Die on the front page, just like the stars.

di radioactive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ▪ run fast for your sisters and brothers. ***
Capitolo 2: *** ▪ in lontananza si udì un urlo che Lyosha non poteva lanciare. ***
Capitolo 3: *** ▪ madama fortuna era cieca, ma quella volta si era accorta di loro. ***
Capitolo 4: *** ▪ «l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 1] ***
Capitolo 5: *** ▪ «l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 2] ***
Capitolo 6: *** ▪ aveva gli occhi di una persona che ha perso tutto. ***
Capitolo 7: *** ▪ felici hunger games, e possa la buona sorte essere sempre a tuo favore. ***
Capitolo 8: *** ▪ little bird wrote him a tune, fly with me far from this room. ***
Capitolo 9: *** ▪ loro invece erano ancora lì: vivi. ***
Capitolo 10: *** ▪ well, these days i’m fine – no, these days i tend to lie. ***
Capitolo 11: *** ▪ dovevano stare zitti, se stavano zitti sarebbe andato tutto bene. ***
Capitolo 12: *** ▪ quando chiami un posto paradiso, digli pure addio. ***
Capitolo 13: *** ▪ muori in prima pagina, proprio come le stelle. ***
Capitolo 14: *** ▪ EPILOGO; my heart aches when i think of you. ***
Capitolo 15: *** ▪ PAGINE RUBATE Ø1; Capitol City ha rubato tutti i bambini di Panem. ***
Capitolo 16: *** ▪ PAGINE RUBATE Ø2; fiori bianchi, blu e gialli – in tinta con il vestito. ***
Capitolo 17: *** ▪ PAGINE RUBATE Ø3; nessun distretto che non è Favorito vince due volte di seguito. ***



Capitolo 1
*** ▪ run fast for your sisters and brothers. ***







CAPITOLO I

Run fast for your sisters and brothers.

 

 

 

 

 

Immerse le mani nella bacinella d’acqua – tiepida, che nella scala della temperatura dell’acqua a casa loro era come dire bollente – e se le passò tra i capelli corti, scuri come le piume di un corvo. Riportò le dita dentro il catino, stavolta messe a conca, e si gettò l’acqua sul viso sfregandosi gli occhi con i polpastrelli. Alzò lo sguardo verso quello che chiamavano ottimisticamente specchio e si guardò la faccia: era esattamente come tutte le altre mattine. Pallida con due occhi blu e una zazzera nera sulla nuca.

«Thahn…» sentì chiamare una voce. Era sua sorella, che gli aveva dato quel nome speciale che significava sia “cielo azzurro” che “suono” in una qualche vecchia, vecchissima lingua; non sapeva, lui, come lei lo conoscesse. In realtà lui si chiama Lyosha, Lyosha Isaacs. E quello era il giorno della Mietitura per i settantaduesimi Hunger Games.

 

 

«Lyosha… dannazione, ti sto parlando!» borbottò Vilette, la sua stilista. Si era già affezionato a lei ma non ne capiva il motivo, probabilmente perché era l’ultima figura realmente umana che avrebbe visto, considerando che, una volta entrati nell’Arena, sarebbero stati tutti e ventiquattro delle bestie pronte per il macello.

Scosse la testa, scacciando il ricordo della mattina in cui era stato condannato alla morte e la guardò fisso negli occhi, ne aveva uno verde e l’altro ambra e si chiese se fosse nata così o se fosse il risultato di una qualche operazione fatta a Capitol City, in definitiva, però, le donavano parecchio considerando la sua carnagione abbronzata.

«Grazie per la tua attenzione, Lyosha» commentò stizzita, o almeno fingeva di esserlo, «volevo solo augurarti buona fortuna, okay? Guarderò gli Hunger Games solo per te, e voglio confezionarti il vestito per quando sarai Vincitore, un bel completo sui toni del grigio e dell’azzurro per evidenziare i tuoi occhi» gli sorrise, un sorriso che sapeva di addio ma anche di flebile speranza.

Non aveva motivo di farlo, si disse, perché alla fin fine lui era risultato tra i peggiori nella classifica dopo gli allenamenti. Se fosse stato fortunato sarebbe vissuto abbastanza per vedere morire i primi tributi nella carneficina della Cornucopia, ammesso e non concesso che lui non fosse tra quei tributi – anche se era abbastanza convinto che l’opzione migliore fosse quella di seguire il consiglio della sua Mentore: correre. Qualcosa gli diceva che era un suggerimento dato spesso ai tributi dei distretti poveri, e puntualmente solo in pochi lo prendevano in considerazione – chissà se anche lui avrebbe fatto lo stesso.

Tuttavia le sorrise di rimando, agitando la mano in segno di saluto. La guardò mentre gli aggiustava la giacca della tuta e poi entrò dentro il cilindro che lo avrebbe catapultato in un mondo sconosciuto, dove i fiumi erano sangue e l’aria le anime dei morti che vagavano senza meta, semplicemente.

D’altronde, non c’era altro che potesse fare.

 

 

Era un viaggio lento e silenzioso, quella salita verso l’Arena. Sembrava durare un’eternità eppure prima che potesse accorgersene le pareti trasparenti che lo accompagnarono fino alla fine del percorso – cosa strana, si diceva, non succedeva spesso che ci fossero delle mura – erano già calate verso il basso e dell’acqua gli aveva inondato i piedi; Lyosha era dentro un altro mondo, probabilmente antico e sconosciuto.

Attorno ai tributi vi era una fitta vegetazione sui toni del verde scuro, i fasci di luce di un sole artificiale erano ben visibili mentre calavano tra le foglie come i fari di un palcoscenico dove loro erano gli attori, eppure la fonte primaria di quei raggi non era visibile: il cielo era completamente azzurro, neanche una nuvola. In lontananza si vedevano delle cascate tutte attorno delimitando una circonferenza, rumori di svariati insetti coprivano il suono del suo respiro e il battito del suo cuore nelle orecchie.

Il sudore gli colava ovunque sul corpo per il caldo e l’umidità del posto. Guardò in basso: aveva i polpacci immersi nell’acqua e una circonferenza luminosa che attraversava la sporcizia del liquido segnava la sua postazione, come per ricordare che, attraversata quella linea prima del conto alla rovescia, sarebbe tutto finito ancora prima di iniziare.

Pensò che forse era una buona soluzione, saltare fuori dal cerchio e lasciare che le bombe lo mangiassero vivo. Magari qualcuno lo aveva già fatto, suicidarsi prima dello scadere dei sessanta secondi – gli pareva di ricordare di sì. Anzi, era sicuramente successo in settant’uno edizioni dei Giochi.

Il timer era partito prima che lui potesse accorgersene, ormai erano a meno quarant’uno secondi, e lui usò i rimanenti per scrutare gli altri ventitré tributi.

Ricordava Fraser, del Distretto 1, bello e impossibile come tutti quelli del suo luogo – aveva avuto modo di constatare che era un ragazzo abbastanza superbo, come se avesse già in mano la vittoria. Sean, del terzo distretto, aveva sedici anni e si era offerto volontario, Lyosha ne rimase abbastanza sorpreso considerando che sapeva di certo non era un favorito e – soprattutto – non aveva diciotto anni, forse era stupido, o forse avrebbe vinto lui. C’erano i due del Distretto 12, il maschio Gijs di sedici anni e la ragazza Yara, di dodici. Lei aveva la dolcezza negli occhi scuri e quel sorriso che gli ricordava le bambine più povere del Distretto 8 – quello a cui Lyosha apparteneva: sempre sereno anche se pieno di dolore; Gijs, invece, gli incuteva abbastanza terrore considerando gli occhi con cui fissava gli altri, di un orribile color verde-marrone, simile all’acqua delle fognature, sembrava sicuro di poter uccidere tutti quanti con la sola forza del pensiero; era rimasto sorpreso anche di lui: non pensava che i distretti più bassi avessero tributi così… cattivi, Lyosha non era cattivo, per esempio. C’era la ragazza del quarto distretto, Ines di diciassette anni con lunghi capelli ramati, il pubblico la amava molto perché consideravano la sua presenza una sorta di possibilità di vendetta per la sua tragica storia: sua madre rimase gravida di lei a diciotto anni, prima della Mietitura, nella quale fu sorteggiato come tributo il padre della ragazza che non tornò mai a casa.

…E poi Lexi. Lexi era il tributo femmina che accompagnava Fraser, diciottenne. Lyosha dovette essere sincero con sé stesso (cosa che non desiderava affatto, in quel momento): lei era bella, molto bella, e il soprannome che le avevano dato nell’intervista - «la Principessa» - era molto azzeccato, non tanto per la coroncina che faceva parte del suo costume durante la sfilata, quanto per i suoi modi di fare, per il suo modo di parlare, per il suo sorriso e la maniera in cui guardava gli altri, come se si fosse innamorata della persona che fissava in quello stesso istante – per qualsiasi cosa facesse: neanche l’atto di uccidere avrebbe potuto strapparle di dosso quel soprannome.

Venti secondi. Avrebbe volentieri speso gli ultimi venti secondi della sua vita a guardare Lexi, assaporare da lontano la sua bellezza – chiaro che, durante quei pensieri, Lyosha si stava odiando per il solo averli fatti – eppure non poteva, perché con gli occhi stava cercando ancora la ragazzina di tredici anni che vestiva il ruolo del tributo femmina del Distretto 8. Si chiamava Ariel, aveva i capelli come le spighe di grano al sole e gli occhi chiari.

L’aveva vista, era lì, appena nascosta dalla Cornucopia.

Diciassette secondi. Nei suoi occhi c’era la forma più pura del terrore, l’acqua le arrivava a metà coscia e si chiese come avrebbe fatto a correre, e se Cecelia l’avesse rassicurata, se le avesse detto di scappare invece di buttarsi sulla Cornucopia.

Dodici secondi. Ariel sembrava quasi tremare e Lyosha se ne dispiacque, avrebbe voluto attraversare tutta quella palude e stringersela contro. Perché se c’era una cosa che li legava veramente, era l’essere fratelli di sangue.

Otto secondi. Lyosha alzò le braccia e le incrociò sul petto, guardandola fisso negli occhi, «ti proteggo io», significava nella loro speciale lingua di cui necessitavano assolutamente, infatti il ragazzo era muto – o meglio, qualcosa nella sua gola non funzionava, nelle sue corde vocali – era come se non ci fossero. E lui non poteva fare nulla che comportava il loro uso: non poteva parlare, ridere, gridare, addirittura la tosse era priva di suono, non poteva fare rumore mentre piangeva. Niente che c’entrasse con il voto di silenzio o roba del genere. Non poteva e basta.

Tre secondi. Erano tutti pronti: un piede avanti ed uno dietro. Anche lui si posizionò e vide sua sorella fare lo stesso. Tutti i rumori erano cessati, gli insetti rimasero in silenzio per vedere l’inizio dei settantatreesimi Hunger Games.

Un rumore a cui Lyosha non prestò attenzione – forse un gong – indicò l’inizio dei Giochi, mosse un piede davanti all’altro con frenesia, come tutti gli altri ventitré concorrenti. Come sua sorella, come Lexi, come quelli di cui non sapeva nome, età e volto.

Si ricordò l’unico consiglio veramente utile che aveva dato loro la Mentore che si occupava di lui, Lloyd, e decise che quella sarebbe stata la sua nuova filosofia di sopravivenza: «correte per vostra madre, per vostro padre, per i figli che avrete, per fratello e sorella. Correte, dannazione, non posso passare il resto della mia vita pensando che un’altra volta dei dannati ragazzini si sono ammazzati ai Giochi perché non si sono messi a correre».

E poi se n’era andata in terrazza a fumarsi una sigaretta lasciando addirittura Cecelia, l’altra Mentore, senza parole.

 

 

 

 

 

 

 



«Ritorna con il tuo scudo, o su di esso.»

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE «viviamo e respiriamo parole»

 

Nonostante tutto, sono ancora qui.

Avevo già pubblicato il prologo di questa fanfic, ma in preda di un attacco di isteria (o qualcosa del genere), l’ho cancellato per riscriverlo in una luce migliore, forse. Tuttavia la trama è rimasta invariata, o almeno così pare.

Quindi sì, parliamo ancora dei fratelli Lyosha e Ariel, diciassette e tredici anni, lui muto e lei terrorizzata ma anche coraggiosissima.

Ho voluto tenta un approccio diverso, quindi iniziando in medias res, tuttavia non vi priverò di nessun momento degli Hunger Games – i giorni precedenti saranno mostrati attraverso flashbacks o semplici racconti, come degli spin-off.

Devo dire che la parte più complicata dell’organizzazione degli Hunger Games è stata l’Arena, perché non avevo assolutamente idea di come farla! Infatti avrò cambiato molte volte idea e me ne sarò fatte venire in mente altre cento, ma alla fine ho tenuto la prima che mi è balenata nel cervellino: la foresta amazzonica con tutto quello che ne comporta. Non so se avete mai visto Bear Grills nelle suddette foreste, ma sarà una cosa del genere, con boa di piume e tutto il resto.

Ora, per non deludere(?) coloro che amano avere una faccia ben precisa sotto gli occhi per immaginarsi i personaggi citati, di seguito ci sono i volti dei tributi citati più quelli di Lyosha e della sorellina.

Distretto 1: Fraser (M) e Lexi (F). Distretto 3: Sean (M). Distretto 4: Ines (F).

Distretto 8: Lyosha (M) e Ariel (F). Distretto 12: Gijs (M) e Yara (F).

Concludendo: il titolo della fan fiction è una frase tratta da una canzone dei One Night Only, intitolata “Say You Don't Want It”, quello del capitolo è una quasi frase di “Dogs day are Over” di Florence + the Machine. Infine, la canzone che fa un po’ da “soundtrack” a questa fan fiction è “Start a Riot” di Jetta, di cui voglio lasciarvi il link: click!

 

Ringrazio ovviamente la cara e vecchia e buona Iysse che, se non mi avesse sopportato, non avrebbe visto tutto questo su EFP. E almeno lei ci tiene(?).

Un grazie anticipato a tutte quelle care e vecchie e buone(…) persone che avranno voglia di lasciare un piccolo parere per sostenere la causa degli OC che, a mio parere, sono sempre un po’ snobbati – in tutti i fandom. Io lo trovo così stimolante inserire personaggi nuovi in un bel contesto! *probabilmente è l’unica, eww*
→ la citazione finale è di 300.

 

Alla prossima!

radioactive,

 

 

 

 

EDITs;

03/11 – cambio grafica e revisionato il testo non betato, aggiunta presenza di Cecelia nella scena finale  e cambiato stile di scrittura dei distretti, ora segue quello del libro (non più Distretto uno/due/tre ecc., ma Distretto 1/2/3 ecc.).

13/11 – testo betato.

29/11 – cambio ulteriore della grafica.

 

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Capitolo 2
*** ▪ in lontananza si udì un urlo che Lyosha non poteva lanciare. ***







     » CAPITOLO 02

              in lontananza si udì un urlo che Lyosha non poteva lanciare.

 

 

 

 

Il primo ad armarsi fu Fraser e subito dopo si udì il grido di una bambina. Lyosha temette per la sorella ma vide che Ariel stava ancora correndo, ma non verso la Cornucopia: aveva adocchiato un piccolo zainetto che sbucava appena dall’acqua sporca, pensò che fosse davvero brava: non si era gettata in mezzo ai combattimenti e ringraziò mentalmente il cielo per il buonsenso di cui era stata dotata e aveva seguito il consiglio che Lloyd ripeteva ogni giorno da quando era diventata Mentore, e la cosa comica era che Cecelia non la fermava – a quanto pareva, era un suggerimento molto efficace. Senza che se ne accorgesse lui si stava già affrettando per raggiungerla.

Poteva quasi ritenersi soddisfatto, Lyosha: si sarebbe riunito a sua sorella ed insieme avrebbero cercato un posto dove nascondersi, elaborare una qualche tattica scadente per tentare di sopravvivere e lasciare che gli Hunger Games facessero il suo corso, l’avrebbe protetta dagli aggressori come poteva e lei sarebbe diventata la Vincitrice, tornando a casa. Ma prima di raggiungere la piccola Ariel si ritrovò davanti la ragazza del Distretto 7 (la riconobbe dal numero stampato sul colletto della giacca e dai capelli ramati che erano stati lodati durante la sua intervista), doveva avere la sua età – ma non fece in tempo a capirlo che l’avversaria gli sferrò un pugno dritto sulla guancia, facendolo barcollare e poi cadere nell’acqua, quando aprì gli occhi notò che la giovane donna aveva estratto dalla cinghia dei pantaloni un coltello lungo e sottile, fece per calarlo su di lui ma Lyosha ruzzolò di fianco, allora lei riprovò a colpirlo tagliandogli la giacca e ferendogli il braccio, Lyosha ingoiò un paio di volte l’acqua melmosa che scese come veleno nella sua gola.

Ci siamo, si disse, alla prossima muoio. E nel momento in cui si immaginò il coltello piantato nel petto una pietra colpì la ragazza sulla spalla facendola cadere di fianco a lui. Prontamente Lyosha afferrò il pugnale, la bloccò con la faccia nell’acqua mentre questa si dimenava furiosamente, si mise a cavalcioni su di lei e appoggiò un ginocchio sulla spalla ferita di lei appoggiandoci tutto il peso del suo corpo e con un movimento fluido e istintivo le piantò la lama nella schiena, sfilandole poi dal braccio una sacca che aveva raccolto alla Cornucopia.

Alzò lo sguardo, realizzando che a lanciare la pietra era stata Ariel, ora immobile a pochi metri da lui, spaventata. Lyosha la guardò con preoccupazione e prima che potesse constatare quante altre persone erano morte nel giro di quei istanti e quante stessero ancora combattendo, si alzò, afferrò la sorella per il braccio e scappò tra gli alberi.

In lontananza si udì un altro urlo.

 

 

Sembravano essere passate già ore, ma qualcosa dentro di lui diceva che erano trascorsi solo pochi minuti. Camminava con il fiatone dopo una corsa estenuante in un terreno fatto di cespugli, radici e terra bagnata, tenendo la sorella stretta per il polso. Aveva fatto come gli era stato detto da Lloyd: aveva corso, corso per sua sorella.

«Sono stanca…» mormorò flebilmente. Allora si sedettero su una grossa radice che spuntava fuori dal terreno dietro un arbusto molto folto. Sapeva che era un pessimo nascondiglio e quindi pregava che gli altri fossero così impegnati ad ammazzarsi tra loro da non aver fatto attenzione alla direzione presa dai due.

Lyosha ripercorse velocemente quei primi momenti degli Hunger Games: una bambina era morta e lui aveva già ucciso una persona, i sensi di colpa lo invasero, presto cancellati da tre semplici parole: istinto di sopravvivenza. Ripensò al corpo inerme della ragazza del Distretto 7 e al sangue che sgorgava dalla sua ferita sporcando l’acqua  di rosso – scosse la testa, scacciando quei pensieri: ci avrebbe pensato durante la notte, mentre quelle immagini lo avrebbero tormentato sottoforma di incubi, o almeno così pensava.

Capì che non era il doversi uccidere che li rendeva simili alle bestie, quando l’istinto che prendeva controllo delle  azioni e facevano far loro cose di cui non si sarebbero mai creduti capace, come uccidere; pensò alla sorella e al lancio del sasso, e questo gli bastò per avere conferma della sua teoria.

Si girò a guardare Ariel: aveva una tuta uguale alla sua ma che si differenziava solo per il taglio femminile. I capelli erano raccolti in uno chignon strettissimo con un elastico nero e in mezzo all’adrenalina parecchi ciuffi si erano liberati dall’acconciatura e le ricadevano scomposti attorno al viso, alcuni erano attaccati alle tempie e ai zigomi per il sudore e le guance arrossate dal caldo e dalla fatica.

Era davvero successo, allora: erano dentro gli Hunger Games. Niente brutto sogno come aveva sperato, niente scherzo, nulla di tutto questo. La fuori c’erano almeno altri venti ragazzi pronti a scatenare tutto il loro “istinto di sopravvivenza” – esattamente come i due e non importava distretto, sesso o età della vittima. Sospirò pesantemente passandosi una mano tra i capelli e allora si ricordò di essere stato ferito al braccio, avrebbe voluto biascicare qualche imprecazione ma si limitò a digrignare i denti mentre si faceva sempre più consapevole del dolore. Si tolse la giacca con movimenti goffi, potendo usare un arto solo e notò uno squarcio scarlatto sul bicipite.

Ariel lo guardava nella speranza di essere rassicurata o comunque di vedere nel fratello una guida, ma quando notò la ferita capì che doveva fare qualcosa, iniziò quindi a frugare negli zaini che avevano raccolto, incominciando dal proprio: era piccolo e conteneva un coltello, un accendino (che ci avrebbe fatto, con un accendino?, dato fuoco ai capelli di un qualche tributo?... ma se era dentro lo zaino, doveva servire a qualcosa!) e un piccolo cilindro che all’interno conservava un tubetto con delle pastiglie verdi e una boccetta spray piena di liquido ambrato e nessuna indicazione su come usarlo.

Lanciò uno sguardo rapido al fratello il quale aveva già rubato il coltello uscito dallo zaino di Ariel e con quello si tagliava alla bell’e meglio della stoffa dalla manica della giacca della tuta. Rapida, afferrò la borsa che aveva rubato alla ragazza e dentro vi trovò una coperta, una scatolina con della mela tagliata a fette e delle pasticche sottilissime e di diametro maggiore rispetto alle altre, erano impilate come delle monete e tenute assieme da un filo: uno splendido pacco regalo per chi sta andando in contro alla morte.

«Che faccio?» chiese, guardando ciò che avevano sparso sull’erba, i suoi occhi volavano veloci da una parte all’altra del suo campo visivo soffermandosi rapidamente su ognuno degli oggetti, come per capire cosa potesse servire a cosa. Non sapeva quale pasticca o se la boccetta servisse per la ferita del fratello che, tral’altro, sembrava dolergli molto. Non riusciva a ragionare e tantomeno a rievocare i ricordi dei pseudo-corsi di sopravvivenza che aveva fatto in quelle due settimane di preparazione, «Thanh… che faccio?» richiese alzando la voce, non ottenendo ancora risposta, «DANNAZIONE LYOSHA CHE DEVO FARE!» disse poi a voce alta, troppo alta per non ottenere reazione dal fratello che, in tutta risposta, si buttò su di lei con la mano del braccio buono sulle labbra e un’urgente richiesta di silenzio negli occhi.

Silenzio, la cosa che Lyosha richiedeva e che riusciva a fare meglio.

Le mise in mano il coltello con la lama posta in orizzontale, cercò a tastoni l’accendino in mezzo all’erba e, dopo aver provato più volte a farlo scattare, notò con piacere la fiammella che ballava. Con cautela andò a mettere il fuoco sotto la lama, aspettando pazientemente che si scaldasse.

Ariel capì. Glielo avevano insegnato a Capitol City, come curarsi una ferita nel modo più efficace possibile, serviva solo ferro e fuoco e si dava il caso che loro avessero entrambi, si chiese se l’accendino servisse proprio a quello. Fasciarsi una ferita non le sembrava una buona idea, qualcosa – guardando quel posto – le diceva che ci sarebbero stati svariati modi per procurarsi una qualche infezione, e quindi cicatrizzare il taglio era la cosa migliore che potesse fare.

Al pensare alla lama rovente sul braccio del fratello, la mano di Ariel tremò e gli occhi si gonfiarono di lacrime: avevano appena iniziato e lui già doveva soffrire per la sopravvivere, e lei lo sapeva che lo stava facendo per la sua sorellina. Si chiese quanti di quei tagli si sarebbe chiuso ancora per proteggerla, perché era così che si erano messi d’accordo: lui sarebbe vissuto per proteggerla, e lei sarebbe tornata a casa, vittoriosa e sorridente.

«Bruciando il tessuto viene prodotto calore il quale produce la coagulazione delle proteine dei tessuti organici circostanti la ferita» recitò lei, ricordando le parole degli allenamenti senza sapere realmente il loro significato. Era sempre stata brava a ricordare... era brava a fare un sacco di cose in effetti, eppure tutte sembravano futili davanti alla crudeltà di quei giochi.

Lyosha alzò lo sguardo e sforzò un sorriso, che sembrò più una smorfia di dolore mal celata.

Aspettarono in silenzio che la lama fosse abbastanza calda, con le orecchie ben tese per sentire l’arrivo di qualcuno, il sangue continuava a sgorgare dalla ferita mischiandosi con il sudore e sporcando con lunghi rivoli il braccio magro ed esile di Lyosha, inappropriato per combattere, provocandogli un fastidio enorme perché lui odiava essere sporco – ma si rese presto conto che la sporcizia sarebbe stata inevitabile, lì dentro.

«Ci siamo» mormorò pianissimo Ariel, come se avesse paura che qualcuno li stesse guardando oltre il cespuglio. Lyosha annuì piano e riposò l’accendino sull’erba, si allungò a prendere la giacca e tamponò la ferita in modo da riuscire a distinguere il taglio dal sangue, consapevole che l’avrebbe buttata molto presto, con un gesto della mano si fece passare il coltello rovente.

La più piccola si tappò le orecchie e strinse le palpebre girandosi dall’altra parte, nonostante sapesse che Lyosha non avrebbe neanche grugnito, solo storpiato i suoi lineamenti ancora da bambino senza proferire neanche un rumore.

E poi le fece, premette il ferro rovente contro il braccio mentre il calore si espandeva come fitte di dolore tra i muscoli, dentro i nervi. Strinse i denti attento a non mordersi la lingua e chiuse gli occhi, sentendo le lacrime scendere presto sulle goti per il dolore.

Si diede dell’idiota, perché stava davvero piangendo per quella che poteva considerare una sottigliezza.

Quando allontanò la lama dal braccio e riaprì le palpebre lentamente, lasciò che il coltello cadesse a terra e afferrò il lembo di giacca nella mano buona, chiamò Ariel toccandole la spalla e le fece segno di legare il tessuto attorno alla ferita, una precauzione abbastanza inutile, ma era qualcosa che gli dettava la coscienza e Lyosha non si sentiva in grado di obbiettare.

Si chinarono sugli oggetti per rimetterli nei due zaini, la ferita gli pulsava ancora sotto il bendaggio improvvisato ma Lyosha confidava nel tempo che leniva ogni cosa, anche il dolore. Ripiegò alla bell’e meglio la coperta e in quel momento qualcosa gli si bloccò in gola, come se si fosse completamente chiusa.

Si mise una mano sulla bocca e una sullo stomaco, iniziando a tossire violentemente, piegò il capo di lato e rigettò succhi gastrici e acqua. Faticava a respirare e il corpo iniziò a tremare, quasi preso dagli spasmi, il freddo gli colò sulla pelle come una doccia ghiacciata.

Ariel lanciò un urlo e si tuffò sul fratello, facendogli alzare il viso e pulendogli con le mani le labbra dal vomito, incurante della spiacevole sensazione. Lyosha alzò le mani e fece pochi movimenti per dire solo tre parole alla sorella: l’acqua era avvelenata.

 

 

Sul treno, Lloyd era seduta davanti a loro in una di quelle costose poltrone in pelle, Cecelia era andata un attimo ai servizi, informando i due tributi che si sarebbe presentata poi. La Mentore incrociò le dita delle mani e chinandosi in avanti appoggiò i gomiti sulle ginocchia, li osservava con discreta curiosità e uno scintillio negli occhi, fece schioccare la lingua contro il palato e si alzò a prendere un bicchiere di cristallo, riempiendolo con una strana bibita azzurrina dai riflessi lilla, «d’accordo, questo è il piano:» rimase ferma in piedi mentre ingurgitava il contenuto del suo bicchiere, «dovete capire i segreti dell’Arena, ci sono sempre dei segreti nell’Arena. E per quanto sia allettante l’idea di armarsi e tagliare le gole degli altri tributi, le cose veramente utili sono negli zaini, solitamente ti danno abbastanza cose per sopravvivere almeno il primo giorno. Cecelia vi dirà le stesse cose in modo più carino».

Un sorriso felino comparse sul volto di Lloyd, Lyosha si chiese sinceramente come avesse fatto a vincere, e soprattutto a quale edizione avesse vinto, considerando che non dimostrava più di trenta, trentacinque anni, «andiamo a mangiare? Muoio di fame».

In silenzio, si alzarono tutti e si diressero verso il vagone allestito per l’occasione, a guidare vi era la donna che rappresentava il loro tributo – che non aveva detto una parola, sul treno, non sembrava una persona molto spensierata – dai lunghi capelli arcobaleno e acconciati il mille treccine a loro volte raccolte in una coda di cavallo fatta… a sfere? Lyosha non sapeva spiegare. A seguire Lloyd in un silenzio religioso, si limitava a far dondolare il resto del liquido dentro il bicchiere con movimenti del polso, Ariel andava subito dopo la Mentore con un braccio teso all’indietro, ed infine Lyosha che le avvolgeva il piccolo palmo con le sue lunghe dita ossute.

Erano le dita che le avevano cucito l’abito che indossava alla Mietitura, pensò, le dita del suo fratellone.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



«Dobbiamo imparare a non perdere tempo a piangere sulle nostre ferite,

come un bambino appena caduto, ma abituarci a scacciare il dolore

curandoci le ferite ed emendando i nostri errori il prima possibile.»

[PLATONE; “Repubblica”]

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE«viviamo e respiriamo parole»

 

Ebbene, si va avanti.

Ho pensato molte volte a come mandare avanti questo capitolo, che in tutti i casi sarebbe stato drammatico, certamente, ma c’era da aspettarselo da una come me.

E chi mi conosce, lo sa.

Non mi sento di aggiungere altro su questo capitolo, perché sostanzialmente parla da solo, e non vedo cosa dovrei spiegarvi ancora. Oh sì, è chiaro che non sono una cima in medicina e quello che scrivo non ha fondamenta solide, sono solo frutto di qualche ricerca su internet o, nel peggiore dei casi di “sentito dire”, tuttavia non arriverò a dirvi che il cielo è viola e fatto di porcospini, a meno che non si trattino di aghi inseguitori. Ma questa è un’altra storia.

Vorrei proporvi ancora una volta una canzone, stavolta prettamente strumentale, ve la linko qui di seguito: Circadian Eyes ~ Finding Silence.

Mi scuso per eventuali errori di grammatica e/o digitazione, a volte, dopo la terza volta che si rilegge lo stesso scritto anche a distanza di tempo, non si riesce a vedere l’errore. E questo posso confermarvelo con fondamenta solide

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto come il precedente, quindi

 

Alla prossima!

radioactive,

 

 

 

EDITs; ricordate che un commento, anche dopo tanto, fa sempre piacere!

03/11 – cambio grafica e revisionato il testo non betato, aggiunta presenza di Cecelia nella scena iniziale e finale, modificato corposamente l’ultimo paragrafo e cambiato stile di scrittura dei distretti, ora segue quello del libro (non più Distretto uno/due/tre ecc., ma Distretto 1/2/3 ecc.).

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Capitolo 3
*** ▪ madama fortuna era cieca, ma quella volta si era accorta di loro. ***









CAPITOLO 03

                 madama fortuna era cieca, ma quella volta si era accorta di loro.

 

 

 

Il respiro gli riusciva pesante, pesantissimo. Si aggrappava con le unghie sul terreno e le sentiva rompersi e sporcarsi ma non gli importava granché, “che m’importa delle unghie, considerando che sto morendo?” avrebbe voluto pensare; eppure la sua mente non vagava attorno a quelle domande, bensì ai ricordi distanti di un distretto otto che non poteva affatto considerarsi fiero dei suoi tributi, perché il maschio stava morendo per dell’acqua sulle gambe di una sorella che afferrava prontamente le tre cose che le sembravano più utili – e che effettivamente potevano risultarlo – in quel momento: la soluzione ambrata e le due confezioni di pastiglie.

Lyosha ansimava, girandosi di lato per vomitare ancora, insieme ai succhi gastrici si iniziavano ad intravedere piccole lacrime di sangue che fecero squittire Ariel dallo spavento, la poverina era talmente sconvolta che non riusciva nemmeno a produrre un suono che esprimesse tutto il suo terrore, assomigliando più ad un gatto a cui è stata pestata la coda che ad una ragazza in procinto di perdere il fratello. Lui tossì ancora, come per espellere nuovamente ciò che conteneva il suo stomaco e le mani di Ariel tremarono dallo spavento, facendo cadere la boccetta che rotolò qualche centimentr più in là sulle foglie.

Doveva concentrarsi, si disse, perché si trattava di Lyosha. Corrugò un po’ la fronte e posò anche le pasticche per terra: scartò subito il liquido spray, perchè se l’acqua era stata ingerita per guarirlo bisognava ingerire a sua volta qualcosa… passò poi in rassegna i due tipi di pasticche: le prime che esaminò – quelle piatte e chiare – ricordavano i dischi di farina e acqua che compravano dal panettiere e che di solito mangiavano con un po’ di cioccolato (quando ce n’era!), non sembravano assolutamente simili ad una medicina e qualcosa in lei diceva che non erano quelle giuste; prese allora le altre che le ricordarono subito le pastiglie che sua madre comprò quella volta che lei si ritrovò con un’intossicazione alimentare o qualcosa del genere. Ne estrasse una dal suo contenitore e se la rigirò tra le dita tremanti per l’adrenalina: aveva tutta l’aria di essere una medicina, sebbene non sapesse per cosa, e di certo sembrava essere più affidabile delle ostie – o qualunque cosa fossero.

All’improvviso, gli occhi della ragazza si sgranarono – la sorpresa fu tale che quasi non si accorse della mano di Lyosha che si aggrappava in una morsa quasi dolorosa al suo polso. «L’accendino con il coltello, lo spray, le pastiglie…» mormorò a voce bassa, il viso ora era tirato in un sorriso che il fratello non riuscì a capire, si sarebbe quasi infuriato se non stesse troppo male e sul punto di vomitare. Un kit di pronto soccorso, per le ferite, per il veleno dell’acqua non riuscì a completare la frase, non sapendo a cosa servisse il liquido.

Con estrema cautela e con la pastiglia tra le dita, Ariel fece in modo di far sedere il fratello con le spalle appoggiate al tronco di un albero, gli prese la mano e gliela pulì come meglio poteva con la manica della propria giacca, mise la piccola perla di giada sul palmo, «ingoiala… credo sia una medicina».

Inutile dire che lo scetticismo di Lyosha nei confronti di quel “credo” era immenso, ma che poteva fare se non ubbidire? Guardò con la vista appannata quel piccolo medaglione verde e senza pensarci se lo buttò in bocca cercando di ingoiarlo senza che si attaccasse alla lingua. E poi aspettò, con il capo appoggiato sulla propria spalla e gli occhi chiusi, stanchi.

Tutto intorno a lui era sparito: giochi, sangue, morte e vegetazione di una foresta mai vista prima, diversa da quella fuori il loro distretto, diversa da tutto quello che avesse mai visto. Le uniche cose che riusciva ad avvertire erano la terra sotto le unghie, le gocce di sudore colargli lungo il collo che producevano la pallida ombra del solletico e i piccoli cerchi che sua sorella disegnava con l’indice sul palmo della mano di lui, in attesa della morte o della vita di Thahn, del suo cielo azzurro.

Perché – e questo lo sapevano entrambi – la morte di Lyosha avrebbe mandato un eterno temporale nella vita di Ariel.

 

Lexi si sedette su uno spuntone della cornucopia, sfilandosi il laccio dai capelli e tenendolo con i denti, pettinandosi i fili d’oro per poi raccoglierli in una coda più alta di quella che i suoi preparatori le avevano fatto prima di entrare nei Giochi. Poco più in là, i tributi del distretto due (Kabe e Liv) parlavano con Fraser.

Si sedette a gambe incrociate, lasciando cadere a terra la spada di cui si era armata, passandosi una mano sul viso, si accorse di avere la guancia sporca di sangue, biascicò un’imprecazione e poi tornò a guardare il gruppetto di cui faceva parte: doveva dire di non essere scontenta dei tributi dei giochi di cui lei faceva parte, perché tutti, a modo loro, potevano darle del filo da torcere.

Fraser, prima di tutti, era uno che ci andava pesante: all’inizio degli Hunger Games era volato sulla spada più grossa che vi era e senza rimorsi aveva già attraversato da parte a parte da ragazzina del distretto dodici, spaventando quasi a morte quelli dei distretti più bassi e facendoli scappare senza aver afferrato nulla dalla Cornucopia. Ora agitava le braccia mentre parlava con Kabe e Liv e poi si mise a ridere, come se avesse appena raccontato una barzelletta divertente.

Liv se ne stava lì impalata a braccia conserte con una faretra piena di frecce attaccata alla cintura e alcune sporche di sangue in mano, sorrideva con gli occhi dolci al tributo del distretto uno come se fosse stata travolta da una cotta adolescenziale: era bella, certamente, ma si vedeva lontano un miglio che Fraser aveva già deciso di ammazzarla, così come aveva deciso di ammazzare tutti nell’Arena all’occasione giusta. Non era uno che amava perdere, e anche questo si vedeva lontano un miglio.

Kabe invece, dopo aver lanciato un’occhiata scettica a Fraser dopo averlo visto ridere, aveva iniziato a fare il giro attorno ai cadaveri del bagno di sangue, sfilando dalle loro spalle gli zaini e raccogliendo i pugnali conficcati sui loro corpi o abbandonati nell’acqua facendo una smorfia nel vedere come era stata pugnalata male il tributo donna del distretto sette – nel suo volto non c’era altro che distacco. Lexi non riusciva ad inquadrarlo bene e la cosa la innervosiva: voleva intuire il piano di tutti i favoriti per capire quando sarebbe stato meglio fuggire da quella coalizione prima di essere ammazzata da uno di quei tributi.

Guardò nell’altra direzione: di vivo c’era solo la ragazza del distretto quattro, la più piccola del gruppo dei favoriti e quella che si era accaparrata tutti gli sponsor, una storia tragica come la sua non passava inosservata e Capitol City amava i drammi. Altrimenti perché continuerebbe a guardare gli Hunger Games?

Assottigliò lo sguardo per metterla meglio al fuoco, nonostante la sua vista fosse perfetta: invidiava i suoi capelli di un bellissimo color rame, al sole sembravano quasi rossi e Lexi si chiese se fossero naturali, perché lo sembravano davvero. Non poteva biasimare affatto lo (o la) stilista che l’aveva vestita da sirena, ricoperta di glitter per imitare la lucentezza delle squame che mettevano in evidenza la sua bellezza da distretto quattro. Ines – così si chiamava – era china sull’acqua e con la giacca di un qualche tributo morto usata come straccio lavava via il sangue dal tridente che avevano molto probabilmente messo lì per lei, borbottava qualcosa tra sé e sé che a Lexi non importò granché.

«Allora? Dobbiamo aspettare ancora per molto, Principessa?» era Fraser, in piedi davanti a lei senza giacca – l’aveva legata alla bretella dello zaino che aveva sulle spalle, teneva una spala attaccata alla cinta, un pugnale nello stivale e un altro sempre nella cinghia dei pantaloni. Sorrideva, come se trovasse divertente chiamarla con quel soprannome con cui l’intervistatore di cui ignorava il nome l’aveva chiamata la sera prima.

«Veramente quello che si perde a raccontare barzellette sei tu, Fraser» disse lei quasi inviperita, saltando via dalla Cornucopia e prendendo la spada – di forma diversa da quella di Fraser, la propria era più lunga e sottile mentre quella dell’altro più robusta e adatta a delle braccia virili – e infilandosela nella cinghia dei pantaloni come il tributo maschio che le stava di fronte, camminò alzando i piedi dall’acqua e si avvicinò al tesoro della Cornucopia, frugando tra gli zaini, aprendoli e ispezionando il loro contenuto, spostando talvolta delle cose da una borsa all’altra. Alla fine, dopo un lungo riordinare gli oggetti, si mise una delle sacche sulle spalle. «Kabe e Liv?» chiese lei, indicando con il mento i due intenti a lavare le armi dal sangue e a vedere cosa Kabe aveva recuperato dalle spalle dei tributi deceduti. Riempirono anche una brocca d’acqua trovata in una delle sacche.

«Hanno chiesto un paio di minuti per mettersi in ordine e frugare nella Cornucopia» rispose atono lui, guardando con la coda dell’occhio le borse sventrate che aveva lasciato Lexi, sorrise appena «o quello che ne è rimasta, considerando che l’hai svuotata».

«Ines?» ovviamente lei ignorava la leggerezza con cui Fraser parlava, “lo ammazzo”, si promise.

«Sta arrivando» annunciò lui e qualche secondo dopo la figura mingherlina della ragazza in questione passò alle spalle di Fraser per dirigersi ai rifornimenti, prese lo zaino più capiente che trovò infilandoci tre corde trovate nella Cornucopia, un sacchetto di mele e altre cose a cui nessuno del distretto uno prestò attenzione.

«E tu?» domandò infine, alzando un sopraciglio e incrociando le braccia al petto.

Di tutta risposta Fraser si limitò a sorridere, prima di andare dai tributi del distretto due a dire di sbrigarsi, perché la Principessa aveva fretta.

 

Lyosha ricordava ancora quando, quella sera dopo qualche tempo dalla morte del padre, Neish, nelle industrie tessili (la manutenzione gli operai l’avevano vista solo in foto e, logicamente, i rischi che si correvano erano molti), sua madre gli aveva detto che lo avrebbe mandato a lavorare. La donna era riuscita a trovargli un posto tra i ricamatori (di cui gran parte donne), non ci teneva che il figlio diventasse pure sordo, considerando che già portava con sé il fardello del mutismo.

Un lavoro che gli piaceva anche, fortunatamente. Nonostante le varie punture fattosi con gli aghi, Lyosha godeva della fama di essere uno dei pochi ragazzini a saper ricamare trame anche abbastanza ricercate con modesta precisione. Ma la sua bravura derivava da un senso innato del dovere, certamente: lo faceva per sua madre e per Ariel, che in quel periodo era molto malata e necessitava di medicine. Non solo stava a lavoro tutte le ore che coprivano il suo turno, ma spesso si offriva per fare degli extra e coprire quelli altri con le dovute mance in più, talmente era preso dal cucito (l’unica cosa che sapeva fare, oltre al silenzio) che decise di fare qualche commissione a basso prezzo, il più basso del distretto – in modo che venissero tutti da lui.

Nonostante tutto questo lavoro, però, il suo nome continuava a moltiplicarsi anno dopo anno nella boccia della Mietitura, così come quello della sorella che, tuttavia, aveva ben poche possibilità di uscire sorteggiata: erano i suoi primi anni agli Hunger Games.

Ma la fortuna non è mai stata con il distretto otto, o con qualcuno in generale appartenente ai distretti più bassi: madama fortuna era cieca e guarda caso si girava sempre nella direzione dei favoriti. Quindi non c’era da star tranquilli nemmeno se il tuo nome è nella runa una sola volta: potresti sempre essere tu.

Sognò le notti passate a ricamare oro nei fazzoletti di lino, sognò il pomeriggio passato ad allargare il vestito di Ariel che aveva usato per la Mietitura dell’anno prima e che avrebbe indossato ancora, perché non potevano permettersene uno nuovo, sognò la Mietitura stessa e il vago senso di pietà che percepì nello sguardo della presentatrice quando chiese se loro fossero davvero fratelli e il sorriso elettrizzato spuntarle subito dopo sul viso subito prima del «che i sessantaduesimi Hunger Games abbiano inizio!», sognò la sfilata e i magnifici costumi che avevano preparato per loro, sebbene non fossero nulla di particolare, sognò addirittura l’intervista fatta con sua sorella… perché lui non poteva parlare e lei doveva farlo al posto suo.

Alzò la testa di colpo, sobbalzando sul posto e piantando i palmi per terra, guardò in alto: il sole era più alto di quanto ricordasse. Improvvisamente si accorse di essere vivo.

Sorrise, sbalordito, passandosi una mano sullo stomaco che non doleva più e poi sulla gola nella quale avvertiva un vago bruciore, molto lontano dalla pungente sensazione che aveva apostrofato come “corrosione”. Si stropicciò gli occhi dopo aver pulito le mani sulla maglietta e poi si girò a guardare Ariel, lo fissava con gli occhi lucidi e un sorriso che sembrava paralizzarle tutti i muscoli del viso.

«Sei tornato» gli disse semplicemente, pulendosi poi una guancia dalla lacrima che le era scivolata via, sporcandola di terra, «allora avevo ragione, vedi?: era una medicina».

Attraverso i soliti gesti un po’ tremolanti, Lyosha le comunicò che stava bene, e che dovevano muoversi e trovare un rifugio più sicuro. In tutta fretta raccolsero le proprie cose e, mano nella mano, iniziarono a camminare verso una di quelle cascate che vedevano sullo sfondo.

Forse, madama fortuna si era accorta di loro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

« La fortuna si stanca di portar sempre in spalla il medesimo uomo.»  

[PROVERBIO]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Devo dire che sono molto motivata a continuare questa long perché, nonostante gli OC continuino ad essere poco considerati in questo fandom ed è una cosa per cui mi batterò ardentemente, ammetto di essere molto fiera di quello che sta uscendo e intendo portarlo fino alla fine.

Essendo di fretta, vi link i volti di Kabe (pronunciato Keib) e Liv.

Ovviamente, se chi legge nel buio volesse darmi un suo parere attraverso una recensione, sarebbe cosa gradita

 

EDIT: (16/09) inserita nuova grafica, testo ancora da revisionare e aggiunta citazione finale. Enjoy ~

 

Alla prossima!

radioactive,

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Capitolo 4
*** ▪ «l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 1] ***









CAPITOLO 04

                 «l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 1]

 

 

 

Camminavano da un’ora e mezza circa, della quale almeno un quarto d’ora di riposo. Ariel non si lamentava: probabilmente era abbastanza sollevata dal vedere il fratello sufficientemente in forma (considerando che nel giro di tre minuti era stato ferito e avvelenato) e carica di una nuova energia positiva.

La tredicenne si guardava attorno con stupore: il verde brillava sotto una luce del sole stranamente potente considerando il tendone di foglie sopra di loro, come se il sole fosse sotto i rami degli alberi, gli svariati insetti cantavano una loro personalissima sinfonia che sembrava apprezzare solo lei, gli occhi di ghiaccio luccicavano come diamanti mentre osservava in alto un uccello di dimensioni considerevoli dal piumaggio nero e un lungo becco verde dalla punta rossa1. Fortunatamente questo non fece nulla che potesse risultare nocivo.

Lyosha pensava e ripensava alle parole della loro mentore: ci sono sempre dei segreti nell’Arena. Certo che c’erano, e il primo era che l’acqua della Cornucopia era avvelenata – dentro di sé, il tributo sperava che qualche suo rivale (preferibilmente favorito) avesse deciso di berla e che ora fosse bello che morto. Ma presto altre domande gli invasero la mente: cos’altro era avvelenato?, l’acqua della cascata era buona?, e la frutta su questi alberi?. Si fermò un attimo a guardare in alto, socchiuse gli occhi per il fastidio dato dai fasci di luce e, non contento del risultato, posò una mano sulla fronte per farsi da visiera. Gli alberi erano diventati troppo fitti perché potesse vedere l’altezza del sole. Sospirò e riprese a camminare.

«Tutto bene?» chiese lievemente preoccupata la più piccola degli Isaacs, lasciando la mano al fratello in modo che potesse rispondergli a gesti.

Lyosha annuì, spiegando brevemente che si sentiva abbastanza frustrato per non riuscire a capire che ore fossero – era una cosa che avevano imparato al distretto, perché gli orologi in casa loro erano solo due, uno sopra il mobiletto dove vi era la loro vecchia radio e l’altro sul polso della madre. Lei sorrise e gli afferrò nuovamente la mano, dicendogli che non si sarebbe dovuto preoccupare più di tanto.

Incredibile, si disse, quanto quella ragazzina potesse sorridere in un qualsiasi momento.

 

Ma non era ancora finita, e Lyosha aveva l’impressione che quei giochi sarebbero andati ancora per le lunghe. Mentre camminava evitando liane e radici di ogni tipo, scavalcando un grosso tronco caduto e aiutando Ariel a superarlo ripensava alla sua breve sosta a Capitol City, dove era stato trattato come la cosa più vicina ad una star  di proporzioni mondiali – si sentiva una persona pessima nel ricordare come aveva sorriso compiaciuto di sé stesso dopo essere sceso dal treno che lo aveva portato dal distretto alla Capitale. Era stato un sorriso incondizionato, che lui non era riuscito a controllare. Aveva salutato confusamente, come allucinato, gli abitanti sfarzosi di quella città – anche Ariel dietro di lui (più timorosa, diffidente) si guardava in giro sorridendo di quando in quando ai capitolini che le sembravano buffi.

Non aveva sentito quel senso di ribrezzo prima di ora perché nessuno gli aveva detto che era una cosa sbagliata – neanche la loro mentore.

Quello che successe poi se lo ricordava vagamente, anche il sapore del buon cibo “offerto” nelle loro stanze era stato dimenticato, il dolore della ceretta e delle pinzette era solo un vago ricordo. Tuttavia nella sua mente era ben stampata la sua figura coperta dall’abito per la sfilata, assieme a quella di Ariel: indossavano entrambi due abiti classici, lui un frac e lei un abito lungo, la gonna leggermente ampia ma adatta ad una tredicenne, sulla fondo questi vestiti erano dipinti dalle più particolari sfumature meravigliosamente combinate tra loro: ricordava gli spruzzi dell’arancione e le voragini in cui ballavano il lilla e il verde pastello, il rosa carne dava da sfondo a tutto e, mano a mano che si saliva, il vestito sembrava quasi incompleto e il colore lasciava spazio al rosa di base che, all’altezza del petto, sembrava fondersi con il loro colorito, ciò che rimase del rosa erano solo alcuni filamenti e lembi di tessuto, come se dovessero finire di cucirlo. Le spalle di Ariel erano avvolte da un morbido groviglio di fili che si attorcigliavano tra le sue clavicole in modo simmetrico e artistico, riprendendo i colori del fondo dell’abito, i fili rosa scendevano sulle braccia di entrambi, avvolgendo gli arti come corde e, mano a mano che la carrozza avanzava, qualcosa mutava. Il colore sembrava risalire dal tessuto… o meglio, si espandeva! Lyosha si guardava estasiato il braccio a partire dalla spalla mentre gli arcobaleni attorcigliati tra loro invadevano i corpi dei due fratelli, rendendoli coloratissimi come i fili che il ragazzo usava per ricamare.

«Non si può rappresentare con un vestito un distretto come il vostro, Lyosha. aveva spiegato con nonchalance Vilette, al ritorno della sfilata Voi cucite tutto il giorno ed è questo che doveva fare il vostro vestito: cucirsi».

Sorrise a quel ricordo che gli pareva così dolce in mezzo a tutto il sangue e al dolore che aveva già provato. Avrebbe volentieri sfogliato quei pensieri come se fosse un vecchio album di foto se non fosse per lo strattone di Ariel al braccio che gli indicava, soddisfatta, che erano giunti alla loro meta: davanti a loro una piccola riserva d’acqua assurdamente cristallina sembrava gridare “bevimi”. Le pareti che costeggiavano la piccola cascata erano coperte di liane e fogliame, eppure sulla parete destra si riusciva a scorgere una scala di legno e corda. Lyosha sorrise soddisfatto e la indicò ad Ariel, ma prima che lei potesse fare qualcosa un’ombra uscì dagli alberi dietro di loro ed investì il tributo maschio del distretto otto, facendo ruzzolare entrambi dentro il laghetto.

 

Lexi avanzava sicura di sé, tagliando foglie e rami davanti alla sua strada, dietro di lei camminavano Kabe e Ines, infine Liv di fianco a Fraser.

Non c’era dubbio, Liv civettava con Fraser senza scrupoli. Ines era evidentemente infastidita dal sentir lei parlare tanto che superò Kabe e andò avanti con Lexi, con il tridente in mano si divertiva a punzecchiare oltre gli arbusti per vedere se trovava qualche animaletto commestibile o, ancora meglio, se feriva qualche tributo… ma ad ogni colpo catturava solo foglie ed erba. Stufa delle delusioni, decise di dare l’ultimo colpo al prossimo arbusto, affondò il tridente e, quando lo risollevò, vide attaccata ai denti dell’arma la giacca di un tributo. Si fermò di colpo e gli altri compagni la evitarono bellamente per non andarle addosso, solo dopo pochi passi Fraser si fermò, girandosi a guardarla, «Pesciolino, hai trovato qualcosa?».

Lei si portò la giacca alle mani sfilandola con precisione per non sgualcirla del tutto, affondò il tridente a terra e se la rigirò tra le dita, ora tutti le prestavano un’attenzione quasi ansiosa. Cercò la manica dell’abito e quando la trovò, la percorse con le dita per scovare il numero cucito su di essa. Sorrise.

«Allora?» richieste il maschio dell’uno, non era spazientito, solo curioso.

Ines alzò lo sguardo e notò che oltre il frutice vi era un albero, riprese il tridente in mano e spostò le foglie, per terra vi era del vomito. Solo allora si girò verso gli altri favoriti, tenendo in mano la giacca in modo che il numero “8” fosse in bella vista, «chi sono quelli dell’otto?», nella sua voce non c’era emozione – come se avesse chiesto che giorno della settimana fosse.

«I due fratelli, credo… hanno fatto l’intervista assieme, lui non parla o qualcosa del genere…» rispose Kabe, dopo essersi sfilato lo zaino dalle spalle per prendersi la borraccia d’acqua, bevendone quattro grossi sorsi, Liv fece segnò di passargliela e lui gliela porse.

Ines fece ruotare il tridente e indicò con il manico un piccolo sentiero naturale di fianco all’albero, «penso siano andati di là».

Senza che nessuno dicesse qualcosa, Lexi fece dietrofront per dirigersi verso la strada indicata dalla ragazza del quattro, dopo di lei andarono Fraser e Ines, Liv era sul punto di bere il suo prezioso sorso d’acqua quando Kabe iniziò a tossire, piegandosi in avanti e vomitando tutto ciò che potesse essere nel suo stomaco, cadde all’indietro e strinse nell’erba tra le mani. Guardò la compagna di distretto con occhi imploranti, mormorando un “aiutami”. La mano di Liv tremò e la borraccia sfuggì dalla presa. Raggiunse gli altri tre favoriti mentre la tosse di Kabe le rimbombava nelle orecchie.

Tosse che l’avrebbe perseguitata come un canto di morte per tutti gli Hunger Games.

 

Lyosha teneva gli occhi chiusi e le labbra serrate per non bere l’acqua in cui era caduto. Aveva già avuto una situazione simile e di certo non ci teneva a ripetere la stessa Odissea del veleno. Certamente, in altre circostanze che non includevano un tributo rabbioso addosso, avrebbe provato il liquido per vedere se era sicuro o meno. Eppure una parte abbastanza istintiva di Lyosha quanto… macabra, per così dire, gli consigliava di far bere al suddetto nemico l’acqua e stare a vedere.

Il lago non era profondo e con un po’ di fortuna Lyosha sarebbe riuscito a scrollarsi di dosso l’avversario che gli serrava la gola con le mani prima di morire soffocato, aveva picchiato un paio di volte la testa contro il fondo di pietra ma non aveva il tempo di pensare a quanto fosse stato doloroso o se si era aperta una qualche ferita. Doveva reagire.

Strinse le spalle per cercare di allentare la presa del nemico sul proprio collo e gli afferrò i polsi con le proprie mani, scoprendoli decisamente esili. Sentiva la voce ovattata e disturbata di Ariel gridare da qualche parte e poi un peso trascinarlo seduto. Aprì subito gli occhi notando la sorella che strattonava all’indietro per i capelli il tributo che lo aveva aggredito e Lyosha si accorse di tenere ancora i suoi polsi in una stretta ferrea, molto più di quanto si aspettasse. Istinto di sopravvivenza.

Ariel tirò ancora i capelli corvini facendo gemere l’avversario e Lyosha ne approfittò per avventarsi sul suo collo, stringendoglielo e poi invertire le posizioni in modo tale da buttarlo in acqua mentre la sorella, come uno scoiattolo, fece un balzo all’indietro, in attesa della conclusione della rissa – avevo un coltello, pensò lei, eppure non fece nulla.

Il maggiore dei fratelli strattonò il rivale, affogandolo più volte e caricando tutto il peso sopra di lui in modo che non si alzasse, era mingherlino almeno quanto lui e questo lo aiutava, non ce l’avrebbe mai fatta contro uno come Fraser. Lo affogò più volte nell’acqua facendogliene ingerire la maggior quantità possibile, poi lo alzò come per metterlo seduto e, mentre ansimava alla ricerca di aria tenendo le dita attorno al polso di Lyosha, quest’ultimo gli sferrò un pugno sulla guancia mollando la presa sulla maglia e l’avversario ricadde sul letto di pietra, inerme.

Contò fino a tre, Lyosha, per poi rialzargli il busto: respirava ancora ma era sfinito. Vedeva nel suo viso la propria crudeltà: l’aveva fatto lui, quello. Lo stava uccidendo lui.

Pregò silenziosamente, guardandolo furibondo, che l’acqua fosse avvelenata e che lui morisse per quello, in modo da non doverlo uccidere definitivamente. Percepiva le telecamere addosso e, più di ogni altra cosa, gli occhi della propria madre. Si sentiva una persona orribile, ma era l’unica persona che potesse essere, per lui. Per Ariel.

La pazienza del ragazzo dell’otto stava per scadere quando l’altro tributo che teneva ancora per la maglia iniziò a tossire, vomitandosi sulla maglietta, il respiro iniziò ad affaticarsi e l’Isaacs ringraziò il cielo che avesse ragione: tutta quella zona dell’arena era avvelenata e, se lo era l’acqua, probabilmente anche le piante e i frutti.

Lo posò a terra, senza gettarlo malamente come in precedenza, e si alzò da sopra di lui, bagnato fradicio. L’altro si dimenava ancora nell’acqua tossendo e vomitando e Lyosha non trovava il coraggio di lasciarlo lì, gli diede un ultimo sguardo e incontrò i suoi occhi pieni di rabbia e dolore, gli occhi che lo avevano terrorizzato dal primo istante: Gijs. E’ stata Ariel ad afferrarlo per il braccio e trascinarlo lungo la scalinata sulla parete, senza dire una parola.

Anche lei, come Lyosha, sapeva stare in silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

« So che è un segreto, perché lo sento sussurrare dappertutto   

[WILLIAM CONGREVE; tratto da “Amore per amore”]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

E finalmente sono riuscita a concluderlo!

Che dire? È stato assolutamente un parto plurigemellare, davvero questo capitolo non ne voleva sapere di sicrersi… l’ho dovuto tirare fuori con le unghie!

Tuttavia, non posso fare altro se non essere assolutamente contenta del risultato che sto ottenendo con questa fanfic, ad ogni capitolo viene sempre meglio di come immaginassi e rispecchia parola dopo parola quello che avevo in mente.

Volevo dare l’idea di un’edizione entusiasmante, forse, ma come gran parte delle 73esime precedenti a Katniss, qualcosa che nel giro di un anno viene cancellato dalla memoria di molti per essere rimpiazzata con una nuova edizione. E inoltre aggiungere anche tutto quello che potrebbe nascere da vari adolescenti, indipendentemente dal contesto villano in cui sono inseriti, ma niente è paragonabile a tutto quello che succede nell’edizione degli sfortunati innamorati, perché semplicemente il loro è un Gioco assolutamente fuori dagli schemi che inizia nientepopòdimeno una rivoluzione! Quindi no, niente amore che fa salvare le persone, niente carità, niente Fraser/Liv (ahah! figurarsi), e soprattutto niente cambio di regole per accontentare i tributi. Ci sarà solo un vincitore.

Detto questo c: come potete notare il titolo porta con se un “parte uno”, ebbene sì, il prossimo aggiornamento riguarderà ancora la scoperta dell’Arena, e quindi la “parte due”, poi si passerà ad altro. Non ho intenzione di annoiarvi con bazzecole(?).

E intanto i Giochi di Lyosha vanno avanti~! Sono molto fiera dei miei personaggi, favoriti compresi, perché sembrano totalmente calati nella situazione eppure mantengono sempre quell’alone che caratterizza loro e basta. Scrivendo, ho avuto l’impressione che Ariel ricordasse Rue – ed è una cosa a cui sinceramente non ero preparata, ma penso che sono entrambe delle bambine: dolci e tenere bambine che vanno a lottare per la propria morte. Ed Ariel, in particolare, vorrei che non fosse paragonata a qualcosa come una Mary Sue, anche lei se fosse stata da sola nell’Arena sarebbe morta dopo poco oppure non si batterebbe così come sta facendo. Ma dovete pensare che lei è sempre con il fratello e che tutto quello che ha fatto fin’ora è stato in funzione di Lyosha.

Allo stesso modo, il ragazzo si sta confrontando contro l’Istinto di sopravvivenza. Quando scrivo di questi “momenti”, penso sempre al filmato delle Edizioni passate che si vede nel film, dove c’è un tributo che sta… spaccando la testa a pietrate (o qualcosa del genere) ad un altro. Davvero, se mi chiedessero ora, in questo momento, se sarei mai capace a fare una cosa del genere risponderei fermamente di “no”, ma suppongo che, in un contesto simile agli HG, non esiterei un solo istante.

Chiarito questo, quindi, vorrei ringraziare Iysse, Coral 97 e fallinweasley per aver recensito o, eventualmente, messo tra le preferite/seguite la fan fiction… mi fate davvero molto piacere e mi sento onoratissima! Ovviamente, saluto anche quelli che leggono in silenzio e seguono le vicende dei fratelli Isaacs nell’ombra.

E per la cronaca no, non mi sono dimenticata degli altri tributi! Tutto a suo tempo, miei cari capitolini, tutto a suo tempo.~

1-     Tucano.

 

EDIT: (16/09) inserita nuova grafica, testo ancora da revisionare e aggiunta citazione finale. Enjoy ~

 

Alla prossima!

radioactive,

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Capitolo 5
*** ▪ «l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 2] ***









CAPITOLO 05

                 «l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 2]

 

 

 

Salirono le scale in un silenzio assordante, anche in quell’occasione gli insetti non mormoravano e Lyosha si chiese se ci fosse un qualche stratega che comandava il canto di quelle bestiole, giusto per rendere più frustrante il tutto.

Fece salire prima Ariel, iniziando ad arrampicarsi sulle scale dopo di lei, scale malmesse, anche, e un paio di volte qualche gradino minacciò di rompersi sotto i pesi comunque leggeri di entrambi.

Durante quella salita Lyosha riuscì a percepire sulle sue ossa la fatica di quella mezza giornata, la colonna vertebrale sembrava arrotolata su sé stessa, le dita delle mani intorpidite e di tanto in tanto scosse da vari tremori. Arrivato in cima, però, quello che sentì fu nient’altro che sollievo: puro e semplice.

I colori che li circondavano non erano più forti, quasi accecanti, come quelli che li avevano circondati per gli istanti precedenti, l’aria era letteralmente bagnata e non ci volle molto ai due per capire che un discreto velo di nebbia li circondava – fortunatamente non era troppo fitta e riuscivano a vedere ben oltre il loro naso.

«E’ così diverso, qui…» mormorò la più piccola, stringendosi nelle spalle e scostandosi i ciuffi ormai sudici dagli occhi, si guardava intorno come se fosse stata trasportata nelle foreste buie e minacciose delle favole che sentiva da bambina, lo stupore che la circondava come un’aurea di sotto era sparita, scivolata di dosso dal suo corpo. Lyosha le strinse piano la mano e cercò con lo sguardo l’acqua che alimentava la cascata, scoprendola con un grosso senso di conforto ad accompagnarlo a pochi metri da loro. Si avvicinò a passo abbastanza sicuro, e quella sua sicurezza lo portò ad inginocchiarsi vicino al liquido, con veloci e precisi gesti disse ad Ariel di tirare fuori una pastiglia in modo che questa fosse pronta nel caso il fratello più grande si procurasse un’altra intossicazione.

L’arena ha i suoi segreti, si sentiva ripetere da una voce lontana, dentro la sua testa. E lui pensava di averla capita, quest’arena dei sessantatreesimi Hunger Games. Era divisa in due in modo visibile, come il bianco e nero. La prima parte, quella in cui si trovava la Cornucopia, apparentemente fornita di tutto ciò che serviva per sopravvivere… e poi quella di adesso: sciatta, buia e silenziosa, fatta di alberi troppo alti perché si vedesse se avessero qualcosa di commestibile sui rami e nebbia.

Qualcosa non quadrava. Non poteva essere così semplice, si ripeteva. Probabilmente anche quell’acqua era avvelenata. Si parlava sempre della stessa identica acqua, alla fine, no?

Si sfilò lo zaino dalle spalle e allungò i palmi verso il fiumiciattolo, le mani sparivano sotto l’acqua non più limpida come quella sotto di loro su cui si infrangeva la cascata, era fredda da raggelare le ossa e per un momento Lyosha penso di ritrarre le dita e asciugarle con la coperta che giaceva ammucchiata nello zaino pregando che non fossero diventate viola per la temperatura. Ma non fece niente di tutto ciò, chiuse leggermente i palmi a conca e si portò alle labbra il liquido soffuso, biancastro e sempre meno convincente.

Un sorso, e sentii nelle orecchie il sussulto spaventato di Ariel.

Due sorsi, l’acqua gli scendeva giù per la gola.

Tre sorsi, le mani gli facevano male per il freddo.

Si pulì le labbra con il braccio e rimase a fissare il torrente davanti a lui, si aspettava di vedere tutto appannato o di sentire  formicolio, il senso di vomito farsi strada e la morte impossessarsi del suo corpo. Eppure passavano i minuti ma l’unica cosa che Lyosha percepiva era il battito del suo cuore, la terra sotto le unghie e le foglie accatastate sotto le sue ginocchia indolenzite.

Si girò piano verso Ariel, ancora dietro di lui in trepidante attesa, come se aspettasse qualcosa che non arrivava mai, un treno non segnato nell’orario. Quello che le si presentò davanti era il volto del suo fratellone, sporco da un lato, le labbra bagnate e le guance rigate da due sottili linee di lacrime sporche. Piangeva, ma era un pianto liberatorio, felice – non il pianto a cui si era abbandonato mentre la madre li stringeva entrambi, prima di partire per Capitol City.

Era buona.

L’acqua era buona.

 

Il sollievo di aver trovato dell’acqua bevibile però, non aveva del tutto sedato l’adrenalina di essere dentro i Giochi. Lyosha si era lavato con impeto il volto rabbrividendo per la temperatura gelida, facendo poi avvicinare la sorella per pulirle il viso, le fece sciogliere i capelli e le bagnò i fili d’oro, legandoli poi nel modo più sistemato possibile, mettendole dietro le orecchie quei pochi ciuffi che sfuggivano alla presa dello stretto elastico.

La più piccola tirò fuori dallo zaino il cilindro in cui erano conservate dei doni e lo passò a Lyosha che, quasi gonfiato d’orgoglio per la sua scoperta, lo aveva immerso nell’acqua riempiendolo fino all’orlo, per poi chiuderlo con il coperchio, sorridendo ad un sonoro click che assicurava che il liquido non si sarebbe riversato.

Erano sul punto di alzarsi e riprendere a camminare, ma lo stomaco di Ariel brontolò rumorosamente facendo sorridere Lyosha, a gesti le chiese se avesse fame, lei annuì e, prima dicesse che poteva aspettare, il suo Thahn aveva già tirato fuori il tupperware in cui vi era della splendida mela tagliata a fette. Prese una porzione tra le due dita sottili e la porse ad Ariel che, per tutta risposta, se la portò alle labbra azzannando metà del trancio. Il ragazzo posò il contenitore per terra notando con la coda dell’occhio la mano di Ariel allungarsi ed afferrare dell’altra mela, Lyosha le prese lo zaino cercando quello che gli ricordavano le ostie del suo distretto, con uno dei due coltelli che avevano spezzò il filo che teneva intatto quella torre di dischetti candidi, attento a non farli cadere sulla terra. Mise tutti i cerchi bianchi nel contenitore delle mele, tenendo tra le dita solamente uno di questi, aprì la bocca e posò sulla lingua il composto di farina e acqua – questo si sciolse lentamente e senza sapore, e il tributo si ritrovò a mandare giù un qualcosa che avrebbe definito pappetta di acqua e farina se avesse potuto parlare.

Ma quello che si ritrovò a scoprire fu entusiasmante: non aveva più fame.

Sorrise come aveva fatto poche volte in vita sua e schioccò più volte le dita per catturare l’attenzione della sorella che ingurgitava il quarto pezzo di mela, con le dita la informò della sua nuova, esaltante, scoperta.

«Le ostie…? Cioè, quelle cose ti riempiono come un pasto vero?» ripeté lei, incredula e un po’ diffidente, probabilmente – si diceva – il fratello non aveva fame e quindi aveva l’impressione che fosse pieno, ma lo stomaco della piccola reclamava ancora nutrimento e quindi, presa dalla curiosità, afferrò uno dei dischi in questione, lo spezzò a metà e lasciò che si sciogliesse sulla sua lingua per poi mandarlo giù.

Lyosha aveva ragione.

 

«Liv, dov’è Kabe?» Fraser stava chinato su di lei, mentre Lexi si guardava attorno e scambiava profondi sguardi con uno strano uccello su uno dei rami bassi di quei alberi, la ragazza del quattro invece era seduta su una radice e faceva roteare il tridente.

Si erano accorti dopo non molto che Kabe era sparito dalla circolazione, ed era evidente che la sua compagna di distretto ne sapesse qualcosa. E lei avrebbe volentieri detto che l’acqua della Cornucopia era avvelenata ma avere Fraser così vicino a lei da sentire il profumo di lui proprio sotto il naso la deconcentrava terribilmente, un altro po’ e i suoi capelli le avrebbero sfiorato la fronte. Lei se ne stava lì, con le mani strette sulle ginocchia che cercava un modo gentile e soprattutto che non la facesse sentire un’imbecille e colpevole per annunciare la morte del ragazzo e i grandi occhi blu del tributo maschio, bellissimi e inquisitori la fissavano senza battere ciglio.

«Beh…» iniziò, grattandosi la guancia e affondando il tacco dello stivale nella terra che inabissò appena sotto la pressione.

Ines sospirò pesantemente e Lexi si girò verso i due con un colpo di chioma – sempre splendida per le sue splendide telecamere. «Beh?» domandò la ragazza dell’uno.

«Fraser, prova ad allontanarti un po’, la tua bellezza le toglie il respiro e finisce che arriviamo a sera che stiamo ancora qui cercando di cavar fuori delle parole da quella» sbottò la Sirenetta, alzandosi in piedi e piantando il tridente per terra, con un braccio spinse Fraser all’indietro che girò su sé stesso allontanandosi platealmente biascicando un “donne!”. «Allora, è semplice: o Kabe è morto oppure si è staccato dal gruppo, e non ci credo che si è perso. La prima o la seconda, Liv?», il tributo del quattro parlava in una maniera che lasciava intendere quanto fosse infastidita.

Gli altri tre capirono quanto lei potesse essere letale, in realtà, perché se prima Liv non riusciva a parlare per colpa dell’inebriante presenza di Fraser, ora era la decisa superiorità di Ines a bloccarla sul posto facendole dire solo dei monosillabi.

«Prima» mugugnò quella del due.

«Bene!» Ines era visibilmente irritata da quella risposta, si girò verso il suo tridente alzando le braccia al cielo, «i Giochi sono iniziati da meno di un giorno e abbiamo già perso un uomo, fantastico. Dovremmo essere in sei e invece siamo in quattro, a meno di dodici ore dall’inizio».

Nella mente di Liv si proiettò l’immagine di Ines che trapassava da parte a parte la gola di lei, Lexi e Fraser nel mezzo della notte con il suo dannato forcone. Ed ebbe una paura che l’alimentò così tanto da farle giungere ad una conclusione: farsela amica, o comunque alleata. Un’alleanza dentro un’alleanza.

«E’ morto perché ha bevuto l’acqua della Cornucopia, era avvelenata», si alzò, tentando di dare la parvenza di una persona che riesce a reggersi sulle proprie ginocchia, cercava negli occhi di Fraser un’approvazione che c’era, ma nascosta da un’ironia sottile.

Lexi, che prima si annoiava ispezionando il posto, ora sembrava preoccupata, impugnò saldamente la spada e fece dietro front, ritornando sui suoi passi, «allora dobbiamo tornare alla Cornucopia e prendere le caraffe d’acqua, ce n’erano molte».

Nessuno osò contestare il suo piano – si era affermata capo del gruppo ancora prima che iniziasse la competizione. A seguirla subito dopo vi era Ines, Liv fece qualche passo incerto per seguirle ma Fraser la fermò, tenendola per la manica, «dovresti stare attenta, Liv» le sussurrò all’orecchio suadente, ma a lei sembrò che la sua voce sembrasse più il sibilo di un serpente, «l’amore è un’arma a doppio taglio. Pensavo che una del due, il distretto dei Pacificatori, lo sapesse meglio di chiunque altro».

 

Lyosha vedeva rifiorire il suo futuro, forse, la strategia di tenere in vita Ariel non era destinata a fallire. Avevano delle pastiglie contro i veleni dell’Arena, della mela e delle ostie che te ne bastava una per sentirti pieno, avevano smascherato l’Arena e sapevano come usarla a loro vantaggio. Dulcis in fundo, avevano una coperta per ripararsi durante la notte che di lì a poco avrebbe fatto capolino tra gli alberi coperti dalla nebbia.

Sua sorella poteva vincere, pensava, poteva davvero farlo.

Si erano allontanati dalla cascata memorizzando il percorso per ritornare all’acqua facilmente, Lyosha ricordava di varie edizioni dove alcuni tributi si avvicinavano troppo al campo di forza che delimitava l’Arena ed era abbastanza sveglio da aver compreso che andare troppo oltre non dava mai nulla di buono. Avevano deciso quindi di camminare per qualche tempo, trovare un rifugio laddove la vegetazione era più fitta e avevano anche raccolto delle foglie abbastanza grandi con cui coprirsi per darsi l’illusione di essere ben nascosti.

Avevano srotolato la coperta e accatastato foglie più piccole per fare dei cuscini, il sole brillava di rosso oltre la nebbia e il freddo iniziava a farsi sentire sulle braccia scoperte di lui. Rimase seduto mentre la sorella beveva un po’ d’acqua dalla loro borraccia improvvisata e poi qualcosa dietro un albero si mosse.

Un animale, fu la prima cosa che venne in mente a Lyosha, ma poco dopo una chioma bronzea fece capolino con le mani alzate vicino alla nuca, da dietro la schiena spuntava una lancia. Era Sean, il volontario del distretto tre.

«Ragazzina, dì a tuo fratello che non voglio farvi del male» aveva detto, e sembrava sincero.

Ariel, che cercava di togliersi la terra da sotto le unghie spezzate senza farsi male, lo guardò con un lieve broncio, «guarda che capisce quello che diciamo, non sa parlare, non è scemo, pensa che sa anche scrivere!». Ed era una cosa che si ritrovava a dire spesso, anche al distretto.

«D’accordo, d’accordo…» mormorò lui, sfilandosi l’arma dalla cinghia e buttandola per terra, ai piedi di Lyosha, «ho visto quello che hai fatto, otto, e ti ho seguito abbastanza da lontano perché volevo proporti un’alleanza», si sedette piano, a gambe incrociate, con sé aveva solo l’arma e un taglio aveva sgualcito il pantalone dalla parte destra, mostrando una linea rossa di sangue secco. «Lo sai che ne hai bisogno, non avete brillato agli allenamenti».

Per quanto gli costava ammetterlo, Lyosha dovette annuire in sua ragione. Né lui né Ariel avevano imparato ad usare un’arma brillantemente durante quelle due settimane, eppure Lyosha aveva già ucciso un tributo e avvelenato un secondo. Ma non poteva andare avanti così.

Quindi mosse le mani in modo che Ariel comprendesse quanto Lyosha aveva da dire, nonostante fosse contraria, socchiuse le labbra pronunciando le parole dell’altro, «d’accordo, ma se ti diciamo che te ne devi andare, te ne vai». La più piccola avrebbe voluto mandarlo via e basta.

Ma non ci fu bisogno di cacciare via Sean perché, dopo i dieci colpi dei tributi morti, il freddo della notte, le mani di Ariel che premevano contro la sua schiena e il chiarore pallido e confuso della mattina nebbiosa che li attendeva, il ragazzo del tre non c’era più, e con lui erano sparite le pillole per il veleno, lo strano liquido ambrato, il tupperware con il loro cibo.

Era iniziato il loro secondo giorno in quell’Arena, quella dannata Arena, e loro armati solo di una coperta, dell’acqua e un coltello che teneva ancora stretto in pugno.

Un coltello che, pensò con gran stupore Lyosha – inorridendo all’idea di aver ponderato una cosa simile – avrebbe voluto affondare nel cuore di Sean.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

« So che è un segreto, perché lo sento sussurrare dappertutto   

[WILLIAM CONGREVE; tratto da “Amore per amore”]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Eccomi miei baldi giovani! Sarò molto breve perché non ho molto da dire, assolutamente no. u.u

Inanzitutto mi dispiace per non aver aggiornato dopo più o meno una settimana come al solito, ma questo capitolo non voleva saperne di venirne fuori ed infatti sono stata parecchio diffidente durante la sua stesura :/ ma ve lo do comunque con il cuore in mano, sperando che vi piaccia nonostante tutto

Alla fine l’Arena è stata scoperta da Lyosha, questa è una foresta pluviale divisa in due: la parte inferiore è tropicale ed ogni cosa risulta velenosa, indipendentemente dal fatto che sia commestibile o meno, se ingerita, porta alla morte. La parte superiore (a cui si può accedere in diverti punti contrassegnati dalla presenza delle cascate a cui Lyosha aveva prestato attenzione alla Cornucopia) è invece una foresta nebulosa, dove l’acqua è potabile ma il cibo commestibile scarseggia. Inoltre è popolata da uccelli, alcuni serpenti e insetti, ma non ci sono mammiferi o cose del genere (sarebbe un po’ troppo, non credete?)

Ho cercato di fare qualcosa di diverso ma che non si discostasse troppo dal “dimenticabile”, ed è uscito fuori questo.  Spero che sia comunque di vostro gradimento. ~

Di seguito, i dieci tributi morti in questa prima giornata (otto nel bagno di sangue e due successivamente): M-2; F-3; M-5; F-5; F-6; F-7; M-10; F-11; M-12; F-12.

E dal loft(?) è tutto, ringrazio il seguito che pian piano cresce motivandomi sempre a continuare! ;3; non sapete quanto mi fate felice.

Probabilmente gli errori di battitura – e non solo – saranno leggermente più numerosi del solito, ma non sono riuscita a rileggere con troppa attenzione causa forze esterne

 

EDIT: (16/09) inserita nuova grafica, testo ancora da revisionare e aggiunta citazione finale. Enjoy ~

 

Alla prossima!

radioactive,

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Capitolo 6
*** ▪ aveva gli occhi di una persona che ha perso tutto. ***









CAPITOLO 06

                  aveva gli occhi di una persona che ha perso tutto.

 

 

 

A volte Lyosha si arrabbiava con il mondo da volersi sciogliere in mille lacrime.

In quel momento, per esempio, era furibondo – e non poteva urlare, non poteva grugnire, fare versi, niente. Ariel lo guardava stupefatta mentre ansimava come un toro senza produrre altro suono se non dalle narici, le mani chiuse a pugno da far sbiancare le nocche anche sotto le croste delle ferite lungo i fianchi, le spalle tese.

Scattò in un moto d’ira, aprì e chiuse la bocca come se avesse lanciato un’imprecazione e si chinò a raccogliere la coperta per buttarla – senza nemmeno sbatterla dal fogliame – nello zaino, raccolse quel poco che era rimasto ai due infilando tutto nella sacca al di fuori dell’unico coltello rimasto.

Aveva rubato pure l’accendino.

Diete un calcio al tronco di un albero pentendosi subito dopo per il dolore lancinante che gli aveva colpito il piede per poi risalire su tutta la gamba, facendolo traballare un po’ per l’instabilità.

Ariel non faceva nulla: lo guardava e basta, come aveva sempre fatto. Niente poteva calmare Lyosha.

 

La Cornucopia era stata splendidamente ripulita, il luogo brillava sotto il sole mattutino e l’acqua ai loro piedi – che avevano infangato i pantaloni di tutti e quattro – era pulita, nella sua sporcizia: non un filo di sangue, neanche un pallido riflesso vermiglio.

Fraser emise un lungo fischio ammirando quel lavoro, nonostante lo avesse contemplato almeno in parte la notte precedente, quando il sole lanciava i suoi ultimi raggi rossastri.

Capitol City era soddisfatta dei tributi di quell’anno: solo nella prima giornata erano morti dieci concorrenti e la cosa rendeva il maschio dell’uno abbastanza fiero di sé, considerando che parte di quelle persone erano morte per causa sua. Non era come Liv, che aveva sognato la faccia agonizzante di Kabe per terra e quando si svegliò durante la notte dovette tapparsi la bocca con le mani per non urlare, a guardarla vi era Lexi, che faceva il turno di guardia. Pregò silenziosamente che non avesse intuito quanto il realtà fosse debole quando la sua voce tremolò un poco al «ci penso io».

Liv si odiava, si odiava da morire per essersi cacciata in questa situazione; non c’era nulla di più simile ad una bambina testarda di lei, perché si era offerta volontaria guardando con astio i genitori dal palco, che lei credeva la ritenessero fragile ed insulsa nonostante avesse discreti voti agli allenamenti e altrettanto discrete possibilità di vincere. Ma loro non volevano che lei partecipasse, Liv pensava fosse perché non la ritenevano in grado – ma piano piano capiva che si trattava solo di paura: c’erano altre ragazze, più forti, più alte, più muscolose che potevano vincere gli Hunger Games, loro non avevano bisogno di un Vincitore per essere felici, ma di una figlia.

Ma lei non capiva, non capiva nulla: era una stolta ragazzina del distretto due. Ma ora aveva un motivo in più per vincere, ed erano i suoi genitori.

Sorrise, nascondendo il volto contro le ginocchia strette al petto, in modo che la Capitale non potesse proiettare la sua magra consolazione di aver trovato un motivo per combattere.

«Andiamo?» domandò Ines, mentre Liv guardava ancora all’orizzonte. Pensava a quelli dell’otto, al fatto che sapevano dove erano andati, a che avrebbe potuto ucciderli perché non sapevano combattere, perché erano soli. Esattamente com’era sola lei.

«Che i sessantatreesimi Hunger Games abbiano inizio» sussurrò al vento, prima di infilare nello zaino una caraffa d’acqua, prendere in mano le proprie armi e affiancare gli altri favoriti verso la loro preda.

Già pregustava il momento in cui sarebbe diventata vincitrice, ma non si capacitava che, per farlo, doveva letteralmente passare per il cadavere di Fraser.

 

Camminava a passo sveltissimo, Lyosha, ed Ariel rimaneva inevitabilmente indietro, lo vedeva voltarsi con il viso segnato dall’ira e gli occhi blu come un mare in tempesta. Si sentiva spaventata e ferita, credendo che lui fosse capace di abbandonarla lì seduta stante. Ma non osava parlare, non lo avrebbe mai fatto in quelle condizioni.

Si limitava quindi ad affrettare il passo mentre lui era fermo a guardarla, stringendo tra le dita sporche il tubo in cui conservavano l’acqua – si stavano dirigendo verso il loro beveraggio per dissetarsi, quantomeno, e sperare che l’acqua bastasse per il loro stomaco che richiedeva il cibo.

Si ricordò le parole della loro mentore: «soffrirete la fame, il freddo, il dolore, la paura e la rabbia». E capì quanto fossero incredibilmente vere.

Lasciò cadere dalle sue spalle lo zaino e piantò il coltello per terra, la lama sporca di terra e una sfumatura rossa brillava sulla lama, un filo di sangue si era depositato su questo tanto Lyosha aveva stretto la lama in mano, Ariel lo guardava mentre si gettava considerevoli porzioni d’acqua sul viso e si era concentrata sulle piccole rughe ai lati dei suoi occhi con le palpebre serrate, i denti stretti e le labbra talmente contratte da mostrare le gengive.

Piangeva.

«Thahn…» mormorò consolatoria lei, avvicinandosi per poggiare una mano sulla sua spalla. Il ragazzo glielo lasciò fare, ma senza reagire, «davvero, va tutto bene… possiamo tornare alla Cornucopia e» provò a concludere la frase ma il fratello si girò bruscamente, facendole fare un passo all’indietro per non cadere, con le mani le diceva furiosamente che era impossibile e poi ritornò a buttarsi l’acqua in faccia, questa si fermava sulle sue ciglia come piccole perle.

«I Favoriti? Perché devono stare per forza nella Cornucopia?» domandò lei, evidentemente non aveva mai seguito gli Hunger Games come lo faceva Lyosha, si limitava a stare seduta vicino a lui a cantargli qualche canzone quando non accendeva la radio.

Lascia perdere, le mimò con le labbra, lentamente, e poi scosse la testa, si fece passare l’unico loro contenitore e lo riempì con l’acqua per bere, ripetendo poi l’operazione e chiudendo il cilindro.

«Possiamo provarci… siamo solo al secondo giorno e magari sono in giro ad uccidere qualcuno… magari… magari…»

Ma si fermò, perché Lyosha non l’ascoltava: era lì, come un cane di guardia, che fissava oltre la cascata l’erbe muoversi, e poi una testa bionda, seguita da una più scura – maschile – e ancora altre due criniere, bionda e ramata. Gli occhi gli si sgranarono e la mano afferrò il coltello, il braccio si pose davanti ad Ariel e con l’altra mano le faceva segno di abbassarsi, lei obbedì, prendendo tra le mani lo zaino con la coperta.

Da lì sopra non riuscivano a sentire ciò che dicevano i Favoriti, ma Lyosha li guardava attentamente mentre fissavano il territorio attorno a loro. Il maschio del gruppo – il tributo del due era morto? – si era chinato sull’acqua e la faceva sguazzare con la lama della spada, girandosi poi verso la ragazza del quattro per dirle qualcosa con un sorriso.

Il più grande degli Isaacs si spostò usando gomiti e ginocchia, avvicinandosi al bordo del promontorio, laddove vi erano le scale, le individuava grazie a dei pioli nero pece che spuntavano visibilmente dalla terra. Dall’alto, sapeva, lo avrebbero visto e lui pregò di essere abbastanza svelto da tagliare la corda e fuggire prima che loro individuassero un altro modo per salire la parete rocciosa.

Ebbe fortuna, quando la ragazza del due indicò la sua chioma corvina lui aveva quasi finito di tagliare il primo lato, Fraser si era avventato sulla scala salendola rapidamente, muovendola nella speranza di intralciare il lavoro a Lyosha e questo quasi perse il coltello dalle mani le due volte in cui gli scossoni furono tremendamente potenti, ma le scale si staccarono dal muro e Fraser cadde sui piedi – urlava qualcosa come «e bravo il nostro otto!» e Lexi sorrideva dietro di lui.

Ma furono questioni di secondi e Liv iniziò a correre verso sinistra, Ines subito dopo di lei – Lyosha guardò in quella direzione e vide un’altra cascata relativamente vicina, e decise che la cosa migliore fosse fuggire. Mise il coltello nella cinta e iniziò a correre pregando che Ariel potesse tenere il suo passo.

Corsero per un numero infinito di minuti, procedendo in diagonale alla parte opposta da cui arrivavano i Favoriti, si chiese se le loro tracce fossero così evidenti ma non aveva il tempo di guardare.

Corsero, per la madre, per il padre che non c’era più, per i figli che avrebbero voluto avere, Ariel corse per Lyosha e Lyosha corse per Ariel.

E frenarono di colpo: il niente si apriva davanti a loro come un salto nel vuoto, la nebbia copriva ciò che vi era di sotto e nella mente del più grande potevano esserci tanto un fiume quanto delle rocce acuminate. Ma ecco Ariel toccargli insistentemente il braccio, urlandogli qualcosa come «un ponte! Un ponte!», si girò verso dove la piccola indicava e il susseguirsi di travi unite da corde gli sembrò come una visione paradisiaca, prese a correre verso il cavalcavia, facendo andare prima Ariel e, dopo un certo numero di metri, lui.

Il cigolio del legno si mischiava al battito del cuore del ragazzo tanto da confondergli le idee, non capiva più se il suo cuore era malandato come quelle travi o se l’Arena era viva quanto il suo cuore, aveva il terrore che ciò che lo teneva sospeso in aria crollasse sotto i suoi piedi.

Ma Ariel si bloccò di colpo, Lyosha avrebbe voluto chiederle che diamine stesse facendo, che erano inseguiti!. Ma lei non si muoveva, immobile, fissava ciò che solo in un secondo istante il fratello identificò come Sean, quello che li aveva derubati.

«Ciao, otto».

Ariel iniziò ad arretrare, appoggiando la nuca contro il petto di Thahn, del suo fratellone che aveva promesso di proteggerla.

Lyosha si girò all’indietro, Liv era tra i paletti che reggevano le corde e in mano teneva due pugnali.

Davanti a loro, Sean aveva sfoderato la sua lancia.

Stavano per morire, stavano per morire!

Poi si udì un «fallo, Liv», le corde diventare molli per poi afflosciarsi attorno a loro, il legno mancare sotto i piedi come volatilizzato e le gocce d’acqua della nebbia entrare nei vestiti dei tre, congelando pelle, muscoli, ossa, cuore.

Lyosha trattenne il respiro mentre cadeva nel nulla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Tanti invece sono arrabbiati, spaventati: guardano al futuro e vedono che per loro avanzerà poco   

[BIANCA BALTI]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Ok, ok. Un altro parto plurigemellare questo capitolo ma alla fine – nel bene o nel male – è uscito fuori anche abbastanza in tempo. Bene bene.

E siamo al secondo giorno e Lyosha ed Ariel ancora non hanno un minuto di pace, quasi mi dispiace di farli soffrire così tanto! Ma gli HG esistono per questo ed io sono qui apposta, no? Solo uno sarà Vincitore.

Sarò molto breve perché ho davvero fretta di pubblicare questo capitolo, ahah x°° non chiedetemi perché, vi prego! Anyway. Sono molto felice che il seguito sembri crescere di volta in volta, e stavolta ringrazio Flor0699 (spero di aver scritto giusto il nick!) per la recensione e quant’altro – e ovviamente tutti quelli che seguono in silenzio, in attesa della fine (suppongo).

Piccola cosa (: quando Fraser si mette a giocare con l’acqua e sorride a Ines, ovviamente sta facendo una battuta sul fatto che lei sia de Distretto quattro, non riuscendo a sentire da la sopra, non ho voluto inserirla. Inoltre, la ragazza che dice “fallo, Liv” è proprio Ines – quella pazza psicopatica!(?).

Spero che Liv non vi vada a male ç.ç lo so che è del due ma non sono tutti uguali, no? ;) Mi piace variare, mettiamola così.

Bene, giuro che ho finito! Mi dispiace moltissimo per gli errori in generale ma non sono riuscita a beccarli ç//ç la mia mente è un po’ vagante ultimamente XD

 

EDIT: Da oggi (16/09) ogni capitolo si concluderà con una citazione più o meno inerente al testo che la precede. Enjoy ~

 

Alla prossima e grazie di tutto!

radioactive,

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Capitolo 7
*** ▪ felici hunger games, e possa la buona sorte essere sempre a tuo favore. ***









CAPITOLO 07

                 felici hunger games, e possa la buona sorte essere sempre a tuo favore.

 

 

 

Quando si svegliò, la prima cosa che vide fu Sean.

Il ragazzo era steso prono di fianco a lui, la lancia ancora in mano e Lyosha si chiese come avesse fatto a mantenerla stretta a sé per tutto quel tempo.

Improvvisamente, davanti ai suoi occhi si materializzarono le immagini della caduta, il freddo dentro le ossa e quel lungo momento di apnea prima di perdere i sensi – i vestiti erano sgualciti e lo stivale destro aveva un buco su un lato, come se un animale lo avesse morso lasciando intravedere la pelle del piede del ragazzo.

Improvvisamente un conato di vomito gli risalì lungo la gola per poi cadere rovinosamente sulle rocce ricoperte di foglie e muschio su cui era scomodamente adagiato. Dov’era finito? Ma, soprattutto… dov’era finita Ariel?

Le labbra si mossero istintivamente sillabando il suo nome ma ne uscì solo aria – lievemente stizzito per aver dimenticato la propria menomazione, fece un bel respiro per controllarsi e poi si mise a fischiare un motivetto interessante che alla ragazzina piaceva molto, era il suo modo per chiamarla.

Fischiò una volta, fermandosi di colpo nel vedere Sean muoversi ma non svegliarsi, sollevato, riprovò una seconda volta guardandosi intorno e cercando di trovare tra le liane e gli alberi la figura minuta dell’altra – ma prima che potesse concludere la sua canzoncina dell’altra bile si riversò sulle rocce, solo allora Lyosha si rese conto di star sudando freddo, e assieme a quella consapevolezza iniziò ad annebbiarsi la vista, il respiro a pesargli… Dannazione. Aveva bevuto l’acqua del fiume dove erano caduti.

Scattò sul corpo di Sean, stando attento a non toccarlo eccessivamente e gli aprì lo zaino, svuotandolo di tutte le provviste alla ricerca di quelle benedette pastiglie verdi – rovistava freneticamente buttando tutto quello che trovava per terra – la vista continuò a peggiorare e la testa girava vorticosamente da costringerlo a fermarsi.

Qualche lacrima gli cadde sul dorso delle mani, incontrollate e selvagge. Un’altra fitta alla testa lo costrinse ad appoggiarsi sulla schiena di Sean ancora svenuto, ma che stavolta grugnì.

Le mani frugarono ancora debolmente dentro lo zaino, scoprendo un taschino interno, ci infilo le dita intorpidite dentro, trovò un contenitore abbastanza piccolo, lo sfilò usando entrambe le mani, tremanti, strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’oggetto e sorrise.

Non erano quelle che cercava.

 

«Ly!» urlò qualche metro più in là Ariel, e in quel momento Lyosha cadde in avanti sul corpo di Sean che sobbalzò all’istante, grugnendo subito dopo per il dolore, probabilmente. La biondina corse verso i due tributi inginocchiandosi in modo da spostare il fratello prendendolo per le spalle, lo fece strisciare verso l’esterno per togliergli i piedi dall’acqua, notò alcune ferite sul petto e sulle gambe che, a dire il vero, assomigliavano alle proprie, lei però aveva ancora la giacca e quindi i morsi erano molto meno profondi.

Senza perdere tempo, tirò fuori dalla giubba le pastiglie verdi che aveva precedentemente rubato a Sean – avrebbe raccontato a Lyosha cosa fosse successo solo in un secondo momento.

Si era posizionata in modo che la nuca del più grande fosse sulle sue gambe e gli fece ingerire la pillola cercando di ricordare come si facesse dagli allenamenti. Non era molto sicura che anche lui stesse soffrendo dell’avvelenamento di cui anche lei aveva sorbito i dolori qualche attimo prima – ma lo supponeva, e in realtà ci sperava anche. Doveva essere così, si ripeteva, non poteva abbandonarla ora.

Gli accarezzava i capelli piangendo, aspettando che si svegliasse esattamente come aveva fatto il giorno prima, subito dopo il Bagno di Sangue; vicino a loro Sean continuava a grugnire dal dolore – acquistando poco a poco coscienza, e si era portato la mano alla testa sulla quale sbocciava un fiore rosso sangue, probabilmente aveva preso una botta terribile e le conseguenze erano ben evidenti. Provò ad alzare la testa – e quindi il corpo – ma il dolore fu tale da farlo gridare e attirare l’attenzione di Ariel.

«Ragazzina… A-Ariel, giusto? Dammi una mano…» disse con un lieve senso di supplica mentre la più piccola degli Isaacs lo guardava, incredula della sua richiesta.

«SCORDATELO!» sbraitò lei, fermando le sue carezze protettive, «è per colpa tua se Thahn adesso sta morendo!» sapeva che non era vero – o almeno non in parte – ma ora come ora Sean era l’unica persona su cui poteva scaricare le sue frustrazioni.

«Posso salvarlo» mormorò debolmente lui, palesemente finto quanto sofferente, un altro fremito di dolore gli sfuggì dalle labbra provocando un moto di compassione in Ariel.

Lei non voleva dargli retta, sapeva che era sufficiente la pillola per salvare Lyosha perché lo avevano già fatto una volta, eppure neanche le affettuosità che gli stava concedendo attorcigliandosi teneramente le ciocche di capelli neri tra le dita sembrava riportarlo alla realtà.

Per quel che ne sapeva lei, Lyosha poteva essere già morto.

«Ariel… morirà» concluse Sean con un tono tragico, ma delicato, come se un dottore avesse appena annunciato il verdetto alla famiglia di un loro componente gravemente malato: morirà, quelle parole le fecero gonfiare gli occhi di lacrime, le guance diventarono rosse.

«Non dirlo!» rispose tutto d’un fiato, stringendo i denti e costringendosi a tenere gli occhi aperti per prevenire un qualche attacco del tributo – abbastanza impossibile, considerando lo stato in cui si trovava – le lacrime caddero pesanti sulla fronte del tributo dell’otto, scivolando poi sulle tempie. «Non dirlo…» pigolò poco dopo, cercando di convincersi a non pensare che forse Sean aveva una remota possibilità di avere ragione.

«Sono gli Hunger Games, otto» mormorò l’altro, alzando un braccio per tastarsi la ferita alla testa che continuava a pulsare insistentemente, dandogli ripetuti capogiri ad ogni parola che pronunciava.

Era quasi riuscito a convincerla, la sentiva così debole e fragile sotto le sue frasi che era questione di secondi prima che lei si offrisse nel medicargli la testa – lo sapeva fare, l’aveva vista all’opera agli addestramenti.

Ma poi Lyosha si girò di lato per vomitare.

 

Liv fissava il fiume scorrere sotto la nebbia, le braccia abbassate con in mano l’arco – la freccia che aveva scoccato con assurda prontezza si era dispersa nel ruscello, era andata vicinissima al cuore della ragazzina mentre questa cadeva.

«Dannazione» biascicò quella del due, rimettendo l’arma al suo posto e afferrando le due lame con cui aveva tagliato le corde, infilandole negli stivali.

«Saranno morti per la caduta» constatò Fraser, anche se non sembrava convinto delle sue stesse parole, «in tutti i casi l’acqua è avvelenata, e non ci credo che non l’abbiano bevuta, vi pare?».

Ines annuì impercettibilmente, facendo roteare il tridente per poi infilarlo tra le spalline dello zaino e dietro la cinta dei pantaloni, «direi che qui non c’è più nulla da fare, piuttosto dovremmo trovare gli altri tributi, oltre a quei tre ce ne sono ancora sette in giro per l’Arena».

L’arciere affiancò il tributo del quattro, pronta per partire– presto avrebbe proposto a Ines un’alleanza e poi l’avrebbe uccisa durante la notte, era stato deciso così quella mattina, ed era la cosa di cui si sentiva più fiera fino a quel momento dall’inizio dei Giochi.

«Principessa?» domandò Fraser con le mani in tasca, fissando Lexi sul bordo del precipizio, la ragazza guardava in basso come se si aspettasse di vedere riemergere i tre tributi dal niente – questa raddrizzò le spalle e camminò svelta per andare a capeggiare il gruppo di Favoriti.

Non sono morti, fu l’unica cosa che pensò.

 

Lyosha pensava che sarebbe diventato pazzo.

Era già la seconda volta – in meno di ventiquattro ore – che si ritrovava avvelenato e si chiese se quelle pastiglie verdi non avessero delle controindicazioni, il pensiero di star morendo lentamente lo spaventava molto, a dir la verità l’idea di morire e basta gli metteva i brividi. Eppure era dentro gli Hunger Games, e a quel proposito ricordava i giochi dell’anno precedente, vinti da una certa Enobaria del distretto due – era andato in piazza a vederla nel tour della Vittoria e rimase sbalordito dai suoi denti.

Ebbe paura.

La figura di Enobaria si fece spazio tra le immagini confuse di un sogno che non gli pareva di ricordare, sorridendo con quel suo ghigno – spaventando Lyosha a tal punto da farlo svegliare e rigettare le ultime tracce di acqua che aveva nello stomaco. Sentì le mani della sorella staccarsi dalla sua testa e tenergli le spalle e la sua voce contenta mentre ringraziava il cielo per averlo fatto tornare.

Schiuse le labbra per parlare ricordandosi poi di essere muto, mormorando silenziosamente un «come?»: come aveva fatto a salvarlo?

Ma, cosa più importante: come aveva fatto, Ariel, a salvare tutti e due – anche sé stessa? Come aveva fatto, quella ragazzina, a mantenerlo lucido fino a quel momento?

«Mi sono svegliata per prima, poi ho iniziato a tossire e ho capito che mi stava succedendo quello che ti era capitato dopo l’inizio… ho cercato nello zaino di lui» e qui indicò Sean, ancora immobile mentre si guardava il sangue rimastogli sui polpastrelli dopo essersi toccato la ferita, «e ho trovato le nostre pastiglie» concluse fiera di sé – un sorriso le sbocciò sul volto e questo fece arricciare a loro volta le labbra di Lyosha.

«Otto otto, ascoltami» intervenne Sean, la sua voce era di una drammaticità quasi teatrale, Lyosha lo ignorò mentre si metteva a sedere con una smorfia di dolore, tutti quei graffi disseminati sul corpo – gli stessi presenti sugli altri due – risultavano più fastidiosi che dolorosi e in cuor suo sperava che non avessero conseguenze di alcun tipo, «non puoi lasciarmi così!» continuò l’altro tributo, gli occhi puntati sui due fratelli.

«Dacci un taglio» ribatté secca Ariel, prendendo il coltello dallo zaino del fratello (che quest’ultimo aveva ancora addosso) e tagliando le bretelle di quello di Sean, in modo da sfilarglielo senza muovergli eccessivamente il corpo, rovesciò il contenuto per terra per poi prendere ciò che spettava a loro di diritto e infilarlo negli zaini a disposizione dei due fratelli, abbandonando la sacca del tre praticamente vuota.

Il più grande degli Isaacs guardava con fare quasi compassionevole il corpo di Sean, con il sangue in una mano e la lancia ancora bene stretta nell’altra – fischiò debolmente per attirare l’attenzione di Ariel e con pochi gesti le disse di sedersi sopra di lui, bloccandogli le spalle.

Quando la ragazzina eseguì gli ordini, la reazione di Sean fu palese: iniziò a sbraitare chiedendo spiegazioni, dicendo qualcosa come «non puoi uccidermi!» - quando tutti e tre sapevano che Lyosha poteva benissimo farlo.

Il punto era che l’Isaacs non voleva ucciderlo, non voleva uccidere più nessuno.

Aggirò il corpo di Sean, martoriato almeno quanto il suo per muoversi e quella ferita alla testa era assolutamente a favore dei due del distretto dei tessuti, si inchinò vicino alla mano che teneva la lancia e – con vari strattoni e non poca forza (almeno quella che gli era rimasta) riuscì a strappargliela dalle mani.

«Cos? No!» si dibatté Sean, ancora più teatrale e patetico di prima. Spaventato.

Lyosha si infilò la lancia nella cinta in modo da bloccarla, afferrò lo zaino squarciato di Sean e da questo estrasse una coperta color fieno e un coltello, rigettando poi a terra la sacca con quel poco che ne rimaneva vicino al viso dell’altro. Guardò Ariel muovendo le mani, e subito lei parlò per il fratello: «Ha detto che con questi puoi fasciarti la testa e proteggerti».

Poi, come mosso da un attacco di cinismo, afferrò la lancia che si era appena messo apposto e con la punta scrisse sul terreno una frase elementare, che tutti conoscevano a Panem, sottolineandone l’ultima parte: Felici Hunger Games, e possa la buona sorte essere sempre a TUO favorE.

 

Afferrò la mano di Ariel, allontanandosi dal corpo di Sean che più volte provò ad alzarsi, cadendo poi sulle ginocchia preso da gravi fitte alla testa.

E Lyosha si sentì male per quello che aveva fatto a quel ragazzo: lo aveva abbandonato senza nulla – escluso un messaggio sul fango e una ferita ancora sanguinante.

E’ peggio che uccidere, constatò, e in quel momento realizzò di essere diventato parte integrante dei Giochi della Fame.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Le idee ispirate dal coraggio sono come le pedine negli scacchi,
possono essere mangiate ma anche
dare avvio ad un gioco vincente     

[JOHANN WOLFGANG VON GOETHE]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

E dopo una settimana, sono ancora qua con il numero sette.

Capitolo che, ahimè, non mi soddisfa :/ ma suppongo che sia lecito avere un capitolo di “passaggio”, per così dire. Vi vorrei promettere qualcosa di più avvincente, ma non sono mai stata brava con le promesse e quindi lascio perdere :D fatevi bastare l’idea di una promessa, ecco.

Insomma, che dire? Lyosha ha una fortuna pazzesca, davvero! Due volte avvelenato e due volte la sorella lo ha salvato… quella ragazzina ha stoffa da vendere! Ma solitamente sono sempre le più piccoline ad averla vinta, basta vedere Rue ç///ç piccolo cuoricino!

La spiegazione della citazione finale è semplice: il gesto finale di Lyosha, la scritta sulla terra – è stata un’azione chiaramente dettata dal coraggio (anche se ho scritto “cinismo”): lui non avrebbe mai fatto nulla del genere se non fosse stato spinto da una scarica di adrenalina gigantesca, eh! E insomma, facendo questo Lyosha capisce di essere troppo dentro ai giochi per smettere di fare il tributo figo ora – con i suoi rischi e pericoli, e quindi ecco la citazione ;)

Tutte le ferite che si sono procurati, sono morsi di pesci simili a piranha – ma loro non lo sanno, è qualcosa che vi dico a scopo informativo! :3

Ringraziamo sempre yingsu per il sostegno morale/psicologico e per aver iniziato questa avventura – anche se a distanza di sei capitoli dall’inizio. Benvenuta ai 63esimi Hunger Games(?). Ovviamente, un grazie va anche ad Ivola, come yingsu anche lei ha iniziato a leggere la fanfic e spero con tutto il cuore che le piaccia ** non conoscendola di persona, sarebbe una soddisfazione molto grande per me XD

Sì insomma, sono felice che il seguito di Lyosha cresca pian piano, soprattutto ora che ci troviamo con undici tributi e mezzo (il mezzo è Sean, sia chiaro) – e che i giochi siano praticamente a metà.

Inoltre, giusto per informare la gentile clientela(??) in realtà è per fare conversazione mi frullava in testa l’idea di fare qualcosa come un “sequel” di questa fan fiction, quindi relativa al Tour della Vittoria del Vincitore di questi Hunger Games (che stavo quasi per svelare, ahah XD – ricordiamo che ci sono almeno due possibilità, se si considerano potenziali vincitori i protagonisti) e della sua vita durante la vicenda di Katniss e Peeta; ve lo dico giustamente per sapere se sareste disposti a darci un’occhiata, quando e se lo farò.

Anyway, ora giuro che vi lascio stare per almeno un’altra settimana.

Ma prima vorrei dedicare un angolino spam per due originali nel campo del Sovrannaturale, nel caso a qualcuno piaccia il genere:

• Sarò lì quando cadrai. (x) di yingsu – categoria Angeli & Demoni. Essendo la beta e conoscendo già la trama generale e alcuni particolari, posso assicurarvi che merita~

• The Rose blooms sweetly. [le rose sbocciano dolcemente] (x) di me stessa medesima – una cosuccia a cui sono particolarmente legata considerando che è la mia prima originale. XD

Ora ho davvero finito.

 

Long life and prosper Alla prossima!

radioactive,

 

 

 

 

 

Grazie per le 200 visualizzazioni del primo capitolo!

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Capitolo 8
*** ▪ little bird wrote him a tune, fly with me far from this room. ***









CAPITOLO 08

                 little bird wrote him a tune, fly with me far from this room.

 

 

 

Faceva caldo, e la mente di Lyosha era invasa solamente da quel pensiero.

Il giorno prima, constatò, non era stato afoso come quello, forse – si disse – era per l’adrenalina che aveva preso piede già dai primi istanti dopo il risveglio, forse era tutto un piano degli Strateghi, quelli di far morire i tributi di caldo, così sarebbero andati a bere e tutti sarebbero morti nel giro di ventiquattr’ore. Ma, parlando francamente, quel problema non gli riguardava, o almeno in parte. Lui sapeva dove trovare dell’acqua potabile.

Si dirigeva per l’appunto, mano nella mano con Ariel, laddove era quasi sicuro ci avrebbe trovato, prima o poi, una cascata in modo da risalire verso la parte nebulosa dell’arena: tutti quei colori iniziavano a diventare quasi allucinogeni, gli odori che non aveva avvertito la giornata precedente erano quasi pungenti e i rumori ambigui, che quindi non facevano parte delle specie animali o degli insetti, lo facevano sempre morire di paura, mettendolo all’erta e afferrando la lancia che teneva dietro la schiena, ben consapevole di non saperla usare e che, al primo fendente del nemico, questo lo avrebbe disarmato.

Dopo parecchi momenti di camminata, dove il caldo sembrava peggiorare nonostante l’ombra prodotta dalle foglie, Ariel barcollò sulle gambe per poi cadere sulle ginocchia, strisciò su una radice e si sedette, tirandosi i capelli dietro le orecchie, «sono stanca» proferì a bassa voce, quasi vergognandosi.

Ma non si potevano fermare, non lì. Voleva farla riposare a tutti i costi, lo pensava davvero ed era deciso a realizzare questo suo piccolo obbiettivo, ma non poteva permetterle di stare ferma in mezzo alla boscaglia, senza un nascondiglio quantomeno mediocre.

Sospirò, togliendosi lo zaino dalle spalle e infilandoselo al contrario, usando quindi il petto come schiena, si sfilò la lancia dai pantaloni e fece segno alla sorella di alzarsi sulla radice, mettendosi poi in ginocchio su una gamba davanti a lei.

Ariel non ci mise molto a capire, «cosa? Non ci penso minimamente a salire sulle tue spalle!» protestò, un po’ per dignità e un po’ perché non sapeva quanto il fratello, forse più debole di lei, potesse reggerla.

Ma quando Lyosha si girò appena verso di lei, mostrandole il profilo serio e gli occhi decisi, la più piccola gonfiò le guance arrossendo di rabbia dal non poter protestare e si allungò sulle spalle di Lyosha, sentendo le braccia ossute del fratello avvolgerle le gambe – tenendo in mano l’arma – e le clavicole sporgenti sulle braccia mentre gli circondava il collo con cautela, per non farlo soffocare.

Dopo qualche metro, la ragazza decise che poteva tranquillizzarsi, che Lyosha l’avrebbe portata in capo al mondo, anche in quel modo se necessario. Appoggiò la guancia sulla sua spalla, le labbra rivolte verso il collo del fratello e, come per ringraziarlo, prese a canticchiare quel motivetto con cui accompagnava sempre il lavoro extra che Lyosha si portava a casa.

 

«Little bird learnt to sing in her cage whistling | Little bird caught the eye of a little lark who heard her cry».

Le parole della canzone che Ariel era abituata a cantargli mentre lavorava a casa gli rimbombava in testa, mentre toglieva tutto dagli zaini alla ricerca del tupperware con le loro ostie, sapeva che erano da qualche parte. Sorrise quando se lo ritrovò tra le dita, lo aprì buttando il tappo sullo zaino e porgendo due dischetti di acqua e farina alla sorella che, consapevole del “segreto” di quelle cibarie, non esitò un solo momento ad appoggiarsi sulla lingua il primo dei due.

«Little bird wrote him a tune, fly with me far from this room | Little bird fell in love, she fell in love, I fell in love».

Ricordava la seggiola abbandonata vicino al mobile su cui era appoggiata la loro vecchia radio che accendeva un paio di ore al giorno, quando – dopo il turno in fabbrica – Lyosha si sedeva in quell punto esatto della casupola e iniziava a rattoppare, stringere ed allargare i vestiti che gli altri abitanti del distretto commissionavano a lui perché offriva il prezzo più basso, o ancora quando semplicemente portava a casa il lavoro avanzato dalla fabbrica: decina e decina di fazzoletti di lino e seta da ricamare con oro e colori pregiatissimi. Si metteva lì con i piedi appoggiati su uno sgabello e passava il pomeriggio rimasto, talvolta fino a sera tardi, a far andare le mani per comporre graziosi ghirigori – e Ariel cantava per lui quella sorta di ninna nanna che gli piaceva molto in sostituzione della piccola canzoniera all’interno della radio, troppo stanca per suonare a lungo.

Ma poi succedeva che Thahn si addormentava con ago e filo in mano, sul tavolo una pila di ostie e cioccolato coperte da un fazzoletto, Ariel entrava di soppiatto nella stanza, allungava la manina sui dolcetti e se ne tornava nella sua cuccetta a sgranocchiarsi il suo cibo, mettendo a tacere lo stomaco.

 

Lexi camminava a passo spedito: non si erano sentiti cannoni annunciare la morte di nessun tributo e questo non faceva altro che confermare la sua teoria sul fatto che i tre non erano morti. La cosa la faceva sinceramente andar di matto e scaricava la sua frustrazione camminando più velocemente del necessario.

Liv invece aveva rallentato, il suo posto affianco ad Ines era stato preso da Fraser che si divertiva di tanto in tanto con delle battute rivolte alla ragazza del quattro, la quale avrebbe volentieri infilzato il tributo con il suo tridente e dato in pasto agli uccelli dell’Arena. Il tributo del due, silenziosa, cercava di analizzare con precisione la situazione in cui era coinvolta, rendendosi conto che l’alleanza con i favoriti era una cosa sempre meno intelligente da mantenere; ma ci aveva già rimuginato sopra, e aveva trovato la soluzione all’incoveniente.

Quello che non le dava pace, ora, era il ricordo di ciò che aveva lasciato al Distretto, oltre ai suoi genitori sapeva che ad aspettarla c’era Roel Flos, il suo cosìddetto fidanzato storico, la cui relazione era iniziata quando aveva undici anni, quindi quasi sette anni or sono. Alzò lo sguardo studiando le spalle di Ines, e più avanti quelle di Lexi: loro avevano qualcuno che amavano a casa? Si sentiva orribile, Liv, per quello che aveva fatto a Roel, il non avergli messo al corrente della sua pazza idea di offrirsi volontaria per ribellarsi ai suoi genitori. Ricordava, soprattutto, quando lui andò a salutarla al palazzo della Giustizia. E ad incrementare il suo dolore c’era anche l’aver provato a far nascere una qualche relazione con Fraser, ovviamente finto e inconsistente – niente a che vedere con ciò che aveva con Roel.

E in quel momento un rumore catturò la sua attenzione, alla sua destra, dalla nebbia comparve una sagoma umana che, dopo qualche secondo in cui sembrò rimanere congelata, fece dietrofront per scappare. La ragazza si girò si scatto preparando con una velocità incredibile arco e faretra, scoccò la prima freccia che attraversò il polpaccio della figura, un’altra veloce come la prima si conficcò nel torace , il corpo appoggiato sulle ginocchia, e, prima che questo cadesse tra l’erbaglia con un tonfo, un terzo dardo gli trapassò da parte a parte il cranio.

I favoriti raggiunsero la carcassa, identificandola poi come un ragazzo dei distretti più bassi, con sé non aveva niente. Qualche secondo dopo il cannone informò l’Arena della morte del tributo, uno stormo di uccelli posizionati negli alberi a loro circostanti si alzarono in volo spaventati per il suono di morte di poco prima.

«Brava, Liv» si complimentò Ines, e per tutta risposta la ragazza si abbassò a sfilare le frecce del cadavere, scuotendole per togliere i brandelli di carne e sangue dalla punta, pulendole con la maglia del cadavere.

«Ho avuto un bravo maestro», ma nel profondo del suo cuore, sapeva che Roel non era affatto felice di vederla uccidere a sangue freddo le persone.

 

La testa gli pulsava ancora, nonostante avesse fasciato mediocramente la ferita con ciò che il ragazzo dell’otto gli aveva premurosamente donato. Riflesso sull’acqua, Sean riusciva a vedere il suo volto sciupato, i capelli sporchi di sangue e la benda già zuppa della stessa sostanza, il collo coperto di rosso e terra, i vestiti fradici, putridi e disseminati di morsi e graffi.

Che diavolo c’era in quel fiume per aver ridotto i suoi vestiti a brandelli?

Rimase inginocchiato per terra, senza trovare la forza di provare ad alzarsi: non ci sarebbe riuscito. Tutto intorno a lui sembrava gridargli che era arrivata la sua ora, poi un fruscio proveniente dagli alberi richiamò la sua attenzione ma non se la sentiva di girare il viso per paura che un improvviso scossone potesse farlo svenire o causargli molto dolore, rimase a guardare il suo volto nello specchio, sorridendo beffardamente – aspettando che l’animale o il tributo lo uccidesse. E così finiscono gli Hunger Games di Sean.

«Chi sei?» domandò una voce tremolante, da ragazzino. Sean allargò il sorriso, trasformandolo quasi in un ghigno, la fortuna sembrava girare finalmente dalla sua parte, girandosi lentamente riuscì a scorgere la figura che gli aveva parlato: posto a qualche metro lontano da lui, con nulla in mano, stava Lev, il tredicenne del quarto distretto.

«Dammi una mano… mi fa male la testa» si lamentò lui, lasciandosi cadere seduto sulle proprie gambe, per enfatizzare la sua stanchezza, «come potrei ucciderti in questo stato?» chiese retorico, indicandosi la ferita.

L’altro rimase ancora qualche momento bloccato, poi, come mosso da un senso di compassione si avvicinò ulteriormente al tributo più grande, prima di essergli abbastanza vicino per toccarlo e farsi toccare, gli porse un’ulteriore domanda, «se ti aiuto, tu cosa mi dai in cambio?».

«Un’alleanza, ovvio» rispose fermamente, allungando il braccio, «dai, aiutami, ho un coltello…» e indicò la lama un paio di metri lontani da lui, «e tu non hai proprio niente, e non sembri uno di quei favoriti che sanno combattere fin dalla culla, tu sei diverso, no?».

Quelle parole sembravano colpire Lev nel profondo, Sean era molto bravo a parlare e aveva già preso in giro due tributi con la sua tecnica oratoria – il pensiero dei due del distretto otto gli fece venire un conato di vomito tanto era furioso con loro. Lev, dal canto suo, si sentiva davvero differente dai Favoriti, motivo per cui era fuggito a gambe levate quando aveva visto Fraser trapassare Yara con la spada, spaventato.

Così quello del quattro si avvicinò all’altro tributo, passandogli il braccio dietro le spalle e alzandolo da terra, per quanto gli permettesse la differenza di statura, raccolsero le poche cose che aveva Sean (un coltello e uno zaino vuoto) e si allontanarono assieme dentro la foresta. Avevano appena formato un’altra alleanza, che non sarebbe durata a lungo.

 

«L’abbiamo trovata!» esultò Ariel dopo aver spostato l’ennesima foglia dal suo cammino, indicando al fratello un’altra radura simile a quella del giorno prima. Lyosha le sorrise passandole affettuosamente una mano tra i capelli, correndo poi verso la parte rocciosa coperta di liane, dove l’esperienza gli diceva che vi era una scala che lo avrebbe portato al piano superiore.

Fece salire la sorella, e poi si avviò verso la scalata – carico di una nuova eccitazione, illuminato dalle calde luci rosse del tramonto. Avevano camminato tutto il giorno ed erano sinceramente stanchi, avevano sete e si sentivano terribilmente disidratati, la foresta nebulosa era la loro unica salvezza.

Quando mise piede a terra, appoggiandosi le mani sulla zona lombare e facendo scrocchiare la schiena stanca, il secondo colpo di cannone si levò in alto facendo scappare uno stormo di uccelli provenienti da lontano, i quali gracchiavano a loro volta. Ariel si guardò attorno, impallidita come quel pomeriggio, nel sentire il primo sparo.

Erano rimasti in dodici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Colui che potendo dire una cosa in dieci parole ne impiega dodici,

io lo ritengo capace delle peggiori azioni   

[GIOSUÈ CARDUCCI]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Ehilà :D

Eccomi in mostruoso ritardo ma, che ci volete fare? Siamo a settembre inoltratissimo e gli impegni scolastici si fanno sentire XD

Non ho molto da aggiungere in questo capitolo :3 vi informo solamente che il tributo ucciso da Liv è il maschio del distretto 11. E a questo proposito vi lascio la lista dei ragazzi ancora in vita: M-1; F-1; F-2; M-3; M-4; F-4; M-6; M-7; M-8; F-8; M-9; F-9; F-10. Di questi, uno è morto, avvisato nel secondo sparo del cannone. Ma eviterò di dirvi chi sia, dato che la sua morte sarà affrontata nel capitolo successivo.

Bene! Detto questo, un piccolo focus sulla canzone cantata da Ariel. E’ una ninna nanna scritta dai The Fergies, una band australiana, vi lascio qui il link youtube, nella descrizione vi sono anche le lyrics integrali. Buon ascolto!

E a proposito di questo rispondo anche ad una piccola “curiosità” lanciata in una recensione lasciata da Ivola: alcuni titoli sono in inglese perché tratti direttamente dalle canzoni, quindi preferisco riportarli nella lingua originale; anche nel caso del primo capitolo, nonostante “run fast for your sisters and brothers” sia il consiglio della mentore, prima di tutto è il verso della canzone (scritto tutto nelle note!). Anche in questo caso il titolo del capitolo rimanda alla canzone :3

Ringrazio sempre la mia bella yingsu e Flor0699 che commentano la fic nonostante tutto ;u;

Ed ecco il momentino spam

Questa è la volta di I’m frozen to the bones, fan fiction di yingsu e in un certo senso SPIN-OFF (molto off) di “Die on the front page, just like the stars” – in quanto tratta degli Hunger Games successivi ai 63esimi, con un certo collegamento con un PG della mia edizione; ma non vi anticipo null’altro! (:

Insomma, un saltino anche da questa farebbe felice sia l’autrice che me, e voi mi volete felice, no?~

 

Bene, per oggi è tutto! Spero che l’andatura dell’Arena continui a piacervi.

radioactive,

 

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Capitolo 9
*** ▪ loro invece erano ancora lì: vivi. ***









CAPITOLO 09

                 loro invece erano ancora lì: vivi.

 

 

 

Il sole tramontava in quella cupola che era l’Arena, Sean – appoggiato ad un Lev stanco ma inflessibile – zoppicava evitando di inciampare nelle liane, radici, sassi e quant’altro. Non lo avrebbe mai ammesso a sé stesso, ma quel ragazzino gli aveva salvato la vita.

«Come mai non sei con gli altri Favoriti?» domandò, rallentando appena il passo alla vista di una palude che, per quanto fosse poco invitante, era pur sempre una zona con dell’acqua – e questa proprietà bastava al luogo per farlo somigliare ad una specie di Oasi, a cui neanche il ragazzo del quattro seppe resistere.

Lev lo fece appoggiare su un tronco, aiutandolo a scivolare sulla pietra posta sotto di lui, quasi a formare una panca naturale, Sean si sedette con un lamento, seguito poi da qualcosa vagamente simile ad un sospiro di sollievo.

«Sono tutti grandi, e poi Fraser ha ucciso la ragazzina del dodici… può uccidere anche me allo stesso modo se non gli ero utile, e non mi andava per niente. A comandare sono i maschi dell’uno o del due», mentre parlava guardava in basso, tenendo le mani dentro le tasche dei pantaloni e calciando una liana, come se si vergognasse della sua risposta. Aveva paura – ma non doveva dirlo, lo sapevano sia Lev che Sean.

La conversazione rimase sospesa per qualche secondo, poi Lev decise di togliersi la giacca – dove vi era il coltello, all’interno di una tasca – e di andare verso l’acqua, mormorando un “mi vado a lavare le mani” per congedarsi e abbandonare un di certo più riposato Sean nel suo angolo.

Con un balzo Lev entrò nella palude, storcendo il naso per la sporcizia dell’acqua e per la sua consistenza leggermente melmosa, ma non si lamentò più di tanto. Rimase a mollo nello stagno per un po’, cercando di ricordare la piacevole sensazione delle acque del suo distretto dove si tuffava dopo aver pescato con il padre, si chiese se c’era un qualche pesce commestibile, in quell’Arena – poteva mangiarlo anche crudo, se necessario, non beveva né mangiava dall’inizio dei giochi. Si spostò di qualche passo verso sinistra, avvicinandosi ad un tronco di notevoli dimensioni che sembrava in qualche modo sospeso nell’aria, coperto di muschio e liane di un verde brillante. Il ragazzino mise le mani a coppa per raccogliere l’acqua, gettandosela poi controvoglia sulla faccia, si sfregò gli occhi e con il colletto della canottiera ancora pulito si asciugò il viso da quella sensazione viscida lasciata dal liquido.

In quel momento, incontrò solo gli occhi freddi di Sean che lo fissavano, poi qualcosa che sembrava una corda dalle considerevoli dimensioni coperta di squame gli circondò le braccia, avvolgendolo tutto fino alle ginocchia, vicino al suo orecchio sentì un sibilo e due occhi gialli incontrarono i suoi. Fu questione di attimi: il ragazzo lanciò un urlo, l’anaconda gli strinse il corpicino, sollevandolo da terra, e le ossa si ruppero all’istante, producendo una sinfonia macabra di crack che raggiunsero le orecchie del ragazzo del tre.

Un altro urlo si levò dalle labbra di Lev, ancora il serpente si strinse a lui, scivolando verso il collo, attorcigliandosi attorno a questo e spezzandoglielo con la stessa tecnica usata precedentemente, infine la morsa si sciolse e il tributo scivolò nell’acqua – scomparendo sotto la melma.

Sean non aspettò altro: con ferita pulsante e tutto il resto, fuggì da quel posto appoggiandosi ad alberi e pietre, un colpo di cannone coprì tutti i suoi e poco dopo uno stormo di uccelli si levò dagli alberi che circondavano ciò che era diventata la tomba del tributo del distretto della pesca.

 

Il viso di Ariel era ancora spaventato, teso e pallido nonostante il cannone che annunciava la morte del dodicesimo tributo fosse  passato già da qualche minuto. Rimasero entrambi in silenzio mentre bevevano nel torrente vicino, riempiendo anche la loro boccetta d’acqua. Avevano trovato anche qualcosa di vagamente simile ad una radura nascosta da folti alberi e decisero di accamparsi lì: se guardavano in alto, riuscivano a vedere il cielo.

Con i coltelli e la lancia scavarono una fosse dove misero gli zaini, togliendo da questi la coperta – per poi nascondere le sacche con erbe e foglie. Una stupida prevenzione in modo che, se qualche nemico li trovasse, loro sarebbero potuti scappare e poi ritornare in quel luogo sperando che gli aggressori non scoprissero le loro scorte. Cercarono assieme un qualche albero dalle foglie lunghe, raccogliendone in gran quantità con diversi viaggi verso il loro stabilimento notturno, poi si sedettero semplicemente per terra e, foglia per foglia, Lyosha intrecciò un’amaca che avrebbe legato agli alberi circostanti in modo da sollevarli da terra, considerando che la notte prima erano stati svegliati da strani rettili che gli strisciavano vicino. Decisero di aggiungere all’impalcatura due rami decisamente lunghi che avevano trovato durante la loro ricerca, disposti in diagonale – in modo che aiutassero tutto il sistema nel reggere i due corpi.

Era ormai buio quando il letto fu completo, lo legarono ai tronchi nel modo più fermo possibile e, salendo lentamente sull’amaca, si resero conto che era stabile per mantenere il peso relativamente esiguo di entrambi.

«Lloyd sarebbe fiera di te» confessò Ariel, piegando lievemente le ginocchia verso il petto, tirandosi sulle spalle la coperta.

Lyosha sorrise debolmente, cacciandosi fuori le mani dalla preziosa coperta – nonostante tutto sentiva ancora freddo, dato che non era più in possesso di una giacca – muovendo le dita al fine di risponderle: anche Cecelia lo è di te.

Cecelia, nessuno dei due sapeva che sarebbe stata lei la seconda Mentore, in realtà, una volta saliti sul treno e aver incontrato la prepotente figura di Lloyd, ambo i fratelli non si erano preoccupati più di tanto di conoscere l’identità della loro seconda guida, anche se per un momento Lyosha si chiese chi tra Cecelia e Woof avrebbe affiancato Lloyd in quella “avventura” – non si sorprese di vedere la donna una volta entrati nel vagone dove erano andati a mangiare subito dopo le presentazioni: Woof era vecchio, e quella gli sembrava una motivazione abbastanza valida perché ci fossero le due donne con loro.

Assieme al pensiero delle due mentori, si fece spazio nella mente di Lyosha l’idea che forse, stavano procedendo davvero bene in quei Hunger Games. La maggior parte dei tributi del loro distretto morivano nel bagno di sangue o, se erano fortunati, il primo giorno dei Giochi. Loro invece erano ancora lì: vivi e conciati relativamente bene – senza contare che non era arrivato nessun contributo dagli sponsor e, considerando la loro storia (e quindi la pressione emotiva che i due fratelli esercitavano sui Capitolini), forse qualche abitante della Capitale aveva scommesso su di loro.

Chiuse gli occhi, sentendo le mani della sorella stringersi attorno alle sue, la bimba intonò little bird e Lyosha si addormentò con l’immagine di Ariel che si costruiva una ghirlanda di fiori con le margherite che trovava nel prato davanti alla scuola. Sopra le loro teste, venivano proiettati i visi dell’anonimo tributo femmina del nove e del giovane Lev.

 

Sean era preso da giravolte così intense da fargli perdere l’equilibrio e cadere a terra, oppure le vertigini lo scombussolavano così tanto e il tributo si trovava a mettere i piedi uno davanti all’altro, se non incrociarli a “x” e inciampare sugli scarponi.

Aveva fatto un errore a fuggire così velocemente dall’anaconda, ma l’adrenalina aveva preso il soppravvento esattamente come il terrore di gridare il nome di Lev per avvertirlo del pericolo che correva stando vicino a quel tronco. Ma non aveva più importanza, ormai.

Continuò ad avanzare, talvolta strisciando, alternando una corsa sconnessa allo zoppicare: non sentiva null’altro se non il dolore alle tempie e la cassa toracica sul punto di implodere. Si sentiva scoppiare dall’interno, le ossa frantumarsi esattamente come il collo di Lev.

Si appoggiò al tronco di un albero, abbandonando la testa in avanti – il collo incapace di sorreggere il peso del cranio. Contò fino a venti, rialzando poi lo sguardo, e quel che vide lo riempì di amara gioia: la Cornucopia.

Il corno si ergeva al centro della palude, cinquanta metri si ripeteva, forse anche meno. Avanzò zoppicante, cadendo più volte a carponi nell’acqua, stando attento a non ingerirla: sapeva che era avvelenata, lo aveva intuito tempo addietro, quando erano caduti dal ponte e furono trasportati nel fiume – lui e i due dell’otto, s’intende.

Attraversò le pedane, tutta l’arena circostante la Cornucopia e, una volta raggiunta, si accasciò su questa, abbandonandosi al sonno fino al giorno dopo.

Quando si svegliò, il tributo del tre fu contento di trovare una capsula che dondolava nell’acqua vicino a lui: Beetee e Wiress erano stati bravissimi come mentori, tanto da aver convinto gli sponsor ad aiutarlo – sapeva già cosa avrebbe trovato, e la sorpresa non deluse le sue aspettative.

In poco tempo, Sean si era già spalmato l’unguento sulla ferita, fasciata con la giacca che aveva preso da Lev, raccolto uno zaino dalla Cornucopia, armato e ripartito alla volta dei Giochi – verso mezzogiorno un altro colpo di cannone e il volo di uccelli immediatamente successivo, proveniente dalla parte opposta in cui si stava dirigendo lui, lo informò che era morto il tredicesimo tributo.

 

La terza giornata dei giochi fu per i due fratelli come una manna dal cielo: non avevano incontrato nessun tributo, e la cosa era stata molto apprezzata da entrambi – avevano lasciato il loro accampamento senza bruciare nulla: accendere un fuoco era la cosa peggiore da fare, in un’Arena. E camminato all’interno della foresta nebulosa, ma sempre seguendo la circonferenza delle cascate, assicurandosi di non avvicinarsi troppo ai confini dell’Arena. Avevano sentito nel corso della giornata l’ennesimo colpo di cannone, gli uccelli che si mostravano assieme a questi – evento ancora inspiegabile per entrambi – comparsero al “piano di sotto”, e in qualche modo Lyosha constatò che il tributo morto fosse deceduto per aver mangiato o bevuto qualcosa di velenoso. Meglio così, si disse, anche se non sapeva quali concorrenti avessero lasciato l’Arena con la morte dall’inizio dei Giochi, ovviamente escludendo quelli che lui stesso aveva ucciso, o visto morire.

La sera arrivò velocemente e, come il giorno precedente, i due fratelli si addormentarono vicino l’uno all’altro, cullati dal vento e dalla loro personale ninna-nanna. Inconsapevoli che, quello che la fortuna riservava a loro, era semplicemente il caos.

 

C’era parecchia frustrazione nel gruppo dei Favoriti, i quattro si aggiravano per l’Arena senza seguire nessuna pista in particolare, accendendo fuochi per rivelare la loro postazione in modo che qualche sconsiderato pensasse che fosse un qualche tributo stupido. Una strategia priva di spessore intellettuale – la definì Liv, ma decise di non commentarla e osservare Fraser raccogliere i rami che riteneva “secchi” con Lexi che lo aiutava più per passare il tempo che altro.

Non era uno spettacolo molto gradevole.

«Vado a fare un giro» commentò poi quella del due, raccogliendosi l’arco dalle ginocchia per infilarselo a tracolla, con sua grande sorpresa, Ines la seguì.

Il silenzio tra le due era pesante, ma non fuori luogo: cercavano di studiarsi a vicenda, a capire chi delle due avrebbe fatto la prima mossa. Ormai gli Hunger Games erano arrivati a metà percorso, cercare di fare una qualche alleanza secondaria rientrava negli interessi di entrambe. Si trattava solo di stare ancora assieme dopo che il gruppo di Favoriti si fosse smembrato fino ad un certo periodo di tempo, ed infine separarsi anche loro due.

Fu Liv a prendere parola, fermandosi di colpo, «sai cosa voglio proporti» disse senza tanti giri di parole, una qualità che aveva acquisito nel tempo con Roel.

Ines si fermò a sua volta, piantando il tridente a terra e alzando le spalle, «un’alleanza fa sempre piacere Liv, soprattutto se la persona con cui la fai è seria. Tu sei sicura di essere una di queste?» faceva ovviamente riferimento al suo civettare del primo giorno.

Quella del due sorrise, «ho lasciato casa a diciassette anni per offrirmi volontaria agli Hunger Games, un fidanzato che mi amava più di ogni altra cosa per dimostrare quanto valessi, una famiglia che mi sottovalutava. Sono molto più seria di quello che possa sembrare» sapeva di star facendo del male ai suoi genitori, con quelle parole, e soprattutto a Roel. Ma qualcosa in lei gridava che era la cosa giusta da fare, che chi l’aspettava, a casa, avrebbe capito tutto – Enobaria le aveva detto che doveva essere disposta a tutto per tornare, “anche a strappare la gola di un avversario a morsi”.

Si strinsero reciprocamente la mano, senza eccedere in forza. E ritornarono assieme all’accampamento, trovandosi un Fraser sorridente mentre indicava con fierezza il fuoco che era riuscito ad accendere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






«― Che sarebbe disposto a fare ognuno di voi, mh? Fareste vela ai confini del mondo

e ben oltre, pur di riavere il brillante Jack, e la sua preziosa Perla? ―

― Sì. ―»      

[CALIPSO & GIBBS; tratto da “Pirati dei Caraibi: la Maledizione del forziere fantasma”]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Buongiorno miei cavalieri!

Ebbene eccomi qui, ho un po’ di cose da dirvi ma, avendo frettissima, cercherò di donarvi queste informazioni nel modo più diretto e schematico possibile.

- l’edizione è stata nuovamente spostata, perché mai? Perché ho scoperto che i 63esimi giochi sono stati vinti da Gloss, così ho deciso di mettere giù tutti i vincitori delle 75 edizioni dei Giochi in una bellissima immagine che vi linko qui, in grassetto sono i mentori del distretto 8, le edizioni vuote con i puntini sono invece quelle che riguardo le fan fiction che, in un modo o nell’altro, sono intrecciate tra loro (69th HG73th HG; quella con due puntini sono questi che leggete). E’ la versione definitiva, o quantomeno lo spero vivamente. I Vincitori sono stati posizionati sulla base della pagina di Hunger GamesWiki – quindi abbastanza fedele (spero), con solo l’aggiunta di Lloyd, giustamente.

Sulla base di questo, devo modificare leggermente il testo del capitolo 07 riguardo ad un pensiero fatto su Enobaria che aveva vinto “l’anno precedente”, quando in realtà sono nove anni prima. Lo farò al più presto ;)

- ho aggiunto un altro mentore, avendo conferma che sono effettivamente due mentori per distretto, Haymitch confonde! Quindi eccovi Lloyd (non potevo eliminarla, ahahaha) e Cecelia, reale vincitrice che muore nei 75esimi.

- ho fatto il conto di quanto manca alla fine di questi Hunger Games, e a quanto pare la fan fiction non raggiungerà nemmeno i 20 capitoli – se qualcuno sperava durassero di più, mi dispiace! :c In tutti i casi è sicuro al 90% che ci sarà un sequel con il vincitore, il Tour della Vittoria e anche il suo vissuto della rivolta, ovviamente sempre che a qualcuno interessi!

- non vi ho dato la faccia di Lev, anche se non è una cosa che amo fare (spacciare i volti, intendo), in tutti i casi è questo.

- vi linko un piccolo SPIN-OFF su child!Liv e su questo fantomatico Roel, che però contiene un piccolo spoiler su questa fan fiction c: spero mi perdonerete! This.

- in ultimo, so benissimo che la fan fiction sta comprendendo molti più punti di vista e meno incentrato su Lyosha ed Ariel, ma è finalizzato alla buona riuscita della fan fiction.

 

Detto questo, spero di non aver dimenticato nulla, come al solito ringrazio chi segue/commenta/si palesa in generale e spero che l’HTML questa volta funzioni bene.

radioactive,

 

e tanto amore per la citazione finale, oh sì

 

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Capitolo 10
*** ▪ well, these days i’m fine – no, these days i tend to lie. ***









CAPITOLO 10

                 well, these days i’m fine – no, these days i tend to lie.

 

 

 

Lo studio delle interviste brillava sotto la luce di mille riflettori di ultima generazione, roba che non aveva niente a che vedere con le candele di Lyosha o la lampadina penzolante al centro della cucina. Rimaneva appoggiato sul muro in attesa che arrivasse il suo turno, che sarebbe arrivato tra molto, a dirla tutta: Caesar Flickerman nel suo completo fucsia, con capelli e scarpe di un rosa maialino scandaloso aveva appena salutato gli spettatori che lo seguivano da casa e raccontava qualche barzelletta come faceva ogni anno, seguito dalle risate quasi registrate del carnevalesco pubblico di Capitol City.

Chiamò la prima intervistata: Lexi era vestita con un lungo abito color madreperla, teneva lo strascico con una mano in modo elegante, come se non avesse mai fatto altro. Si mise dritto con un colpo di reni mentre la fissava sedersi sulla poltrona accanto al Capitolino, stava accavallando una gamba – il vestito aveva uno spacco che scopriva molta più pelle di quanta Lyosha ne avesse vista in un corpo che non fosse il suo.

Deglutì arrossendo, abbassando lo sguardo verso i propri piedi: concentrati si diceva, ripetendosi che erano gli Hunger Games, non una vacanza di piacere. Non poteva perdere la testa per qualcuno.

Un fischio prolungato si fece spazio tra i suoi pensieri confusi e la voce della sua mentore lo riportò alla realtà, costringendo il neotributo ad alzare lo sguardo, «Mi ascolti, Isaacs?» domandò Lloyd, indossava una gonna a tubino lunga a metà polpaccio, una camicetta nera a mezze maniche di qualcosa che gli sembrava seta e dei lunghi guanti che le coprivano interamente le braccia. I capelli erano raccolti in una magnifica acconciatura contornata qua e là di brillanti e sull’anulare destro portava un anello delle medesime pietre. Gli occhi nocciola sembravano profondi nel trucco scuro e lo fissavano come se volessero fulminarlo.

Perché diavolo era conciata così bene? Avrebbe voluto chiederglielo, ma Ariel non era con lui e non poteva scrivere con nulla. Lloyd – solitamente in vesti più comode e semplici – spostava il peso da un piede all’altro, incrociando le braccia al petto come se aspettasse un consenso che non poteva arrivare a parole. Lyosha, ricordandosi improvvisamente della domanda fattagli dalla mentore annuì, accantonando per un momento quei pensieri ambigui che avevano occupato il posto di quelli su Lexi. Troppe donne, qui.

«Bene, sono qui solo per dirti che ho parlato con Caesar, e la tua intervista puoi tranquillamente farla con Ariel, ma non interverrà – farà solo da… traduttrice, o qualcosa del genere. Ok?» si era chinata leggermente sul ragazzo che, reazione involontaria, aveva gonfiato un po’ il petto e trattenuto il respiro, spalancando gli occhi per guardarla qualche momento nelle pupille ed infine puntarli sulle scarpe. «Le tragedie sono molto amate, vedi di usarla bene, la tua condizione» sospirò, slacciando le braccia e ritornando dritta, «non puoi far sopravvivere Ariel, beh, notizia dell’ultimo momento: non puoi fare un bel nulla, ma gli sponsor sì. E considerando i voti pietosi che avete preso, questa è la tua occasione» e se n’era andata senza aspettare risposta.

Lyosha si riappoggiò al muro, passandosi le mani sulla nuca: gli avevano tagliato i capelli molto più corti di quanto era solito tenerli, e gli dava un fastidio tremendo. Si rese conto, alla fine dell’intervista della femmina del due – che aveva fatto una qualche allusione ad un certo Roel – che la cosa che lo aveva scosso nel discorso della mentore non era tanto il doversi mettere in gioco, ma il fatto che Lloyd lo considerasse già morto.

Perché si sorprendeva così tanto? Alla fine, era la prima cosa che aveva deciso una che il suo nome era stato estratto – e in un certo senso si chiedeva se avrebbe mai portato a termine quella missione.

Prima che potesse dare una risposta, l’intervista di Ariel si era conclusa e Caesar Flickerman chiamava a gran voce Lyosha.

 

Lo studio di un brillante Caesar lo avvolgeva come una calda coperta, esattamente come quell’abito color perla dai riflessi argento disegnato da Vilette.

Si sentiva stordito, come se avesse ricevuto una pallonata in testa. La poltrona bianca era comodissima, ma niente in confronto al letto che la Capitale gli aveva riservato al Centro di Addestramento per quelle due settimane e poco più. Le sue settimane da stella, insomma.

Si era accorto poco dopo che sua sorella era accanto a lui: improvvisamente gli venne in mente il discorso di Lloyd: non interverrà – farà solo da… traduttrice.

«Ehy, Lyosha Isaacs!» esordì Flickerman, chinandosi verso il ragazzo, voltandosi poi verso il pubblico in attesa, «non trovate che abbia un nome particolarmente melodioso?» concluse, ritornando a guardare Lyosha.

In risposta il tributo ridacchiò, seguito a ruota dal pubblico – mosse le mani e a seguire la sorella diede voce ai segni fatti dall’altro, «anche a me piace il tuo nome, Caesar».

Il presentatore raddrizzò le spalle, incrociando le caviglie con il suo solito sorriso sul volto, «cosa sentono le mie orecchie!» iniziò, come se avesse appena notato la figura di Ariel, muovendosi sulla poltrona come per guardare le quinte oltre le spalle dei due fratelli, «regia, la piccola Ariel è ancora qui! Portatela via prima che decida di tenerla come cucciolo da compagnia!».

La leggera risata dei Capitolini si diffuse debolmente, Caesar continuò, «per chi non lo sapesse, Lyosha non può parlare a causa di una malformazione. La sorella è l’unica a capire il suo strano linguaggio dei segni. Non è estremamente dolce?».

Gli spettatori si palesarono con un’ondata di “aah!” e “oow!” e altri strani versi che Lyosha non riuscì a identificare, ma prima che potesse formulare un qualsiasi pensiero, Flickerman era già passato all’attacco, «allora Lyosha. Il tuo voto dopo le sessioni di addestramento non era particolarmente alto… ce ne vuoi parlare?» aveva un tono dolce, quasi compassionevole. In realtà era solo il suo lavoro, sporco lavoro.

«Non sono bravo a fare niente, solo a cucire» aveva risposto Ariel dopo aver osservato le dita di dell’altro.

«E che facevi al distretto? Ariel mi ha già raccontato che vostro padre è morto…» proseguì con cautela.

La bimba teneva gli occhi puntati sulle mani di Lyosha, il quale aveva abbassato a sua volta lo sguardo nel sentir parlare del padre: non era mai stato una figura genitoriale molto presente, nella vita del ragazzo, ma in qualche modo il tributo sentiva la sua mancanza – così, dopo qualche secondo che fece intenerire il pubblico, rispose, e a parlare fu chiaramente Ariel. «Cucivo i ricami sui fazzoletti, mi piaceva molto, anche se il lavoro era un sacco e a volte lo portavo a casa. Ariel mi faceva compagnia canticchiando – vorrei tornare a rifarlo, ma temo non sarà possibile», la voce della piccola tremava un po’ verso la fine della frase.

Le labbra di Caesar si incurvarono leggermente verso il basso, «e perché mai dici così?» – sapeva benissimo la risposta.

Vilette era seduta in una delle prime file, di fianco a lei Lloyd con il suo sguardo serio e impenetrabile, anche Cecelia era presente così come la stilista di Ariel, troppe donne. Ma non gli importava, ora come ora era interessato solo a fare colpo sul pubblico di Capitol City, sempre secondo gli insegnamenti della mentore. Mosse piano le mani, cercando di far assorbire il colpo anche alla sorella che sembrava voler sprofondare sottoterra, infine la piccola parlò: «perché sono disposto a portare Ariel in finale, e ovviamente farla uscire dall’Arena viva. Così ritornerà a cantare, per la mamma, per esempio».

Ancora nel pubblico si levarono altri versi simili ai precedenti.

«Vuoi dire qualcosa a tua madre?»

Ancora, Lyosha mosse le mani dopo qualche secondo di meditazione: «sto bene» parlò Ariel. Lyosha mentiva.

L’intervista prese una piega più divertente, sotto certi aspetti, e quel velo di malinconia e tristezza era stato abilmente messo da parte dalle capacità oratorie del presentatore. Quando il segnale acustico forzò il Capitolino a mandare via i due fratelli, lo sguardo contornato da eyeliner rosa metallico erano fissi sul maggiore dei fratelli che si era alzato e aveva preso per mano Ariel. Caesar Flickerman trattava tutti i tributi come validi concorrenti, Lyosha invece, agli occhi del presentatore, era già morto.

 

Quel ricordo l’aveva colpito come un treno, facendogli distogliere l’attenzione dal sentiero che avevano deciso di intraprendere – era diventato pericoloso girare in tondo -, una liana attraversava la via e Lyosha inciampò su questa, cadendo in avanti e sporcandosi di terra ed erba. La sorella si chinò su di lui e gli afferrò un braccio per aiutarlo ad alzarsi, mentre con la mano dell’arto libero il maschio di puliva come poteva i pantaloni, ma non c’era nulla da fare: ormai era sporco e sporco sarebbe rimasto fino alla fine.

«Che ti è preso?» gli domandò con cautela la sorella, raccogliendo da terra la lancia dell’altro per ridargliela.

In risposta l’altro scosse la testa, alzando poi le spalle. Non gli andava di parlare; le prese la mano e ritornò a camminare mentre il sole iniziava ad abbassarsi dietro gli alberi e la luce si imbruniva leggermente, colorando la nebbia di riflessi arancioni.

Il sentiero finì e i due scalarono un piccolo pendio afferrando le radici per non scivolare verso il basso, ma si fermarono quasi alla fine nel sentire grugniti e suoni di rami che si scontravano, corpi che cadevano a terra e si rialzavano affannosamente. Lyosha schiacciò la mole della sorella contro la terra premendole una mano sulla schiena, il volto di Lyosha era impallidito nel vedere cosa succedeva davanti ai loro occhi: due tributi – il sedicenne del nove e il diciottenne del sei – combattevano a perdifiato con dei grossi rami con cui si erano armati nell’incontrarsi: entrambi non avevano niente con sé ed entrambi erano disperati, vedevano rosso dalla rabbia e dalla voglia di vivere da non accorgersi dei due corpi per terra seminascosti da una grossa radice.

Il più grande dei due avversari colpì con la clava la tempia dell’altro, facendolo scivolare a terra e urlare dal dolore, lasciando cadere dalla presa la sua arma, il ragazzo del sei si sedette sopra l’altro iniziando a dare forti colpi alla testa del più piccolo che tentava di proteggersi con un braccio, schizzi di sangue volavano in tutte le direzioni e un altro urlo fece comprendere ai due dell’otto che probabilmente il braccio del nove aveva subito qualche grave danno, tanto da spostarlo e lasciare così la fronte totalmente scoperta. Un altro colpo violento colpì quello del nove sulla testa e un altro urlo si levò dalle sue labbra, un altro ancora e la macchia scarlatta sul ramo dell’avversario si allargò.

Quello del sei si fermò un attimo per riprendere fiato, ma ecco che il più piccolo infilò la mano del braccio relativamente intatto ed estrasse da questo un piccolo bastoncino appuntito, con un ultimo urlo per darsi la carica, infilzò la gola dell’altro e una fontana di sangue si alzò in cielo per poi bagnare i due tributi. Il sedicenne cadde sfinito all’indietro e il cadavere del sei sopra di lui, mentre una pozza di entrambi i sangui formava un letto rosso attorno ai corpi. Qualche secondo dopo, due colpi di cannoni sovrastarono l’urlo di Ariel e uno stormo di uccelli si levarono in cielo, comparendo dagli alberi attorno a loro.

 

Lyosha si girò di scatto e tenendo la mano ad Ariel scivolò verso il sentiero che avevano abbandonato, correndo poi verso il lato opposto che li aveva condotti alle tribune di quell’orrenda battaglia per la sopravvivenza dei due tributi, la nebbia diventava più fitta e la vegetazione meno folta, ma Lyosha non vedeva nulla di tutto questo: voleva scappare da quella visione di morte, dagli uccelli di cui aveva finalmente capito il significato e dalla loro postazione, dove Ariel aveva gridato, avrebbero potuto sentirli e raggiungere, perciò era suo preciso dovere allontanarla il prima possibile da quel luogo.

Diventò paonazzo per lo sforzo della corsa che mantenne per qualche minuto, si fermò piantando i talloni sulla terra e quasi andò a sbattere contro un grosso tronco che non aveva visto proprio a causa della foschia.

«Ly…Lyo» ma la voce di Ariel non finì il suo nome che la mano della sorella sfuggì alla debole presa dell’altro, Lyosha si girò di scatto alla ricerca della sorella che sembrava sparita nel nulla.

Sentiva il panico impossessarsi dei suoi muscoli, l’ansia trasformarsi in urla che non sarebbe mai riuscito a dire.

Sentiva… sentiva… poi qualcosa lo colpì dietro il collo e il suo corpo si sciolse a terra, ma non la raggiunse mai perché due lunghe braccia ossute lo afferrò per le spalle. L’ultima cosa che avvertì fu un coro di voci che dicevano parole sconosciute e lo zaino scivolargli dalle spalle, la lancia cadde a terra e a terra rimase.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






«I’m sorry, mother… I’m sorry, I let you down.

Well, these days I’m fine – No, these days I tend to lie.»     

[IMAGINE DRAGONS; “Amsterdam”]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Inizio con uno sfogo: mancano nove tributi! Ebbene sì miei cari, mancano nove tributi e di questi nove solo uno sarà il vincitore. E mano a mano che mi avvicino alla fine sento di non potercela fare, e un angolino del mio cervello vuole cambiare la fine di questi Giochi ma è una cosa che non si può fare, davvero.

Allora, mi rendo conto che questo capitolo è stato più flashback che altro ma è arrivato il momento di fare full-immersion nei fratelli Isaacs, probabilmente tra il capitolo 11 e il 12 ci saranno dei focus sui favoriti, ma alla fine si riunirà tutto in un unico grande pov. Per poi concludere il tutto con forse un paio di capitoli di epilogo (o forse solo uno, dipende dalla lunghezza del tutto).

Sì insomma, ci avviamo verso la fine.

Intanto, i tributi ancora vivi sono: M-1; F-1; F-2; M-3; F-4; M-7; M-8; F-8; F-10. Insomma, voglio sentire il tifo!(?) anche se mi sembra abbastanza ovvio chi vincerà, o al massimo la scelta può ricadere su due tributi… ma lascio a voi il beneficio del dubbio (:

Ho voluto inserire Caesar come presentatore per il semplice fatto che questi sono i 72esimi Hunger Games, e Katniss dice che già nei 73esimi era lui a condurre le interviste, quindi ben venga. E’ un personaggio molto apprezzabile e ho adorato la sua comparsa in questa fan fiction, il colore del suo outfit è stato scelto da yingsu, quindi prendetevela con lei!

Lo so, lo so che probabilmente il far rimanere Ariel durante le interviste di Lyosha è un po’… come dire, contorto? Ma in tutti i casi il ragazzo aveva bisogno di una voce e Ariel è l’unica a capirlo. Inoltre Lloyd (che donna, eh! 8D) lo spiega chiaramente: è per gli sponsor. E a proposito di questo, ci tengo a dirvi che Lyosha ha preso 5 negli addestramenti, mentre Ariel 6. Come ha detto la mentore, voti davvero pietosi, ma che ci volete fare? Non sono tutti dei Katniss Everdeen, Lyosha sa solo cucire e agli addestramenti ha fatto più corsi di sopravvivenza – per Ariel, appunto – che altro, lei invece è un po’ a stampo Rue: sa uccidere piccole prede, arrampicarsi e correre, ed è una bimba ;;

Ultima cosa *pare* è appunto la citazione finale. Questa è tratta da Amsterdam, la canzone degli Imagine Dragons (*A*) che mi ha ispirato maledettamente per l’intervista. Insomma, è stata anche ripresa nel testo del capitolo perché davvero adoro quella canzone, ecco.

 

Alla prossima!

radioactive,

 

 

 

a n g o l o s p a m

            Sono stato fatto per amarti { Hunger Games – ONESHOT – pre!Die on the front page, just like the stars – Liv (D2) • radioactive }

         I’m frozen to the bones { Hunger Games – LONG – 73esima EdizioneRoel (D2) • yingsu }

         Cadenti come le stelle { Hunger Games – LONG – 69esima Edizione – Lesath (D8) • iysse }

         Blur { Hunger Games – LONG – Klaus & London (D6) • ivola }

         Quella volta Jem sarebbe morto davvero { Shadowhunters: TID – ONESHOT – Will + Jem • radioactive }

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Capitolo 11
*** ▪ dovevano stare zitti, se stavano zitti sarebbe andato tutto bene. ***









CAPITOLO 11

                 dovevano stare zitti, se stavano zitti sarebbe andato tutto bene.

 

 

 

Aveva sentito il calore del fuoco vicino alla pelle scoperta del collo e delle braccia, il respiro che gli pareva tanto debole aumentare improvvisamente, come se l’aria avesse ripreso a riaffluire nei suoi polmoni. Aprì piano gli occhi scoprendo la vista annebbiata da un sottile strato di liquido, sbatté più volte le palpebre e due lacrime gli rigarono le guance facendosi strada tra lo sporco e la terra – una scena alquanto pietosa, pensava, ma almeno ora ci vedeva.

Si accorse subito di essere legato al tronco di un albero, le liane lo avvolgevano dalle spalle ad appena sopra i polsi, i piedi erano liberi. Non era un modo molto brillante  per tenere prigioniere delle persone, se era un qualche piano degli Strateghi, era finalizzato a dar la possibilità ai tributi di scappare. Vicino a lui, legata allo stesso albero, c’era Ariel con il capo chino sulla propria spalla, ancora svenuta; aveva un graffio sulla guancia e dalla tempia scivolavano due stille  di sangue che si era già seccato alla base della ferita, macchiando ed incollando al viso ciuffi biondi sfuggiti all’acconciatura.

A Lyosha venne un colpo: aveva dato per scontato che fosse ancora addormentata, ma per quel che ne sapeva poteva essere anche morta. La prima idea che gli venne in mente fu quella di chiamarla, passò in rassegna anche l’opzione di fischiare per cercare di svegliarla, ma probabilmente avrebbe fatto davvero troppo rumore. Se qualcuno li aveva legati, doveva essere ancora da quelle parti.

Optò per cercare di attirare l’attenzione della piccola con la mano che riusciva relativamente a muovere, strattonandole la manica della giubba che riusciva a raggiungere, seppur sfregando il polso contro la liana con varie smorfie di dolore. Prese la manica con indice, medio e pollice tirandola più volte – e intanto la sua mente vagava su vari pensieri a cui avrebbe dovuto dare una risposta, tra le tante cose ponderava su come liberarsi, ricordandosi poi di avere un coltello nei pantaloni.

Il focolare davanti a loro scoppiettò rumorosamente e le spalle di Ariel sobbalzarono, la testa si tirò su e gli occhietti si aprirono all’istante. Lyosha sorrise sollevato e ritrasse la mano dolente, sospirando poi di sollievo per i graffi sul polso che finalmente non sfregavano più contro la corda.

Assieme al risveglio di Ariel Lyosha si accorse che, nell’albero accanto al loro, qualcuno soffriva la stessa condizione: un ragazzo – gli pareva – tentava di liberarsi dalle liane già allentate, socchiuse gli occhi per mettere a fuoco la sua figura e scorse sulla giacca il numero sette. Il tributo del sette. Vicino a lui, una ragazzina dell’età di Ariel era ancora svenuta, sulla giacca portava il numero dieci.

Borbottava qualcosa, l’Isaacs fece un ultimo sforzo e cercò di prendere la mano di Ariel che, ancora un po’ stordita lo guardava senza capire, con il mento il maschio le indicò il terzo tributo e, pochi secondi dopo, la sorellina capì le intenzioni di Lyosha.

«Ehi… ehi! Ragazzo del sette!» disse, alzando di poco la voce con una sottile venatura di disperazione, questo alzò i suoi occhi scuri verso i due fratelli, era spaventato ma almeno aveva dato loro la sua attenzione, «che succede qui?» domandò poi l’altra.

Il tributo del sette ansimava, le spalle si alzavano ed abbassavano in contemporanea con il petto, sollevò le mani sporche di sangue con le unghie rotte passandosele tra i capelli in un gesto di disperazione, «non lo so… qualcosa mi ha preso e poi mi sono ritrovato… qui»  e riprese a cercare di disfarsi delle liane.  Ariel avrebbe volentieri chiesto se il  ragazzo poteva liberarli, ma non lo avrebbe fatto per ottime ragioni: erano agli Hunger Games, e aveva paura.

Anche il tributo del dieci si svegliò, cercando di mettere in moto il cervello il prima possibile, «cosa…?» si bloccò, avvertendo la presenza del ragazzo del sette, «ehi! Che stai facendo? Perché sono legata?».

Prima che potesse rispondere, un motivetto tribale giunse alle orecchie dei quattro per poi cessare, un momento di silenzio riempì le orecchie dei tributi e poi il rumore di foglie spostate, versi in una lingua sconosciuta e ancora quel tamburo.

Il ragazzo del sette sbiancò, i suoi movimenti per liberarsi dalle liane divennero più frenetici. Ariel allungò la mano a prendere quella del fratello, spaventata.

Fecero capolino da dietro un arbusto cinque ominidi dalla pelle scura e un gonnellino di foglie, gli occhi scintillavano alla penombra del fuoco di un verde radioattivo, in testa dei copricapi di una cultura che nessuno dei tre conosceva, i fori nelle orecchie dilatate, ringhiavano mostrando le zanne tipiche degli animali ed erano armati di lance – uno di loro possedeva un tamburo con cui sembrava scandire il tempo. Tum tum tum.

Qualcosa scattò in Lyosha: lasciò la mano della sorella e, ignorando il dolore ormai lancinante al polso cercò di estrarre il coltello dai pantaloni, graffiandosi la gamba per i movimenti poco curati, quasi violenti. Gli ominidi si avvicinavano, puntando loro le lance come se fossero animali.

«Thahn…» pigolò piano Ariel, mentre i cinque individui si avvicinano, al collo avevano appesi… occhi e dita. Ariel sbiancò: occhi e dita…. Erano ibridi? Ibridi di forma umana? Trattenne un urlo di terrore e disgusto, ora che nella mente aveva stampato questo pensiero, si concentrò su dei bulbi oculari le quali iridi portavano il colore degli occhi di Yara – con cui aveva scambiato qualche chiacchiera durante gli addestramenti – e le mani le cui unghie erano martoriate: tutte rotte e tagliate cortissime, esattamente come le aveva lei. «Sono ibridi» disse, confermando le sue teorie e informando Lyosha della situazione, «hanno liberato gli ibridi, Ly…».

Due ibridi si avvicinarono al ragazzo del sette, ormai quasi libero mentre esultava a voce alta, seguito da altri due dei suoi simili, con un affondo colpirono la spalla del tributo che lanciò un urlo, facendo rabbrividire i fratelli e gonfiare gli occhi di lacrime di Ariel, «muoviti, ti prego…» supplicò al fratello che provava a tagliare le liane, ottenendo qualche risultato.

Ma il piagnisteo attirò l’attenzione degli altri due ibridi mentre l’ultimo del gruppo del cinque continuava a suonare lo strumento, stavolta con più foga, si girarono verso di loro, avvicinandosi lentamente con le lance puntate. Guardavano Ariel che singhiozzava ma stringeva le labbra per non lasciarsi scappare nessun verso, dondolando a destra e a sinistra con le ginocchia flesse. Anche il ragazzo del sette piangeva e si lamentava del dolore mentre la ragazza del dieci, in silenzio, era quasi riuscita a disfare il nodo che la teneva bloccata.

Lyosha si fermò un attimo, analizzando la situazione: la ragazza del dieci era come scomparsa per gli ibridi, e lo stesso valeva per lui che sembrava non fosse stato avvistato, il tributo del sette piangeva e gli ominidi lo fissavano come aspettando il momento migliore per attaccare e Ariel, chiusa nelle sue spalle, veniva considerata solo ogni tanto – quando dalle sue labbra uscivano quei versi tipici di qualcuno che prova a non far rumore mentre piange.

Non era difficile da comprendere, in realtà – per una persona che non faceva mai rumore, poi… Dovevano stare zitti, se stavano zitti sarebbe andato tutto bene.

Alla terza liana sciolta, Lyosha cambiò mano in modo da riuscire a tagliare le corde più facilmente, dalle sue labbra uscì un flebile «shh» per calmare la sorella.

Il ragazzo del sette svenne, probabilmente, perché non sentirono più singhiozzi e nessun cannone aveva sparato l’annuncio di morte.

Presto le liane furono spezzate e adagiate lentamente a terra, come il ragazzo aveva supposto, gli umanoidi non vedevano realmente – erano come macchine attirate dalle grida di gioia o disperazione che fossero  il quale compito era quello di procurare ancora più disperazione.

Al segnale di Lyosha, i due fratelli sarebbero corsi via.

 

Dietro di loro i passi degli ibridi si facevano sempre più lontani, eppure non scomparivano come i due avrebbero dovuto.

Il suono del respiro che veniva a mancare sempre più invadeva le loro orecchie e le mani strette trasmettevano una forza che né Ariel né Lyosha avrebbero avuto singolarmente. Il maschio non vide una radice sbucare da terra e ci inciampò sopra iniziando poi a capitombolare giù per un pendio che non avevano viso per colpa della nebbia, Lyosha si portò inevitabilmente dietro il corpo di Ariel curandosi di proteggerlo stringendolo a sé, con il viso premuto sul suo petto.

Quando finalmente la discesa finì e loro si rotolarono per qualche metro lungo il piano, sentirono con sollievo che il tamburo non li seguiva più. Erano salvi.

Ariel si scostò dal fratello, strappandogli un verso muto di dolore, facendolo girare a pancia in su e inarcando appena la schiena – lo stomaco gli faceva malissimo e la fitta gli dilaniava il fianco destro, provò a poggiarsi una mano sopra ma la pelle sembrò prendergli fuoco. La sorella si guardava le mani graffiate, sfregandole poi sui pantaloni come a volersele pulire, si girò in un secondo momento il maggiore, nel vederlo con quella smorfia di dolore sul viso, impallidì e gli si avvicinò.

«Che ti senti?» gli chiese, percorrendo con occhi attenti ma ansiosi l’esile corpo di Lyosha, quasi paralizzato dal dolore ma che dondolava lievemente a destra e a sinistra come un cane bastonato – le indicò il fianco e l’altra si ritrovò ad alzargli piano la maglia, scoprendo un livido di considerevoli dimensioni. Ariel si tappò la bocca per non lasciarsi scappare neanche una parole o un verso che fosse.

Lentamente, Lyosha riuscì ad alzarsi e con l’aiuto di un ramo per terra e di Ariel, di quella specie di magia che la sorella gli donava, era riuscito a trascinarsi dietro ad un arbusto particolarmente grande,  gettandosi poi a terra alla ricerca di conforto nel sonno.

Chiuse gli occhi, scoprendo di avere ancora il pugnale – probabilmente lo aveva messo nei pantaloni durante la corsa, senza badarci troppo – lo afferrò e se lo tenne ben stretto, dormendo di lato, steso sul fianco buono. Prima di abbandonarsi ai sogni, sentì una fastidiosa puntura al mignolo sinistro, che si ripeté nell’anulare della stessa mano – scosse l’arto scacciando via quel fastidiosissimo insetto che non lo disturbò oltre e volò via.

 

La mattina furono svegliati dal suono di un cannone, dalla loro posizione non era stato possibile vedere da che luogo gli uccelli si fossero levati in volo.

Ariel si tirò a sedere, sbadigliando e sfregandosi gli occhi, il suo stomaco brontolò e con dispiacere entrambi notarono di non essere più in possesso dello zaino. Lyosha fece un calcolo di quanti tributi erano rimasti.

«Otto» proferì Ariel, come se avesse pensato in sincronia all’altro alla stessa domanda, «siamo rimasti in otto…» ripeté con voce più bassa, raccogliendo poi le ginocchia al petto e nascondendo il viso in queste. Il fratello si tirò a sedere, lamentandosi ancora del fianco dolente e con la mano accarezzò le spalle alla sorella in un gesto di conforto: andrà bene.

La sua preoccupazione era comprensibile: a otto tributi dalla fine, Capitol City andava a martoriare le famiglie dei superstiti a casa, e chissà cosa avrebbero chiesto alla loro madre, genitrice di entrambi i tributi dell’otto – che un figlio l’avrebbe perso né più né meno, forse. Forse sarebbero morti entrambi.

A Lyosha si fermò un groppo in gola, la bile gli salì lungo la trachea e avrebbe volentieri vomitato se non avesse avuto un attimo di buon senso.

Con due pacche sulla spalla alla sorella, tentò di rialzarsi con l’aiuto del bastone improvvisato, offrendole poi la mano per accoglierla in un caldo abbraccio. Nello stringerla, lo sguardo gli ricadde sulle proprie mani che premevano la schiena di Ariel contro sé stessa.

Che strano, pensò – scosso da un improvviso moto di terrore, a cui non avrebbe badato più di tanto: la prima falange dell’anulare e del mignolo avevano assunto un vago colorito violaceo, sulle punte sembravano quasi nere.

Tremò appena, dando la colpa al freddo, chiuse il palmo e prese Ariel per mano – con quella buona – uscendo dalla radura alla ricerca di un torrente in cui potevano abbeverarsi.

 

Successe tutto senza particolari cerimonie: Fraser, Lexi e Liv si svegliarono mentre Ines era rimasta di guardia come deciso, si armarono e prepararono le proprie cose al suono del cannone che annunciava il sedicesimo tributo morto. Erano a meno otto – e come d’accordo era arrivato il momento di separarci.

Fraser aveva fatto una qualche battuta che suonava come «ci vediamo presto, miei cari» ed era stato il primo ad andarsene, Lexi si era diretta nella direzione opposta. Liv e Ines si guardarono, sorridendo lievemente l’una all’altra, per poi prendere una terza direzione.

Poco tempo dopo, le due avevano notato una figura aggirarsi tra gli alberi, in mano teneva un pugnale e camminava a passo abbastanza veloce. Senza aspettare il consenso dell’alleata, Liv scoccò una freccia, attraversando la schiena del tributo.

Quando cadde a terra, le Favorite si avvicinarono sentendo i mugolii di dolore della loro preda, con decisione, Ines affondò il tridente nella schiena del ragazzo ai loro piedi – poco dopo il cannone suonò e attorno a loro gli uccelli si levarono in volo.

Ripresero a camminare, Liv memorizzava il ragazzo che avevano appena ucciso, sulla sua giacca, c’era stampato il numero “3”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






 

«Don’t you worry –  don’t you worry child, see heaven’s got a plan for you   

[SWEDISH HOUSE MAFIA; “Don’t you worry child”]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Ehilà :D~

Allora, sarò breve perché non ho davvero niente da dire – fosse per me riempirei questo spazio di insulti verso me stessa considerando il capitolo che no, non mi è piaciuto per niente. E yingsu – che stavolta mi ha anche betato il capitolo e solo questo vi fa capire quando mi faccia ribrezzo questo 11 - sa quante volte mi sono lamentata, anyway.

Ho ucciso Sirius Black Sean! Io non so voi, ma non vedevo l’ora di togliermelo dai piedi – davvero, l’ho odiato come poche cose in questo capitolo. Insomma, mi dispiace di aver deluso – probabilmente – qualcuno per la sua morte così… fredda, insignificante? c:

No, seriamente, sono convinta di aver deluso qualcuno con questo capitolo – per la storia degli ibridi-bulabula e in generale tutto, ovviamente temo anche che in generale, la conclusione di tutto, non vi piaccia come spero e continuerò a sperare. Non fate caso agli errori di coniugazione verbale in questa frase ahhahaha, non ho assolutamente voglia di rileggerla XD

A titolo informativo, dato che sarà impossibile mostrarlo nella fanfic, sappiate che l’intervista alla madre sarà una cosa straziante – ma che in un futuro vicino (capitolo dopo!) aiuterà i nostri protagonisti.

Anyway, siamo arrivati a meno sette tributi – e i due fratelli sono ancora insieme, eheh uvu

Mi scuso anche per tutte le recensioni a cui non ho risposto XD ma la pigrizia si è impossessata del mio corpo e davvero, non ce la faccio. Ma sappiate che amo i vostri commenti e mi fanno davvero davvero felice çuç vorrei fosse così sempre(?).

E, per rispondere a Ivola, i banner sono stati fatti da me, ovviamente non mi soddisfano ma non importa uvu così come tutta la grafica è curata dalla sottoscritta :D che si può sfruttare quando volete – yingsu lo fa perennemente, esatto – basta chiedere e avere pazienza(?). Ok.

Inoltre, per chi volesse essere aggiornato sul countdown della conclusione di Die on the front page, just like the stars – può amorevolmente cliccare qui [pagine rubate sono gli snippet post!72 con il/la suo/a vincitore/ice]. Successiva a questa, scriverò un’altra edizione degli Hunger Games sempre in collaborazione con yingsu, che però arriverà mooooolto dopo(?).

Ok, dovevo scrivere poco e invece vi ho intasato di nozioni(?), vado a farmi i fatti miei e spero che almeno un pochino questo capitolo vi sia piaciuto~

 

Alla prossima!

radioactive,

 

 

 

a n g o l o s p a m

            Sarò lì quando cadrai { Soprannaturale – LONG • yingsu }

         I’m frozen to the bones { Hunger Games – LONG – 73esima EdizioneRoel (D2) • yingsu }

         Blur { Hunger Games – LONG – Klaus & London (D6) • ivola }

         Senza di te non posso sopportare il suono della pioggia { Hunger Games – ONESHOT – pre!Die on the front page, just like the stars – Roel/Liv (D2) • yingsu }

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Capitolo 12
*** ▪ quando chiami un posto paradiso, digli pure addio. ***









CAPITOLO 12

                 quando chiami un posto paradiso, digli pure addio.

 

 

 

Lyosha ed Ariel si erano abbeverati al torrente, decidendo poi di ritornare nella foresta sotto di loro – avevano incontrato troppi guai in mezzo a quella nebbia e, considerando che ormai conoscevano i segreti dell’arena, non era così invivibile quel caleidoscopio fatto di foglie e fiori.

Lo stomaco del più grande brontolava, così rumorosamente talvolta da farlo arrossire; Ariel non era da meno. Tuttavia sopportavano bene la fame, c’era stato un periodo in cui a casa arrivavano a fine mese senza più cibo e dovevano patire la fame, certo, ripensando alle leccornie di Capitol City di cui erano stati riempiti non era il modo migliore per sopravvivere alla furia di una pancia affamata, ma bastava non pensarci.

La giornata passò tra camminata e riposo, non si dirigevano in un posto specifico ma piuttosto si limitavano a seguire quei sentieri scavati naturalmente per terra che da qualche parte dovevano portare – ottimisticamente alla Cornucopia, ammesso che non ci fosse nessuno.

Verso il tramonto, i due si erano riparati in una rientranza nella roccia nascosta da alcune liane per riposare – le gambe di Lyosha tremavano dallo sforzo di mantenere sempre e comunque un passo abbastanza veloce, inoltre erano già deboli e scarne di loro, la stessa Ariel si era tolta gli scarponi per massaggiarsi i piedi gonfi e umidi, esattamente come quelli del fratello che, tra l’altro, aveva uno stivale praticamente a pezzi ancora dalla caduta nel fiume di qualche giorno addietro.

Non passò neanche mezz’ora che la piccola si addormentò con il volto appoggiato alla gamba del fratello, mettendosi le mani sotto le ascelle come per proteggersi il petto, in silenzio, Lyosha la guardava accarezzandole i capelli sporchi del sangue fuoruscito dalla ferita alla tempia.

Presto sarebbe morto, pensava, tra poco tocca a me. E più il pensiero di morire si faceva concreto assieme alla possibile vittoria di Ariel, più Lyosha credeva che fosse un traguardo impossibile da raggiungere, per uno come lui, che di buono sapeva solo cucire – e non era abbastanza per portare il pane a casa: aveva bisogno delle tessere. Sarebbe stato capace di uccidersi e lasciare Ariel da sola? Anche se ce l’avesse fatta, ad arrivare in finale, Capitol City avrebbe apprezzato il suo suicidio in diretta? Chi glielo garantiva che non avrebbero escogitato un modo per uccidere sua sorella prima che lui facesse la fatidica mossa?

Prima che riuscisse a porsi queste domande, la mano iniziò a prudergli e, guardandola, notò con orrore e allarme che ora anche le seconde falangi di ambo le dita erano diventate nerastre – inoltre non riusciva più a muoverle. Doveva prendere dei provvedimenti – non gli sarebbe piaciuto avere tutta la mano in quelle condizioni.

Chiuse la mano a pugno nel sentire Ariel svegliarsi, dopo qualche minuto erano già in cammino.

 

Camminava a passo svelto, brandendo la spada con maestria e tagliando i rami e le foglie che le sbarravano il cammino, con l’altra mano reggeva una bottiglia d’acqua ormai vuota che aveva intenzione di riempire con dell’acqua potabile – ricordava che fosse tutto velenoso, in quel posto.

Si ritrovò ben presto in una radura che aveva qualcosa di… magico, semplicemente perché sopra di lei vi era un letto di foglie che intrappolava al suo interno la luce, rendendola soffusa ma brillante, sui rami degli alberi più bassi alcuni passeri neri e blu erano appesi a testa in giù, gonfiando ritmicamente il petto ed emanando dei suoni simili a cinguettii. Più in alto, un altro uccello del piumaggio color terra apriva le ali lasciando muovere le lunghe piume bianche sul suo dorso – cantando anch’esso.

Ai suoi piedi, una terza variazione di quei uccellini saltellava di qua e di là, come se ballasse, le ali aperte a formare come una circonferenza attorno al suo busto, sembrava avesse la gonna.

Lexi dovette ammetterlo: era uno spettacolo davvero fantastico – era paradisiaco e in netto contrasto contro gli orrori dell’Arena che il suo cervello si sforzava di ignorare, come farebbe una Favorita, una vincitrice.

E in quel momento, davanti al suo naso un esemplare di quei uccelli neri dal dorso colorato e – particolare di cui non si era accorta prima – la coda biforcuta a formare due ricciolini iniziò a volare stando sospeso in aria, come un colibrì. Istintivamente, la ragazza allungò una mano e gli sfiorò il capo con il polpastrello, non avendo avuto reazioni contrarie dal volatile, percorse tutto il profilo dell’esemplare, arrivando alla coda e – sempre mossa dall’istinto – prendendogli i due ricciolini alla base.

A quel contatto, l’uccello gracchiò e il suo petto si gonfiò terribilmente, gli occhi sembravano quasi usciti dalle orbite, Lexi gli lasciò le penne ma, prima che riuscisse a fare un passò indietro, l’uccellino scoppiò in un’esplosione di piume e polvere che la ragazza si ritrovò ad inalare.

Poco dopo sentì la gola gonfiarsi, gli occhi bruciare e il viso prudere, cadde a terra, dapprima tossendo, poi ridendo fino ad alternare l’una all’altra. Gli uccelli rimasero fermi, in silenzio, per poi volare via quando Lexi si rialzò, lasciando a terra lo zaino e allontanandosi da quell’angolo di paradiso che di paradiso non aveva nulla, brandendo la sua spalla.

 

«Lyosha, che cos’è questo?» chiese Ariel, prendendogli la mancina e indicandogli il mignolo e l’anulare ormai violacei – in realtà, si era già aperta qualche ferita che aveva iniziato a sanguinare senza che lui se ne accorgesse.

Il ragazzo ritirò la mano, frustrato per la scoperta della sorella: non voleva che lei le vedesse, sapeva che, se le avesse notate come di fatto era successo, Ariel non avrebbe fatto altro che lamentarsi sul fatto che poteva essere grave, esattamente come faceva sua madre.

C’erano volte, al distretto otto, in cui si diffondevano delle terribili malattie che colpivano le mani e l’apparato respiratorio dei lavoratori in fabbrica, Capitol City era sempre in cerca di tessuti sfarzosi e le loro industrie non erano finalizzate solo alla produzione delle tute dei Pacificatori – quanto anche a fornire alla Capitale vestiti, forse non rifiniti totalmente, ma comunque pregiati. Ed era proprio quella ricerca per il nuovo che faceva sperimentare ai “cervelli” del distretto nuovi prodotti sui tessuti, rendendoli sì lussureggianti per i Capitolini, ma comunque non lavorabili a causa delle modifiche chimiche apportate alle stoffe. Allora le persone iniziavano a soffrire di mal di dita per poi scoprire che tendini e ossa si stavano corrodendo, oppure la pelle dei polpastrelli iniziava a cadere a pezzi – in alcuni casi addirittura il tessuto era stato imbevuto in qualche sostanza particolare che con il calore dei macchinari e del sovraffollamento dei magazzini evaporava, le persone lo inalavano e, a lungo termine, morivano.

Lyosha scosse la testa, cercando di dimenticare tutti i dolori e le disgrazie del suo distretto – tentava di ignorare anche le prediche di Ariel riguardo alle sue dita malate: non sarebbe riuscito a dare nessuna risposta, non tanto perché non poteva parlare, piuttosto perché non aveva idea del motivo di tale morbo.

Assieme al sole che tramontava, alla voce di Ariel che scemava stufa di cercare di cavar fuori qualche informazione dal fratello, scese dal cielo un contenitore di generose dimensioni color platino, il paracadute si impigliò tra i rami e il vaso fece scattare qualcosa tale per cui si scollegò dall’attrezzatura, cadendo per terra con un tonfo e aprendosi.

Era un aiuto dagli sponsor che fece comprendere al ragazzo la gravità della situazione. Raccolse il dono e con Ariel cercò un luogo dove ripararsi.

 

Ariel si strinse le ginocchia contro il petto, schiacciandosi contro la parete della piccola rientranza in cui si erano nascosti, «Lyosha…» chiamò flebilmente, senza riuscire a catturare l’attenzione del fratello.

Il maggiore guardava ciò che gli sponsor gli avevano mandato: un coltello simile a quello che usavano i macellai del distretto, qualcosa di vagamente simile a degli anelli e poi… un brivido gli percorse la schiena nel rivedere quegli oggetti. Inspirò ed espirò tre volte, chiudendo gli occhi, per poi ripetere quelle parole a mente e sillabarle con le labbra, come per prendere coscienza della loro concreta esistenza: ago e filo.

Non ci voleva un genio per capirlo: Capitol City voleva che lui si tagliasse le dita e che si cucisse da solo la ferita – erano a conoscenza della sua capacità nel cucito, così come erano a conoscenza del fatto che avrebbe fatto di tutto per rimanere con Ariel e portarla fino alla fine.

Con la mano le fece segno di uscire, la piccola ubbidì senza dire nulla: avevano già discusso di questo.

Quando la vide sparire dietro ad un albero, con un altro sospiro afferrò con la mano tremante gli anelli di mezzo centimetro di larghezza per poi metterli nel mignolo e nell’anulare, sentendo che si restringevano a dismisura fino a bloccargli il flusso sanguigno, quando iniziò a sentire le dita formicolanti, decise che era ora di procedere. Si fece forza, prendendo con la destra il machete mentre appoggiava le due dita su una pietra vicino alla parete rocciosa. Doveva tagliarsi le dita, dai moncherini avrebbe estratto della pelle sana e con quella, a mo’ di toppa, si sarebbe cucito la ferita.

Senza anestesia – la paura folle del dolore lo paralizzò seduta stante, non poteva farcela, sentiva di non potercela fare.

L’ultimo respiro prima di convincersi davvero della sua insufficiente forza d’anima e con un colpo secco brandì la lama, chiudendo gli occhi una volta che si fosse assicurato la traiettoria.

Il dolore lo avrebbe fatto urlare, ma si sentì solo il ferro della lama colpire la pietra e le due dita rotolare giù, cadendo tra rami, fango ed erba.

 

Ines infilzò il tridente a terra, sedendosi e appoggiando la schiena contro la propria arma, sospirando, «che stanchezza» esordì flebilmente, incrociando le braccia e scostandosi la lunga coda dalla schiena alla spalla, in modo che non le dessero fastidio: erano sporchi, non li aveva ancora lavati né aveva intenzione di tagliarseli perché fossero più pratici, voleva vincere e mostrare la sua chioma intatta.

Liv rimase in piedi, nonostante non lo dimostrasse i piedi le facevano un gran male e avrebbe volentieri tolto le scarpe e messi a bagno nell’acqua calda – come faceva dopo gli allenamenti al due. «Vado a cercare qualcosa, o qualcuno… sì» disse non molto convinta, sovrappensiero.

Non avendo avuto risposta o obbiezione dall’altra, imboccò un sentiero naturale tra due alberi, ritrovandosi in una brillante radura con una piccola cascata e un laghetto. Un sorriso le si dipinse sul volto – si tolse lo zaino dalle spalle, prese una bottiglia d’acqua e la svuotò, avvicinandosi poi alla riva per riempire la bottiglia di liquido fino a metà del contenitore, rimettendola poi nella sacca e ritornando dall’alleata.

«Sei tornata presto» constatò Ines, assonnata, il sole morente le illuminava i capelli di oro, facendogli sembrare rame caldo. Esisteva, il rame caldo? «Hai dell’acqua? Ho finito la mia scorta…» chiese poi, particolarmente disinteressata.

Era il momento che Liv aveva previsto, annuì un po’ troppo vigorosamente e si scrollò lo zaino di dosso, prendendo la bottiglia che aveva riempito poco prima.

Bevila. Pensò Liv, quasi come volesse ordinarglielo.

Bevila. Vide le labbra di Ines avvicinarsi al collo della bottiglia, l’acqua scorrere lungo la caraffa per poi sparire nella bocca di lei. Riuscì quasi a cogliere il movimento della sua gola nell’ingoiare il sorso.

E’ fatta. E quasi come se si fosse tolta un peso dalle spalle, si lasciò cadere seduta a terra, sospirando mentre Ines la guardava con aria interrogativa.

Tre minuti dopo, la ragazza del quattro morì tra tosse e vomito, mentre i suoi occhi si spegnevano fissi sull’immagine di Liv.

 

Un colpo di cannone risuonò nell’Arena e Ariel si svegliò di colpo: si era addormentata tra le lacrime nel pensare a quello che il fratello stava facendo all’interno di quella piccola grotta. Le sue dita.

Non riusciva a pensare ad altro, alle sue dita. Si stava tagliando le dita, se le stava cucendo. Sembrava quella storia dell’orrore che si raccontava nel distretto otto, di quelle donne che erano diventate delle bambole di pezza e ogni volta che qualcuno entrava nel loro magazzino, gli strappavano via la pelle per farci dei pupazzi come loro, o delle bandiere, delle coperte… ebbe un brivido che le scosse le spalle e si scoprì le guance nuovamente umide: piangeva di nuovo.

Si rese improvvisamente conto che a svegliarla era stato l’avviso della morte di un nuovo tributo, e dato le circostanze poteva essere benissimo Lyosha. Il panico prese possesso del suo corpo, si alzò scattante cadendo quasi in avanti e, scivolando sulla terra che non le sembrava essere mai stata così scivolosa in vita sua.

Nel buio della notte, cercava a tastoni il corpo del fratello, trovando il suo piede, poi la gamba, il busto e il viso. Era steso per terra ma non rispondeva al continuo toccare dell’atra – facendola impanicare.

«Ly… rispondimi» mormorò, consapevole che non le avrebbe mai detto nulla. Confidava nel movimento della mano, di un fischio, le bastava anche sentirlo respirare!

La pioggia iniziò a cadere nell’Arena, bagnando qualsiasi cosa si trovasse sotto di lei. Il freddo era aumentato di colpo e da qualche parte suonò un tuono, si girò verso l’entrata e vide un lampo, subito dopo ancora il brusio del temporale.

A sovrastare il rumore del nubifragio fu un altro colpo di cannone, e Ariel riprese a piangere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






«You call some place paradise, kiss it goodbye.»      

[EAGLES; “The Last Resort”]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Alè :D

Allora, questo è il penultimo capitolo di Die on the front page, just like the stars. E ovviamente mi piange il cuore in una maniera terribile, tanto che – ribadisco quello che c’è dentro la mia listography – dopo il tredicesimo capitolo (quello conclusivo), ci sarà l’epilogo e poi tre “pagine rubate”, ovvero missing-moments pre/post/durante gli Hunger Games, devo ancora decidere bene. Il primo di questi MM sarà appunto l’intervista alla madre che non ho potuto/voluto inserire nella fan fiction.

Sempre a scopo informativo, vorrei avvisarvi che l’aiuto per Lyosha (ah, Lyosha!) è arrivato proprio dall’intervista della madre alquanto toccante che ha smosso qualcosa nei Capitolini – sì. Riguardo a questo non vi dico più nulla uvu

Insomma, altri due tributi sono morti eve e gli altri decederanno(…) tutti nel prossimo capitolo, lasciando solo un vincitore – eheh.

Ultima cosa e poi vi lascio

Il titolo del capitolo è la traduzione italiana della canzone a fine testo, ho voluto sottolineare l’aspetto paradisiaco dell’Arena proprio perché succedono un sacco di cose collegate a questa, nel capitolo che avete appena letto. E un po’ perché non mi veniva nulla da scrivere la sopra come titoletto, eheh.

L’ultimo capitolo, secondo le mie stime, verrebbe pubblicato giovedì/venerdì e l’epilogo (già scritto ) domenica sera o lunedì, comunque uno scarto abbastanza breve tra una cosa e l’altra perche mi piacerebbe che fosse una cosa abbastanza continua, insomma.

Come al solito, ringrazio chi segue/recensisce palesandosi o meno çvç)/ mi spronate sempre a continuare e non posso credere che sia quasi finita, ahahahah.

 

Alla prossima!

radioactive,

 

 

 

a n g o l o s p a m

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Capitolo 13
*** ▪ muori in prima pagina, proprio come le stelle. ***









CAPITOLO 13

                 muori in prima pagina, proprio come le stelle.

 

 

 

Lexi correva tra gli alberi, facendo a pezzi qualsiasi cosa si trovasse davanti – fortunatamente si trattavano solo di liane e rami.

Ormai era notte fonda, ma a Lexi non importava minimamente, qualcosa nella sua testa le gridava di continuare ad andare avanti, a correre fino a quando le sue gambe non si sarebbero staccate dal corpo per l’usura.

Tra gli alberi, notò un piccolo fuocherello sul punto di spegnersi. Sorrise rigirandosi la spada tra le dita, mentre la pioggia iniziò a cadere prepotente su di lei, bagnandole il viso e i capelli, attaccandoli ai suoi fini lineamenti che, in qualche modo, ora erano bloccati in un ghigno prepotente.

Si avvicinò a quello che era un focolare, scoprendo il tributo nascosto dietro ad un albero, attaccato al tronco nella speranza di bagnarsi meno grazie al letto di foglie sopra il suo capo. Teneva il viso nascosto tra le ginocchia e aveva la gamba ferita – il taglio sembrava aver fatto infezione.

Quando il ragazzo del sette alzò gli occhi, avvertendo una presenza, la spada di Lexi rifletté la luce della luna e poi si scagliò contro l’altro, la lama incontrò la tempia, frantumandogliela – il tributo cadde di lato senza vita, mentre il sangue bagnava le foglie e gli scarponi della ragazza.

Lexi si allontanò correndo, mentre gli uccelli si alzavano in volo dove lei aveva appena ucciso l’altro concorrente. Inciampò su una radice seminascosta dal fango e dalle foglie, cadendo con la faccia sul terreno, si girò di lato ridendo e, mentre la pioggia le colpiva il corpo come migliaia di spilli, si ritrovò a cadere in un sonno a cui non seppe sfuggire.

 

Ariel si era addormentata controvoglia sul corpo del fratello – Lyosha era morto, si ripeteva, alla fine era successo davvero. Si sentiva dannatamente stupida per la scenata che stava facendo, che si aspettava? Nel migliore dei casi uno dei due sarebbe uscito da lì mentre l’altro avrebbe continuato a vivere solamente nella memoria del fratello, e poi Lyosha gliel’aveva detto: ti farò tornare a casa.

Ed era stato bravo, a tenerla stretta a sé per tutto quel tempo, sebbene fosse passato poco meno di una settimana.  Ma non importava più nulla, era morto, Thahn era morto, lasciandola sola in quel bagno di sangue, tra i canti di morte.

Qualcosa si mosse vicino alle sue gambe, ma Ariel non fece una piega, rimanendo con il viso accasciato sul corpo del fratello mentre ricordava le notti in cui si abbracciavano per scaldarsi, o quando lui andava a chiedere rifugio sul letto di lei perché pioveva, e il tetto lasciava passare le gocce d’acqua che gli cadevano in faccia, mentre dormiva.

Ancora, i suoi pantaloni furono catturati da qualcosa che tirò insistentemente, ma comunque con debolezza. La piccola si girò a guardare quello che credeva fosse un insetto… e invece era una mano.

Lunghe dita violacee stringevano il tessuto dei suoi calzoni, percorse con gli occhi le falangi che la portarono ad un braccio scarno, ricoperto di graffi – questo spariva sotto le ginocchia della bionda per poi ricomparire e attaccarsi alla spalla di Lyosha, il quale la fissava con gli occhi socchiusi, il respiro affaticato e le labbra schiuse, morse fino a farle sanguinare.

«Sei vivo!» esultò, saltandogli al collo, quasi stendendosi sul corpo supino dell’altro, che le appoggiò la mano mutilata sulla schiena in segno di conforto, evitando di guardarla per non vomitare.

La ragazzina lo aiutò a mettersi seduto, facendogli respirare a pieni polmoni l’aria umida del primo mattino. Poi, con calma, si fece raccontare attraverso il labiale – Lyosha non voleva assolutamente mostrarle la mano mutilata, le aveva detto – che dopo l’operazione era semplicemente svenuto, era stato svegliato da un colpo di cannone (il secondo, suppose lei), cercò di attirare la sua attenzione ma piangeva troppo forte per accorgersi dei leggeri strattoni che le riusciva a dare, inoltre aveva la gola secca per fischiare e gli veniva difficile in quella posizione.

«Quindi non eri morto tu, quando è suonato il cannone…» constatò, facendo delle carezze alla schiena dell’altro, sapendo quanto quel gesto gli provocava conforto, lo vide nascondere la mano senza dita sotto la coscia e passarsi la destra tra i capelli sporchi, gli occhi blu erano stanchi e spenti.

«Allora…» continuò, abbassando il viso come se stesse pensando, «siamo rimasti in cinque?»

Per tutta risposta, Lyosha annuì – poi la caverna iniziò a tremare e piccole pietrine cadere sopra le loro teste. In fretta, Lyosha raccolse la lama che Capitol City gli aveva offerto e poi uscirono di fretta dalla rientranza, mentre il tetto crollava laddove una volta c’erano loro.

Uccelli dalle considerevoli dimensioni, il becco grosso e alto – sembravano delle gobbette – e il piumaggio colorato e acceso aprirono le ali con aria di sfida, come per dire che non potevano proseguire da quella parte. Alcuni di questi si alzarono in volo verso di loro, facendoli scappare nella foresta. A quanto pareva, gli Strateghi volevano mandarli da qualche parte.

 

Fraser si buttò a terra, rotolando un paio di volte su questa prima di andare a schiantarsi contro il tronco di un albero tagliato. Gli uccelli volarono sopra di lui per poi sparire all’orizzonte.

«Dannazione» borbottò lui, alzandosi i piedi e battendo le mani sulla giacca per cercare di togliere l’erba su cui era caduto per evitare quei dannati volatili. Si guardò attorno: era in un angolo di foresta disboscata, qui e la disseminati alberi tagliati via esattamente come quello in cui si era scontrato.

Perlustrando il territorio con la vista, notò la figura familiare della ragazza del Due, Liv, che lo guardava a pochi metri di distanza, in mano aveva già preparato arco e freccia.

Non siamo più alleati, ormai, si disse, prima di prendere la spada con due mani dalla cintura e correre verso di lei – cercò di colpirla con un fendente ma la giovane si scostò di lato, inginocchiandosi e  scoccando una freccia che Fraser evitò brillantemente, questa volò tra gli alberi e un grido si levò non molto lontano da loro, seguito poi da una risata, proveniente dalla stessa persona che prima aveva urlato.

I due si guardarono confusi, poi la figura di Lexi arrivò correndo, cogliendo Fraser di sorpresa e spingendolo in avanti, facendolo cadere su Liv che rotolò di fianco per non essere schiacciata dal peso del tributo.

La ragazza dell’uno partì l’attacco, brandendo la spada in una mano e tenendo la freccia spezzata nell’altra (si poteva notare, nel braccio, la punta del dardo conficcata nella carne) e cercando di colpire più volte Liv, la quale si spostava ora a destra ora a sinistra, facendo ogni volta un passo indietro, sperando di non incontrare qualche radice o qualche rimasuglio di albero dietro di lei.

Quando finalmente Liv riuscì a cogliere il momento propizio, scattò in avanti di lato per evitare il colpo e poi in avanti, sperando che Lexi non fosse abbastanza agile nello spostare il braccio per colpirla perché poteva benissimo farlo. Ma nel girarsi, la Principessa inciampò sui suoi stessi piedi, come ubriaca, e cadde sulle ginocchia a terra, piagnucolando come una bambina.

E’ impazzita si disse Liv, ansimando appena mentre guardava quasi impietosita la figura di Lexi che si rialzava lentamente da terra, appoggiandosi sulla spada. Ma non poteva permettersi questo genere di riposo, non erano solamente loro due che combattevano, ma Fraser era lì, da qualche parte pronto ad attaccare e a uccidere esattamente come le altre due.

Lo vide correre in curva, probabilmente cercando di avvicinarsi alle spalle delle due, estrasse una freccia dalla faretra e la scagliò contro il ragazzo, colpendolo alla coscia – questo cadde di lato e si tenne la gamba ferita senza però urlare di dolore – era stato addestrato anche al dolore, come Roel.

Ma prima che riuscisse a concludere il pensiero, le risate di una Lexi definitivamente impazzita le giunsero alle orecchie e la sua coda dell’occhio vide la lama dell’arma avvicinarsi alla sua testa. Afferrò l’arco con entrambe le mani e lo usò per parare il colpo, piantando i talloni a terra per non arretrare o cadere.

Resisti, dannazione – disse più a sé che all’arco, quando la resistenza dell’altra cessò, Liv si abbassò a raccogliere lo stiletto che teneva nello scarpone, tentando con un affondo di colpire l’avversaria, che continuava ad evitare i suoi colpi con piroette e movenze simili a quelle di un balletto.

Liv provò e riprovò, riuscendo talvolta a ferirle il braccio o il fianco con qualche taglio che non sembrò fare nulla all’altra, anche se Lexi inciampava, riusciva a rialzarsi subito e a balzare indietro come un coniglio.

Si fermò un attimo, un secondo solo, recuperando quel che bastava per l’ennesimo affondo.

Poi qualcosa la colpi alle spalle, un dolore acuto le attraverso la schiena, i polmoni, passandole vicino al cuore e comparendo appena sotto i seni come la punta di una lama sporca di sangue. Smise di respirare per un momento, cercando di riprendere a farlo – inutilmente, non riusciva più a respirare, il suo cuore si stava fermando.

Posò una mano sulla lama, questa fece un mezzo giro all’interno del corpo di lei, incrementando il dolore che stavolta la fece urlare, le gambe sembravano cedere sotto il suo peso da un momento all’altro, il braccio di Fraser la strinse contro il proprio petto, la spada ancora nel corpo di Liv che ormai iniziava ad impallidire, la nebbia invadeva i suoi occhi, il silenzio le orecchie – riusciva a sentire tra i capelli l’aria fresca di montagna del Distretto Due, sulle labbra il respiro caldo di Roel.

«Saluterò il tuo fidanzato per te» le sussurrò suadente Fraser, prima di estrarre la spada e abbandonare il corpo di Liv per terra, mentre un colpo di cannone riecheggiava nel cielo e gli uccelli si alzavano in volo, oscurando il sole.

 

Lyosha aveva guardato tutto nascosto dietro un albero, aveva imposto ad Ariel di non fiatare. La cosa migliore sarebbe stata quella di sperare che i Favoriti si uccidessero a vicenda, di aspettare notte e poi ammazzarsi. Tutto sembrava così vicino dall’essere avverato.

Il corpo della ragazza del due cadde a terra, Ariel impallidì e si mise entrambe le mani sulle labbra per non urlare.

Fraser si era girato verso Lexi che aveva guardato tutta la scena senza dire una parola – poi i due erano passati a combattersi l’un l’altro. Sembravano perfettamente alla pari, nonostante fossero entrambi feriti, ormai tutta Capitol City credeva che o l’uno o l’altro sarebbe ritornato Vincitore, che uno dei due avrebbe ucciso l’altro e poi sarebbero andati alla ricerca dei fratelli dell’otto, sopravvissuti così tanto.

Sovrappensiero, il ragazzo non si accorse che Lexi era scivolata dietro le gambe di Fraser e gli aveva tagliato entrambi i tendini d’Achille, ferendolo poi con vari tagli alla schiena e alle braccia – completando l’opera con un affondo che fece sgorgare lentamente il sangue dal fianco. Fraser sarebbe morto dissanguato ore dopo, probabilmente, il suo corpo cadde in avanti, e con un piede Lezi lo spostò in posizione supina e d’un tratto si bloccò, come un animale che aveva appena fiutato qualcosa. Fissava nella loro direzione, Lyosha si girò verso Ariel che singhiozzava dal pianto che si ostinava a trattenere – ecco.

Il più grande si spaventò al punto di sbiancare, in fretta girò su se stesso appoggiandosi contro il grosso tronco da cui si era limitato a spiare, tirando Ariel per la giacca e stringendosela contro, lasciando poi che strisciasse per terra, nascondendosi sotto l’arbusto che affiancava l’albero.

Non poteva averli trovati, non era vero. Probabilmente aveva visto solo un uccello e Ariel non aveva fatto rumore come Lyosha pensava di aver visto.

Vide la sorella rannicchiarsi appoggiando la fronte sulle ginocchia e circondandosi il viso con le braccia, come se non volesse far uscire il respiro da quello spazio ristretto e annullare il rumore delle sue narici che si dilatavano come in preda all’ansia.

Rimase a guardarla per interminabili secondi, poi una mano si allungò oltre le foglie, afferrando per i capelli Ariel e la trascinandola nella pianura disboscata. Senza pensarci, Lyosha si alzò, cercando con lo sguardo la sorella in mezzo a quei rimasugli di tronchi e trovandola tra le braccia di Lexi, il tributo dell’uno piangeva, con le guance rigate di lacrime che evidentemente non controllava e le mani, così come il collo e il viso, piene di chiazze violacee che prima non aveva il ragazzo non aveva notato.

«Non hai mai parlato, Lyosha» constatò la ragazza dell’uno, facendo volteggiare la spada nella destra mentre con la mancina teneva bloccata Ariel contro di sé, afferrandola per le spalle, «mi danno fastidio, le persone che non parlano». La più piccola mugolò di dolore e Lexi strinse ancora il braccio attorno a lei, strattonandola e strappandole un verso di dolore.

L’Isaacs perse quel minimo di colore che aveva recuperato: Lexi ricordava il suo nome ma, cosa più importante, sentiva nella sua testa uno strano avviso di imminente pericolo.

«Le vuoi bene, Lyosha?» gli domandò, dondolando da un piede all’altro come se fosse impaziente di fare qualcosa, Ariel si morsicava le labbra per non urlare dal dolore, con le mani stringeva il braccio di Lexi cercando di abbassarlo dal collo per non soffocarlo, allungando quest’ultimo per ottenere una parvenza di libertò.

Si che le voglio bene.

Lyosha ricordava il sole di mezzogiorno che picchiava sulle teste dei bambini e dei ragazzi del Distretto otto, racimolati per la Mietitura dei settantaduesimi Hunger Games. Sul palco, i tre Vincitori sedevano nella stessa posizione: gambe accavallate e braccia incrociate.

Ricordava l’Accompagnatrice del loro distretto presentarsi davanti al microfono con la sua strana acconciatura che Lyosha aveva ignorato, ricordava sua sorella con le guance paonazze e gli occhi impauriti puntati sulla Capitolina che, dopo il solito discorso d’apertura, andò ad infilare la mano nella cupola dove erano posti i biglietti delle femmine dell’otto.

Ora, davanti ad una pazza omicida che teneva in ostaggio sua sorella, fissava Ariel con la stessa insistenza del giorno della Mietitura, come se potesse farla sparire da quel mondo con la forza del pensiero. Come se il suo amore potesse salvarla dalle braccia di Lexi, come invece non aveva fatto davanti al sonoro «Ariel Isaacs!».

«Lyosha, non mi hai risposto» cantilenò Lexi, strappando il ragazzo da quelle reminiscenze. Schiuse le labbra per rispondere alla ragazza, notando per l’ennesima volta, a malincuore, di non poter dire nulla. No.

Strinse nella mano la lama che aveva gelosamente custodito, poteva colpirla – poteva provarci... no, non ci sarebbe riuscito. Sapeva come funzionavano questo genere di cose, Ariel sarebbe morta se lui avesse fatto solo un passo.

«Rispondimi!» urlò d’un tratto Lexi, facendo gemere Ariel e raddrizzare le spalle a Lyosha, scuotendolo dai suoi pensieri e invitandolo ad agire d’istinto.

Risponderti… come faccio a risponderti!

C’era confusione nella sua testa – avrebbe voluto morire in quel preciso istante, dimenticare di tutto e di tutti. Non essere mai esistito.

Lyosha fece cadere dalla mano l’arma, muovendo le dita per urlare le voglio bene, le voglio bene! Come se si fosse improvvisamente reso contro della situazione, dimenticandosi della fame, del dolore, delle dita che gli mancavano, delle lacrime che avevano iniziato ad offuscargli la vista.

«Lo ha detto, lo ha detto!» gridò Ariel, mentre nuove cadevano come gocce di pioggia sulle sue guance.

Lexi rimase un attimo in silenzio, apatica in volto – «ma io non ho sentito nulla», fece scorrere la lama fredda sulla gola di Ariel e una linea scarlatta si fece spazio sulla pelle candida, gli occhi della sorella si ribaltarono all’indietro e la morsa del braccio di Lexi scomparse.

Ariel cadde a terra come un burattino e il cannone urlò – facendo quello che Lyosha non poteva.

 

Lyosha non ci vedeva più, davanti a lui il corpo di Lexi era crollato a terra assieme a quello di Ariel, catturato da spasmi mentre la follia la consumava, facendola ridere, la Favorita inarcò la schiena e rimase in quella scomoda posizione per qualche secondo, poi si afflosciò a terra e ancora un altro colpo di cannone annunciò la penultima morte di quei giochi.

Ma che senso aveva vincere, ormai? Ariel era morta davanti ai suoi occhi, morta perché lui non poteva parlare. E la colpa era sua, lo sarebbe stata comunque – se solo fosse riuscito a temporeggiare, Lexi sarebbe morta soffocata dalla sua stessa pazzia e non avrebbe fatto in tempo ad uccidere sua sorella.

Ariel era morta.

Desiderava che finisse tutto – voleva uscire da quel posto e abbandonarsi al niente. Raccolse da terra il pugnale che aveva lasciato e se lo rigirò tra le mani, indeciso se tagliarsi la gola, le altre dita oppure infilarselo nel cuore.

Perché non la fai finita, Ly? si chiese, rendendosi improvvisamente conto che non aveva né la forza né il coraggio di farlo. Senza Ariel, non poteva fare nessun gesto eroico, niente di niente. Senza Ariel, sarebbe morto il primo giorno degli Hunger Games, esattamente come la maggior parte dei tributi del suo distretto. Era una nullità, lo era sempre stato.

Sospirò, l’aria gli usciva tremolante dalle labbra – e di fianco a lui, non molto distante, Fraser cercava di afferrare la spada che gli era sfuggita di mano, riuscendo a malapena a muoversi, soffocando grugniti di dolore dato dai vari tagli che sfregavano fastidiosamente contro il tessuto e l’erba, il sangue sgorgava e s’incrostava sulla sua pelle diffondendo un cattivo odore metallico ovunque.

Ariel. Si avvicinò a Fraser, abbassandogli le spalle con un piede, sedendosi sui suoi reni strappandogli un gemito di dolore e bloccandogli le mani con la pressione delle piante – il ragazzo dell’uno si lamentò ancora. I punti che si era cucito sul mignolo si erano strappati e la ferita aveva ripreso a sanguinare.

Ariel. Fraser appoggiò la tempia imperlata di sudore mentre chiudeva gli occhi. Stanco, stanco come gli altri tributi, stanco come lui.

Ariel. Una goccia trasparente seguì la curva del viso del tributo sotto di lui. Forse piangeva? E’ solo sudore, si convinse Lyosha, non ha motivo per piangere.

Ariel. Il ragazzo dell’otto si chinò su Fraser che sembrava quasi addormentato, con entrambe le mani lo colpì alla schiena, laddove doveva esserci il cuore – sfilò il pugnale e diede un altro affondo vicino al precedente – gli occhi del ragazzo dell’Uno si erano sgranati per un istante e la vita gli scivolò via dalle palpebre. Un colpo di cannone, l’ultimo.

Lyosha si alzò in piedi, abbandonando la lama sul corpo dell’altro – la stanchezza lo inondò come un mare in tempesta e il suo equilibrio venne veno, facendolo cadere seduto per terra, sopra di lui l’hovercraft sembrò materializzarsi dal niente e la voce di Claudius Templesmith annunciava il vincitore dei settantaduesimi Hunger Games.

Lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






«Vai molto lontano di casa e perderai le tue tradizioni. Uccidi molte persone e dimenticherai te stesso.

Se morirai in battaglia la tua vita affonderà nel suolo come la pioggia e sparirà senza lasciare traccia.»

[WENTAI; tratto da “Hua Mulan”]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

….. *sospiro* ebbene.

Siamo praticamente arrivati alla conclusione di tutto questo – insomma, come molti si aspettavano, ha vinto Lyosha. Eh. Davvero, non so che dire; penso che sia il momento di fare un discorso su quanto sia stato faticoso mandare avanti questa fan fiction e tutto il resto, ma non ci sarà nulla di tutto questo perché vi aspetta ancora un epilogo. E, oltre a quello, tre contenuti extra accuratamente(?) scelti – ma anche no – qui proposti di seguito.

  PAGINE RUBATE Ø1 – intervista alla madre citata nel capitolo 11.

  PAGINE RUBATE Ø2 – intervista a Lyosha al suo rientro dall’Arena, quella da Vincitore.

  PAGINE RUBATE Ø3 – Lyosha durante i 73esimi Hunger Games [scritti da yingsu] come Mentore.

Inoltre partirà la revisione completa di grafica e testo + betaggio sempre da parte di yingsu dal primo capitolo, ma la trama rimarrà invariata e si tratta di una rivisitazione puramente letteraria del tutto, sì.

Inciduncitrinci… mi scuso per il capitolo leggermente più lungo – e forse macchinoso – del solito, e spero vivamente di non avervi deluso (perché io sono un po’ delusa, sì) o annoiato, ovviamente desiderando di non essere stata troppo banale o qualcos’altro. E, giusto perché me lo sono ricordata ora la morte di Ariel non è stata scritta in modo che voi piangeste (se l’avete fatto tanto meglio lol), ma è stato steso in modo che vi desse un senso di “vuoto”, esattamente quello che prova Lyosha. Ma non sono brava in queste cose e quindi scusate(…).

Ultima cosa! Penso di aver dimenticato da qualche parte un accento su una o, l’ho visto oggi a scuola ma adesso, a casa, non lo trovo più ._. la mia beta è all’Università e quindi non può ricontrollarlo D: sorry! Rimedierò appena possibile.

Ultima cosa!2 yingsu è stata così gentile da scrivere la morte di Liv dal punto di vista di Roel, la trovate spammata qui di seguito e vi pregherei di darci un’occhiata, è veramente bella! c:

E giusto per mettere i puntini sulle i: adoro la citazione e adoro il film che non c’è in italiano c: ma lo trovate in sub eng, guardatelo!(?).

 

Ci sentiamo, yes.

radioactive,

 

 

 

a n g o l o s p a m

            When it’s time to live and let die { Hunger Games – ONESHOT – Roel/Liv • yingsu }

         I’m frozen to the bones { Hunger Games – LONG – 73esima EdizioneRoel (D2) • yingsu }

         Blur { Hunger Games – LONG – Klaus & London (D6) • ivola }

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Capitolo 14
*** ▪ EPILOGO; my heart aches when i think of you. ***









EPILOGO

                my heart aches when i think of you.

 

 

 

Nella mente di Lyosha vagava l’immagine tenue dell’hovercraft sopra di lui, il sangue colargli dalle dita e un senso di arrendevolezza addosso, come se non fosse più capace a fare qualcosa.

Non ricordava a cosa pensava quando lo avevano recuperato dall’Arena – e a dirla tutta non aveva molta voglia di ponderarci sopra, si limitava a bearsi della comodità del letto su cui era appoggiato, dei capelli puliti che gli solleticavano la fronte, delle ciglia non più incrostate di sporco e sangue – sentiva i talloni rilassati sul materasso, ancora gonfi, probabilmente. Attorno a lui una tiepida temperatura che imitava il tepore casalingo lo avvolgeva tutto, facendo crescere il lui la voglia di ritornare a dormire, ma una voce cercò di strapparlo dal suo dormiveglia.

«Lyosha» mormorò la stilista, il ragazzo spostò il viso verso il suono di quelle labbra, aprendo piano gli occhi e incontrando il viso bronzeo dai lineamenti fini di Vilette, incorniciati da un’acconciatura mossa che le ricadeva in due ciocche sulle spalle, perfettamente immobili in due boccoli – i suoi occhi bicromatici splendevano nel bianco della stanza, apparendo come due gemme.

«Sei stato bravo» commentò la figura affianco alla Capitolina – era Lloyd, e la sua presenza lo avrebbe lasciato di stucco, se fosse stato nel pieno delle sue capacità, delle sue emozioni, stava seduta con dei jeans ed una maglia larga, color vino, che le ricadeva morbida sui fianchi – sembrava fatta di seta, o qualcosa del genere, «non molti di noi ritornano vivi» disse piano, abbassando lo sguardo, «in realtà, alcuni non ci arrivano proprio, al cuore dei Giochi».

Il ragazzo si ritrovò a sospirare quasi esasperato, alzò le coperte con la destra mentre cercava di girarsi di lato – in quel momento la miriade di piccoli tagli che aveva sul corpo sembrarono tirare all’unisono tutti i nervi che possedeva, facendolo bloccare sul posto e ritornare in posizione supina.

«Devi stare fermo ancora per un po’, non tutte le ferite si sono chiuse» lo informò Vilette, accavallando le gambe, un fruscio di gonne riempì la stanza e Lyosha dedusse che portasse un abito lungo – come quello di Lexi.

Lexi, gli occhi si riempirono di lacrime, iniziando a bruciare, senza aspettare il consenso del ragazzo caddero lungo le sue guance. Che figura avrebbe fatto, ammettendo a stesso che, in un modo o nell’altro, quella ragazza aveva suscitato in lui qualcosa come un interesse particolare? Erano gli Hunger Games, dannazione! E, cosa peggiore, era stata lei ad aver ucciso sua sorella.

Un fazzoletto gli carezzò la guancia, profumava di lavanda e zucchero, cercò di respirare profondamente, chiudendo gli occhi.

Non voleva pensare, non voleva ricordare. Cercò di ritornare sull’hovercraft, laddove le sue memorie si erano interrotte.

In pochi istanti, si riaddormentò, ricadendo nel baratro.

 

Lyosha guardava sbigottito le protesi delle due dita che aveva perso, deglutì sonoramente fissando il vassoio d’acciaio su cui erano posti gli automi.

«Farà male» disse Lloyd, e il ragazzo si girò a fissarla come per dire che non lo stava confortando affatto, «ma questi automail – così si chiamavano – sono i migliori in commercio: con una innovativa lega metallica, è stato costruito secondo le tue esigenze, tenendo conto del tuo corpo: dimensioni, peso e via dicendo. Hanno ricostruito tutte le nervature delle dita ed è per questo che non sarà piacevole: i nervi del tuo sistema nervoso devono collegarsi con quelli della protesi; ora non fare storie e porgi la mano all’infermiera».

Non ubbidì subito, ma sapeva che senza quelle dita non sarebbe andato da nessuna parte, e tantomeno le due donne – Vilette e Lloyd – lo avrebbero lasciato solo o fatto uscire. Senza contare che tutti quei antibiotici, antidolorifici, morfine e anestesie lo avevano parecchio rimbambito e tantomeno si sentiva capace di prendere delle decisioni come quella di contestare ciò che diceva la Mentore.

Porse quindi la mano fasciata da una benda già sporca di sangue, la ferita era stata riaperta volutamente dai medici: cicatrizzata, non era possibile collegare le protesi al corpo. Strinse con la mano buona il lenzuolo e piantò i talloni sul materasso, meno gonfi dall’ultima volta che si era svegliato.

Un’infermiera gli teneva bloccata la mano con due mani, fissando  la compagna che afferrava le dita d’acciaio, prima che il Vincitore potesse mandare un segnale per informare che era pronto psicologicamente, la capitolina unì la carne di Lyosha al metallo che sembrarono congiungersi alla perfezione. Una scossa gli colpì violentemente il braccio che fu preso dagli spasmi, ma la mano era ancora immobile nella stretta dell’infermiera.

La gola di Lyosha vibrò e le sue labbra cacciarono un urlo tremendo, Lloyd sorrise.

 

«C’è una cosa che devi sapere…» Vilette sembrava preoccupata mentre gli appoggiava la giacca grigio scuro sulle spalle, lisciandogliela. Le maniche erano troppo lunghe, avrebbe dovuto appuntarle.

«Cosa?» chiese retorico, fissandosi allo specchio mentre l’altra gli faceva provare il vestito per l’intervista da Vincitore.

La stilista si fermò, mettendo lo spillo sull’apposito bracciale che teneva al polso, cosa doveva dirgli in un momento come quello? Il viso della Capitolina era rigido sotto una smorfia di dolore e dispiacere.

«Lloyd ha detto che avrei dovuto dirtelo io perché lei ha poco tatto però…»

«…Però

«Però non c’è un modo con molto o poco tatto!» un verso isterico le salì dalla gola, alzò le braccia come per scaricare l’ansia e si sedette sul divano, mettendosi le mani tra i capelli. Lyosha si girò verso di lei, fermo sul piedistallo.

«Me lo dici?» domandò flebilmente, sempre meno convinto di volerlo sapere.

Vilette alzò gli occhi, lucidi da lacrime che stavano per scendere – sembrava stesse mantenendo un segreto troppo pesante da sopportare, «tua madre… è morta di crepacuore, subito dopo aver visto… Ariel, ecco. Era con un’amica, la signora Villalobos, ha detto che non ha fatto in tempo a vederti vincere».

 

Uscì dallo studio di Caesar allentandosi la cravatta al collo, fu accolto da Vilette che portava ancora l’acconciatura dei due boccoli sulle spalle e da Lloyd che lo scortarono nella camera dove avrebbe passato la notte.

«Tutto bene, ti vedo stanco» commentò la stilista, sfilandogli il laccio che gli circondava il collo.

«Mi fa male la gola, ma i dottori mi hanno detto che è normale…» rispose l’altro, massaggiandosi il mignolo e l’anulare della sinistra laddove la carne si legava al metallo. Erano cose che non sentiva sue: le dita, la voce, quel sorriso che aveva fatto con l’intervistatore…

«Andrà meglio, adesso» disse Lloyd, sfiorandogi la schiena in un gesto affettuoso, abbandonando poi gli altri due e uscendo dal palazzo mentre estraeva da una tasca seminascosta una sigaretta e l’accendino.

Andrà meglio – quelle parole lo inseguirono per tutto il viaggio in ascensore, mentre si spogliava da quell’abito grigio che Vilette gli aveva promesso e mentre scivolava sotto le calde coperte. Si aspettava di sognare l’Arena, e invece non successe nulla.

Andrà meglio.

 

Il treno slittava sui binari senza produrre nessun rumore – Lyosha si spalmava su una fetta di pane della confettura dorata e Lloyd fumava chinata sul posacenere, come se fosse stanca.

«Posso chiederti una cosa?» azzardò lui, azzannando il suo spuntino e alzando appena gli occhi dal suo piatto, cercando di incrociare lo sguardo con quello dell’altra che non si degnò di sollevare il mento.

«Considerando che non hai mai detto una parola, direi che te lo posso concedere» seguì una breve risata roca della più vecchia, colpì la sigaretta facendo cadere la cenere nel suo apposito contenitore.

«Perché ti chiami Lloyd? Lloyd è un nome da maschio…» azzardò, in circostanze diverse non si sarebbe mai sognato di fare una domanda del genere. Ma ormai aveva perso tutto, quindi una sfuriata dell’altra non gli avrebbe fatto né caldo né freddo – a dir la verità. Morse ancora il pane e abbassò gli occhi, aspettandosi già il mutismo oppure una scenata.

E invece, ottenne una risposta. «La mia era una famiglia benestante, mio padre gestiva una frazione della bachicoltura del distretto, io ero sua figlia ma non di mia madre. Mi spiego: lui si è risposato quando io ero già nata, e ovviamente lei non mi sopportava» aspirò dal filtro e lasciò che il fumo uscisse dalle labbra e dal naso, « fui estratta per i Giochi e, ovviamente, quella lì fu capace di dire davanti a mio padre che non ce l’avrei fatta, forse avrei avuto qualche possibilità se fossi stata un maschio, più grande e più forte».

«Che stronza» il commento gli scappò letteralmente dalle labbra – le buone maniere, dannazione, si riprese. Lloyd ridacchiò.

«In sostanza, volevo dimostrare a quella che sarei potuta tornare, e sono tornata. Ho cambiato nome, se Lloyd lo si da ad un uomo, allora io mi chiamerò Lloyd, come un vero uomo» e scoppiò in una risata sonora, una risata che Lyosha non vide mai sul volto della Mentore.

Quando il momento di ilarità terminò e Lloyd spense la sigaretta nel posacenere, il treno rallentò sensibilmente fino a fermarsi, quando Lyosha rialzò lo sguardo, notò l’altra Vincitrice sorridergli – un sorriso di una Mentore orgogliosa del proprio tributo, di una madre fiera del proprio figlio, «andiamo, Isaacs, il tuo distretto vuole festeggiare con te».

 

E mentre le narici venivano invase dal profumo di casa, la pelle accarezzata dal caldo del sole dell’otto, del rumore lontano delle fabbriche, del profilo lontano delle case del Villaggio dei Vincitori – il cuore di Lyosha si spezzava in due, quattro, otto, mille pezzi.

Era partito per i Giochi con una madre a casa, una sorella tra le braccia, pensieri in testa che non riusciva a esprimere a parole ed era tornato senza niente.

Forse, pensò, è per questo che si chiamano così: i Giochi della Fame.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






«Quando si muore, si muore soli.»       

[FABRIZIO DE ANDRE’; tratto da “Il Testamento”]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Oh bhè. Alla fine l’ho pubblicato.

Non c’è molto da dire diciamo che ho preferito fare vari “spezzoni” di quel che succede dopo i Giochi per darvi un assaggio del post-HG di Lyosha, dato che è una cosa assolutamente normale e niente di fantastico come quelli di Katniss… non so se mi spiego.

Insomma, tra un anno Lyosha sarà già scomparso dalla circolazione(…), niente di che.

Anyway, vorrei spendere due parole sulla frase che chiude questa fanfiction.

Lyosha basa i suoi pensieri sulla base della Fame come mancanza di qualcosa che gli serve per sopravvivere, che in questo caso è la madre e la sorella, elementi importanti (per non dire essenziali) della sua vita che sono venute a mancare. I Giochi della Fame, per lui, sono quei Giochi che ti fanno partire con tutto e quando esci - se esci - non hai più nulla, perché o perdi tutto (come lui) oppure te lo toglie Snow (Finnick ci insegna spiegandolo a Katniss). Insomma, è solo questo ;)

Il titolo dell’epilogo è una frase di Start a Riot di Jetta, linkata del primo capitolo e canzone “soundtrack” di tutto questo – o comunque di un futuro molto vicino a questo.

Insomma, ci sentiamo con la prima delle pagine rubate ;D e, come dico a yingsu: avete presente quel povero pazzo nel trailer de Catching Fire che alza il foglio con su la Ghiandaia Imitatrice? Ecco, quello è Lyosha.

 

Au revoir!

radioactive,

 

P.S.: non metto l’angolo spam perchè sono da un pc straniero(...), scusatemi!

 

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Capitolo 15
*** ▪ PAGINE RUBATE Ø1; Capitol City ha rubato tutti i bambini di Panem. ***













     » PAGINE RUBATE Ø1  

              Capitol City ha rubato tutti i bambini di Panem.

 

 

 

 

La signora Isaacs se ne stava sul suo vecchio divano davanti alla televisione, le mani intrecciate tra loro appoggiate sulle gambe troppo deboli per sorreggerla. Le tempie le pulsavano terribilmente durante quelle ore in cui le era concessa la corrente per vedere i suoi figli ai Giochi, gli occhi si muovevano seguendo ogni gesto di Ariel e Lyosha, che grazie al cielo stavano affrontando la cosa assieme.

Un singhiozzo le salì lungo la gola mentre pensava ai suoi due figli prima della Mietitura – ricordò quando entrambi andarono a richiedere delle tessere per il pane che non arrivava a casa da due giorni, ormai, e la zuppa di cavoli e carote non bastava.

Aspettava silenziosamente che le bussassero alla porta, sapeva che lo avrebbero fatto. Aveva già vissuto gli Hunger Games come possibile vittima e aveva sperimentato la stessa paura che si era impossessata dei suoi bambini – mancavano meno sette tributi alla conclusione di quei giochi e probabilmente, l’inviato di Caesar Flickerman stava or ora attraversando il Distretto 8 per raggiungere la sua casupola assieme a tutta la troupe televisiva e alla rappresentante del loro Distretto.

 

 

Amaryllis Eglantine bussò alla porta della signora Janna Isaacs, sfilandosi subito dopo il guanto di seta, scoprendo la mano interamente tatuata con motivi floreali dorati, di fiori viola era fatto anche il suo dolcevita senza maniche, i fianchi fasciati da un semplice tubino nero che scendeva fino a sopra le ginocchia, ai piedi tacchi vertiginosi legati con dei lacci alla caviglia.

Quando la madre dei due tributi aprì la porta, la rappresentante del Distretto le sorrise flebilmente, quasi di cortesia, una volta che la signora si spostò di lato entrò nel salotto che, poté notare quasi con ribrezzo, fungeva anche da cucina – e probabilmente qualcuno ci dormiva, là dentro.

«Direi che possiamo cominciare» esordì Amaryllis, tastandosi l’elaborato chignon di treccine, assicurandosi che non ne fosse caduta nessuna.

Sentì la donna sospirare, l’inviato di Caesar si aggiustò la cravatta, si schiarì la voce e poi sfoderò uno dei suoi sorrisi più eleganti, piantandosi davanti al cameraman per incominciare dopo pochi secondi, scanditi da qualcuno che fungeva da regista, o qualcosa del genere.

«Ben trovati telespettatori, siamo qui con la signora Janna Isaacs, madre dei tributi Ariel Isaacs e Lyosha Isaacs, del Distretto 8» fece una pausa, ricevendo un pollice in su da parte di quello della troupe posto dietro quello che riprendeva l’inviato, «ci dica, signora: dov’è il padre dei due fratelli?» domandò, voltandosi poi verso la donna.

«E’ morto» rispose seccamente, tenendo il viso basso mentre sentiva gli occhi di Amaryllis su di sé, era seduta di fianco a lei nel sofà a due piazze e poteva sentire nelle narici il suo profumo caramella, «in fabbrica – sono cose che succedono» concluse, quasi pigolando.

«Certo, certo…» annuì l’intervistatore, passandosi una mano tra i capelli laccati, «ora che ricordo, ce lo hanno raccontato anche Ariel e Lyosha; quindi la famiglia ora è composta da?...».

«Io e i miei due figli, mio marito aveva una sorella ma è non si è più fatta vedere dopo la morte di lui», spostandosi un ciuffo di capelli scuri dietro l’orecchio, azzardò a sollevare il mento e quindi incontrare gli occhi del Capitolino, trovandoli estremamente brillanti ma vuoti, come se non sapesse realmente cose stesse facendo.

L’intervistatore annuì come se la compatisse, il suo gesto sembrava talmente naturale che quasi glielo fece credere, «quindi Janna – posso chiamarti così, vero? – mi stai dicendo che vivi in questa casa con Ariel e Lyosha?».

La donna mosse il capo, dandogli conferma della sua ipotesi – per qualche strana ragione, sentiva che forse sarebbe riuscita ad arrivare alla fine di tutto quel teatrino senza piangere davanti alla telecamera.

«I due fratelli ci hanno già raccontato un po’ del loro stile di vita, qui al Distretto 8, penso tu abbia seguito la loro intervista, no?».

«Certamente» la voce le uscì più chiara di quanto pensasse.

«Ma che ci dici tu, dei tuoi figli? E’ sempre un parere importante, quello della propria madre».

Ancora, gli occhi di Amaryllis ritornarono a fissarla, Janna poteva quasi vedere le sue lunghe ciglia viola abbassarsi e rialzarsi al movimento delle palpebre, sentì la sua gamba sfiorare la propria attraverso il tessuto rovinato del proprio abito, troppo strette – qui, pensò Janna, raddrizzandosi e stringendo le spalle, quasi volesse ridursi ad un minuscolo puntino nell’universo e sparire.

«Non è stato facile, per me e Stev crescere un bambino che non poteva parlare, insomma, immaginate di avere davanti una persona che non può ridere o dire qualcosa, ma che pensa esattamente come tutti gli altri ed è come tutti gli altri; abbiamo fatto molti sacrifici per avere a casa abbastanza materiale per fargli imparare a scrivere, e quando finalmente ci riuscì, scoprimmo di essere in attesa di una bambina».

Fece una pausa, sorridendo al ricordo. «In qualche modo, Ariel riuscì ad instaurare un rapporto magnifico con Lyosha, si sono capiti al volo: avevano deciso assieme dei segni che sarebbero state le loro parole. Era bellissimo vederli a tavola, gesticolanti, e poi sentire la risata di Ariel invadere tutta la stanza, o vedere Lyosha sorridere davvero, non lo faceva spesso».

«E’ una storia molto commovente» mormorò Amaryllis, quasi sovrappensiero, tutti gli sguardi si rivolsero a lei e la donna dovette sorridere alla telecamera, «continuate pure» disse, quasi scusandosi, muovendo la mano come per scacciare una mosca.

L’attenzione ritornò a Janna, «stavano sempre assieme, tranne a scuola, ma si vedevano all’intervallo per dividersi la merenda che si portavano qualche volta».

Era chiaro dove volesse andare a parare la donna: Capitol City aveva mandato al macello due fratelli fin troppo legati, e la morte di uno dei due avrebbe provocato la distruzione dell’altro, inevitabilmente.

«Come ha detto Amaryllis Eglantine, è una storia molto commovente», l’inviato riprese in mano il discorso – forse era meglio andare dritti al sodo, considerando che si trattava della madre di due tributi, lasciarle il tempo di pensare poteva essere pericoloso, «ma ci preme farti una domanda, Janna: pensi che uno dei tuoi figli possa tornare a casa?».

Il cuore le si fermò, il volto divenne pallido e gli occhi sgranati rimasero tali per qualche secondo. Eccola, la domanda che si era sognata la notte: pensi che uno dei tuoi figli possa tornare a casa?. Contò fino a dieci e riempì i polmoni di aria satura di quel profumo di caramella, «se c’è anche solo una possibilità che uno dei miei figli ritorni, io prego che si avveri» disse, sentendo crescere dentro di sé un fuoco che non aveva mai avvertito prima d’ora, forse era rabbia, rabbia nei confronti di Capitol City, sicuramente. La stessa rabbia che le era salita addosso quando aveva saputo che l’incidente in fabbrica era avvenuto per colpa dei controlli mancati.

«Lyosha ha sempre avuto molto a cuore Ariel, e credo che farà di tutto per farla sopravvivere fino alla fine – è quello che ha detto quando ci siamo salutati: “la farò tornare a casa per te”». La voce le tremava.

«“Per te”? Sa per caso spiegarci come mai ha detto questo, signora?»

«Perché è molto più facile comunicare con Ariel che con Lyosha, tutto qui». Aveva dato una risposta parecchio sintetica e, per quanto fosse vera, c’era una buona dose di storia non raccontata – ma che la televisione non aveva il diritto di sapere.

Capitol City non doveva sapere che Janna Isaacs aveva passato un momento di depressione – che in qualche modo persisteva tutt’ora –, quando a comunicare con Lyosha era solo Ariel; non doveva sapere che era arrivata ad alzare le mani sul suo primogenito perché non rispondeva alle domande che faceva, ma gesticolava nella vana speranza che la madre comprendesse; non doveva sapere quanto lei avesse sacrificato per i suoi figli, i quali tornavano da scuola con gli appunti sulle gambe che dovevano studiarsi prima di lavarsi, altrimenti sarebbero andati via e loro non si potevano permettere dei quaderni; non doveva sapere nulla – perché Capitol City le aveva rubato già i bambini, ma non poteva fare lo stesso anche con i suoi segreti.

«Sono comunque i miei figli, e non posso immaginare di vivere senza uno di loro» Janna abbassò lo sguardo, gli occhi gonfi di lacrime che caddero pesanti sulle sue mani raccolte sopra le gambe, un sorriso forzato le deformò il viso in una smorfia di dolore.

In un gesto quasi di compassione, la mano tatuata di Amaryllis finì sulla spalla della signora Isaacs, mentre lo sguardo rimaneva puntato sulle sue scarpe, un petalo cadde dalla sua maglia per finire sulla gonna, lo scacciò via con il movimento della mano libera. Forse, pensò la presentatrice, è ora che tu inizi ad immaginarlo.

 

 

Coriolanus Snow stava seduto nella sua poltrona di pelle, sulla giacca scura una rosa bianca – identica a quelle dei due bouquet ai lati dell’ampia scrivania. Le mani fasciate da quanti scuri giocavano con un petalo candido, tutto attorno a lui era un volteggiare di aromi.

Amaryllis entrò a seguito del permesso della segretaria. I suoi tributi erano ancora vivi, ma questo non spiegava il motivo per cui il Presidente – in persona! – volesse contattarla. Aveva fatto o detto qualcosa che non andava, alla Mietitura? Non aveva sorriso abbastanza?

Entrando, i capelli sciolti sulle spalle fino al fondoschiena e indosso un semplice abito nero a maniche lunghe e scollo a barca, fece un breve inchino a mani congiunte, alzando poi lo sguardo a incontrare gli occhi del più anziano, «desiderava vedermi?».

Un brivido le scese lungo la schiena quando vide il capo di Snow chinarsi verso la sedia posta di fronte a lui, all’altro lato della scrivania, «dobbiamo parlare dei tributi del Distretto 8, Eglantine, capirai benissimo che è una situazione delicata».

«E infatti lo capisco, Presidente».

Coriolanus sospirò quasi pesantemente, raddrizzando le spalle e alzando i gomiti dal tavolo, «ebbene, voglio che tu stia bene attenta a ciò che ti dirò – come pretendo che tu esegua i miei ordini meticolosamente».

Non potendo fare altro, la donna annuì.

 

 

Le domande successive furono sbrigative, e Janna si complimentò con sé stessa per la bravura nell’aver mantenuto un autocontrollo sufficientemente decente.

«Bene, abbiamo finito» annunciò il presentatore, rivolgendosi un attimo verso la telecamera, il “regista” continuava a gesticolare, mostrando i pollici in segno di vittoria. «Janna, è stato un piacere» disse, tendendo una mano verso la signora, la quale si pulì distrattamente il palmo madido di sudore sul vestito per poi ricambiare la stretta di mano, «spero vivamente che uno dei suoi figli torni a casa».

Ancora, il cuore della signora Isaacs si fermò, il ciuffo bloccato dietro l’orecchio ricadde in avanti  e le mani ripresero a sudare freddo, il corpo tremava – eppure rimaneva immobile, ferma come un’asta di legno.

Uno dei suoi figli sarebbe morto.

«Non è vero» sibilò, alzandosi di scatto e facendo sussultare Amaryllis, «non è vero che lo speri – non è vero che ti dispiaci» si indicò, l’indice premeva sul petto con tale forza da poterlo perforare, «a te e a Capitol City non importa ciò che succede quando una famiglia si disfa per colpa dei Giochi! Non importa cosa comporta la morte di un bambino, perché non sono i vostri bambini! La Capitale ha rubato i miei figli, ha rubato i figli di tutti quanti!».

La rappresentante del Distretto sbiancò, alzandosi di scatto e appoggiando una mano sulla schiena della signora, «Janna, per favore, calmat―».

«No che non mi calmo!» urlò così forte da muovere il capo, il volto si dipinse di rosso dalla rabbia, due lacrime caddero dagli angoli degli occhi e lo chignon si sciolse sulle spalle, facendo cadere a terra la bacchetta con cui era tenuto, «venite a casa mia a chiedermi di parlare dei miei figli quando probabilmente stanno soffrendo la fame e hanno paura, mi consolate dicendo che almeno uno dei due, forse, tornerà» guardava con occhi di fuoco il presentatore, sulla soglia della porta, quasi desideroso di fuggire via. Il cameraman, dietro di lui, sembrava riprendere tutto – sperava vivamente che Caesar e Claudius avessero ridato la linea allo studio.

Janna si sentì mancare le forze, barcollò sedendosi sul divano mentre altri due petali abbandonavano il dolcevita di Amaryllis, che guardava la donna accasciata contro il sedile, ormai in lacrime – distrutta.

«Signora Isaacs…» mugugnò debolmente la Capitolina, estraendo dalla tasca del tubino un sacchettino giallognolo, contenente una polvere simile a cenere.

Janna la interruppe, alzando una mano, quasi in segno di resa, «andatevene, non vi voglio in casa mia – sparite prima che vi cacci fuori con la scopa».

Il presentatore uscì prima di tutti, quasi scappando, seguito dalla troupe che si misero a discutere non molto lontano dall’abitazione, uno del gruppo si accese una sigaretta che emanò denso fumo azzurro.

Amaryllis rimase immobile, la sua presenza non sembrava infastidire la donna, perciò continuò, «il Sindaco mi ha chiesto di consegnarle questo, una sua amica, una certa Villalobos, lo ha informato della sua condizione e voleva aiutarla. E’ un calmante, la aiuterà a fare sogni tranquilli».

Janna alzò lo sguardo, fissando il medicinale, indecisa se prenderlo o no. Il suo braccio si mosse quasi involontariamente e le dita strinsero la busta.

«Starà meglio, vedrà» le disse, abbassando la mano circondata da rampicanti dorate, le sorrise ancora e poi uscì dalla casa, chiudendosi la porta alle spalle – allontanandosi, riuscì a percepire il pianto quasi soffocato della madre attraverso le pareti sottile e traforate.

 

 

La lama volò sulla gola di Ariel, il sangue sgorgò dal taglio e il corpo della piccola si afflosciò a terra.

Dietro le spalle della signora Villalobos, si sentì una tazza di ceramica andare in pezzi, girandosi, vide Janna bianca in viso – le mani tremanti nella stessa posizione con cui teneva la tazza, la bocca socchiusa come se non riuscisse a respirare.

Gli occhi si chiusero e le spalle caddero all’indietro, appoggiandosi alla poltrona grigio scuro. La donna si gettò sull’amica, battendole le mani sulle guance come per rinsavirla, ma niente non si svegliava. Dietro di lei, si annunciava il vincitore degli Hunger Games: Lyosha.

«Janna, svegliati! Lyosha ha vinto! Lyosha torna a casa!». Ma nulla.

Si sedette a terra, guardando il corpo inerme della signora Isaacs, notò che in mano teneva qualcosa, una bustina gialla.

 

 

«E’ chiaro?» la voce del Presidente le risuonò nelle orecchie.

Amaryllis annuì, abbassando gli occhi, «sì, signore».

Un movimento della mano da parte di Snow le indicò che poteva andare, senza aspettare altro si alzò, fece un breve inchino e girò le spalle per andare verso le porte aperte un attimo prima da due servitori. Tenne le spalle dritte e lo sguardo fisso verso la fine del corridoio dalla quale finestra riusciva a vedere i palazzi di Capitol City e, ancora più in la, le montagne. Sospirò, scendendo le scale tenendosi al corrimano, fermandosi poi di colpo sentendo le gambe tremare, si piegò verso il basso, flettendo le ginocchia e mettendosi la mano sulle labbra, un singhiozzo le uscì dalle labbra e gli occhi si socchiusero, le lunghe ciglia viola si bagnarono di lacrime.

Se la madre dei due fratelli dirà qualcosa che possa mettere in cattiva luce Capitol City, le aveva detto Snow, dovrai ucciderla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



«Una leggenda africana parla del perché i ghepardi hanno quelle "lunghe strisce" nere

che dagli occhi solcano il loro muso; parla di una madre, una Madre Ghepardo che perse i suoi cuccioli,

e pianse, pianse per notti e giorni, e così da allora il ghepardo ha quelle "lacrime" che segnano il viso.»

[GIORGIA SPURIO]

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE«viviamo e respiriamo parole»

 

Yeah buddy.

Siamo qui con il primo SPIN-OFF che ho deciso di pubblicare in coda a Die on the front page, just like the stars – l’intervista delle famiglie dei ultimi otto tributi a cui ho dovuto lavorare di molta fantasia dato che sul web non ho trovato nulla. Esattamente, nulla. Quindi ho pensato più o meno come potrebbe essere e spero sia abbastanza chiaro il tutto (: nel caso voi conosceste la verità(?) e fosse diversa dalla mia, prendete la mia versione come licenza poetica, ecco. ♡
Mi sono presa la libertà di fare una situazione così “grave” perché, comunque, siamo a distanza di tre anni dalla rivolta e immagino che comunque, cose come la ribellione, sono comunque ponderate – e, insomma, ok.

Per la cronaca, Janna si pronuncia Gianna.

Quindi sì, Snow ammazza la mamma di Isaacs, ho fatto questa scelta basandomi sempre su quello che succede nella trilogia e spero concordiate con me, sì ♡
Davvero, non mi ricordo che cosa volevo scrivere in queste note, che erano tantissime cose. Volevo solo farvi notare la nuova grafica con il banner iniziale fatto apposta per le pagine rubate, e se ve lo state chiedendo, sì: il tipo in mezzo ai fiori è Lyosha e il motivo di questo sarà spiegato nelle prossime pg (:

Ho parlato troppo, esatto.

 

Alla prossima!

radioactive,

 

 

 

 

 

a n g o l o s p a m

a.    I’m frozen to the bones. { HUNGER GAMES – long – nuovi tributi, 73rd edizione } yingsu

 

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Capitolo 16
*** ▪ PAGINE RUBATE Ø2; fiori bianchi, blu e gialli – in tinta con il vestito. ***













     » PAGINE RUBATE Ø2  

              fiori bianchi, blu e gialli – in tinta con il vestito.

 

 

 

 

«Alza il mento» mormorò l’addetta al trucco e Lyosha ubbidì. Nello specchio riusciva a vedere la cicatrice più chiara del suo colorito sbocciare come un fiore al centro della gola, percepiva anche la pelle vibrare sotto quel marchio quando diceva qualcosa, borbottava, tossiva. Prima che se ne accorgesse era tutto scomparso sotto uno strato di trucco color pelle.

Non sapeva se essere grato o meno a Capitol City per avergli dato la possibilità di parlare – ma quel che sapeva era che l’operazione era stata fatta per loro. Al Presidente Snow poco importava se Lyosha poteva parlare o meno, quel che veramente gli premeva era che fosse in grado di esprimersi durante l’intervista, nel Tour della Vittoria e via dicendo.

«Abbiamo finito» la voce dell’altra preparatrice lo svegliò da quei pensieri, facendogli raddrizzare la schiena mentre osservava il ciuffo di capelli ricadergli di lato, quasi accennando gli occhi blu che avevano ripreso un po’ di colore e vivacità dal suo ritorno dall’Arena.

Vilette, seduta quasi davanti a Lyosha – posta in diagonale – accennò ad un applauso mentre si alzava e la treccia le ricadeva dietro le spalle, «ottimo lavoro ragazze» disse mentre la terza aiutante ricompariva da terra, in mano teneva ago e filo per fare un appunto al pantalone grigio fumo del Vincitore. Le tre sorelle – Lyosha lo scoprì poi, che erano gemelle – sorrisero alla stilista e, raccolte le loro cose, sparirono dietro la porta nelle loro salopette animalier e la maglietta color evidenziatore abbinate alle scarpe dalla suola alta.

La Capitolina tese una mano a Lyosha, facendolo alzare dalla sedia e girandogli attorno. Era chiaro come il sole che il ragazzo non si sentisse bene in quel vestito – come non si sentiva bene da quando aveva lasciato l’Arena. Lo conosceva abbastanza da pensare che, se fosse stato completamente lucido, avrebbe già fatto qualche scenata per la morte della sorella.

E invece non era successo nulla dal suo risveglio: o Lyosha ancora soffriva in silenzio, oppure Capitol City gli aveva somministrato qualcosa per renderlo più docile. In tutti i casi, poco importava – qualsiasi cosa tenesse a freno il ragazzo, quella sera, andava bene. Non poteva permettersi nessuna gaffe con Caesar Flickerman.

«Lo avevo detto: il grigio ti dona molto» gli sorrise con serenità, aggiustandogli il fazzoletto nel taschino della giacca.

Lyosha alzò lo sguardo, incontrando gli occhi bicromatici dell’altra. In quelle pietre blu poteva vedere tutta la tristezza del mondo concentrata in uno sguardo. Ebbe la sicurezza che il ragazzo non fosse sotto l’effetto di nessun farmaco – ma prima che potesse rivolgergli una qualche domanda, Lloyd entrò rumorosamente sbattendo i tacchi contro il marmo della suite, con le dita afferrava una mela verde visibilmente morsicata.

«Lyosha, tesoro» lo chiamò sarcasticamente, puntandolo con la mano che teneva il frutto, «siamo d’accordo che sei il Vincitore, ma Caesar non aspetta! E tantomeno Amaryllis» disse, mordendo ancora il pomo.

Dalla porta, si sentì la voce squillante dell’altra Capitolina, era arrabbiata, «ha ragione!» urlò.

«Amaryllis!» la rimproverò Cecelia, gli sembrava, anche lei fuori la stanza.

Il ragazzo sorrise, iniziando a camminare verso l’uscita, seguito poi dalla Mentore ben vestita e dalla stilista. Forse quella serata sarebbe andata meglio di quanto potesse credere.

 

 

Lyosha era stato abbandonato sotto il palco dello studio di Caesar, Amaryllis gli aveva spiegato come sarebbe andata la serata e la mattina successiva: tutto il gruppo sarebbe stato presentato a Capitol City, Caesar l’avrebbe salutato, qualche domanda per spezzare un po’ la tensione e poi via a vedere un lunghissimo – interminabile, a parer suo – filmato dove gli Strateghi avrebbero condensato quella settimana e più di Hunger Games, e Lyosha sapeva che ci sarebbe stata dentro anche la morte della sorella. Era preparato anche a quello. Finito il filmato, il Presidente Snow sarebbe arrivato ad incoronarlo.

Come da manuale, l’inno nazionale di Panem gli riempì le orecchie fino a perforargli i timpani, dall’alto riusciva a sentire i nomi annunciati con foga delle tre gemelle, di Amaryllis, Vilette, Cecelia e Lloyd – tutte quante accolte da applausi e fischi di consenso. Sentì il suo nome venir pronunciato dall’allegra voce di Caesar e la pedana sulla quale era posto alzarsi – come quella della camera di lancio. Si ritrovò avvolto in un lenzuolo di luci colorate ma si sforzò di tenere gli occhi aperti e le labbra tirate in un sorriso.

Caesar lo raggiunse e gli appoggiò la mano sulla spalla, sorridente nel suo completo dorato per l’occasione, accompagnò Lyosha alla poltrona ricamata dove il Vincitore si accomodava ogni anno, sedendosi di fianco a lui, «un sacco di donne, eh?» commentò, aspettandosi una risposta.

Forse lo sa, pensò il ragazzo dell’8, forse lo sa che posso parlare.

«Già» disse semplicemente, ridacchiando e abbassando lo sguardo. Sentì il pubblico andare in delirio e anche dei piedi battere per terra per incrementare gli applausi.

Caesar assecondò i Capitolini, tirandosi leggermente indietro come per sorpresa e chinandosi subito dopo in avanti come un bambino curioso, «Lyosha, mi stupisci!» disse con un sorriso – contagiando l’Isaacs, «è una cosa che hai scoperto di poter fare? Come un blocco psicologico o…» stava bluffando, lo sapeva. Ma il pubblico si beveva la recita e questo non faceva altro che aiutare Lyosha. Anche alla fine degli Hunger Games, c’era bisogno di aiuto.

«Sono stati gli Strateghi» rispose, cercando di sembrare il più naturale possibile. Rivolse uno sguardo verso Lloyd sull’altro lato del palco, vicino a lei Vilette sorrideva scambiando qualche parola con Cecelia, «sono stati molto gentili».

Era il primo aggettivo che gli balzò in mente per elogiare la Capitale – sapeva cosa voleva dire mettersi contro le regole, una volta, al suo distretto, un paio di giovani uomini (trent’anni, non di più) erano andati in giro per l’8 cantando canzoni su liberazione dalla monarchia e rivoluzione dello stato, erano stati frustrati pubblicamente il giorno dopo.

Caesar fece qualche altra battuta, creando l’atmosfera tranquilla e catturando l’attenzione del pubblico, le luci scesero lentamente e il lungometraggio sull’Arena occupò il grande schermo posto alle loro spalle. Se Lyosha sopravviveva anche al riassunto dell’Arena, allora poteva definitivamente dirsi Vincitore. Solo allo scadere di quelle tre ore sarebbe finalmente uscito dagli Hunger Games.

Non pianse, non disse una parola né osò muovere un muscolo durante tutto il filmato – neanche l’angoscia che provò quando il corpo del ragazzino del Distretto 4 fu stritolato riuscì a smontare la maschera di impassibilità che si era imposto, neanche le sue dita per terra o le crude immagini dell’ago che gli cuciva le dita mentre il suo viso si contorceva di dolore. Ma quando riconobbe la foresta nuda in cui i Favoriti si erano scontrati, le labbra si schiusero leggermente e gli occhi parvero prestare attenzione a quello che succedeva realmente. Seguì con attenzione – in realtà era timore, ma questo nessuno lo sapeva – il combattimento tra Lexi, Liv e Fraser, vide il primo piano del petto di Liv trafitto dalla lama del ragazzo dell’1. Il combattimento successivo, il rapimento di Ariel, i propri occhi di un blu tempesta, le mani tremanti e la ferita alle dita sanguinanti con i punti strappati.

La gola di Ariel su cui volava il coltello di Lexi, la risata della Favorita si percepiva appena con il sottofondo musicale, un colpo di cannone lontano. Lyosha che fissava le due ragazze morte, lui che si spostava verso Fraser, lui che uccideva Fraser. La voce di Claudis che lo annunciava Vincitore e le ultime note della musica su sfondo nero – come la fine di un film ben costruito e soddisfacente.

Le luci si accesero gradualmente, gli occhi di Lyosha erano lucidi e la sinistra – provvista di protesi alle dita mancanti – tappava la bocca per non far uscire nessun suono. Senza aspettare il consenso di nessuno, Lloyd attraversò il palco passando dietro a Caesar e chinandosi vicino alla spalla del ragazzo, «va tutto bene» gli mormorò piano, mentre nella sala si diffondeva un tenue applauso di condoglianze.

Forse, Capitol City stava iniziando ad imparare dai propri errori.

Si asciugò le lacrime con il fazzoletto ben ripiegato nel taschino, il presentatore chiese a Lyosha se fosse pronto a proseguire e, ricevuto un assenso con il capo, seguì l’inno di Panem e l’incoronazione con il Presidente Snow.

 

 

Lyosha ritornò all’ottavo piano del Centro di Addestramento con una certa nostalgia – davanti alla sua camera, c’era il letto in cui Ariel aveva trascorso le sue ultime notti prima dell’Arena. Rimase fermo davanti a quella porta con la giacca in mano mentre sentiva, vicino all’entrata, Vilette parlare con le tre gemelle riguardo a quando si sarebbero viste il giorno dopo per l’intervista del Vincitore.

Sospirò chiudendo gli occhi, facendo dietrofront per andare nella propria camera, si lasciò cadere a peso morto sul soffitto e guardò come le prime luci del mattino dipingessero il cristallo del lampadario sopra di loro. Avvertì una profonda tristezza montargli addosso e si accorse poco dopo di aver ripreso a piangere, un singhiozzo gli risalì lungo la gola rumorosamente, facendolo sussultare.

Tre colpi alla porta e poi il viso di Lloyd sbucare fuori dalla fessura, tra le labbra una sigaretta ormai consumata, «mi hanno obbligato a venire a chiederti come stai» disse, prendendo la stecca tra le dita e premendola contro il muro per spegnerla – c’era rabbia, nel suo gesto. «Poteva venire Vilette, tu a lei piaci e lei piace a te», quando entrò Lyosha si accorse che nella mano libera aveva le scarpe con il tacco, la sua Mentore aveva i piedi piccoli, notò.

«Sto bene» mentì, rigirandosi sul letto per mettersi a pancia in su, si passò la mancina tra i capelli e sfregando la guancia contro le lenzuola pulite vide un leggero alone di trucco color carne abbandonare la sua pelle per depositarsi sulla coperta.

«Non ne dubito…» mugolò l’altra, appoggiandosi sul muro vicino alla porta, se ne sarebbe andata presto – Lyosha non aveva molta voglia di parlare. «Verrò a chiamarti per mezzogiorno, l’intervista è alle due» e con un colpo di reni si rimise dritta, afferrando il pomello della porta.

«E poi?» la domanda gli uscì come un sussurro, molto più bassa di quanto si aspettasse.

Riuscì a vedere, nella penombra della stanza, gli occhi della dona puntati su di lui e le labbra piegate in un sorriso leggero, tra compassione e sollievo.

«Poi si torna a casa».

Un sonoro click riempì il vuoto della stanza, Lyosha rimase solo con i propri pensieri. Allungò una mano, afferrò il cuscino più grande che avesse a disposizione e se lo premette contro la faccia, urlando tutte le grida di diciassette anni. Urlando, l’idea gli suonava quasi amara nella mente. La sua voce – che non era sua, era della Capitale – gli arrivava soffocata alle orecchie.

Soffocata come era anche l’idea della morte di Ariel. Si chiese quale sarebbe stato il momento in cui avrebbe potuto lasciarsi andare.

 

 

Lyosha non credé  di aver mai sentito tanto rumore in vita sua: le tre preparatrici gli avevano ordinato di rifarsi il bagno, erano andate a cercare i peli di una barba rasata meno di ventiquattro ore prima ed era quasi sicuro che gli avessero tagliato ulteriormente i capelli. Indossava una camicia azzurra e dei pantaloni neri tenuti su con delle bretelle – una sciarpa color crema gli avvolgeva il collo ricadendo in avanti sul petto.

Una volta pronto, fu accompagnato da Lloyd fino al pianterreno e lì, appena fuori l’ascensore, Caesar aspettava quasi saltellando sul posto il Vincitore, accogliendo Lyosha con un abbraccio quasi esilarante.

Probabilmente fa così ogni anno.

«In perfetto orario!» commentò, posando una mano sulla schiena di Lyosha e scortandolo vicino all’ingresso dove era stata portata la poltrona della sera prima, attorno a questa i fiori regnavano sovrani bianchi e blu, ogni tanto si intravedevano dei boccioli gialli.

Il ragazzo si sedette naturalmente con una gamba sotto la coscia, accorgendosi della sua posizione, tentò di sfilare il piede flesso per sedersi in modo più decoroso, ma la risata di Caesar lo fermò e il movimento della sua mano – a ventaglio – accompagnò le sue parole di rassicurazione, «non preoccuparti, siediti come sei più comodo, dobbiamo parlare di te oggi, no?».

Prima che Lyosha potesse rispondere, il conto alla rovescia di un membro dello staff delle riprese catturò la sua attenzione e un’altra donna gli fece segno di sorridere. Caesar salutò il pubblico da casa e l’Isaacs si immaginò di essere in diretta nazionale.

Flickerman fu molto bravo a mettere a proprio agio l’altro: parlarono del cibo, raccontò qualche barzelletta e lo interrogò sui nomi dei fiori che componevano i meravigliosi bouquet, trovandoli poi in tinta sia con l’abito di Lyosha che con i suoi occhi.

«La tua stilista ti ha mai detto che hai degli occhi favolosi?» commentò Caesar.

«La mia stilista trova tutto favoloso, anche te» la battuta gli uscì spontanea e si chiese come l’avesse presa Vilette, si appuntò mentalmente di chiederle scusa e ridacchiò all’idea del viso della donna imbarazzato – o arrabbiato. «Dico davvero!» aggiunse poi, chinandosi verso Caesar che riprese a ridere più forte.

«Allora penso che abbia trovato favoloso anche il tuo coraggio nell’Arena, no? Mi riferisco alla ferita sul braccio e alle dita», fece una pausa, osservando Lyosha irrigidirsi appena e stringere a pugno la mano semibionica, «come vanno le protesi?» domandò con più accortezza.

«Bene, se non fosse per il metallo freddo direi che sono perfette» disse con un sorriso un po’ forzato, Cecelia dietro i cameraman sospirò – Lloyd era uscita a fumare. «Comunque il coraggio è irrilevante, mi sarò anche tagliato le dita e ustionato un braccio, ma non sarei capace di saltare da… non lo so, il terzo piano di un palazzo se me lo chiedessero in circostanze diverse dagli Hunger Games. Penso sia qualcosa che abbia a che fare con l’energia che non sai di avere…» la frase rimase in qualche modo sospesa.

Ci fu un breve momento di pausa dove Caesar si toccò i capelli, come cercando la forza di fare la prossima domanda. «Scusa la franchezza, Lyosha, ma ora dovremo entrare nel vivo dell’intervista e… come ti sei sentito quando Amaryllis pronunciò il tuo nome come tributo maschio di questa edizione?» qualcosa in lui chiedeva perdono per la domanda – quella e tutte le seguenti che avrebbe fatto.

«Avrei voluto vomitarle sulle scarpe» rispose dopo poco, senza pensarci. Decise di ripiegare sulle risposte “divertenti” per alleggerire la tensione, Lloyd gli aveva spiegato come doveva muoversi: cautela.

Caesar sorrise, rilassandosi a sua volta mentre adagiava le spalle alla poltrona, «seriamente» riprese Lyosha, «avrei voluto vomitare – personalmente, non mi sarei mai offerto per accompagnare Ariel nell’Arena» pronunciare quelle parole gli fece male, «mi sarei limitato a sperare che tornasse a casa, forse avrei accettato la sua morte e basta. Ma andare con lei agli Hunger Games e non essere stato capace di proteggerla è stato…» i suoi occhi si persero nel vuoto.

La mano del presentatore gli sfiorò la spalla con cautela, «mi dispiace per Ariel, Lyosha» disse sottovoce, aveva lo sguardo lucido ma il ragazzo non sapeva se i suoi sentimenti fossero sinceri o meno, aveva importanza?. «Ti chiederei di parlarne, ma se non te la senti…» in qualche modo era supplichevole.

Lyosha respirò a fondo, sfilando la gamba da sotto la coscia, un brivido gli percorse la schiena e gli occhi si piantarono sulle mani, prima che iniziasse a parlare – l’ultimo sforzo.

«Ero davvero felice, il giorno della Mietitura, perché era la mia penultima, e magari una volta diciottenne avrei potuto cercare di sistemarmi, mettere su famiglia. E invece sono stato estratto, quando salutammo – io ed Ariel – nostra madre al Palazzo di Giustizia, le avevo detto che avrei protetto Ariel, perché doveva tornare lei a casa, non io. Mia madre non mi ha mai voluto bene come ne voleva a mia sorella, penso fosse per la questione della voce» istintivamente si portò una mano alla gola, «era andato tutto bene. Se ero riuscito a cicatrizzarmi una ferita con il ferro caldo, uccidere due persone e tagliarmi due dita, quanto mi ci voleva per bere un po’ d’acqua avvelenata e lasciarmi morire mentre Ariel vagava alla mia ricerca? Niente». Lloyd era rientrata, lo fissava con occhi seri vicino a Cecelia.

«Come sapevi che Ariel non si sarebbe uccisa prima? Magari per sbaglio, nell’Arena o…―».

«Lo sapevo e basta, ha sempre fatto quello che le dicevo. E ha continuato anche nell’Arena, una volta uscita di là avrebbe vissuto come le avevo pregato di fare: ti farò uscire da qui e tu potrai tornare dalla mamma. Nessuno dei due pensava realmente alla morte dell’altro», c’era tristezza, nella sua voce. «A me, invece, nessuno ha detto che cosa dovevo fare se fossi uscito da lì. Nessuno pensava che sarei stato io a vincere», un sospiro gli sfuggì dalle labbra, si catturò con i denti l’interno della guancia e intrecciò le dita delle mani tra loro, il metallo freddo pulsava sotto il contatto con la pelle.

«Devo trovare la mia strada» concluse, alzando lo sguardo e rivolgendolo coraggiosamente a Caesar, «anche se sarà un po’ difficile…» e riabbassò gli occhi, grattandosi una tempia.

«Per via di tua madre, immagino» suggerì debolmente il Capitolino.

Lyosha annuì, i suoi movimenti erano lenti e morbidi come se coperti da un lenzuolo – faceva tutto piano, con calma, come se avesse paura che un movimento brusco avesse potuto tirare fuori ciò che lui doveva tenere assolutamente dentro; «anche per quello, mi manca» si passò la manica della camicia sugli occhi, riaprendoli lucidi, «mi mancano entrambe». E in breve si ritrovò a lacrimare come la sera prima davanti alla morte di Ariel, si riasciugò gli occhi con la manica del vestiario e poi con la sciarpa – fino a quando il presentatore non gli offrì sotto il naso il proprio fazzoletto.

«Grazie…» disse con cortesia, asciugandosi le lunghe ciglia.

«Penso sia superfluo dire che Capitol City è al tuo fianco per sostenere il tuo lutto» ancora, la mano di Caesar gli toccò la spalla.

Il ragazzo scosse la testa, ripiegando il fazzoletto dell’altro e posandoselo sulle ginocchia, «certe cose bisogna sopportarle da soli, l’ho imparato nell’Arena», non voleva risultare un ribelle né sentirsi nelle orecchie le grida di disapprovazione di Lloyd nel caso dicesse qualcosa di sbagliato – eppure le sue labbra si mossero ancora, «mi hanno già portato via la famiglia, non intendo condividere con nessuno il ricordo di questa».

Flickerman annuì quasi come se potesse comprendere appieno le sue parole, «come ho detto, Lyosha, il tuo coraggio è favoloso, come i tuoi occhi». Salutò il pubblico con un gesto della mano e il segnale che informava la ripresa si spense.

Lyosha si alzò, seguito subito da Caesar che lo catturò in un altro abbraccio, stavolta più consolatorio – quasi dispiaciuto, «sei stato bravo». L’Isaacs si divincolò dalla sua presa salutandolo distrattamente, schivò le altre persone e raggiunse Lloyd e Cecelia, insieme si avviarono verso l’ascensore.

«Andiamo a casa» mormorò la ex-Mentore di Ariel, arruffando i capelli al Vincitore. Lloyd sospirò e fece segno a Lyosha di entrare per primo nell’ascensore.

Ma quale casa? pensò la donna, appoggiandosi al muro della cabina, questo ragazzo non ha più una casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



«Se continuerete a rinnegare quanto c'è di brutto in ciò

che fate, non imparerete mai dai vostri errori.»

[MAGNUS BANE; Shadowhunters – TMI]

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE«viviamo e respiriamo parole»

 

Sappiate solo che mi sono espressamente rifiutata di rileggere ciò di cui sopra, perché lo trovo molto deludente per il semplice fatto che non c’è tutto il dolore che avrei desiderato. E insomma, pace e amèn. L’unico motivo per cui pubblico e non tendo di riscriverlo è che sono quasi sicura uscirebbe peggio di questo – e poi yingsu mi ha detto di pubblicarla, quindi eventualmente prendetevela con lei ♥

La citazione finale, insomma, la amo – amo la frase e Magnus Bane! Ci tenevo che lo sapeste.

Mi scuso anche per il lungo – lunghissimo capitolo, ma spero sia abbastanza piacevole da leggere nonostante tutto. La sequenza degli avvenimenti è ripresa da Hunger Games, dopo l’intervista Lyosha è andato a raccattare le sue cose e poi a prendere il treno per l’8 – di cui c’è uno SNIPPET nell’epilogo.

 

Ci vediamo all’ultimo capitolo ;)

radioactive,

 

 

 

 

 

a n g o l o s p a m

a.    I’m frozen to the bones. { HUNGER GAMES – long – nuovi tributi, 73rd edizione } yingsu

b.    Sarò lì quando cadrai. { SOVRANNATURALE – long – angeli/demoni } yingsu

c.     Terza base. { ROMANTICO – onesto – spinoff de Sarò lì quando cadrai – Seth/Nid (slash!) } yingsu

d.    Piove sui nostri volti. { HUNGER GAMES – shot – Lyosha (OC) + Tallulah (OC) } radioactive

 

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Capitolo 17
*** ▪ PAGINE RUBATE Ø3; nessun distretto che non è Favorito vince due volte di seguito. ***


attenzione!

Questa pagina rubata fa forti riferimenti a “I’m frozen to the bones”,

capitolo 6 – quindi se non lo avete letto e non volete spoiler cliccate qui, e poi tornate da me

(se invece non avete letto la fan fiction di yingsu, potete comunque proseguire – ma poi andate a leggete FtB!)












     » PAGINE RUBATE Ø3  

              nessun distretto che non è Favorito vince due volte di seguito.

 

 

 

 

Lyosha non riuscì a dormire – era una cosa strana: a lui piaceva davvero tanto dormire e, ricordò, non aveva sofferto di insonnia nemmeno la notte prima delle svariate Mietiture a cui partecipò come possibile tributo, fino a quella definitiva.

Ricordava di aver spento malamente la sveglia durante i suoi viaggi nei Distretti per il Tour della Vittoria, di aver sentito Amaryllis lamentarsi per quel “pelandrone” e Lloyd che batteva pugni e piedi contro la sua porta per farlo svegliare. Sorrise.

Il suo Distretto aveva goduto di cibo in abbondanza quell’anno, assieme a farmaci e ristrutturazione di molte fabbriche, cosa che mancava sempre per colpa del sovrappopolamento dell’8. L’idea che fosse arrivata la settantatreesima edizione lo faceva preoccupare un po’, lui – come Vincitore – avrebbe sempre fatto una vita agiata, gli altri invece sarebbero morti di freddo, fame e malattia. Ancora.

Fece leva sulle ginocchia, osservando dall’alto il suo prato fiorito di fine luglio in cui si era accovacciato per osservare più da vicino i boccioli– come avrebbe fatto Ariel. Avrebbe mentito se avesse detto di non aver piantato tutti quei germogli in suo onore. Era l’unica cosa che gli rimaneva della sorella, oltre i ricordi: l’amore per i fiori.

La porta della casa davanti a lui si aprì, Lloyd richiuse l’uscio e attraversò la strada, appoggiandosi al cancelletto che divideva la dimora di Lyosha dal mondo, «andiamo?».

«Faremo tardi» acconsentì lui, e raggiunse la sua ex-Mentore e, per quell’anno, compagna di lavoro.

 

 

Il palco faceva rumore quando ci si camminava sopra – un tecnico di Capitol City aggiustava il microfono posto al centro per assicurarsi che andasse, le due ampolle rotonde e lucide erano già poste a destra e a sinistra. Su un lato della tribuna una fila di sedie erano poste perfettamente raddrizzate, nelle due agli estremi vi erano il Sindaco da una parte e Amaryllis dall’altra, le due panche al centro erano state riservate a Lloyd e Lyosha, i due Mentori.

Quando arrivarono anche loro, salutando velatamente gli altri due già sul posto, il Sindaco si alzò per procedere con il momento del pentimento e quello del ringraziamento, elencando tutti i vincitori del loro Distretto – cinque, forse sei. Non li aveva contati, non li contava mai.

Un brivido gli scivolò lungo la schiena quando sentì il suo nome venire pronunciato, chiuse gli occhi e respirò piano con la bocca – calmati. La mano di Lloyd gli sfiorò protettiva le dita finte.

Amaryllis si alzò a prendere posto davanti al Microfono mentre il Sindaco riprese posto vicino alla Mentore, la Capitolina sorrise e annunciò la solita frase di apertura alla Mietitura: «felici Hunger Games! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore!». Disse qualcosa che suonava un po’ come “sono onorata di essere ancora qui con voi, Distretto 8, considerando che il Vincitore scorso era dei vostri!”, ma non gli importava.

Prima le ragazze pensò Lyosha in sincronia con la voce squillante dell’Accompagnatrice, alzò piano lo sguardo per seguire la mano guantata della donna immergersi tra quel mare di foglietti bianchi, sparire oltre quella selva di pesci morti e riemergere con due biglietti tra le dita. Ne fece cadere uno. Se lo portò davanti al naso, aprendolo lentamente e con cura, fece un bel respiro e poi pronunciò il nome della fortunata: Reshmi Guyen.

Lyosha non la conosceva, il loro Distretto era talmente popolato che essersi incontrati tutti era impossibile, si fece largo tra la folla una ragazza delle prime file – e quindi molto vicina ai diciott’anni – il viso tondo e pallido, due cascate di capelli biondi le ricadevano sulle spalle e gli occhi azzurri erano velati da lacrime contenute coraggiosamente. Nessuno osò parlare mentre la piazza veniva riempita del sordo rumore delle scarpe di Reshmi che salivano le scale.

«Ci sono volontari?» domandò Amaryllis.

No. – ed infatti nessuno si offrì. Reshmi con il suo sguardo impaurito si posizionò di fianco ad Eglatine, fissava lontano, probabilmente i suoi genitori erano lì, da qualche parte.

«Passiamo ora ai ragazzi…» con la stessa procedura di prima, prese un biglietto e ne lesse il contenuto, «Lacey Rous!» e ancora un anonimo personaggio scivolò fuori dalle righe e salì sul palco – il mento alto ma una gran paura negli occhi.

Gli ricordava così tanto sé stesso che Lyosha avrebbe voluto svenire in quel momento e svegliarsi solo quando tutto fosse finito.

In poco tempo, Amaryllis si congedò e riprese il proprio posto mentre il Sindaco recitava il Trattato del Tradimento. Quando Lacey e Reshmi si strinsero la mano, Lyosha si accorse di star trattenendo il respiro e di avere i pugni chiusi

L’inno di Panem suonò ed in breve finì tutto. Mentre le persone se ne andavano, la voce di Lloyd arrivò a consolarlo come se l’avesse chiamata lui, «va tutto bene» gli disse.

Va tutto bene.

 

 

«Vuoi qualcosa da bere?».

Lloyd annuì alla domanda, appoggiando le spalle alla poltrona vicino al finestrino del treno – lo stesso dell’anno precedente. Si ritrovò poco dopo un bicchiere di cristallo alto e stretto riempito del liquore azzurro che avrebbe scelto lei nel caso se lo fosse versato da sola. Afferrò il calice e si girò a guardare la figura del giovane Mentore, di spalle a lei, intento a mettersi in un altro bicchiere della semplice acqua, «come facevi a saperlo?».

Lyosha sembrava abbastanza confuso, prese posto davanti lei, «sapere cosa?».

«Che avrei preso questo» e gli indicò con la mano libera il bicchiere.

L’altro sorrise, alzando lievemente le spalle, «lo hai preso anche l’hanno scorso».

In quel momento Reshmi e Lacey entrarono dalla porta più vicina seguiti da Amaryllis. Si avvicinarono ai due Mentori senza dire una parole, le mani raccolte davanti al busto e lo sguardo basso. Lloyd li guardò come se fosse una scena già vista più e più volte e Lyosha ebbe l’impressione che tutti i neotributi si presentassero con l’aria da cani bastonati… in effetti lo avevano fatto anche lui ed Ariel.

«Vi potete sedere, di certo non vi mangerò io – né tantomeno Lyosha, su» e picchiettò sulla poltrona vicino a lui, il primo ad accomodarsi su Lacey, di fianco al Vincitore dei settantaduesimi, Reshmi lo imitò pochi secondi dopo, sedendosi vicino a Lloyd. «Fantastico, Lyosha, tu ti prendi il ragazzo» sentenziò infine bevendo tutto d’un sorso quasi l’intero contenuto del bicchiere. Amaryllis si servì a sua volta e rimase appoggiata al muro guardando i quattro, come suo solito non diceva una parola.

«Non ho la forza di contraddirti» borbottò quasi scherzando, cercando di alleggerire la tensione, Reshmi sembrò accennare ad un sorriso.

«No, non ce l’hai, infatti» fece un gesto con la mano e simbolicamente spazzò via l’argomento, girandosi poi verso il tributo femmina mentre frugava nella tasca dei pantaloni alla ricerca delle sigarette, «tu sei Guyen, vero?» chiese e, ottenendo un movimento d’assenso con il capo si girò a guardare il compagno di distretto, «e tu?».

«Rous» intervenne Lyosha, tenendo con entrambe le mani il bicchiere, «Lacey Rous, hai una memoria pessima».

«Trovate!» il disinteresse di Lloyd per un argomento che aveva tirato fuori lei era disarmante, quando si fu messa la sigaretta tra le labbra e acceso la cicca, si degnò di rispondere all’altro, «non ho una memoria pessima, solo non mi ricordavo il nome del ragazzo – e penso che continuerò a scordarmelo, per questo voglio Reshmi».

Inspiegabilmente, Lyosha sorrise, «non sei stata così gentile con me, quando ero io il tributo».

«La tua gentilezza è così contagiosa che rende più buona anche me, ragazzo».

Spezzata la tensione, i due Mentori offrirono da bere ai tributi e in poco questi quasi sembravano aver dimenticato la loro condizione – apprezzarono la tavola imbandita di tutte le leccornie più varie e mangiarono fino ad essere pieni, poi si ritirarono a riposarsi nei letti forniti loro.

Anche Lloyd sparì da qualche parte mentre Amaryllis rimase a tavola, osservando Lyosha che tagliava a piccoli pezzi la buccia di un’arancia. Ancora non ci riusciva, la Capitolina, a guardarlo senza sentire addosso il rimorso per l’aver ucciso la madre di quel ragazzo – ma non avrebbe mai avuto il coraggio di confessarglielo.

«Moriranno, vero?» disse ad un tratto l’Isaacs, gli occhi blu scintillavano nella speranza di una risposta negativa alla sua domanda.

Amaryllis sospirò, togliendosi le scarpe con i piedi e chinandosi a raccogliere i tacchi, «sai cosa si dice, a Capitol City?» aspettò qualche secondo per essere sicura che Lyosha non potesse rispondere, «nessun distretto che non è Favorito vince due volte di seguito».

Quella risposta gli lasciò l’amaro in bocca.

 

 

Il tributo del Distretto 2 – Roel Flos, il quale aveva visto un paio di volte in occasioni come la sfilata o l’intervista – premette con il piede sulla colonna vertebrale di Reshmi e con la mazza chiodata mandò in pezzi il capo della ragazza.

Lyosha avvertì di fianco a lui Lloyd irrigidirsi e la schiena della donna bloccarsi mentre le dita affondavano nei braccioli della poltrona, Vilette – che si era ripresentata come stilista di Lacey, ma con un nuovo compagno di lavoro – appoggiò la mano sulla spalla della Mentore che bruscamente si alzò, biascicando un «lasciatemi stare» e andando fuori al balcone.

Aveva reagito così anche alla morte di Ariel? Lyosha non ebbe il coraggio di rispondersi.

E poi arrivò anche la morte di Lacey, o quantomeno quello che poteva definirsi tale. Una lunga agonia che fece vibrare ogni nervo di Lyosha dal terrore e dal rammarico: non lo aveva salvato.

Sgranò gli occhi quando vide la pelle della mano del suo tributo rimanere attaccata alla paratia, il sangue scorreva dalla ferita copioso sporcandogli la giacca di lunghi, scuri, rivoli rossi. Per un momento il Mentore pensò che quel liquido potesse ghiacciarsi – si chiese se avrebbe fatto male.

Non andò a dormire, quella notte, rimase seduto sulla poltrona con le gambe strette al petto, fissando lo schermo spento, buio. Immaginò le urla di Lacey nella notte e se ne diede la colpa: sta soffrendo così perché non posso aiutarlo. Prese in considerazione anche l’idea di infilarsi la giacca e andare alla ricerca degli sponsor, implorandoli di aiutare il suo tributo perché ne valeva la pena. Ma alla fine non si mosse, rimase bloccato, in trappola dai ricordi dell’intervista mentre lui e Lloyd si aggiravano per l’auditorium alla ricerca di Capitolini ben disposti a finanziare Reshmi e Lacey. Ma era come aveva detto Amaryllis: nessun distretto che non è Favorito vince due volte di seguito.

La mattina dopo Lacey era ancora lì, nell’Arena, e tutto in lui gridava disperazione – Lloyd gli portò sulla poltrona una tazza con latte e miele e delle fette di pane con della confettura dorata, gli occhi della donna erano circondati da profonde occhiaie viola e le labbra stringevano rabbiosamente una sigaretta, non volle sapere quante ne avesse fumate dalla morte di Reshmi. Morse la sua colazione mentre continuava a fissare lo schermo, doveva solo tirare, e anche se avesse sanguinato, che importava?

Ma capì che i suoi consigli non erano rivolti a Lacey, ma a quel Lyosha che doveva tagliarsi le dita e cucirle. Non si trattava di istinto di sopravvivenza, ma di qualcosa di molto, molto più grande – la paura di morire.

Cosa credeva Lacey? Che a stare lì fermo qualcuno sarebbe andato a salvarlo? Doveva reagire, dannazione.

«Mangia piano» lo ammonì Lloyd, vicino a lui, e Lyosha si accorse di aver già ingurgitato entrambe le fette di pane.

Alzò gli occhi dal piatto e la figura di Roel Flos si fece imponente nello schermo, «ti serve una mano?» nella sua voce c’era una cattiveria disinteressata, come di chi fa del male perché deve, e non perché vuole.

«Battuta di pessimo gusto» commentò Lloyd, e subito dopo la sala si riempì dell’urlo di Lacey e del rumore delle sue ossa spezzate, il sangue finì sulla neve sporcandola di rosso e la visuale si postò poi sulla mano del ragazzo, ancora attaccata alla porta, da cui penzolavano i nervi e lunghe gocce scarlatte.

Lyosha ricordò: nell’intervista, Roel aveva fatto riferimento ad una certa Liv Nerys – la stessa Liv che era morta uccisa da Fraser, la stessa Liv che era arrivata così vicino dall’essere Vincitrice.

Un sospirò gli sfuggì dalle labbra, privando il suo corpo di tutto l’ossigeno di cui disponeva – si sentì mancare l’aria e il sangue riaffluire, la pelle sbiancare e il sudore freddo colargli sulle tempie mentre il Favorito si allontanava con il suo «niente di personale».

Si sentì in colpa per aver vinto la sua edizione, per non aver lasciato che fosse Liv ad uscirne illesa. Se lui fosse morto – cosa che sarebbe dovuta succedere – Roel non avrebbe ucciso sia Reshmi che Lacey, e Lyosha non si sarebbe portato sulla coscienza i due diciassettenni.

Davanti a lui il nero, Lloyd aveva spento la televisione, nello schermo scuro vedeva riflesso il suo volto storpiato in una smorfia di dolore e sconcerto.

«Te lo avevo detto» pigolò Amaryllis, girandosi e tornando nella camera riservata a lei, Lloyd sospirò e si accese una sigaretta – il rumore dell’accendino che si rifiutava di scattare riempì la stanza.

Doveva farsene una ragione, gli aveva detto l’altra Mentore, non poteva soffrire per una cosa di cui non aveva colpa: i Mentori devono associare la sconfitte al caso e le vittorie a sé stessi, altrimenti non si sopravvive. Inspirò l’aria profumata del luogo e si appoggiò allo schienale, tentando di rilassarsi.

«Non abbiamo più nulla da fare, qui» sentenziò infine, alzandosi e andando ad avvisare Eglantine che sarebbe tornato al Distretto con il primo treno disponibile – ora come ora desiderava solo ritornare tra i suoi fiori, accarezzarli e convincersi che era fortunato ad essere ancora vivo, perché era quello che avrebbe voluto Ariel.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



«― Temi tu la morte? ―

Non sai quanto. ―»

[DAVY JONES & JACK SPARROW; Pirati dei Caraibi: ai Confini del Mondo]

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE«viviamo e respiriamo parole»

 

E’ finita.

Ed è alla fine di tutto questo che io non ho davvero qualcosa da dire, ma mi sforzerò comunque perché, nonostante tutto, è la mia prima long che concludo. E la cosa mi entusiasma davvero perché ce l’ho fatta, insomma, ce l’ho fatta! Manco avessi vinto gli Hunger Games, ma va bene.

Quindi. All’inizio la storia di Lyosha non doveva essere così, perché avevo fatto l’assurdità iniziarla senza avere in mente cosa fare, avevo deciso solo che Ariel sarebbe morta e che ad ucciderla sarebbe stata Lexi in quella maniera e in quello stato. Il resto è venuto da sé.

Insomma, nel bene o nel male sono arrivata fino a qui con molte più cose di cui dovrei andare fiera che di quello di cui dovrei lamentarsi, nonostante l’inizio non molto gradevole (poco seguito ecc) sono arrivata alla fine con persone a cui pareva interessare di Lyosha.

Ebbene, spero di non avervi deluso (: ♥

La citazione finale racchiude, secondo me, l’intera essenza di Die on the front page, just like the stars – e spero la possiate apprezzare quanto me.

Ovviamente, Lyosha continuerà a vivere forever(…) e si farà anche tutta la rivolta, quella de Il canto della Rivolta – ma questa tematica verrà trattata tra mooolto molto tempo assieme ad yingsu, una volta che finirà I’m frozen to the bones – quindi, per favore, non dimenticatevi di Lyosha! Se vorrete – e se riuscirò – pubblicherò ancora delle ones-shot su di lui, personaggio stupido a cui tengo molto ;u; Per la cronaca no, non ci sarà nessuna lovestory tra lui e Lloyd, quindi non venitemi a dire nulla del genere ewe quella povera donna ha già abbastanza casini e la vita di Lyosha non è in modalità “innamoramento”, quindi va bene così.

Ma non intendo abbandonarvi, ho iniziato un’altra edizione degli Hunger Games – la 19esima, per la precisione – che vi linkerò nell’angolo spam, spero di ritrovarvi anche lì!~

Non so mai cosa scrivere nelle note, quindi passerò ai ringraziamenti velocissimamente, quindi!

- yingsu che si è impegnata a difendere il QI di Lyosha.

- ivola che ha deciso di condannarsi spammando il suo fb, e che mi sembrava entusiasta di questa fan fiction.

- iysse che, anche se non ha tempo, ogni tanto da uno sguardo a Ly.

E poi tutte le persone che hanno messo tra le preferite/seguite/ricordate questa fan fiction ma che non ho mai visto ç//ç – e ovviamente anche quelle persone che ogni tanto si facevano vedere. Insomma, siete fantastici! ♥

 

Se ci rivedremo, sarà in quando si muore, si muore soli

*alza tre dita in saluto a Lyosha* radioactive,

 

 

 

 

 

a n g o l o s p a m

a.    I’m frozen to the bones. { HUNGER GAMES – long – nuovi tributi, 73rd edizione } yingsu

b.    Quando si muore, si muore soli. { HUNGER GAMES – long – nuovi tributi, 19th edizione } radioactive

c.     Se non sei tu l’amore, l’amore non esiste. { HUNGER GAMES – shotRoel/Liv } yingsu

d.    Il profumo del pane alla lavanda. { SHADOWHUNTERS – long – Shakira Espinosa, nuovo istituto } radioactive

 

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