divertito di Xander.

 “Ma sei matta?” esclamò l’uomo, avvicinandosi le dita ferite alla bocca.

“Sei peggio di tuo figlio.” lo rimbeccò la moglie, ritirando la teglia nel forno.

Jeremy e Xander si scambiarono un’occhiata d’intesa.

“Hai una madre violenta, Xander bello…” mormorò il padre con un ghigno divertito, prima di prendere la giacca e uscire dalla cucina.

“Ci sono visite!” annunciò ancora, una volta raggiunto l’ingresso. Caroline Lockwood lo salutò con un sorriso e si avviò in direzione del corridoio.

“Oh buongiorno!” aggiunse poi, rivolta alle due persone che stavano scendendo le scale proprio in quel momento.

 Mason appoggiò la schiena alla ringhiera, mentre Oliver si accoccolava sugli ultimi gradini, lo sguardo assorto da uno dei suoi ultimi progetti.

“Anche tu qui?” domandò ironicamente la ragazza al fratello. Mason diede una scrollata di spalle e smosse con un calcetto le ginocchia di Oliver, per fargli perdere la concentrazione.

“Sei ancora tra noi, straniero?” chiese; era da un paio di giorni che il minore dei fratelli Gilbert appariva, se possibile, ancor più stralunato del solito.

“Lascialo stare.” Caroline rimbeccò il fratello accarezzando Oliver con lo sguardo.

“Ho quasi finito.” mormorò quest’ultimo con la matita tra i denti, cancellando la rigaccia che Mase aveva contribuito a fargli calcare, deturpando il volto che stava disegnando.

“Ehilà gentaglia!”

Xander si avvicinò al gruppetto con le mani in tasca e un sorrisetto da birbante.

“Vi voglio tutti alla partita di hockey, domani. Intesi?”

“Ci saremo.” lo tranquillizzò Oliver, sollevando il foglio per dare un’occhiata alla versione originale del suo ritratto: era una foto che aveva trovato un paio di giorni prima in soffitta, mentre cercava di recuperare qualche vecchio lavoro del padre.

Nella foto, una ragazza e un ragazzo sorridevano abbracciati. Lui somigliava un po’ a Xander, con quei capelli scuri scompigliati e gli occhi dello stesso colore. In quella foto, Jeremy Gilbert era già padrone del sorriso luminoso che lo avrebbe contraddistinto anche in età adulta; lo stesso sorriso di Oliver.

La ragazza invece non aveva un viso familiare.

Ma era bella. Era semplice. Era tutto ciò di cui Oliver avesse bisogno, per decidersi a prendere in mano il suo blocco da disegno e scivolare nel suo mondo di fogli e carboncino.

“Non potremmo mai perderci il tuo goal decisivo a fine incontro.”

Caroline annunciò con aria scherzosa dando un pugnetto sul braccio al migliore amico; Mason esibì un sorrisetto malandrino.

“Io non voglio perdermi il bacetto vittorioso che vi scambierete dopo il match!” Li prese in giro incrociando le braccia al petto.

Xander inarcò appena un sopracciglio.

“Se usi sempre le stesse battute, Mase, smettono di fare effetto, dopo un po’.”

Caroline sorrise.

“Ma il mio fratellino è piccino! Non ha molta fantasia.” Lo schernì arruffandogli i capelli. Mason la scansò scontrosamente.

“Vaffanculo.” mugugnò, scoccandole un’occhiataccia.

“Oh non fare l’offeso adesso.” ribattè Caroline,prima di indirizzare il suo sguardo verso Xander.

“E per la cronaca…”Aggiunse facendosi spazio fra Oliver e il fratello.“Se proprio ci tieni a saperlo, un bacetto c’è già stato.”

Tre espressioni attonite si affrettarono a fare capolino sui volti dei ragazzi.

“Che cosa?” esclamarono Mason e Xander all’unisono, entrambi sbigottiti.

“Non è vero!”aggiunse quest’ultimo, arrossendo visibilmente. Caroline scoppiò a ridere.

“Avremmo avuto sette o otto anni.” precisò poi tirando scherzosamente la manica all’amico.

“Questo rincitrullito qui nemmeno si ricorda.”

Xander si passò una mano fra i capelli con aria imbarazzata.

“Oh, quello.” Farfugliò, sistemandosi la cresta.

“Non mi era piaciuto per niente.” ammise poi arretrando furbamente, quando l’occhiata assassina di Caroline si depositò su di lui.

“Ripetilo se hai il coraggio.” lo minacciò puntandogli l’indice contro il petto. Xander fece una smorfia.

“Non mi era piaciuto per nie…”

“Sei morto! Dì addio ai tuoi capelli!”

Caroline annunciò, mentre Xander si affrettava a risalire le scale ridacchiando.

“Ok, forse è il caso di mettere al sicuro il mio lavoro.” Costatò Oliver schiacciandosi contro la ringhiera per evitare che la corsa dei due ragazzi lo travolgesse.

“Sì, forse è proprio il caso.” concordò con un ghigno Mason, sfilandogli l’album da disegno dalle mani.

“E questa chi è?” chiese ancora, studiando incuriosito il ritratto a cui stava lavorando l'amico.

Oliver sorrise appena ritirando la matita nell’astuccio.

“Non ne ho idea; è molto bella, però.”

Mason sorrise.

“L’ho sempre detto che sei un po’ schizzato.” commentò, restituendo il blocco al suo proprietario.

Oliver diede una scrollata di spalle.

“Allora, qual è questa novità tanto entusiasmante che volevi comunicarmi?” aggiunse, appoggiandosi al corrimano con i gomiti.

“Ho la tua attenzione?” domandò Mason d’un tratto ravvivato, trafficando con il portafoglio.

Ne tirò fuori un foglietto plastificato che fece sventolare sotto il naso dell’amico.

“Un foglio rosa.” commentò Oliver con meno entusiasmo, rispetto a quanto aveva sperato il coetaneo. “Il mio l’ho ritirato due mesi fa.”  lo prese poi in giro, sfilandogli il foglietto di mano. Mase roteò gli occhi.

“Solo per via dei sessanta giorni scarsi che separano il mio compleanno dal tuo. Vuoi fare un giro?”

Oliver gli diede un colpetto sulla nuca.

“Mi sa che questa volta passo, Mase. E non solo perché è illegale; non ci tengo a finire spiaccicato contro un cartello stradale o qualcosa di simile.”

“Ha parlato il pilota d’aereo provetto.” Lo schernì Mason con una smorfia; dopodiché, sollevò la manica della camicia per esibire una piccola cicatrice che rigava il suo gomito destro.

“Non ti ricorda niente questa?”

Oliver sorrise, passandosi una mano fra i capelli.

“Era un aereo niente male se consideriamo il fatto che lo costruii a nove anni.” constatò in sua difesa, ignorando il sorrisetto di scherno dell’amico.

“Peccato che ci abbia fatto rovinare a terra come due salami per un bel tratto di collina.” rispose prontamente il giovane Lockwood.

“Pilotare aerei è un po’ più complicato che guidare macchine o disegnare una bella ragazza.” Commentò Oliver accennando con il capo all’album da disegno; d’un tratto, il suo sguardo si illuminò.“Ma un giorno ci riuscirò.” Dichiarò tranquillamente esibendo un sorrisetto soddisfatto. Mason scosse il capo scocciato e rassegnato al tempo stesso.

“Sì, come no.” borbottò, scavalcando i gradini che lo separavano dal pianerottolo. Non lo avrebbe mai ammesso, ma per quanto si sforzasse di prenderlo in giro, Mase sapeva di essere il primo a credere nei sogni che Oliver si portava dietro fin da bambino.

C’era qualcosa in lui, nella sicurezza emanata dal suo sguardo mite, che era in grado di infondere fiducia alla più titubante delle persone.

Mase non era un’eccezione.

“E comunque…”

Il giovane Gilbert scese i gradini che lo separavano dall’amico.

“Anche se ci siamo schiantati per colpa mia… Sei stato tu a decidere di salire sul mini aereo con me. Cos’è , avevi paura che Ricki ti prendesse in giro?”

“Nah.” commentò Mase con una smorfia. “Volevo solo piacerti, credo.”

Oliver gli rivolse un'occhiata sorpresa.

“Per questo sì, che Ricki ti prenderebbe per il culo.” Commentò scansandosi, per evitare la spallata dell’amico.

Mason arrossì.

“Se Ricki viene a saperlo, finire spiaccicato contro un cartello stradale sarà l’ultimo dei tuoi problemi.” Dichiarò dandogli una seconda spallata, un sorriso a mitigare la minaccia appena pronunciata.

Oliver ridacchiò sistemandosi l’album da disegno sotto il braccio.

“Per tutte le volte che l’hai detto, a quest’ora potrei considerarmi un fantasma.”

 

***

“Le chiedo scusa, ma non ho ancora capito che cosa l’abbia spinta ad abbandonare New Orleans, per una cittadina come Mystic Falls.”

Gregory Lester picchiettò nervosamente l’estremità della sigaretta sul posacenere.

“Gliel’ho già detto; voglio fare parte del Consiglio.”

Dichiarò secco scoccando un’occhiata veloce ai volti dei presenti. Lo sceriffo Fell aveva gli occhi puntati sulla tracolla che teneva in grembo, mentre la seconda persona, una donna, lo stava osservando con aria attenta.

“Il fatto è, signor Lester…” Lo sceriffo enunciò improvvisamente sollevandosi dalla poltrona.

“Vede, la situazione per quanto riguarda il Consiglio al momento è piuttosto… instabile. Le riunioni che si stanno tenendo in questo mese sono le prime da anni, e come avrà potuto notare, molte delle famiglie fondatrici hanno smesso di interessarsi alla questione. Io e la signorina Willard-Forbes, crediamo che…”

“…Forbes è il cognome della madre?” lo interruppe Lester rivolgendole un’occhiata incuriosita. La donna strinse le labbra in in’espressione poco amichevole.

“Del patrigno, in realtà.” ammise, raccogliendo la tazza di caffè dal tavolino senza distogliere lo sguardo da Lester. Un lieve sorriso di soddisfazione andò a increspare le labbra dell’uomo.

“Dunque nemmeno lei ha un legame con le famiglie fondatrici, in fondo.” Commentò rilassandosi sulla poltrona. Lo sceriffo Fell assunse un’aria vagamente contrariata.

“In realtà, è stata proprio Leanne a propormi di istituire un nuovo Consiglio.” Spiegò, accennando con il capo alla donna. Leanne sorrise.

“Una decina di mesi fa, ho trovato alcune lettere nello studio del mio patrigno intestate dallo sceriffo.” aggiunse, continuando a scrutare Lester.

“Erano aggiornamenti che riguardavano Mystic Falls, la sua gente e in particolare maniera le famiglie fondatrici. Mi sono incuriosita e ho fatto delle ricerche .”

Lo sceriffo annuì.

“Bill Forbes da qualche anno non sembra più essere particolarmente interessato alle questioni che riguardano il Consiglio; il cancro e la vecchiaia lo stanno consumando, povero diavolo. Ma Leanne ha intenzione di prendere il suo posto. Ha messo le mani su alcune informazioni davvero interessanti, in realtà. Interessanti e preoccupanti al tempo stesso.”

“Anche io posso essere d’aiuto.” lo interruppe Lester, muovendosi in avanti con la schiena.

“Sono anni che mi documento, Mystic Falls è alla base di tutte le mie ricerche.”

“Lei è un professore, vero?” lo interrogò Leanne, scrutandolo con aria intrigata da sopra gli occhiali.

“Insegna al liceo di Mystic Falls?”

“Solo come supplente.”

 Lester buttò lì senza prestarle veramente attenzione.

“Ho anche questo.” aggiunse l’uomo, aprendo la tracolla e tirandone fuori un vecchio quaderno dalla copertina consunta.

“Apparteneva a Jonathan Gilbert.” Spiegò, sfogliando alcune pagine a caso e voltandolo, per mostrarlo ai due presenti. Esitò, prima di aggiungere.

“La maggior parte di ciò che so a proposito dei vampiri, le ho imparate da qui.”

“Ha mai avuto a che fare con uno di loro?”  domandò Leanne con aria incuriosita, facendosi passare il diario. Lester sorrise.

“Sono cinque anni che do la caccia a quei mostri.” commentò con aria rilassata.

“Potrà sembrarvi strano, ma se ne trovano diversi a New Orleans. Basta sapere dove cercare”.

Fell scosse il capo con aria poco convinta.

“Mi spiace deluderla signor Lester…”

“Mi chiami Gregory.” lo corresse l’altro riappropriandosi del diario. Leanne gli sorrise mentre l’oggetto passava dalla sua mano a quello dell’uomo.

“Va bene, Gregory… devo informarla che non sono i vampiri il motivo per cui abbiamo deciso di indire un nuovo Consiglio.”

Lo sceriffo volse lo sguardo in direzione della donna, che annuì.

“Stando a quello che dice mio padre, le ultime preoccupazioni in materia di vampiri risalgono a una trentina di anni fa.”

Lester si passò una mano sotto il mento.

“Non capisco.” ammise infine visibilmente perplesso, frugando con lo sguardo tra i volti dei presenti.

“Se siete sicuri che la minaccia dei vampiri sia ormai scemata… perché formare un nuovo consiglio?”

Fell gli rivolse un’occhiata penetrante.

“Gregory, lei è davvero convinto di poterci dare una mano?”

L’uomo annuì con fermezza.

“Assolutamente.”

I due membri del consiglio si scambiarono un lieve cenno d’intesa.

Leanne si sollevò dalla sua poltrona e raggiunse Lester.

“Posso?” domandò con un sorriso, appoggiando la mano sul diario di Jonathan Gilbert. Con riluttanza, l’uomo acconsentì.

“Signor Lester…”  incominciò la donna, sfogliando le prime pagine del volume.

“..Gregory…” Si corresse con una scintilla di malizia nello sguardo.

“Lei sa qualcosa a proposito dei lupi mannari?”

Nota dell’autrice.

D: D: Capitolo lungo! Non mi volete male per questo, vero? Io ci ho provato a stringare, ma per quanto mi sforzi, spuntano sempre fuori particolari che non erano previsti (vedi Jeremy e i biscotti) che però non voglio tagliar via, perché in sostanza sono sempre utili ad approfondire la personalità dei personaggi.

Ma andiamo con ordine: Caroline & Liz. Come già credo di aver scritto nel capitolo precedente, la cosa bella di questa storia, è che mi consente di trattare personaggi su cui non mi ero mai soffermata molto prima d’ora. So che Liz in passato ha trascurato molto la figlia, dunque immagino che il ritorno a casa di Caroline possa significare molto per lei. Per quanto riguarda Caroline e Stefan, ancora una volta il collegamento al future!verse di alister_ è stato d’obbligo. Mi sto sforzando di unificare il più possibile i nostri due !verse e visto che sia io, sia lei, avevamo pensato a Stefan e Caroline assieme in un eventuale futuro post TVD ( in termini di amicizia, si intende), ho deciso di farli vivere a New York, così da far coincidere anche questo dettaglio alla versione della alis.

Dopodiché, passiamo alla famiglia Donovan. Elena è un altro di quei personaggi che tratto proprio di rado, quindi l’ho presa un po’ con le pinze. La casetta sull’albero dove è ambientata la scena è un altro elemento che ho ripescato da una mia vecchia shot, let it slide, che è anche il racconto in cui Jeff e Ricki (da bimbi) fanno comparsa per la prima volta. Non ringrazierò mai abbastanza Mary per aver tirato fuori quel prompt, perché ormai per me la casetta sull’albero di Matt Donovan è qualcosa di incredibilmente simile al canon, e la tradizione  doveva continuare anche con i figlioli.

Passiamo poi a Jeremy e a sua moglie Hazel. Non si è detto nel capitolo, ma io lo dico ora, perché lo sto dicendo al mondo intero, perché sono fissata (!), Jeremy è diventato un architetto. In questa scena in particolare si è comportato un po’ da mattacchione. Nel prossimo capitolo lo rivedremo ancora, forse in vesti più pensierose.

Si passa poi ai quattro dell’Ave Maria, Mase Oliver Caroline e Xander. Sappiate che l’ipotetico primo bacio di Xander e Caroline da piccoletti c’è stato veramente e può anche darsi che prima o poi ne spunterà fuori anche il missing moment.

Per quanto riguarda la scena Oliver/Mase, anche qui il fatto che Oliver abbia la fissa per gli aereoplani fa riferimento a una mia one-shot, Blackbird, che racconta come è nata l’amicizia di due piccoli Olive & Mase.

Infine (ci siete ancora? Buh XD), la parte finale ha dato un po’ una scossa all’apparente normalità che caratterizza questa nuova Mystic Falls. Non voglio dilungarmi più di tanto su questo punto. Ci sarà tempo più avanti, per scoprirne di più.

Il prossimo capitolo sarà bello corposo mi sa, perché succede di tutto un po’. Sappiate solo che sarà ambientato durante la partita di Hockey di Xander bello e che finalmente faranno capolino i due “adulti” mancanti (Tyler e Bonnie). Uh e anche Autumn. 

 

Ho detto troppo -come mio solito- .

Vi ricordo che per foto, video, informazioni,foto di Mase nudo (ma dai, stavo scherzando XD), e via dicendo a proposito di questa storia, potrete trovare tutto qui.

Ringrazio di nuovo quella bellissima e splendida donna di nome Fiery, per il betaggio *spupazza tantissimo*

Un abbraccio grande

 

Laura

 

P.S. Again, il titolo è tratto da un episodio della season 1 di TVD. L’ho trovato particolarmente azzeccato, visto che questo capitolo si è cncentrato molto sui vari nuclei famigliari.

P.P.S. Le risposte alle recensioni arriveranno il prima possibile!

 

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Capitolo 5
*** 4. Ordinary People ***


Chapter 4.

Ordinary People.

Certe cose non cambiano mai.

Certi dettagli finiscono per rimanere in circolazione nella vita di ogni giorno

 e continuano a ripetersi all’infinito, senza mai evolversi. Senza mai cambiare.

Non i bambini, però.

Tutti i bambini prima o poi crescono.

Tutti tranne uno una.

Da Car(o)line Pan.

 

 “Sei tornata!”

Caroline Forbes scoppiò a ridere, abbracciando Bonnie con slancio.

“Dieci anni, Caroline. Dio, sono passati dieci anni!”  aggiunse poi la donna, separandosi dall’abbraccio.

“E non sei cambiata per niente.” commentò Caroline; Bonnie le rivolse un’occhiata scettica.

“Forse un pochino?” si corresse la vampira sorridendo all’aria matura, da donna adulta che il viso dell’amica emanava.

Bonnie scosse il capo, ancora sorridente.

“Entra, dai!” la incitò, guidandola lungo l’ingresso per poi raggiungere il soggiorno.

“Da quanto sei tornata?”

 Caroline cercò di guadagnare tempo guardandosi intorno. Il suo sguardo vagò incuriosito per la stanza, attirato da piccoli particolari che rendevano quell’ambiente ben diverso da quello che per anni aveva associato a Bonnie.

A destare maggiormente il suo interesse, furono le foto appese alle pareti; ce n’erano davvero tante, foto di quelli che dovevano essere i suoi due figli da bambini. Era il genere di cosa che Caroline si era immaginata tante volte di trovare in casa di Elena, più che in quella di Bonnie.

“Da un po’.” ammise infine, mentre la padrona di casa le faceva cenno di sedersi.

Ma avevo voglia di stare un po’ per conto mio prima di incontrare tutti voi.”

“Tua madre ti ha accennato al fatto che questo non è esattamente il momento migliore per…

“So tutto dello sceriffo, sì. So che ha dei sospetti riguardo le famiglie fondatrici, ma non sono preoccupata.” aggiunse, con un guizzo divertito nello sguardo.

“Credo di essere in grado di cavarmela da sola, ormai.”

Bonnie ricambiò il sorriso, tendendo la mano per stringere quella dell’amica.

“Stefan è qui con te?”

La vampira scosse il capo.

“è con Damon. Abbiamo pensato entrambi che era arrivata l’ora di prenderci cura delle nostre famiglie; almeno per un po’.

“Katherine?” domandò ancora Bonnie, inarcando un sopracciglio.

“Da qualche parte a fare baldoria, credo. L’ultima volta che ho sentito Damon, non era già più con lui.

Spiegò, prima di focalizzare la sua attenzione su una delle foto incorniciate alla parete..

Sorrise con tenerezza all’immagine di due bambini che facevano le boccacce abbracciati a un pupazzo di neve.

“Raccontami qualcosa tu.” Propose, tornando a guardare Bonnie.

 “Come vanno le cose qui a Mystic Falls? Com’è…  Avere una famiglia?”. Aggiunse, riuscendo a concedersi un sorriso.

L’amica si strinse nelle spalle.

Più o meno è rimasto tutto come dieci anni fa. Siamo una normale famiglia americana con l’ossessione per il caffè e le cene a base di toast. Ho un lavoro normale, una casa normale… Dei figli normali…

…figli con dei normali genitori separati.”

Caroline si voltò in direzione delle scale, per osservare la ragazza che aveva appena fatto ingresso in soggiorno.

“Ciao!” esclamò con voce allegra. L’adolescente le rivolse un’occhiata indagatrice, mentre si affrettava a indossare il giubbotto.

 “Ciao.” rispose, afferrando la borsa che aveva appoggiato sull’ultimo gradino delle scale prima di avvicinarsi alle due donne.

“Mia figlia Autumn.”

la presentò Bonnie, scoccandole un’occhiata contrariata.

“Che ha una linguaccia tremenda.”

“Ci siamo già incontrate una volta, ma forse non te lo ricordi.” spiegò Caroline, sollevandosi dal divano per avvicinarsi alla ragazza.

Autumn aggrottò le sopracciglia con aria perplessa; somigliava meno a Bonnie di quanto la vampira ricordasse. I capelli scuri della giovane erano lunghi e ondulati. Molto più mossi rispetto a quanto non lo fossero mai stati quelli della madre alla sua età.

 Anche nei lineamenti, Caroline riconobbe in Autumn qualcosa di diverso rispetto a Bonnie; gli occhi, però, li aveva presi da lei.

“Caroline è la figlia di una mia vecchia amica.” spiegò Bonnie alla figlia, alzandosi anche lei dal divano.

“Caroline come Caroline Lockwood?” ripetè la ragazza tendendo la mano per stringere quella che la vampira le stava porgendo. Non si accorse dell’improvviso irrigidirsi della sconosciuta al pronunciare di quelle parole.

Caroline le strinse la mano, sorridendole con dolcezza.

“Piacere di conoscerti.”

In quel momento, qualcosa di insolito accadde ad Autumn. La sua mano si sganciò istintivamente da quella di Caroline e si affrettò a recuperare la borsa. Una sensazione strana, d’inquietudine, la spinse ad arretrare.

“Devo andare.”

Annunciò infine sistemandosi il colletto del cappotto per poi allontanarsi in direzione dell’ingresso.

“Sono in ritardo per la partita.”

“Autumn!”

Bonnie la richiamò con aria irritata.

“Ha un caratteraccio.” borbottò infine, quando entrambe avvertirono il rumore della porta che si apriva e si chiudeva.

“Purtroppo l’ha preso da me.”

E…Ha preso anche qualcos altro, da te?” chiese Caroline lentamente, quasi non si sentisse più sicura di poter trattare determinati argomenti con lei. Bonnie denegò con il capo.

“No. A quanto pare, no. E meno male, perché non credo che sarebbe facile per lei venire a compromessi con una faccenda simile. è scettica come suo padre.”

“Aspetta un momento…

Solo in quel momento le vennero in mente le parole che Autumn aveva pronunciato facendo ingresso in soggiorno.

“Tua figlia ha parlato di … Tu e David avete divorziato?”

“Separati.” la corresse Bonnie a labbra strette.

“Io e David siamo separati. Lui vive a Richmond, ora. Assieme a Julian.”

“Mi dispiace.” commentò Caroline, rattristata. Bonnie sospirò.

“Come ti dicevo, una normale famiglia americana.”  commentò, con un pizzico di amarezza nel tono di voce. Tornò a sedersi sul divano e il suo sguardo cadde sulla stessa fotografia che Caroline aveva osservato a lungo poco prima.

“Mio figlio è come me.” ammise infine, tornando a guardare Caroline.

“Il che è strano, visto che generalmente la magia salta una generazione.”

“Come l’ha presa?” Domandò stupita la vampira.

“Fin troppo bene.”

Bonnie si accigliò.

Ad essere sincera ho cercato di tenerlo il più lontano possibile da tutto quanto, finché ho potuto. Crescendo, però, ha incominciato a porsi delle domande e verso gli ultimi anni delle superiori era diventato pressappoco impossibile tenerlo lontano da quello che gli stava succedendo. Gli ho raccontato alcune cose per evitare che si sentisse a disagio con se stesso, ma mi sono comunque opposta all’idea di insegnargli più del dovuto. Voglio per Julian una vita normale. Così come la voglio per Autumn.”

“Posso capirlo.” Commentò, Caroline annuendo. Bonnie sospirò un’ultima volta, prima di tornare a sorridere.

“Sei già andata a trovare Elena e Matt?” domandò con aria decisamente più rilassata rispetto a prima. L’amica scosse il capo.

“Volevo passare, ma non erano in casa. Sono passata anche da Jeremy mentre venivo qui, ma non c’era neanche lui.”

“Sono tutti alla partita di hockey. È lì che stava andando anche Autumn: dovresti farci un salto.

Commentò poi rivolgendosi all’amica.

Credo…” E qui, il suo tono di voce si fece d’un tratto esitante, proprio come  era successo a Caroline quando aveva tirato in ballo la questione ‘magia’. “Credo che ci sarà anche Tyler.”

Caroline scosse il capo con aria poco convinta.

“Un’altra volta, magari.” Commentò, rivolgendole un sorriso rilassato.

Quando poi, una mezz’oretta più tardi, si trovò a percorrere le tribune che circondavano il campo da hockey, si trovò a maledirsi in silenzio per non essere stata in grado di dare retta alle proprie parole.

***

“Sei pronto?”

Caroline Lockwood bussò sulla spalla del migliore amico. Xander sorrise, facendole spazio sulla panchina.

“Pronto a piazzare almeno un paio di puck in rete. Anche se…” aggiunse, abbassando il tono di voce e avvicinandosi con il capo a Caroline . “Quello lì un po’ di paura me la fa, diciamocelo.” Ammise accennando con il capo a un ragazzone in divisa che stava scrutando gli avversari con aria scontrosa.

Caroline lo indicò con il dito.

“Quello grosso almeno quanto la jeep di papà?”

“Non indicare!”  la riprese Xander, abbassandole la mano. “Vuoi che l’uomo jeep mi spalmi a terra alla prima occasione?” aggiunse con una smorfia.

 Caroline rise.

“Andrà tutto alla grande, Xander bello.” annunciò seria porgendogli il casco. Il ragazzo se lo inserì, nascondendo così il sorrisetto divertito sul suo volto.

“Me lo tieni tu, questo?” domandò poi, sfilandosi l’anello di famiglia e porgendolo all’amica.

In quel momento, la melodia assordante informò Caroline che era arrivato il momento di raggiungere le tribune.

“Ci vediamo all’intervallo!” gli gridò in un orecchio mentre le prime cheerleader entravano in scena, sorridendo agli applausi dei presenti.

Xander sollevò il pollice in direzione dell’amica e si affrettò a raggiungere i compagni di squadra.

La ragazza lo osservò pattinare per un po’, prima di decidersi a raggiungere le tribune. Voltandosi, si scontrò con qualcuno, che a stento riconobbe come uno dei supplenti del liceo.

“Mi scusi!” esclamò ad alta voce per tentare di farsi sentire. Gregory Lester, tuttavia, pareva essersi a malapena accorto dello scontro con la ragazza.

“Bell’anello!” commentò invece, indicando il gioiello che Caroline teneva ancora in mano. La ragazza gli rivolse un’occhiata perplessa.

Grazie… Non è mio.” rispose semplicemente, prima di arretrare in direzione delle tribune. Scosse il capo con aria stranita, infilandosi in tasca l’anello di Alexander.

“Il nuovo supplente di storia è un po’ strambo.” Annunciò, quando finalmente raggiunse la sua famiglia. Prese posto fra Ricki e Mason, allungando poi la mano in direzione del fratello più piccolo.

Mason inarcò un sopracciglio.

“Chi? Lester? Mi ha chiesto di ripetergli come facevo di cognome per lo meno tre volte” commentò, offrendo a Caroline il suo pacchetto di noccioline.

“Avrà qualche problema di udito…si introdusse nel discorso Ricki, muovendo il capo a ritmo di musica.

“Il buon vecchio professor Finn, che fine ha fatto?” aggiunse. Caroline e Mason si scambiarono un’occhiata.

“Sarà malato, credo. È da un paio di settimane ormai, che abbiamo il sostituto.” spiegò la ragazza.

“Peccato, Finn era un tipo abbastanza a posto. Tranne quando si addormentava e incominciava a russare in classe.  Vero Jeff?”

Si rivolse all’amico prima di tornare a dirigere la propria attenzione verso le cheerleaders che si stavano esibendo sulla pista. Non faticò a individuare Vicki in mezzo a tutte quelle ragazze. Non che a Ricki interessasse particolarmente tenere d’occhio lei, piuttosto che le sue compagne. Di ragazze carine ce n’erano parecchie nel gruppo e Victoria non era di certo la più attraente - Ricki, poi, aveva sempre avuto un debole per le bionde .

Eppure Vicki aveva un modo di muoversi che difficilmente passava inosservato.

 “Senti un po’…” aggiunse infine il ragazzo rivolto a Jeffrey, accennando con il capo alla pista da hockey.

“Ma a te non da fastidio osservare tua sorella mentre mena il sedere a destra e a sinistra? Quelle gonne sono decisamente corte.” Osservò; Caroline roteò gli occhi.

Jeffrey sorrise.

“Comincio a capire come mai a Caroline non sia mai venuto in mente di fare la cheerleader.” Commentò rivolgendogli un’occhiata divertita. La ragazza si accigliò.

“Non mi è mai venuto in mente, perché è un passatempo scemo, non perché ho un fratello geloso. Lo sport appaga decisamente di più.” Aggiunse incrociando le braccia al petto.

Mase inarcò un sopracciglio.

“A me appagano molto di più le cheerleader, invece.” Osservò con un sorrisetto sghembo. Ricki gli diede una pacca sulla spalla, ammiccando.

“Vicki si sta facendo più carina, comunque…” aggiunse improvvisamente, indicando la pista da hockey con il capo.

“L’hai detto davvero?”

Caroline balzò in piedi trascinando Mason per il braccio.

“L’ha detto davvero, lo dico a Vicki!” annunciò entusiasta, agitando il pacchetto di noccioline. Mase se ne riappropriò indirizzandole un’occhiataccia.

“Le hai fatte fuori tutte, complimenti.” Borbottò, gettando malamente il pacchetto sulla tribuna.

“Vado a prendermi da bere.” aggiunse con aria scontrosa prima di allontanarsi in direzione del bar.

“Ho detto che è carina, mica che mi è apparsa in sogno come un angelo. Tra l’altro là in mezzo è pieno di ragazze decisamente più interessanti..” Ribattè secco Ricki assumendo anche lui un’espressione contrariata.

“Dì un po’…”

Questa volta fu Jeffrey a parlare.

“Com’è che tu puoi dire liberamente quello che vuoi su mia sorella, mentre la tua la tieni praticamente sotto campana?”

Richard diede una scrollata di spalle.

“Noi Lockwood siamo tipetti gelosi.” Spiegò, accennando a un sorrisetto.

…Degli autentici maschi ‘alpha…Ahy!”

Lo scappellotto del padre colpì alla nuca. Tyler si inserì nella tribuna e prese posto accanto alla figlia, occupando il posto che aveva lasciato libero Mason.

Ricki incassò l’occhiataccia dell’uomo con aria d’un tratto meno scherzosa.

“Ok, ok la pianto.” si arrese, riprendendo a osservare la pista da hockey.

“Sei arrivato giusto in tempo per l’inizio, papà!” annunciò allegramente Caroline. L’espressione dell’uomo si ammorbidì leggermente.

 “Dov’è Mason?” domandò, notando l’assenza del minore dei suoi figli.

Caroline diede una scrollata di spalle.

“A prendersi da bere.”  rispose, allungandosi per osservare meglio i giocatori in campo. “Oh, ecco, lo vedi quel tizio grosso come un armadio?” aggiunse.

Tyler sospirò. Si sforzò di ignorare il nervosismo che lo sorprendeva ogni volta che il figlio più piccolo non si trovava dove si era aspettato che fosse.

Mase aveva ereditato da lui l’attitudine ad attaccare briga in qualsiasi occasione, ed era forse quello uno dei motivi principali che lo portavano a preoccuparsi per lui più di quanto non si fosse mai successo con Caroline o Ricki.

 “Quello è l’uomo Jeep. Ci sta tutto come soprannome, vero?”

 “Uomo jeep?”  domandò, inarcando appena un sopracciglio. Caroline annuì decisa. Il padre scoccò un’occhiata divertita all’adolescente muscoloso indicatogli dalla ragazza.

Sua figlia, d’altro canto, aveva l’innata capacità di riuscire a strappargli un sorriso in qualsiasi situazione.

“Ci sta alla perfezione.”

***

 

I figli nascono con dentro quello che, nei padri, la vita ha lasciato a metà.

Alessandro Baricco. Castelli di Rabbia

 

 

“La partita è già iniziata!” costatò Oliver infilandosi in una delle ultime tribune, seguito a ruota dal padre. Jeremy scorse la pista da hockey con lo sguardo alla ricerca del suo primogenito: Alexander stava marcando un giocatore della squadra avversaria per cercare di recuperare il puck.

“Beh, non dire alla mamma che siamo arrivati di nuovo in ritardo. Eppure siamo partiti praticamente assieme a lei.”

“Abbiamo fatto un paio di soste, però. Prima la cartoleria e poi il bar.”

Tentò di giustificare il figlio appoggiando sul gradino la sua lattina di coca cola.

“Giusto.” Jeremy annuì con aria distratta. “A cosa stai lavorando, ultimamente?” continuò poi ,accennando con il capo all’album da disegno che il ragazzo teneva sulle ginocchia.

Oliver fece spallucce.

“Al ritratto di una ragazza. Una bella ragazza.”

 “Interessante.” Jeremy sorrise. “Questa ragazza ha un nome?”

“Immagino di sì. È solo che non ho idea di quale sia.”

“Tocca informarsi, qui…” lo prese in giro Jeremy, prima di tornare a seguire i movimenti di Alexander sulla pista.

Oliver scosse il capo, lo sguardo completamente assorbito dalla partita.

“In realtà credo che sia parecchio più grande di me.” commentò. Jeremy inarcò un sopracciglio.

“Più grande, eh? A forza di stare con Mase, stai ereditando le sue stesse manie”.

“Perché, tu non sei mai stato con ragazze più grandi?” lo interrogò Oliver. Il padre si passò una mano sotto il mento.

“Credo di essere stato solo con ragazze più grandi, a essere onesto.” Ammise.  “La mamma è più grande di te?”

domandò Oliver, aggrottando le sopracciglia.

 In quel momento, la lattina di coca cola si rovesciò, evitando per un soffio le scarpe del ragazzo.

Oliver…” lo rimproverò il padre con poca convinzione.

“Non l’ho neanche toccata.” ammise in tutta sincerità il giovanotto, chinandosi con l’intenzione di ripulire.

“E comunque sì, anche la mamma è più grande di me.”

Terminò il discorso Jeremy prima di venire distratto da qualcosa: era convinto di aver sentito il suo cellulare vibrare, ma quando ne esaminò il display, non trovò traccia di alcuna chiamata. I lineamenti dell’uomo si fecero d’un tratto più nervosi, mentre la sua mano tastava la superficie di qualcosa che teneva nella tasca interna del giubbotto: la bussola aveva ripreso a ticchettare.

“Vado a buttare questa.” annunciò in quel momento Oliver con la lattina in mano, rinunciando ai suoi tentativi di ripulire il gradino. “Nel frattempo, vedo se riesco a trovare Mase. A dopo!”

Jeremy si assicurò che il figlio avesse abbandonato le tribune, prima di tirare fuori dalla tasca l’orologio-bussola.

Da qualche tempo aveva iniziato a portarselo dietro, ma mai prima di quel momento gli era capitato di sentirlo vibrare così forte. Si guardò attorno, irrequieto. L’ago della bussola scattò rapido in direzione delle tribune di fronte a lui, prima di tornare indietro, indicando un punto imprecisato alle sue spalle.

“Sarà rotta?” commentò fra sé, notandone l’oscillare nervoso. La lancetta tentennò ancora un po’, prima di stabilirsi con più precisione proprio su di Jeremy, facendogli aggrottare le sopracciglia con aria perplessa.

 “Che cos’è quel muso, Jer?”

Una voce risuonò allegra al suo orecchio facendolo sobbalzare.

“C’è ancora bisogno di me per riuscire a farti spuntare un sorriso decente?”

Jeremy, che si stava sforzando di nascondere la bussola il più in fretta possibile, si voltò di scatto.

“Caroline?” domandò, sgranando gli occhi sorpreso. La vampira esibì un sorrisetto divertito.

“Diventi sempre più grande, Peter Pan. Non è leale!” si lamentò, fingendo un accenno di broncio prima di abbracciare l’amico con slancio.

Jeremy sorrise.

“Allora eri tu!” esclamò, lasciandosi stringere, scuotendo poi il capo.

“Mi hai fatto sclerare per mesi! La bussola ogni tanto scattava senza avviso, pensavo ci fossero dei nuovi…

Si diede un’occhiata intorno, mentre la ragazza prendeva posto accanto a lui.

…nuovi vampiri in città. Avrebbero spiegato il comportamento strano dello sceriffo nell’ultimo periodo. E onestamente ero anche preoccupato per i ragazzi. Ad ogni modo, grazie per non essere passata a salutare in tutto questo tempo...”  commentò in tono di voce asciutto; Caroline rise.

“Hai ragione, scusa.”

“E per esserti completamente dimenticata di Mystic Falls nel corso degli ultimi… quanti anni sono passati, sei? Sette?”

“Dieci.” lo corresse Caroline, rivolgendogli un’occhiata divertita.

“Questo posso ancora farlo vero? “ aggiunse, allungando una mano per arruffarli i capelli. Jeremy si scansò con aria infastidita.

Ma non ci provare nemmeno! Lo sai quanti anni ho?” sbottò, sistemandosi i polsini della camicia.

“Oh, mi scusi ‘signor architetto’.” lo prese in giro la vampira in tono di voce pomposo; Jeremy le scoccò un’occhiataccia.

“Rassegnati.” aggiunse infine la ragazza.

“Potrai anche diventare vecchio e perdere tutti i capelli, ma per me resterai sempre il piccoletto di casa Gilbert. Quell’impiastro senza denti che correva a nascondersi in camera mia, dopo aver sostituito lo shampoo di Elena con il barattolo di tempere.

“Io non perderò mai tutti i capelli…” Si lamentò Jeremy, sistemandoseli con aria offesa.

“E comunque casa Gilbert ha dei nuovi piccoletti, adesso.” aggiunse con un sorriso luminoso, rivolgendo il proprio sguardo in direzione della pista da hockey.

Caroline gli rivolse un’occhiata intenerita; aveva riconosciuto nel suo sguardo quel particolare brillio che un tempo prendeva forma, solo quando lo sorprendeva a disegnare.

“Qual è il tuo?” domandò, frugando la pista con gli occhi. Jeremy indicò il figlio con il dito.

“È quello che sta maneggiando il puck in questo momento. Alexander…Sottolineò, con una leggera nota di orgoglio nel tono di voce. “La mia peste.”

“Ti somiglia?” domandò ancora Caroline, tornando a guardare Jeremy. L’uomo accennò a un sorrisetto.

“Hazel dice che è la mia copia. In realtà, penso sia più un miscuglio fra me e lei. Vedessi che capelli, che ha

aggiunse ridendo.

“Oliver, invece è tutto un altro paio di maniche. Non riuscirò mai a capire come faccia a essere sempre così calmo, così… sereno. Fa fatica anche ad arrabbiarsi, e a volte mi viene quasi da pensare che non ne sia capace. È pazzesco, eppure ogni tanto l’impressione che dà è proprio quella.”

“Me li ricordo da piccoli, sai?” costatò Caroline con un sorriso.

“Me li hai presentati quando erano ancora dei bambini. Due mini Jeremy!”

“A Xander eri piaciuta!” si ricordò in quel momento l’uomo.

“Ma d’altronde lui ha un debole per le Caroline, per cui…

Scoccò un’occhiata pensierosa alla vampira prima di esaminare le tribune con lo sguardo alla ricerca di una persona in particolare.

“C’è Tyler laggiù, se vuoi andare a salutarlo.” Azzardò, indicando il gruppetto dei Lockwood che occupava una delle file centrali assieme a Jeffrey. “Anche Elena e Matt sono sicuramente qui intorno.”

Caroline sospirò.

“Andrò sicuramente alla ricerca di Elena e Matt. Ho visto Bonnie, e mi è venuta voglia di vedere anche tua sorella. La stavo cercando, quando ho trovato te e mi sono sentita in dovere di venire a romperti le scatole. Aggiunse, giocherellando con un polsino della camicia di Jeremy.

“Per quanto riguarda Tyler, penso che aspetterò ancora un po’.” ammise, alzandosi in piedi. “Non me la sento ancora.”

Jeremy le rivolse un’occhiata poco convinta, prima di annuire.

“Basta, mi è venuta sete.” annunciò improvvisamente la vampira alzandosi in piedi. Quando notò il sopracciglio inarcato dell’amico, sbuffò.

 “Non intendevo quel genere di sete, cretino.”

“Beh, in tal caso il bar è da quella parte.” rispose Jeremy, scoccandole un’occhiataccia. “E non chiamarmi cretino. Sono più grande di te, adesso, porta rispetto.”

Caroline gli fece la linguaccia.

“L’ho già detto e te l’ho ripeto, per me resterai sempre il più piccolo dei due.” gli ricordò, prima di girarsi per allontanarsi dalle tribune.

....e Caroline?”

La vampira si voltò rivolgendogli un sorrisetto vispo.

“Sì?”

“Vedi di fare attenzione, va bene?”

Riconobbe nello sguardo apprensivo di Jeremy, quello del ragazzino che per anni aveva considerato quasi un fratello, più che un amico.

Riconobbe al tempo stesso il bambino pestifero che si credeva Peter Pan e l’adolescente schivo, rassegnato a un dolore troppo grande per un ragazzo così giovane.

Ancora una volta si trovò a riflettere sulle tante cose che era stata costretta a lasciarsi alle spalle, decidendo di non tornare più a Mystic Falls.

La loro amicizia, insolita ma salda, era una di queste.

 “Mi sei mancato, Jer.” ammise con un sorriso dolce, tendendo la mano per sfiorare il capo dell’amico.

E questa volta, Jeremy non la scansò.

Invece, sorrise.

“Mi sei mancata anche tu.”

But tell me, did Venus blow your mind?
Was it everything you wanted to find?
And then you missed me while you were

looking for yourself out there?

Drops of Jupiter. Train
 

Nota dell’autrice.

Anzitutto… Tutti a votare i vostri personaggi preferiti della Next Generation qui! No, scherzi a parte, mi farebbe davvero piacere avere la vostra opinione, sono molto curiosa!

Passiamo subito al capitolo, che di cose da dire ce n’è parecchie. In realtà, questo capitolo era nato per essere molto più lungo, ma non mi piace condensare troppi avvenimenti un una volta sola, dunque ho pensato di spezzarlo. Per questo, in questa parte non succede nulla di che: le cose inizieranno a smuoversi nel prossimo capitolo.

Arrivando a parlare di ciò che succede qui… Dunque, abbiamo finalmente fatto conoscenza con l’ultima pargola che mancava all’appello: Autumn. So già che alcuni di voi la detestavano prima ancora di conoscerla, per via delle somiglianze con Bonnie XD Diciamo che anche lei, come tutti gli altri, ha molto del suo carattere che deve ancora essere conosciuto, quindi datele tempo. Nel prossimo capitolo, ci sarà davvero un “punto di svolta” per lei u_ù .

Passando al gruppetto dei Lockwood, ecco la prima comparsa del papà “Orso” Tyler, assieme ai suoi marmocchi. Nel prossimo ci sarà molto di più e… Penso che lo vedremo in un contesto che tutti voi aspettate da un po’.

Le scenette familiari sono tante, ma vi assicuro che in ognuna di loro ci sono degli accenni a cose che succederanno in futuro e che avranno a che fare con il filone più “movimentato” della storia.

Infine… *si prepara alla tirata d’orecchie*… Caroline e Jeremy. Ve lo aspettavate, eh? Dite la verità. Chi mi legge, sa che ho un po’ (un po??) la fissa per un ipotetico rapporto di amicizia fra questi due. Ho dovuto dedicargli uno spazietto tutto per loro, soprattutto perché tra i loro discorsi ci sono degli accenni alle dinamiche che prenderà la storia nel corso dei prossimi capitoli.

Cosa aggiungere? Nella seconda parte, succederanno un paio di cose parecchio significative. Un ultimo accenno al titolo e alle citazioni e poi scappo. Dunque, il nome del capitolo l’ho fregato all’episodio 3x09 (Ordinary People) di TVD, perché trovo che calzasse con la sensazione di “normalità” che traspare dai vari nuclei familiari (again, sono monotona).

Il prossimo s’intitolerà “Lost Girls”. Speculate, speculate!

E la canzone inserita, sono settimane che mi ossessiona. Stando alle righe finali del capitolo incentrate sui pensieri di Caroline, l’ho trovata piuttosto azzeccata ( Drops of Jupiter” in generale mi fa pensare un po’ a Caroline.)

 

Ringrazio di cuore tutti voi che leggete, non potete capire quanto mi riempia di felicità vedervi familiarizzare con questi nuovi personaggi. Ogni volta che leggo le vostre recensioni o che leggo un vostro commento a una foto ,a qualsiasi cosa che abbia a che fare con History Repeating vado in brodo di giuggiole, perché sono affezionata a questi personaggi più di quanto non mi sia mai successo con altri e poterli condividere con voi è meraviglioso.

Un abbraccio grande

Laura

P.S. Se non dimentico qualcosa, non sono io. Gli accenni a “Peter Pan” tra Caroline e Jeremy, si ispirano a Car(o)line Pan, dove si dice che Jeremy bambino sognava di non crescere mai, proprio come Peter.

Postilla Namber Ciu! Io di Hockey so poco o niente, mi sono studiata la pagina di wikipedia mentre leggevo il capitolo, ma sono comunque ignorante. Ma essendo la partita appena accennata spero di non aver combinato troppi disastri. In caso ne avessi invece combinati, vi chiedo scusa! E il “puck”, non è quel meraviglioso personaggio di Glee, ma il dischetto che nell’hockey viene usato per fare punto.

 

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Capitolo 6
*** 5. Lost Girls ***


Premessa. Visto che è da un mesetto e più che non pubblico, e visto che più volte mi è stato detto che c’è chi fa ancora molta confusione tra i nuovi personaggi, ho pensato di fare un “riassunto delle puntate precedenti”, concentrandomi un po’ su parentele, legami vari. Se avete tutto ben chiaro, proseguite allegramente oltre e fate al riassunto ‘ciao ciao’ con la manina. In caso contrario, read this!

 

Dunque, nelle puntate precedenti: per oltre un secolo ho vissuto nel segreto. Eh no, questa è roba vecchia. Dunque, la nostra storia è ambientata circa venticinque anni dopo la serie TV.  Damon,Stefan e Katherine non sono più a Mystic Falls ormai da anni; Damon ha girovagato un po’ per l’Europa con Katherine, ma nell’ultimo periodo la Petrova si trova in Florida, università di Jacksonville  - ovviamente non per studiare - . Stefan e Caroline si sono trasferiti a New York, ma dieci anni dopo l’ultima visita della vampira a Mystic Falls, la ragazza decide di tornare finalmente a casa: la nostra storia incomincia così. Nel frattempo, a Mystic Falls, i nostri vecchi protagonisti umani sono cresciuti, si sono sposati, e hanno avuto dei pargoli. Tyler ha tre marmocchi, Richard jr (Ricki), è il maggiore e frequenta l’università di Jacksonville assieme al migliore amico Jeffrey Donovan (figlio di Matt e Elena). Lo incontriamo per la prima volta a Jacksonville, dove Katherine fa conoscenza proprio con Jeff: quella per ora, è l’unica occasione in cui abbiamo incontrato Katherine, perché Ricki e Jeffrey sono tornati a Mystic Falls per una settimana. Appena tornato, Ricki nota che c’è qualcosa di insolito nel modo in cui lo sceriffo osserva casa sua, e incontra Vicki junior, secondogenita di Elena e Matt, che da sempre ha una cotta per lui. Dopo Ricki, c’è Caroline (Lockwood), sportiva e vivace, e Mason Junior, che alla sua prima comparsa, individua Caroline (Forbes XD) nei corridoi di Mystic Falls ed è sicuro di averla già vista da qualche parte. Anche Jeremy si è sposato e ha avuto due figli, Alexander “Xander” (migliore amico di Caroline Lockwood) e Oliver, che ha ereditato la sua passione per il disegno, e cui carattere mite combacia alla perfezione con quello opposto – burbero e suscettibile – di Mason, suo migliore amico. Infine, Bonnie è separata con due figli: Julian, che per ora abbiamo incontrato solo una volta all’università – e ci ha mostrato le sue abilità da maghetto impacciato – e Autumn, che pare non aver ereditato i poteri della madre, ma che ha un comportamento piuttosto insolito quando incontra Caroline (Forbes). All’infuori di questa atmosfera composta da allegre famigliole felici, abbiamo tre loschi individui: lo sceriffo Fell, già citato prima, il supplente di storia, Gregory Lester, che continua a interessarsi di particolari sospetti – come l’anello di Alexander che per i Gilbert si passa di generazione in generazione – e Leanne Willard-Forbes, la misteriosa figliastra di Bill Forbes, che sembra essersi trasferita a Mystic Falls per indire un nuovo Consiglio, dopo che gli eredi dei fondatori non ne hanno più convocato uno da anni. Fell, Lester e Willard-Forbes,  hanno dunque dato origine a un nuovo consiglio, ma pare che dai vampiri, il loro interesse si sia spostato ai licantropi.  Caroline (Forbes) che è venuta a sapere delle macchinazione insolite del Consiglio dal padre Bill, ha deciso di tornare a Mystic Falls, proprio per tenere d’occhio la situazione. Ha riabbracciato la mamma, salutato alcuni dei suoi vecchi amici, e l’abbiamo lasciata alla partita di Hockey,mentre si allontanava dalle tribune per andare a prendersi da bere.

 

Fine super riassunto!Ora direi di cominciare. Buona lettura!

Dedicato a chiunque abbia aspettato la scena Forwood con tanto amore (e insistenza!): siete belle, e spero che questo capitolo non vi deluda.

E ad Ale bella, che ama Tyler in versione papà [e Mase!]

 

 

They say that home is where the heart is
I guess I haven't found my home.
We keep driving around in circles
afraid to call this place our home.

Are we there yet? Ingrid Michaelson

Sei anni prima.

 

Caroline amava New York: la sua personalità vivace si abbinava perfettamente allo stile di vita frenetico della metropoli, e il fatto che ci fosse così tanta a vita a circondarla, la aiutava a tenere a bada le riflessioni troppo scomode, incitandola a godersi un’eternità spensierata, priva di preoccupazioni troppo grandi.

Eppure, nonostante fossero ormai passati diversi anni dall’ultima volta che aveva messo piede a Mystic Falls, non era mai riuscita ad accantonare del tutto la nostalgia per la Virginia.

La rievocava di frequente, sfogliando vecchi album in compagnia di Stefan, e prendendo poi in giro l’attaccamento nostalgico che nutriva nei confronti dei luoghi in cui era cresciuta.

Più volte era stata sul punto di tornare a casa, salvo poi cambiare idea all’ultimo minuto: Mystic Falls era cambiata per lei, dal primo giorno in cui aveva deciso di lasciarsela alle spalle. Nonostante nel primo periodo in cui aveva vissuto a New York tornasse spesso a farle visita, c’era sempre qualcosa che stonava. Piccoli dettagli fastidiosi che la facevano sentire a disagio, fuori posto, in luoghi che invece avrebbero sempre dovuto ispirarle fiducia e quotidianità.

Era quella, per lei, la parte più dolorosa dell’eternità: girovagare per strade in cui i suoi ricordi echeggiavano ancora, ma che ormai non la riconoscevano più. Strade che non erano più in grado di indicarle la via di casa.

Senza più punti di riferimento stabili nella cittadina in cui aveva vissuto per così tanti anni, Caroline faceva fatica a  ricordare che, seppur non invecchiando mai, il tempo avrebbe dovuto contribuire anche a farla crescere, maturare.

Non è facile diventare grandi, quando ci si sente fuori posto nel luogo in cui si è nati e cresciuti; e per anni, Caroline Forbes faticò a considerarsi adulta.

Ai suoi occhi, gli occhi di una diciassettenne, appariva semplicemente come una delle tante ragazze che frugavano New York con lo sguardo, alla ricerca di un luogo cui appartenere: una ragazza smarrita.

Chapter 5.

Lost Girls.

They say there's linings made of silver
folded inside each rainy cloud
will we need someone to deliver
our silver lining now?

Are we there yet? Ingrid Michaelson

 

 

Eppure, in Virginia ci tornava spesso: a volte da sola, a volte in compagnia di Stefan – di rado, anche con Damon. Le piaceva girovagare senza una meta precisa per le cittadine poco popolate, non poi così dissimili dal luogo in cui era cresciuta. Spesso, si divertiva a ripercorrere luoghi che aveva visitato da bambina, di cui ormai possedeva solo un vago ricordo. Il suo preferito era una piccola riserva naturale che non distava poi molto da Mystic Falls. Era sicura di esserci stata parecchie volte quando frequentava le elementari, un paio di quelle probabilmente in gita con la scuola.

Ritornare lì era piacevole, per Caroline; quel luogo le era familiare, ma non a punto tale dall’impensierirla nel notare i cambiamenti che c’erano stati nel corso degli anni.

Tornò a visitare la riserva almeno tre o quattro volte nel corso di quei dieci anni in cui si tenne lontana da Mystic Falls: in una di queste visite, si trovò ad avere a che fare con uno dei motivi che più l’avevano spinta ad abbandonare la cittadina, anche se non se ne rese conto subito.

Era un ragazzino accovacciato di fronte alla staccionata, le ginocchia strette al petto. Aveva un’aria particolarmente crucciata, quasi preoccupata, come se stesse rimuginando su qualcosa che lo facesse sentire in colpa.

Caroline lo osservò per qualche secondo, improvvisamene turbata: di ragazzini, alla riserva, ne intravedeva ogni giorno parecchi. Eppure, in lui, riconobbe qualcosa di tremendamente familiare.

L’aria abbattuta del bambino e una particolare sensazione di déjà-vu la convinsero ad avvicinarsi alla staccionata; quando poi, fu abbastanza vicina da poter esaminare meglio i lineamenti del ragazzino, qualcosa la costrinse a fermarsi: aveva già incontrato quegli occhi grigi, quel viso spaurito, prima di quel pomeriggio.

E per quanto il buonsenso continuasse a suggerirle che si stesse sbagliando, che la coincidenza sarebbe stata troppo forzata, da una parte sentiva che non poteva essere così: se il suo cuore non fosse stato immobile ormai da troppo tempo, le avrebbe indicato quel bambino.

Per questo scavalcò la staccionata. Atterrò a pochi metri di distanza dal ragazzino che sobbalzò, rivolgendole un’occhiata intimorita. I suoi occhi grigi sgranati alimentarono in Caroline la sensazione di déjà-vu .

“Ciao!” lo salutò amichevolmente accovacciandosi a sua volta nell’erba.

“Stai bene?”

Il ragazzino si affrettò ad annuire, evitando il suo sguardo. Sembrava talmente a disagio, che la stessa Caroline si sentì attraversare da un vago alone di tristezza.

“Sai? A me non sembra.” commentò con un sorriso incoraggiante, incrociando le gambe sul tappeto d’erba.

“Ti stai nascondendo?”

La domanda le sorse spontanea, anche se non riuscì a comprenderne il perché. Episodi sfocati della sua infanzia sfilarono scomposti di fronte ai suoi occhi, strappandole un sorriso: bambine che per capriccio si nascondevano alle mamme arrabbiate, fratellini pestiferi che si rifugiavano sotto il letto … e Tyler. Tyler che da bambino era sempre stato il re dei nascondigli.

Il ragazzino, d’altro canto, sembrò sorprendersi della sua domanda. Sgranò gli occhi una seconda volta, prima di rivolgerle un’occhiata furtiva.

Anche io mi sto nascondendo, sai?”

Rivelò a quel punto Caroline strofinando la mano sull’erba. Questa volta, fu sicura di aver fatto centro: un po’ dell’inquietudine, che fino a quel momento aveva trionfato sul volto del bambino, scemò.

“Da, da che cosa?” balbettò scrutandola con aria incuriosita, seppur ancora diffidente. Caroline sorrise, abbandonandosi in grembo i fili d’erba strappati.

“Da diverse cose.” ammise tornando a rivolgersi al ragazzino.

“Dalle persone a cui voglio bene. Dalle cose che mi rendono triste. E da quelle che mi rendevano felice.”

Il ragazzino annuì lentamente, smettendo di cingersi le ginocchia.

“È perché hai paura?” domandò.

 La vampira gli rivolse un’occhiata sorpresa, prima di annuire.

“Ogni tanto. Sì, ci sono delle cose di cui ho paura.” confessò, sorridendogli con dolcezza: più lo guardava, e più era convinta di conoscere quei lineamenti, di aver già visto quel viso prima di quel pomeriggio.

Il ragazzino tornò a chinare il capo verso il basso, incominciando a sua volta a strappare qualche filo d’erba.

“Io invece ho paura di tutto.” commentò in tono di voce secco, quasi arrabbiato. Caroline scosse il capo, intenerita.

Ma dai, non ci credo.”

“E invece è così.” ribatté il bambino con aria triste.

La vampira sospirò; tese una mano per accarezzargli il capo, ma la ritrasse quasi subito, impacciata: era nell’età per essere una madre, ma non aveva familiarità con quel modo di sfiorare docile e rassicurante che appartiene solo alle donne che hanno avuto dei figli.

“È per questo che ti nascondi? Perché hai paura?” domandò allora con dolcezza, avvicinandosi al ragazzino. Il piccolo annuì a capo chino, lasciando andare l’erba e tornando a cingersi le ginocchia con le braccia.

“Non volevo venire alla riserva.” aggiunse poi, appoggiandoci sopra il mento.

“Non mi piacciono i…” incominciò, arrossendo per l’imbarazzo. Sospirò. “Mi, Mi, Mi fanno paura i lupi.” ammise infine.

Caroline gli rivolse un’occhiata spiazzata, cosa che alimentò il rossore sulle guance del ragazzino.

“I lupi?” ripeté lentamente, mentre il bambino annuiva: c’era qualcosa, nel rinnovato disagio del piccolo, che le infondeva tristezza.

“So che ci sono alla riserva.” specificò il ragazzino agitando nervosamente le ginocchia.

“E a me non va tanto di vederli.”

“I lupi sono animali bellissimi.” lo incoraggiò Caroline sfilando via un filo d’erba che si era incastrato nella suola di una sua scarpa.

 “Ma sono pericolosi...” obiettò il bambino con una punta di inquietudine nello sguardo.

“Io non mi fido.”

“Quelli della riserva non ti faranno del male.” lo tranquillizzò la ragazza, convincendosi finalmente a tendere il braccio, per accarezzargli il capo.

 “Sono abituati ad avere gente intorno. E poi, i lupi sono davvero delle creature speciali: sono coraggiosi e anche molto leali, specialmente con la propria famiglia.”  spiegò, avvertendo un lieve tremore nel suo tono di voce. La parola “famiglia” accostata a “lupo”, era ancora in grado di turbarla, nonostante tutto.

Il ragazzino annuì lentamente, stringendosi le caviglie con le mani.

 “Forse è per questo che mi fanno paura.” azzardò infine, voltandosi esitante in direzione di Caroline.

“Io non sono coraggioso come loro: in realtà non lo sono proprio per niente. Mi nascondo sempre: i, i miei fratelli invece non hanno mai paura di nulla.”

Sai…

La vampira inclinò appena il capo, sorridendogli con dolcezza.

“Non sempre le persone sanno di essere coraggiose. C’è chi se ne accorge all’improvviso e chi impara a farlo lentamente, un passetto alla volta. A volte siamo convinti di non poter essere coraggiosi, solo perché non abbiamo mai davvero provato a esserlo.

Il ragazzino la ascoltava in silenzio, scrutandola pensieroso.

“Tu sei coraggiosa?” domandò infine indirizzandole un’occhiata penetrante. Caroline gli sorrise.

“Non lo so, tu che dici?”

Il bambino la osservò per qualche istante in silenzio, prima di annuire.

“Hai l’aria di esserlo.” ammise accennando al primo vero sorriso del pomeriggio. La ragazza scoppiò a ridere.

“Ti ringrazio!” esclamò poi, con aria divertita.

Ma allora…” continuò poi il ragazzino corrugando la fronte, nuovamente impensierito, “…se sei coraggiosa, perché ti nascondi?”

Caroline gli rivolse un’occhiata sorpresa, prima di indirizzare il proprio sguardo verso il parcheggio, distratta da un fischio in lontananza.

“Devo andare!” annunciò improvvisamente il bambino con aria preoccupata, non appena il rumore si fece più vicino.

“È il fischietto dell’insegnante.” rivolse alla vampira un’occhiata leggermente titubante.

“Grazie.” aggiunse, sollevandosi da terra.

Senti…” Caroline si alzò a sua volta.

“Me lo dici come ti chiami?” domandò con aria quasi speranzosa, nonostante qualcosa dentro di lei le stesse suggerendo di non farlo.

Il ragazzino la analizzò con aria diffidente, aggrappandosi al legno della staccionata.

“Mi chiamo Mason.”  rivelò infine, permettendo a un sorriso timido di arricciare gli angoli delle sue labbra.

“Mason Lockwood.”

Erano trascorsi quattro anni, dall’ultima volta che Caroline Forbes aveva messo piede a Mystic Falls. Dieci da quando aveva deciso di trasferirsi a New York. Più di quindici da quando il suo cuore si era fermato, impedendole di continuare a crescere. Vietandole di vivere pienamente la sua vita.

Eppure, in quel momento, poté quasi giurare di avere sentito qualcosa muoversi dentro di lei: per un attimo, osservando quel bambino sorridere, fu come se il suo cuore avesse ricominciato a battere.

***

 

Autumn si slacciò frettolosamente la sciarpa dal collo, percorrendo il corridoio che portava alle gradinate. Sbuffò, intuendo dai rumori provenienti dalla pista, che la partita fosse già iniziata; si era persa il numero di apertura delle cheerleaders: Vicki le avrebbe tenuto il broncio per il resto del pomeriggio.

Fece una smorfia quando si accorse di aver perso la sciarpa per strada e tornò indietro a recuperarla, visibilmente irritata. Quel pomeriggio l’aveva decisamente incominciato con il piede sbagliato – tra l’ennesima litigata con sua madre e un libro di scienze scomparso chissà dove alla vigilia di un compito in classe – e la giornata non accennava a voler migliorare nemmeno di una virgola. C’era poi stato l’incontro con quella ragazza, Caroline, che per qualche strana ragione le aveva impresso addosso uno strano nervosismo. Qualcosa di insolito era accaduto, quando le due si erano strette la mano: d’istinto, lei aveva ritratto bruscamente la sua, spaventata da un presentimento improvviso.

Ora, Autumn era sempre stata il tipo di persona che lavorava parecchio di testa, abbandonandosi talvolta a lunghe e calcolate riflessioni, pur di non prendere decisioni affrettate. Non dava retta al suo istinto; semplicemente non era da lei fare affidamento su qualcosa che non rimasse con una motivazione logica. Eppure, quella stretta di mano – quella ragazza, Caroline – le aveva suggerito a pelle di allontanarsi il più possibile: in quel contatto, c’era qualcosa che stonava.

Sbuffò una seconda volta, accorgendosi di avere incominciato a ragionare come suo fratello, cosa che finì per infastidirla parecchio: lei e Julian non erano mai stati molto legati.  Si volevano bene, ma si sentivano di rado, e ancor più raramente si vedevano, soprattutto in seguito alla separazione dei genitori.

Julian era l’opposto di sua sorella: lui era un sognatore, un impulsivo. Era sempre stato quello strano, il classico ragazzino che non può fare a meno di porsi delle domande, dubitando che le cose che lo circondano stiano veramente al loro posto. I suoi, erano gli interrogativi che ad Autumn avevano sempre fatto roteare gli occhi: a lei piaceva credere che tutto nel suo mondo avesse un ordine preciso; che le cose accadessero con regolarità, giorno dopo giorno, e che quindi fosse inutile provare a spaccarsi la testa con mille punti di domanda, dubbi, supposizioni. Non si sarebbe mai affidata all’istinto per scegliere un’università, come invece aveva fatto Julian. Per certi versi, la ragazza somigliava molto al padre.

Era quello uno dei motivi per cui ancora faticava a comprendere come mai avesse deciso di stabilirsi con la madre; lei e Bonnie erano troppo simili per certi versi, e troppo diverse per altri, e questo miscuglio di analogie e differenze sfociava spesso in litigate, a volte anche per le cose più stupide. Ciò nonostante, in fondo, Autumn credeva di sapere come mai avesse acconsentito a restare a Mystic Falls, pur lamentandosi di continuo. Bonnie non aveva mai faticato ad intuire che cosa le passasse per la testa, nonostante di rado si sforzasse di intervenire. Non era mai stata una madre particolarmente oppressiva, né con lei né con Julian, e quello era da sempre un punto a suo favore. E in fondo era anche in grado di ascoltarla, anche se Autumn difficilmente gliene dava l’opportunità.

Per Julian e suo padre, invece, comprensione e complicità erano parole che non si allacciavano per niente al loro rapporto. L’impulsività e la fiducia cieca che il ragazzo riponeva nei suoi progetti, talvolta per nulla verosimili, cozzavano apertamente con l’indole realista e a tratti cinica di David Morgan. In seguito alla separazione dei genitori, Julian aveva acconsentito a trasferirsi a Richmond  – l’anno successivo si sarebbe dovuto comunque spostare per via del college – ma tra i due, continuava a non esserci un legame particolarmente stretto. Di certo, non litigavano sbattendosi la porta in faccia come facevano Bonnie e Autumn, ma il dialogo era ridotto all’osso. Da quando aveva incominciato a frequentare l’università, il giovane cercava di tenersi il più possibile fuori casa e David non aveva mai fatto obiezioni a riguardo.

Autumn superò il bar camminando svelta, sperando di riuscire ad arrivare in tempo almeno per il primo intervallo. Attraversando il corridoio, individuò con la coda dell’occhio un ragazzo appoggiato al muro, che stava trafficando con il cellulare. Roteò gli occhi nel riconoscerlo e si affrettò a proseguire oltre, diretta verso la pista.

Mase sollevò gli occhi dal display e le rivolse un’occhiata altrettanto seccata.

“Che hai da fare quella faccia?” la rimbeccò scontrosamente, aprendo la sua lattina di coca cola. Autumn si fermò.

“Magari non sono affari tuoi.” commentò bruscamente, squadrandolo infastidita.  Lei e Mason si detestavano cordialmente da anni ed era difficile per tutti e due trattenersi dal renderlo pubblico, ogni volta che si incontravano.

Magari lo sono, visto che l’occhiataccia era rivolta a me.” ribattè il ragazzo inarcando presuntuosamente un sopracciglio. Autumn sbuffò, osservandolo con sdegno.

Magari non ruota sempre tutto attorno a te, Mason Lockwood. Sei l’ultima persona al mondo che mi verrebbe voglia di guardare, specialmente in giornate come questa.  

E lo pensava veramente; il nervoso aveva incominciato a punzecchiarla con insistenza e le mani le prudevano in maniera insolita: la negatività che aveva assorbito in quel pomeriggio continuava a crescere, spingendola a perdere la pazienza.

Mason diede una scrollata di spalle.

“In tal caso, sei strabica.” commentò con noncuranza, avvicinandosi la lattina alle labbra. Autumn, che si era finalmente decisa a raggiungere la pista, si voltò di scatto in direzione del ragazzo. Nello stesso istante, la lattina di Mase sibilò e la coca cola schizzò fuori dal contenitore, colpendo il ragazzo sulla maglietta.

Ma che cazzo…” Mason schiacciò la parte superiore della lattina con la mano, rosso in viso.  Autumn arretrò lentamente, il nervosismo improvvisamente tramutato in panico: le dita le prudevano ancora.

“Non sono stata io.” mormorò quasi senza accorgersene, indietreggiando ancora. Mason le rivolse un’occhiata seccata, mentre le sue mani si frugavano freneticamente tra le tasche alla ricerca di un fazzoletto.

Ma va?” commentò ironicamente, cercando di asciugarsi il collo come meglio poteva.

Idiota…” aggiunse poi tra sé, mentre la ragazza si allontanava, diretta verso la pista da hockey. Autumn incominciò a respirare forte, guardandosi le mani che ancora le formicolavano: c’era qualcosa che non andava.

Aveva caldo e freddo al tempo stesso; e il suo cuore aveva preso a battere più in fretta, ma non era per rabbia, né per il nervoso.

Eppure non poteva essere stata lei.

Era agitata e non riusciva a comprendere il perché.

La ragazza si cacciò le mani in tasca, poi le tirò nuovamente fuori. Strinse forte le dita a pugno, ma servì a poco: il prurito non accennava a dileguarsi, il batticuore era ancora insistente. E la fastidiosa impressione di essere in qualche modo collegata all’incidente della lattina, anche.

Ci aveva pensato – era sicura di averci pensato – e poi era successo. Follia, considerò fra sé, appoggiandosi alle parete. Il fatto che ci avesse pensato, non significava nulla. Era stata una coincidenza; una stupida coincidenza. Eppure il formicolio alle mani non cessava e il presentimento che qualcosa di insolito stesse accadendo continuò a pungolarla con insistenza.

Si sentiva come se il mondo avesse improvvisamente incominciato a girare più in fretta e lei non avesse idea di come fermarlo. Di come rallentarlo. Ciò che le era sempre stato ostile –  un presentimento, il suo istinto – si sforzava di suggerirle qualcosa a cui non voleva dare ascolto, ma che non riusciva ad evitare, per quanto si sforzasse.

E aveva paura.

Una paura sottile, ma paralizzante. Aveva paura e non riusciva a spiegarsi il perché. Eppure sentiva che sarebbe andato tutto per il  meglio, se solo le sue mani avessero smesso di formicolare così tanto.

Il prurito non cessò.

***

Mason si chiuse la porta del bagno alle spalle, imprecando a denti stretti. Cercò il cestino con lo sguardo e si liberò della lattina ancora mezza piena, prima di raggiungere il lavandino per darsi una sciacquata. Scrutò poi con aria truce la chiazza di coca cola che si era formata sulla sua maglietta: fanculo, farfugliò digrignando i denti.

Mentre si asciugava le mani, qualcun altro fece ingresso nel bagno, catturando l’attenzione del ragazzo sgranchendosi la voce. Mase lo riconobbe come uno dei compagni di corso di sua sorella, un certo Mike, Michael, qualcosa del genere. Era uno di quegli energumeni dall’umorismo forzato con il vizio di inserire frecciatine a ogni frase, convinti di far ridere. Mason li trovava irritanti e proprio per questo aveva trascorso gli ultimi mesi cercando di evitare i tipi come Michael, ben conoscendo il tipo di reazione che avrebbero fatto scattare in lui: quel pomeriggio, non gli fu possibile.

“Bella maglietta, Lockwood. Problemi ad aprire le lattine?” commentò l’adolescente con un guizzo divertito nello sguardo. Mason strinse le mani a pugno, ma si limitò a tacere, affrettandosi a raggiungere la porta del bagno; forse, nonostante l’umore nero, sarebbe perfino riuscito a tenersi fuori dai guai, una volta tanto.

“Avresti dovuto chiedere alla tua sorellona di darti una mano. A proposito, dimentico sempre quanti anni hai; dodici?

O forse no.

***

La squadra di Mystic Falls aveva vinto: Caroline Forbes lo intuì avvertendo le prime note dell’inno della scuola mescolarsi a un tripudio di voci entusiaste provenienti dalla pista. Sorrise, abbandonando il bar per raggiungere l’uscita dell’edificio: aveva deciso di fare un salto a casa, prima di tornare dai Donovan nel pomeriggio, ma i suoi progetti finirono nel dimenticatoio, quando la vampira oltrepassò il bagno dei ragazzi; rumori di rissa, mescolati all’odore pungente del sangue la convinsero a fare marcia indietro. Era consapevole del fatto che sarebbe stato meglio per lei proseguire oltre, cercando di non impicciarsi, di non dare nell’occhio… o magari di fare entrambe le cose. Si infilò comunque nel bagno dei ragazzi, cercando con lo sguardo i protagonisti della lite: erano due adolescenti, uno decisamente più piccolo dell’altro. Caroline li raggiunse appena in tempo per evitare che il minore si avventasse un’altra volta sull’altro, già pronto a colpirlo di nuovo.

“Fermatevi subito. Smettetela entrambi!” li intimò afferrando il più giovane per le spalle che si scansò, portandosi poi il dorso della mano alla bocca per sfilare l’accenno di sangue che aveva sotto al labbro. Nel momento in cui i loro sguardi si scontrarono, Caroline lo riconobbe.

“Mason!” si lasciò sfuggire, mentre ancora lo tratteneva per la giacca. Colto alla sprovvista, Mase si voltò verso di lei; la riconobbe come la ragazza che aveva sorpreso a fissarlo a scuola. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Caroline fu più veloce. Si frappose tra i due ragazzi, mentre il più grande dei due cercava di approfittare del momento di distrazione di Mase, per sferrargli un pugno.

“Adesso calmatevi. Tutti e due.” esclamò placcando il colpo del ragazzo e spingendolo verso il lavandino.

“E tu chi diavolo sei?” ringhiò a quel punto Mason, cercando di superarla per raggiungere l’altro ragazzo.

“Che cosa vuoi da me? Perché sei sempre ovunque?”

Caroline si limitò a trattenerlo, mentre l’altro adolescente le rivolgeva un’occhiata diffidente, imbarazzato e intimidito al tempo stesso, dalla forza di quella ragazza mai vista prima.

“Che sta succedendo, qui?”

Nel momento esatto in cui quelle parole venne pronunciate, accaddero due cose:  gli occhi di Mason si ridussero a due fessure e il ragazzo si fece da parte, allineandosi alla parete. Nello stesso istante, Caroline lasciò andare l’altro adolescente, irrigidendosi di scatto.

Tutto ciò che fino a quel momento aveva percepito venne meno, incluso l’odore del sangue. Il mondo si sfumò; i rumori si affievolirono. Si spense tutto; tutto tranne quella voce. Le quattro parole che aveva udito rimbombarono ripetutamente nella sua testa e quella voce, la voce che si era sforzata di ignorare per mesi, gli rimbalzò addosso e si frappose ai suoi pensieri con insolenza, costringendola ad arretrare a sua volta.

Tyler non ebbe alcuna reazione, fino a quando i loro sguardi non si incrociarono. Sgranò gli occhi, nel riconoscere quei lineamenti da ragazzina, quegli occhi chiari, quella luce ancora presente – dopo tutto quel tempo – nello sguardo di Caroline.

Non disse nulla; rimasero entrambi in silenzio, gli sguardi fusi l’uno all’altro e i loro corpi immobili, come paralizzati. Mason analizzò l’espressione di entrambi con aria nervosa, non riuscendo a comprendere che cosa stesse succedendo. Infine, Tyler si decise a spostare la propria attenzione da Caroline, al figlio. Notò all’istante il labbro ammaccato del ragazzo e l’aspetto scomposto di tutti e due gli adolescenti e i suoi occhi si cerchiarono di rabbia.

“Non è successo nulla, signor Lockwood.” esclamò improvvisamente il maggiore dei ragazzi, in soggezione.

“Fuori di qui.” lo intimò Tyler indicandogli la porta del bagno.

“Avanti.”

Il giovanotto non se lo fece ripetere due volte. Scoccò un’ultima occhiata truce in direzione di Mase e si allontanò dai presenti, sistemandosi i capelli con la mano. Caroline si costrinse a seguirlo, farfugliando qualcosa che somigliava a un vi lascio soli”, ma Tyler si mosse nella sua direzione.

“Aspetta.” affermò rivolgendole un’occhiata esitante. Caroline si bloccò; l’uomo tornò a osservare il figlio, che aveva messo le mani in tasca e lo fissava di sottecchi, rosso in viso. Se per la rabbia o per la vergogna, non era facile da intuire. Infine, l’uomo si voltò nuovamente in direzione della vampira.

“Dammi due minuti.” insistette. E nel suo sguardo, Caroline fu quasi convinta di aver intravisto una punta di supplica. Annuì, abbandonando comunque la stanza e appoggiando le spalle al muro, a pochi metri dalla porta del bagno.

Non appena la ragazza fu scomparsa dalla sua visuale, lo sguardo di Tyler mutò nuovamente. Con le iridi cerchiate di rabbia, si avvicinò il figlio.

“Che diavolo stavi cercando di fare?”  ringhiò appoggiando la mano al muro e stringendo le dita a pugno: le nocche impallidirono. Mason scansò il suo sguardo e scrutò con odio il pavimento.

“Era solo una litigata scema…” tentò di difendersi a mezza voce, ben sapendo che quelle parole avrebbero semplicemente irritato ulteriormente Tyler.

“E per una litigata scema, ti metti a fare a botte?” ringhiò, infatti, il padre rivolgendogli un’occhiata che mescolava lo stupore alla rabbia. Mason non rispose: il rossore sulle sue guance era sempre più evidente. Tyler sospirò, mettendosi a sua volta le mani in tasca.

“Cristo, Mason, io non so più che cosa fare con te.” sbottò infine scuotendo il capo più volte, “Ma ti sei visto allo specchio?” aggiunse, afferrandolo per le spalle e dandogli un colpetto in direzione del lavandino.

“Guardati! Sei un nanerottolo.” lo intimò Tyler indicandogli lo specchio.

“Un marmocchio con il sangue al naso. E nonostante questo, parti in quarta come un giocattolo a molla, alla minima provocazione. Continua pure con questo atteggiamento da cazzone, fatti massacrare dai ragazzi più grandi, ma sappi che prima o poi capiterà che becchi la giornata sbagliata e non ci sarò più io a venire a salvarti il culo. O tuo fratello.”

“Che cosa centra Ricki?” sbottò improvvisamente Mason allentando la presa del padre sulla sua spalla. Tyler sospirò, riuscendo a recuperare pian piano il controllo della sua rabbia.

“Mase, per favore.” si limitò a pregarlo infine, osservando il riflesso del figlio con aria stanca, “Fai attenzione. Smettila di fare casini. A volte può bastare un passo falso, un unico stupido errore… e finisci per rovinarti la vita. Questo, non ti deve succedere.”

Mason trovò il coraggio di sollevare il capo e squadrò il padre con aria diffidente.

“Da come parli, sembra che tu, quell’errore, l’abbia commesso.” commentò a voce asciutta. Fuori dal bagno, Caroline trattenne il fiato, mordicchiandosi nervosamente un labbro. In quel momento, incrociò lo sguardo del ragazzo che stava camminando nella sua direzione. Gli sorrise istintivamente, riconoscendo l’andatura rilassata e lo sguardo luminoso del giovane. Sorpreso, Oliver ricambiò il sorriso, prima di sbirciare oltre la porta del bagno dei ragazzi, convinto di aver riconosciuto la voce del suo migliore amico.

“Mase?” lo chiamò con titubanza, intuendo all’istante il brutto momento non appena il suo sguardo si posò su Tyler. L’uomo fece per dire qualcosa al figlio, ma poi sembrò ripensarci.

Va’ di là con Oliver e sistemati quel labbro.” ordinò infine dandogli una pacca sulla spalla. Mason si mosse in direzione dell’amico, con aria più che mai scontrosa.

“E stai vicino ai tuoi fratelli!” si raccomandò ancora il padre, mentre i due ragazzi si allontanavano in direzione opposta a lui.

Caroline li osservò avviarsi, captando alla perfezione il “non ho più dieci anni!” brontolato in maniera secca dal minore dei Lockwood. Con sua sorpresa si accorse che non era stata la sola a sentirlo.

“A me invece sembra proprio di sì.” commentò Tyler passandosi una mano sul viso con aria stanca. La ragazza gli rivolse un sorriso comprensivo. Quando se ne accorse, l’uomo sospirò.

“Grazie.” mormorò prima di appoggiare la schiena contro il muro.

“Veramente non ho fatto nulla.” rispose la ragazza denegando con il capo.

“Io non so proprio che gli sia preso.” continuò imperterrito Tyler, visibilmente preoccupato.

“Da bambino non era così. Io…

Si fermò, volgendosi in direzione di Caroline.

La guardò per una frazione di secondo e poi le sorrise, come se avesse appena riavvolto un nastro immaginario, per tornare al momento in cui, poco prima, si erano incontrati.

“È bello rivederti, Care.” ammise, allargando le braccia per invitarla a stringerlo. Caroline si lasciò abbracciare, sforzandosi di sorridere, ma avvertì dell’impaccio in quel contatto. Le braccia di Tyler, così come tutto a Mystic Falls, avevano dimenticato come farla sentire al sicuro. Avevano dimenticato, che un tempo erano state in grado di farla sentire a casa.

I hate to turn up out of the blue uninvited
But I couldn't stay away, I couldn't fight it.
I had hoped you'd see my face and that you'd be reminded
That for me it isn't over.

 

A Caroline, quel pensiero fece male; aveva trascorso gli ultimi mesi cercando di convincersi che il suo ritorno a casa non avesse nulla a che vedere con lui; aveva ignorato la sua presenza insistente, i ricordi che echeggiavano ogni volta che il suo sguardo si posava su un dettaglio diverso di quella cittadina. In ogni luogo, sembrava esserci qualcosa che la ricollegasse a Tyler. Aveva riabbracciato sua madre, i suoi amici, la sua famiglia. Per un giorno, era perfino riuscita a convincersi che la loro presenza bastasse, che fosse più che sufficiente per riuscire a colmare quel vuoto, l’assenza totale di qualcosa che ancora la feriva, nonostante tutto. Aveva sorriso a quei ragazzi sconosciuti, li aveva vegliati in silenzio, desiderando a volte solo di poter imparare a conoscerli, diventare parte delle loro vite. Come amica, come confidente.

E ci era quasi riuscita, in fondo, a convincersi di desiderare solo il loro bene. Il bene dei ragazzi; la felicità delle persone a cui teneva, quello e nient’altro.

I wish nothing but the best for you

Eppure, in quel momento, con Tyler al suo fianco, si rese finalmente conto che in fondo, per anni, non aveva fatto altro che sperare che un giorno le cose potessero tornare come una volta.

Per anni, una parte di lei, aveva preservato per Tyler quel tipo di amore che aveva provato quando avevano diciassette anni e scarso interesse verso ciò che serbava loro il futuro.

Forse era davvero tornata per lui, dopotutto.

“Sei silenziosa.” obiettò in quel momento l’uomo, indirizzandole un’occhiata sospettosa.

“Non è da te.” aggiunse scherzosamente.

Old friend, why are you so shy?
Ain’t like you to hold back or hide from the light.

Caroline cercò di rispondere, ma le parole faticarono a uscire. Si limitò a rivolgergli un sorriso appena abbozzato.

“Mi hai mai pensata?” riuscì a domandargli infine, costringendosi a ricambiare il suo sguardo.

“In questi anni. Hai mai pensato a me?”

Tyler sorrise, portandosi le braccia sul petto.

“Io penso spesso a te, Caroline.” ammise, sfiorandole la guancia con delicatezza.

 “Ogni volta che chiamo mia figlia per nome…” dichiarò sotto lo sguardo pensieroso della ragazza,

…O quando mi mette il broncio.” aggiunse riuscendo a strapparle un sorriso.

“Durante le notti di luna piena… Caroline, come potrei non pensare a te?” lo disse in fretta, e notando il modo in cui l’aveva guardata, alla ragazza parve quasi un rimprovero.

“Tu c’eri sempre. Pensi davvero che potrei dimenticarmi di questo?

Caroline tentennò, prima di rispondere.

“Dovresti.” azzardò infine, dimezzando il tono di voce. Tyler inclinò appena il capo verso destra.

“Sei sposato, ora.” aggiunse. L’uomo aggrottò appena le sopracciglia.

“Sono sposato.” confermò.

“E amo mia moglie. Amo i miei figli più di qualsiasi altra cosa al mondo. Suonerà banale, ma è la pura verità: non so cosa farei se un giorno dovesse succedere qualcosa a uno di loro, probabilmente perderei la testa…

Il modo in cui parlava della sua famiglia era qualcosa che non era mai riuscita a dimenticare, dopo tutto quel tempo. C’era qualcosa nel suo tono di voce che la inebriava e la feriva al tempo stesso. Non riuscì più a sostenere il suo sguardo: gli occhi dell’uomo le sembravano diversi, improvvisamente. Erano gli occhi di un lupo, un lupo pronto a tutto, pur di difendere il suo branco. I suoi piccoli, la sua famiglia.

Ma non posso comunque dimenticarmi di te.” aggiunse Tyler, tendendo il braccio per stringerle una mano.

“O di noi. Proverò sempre qualcosa di molto forte per te, Caroline. Anche se non è il genere di legame che ci ha legati in passato. Anche se ora è tutto diverso. Anche se sono cresciuto, mi fa sempre bene averti vicino. La nostra amicizia, Caroline…” aggiunse, sollevandole il mento con delicatezza.

 “…Di quella ne avrò bisogno sempre E mi è mancata, durante questi dieci anni.” ammise.

Caroline inspirò a fondo e infine annuì, stringendo con più forza la mano ancora intrecciata a quella dell’uomo.

“Terrò d’occhio Mason per te.” decise infine, voltandosi per sfilare via una lacrima che era sfuggita al suo controllo.

“Mi sembra che ne abbia bisogno.”

“Non devi farlo, Care. Non è compito tuo.” la rassicurò Tyler. Tuttavia, la ragazza notò subito che il suo sguardo si era fatto nuovamente pensieroso.

“Voglio farlo.” si impuntò, lasciandogli la mano.

“E poi non so se hai notato, sembra che mi venga naturale. Sono sempre al posto giusto e al momento giusto per impedire che gli succeda qualcosa.

“Un po’ come in passato è successo con me.” scherzò Tyler, infilandosi le mani in tasca. Le sorrise, e per un attimo Caroline fu quasi convinta che il Tyler che aveva davanti fosse l’adolescente di un tempo, il Tyler che l’aveva amata a lungo.

“Puoi abbracciarmi un’altra volta?” domandò a bruciapelo, chinando appena lo sguardo. Con un accenno di sorriso divertito, l’uomo tirò fuori le mani dalle tasche e avvolse le braccia attorno alla sua vita.

Subito, a Caroline ,quell’abbraccio parve quasi freddo, come il precedente. Ma la ragazza non si arrese. Ci frugò dentro, sforzandosi di recuperare vecchi ricordi. Evocò il modo in cui si sentiva quando all’alba riusciva finalmente a scaldarlo, sfilandogli via il freddo che la luna piena gli aveva lasciato addosso. Ricordò le loro mani intrecciate e l’ultimo bacio che si erano scambiati, assaporandone per un istante il retrogusto amaro: era un bacio di addio.

Si fece coraggio e scavò ancora indietro; prima dei baci, delle carezze di due innamorati, Caroline trovò infine quello che cercava. C’era un ragazzo spaventato e  c’era lei, Caroline, e il tocco della sua mano tiepida, a contatto con la sua pelle nuda. C’era un girotondo di cicli lunari, notti insonni trascorse a piangere o a vegliare, ossa che si spezzano, occhi che si tingono di giallo, occhi di lupo. C’era una ragazza che in quel periodo aveva imparato a mettere stessa dopo gli altri. A tendere la propria mano verso chi era alla ricerca di un appiglio. E Tyler, a quella mano, ci si era aggrappato con forza, scoprendo grazie a Caroline di non essere solo: di non esserlo mai stato.

Fu in quel momento, che l’abbraccio di Tyler incominciò a mutare. E le sembrò tiepido, tutto d’un tratto. E sicuro, proprio come un tempo.

Fu in quell’abbraccio, l’abbraccio di un amico, che per la prima volta – da quando era tornata a Mystic Falls - si rese conto di essere davvero a casa.

 

They say you're really not somebody
until somebody else loves you.
Well, I am waiting to make
somebody, somebody soon.

And are we there yet? Home.

Are we there yet? Ingrid Michaelson

 

***

“Bella partita, vero?” Lester spostò lo sguardo verso la persona che aveva appena fatto capolino alla sua destra. Leanne Willard-Forbes gli sorrise, prendendo posto accanto a lui. L’uomo frugò la pista con lo sguardo, come se stesse cercando qualcuno. Infine, indicò uno dei ragazzi.

“Il figlio dei Gilbert ha una buona mira.” commentò infine osservandolo raggiungere la sua famiglia.

“Potrebbe diventare un bravo cacciatore. Come i suoi avi.”

“Non ci servono cacciatori di vampiri.” gli ricordò la donna. Lester le rivolse un’occhiata poco convinta.

 “Come mai è qui, Leanne?” domandò poi, passandosi la mano sotto il mento. Leanne gli sorrise di nuovo , e nel farlo, Gregory notò che i suoi occhi brillavano di una leggera punta di malizia.

“Ho un’informazione che potrebbe interessarle; lo sceriffo mi ha appena avvertita.” ammise, porgendogli il cellulare: sullo schermo, il nome di Fell era susseguito dall’immagine di un uomo anziano.

“Questo è il professor Finn. È per sostituire lui, che sto facendo supplenza.” notò Lester.

“Beh, temo che dovrà continuare a sostituirlo ancora a lungo.” rivelò la donna ritirando nuovamente il cellulare in tasca. Quando Gregory le rivolse un’occhiata perplessa, sembrò quasi divertita della sua reazione.

 “è scomparso.” specificò, sollevandosi per abbandonare le tribune.

“Da più di due settimane ormai.”

Si allontanò in direzione dell’uscita, abbandonando un più che mai pensieroso Lester, solo con i suoi pensieri.

 

***

“Che ti è successo?” Si affrettò ad esclamare Ricki, notando l’aria più che mai afflitta del fratello minore. Oliver denegò appena con il capo, ma il maggiore dei fratelli Lockwood lo ignorò.

“Che hai fatto a quel labbro? Diamine, Mase, non di nuovo!” gli appoggiò una mano sulla spalla con aria preoccupata, ma il ragazzo lo scansò.

“Rick, vai a chiamare Caroline.” si introdusse il padre nel discorso rivolgendo un’occhiata intensa al figlio maggiore. Ricki tentò di comunicargli la sua apprensione con lo sguardo, ma il padre fu irremovibile. Infine, il ragazzo annuì e raggiunse la sorella.

Tyler sospirò, tornando a osservare Mason.

“Adesso andiamo a casa.” annunciò infine allacciandosi il giubbotto. Il figlio si infilò a sua volta il suo, in silenzio.

“Caroline!” Tyler richiamò bruscamente la figlia, deciso ad andarsene in fretta.

“Un momento solo!” lo supplicò la ragazza trattenendo Ricki per il braccio e cercando Vicki con lo sguardo.

“Oh, eccola lì! Vic! Ehi, Vic!” esclamò mentre il fratello maggiore roteava gli occhi.

“Che rompiscatole che sei, sorella…” mormorò sotto lo sguardo divertito di Alexander che osservava la scena ridacchiando. Vicki, tuttavia non li raggiunse. Aveva riconosciuto Autumn seduta per conto suo tra le ultime tribune e la sua espressione tormentata, la impensierì.

“Guarda che ti perdono, se sei arrivata in ritardo.” scherzò sfuggendo ai richiami insistenti di Caroline, per arrampicarsi sulle gradinate. Quando prese posto di fianco all’amica, Autumn smise di fissare il vuoto e la osservò atona, quasi non si fosse accorta del suo arrivo prima di quel momento.

“Che succede,Tumn?” domandò poi Victoria rivolgendole un’occhiata preoccupata. L’altra ragazza scosse il capo, guardandosi le mani: non prudevano più, ma ricordava perfettamente il formicolio che aveva avvertito quel pomeriggio e continuava a temere che sarebbe tornato presto. Senza che lei potesse farci nulla.

“Non lo so.” ammise infine, traendo un lungo respiro. Una lacrima sfuggì al suo controllo, rimanendo aggrappata alle sue ciglia, quasi avesse paura di scivolare a terra.

“Non lo so, Vicki.”

Victoria sospirò, abbandonando malamente la sacca da ginnastica a terra. Strinse l’amica forte a sé, cercando di infondergli conforto, ma domandandosi al tempo stesso che cosa potesse esserle successo; la analizzò di sottecchi, alla ricerca del cipiglio scettico che la caratterizzava di solito, ma in quel momento, in lei, riconobbe solo lo sguardo confuso di una ragazza che non somigliava più di tanto a quello di Autumn Morgan.

Era lo sguardo di una ragazza smarrita.

 

***

Oliver aprì gli occhi di scatto, tirandosi a sedere con aria confusa. Si arruffò i capelli, ancora mezzo addormentato, cercando di riportare la sua mente al sogno che aveva appena fatto. Allungò la mano verso il comodino, e cercò a tentoni la lampada, premendo il tasto di accensione.

Non ricordava più il suo sogno; sapeva solo che centrava una ragazza. Fu solo quando il suo sguardo cadde sull’album da disegno che era scivolato a terra, ancora aperto dalla sera precedente, che il ragazzo ricordò: era quella, la ragazza del sogno. La stessa che stava ritraendo.

Sbadigliando, chiuse l’album con uno scatto secco e lo posò sul copriletto, prima di dirigersi in bagno. Quando tornò indietro, si accorse che il blocco da disegno era di nuovo aperto all’ultima pagina. La ragazza del ritratto gli sorrise dal disegno: un sorriso di carta e carboncino. Che strano, pensò chiudendo nuovamente l’album. Eppure, era convinto di averlo già fatto poco prima.

Spense la lampada sul comodino e scivolò nuovamente sotto le coperte, dimenticandosi all’istante sia del sogno, sia della ragazza.

Improvvisamente, la porta della sua camera sbatté; Oliver scattò a sedere, tornando ad accendere la lampada.

“Jeremy?” una voce lo colse di sorpresa. Oliver sobbalzò, riconoscendo nella penombra generata dalla luce fioca della lampada, il profilo di una ragazza.

“Chi sei?” domandò confuso, cercando di assottigliare lo sguardo per riconoscerne i lineamenti.

La ragazza si avvicinò ulteriormente, guardandosi attorno con aria pensierosa. Quando vide l’album da disegno, il suo viso si illuminò.

Infine, volse lo sguardo verso il giovane Gilbert: gli sorrise.

“Sei Oliver, vero?” domandò.

In quel momento, la riconobbe: era la ragazza del suo ritratto.

 

Nota dell’autrice.

Prima di tutto, tre annuncetti legati stretti stretti a History Repeating (o  Istuar Repitìng, come la chiama la mia bella mamma <3).

Dunque, in questo periodo Natalizio, ho pubblicato tre cosette legate a questa storia, le pubblico qui nel caso qualcuno fosse interessato:

May I love you? [Buon Natale Xander bello!]: Questa è una one-shot natalizia tutta su Xander e Caroline in chiave un po’ romantico-fluffosa <3 (e scritta per la Sil!)

Pyramid: a questo tengo iper tanto. È un ipotetico mini prequel di History Repeating che spiega come Jeremy e la sua donna, Hazel si siano conosciuti. E anche come mai Xander e Oliver si chiamano proprio così *W*

A very merry Scary Christmas: questa è una one-shot natalizia pseudo comica sui protagonisti di HR in formato ridotto. E vi dico una sola cosa: Alaric Babbo Natale XD

Passiamo,ordunque, al capitolo! [ma voi in realtà chiudete la pagina sempre prima di arrivare qui vero? Non so, me lo sono sempre chiesta D:]

Tadaaaaam! *Laura fa una capriola, perché è pazza e voi ve la dovete tenere così*

Sono tornata. Con un polpettone più polpettoso del solito. Ma eh, dovevo sopperire a due mesi d’assenza, che vi credete? E così, ecco il tanto (?) atteso capitolo con tanto di forwood, IL FORWOOD, gente! Eh, dopo il casino che sta succedendo nella serie tv in qualche modo sono felice che il loro momento (seppur non in termini romantici) sia arrivato proprio adesso. Maaa andiamo con ordine.

Anzitutto, il capitolo è ispirato in gran parte a due splendide canzoni meravigliose: are we there yet? Di Ingrid Michaelson (che è anche nella colonna sonora di TVD) e [vabbè, questa la conoscete tutti] someone like you, di Adele, che già avevo usato, ma che comunque sapevo avrei recuperato, perché trovo che rappresenti la mia idea future!Forwood in tutto e per tutto. Il titolo l’ho prelevato da uno degli episodi della prima stagione e si collega sia a Caroline, che a Autumn *abbraccia protettiva la sua piccola strega* come avrete notato.

Passiamo al flashback ** Avevo anticipato nella pagina di FB che ci sarebbe stato un flashback iniziale sul passato di Mase, e vedrete che ci torneremo prima o poi. Poi c’è stata Autumn, che come ci aveva lasciato intuire dalla sua reazione alla stretta di mano con Caroline, pare abbia ereditato anche lei qualcosa dalla madre. Lo so che la detestate quasi tutti, ma ci tenevo ad approfondire lei e Julian, i Morgan e la loro storia, quindi mi sono dilungata un pochetto sulla sua introspezione.

Mase è un fessacchiotto *W* *lo spuccia* Ha un carattere particolare, ancora non sono riuscita nemmeno io a farmi raccontare per filo e per segno quello che gli passa per la testa, si racconterà pian piano.

E poi il capitolo si chiude con Oliver e la fatidica ragazza misteriosa, che finalmente è comparsa, ma è ancora misteriosa! Dai che io lo so che sapete chi è *_* Ad ogni modo nel prossimo capitolo, verificheremo chi aveva avuto ragione e chi un po’ meno.

Un’ultima cosa! In questo periodo davvero tantissime persone hanno aggiunto History Repeating ai preferiti o a le seguite e io volevo ringraziarvi davvero infinitamente, per aver letto questa storia e dato fiducia a tutti questi personaggi nuovi. Spero di spere presto che cosa ne pensate di loro!

Porca paletta, ma il polpettone è diventato un frigo pieno di polpette D: Va bene, scappo ricordandomi che per foto, informazioni e chi più ne ha e più ne metta, mi trovate QUI.

Un abbraccio

Laura

P. S. (perché se non c’è un p.s. non sono io: sotto suggerimento della Sil, ho aggiunto il video della “sigla” a inizio di ogni capitolo. E ho sostituito la mia copertina schifoserrima nel prologo con quella che mi ha fatto sempre la Sil come regalino di Natale *-*

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Capitolo 7
*** 6. Smells like teen spirit. ***


Chapter 6.

Smells like teen spirit.

Apritemi, sono io.

Busso alla porta di tutte le scale,

ma nessuno mi vede.

Perché i bambini morti,

 nessuno riesce a vederli.

 

La bambina di Hiroshima. Nazim Hikmet

 

 

 

Oliver annuì lentamente, esaminando con attenzione i lineamenti della ragazza di fronte a lui; era bella, esattamente come gli aveva suggerito la fotografia: gli occhi scuri dal taglio particolare sembravano sorridergli allo stesso modo delle labbra.

 

“Non capisco.” ammise infine, mettendosi a sedere. A giudicare dall’aspetto, la ragazza doveva avere più o meno la sua età. E allora, come era possibile che esistesse una sua foto risalente per lo meno a una ventina di anni prima?

 

“Mi dispiace di esserti piombata in camera così.” ammise la giovane con un sorriso. I suoi occhi si sgranarono, quasi stesse cercando di analizzare con cura ogni dettaglio dell’aspetto di Oliver.

 

“In realtà, non capisco nemmeno con esattezza che cosa possa essere successo.” aggiunse.

 

“Sei reale?” il ragazzo si decise infine a domandare, con un pizzico di esitazione nel tono di voce.

 

“Insomma, sei… vera?”

 

Perché incominciava a pensare che Mason potesse averci visto giusto, con lui; dopo tutto quel disegnare, e  ritirarsi tra i suoi pensieri, forse stava veramente incominciando ad ammattire.

La ragazza fece un passo indietro. Si morse un labbro, quasi si fosse accorta solo in quel momento della situazione che si stava andando a creare. Sospirò.

 

“Giudica tu stesso.” propose infine, tendendo un braccio in direzione del ragazzo. Le sue dita fecero per sfiorargli la fronte, ma quel contatto non avvenne mai. La mano della ragazza scese ad appoggiarsi su una spalla di Oliver, ma lui non sentì nulla. Lei era lì, di fronte a lui, eppure il suo tocco era incorporeo.

 

Era come un ologramma, come fumo.

 

Come un fantasma.

 

“Sei spaventato?” domandò poi, non osando ad avvicinarsi di più. Oliver si sfregò gli occhi con aria stanca, confuso e insonnolito al tempo stesso.

 

‘Sto ancora sognando’, considerò fra sé avvicinandosi le ginocchia al petto: non che ci fosse un’altra spiegazione plausibile.

 

“No.” ammise in tono di voce pacato, esaminando con attenzione il volto della ragazza.

 

“Sei molto bella.” aggiunse semplicemente, come se quel fatto bastasse a privarlo di qualsiasi tipo di inquietudine. 

 

Sapeva che non avrebbe dovuto essere così; una presenza del genere in camera sua – una sconosciuta, un fantasma o addirittura un’allucinazione – avrebbe dovuto turbarlo, ma saperlo non era abbastanza per convincersi ad avere paura. Dopotutto, parte di lui era ancora convinta di trovarsi nel bel mezzo di un sogno bizzarro.

 

Per di più, Oliver non era mai stato il genere di persona che si lasciava impressionare facilmente.

Era sempre stato indicato come il ragazzo insolito - quello calmo, insolitamente calmo. Era il giovane distratto che poteva camminare per ore in silenzio, immerso nel traffico confusionario dei suoi pensieri. E quando riemergeva, si sorprendeva sempre a sorridere. Oliver aveva un modo tutto suo di guardarsi attorno, di farsi un’idea sulle cose, sulle persone che lo circondavano. Per questo, la presenza di quella ragazza – reale o immaginaria che fosse – lo incuriosiva, più che spaventarlo. Dopotutto erano settimane che la sua mente rimuginava sulla fotografia trovata in soffitta, spingendolo a domandarsi chi fosse quella ragazza, come si chiamasse. Se vivesse a Mystic Falls o magari a Denver, la città in cui i genitori di Oliver si erano conosciuti.

 

“Ti ringrazio.” la giovane gli sorrise, e si decise finalmente ad avvicinarsi ancora, “Sono Annabelle.” Rivelò, sedendosi sul bordo del letto.

 

Oliver aggrottò appena le sopracciglia, osservandola con attenzione.

 

“Sei… un fantasma o un’allucinazione?” domandò ancora appoggiandosi gli avambracci sulle ginocchia. Anna soppesò le sue parole per un attimo.

 

“Diciamo la prima.” ammise infine, ricambiando con dolcezza il suo sguardo. Oliver tentennò.

 

“Quindi se sei qui…” cercò di capire sistemandosi meglio contro lo schienale del letto, “ …è per portare a termine qualcosa che hai lasciato in sospeso quando eri in vita?”

 

Annabelle rise. Il ragazzo arrossì appena, sorridendo a sua volta.

 

“Forse ho visto un po’ troppe volte Casper, da piccolo.” si giustificò dando una scrollata di spalle.

 

“In realtà, io vivo qui.” gli spiegò la ragazza, appoggiando la mano sul copriletto.

 

“È un po’ complicato da spiegare; ma è come se facessi parte del vostro mondo, solo che nessuno può vedermi. Nessuno a parte mia madre.”**

 

“È un fantasma anche lei?” domandò Oliver con aria incuriosita. La ragazza annuì, tornando ad osservare l’album da disegno ancora aperto sul letto.

 

“Questo l’hai fatto tu, vero?” chiese poi, sfiorando la pagina con tenerezza.

 

“Hai lo stesso talento di Jeremy.”

 

“È per il disegno che riesco a vederti?” tentò ancora Oliver, deciso a cercare di sciogliere un po’ dei dubbi che si erano ingarbugliati nella sua testa. Anna denegò con il capo.

 

“No, non funziona così.”

 

“E allora, come funziona?” Anna sospirò, distogliendo lo sguardo dal blocco da disegno.

 

“Non so dirti come mai tu riesca a vedermi; ma per me e tuo padre era una sorta di “spingere” e “tirare”. Se io “spingevo”, cercando di mettermi in contatto con lui, era sufficiente che lui “tirasse”, affinché potesse vedermi. Se pensava a me, quando io pensavo a lui, eravamo in grado di parlarci.” **

 

Oliver rimuginò fra sé per qualche secondo, attirandosi nuovamente le ginocchia al petto.

 

“Ti stavo sognando, prima.” si ricordò. “Ti ho sognato, e poi sei comparsa.”

 

Anna gli sorrise, ma questa volta lo fece in maniera malinconica, e in quel frangente al ragazzo non sembrò più una coetanea. Per un attimo, gli ricordò più una donna che una ragazzina.

 

“Stavi pensando a mio padre?” domandò in quel momento Oliver, aggrottando di nuovo le sopracciglia. “Magari è quello che ti ha portato qui.”

 

Anna non rispose subito; quello che stava succedendo era qualcosa di insolito anche per lei. Non le era mai capitato che qualcuno riuscisse a vederla, al di fuori del periodo in cui aveva potuto comunicare con Jeremy. Ed erano passati ormai più di vent’anni, da allora.

 

“Può darsi.” concluse infine.

 

“In realtà è da un po’ di giorni che cercavo di mettermi in contatto con lui. Ti ricordi la lattina, alla partita di hockey? Quando si è rovesciata da sola.” rivelò. Oliver annuì lentamente.

 

“Me lo ricordo…  sei stata tu?”

 

“C’è di nuovo qualcosa che non va a Mystic Falls.” lo interruppe Anna con aria d’un tratto apprensiva, “Tu e la tua famiglia dovete fare attenzione.”

 

“Che cosa intendi dire? Aspetta, hai detto ‘di nuovo’?”

 

Oliver tornò ad osservarla con aria confusa. Annabelle scosse il capo in fretta.

 

“Forse non avrei dovuto incominciare il discorso.” aggiunse.

 

Oliver tirò indietro il capo, per appoggiare la nuca alla parete. Non gli piaceva insistere, quando intuiva che qualcosa voleva essergli mantenuta segreta.

 

“Se non puoi parlarne con me, dovresti almeno discuterne con papà.” propose. L’espressione di Anna si intristì leggermente.

 

“Non posso parlare con Jeremy; non riesco più a comunicare con lui.”

 

“Non ti seguo.” ammise il giovane, nuovamente confuso.

 

“Avevo capito che papà fosse l’unico con cui eri in grado di…”

 

“Questo una volta.” lo interruppe Anna.

 

“Ti ricordi? È un “tira” e “spingi”. Non posso mettermi in contatto con Jeremy, se tuo padre non cerca di fare la stessa cosa.”

 

Oliver fece mente locale.

 

“Forse potrei provare a…” incominciò, ma Anna lo interruppe con aria d’un tratto apprensiva.

 

“No.” obiettò, scuotendo il capo.

 

“Deve continuare ad essere così. Oliver, è importante che tu non dica nulla a tuo padre, di quello che è successo.”

 

Il ragazzo le rivolse un’occhiata pensierosa.

 

“Hai detto che volevi metterlo in guardia da qualcosa.” le ricordò in tono di voce pacato.

 

Annabelle aprì bocca per rispondergli, un rumore di passi proveniente dal corridoio la costrinse a voltarsi.

 

“Oliver?” Jeremy chiamò a bassa voce, fuori dalla stanza del ragazzo.

 

“Non dirgli nulla!”

 

Il sussurro di Annabelle lo fece voltare nuovamente verso destra, ma non fece in tempo a muoversi che la ragazza era scomparsa. Con aria perplessa, il ragazzo tornò a guardare di fronte a sé, mentre la porta della sua camera si apriva lentamente. Oliver si affrettò a chiudere il blocco da disegno ancora aperto sul suo letto.

 

“Olive, sei ancora sveglio?” lo interrogò il padre, affacciandosi nella stanza, “Mi è sembrato di sentirti parlare.”

 

“Chiedevo se fossi tu nel corridoio.” spiegò il ragazzo con aria incredibilmente tranquilla, tornando a infilarsi sotto le coperte, “Stai bene, papà?” aggiunse poi.

 

Jeremy gli rivolse un’occhiata interrogativa, poi scosse il capo con aria insonnolita.

 

“Io? Oh, sì, mi ha svegliato un incubo. Ogni tanto mi capita, lo sai.” confessò aprendo un po’ di più la porta per poter osservare meglio il figlio.

 

Sorrise, lasciandosi poi sfuggire un sospiro. Era da qualche notte che i suoi sogni si erano fatti più agitati del solito, incupiti, forse, dagli strani comportamenti della bussola di Jonathan Gilbert. A Jeremy sembrava impossibile che la sola Caroline riuscisse a indirizzare l’ago della bussola così in fretta per luoghi diversi del quadrante. Eppure in quel momento si sentì d’un tratto tranquillo, contagiato dall’espressione rilassata del figlio minore.

 

“Hai bisogno di parlare?” domandò ancora Oliver, mettendosi nuovamente a sedere. Jeremy lo fissò ancora per qualche secondo, ma poi si mise a ridere.

 

“Sbaglio o sono io il papà, tra i due? Va tutto bene, Ol. Torna a dormire.” lo rassicurò, sorridendogli un’ultima volta.

 

Oliver ricambiò il sorriso, tornando a rifugiarsi sotto le coperte.

 

“Buonanotte, pa’.” lo salutò,mentre l’uomo chiudeva la porta. Attese in silenzio che i suoi passi si fossero allontanati, prima di aprire gli occhi, cercando di riconoscere il profilo degli oggetti che popolavano la sua stanza.

 

“Puoi restare, se vuoi.” mormorò al nulla, avvertendo tuttavia il sonno, premere con insistenza sulle sue palpebre.

 

E nonostante il silenzio cercasse di suggerirgli che fosse solo, sorrise, immaginando due occhi scuri che gli sorridevano nel buio.

 

 

 

***

“Questo weekend, lago?”

Xander fece capolino di fianco a Caroline, mentre la ragazza selezionava i libri di testo dall’armadietto.

“È un po’ di tempo che non ci andiamo.”

“La casa sul lago?” Caroline domandò, approfittando della sua presenza per passargli lo zainetto. Con le mani libere, fece pressione sulla pila di fogli in un ripiano alto, cercando di farceli stare tutti, “Questo armadietto si è fatto troppo piccolo!” borbottò.

“Forse prima o poi dovresti deciderti a farci un po’ d’ordine, che dici?” commentò il ragazzo, indicando con un dito i mille fogli che minacciavano di scivolare a terra.

“Sta parlando ‘Mr Pulizia’.” lo rimbeccò la ragazza. “Il tuo sarà pieno di biscotti e patatine, quindi non rompere.” aggiunse, dandogli di gomito; Xander ridacchiò.

“Touchè.” ammise, arrendendosi.

“Comunque, è veramente da sacco di tempo che non andiamo più alla casa sul lago.” notò poi la giovane, riuscendo infine a chiudere lo sportello dell’armadietto. Recuperò il suo zaino dalle mani di Xander e gli scoccò un’occhiata esitante.

“Da quando…”

“...da quando quest’estate, per due settimane di fila, mi hai tirato bidone – per inciso, grazie Care.”

Terminò la frase per lei il ragazzo, portandosi le braccia sul petto. La ragazza rise.

“È stato un periodo un po’ incasinato, quello.” si difese, sfilandogli via il polsino dal braccio per giocarci. Xander fece una smorfia.

“Macché, è solo che dovevi uscire con quel tizio rosso di capelli. Tra l’altro, che fine ha fatto?”  aggiunse con aria vagamente incuriosita, “Tutto a un tratto hai smesso di uscirci e non so nemmeno il perché.”

Caroline diede una scrollata di spalle, restituendo il polsino al suo proprietario.

“ Era appiccicoso…” commentò, arricciando il naso; Xander roteò gli occhi, pur accennando a un sorrisetto.

“Oh, certo, appiccicoso. Sei difficile, bella mia.”

“Ma non è vero!” si lamentò la ragazza, mettendo il broncio.

“Cosa, non è vero? Questo era appiccicoso. Quello prima invece l’hai mollato perché ‘si interessava troppo poco’, fa’ un po’ tu…”

“Non è vero!” ripeté una seconda volta la ragazza puntandogli l’indice contro il petto.

“Quello prima, l’ho lasciato perché non gli piacevano i miei fratelli e, dico io, noi Lockwood siamo una confezione formato famiglia: prendi uno di noi e ti trovi tutti quanti gli altri nel pacchetto, cane compreso. Voler bene a Ricki e Mase è un requisito minimo!” annunciò, facendogli il segno della vittoria, per poi aggiungere:

“Tu ci ami tutti quanti, vero, Xander bello?”

Gli diede un buffetto sulla guancia, e il ragazzo arretrò con il capo ridacchiando.

“Tutti tranne te, guarda un po’.” scherzò, allontanando le mani dell’amica che stavano già puntando alla sua cresta.

“Non sono neanche le nove di mattina, non osare a toccarmi i capelli o giuro che ti chiudo nell’armadietto.” la minacciò, “Lo svuoto e poi ti ci chiudo dentro.”

“Xan, tu eri geloso?” domandò improvvisamente Caroline scoccandogli un’occhiatina maliziosa. Alexander ricambiò il suo sguardo, confuso.

“Geloso? E perché?” obiettò, grattandosi la testa. La ragazza gli diede un pugnetto sulla spalla.

“Sveglia! Quest’estate, bidonato per due volte di fila, la casa sul lago e il rosso di capelli. Din din din! Alexander, accendi il cervello, sono quasi le nove e tu stai ancora dormendo!”

“Va bene, va bene, adesso ho capito, adesso…” le rispose in fretta il ragazzo, cercando di placare il fiume di parole di Caroline. “Certo che ero geloso.” ammise poi tranquillamente, tornando a intrecciare le dita dietro la nuca.

“Niente più hockey domenicale con la mia migliore amica, per colpa di Ron Weasley. Mi eri mancata, no?”

Caroline aprì la bocca per rispondergli, ma stranamente, si trovò a corto di parole. Si accorse anche di essere arrossita, ma non riuscì a trovare un motivo valido che potesse giustificare quella reazione.

“Anche tu mi eri mancato, Xander bello.” ammise infine, scoccandogli poi un bacio sulla guancia. “Allora questo week end lago?” aggiunse allegramente.  Xander allargò le braccia.

“E lago sia!” confermò. Il sorriso di Caroline si estese.

“Uh, i piccioncini vanno al lago!”

Il commento ironico di Mase, comportò il solito inarcarsi di sopracciglio da parte di entrambi i ragazzi.

“Per l’ultima volta, Mase, non attacca.” commentò Xander, mentre il giovane Lockwood esibiva un sorrisetto sghembo nella loro direzione.

“Se non attacca, come mai Caroline è arrossita?” commentò, accennando con il capo alla sorella. La ragazza lo fulminò con lo sguardo.

“Ma sciocchezze, mica è arrossita!” sbottò immediatamente Alexander, accigliandosi.

“È… che ha caldo.” buttò lì scoccando un’occhiata di sottecchi alla ragazza. Caroline gli rivolse un’occhiata perplessa.

“Caldo?” obiettò. Il giovane diede una scrollata di spalle.

Mase sghignazzò.

“Chissà chi è che la fa accaldare così…” aggiunse, sfuggendo poi allo scatto repentino di Xander.

“Mascalzone! Se ti prendo…” annunciò il giovane Gilbert ridacchiando, prima di incominciare a rincorrerlo per i corridoi.

“…non l’ho preso.” fu costretto ad ammettere qualche minuto più tardi, quando tornò indietro. Caroline gli diede un colpetto sulla spalla.

“Ci penso io.” annunciò con aria decisa, strofinandosi un pugno sul palmo della mano.

“A casa non mi scappa.”

“Ma poi, perché sei arrossita?” domandò a quel punto Xander, rivolgendole un’occhiata interdetta. Caroline sgranò gli occhi.

“Ma non sono arrossita!” si difese, infilandosi poi lo zaino sulle spalle quando avvertì il trillo della campanella. Xander la fissò con aria interrogativa.

“Avevo caldo…”  specificò con un sorrisetto divertito, prima di arruffargli in fretta i capelli.

“La cresta, maledetta!” si lamentò il ragazzo, mentre la ragazza fuggiva in direzione dell’aula di chimica. Si affrettò a sistemarsi il crestino, imbronciandosi, mentre l’amica si allontanava ridendo.

Ron Weasley, però, non aveva dei capelli fighi quanto i miei, eh?” le gridò ancora dietro abbandonando il broncio per un cipiglio soddisfatto. Caroline scosse il capo con aria divertita, mentre il suo sguardo individuava Bethany in mezzo alla calca di studenti.

Quando, un paio di minuti dopo prese posto accanto all’amica in classe, stava ancora sorridendo.

Dall’altra parte del corridoio, Mason si stava avviando in direzione del suo armadietto; ogni tanto, il suo sguardo saettava verso l’ingresso per cercare Oliver, ma a Mase fu chiaro fin da subito che l’amico si sarebbe presentato all’ultimo anche quel mattino. Quando fu a pochi passi dalla segreteria si fermò, riconoscendo in una delle coetanee che gli dava le spalle la stessa ragazza a che si era intromessa nella sua lite con il tizio più grande, un paio di giorni prima. Ancora una volta le scoccò un’occhiata perplessa, domandandosi in silenzio come mai avesse incominciato a trovarsela ovunque, nonostante fosse più che sicuro di non averla mai incontrata a scuola prima di quella settimana.

C’erano poi altri dubbi, diversi punti di domanda che erano rimasti perfino quando aveva cercato, senza tuttavia trovare il coraggio di insistere, di parlarne con suo padre.

Sbuffando, attraversò il corridoio: la ragazza sembrava completamente assorta nei suoi pensieri, ma non appena Mase le fu abbastanza vicino, sembrò accorgersi della sua presenza e si voltò verso di lui.

“Mason!” lo riconobbe, accennando a un sorriso allegro. In realtà, Caroline aveva sperato di passare inosservata quel mattino. Aveva promesso a Tyler che l’avrebbe aiutato a tenere d’occhio il figlio, ed era davvero intenzionata a farlo, ma non aveva immaginato che lui e il giovane Lockwood avrebbero concluso per incontrarsi direttamente una seconda volta.

“Chi sei?” le domandò spiccio il ragazzo a quel punto, scrutandola con diffidenza. “Conosci mio padre, conosci me, ma io non conosco te.”

La vampira gli concesse un’ultima rapida occhiata, prima di arretrare di qualche passo in direzione degli armadietti.

“Mi chiamo Caroline.” Si presentò nel mentre, trafficando con uno dei lucchetti.

“Caroline come mia sorella?” domandò ancora Mason, aggrottando le sopracciglia. La ragazza sorrise.

“Beh, se tua sorella si chiama Caroline, sì.” confermò, suscitando l’irritazione del suo interlocutore. Il giovanotto roteò gli occhi.

“Come mai conosci mio padre?” domandò infine. Caroline sospirò.

“La tua famiglia è in buoni rapporti con la mia….”  Rivelò, cercando di rimanere sul vago. Mase inarcò un sopracciglio, appoggiandosi poi una spalla all’armadietto.

“…E ?” insistette. Caroline esitò. Infine sorrise.

“…Se non ti rispondo, ti metterai a fare a botte con me?” domandò infine, con una punta di divertimento nello sguardo. Mason sembrò accigliarsi.

“Io non picchio le donne.” Sbottò, subito dopo. Caroline lo scrutò sorpresa per qualche secondo prima di scoppiare a ridere. Quella reazione, contribuì a marcare l’espressione infastidita del ragazzo.

 “Non c’è niente da ridere.” borbottò a quel punto. La vampira gli sorrise.

“Scusami, mi sei sembrato buffo.” ammise infine. Mason ebbe l’ impressione che lo stesse prendendo in giro.

 “…E comunque, hai torto: io non conosco te.” aggiunse poi Caroline, superandolo, per proseguire lungo il corridoio. Mason appoggiò anche l’altra spalla all’armadietto e incrociò le braccia sul petto.

“So come ti chiami, e mi pare che ti riesca bene attaccar briga e metterti nei guai, ma questo è tutto quello che so.”

“Perché sei sempre ovunque?” buttò lì in risposta il ragazzo, inseguendola con lo sguardo: Caroline aveva già incominciato ad allontanarsi.

“Ne riparliamo un’altra volta!” gli gridò dietro con un ultimo sorriso, prima di dirigersi verso l’uscita dell’edificio. Mason sbuffò, decidendosi finalmente a sollevare la schiena dall’armadietto.

“Eccomi!” la voce allegra di Oliver, lo raggiunse alle sue spalle. Il ragazzo lo stava osservando con le mani in tasca e un’aria rilassata, nonostante le guance rosse e i capelli scompigliati suggerissero che doveva aver corso per riuscire ad arrivare in orario. Oliver scoccò una rapida occhiata all’orologio e infine gli sorrise.

“Non male, mancano ancora due o tre minuti prima che il prof faccia il mio nome durante l’appello.” commentò. “Andiamo?” propose infine.

Mase accennò a un sorrisetto divertito, prima di decidersi a rilassare i lineamenti sul suo volto.

“Muoviamoci, va’. ” approvò dandogli una pacca sulla spalla, prima di incamminarsi per il corridoio in compagnia di Oliver.

 

***

“Mi faccia capire bene. Fell…”

Gregory Lester fece aderire la schiena alla sedia e rivolse allo sceriffo un’occhiata perplessa.

“…Mi sta forse dicendo che mi ritiene responsabile per la scomparsa del professor Finn?”

“Non ho mai detto una cosa simile.” lo corresse frettolosamente l’altro uomo, voltandosi in direzione di Leanne: la donna annuì.

“Trovo semplicemente sospetto il fatto che il professore abbia smesso di insegnare poco prima del suo trasferimento, e che sia scomparso dopo il suo arrivo. Durante i nostri primi incontri, Gregory, mi era sembrato veramente disposto a tutto, pur di entrare a far parte del Consiglio, e di stabilirsi permanentemente qui, a Mystic Falls.”

“Idiozie.” Lester commentò in tono di voce asciutto, trafficando con il pacchetto di sigarette che teneva nel taschino. “Non ho niente a che vedere, con la scomparsa di Finn. Se ho accettato questo lavoro come supplente, è perché da anni avevo intenzione di trasferirmi a Mystic Falls, per poter continuare le mie ricerche. Non ho bisogno di lavorare.” aggiunse. “Ma insegnare mi piace. E la storia è utile, per rinfrescare la mente di chi è alla ricerca di qualcosa. E questo…” si interruppe, per recuperare il diario di Jonathan Gilbert che aveva adagiato sul tavolino di fronte a lui. “…Mi riporta al motivo per cui ho chiesto di incontrarvi questo pomeriggio.”

La sua attenzione si spostò verso Leanne, che gli sorrise.

 “Leanne, l’altro giorno mi ha raccontato delle ricerche di cui si stava occupando il signor Forbes. Mi diceva che sono state proprio quelle ricerche, a mettervi a conoscenza dei lupi mannari.”

La donna annuì.

“Il fascicolo che ho trovato e che poi in seguito ho mostrato allo sceriffo, parlava di impulsi e di istinti, nelle creature sovrannaturali." spiegò Leanne. "A quanto ho capito leggendo la documentazione, Bill stava cercando di trovare un modo per tenere a bada questi impulsi, nel vampiro. Voleva escogitare un sistema che potesse controllare tutto ciò che è inumano in queste creature. Nella ricerca, inoltre, accennava appunto anche ai lupi mannari.”

Fell annuì, come a voler confermare le parole della donna. L’espressione di Lester si fece più concentrata.

“Mi ha anche detto che in questo fascicolo, il cognome “Lockwood” viene menzionato più volte, nella parte di ricerca.” domandò l'uomo. “E che questo vi ha spinti a pensare, che la famiglia in questione potesse avere in qualche modo a che fare con i licantropi.”

“Nel fascicolo non viene accennato a nulla di più specifico, a riguardo.” proseguì Leanne. “Si parla solo della maledizione che lega alcune famiglie a una seconda natura sovrannaturale, e viene spiegato in quale modo essa si innesca.” si fermò per un attimo, prima di specificare, “Tramite omicidio.”

Lester annuì più volte, passandosi un pollice sulle labbra con aria pensierosa.

“Nulla di più riguardo ai Lockwood, tuttavia.” riprese poi la donna. “Viene solo citato il loro nome più volte, a lato di alcuni paragrafi. Non c’è alcun collegamento diretto.”

 “In questo diario…” incominciò a quel punto Lester, prendendo in mano il libricino.

“…Oltre agli scritti e ai disegni di Jonathan Gilbert, ho trovato in alcuni punti, le annotazioni di un successore più recente, nella discendenza. Un certo John…” specificò, porgendo il volume allo sceriffo che lo prese, con una leggera titubanza.

“C’è una pagina, una delle ultime, in cui Jonathan Gilbert descrive un congegno particolare: un dispositivo che ha progettato lui stesso, un arma da utilizzare contro i vampiri. Il congegno ha un raggio di azione di circa cinque isolati, ed è in grado di emettere un suono a una frequenza non udibile dagli essere umani, ma percepibile dai vampiri. Un suono che avrebbe il potere di stordirli, rendendoli così individuabili.”

“Chiedo scusa, Gregory, ma abbiamo ribadito più volte, che per quanto riguarda i vampiri…”

Lester interruppe Fell con un cenno della mano, prima di riprendere il suo discorso.

“Accanto allo specchietto sul congegno, John Gilbert ha annotato delle osservazioni,ed è lì che voglio arrivare. Si parla per lo più di un episodio verificatosi all’incirca venticinque anni fa. Probabilmente ne sarete a conoscenza: il giorno della festa dei Fondatori, un gruppo di vampiri ha teso un agguato alle famiglie fondatrici e il Consiglio ha attivato il dispositivo per individuarli e rinchiuderli. Dopodiché, è stato appiccato un incendio all’edificio in cui erano imprigionati. Ma a morire, non furono solo vampiri, quel pomeriggio.” Aggiunse, indicando con il dito le annotazioni a penna di John Gilbert, a un angolo del diario.

“Richard Lockwood, all’epoca sindaco di Mystic Falls e membro del Consiglio, ha reagito all’innescamento del dispositivo, proprio come i vampiri. Si è sentito male, accusando un dolore alla testa, eppure la verbena non ha avuto alcun effetto su di lui. Lockwood è stato rinchiuso assieme agli altri vampiri ed è morto nell’incendio. Ritornando alle ricerche di Bill Forbes, e collegando quello che viene detto lì, alle annotazioni di Jonathan Gilbert, ho pensato...”

“Ha pensato che Richard Lockwood potesse essere un lupo mannaro.” affermò Leanne, accennando a un sorrisetto interessato. Lester annuì lentamente.

“Ha reagito al dispositivo, ma non alla verbena.” riprese il discorso l’uomo. “Questo ci porterebbe a pensare che Lockwood non fosse un semplice essere umano, ma nemmeno un vampiro. Nelle sue ricerche, Forbes si è concentrato tanto sui vampiri, quando sui licantropi, legando entrambi a un certo tipo di impulsi soprannaturali. Se hanno istinti simili, forse è lo stesso anche per le debolezze. Forse, quel dispositivo potrebbe seriamente essere utilizzato come arma contro i lupi mannari…”

“…E potrebbe indicarci se i Lockwood portino effettivamente nel sangue la maledizione, come abbiamo supposto noi.” concluse per lui Leanne. 

Fell sospirò.

“Sono mesi, che li teniamo d’occhio e non ne abbiamo ancora ricavato nulla.” sbottò. Prese il diario di Gilbert dalle mani di Leanne e incominciò a leggiucchiare le annotazioni a penna.

“Lester, per caso in questo diario, viene menzionato che fine abbia fatto questo congegno?” domandò poi, tornando a rivolgersi al professore. L’uomo lo osservò per qualche istante, prima di annuire.

“John Gilbert scrive che quando è tornato a recuperare il dispositivo, non l’ha più trovato al suo posto. Non sa chi l’abbia preso, ma in fondo alla pagina, ha scribacchiato in fretta un nome: probabilmente - e a rigor di logica, come teoria, la sua funzionerebbe parecchio - aveva dei sospetti.”

Fell, sollevò il diario e analizzò il lembo a fondo pagina, prima di sorridere appena.

“Carol Lockwood.” Lesse, annuendo poi più volte.  “Deve aver recuperato il congegno per proteggere il resto della sua famiglia.” Ipotizzò. “Ma sinceramente, dubito che una donna anziana come la signora Lockwood tenga in casa un oggetto simile.”

“Probabilmente, l’ha passato al figlio.” commentò Leanne, che fino a quel momento era stata particolarmente silenziosa. “E dunque, potrebbe trovarsi ancora alla villa dei Lockwood.”

Lester annuì di nuovo; volse lo sguardo in direzione di Fell che stava ancora analizzando il diario di Gilbert con attenzione; un insolito brillio di decisione aveva fatto capolino nel suo sguardo.

***

“Papà, chi è la bionda che si è messa in mezzo alla mia lite, il giorno della partita?”

Mason domandò per l’ennesima volta, facendo ingresso in cucina. Tyler rivolse un’occhiata scocciata al figlio, prima di indirizzare il suo sguardo in direzione della moglie; Lydia rivolse una rapida occhiata al marito e quello sguardo sembrò rilassare appena l’espressione sul volto dell’uomo.

“È figlia di amici di famiglia. Mi pareva di avertene già parlato.” Commentò Tyler, mentre il ragazzo prendeva posto accanto a lui.

“Caroline è la nipote di Liz Forbes, Mase.” gli venne in aiuto Lydia. “È venuta a stare da noi durante l’anno scolastico, perché i genitori sono fuori città per lavoro.”

Il ragazzo inarcò un sopracciglio.

“...e il motivo per cui lei e papà si squadravano con aria tanto strana?” insistette, voltandosi in direzione della donna. Tyler fece per dire qualcosa, ma si bloccò quasi subito.

“Beh, Caroline somiglia molto a sua madre.” spiegò in tono di voce tranquillo Lydia, sistemando poi un paio di ciuffi ribelli sulla fronte del figlio. Mason la lasciò fare, seppur con riluttanza.

“E con sua madre, una volta, tuo padre ci usciva.” concluse la donna, sorridendo poi del cipiglio pensieroso che aveva fatto capolino sul volto del ragazzo. “Altre domande?” domandò, guardandolo diritto negli occhi. Il figlio sostenne lo sguardo deciso, ma Lydia non mostrò alcun cedimento.

“Sì.” Ribattè infine Mason, rivolgendole un’occhiata furba. “Come mai si chiama come mia sorella?” domandò, indirizzando poi lo guardo verso il padre, che sbuffò.

“Mase, che cos’è, un interrogatorio, questo?” si lamentò.

“Il nome ‘Caroline’ l’abbiamo scelto perché piaceva molto a entrambi, e perché ricorda il nome di tua nonna Carol.” proseguì Lydia in tono di voce asciutto. “La stessa cosa vale per il tuo, sapientone.” lo rimbeccò, poi. “Mason è un bel nome, così come Richard.”

Il ragazzo sbuffò e balzò giù dallo sgabello.

“Bah.” commentò con aria poco convinta, prima di allontanarsi in direzione del corridoio. Mentre il ragazzo abbandonava la cucina, il telefono squillò e Lydia si affrettò a rispondere.

“Caroline, Xander al telefono!” gridò poi, mentre il suo sguardo si posava con apprensione sul marito.

“Ho preso la chiamata da sopra, ma’, attacca pure!” la voce squillante di Caroline si mescolò a quella di Mason.

“Ma che cazzo, Caroline, mi hai messo sottosopra la camera!” esclamò il più giovane dei fratelli Lockwood.

“Le parole, fratellino!” la voce scherzosa di Ricki, si frappose a quella dei due ragazzi.

Lydia sospirò.

“Caroline, sappi che non esci di qui finché non avrai messo in ordine la tua stanza. Non si riesce nemmeno a camminare, là dentro.” esclamò, tornando a sedere. “Diglielo pure al tuo Xander bello.”

“Siiii!”

La risposta annoiata della figlia la raggiunse dal piano di sopra. Lydia scoppiò a ridere e tornò a focalizzare la sua attenzione sul marito.

“Mase la smetterà di assillarti così.” lo rassicurò, sfiorandogli il collo con tenerezza. “È solo curioso.”

“C’è qualcosa in Caroline che lo turba.” obiettò Tyler, passandosi poi una mano sul volto. “Ha capito che gli nascondo qualcosa.”

“È solo troppo sveglio, e altrettanto diffidente.” lo rassicurò la donna, sorridendogli con dolcezza. “È un peccato che ogni tanto si dimentichi di mettere in funzione quella bella testolina che si ritrova.”

Tyler sospirò, “Quella è sicuramente colpa mia.” commentò l’uomo, accennando un sorrisetto amaro. “Padre spaccone, figlio spaccone.”

“Il padre spaccone è rinsavito, però. A Mase serve solo un po’ di tempo.” commentò Lydia, accarezzandogli il capo. Tyler sbuffò.

“Mi pare di avergliene dato in abbondanza, di tempo. Non può andare avanti così.” sbottò, appoggiando le mani sul tavolo. “Con quella di domenica, siamo a tre scazzottate in un mese, e per motivazioni ridicole.”

“Tyler, ma che ti aspetti?” Lydia obiettò ricambiando il suo sguardo decisa, pur mantenendo un tono di voce pacato. “È un adolescente.”

“Richard e Caroline…”

“Richard e Caroline non sono Mason.” lo interruppe con gentilezza la moglie.

“Tyler, ascolta.” incominciò poi, prima di scoccare un’occhiata apprensiva in direzione delle scale.

Dal piano di sopra, la parlantina inestinguibile di Caroline li raggiungeva a malapena attutita, indice che la ragazza fosse ancora al telefono con Xander.

“So che sei preoccupato per la maledizione. E so che credi che i tuoi figli siano al sicuro, finché non provocheranno accidentalmente la morte di qualcuno; ma in realtà non è così.”

Tyler appoggiò la fronte tra il pollice e l’indice, dirigendo poi il proprio sguardo stanco in direzione di Lydia.

“Io li vedo, Ty. C’è qualcosa del lupo in ognuno di loro; Ricki era schivo, da bambino. Caroline ha fatto a botte con i suoi compagni di classe maschi un sacco di volte, quando era piccola, ma tutti e due si sono calmati crescendo; e ho il sospetto che centri qualcosa lo sport.”

Il marito le rivolse un’occhiata interrogativa e la donna annuì.

“Tutti e tre hanno un’indole aggressiva, Tyler. Proprio come te; Ricki e Caroline fanno sport sin da quando erano piccoli, hanno trovato la loro valvola di sfogo. Sono poi entrambi chiacchieroni fino all’inverosimile, e se hanno qualcosa che non va, te la tirano fuori senza far problemi: questo li aiuta. Mason, però, non è così. Lui non fa sport, non sa come sfogarsi, parla poco ed è sempre nervoso. È normale che dia di matto in quella maniera per la minima provocazione.”

“E quindi, secondo te, dovrei lasciarlo stare? Fargli fare il cavolo che vuole?” sbottò Tyler, alzando la voce. Lydia lo squadrò con aria decisa.

“No.” si limitò a rispondere. “Ma gli devi dare del tempo. Più tempo.”

Tyler sbuffò. Prese in mano il cellulare e diede un’occhiata alle chiamate perse, giusto per fare qualcosa, ma alla fine lo abbandonò malamente sul tavolo, e prese a far ciondolare il capo.

“Non lo so.” borbottò infine, passandosi una mano fra i capelli. “Non lo so.”

“Hai detto che Caroline lo sta tenendo d’occhio, no?” gli ricordò poi Lydia, accarezzandogli una spalla. “Ti ha aiutato molto quando eri giovane, magari sarà lo stesso anche per Mase.”

“Non è solo per Mase che sono preoccupato.” ammise infine Tyler; scoccò un’occhiata nervosa alla finestra che dava sul giardino. “Ricki mi ha detto di aver visto lo sceriffo appostato fuori da casa nostra. Mia madre viene interrogata di continuo da Fell, nella speranza che le sfugga qualche dettaglio sospetto. È anziana ed è stanca. Non posso permettere che si faccia carico di tutto questo.”

Lydia lo osservò a lungo, prima di appoggiargli una mano sull’avambraccio.

“Tyler, se davvero sta succedendo qualcosa troveremo una soluzione per mettere di nuovo tutto a tacere.” Lo rassicurò; aveva un tono di voce dolce, ma deciso. “Siamo andati avanti per vent’anni senza difficoltà, tornerà a essere così.”

L’uomo non rispose. Lydia si chinò per sfiorare il mento del marito e lo volse verso di sé, in maniera da poterlo guardare negli occhi.

“Ehi…” lo richiamò, sorridendogli. Tyler ricambiò il suo sguardo.

“Lydia?” incominciò poi, analizzando le iridi chiare della donna. Quando la squadrava a lungo non riusciva a fare a meno di notare quanto sua moglie e sua figlia si assomigliassero; non era solo per via del colore dei capelli e degli occhi. Caroline e Lydia avevano lo stesso modo di sorridere, la stessa aria solare e luminosa. Avevano qualcosa di raggiante nello sguardo, che né Tyler, né i due figli maschi, erano mai stati in grado di eguagliare. Ed erano entrambe in grado di tenergli testa senza mai cedere, o alzare il tono di voce. Poche donne, prima di loro, ci erano riuscite.

“Che cosa c’è?” domandò infine la moglie, tornando a sedersi di fianco a lui. Tyler si guardò le mani con aria stanca.

“Ti rendevi conto dello schifo che ti stava per rovinare addosso, quando hai deciso di sposarmi?” chiese infine, tornando ad osservarla. Lydia lo fissò interdetta per un attimo, ma infine abbozzò un sorriso.

“All’inizio avevo paura.” ammise. “I motivi sono tanti; mi hai raccontato di tutti gli orrori legati a questa cittadina e Mystic Falls mi metteva in soggezione; sì, avevo paura. Sapevo che non ti avrei mai lasciato, eppure faticavo a sentirmi al sicuro…”

“E poi?” domandò in quel momento Tyler, senza guardarla negli occhi. “Cosa è cambiato, da allora?” Lydia estese il suo sorriso.

“…e poi è arrivato Ricki.” rivelò, con aria divertita. “E non ho dormito per i tre mesi successivi alla sua nascita. Quando incominciò a muovere i primi passi, fu perfino peggio. Improvvisamente, mi trovavo a dover gestire una casa, un lavoro, un marito lupo mannaro e un bambino iperattivo, e credimi…” si mise a ridere, riuscendo a strappare al marito un accenno di un sorriso. “…non avevo più tempo per avere paura.” ammise con dolcezza. “E poi ci fu Caroline...”

 “…che tu eri convinta fosse maschio.” le ricordò il marito. Lydia gli diede un colpetto sulla spalla.

“Non era possibile pensare il contrario!” obiettò. “Calciava come una furia! Da neonata, però,devo dire che è stata molto più tranquilla di Ricki.” ammise.

“Caroline è stata praticamente una bambola, da piccolissima. Ma poi si è resa conto che i maschietti sono molto più divertenti delle femmine, e ha deciso di diventare scavezzacollo come loro.” proseguì Tyler.

“E poi abbiamo avuto Mason.” Aggiunse infine Lydia. L’uomo, sospirò.

“La vigilia di Natale.” precisò. Tacque per un attimo, prima di aggiungere: “C’era anche la luna piena.”

Istintivamente, si passò una mano sul collo, quasi a rievocare le sofferenze che il suo corpo aveva patito quella sera, sedici anni prima. Erano gli stessi dolori che avrebbe continuato a sopportare ogni mese, ma in quella particolare notte, gli erano parsi ancor più terribili e ingiusti. Aveva fretta di sfilarseli di dosso. Voleva svegliarsi al richiamo della luce mattutina e dimenticarsi dell’atrocità di quella notte, sorridendo al bambino addormentato che lo attendeva tra le braccia di sua moglie.

“Con Mason ho avuto finalmente un po’ di tregua.” commentò infine Lydia, sorridendo divertita. “Tranne quando spariva, ovviamente.” aggiunse. Tyler denegò con il capo, sorridendo al passato di quei ricordi.

“Sembrano passate epoche.” commentò infine, distendendosi sulla sedia, con aria più rilassata.

Lydia tornò ad alzarsi in piedi.

“I tuoi figli sono cresciuti.” dichiarò con un sorriso. “Sono cambiati, solo per diventare un po’ più simili a te. Metteranno sempre la loro famiglia al primo posto… e sai una cosa?” aggiunse. “…in fondo, in quanto membro adulto del branco, credo di aver voce in capitolo in queste faccende tanto quanto te.”

Tyler inarcò appena un sopracciglio e la moglie si mise a ridere, prima di tornare ad osservarlo con dolcezza.

“Perciò, ti dico che mai permetterei a qualcuno di infastidire la mia famiglia.” aggiunse. “Ogni madre farebbe di tutto pur di avere i propri figli al sicuro. Figuriamoci una mamma lupo!”

Tyler scosse il capo con aria divertita, rivolgendole un sorriso non più tirato. La moglie si chinò per baciarlo. “Perciò, cerca di stare tranquillo.” riprese infine, scoccandogli un’occhiata d’intesa. “Hai capito, Tyler?”

L’uomo rise, passandosi una mano sotto il mento.

“Ho capito, Lydia, ho capito.”  mormorò, prima di attirarla a sé e baciarla di nuovo, sfilandole via di mano lo strofinaccio che la donna aveva tenuto in mano durante l’intera conversazione.

In altro occasioni un discorso come quello della moglie l’avrebbe fatto solo innervosire. Non c’era giorno in cui non finiva per domandarsi se le cose potessero d’un tratto complicarsi per tutti loro. Per sé stesso e per la sua famiglia. Convincersi che la forza di volontà di sua moglie potesse bastare a tenere tutti loro al sicuro, sarebbe stato ridicolo. Ridicolo e impossibile.

Eppure, con Lydia, quei discorsi c’erano. E Tyler la ascoltava ogni volta con un sorriso genuino, apprezzandola e amandola. La maledizione ancorata al sangue dei Lockwood era inattaccabile, eppure lui si sforzava di crederle, ammaliato dalla fiducia che la donna riponeva nella sua famiglia.

Immaginava che in fondo era per quello che alla fine si era innamorato di lei. Immaginava che da qualche parte, probabilmente, ci dovesse essere una Lydia per ogni persona come lui. Per chi era un po’ spaccone, per l’uomo orgoglioso, per lo sfrontato o il codardo. Il codardo che era stato in passato.

Ogni tanto, si sorprendeva a domandarsi se anche Mason, un giorno, avrebbe avuto al suo fianco una donna come lei. Glielo augurava in silenzio, qualche volta, osservandolo leggere o studiare, nella tranquillità quasi innaturale della sua stanza.

In quei momenti, gli capitava anche di chiedersi dove lui stesso sarebbe andato a finire, se non avesse trovato Lydia: la risposta era sempre la stessa. E ogni volta, faceva più male delle notti di luna piena.

  So when hard times have found you

and your fears surround you
Wrap my love around you,

 you're never alone

Never alone. Lady Antebellum

***

“Dunque, ricapitolando...”

Vicki incrociò le gambe sulla trapunta e si lasciò cadere sul letto.

“Tu e Mase stavate discutendo come vostro solito.” incominciò, analizzando lentamente la situazione. “Mason aveva in mano una lattina. Poi, la lattina è esplosa e lui si è trovato a fare la doccia nella coca cola – tra l’altro, ma perché queste cose succedono sempre quando io non sono nei paraggi? – il punto, però, è un altro. Quello che stai cercando di dirmi è che sei convinta di essere stata tu a far starnutire la lattina E per farlo, avresti usato la…”

Si interruppe, inarcando appena un sopracciglio. Autumn si affrettò ad intervenire.

“Non dire quella parola, non dire quella parola!” sbottò.

“…magia.” terminò Victoria, accennando un sorrisetto. L’amica sbuffò, sedendosi a sua volta sul letto.

“Ogni volta che ci penso mi sento davvero una stupida, perciò gradirei tanto se potessimo per lo meno evitare di pronunciare quel termine.” obiettò. Victoria si tirò a sedere in fretta, tornando ad incrociare le gambe.

“Forse lo sei.” commentò. “Forse sei un po’ stupida. Io lo sono tanto e spesso, ma non mi va di vergognarmene. Non riuscirò mai a capire come mai la gente vada fuori di testa, per ogni singola figuraccia.”

“Perché è così che dovrebbe essere, Vic.” ribattè Autumn con aria stanca, abituata alle stranezze della sua migliore amica. Victoria aveva sempre avuto un modo tutto suo di misurare il mondo e non perdeva mai occasione per diffondere il suo punto di vista. “Solo tu non hai problemi a metterti in ridicolo.”

Vicki diede una scrollata di spalle.

“Ci sono dei vantaggi anche quando il mondo ti crede mezza matta.” obiettò, spostando nuovamente il ciuffo di capelli che era scivolato sui suoi occhi. “Nessuno da accontentare, nessuno da deludere. Bah, solo Oliver mi capisce.”

“Oliver è praticamente un santo.” ribattè Autumn, rivolgendole un’occhiata critica. “Altrimenti non mi spiego come faccia a passare, ogni giorno, tutto quel tempo assieme a Mase.”

“È il mio cuginetto.” aggiunse Vicki con tenerezza, sorridendo. “Oliver capisce tutti.”

“Tornando al discorso di prima…” Autumn tentò di recuperare la conversazione precedente a quella divagazione.  L’amica si cinse le ginocchia con le braccia e annuì.

“Giusto. La magia.” aggiunse, con aria vagamente divertita. Autumn la incenerì con lo sguardo.

“Scusami.” commentò Victoria. “Volevo dire, la: ‘inserire parolina incriminata qui’. Senti, sei assolutamente convinta che il prurito alle mani non avesse a che fare con qualche strana forma di allergia? O magari, avevi solo voglia di tirare un ceffone a Mase…”

“Non è che devi credermi per forza, Vic.” la interruppe Autumn in tono di voce secco. “Io non ti ho creduta nemmeno per un istante, quando mi hai detto che avesti conquistato Ricki prima del tuo diciannovesimo compleanno.”

Victoria sbatté le ciglia più volte, per poi roteare gli occhi.

“Non mi sto sforzando, Autumn.” ribattè infine, in tono di voce asciutto. Per un attimo, la sua espressione si fece seria. “Puoi anche darmi della stupida – sai che non me la prenderò – ma io ti credo. In fondo, non è che abbia molte altre alternative, dopo averti visto in lacrime l’altro giorno. Ti credo, o almeno, credo all’idea che tu sia convinta di aver aizzato una lattina contro Mase. Non credo alla ‘inserire parolina incriminata qui’, né penso che arriverò mai a farlo, ma so che qualcosa è successo, perché lo credi tu. E se voglio aiutarti, perché voglio farlo – sei la mia migliore amica –…”

“Vic, ti prego…” la supplicò Autumn appoggiandosi i polpastrelli sulle tempie. “…parla senza incisi, mi sto perdendo.”

Victoria sospirò.

“Quello che intendevo dire io, è questo.” riprese con più calma, prendendo posto di fianco all’amica. “Se davvero sei convinta che ci sia del– a sto giro passamelo, per favore – del ‘magico’, nel modo in cui quella lattina è esplosa, di sicuro c’è stato qualcosa che ti ha portato a crederlo. E se vogliamo arrivare a farti dimenticare di questa idea assurda, dobbiamo prima riuscire a capire da che cosa sia nata. Non ti viene in mente nulla che possa averti spinto a pensare alla magia? Magari c’è qualcosa che ti hanno detto, o qualcosa che hai visto in passato… Un episodio strano, che ti è capitato, non lo so…”

Autumn impiegò qualche secondo prima di smettere di tenere il sopracciglio inarcato. Sospirò, facendo mente locale, alla ricerca di qualcosa che potesse esserle utile.

“Da bambini, Julian parlava sempre di magia.” buttò lì infine, sentendosi ogni secondo più stupida. “Era convinto di essere uno stregone.”

Vicki sollevò le braccia, in cenno di trionfo.

“Perfetto! Allora iniziamo con il chiamare lui.” annunciò, allungandosi per recuperare il cellulare di Autumn. L’amica lo recuperò in fretta.

“Ma sei impazzita?” esclamò basita, infilandosi in tasca l’aggeggio. “Mi prenderà per matta!”

Victoria fece per ribattere, ma la ragazza la bloccò subito.

“Sì, lo so che stai per dire, e no, non condivido la tua filosofia del “siamo tutti stupidi”, quindi negativo. Non farò la figura dell’idiota con mio fratello.”  l’amica sbuffò, tornando poi a sedere sul letto.

“Va bene!” annunciò infine, incrociando le gambe sulla trapunta. Con uno scatto fulmineo, recuperò il cellulare dalla tasca dell’amica e lo sollevò. “Allora lo chiamo io.”

Autumn si oppose, cercando di sfilarle il telefono di mano. Victoria balzò a terra, molto più agile dell’amica, per via degli anni di ginnastica ritmica che si portava dietro sin da bambina.

“Vicki, smettila, dai!” si oppose l’altra ragazza. Ma Vicki aveva già recuperato il numero di Julian e aveva premuto il tasto di chiamata, tamburellando con le dita sulla porta.

“Sta squillando.” comunicò. Autumn la freddò con lo sguardo, limitandosi poi tuttavia a tornare a sedersi, accavallando le gambe con aria furibonda.

“…e comunque, riguardo a quello che hai detto prima su Ricki…” aggiunse Vicki, mentre attendeva che Julian rispondesse. “… non ho ancora compiuto diciannove anni. Tutto può ancora succedere.”

Distolse lo sguardo da Autumn, che finì per lasciarsi sfuggire un sorrisetto.

“Come vuoi.” ribattè, mentre lo sguardo di Vicki tornava a farsi vivace e la ragazza incominciava a parlare.

“Julian, ciao! No, sono Vicki. Ascoltami, io e ‘tumn ti dobbiamo fare una domanda. È molto folle, ma davvero importante.” a quel punto fece una smorfia e sbatté le palpebre un paio di volte, prima di proseguire. “Sì, lo so che tutto ciò che ha a che fare con me è folle, ma questo batte tutto, te lo giuro. Ok, allora hai tempo per parlarne un attimo?”

Autumn si mordicchiò il labbro e tornò a posarsi le mani sulle tempie, mentre ascoltava la conversazione. Non aveva idea di come Julian stesse reagendo a quell’interrogatorio insolito, ma lo stomaco le si aggrovigliò comunque, quando la parola ‘magia’ fuoriuscì con naturalezza fuori dalla bocca di Victoria. Sollevò il capo, solo quando si accorse che l’amica la stava osservando.

“Domani sera, hai detto?” stava domandando la ragazza rivolta a Julian, improvvisamente titubante. Autumn aggrottò le sopracciglia. “Hai detto che non puoi prima, vero? Va bene domani sera, allora.” un sorriso catturò le labbra della giovane. “Ci sentiamo e grazie!”

Chiuse la chiamata e lanciò il cellulare dell’amica sul letto. Autumn le scoccò un’occhiataccia, riappropriarsene, ma poi la scrutò con aria interrogativa.

“Ha detto che ci chiama domani sera con calma e vedremo di capirci bene qualcosa. Mi ha anche chiesto se ne avevi parlato con tua madre.” spiegò Victoria, raggiungendo l’altra giovane.

Autumn la osservò con stupore.

“No, ovvio che non gliene ho parlato.” ribattè, secca. “Ti ha detto solo questo? Non ti ha chiesto se avevi bevuto, non ha controllato il calendario per assicurarsi che non fosse il primo d’Aprile, non si è messo a ridere?”

Vicki rievocò per un istante la conversazione appena avuta con il ragazzo.

“In realtà mi è sembrato piuttosto serio.” rispose infine “Forse anche a lui è capitato qualcosa di simile al tuo episodio con la lattina. Ad ogni modo, ne scopriremo di più domani sera.”

Autumn le rivolse un’occhiata penetrante, incrociando le braccia sul petto.

“Vicki, domani sera c’è la serata pre-partenza di Ricki e Jeff al grill.”  le ricordò, inarcando pericolosamente un sopracciglio. “Ne parli ininterrottamente da due giorni.”

Victoria le diede le spalle, incominciando a trafficare con la sua borsa.

“Può darsi, ma noi resteremo qui a improvvisarci stregoni assieme a tuo fratello.” dichiarò con fermezza. “Magari, organizzeremo una seduta spiritica. Che dici, evochiamo il fantasma di Michael Jackson? Ho sempre sognato di vederlo ballare thriller dal vivo!” aggiunse, improvvisando qualche passo della coreografia.

Autumn roteò gli occhi, mentre l’amica incominciava a ballarle attorno.  Alla fine si arrese, e si mise a ridere.

“Sul serio, Vic, puoi andare alla festa se vuoi.” la rassicurò. “Con Julian posso parlarci tranquillamente da sola.”

Questa volta fu Vicki a squadrarla con un sopracciglio inarcato.

“’Tumn, ho detto che ci sarei stata e quindi ci sarò.” dichiarò con aria decisa, prima di tornare a trafficare con la sua borsetta. “Alla festa, magari, ci facciamo un salto dopo.” aggiunse poi. “Ricki ubriaco è qualcosa di terribilmente divertente da vedere.”

“Quando mai, per te, Ricki non è divertente?” la canzonò l’amica, pur continuando a sorridere.

“Grazie, Vic.” mormorò infine, concedendo alla ragazza un sorriso carico di gratitudine. Victoria ricambiò il sorriso, cingendole le spalle con un braccio.

“Dovere.” dichiarò con aria seria, prima di mettersi a ridere.

 

***

Julian si affrettò a riporre il cellulare nella tasca, accelerando il passo. Stentò a imboccare la strada corretta per il pub, ancora frastornato per via della telefonata appena ricevuta. Vicki l’aveva chiamato per parlargli di sua sorella: e sua sorella, a quanto pareva, sembrava avere in comune con lui molto più di quanto entrambi avessero mai pensato: era davvero, una strega anche lei?

Julian decise di non pensarci, almeno per il momento. Il suo turno di lavoro al pub incominciava alle sei in punto ed era già in ritardo di cinque minuti. Si affrettò ad infilarsi nel locale e si diresse verso la cucina, quando qualcuno attirò la sua attenzione, costringendolo a fermarsi; in disparte, seduto a uno degli ultimi tavoli, aveva individuato il professor Ringle.

Il ragazzo rabbrividì, sfilandosi il giubbotto. Continuò a tenere d’occhio l’insegnate per qualche minuto, analizzandolo con attenzione. Sperava di poter individuare qualche indizio che sostenesse o smentisse la teoria che aveva formulato il giorno dell’esame; ci doveva pur essere un modo per accorgersi se Ringle fosse effettivamente uno stregone. Ancora una volta, Julian rimbeccò in silenzio sua madre per avergli precluso la possibilità di studiare a fondo tutto ciò che comportava il suo dono. Bonnie gli aveva spiegato molto sul motivo per cui era uno stregone. Gli aveva raccontato dei Bennet, di cosa significava avere dei poteri. Tanta teoria e nulla di pratico. Si era sempre rifiutata di aiutarlo a costruire qualcosa attorno a quello che sentiva, di spingerlo ad esercitare ciò che avrebbe dovuto rifluire in lui, in maniera naturale. Tutto ciò che sapeva fare, in termini di magia, lo aveva appreso dal grimorio della sua bisnonna. Ne aveva lette alcune pagine di nascosto e nonostante avesse sospettato più volte che sua madre fosse a conoscenza di quel dettaglio, Bonnie non gliene aveva mai parlato.

Da quando si era trasferito a Richmond, i segreti legati al suo dono contenuti in quel libro, erano una delle cose che aveva rimpianto più in assoluto.

Assorto com’era dai suoi pensieri, Julian non si accorse subito della ragazza che gli aveva da poco rivolto alla parola.

“Ehi, dico a te!”

La giovane sbottò, picchiettandogli sulla spalla con la mano. Julian smise di osservare Ringle e si voltò. La ragazza che gli aveva rivolto la parola aveva un’aria conosciuta: era bassina, capelli e occhi scuri, aria anonima, ma tutto sommato, carina. Sgranò appena gli occhi, nel rievocare dove l’avesse incontrato prima di allora: era la tizia che aveva avuto al suo fianco durante l’esame di chimica, il giorno in cui aveva fatto partire l’allarme anti incendio. La ‘rosicchia matite’. La secchiona.

“Sei tu quello che doveva incominciare il turno dieci minuti fa? Mi stanno facendo servire anche i tuoi tavoli, quindi gradirei se ti spicciassi a prendere il tuo posto.” Commentò lei, squadrandolo con aria truce. Solo in quel momento Julian notò il grembiule che la ragazza aveva addosso. Lavoravano assieme? Eppure era sicuro di non averla mai vista, prima di quel giorno, al pub.

“Ti chiedo scusa!” le gridò, al di sopra delle voci dei presenti. “Vado subito a cambiarmi. Per caso sei nuova?”

Chiese, sbirciando sulla sua divisa per individuare il nome cucito sulla camicia. La ragazza annuì in fretta, affrettandosi poi a recuperare una forchetta che uno dei clienti aveva fatto cadere. L’espressione di Julian si ammorbidì.

“Beh, piacere di conoscerti, allora.” dichiarò con gentilezza. “Io sono Julian, e tu sei… Diana?”

Azzardò, spiando il nome sulla divisa della giovane. La ragazza si accigliò, scoccando un’occhiata rapida alle lettere stampate sulla sua spalla.

“C’è scritto Damian.” lo corresse scuotendo il capo con aria scocciata. “Mi ha prestato la camicia uno dei camerieri, non ho ancora nulla.”

“Giusto!” Julian si batté una mano sulla fronte, sorridendo a mo di scusa. “E allora, posso sapere il tuo nome?” domandò.  La ragazza sbuffò.

“Possiamo rimandare le domande a dopo, per favore? Devo lavorare.” commentò, affrettandosi a raggiungere uno dei suoi tavoli. Julian la osservò con un accenno di smorfia, infastidito dall’atteggiamento scontroso della ragazza. La prossima volta, decise, ci avrebbe pensato due volte prima di cercare di mostrarsi disponibile con una nuova arrivata.

“Arielle!” esclamò in quel momento il gestore del locale, rivolgendosi alla giovane. “Quando hai finito con il tavolo nove, passa all’undici. Morgan non è ancora arrivato.”

Julian rabbrividì.

“Sono qui, Caleb!” si affrettò a rispondere, sorridendo a mo’ di scusa, quando la giovane riversò l’ennesima occhiataccia su di lui.

“È un bel nome, Arielle.” tentò ancora, affrettandosi a recuperare la sua camicia dallo zaino.

“Mi chiamo Aria…” sbottò la ragazza, dirigendosi verso il tavolo che teoricamente sarebbe dovuto aspettare a lui. Julian inarcò un sopracciglio con aria perplessa.

“Sono dislessico, non sordo!” le gridò dietro con un accenno di sorriso. “Lui ti ha chiamato Arielle!”

La ragazza si limitò ad ignorarlo. Roteando gli occhi, Julian raggiunse il bagno per cambiarsi la camicia, senza dimenticarsi tuttavia di scoccare un’occhiata furtiva al professor Ringle: scattò all’indietro sorpreso, quando si accorse che lo sguardo del professore era puntato proprio su di lui.

C’era decisamente qualcosa che non andava in lui, pensò. Ma quando intercettò l’ennesima occhiata assassina di Arielle, si convinse a lasciar perdere le sue considerazioni, per correre a prepararsi.

 

***

 

Ricki ammonticchiò una manciata di calzini spaiati sul copriletto. Si diede un’occhiata attorno, alla ricerca di qualche maglietta dispersa per la camera e sbuffò, facendosi strada in mezzo a zainetti e cappotti di tutte le taglie abbandonati alla rinfusa sul pavimento.

“Sorella, sei stata in camera mia, vero?” esclamò a voce alta cercando di raggiungere il suo borsone da viaggio. Inciampò in una racchetta da tennis e la calciò di lato. Sbuffò una seconda volta, prima di inciampare nuovamente, questa volta sul suo stesso borsone.

“Caroline?”

“Nooooo!” 

L’esclamazione annoiata di sua sorella lo raggiunse dalla camera adiacente. Il ragazzo roteò gli occhi con aria rassegnata.

“Come no, c’è un porcile in camera mia, quindi o sei stata tu, o sei stata tu. E il cane che ci fa in casa?”  aggiunse poi sorpreso, riconoscendo un musetto peloso che spuntava dall’uscio della porta. Silver, il cane di famiglia, osservava il padrone con aria curiosa, comodamente accoccolata sul pavimento.

“Cucciolotta!” esclamò addolcendosi, raggiungendo l’animale. “Ma lo sai che non puoi stare qui, la mamma sclera se ti trova in casa. Chi ti ha fatto entrare?” aggiunse con un sorrisetto divertito, grattando il capo del cane.

 “Ma chi vuoi che sia stato?” il commento strascicato di Mason lo raggiunse dal corridoio.

“Caroline!” ripeté una seconda volta Ricki, questa volta a voce più alta.

“Arrivo!” ribattè spazientita la ragazza. “Sto preparando il borsone!” aggiunse.

“Stai via per il weekend?” domandò il fratello mentre Caroline faceva ingresso in camera sua. Ricki schioccò le dita.

“Adesso, si spiega il campo di battaglia!” esclamò.

“In questa casa non si trova mai niente” si lamentò la ragazza mettendosi a frugare nell’armadio del maggiore. “Dove diavolo sono le mazze da hockey?”

“In camera mia, no di certo.” commentò il fratello, lasciandosi cadere pigramente sul letto.

“Come mai hai fatto entrare il cane?” chiese poi, facendo cenno a Silver di raggiungerlo. La creatura si acquattò sul tappeto e annusò a lungo la mano del padrone, prima di arrendersi alle sue carezze. Caroline diede una scrollata di spalle.

“Sei stato qui una settimana e l’hai a malapena calcolata. Devi rimediare, a cominciare da ora.” commentò indicandolo con aria minacciosa. Ricki sollevò le mani in cenno di resa.

“Hai ragione, sono stato davvero un padroncino cattivo. Vorrà dire che alla festa di domani sera al grill, Silver verrà con me al posto tuo. Se non altro è più ordinata di te.”

Caroline lasciò perdere la sua ricerca e si lasciò cadere a sua volta sul letto del fratello maggiore.

“Mi dispiace non esserci domani!” si scusò, mettendo il broncio. “Era la festa di arrivederci per te e Jeff!”

“Vai al lago con Xander?” domandò il fratello. Caroline annuì.

“Non ci andavamo più da secoli.” si giustificò. “Ti dispiace?”

“Nah.” Ricki la rassicurò stiracchiandosi pigramente sul materasso.

“Tanto torno presto.”

“Ma domenica pomeriggio ti accompagnerò all’aeroporto, e per tutto il tragitto ti terrò il muso.” gli assicurò la sorella, con un cipiglio serio.

“Come da routine!” confermò Richard circondando le spalle della ragazza con un braccio. Sospirò.

“Massì, fra meno di un mese è Natale e sarò di nuovo a casa.” commentò, accarezzandole il capo. Caroline si strinse a lui.

“Dovevi proprio scegliere una scuola così lontana? Fratello cattivo!” si lamentò in tono di voce infantile. Ricki sorrise.

“Lo sai che sono un idiotone… ma prima o poi ne farò pure una giusta, no? E senti, a proposito di idiotoni…”  aggiunse, abbassando lievemente il tono di voce. “Ricordati di dare una sbirciata a quell’adorabile cretino di nostro fratello, di tanto in tanto. Due sbirciate. Ma fai anche tre…”

“Lo tengo d’occhio, non preoccuparti per quello.” lo rassicurò. 

“Caroline!” la voce di Tyler li raggiunse dal corridoio. “Che cos’è tutto quel casino in camera tua?” domandò, per poi sgranare gli occhi nell’individuare la confusione che regnava sovrana nella stanza del suo primogenito.

“Eh, questa è opera mia.” mentì Ricki esibendo un sorrisetto schietto.

“Non trovavo la roba per il lago!” si difese invece Caroline. Il padre la fulminò con lo sguardo.

“No, Caroline, sono settimane che quella camera è uno schifo, quindi adesso ti muovi e cerchi di farla diventare quanto meno vivibile. E il cane…” aggiunse spostando l’occhiataccia in direzione di Silver, che come vide il padrone, si affrettò a trotterellargli allegramente incontro. Caroline annuì con aria esasperata.

“Sì, lo so.” dichiarò. “È troppo grande e troppo peloso e non deve stare in casa, alla mamma dà fastidio. Caroline! Portalo fuori!” aggiunse, imitando la voce grossa del padre. Si incamminò in direzione del corridoio guidando Silver, mentre il padre la squadrava con aria irritata.

“Questo tono di voce non mi piace!” aggiunse l’uomo, alzando la voce.

“Hai ragione, scusa!” la figlia gli gridò dal corridoio. Tyler sbuffò, spostando poi il suo sguardo in direzione del suo primogenito.

“Rick, posso parlarti?” chiese, decidendosi finalmente ad abbandonare l’uscio della stanza per raggiungere il figlio. Ricki gli diede una pacca sulla spalla.

“E parliamo, papà!” esclamò allegramente, circondandogli le spalle con un braccio. Tyler inarcò un sopracciglio, prima di scuotere il capo sorridendo.

“Che figlio cretino che ho.” commentò; Ricki fece una smorfia.

“Già, un perfetto idiota. Ne parlavo giusto prima con Caroline.” si trovò d’accordo. “Non so proprio da chi potrei aver pres… Ahi, eddai papà, questo era forte!” si lamentò, quando lo scappellotto del padre gli colpì la nuca. Tyler ridacchiò, placcando il figlio per riuscire a rifilargliene un secondo.

“Come va, papà?” domandò infine Ricki, quando la lite scherzosa tra padre e figlio si estinse. “Da quando sono tornato non ci siamo ancora fatti una delle nostre belle chiacchierate.”

Tyler si sistemò i capelli scrutandolo con aria pensierosa; sospirò, denegando appena con il capo.

“È per lo sceriffo?” domandò il figlio, improvvisamente con aria meno giocosa, chinandosi in avanti. Il padre sospirò una seconda volta.

“Tu non ci devi neanche pensare allo sceriffo. Quelle sono cose mie, okay?” gli ricordò in tono di voce pacato, deciso a non coinvolgere Ricki in quel tipo di faccenda. “Sono preoccupato per Mason.” giustificò infine i suoi tentennamenti, allargando le braccia.

“Lo so.” confermò Ricki. “Sono preoccupato anch’io.”

“È che pensavo…” Tyler interruppe a metà la fase, come se avesse cambiato idea. Si esaminò le mani con attenzione e infine si costrinse a proseguire. “Pensavo che forse dovrei iniziare ad accennargli qualcosa sulla maledizione.” ammise.

Ricki denegò con il capo prima ancora che avesse il tempo di aggiungere altro.

“Va messo in guardia.” continuò ugualmente Tyler. “Continua a lasciarsi provocare per cazzate, e se si ostina a fare lo spaccone in quel modo, finirà che…”

“Papà, no.” Ricki dissentì pacatamente, ma parlò in tono di voce deciso. “È di Mason, che stiamo parlando. Mase, quello che balbettava. Quello che ha paura di tutto; Mase, il piccolo di casa, ricordi? Non ha nemmeno sedici anni, papà, non puoi lasciargli addosso una preoccupazione del genere e sperare che...”

“Tu eri ancora più giovane di lui quando sei venuto a sapere della maledizione.” ribattè secco il padre, scoccandogli un’occhiata severa.

“Bella forza.” commentò Ricki con fare ironico. “Papà, io ti avevo visto.” gli ricordò poi. “Non è che ci fossero poi altre alternative…”

Tyler non rispose; intrecciò le dita e chinò il capo verso il basso. Ricordò con nervosismo l’espressione terrorizzata del suo primogenito, nel momento in cui lo aveva scoperto incatenato in una cripta. Erano anni che Ricki insisteva per accompagnarlo lungo un tratto di tragitto verso i boschi, i pomeriggi che precedevano le notti di luna piena. Ma mai prima di quel giorno aveva osato disobbedire al padre, oltrepassando quel confine oltre al quale non gli era concesso proseguire: inseguendo Tyler fino alla cripta.

“Ti fa male…” domandò in quel momento, voltandosi in direzione del figlio. “…fa male essere a conoscenza di tutto questo?”

Ricki sostenne lo sguardo del padre con aria decisa, prima di dare una scrollata di spalle.

“No.” convenne infine. “Non ho paura, papà. Se lo hai affrontato tu, posso affrontarlo anch’io. Ma Mason…” il ragazzo sospirò, passandosi una mano fra i capelli. “Non dirgli nulla. È ancora troppo presto, per lui.” concluse. Il padre gli scoccò un’occhiata poco convinta, ma alla fine annuì.

“Papà?” domandò a quel punto Richard, posandogli una mano sulla spalla. “La mamma e Matt ti accompagnano ancora ogni mese a turno, vero?” domandò.

Il padre inarcò un sopracciglio con aria critica: non c’era bisogno di aggiungere a cosa si stesse riferendo; Tyler aveva capito benissimo.

“Sei stato tu a organizzare questa tiritera, vero?” realizzò in quel momento. “Dio, che roba, Ricki, sei proprio…”

“Doveva esserci qualcuno a cui passare il testimone, mentre ero via.” si difese il giovanotto battendosi un pugno sul petto. “Vorrei poterti accompagnare ancora io, però.” aggiunse. “Come una volta.”

Tyler fece per ribattere, quando un ricordo improvviso lo sfiorò, strappandogli un sorriso.

“Che c’è?” domandò il figlio, rivolgendogli un’occhiata perplessa. Il padre scosse il capo con un cipiglio divertito.

“Stavo ripensando a quel marmocchio impestato, che strepitava, perché voleva venire ad ‘aspettare la luna assieme a me’.” ammise,con aria improvvisamente meno rigida.

“Ogni maledetto mese.” precisò. Ricki fischiò.

“Uh, i bei tempi andati…” commentò, concedendosi poi un sorrisetto sghembo. “È cresciuto bene, quel marmocchio!” aggiunse, passandosi orgoglioso le unghie sulla maglietta. “Ammettilo, tuo figlio è un fenomeno.” concluse poi, sorridendogli candidamente. Il padre ridacchiò.

“Sì, un fenomeno da baraccone.” commentò, dandogli una pacca sulla nuca.

“Ma basta!” mugugnò il ragazzo, massaggiandosi il capo. “Quando non avrò più la testa, chi torturerai al posto mio?”

“Ehi, Rick…” incominciò in quel momento Tyler, sollevandosi dal letto. Lo osservò a lungo, scuotendo poi il capo con aria a metà tra il divertito e il rassegnato. Ricki si alzò a sua volta.

“Ok.” Esclamò, posando le mani sulle spalle del padre. “Concentrati: puoi farcela. “‘Ehi Rick’ che cosa?’ ‘Sei un cretino?’ Lo so. ‘Hai due calzini di colore diverso addosso?’ So anche questo, è colpa di Silver, me ne ha rosicchiati una decina. Ringraziamo la cara sorellina, per questo, visto che il cane l’ha fatto entrare lei.”

Tyler incrociò le braccia sul petto, ascoltandolo blaterare. Tra lui e Ricki difficilmente passavano parole d’affetto, nonostante entrambi dimostrassero in continuazione di avere perennemente bisogno l’uno dell’altro. Ricki era il figlio con cui Tyler era sempre stato più severo. Quello che riprendeva più duramente, forse perché sin da piccolo era sempre stato il più movimentato, forse perché sapeva che con lui poteva permetterselo. Ricki era il solo con cui, di tanto in tanto, gli era capitato di alzare le mani. Da bambino, avevano anche passato dei brutti momenti; Ricki era uno di quei bambini impossibili, che non riescono a stare fermi nemmeno un attimo. Il genere di ragazzino che non va matto per le dichiarazioni di affetto, per le coccole e i vezzeggiamenti.

Eppure, Ricki era sempre stato, e continuava a essere, quello dei tre figli con cui Tyler aveva un legame più saldo. Averlo al suo fianco lo faceva sentire più sicuro, forse per via della vicinanza che c’era sempre stata fra di loro nei momenti antecedenti alla luna piena. E Richard Junior, il bambino che non amava le dimostrazioni di affetto, era cambiato molto crescendo, diventando un giovane uomo tremendamente solare, con un amore incondizionato nei confronti della sua famiglia.

Se Tyler dopo vent’anni ancora faticava a manifestar a voce alta quello che provava nei suoi confronti, Ricki aveva imparato a non curarsene: gli bastava guardarlo negli occhi per intuire quello che suo padre avrebbe voluto dirgli. Dal rimprovero, alle parole affettuose, Richard sapeva sempre come interpretare le occhiate del padre, anche quando non c’erano parole a sottolineare ciò che intendeva comunicargli.

“Diciamo che come al solito faccio tutto da solo, va.” affermò infine Ricki sorridendogli con fare canzonatorio. “Sì, anche io te ne voglio. E sì, anche io sono orgoglioso di te.” pronunciò improvvisando un’aria solenne, dando poi una serie di pacche sulla spalla al padre. Tyler lo scansò, ridacchiando.

“Cretino.” mugugnò. Improvvisamente, si mise ad arruffandogli i capelli, come faceva sempre quando Ricki era bambino Anche il ragazzo si mise a ridere.

“Non ti erano mancate per niente le mie sparate, vero?” domandò, dandogli poi un pugnetto sulla spalla. Tyler scosse il capo, deciso.

“Per niente.” commentò, rivolgendogli poi un sorrisetto beffardo. Ma quando il figlio incrociò il suo sguardo, intuì all’istante che stava pensando a qualcosa di completamente opposto.

You think
they won't understand
So you don't reach out your hand for them

 Until they'll pull and reach for you.

Family comes first. Whitney Houston

** Quello che dice Anna è stato rubacchiato al dialogo tra Jeremy e Anna nell’ episodio 3x04

Nota dell’autrice.

Anzitutto, l’angoletto annunci:

1.            Anche questo mese ho piazzato su un piccolo spin off di questo racconto, questa volta dedicato a un povero Mase con  l’influenza e a Caroline (Forbes) nel ruolo di ‘mammina’. Una cosina così, per sorridere un po’. S’intitola Fever.

2.            Il dialogo tra Ricki e Tyler a proposito di Ricki da bambino che andava ad aspettare la luna con il padre, si rifa a un missing moment intitolato appunto Waiting for the moon, che è un po’ un approfondimento di quello che siete andati a leggere oggi, quindi se vi capitasse di darci un’occhiata, mi farebbe davvero tantissimo piacere!

Passiamo ora al polpettone.

 

Buondì! *esulta, perchè è riuscita ad aggiornare entro il mese*

Siete pronti per il polpettone nel polpettone? Ma sì, che lo siete! E allora, cominciamo!

Anzitutto, ho notato che in questo capitolo sono riuscita finalmente a dare un po’ di spazio ai miei quattro personaggi preferiti: Ricki, Oliver, Vicki e Julian. E quindi sono felice. <3 E poi, come al solito ringrazio la Mary bella, perché è coccola e beta sempre con amore <3

Dunque, uhm, cacchio, questo capitolo era davvero lungo D: Mi perdonate, vero? Ad ogni modo, capitolo di transizione. Di conseguenza, a livello di svolgimento dei fatti in questa sesta parte non è successo un granché, ma ho deciso che avevo bisogno di focalizzarmi per un attimo sulla famiglia Lockwood, che è un po’ la protagonista di questa storia assieme a Caroline (Forbes). Ma andiamo per ordine.

Nella prima parte del capitolo, abbiamo finalmente il primo mistero svelato; come molti di voi avevano indovinato, la ragazza misteriosa di Oliver era proprio Anna. So che alcuni di voi sono delusi da questo risvolto, e vi dirò, in realtà all’inizio Annabelle non era contemplata nel quadro. Ma avevo bisogno di creare uno storyline per Oliver, e al tempo stesso mi serviva un collegamento che accennasse al‘the other side’ per qualcosa che si vedrà alla fine di questa fan fiction, e così ho pensato ad Anna. Vi premetto che non ci sarà nessun risvolto amoroso, tra lei e Oliver. Mi sembrava più corretto così, e non volevo esagerare con i parallelismi tra ciò che è successo in passato e ciò che sta succedendo ora. *parte la musichetta di Casper*

Andando avanti, passiamo alla scenetta Xanderine, con la partecipazione straordinaria di Ron Weasley (tra l’altro, nulla contro l’adorabile Ronnino, ma ho pensato che ‘Ron Weasley’ potesse essere più da Xander , rispetto a ‘pel di carota’ o qualche altro appellativo del genere) e del fessacchiotto Mase, sempre nei paraggi, quando c’è da fare cupido. Che succederà al lago? Bah, non so, vedremo!

Proseguendo oltre, abbiamo il Consiglio: auch.

E poi, altro stacco: Tyler, Mason, e finalmente, la prima introduzione di mammaLydia <3 Non so se sono riuscita a renderla come volevo. Ho un’immagine precisa in testa di questa donna dolce e affettuosa, ma anche decisa e combattiva. Scopriamo qui che Lydia è al corrente di tutto ciò che ha a che fare con il sovrannaturale, dei vampiri, della maledizione dei Lockwood, e di ciò che ha significato Caroline per Tyler in passato. Mi ha fatto un po’ dannare questa scena. Era delicata, e ci tenevo a renderla bene. Mi rendo conto, che questo Tyler adulto è piuttosto diverso da quello che siamo abituati a conoscere dalla serie tv, ma tenendo conto del trascorrere degli anni, è solo così che riesco a immaginarmelo.

Dopodiché, ci sono Vicki e Autumn. Vicki <3 è la prima volta che la vediamo interagire un po’ più a lungo con gli altri personaggi, e finalmente scopriamo qualcosa in più su di lei. Beh, ovviamente è mezza svitata,ma non è che gli altri siano messi molto meglio <3 Scherzi a parte, Vicki non ha la simpatia di alcuni di voi, ma c’è ancora davvero tanto in suo proposito che va scoperto. Credo che dal prossimo capitolo il suo personaggio incomincerà a prendere forma per quello che è veramente. Come avevo anticipato in pagina facebook, ho deciso che ‘Tumn e Vicki sarebbero state migliori amiche, molto prima che spuntasse fuori che lo erano anche le loro nonne (Miranda e Abby), oltre che le loro mamme.

E poi abbiamo il ritorno di Julian – e del professore creepy - con una nuova – anche se non proprio – arrivata: la rosicchia matite secchiona, alias Aria. Vi assicuro che è un po’ più carina di quello che abbiamo visto oggi, evidentemente era nervosa per il suo primo giorno di lavoro - Julian, in realtà,mi sta dicendo che era proprio fuori di melone,altro che nervosa -. Ad ogni modo, la ritroveremo più avanti nella storia, così come Julian.

Il capitolo si chiude con la mia scena preferita: Ricki e papà. Come avrete già intuito, questa storia fa parecchio perno sul concetto di famiglia, sul rapporto genitori-figli e quello tra fratelli. C’è ancora tanto in cantiere per i Lockwood.

Ma passiamo alla parte più interessante del polpettone (c’è una parte interessante? D: D: D: ) ovvero, cosa aspettarsi dal prossimo capitolo? DI TUTTO. MWAHAHAHA.

.. Non è vero.

Però, posso dirvi che in un certo senso sarà davvero un capitolo di svolta. Ciò che è importante succede solo alla fine, ma mette le basi, per quello che andrà a svilupparsi negli episodi successivi.

Dopo questa piccola sbirciata al prossimo capitolo, direi che posso chiudere il polpettone. Potete arrotolarlo, mangiarvelo, o darlo al cane, come preferite. Gna, ma a proposito di cane: mi stavo dimenticando della sesta Lockwood e voi non mi dite nulla? Oggi abbiamo conosciuto pure Silver! La più in gamba della famiglia, non c’è che dire u_ù

Ultimo accenno alla citazione e poi fuggo. La citazione iniziale è tratta da una poesia che ho sentito recitare molte volte, e che quindi mi è rimasta impressa. Forse è stato un po’ indelicato inserirla, ma proprio perché così delicati, quei versi mi hanno sempre riportato un po’ ad Anna, e a questo suo “essere sola”, perché nessuno può vederla.

Basta, mi eclisso, vi sbacio tutti per bene e me ne vado in letargo di nuovo. Ringrazio tutte le splendide personcine che nell’ultimo mese hanno recensito. Mi state dando una gioia immensa <3 Grazie in particolare, alle nuove arrivate, è sempre emozionante vedere nuove persone che seguono questa storia e i miei sgangherati pargoletti! Come sempre, per informazioni, spoiler, le domande più disparate, e imbarazzanti, aneddoti nonché vita,morte e miracoli di questi nove fessacchiotti, li trovate QUI.

 

Un abbraccio grande!

Laura

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Capitolo 8
*** 7. The turning point (part. 1) ***


Chapter 7.

The Turning Point.

(part 1)

Tutti noi ci immaginiamo artefici del nostro destino, capaci di determinare il corso delle nostre vite.

 Ma siamo davvero noi a decidere la nostra ascesa e la nostra caduta?

O c'è una forza più grande di noi, che stabilisce la nostra direzione?

 

È la scienza a indicarci il cammino?

È Dio che interviene per tralci in salvo?

Non poter scegliere il proprio percorso è la triste condizione dell'uomo.
Gli è solo dato come atteggiarsi quando il destino chiamerà.

 Sperando che non gli manchi il coraggio di rispondere.

 

da Heroes. (episodio 1x02)



E… arrivati!” annunciò allegramente Xander spegnendo il motore dell’auto. Caroline sganciò la cintura di sicurezza e guardò fuori dal finestrino con aria truce.

“Piove.” commentò, visibilmente seccata. “È la prima volta che torniamo al lago dopo mesi e piove: grandioso…

“Ah, non fare i capricci.” l’ammonì l’amico infilandosi il cappuccio, per uscire dall’auto. Caroline fece altrettanto. Si strinse le braccia al petto per ripararsi dalla pioggia.

“Freddo.” commentò rabbrividendo, quando finalmente riuscì a mettere piede in casa. Xander abbandonò le chiavi della macchina sul tavolo e si sfilò il cappuccio.

“Uhm, magari la prossima volta l’ombrello ce lo portiamo, eh?” commentò frizionandosi i capelli con le mani. Caroline sbuffò.

“Non è colpa mia se non c’era più spazio nel borsone.” obiettò, sfilandosi le scarpe sporche.

“Oh, per forza, ti sei portata dietro tutta casa tua.” la rimbeccò Xander, dandole un colpetto sul fianco. “Bah, le donne.” aggiunse, lasciandosi cadere sul divano. Caroline si accigliò.

“Alexander, vuoi che ti tiri una scarpa in testa?” domandò, recuperando la converse e sventolandogliela sotto il naso. “Guarda che lo faccio! E i tuoi capelli non gradirebbero.”

Il ragazzo sghignazzò, “Niente più commenti sulle donne, promesso.” si arrese, sfilandosi a sua volta le scarpe per potersi distendere. “Ah, mi è mancato questo posto.” commentò poi, intrecciando le dita dietro la nuca.

Caroline spinse le gambe dell’amico verso lo schienale per farsi spazio e si sistemò a sua volta.

“Comoda?” si informò il ragazzo, prima di rivolgere un’occhiata distratta in direzione del camino; si sorprese a sorridere. Quel soggiorno era un mosaico di dettagli rimasti invariati nonostante il trascorrere del tempo. Oggetti con una collocazione ben precisa, mensole ornate da fotografie incorniciate, cianfrusaglie sparse in giro per la stanza che notava ogni volta. C’erano le pantofole sue e di Oliver di quando erano piccoli, ancora accantonate sotto la poltrona: stranamente né a lui, né a nessun altro, era venuto mai in mente di buttarle. Stavano lì fin da quando aveva memoria. C’era la sua chitarra, appoggiata come sempre al piedistallo vicino al caminetto, nel posto in cui la trovava ogni volta che tornava in quella casa; Caroline gli aveva chiesto più volte di insegnargli qualche accordo, ma non era nemmeno mai riuscito a farle capire come imbracciare lo strumento musicale: la ragazza si stufava sempre prima. C’era una pila di fogli scarabocchiati sul tavolo, reduci delle partite a pictionary giocate assieme alla sua famiglia. Per ogni oggetto, un ricordo; e ogni ricordo aveva il potere di farlo sorridere. Aveva trascorso dei bei momenti, in quella casa.

Sei contento, Xander bello?” domandò in quel momento Caroline, stendendosi al suo fianco. Il ragazzo allungò il braccio per cingerle le spalle e rivolse all’amica un sorrisetto soddisfatto.

“Xander bello è contento.” confermò, permettendole di stringersi a lui. “La signorina Lockwood è contenta?” chiese allo stesso modo. La giovane annuì, appoggiando il capo sul suo petto.

“Sì, sono contenta, ma c’è davvero un tempo di cacca.” si lamentò mettendo il broncio, prima di tornare ad accigliarsi. “Doveva mettersi a piovere proprio oggi?” commentò. Xander scattò a sedere.

“Le mazze da hockey le abbiamo, no?” le fece notare con un sorrisetto sghembo. Caroline non disse nulla; l’interrompersi brusco di quell’abbraccio l’aveva quasi infastidita, e si sentiva sorpresa, per via di quell’insolita impressione.

“Mettiti i pattini, dai.” esclamò a quel punto il ragazzo, alzandosi in piedi. “Oggi la partita la si gioca in casa… in tutti i sensi.”  annunciò, dandole poi una pacca sul braccio.

Caroline sbuffò, sollevandosi pigramente dal divano. Si chinò per sbirciarci sotto e recuperò il paio di pattini, che teneva lì sin dal loro primo week-end assieme.

“E va bene.” annunciò infine, rivolgendogli un’occhiata di sfida. “Tanto posso stracciarti anche se giochiamo dentro.” annunciò, annuendo tronfia. Xander minimizzò con una scrollata di spalle.

“Bah, impossibile. Considerati già battuta.” commentò, incominciando a gironzolare per il soggiorno con i pattini allacciati ai piedi“Facciamo una scommessa? Se vinco io mi prepari i biscotti!” aggiunse con aria d’un tratto più vivace, prendendo a pattinarle attorno. Caroline si sollevò a sua volta e si mosse in direzione del borsone. Recuperò una delle mazze da hockey e con l’altra mano raccolse la sacca, per portarla nella camera da letto.

“E se vinco io?” domandò poi con una punta di malizia nello sguardo. Xander, che l’aveva seguita, si grattò il capo con aria poco convinta.

“Uh, tanto non vinci.” ribattè, incrociando le braccia sul petto. “È inutile che ci mettiamo a pensare a cosa… ehi, non distruggermi la casa!” aggiunse improvvisamente. Caroline aveva vacillato per un istante, finendo per colpire il muro con la mazza da hockey. La ragazza si appoggiò alla parete con la mano libera, arrossendo lievemente.

“Ho perso un attimo l’equilibrio.” si scusò, continuando a tastarne la superficie. Da imbarazzata, la sua espressione si fece d’un tratto incuriosita. “Xan, hai sentito che rumore ha fatto la parete, quando l’ho colpita?” domandò.

“Il rumore di una parete che rischia di sfasciarsi.” commentò il ragazzo, pattinando fino a raggiungerla. “Un rumore che non mi piace per niente. Metti via quella mazza, sei pericolosa.”

“Sul serio, Alexander, suonava come se fosse vuota. Secondo me c’è qualcosa, qua dietro.” aggiunse la ragazza, porgendogli la mazza da hockey. Bussò con le nocche contro la parete, e infine si allontanò, quando con titubanza l’amico incominciò a colpire il muro con l’arnese. Una dopo l’altra, un paio di assi si scostarono, lasciando intravedere qualcos’altro.

“Avevi ragione.” mormorò Alexander spostando le tavole. “C’è una porta qua dietro.”

Lo sguardo di Caroline si illuminò.

“Aprila!” esclamò entusiasta, appoggiandosi alla spalla dell’amico per vedere meglio. Xander fece una smorfia.

“È chiusa a chiave.” commentò, prima di cambiare espressione. “No, aspetta. Niente chiave, qualcuno ha fracassato la serratura. Si apre tranquillamente.” obiettò quando spinse la porta con la mano che si aprì senza alcuna difficoltà.

“C’è qualcosa dentro?” domandò la ragazza, sbirciando oltre la spalla di Xander. Il ragazzo guardò di fronte a sé con aria perplessa.

“Nah. Sembra uno sgabuzzino, ma è vuoto.” commentò, allontanando l’amica con delicatezza per poter fare qualche passo avanti. Era vero: gli bastò un’occhiata per intuire che, fatta esclusione per le schiere di ganci appese alle pareti, in quella stanza non ci fosse nulla, oltre che polvere e probabilmente tarme. Xander analizzò il pavimento con aria incuriosita e poi sollevò il capo per controllare la parte alta della stanza; quel posto somigliava effettivamente a un ripostiglio, ma non riusciva a spiegarsi il significato di tutti quei ganci.

“E perché dovrebbe esserci uno sgabuzzino, nascosto nella stanza dei tuoi?” domandò a quel punto Caroline. “Secondo me c’è dell’altro, proviamo a controllare bene.”

“Non c’è niente, ho guardato dappertutto.” la rassicurò il ragazzo, prima di appoggiarsi una mano sullo stomaco.

“Oh oh.” borbottò infine allontanandosi dalla parete. Caroline spostò la sua attenzione verso il ragazzo.

“Che cosa c’è?”

Xander sorrise, battendosi più volte una mano sulla pancia.

“Stomaco! Pappa!” annunciò allegramente, indicando con la mazza da hockey l’uscita della stanza. “Andiamo a mangiare?” la supplicò poi.

Caroline sbuffò, pur lasciandosi sfuggire un sorrisetto divertito.

“Ovviamente, il cane va nutrito.” ribattè infine, dandogli un colpetto sulla nuca. “Va bene, prepariamoci qualcosa!” si arrese infine, pattinando fino al corridoio. Xander aggrottò le sopracciglia.

“Ehi, non darmi del cane, bella!” le gridò dietro, lanciando la mazza da hockey sul letto.  “Non abbaio mica!” Caroline rise.

“Va bene, allora ti darò delporcospino’.” lo rimbeccò dalla cucina “Con quei capelli lì non mi viene in mente niente di meglio.”

“Ma a te piacciono i miei capelli!” obiettò il ragazzo, dandosi la spinta con la mano per raggiungere il letto. Nel voltarsi, uno dei suoi pattini si scontrò con qualcosa, e il ragazzo fu costretto ad aggrapparsi alla parete per non perdere l’equilibrio.

Ma che diavolo…

Si chinò, per controllare cosa gli avesse intralciato la strada; recuperò un volumetto incastrato fra il suo pattino e la parete del ripostiglio. Ne analizzò la copertina con attenzione: sembrava molto vecchio.

“Caroline, ho trovato qualcosa!” annunciò in quel momento, rigirandosi il quaderno fra le mani; svoltò la prima pagina e aggrottò le sopracciglia per decifrare il nome che spiccava in un angolo, trascritto con una calligrafia minuta: Jonathan Gilbert. Sfogliò ancora qualche pagina e analizzò con aria incuriosita schiere di parole accantonate le une alle altre. Davano l’impressione di essere state ammonticchiate a forza, quasi chi le avesse scritte avesse cercato di far rientrare tante informazioni nel minor spazio possibile.

“Che cosa hai detto?” Caroline gli gridò dalla cucina. Alexander non rispose. Si accoccolò sul pavimento e prese a sfogliare il quadernetto, incuriosito dall’aria consunta di quei fogli. Studiò un paio dei disegni che spuntavano qua e là in mezzo alle annotazioni e si stupì, quando individuò la data di uno degli ultimi, tratteggiata a inizio pagina: 22 Novembre 1864. Aveva tra le mani il diario di un vecchio antenato di famiglia.

“Alexanderporcospino’!” l’esclamazione decisa di Caroline lo convinse a distogliere lo sguardo dalla pagina. “Se non muovi le chiappe subito per venire a darmi una mano, giuro che i biscotti li do tutti a Silver!”

Xander rise, arruffandosi i capelli ancora umidi, prima di sollevarsi da terra. Scoccò un’ultima occhiata pensierosa al volumetto e lo abbandonò sul letto, per poi pattinare fino al soggiorno.

“Uh, biscotti!” annunciò leccandosi le labbra con aria soddisfatta. “Porcospino in arrivo!”

Il diario del suo antenato, pensò picchiettandosi una mano lo stomaco, l’avrebbe controllato più tardi.

***

“A che ora uscite, questa sera?” domandò Elena facendo ingresso in cucina. Jeff smise di scribacchiare sul suo libro e rivolse lo sguardo in direzione della donna.

“Non so, le otto?” propose, voltandosi a osservare la sorella accoccolata sul tappeto; Vicki stava facendo zapping con aria annoiata, i piedi scalzi a giocherellare con un cuscino poco distante.

“Vic, tu cosa fai? Vieni su con me e Ricki o passi più tardi con Autumn?

Victoria tentò di soffiare via un ciuffo di capelli che le era scivolato sugli occhi, ma con scarso successo. Sbuffò, decidendosi a darsi una sistemata alla frangia con le mani.

“Io e ‘tumn non veniamo. Abbiamo una certa cosetta da fare.” spiegò, abbandonando il telecomando sul divano per raggiungere il fratello. “Magari facciamo poi un salto al Grill più tardi.”

Jeffrey la osservò con ara poco convinta.

“E vuoi perderti Ricki ubriaco?” esclamò in quel momento Matt, entrando in cucina a sua volta. “Non ci credo nemmeno un po’ .”

La ragazza sbatté le ciglia un paio di volte e sorrise.

“Ovvio che non voglio perdermelo.” spiegò. “Ma ‘tumn sta passando un periodo un po’ bizzarro e voglio cercare di aiutarla a risolvere la faccenda, tutto qui!” annunciò allegramente la ragazza, prendendo posto a fianco a Jeff. I due genitori si scambiarono un’occhiata perplessa.

Infine, la donna si rivolse a Jeffrey.

“Tu farai la persona seria, voglio sperare.” commentò, scoccandogli un’occhiata attenta. Il ragazzo accennò a un sorrisetto.

“Niente risse, niente cose folli.” dichiarò. “Se ho bevuto troppo, torno a casa a piedi. Tranquilla, mi comporterò bene. Ho Ricki da tenere d’occhio…

“Sì, non vogliamo che Ricki diventi come l’ubriacone che vive nel vialetto di fronte a casa sua…  aggiunse in quel momento Matt, rivolgendo al figlio un sorriso divertito. Vicki fece una smorfia.

“Quel poveretto mi mette sempre una tristezza incredibile addosso, quando lo vedo. È ubriaco dalla mattina alla sera. Non fa altro che rovistare tra i sacchi di immondizia e far rimbalzare barattoli di pelati come se fossero palloni da calcio. Un momento…” sgranò gli occhi con fare teatrale. “…in pratica è una versione più anziana di Ricki. Anche se – almeno spero - Ricki non rovista fra i bidoni della spazzatura. Oddio, e se fosse un Ricki venuto dal futuro? Jeff, devi fare attenzione! Non farlo ubriacare troppo o prima o poi diventerà un vagabondo rovista-rifiuti!”

Stava scherzando, ma aveva un’espressione talmente seria, che il fratello prese a osservarla con aria interdetta.

Matt si mise a ridere.

“Va bene, ha superato la sua soglia giornaliera di normalità.” commentò poi, accarezzando i capelli della figlia. “Adesso attaccherà con i discorsi folli.”

“No, la smetto subito, perché devo andare a prepararmi.” commentò infine la ragazza, dopo aver scoccato un bacio sulla guancia al padre. “Ho le prove con la squadra e poi passo da ‘tumn.”

Quindi non vieni davvero alla festa?” domandò ancora Jeffrey, passandosi una mano sotto il mento con aria divertita. “Guarda che il barista dell’altra volta ha chiesto di nuovo di te, quando sono passato a prenotare.”

Vicki si mordicchiò un labbro con aria compiaciuta.

“Quello carino?” domandò con un sorriso malandrino. “Interessante, uh uh. Ma non importa. Ho promesso e quindi niente Grill. Vado su a prepararmi!” comunicò infine, abbandonando la cucina. Jeffrey si alzò a sua volta.

“Vado anch’io. Devo ancora sistemare la valigia.” spiegò, seguendo la sorella. “…e comunque state tranquilli.” aggiunse poi, indirizzando alla madre un sorrisetto divertito.  “Farò la persona seria e controllerò Ricki: non vogliamo mica che diventi come l’ubriacone del futuro….” scherzò, prima di raggiungere le scale, il libro di scuola sotto il braccio.

Anche Elena sorrise.

“Eh, le cose che si fanno per un migliore amico…” commentò Matt, quando ci furono solo più loro due in cucina. La moglie annuì, estendendo il suo sorriso. “È bello avere dei legami così forti,da ragazzi.” aggiunse l’uomo.

“Lo sai? Un tempo anche io, avevo un migliore amico.” annunciò a quel punto Elena, rivolgendogli un’occhiata maliziosa. Matt si finse incuriosito.

“Ah sì? E che tipo era?” domandò, prendendo posto sulla sedia che il figlio aveva lasciato vuota.

Beh…” Elena fece mente locale, sedendosi a sua volta. “Somigliava a te. Forse anche un po’ a Jeffrey.” aggiunse sorridendogli con dolcezza.

“E adesso?” chiese ancora il marito, rivolgendole un’occhiata divertita. “Siete ancora migliori amici?”

Elena gli sorrise con aria furba.

“Non saprei.” osservò. “Sei ancora il mio migliore amico, Matt?”

L’uomo sorrise a sua volta, rivolgendole un’occhiata divertita.

Uhm…” finse di fare mente locale, passandosi una mano sotto il mento. Elena afferrò alla svelta l’asciuga piatti dal tavolo e colpì il marito sul braccio.

“Non ci provare nemmeno a pensarci su!” lo ammonì. Il marito la attirò a sé per baciarla, ignorando la sua espressione offesa.

Ma certo che lo sono ancora.” commentò infine sorridendole, prima di lasciarla andare. “Resto pur sempre quel tizio che somigliava un po’ a me, un po’ a Jeff, no? Quello che conosci fin da quando eri bambina.

“Bene...”  commentò la donna , alzandosi dalla sedia. “Allora, da bravo migliore amico… mi aiuti a dare una sistemata in cucina?” domandò recuperando la scopa, e passandola al marito. “Ho ancora parecchi compiti da correggere e diverse cose da fare, quindi non mi dispiacerebbe per niente una mano.”

Matt sgranò gli occhi con aria incredula.

 “Ma senti un po’ questa…” commentò mentre, ridendo, la moglie recuperava la bacinella dal tavolo.  La osservò allontanarsi, scuotendo il capo con un accenno di sorriso, “…eccola, dov’era la fregatura.” obiettò infine, lasciandosi poi sfuggire un sospiro.

 

***

Lo sceriffo Fell scoccò un’occhiata allo specchietto retrovisore dell’auto e annuì fra sé e sé; con la coda dell’occhio, individuò il giovane Richard allontanarsi dalla tenuta dei Lockwood in compagnia del figlio dei Donovan. Attese ancora mezz'ora, con pazienza, facendo roteare di tanto in tanto il mazzo di chiavi che teneva in mano. Una di quelle, avrebbe aperto la porta sul retro della villa dei Lockwood. Non aveva idea di come Leanne fosse riuscita ad ottenerla, ma se non altro, non più era la sola ad avere dei segreti: né lei, né Lester sapevano che quella sera, Fell avrebbe cercato di recuperare il congegno.

Entrambi avevano sostenuto che sarebbe stato meglio attendere, sfruttando una delle tante feste della cittadina che si tenevano nella tenuta dei Lockwood, in maniera da poter girovagare indisturbati per le varie stanze.

Fell, però, non era certo conosciuto per la sua pazienza, all’interno del Consiglio. Sapeva mantenere la calma per ore in determinate situazioni, ma in altre preferiva rischiare, pur di agire in fretta. Se c’era un modo rapido per ottenere certe informazioni, quello sarebbe stato il sistema che avrebbe scelto. Aveva trascorso gli ultimi giorni cercando di carpire più informazioni possibili sul congegno, grazie all’aiuto di Lester. Adesso sapeva che l’oggetto aveva una chiave di innescamento, che il suo effetto non si sarebbe protratto per più di una manciata di minuti al massimo e che non c’era la certezza che  avrebbe funzionato una seconda volta. Stando a ciò che aveva annotato Jonathan Gilbert sul suo diario, il congegno si poteva utilizzare una volta sola, ma Lester era scettico a riguardo. E Fell con lui: perché costruire un’arma così complessa, se può venire utilizzata solo per compiere un unico tentativo?

Quaranta minuti dopo il suo arrivo nel viale dei Lockwood, Fell stava ancora aspettando. Sapeva che quella sera i due coniugi Lockwood non sarebbero stati in casa per via di una cena di lavoro del marito. I figli, invece, avevano organizzato una festa di arrivederci per il maggiore dei tre ragazzi. La casa sarebbe dunque stata vuota per tutta la sera. Lo sceriffo tamburellò le dita della mano libera sul cruscotto della macchina, quando individuò anche il più piccolo dei fratelli Lockwood, Mason, abbandonare la tenuta in compagnia dei due genitori: ancora una manciata di minuti, e avrebbe avuto campo libero.

***

Julian infilò alla svelta la camicia da lavoro nello zaino e lo gettò sul letto. Si chinò, per recuperare dal cassetto del comodino un quaderno e lo aprì, sistemandosi sul pavimento. Passò in rassegna con lo sguardo passaggi di appunti trascritti nella sua calligrafia disordinata, ma non trovò quello che stava cercando. Sfogliò ancora un paio di pagine, prima di sbuffare, richiudendo il quaderno con uno scatto secco: prima di trasferirsi a Richmond aveva cercato di recuperare il maggior numero di formule possibili dal grimorio di sua madre, ricopiandole tra quelle pagine. Quella che stava cercando, tuttavia, non si trovava fra gli appunti. Ricordava di aver letto in passato qualcosa a proposito del riconoscimento fra streghe e stregoni. Da qualche parte, nel grimorio, doveva esserci un incantesimo che avrebbe potuto suggerirgli qualcosa di più a proposito di Ringle; evidentemente, alla sua partenza, non gli era sembrato sufficientemente utile da doverne prendere nota, e l’aveva scartato. L’idea che il professore potesse essere uno stregone come lui, era diventata il suo ultimo chiodo fisso. Pensare che nella sua scuola potesse esserci qualcun altro come lui lo incuriosiva e agitava al tempo stesso. Il modo in cui Ringle l’aveva osservato dopo l’incidente dell’allarme anti-incendio non gli era piaciuto per niente, eppure era attratto dal pensiero che qualcun altro potesse essere diverso; diverso come lui. Qualcun altro al di fuori di sua madre, ovviamente.

Sospirando, Julian ripose il quaderno al suo posto e si lasciò cadere sul letto, sfruttando i dieci minuti scarsi che precedevano l’inizio del suo turno di lavoro. Pensò di nuovo a sua sorella, e alla conversazione avuta con Vicki il giorno precedente. Era ancora stranito al pensiero che Autumn potesse essere una strega: in tutti quegli anni, si era sempre dimostrata scettica e razionale, rifiutandosi categoricamente di abbracciare tutto ciò che si potesse catalogare come insolito o inspiegabile. Julian invece no; per anni, non aveva fatto altro che cercare di osservare il mondo al contrario, sperando di trovarci dentro qualcosa che lo rendesse diverso ai suoi occhi: diverso come lui.

Il ragazzo chiuse gli occhi pigramente, per poi riaprirli un minuto dopo, al ronzio insistente della sveglia. Lo attendeva un turno di sei ore al pub e successivamente la conferenza skype con Autumn e Vicki; a Julian piaceva cogliere l’aspetto insolito delle cose e se anche Ringle ne possedeva uno, come aveva supposto, allora l’avrebbe scovato. Sua sorella Autumn, forse, sarebbe stata in grado di aiutarlo.

***

And we could laugh as we both pretend that we're not in love and that we're just good friends.

Don’t ever let it end. Nickelback

“Lascia andare quelle spazzola, non fare fesserie!”

Caroline strillò all’amico, pattinando verso la cucina. Xander la ignorò.

“No, secondo me possiamo usarla come puck. Proviamoci!” propose adagiandola a terra e smuovendola delicatamente con il manico della mazza da hockey. Caroline glielo sfilò di mano.

“Ma proprio con la mia spazzola? Usa la roba tua, lascia stare la mia!” lo intimò raccogliendo l’oggetto ed allontanandolo dalla sua portata. Il ragazzo cercò di riappropriarsene.

Senti, sei tu quella che ha dimenticato il puck a casa. E quindi usiamo la tua spazzola.” obiettò, afferrandola per i fianchi e attirandola a sé; Caroline sostenne l’oggetto conteso verso l’alto, allontanandolo dalla sua presa.

“Uh, uh, io sono più grande, si fa quello che dico io.” obiettò, incespicando con i pattini, nel tentativo di arretrare. Xander la sorresse, ridacchiando.

“Sai che roba, ci passiamo tre giorni. E comunque io sono più alto, quindi decido io. Dammi questa spazzola, bionda.” ordinò, trattenendola per i polsi. Approfittò della vicinanza a Caroline per incominciare punzecchiarle i fianchi con le dita.  La ragazza si dimenò tra le sue braccia.

“No, il solletico no, non è leale!” si lamentò la ragazza, fra le risa. “Oh, e va bene mi arrendo!”  esclamò infine buttando a terra la spazzola. “Prenditela pure!”

 “Uomo in mare!” annunciò a quel punto Xander lasciando andare la ragazza e indicando l’oggetto sul pavimento. “Niente paura, lo salvo io!”

Caroline rise, mentre l’amico si fiondava a terra per recuperare la spazzola.

“Tu non stai bene!” dichiarò schiettamente, inginocchiandosi sul pavimento di fianco  a lui. “Pazzoide!” aggiunse, mentre il ragazzo le sventolava la spazzola sotto il naso.

“Ho vinto io!” dichiarò il giovane, con aria orgogliosa. “Uno a zero per Xander il pazzoide, palla in centro. Va beh, spazzola in centro.”

“Ma lo sai che sei proprio cretino?” commentò la ragazza, dandogli una spinta per fargli perdere l’equilibrio. Xander, che era accovacciato a terra, cadde di sedere sul pavimento.

“Ahi! Bionda malefica!” si lamentò lui mettendole il broncio, mentre Caroline rideva di gusto. “Ma guarda che non è poi così male, essere scemi.” aggiunse poi, intrecciando le dita dietro la nuca e distendendosi sul pavimento. “Se serve a vincere le dispute contro le nanette antipatiche come te…

Caroline sgranò gli occhi.

“Cos’è, adesso adotti la filosofia di tua cugina?” chiese, stendendosi di fianco a lui. L’amico diede una scrollata di spalle.

“Vic non ha tutti i torti.” commentò mollando un calcetto a uno dei pattini di Caroline. La ragazza ricambiò con un sorriso. “Ogni tanto a tutti capita di fare cose stupide, quindi perché triturarsi il cervello e cercare di nasconderlo?”

Caroline gli rivolse un’occhiata impensierita e non disse nulla. Avvertì le parole del ragazzo ronzarle per la testa in maniera fastidiosa, come se per un attimo si fosse sentita presa in causa. Senza riuscire a comprenderne il motivo, Caroline si sentì a disagio per la seconda volta in pochi giorni, sfiorando con tenerezza la guancia del suo migliore amico.

“Già.” commentò scrutandolo con aria pensierosa. “Perché nasconderlo?”

Xander aggrottò le sopracciglia e si sollevò sui gomiti.

“Uh, ok…” commentò, tirandole una ciocca di capelli con delicatezza. “…la bionda ha qualcosa che non va.”

Caroline sbuffò, mettendosi a sedere.

“Che cosa c’è?” domandò ancora il ragazzo, diminuendo l’aria scherzosa nel suo sguardo. La ragazza sbuffò di nuovo.

“Oh, ma niente!” sbottò poi, allungandosi per recuperare la spazzola ai suoi piedi. In fondo, nemmeno lei aveva ben chiaro a cosa fossero dovuti quei buffi cambiamenti di atteggiamento. Xander fece una smorfia. Calciò pigramente la spazzola dall’altra parte della stanza, allontanandola così dalla presa della giovane. Caroline gli diede all’istante uno scappellotto sul braccio.

Ma smettila!” la rimbeccò in quel momento il ragazzo alzandosi a sedere a sua volta.  “‘Niente’ per voi donne, significa ‘tutto’.”

Caroline incrociò le braccia sul petto con aria cocciuta.

Ma io non sono come le altre donne, no?” obiettò, annuendo decisa. “Sono la tua migliore amica.”

Xander analizzò le sue parole con aria poco convinta.

“Sì, beh, sei una donnina speciale, ma resti pur sempre una donnina.” commentò, improvvisando un’aria solenne. “E le femmine sono difficili da capire. Io invece sono comprensibilissimo!” annunciò, allargando le braccia con fare canzonatorio. Caroline roteò gli occhi.

“Come no.” borbottò ironicamente, mettendosi poi a gattonare fino a raggiungere la spazzola. Xander si accigliò.

Ma è vero!” esclamò a quel punto, passandosi una mano sullo stomaco. “Vedi, se faccio così, è perché voglio essere nutrito!” spiegò, sorridendo con aria furbetta. “I biscotti sarebbero l’ideale, ma in linea di massima accetto più o meno qualsiasi cosa.”

“Sei un animale, praticamente.” commentò la ragazza. Xander ridacchiò.

“Se la vuoi vedere in quest’ottica. Se faccio così, però…” aggiunse incominciando a percuotere i palmi delle mani sul pavimento. “È perché c’è bisogno di fare un po’ di baccano.”

“E facciamo baccano, allora!” esclamò a quel punto la ragazza, lanciandogli la spazzola addosso. Lo mancò di qualche manciata di centimetri, e il ragazzo ne approfittò per sfoggiare un sorrisetto di trionfo.

“Ah ah, mancato! Sei proprio una donnetta…” commentò, recuperando l’oggetto e passandoselo da una mano all’altra. Caroline gli scoccò un’occhiata minacciosa.

“Te la faccio vedere io, la donnetta…” commentò dandosi la spinta con il muro, per poi lanciarsi in direzione del ragazzo. Xander la indicò con la spazzola.

“Stai ferma, lì, sai? Stai ferma, stai fe… Caroline, ci schiantiamo!

Lo scontro fece perdere a entrambi l’equilibrio e i due amici si trovarono nuovamente a terra, abbacchiati e doloranti.

Ma sei fuori?” esclamò subito Alexander massaggiandosi la schiena. Spinse via i pattini della ragazza che nella caduta erano riusciti ad incastrarsi con i suoi, e scosse il capo con aria incredula. “E poi sarei io il pazzoide fra i due?” domandò.

 Caroline non rispose; aveva incominciato a ridere prima ancora di andargli addosso, e non accennava a voler smettere.

Ma che combini?” la rimbeccò il ragazzo, pur non riuscendo a trattenere un sorrisetto. Caroline si alzò sui gomiti e continuò a ridere, finendo per contagiare anche l’amico. “Sei pazza!” commentò infine il ragazzo, dandole un colpetto sulla fronte con la mano. Caroline bloccò quel gesto, intrecciando le dita del ragazzo con le sue, e gli sorrise.

“Sei pazza, e scorbutica. E sei una rompipalle…aggiunse ancora il ragazzo, approfittando delle dita intrecciate per attirarla a sé.

Uhm….” Caroline estese il suo sorriso, avvertendo la lontananza tra i due corpi dimezzarsi. Con le dita della mano libera, prese ad intarsiare ghirigori immaginari sulla sua maglietta.

“Dai! Mi fai il solletico!” si lamentò immediatamente il ragazzo, afferrandole anche l’altra mano. “Sta’ buona.” aggiunse, ridacchiando.

Sono pazza, scorbutica, rompipalle e poi?” domandò a quel punto Caroline, rivolgendogli un’occhiata maliziosa. Xander slacciò le mani da quelle dell’amica e intrecciò le dita dietro la nuca. Diede una scrollata di spalle.

“E poi niente, sei così e basta.” commentò tranquillamente, facendo sbatacchiare i suoi due pattini l’uno contro l’altro. “Antipatica.” aggiunse poi in tono di voce infantile, rivolgendole un’occhiata divertita. Caroline lo fulminò con lo sguardo; l’espressione offesa, tuttavia, lasciò subito posto a un cipiglio di sfida.

“E va bene, ma poi non dire che non te la sei cercata, Xander bello.” annunciò con aria seria, allungandosi su di lui. Lo osservò a lungo, accennando a un sorrisetto, quando si accorse che stava arrossendo, prima di affondargli una mano fra i capelli, per tirare con forza.

“Ahi!” si lamentò il ragazzo afferrandola per i polsi, cercando di scrollarsela di dosso. “Fermati, fermati subito, guarda che fai male!”

“Pazza, scorbutica, rompipalle e…?” insistette lei, estendendo il suo sorriso, la mano ancora a stringere un ciuffo di capelli del ragazzo. Xander sbuffò, cercando di sfuggire alla sua presa.

…e nanetta!” aggiunse ridacchiando, quando sentì che la presa della ragazza sulla sua cresta si allentava. Caroline avvicinò ulteriormente il volto a quello del ragazzo, sorridendogli con aria maliziosa.

“Non basta.” obiettò, tornando a passargli una mano fra i capelli. Xander non trovò nemmeno il tempo di preoccuparsi per il fatto che probabilmente glieli avrebbe tirati una seconda volta; era troppo impegnato a cercare di comprendere che cosa stesse succedendo in quel momento o, ancora meglio, che cosa ci facesse il naso della sua migliore amica a un soffio di distanza dal suo. Era troppo impegnato a cercare di spiegarsi come avesse fatto a non notare prima la mano di lei appoggiata sul suo petto, e la sensazione di disagio che stava provando. Una sensazione che non aveva mai avvertito prima di quel momento, quando lei lo toccava. Quando lo cercava, si stringeva a lui. Ma quella mano appoggiata sul suo petto lo sfiorava in modo diverso quel pomeriggio. E il luccichio insolito che aveva individuato nello sguardo della sua migliore amica era qualcosa di estraneo, per lui. Proprio come quel rossore che aveva fatto capolino sulle sue guance e la sensazione di confusione che dettava legge nella sua testa, impedendogli di pensare lucidamente. Impedendogli di muoversi. E anche per questo rimase immobile, quando il filo di distanza fra i due volti, si eliminò improvvisamente.

I dubbi che nell’ultimo periodo avevano preso a punzecchiare Caroline di continuo si frantumarono all’istante, nel momento in cui le sue labbra incontrarono quelle del ragazzo. I malumori improvvisi, le incertezze, il disagio, sfumarono in fretta, lasciando posto a una vaga sensazione di appagamento, alimentata da punte di trionfo. Solo in quel momento, si accorse di quanto a lungo l’avesse stuzzicata il desiderio di un contatto simile. In quel momento, capì che le sue mani da tempo tentavano di raggiungere lui più a fondo, accarezzandolo nel modo in cui stava facendo in quel momento. Senza imbarazzo, senza pentirsene. Ma non aveva mai osato esporsi troppo; perché era sbagliato, in fondo. Perché Xander era un amico, il migliore amico. Poteva dormirgli accanto tutte le volte che voleva, ma non poteva infilare una mano fra i suoi capelli senza pretendere di volerlo fare solo per infastidirlo. Poteva prenderlo a scappellotti, ma non gli era consentito sfiorarlo con quella delicatezza particolare che forse, in fondo, aveva sempre desiderato concedergli. Potevano ridere e parlare per ore, eppure a volte lei avrebbe solo voluto osservarlo a lungo e sorridergli, senza dover avere per forza un pretesto che la portasse a reagire così.

Xander era il suo migliore amico; la persona che aveva sempre avuto accanto: sempre e solo accanto. Ma in quel momento, riconoscendo con un brivido le proprie dita insinuarsi sotto la maglietta del ragazzo, intuì che forse quel tipo di legame non era più abbastanza per lei.

Caroline faticò a far sbiadire quel momento, avvertendo l’imbarazzo tornare a fare capolino, quando lei e Xander si separarono. Il ragazzo arrossì violentemente, distogliendo lo sguardo da quello dall’amica, in parte ancorai appoggiata su di lui.

…scusa, e adesso, perché mi hai baciato?” domandò infine, mentre Caroline si tirava indietro a sedere, rossa in viso. Il suo sguardo si sperse per qualche istante, come disorientato, ma quasi subito tornò su Xander. Gli rivolse un’occhiata decisa.

“Io?”  esclamò a quel punto, infilandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Fu tuttavia costretta a distogliere nuovamente lo sguardo, quando incrociò quello del ragazzo, sentendosi avvampare una seconda volta. “L’abbiamo fatto assieme, non incominciare a dare la colpa a me.” concluse.

Xander scosse il capo con aria decisa.

“No, senti, io non ho fatto niente, ero immobile… sei tu che ti sei allungata per baciarmi, io non ho fatto…

“Oh, sul serio?” sbottò a quel punto Caroline, alterando il tono di voce. “Adesso dobbiamo metterci addirittura a discutere su chi ha baciato chi? Ma che diavolo c’è che non va in te?”

Xander aprì la bocca per ribattere, ma non ne uscì fuori alcun suono. Scosse il capo con aria incredula e infine si convinse a scoccare un’occhiata rapida in direzione della ragazza, che però stava guardando altrove.

Caroline era livida di rabbia; di rado a lui era capitato di vederla così agitata per qualcosa, specialmente se quel qualcosa aveva a che fare con lui. D’istinto avvertì l’impulso di abbracciarla, ma si sentiva ancora piuttosto impacciato nei confronti di ciò che era appena successo fra di loro. Quel bacio era stato troppo ingombrante, per permettergli di raggiungerla. Pensò che probabilmente, la rabbia di Caroline, dipendesse da quello. Forse si sentiva in imbarazzo. Forse aveva semplicemente paura.

“Senti, facciamo così…” propose a quel punto, sforzandosi di apparire tranquillo. “In fondo, non è successo nulla di così… grave, insomma, possiamo lasciarcelo alle spalle tranquillamente.” proseguì, convincendosi finalmente ad andare da lei, infilandosi le mani in tasca. “Ce ne dimentichiamo e non ne parliamo più. Va bene, così?” propose, allungando una mano per afferrare quella della ragazza

Caroline gli rivolse un’occhiata furiosa, prima di interrompere bruscamente quel contatto. Gli stava proponendo di seppellire tutto, di ignorare il problema invece che affrontarlo, come avrebbe fatto un bambino.

“No, Xander!” esclamò infine, sostenendo il suo sguardo con aria furente. Xander le rivolse un’occhiata confusa, incupito dall’atteggiamento brusco dell’amica. “Non va bene così.” concluse la ragazza in tono di voce ancora alto, prima di pattinare fuori dalla cucina.

“Caroline…”

Xander cercò di starle dietro, ma per quella volta la ragazza fu più veloce. Entrò nella camera dei ragazzi e si chiuse la porta alle spalle. Alexander la raggiunse appena in tempo per sentire girare la chiave nella toppa.

“Eh, va beh, esagerata.” commentò con una smorfia, prima di lasciarsi cadere lentamente ai piedi della porta, distendendo le gambe di fronte a lui. “Guarda che non ti mangio mica, eh!”

“Vai via e non rompere!” fu il commento spiccio di Caroline.

Il ragazzo sbuffò, facendo ciondolare il capo più volte, prima di riavviarsi il crestino con le mani. Per un istante lo colse un brivido, nel rievocare il tocco della mano di Caroline fra i suoi capelli e si sorprese ad arrossire.

“Io l’ho detto e lo ripeto: voi donne siete tutte impossibili da capire.” commentò infine, lasciando ricadere il capo all’indietro e appoggiano la nuca contro la porta. “Senti, come al solito non so cosa ho fatto, né perché tu ce l’abbia con me, però ti chiedo scusa lo stesso. Adesso mi apri?”

Attese ancora un paio di minuti, prima di incominciare a perdere la pazienza.

“Caroline, apri questa porta, dai!” esclamò prendendo a battere le nocche contro il legno. “Per favore! Guarda che la merenda ce l’ho lì, lo sai che dopo qualche ora io ho bisogno del mio spuntino o ci sto male!” aggiunse, sperando di riuscire almeno a strapparle un sorriso: in occasioni normali, ci sarebbe riuscito. Ma quel pomeriggio al lago si stava dimostrando tutto, fuorché ordinario.

“E va bene.” borbottò infine, alzandosi in piedi di malavoglia. “Me ne vado di là, quando ti è passata, sei la benvenuta.”

Raggiunse in fretta la camera dei suoi genitori e si lasciò cadere sul letto. Si sentiva stravolto; confuso e stravolto. In meno di mezz’ora, la sua migliore amica gli aveva tirato i capelli, l’aveva baciato e poi gli aveva urlato qualcosa contro per poi sbattergli la porta in faccia e non rivolgergli più la parola.

Non sapeva cosa pensare; non voleva pensare. Perché se solo per un istante cedeva a quel bisogno, tutto ciò che riusciva ad evocare era il tocco della mano di Caroline che si insinuava sotto la sua maglietta. Ed arrossiva. Arrossiva, perché la sensazione di disagio che aveva provato inizialmente era svanita quasi subito, lasciando posto a qualcosa di terribilmente simile all’appagamento.

Xander sbuffò, passandosi le mani sulle guance bollenti e abbandonò poi le braccia sul letto, ritirandone indietro una subito dopo: la sua mano aveva colpito qualcosa di spigoloso. Si ricordò solo in quel momento del vecchio diario trovato ormai diverse ore prima nell’insolito sgabuzzino di quella stanza.

“Va beh.” mormorò infine a mezza voce, attirando pigramente il volumetto a sé ed aprendolo alla prima pagina. “Tanto non è che ci sia poi molto di più da fare…

 E, sforzandosi di ignorare il ricordo dell’ultima ora trascorsa in compagnia della sua migliore amica, il ragazzo incominciò a leggere.

 

***

Victoria si sistemò le chiavi di casa nella borsetta e scoccò un’occhiata frettolosa al cellulare: lei e Autumn si erano date appuntamento alle otto ed erano solo le sette e mezza. Decise di prendersela con comoda, avviandosi in direzione della villa dei Lockwood, per passare dal vialetto che proseguiva sul retro della tenuta, fino alla zona in cui viveva l’amica. Era un tragitto che lei e Jeff avevano percorso spesso da bambini, entusiasti di quel modo alternativo che avevano scoperto per raggiungere le abitazioni dei propri amici. Scavalcò il muretto che affiancava la recinzione della casa e atterrò nella stradina secondaria, scostandosi poi una ciocca di capelli dalla fronte. Si accorse solo in quel momento di una figura in impermeabile che si stava allontanando barcollando in direzione del marciapiede. Riconobbe immediatamente l’anziano ubriaco su cui aveva scherzato quel pomeriggio assieme alla sua famiglia. Sperando in silenzio che l’uomo non si stesse recando a rovistare nell’ennesimo cassonetto – se non proprio a dormirci – Vicki proseguì nella direzione opposta alla sua, attraversando la stradina che costeggiava il retro di casa Lockwood. Si fermò quando ormai era prossima a lasciarsi alle spalle la tenuta, incuriosita dalla vettura che riconobbe al margine del vicolo: era la macchina dello sceriffo Forbes.

Vicki aggrottò le sopracciglia con aria perplessa, esaminando l’auto con lo sguardo.  Le parve insolito, il fatto che la macchina si trovasse in un vialetto secondario sul retro. Ancora più strano, le parve il fatto che Fell avesse parcheggiato così vicino alla tenuta dei Lockwood. Di certo, non era lì per una visita, poiché tutti i membri della famiglia si trovavano fuori casa, quella sera: i ragazzi al Grill, i genitori a una cena di lavoro del padre. La diffidenza fece strada a un barlume di sospetto, quando Vicki ripensò allo scambio di battute avuto con Ricki, il giorno che il ragazzo era tornato a Mystic Falls. Ricordò la sua apprensione nei confronti dello stesso Fell e il fatto che le avesse chiesto se l’uomo si fosse fatto vivo spesso da quelle parti nell’ultimo periodo.

Vicki prese a mordicchiarsi un labbro con aria pensierosa. Fece mente locale ancora per qualche minuto, ma non riuscì a ipotizzare nulla che potesse suggerirle che cosa stesse succedendo tra i Lockwood e lo sceriffo. Istintivamente pensò a Mase e al suo atteggiamento un po’ attaccabrighe che stava tenendo nell’ultimo periodo. Che avesse combinato qualcosa di davvero grosso? Circostanze simili avrebbero dato un senso all’apprensione di Ricki nei confronti dello sceriffo. Sospirando, Vicki controllò nuovamente l’ora: aveva ancora una ventina di minuti a sua disposizione, prima dell’appuntamento con Autumn. La curiosità e il sospetto la convinsero a sbirciare oltre la recinzione, dentro il giardino dei Lockwood, ma non le parve di notare nulla di strano. Infine, incrociò le braccia al petto e si appoggiò al muro, soffiando per sfilarsi via un ciuffo di capelli dagli occhi.

Vicki era sempre stata dell’idea che il suo nome, Victoria, riassumesse alla perfezione ciò che avrebbe dovuto ottenere ogni volta che si metteva in testa una cosa. La questione fra Fell e i Lockwood non era un’eccezione. A costo di dover attendere per tutto il tempo che aveva ancora a sua disposizione, avrebbe scoperto che cosa stava succedendo.

Angolo annunci.

Gnaaa per un soffio ve lo stavate evitando, poi ieri mi è venuta la brillante idea di pubblicare una robetta e ancora non sapevo che oggi avrei pubblicato il capitolo. Elenco sempre gli spin off extra pure qui oltre che in pagina, perché non so mai se arrivino ai lettori silenziosi, quindi per  sicurezza li segnalo di qua e di là XD

Allora, annuncio namber uan: ho pubblicato una piccolissim(issim)a flash fiction senza pretese su Vicki e Ricki (:D) e la potete trovare QUI.

Annuncio namber ciu: QUI trovate la playlist di History Repeating con tutte le canzoncine che ci sono già state e quelle che probabilmente ci saranno ^^

 

Polpettone time!! :D

No,dai, questa volta sarò breve, visto che questa è solo la prima metà capitolo. La maggior parte delle cose che devo dire comparirà nella parte number two, quindi in sostanza questo primo pezzo risulta ancor più di transizione che il precedente, ad eccezione di una cosa, *drum roll*, il fatidico bacetto di quei due zoticoni di X. e C. Di norma non mi piace affrettare i tempi della storia, e anche se adesso si sono baciati, ne avranno ancora di stradina da fare, prima di stare vicini vicini come nei video di paperissima u__ù Questo perché Xander è un adorabile cretino per via di una lunga serie di fattori che non sto elencarvi, ma comunque ovviamente tra i due non è finita qui. Nel prossimo capitolo li troveremo ancora. La canzone che ho citato prima del loro pezzo è davvero stupenda ed è azzeccatissima per loro due <3 La riutilizzerò quasi di sicuro. Che altro aggiungere? La piccola scena Matt/Elena voleva essere un velato parallelismo allo Xander/Caroline, visto che entrambi sono stati migliori amici in passato, e via dicendo. Vicki è fuori di melone come suo solito, sono davvero contenta che a molti di voi piaccia, ci vuole un po’ di stupidità ogni tanto (va beh, qui ce n’è un po’ troppa, lo so, ma passatemelo, suvvia!), ma nell’ultimo paragrafo mi pare che si sia munita di tuta da supereroina, quindi vedremo un po’ cosa succederà. Nella seconda parte ci sposteremo alla festa di arrivederci di Jeff e Ricki, ritroveremo il fessacchiotto (Mase), la scetticona (Autumn), il caro Casper (Oliver) e ovviamente non può mancare Caroline Forbes! Dai, per una volta chiudo qui. Spero tanto che questa prima parte di capitolo vi piaccia, e spero che il momentuccio Xanderine sia reso abbastanza bene, non sono molto brava in questo genere di cose ç__ç Se non vi piace prendetevela con la mia bella beta :D *spuccia la Mary*

Come al solito per domande,curiosità, informazioni sui pargoli, e via dicendo, ci trovate QUI. (sì, ormai parlo al plurale, perché quei nove sono sempre un po’ ovunque a rompere le scatole)

Un abbraccione grande grande a tutti!

Laura

P.S. Sia mai che non mi dimentichi qualcosa! Visto che Elena io ce la vedo solo a fare l’insegnante, l’ho fatta diventare maestra elementare per differenziarmi un po’ dal futureverse di Fiery a cui mi sono ispirata in cui Elena è insegnante di lettere al liceo!

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Capitolo 9
*** 7. The turning point (part. 2) ***


Chapter 7.

The Turning Point.

(part 2.)

 

 

La Terra è grande, talmente grande che ti illudi di poter sfuggire a tutto.

 Al destino, a Dio. Basta trovare un buon nascondiglio e inizi a correre verso i confini del mondo, dove siamo nuovamente al sicuro, al caldo e in silenzio.

 Il conforto dell'aria salmastra, il pericolo dietro le spalle, il privilegio del lutto e, forse, per un momento, pensi di essere riuscito a fuggire.

da Heroes, episodio 1x08.

 

“Come vai a casa?”

Chiese Oliver, occupando lo sgabello libero di fianco a Mason. Il Grill, quella sera, sembrava particolarmente affollato, probabilmente per la presenza degli invitati alla festa, oltre ai soliti clienti  abituali. Mason appoggiò il bicchiere sul bancone e si rivolse all’amico.

“Viene a prendermi mio padre.” spiegò, accennando poi a un sorrisetto. “Ha promesso che mi lascia guidare un po’. Sarebbe la prima volta dopo settimane, visto che quando non sono a scuola ha praticamente sempre da fare. Vuoi un passaggio?” aggiunse poi.

Oliver non rispose; aggrottò pensieroso le sopracciglia, focalizzando la sua attenzione verso qualcosa alle spalle dell’amico. Anna lo osservava con aria di rimprovero, poco distante dai tavoli da biliardo.  Mason rivolse all’amico un’occhiata perplessa.

“Che stai guardando?” domandò, voltandosi a sua volta. In quel momento la ragazza scosse il capo nella sua direzione e Oliver si decise finalmente a distogliere lo sguardo da lei.

“Grazie per il passaggio, ma credo che mi farò una passeggiata.” rispose infine all’amico, scivolando giù dallo sgabello. “Scusa un attimo, torno subito.” aggiunse, staccandosi dal bancone.

Mason aggrottò le sopracciglia un po’ interdetto, osservandolo allontanarsi. I suoi lineamenti, tuttavia, tornarono a rilassarsi quasi subito: era abituato alle stranezze di Oliver.  Fece fare il giro allo sgabello, voltandosi per darsi un’occhiata attorno. Riconobbe un paio di compagni di scuola ai tavoli da bigliardo e fece un cenno nella loro direzione. Sorrise, quando si accorse che dall’altro lato del salone Ricki aveva preso a indicargli una ragazza piuttosto carina che aveva appena fatto ingresso nel locale. Scosse  poi il capo con aria divertita, appoggiando il gomito al bancone. Quel sorriso svanì immediatamente, quando il ragazzo notò la persona che gli stava venendo incontro.

“Tu, stai alla larga da me.” borbottò recuperando all’istante il solito cipiglio scontroso. Autumn roteò gli occhi, spostando poi lo sguardo oltre il bancone. “Non puoi immaginare in che casino mi sia cacciato per colpa di quella cazzo di lattina.” continuò Mase.

“Fidati, potrei dire la stessa cosa.” si limitò a ribattere la ragazza, rivolgendogli poi un’occhiata di traverso. “Cercavo Vicki, l’hai vista?” aggiunse poi.

Mase diede una scrollata di spalle, riprendendo a guardarsi intorno.

“Per quanto ne so io, lei non viene sta sera.” obiettò, prima di aggrottare le sopracciglia, notando la ragazza che stava chiacchierando in quel momento con Ricki.

“Infatti non avrebbe dovuto  esserci, ma da me non è passata e come al solito avrà il cellulare scarico, perché non riesco a chiamarla. Pensavo che avesse cambiato idea e che avrei potuto trovarla qui…” proseguì la ragazza, tamburellando con nervosismo le dita sul bancone. Mason fece una smorfia, continuando a osservare la giovane che stava parlando con suo fratello: era di nuovo quella bionda, la conoscente dei suoi genitori.

“Fatti tuoi.” buttò lì, tornando ad appoggiare il gomito al bancone. Autumn lo guardò storto, ma la sua espressione cambiò, quando riconobbe la persona che aveva attirato l’attenzione del ragazzo.

“La conosci, quella?” domandò a quel punto, aggrottando appena le sopracciglia. Mase diede nuovamente una scrollata di spalle.

“Forse.” rispose, rivolgendole un’occhiata pensierosa. “E tu?”

Autumn analizzò la figura di Caroline con diffidenza e scosse il capo.

“Penso sia figlia di amici di famiglia.” spiegò, tirando poi fuori il cellulare per tentare di chiamare nuovamente Vicki. “Tu cosa sai?” aggiunse mentre componeva il numero: non era ancora riuscita a dimenticare la sensazione di inquietudine provocata dalla stretta di mano fra lei e la ragazza.

Mason sbuffò, recuperando il suo bicchiere dal bancone.

“’Figlia di amici di famiglia….” ripeté, distogliendo lo sguardo da Caroline e scoccando un’occhiata torva ad Autumn. “…è la stessa spiegazione che hanno rifilato i miei anche a me.”

“Beh, allora sarà vero.” sbottò in quel momento la ragazza, sbuffando, quando il cellulare di Vicki suonò a vuoto per l’ennesima volta. Mase aggrottò le sopracciglia.

“Non mi convince.” commentò con aria pensierosa, prima di tornare a girare lo sgabello verso il bancone.

“Vicki comunque non c’è.” concluse, tornando a rivolgersi alla ragazza. “Quindi puoi anche andartene.”

Autumn roteò gli occhi, cacciandosi malamente il cellulare in tasca.

“Con molto piacere.” ribatté piccata, prima di allontanarsi verso l’uscita.

Mase ghignò con aria soddisfatta, tornando poi a cercare suo fratello con lo sguardo; quando lo trovò, tuttavia, Ricki non stava già più parlando con Caroline. Scorse la ragazza poco distante, intenta a chiacchierare con qualcuno al cellulare. Per qualche strano motivo, quella ragazza non lo convinceva: tutto ciò che gli era stato raccontato su di lei sembrava plausibile, ma gli sguardi che i suoi genitori si erano scambiati mentre gli spiegavano la situazione dei Forbes e la reazione di suo padre il giorno della partita, continuavano a insospettirlo. Eppure, osservandola, non riusciva a trovare nulla di particolarmente insolito nel suo aspetto; sembrava una ragazza qualunque, dall’aria un po’ svampita, e un modo di sorridere ed esprimersi che tutto sommato, gli sembrava sincero. E familiare, in fondo, per quanto quest’ultimo dettaglio, lo facesse sentire ancora più dubbioso.

Finì ben presto per accantonare quei pensieri, distratto dal cipiglio malizioso di una ragazza che aveva appena preso posto accanto a lui; le rivolse un sorrisetto interessato, ma da un lato riuscì a fare a meno di domandarsi che fine potesse aver fatto quello schizzato del suo migliore amico.

***

 

Oliver raggiunse con andatura rilassata il bagno dei ragazzi. Notando due coetanei che chiacchieravano tra loro di fronte ai rubinetti, finse di doversi lavare le mani, fischiettando la melodia che stavano trasmettendo gli altoparlanti del Grill. Quando poi i due giovani se ne furono andati, allungò le braccia verso il getto caldo dell’asciuga mani, sorridendo, nel riconoscere attraverso lo specchio, la figura di Annabelle alle sue spalle.

“Stavo cercando di suggerirti di non pensarmi.” mormorò a quel punto la ragazza, mentre Oliver prendeva ad arrotolarsi le maniche della camicia.  “Perché sono di nuovo qui?”

“Pensavo che per riuscire a vederti, dovessimo ‘spingere’ o ‘tirare’ da entrambe le parti.” ammise pacatamente Oliver, appoggiandosi al lavandino.  “Ho delle domande.” aggiunse poi lentamente, sorridendo alla ragazza.

“Vorrei sapere da cosa stavi cercando di mettermi in guardia l’altra sera.” concluse.

Aveva un’aria serena, ma nel suo sguardo Anna riconobbe un barlume di decisione che contrastava i lineamenti gentili del suo volto. La ragazza sospirò.

“Non posso dirtelo con esattezza.” spiegò infine, avvicinandosi a Oliver . “Ma ho visto qualcosa.”

Oliver aggrottò le sopracciglia, voltandosi, per poter ricambiare il suo sguardo.

“Qualcosa?” ripeté, confuso.

La ragazza annuì.

“Noi fantasmi non vediamo nella stessa maniera in cui vedete voi. Viviamo qui, vi circondiamo, ma possiamo muoverci solo secondo determinate regole.” si fermò per riprendere fiato, sorridendo allo sguardo interessato di Oliver. “Camminiamo in parallelo alle persone che conservano un ricordo sufficientemente vivido di noi. Quello che posso vedere io, è legato a quello che puoi vedere tu, perché anche tu puoi vedermi. È legato a ciò che può vedere tuo padre; ma allo stesso tempo, i miei occhi possono vedere più a fondo, e notare cose che per voi sono difficili da notare. Dei dettagli che sfuggono.”

“Che cosa hai visto, Anna?” domandò a quel punto il ragazzo, squadrandola incuriosito. La giovane esitò.

“Ce ne sono altri, in città.” ammise infine, riducendo il tono di voce a un soffio. “Altri come me. Come mia madre.”

“Altri fantasmi?” domandò lentamente Oliver. La ragazza scosse il capo.

“Dovete fare attenzione.” proseguì, osservandolo con aria seria. “Se riesco a sentirli, è perché li ho conosciuti, in passato. E se sono legati a me, è perché sono già stati qui, a Mystic Falls, prima d’ora. E hanno seguito gli stessi percorsi che sto percorrendo io; sono stati in dei posti che tu e tuo padre conoscete. E non è una buona cosa, Oliver.”

“Non riesco a capire.” Oliver scosse il capo più volte, turbato. “Chi sono queste persone e che cosa cercano?”.

Anna esitò una seconda volta.

“Vorrei poterti dire di più.” ammise, sfiorando con la mano la spalla del ragazzo; Oliver aggrottò le sopracciglia, ancora una volta sorpreso da quel tocco reale, seppur impossibile da avvertire. “Ma non so altro.”

Oliver si appoggiò le mani in grembo, lo sguardo inespressivo puntato contro la parete.

“Pensi che vogliano fare del male a mio padre?” domandò infine, tornando a rivolgersi a lei. Annabelle esitò una seconda volta, prima di rispondergli.

“Penso di sì.” ammise infine, chinando appena lo sguardo. E in quel frangente, a Oliver sembrò più umana di quanto non gli fosse mai sembrata.

 Era più che un semplice riflesso, un fantasma o un’ allucinazione.

Anna era reale; forse non sentiva il freddo e il caldo, o la fame e il dolore fisico, ma provava qualcosa ; si preoccupava, amava. E quella sera, forse, aveva anche un po’ di paura. In quel momento, Oliver pensò che gli sarebbe piaciuto tenderle la mano e provare a rassicurarla; forse, un tempo, suo padre aveva fatto lo stesso. 

“Dovrai dirmi di più.” comunicò infine. L’espressione generalmente mite del ragazzo era smorzata dalle punte di decisione tratteggiate nel suo sguardo. “O provarci almeno. Se c’è qualcuno che vuole fare del male a mio padre, devo saperlo.”

Annabelle lo osservò a lungo, prima di annuire, rivolgendogli poi un sorriso malinconico.

“Hai uno sguardo diverso, adesso.” ammise, individuando a fianco alla decisione nei suoi occhi, anche un barlume di malinconia. “Gli somigli; gli somigli tanto.”

Oliver le sorrise dolcemente, pur non spazzando via l’aria nostalgica che era andata a intrufolarsi nel suo sguardo.

“Mi hai appena ricordato una delle poche cose che riesce a mettermi tristezza ” ammise, sollevando i palmi delle mani dal lavandino. Anna lo osservò con tenerezza.

“Sapere che tuo padre in pericolo?” domandò, osservandolo allontanarsi verso la porta. Oliver si infilò le mani in tasca, prima di rivolgerle un ultimo debole sorriso.

“Saperlo infelice.” ammise, prima di chiudersi la porta del bagno alle spalle.

 

 

 

 

***

Xander voltò pagina lentamente, continuando a leggere. Nel corso degli ultimi tre quarti d’ora aveva sgranato gli occhi più volte, in parte perplesso, in parte divertito dai resoconti di Jonathan Gilbert che riempivano il diario che aveva trovato; le pagine di quel volumetto erano piene di aneddoti assurdi e senza senso. Gilbert sosteneva che a Mystic Falls, un tempo, si erano stabiliti dei vampiri, creature soprannaturali mescolate alla gente comune, intenzionate a uccidere gente e a ferire per nutrirsi.  Jonathan Gilbert scriveva di esseri spietati, bestie , che stavano mettendo in pericolo la cittadina in cui viveva, ma anche di aggeggi complicati, strumenti che avrebbero potuto annientarli. Xander non riusciva più a distogliere la sua attenzione dal diario, tentennando tra l’ipotesi che il suo antenato fosse un pazzo con manie di persecuzione o, quella ben più piacevole, che fosse un novellista nato: più i resoconti si particolareggiavano, più optò di convincersi per la seconda opzione.

Ciò che più di tutto suscitava l’interesse  di Xander, era tuttavia il fatto che le vicende narrate fossero effettivamente ambientate a Mystic Falls; il posto in cui aveva vissuto Jonathan Gilbert. Il posto in cui viveva lo stesso Xander. Si parlava delle altre famiglie fondatrici; c’erano i Lockwood, i Fell, i Forbes. Si parlava di molte ricorrenze che erano ancora in attivo nella cittadina, come la festa dei Fondatori. Se non erano i resoconti di un pazzo, ma un racconto, Jonathan doveva essersi davvero impegnato per riuscire a far coincidere i fatti di sua invenzione alla realtà di cui era protagonista.

Ormai completamente assorbito da ciò che stava leggendo, Xander voltò pagina ancora una volta; aggrottò le sopracciglia, esaminando l’ennesimo disegno bizzarro che il suo antenato aveva tratteggiato sulla carta; sgranò gli occhi quasi subito, avvicinando poi la mano destra alla pagina. Esaminò con attenzione l’anello di famiglia che portava al dito, confrontandolo con quello raffigurato nel diario; sembrava lo stesso. Il suo anello risaliva dunque al 1800?

Un rumore secco di nocche che battono sul legno lo costrinse ad abbandonare quei pensieri; sobbalzò, prima di sorridere, nel sentir bussare una seconda volta alla porta.

“Siamo chiusi!” esclamò a quel punto, continuando a sorridere sotto i baffi. Si affrettò a nascondere il diario nello zaino; provava soggezione al pensiero di mostrarlo in giro. Era sicuro che le parole di Jonathan sarebbero sembrate a tutti le farneticazioni di un pazzo; e non voleva che le persone pensassero che discendesse da qualcuno con gravi problemi di testa.

“Ti ho portato la merenda!”

Il tono di voce esitante di Caroline contribuì a estendere il sorriso del ragazzo. “C’è tanta roba buonissima qui!”

“Yum… merenda!” Xander tornò a distendersi sul letto, intrecciando le dita dietro la nuca. “Va beh, dai, facciamo che siamo ‘semi-aperti’, allora.” concesse infine.

Caroline si intrufolò nella stanza, sorridendogli titubante, un pacchetto di merendine bello in mostra.

“Spuntino per il porcospino!” annunciò, sedendosi sul letto e gettandogli il pacchetto di merende. Xander esultò, afferrandolo al volo.

“Urca, le mie preferite!” commentò allegramente, prima di rivolgerle un sorrisetto canzonatorio. “Passata l’arrabbiatura?” domandò a quel punto, analizzandola con attenzione.

Caroline arrossì.

“Per niente.” ammise infine, portandosi le ginocchia al petto. “Ma mi annoiavo.”

Xander ridacchiò.

“Ah queste donne…” commentò, aprendo il pacchetto di merende per scartarne una. “Sentiamo, che devo fare per farmi perdonare?” aggiunse.

Caroline fece per dirgli qualcosa, ma poi cambiò idea e si limitò a dare una scrollata di spalle.

“Cresci.” commentò poco dopo in tono di voce asciutto, prima di fregargli una merendina. Xander arrossì appena, ma poi le sorrise  con ara malandrina.

“è per questo che mangio tanto, che ti credi?” obiettò, sventolandole la merendina sotto al naso. “Perché devo crescere!”

La ragazza roteò gli occhi, abbandonando la schiena contro la testiera del letto; Xander sospirò. Appallottolò la carta della merendina e la mise da parte, assieme alla scatola.

“Lo sai che ti voglio bene, vero?” domandò a quel punto, avvicinandosi alla ragazza. Caroline sbuffò, per nulla intenzionata a cedere.  “Tanto tanto.” aggiunse ancora Xander in tono di voce infantile; cercò di farle una carezza, ma la ragazza lo scansò, tornando a cingersi le ginocchia con le braccia. L’amico ridacchiò.

“Te ne voglio più che ai biscotti!” insistette, incominciando a punzecchiarle un fianco con le dita, per farle il solletico. “E se mi perdoni, ti regalo tutte le mie merendine. E anche quelle di scorta, che ho nascosto per evitare che qualcuno me le rubasse. E rinuncio ai biscotti per… una settimana intera! No, due! Eh, due non lo so se ce la faccio, però…”

Caroline sbuffò di nuovo, voltandosi da un’atra parte, impegnandosi per non cedere al bisogno impellente di sorridere; se prima era arrabbiata con lui, in quel momento avrebbe solo voluto prendere a calci sé stessa, per quanto si sentisse stupida. Stupida e patetica.

Perché le suppliche infantili di Alexander, erano una delle poche cose a cui non aveva mai trovato il modo di ribattere, e questo lui lo sapeva bene. Era l’arma a suo vantaggio in una relazione dove, spesso e volentieri, era Xander a fare l’arrendevole, lasciandosi mettere i piedi in testa da Caroline; le piaceva accontentarla, soprattutto se poi riusciva a farla ridere, e detestava vederla triste o in collera, specialmente se per colpa sua.

Per questo, i loro litigi non duravano mai più di una manciata d’ore o una mezza giornata al massimo, come quando erano bambini. Lui non sopportava di vederla arrabbiata e lei finiva sempre per arrendersi alle sue farse da buffone, che avevano come unico obiettivo quello di riuscire a farla tornare a sorridere.

All I want is to keep you safe from the cold
to give you all that your heart needs the most

“…e rinuncio anche al gel e alla lacca, per… beh, facciamo per mezza giornata… magari la metà che passo a dormire, se per te va bene. Ci dobbiamo un po’ venire incontro, no?”

Xander continuò a blaterare, fino a quando non riuscì a scorgere un accenno di sorriso divertito sul volto della ragazza.

“Ah ah!” esclamò a quel punto indicandola con aria esultante. “Mi hai perdonato, eh?” commentò allegramente. Caroline arrossì, furiosa e divertita al tempo stesso, cercando di nascondere il sorriso appena affiorato come meglio poteva.

“Ti odio!” annunciò alla fine, afferrando uno dei cuscini per colpirlo.

“No, i capelli!” si lamentò il ragazzo, riparandosi la testa con le mani. “Piuttosto la vita, ma i capelli no, eh?”

Caroline rise, sferzando una seconda cuscinata al ragazzo. Xander placò il colpo e si impossessò del cuscino, gettandolo poi sul pavimento.

“Vieni qui,scema!” esclamò infine attirando la ragazza a sé; Caroline lo lasciò fare,stringendosi a lui. Sospirando, ricacciò indietro la rabbia, l’imbarazzo e i sentimenti contrastati che si erano fatti vivi in lei quel pomeriggio. Istintivamente, si sentì sollevata; il braccio di Xander le circondava la vita e in quel contatto non c’era nulla di diverso rispetto al modo in cui si erano abbracciati quella mattina,appena arrivati alla casa sul lago.

A breve, tuttavia, si rese conto che c’era dell’altro a mitigare quel sollievo; si sentiva strana, rassicurata e delusa al tempo stesso; si rimproverò in silenzio, pensando alla possibilità che le cose avrebbero finito per andare diversamente, se solo fosse riuscita a far durare quel litigio un po’ più a lungo.

E invece, aveva preferito ripristinare la situazione di partenza; recuperare quel qualcosa a cui, in fondo, non era ancora in grado di rinunciare, nonostante ormai non le bastasse più.

“Xander?” domandò, interrompendo il silenzio che era andato a crearsi da una manciata di minuti.

“Mh?”

Xander aveva chiuso gli occhi e poltriva di fianco a lei con espressione rilassata, il braccio ancora stretto attorno alla sua vita.

“Posso dormire con te, questa notte?” chiese con titubanza  la ragazza. “ Come quando eravamo piccoli.”

Xander sorrise, pur continuando a tenere gli occhi chiusi; per un attimo, Caroline si trovò quasi a sperare che si addormentasse. Si sarebbe sentita meglio, avendolo accanto in quella maniera. Il sorriso canzonatorio dell’amico sarebbe scomparso; l’aria bonaria, serena, di chi non si aspetta nulla di più rispetto a quello che già stringe tra le mani, anche.

E avrebbe potuto abbracciarlo un po’ più a lungo.

May I hold you  as you fall to sleep
When the world is closing in
and you can't breathe

 

“Se non tiri calci e non mi butti per terra, diciamo che si può fare. Ti comporterai bene?” domandò a quel punto il ragazzo, decidendosi ad aprire gli occhi. Caroline finse di pensarci su.

“Non posso promettertelo” ammise poi, sorridendogli con aria furba. Xander roteò gli occhi.

“Va beh…” si arrese infine, allentando la presa sulla sua vita per farle una carezza. “Vorrà dire che correrò il rischio.”

Caroline approvò con un cenno del capo, stringendosi più saldamente al ragazzo. Xander le accarezzò i capelli una seconda volta, prima di domandare: “Allora siamo a posto così?”

Caroline sollevò appena la testa, per ricambiare il suo sguardo; l’amico le sorrise.

“Mi perdoni?” domandò a quel punto, estendendo il suo sorriso. Caroline sospirò, lasciandosi ricadere nuovamente sul materasso.

“Sì.” sussurrò infine voltando lo sguardo in direzione del soffitto, un accenno di rassegnazione a velare il suo volto. “Sì, ti perdono.”

 


So I will let go
all that I know
knowing that you're here with me.

May I? Trading Yesterday.

 

***

A Mase erano sempre piaciute le feste; non amava ballare, né era interessato ad attirare l’attenzione delle ragazze facendo il buffone, quelle erano più cose da Ricki. E neppure era in grado di chiacchierare con chiunque avesse un viso conosciuto come invece faceva Caroline; non era mai stato di grande compagnia.

Eppure le feste gli piacevano; per lo più, si limitava a sedersi per conto suo assieme a Oliver, un bicchiere di coca cola in mano e lo sguardo che frugava curioso tra i coetanei. Ogni tanto aveva piacere a darsi da fare con qualche bella ragazza, ma in generale trovava rilassante la confusione che gli regnava attorno; difficilmente gli capitava di mettersi nei guai a una festa, perché in mezzo a tutta quella gente, era facile per lui sfuggire agli sguardi dei coetanei, a meno che non fosse lui ad volersi rendere visibile. Gli piaceva nascondersi, ed era piuttosto abile; scomparire era sempre stato il modo in cui preferiva eludere i problemi, fin da quando era bambino. Da piccolo era in grado di rimanere nascosto per delle ore, prima che qualcuno riuscisse a scovare i suoi nascondigli. Crescendo, tuttavia, aveva incominciato a rendersi conto di aver perso un po’ di quel talento speciale che lo aveva caratterizzato in passato; provava ancora a nascondersi, lo faceva di continuo, ma lo scovavano subito, e non potendo fuggire, il più delle volte aveva paura.

E la paura, si trasformava in rabbia.

“Ehi, splendore!”

Quando Mase si rese conto che quelle parole erano state rivolte a lui, aggrottò le sopracciglia, perplesso; tuttavia, i suoi lineamenti si distesero subito, quando individuò nella calca di persone, il proprietario di quella voce. “Ti stai divertendo, fratellino?” domandò Ricki, dandogli una pacca per nulla amichevole sulla schiena e appoggiando poi un gomito sul bancone; Mase rise, analizzando le guance rosse e l’espressione fin troppo allegra del fratello.

“Sei già fuori come un balcone e non sono neanche le dieci e mezza.” constatò con un ghigno, scoccando una rapida occhiata all’orologio.

“Non sono ubriaco, fessetto.” lo contraddisse il maggiore, dandogli un pugnetto sulla spalla. “Ma lo sarò presto, quindi se vuoi tornare a casa in macchina, ti conviene andare alla ricerca di un passaggio. In queste condizioni non sfioro il volante nemmeno con un dito, per via di quella storia della ma…”

Interruppe la frase a metà, rivolgendogli una rapida occhiata apprensiva. Mase inarcò un sopracciglio con aria interrogativa, ma il fratello tornò a sorridere quasi subito.

 “Che cos’è quel musetto da gnorri?”  lo interrogò a quel punto, prima di mollargli un secondo pugno sulla spalla. Mase si massaggiò il braccio, sghignazzando.

“…comunque torno a casa con papà.” spiegò al fratello maggiore, che annuì. 

 “Dai, vieni a divertirti un po’ con me.”  propose poi Ricki, tornando ad appoggiarsi al bancone. “Sei stato incollato a quello sgabello per tutta la sera; va bene che devi comportarti bene o papà ti mette agli arresti domiciliari, però… almeno ti sei procurato qualche bella gnocca?” aggiunse, spostando con un piede lo sgabello di fianco a Mase e cercando di sedersi direttamente sul bancone.  Il minore dei due rise una seconda volta: checché ne dicesse Ricki, suo fratello gli sembrava a tutti gli effetti ubriaco.

“Nah, sono stato con Oliver.” spiegò, prima di afferrare Ricki per un braccio, cercando di farlo scendere dal bancone. “È andato via pochi minuti fa.”

Il maggiore dei due diede una scrollata di spalle, decidendosi finalmente a prendere posto sullo sgabello ancora libero.

“Beh, Oliver è carino, dai.”  valutò, appoggiando entrambi i gomiti al bancone.  “Però non ha le tette; questo è un gran bel guaio, eh…”

Il minore dei due scosse il capo con aria divertita, un sorriso allegro a rilassare i lineamenti generalmente tesi del suo volto; ubriaco o non, Ricki era una delle poche persone che riusciva a rasserenarlo con poco, e a Mase faceva sempre bene averlo nei paraggi.

“Però…” aggiunse a quel punto il maggiore dei due fratelli, sollevando una mano con aria solenne. “…sappi che caso mai tu decidessi di appartarti da qualche parte con Oliver, piuttosto che percorrere il glorioso cammino che porterebbe a un bel paio di tette, io ti appoggerò sempre e comunque!” annunciò serio, annuendo poi con fare pomposo. Mase appoggiò il capo sul bancone, ormai completamente piegato in due dalle risa.

“Perché sei il mio fratellino e io ti voglio bene. E perché abbiamo entrambi un bel culo… Mamma e papà sono stati generosi, con noi.”  aggiunse Ricki, arruffandogli i capelli. Mason continuò a sghignazzare, cercando di sfuggire alla presa del fratello.

“Va bene, me lo ricorderò.” comunicò con un ghigno, prima di scandagliare il salone con lo sguardo, alla ricerca di Jeff. “Con chi vai a casa?” aggiunse poi, sorridendo dei movimenti maldestri di Ricki, che stava cercando di recuperare il suo bicchiere di coca cola. Il maggiore dei due sbuffò.

“Con Jeff: ha fatto la persona seria per tutta la sera, quindi guida lui. Mi sa che gli toccherà caricarmi in macchina e trascinarmi di peso fino all’ingresso di casa nostra. Le scale, però, non le voglio salire. Mi fermerò a dormire nella cuccia di Silver…”

Interruppe la conversazione, per sorridere in direzione di una ragazza che aveva appena fatto ingresso nel locale.

“Gnocca a ore due!” annunciò a quel punto, scivolando giù dallo sgabello e dando di gomito a Mase. “Ed è pure bionda… vado a cazzeggiare un po’, tu continua a comportarti bene!” lo ammonì, prima di allontanarsi verso la parte opposta del grill.

Mason sorrise. Seguì il fratello con lo sguardo e lo osservò mentre si presentava alla nuova arrivata, fino a quando qualcuno non gli diede un colpetto sul gomito.

 “Ma allora ogni tanto sorridi anche tu!” costatò Caroline , occupando lo sgabello che aveva lasciato vuoto Ricki. “Ti stai divertendo?” aggiunge poi.

Mason non disse nulla; si limitò a scrutarla con aria diffidente, terminando la poca coca cola che il fratello gli aveva lasciato.

“Ti hanno invitato alla festa?” domandò dopo un po’, smorzando il sorriso sulle sue labbra. Caroline annuì.

“Mi ha invitato tuo fratello Ricki.” spiegò, prima di ordinare a sua volta qualcosa da bere. “L’ho conosciuto ieri sera dai Donovan; gli ho spiegato che ero nuova di qui, e Ricki mi ha proposto di fare un salto al Grill questa sera; è stato carino. La prossima domanda?” lo prese poi in giro, sorridendogli.

Mase si accigliò; allontanò il bicchiere vuoto verso il lato opposto del bancone, e rivolse alla ragazza una seconda occhiata diffidente.

“Hai seguito uno dei quei corsi di auto-difesa?” domandò dopo un po’, continuando a scrutarla con distacco. Caroline gli rivolse un’occhiata disorientata.

“Auto-difesa?” ripeté confusa, un luccichio divertito ancora vivo nel suo sguardo.

“L’altro giorno, alla partita; come hai fatto a trattenere sia me, sia l’altro tizio?  Ho pensato a una qualche arte marziale… e piantala di ridere sempre così.”  aggiunse con aria infastidita, quando la ragazza posò il bicchiere sul bancone di scatto, esordendo in un risolino.

“Scusami!” esclamò alla fine Caroline. Mase distolse lo sguardo da lei, leggermente rosso in viso.

“Arti marziali… beh, diciamo qualcosa del genere, sì.”  convenne infine la ragazza, senza riuscire a mascherare l’aria divertita che aveva fatto capolino sul suo volto.

Mason la osservò per qualche istante, pensieroso, prima di inarcare appena un sopracciglio.

“Sei strana…” buttò lì tranquillamente, incrociando le braccia al petto.  Caroline sorrise appena.

“Un po’.” si trovò costretta a concordare, recuperando il suo bicchiere.

“Hai continuato a tenermi d’occhio per l’intera serata…” aggiunse a quel punto Mase, in tono di voce infastidito. Caroline diede una scrollata di spalle.

 “In genere a quelli come a te piace essere tenuti d’occhio dalle ragazze…” obiettò, accennando a un sorrisetto. Anche le labbra di Mase si incresparono lievemente, diluendo l’espressione circospetta del ragazzo.

 “Sì, ma tu mi tieni d’occhio come se fossi mia madre…” obiettò a quel punto. “…non è che mio padre ti paga per farmi da balia?” aggiunse a quel punto, aggrottando le sopracciglia. Era una supposizione stupida, ma per lo meno avrebbe spiegato gli sguardi strani che si erano scambiati lei e suo padre il giorno della partita. 

Caroline gli rivolse un’occhiata stranita, prima di scoppiare a ridere una seconda volta.

“Ma devi sempre pensare che ci sia un secondo fine per tutto?” domandò, scuotendo il capo con aria incredula. “Non mi ha pagato nessuno: controllavo solo che non ci fossero altre scazzottate dalle tue parti.”

“Perché?” insistette ancora Mason, osservandola con ostinazione. Caroline diede una scrollata di spalle.

“Perché ho capito che sei parecchio attaccabrighe e mi sarebbe spiaciuto vederti nei guai un’altra volta; e poi non conosco ancora molta gente qui…” ammise a quel punto, tamburellando con le dita sul vetro del bicchiere. “…più che altro, questa sera, sbirciavo i volti delle persone che conosco.”

Mason annuì brevemente, appoggiando poi un gomito al bancone.

“Ha senso.” si trovò ad ammettere infine, rinunciando a un po’ della diffidenza che fino a quel momento aveva velato il suo volto. “Ma non ho bisogno di una baby-sitter, quindi puoi tranquillamente evitare di preoccuparti per me, d’ora in poi.” aggiunse, accennando a un sorrisetto sghembo.

Caroline gli rivolse un’occhiata divertita.

“Un angelo custode fa sempre comodo, però.” obiettò Caroline, prima di sorridergli con aria furba. “Diciamo che ti lascio stare se mi assicuri che non ti caccerai in altri guai.” commentò infine.

Mason estese il suo sorriso, passandosi una mano dietro al collo. Fece per risponderle, ma Caroline aveva spostato la sua attenzione verso il cellulare, capendo che stava squillando già da un po’: il nome di sua madre lampeggiò con insistenza sul display dell’apparecchio.

“Scusami!” esclamò rivolta a Mase, premendo il tasto di risposta alla chiamata. Il ragazzo diede una scrollata di spalle.

“La pianti di chiedermi sempre ‘scusa’?” borbottò, prendendo a giocherellare con il suo bicchiere. Caroline gli scoccò una rapida occhiata intenerita, prima di domandare a Liz di cosa avesse bisogno. La sua espressione da rilassata, si fece lentamente turbata e la ragazza scambiò un paio di parole con la madre, prima di chiudere la conversazione.

“Devo andare.” spiegò brevemente, alzandosi in piedi. “Mia… nonna, mi ha chiesto di tornare a casa.”

“È successo qualcosa?” le chiese Mase, aggrottando le sopracciglia. Caroline negò con il capo, infilandosi pensierosa il giubbotto.

“No, deve solo parlarmi, credo. Mason…”  lo richiamò a quel punto, esaminandolo con attenzione. “…allora  siamo d’accordo? Io ti lascio stare, e tu non ti cacci nei guai. Voglio andarmene da qui senza il pensiero che ti metterai a fare a botte con qualcuno non appena volto l’angolo.”

Mason si limitò ad esibire un sorrisetto sghembo, intrecciando le dita dietro la nuca. “Se avessi voluto fare a botte, lo avrei fatto anche con te qui, non è che mi crea problemi avere degli spettatori.” commentò, facendo girare lo sgabello per non darle le spalle. “Ma se proprio ci tieni… ti assicuro che non combinerò casini per il resto della serata. Tanto mio padre sta per passare a prendermi, comunque...”

Caroline gli sorrise; insolitamente, si sentì quasi sollevata. Era la prima volta, da quando si erano conosciuti, che, che Mason le sembrava genuinamente tranquillo.

“Allora, buonanotte!” lo salutò, analizzandolo con lo sguardo un’ultima volta.  Mase tornò a voltare lo sgabello verso il bancone, riprendendo a giocherellare con il bicchiere vuoto.

 “Dovresti sorridere più spesso, comunque.”

Caroline non riuscì a trattenersi dall’esclamare, prima di allontanarsi verso l’uscita.

 

***

Fell abbandonò in fretta la tenuta dei Lockwood; si spostò sul retro del giardino, mirando a raggiungere l’auto che aveva parcheggiato poco distante, ma decise di fermarsi poco prima, appoggiandosi al muretto per riprendere fiato. Un guizzo di soddisfazione affiorò nel suo sguardo, e l’espressione incuriosita dell’uomo venne ravvivata da un lieve sorriso compiaciuto: era stato tutto più facile, rispetto  a ciò che aveva previsto; passò con attenzione la mano sulla scatola che teneva fra le mani e la aprì, per analizzare l’insolito strumento contenuto al suo interno. A prima vista, il famoso congegno di Jonathan Gilbert si sarebbe potuto scambiare per un carillon, per via degli ingranaggi a rotella che ne sormontavano la parte superiore. Un solco dalla superficie irregolare era posizionato al centro del meccanismo, là dove occorreva inserire la chiave, per far funzionare l’arma.  Fell estese il suo sorriso, mentre si frugava in tasca per estrarre un piccolo cerchio di metallo dai contorni seghettati: i Lockwood non avevano avuto molta accortezza, nel decidere di nascondere la chiave del Congegno dentro la scatola stessa in cui l’aggeggio era custodito. Certo, non era per niente sicuro che quel pezzo di metallo fosse effettivamente il pezzo mancante dello strumento; ma tanto valeva fare un tentativo. Avrebbe portato il Congegno a Lester, il pomeriggio successivo. Insieme, loro e Leanne, avrebbero potuto intuire se avessero effettivamente tra le mani un’arma, oppure un semplice ammasso di legno e granaglie varie.

Fell fece scorrere il cerchietto di metallo fra il pollice e l’indice, prima di sovrapporlo a distanza sullo spazio vuoto all’interno del Congegno: le due forme sembravano coincidere.

In quel momento avvertì dei passi frettolosi alle sue spalle: uno dei Lockwood doveva essere rincasato prima. In silenzio Fell si maledì, pentendosi di non essersi allontanato a sufficienza, prima di recuperare l’oggetto rubato dalla scatola. Non ebbe nemmeno il tempo di pensare a come fosse meglio comportarsi; spaventato e colto alla sprovvista, Fell fece scivolare il piccolo cerchio che teneva in mano nel congegno, facendone coincidere i bordi al profilo dentellato del solco.

Non accadde nulla.

“Scusi, lei che ci fa nel giardino dei Lockwood?”

Una voce decisa, decisamente femminile, lo convinse a voltarsi verso la tenuta. Riconobbe con aria d’un tratto più scocciata, che intimorita, il cipiglio ostinato della figlia dei Donovan.

Vicki lo teneva d’occhio con aria decisa, le braccia conserte e un’espressione visibilmente seccata. Fell si affrettò a nascondere il congegno nella scatola di legno e solo in quel momento si rese conto che gli ingranaggi dello strumento avevano incominciato a girare. Quel movimento, tuttavia, fu l’unica cosa che aveva ottenuto inserendo la chiave nel solco apposito; Fell era deluso. Se al posto di una ragazzina ficcanaso, si fosse trovato di fronte un licantropo adulto, probabilmente non sarebbe uscito vivo da quel giardino. 

“Quella scatola non l’avrà mica rubata?” domandò ancora Victoria, muovendosi rapida verso lo sceriffo. Fell scattò all’indietro, per allontanare la scatola dalla portata della ragazza, e nel farlo qualcosa scivolò fuori, smarrendosi sul terreno. Vicki notò appena il movimento di un oggetto che cadeva a terra, ma non fece in tempo a riconoscere il contenuto della scatola. Conoscendo i Lockwood, immaginò si trattasse di un qualche oggetto di valore; forse erano soldi. Fell li stava forse derubando?

“Ma che razza di sceriffo è lei?” 

Victoria scosse il capo con aria incredula, visibilmente disgustata. Fell si posizionò la  scatola sotto il braccio, per nulla turbato dalla reazione della giovane.

“Il perché sono qui, non è affar tuo, ragazzina; piuttosto, sei tu che faresti meglio a non ficcare il naso dove non ti riguarda, mettendo addirittura piede in una proprietà privata.” sbottò in tono di voce seccato, prima di farle cenno di allontanarsi verso il vialetto. Vicki rimase dov’era, un’ espressione cocciuta a velare i lineamenti del suo volto.

“Non ho paura, sceriffo.” commentò con tranquillità, inarcando appena un sopracciglio. “È lei a essere in torto, non io.”

“Ah, sì?” ribattè Fell, indirizzandole un’occhiata di scherno. “E a chi pensi che crederanno i Lockwood, quando andrai a tormentarli con le tue fandonie? A una ragazzina ficcanaso qualunque o allo Sceriffo?” concluse la frase, rivolgendole un’ultima occhiata divertita. Vicki sostenne il suo sguardo, sforzandosi di non battere ciglio.

In quel momento, il telefono di Fell incominciò a vibrare e l’uomo sembrò rendersi conto in quel momento di quanto tardi si fosse fatto.

“Adesso esci subito da questo giardino e tornatene a casa.”  ammonì secco la ragazza, prima di scoccare un’occhiata furtiva in direzione del vialetto. Si allontanò verso la sua auto, senza più degnare Vicki di uno sguardo  “…o ti assicurò che passerai la fine del tuo sabato sera dietro alle sbarre.”

Victoria non si mosse, fino a quando non fu sicura che l’auto di Fell si fosse dileguata. A quel punto, spostò di qualche centimetro il piede destro, e puntò lo sguardo verso il terreno, cercando con gli occhi il qualcosa che era caduto poco prima a Fell, dalle parti delle sue scarpe.

Recuperò un cerchietto di metallo dal bordo seghettato, ma non riuscì a comprendere di cosa potesse trattarsi. Se lo infilò in tasca con l’intenzione di portarlo ai Lockwood, ma una parte di lei si trovò ad esitare, smussando un po’ di quella decisione che era solita segnare il suo volto: le avrebbero creduto? In fondo non aveva in mano che quel cerchietto di ferro, un rottame qualsiasi.

Ma avrebbe parlato comunque, si disse, allontanandosi a sua volta in direzione del viale principale. Perché era giusto e perché Victoria era fatta così: diceva sempre quello che le andava di dire. E insisteva fino in fondo, anche nelle cose più stupide, se davvero era convinta che fosse giusto intervenire in qualcosa.

Quando finalmente si convinse a tirare fuori il cellulare dalla tasca, si morse un labbro notandolo spento. La batteria doveva averle dato il ben servito. Pensò ad Autumn e si diede della stupida in silenzio, accorgendosi di quanto fosse tardi. Fortunatamente, riuscì a riaccendere il cellulare. Mentre cercava di fare il numero dell’amica, il display incominciò a lampeggiare, riportandole proprio il nome di Autumn.

“Scusami!” esclamò immediatamente Victoria dopo aver premuto il tasto di accensione. Parlava in fretta, per paura che il telefono si spegnesse nuovamente. “Scusami, sono stata tremenda, lo so. Ma è successa una cosa e quando arrivo ti spiego, e poi il telefono…”

Interruppe il discorso, aggrottando appena le sopracciglia, nell’ascoltare le parole di Autumn. Vicki sgranò gli occhi, confusa.

“Perché, che è successo a Ricki? Ma no, no che non sono alla festa, tu invece perché sei lì?”

Si spostò sul marciapiede, attraversando il viale che costeggiava casa Lockwood sul davanti. Capì poco di quello che stava cercando di spiegagli l’amica, ma il bip del telefono la informò che non avrebbe resistito ancora a lungo, e decise di chiudere la chiamata.

“Ascolta, due minuti e sono da te, ma non riesco a capire bene quello che dici e il telefono si sta scaricando di nuovo. Sono di fronte a casa dei Lockwood, pochi minuti e sono lì, ma tu calmati, Autumn.”

Due bip più lunghi del precedente, e il telefono si spense del tutto.

Vicki sbuffò, cercando di affrettare il passo, improvvisamente nervosa. Aveva capito poco di quello che le aveva spiegato l’amica, perché c’era troppo rumore dall’altra parte del ricevitore. Da quel che era riuscita a comprendere, Autumn era andata alla festa per cercare lei. E poi, le aveva parlato di Ricki, ma non aveva capito nulla di quella parte.

Mentre attraversava la strada, il suono di un’ambulanza risuonò alle sue spalle, risvegliando il silenzio che aleggiava attorno alla tenuta dei Lockwood.

“Ma che cavolo sta succedendo?”

Esclamò a quel punto la ragazza, guardandosi indietro. Si morse un labbro con aria preoccupata e incominciò a correre in direzione opposta, per raggiungere casa di Autumn il prima possibile.

 

***

30 minuti prima.

 “Sono tornata!”

Caroline Forbes attraversò l’ingresso di casa sua, sfilandosi il giubbotto.

“Siamo in cucina, Caroline!”

La ragazza superò il corridoio con un accenno di nervosismo dipinto in viso, incuriosita da quel ‘siamo’ pronunciatole da Liz.

Tuttavia, i suoi lineamenti si distesero all’istante, nel riconoscere l’uomo che sedeva di fronte alla madre, un sorriso bonario a illuminare i tratti del suo viso.

“Ammettilo, l’hai fatto apposta a passare a salutare Elena proprio ieri sera…” la accolse scherzosamente Matt, sollevandosi in piedi. “…sapevi che avrei fatto la notte e non mi volevi tra i piedi!”

“Matt!”

Il sorriso di Caroline si estese, e la ragazza si avvicinò per abbracciarlo, piacevolmente sorpresa.

“Mi sei mancato!” ammise, lasciandosi stringere dall’amico.

 “È bello rivederti, Care!” ammise Matt con un sorriso, prima di separarsi dall’abbraccio. “In realtà, oltre che per salutare, sono passato anche per parlarti di qualcosa un po’ meno piacevole.” aggiunse, tornando a sedersi. Caroline prese posto sulla sedia di fianco a lui, rivolgendogli un’occhiata interrogativa.

 “Ti ricordi Leanne, la figlia di Steven?” domandò a quel punto l’uomo. La vampira annuì brevemente, facendo scorrere lo sguardo da Matt a Liz.

“Certo che me la ricordo; mio padre aveva insistito per farci uscire assieme un paio di volte, parecchio tempo fa: stavo ancora con te, l’hai conosciuta anche tu.”  gli ricordò, rimestando fra vecchi ricordi appartenenti alla sua adolescenza. Matt annuì brevemente.

“Matt dice di averla vista qui a Mystic Falls, più volte, sempre in compagnia dello sceriffo Fell.” spiegò Liz, rivolgendole un’occhiata seria.  “....pare che si sia trasferita qui a Mystic Falls, poco dopo il trasferimento in ospedale di tuo padre. L’ho incontrata molte volte, da allora, ma non avendola mai vista prima se non di sfuggita o in qualche foto, non avevo idea che fosse lei.”

“In realtà non l’avevo riconosciuta nemmeno io, all’inizio, per questo non vi ho detto nulla.” spiegò Matt, tornando a rivolgersi a Caroline. “Ma ieri ero al lavoro, e l’ho vista in reparto – penso facesse visita a qualcuno - Mi ha sentito chiamare per cognome da uno dei pazienti e mi ha riconosciuto. Ha chiesto di te, Caroline, e le ho spiegato che ti eri trasferita a New York. Ma ha vissuto per anni a casa di Bill e da quando si è spostata qui l’ho vista spesso in compagnia di Fell…”

“Io e Matt pensiamo che lei e Fell stiano cercando di rimettere in piedi il Consiglio…” spiegò Liz a quel punto. “E non è da escludere che Leanne sappia di te. Se davvero si è trasferita a Mystic Falls per entrare a far parte del Consiglio, non impiegherà molto a scoprire che vivi qui e che non è mia nipote, ma mia figlia ad essere tornata; soprattutto, perché Leanne potrebbe riconoscerti, vedendoti.”

Caroline sospirò, tirandosi indietro per appoggiarsi allo schienale della sedia.

“Proprio quando le cose sembravano essersi sistemate …” mormorò a bassa voce, avvertendo una fitta di malinconia stuzzicarla. Non le piaceva per niente, quella situazione; detestava essere costretta a guardarsi le spalle ogni volta che usciva, nervosa al pensiero che qualcuno riconoscesse in lei la figlia vivace e chiacchierona dello sceriffo Forbes: una ragazza che a quel punto della sua vita avrebbe dovuto dimostrare almeno quarant’anni, o giù di lì.

Detestava essere costretta a guardarsi le spalle nello stesso posto in cui era nata e cresciuta, quando avrebbe solo voluto limitarsi a passeggiare indisturbata per le vie di Mystic Falls, come una persona qualunque.

“Cercherò di fare attenzione.” assicurò alla madre, prima di alzarsi in piedi, colta da un improvviso giramento di testa; aggrottò le sopracciglia, tornando a sedere, domandandosi quando fosse stata l’ultima volta che si era nutrita.

E poi sentì un rumore.

“Caroline?” domandò Liz a quel punto, rivolgendole un’occhiata preoccupata: anche Matt la stava osservando perplesso.

Caroline si portò entrambe le mani sulla testa, gemendo per il dolore. Un rumore assordante le riempì le orecchie e le tempie le pulsarono con forza.

“Caroline!” gridò nuovamente sua madre, mentre Matt si affrettava a raggiungere la ragazza. La vampira urlò ancora, prima di accasciarsi sul pavimento.

“Caroline, Caroline, mi senti?”

Caroline ebbe un attacco di vertigini, e chiuse gli occhi, accorgendosi che qualcuno la stava prendendo in braccio. Avvertì sua madre chiamarla per nome un’ultima volta e poi più nulla.

***

 

“Avete sentito quel rumore?”

Ricki domandò ad alta voce, rivolgendosi un po’ a tutti quelli che erano abbastanza vicini da poterlo sentire. Si appoggiò al bancone del Grill, guardandosi attorno con aria stranita. Jeffrey, che se ne accorse, accennò a un sorrisetto e gli diede una pacca amichevole sulla spalla.

“No, l’hai sento solo tu.” comunicò a Ricki, prima di scoccare una rapida occhiata all’orologio.  “Fra un po’, mi sa che ce ne andiamo a casa…”   aggiunse, cambiando poi espressione, quando si accorse dell’aria preoccupata che aveva assunto l’amico.

Ricki inspirò con forza, appoggiandosi il palmo di una mano sulla fronte, digrignando poi i denti: un dolore insopportabile gli incuneò le tempie, lasciandolo senza fiato.

 

“Jeff!” ebbe appena le forze di gridare, accasciandosi contro il bancone. La testa gli bruciava come se gli avessero raschiato via le ossa del cranio e aveva male perfino a tenere gli occhi aperti. Si strinse le mani attorno alle tempie, come se con quel gesto potesse riuscire a scrollarsi via il dolore.

“Jeff!” ripeté più forte, lasciandosi scivolare a terra. Jeffrey lo afferrò con forza per le braccia, cercando di tenerlo in piedi, spaventato da quella reazione improvvisa.

“Ricki!” lo richiamò più volte, ignorando le occhiate incuriosite dei presenti; lo scrollò per le spalle, ma Ricki continuò a premersi le mani sulla testa, gemendo di dolore.

“Fallo smettere!” ringhiò a quel punto all’amico, minacciando nuovamente di scivolare a terra. “Fallo smettere, non ce la faccio più!”

“Andiamo via di qui.” esclamò a quel punto Jeffrey, sostenendolo per farlo camminare. Si fece strada attraverso la cerchia di curiosi e puntò deciso in direzione dell’uscita.

Solo quando raggiunsero l’ingresso del Grill, Ricki aprì di scatto gli occhi, avvertendo il dolore affievolirsi lentamente. Se in quel momento, Jeff si fosse chinato per controllare l’amico, avrebbe notato la venatura giallastra che per un attimo aveva catturato le pupille del ragazzo.

“Ti sei ripreso?” domandò a quel punto  a Ricki, accorgendosi che il ragazzo aveva preso a camminare da solo, senza più bisogno di essere sostenuto. Lo aiutò a sedersi e rimase ad osservarlo in silenzio, mentre il ragazzo riprendeva a respirare in maniera più regolare, massaggiandosi le tempie.

“Erano tipo aghi…” farfugliò a quel punto, ancora scosso da ciò che gli era appena successo. Sollevò il capo per ricambiare lo sguardo di Jeffrey e si accorse che lo stava fissando con aria preoccupata.   “Aghi conficcati nel cervello. Faceva malissimo...”

“Andiamo a casa.” ribattè l’amico in tono di voce fermo, aiutandolo poi ad alzarsi in piedi. Ricki annuì, acconsentendo a seguirlo, senza riuscire bene a comprendere che cosa gli stesse succedendo.

Aveva bevuto troppo, pensò fra sé più tardi, lasciandosi ricadere con stanchezza in macchina. Aveva bevuto troppo, e si era sentito male.

Eppure, un altro pensiero ben più allarmante continuava a tormentargli la testa, alimentando in lui la sensazione di nervosismo.

“Devo vedere papà.” farfugliò a quel punto, mentre Jeffrey controllava che avessero entrambi la cintura allacciata.

“Ti sto portando a casa.” cercò di rassicurarlo ancora una volta l’amico, mettendo in moto. La sua mano tremò appena sul volante, e il ragazzo sospirò nervosamente, prima di partire, guidando in direzione di casa dei Lockwood.

 

Puoi andare lontano.

 Puoi prendere tutte le tue piccole precauzioni, ma sei davvero partito?

 La fuga è possibile?

O sei tu che non hai la forza e l'astuzia di nasconderti al destino?

 

“Guidi tu?”

Domandò Tyler, lanciando al figlio le chiavi della macchina. Mase le afferrò al volo, non riuscendo a nascondere un sorrisetto.

Chiuse la portiera e si allacciò la cintura di sicurezza, mentre al suo fianco, il padre faceva altrettanto. Tyler aspettò che il figlio mettesse in moto, tenendo d’occhio con attenzione ogni singola manovra del ragazzo, prima di decidersi ad aprire bocca.

“Allora…” incominciò a quel punto, tornando a rilassarsi sul sedile. “Come è andata la festa?”

Mason annuì appena, le sopracciglia aggrottate e l’espressione completamente rapita da ciò che si trovava di fronte a lui; le mani del ragazzo erano ben salde sul volante.

“Bene.” rispose, senza distogliere lo sguardo dalla strada. “Mi sono divertito.”

Tyler annuì, decidendosi a spostare la sua attenzione verso il figlio, che dopo essere partito, aveva incominciato a guidare in maniera più disinvolta.

“Perché mi guardi?” domandò a quel punto Mase, arrischiandosi a scoccargli una rapida occhiata. Il cipiglio dell’uomo si fece d’un tratto più severo.

“Gli occhi fissi sulla strada.” lo rimproverò all’istante prima di ammorbidire la sua espressione. “Non lo so.” buttò lì poi, prima di rivolgergli un sorrisetto divertito. “Sei mio figlio, adesso non posso nemmeno più guardarti?”

Anche Mase sorrise, questa volta, senza distogliere lo sguardo dalla strada.

“Se cercavi labbra spaccate o sangue rimasto appeso da qualche parte, sono spiacente di informarti che rimarrai deluso.”  comunicò, accennando a un sorrisetto canzonatorio. Tyler ghignò, non riuscendo a trattenersi dal guardarlo una seconda volta.

In quel momento, l’attenzione di entrambi venne catturata da un rumore improvviso alla loro destra.

“Che cosa è stato?” domandò subito Mase, aggrappandosi istintivamente al volante. Tyler fece per rispondere qualcosa, quando uno spasmo acuto di dolore lo sorprese, costringendolo a portarsi le mani alla testa.

Mase gemette, digrignando i denti, avvertendo una morsa improvvisa serrarsi  attorno alle sue tempie. Fece virare pericolosamente il volante, perdendone il controllo per un attimo.

“Che mi succede?” ringhiò in preda al panico,quando venne colto da una seconda fitta di dolore, questa volta più forte. Tyler sferrò un pugno al cruscotto, imprecando, per via del dolore alla testa. Un fiotto di paura mista a rabbia riuscirono a ridestarlo in parte, spingendolo a reagire.

“Accosta!” gridò in quel momento, cercando di sfilarsi via la cintura di sicurezza. Una seconda fitta di dolore lo travolse in quel momento.

“Mase, spegni la macchina, spegni!”

“Non ci riesco!”  gridò in risposta il ragazzo, cercando di mantenere il controllo dell’auto. Ma il dolore era troppo forte, perché riuscisse anche solo a tenere gli occhi aperti. Gemette di nuovo, sforzandosi di rimanere aggrappato con le mani a volante.

“Lascia il volante. Lascialo!”  ringhiò il padre, trafficando con furia per sganciarsi la cintura, faticando per via del dolore.

Con la coda dell’occhio, individuò una figura che si stagliava di fronte a loro lungo la strada: Tyler ringhiò di nuovo, non riuscendo più a capire se si sentisse umano o lupo. Perché provava rabbia. Rabbia,paura e dolore, proprio come duranti le notti di luna piena.

Riuscì finalmente a liberarsi della cintura di sicurezza e allungò in fretta le mani verso il volante, ma i suoi movimenti vennero preceduti da uno schianto secco. Ricadde all’indietro, sbattendo la testa contro il sedile.

In quel momento cessò tutto. I movimenti dell’auto, quel rumore assordante, il dolore alle tempie.

Tyler si accasciò sul sedile e chiuse gli occhi, quasi sul punto di perdere i sensi. Rimase immobile in quella posizione, fino a quando non  riuscì a riscuotersi, avvertendo la consapevolezza di ciò che era appena capitato.

Cercò immediatamente il figlio con lo sguardo e la testa gli provocò una fitta di dolore, non appena volse il capo nella sua direzione. Mase aveva perso conoscenza, ed era ricaduto in avanti, le mani ancora aggrappate al volante.

“Mase!” ringhiò immediatamente il padre, affrettandosi ad avvicinarsi a lui; avvertì un lieve moto di sollievo, nel sentirlo respirare regolarmente. Sfondò la portiera della macchina con un calcio e si precipitò fuori, per poi crollare in basso, le gambe improvvisamente molli, le mani che gli tremavano.

“No...” fu appena in grado di mormorare, prima di perdere conoscenza a sua volta, lasciandosi ricadere contro l’auto.

Di fronte a Tyler, circondato da cocci di vetro e sangue, un uomo giaceva a terra incosciente, piegato in una posizione innaturale.

 

Ma non è il mondo che è piccolo:sei tu.

Il destino può trovarti ovunque.

da Heroes, episodio 1x08.

Nota dell’autrice.

… Uh uh. Non so come cominciare il polpettone, questa volta. Il punto è che ho appena terminato di scrivere e mi sento ancora un po’… in subbuglio! Che ansia XD

Va beh, ora la smetto e passo a cercare di aggiungere qualcosa di sensato. Vediamo di analizzare con calma questa seconda parte di capitolo; dunque, la prima cosa che mi viene da dire è che sono contenta di essere riuscita a inserire un pochetto di introspezione per Mase, e soprattutto, mi è piaciuto raccontarlo in un momento in cui era un pelino più tranquillo del solito (lettori pensano al finale del capitolo e tirano una scarpa dietro a Laura *\\*).

Per quanto riguarda Mason e Autumn che a quanto ho capito siete in tantissimi a shippare (sono tipo il Delena di HR D:), mi sento proprio in dovere di aggiungere che assieme quei due non finiranno mai XD Non ce la faccio, è più forte di me, dovevo sottolinearlo. Voglio tanto bene a tutti e due, e mi diverto da matti a scrivere le loro frecciatine, ma assieme non li vedo, Mase poi, avrà tutt’altro tipo di pensieri per la testa d’ora in poi (altre scarpe colpiscono Laura).

Passiamo a una delle parti che ho preferito scrivere più in assoluto; Anna e Casper Oliver. Se Mase l’abbiamo visto un po’ più sorridente, Olive a un certo punto lo è stato un po’ meno, e ci tenevo a mostrare qualcosa in più a proposito di lui. Che è un discorso di cui si tornerà a parlare più in là. E intanto Anna si lascia sfuggire qualche altra mezza informazione criptica.

Se questo capitolo si chiama ‘Turning Point’, è un po’ appunto anche per il fatto che molti dei nostri pargoletti stanno iniziando a venire spinti verso questo mondo sovrannaturale che ruota loro intorno. Abbiamo Oliver e Anna; abbiamo Xander, alle prese con uno dei diari di Jonathan Gilbert; abbiamo i Lockwood alle prese con le maledizione di famiglia, Julian che si appresta a immergersi un po’ più a fondo nel suo universo di maghetto, e infine Vicki, che per colpa della sua testardaggine, sta rischiando di rimanere incappata in qualcosa che è senz’altro più grossa di lei (Laura vede che le scarpe incominciano a volare verso lo sceriffo Fell, e lo mandano col sedere all’aria).

Parlando appunto del momento Vicki/Fell…Lo so, è completamente campato per aria, ma io avevo bisogno di far accadere certe cose, e questo è l’unico modo che mi è venuto in mente per riuscire  – restando in tema – innescare gli ingranaggi di questo racconto. *le arrivano altre scarpe in testa* E così, quel tontolone di Fell, ha attivato il congegno (lo stesso che nell’ultimo episodio della prima stagione attiva John Gilbert, alla festa dei fondatori). I tre maschietti Lockwood e Caroline F., reagiscono al dispositivo. So che quel congegno ha un raggio di azione di tot isolati, e non so mica, se il Grill, casa Lockwood e casa Forbes rientrino tutte in quel raggio d’azione, ma mi sono permessa di immaginare che fosse così. Tyler e Mase erano quasi arrivati a casa, quando hanno avuto l’incidente d’auto. Questo potrebbe forse aiutarvi a immaginare chi possa essere l’uomo che è stato investito (ç__ç). Nessuno dei personaggi, don’t worry. Ovviamente non vi dirò se questa persona è ancora viva o no, bisognerà attendere il capitolo successivo (che per la cronaca – preparate le scarpe – potrebbe arrivare molto tardi, visto che a maggio ho gli esami e devo darci sotto con lo studio).

Passando a Matt, visto quello che dice nel dialogo, mi sento in dovere di aggiungere che è diventato medico (sì, come il padre di Elena. Va beh XD). Il parallelismo tra l’incidente che hanno Mase e Tyler, con quello che ha sempre Tyler nella 1x22 sempre per colpa del congegno, è piuttosto voluto. E le citazioni di Heroes ci andavano, portate pazienza. Mi sono esaltata un sacco inserendole, perché  le trovavo azzeccatissime per questo capitolo, per Mase, per tutti. *parte la voce di Mohinder nella testa di Laura*

Che altro posso aggiungere? Tenetevi almeno un paio di scarpe da mettere ai piedi, non tiratele tutte a me ç___ç che questo pomeriggio ho battuto la testa due volte e sono pure scivolata D: *e poi prendo in giro ricki .-.*

Anticipazioni sul prossimo capitolo, per questa volta non le faccio. Mi arrischio a dire solo una cosa, che in realtà è uno spoilerone micidiale D: D: D: Porterà lo stesso titolo della storia vera e propria: History Repeating. Ma io vi consiglio di guardare al significato di quelle due parole nella maniera più letterale possibile :D Perché non si riferisce a quello che pensate voi. Forse.

Anyway, vi saluto, che ho ancora l’ansia. Vi spupazzo tutti quanti per bene e mi raccomando, siate gentili con i tre  maschi Lockwood, che hanno avuto davvero una serataccia u___u

 

Tanti abbracci a profusione!

 

Laura

 

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Capitolo 10
*** 8. History Repeating ***


 

“Write me a paper,then.”

 “Ok, about what?”

“History. Pick a topic, keep it local and no Wikipedia regurgita. These old towns have a lot of rich history, so…Just get your hands dirty, make it sing and you’re back on track. Deal?”

 “Yeah,deal!”

Episode 1x09. History Repeating

 

Chapter 8.

History Repeating.

 

Well I know the feeling
Of finding yourself stuck out on the ledge
And there ain't no healing
From cutting yourself with the jagged edge.

Lullaby. Nickelback

 

 

Il telefono squillò a vuoto diverse volte, prima che Tyler avvertisse dall’altra parte del ricevitore la voce della segreteria telefonica. Inspirò profondamente, continuando a camminare avanti e indietro lungo il corridoio, lo sguardo teso, pronto a scattare alla minima fonte di rumore. Si decise a lasciare un messaggio in segreteria, la voce scalfita da una nota di esitazione.

“Caroline… sono Tyler.” inspirò a fondo una seconda volta, prima di proseguire. “Stai bene?”

Una porta si aprì alle sue spalle; si affrettò a voltarsi, osservando poi con delusione due infermieri attraversare il corridoio: la porta della sala operatoria era ancora chiusa. Appoggiò la schiena al muro e riprese a parlare al cellulare.

“Ascolta… ho bisogno che tu mi raggiunga in ospedale il prima possibile. Passa di qui non appena ricevi il messaggio. Fa’ in fretta.”  aggiunse. Chiuse la chiamata e si cacciò nuovamente il cellulare in tasca, lo sguardo a interrogare in silenzio la porta della sala operatoria. Più i minuti scorrevano e più si trovava a desiderare che non si aprisse mai; era ansioso al pensiero di quello che avrebbero potuto comunicargli i medici. Voleva starsene lì, dove ancora poteva aggrapparsi a qualche brandello di fune sfilacciata per evitare di cadere a terra. Lì, dove se ne stavano i codardi, incapaci di mettersi in gioco quando a sfidarli erano le loro paure più grandi. Lì, dove suo figlio Mase sarebbe rimasto per sempre un ragazzino spaventato: ma nulla di più.

Appoggiò anche la testa al muro, incrociando le braccia al petto. Le iridi scure dell’uomo fulminarono la porta della sala operatoria ancora una volta, prima di saettare verso le scale, riconoscendo i passi affrettati di due persone.

“Papà!”

Si irrigidì, nell’avvertire quel tono di voce. Ricki camminava con andatura incerta, lo sguardo stralunato e l’aspetto scomposto di chi è stato appena scrollato con forza, dopo aver avuto un incubo. Jeffrey camminava al suo fianco.

 “Papà, che succede?”

“Vai a casa, Ricki.”

Le iridi scure di Tyler si scontrarono con quelle identiche del figlio e le fulminarono con aria di ammonimento. Ricki non lo ascoltò.

“Ha appena chiamato Vicki.” continuò imperterrito guardandosi intorno, come se stesse cercando qualcuno. “Un incidente... ha detto… ha detto che c’è stato… dov’è Mase? Papà, dov’è…”

“È a casa. Sta bene.”

Lo interruppe bruscamente il padre, spezzando l’incontro fra i due sguardi. “Vacci anche tu. Anzi, resta a dormire da Jeffrey per questa notte. Guida tu.”  aggiunse, rivolgendosi all’altro ragazzo che annuì, afferrando l’amico per un braccio.

“Andiamo…” comunicò a Ricki, che tuttavia non si mosse.

“Se Mase è a casa, come mai sei qui?” domandò ancora, liberandosi dalla presa di Jeff. Tyler sbuffò, lo sguardo improvvisamente più vivo, più brusco.

“Ho investito qualcuno.” ringhiò in tono di voce meno fermo, ricambiando l’occhiata decisa del figlio. “Lo stanno operando, adesso vai e resta dai Donovan fino a quando non ti richiamo io.”

“Ricki, muoviti…” cercò di convincerlo l’amico, notando con nervosismo l’espressione adirata di Tyler. Lo tirò una seconda volta per il braccio, ma Ricki si liberò dalla sua presa.

“Chi hai investito? Papà, è successo qualcosa!” riprese, appoggiandogli le mani sulle spalle, per poi sostenere il suo sguardo con espressione preoccupata. “Quel mal di testa strano, è successo anche a te, vero? E a Mase? Mase sta…”

Tyler si passò una mano sul viso, riprendendo a inspirare con forza. Ricki arretrò, indugiando sulla venatura di rabbia che aveva preso a illuminare i suoi occhi.

“Ha bevuto troppo…” lo giustificò Jeff, afferrandolo per il braccio e strattonandolo all’indietro. Ricki scosse il capo, allarmato dall’eccesso di collera del padre.

“È successo qualcosa a mio fratello.” intuì, mormorando la frase a mezza voce. Improvvisamente si sentì stanco; stanco e pesante. Aveva attraversato l’ospedale di corsa senza mai vacillare, ma in quel momento si sentì piombare crollare addosso tutto quello che gli era accaduto nel corso della sera; l’eccesso di alcool, il mal di testa improvviso, la chiamata di Vicki, la paura che aveva avuto. Tutto.

Sollevò il capo in direzione del padre e si accorse, con paura, che il suo sguardo riluceva di rabbia. Di rado l’aveva visto così in collera. Arretrò d’istinto.

“Ricki, cristo, fuori di qui.” ringhiò ancora una volta Tyler, indicando le scale con un gesto fermo del braccio. “Se me lo fai ripetere ancora una volta, giuro che fuori ti ci mando io!”

Ricki annuì. Gli rivolse un’ultima occhiata apprensiva e gli diede le spalle, allontanandosi con Jeffrey al seguito. Tyler sospirò, recuperando con calma il controllo su se stesso. L’eccesso di rabbia sfumò lentamente nella stanchezza mista a nervosismo che gli aveva fatto compagnia per i venti minuti di veglia precedenti all’arrivo del figlio. Stava cercando una sedia, quando il cellulare incominciò a vibrare. Lo estrasse in fretta dalla tasca e controllò rapidamente il display: era sua moglie.

“Ehy…”  il timbro pacato della voce di Lydia riuscì a lenire in parte la sua rabbia “Hai parlato con Caroline?”

“Ha il cellulare spento…” rispose Tyler, tornando a fissare la porta della sala operatoria. “Penso si sia sentita male anche lei.”

“Ha chiamato proprio adesso Elena. Caroline è a casa sua con Liz e Matt, Elena lo sta chiamando per avvertirli; Caroline arriverà presto.”

Tyler annuì. Esitò un istante, prima di rivolgersi nuovamente alla donna.

“Mase sta bene?” domandò a quel punto.

“È qui vicino a me.” rispose Lydia. “Gli vuoi parlare?”

Tyler si irrigidì. Strinse con più forza il cellulare, cercando di convincersi a parlare con il figlio, ma alla fine ci rinunciò.

“Digli che andrà tutto bene.” si limitò a comunicare, posandosi stanco una mano sul volto.

Mi dispiace, aggiunse mentalmente in silenzio, prima di chiudere la chiamata. 

And you can't tell
I'm scared as hell
Cause I can't get you on the telephone

Lullaby. Nickelback

 

***

Fell attraversò in fretta la strada per raggiungere il luogo dell’incidente, l’espressione guardinga a esaminare la macchina che aveva causato il tutto, il cellulare appoggiato all’orecchio.

“Sì, sono già qui.” spiegò al suo interlocutore, sorvolando sul motivo per cui avesse impiegato così poco a raggiungere quella zona.  “Ero sulla strada.” si limitò ad aggiungere, camminando vicino alla macchia di sangue di fronte alla vettura. “Chi è stato investito?”

“Un certo Jerome Clay.” comunicò il suo collega dall’altro capo del ricevitore. Fell fece una smorfia incredula.

“Il vagabondo?”  sbottò spiccio, scoccando un’occhiata di sfuggita alla sua auto: si assicurò che la scatola recuperata dai Lockwood non fosse individuabile, sbirciando attraverso il finestrino.

“Sì, è un senzatetto che bazzica spesso da quelle parti.” confermò l’altro. “Diciamo che in parte se l’è cercata, era completamente ubriaco.”

“È morto?” domandò a quel punto Fell, frugandosi in tasca con la mano libera alla ricerca di una sigaretta.

“Non ancora.” dichiarò il collega con un barlume di esitazione, mente controllava gli ultimi messaggi che gli erano arrivati. “Lo stanno operando, ma a quanto pare è davvero mal ridotto.”

“Chi ha causato l’incidente?” chiese ancora lo sceriffo, analizzando la vettura ferma in mezza alla strada con una punta di sospetto nello sguardo: conosceva quella macchina.

“Ah, non ci crederai mai.” ribattè il suo interlocutore, facendo una pausa, per fomentare la curiosità dell’altro uomo. “Tyler Lockwood.” dichiarò infine.

Fell si fermò di scatto.

“Lockwood?” sbottò di rimando. Tacque un istante, per ascoltare le parole del collega dall’altro capo del ricevitore.

“Proprio così. Stava portando a casa il figlio da una festa e pare che Clay sia sbucato fuori all’improvviso.”

 La sua espressione inquieta, venne d’un tratto velata un alone di consapevolezza.

“A che ora è successo tutto questo?” domandò in fretta, spostando lo sguardo in direzione della tenuta dei Lockwood. Sorrise in maniera appena percettibile, quando il collega gli comunicò la sua risposta.

“Saranno stati quaranta, quarantacinque minuti fa.”

Fell ignorò la sfumatura di incertezza nel tono di voce dell’uomo e fece rapidamente mente locale: l’orario coincideva, bene o male, con il momento in cui la figlia dei Donovan lo aveva sorpreso nel cortile dei Lockwood. Che il dispositivo avesse funzionato sul serio? In tal caso, se Lockwood ne era rimasto affetto, significava che le ricerche di Bill Forbes erano corrette? I Lockwood erano oppure no afflitti da  una maledizione?

“Qualche testimone, oltre al ragazzo e a Clay?” chiese ancora una volta, tornando a dirigersi in direzione della sua macchina.

“Nessun testimone.” ribattè pronto il suo interlocutore. “Il resoconto di Lockwood regge, comunque. Clay non ha attraversato sulle strisce e gli è andato addosso.”

“Era sicuramente oltre i limiti di velocità…” obiettò ancora Fell, scoccando un’ultima occhiata pensierosa all’auto di Tyler. Il collega esitò un attimo, prima di rispondere.

“Mi dispiace.” commentò infine, mentre lo sceriffo si affrettava a recuperare le chiavi della sua auto. “Non so proprio dirti di più.”

Si salutarono e Fell chiuse la chiamata. Una volta entrato in macchina si chinò per recuperare la scatola che aveva infilato sotto uno dei sedili; ci sbirciò dentro, rimuginando sull’incidente. A quanto scriveva Forbes nelle sue ricerche, per scatenare la maledizione dei Lockwood era necessario compiere un omicidio. Né lui, né gli altri membri del Consiglio erano riusciti a verificare se Tyler Lockwood avesse mai provocato la morte di qualcuno. A quel punto, l’unica cosa che potevano fare era attendere: se Jerome Clay fosse morto quella notte in ospedale, investigare sul passato di Lockwood non sarebbe più stato necessario.

***

Please let me take you
Out of the darkness and into the light
Cause I have faith in you
That you're gonna make it through another night

Lullaby. Nickelback

Lydia appoggiò il cellulare sul comodino, lasciandosi sfuggire un sospiro. Si sedette sul letto del figlio minore e appoggiò con tenerezza una mano sul capo del ragazzo, per fargli una carezza; Mason non reagì. Rimase immobile, ancora rannicchiato su un fianco, lo sguardo impassibile puntato contro il muro. Tremava.

“Hai freddo, tesoro?”  domandò la donna, accentuando la preoccupazione sul suo volto. “Fammi controllare il taglio sull’occhio.”

Si chinò leggermente, per esaminare la fronte del ragazzo; durante l’urto contro il volante, Mase si era provocato un taglietto all’altezza del sopracciglio. Era una ferita superficiale, risolta con pochi punti e un paio di raccomandazioni da parte degli infermieri. Mason aveva voluto lasciare l’ospedale il prima possibile e non appena arrivato a casa era corso a rifugiarsi in camera sua; non si era mosso da allora. Se ne stava in silenzio e, di tanto in tanto, tirava su col naso. Lydia aveva continuato a fargli compagnia, gli occhi tristi che lo vegliavano con tenerezza, il cuore in conflitto tra la fiducia e il dolore. L’apprensione le velò il volto, nel riconoscere tutto quello smarrimento nei silenzi, nel volto di suo figlio. Sapeva che qualcos’altro di ben più grave stava lottando per mettere a rischio il futuro di Mason, ma in quel momento faticava a prestare ascolto a quei pensieri. Era rannicchiato su se stesso, tirava su col naso e tremava. Era spaventato; l’unica cosa di cui Lydia voleva occuparsi, era cercare di stargli vicina.

“Morirà, vero?” lo sentì domandare dopo una decina di minuti; lo sguardo del ragazzo era ancora puntato contro il muro. “Morirà. L’ho ucciso.” lo disse in tono di voce secco, ma Lydia avvertì distintamente un principio di esitazione tra le sue parole.

“Starà bene, vedrai.” cercò di rassicurarlo, accarezzandogli la schiena con dolcezza. “Non è stata colpa tua, Mase.” Mason colpì il muro con le nocche.

“S-Sì che è stata colpa mia!” sbottò, alterando il tono di voce. “C-Chi stava guidando?” ringhiò, inciampando nelle sillabe iniziali della prima parola. “C-Chi, chi non ha fermato la macchina in tempo? Io!” .

“No, Mase…”

Lydia mormorò scuotendo il capo, le mani a circondare con fermezza le spalle di suo figlio. Sospirò, appellandosi al barlume di controllo che ancora non aveva ceduto terreno allo sconforto.

“Non è stata colpa tua.” ripeté decisa, scandendo lentamente le parole. Mase tornò ad affondare il capo nel cuscino, lo sguardo nuovamente aggrappato alla parete, ferito e disilluso.

“Combino sempre casini.” mormorò infine, scuotendo appena il capo, le lacrime a rigare silenziose il suo volto. “P-Perché…”

“Shhhh…” la madre cercò di tranquillizzarlo, prima di chinarsi ulteriormente per abbracciarlo. “Andrà tutto bene.” lo rassicurò con dolcezza. “Non ci pensare per ora, andrà tutto bene.”

 “P-perché sono sempre io a combinare c-casini?” insistette Mason, tornando ad alzare il tono di voce. “P-perché, perchè faccio così schifo, perché?”

“Ehi!” Lydia lo rimproverò in tono di voce fermo, stringendosi maggiormente a lui. “Basta così. In questa famiglia non c’è nessuno che fa casini e non c’è nessuno che fa schifo. Sono stata chiara?” domandò, alzando appena il tono di voce. Ma si sentì a pezzi nell’individuare le lacrime che rigavano le guance del figlio.

 

Stop thinking about
The easy way out
There's no need to go and blow the candle out

Mase non rispose; rimase in silenzio per qualche istante, prima di inspirare con forza, voltandosi in direzione della madre.

“S-Sono quello uscito peggio dei tre.” ammise. infine Lydia negò prontamente.

“Questo non è vero.” ribattè con fermezza.

 “I miei fratelli …”

“Ricki e Caroline hanno tanti difetti, quanti ne hai tu.” lo interruppe la madre, prima di tornare ad accarezzargli i capelli. “E vi amiamo anche per questo, lo sai?” aggiunse con dolcezza. “Tutti e tre alla stessa maniera. Puoi ‘combinare tutti i casini’ che ti pare, Mason Lockwood: per quanto ci riguarda, io e tuo padre continueremo a considerarti una delle tre cose più belle e importanti che ci siano mai capitate. E nessuna di queste tre è uscita peggio rispetto alle altre due. Perciò non dire mai più una cosa del genere, perché è la sciocchezza più grande che abbia mai sentito.”  aggiunse, chinandosi per baciargli il capo. “Ti voglio bene, Mase.”

Mason annuì, lasciandosi ricadere nuovamente sul cuscino. Inspirò a fondo più volte, cercando di riprendersi.

“Ho deluso papà.” ammise ancora infine, stanchezza e sensi di colpa mescolati nel suo sguardo. Lydia scosse il capo con decisione.

“Non dirlo nemmeno per scherzo.” lo contraddisse con dolcezza, tornando ad accarezzagli il capo. “Tuo padre è solo preoccupato per te. Vuole che tu stia bene, solo questo.” lo rassicurò.

Mase si decise finalmente a voltarsi, per ricambiare lo sguardo della madre. Le lacrime ancora presenti e lo smarrimento rappreso fra quei lineamenti generalmente fermi e scostanti le infusero ancora più tristezza.

“E, e allora, perché non è qui?” domandò Mase a bassa voce, accennando a una smorfia, nel sentirsi inciampare di nuovo sulle prime sillabe.

Lydia sospirò. Il suo sguardo accarezzò con tenerezza i lineamenti del suo ultimogenito, un barlume di tristezza incastonato fra gli occhi chiari; pensò a suo marito, al tono di voce stanco e risentito con cui le aveva parlato al telefono e la fiducia che l’aveva sostenuta fino a quel momento vacillò.

“Tornerà non appena i medici usciranno dalla sala operatoria.” lo tranquillizzò un’ultima volta. “Adesso, però, cerca di dormire un po’.” aggiunse infine, alzandosi in piedi. Mase annuì, passandosi con un gesto brusco il dorso della mano sulle guance. Chiuse gli occhi, tornando a girarsi su un fianco. Non aveva più voglia di pensare, né di battersi per cercare di evidenziare alla madre i problemi in cui finiva per invischiarsi ogni volta che metteva piede fuori casa. Si sforzò di prendere sonno augurandosi, in silenzio, che al suo risveglio non ci sarebbe stato più nulla di cui preoccuparsi. L’uomo che aveva investito sarebbe sopravvissuto all’intervento. Il mal di testa sarebbe scomparso. Il senso di colpa sarebbe scivolato via dal suo stomaco.

Lydia lo osservò dormire per un po’, incapace di abbandonare la stanza. Recuperò il telefono dal comodino e lo strinse forte, interrogandone lo schermo vuoto con lo sguardo. Si chiese come stessero procedendo le cose in ospedale; se Caroline avesse raggiunto Tyler, se in quel momento si trovasse in sala operatoria, o se non fosse arrivata in tempo. Si sforzò di sfuggire a quei pensieri e tornò a sedersi sul letto di Mason. Gli fece ancora una carezza, il cuore conteso tra l’apprensione e la tristezza.

Andrà tutto bene, Mase.  Pensò fra sé, cercando di infondersi fiducia; così ad occhi chiusi, rannicchiato su un fianco, suo figlio le sembrava ancora più bambino di quanto già non fosse.

Il suo bambino.

Non gli sarebbe successo nulla. Non doveva succedergli nulla. Lei non l’avrebbe permesso.

Andrà tutto bene.


Because you're not done
You're far too young
And the best is yet to come

Lullaby. Nickelback

***

Si accorse che Mason si era arrampicato su una sedia

e aveva preso a sbirciare fuori dalla finestra con aria preoccupata.

“Ehi giovanotto.” lo richiamò, raggiungendolo.

“È ora di andare a nanna.”

Mason scosse il capo lentamente, voltandosi in direzione del padre.

“Lu-lupi.” mormorò con aria spaurita indicando la luna.

“Nessun lupo verrà a darti fastidio questa notte.”

lo rassicurò Tyler, accarezzandogli il capo con tenerezza..

“Te lo prometto.”

 

da She’s watching over us.

Di tutti i posti in cui non aveva messo più piede a Mystic Falls, il reparto di terapia intensiva dell’ospedale era di certo l’ultimo che avrebbe scelto di visitare per darsi una rinfrescata alla memoria.

Caroline Forbes stava rimuginando qualcosa di simile nel momento in cui raggiunse il corridoio che portava alla sala operatoria. Individuò subito Tyler, lo sguardo chino e le mani intrecciate appoggiate alle labbra, seduto a pochi metri di distanza da lei.

“Tyler!” esclamò a quel punto, correndogli incontro. “Scusa il ritardo, non so che cosa sia successo… ho sentito un dolore fortissimo alla testa e sono svenuta.” spiegò in fretta, prima di rivolgergli un’occhiata apprensiva. “È successo anche a te?  Matt mi ha detto che stavi guidando e che hai avuto un incidente…”

Tyler non rispose; si passò una mano sotto il mento e inspirò con forza, appoggiando la schiena al muro. Caroline si morse un labbro, marcando l’esitazione nel suo sguardo. “Mi ha detto anche che qualcuno è stato investito.” aggiunse con delicatezza. “È in sala operatoria? Posso salvarlo.”

Tyler scosse il capo un paio di volte, prima di convincersi a incrociare lo sguardo di Caroline.

“Troppo tardi.” ammise in tono di voce atono, tornando poi a scrutare la parete di fronte a sé. “È morto.”

La decisione tratteggiata nel volto di Caroline scomparve; la ragazza si sedette accanto a lui.

 “Tyler…” lo richiamò, analizzando tristemente la sua espressione afflitta. Cercò di immaginare che cosa stesse provando; entrambi avevano ucciso più di una volta, entrambi non avevano avuto scelta: eppure, quella consapevolezza non placava del tutto il senso di colpa .  “È stato un incidente; tu non potevi fare nulla. Di sicuro ti è capitata la stessa cosa che…”

“Caroline.” la interruppe Tyler bruscamente, squadrando con decisione la ragazza. Rimase in silenzio per qualche istante e i suoi occhi si spensero di nuovo, mentre l’uomo riprendeva a parlare. “Non sono stato io a investire quell’uomo.” ammise infine, un’ incrinatura a spezzare il  tono di voce. Caroline scosse appena il capo con aria confusa, non riuscendo capire.

“Che cosa?”

“È stato Mase.” ammise infine Tyler, abbassando il tono di voce e indirizzando un’occhiata furtiva al corridoio. “Era Mase che stava guidando, lui ha avuto l’incidente. È stato Mason a uccidere quell’uomo.” ribadì infine, passandosi una mano sugli occhi. “Mase; mio figlio quindicenne. Non sono nemmeno stato capace di…” si interruppe, notando lo stupore e l’avvilimento nello sguardo di Caroline. “…strappargli via il volante di mano. Non ho fatto nulla.” concluse.

La ragazza scosse il capo lentamente, sorpresa e turbata al tempo stesso. Ripensò agli avvenimenti di quella sera; ricordò la conversazione che aveva avuto con Mason meno di una manciata d’ora prima. Evocò la sua iniziale diffidenza nel momento in cui l’aveva avvicinato, i sorrisi che era riuscita a strappargli. L’aria distesa, da ragazzino qualunque, che per la prima volta aveva colto a piegare i suoi lineamenti. Nel ricordarlo così tranquillo e sereno a poche ore di distanza da quel momento, il suo sgomento si estese. Quello che gli stava raccontando Tyler era ingiusto; terribile ed ingiusto. Sia per lui, sia per Mason.

“Lui lo sa?” domandò infine con un filo di voce, tornando a rivolgere lo sguardo verso l’amico. L’uomo riprese a fissare il pavimento con aria assente.

“Non sa nulla.” rivelò in tono di voce asciutto, prima di sospirare una seconda volta. “Già è sconvolto così, figuriamoci quando dovrò parlargliene.”

“Starà bene, Tyler.” lo rassicurò Caroline cercò di dimostrarsi fiduciosa; gli appoggiò una mano sull’avambraccio. “Tu eri da solo quando hai scatenato la maledizione. Mason ha te.” 

Lo osservò irrigidirsi nel sentirla pronunciare quelle parole. Fino a quel momento, Tyler si era rifiutato di nominare a voce alta la direzione brusca che aveva preso quella sera il destino di suo figlio. La parola ‘maledizione’ lo schiaffeggiò con violenza, costringendolo ad affacciarsi alla realtà dei fatti.

“Ha suo padre…” gli ricordò Caroline, facendo pressione sul suo braccio. Esitò, nel riconoscere con esitazione la rabbia farsi strada tra i lineamenti dell’uomo.

“Sì, e che razza di padre sono?” ringhiò all’improvviso Tyler, alzandosi bruscamente. “Uno che porta il figlio a guidare di notte, perché non  riesce trovare nemmeno dieci minuti per farlo di giorno! Gli sono stato addosso per mesi, ma questa sera era seduto lì vicino a me e non ho potuto fare nulla per aiutarlo. Non sono nemmeno riuscito a guardarlo negli occhi, mentre scatenava la maledizione: Jerome Clay è morto dieci minuti fa e io non ero a casa con lui. Non lo sono nemmeno ora! Sono ancora qui, perché so che una volta fuori dovrò spiegargli tutto. E non posso farlo, non so come farlo. Non ce la faccio.”  concluse, incrinando il tono di voce e non riuscendo più ad aggiungere altro. Sbuffò, appoggiando una spalla alla parete e chinando lo sguardo per sfuggire a quello apprensivo di Caroline.

“Non ha nemmeno sedici anni.” mormorò infine fra sé tornando a sedersi, i lineamenti del volto contratti a respingere la nota di dolore intrappolata nel suo sguardo. La ragazza gli posò nuovamente una mano sul braccio, dispiacere e apprensione a contendersi il suo volto.

“Hai sempre fatto il possibile per cercare di proteggere i tuoi figli. Soprattutto Mason.”  affermò.  “L’incidente che avete avuto questa sera non era prevedibile; è successo e basta. Tu non hai colpa, così come non ne ha Mase.”

Tacquero entrambi per qualche minuto, prima che Caroline riprendesse a parlare.

“Starà bene, Tyler.” lo rassicurò ancora una volta, guardandolo con dolcezza. “Non sarà facile… non lo è stato neanche per te. Ma ce la farà, come ce l’hai fatta tu.”

L’uomo scosse il capo più volte.

“Lui non è me.” le ricordò a quel punto, riavviandosi i capelli con un gesto stanco della mano. “Mason è…” si interruppe, non sapendo bene come proseguire. Tutto ciò che avrebbe potuto aggiungere per completare la frase impallidiva, di fronte al pensiero di ciò che avrebbe dovuto affrontare suo figlio ad ogni luna piena. “…penso che ormai tu abbia capito che tipo di persona sia.”

“Lo aiuteremo.” riprese Caroline in tono di voce fermo, e guardandola, Tyler riscontrò nel suo sguardo un rinnovato barlume di fiducia: per un attimo gli ricordò la Caroline che gli aveva dato una mano diversi anni prima, la sera in cui lui stesso aveva scatenato la maledizione; anche quella volta lei era rimasta con lui: lo aveva guardato allo stesso modo in cui lo stava fissando in quel momento.

“Mason non è solo, Tyler.” ripeté la ragazza,destandolo dai suoi pensieri. “Ci sei tu, c’è Lydia. Ci sono i suoi fratelli. E io manterrò fede alla mia promessa.”  aggiunse, tornando a scrutarlo con determinazione. “Ho detto che l’avrei tenuto d’occhio e intendo continuare a farlo. Lo proteggeremo.”

Quelle parole risvegliarono in Tyler un improvviso campanello d’allarme. Qualcosa che fino a quel momento aveva accantonato in un angolo risalì in superficie, mentre le sue iridi tornavano a cerchiarsi di decisione.

“Nessuno deve sapere che è stato Mase a provocare l’incidente.” dichiarò con fare risoluto. “Ero io che stavo guidando. Sono io che ho perso il controllo dell’auto.”

La ragazza annuì.

“Pensi che il Consiglio c'entri qualcosa con quello che è successo questa sera?” domandò, preoccupata. “Mia madre e Matt credono che Fell stia cercando di ripristinarlo”.

Tyler si passò una mano sotto il mento.

“Non lo so.” ammise infine, recuperando il cellulare dalla tasca e controllando il display: il numero di messaggi non letti era aumentato rispetto a quando aveva controllato per l’ultima volta; ce n’erano alcuni di Matt e uno di Jeremy, ma gli altri erano tutti di Ricki. Si chiese se i suoi figli fossero sul punto di addormentarsi o se lo stessero aspettando entrambi, in attesa di risposte. Pensò a sua figlia Caroline e fu grato al pensiero di sapere almeno lei al sicuro e all’oscuro di tutto. “Sono preoccupato.” continuò, tornando a rivolgersi alla ragazza. “Ricki ha avvertito il dolore alla testa, così come me e Mase. Così come te. Questa cosa mi fa pensare alle streghe, più che al Consiglio.”

 “Ci avevo pensato anch’io.” ammise Caroline, alzandosi in piedi e incominciando a camminare avanti e indietro per il corridoio. “Ma non ha senso…”

Tyler ripose il cellulare nella tasca e sbuffò, annunciando qualcosa che avrebbe voluto dire già da un po’.

“Penso che Fell sappia della maledizione…” spiegò, portandosi le braccia sul petto. “Ci sta osservando da mesi; se ne è accorto persino Ricki ed è stato qui due settimane appena. Fell è arrivato perfino a fare il terzo grado a mia madre; se sa di noi, può darsi che sappia anche come si scatena la maledizione. Per questo…” incominciò, cambiando bruscamente espressione. Il suo sguardo si fece nuovamente teso. “…devono pensare tutti che sia stato io a provocare l’incidente.” ribadì in tono di voce deciso. “Mase sarà al sicuro fintantoché crederanno che a uccidere quell’uomo sia stato io.”

“Non gli accadrà nulla.” lo rassicurò Caroline. Addolcì la sua espressione nel notare il suo rinnovato nervosismo e l’insistenza con cui Tyler aveva ripreso a tirare fuori il cellulare dalla tasca. “Adesso vai a casa.” lo incoraggiò, posandogli una mano sulla spalla. “Va’ da lui.”

L’uomo annuì brevemente, seppur restio ad abbandonare l’ospedale. Aveva paura e la vergogna continuava a pungolarlo con insistenza per questo. Aveva paura di guardare in faccia Mase, e di ammettere a sé stesso che non avrebbe potuto aiutarlo, non questa volta. Non sapeva che cosa avrebbe potuto dirgli per rassicurarlo, per farlo stare meglio.  Si alzò ugualmente, volgendo appena il capo per incrociare lo sguardo di Caroline.

“Grazie.”  le disse semplicemente. Caroline gli sorrise.

“Passo a controllare la zona dell’incidente, prima di tornare a casa.” lo rassicurò, raggiungendolo per abbracciarlo. “Chiamami domani, fammi sapere come sta Mason.” aggiunse.  L’uomo annuì.

“Buonanotte, Caroline.”  la salutò, prima di abbandonare il corridoio e di dirigersi verso le scale. Non appena uscì dall’ospedale, il suo sguardo saettò istintivamente verso l’alto: la luna era a malapena visibile quella sera, eppure a Tyler la sua luce parve più luminosa e insistente che mai. Avvertì il suo peso gravargli sulle spalle e improvvisamente accelerò il passo in direzione della tenuta dei Lockwood, deciso a raggiungere casa – suo figlio - il prima possibile.


If you can hear me now
I'm reaching out
To let you know that you're not alone

Lullaby. Nickelback

***

 

“Stai bene?”

Lydia domandò, non appena  distinse la sagoma del marito nel corridoio. Tyler annuì brevemente. Abbracciò forte sua moglie e avvertì la tensione e il nervosismo allentare appena la presa. Lydia era così: quando lo toccava, quando lo stringeva, gli infondeva sicurezza; spesso sapeva essere abbastanza forte per tutte e due. Ma non quella notte; in quel momento, c’era bisogno che lo fosse anche lui. Si voltò a fissare la porta che dava alla camera di Mase: Lydia era rimasta sulla soglia fino all’arrivo del marito.

“Ti sta aspettando.” gli sussurrò la donna con dolcezza. “Vai.”

Tyler annuì. Aprì la porta e, aguzzando lo sguardo nell’oscurità della stanza, individuò all’istante il profilo del suo figlio minore.  Mase era accovacciato sul letto, le spalle appoggiate al muro e le braccia a cingersi le ginocchia.

“Papà?” domandò esitante, aggrottando le sopracciglia e guardando meglio, per assicurarsi che fosse lui. Tyler si sedette sul letto accanto al ragazzo.

“Sì, sono io.” lo rassicurò, tendendo una mano nel buio per sfiorargli una spalla. Lo sentì tremare; notò anche che respirava con forza, quasi avesse il fiatone.

“Stai bene?” domandò, aumentando la pressione sulla sua spalla. Mase esitò, prima di rispondergli.

“Ho rotto la lampada.” ammise infine, indicando il comodino con un cenno nervoso del capo, nonostante fossero al buio. “Non so come abbia fatto. Mi sono alzato di scatto perché mi girava di nuovo la testa. Mi bruciavano gli occhi, volevo accendere la luce.”

“Non fa niente...”

“Ho cercato l’interruttore e quando ho premuto il bottone di accensione… l’ho rotto. Si è aperto in due. E poi mi è venuta voglia di rompere anche il resto. Ero arrabbiato, non lo so perché, non capisco che…”

“Non importa, Mase.” cercò di ribadire il padre, ma il ragazzo proseguì ugualmente.

“Credo che mi sia successo qualcosa.” ammise a quel punto, stringendosi nelle braccia. “M-mi fa male la testa, mi fanno male gli occhi, bruciano. Fo-forse è successo quando ho sbattuto contro il volante. F-forse dovrei tornare in ospedale.”

“Hai solo bisogno di riposare.” lo rassicurò il padre, continuando a stringergli la spalla; un po’ più forte, per cercare di mantenersi calmo. Tentò di parlargli, di spiegarli, ma non fu in grado di aggiungere nulla. “Stai tremando.” costatò infine.

“Sì.” ammise il figlio.

“Hai freddo?”

“No.”

“Hai paura?”

“Non lo so!” esclamò infine Mason, lasciando ricadere il capo all’indietro, per appoggiarsi alla parete. “Non lo so. Non so se ho paura o se sono arrabbiato… non so perché mi brucino gli occhi, non so perché mi faccia male la te…”

Si interruppe, passandosi una mano sulla fronte. Tyler cercò di distinguere i suoi lineamenti al buio.

“Papà, i punti…” mormorò a quel punto il ragazzo, passandosi una mano sul sopracciglio ferito. Il padre sospirò. “Il ta-taglio che avevo sulla fronte; no-no-non lo sento più.”

Tyler smise di stringergli la spalla e sfiorò il capo del figlio con la mano, alla ricerca di una ferita che non c’era più. Si soffermò a passargli una mano fra i capelli e le lacrime che fino a quel momento non c’erano state gli rigarono traditrici una guancia. Aveva voglia di avvicinarselo maldestramente al petto, di prenderlo in giro e arruffargli i capelli, come faceva quando era bambino. Come quando il figlio stringeva la mano a pugno attorno alla manica della sua camicia, per sedare le sue paure. Aveva voglia di ridere, di sdrammatizzare, per riuscire a strappargli a sua volta un sorriso. Voleva recuperare uno di quei momenti in cui era riuscito a guardarlo e negli occhi e dirgli che gli voleva bene. Spiegargli che non c’era bisogno di avere paura di tutto, perché non c’era creatura al mondo che avrebbe potuto ferirlo: perché Mase era suo figlio, e perché lui era suo padre. Lui non l’avrebbe permesso. Voleva promettergli ancora una volta, come aveva fatto più volte in passato, che nessun lupo si sarebbe mai avvicinato a lui: ma sarebbe stata una menzogna.

Perciò non lo fece. Non fece nulla di tutto questo.

Si limitò a tacere, la mano ancora appoggiata sul suo capo, e quando Mason si voltò a fissarlo intuì all’istante che le cose non sarebbero andate meglio. Qualcosa era successo: suo padre gli aveva mentito. Tutti gli avevano mentito.

“C-Che mi sta succedendo?” chiese in tono di voce flebile, la paura disegnata tra i suoi occhi.

Tyler non seppe rispondergli: tutto ciò che riuscì a pronunciare, fu l’ennesimo “mi dispiace”.

 

Richmond, Virginia Commonwealth University.

Julian stiracchiò svogliatamente un braccio per interrompere la suoneria della sveglia e si voltò dall’altra parte. Venti minuti più tardi scattò sull’attenti, ricordando all’improvviso cosa aveva in programma di fare quella mattina. Si sollevò a sedere sbadigliando, la mente ancora rivolta alla telefonata che aveva avuto con la sorella la sera precedente. Autumn non si era fatta sentire all’orario stabilito e nemmeno più tardi, quando, preoccupato, aveva tentato di cercarla sul cellulare. Alla fine erano riusciti a scambiarsi due parole su Skype in tarda nottata, ma nessuno dei due aveva ancora toccato l’argomento ‘magia’, nonostante ci avessero entrambi girato attorno più volte; anche se non poteva averne la certezza, Julian si era convinto dal modo in cui gli aveva parlato che a Autumn fosse sul serio successo qualcosa legato alla magia. O forse, era solo quello che avrebbe desiderato accadesse. Non conoscere nessun altro che fosse come lui era spesso frustrante, per Julian. Amava quell’aspetto di sé, per quanto fosse a malapena in grado di usarlo e prendersene cura: gli sarebbe piaciuto avere qualcuno con cui condividerlo, con cui confrontarsi ed esercitarsi. Se Autumn era una strega, la faccenda avrebbe di certo giovato al loro rapporto.

Non essendo riuscito a discutere con lei di magia, non aveva nemmeno avuto la possibilità di parlarle del grimorio, per chiederle di trovare l’incantesimo che stava cercando. Intestardito dall’assenza di novità, una volta chiusa la chiamata con la sorella, aveva tirato nuovamente fuori dal cassetto il suo quaderno di formule. L’aveva esaminato per una buona mezzora, ignorando l’ora tarda, e alla fine era riuscito a individuare una formula che avrebbe potuto essergli utile. Stando quello che aveva scritto, serviva a ritrovare cose o persone che avevano qualcosa in comune – parenti, oggetti dello stesso materiale e forse, Julian ci sperava, anche due stregoni. Aveva deciso di fare un tentativo quel mattino, sapendo che il professor Ringle si sarebbe sicuramente diretto al pub la mattina presto. Per quello aveva puntato la sveglia, ma come al solito la puntualità non era stata dalla sua nemmeno quel giorno.

Si vestì in fretta e si ricordò di prendere le chiavi per un soffio, prima di uscire sul pianerottolo. Nel raggiungere il bar, incominciò a sentirsi nervoso; era deciso a scoprire se Ringle fosse uno stregone o no, ma in fondo non aveva idea di cosa avrebbe fatto in caso la risposta fosse stata sì. Gli avrebbe parlato? In fondo, forse avrebbe fatto meglio a tenersi distanza da lui, visto ciò che era successo il giorno del compito in classe. Julian diede una scrollata di spalle e si intrufolò nel pub. Scrutò i vari clienti seduti al tavolo e individuò facilmente l’insegnante di chimica seduto verso la fine del locale.

“Non eri a riposo, tu?” una voce brusca lo richiamò dai suoi pensieri. Arielle lo superò camminando spedita, il vassoio in bilico sulle mani. Il castano-rossiccio naturale dei suoi capelli era stato sostituito di recente da un rosso acceso che spiccava vivace sulla divisa da lavoro, rendendola riconoscibile anche a parecchi metri di distanza.

 “Ciao anche a te!” la salutò in risposta Julian, ormai abituato all’atteggiamento ostile della ragazza.  Tirò fuori le mani dalla tasca e focalizzò nuovamente l’attenzione sull’insegnante, la formula bene a mente. Per far si che l’incantesimo funzionante, c’era bisogno che i due elementi analizzati si toccassero. Doveva fare in modo che Ringle avesse un contatto con lui. Si affrettò a correre in bagno per infilarsi la camicia della divisa.

“Ehy, Krew!” si rivolse a uno dei colleghi di lavoro una volta tornato nella sala principale. “Sono appena arrivato per il turno.” spiegò, sicuro che il compagno non avrebbe trovato nulla da ridire, al contrario di Aria. “Che porto al professore all’ultimo tavolo? Mi ha chiesto di sbrigarmi a servirlo e in maniera non proprio carina. ” Krew, che aveva appena attraversato il bancone, gli porse il suo vassoio.

“Tieni.” dichiarò, prima di avviarsi verso la cucina. “Meglio tu che io.” Julian sorrise fra sé; si aggrappò istintivamente ai manici di plastica e incominciò a dirigersi verso Ringle, l’incantesimo da formulare ben impresso in mente; il fruscio non tardò a farsi sentire. Non sapeva bene cosa sarebbe successo, una volta che la sua mano avesse sfiorato il braccio con l’insegnante, ma tanto valeva provarci: pronunciò mentalmente la formula quando ormai aveva quasi raggiunto l’uomo e siinnervosì, quando si accorse che il professore aveva preso a fissarlo. Gli rivolse un’occhiata insospettita e Julian perse per un attimo la concentrazione. Superò l’ultimo metro che lo separava dal tavolo di Ringle.

“Ecco qui.” esclamò, appoggiando il vassoio sul tavolo, in maniera che fosse particolarmente vicino al braccio del professore. La sua mano era sul punto di toccarlo, quando il suo gomito incominciò a tremare: qualcuno lo aveva afferrato per il braccio.

“Che cosa…” mormorò fra sé, mentre la persona lo trascinava lontano dai tavoli, il tremore al braccio ancora presente: quella sensazione gli ricordava incredibilmente il fruscio. La magia sbatacchiava contro la sua pelle, cercando di entrare in contatto contro quella della persona che lo aveva afferrato per il gomito; era una ragazza dallo sguardo immusonito che camminava rapida, senza degnarlo di uno sguardo: Aria.

“Sei una strega?” domandò a quel punto Julian, rivolgendole un’occhiata incredula. Arielle lo zittì con un’occhiataccia e continuò a guidarlo, fino  a quando non furono fuori dal locale.

“Tu sei fuori di testa!” esclamò a quel punto, portandosi le braccia sul petto. “Prima l’allarme anti-incendio e adesso questo! Completamente fuori di testa!” 

“Aspetta, aspetta…L’allarme anti-incendio?” Julian la interruppe. “Sei stata tu a cercare di impedirmi di farlo partire?” Aria strinse le labbra e non disse nulla. Julian continuò a fissarla, nella speranza che aggiungesse altro. Ricordava di averla avuta come vicina di banco, il giorno del test di chimica. La rosicchia-matite. La secchiona: era lei la strega; Ringle non centrava nulla.

Inspiegabilmente, sorrise.

“Non dovresti impiegare i tuoi poteri per stupidaggini come i compiti in classe.” commentò infine la ragazza, sistemandosi un ciuffo di capelli che era sfuggito alla coda.

Julian le rivolse un’occhiata confusa.

“E per cosa dovrei usarli, allora?” Aria lo ignorò.

“Non dovresti nemmeno usarli in posti dove possono vederti tutti.”

“Nessuno ha capito nulla di quello che è successo in cla…”

“E poi che cosa stavi cercando di fare con Ringle?” aggiunse ancora la giovane, continuando ad ignorare i suoi commenti. Julian prese ad arrotolarsi il colletto della camicia con un dito.

“Pensavo fosse uno stregone.” ammise infine. Da ostile, lo sguardo della ragazza si fece incredulo; alla fine, scoppiò a ridere. Julian fu quasi sorpreso; era la prima volta che la sentiva ridere.

“Ringle uno stregone?” chiese la ragazza in tono di voce divertito.

Il giovane annuì. “Perché no?”  Aria scosse il capo con aria incredula, ma non aggiunse altro.

“Da che stirpe di streghe discendi?” domandò infine, prendendo a scrutarlo con aria di sufficienza. “Non ho mai sentito parlare dei Morgan…”

 “Mi madre è una Bennett.” spiegò Julian, abbozzando un sorriso. La ragazza si irrigidì.

“Ah.” Si limitò a commentare, indirizzandogli un’occhiata diffidente. Arretrò di un passo, sotto lo sguardo sbigottito del ragazzo. “Adesso si spiega tutto.”

“Perché?” domandò un sempre più confuso Julian. “Che cos’è che si spiega?”

 “La mia antipatia nei tuoi confronti.” spiegò la giovane, portandosi nuovamente le braccia al petto. “Sei un Bennett, per forza non mi piaci.”

“Che c’è di male nell’essere un Bennet?” domandò ancora Julian, sempre più confuso. “Tu da che famiglia discendi?”

La ragazza roteò gli occhi.

 “Ma non sai proprio niente?” domandò a quel punto. “Da generazioni, diverse famiglie di streghe sono ostili ai Bennett, perché voi finite sempre per immischiarvi in faccende che non vi riguardano.”

“Beh, io non ne sapevo nulla.” ammise il ragazzo. “Mia madre non mi ha mai raccontato molto sulla nostra discendenza; ma forse potresti dirmi qualcosa tu.” azzardò.

Aria lo squadrò con aria diffidente, prima di scuotere il capo, risoluta.

“Preferisco averci a che fare il minimo indispensabile con te”.  ammise infine, dandogli le spalle per tornare al locale. Julian la afferrò per il polso.

“Per favore!” la pregò. Il gomito incominciò nuovamente a tremarle. “Non conosco nessuno come me,oltre mia madre. Lascia che ti faccia almeno qualche domanda; prendiamoci qualcosa, un caffè , e poi prometto che ti lascerò in pace.”

Aria gli rivolse un’ultima occhiata indecisa, prima di annuire.

“Possiamo incontrarci dopo il turno di lavoro.” acconsentì, interrompendo bruscamente il contatto fra il suo polso e la mano di Julian. “Mezzora e non di più.” ribadì, prima di allontanarsi in direzione del locale.

Il giovane continuò a sorridere, osservandola allontanarsi.

“Non mi hai ancora detto da che famiglia discendi!” le gridò dietro quando la ragazza aveva ormai raggiunto le porte del pub. Aria si voltò per fulminarlo ancora una volta con lo sguardo.

“Non urlare!” lo rimbeccò, prima di scuotere il capo, esasperata. “Di cognome faccio Walcot.” Spiegò, prima di scomparire all’interno del locale.

***

Quel mattino, Ricki si svegliò con un forte mal di testa e un nervosismo marcato, che lo spinsero ad uscire ancor prima che Jeffrey si svegliasse. Percorse rapido il tragitto che lo separava dalla tenuta dei Lockwood e una volta rincasato ignorò la porta di camera sua e quella di Caroline per introdursi nella stanza di suo fratello: Mase stava ancora dormendo. Rimase per un po’ nella sua stanza, analizzandolo con attenzione, per assicurarsi che stesse bene; sembrava tranquillo e questo lo rincuorò lievemente. Eppure, il nervosismo rimase. Il brutto presentimento trovò conferma qualche minuto più tardi, quando Tyler lo raggiunse in camera di Mason. Prese posto accanto a lui e lo guardò brevemente, prima di spostare la sua attenzione verso il figlio più piccolo: Ricki non ebbe bisogno che il padre aggiungesse nulla. Gli era bastato incrociare il suo sguardo per comprendere a fondo quello che già aveva incominciato a intuire la sera precedente: l’apprensione si trasformò in rabbia.

“Perché lui?” aveva domandato al padre più tardi, nel pomeriggio. Calciò malamente la valigia ancora aperta in mezzo alla stanza, dopo esserci inciampato per l’ennesima volta. “Perché il mio fratellino?”

Tyler sedeva sul letto e lo osservava in silenzio, le braccia incrociate sul petto, l’espressione tesa.

“Non lo so.” ammise infine, incrociando lo sguardo del figlio. “Non lo so.”

Richard sospirò, decidendosi a lasciar stare la valigia.

“Non gli hai detto ancora nulla, vero?” domandò, guardando il padre dritto negli occhi. Tyler si sforzò di ignorare una fitta di fastidio, nel notare nello sguardo del figlio una nota di rimprovero.

“Qualcosa.” ribattè secco, passandosi una mano fra i capelli. “Non so bene come parlagliene; non è facile spiegare una cosa del genere a un figlio. Io l’avevo scoperto da solo. Tu anche.” aggiunse, evitando di ricambiare il suo sguardo.

Ricki scosse il capo con aria rassegnata, prima di scavalcare la valigia, puntando alla porta.

“Dove stai andando?” domandò a quel punto il padre.

“A cercare il vecchio diario di tuo zio Mason.” rispose Ricki, ricambiando il suo sguardo con aria determinata.  Padre e figlio si squadrarono per una manciata di secondi; infine, Richard si convinse a concludere la frase. “Se non riesci a farlo da solo, allora glielo diremo assieme.”

***

"Those who cannot remember the past are condemned to repeat it."

George Santayana

 

“Allora?” Caroline sbirciò oltre la spalla di Xander per individuare il voto sul suo compito di storia; il ragazzo voltò il plico di fogli e fece una smorfia, soffermandosi sulle note finali del professore.

“Diciamo che è  meglio del precedente.” ammise con un sorrisetto imbarazzato, passandole il compito.

D meno…” lesse ad alta voce la ragazza, prima di rivolgergli un’occhiata di rimprovero. Xander diede una scrollata di spalle.

“L’ultimo compito era una F più.” le ricordò, incominciando a picchiettare sul banco con gli indici. “La storia non mi entra in testa, non posso farci nulla.” proseguì poi. “È barbosa e mi fa venir voglia di dormire. E poi non si parla nemmeno mai di cibo…” 

“Mase potrebbe aiutarti.” ipotizzò la ragazza. Nel notare l’espressione poco convinta dell’amico, gli diede un colpetto sul braccio. “Cosa? Mio fratello piccolo è un genietto.” lo rimbeccò, decisa. Xander sorrise.

Secchione, non è esattamente sinonimo di genietto.” ribattè Xander, riprendendo a picchiettare gli indici sul tavolo. “Oh, era ora!” aggiunse, quando la campanella annunciò la fine della lezione. Caroline tornò ad analizzare il compito di Xander con aria assente.

“Ad ogni modo, non penso che in questo momento sia il caso di chiedere aiuto a Mase…” mormorò fra sé, ripensando all’espressione atterrita con cui l’aveva salutata quel mattino; non era nemmeno andato a scuola. Quando Caroline era rincasata dal lago, sua madre l’aveva presa da parte per raccontarle dell’incidente: sapeva che suo padre aveva perso il controllo dell’auto mentre stava guidando, la sera precedente, e che aveva investito un uomo. C’era anche Mase nella macchina, ma sia lui, sia il Tyler, ne erano usciti praticamente illesi. Eppure suo fratello continuava ad essere sconvolto. Caroline era preoccupata per lui; e a giudicare dal gioco di sguardi che aveva intercettato tra Ricki e i suoi genitori quel mattino, dovevano esserlo anche loro.

“’Tumn ci sta aspettando fuori per andare assieme a biologia.” esclamò la ragazza rivolta all’amico. “Sbrighiamoci.” aggiunse, incominciando a ritirare le sue cose. Xander la imitò, ma si fermò quando il suo sguardo capitò sul vecchio diario di Gilbert accantonato nel suo zaino: se l’era portato dietro per poterlo esaminare in tutta calma durante la pausa pranzo. Il che era strano per lui; detestava la storia – i suoi pessimi voti lo dimostravano – e non era nemmeno un gran lettore. Inoltre, ben poche cose erano in grado di distogliere la sua attenzione dal cibo, durante la pausa pranzo. Quel diario, però, lo incuriosiva.

“Voi incominciate ad andare.” comunicò a Caroline, infilandosi una bretella dello zaino. “Penso che andrò a implorare Lester di farmi rifare uno dei compiti.” ammise. Caroline gli diede una pacca sulla spalla e raggiunse il corridoio assieme ai compagni. Alexander si mosse in direzione della cattedra e attese che il professore incrociasse il suo sguardo, non sapendo bene che cosa dirgli: forse, in fondo, aveva mentito a Caroline. Forse non gliene fregava niente del compito di storia; forse era un altro, il motivo per cui aveva deciso di rivolgersi all’insegnante. Quando Lester lo notò smise di percorrere il registro con lo sguardo e si voltò verso di lui.

 “Che posso fare per te, Gilbert?” domandò, chiudendo il quaderno: nonostante insegnasse a Mystic Falls da poco, il suo era uno dei pochi cognomi che l’insegnante era riuscito a memorizzare quasi subito. Un altro era quello di Caroline. Xander ricambiò incerto il suo sguardo e frugò nuovamente nello zaino. La sua mano tentennò per un secondo sul diario di Jonathan Gilbert, ma alla fine si limitò a recuperare il compito di storia. Lo porse all’insegnante senza aggiungere nulla. Lester lo osservò brevemente, prima di tornare a rivolgersi a lui.

“Sì, me lo ricordo il tuo compito.” commentò pacato, restituendogli il foglio. “Sembra che tu non abbia nemmeno aperto libro.”

“No, l’ho aperto…” si difese maldestramente Xander. “…è solo che non sono molto bravo e ricordarmi le date e confondo tutti i nomi. E gli avvenimenti storici. E succedono sempre le stesse cose un po’ ovunque.” spiegò con imbarazzo. Lester, che fino a quel momento era rimasto impassibile, abbozzò un sorrisetto.

“L’essere umano è destinato a ripetere i propri errori di continuo.” rispose, voltandosi in direzione della lavagna; date e nomi di nazioni vi erano stati annotati sopra alla rinfusa col gesso.  “E la storia è fatta di uomini. E di errori. Gli scenari cambiano, ma il succo è sempre lo stesso. In pochi ci fanno caso; le persone credono spesso che il passato non sia importante e così lo dimenticano; c’è chi pensa sia pericoloso e chi crede di poterlo eliminare fingendo che non sia mai accaduto. Eppure non funziona così; ogni cosa, è destinata a ripetersi. Che ci piaccia o no, siamo intrappolati in una sorta di circolo vizioso.”

Xander annuì svelto, non riscendo a mascherare l’imbarazzo sul suo volto: non aveva seguito gran parte del discorso del professore.

“Vorrei recuperare l’insufficienza.” ammise infine, cercando di cambiare di scorso. Lester annuì brevemente.

“In che modo?” chiese, tornando a voltarsi verso di lui. Il giovane sgranò gli occhi, confuso.

“Non lo so.” ammise, giocherellando con il foglio che teneva ancora in mano. “Compiti extra?” propose, rabbrividendo al solo pensiero. Lester lo osservò per qualche istante, i polpastrelli a sfiorare ripetutamente la superficie del registro. Xander ricambiò lo sguardo; si rese conto solo in quel momento che l’insegnante doveva essere piuttosto giovane. Più giovane di suo padre di sicuro. Probabilmente si aggirava tra i trenta e i trentacinque anni.

“La mia materia non ti piace, giusto?” domandò ancora Lester, recuperando un libro di testo che uno studente aveva lasciato sul banco di fronte alla cattedra. “Ma ci sarà pure un argomento che ti stuzzica. Qualcosa che ti incuriosisce maggiormente, rispetto ad altri argomenti più noio…”

“Sono interessato alla storia locale.” ribattè Xander in fretta, interrompendolo. “Mystic Falls.” Lester aggrottò le sopracciglia e gli rivolse un’occhiata sorpresa.

“Che periodo, con esattezza?” chiese ancora. Alexander esitò; per un attimo fu quasi sul punto di tirare fuori il vecchio diario di Gilbert, ma alla fine decise di non farlo.

“Il 1864.”  ammise, passando istintivamente una mano sul fondo dello zaino. “Ho sentito di alcune… ‘leggende’ – non so se si può dire così – che parlano di quel periodo… cose un po’ folli, veramente.”

L’interesse nello sguardo di Lester si accese, “Leggende in merito a che cosa?”

Xander arrossì, prima di rispondergli. “Ai vampiri.” 

Aveva abbassato di molto il tono di voce, sentendosi più stupido ogni secondo che passava. Si sorprese, nel notare che l’insegnante aveva nuovamente preso a sorridergli.

“Sei bene informato.” dichiarò asciutto Lester, scrutandolo con espressione interessata. Xander annuì.

“So che sono solo dei racconti, ma… ho letto qualcosa da qualche parte e mi sono incuriosito.” proseguì, appoggiando il compito sulla cattedra e infilandosi le mani in tasca. Rivolse un’occhiata esitante al professore, prima di domandargli: “Può parlarmene?”

Lester soppesò la sua domanda, prima di annuire.

“Ti dirò quello che so.” acconsentì infine, alzandosi. “Ma prima, voglio vederti recuperare queste insufficienze. Portami una relazione: argomento a scelta. Fai domande in giro, vai in biblioteca… e quando avrai finito, ti parlerò del 1864. E dei vampiri.” aggiunse, scrutandolo con attenzione. “Potrebbe andare bene?”

Xander annuì in fretta, sforzandosi di spazzare via l’aria inebetita che aveva fatto capolino sul suo volto.

“Mi andrebbe bene, sì. Più che bene.” approvò, spostandosi per permettere a Lester di passare. “Grazie!”

“Allora abbiamo un accordo.” dichiarò a quel punto l’insegnante, tendendogli la mano. Xander la strinse, abbozzando un sorriso.

“Sì, certo. Grazie ancora!”

Lester annuì.

“E adesso faresti meglio ad andare a lezione.” osservò l’insegnante, indicandogli la porta con il capo. Xander gli diede le spalle per raggiungere la porta, ma si fermò sulla soglia

“Professore?” lo richiamò esitando, prima di voltarsi nuovamente verso Lester. Attese che ricambiasse il suo sguardo, prima di proseguire. “Come si fa a capire se in certe leggende c’è del vero o se sono… insomma, leggende e basta? Come si fa a capire se non è tutta follia?” chiese, tentennando incerto sull’ultima parte.

Lester recuperò le sue cose e lo raggiunse.

“Di rado si tratta di semplice follia.” rispose, chiudendosi la porta dell’aula alle spalle. “C’è sempre qualcosa dietro le leggende, Gilbert. Qualcosa che non dovremmo permetterci di ignorare, anche se spesso viene fatto.”

“Che cosa?” domandò ancora Xander, incuriosito. Lester sorrise appena. “C’è la storia.”

***

Ricki attraversò il cortile della tenuta con le mani in tasca, lo sguardo a rincorrere distratto lo zampettare irregolare di un corvo. Lo osservò spiccare il volo con aria inespressiva, appoggiando il gomito alla cassetta delle lettere.

“Attenzione, prego!” una voce femminile lo distolse dai suoi pensieri; Ricki voltò pigramente il capo verso destra. “Victoria Donovan sta attraversando il viale! Ho pensato di avvisarti in anticipo del mio arrivo.” aggiunse Vicki raggiungendolo di corsa, un sorriso vispo ad arricciarle gli angoli delle labbra. “Ha funzionato! Questa volta non hai sbattuto la testa contro la cassetta delle lettere!” dichiarò entusiasta, alludendo all’episodio di due settimane prima.

Ricki roteò gli occhi, appoggiando anche la schiena alla cassetta.

“Sei qui per qualcosa in particolare, Vic?” domandò, recuperando l’espressione assente di poco prima. Vicki smise di sorridere e il suo sguardo si fece più comprensivo.

“Come stanno tuo padre e Mase?” domandò, analizzandolo con attenzione. “Oliver mi ha detto che Mase era molto scosso.”

Ricki annuì, pur continuando ad evitare il suo sguardo.

“Stanno bene.” annunciò infine, portandosi le braccia sul petto. “Mase sta bene. È agitato e ancora un po’ spaventato, ma sta bene.” ribadì, deciso.

Victoria annuì; gli rivolse un’ultima occhiata indecisa, prima di incominciare a trafficare con la sua borsetta.

“In effetti sì, sono passata a parlarti per qualcosa in particolare.” Ammise infine, spalancando i due lembi della borsa e avvicinandosela alla testa: per un attimo Ricki si trovò a domandarsi se ce l’avrebbe infilata dentro; con Vicki, non si poteva mai sapere.

“Devo chiederti una cosa.” ammise a quel punto la ragazza, lasciando perdere la borsetta.. “…e no, non è una proposta indecente, quindi non c’è bisogno che mi guardi in quel modo. Anche se in effetti mi verrebbe più facile parlare di qualcosa di simile, perché almeno lì non mi preoccuperei di pensare a cosa dire nel caso tu non mi crede…”

“Vic, per favore…” la interruppe in quel momento Richard, portandosi le mani alle tempie. “…torna sulla Terra e arriva dritta al punto. Ho un mal di testa assurdo.” aggiunse, con una smorfia. Vicki sospirò ancora una volta, cercò di soffiarsi via un ciuffo di capelli dagli occhi e alla fine ci rinunciò.

“Ieri sera stavo andando a trovare ‘Tumn e ho pensato di accorciare il tragitto, passando dietro casa vostra.” incominciò, sforzandosi di evitare le divagazioni. “Mentre passavo, ho notato la macchina dello sceriffo parcheggiata sul retro e mi sono ricordata che quando sei tornato mi avevi chiesto se non l’avessi visto spesso da queste parti, e così…”

“Lo sceriffo Fell era qui?” la interruppe bruscamente Ricki. Vicki gli fece cenno di tacere con la mano.

“No, aspetta, non fermarmi o perdo il filo del discorso e poi incomincio a divagare.” ammise, prima di sorridergli con una punta di malizia nello sguardo. “E poi se mi guardi così, non riesco a proseguire!” aggiunse, sbattendo le ciglia. Ricki sbuffò, scuotendo il capo con aria esasperata. Vicki estese il suo sorriso.

“Dicevo… lo sceriffo aveva parcheggiato dietro casa vostra ed essendomi ricordata di quello che mi avevi detto, sono rimasta un po’ fuori ad aspettare, per vedere se si faceva vivo. L’ho sorpreso poco più tardi nel giardino di casa vostra e aveva in mano una scatola; non so se fosse sua, vostra, o di un alieno che proviene da Marte, fatto sta che…”

 “Com’era fatta questa scatola?” la interruppe ancora Richard, rivolgendole un’occhiata a metà tra l’allarmato e il furibondo. Vicki diede una scrollata di spalle.

“Una scatola di legno, più o meno sarà stata grande quanto uno dei tuoi palloni da calcio.” spiegò, riprendendo a frugare nella sua borsetta.

“Fatto sta che, da quella scatola, è uscito fuori questo.” ammise infine, porgendogli la rotellina di metallo che era caduta a Fell la sera prima. La porse a Ricki, che se la appoggiò sul palmo della mano. Il ragazzo incominciò ad analizzarla con le sopracciglia aggrottate. Victoria si morse un labbro.

“Lo so che suona assurdo…” ammise, appoggiando una mano alla cassetta delle lettere. “…ma ti giuro che è successo sul serio. L’ho visto con i miei occhi, lo sceriffo era qui.”

Ricki continuò ad esaminare la rotellina, ignorando le parole della ragazza. Per un po’ rimase in silenzio, ma alla fine si lasciò scivolare l’oggetto in tasca e tornò ad appoggiarsi alla cassetta delle lettere.

“Quel bastardo…” commentò infine con rabbia, portandosi le braccia al petto. Vicki assunse un’espressione più sollevata.

“Quindi hai capito che cos’è?” domandò, sfilandosi ancora una volta un ciuffo di capelli dagli occhi. “Avevo ragione, è qualcosa di vostro?” Ricki sbuffò.

“Non ne ho idea, può darsi.” commentò infine, tornando a rivolgersi alla ragazza. “Lo porto a mio padre, di sicuro ci capirà qualcosa più di me.”

Victoria estese il suo sorriso.

“Allora mi credi?” domandò, vivace. Richard si trovò costretto ad annuire.

“In altre occasioni non ti avrei creduto.” chiarì comunque subito dopo. “Ma stiamo parlando di Fell. Ci gironzola attorno a casa da un sacco di tempo, te l’avevo detto. E dopo quello che è successo ieri sera…” la sua espressione tornò a indurirsi, nel momento in cui riprese a pensare al fratello. Quel pomeriggio, aveva aiutato il padre a raccontargli della maledizione. Fin da subito, Mase si era rifiutato di credere a qualcosa di così assurdo. Alla fine, non avevano potuto fare altro che mostrargli il video girato dallo zio di Tyler, Mason senior, durante la sua prima trasformazione; da quel momento in poi, Mase non aveva più aperto bocca. A Ricki continuava a tornare in mente la sua espressione terrorizzata.

 “Sei carino a credermi, comunque!” annunciò a quel punto Vicki, tamburellando con le dita sulla cassetta delle lettere. “Tanto carino.”

Richard mise da parte le sue riflessioni, per rivolgerle un’occhiata di ammonimento.

“Se preferisci sentirti dire che sei brutto, ti dirò che sei brutto.” proseguì la ragazza con decisione.

Ricki roteò gli occhi, pur lasciandosi sfuggire un sorrisetto.

“Buonanotte, Vic!” la salutò, staccandosi dalla cassetta delle lettere e recuperando dalla tasca la rotellina di metallo. “Grazie per questa.” aggiunse, facendosela saltare sul palmo della mano.

Vicki esitò; esaminò impensierita l’espressione del ragazzo che era tornata ad indurirsi: di rado, l’aveva visto così serio e abbattuto.

“Senti…” incominciò a quel punto, chiudendo la borsetta con uno scatto secco della cerniera. “Qualsiasi cosa stia capitando con lo sceriffo o per il resto… io e la mia famiglia ci siamo. Lo sai. Se c’è qualcosa che possiamo fare per te… o per Mase…”

Ricki scosse il capo, passandosi poi stancamente una mano fra i capelli.

“Lo so… grazie, Vic.” rispose infine, sorridendo debolmente in cenno di riconoscenza.  “Ma non c’è niente che possiate fare per lui.”

Per un attimo, fu tentato di dirle tutto. Senza motivo, così. Voleva sputare fuori ogni cosa: parlarle della maledizione, descriverle l’espressione atterrita di suo fratello, il mal di testa provato la sera precedente, il terrore provato cinque anni prima nel riconoscere suo padre in una bestia incatenata al muro. Tutto.

“Vado a portare questa a papà.” farfugliò invece, chiudendo la mano a pugno attorno alla rotellina di ferro. Vicki si limitò ad annuire. Fece per incominciare a correre, ma si voltò quasi subito, un dito allacciato a una ciocca di capelli.

Si avvicinò a Ricki di qualche passo e lo abbracciò. Il ragazzo la lasciò fare, sorpreso per via del gesto improvviso.

“Buonanotte, Ricki.” lo salutò Victoria separandosi da lui, prima di riprendere a correre.

Richard la osservò allontanarsi in silenzio, la rotellina di metallo ancora stretta in pugno.

***

Jeremy premette il tasto di chiamata e si portò il cellulare all’orecchio. Mentre lo ascoltava squillare, sbirciò oltre la porta socchiusa che dava sulla stanza del figlio minore; Oliver era seduto alla scrivania e gli dava le spalle, intento a costruire uno dei suoi modellini di aeroplano. Jeremy sorrise e si diresse verso la sua camera, ancora in attesa. Al terzo squillo, la persona che stava cercando, prese la chiamata.

“Ho avuto un altro dei miei soliti  incubi, questa notte.” rivelò l'uomo in quel momento, prendendo posto sul letto. “Solo che questa volta, eri tu a morire.”

Il suo interlocutore rise.

“Ah, io sto benissimo, Jer.” rispose Alaric, lasciandosi ricadere sulla poltrona. “Anche se starei meglio se non avessi finito le birre.” ammise; all’altro capo del telefono, Jeremy riuscì finalmente ad abbozzare un sorriso.

“Tu stai bene? Elena? Hazel e i ragazzi?” chiese ancora Rick.

“Tutto bene.” lo rassicurò Jeremy, infilandosi istintivamente una mano nel taschino della camicia; l’ago dell’orologio-bussola era immobile, come al solito. “Però, Xander avrebbe bisogno di qualche ripetizione di storia...”

“Tua moglie ha ragione nel dire che ha proprio preso da te, allora!” scherzò l’altro uomo. “Mi spiace, ma non penso che potrei essergli di aiuto…” aggiunse poi ancora, accennando a un sorrisetto. “Ho chiuso con la storia. Quello che ho fatto mi basta e avanza per una vita intera.”

Jeremy sorrise; si domandò se stesse alludendo alla sua carriera da insegnante o a quella di cacciatore di vampiri.

“Non era di questo che volevo parlarti…” ammise infine. “Per caso quando sei passato qui l’ultima volta ti ho lasciato qualcuno dei diari di Jonathan Gilbert? Ero in soffitta, prima, e ho notato che ne mancano alcuni.” chiese. Alaric fece mente locale per qualche istante, ma si limitò a scuotere il capo.

“Non mi sembra.” Commentò. “Sei sicuro di non averli spostati?”

Jeremy si sistemò i capelli arruffati con la mano libera, cercando di ricordare quando fosse l’ultima volta che aveva messo piede in soffitta. In quel momento, Xander fece capolino sulla soglia.

“Papà, io esco!” annunciò, infilandosi alla svelta il giubbotto. “Ciao, zio Rick!” aggiunse ad alta voce, per farsi sentire da Alaric.

“Dagli dell’asino da parte mia.” rispose l’uomo; Jeremy si mise a ridere.

 “Domani proverò a guardare meglio in soffitta…” aggiunse poi, riportando il discorso sui diari di Gilbert. “È probabile che li abbia spostati e che non mi ricordi più dove li abbia messi.”

“Vedrai che spuntano fuori.” lo rassicurò Rick. “Stammi bene, Jer.”

“Anche tu.”  ribattè Jeremy, un po’ rincuorato. “A presto!”

Chiuse la chiamata e gettò il cellulare sul letto, lasciandosi ricadere a sua volta sul materasso. Chiuse gli occhi per qualche secondo, passandosi pigramente una mano fra i capelli. Li riaprì, quando avvertì una il tocco familiare sfiorargli il capo; sorrise.

“Ehy…” mormorò, mentre la moglie prendeva posto accanto a lui.

“Ehy!” ripeté Hazel, dandogli un colpetto col gomito per farsi spazio. “Xander mi ha appena detto che sta andando in biblioteca per studiare storia. Dici che dobbiamo preoccuparci?” chiese con aria divertita. Jeremy diede una scrollata di spalle, prima di sfiorarle il capo con un bacio. “Ti ha detto che è finito il gel?”

Hazel inarcò un sopracciglio.

“Almeno dieci volte.” rispose. “Ha attaccato il calendario delle partite sul frigo?” proseguì la donna.

“Sì, e ha già fatto fuori metà dei biscotti dal barattolo che abbiamo aperto questa mattina.” aggiunse Jeremy, con un sorriso. Hazel analizzò mentalmente la situazione, riflettendo con aria critica.

 “Allora non credo che dovremmo preoccuparci.” annunciò infine la donna, sollevandosi in piedi. “È tutto come al solito.” concluse con un sorriso furbo, prima di chinarsi ancora una volta, per baciare il marito. Jeremy ricambiò il bacio e la osservò allontanarsi con un sorriso. Si abbandonò nuovamente sul materasso e recuperò il cellulare, cacciandoselo in tasca.

Aveva ragione sua moglie, pensò. Tornò a chiudere gli occhi, passandosi poi una mano davanti alla bocca per mascherare uno sbadiglio.

Tutto procedeva come al solito.

 

Nota dell’autrice.

Prima di passare al polpettone parte seconda, comunico che da qualche mese ho aperto un gruppo facebook dedicato esclusivamente a questa storia. Lo uso per condividere informazioni sulla trama, spoilers, foto, sondaggi e millemila altre cavolate (e anche per prendere in giro un po’ i pargoli, sissì.) Lo trovate QUI, basta chiedere l’iscrizione.

Volevo anche ricondividere il sondaggio sui personaggi preferiti che è da un sacco che non lo faccio!Lo trovate QUI. Il sondaggio sulle coppie preferite, invece, lo trovate QUI.

Ok, torniamo a noi. In ritardo di millemila anni luce, eccomi qui con il mio ennesimo polpettone! A sto giro è davvero un polpettone iper-ripieno e lungherrimo, ma anche sta volta, dovevo sopperire a un mesetto e mezzo di assenza e ci è scappata una roba lunghetta, portate pazienza. Incomincio questo polpettone parte seconda chiedendovi scusa: ritardo a parte, so che alcune scene di questo capitolo non sono il massimo, avrei dovuto (e avrei potuto) scriverle meglio, ma mi sono lasciata prendere un po’ dalla fretta e certi pezzi li avevo scritti fin troppo tempo fa, quindi il risultato finale è stato un pasticcio. Ho cercato di sistemare un po’ tutto in fase di revisione, spero di essere riuscita a rendere in maniera quanto meno decente il tutto.

Passando direttamente al capitolo… *sta volta Laura si è preparata e si è portata dietro gli scatoloni per le scarpe che le verranno lanciate* ebbene sì: la storia si ripete. Il titolo, in questo caso, riprende due cose diverse. In primo luogo, ha a che fare con Mason e la maledizione, ma, come lascia suggerire la citazione iniziale del capitolo - tratta dalla conversazione Jeremy/Alaric nell’episodio appunto intitolato History Repeating – il giro di boa ce l’ha anche Xander a questo giro. E il riferimento alla storia che si ripete è letteralmente legato a lui, a Lester e alla storia intesa come materia, come avete potuto notare. Ma andiamo con ordine.

Oh, io ve l’avevo detto che la persona investita vi avrebbe fatto ridere. Il fatto è che a me non piace uccidere la gente a caso (ma tanto, virtualmente, vedrete che lo farò lo stesso xD) e poi volevo ridurre almeno di un poco il senso di colpa di Mase XD se gli avessi fatto investire un povero giovane nel fior fiore dei suoi anni o un uomo di mezz’età sposato con figli, mi sarei sentita troppo in colpa. E così gli ho appioppato il Ricki ubriacone del futuro XD Se non altro era anziano, e poi non aveva attraversato sulle strisce v.v

E quindi, Mason scatena la maledizione, ma nessuno (a parte Caroline, la sua famiglia e probabilmente Oliver) sa che è stato lui a provocare l’incidente; Fell in primis, crede che a guidare fosse Tyler, e quindi, ora che Clay è morto, saprà con certezza che papà Lockwood è un lupo mannaro.

Poi abbiamo Mase, che nonostante fosse indirettamente il protagonista del capitolo, non si è visto molto; ho preferito far passare tutto ciò che succedeva attraverso il punto di vista di Tyler e in parte quello di Ricki e serbare la reazione di Mase a quello che gli sta succedendo per il capitolo successivo. Già qui, comunque, l’abbiamo visto oscillare un po’. Il fatto che balbetti, come penso di aver già scritto da qualche parte, è qualcosa che si porta dietro dalla sua infanzia, e che a volte torna a infastidirlo (ovviamente in maniera più lieve). In genere quando è particolarmente nervoso, spaventato o turbato per qualcosa.

Poi c’è Tyler. Sono i pezzi in ospedale a cui mi riferivo quando dicevo che penso di non averli scritti abbastanza bene; ho avuto un po’ di difficoltà sia con lui, sia con Caroline. Il riferimento a “She’s watching over us”, qui era d’obbligo, perché per me, tutto è nato da lì. Quella one-shot è nata quando decisi che Mason avrebbe scatenato la maledizione e che Caroline sarebbe tornata a Mystic Falls dopo tanti anni. È strettamente collegata a questo capitolo di History Repeating, forse anche perché spiega molto sul perché Caroline sia così decisa ad aiutare Mase, e sul come mai tutti sembrino domandarsi “perché proprio lui?” facendo riferimento a Mason.

Proseguendo oltre…Il diario di Mason senior, nel caso ci fosse confusione a riguardo, è il diario che Tyler trova nella cripta e che scopre essere di suo zio. Quello in cui ha documentato tutto sul periodo precedente alla prima trasformazione e che contiene il cd proprio con quella.

Poi… Lester e Xander! Ah, la mia parte preferita del capitolo :3 Tantissimi parallelismi a TVD in questa conversazione, non ho potuto farne a meno. Mi sono resa conto scrivendo che i due figli di Xander stanno entrando in contatto con il sovrannaturale grazie alle due cose che l’hanno permesso al padre: Annabelle, i diari di Gilbert e un insegnante di storia cacciatore di vampiri. Lester, tuttavia, non è Alaric, e Xander non è Jeremy. A differenza del padre che ci è rimasto incappato per caso, Xander usa la sua insufficienza per cercare di ottenere informazioni sul passato di Mystic Falls. Vedremo se riuscirà a ricavarne qualcosa, ma confesso che la sua tontaggine un po’ mi preoccupa XD Ah, e nel prossimo capitolo tornerà lo Xanderine, tranquilli!

Ultima nota e poi fuggo, perché sto scrivendo davvero troppo! La telefonata Alaric/Jeremy.

Allora, su questo mi volevo proprio soffermare. Prima di incominciare HR, non avevo un’idea ben precisa su Rick; è un personaggio che amo e mi sarebbe piaciuto inserirlo, ma stranamente, lo sentivo come fuoriposto. Lo immaginavo fuori città. Trasferitosi da qualche parte fuori da MF, e così è stato. Plottando questo capitolo, mi sono resa conto che sarebbe stato d’obbligo inserirlo in qualche modo almeno in un paragrafo, perché tutto lo storyline di Xander e Lester si allaccia a lui, per non parlare della citazione iniziale e del titolo. E così optai per la telefonata Jeremy/Alaric. ___________SPOILER EPISODIO 3x20___________________________ E poi mi hanno ucciso Alaric ç___ç E ci sono rimasta malissimo; in fondo avrei potuto tranquillamente eliminare la scena per mantenere coerenza con il telefilm, ma non mi andava per niente. Intanto, perché mi piace sapere che Alaric sia vivo almeno qui, anche se non penso lo vedremo spesso. E secondo, perché ormai questa storia ci azzecca ben più poco con la terza stagione, quindi, essendo una what if?, non ho bisogno di adattare il tutto ai nuovi risvolti della serie. Ma ho comunque  pensato di introdurre  la morte di Alaric sottoforma di incubo. Il ‘mio’ Jeremy (quello di Pyramid e History Repeating, per intenderci) ha spesso di questi incubi, come già ha accennato nella conversazione con Oliver in “smells like teen spirit” e come si può vedere in Pyramid. . E ne ho approfittato dell’incubo per inserire un riferimento alla 3x20, , per poi  smentirlo subito con un’immagine serena di Rick. Ci tenevo proprio. E poi boh, lo ammetto, ci tenevo anche  a trollare un po’ la serie tv, visto che la morte di Rick non mi è proprio andata giù XD ______________FINE SPOILER EPISODIO 3x20.

E poi che aggiungere? C’è stato finalmente un po’ di Rictoria –w- (Ricki/Vicki) e Julian si è dato da fare per assicurarsi di non essere l’unico maghetto di Richmond, ma ha anche scoperto qualcosa che l’ha sorpreso un po’: non è il professore creepy ad essere stregone, ma la ‘rosicchia-matite’ Aria ad essere una streghetta. Un po’ ostile, tra l’altro. Scopriremo perché.

Il prossimo capitolo arriverà non so quando e dovrebbe intitolarsi “Brave New World”, se non erro. Il capitolo si aggancerà in parte a qualcosa che abbiamo già visto.  Posso dire che torneranno sia Casper che la sua Kat (Oliver e Anna) e che Caroline manterrà la promessa fatta a Tyler: quella di vegliare su Mase. Per gli altri personaggi non posso ancora dirvi nulla,perché il capitolo devo ancora plottarlo *\\\* Vedremo!

Un abbraccio grande a chi è riuscito a sopravvivere fino alla very end del polpettone, per dirla alla zia Rowling.

Laura

 

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Capitolo 11
*** 9. Brave New World (part 1) ***


Questo capitolo è completamente interamente (e qualsiasi cosa finisca con -ente) dedicato alla mia Wendy. L’ho ultimato per lei, grazie a lei e per lei, quindi merita un ringraziamento speciale. Grazie per tutto quello che fai per me e grazie per esserci sempre e per incoraggiarmi in tutti i modi possibili. Ti voglio bene!






You're reaching out

And no one hears you cry

You're freaking out again

'Cause all your fears remind you

 

Desperate. David Archuleta

 

Trema ancora, anche se non è più notte. Anche se non fa più freddo.

Si guarda le mani non riuscendo a sollevare il capo, orrore e vergogna ad alterare il battito del suo cuore.

Ho ucciso.

Si guarda le mani, come se fossero macchiate di sangue. Quelle parole, ho ucciso, sonano a vuoto nella sua testa, simili a un disco rotto.

Le sente ripetere di continuo, lui stesso le dice, ma in casa pare che non gliene freghi niente a nessuno. Suo padre non gli parla, si limita a guardarlo per poi scuotere il capo. Sua madre gli sorride con quella dolcezza che, lo sa, non è mai stato in grado di sostenere. Ricki lo segue ovunque come un’ombra, soffocandolo con la sua presenza costante. Caroline nemmeno è conoscenza di tutto quello, ma forse è meglio così.

 

E poi c’è quello stupido filmato. Ci sono quelle immagini, quei suoni agghiaccianti, quegli occhi grigi – proprio come i suoi – che si tingono di giallo. Le urla di dolore di un omonimo che si è macchiato le mani del suo stesso errore. E adesso condivideranno un incubo.

 

Sgrana gli occhi, arretrando, per sfuggire alle immagini proiettate sullo schermo.

 

Assurdo. È semplicemente assurdo.

La sua stessa voce gli risuona nelle orecchie, forzandolo a ricordarne il difetto di pronuncia.

 

“Non , non può essere vero; n-non, non può, non esistono c-cose così.” 

 

Sfugge alla presa del padre; suo fratello gli appoggia una mano sulla spalla, ma lui rifiuta anche quella.

Balle, sono tutte balle. Stanno mentendo; tutti e due. Mentono da sempre, non sanno fare altro.

 

Nulla di tutto quello può essere vero; semplicemente non può. Arretra velocemente, intenzionato a raggiungere la sua stanza.

 

E poi la testa riprende a girargli. Il cuore accelera i battiti, il respiro si mozza.

 

Non sa se è arrabbiato, nervoso, o angosciato. Ma sa che ha paura. Una paura fottuta.

 

E il disco rotto ricomincia da capo, mentre le immagini e i lamenti tormentati che provengono dal computer gli ricordano ancora una volta il motivo di quell’orrore.

 

Il perché sarà costretto a sopportare tutto quello.

 

 

Ho ucciso

 

 

 

Another dream has come undone

You feel so small and lost like you're the only one

You wanna scream

because you're desperate.

 

Desperate. David Archuleta

Chapter 9.

Brave New World.

31 Agosto.

“Il mio corpo sta cambiando

Sono teso, arrabbiato, impaziente.

Impazzisco al punto da perdere conoscenza e dimenticarmi cosa dica o faccia.

Non sono più io da quando è morto Jimmy.

 Cosa mi sta succedendo?"

 

Dal diario di Mason Lockwood sr.

 

(Episodio 2x10. The sacrifice.)

 

“Stai bene?”

Le parole di Oliver lo riportarono improvvisamente alla realtà. Mase sbatté in fretta le palpebre e rivolse all’amico un’occhiata disorientata, prima di annuire.

“Sì.”

Si sistemò la tracolla sulla spalla, ignorando volutamente di ricambiare lo sguardo dell’amico. Tenne gli occhi bassi, l’espressione inquieta, mentre Oliver lo studiava con fare apprensivo.

Non incazzarti, non innervosirti, ignora le provocazioni, cerca di stare calmo.

Le sequele interminabili di raccomandazioni snocciolate da suo padre continuavano a vorticargli in testa, mentre camminava fianco a fianco con Oliver. Non gli riusciva facile prestare ascolto a quei consigli: la testa gli faceva male di continuo. La rabbia, il nervoso, la paura, erano stati d’animo che si alternavano con frequenza, pungolandogli il petto, quasi ci fosse qualcosa in lui sempre sul punto di scattare. Era teso, ansioso. La notte non dormiva, di giorno mangiava poco. Lo infastidiva tutto: gli sguardi apprensivi dei suoi familiari, le persone che lo sfioravano per sbaglio attraversando i corridoi, chiunque gli rivolgesse la parola. E più del resto, la cosa che gli arrecava maggior fastidio, era l’espressione preoccupata di due delle persone che più gli erano vicine, ma cui aveva promesso di non lasciarsi sfuggire nulla:Oliver e sua sorella Caroline.

Quel mattino, Mason aveva messo piede a scuola con la tensione già alle stelle. Il cuore gli vibrava nervoso in petto senza alcun motivo in particolare, le mani gli sudavano. Si aggrappò con forza alla bretella della tracolla, continuando a ignorare lo sguardo apprensivo di Oliver, fino a quando l’amico non si costrinse a guardare l’orologio.

“Che succede?” domandò a quel punto, mentre i due ragazzi si fermavano di fronte agli armadietti. Ricordando alla perfezione il disastro ottenuto cercando di aprire il proprio il giorno prima, Mase si astenne dal recuperare i suoi libri, limitandosi a sbuffare, infastidito.

“Non succede nulla, Oliver.” borbottò in tono di voce secco, lo sguardo a saettare nervoso in direzione del corridoio. “Andiamo in classe.” Cercò di troncare la discussione.

Oliver scosse il capo poco convinto. Mase aveva incominciato a tenere un comportamento insolito sin dal mattino successivo alla festa di Ricki, e le cose non erano cambiate dopo quasi una settimana. Era teso, irrequieto, si faceva vedere poco in giro. Oliver sapeva che probabilmente il tutto aveva a che fare l’incidente, ma nonostante la gravità dell’accaduto, qualcosa lo portava a pensare che ci fosse dell’altro. Ciò che era successo a lui avrebbe atterrito chiunque, ma a insospettire Oliver era il modo bizzarro e maldestro con cui cercava di tenersi alla larga da tutti. Non che Mase fosse mai stato una persona incline alla compagnia, ma, e si sorprese ad avvertire una lieve fitta di delusione a quel pensiero, le sue abitudini di rado valevano con lui. Mason e Oliver trascorrevano una buona parte delle loro giornate assieme e capitava di rado che il giovane Lockwood si impuntasse di voler stare solo,  quando era in compagnia dell’amico. Oliver aveva ormai imparato ad adattarsi ai suoi cambi d’umore repentini, sapeva quando scherzare, quando chiedere spiegazioni e quando invece conveniva che se ne stesse zitto. Ma da una settimana a quella parte, anche quel genere di dinamica sembrava essere andata a farsi benedire, assieme ai pochi sorrisi che di tanto in tanto sfuggivano al controllo di Mase. E a Oliver, quello, non stava bene; sapeva che c’era dell’altro e per quanto non gli piacesse insistere, aveva bisogno di saperne di più.

“Lo sai che mentire non ti esce troppo bene con me.”commentò infine in tono di voce pacato. Mase roteò gli occhi, appoggiandosi all’armadietto con una spalla.

“Mi lasci in pace?” ribatté infine, rivolgendogli un’occhiata esasperata. La sua mente radunò alcune delle raccomandazioni che il padre gli aveva fatto più spesso, nel corso di quella settimana, e le tenne ben strette a mente, man mano che il nervoso aumentava di intensità. Molte avevano a che fare con lui.

Non scherzare con Oliver. Non stuzzicatevi, non litigate nemmeno per gioco.

Sta’ calmo, non innervosirti.

 "Se non vuoi dirmi che cos'hai, fammi almeno capire se devo preoccuparmi oppure no." l’ostinazione di Oliver era una qualità che di rado veniva a galla , durante le regolari conversazioni tra di loro. Era una persona incredibilmente tranquilla, ma quando sentiva che fosse necessario sapere qualcosa riusciva a trovare il modo di insistere.

“La pianti di starmi addosso? Sai benissimo che cosa è successo.” sbottò il ragazzo, ignorando volutamente  il suo sguardo. “E sai anche che non ne posso parlare qui.” sottolineò a quel punto. Oliver sospirò: erano in pochi a sapere la verità sull’incidente di Tyler e Mase. In quello, il signor Lockwood era stato irremovibile: nessuno doveva sapeva che era stato Mason a provocarlo. Suo padre gli aveva spiegato che Mase avrebbe potuto passare dei guai seri, non essendo ancora patentato, e Tyler voleva accollarsi le responsabilità dell’accaduto. Tutto aveva senso; la tensione dei familiari di Mase, i sensi di colpa dell’amico, i silenzi, l’atteggiamento ancor più brusco del solito. Eppure,perché continuava a pensare che ci fosse dell’altro?

“Va bene, non parliamone più.” si limitò ad acconsentire infine, alzando le mani in cenno di resa. Si era accorto del nervosismo crescente dell’amico e non voleva esagerare nell’insistere. “Andiamo in classe.” Propose in tono di voce più pacato, dandogli una pacca sulla spalla. Quel tocco lo fece trasalire di scatto, quasi come se a compiere quel gesto, fosse stato uno sconosciuto.

“Devi stare calmo, però.” cercò di consigliargli Oliver, continuando ad osservarlo con aria dubbiosa. Mason inspirò con forza, come a voler cercare di mantenere la calma. Era teso a tal punto che Oliver quasi non si sentì agitato a sua volta, suggestionato dalle sue reazioni.

“Stanne fuori.” lo ammonì infine il giovane Lockwood, in tono di voce secco . L’amico aggrottò le sopracciglia, ulteriormente impensierito.

“È solo che vorrei sapere da che genere di questione dovrei…”

“Ti ho detto di lasciarmi in pace!”

L’esclamazione furente di Mase risuonò nel corridoio mescolata a un forte clangore metallico. Oliver si sentì spingere bruscamente  all’indietro , contro gli armadietti. Solo quando un’improvvisa fitta di dolore alla schiena lo investì, fu in grado di realizzare che era stato il suo migliore amico a spingerlo. Si tastò il punto dolente, sollevando sbigottito il capo per cercare Mason. Il secondo scarso in cui i loro sguardi si incrociarono, gli bastarono  per intuire che era spaventato almeno quanto lui.

Mason arretrò di un passo, fissandosi nervosamente le mani, quasi si sentisse scioccato lui stesso dal gesto che aveva appena compiuto.


“Scusami.”   Farfugliò, continuando a evitare il suo sguardo. Oliver inspirò con forza, sforzandosi di recuperare in fretta la calma.

“Non fa niente.” Mormorò in risposta, staccandosi lentamente dall’armadietto, un’aria circospetta a velare la sua espressione generalmente bonaria e serena.
“N-Non è vero.” Sbottò bruscamente l’amico, riconoscendo all’istante la nota di esitazione che aveva tradito le parole di Oliver. Rabbia e vergogna si contesero il suo volto, mentre arretrava ancora di qualche passo, deciso ad abbandonare quel corridoio il prima possibile. “Non è un cazzo vero!”
Qualcuno lo afferrò per il polso. Stava per ritrarsi bruscamente dalla sua presa, quando riconobbe nello sguardo apprensivo che gli venne rivolto, quello di sua sorella Caroline.
“Che cosa succede, qui?” domandò la ragazza, mentre Alexander la superava a passo svelto, lo sguardo furibondo puntato contro Mase.

“Sbaglio o hai appena spintonato mio fratello?” chiese in tono di voce secco, picchiettandogli  due dita contro la spalla. L’altro ragazzo lo allontanò bruscamente, per poi distogliere nervosamente lo sguardo.

“Non volevo.” Furono le uniche parole che fu in grado di pronunciare. Il nervosismo aveva ripreso ad albergargli dentro e si domandò che altro sarebbe successo se non fosse riuscito a gestirlo.

“Stavamo solo giocando.” gli venne in aiuto Oliver, raggiungendo il fratello. Xander gli rivolse un’occhiata incredula.

“Ti ha sbattuto contro l’armadietto, Ol, non prendermi in giro.  Ho visto benissimo.”

“Se ti sta dicendo che stavano giocando, sarà la verità, Xander.” Si intromise nel discorso Caroline, squadrando il migliore amico con espressione severa. “Oliver ha un cervello e l’età per saperlo usare a dovere, non vedo perché tuo fratello dovrebbe mentirti.”

“Tu stai sempre a difendere Mase, vero?” esordì a quel punto il ragazzo in tono di voce seccato. “Scommetto che se la situazione fosse invertita e fosse stato mio fratello a spintonare il tuo, a quest’ora gli avresti già fatto vedere i sorci verdi.”

“Stavano giocando, Xander!” ribadì ancora una volta Caroline, alzando spazientita il tono di voce., “Mase non gli farebbe mai del male di proposito, è il suo migliore amico!”

“Sì, ed è una pessima compagnia per lui, lasciamelo dire.” borbottò  a quel punto il ragazzo, mettendosi a braccia conserte.


“Questo non è vero…” Oliver si sentì in dovere di dissentire, prima di spostare lo sguardo in direzione di Mase; aggrottò le sopracciglia, perplesso, quando si è accorse che aveva preso ad allontanarsi.
“Mase!”  lo richiamò, intenzionato a seguirlo, ma la sua voce venne coperta da quella squillante e autoritaria di Caroline.

“Non parlarmi più.” Stava esclamando stizzita in quel momento, l’indice puntato contro il petto migliore amico. Girò i tacchi e si allontanò a passo svelto, inseguita dalle esclamazioni spazientite di Xander

“Oh, non incominciare adesso.” La riprese il ragazzo, roteando gli occhi prima di voltarsi un’ultima volta in direzione di Oliver.


“Ne riparliamo dopo.” lo ammonì infine, prima di incamminarsi di corsa a raggiungere Caroline. Oliver sospirò, scoccando una rapida occhiata all’orologio, prima di tornare a guardarsi attorno, massaggiandosi il punto in cui aveva battuto: Mase si era dileguato. Il turbamento che aveva provocato in lui quello spintone aveva fatto altrettanto nel momento stesso in cui aveva individuato la paura nel suo sguardo. Per un attimo gli era sembrato di individuare fra i suoi occhi il Mason bambino. Il ragazzino che trascorreva gran parte del suo tempo libero cercando di scovare i migliori nascondigli. Si nascondeva per paura di imbattersi in se stesso. Lo sguardo che gli aveva rivolto poco prima era lo stesso che aveva sorpreso nei suoi occhi in quei momenti quando qualcuno lo aveva costretto ad uscire allo scoperto.

“Che ti sta succedendo, amico?” mormorò fra sé e sé, prima di sospirare un’ultima volta, puntando a malincuore in direzione dell’aula di chimica.

***

“Hai scoperto qualcosa?”

Domandò un insonnolito Ricki, non appena il padre fece ingresso in camera sua. Tyler riservò un’occhiata critica al mucchio di vestiti disseminati per il pavimento e alla valigia ancora semivuota in un angolo. Ricki intercettò il suo sguardo e sbadigliò in risposta, passandosi pigramente una mano sul volto.
“Dai, che adesso metto a posto. Che ti ha detto la nonna?” domandò infine, mentre il padre prendeva posto di fianco a Ricki, sul letto sfatto.  Quel mattino presto, Tyler era passato a fare visita alla madre, portandosi appresso la rotellina che aveva consegnato loro Vicki qualche giorno prima. Carol Lockwood l’aveva esaminata con espressione atterrita, gli occhi improvvisamente lucidi di lacrime: aveva raccontato a Tyler a che cosa servisse quell’ingranaggio. Gli aveva raccontato del dispositivo che ormai parecchi anni prima era stato messo in funzione da John Gilbert, causando la morte non solo di diversi vampiri, ma anche di suo marito Richard. Dopo la spiegazione di Carol, Tyler aveva incominciato a far coincidere i vari tasselli che fino a quel momento avevano sfilato scomposti nella sua testa. Sospirò, prima di tornare a rivolgersi al figlio maggiore.
“Quella rotellina che ha trovato Vicki è una sorta di chiave.” spiegò infine, intrecciando le dita e appoggiando gli avambracci sulle ginocchia. “Se inserita nel dispositivo che Fell ci ha rubato quella sera, gli ingranaggi produrranno un suono inudibile dagli esseri umani, ma in grado di mettere fuori combattimento qualsiasi tipo di creatura entro un determinato raggio d’azione. Tuo nonno, Richard, reagì al dispositivo, una notte di trenta anni fa, e venne scambiato per un…”
Si interruppe, rivolgendo al figlio un’occhiata nervosa. Richard Junior ricambiò lo sguardo con espressione incuriosita.
“..Per un?” lo istigò a proseguire. Tyler scosse il capo con fare brusco e ignorò la sua domanda.
“Il dispositivo è in grado di intaccare anche le persone che non hanno mai scatenato la maledizione. Per questo tu e Mason…” e qui, lo sguardo dell’uomo si indurì appena, cerchiato da una velatura di rabbia “…vi siete sentiti male, quel giorno. Sarebbe successo anche a tua sorella se fosse stata qui a Mystic Falls, ma fortunatamente, era al lago con Xander…”
“Aspetta, papà,rallenta.” lo interruppe improvvisamente il figlio a quel punto. “E riavvolgi il nastro, per favore. Sbaglio o prima hai detto ‘qualsiasi tipo di creatura’? Intendevi dire che oltre a noi ci sono altre persone che giocano a fare il ‘dottor Jeckyll e Mr Hyde’?”
Ancora una volta, Tyler si trovò a freddare il figlio con aria severa, prima di sbuffare.
“Lascia perdere; dimenticati quello che ho detto.” Borbottò infine, sollevandosi dal letto. Ricki accennò un sorrisetto.
“Che poi sono le parole che uno non dovrebbe mai dire per evitare che la curiosità salga…” spiegò allegramente, per poi stiracchiarsi in maniera vistosa.
“Dimmi la verità, papà…”esordì infine, recuperando una pallina di spugna appoggiata a un angolo del letto e incominciando a passarsela da mano a mano. “Caroline Forbes è una di queste ‘altre creature’ di cui parli, vero?”
Tyler,che era ormai in procinto di abbandonare la stanza, si fermò sull’uscio,visibilmente irrigidito.
“Che cosa te lo fa pensare? domandò infine in tono di voce asciutto, voltandosi ad osservare il figlio. Ricki fece mente locale per un attimo, continuando a giocherellare con la palla di spugna.
“Ti fidi troppo di lei…Non può essere un’adolescente qualunque.”  Spiegò sotto lo sguardo guardingo del padre. Tyler aggottò appena le sopracciglia, i lineamenti contratti per via del nervosismo.

“E pensare che credevo fosse Mase l’unico dei tre ad avere un po’ di cervello. Anche se lo usa solo quando ha il naso sui libri…” aggiunse con un ghigno, prima che il suo sguardo si incupisse leggermente, al pensiero del figlio più piccolo. “Caroline Forbes, aspetto fisico a parte, ha superato ormai da diversi anni la soglia dell’adolescenza.” rivelò infine, tornando a dare le spalle alla porta, per poi mettersi a braccia conserte. “Abbiamo la stessa età.” Concluse infine, scrutando cauto il volto del figlio, in attesa della sua reazione. Ricki  sgranò gli occhi, perplesso, lasciando cadere a terra la palla di spugna. La recuperò poco dopo, trascinandola pinzandola con la punta del piede,per farla slittare verso l’alto.
“Ah…” borbottò semplicemente, cercando di palleggiare con la testa. “Forse dovremmo dirlo a Mase…” farfugliò a quel punto fra sé e sé, assumendo un cipiglio pensieroso. Lo sguardo di Tyler colse a scontrarsi con il suo. “Che intendi dire?” domandò, squadrandolo insospettito. Ricki ignorò volutamente la sua domanda. “Che cos’è, un vampiro?” buttò lì invece con fare sarcastico, abbozzando un sorrisetto divertito. L’occhiata seria che gli indirizzò Tyler, lo spinse a sgranare gli occhi una seconda volta.
“Stai scherzando, vero?” quasi non urlò, pestando involontariamente la pallina di spugna. Rischiò di scivolare e si aggrappò al letto, per poi calciare via il pallone. “Non mi stai prendendo in giro, vero?” domandò esitante  a quel punto, osservando l’oggetto andare a infilarsi proprio dentro la valigia. Fece una smorfia per poi tornare a sedere sul letto.  “E che altro creature esisterebbero, i fantasmi?” sbottò infine, strofinandosi il capo con fare innervosito. “Gli zombie?  O magari gli umpa lumpa? La mamma è la donna invisibile dei Fantastici 4? Eh,questo sarebbe figo.”  Concluse infine, esordendo poi in un fischio compiaciuto. Il padre sbuffò, rivolgendogli un’occhiata infastidita.
“Piantala di dire cazzate, e fatti gli affari tuoi.” Sbottò a quel punto, per poi spostare la sua attenzione alla pila di vestiti ammucchiata al bordo del suo letto. “Pensa a preparare la valigia, piuttosto.  Parti dopodomani e non hai ancora preparato nulla.”

L’espressione di Ricki si fece d’un tratto titubante, quasi le parole del padre l’avessero messo a disagio.
“Peccato però che tu non sia qui per la cerimonia di Miss Mystic Falls.” Proseguì Tyler, prima di esordire in un ghigno. “Vicki ci è stata di grande aiuto l’altro giorno, con quella rotellina. Le dobbiamo qualcosa: avresti potuto farle da cavaliere per sdebitarci.”
Ricki si strofinò ancora una volta i capelli con vigore, gesto tipico di quando era nervoso. Infine si rivolse al padre con espressione determinata.

“Io non parto, papà.” Dichiarò deciso, guardando poi distrattamente la valigia vuota.  Lo sguardo di Tyler si fece improvvisamente più irritato.. “Ho già scritto un’e-mail a scuola, ho spiegato di avere una specie di … ‘emergenza in famiglia’. In fondo non ho proprio mentito, oh. E comunque…mi hanno abbuonato un po’ di tempo. Vedrò se partire più in là o se…”
“No, tu non vedrai un bel niente. Parti adesso senza discutere, sono stato chiaro?”
Lo sbraitare secco e improvviso del padre, infuse ancora più determinazione nello sguardo del suo primogenito, che scosse il capo deciso.
“Voglio stare vicino a Mase.”  Dichiarò risoluto. “Ha bisogno di me in questo momento.

“A tuo fratello ci penso io.” ribatté secco il padre, fulminando Ricki con lo sguardo. “Sono io suo padre, stargli vicino è un mio compito. Il tuo di compito, invece, è quello di tornartene a scuola e studiare…”

“Ma la prima luna piena sarà proprio sabato!” lo interruppe il figlio, alzandosi in piedi di scatto. “ Non me ne vado quel giorno, col cavolo che lo lascio solo: voglio esserci anch’io con lui.” azzardò infine, abbassando appena il tono di voce. Tyler serrò la mascella, stringendo le mani a pugno. Respirò profondamente, come a voler mantenere la calma, prima di rivolgersi nuovamente al figlio.

“Non ti permettere, Richard…” dichiarò in tono di voce  basso, ma minaccioso, le iridi cerchiate di collera.

“Voglio venire con voi, papà.”  ribatté ancora una volta Ricki con determinazione. Esitò comunque, prima di aggiungere: “Voglio aspettare la luna con voi.”*

Tyler si limitò a squadrare il figlio con espressione furente: erano parole che aveva già sentito, quelle. Erano frasi che gli erano già state rivolte in passato quando Richard era ancor solo un ragazzino. Un ometto vispo e curioso che aveva incominciato a domandarsi dove si recasse il padre una volta al mese quando il cielo incominciava ad annerirsi.


“Azzardati a seguirci e giuro che te ne farò pentire.” dichiarò infine asciutto, prima di voltarsi, per raggiungere la porta. Ricki sbuffò,  affrettandosi a seguire l’uomo, deciso a fargli comprendere il suo punto di vista.

 “Ma lui è mio fratello!”

“E tu sei mio figlio!ringhiò di rimando Tyler, voltandosi bruscamente ancora una volta. Non verrai con noi, Ricki. A costo di doverti rinchiudere in casa io stesso. Ma preferirei non farlo…” sbottò infine, incrinando lievemente il tono di voce. E qui la collera nel suo sguardo venne sfumata da un barlume di risentimento.“… perché ho già un figlio che sarò costretto a vedere in quelle condizioni, quella sera. ” concluse secco. Ricki prese a mordicchiarsi il labbro, la sua determinazione improvvisamente minata dai sensi di colpa.

“Papà…” incominciò, grattandosi il capo con nervosismo, mentre Tyler tornava a dargli le spalle.
Eddai, papà!” provò a richiamarlo  ancora, raggiungendolo; non servì a nulla. Suo padre  se ne era già andato sbattendo  la porta.

 


***

 

La biblioteca della scuola era per la maggior parte gremita di studenti del primo anno più occupati a ridacchiare di fronte agli schermi del pc che non a darsi da fare per i compiti ancora sfatti dell’ora dopo; Xander strizzò l’occhio a uno dei ragazzini e raggiunse il lato opposto della biblioteca; individuò all’istante Caroline, seduta a uno degli ultimi tavoli: era tutta presa a mordicchiare l’estremità di una matita, lo sguardo concentrato su un plico di fogli.

“Siamo ancora arrabbiati?” esordì il ragazzo in un sussurro, avvicinandosi di soppiatto alle sue spalle. Caroline sobbalzò, lasciando andare la matita per la sorpresa. Rivolse un’occhiata furente al migliore amico, che prese a ridacchiare compiaciuto per via della sua reazione.

“Cretino…” commentò a mezza voce, prima di scuotere il capo con fare sdegnato. “Non lo so…” proseguì infine a bassa voce, continuando a scrutarlo con aria truce. “Tu pensi ancora che mio fratello sia una brutta compagnia per Oliver?”

Xander calcolò le sue parole con fare indeciso.

“è solo che ogni tanto tuo fratello è un tantino…” Si interruppe bruscamente, incrociando l’occhiata furente scoccatagli dalla ragazza.
“…Un ragazzino adorabile e a modo.” Si corresse, accennando un sorrisetto a mo di scusa. Caroline roteò gli occhi, sbuffando sonoramente, prima di tornare ai suoi compiti.

“E comunque…” Xander proseguì quasi distrattamente prendendo posto di fianco a Caroline.

“… I nomi delle ragazze selezionate per il titolo di Reginetta di Mystic Falls sono stati appesi alla bacheca.”

“Oh! Vicki ce l’ha fatta?”

domandò la ragazza, continuando a scorrere il suo saggio con  lo sguardo. Xander frappose la sua testa fra il libro e l’amica.

 Siiii… E non solo lei.”.  ammise, picchiettando con insistenza il dito sulla fronte di Caroline. “Congratulazioni, signorina Lockwood.”

Caroline premette una mano sulla fronte del ragazzo per allontanarlo e tornò a fissare il suo libro.

“La smetti di sparare fesserie? Per favore, Xander, sto cercando di finire questo benedetto saggio; non ne posso più di medioevo, streghe e di usanze per scacciare il malocchio.”

Xander roteò gli occhi e si infilò una mano in tasca per recuperare una delle sue barrette di cioccolato.

“E lo sai che non si mangia qui.” gli ricordò a quel punto Caroline, requisendogli il bottino.

“Uhm ricordi la scommessa con tuo fratello fatta quest’estate?” domandò il ragazzo allungando le braccia in direzione del cioccolato, coprendo i fogli di Caroline; nuovamente, la ragazza fu costretta a spingerlo via, ma questa volta non riuscì a trattenere un sorrisetto divertito.

“Quale scommessa?” domandò in tono di voce un po’ troppo alto, guadagnandosi così un’occhiataccia da parte della bibliotecaria. Improvvisamente, il suo sguardo si fece allarmato.

“Oh, cavoli, quella scommessa!”

Ricordava nitidamente la discussione avuta con suo fratello Ricki solo qualche mese prima. Secondo lui, né Caroline, né Xander, sarebbero mai stati in grado di batterlo a calcio. Era un’osservazione abbastanza logica, poiché Ricki giocava come attaccante praticamente da sempre. Ma Caroline era testarda e alle sfide rispondeva sempre con “accetto”, senza nemmeno valutare a fondo di che cosa si stesse parlando. Per questo, quel pomeriggio si era ritrovata a scorrazzare per il giardino dei Lockwood in compagnia di Xander, cercando di far andare in rete la palla ai danni di Ricki: non ci era riuscita.

“Se vincevi tu, Ricki avrebbe dovuto accompagnare Vic alla cerimonia.” le ricordò un divertito Xander con aria canzonatoria, sorridendo all’espressione preoccupata affiorata sul volto dell’amica. “Ma se vinceva lui…”

“..Mi sarei dovuta iscrivere. Dannazione, che fratello odioso che ho!”

Caroline e i suoi fratelli avevano sempre detestato le varie ricorrenze legate al loro status di ‘rampolli Lockwood’ e ci giocavano spesso sopra, sfidandosi ad accettare scommesse strambe, a creare un po’ di confusione o a inventare una scusa sufficientemente buona per poter scampare alle molteplici cerimonie. Si era completamente scordata che quell’estate, un sogghignante Ricki l’aveva tenuta d’occhio mentre  lei compilava il modulo d’iscrizione a “Miss Mystic Falls”.

E adesso eccola lì; aveva passato le selezioni –il suo cognome doveva essere bastato per riservarle un posto nella lista- e se non avesse ritirato la candidatura,l’avrebbero attesa due settimane di incontri e lezioni di danza che non le destavano il minimo interesse.

“Ma è fuori discussione.” annunciò a quel punto mettendo il broncio, mentre Xander la osservava divertito, la barretta di cioccolato nuovamente tra le mani: aveva approfittato del momento di distrazione dell’amica per riappropriarsene. “Appena finisco questo benedetto saggio vado a ritirare la mia candidatura; con ogni probabilità, Ricki si sarà già dimenticato della cosa, non vedo perché dovrei farmi del male psicologico da sola”.

Mpfh…” Xander mugugnò qualcosa di incomprensibile sgranocchiando la sua barretta. “..Smidollata.” aggiunse, in seguito allo sguardo interrogativo di Caroline. “Hai paura che Vicki ti batta?” chiese infine.

“Non ho paura che tua cugina mi batta.” commentò seccamente la ragazza. “Non ho il minimo interesse nel partecipare a un concorso simile. Sarà una noia tremenda!”

“Tua nonna non sarà delusa nel vedere il tuo nome per poi scoprire che ti ritiri?” domandò il ragazzo prendendo a spulciare il saggio di Caroline, girando pagine a casaccio. Analizzò con interesse un paragrafo dedicato a un parallelismo con la storia locale di Mystic Falls e il suo sguardo si fece d’un tratto più interessato. Caroline sbuffò.

“Non dovresti stare dalla mia parte? Odi quel genere di iniziative tanto quanto me.”

Alexander diede una scrollata di spalle; prelevò uno dei fogli dal plico e continuò a leggere.

“Mi piacerebbe vederti ballare con uno di quei vestiti…” buttò lì in tono di voce atono, all’apparenza completamente concentrato dal tema di Caroline. La ragazza gli rivolse un’occhiata stupita.

“Stai scherzando, vero?”

 Xander annuì, pur non prestando seriamente attenzione alle parole della ragazza; era completamente assorto nella lettura.

“Caroline me lo presti questo saggio una volta finito?” domandò, voltandosi in direzione dell’amica, salvo poi bloccarsi nel notare la sua espressione contrariata. Sospirò e fece mentalmente un passo indietro.

“Ti faccio io da cavaliere.” si offrì tranquillamente,  incominciando a passarsi la barretta di cioccolato da una mano all’altra. Caroline lo squadrò con aria ancor più stupita. Il suo sguardo passò in rassegna la cresta corvina del ragazzo, la T-shirt spiegazzata e il polsino nero che gli fasciava il gomito e scoppiò a ridere di gusto. Questa volta fu Xander a rivolgerle un’occhiataccia.

“Grazie per la sincerità.” borbottò con aria imbronciata, tornando a concentrarsi sul saggio di Caroline.

La ragazza lo osservò con un pizzico di tenerezza inciso nello sguardo; fece uno sforzo incredibile per trattenersi dall’infilargli una mano tra i capelli per scompigliarglieli e ad un tratto arrossì, come se quel gesto che ormai era diventato un’abitudine per lei, le sembrasse d’un tratto inopportuno.

“Sul serio lo faresti?” domandò, appoggiando il capo sul pugno ed osservandolo leggere; Xander diede l’ennesima scrollata di spalle.

“Oliver ed io dovremmo comunque andarci a quell’evento, dunque tanto vale.” spiegò, voltando pagina e sollevando il foglio appena letto per mostrarlo a Caroline.

“Allora me lo presti, una volta finito?” domandò ancora, sventolandole il foglio sotto il naso.

Caroline sorrise sfilandogli la pagina di mano e riponendola assieme alle altre.

“Grazie.” gli sussurrò in un orecchio dopo essersi alzata, prima di scoccargli un bacio sulle guancia.

 Il ragazzo annuì appena, colto alla sprovvista da quel gesto.

“Figurati.” Commentò, scoccandole una rapida occhiata dubbiosa, prima di tornare a leggere.

“Ma adesso levati di torno e lasciami studiare.” concluse  Caroline a quel punto, tirando la sedia dell’amico verso di sé e afferrandolo per il braccio.

 “Non posso concentrarmi con te che sgranocchi cioccolata a tutto andare. E poi sei un rompipalle….”

“Non sono un rompipalle. Posso prendere in prestito il tuo…”

“Sì! Porca miseria, sì! E questo non è essere un rompipalle?” Ma Caroline non ricevette mai risposta da Xander: la bibliotecaria li indicò entrambi con aria furibonda e il ragazzo sollevò entrambe le mani in cenno di resa, ridacchiando, prima di sollevarsi dalla sedia per abbandonare la biblioteca.

Inseguendo con lo sguardo la cresta scompigliata del ragazzo sempre più lontana, Caroline nemmeno si accorse del sorriso che aveva preso a increspare gli angoli delle sue labbra.

***


Quel pomeriggio, Mase era rincasato da scuola prima del solito. Non era sua abitudine saltare le lezioni – detestava che gli venisse fatto notare, ma studiare era una delle poche cose che riusciva a metterlo a suo agio – ma quel giorno provava fastidio verso tutto. Perfino la sua stanza, il rifugio quotidiano dagli sguardi insistenti della gente e dai discorsi troppo lunghi, gli pareva fonte di fastidio, quel pomeriggio. Stare chiuso in camera gli faceva mancare l’aria, gli dava sui nervi, come se già avvertisse le catene ai polsi e alle caviglie. Per questo, non appena arrivato a casa, si era sistemato sul muretto che delimitava il giardino sul retro. Il silenzio e la solitudine l’avevano aiutato a smontare il nervosismo che aveva accumulato quel mattino. Quando Caroline Forbes raggiunse a sua volta il retro della casa, dietro indicazioni di Lydia, lo trovò intento a sonnecchiare, stravaccato a filo del muretto. Aveva le mani in tasca e gli occhi chiusi, una gamba piegata e l’altra a penzoloni, il tallone a colpire ritmicamente il blocco di mattoni. La vampira sorrise, attraversando poi il resto del giardino per avvicinarsi al ragazzo. Avvertendo il rumore dei suoi passi, Mase aprì gli occhi e scattò a sedere.
“Che ci fai tu qui?” sbottò infine, riconoscendo la persona che aveva appena appoggiato la schiena sul muretto. Caroline estese il suo sorriso, osservandolo balzare giù dal muretto; sembrava stesse facendo il possibile per prendere le distanze da lei.

“Ciao anche a te!” lo rimbeccò allegramente, ignorando l’occhiata storta del ragazzo e il cipiglio imbronciato di chi si sente improvvisamente violato della propria privacy. “Tua madre mi ha detto che ti avrei trovato qui.”

“Non hai risposto alla mia domanda.” ribatté secco il ragazzo, squadrandola diffidente. Avrebbe voluto essere meno ostile, ma non credeva di esserne in grado; la litigata avuta con Oliver a scuola quel mattino era ancora troppo fresca. Non voleva che si ripetesse qualcosa di simile con quella ragazza. E poi avrebbe preferito starsene un po’ per conto suo, tanto per cambiare. Caroline sospirò, rivolgendogli un’occhiata rassegnata.
“Voglio portarti in un posto.” asserì infine, tirando fuori dalla tasca le chiavi della macchina e sventolandogliele sotto il naso. “Tranquillo, ho il permesso dei tuoi genitori.”
Mason le indirizzò un’occhiata storta, prima di tornare a prendere posto sul muretto.
“Non posso uscire.” Dichiarò asciutto, mettendosi a braccia conserte. Caroline inarcò un sopracciglio.

“Ti ho detto che ho il permesso dei tuoi.”

 “Beh, allora non voglio uscire.” Si corresse il ragazzo dando una scrollata di spalle.

“Mi spiace, non accetterò un no come risposta.” ribatté decisa la vampira, prima di concedersi un sorrisetto di sfida. “Vuoi che metta all’opera le mie doti in auto-difesa?”  lo prese in giro infine. Mase la guardò storto, arrossendo lievemente.
“Non posso uscire, ho un problema.” ribatté infine, scuotendo il capo, scocciato. Ma che diavolo voleva quella sclerata da lui? La conosceva a stento. E poi era strana. Alle volte, quando gli parlava, lo faceva come se volesse far intendere che si trovava un gradino avanti a lui. Quasi come se si conoscessero da tempo. In quel momento, l’espressione di Caroline si addolcì leggermente.
“Lo so.” ammise infine la ragazza, tornando ad appoggiarsi al muretto. “Conosco il tuo problema, Mason.”
Istintivamente il ragazzo si irrigidì, i nervi improvvisamente tesi, i sensi allertati. Nel notare la sua reazione, Caroline si affrettò ad aggiungere altro. “Mi riferivo alla tua scontrosaggine cronica, non stavo parlando di quel…problema. Anche se sì, so che cosa dovrete affrontare tu e tuo padre con l’arrivo della prossima luna piena.” Si corresse, accorgendosi di aver osato troppo, nell’incrociare lo sguardo del ragazzo; aveva gli occhi sbarrati, come se fosse appena stato scovato in un luogo che credeva sicuro. Sembrava spaventato.
“C-chi te ne ha parlato?” balbettò a denti stretti, chiudendo le mani a pugno. Caroline scosse rapidamente il capo, per poi lasciarsi sfuggire un sospiro.
“Ne parleremo a tempo debito….” Si limitò a commentare infine, scendendo dal muretto e spostandosi in direzione del viottolo per raggiungere la macchina. “…O magari più tardi, se vieni con me.” Concluse, raggiungendo la macchina. Mason la seguì, imprecando a denti stretti, per nulla soddisfatto della sua risposta.
“Questo è un ricatto.” Sbottò infine, con rabbia. Appoggiò la mano alla portiera dell’auto, per impedirle di entrare. “Dirmi la verità non è un favore che mi fai, è un mio diritto.”
A stento, Caroline si trattenne dall’esordire in un sorrisetto divertito. Ogni tanto, quando le parlava, le ricordava di tutto fuorché un ragazzino di quindici anni. Per un attimo si trovò a domandarsi quanto tempo trascorresse chiuso in camera sua a divorare libri.
 “E poi sono grande abbastanza per poter decidere da me come impiegare il mio tempo.” Proseguì il giovane, tornando a incrociare le braccia sul petto. Caroline sostenne il suo sguardo con decisione, per poi scuotere incredula il capo.
“Ah sì?” Fu il suo commento sarcastico a sopracciglio inarcato. “Se sei davvero grande come dici…” incominciò a quel punto facendo il giro dell’auto. “…Non nasconderti più.” Concluse infine, aprendo la portiera della macchina e facendogli cenno di entrare con il capo. Mason aggrottò le sopracciglia. Le parole di Caroline lo fecero irrigidire, come se fosse stato punto sul vivo. Le sue movenze gli ricordarono quelle di una mamma spazientita, e la cosa, per qualche strano motivo, lo fece imbestialire ulteriormente. Sbuffò, ma acconsentì comunque a salire in macchina, sbattendo la portiera con un po’ troppa violenza.
“Se al mio ritorno a casa vengo a scoprire che i miei non ne sapevano nulla, ti denuncio.”

Borbottò infine, allacciandosi la cintura di sicurezza. Si strinse il più possibile allo schienale, per nulla a suo agio. Nonostante fosse passata una settimana dall’incidente, nessuno era ancora riuscito a fargli mettere piede in auto, prima di quel pomeriggio. In silenzio trovò a domandarsi perché diavolo avesse acconsentito. Caroline rise, scuotendo il capo, prima di mettere in moto. La attendevano un minimo di due ore di silenzi e borbottii sommessi, ma ci teneva a fare per lo meno un tentativo. In cuor suo sperava che ne sarebbe valsa la pena.



***

“Lei hai fatto cosa?”

Gregory Lester si lasciò ricadere le braccia sui fianchi con gesto spazientito, prima di tornare a squadrare con astio lo sceriffo. “Si rende conto dell’importanza di quel dispositivo? Lei ha rovinato tutto, agendo così.” Fell sbuffò, rigirandosi fra le mani la scatola di legno contenente il congegno.
“Pensavo che le decisioni di un determinato peso venissero prese assieme.” Proseguì l’insegnante di storia, visibilmente risentito. Fell aveva appena raccontato ai due colleghi l’episodio accaduto nel giardino dei Lockwood, ormai una settimana prima. Non appena aveva menzionato il fatto di aver azionato il congegno, Lester si era infuriato. Ancor più, se l’era presa nel momento in cui, un po’ a disagio, aveva spiegato ai colleghi di aver perso una parte fondamentale del congegno. Lester sbuffò, tornando a sedere. Si era aspettato che si sarebbero trovati tutti assieme prima di decidere cosa fare con il marchingegno. Leanne, d’altro canto, sembrava tranquillissima. Lester le indirizzò un’occhiata pensierosa e la donna ricambiò con un sorriso. Per un attimo si trovò a domandarsi se lei non fosse già al corrente della faccenda da tempo.
“Non ha poi molta importanza quello che è successo.” sbraitò infine lo sceriffo, appoggiando il congegno sul tavolino di fronte a lui. “Volevamo la prova che Lockwood senior fosse un lupo mannaro; ha perso il controllo della sua auto quando quest’affare è stato azionato. Era nel raggio di azione del dispositivo, di sicuro è tutto collegato.”
“Questo non significa nulla.” Ribatté prontamente l’altro. “Non abbiamo alcuna prova che il problema sia quello. E i poliziotti che erano in servizio quella sera non sembrano essere molto collaborativi. Roba strana visto che lei è lo sceriffo.” Commentò infine, accennando un sorrisetto sarcastico. Fell si inalberò.
“Sta per caso insinuando che non so fare il mio lavoro?” si lamentò, freddandolo con lo sguardo.
“Un uomo è morto in seguito a quell’incidente, Gregory.” Si introdusse nel discorso Leanne, con uno dei suoi tipici sorrisi incredibilmente fuori luogo. “Questa sì che è una prova. Possiamo aver perso l’ingranaggio principale per mettere in funzione il congegno, ma se non altro sappiamo con certezza che Tyler Lockwood ha scatenato la maledizione.”
“Certezza? Quale certezza?” obiettò ancora Lester, raccogliendo dal tavolino il plico di fogli che gli aveva prestato Leanne: una delle ricerche di Bill Forbes. “Ci stiamo basando sulle ricerche di un vecchio strambo….Senza offesa.” Aggiunse ammorbidendo appena il tono di voce, spostandosi a guardare Leanne. La figlia di Bill Forbes, tuttavia, si limitò a scuotere il capo per minimizzare. “E se questa maledizione…Se questi licantropi…non esistessero? Jonathan Gilbert non li ha mai menzionati in maniera diretta, nei suoi diari.” Esplicò infine, passandosi una mano sulla fronte, quasi a voler sfilare via la frustrazione manualmente. “Abbiamo bisogno di prove ulteriori.” Spiegò infine. Fell annuì.
“Ho pensato a qualcosa, in effetti.” Borbottò infine, tirando fuori dalla tasca un foglio di carta spiegazzato. Lo gettò sul tavolino e Lester lo afferrò per leggerlo, incuriosito. Era un volantino che elencava le ricorrenze organizzate per quel mese dal comitato per le feste di Mystic Falls.
“Miss Mystic Falls sarà questa domenica.” Spiegò infine lo sceriffo, puntando il dito a una delle date elencate. “La luna piena, invece, è sabato sera. Parlerò con il comitato delle feste. Posso convincerli ad anticiparla di un giorno. Lockwood non può mancare a una cerimonia simile. Ci saranno tutte le famiglie fondatrici; probabilmente concorrerà anche la figlia. Se non si farà vedere, sapremo il perché.”

“Sabato sera, però, si terrà l’asta per gli Scapoli di Mystic Falls.” Gli fece notare Leanne, indicando un punto sul volantino. Sollevò appena il capo a rivolgere un’occhiatina maliziosa a Lester. “Lei non partecipa, Gregory?” domandò. Lester distolse lo sguardo, improvvisamente a disagio. “Non credo, no.” Commentò asciutto, consapevole del fatto che la donna lo stesse ancora osservando.
“Quella la rinviamo al sabato successivo.” Asserì infine Fell, recuperando il foglio e alzandosi in piedi. “Farò una telefonata a Hazel Gilbert, è lei a gestire il compitato per le feste di Mystic Falls. Sono sicuro che riusciremo a far girare le cose nel modo giusto. Rimedieremo a quel piccolo erroretto di distrazione, Lester.” Aggiunse infine lo sceriffo, un po’ in impaccio, quasi a volersi scusare dei problemi causati. “E adesso scusatemi, ma devo proprio andare.” Concluse, recuperando il cappotto dall’attaccapanni e affrettandosi a lasciare la stanza. Lester continuò a rimuginare in silenzio, analizzando mentalmente le ultime parole che aveva scambiato con Fell. Venne distolto dai suoi pensieri, solo quando il sorriso quasi forzato di Leanne e il suo sguardo insistente non lo convinsero a voltarsi nuovamente nella sua direzione.
“Sarebbe un peccato, se non partecipasse a quell’asta.” Commentò in tono di voce affettato la donna, raccogliendo la sua borsa. “Io mi proporrei di sicuro.” Concluse, sorridendo con malizia di fronte alla sua espressione imbarazzata, prima di sparire oltre la porta.


***

 

"Puoi farmi del male?"
"No."
"Posso farne io a te?"
"No!"

da Casper (1995)

 

Oliver abbandonò il telefono sul comodino e si sistemò più comodamente sul letto, l’album da disegno fra le mani. Si passò distrattamente una mano fra i capelli, prima di allungarsi per pigiare il bottone della lampada sul comodino, in maniera da farsi luce. Infine, tornò ad analizzare il suo disegno. L’aveva realizzato qualche giorno prima della festa di Ricki e Jeff; era uno dei pochi fra quello tratteggiati nel corso dell’ultimo periodo, che non rappresentava Anna. Era il disegno di un aeroplano, uno dei suoi soggetti preferiti sin da quando era bambino; ma questo non era un vero e proprio aereo: era la riproduzione di un aeroplanino giocattolo: il suo primo aeroplano telecomandato.  Non aveva idea del perché quel pomeriggio di una settimana prima gli fosse venuto il pallino di disegnarlo. Ma quella sera, mentre i suoi pensieri vorticavano per conto loro  attraverso il tipico stato di quiete della sua mente, Oliver si sentì quasi sicuro di averne appreso il motivo. Volse lo sguardo verso  destra per analizzare una delle mensole sopra la scrivania: il soggetto del suo disegno, un modellino d’aeroplano per bambini, era appoggiato in bella mostra fra il mappamondo e una cartina incorniciata del Six Flags di Denver. Era il giocattolo che aveva segnato la sua amicizia con Mase, quello che otto anni prima era riuscito a strappargli per la prima volta più di qualche parola e un pomeriggio trascorso a ridere e a rincorrersi nel giardino dei Lockwood. Era stato grazie a quell’aeroplanino che erano diventati inseparabili; in quel periodo Mason aveva imparato a mettere da parte un po’ delle sue insicurezze per sforzarsi di seguirlo ovunque. Dalle corse in bicicletta ai maldestri tentativi di volo a bordo di un aeroplano giocattolo. Dove andava Oliver, Mase lo seguiva e se gli capitava di volersi nascondere, di fuggire o di correre ai ripari, in quel caso sarebbe stato Oliver a venire con lui. E malgrado crescendo certe cose fossero cambiate parecchio, per loro ma soprattutto per Mase, il loro modo di essere amici era rimasto quello di sempre. Mason sapeva di avere Oliver dalla sua, e Oliver non si curava dei suoi malumori continui, delle risposte brusche, degli accenni di aggressività dell’amico, perché di curarsene se ne faceva ben poco. Lui aveva Mase; in un modo strano e complicato, nella maniera contorta e imprecisa con cui le cose riuscivano a farsi strada nel cuore dell’amico, ma non c’erano dubbi per Oliver che le cose stessero così. Quel pensiero riuscì a strappargli un sorriso.

Tornò a posare lo sguardo sul blocco da disegno e voltò pagina. La sua mente incominciò a farsi ingombra di pensieri, mentre analizzava i lineamenti della giovane ritratta sul foglio. Ben presto i suoi occhi si trovarono a incontrarne un paio identico a quello disegnato sulla carta. Annabelle gli sorrise, prendendo posto ai piedi  del suo letto, un’espressione serena a distendere i tratti del suo volto.

“Ho delle buone notizie per te.” lo salutò, mentre il ragazzo tornava a voltare pagina, ascoltando incuriosito le sue parole.

“Buone notizie?” ripeté, alzandosi a sedere e portandosi le ginocchia al petto. “Di che tipo?”

Lo sguardo di Anna si perse a contemplare delle fotografie appoggiate sul comodino di Oliver. Si sollevò dal letto per raggiungerle, per poi soffermarsi su una cornice in particolare: raffigurava Oliver da bambino sulle spalle di suo papà. Portava in testa un berretto da aviatore e aveva le braccia distese come se stesse cercando di spiccare il volo, mentre il padre lo teneva saldamente per le gambe.  Il sorriso di Jeremy era talmente esteso e luminoso in quella foto, che ad Anna venne spontaneo sorridere a sua volta, diluendo l’espressione malinconica che era andata a costruirsi sul suo volto.

Penso che si siano spostati.” commentò infine voltando le spalle alle fotografie sul comodino e tornando ad osservare Oliver. “Non li sento più. Credo che si siano allontanati da Mystic Falls.”

Oliver aggrottò appena le sopracciglia, abbandonando il blocco da disegno sul copriletto.

 “Parli degli altri fantasmi?” domandò, abbracciandosi le ginocchia con fare pensieroso. Anna si mordicchiò il labbro, scuotendo poi il capo.

“Non sono fantasmi, Oliver.” Gli ricordò, tornando a prendere posto sul letto. Istintivamente, Oliver si fece da parte, per farle più spazio. “Ci sono altre creature di cui non sai nulla che hanno inciso molto sul passato della tua famiglia. Sono pericolose.” lo mise in guardia la ragazza, rivolgendogli un’occhiata insistente. “E sono reali.”

“Anche tu sei reale.” osservò con tranquillità il ragazzo, passando in rassegna il suo volto con lo sguardo. Le parole di Oliver riuscirono a strapparle un sorriso.

“Sono più reali di quanto lo sia io.” spiegò. “Loro non vivono dall’altro lato. Non hanno bisogno di un contatto con gli umani per poterli raggiungere. Possono toccarvi; possono fare del male. Anche io ero come loro.” rivelò infine, appoggiando entrambe le mani sul copriletto. Oliver appoggiò i gomiti sulle ginocchia, lo sguardo improvvisamente assorto, ancora una volta scivolato nel suo piccolo mondo personale.

“Tu puoi farmi del male?” domandò dopo poco, tornando a rivolgersi ad Anna. La ragazza scosse immediatamente il capo.

“No.”

“Posso farne io a te?”

“No.” ribadì ancora una volta la ragazza, abbozzando un sorriso. Oliver appoggiò l’album da disegno sul comodino e piegò le braccia all’indietro per stiracchiarsi.
“Bene.” ammise serenamente infine, ricambiando il sorriso, prima di apparire nuovamente incuriosito. “Quello che non riesco a capire, è… perché queste creature vogliono farci del male?” concluse.

Anna sospirò.

“Perché…” tentò di spiegare, scrutandolo con espressione malinconica. “La tua famiglia in passato faceva parte di qualcosa in cui è meglio che tu non ti immischi. Quelli come me ferivano gli esseri umani e voi Gilbert ci annientavate in risposta. È una cosa che va avanti da secoli.”
Dopo aver ascoltato le sue parole, Oliver aggrottò lievemente le sopracciglia, rivolgendole un’occhiata pensierosa.

“Non credo che tu ci avresti fatto mai del male.” Asserì infine. L’espressione di Anna si addolcì, ma venne velata da una leggera patina di tristezza.

“E invece ne ho fatto, in passato.”

“Forse non ne avevi scelta…” obiettò a quel punto il ragazzo, rivolgendole un’occhiata tentennante. A Anna fece quasi tenerezza.

“C’è sempre una scelta.” mormorò, prima di tornare a sorridergli.

“Ti ho fatto preoccupare per nulla.” Affermò infine,  “Come ti ho detto poco fa, penso che si stiano spostando. Forse non erano qui per la tua famiglia.” concluse, alzandosi in piedi. “Ma cercherò di tenere d’occhio la situazione ancora per un po’.”

 Oliver annuì, osservandola allontanarsi dal letto. Infine, nel suo sguardo, prese forma una vaga ombra di determinazione.

“Volevo chiederti un favore.” ammise infine.  In quel frangente lo sguardo passò a spostarsi quasi distrattamente verso l’aeroplano giocattolo sulla mensola. “Forse potresti aiutarmi..”


Anna gli rivolse un’occhiata incuriosita, tornando a voltarsi nella sua direzione.

“C’entra qualcosa il tuo amico?” domandò a quel punto, notando la punta di apprensione nel suo sguardo. Oliver si limitò ad annuire.

“Credo che gli stia succedendo qualcosa.” spiegò, evocando l’episodio verificatosi quella mattina. Non era arrabbiato, solo confuso; di rado riusciva a prendersela per gli atteggiamenti bruschi di Mase. Non sapeva arrabbiarsi con lui: non quando Mase era sempre il primo ad essere costantemente in guerra con se stesso. “Sono preoccupato per lui.”

Annabelle annuì.

“Non posso muovermi più di tanto a ridosso della vita di Mason.” spiegò, osservandolo assumere un’aria concentrata.  “Non sono legata a nessun membro della sua famiglia, ma posso provarci lo stesso.”  commentò.. Oliver la ringraziò con lo sguardo, sorridendo riconoscente.

 “Adesso però devo andare.” concluse infine Anna, accarezzandolo con lo sguardo a mo’ di saluto. Il ragazzo annuì.

“Anna?” la richiamò tuttavia ancora una volta, mentre la ragazza gli dava le spalle.

“Che cosa c’è, Oliver?”

“Quando sarai sicura che la mia famiglia non è in pericolo, te ne andrai?”

Quella domanda la colse alla sprovvista; Anna si volse nuovamente ad osservare il ragazzo. Oliver aveva le ginocchia strette al petto, la nuca appoggiata al muro e un’espressione interrogativa a modellare i lineamenti gentili del suo viso. Per un attimo, nel suo sguardo, individuò la stessa voglia di conoscere di Jeremy, il suo cipiglio pensieroso che l’aveva colpita la prima volta che si erano incontrati in biblioteca. Ancora una volta, la malinconia si fece strada sul suo volto, incrinando leggermente il suo sorriso.

“Sì.” ammise infine, ricambiando lo sguardo di Oliver. “Mi piacerebbe continuare a vederti, ma non è così che funzionano le cose. Non sarebbe giusto. Né per me, né per te…Né per tuo padre.” aggiunse infine; e Oliver riuscì a distinguere chiaramente una nota di tristezza nel modo in cui le si era rivolta. Sospirò, tornando a cingersi le ginocchia con le braccia.

 “Non lo troverei ingiusto.” commentò infine, allungandosi verso il comodino per spegnere la lampada. La figura di Annabelle scomparve ai suoi occhi, così come il resto, lasciando il posto al buio. “A me piacerebbe che tu restassi. Sei una buona amica.”


Le parole di Oliver riuscirono a farle accennare un lieve sorriso; rimase in silenzio per un po’, osservando le ombre della stanza suggerire che solo lei era in grado di vedere con il buio. Il suo sguardo si posò un’ultima volta sul ragazzo che si stava infilando sotto le coperte.

“Buonanotte, Anna.”

Oliver chiuse gli occhi e sistemò il capo sul cuscino, un’espressione rilassata a ingentilire il suo volto; in apparenza, non sembrava per nulla turbato dalla conversazione che avevano appena avuto. La tranquillità che emanava il suo volto, riuscì ad infonderle un po’ della serenità che aveva ormai perso da tempo.

“Buonanotte, Oliver.”

Catturò quell’immagine nella sua mente intenzionata a trattenerla con sé come se si trattasse di una foto; di un ritratto.

Infine, svanì.

Kat?”

Mm-hmm.”

“Posso tenerti con me?”

da Casper (1995)

 

 

 

 

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Visto che sono scomparsa da tanto tempo lascio i link a:

Il gruppo facebook con foto, informazioni, spoiler, sondaggi e quant’altro a proposito di History Repeating.

La lista degli Spin Off legati alla storia.

Il
canale youtube con tutti i video dedicati a  HR e la playlist della colonna sonora. (Y)


Nota dell’autrice. – Anche sempre detto ‘Polpettone time’ -

… *si guarda attorno un po’ in imbarazzo* Buona sera .-. Sì, io e i pargoli siamo vivi .-. In imbarazzo per via di tutto il tempo passato, ma vivi. E speriamo vivamente che vi ricordiate un po’ ancora del crestino di Xander, dei disegni di Oliver, della follia di Vicki, del pallone di calcio di Ricki e via dicendo :3 Detto questo, se vi ricordate ancora di noi io vi ringrazio e vi abbraccio forte forte. Le vacanze mi avevano rubato tutta l’ispirazione e la voglia di scrivere. Sono dovuta tornare nel mio Galles per riuscire a rimettere in moto il cervellino, ma ora, dopo tutti questi mesi, eccomi di ritorno a stressarvi con la prima parte del capitolo nove :3 Vediamo  di riuscire a mettere in fila tutte le varie cosette che devo dirvi per comprendere al meglio questo primo pezzo di capitolo. Allora… Faccio la scaletta, va!
1. Mase è spropositatamente nervoso.  L’incipit del capitolo racconta bene o male la sua reazione alla scoperta di ciò che gli sta accadendo, nel momento in cui papi Tyler e Ricki gli mostrano il filmato di Mason Sr. Per quanto riguarda la scena con Oliver e il comportamento di Mase in generale…Sì, ho fatto perno più che altro sulla citazione del diario di Mason senior tratta dal telefilm per immaginare il modo in cui potrebbe reagire. Lui di per sé è una persona molto insicura e nervosa e ho immaginato che lo scatenarsi della maledizione potesse renderlo ancora più teso e pronto a scattare per un nonnulla. Il momento in cui spinge Oliver è stato molto sofferto, per me .-. Sia ben chiaro che Oliver è una delle poche persone a cui non torcerebbe mai un capello, ma quel momento era necessario per me per tre motivi. A, spiegare fino a che punto Mason sia instabile in questo momento. B, cogliere l’occasione per introdurre qualcosa che verrà riapprofondito più in là nel corso della storia, ovvero, il rapporto un po’ rugginoso che c’è tra Xander e Mase. Infine, C, mi serviva per approfondire il rapporto tra Mase e Oliver, qualcosa a cui ho voluto dare tanto spazio in questo capitolo e che tornerà in maniera assidua perché questi due li amo e perché Mase e Oliver hanno il mio cuore, ed ecco…Sì, adesso la smetto, giuro .-.
2. A proposito del rapporto Oliver/Mase… Trattando le loro parti ho cercando di mantenermi il più neutrale possibile, perché quando ho incominciato questo racconto la mia visione dei personaggi era un po’ diversa, ma credo che si intuisca facilmente che il loro rapporto sia un poco ambiguo sotto determinati punti di vista. Chi segue i miei deliri su HR anche al di fuori da efp sa che per me Oliver è ormai a tutti gli effetti bisessuale ed innamorato del suo migliore amico. Non ho ancora deciso se inserire tutto questo anche in HR, probabilmente no, soprattutto per via delle dinamiche relazionali tra i vari personaggi, ma vi posso dire che se ci volete vedere lo Slash, lo potete vedere tranquillamente *O* In ogni caso, la loro è un’amicizia molto forte. E ho cercato di lasciarlo intendere nella scena Annaver (Anna + Oliver).

3.  Nella scena Ricki/Tyler, ci sono delle frasi che per chi ha letto Waiting for the moon possono essere sembrate un déjà-vu, per questo ci ho messo (almeno credo di averlo messo) l’asterisco. Ricki rimarca le stesse parole che disse al padre da bambino, quando decise di andare ad ‘aspettare la luna’ assieme a lui. Non so, spontaneamente mi sono uscite fuori quelle parole, forse perché l’affermazione che fa (voglio venire con voi, papà) mi fa pensare a Waiting for the Moon. E ho pensato che fosse stato carino inserire un parallelismo. E quindi no, Ricki non partirà. È troppo testardo e tiene troppo al fratello per ascoltare il padre. Anche in questa scena spiccano alcune cose nella dinamica padre/figlio che approfondirò in futuro. Ma per ora non ci pensiamo :3 Jeffers invece tornerà a scuola, ma…C’è un ma. E lo vedremo più in là con la storia. Ma tranquilli, non mi sono dimenticata di lui. Piano piano ognuno avrà il suo spazio, in questo momento, però, la priorità è della famiglia Lockwood e potrete immaginare perché.

4. Nella prossima metà del capitolo scopriremo: dove stanno andando Mase e Caroline :3 Poi…Scopriremo chi altri parteciperà a Miss Mystic Falls oltre a Caroline. Autumn avrà a che fare con qualcos’altro di ‘strano’ e verrà introdotto un nuovo personaggio. Ok, in realtà verranno introdotti due personaggi, ma uno, se qualcuno di voi legge Pyramid, lo conoscerà già (che cosa vi suggerisce il nome ‘Tutankhamon’? <3) ah! E ci sarà Vicki <3 Forse anche Julian, devo vedere!


5. Il titolo del capitolo, come sempre, è tratto da un episodio di TVD. Se non erro, seconda stagione.
6. Il parallelismo tra Oliver/Anna e Casper era da secoli che attendevo di trovare il modo di introdurlo. Finalmente ce l’ho fatta.

Ok, adesso vado, come sempre ho sparlato troppo e come sempre mi starò dimenticando qualcosa. Non potete capire  quanto sto in ansia, mi sembra di essere tornata alla pubblicazione del primo capitolo. Spero vivamente che questo ritorno un po’ modesto vi piaccia, ci tengo tantissimo a sapere che cosa ne pensate, perché voglio tornare a prendermi cura di questi pargoletti e ho bisogno del vostro parere. Mi sono mancati troppo e mi siete mancati voi.

 

Un abbraccio grande dal Galles <3

 

Laura

 

 

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Capitolo 12
*** 9. Brave New World (parte 2) ***


Chapter 9.

Brave New World.

(part. 2)

“Tu lo capisci…Quando uno ha paura di tutto?”

“Sì. Sì, lo capisco. Lo capisco perfettamente.”

da La strada per il Paradiso (1991)

 

Quella mattina, Autumn si alzò dal letto ancor prima del solito; si era svegliata nervosa e aveva bisogno di distendere i nervi con l’unica cosa che riusciva a farla sentire rilassata, ad eccezione dei discorsi strampalati della sua migliore amica: la corsa. Fece colazione e uscì, avviando il contapassi. Cinque minuti più tardi, aveva già rallentato l’andatura. Si sentiva già stanca, nonostante avesse appena cominciato l’allenamento. Riprese ad accelerare, ignorando quella spossatezza. Continuò a mantenere un’andatura sostenuta fino a quando non raggiunse il margine del bosco. A quel punto rallentò la corsa, sforzandosi di dare poco peso alla stanchezza, per focalizzarsi su ciò che le stava attorno; il bosco, non era fra i luoghi che prediligeva per gli allenamenti, eppure quel mattino gli era sembrato quasi naturale addentrarsi da quelle parti. Rallentò ancora di poco, scendendo verso la radura, per poi interrompere bruscamente la corsa quando si trovò di fronte ad una sorta di vicolo cieco: il bosco non proseguiva, scendendo. Aggrottò appena le sopracciglia, perplessa, mentre con il fiato corto, analizzava ciò che la circondava: non era sicura di conoscere quella porzione di bosco. Scoccò una rapida occhiata all’ iPod che teneva allacciato al cinturino. Rimpicciolì la schermata del contapassi per controllare l’ora: le dieci e mezza. Era già passato tutto quel tempo? Eppure era sicura di aver appena messo piede fuori casa. La sua mente sfiorò per un attimo il pensiero di Vicki. La immaginò con una ciocca di capelli attorcigliata attorno l’indice e un broncio in bella mostra, in seguito al ritardo dell’amica: Autumn le aveva promesso che avrebbe aiutato lei e Caroline a scegliere l’abito per la cerimonia di Miss Mystic Falls, ma per qualche strana ragione, quella mattina, la sua mezzora quotidiana di footing continuava ad allungarsi. Fece per tornare indietro, quando qualcosa catturò la sua attenzione; a una decina di metri di fronte a lei la radura si interrompeva, terminando in un’apertura circolare scavata nel terreno. Inarcò un sopracciglio, osservandone la forma. Tuttavia, ben presto, qualcos’altro attirò ulteriormente la sua attenzione, convincendola a dimenticarsi di quel dettaglio: c’era un uomo, poco distante dall’apertura. Aveva la schiena appoggiata al tronco di un albero, lo sguardo assorto e le mani occupate a giocherellare con qualcosa che ricordava una sorta di catenina. Nel momento esatto in cui Autumn decise di fare retro front e ritornare sui suoi passi, lo sconosciuto si si scostò dall’albero e puntò lo sguardo dritto nella sua direzione. Se non fossero stati così distanti, la ragazza avrebbe pensato che avesse avvertito i suoi movimenti. I loro sguardi si sostennero a vicenda per un istante, la circospezione di Autumn a mescolarsi con l’aria distratta, quasi assente, dello sconosciuto.  Lo vide avvicinarsi, come se avesse riconosciuto nel suo arrivo qualcosa che stesse aspettando da tempo.
“Emily?” 
Chiese in tono di voce esitante, squadrandola confuso. Nel farlo, si lasciò scivolare nel pugno chiuso la catenina con cui aveva giocherellato fino a quel momento. 
“Persona sbagliata.” lo smontò rapidamente Autumn, abbozzando un mezzo sorriso storto di circostanza. Non riuscì a nascondere un po’ di sconcerto, mentre analizzava con aria cinica lo sconosciuto; aveva un aspetto piuttosto stravagante, ma non era sicura di saper spiegare il motivo che l’aveva portata a farsi quell’impressione. Forse erano le borse sotto agli occhi o il groviglio di capelli scuri arruffati che gli ricadevano in ciocche distratte sulla fronte; entrambi i tratti davano l’impressione che quell'uomo fosse appena stato svegliato bruscamente da un incubo. Indossava i jeans più logori e consunti che Autumn avesse mai visto in vita sua. Era stupita che non lo avessero ancora lasciato in mutande per via di tutti gli strappi che li ornavano. La camicia, al contrario, era linda e impeccabile, le maniche arrotolate sui gomiti del ragazzo e il colletto piegato con cura. Aveva un’aria svampita che non faceva altro che stuzzicare il suo cinismo, eppure non riuscì a fare a meno di individuare qualcosa di magnetico nello sguardo dello sconosciuto. C’era qualcosa di remoto, in lui. Non aveva nulla che le ricordasse la gente di Mystic Falls; ma forse, ripensandoci, le sarebbe apparso fuori luogo dovunque.  Quegli occhi chiari la mettevano in soggezione, stuzzicando la parte irrazionale di sé stessa, quella che puntualmente cercava di mettere a tacere ogni volta, per dare ascolto al cervello. L’istinto cercava di metterla in guardia da quello sconosciuto.

Lo straniero la esaminò ancora, tornando a giocherellare con la catenella. Autumn notò che al centro vi era appesa qualcosa, una specie di piastrina identificativa. Fece un passo indietro, decisa a incamminarsi verso casa di Vicki, ma il ragazzo dall’aspetto strano tornò a rivolgersi a lei.

“Sei comunque una Bennet, dico bene?” domandò, incrociando le braccia sul petto ed esordendo in un sorriso particolarmente insolito che Autumn non fu in grado di interpretare: quel tipo stava seriamente incominciando a metterle i brividi. E in una maniera affatto positiva. 
“No.” Ribatté secca, squadrandolo con aria ostile. In fin dei conti non stava nemmeno mentendo: Bennet era il cognome di sua madre. Che cosa c’entrava quel tizio strambo con loro? Il sorriso del ragazzo si estese. Si fece più vicino, sollevando le mani in cenno di resa. La catenella era ancora incastrata fra il pollice e l’indice della mano destra, ma ancora una volta, la raccolse nel pugno.

“Te la cavi con la magia?” domandò a quel punto,  studiandola con  un barlume di interesse negli occhi: quelle parole paralizzarono Autumn
“Chi sei?” domandò bruscamente, pur sforzando di nascondere l’agitazione. Lo sconosciuto chinò appena il capo con ironia, a mo’ di inchino.
“Mi chiamo Zacheria.” rispose, tornando a studiarla con un accenno di sornioneria nello sguardo “E tu sei?”

Autumn ignorò la sua domanda.
“Che cosa vuoi da me?” domandò invece, arretrando ancora di qualche passo. Lo sguardo di Zacheria si fece improvvisamente più acceso, quasi fossero proprio quelle le parole che stava aspettando di sentirsi rivolgere. Si avvicinò di qualche passo e quando il suo pollice corse a sfiorare il mento della ragazza, Autumn si accorse di non essere in grado di muoversi. Era talmente terrorizzata da non riuscire a muovere un muscolo o c’era dell’altro? Indirizzò le sue iridi verso l’alto, lasciandole coincidere con quelle incredibilmente chiare dello sconosciuto; vi riconobbe un'insolita venatura opaca che ancora una volta la face pensare a qualcosa di lontano, di sbiadito. Di antico.

“Aiuto.” Rispose semplicemente Zacheria, lasciandosi scivolare la catenella in una tasca dei jeans. Con le mani libere, sbottonò i polsini della camicia e si arrotolò le maniche poco sopra gli avambracci. “…E…uno spuntino. Se non è troppo disturbo.”  aggiunse, mentre un sorriso indecifrabile prendeva ad arricciargli le labbra. E poi i suoi occhi si tinsero di rosso. Autumn fece appena in tempo a riconoscere il repentino cambio di espressione, che lo straniero si avventò su di lei. Un dolore lancinante le attanagliò il collo e ,colta dal panico, incominciò a urlare….

…Autumn?”


Continuò a gridare fino a quando non si rese conto che dalla sua gola non stava provenendo alcun suono. Il dolore svanì nel momento esatto in cui aprì gli occhi, così come le immagini che fino a quel momento avevano ingombrato la sua visuale.

“’Tumn!”

Una voce femminile richiamò la sua attenzione. Autumn aggrottò le sopracciglia, cercando di mettersi a sedere. Vicki le rivolse un’occhiata a metà tra il perplesso e il divertito, per poi accennare a un broncio infantile, lasciandosi cadere sul materasso.

“I nostri discorsi sono barbosi o è il tuo jogging mattutino che ti ha stancata e hai deciso di farti un sonnellino?” domandò la ragazza. Le sfilò il cuscino da sotto la nuca e la colpì in testa. Autumn borbottò qualcosa, ancora confusa, prima di allontanarsi di scatto dal letto. Portò le mani dritte di fronte al suo sguardo e le osservò con attenzione: non le prudevano così tanto dal giorno della partita di hockey. Il giorno in cui si era verificato quel maledetto incidente della lattina. In quel momento, ebbe un improvviso giramento di testa. Frammenti di immagini riguardanti il sogno che aveva appena avuto riemersero, minacciando di riempirle lo sguardo, cancellando tutto ciò che stava realmente vedendo in quel momento. Si aggrappò saldamente al comodino e, lentamente, la stanza di Vicki tornò a fuoco, eliminando definitivamente l’immagine poco nitida di quell' apertura nel terreno e gli occhi chiari di quello sconosciuto; avrebbe dovuto sentirsi tranquilla ora che l’incubo era volto al termine. Eppure, un’insolita sensazione continuava a prevalere, la stessa che aveva avvertito nel suo sogno: la sensazione di pericolo.

Tumn, tutto a posto?” domandò ancora Vicki, squadrandola insospettita. Ai piedi del letto, Caroline Lockwood giocherellava con uno dei pon pon da cheerleader dell’amica, le gambe incrociate e un’espressione insolitamente assorta. Vicki le rivolse una rapida occhiata indecisa, prima di aggiungere “Problemi con quella…” e qui si fermò, accennando a un gesto vago con le mani. Fece una smorfia, mimando le forme di una sfera di cristallo. “ Wooooo quella cosa, insomma?”

Caroline rivolse a entrambe un’occhiata stranita; Autumn freddò l’amica con un’occhiataccia.

“Sto bene.” Le tranquillizzò entrambe tornando a sedere sul letto. Istintivamente si passò una mano sul collo, come a voler verificare che fosse ancora integro. Nel farlo i polpastrelli quasi bruciarono per via del prurito insistente. Ancora una volta, l’espressione inquietante e il sorriso ambiguo di quello sconosciuto le balzarono alla mente. Il  campanello di allarme prese a vibrare ancora più forte nella sua testa. “Ho poche ore di sonno alle spalle e probabilmente mi sono alzata troppo in fretta, tutto qui.”

Vicki le rivolse un’occhiata poco convinta, prima di dare una scrollata di spalle e cominciare a canticchiare fra sé.
“Tu bevi troppo caffè.” Comunicò infine poco dopo, puntandole contro l’indice. “Il caffè ti rende nervosetta e non ti lascia dormire la notte.” mentre parlava aveva infilato la testa sotto al letto. Ne uscì fuori poco dopo con una pila di riviste di moda tra le mani. Le sparpagliò sulla trapunta e tornò a incrociare le gambe, recuperandone una a caso. “Adesso però mi servi sveglia e di buon umore.” concluse infine, ignorando l’occhiataccia di Autumn e sfilando i pon pon di mano a Caroline. Li lasciò cadere per terra e le sorrise, prima di sventolare il giornalino sotto il naso della ragazza. “Dobbiamo aiutare questa bella biondina a trovare l’abito adatto per Miss Mystic Falls.” annunciò, sfilandosi un ciuffo di capelli via dagli occhi. Caroline sospirò.

“Vicki, te l’ho detto, non credo che parteciperò.” ribadì infine, spostando lo sguardo in direzione di Autumn in cerca di approvazione. L’amica diede una scrollata di spalle, mentre Victoria continuava a sfogliare assorta la rivista. La strana sensazione, il prurito ai polpastrelli, stava lentamente scemando. Questo la aiutò a sentirsi più rilassata.

“Non mi sembra il mio genere di cosa.” Proseguì Caroline.

“Potrebbe essere divertente.” cercò di sostenerla Autumn, intrecciando le gambe e allungandole sul letto. Vicki arricciò il naso e  si attorcigliò una ciocca di capelli sull’indice, analizzando Caroline con espressione pensierosa.

“Ma dai, Care, perché no?” esclamò infine, dandole un colpetto con il piede. “Sei competitiva fino al midollo, e questa è una gara, in fin dei conti. Dovrebbe essere pane per i tuoi denti. E poi sei una Lockwood, no?”


“Sì, ma mi ci vedete in abito elegante e tacchi a spillo?” ribatté Caroline, afferrandosi le punte delle converse e unendole l’una all’altra con le mani. “Beh, in effetti i tacchi mi farebbero sembrare un po’ più alta, ma…” sospirò, spostando distrattamente lo sguardo sulle riviste. Ne prese una e incominciò a sfogliarla, sorridendo appena. “Questo è carino.” Ammise infine, indicando un abito da sera azzurro. Vicki lo analizzò sovrappensiero per un po’, poi balzò in piedi, si avvicinò al suo armadio e incominciò a frugare fra i vari vestiti, tirando fuori abiti alla rinfusa.

“Vedrai che andrai alla grande; secondo me vinci pure.” La rassicurò, con la testa ancora infilata nell’armadio. Tirò fuori un vecchio cappellino da sole, lo soppesò con un mezzo sorriso divertito e raggiunse Autumn, per posarglielo sul capo. L’amica sospirò, azzardando  allo specchio un’occhiata a metà tra il divertito e il rassegnato.

“E poi, scusa, cogli l’occasione per farti figa agli occhi di mio cugino.” Proseguì tranquillamente Vicki, sfilando un paio di abiti dalle grucce e lanciandoli sul letto. “Magari è la volta buona che Xander si dia una svegliata…

Le guance di Caroline si tinsero istantaneamente di rosso. Vicki le fece l’occhiolino, per poi scoccare un’occhiata divertita in direzione di Autumn. La biondina sospirò, nascondendo il viso dietro la rivista.

“Ma si capisce così tanto, che…” azzardò da dietro la pagina, poco sicura di voler conoscere la risposta. “…Insomma, ne ho parlato solo con Mase.” ammise infine, lasciando perdere il giornale. Vicki sorrise con aria di chi la sa lunga.

“Penso che lo abbiano capito tutti tranne il diretto interessato.” dichiarò candidamente, dandole poi un buffetto sulla guancia. “Oh, e Ricki, ovviamente.” aggiunse, cambiando improvvisamente espressione. “A Ricki piace il rosso?” domandò, quasi sovrappensiero, per poi scuotere il capo decisa, sfilandosi un ciuffo di frangetta dagli occhi. Raggiunse il suo armadio di corsa, quasi avesse appena avuto una rivelazione fulminante e frugò tra i vari abiti per una manciata buona di minuti.

“Questo è carino.” annunciò infine, tirando fuori un abito da sera verde e mostrandolo alle due ragazze. “Secondo me le calzerebbe a pennello.” Aggiunse, alludendo a Caroline, cercando l’approvazione di Autumn con lo sguardo. L’amica lo soppesò con aria critica e infine sollevò il pollice, dando l'ok all' abito.  “Sì, può andare.” confermò, abbozzando un sorriso. Vicki sollevò il braccio in segno di vittoria e lasciò cadere il vestito sul letto, di fronte a Caroline.
“Provalo, dai'" ordinò, unendo le mani e sorridendo entusiasta: era evidente che si stesse divertendo come non mai.

“Potremmo esserci baciati il week end scorso alla casa sul lago.” azzardò a quel punto Caroline. Lo aveva detto tutto d’un fiato, come se non avesse aspettato altro che vuotare il sacco per tutto il tempo che era stata lì. L’espressione di Vicki si fece tutto a un tratto più vivace. Caroline non fece nemmeno in tempo ad aggiungere altro che la ragazza le aveva già sfilato il vestito di mano. 
“Allora questo non va bene!” la rimbeccò, tornando a frugare nell’armadio. “Avresti dovuto dirmelo prima, scemina!”

Caroline scoccò un’occhiata disorientata a Autumn che scosse il capo rassegnata, come a volerle suggerire di non farci caso. “Che cosa è successo dopo il bacio?” domandò, incoraggiandola a proseguire con il discorso, mentre Vicki parlottava fra sé e sé, esaminando i vari vestiti. Caroline si morse il labbro, tornando a tormentarsi le punte delle Converse.

“Ha rovinato tutto, proponendo di fingere che non fosse mai Successo.” Commentò, terminando la frase in tono di voce improvvisamente alterato. “Ecco, mi è venuta voglia di prenderlo a pugni.” dichiarò.

 In quel momento, Vicki sbucò finalmente fuori dall’armadio tenendo in mano un secondo abito azzurro, decisamente più corto del primo.

Nieeente pugni!” cinguettò allegramente, accostando il vestito a Caroline. “Una volta fidanzati, potrai farlo a pezzi tutte le volte che vorrai. Ti insegnerò la mia piroetta rotante, che te lo assicuro, è una meraviglia quando si tratta di picchiare gli uomini. Ma adesso pensa solo ad essere sexy e a sfilare via il prosciutto dagli occhi di quel rimbambito di mio cugino.”

“Sei sicura che questo vestito vada bene per me?” la interrogò la ragazza, rivolgendo un’occhiata quasi intimidita alla scollatura dell’abito. Vicki annuì, decisa.
“Assolutamente sì.” annunciò, indicandole la porta della camera. “E adesso fila in bagno a provartelo; io e ‘Tumn vogliamo l’effetto sorpresa.” Concluse allegramente, prima di sistemarsi nuovamente sul letto di fronte all’amica. Caroline sospirò. Con riluttanza, si piegò l’abito sul braccio e si avviò in direzione della porta.
“Se faccio ridere, vi prego, non ditemelo.” Si raccomandò, prima di chiudersela alle spalle. Una volta sole, l’espressione di Vicki cambiò, facendosi d’un tratto meno raggiante.
“Che è successo, prima?” domandò, voltandosi in direzione di Autumn. L’amica sbuffò.

“Niente.” rispose la ragazza, non riuscendo bene a comprendere se fosse sincera oppure no. “...Credo"  Vicki riesumò uno dei suoi pon pon e glielo tirò in testa.

Ehy!” la rimbeccò l’amica, rivolgendole un’occhiata stizzita.

“Non può non essere successo nulla, hai fatto ‘la faccia’…” le fece notare l’altra ragazza, incrociando le braccia sul petto e inarcando il sopracciglio. Autumn sgranò gli occhi. 
“La che?”

“La faccia!”
“E sarebbe?”
“L’espressione che fai solo nei momenti in cui stai pensando alla woooooo!” ripeté quel verso e il gesto vago della mano che aveva fatto poco prima, riferendosi alla magia. Autumn si passò le mani sulle tempie.

“Ma perché ti do retta, perché?” mormorò fra sé e sé, lasciandosi infine sfuggire un sospiro. “Non penso sul serio che sia successo qualcosa.” ammise infine. “Però ho fatto un sogno strano; e quando mi sono svegliata avevo di nuovo quella strana sensazione di prurito ai polpastrelli, e mi sentivo agitata; come se il mio istinto stesse cercando di suggerirmi qualcosa.” Concluse, aggrottando le sopracciglia e chinando il capo, tornando ad osservarsi le mani. “Questa cosa incomincia a spaventarmi, Vic.” Ammise infine, tornando a volgere lo sguardo verso la sua migliore amica. “Forse dovrei parlarne con mia madre, ma non mi va per niente. Vorrei solo che queste stupide impressioni se ne andassero e…” si interruppe, lasciandosi sfuggire un secondo sospiro. "...basta." concluse infine.

Nel vederla così turbata, Vicki le afferrò le mani, stringendole affettuosamente. Rimasero per un po’ in silenzio, ognuna immersa nei propri pensieri. Infine, Victoria assunse un’espressione incuriosita.

“Pensi che potresti imparare a leggere nel pensiero?” domandò, in apparenza più che seria. Autumn scosse per l’ennesima volta il capo, passandosi una mano sul viso.
‘No, Vic, Ricki non pensa che tu sia sexy.” esordì infine, scoccandole un’occhiata rassegnata. “Non c’è bisogno di saper leggere nel pensiero, per poter rispondere a questo.”

“In realtà vorrei solo sapere se c’è almeno una piccola possibilità che mi possa fare da cavaliere.” ammise infine, tornando a incrociare le gambe sul letto e prendendo a giocherellare con il pon pon che aveva lanciato poco prima. “Jeffrey mi ha detto che sarà ancora qui nel week end e mi domandavo se avrebbe accettato. So che gli altri anni mi ha sempre detto no, ma…” 

“Perché non glielo chiedi?” la incoraggiò Autumn, abbandonando il cipiglio irritato. “Chi lo sa? Magari questa è la volta buona.”

“L’hai detto perché ti è appena capitato di percepire qualche magica vibrazione positiva o…
“Se ti sento ancora dire le parole “magica” e “magia”, giuro che troverò il modo di far funzionare questa cosa e mi inventerò un incantesimo per far perdere a Ricki tutti i capelli.” dichiarò decisa.

Vicki finse un’occhiata allibita nella sua direzione, per poi aggrottare appena le sopracciglia, come se stesse rimuginando su qualcosa.

“Però, in fondo, credo che sarebbe affascinante anche da pelato.” valutò infine, annuendo a conferma delle sue parole. “Tu che dici?”

Quando Caroline fece ingresso nella stanza, avvicinandosi con titubanza, Autumn stava ancora ridendo.

“La risata non è per me, vero?” la interrogò subito Caroline, arrossendo, quando gli sguardi delle amiche si posarono ammirati su di lei. Autumn smise di ridere e fece ‘no’ con il capo.
“Assolutamente no.” la rassicurò, abbozzando un sorriso. “Sei bellissima.”

“Uno schianto” la rassicurò Vicki, esaminandola con sguardo orgoglioso. E quando avvicinandosi al comò, Caroline esaminò il suo riflesso nello specchio, si accorse con meraviglia, che in fin dei conti avevano ragione.

 

*** 

And all the roads we have to walk are winding
And all the lights that lead us there are blinding
There are many things that I
Would like to say to you but I don't know how

Wonderwall. Oasis
 

Caroline tamburellò con le dita sul volante, in attesa che il semaforo diventasse verde. Rivolse un’occhiata  impensierita alla persona che occupava il sedile del passeggero: Mase aveva gli occhi chiusi, il gomito appoggiato al finestrino e la guancia adagiata sul pugno serrato; sembrava essersi addormentato.

“Mason?” richiamò la sua attenzione, rimettendo in moto. Lo osservo ritrarsi dal finestrino e passarsi assonnato una mano sugli occhi. “Pensavo stessi dormendo.” Il giovane si accigliò.

“Come facevo a dormire?” mormorò, tornando ad adagiare la nuca sul poggiatesta; sembrava stanco, ma probabilmente era solo annoiato o seccato. Caroline si era resa conto in fretta di quanto frequentemente si verificasse l’ultima opzione con lui.  “ Non sei stata zitta un attimo.”.

“Mi annoiavo.” Si giustificò la ragazza, tornando a prestare attenzione alla strada. “Quando guido, ho bisogno di compagnia.” Mase sbuffò; si passo pigramente una mano sui capelli per riavviarli. Si sentiva insolitamente stanco, quasi avessero viaggiato per tutto il giorno, invece che un paio d’ore appena.

 “Dove siamo?” domandò a quel punto, rendendosi conto che stavano rallentando. Buttò l’occhio fuori dal finestrino, mentre Caroline conduceva la macchina dentro un parcheggio semi affollato; schiamazzi di bambini e voci concitate di adulti si mescolarono fra loro non appena la ragazza spense il motore. “Che cos’è, uno zoo?” azzardò il ragazzo, prima di slacciarsi la cintura di sicurezza e uscire dall’auto. Si guardò attorno con fare circospetto, alla ricerca di indizi. Con le braccia conserte e le spalle irrigidite, esaminò il corteo di persone di tutte le età che si apprestava ad attraversare il cancello d’ingresso di quello che sembrava essere uno zoo; o forse un parco naturale.
“Non esattamente.” La risposta di Caroline arrivò poco prima che i suoi occhi incominciassero ad analizzare l’insegna appesa a mo’ di arco sopra il cancello; lesse il nome del parco. E ad un tratto si rese conto del motivo per cui quel posto gli destasse così tanta perplessità. Tornò a voltarsi in direzione di Caroline e analizzò il suo volto con attenzione. Era la prima volta che la ragazza lo notava rivolgerle un’occhiata così diretta, e stranamente quell’intensità la disarmò. Provò un accenno di debolezza; si sentì esposta, quasi gli occhi di quel ragazzino fossero appena riusciti a smascherare in lei qualcosa che nemmeno era sicura di conoscere. Non riuscì nemmeno a distogliere lo sguardo. Lo fece lui, riprendendo ad analizzare l’insegna del parco, come se tutto a un tratto avesse allentato la presa rispetto a qualsiasi cosa stesse pensando.

“Sono già stato qui.” dichiarò infine, tornando a infilarsi le mani in tasca. “Alle elementari. Ci hanno portato in gita un paio di volte.”

Ricordava distintamente le giornate trascorse da bambino in quel posto; era una riserva naturale. Sua sorella Caroline, una volta, aveva addirittura deciso di festeggiare il suo compleanno lì. Lei e Xander avevano trascorso il pomeriggio esplorando il principio di foresta, nella speranza di individuare qualche animale selvatico. Mase no: ogni visita a quel posto era stata un tormento per lui, da bambino; sapeva che in alcune zone della riserva, quelle inaccessibili, sembrava essersi stabilito da anni un branco di lupi e non c’era nulla, a quei tempi, che lo spaventasse più di quelle creature. In quel momento, ripensando agli avvenimenti dell’ultima settimana, si chiese se non avesse sempre fatto bene, in fin dei conti, a diffidare da loro: gli stavano rovinando la vita. Caroline ripose le chiavi della macchina nella borsetta e lo raggiunse, in apparenza completamente assorta dai suoi pensieri.

“Davvero?” chiese infine con tranquillità, tornando a rivolgersi al ragazzo.

“Perché siamo qui?” domandò a quel punto Mase, scrutandola perplesso. La vampira prese a camminare in direzione opposta ai cancelli.
“Come ti ho detto prima, so della maledizione della vostra famiglia e so di te.”

 “…Prima hai anche detto che se fossi venuto con te, mi avresti spiegato come diavolo tu ne sia venuta a conoscenza.” la interruppe Mase, irrigidendosi tutto d’un tratto. Caroline si fermò.

“Vuoi sapere perché siamo qui o no?”

“Voglio sentire entrambe le risposte.” rispose prontamente il ragazzo. La giovane gli rivolse una rapida occhiata, prima di scuotere il capo, rassegnata; ovviamente, pensò sorridendo appena.
“Una cosa per volta…” lo rimbeccò infine, riprendendo a camminare. Mason roteò gli occhi, pur acconsentendo a seguirla. Caroline si accertò che non stesse per interromperla ancora una volta, prima di proseguire.

“Parlando con tua madre, è uscito fuori che hai un po’ la fobia dei lupi.” esordì infine.
“Cazzate.” Fu l’immediato commento del giovane.

“Questo potrebbe complicarti un po’ le cose.” proseguì la vampira, ignorando il suo intervento. Mason si passò una mano sulla nuca, visibilmente in imbarazzo.

N-n-non hai di meglio da fare che impicciarti in affari che non ti riguardano?” proseguì, seccato. Caroline sospirò.

Mase…” Lo richiamò, aggrottando le sopracciglia sorpresa subito dopo; era la prima volta che lo chiamava così. Il ragazzo sbuffò, tornando a scrutare noncurante  il viavai di persone che affollava il cancello di ingresso. Sulla destra, un secondo accesso conduceva direttamente a un piccolo parco ornitologico che avrebbe permesso alle persone di ammirare da vicino alcuni animali. Caroline rimase in silenzio per qualche istante, scegliendo con cura le parole da pronunciare. Nonostante sapesse ormai bene che l’essere diffidente fosse un tratto distintivo del ragazzo,  in quel caso poteva comprendere il suo atteggiamento ostile. Per il poco che sapeva lui, si stava trovando di fronte una coetanea semi-sconosciuta. Una sconosciuta che tutto a un tratto pretendeva di prenderlo sotto la sua ala protettiva, mascherando tutti i suoi segreti più scomodi. In altre occasioni, probabilmente, si sarebbe spazientita, ma in quel caso nemmeno ci riusciva. Al suo posto si sarebbe seccata allo stesso modo . Voleva aiutarlo, ma non sapeva fino a che punto potesse raccontarsi. Le mezze verità non potevano fare altro che confonderlo e infastidirlo ulteriormente, ma non aveva scelta.

“Voglio solo farti vedere una cosa.” spiegò infine, guidandolo fuori dal parcheggio. “E non ci sarà nemmeno bisogno di entrare nel parco. Fai una buona azione e fidati di me.”

Solo in quel momento, Mase si rese conto che stavano puntando direttamente ai margini della foresta, ignorando i cancelli d’ingresso al parco. La guardò con sospetto per poi acconsentire a seguirla, tornando a infilare le mani in tasca. Sbuffò, ma non aggiunse altro, mentre riprendevano a percorrere il fazzoletto di prato che separava il parcheggio dall’inizio della selva.
“Tanto, ormai…” borbottò qualche decina di metri più tardi, mugugnando fra se e se. Caroline abbozzò un sorriso, fingendo di non aver sentito nulla. Continuarono a camminare in silenzio per almeno una quindicina di minuti. Man mano che si addentravano fra gli alberi, Mase si accorse che qualcosa di insolito stava accadendo nel modo in cui i suoi sensi interagivano con l’ambiente. Ogni minimo scricchiolio lo faceva scattare sull’attenti. Quando urtava un rametto per sbaglio il suo istinto gli suggeriva di ritrarsi, irritato. Gli riusciva più difficile ignorare rumori e odori; sembravano comunicare con lui tanto quanto le parole o i gesti. Inizialmente non ci fece caso, ipotizzando che si trattasse semplicemente di nervosismo; era una settimana, ormai, che prestava attenzione al più piccolo dei rumori, rischiando di temere anche la sua stessa ombra. Però non aveva mai fatto caso agli odori; in quel momento, al contrario, incominciò a capacitarsi di quanto affinato stesse incominciando a farsi il suo olfatto. La cosa strana era che non gli sembravano più semplicemente…odori. Gli comunicavano qualcosa; alcuni imprimevano in lui una sorta di allarmismo; alcuni erano gradevoli, ma non suggerivano nulla a livello di sensazioni. Come se gli avesse letto nella mente, Caroline si gli rivolse la parola.

“Il senso dell’udito, dell’olfatto e del gusto sono amplificati, ora che sei quello che sei.” Spiegò, scavalcando la congiunzione fra due tronchi e fermandosi poco dopo. Aggrottò le sopracciglia e rimase immobile, come se fosse in attesa di qualcosa. “Molti licantropi ne sono sopraffatti inizialmente, ma con il passare del tempo, diventa parte della normalità. Certi odori che prima potevano sembrarti indifferenti, improvvisamente ti ricorderanno qualcosa. Alcuni incominceranno a sembrarti ripugnanti. Tuo padre, per esempio, era costantemente irritato dall’odore di un certo tipo di acqua di colonia, la preferita di Matt.” Spiegò, abbozzando un sorriso. Mase aggrottò le sopracciglia, ascoltandola con attenzione. “Penso che gli abbia buttato tutte le boccette, a un certo punto e Matt è andato fuori di testa, perché gli erano costate una fortuna.” Concluse, non riuscendo a trattenere una risatina. Mase notò un lieve cambio di espressione, nel volto della ragazza. Il modo in cui si coprì la bocca con la mano, e l’aria sbarazzina, quasi svampita che aveva assunto tutto a un tratto, gli fecero ricordare di avere accanto una persona appena poco più grande di lui. Alle volte gli sembrava più un’adulta, nei modi di fare. 
“E tu, queste cose le sai, perché…” incominciò la frase, inarcando con scetticismo un sopracciglio. Caroline smise di ridere, rendendosi immediatamente conto dell’errore commesso; aveva straparlato.

 “In più…” , affermò a quel punto, fingendo di non aver fatto caso alle sue parole. “…molti di voi sono piuttosto bravi nel riconoscere chi mente.” completò la frase, trattenendo il fugace istinto di mordersi il labbro. “Eccoti spiegato perché nonostante le lamentele e il broncio, tu abbia comunque deciso di seguirmi.”

Mason aggrottò le sopracciglia perplesso. Si appoggiò con la schiena al tronco di un albero, non sapendo bene se irritarsi perché Caroline aveva eluso la sua domanda, se seccarsi per i suoi riferimenti 'alle lamentele e al broncio' o se corrucciarsi per via di tutta quella faccenda della verità; non pensava fosse vero, per quanto gli riguardava. Non era mai stato bravo a decifrare le intenzioni altrui. E poi, alle volte, non riusciva nemmeno a comprendere le persone che gli stavano attorno da anni, figurarsi una tizia che conosceva appena di vista.
“Io non mi fido di te.” La contraddisse  pacatamente, tornando a guardare nelle sua direzione. Caroline sostenne determinata il suo sguardo.
“E allora, diffidente come sei, perché mi hai seguito?” gli fece notare, incrociando le braccia sul petto. Non gli lasciò tuttavia il tempo di rispondere. Venne distratta da un rumore appena accennato in lontananza.
“Hai sentito un rumore?” chiese.

Mase si mise a sua volta a braccia conserte. “Quale dei tanti?” sbottò sarcastico, inarcando nuovamente un sopracciglio. Caroline scosse il capo, sollevandosi dal tronco.

“Rumore di zampe.” rispose, afferrandolo  per il polso. “Vieni, siamo quasi arrivati.”  Mase le rivolse un’occhiata torva, nel momento esatto in cui le dita di Caroline si strinsero attorno al suo polso. Si irrigidì, come se quel semplice gesto fosse degno di rimprovero. Caroline si accigliò leggermente, ma  decise di non badarci, continuando a procedere. Improvvisamente Mason si fermò. Sfilò il braccio dalla presa di Caroline e aggrottò le sopracciglia, passandosi pensieroso una mano sulla nuca.
“Questo odore…” mormorò improvvisamente, spostando lo sguardo in direzione di Caroline; la ragazza si fermò a sua volta.

“è un odore familiare?” chiese.
Mase annuì. Era un odore che, assurdamente, gli ricordava Silver, ma l’impressione che stava ricevendo era tutt’altra. Aveva a che fare con qualcosa che non c'entrava niente con quel posto, o con le foreste in generale. Era piacevole, ma solo a tratti. Era un odore che gli suggeriva protezione, una sensazione di sicurezza e di custodia, qualcosa che in qualche modo, gli ricordava la tranquillità che respirava solo a casa, nella sua stanza, fra i suoi libri e il silenzio.
“Perché sto pensando a mio fratello?” domandò improvvisamente, arrossendo visibilmente. In quel momento, Caroline si premette un dito sulle labbra, suggerendogli di stare in silenzio. Camminarono per ancora cinque o sei metri, cercando di non fare rumore, fino a quando, Mase non si costrinse a fermarsi di colpo, per la seconda volta in pochi minuti. Sgranò gli occhi, improvvisamente all’erta; si sentì d’un tratto attraversare dall’inquietudine, nonostante il suo istinto si stesse sforzando di suggerirgli che non ci fosse nulla di cui aver paura. C’era un lupo a pochi metri di distanza da loro: un lupo adulto. Se ne stava accovacciato sulle quattro zampe, le orecchie ritte e lo sguardo puntato diritto contro di loro; i canini scoperti, come a volerli minacciare. Mase lo squadrò immobile, per una frazione di secondi, le mascelle serrate, incapace di muovere anche solo un muscolo. Il lupo sembrava aver focalizzato la sua attenzione su Caroline, e da il modo in cui aveva arricciato il naso e appiattito le orecchie, il giovane non faticò a intuire che la loro presenza non fosse affatto gradita dall’animale.
“Andiamo via.” borbottò spiccio a quel punto, senza distogliere lo sguardo dal lupo. Nel momento in cui lo udì parlare, la creatura virò il capo nella sua direzione e i suoi occhi andarono a scontrarsi con quelli di Mase. Il giovane trattenne il respiro, incapace di eseguire qualsiasi movimento.

“Non fare quella faccia.” sussurrò a quel punto la ragazza, tornando a sfiorargli il polso. “Non ti farà niente. Sei come lui, adesso.”

 Mase si sforzò di rimanere impassibile sotto lo sguardo del lupo, nonostante il suo cuore stesse protestando con impeto, istigandolo ad allontanarsi. Un lato di sé, quello logico e razionale, sapeva che  l’animale non avrebbe potuto ferirlo. Era più forte e più agile di un normale essere umano, ora. E le sue ferite si sarebbero rimarginate in poco tempo. Eppure restava quel barlume di inquietudine; la paura irrazionale che si era cucito addosso da bambino e che  sembrava ancora presente, nonostante avesse pensato di averla ormai dimenticata. Ignaro dello scontro fra pensieri che stava avendo luogo nella testa del suo avversario, il lupo smise di arricciare il naso e, pur continuando a osservarlo guardingo, si sdraiò a terra. Mase lo analizzò perplesso, stranito da quel suo improvviso gesto di resa. Solo in quel momento, Caroline notò qualcosa che le fece sgranare gli occhi dalla sorpresa.
“Oddio!” sussurrò, indicando un punto di fronte a loro ad un ancora frastornato Mase. “Guarda lì.” Finalmente il ragazzo riuscì a distogliere lo sguardo dal lupo, permettendo così ai suoi occhi di concentrarsi su ciò che né lui, né Caroline, erano riusciti a notare prima. Due cuccioli stavano giocando poco distanti dalla schiena della madre. A uno sguardo più attento, il ragazzo si rese conto della presenza di altri due piccoli intenti ad azzuffarsi, che fino a quel momento erano rimasti mascherati dall’erba alta. Li osservò giocare per un po’, in tralice. Cercò di mettere a fuoco un pensiero che sentiva gli appartenesse, ma che per qualche strana ragione continuava a sfuggirgli, come se non fosse ancora in grado di comprenderlo. Molto lentamente, la vampira si avvicinò di qualche passo in direzione della lupa. Mase distolse lo sguardo dai cuccioli e le rivolse un’occhiata inquieta
“Che fai?” mormorò, tenendo d’occhio i movimenti dell’animale. Cercò di farla desistere. “Lascia stare…

La creatura si sollevò nuovamente da terra, arretrando in direzione dei piccoli. Minacciò di tornare a ringhiare a Caroline, il naso arricciato e i denti scoperti.
“Forse dovremo allontanarci.” Si trovò infine d’accordo con lui la ragazza, rinunciando al tentativo di farsi più vicina. Ancora una volta, nel momento in cui con un movimento un po’ troppo busco, Mase attirò l’attenzione della lupa, la creatura sembrò cambiare atteggiamento. Lo fissò per un po’ , come se lo stesse valutando, e infine gli diede le spalle, raggiungendo i piccoli. Incominciò a badare a loro, leccandoli e incalzando le loro baruffe, mentre i cuccioli le trotterellavano attorno, tendendole agguati.

 “La tua presenza sembra tranquillizzarla.” commentò a quel punto Caroline, tornando a sorridere. Guardò Mase di sottecchi, ed assunse un’espressione divertita. “Forse ti ha riconosciuto come membro di un’altra cucciolata.” lo prese in giro, arruffandogli i capelli. Nuovamente, Mase parve irrigidirsi sotto il suo tocco. Ritrasse il capo di lato per scansarla con espressione infastidita.
“Piantala.”  mugugnò, arrossendo lievemente. Caroline ridacchiò a bassa voce. “Che bisbetico.” Lo stuzzicò, arretrando di qualche passo e accovacciandosi sul tappeto d’erba. Il ragazzo roteò gli occhi, per poi tornare a spostare la sua attenzione in direzione della cucciolata, appoggiandosi a un tronco con la spalla. Osservò a lungo la madre mentre interagiva con i piccoli. In quel momento stava assecondando il gioco di uno dei lupacchiotti, spingendolo a sdraiarsi con le zampe all’aria. Lo lasciò ribattere per un po’, incassando i suoi  morsi, per poi attirarlo a sé e incominciare a lavarlo. Mase si perse in quell’immagine, non riuscendo più a negare un’evidenza che aveva cercato di rimbalzargli in testa sin dal primo momento in cui aveva notato quei cuccioli: si rivedeva in loro. L’atteggiamento ostile della madre nei confronti di chi si avvicinava ai suoi piccoli, ricordava molto il modo di fare un po’ brusco e protettivo di suo padre. Anche in quel momento, nonostante in apparenza avesse giudicato Mase inoffensivo, etichettandolo forse come ‘cucciolo’ di un altro branco , continuava a vegliare con costanza sui suoi piccoli e a tenere sotto controllo Caroline. Osservava vigile i cuccioli più spavaldi, quelli che osano avvicinare di qualche passo i due sconosciuti, continuando ad azzuffarsi fra di loro.  E vegliava  anche su quel cucciolo che si ostinava a lottare tra le sue grinfie, agitando inutilmente le zampe, come a volersi fare giustizia da solo. Si domandò che cosa pensasse di se stesso quel cucciolo. Forse vedeva le premure fin troppo morbide della madre come la prova che non fosse ancora abbastanza temprato, abbastanza in gamba; abbastanza lupo, a differenza dei coetanei. Forse stava semplicemente provando a dimostrare di essere forte; forte abbastanza da sapersela cavare da solo, alla larga dalla presa protettiva della madre. Forte forse  quanto i suoi fratelli. Forse.

“Andiamo?” il sussurro morbido di Caroline sciolse quei pensieri, convincendolo infine a distogliere lo sguardo dalla cucciolata. Mase le rivolse un’occhiata distratta e annuì, la mente ancora altrove, alla ricerca di qualcosa che ancora gli stava dando motivo di riflettere. Osservò la famiglia di lupi un’ultima volta e seguì la ragazza, ripercorrendo a ritroso il percorso per raggiungere la macchina. Stettero in silenzio fino a quando non arrivarono all’auto.

“Sei come noi, vero?”  domandò a quel punto il ragazzo. Infilò le mani in tasca e si appoggió alla portiera. “Come me e papà.” Caroline scosse il capo, raggiungendo la parte opposta della vettura.

“No, non sono un lupo mannaro.” Rispose,  soffermandosi a ricordare con malinconia il momento in cui qualcun altro gli aveva posto la stessa domanda. Mase inarcò un sopracciglio, per poi fare una smorfia poco convinta, appoggiando il gomito al tetto della macchina.

“Spiegherebbe molte cose.” Commentò infine, dando una seconda scrollata di spalle. Caroline esibì un sorrisetto divertito.

Fidati…” incominciò, rivolgendogli un’occhiata eloquente. “…non le spiegherebbe tutte.”
“E allora spiegami tu le restanti.” ribatté prontamente il ragazzo, decidendosi finalmente ad entrare in auto. La ragazza occupò il sedile dell’autista, sbuffando sonoramente.
“Tu non hai dei segreti, Mason?” lo rimbeccò a quel punto, mettendo in moto. Mase inarcò un sopracciglio.

“Non per te, a quanto pare….” Commentò, allacciandosi la cintura di sicurezza. Caroline scosse il capo con fare rassegnato.

“Ne dubito.” Concluse, accennando una rapida occhiata nella sua direzione; abbozzò un sorriso e tornò a guardare la strada.

“E comunque…” riprese a quel punto Mase, facendo bene attenzione a puntare il suo sguardo contro il finestrino.“…Non è che mi sia ben chiaro il perché… Ma penso di doverti un grazie.” rivelò infine, continuando a guardare fuori. Caroline Forbes estese il suo sorriso.


“Non c’è di che.”


Because maybe, you're gonna be the one that saves me

Wonderwall. Oasis

***

“They say bad things happen for a reason

But no wise words gonna stop the bleeding.”


Breakeven. The script

L’hanno fatto apposta.” dichiarò decisa Elena, in risposta alle parole di Jeremy. Era con il fratello, quando quest’ultimo aveva ricevuto una telefonata da parte di una collega di Hazel, per conto del comitato delle feste di Mystic Falls. La donna si era raccomandata di lasciar detto alla collega che c’erano stato uno spostamento del giorno in cui si sarebbe tenuta la cerimonia di Miss Mystic Falls. Sabato sera, invece che domenica. L’asta degli scapoli, sarebbe stata rinviata alla settimana successiva. “Sabato sera c’è la luna piena.” Puntualizzò Elena, appoggiando la borsa sul tavolo e sfilandosi il giubbotto.  Jeremy sospirò.

“C’è sicuramente lo zampino dello sceriffo Fell, in tutto questo.” Commentò, alzandosi per spegnere il bollitore. Spartì l’acqua in due tazze e raggiunse nuovamente la donna. “Come se  i Lockwood non avessero già abbastanza problemi.” Osservò a quel punto Elena, afferrando la tazza che le stava  porgendo il fratello. Jeremy prese posto di fronte a lei, l’espressione improvvisamente meno distesa. “Oliver è preoccupato per Mason.” Rivelò infine, passando lo zucchero a Elena e intingendo il cucchiaino nel suo tè.  “Sa dell’incidente e per un po’  ha fatto affidamento su di quello per giustificare lo scombussolamento di Mase, ma ultimamente lo vedo più inquieto.” Osservò assorto la propria tazza per qualche istante, prima di proseguire. “Pensi che il Consiglio arriverebbe a sospettare anche di Mason, se non si presentasse alla cerimonia?” Elena soppesò per qualche istante le sue parole, prima di scuotere il capo.
“Sono convinti che sia stato Tyler a provocare l’incidente. Perché dovrebbero?” commentò, prima di avvicinarsi la tazza alle labbra. “Al momento, il problema principale è un altro.”  gli fece notare infine. “Sarà difficile giustificare al Consiglio l’assenza di Tyler Lockwood a un evento così importante per le famiglie fondatrici. Parlare di lavoro non servirà a nulla, se si parla di una notte di luna piena. Anche non fosse stato vero, avrebbero tratto comunque le loro conclusioni.”

 “Parlerò con Hazel sta sera o domani.” la rassicurò infine Jeremy, appoggiando il proprio tè sul tavolo. Rivolse lo sguardo a scontrarsi con quello della sorella. “Non so ancora bene cosa dirle, ma mi inventerò qualcosa. Penso che possa riuscire a trovare un compromesso per la data.”

Elena analizzò la sua espressione con attenzione, prima di annuire. “Sembri stanco.” Osservò infine, preoccupata.

 Jeremy abbozzò un sorriso amaro, lasciando trasparire sul suo volto una lieve velatura di tristezza. “Siamo tornati ai segreti…” commentò infine, bevendo l’ultimo sorso di tè e stringendo la tazza tra le mani per trattenere il calore. "...E la cosa non mi piace per niente."

In fondo, lo sapeva bene, quel tipo di segreti c’erano sempre strati: tra lui e sua moglie; tra lui e i suoi figli. Erano segreti del passato, rilegati in un angolo in disparte, separati dalla sua quotidianità. Eppure, anche se alle volte – molto spesso, in realtà- emergevano in superficie, non c’era mai stato bisogno di mascherarli dietro bugie. Semplicemente, quei segreti non richiedevano spiegazioni. Raramente lo aveva appesantito il pensiero di non poterne parlare con la famiglia.  Ultimamente, al contrario, le cose avevano incominciato a rendersi nuovamente difficili.

Elena sospirò; si portò le mani al capo, massaggiandosi la fronte con i polpastrelli. “Non piace a nessuno.” commentò, tornando a sorseggiare il suo tè. “La cosa più importante, al momento, è stare vicino ai Lockwood. E cercare di tenere a bada quei ficcanaso dei membri del Consiglio” Sospirò di nuovo, anche se questa volta, il suono ricordò più uno sbuffo. “Sai che sono quasi sollevata al pensiero che domani Jeffrey riparta per la Florida?” concluse infine, spingendo la tazza al centro del tavolo. Jeremy fece roteare il contenuto della sua, in apparenza senza un motivo ben preciso. “Tra le macchinazioni del Consiglio, e la tensione di questi ultimi giorni, di sicuro starà meglio lì che qui.”

Il fratello si limitò ad annuire, ancora completamente assorto dai suoi pensieri.

“Devo andare.” Commentò infine Elena, controllando l’orologio appeso sopra il televisore. “Ho ancora una marea di compiti da correggere per domani e non ho ancora pensato a cosa preparare per cena.”
“Non ti preoccupare." la rassicurò il fratello, sollevandosi dalla sedia. "Ci vediamo domani.” Elena fece altrettanto. “Dai un bacio ai ragazzi da parte mia, ok?” si raccomandò, schioccandogli un bacio sulla guancia. “E chiamami, dopo aver parlato con Hazel…”aggiunse, tirando fuori dalla tasca della borsa le chiavi di casa.

“Va bene,” la rassicurò Jeremy, seguendola fuori dalla cucina.

“E cerca di stare tranquillo…

“Va bene, Elena, va bene.”

Attese che la sorella fosse uscita, prima di tornare in cucina a riporre le tazze nel lavandino. Solo una volta resosi conto che senza la presenza di Elena, la casa era diventata insolitamente silenziosa, intuì di essere l’unica persona in casa; Hazel era ad una riunione per il comitato delle feste e i ragazzi dovevano essere usciti. Quel silenzio non fece altro che incidere sul suo momentaneo stato di malinconia. Decise di fare un salto nel suo studio; avrebbe lavorato per un po’, in attesa del ritorno a casa di sua moglie. Salì le scale per andare a recuperare un progetto in camera sua; nel farlo, notò la luce accesa in camera di Oliver; doveva aver dimenticato di spegnerla quel mattino, prima di andare a scuola: il solito distratto.
“Sei proprio un pilota, eh, Ol?” borbottò tra sé, pur non riuscendo a trattenere un mezzo sorriso. “Sempre con la testa tra le nuvole.” Spense la luce e attraversò la stanza  per chiudere la finestra, anch’essa rimasta aperta. Prima di tornare indietro notò l’album da disegno del figlio sul letto. Era aperto all’ultima pagina, esibendo una riproduzione in carta e carboncino dell’aeroplanino giocattolo che teneva su un mensola – una riproduzione molto fedele, tra l’altro. Jeremy estese il suo sorriso: con un sospiro prese posto sul letto e incominciò a sfogliare il blocco. Pagina dopo pagina, immagine dopo immagine, i pensieri e i sogni di suo figlio suo piccolo si raccontarono ai suoi occhi; aeroplani, motociclette, cieli stellati, nuvole, ritratti. Il tocco di Oliver spiccava indelebile su ogni disegno; non aveva bisogno di andare alla ricerca della firma al bordo destro, per riconoscere un suo lavoro. C’era suo figlio in ognuno dei fogli che stava esaminando. Erano incredibilmente diversi dai disegni che abbozzava lui alla sua età. C’era più luce. Non per forza più colore, ma c’era più luce, in qualche modo. Un sacco di disegni avevano a che fare con Mason, altrettanti avevano un legame con il cielo. E fu proprio dopo uno di questi disegni, l’immagine di un ragazzo che rincorre un aquilone, che Jeremy scoprì in quell’album da disegno qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di trovare. Si trovò di fronte a un ritratto, il ritratto di una ragazza. Jeremy analizzò con occhi sgranati,  i lineamenti tratteggiati a matita, riconoscendoli istantaneamente. Interrogò gli occhi della ragazza del ritratto, sfiorandone i contorni con i polpastrelli: quante volte li aveva tratteggiati a sua volta in passato? Aveva tracciato quei lineamenti più e più volte nella speranza che ne rimanesse un ricordo nitido, anche quando le fotografie nella sua mente avrebbero incominciato a sbiadire. Perfino la quantità di luce racchiusa in quel ritratto eguagliava quella contenuta dai lavori di Jeremy; quando la disegnava, non poteva fare altro che mettere in risalto il bianco e scacciare via le ombre. Perché era in fondo quello che anche lei aveva fatto con lui, prima che qualcuno voltasse la matita per cancellare quel breve tratto di vita con il gommino. A volte, nel dormiveglia, gli capitava ancora di avvertire il tocco della sua mano fra i capelli o lungo la schiena. Spesso, si era sorpreso domandarsi se fosse solo un’impressione o se quella sensazione potesse provare che in fondo lei non se ne fosse mai andata veramente. Alle volte gli capitava di avere il sospetto che lo stesse osservando; talmente minuta che faceva tenerezza, un sorriso dolce e malinconico a ammorbidirle il volto. Il nome della ragazza si tratteggiò nitido nella sua mente, simile a una delle firme a fondo pagina dei suoi disegni; che cosa ci faceva Annabelle nell’album di suo figlio?
In quel momento, il vetro della finestra vibrò, facendolo sobbalzare.
“Anna?” mormorò d’istinto, alzandosi rapidamente in piedi. Spostò lo sguardo verso la fonte del rumore: il vento aveva incominciato a farsi più capriccioso con l’arrivo dell’autunno, e da giorni continuava a strattonare con violenza le chiome degli alberi. Jeremy sospirò, tornando a far coincidere i propri occhi con quelli del ritratto. Una forte malinconia impregnò i suoi gesti, mentre allontanava quell’immagine dalla sua mente, sfogliando le pagine dell’album di Oliver. Tornò all’ultimo disegno, quello dell’aeroplanino, e sistemò con cura il blocco sul letto, così come l’aveva trovato. Rivolse un’ultima occhiata malinconica alla finestra e tornò in corridoio, chiudendosi la porta alle spalle.

Dall’altra parte della stanza, qualcuno stava assistendo alla scena in silenzio. Annabelle sorrise - un sorriso triste - mentre il suo sguardo malinconico lo osservava abbandonare la camera.

 “I’m still alive but I’m barely breathing”

Breakeven. The script

 

***

 

Where did all the people go?

They got scared when the lights went low.

I get you through it nice and slow,

When the world's spinning out of control.

 

Soldier. Gavin Degraw

 

Mase si svegliò di soprassalto, il fiato corto e una forte sensazione di panico ad avviluppargli il petto. La confusione regnò sovrana nella sua testa, mentre a fatica si sforzava di ricordare l'incubo appena avuto, incapace di comprendere cosa gli stesse accadendo. Il cuore gli vibrava forte, quasi qualcuno l’avesse appena afferrato e scosso con violenza. Nel corso dell’ultimo periodo i suoi battiti proseguivano a ritmo sfasato con frequenza, quasi ci fosse una falla nel meccanismo principale, ma quello che gli stava capitando in quel momento era diverso: la maledizione non c’entrava nulla con quella sensazione. Era l’impressione di annaspare, perché non si riesce ad accumulare aria; era la sensazione di essere vicino al perdere il controllo all’improvviso, senza un motivo specifico. Fu sul punto di imprecare, mentre mettendosi a sedere, tentava invano di sfilarsi via quella orrenda sensazione di dosso. E poi anche il bisogno di sbottare venne subito meno, dilaniato da un’improvvisa rivelazione: non c’era modo di fuggire. Non quella volta. Non l’indomani: era fottuto. Incominciò a respirare con più affanno, recuperando un libro dal comodino; aveva la cassa toracica rinchiusa in una gabbia e il cuore si ribellava con violenza. Lanciò il libro contro il muro, come se sfogarsi in quel modo potesse aiutarlo ad infrangere le pareti di quella gabbia; a distruggere ciò che gli impediva di respirare, di pensare lucidamente. 
“Mase”. La porta della sua stanza si aprì di scatto, seguita dalla voce di suo fratello. Invece che allentarsi, la tensione nervosa sembrò farsi più accentuata.

“Vattene.” mormorò, dando le spalle a Ricki, e inspirando con forza, cercando di recuperare il controllo. 
“Che succede?” Il maggiore ignorò il suo monito e si chiuse la porta alle spalle, raggiungendo il ragazzo. Mason diede una scrollata di spalle, passandosi una mano sul viso. Un attacco di panico, rispose mentalmente, ignorando lo sguardo insistente di Ricki; il maggiore dei due sospirò.
“Hai di nuovo sognato domani notte?” domandò, notando l’espressione atterrita del fratello. Mase scosse il capo, stringendosi nelle braccia, come a volersi riparare dal freddo.

“Sto, sto, sto bene, a-avevo solo….” incominciò, prima di interrompersi bruscamente. Stette in silenzio per un po’, sforzandosi di recuperare il controllo di se stesso, - dei suoi respiri e della sua voce - prima di proseguire. “Va’ a dormire, sto bene.” Dichiarò infine in tono di voce più secco, come se parlando in quel modo potesse evitare le esitazioni di pronuncia. Ancora una volta, Ricki si rifiutò di eseguire. La mano del ragazzo avvolse con decisione la spalla del fratello.

“Puoi farcela.” Esordì, infine. Mason scosse il capo, eludendo il suo sguardo. “Possiamo farcela; verrò io con te.” proseguì deciso il maggiore dei due.

Non…” Mason allontanò con uno strattone la mano del fratello. “Non ce la fai a capire che non funzionerà? Io non sono papà.” sbraitò poi con furia, alzandosi in piedi. “O te. O Caroline. Sono solo…

…Sei mio fratello.” ribatté Ricki, rivolgendogli un’occhiata determinata. “Sei un Lockwood. Ti sbarazzerai di quella fottuta luna piena in un battito di ciglia.”

“Balle.” Mason gli sputò addosso, per poi esaminare la sua stanza con sguardo smarrito. Voleva colpire qualcosa, voleva sfogare quella rabbia in qualche modo, voleva rompere le cose e basta. Quello sì, che gli riusciva bene. Afferrò il primo libro che gli capitò sotto mano e lo scaraventò contro la parete opposta della stanza. Ricki trasalì. Appoggiò entrambe le mani sulle spalle del fratello, sforzandosi di ignorare i suoi tentativi di scansarlo.

“Adesso calmati, va bene?” lo ammonì secco, forzandolo a sedere di nuovo. “Se ti sente papà andrà in agitazione anche lui e nessuno dei due ha voglia di vederlo nervoso.”

 “Non andrà tutto bene.” Mason ribadì a denti stretti, stringendo convulsamente le mani a pugno. “Smettetela di ripeterlo.” mormorò infine, abbandonando la nuca contro la parete.

Ricki sbuffò. La sua mano tornò a stringersi attorno alla spalla di Mase, per poi spostarsi dietro al suo collo. Si sforzò di imprimere in quel gesto tutto il conforto possibile.

“Ce. La. Farai.”  Scandì infine lentamente. “Domenica mattina avrò il mio fratellino ancora tutto intero pronto a prendermi in giro e a soffiarmi le ragazze sotto il naso.”

Ma…
“ ‘Ma’ un corno, Mase.” Lo interruppe all’istante il più grande. “Sono tuo fratello maggiore o sbaglio? Non ti direi una cosa, se non ci credessi. Non racconto palle.” Lo rassicurò, prima di fare una smorfia. “O meglio, sì, ne racconto, ma non di certo a te. Chiara la cosa?” spostò lo sguardo in direzione del fratello, che si limitò a sbuffare, stringendosi le ginocchia al petto. Seguì un silenzio che durò una manciata di secondi, e che Ricki non osò interrompere, consapevole che il ragazzo stesse elaborando qualcosa da dire.

 “Perché sono così?” sbottò infatti poco dopo, continuando a circondarsi le ginocchia con le braccia. Arrossì leggermente. “Perché non posso essere come te?” mormorò infine, scoccando un’occhiata torva al vuoto di fronte a lui. Ricki lo squadrò con aria perplessa per qualche istante, prima di sfregarsi con forza il capo, pensando a come potergli rispondere.

“Non puoi essere come me, perché non ti chiami Richard, ma ti chiami Mason.” osservò infine, fingendosi serio, mentre il fratello roteava gli occhi. Ricki diede una scrollata di spalle. “Se tu fossi me, ci sarebbero due Ricki e sarebbe palloso. È come avere due Ciop e nessun Cip. Due Pippo e nessun Topolino…” aggiunse, facendo mente locale alla ricerca di qualche altro esempio. “…due Ciuchino e nessun…
“Stai dicendo che io sarei Shrek?” lo interruppe bruscamente il minore, guardandolo torvo. Ricki ridacchiò. “Tralasciando gli esempi dei cartoni animati…” proseguì infine, intrecciando le dita dietro alla nuca e appoggiando la schiena su un cuscino. “…cercherò di farti capire in breve, perché la tua domanda non abbia senso. E no, non interrompermi!” lo ammonì, notando che Mase stava per aprire bocca.  Il minore dei due sbuffò, lasciandosi poi ricadere sul letto. “Senti, lasciamo stare e tornatene a dormire.” Commentò, chiudendo gli occhi e voltandosi dall’altra parte. Ricki lo ignorò.

“Dunque, i fratelli Lockwood….” Incominciò, con il tono di voce di chi è in procinto di raccontare una storia. “…che poi saremmo io, te e Caroline… sono tre persone completamente diverse. E per fortuna, aggiungerei, altrimenti sai che noia?”
Ricki…” farfugliò Mase in risposta, infilando il capo sotto al cuscino. “Ti prego…” Ancora una volta, il fratello lo ignorò.
“Ricki, che poi sarei io, è quello casinista.” Proseguì, sfregandosi orgoglioso le unghie sulla maglia del pigiama. “L’iperattivo, la peste, quello che parla sempre a sproposito. Forse non sarò una cima a scuola, e vado in fissa ogni volta che vedo un bel paio di tette e una carrozzeria da sogno, ma spacco i culi a calcio, sono decisamente divertente e so di per certo che i miei fratellini mi adorano. Perciò… Mi vado bene così. Stai di nuovo per interrompermi?” aggiunse, notando che il fratello aveva allontanato il cuscino dalla testa, scattando a sedere. “Ti ho già detto che non puoi.” Mase roteò gli occhi.

 “Ero scomodo.” Borbottò, appoggiandosi allo schienale del letto e tornando a cingersi le ginocchia con le braccia. Ricki sorrise e riprese il suo discorso.

“Poi c’è Caroline.” annunciò, abbassando lievemente la voce e indicando il muro alle sue spalle, alludendo alla camera a fianco. “Beh, Caroline è … Una tipetta bella tosta. Anche lei spacca i culi! A lacrosse, però.” specificò, mimando il gesto di lanciare una palla con la mazza da lacrosse. “… E da bimba prendeva a cazzotti i ragazzini che le rompevano le scatole: che piccola grande donna! Caroline non è proprio la femminilità in persona, ma i maschietti la amano e io non amo i maschietti, quindi capisci, che  questo è un dettaglio che sono costretto a far passare come difetto. Non che non ce ne siano altri –di difetti: Care è testarda e cocciuta come pochi e capita spesso che voglia atteggiarsi un po’ a capetto; Xander è un santo a starci tutto il giorno assieme. Ma la nostra Caroline è anche un concentrato di dolcezza e altruismo. È una coccolona! E questa era la nostra adorata sorellina. Adesso manca solo più…” Si interruppe, guardandosi attorno, come alla ricerca di ispirazione. Mason roteò gli occhi, pur concedendo a un leggero sorriso di arricciare gli angoli delle sue labbra.

“Dopo Ricki la peste e Caroline la cocciuta, abbiamo Silver: il cane. Oh, manca qualcuno?”

Domandò poi, individuando il cipiglio del fratello. Si coprì la bocca, fingendosi mortificato. Mason gli diede un pugno sulla spalla.

“Cretino.”

Ricki scoppiò a ridere. “Tra Caroline la cocciuta e Silver, il cane, abbiamo Mason. Il “fighetto.” specificò. Incassò un secondo pugno da parte del minore e riprese il discorso.

“Tolto il cane, Mase è il ‘cuccioletto’ di casa Lockwood.”
“Fottiti, Ricki…
“È il più piccolo, e va un po’ sorvegliato. Da bambino era un adorabile peluche timido e coccolone…
“Sto per fracassarti il cranio…
“… Sì, devo ammettere che mi manca quel Mase…Ahy!”

Si coprì il volto con le mani, sforzandosi di sfuggire alla tempesta di pugni che si avventò su di lui. I due fratelli si azzuffarono per qualche minuto, ignorando il trambusto prodotto fra colpi, risate e imprecazioni.

 “Ora che è cresciuto…” esordì Ricki infine, sgusciando fuori dalla presa del minore. “…Mason non è più un peluche, ma un fighetto. Con questo faccino da belloccio dannato e l’eterna aria da musone, Mase è parecchio puntato dalle ragazze anche se lui ha l’abitudine di snobbarle. A meno che non ci voglia andare a letto, credo. Dì un po’, si fanno queste cose,Masey?”
“Ma c’è un modo per spegnerti?” ribatté prontamente il fratello, tornando a stendersi. “E poi, senti chi parla…

“Mason è un gran cacasotto, un violento, e si incazza spesso, specie quando Ricki, sì, sempre lui, lo stressa con la sua brillante e adorabile parlantina.” Proseguì imperterrito il più grande dei due, in tono di voce teatrale.

…Che tra l’altro hai in comune con Vicki; siete proprio fatti l’uno per l’altra.” gli fece notare Mase, sorridendogli affabile; questa volta fu lui a doversi scansare, per schivare uno scappellotto.

“Questo Mason “fighetto” ha l’abitudine di sfottere un po’ tutti.” rincarò la dose Ricki, “ma se poi il disco cambia e quello a venire preso per il culo è lui, allora si salvi chi può.”

Mase sbuffò, sistemandosi più comodamente sul letto ed intrecciando le dita dietro la nuca.

 “C’è però da dire in sua discolpa, che Mase ha davvero una gran mente.” aggiunse infine, Ricki scoccando un’occhiata rilassata in direzione del fratello.

“è un cervellone! Tipo Einstein, forse, solo che non ha tutti quei capelli per aria. Ed è dotato di una sensibilità incredibile, che molte volte mi sorprende. Mase è scaltro, si fa in quattro per ottenere quello che vuole e, anche se ultimamente sembra essersene dimenticato, ha un cuore grande quanto casa Lockwood. E un fratello con un bel culo.”

Concluse, indicandosi, prima di improvvisare un lieve inchino. Mason gli mollò un calcetto con poca convinzione.

“Scommetto che non vedevi l’ora di chiudere il discorso per arrivare a questa parte.” Lo rimbeccò, abbozzando un mezzo sorriso. Il fratello annuì.
“Ovvio che sì, ma il punto, in tutto ciò, è un altro…” gli fece notare, prima di arruffargli giocosamente i capelli e di sollevarsi dal letto. Fece mente locale, cercando ancora una volta l’esempio che potesse fare a caso suo. “…Io, te e Caroline, potremmo anche avere una marea di difetti, ma ognuno di noi, visto nel complesso, è tutto sommato un bel tipo.” Spiegò, per poi aggrottare le sopracciglia e assumere un’aria pensierosa. “ Siamo un po’ tipo i Chipmunks. In apparenza, Alvin sembra essere quello più problematico, ma…

“Stai dicendo che Alvin sono io?" lo interruppe Mase, scoccandogli un’occhiata incredula. Ricki fece una smorfia e scosse il capo con decisione.
Nah, scordatelo.” ribatté infine, infilandosi le mani in tasca. “Io sono Alvin. Tu sei Simon.” concluse, cerchiandosi gli occhi con le mani, a mo’ di occhiali. “Ricordi? Sei un cervellone.”
“Al diavolo.”  borbottò infine Mase, sistemandosi sotto le coperte.
Ricki ridacchiò sommessamente, osservandolo rannicchiarsi su un lato.

 “Verrò con te, fratellino.” concluse infine, abbassando ulteriormente il tono di voce. Non ebbe bisogno di aggiungere dove;  Mase aveva capito perfettamente a cosa si stesse riferendo “ Che ti piaccia o no, domani sera verrò con te.”

Gli scoccò un’ultima occhiata pensierosa, prima di dirigersi in direzione della porta.

Rick…” lo richiamò suo fratello a quel punto. Richard si fermò. “Quand’è che devi tornare in Florida?”


La domanda di Mase non lo sorprese più di tanto. Rifletté un istante al pensiero di cosa rispondergli. Sapeva bene che una volta detta una cosa a suo fratello, difficilmente avrebbe potuto ritrattarla. Funzionava così, con Mase. Quando alla fine si decise a parlare, lo fece con la consapevolezza di aver appena tracciato una linea importante su ciò che costituiva il suo futuro.

“Non ci torno più.” dichiarò infine. Annuì alle sue stesse parole, come a volersi suggerire di aver preso la decisione giusta. “Resto qui con voi.”


Mase non aggiunse nulla. Ma, proprio come gli capitava con il padre, Ricki comprese senza alcuna fatica quello che stava passando per la testa del fratello; i silenzi di Mase non avevano quasi mai bisogno di interpretazioni.

“Buonanotte, fratellino.” Lo salutò infine, prima di socchiudere la porta alle sue spalle.

I'd get it if you need it,

I'll search if you don't see it,

you're thirsty, I'll be rain,

you get hurt, I'll take your pain.

 

when you get worried

 I'll be your soldier.

Soldier. Gavin Degraw

 

 

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Baby annuncio prima del polpettone time. In occasione del compleanno di questa storia, un mesetto fa ho pubblicato una piccola flash fiction Masiver (Oliver/Mase) che potete trovare QUI.

Nota dell’autrice (Polpettone Time).

Buoooondì! Eh, ci sono voluti un paio di anni mesi, ma finalmente ce l’ho fatta a tornare con la seconda parte del capitolo! Non sto a ripetervi che la scuola e la pigrizia sono brutte bestie, già lo sapete. Ad ogni modo, alla fine ce l’ho fatta :3 Adesso, con un po’ di ordine (?) cercherò di analizzare tutto quello che ho da dire in merito a questo capitolo (sì, io ho sempre qualcosa da dire, sono pallosa, lossò .-.) Mi metto i numerini, così in teoria dovrei raccapezzarmi di più.

1.      Nella parte uno del capitolo abbiamo l’introduzione di un nuovo personaggio, il curioso Zacheria. Per chi volesse sapere che faccia abbia, ha il volto di Sebastian Stan, (yes, il Cappellaio Matto di Once Upon a Time :3). Zacheria ricomparirà più avanti, in quella che mi piace soprannominare “la seconda parte di questa storiella senza pretese” che avrà inizio dopo la cerimonia di Miss Msytic Falls, ovvero, dal capitolo 12 (siamo al nove :3) Vedremo che ruolo ha, perché ha nominato Emily (l’antenata Bennet di Bonnie e Autumn), e soprattutto, dove si trovi in questo momento, visto che l’abbiamo visto in un sogno. Sarà davvero a Mystic Falls? Il posto in cui lo trova Autumn è l’entrata della cripta in cui nel 1864 erano stati rinchiusi 25 vampiri, non so se ricordate (prima stagione :3). Che cosa avremmo voluto dire? Bah, spostiamoci al punto due.

2.      Della scena tra ragassuole non c’è molto da dire, per cui…Passiamo a Mase e Caroline! Allora, abbiamo scoperto che il luogo in cui Caroline decide di portare il fessacchiotto è una riserva naturale – sì, la stessa riserva in cui si erano conosciuti quando Mase era bambino (anche se lui non sembra ricordarsi di lei). Qui scopriamo un paio di cose sui licantropi su cui volevo fare un paio di puntualizzazioni: a. Il fatto dell’iper sviluppo dei sensi e il fatto che alcuni licantropi riescano a riconoscere chi mente, sono due dettagli che ho prelevato dalla wikipedia di TVD. Penso sia attendibile e mi sono fidata :3 Parzialmente, come ha fatto notare Caroline, questo spiega anche perché Mase si stia lasciando guidare così tranquillamente da una persona che conosce appena, nonostante la sua diffidenza: riesce a riconoscere che non gli sta mentendo. B. Il ricamo ulteriore sugli odori in relazione alle sensazioni e ai ricordi, è invece tutta farina del mio sacco. Mi piaceva questa associazione. Che altro aggiungere?

3.      Un piccolo appunto sulla balbuzie di Mase. Mi sa che non se ne è mai parlato chiaramente nella storia, o forse sì, non ricordo, quindi lo specifico. Mase, che era balbuziente da bambino, ha corretto il difetto di pronuncia crescendo, ma logicamente la cosa non si è risolta del tutto. Nei momenti in cui è particolarmente nervoso, spaventato o imbarazzato, gli capita ancora di balbettare – che sia inciampando in una parola ripetendo più volte una lettera o una sillaba, prolungando un suono, o ripetendo diverse volte una parola, come è capitato nell’ultima parte di questo capitolo.

4.      La questione della riserva e della lupa è un po’ campata per aria, lo so, però mi servita .-. Mi serviva che Mase imparasse a riconoscere quanto dei lupi ci sia sempre stato in lui e nella sua famiglia. A riconoscerlo e ad accettarlo. E mi serviva che si ricordasse di quel posto. Probabile che lo prenda come ipotetica meta, quando gli prenderà il pallino di scappare per un po’, tanto lo fa spesso :3 La lupa, come ha più o meno spiegato Caroline, è meno cauta quando si accorge della presenza di Mason, perché in qualche modo lo riconosce come il “cucciolo” di un altro branco.

5.      Jeremy e Elena…E proprio alla fine, un accenno di Jeranna *sospira*. Mh, riusciranno i nostri eroi a risolvere il problema di Miss Mystic Falls? Vedremo nel prossimo capitolo. Per quanto riguarda Jeremy…Ho sempre immaginato Jeremy adulto come felice, sì ma tormentato. Non completamente in pace con sé stesso. Le sofferenze del passato si sono certamente alleviate, ma come è normale che sia, ci sono ancora. Non vanno via. Restano sotto pelle, anche se nascoste, restano. E ora che il passato sembra destinato a ripetersi, in qualche modo, le circostante riportano alla luce i vecchi fantasmi…letteralmente. Ci sono delle faccende in sospeso, proprio come in Casper, e Jeremy è vicino ad affrontarle…vi avviso che il cammino di Anna in questa storia si volge alla chiusura, almeno temporaneamente, ma ve l’avevo già anticipato. La rivederemo; oh, sì, che la rivedremo. Promesso :3

6.      Mase & Ricki. Nemmeno qui c’è molto da dire; Mase ha spesso di questi incubi e i sogni agitati, ma in questo momento sono accentuati, per via della luna piena imminente. In questi capitoli l’abbiamo visto un po’ toccare il fondo a livello di vulnerabilità. Ha pianto, gridato, scaraventato roba, ha balbettato… E ha messo in evidenza un po’ dei suoi complessi, alcune delle cose che contribuiscono a farlo agire nel modo in cui agisce…Se per certi verti si esprime come uno di cinque anni più grande, per altri si dimostra molto immaturo. Resta pur sempre un ragazzino di quindici anni. Il prossimo, che s’intitola By the Light of The Moon (e dubito che faticherete ad immaginare perché), sarà quello della ‘prova definitiva’, per lui. Sta decisamente mettendo alla prova sé stesso. E dopo il fondo, piano piano, credo proprio che lo vedremo ‘risalire lentamente’.

7.    Infine, Ricki. Ricki, e la sua decisione di lasciare perdere la Florida – e la scuola – almeno per il momento. In realtà penso che la sua decisione abbia solo parzialmente a che fare con l’intenzione di restare vicino a suo fratello e la sua famiglia (anche se questa è la motivazione maggiore. Diciamo che non è mai stato esattamente un tipo da ‘scuola’. Magari prima o poi deciderà di ripensarci, ma per il momento ce lo possiamo godere a tempo pieno a Mystic Falls :3 E per quanto riguarda l’amichetto del cuore (?) … Oh, Jeff avrà le sue belle gatte da pelare in Florida. Ma di questo – al momento – non dobbiamo preoccuparci.

8.    Infine: che dire del prossimo capitolo? Anzitutto, che – ci metto la mano sul fuoco – arriverà diviso in due, me lo sento. Quindi  le cose che vi dico ora potrebbero rientrare nella prima, come nella seconda parte. Di certo rivedremo Julian e l’ostile amica streghettaXander bello ci farà ridacchiare un po’ e se tutto va secondo i piani, dovremmo intravedere del Rictoria (Ricki/Vicki). Oh, e vedremo Lex. Alla fine non ce l’ho fatta a introdurlo in questo capitolo, pardon .-.

9.    E quasi me lo dimenticavo! Il disegno del ragazzo che rincorre l’aquilone è un vago riferimento a “Il cacciatore di aquiloni”  di Khaled Hosseini, perché è uno dei libri preferiti di Oliver. Ha disegnato un ragazzo e non un bambino (Hassan) o un adulto (Amir), perché penso volesse rappresentare se stesso e il genere di amicizia che lo lega a Mase, che ricorda un po’ quella dell’ Hassan bambino. 

Ok, bella gente, direi che ho straparlato anche più del solito! Un abbraccio e grazie ancora di cuore, davvero!

Laura

 

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Capitolo 13
*** 10. There Goes the Neighborhood. ***


Chapter 10.

There Goes the Neighborhood.

 “Alexander! Xander, a casa, per favore.”

“Alexander” ripeté Jeremy con un guizzo divertito nello sguardo.

“Allora è così che ti chiami!”

 

Il piccolo scosse cocciutamente il capo, nascondendosi sotto la panchina.

“No, non mi chiamo così.” ribatté, infilando le dita nelle scanalature del legno.

 Jeremy rise.

 

Da Pyramid.

University of Colorado (Boulder, Colorado) .

Alexander Davies scoccò un’occhiata distratta ai pedoni che stavano attraversando sulle strisce e sbadigliò. Si sistemò con la mano i capelli arruffati per poi far scorrere un dito sui bottoni dell’autoradio, deciso a trovare una canzone decente da ascoltare. Aveva lo sguardo meno vispo del solito solo perché aveva deciso di sfidare il piagnisteo esasperato della sveglia fino all’ultimo, rinunciando così alla sua dose quotidiana di caffeina. Aveva cominciato a bere caffè quando era poco più che uno sbarbatello vivace e perditempo; a lungo andare l’abitudine si era trasformata in effettiva dipendenza, seconda solo al suo interesse per le donne. E le scommesse, forse. Quel mattino, tuttavia, non poteva concedersi più minuti di ritardo rispetto a quelli che si era già ritagliato, perciò si era alzato di controvoglia, aveva arraffato una maglietta e dei jeans e si era fiondato in macchina. I quarantacinque minuti che separavano Denver da Boulder avevano costituito la parte più tediosa della sua mattinata: detestava stare fermo troppo a lungo e le attese lo rendevano ancora più impaziente e irrequieto. Non che non ci fosse abituato, ai lunghi viaggi. Fare il paleontologo richiedeva spostamenti continui, innumerevoli giornate spese in aereo e capatine ai luoghi più impensabili del globo, spesso per assistere a convegni barbosissimi che non destavano in lui il minimo interesse. Se si tratteneva più di due mesi in un posto, Lex incominciava a sentirsi pressato, spremuto tra due lembi di terra, sopraffatto dalle abitudini che stavano iniziando a costruirsi attorno a lui. E così si spostava; anche solo per un paio di giorni. Fortunatamente i suoi impieghi lo tenevano di rado inchiodato da qualche parte troppo a lungo; aveva imparato a convivere con quello stile di vita giusto l’indispensabile, in maniera da potersi godere a pieno l’altro aspetto della medaglia: il vagabondaggio in giro per il mondo senza preoccupazione alcuna oltre al lavoro. Il non avere radici, né aspettative. L’esserci e basta. Se non altro, si trovava a pensare spesso, l’immobilità non sarebbe mai stata una costante nella sua vita.

Lex incominciò a rallentare solo una quindicina di minuti dopo essere arrivato a Boulder. Sorrise istintivamente quando riconobbe l’ingresso al campus principale della University of Colorado, prima di attraversarlo. Parcheggiò infine di fronte a uno degli edifici più vecchi, non troppo distante da quello di geologia. Scese dall’auto e si concesse un minuto per guardarsi attorno, un sorriso accattivante ad arricciargli le labbra: in quell’università aveva trascorso cinque dei suoi anni migliori. Era piacevole scoprire che non fosse cambiata poi più di tanto, rispetto all’ultima volta che ci aveva messo piede. Dieci minuti dopo stava già bighellonando nella Lecture Hall dell’edificio principale, strofinandosi le mani fra loro. Analizzò l’esposizione di reperti archeologici con scarso interesse, per poi spostare lo sguardo in direzione di una coppia di studentesse a un paio di teche di distanza. Sorrise, quando le due ragazze rivolsero una rapida occhiata nella sua direzione; una delle due si lasciò sfuggire un risolino, parlottando a bassa voce con l’altra. Lex era sul punto di esordire con una delle sue classiche frasi di adescamento, quando una terza persona si introdusse nel salone.

“Alexander! Ti stavo aspettando.” esclamò il nuovo arrivato, porgendogli la mano con un sorriso amichevole. Lex la strinse. “Professor Harlow….” lo salutò, sorridendo affabile.

Harlow era uno dei docenti di archeologia della facoltà. Da quando Lex era tornato a Denver, l’insegnante gli aveva proposto di passare a trovarlo almeno cinque volte, e all’ultimo invito il ragazzo aveva deciso di accettare. I due conversarono del più e del meno per una decina buona di minuti, fino a quando Harlow non si decise a tirar fuori il motivo del suo invito.
“Forse converrebbe spostarci nel mio ufficio…” costatò a voce bassa, analizzando con espressione insicura la studentessa che stava osservando le teche in fondo al salone: la sua amica doveva essere uscita mentre loro due parlavano. Nuovamente, Lex intercettò lo sguardo della giovane e abbozzò un sorriso accattivante.

 “Mi piace qui.” dichiarò infine con fare sornione, mettendosi a braccia conserte. Rivolse all’uomo un’occhiata attenta, per invitarlo a proseguire con il discorso. Harlow scoccò un’occhiata innervosita alla ragazza, ma infine sospirò, arrendendosi alla sua presenza. Estrasse il suo iPad da una cartellina che portava sotto il braccio e prese a frugarne il contenuto.

 “Queste foto sono state scattate ieri sera da un collega in Virginia.” borbottò infine a bassa voce, passando l’oggetto a Lex. L’uomo analizzò le immagini con attenzione: erano fotografie di alcuni reperti recuperati da uno scavo archeologico a Saltville – così diceva la didascalia. Le ultime foto, tuttavia, non ritraevano oggetti, ma parte di un cranio umano.

“Non mi occupo di primati.” commentò, notando che diverse fotografie testimoniavano la riesumazione di ossa umane. L’unica cosa che riuscì a intuire era che fossero decisamente più recenti rispetto ai reperti archeologici delle prime foto. Harlow fece scorrere un paio di volte il dito sullo schermo, fino a quando non trovò le foto che cercava.

“È su queste ultime immagini che volevo chiederti un parere.” commentò infine, additandone una. Conteneva una schiera di ossa che ricordavano dei denti, ma dopo averla osservata per una manciata di secondi, aggrottò le sopracciglia, perplesso: c’era qualcosa che non quadrava in quella fotografia. Alcuni dei reperti sembravano completamente fuori posto in mezzo agli altri, quasi fossero stati ritratti assieme a serie di denti appartenenti ad individui diversi. O addirittura a specie distinte. “Che cosa ne pensi?” domandò a quel punto Harlow, indicandogli un punto della fotografia. “Hai mai visto dei canini così pronunciati in un essere umano?”

Lex non rispose.

“Dove hai detto che sono state scattate queste foto?” domandò invece. Harlow gli rivolse un’occhiata esitante da sopra le lenti degli occhiali.

“A Saltville, in Virginia.”

“Ci andrò.” si limitò a dichiarare il ragazzo. “Puoi girarmi queste foto via e-mail?”

Un paio di minuti più tardi, il docente fu costretto a congedarsi, per andare a tenere una lezione. Lex estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans e digitò un tasto di chiamata rapida, prima di avvicinarsi il ricevitore all’orecchio; nell’udire la voce del suo interlocutore, le sue labbra si incresparono a formare un sorrisetto beffardo.

“Parlo con un certo signor architetto?” esordì infine, incominciando a frugare nel taschino del giubbotto, “Chiamo per proporti una piccola rimpatriata: ho una cosetta da fare in Virginia e mi manca la mia famiglia di tonti preferita…”

Continuò a parlare al telefono per una decina di minuti. Quando infine tornò a riporre il cellulare nella tasca si stiracchiò, sorridendo compiaciuto: lo attendevano più di quattro ore di viaggio, sommando macchina, aereo e autobus; doveva assolutamente procurarsi quel caffè. Ma sarebbe partito l’indomani, rifletté, mentre con un ghigno raggiungeva la studentessa all’altro capo del salone. Quella sera avrebbe avuto ben altro di cui occuparsi. E da come la giovane gli sorrideva,  Lex convenne compiaciuto che fosse pienamente d’accordo con lui.

***

 

Jeremy Gilbert chiuse la chiamata, accennando un lieve sorriso divertito. Appoggiò il cordless sulla scrivania e tornò a focalizzare la sua attenzione sul progetto di cui si stava occupando; la voce di Lex ancora gli solleticava la mente, rievocando ricordi che non avevano nulla di spigoloso o di appuntito. Erano i ricordi migliori della sua adolescenza: quelli legati all’anno trascorso a Denver, la città in cui aveva conosciuto Hazel. Il luogo in cui aveva ricominciato a pianificare, a fare progetti: a vivere. Tante cose non avrebbero mai trovato posto nella sua vita, se Denver non ci fosse stata. Il matrimonio con Hazel; la nascita di Xander e Oliver. Per non parlare del suo lavoro: senza quell’anno trascorso nella metropoli, nulla l’avrebbe mai spinto a riesumare la vecchia passione per il disegno. Ricordava ancora in maniera più che nitida il pomeriggio in cui Alaric gli aveva fatto piovere sulle gambe una serie di brochure universitarie sulle facoltà di architettura degli Stati Uniti. Era stato Rick a guidarlo verso quella che riteneva essere la strada migliore da percorrere per uno come lui; ma Jeremy dubitava che sarebbe mai riuscita a intraprenderla senza aver conosciuto la luce e l’ispirazione di Denver. Senza aver trascorso almeno un pomeriggio su una delle panchine disseminate per il parco in cui aveva visto Hazel per la prima volta. Senza Howie e Demetria, i due coniugi che, seppur anziani, erano riusciti a dimostrargli che c’era ancora qualcuno disposto a prendersi cura di lui. E, soprattutto, senza quel ragazzino che un giorno, notando il suo album da disegno, gli aveva chiesto di disegnargli una piramide. Il pomeriggio in cui Jeremy conobbe Alexander Davies, risaliva ormai a quasi vent’anni prima. Doveva molto a quel ragazzino chiacchierone e iperattivo, ormai diventato uomo. Lex faceva riecheggiare in Jeremy la parte migliore di sé, oltre ai suoi figli. Riportava alla luce per lui Denver e quell’anno meraviglioso in cui aveva ricostruito la propria vita da capo, allo stesso modo in cui, nel suo studio, dava origine ai suoi progetti.

 “Chi era al telefono?”

Hazel si introdusse nel suo studio, prelevandolo da quel rimestare di ricordi. Recuperò il cordless e prese posto sull’unico angolo della scrivania che non era ricoperto di fogli. Jeremy le sorrise.

“Era Lex. Pare che riceveremo presto visite da parte sua.”

La donna inarcò un sopracciglio, pur non riuscendo a nascondere un sorrisetto divertito.

“Ma non lavora mai quel ragazzo?”

Jeremy sospirò.

“Ha detto che ha delle faccende da sbrigare in Virginia…Quindi a meno che non si riferisse al nome di qualche nuova fiamma… Suppongo che si tratti di lavoro.” concluse, sorridendo del modo in cui la moglie aveva preso a far ciondolare le gambe dalla scrivania come una ragazzina. Tuttavia, la sua espressione si fece d’un tratto più apprensiva, come si fosse appena ricordato di qualcosa.

Haze, ho bisogno di un favore…” dichiarò a quel punto, guardando la donna negli occhi.

“Spara.”

“Sarebbe possibile rispostare la cerimonia di Miss Mystic Falls a domenica sera?”  domandò il marito, sforzandosi di apparire il più rilassato possibile. “Elena, sabato, ha un impegno di lavoro urgente che gli è impossibile rimandare. Sarebbe piuttosto brutto se non si presentasse, visto l’importanza delle famiglie fondatrici per queste cerimonie…”

Jer…” Hazel gli rivolse un’occhiata esasperata. “La data è appena stata cambiata sotto richiesta dello sceriffo, andrà su tutte le furie se con così poco preavviso mi ostinassi a…”

“… e poi c’è Vicki tra le candidate.” proseguì l’uomo, osservandola con insistenza. “Sai bene quanto sia importante questo concorso per tua nipote…”

“…ehy, non arruffianarmi, ragazzino!” lo rimbeccò, inarcando pericolosamente un sopracciglio. Infine sospirò. “Parlerò con gli altri del comitato.” si arrese, passandosi il cordless da una mano all’altra. “…se ci incontriamo oggi può anche darsi che si riesca a posticipare di nuovo la data. Ma per la sera è impossibile, il salone è già prenotato, l’unica sarebbe rimandare a domenica mattina.”

“Sarebbe già un qualcosa.” le garantì Jeremy, leggermente più sollevato. Si chinò in avanti per baciare la moglie. “Grazie, tesoro.”

La donna, tuttavia, continuò ad osservarlo con fare impensierito.

“Perché è così importante che questa cerimonia venga spostata?” domandò infine, mantenendo lo sguardo puntato sul marito. Jeremy aggrottò le sopracciglia.

“Te l’ho detto: Elena ha un impegno, quella sera.”

“E io ti ho sentito, ma non sei suonato convincente.” rispose la donna, e assumendo d’un tratto un’espressione meno rilassata: per un attimo aveva riconosciuto nello sguardo del marito, la stessa espressione distante e malinconica dell’adolescente sperduto di Denver. Quella del Jeremy che disegnava piramidi e che la ritraeva di nascosto, cercando di scacciare via con quei disegni preoccupazioni ben più grandi di lui.

“…Che succede, ragazzino?” domandò, addolcendo il tono di voce e accarezzandogli una guancia.

La conversazione venne interrotta da una rapida sequenza di passi e una trafelata richiesta di attenzioni da parte di Xander.

“Papà!” il ragazzo si intrufolò nello studio del padre senza nemmeno bussare. “Papà, ti devo parlare urgentemente, in gran privato e da uomo a uomo. Ok, la mamma può restare….” aggiunse infine, accorgendosi della presenza di Hazel. La donna rivolse un’occhiata ammonitrice a Jeremy, lasciandogli intuire che la conversazione fra i due non fosse conclusa, per poi spostare la sua attenzione al figlio. Jeremy sospirò, voltandosi a sua volta verso il ragazzo.

“Dimmi tutto, Xander bello.”

Alexander, che a giudicare dal borsone che reggeva sulla spalla doveva essere appena tornato dagli allenamenti, si sgranchì la voce.

“Diciamo che avrei bisogno di un aiutino per via di Miss Mystic Falls…” spiegò, prima di appoggiare a terra il borsone e di lasciarsi ricadere con aria stanca su una delle sedie. “…Emh, vabbè, per farla breve, non so ballare.”  ammise infine, sistemandosi il polsino che gli fasciava l’avambraccio sinistro.  “Il che è un guaio grosso visto che dovrò farlo, se voglio fare da cavaliere a Caroline.”

La madre gli rivolse un’occhiata a metà tra il divertito e l’intenerito.

“Se lo vieni chiedere a tuo padre sei proprio diseparato, bello mio.” obiettò, dandogli un buffetto sulla guancia. Il marito si accigliò.

“Ma perché mi devi sminuire così?” commentò, fingendosi offeso. Hazel gli diede una gomitata scherzosa.

“Ma guardalo! Se l’è presa, il ragazzino!” ribatté, scoccando un’occhiata complice al figlio. Jeremy abbozzò un sorriso.

“Già, e adesso mi prendo anche qualcos’altro.” dichiarò infine, prima di avvicinarsi alla moglie per darle un bacio. Xander sbuffò, facendo poi ciondolare stancamente il capo.

Seh, seh, molto carini, ma il mio grande problema rimane.” Borbottò, appoggiando la fronte sul legno fresco della scrivania del padre. Hazel fece mente locale per una manciata di secondi.

“Beh, Oliver se la cava con il ballo.” ricordò, appoggiandosi al bracciolo della sedia di Jeremy.

“Scusa, ma perché non chiedi a tua cugina?” propose invece il padre, voltandosi in direzione del ragazzo. “Fa danza da quando era piccolina ed è una testa dura, vuoi che non riesca ad insegnarti qualche passo?”

Xander si sollevò di scatto a sedere e si batté una mano sulla fronte.

“Vicki!” esclamò ad alta voce, recuperando la sua sacca da hockey. “Come ho fatto a non pensarci prima?” osservò, precipitandosi fuori dallo studio. “Grazie papà!”

Ehy, Xander bello!” gli gridò dietro il padre, mentre Hazel rideva, sollevandosi a sua volta dalla scrivania. “Lo sai che alla cerimonia non potrai andare con quei capelli, vero?” aggiunse, osservando la moglie rivolgergli un’occhiata di sfida. “Io e te facciamo i conti dopo.” dichiarò la donna decisa. Gli fece una carezza sulla schiena e seguì il figlio in corridoio. Jeremy annuì in silenzio per poi sospirare, cercando di tornare a concentrarsi sui suoi progetti; in cuor suo sperava che quel ‘dopo’ arrivasse il più tardi possibile.


***

Quando Oliver era molto piccolo, aveva creduto  a lungo che i punti del vicinato oltre i quali non gli fosse concesso addentrarsi, delimitassero i confini del mondo. Si concludeva tutto lì: all’angolo fra South Road e il vicolo che ospitava la sua casa e quella dei Donovan. Con l’inizio della scuola, i suoi orizzonti si erano ampliati: una sequenza di villette allineate di fronte alla strada, il parco, le scuole, la chiesa e il campetto dietro il Mystic Grill. Questo era il mondo dal punto di vista dell’Oliver di quattro anni. Crescendo, erano arrivate le prime capatine a casa Lockwood con suo fratello, e poi i giri dell’isolato in bicicletta assieme a Mason. Il mondo di Oliver si era esteso in fretta, guadagnando terreno ogni volta che il bambino otteneva il permesso di recarsi da solo in un nuovo punto della cittadina. In quei momenti Oliver sorrideva, felice di poter andare e venire da quei luoghi come volesse, senza dover dipendere dai suoi genitori. Ad ogni nuova meta raggiunta sentiva di possedere una porzione sempre più grande del suo mondo, anche se in fondo sapeva bene di essere lui stesso parte di ciò che lo circondava. La sua prospettiva partiva dall’alto, perché in fondo lui, con la testa, era sempre rivolto alle nuvole, agli aerei e alle stelle. Guardare le cose a modo suo aveva il dono di farlo sentire leggero, spensierato e libero. Se si è sulle nuvole e si guarda verso il basso, è piuttosto difficile sentirsi turbati: sembra tutto incredibilmente piccolo che il cuore quasi si riempie al pensiero di avere il controllo sulle cose. I fiumi che straripano si possono contenere pizzicandoli con due dita. Gli incendi possono essere spenti soffiandoci sopra: le persone si possono salvare semplicemente con l’uso di un polpastrello. Ogni cosa è sostenibile; ogni problema è risolvibile. Quello era il mondo come lo vedeva Oliver nei momenti in cui lo si sorprendeva sorridere; pensava a questo, le volte in cui la pioggia gli scrosciava addosso e lui rideva da solo di se stesso, perché ancora una volta si era dimenticato a casa cappotto e ombrello. Il suo blocco da disegni, la sua moto, gli aerei, non erano altro che scorciatoie che lo aiutavano ad accedere a quella prospettiva.

Ed era quello, che stava accadendo in quel momento; per nulla infastidito dai laccetti del casco che premevano sulla sua pelle, Oliver virò in direzione del parco, sorridendo dalla pressione del vento appoggiato sulle sue spalle. La sensazione di beatitudine trasparita dallo sfrecciare delle due ruote sull’asfalto non sfumò, nemmeno quando la corsa si interruppe. Il ragazzo scese dalla moto, si sfilò il casco e attraversò un cancelletto in legno che delimitava l’ingresso del parco pubblico. Sette o otto bambini erano sparpagliati per la distesa di prato, alcuni in fila per andare sullo scivolo, altri a contendersi un’altalena. C’erano anche diversi genitori, intenti a chiacchierare in piccoli gruppi. Oliver proseguì a camminare fino a quando non raggiunse i margini del parco; individuò uno degli alberi più in disparte e prese posto sull’erba appena umida, appoggiando la schiena al tronco della pianta. Si sfilò la tracolla e ne estrasse una matita e il suo album da disegno.  Sorrise, accorgendosi di non essere solo. Annabelle si sedette alla sua destra, ricambiando il sorriso del ragazzo.

“Venivo qui con tuo padre, qualche volta.” ammise, stringendosi le ginocchia al petto. Il suo sguardo rincorse per un po’ le corse impacciate di due bambini piccoli, prima di spostarsi nuovamente su Oliver. “è uno dei posti che preferisco di Mystic Falls”.

“Hai un luogo preferito in generale?” domandò il ragazzo, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e incastrando la matita dietro un orecchio. Annabelle annuì.

“La mia casa natale.” rivelò, tornando ad osservare i due bambini.  “L’ho detestata a lungo, perché nei due anni in cui sono stata malata non potevo mai uscirne. Ma mi rendo spesso conto che, dopo tutto questo tempo, è quello il posto che deciderei di visitare se mi fosse possibile tornare indietro. Mi manca quello che rappresenta, credo. Mi manca trascorrere le giornate a rincorrere gli altri bambini nei campi e rincasare solo per la cena o per aiutare mia madre con i lavori. Mi manca tutto ciò che c’era prima che mi ammalassi.” concluse, tornando ad osservare Oliver. “Qual è il tuo posto preferito?” chiese infine, rimbalzandogli la domanda. Oliver rifletté per qualche istante, immergendo lo sguardo nel nulla.

“La ruota panoramica al Six Flags di Denver.” rispose infine, sorridendo al ricordo della sua città preferita vista dall’alto, contornata dai sorrisi e dalle risate dei visitatori del parco. “O ovunque in cielo. Mi piacerebbe pilotare un aereo, un giorno. Sai, stare in alto mi fa sentire come se potessi avere più controllo sulle cose: è una bella sensazione.”

“Deve essere bello, volare.” commentò la ragazza, abbracciandosi le ginocchia. “Non ho mai preso un aereo in vita mia. …E nemmeno da morta, a dirla tutta.” Scherzò, abbozzando un sorriso.
“Lo prenderai il giorno in cui ne piloterò uno per la prima volta.” commentò il ragazzo, dando una scrollata di spalle. “Puoi seguirmi ovunque vada , giusto? ”

Annabelle continuò a sorridere, ma non rispose. Oliver recuperò la matita da dietro l’orecchio e prese a giocherellarci, facendola scorrere tra l’indice e il medio. “Hai scoperto qualcosa su Mase?” domandò infine. L’espressione di Anna si fece d’un tratto più titubante; infine annuì, prendendo a mordicchiarsi un labbro.

 “Credo di aver capito quale sia il suo problema.” concluse infine, voltandosi ad osservare Oliver ancora una volta. “Posso solo dirti che Mase non  è in pericolo e che non è solo. La sua famiglia lo aiuterà.”

“Immagino che non ci sia proprio modo di scoprire in cosa debba essere aiutato…” mormorò il ragazzo, assumendo un’espressione impensierita. Annabelle sospirò.

“Non sarebbe meglio che fosse Mason a parlartene, quando si sentirà pronto a farlo?” chiese. Oliver continuò a giocherellare con la matita, lo sguardo nuovamente disperso nell’andirivieni di bambini e biciclette.

“Che cosa posso fare per lui?” domandò infine, rassegnandosi a uno sguardo di resa. La giovane scosse il capo.

“Nulla di più che stargli vicino.” concluse, sorridendogli con dolcezza . “Specialmente in questi giorni.”

“In realtà credo che mi stia evitando.” ammise il ragazzo, abbandonando la matita sul blocco. La osservò rotolare fino a raggiungere un lembo della sua felpa e infine sospirò. “Probabilmente pensa che sia arrabbiato con lui; spero di riuscire a parlargli alla cerimonia di Miss Mystic Falls.”

L’espressione di Anna si fece d’un tratto più vivace.

“Si terrà questa settimana?”

Il ragazzo annuì.

“Questo sabato. Concorrono sia mia cugina che la sorella di Mase e Xander farà da cavaliere a Caroline. Tra l’altro, ora che ci penso, mio fratello mi ha chiesto di incontrarlo da Vicki, questo pomeriggio. Forse farei meglio ad incamminarmi verso casa…” commentò, sollevandosi rapidamente da terra e spolverandosi il dietro dei jeans. Annabelle sorrise.

“Lo sai…” incominciò la ragazza, alzandosi a sua volta. “…c’è stato un anno in cui avrei dovuto concorrere anch’io. Ero talmente entusiasta all’idea, che ho provato e riprovato l’abito da cerimonia per giorni.”

“Mi sarebbe piaciuto vederti…” dichiarò il ragazzo con un sorriso, prima di aggrottare leggermente le sopracciglia. “Che successe poi?”

La ragazza esitò con titubanza, per poi lasciar trasparire nel suo sguardo un barlume di malinconia.

“L’evento venne posticipato e non potei più partecipare.” accennò brevemente,  posandosi le mani sulle ginocchia. “Per chi farai il tifo?” domandò infine, in un’evidente tentativo di cambiare discorso. Oliver diede una scrollata di spalle. “Non saprei…” ammise, prendendo ad attraversare il parco. “So che Vicki ci tiene tanto… Ma sarei contento anche se vincesse Caroline. Penso che lei lo stia facendo più che altro per mio fratello… anche se Xander fatica ad accorgersene.”  spiegò, raggiungendo la sua moto con Annabelle al fianco.
“Sai molte cose.” considerò con un sorriso la ragazza, osservandolo mettersi il casco.  Oliver sorrise a sua volta, tornando a riporre il suo album da disegno nella tracolla.

“Sono un buon ascoltatore…”  spiegò, liberando la moto dal lucchetto. “E sono bravo a custodire segreti degli altri.”
“E tu non ne hai di segreti?”

Oliver si issò sulla moto e diede una scrollata di spalle.

“Tutti hanno dei segreti.”  costatò infine, frugandosi in tasca, alla ricerca della chiave di accensione. Non si meravigliò nemmeno quando, tornando  a volgere lo sguardo verso la ragazza, non la trovò più al suo fianco. Sorrise, mettendo in moto e avviandosi in direzione di casa sua: Annabelle era senza dubbio parte di uno dei segreti più grandi che avesse mai avuto.

***

 "Did your family journals tell you what happened to Emily?

What about my grams? It never ends well for people like me.”

Episodio 2x07. Masquerade

Richmond, Virginia Commonwealth University.

“Ti va un caffè?”

Era la seconda settimana di fila che Julian attendeva l’arrivo di Aria all’ingresso dell’aula di biologia, per proporle di prendere qualcosa assieme. Dopo il primo disastroso incontro che avevano avuto il giorno della rivelazione della ragazza, le cose avevano incominciato a migliorare lievemente. Arielle continuava a comportarsi in maniera scorbutica e diffidente, ma nel corso dell’ultima settimana aveva incominciato ad abbandonare un po’ di ostilità, lasciandosi andare a qualche saluto amichevole e perdendosi in conversazioni articolate che il più delle volte vertevano sullo stesso argomento: la magia.

Quel pomeriggio in particolare, Julian sperava di poter ascoltare qualche altro particolare a proposito dei conflitti tra Walcot e Bennet; nei giorni precedenti Aria gli aveva menzionato più volte l’astio tra le due famiglie, spiegandogli che le motivazioni legate a quel rancore erano legate a qualcosa accaduto in passato. Ma non era ancora riuscito a scoprirne il perché.

Quando Julian le venne incontro, Aria era occupata a cercare di infilare due spessissimi tomi di biologia nella borsa.

“è giorno di riposo per entrambi al pub.” specificò il ragazzo, osservandola trafficare con i libri. “…e ci sono ancora diverse cose che mi devi raccontare a proposito di…” si interruppe appena in tempo, prevedendo l’imminente minaccia di un’occhiata di fuoco da parte dell’amica. La ragazza si limitò a uno sguardo torvo, prima di annuire lentamente.

“Ok.” acconsentì, sistemandosi una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio. “Va bene; ma il posto lo scelgo io.” concluse, strattonando la borsa e spingendoci dentro uno dei due libri di testo. Julian sorrise.

“Se vuoi posso…”

“No, grazie.” Arielle lo interruppe prontamente, incominciando a camminare per il corridoio. Il ragazzo si strinse nelle spalle.

“…mettere quei libri nel mio zaino. Va bene, non fa niente.”

Concluse alzando le mani in cenno di resa. Seguì la ragazza  in direzione delle scale e poi fuori dall’edificio.

“Dove stiamo andando?” chiese infine, notando che si stavano dirigendo verso l’Art Center, una delle strutture più estese del campus. Finalmente, Arielle abbozzò un lieve sorriso.

“Hai detto che volevi prendere un caffè...Il Globe Cafè dell’Art center è probabilmente il posto che preferisco in tutto il campus.” spiegò. Julian sembrò sorpreso.

“Non sapevo ci fosse un bar qui dentro…” osservò. Per quanto ne sapeva, l’edificio ospitava solo uno Starbucks e una tavola calda al piano terra. La ragazza diede una scrollata di spalle, stringendosi il libro che non era riuscita ad infilare nella borsa contro il petto. “è all’ultimo piano…Lo frequentano in pochi. È più tranquillo rispetto allo Starbucks e ha le vetrate…Sembra quasi di essere sul tetto. Allora, vieni?” lo incitò, prendendo a salire le scale. Julian le rivolse un’occhiata poco convinta.

“Non possiamo prendere l’ascensore?” domandò, abbozzando un sorrisetto speranzoso. Aria strinse le labbra e continuò a salire.

“Non vado esattamente matta per gli ascensori: mi sento soffocare…” ammise, mentre sospirando, Julian recuperava qualche gradino per stare al suo passo. “…Anche per mia nonna e mia sorella è così. Forse è una cosa che ha che fare con…” si interruppe, scoccandogli un’occhiata eloquente. “…hai capito, no? Con l’essere una strega.”

Julian estese il suo sorriso.

“Oh, giusto. Probabilmente voi preferite le scope agli ascensori.” scherzò, superando finalmente l’ultimo gradino. L’occhiataccia bieca di Arielle, lo fece scoppiare a ridere.

“Non farmi nemmeno rispondere, Bennett.”

 “Va bene…Arielle.”

“è Aria!” si impuntò la ragazza, indicando l’entrata del bar alla loro destra. Julian estese il suo sorriso.

“E io sono Julian, Julian Morgan: non Bennett.”   le fece notare, incominciando a cercare con lo sguardo un tavolo libero. La ragazza sospirò, seguendolo fino a raggiungere le vetrate.

"..E va bene…Julian.” Si arrese, prendendo posto su uno degli sgabelli liberi. Quindici minuti più tardi, Aria incominciò a raccontare qualcosa a proposito della discendenza Walcot. Julian ascoltava con attenzione, deciso ad assorbire ogni dettaglio di quella realtà che sentiva vicina, ma che era al contempo distante rispetto al modo in cui era cresciuto.

“Ci sono delle specie di ‘nozioni base’ che le streghe Walcot si tramandano di generazione in generazione…”stava spiegando la ragazza, facendo oscillare il contenuto della sua tazzina di caffè. “…Anche se ormai è difficile trovare dei Walcot che ancora si appoggino a quei paletti. In generale, i discendenti della nostra stirpe si sforzano di vivere il più possibile a contatto con la natura.”

“Perché?” la interruppe Julian, sorseggiando il suo caffè. Aria diede una scrollata di spalle.

“La magia non è un qualcosa di artificiale,” rispose. “è frutto della natura. E come tale, stare a contatto con ciò che l’ha generata dovrebbe accrescerla. Gli elementi della natura sono al tempo stesso una fonte da cui attingere energia e un sostegno a cui appoggiarsi. Le generazioni più anziane, in aggiunta, diffidano da tutto ciò che è artificiale e tecnologico. E stiamo parlando di ben più di un ascensore…”

 “…Non è un po’ stupido?” azzardò Julian, seppur con un po’ di titubanza. La ragazza strinse le labbra e scosse il capo, prima di proseguire con il discorso.

“Teoricamente, le streghe Walcot sono anche piuttosto reticenti all’utilizzare la magia per stupidaggini. Per questo ho cercato di ostacolarti con la storia dell’allarme anti-incendio.”  Aggiunse.

“Ma ostacolandomi, non hai anche tu utilizzato la magia per stupidaggini?” le fece notare il ragazzo. Aria  roteò gli occhi.

“Per quello ho detto “ teoricamente.” gli ricordò, facendo spallucce. “Ma in generale, c’è l’intenzione di sfruttare la magia solo per ciò che è positivo ed estremamente essenziale: curare qualcuno o aiutare qualcun altro... E i Walcot, in generale, sono molto rigidi e categorici per carattere…”

“Non me ne ero accorto…” scherzò a bassa voce  il ragazzo, abbozzando un sorriso.

“...una tempo non era esattamente così. Sono sempre stati molto fedeli al Grimorio e ai suoi principi, ben decisi a non abusare troppo dei propri poteri, ma in passato c’era più collaborazione tra varie famiglie. Fino a quando i Bennett non hanno deciso di invischiarsi in faccende che non li riguardavano...”

“Ti va di spiegarmi che cosa è successo tra Walcot e Bennett?” chiese il ragazzo, impaziente di scoprire la verità. Aria prese fiato e proseguì con il discorso.

“Anzitutto bisogna dire che tra la mia famiglia e la tua non è mai corso buon sangue. I Walcot sono molto discreti e attenti, i Bennett erano meno restii a mantenere il proprio dono segreto. Spesso hanno confidato nelle persone sbagliate e sono stati traditi, mettendo a rischio anche le altre discendenze. Ciò che maggiormente ha segnato l’astio tra le nostre due famiglie è stato il principio di collaborazione dei Bennett con i vampiri…”

La ragazza si costrinse a interrompersi, notando l’espressione allibita dell’amico.

“Vampiri.” ripeté Julian, abbozzando un sorrisetto divertito. “Questa è buona.” commentò. Aria inarcò un sopracciglio e si chinò sul tavolo, per raggiungerlo.

“Credi davvero di poter essere l’unico ‘diverso’, Julian Morgan?” mormorò, per poi tornare a drizzare la schiena. “I vampiri esistono. E non sono nemmeno pochi.” aggiunse, estendendo il sorriso nel notare un accenno di preoccupazione nello sguardo del ragazzo.  “Le streghe per istinto diffidano da loro, perché la transizione da umano a vampiro è qualcosa che non dovrebbe esistere in natura. Ma non i Bennett, ovviamente.” aggiunse, prima di terminare il suo caffè e di spingere la tazzina di lato.

“Alcune streghe Bennett hanno stretto patti di alleanza con i vampiri. Li hanno protetti, hanno creato dei talismani per far sì che non fossero ostacolati dal sole. I vampiri hanno intuito presto quanto quel genere di alleanza avrebbe potuto rivelarsi utile e hanno cercato di trarne beneficio. Cercandole, provando a scendere a patti con loro, talvolta corrompendole, talvolta minacciandole. Diverse streghe vennero uccise, ma il vero massacro avvenne in seguito, nella seconda metà del 1800.” Si interruppe momentaneamente, per riprendere fiato.
“Hai detto di essere nato a Mystic Falls, vero? è lì che accadde. Intorno alla metà del secolo, viveva una tua antenata di nome Emily. Uno dei vampiri la tradì: informò il Consiglio della cittadina a proposito della discendenza Bennett. Rivelò loro che Emily era una strega. Quell’episodio scatenò la più violenta caccia alle streghe mai avuta in Virginia.” rivelò ad un ormai completamente rapito Julian. “Diverse donne vennero bruciate al rogo, la prima delle quali fu Emily: molte di esse erano Walcot. Non tutte le donne uccise erano streghe.” concluse, chinando lo sguardo a cozzare contro la superfice nivea della tazzina da caffè. “Molte famiglie di streghe, quelle sopravvissute alla caccia, si sono spostate in altri stati per sfuggire al pericolo. Gli stessi Walcot lo hanno fatto; mia nonna è stata la prima strega della nostra stirpe a tornare in Virginia dal 1870.” rivelò, stringendosi nelle spalle. “L’astio nei confronti della stirpe Bennett risale a quel massacro.”

Julian rimase in silenzio durante l’intero racconto della ragazza. Quando Aria terminò il discorso, continuò a meditare sulle sue parole, mentre con il polpastrello raggruppava i granelli di zucchero sperperati sul piattino. Stralci del discorso della giovane giravano in tondo nella sua testa in maniera tutt’altro che positiva: non era poi più così convinto di aver fatto la scelta giusta, addentrandosi nel passato della sua famiglia. Non sapeva un bel niente di quel mondo. Cinque o sei formulette apprese da un vecchio libro non erano sufficienti a renderlo uno stregone. Sì, c’era quel prurito ai polpastrelli, la sensazione di poter controllare e plasmare le cose a suo favore se solo avesse l’voluto, ogni volta che era agitato per qualcosa: c’era il fruscio. Ma per il resto? Era davvero pronto ad affrontare quei poteri come aveva sempre pensato? C’era ancora troppo che non sapeva. Ma era arrivato a un punto di non ritorno: ormai, anche quello che sapeva era diventato troppo per poter mettere tutto da parte e tornare al punto di partenza.

“Adesso devo andare.” concluse infine Aria, raccogliendo la borsa ed alzandosi in piedi. “Sono indietro con lo studio e nemmeno di poco.”

Julian annuì.

“Aria?”  la richiamò infine alzandosi a sua volta, per recuperare il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans. “Cambierai mai idea su di me?” domandò infine, rivolgendole un’occhiata esitante.

La ragazza lo analizzò con attenzione.

“Veramente penso di avere già incominciato a farlo…” ammise infine, seppur evitando il suo sguardo. Julian le rivolse un sorriso di gratitudine. “Meglio che non lo dica troppo forte, però.” proseguì la ragazza, abbozzando a sua volta un lieve sorriso. “Non vorrei finire prima o poi a dovermi rimangiare tutto.” aggiunse, fingendo un’occhiata di ammonimento. Julian la osservò allontanarsi verso l’uscita del bar, per poi accorgersi all’ultimo che il libro di testo della ragazza erano rimasti sul tavolino.

“Aria! Il libro!” la richiamò, raccogliendo il volume e seguendola fino all’ingresso del locale. Nel porgerglielo, le loro mani si sfiorarono e Julian si sorprese nel ritirare bruscamente indietro la sua, assumendo un’espressione allarmata.

 “Qualcosa non va?” domandò la ragazza, recuperando il libro e ritirando lentamente il braccio. Julian scosse il capo, sfregandosi le mani con fare pensieroso.

“Ho preso la scossa…” buttò lì, per nulla convinto delle sue parole. La sensazione provata ricordava più il tremolio avvertito quando aveva formulato l’incantesimo di riconoscimento. Ma una volta ritratta la mano aveva continuato a pulsare per un po’, come se fosse effettivamente stato colpito o punto da qualcosa. Come se quel contatto gli fosse costato una sorta di ammonimento; quella era la sensazione che il suo corpo aveva recepito. Tornò a sorridere ad Aria, che sembrava confusa dalla sua reazione.

 “Ci vediamo domani.” esclamò infine il ragazzo, tornando a parlare in tono di voce amichevole. La ragazza annuì, seppur esibendo un’espressione un po’ interdetta. Si strinse  il libro di testo al petto e
puntò alle scale dell’edificio.

Quando, dopo aver pagato il conto, Julian si allontanò a sua volta dal bar, decise di ignorare le scale e di prendere l’ascensore. Mentre premeva il bottone per scendere al piano terra, la sua attenzione era ancora completamente assorbita dal racconto di Aria. Per questo impiegò almeno una trentina di secondi, prima di accorgersi che l’ascensore non si stava muovendo: dopo quasi un minuto era ancora all’ultimo piano. Premette ancora una volta il pulsante di partenza, ma notò che le luci che contornavano i tasti erano spente, così come  il display del quadrante con i vari bottoni.

“Forse allora sono agli ascensori che non piacciono le streghe e non viceversa…” borbottò fra sé, appoggiando scocciato le mani sulle due lastre di metallo.  Cercò di aprire le porte con l’intenzione di raggiungere le scale, ma non successe nulla.

“…No…”

Avvertendo le prime avvisaglie di panico, Julian prese pigiare bottoni a caso, accanendosi in particolare con quello da premere in caso di emergenza; non ottenendo alcun risultato, si sforzò di fare perno su quel fruscio che tormentava i suoi polpastrelli dal momento in cui aveva sfiorato la mano di Aria. Proprio nel momento in cui incominciò ad esercitarlo, sforzando si di tramutarlo in magia, quello scomparve. Non avvertiva nulla, quasi qualsiasi cosa lo stesse trattenendo in quell’ascensore avesse neutralizzato tutto ciò che lo rendeva diverso dai coetanei.

E infine, quando il ragazzo era ormai sul punto di gridare, per farsi sentire da qualcuno, l’ascensore tornò in funzione. All’improvviso, come se nulla fosse successo. Il bottoncino con lo “zero” si illuminò e meno di un minuto dopo Julian era al piano terra, fuori dall’ascensore e da quell’infernale momentaccio. Una volta fuori dall’edificio, prese ad aprire e a chiudere in fretta le mani, sperando di veder affiorare il regolare pizzicore ai polpastrelli. Accidentalmente, appiccò fuoco a una carta di gomma da masticare per terra: estinse la fiamma e schiacciò ciò che rimase della carta con il tallone, tirando un sospiro di sollievo: il fruscio era tornato.

Scoprì tuttavia che la cosa non lo rasserenava poi così tanto come aveva immaginato: che cosa cavolo gli era successo in quell’ascensore’

***

 

You're so teaching me how to do the hand jive!”

Episode 1x12. Unpleasantville.

Prima di raggiungere il fratello e la cugina dai Donovan, Oliver fece un salto un salto in casa per posare il suo album da disegno. Quando si introdusse nella sua stanza, trovò qualcuno ad aspettarlo: Jasper, il cucciolo di casa Gilbert, gli corse incontro scodinzolando, per poi accoccolarsi sui suoi piedi. Il piccolo di Golden Retriever era arrivato di recente in famiglia, in seguito al quindicesimo compleanno di Oliver; gli era stato regalato da Mason che l’aveva personalmente ribattezzato “Ollie due” per via del carattere mite e solare che ricordava quello del padroncino. Jasper era dolce e fedele come il più piccolo dei fratelli Gilbert, ma anche vivace e giocherellone come Xander: un autentico mix dei due giovanotti di casa. Era completamente devoto a Oliver, e lo seguiva ovunque, fuorché non ci fossero dei gradini troppo alti da superare: a quel punto piangeva fino a quando il padroncino non accorreva in suo aiuto.

Oliver sorrise e si accovacciò, permettendo al cucciolo di premere il muso contro il suo ginocchio.

“Buon pomeriggio anche a te, Jasper.” Lo salutò con dolcezza, dandogli una grattatina dietro le orecchie. “Ti va di fare una passeggiata?”

Dal modo frenetico in cui il cucciolo agitava la coda intuì facilmente che la risposta fosse “sì”.

Dieci minuti più tardi Oliver e Jasper attendevano sul pianerottolo di casa Donovan che qualcuno venisse ad aprire la porta: arrivò una trafelata Vicki; la ragazza sorrise sorpresa, quando vide il cagnolino.

“Quando ti ho detto che potevi portarti dietro anche l’altro piccoletto, mi riferivo a Mase…” scherzò, inginocchiandosi e battendosi le mani sui polpacci. Jasper le andò incontro, mordicchiandole entusiasta un lembo dei jeans. “…Ma anche questo cucciolotto qui va benissimo; quanto sei bello, eh, piccolino? Dillo alla zia Vick!” Jasper si lasciò coccolare per una buona manciata di minuti, prima di fiondarsi in casa, riconoscendo la voce di Xander.

“Cuginona, io sono pronto!” esclamò il maggiore dei fratelli Gilbert, quando Vicki e Oliver raggiunsero lui e Autumn in soggiorno. Appallottolò la carta della sua merendina, e la buttò nello zainetto appoggiato sul divano, prima di stiracchiarsi vistosamente. “Mi stai salvando la vita, sappilo!”

“Super Vicki al tuo servizio, cuginetto!” dichiarò Vicki, prendendo a saltare sul posto, prima di spingere una poltrona di lato con il piede. “Ma vedi di trattare bene Caroline alla cerimonia, o dovrai vedertela con le mie strabilianti piroette rotanti! Dunque…” proseguì poi, abbozzando una giravolta. “…ci serve una pista da ballo!” valutò, sistemando un tavolino di fianco alla poltrona.
Incrociò le braccia sul petto e osservò i mobili del soggiorno con aria critica. “Spostiamo i divani di lato e dovremmo essere a posto!” concluse, additando il divano più distante. “Ollie e ‘Tumn, mi date una mano con quello lì? Xander, muovi il sederino e sposta questo.”  concluse, picchiettando con la mano sull’imbottitura del secondo divano e tirando fuori l’iPod dalla tasca.  Quando il soggiorno fu libero,  Xander e Vicki si sistemarono al centro della pista con Jasper che trotterellava loro attorno.
“Dobbiamo ballare anche noi?” domandò un confuso Oliver, voltandosi in direzione di Autumn. La ragazza si sistemò su uno dei divani e gli fece segno di sedersi accanto a lei. “Noi facciamo da supporto morale…credo.”  commentò, battendo il piede a ritmo di musica.“Ehy, la conosco questa canzone!”

Vicki batté le mani con aria soddisfatta.

“È di Grease: ‘Born to hand jive’ ”, spiegò, alzando il volume delle casse. “Xander bello, sei fortunato. Giusto ieri ho preparato una coreografia per i bimbetti del corso di danza di questa sera.”

“Aspetta, aspetta, aspetta…” la interruppe il cugino, scoccandole un’occhiata sconcertata. “…Vuoi farmi imparare un balletto per bambini?”

A lato della pista da ballo improvvisata, Oliver e Autumn si scoccarono un’occhiata divertita. Vicki si sfilò via un ciuffo di capelli dagli occhi e portò con decisione le braccia sul petto.

“Xander bello, non sei qui per imparare come si balla!” spiegò, scrutandolo con una serietà incredibile. Il ragazzo le rivolse un’occhiata confusa.

“Ah, no?”

 “No! Sei qui per imparare a capire che tu in realtà sai già come si balla!”

“Intricato!” commentò Oliver, sorridendo ai maldestri tentativi di Jasper di balzare sul divano. Prese il cucciolo in braccio e lo depositò fra lui e Autumn, permettendogli di zampettare avanti e indietro per un po’.

Xander si portò le braccia al petto, aggrottando le sopracciglia con fare pensieroso. Infine scosse il capo. “Non ho capito.” ammise infine, intrecciando le dita dietro la nuca. “Ma tutte queste parole mi stanno facendo venire fame.”

Victoria sospirò, appoggiandosi le mani sui fianchi. Infine, andò ad abbassare il volume della musica.

“Vedi, cuginetto…” spiegò, tornando al centro della “pista”. “…ballare non significa solo oscillare a destra e a sinistra, fare qualche piroetta su se stessi e far sballonzolare seni e chiappe, come pensa qualcuno.” aggiunse quasi casualmente, appoggiandosi allo schienale della poltrona. Autumn accennò un sorrisetto divertito.

“Primo riferimento a Ricki del pomeriggio!” dichiarò, fingendosi seria e sollevando il dito indice. Victoria le fece la linguaccia e proseguì con il suo discorso.

“È una disciplina: è uno sport!” enfatizzò l’ultima parola, mimando il gesto di agitare una mazza da baseball. “Come il tuo hockey, Xander, o l’atletica di ‘Tumn…O il calcio…”

 “Secondo riferimento a Ricki…” si trovò in dovere di sottolineare nuovamente Autumn. Victoria prese un cuscino dalla poltrona e lo lanciò in testa alla migliore amica.

“Nel momento in cui ti accorgerai che ballare non è poi così diverso dal praticare uno sport qualunque…” riprese, chinandosi, per evitare di venire a sua volta colpita. “…Allora ti sentirai più a tuo agio nel farlo e sarai pronto per le prove ufficiali della cerimonia! I passi di danza te li insegnano poi lì.” concluse, balzando giù dalla poltrona e raggiungendo Xander, che ancora stava ascoltando con le dita intrecciate dietro la nuca.

“Adesso è più chiaro, porcospino?” domandò, facendo strisciare il palmo della mano sul crestino del ragazzo.

“Chiarissimo!” dichiarò il ragazzo, dandole uno schiaffetto sul polso, per poi prendere a sistemarsi i capelli con la mano. “Ma lascia stare il mio povero crestino.”

 “Come farai a sopravvivere un’intera giornata senza cresta, sabato?” domandò la cugina. “Ehy, a proposito, dovremmo darle un nome! Vediamo, umh…”

“Ernesta la cresta!” le venne in aiuto Autumn. Oliver si mise a ridere.

 “O Tino il crestino se è maschio!” aggiunse il giovane.

“Tino!” ripeté ad alta voce Xander, circondandosi la cresta con le mani, come se volesse proteggerla. “Mi piace Tino! D’ora in poi si chiamerà così!”.

“Aggiudicato!” esclamò allegramente Vicki, raggiungendo un’ultima volta le casse e il suo iPod. Alzò il volume e fece partire la canzone da capo.

“Allora, Tino crestino, Xander il cugino…” incominciò, voltandosi verso il ragazzo. “…E Jasper il cagnolino…” aggiunse, notando il cucciolo acquattato proprio al centro della pista da ballo improvvisata. “…siete pronti?”

Jasper abbaiò, improvvisamente interessato a uno dei laccetti dei pantaloni di Vicki.

“Lo prenderò come un sì.” Concluse la ragazza dandogli una grattatina dietro le orecchie e sistemandosi di fronte a Xander.“E allora incominciamo!”

***

Take me where I've never been,

Help me on my feet again.

Show me that good things come to those who wait.

 

You can. David Archuleta

 

Xander, Oliver e Autumn erano rincasati ormai da almeno un paio d’ore, quando il campanello di casa Donovan suonò per la quarta volta in un pomeriggio. Elena andò ad aprire, una penna rossa in mano e il tema di un alunno nell’altra, convinta che uno dei suoi nipoti si fosse dimenticato qualcosa in soggiorno. Trovò invece Ricki ad attendere sul pianerottolo.

“Buonasera!” esclamò in tono di voce allegro il ragazzo “Disturbo?”

“Ricki!” lo salutò la donna con un sorriso, prima di aggrottare leggermente le sopracciglia. “Ma non sei ancora partito per Jacksonville?”

Il ragazzo scosse il capo.

“Pensavo di restare a Mystic Falls ancora per qualche tempo…” ammise, prima di abbassare leggermente la voce. “…per papà. E per Mase.”

Quando Ricki aveva rivelato al padre di voler sospendere gli studi, Tyler si era opposto in maniera piuttosto brusca. Le discussioni tra i due e gli eccessi di collera del capofamiglia si erano fatti particolarmente frequenti nel corso degli ultimi giorni, ma il ragazzo non aveva ceduto.

Elena sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma Ricki parlò per primo.

“Vic è in casa? Volevo parlarle…” domandò, sbilanciandosi leggermente all’indietro. Sbirciò in direzione delle finestre al piano di sopra, come se si aspettasse di trovare Vicki che li spiava dal vetro. Sperava che quello che stava per fare avrebbe per lo meno alleviato la collera del padre nei suoi confronti; dopotutto era stato proprio Tyler a proporgli la cosa per primo.

“L’hai mancata per dieci minuti.” rispose la donna, rivolgendogli un’occhiata dispiaciuta. “È appena andata alla scuola di danza. E si è anche dimenticata i panini per la cena…” aggiunse, scuotendo il capo in cenno di rassegnazione. “…la solita pasticciona. Non tornerà prima delle dieci, comunque.”

“Nessun problema!” la tranquillizzò il ragazzo, esibendo un sorriso rilassato. Elena si stupì nel notarlo quasi sollevato. “Passo un’altra volta...”

“Sei con la macchina, Ricki?” domandò la donna osservandolo fare dietrofront e puntare al vialetto; il giovane si fermò.

“Sì…Perché?”

“Me lo faresti un favore?”

Ricki si strinse nelle spalle, infilandosi le mani in tasca.

“Che genere di favore?”

Elena rientrò in casa e ne uscì poco dopo con una busta in mano.

“Sono i panini di Vicki…” spiegò, porgendoli al ragazzo. “...Se facessi un salto a portarglieli mi faresti un favore immenso. Lo farei io, ma ho ancora una valanga di temi sulla prova di evacuazione di ieri da correggere prima di cena…”

“Che noia!” commentò scherzosamente Ricki, prima di sospirare, tendendo la mano per afferrare la busta. Sospirò,  “E va bene, dà qui!” acconsentì infine, abbozzando un mezzo sorriso. “Lo farò; ma solo perché sei la moglie del mio stratosferico padrino!”

Elena si mise a ridere.

“Grazie, tesoro. La scuola di danza sai dov’è?”

Il ragazzo si strofinò i capelli con la mano, assumendo un’espressione pensierosa.

“Credo di sì, mi pare di averci portato Ruby qualche volta.” ammise, ricordando i saggi di danza della cuginetta a cui aveva assistito più volte. “Scappo a portarglieli!” dichiarò infine, esibendo la busta e scendendo i gradini di fronte a casa.

“Ricki…” lo richiamò ancora una volta la donna, prima che Ricki raggiungesse la sua auto.

“Sì?”

Elena sospirò, prima di proseguire.

“So che sei convinto che restare vicino alla tua famiglia sia la cosa più giusta da fare. Ed è comprensibile, ma penso che tuo padre si sentirebbe più tranquillo se tornassi a scuola.” ammise, cercando di parlare con delicatezza. “…è preoccupato per te quanto lo è per Mase.”

Ricki rimase in silenzio per qualche istante, giocherellando con le chiavi dell’auto. “Lo so…” rivelò, prima di raggiungere la macchina, voltandosi un’ultima volta in direzione della donna. “Ci vediamo!”. concluse infine, infilandosi nella vettura. Non impiegò molto a raggiungere la scuola di danza, mentre si trovò in difficoltà nel momento in cui si trovò nell’atrio, non avendo idea di quale corso seguisse Vicki. A dirla tutta non sapeva nemmeno che ballasse al di fuori del cheerleading. Infine, decise di chiedere informazioni alla segretaria della palestra, La donna gli indicò una stanza, spiegandogli che Vicki aveva quasi concluso la lezione. Dapprima Ricki fu sul punto di abbandonare i panini sul bancone, spiegandole la situazione. Gli ci vollero meno di dieci secondi per cambiare idea, notando il viavai di ragazze che entravano e uscivano dagli spogliatoi. Intuì all’istante che la stanza in cui si stava allenando Vicki doveva probabilmente essere piena di belle ragazze dalle gambe lunghe in tutù e body attillati.

“Sa, penso che porterò i panini a Vicki personalmente…” dichiarò alla segretaria, sistemandosi i capelli con la mano, prima di socchiudere la porta della palestra. Si era aspettato che il suo ingresso imprevisto nella sala avrebbe attirato l’attenzione di tutti su di sé; tuttavia, ciò che non aveva minimamente previsto, era che quel “tutti” avrebbe compreso una dozzina di paia di occhietti curiosi che lo scrutavano da sotto in su.

Erm, mi sa che ho sbagliato stanza…” commentò, sorridendo al gruppetto di bambine sedute per terra che lo osservavano stranite.

 “Ricki?” esclamò una stupita Vicki, riconoscendolo sulla porta. “Che ci fai qui?” Teneva per mano una delle bambine più grandi del gruppetto, che il ragazzo riconobbe all’istante come la sua cuginetta.

 “Ricki!” cinguettò Ruby, correndogli in contro. Il giovan si chinò per prenderla in braccio.

“Ciao, principessa!” la salutò con un sorriso, per poi rivolgere un’occhiata interrogativa a Victoria.

“Carucce, le piccoline, ma io cercavo quelle un po’ più grandicelle…Dove le posso trovare?” domandò, porgendo alla ragazza la busta. “Tua madre mi ha chiesto di portarti i panini… L’avrebbe fatto lei ma era in ritardo con i temi da correggere.”


Vicki afferrò la busta senza dire nulla, un sorriso sorpreso ad arricciarle gli angoli delle labbra. Era strano trovarla a corto di parole, ma la ragazza si riprese quasi subito.

“Sei stato carino, grazie.” ammise infine, appoggiando i panini sul davanzale della finestra. Ruby, che era ancora in braccio al cugino, gli fece cenno con la mano di chinare il capo, per dirgli qualcosa a bassa voce nell’orecchio.

“Sei il principe azzurro di Vicki?” domandò, mettendosi a giocare con il colletto della sua maglia. Ricki le rivolse un’occhiata sorpresa.

“Ehm, non esattamente.” rispose, posandola a terra per permetterle di raggiungere le altre bambine.

 Victoria si mise a ridere.

“Stanno preparando una canzone di Cenerentola per il saggio di fine anno…” la giustificò, mentre Ruby tornava a sedersi assieme alle compagne di corso. “…è da un paio di settimane che ogni volta che entra un ragazzo in palestra gli domandano se sia il principe azzurro di qualcuno.”

 “Lo sai? Non sapevo mica che studiassi danza…” ammise Ricki a quel punto, incrociando le braccia sul petto.

“In realtà al momento non la studio…Insegno solo.” rivelò Victoria, prima di raggiungere i bambini seduti a terra, che stavano incominciando ad agitarsi un po’ troppo: solo in quel momento Ricki si accorse che c’erano anche un paio di maschietti, nel gruppo.

“Bimbi, questo è Ricki!” Vicki presentò il ragazzo, cercando di non lasciare che l’attenzione dei ragazzini si disperdesse. “è venuto a vedere come ballate, perché ha sentito dire che siete tutti bravissimi!”

“Lui è mio cugino!” esclamò prontamente Ruby, indicandolo alle sue amichette.

“Io sono bravissimo!” stava strillando al contempo uno dei due maschietti, alzando la mano.

“E anche io!” commentò un’altra bambina in risposta.

Richard si mise a ridere.

“Mi sa che siete addirittura più bravi della vostra maestra!” commentò, accovacciandosi, per essere alla loro altezza. Sua cugina scosse vigorosamente il capo.

“No, la maestra Vicki è bravissima!” ribatté, incrociando le braccia sul petto. Il bimbo alla sua destra sollevò il braccio, come a voler chiedere la parola.  “Ed è anche bellissima!” dichiarò, stropicciandosi i capelli biondi con la manina libera. Vicki rise di nuovo, accarezzando il capo del bambino.

“Grazie, Anton! Tu sì che sei un vero principe azzurro!” dichiarò, facendo cenno ai bambini di alzarsi in piedi.

“Facciamo vedere a Ricki la canzone che abbiamo imparato oggi?” propose, per cercare di mantenerli tranquilli. “Ti dispiace? Hanno un po’ di problemi a ballare di fronte al pubblico.” aggiunse poi, voltandosi in direzione del ragazzo. Richard diede una scrollata di spalle, appoggiandosi alla sbarra con la schiena.

Nah, tanto ormai sono qui.” commentò, mettendosi nuovamente a braccia conserte. La ragazza sorrise. “Fidati, ballano meglio loro di Xander!” dichiarò, battendo le mani, prima di raggiungere lo stereo, per far partire la musica.

“Siete pronti? Guardate che comincia subito!” avvertì i bambini sistemandosi di fronte a loro, davanti agli specchi. I piccoli allievi si guardarono l’un l’altro, ridendo entusiasti, prima di incominciare a ballare, imitando le mosse della loro insegnante.

Richard si sforzò di seguire i movimenti buffi e dolci dei bambini, ma finì ben presto per spostare lo sguardo verso la loro maestra, osservandola interagire con i piccoli attraverso lo specchio. Non era la prima volta che vedeva Vicki ballare, eppure c’era qualcosa di diverso nel modo in cui si muoveva a ritmo di musica in quella palestra. E non era per via della coreografia a misura di bimbo,– Ricki si divertì da matti nell’immaginare Xander intento a ballarla –  che stava eseguendo per i suoi piccoli allievi. Non aveva nemmeno a che fare con la mancanza della gonnellina corta da cheerleader che la ragazza era solita sfoggiare alle partite. La Vicki in pantaloni di tuta e coda di cavallo che aveva di fronte in quel momento era una Vicki diversa rispetto alla ragazzina logorroica e insistente che era abituato ad avere intorno in altri contesti. Aveva messo da parte i suoi modi stravaganti e spesso forzati per stare dietro a quei bambini, pur mantenendo la vivacità contagiosa e l’energia che esibiva sempre in tutto ciò che faceva. Era davvero una buona insegnante, e gli bastarono pochi minuti per rendersene conto. In quella palestra, di fronte a quei ragazzini, Vicki gli sembrò più donna di quanto non gli fosse mai capitato di pensare, osservandola eseguire uno dei suoi numeri di cheerleading.
Quando la coreografia terminò, sia Vicki, sia Ricki, batterono le mani. Sentendosi incoraggiati, i bambini presero a saltellare con entusiasmo.

“Ma siete fenomenali” dichiarò il ragazzo, annuendo convinto. “Voglio un autografo!”

Victoria sorrise. Raggiunse lo stereo, per abbassare il volume della musica, e infine tornò da Ricki.

“Grazie per i panini!” esclamò, appoggiandogli una mano sull’avambraccio. “è stata una bella sorpresa…E grazie per essere rimasto a guardarli. Gli hai fatti felici, sai?” dichiarò, sorridendo in direzione dei bambini, che avevano già incominciato a scorrazzare per la palestra. Ricki minimizzò con un cenno della mano.

“Senti, Vic…” incominciò, prima di interrompersi bruscamente, imbarazzato dalla mezza dozzina di testoline voltate verso di lui. “…puoi chiedere ai ragazzini di non guardarmi così? Insomma, lo so che sono un figo…Ma ci vorrà ancora una decina d’anni prima che anche queste bimbe imparino ad apprezzare la cosa…”

Vicki si mise a ridere.

“Ok, bimbi, facciamo una cosa!” esclamò poi, tornando ancora una volta allo stereo, per far partire la canzone. “Visto che ormai siete diventati davvero bravissimi, perché non provate un po’ la coreografia da soli, così poi la facciamo vedere a Eric e agli altri maestri prima di andare a casa?”

I piccoli sembrarono entusiasti della proposta.

“Chi è Eric?” domandò invece Ricki. Victoria fece spallucce, andando alla sbarra e recuperando la felpa della tuta.

“Un amico…Insegna anche lui ai bambini qui alla scuola.” spiegò, prima di sgranare gli occhi, colta da un’illuminazione improvvisa. “Verrà alla cerimonia di Miss Mystic Falls!” si ricordò, tirando fuori il cellulare dalla tasca. “Devo avvertirlo del cambio data...”

“Ecco, sì, era a proposito di quello che ti volevo parlare…” buttò lì Ricki, sentendosi stranamente impacciato. Vicki lasciò il messaggio a metà e distolse lo sguardo del display, perdendo subito interesse in quello che stava facendo. Tornò ad osservare Ricki, che aveva preso a sfregarsi le mani l’una contro l’altra.

“Sì, insomma, volevo ringraziarti per la storia dello sceriffo Fell…con quell’ingranaggio di non so cosa. Mio padre dice che ci sei stata di grande aiuto e visto che ho deciso di non tornare in Florida, almeno per ora…”
“Davvero non parti più?” lo interruppe la ragazza, estendendo il suo sorriso. “Devo fare un grande sforzo per non mettermi a saltellare per la gioia, lo sai questo, vero?”

 “E comunque…” Il ragazzo si sfregò il capo con la mano, intenzionato a concludere in fretta il suo discorso. Più impiegava tempo e più aumentava il suo imbarazzo. “Adesso non metterti in testa strane idee. Ma pensavo, visto che sarò comunque qui per la cerimonia di Miss Mystic Falls, che magari potrei farti da cavaliere. Sarebbe una specie di ‘grazie’ per quella questione di Fell.” concluse, tornando a infilarsi le mani in tasca.
Victoria lo osservò allibita per un po’, incapace di proferir parola. Infine la sua espressione si fece seria, e la giovane gli puntò un dito contro.


“Non mi stai prendendo in giro, vero?” si assicurò, mordicchiandosi nervosamente un labbro.
Ricki scosse il capo.

“No…sono serio.” ammise. “Ma come ti ho già detto poco prima, non devi metterti in testa strane idee. Sarebbe una cosa da ami…” si interruppe a metà discorso, sorpreso dalla reazione della ragazza. Vicki lo abbracciò con slancio, non facendo caso ai bambini che avevano preso a osservarli incuriositi.  
“Grazie…” mormorò Vicki, prima di lasciarlo andare, recuperando il telefonino dalla tasca.

Ricki scoccò un’occhiata impacciata ai ragazzini, riprendendo a sfregarsi le mani.

Emh…Prego?”

“E adesso fuori di qui.” lo intimò infine Victoria, incominciando a digitare freneticamente sul tastierino dell’apparecchio. “…devo chiamare ‘Tumn, devo chiamare tua sorella…In pratica devo chiamare il mondo intero, e non posso farlo se ci sei tu.” concluse, accorgendosi a malapena della presenza di Ruby al suo fianco.

“Visto? L’avevo detto che eri il suo principe azzurro!” cantilenò la bambina, indicando il cugino con l’indice.

Ricki scrollò il capo con fare contrario, incamminandosi verso il corridoio della palestra. Se non altro, si trovò a pensare una volta raggiunta la macchina, fare da cavaliere a Vicki si sarebbe rivelato forse un po’ meno traumatico rispetto a come l’aveva immaginato al principio.

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Angolo Link pre-polpettone:

Il gruppo facebook con foto, informazioni,spoiler,sondaggi  e quant’altro a proposito di History Repeating.


Il canale youtube con tutti i video dedicati a  HR e la playlist della colonna sonora. (Y)

Angolino pubblicitario pre-polpettone.

Nel periodo natalizio ho scribacchiato un paio di storie legate a History Repeating, se vi va date un’occhiata!

We can be heroes. One-shot dedicata a Mason, Oliver e alla loro amicizia.

Pillole di Quotidianità. Una piccola raccolta di dieci drabble incentrate sui protagonisti di History Repeating

A very...Lockwood…Christmas. Ovvero, le 10 cose che si verificano ogni anno la vigilia di Natale in casa Lockwood.

History Repeating – Gli spin offs. Questa è la serie in generale che contiene tutti quanti gli spin off legati a History Repeating,

 

Nota dell’autrice. – Aka: il polpettone nel polpettone -

Buongiorno! Sono tornata in vita dopo due mesi, alè! Purtroppo il tempo è quello che è, come immagino ormai sappiate bene tutti. Ma passiamo subito a noi, che voglio cercare di essere breve e concisa (ahah…che bella battuta! XD)

Allora…Capitolo, questo, che è il capitolo di transizione più ‘transizionoso’ nella storia dei capitoli di transizione, perché non succede praticamente nulla! Ho voluto distanziarmi un po’ dal filone principale della trama (la faccenda della luna piena) per concentrarmi su altri personaggi e filoni narrativi, comunque essenziali per portare avanti il tutto. Ma, come al solito, procediamo con ordine!


1. Finalmente, dopo aver dato il falso allarme nel capitolo scorso, è arrivata l’introduzione di Alexander (Lex) Davies. Per chi segue Pyramid (che tra l’altro ho intenzione di riprendere i prima possibile, perché  è da troppo ferma in cantiere) lo conosceva come Xander, il piccolo monello iperattivo che Jeremy conobbe una volta traferitosi a Denver. Ebbene, ora Lex è cresciuto e ho pensato di buttarlo in mezzo al calderone di HR, come se non avessi già abbastanza personaggi da sfamare a suon di filoni narrativi…Ma questi sono dettagli, torniamo a noi! Ho deciso che Lex sarebbe diventato paleontologo perché mi sembrava un lavoro adatto a lui e, cosa più importante, gli avrebbe permesso di viaggiare, e ho sempre immaginato il Lex adulto che sviaggia di qua e di là, perché lo stare fermo troppo a lungo lo annoierebbe. E poi mi sembrava una buona alternativa all’archeologo e ai rimandi con le piramidi del passato di Lex.

2. Per quanto riguarda la comparsa di Lex nel capitolo, ho qualche informazione inutile da aggiungere. La Boulder University l’ho scelta perché sembra essere una delle università migliori del Colorado. Non è troppo distanze da Denver dove vive/viveva Lex e c’è un reparto di geologia. Altra informazione inutile: il professor Harlow non ci serve a molto, in realtà,  serviva solo per menzionare l’arrivo di Lex in Virginia e quelle foto che forse vogliono dire qualcosa e forse no. Il nome l’ho fregato a Harry Harlow, un ricercatore che ha effettuato degli esperimenti legati all’attaccamento su piccoli primati.

3. Come accennato prima, Lex come personaggio è nato in Pyramid, che racconta dell’anno che Jeremy ha trascorso a Denver da adolescente, e di come lui e Hazel si sono conosciuti. Tutti i pensieri di Jeremy legati al suo passato nella scena con Hazel sono ancorati a quella storia.

4. Passiamo all’Annaver! Anzi tutto mi sono resa conto che si è creato un lieve parallelismo tra le battute finali della scena Masoline alla riserva e le parole di Anna e Oliver al parco in merito al fatto di avere dei segreti). Ma questa è un’informazione inutile >.< Le cose importanti da dire a riguardo sono due: a) i riferimenti alla casa natale di Annabelle sono completamente inventati, non sono riuscita a trovare molto sul suo passato in giro per la rete. Mentre per quanto riguarda il fatto che dovesse partecipare a miss Mystic Falls nel 1864, è tutto vero: vi riporto ciò che c’è scritto nella wikipedia di TVD (aka, la mia bibbia)
The pageant was meant to be held in 1864, but the hunt and capture of
vampires in the town postponed the event. Anna, a vampire, was supposed to have entered, but when all the vampires got taken to the tomb, she couldn't.

5. Aria e Julian. Finalmente scopriamo qualcosina di più riguardo ai Walcot e a questa strana discordia che aleggia tra le due famiglie. Anche in questa occasione, alcune delle cose raccontate con Aria coincidono con la trama di TVD: Emily Bennett è stata effettivamente tradita da Katherine che ha rivelato al Consiglio il fatto che fosse una strega. Successivamente la donna è stata uccisa, e sono incominciate le persecuzioni. §Per quanto riguarda l’episodio dell’ascensore possiamo trarre due ipotetiche conclusioni; a) o Julian è sfigato come la sottoscritta con la tecnologia b) c’è ancora qualcosa che ci sfugge. Vedremo!

6. La scena con i due Gilbert, Vicki e ‘Tumn non aveva una vera e propria funzione all’interno della trama,ma mi sembrava carina come scena. Finalmente ho avuto la possibilità di inserire anche qui Jasper, il cagnolino di Oliver, che è apparso per la prima volta in A very…Lockwood…Christmas”. La canzone che Vicki insegna prima a Xander e poi a Vicki, tra l’altro, , è “Born to Hand Jive” di Grease XD Ci tenevo a dirlo perché Grease prima o poi tornerà in questa storia – e qualcuno sa anche già com.

7. Concludiamo con il Rictoria – beh, ma qui non c’è molto da dire. Ruby, la cuginetta di Ricki, è un altro personaggio che ha fatto per la prima volta comparsa in uno spin off attualmente in corso, A Very Lockwood Christmas e che mi sembrava carino introdurre anche qui. Ovviamente, se abbiamo la principessina, non potrà mancare quell’uragano di suo fratello minore: Damian “Twister” Blackwell arriverà tra un paio di capitoli e farà qualche comparsa qua e là.

8. Per concludere, un paio di accenni al prossimo capitolo: finalmente arriverà la luna piena. E come tale, il nuovo capitolo sarà interamente dedicato a Tyler, Caroline, Mason e Ricki (con lievi sprazzi di Jeffrey) che in fondo sono un po’ i protagonisti principali di HR. A quella parte tengo molto, perché sta per volgere al termine la prima parte della storia e tutti i capitoli precedenti vertono a quello, quindi vorrei che ne uscisse fuori qualcosa di decente xD
Basta ho straparlato!

Io vi ringrazio infinitamente come al solito se siete riusciti a leggere tutto il polpettone senza collassare!
Un abbraccio forte!

Laura

 

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Capitolo 14
*** 11. By the Light of the Moon ***


Chapter 11.

By the light of the moon.

Non sai mai quanto sei forte, finché essere forte è l’unica scelta che hai.

Chuck Palanhiuk

Caroline Forbes parcheggiò la macchina il più vicino possibile al delimitare degli alberi e spense il motore, preparandosi a scendere. Una volta chiusa la portiera incominciò ad addentrarsi nella foresta, camminando a passo svelto: per quanto amasse quella riserva naturale, non si sarebbe mai aspettata di tornarci a meno di una settimana dall’ultima volta in cui ci aveva messo piede; evidentemente non aveva tenuto conto di un’abitudine ben radicata nel minore dei fratelli Lockwood:  il vizio di sparire nei momenti meno opportuni, secondo solo alla sua abilità nel nascondersi nei luoghi più improbabili. Si sorprese a tirare un sospiro di sollievo, nel momento in cui individuò il ragazzo accovacciato di fronte a un albero. Mason aveva la schiena appoggiata al tronco , le ginocchia strette al petto e il cappuccio della felpa tirato su. Il suo sguardo sembrava assorbito dalla vegetazione di fronte a lui, ma era evidente che la sua mente stesse vagando altrove, impegnata da qualche riflessione che avrebbe trattenuto il ragazzo per un bel pezzo, se non fosse arrivata Caroline a distrarlo. La vampira si avvicinò di qualche passo, appoggiando una mano sulla corteccia dell’albero. Mason aggrottò appena le sopracciglia e volse il capo verso la ragazza. Non sembrava particolarmente sorpreso e la cosa la stranì: di norma, Mase, si innervosiva per molto meno. Ipotizzò che stesse incominciando ad abituarsi ai sensi iper-sviluppati: probabilmente l’aveva sentita arrivare.

“Sapevo che avrebbero mandato la baby-sitter a recuperarmi.” commentò il ragazzo. Accennò un debole sorriso che, tuttavia, svanì in fretta.

“Ti diverti a far preoccupare i tuoi così?” domandò la vampira, inarcando un sopracciglio con aria di rimprovero. Mase roteò gli occhi, sistemandosi i gomiti sulle ginocchia.

“Ho lasciato un messaggio a mia madre.” si difese, appoggiando la nuca contro il tronco dell’albero. “Sarei comunque tornato a casa prima delle quattro.”

“Come ci sei arrivato fin qui?” chiese ancora Caroline, prendendo posto accanto a lui.

“Ho preso l’autobus.” rispose asciutto il ragazzo, mettendosi a braccia conserte. Se inizialmente la ragazza aveva trovato la reazione di Mase al suo arrivo inaspettatamente rilassata, in quel momento notò  in lui un improvviso irrigidimento.

“Tuo padre ti ha cercato dappertutto.”  proseguì Caroline, estraendo il cellulare dalla tasca. Incominciò a trafficare con i tasti per inviare un messaggio a Tyler.  “Ha parlato di un posto di nome Havenill: pensava che fossi lì.”

Mason scosse il capo.

“Non oggi.” si limitò a rispondere, tornando a distogliere lo sguardo. Caroline lasciò perdere il cellulare e prese ad analizzare l’espressione del ragazzo: aveva un’aria tesa, smarrita. Per un attimo le sembrò di essere tornata al pomeriggio precedente alla luna piena di quasi trent’anni prima. Richiamò alla mente l’espressione atterrita di un Tyler diciassettenne, nel momento in cui avevano preso ad incamminarsi assieme verso la cripta. C’erano state altre lune piene, dopo quella prima, terribile nottata. Serate trascorse nell’ansia dell’attesa, nell’angoscia al pensiero di ciò che sarebbe accaduto quando l’amico avrebbe incominciato a trasformarsi; più per il terrore di doverlo sentire soffrire un’altra volta, che per la paura che qualcosa potesse andare storto. Eppure, nessun ricordo relativo alle altre notti era tanto nitido quanto il primo: in momenti come quelli, quei pensieri risalivano a galla con maggior limpidezza. Lo sguardo nervoso di Mason e i movimenti rigidi e fermi con i quali cercava di mostrarsi risoluto, non erano altro che segnalibri fra le pagine del passato di Caroline. La ragazza sospirò, sforzandosi di trovare qualcosa da dire per rincuorarlo o, quantomeno, distrarlo.

“Non avevo mai sentito parlare di Havenill.” decise di ammettere infine, intrecciando le dita e posandosele in grembo. “Si trova qui vicino?”

Mason si voltò brevemente verso di lei.
“Un paio d’ore…” spiegò, “…Forse meno. È il paese in cui è cresciuta mia madre; mio nonno e la maggior parte dei miei parenti vivono ancora lì. È un posto tranquillo …” aggiunse, piegando un ginocchio e appoggiandoci sopra il gomito. “…Ci vado spesso, quando ho bisogno di stare conto mio.”

Caroline annuì, continuando a mantenere un’espressione pensierosa. Il nervosismo inciso nello sguardo del ragazzo non accennava ad allentarsi. Gli sfiorò la spalla; lui non si ritrasse. Le sembrò già un notevole progresso rispetto all’irrigidimento dei giorni precedenti.

“Mi dispiace, Mase.” ammise infine, stringendogli con delicatezza il braccio. “Vorrei poter fare qualcosa per te.”

Il ragazzo inarcò appena un sopracciglio, prima di scuotere il capo.

“Devi dispiacerti anche per papà.” ribatté, controllando l’orologio: erano passate da poco le due del pomeriggio. Trasse un lungo respiro, sentendosi improvvisamente a corto d’aria; era da quella mattina che i suoi polmoni sembravano aver preso a funzionare in modo anomalo: non immagazzinavano abbastanza ossigeno e il fiato si era più fatto corto, come se stesse annaspando nel tentativo di recuperare più aria. Si sentiva soffocare e si era sorpreso più volte a tremare, nonostante si sentisse la pelle incandescente. La situazione peggiorava ogni volta che i pensieri del ragazzo sfioravano la luce pallida della luna piena.  “Anche lui sarà nelle mie stesse condizioni, questa sera.”

Caroline sospirò.

“In realtà, ancora una volta, non mi stavo riferendo alla luna piena.” commentò, intercettando la sua espressione confusa. Si abbracciò le gambe e appoggiò il mento sulle ginocchia. “É che alle volte, quando ti guardo, mi sembri… triste.” rivelò infine. Ogni parola pronunciata era stata appoggiata sull’aria con cautela, come se Caroline si stesse sforzando in tutti i modi di parlare con delicatezza. “E non sempre mi convinco che questo sia dovuto soltanto alla luna piena.”

Mason non le rispose; aggrottò appena le sopracciglia, prima di tornare a poggiare la nuca contro il tronco dell’albero, voltandosi dal lato opposto rispetto alla ragazza. Caroline immaginò che la sua osservazione si sarebbe estinta nel nulla, soffocata dal silenzio che stava incominciando ad assorbire le sue domande. Passarono un paio di minuti, prima che Mason si decidesse a fornirle qualche risposta.

“Ho litigato con Oliver.” Dichiarò il ragazzo, tornando a volgere lo sguardo di fronte a sé; prese a giocherellare con un rametto che aveva raccolto da terra: quel pomeriggio gli riusciva impossibile mantenersi fermo e immobile come al solito. Caroline tornò a studiare la sua espressione, decisa a individuare la falla nel groviglio di pensieri del giovane.

“Sono sicura che riuscirete a risolvere presto.” lo rassicurò in tono di voce risoluto. “Tu e Oliver sembrate piuttosto uniti; le cose andranno a posto, ne sono sicura.”

“Forse è proprio questo il problema.” ribatté in risposta il ragazzo, sorprendendola. Mason gettò il rametto per terra e si passò una mano sulla nuca, prima di proseguire.  “Forse non dovremmo risolvere affatto: non mi controllo, sono pericoloso per lui.”  specificò, tornando ad assumere un’espressione nervosa. “Potrei fargli davvero male… potrei farne a chiunque.” Concluse, non trovando il coraggio di ammettere che in fondo già ne aveva fatto. Aveva ucciso un uomo e nessuno, tranne lui, sembrava darci peso più di tanto. Aveva sbattuto il suo migliore amico contro un armadietto e non gli era stato torto un solo capello; nemmeno Xander l’aveva picchiato. Mason si era arrabbiato: si era arrabbiato, perché avrebbe potuto succedere di nuovo. Si era arrabbiato perché, forse, avrebbe preferito che Oliver ricambiasse il colpo, più e più volte, fino a farlo sanguinare, invece che permettergli di fuggire come sempre. Era stufo di farla franca. Ed era anche stufo di fare del male: non voleva che accadesse di nuovo. Né con Oliver, né con nessun altro.

“È questo che ti spaventa così tanto?” domandò a quel punto Caroline, ammorbidendo il tono di voce. Stava incominciando a scorgere i punti in ombra nella matassa di riflessioni ingarbugliate, ben custodite oltre i suoi silenzi. Sentiva comunque che ci fosse ancora tanto a sfuggirle: c’era qualcosa radicato ancora più a fondo rispetto alla paura del ragazzo di poter ferire il migliore amico. “Il pensiero di fare del male alle persone a cui vuoi bene?”

Ancora una volta Mase non rispose subito. Caroline cercò di non mettergli fretta, limitandosi a sfilacciare un paio di ciuffi d’erba.

“Ho paura per stasera.” ammise infine il giovane, evitando la sua domanda. Sbuffò, prima di posare una mano a terra per alzarsi in piedi. Sembrò tuttavia ripensarci quasi subito e tornò ad appoggiare la schiena alla corteccia dell’albero. Caroline non badò alla sua risposta elusiva: era riuscita a notare una punta di rassegnazione nello sguardo di Mase che le aveva infuso determinazione. Sentiva di essere vicina a ottenere qualcosa.

“Lo so.” mormorò. “Ed è più che normale averne, ma ti prometto che andrà tutto bene. Tuo padre ti sarà vicino fino alla fine.”

“Farà, farà male, vero?” domandò il ragazzo, sforzandosi di mantenere un tono di voce fermo, lo sguardo immerso nel vuoto. L’espressione di Caroline si addolcì ulteriormente. Incominciava a comprendere come mai Mase esitasse così tanto ogni volta prima di rispondere: occorreva del tempo per assicurarsi che le sue parole non vibrassero tremule, ripetendosi o spezzandosi in sillabe gemelle.

“All’inizio sì.” si sentì in dovere di ammettere, mordendosi il labbro . “Ma andrà meglio ad ogni trasformazione. Il processo si velocizzerà e diventerai più forte. Sarà sempre più facile gestirlo.”

Mason aggrottò le sopracciglia, riflettendo sulle sue parole.

“Potrò controllarmi, alla fine?” chiese ancora: lo sguardo attento che le rivolse le impresse addosso una strana sensazione. Le sembrò che quella fosse la domanda per cui più gli premesse ottenere risposta.

“Non del tutto.” rivelò, cercando di mantenere un tono di voce fermo. “Per questo tu e Tyler andrete nella cripta; lì starete al sicuro. Ti prometto che non farete del male a nessuno.”

Mason scosse il capo, inspirando con forza. C’era stato qualcosa, nella sua ultima frase, che sembrava averlo messo a disagio più degli altri argomenti affrontati quel pomeriggio. Più del timore di poter ferire qualcuno o del dolore che avrebbe comportato la trasformazione.

“Che cos’è che ti preoccupa così tanto?” insistette la ragazza. La sua mano tornò a posarsi sulla spalla di Mason e questa volta il ragazzo sembrò farci a malapena caso, rapito dal cruccio dei suoi pensieri. Sentiva di essere vicina a trovare uno spiraglio fra le sue barriere e voleva riuscire a sbirciarci attraverso. Le sarebbe piaciuto trafiggere quella spaccatura con il braccio e sporgersi, valicando i silenzi che le sbarravano la strada. Avrebbe volentieri rinunciato a quel tocco appena abbozzato sulla spalla del ragazzo, pur di raggiungerlo, sciogliendo quel garbuglio di pensieri faticosi che lo divoravano dall’interno.

.

And I'd give up forever to touch you
'Cause I know that you feel me somehow
You're the closest to heaven that I'll ever be
And I don't want to go home right now

Iris. Goo Goo Dolls

 

Mason inspirò con forza ancora una volta, tornando a stringersi le ginocchia al petto. La preoccupazione di Caroline era reale, e si sorprese nel percepirlo, così come aveva riconosciuto un fondo di verità nelle sue rassicurazioni, quando l’aveva portato per la prima volta alla riserva. La vampira lo osservò curvare le spalle e chinare leggermente il capo: sembrava volesse proteggersi; ripararsi da quel genere di premure che non era abituato ad accogliere senza difendersi.

“È questo.” mormorò infine, con espressione d’un tratto innervosita. Caroline gli rivolse un’occhiata confusa.

“Questo?”

“È questo a spaventarmi più di tutto. Il non potermi controllare.” specificò il ragazzo. “Non mi piace.”

Caroline ascoltò con attenzione le sue parole, ignorando il nugolo di interrogativi che avevano preso forma nella sua testa. Sentiva che, se avesse posto la domanda sbagliata, Mason avrebbe potuto decidere di lasciar perdere, evitando di proseguire.

 “Per anni non sono stato in grado di controllare il mio modo di esprimermi.” riprese il ragazzo, eludendo lo sguardo della vampira. “Ascoltarsi balbettare senza poter fare nulla fa davvero schifo. Un conto è non saper controllare le proprie emozioni… ma non riuscire a parlare è da stupidi.” ammise,  arrossendo. “A stento riesco a gestire quello che dico: non voglio perdere anche il controllo su quello che faccio.”

Caroline continuò a mantenere il silenzio. Alcuni tasselli del puzzle che la sua mente aveva incominciato ad assemblare da qualche tempo, sembrarono trovare finalmente una loro collocazione. Pensò all’atteggiamento distaccato del ragazzo; alla sua maniera di irrigidirsi quando qualcosa di inaspettato lo sorprendeva. Prendere le distanze da ciò che non sapeva gestire lo aiutava a sentirsi più sicuro.


“Nulla di tutto ciò è da stupidi.” cercò di rincuorarlo, tornando ad appoggiarsi le mani sulle ginocchia. “Supererai anche questa, Mase. Sei più in gamba di quanto tu creda.”

Mason diede una scrollata di spalle. Sollevò il braccio per controllare il display del suo orologio e infine si alzò, indirizzando al terreno un’espressione risentita. Sembrava arrabbiato.

 “Devo tornare alla fermata dell’autobus.” comunicò, sfilandosi il cappuccio e prendendo a ravviarsi i capelli spettinati.

“Oh, non ce n’è bisogno!” costatò Caroline, alzandosi a sua volta; prese a frugare nella sua borsa, alla ricerca delle chiavi dalla macchina. “Sono venuta fin qui in auto.”

I due ragazzi presero ad incamminarsi in direzione del parcheggio. Il silenzio si arrampicò tra di loro, simile a quello che  aveva caratterizzato quell’identico tragitto, meno di una settimana prima.

“Grazie.”  esordì infine Caroline, abbozzando un sorriso riconoscente.
Mase aggrottò lievemente le sopracciglia, esibendo un’espressione confusa.

“Per cosa mi ringrazi?”

“Per quello che mi hai confidato; per esserti fidato di me.” chiarì la ragazza, fermandosi, quando raggiunsero la macchina. “È strano che tu ti sia convinto a parlarmene.”

Mase diede una scrollata di spalle.

“Me l’hai chiesto tu.” si giustificò. I suoi occhi saettarono  in direzione del pullmino, fermo alla fermata a una decina di metri da loro. “E poi mi andava di farlo; non ho idea di cosa succederà sta sera: tanto valeva liberarsi di qualche peso.”

“Andrà tutto bene, Mase.” dichiarò ancora una volta la ragazza, sbloccando l’auto. “Tuo padre si assicurerà che non ti accada nulla di male; e ci sarò anch’io con voi.”

Un rumore sordo li colse di sorpresa. L’autista aveva appena preso posto sul sedile del conducente,  e stava azionando il motore del pullmino.

“Credo che prenderò l’autobus.” dichiarò all’improvviso il ragazzo. Caroline lo osservò incamminarsi verso la fermata, spiazzata da quella decisione repentina.

“Ne sei sicuro?” lo interrogò.

Per un attimo il ragazzo esitò, come se stesse valutando in silenzio cosa fare. Infine, annuì.

Caroline si mordicchiò il labbro, visibilmente fra due fuochi. Se inizialmente, alla riserva, scovarlo fra quegli alberi l’aveva fatta sentire sollevata, in quel momento si sentì quasi rattristata: qual era il trucco, con quel ragazzo? Aveva davvero bisogno di tutta quella distanza fra sé stesso gli altri, o ci voleva solo qualcuno che lo forzasse a restare, che lo trattenesse per il polso, impedendogli di nascondersi ogni volta? Non sapeva come comportarsi, non conosceva i suoi tempi; forse, i ritmi giusti, non li conosceva nessuno, e alla fine lasciavano perdere tutti.

“Va bene.” si arrese infine, pur non riuscendo a dissimulare un’espressione contrariata.
 Mason sembrò non farci caso.

“Ci vediamo.” mormorò debolmente, prima di incamminarsi a passo svelto verso l’autobus.

Caroline si limitò ad annuire; lo osservò salire e sistemarsi su uno dei sedili nelle prime file, mentre volgeva lo sguardo contro il finestrino. Aveva un’espressione stanca, rassegnata. Era tornato a nascondersi in quei silenzi attraverso i quali nessuno riusciva a scovarlo.

Ancora una volta, nel momento in cui sentiva di averlo finalmente raggiunto, Caroline gli aveva permesso di fuggire.

 

And I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd understand
When everything's meant to be broken 
I just want you to know who I am

Iris. Goo Goo Dolls

***

Harper Fell si affrettò a percorrere le scale di casa sua, facendo oscillare la busta che teneva appoggiata sul braccio; era ansiosa di rimirare l’abito verde che aveva appena comprato, scelto assieme a sua zia Meredith. Si accorse di non essere sola non appena mise piede in camera; suo fratello, appollaiato al mergine del letto, la accolse con un sorriso.
“Ehi!” lo salutò allegramente la ragazza, scompigliandogli i capelli: Gabriel Leo Fell aveva compiuto da poco quattordici anni, ma lo sguardo ingenuo e i modi di fare infantili, lo rendevano ai suoi occhi poco più che un bambino. In quel momento sedeva a gambe incrociate sulla trapunta, il gomito appoggiato al davanzale alla finestra. I suoi occhi chiari, completamente assorbiti dalle tonalità grigiastre del cielo, erano gli stessi della madre, Arleen; taglio identico, e medesimo modo di sgranarsi, nell’abbracciare con curiosità ogni cosa che catturava la loro attenzione. Per Harper, nulla al mondo era più importante di suo fratello; Leo era la sua casa: il porto sicuro che entrambi avevano rischiato di perdere in seguito alla morte della madre.

Quel ragazzino dai capelli arruffati e lo sguardo perennemente rivolto fuori dalla finestra era anche il motivo per cui Harper aveva accettato di concorrere alla cerimonia di Mystic Falls.

“Dovresti partecipare.” aveva suggerito Leo un mattino, fissando impensierito il volantino del bando nella bacheca della scuola. “A mamma avrebbe fatto piacere.”

La ragazza aveva accettato di buon grado; l’aveva fatto per Leo. L’aveva fatto per sua madre.

Harper non era mai stata interessata a quel genere di iniziative; non amava i concorsi, né avere i riflettori puntati contro, per di più sfoggiando abiti eleganti e costosi. I suoi interessi erano di nicchia, piuttosto inconsueti per le ragazze della sua età; aveva incominciato a tirare di scherma quando aveva sette anni, a meno di un anno dalla perdita della madre. Dopo la morte di Arleen Fell suo marito Marion, il padre di Harper e Leo, era diventato quasi un fantasma nella vita dei suoi due figli. Se ne interessava raramente, abbandonandoli alle attenzioni  della sorella Meredith, ma aveva dato origine a un modo tutto suo per prendersene cura: aveva smesso di dar loro il bacio della buonanotte, ma li indirizzava di continuo verso qualsiasi disciplina permettesse di imparare a difendersi: semi-contact, arti marziali, corsi di difesa personale. Li voleva preparati ad ogni occasione, quasi temesse che mostri sanguinari tramassero alle loro spalle, in agguato dietro ogni angolo. Quasi come se pensasse che, un giorno, Harper e Leo avrebbero potuto fare la fine della loro madre: ma Arleen non era morta per l’attacco improvviso di un mostro. Arleen si era semplicemente dimenticata di guardare a destra e a sinistra, prima di attraversare la strada. 

Se fosse stata ancora con loro, in quel piovoso pomeriggio di Novembre, probabilmente avrebbe sorriso, nel rimirare assieme alla figlia l’abito verde spiegato sul braccio dell’adolescente. Perciò, anche Harper sorrise; scacciò via i pensieri malinconici e si portò il vestito sulle ginocchia, prendendo posto accanto al fratello minore.

“Penso che pioverà presto.” osservò Leo, continuando a guardare fuori dalla finestra; al contrario di Harper, che era testarda e combattiva, suo fratello era dotato di quella tranquillità d’animo tipica di chi vive il mondo dall’interno. Fin da piccolo era sempre stato etichettato come quello un po’ strambo fra suoi compagni di classe, per via di quei suoi occhi perennemente sgranati, impegnati a stupirsi di continuo per il più insignificante dei dettagli. “Papà si è di nuovo dimenticato di comprarmi i panini: dopo domani ho gli scout.” aggiunse, voltandosi in direzione della sorella. La ragazza sorrise.

“Ci penso io; sto uscendo per andare a scherma.” lo tranquillizzò. Abbozzò una carezza sul suo capo,  e recuperò la sua sacca con l’attrezzatura, prima di abbandonare nuovamente la stanza. Scendendo le scale, si accorse che qualcuno stava discutendo in cucina: le voci di suo padre e suo zia erano entrambe alterate, come capitava di frequente in casa loro: specialmente nel corso dell’ultimo periodo.

“Allora è questo il motivo?” stava esclamando Meredith, probabilmente rivolta al fratello. “Queste manovre…Lo spostamento di Miss Mystic Falls, il tutto per delle assurde indagini sulla famiglia Lockwood?”

“Nulla di tutto ciò è assurdo, Meredith.” ribatté secco lo sceriffo Fell. “I Lockwood sono una famiglia di mostri e ho finalmente trovato il modo di dimostrarlo.”

“Tutto questo accanimento verso quelle persone non ti porterà a nulla!” 

Harper scese le scale, cercando di non fare troppo rumore. Giunta in corridoio si appoggiò alla parete della cucina, cercando di captare qualche stralcio di conversazione. Sua zia aveva ripreso a discutere in tono di voce più basso, forse ricordandosi solo in quel momento che lei e Leo fossero in casa.

“Prendertela con i Lockwood non ti condurrà a nulla: non ti porterà indietro Arleen, Marion!”

Seguì un momento di silenzio che suscitò la preoccupazione di Harper; rimase in silenzio, le sopracciglia appena aggrottate, cercando di scoprire se la conversazione sarebbe andata avanti.

 “Se per stare dietro a questa tua stupida ossessione ci andranno di mezzo i ragazzi, dovrai vedertela con me.” dichiarò infine la donna, prima di incamminarsi a passo svelto verso la porta della cucina: uno scatto secco comunicò ad Harper che la zia se ne era andata. In seguito a un secondo scatto, appena un minuto dopo, intuì che il padre aveva fatto altrettanto. L’adolescente sospirò; rimuginò per qualche minuto sugli insoliti scambi di battute avvenuti tra i due, prima di decidersi a raggiungere la porta d’ingresso. Non era la prima volta che li sentiva discutere per qualcosa di bizzarro. Spesso, Harper, aveva individuato fra i discorsi del padre frasi che l’avevano costretta ad inarcare il sopracciglio; ogni tanto parlava di leggende: ogni tanto parlava di mostri. Di norma non ci dava peso più di tanto. Erano appunto leggende, vecchie superstizioni di un uomo abituato ad avere a che fare con il dolore e con la morte, in un connubio di episodi legati alla sua professione e alla sua vita personale. Ma era la prima volta che Harper l’aveva sentito associare quei discorsi a qualcuno in concreto: conosceva i Lockwood. La figlia di mezzo, Caroline, frequentava un paio di corsi assieme a lei. E il più piccolo doveva avere pressappoco l’età di Leo. Si domandò cosa avessero potuto fare, quelle persone, per attirare così l’ira del padre. Decise comunque di mettere da parte quei pensieri. Recuperò la sua borsa dall’attaccapanni ed uscì, spingendo le assurde conversazioni fra suo padre e sua zia in un angolo appartato della sua mente.  Prima di raggiungere l’auto, rivolse un’occhiata impensierita al cielo: la luna, pallida e paffuta, stava incominciando a fare capolino fra le nuvole: nonostante il suo corpo tozzo fosse quasi completamente oscurato, riuscì comunque a intuire che quella sarebbe stata una notte di luna piena. Realizzò anche che Leo aveva avuto ragione: sicuramente, si sarebbe messo a piovere.

***

Hey, Tyler…How do you feel?”
“…I’m still human.”

Episode 2x11. By The Light of The Moon


Quando Mason tornò a Mystic Falls, di pomeriggio ormai inoltrato, la prima cosa che gli venne in mente fu quella di andare a cercare Silver. Non sapeva bene come mai avvertisse il bisogno di stare a contatto con l’animale, ma una volta tanto non si porse interrogativi. Attraversò il cortile a passo svelto, guardandosi attorno con le sopracciglia aggrottate; Silver gli venne incontro non appena mise piede sui gradini d’ingresso. Il cane gli colpì affettuosamente un ginocchio con il muso, per poi accoccolarsi contro le sue ginocchia. Accorgendosi del ritorno del figlio, Lydia prese ad osservarlo dalla veranda, un abbozzo di sorriso malinconico a piegarle le labbra. Quando Mason la notò si limitò a chinare il capo, concentrandosi sul manto scuro di Silver. “Mi piacerebbe poterla portare con me.” ammise infine alla donna prima di voltarsi verso il giardino, nel riconoscere la  jeep del padre fare ingresso; Tyler parcheggiò e scese dall’auto, per raggiungere lui e Silver. Lo fece con passi talmente lenti, che a Mase dette l’impressione di voler rallentare il più possibile  il momento della partenza. Tyler non disse nulla: non lo sgridò per l’essere fuggito, né lo rincuorò in qualche modo. Si limitò a fissare la moglie con intensità, per poi rivolgere al figlio un cenno del capo,  suggerendogli che fosse giunto il momento di andare; Mason annuì. Accarezzò le orecchie di Silver ancora una volta, come in cerca di conforto,  e salì i gradini di ingresso per raggiungere la madre; Lydia lo abbracciò, tenendolo stretto a sé per qualche secondo. C’era qualcosa di quell’abbraccio così tiepido, così impregnato di amore materno, che gli fece quasi venir voglia di piangere. Avrebbe voluto rannicchiarcisi dentro, come se fosse il migliore dei suoi nascondigli. Un po’ come quando era bambino e la notte gli si stringeva attorno, serrandogli gli occhi con mani guantate di paura; in quei momenti solo l’abbraccio di sua madre riusciva a scacciare via ogni mostro. A respingere ogni lupo, ricordando a Mason quanto fosse protetto, amato e al sicuro.

“Ti aspetto qui.” lo rassicurò con dolcezza la donna, accarezzandogli un’ultima volta il viso. Mason annuì, sforzando di imprimere in quel cenno del capo almeno metà della sicurezza che aveva cercato di infondergli la madre. Scese le scale e raggiunse la jeep del padre.

“Ho già portato le catene alla cripta.” gli comunicò Tyler, stringendogli appena una spalla. Indirizzò un’ultima occhiata in direzione della moglie, prima di prendere a incamminarsi per il bosco assieme a Mason.

Cinque minuti più tardi, incominciò a piovere. Dapprima furono solo gocce sottili; lo scroscio, tuttavia, aumentò di intensità fino a trasformarsi in una pioggia copiosa, poco prima che arrivassero alla cripta. Padre e figlio si affrettarono a  scendere le scale, rallentando l’andatura solo una volta essersi chiusi la porta dei sotterranei alle spalle. Mason si strinse nelle braccia, rabbrividendo del rivolo d’acqua che si era insinuato nel colletto della sua felpa. Si diede un’occhiata attorno, sgranando appena gli occhi, nel notare l’ammasso di catene accantonate in due mucchi in uno degli angoli più in ombra. Il padre si diresse verso uno dei cumuli e incominciò a scioglierlo, fissando le estremità delle catene alle pareti della cripta. Ne testò la resistenza, tirando con forza, prima di decidersi a voltarsi verso il figlio, che stava osservando tutte quelle operazioni con sguardo teso.

“Vieni; dammi una mano con queste.” ordinò l’uomo, spostandosi verso il secondo gruppo di catene. Il giovane obbedì, sollevandosi da terra. Un po’ intimidito, si inginocchiò di fianco al padre e prese ad imitare ciò che faceva lui. Avvertiva il suo atterrimento aumentare ogni volta che il freddo dell’acciaio premeva sulle sue mani; gli sarebbe piaciuto catalogare tutto quello come un incubo: svegliarsi di colpo ed etichettare come ridicolo il pensiero di aver creduto anche solo per un secondo a una faccenda simile. Tuttavia, quelle catene, l’umidità della cripta e il freddo pungente che gli penetrava le ossa, erano i segnali vividi di una realtà che aveva cercato di ignorare per giorni, e che gli sarebbe piombata addosso quella sera.

Continuò ad aiutare il padre, sforzandosi di non incrociare il suo sguardo, per nascondergli il nervosismo; di tanto in tanto, aveva preso a scoccare occhiate inquiete all’ingresso della cripta.

“Aspetti qualcuno?” domandò ad un certo punto Tyler, accorgendosene: Mason si affrettò a scuotere il capo. 
“Non hai parlato di questa cosa con nessuno, vero?”  lo interrogò ancora l’uomo; il figlio esitò.


“Ne ho parlato solo con Ricki. E … C-Caroline Forbes.” rispose nervosamente, temendo di aver commesso qualcosa di sbagliato. Il padre continuò a scrutarlo con attenzione per un po’, ma la sua espressione sembrò rilassarsi.

“Ricordati una cosa…” riprese, lasciando perdere le catene e voltandosi verso il ragazzo.“Nel momento stesso in cui ti accorgerai di non avere più controllo sul tuo corpo, smetterai di essere Mason Lockwood;  diventerai un lupo.”

Il figlio ascoltò in silenzio, aggrottando appena le sopracciglia.

 “Quando capiterà, dovesse mai succederti di avere qualcuno al tuo fianco che non sia io, mandalo via. Che sia tua madre, i tuoi fratelli o Caroline Forbes, non importa: potresti ucciderli. Potresti uccidere chiunque.” rafforzò il concetto Tyler. “Hai capito?”

“Sì.”

Mason annuì, distogliendo lo sguardo da quello insistente del padre. Incominciò ad avvertire la tensione avviluppargli i polmoni, riesumando la sensazione di assenza d’aria che aveva avvertito l’intero pomeriggio.

In quel momento avvertì dei passi fuori dalla cripta: qualcuno stava scendendo le scale per raggiungerli.

“Stai indietro…” ordinò Tyler al figlio alzandosi in piedi, prima di riconoscere la ragazza che aveva appena fatto ingresso nel sotterraneo. “Che cosa ci fai tu qui?” domandò, quando Caroline Forbes si avvicinò a loro, tirando fuori un pacchetto di carta dalla borsetta.

 “È un lupo mannaro anche lei.” mormorò Mason, suscitando l’espressione interdetta del padre. Caroline si lasciò sfuggire un risolino.

“Ti ho già detto di no; sei proprio fissato con questa storia!” lo rimbeccò con un sorriso, prima di porgere a Tyler il pacchetto di carta. “Vi ho portato lo strozzalupo.” comunicò infine. L’uomo srotolò l’involucro, adagiandolo poi a terra; conteneva un mazzetto di erbe dall’aspetto insolito, che Mason non riuscì a riconoscere. Le esaminò con fare diffidente, mentre il padre ne diluiva un paio in due bottigliette d’acqua, facendo bene attenzione a  non toccarle direttamente.

“A cosa servono quelle?” domandò poi il ragazzo, rivolgendosi a Caroline. La vampira prese posto accanto a lui.

“Diminuiranno la tua forza, in maniera che tu non possa liberarti dalle catene.” spiegò, analizzando il suo volto con attenzione; l’irrequietezza segnata fra i suoi occhi lo tradivano, ma sembrava leggermente più tranquillo rispetto a quando si erano incontrati alla riserva, quel pomeriggio: immaginò che stesse facendo del suo meglio per non mostrarsi troppo teso di fronte al padre.

Tyler scoccò una breve occhiata al suo orologio e poi a Caroline, prima di alzarsi in piedi.

“Dovresti andare, ora.”  dichiarò infine, guardando negli occhi la ragazza. “Grazie per essere passata.” Caroline non si mosse.

“Pensavo di restare fino alla fine della trasformazione.” ammise invece, ricambiando decisa il suo sguardo. Tyler scosse il capo con decisione.

“È fuori discussione.” ribatté. “Hai già rischiato fin troppo in passato.”

Mason aggrottò le sopracciglia.

“In passato?” ripeté, rivolgendo un’occhiata confusa al padre: Tyler lo ignorò.

“Voglio stare vicina a Mase; e a te.” insistette la ragazza, continuando a sostenere lo sguardo dell'uomo. Tyler sbuffò, mettendosi a braccia conserte. Indirizzò un’occhiata pensierosa al figlio e, infine, tornò a voltarsi verso di Caroline.


“Va bene…” acconsentì, “…ma te ne andrai non appena incomincerà la trasformazione.”


La ragazza annuì. Tyler raccolse le due bottigliette di strozzalupo e ne consegnò una al figlio, appoggiando la seconda vicino ai due cumuli di catene. Mason si rigirò la bottiglia fra le mani, domandandosi che cosa sarebbe successo, una volta bevuto un sorso di quell’acqua. A giudicare dal nome dell’erba che il padre ci aveva inserito, ingurgitarla non sarebbe stato affatto piacevole.

Nel frattempo, Tyler si era sfilato la maglietta e i jeans, rimanendo in pantaloncini. Con un cenno del capo ordinò al figlio di fare altrettanto,  invitandolo a raggiungere le catene. “Sei pronto?” domandò infine, rivolto al ragazzo. Mason annuì a stento,  consapevole del fatto che pronto, in fondo, non lo sarebbe mai stato. Si spogliò controvoglia, imbarazzato dalla presenza di Caroline alle loro spalle, e si fece aiutare dal padre con le catene. Il nervosismo nel suo sguardo incominciò ad intensificarsi, man mano che il suo corpo veniva ancorato a quei fissaggi; avvertiva il freddo del metallo dappertutto. Non era legato solo ai polsi e alle caviglie, ma anche alle gambe, attorno alla pancia e al collo; lui che era così abituato a fuggire, improvvisamente si sentì in trappola.

“Andrà tutto bene.”  dichiarò improvvisamente Caroline, notando la sua espressione tesa. Mason arrossì, nell’accorgersi che la ragazza li aveva raggiunti. Annuì brevemente, per poi provare a sedersi a terra di fianco al padre, faticando a disincastrare le catene nel compiere l’operazione; Caroline si chinò per aiutarlo, ma si voltò di scatto, avvertendo un rumore di passi avvicinarsi.

“Sta arrivando qualcuno.” mormorò, portandosi istintivamente di fronte all’adolescente. Tyler si alzò in piedi in fretta, tenendo d’occhio l’ingresso della cripta con espressione guardinga; i passi incominciarono a farsi più vicini, provenendo dalle scale.

 “È quel rimbambito di mio figlio.” dichiarò infine Tyler, sbuffando sonoramente; aveva riconosciuto  l’odore del suo primogenito ancor prima che Ricki mettesse piede nella cripta. Il nervosismo sul suo volto si tramutò in collera, nel momento in cui il ragazzo fece comparsa sulla porta.

“Mi sono perso qualcosa?”  domandò allegramente Ricki, avvicinandosi al gruppetto.

“Fuori di qui.” Ordinò subito Tyler, strattonando le catene per liberarsi. “Subito.”
“Papà, aspetta…” cercò di guadagnare tempo Ricki. Si accovacciò di fronte al fratello e il suo sorriso sfumò; fece una smorfia, analizzando con fastidio il modo in cui era stato imbracato.

“Vedo che ti hanno impacchettato per bene, eh?” commentò, stringendogli affettuosamente una spalla. “Cacchio, devi averla davvero combinata grossa, se per punizione ti hanno imbacuccato così!”
Mason non rise, ma la sua espressione si era fatta visibilmente più distesa, da quando era arrivato suo fratello. Tyler imprecò a bassa voce, facendo poi cenno a Caroline di aiutarlo con le catene.

“Lascia stare: è quasi ora." gli suggerì la ragazza, scoccando un’occhiata apprensiva al display del suo cellulare.

“Richard, se non muovi all’istante quel culo che tanto adori, giuro che te lo disintegro a suon di calci.”
“Sì, ancora un minuto, papà…”

Il figlio approfittò del fatto che Tyler fosse ancora impegnato con le catene per prendere posto accanto al fratello.

“Stai bene?” domandò infine, abbandonando il tono di voce scherzoso. Il minore dei due annuì, stringendosi le ginocchia al petto.

“Grazie per essere qui.” mormorò poco dopo, distogliendo lo sguardo dal maggiore. Ricki sorrise. 

“Figurati, fighetto…” rispose, arruffandogli scherzosamente i capelli. “...Uhhh, carini quei pantaloncini!” osservò poi, punzecchiandogli il fianco con il gomito. “Ti fanno il pacco più grande…”

 “Fottiti…” imprecò a denti stretti Mason, arrossendo violentemente. Spintonò il fratello maggiore, che incominciò a ridere, ricambiando il colpo. Anche Caroline esordì in una risatina, voltandosi poi verso Tyler, che era finalmente riuscito a liberarsi delle catene.

 “Ma perché te la prendi così? Guarda che ti fanno fare bella figura: chiedi a Caroline!….”
“Taci!”

“Ricki, muoviti.” ribadì ancora una volta il padre, affrettandosi a recuperare i jeans. L’espressione di Mason, tornò improvvisamente a farsi tesa.

 “P-Pe-Perché ti stai rivestendo?” osservò, mentre Ricki si sollevava da terra con riluttanza. Tyler gli rivolse un’occhiata titubante, prima di indossare anche la maglietta.

“Accompagno tuo fratello a casa.” rispose infine, scoccando l’ennesima occhiata nervosa all’uscita della cripta.  “Voglio assicurarmi che ci torni sul serio e che non mi prenda per il culo.”

“Lo accompagno io.” si offrì istintivamente Caroline, notando l’espressione preoccupata di Mase. “È troppo tardi; non ti conviene uscire dalla cripta.”

L’uomo spazzò via la proposta con un cenno deciso del capo.


“Conosco mio figlio e non mi sentirò tranquillo fino a quando non l’avrò visto rientrare in casa di persona.”  rispose, in tono di voce secco. Ricki prese a guardare altrove, consapevole di aver scatenato l’ira del padre. L’uomo sbuffò, tornando a rivolgersi a Caroline. “Resta qui con Mase, per favore.”  la pregò, voltandosi poi verso il figlio più piccolo. “Devi prendere lo strozzalupo.” si raccomandò, guardandolo brevemente negli occhi, prima di appoggiargli una mano sulla spalla. “Torno subito: non ti muovere da qui.”  ordinò infine, facendo cenno a Ricki di seguirlo. Il ragazzo strinse un’ultima volta la spalla del fratello minore e si incamminò assieme al padre verso l’uscita.

Mason inseguì l’echeggiare dei loro passi fino a quando non poté più udire nulla al di fuori del fragore prodotto dalle catene, ogni volta che si muoveva. Caroline gli rivolse un’occhiata dubbiosa, prima di raccogliere la bottiglia con lo strozzalupo diluito. Si sedette accanto a lui: riusciva ad avvertire distintamente i battiti accelerati del cuore del ragazzo, che protestavano per l’assenza di Tyler. Si sentì agitata a sua volta, quasi si trovasse anche lei a dover gestire quella situazione per la prima volta. Tyler le aveva affidato suo figlio e quella responsabilità le premeva con prepotenza sul petto, ogni volta che scorgeva un segno di inquietudine da parte di Mase; ogni volta che il suo respiro si faceva più affannoso, o che il suo sguardo tornava a saettare con nervosismo verso la porta ancora chiusa della cripta.

“Tornerà presto.” cercò di rassicurarlo, svitando il tappo della bottiglietta;  le bastò un’unica occhiata diffidente del giovane, per decidersi a richiuderla.  “Possiamo aspettare tuo padre, se preferisci.”   propose, appoggiandola a terra.  Il ragazzo scosse il capo con decisione.
“No, la prendo ora.”  mormorò, tendendo la mano, per farsi passare la bottiglia. Inspirò con forza, prima di portarsela alle labbra, dopo aver svitato nuovamente il tappo. Non riusciva a spiegarsi come mai quella situazione potesse arrecargli così tanta inquietudine. Era solo acqua, in fondo: probabilmente non sarebbe successo nulla di poi così traumatico. Si affrettò a deglutire il primo sorso, deciso a liberarsene il prima possibile, ma lasciò andare quasi subito la bottiglietta. Caroline la recuperò al volo, evitando che il contenuto gli si riversasse sulle gambe. Mason si chinò rapidamente in avanti, rantolando in maniera convulsa. Serrò una mano a pugno e aggrappò l’altra al proprio collo, come a voler imporre al dolore di allentare la presa sul suo corpo.

 “Mase…” Caroline prese a mordersi preoccupata il labbro. Cercò di calmare il ragazzo, appoggiandogli una mano sulla schiena. Mason prese a picchiare il pugno contro il terreno, incapace di focalizzarsi su nulla che non fosse quel dolore soffocante alla gola. 

“Basta!” ringhiò fra i lamenti, quando  la morsa pungente incominciò ad affievolirsi. Lentamente, riuscì a riacquistare il controllo dei suoi respiri.

“È passato.” mormorò la ragazza, allontanando la bottiglietta in un angolo. “Niente più strozzalupo.” 

Mason tornò ad appoggiare la schiena alla parete, stringendosi ulteriormente le ginocchia al petto. Il dolore si era affievolito, ma non riusciva ugualmente a controllare la sua gola e i polmoni; sentiva di riuscire a respirare a stento. Sapeva perfettamente che la causa di quel che gli stava accadendo non andava attribuita allo strozzalupo: la colpa era del panico, che aveva incominciato a diramarglisi sottopelle.

“Qu-Qu-Quando  i-incomincerò a trasformarmi?” farfugliò, voltandosi dal lato opposto rispetto a Caroline, per evitare di incrociare il suo sguardo.  Maledisse in silenzio quella voce tremolante. Ogni sillaba di troppo ricalcava il dolore di quel liquido bruciante nel petto; aveva sempre saputo che sarebbe successo: sapeva bene che alla fine la tensione avrebbe preso il sopravvento.

Caroline sospirò, facendogli una carezza sul capo.

“Non lo so.” si trovò costretta ad ammettere infine, sperando che il ragazzo non si ritraesse. “La prima trasformazione può cominciare parecchio tempo prima che la luna raggiunga il suo apice.”

 “Perché non torna?” sbottò improvvisamente il ragazzo, senza più riuscire a trattenersi. Non gli andava  giù il fatto che suo padre non fosse ancora tornato;  la sua assenza era la cosa che lo metteva in agitazione più di tutto. Lo voleva lì: ne aveva bisogno. Tyler avrebbe saputo cosa fare. Gli avrebbe spiegato come comportarsi, avrebbe affrontato la trasformazione assieme a lui.

“Arriverà, stai tranquillo.” Provò a rassicurarlo Caroline, sforzandosi di apparire convincente. Era quello che si augurava, ma non ne aveva certezza assoluta. Le trasformazioni non avvenivano tutte allo stesso modo; i lupi mannari adulti subivano la mutazione prima e più in fretta, rispetto a quelli più giovani. Si trovò a sperare con tutta se stessa che Tyler sarebbe riuscito ad arrivare in tempo per dare una mano al figlio.

“E se non dovesse tornare?”

Questa volta fu lei ad avere l’impressione che Mase fosse riuscito ad individuare la preoccupazione nel suo sguardo; Caroline scosse il capo con fermezza, voltandosi verso di lui. La sua mano cercò quella del ragazzo e la strinse, ignorando l’espressione sorpresa del giovane.

“Tornerà.” confermò ancora, questa volta con espressione determinata. “Ma se così non dovesse essere, allora ti aiuterò io. Sono qui per te, Mase.” gli ricordò, cercando di congiungere il proprio sguardo a quello del ragazzo. “So che cosa va fatto.  Non sei solo: non sarai mai solo finché ci sarò io.”
Mason annuì brevemente, tornando a inspirare con forza.  La mano di Caroline era ancora avvolta attorno alla sua, ma non premeva con insistenza, né lo faceva sentire come se lo stesse trattenendo. Spesso, i contatti prolungati come quello, lo facevano sentire a disagio. Gli capitava di non saper riconoscere il momento giusto per ritrarsi, e si limitava a ricambiare debolmente la stretta in maniera quasi meccanica, per poi allentare la presa sempre troppo presto; in quell’occasione, tuttavia, non si ritrasse. Si oppose al disagio iniziale, lasciandosi rassicurare dal tocco tiepido delle dita di Caroline intrecciate alle sue. Quella stretta di mano era l’unica cosa, all’interno della cripta, che lo aiutava a ricordarsi di essere ancora umano. Poco importava se il modo in cui era stato incatenato alla parete suggerisse al contrario: non era un lupo; non ancora, per lo meno. Era solo un ragazzo. Era solo Mase.

“Mi spiace per prima.” mormorò ad un certo punto,  ricambiando lo sguardo della ragazza. “Alla riserva, dico.”

Caroline impiegò qualche secondo, per realizzare a cosa Mason si stesse riferendo.

Sembravano passati giorni, da quella mezzora trascorsa alla riserva assieme a lui; il viaggio in macchina del ritorno e l’incombenza della luna piena sembravano aver assorbito l’intero pomeriggio, offuscando il resto. 

“Non è niente.”  rispose, minimizzando le sue preoccupazioni con un cenno del capo. “Volevi stare un po’ solo; lo capisco.”

“Ma ti ha dato fastidio.” osservò il ragazzo in tono di voce asciutto. Caroline gli rivolse un’occhiata sorpresa.
“Ma no, perché dici così?”

Mase diede una scrollata di spalle, esibendo poi una smorfia di dolore mentre scostava la nuca dal muro: quella posizione stava incominciando a indolenzirlo.
“Hai fatto una faccia…”  rispose con fare quasi distratto, cercando di sistemarsi meglio contro la pietra.
“Quale faccia?” insistette la ragazza, decisa a saperne di più . Il ragazzo si limitò a scuotere il capo, distogliendo la sua attenzione da lei. Sembrava essersi tranquillizzato, ma nel momento in cui prese a osservarsi i polsi fasciati dalle catene,  il suo sguardo tornò a oscurarsi.
“Mase!” lo richiamò ancora Caroline, lievemente indispettita;  si era accorta che, ogni tanto, Mason sembrava perdere improvvisamente interesse nel suoi interlocutori, estraniandosi completamente dal mondo esterno. Con quegli atteggiamenti la spingeva a riesumare la Caroline adolescente di una volta; quella frenetica e tutt’altro che paziente, per nulla disposta ad attendere che il ragazzo si degnasse con calma di rispondere. “Mi spieghi che faccia avrei fatto?”

Mason lasciò perdere le catene e tornò a voltarsi verso Caroline; il nervosismo nel suo sguardo parve attenuarsi. Infine le sue labbra si rilassarono, increspandosi lievemente agli angoli: Mase le stava sorridendo. Fu un qualcosa che la sorprese, spiazzandola piacevolmente. Il suo momento di broncio sembrò cadere in secondo piano, rispetto a quella piccola conquista; nemmeno Ricki era riuscito a compiere un’impresa simile, quel pomeriggio.

“Che ne so, una faccia offesa .” commentò il ragazzo, continuando a esibire quel lieve ghigno divertito. Si allungò a  recuperare il cellulare che aveva accantonato in un angolo assieme ai vestiti. I suoi occhi inquieti indugiarono sull’ora segnalata nella parte alta del display.

“È quasi sera.” mormorò, voltandosi in direzione di Caroline. La ragazza annuì, riprendendo a mordicchiarsi il labbro inferiore. Il suo stato d’animo stava mutando  ancora una volta; dall’indispettito, al rassicurato dopo aver individuato quel debole sorriso sul suo volto, stava tornando a farsi preoccupato. Accarezzò con tenerezza il capo del ragazzo. Mason tornò a spostare la sua attenzione verso di lei, ma non disse nulla. Se avesse avuto la certezza che l’avrebbe lasciata fare, Caroline lo avrebbe avvolto volentieri in un abbraccio; l’avrebbe tenuto al caldo, fino a quando la luna non l’avrebbe costretto a soffrire, piegandosi al suo volere. Lo avrebbe assistito come aveva fatto più volte con Tyler, aiutandolo a sostenere il dolore con la sua presenza, con le sue carezze. Perché era quello, ciò di cui avrebbero avuto bisogno entrambi, quella sera. Perché era quella, l’unica cosa che meritavano;  non il dolore, ma qualcuno accanto, disposto a vegliare la luna assieme a loro.
“Non tornerà.” dichiarò improvvisamente il ragazzo, appoggiando il cellulare a terra. Sembrava sicuro delle parole che aveva appena pronunciato; non era più alla ricerca di conferme. “Non arriverà in tempo.”

“Andrà tutto bene.”  ribadì  ancora una volta Caroline. Aveva ormai perso il conto di quante volte lo avesse ripetuto nel corso di quel pomeriggio, ma ancora si ostinava a sforzarsi di rassicurarlo. Prese di nuovo la mano del ragazzo e la raccolse tra le sue. “Ce la caveremo. Ti fidi di me?” .

Mason non rispose; si sentiva strano. Provava un caldo soffocante, e la pelle aveva incominciato a tirare, come se si stesse seccando. Il panico riprese a prendersi gioco di lui, ma si sforzò di mantenersi tranquillo. Caroline, che se ne accorse, gli strinse con più forza la mano: non sembrava intenzionata a lasciarlo solo. Ciò che Mason provò in quel momento, gli ricordò come si era sentito  quel pomeriggio, quando la madre lo aveva abbracciato. Avvertiva un insolito nodo alla gola e un bisogno di piangere immotivato, che lo intimidiva. Ricacciò indietro la sensazione, preoccupandosi solo di immagazzinare abbastanza aria nei polmoni, per poter dare origine a un respiro regolare.

E poi accadde: un dolore sordo, improvviso, lo costrinse ad emettere un gemito. Il caldo soffocante si irradiò in ogni fibra del suo corpo, spezzandogli il fiato d’un colpo. Si sentiva in fiamme: bruciava. Bruciava dall’interno.

“C-Caroline…” farfugliò, portandosi le mani al collo. La ragazza si allarmò. Si affrettò ad inginocchiarsi di fianco a lui, mentre il ragazzo riprendeva a boccheggiare, strizzando con violenza gli occhi.

“Ehi…” lo richiamò con fermezza, passandogli una mano fra i capelli. Lo osservò chinarsi in avanti e premere le mani sul terreno. “Cerca di concentrarti sul respiro, ok? Pensa solo a respirare.”

“No-non, non…” tentò di incominciare il ragazzo, prima che il dolore aumentasse di intensità, stroncandogli il fiato. Aveva voglia di scorticare ogni brandello di pelle di suo pugno, privarsi di quel bruciore insopportabile.


Shhh..” Si sforzò di tranquillizzarlo Caroline, avvolgendogli le spalle con le mani.
“Caroline…”
“Sono qui.”  ribatté istantaneamente la ragazza, non riuscendo a comprendere se stesse provando a confortare Mase, o se stesse solo cercando di farsi forza da sola. “Sono qui.”

Mason gemette di nuovo, grattando le unghie contro il terreno duro. Il dolore e quella morsa soffocante erano gli unici due pensieri che gli attanagliavano la testa.

La sua attesa era  appena terminata: la luna piena era arrivata a ghermirlo.

 

 “Tyler…”
“I’m burning up….”

Ehy…”


“It burns!”

“I know. Just breathe through this, okay?”

“I’m trying.”

Episode 2x11. By The Light of The Moon

***

The secret side of me
I never let you see
I keep it caged
But I can't control it

So stay away from me
The beast is ugly
I feel the rage
And I just can't hold it

Monster. Skillet

 

Era ormai trascorsa una decina di minuti, da quando Tyler e Ricki avevano incominciato a incamminarsi verso casa Lockwood;  tuttavia, nessuno dei due aveva ancora aperto bocca. La pioggia appena accennata aveva reso il terreno scivoloso e, per uno come Ricki, abituato ad inciampare di continuo, quel dettaglio rendeva concreto il rischio continuo di scivolare nell’erba.. Da qualche metro, il ragazzo aveva preso a calciare una pietruzza. La rinviò un’ultima volta di fronte a sé, osservandola rimbalzare più volte a diversi metri di distanza. Infine si stufò.

“Però non dovresti incazzarti così.” commentò infine, interrompendo il silenzio fra sé e il padre. L’uomo gli rivolse una rapida occhiata brusca, ma non gli rispose. “Volevo solo stare vicino a mio fratello.”
“Quando avrai una famiglia e dei figli tuoi,  forse capirai il perché di questa mia incazzatura.” ribatté il padre, continuando a mantenere un’espressione risoluta.  “E a quel punto potrai fare quello che ti pare, ma per ora ti tocca obbedire a quello che dico io.”

Ricki sbuffò, roteando leggermente il capo. Si passò una mano fra i capelli, resistendo all’impulso di prendere a calci una seconda pietruzza.

“Non è facile per la mamma, sai?” rivelò infine, tornando a voltarsi verso l’uomo. “Vorrebbe stare vicina a te e a Mase. Non fa altro che camminare avanti e indietro per la casa, sgridare Silver, fare pulizie, cose così. Ha spolverato la libreria di Mase tre volte: tre volte, papà! E non penso che esista posto al mondo più pulito e ordinato di quella libreria.”

 “So bene quanto sia difficile tutto questo per tua madre.” rispose Tyler in tono di voce asciutto, “Ma non posso nemmeno permetterle di rischiare la vita per noi. Ho bisogno di sapervi al sicuro; ne ho proprio bisogno, Ricki. Sopportare la maledizione è già abbastanza difficile, senza dover anche pensare che vi possa accadere qualcosa.”  concluse, guardando negli occhi il figlio; non poteva permettere che qualcuno o qualcosa facesse loro del male. Era una promessa che aveva fatto a se stesso, poco dopo essersi sposato. La sicurezza di sua moglie, e dei loro eventuali futuri figli, sarebbe sempre stata al primo posto, nelle priorità della sua vita. Li avrebbe protetti sempre, a costo di imporsi con la forza. Con Mason aveva in parte fallito: ma avrebbe fatto del suo meglio per rimediare. Tenendo al sicuro lui, sua madre e i suoi fratelli.

“Ma Caroline Forbes è rimasta con voi.” osservò a quel punto Ricki, rivolgendo un’occhiata incuriosita al padre. Tyler sbuffò.

“Caroline Forbes è un vampiro, Ricki.” ribatté secco,  prendendo improvvisamente ad accelerare il passo: incominciava ad avvertire le prime avvisaglie della trasformazione, e non voleva in alcun modo rischiare di trasformarsi col figlio accanto, né tantomeno arrivare troppo tardi per aiutare Mase. “Sa come comportarsi; l’ha già fatto altre volte.”

Ricki diede una scrollata di spalle, infilandosi le mani in tasca.

“Credo che a Mase piaccia.” commentò infine, facendo poi una smorfia, in seguito all’occhiata fulminante che ricevette dall’uomo. “Intendevo dire che si fida di lei. Non è una cosa che si può dire di molte perso...”

Ricki non ebbe il tempo di completare la frase, perché il padre lo spinse improvvisamente dietro un albero; gli fece cenno di tacere, passandosi l’indice sulle labbra. Una manciata di secondi più tardi, il ragazzo riconobbe il mescolarsi di due voci maschili in avvicinamento. Quando la sagoma dello sceriffo Fell si stagliò all’inizio della radura, Ricki arretrò di qualche passo assieme al padre. Si acquattarono dietro agli alberi, per evitare di essere visti.

“Non c’è nessuno in questi boschi, Fell.” esordì la voce del secondo uomo, che stava raggiungendo lo sceriffo al centro della radura. Ricki lo riconobbe a stento come il nuovo professore di storia al liceo: il signor Lester, se non ricordava male. “E anche se ci fosse qualcuno, la cosa mi parrebbe abbastanza normale. Ci sono spesso ragazzi che gironzolano per questi boschi nei fine settimana. Per non parlare degli Scout. O i turisti. O i campeggiatori.”

“Dove altro potrebbe nascondersi un lupo mannaro, la vigilia della luna piena?” ribatté l’altro a bassa voce, stringendo convulsamente la mano attorno al calcio della pistola. Ricki si affrettò a rivolgere un’occhiata preoccupata al padre, che scosse lentamente il capo per rassicurarlo. Gli occhi scuri dell’uomo fulminarono con odio le due figure in piedi a diversi metri da loro.

“Ammesso che lo trovassimo…” riprese a mormorare Lester, scrutando la radura con le sopracciglia aggrottare. “…che cosa avrebbe intenzione di fare? Se questa storia della maledizione è vera, Lockwood è pericoloso.”


“Non fino al sorgere della luna.” rispose prontamente Fell. Si voltò poi in direzione dell’altro, scuotendo lentamente il capo. “Voglio solo trovarlo.” spiegò, ritirando la mano dalla pistola. “Una volta che avrò la certezza di non essermi sbagliato sul suo conto, torneremo indietro.”

Lester gli rivolse un’occhiata poco convinta, prima di riprendere a scrutare la radura. “Dov’è Leanne, comunque?” domandò infine, incrociando le braccia al petto, dando le spalle al punto in cui Tyler e Ricki erano nascosti: Fell lo imitò.

In quel momento, Tyler cercò di attirare l’attenzione del figlio, stringendogli la spalla.

“Andiamo.” sussurrò, facendogli cenno di arretrare lentamente. Riuscirono a muoversi senza destare l’attenzione di Fell e Lester, e ripercorsero un tratto di strada a ritroso, bloccandosi a una ventina di metri prima dell’ingresso della cripta.

“Devi tornare indietro facendo un’altra strada.” mormorò infine Tyler, affinando i sensi, per assicurarsi che i due uomini non li avessero seguiti. Scoccò un’occhiata inquieta al cielo, rendendosi conto solo in quel momento di quanto ormai avesse incominciato a oscurarsi. “È troppo tardi, perché ti possa accompagnare.”
“Non ti preoccupare.” dichiarò con decisione il figlio, dandogli le spalle. “Quei pagliacci non mi vedranno.”

“Ricki…” incominciò il padre, rivolgendogli un’occhiata inquieta; sbuffò. “…fa’ attenzione.”

Il figlio gli diede una pacca giocosa sulla spalla e annuì. Tyler lo osservò allontanarsi fino a quando non riuscì più scorgerlo. Prese a incamminarsi nuovamente verso la cripta, lo sguardo teso e le mani strette a pugno; se quel Fell avesse continuato a tormentare la sua famiglia gliel’avrebbe fatta pagare, su quello non aveva dubbi. Ma in quel momento aveva ben altro di cui occuparsi. Improvvisamente, un grido lo costrinse a fermarsi per l’ennesima volta: il sangue gli si gelò nelle vene. Sgranò gli occhi, avvertendo il cuore minacciare di fracassargli la cassa toracica, per il modo in cui gli rimbalzava in petto: era la voce del suo primogenito, quella.

Si mise a correre in direzione dell’urlo, ignorando noncurante ogni cautela. Quando raggiunse il figlio, trovò finalmente il modo di riprendere a respirare regolarmente, nel trovarselo di fronte illeso. Ricki stava bene; i suoi occhi sgranati e l’espressione rivoltata, tuttavia, lo spinsero a ad avvicinarsi di corsa verso il ragazzo.

“Ricki…” lo richiamò, voltandosi di scatto, nel riconoscere il motivo di quell’urlo: a terra, di fronte a loro, giaceva il cadavere di un uomo. Il capo era rivolto a faccia in su, ma il resto del corpo sembrava essere voltato dall’altra parte. Ciò che più di tutto aveva destato l’orrore di Ricki era stato il modo in cui il cadavere appariva sbrindellato; frammenti di quel corpo erano sparpagliati attorno alla carcassa e le braccia erano state strappate via dal busto del morto e ammassate una sopra l’altra. Richard fece diversi passi indietro, trattenendo a fatica l’impulso di vomitare. Il sangue e il fetore del corpo erano a stento sopportabili dallo stesso Tyler.

“…è il professor Finn, non è vero?” domandò a quel punto il ragazzo, avvicinandosi istintivamente al padre. Tyler si irrigidì. Le sue iridi scure si ridussero a due fessure e il suo sguardo teso si affrettò a rivolgersi verso il figlio.

“Scappa.”  dichiarò secco, in tono di voce che non ammetteva repliche. Richard scosse il capo più volte, arretrando ancora di qualche passo.

“E se ci fosse in giro qualcun altro come…”

“Mi sto trasformando, vattene subito!

Il ringhio di Tyler lo costrinse a voltarsi di scatto. Ricki sgranò gli occhi, riconoscendo nello sguardo del padre qualcosa di insolito e terrificante – di inumano, di lupesco. Tyler cadde a terra in ginocchio ed emise un lungo lamento. Ricki osservò inorridito le sue ossa spezzarsi ad una velocità impressionante, e le sue braccia piegarsi in posizioni innaturali. Ogni gemito di dolore del padre lo colpì come un colpo secco, paralizzandolo: era inchiodato in quel punto a pochi metri da lui, incapace di muoversi.

“Scappa!” ringhiò incollerito il padre, ancora una volta: i suoi occhi erano diventati quelli di una bestia. Ricki lo vide accucciarsi a terra e digrignare i denti – denti gialli e affilati – mentre la schiena dell’uomo si inarcava all’improvviso. “Vattene! Ora!”

Ricki rabbrividì; riuscì finalmente a dare le spalle al padre e incominciò a correre, puntando alla villa dei Lockwood. Continuò a percorrere il bosco al contrario, avvertendo ancora in lontananza i lamenti del padre; incominciò a rallentare solo quando non udì più nulla. Si fermò un istante per prendere fiato, appoggiandosi ancora boccheggiante al tronco di un albero. Nel momento esatto in cui riprese a correre, qualcosa balzò fuori dal nulla, tagliandogli la strada. Ricki cadde a terra, ritrovandosi di fronte a una creatura dal pelo nero e le fauci spalancate; le orecchie appiattite sul capo e il muso arricciato del lupo spinsero il ragazzo ad arretrare velocemente, in preda al panico. Cercò di alzarsi in piedi, ma dopo pochi passi scivolò di nuovo a terra, inciampando in un sasso. Il lupo – suo padre -  rimase immobile sul posto, i denti ancora digrignati. Infine si fiondò in avanti. Ricki urlò, coprendosi il volto con le braccia. Dopo un paio di secondi, tuttavia, si accorse che l’animale aveva preso ad allontanarsi in un'altra direzione rispetto a lui; una decina di secondi più tardi era scomparso. Il ragazzo si accasciò nuovamente contro il tronco dell’albero, scostandosi i capelli fradici dalla fronte. Ansimò, fino a recuperare il controllo dei propri polmoni, massaggiandosi un braccio graffiato.

“Che serataccia per noi Lockwood, papà.” mormorò fra sé, decidendosi finalmente a sollevarsi in piedi. Una smorfia di dolore gli distorse i lineamenti, quando cercò di posare il peso del corpo sulla gamba destra: doveva essersi storto la caviglia, inciampando. “Spero che a Mase stia andando meglio.”

Si incamminò zoppicando in direzione di casa sua, sobbalzando ogni volta che un rumore improvviso lo sorprendeva. Quando raggiunse la villa, la luna era ormai alta nel cielo e aveva da poco ricominciato a piovere: rabbrividì al pensiero del cadavere di Finn, mentre in silenzio si interrogava sul da farsi. Chiamare la polizia era da pazzi: Fell avrebbe immediatamente sospettato di suo padre, anche se il cadavere, o quel che rimaneva del corpo, era stato trovato prima del sorgere della luna – senza tener conto del fatto che puzzava come se fosse stato rinchiuso da qualche parte per giorni. Decise che avrebbe lasciato perdere, almeno per quella sera: non disse nulla nemmeno alla madre. Non avrebbe fatto altro che alimentare ulteriormente la sua agitazione. Una volta in casa, Ricki andò a rassicurare Lydia e salì in camera sua per cambiarsi, stando ben attento a non evidenziare il dolore alla gamba alla madre e, soprattutto, a non menzionare nulla di ciò che era successo dopo l’abbandono della cripta.

Infine, tornò al piano di sotto e uscì in giardino, le chiavi della macchina che gli tintinnavano in tasca; si infilò nell’auto e uscì fuori dal vicolo, diretto verso il Mystic Grill. La caviglia gli faceva ancora male, ma non al punto tale di impedirgli di guidare: e lui aveva decisamente bisogno di bere qualcosa di forte.

 

***

“I want to help but I don’t know what to do.”

There’s nothing you can do.”

“Oh my god. Tyler…”


Get out!”

“No!”

Get out! I don’t want to hurt you.”

“ No! No.”

Episode 2x11. By The Light of The Moon

 

Mase si aggrappò al cerchio di catene che gli legava il collo e lo strattonò con violenza, cercando di liberarsene; il freddo del metallo gli sembrò d’un tratto rovente ed ebbe l’impressione che gli stesse portando via quel filo di aria che ancora stava riuscendo a immagazzinare. La sua pelle era in fiamme e le ossa della schiena avevano incominciato a spezzarsi; il dolore era talmente intenso che a stento riusciva a gridare. Voleva farla finita; strapparsi via ogni fibra di quel corpo maledetto e  sbarrare gli occhi, dimenticare tutto, perdere coscienza. Morire, piuttosto. Non c’era più nulla che riuscisse a mantenerlo lucido. Un interrogativo acuminato gli aveva squarciato la mente, diramandosi a fondo nella sua testa: quanto dolore si può trattenere in corpo, prima di esplodere?

“Mase…”

Caroline cercò di richiamare la sua attenzione, avvicinandosi con espressione preoccupata. Tese la mano ad accarezzargli i capelli, sforzandosi di ignorare i rantoli spezzati del ragazzo. Mason prese ad ansimare in maniera più convulsa, portandosi ancora una volta le mani al collo, tirando le catene con quanta forza aveva in corpo. Un urlo gli impregnò la gola, nel momento in cui il braccio destro scattò improvvisamente all’indietro, spezzandosi all’altezza del gomito. Caroline sussultò, portandosi le mani alla bocca.

“Basta!” ringhiò a quel punto il ragazzo, liberandosi dalla presa di Caroline. Emise un secondo lamento, mentre il dolore lo ghermiva con violenza, lottando contro la sua schiena. Udì lo schiocco secco delle sue ossa che si frantumavano, incitandolo a piangere, a urlare, a pregare la luna di porre fine alle sue torture. “Fa male!” gemette infine, mentre le braccia di Caroline tornavano ad avvolgersi attorno al suo corpo, questa volta con più determinazione.

“Lo so…” mormorò la ragazza, appoggiando la fronte contro la sua schiena.

“Fa, fa, fa male, f-fa-fallo smettere!”

“Vorrei poter fare qualcosa…” gli sussurrò contro la ragazza, ormai sull’orlo delle lacrime. Aveva affrontato quel momento tante di quelle volte prima di allora, eppure non c’era mai stato verso per lei, di abituarsi all’insostenibile sensazione di sconforto. Al dolore che comportava il realizzare di sentirsi impotente, impotente e inutile. Quell’impronta di vulnerabilità finiva sempre per tracciarsi nella sua mente all’improvviso, portandola alle lacrime, prosciugandole l’istinto a persistere. Alla fine, tuttavia, la determinazione riemergeva sempre. Stava tornando anche in quel momento, seppur si fosse accorta di aver incominciato a tremare. Con le mani molli di tremiti, cinse più forte le spalle di Mason. Provò a rassicurarlo a parole, non potendo fare nulla per sedare quel dolore, né il terrore dilatato nel suo sguardo. Ricacciò indietro un brivido, quando avvertì le ossa del ragazzo vibrare sottopelle, prima di spezzarsi e ricomporsi un’ultima volta. Il suo corpo si stava preparando a scacciare in un angolo il ragazzo, per accogliere il lupo.
 “Starai bene.” lo incoraggiò, cercando di placare i suoi movimenti bruschi, impedendogli di portarsi le mani al collo ancora una volta; avrebbe voluto fargli capire che si sentiva addosso il peso di ogni singolo osso spezzato. C’erano dentro insieme, a quella situazione: non gli avrebbe mai permesso di sentirsi solo, in quel campo di battaglia interno a  se stesso. “Non mollare, Mase.”
“Dov’è…” farfugliò a quel punto il ragazzo, digrignando i denti. “…Dov’è papà?”
Caroline sospirò, riprendendo ad accarezzargli il capo.
Dopo quell’ultima frase, Mason sembrò calmarsi leggermente, incominciando a respirare in maniera più regolare. Caroline sapeva, tuttavia, che la trasformazione avrebbe ripreso presto. Avvertì il dolore del ragazzo, il risentimento che provava nei confronti del padre, al pensiero di essere stato abbandonato da lui. Lo stesso risentimento che doveva aver provato Tyler nei confronti dello zio, quando si era sentito costretto a badare da solo alla maledizione. Senza l’appoggio di Mason; senza l’appoggio di nessuno, al di fuori di Caroline.

Rimasero entrambi immobili per qualche minuto; Mason riuscì finalmente a concentrarsi su qualcosa che non fosse il dolore lancinante, e il bruciore della pelle incandescente. Avvertì il proprio cuore divincolarsi forte nel petto, come se stesse lottando a sua volta, per debellare la maledizione. E percepì anche il calore emanato dal corpo di Caroline adagiato contro la sua schiena. La consistenza di quel contatto inombrò la sensazione di pesantezza provocata dalle catene ancorate al suo corpo. Il ragazzo inspirò con forza, sforzandosi di tenersi stretto anche il più sottile brandello di lucidità. Le lacrime minacciavano di scivolargli oltre le palpebre, stanche di farsi carico di quel dolore, ma per la prima volta nella sua vita, non se ne curò; sapeva che fino a quando avrebbe provato quel genere di emozioni, sarebbe stato umano. Da umano non avrebbe ferito nessuno; da umano avrebbe potuto controllarsi e il suo corpo non gli sarebbe stato strappato via, affinché si piegasse al volere della luna. Cercò di mettersi a sedere, ma il dolore era ancora troppo. Si chiese quanto a lungo sarebbe durata quella tregua; si domandò se fosse  possibile riuscire a rialzarsi da terra, dopo che ogni singolo osso si è spezzato, frantumato e ricomposto con fattezze diverse.
All’improvviso, così come si era arrestato, il tormento riprese. Questa volta, tuttavia, c’era qualcosa di diverso, in quel dolore: questa volta, nemmeno la mente del giovane rispondeva più al suo volere. Con uno scatto violento, Mason allontanò Caroline da sé, balzando all’indietro. Gli occhi incominciarono a bruciargli e i suoi sensi si annebbiarono. Il dolore intenso alle mascelle si tramutò in rabbia, nel momento in cui il ragazzo intuì cosa gli stava per succedere. Si chinò in avanti per riprendere fiato, ma scosse il capo con forza, quando la ragazza cercò di avvicinarsi ancora una volta a lui.
“Vattene!” ringhiò con quanto fiato aveva in gola, per poi emettere un ennesimo lamento. Cercò di rimarcare il concetto, ma una fitta acuta gli penetrò il capo; si sentì il volto incandescente, e anche se non poteva vedersi, intuì all’istante che qualcosa stava cambiando nella struttura del suo viso. Ricominciò ad avvertire il dolore acuminante delle ossa in fase di scomposizione.
Caroline scosse il capo a sua volta, seppur arretrando; aveva incominciato a scorgere l’ombra del lupo nello sguardo del ragazzo. Gli occhi gialli di Mason indugiarono su di lei con odio, mentre i lineamenti del giovane sembravano lottare per trattenere le fattezze umane.
“No.” ribatté decisa, osando avvicinarsi di qualche passo. “Resto con te.”
“Ho detto vattene!”  gridò ancora una volta Mason, digrignando i denti per proteggersi dal dolore. Il controllo del suo corpo traballava: a tratti lo avvertiva ancora, ma c’erano momenti in cui si accorgeva di non sentirsi più. L’incapacità di gestirsi lo terrorizzava. Non voleva ferire Caroline; non voleva ferire nessuno.

“Non vado da nessuna parte.” ribadì con determinazione la ragazza, tornando a inginocchiarsi di fianco a lui. “Non fino a quando non sarà tutto finito.”

“V-Vuo-vuoi restare, s-solo  perché te l’ha detto lui!” ribatté Mason, sollevando di scatto il capo per guardarla negli occhi. “Ma a me ha chiesto di mandarti via. S-Se, se resti qui ti attaccherò, qu-quindi vattene!”

“Non ti lascio da solo, Mase.”

“Papà capirà che…”

 “Non è solo per tuo padre , lo capisci?” sbottò improvvisamente Caroline. Si morse il labbro, accorgendosi solo in quell’istante di aver gridato. Mason sollevò nuovamente il capo per osservarla; aveva nuovamente il fiato corto, e i gemiti di dolore erano ricominciati. Tuttavia, le parole di Caroline sembravano aver suggellato la fine di quella discussione. La ragazza tornò a sedersi di fianco a lui; cercò di impedirgli di rannicchiarsi sul pavimento, mentre gli spasmi di dolore lo costringevano a piegarsi su se stesso.

“N-non r-ri-riesco a, a, a controllarmi…” mormorò con fatica il ragazzo, alterando ancora una volta il ritmo dei propri respiri. “Non vo-voglio fa-farti del male.”

“Non succederà.” lo rassicurò a bassa voce la ragazza, accarezzandogli il capo. “Presto finirà tutto.”

Mason cercò di annuire, ma tutto ciò che riuscì a ottenere fu un respiro più prolungato degli altri. Il suo collo scattò all’improvviso verso destra, facendogli battere il capo contro il pavimento. Gemette, cercando di trattenere il controllo sui suoi movimenti, ma era ormai evidente che gli stesse fuggendo tutto di mano, e che ci fosse ben poco da fare per trattenerlo.

 “Ho paura…” farfugliò infine, abbandonando la testa a terra; spinse la guancia contro il terreno, per avvertire la sensazione di fresco, ormai estenuato dal caldo pungente che gli tormentava la pelle.

“Va tutto bene.”  tornò a sussurrargli Caroline, riprendendo ad accarezzargli i capelli. “Starai bene.”

In quel momento, qualcosa prese ad agitarsi nell’animo del ragazzo, spingendolo a respingere quel tocco. Mason sollevò la schiena di scatto, portandosi a quattro zampe. Il tenue sollievo che aveva provato fino a quel momento, affiorato da quelle mani tiepide a contatto con la sua pelle, era svanito all’improvviso, provocandogli fastidio: fastidio e rabbia. Non era più lui: non era più Mason.

“Vattene!” ringhiò con ferocia, digrignando i denti in direzione di Caroline;  gli occhi gli si venarono di giallo e un bruciore lancinante prese ad attraversargli le gengive, diffondendosi lungo i canini del ragazzo.

“No.” ribadì  Caroline con fermezza mentre, lentamente, Mason tornava a prendere il controllo su se stesso. Provò una collera improvvisa nei confronti della sua seconda natura: quel qualcosa che aveva preso il sopravvento su di lui stava cercando di tenerlo lontano dall’unico barlume di conforto che gli era rimasto. Aveva  lottato a lungo contro se stesso, quel pomeriggio, ma l’aveva fatto inutilmente. Si era sforzato di annientare le barriere che si era costruito attorno, per lasciarsi stringere e accarezzare. Per accogliere le parole di conforto di Caroline. Ma nel giro di pochi minuti, quel pensiero aveva perso importanza: perché non era più in lui. Il lupo aveva preso il comando del suo corpo, imprimendogli addosso una sensazione di collera violenta; intuì all’istante, che voleva essere lasciato solo.  E lo intuì anche Caroline: la ragazza si alzò, arretrando di qualche passo. Mason gemette di nuovo, mentre uno spasmo di dolore incontrollabile gli azzannava con ferocia le gambe, mescolato al rumore secco delle ossa che si spezzavano. Il volto del ragazzo incominciò ad allungarsi e la sua dentatura si fece più affilata, sporgendo dalle labbra. Quando i suoi occhi gialli individuarono i movimenti lenti della vampira, si ritrovò ad emettere un ringhio sommesso, avvertendo distintamente il proprio naso arricciarsi: un naso che, di umano, aveva ormai ben poco.

“Ehi…” Caroline mormorò a bassa voce, cercando di trattenere la calma. Si sforzò di non fare movimenti troppo bruschi, mentre gli occhi da lupo del ragazzo la scrutavano con rabbia, non dando alcun cenno di riconoscerla. “Ehi… Mase, sono io. Sono Caroline.”


La mente di Mason si annebbiò e l’istinto lupesco prese il sopravvento, spingendolo ad avventarsi contro la ragazza. Caroline scattò all’indietro. Si affrettò a raggiungere la grata che bloccava l’ingresso della cripta. Si fermò, nell’udire il lamento tormentato del ragazzo: Mase aveva preso a strattonare con forza le catene che lo trattenevano per le caviglie. Un ringhio disumano echeggiò nella cripta, mentre la schiena del giovane riprendeva a deformarsi, così come gli arti.
Caroline aprì la porta e se la richiuse alle spalle con forza. Gridò, quando un improvviso rumore di ferro che piomba a terra, venne susseguito dall’avventarsi di qualcosa contro le inferriate della porta. Un Mason più lupo che umano incominciò a scagliarsi con violenza contro la grata, ferendosi, pur di provare ad abbatterla.

“Mi dispiace, Mase”.

Caroline si coprì il viso con le mani, sforzandosi di ignorare quello sguardo bruciante di collera. Sussultò, quando la porta di ferro prese a vibrare con violenza. Si alzò in piedi di scatto, raggiungendo i gradini della cripta. Tuttavia, non osò allontanarsi oltre. Ipotizzò che non avesse senso allontanarsi, con Tyler completamente trasformato e in giro a piede libero per il bosco. Sentiva comunque che quel bisogno di trattenersi vicino alla cripta fosse dovuto a ben altro, rispetto al timore di venire attaccata. Per quanto quella paura fosse grande, il pensiero di lasciare solo Mason la angosciava ancora di più. Aveva giurato che gli sarebbe stata accanto e non ci fu modo, per lei, di venir meno a quella promessa. Non riuscì a muovere un solo passo da quella posizione per l’intera durata della trasformazione.

Quando, diverse ore più tardi, la luna si decise finalmente a desistere, liberando Mason e Tyler dalle sue redini, la vampira era ancora lì; appoggiata a quella grata arrugginita.

“Caroline?”

L’esclamazione di Tyler spinse la ragazza ad alzarsi in piedi di scatto. Caroline salì gli ultimi gradini della cripta, ma si affrettò a distogliere lo sguardo imbarazzata, nell’accorgersi che l’uomo fosse ancora nudo.

“Non mi abituerò mai a questa cosa…” commentò la ragazza scuotendo il capo, le guance improvvisamente imporporate.

Tyler, si lasciò sfuggire un ghigno.

“Andiamo, Care… non è nulla che tu non abbia già visto.” scherzò, prima di appoggiare la mano sulle inferriate della porta. “Lui sta bene?” mormorò, aggrappandovisi maggiormente con le dita: analizzò con espressione d’un tratto risentita i nuovi segni che ne rigavano i bracci.

“Credo che starà meglio, non appena ti vedrà arrivare.” rispose la ragazza, osservandolo spingere la porta della cripta. Tyler annuì. Mosse un paio di passi avanti, ma si voltò un’ultima volta, per poter guardare la ragazza negli occhi.

 “Grazie.” mormorò stringendole una mano, prima di addentrarsi da solo dentro la cripta.


“Tyler?”

“Caroline…”

“Tyler!”

 “You're okay. You made it. You didn’t get out. You’re okay!”

“No, I’m not.”

Episode 2x11. By The Light of The Moon

 

 

***

Al Mystic Grill echeggiava, come al solito, un vociare confuso misto a musica. Ricki sbuffò, portandosi poi per l’ennesima volta il bicchiere alle labbra. Erano trascorse ormai un paio d’ore dal suo arrivo nel locale; una volta dentro, complice il suo fido documento di identità falso, aveva ordinato da bere e si era trascinato pigramente in un angolo del bancone, mantenendosi insolitamente silenzioso per l’intera serata. Dopo aver svuotato il fondo del bicchiere e fatto cenno al barman di riempirlo di nuovo, venne distratto dal display illuminato del cellulare. Una volta riconosciuto il nome sullo schermo, tentò di rispondere alla chiamata, trascinando il polpastrello sul display. Dopo diversi tentativi, maledicendo a gran voce gli schermi dei dispositivi touch, riuscì finalmente nel suo intento e si portò il telefono all’orecchio. “Ehilà, vecchia quercia!” esclamò in tono di voce strascicato, strofinandosi con la mano i capelli sulla fronte. “Cosa ti porta a chiamare il tuo migliore amico di un sabato sera? Va bene che la mia compagnia è insostituibile, ma… Com’è che non sei impegnato con qualche bella avvocatessa? ”

Dall’altro capo dell’apparecchio, Jeffrey sorrise.

“Niente avvocatesse, purtroppo: stavo studiando. Lunedì ho un esame piuttosto importante. E comunque, niente…” si interruppe, mentre spingeva il computer a bordo del letto per stiracchiarsi sul materasso. “…volevo solo sapere come te la passavi. Mase sta meglio?”

Ricki fece una smorfia, appoggiando la guancia al pugno chiuso.

“Mase sta che è una meraviglia.” commentò in tono di voce sarcastico,  “E io anche; meglio di così si muore.” biascicò; la sua voce incominciava a suonare impastata dall’alcool.

Jeffrey aggrottò le sopracciglia, intrecciando i piedi uno sopra l’altro.

“Hai bevuto?” domandò, per poi alzare gli occhi al cielo. “Ma che domande ti faccio? È sabato sera…”

“Lo sai, Jeff…” Ricki esordì improvvisamente, tornando a drizzarsi sullo sgabello. “…Hai presente quando eravamo piccoli e io cercavo di farti cagare sotto, raccontandoti storie di cadaveri sanguinolenti e orripilanti mostri succhia-sangue?”


Jeffrey assunse un’espressione perplessa.

“Me lo ricordo fin troppo bene, direi…”


“Ricordi anche quando cercavo di convincerti che mio padre fosse un lupo mannaro?”

Jeffrey abbozzò un sorrisetto divertito.

 

“Per via di quella storia, avevo incominciato ad andare nel panico ogni volta che rimanevo da solo in una stanza con lui…”

 
“…E se ti dicessi che non tutte le stronzate che dicevo da bambino fossero effettivamente delle balle?” azzardò Ricki, esitando, prima di proseguire. “…Se ti dicessi che c’è del vero in tutto questo?”

 

L’amico si mise a ridere.

 

“Ti risponderei che bevi troppo.” osservò con un sorriso, scuotendo rassegnato il capo. Mentre Ricki riprendeva a farfugliare qualcosa a proposito di cadaveri e mostri sanguinari, Jeffrey appoggiò il cellulare sul cuscino, intrecciando le dita dietro la nuca: gli erano mancate le chiacchierate notturne con il suo migliore amico. La stanza che condivideva con Ricki al campus sembrava vuota, senza il gran baccano che era in grado di generare il ragazzo, composto da chiacchierate strascicate fino a tardi, musica e palloni da calcio che facevano la spola fra i due letti. Di tanto in tanto, poi, Ricki tirava fuori discorsi talmente folli da far concorrenza ai vaneggiamenti comici di Vicki – una cosa che gli faceva spesso presente, giusto per stuzzicarlo un po’. Ascoltare l’amico blaterare di cose senza senso, riusciva sempre a lenire un po’ di quella nostalgia che Jeff provava nei confronti di Mystic Falls; di sua sorella e della sua famiglia.

In quel momento, tuttavia, la sua attenzione venne d’un tratto strappata via al chiacchiericcio di Ricki: Jeffrey spostò lo sguardo verso la finestra, analizzandone i vetri con aria perplessa. Era sicuro di averci intravisto qualcosa, fuori: un’ombra. Si morse un labbro, sforzandosi di tornare a concentrarsi sulla conversazione con il migliore amico. Si sentiva osservato, ed era una sensazione che gli era capitato di avvertire di frequente, nell’ultimo periodo: sin da quando era tornato a Jacksonville.

 “Jeff, ci sei ancora?”
L’interrogativo perplesso di Ricki riuscì ad attirare nuovamente la sua attenzione.

“Sì, ci sono ….” borbottò, prima di tornare a sorridere. “… Cambiando discorso… ho sentito dire che domani farai da cavaliere a Vicki.”

Ricki sbuffò sonoramente.

“Se i cadaveri sanguinolenti non mi prenderanno prima…”

“Devo dedurne che domani a Mystic Falls nevicherà, visto il miracolo.” osservò Jeffrey, alzandosi a sedere per controllare le nuove notifiche al PC.

 “…Possono anche ridurmi in poltiglia, l’importante è che mi lascino stare il sedere, perché il mio culo è sacro…Eh? Ma quale miracolo?” esclamò l’altro ragazzo, assumendo un’espressione contrariata.  “È che mi annoio senza di te, quindi faccio cose stupide per passare il tempo.”

“Quelle le fai sempre…” lo corresse Jeff,  non riuscendo a reprimere uno sbadiglio; sospirò. “Adesso devo tornare a studiare.” annunciò infine, riprendendo ad analizzare la finestra con espressione nervosa; dopo aver azzardato una seconda occhiata fuori, e non notando nulla di insolito, decise che l’ombra che aveva visto fosse stata solo dettata dalla stanchezza.

“Che bravo bambino…” lo schernì l’amico, dall’altro lato del ricevitore. “Non fa niente; mi terrà compagnia il mio amico bicchiere.” scherzò, facendone tintinnare il vetro con l’indice. “è un tipo di poche parole, ma ti assicuro che è un gran simpaticone! Quasi quanto me.”

Jeffrey sorrise.

“Credo che tu abbia bevuto abbastanza per sta sera,” osservò infine, sistemandosi un paio di ciuffi biondi con la mano. “Se va a finire che ti senti male e domani non ti presenti alla cerimonia, giuro che chiederò ai cadaveri sanguinolenti di tagliarti il culo a fettine. E tratta bene mia sorella.”


Ricki sbuffò sonoramente.

“Va bene, mamma.” commentò sarcastico, abbozzando poi un sorrisetto. “Buonanotte, Jeff.” mormorò infine, prima di chiudere la chiamata e abbandonare il cellulare sul bancone. Quando, due ore più tardi, si sollevò barcollando dallo sgabello per abbandonare il Grill, incominciò a valutare il pensiero che, forse, avrebbe fatto meglio a seguire il consiglio del suo migliore amico.

 

 

***


I remember tears streaming down your face

When I said, I'll never let you go

When all those shadows almost killed your light

I remember you said, ‘Don't leave me here alone’

 But all that's dead and gone and passed tonight

 

Safe and Sound. Taylor Swift

In un primo momento, socchiudendo leggermente gli occhi, Mase non riuscì a comprendere se fosse giorno, o ancora notte inoltrata. Né se fosse tornato umano, o se il suo corpo avesse ancora fattezze da lupo. L’ unica cosa a cui riuscì a pensare, fu che aveva freddo. Si raggomitolò su se stesso, per proteggersi dal gelo della cripta. Quando realizzò dove fosse, i suoi pensieri si spostarono istintivamente a Caroline: ricordò d’un tratto che avrebbe dovuto gridarle di allontanarsi, chiederle andare via. Non lo fece; si sentiva stanco, troppo debole anche solo per parlare.

Una mano gli strinse affettuosamente una spalla, avvolgendola con delicatezza. Mase intuì all’istante che non potesse trattarsi di quella di Caroline; perché quella mano era grande e ruvida: perché quella mano apparteneva ad un uomo.

“Papà…”  si sforzò di mormorare, tornando ad aprire gli occhi. La presa sulla spalla del giovane si fece più intensa e Mason si accorse di sentirsi improvvisamente al sicuro. Per la seconda volta in due giorni, alcuni ricordi d’infanzia  tornarono a sfilargli nella mente, riportati in vita dal tocco del padre. C’erano stati dei momenti, quando era bambino, in cui la paura dei lupi aveva preso il sopravvento, impedendogli di addormentarsi. In quelle occasioni, suo padre era solito promettergli che non avrebbe mai permesso ai lupi di avvicinarsi a lui.

Ed era stato così: il lupo non l’aveva preso, nemmeno quella notte.

Quella notte, Mason aveva vinto.

 “Ehi…” La voce profonda  di suo padre trovò il modo di rassicurarlo con la stessa intensità di quel tocco sul braccio. “…È finita: ce l’hai fatta. Te la sei cavata benissimo.” lo sentì mormorare,  senza smettere di stringergli la spalla. “È finita, Mase.” 

In quel momento, il ragazzo avvertì sulla schiena il tocco morbido di una coperta. Riconobbe anche un respiro diverso, nella cripta: percepì un movimento alle sue spalle e intuì che Caroline dovesse essere lì con loro. Non ce la fece a voltarsi verso di lei; né a domandarle se stesse bene. Aveva male ovunque e il freddo gli si era incuneato nelle ossa, rendendo difficoltosi i movimenti; suggerendogli di non parlare.

“Papà...”  ripeté ugualmente ancora una volta, tornando a socchiudere gli occhi.

“Sono qui.” lo rassicurò  prontamente  il padre, sistemandogli al meglio la coperta sulla schiena. “Sono qui.”

La luna piena se n’era andata. Il lupo era stato sconfitto.

Rimanevano solo loro, Mase e suo padre. Un ragazzo stanco e un uomo riconoscente.

La paura scivolò lentamente via; e Mason si addormentò.

 

 

Just close your eyes, the sun is going down

 You'll be alright, no one can hurt you now

Come morning light

 You and I'll be safe and sound.

Safe and Sound. Taylor Swift

 

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Grazie a Ely 91 per la pazienza e la rilettura del capitolo <3

Angolo Link pre-polpettone:

Qui potete trovare il gruppo facebook con foto, informazioni, anticipazioni, fumetti, foto  e quant’altro a proposito di History Repeating.


Qui, invece, il canale youtube con tutti i video dedicati a  HR.

Angolino pubblicitario pre-polpettone.

Durante il periodo di pausa fra il precedente capitolo e questo ho pubblicato un paio di spin off della storia, che ho pensato di riportare qui!

Havenill. Un piccolo approfondimento su Havenill che è stata menzionata proprio in questo capitolo, e sui suoi abitanti.

Molto forte, incredibilmente vicino.  one-shot con protagonisti Mase e Caroline Forbes, che aiuta a inquadrare un po’ Mase e il suo carattere chiuso e diffidente.

5 infallibili modi per scroccare un abbraccio a Mason D. Lockwood Jr. Una raccolta di flash fiction senza pretese, scritta giusto per strappare un sorriso – e per tormentare Mase.

Gli altri spin off della storia li trovate QUI e  QUI.
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Nota dell’autrice.

Questo capitolo giunge con talmente tanto ritardo, che mi vien voglia di nascondere la testa sotto la sabbia, come gli struzzi; ma ho finalmente terminato con l’università, quindi ne ho approfittato per gettarmi a capofitto nella stesura. Anzitutto, chiedo scusa per la lunghezza spropositata di questa parte. Penso che questo sia il capitolo più lungo in assoluto scritto fino ad ora, ma non me la sentivo proprio di dividerlo, visto che è interamente concentrato sulla luna piena.

Vediamo un po’ di spiegare qualcosina in merito a questa parte. Intanto, le citazioni che precedono le parti di racconto relative alla trasformazione di Mase, così come il titolo del capitolo, sono state prelevate dall’episodio 2x11; By the Light of The Moon, appunto. Ho cercato di mantenere il parallelismo fra la prima trasformazione di Tyler e quella del figlio, pur cercando di distaccarmi, per non calcare troppo. Ho fatto questa scelta inizialmente perché ci tenevo che le due trasformazioni avvenissero in modo analogo, in parte perché la storia verte poi proprio su questo: le cose che avvengono in passato sono destinate a ripetersi. D’altra parte, ammetto che avevo talmente tanta paura al pensiero di rendere male quei momenti, che ho cercato di attenermi il più possibile alla trasformazione di Tyler, rivedendo quel benedetto filmato fino alla nausea. Un altro parallelismo alla serie si verifica quando Ricki si imbatte nel padre trasformato in lupo; anche qui, per descrivere la reazione di Tyler, mi sono basata sul comportamento di Mason (senior) nell’episodio 2x03. Da come il Mason lupo si allontana, rinunciando ad attaccare Stefan e Caroline, non appena riconoscendo Tyler, ho immaginato che i licantropi siano in grado di riconoscere i parenti, o comunque le persone maledette , anche sotto trasformazione. Ricki se l’è vista piuttosto brutta in questo capitolo; lui e il padre hanno scovato il cadavere di Finn, il professore di storia che era scomparso da un po’, e che occupava la cattedra che al momento è di Gregory Lester. Non lo biasimo se questa sera finirà per bere qualche bicchierino di troppo…Mh, in realtà mi sa che già l’ha fatto. Che altro aggiungere?

Anche in questo capitolo, come nei precedenti, ci sono un paio di riferimenti a one-shot volanti, in giro per il mio account; il riferimento ad Havenill deriva dalla one-shot omonima, che introduce la famiglia di Dylan Scott, padrino di Mason, nonché il buon vecchio nonno Aaron, il papà di Lydia. I riferimenti al Mason bambino e ai lupi, invece, derivano dal She’s watching over us, che è un po’ il prequel di questa storia.

In questo capitolo sono anche stati introdotti, seppur brevemente, due nuovi personaggi: i figli del tanto (comprensibilmente) odiato sceriffo Marion Fell: Leo e Harper.  Li troveremo di nuovo già nel prossimo capitolo, visto che Harper parteciperà a Miss Mystic Falls. Nella loro scena ha fatto brevemente comparsa anche Meredith Fell, un personaggio che voi tutti già conoscete. Scopriamo quindi che è sorella dello sceriffo, e quindi zi dei due ragazzi.

Finalmente abbiamo anche rivisto un po’ di Jeffrey; vi anticipo che dovremmo vederlo molto più spesso fra un paio di capitoli, dopo Miss Mystic Falls. Dopo la cerimonia, incomincerà la seconda parte di questa storia, incentrata più sui vampiri.

Infine, cosa aspettarsi dal prossimo capitolo? Beh, come già anticipato ampiamente praticamente dappertutto, la protagonista indiscussa sarà questa sacrosanta cerimonia. Il capitolo verrà come al solito diviso in due parti, quindi, o in una o nell’altra, aspettatevi di vedere le diverse miss – Vicki, Caroline L. e Harper – con i loro accompagnatori, una bella spolverata di Anna e Oliver, e le reazioni di Mason dopo questa prima, importante prova a cui è dovuto sottoporsi: molti aspetti della sua personalità sono usciti allo scoperto in questo capitolo, sia nella scena iniziale alla riserva, che durante la trasformazione. Posso solo dire che il Mason del prossimo capitolo sarà lievemente diverso, rispetto a quello che abbiamo imparato a conoscere all’inizio di questa storia.

Credo di aver detto tutto – anche se sicuramente ho dimenticato qualcosa. Questo è un capitolo che aspettavo da tantissimo tempo; ho fatto del mio meglio per scriverlo, sapendo quanto fosse importante per la trama, e spero tanto di aver reso il tutto abbastanza bene. Intatto vi ringrazio infinitamente per essere arrivati a leggere fino a qui, perché per me significa tantissimo. E probabilmente significa anche che siete dei santi o dei pazzi – o tutte e due le cose assieme.
Spero di riuscire a incominciare al più presto la prima parte del prossimo capitolo!

Un abbraccio grande!

Laura

 

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Capitolo 15
*** 12. Miss Mystic Falls (p. 1) ***


 

Chapter 12.

Miss Mystic Falls.

(part 1.)

 

Mase si stropicciò un occhio con un pugno, rannicchiandosi ulteriormente su se stesso. Mise a fuoco le voci delle persone che gli stavano tenendo compagnia nella cripta e che fino a quel momento aveva riposto da parte, considerandole semplici rumori di sottofondo.

“Guarda” stava esclamando Caroline alle sue spalle. “Non ha nemmeno morso i vestiti.”

La risata di Tyler echeggiò in risposta alle parole della vampira.

“Alla mia prima trasformazione li avevo mangiati tutti”  ricordò l’uomo. In quel momento Mase sollevò il capo, decidendosi finalmente a socchiudere gli occhi.

 “Ben svegliato, dormiglione” lo salutò il padre, appoggiandogli una mano sulla schiena. Era seduto a terra di fianco a lui e lo stava osservando con un mezzo sorriso abbozzato in viso.

Ch-che, che ore sono?” balbettò il ragazzo, alzandosi a sedere. Si strinse nella coperta, accorgendosi solo in quel momento di non avere più nemmeno i pantaloncini addosso. Aggrottò le sopracciglia, cercando  Caroline con lo sguardo. La vide avvicinarsi poco dopo con i suoi vestiti piegati sull’avambraccio.

“Le sette un quarto” rispose l’uomo, facendosi passare gli abiti del figlio. “Hai dormito ancora una buona mezzora da quando ti abbiamo trovato.”

Mason se ne stupì: era convinto di aver chiuso gli occhi solo per  un attimo, in seguito all’arrivo del padre. Allungò il braccio per recuperare i suoi vestiti, esibendo una smorfia di dolore.

“M-mi, mi fa m-ma-male dappertutto” farfugliò, portandosi i jeans sulle ginocchia. Tyler lo osservò a lungo, ancora sorridente.

“Per stasera sarai a posto” lo tranquillizzò, dandogli una pacca amichevole sulla nuca: la tensione che aveva caratterizzato il suo sguardo nei giorni precedenti sembrava essersi affievolita.

Mase annuì e sollevò lo sguardo per cercare Caroline. Quando la ragazza gli sorrise  le rivolse un’occhiata inquisitoria, avvolgendosi meglio la coperta attorno al corpo.

“Mi hai visto nudo?” domandò in tono di voce scontroso, non riuscendo  a mascherare l’imbarazzo. La ragazza si mise a ridere.

“Non ho visto nulla, stai tranquillo!”  lo rassicurò, prima di raggiungere la porta della cripta. “Dai, vestiti, io vi aspetto fuori!”

Mason si vestì in fretta, mordicchiandosi il labbro di tanto in tanto  per aiutarsi a sostenere il bruciore alle ossa. Nel momento in cui lui e il padre abbandonarono la cripta per unirsi a Caroline si sentiva ancora intorpidito e stanco, come se non avesse dormito per giorni. Non desiderava altro che arrivare a  casa e rifugiarsi sotto le coperte, poltrendo fino a sera al sicuro nella sua stanza.

Il padre sembrò accorgersi della sua spossatezza, perché gli strinse con delicatezza una spalla, come a volerlo incoraggiare.

 “Sono fiero di te" mormorò. Mase gli sorrise: fu il suo primo vero sorriso da giorni e, nell’osservare la sua espressione distesa, Caroline si sentì d’un tratto rasserenata. In poco tempo era riuscita ad affezionarsi molto a quei sorrisi rari che di tanto in tanto sorprendevano le labbra del ragazzo. Era contenta che la luna piena non fosse riuscita a portarglieli via.

***

Quando Ricki si decise ad aprire pigramente gli occhi, si accorse di avere la testa in fiamme e un dolore acuto alla guancia destra, per via di tutto il tempo che aveva trascorso con  il capo abbandonato sul volante. Sollevò il capo e si guardò attorno spaesato, massaggiandosi le tempie con le mani. Doveva essersi addormentato in macchina la sera precedente: non era la prima volta che gli capitava.

Il rumore secco di qualcosa che picchiettava contro il finestrino lo fece sobbalzare: Ricki aggrottò le sopracciglia, cercando il responsabile di tutto quel fracasso. Il colpevole era un ragazzino che stava battendo le nocche contro il vetro: aveva uno sguardo vispo e una matassa di capelli biondi ritti sulla testa come aculei di porcospino.

“Ricki!” gridò il bambino, bussando ancora una volta. “Perché stai dormendo nella macchina?”

Richard strabuzzò gli occhi riconoscendo la vocetta vivace di suo cugino, il fratello minore di Ruby.

“Piccoletto!” esclamò, concedendogli un debole sorriso prima di frugarsi freneticamente nelle tasche alla ricerca del cellulare. “Come mai sei in giro da solo?” aggiunse, sovrappensiero.

Il bambino scosse vigorosamente il capo, spiaccicando il naso contro il vetro.

“Non sono da solo! Stiamo andando alla festa delle ragazze che si vestono belle! Io e Buckster* non ci volevamo andare perché è una noia…”

Ricki sbuffò, passandosi una mano fra i capelli. Aveva trovato il cellulare, ma era scarico; riuscì a tenerlo acceso per una decina di secondi, ma quando l’aggeggio incominciò a vibrare per comunicare le chiamate e i messaggi accumulati si spense di nuovo.

“…ma la mamma dice che ci saranno i confetti e le tortine di tutti i colori e anche i palloncini! ”

Improvvisamente l’attenzione di Ricki tornò a focalizzarsi sul ragazzino.

“Aspetta, aspetta” interruppe il fiume di parole del bimbetto, aprendo la portiera della macchina. “State andando a Miss Mystic Falls? Adesso? Ma che ore sono?”

Il cuginetto scosse il capo e fece roteare per aria il suo missile giocattolo.

“Non lo so!” dichiarò, facendo spallucce. “Non la so leggere l’ora: ho quattro anni, io!” aggiunse, mostrandogli quattro dita di una mano belle stese, come  a volersi giustificare.

“Damian!”

Una voce di donna richiamò la loro attenzione. Il piccolo Damian salutò Ricki con la mano e corse  dalla madre, il missile giocattolo ancora sospeso per aria. Richard fece un cenno di saluto ai suoi zii prima di imprecare a denti stretti, mettendo in moto l’auto: sapeva fin troppo bene che la famiglia di Damian e Ruby arrivava sempre in ritardo alle cerimonie, per evitare che i bambini si stancassero o facessero troppa confusione. O per quel pomeriggio avevano miracolosamente deciso di presentarsi con largo anticipo, oppure lui era fottuto. Una sola, rapida occhiata all’orologio sul cruscotto fu in grado di comunicargli il verdetto: era fottuto.

“Grandioso” commentò. Una smorfia gli catturò il viso al pensiero di una furibonda Vicki che senza un accompagnatore, pronta ad assestargli un bel calcio-piroetta nel didietro. La smorfia si accentuò, quando i pensieri del giovane si spostarono verso il padre e la sfuriata con i controfiocchi che l’avrebbe sicuramente atteso al concludersi della cerimonia .

 “Vabbè” commentò infine, uscendo dal parcheggio e immettendosi nel viale. “Andiamo a farci tirare le orecchie da papà lupo!”

***

Una volta raggiunta la villa dei Lockwood, Mase si diresse subito a tranquillizzare la madre. Raggiunse poi camera sua, dove non impiegò molto ad addormentarsi un’altra volta. Il dolore stava incominciando ad affievolirsi, ma la stanchezza era ancora tanta. Trascorse una quarantina di minuti ad accogliere e ad allontanare il sonno, svegliandosi spesso ma senza mai abbandonare il dormiveglia. Quel continuo addormentarsi e svegliarsi gli ricordava i viaggi in macchina che la sua famiglia era solita fare nel cuore della notte in estate, per raggiungere la solita località di villeggiatura. Tyler preferiva guidare di notte, così da evitare il caldo insopportabile e l’iperattività dei due figli maggiori che non avrebbero retto a sette ore di macchina da svegli. Durante il tragitto i tre piccoli Lockwood sonnecchiavano nel retro della jeep. A Mase dormire in auto era sempre piaciuto. Il suo era uno svegliarsi e capitombolare nel sonno continuo, cullato dal tragitto regolare delle ruote che si interrompeva solo quando il sole era ormai alto nel cielo e il viaggio stava per volgere al termine. In quel momento, mentre per la terza volta in pochi minuti Mase si sorprese ad aprire gli occhi, si sentì esattamente come quando, durante quei tragitti in piena notte, dormiva accucciato fra i suoi fratelli. Si passò una mano fra i capelli, cercando di indovinare come mai tutto a un tratto si sentisse così rilassato, così al sicuro. In quel momento riconobbe un rumore familiare alla sua destra: quello della mina di una matita che scorre sulla carta. Distinse anche un odore particolare, che non aveva nulla a che vedere con quello dei famigliari. Era un odore che sapeva di conforto e protezione. Traboccava di affetto e serenità, e per un attimo Mase fu grato alla sua seconda natura lupesca che lo portava ad associare odori e sensazioni: lo aiutava a inquadrare più facilmente le persone.

Si voltò, dando le spalle alla parete. Oliver aveva lo sguardo concentrato e il blocco da disegno appoggiato sulle ginocchia. Quando si accorse del suo risveglio gli sorrise, appoggiando la matita sul blocco. Mason cercò di sollevarsi a sedere, ma l'amico glielo impedì.

“Resta giù” lo ammonì con dolcezza. “Tua madre mi ha detto che hai un bel po’ di febbre.”

Mason si alzò ugualmente.

“Mi dispiace” mormorò poi, guardando negli occhi l’amico. “Per lo spintone…Per tutto” si corresse poi, appoggiando la nuca al muro. “Sono stato uno stronzo.”

“Va tutto bene” lo rassicurò Oliver, per nulla turbato. “Anche se, in effetti, se tu la smettessi di evitarmi mi faresti un favore: è piuttosto fastidioso!” dichiarò in tono di voce scherzoso, riprendendo a disegnare. Mason lo osservò a lungo, prima di decidersi a parlare di nuovo. Nel corso degli ultimi minuti aveva valutato in silenzio una trafila di espressioni più o meno allusive da pronunciare per liberarsi del peso che lo opprimeva da settimane; alla fine si arrese ad un’unica, diretta affermazione.

“Sono un lupo mannaro, Ol” dichiarò. Lo disse in tono di voce deciso, nonostante la sua espressione si fosse fatta esitante. Arrossì, quando lo sguardo del migliore amico si posò perplesso su di lui, ma non distolse il proprio, come a voler suggerire che non stesse scherzando. “Lo sono da quando ho avuto quell’incidente. ”

L’altro ragazzo aggrottò appena le sopracciglia, la matita ancora sollevata a mezzaria, mentre Mason attendeva a disagio una risposta, pentendosi tutto un tratto di aver detto la verità.

Poi, però, Oliver sorrise. Era uno dei suoi classici sorrisi dolci e bonari, privo di alcuna nota di scherno. Per un attimo sembrò addirittura un po’ sollevato.

“Beh, io vedo i fantasmi” dichiarò infine, osservando divertito l’espressione interdetta dell’amico. “E ti assicuro che non sto facendo dell’ironia.”

Mason si passò una mano dietro la nuca, inarcando spiazzato le sopracciglia.

“Fantasmi?” ripeté nuovamente, scrutando l’amico con attenzione. Oliver annuì.

“Un fantasma solo” si corresse poi, sfogliando un paio di pagine del suo blocco da disegno, “Ti ricordi la ragazza che stavo disegnando?”

Mase lo squadrò confuso per un po’, prima di annuire. La rivelazione di Oliver era assurda e bizzarra, ma in quel momento non aveva nemmeno la forza di allarmarsi, né aveva voglia di rifletterci su. Era ancora assonnato e fin troppo grato ad Oliver per essere lì in quel momento. Per non aver posto alcun tipo di domanda alla sua confessione, limitandosi a sorridergli – comportandosi come l’Oliver di sempre, nonostante le incomprensioni dell’ultimo periodo. Mase cercò di chiedere qualcosa all’amico, ma rinunciò quasi subito: la testa aveva incominciato a girargli e sentiva ancora le palpebre pesanti. Tornò a sdraiarsi, appoggiando il capo al cuscino.

Oliver lo osservò chiudere gli occhi, prima di tornare al suo album da disegno. Abbandonò a metà il bozzetto che aveva incominciato quel mattino e voltò pagina, con l’intenzione di lavorare a qualcosa di nuovo, ispirato dalle parole di Mason. Di tanto in tanto si fermava per indirizzare una rapida occhiata verso l’amico e sorrideva, tornando poi al disegno. Quando la mina della matita riprese a scorrere sul foglio, Mason parlò di nuovo.

“Oliver?”  chiamò, continuando a tenere gli occhi chiusi.

“Sì?”

Il ragazzo sembrò esitare, prima di decidersi a proseguire.

“Resti ancora un po’?”

Oliver sorrise. Si alzò dalla a sedia e prese posto sul letto di Mason, incrociando le gambe sulla trapunta.

“Dai, torna a dormire” lo incoraggiò, riprendendo a disegnare. Rimase ancora una mezzoretta in camera di Mason, fino a quando Lydia non lo avvertì che fosse arrivata l’ora di incamminarsi. A quel punto si alzò, cercando di non fare rumore.

“A più tardi” mormorò, sfiorando con affetto la spalla del migliore amico. C’erano tante cose che gli sarebbe piaciuto dirgli: frasi che non aveva avuto il tempo di abbozzare nell’aria, delineandone al meglio contorni, come in uno dei suoi disegni. Ma non aveva importanza; ci sarebbero state altre occasioni. In quel momento l’unica cosa davvero importante era il pensiero di avere nuovamente a fianco quel brontolone del suo migliore amico.

Pensai di svegliarla.

Ma non era necessario.

Ci sarebbero state altre notti.

E come si fa a dire ti voglio bene a una persona a cui vuoi bene?

Ecco il senso di tutto quello che ho cercato di dirti, Oskar.

È sempre necessario.

Molto forte, incredibilmente vicino. Jonathan Safran Foer

 

 

***

Non appena i Lockwood fecero ingresso assieme a Oliver nel salone principale della Founding Hall,  vennero accolti dal chiacchiericcio diffuso dei presenti. Notarono subito i due coniugi Donovan assieme a Carol Lockwood, dall’altro lato della sala.

“Vedete Ricki da qualche parte?” domandò Lydia, guardandosi attorno con fare apprensivo. “L’avrò chiamato dieci volte e mi ha sempre risposto la segreteria.”

“Probabilmente è rimasto a dormire a casa di qualcuno e ha dimenticato di avvertire” commentò Caroline, frugando il salone con lo sguardo. Sorrise a Vicki che le stava facendo cenno di raggiungerla, sporgendo con il capo da una porta a fondo della stanza.

“Vai pure a cambiarti” propose Lydia alla figlia, rivolgendole un sorriso rassicurante. “Io ti raggiungo subito!”

Caroline annuì e si diresse verso l’amica, fermandosi solo per salutare i Donovan e la nonna.

“Ma guardati!” esclamò Elena rivolta a Oliver, una volta raggiunto il gruppetto. “Tutto vestito elegante sembri proprio un ometto.”

 Il nipote le sorrise.

“Mamma e papa sono già qui?” chiese poi. Matt scosse il capo.

“Loro no, ma tuo fratello è venuto con noi”, rispose, dando al ragazzo una pacca sulla spalla.  “Sarà sicuramente da qualche parte, intento ad abbuffarsi di salatini.”

“Aguzza bene la vista per trovarlo, perché non si è fatto il crestino, oggi!” comunicò Elena, sorridendo divertita.

Oliver rise.

“Vado a cercarlo!” annunciò infine, prima di allontanarsi verso i tavoli del rinfresco. Quando anche Oliver se ne fu andato, le espressioni dei cinque adulti si fecero d’un tratto meno distese.

“Mason come sta?” domandò subito Carol, rivolta a Tyler.

“Sta bene, mamma” la rassicurò l’uomo, rivolgendo un’occhiata furtiva a un gruppetto di persone dall’altro lato della sala. Incrociò lo sguardo dello sceriffo Fell e i due si scambiarono uno sguardo ostile. La rabbia gli arrovellò allo stomaco e la sua espressione si fece furente: gli sarebbe bastato un rapido scatto in avanti per strappargli via la testa del corpo e a quel punto la sua famiglia sarebbe stata finalmente al sicuro.

Accorgendosi del suo cambio di espressione, Lydia gli poggiò una mano sull’avambraccio. Tyler distolse lo sguardo dallo sceriffo e tornò a voltarsi verso la madre. “L’abbiamo lasciato a casa con Caroline Forbes.” spiegò infine. “A sua sorella e a Oliver abbiamo detto che aveva l’influenza.”

“Forse è un bene che Caroline non ci sia” esordì in quel momento Matt, indicando con il capo Leanne Willard-Forbes, che in quel momento era impegnata in una conversazione con il professor Lester. “Quella donna non fa altro che gironzolare attorno a Fell. Se riuscisse a riconoscere Care non credo che impiegherebbe molto a parlarne con quell’idiota patentato dello sceriffo.”

“Faremo tutti attenzione” concluse Lydia, incrociando lo sguardo del marito, che annuì. La conversazione piombò nel silenzio fino all’arrivo dei due coniugi Gilbert. Mentre le quattro donne uscivano dal salone per andare ad aiutare Vicki e Caroline a prepararsi, Tyler riprese a parlare.

“C’è un’altra cosa che volevo dirvi” disse.  Raccontò brevemente di ciò che era accaduto la notte precedente, soffermandosi sulla conversazione fra Fell e il professor Lester e sul ritrovamento del cadavere di Finn.

“Sembrava essere morto da parecchi giorni” concluse, osservando le espressioni inorridite dei due uomini.

“Non è strano che il cadavere sia saltato fuori proprio la sera della luna piena?” domandò Matt, preoccupato. “Non pensi che qualcuno stia cercando di incastrarti?”

Tyler gli rivolse un’occhiata pensosa, prima di scuotere il capo.

“Può essere. Ma è più probabile che questo qualcuno abbia abbandonato il corpo nel bosco semplicemente per liberarsene” concluse, “Chissà da quanto tempo era lì prima che lo trovasse Ricki.”

“Da come lo hai descritto sembrerebbe più opera di un animale, che di una persona” osservò Matt. “E se fosse stato un vampiro?” azzardò, abbassando il tono di voce. “Ce ne sono in giro che si dedicherebbero a martoriare così un cadavere.”

“Non fra quelli che conosciamo” si inserì improvvisamente nel discorso Jeremy: quel mattino sembrava particolarmente assente. Continuava a rivolgere occhiate pensierose ai suoi figli che stavano chiacchierando di fronte al buffet. “Se si tratta di un vampiro deve essere qualcuno di passaggio che non si pone quindi il problema di coprire le proprie tracce. O qualcuno di inesperto. Altrimenti non avrebbe abbandonato il corpo in bella vista.”

La conversazione dei tre uomini venne interrotta dal ritorno di Carol. Tyler si guardò attorno un’ultima volta alla ricerca del figlio maggiore, prima di rassegnarsi a seguire la madre e i due amici al centro della stanza, attendendo l’inizio della cerimonia.

***

In attesa dell’arrivo di Lydia, Caroline seguì Vicki nella stanza adiacente al salone principale. Le altre partecipanti –  tutte ragazze del suo liceo - erano intente a truccarsi o a sistemarsi i capelli, aiutate dalle madri o dalle sorelle. Delle concorrenti, oltre a Vicki, conosceva bene solo Harper, la figlia dello sceriffo. La salutò con un cenno della mano e la ragazza ricambiò con un sorriso, mentre Victoria tornava indietro con in mano una trousse di trucchi. Solo a quel punto Caroline ebbe il tempo di osservare per bene l’abito bianco che fasciava il corpo slanciato dell’amica.

“Vicki, sei bellissima!” esclamò, osservandola improvvisare una posa elegante. La giovane le sorrise, visibilmente emozionata.

 “Ne ho scelto uno corto, perché sapevo già che altrimenti tuo fratello avrebbe trovato il modo di pestarmelo tutto”  spiegò, alludendo al vestito. “La sua imbranataggine è adorabile, ma non ci tengo molto a rimanere in mutande nel bel mezzo della pista da ballo.”

Caroline si morse il labbro di fronte all’entusiasmo di Victoria: Ricki non era ancora arrivato e la cerimonia avrebbe avuto inizio entro una quindicina di minuti al massimo.

“Ma dove si è cacciato?” domandò poi la ragazza, sbirciando oltre la porta che dava sulla sala principale. L’amica sospirò.

“Ricki non è ancora arrivato, Vic” ammise infine, mettendosi a mangiarsi le unghie. Era un vizio che aveva da sempre e il nervosismo lo alimentava con facilità anche in momenti come quello, dove tutto ciò che doveva fare sarebbe dovuto essere mostrarsi carina, posata e in ordine. Vicki si voltò verso di lei.

“In che senso non è ancora arrivato?” domandò, sgranando appena gli occhi. “Non è venuto con voi?”

La vivacità nello sguardo della ragazza sfumò lentamente, mentre Caroline scuoteva il capo.

“Sicuramente sta arrivando” cercò poi di rassicurare l’amica. Vicki rimase in silenzio per un po’, prima di lasciarsi sfuggire un sospiro.

“Non fa niente.” Mormorò infine, con espressione rassegnata. “Questo significa che avrò ancora i piedi tutti interi al termine della cerimonia” dichiarò poi, tornando a sorridere. “Per fortuna è venuto anche Eric: vado a chiedergli se gli va di farmi da cavaliere!”

“Vic…” la interruppe Caroline, prendendole le mani per confortarla. “Ricki sarà pure un rincitrullito per molte cose, ma non è il tipo di persona che si tira indietro quando decide di fare una cosa: arriverà.” 

Victoria annuì, ma nonostante si sforzasse di esibire il solito sorriso sbarazzino non sembrava molto convinta.

“Vado comunque a chiamare Eric” comunicò infine, abbandonando la stanza. Caroline sospirò; raggiunse la sua borsa per recuperare il cellulare e controllò il display, ma non c’era alcun messaggio da parte di Ricki. Per un attimo si sentì smarrita: un po’ le spiaceva non avere al suo fianco i suoi fratelli, quel giorno. Sapeva che Mase era a letto con l’influenza, ma non vedeva Ricki  dalla sera precedente e in quel frangente le era sembrato teso, perciò non riuscì a non sentirsi un po’ preoccupata.

“Io lo ammazzo” borbottò fra sé, controllando per l’ultima volta il cellulare, prima di riporlo nella borsa. “Giuro che gli farò il sedere a strisce se non si presenta al più presto e con una scusa più che credibile: ho una mazza da lacrosse a casa e non ho paura di usarla.”

Un paio di ragazze partecipanti alla cerimonia si voltarono a osservarla. Caroline diede una scrollata di spalle, ignorando il loro cipiglio stizzito: non era mai stata molto curata nel modo di esprimersi e non era esattamente l’emblema della femminilità, ma non avrebbe di certo incominciato a cambiare quel mattino. Sbuffando, si avvicinò alla porta che dava al salone principale e la socchiuse per sbirciare attraverso lo spiraglio. Individuò sua madre e sua nonna che parlavano fitto fitto con Hazel e gli altri membri del comitato per le feste: probabilmente stavano cercando di posticipare di poco la cerimonia, fino all’arrivo di Ricki. A qualche metro di distanza, di fronte al tavolo degli stuzzichini, Caroline trovò la persona che stava cercando. Xander sembrava intento a strafogarsi di pizzette e rotolini farciti. Gli fece cenno con la mano e, dopo il terzo stuzzichino, il ragazzo finalmente se ne accorse. Sorrise allegro e sventolò la mano nella sua direzione. Si indicò poi orgoglioso la testa, accennando ai capelli pettinati all’indietro e alla totale assenza di crestino. Caroline gli mimò un ‘bravo’ con le labbra e poi gli sorrise un’ultima volta, prima di tornare dentro. Un barlume di entusiasmo le ravvivò d’un tratto gli occhi. Le importava poi poco della cerimonia – in cuor suo sperava quasi che fosse Vicki a vincere -  ma non vedeva l’ora di scendere quella gradinata sotto lo sguardo ammirato dei presenti e di afferrare il braccio del suo sorridente cavaliere senza cresta.

***

“This was really important to my mother. It’s a legacy she left for me.”

 

(Elena)

Episode 1x19. Miss Mystic Falls

 

 

Harper si sistemò l’ultimo fermaglio tra i capelli. Quando finalmente anche l’acconciatura fu in ordine, si sedette allo sgabello di fronte allo specchio, lasciandosi aiutare dalla zia Meredith per il trucco.

A lavoro ultimato, osservarono entrambe con un pizzico d’orgoglio il riflesso sorridente della ragazza.

“Sei meravigliosa” commentò infine la donna, poggiandole entrambe le mani sulle spalle. “Sei senz’altro la nipote più bella e in gamba della cittadina: ma forse sono troppo di parte, uh?”

 

“Giusto un tantino!” ribatté la ragazza con un guizzo divertito nello sguardo, lisciando poi un lembo del suo abito con la mano. “Grazie per essere qui” mormorò infine, rivolgendo alla donna un sorriso riconoscente. Meredith le prese una mano e la strinse con dolcezza.

“Non me lo sarei persa per niente al mondo” rispose, “So quanto questo concorso sia importante per te e per Gabriel. E, anche se non riesce a dimostrarlo, tuo padre è molto orgoglioso di te.”

 

La ragazza annuì, ricambiando la stretta della zia.

 

“Andiamo a cercare Leo?”  chiese  poi, raggiungendo la porta che dava al salone principale. Cercò suo fratello con lo sguardo e lo trovò poco dopo, intento a chiacchierare con il più piccolo dei fratelli Gilbert. Leo la notò e si congedò da Oliver, prima di andare incontro a lei e a Meredith.

“Sembro un pinguino!” si lamentò immediatamente il ragazzo, accennando al suo smoking.

“Sciocchezze!” lo contraddisse la zia. “Sei un figurino, vestito così! Che te ne pare?” domandò poi, facendo girare Harper su se stessa. Leo rivolse a entrambe un sorriso luminoso.

“Sei bellissima” dichiarò poi rivolto a sua sorella, “Somigli tanto alla mamma” aggiunse, con il suo solito candore. Harper gli sorrise.

“Grazie, pulce” mormorò, scompigliandogli i capelli. Lo sguardo della ragazza si soffermò per qualche istante sulla sala, come se fosse alla ricerca di qualcuno in particolare.  Individuò suo padre intento a parlare con delle persone che non conosceva, ma non riuscì a intercettare il suo sguardo: come sempre sembrava più interessato al suo lavoro che ai tre membri della sua famiglia.

“Vado a trovarmi un buon posto all’ingresso per godermi al meglio il tuo arrivo. Tu dovresti tornare dentro, tesoro” le fece notare Meredith, prima di fare cenno al nipote di seguirla. “Andiamo, Gabriel.”

Leo sorrise un’ultima volta alla sorella e seguì la zia verso la scalinata. Harper li osservò allontanarsi per un po’, prima di tornare indietro verso la porta che dava alla saletta adiacente.

***

Erano ormai le undici passate, quando Mason si convinse ad alzarsi dal letto. Il dolore della trasformazione era scomparso, ma si sentiva insolitamente caldo e febbricitante come se si fosse svegliato nel bel mezzo di una torbida estate Californiana. Prese un paio di jeans a caso dall’armadio e se li infilò, prima di scendere in salotto ancora a torso nudo.

Caroline gli sorrise vedendolo arrivare dalle scale.

“Buongiorno!” lo salutò allegramente. Mase aggrottò le sopracciglia, bloccandosi all’ingresso.  Le rivolse un’occhiata perplessa prima di raggiungerla.

“Dove sono tutti?” chiese poi, passandosi una mano dietro la nuca.

“Alla cerimonia di Miss Mystic Falls” rispose la vampira, “Come ti senti?”

Mason prese posto sul divano.

“Brucio” farfugliò, sistemandosi i capelli sulla fronte.   È come se mi stesse andando a fuoco la pelle.”

“È normale” lo tranquillizzò la ragazza. “Il tuo corpo sta cercando di abituarsi alla maledizione. Il sistema immunitario la vede ancora come un qualcosa di esterno, una minaccia, e così la temperatura si alza. Nei prossimi mesi te ne accorgerai sempre meno.”

Mason annuì, cercando di ignorare l’ultima frase di Caroline: non si sentiva ancora pronto per pensare alle trasformazioni future.

“E queste cose, a te, chi te le ha dette?” chiese, mentre la ragazza si sedeva accanto a lui. La vampira sorrise.

“Nessuno: le ho imparate da sola.”

“In che modo?” insistette il ragazzo. Sembrava più che altro incuriosito, deciso a far dissolvere l’alone di mistero che aleggiava attorno a quella ragazza. “Dubito che esistano dei manuali sul come gestire la licantro..”

La voce di Mase si smorzò e il suo volto si contrasse in una smorfia di dolore.

“Fanculo, fa male” si lamentò a bassa voce il ragazzo, fasciandosi il torace con le braccia. “Ho la pelle che brucia.”

“Dovresti farti un bagno” gli suggerì la vampira,  “Vedrai che ti aiuta.”

Mason annuì, affrettandosi  raggiungere le scale. Una volta sola, la vampira incominciò ad aggirarsi per il soggiorno alla ricerca di qualcosa da fare. Aveva sempre preferito la compagnia alla solitudine e quando aveva dei tempi morti si sentiva un po’ a disagio, non essendo abituata al silenzio. Sfogliò un paio di riviste che erano state lasciate su un comodino e diede un’occhiata a ciò che stavano trasmettendo in quel momento in TV,ma dopo un’ora incominciò ad indispettirsi, domandandosi se non fosse il caso di salire a controllare. Era probabile che Mase fosse semplicemente tornato in camera sua, ma il vizio cronico del ragazzo di allontanarsi all’insaputa di tutti la insospettiva. Inoltre, un po’ la amareggiava quella distanza che il ragazzo cercava sempre di mettere fra se stesso e il resto del mondo – lei inclusa. Si stava ormai affezionando alla sua compagnia: i dieci minuti trascorsi assieme a lui oscillavano ancora a coprire l’ora di vuoto che li aveva seguiti.

Dopo qualche minuto un rumore leggero si frappose al silenzio della casa, ma era solo Silver che fece ingresso nel soggiorno scodinzolando. Raggiunse il centro della stanza e si accoccolò sul tappeto di fronte a Caroline.

“Ehi!” la salutò intenerita la vampira, felice di avere finalmente un po’ di compagnia. “Secondo te che cosa sta combinando quel musone del tuo padroncino?” la interrogò poi, affondando la mano nel manto dell’animale. Silver rotolò sulla schiena e si lasciò grattare la pancia, agitando di tanto in tanto la coda. Dopo averla coccolata per un paio di minuti Caroline si alzò in piedi, decidendosi a salire le scale per andare a controllare cosa stesse facendo il ragazzo.

“Mase?” lo chiamò, bussando alla porta del bagno. Seguì un silenzio interrotto solo dal rumore dell’acqua e da uno sbuffo infastidito che non sfuggì all’udito ipersensibile della vampira.

“Che c’è?” rispose finalmente il ragazzo in tono di voce strascicato. Caroline si mise a braccia conserte.

 

“Che stai facendo? È più di un’ora che sei  lì dentro.”

“Sto bene”, si limitò a rispondere il ragazzo. “Torna pure di sotto.”

Caroline si accigliò.

“Mase, esci di lì.”

“Ho detto che sto bene” ribadì il ragazzo con fare annoiato.

La vampira roteò gli occhi, irritata dal suo tono di voce.

“Guarda che sto entrando” comunicò infine, aprendo la porta del bagno. La scena che si trovò davanti le strappò un risolino. Mason era ancora immerso nell’acqua schiumosa della vasca, ma i gomiti erano appoggiati al bordo, mentre le sue mani erano intente a sfogliare un libro.

“Cosa ti ridi?” domandò scontrosamente il ragazzo, arrossendo.

 “Ti sei messo a leggere” osservò la vampira, scuotendo il capo divertita, “Non potevi farlo dopo essere uscito dalla vasca?”

Mason sbuffò.

“Di certo non avrei potuto farlo di sotto con te a fianco, perché non saresti stata zitta un attimo” ribatté, portando le braccia nella vasca per coprirsi. “Te ne vai o no? Forse non te ne sei accorta, ma sono un tantino nudo.”

Ancora una volta la ragazza si mise a ridere.

“Me ne sono accorta, ma non mi scandalizzo di fronte a un quindicenne magrolino in una vasca da bagno” lo prese in giro, alimentando il rossore sulle guance del ragazzo,  “Quindi smettila di brontolare ed esci di lì.”

Mason distolse lo sguardo con espressione più scontrosa che mai.

 “Non sono magrolino” borbottò fra sé, tornando a leggere il suo libro. Caroline inarcò un sopracciglio.

“Mase… se mangi un po’ meno sparisci” gli fece notare. Il giovane roteò gli occhi.

“Ma chi sei, mia madre?”

“Peggio” ribatté la ragazza con un sorriso. “Lo sai, ora che sei un licantropo dovresti cercare di irrobustirti” aggiunse, “Diventi più forte ogni giorno che passa e prima o poi le persone incominceranno a domandarsi come faccia un ragazzino secco come te ad avere tutta questa forza. Potresti incominciare a fare un po’ di movimento.”

“Scusa, ma che ti importa di quello che faccio io?” la rimbeccò Mason, posando il libro.

 

“Lo dico per te” precisò Caroline, abbozzando un sorriso sbarazzino. “Non vorrai mica che qualcuno si insospettisca e venga a domandarti se hai frequentato un corso di auto-difesa…” lo punzecchiò prima di mettersi a ridere, ricordandosi di quando il ragazzo le aveva posto una domanda simile. La frecciatina suscitò nuovamente il rossore sulle guance di Mason, che rivolse un’occhiataccia alla vampira.

 “Fottiti!” esclamò infine, immergendo il braccio nell’acqua e spruzzando in direzione della ragazza. Caroline si lasciò sfuggire un gridolino, colta di sorpresa.

“Hai osato schizzarmi?” esclamò stizzita, scostandosi una ciocca di capelli dal volto. Mase abbozzò un sorrisetto.

“Pare di sì” confermò,  “Vuoi che te lo faccia rivedere?” chiese, prima di sferzare nuovamente l’acqua con la mano, sollevandone un generoso schizzo. Caroline arretrò in fretta per non bagnarsi.

“Stai bagnando tutto il pavimento!” rimproverò il ragazzo, recuperando un bicchiere appoggiato al lavandino. Mase non fece nemmeno in tempo ad accorgersi delle sue manovre che un fiotto d’acqua lo aveva già colpito in pieno volto.

“Ma come diavolo…”

Si passò il dorso della mano sugli occhi, osservando poi la ragazza appoggiare il bicchiere sul rubinetto. Caroline gli aveva rovesciato l’acqua addosso e lui non l’aveva nemmeno vista avvicinarsi: come aveva fatto a muoversi così in fretta?

“Ti sei proprio impegnata” la schernì con un sorrisetto. Afferrò poi il soffione appeso sopra al rubinetto che regolava il getto d'acqua della vasca. Caroline gli rivolse un’occhiata di ammonimento, seppur non riuscendo a trattenere un mezzo sorriso.

“Se apri quel rubinetto ti affogo” lo avvertì.

 “Sì, come no” la punzecchiò Mason con un ghigno, appoggiando una mano sulla manopola. L’espressione stizzita della vampira non fece altro che accentuare l’aria beffarda del ragazzo. Mase puntò il getto d’acqua contro Caroline e spinse la manopola al massimo, ridacchiando divertito alla reazione furibonda della ragazza.

Strillando, la vampira scattò in avanti e gli sfilò il soffione di mano.

“L’hai voluto tu, stronzetto!”  dichiarò, chiudendo il rubinetto e appoggiando la mano sulla testa di Mase. Lo spinse sott’acqua, lasciandolo emergere una manciata di secondi dopo.

Mason tossì e sputacchiò, esibendo una smorfia disgustata per via della schiuma che gli era entrata in bocca.

“Oh oh oh, ma guarda un po’…” cantilenò Caroline, mentre il ragazzo si stringeva le gambe al petto per coprirsi, “Non siamo più così sbruffoni, adesso, eh?” commentò, ricominciando a spruzzarlo con l’acqua della vasca.

“Levati di torno!” ribatté il ragazzo. Si mise a ridere, riprendendo a schizzarla a sua volta.

 Anche Caroline rise, cercando di alzarsi in piedi senza scivolare. Era a dir poco sorpresa da quella situazione:  l’adolescente musone e scorbutico con cui era abituata ad avere a che fare si era trasformato tutto a un tratto in una piccola canaglia dispettosa. Non sapeva se stupirsi di più per il fatto di non aver mai sorpreso Mase a ridere così tanto o per quello di essersi accorta, cogliendo distrattamente il suo riflesso nello specchio, di avere a sua volta un sorriso che andava da guancia a guancia.

“Direi che per oggi può bastare” si sentì in dovere di concludere, attraversando il bagno per tenersi fuori portata dagli attacchi del ragazzo. “Abbiamo allagato tutto, i tuoi genitori mi uccideranno!” aggiunse, guardandosi allarmata attorno.

Mase diede una scrollata di spalle.

 

Nah, daranno la colpa a me” la rassicurò, allungandosi, per prendere l’asciugamano. “Ti spiacerebbe concedermi un po’ di privacy almeno mentre esco dalla vasca? O hai intenzione di starmi addosso per il resto della giornata?”

Caroline gli rivolse un’occhiata critica, trattenendo a stento l’impulso di spingergli la testa sotto l’acqua una seconda volta.

“Vado ad asciugarti questo” dichiarò infine, sventolandogli il libro sotto il naso. “Prenditi pure tutta la privacy che vuoi…”

“Ti ringrazio” commentò asciutto il ragazzo, frizionandosi i capelli con l’asciugamano.

 “ …Tanto quello che ti ostenti a nascondere l'ho già visto alla cripta, no?”  non riuscì a trattenersi dall’aggiungere Caroline, abbozzando un sorrisetto malizioso. Le guance di Mason tornarono a tingersi di rosso.

"Anche se, in effetti, non è che ci fosse poi così tanto da vedere..." lo stuzzicò ulteriormente la vampira.

“Te ne vai o no?” ripeté scontrosamente il ragazzo.

“Va bene, va bene!” lo tranquillizzò Caroline,  ridacchiando, prima di decidersi a raggiungere la porta.

***

Xander allungò la mano per prendere l’ennesima pizzetta da un vassoio; si guardò vivacemente attorno alla ricerca di qualche volto conosciuto. Suo fratello era rimasto con lui fino a qualche minuto prima, ma si era allontanato per andare a salutare un amico e non era ancora tornato. In quel momento la porta che dava alla stanza ospitanti le concorrenti al concorso si aprì. Notò che ne era uscita la figlia dello sceriffo Fell, una sua compagna di corsi, ma non fece in tempo a individuare Caroline, perché venne distratto da una voce alle sue spalle.

“Lascia qualcosina per gli altri ospiti, Gilbert” scherzò la persona che l’aveva appena raggiunto al tavolo degli stuzzichini.

“Professor Lester!” riuscì a mugugnare Xander ancora con la bocca piena, affrettandosi a recuperare un tovagliolo. “Anche lei qui?”

Lester gli rivolse un’occhiata pensierosa, prima di annuire.

 “Un insegnante di storia non può perdersi ricorrenze simili” spiegò, seguendo con la coda dell’occhio il via vai di gente che li circondava. “A che punto sei con la relazione di storia?”

“Quasi finita!” dichiarò fiero Alexander, pulendosi la bocca con il tovagliolo. “Avrei una domanda da farle, però.”

“Chiedi pure” rispose l’uomo. Xander rivolse un’occhiata circospetta alle altre persone vicine al buffet, prima di riprendere a parlare.

“Beh, ho scelto di scrivere la mia relazione sulla battaglia di Willow Creek a Mystic Falls, nel 1865” spiegò. Quando il professore annuì, il ragazzo riprese a parlare. “La mia domanda è: se trovassi in casa mia una fonte scrittadi quell’epoca che parla della battaglia, potrei usarlo per il mio compito?”

Lester aggrottò le sopracciglia.

“Che genere di fonte?”

“Un diario” specificò il ragazzo. “Scritto tra il 1864 e il 1865: apparteneva a uno dei miei avi, credo.”

L’espressione dell’uomo, fino a quel momento impassibile, si fece tutto a un tratto attenta.

 “Apparteneva a Jonathan Gilbert?”

Xander sgranò gli occhi, stupito dalla domanda del professore.

“Sì, proprio a lui. E lei come faceva a saperlo?”

Il professore non gli rispose. Xander prese una manciata di salatini da uno dei contenitori e proseguì con il discorso.  

“Il punto è…” biascicò, dopo essersi riempito la bocca. “ … che in questo diario il mio antenato parla anche di cose un po’…Strambe. Che  poi è il motivo per cui le ho fatto tutte quelle domande la settimana scorsa in classe: sa, le leggende che circolano su Mystic Falls, i vampiri e tutto il resto.”

Lester annuì più volte, continuando a mantenere il silenzio.

“Pensi che potresti mostrarmi questo diario?”  domandò infine, mettendosi a frugare in una tasca della giacca. Xander si aspettava che ne avrebbe tirato fuori un paio di occhiali o un blocchetto per appunti –il genere di cose che associava in automatico alla sua idea di insegnante - ma l’uomo si limitò a prendere un accendino e un pacchetto di sigarette.

“Penso di sì” rispose infine il ragazzo con espressione incerta. “Come mai lo vuole vedere?”

L’uomo prese una sigaretta dal pacchetto e rimise le restanti in tasca.

“Volevi saperne di più riguardo ai vampiri e a  ciò che li lega a Mystic Falls, giusto?”

Il ragazzo annuì.

“Forse è arrivato il momento di darti qualche risposta, allora.” Concluse Lester. “ E quel diario ci sarebbe d’aiuto. Sei l’erede di una delle quattro famiglie fondatrici ed è giusto che tu conosca almeno in parte il segreto che accomuna i Gilbert, i Lockwood, i Forbes e i Fell. Ora, se vuoi scusarmi…” concluse poi, mostrandogli la sigaretta e indicandogli l’uscita.

“Ma certo!”

Xander lo osservò allontanarsi con espressione pensierosa, riflettendo sugli ultimi scambi di battute che aveva avuto con il professore.

***

Poco distante Harper si stava ancora aggirando vicino ai tavoli del buffet, in attesa di raggiungere le altre aspiranti miss nella saletta. Aveva appena ricevuto un messaggio dal suo accompagnatore, Bryant, e lo stava cercando per assicurarsi che si ricordasse dove aspettarla per accompagnarla sulla pista da ballo. Voleva molto bene a Bryant –tiravano di scherma assieme fin da bambini – ma l’amico era anche una delle persone più smemorate e confusionarie di sua conoscenza, perciò voleva assicurarsi che non combinasse alcun disastro. Harper era sul punto di tornare indietro per cercarlo dall’altra parte del salone, quando per caso ascoltò parte della conversazione che stava avendo luogo fra il suo professore di storia e uno dei suoi compagni di corso, Alexander Gilbert.  A catturare la sua attenzione fu il fatto che nel discorso dell’insegnante venissero menzionati i Fell. Rimase in silenzio, fingendo di essere intenta a scegliere uno degli stuzzichini; Lester stava parlando di un segreto legato alle quattro le famiglie fondatrici, tra cui i Lockwood. La mente della ragazza prese a lavorare rapidamente, portandola a riflettere sugli stralci di conversazione fra suo padre e sua zia che aveva origliato di frequente. Che quel segreto fosse legato all’accanimento dell’uomo nei confronti di quelle persone?

Xander aveva anche menzionato delle leggende, racconti simili a quelli di cui aveva spesso sentito parlare per via del padre. L’attenzione di Harper venne attirata da un paio di parole in particolare: una era ‘diari’. Il suo compagno di classe aveva una testimonianza scritta che confermasse quelle leggende? E i vampiri che cosa centravano?

I pensieri della ragazza vennero interrotti dal saluto amichevole del maggiore dei fratelli Gilbert, che si era appena accorto della sua presenza al tavolo del rinfresco. Solo in quel momento Harper si accorse che l’insegnante si stava allontanando verso l’ingresso.

“Ehilà!” la salutò con un sorriso Xander, prima di accennare al suo abito con un cenno del capo. “Urca! Stai benissimo!”

Harper ricambiò il sorriso.

“Grazie!” rispose, improvvisando scherzosamente una riverenza. “Che fine ha fatto la tua cresta?”

Xander si passò una mano sui capelli lisci.

“Ho dovuto farne a meno per oggi, anche se un po’ mi manca…Povero Tino: non vorrei mai che si sentisse abbandonato dal suo papà!” scherzò, prima di cambiare argomento. “Chi è il tuo accompagnatore?”

“Bryant Cooper” rispose la ragazza, riprendendo a guardarsi attorno. “Che tra l’altro dovrebbe essere qui da qualche parte, ma non riesco a trovarlo.”

 “Cooper!” ripeté Alexander, improvvisamente ravvivato. Conosceva piuttosto bene Bryant, perché era il portiere della quadra di hockey della scuola. “Sono contento che ci sia anche lui, deve ancora scusarsi per avermi massacrato all’ultimo allenamento.”

Harper sorrise, ma non aveva prestato molta attenzione alle sue parole: la mente della giovane era ancora impegnata in tutt’altro tipo di riflessioni.

“Ho visto che stavi parlando con il nuovo supplente di storia” affermò infatti poco dopo, “Sembra essersi ambientato bene qui.”

Xander diede una scrollata di spalle.

“Direi di sì. Anche se, pur essendo nuovo, sa tante di quelle cose su di noi che un po’ mi da i brividi!” ammise, stringendosi nelle braccia. “Ed è pure un gran curiosone!

“In che senso “su di noi?” chiese Harper, rivolgendogli un’occhiata interrogativa. Xander si procurò un piatto e lo riempì di salatini.

“Intendevo dire che sa tante cose sulla storia delle nostre famiglie. E secondo me vorrebbe anche saperne di più, perché mi fa sempre un mucchio di domande.” concluse, riempiendosi la bocca di cibo per l’ennesima volta. L’espressione di Harper si fece d’un tratto insospettita.

“Che c’è di speciale nella nostre famiglie da poter interessare così tanto un professore che arriva da New Orleans?”

Xander fece di nuovo spallucce. Prima che potesse risponderle, tuttavia, la sua attenzione venne catturata da qualcos’altro. Le ragazze iscritte al concorso avevano appena fatto ingresso nel salone principale e si stavano avviando verso la gradinata sotto lo sguardo incuriosito di tutti i presenti. Xander individuò subito Caroline e si sorprese ad osservarla incantato per qualche istante. Provò quasi impaccio, nell’accorgersi di quanto fosse rimasto colpito nel vedersela arrivare così bella, posata e femminile – in aperto contrasto con la Caroline giocosa e maschiaccio che era solito coccolare con affetto quasi fraterno.

Nell’individuare la sua espressione sorpresa Caroline estese il suo sorriso, facendogli cenno con la mano di raggiungerla.

“Puoi scusarmi?” domandò meccanicamente Xander rivolto ad Harper, prima di incamminarsi verso la gradinata. La ragazza annuì, seppur apparendo a sua volta ancora distratta.

Qualcuno gli bussò sulla spalla e Harper riuscì finalmente a mettere momentaneamente da parte i suoi pensieri. Era un ragazzo alto e corpulento, in smoking.

“Ti ho trovata, finalmente!” esclamò Bryant, trafficando con il nodo della cravatta. “Nel messaggio hai scritto che stavi parlando con Gilbert e mi sono messo  a cercare qualcuno con un crestino da gallo in testa, ma lui non l’aveva, per questo non vi trovato!”

“L’importante è che sei qui ora” lo rassicurò la ragazza, spostando poi lo sguardo verso la gradinata. “Devo salire con le altre ragazze. Hai capito dove devi aspettarmi?”

L’amico annuì.

“Sono quasi convinto di sì, ‘Leen*, ti prometto che non farò danni” rispose tranquillo il ragazzo, osservando le altre concorrenti che erano già ai loro posti. “Ma quella è la Lockwood?” domandò poi, notando la ragazza bionda a cui era appena andato incontro Xander. Harper abbozzò un sorrisetto.

“Sì, Cooper, è lei. Sappi che se ti metti a sbavarmi sul vestito le chiedo in prestito la mazza da lacrosse e te la tiro in testa” commentò, notando l’espressione imbambolata del suo cavaliere, “La smetti di tormentare quel povero affare?”  aggiunse poi, alludendo alla cravatta.

Bryant si grattò la testa con fare imbarazzato.

“Ti prego, mi aiuti a sistemare il nodo?” la supplicò. “Mi sono impegnato per farlo bene, ma è venuto male comunque: sono una frana con queste cose.”

“Sei il solito casinista” commentò affettuosamente Harper, abbozzando un sorriso. Lo aiutò con il nodo e si avviò a  passo svelto verso le altre ragazze, sforzandosi di pensare solo allo sguardo ammirato dei presenti, all’occhiolino incoraggiante di Bryant e al sorriso raggiante di sua zia e di suo fratello. Tuttavia, un unico pensiero fastidioso continuava a tormentarla, nonostante in quel momento lo trovasse decisamente fuori luogo. Il ricordo della conversazione origliata fra Xander e il professor Lester la distraeva, perché era convinta del fatto che fosse in qualche modo legato al litigio fra suo padre e la zia Meredith. Si era annotata mentalmente tre cose che, pensava, l’avrebbero aiutata a trovare una risposta alle sue domande: Mystic Falls, 1864. Vampiri.

 

***

You seem to be in a good mood.”

Is that a bad thing? Would you prefer me to be brooding and tortured?

Hey, I’m not complaining!”

 

(Elena e Stefan)

Episode 1x19. Miss Mystic Falls

 

Dopo aver concesso a Mason la sua tanto bramata privacy, Caroline si spostò in camera sua per aspettarlo. Il ragazzo arrivò qualche minuto più tardi, tenendo in mano una T-Shirt ripiegata.

“È di mia sorella” spiegò in risposta all’occhiata interrogativa della ragazza, passandogliela. “Così puoi cambiarti”.

Caroline gli sorrise.

“Ti ringrazio”  rispose, osservandolo recuperare il libro che gli aveva appoggiato sul comodino.  “Credo che mi sia entrata acqua addirittura nei calzini, sei proprio uno  stronzetto.”

Mason diede una scrollata di spalle.

“Se hai bisogno di altri vestiti, li puoi prendere in camera di Caroline” spiegò, sedendosi sul letto.  “Puoi cambiarti qui, se vuoi” aggiunse, abbozzando un sorrisetto malandrino. La vampira inarcò un sopracciglio.

“Dovrei spogliarmi con te nella stanza?”

Il ragazzo fece nuovamente spallucce.

“Beh, tu mi hai visto nudo, quindi non vedo perché no.”

“Ma senti un po’ questo!” lo rimbeccò Caroline, schiaffeggiandolo con la maglietta. Mason ridacchiò, sollevando un braccio per ripararsi. La giovane scosse il capo con fare esasperato, per poi concedersi un sorriso. Erano rare le volte in cui lo vedeva comportarsi come un semplice ragazzino della sua età – senza l’espressione tesa e diffidente che caratterizzava di norma il suo volto. Ipotizzò che quell’ondata improvvisa di buon umore fosse collegata al fatto di aver superato la prima luna piena.

“Ti senti meglio?” domandò, con una punta di apprensione nello sguardo. Mase annuì; aprì il libro e riprese a leggere.

“Perché non sei andata alla cerimonia?” chiese poi.

Caroline sospirò.

“Non sono cresciuta a Mystic Falls, quindi non mi interesso molto alle sue tradizioni” mentì. Richiamò alla mente  il ricordo ancora vivido del giorno in cui era stata eletta Miss della cittadina. Risaliva ormai a una trentina di anni prima, ma era stato uno dei suoi momenti più belli e significativi della sua adolescenza e al rievocarlo le spuntava sempre un sorriso.

Mason le rivolse un’occhiata poco convinta.

“I Forbes sono una delle quattro famiglie fondatrici. Se ti fossi candidata ti avrebbero iscritto al concorso di volata” osservò.

“Non fa niente, tanto non avevo un cavaliere” rispose la ragazza. Ricordò in silenzio il momento in cui aveva sceso le scale della Hall dei fondatori in compagnia del suo accompagnatore. Quel pomeriggio Matt non aveva potuto accompagnarla, ma si erano rifatti alla parata, di cui ricordava ancora bene il bel carro intarsiato di fiori a bordo del quale lei salutava sorridente, con il braccio del fidanzato che le cingeva il fianco.

Mase fece spallucce.

“Figurati se una come te non lo trovava...” commentò, voltando pagina.

Caroline gli rivolse un’occhiata sorpresa, distolta d’un tratto dai ricordi della sua adolescenza.

"Una come me?" ripeté, cercando di capire cosa intendesse.

Mase annuì, ma la sua attenzione sembrava già essersi nuovamente spostata al suo libro: come al solito, l’intenzione del ragazzo di fare conversazione era sfumata piuttosto in fretta.  Caroline decise di lasciarlo leggere tranquillo. Si spostò nella camera a fianco per cambiarsi e, una volta tornata, accese il televisore. Non voleva insistere con Mason, ma non le andava nemmeno di attendere da sola in salotto il ritorno degli altri Lockwood. Facendo zapping trovò una vecchia telenovela e incominciò a seguirla. Dopo nemmeno dieci minuti, Mase incominciò a mostrare segni di irrequietezza.

“Questi programmi mi danno sui nervi” commentò infine, rubandole il telecomando di mano. “Non c’è proprio nient’altro che vuoi vedere?”

Caroline gli diede uno schiaffetto sul polso.

“Giù le mani, peste” lo ammonì, riappropriandosi dell’oggetto. “Non si ruba il telecomando agli ospiti: cos’è, siamo già diventati migliori amici?”

Mason cambiò canale, scuotendo il capo.

“Scordatelo: ce l’ho già il migliore amico” ribatté.

“Comunque, smetterei volentieri di guardare la telenovela, se ti degnassi di rivolgermi la parola” commentò la vampira , spegnendo il televisore. “Perché non chiacchieriamo un po’?”

“Ma abbiamo già chiacchierato”  le fece notare Mase, abbozzando un sorrisetto.

Caroline gli rivolse un’occhiata interdetta.

“Nemmeno due minuti!”  contestò.

Il ragazzo roteò gli occhi, lasciando ricadere il capo sul cuscino.

“Com’è New York?” si arrese infine. Caroline sorrise.

“È bella, movimentata” rispose, avvertendo una lieve fitta di nostalgia. “A Stefan piace definirla fresca. Penso intenda dire che lì si riesce sempre a scovare qualcosa di nuovo.”

“Stefan è tuo ragazzo?” 

“Il mio migliore amico” lo corresse la ragazza.

“E non ti manca?”

Caroline annuì

“Molto” ammise. Viveva assieme a Stefan ormai da più di dieci anni e i primi tempi, dopo il suo ritorno in Virginia, aveva trovato difficile dissimulare l’abitudine di averlo sempre attorno. “Ma nemmeno lui è a New York in questo momento: è andato a trovare suo fratello a New Orleans.”

Mason assunse un’espressione pensierosa.

“Non credo che riuscirei a vivere da un’altra parte rispetto a Oliver” ammise infine, prima di rivolgere alla ragazza un sorriso sornione. “E a Stefan l’hai detto che ti sei presa una sbandata per un tizio di mezza età?” chiese, intrecciando le dita dietro la nuca e appoggiandosi al muro dietro al letto. Caroline gli rivolse un’occhiata allibita

“Scusa?”

“Sto parlando di papà, ovviamente” specificò il ragazzo. “Ho visto come lo guardi.”

“Non ho una cotta per tuo padre!” lo rimbeccò stizzita la ragazza, seppur sentendosi d’un tratto a disagio.

“Come vuoi” commentò, dando una scrollata di spalle. La ragazza sospirò. Tutto a un tratto si sentì gravare addosso il peso di tutti quei segreti che stava cercando di mantenere da quando era tornata a Mystic Falls.

 “Ci sono diverse cose che non sai, Mase” si limitò a spiegare.

“Questo me l’hai già detto” rispose il ragazzo. “Ma avevi anche detto che me ne avresti parlato dopo la luna piena” le ricordò poi. Caroline ricambiò il suo sguardo per un po’, prima di sorridere.

“Com’è che oggi sei così chiacchierone?” osservò.

“E tu com’è che oggi ti comporti come una della tua età? Di norma sembri vent’anni più grande.” ribatté il ragazzo, tornando a riaprire il suo libro. Caroline glielo tirò via da sotto il naso.

“Che diavolo c’è, adesso?” sbottò Mase, rivolgendole un’occhiataccia.

“Non ti stanchi mai di leggere?” domandò la ragazza, scorrendo rapidamente le pagine “Non sembra nemmeno interessante, come libro.” Aggiunse. Si aspettava l’ennesima delle sue rispostacce, ma il ragazzo si limitò a sbuffare.

“Vuoi che metta un film?” domandò infine Mase, dirigendosi verso il televisore.

Caroline annuì.

“Che cosa vuoi vedere?”

“Qualcosa di romantico!” esclamò la ragazza, mettendosi comoda sul letto. Mason roteò gli occhi.

“Ma anche no.”

“Tu che cosa vuoi vedere?”

“Qualcosa di intelligente.”

“Oh, Mase… ” esordì la ragazza, sospirando esasperata “ …non ci credo che hai quindici anni.”

Dopo qualche minuto di battibecco i ragazzi riuscirono finalmente ad accordarsi per il film. Seguirono i primi quindici minuti in silenzio, distratti solo dall’arrivo improvviso di Silver che si accoccolò ai piedi del letto di fronte a loro. Mase si sentiva ancora fiacco, ma il dolore era svanito e la sua temperatura corporea, sebbene si sentisse ancora le mani e la fronte particolarmente calde, doveva essersi abbassata, perché la pelle aveva smesso di bruciargli.

A venti minuti scarsi dall’inizio del film, Mase scoccò una rapida occhiata a Caroline, aggrottando appena le sopracciglia.

“Stai seguendo?” domandò infine, notando la sua espressione distratta. “Se non ti piace lo possiamo cambiare.” propose, alzandosi per raggiungere il televisore. La vampira scosse il capo.

“No, mi piace” lo rassicurò la ragazza, trattenendolo per il polso. “Va benissimo, davvero.” 

Mason le rivolse un’occhiata poco convinta, ma alla fine tornò a sedersi. Caroline spostò lo sguardo verso la TV, concentrandosi sulle immagini che riempivano lo schermo. Il film che avevano scelto sembrava interessante, ma per quanto si sforzasse non riusciva a seguire la vicenda più di tanto. C’era qualcosa in quella stanzetta silenziosa, nei movimenti casuali della coda di Silver e nel battito regolare del cuore di Mase che era riuscita a rilassarla a punto tale da assopirla, quasi come una ninnananna.  Le mille problematiche comportate dal suo ritorno a Mystic Falls erano cadute in secondo piano, così come la paura e la frustrazione della sera precedente. Quel pomeriggio si sentiva umana: umana quanto il corpo caldo del ragazzo seduto di fianco a lei. Per questo le venne spontaneo appoggiare il capo sulla spalla di Mase per racimolare un po’ di quel calore. Finse di dimenticare per un istante quanto lo mettesse a disagio quel genere di contatto e le fu di conforto scoprire che il ragazzo non sembrava intenzionato a scansarsi. Cullata da quella atmosfera confortevole Caroline socchiuse gli occhi, ignorando il fatto che il tempo di comportarsi come una ragazzina fosse sfumato ormai da tempo.

***

“In the running for miss Mystic Falls?”

 Sometimes you have to wear unconfortable hills to blend in.

I remember this event from 1864; I was supposed to enter before everything happened.”
AhhNostalgia’s a bitch.”

(Damon & Annabelle)

Episode 1x19. Miss Mystic Falls

Caroline trasse un profondo respiro, mentre Harper si preparava a scendere la gradinata per prima: stando all’ordine alfabetico a cominciare avrebbe dovuto essere Victoria, ma Carol Lockwood aveva pensato di farla scendere alla fine, nella vana speranza che Ricki si presentasse all’ultimo minuto. Caroline si affacciò oltre la ringhiera, osservando con un sorriso i cinque cavalieri che avrebbero scortato le partecipanti al concorso: Bryant era il primo seguito da Alexander, che continuava a guardare in alto verso di lei, come se avesse paura di commettere qualche errore. Caroline gli sorrise e si avvicinò alla scalinata, mentre Harper veniva scortata fuori dalla Hall dei fondatori dal suo cavaliere. Si voltò verso di Hazel, che aveva il compito di annunciare una ad una le partecipanti al concorso, e la donna le fece l’occhiolino.

“La signorina Lockwood” esclamò poi, sbirciando in basso e osservando il figlio con un pizzico di orgoglio. “E il suo accompagnatore Alexander Gilbert.”

Caroline incominciò a scendere la gradinata, arrossendo per gli applausi dei presenti: non aveva mai mostrato alcun tipo di imbarazzo di fronte alle decine di persone che riempivano le tribune durante le sue partite, ma quella era una circostanza del tutto diversa. Mentre scendeva individuò i genitori nella calca, in prima fila assieme ai Donovan e al signor Gilbert: sua madre la stava incoraggiando con lo sguardo e suo padre le sorrideva orgoglioso. Quella cerimonia le parve un successo già solo per essere riuscita a distendere per qualche minuto l’espressione d Tyler che nel corso dell’ultimo periodo le era parso costantemente preoccupato e nervoso.

La ragazza raggiunse finalmente Xander che le sorrise, facendo un passo verso di lei. Lo aveva già visto un paio di volte prima dell’inizio della cerimonia, eppure ogni volta si sorprendeva ad osservarlo un po’ intenerita e a stupirsi, per come avesse acconsentito a farle da cavaliere in maniera così spontanea. Per un giorno aveva scelto di mettere da parte la cresta e gli atteggiamenti un po’ infantili solo al fine di renderla felice.

 “Sei bellissima” dichiarò in quel momento il ragazzo, chinandosi in avanti verso di lei per farsi sentire oltre la musica. Caroline si morse appena il labbro, sforzandosi di trattenere il sorriso più vistoso del mondo.

Mentre la coppia attraversava la sala per raggiungere l’esterno della Hall, Oliver li osservava sfilare con un sorriso a pochi metri di distanza da Leo e Meredith Fell.

“Quelli sono mio fratello e la sorella di Mason” mormorò all’improvviso, apparentemente a nessuno in particolare. Sorrise alla sua sinistra e solo lui riuscì a scorgere lo sguardo addolcito di una ragazza che stava ricambiando il suo sorriso.

“Lo so” rispose Annabelle, tornando ad osservare la coppia. “Sono carini assieme!”

Oliver annuì, spostando poi lo sguardo verso la gradinata, dove Victoria aveva appena incominciato a scendere le scale. Tutte le partecipanti erano molto belle e sorridenti, ma quel mattino c’era qualcosa in Vicki che colpiva in maniera particolare, puntandole conto i riflettori: era evidente che a quel concorso tenesse davvero molto. Oliver aveva temuto che  l’assenza di Ricki avrebbe potuto smorzare il suo entusiasmo, ma fu felice di intravedere il sorriso solare che rivolse a Eric, nel momento in cui lo raggiunse, superando l’ultimo gradino.  Il giovane batté le mani e si voltò nuovamente verso di Annabelle, che stava osservando ammirata Vicki. Stava sorridendo, ma il ragazzo non faticò a scorgere una punta di malinconia nel suo sguardo. Non poté fare a meno di domandarsi a cosa stesse pensando: se si stesse immaginando al posto di Victoria, vestita in maniera splendida e con a fianco un cavaliere pronto a danzare con lei. Tese la mano per stringere quella della ragazza; Anna la prese e, anche se Oliver non sentì nulla, per un attimo gli parve quasi di poterne percepire almeno il calore. Indirizzò una rapida occhiata ai genitori e ai suoi zii, prima di rivolgersi nuovamente alla ragazza.

“Vieni con me” mormorò infine, facendo bene attenzione che nessuno lo stesse guardando. “Ti porto in un posto.”

Annabelle gli rivolse un’occhiata sorpresa, ma alla fine annuì, lasciandosi guidare lontano dalla calca di persone.

Mentre i due ragazzi si allontanavano, Ricki stava correndo trafelato verso l’edificio, facendo voltare i presenti che si erano sistemati al fondo dell’atrio.  Aveva i capelli scompigliati, la giacca sbottonata e  l’aria stravolta da chi si è appena alzato dal letto – senza tenere conto del fatto che ancora zoppicava leggermente. 

Quando raggiunse il salone principale Victoria  aveva da poco afferrato la mano del suo accompagnatore. La osservò avanzare sorridente verso l’esterno della Hall dei fondatori sotto lo sguardo ammirato dei partecipati, la mano riposta in quella di Eric. Ricki avrebbe voluto mettersi in mezzo e chiedere al ragazzo di farsi da parte, ma non era sicuro che fosse il caso. Victoria l’aveva visto arrivare e il suo sguardo sembrava essersi fatto più acceso per un istante, ma si era subito spostato oltre, come se la cosa non avesse più poi così tanta importanza. Forse era davvero così. Era difficile far cadere Vicki nello sconforto e non era di certo la prima volta che Ricki la deludeva eppure, quel mattino,  il ragazzo provò un insolito disagio al pensiero di non aver mantenuto fede all’impegno che aveva preso con lei.

E più Vicki sorrideva, stringendo la mano del suo cavaliere, più Ricki avvertiva il timore di aver fatto accadere l’irreparabile.

Volente o nolente, doveva trovare il modo di rimediare.

 

Angolo Links pre-polpettone.

1.         Qui potete trovare il gruppo Facebook con foto, informazioni, anticipazioni, fumetti, foto  e quant’altro a proposito di History Repeating.

2.         Durante il periodo di pausa fra il precedente capitolo e questo ho pubblicato un paio di missing moments della storia che trovate qui!

 

Il polpettone (aka le note dell’autrice).

*Buckster è l’amico immaginario del piccolo Damian

**Bryant chiama Harper ‘Leen, perché è il soprannome che le hanno affibbiato gli amici e i familiari. Sta per Arleen che è il suo secondo nome, così come il nome della madre.

Buon pomeriggio! Intanto ringrazio Ely 91 per aver letto in anteprima il capitolo, segnalandomi gli errori di battitura!

Il capitolo è venuto di nuovo troppo lungo, nonostante l’abbia diviso in due parti: sono davvero senza speranze! Ormai mi conoscete, mi sa che non ne posso fare a meno. C’è troppa roba da dire e troppi personaggi da gestire ed è davvero difficile condensare tutto in pochi capitoli. Provo a commentare il capitolo in generale nella maniera più breve possibile. In questa prima parte abbiamo assistito ai preparativi della cerimonia. Abbiamo approfondito un personaggio introdotto per la prima volta nello scorso capitolo, Harper, che abbiamo visto interagire per la prima volta con uno dei protagonisti: Xander. Quest’ultimo si sta addentrando sempre di più nella storia della sua famiglia, grazie a Lester e Harper sta incominciando a sospettare qualcosa a sua volta. In questo capitolo è stato anche brevemente introdotto un personaggio, Bryant Cooper – amico di Harper, Xander e Caroline - che apparirà di tanto in tanto nei prossimi capitoli. Un piccolo cameo l’ha fatto anche il briccone Damian, il cuginetto dei Lockwood che già aveva fatto comparsa in “A Very Lockwood Christmas”. Nel frattempo, mentre alla Hall dei Fondatori le tre miss si preparavano a scendere la gradinata principale, una ‘ex’ miss era occupata a fare da baby-sitter al musone di casa Lockwood! Mase sta incominciando a mettere un po’ da parte la sua diffidenza nei confronti di Caroline, specialmente per via di ciò che è accaduto durante la luna piena. Dopo la prova difficile che è stato costretto ad affrontare la sera precedente un po’ della paura e della tensione se ne sono andate, così abbiamo avuto l’occasione di vedere il piccolo dei fratelli Lockwood un po’ più sereno, rispetto al solito.

Nella prossima parte del capitolo avremo il proseguo della cerimonia (Ricki deve ancora farsi perdonare), qualche ballo e il ritorno a casa dei Lockwood.

Il prossimo mese sarò parecchio impegnata con il lavoro, quindi dubito che la nuova parte possa arrivare prima di Agosto! In ogni caso, per qualsiasi aggiornamento, informazione e altro, comunico sempre tutto QUI, nel gruppo Facebook dedicato alla storia.

 

Un abbraccio!

 

Laura

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Capitolo 16
*** 12. Miss Mystic Falls (p. 2) ***


 

Chapter 12.

Miss Mystic Falls.

(part 2.)

 

“Hai visto come sono bravo?” esclamò Xander, appoggiando una mano sulla vita di Caroline. La ragazza si strinse a lui, sorridendo divertita. Era da poco terminato il primo giro di danze e le coppie protagoniste del concorso stavano cominciando il secondo in compagnia di alcuni presenti. “So fare perfino il casquet, vuoi vedere?”

Caroline si mise a ridere.

“Sei un bravo ballerino” lo appoggiò, premendo una mano sulla sua spalla. Alexander gonfiò il petto, sorridendo orgoglioso.

“Non si può dire lo stesso di tuo fratello, eh?” commentò, indicando Ricki con un cenno del capo. Il giovane stava ondeggiando a ritmo di musica a fondo pista, suscitando l’ilarità di un gruppetto di ragazze che l’attorniava. Caroline scosse il capo rassegnata: fare il buffone durante gli eventi più formali di Mystic Falls era tipico di suo fratello. Aveva un talento naturale nel riuscire ad attirare l’attenzione e sapeva sempre come ravvivare l’atmosfera, quando le cose incominciavano a farsi noiose.

“E il piccolo teppista dove l’hai lasciato?” chiese ancora Xander, guardandosi attorno alla ricerca di Oliver. Non riuscì ad individuare nemmeno lui.

“A casa con l’influenza” rispose la ragazza, dando una scrollata di spalle. “Mi preoccupa un po’, ultimamente” ammise poi. “Si comporta in modo strano, è sempre nervoso e sembra più distaccato del solito.”

“Ma va, sta benissimo” la rassicurò bonariamente Xander. “Magari si è trovato la fidanzatina. Tra l’altro, a proposito di fidanzati, dame e accompagnatori…” aggiunse, facendo ruotare leggermente Caroline per poterle indicare qualcuno alle sue spalle, “…Sembra che al cavaliere di Harper caschi un po’ troppe volte l’occhio verso di te” osservò, mentre Caroline sbirciava in direzione della coppia. Intercettò lo sguardo di Bryant che le sorrise, chinandosi poi in avanti per sussurrare qualcosa nell’orecchio alla sua dama.  “Il buon vecchio Cooper si è preso una cottarella, mi sa!” proseguì Xander, abbassando il tono di voce. “Mi toccherà fargli il sedere a strisce durante i prossimi allenamenti di hockey!”

“E perché mai?” lo interrogò la ragazza, inarcando un sopracciglio. “Non sarai mica geloso, Xander Bello?”

L’amico le fece la linguaccia

 “Proprio no, nanetta, ma ho promesso a tuo fratello maggiore che ti avrei tenuta d’occhio” spiegò, facendole fare una giravolta. “Et voilat! E poi insomma, stiamo parlando di Cooper” aggiunse, tornando ad appoggiare una mano sul fianco di Caroline. “Dai, quello si spreme il formaggio spray direttamente in bocca! Non va bene per un tipetto schizzinoso come te!”

“Parli proprio tu che odori sempre di biscotti e patatine!” lo rimbeccò Caroline, dandogli un colpetto con il piede.

“Beh, ma quelli sono buoni! Io profumo!” si difese tronfio il ragazzo, prima di abbandonare l’espressione scherzosa. “Ti ho già detto che vestita così stai benissimo, vero?” chiese.

Caroline si sentì arrossire. Distolse lo sguardo, non riuscendo a non sorridere.

“Anche tu sei carino” rispose, analizzando con tenerezza l’aspetto insolitamente curato ed elegante dell’amico, “Anche se ammetto che il tuo crestino un po’ mi manca: non c’è gusto a spettinarti così e non posso nemmeno più chiamarti porcospino!” gli fece notare, improvvisando un broncio infantile. Xander sorrise.

 “Io invece posso ancora chiamarti nanetta bionda, guarda un po’!” commentò scherzosamente. “Mi hai sorpreso, signorina Lockwood” esclamò poi, tornando ad assumere lo sguardo addolcito di poco prima. “Non pensavo che avresti accettato sul serio di partecipare alla cerimonia. È stato bello vederti scendere da quelle scale.”

Caroline sorrise.

 “Sono felice di averlo fatto, sai?” ammise, distogliendo lo sguardo, appoggiando il capo sul petto del ragazzo.

Lo era davvero.

“Sono felice anch’io.”

Xander le sorrise. Si chinò in avanti per posarle un bacio sui capelli e tornò a cingerle la vita, guidandola lungo la pista da ballo. A prescindere da come si sarebbe concluso il concorso, Caroline sentiva di aver già ottenuto una piccola vittoria.

 

***

I'm dying to catch my breath

oh why don't I ever learn

I've lost all my trust that I'm sure we try to

Turn it around

 

All I Need. Within Temptation

 

Dopo l’ennesimo bicchiere di vino e qualche risata strappata ad alcune ragazze che aveva conosciuto quel mattino, Ricki incominciò a domandarsi come se la stesse passando Vicki. La cercò al centro del salone e la trovò intenta a ballare un lento assieme al suo accompagnatore. Sembrava radiosa; per nulla delusa, in apparenza, dalla presenza di Eric al suo fianco, lì dove avrebbe dovuto esserci lui. Il giovane sbuffò, posando il bicchiere ormai vuoto sul tavolo e si incamminò zoppicante lungo lo spiazzo adibito al ballo. Intercettò l’espressione vivace di sua sorella che stava ridendo di qualcosa che Xander le aveva appena sussurrato all’orecchio. Le fece l’occhiolino e raggiunse Victoria, facendo del suo meglio per non esordire in smorfie di dolore ogni volta che poggiava il piede a terra. Si schiarì la voce e picchiettò una mano sulla spalla di Eric, che gli rivolse un’occhiata incuriosita.

“Ehilà!” esclamò,  stringendosi nelle spalle. “Bella cerimonia, eh?”

 “Che cosa c’è, Ricki?” lo interrogò Victoria. Non c’era rabbia o delusione nel suo sguardo, ma nemmeno il classico brillio di vivacità che era solito ravvivarlo.

“Quindi sei tu Ricki?” chiese l’accompagnatore della ragazza, aprendosi in un sorriso amichevole. “Io sono Eric” comunicò , tendendogli la mano. Ricki la strinse, analizzando circospetto l’espressione imperturbata del giovane. Aveva l’aria di essere una bravo ragazzo e la cosa, stranamente, lo infastidì.

“Sì, molto piacere” rispose sbrigativo, ritirando la mano. “Ti spiace se prendo in prestito la tua dama per un ballo?”

Tornò ad osservare Victoria che sembrò esitare, combattuta tra la sorpresa e il desiderio di opporsi. 

Eric si voltò verso di lei come a volersi assicurare che fosse d’accordo. Vicki gli rivolse un timido cenno del capo che risultò fuori luogo, in contrasto con i modi di fare esuberanti e decisi che la caratterizzavano in genere. Eric si allontanò e Vicki si lasciò guidare da Richard al centro dello spiazzo lasciato libero per le danze.

L’emozione provata nel momento in cui lui la cinse per i fianchi si affievolì in fretta, respinta dal ricordo della delusione di poco prima. Ripensò al proprio sguardo che frugava speranzoso la folla e non riuscì a non rivolgergli un’occhiata di rimprovero, nel sistemargli le braccia attorno al collo.

 Non era la prima volta che le capitava di aspettarlo inutilmente. C’era una parte di lei che aveva l’abitudine di cercarlo ovunque, senza nemmeno sforzarsi di nasconderlo. Alle feste, sugli spalti durante le partite e perfino in giro per casa, quando Jeffrey non era in Florida. Vicki era abituata a non lasciarsi intaccare dalla delusione quando  le sue ricerche non andavano a buon fine, ma quella volta le cose erano andate in maniera diversa. Era stato Ricki a decidere che ci sarebbe stato, a promettere che si sarebbe fatto trovare.  La sua promessa, tuttavia, non era stata mantenuta.

Sospirò, decidendosi finalmente a ricambiare lo sguardo del ragazzo. Avere quegli occhi scuri che la osservavano così da vicino riusciva sempre a provocarle il bisogno di dimezzare ulteriormente la distanza tra di loro. Quel pomeriggio, tuttavia, la sua attenzione venne focalizzata su altro.

“Hai un aspetto orribile” annunciò, alludendo all’aria stanca del ragazzo e al suo aspetto scombinato. Ricki tirò un sospiro di sollievo.

“Grazie per aver aperto bocca. Quando stai zitta troppo a lungo mi inquieti un attimino.”

“Si può sapere che avevi di tanto urgente da fare stamattina?” chiese la ragazza, osservandolo con insistenza. In quel momento Ricki le pestò un piede, ma Vicki non sembrava affatto turbata dai suoi movimenti impacciati sulla pista. “E come mai zoppichi? Sei andato a giocare a calcio?”

“Magari” commentò il ragazzo, prima di intercettare la sua espressione interrogativa. “Intendevo dire… magari ci fossi andato ieri sera. Non parlavo di questa mattina!” si affrettò a specificare. “Il fatto è che ieri, dopo il Grill, ero talmente esausto che mi sono addormentato sul volante. Ho dormito in macchina e mi sono svegliato tardi, così sono corso a casa per cambiarmi. Ho cercato di arrivare qui in tempo, ma ho mancato l’inizio della cerimonia per un  soffio….Scusa!” fu costretto ad aggiungere, quando il suo piede si scontrò accidentalmente con quello della ragazza. Vicki spostò il suo, minimizzando con un cenno del capo.

“Sei senza speranze” commentò poi, lasciando affiorare un sorriso divertito. Ricki diede una scrollata di spalle.

“Sono dannatamente simpatico e incredibilmente sexy, per questo mamma e papà mi hanno fatto goffo: non potevo nascere senza difetti” spiegò, improvvisando un inchino con il capo.

“Sul sexy non ho nulla da ridire” osservò la ragazza, “Ma lo è anche Eric e lui non mi ha mai pestato il piede in tutta la mattinata”  commentò,  rivolgendogli un’occhiata eloquente. Ricki fece una smorfia.

“Beh, questo Eric è sicuramente gay” concluse, rivolgendo al ragazzo un’occhiata di sottecchi.

“Non è gay, Ricki. Te lo posso assicurare.”

 “Dai, hai visto con che genere di abbronzatura se ne va in giro?”

Vicki gli rivolse un’occhiata interdetta.


“Ma che cosa c’entra?”

“E poi balla! Scommetto che a casa ha una collezione di tutù rosa…

“Insegna hip hop, non danza classica”  lo contraddisse la ragazza, pur non riuscendo a trattenere un sorriso. Ricki le rivolse un’occhiata attenta, cercando di scorgere in lei qualcosa che potesse suggerirgli se fosse arrabbiata o meno.

“Quanto mi odi al momento su una scala da 3 a 10?” domandò infine, inclinando appena il capo.  “L’uno e il due non ce li ho messi perché ho immaginato che non ce ne fosse bisogno”  aggiunse poi in tono di voce scherzoso.

Vicki non gli rispose.

“Ti sei ubriacato ieri sera?” domandò invece, senza più sorridere.

Ricki scosse il capo.

 “No, certo che no!”  

La ragazza non sembrava convinta. Ricki sbuffò, fermandosi un istante per far riposare la caviglia dolorante.

“Avevo avuto una serataccia, Vic” commentò in sua difesa, ripensando con un brivido agli avvenimenti della sera precedente. Victoria lo scrutò con attenzione, le braccia ancora allacciate al suo collo .

“In questo momento vorrei tanto sferrarti una delle mie letali piroette rotanti, lo sai?” commentò infine, continuando a sostenere il suo sguardo. La delusione era evidente nei suoi occhi, eppure continuava a sembrare incredibilmente tranquilla. Ricki si era aspettato a più riprese che lo sorprendesse con uno schiaffo o una scenata di qualche tipo, ma intuì presto che Vicki non fosse il tipo da lasciarsi andare a quel genere di comportamenti. L’aveva sempre reputata un po’ infantile, troppo bambina nei suoi modi esuberanti, e per l’assenza totale di vergogna che la spingeva a esternare ogni cosa con semplicità. Eppure, ogni tanto, sapeva dare sfoggio a un certo livello di maturità che non si sarebbe mai aspettato da lei.

 

 “Vieni con me” dichiarò infine, sfilando la presa dai suoi fianchi e porgendole la mano. La guidò oltre le coppie di persone che ballavano, fermandosi a una decina di metri dai tavoli del buffet. Vicki gli rivolse un’occhiata incuriosita, mentre Ricki tornava a mettersi le mani in tasca. “Voglio solo essere sicuro che tu capisca questo: non l’ho fatto intenzionalmente” spiegò il ragazzo, stringendosi nelle spalle. “Sarò anche un cretino patentato, ma non sono uno stronzo. Non fino a questo punto. Non ti avrei mai proposto di farti da cavaliere se non fossi stato sicuro al cento per cento di volerlo fare. E non avrei corso il rischio di combinare un casino rimanendo addormentato in macchina, se non ci fosse stato un motivo più che valido.”

Vicki lo ascoltò in silenzio, tenendo le braccia incrociate sul petto. Lo guardava con espressione attenta, intenzionata ad analizzare con minuzia ogni sua parola ed espressione, per paura di coglierci una falla.

 “E qual è questo motivo più che valido?” chiese infine, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

“Come?”

“Dicevi che ieri sera hai avuto una serataccia” ricordò ancora Victoria. “Per caso c’entra qualcosa lo sceriffo?”

Richard esitò, colto alla sprovvista.

“Mi devi almeno la verità, Ricki” osservò la ragazza, sostenendo il suo sguardo con determinazione. Richard si sfregò il capo con nervosismo e annuì.

“Stavo aiutando mio fratello” ammise infine, guardandosi poi attorno. Trovò subito Fell: stava parlando con un gruppetto di persone dall’altra parte della sala. Ricki fece una smorfia nella sua direzione e tornò a rivolgersi alla ragazza. “Senti, Vic, la verità è questa. Ci sono delle persone qui a Mystic Falls che hanno delle doti fuori dal normale. E non sto parlando del mio sedere perfetto, ma di roba forte, cose che non si vedono tutti i giorni. E allo sceriffo Fell queste persone non piacciono per niente.”

“Doti fuori dal normale?” ripeté Vicki, scrutandolo con aria improvvisamente allarmata. “Mica starai parlando dei Morgan, vero?”

Ricki le rivolse un’occhiata sbigottita.

“Che diavolo c’entrano i Morgan, adesso?” chiese, tornando a guardare Fell con espressione guardinga. “Io parlavo di Mase” aggiunse poi, abbassando il tono di voce.

Questa volta fu Vicki a sgranare gli occhi.

“Tuo fratello ha un dono?”

Shhhh!”

Ricki si affrettò a zittirla, prima di passarsi con nervosismo una mano fra i capelli.

“Sì, quello di riuscire a rompere le palle come nessuno. Vic, mi spieghi che cosa c’entrano i Morgan in tutto questo?”

La giovane si morse il labbro, visibilmente in conflitto. Era sul punto di rispondere qualcosa, quando Carol Lockwood li raggiunse, interrompendo il loro discorso.

“Victoria, dovresti incominciare a raggiungere le altre concorrenti” spiegò, indicandole la gradinata principale, “Stiamo per comunicare i risultati del concorso.”

La ragazza annuì: tutto a un tratto avvertì le prime avvisaglie dell’agitazione punzecchiarle lo stomaco.

“Arrivo subito” rispose alla donna, voltandosi poi nuovamente verso di Ricki che sembrava intento ad analizzarsi con imbarazzo la caviglia.

“Ti fa male?” chiese, osservandolo apprensiva. Il giovane diede una scrollata di spalle.

“No, è che credo di essermi messo un calzino al contrario. Ascolta, Vic…” aggiunse poi, tornando serio.  “Dobbiamo decisamente riprendere il discorso sui Morgan, dopo la cerimonia. È importante.” sottolineò, accennando a Fell con un cenno del capo.

Vicki non sembrava molto convinta, ma annuì comunque.

 “Devo andare a raggiungere le altre” dichiarò infine, cercando Caroline con lo sguardo. “Sappi che, comunque, non ti ho ancora perdonato. Ma non sono arrabbiata.”

Ricki assunse un’espressione colpevole.

 “Lo capirei se tu lo fossi”

Vicki si scostò la frangetta dagli occhi e sorrise.

“Dopo tutti questi anni, se non avessi imparato a non prendermela con te, avrei trascorso ogni ballo scolastico ingollando gelato e deprimendomi, di fronte al DVD di Dirty Dancing… Ecco tua sorella!” esclamò poi con un sorriso, facendo cenno con la mano a Caroline. “Vado da lei, prima che incomincino a tremarmi le gambe per l’agitazione!”

Il ragazzo annuì, tornando a infilarsi le mani in tasca.

“Ehi, Vic!” la interruppe poi, trattenendola per il polso. Si chinò verso di lei per assicurarsi che riuscisse a sentirlo, al di là del frastuono generale.  “Grazie per il ballo” le disse all’orecchio, prima di incamminarsi verso i tavoli del buffet con le mani in tasca e l’andatura ancor più zoppicante rispetto a poco prima. Vicki lo osservò allontanarsi in silenzio,  posando poi lo sguardo sulle coppie che ancora danzavano al centro della stanza. I suoi occhi erano tornati a ravvivarsi della solita vivacità.

“Avrei mai potuto dirti di no?” sussurrò  in risposta, consapevole del fatto che Ricki fosse troppo distante per poterla sentire.

 

I tried many times but nothing was real

Make it fade away, don't break me down

I want to believe that this is for real

Save me from my fear

Don't tear me down

 

All I Need. Within Temptation

 

 

                                                                                                                                       ***

 

“Sono un ottimo ballerino, ricordi? Posso tenerti con me?”
Casper. 1995

 

Oliver guidò Anna  in una delle tante salette adiacenti al salone principale. La musica risuonava attutita in lontananza, suggerendo che le tre coppie protagoniste del concorso avessero già incominciato a ballare. Di tanto in tanto la voce di qualche presente li raggiungeva dal corridoio. La preoccupazione di Anna al pensiero che qualcuno potesse sorprendere Oliver a parlare da solo sfumò quasi subito. Era difficile restare impensieriti troppo a lungo in compagnia di quel ragazzo.

“Come mai mi hai portata qui?” domandò incuriosita. Oliver le sorrise.


“Tutte le partecipanti a Miss Mystic Falls dovrebbero aprire le danze contemporaneamente” rispose, sistemandosi di fronte a lei. “Non hai potuto partecipare la prima volta, ma potresti farlo ora.”

Annabelle gli rivolse un’occhiata incredula, senza riuscire ad aggiungere nulla.

“Forse non te l’ho detto, ma sono un ottimo ballerino” proseguì il ragazzo, tendendole la mano. “Ti va di ballare?”

Anna annuì, stringendo la mano che il ragazzo le porgeva. Quel contatto non aveva consistenza, così come il tocco di Oliver sul suo fianco. Le dita del ragazzo erano disegnate sulla sua pelle, sul suo vestito, ma non la sfioravano per davvero.

“Non possiamo toccarci” osservò infine la ragazza, un po’ in imbarazzo. Il sorriso di Oliver si estese.

“Sono un’artista” le ricordò, stringendosi nelle spalle. “Non ho bisogno di sforzarmi più di tanto per immaginare quello che non c’è.”

Annabelle ricambiò il sorriso, stringendosi a lui. Quella frase racchiudeva alla perfezione tutto ciò che pensava di Oliver. Non erano molte le cose che riuscivano a ostacolare il suo ottimismo; aveva la capacità innata di sapersi fabbricare la felicità con poco. Certe volte gli bastavano una manciata di fogli bianchi e una matita, altre un cielo stellato o la scia di qualche aereo solitario. Spesso anche solo un sorriso. Sapeva lasciare in chiunque lo circondasse un’impronta di quella serenità che doveva averlo caratterizzato fin da piccolo.
Anna era grata di aver trovato la sua amicizia. Le piaceva ascoltarlo quando fischiettava qualche vecchia canzone ad un ritmo pacato, completamente sfasato da quello originale, come se anch’esso fosse calibrato a rispettare l’animo tranquillo del ragazzo. Aveva trascorso molti pomeriggi a chiacchierare con lui o ad osservarlo lavorare a uno dei suoi modellini e la sua compagnia l’aveva aiutata a sentirsi meno sola.

 

Every now and then
We find a special friend
Who never lets us down

 

I due ragazzi continuarono a ballare, ignorando il volume basso della musica che proveniva dal salone principale. Oliver non aveva detto una bugia: se la cavava davvero bene come ballerino.

“Sembri felice” osservò improvvisamente Anna. “Più del solito” .

Il ragazzo arrossì leggermente.

“Lo sono, perché ho risolto i miei problemi con Mase” ammise, riferendosi alla conversazione avuta con l’amico quella mattina. “In realtà sono un po’ spaventato per via di quello che mi ha confessato, ma non riesco a preoccuparmene in questo momento. La mattinata è trascorsa benissimo; sembrano tutti sereni e anche tu sorridi di più” aggiunse. Anna strinse le braccia attorno al collo del ragazzo e chinò appena il capo per nascondere l’improvviso filo di malinconia nel suo sguardo.

 “Vi meritate un po’ di tranquillità” disse con decisione, prima di tornare a ricambiare lo sguardo di Oliver.  “Tu e la tua famiglia… I tuoi amici. Sono contenta che non siate più in pericolo.”

“Dovrei ringraziarti per aver cercato di metterci in guardia” osservò in quel momento Oliver. “Sono felice che tu sia venuta da me: ho guadagnato un’amica”  ammise con semplicità. Quelle poche frasi sembrarono alimentare la tristezza tratteggiata nello sguardo di Anna.

 

Who understands it all
Reaches out each time you fall
You're the best friend that I've found

 

“C’è qualcosa che non va?” domandò improvvisamente il giovane, rivolgendole un’occhiata impensierita. “Non sorridi più.”

Lentamente, la ragazza scosse il capo.

“Stavo ripensando alla sera in cui mi hai vista per la prima volta” spiegò infine.“Non avrei mai immaginato che fosse possibile comunicare con te. Quando eri più piccolo mi fermavo spesso a osservare la tua famiglia, sai?” aggiunse, sorridendo della sua espressione incuriosita. “Mi piaceva sedermi accanto a te e a Jeremy per guardarvi disegnare. I tuoi fogli erano sempre pieni di nuvole e aerei di tutti i colori” ricordò, facendo ridere il ragazzo. “In un certo senso credo di averti considerato mio amico sin da allora. Eri sempre sorridente e mi riusciva facile immaginare che qualcuno di quei sorrisi potesse essere rivolto a me.”

 Oliver si strinse nelle spalle.

“Ti avrei sorriso di sicuro, se avessi saputo che eri lì” confessò,  ripensando alle tante serate trascorse a disegnare alla luce delle stelle in compagnia del padre. “Vorrei che tu non avessi quello sguardo” dichiarò a un certo punto, destando la preoccupazione della ragazza.

“Quale sguardo?”

“Lo sguardo di chi sta per andarsene.”

Annabelle gli rivolse un’occhiata colpevole.

“Sapevi che non sarei rimasta ancora a lungo” gli ricordò, avvolgendo in maniera un po’ più salda le proprie braccia attorno al collo del ragazzo. Non servì a molto; l’assenza di consistenza del proprio corpo la faceva sentire come se potesse scivolare via da un momento all’altro. “Forse non dovresti più cercarmi così spesso.”

“Perché?” la interrogò il giovane, smettendo di ballare. “Perché le cose non possono restare così come sono? La tua presenza non fa del male a nessuno.”

Annabelle scosse il capo.

“Sono un fantasma, Oliver” rispose. “Non faccio parte del tuo mondo. Tu vivi nel presente, io sono il passato. Non è mai un bene mescolare le due cose tra di loro troppo a lungo.”

“Non voglio che tu vada via” ammise il ragazzo, raccogliendo le mani di Anna nelle sue. “E non ho paura di fare confusione fra presente e passato. Ho appena scoperto che il mio migliore amico è un lupo mannaro. Penso di potermela cavare anche con un’amica fantasma, no?”

Quell’ultima osservazione fece sorridere la giovane.

“Non me ne andrò” promise, stringendogli le mani.  “Sarò sempre qui quando avrai bisogno di me. Anche le volte in cui non potrai vedermi.”

 

I know you can't stay
A part of you will never ever go away
Your heart will stay

 

Oliver sembrò rassicurarsi al suono di quelle parole. Annuì, portando le braccia della ragazza a cingergli nuovamente il collo.

“Balliamo ancora?” suggerì infine. Annabelle rise. Quando sollevò il capo per  guardare il ragazzo negli occhi non poté fare a meno di evocare il ricordo di un secondo sguardo, un po’ meno limpido, ma tanto intenso quanto quello rivolto a lei in quel momento. Ripensò a un altro giovane Gilbert dal sorriso dolce. A delle dita che si intrecciavano alle sue con la stessa delicatezza di quelle di Oliver.

I due ragazzi tornarono a ballare, questa volta in maniera più sciolta, come se avessero dimenticato di non poter percepire l’uno il tocco dell’altro. Quando Anna spostò lo sguardo oltre le spalle del giovane sobbalzò, notando all’improvviso la figura immobile di un uomo. Qualcuno li stava osservando con sguardo incredulo dal lato opposto della stanza.

Anche Oliver si accorse della sua presenza; i suoi occhi indugiarono apprensivi sulla figura del padre e si soffermarono sulla sua espressione confusa, quasi smarrita. Smise di ballare, la mano ancora intrecciata a quella della ragazza. Jeremy fece qualche passo verso di loro.

“Anna?” mormorò, incapace di distogliere lo sguardo da lei. Il ricordo di Annabelle aveva occupato i suoi pensieri per l’intera mattinata, estraniandolo dal presente e riportandolo mentalmente a un’altra cerimonia di Mystic Falls. All’epoca lui non era poi molto più grande di Oliver. La noia provata al pensiero di dover partecipare a una simile ricorrenza era scomparsa nel momento in cui la ragazza aveva fatto ingresso nel salone principale della Hall. Spazzata via in fretta dal sorriso che Annabelle aveva rivolto a Jeremy quel pomeriggio di venticinque anni prima.

Da tempo pensava che non l’avrebbe più rivista. Anna era da sempre il fantasma di quel passato che ancora gravava sulle sue spalle. Un passato che stava imparando a lasciarsi indietro poco  a poco per non  rischiare di venire schiacciato a terra dal suo peso.

Adesso che lei era di nuovo lì, di fronte a lui, non avrebbe più voluto distogliere lo sguardo. La chiamò ancora, come se temesse di vederla sparire da un momento all’altro.

 

I'll make a wish for you

And hope it will come true

That life would just be kind

To such a gentle mind

 

Annabelle annuì. Continuava a non avere percezione del proprio corpo, ma le sue emozioni si erano fatte improvvisamente nitide, con un’intensità tale da fare male. Per anni la giovane aveva vegliato su di Jeremy in silenzio. Più volte gli aveva sorriso, posandogli una carezza sul capo quando il pensiero delle persone che aveva perso lo opprimeva, spegnendo il suo sguardo all’improvviso. In quei momenti era stato più facile dirgli addio, promettendo a se stessa di non tornare ogni volta. Sembrava tutto più complesso ora che i suoi occhi erano consapevoli di essere attraversati dallo sguardo di Jeremy. Ora che lui la vedeva per davvero.

 

 “Ciao, Jeremy”

 

 La sua voce si incrinò leggermente mentre quel nome scivolava fuori dalle sue labbra, accarezzandole come aveva smesso di fare da tempo. Annabelle lo guardò a lungo, sforzandosi di sorridergli. Gli occhi di Jeremy si erano fatti lucidi e l’espressione spenta che aveva offuscato il suo volto nel corso della mattinata aveva lasciato il posto a una maschera di incredulità e malinconia.

C’erano tante cose che premevano sulle labbra dell’uomo per farsi avanti e venire pronunciate. Talmente tante che alla fine Jeremy scelse di non dire nulla. Tutto a un tratto gli sembrò di aver parlato per ore solo guardandola.

Annabelle scosse il capo, come a volerlo rassicurare. Infine tornò a sorridere. Ciò che Jeremy vide in quel momento fu il sorriso della Anna dei suoi quindici anni; quella ragazza un po’ strana, ma carina che aveva incontrato un pomeriggio in biblioteca.  La  persona che l’aveva risvegliato dal torpore forzato che si era cucito addosso per cercare di sfuggire al dolore.

Rispose a quel sorriso, un sorriso rigato dalle lacrime di lei, e tese la mano in avanti, adagiandola contro quella di Anna. Ancora una volta, come era accaduto anni prima, le loro dita si intrecciarono e Jeremy sentì i propri polpastrelli affondare nel nulla. Per un attimo gli parve quasi di poter avvertire il calore  delle lacrime di Annabelle che scivolano a inumidirgli la pelle.

 

If you lose your way

Think back on yesterday

Remember me this way

 

Fece appena in tempo a sorriderle un’ultima volta e a tenderle la mano libera per asciugarle una guancia, che la ragazza scomparve.

Il panico subentrò con prepotenza, avvolgendogli lo sterno.

“Non c’è più?” mormorò, voltandosi verso il figlio e interrogandolo con lo sguardo. Oliver scosse il capo, rivolgendogli un’occhiata malinconica. Annabelle era ancora lì vicino: la mano di Jeremy le stava sfiorando delicatamente una guancia, ma lui non poteva saperlo. La ragazza annuì flebilmente in direzione di Oliver, senza riuscire a controllare le lacrime che continuavano a rigarle gli zigomi.

“Non se ne è andata” ammise il giovane, avvertendo tutto a un tratto il cuore pesante. “Ma tu non puoi vederla”.

Jeremy aggrottò appena le sopracciglia prima di guardarsi attorno. Sperava di riuscire a scorgere la figura di Anna da qualche parte nella stanza, ma non ci fu nessuno a ricambiare il suo sguardo.

Sapeva che era lì, eppure poteva più vederla.

“Perché?” mormorò, cercando una risposta nello sguardo del figlio. Si passò una mano sul volto, la stessa che poco prima aveva avvolto quella di Annabelle, e a Oliver parve improvvisamente stanco, stanco e affaticato.

 Si chiese quanto avesse sofferto da ragazzino nel vedersi strappare via le persone che amava una alla volta, senza avere nemmeno il tempo di poter dire loro addio. Si chiese quanto ancora avrebbe sofferto e quanto fosse ingiusto il fatto che non potesse fare nulla per aiutarlo a lenire quel dolore.

“Perché vuole che tu sia felice” ammise infine, poggiando una mano sulla spalla del padre.

 

And I'll be right behind your shoulder watching you

I'll be standing by your side and all you do

And I won't ever leave

As long as you believe *

 

Solo in quel momento si accorse che la stanza era piombata nel silenzio. La musica era cessata e la voce di Carol Lockwood era appena percepibile per via della lontananza di quella stanza dal salone principale. Il basso volume non riuscì ad impedire ad Oliver di avvertire distintamente il nome di sua cugina, seguito da un boato di approvazioni: Victoria aveva vinto.

“Dobbiamo tornare di là” riconobbe, muovendosi in direzione delle porte. Solo quando tornò a voltarsi verso il padre si accorse che Annabelle non c’era più.

Trascorse il resto del pomeriggio in compagnia dei suoi familiari, ammirando orgoglioso il sorriso entusiasta di sua cugina. Vicki gli era sembrata più volte sul punto di mettersi a saltellare per la gioia mentre rimirava affascinata la fascia da Miss che portava al petto.

Oliver non ebbe modo di parlare da solo con il padre fino a sera, quando Jeremy venne a trovarlo in camera sua. Chiacchierarono fino a notte fonda e gran parte dei loro discorsi girarono attorno ad Annabelle. Oliver riferì al padre di come avesse scoperto la sua foto in soffitta e Jeremy gli raccontò del loro primo incontro in biblioteca. Oliver gli fu grato per essersi confidato con lui. Sperava che, ascoltandolo, l’avrebbe aiutato ad alleggerire il peso di quei segreti che manteneva in silenzio da tempo.

Prima di andare a dormire Jeremy chiese al figlio se pensava che Anna sarebbe tornata presto

Oliver rispose di sì.

Eppure, una parte di lui non faceva altro che domandarsi se l’avrebbero ancora rivista.

 

 

Aspetta… Dove vai?”

“Dove posso proteggevi, fino a che non saremo di nuovo assieme”

Casper. 1995

 

***

“Ehi!” esclamò Caroline, non appena individuò Tyler all’ingresso del giardino sul retro. Erano da poco trascorse le otto e i quattro Lockwood dovevano essere appena rincasati. “Come è andata la cerimonia?”

Tyler si strinse nelle spalle.

 “Siamo stati bene” rispose, infilandosi le mani in tasca. “Il titolo l’ha vinto Vicki, ma ho visto mia figlia davvero contenta. Le ragazze si sono divertite parecchio. A voi come andata?”

 “Tutto tranquillo” rispose la ragazza, cercando Mase con lo sguardo. Lo trovò seduto di spalle sul muretto che delimitava il giardino della tenuta . “Tuo figlio mi ha fatto il bagno” non riuscì a fare meno di aggiungere.

Tyler le rivolse un’occhiata perplessa.

“Mi ha tirato l’acqua addosso” specificò Caroline,  non riuscendo a trattenere un sorrisetto. “Ma poi si è calmato: ha passato tutto il pomeriggio a leggere.”

“Questo è già più da lui” osservò Tyler. “Mason legge di continuo. Non lo diresti, ma è piuttosto intelligente e studia volentieri.  A scuola ha una media molto alta.”

“Siamo sicuri che sia tuo figlio?” lo interrogò la vampira, dandogli un colpetto con il gomito. L’uomo scosse il capo con fare divertito.

“La sua condotta però fa schifo, però!” specificò, mettendosi a braccia conserte. “Ha già rischiato di venire sospeso più volte.”

“Ecco, ora riesco a vedere le somiglianze!”

Tyler si mise a ridere.

 “Pensi che stia bene?” domandò poi, voltandosi in direzione del figlio.

 “Io credo di sì” rispose la ragazza con convinzione, guardando a sua volta verso Mase. Lo osservò stiracchiarsi e intrecciare le dita dietro la nuca con il capo rivolto verso l’alto. Si sorprese a sorridere, cercando di indovinare a cosa stesse pensando: i suoi silenzi la incuriosivano. Dentro quella mente in continuo movimento avrebbe potuto esserci davvero di tutto.  Si chiese quanti pensieri dovesse avere accumulato a forza di tenersi dentro ogni cosa.

Quando distolse lo sguardo dal ragazzo si accorse che l’attenzione di Tyler era tornata a rivolgersi verso di lei. Tutto a un tratto si sentì quasi a disagio, come se lo sguardo dell’ uomo l’avesse sorpresa a compiere qualcosa di sbagliato. Fu una sensazione che durò troppo poco per poter essere afferrata a pieno.

“Hai una bellissima famiglia” ammise infine. Lo disse con semplicità, stringendogli affettuosamente un braccio. Prima del suo ritorno a Mystic Falls non pensava che sarebbe mai riuscita a rivolgersi a lui con la scioltezza di una volta. Temeva di aver dimenticato come fare a sorridergli senza sentirsi gli occhi umidi di lacrime. La lontananza aveva rafforzato le sue paure e indebolito il ricordo di quanto ci fosse stato tra di loro ancor prima che diventassero più che amici.  Quando aveva abbracciato Tyler per la prima volta dopo dieci anni si era tuttavia riscoperta forte, molto più incline a fare un passo indietro rispetto che a fuggire ancora una volta e a perdere tutto di nuovo.

 “Sono davvero orgogliosa del padre che sei diventato” aggiunse.

Quando guardava Tyler negli occhi vi leggeva qualcosa che i primi tempi l’aveva messa in soggezione, ma che ormai riusciva solo più a strapparle un sorriso malinconico. Il suo era uno sguardo che la spingeva ad evocare ricordi che nemmeno ricordava più di possedere. Immagini poco nitide di una ragazzina bionda sulle spalle del padre durante la parata di Mystic Falls. Si sentiva piccola di fianco a Tyler. Era davvero un’adolescente che osservava con ammirazione un padre di famiglia e provava orgoglio nei confronti del percorso che aveva fatto.  Era fiera del suo essere uomo, marito e padre. Anche se la donna al suo fianco non aveva potuto essere lei.

Tyler le sorrise, ma la sua espressione si fece meno distesa quando il suo sguardo tornò a sorvegliare i silenzi del figlio minore.

“Non penso di essere poi così in gamba, come padre” ammise. “Certe volte ho perfino paura a guardarli, perché temo di scoprirli arrabbiati o delusi.”

“I tuoi figli ti adorano” osservò la vampira, sorridendogli rassicurante. “Tu e Lydia avete fatto un ottimo lavoro con loro.”

Tyler si strinse nelle spalle.

“Vorrei solo che stessero bene” spiegò. “Faccio del mio meglio per proteggerli, ma a volte mi fisso così tanto con questa cosa che finisco per perdermi dei pezzi importanti per strada. E ho paura di poter diventare come lui.”  rivelò, voltandosi verso di Caroline.

 “Tu sei migliore di tuo padre”  rispose la ragazza in tono di voce fermo.

Tyler la fissò con intensità con qualche istante, come se stesse cercando di trarre convinzione dalle sue parole. Infine annuì.

 “Grazie per l’aiuto che ci stai dando” disse infine.

Caroline gli sorrise.

 “Mi piace passare del tempo con voi” rispose.

Istintivamente il suo sguardo tornò a dirigersi verso di Mase. Il giovane aveva lo sguardo rivolto verso l’alto e sembrava intento ad analizzare con diffidenza la luna.

Caroline sentì che era arrivato il momento di tirare fuori qualche verità taciuta a lungo.  Attese che Tyler fosse rientrato in casa e raggiunse il muretto al fondo del giardino.

“Non guardarla così” mormorò infine, sedendosi di fianco a Mason. Il ragazzo le rivolse un’occhiata distratta prima di tornare a fissare bieco la luna. “Non ti farà più del male. Non questa sera.”

“Ma tornerà a farmene fra un mese ” rispose il ragazzo, distogliendo lo sguardo dal cielo. La tranquillità che aveva mostrato quel pomeriggio sembrava essersi dissolta con l’arrivo del buio. “Ad ogni luna piena si ripeterà tutto di nuovo. E io ce l’ho fatta a malapena a superare questa.’

“A lungo andare diventerà un’abitudine” cercò di rassicurarlo la ragazza; lo osservò rivolgerle un’occhiata sfiduciata e sospirare, mentre il nervosismo tornava a tinteggiare di ombre la sua espressione. “Tuo padre ci convive da quando era poco più grande di te, ci riuscirai anche tu” aggiunse, addolcendo il tono di voce.

“Io però non sono come lui” rispose asciutto il ragazzo, incominciando a colpire il muretto con il tallone. Caroline si morse un labbro. Intuì di aver scelto le parole più sbagliate del mondo per rincuorarlo. “Mio padre è la persona più forte che conosca: può gestire tutto questo. Io sono solo…

Mason si interruppe, sforzandosi di trovare le parole adatte per completare la frase. Infine sbuffò e saltò giù dal muretto. Era arrossito e la sua espressione sembrava essersi fatta nuovamente tesa, quasi arrabbiata. Caroline sapeva che avrebbe impiegato poco ad innalzare nuovamente le sue barriere. Presto sarebbe fuggito, un po’ come immaginava avesse fatto  per anni quando la balbuzie interveniva nei suoi discorsi, mettendolo in imbarazzo. Se da bambino balbettava a parole, adesso sembrava che fossero le emozioni ad uscirgli fuori sfasate. Mason ci inciampava di continuo, bloccandosi alle prime sfumature dei suoi pensieri, senza mai raccontarsi del tutto. Dopo qualche tentativo si stancava e la cosa finiva lì.

 “Non devi pensare che tuo padre sia sempre stato come lo vedi ora” riprese il discorso la vampira, per evitare che la conversazione si estinguesse. “Da ragazzo ti assomigliava molto” aggiunse, consapevole di quanto si stesse tradendo nel pronunciare quelle parole.

“E tu che ne sai?” ribatté l’adolescente, rivolgendole un’occhiata infastidita. “Smettila di parlare di lui come se lo conoscessi.”

La reazione brusca di Mason le strappò un sorriso. Solo qualche minuto prima Tyler le aveva espresso le sue insicurezze per il modo in cui stava crescendo i suoi figli. E adesso Caroline aveva di fronte quel ragazzo che la guardava storto, pronto a sbraitare contro chiunque osasse sporcare l’idea che si era costruito sul padre. Era evidente che fosse il suo eroe. Gliel’aveva letto negli occhi quel mattino, quando Tyler aveva affermato di essere orgoglioso di lui.

“Ne parlo così, perché io conosco davvero tuo padre, Mase” ammise infine la vampira. “Lo conosco praticamente da sempre.”

“Balle”  ribatté secco lui, distogliendo lo sguardo. “Ti sei solo presa una stupida cotta. Per un uomo sposato, tra l’altro.” 

La sua espressione seccata convinse Caroline a cambiare approccio. L’ultima cosa che voleva era  fargli credere che si sarebbe messa in mezzo fra i suoi genitori.

“Ricordi quando mi hai detto di essere già stato alla riserva naturale?” domandò improvvisamente. Mason le rivolse un’occhiata diffidente, prima di annuire.

“Lo sapevo già: ci siamo incontrati lì una volta, quando eri piccolo. Eri in gita con la scuola e penso che ti stessi nascondendo dai tuoi compagni.”

Mason aggrottò le sopracciglia, ascoltando diffidente le sue parole. Tutto a un tratto si sentì a disagio; non amava parlare della sua infanzia. Aveva sempre avuto un rapporto conflittuale con i ricordi legati al suo passato.

“Non me lo ricordo” concluse poi asciutto, sedendosi nuovamente sul muretto. Non stava mentendo: gli era tornata in mente una gita alla riserva in cui si era allontanato dai compagni, ma non ricordava di aver incontrato alcuna bambina, quel pomeriggio. Solo una coppia di anziani un po’ burberi e una ragazza che all’epoca gli era parsa quasi un’adulta. Una ragazza che si era seduta a terra vicino a lui e gli aveva spiegato cosa significasse essere coraggiosi.

“Ti ho trovato vicino alla staccionata” aggiunse la vampira, tenendo d’occhio la sua espressione con fare vigile. “Abbiamo parlato dei lupi. Mi hai detto il tuo nome, prima di tornare dalle insegnanti.”

Mason scosse il capo, ricominciando ad apparire nervoso: le parole di Caroline lo stavano mandando in confusione. I ricordi di quel pomeriggio alla riserva si erano fatti più vividi, ma non coincidevano con quelli della giovane. Non poteva essere lei la ragazza a cui sei anni prima aveva rivelato la sua paura dei lupi. Caroline non era molto più grande di lui, quindi all’epoca avrebbe dovuto essere poco più che una bambina.

Si accorse di sentirsi inquieto. C’era qualcosa che non tornava, qualcosa che stava incominciando a metterlo in agitazione. Ripensò alle varie annotazioni mentali che aveva raccolto sul conto della ragazza nel corso degli ultimi mesi. Ricordò quanto gli fosse sembrata insolitamente familiare i primi tempi e di come gli avesse rivelato con tranquillità di conoscere il segreto dei Lockwood. Ripensò al rapporto insolito che sembrava aver instaurato con Tyler e al modo in cui ne aveva parlato poco prima.

“Come conosci mio padre?” domandò infine, scrutandola diffidente. “E non rifilarmi la balla delle conoscenze di famiglia, perché tanto non me la bevo.”

Caroline sospirò.   

“Eravamo compagni di scuola” rivelò infine, analizzando apprensiva l’espressione del ragazzo. “Io, Tyler, i Donovan e Bonnie Bennett. Andavamo tutti al liceo di Mystic Falls.”

Mason scese d’istinto dal muretto, come a volersi distanziare fisicamente dalle sue parole. Nel farlo si accorse che avevano preso a tremargli le mani: brandelli di supposizioni si stavano scaraventando l’uno contro l’altro nella sua testa, troppo in fretta perché il giovane potesse riuscire a metterli in ordine. La lucidità continuava a minacciare di abbandonarlo mentre cercava di fare ordine fra quegli indizi accumulati un po’ a caso. Cercava disperatamente di trovare qualche risposta in fretta, ma non c’era nulla che gli sembrasse sufficientemente plausibile.

“Mia sorella si chiama come te” mormorò, formulando la frase con lentezza, come se avesse paura di incespicare nelle parole.

Caroline Forbes era andata a scuola con suo padre. Di certo non era un’adolescente e forse non era nemmeno umana. D’un tratto Mase  ripensò alla conversazione che aveva avuto assieme ai genitori, pochi giorni dopo la partita di hockey.

“Non era tua madre che usciva con papà” concluse infine. “Eri tu.”

Caroline annuì, sostenendo l’espressione accusatoria del ragazzo. Gli doveva la verità e filtrarla o alleggerirla in qualche modo avrebbe solo concluso per peggiorare la situazione.

Mason sbuffò, posandosi una mano dietro la nuca. Caroline avrebbe voluto avvicinarsi e cercare di confortarlo, ma il modo in cui il giovane la freddò con lo sguardo glielo impedì. Sembrava arrabbiato e deluso, più che smarrito o spaventato.

 “Come?” si limitò a mormorare, guardandola con insistenza,  C-co-come è possibile?”

“Tu sei un lupo mannaro” rispose la ragazza, scendendo dal muretto. Mase fece un passo indietro. “Le tue ferite guariscono, hai i sensi iper-sviluppati e una forza e un’agilità fuori dal normale. Anche io ho qualcosa di diverso” rivelò, muovendo qualche passo avanti. “Quello che sono mi permette di non invecchiare mai. Posso crescere, ma non invecchiare.”

Mason rimase in silenzio, limitandosi a scrutarla incollerito.

“Mi hai mentito!” ringhiò infine, continuando a tenersi a distanza. Caroline si sorprese di quella reazione improvvisa.

“Non ti ho mentito!” si oppose,  scuotendo il capo con decisione. “Avevo promesso che ti avrei detto tutto subito dopo la luna piena, e infatti…

“Avevo ragione!” sbottò il ragazzo, impedendole di completare la frase. “Tutto il tempo che hai passato con me, i pomeriggi alla riserva, la luna piena… L’hai fatto per papà, solo perché te l’aveva chiesto papà!”

“Tyler non mi ha chiesto di fare nulla!”  ribatté la ragazza in tono di voce fin troppo alto. Le sue parole incollerite l’avevano lasciata di stucco. Non aveva mai preso in considerazione l’idea che Mason attribuisse così tanta importanza a tutto quello che faceva per lui. Il più delle volte sembrava accorgersi a malapena della sua presenza, come se averla a fianco non facesse alcuna differenza per lui. Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse sempre stato evidente il contrario. Si era sbagliata.

“Sono stata io a chiedergli se potessi tenerti d’occhio” spiegò, sforzandosi di lasciar trasparire la sincerità attraverso il tono di voce. “Ho scelto io di starti vicina.”

Mason scosse il capo e distolse lo sguardo.

“Ma l’hai fatto per lui” ribatté in tono di voce improvvisamente atono. La nota di accusa di poco prima sembrava essere svanita. Non c’era più rabbia nel suo sguardo. Solo una delusione intensa e dolorosa che Caroline faticò a sostenere. Si sentiva in dovere di rassicurarlo come aveva fatto nel corso degli ultimi due mesi. Aveva promesso a se stessa che se ne sarebbe presa cura,  ma alla fine a fargli del male era stata lei. 

“Forse all’inizio sì” ammise infine, “Sono tornata a Mystic Falls per riallacciare i legami con il mio passato e Tyler era uno dei motivi principali per cui volevo farlo. Ma poi ti ho conosciuto” aggiunse, abbozzando un sorriso.  “Ti ho visto fare a botte alla partita di hockey e credo di aver pensato che ti avrebbe fatto comodo un po’ di aiuto. Quando hai scatenato la maledizione  ho capito che starti vicina avrebbe fatto bene a entrambi. Ed è stato così” si interruppe per riprendere fiato, voltandosi in direzione del ragazzo. Mason era tornato ad appoggiare la schiena al muretto e scrutava impassibile il retro della tenuta, le braccia conserte sul petto.

 “Qui a Mystic Falls non c’era più nulla che riuscisse a farmi sentire me stessa, ma starti accanto mi ha aiutato. Spesso mi ha fatto sentire come se non me ne fossi mai andata. Mi sto affezionando molto a te.”

Mason non rispose. Caroline non aveva mai dato peso più di tanto ai suoi silenzi prolungati o alle loro conversazioni che calavano bruscamente nel nulla, ma quella sera l’assenza di risposte da parte si stava rivelando difficile da sostenere. Cercò di guardarlo negli occhi; vi lesse la stessa diffidenza marcata che aveva riconosciuto nel suo sguardo i primi tempi. D’un tratto si sentì agitata.  La impensieriva il pensiero di dover rinunciare ai timidi progressi che la loro amicizia aveva mosso nell’ultimo periodo.

“Hai tutto il diritto di essere  arrabbiato con me” disse, tornando a sedersi sul muretto.  “Ma ho bisogno che tu mi creda. Guardami” lo richiamò decisione. “Ti sembra che stia mentendo?”

Finalmente il ragazzo si decise a ricambiare il suo sguardo.

“Chi sei?” domandò, appoggiando un gomito al muretto. “Che cosa sei?”

Caroline si lasciò sfuggire un sospiro.

“Un vampiro” rivelò, mordicchiandosi il labbro.

Mase sgranò gli occhi.

 “Non devi avere paura di me” si affrettò ad aggiungere la ragazza. “Non farei mai del male a te o alla tua famiglia. Convivo con questa cosa da diverso tempo, ormai, e so controllarmi.”

“Succhi il sangue alle persone?” domandò il giovane, scrutandola con diffidenza. Il modo infantile in cui lo chiese la fece sorridere. Sembrava ancora distante, volutamente distaccato, ma in maniera  minore rispetto a poco prima.

“Ogni tanto. Il più delle volte mi rifornisco di sacche ematiche rubate a qualche ospedale” spiegò, continuando a tenere d’occhio la sua espressione di sottecchi. Notò che Mase era tornato a sedersi sul muretto come lei e questo la rassicurò leggermente. “Non è la stessa cosa, ma si finisce per farci l’abitudine. Meglio il sangue umano in sacche che quello degli animaletti, comunque, su questo non ci sono dubbi. Gusto orrido a parte, certi hanno dei musetti così teneri e indifesi…

“Se sei un vampiro significa che sei morta?” domandò improvvisamente il ragazzo, interrompendo il suo fiume di parole. Caroline annuì.

 “Avevo diciassette anni” rispose, ripensando con una stretta al cuore alla confusione e al panico di quella notte.

Mason le rivolse una lunga occhiata che la vampira non fu in grado di decifrare, prima di distogliere lo sguardo. Sembrava turbato. Più volte parve sul punto di chiederle qualcosa, ma non lo fece.

“Mio padre ti è stato vicino?” domandò all’improvviso, riprendendo a colpire ritmicamente il muretto con il tallone. Nonostante l’atteggiamento impassibile Caroline riuscì ad individuare una punta di apprensione nel suo sguardo e si sentì attraversare da un moto di tenerezza.

 “Molto più di quanto lui stesso creda” rispose, sorridendogli con dolcezza.  “La nostra amicizia ha incominciato a crescere proprio in quel periodo. Tyler ha scatenato la maledizione poco dopo la mia transizione in vampiro e questo ha inciso molto sul nostro rapporto.”

Mason aggrottò le sopracciglia.

“Quanti anni hai?” domandò.

Caroline arrossì.

“Ho la stessa età di tuo padre” ammise, portandosi le mani in grembo. “Non mentivo quando ti ho detto che andavamo a scuola assieme.”

“Che?” esordì Mason, sgranando gli occhi, allibito. “Stai dicendo che sei vecchia?”

La vampira gli rivolse un’occhiata stizzita.

“Non osare!” lo rimbeccò, dandogli uno schiaffetto sulla spalla. “Non sono per niente vecchia!”

“Come no! Sei quasi decrepita!”

“Mason!”

Caroline gli sferrò una spintarella, cercando di sbilanciarlo dal muretto. Mason scoppiò a ridere, sollevando un braccio per difendersi dai colpi della ragazza.

“Scusa, perché adesso ridi?” lo interrogò la vampira, scrutandolo indispettita.

Mason scosse il capo.

“Perché è disgustoso!” dichiarò infine, passandosi una mano dietro la nuca. “Non avrei mai pensato di trovare sexy una vecchia” ammise infine, abbozzando un sorrisetto malandrino.

Questa volta fu Caroline a squadrarlo allibita.

“Sexy?” ripeté, inarcando un sopracciglio. “Ma per favore!” lo schernì, lasciandosi sfuggire a sua volta un risolino.

 “Che hai da ridere tu, adesso?” la interrogò bruscamente il ragazzo.

Caroline scosse il capo con fare incredulo.

Rido perché ho quasi quarantacinque anni, e…

“Che schifo…” la stuzzicò Mase, esibendo una smorfia disgustata.

…e le tue uscite da ragazzino con gli ormoni in subbuglio mi mettono in imbarazzo” proseguì la vampira, arrossendo leggermente. “E se dici ancora una volta ‘che schifo’, giuro che ti butto giù dal muretto!”

 “Non oseresti mai” la provocò il ragazzo. Scartò improvvisamente all’indietro, quando Caroline si allungò in avanti per strofinargli un pugno sul capo.

“Questo me lo può fare solo Ricki” si lamentò scontrosamente, cercando di allontanarla. “Levami le mani di dosso!”

 “Qualcuno si sta arrabbiando!”  osservò la ragazza, sorridendo soddisfatta.

Mason sfuggì alla sua presa e incominciò a sistemarsi i capelli spettinati con le mani, mentre Caroline al suo fianco lo osservava in silenzio. Vederlo scherzare così l’aveva rassicurata e l’agitazione di poco prima si era notevolmente affievolita. D’un tratto avvertì l’impulso di abbracciarlo. Non lo fece, ben sapendo quanto lo rendessero incerto i gesti d’affetto spontanei.

 Sexy…” non poté evitare di ripetere poco dopo, scuotendo il capo con espressione divertita.

Mason arrossì.

“Smettila.”

“L’hai capito che ho l’età per essere tua madre, vero?”

Il ragazzo accennò un sorrisetto malizioso.

 “Beh, sai come si dice…” commentò, intrecciando le dita dietro la nuca. “…MILF.” **

Caroline lo squadrò stupefatta.

“Mason!” lo riprese, arrossendo imbarazzata. “Sei tremendo!”

Il ragazzo si mise a ridere. Cercò di riparasi dagli spintoni di Caroline, che riuscì senza troppo sforzo a buttarlo giù dal muretto.

“Una volta, forse” esordì improvvisamente il ragazzo, sollevandosi da terra. Tornò ad appoggiarsi al muro con la schiena sotto lo sguardo perplesso di Caroline.

“Una volta cosa?”

“Una volta mi guardavi come se fossi mia madre” si spiegò meglio Mason.  “Ma ultimamente hai cambiato sguardo.”

Caroline gli rivolse un’occhiata confusa.

“Che intendi dire?”

Il giovane non rispose. Si limitò a dare una scrollata di spalle, scavalcando poi il muretto per rientrare in giardino.

 “Mase!”  lo richiamò la ragazza. “Come ti guardo adesso, scusa?”

Il giovane abbozzò un sorrisetto.

“Andiamo dentro, inizia a fare freddo” propose, infilandosi le mani in tasca e incominciando a incamminarsi verso la tenuta.

 “Mi vuoi rispondere?” insistette Caroline, affrettandosi a seguirlo. “Dio, non ti sopporto quando fai così!”

Mase si mise a ridere. Nonostante la vampira reagisse con stizza ai modi di fare dispettosi del ragazzo, quella risata riuscì ancora una volta a strapparle un sorriso.

In fondo non era poi così sicura di voler conoscere la risposta alla sua domanda.

 

Even the best fall down sometimes.

Even the wrong words seem to rhyme.

Out of the doubt that fills my mind,

I somehow found you and I collide.

 

Collide. Howie Day

***

Florida, Jacksonville University.

La piazzetta che ospitava i quattro edifici principali del campus era gremita di gente, quel pomeriggio. Giovani studenti intenti a chiacchierare e ascoltare musica riempivano a gruppetti le panchine e le gradinate, impigriti dal caldo.

Solo tre figure solitarie, quelle di due uomini e una donna, sembravano poco intenzionate a godersi la giornata soleggiata. Il trio attraversò spedito il corridoio meno illuminato della biblioteca, sbucando a pochi metri da un locale semi-deserto.  Una volta dentro le tre persone scelsero un tavolo e lo occuparono. Si erano sistemate da meno di dieci minuti quando un ronzio e il motivo di qualche vecchio spot pubblicitario si frapposero alle voci dei presenti nella stanza.

 “Non mi abituerò mai a questi” borbottò uno degli uomini, estraendo dalla tasca il cellulare.  Se lo portò all’orecchio e ascoltò attentamente le parole dell’interlocutore, mentre gli altri due occupavano il tavolo da biliardo più vicino.

L’uomo conversò per una manciata scarsa di minuti, parlando con voce bassa e leggermente rauca.

“Era Zacheria” dichiarò infine, chiudendo la chiamata. “Ha trovato uno dei ragazzi. Vivono nell’edificio più a ovest del campus. Possiamo andare a prenderlo non appena farà buio.”

“Quale dei due?” lo interrogò la donna, chinandosi sul tavolo per posizionare al meglio la stecca.

“Il mezzo Gilbert” rispose l’altro. “Lockwood sembra essere ancora in Virginia.”

“Era proprio necessaria questa deviazione?” sbottò improvvisamente il secondo uomo, guardandosi freneticamente attorno: sembrava avere qualche problema a mantenere gli occhi puntati su qualcosa troppo a lungo. “Avremmo potuto incominciare da Mystic Falls e tornare dopo per il ragazzo Non mi piace, qui. C’è troppa luce.”


Zacheria dice che può occuparsene lui” proseguì l’altro in tono di voce secco, ignorando la sua protesta. Si rivolse alla donna, che aveva abbandonato la stecca sul tavolo e lo stava fissando con sguardo carico di disappunto. “Se per te andasse bene potrebbe farlo anche ora, Lyra. Quel bastardo non ha problemi a stare esposto alla luce del sole.”

La donna sembrava contrariata.

 “Dì a ‘Ria che è un folle e un masochista se spera di riuscire a soffiarmi via la preda” rispose freddamente, allontanandosi dal tavolo da biliardo. “Non mi importa se la sua vittima non è più qui. È il mio turno per giocare.”

Si tastò i canini con la lingua, esibendo un sorrisetto deliziato. Aveva la gola arsa, bramosa di sangue e  le mani avide di vendetta.

“I Gilbert sono miei.”

Presto avrebbe estinto entrambi i tipi di sete.

_____________________________

*Remember me this way – Jordan Hill

** MILF – Mom I’d Like to Fuck. Da Wikipedia: MILF è un acronimo tratto dal linguaggio gergale anglo-americano che riguarda generalmente donne mature considerate sessualmente appetibili da maschi più giovani.

 

Nota dell’autrice.

Ed eccomi qui, finalmente, con la seconda parte del dodicesimo capitolo.

Vi chiedo scusa in anticipo nel caso troviate errori di distrazione/battitura o altre sviste.  So che sono solita disseminarne diversi  pur ricontrollando di volta in volta i capitoli e questa volta ho revisionato in maniera un po’ frettolosa, perché la prossima settimana mi assenterò da casa e ci tenevo a pubblicare prima della partenza per non posticipare ancora. Cercherò di rimediare quanto prima, intanto mi scuso!

In generale questo capitolo mi ha fatto dannare parecchio. Per ora è forse quello che mi convince di meno, ma forse è perché avevo in programma di scrivere alcune di queste scene da molto tempo e credo di essermi creata troppe aspettative a riguardo xD
Passiamo al mio polpettone nel polpettone.

Sulla scena Xanderine non c’è poi molto da dire, si racconta da sola. Per quanto riguarda Ricki e Vicki mi sono accorta in fase di stesura che le dinamiche tra i due si sono svolte in maniera molto più pacata rispetto al solito. Vicki era decisamente meno pazzerella di come siamo abituati a vederla, ma ho pensato che la situazione lo richiedesse. E grazie al casotto combinato da Ricki i due giovincelli incominciano a scambiarsi informazioni sui rispettivi segreti. Nei prossimi capitoli scopriremo se la cosa verrà approfondita e se ci saranno conseguenze di qualche tipo.

La scena Annaver/Jeranna è un concentrato di riferimenti al film Casper: non ho potuto fare a meno di inserire un piccolo tributo a quel film  per bambini che nonostante tutto riesce ad emozionarmi ogni volta che lo guardo xD Inoltre il parallelismo con Anna, Oliver e Jeremy era troppo calzante per non volerlo inserire.  La canzone che intervalla la scena in questione (Remember me this way di Jordan Hill) è proprio la canzone che accompagna la scena finale del film, in cui Kat balla assieme al Casper umano.

Nella scena Annaver c’è anche un  lieve riferimento alla canzone She’s the sunlight  dei Trading Yesterday, che ho sempre trovato perfetta per loro due. I versi che mi hanno ispirata sono “she is tomorrow, I am today”.

Purtroppo non ho potuto dedicare una scena vera e propria alla vittoria di Vicki. Sarebbe venuto fuori un papiro troppo lungo, perciò ho preferito menzionare la cosa nella scena Annaver/Jeranna.

La scena Masoline è forse quella che mi convince di meno assieme a quella Rictoria. Spero che la contrapposizione fra la prima parte della scena in cui avviene la rivelazione e la seconda, in cui le cose si fanno più distese e non stoni troppo. Mase alla fine riesce ad accantonare la sua diffidenza per riprendere i modi di fare un po’ da stupidotto del capitolo precedente xD  Credo che Caroline alla fine abbia trovato il modo per rassicurarlo e a questo è dovuto il suo cambio di atteggiamento.

Con questo capitolo si chiude la prima parte, decisamente introduttiva, di questa storia – Werewolves. Dal prossimo avrà inizio la seconda parte, intitolata Vampires. La scena di chiusura di questo capitolo è un grandissimo indizio per comprendere cosa aspettarsi dalla futura seconda parte. Chi saranno questi quattro loschi individui che gironzolano per l’università di Jacksonville? Uno di loro, Zacheria, lo conosciamo già. Dal prossimo capitolo incominceremo a conoscere di più anche gli altri tre. Finalmente i prossimi episodi dovrebbero dare più rilievo  a quei due pargoli che per ora sono rimasti un po’ più in disparte: Jeffrey e Julian.

Credo di aver detto tutto! Sicuramente il nuovo capitolo arriverà, molto in là. Ho bisogno di un attimo di pausa per plottare al meglio la seconda parte della storia.

Grazie a chi ancora continua a seguire questi nove pargoletti, non sapete quanto significhi per me <3

Ricordo come sempre che per informazioni sugli aggiornamenti, scleri vari, anticipazioni, lavoretti grafici e quant’altro mi trovate me e i pargoli sempre QUI, al gruppo facebook su History Repeating.

 

Un abbraccio!

Laura

 

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