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Lista capitoli: Capitolo 1: *** ▪ run fast for your sisters and brothers. *** Capitolo 2: *** ▪ in lontananza si udì un urlo che Lyosha non poteva lanciare. *** Capitolo 3: *** ▪ madama fortuna era cieca, ma quella volta si era accorta di loro. *** Capitolo 4: *** ▪ «l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 1] *** Capitolo 5: *** ▪ «l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 2] *** Capitolo 6: *** ▪ aveva gli occhi di una persona che ha perso tutto. *** Capitolo 7: *** ▪ felici hunger games, e possa la buona sorte essere sempre a tuo favore. *** Capitolo 8: *** ▪ little bird wrote him a tune, fly with me far from this room. *** Capitolo 9: *** ▪ loro invece erano ancora lì: vivi. *** Capitolo 10: *** ▪ well, these days i’m fine – no, these days i tend to lie. *** Capitolo 11: *** ▪ dovevano stare zitti, se stavano zitti sarebbe andato tutto bene. *** Capitolo 12: *** ▪ quando chiami un posto paradiso, digli pure addio. *** Capitolo 13: *** ▪ muori in prima pagina, proprio come le stelle. *** Capitolo 14: *** ▪ EPILOGO; my heart aches when i think of you. *** Capitolo 15: *** ▪ PAGINE RUBATE Ø1; Capitol City ha rubato tutti i bambini di Panem. *** Capitolo 16: *** ▪ PAGINE RUBATE Ø2; fiori bianchi, blu e gialli – in tinta con il vestito. *** Capitolo 17: *** ▪ PAGINE RUBATE Ø3; nessun distretto che non è Favorito vince due volte di seguito. ***
Capitolo 1 *** ▪ run fast for your sisters and brothers. ***
CAPITOLO I
Run fast for your sisters and brothers.
Immerse le mani
nella bacinella d’acqua – tiepida, che nella scala della temperatura dell’acqua
a casa loro era come dire bollente – e se le passò tra i capelli corti, scuri
come le piume di un corvo. Riportò le dita dentro il catino, stavolta messe a
conca, e si gettò l’acqua sul viso sfregandosi gli occhi con i polpastrelli.
Alzò lo sguardo verso quello che chiamavano ottimisticamente specchio e si
guardò la faccia: era esattamente come tutte le altre mattine. Pallida con due
occhi blu e una zazzera nera sulla nuca.
«Thahn…» sentì
chiamare una voce. Era sua sorella, che gli aveva dato quel nome speciale che
significava sia “cielo azzurro” che “suono” in una qualche vecchia, vecchissima
lingua; non sapeva, lui, come lei lo conoscesse. In realtà lui si chiama Lyosha, LyoshaIsaacs. E quello era il giorno della Mietitura per i
settantaduesimi HungerGames.
«Lyosha… dannazione, ti sto parlando!» borbottò Vilette, la sua stilista. Si era già affezionato a lei ma
non ne capiva il motivo, probabilmente perché era l’ultima figura realmente
umana che avrebbe visto, considerando che, una volta entrati nell’Arena, sarebbero
stati tutti e ventiquattro delle bestie pronte per il macello.
Scosse la testa,
scacciando il ricordo della mattina in cui era stato condannato alla morte e la
guardò fisso negli occhi, ne aveva uno verde e l’altro ambra e si chiese se
fosse nata così o se fosse il risultato di una qualche operazione fatta a Capitol City, in definitiva, però, le donavano parecchio
considerando la sua carnagione abbronzata.
«Grazie per la
tua attenzione, Lyosha» commentò stizzita, o almeno
fingeva di esserlo, «volevo solo augurarti buona fortuna, okay? Guarderò gli HungerGames solo per te, e
voglio confezionarti il vestito per quando sarai Vincitore, un bel completo sui
toni del grigio e dell’azzurro per evidenziare i tuoi occhi» gli sorrise, un
sorriso che sapeva di addio ma anche di flebile speranza.
Non aveva motivo
di farlo, si disse, perché alla fin fine lui era risultato tra i peggiori nella
classifica dopo gli allenamenti. Se fosse stato fortunato sarebbe vissuto
abbastanza per vedere morire i primi tributi nella carneficina della
Cornucopia, ammesso e non concesso che lui non fosse tra quei tributi – anche
se era abbastanza convinto che l’opzione migliore fosse quella di seguire il
consiglio della sua Mentore: correre. Qualcosa gli diceva che era un
suggerimento dato spesso ai tributi dei distretti poveri, e puntualmente solo
in pochi lo prendevano in considerazione – chissà se anche lui avrebbe fatto lo
stesso.
Tuttavia le
sorrise di rimando, agitando la mano in segno di saluto. La guardò mentre gli
aggiustava la giacca della tuta e poi entrò dentro il cilindro che lo avrebbe
catapultato in un mondo sconosciuto, dove i fiumi erano sangue e l’aria le
anime dei morti che vagavano senza meta, semplicemente.
D’altronde, non
c’era altro che potesse fare.
Era
un viaggio lento e silenzioso, quella salita verso l’Arena. Sembrava durare
un’eternità eppure prima che potesse accorgersene le pareti trasparenti che lo
accompagnarono fino alla fine del percorso – cosa strana, si diceva, non
succedeva spesso che ci fossero delle mura – erano già calate verso il basso e
dell’acqua gli aveva inondato i piedi; Lyosha era
dentro un altro mondo, probabilmente antico e sconosciuto.
Attorno
ai tributi vi era una fitta vegetazione sui toni del verde scuro, i fasci di
luce di un sole artificiale erano ben visibili mentre calavano tra le foglie
come i fari di un palcoscenico dove loro erano gli attori, eppure la fonte
primaria di quei raggi non era visibile: il cielo era completamente azzurro,
neanche una nuvola. In lontananza si vedevano delle cascate tutte attorno
delimitando una circonferenza, rumori di svariati insetti coprivano il suono
del suo respiro e il battito del suo cuore nelle orecchie.
Il
sudore gli colava ovunque sul corpo per il caldo e l’umidità del posto. Guardò
in basso: aveva i polpacci immersi nell’acqua e una circonferenza luminosa che
attraversava la sporcizia del liquido segnava la sua postazione, come per
ricordare che, attraversata quella linea prima del conto alla rovescia, sarebbe
tutto finito ancora prima di iniziare.
Pensò
che forse era una buona soluzione, saltare fuori dal cerchio e lasciare che le
bombe lo mangiassero vivo. Magari qualcuno lo aveva già fatto, suicidarsi prima
dello scadere dei sessanta secondi – gli pareva di ricordare di sì. Anzi, era
sicuramente successo in settant’uno edizioni dei Giochi.
Il
timer era partito prima che lui potesse accorgersene, ormai erano a meno
quarant’uno secondi, e lui usò i rimanenti per scrutare gli altri ventitré
tributi.
Ricordava
Fraser, del Distretto 1, bello e impossibile come tutti quelli del suo luogo –
aveva avuto modo di constatare che era un ragazzo abbastanza superbo, come se
avesse già in mano la vittoria. Sean, del terzo distretto, aveva sedici anni e
si era offerto volontario, Lyosha ne rimase
abbastanza sorpreso considerando che sapeva di certo non era un favorito e –
soprattutto – non aveva diciotto anni, forse era stupido, o forse avrebbe vinto
lui. C’erano i due del Distretto 12, il maschio Gijs
di sedici anni e la ragazza Yara, di dodici. Lei
aveva la dolcezza negli occhi scuri e quel sorriso che gli ricordava le bambine
più povere del Distretto 8 – quello a cui Lyosha
apparteneva: sempre sereno anche se pieno di dolore; Gijs,
invece, gli incuteva abbastanza terrore considerando gli occhi con cui fissava
gli altri, di un orribile color verde-marrone, simile all’acqua delle
fognature, sembrava sicuro di poter uccidere tutti quanti con la sola forza del
pensiero; era rimasto sorpreso anche di lui: non pensava che i distretti più
bassi avessero tributi così…cattivi, Lyosha non era cattivo, per
esempio. C’era la ragazza del quarto distretto, Ines di diciassette anni con
lunghi capelli ramati, il pubblico la amava molto perché consideravano la sua
presenza una sorta di possibilità di vendetta per la sua tragica storia: sua
madre rimase gravida di lei a diciotto anni, prima della Mietitura, nella quale
fu sorteggiato come tributo il padre della ragazza che non tornò mai a casa.
…E poi Lexi. Lexi era il tributo femmina che accompagnava Fraser,
diciottenne. Lyosha dovette essere sincero con sé
stesso (cosa che non desiderava affatto, in quel momento): lei era bella, molto
bella, e il soprannome che le avevano dato nell’intervista - «la Principessa» -
era molto azzeccato, non tanto per la coroncina che faceva parte del suo
costume durante la sfilata, quanto per i suoi modi di fare, per il suo modo di
parlare, per il suo sorriso e la maniera in cui guardava gli altri, come se si
fosse innamorata della persona che fissava in quello stesso istante – per
qualsiasi cosa facesse: neanche l’atto di uccidere avrebbe potuto strapparle di
dosso quel soprannome.
Venti
secondi. Avrebbe volentieri speso gli ultimi venti secondi della sua vita a
guardare Lexi, assaporare da lontano la sua bellezza
– chiaro che, durante quei pensieri, Lyosha si stava
odiando per il solo averli fatti – eppure non poteva, perché con gli occhi
stava cercando ancora la ragazzina di tredici anni che vestiva il ruolo del
tributo femmina del Distretto 8. Si chiamava Ariel, aveva i capelli come le
spighe di grano al sole e gli occhi chiari.
L’aveva
vista, era lì, appena nascosta dalla Cornucopia.
Diciassette
secondi. Nei suoi occhi c’era la forma più pura del terrore, l’acqua le
arrivava a metà coscia e si chiese come avrebbe fatto a correre, e se Cecelia l’avesse rassicurata, se le avesse detto di
scappare invece di buttarsi sulla Cornucopia.
Dodici
secondi. Ariel sembrava quasi tremare e Lyosha se ne
dispiacque, avrebbe voluto attraversare tutta quella palude e stringersela
contro. Perché se c’era una cosa che li legava veramente, era l’essere fratelli
di sangue.
Otto
secondi. Lyosha alzò le braccia e le incrociò sul
petto, guardandola fisso negli occhi, «ti proteggo io», significava nella loro
speciale lingua di cui necessitavano assolutamente, infatti il ragazzo era muto
– o meglio, qualcosa nella sua gola non funzionava, nelle sue corde vocali –
era come se non ci fossero. E lui non poteva fare nulla che comportava il loro
uso: non poteva parlare, ridere, gridare, addirittura la tosse era priva di
suono, non poteva fare rumore mentre piangeva. Niente che c’entrasse con il
voto di silenzio o roba del genere. Non poteva e basta.
Tre
secondi. Erano tutti pronti: un piede avanti ed uno dietro. Anche lui si
posizionò e vide sua sorella fare lo stesso. Tutti i rumori erano cessati, gli
insetti rimasero in silenzio per vedere l’inizio dei settantatreesimi HungerGames.
Un
rumore a cui Lyosha non prestò attenzione – forse un
gong – indicò l’inizio dei Giochi, mosse un piede davanti all’altro con
frenesia, come tutti gli altri ventitré concorrenti. Come sua sorella, come Lexi, come quelli di cui non sapeva nome, età e volto.
Si
ricordò l’unico consiglio veramente utile che aveva dato loro la Mentore che si
occupava di lui, Lloyd, e decise che quella sarebbe stata la sua nuova
filosofia di sopravivenza: «correte per vostra madre, per vostro padre, per i
figli che avrete, per fratello e sorella. Correte, dannazione, non posso
passare il resto della mia vita pensando che un’altra volta dei dannati
ragazzini si sono ammazzati ai Giochi perché non si sono messi a correre».
E
poi se n’era andata in terrazza a fumarsi una sigaretta lasciando addirittura Cecelia, l’altra Mentore, senza parole.
«Ritorna con il tuo scudo, o su di esso.»
NOTE D’AUTRICE◊«viviamo e respiriamo parole»
Nonostante tutto, sono ancora qui.
Avevo già pubblicato il prologo di
questa fanfic, ma in preda di un attacco di isteria
(o qualcosa del genere), l’ho cancellato per riscriverlo in una luce migliore,
forse. Tuttavia la trama è rimasta invariata, o almeno così pare.
Quindi sì, parliamo ancora dei
fratelli Lyosha e Ariel, diciassette e tredici anni,
lui muto e lei terrorizzata ma anche coraggiosissima.
Ho voluto tenta un approccio
diverso, quindi iniziando in mediasres, tuttavia non vi
priverò di nessun momento degli HungerGames – i giorni precedenti saranno mostrati attraverso flashbacks o
semplici racconti, come degli spin-off.
Devo dire che la parte più
complicata dell’organizzazione degli HungerGames è stata l’Arena, perché non avevo assolutamente idea di come farla!
Infatti avrò cambiato molte volte idea e me ne sarò fatte venire in mente altre
cento, ma alla fine ho tenuto la prima che mi è balenata nel cervellino: la
foresta amazzonica con tutto quello che ne comporta. Non so se avete mai visto
Bear Grills nelle suddette foreste, ma sarà una cosa
del genere, con boa di piume e tutto il resto.
Ora, per non deludere(?) coloro che
amano avere una faccia ben precisa sotto gli occhi per immaginarsi i personaggi
citati, di seguito ci sono i volti dei tributi citati più quelli di Lyosha e della sorellina.
Distretto 1:Fraser
(M) e Lexi (F). Distretto 3:Sean
(M). Distretto 4:Ines
(F).
Concludendo: il titolo della fan
fiction è una frase tratta da una canzone dei One Night Only, intitolata “SayYou Don't WantIt”, quello del capitolo è una quasi frase di “Dogsday are Over”
di Florence + the Machine.
Infine, la canzone che fa un po’ da “soundtrack” a questa fan fiction è “Start
a Riot” di Jetta, di cui
voglio lasciarvi il link: click!
Ringrazio ovviamente la cara e
vecchia e buona Iysse che, se non mi avesse
sopportato, non avrebbe visto tutto questo su EFP. E almeno lei ci tiene(?).
Un grazie anticipato a tutte quelle
care e vecchie e buone(…) persone che avranno voglia di lasciare un piccolo
parere per sostenere la causa degli OC che, a mio parere, sono sempre un po’
snobbati – in tutti i fandom. Io lo trovo così
stimolante inserire personaggi nuovi in un bel contesto! *probabilmente
è l’unica, eww* → la citazione finale è di 300.
Alla prossima!
radioactive,
EDITs;
03/11 – cambio grafica e revisionato il testo nonbetato, aggiunta presenza di Cecelia
nella scena finalee cambiato stile di
scrittura dei distretti, ora segue quello del libro (non più Distretto
uno/due/tre ecc., ma Distretto 1/2/3 ecc.).
Capitolo 2 *** ▪ in lontananza si udì un urlo che Lyosha non poteva lanciare. ***
» CAPITOLO 02
in
lontananza si udì un urlo che Lyosha non poteva
lanciare.
Il
primo ad armarsi fu Fraser e subito dopo si udì il grido di una bambina. Lyosha temette per la sorella ma vide che Ariel stava
ancora correndo, ma non verso la Cornucopia: aveva adocchiato un piccolo
zainetto che sbucava appena dall’acqua sporca, pensò che fosse davvero brava:
non si era gettata in mezzo ai combattimenti e ringraziò mentalmente il cielo
per il buonsenso di cui era stata dotata e aveva seguito il consiglio che Lloyd
ripeteva ogni giorno da quando era diventata Mentore, e la cosa comica era che Cecelia non la fermava – a quanto pareva, era un suggerimento
molto efficace. Senza che se ne accorgesse lui si stava già affrettando per
raggiungerla.
Poteva
quasi ritenersi soddisfatto, Lyosha: si sarebbe
riunito a sua sorella ed insieme avrebbero cercato un posto dove nascondersi,
elaborare una qualche tattica scadente per tentare di sopravvivere e lasciare
che gli HungerGames
facessero il suo corso, l’avrebbe protetta dagli aggressori come poteva e lei
sarebbe diventata la Vincitrice, tornando a casa. Ma prima di raggiungere la
piccola Ariel si ritrovò davanti la ragazza del Distretto 7 (la riconobbe dal
numero stampato sul colletto della giacca e dai capelli ramati che erano stati
lodati durante la sua intervista), doveva avere la sua età – ma non fece in
tempo a capirlo che l’avversaria gli sferrò un pugno dritto sulla guancia,
facendolo barcollare e poi cadere nell’acqua, quando aprì gli occhi notò che la
giovane donna aveva estratto dalla cinghia dei pantaloni un coltello lungo e
sottile, fece per calarlo su di lui ma Lyosha ruzzolò
di fianco, allora lei riprovò a colpirlo tagliandogli la giacca e ferendogli il
braccio, Lyosha ingoiò un paio di volte l’acqua
melmosa che scese come veleno nella sua gola.
Ci siamo, si disse, alla
prossima muoio. E nel momento in cui si immaginò il coltello piantato nel
petto una pietra colpì la ragazza sulla spalla facendola cadere di fianco a
lui. Prontamente Lyosha afferrò il pugnale, la bloccò
con la faccia nell’acqua mentre questa si dimenava furiosamente, si mise a
cavalcioni su di lei e appoggiò un ginocchio sulla spalla ferita di lei
appoggiandoci tutto il peso del suo corpo e con un movimento fluido e istintivo
le piantò la lama nella schiena, sfilandole poi dal braccio una sacca che aveva
raccolto alla Cornucopia.
Alzò
lo sguardo, realizzando che a lanciare la pietra era stata Ariel, ora immobile
a pochi metri da lui, spaventata. Lyosha la guardò
con preoccupazione e prima che potesse constatare quante altre persone erano
morte nel giro di quei istanti e quante stessero ancora combattendo, si alzò,
afferrò la sorella per il braccio e scappò tra gli alberi.
In
lontananza si udì un altro urlo.
◊ ◊◊
Sembravano
essere passate già ore, ma qualcosa dentro di lui diceva che erano trascorsi
solo pochi minuti. Camminava con il fiatone dopo una corsa estenuante in un
terreno fatto di cespugli, radici e terra bagnata, tenendo la sorella stretta
per il polso. Aveva fatto come gli era stato detto da Lloyd: aveva corso, corso per sua sorella.
«Sono
stanca…» mormorò flebilmente. Allora si sedettero su
una grossa radice che spuntava fuori dal terreno dietro un arbusto molto folto.
Sapeva che era un pessimo nascondiglio e quindi pregava che gli altri fossero
così impegnati ad ammazzarsi tra loro da non aver fatto attenzione alla
direzione presa dai due.
Lyosha ripercorse velocemente quei primi momenti degli HungerGames: una bambina era
morta e lui aveva già ucciso una persona, i sensi di colpa lo invasero, presto
cancellati da tre semplici parole: istinto
di sopravvivenza. Ripensò al corpo inerme della ragazza del Distretto 7 e
al sangue che sgorgava dalla sua ferita sporcando l’acqua di rosso – scosse la testa, scacciando quei
pensieri: ci avrebbe pensato durante la notte, mentre quelle immagini lo avrebbero
tormentato sottoforma di incubi, o almeno così pensava.
Capì
che non era il doversi uccidere che li rendeva simili alle bestie, quando
l’istinto che prendeva controllo delleazioni e facevano far loro cose di cui non si sarebbero mai creduti
capace, come uccidere; pensò alla sorella e al lancio del sasso, e questo gli
bastò per avere conferma della sua teoria.
Si girò a guardare Ariel: aveva una tuta uguale
alla sua ma che si differenziava solo per il taglio femminile. I capelli erano
raccolti in uno chignon strettissimo con un elastico nero e in mezzo
all’adrenalina parecchi ciuffi si erano liberati dall’acconciatura e le
ricadevano scomposti attorno al viso, alcuni erano attaccati alle tempie e ai
zigomi per il sudore e le guance arrossate dal caldo e dalla fatica.
Era davvero successo, allora: erano dentro gli HungerGames. Niente brutto sogno
come aveva sperato, niente scherzo, nulla di tutto questo. La fuori c’erano
almeno altri venti ragazzi pronti a scatenare tutto il loro “istinto di
sopravvivenza” – esattamente come i due e non importava distretto, sesso o età
della vittima. Sospirò pesantemente passandosi una mano tra i capelli e allora
si ricordò di essere stato ferito al braccio, avrebbe voluto biascicare qualche
imprecazione ma si limitò a digrignare i denti mentre si faceva sempre più
consapevole del dolore. Si tolse la giacca con movimenti goffi, potendo usare
un arto solo e notò uno squarcio scarlatto sul bicipite.
Ariel lo guardava nella speranza di essere
rassicurata o comunque di vedere nel fratello una guida, ma quando notò la
ferita capì che doveva fare qualcosa, iniziò quindi a frugare negli zaini che
avevano raccolto, incominciando dal proprio: era piccolo e conteneva un
coltello, un accendino (che ci avrebbe fatto, con un accendino?, dato fuoco ai
capelli di un qualche tributo?... ma se era dentro lo zaino, doveva servire a
qualcosa!) e un piccolo cilindro che all’interno conservava un tubetto con
delle pastiglie verdi e una boccetta spray piena di liquido ambrato e nessuna
indicazione su come usarlo.
Lanciò uno sguardo rapido al fratello il quale
aveva già rubato il coltello uscito dallo zaino di Ariel e con quello si
tagliava alla bell’e meglio della stoffa dalla manica della giacca della tuta.
Rapida, afferrò la borsa che aveva rubato alla ragazza e dentro vi trovò una
coperta, una scatolina con della mela tagliata a fette e delle pasticche
sottilissime e di diametro maggiore rispetto alle altre, erano impilate come
delle monete e tenute assieme da un filo: uno splendido pacco regalo per chi
sta andando in contro alla morte.
«Che faccio?» chiese, guardando ciò che avevano
sparso sull’erba, i suoi occhi volavano veloci da una parte all’altra del suo
campo visivo soffermandosi rapidamente su ognuno degli oggetti, come per capire
cosa potesse servire a cosa. Non sapeva quale pasticca o se la boccetta
servisse per la ferita del fratello che, tral’altro,
sembrava dolergli molto. Non riusciva a ragionare e tantomeno a rievocare i
ricordi dei pseudo-corsi di sopravvivenza che aveva
fatto in quelle due settimane di preparazione, «Thanh…
che faccio?» richiese alzando la voce, non ottenendo ancora risposta,
«DANNAZIONE LYOSHA CHE DEVO FARE!» disse poi a voce alta, troppo alta per non
ottenere reazione dal fratello che, in tutta risposta, si buttò su di lei con
la mano del braccio buono sulle labbra e un’urgente richiesta di silenzio negli
occhi.
Silenzio, la cosa che Lyosha
richiedeva e che riusciva a fare meglio.
Le mise in mano il coltello con la lama posta in
orizzontale, cercò a tastoni l’accendino in mezzo all’erba e, dopo aver provato
più volte a farlo scattare, notò con piacere la fiammella che ballava. Con
cautela andò a mettere il fuoco sotto la lama, aspettando pazientemente che si
scaldasse.
Ariel capì. Glielo avevano insegnato a Capitol City, come curarsi una ferita nel modo più efficace
possibile, serviva solo ferro e fuoco e si dava il caso che loro avessero
entrambi, si chiese se l’accendino servisse proprio a quello. Fasciarsi una
ferita non le sembrava una buona idea, qualcosa – guardando quel posto – le
diceva che ci sarebbero stati svariati modi per procurarsi una qualche
infezione, e quindi cicatrizzare il taglio era la cosa migliore che potesse
fare.
Al pensare alla lama rovente sul braccio del
fratello, la mano di Ariel tremò e gli occhi si gonfiarono di lacrime: avevano
appena iniziato e lui già doveva soffrire per la sopravvivere, e lei lo sapeva
che lo stava facendo per la sua sorellina.
Si chiese quanti di quei tagli si sarebbe chiuso ancora per proteggerla, perché
era così che si erano messi d’accordo: lui sarebbe vissuto per proteggerla, e lei
sarebbe tornata a casa, vittoriosa e sorridente.
«Bruciando il tessuto viene prodotto calore il
quale produce la coagulazione delle proteine dei tessuti organici circostanti
la ferita» recitò lei, ricordando le parole degli allenamenti senza sapere
realmente il loro significato. Era sempre stata brava a ricordare... era brava
a fare un sacco di cose in effetti, eppure tutte sembravano futili davanti alla
crudeltà di quei giochi.
Lyosha
alzò lo sguardo e sforzò un sorriso, che sembrò più una smorfia di dolore mal
celata.
Aspettarono in silenzio che la lama fosse
abbastanza calda, con le orecchie ben tese per sentire l’arrivo di qualcuno, il
sangue continuava a sgorgare dalla ferita mischiandosi con il sudore e
sporcando con lunghi rivoli il braccio magro ed esile di Lyosha,
inappropriato per combattere, provocandogli un fastidio enorme perché lui
odiava essere sporco – ma si rese presto conto che la sporcizia sarebbe stata
inevitabile, lì dentro.
«Ci siamo» mormorò pianissimo Ariel, come se avesse
paura che qualcuno li stesse guardando oltre il cespuglio. Lyosha
annuì piano e riposò l’accendino sull’erba, si allungò a prendere la giacca e
tamponò la ferita in modo da riuscire a distinguere il taglio dal sangue,
consapevole che l’avrebbe buttata molto presto, con un gesto della mano si fece
passare il coltello rovente.
La più piccola si tappò le orecchie e strinse le
palpebre girandosi dall’altra parte, nonostante sapesse che Lyosha
non avrebbe neanche grugnito, solo storpiato i suoi lineamenti ancora da bambino
senza proferire neanche un rumore.
E poi le fece, premette il ferro rovente contro il
braccio mentre il calore si espandeva come fitte di dolore tra i muscoli,
dentro i nervi. Strinse i denti attento a non mordersi la lingua e chiuse gli
occhi, sentendo le lacrime scendere presto sulle goti per il dolore.
Si diede dell’idiota, perché stava davvero
piangendo per quella che poteva considerare una sottigliezza.
Quando allontanò la lama dal braccio e riaprì le
palpebre lentamente, lasciò che il coltello cadesse a terra e afferrò il lembo
di giacca nella mano buona, chiamò Ariel toccandole la spalla e le fece segno
di legare il tessuto attorno alla ferita, una precauzione abbastanza inutile,
ma era qualcosa che gli dettava la coscienza e Lyosha
non si sentiva in grado di obbiettare.
Si chinarono sugli oggetti per rimetterli nei due
zaini, la ferita gli pulsava ancora sotto il bendaggio improvvisato ma Lyosha confidava nel tempo che leniva ogni cosa, anche il
dolore. Ripiegò alla bell’e meglio la coperta e in quel momento qualcosa gli si
bloccò in gola, come se si fosse completamente chiusa.
Si mise una mano sulla bocca e una sullo stomaco,
iniziando a tossire violentemente, piegò il capo di lato e rigettò succhi
gastrici e acqua. Faticava a respirare e il corpo iniziò a tremare, quasi preso
dagli spasmi, il freddo gli colò sulla pelle come una doccia ghiacciata.
Ariel lanciò un urlo e si tuffò sul fratello,
facendogli alzare il viso e pulendogli con le mani le labbra dal vomito,
incurante della spiacevole sensazione. Lyosha alzò le
mani e fece pochi movimenti per dire solo tre parole alla sorella: l’acqua era avvelenata.
◊
◊◊
Sul treno, Lloyd era seduta davanti a loro in una
di quelle costose poltrone in pelle, Cecelia era
andata un attimo ai servizi, informando i due tributi che si sarebbe presentata
poi. La Mentore incrociò le dita delle mani e chinandosi in avanti appoggiò i
gomiti sulle ginocchia, li osservava con discreta curiosità e uno scintillio
negli occhi, fece schioccare la lingua contro il palato e si alzò a prendere un
bicchiere di cristallo, riempiendolo con una strana bibita azzurrina dai
riflessi lilla, «d’accordo, questo è il piano:» rimase ferma in piedi mentre
ingurgitava il contenuto del suo bicchiere, «dovete capire i segreti
dell’Arena, ci sono sempre dei segreti nell’Arena. E per quanto sia allettante
l’idea di armarsi e tagliare le gole degli altri tributi, le cose veramente
utili sono negli zaini, solitamente ti danno abbastanza cose per sopravvivere
almeno il primo giorno. Cecelia vi dirà le stesse
cose in modo più carino».
Un sorriso felino comparse sul volto di Lloyd, Lyosha si chiese sinceramente come avesse fatto a vincere,
e soprattutto a quale edizione avesse vinto, considerando che non dimostrava
più di trenta, trentacinque anni, «andiamo a mangiare? Muoio di fame».
In silenzio, si alzarono tutti e si diressero verso
il vagone allestito per l’occasione, a guidare vi era la donna che
rappresentava il loro tributo – che non aveva detto una parola, sul treno, non
sembrava una persona molto spensierata – dai lunghi capelli arcobaleno e
acconciati il mille treccine a loro volte raccolte in una coda di cavallo fatta… a sfere? Lyosha non sapeva
spiegare. A seguire Lloyd in un silenzio religioso, si limitava a far dondolare
il resto del liquido dentro il bicchiere con movimenti del polso, Ariel andava
subito dopo la Mentore con un braccio teso all’indietro, ed infine Lyosha che le avvolgeva il piccolo palmo con le sue lunghe
dita ossute.
Erano le dita che le avevano cucito l’abito che
indossava alla Mietitura, pensò, le dita del suo fratellone.
«Dobbiamo
imparare a non perdere tempo a piangere sulle nostre ferite,
come un bambino
appena caduto, ma abituarci a scacciare il dolore
curandoci le ferite
ed emendando i nostri errori il prima possibile.»
[PLATONE; “Repubblica”]
NOTE
D’AUTRICE ◊ «viviamo e
respiriamo parole»
Ebbene,
si va avanti.
Ho
pensato molte volte a come mandare avanti questo capitolo, che in tutti i casi
sarebbe stato drammatico, certamente, ma c’era da aspettarselo da una come me.
E
chi mi conosce, lo sa.
Non
mi sento di aggiungere altro su questo capitolo, perché sostanzialmente parla
da solo, e non vedo cosa dovrei spiegarvi ancora. Oh sì, è chiaro che non sono
una cima in medicina e quello che scrivo non ha fondamenta solide, sono solo
frutto di qualche ricerca su internet o, nel peggiore dei casi di “sentito
dire”, tuttavia non arriverò a dirvi che il cielo è viola e fatto di
porcospini, a meno che non si trattino di aghi inseguitori. Ma questa è
un’altra storia.
Vorrei
proporvi ancora una volta una canzone, stavolta prettamente strumentale, ve la linko qui di seguito: CircadianEyes ~ FindingSilence.
Mi
scuso per eventuali errori di grammatica e/o digitazione, a volte, dopo la
terza volta che si rilegge lo stesso scritto anche a distanza di tempo, non si
riesce a vedere l’errore. E questo posso confermarvelo con fondamenta solide x°
Spero
che questo capitolo vi sia piaciuto come il precedente, quindi ♡
Alla
prossima!
radioactive,
EDITs; ricordate che un commento, anche dopo tanto, fa
sempre piacere!
03/11 – cambio grafica e revisionato il testo nonbetato, aggiunta presenza di Cecelia
nella scena iniziale e finale, modificato corposamente l’ultimo paragrafo e
cambiato stile di scrittura dei distretti, ora segue quello del libro (non più
Distretto uno/due/tre ecc., ma Distretto 1/2/3 ecc.).
Capitolo 3 *** ▪ madama fortuna era cieca, ma quella volta si era accorta di loro. ***
▪ CAPITOLO 03 ▪
madama fortuna era cieca, ma
quella volta si era accorta di loro.
Il respiro gli riusciva pesante,
pesantissimo. Si aggrappava con le unghie sul terreno e le sentiva rompersi e sporcarsi
ma non gli importava granché, “che m’importa delle unghie, considerando che sto
morendo?” avrebbe voluto pensare; eppure la sua mente non vagava attorno a
quelle domande, bensì ai ricordi distanti di un distretto otto che non poteva
affatto considerarsi fiero dei suoi tributi, perché il maschio stava morendo per dell’acqua sulle gambe di una
sorella che afferrava prontamente le tre cose che le sembravano più utili – e
che effettivamente potevano risultarlo – in quel momento: la soluzione ambrata
e le due confezioni di pastiglie.
Lyosha ansimava, girandosi di lato per
vomitare ancora, insieme ai succhi gastrici si iniziavano ad intravedere
piccole lacrime di sangue che fecero squittire Ariel dallo spavento, la
poverina era talmente sconvolta che non riusciva nemmeno a produrre un suono
che esprimesse tutto il suo terrore, assomigliando più ad un gatto a cui è
stata pestata la coda che ad una ragazza in procinto di perdere il fratello.
Lui tossì ancora, come per espellere nuovamente ciò che conteneva il suo
stomaco e le mani di Ariel tremarono dallo spavento, facendo cadere la boccetta
che rotolò qualche centimentr più in là sulle foglie.
Doveva concentrarsi, si disse, perché
si trattava di Lyosha. Corrugò un po’ la fronte e
posò anche le pasticche per terra: scartò subito il liquido spray, perchè se l’acqua era stata ingerita per guarirlo bisognava
ingerire a sua volta qualcosa… passò poi in rassegna
i due tipi di pasticche: le prime che esaminò – quelle piatte e chiare –
ricordavano i dischi di farina e acqua che compravano dal panettiere e che di
solito mangiavano con un po’ di cioccolato (quando ce n’era!), non sembravano
assolutamente simili ad una medicina e qualcosa in lei diceva che non erano
quelle giuste; prese allora le altre che le ricordarono subito le pastiglie che
sua madre comprò quella volta che lei si ritrovò con un’intossicazione
alimentare o qualcosa del genere. Ne estrasse una dal suo contenitore e se la
rigirò tra le dita tremanti per l’adrenalina: aveva tutta l’aria di essere una medicina,
sebbene non sapesse per cosa, e di certo sembrava essere più affidabile delle
ostie – o qualunque cosa fossero.
All’improvviso, gli occhi della
ragazza si sgranarono – la sorpresa fu tale che quasi non si accorse della mano
di Lyosha che si aggrappava in una morsa quasi
dolorosa al suo polso. «L’accendino con il coltello, lo spray, le pastiglie…» mormorò a voce bassa, il viso ora era tirato in
un sorriso che il fratello non riuscì a capire, si sarebbe quasi infuriato se
non stesse troppo male e sul punto di vomitare. Un kit di pronto soccorso, per le ferite, per il veleno dell’acqua… non
riuscì a completare la frase, non sapendo a cosa servisse il liquido.
Con estrema cautela e con la pastiglia
tra le dita, Ariel fece in modo di far sedere il fratello con le spalle
appoggiate al tronco di un albero, gli prese la mano e gliela pulì come meglio
poteva con la manica della propria giacca, mise la piccola perla di giada sul
palmo, «ingoiala… credo sia una medicina».
Inutile dire che lo scetticismo di Lyosha nei confronti di quel “credo” era immenso, ma che
poteva fare se non ubbidire? Guardò con la vista appannata quel piccolo
medaglione verde e senza pensarci se lo buttò in bocca cercando di ingoiarlo
senza che si attaccasse alla lingua. E poi aspettò, con il capo appoggiato
sulla propria spalla e gli occhi chiusi, stanchi.
Tutto
intorno a lui era sparito: giochi, sangue, morte e vegetazione di una foresta
mai vista prima, diversa da quella fuori il loro distretto, diversa da tutto
quello che avesse mai visto. Le uniche cose che riusciva ad avvertire erano la
terra sotto le unghie, le gocce di sudore colargli lungo il collo che
producevano la pallida ombra del solletico e i piccoli cerchi che sua sorella
disegnava con l’indice sul palmo della mano di lui, in attesa della morte o
della vita di Thahn, del suo cielo azzurro.
Perché
– e questo lo sapevano entrambi – la morte di Lyosha
avrebbe mandato un eterno temporale nella vita di Ariel.
Lexi
si sedette su uno spuntone della cornucopia, sfilandosi il laccio dai capelli e
tenendolo con i denti, pettinandosi i fili d’oro per poi raccoglierli in una
coda più alta di quella che i suoi preparatori le avevano fatto prima di
entrare nei Giochi. Poco più in là, i tributi del distretto due (Kabe e Liv) parlavano con Fraser.
Si
sedette a gambe incrociate, lasciando cadere a terra la spada di cui si era
armata, passandosi una mano sul viso, si accorse di avere la guancia sporca di
sangue, biascicò un’imprecazione e poi tornò a guardare il gruppetto di cui
faceva parte: doveva dire di non essere scontenta dei tributi dei giochi di cui
lei faceva parte, perché tutti, a modo loro, potevano darle del filo da
torcere.
Fraser,
prima di tutti, era uno che ci andava pesante: all’inizio degli HungerGames era volato sulla
spada più grossa che vi era e senza rimorsi aveva già attraversato da parte a
parte da ragazzina del distretto dodici, spaventando quasi a morte quelli dei
distretti più bassi e facendoli scappare senza aver afferrato nulla dalla
Cornucopia. Ora agitava le braccia mentre parlava con Kabe
e Liv e poi si mise a ridere, come se avesse appena raccontato una barzelletta
divertente.
Liv
se ne stava lì impalata a braccia conserte con una faretra piena di frecce
attaccata alla cintura e alcune sporche di sangue in mano, sorrideva con gli
occhi dolci al tributo del distretto uno come se fosse stata travolta da una
cotta adolescenziale: era bella, certamente, ma si vedeva lontano un miglio che
Fraser aveva già deciso di ammazzarla, così come aveva deciso di ammazzare
tutti nell’Arena all’occasione giusta. Non era uno che amava perdere, e anche
questo si vedeva lontano un miglio.
Kabe
invece, dopo aver lanciato un’occhiata scettica a Fraser dopo averlo visto
ridere, aveva iniziato a fare il giro attorno ai cadaveri del bagno di sangue,
sfilando dalle loro spalle gli zaini e raccogliendo i pugnali conficcati sui
loro corpi o abbandonati nell’acqua facendo una smorfia nel vedere come era
stata pugnalata male il tributo donna del distretto sette – nel suo volto non
c’era altro che distacco. Lexi non riusciva ad
inquadrarlo bene e la cosa la innervosiva: voleva intuire il piano di tutti i
favoriti per capire quando sarebbe stato meglio fuggire da quella coalizione
prima di essere ammazzata da uno di quei tributi.
Guardò
nell’altra direzione: di vivo c’era solo la ragazza del distretto quattro, la
più piccola del gruppo dei favoriti e quella che si era accaparrata tutti gli
sponsor, una storia tragica come la sua non passava inosservata e Capitol City amava i drammi. Altrimenti perché
continuerebbe a guardare gli HungerGames?
Assottigliò
lo sguardo per metterla meglio al fuoco, nonostante la sua vista fosse
perfetta: invidiava i suoi capelli di un bellissimo color rame, al sole
sembravano quasi rossi e Lexi si chiese se fossero
naturali, perché lo sembravano davvero. Non poteva biasimare affatto lo (o la)
stilista che l’aveva vestita da sirena, ricoperta di glitter per imitare la
lucentezza delle squame che mettevano in evidenza la sua bellezza da distretto quattro. Ines – così si
chiamava – era china sull’acqua e con la giacca di un qualche tributo morto
usata come straccio lavava via il sangue dal tridente che avevano molto
probabilmente messo lì per lei, borbottava qualcosa tra sé e sé che a Lexi non importò granché.
«Allora?
Dobbiamo aspettare ancora per molto, Principessa?» era Fraser, in piedi davanti
a lei senza giacca – l’aveva legata alla bretella dello zaino che aveva sulle
spalle, teneva una spala attaccata alla cinta, un pugnale nello stivale e un
altro sempre nella cinghia dei pantaloni. Sorrideva, come se trovasse
divertente chiamarla con quel soprannome con cui l’intervistatore di cui
ignorava il nome l’aveva chiamata la sera prima.
«Veramente
quello che si perde a raccontare barzellette sei tu, Fraser» disse lei quasi inviperita, saltando via dalla Cornucopia e
prendendo la spada – di forma diversa da quella di Fraser, la propria era più
lunga e sottile mentre quella dell’altro più robusta e adatta a delle braccia
virili – e infilandosela nella cinghia dei pantaloni come il tributo maschio
che le stava di fronte, camminò alzando i piedi dall’acqua e si avvicinò al
tesoro della Cornucopia, frugando tra gli zaini, aprendoli e ispezionando il
loro contenuto, spostando talvolta delle cose da una borsa all’altra. Alla
fine, dopo un lungo riordinare gli oggetti, si mise una delle sacche sulle
spalle. «Kabe e Liv?» chiese lei, indicando con il
mento i due intenti a lavare le armi dal sangue e a vedere cosa Kabe aveva recuperato dalle spalle dei tributi deceduti.
Riempirono anche una brocca d’acqua trovata in una delle sacche.
«Hanno
chiesto un paio di minuti per mettersi in ordine e frugare nella Cornucopia»
rispose atono lui, guardando con la coda dell’occhio le borse sventrate che
aveva lasciato Lexi, sorrise appena «o quello che ne
è rimasta, considerando che l’hai svuotata».
«Ines?»
ovviamente lei ignorava la leggerezza con cui Fraser parlava, “lo ammazzo”, si promise.
«Sta
arrivando» annunciò lui e qualche secondo dopo la figura mingherlina della ragazza
in questione passò alle spalle di Fraser per dirigersi ai rifornimenti, prese
lo zaino più capiente che trovò infilandoci tre corde trovate nella Cornucopia,
un sacchetto di mele e altre cose a cui nessuno del distretto uno prestò
attenzione.
«E
tu?» domandò infine, alzando un sopraciglio e incrociando le braccia al petto.
Di
tutta risposta Fraser si limitò a sorridere, prima di andare dai tributi del
distretto due a dire di sbrigarsi, perché la
Principessa aveva fretta.
Lyosha
ricordava ancora quando, quella sera dopo qualche tempo dalla morte del padre, Neish, nelle industrie tessili (la manutenzione gli operai
l’avevano vista solo in foto e, logicamente, i rischi che si correvano erano
molti), sua madre gli aveva detto che lo avrebbe mandato a lavorare. La donna
era riuscita a trovargli un posto tra i ricamatori (di cui gran parte donne),
non ci teneva che il figlio diventasse pure sordo, considerando che già portava
con sé il fardello del mutismo.
Un
lavoro che gli piaceva anche, fortunatamente. Nonostante le varie punture
fattosi con gli aghi, Lyosha godeva della fama di
essere uno dei pochi ragazzini a saper ricamare trame anche abbastanza
ricercate con modesta precisione. Ma la sua bravura derivava da un senso innato
del dovere, certamente: lo faceva per sua madre e per Ariel, che in quel
periodo era molto malata e necessitava di medicine. Non solo stava a lavoro
tutte le ore che coprivano il suo turno, ma spesso si offriva per fare degli
extra e coprire quelli altri con le dovute mance in più, talmente era preso dal
cucito (l’unica cosa che sapeva fare, oltre al silenzio) che decise di fare
qualche commissione a basso prezzo, il più basso del distretto – in modo che
venissero tutti da lui.
Nonostante
tutto questo lavoro, però, il suo nome continuava a moltiplicarsi anno dopo
anno nella boccia della Mietitura, così come quello della sorella che,
tuttavia, aveva ben poche possibilità di uscire sorteggiata: erano i suoi primi
anni agli HungerGames.
Ma
la fortuna non è mai stata con il distretto otto, o con qualcuno in generale
appartenente ai distretti più bassi: madama
fortuna era cieca e guarda caso si girava sempre nella direzione dei
favoriti. Quindi non c’era da star tranquilli nemmeno se il tuo nome è nella
runa una sola volta: potresti sempre essere tu.
Sognò
le notti passate a ricamare oro nei fazzoletti di lino, sognò il pomeriggio
passato ad allargare il vestito di Ariel che aveva usato per la Mietitura
dell’anno prima e che avrebbe indossato ancora, perché non potevano
permettersene uno nuovo, sognò la Mietitura stessa e il vago senso di pietà che
percepì nello sguardo della presentatrice quando chiese se loro fossero davvero
fratelli e il sorriso elettrizzato spuntarle subito dopo sul viso subito prima
del «che i sessantaduesimi HungerGames
abbiano inizio!», sognò la sfilata e i magnifici costumi che avevano preparato
per loro, sebbene non fossero nulla di particolare, sognò addirittura
l’intervista fatta con sua sorella… perché lui non
poteva parlare e lei doveva farlo al posto suo.
Alzò
la testa di colpo, sobbalzando sul posto e piantando i palmi per terra, guardò
in alto: il sole era più alto di quanto ricordasse. Improvvisamente si accorse
di essere vivo.
Sorrise,
sbalordito, passandosi una mano sullo stomaco che non doleva più e poi sulla
gola nella quale avvertiva un vago bruciore, molto lontano dalla pungente
sensazione che aveva apostrofato come “corrosione”. Si stropicciò gli occhi
dopo aver pulito le mani sulla maglietta e poi si girò a guardare Ariel, lo
fissava con gli occhi lucidi e un sorriso che sembrava paralizzarle tutti i
muscoli del viso.
«Sei
tornato» gli disse semplicemente, pulendosi poi una guancia dalla lacrima che
le era scivolata via, sporcandola di terra, «allora avevo ragione, vedi?: era
una medicina».
Attraverso
i soliti gesti un po’ tremolanti, Lyosha le comunicò
che stava bene, e che dovevano muoversi e trovare un rifugio più sicuro. In
tutta fretta raccolsero le proprie cose e, mano nella mano, iniziarono a
camminare verso una di quelle cascate che vedevano sullo sfondo.
Forse,
madama fortuna si era accorta di loro.
«La fortuna si stanca di portar sempre in spalla il
medesimo uomo.»
[PROVERBIO]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Devo dire che sono molto motivata a continuare
questa long perché, nonostante gli OC continuino ad essere poco considerati in
questo fandomed è una cosa per cui mi batterò
ardentemente, ammetto di essere molto fiera di quello che sta uscendo e
intendo portarlo fino alla fine.
Essendo di fretta, vi link i volti di Kabe (pronunciato Keib) e Liv.
Ovviamente, se chi legge nel buio
volesse darmi un suo parere attraverso una recensione, sarebbe cosa gradita ♡
EDIT: (16/09) inserita nuova grafica, testo
ancora da revisionare e aggiunta citazione finale. Enjoy~
Capitolo 4 *** ▪ «l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 1] ***
▪ CAPITOLO 04 ▪
«l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 1]
Camminavano da un’ora e mezza
circa, della quale almeno un quarto d’ora di riposo. Ariel non si lamentava:
probabilmente era abbastanza sollevata dal vedere il fratello sufficientemente
in forma (considerando che nel giro di tre minuti era stato ferito e
avvelenato) e carica di una nuova energia positiva.
La tredicenne si guardava
attorno con stupore: il verde brillava sotto una luce del sole stranamente
potente considerando il tendone di foglie sopra di loro, come se il sole fosse
sotto i rami degli alberi, gli svariati insetti cantavano una loro
personalissima sinfonia che sembrava apprezzare solo lei, gli occhi di ghiaccio
luccicavano come diamanti mentre osservava in alto un uccello di dimensioni
considerevoli dal piumaggio nero e un lungo becco verde dalla punta rossa1.
Fortunatamente questo non fece nulla che potesse risultare nocivo.
Lyosha
pensava e ripensava alle parole della loro mentore: ci sono sempre dei segreti nell’Arena. Certo che c’erano, e il
primo era che l’acqua della Cornucopia era avvelenata – dentro di sé, il
tributo sperava che qualche suo rivale (preferibilmente favorito) avesse deciso
di berla e che ora fosse bello che morto. Ma presto altre domande gli invasero
la mente: cos’altro era avvelenato?,
l’acqua della cascata era buona?, e la frutta su questi alberi?. Si fermò
un attimo a guardare in alto, socchiuse gli occhi per il fastidio dato dai
fasci di luce e, non contento del risultato, posò una mano sulla fronte per
farsi da visiera. Gli alberi erano diventati troppo fitti perché potesse vedere
l’altezza del sole. Sospirò e riprese a camminare.
«Tutto bene?» chiese lievemente
preoccupata la più piccola degli Isaacs, lasciando la
mano al fratello in modo che potesse rispondergli a gesti.
Lyosha
annuì, spiegando brevemente che si sentiva abbastanza frustrato per non
riuscire a capire che ore fossero – era una cosa che avevano imparato al
distretto, perché gli orologi in casa loro erano solo due, uno sopra il
mobiletto dove vi era la loro vecchia radio e l’altro sul polso della madre.
Lei sorrise e gli afferrò nuovamente la mano, dicendogli che non si sarebbe
dovuto preoccupare più di tanto.
Incredibile, si disse, quanto
quella ragazzina potesse sorridere in un qualsiasi momento.
Ma non era ancora finita, e Lyosha aveva l’impressione che quei giochi sarebbero andati
ancora per le lunghe. Mentre camminava evitando liane e radici di ogni tipo,
scavalcando un grosso tronco caduto e aiutando Ariel a superarlo ripensava alla
sua breve sosta a Capitol City, dove era stato
trattato come la cosa più vicina ad una stardi proporzioni mondiali – si sentiva una persona pessima nel ricordare
come aveva sorriso compiaciuto di sé stesso dopo essere sceso dal treno che lo
aveva portato dal distretto alla Capitale. Era stato un sorriso incondizionato,
che lui non era riuscito a controllare. Aveva salutato confusamente, come
allucinato, gli abitanti sfarzosi di quella città – anche Ariel dietro di lui
(più timorosa, diffidente) si guardava in giro sorridendo di quando in quando
ai capitolini che le sembravano buffi.
Non aveva sentito quel senso di
ribrezzo prima di ora perché nessuno gli aveva detto che era una cosa sbagliata
– neanche la loro mentore.
Quello che successe poi se lo
ricordava vagamente, anche il sapore del buon cibo “offerto” nelle loro stanze
era stato dimenticato, il dolore della ceretta e delle pinzette era solo un
vago ricordo. Tuttavia nella sua mente era ben stampata la sua figura coperta
dall’abito per la sfilata, assieme a quella di Ariel: indossavano entrambi due
abiti classici, lui un frac e lei un abito lungo, la gonna leggermente ampia ma
adatta ad una tredicenne, sulla fondo questi vestiti erano dipinti dalle più
particolari sfumature meravigliosamente combinate tra loro: ricordava gli
spruzzi dell’arancione e le voragini in cui ballavano il lilla e il verde
pastello, il rosa carne dava da sfondo a tutto e, mano a mano che si saliva, il
vestito sembrava quasi incompleto e il colore lasciava spazio al rosa di base
che, all’altezza del petto, sembrava fondersi con il loro colorito, ciò che
rimase del rosa erano solo alcuni filamenti e lembi di tessuto, come se
dovessero finire di cucirlo. Le spalle di Ariel erano avvolte da un morbido
groviglio di fili che si attorcigliavano tra le sue clavicole in modo
simmetrico e artistico, riprendendo i colori del fondo dell’abito, i fili rosa
scendevano sulle braccia di entrambi, avvolgendo gli arti come corde e, mano a
mano che la carrozza avanzava, qualcosa mutava. Il colore sembrava risalire dal
tessuto… o meglio, si espandeva! Lyosha
si guardava estasiato il braccio a partire dalla spalla mentre gli arcobaleni
attorcigliati tra loro invadevano i corpi dei due fratelli, rendendoli
coloratissimi come i fili che il ragazzo usava per ricamare.
«Non si può rappresentare con un vestito un distretto come il vostro, Lyosha. ―
aveva spiegato con nonchalance Vilette, al ritorno
della sfilata ―
Voi cucite tutto il giorno ed è questo che doveva fare il vostro vestito:
cucirsi».
Sorrise a quel ricordo che gli
pareva così dolce in mezzo a tutto il sangue e al dolore che aveva già provato.
Avrebbe volentieri sfogliato quei pensieri come se fosse un vecchio album di
foto se non fosse per lo strattone di Ariel al braccio che gli indicava,
soddisfatta, che erano giunti alla loro meta: davanti a loro una piccola
riserva d’acqua assurdamente cristallina sembrava gridare “bevimi”. Le pareti
che costeggiavano la piccola cascata erano coperte di liane e fogliame, eppure
sulla parete destra si riusciva a scorgere una scala di legno e corda. Lyosha sorrise soddisfatto e la indicò ad Ariel, ma prima
che lei potesse fare qualcosa un’ombra uscì dagli alberi dietro di loro ed
investì il tributo maschio del distretto otto, facendo ruzzolare entrambi
dentro il laghetto.
Lexi
avanzava sicura di sé, tagliando foglie e rami davanti alla sua strada, dietro
di lei camminavano Kabe e Ines, infine Liv di fianco
a Fraser.
Non c’era dubbio, Liv civettava
con Fraser senza scrupoli. Ines era evidentemente infastidita dal sentir lei
parlare tanto che superò Kabe e andò avanti con Lexi, con il tridente in mano si divertiva a punzecchiare
oltre gli arbusti per vedere se trovava qualche animaletto commestibile o,
ancora meglio, se feriva qualche tributo… ma ad ogni
colpo catturava solo foglie ed erba. Stufa delle delusioni, decise di dare
l’ultimo colpo al prossimo arbusto, affondò il tridente e, quando lo risollevò,
vide attaccata ai denti dell’arma la giacca di un tributo. Si fermò di colpo e
gli altri compagni la evitarono bellamente per non andarle addosso, solo dopo
pochi passi Fraser si fermò, girandosi a guardarla, «Pesciolino, hai trovato
qualcosa?».
Lei si portò la giacca alle
mani sfilandola con precisione per non sgualcirla del tutto, affondò il
tridente a terra e se la rigirò tra le dita, ora tutti le prestavano
un’attenzione quasi ansiosa. Cercò la manica dell’abito e quando la trovò, la
percorse con le dita per scovare il numero cucito su di essa. Sorrise.
«Allora?» richieste il maschio
dell’uno, non era spazientito, solo curioso.
Ines alzò lo sguardo e notò che
oltre il frutice vi era un albero, riprese il tridente in mano e spostò le
foglie, per terra vi era del vomito. Solo allora si girò verso gli altri
favoriti, tenendo in mano la giacca in modo che il numero “8” fosse in bella
vista, «chi sono quelli dell’otto?», nella sua voce non c’era emozione – come
se avesse chiesto che giorno della settimana fosse.
«I due fratelli, credo… hanno fatto l’intervista assieme, lui non parla o
qualcosa del genere…» rispose Kabe,
dopo essersi sfilato lo zaino dalle spalle per prendersi la borraccia d’acqua,
bevendone quattro grossi sorsi, Liv fece segnò di passargliela e lui gliela
porse.
Ines fece ruotare il tridente e
indicò con il manico un piccolo sentiero naturale di fianco all’albero, «penso
siano andati di là».
Senza che nessuno dicesse
qualcosa, Lexi fece dietrofront per dirigersi verso
la strada indicata dalla ragazza del quattro, dopo di lei andarono Fraser e
Ines, Liv era sul punto di bere il suo prezioso sorso d’acqua quando Kabe iniziò a tossire, piegandosi in avanti e vomitando
tutto ciò che potesse essere nel suo stomaco, cadde all’indietro e strinse
nell’erba tra le mani. Guardò la compagna di distretto con occhi imploranti,
mormorando un “aiutami”. La mano di Liv tremò e la borraccia sfuggì dalla
presa. Raggiunse gli altri tre favoriti mentre la tosse di Kabe
le rimbombava nelle orecchie.
Tosse che l’avrebbe
perseguitata come un canto di morte per tutti gli HungerGames.
Lyosha
teneva gli occhi chiusi e le labbra serrate per non bere l’acqua in cui era
caduto. Aveva già avuto una situazione simile e di certo non ci teneva a
ripetere la stessa Odissea del veleno. Certamente, in altre circostanze che non
includevano un tributo rabbioso addosso, avrebbe provato il liquido per vedere
se era sicuro o meno. Eppure una parte abbastanza istintiva di Lyoshaquanto… macabra, per così
dire, gli consigliava di far bere al suddetto nemico l’acqua e stare a vedere.
Il lago non era profondo e con
un po’ di fortuna Lyosha sarebbe riuscito a
scrollarsi di dosso l’avversario che gli serrava la gola con le mani prima di
morire soffocato, aveva picchiato un paio di volte la testa contro il fondo di
pietra ma non aveva il tempo di pensare a quanto fosse stato doloroso o se si
era aperta una qualche ferita. Doveva reagire.
Strinse le spalle per cercare
di allentare la presa del nemico sul proprio collo e gli afferrò i polsi con le
proprie mani, scoprendoli decisamente esili. Sentiva la voce ovattata e
disturbata di Ariel gridare da qualche parte e poi un peso trascinarlo seduto.
Aprì subito gli occhi notando la sorella che strattonava all’indietro per i
capelli il tributo che lo aveva aggredito e Lyosha si
accorse di tenere ancora i suoi polsi in una stretta ferrea, molto più di
quanto si aspettasse. Istinto di
sopravvivenza.
Ariel tirò ancora i capelli
corvini facendo gemere l’avversario e Lyosha ne
approfittò per avventarsi sul suo collo, stringendoglielo e poi invertire le
posizioni in modo tale da buttarlo in acqua mentre la sorella, come uno
scoiattolo, fece un balzo all’indietro, in attesa della conclusione della rissa
– avevo un coltello, pensò lei, eppure non fece nulla.
Il maggiore dei fratelli
strattonò il rivale, affogandolo più volte e caricando tutto il peso sopra di
lui in modo che non si alzasse, era mingherlino almeno quanto lui e questo lo
aiutava, non ce l’avrebbe mai fatta contro uno come Fraser. Lo affogò più volte
nell’acqua facendogliene ingerire la maggior quantità possibile, poi lo alzò
come per metterlo seduto e, mentre ansimava alla ricerca di aria tenendo le
dita attorno al polso di Lyosha, quest’ultimo gli
sferrò un pugno sulla guancia mollando la presa sulla maglia e l’avversario
ricadde sul letto di pietra, inerme.
Contò fino a tre, Lyosha, per poi rialzargli il busto: respirava ancora ma
era sfinito. Vedeva nel suo viso la propria crudeltà: l’aveva fatto lui,
quello. Lo stava uccidendo lui.
Pregò silenziosamente,
guardandolo furibondo, che l’acqua fosse avvelenata e che lui morisse per
quello, in modo da non doverlo uccidere definitivamente. Percepiva le
telecamere addosso e, più di ogni altra cosa, gli occhi della propria madre. Si
sentiva una persona orribile, ma era l’unica persona che potesse essere, per
lui. Per Ariel.
La pazienza del ragazzo
dell’otto stava per scadere quando l’altro tributo che teneva ancora per la
maglia iniziò a tossire, vomitandosi sulla maglietta, il respiro iniziò ad
affaticarsi e l’Isaacs ringraziò il cielo che avesse
ragione: tutta quella zona dell’arena era avvelenata e, se lo era l’acqua,
probabilmente anche le piante e i frutti.
Lo posò a terra, senza gettarlo
malamente come in precedenza, e si alzò da sopra di lui, bagnato fradicio.
L’altro si dimenava ancora nell’acqua tossendo e vomitando e Lyosha non trovava il coraggio di lasciarlo lì, gli diede
un ultimo sguardo e incontrò i suoi occhi pieni di rabbia e dolore, gli occhi
che lo avevano terrorizzato dal primo istante: Gijs.
E’ stata Ariel ad afferrarlo per il braccio e trascinarlo lungo la scalinata
sulla parete, senza dire una parola.
Anche lei, come Lyosha, sapeva stare in silenzio.
«So che è un segreto, perché lo sento sussurrare dappertutto.»
[WILLIAM CONGREVE; tratto da “Amore per amore”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
E finalmente sono riuscita a
concluderlo!
Che dire? È stato assolutamente un parto plurigemellare, davvero questo
capitolo non ne voleva sapere di sicrersi… l’ho
dovuto tirare fuori con le unghie!
Tuttavia, non posso fare altro se non
essere assolutamente contenta del risultato che sto ottenendo con questa fanfic, ad ogni capitolo viene sempre meglio di come
immaginassi e rispecchia parola dopo parola quello che avevo in mente.
Volevo dare l’idea di un’edizione
entusiasmante, forse, ma come gran parte delle 73esime precedenti a Katniss, qualcosa che nel giro di un anno viene cancellato
dalla memoria di molti per essere rimpiazzata con una nuova edizione. E inoltre
aggiungere anche tutto quello che potrebbe nascere da vari adolescenti,
indipendentemente dal contesto villano in cui sono inseriti, ma niente è
paragonabile a tutto quello che succede nell’edizione degli sfortunati
innamorati, perché semplicemente il loro è un Gioco assolutamente fuori dagli
schemi che inizia nientepopòdimeno
una rivoluzione! Quindi no, niente amore che fa salvare le persone,
niente carità, niente Fraser/Liv (ahah! figurarsi),
e soprattutto niente cambio di regole per accontentare i tributi. Ci sarà solo un vincitore.
Detto questo c: come potete notare il
titolo porta con se un “parte uno”, ebbene sì, il prossimo aggiornamento
riguarderà ancora la scoperta dell’Arena, e quindi la “parte due”, poi si
passerà ad altro. Non ho intenzione di annoiarvi con bazzecole(?).
E intanto i Giochi di Lyosha vanno avanti~! Sono molto
fiera dei miei personaggi, favoriti compresi, perché sembrano totalmente calati
nella situazione eppure mantengono sempre quell’alone che caratterizza loro e basta. Scrivendo, ho avuto
l’impressione che Ariel ricordasse Rue – ed è una cosa a cui sinceramente non
ero preparata, ma penso che sono entrambe delle bambine: dolci e tenere bambine
che vanno a lottare per la propria morte. Ed Ariel, in particolare, vorrei che
non fosse paragonata a qualcosa come una Mary Sue, anche lei se fosse stata da sola nell’Arena sarebbe morta dopo
poco oppure non si batterebbe così come sta facendo. Ma dovete pensare che lei
è sempre con il fratello e che tutto quello che ha fatto fin’ora è stato in
funzione di Lyosha.
Allo stesso modo, il ragazzo si sta
confrontando contro l’Istinto di sopravvivenza. Quando scrivo di questi
“momenti”, penso sempre al filmato delle Edizioni passate che si vede nel film,
dove c’è un tributo che sta… spaccando la testa a
pietrate (o qualcosa del genere) ad un altro. Davvero, se mi chiedessero ora,
in questo momento, se sarei mai capace a fare una cosa del genere risponderei
fermamente di “no”, ma suppongo che, in un contesto simile agli HG, non esiterei
un solo istante.
Chiarito questo, quindi, vorrei
ringraziare Iysse,
Coral 97 e fallinweasley per aver recensito
o, eventualmente, messo tra le preferite/seguite la fan fiction…
mi fate davvero molto piacere e mi sento onoratissima! ♡ Ovviamente, saluto anche quelli che
leggono in silenzio e seguono le vicende dei fratelli Isaacs
nell’ombra.
E per la cronaca no, non mi sono
dimenticata degli altri tributi! Tutto a suo tempo, miei cari capitolini, tutto
a suo tempo.~
1-Tucano.
EDIT: (16/09) inserita nuova grafica, testo
ancora da revisionare e aggiunta citazione finale. Enjoy~
Capitolo 5 *** ▪ «l’arena ha i suoi segreti», aveva detto. [PT. 2] ***
▪ CAPITOLO 05 ▪
«l’arena ha i suoi segreti», aveva detto.[PT. 2]
Salirono le scale in un
silenzio assordante, anche in quell’occasione gli insetti non mormoravano e Lyosha si chiese se ci fosse un qualche stratega che comandava
il canto di quelle bestiole, giusto per rendere più frustrante il tutto.
Fece salire prima Ariel,
iniziando ad arrampicarsi sulle scale dopo di lei, scale malmesse, anche, e un
paio di volte qualche gradino minacciò di rompersi sotto i pesi comunque
leggeri di entrambi.
Durante quella salita Lyosha riuscì a percepire sulle sue ossa la fatica di
quella mezza giornata, la colonna vertebrale sembrava arrotolata su sé stessa,
le dita delle mani intorpidite e di tanto in tanto scosse da vari tremori. Arrivato
in cima, però, quello che sentì fu nient’altro che sollievo: puro e semplice.
I colori che li circondavano
non erano più forti, quasi accecanti, come quelli che li avevano circondati per
gli istanti precedenti, l’aria era letteralmente bagnata e non ci volle molto
ai due per capire che un discreto velo di nebbia li circondava – fortunatamente
non era troppo fitta e riuscivano a vedere ben oltre il loro naso.
«E’ così diverso, qui…» mormorò la più piccola, stringendosi nelle spalle e
scostandosi i ciuffi ormai sudici dagli occhi, si guardava intorno come se
fosse stata trasportata nelle foreste buie e minacciose delle favole che
sentiva da bambina, lo stupore che la circondava come un’aurea di sotto era sparita, scivolata di dosso
dal suo corpo. Lyosha le strinse piano la mano e
cercò con lo sguardo l’acqua che alimentava la cascata, scoprendola con un
grosso senso di conforto ad accompagnarlo a pochi metri da loro. Si avvicinò a
passo abbastanza sicuro, e quella sua sicurezza lo portò ad inginocchiarsi
vicino al liquido, con veloci e precisi gesti disse ad Ariel di tirare fuori
una pastiglia in modo che questa fosse pronta nel caso il fratello più grande
si procurasse un’altra intossicazione.
L’arena
ha i suoi segreti, si sentiva ripetere da una
voce lontana, dentro la sua testa. E lui pensava di averla capita, quest’arena
dei sessantatreesimi HungerGames.
Era divisa in due in modo visibile, come il bianco e nero. La prima parte,
quella in cui si trovava la Cornucopia, apparentemente fornita di tutto ciò che
serviva per sopravvivere… e poi quella di adesso:
sciatta, buia e silenziosa, fatta di alberi troppo alti perché si vedesse se
avessero qualcosa di commestibile sui rami e nebbia.
Qualcosa non quadrava. Non
poteva essere così semplice, si ripeteva. Probabilmente anche quell’acqua era
avvelenata. Si parlava sempre della stessa identica acqua, alla fine, no?
Si sfilò lo zaino dalle spalle
e allungò i palmi verso il fiumiciattolo, le mani sparivano sotto l’acqua non
più limpida come quella sotto di loro su cui si infrangeva la cascata, era
fredda da raggelare le ossa e per un momento Lyosha
penso di ritrarre le dita e asciugarle con la coperta che giaceva ammucchiata
nello zaino pregando che non fossero diventate viola per la temperatura. Ma non
fece niente di tutto ciò, chiuse leggermente i palmi a conca e si portò alle
labbra il liquido soffuso, biancastro e sempre meno convincente.
Un sorso, e sentii nelle
orecchie il sussulto spaventato di Ariel.
Due sorsi, l’acqua gli scendeva
giù per la gola.
Tre sorsi, le mani gli facevano
male per il freddo.
Si pulì le labbra con il
braccio e rimase a fissare il torrente davanti a lui, si aspettava di vedere
tutto appannato o di sentireformicolio,
il senso di vomito farsi strada e la morte impossessarsi del suo corpo. Eppure
passavano i minuti ma l’unica cosa che Lyosha
percepiva era il battito del suo cuore, la terra sotto le unghie e le foglie
accatastate sotto le sue ginocchia indolenzite.
Si girò piano verso Ariel,
ancora dietro di lui in trepidante attesa, come se aspettasse qualcosa che non
arrivava mai, un treno non segnato nell’orario. Quello che le si presentò
davanti era il volto del suo fratellone, sporco da un lato, le labbra bagnate e
le guance rigate da due sottili linee di lacrime sporche. Piangeva, ma era un
pianto liberatorio, felice – non il pianto a cui si era abbandonato mentre la
madre li stringeva entrambi, prima di partire per Capitol
City.
Era buona.
L’acqua era buona.
Il sollievo di aver trovato
dell’acqua bevibile però, non aveva del tutto sedato l’adrenalina di essere
dentro i Giochi. Lyosha si era lavato con impeto il
volto rabbrividendo per la temperatura gelida, facendo poi avvicinare la
sorella per pulirle il viso, le fece sciogliere i capelli e le bagnò i fili
d’oro, legandoli poi nel modo più sistemato possibile, mettendole dietro le
orecchie quei pochi ciuffi che sfuggivano alla presa dello stretto elastico.
La più piccola tirò fuori dallo
zaino il cilindro in cui erano conservate dei doni e lo passò a Lyosha che, quasi gonfiato d’orgoglio per la sua scoperta,
lo aveva immerso nell’acqua riempiendolo fino all’orlo, per poi chiuderlo con
il coperchio, sorridendo ad un sonoro click
che assicurava che il liquido non si sarebbe riversato.
Erano sul punto di alzarsi e
riprendere a camminare, ma lo stomaco di Ariel brontolò rumorosamente facendo
sorridere Lyosha, a gesti le chiese se avesse fame,
lei annuì e, prima dicesse che poteva aspettare, il suo Thahn
aveva già tirato fuori il tupperware in cui vi era
della splendida mela tagliata a fette. Prese una porzione tra le due dita
sottili e la porse ad Ariel che, per tutta risposta, se la portò alle labbra
azzannando metà del trancio. Il ragazzo posò il contenitore per terra notando
con la coda dell’occhio la mano di Ariel allungarsi ed afferrare dell’altra
mela, Lyosha le prese lo zaino cercando quello che
gli ricordavano le ostie del suo distretto, con uno dei due coltelli che
avevano spezzò il filo che teneva intatto quella torre di dischetti candidi,
attento a non farli cadere sulla terra. Mise tutti i cerchi bianchi nel
contenitore delle mele, tenendo tra le dita solamente uno di questi, aprì la
bocca e posò sulla lingua il composto di farina e acqua – questo si sciolse
lentamente e senza sapore, e il tributo si ritrovò a mandare giù un qualcosa
che avrebbe definito pappetta di acqua e farina se avesse potuto
parlare.
Ma quello che si ritrovò a
scoprire fu entusiasmante: non aveva più fame.
Sorrise come aveva fatto poche volte
in vita sua e schioccò più volte le dita per catturare l’attenzione della
sorella che ingurgitava il quarto pezzo di mela, con le dita la informò della
sua nuova, esaltante, scoperta.
«Le ostie…?
Cioè, quelle cose ti riempiono come un pasto vero?» ripeté lei, incredula e un
po’ diffidente, probabilmente – si diceva – il fratello non aveva fame e quindi
aveva l’impressione che fosse pieno, ma lo stomaco della piccola reclamava
ancora nutrimento e quindi, presa dalla curiosità, afferrò uno dei dischi in
questione, lo spezzò a metà e lasciò che si sciogliesse sulla sua lingua per
poi mandarlo giù.
Lyosha
aveva ragione.
«Liv,
dov’è Kabe?» Fraser stava chinato su di lei, mentre Lexi si guardava attorno e scambiava profondi sguardi con
uno strano uccello su uno dei rami bassi di quei alberi, la ragazza del quattro
invece era seduta su una radice e faceva roteare il tridente.
Si
erano accorti dopo non molto che Kabe era sparito
dalla circolazione, ed era evidente che la sua compagna di distretto ne sapesse
qualcosa. E lei avrebbe volentieri detto che l’acqua della Cornucopia era
avvelenata ma avere Fraser così vicino a lei da sentire il profumo di lui
proprio sotto il naso la deconcentrava terribilmente, un altro po’ e i suoi
capelli le avrebbero sfiorato la fronte. Lei se ne stava lì, con le mani
strette sulle ginocchia che cercava un modo gentile e soprattutto che non la
facesse sentire un’imbecille e colpevole per annunciare la morte del ragazzo e
i grandi occhi blu del tributo maschio, bellissimi e inquisitori la fissavano
senza battere ciglio.
«Beh…» iniziò, grattandosi la guancia e affondando il tacco
dello stivale nella terra che inabissò appena sotto la pressione.
Ines
sospirò pesantemente e Lexi si girò verso i due con
un colpo di chioma – sempre splendida per le sue splendide telecamere. «Beh?»
domandò la ragazza dell’uno.
«Fraser,
prova ad allontanarti un po’, la tua bellezza le toglie il respiro e finisce
che arriviamo a sera che stiamo ancora qui cercando di cavar fuori delle parole
da quella» sbottò la Sirenetta,
alzandosi in piedi e piantando il tridente per terra, con un braccio spinse
Fraser all’indietro che girò su sé stesso allontanandosi platealmente
biascicando un “donne!”. «Allora, è
semplice: o Kabe è morto oppure si è staccato dal
gruppo, e non ci credo che si è perso. La prima o la seconda, Liv?», il tributo
del quattro parlava in una maniera che lasciava intendere quanto fosse
infastidita.
Gli
altri tre capirono quanto lei potesse essere letale, in realtà, perché se prima
Liv non riusciva a parlare per colpa dell’inebriante presenza di Fraser, ora
era la decisa superiorità di Ines a bloccarla sul posto facendole dire solo dei
monosillabi.
«Prima»
mugugnò quella del due.
«Bene!»
Ines era visibilmente irritata da quella risposta, si girò verso il suo
tridente alzando le braccia al cielo, «i Giochi sono iniziati da meno di un
giorno e abbiamo già perso un uomo, fantastico. Dovremmo essere in sei e invece
siamo in quattro, a meno di dodici ore dall’inizio».
Nella
mente di Liv si proiettò l’immagine di Ines che trapassava da parte a parte la
gola di lei, Lexi e Fraser nel mezzo della notte con
il suo dannato forcone. Ed ebbe una paura che l’alimentò così tanto da farle
giungere ad una conclusione: farsela amica, o comunque alleata. Un’alleanza dentro
un’alleanza.
«E’
morto perché ha bevuto l’acqua della Cornucopia, era avvelenata», si alzò,
tentando di dare la parvenza di una persona che riesce a reggersi sulle proprie
ginocchia, cercava negli occhi di Fraser un’approvazione che c’era, ma nascosta
da un’ironia sottile.
Lexi,
che prima si annoiava ispezionando il posto, ora sembrava preoccupata, impugnò
saldamente la spada e fece dietro front, ritornando
sui suoi passi, «allora dobbiamo tornare alla Cornucopia e prendere le caraffe
d’acqua, ce n’erano molte».
Nessuno
osò contestare il suo piano – si era affermata capo del gruppo ancora prima che
iniziasse la competizione. A seguirla subito dopo vi era Ines, Liv fece qualche
passo incerto per seguirle ma Fraser la fermò, tenendola per la manica, «dovresti
stare attenta, Liv» le sussurrò all’orecchio suadente, ma a lei sembrò che la
sua voce sembrasse più il sibilo di un serpente, «l’amore è un’arma a doppio
taglio. Pensavo che una del due, il distretto dei Pacificatori, lo sapesse
meglio di chiunque altro».
Lyosha
vedeva rifiorire il suo futuro, forse, la strategia di tenere in vita Ariel non
era destinata a fallire. Avevano delle pastiglie contro i veleni dell’Arena,
della mela e delle ostie che te ne bastava una per sentirti pieno, avevano
smascherato l’Arena e sapevano come usarla a loro vantaggio. Dulcis in fundo,
avevano una coperta per ripararsi durante la notte che di lì a poco avrebbe
fatto capolino tra gli alberi coperti dalla nebbia.
Sua
sorella poteva vincere, pensava, poteva davvero farlo.
Si
erano allontanati dalla cascata memorizzando il percorso per ritornare
all’acqua facilmente, Lyosha ricordava di varie
edizioni dove alcuni tributi si avvicinavano troppo al campo di forza che
delimitava l’Arena ed era abbastanza sveglio da aver compreso che andare troppo
oltre non dava mai nulla di buono. Avevano deciso quindi di camminare per
qualche tempo, trovare un rifugio laddove la vegetazione era più fitta e
avevano anche raccolto delle foglie abbastanza grandi con cui coprirsi per
darsi l’illusione di essere ben nascosti.
Avevano
srotolato la coperta e accatastato foglie più piccole per fare dei cuscini, il
sole brillava di rosso oltre la nebbia e il freddo iniziava a farsi sentire
sulle braccia scoperte di lui. Rimase seduto mentre la sorella beveva un po’
d’acqua dalla loro borraccia improvvisata e poi qualcosa dietro un albero si
mosse.
Un animale, fu la prima cosa che venne in mente
a Lyosha, ma poco dopo una chioma bronzea fece
capolino con le mani alzate vicino alla nuca, da dietro la schiena spuntava una
lancia. Era Sean, il volontario del distretto tre.
«Ragazzina,
dì a tuo fratello che non voglio farvi del male» aveva detto, e sembrava
sincero.
Ariel,
che cercava di togliersi la terra da sotto le unghie spezzate senza farsi male,
lo guardò con un lieve broncio, «guarda che capisce quello che diciamo, non sa
parlare, non è scemo, pensa che sa anche scrivere!». Ed era una cosa che si
ritrovava a dire spesso, anche al distretto.
«D’accordo,
d’accordo…» mormorò lui, sfilandosi l’arma dalla cinghia
e buttandola per terra, ai piedi di Lyosha, «ho visto
quello che hai fatto, otto, e ti ho
seguito abbastanza da lontano perché volevo proporti un’alleanza», si sedette
piano, a gambe incrociate, con sé aveva solo l’arma e un taglio aveva sgualcito
il pantalone dalla parte destra, mostrando una linea rossa di sangue secco. «Lo
sai che ne hai bisogno, non avete brillato agli allenamenti».
Per
quanto gli costava ammetterlo, Lyosha dovette annuire
in sua ragione. Né lui né Ariel avevano imparato ad usare un’arma
brillantemente durante quelle due settimane, eppure Lyosha
aveva già ucciso un tributo e avvelenato un secondo. Ma non poteva andare
avanti così.
Quindi
mosse le mani in modo che Ariel comprendesse quanto Lyosha
aveva da dire, nonostante fosse contraria, socchiuse le labbra pronunciando le
parole dell’altro, «d’accordo, ma se ti diciamo che te ne devi andare, te ne
vai». La più piccola avrebbe voluto mandarlo via e basta.
Ma
non ci fu bisogno di cacciare via Sean perché, dopo i dieci colpi dei tributi
morti, il freddo della notte, le mani di Ariel che premevano contro la sua
schiena e il chiarore pallido e confuso della mattina nebbiosa che li
attendeva, il ragazzo del tre non c’era più, e con lui erano sparite le pillole
per il veleno, lo strano liquido ambrato, il tupperware
con il loro cibo.
Era
iniziato il loro secondo giorno in quell’Arena, quella dannata Arena, e loro armati solo di una coperta, dell’acqua e un
coltello che teneva ancora stretto in pugno.
Un
coltello che, pensò con gran stupore Lyosha –
inorridendo all’idea di aver ponderato una cosa simile – avrebbe voluto
affondare nel cuore di Sean.
«So che è un segreto, perché lo sento sussurrare dappertutto.»
[WILLIAM CONGREVE; tratto da “Amore per amore”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Eccomi miei baldi giovani! Sarò molto
breve perché non ho molto da dire, assolutamente no. u.u
Inanzitutto mi dispiace per non aver aggiornato dopo
più o meno una settimana come al solito, ma questo capitolo non voleva saperne
di venirne fuori ed infatti sono stata parecchio diffidente durante la sua
stesura :/ ma ve lo do comunque con il cuore in mano, sperando che vi piaccia
nonostante tutto ♡
Alla fine l’Arena è stata scoperta da Lyosha, questa è una foresta pluviale divisa in due: la
parte inferiore è tropicale ed ogni cosa risulta velenosa, indipendentemente
dal fatto che sia commestibile o meno, se ingerita, porta alla morte. La parte
superiore (a cui si può accedere in diverti punti contrassegnati dalla presenza
delle cascate a cui Lyosha aveva prestato attenzione
alla Cornucopia) è invece una foresta nebulosa, dove l’acqua è potabile ma il
cibo commestibile scarseggia. Inoltre è popolata da uccelli, alcuni serpenti e
insetti, ma non ci sono mammiferi o cose del genere (sarebbe un po’ troppo, non
credete?)
Ho cercato di fare qualcosa di diverso
ma che non si discostasse troppo dal “dimenticabile”, ed è uscito fuori
questo.Spero che sia comunque di vostro
gradimento. ~
Di seguito, i dieci tributi morti in
questa prima giornata (otto nel bagno di sangue e due successivamente): M-2;
F-3; M-5; F-5; F-6; F-7; M-10; F-11; M-12; F-12.
E dal loft(?) è tutto, ringrazio il
seguito che pian piano cresce motivandomi sempre a continuare! ;3; non sapete
quanto mi fate felice.
Probabilmente gli errori di battitura
– e non solo – saranno leggermente più numerosi del solito, ma non sono
riuscita a rileggere con troppa attenzione causa forze esterne 3 e capitemi
se vi dico che voglio disfarmi di questo capitolo.
EDIT: (16/09) inserita nuova grafica, testo
ancora da revisionare e aggiunta citazione finale. Enjoy~
Capitolo 6 *** ▪ aveva gli occhi di una persona che ha perso tutto. ***
▪ CAPITOLO 06 ▪
aveva gli occhi di una persona che ha perso tutto.
A volte Lyosha si
arrabbiava con il mondo da volersi sciogliere in mille lacrime.
In quel momento, per esempio, era furibondo – e
non poteva urlare, non poteva grugnire, fare versi, niente. Ariel lo guardava
stupefatta mentre ansimava come un toro senza produrre altro suono se non dalle
narici, le mani chiuse a pugno da far sbiancare le nocche anche sotto le croste
delle ferite lungo i fianchi, le spalle tese.
Scattò in un moto d’ira, aprì e chiuse la bocca
come se avesse lanciato un’imprecazione e si chinò a raccogliere la coperta per
buttarla – senza nemmeno sbatterla dal fogliame – nello zaino, raccolse quel
poco che era rimasto ai due infilando tutto nella sacca al di fuori dell’unico
coltello rimasto.
Aveva rubato pure l’accendino.
Diete un calcio al tronco di un albero
pentendosi subito dopo per il dolore lancinante che gli aveva colpito il piede
per poi risalire su tutta la gamba, facendolo traballare un po’ per
l’instabilità.
Ariel non faceva nulla: lo guardava e basta,
come aveva sempre fatto. Niente poteva calmare Lyosha.
La Cornucopia era stata splendidamente
ripulita, il luogo brillava sotto il sole mattutino e l’acqua ai loro piedi –
che avevano infangato i pantaloni di tutti e quattro – era pulita, nella sua
sporcizia: non un filo di sangue, neanche un pallido riflesso vermiglio.
Fraser emise un lungo fischio ammirando quel
lavoro, nonostante lo avesse contemplato almeno in parte la notte precedente,
quando il sole lanciava i suoi ultimi raggi rossastri.
Capitol City
era soddisfatta dei tributi di quell’anno: solo nella prima giornata erano
morti dieci concorrenti e la cosa rendeva il maschio dell’uno abbastanza fiero
di sé, considerando che parte di quelle persone erano morte per causa sua. Non
era come Liv, che aveva sognato la faccia agonizzante di Kabe
per terra e quando si svegliò durante la notte dovette tapparsi la bocca con le
mani per non urlare, a guardarla vi era Lexi, che
faceva il turno di guardia. Pregò silenziosamente che non avesse intuito quanto
il realtà fosse debole quando la sua
voce tremolò un poco al «ci penso io».
Liv si odiava, si odiava da morire per essersi
cacciata in questa situazione; non c’era nulla di più simile ad una bambina
testarda di lei, perché si era offerta volontaria guardando con astio i
genitori dal palco, che lei credeva la ritenessero fragile ed insulsa
nonostante avesse discreti voti agli allenamenti e altrettanto discrete possibilità
di vincere. Ma loro non volevano che lei partecipasse, Liv pensava fosse perché
non la ritenevano in grado – ma piano piano capiva
che si trattava solo di paura: c’erano altre ragazze, più forti, più alte, più
muscolose che potevano vincere gli HungerGames, loro non avevano bisogno di un Vincitore per essere
felici, ma di una figlia.
Ma lei non capiva, non capiva nulla: era una
stolta ragazzina del distretto due. Ma ora aveva un motivo in più per vincere,
ed erano i suoi genitori.
Sorrise, nascondendo il volto contro le
ginocchia strette al petto, in modo che la Capitale non potesse proiettare la
sua magra consolazione di aver trovato un motivo per combattere.
«Andiamo?» domandò Ines, mentre Liv guardava
ancora all’orizzonte. Pensava a quelli dell’otto, al fatto che sapevano dove
erano andati, a che avrebbe potuto ucciderli perché non sapevano combattere,
perché erano soli. Esattamente com’era sola lei.
«Che i
sessantatreesimi HungerGames
abbiano inizio» sussurrò al vento, prima di infilare nello zaino una
caraffa d’acqua, prendere in mano le proprie armi e affiancare gli altri
favoriti verso la loro preda.
Già pregustava il momento in cui sarebbe
diventata vincitrice, ma non si capacitava che, per farlo, doveva letteralmente passare per il cadavere di
Fraser.
Camminava a passo sveltissimo, Lyosha, ed Ariel rimaneva inevitabilmente indietro, lo
vedeva voltarsi con il viso segnato dall’ira e gli occhi blu come un mare in
tempesta. Si sentiva spaventata e ferita, credendo che lui fosse capace di
abbandonarla lì seduta stante. Ma non osava parlare, non lo avrebbe mai fatto
in quelle condizioni.
Si limitava quindi ad affrettare il passo
mentre lui era fermo a guardarla, stringendo tra le dita sporche il tubo in cui
conservavano l’acqua – si stavano dirigendo verso il loro beveraggio per
dissetarsi, quantomeno, e sperare che l’acqua bastasse per il loro stomaco che
richiedeva il cibo.
Si ricordò le parole della loro mentore:
«soffrirete la fame, il freddo, il dolore, la paura e la rabbia». E capì quanto
fossero incredibilmente vere.
Lasciò cadere dalle sue spalle lo zaino e
piantò il coltello per terra, la lama sporca di terra e una sfumatura rossa
brillava sulla lama, un filo di sangue si era depositato su questo tanto Lyosha aveva stretto la lama in mano, Ariel lo guardava
mentre si gettava considerevoli porzioni d’acqua sul viso e si era concentrata
sulle piccole rughe ai lati dei suoi occhi con le palpebre serrate, i denti
stretti e le labbra talmente contratte da mostrare le gengive.
Piangeva.
«Thahn…» mormorò
consolatoria lei, avvicinandosi per poggiare una mano sulla sua spalla. Il
ragazzo glielo lasciò fare, ma senza reagire, «davvero, va tutto bene… possiamo tornare alla Cornucopia e―» provò
a concludere la frase ma il fratello si girò bruscamente, facendole fare un
passo all’indietro per non cadere, con le mani le diceva furiosamente che era
impossibile e poi ritornò a buttarsi l’acqua in faccia, questa si fermava sulle
sue ciglia come piccole perle.
«I Favoriti? Perché devono stare per forza
nella Cornucopia?» domandò lei, evidentemente non aveva mai seguito gli HungerGames come lo faceva Lyosha, si limitava a stare seduta vicino a lui a cantargli
qualche canzone quando non accendeva la radio.
Lascia perdere, le mimò con le labbra, lentamente, e poi
scosse la testa, si fece passare l’unico loro contenitore e lo riempì con
l’acqua per bere, ripetendo poi l’operazione e chiudendo il cilindro.
«Possiamo provarci…
siamo solo al secondo giorno e magari sono in giro ad uccidere qualcuno…magari…magari…»
Ma si fermò, perché Lyosha
non l’ascoltava: era lì, come un cane di guardia, che fissava oltre la cascata
l’erbe muoversi, e poi una testa bionda, seguita da una più scura – maschile –
e ancora altre due criniere, bionda e ramata. Gli occhi gli si sgranarono e la
mano afferrò il coltello, il braccio si pose davanti ad Ariel e con l’altra
mano le faceva segno di abbassarsi, lei obbedì, prendendo tra le mani lo zaino
con la coperta.
Da lì sopra non riuscivano a sentire ciò che dicevano
i Favoriti, ma Lyosha li guardava attentamente mentre
fissavano il territorio attorno a loro. Il maschio del gruppo – il tributo del
due era morto? – si era chinato sull’acqua e la faceva sguazzare con la lama
della spada, girandosi poi verso la ragazza del quattro per dirle qualcosa con
un sorriso.
Il più grande degli Isaacs
si spostò usando gomiti e ginocchia, avvicinandosi al bordo del promontorio,
laddove vi erano le scale, le individuava grazie a dei pioli nero pece che
spuntavano visibilmente dalla terra. Dall’alto, sapeva, lo avrebbero visto e
lui pregò di essere abbastanza svelto da tagliare la corda e fuggire prima che
loro individuassero un altro modo per salire la parete rocciosa.
Ebbe fortuna, quando la ragazza del due indicò
la sua chioma corvina lui aveva quasi finito di tagliare il primo lato, Fraser
si era avventato sulla scala salendola rapidamente, muovendola nella speranza
di intralciare il lavoro a Lyosha e questo quasi
perse il coltello dalle mani le due volte in cui gli scossoni furono
tremendamente potenti, ma le scale si staccarono dal muro e Fraser cadde sui
piedi – urlava qualcosa come «e bravo il
nostro otto!» e Lexi sorrideva dietro di lui.
Ma furono questioni di secondi e Liv iniziò a
correre verso sinistra, Ines subito dopo di lei – Lyosha
guardò in quella direzione e vide un’altra cascata relativamente vicina, e
decise che la cosa migliore fosse fuggire. Mise il coltello nella cinta e
iniziò a correre pregando che Ariel potesse tenere il suo passo.
Corsero per un numero infinito di minuti,
procedendo in diagonale alla parte opposta da cui arrivavano i Favoriti, si
chiese se le loro tracce fossero così evidenti ma non aveva il tempo di
guardare.
Corsero, per la madre, per il padre che non
c’era più, per i figli che avrebbero voluto avere, Ariel corse per Lyosha e Lyosha corse per Ariel.
E frenarono di colpo: il niente si apriva
davanti a loro come un salto nel vuoto, la nebbia copriva ciò che vi era di
sotto e nella mente del più grande potevano esserci tanto un fiume quanto delle
rocce acuminate. Ma ecco Ariel toccargli insistentemente il braccio, urlandogli
qualcosa come «un ponte! Un ponte!», si girò verso dove la piccola indicava e
il susseguirsi di travi unite da corde gli sembrò come una visione paradisiaca,
prese a correre verso il cavalcavia, facendo andare prima Ariel e, dopo un
certo numero di metri, lui.
Il cigolio del legno si mischiava al battito
del cuore del ragazzo tanto da confondergli le idee, non capiva più se il suo
cuore era malandato come quelle travi o se l’Arena era viva quanto il suo
cuore, aveva il terrore che ciò che lo teneva sospeso in aria crollasse sotto i
suoi piedi.
Ma Ariel si bloccò di colpo, Lyosha avrebbe voluto chiederle che diamine stesse facendo,
che erano inseguiti!. Ma lei non si muoveva, immobile, fissava ciò che solo in
un secondo istante il fratello identificò come Sean, quello che li aveva
derubati.
«Ciao, otto».
Ariel iniziò ad arretrare, appoggiando la nuca
contro il petto di Thahn, del suo fratellone che
aveva promesso di proteggerla.
Lyosha si
girò all’indietro, Liv era tra i paletti che reggevano le corde e in mano
teneva due pugnali.
Davanti a loro, Sean aveva sfoderato la sua
lancia.
Stavano per morire, stavano per morire!
Poi si udì un «fallo, Liv», le corde diventare
molli per poi afflosciarsi attorno a loro, il legno mancare sotto i piedi come
volatilizzato e le gocce d’acqua della nebbia entrare nei vestiti dei tre,
congelando pelle, muscoli, ossa, cuore.
Lyosha
trattenne il respiro mentre cadeva nel nulla.
«Tanti invece sono arrabbiati,
spaventati: guardano al futuro e vedono che per loro avanzerà poco.»
[BIANCA BALTI]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Ok, ok. Un altro parto plurigemellare questo
capitolo ma alla fine – nel bene o nel male – è uscito fuori anche abbastanza
in tempo. Bene bene.
E siamo al secondo giorno e Lyosha ed Ariel ancora non hanno un minuto di pace, quasi
mi dispiace di farli soffrire così tanto! Ma gli HG esistono per questo ed io
sono qui apposta, no? Solo uno sarà Vincitore.
Sarò molto breve perché ho davvero
fretta di pubblicare questo capitolo, ahah x°° non
chiedetemi perché, vi prego! Anyway. Sono molto felice
che il seguito sembri crescere di volta in volta, e stavolta ringrazio Flor0699 (spero di aver scritto giusto
il nick!) per la recensione e quant’altro – e
ovviamente tutti quelli che seguono in silenzio, in attesa della fine
(suppongo).
Piccola cosa (: quando Fraser si mette
a giocare con l’acqua e sorride a Ines, ovviamente sta facendo una battuta sul
fatto che lei sia de Distretto quattro, non riuscendo a sentire da la sopra,
non ho voluto inserirla. Inoltre, la ragazza che dice “fallo, Liv” è proprio
Ines – quella pazza psicopatica!(?).
Spero che Liv non vi vada a male ç.ç lo so che è del due ma non sono tutti uguali, no? ;) Mi
piace variare, mettiamola così.
Bene, giuro che ho finito! Mi dispiace
moltissimo per gli errori in generale ma non sono riuscita a beccarli ç//ç la
mia mente è un po’ vagante ultimamente XD
EDIT:
Da oggi (16/09) ogni
capitolo si concluderà con una citazione più o meno inerente al testo
che la precede. Enjoy~
Capitolo 7 *** ▪ felici hunger games, e possa la buona sorte essere sempre a tuo favore. ***
▪ CAPITOLO 07 ▪
felici hungergames, e possa la buona sorte essere sempre a tuo
favore.
Quando si svegliò, la prima
cosa che vide fu Sean.
Il ragazzo era steso prono di
fianco a lui, la lancia ancora in mano e Lyosha si
chiese come avesse fatto a mantenerla stretta a sé per tutto quel tempo.
Improvvisamente, davanti ai
suoi occhi si materializzarono le immagini della caduta, il freddo dentro le
ossa e quel lungo momento di apnea prima di perdere i sensi – i vestiti erano
sgualciti e lo stivale destro aveva un buco su un lato, come se un animale lo
avesse morso lasciando intravedere la pelle del piede del ragazzo.
Improvvisamente un conato di
vomito gli risalì lungo la gola per poi cadere rovinosamente sulle rocce
ricoperte di foglie e muschio su cui era scomodamente adagiato. Dov’era finito?
Ma, soprattutto… dov’era finita Ariel?
Le labbra si mossero
istintivamente sillabando il suo nome ma ne uscì solo aria – lievemente
stizzito per aver dimenticato la propria menomazione, fece un bel respiro per
controllarsi e poi si mise a fischiare un motivetto interessante che alla
ragazzina piaceva molto, era il suo modo per chiamarla.
Fischiò una volta, fermandosi
di colpo nel vedere Sean muoversi ma non svegliarsi, sollevato, riprovò una
seconda volta guardandosi intorno e cercando di trovare tra le liane e gli
alberi la figura minuta dell’altra – ma prima che potesse concludere la sua
canzoncina dell’altra bile si riversò sulle rocce, solo allora Lyosha si rese conto di star sudando freddo, e assieme a
quella consapevolezza iniziò ad annebbiarsi la vista, il respiro a pesargli…Dannazione.
Aveva bevuto l’acqua del fiume dove erano caduti.
Scattò sul corpo di Sean,
stando attento a non toccarlo eccessivamente e gli aprì lo zaino, svuotandolo
di tutte le provviste alla ricerca di quelle benedette pastiglie verdi –
rovistava freneticamente buttando tutto quello che trovava per terra – la vista
continuò a peggiorare e la testa girava vorticosamente da costringerlo a
fermarsi.
Qualche lacrima gli cadde sul
dorso delle mani, incontrollate e selvagge. Un’altra fitta alla testa lo
costrinse ad appoggiarsi sulla schiena di Sean ancora svenuto, ma che stavolta
grugnì.
Le mani frugarono ancora
debolmente dentro lo zaino, scoprendo un taschino interno, ci infilo le dita
intorpidite dentro, trovò un contenitore abbastanza piccolo, lo sfilò usando
entrambe le mani, tremanti, strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’oggetto e
sorrise.
Non erano quelle che cercava.
«Ly!»
urlò qualche metro più in là Ariel, e in quel momento Lyosha
cadde in avanti sul corpo di Sean che sobbalzò all’istante, grugnendo subito
dopo per il dolore, probabilmente. La biondina corse verso i due tributi
inginocchiandosi in modo da spostare il fratello prendendolo per le spalle, lo
fece strisciare verso l’esterno per togliergli i piedi dall’acqua, notò alcune
ferite sul petto e sulle gambe che, a dire il vero, assomigliavano alle
proprie, lei però aveva ancora la giacca e quindi i morsi erano molto meno
profondi.
Senza perdere tempo, tirò fuori
dalla giubba le pastiglie verdi che aveva precedentemente rubato a Sean –
avrebbe raccontato a Lyosha cosa fosse successo solo
in un secondo momento.
Si era posizionata in modo che
la nuca del più grande fosse sulle sue gambe e gli fece ingerire la pillola
cercando di ricordare come si facesse dagli allenamenti. Non era molto sicura
che anche lui stesse soffrendo dell’avvelenamento di cui anche lei aveva
sorbito i dolori qualche attimo prima – ma lo supponeva, e in realtà ci sperava
anche. Doveva essere così, si
ripeteva, non poteva abbandonarla ora.
Gli accarezzava i capelli
piangendo, aspettando che si svegliasse esattamente come aveva fatto il giorno
prima, subito dopo il Bagno di Sangue; vicino a loro Sean continuava a grugnire
dal dolore – acquistando poco a poco coscienza, e si era portato la mano alla
testa sulla quale sbocciava un fiore rosso sangue, probabilmente aveva preso
una botta terribile e le conseguenze erano ben evidenti. Provò ad alzare la
testa – e quindi il corpo – ma il dolore fu tale da farlo gridare e attirare
l’attenzione di Ariel.
«Ragazzina…A-Ariel, giusto? Dammi una mano…»
disse con un lieve senso di supplica mentre la più piccola degli Isaacs lo guardava, incredula della sua richiesta.
«SCORDATELO!» sbraitò lei,
fermando le sue carezze protettive, «è per colpa tua se Thahn
adesso sta morendo!» sapeva che non era vero – o almeno non in parte – ma ora
come ora Sean era l’unica persona su cui poteva scaricare le sue frustrazioni.
«Posso salvarlo» mormorò debolmente lui, palesemente finto quanto
sofferente, un altro fremito di dolore gli sfuggì dalle labbra provocando un
moto di compassione in Ariel.
Lei non voleva dargli retta,
sapeva che era sufficiente la pillola per salvare Lyosha
perché lo avevano già fatto una volta, eppure neanche le affettuosità che gli
stava concedendo attorcigliandosi teneramente le ciocche di capelli neri tra le
dita sembrava riportarlo alla realtà.
Per quel che ne sapeva lei, Lyosha poteva essere già morto.
«Ariel…
morirà» concluse Sean con un tono tragico, ma delicato, come se un dottore
avesse appena annunciato il verdetto alla famiglia di un loro componente
gravemente malato: morirà, quelle
parole le fecero gonfiare gli occhi di lacrime, le guance diventarono rosse.
«Non dirlo!» rispose tutto d’un
fiato, stringendo i denti e costringendosi a tenere gli occhi aperti per
prevenire un qualche attacco del tributo – abbastanza impossibile, considerando
lo stato in cui si trovava – le lacrime caddero pesanti sulla fronte del
tributo dell’otto, scivolando poi sulle tempie. «Non dirlo…»
pigolò poco dopo, cercando di convincersi a non pensare che forse Sean aveva
una remota possibilità di avere ragione.
«Sono gli HungerGames, otto»
mormorò l’altro, alzando un braccio per tastarsi la ferita alla testa che
continuava a pulsare insistentemente, dandogli ripetuti capogiri ad ogni parola
che pronunciava.
Era quasi riuscito a
convincerla, la sentiva così debole e fragile sotto le sue frasi che era
questione di secondi prima che lei si offrisse nel medicargli la testa – lo sapeva
fare, l’aveva vista all’opera agli addestramenti.
Ma poi Lyosha
si girò di lato per vomitare.
Liv fissava il fiume scorrere
sotto la nebbia, le braccia abbassate con in mano l’arco – la freccia che aveva
scoccato con assurda prontezza si era dispersa nel ruscello, era andata
vicinissima al cuore della ragazzina mentre questa cadeva.
«Dannazione» biascicò quella
del due, rimettendo l’arma al suo posto e afferrando le due lame con cui aveva
tagliato le corde, infilandole negli stivali.
«Saranno morti per la caduta»
constatò Fraser, anche se non sembrava convinto delle sue stesse parole, «in
tutti i casi l’acqua è avvelenata, e non ci credo che non l’abbiano bevuta, vi
pare?».
Ines annuì impercettibilmente,
facendo roteare il tridente per poi infilarlo tra le spalline dello zaino e
dietro la cinta dei pantaloni, «direi che qui non c’è più nulla da fare,
piuttosto dovremmo trovare gli altri tributi, oltre a quei tre ce ne sono
ancora sette in giro per l’Arena».
L’arciere affiancò il tributo
del quattro, pronta per partire– presto avrebbe proposto a Ines un’alleanza e
poi l’avrebbe uccisa durante la notte, era stato deciso così quella mattina, ed
era la cosa di cui si sentiva più fiera fino a quel momento dall’inizio dei
Giochi.
«Principessa?» domandò Fraser
con le mani in tasca, fissando Lexi sul bordo del
precipizio, la ragazza guardava in basso come se si aspettasse di vedere
riemergere i tre tributi dal niente – questa raddrizzò le spalle e camminò
svelta per andare a capeggiare il gruppo di Favoriti.
Non
sono morti, fu l’unica cosa che pensò.
Lyosha
pensava che sarebbe diventato pazzo.
Era già la seconda volta – in meno di ventiquattro
ore – che si ritrovava avvelenato e si chiese se quelle pastiglie verdi non
avessero delle controindicazioni, il pensiero di star morendo lentamente lo
spaventava molto, a dir la verità l’idea di morire e basta gli metteva i
brividi. Eppure era dentro gli HungerGames, e a quel proposito ricordava i giochi dell’anno precedente,
vinti da una certa Enobaria del distretto due – era andato
in piazza a vederla nel tour della Vittoria e rimase sbalordito dai suoi denti.
Ebbe paura.
La figura di Enobaria
si fece spazio tra le immagini confuse di un sogno che non gli pareva di
ricordare, sorridendo con quel suo ghigno – spaventando Lyosha
a tal punto da farlo svegliare e rigettare le ultime tracce di acqua che aveva
nello stomaco. Sentì le mani della sorella staccarsi dalla sua testa e tenergli
le spalle e la sua voce contenta mentre ringraziava il cielo per averlo fatto
tornare.
Schiuse le labbra per parlare ricordandosi poi
di essere muto, mormorando silenziosamente un «come?»: come aveva fatto a salvarlo?
Ma, cosa più importante: come aveva fatto,
Ariel, a salvare tutti e due – anche sé stessa? Come aveva fatto, quella
ragazzina, a mantenerlo lucido fino a quel momento?
«Mi sono svegliata per prima, poi ho iniziato a
tossire e ho capito che mi stava succedendo quello che ti era capitato dopo l’inizio… ho cercato nello zaino di lui» e qui indicò Sean,
ancora immobile mentre si guardava il sangue rimastogli sui polpastrelli dopo
essersi toccato la ferita, «e ho trovato le nostre
pastiglie» concluse fiera di sé – un sorriso le sbocciò sul volto e questo
fece arricciare a loro volta le labbra di Lyosha.
«Otto…otto,
ascoltami» intervenne Sean, la sua voce era di una drammaticità quasi teatrale,
Lyosha lo ignorò mentre si metteva a sedere con una
smorfia di dolore, tutti quei graffi disseminati sul corpo – gli stessi
presenti sugli altri due – risultavano più fastidiosi che dolorosi e in cuor
suo sperava che non avessero conseguenze di alcun tipo, «non puoi lasciarmi
così!» continuò l’altro tributo, gli occhi puntati sui due fratelli.
«Dacci un taglio» ribatté secca Ariel, prendendo
il coltello dallo zaino del fratello (che quest’ultimo aveva ancora addosso) e
tagliando le bretelle di quello di Sean, in modo da sfilarglielo senza
muovergli eccessivamente il corpo, rovesciò il contenuto per terra per poi
prendere ciò che spettava a loro di diritto e infilarlo negli zaini a
disposizione dei due fratelli, abbandonando la sacca del tre praticamente
vuota.
Il più grande degli Isaacs
guardava con fare quasi compassionevole il corpo di Sean, con il sangue in una
mano e la lancia ancora bene stretta nell’altra – fischiò debolmente per
attirare l’attenzione di Ariel e con pochi gesti le disse di sedersi sopra di
lui, bloccandogli le spalle.
Quando la ragazzina eseguì gli ordini, la
reazione di Sean fu palese: iniziò a sbraitare chiedendo spiegazioni, dicendo
qualcosa come «non puoi uccidermi!» - quando tutti e tre sapevano che Lyosha poteva benissimo farlo.
Il punto era che l’Isaacs
non voleva ucciderlo, non voleva uccidere più nessuno.
Aggirò il corpo di Sean, martoriato almeno
quanto il suo per muoversi e quella ferita alla testa era assolutamente a
favore dei due del distretto dei tessuti, si inchinò vicino alla mano che
teneva la lancia e – con vari strattoni e non poca forza (almeno quella che gli
era rimasta) riuscì a strappargliela dalle mani.
«Cos―? No!» si dibatté Sean, ancora più teatrale e
patetico di prima. Spaventato.
Lyosha si
infilò la lancia nella cinta in modo da bloccarla, afferrò lo zaino squarciato
di Sean e da questo estrasse una coperta color fieno e un coltello, rigettando
poi a terra la sacca con quel poco che ne rimaneva vicino al viso dell’altro.
Guardò Ariel muovendo le mani, e subito lei parlò per il fratello: «Ha detto
che con questi puoi fasciarti la testa e proteggerti».
Poi, come mosso da un attacco di cinismo,
afferrò la lancia che si era appena messo apposto e con la punta scrisse sul
terreno una frase elementare, che tutti conoscevano a Panem,
sottolineandone l’ultima parte: Felici HungerGames, e possa la buona
sorte essere sempre a TUO favorE.
Afferrò la mano di Ariel, allontanandosi dal
corpo di Sean che più volte provò ad alzarsi, cadendo poi sulle ginocchia preso
da gravi fitte alla testa.
E Lyosha si sentì
male per quello che aveva fatto a quel ragazzo: lo aveva abbandonato senza
nulla – escluso un messaggio sul fango e una ferita ancora sanguinante.
E’ peggio che uccidere, constatò, e in quel momento realizzò di
essere diventato parte integrante dei Giochi della Fame.
«Le idee ispirate dal coraggio sono
come le pedine negli scacchi, possono essere mangiate ma anche dare avvio
ad un gioco vincente.»
[JOHANN WOLFGANG VON GOETHE]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
E dopo una settimana, sono ancora qua
con il numero sette.
Capitolo che, ahimè, non mi soddisfa
:/ ma suppongo che sia lecito avere un capitolo di “passaggio”, per così dire.
Vi vorrei promettere qualcosa di più avvincente, ma non sono mai stata brava
con le promesse e quindi lascio perdere :D fatevi bastare l’idea di una
promessa, ecco.
Insomma, che dire? Lyosha
ha una fortuna pazzesca, davvero! Due volte avvelenato e due volte la
sorella lo ha salvato… quella ragazzina ha stoffa da
vendere! Ma solitamente sono sempre le più piccoline ad averla vinta, basta
vedere Rue ç///ç piccolo cuoricino!
La spiegazione della citazione finale
è semplice: il gesto finale di Lyosha, la scritta
sulla terra – è stata un’azione chiaramente dettata dal coraggio (anche se ho
scritto “cinismo”): lui non avrebbe mai fatto nulla del genere se non fosse
stato spinto da una scarica di adrenalina gigantesca, eh! E insomma, facendo
questo Lyosha capisce di essere troppo dentro ai
giochi per smettere di fare il tributo figo ora – con
i suoi rischi e pericoli, e quindi ecco la citazione ;)
Tutte le ferite che si sono procurati,
sono morsi di pesci simili a piranha – ma loro non lo sanno, è qualcosa che vi
dico a scopo informativo! :3
Ringraziamo sempre yingsu
per il sostegno morale/psicologico e per aver iniziato questa avventura – anche
se a distanza di sei capitoli dall’inizio. Benvenuta ai 63esimi HungerGames(?). Ovviamente, un
grazie va anche ad Ivola, come yingsu anche lei
ha iniziato a leggere la fanfic e spero con tutto il
cuore che le piaccia ** non conoscendola di persona, sarebbe una soddisfazione
molto grande per me XD
Sì insomma, sono felice che il seguito
di Lyosha cresca pian piano, soprattutto ora che ci
troviamo con undici tributi e mezzo (il mezzo è Sean, sia chiaro) – e che i
giochi siano praticamente a metà.
Inoltre, giusto per informare la
gentile clientela(??) in realtà è per fare conversazione mi frullava in
testa l’idea di fare qualcosa come un “sequel” di questa fan fiction, quindi
relativa al Tour della Vittoria del Vincitore di questi HungerGames (che stavo quasi per svelare, ahah XD – ricordiamo che ci sono almeno due possibilità, se
si considerano potenziali vincitori i protagonisti) e della sua vita durante la
vicenda di Katniss e Peeta;
ve lo dico giustamente per sapere se sareste disposti a darci un’occhiata,
quando e se lo farò.
Anyway, ora giuro che vi lascio stare per
almeno un’altra settimana.
Ma prima ♡ vorrei dedicare un angolino spam per
due originali nel campo del
Sovrannaturale, nel caso a qualcuno piaccia il genere:
• Sarò lì quando cadrai. (x) di yingsu – categoria Angeli & Demoni. Essendo la beta e
conoscendo già la trama generale e alcuni particolari, posso assicurarvi che merita~
• The Rose bloomssweetly. [le
rose sbocciano dolcemente] (x) di me
stessa medesima – una cosuccia a cui sono particolarmente legata considerando
che è la mia prima originale. XD
Ora ho davvero finito.
Long
life and prosper Alla prossima!
radioactive,
Grazie
per le 200 visualizzazioni del primo capitolo! ♡
Capitolo 8 *** ▪ little bird wrote him a tune, fly with me far from this room. ***
▪ CAPITOLO 08 ▪
little bird wrote him a tune, fly with me
far from this room.
Faceva caldo, e la mente di
Lyosha era invasa solamente da quel pensiero.
Il giorno prima, constatò, non era
stato afoso come quello, forse – si disse – era per l’adrenalina che aveva
preso piede già dai primi istanti dopo il risveglio, forse era tutto un piano
degli Strateghi, quelli di far morire i tributi di caldo, così sarebbero andati
a bere e tutti sarebbero morti nel giro di ventiquattr’ore. Ma, parlando
francamente, quel problema non gli riguardava, o almeno in parte. Lui sapeva dove trovare dell’acqua potabile.
Si dirigeva per l’appunto, mano
nella mano con Ariel, laddove era quasi sicuro ci avrebbe trovato, prima o poi,
una cascata in modo da risalire verso la parte nebulosa dell’arena: tutti quei
colori iniziavano a diventare quasi allucinogeni, gli odori che non aveva
avvertito la giornata precedente erano quasi pungenti e i rumori ambigui, che
quindi non facevano parte delle specie animali o degli insetti, lo facevano
sempre morire di paura, mettendolo all’erta e afferrando la lancia che teneva
dietro la schiena, ben consapevole di non saperla usare e che, al primo
fendente del nemico, questo lo avrebbe disarmato.
Dopo parecchi momenti di
camminata, dove il caldo sembrava peggiorare nonostante l’ombra prodotta dalle
foglie, Ariel barcollò sulle gambe per poi cadere sulle ginocchia, strisciò su
una radice e si sedette, tirandosi i capelli dietro le orecchie, «sono stanca»
proferì a bassa voce, quasi vergognandosi.
Ma non si potevano fermare, non
lì. Voleva farla riposare a tutti i costi, lo pensava davvero ed era deciso a
realizzare questo suo piccolo obbiettivo, ma non poteva permetterle di stare
ferma in mezzo alla boscaglia, senza un nascondiglio quantomeno mediocre.
Sospirò, togliendosi lo zaino
dalle spalle e infilandoselo al contrario, usando quindi il petto come schiena,
si sfilò la lancia dai pantaloni e fece segno alla sorella di alzarsi sulla
radice, mettendosi poi in ginocchio su una gamba davanti a lei.
Ariel non ci mise molto a
capire, «cosa? Non ci penso minimamente a salire sulle tue spalle!» protestò,
un po’ per dignità e un po’ perché non sapeva quanto il fratello, forse più
debole di lei, potesse reggerla.
Ma quando Lyosha si girò appena
verso di lei, mostrandole il profilo serio e gli occhi decisi, la più piccola
gonfiò le guance arrossendo di rabbia dal non poter protestare e si allungò
sulle spalle di Lyosha, sentendo le braccia ossute del fratello avvolgerle le
gambe – tenendo in mano l’arma – e le clavicole sporgenti sulle braccia mentre
gli circondava il collo con cautela, per non farlo soffocare.
Dopo qualche metro, la ragazza
decise che poteva tranquillizzarsi, che Lyosha l’avrebbe portata in capo al
mondo, anche in quel modo se necessario. Appoggiò la guancia sulla sua spalla,
le labbra rivolte verso il collo del fratello e, come per ringraziarlo, prese a
canticchiare quel motivetto con cui accompagnava sempre il lavoro extra che
Lyosha si portava a casa.
«Little bird learnt to sing in her cage
whistling | Little bird caught the eye of a little lark who heard
her cry».
Le parole della canzone che
Ariel era abituata a cantargli mentre lavorava a casa gli rimbombava in testa,
mentre toglieva tutto dagli zaini alla ricerca del tupperware con le loro
ostie, sapeva che erano da qualche parte. Sorrise quando se lo ritrovò tra le
dita, lo aprì buttando il tappo sullo zaino e porgendo due dischetti di acqua e
farina alla sorella che, consapevole del “segreto” di quelle cibarie, non esitò
un solo momento ad appoggiarsi sulla lingua il primo dei due.
«Little bird wrote him a tune, fly with me far from this room | Little bird fell in love, she fell in love,
I fell in love».
Ricordava la seggiola abbandonata vicino al
mobile su cui era appoggiata la loro vecchia radio che accendeva un paio di ore
al giorno, quando – dopo il turno in fabbrica – Lyosha si sedeva in quell punto
esatto della casupola e iniziava a rattoppare, stringere ed allargare i vestiti
che gli altri abitanti del distretto commissionavano a lui perché offriva il
prezzo più basso, o ancora quando semplicemente portava a casa il lavoro
avanzato dalla fabbrica: decina e decina di fazzoletti di lino e seta da
ricamare con oro e colori pregiatissimi. Si metteva lì con i piedi appoggiati
su uno sgabello e passava il pomeriggio rimasto, talvolta fino a sera tardi, a
far andare le mani per comporre graziosi ghirigori – e Ariel cantava per lui
quella sorta di ninna nanna che gli piaceva molto in sostituzione della piccola
canzoniera all’interno della radio, troppo stanca per suonare a lungo.
Ma poi succedeva che Thahn si addormentava con
ago e filo in mano, sul tavolo una pila di ostie e cioccolato coperte da un
fazzoletto, Ariel entrava di soppiatto nella stanza, allungava la manina sui
dolcetti e se ne tornava nella sua cuccetta a sgranocchiarsi il suo cibo,
mettendo a tacere lo stomaco.
Lexi camminava a passo spedito: non si erano
sentiti cannoni annunciare la morte di nessun tributo e questo non faceva altro
che confermare la sua teoria sul fatto che i tre non erano morti. La cosa la
faceva sinceramente andar di matto e scaricava la sua frustrazione camminando
più velocemente del necessario.
Liv invece aveva rallentato, il suo posto
affianco ad Ines era stato preso da Fraser che si divertiva di tanto in tanto
con delle battute rivolte alla ragazza del quattro, la quale avrebbe volentieri
infilzato il tributo con il suo tridente e dato in pasto agli uccelli
dell’Arena. Il tributo del due, silenziosa, cercava di analizzare con
precisione la situazione in cui era coinvolta, rendendosi conto che l’alleanza
con i favoriti era una cosa sempre meno intelligente da mantenere; ma ci aveva
già rimuginato sopra, e aveva trovato la soluzione all’incoveniente.
Quello che non le dava pace, ora, era il
ricordo di ciò che aveva lasciato al Distretto, oltre ai suoi genitori sapeva
che ad aspettarla c’era Roel Flos, il suo cosìddetto fidanzato storico, la cui relazione era iniziata quando aveva
undici anni, quindi quasi sette anni or sono. Alzò lo sguardo studiando le
spalle di Ines, e più avanti quelle di Lexi: loro avevano qualcuno che amavano
a casa? Si sentiva orribile, Liv, per
quello che aveva fatto a Roel, il non avergli messo al corrente della sua pazza
idea di offrirsi volontaria per ribellarsi ai suoi genitori. Ricordava,
soprattutto, quando lui andò a salutarla al palazzo della Giustizia. E ad
incrementare il suo dolore c’era anche l’aver provato a far nascere una qualche
relazione con Fraser, ovviamente finto e inconsistente – niente a che vedere
con ciò che aveva con Roel.
E in quel momento un rumore catturò la sua
attenzione, alla sua destra, dalla nebbia comparve una sagoma umana che, dopo
qualche secondo in cui sembrò rimanere congelata, fece dietrofront per
scappare. La ragazza si girò si scatto preparando con una velocità incredibile
arco e faretra, scoccò la prima freccia che attraversò il polpaccio della
figura, un’altra veloce come la prima si conficcò nel torace , il corpo appoggiato
sulle ginocchia, e, prima che questo cadesse tra l’erbaglia con un tonfo, un
terzo dardo gli trapassò da parte a parte il cranio.
I favoriti raggiunsero la carcassa,
identificandola poi come un ragazzo dei distretti più bassi, con sé non aveva
niente. Qualche secondo dopo il cannone informò l’Arena della morte del
tributo, uno stormo di uccelli posizionati negli alberi a loro circostanti si
alzarono in volo spaventati per il suono di morte di poco prima.
«Brava, Liv» si complimentò Ines, e per tutta
risposta la ragazza si abbassò a sfilare le frecce del cadavere, scuotendole
per togliere i brandelli di carne e sangue dalla punta, pulendole con la maglia
del cadavere.
«Ho avuto un bravo maestro», ma nel profondo
del suo cuore, sapeva che Roel non era affatto felice di vederla uccidere a
sangue freddo le persone.
La testa gli pulsava ancora, nonostante avesse
fasciato mediocramente la ferita con ciò che il ragazzo dell’otto gli aveva
premurosamente donato. Riflesso sull’acqua, Sean riusciva a vedere il suo volto
sciupato, i capelli sporchi di sangue e la benda già zuppa della stessa
sostanza, il collo coperto di rosso e terra, i vestiti fradici, putridi e
disseminati di morsi e graffi.
Che diavolo c’era in quel fiume per aver
ridotto i suoi vestiti a brandelli?
Rimase inginocchiato per terra, senza trovare
la forza di provare ad alzarsi: non ci sarebbe riuscito. Tutto intorno a lui
sembrava gridargli che era arrivata la sua ora, poi un fruscio proveniente
dagli alberi richiamò la sua attenzione ma non se la sentiva di girare il viso
per paura che un improvviso scossone potesse farlo svenire o causargli molto
dolore, rimase a guardare il suo volto nello specchio, sorridendo beffardamente
– aspettando che l’animale o il tributo lo uccidesse. E così finiscono gli HungerGames di Sean.
«Chi sei?» domandò una voce tremolante, da
ragazzino. Sean allargò il sorriso, trasformandolo quasi in un ghigno, la
fortuna sembrava girare finalmente dalla sua parte, girandosi lentamente riuscì
a scorgere la figura che gli aveva parlato: posto a qualche metro lontano da
lui, con nulla in mano, stava Lev, il tredicenne del
quarto distretto.
«Dammi una mano… mi
fa male la testa» si lamentò lui, lasciandosi cadere seduto sulle proprie
gambe, per enfatizzare la sua stanchezza, «come potrei ucciderti in questo
stato?» chiese retorico, indicandosi la ferita.
L’altro rimase ancora qualche momento bloccato,
poi, come mosso da un senso di compassione si avvicinò ulteriormente al tributo
più grande, prima di essergli abbastanza vicino per toccarlo e farsi toccare,
gli porse un’ulteriore domanda, «se ti aiuto, tu cosa mi dai in cambio?».
«Un’alleanza, ovvio» rispose fermamente,
allungando il braccio, «dai, aiutami, ho un coltello…»
e indicò la lama un paio di metri lontani da lui, «e tu non hai proprio niente,
e non sembri uno di quei favoriti che sanno combattere fin dalla culla, tu sei diverso, no?».
Quelle parole sembravano colpire Lev nel profondo, Sean era molto bravo a parlare e aveva
già preso in giro due tributi con la sua tecnica oratoria – il pensiero dei due
del distretto otto gli fece venire un conato di vomito tanto era furioso con
loro. Lev, dal canto suo, si sentiva davvero
differente dai Favoriti, motivo per cui era fuggito a gambe levate quando aveva
visto Fraser trapassare Yara con la spada,
spaventato.
Così quello del quattro si avvicinò all’altro
tributo, passandogli il braccio dietro le spalle e alzandolo da terra, per
quanto gli permettesse la differenza di statura, raccolsero le poche cose che
aveva Sean (un coltello e uno zaino vuoto) e si allontanarono assieme dentro la
foresta. Avevano appena formato un’altra alleanza, che non sarebbe durata a
lungo.
«L’abbiamo trovata!» esultò Ariel dopo aver
spostato l’ennesima foglia dal suo cammino, indicando al fratello un’altra
radura simile a quella del giorno prima. Lyosha le
sorrise passandole affettuosamente una mano tra i capelli, correndo poi verso
la parte rocciosa coperta di liane, dove l’esperienza gli diceva che vi era una
scala che lo avrebbe portato al piano superiore.
Fece salire la sorella, e poi si avviò verso la
scalata – carico di una nuova eccitazione, illuminato dalle calde luci rosse
del tramonto. Avevano camminato tutto il giorno ed erano sinceramente stanchi,
avevano sete e si sentivano terribilmente disidratati, la foresta nebulosa era
la loro unica salvezza.
Quando mise piede a terra, appoggiandosi le
mani sulla zona lombare e facendo scrocchiare la schiena stanca, il secondo colpo di cannone si levò in alto
facendo scappare uno stormo di uccelli provenienti da lontano, i quali gracchiavano
a loro volta. Ariel si guardò attorno, impallidita come quel pomeriggio, nel
sentire il primo sparo.
Erano rimasti in dodici.
«Colui che potendo dire una cosa in dieci parole ne
impiega dodici,
io lo ritengo capace delle peggiori azioni.»
[GIOSUÈ CARDUCCI]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Ehilà :D
Eccomi in mostruoso ritardo ma, che ci
volete fare? Siamo a settembre inoltratissimo e gli
impegni scolastici si fanno sentire XD
Non ho molto da aggiungere in questo
capitolo :3 vi informo solamente che il tributo ucciso da Liv è il maschio del
distretto 11. E a questo proposito vi lascio la lista dei ragazzi ancora in
vita: M-1; F-1; F-2; M-3; M-4; F-4; M-6; M-7; M-8; F-8; M-9; F-9; F-10. Di
questi, uno è morto, avvisato nel secondo sparo del cannone. Ma eviterò di
dirvi chi sia, dato che la sua morte sarà affrontata nel capitolo successivo.
Bene! Detto questo, un piccolo focus sulla canzone cantata da Ariel. E’
una ninna nanna scritta dai The Fergies, una band australiana, vi lascio qui il link youtube, nella descrizione vi sono anche le lyrics integrali. Buon ascolto!
E a proposito di questo rispondo anche
ad una piccola “curiosità” lanciata in una recensione lasciata da Ivola: alcuni
titoli sono in inglese perché tratti direttamente dalle canzoni, quindi
preferisco riportarli nella lingua originale; anche nel caso del primo
capitolo, nonostante “run fast foryoursisters and brothers” sia il consiglio della mentore, prima di tutto è
il verso della canzone (scritto tutto nelle note!). Anche in questo caso il
titolo del capitolo rimanda alla canzone :3
Ringrazio sempre la mia bella yingsu e Flor0699 che commentano la fic nonostante tutto ;u;
Ed ecco il momentino spam♡
Questa è la volta di I’m frozento the bones,
fan fiction di yingsu
e in un certo senso SPIN-OFF (molto off) di “Die on
the frontpage, just like the stars” – in quanto
tratta degli HungerGames
successivi ai 63esimi, con un certo collegamento con un PG della mia edizione;
ma non vi anticipo null’altro! (:
Insomma, un saltino anche da questa
farebbe felice sia l’autrice che me, e voi mi volete felice, no?~
Bene, per oggi è tutto! Spero che l’andatura
dell’Arena continui a piacervi. ♡
Capitolo 9 *** ▪ loro invece erano ancora lì: vivi. ***
▪ CAPITOLO 09 ▪
loro invece erano ancora lì: vivi.
Il sole tramontava in quella cupola che era
l’Arena, Sean – appoggiato ad un Lev stanco ma
inflessibile – zoppicava evitando di inciampare nelle liane, radici, sassi e quant’altro.
Non lo avrebbe mai ammesso a sé stesso, ma quel ragazzino gli aveva salvato la
vita.
«Come mai non sei con gli altri Favoriti?»
domandò, rallentando appena il passo alla vista di una palude che, per quanto
fosse poco invitante, era pur sempre una zona con dell’acqua – e questa
proprietà bastava al luogo per farlo somigliare ad una specie di Oasi, a cui
neanche il ragazzo del quattro seppe resistere.
Lev lo
fece appoggiare su un tronco, aiutandolo a scivolare sulla pietra posta sotto
di lui, quasi a formare una panca naturale, Sean si sedette con un lamento,
seguito poi da qualcosa vagamente simile ad un sospiro di sollievo.
«Sono tutti grandi, e poi Fraser ha ucciso la
ragazzina del dodici… può uccidere anche me allo
stesso modo se non gli ero utile, e non mi andava per niente. A comandare sono
i maschi dell’uno o del due», mentre parlava guardava in basso, tenendo le mani
dentro le tasche dei pantaloni e calciando una liana, come se si vergognasse
della sua risposta. Aveva paura – ma
non doveva dirlo, lo sapevano sia Lev che Sean.
La conversazione rimase sospesa per qualche
secondo, poi Lev decise di togliersi la giacca – dove
vi era il coltello, all’interno di una tasca – e di andare verso l’acqua,
mormorando un “mi vado a lavare le mani” per congedarsi e abbandonare un di
certo più riposato Sean nel suo angolo.
Con un balzo Lev
entrò nella palude, storcendo il naso per la sporcizia dell’acqua e per la sua
consistenza leggermente melmosa, ma non si lamentò più di tanto. Rimase a mollo
nello stagno per un po’, cercando di ricordare la piacevole sensazione delle
acque del suo distretto dove si tuffava dopo aver pescato con il padre, si
chiese se c’era un qualche pesce commestibile, in quell’Arena – poteva
mangiarlo anche crudo, se necessario, non beveva né mangiava dall’inizio dei
giochi. Si spostò di qualche passo verso sinistra, avvicinandosi ad un tronco
di notevoli dimensioni che sembrava in qualche modo sospeso nell’aria, coperto
di muschio e liane di un verde brillante. Il ragazzino mise le mani a coppa per
raccogliere l’acqua, gettandosela poi controvoglia sulla faccia, si sfregò gli
occhi e con il colletto della canottiera ancora pulito si asciugò il viso da
quella sensazione viscida lasciata dal liquido.
In quel momento, incontrò solo gli occhi freddi
di Sean che lo fissavano, poi qualcosa che sembrava una corda dalle
considerevoli dimensioni coperta di squame gli circondò le braccia,
avvolgendolo tutto fino alle ginocchia, vicino al suo orecchio sentì un sibilo
e due occhi gialli incontrarono i suoi. Fu questione di attimi: il ragazzo
lanciò un urlo, l’anaconda gli strinse il corpicino, sollevandolo da terra, e
le ossa si ruppero all’istante, producendo una sinfonia macabra di crack che raggiunsero le orecchie del
ragazzo del tre.
Un altro urlo si levò dalle labbra di Lev, ancora il serpente si strinse a lui, scivolando verso
il collo, attorcigliandosi attorno a questo e spezzandoglielo con la stessa
tecnica usata precedentemente, infine la morsa si sciolse e il tributo scivolò
nell’acqua – scomparendo sotto la melma.
Sean non aspettò altro: con ferita pulsante e
tutto il resto, fuggì da quel posto appoggiandosi ad alberi e pietre, un colpo
di cannone coprì tutti i suoi e poco dopo uno stormo di uccelli si levò dagli
alberi che circondavano ciò che era diventata la tomba del tributo del
distretto della pesca.
Il viso di Ariel era ancora spaventato, teso e
pallido nonostante il cannone che annunciava la morte del dodicesimo tributo
fossepassato già da qualche minuto.
Rimasero entrambi in silenzio mentre bevevano nel torrente vicino, riempiendo
anche la loro boccetta d’acqua. Avevano trovato anche qualcosa di vagamente
simile ad una radura nascosta da folti alberi e decisero di accamparsi lì: se
guardavano in alto, riuscivano a vedere il cielo.
Con i coltelli e la lancia scavarono una fosse
dove misero gli zaini, togliendo da questi la coperta – per poi nascondere le
sacche con erbe e foglie. Una stupida prevenzione in modo che, se qualche
nemico li trovasse, loro sarebbero potuti scappare e poi ritornare in quel
luogo sperando che gli aggressori non scoprissero le loro scorte. Cercarono
assieme un qualche albero dalle foglie lunghe, raccogliendone in gran quantità
con diversi viaggi verso il loro stabilimento notturno, poi si sedettero
semplicemente per terra e, foglia per foglia, Lyosha
intrecciò un’amaca che avrebbe legato agli alberi circostanti in modo da
sollevarli da terra, considerando che la notte prima erano stati svegliati da
strani rettili che gli strisciavano vicino. Decisero di aggiungere
all’impalcatura due rami decisamente lunghi che avevano trovato durante la loro
ricerca, disposti in diagonale – in modo che aiutassero tutto il sistema nel
reggere i due corpi.
Era ormai buio quando il letto fu completo, lo
legarono ai tronchi nel modo più fermo possibile e, salendo lentamente
sull’amaca, si resero conto che era stabile per mantenere il peso relativamente
esiguo di entrambi.
«Lloyd sarebbe fiera di te» confessò Ariel,
piegando lievemente le ginocchia verso il petto, tirandosi sulle spalle la
coperta.
Lyosha
sorrise debolmente, cacciandosi fuori le mani dalla preziosa coperta –
nonostante tutto sentiva ancora freddo, dato che non era più in possesso di una
giacca – muovendo le dita al fine di risponderle: anche Cecelia lo è di te.
Cecelia,
nessuno dei due sapeva che sarebbe stata lei la seconda Mentore, in realtà, una
volta saliti sul treno e aver incontrato la prepotente figura di Lloyd, ambo i
fratelli non si erano preoccupati più di tanto di conoscere l’identità della
loro seconda guida, anche se per un momento Lyosha si
chiese chi tra Cecelia e Woof
avrebbe affiancato Lloyd in quella “avventura” – non si sorprese di vedere la
donna una volta entrati nel vagone dove erano andati a mangiare subito dopo le
presentazioni: Woof era vecchio, e quella gli
sembrava una motivazione abbastanza valida perché ci fossero le due donne con
loro.
Assieme al pensiero delle due mentori, si fece
spazio nella mente di Lyosha l’idea che forse,
stavano procedendo davvero bene in quei HungerGames. La maggior parte dei tributi del loro distretto
morivano nel bagno di sangue o, se erano fortunati, il primo giorno dei Giochi.
Loro invece erano ancora lì: vivi e conciati relativamente bene – senza contare
che non era arrivato nessun contributo dagli sponsor e, considerando la loro
storia (e quindi la pressione emotiva che i due fratelli esercitavano sui
Capitolini), forse qualche abitante della Capitale aveva scommesso su di loro.
Chiuse gli occhi, sentendo le mani della
sorella stringersi attorno alle sue, la bimba intonò littlebird e Lyosha
si addormentò con l’immagine di Ariel che si costruiva una ghirlanda di fiori
con le margherite che trovava nel prato davanti alla scuola. Sopra le loro
teste, venivano proiettati i visi dell’anonimo tributo femmina del nove e del
giovane Lev.
Sean era preso da giravolte così intense da
fargli perdere l’equilibrio e cadere a terra, oppure le vertigini lo
scombussolavano così tanto e il tributo si trovava a mettere i piedi uno
davanti all’altro, se non incrociarli a “x” e inciampare sugli scarponi.
Aveva fatto un errore a fuggire così
velocemente dall’anaconda, ma l’adrenalina aveva preso il soppravvento
esattamente come il terrore di gridare il nome di Lev
per avvertirlo del pericolo che correva stando vicino a quel tronco. Ma non
aveva più importanza, ormai.
Continuò ad avanzare, talvolta strisciando,
alternando una corsa sconnessa allo zoppicare: non sentiva null’altro se non il
dolore alle tempie e la cassa toracica sul punto di implodere. Si sentiva
scoppiare dall’interno, le ossa frantumarsi esattamente come il collo di Lev.
Si appoggiò al tronco di un albero,
abbandonando la testa in avanti – il collo incapace di sorreggere il peso del
cranio. Contò fino a venti, rialzando poi lo sguardo, e quel che vide lo riempì
di amara gioia: la Cornucopia.
Il corno si ergeva al centro della palude, cinquanta metri si ripeteva, forse anche meno. Avanzò zoppicante,
cadendo più volte a carponi nell’acqua, stando attento a non ingerirla: sapeva
che era avvelenata, lo aveva intuito tempo addietro, quando erano caduti dal
ponte e furono trasportati nel fiume – lui e i due dell’otto, s’intende.
Attraversò le pedane, tutta l’arena circostante
la Cornucopia e, una volta raggiunta, si accasciò su questa, abbandonandosi al
sonno fino al giorno dopo.
Quando si svegliò, il tributo del tre fu
contento di trovare una capsula che dondolava nell’acqua vicino a lui: Beetee e Wiress erano stati
bravissimi come mentori, tanto da aver convinto gli sponsor ad aiutarlo –
sapeva già cosa avrebbe trovato, e la sorpresa non deluse le sue aspettative.
In poco tempo, Sean si era già spalmato
l’unguento sulla ferita, fasciata con la giacca che aveva preso da Lev, raccolto uno zaino dalla Cornucopia, armato e
ripartito alla volta dei Giochi – verso mezzogiorno un altro colpo di cannone e
il volo di uccelli immediatamente successivo, proveniente dalla parte opposta
in cui si stava dirigendo lui, lo informò che era morto il tredicesimo tributo.
La terza giornata dei giochi fu per i due fratelli
come una manna dal cielo: non avevano incontrato nessun tributo, e la cosa era
stata molto apprezzata da entrambi – avevano lasciato il loro accampamento
senza bruciare nulla: accendere un fuoco era la cosa peggiore da fare, in
un’Arena. E camminato all’interno della foresta nebulosa, ma sempre seguendo la
circonferenza delle cascate, assicurandosi di non avvicinarsi troppo ai confini
dell’Arena. Avevano sentito nel corso della giornata l’ennesimo colpo di
cannone, gli uccelli che si mostravano assieme a questi – evento ancora
inspiegabile per entrambi – comparsero al “piano di sotto”, e in qualche modo Lyosha constatò che il tributo morto fosse deceduto per
aver mangiato o bevuto qualcosa di velenoso. Meglio così, si disse, anche se non sapeva quali concorrenti
avessero lasciato l’Arena con la morte dall’inizio dei Giochi, ovviamente
escludendo quelli che lui stesso aveva ucciso, o visto morire.
La sera arrivò velocemente e, come il giorno
precedente, i due fratelli si addormentarono vicino l’uno all’altro, cullati
dal vento e dalla loro personale ninna-nanna. Inconsapevoli che, quello che la
fortuna riservava a loro, era semplicemente il caos.
C’era parecchia frustrazione nel gruppo dei
Favoriti, i quattro si aggiravano per l’Arena senza seguire nessuna pista in
particolare, accendendo fuochi per rivelare la loro postazione in modo che
qualche sconsiderato pensasse che fosse un qualche tributo stupido. Una
strategia priva di spessore intellettuale – la definì Liv, ma decise di non
commentarla e osservare Fraser raccogliere i rami che riteneva “secchi” con Lexi che lo aiutava più per passare il tempo che altro.
Non era uno spettacolo molto gradevole.
«Vado a fare un giro» commentò poi quella del
due, raccogliendosi l’arco dalle ginocchia per infilarselo a tracolla, con sua
grande sorpresa, Ines la seguì.
Il silenzio tra le due era pesante, ma non
fuori luogo: cercavano di studiarsi a vicenda, a capire chi delle due avrebbe
fatto la prima mossa. Ormai gli HungerGames erano arrivati a metà percorso, cercare di fare una
qualche alleanza secondaria rientrava negli interessi di entrambe. Si trattava
solo di stare ancora assieme dopo che il gruppo di Favoriti si fosse smembrato
fino ad un certo periodo di tempo, ed infine separarsi anche loro due.
Fu Liv a prendere parola, fermandosi di colpo,
«sai cosa voglio proporti» disse senza tanti giri di parole, una qualità che
aveva acquisito nel tempo con Roel.
Ines si fermò a sua volta, piantando il
tridente a terra e alzando le spalle, «un’alleanza fa sempre piacere Liv,
soprattutto se la persona con cui la fai è seria. Tu sei sicura di essere una
di queste?» faceva ovviamente riferimento al suo civettare del primo giorno.
Quella del due sorrise, «ho lasciato casa a
diciassette anni per offrirmi volontaria agli HungerGames, un fidanzato che mi amava più di ogni altra cosa per
dimostrare quanto valessi, una famiglia che mi sottovalutava. Sono molto più
seria di quello che possa sembrare» sapeva di star facendo del male ai suoi
genitori, con quelle parole, e soprattutto a Roel. Ma
qualcosa in lei gridava che era la cosa giusta da fare, che chi l’aspettava, a
casa, avrebbe capito tutto – Enobaria le aveva detto
che doveva essere disposta a tutto per tornare, “anche a strappare la gola di
un avversario a morsi”.
Si strinsero reciprocamente la mano, senza
eccedere in forza. E ritornarono assieme all’accampamento, trovandosi un Fraser
sorridente mentre indicava con fierezza il fuoco che era riuscito ad accendere.
«― Che sarebbe disposto a fare
ognuno di voi, mh? Fareste vela ai confini del mondo
e ben oltre, pur di riavere il brillante Jack, e la
sua preziosa Perla? ―
― Sì. ―»
[CALIPSO & GIBBS; tratto da “Pirati dei Caraibi: la Maledizione del
forziere fantasma”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Buongiorno miei cavalieri!
Ebbene eccomi qui, ho un po’ di cose
da dirvi ma, avendo frettissima, cercherò di donarvi
queste informazioni nel modo più diretto e schematico possibile.
- l’edizione è stata nuovamente
spostata, perché mai? Perché ho scoperto che i 63esimi giochi sono stati
vinti da Gloss, così ho deciso di mettere giù tutti i
vincitori delle 75 edizioni dei Giochi in una bellissima immagine che vi linko qui, in grassetto sono i mentori
del distretto 8, le edizioni vuote con i puntini sono invece quelle che
riguardo le fan fiction che, in un modo o nell’altro, sono intrecciate tra loro
(69th HG –
73th HG;
quella con due puntini sono questi che leggete). E’ la versione definitiva, o quantomeno lo spero vivamente. I
Vincitori sono stati posizionati sulla base della pagina di HungerGames’ Wiki – quindi
abbastanza fedele (spero), con solo l’aggiunta di Lloyd, giustamente.
Sulla base di questo, devo modificare
leggermente il testo del capitolo 07
riguardo ad un pensiero fatto su Enobaria che aveva
vinto “l’anno precedente”, quando in realtà sono nove anni prima. Lo farò al
più presto ;)
- ho aggiunto un altro mentore, avendo
conferma che sono effettivamente due mentori per distretto, Haymitch
confonde! Quindi eccovi Lloyd (non potevo eliminarla, ahahaha)
e Cecelia, reale vincitrice che muore nei 75esimi.
- ho fatto il conto di quanto manca
alla fine di questi HungerGames,
e a quanto pare la fan fiction non raggiungerà nemmeno i 20 capitoli – se
qualcuno sperava durassero di più, mi dispiace! :c In tutti i casi è sicuro al
90% che ci sarà un sequel con il vincitore, il Tour della Vittoria e anche il
suo vissuto della rivolta, ovviamente sempre che a qualcuno interessi! ♡
- non vi ho dato la faccia di Lev, anche se non è una cosa che amo fare (spacciare i
volti, intendo), in tutti i casi è questo.
- vi linko un piccolo SPIN-OFF su child!Liv e su questo fantomatico Roel,
che però contiene un piccolo spoiler su questa fan fiction c: spero mi
perdonerete! This.
- in ultimo, so benissimo che la fan
fiction sta comprendendo molti più punti di vista e meno incentrato su Lyosha ed Ariel, ma è finalizzato alla buona riuscita della
fan fiction.
Detto questo, spero di non aver
dimenticato nulla, come al solito ringrazio chi segue/commenta/si palesa in
generale e spero che l’HTML questa volta funzioni bene.
Capitolo 10 *** ▪ well, these days i’m fine – no, these days i tend to lie. ***
▪ CAPITOLO 10 ▪
well, these days i’m
fine – no, these days i tend to lie.
Lo studio delle interviste brillava sotto la
luce di mille riflettori di ultima generazione, roba che non aveva niente a che
vedere con le candele di Lyosha o la lampadina penzolante
al centro della cucina. Rimaneva appoggiato sul muro in attesa che arrivasse il
suo turno, che sarebbe arrivato tra molto, a dirla tutta: CaesarFlickerman nel suo completo fucsia, con capelli e
scarpe di un rosa maialino scandaloso aveva appena salutato gli spettatori che
lo seguivano da casa e raccontava qualche barzelletta come faceva ogni anno,
seguito dalle risate quasi registrate del carnevalesco pubblico di Capitol City.
Chiamò la prima intervistata: Lexi era vestita con un lungo abito color madreperla,
teneva lo strascico con una mano in modo elegante, come se non avesse mai fatto
altro. Si mise dritto con un colpo di reni mentre la fissava sedersi sulla
poltrona accanto al Capitolino, stava accavallando una gamba – il vestito aveva
uno spacco che scopriva molta più pelle di quanta Lyosha
ne avesse vista in un corpo che non fosse il suo.
Deglutì arrossendo, abbassando lo sguardo verso
i propri piedi: concentrati si
diceva, ripetendosi che erano gli HungerGames, non una vacanza di piacere. Non poteva perdere la
testa per qualcuno.
Un fischio prolungato si fece spazio tra i suoi
pensieri confusi e la voce della sua mentore lo riportò alla realtà,
costringendo il neotributo ad alzare lo sguardo, «Mi ascolti, Isaacs?» domandò Lloyd, indossava una gonna a tubino lunga
a metà polpaccio, una camicetta nera a mezze maniche di qualcosa che gli
sembrava seta e dei lunghi guanti che le coprivano interamente le braccia. I
capelli erano raccolti in una magnifica acconciatura contornata qua e là di
brillanti e sull’anulare destro portava un anello delle medesime pietre. Gli
occhi nocciola sembravano profondi nel trucco scuro e lo fissavano come se
volessero fulminarlo.
Perché diavolo era conciata così bene? Avrebbe
voluto chiederglielo, ma Ariel non era con lui e non poteva scrivere con nulla.
Lloyd – solitamente in vesti più comode e semplici
– spostava il peso da un piede all’altro, incrociando le braccia al petto come
se aspettasse un consenso che non poteva arrivare a parole. Lyosha,
ricordandosi improvvisamente della domanda fattagli dalla mentore annuì,
accantonando per un momento quei pensieri ambigui che avevano occupato il posto
di quelli su Lexi. Troppe donne, qui.
«Bene, sono qui solo per dirti che ho parlato
con Caesar, e la tua intervista puoi tranquillamente
farla con Ariel, ma non interverrà – farà solo da…
traduttrice, o qualcosa del genere. Ok?» si era chinata leggermente sul ragazzo
che, reazione involontaria, aveva gonfiato un po’ il petto e trattenuto il
respiro, spalancando gli occhi per guardarla qualche momento nelle pupille ed
infine puntarli sulle scarpe. «Le tragedie sono molto amate, vedi di usarla
bene, la tua condizione» sospirò, slacciando le braccia e ritornando dritta,
«non puoi far sopravvivere Ariel, beh, notizia dell’ultimo momento: non puoi
fare un bel nulla, ma gli sponsor sì. E considerando i voti pietosi che avete
preso, questa è la tua occasione» e se n’era andata senza aspettare risposta.
Lyosha si
riappoggiò al muro, passandosi le mani sulla nuca: gli avevano tagliato i
capelli molto più corti di quanto era solito tenerli, e gli dava un fastidio
tremendo. Si rese conto, alla fine dell’intervista della femmina del due – che
aveva fatto una qualche allusione ad un certo Roel –
che la cosa che lo aveva scosso nel discorso della mentore non era tanto il
doversi mettere in gioco, ma il fatto che Lloyd lo considerasse già morto.
Perché si sorprendeva così tanto? Alla fine,
era la prima cosa che aveva deciso una che il suo nome era stato estratto – e
in un certo senso si chiedeva se avrebbe mai portato a termine quella missione.
Prima che potesse dare una risposta,
l’intervista di Ariel si era conclusa e CaesarFlickerman chiamava a gran voce Lyosha.
Lo studio di un brillante Caesar
lo avvolgeva come una calda coperta, esattamente come quell’abito color perla
dai riflessi argento disegnato da Vilette.
Si sentiva stordito, come se avesse ricevuto
una pallonata in testa. La poltrona bianca era comodissima, ma niente in
confronto al letto che la Capitale gli aveva riservato al Centro di
Addestramento per quelle due settimane e poco più. Le sue settimane da stella,
insomma.
Si era accorto poco dopo che sua sorella era
accanto a lui: improvvisamente gli venne in mente il discorso di Lloyd: non interverrà – farà solo da… traduttrice.
«Ehy, LyoshaIsaacs!» esordì Flickerman, chinandosi verso il ragazzo, voltandosi poi
verso il pubblico in attesa, «non trovate che abbia un nome particolarmente
melodioso?» concluse, ritornando a guardare Lyosha.
In risposta il tributo ridacchiò, seguito a ruota
dal pubblico – mosse le mani e a seguire la sorella diede voce ai segni fatti
dall’altro, «anche a me piace il tuo nome, Caesar».
Il presentatore raddrizzò le spalle,
incrociando le caviglie con il suo solito sorriso sul volto, «cosa sentono le
mie orecchie!» iniziò, come se avesse appena notato la figura di Ariel,
muovendosi sulla poltrona come per guardare le quinte oltre le spalle dei due
fratelli, «regia, la piccola Ariel è ancora qui! Portatela via prima che decida
di tenerla come cucciolo da compagnia!».
La leggera risata dei Capitolini si diffuse
debolmente, Caesar continuò, «per chi non lo sapesse,
Lyosha non può parlare a causa di una malformazione.
La sorella è l’unica a capire il suo strano linguaggio dei segni. Non è
estremamente dolce?».
Gli spettatori si palesarono con un’ondata di
“aah!” e “oow!” e altri strani versi che Lyosha non riuscì a identificare, ma prima che potesse
formulare un qualsiasi pensiero, Flickerman era già
passato all’attacco, «allora Lyosha. Il tuo voto dopo
le sessioni di addestramento non era particolarmente alto…
ce ne vuoi parlare?» aveva un tono dolce, quasi compassionevole. In realtà era
solo il suo lavoro, sporco lavoro.
«Non sono bravo a fare niente, solo a cucire»
aveva risposto Ariel dopo aver osservato le dita di dell’altro.
«E che facevi al distretto? Ariel mi ha già
raccontato che vostro padre è morto…» proseguì con
cautela.
La bimba teneva gli occhi puntati sulle mani di
Lyosha, il quale aveva abbassato a sua volta lo sguardo
nel sentir parlare del padre: non era mai stato una figura genitoriale molto
presente, nella vita del ragazzo, ma in qualche modo il tributo sentiva la sua
mancanza – così, dopo qualche secondo che fece intenerire il pubblico, rispose,
e a parlare fu chiaramente Ariel. «Cucivo i ricami sui fazzoletti, mi piaceva
molto, anche se il lavoro era un sacco e a volte lo portavo a casa. Ariel mi
faceva compagnia canticchiando – vorrei tornare a rifarlo, ma temo non sarà
possibile», la voce della piccola tremava un po’ verso la fine della frase.
Le labbra di Caesar
si incurvarono leggermente verso il basso, «e perché mai dici così?» – sapeva
benissimo la risposta.
Vilette era
seduta in una delle prime file, di fianco a lei Lloyd con il suo sguardo serio
e impenetrabile, anche Cecelia era presente così come
la stilista di Ariel, troppe donne.
Ma non gli importava, ora come ora era interessato solo a fare colpo sul
pubblico di Capitol City, sempre secondo gli
insegnamenti della mentore. Mosse piano le mani, cercando di far assorbire il
colpo anche alla sorella che sembrava voler sprofondare sottoterra, infine la
piccola parlò: «perché sono disposto a portare Ariel in finale, e ovviamente
farla uscire dall’Arena viva. Così ritornerà a cantare, per la mamma, per esempio».
Ancora nel pubblico si levarono altri versi
simili ai precedenti.
«Vuoi dire qualcosa a tua madre?»
Ancora, Lyosha mosse
le mani dopo qualche secondo di meditazione: «sto bene» parlò Ariel. Lyosha mentiva.
L’intervista prese una piega più divertente,
sotto certi aspetti, e quel velo di malinconia e tristezza era stato abilmente
messo da parte dalle capacità oratorie del presentatore. Quando il segnale
acustico forzò il Capitolino a mandare via i due fratelli, lo sguardo
contornato da eyeliner rosa metallico erano fissi sul maggiore dei fratelli che
si era alzato e aveva preso per mano Ariel. CaesarFlickerman trattava tutti i tributi come validi
concorrenti, Lyosha invece, agli occhi del
presentatore, era già morto.
Quel ricordo l’aveva colpito come un treno,
facendogli distogliere l’attenzione dal sentiero che avevano deciso di
intraprendere – era diventato pericoloso girare in tondo -, una liana
attraversava la via e Lyosha inciampò su questa,
cadendo in avanti e sporcandosi di terra ed erba. La sorella si chinò su di lui
e gli afferrò un braccio per aiutarlo ad alzarsi, mentre con la mano dell’arto
libero il maschio di puliva come poteva i pantaloni, ma non c’era nulla da
fare: ormai era sporco e sporco sarebbe rimasto fino alla fine.
«Che ti è preso?» gli domandò con cautela la
sorella, raccogliendo da terra la lancia dell’altro per ridargliela.
In risposta l’altro scosse la testa, alzando
poi le spalle. Non gli andava di parlare;
le prese la mano e ritornò a camminare mentre il sole iniziava ad abbassarsi
dietro gli alberi e la luce si imbruniva leggermente, colorando la nebbia di
riflessi arancioni.
Il sentiero finì e i due scalarono un piccolo
pendio afferrando le radici per non scivolare verso il basso, ma si fermarono
quasi alla fine nel sentire grugniti e suoni di rami che si scontravano, corpi
che cadevano a terra e si rialzavano affannosamente. Lyosha
schiacciò la mole della sorella contro la terra premendole una mano sulla
schiena, il volto di Lyosha era impallidito nel
vedere cosa succedeva davanti ai loro occhi: due tributi – il sedicenne del
nove e il diciottenne del sei – combattevano a perdifiato con dei grossi rami
con cui si erano armati nell’incontrarsi: entrambi non avevano niente con sé ed
entrambi erano disperati, vedevano rosso dalla rabbia e dalla voglia di vivere
da non accorgersi dei due corpi per terra seminascosti da una grossa radice.
Il più grande dei due avversari colpì con la
clava la tempia dell’altro, facendolo scivolare a terra e urlare dal dolore,
lasciando cadere dalla presa la sua arma, il ragazzo del sei si sedette sopra
l’altro iniziando a dare forti colpi alla testa del più piccolo che tentava di
proteggersi con un braccio, schizzi di sangue volavano in tutte le direzioni e
un altro urlo fece comprendere ai due dell’otto che probabilmente il braccio
del nove aveva subito qualche grave danno, tanto da spostarlo e lasciare così
la fronte totalmente scoperta. Un altro colpo violento colpì quello del nove
sulla testa e un altro urlo si levò dalle sue labbra, un altro ancora e la
macchia scarlatta sul ramo dell’avversario si allargò.
Quello del sei si fermò un attimo per
riprendere fiato, ma ecco che il più piccolo infilò la mano del braccio
relativamente intatto ed estrasse da questo un piccolo bastoncino appuntito, con
un ultimo urlo per darsi la carica, infilzò la gola dell’altro e una fontana di
sangue si alzò in cielo per poi bagnare i due tributi. Il sedicenne cadde
sfinito all’indietro e il cadavere del sei sopra di lui, mentre una pozza di
entrambi i sangui formava un letto rosso attorno ai
corpi. Qualche secondo dopo, due colpi di cannoni sovrastarono l’urlo di Ariel
e uno stormo di uccelli si levarono in cielo, comparendo dagli alberi attorno a
loro.
Lyosha si
girò di scatto e tenendo la mano ad Ariel scivolò verso il sentiero che avevano
abbandonato, correndo poi verso il lato opposto che li aveva condotti alle
tribune di quell’orrenda battaglia per la sopravvivenza dei due tributi, la
nebbia diventava più fitta e la vegetazione meno folta, ma Lyosha
non vedeva nulla di tutto questo: voleva scappare da quella visione di morte,
dagli uccelli di cui aveva finalmente capito il significato e dalla loro
postazione, dove Ariel aveva gridato, avrebbero potuto sentirli e raggiungere,
perciò era suo preciso dovere allontanarla il prima possibile da quel luogo.
Diventò paonazzo per lo sforzo della corsa che
mantenne per qualche minuto, si fermò piantando i talloni sulla terra e quasi
andò a sbattere contro un grosso tronco che non aveva visto proprio a causa
della foschia.
«Ly…Lyo―» ma la voce di
Ariel non finì il suo nome che la mano della sorella sfuggì alla debole presa
dell’altro, Lyosha si girò di scatto alla ricerca
della sorella che sembrava sparita nel nulla.
Sentiva il panico impossessarsi dei suoi
muscoli, l’ansia trasformarsi in urla che non sarebbe mai riuscito a dire.
Sentiva…sentiva… poi qualcosa lo colpì dietro il collo e il suo
corpo si sciolse a terra, ma non la raggiunse mai perché due lunghe braccia
ossute lo afferrò per le spalle. L’ultima cosa che avvertì fu un coro di voci
che dicevano parole sconosciute e lo zaino scivolargli dalle spalle, la lancia
cadde a terra e a terra rimase.
«I’m sorry,
mother… I’m sorry, I let you down.
Well, these
days I’m fine – No, these days I tend to lie.»
[IMAGINE DRAGONS; “Amsterdam”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Inizio con uno sfogo: mancano nove
tributi! Ebbene sì miei cari, mancano nove tributi e di questi nove solo uno
sarà il vincitore. E mano a mano che mi avvicino alla fine sento di non
potercela fare, e un angolino del mio cervello vuole cambiare la fine di questi
Giochi ma è una cosa che non si può fare, davvero.
Allora, mi rendo conto che questo capitolo
è stato più flashback che altro ma è arrivato il momento di fare full-immersion
nei fratelli Isaacs, probabilmente tra il capitolo 11
e il 12 ci saranno dei focus sui favoriti, ma alla fine si riunirà tutto in un
unico grande pov. Per poi concludere il tutto con
forse un paio di capitoli di epilogo (o forse solo uno, dipende dalla lunghezza
del tutto).
Sì insomma, ci avviamo verso la fine.
Intanto, i tributi ancora vivi sono:
M-1; F-1; F-2; M-3; F-4; M-7; M-8; F-8; F-10. Insomma, voglio sentire il tifo!(?)
anche se mi sembra abbastanza ovvio chi vincerà, o al massimo la scelta può
ricadere su due tributi… ma lascio a voi il beneficio
del dubbio (:
Ho voluto inserire Caesar
come presentatore per il semplice fatto che questi sono i 72esimi HungerGames, e Katniss dice che già nei 73esimi era lui a condurre le
interviste, quindi ben venga. E’ un personaggio molto apprezzabile e ho adorato
la sua comparsa in questa fan fiction, il colore del suo outfit
è stato scelto da yingsu,
quindi prendetevela con lei!
Lo so, lo so che probabilmente il far
rimanere Ariel durante le interviste di Lyosha è un
po’… come dire, contorto? Ma in tutti i casi il ragazzo aveva bisogno di una
voce e Ariel è l’unica a capirlo. Inoltre Lloyd (che donna, eh! 8D) lo spiega
chiaramente: è per gli sponsor. E a proposito di questo, ci tengo a dirvi che Lyosha ha preso 5 negli addestramenti, mentre Ariel 6. Come
ha detto la mentore, voti davvero
pietosi, ma che ci volete fare? Non sono tutti dei KatnissEverdeen, Lyosha sa solo
cucire e agli addestramenti ha fatto più corsi di sopravvivenza – per Ariel,
appunto – che altro, lei invece è un po’ a stampo Rue: sa uccidere piccole
prede, arrampicarsi e correre, ed è una bimba ;;
Ultima cosa *pare* è appunto la
citazione finale. Questa è tratta da Amsterdam, la canzone degli ImagineDragons (*A*) che mi ha
ispirato maledettamente per l’intervista. Insomma, è stata anche ripresa nel
testo del capitolo perché davvero adoro quella
canzone, ecco.
Alla prossima!
radioactive,
▪a n g o l o s p a m▪
Sonostatofatto
per amarti― { Hunger Games –
ONESHOT – pre!Die on the front page, just like the
stars – Liv (D2) • radioactive }
Capitolo 11 *** ▪ dovevano stare zitti, se stavano zitti sarebbe andato tutto bene. ***
▪
CAPITOLO 11 ▪
dovevano stare zitti, se stavano
zitti sarebbe andato tutto bene.
Aveva sentito il calore del fuoco vicino alla
pelle scoperta del collo e delle braccia, il respiro che gli pareva tanto debole
aumentare improvvisamente, come se l’aria avesse ripreso a riaffluire nei suoi
polmoni. Aprì piano gli occhi scoprendo la vista annebbiata da un sottile
strato di liquido, sbatté più volte le palpebre e due lacrime gli rigarono le
guance facendosi strada tra lo sporco e la terra – una scena alquanto pietosa,
pensava, ma almeno ora ci vedeva.
Si accorse subito di essere legato al tronco di
un albero, le liane lo avvolgevano dalle spalle ad appena sopra i polsi, i
piedi erano liberi. Non era un modo molto brillanteper tenere prigioniere delle persone, se era
un qualche piano degli Strateghi, era finalizzato a dar la possibilità ai
tributi di scappare. Vicino a lui, legata allo stesso albero, c’era Ariel con
il capo chino sulla propria spalla, ancora svenuta; aveva un graffio sulla
guancia e dalla tempia scivolavano due stilledi sangue che si era già seccato alla base della ferita, macchiando ed
incollando al viso ciuffi biondi sfuggiti all’acconciatura.
A Lyosha venne un
colpo: aveva dato per scontato che fosse ancora addormentata, ma per quel che
ne sapeva poteva essere anche morta. La prima idea che gli venne in mente fu
quella di chiamarla, passò in rassegna anche l’opzione di fischiare per cercare
di svegliarla, ma probabilmente avrebbe fatto davvero troppo rumore. Se qualcuno li aveva legati, doveva essere
ancora da quelle parti.
Optò per cercare di attirare l’attenzione della
piccola con la mano che riusciva relativamente a muovere, strattonandole la
manica della giubba che riusciva a raggiungere, seppur sfregando il polso
contro la liana con varie smorfie di dolore. Prese la manica con indice, medio
e pollice tirandola più volte – e intanto la sua mente vagava su vari pensieri
a cui avrebbe dovuto dare una risposta, tra le tante cose ponderava su come
liberarsi, ricordandosi poi di avere un coltello nei pantaloni.
Il focolare davanti a loro scoppiettò
rumorosamente e le spalle di Ariel sobbalzarono, la testa si tirò su e gli
occhietti si aprirono all’istante. Lyosha sorrise
sollevato e ritrasse la mano dolente, sospirando poi di sollievo per i graffi
sul polso che finalmente non sfregavano più contro la corda.
Assieme al risveglio di Ariel Lyosha si accorse che, nell’albero accanto al loro,
qualcuno soffriva la stessa condizione: un ragazzo – gli pareva – tentava di
liberarsi dalle liane già allentate, socchiuse gli occhi per mettere a fuoco la
sua figura e scorse sulla giacca il numero sette. Il tributo del sette. Vicino
a lui, una ragazzina dell’età di Ariel era ancora svenuta, sulla giacca portava
il numero dieci.
Borbottava qualcosa, l’Isaacs
fece un ultimo sforzo e cercò di prendere la mano di Ariel che, ancora un po’
stordita lo guardava senza capire, con il mento il maschio le indicò il terzo
tributo e, pochi secondi dopo, la sorellina capì le intenzioni di Lyosha.
«Ehi… ehi! Ragazzo
del sette!» disse, alzando di poco la voce con una sottile venatura di
disperazione, questo alzò i suoi occhi scuri verso i due fratelli, era
spaventato ma almeno aveva dato loro la sua attenzione, «che succede qui?»
domandò poi l’altra.
Il tributo del sette ansimava, le spalle si
alzavano ed abbassavano in contemporanea con il petto, sollevò le mani sporche
di sangue con le unghie rotte passandosele tra i capelli in un gesto di
disperazione, «non lo so… qualcosa mi ha preso e poi
mi sono ritrovato… qui»e riprese a cercare di disfarsi delle
liane.Ariel avrebbe volentieri chiesto
se ilragazzo poteva liberarli, ma non
lo avrebbe fatto per ottime ragioni: erano agli HungerGames, e aveva paura.
Anche il tributo del dieci si svegliò, cercando
di mettere in moto il cervello il prima possibile, «cosa…?»
si bloccò, avvertendo la presenza del ragazzo del sette, «ehi! Che stai
facendo? Perché sono legata?».
Prima che potesse rispondere, un motivetto
tribale giunse alle orecchie dei quattro per poi cessare, un momento di
silenzio riempì le orecchie dei tributi e poi il rumore di foglie spostate,
versi in una lingua sconosciuta e ancora quel tamburo.
Il ragazzo del sette sbiancò, i suoi movimenti
per liberarsi dalle liane divennero più frenetici. Ariel allungò la mano a
prendere quella del fratello, spaventata.
Fecero capolino da dietro un arbusto cinque
ominidi dalla pelle scura e un gonnellino di foglie, gli occhi scintillavano
alla penombra del fuoco di un verde radioattivo, in testa dei copricapi di una cultura che nessuno dei tre conosceva, i
fori nelle orecchie dilatate, ringhiavano mostrando le zanne tipiche degli
animali ed erano armati di lance – uno di loro possedeva un tamburo con cui
sembrava scandire il tempo. Tumtumtum.
Qualcosa scattò in Lyosha:
lasciò la mano della sorella e, ignorando il dolore ormai lancinante al polso
cercò di estrarre il coltello dai pantaloni, graffiandosi la gamba per i
movimenti poco curati, quasi violenti. Gli ominidi si avvicinavano, puntando
loro le lance come se fossero animali.
«Thahn…» pigolò piano
Ariel, mentre i cinque individui si avvicinano, al collo avevano appesi… occhi e dita. Ariel sbiancò: occhi e dita…. Erano ibridi? Ibridi di forma umana? Trattenne un
urlo di terrore e disgusto, ora che nella mente aveva stampato questo pensiero,
si concentrò su dei bulbi oculari le quali iridi portavano il colore degli
occhi di Yara – con cui aveva scambiato qualche
chiacchiera durante gli addestramenti – e le mani le cui unghie erano
martoriate: tutte rotte e tagliate cortissime, esattamente come le aveva lei.
«Sono ibridi» disse, confermando le sue teorie e informando Lyosha
della situazione, «hanno liberato gli ibridi, Ly…».
Due ibridi si avvicinarono al ragazzo del
sette, ormai quasi libero mentre esultava a voce alta, seguito da altri due dei
suoi simili, con un affondo colpirono la spalla del tributo che lanciò un urlo,
facendo rabbrividire i fratelli e gonfiare gli occhi di lacrime di Ariel,
«muoviti, ti prego…» supplicò al fratello che provava
a tagliare le liane, ottenendo qualche risultato.
Ma il piagnisteo attirò l’attenzione degli
altri due ibridi mentre l’ultimo del gruppo del cinque continuava a suonare lo
strumento, stavolta con più foga, si girarono verso di loro, avvicinandosi
lentamente con le lance puntate. Guardavano Ariel che singhiozzava ma stringeva
le labbra per non lasciarsi scappare nessun verso, dondolando a destra e a
sinistra con le ginocchia flesse. Anche il ragazzo del sette piangeva e si
lamentava del dolore mentre la ragazza del dieci, in silenzio, era quasi
riuscita a disfare il nodo che la teneva bloccata.
Lyosha si
fermò un attimo, analizzando la situazione: la ragazza del dieci era come
scomparsa per gli ibridi, e lo stesso valeva per lui che sembrava non fosse
stato avvistato, il tributo del sette piangeva e gli ominidi lo fissavano come
aspettando il momento migliore per attaccare e Ariel, chiusa nelle sue spalle,
veniva considerata solo ogni tanto – quando dalle sue labbra uscivano quei
versi tipici di qualcuno che prova a non far rumore mentre piange.
Non era difficile da comprendere, in realtà –
per una persona che non faceva mai rumore, poi…Dovevano stare zitti, se stavano zitti
sarebbe andato tutto bene.
Alla terza liana sciolta, Lyosha
cambiò mano in modo da riuscire a tagliare le corde più facilmente, dalle sue
labbra uscì un flebile «shh»
per calmare la sorella.
Il ragazzo del sette svenne, probabilmente,
perché non sentirono più singhiozzi e nessun cannone aveva sparato l’annuncio
di morte.
Presto le liane furono spezzate e adagiate
lentamente a terra, come il ragazzo aveva supposto, gli umanoidi non vedevano
realmente – erano come macchine attirate dalle grida di gioia o disperazione
che fosseroil quale compito era quello
di procurare ancora più disperazione.
Al segnale di Lyosha,
i due fratelli sarebbero corsi via.
Dietro di loro i passi degli ibridi si facevano
sempre più lontani, eppure non scomparivano come i due avrebbero dovuto.
Il suono del respiro che veniva a mancare sempre
più invadeva le loro orecchie e le mani strette trasmettevano una forza che né
Ariel né Lyosha avrebbero avuto singolarmente. Il
maschio non vide una radice sbucare da terra e ci inciampò sopra iniziando poi
a capitombolare giù per un pendio che non avevano viso per colpa della nebbia, Lyosha si portò inevitabilmente dietro il corpo di Ariel
curandosi di proteggerlo stringendolo a sé, con il viso premuto sul suo petto.
Quando finalmente la discesa finì e loro si
rotolarono per qualche metro lungo il piano, sentirono con sollievo che il
tamburo non li seguiva più. Erano salvi.
Ariel si scostò dal fratello, strappandogli un
verso muto di dolore, facendolo girare a pancia in su e inarcando appena la
schiena – lo stomaco gli faceva malissimo e la fitta gli dilaniava il fianco
destro, provò a poggiarsi una mano sopra ma la pelle sembrò prendergli fuoco.
La sorella si guardava le mani graffiate, sfregandole poi sui pantaloni come a
volersele pulire, si girò in un secondo momento il maggiore, nel vederlo con
quella smorfia di dolore sul viso, impallidì e gli si avvicinò.
«Che ti senti?» gli chiese, percorrendo con
occhi attenti ma ansiosi l’esile corpo di Lyosha,
quasi paralizzato dal dolore ma che dondolava lievemente a destra e a sinistra
come un cane bastonato – le indicò il fianco e l’altra si ritrovò ad alzargli
piano la maglia, scoprendo un livido di considerevoli dimensioni. Ariel si
tappò la bocca per non lasciarsi scappare neanche una parole o un verso che
fosse.
Lentamente, Lyosha
riuscì ad alzarsi e con l’aiuto di un ramo per terra e di Ariel, di quella
specie di magia che la sorella gli donava, era riuscito a trascinarsi dietro ad
un arbusto particolarmente grande,gettandosi poi a terra alla ricerca di conforto nel sonno.
Chiuse gli occhi, scoprendo di avere ancora il
pugnale – probabilmente lo aveva messo nei pantaloni durante la corsa, senza
badarci troppo – lo afferrò e se lo tenne ben stretto, dormendo di lato, steso
sul fianco buono. Prima di abbandonarsi ai sogni, sentì una fastidiosa puntura
al mignolo sinistro, che si ripeté nell’anulare della stessa mano – scosse
l’arto scacciando via quel fastidiosissimo insetto che non lo disturbò oltre e
volò via.
La mattina furono svegliati dal suono di un
cannone, dalla loro posizione non era stato possibile vedere da che luogo gli
uccelli si fossero levati in volo.
Ariel si tirò a sedere, sbadigliando e
sfregandosi gli occhi, il suo stomaco brontolò e con dispiacere entrambi
notarono di non essere più in possesso dello zaino. Lyosha
fece un calcolo di quanti tributi erano rimasti.
«Otto» proferì Ariel, come se avesse pensato in
sincronia all’altro alla stessa domanda, «siamo rimasti in otto…»
ripeté con voce più bassa, raccogliendo poi le ginocchia al petto e nascondendo
il viso in queste. Il fratello si tirò a sedere, lamentandosi ancora del fianco
dolente e con la mano accarezzò le spalle alla sorella in un gesto di conforto:
andrà bene.
La sua preoccupazione era comprensibile: a otto
tributi dalla fine, Capitol City andava a martoriare
le famiglie dei superstiti a casa, e chissà cosa avrebbero chiesto alla loro
madre, genitrice di entrambi i tributi dell’otto – che un figlio l’avrebbe
perso né più né meno, forse. Forse sarebbero morti entrambi.
A Lyosha si fermò un
groppo in gola, la bile gli salì lungo la trachea e avrebbe volentieri vomitato
se non avesse avuto un attimo di buon senso.
Con due pacche sulla spalla alla sorella, tentò
di rialzarsi con l’aiuto del bastone improvvisato, offrendole poi la mano per
accoglierla in un caldo abbraccio. Nello stringerla, lo sguardo gli ricadde
sulle proprie mani che premevano la schiena di Ariel contro sé stessa.
Che
strano, pensò – scosso da un improvviso moto di terrore, a cui non avrebbe
badato più di tanto: la prima falange dell’anulare e del mignolo avevano assunto
un vago colorito violaceo, sulle punte sembravano quasi nere.
Tremò appena, dando la colpa al freddo, chiuse
il palmo e prese Ariel per mano – con quella buona – uscendo dalla radura alla
ricerca di un torrente in cui potevano abbeverarsi.
Successe tutto senza particolari cerimonie:
Fraser, Lexi e Liv si svegliarono mentre Ines era
rimasta di guardia come deciso, si armarono e prepararono le proprie cose al
suono del cannone che annunciava il sedicesimo tributo morto. Erano a meno otto
– e come d’accordo era arrivato il momento di separarci.
Fraser aveva fatto una qualche battuta che
suonava come «ci vediamo presto, miei cari» ed era stato il primo ad andarsene,
Lexi si era diretta nella direzione opposta. Liv e
Ines si guardarono, sorridendo lievemente l’una all’altra, per poi prendere una
terza direzione.
Poco tempo dopo, le due avevano notato una
figura aggirarsi tra gli alberi, in mano teneva un pugnale e camminava a passo
abbastanza veloce. Senza aspettare il consenso dell’alleata, Liv scoccò una freccia,
attraversando la schiena del tributo.
Quando cadde a terra, le Favorite si
avvicinarono sentendo i mugolii di dolore della loro preda, con decisione, Ines
affondò il tridente nella schiena del ragazzo ai loro piedi – poco dopo il
cannone suonò e attorno a loro gli uccelli si levarono in volo.
Ripresero a camminare, Liv memorizzava il
ragazzo che avevano appena ucciso, sulla sua giacca, c’era stampato il numero
“3”.
«Don’t you
worry –don’t you worry child, see heaven’s got a plan for you.»
[SWEDISH HOUSE
MAFIA; “Don’t you worry child”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Ehilà :D~
Allora, sarò breve perché non ho
davvero niente da dire – fosse per me riempirei questo spazio di insulti verso
me stessa considerando il capitolo che no, non mi è piaciuto per niente. E yingsu – che stavolta
mi ha anche betato il capitolo ♡ e solo questo vi fa capire quando mi
faccia ribrezzo questo 11 x° - sa quante volte mi
sono lamentata, anyway.
Ho ucciso SiriusBlack Sean! Io non so voi, ma non vedevo l’ora di togliermelo dai
piedi – davvero, l’ho odiato come poche cose in questo capitolo. Insomma, mi
dispiace di aver deluso – probabilmente – qualcuno per la sua morte così… fredda, insignificante? c:
No, seriamente, sono convinta di aver
deluso qualcuno con questo capitolo – per la storia degli ibridi-bulabula
e in generale tutto, ovviamente temo anche che in generale, la conclusione di
tutto, non vi piaccia come spero e continuerò a sperare. Non fate caso agli
errori di coniugazione verbale in questa frase ahhahaha,
non ho assolutamente voglia di rileggerla XD
A titolo informativo, dato che sarà
impossibile mostrarlo nella fanfic, sappiate che l’intervista
alla madre sarà una cosa straziante – ma che in un futuro vicino (capitolo
dopo!) aiuterà i nostri protagonisti.
Anyway, siamo arrivati a meno sette tributi –
e i due fratelli sono ancora insieme, ehehuvu
Mi scuso anche per tutte le recensioni
a cui non ho risposto XD ma la pigrizia si è impossessata del mio corpo e
davvero, non ce la faccio. Ma sappiate che amo i vostri commenti e mi fanno
davvero davvero
felice çuç vorrei fosse così sempre(?).
E, per rispondere a Ivola, i banner
sono stati fatti da me, ovviamente non mi soddisfano ma non importa uvu così come tutta la grafica è curata dalla sottoscritta
:D ♡
che si può sfruttare quando volete – yingsu lo fa perennemente, esatto – basta chiedere e avere
pazienza(?). Ok.
Inoltre, per chi volesse essere
aggiornato sul countdown della conclusione di Die on the frontpage,
just like the stars –
può amorevolmente cliccare qui [pagine
rubate sono gli snippet post!72 con il/la suo/a
vincitore/ice]. Successiva a questa, scriverò un’altra
edizione degli HungerGames
sempre in collaborazione con yingsu, che però
arriverà mooooolto dopo(?).
Ok, dovevo scrivere poco e invece vi
ho intasato di nozioni(?), vado a farmi i fatti miei e spero che almeno un
pochino questo capitolo vi sia piaciuto~
Capitolo 12 *** ▪ quando chiami un posto paradiso, digli pure addio. ***
▪
CAPITOLO 12 ▪
quando chiami un posto paradiso,
digli pure addio.
Lyosha ed
Ariel si erano abbeverati al torrente, decidendo poi di ritornare nella foresta
sotto di loro – avevano incontrato troppi guai in mezzo a quella nebbia e,
considerando che ormai conoscevano i segreti dell’arena, non era così
invivibile quel caleidoscopio fatto di foglie e fiori.
Lo stomaco del più grande brontolava, così
rumorosamente talvolta da farlo arrossire; Ariel non era da meno. Tuttavia
sopportavano bene la fame, c’era stato un periodo in cui a casa arrivavano a
fine mese senza più cibo e dovevano patire la fame, certo, ripensando alle
leccornie di Capitol City di cui erano stati riempiti
non era il modo migliore per sopravvivere alla furia di una pancia affamata, ma
bastava non pensarci.
La giornata passò tra camminata e riposo, non
si dirigevano in un posto specifico ma piuttosto si limitavano a seguire quei
sentieri scavati naturalmente per terra che da
qualche parte dovevano portare – ottimisticamente alla Cornucopia, ammesso
che non ci fosse nessuno.
Verso il tramonto, i due si erano riparati in
una rientranza nella roccia nascosta da alcune liane per riposare – le gambe di
Lyosha tremavano dallo sforzo di mantenere sempre e
comunque un passo abbastanza veloce, inoltre erano già deboli e scarne di loro,
la stessa Ariel si era tolta gli scarponi per massaggiarsi i piedi gonfi e
umidi, esattamente come quelli del fratello che, tra l’altro, aveva uno stivale
praticamente a pezzi ancora dalla caduta nel fiume di qualche giorno addietro.
Non passò neanche mezz’ora che la piccola si
addormentò con il volto appoggiato alla gamba del fratello, mettendosi le mani
sotto le ascelle come per proteggersi il petto, in silenzio, Lyosha la guardava accarezzandole i capelli sporchi del
sangue fuoruscito dalla ferita alla tempia.
Presto sarebbe morto, pensava, tra poco tocca a me. E più il pensiero
di morire si faceva concreto assieme alla possibile vittoria di Ariel, più Lyosha credeva che fosse un traguardo impossibile da
raggiungere, per uno come lui, che di
buono sapeva solo cucire – e non era abbastanza per portare il pane a casa:
aveva bisogno delle tessere. Sarebbe stato capace di uccidersi e lasciare Ariel
da sola? Anche se ce l’avesse fatta, ad arrivare in finale, Capitol
City avrebbe apprezzato il suo suicidio in diretta? Chi glielo garantiva che
non avrebbero escogitato un modo per uccidere sua sorella prima che lui facesse
la fatidica mossa?
Prima che riuscisse a porsi queste domande, la
mano iniziò a prudergli e, guardandola, notò con orrore e allarme che ora anche
le seconde falangi di ambo le dita erano diventate nerastre – inoltre non
riusciva più a muoverle. Doveva prendere dei provvedimenti – non gli sarebbe
piaciuto avere tutta la mano in quelle condizioni.
Chiuse la mano a pugno nel sentire Ariel
svegliarsi, dopo qualche minuto erano già in cammino.
Camminava a passo svelto, brandendo la spada
con maestria e tagliando i rami e le foglie che le sbarravano il cammino, con
l’altra mano reggeva una bottiglia d’acqua ormai vuota che aveva intenzione di
riempire con dell’acqua potabile – ricordava che fosse tutto velenoso, in quel
posto.
Si ritrovò ben presto in una radura che aveva
qualcosa di… magico, semplicemente perché sopra di
lei vi era un letto di foglie che intrappolava al suo interno la luce,
rendendola soffusa ma brillante, sui rami degli alberi più bassi alcuni passeri
neri e blu erano appesi a testa in giù, gonfiando ritmicamente il petto ed
emanando dei suoni simili a cinguettii. Più in alto, un altro uccello del
piumaggio color terra apriva le ali lasciando muovere le lunghe piume bianche
sul suo dorso – cantando anch’esso.
Ai suoi piedi, una terza variazione di quei
uccellini saltellava di qua e di là, come se ballasse, le ali aperte a formare
come una circonferenza attorno al suo busto, sembrava avesse la gonna.
Lexi
dovette ammetterlo: era uno spettacolo davvero fantastico – era paradisiaco e
in netto contrasto contro gli orrori dell’Arena che il suo cervello si sforzava
di ignorare, come farebbe una Favorita,
una vincitrice.
E in quel momento, davanti al suo naso un
esemplare di quei uccelli neri dal dorso colorato e – particolare di cui non si
era accorta prima – la coda biforcuta a formare due ricciolini iniziò a volare
stando sospeso in aria, come un colibrì. Istintivamente, la ragazza allungò una
mano e gli sfiorò il capo con il polpastrello, non avendo avuto reazioni
contrarie dal volatile, percorse tutto il profilo dell’esemplare, arrivando
alla coda e – sempre mossa dall’istinto – prendendogli i due ricciolini alla
base.
A quel contatto, l’uccello gracchiò e il suo
petto si gonfiò terribilmente, gli occhi sembravano quasi usciti dalle orbite, Lexi gli lasciò le penne ma, prima che riuscisse a fare un
passò indietro, l’uccellino scoppiò in un’esplosione di piume e polvere che la
ragazza si ritrovò ad inalare.
Poco dopo sentì la gola gonfiarsi, gli occhi
bruciare e il viso prudere, cadde a terra, dapprima tossendo, poi ridendo fino
ad alternare l’una all’altra. Gli uccelli rimasero fermi, in silenzio, per poi
volare via quando Lexi si rialzò, lasciando a terra
lo zaino e allontanandosi da quell’angolo di paradiso che di paradiso non aveva
nulla, brandendo la sua spalla.
«Lyosha, che cos’è
questo?» chiese Ariel, prendendogli la mancina e indicandogli il mignolo e
l’anulare ormai violacei – in realtà, si era già aperta qualche ferita che
aveva iniziato a sanguinare senza che lui se ne accorgesse.
Il ragazzo ritirò la mano, frustrato per la
scoperta della sorella: non voleva che lei le vedesse, sapeva che, se le avesse
notate come di fatto era successo, Ariel non avrebbe fatto altro che lamentarsi
sul fatto che poteva essere grave, esattamente come faceva sua madre.
C’erano volte, al distretto otto, in cui si diffondevano
delle terribili malattie che colpivano le mani e l’apparato respiratorio dei
lavoratori in fabbrica, Capitol City era sempre in
cerca di tessuti sfarzosi e le loro industrie non erano finalizzate solo alla
produzione delle tute dei Pacificatori – quanto anche a fornire alla Capitale
vestiti, forse non rifiniti totalmente, ma comunque pregiati. Ed era proprio
quella ricerca per il nuovo che
faceva sperimentare ai “cervelli” del distretto nuovi prodotti sui tessuti,
rendendoli sì lussureggianti per i Capitolini, ma comunque non lavorabili a
causa delle modifiche chimiche apportate alle stoffe. Allora le persone
iniziavano a soffrire di mal di dita per poi scoprire che tendini e ossa si
stavano corrodendo, oppure la pelle dei polpastrelli iniziava a cadere a pezzi
– in alcuni casi addirittura il tessuto era stato imbevuto in qualche sostanza
particolare che con il calore dei macchinari e del sovraffollamento dei
magazzini evaporava, le persone lo inalavano e, a lungo termine, morivano.
Lyosha scosse
la testa, cercando di dimenticare tutti i dolori e le disgrazie del suo
distretto – tentava di ignorare anche le prediche di Ariel riguardo alle sue
dita malate: non sarebbe riuscito a dare nessuna risposta, non tanto perché non
poteva parlare, piuttosto perché non aveva idea del motivo di tale morbo.
Assieme al sole che tramontava, alla voce di
Ariel che scemava stufa di cercare di cavar fuori qualche informazione dal
fratello, scese dal cielo un contenitore di generose dimensioni color platino,
il paracadute si impigliò tra i rami e il vaso fece scattare qualcosa tale per
cui si scollegò dall’attrezzatura, cadendo per terra con un tonfo e aprendosi.
Era un aiuto dagli sponsor che fece comprendere
al ragazzo la gravità della situazione. Raccolse il dono e con Ariel cercò un
luogo dove ripararsi.
Ariel si strinse le ginocchia contro il petto,
schiacciandosi contro la parete della piccola rientranza in cui si erano
nascosti, «Lyosha…» chiamò flebilmente, senza
riuscire a catturare l’attenzione del fratello.
Il maggiore guardava ciò che gli sponsor gli
avevano mandato: un coltello simile a quello che usavano i macellai del
distretto, qualcosa di vagamente simile a degli anelli e poi…
un brivido gli percorse la schiena nel rivedere quegli oggetti. Inspirò ed espirò
tre volte, chiudendo gli occhi, per poi ripetere quelle parole a mente e
sillabarle con le labbra, come per prendere coscienza della loro concreta
esistenza: ago e filo.
Non ci voleva un genio per capirlo: Capitol City voleva che lui si tagliasse le dita e che si
cucisse da solo la ferita – erano a conoscenza della sua capacità nel cucito,
così come erano a conoscenza del fatto che avrebbe fatto di tutto per rimanere
con Ariel e portarla fino alla fine.
Con la mano le fece segno di uscire, la piccola
ubbidì senza dire nulla: avevano già discusso di questo.
Quando la vide sparire dietro ad un albero, con
un altro sospiro afferrò con la mano tremante gli anelli di mezzo centimetro di
larghezza per poi metterli nel mignolo e nell’anulare, sentendo che si restringevano
a dismisura fino a bloccargli il flusso sanguigno, quando iniziò a sentire le
dita formicolanti, decise che era ora di procedere. Si fece forza, prendendo
con la destra il machete mentre appoggiava le due dita su una pietra vicino
alla parete rocciosa. Doveva tagliarsi le dita, dai moncherini avrebbe estratto
della pelle sana e con quella, a mo’ di toppa, si sarebbe cucito la ferita.
Senza
anestesia – la paura folle del dolore lo paralizzò seduta stante, non poteva
farcela, sentiva di non potercela fare.
L’ultimo respiro prima di convincersi davvero
della sua insufficiente forza d’anima e con un colpo secco brandì la lama,
chiudendo gli occhi una volta che si fosse assicurato la traiettoria.
Il dolore lo avrebbe fatto urlare, ma si sentì
solo il ferro della lama colpire la pietra e le due dita rotolare giù, cadendo
tra rami, fango ed erba.
Ines infilzò il tridente a terra, sedendosi e
appoggiando la schiena contro la propria arma, sospirando, «che stanchezza»
esordì flebilmente, incrociando le braccia e scostandosi la lunga coda dalla
schiena alla spalla, in modo che non le dessero fastidio: erano sporchi, non li
aveva ancora lavati né aveva intenzione di tagliarseli perché fossero più
pratici, voleva vincere e mostrare la sua chioma intatta.
Liv rimase in piedi, nonostante non lo
dimostrasse i piedi le facevano un gran male e avrebbe volentieri tolto le
scarpe e messi a bagno nell’acqua calda – come faceva dopo gli allenamenti al
due. «Vado a cercare qualcosa, o qualcuno… sì» disse
non molto convinta, sovrappensiero.
Non avendo avuto risposta o obbiezione
dall’altra, imboccò un sentiero naturale tra due alberi, ritrovandosi in una
brillante radura con una piccola cascata e un laghetto. Un sorriso le si
dipinse sul volto – si tolse lo zaino dalle spalle, prese una bottiglia d’acqua
e la svuotò, avvicinandosi poi alla riva per riempire la bottiglia di liquido
fino a metà del contenitore, rimettendola poi nella sacca e ritornando
dall’alleata.
«Sei tornata presto» constatò Ines, assonnata,
il sole morente le illuminava i capelli di oro, facendogli sembrare rame caldo.
Esisteva, il rame caldo? «Hai
dell’acqua? Ho finito la mia scorta…» chiese poi,
particolarmente disinteressata.
Era il momento che Liv aveva previsto, annuì un
po’ troppo vigorosamente e si scrollò lo zaino di dosso, prendendo la bottiglia
che aveva riempito poco prima.
Bevila. Pensò
Liv, quasi come volesse ordinarglielo.
Bevila. Vide
le labbra di Ines avvicinarsi al collo della bottiglia, l’acqua scorrere lungo
la caraffa per poi sparire nella bocca di lei. Riuscì quasi a cogliere il
movimento della sua gola nell’ingoiare il sorso.
E’
fatta. E quasi come se si fosse tolta un peso dalle spalle, si lasciò cadere
seduta a terra, sospirando mentre Ines la guardava con aria interrogativa.
Tre minuti dopo, la ragazza del quattro morì
tra tosse e vomito, mentre i suoi occhi si spegnevano fissi sull’immagine di
Liv.
Un colpo di cannone risuonò nell’Arena e Ariel
si svegliò di colpo: si era addormentata tra le lacrime nel pensare a quello
che il fratello stava facendo all’interno di quella piccola grotta. Le sue dita.
Non riusciva a pensare ad altro, alle sue dita.
Si stava tagliando le dita, se le stava cucendo. Sembrava quella storia
dell’orrore che si raccontava nel distretto otto, di quelle donne che erano
diventate delle bambole di pezza e ogni volta che qualcuno entrava nel loro
magazzino, gli strappavano via la pelle per farci dei pupazzi come loro, o
delle bandiere, delle coperte… ebbe un brivido che le
scosse le spalle e si scoprì le guance nuovamente umide: piangeva di nuovo.
Si rese improvvisamente conto che a svegliarla
era stato l’avviso della morte di un nuovo tributo, e dato le circostanze
poteva essere benissimo Lyosha. Il panico prese
possesso del suo corpo, si alzò scattante cadendo quasi in avanti e, scivolando
sulla terra che non le sembrava essere mai stata così scivolosa in vita sua.
Nel buio della notte, cercava a tastoni il
corpo del fratello, trovando il suo piede, poi la gamba, il busto e il viso.
Era steso per terra ma non rispondeva al continuo toccare dell’atra – facendola
impanicare.
«Ly… rispondimi»
mormorò, consapevole che non le avrebbe mai detto nulla. Confidava nel
movimento della mano, di un fischio, le bastava anche sentirlo respirare!
La pioggia iniziò a cadere nell’Arena, bagnando
qualsiasi cosa si trovasse sotto di lei. Il freddo era aumentato di colpo e da
qualche parte suonò un tuono, si girò verso l’entrata e vide un lampo, subito
dopo ancora il brusio del temporale.
A sovrastare il rumore del nubifragio fu un
altro colpo di cannone, e Ariel riprese a piangere.
«You call some
place paradise, kiss it goodbye.»
[EAGLES; “The Last Resort”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Alè :D
Allora, questo è il penultimo capitolo
di Die on the frontpage, just like the stars. E ovviamente mi piange il cuore in una maniera
terribile, tanto che – ribadisco quello che c’è dentro la mia listography – dopo il tredicesimo capitolo (quello
conclusivo), ci sarà l’epilogo e poi tre “pagine rubate”, ovvero missing-momentspre/post/durante
gli HungerGames, devo
ancora decidere bene. Il primo di questi MM sarà
appunto l’intervista alla madre che non ho potuto/voluto inserire nella fan
fiction.
Sempre a scopo informativo, vorrei
avvisarvi che l’aiuto per Lyosha (ah, Lyosha!) è arrivato proprio dall’intervista della madre
alquanto toccante che ha smosso qualcosa nei Capitolini – sì. Riguardo a questo
non vi dico più nulla uvu
Insomma, altri due tributi sono morti eve e gli altri decederanno(…) tutti nel prossimo capitolo,
lasciando solo un vincitore – eheh.
Ultima cosa e poi vi lascio ♡
Il titolo del capitolo è la traduzione
italiana della canzone a fine testo, ho voluto sottolineare l’aspetto
paradisiaco dell’Arena proprio perché succedono un sacco di cose collegate a
questa, nel capitolo che avete appena letto. E un po’ perché non mi veniva
nulla da scrivere la sopra come titoletto, eheh.
L’ultimo capitolo, secondo le mie
stime, verrebbe pubblicato giovedì/venerdì e l’epilogo (già scritto ♡) domenica sera o lunedì, comunque uno
scarto abbastanza breve tra una cosa e l’altra perche mi piacerebbe che fosse
una cosa abbastanza continua, insomma.
Come al solito, ringrazio chi
segue/recensisce palesandosi o meno çvç)/ mi spronate
sempre a continuare e non posso credere che sia quasi finita, ahahahah.
Capitolo 13 *** ▪ muori in prima pagina, proprio come le stelle. ***
▪
CAPITOLO 13 ▪
muori in prima pagina, proprio
come le stelle.
Lexi
correva tra gli alberi, facendo a pezzi qualsiasi cosa si trovasse davanti –
fortunatamente si trattavano solo di liane e rami.
Ormai era notte fonda, ma a Lexi
non importava minimamente, qualcosa nella sua testa le gridava di continuare ad
andare avanti, a correre fino a quando le sue gambe non si sarebbero staccate
dal corpo per l’usura.
Tra gli alberi, notò un piccolo fuocherello sul
punto di spegnersi. Sorrise rigirandosi la spada tra le dita, mentre la pioggia
iniziò a cadere prepotente su di lei, bagnandole il viso e i capelli,
attaccandoli ai suoi fini lineamenti che, in qualche modo, ora erano bloccati
in un ghigno prepotente.
Si avvicinò a quello che era un focolare,
scoprendo il tributo nascosto dietro ad un albero, attaccato al tronco nella
speranza di bagnarsi meno grazie al letto di foglie sopra il suo capo. Teneva
il viso nascosto tra le ginocchia e aveva la gamba ferita – il taglio sembrava
aver fatto infezione.
Quando il ragazzo del sette alzò gli occhi,
avvertendo una presenza, la spada di Lexi rifletté la
luce della luna e poi si scagliò contro l’altro, la lama incontrò la tempia,
frantumandogliela – il tributo cadde di lato senza vita, mentre il sangue
bagnava le foglie e gli scarponi della ragazza.
Lexi si
allontanò correndo, mentre gli uccelli si alzavano in volo dove lei aveva
appena ucciso l’altro concorrente. Inciampò su una radice seminascosta dal
fango e dalle foglie, cadendo con la faccia sul terreno, si girò di lato
ridendo e, mentre la pioggia le colpiva il corpo come migliaia di spilli, si
ritrovò a cadere in un sonno a cui non seppe sfuggire.
Ariel si era addormentata controvoglia sul
corpo del fratello – Lyosha era morto, si ripeteva, alla fine era
successo davvero. Si sentiva dannatamente stupida per la scenata che stava
facendo, che si aspettava? Nel migliore dei casi uno dei due sarebbe uscito da
lì mentre l’altro avrebbe continuato a vivere solamente nella memoria del
fratello, e poi Lyosha gliel’aveva detto: ti farò
tornare a casa.
Ed era stato bravo, a tenerla stretta a sé per
tutto quel tempo, sebbene fosse passato poco meno di una settimana.Ma non importava più nulla, era morto, Thahn era morto, lasciandola sola in quel bagno di sangue,
tra i canti di morte.
Qualcosa si mosse vicino alle sue gambe, ma
Ariel non fece una piega, rimanendo con il viso accasciato sul corpo del
fratello mentre ricordava le notti in cui si abbracciavano per scaldarsi, o
quando lui andava a chiedere rifugio sul letto di lei perché pioveva, e il
tetto lasciava passare le gocce d’acqua che gli cadevano in faccia, mentre
dormiva.
Ancora, i suoi pantaloni furono catturati da
qualcosa che tirò insistentemente, ma comunque con debolezza. La piccola si
girò a guardare quello che credeva fosse un insetto…
e invece era una mano.
Lunghe dita violacee stringevano il tessuto dei
suoi calzoni, percorse con gli occhi le falangi che la portarono ad un braccio
scarno, ricoperto di graffi – questo spariva sotto le ginocchia della bionda
per poi ricomparire e attaccarsi alla spalla di Lyosha,
il quale la fissava con gli occhi socchiusi, il respiro affaticato e le labbra
schiuse, morse fino a farle sanguinare.
«Sei vivo!» esultò, saltandogli al collo, quasi
stendendosi sul corpo supino dell’altro, che le appoggiò la mano mutilata sulla
schiena in segno di conforto, evitando di guardarla per non vomitare.
La ragazzina lo aiutò a mettersi seduto,
facendogli respirare a pieni polmoni l’aria umida del primo mattino. Poi, con
calma, si fece raccontare attraverso il labiale – Lyosha
non voleva assolutamente mostrarle la mano mutilata, le aveva detto – che dopo
l’operazione era semplicemente svenuto, era stato svegliato da un colpo di
cannone (il secondo, suppose lei), cercò di attirare la sua attenzione ma
piangeva troppo forte per accorgersi dei leggeri strattoni che le riusciva a
dare, inoltre aveva la gola secca per fischiare e gli veniva difficile in
quella posizione.
«Quindi non eri morto tu, quando è suonato il cannone…» constatò, facendo delle carezze alla schiena
dell’altro, sapendo quanto quel gesto gli provocava conforto, lo vide
nascondere la mano senza dita sotto la coscia e passarsi la destra tra i
capelli sporchi, gli occhi blu erano stanchi e spenti.
«Allora…» continuò,
abbassando il viso come se stesse pensando, «siamo rimasti in cinque?»
Per tutta risposta, Lyosha
annuì – poi la caverna iniziò a tremare e piccole pietrine cadere sopra le loro
teste. In fretta, Lyosha raccolse la lama che Capitol City gli aveva offerto e poi uscirono di fretta
dalla rientranza, mentre il tetto crollava laddove una volta c’erano loro.
Uccelli dalle considerevoli dimensioni, il
becco grosso e alto – sembravano delle gobbette – e il piumaggio colorato e
acceso aprirono le ali con aria di sfida, come per dire che non potevano
proseguire da quella parte. Alcuni di questi si alzarono in volo verso di loro,
facendoli scappare nella foresta. A quanto pareva, gli Strateghi volevano
mandarli da qualche parte.
Fraser si buttò a terra, rotolando un paio di
volte su questa prima di andare a schiantarsi contro il tronco di un albero
tagliato. Gli uccelli volarono sopra di lui per poi sparire all’orizzonte.
«Dannazione» borbottò lui, alzandosi i piedi e
battendo le mani sulla giacca per cercare di togliere l’erba su cui era caduto
per evitare quei dannati volatili. Si guardò attorno: era in un angolo di
foresta disboscata, qui e la disseminati alberi tagliati via esattamente come
quello in cui si era scontrato.
Perlustrando il territorio con la vista, notò
la figura familiare della ragazza del Due, Liv, che lo guardava a pochi metri
di distanza, in mano aveva già preparato arco e freccia.
Non
siamo più alleati, ormai, si disse, prima di prendere la spada con due
mani dalla cintura e correre verso di lei – cercò di colpirla con un fendente
ma la giovane si scostò di lato, inginocchiandosi escoccando una freccia che Fraser evitò
brillantemente, questa volò tra gli alberi e un grido si levò non molto lontano
da loro, seguito poi da una risata, proveniente dalla stessa persona che prima
aveva urlato.
I due si guardarono confusi, poi la figura di Lexi arrivò correndo, cogliendo Fraser di sorpresa e
spingendolo in avanti, facendolo cadere su Liv che rotolò di fianco per non
essere schiacciata dal peso del tributo.
La ragazza dell’uno partì l’attacco, brandendo
la spada in una mano e tenendo la freccia spezzata nell’altra (si poteva
notare, nel braccio, la punta del dardo conficcata nella carne) e cercando di
colpire più volte Liv, la quale si spostava ora a destra ora a sinistra,
facendo ogni volta un passo indietro, sperando di non incontrare qualche radice
o qualche rimasuglio di albero dietro di lei.
Quando finalmente Liv riuscì a cogliere il
momento propizio, scattò in avanti di lato per evitare il colpo e poi in
avanti, sperando che Lexi non fosse abbastanza agile
nello spostare il braccio per colpirla perché poteva benissimo farlo. Ma nel girarsi, la Principessa inciampò sui
suoi stessi piedi, come ubriaca, e cadde sulle ginocchia a terra, piagnucolando
come una bambina.
E’
impazzita si disse Liv, ansimando appena mentre guardava quasi impietosita la
figura di Lexi che si rialzava lentamente da terra,
appoggiandosi sulla spada. Ma non poteva permettersi questo genere di riposo,
non erano solamente loro due che combattevano, ma Fraser era lì, da qualche
parte pronto ad attaccare e a uccidere esattamente come le altre due.
Lo vide correre in curva, probabilmente
cercando di avvicinarsi alle spalle delle due, estrasse una freccia dalla
faretra e la scagliò contro il ragazzo, colpendolo alla coscia – questo cadde
di lato e si tenne la gamba ferita senza però urlare di dolore – era stato addestrato anche al dolore, come Roel.
Ma prima che riuscisse a concludere il
pensiero, le risate di una Lexi definitivamente
impazzita le giunsero alle orecchie e la sua coda dell’occhio vide la lama
dell’arma avvicinarsi alla sua testa. Afferrò l’arco con entrambe le mani e lo
usò per parare il colpo, piantando i talloni a terra per non arretrare o
cadere.
Resisti,
dannazione – disse più a sé che all’arco, quando la resistenza dell’altra cessò,
Liv si abbassò a raccogliere lo stiletto che teneva nello scarpone, tentando
con un affondo di colpire l’avversaria, che continuava ad evitare i suoi colpi
con piroette e movenze simili a quelle di un balletto.
Liv provò e riprovò, riuscendo talvolta a
ferirle il braccio o il fianco con qualche taglio che non sembrò fare nulla
all’altra, anche se Lexi inciampava, riusciva a
rialzarsi subito e a balzare indietro come un coniglio.
Si fermò un attimo, un secondo solo,
recuperando quel che bastava per l’ennesimo affondo.
Poi qualcosa la colpi alle spalle, un dolore
acuto le attraverso la schiena, i polmoni, passandole vicino al cuore e
comparendo appena sotto i seni come la punta di una lama sporca di sangue.
Smise di respirare per un momento, cercando di riprendere a farlo –
inutilmente, non riusciva più a respirare, il
suo cuore si stava fermando.
Posò una mano sulla lama, questa fece un mezzo
giro all’interno del corpo di lei, incrementando il dolore che stavolta la fece
urlare, le gambe sembravano cedere sotto il suo peso da un momento all’altro,
il braccio di Fraser la strinse contro il proprio petto, la spada ancora nel
corpo di Liv che ormai iniziava ad impallidire, la nebbia invadeva i suoi
occhi, il silenzio le orecchie – riusciva a sentire tra i capelli l’aria fresca
di montagna del Distretto Due, sulle labbra il respiro caldo di Roel.
«Saluterò il tuo fidanzato per te» le sussurrò
suadente Fraser, prima di estrarre la spada e abbandonare il corpo di Liv per
terra, mentre un colpo di cannone riecheggiava nel cielo e gli uccelli si
alzavano in volo, oscurando il sole.
Lyosha aveva
guardato tutto nascosto dietro un albero, aveva imposto ad Ariel di non fiatare.
La cosa migliore sarebbe stata quella di sperare che i Favoriti si uccidessero
a vicenda, di aspettare notte e poi ammazzarsi. Tutto sembrava così vicino
dall’essere avverato.
Il corpo della ragazza del due cadde a terra,
Ariel impallidì e si mise entrambe le mani sulle labbra per non urlare.
Fraser si era girato verso Lexi
che aveva guardato tutta la scena senza dire una parola – poi i due erano
passati a combattersi l’un l’altro. Sembravano perfettamente alla pari,
nonostante fossero entrambi feriti, ormai tutta Capitol
City credeva che o l’uno o l’altro sarebbe ritornato Vincitore, che uno dei due
avrebbe ucciso l’altro e poi sarebbero andati alla ricerca dei fratelli
dell’otto, sopravvissuti così tanto.
Sovrappensiero, il ragazzo non si accorse che Lexi era scivolata dietro le gambe di Fraser e gli aveva
tagliato entrambi i tendini d’Achille, ferendolo poi con vari tagli alla
schiena e alle braccia – completando l’opera con un affondo che fece sgorgare
lentamente il sangue dal fianco. Fraser sarebbe morto dissanguato ore dopo,
probabilmente, il suo corpo cadde in avanti, e con un piede Lezi lo spostò in
posizione supina e d’un tratto si bloccò, come un animale che aveva appena
fiutato qualcosa. Fissava nella loro direzione, Lyosha
si girò verso Ariel che singhiozzava dal pianto che si ostinava a trattenere – ecco.
Il più grande si spaventò al punto di
sbiancare, in fretta girò su se stesso appoggiandosi contro il grosso tronco da
cui si era limitato a spiare, tirando Ariel per la giacca e stringendosela
contro, lasciando poi che strisciasse per terra, nascondendosi sotto l’arbusto
che affiancava l’albero.
Non
poteva averli trovati, non era vero. Probabilmente aveva visto solo
un uccello e Ariel non aveva fatto rumore come Lyoshapensava di aver visto.
Vide la sorella rannicchiarsi appoggiando la
fronte sulle ginocchia e circondandosi il viso con le braccia, come se non
volesse far uscire il respiro da quello spazio ristretto e annullare il rumore
delle sue narici che si dilatavano come in preda all’ansia.
Rimase a guardarla per interminabili secondi,
poi una mano si allungò oltre le foglie, afferrando per i capelli Ariel e la
trascinandola nella pianura disboscata. Senza pensarci, Lyosha
si alzò, cercando con lo sguardo la sorella in mezzo a quei rimasugli di
tronchi e trovandola tra le braccia di Lexi, il
tributo dell’uno piangeva, con le guance rigate di lacrime che evidentemente
non controllava e le mani, così come il collo e il viso, piene di chiazze
violacee che prima non aveva il ragazzo non aveva notato.
«Non hai mai parlato, Lyosha»
constatò la ragazza dell’uno, facendo volteggiare la spada nella destra mentre
con la mancina teneva bloccata Ariel contro di sé, afferrandola per le spalle,
«mi danno fastidio, le persone che non parlano». La più piccola mugolò di
dolore e Lexi strinse ancora il braccio attorno a
lei, strattonandola e strappandole un verso di dolore.
L’Isaacs perse quel
minimo di colore che aveva recuperato: Lexi ricordava
il suo nome ma, cosa più importante, sentiva nella sua testa uno strano avviso
di imminente pericolo.
«Le vuoi bene, Lyosha?»
gli domandò, dondolando da un piede all’altro come se fosse impaziente di fare
qualcosa, Ariel si morsicava le labbra per non urlare dal dolore, con le mani
stringeva il braccio di Lexi cercando di abbassarlo
dal collo per non soffocarlo, allungando quest’ultimo per ottenere una parvenza
di libertò.
Si che
le voglio bene.
Lyosha
ricordava il sole di mezzogiorno che picchiava sulle teste dei bambini e dei
ragazzi del Distretto otto, racimolati per la Mietitura dei settantaduesimi HungerGames. Sul palco, i tre
Vincitori sedevano nella stessa posizione: gambe accavallate e braccia
incrociate.
Ricordava l’Accompagnatrice del loro distretto presentarsi
davanti al microfono con la sua strana acconciatura che Lyosha
aveva ignorato, ricordava sua sorella con le guance paonazze e gli occhi
impauriti puntati sulla Capitolina che, dopo il solito discorso d’apertura,
andò ad infilare la mano nella cupola dove erano posti i biglietti delle femmine
dell’otto.
Ora, davanti ad una pazza omicida che teneva in
ostaggio sua sorella, fissava Ariel con la stessa insistenza del giorno della
Mietitura, come se potesse farla sparire da quel mondo con la forza del
pensiero. Come se il suo amore potesse salvarla dalle braccia di Lexi, come invece non aveva fatto davanti al sonoro «Ariel Isaacs!».
«Lyosha, non mi hai
risposto» cantilenò Lexi, strappando il ragazzo da
quelle reminiscenze. Schiuse le labbra per rispondere alla ragazza, notando per
l’ennesima volta, a malincuore, di non poter dire nulla. No.
Strinse nella mano la lama che aveva
gelosamente custodito, poteva colpirla – poteva provarci... no, non ci sarebbe
riuscito. Sapeva come funzionavano questo genere di cose, Ariel sarebbe morta
se lui avesse fatto solo un passo.
«Rispondimi!» urlò d’un tratto Lexi, facendo gemere Ariel e raddrizzare le spalle a Lyosha, scuotendolo dai suoi pensieri e invitandolo ad
agire d’istinto.
Risponderti… come
faccio a risponderti!
C’era confusione nella sua testa – avrebbe
voluto morire in quel preciso istante, dimenticare di tutto e di tutti. Non
essere mai esistito.
Lyosha fece
cadere dalla mano l’arma, muovendo le dita per urlare le voglio bene, le voglio bene! Come se si fosse improvvisamente
reso contro della situazione, dimenticandosi della fame, del dolore, delle dita
che gli mancavano, delle lacrime che avevano iniziato ad offuscargli la vista.
«Lo ha detto, lo ha detto!» gridò Ariel, mentre
nuove cadevano come gocce di pioggia sulle sue guance.
Lexi rimase
un attimo in silenzio, apatica in volto – «ma io non ho sentito nulla», fece scorrere la lama fredda sulla gola di Ariel e
una linea scarlatta si fece spazio sulla pelle candida, gli occhi della sorella
si ribaltarono all’indietro e la morsa del braccio di Lexi
scomparse.
Ariel cadde a terra come un burattino e il
cannone urlò – facendo quello che Lyosha non poteva.
Lyosha non ci
vedeva più, davanti a lui il corpo di Lexi era
crollato a terra assieme a quello di Ariel, catturato da spasmi mentre la
follia la consumava, facendola ridere, la Favorita inarcò la schiena e rimase
in quella scomoda posizione per qualche secondo, poi si afflosciò a terra e
ancora un altro colpo di cannone annunciò la penultima morte di quei giochi.
Ma che senso aveva vincere, ormai? Ariel era
morta davanti ai suoi occhi, morta perché lui non poteva parlare. E la colpa era sua, lo sarebbe stata comunque – se
solo fosse riuscito a temporeggiare, Lexi sarebbe
morta soffocata dalla sua stessa pazzia e non avrebbe fatto in tempo ad uccidere
sua sorella.
Ariel era morta.
Desiderava che finisse tutto – voleva uscire da
quel posto e abbandonarsi al niente. Raccolse da terra il pugnale che aveva
lasciato e se lo rigirò tra le mani, indeciso se tagliarsi la gola, le altre
dita oppure infilarselo nel cuore.
Perché
non la fai finita, Ly? si
chiese, rendendosi improvvisamente conto che non aveva né la forza né il
coraggio di farlo. Senza Ariel, non poteva fare nessun gesto eroico, niente di
niente. Senza Ariel, sarebbe morto il primo giorno degli HungerGames, esattamente come la maggior parte dei tributi
del suo distretto. Era una nullità, lo era sempre stato.
Sospirò, l’aria gli usciva tremolante dalle
labbra – e di fianco a lui, non molto distante, Fraser cercava di afferrare la
spada che gli era sfuggita di mano, riuscendo a malapena a muoversi, soffocando
grugniti di dolore dato dai vari tagli che sfregavano fastidiosamente contro il
tessuto e l’erba, il sangue sgorgava e s’incrostava sulla sua pelle diffondendo
un cattivo odore metallico ovunque.
Ariel. Si
avvicinò a Fraser, abbassandogli le spalle con un piede, sedendosi sui suoi
reni strappandogli un gemito di dolore e bloccandogli le mani con la pressione
delle piante – il ragazzo dell’uno si lamentò ancora. I punti che si era cucito
sul mignolo si erano strappati e la ferita aveva ripreso a sanguinare.
Ariel.
Fraser appoggiò la tempia imperlata di sudore mentre chiudeva gli occhi.
Stanco, stanco come gli altri tributi, stanco
come lui.
Ariel. Una
goccia trasparente seguì la curva del viso del tributo sotto di lui. Forse
piangeva? E’ solo sudore, si convinse
Lyosha, non ha
motivo per piangere.
Ariel. Il ragazzo dell’otto si chinò su Fraser
che sembrava quasi addormentato, con entrambe le mani lo colpì alla schiena,
laddove doveva esserci il cuore – sfilò il pugnale e diede un altro affondo
vicino al precedente – gli occhi del ragazzo dell’Uno si erano sgranati per un
istante e la vita gli scivolò via dalle palpebre. Un colpo di cannone,
l’ultimo.
Lyosha si
alzò in piedi, abbandonando la lama sul corpo dell’altro – la stanchezza lo
inondò come un mare in tempesta e il suo equilibrio venne veno, facendolo
cadere seduto per terra, sopra di lui l’hovercraft sembrò materializzarsi dal
niente e la voce di ClaudiusTemplesmith
annunciava il vincitore dei settantaduesimi HungerGames.
Lui.
«Vai molto lontano di casa e perderai le tue
tradizioni. Uccidi molte persone e dimenticherai te stesso.
Se morirai in battaglia la tua vita affonderà nel suolo
come la pioggia e sparirà senza lasciare traccia.»
[WENTAI; tratto da “HuaMulan”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
….. *sospiro* ebbene.
Siamo praticamente arrivati alla
conclusione di tutto questo – insomma, come molti si aspettavano, ha vinto Lyosha. Eh. Davvero, non so che dire; penso che sia il
momento di fare un discorso su quanto sia stato faticoso mandare avanti questa fan
fiction e tutto il resto, ma non ci sarà nulla di tutto questo perché vi
aspetta ancora un epilogo. E, oltre a quello, tre contenuti extra
accuratamente(?) scelti – ma anche no – qui proposti di seguito.
▶ PAGINE RUBATE Ø1 – intervista alla madre citata nel
capitolo 11.
▶ PAGINE RUBATE Ø2 – intervista a Lyosha
al suo rientro dall’Arena, quella da Vincitore.
▶PAGINE RUBATE Ø3 – Lyosha durante i 73esimi HungerGames [scritti da yingsu] come
Mentore.
Inoltre partirà la revisione completa
di grafica e testo + betaggio sempre da parte di yingsu dal primo capitolo, ma la trama rimarrà invariata e
si tratta di una rivisitazione puramente letteraria del tutto, sì.
Inciduncitrinci… mi scuso per il capitolo leggermente
più lungo – e forse macchinoso – del solito, e spero vivamente di non avervi
deluso (perché io sono un po’ delusa, sì) o annoiato, ovviamente desiderando di
non essere stata troppo banale o qualcos’altro. E, giusto perché me lo sono
ricordata ora― la morte di Ariel non è stata scritta in modo che voi piangeste (se l’avete fatto tanto meglio lol),
ma è stato steso in modo che vi desse un senso di “vuoto”, esattamente quello
che prova Lyosha. Ma non sono brava in queste cose e
quindi scusate(…).
Ultima cosa! Penso di aver dimenticato
da qualche parte un accento su una o, l’ho visto oggi a scuola ma adesso, a
casa, non lo trovo più ._. la mia beta è all’Università e quindi non può
ricontrollarlo D: sorry! Rimedierò appena possibile.
Ultima cosa!2yingsu è stata così gentile da scrivere la morte di Liv dal
punto di vista di Roel, la trovate spammata qui di seguito e vi pregherei di darci un’occhiata,
è veramente bella! c:
E giusto per mettere i puntini sulle
i: adoro la citazione e adoro il film
che non c’è in italiano c: ma lo trovate in sub eng,
guardatelo!(?).
Capitolo 14 *** ▪ EPILOGO; my heart aches when i think of you. ***
▪ EPILOGO ▪
my heart aches when i think of you.
Nella mente di Lyosha vagava l’immagine tenue
dell’hovercraft sopra di lui, il sangue colargli dalle dita e un senso di
arrendevolezza addosso, come se non fosse più capace a fare qualcosa.
Non ricordava a cosa pensava quando lo avevano recuperato dall’Arena –
e a dirla tutta non aveva molta voglia di ponderarci sopra, si limitava a
bearsi della comodità del letto su cui era appoggiato, dei capelli puliti che
gli solleticavano la fronte, delle ciglia non più
incrostate di sporco e sangue – sentiva i talloni rilassati sul materasso,
ancora gonfi, probabilmente. Attorno a lui una tiepida temperatura che imitava
il tepore casalingo lo avvolgeva tutto, facendo crescere il lui la voglia di
ritornare a dormire, ma una voce cercò di strapparlo dal suo dormiveglia.
«Lyosha» mormorò la stilista, il ragazzo
spostò il viso verso il suono di quelle labbra, aprendo piano gli occhi e
incontrando il viso bronzeo dai lineamenti fini di Vilette,
incorniciati da un’acconciatura mossa che le ricadeva in due ciocche sulle
spalle, perfettamente immobili in due boccoli – i suoi occhi bicromatici
splendevano nel bianco della stanza, apparendo come due gemme.
«Sei stato bravo» commentò la figura affianco alla Capitolina – era
Lloyd, e la sua presenza lo avrebbe lasciato di stucco, se fosse stato nel
pieno delle sue capacità, delle sue emozioni,
stava seduta con dei jeans ed una maglia larga, color
vino, che le ricadeva morbida sui fianchi – sembrava fatta di seta, o qualcosa
del genere, «non molti di noi ritornano vivi» disse piano, abbassando lo
sguardo, «in realtà, alcuni non ci arrivano proprio, al cuore dei Giochi».
Il ragazzo si ritrovò a sospirare quasi esasperato, alzò le coperte con
la destra mentre cercava di girarsi di lato – in quel momento la miriade di
piccoli tagli che aveva sul corpo sembrarono tirare all’unisono tutti i nervi
che possedeva, facendolo bloccare sul posto e ritornare in posizione supina.
«Devi stare fermo ancora per un po’, non tutte le ferite si sono
chiuse» lo informò Vilette, accavallando le gambe, un
fruscio di gonne riempì la stanza e Lyosha dedusse
che portasse un abito lungo – come quello
di Lexi.
Lexi, gli occhi si riempirono di lacrime,
iniziando a bruciare, senza aspettare il consenso del ragazzo caddero lungo le
sue guance. Che figura avrebbe fatto, ammettendo a sé
stesso che, in un modo o nell’altro, quella ragazza aveva suscitato in lui
qualcosa come un interesse particolare? Erano gli HungerGames, dannazione! E, cosa peggiore, era stata lei ad aver ucciso sua sorella.
Un fazzoletto gli carezzò la guancia, profumava di lavanda e zucchero,
cercò di respirare profondamente, chiudendo gli occhi.
Non voleva pensare, non voleva ricordare.
Cercò di ritornare sull’hovercraft, laddove le sue memorie si erano interrotte.
In pochi istanti, si riaddormentò, ricadendo nel baratro.
Lyosha guardava sbigottito
le protesi delle due dita che aveva perso, deglutì
sonoramente fissando il vassoio d’acciaio su cui erano posti gli automi.
«Farà male» disse Lloyd, e il ragazzo si girò a fissarla come per dire
che non lo stava confortando affatto, «ma questi automail – così
si chiamavano – sono i migliori in commercio: con una innovativa lega
metallica, è stato costruito secondo le tue esigenze, tenendo conto del tuo
corpo: dimensioni, peso e via dicendo. Hanno ricostruito tutte le nervature
delle dita ed è per questo che non sarà piacevole: i
nervi del tuo sistema nervoso devono collegarsi con quelli della protesi; ora
non fare storie e porgi la mano all’infermiera».
Non ubbidì subito, ma sapeva che senza quelle dita non sarebbe andato
da nessuna parte, e tantomeno le due donne – Vilette
e Lloyd – lo avrebbero lasciato solo o fatto uscire. Senza contare che tutti
quei antibiotici, antidolorifici, morfine e anestesie lo avevano
parecchio rimbambito e tantomeno si sentiva capace di prendere delle decisioni
come quella di contestare ciò che diceva la Mentore.
Porse quindi la mano fasciata da una benda già sporca di sangue, la
ferita era stata riaperta volutamente dai medici: cicatrizzata, non era
possibile collegare le protesi al corpo. Strinse con la mano buona il lenzuolo
e piantò i talloni sul materasso, meno gonfi dall’ultima volta che si era
svegliato.
Un’infermiera gli teneva bloccata la mano con due mani, fissandola compagna che
afferrava le dita d’acciaio, prima che il Vincitore potesse mandare un segnale
per informare che era pronto psicologicamente, la capitolina unì la carne di Lyosha al metallo che sembrarono congiungersi alla
perfezione. Una scossa gli colpì violentemente il braccio che fu preso dagli
spasmi, ma la mano era ancora immobile nella stretta dell’infermiera.
La gola di Lyosha vibrò e le sue labbra
cacciarono un urlo tremendo, Lloyd sorrise.
«C’è una cosa che devi sapere…» Vilette sembrava
preoccupata mentre gli appoggiava la giacca grigio scuro
sulle spalle, lisciandogliela. Le maniche erano troppo lunghe, avrebbe dovuto
appuntarle.
«Cosa?» chiese retorico, fissandosi allo
specchio mentre l’altra gli faceva provare il vestito per l’intervista da
Vincitore.
La stilista si fermò, mettendo lo spillo sull’apposito
bracciale che teneva al polso, cosa doveva dirgli in un momento come quello? Il
viso della Capitolina era rigido sotto una smorfia di dolore e dispiacere.
«Lloyd ha detto che avrei dovuto dirtelo io perché lei ha poco tatto
però…»
«…Però?»
«Però non c’è un modo con molto o poco tatto!»
un verso isterico le salì dalla gola, alzò le braccia come per scaricare
l’ansia e si sedette sul divano, mettendosi le mani tra i capelli. Lyosha si girò verso di lei, fermo sul piedistallo.
«Me lo dici?» domandò flebilmente, sempre meno convinto di volerlo
sapere.
Vilette alzò gli occhi,
lucidi da lacrime che stavano per scendere – sembrava stesse mantenendo un
segreto troppo pesante da sopportare, «tua madre… è
morta di crepacuore, subito dopo aver visto… Ariel, ecco. Era con un’amica, la
signora Villalobos, ha detto che non ha fatto in
tempo a vederti vincere».
Uscì dallo studio di Caesar allentandosi la
cravatta al collo, fu accolto da Vilette che portava
ancora l’acconciatura dei due boccoli sulle spalle e da Lloyd che lo scortarono
nella camera dove avrebbe passato la notte.
«Tutto bene, ti vedo stanco» commentò la stilista, sfilandogli il laccio
che gli circondava il collo.
«Mi fa male la gola, ma i dottori mi hanno detto che è normale…»
rispose l’altro, massaggiandosi il mignolo e l’anulare della sinistra laddove
la carne si legava al metallo. Erano cose che non sentiva sue: le dita, la voce,
quel sorriso che aveva fatto con l’intervistatore…
«Andrà meglio, adesso» disse
Lloyd, sfiorandogi la schiena in un gesto affettuoso,
abbandonando poi gli altri due e uscendo dal palazzo mentre estraeva da una
tasca seminascosta una sigaretta e l’accendino.
Andrà meglio – quelle parole lo inseguirono per tutto il viaggio in
ascensore, mentre si spogliava da quell’abito grigio che Vilette gli aveva
promesso e mentre scivolava sotto le calde coperte. Si aspettava di sognare
l’Arena, e invece non successe nulla.
Andrà meglio.
Il treno slittava sui binari senza produrre nessun rumore – Lyosha si spalmava su una fetta di pane della confettura
dorata e Lloyd fumava chinata sul posacenere, come se fosse stanca.
«Posso chiederti una cosa?» azzardò lui, azzannando il suo spuntino e
alzando appena gli occhi dal suo piatto, cercando di incrociare lo sguardo con
quello dell’altra che non si degnò di sollevare il mento.
«Considerando che non hai mai detto una parola, direi che te lo posso
concedere» seguì una breve risata roca della più vecchia, colpì la sigaretta
facendo cadere la cenere nel suo apposito contenitore.
«Perché ti chiami Lloyd? Lloyd è un nome
da maschio…» azzardò, in circostanze diverse non si
sarebbe mai sognato di fare una domanda del genere. Ma ormai aveva perso tutto,
quindi una sfuriata dell’altra non gli avrebbe fatto né caldo né freddo – a dir la verità. Morse ancora il pane e abbassò gli occhi,
aspettandosi già il mutismo oppure una scenata.
E invece, ottenne una risposta. «La mia era una famiglia benestante,
mio padre gestiva una frazione della bachicoltura del distretto, io ero sua figlia ma non di mia madre. Mi spiego: lui si è
risposato quando io ero già nata, e ovviamente lei non mi sopportava» aspirò
dal filtro e lasciò che il fumo uscisse dalle labbra e dal naso, « fui estratta per i Giochi e, ovviamente, quella lì fu
capace di dire davanti a mio padre che non ce l’avrei fatta, forse avrei avuto
qualche possibilità se fossi stata un maschio, più grande e più forte».
«Che stronza» il commento gli scappò letteralmente dalle labbra – le buone maniere, dannazione, si
riprese. Lloyd ridacchiò.
«In sostanza, volevo dimostrare a quella
che sarei potuta tornare, e sono tornata. Ho cambiato nome, se Lloyd lo si da ad un uomo, allora io mi chiamerò Lloyd, come un
vero uomo» e scoppiò in una risata sonora, una risata che Lyosha
non vide mai sul volto della Mentore.
Quando il momento di ilarità terminò e Lloyd
spense la sigaretta nel posacenere, il treno rallentò sensibilmente fino a
fermarsi, quando Lyosha rialzò lo sguardo, notò
l’altra Vincitrice sorridergli – un sorriso di una Mentore orgogliosa del
proprio tributo, di una madre fiera del proprio figlio, «andiamo, Isaacs, il tuo distretto vuole festeggiare con te».
E mentre le narici venivano invase dal profumo
di casa, la pelle accarezzata dal caldo del sole dell’otto, del rumore lontano
delle fabbriche, del profilo lontano delle case del Villaggio dei Vincitori –
il cuore di Lyosha si spezzava in due, quattro, otto,
mille pezzi.
Era partito per i Giochi con una madre a
casa, una sorella tra le braccia, pensieri in testa che non riusciva a
esprimere a parole ed era tornato senza niente.
Forse, pensò, è per questo che si chiamano così: i Giochi della Fame.
«Quando si muore, si muore
soli.»
[FABRIZIO DE ANDRE’; tratto da “Il Testamento”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo
parole»
Oh bhè. Alla fine l’ho
pubblicato.
Non c’è molto da dire― diciamo che ho preferito
fare vari “spezzoni” di quel che succede dopo i Giochi per darvi un assaggio
del post-HG di Lyosha, dato che
è una cosa assolutamente normale e niente di fantastico come quelli di Katniss… non so se mi spiego.
Insomma, tra un anno Lyosha
sarà già scomparso dalla circolazione(…), niente di
che.
Anyway, vorrei spendere due parole sulla frase che chiude
questa fanfiction.
Lyosha basa i suoi pensieri sulla base della Fame come
mancanza di qualcosa che gli serve per sopravvivere, che in questo caso è la
madre e la sorella, elementi importanti (per non dire essenziali) della sua
vita che sono venute a mancare. I Giochi della Fame,
per lui, sono quei Giochi che ti fanno partire con tutto e quando esci - se esci - non hai più nulla, perché o perdi tutto (come lui)
oppure te lo toglie Snow (Finnick
ci insegna spiegandolo a Katniss). Insomma, è solo
questo ;)
Il titolo dell’epilogo è una frase di Start a Riot
di Jetta, linkata del primo capitolo e canzone “soundtrack” di tutto questo – o comunque di un futuro molto
vicino a questo.
Insomma, ci sentiamo con la prima delle pagine rubate ;D e, come dico a yingsu: avete presente quel povero pazzo nel trailer de CatchingFire che alza il foglio
con su la Ghiandaia Imitatrice?
Ecco, quello è Lyosha.
Au revoir!
radioactive,
P.S.: non metto l’angolo spam perchè
sono da un pc straniero(...),
scusatemi!
Capitolo 15 *** ▪ PAGINE RUBATE Ø1; Capitol City ha rubato tutti i bambini di Panem. ***
»
PAGINE RUBATE Ø1
Capitol City ha rubato tutti i bambini di Panem.
La signora Isaacs se ne
stava sul suo vecchio divano davanti alla televisione, le mani intrecciate tra
loro appoggiate sulle gambe troppo deboli per sorreggerla. Le tempie le
pulsavano terribilmente durante quelle ore in cui le era concessa la corrente
per vedere i suoi figli ai Giochi,
gli occhi si muovevano seguendo ogni gesto di Ariel e Lyosha,
che grazie al cielo stavano affrontando la cosa assieme.
Un singhiozzo le
salì lungo la gola mentre pensava ai suoi due figli prima della Mietitura –
ricordò quando entrambi andarono a richiedere delle tessere per il pane che non
arrivava a casa da due giorni, ormai, e la zuppa di cavoli e carote non
bastava.
Aspettava
silenziosamente che le bussassero alla porta, sapeva che lo avrebbero fatto.
Aveva già vissuto gli HungerGames
come possibile vittima e aveva sperimentato la stessa paura che si era
impossessata dei suoi bambini – mancavano
meno sette tributi alla conclusione di quei giochi e probabilmente, l’inviato
di CaesarFlickerman stava
or ora attraversando il Distretto 8 per raggiungere la sua casupola assieme a
tutta la troupe televisiva e alla rappresentante del loro Distretto.
◊ ◊◊
Amaryllis Eglantine bussò alla porta della signora JannaIsaacs, sfilandosi subito dopo il guanto di seta,
scoprendo la mano interamente tatuata con motivi floreali dorati, di fiori
viola era fatto anche il suo dolcevita senza maniche, i fianchi fasciati da un
semplice tubino nero che scendeva fino a sopra le ginocchia, ai piedi tacchi
vertiginosi legati con dei lacci alla caviglia.
Quando la madre dei
due tributi aprì la porta, la rappresentante del Distretto le sorrise
flebilmente, quasi di cortesia, una volta che la signora si spostò di lato
entrò nel salotto che, poté notare quasi con ribrezzo, fungeva anche da cucina
– e probabilmente qualcuno ci dormiva, là dentro.
«Direi che possiamo
cominciare» esordì Amaryllis, tastandosi l’elaborato
chignon di treccine, assicurandosi che non ne fosse caduta nessuna.
Sentì la donna
sospirare, l’inviato di Caesar si aggiustò la
cravatta, si schiarì la voce e poi sfoderò uno dei suoi sorrisi più eleganti,
piantandosi davanti al cameraman per incominciare dopo pochi secondi, scanditi
da qualcuno che fungeva da regista, o
qualcosa del genere.
«Ben trovati
telespettatori, siamo qui con la signora JannaIsaacs, madre dei tributi Ariel Isaacs
e LyoshaIsaacs, del
Distretto 8» fece una pausa, ricevendo un pollice in su da parte di quello
della troupe posto dietro quello che riprendeva l’inviato, «ci dica, signora:
dov’è il padre dei due fratelli?» domandò, voltandosi poi verso la donna.
«E’ morto» rispose
seccamente, tenendo il viso basso mentre sentiva gli occhi di Amaryllis su di sé, era seduta di fianco a lei nel sofà a
due piazze e poteva sentire nelle narici il suo profumo caramella, «in fabbrica
– sono cose che succedono» concluse, quasi pigolando.
«Certo, certo…» annuì l’intervistatore, passandosi una mano tra i
capelli laccati, «ora che ricordo, ce lo hanno raccontato anche Ariel e Lyosha; quindi la famiglia ora è composta da?...».
«Io e i miei due
figli, mio marito aveva una sorella ma è non si è più fatta vedere dopo la
morte di lui», spostandosi un ciuffo di capelli scuri dietro l’orecchio,
azzardò a sollevare il mento e quindi incontrare gli occhi del Capitolino,
trovandoli estremamente brillanti ma vuoti, come se non sapesse realmente cose
stesse facendo.
L’intervistatore
annuì come se la compatisse, il suo gesto sembrava talmente naturale che quasi
glielo fece credere, «quindi Janna – posso chiamarti
così, vero? – mi stai dicendo che vivi in questa casa con Ariel e Lyosha?».
La donna mosse il
capo, dandogli conferma della sua ipotesi – per qualche strana ragione, sentiva
che forse sarebbe riuscita ad
arrivare alla fine di tutto quel teatrino senza piangere davanti alla
telecamera.
«I due fratelli ci
hanno già raccontato un po’ del loro stile di vita, qui al Distretto 8, penso
tu abbia seguito la loro intervista, no?».
«Certamente» la voce
le uscì più chiara di quanto pensasse.
«Ma che ci dici tu,
dei tuoi figli? E’ sempre un parere importante, quello della propria madre».
Ancora, gli occhi di
Amaryllis ritornarono a fissarla, Janna
poteva quasi vedere le sue lunghe ciglia viola abbassarsi e rialzarsi al
movimento delle palpebre, sentì la sua gamba sfiorare la propria attraverso il
tessuto rovinato del proprio abito, troppo
strette – qui, pensò Janna, raddrizzandosi e
stringendo le spalle, quasi volesse ridursi ad un minuscolo puntino
nell’universo e sparire.
«Non è stato facile,
per me e Stev crescere un bambino che non poteva
parlare, insomma, immaginate di avere davanti una persona che non può ridere o
dire qualcosa, ma che pensa esattamente come tutti gli altri ed è come tutti
gli altri; abbiamo fatto molti sacrifici per avere a casa abbastanza materiale
per fargli imparare a scrivere, e quando finalmente ci riuscì, scoprimmo di
essere in attesa di una bambina».
Fece una pausa, sorridendo
al ricordo. «In qualche modo, Ariel riuscì ad instaurare un rapporto magnifico
con Lyosha, si sono capiti al volo: avevano deciso
assieme dei segni che sarebbero state le loro parole. Era bellissimo vederli a
tavola, gesticolanti, e poi sentire la risata di Ariel invadere tutta la
stanza, o vedere Lyosha sorridere davvero, non lo faceva spesso».
«E’ una storia molto
commovente» mormorò Amaryllis, quasi sovrappensiero,
tutti gli sguardi si rivolsero a lei e la donna dovette sorridere alla
telecamera, «continuate pure» disse, quasi scusandosi, muovendo la mano come
per scacciare una mosca.
L’attenzione ritornò
a Janna, «stavano sempre assieme, tranne a scuola, ma
si vedevano all’intervallo per dividersi la merenda che si portavano qualche
volta».
Era chiaro dove
volesse andare a parare la donna: Capitol
City aveva mandato al macello due fratelli fin troppo legati, e la morte di uno
dei due avrebbe provocato la distruzione dell’altro, inevitabilmente.
«Come ha detto Amaryllis Eglantine, è una storia molto commovente»,
l’inviato riprese in mano il discorso – forse era meglio andare dritti al sodo,
considerando che si trattava della madre di due
tributi, lasciarle il tempo di pensare poteva essere pericoloso, «ma ci preme
farti una domanda, Janna: pensi che uno dei tuoi
figli possa tornare a casa?».
Il cuore le si
fermò, il volto divenne pallido e gli occhi sgranati rimasero tali per qualche
secondo. Eccola, la domanda che si era sognata la notte: pensi che uno dei tuoi figli possa tornare a casa?. Contò fino a
dieci e riempì i polmoni di aria satura di quel profumo di caramella, «se c’è
anche solo una possibilità che uno dei miei figli ritorni, io prego che si
avveri» disse, sentendo crescere dentro di sé un fuoco che non aveva mai
avvertito prima d’ora, forse era rabbia,
rabbia nei confronti di Capitol City, sicuramente. La
stessa rabbia che le era salita addosso quando aveva saputo che l’incidente in
fabbrica era avvenuto per colpa dei controlli mancati.
«Lyosha
ha sempre avuto molto a cuore Ariel, e credo che farà di tutto per farla
sopravvivere fino alla fine – è quello che ha detto quando ci siamo salutati: “la farò tornare a casa per te”».
La voce le tremava.
«“Per te”? Sa per
caso spiegarci come mai ha detto questo, signora?»
«Perché è molto più
facile comunicare con Ariel che con Lyosha, tutto
qui». Aveva dato una risposta parecchio sintetica e, per quanto fosse vera,
c’era una buona dose di storia non raccontata – ma che la televisione non aveva
il diritto di sapere.
Capitol City non
doveva sapere che JannaIsaacs
aveva passato un momento di depressione – che in qualche modo persisteva
tutt’ora –, quando a comunicare con Lyosha era solo
Ariel; non doveva sapere che era arrivata ad alzare le mani sul suo primogenito
perché non rispondeva alle domande che faceva, ma gesticolava nella vana
speranza che la madre comprendesse; non doveva sapere quanto lei avesse
sacrificato per i suoi figli, i quali tornavano da scuola con gli appunti sulle
gambe che dovevano studiarsi prima di lavarsi, altrimenti sarebbero andati via
e loro non si potevano permettere dei quaderni; non doveva sapere nulla –
perché Capitol City le aveva rubato già i bambini, ma non poteva fare lo stesso
anche con i suoi segreti.
«Sono comunque i
miei figli, e non posso immaginare di vivere senza uno di loro» Janna abbassò lo sguardo, gli occhi gonfi di lacrime che
caddero pesanti sulle sue mani raccolte sopra le gambe, un sorriso forzato le
deformò il viso in una smorfia di dolore.
In un gesto quasi di
compassione, la mano tatuata di Amaryllis finì sulla
spalla della signora Isaacs, mentre lo sguardo
rimaneva puntato sulle sue scarpe, un petalo cadde dalla sua maglia per finire
sulla gonna, lo scacciò via con il movimento della mano libera. Forse, pensò la presentatrice, è ora che tu inizi ad immaginarlo.
◊ ◊◊
CoriolanusSnow stava seduto nella sua poltrona di
pelle, sulla giacca scura una rosa bianca – identica a quelle dei due bouquet
ai lati dell’ampia scrivania. Le mani fasciate da quanti scuri giocavano con un
petalo candido, tutto attorno a lui era un volteggiare di aromi.
Amaryllis entrò a seguito del permesso della segretaria. I suoi tributi erano
ancora vivi, ma questo non spiegava il motivo per cui il Presidente – in persona! – volesse contattarla. Aveva
fatto o detto qualcosa che non andava, alla Mietitura? Non aveva sorriso abbastanza?
Entrando, i capelli
sciolti sulle spalle fino al fondoschiena e indosso un semplice abito nero a
maniche lunghe e scollo a barca, fece un breve inchino a mani congiunte,
alzando poi lo sguardo a incontrare gli occhi del più anziano, «desiderava
vedermi?».
Un brivido le scese
lungo la schiena quando vide il capo di Snow chinarsi
verso la sedia posta di fronte a lui, all’altro lato della scrivania, «dobbiamo
parlare dei tributi del Distretto 8, Eglantine, capirai benissimo che è una
situazione delicata».
«E infatti lo
capisco, Presidente».
Coriolanus sospirò quasi pesantemente, raddrizzando le spalle e alzando i gomiti
dal tavolo, «ebbene, voglio che tu stia bene attenta a ciò che ti dirò – come pretendo che tu esegua i miei ordini
meticolosamente».
Non potendo fare
altro, la donna annuì.
◊ ◊◊
Le domande
successive furono sbrigative, e Janna si complimentò
con sé stessa per la bravura nell’aver mantenuto un autocontrollo
sufficientemente decente.
«Bene, abbiamo
finito» annunciò il presentatore, rivolgendosi un attimo verso la telecamera,
il “regista” continuava a gesticolare, mostrando i pollici in segno di vittoria.
«Janna, è stato un piacere» disse, tendendo una mano
verso la signora, la quale si pulì distrattamente il palmo madido di sudore sul
vestito per poi ricambiare la stretta di mano, «spero vivamente che uno dei
suoi figli torni a casa».
Ancora, il cuore
della signora Isaacs si fermò, il ciuffo bloccato
dietro l’orecchio ricadde in avantie le
mani ripresero a sudare freddo, il corpo tremava – eppure rimaneva immobile,
ferma come un’asta di legno.
Uno dei suoi figli sarebbe morto.
«Non è vero» sibilò,
alzandosi di scatto e facendo sussultare Amaryllis,
«non è vero che lo speri – non è vero che ti dispiaci» si indicò, l’indice
premeva sul petto con tale forza da poterlo perforare, «a te e a Capitol City
non importa ciò che succede quando una famiglia si disfa per colpa dei Giochi!
Non importa cosa comporta la morte di un bambino, perché non sono i vostri
bambini! La Capitale ha rubato i miei figli, ha rubato i figli di tutti
quanti!».
La rappresentante
del Distretto sbiancò, alzandosi di scatto e appoggiando una mano sulla schiena
della signora, «Janna, per favore, calmat―».
«No che non mi
calmo!» urlò così forte da muovere il capo, il volto si dipinse di rosso dalla
rabbia, due lacrime caddero dagli angoli degli occhi e lo chignon si sciolse
sulle spalle, facendo cadere a terra la bacchetta con cui era tenuto, «venite a
casa mia a chiedermi di parlare dei miei figli quando probabilmente stanno
soffrendo la fame e hanno paura, mi consolate dicendo che almeno uno dei due,
forse, tornerà» guardava con occhi di fuoco il presentatore, sulla soglia della
porta, quasi desideroso di fuggire via. Il cameraman, dietro di lui, sembrava
riprendere tutto – sperava vivamente che Caesar e Claudius avessero ridato
la linea allo studio.
Janna si sentì mancare le
forze, barcollò sedendosi sul divano mentre altri due petali abbandonavano il
dolcevita di Amaryllis, che guardava la donna
accasciata contro il sedile, ormai in lacrime – distrutta.
«Signora Isaacs…» mugugnò debolmente la Capitolina, estraendo dalla
tasca del tubino un sacchettino giallognolo, contenente una polvere simile a
cenere.
Janna la interruppe,
alzando una mano, quasi in segno di resa, «andatevene, non vi voglio in casa
mia – sparite prima che vi cacci fuori con la scopa».
Il presentatore uscì
prima di tutti, quasi scappando, seguito dalla troupe che si misero a discutere
non molto lontano dall’abitazione, uno del gruppo si accese una sigaretta che
emanò denso fumo azzurro.
Amaryllis rimase immobile, la sua presenza non sembrava infastidire la donna,
perciò continuò, «il Sindaco mi ha chiesto di consegnarle questo, una sua
amica, una certa Villalobos, lo ha informato della
sua condizione e voleva aiutarla. E’ un calmante, la aiuterà a fare sogni
tranquilli».
Janna alzò lo sguardo,
fissando il medicinale, indecisa se
prenderlo o no. Il suo braccio si mosse quasi involontariamente e le dita
strinsero la busta.
«Starà meglio,
vedrà» le disse, abbassando la mano circondata da rampicanti dorate, le sorrise
ancora e poi uscì dalla casa, chiudendosi la porta alle spalle –
allontanandosi, riuscì a percepire il pianto quasi soffocato della madre
attraverso le pareti sottile e traforate.
◊ ◊◊
La lama volò sulla
gola di Ariel, il sangue sgorgò dal taglio e il corpo della piccola si
afflosciò a terra.
Dietro le spalle della
signora Villalobos, si sentì una tazza di ceramica
andare in pezzi, girandosi, vide Janna bianca in viso
– le mani tremanti nella stessa posizione con cui teneva la tazza, la bocca
socchiusa come se non riuscisse a respirare.
Gli occhi si
chiusero e le spalle caddero all’indietro, appoggiandosi alla poltrona grigio
scuro. La donna si gettò sull’amica, battendole le mani sulle guance come per
rinsavirla, ma niente non si svegliava.
Dietro di lei, si annunciava il vincitore degli HungerGames: Lyosha.
«Janna,
svegliati! Lyosha ha vinto! Lyosha
torna a casa!». Ma nulla.
Si sedette a terra,
guardando il corpo inerme della signora Isaacs, notò
che in mano teneva qualcosa, una bustina gialla.
◊ ◊◊
«E’ chiaro?» la voce
del Presidente le risuonò nelle orecchie.
Amaryllis annuì, abbassando gli occhi, «sì, signore».
Un movimento della
mano da parte di Snow le indicò che poteva andare,
senza aspettare altro si alzò, fece un breve inchino e girò le spalle per
andare verso le porte aperte un attimo prima da due servitori. Tenne le spalle
dritte e lo sguardo fisso verso la fine del corridoio dalla quale finestra
riusciva a vedere i palazzi di Capitol City e, ancora
più in la, le montagne. Sospirò, scendendo le scale tenendosi al corrimano,
fermandosi poi di colpo sentendo le gambe tremare, si piegò verso il basso,
flettendo le ginocchia e mettendosi la mano sulle labbra, un singhiozzo le uscì
dalle labbra e gli occhi si socchiusero, le lunghe ciglia viola si bagnarono di
lacrime.
Se la madre dei due fratelli dirà qualcosa
che possa mettere in cattiva luce Capitol City, le aveva detto Snow, dovrai ucciderla.
«Una leggenda
africana parla del perché i ghepardi hanno quelle "lunghe strisce"
nere
che dagli occhi solcano
il loro muso; parla di una madre, una Madre Ghepardo che perse i suoi cuccioli,
e pianse, pianse per
notti e giorni, e così da allora il ghepardo ha quelle "lacrime" che
segnano il viso.»
[GIORGIA SPURIO]
NOTE
D’AUTRICE ◊ «viviamo e respiriamo
parole»
Yeahbuddy.
Siamo qui con il primo SPIN-OFF che ho deciso di pubblicare in coda a Die on the frontpage, just like the stars – l’intervista delle famiglie dei ultimi otto
tributi a cui ho dovuto lavorare di molta
fantasia dato che sul web non ho trovato nulla. Esattamente, nulla.
Quindi ho pensato più o meno come potrebbe essere e spero sia abbastanza chiaro
il tutto (: nel caso voi conosceste la verità(?) e fosse diversa dalla mia,
prendete la mia versione come licenza poetica, ecco. ♡
Mi sono presa la libertà di fare una situazione così “grave” perché,
comunque, siamo a distanza di tre anni dalla rivolta e immagino che comunque,
cose come la ribellione, sono comunque ponderate – e, insomma, ok.
Per la cronaca, Janna si pronuncia Gianna.
Quindi sì, Snow ammazza la mamma di Isaacs, ho fatto questa scelta basandomi sempre su quello
che succede nella trilogia e spero concordiate con me, sì ♡
Davvero, non mi ricordo che cosa volevo scrivere in queste
note, che erano tantissime cose. Volevo solo farvi notare la nuova grafica con
il banner iniziale fatto apposta per le pagine
rubate, e se ve lo state chiedendo, sì: il tipo in mezzo ai fiori è Lyosha e il motivo di questo sarà spiegato nelle prossime pg (:
Capitolo 16 *** ▪ PAGINE RUBATE Ø2; fiori bianchi, blu e gialli – in tinta con il vestito. ***
»
PAGINE RUBATE Ø2
fiori bianchi, blu e gialli – in tinta con il vestito.
«Alza il mento» mormorò l’addetta al trucco e Lyosha ubbidì. Nello specchio riusciva a vedere la cicatrice
più chiara del suo colorito sbocciare come un fiore al centro della gola,
percepiva anche la pelle vibrare sotto quel marchio quando diceva qualcosa,
borbottava, tossiva. Prima che se ne accorgesse era tutto scomparso sotto uno
strato di trucco color pelle.
Non sapeva se essere
grato o meno a Capitol City per avergli dato la
possibilità di parlare – ma quel che sapeva era che l’operazione era stata
fatta per loro. Al Presidente Snow poco importava se Lyosha
poteva parlare o meno, quel che veramente gli premeva era che fosse in grado di
esprimersi durante l’intervista, nel Tour della Vittoria e via dicendo.
«Abbiamo finito» la
voce dell’altra preparatrice lo svegliò da quei pensieri, facendogli
raddrizzare la schiena mentre osservava il ciuffo di capelli ricadergli di
lato, quasi accennando gli occhi blu che avevano ripreso un po’ di colore e
vivacità dal suo ritorno dall’Arena.
Vilette, seduta quasi
davanti a Lyosha – posta in diagonale – accennò ad un
applauso mentre si alzava e la treccia le ricadeva dietro le spalle, «ottimo
lavoro ragazze» disse mentre la terza aiutante ricompariva da terra, in mano
teneva ago e filo per fare un appunto al pantalone grigio fumo del Vincitore.
Le tre sorelle – Lyosha lo scoprì poi, che erano
gemelle – sorrisero alla stilista e, raccolte le loro cose, sparirono dietro la
porta nelle loro salopette animaliere la
maglietta color evidenziatore abbinate alle scarpe dalla suola alta.
La Capitolina tese
una mano a Lyosha, facendolo alzare dalla sedia e
girandogli attorno. Era chiaro come il sole che il ragazzo non si sentisse bene in quel vestito – come non si
sentiva bene da quando aveva lasciato l’Arena. Lo conosceva abbastanza da
pensare che, se fosse stato completamente lucido, avrebbe già fatto qualche
scenata per la morte della sorella.
E invece non era
successo nulla dal suo risveglio: o Lyosha ancora
soffriva in silenzio, oppure Capitol City gli aveva somministrato qualcosa per renderlo
più docile. In tutti i casi, poco importava – qualsiasi cosa tenesse a freno il
ragazzo, quella sera, andava bene. Non poteva permettersi nessuna gaffe con CaesarFlickerman.
«Lo avevo detto: il
grigio ti dona molto» gli sorrise con serenità, aggiustandogli il fazzoletto
nel taschino della giacca.
Lyosha alzò lo sguardo,
incontrando gli occhi bicromatici dell’altra. In quelle pietre blu poteva
vedere tutta la tristezza del mondo concentrata in uno sguardo. Ebbe la
sicurezza che il ragazzo non fosse sotto l’effetto di nessun farmaco – ma prima
che potesse rivolgergli una qualche domanda, Lloyd entrò rumorosamente
sbattendo i tacchi contro il marmo della suite, con le dita afferrava una mela
verde visibilmente morsicata.
«Lyosha,
tesoro» lo chiamò sarcasticamente,
puntandolo con la mano che teneva il frutto, «siamo d’accordo che sei il
Vincitore, ma Caesar non aspetta! E tantomeno Amaryllis» disse, mordendo ancora il pomo.
Dalla porta, si
sentì la voce squillante dell’altra Capitolina, era arrabbiata, «ha ragione!»
urlò.
«Amaryllis!»
la rimproverò Cecelia, gli sembrava, anche lei fuori
la stanza.
Il ragazzo sorrise,
iniziando a camminare verso l’uscita, seguito poi dalla Mentore ben vestita e
dalla stilista. Forse quella serata sarebbe andata meglio di quanto potesse
credere.
◊ ◊◊
Lyosha era stato
abbandonato sotto il palco dello studio di Caesar, Amaryllis gli aveva spiegato come sarebbe andata la serata
e la mattina successiva: tutto il gruppo sarebbe stato presentato a Capitol City, Caesar l’avrebbe
salutato, qualche domanda per spezzare un po’ la tensione e poi via a vedere un
lunghissimo – interminabile, a parer suo – filmato dove gli Strateghi avrebbero
condensato quella settimana e più di HungerGames, e Lyoshasapeva che ci sarebbe stata dentro anche
la morte della sorella. Era preparato anche a quello. Finito il filmato, il Presidente
Snow sarebbe arrivato ad incoronarlo.
Come da manuale,
l’inno nazionale di Panem gli riempì le orecchie fino
a perforargli i timpani, dall’alto riusciva a sentire i nomi annunciati con
foga delle tre gemelle, di Amaryllis, Vilette, Cecelia e Lloyd – tutte
quante accolte da applausi e fischi di consenso. Sentì il suo nome venir
pronunciato dall’allegra voce di Caesar e la pedana
sulla quale era posto alzarsi – come quella della camera di lancio. Si ritrovò
avvolto in un lenzuolo di luci colorate ma si sforzò di tenere gli occhi aperti
e le labbra tirate in un sorriso.
Caesar lo raggiunse e gli
appoggiò la mano sulla spalla, sorridente nel suo completo dorato per
l’occasione, accompagnò Lyosha alla poltrona ricamata
dove il Vincitore si accomodava ogni anno, sedendosi di fianco a lui, «un sacco
di donne, eh?» commentò, aspettandosi una risposta.
Forse lo sa, pensò il ragazzo dell’8, forse lo sa che posso parlare.
«Già» disse
semplicemente, ridacchiando e abbassando lo sguardo. Sentì il pubblico andare
in delirio e anche dei piedi battere per terra per incrementare gli applausi.
Caesar assecondò i
Capitolini, tirandosi leggermente indietro come per sorpresa e chinandosi
subito dopo in avanti come un bambino curioso, «Lyosha,
mi stupisci!» disse con un sorriso – contagiando l’Isaacs,
«è una cosa che hai scoperto di poter fare? Come un blocco psicologico o…» stava bluffando, lo sapeva. Ma il pubblico si beveva la
recita e questo non faceva altro che aiutare Lyosha.
Anche alla fine degli HungerGames,
c’era bisogno di aiuto.
«Sono stati gli
Strateghi» rispose, cercando di sembrare il più naturale possibile. Rivolse uno
sguardo verso Lloyd sull’altro lato del palco, vicino a lei Vilette sorrideva
scambiando qualche parola con Cecelia, «sono stati
molto gentili».
Era il primo
aggettivo che gli balzò in mente per elogiare la Capitale – sapeva cosa voleva
dire mettersi contro le regole, una volta, al suo distretto, un paio di giovani
uomini (trent’anni, non di più) erano andati in giro per l’8 cantando canzoni
su liberazione dalla monarchia e rivoluzione dello stato, erano stati frustrati
pubblicamente il giorno dopo.
Caesar fece qualche altra
battuta, creando l’atmosfera tranquilla e catturando l’attenzione del pubblico,
le luci scesero lentamente e il lungometraggio sull’Arena occupò il grande
schermo posto alle loro spalle. Se Lyosha
sopravviveva anche al riassunto dell’Arena, allora poteva definitivamente dirsi
Vincitore. Solo allo scadere di quelle tre ore sarebbe finalmente uscito dagli HungerGames.
Non pianse, non
disse una parola né osò muovere un muscolo durante tutto il filmato – neanche
l’angoscia che provò quando il corpo del ragazzino del Distretto 4 fu
stritolato riuscì a smontare la maschera di impassibilità che si era imposto,
neanche le sue dita per terra o le crude immagini dell’ago che gli cuciva le
dita mentre il suo viso si contorceva di dolore. Ma quando riconobbe la foresta
nuda in cui i Favoriti si erano scontrati, le labbra si schiusero leggermente e
gli occhi parvero prestare attenzione a quello che succedeva realmente. Seguì
con attenzione – in realtà era timore,
ma questo nessuno lo sapeva – il combattimento tra Lexi,
Liv e Fraser, vide il primo piano del petto di Liv trafitto dalla lama del
ragazzo dell’1. Il combattimento successivo, il rapimento di Ariel, i propri
occhi di un blu tempesta, le mani tremanti e la ferita alle dita sanguinanti
con i punti strappati.
La gola di Ariel su
cui volava il coltello di Lexi, la risata della
Favorita si percepiva appena con il sottofondo musicale, un colpo di cannone
lontano. Lyosha che fissava le due ragazze morte, lui
che si spostava verso Fraser, lui che uccideva
Fraser. La voce di Claudis che lo annunciava
Vincitore e le ultime note della musica su sfondo nero – come la fine di un
film ben costruito e soddisfacente.
Le luci si accesero
gradualmente, gli occhi di Lyosha erano lucidi e la
sinistra – provvista di protesi alle dita mancanti – tappava la bocca per non
far uscire nessun suono. Senza aspettare il consenso di nessuno, Lloyd attraversò
il palco passando dietro a Caesar e chinandosi vicino
alla spalla del ragazzo, «va tutto bene» gli mormorò piano, mentre nella sala
si diffondeva un tenue applauso di condoglianze.
Forse, Capitol City stava iniziando ad imparare dai propri errori.
Si asciugò le
lacrime con il fazzoletto ben ripiegato nel taschino, il presentatore chiese a Lyosha se fosse pronto a proseguire e, ricevuto un assenso
con il capo, seguì l’inno di Panem e l’incoronazione
con il Presidente Snow.
◊ ◊◊
Lyosha ritornò all’ottavo
piano del Centro di Addestramento con una certa nostalgia – davanti alla sua
camera, c’era il letto in cui Ariel aveva trascorso le sue ultime notti prima
dell’Arena. Rimase fermo davanti a quella porta con la giacca in mano mentre
sentiva, vicino all’entrata, Vilette parlare con le
tre gemelle riguardo a quando si sarebbero viste il giorno dopo per
l’intervista del Vincitore.
Sospirò chiudendo
gli occhi, facendo dietrofront per andare nella propria camera, si lasciò
cadere a peso morto sul soffitto e guardò come le prime luci del mattino
dipingessero il cristallo del lampadario sopra di loro. Avvertì una profonda
tristezza montargli addosso e si accorse poco dopo di aver ripreso a piangere,
un singhiozzo gli risalì lungo la gola rumorosamente, facendolo sussultare.
Tre colpi alla porta
e poi il viso di Lloyd sbucare fuori dalla fessura, tra le labbra una sigaretta
ormai consumata, «mi hanno obbligato a venire a chiederti come stai» disse,
prendendo la stecca tra le dita e premendola contro il muro per spegnerla –
c’era rabbia, nel suo gesto. «Poteva venire Vilette,
tu a lei piaci e lei piace a te», quando entrò Lyosha
si accorse che nella mano libera aveva le scarpe con il tacco, la sua Mentore
aveva i piedi piccoli, notò.
«Sto bene» mentì,
rigirandosi sul letto per mettersi a pancia in su, si passò la mancina tra i
capelli e sfregando la guancia contro le lenzuola pulite vide un leggero alone
di trucco color carne abbandonare la sua pelle per depositarsi sulla coperta.
«Non ne dubito…» mugolò l’altra, appoggiandosi sul muro vicino alla
porta, se ne sarebbe andata presto – Lyosha non aveva molta
voglia di parlare. «Verrò a chiamarti per mezzogiorno, l’intervista è alle
due» e con un colpo di reni si rimise dritta, afferrando il pomello della
porta.
«E poi?» la domanda gli uscì come un
sussurro, molto più bassa di quanto si aspettasse.
Riuscì a vedere,
nella penombra della stanza, gli occhi della dona puntati su di lui e le labbra
piegate in un sorriso leggero, tra compassione e sollievo.
«Poi si torna a casa».
Un sonoro click riempì il vuoto della stanza, Lyosha rimase solo con i propri pensieri. Allungò una mano,
afferrò il cuscino più grande che avesse a disposizione e se lo premette contro
la faccia, urlando tutte le grida di diciassette anni. Urlando, l’idea gli suonava quasi amara nella mente. La sua voce –
che non era sua, era della Capitale – gli arrivava soffocata alle orecchie.
Soffocata come era
anche l’idea della morte di Ariel. Si chiese quale sarebbe stato il momento in
cui avrebbe potuto lasciarsi andare.
◊ ◊◊
Lyosha non credédi aver mai sentito tanto rumore in vita sua:
le tre preparatrici gli avevano ordinato di rifarsi il bagno, erano andate a
cercare i peli di una barba rasata meno di ventiquattro ore prima ed era quasi
sicuro che gli avessero tagliato ulteriormente i capelli. Indossava una camicia
azzurra e dei pantaloni neri tenuti su con delle bretelle – una sciarpa color
crema gli avvolgeva il collo ricadendo in avanti sul petto.
Una volta pronto, fu
accompagnato da Lloyd fino al pianterreno e lì, appena fuori l’ascensore, Caesar aspettava quasi saltellando sul posto il Vincitore,
accogliendo Lyosha con un abbraccio quasi esilarante.
Probabilmente fa così ogni anno.
«In perfetto
orario!» commentò, posando una mano sulla schiena di Lyosha
e scortandolo vicino all’ingresso dove era stata portata la poltrona della sera
prima, attorno a questa i fiori regnavano sovrani bianchi e blu, ogni tanto si
intravedevano dei boccioli gialli.
Il ragazzo si
sedette naturalmente con una gamba sotto la coscia, accorgendosi della sua
posizione, tentò di sfilare il piede flesso per sedersi in modo più decoroso, ma la risata di Caesar lo fermò e il movimento della sua mano – a ventaglio
– accompagnò le sue parole di rassicurazione, «non preoccuparti, siediti come
sei più comodo, dobbiamo parlare di te oggi, no?».
Prima che Lyosha potesse rispondere, il conto alla rovescia di un
membro dello staff delle riprese catturò la sua attenzione e un’altra donna gli
fece segno di sorridere. Caesar salutò il pubblico da
casa e l’Isaacs si immaginò di essere in diretta
nazionale.
Flickerman fu molto bravo a mettere a proprio agio l’altro: parlarono del cibo,
raccontò qualche barzelletta e lo interrogò sui nomi dei fiori che componevano
i meravigliosi bouquet, trovandoli poi in tinta sia con l’abito di Lyosha che con i suoi occhi.
«La tua stilista ti
ha mai detto che hai degli occhi favolosi?» commentò Caesar.
«La mia stilista
trova tutto favoloso, anche te» la battuta gli uscì spontanea e si chiese come
l’avesse presa Vilette, si appuntò mentalmente di
chiederle scusa e ridacchiò all’idea
del viso della donna imbarazzato – o arrabbiato. «Dico davvero!» aggiunse poi,
chinandosi verso Caesar che riprese a ridere più
forte.
«Allora penso che
abbia trovato favoloso anche il tuo coraggio nell’Arena, no? Mi riferisco alla
ferita sul braccio e alle dita», fece una pausa, osservando Lyosha
irrigidirsi appena e stringere a pugno la mano semibionica, «come vanno le
protesi?» domandò con più accortezza.
«Bene, se non fosse
per il metallo freddo direi che sono perfette» disse con un sorriso un po’
forzato, Cecelia dietro i cameraman sospirò – Lloyd
era uscita a fumare. «Comunque il coraggio è irrilevante, mi sarò anche
tagliato le dita e ustionato un braccio, ma non sarei capace di saltare da… non lo so, il terzo piano di un
palazzo se me lo chiedessero in circostanze diverse dagli HungerGames. Penso sia qualcosa che abbia a che fare con
l’energia che non sai di avere…» la frase rimase in
qualche modo sospesa.
Ci fu un breve
momento di pausa dove Caesar si toccò i capelli, come
cercando la forza di fare la prossima domanda. «Scusa la franchezza, Lyosha, ma ora dovremo entrare nel vivo dell’intervista e… come ti sei sentito quando Amaryllis
pronunciò il tuo nome come tributo maschio di questa edizione?» qualcosa in lui
chiedeva perdono per la domanda – quella e tutte le seguenti che avrebbe fatto.
«Avrei voluto
vomitarle sulle scarpe» rispose dopo poco, senza pensarci. Decise di ripiegare
sulle risposte “divertenti” per alleggerire la tensione, Lloyd gli aveva
spiegato come doveva muoversi: cautela.
Caesar sorrise,
rilassandosi a sua volta mentre adagiava le spalle alla poltrona, «seriamente»
riprese Lyosha, «avrei voluto vomitare –
personalmente, non mi sarei mai offerto per accompagnare Ariel nell’Arena»
pronunciare quelle parole gli fece male, «mi sarei limitato a sperare che
tornasse a casa, forse avrei accettato la sua morte e basta. Ma andare con lei
agli HungerGames e non
essere stato capace di proteggerla è stato…» i suoi
occhi si persero nel vuoto.
La mano del
presentatore gli sfiorò la spalla con cautela, «mi dispiace per Ariel, Lyosha» disse sottovoce, aveva lo sguardo lucido ma il
ragazzo non sapeva se i suoi sentimenti fossero sinceri o meno, aveva importanza?. «Ti chiederei di
parlarne, ma se non te la senti…» in qualche modo era
supplichevole.
Lyosha respirò a fondo,
sfilando la gamba da sotto la coscia, un brivido gli percorse la schiena e gli
occhi si piantarono sulle mani, prima che iniziasse a parlare – l’ultimo sforzo.
«Ero davvero felice,
il giorno della Mietitura, perché era la mia penultima, e magari una volta
diciottenne avrei potuto cercare di sistemarmi, mettere su famiglia. E invece
sono stato estratto, quando salutammo – io ed Ariel – nostra madre al Palazzo
di Giustizia, le avevo detto che avrei protetto Ariel, perché doveva tornare lei a casa, non io. Mia madre non mi ha mai voluto bene come ne voleva a mia
sorella, penso fosse per la questione della voce» istintivamente si portò una
mano alla gola, «era andato tutto bene. Se ero riuscito a cicatrizzarmi una
ferita con il ferro caldo, uccidere due persone e tagliarmi due dita, quanto mi
ci voleva per bere un po’ d’acqua avvelenata e lasciarmi morire mentre Ariel
vagava alla mia ricerca? Niente».
Lloyd era rientrata, lo fissava con occhi seri vicino a Cecelia.
«Come sapevi che
Ariel non si sarebbe uccisa prima? Magari per sbaglio, nell’Arena o…―».
«Lo sapevo e basta,
ha sempre fatto quello che le dicevo.
E ha continuato anche nell’Arena, una volta uscita di là avrebbe vissuto come
le avevo pregato di fare: ti farò uscire
da qui e tu potrai tornare dalla mamma. Nessuno dei due pensava realmente
alla morte dell’altro», c’era tristezza, nella sua voce. «A me, invece, nessuno
ha detto che cosa dovevo fare se fossi uscito da lì. Nessuno pensava che sarei
stato io a vincere», un sospiro gli sfuggì dalle labbra, si catturò con i denti
l’interno della guancia e intrecciò le dita delle mani tra loro, il metallo
freddo pulsava sotto il contatto con la pelle.
«Devo trovare la mia
strada» concluse, alzando lo sguardo e rivolgendolo coraggiosamente a Caesar, «anche se sarà un po’ difficile…»
e riabbassò gli occhi, grattandosi una tempia.
«Per via di tua
madre, immagino» suggerì debolmente il Capitolino.
Lyosha annuì, i suoi
movimenti erano lenti e morbidi come se coperti da un lenzuolo – faceva tutto
piano, con calma, come se avesse paura che un movimento brusco avesse potuto
tirare fuori ciò che lui doveva tenere assolutamente
dentro; «anche per quello, mi manca» si passò la manica della camicia sugli
occhi, riaprendoli lucidi, «mi mancano entrambe». E in breve si ritrovò a
lacrimare come la sera prima davanti alla morte di Ariel, si riasciugò gli
occhi con la manica del vestiario e poi con la sciarpa – fino a quando il
presentatore non gli offrì sotto il naso il proprio fazzoletto.
«Grazie…»
disse con cortesia, asciugandosi le lunghe ciglia.
«Penso sia superfluo
dire che Capitol City è al tuo fianco per sostenere il
tuo lutto» ancora, la mano di Caesar gli toccò la
spalla.
Il ragazzo scosse la
testa, ripiegando il fazzoletto dell’altro e posandoselo sulle ginocchia,
«certe cose bisogna sopportarle da soli, l’ho imparato nell’Arena», non voleva
risultare un ribelle né sentirsi nelle orecchie le grida di disapprovazione di
Lloyd nel caso dicesse qualcosa di sbagliato – eppure le sue labbra si mossero
ancora, «mi hanno già portato via la famiglia, non intendo condividere con
nessuno il ricordo di questa».
Flickerman annuì quasi come se potesse comprendere appieno le sue parole, «come ho
detto, Lyosha, il tuo coraggio è favoloso, come i
tuoi occhi». Salutò il pubblico con un gesto della mano e il segnale che
informava la ripresa si spense.
Lyosha si alzò, seguito
subito da Caesar che lo catturò in un altro
abbraccio, stavolta più consolatorio – quasi dispiaciuto, «sei stato bravo». L’Isaacs si divincolò dalla sua presa salutandolo
distrattamente, schivò le altre persone e raggiunse Lloyd e Cecelia,
insieme si avviarono verso l’ascensore.
«Andiamo a casa»
mormorò la ex-Mentore di Ariel, arruffando i capelli al Vincitore. Lloyd
sospirò e fece segno a Lyosha di entrare per primo
nell’ascensore.
Ma quale casa? pensò la donna, appoggiandosi al muro della cabina,
questo ragazzo non ha più una casa.
«Se
continuerete a rinnegare quanto c'è di brutto in ciò
che fate, non
imparerete mai dai vostri errori.»
[MAGNUS BANE; Shadowhunters – TMI]
NOTE
D’AUTRICE ◊ «viviamo e
respiriamo parole»
Sappiate
solo che mi sono espressamente rifiutata di rileggere ciò di cui sopra, perché
lo trovo molto deludente per il
semplice fatto che non c’è tutto il dolore che avrei desiderato. E insomma, pace e amèn. L’unico motivo per cui
pubblico e non tendo di riscriverlo è che sono quasi sicura uscirebbe peggio di
questo – e poi yingsu
mi ha detto di pubblicarla, quindi eventualmente prendetevela con lei ♥
La
citazione finale, insomma, la amo –
amo la frase e Magnus Bane! Ci tenevo che lo sapeste.
Mi
scuso anche per il lungo – lunghissimo capitolo, ma spero sia abbastanza
piacevole da leggere nonostante tutto. La sequenza degli avvenimenti è ripresa
da HungerGames, dopo
l’intervista Lyosha è andato a raccattare le sue cose
e poi a prendere il treno per l’8 – di cui c’è uno SNIPPET nell’epilogo.
Capitolo 17 *** ▪ PAGINE RUBATE Ø3; nessun distretto che non è Favorito vince due volte di seguito. ***
attenzione!
Questa pagina rubata fa forti
riferimenti a “I’m frozento
the bones”,
capitolo 6 – quindi se non lo avete
letto e non volete spoiler cliccate qui, e poi
tornate da me ♥
(se
invece non avete letto la fan fiction di yingsu, potete comunque
proseguire – ma poi andate a leggete FtB!)
»
PAGINE RUBATE Ø3
nessun distretto che non è Favorito vince due volte di seguito.
Lyosha non riuscì a dormire – era una cosa strana: a lui
piaceva davvero tanto dormire e,
ricordò, non aveva sofferto di insonnia nemmeno la notte prima delle svariate
Mietiture a cui partecipò come possibile tributo, fino a quella definitiva.
Ricordava di aver
spento malamente la sveglia durante i suoi viaggi nei Distretti per il Tour della Vittoria, di aver sentito Amaryllis lamentarsi per quel “pelandrone” e Lloyd che
batteva pugni e piedi contro la sua porta per farlo svegliare. Sorrise.
Il suo Distretto
aveva goduto di cibo in abbondanza quell’anno, assieme a farmaci e
ristrutturazione di molte fabbriche, cosa che mancava sempre per colpa del sovrappopolamento dell’8. L’idea che fosse
arrivata la settantatreesima edizione lo faceva preoccupare un po’, lui – come
Vincitore – avrebbe sempre fatto una vita agiata, gli altri invece sarebbero
morti di freddo, fame e malattia. Ancora.
Fece leva sulle
ginocchia, osservando dall’alto il suo prato fiorito di fine luglio in cui si
era accovacciato per osservare più da vicino i boccioli– come avrebbe fatto Ariel. Avrebbe mentito se avesse detto di non
aver piantato tutti quei germogli in suo onore. Era l’unica cosa che gli
rimaneva della sorella, oltre i ricordi: l’amore per i fiori.
La porta della casa
davanti a lui si aprì, Lloyd richiuse l’uscio e attraversò la strada,
appoggiandosi al cancelletto che divideva la dimora di Lyosha
dal mondo, «andiamo?».
«Faremo tardi»
acconsentì lui, e raggiunse la sua ex-Mentore e, per quell’anno, compagna di lavoro.
◊ ◊◊
Il palco faceva
rumore quando ci si camminava sopra – un tecnico di Capitol
City aggiustava il microfono posto al centro per assicurarsi che andasse, le
due ampolle rotonde e lucide erano già poste a destra e a sinistra. Su un lato
della tribuna una fila di sedie erano poste perfettamente raddrizzate, nelle
due agli estremi vi erano il Sindaco da una parte e Amaryllis
dall’altra, le due panche al centro erano state riservate a Lloyd e Lyosha, i due Mentori.
Quando arrivarono
anche loro, salutando velatamente gli altri due già sul posto, il Sindaco si
alzò per procedere con il momento del pentimento e quello del ringraziamento,
elencando tutti i vincitori del loro Distretto – cinque, forse sei. Non li
aveva contati, non li contava mai.
Un brivido gli
scivolò lungo la schiena quando sentì il suo nome venire pronunciato, chiuse
gli occhi e respirò piano con la bocca – calmati.
La mano di Lloyd gli sfiorò protettiva le dita finte.
Amaryllis si alzò a prendere posto davanti al Microfono mentre il Sindaco riprese
posto vicino alla Mentore, la Capitolina sorrise e annunciò la solita frase di
apertura alla Mietitura: «felici HungerGames! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore!». Disse qualcosa che suonava un po’ come
“sono onorata di essere ancora qui con voi, Distretto 8, considerando che il
Vincitore scorso era dei vostri!”, ma non gli importava.
Prima le ragazze pensò Lyosha in
sincronia con la voce squillante dell’Accompagnatrice, alzò piano lo sguardo
per seguire la mano guantata della donna immergersi
tra quel mare di foglietti bianchi, sparire oltre quella selva di pesci morti e
riemergere con due biglietti tra le dita. Ne fece cadere uno. Se lo portò
davanti al naso, aprendolo lentamente e con cura, fece un bel respiro e poi
pronunciò il nome della fortunata: ReshmiGuyen.
Lyosha non la conosceva,
il loro Distretto era talmente popolato che essersi incontrati tutti era
impossibile, si fece largo tra la folla una ragazza delle prime file – e quindi
molto vicina ai diciott’anni – il viso tondo e
pallido, due cascate di capelli biondi le ricadevano sulle spalle e gli occhi
azzurri erano velati da lacrime contenute coraggiosamente. Nessuno osò parlare
mentre la piazza veniva riempita del sordo rumore delle scarpe di Reshmi che salivano le scale.
«Ci sono volontari?»
domandò Amaryllis.
No. – ed infatti
nessuno si offrì. Reshmi con il suo sguardo impaurito
si posizionò di fianco ad Eglatine, fissava lontano,
probabilmente i suoi genitori erano lì, da qualche parte.
«Passiamo ora ai ragazzi…» con la stessa procedura di prima, prese un
biglietto e ne lesse il contenuto, «LaceyRous!» e ancora un anonimo personaggio scivolò fuori dalle
righe e salì sul palco – il mento alto ma una gran paura negli occhi.
Gli ricordava così
tanto sé stesso che Lyosha avrebbe voluto svenire in
quel momento e svegliarsi solo quando tutto fosse finito.
In poco tempo, Amaryllis si congedò e riprese il proprio posto mentre il
Sindaco recitava il Trattato del Tradimento. Quando Lacey
e Reshmi si strinsero la mano, Lyosha
si accorse di star trattenendo il respiro e di avere i pugni chiusi
L’inno di Panem suonò ed in breve finì tutto. Mentre le persone se ne
andavano, la voce di Lloyd arrivò a consolarlo come se l’avesse chiamata lui,
«va tutto bene» gli disse.
Va tutto bene.
◊ ◊◊
«Vuoi qualcosa da
bere?».
Lloyd annuì alla
domanda, appoggiando le spalle alla poltrona vicino al finestrino del treno –
lo stesso dell’anno precedente. Si ritrovò poco dopo un bicchiere di cristallo
alto e stretto riempito del liquore azzurro che avrebbe scelto lei nel caso se
lo fosse versato da sola. Afferrò il calice e si girò a guardare la figura del
giovane Mentore, di spalle a lei, intento a mettersi in un altro bicchiere
della semplice acqua, «come facevi a saperlo?».
Lyosha sembrava abbastanza
confuso, prese posto davanti lei, «sapere cosa?».
«Che avrei preso
questo» e gli indicò con la mano libera il bicchiere.
L’altro sorrise,
alzando lievemente le spalle, «lo hai preso anche l’hanno scorso».
In quel momento Reshmi e Lacey entrarono dalla
porta più vicina seguiti da Amaryllis. Si
avvicinarono ai due Mentori senza dire una parole, le mani raccolte davanti al
busto e lo sguardo basso. Lloyd li guardò come se fosse una scena già vista più
e più volte e Lyosha ebbe l’impressione che tutti i
neotributi si presentassero con l’aria da cani bastonati…
in effetti lo avevano fatto anche lui ed Ariel.
«Vi potete sedere,
di certo non vi mangerò io – né tantomeno Lyosha, su»
e picchiettò sulla poltrona vicino a lui, il primo ad accomodarsi su Lacey, di fianco al Vincitore dei settantaduesimi, Reshmi lo imitò pochi secondi dopo, sedendosi vicino a
Lloyd. «Fantastico, Lyosha, tu ti prendi il ragazzo»
sentenziò infine bevendo tutto d’un sorso quasi l’intero contenuto del
bicchiere. Amaryllis si servì a sua volta e rimase
appoggiata al muro guardando i quattro, come suo solito non diceva una parola.
«Non ho la forza di
contraddirti» borbottò quasi scherzando, cercando di alleggerire la tensione, Reshmi sembrò accennare ad un sorriso.
«No, non ce l’hai,
infatti» fece un gesto con la mano e simbolicamente spazzò via l’argomento,
girandosi poi verso il tributo femmina mentre frugava nella tasca dei pantaloni
alla ricerca delle sigarette, «tu sei Guyen, vero?»
chiese e, ottenendo un movimento d’assenso con il capo si girò a guardare il
compagno di distretto, «e tu?».
«Rous»
intervenne Lyosha, tenendo con entrambe le mani il
bicchiere, «LaceyRous, hai
una memoria pessima».
«Trovate!» il disinteresse di Lloyd per
un argomento che aveva tirato fuori lei era
disarmante, quando si fu messa la sigaretta tra le labbra e acceso la cicca, si
degnò di rispondere all’altro, «non ho una memoria pessima, solo non mi
ricordavo il nome del ragazzo – e penso che continuerò a scordarmelo, per
questo voglio Reshmi».
Inspiegabilmente, Lyosha sorrise, «non sei stata così gentile con me, quando
ero io il tributo».
«La tua gentilezza è
così contagiosa che rende più buona anche me, ragazzo».
Spezzata la
tensione, i due Mentori offrirono da bere ai tributi e in poco questi quasi
sembravano aver dimenticato la loro condizione – apprezzarono la tavola
imbandita di tutte
le leccornie più varie e mangiarono fino ad essere pieni, poi si ritirarono a
riposarsi nei letti forniti loro.
Anche
Lloyd sparì da qualche parte mentre Amaryllis rimase
a tavola, osservando Lyosha che tagliava a piccoli
pezzi la buccia di un’arancia. Ancora non ci riusciva, la Capitolina, a
guardarlo senza sentire addosso il rimorso per l’aver ucciso la madre di quel
ragazzo – ma non avrebbe mai avuto il coraggio di confessarglielo.
«Moriranno,
vero?» disse ad un tratto l’Isaacs, gli occhi blu
scintillavano nella speranza di una risposta negativa alla sua domanda.
Amaryllis sospirò, togliendosi le scarpe con i
piedi e chinandosi a raccogliere i tacchi, «sai cosa si dice, a Capitol City?» aspettò qualche secondo per essere sicura
che Lyosha non potesse rispondere, «nessun distretto
che non è Favorito vince due volte di seguito».
Quella
risposta gli lasciò l’amaro in bocca.
◊ ◊◊
Il tributo del
Distretto 2 – RoelFlos, il
quale aveva visto un paio di volte in occasioni come la sfilata o l’intervista
– premette con il piede sulla colonna vertebrale di Reshmi
e con la mazza chiodata mandò in pezzi il capo della ragazza.
Lyosha avvertì di fianco a
lui Lloyd irrigidirsi e la schiena della donna bloccarsi mentre le dita
affondavano nei braccioli della poltrona, Vilette –
che si era ripresentata come stilista di Lacey, ma
con un nuovo compagno di lavoro – appoggiò la mano sulla spalla della Mentore
che bruscamente si alzò, biascicando un «lasciatemi stare» e andando fuori al
balcone.
Aveva reagito così anche alla morte di
Ariel?Lyosha
non ebbe il coraggio di rispondersi.
E poi arrivò anche
la morte di Lacey, o quantomeno quello che poteva
definirsi tale. Una lunga agonia che fece vibrare ogni nervo di Lyosha dal terrore e dal rammarico: non lo aveva salvato.
Sgranò gli occhi
quando vide la pelle della mano del suo tributo rimanere attaccata alla paratia,
il sangue scorreva dalla ferita copioso sporcandogli la giacca di lunghi,
scuri, rivoli rossi. Per un momento il Mentore pensò che quel liquido potesse
ghiacciarsi – si chiese se avrebbe fatto male.
Non andò a dormire,
quella notte, rimase seduto sulla poltrona con le gambe strette al petto,
fissando lo schermo spento, buio. Immaginò le urla di Lacey
nella notte e se ne diede la colpa: sta
soffrendo così perché non posso aiutarlo. Prese in considerazione anche
l’idea di infilarsi la giacca e andare alla ricerca degli sponsor, implorandoli
di aiutare il suo tributo perché ne
valeva la pena. Ma alla fine non si mosse, rimase bloccato, in trappola dai
ricordi dell’intervista mentre lui e Lloyd si aggiravano per l’auditorium alla
ricerca di Capitolini ben disposti a finanziare Reshmi
e Lacey. Ma era come aveva detto Amaryllis:
nessun distretto che non è Favorito vince due volte di seguito.
La mattina dopo Lacey era ancora lì, nell’Arena, e tutto in lui gridava
disperazione – Lloyd gli portò sulla poltrona una tazza con latte e miele e
delle fette di pane con della confettura dorata, gli occhi della donna erano
circondati da profonde occhiaie viola e le labbra stringevano rabbiosamente una
sigaretta, non volle sapere quante ne avesse fumate dalla morte di Reshmi. Morse la sua colazione mentre continuava a fissare
lo schermo, doveva solo tirare, e
anche se avesse sanguinato, che importava?
Ma capì che i suoi
consigli non erano rivolti a Lacey, ma a quel Lyosha che doveva tagliarsi le dita e cucirle. Non si trattava
di istinto di sopravvivenza, ma di qualcosa di molto, molto più grande – la
paura di morire.
Cosa credeva Lacey? Che a stare lì fermo qualcuno sarebbe andato a
salvarlo? Doveva reagire, dannazione.
«Mangia piano» lo
ammonì Lloyd, vicino a lui, e Lyosha si accorse di
aver già ingurgitato entrambe le fette di pane.
Alzò gli occhi dal
piatto e la figura di RoelFlos
si fece imponente nello schermo, «ti
serve una mano?» nella sua voce c’era una cattiveria disinteressata, come
di chi fa del male perché deve, e non perché vuole.
«Battuta di pessimo
gusto» commentò Lloyd, e subito dopo la sala si riempì dell’urlo di Lacey e del rumore delle sue ossa spezzate, il sangue finì
sulla neve sporcandola di rosso e la visuale si postò poi sulla mano del
ragazzo, ancora attaccata alla porta, da cui penzolavano i nervi e lunghe gocce
scarlatte.
Lyosha ricordò:
nell’intervista, Roel aveva fatto riferimento ad una
certa Liv Nerys – la stessa Liv che era morta uccisa
da Fraser, la stessa Liv che era arrivata così
vicino dall’essere Vincitrice.
Un sospirò gli
sfuggì dalle labbra, privando il suo corpo di tutto l’ossigeno di cui disponeva
– si sentì mancare l’aria e il sangue riaffluire, la pelle sbiancare e il
sudore freddo colargli sulle tempie mentre il Favorito si allontanava con il
suo «niente di personale».
Si sentì in colpa
per aver vinto la sua edizione, per non aver lasciato che fosse Liv ad uscirne
illesa. Se lui fosse morto – cosa che sarebbe
dovuta succedere – Roel non avrebbe ucciso sia Reshmi che Lacey, e Lyosha non si sarebbe portato sulla coscienza i due
diciassettenni.
Davanti a lui il
nero, Lloyd aveva spento la televisione, nello schermo scuro vedeva riflesso il
suo volto storpiato in una smorfia di dolore e sconcerto.
«Te lo avevo detto»
pigolò Amaryllis, girandosi e tornando nella camera
riservata a lei, Lloyd sospirò e si accese una sigaretta – il rumore
dell’accendino che si rifiutava di scattare riempì la stanza.
Doveva farsene una
ragione, gli aveva detto l’altra Mentore, non poteva soffrire per una cosa di
cui non aveva colpa: i Mentori devono
associare la sconfitte al caso e le vittorie a sé stessi, altrimenti non si
sopravvive. Inspirò l’aria profumata del luogo e si appoggiò allo
schienale, tentando di rilassarsi.
«Non abbiamo più
nulla da fare, qui» sentenziò infine, alzandosi e andando ad avvisare Eglantine
che sarebbe tornato al Distretto con il primo treno disponibile – ora come ora
desiderava solo ritornare tra i suoi fiori, accarezzarli e convincersi che era
fortunato ad essere ancora vivo, perché era quello che avrebbe voluto Ariel.
«― Temi
tu la morte? ―
― Non
sai quanto. ―»
[DAVY JONES &
JACK SPARROW; Pirati dei Caraibi: ai Confini del Mondo]
NOTE
D’AUTRICE ◊ «viviamo e
respiriamo parole»
E’
finita.
Ed
è alla fine di tutto questo che io non ho davvero qualcosa da dire, ma mi
sforzerò comunque perché, nonostante tutto, è
la mia prima long che concludo. E la cosa mi entusiasma davvero perché ce
l’ho fatta, insomma, ce l’ho fatta! Manco avessi vinto gli HungerGames, ma va bene.
Quindi.
All’inizio la storia di Lyosha non doveva essere
così, perché avevo fatto l’assurdità iniziarla senza avere in mente cosa fare,
avevo deciso solo che Ariel sarebbe morta e che ad ucciderla sarebbe stata Lexi in quella maniera e in quello stato. Il resto è venuto
da sé.
Insomma,
nel bene o nel male sono arrivata fino a qui con molte più cose di cui dovrei
andare fiera che di quello di cui dovrei lamentarsi, nonostante l’inizio non
molto gradevole (poco seguito ecc) sono arrivata alla fine con persone a cui
pareva interessare di Lyosha.
Ebbene,
spero di non avervi deluso (: ♥
La
citazione finale racchiude, secondo me, l’intera essenza di Die on the frontpage,
just like the stars – e
spero la possiate apprezzare quanto me.
Ovviamente,
Lyosha continuerà a vivere forever(…)
e si farà anche tutta la rivolta, quella de Il
canto della Rivolta – ma questa tematica verrà trattata tra mooolto molto tempo assieme ad yingsu, una volta
che finirà I’m frozento the bones – quindi,
per favore, non dimenticatevi di Lyosha! Se vorrete
– e se riuscirò – pubblicherò ancora delle ones-shot
su di lui, personaggio stupido a cui tengo molto ;u; Per la cronaca no, non ci sarà nessuna lovestorytra lui e Lloyd, quindi non venitemi a dire nulla del genere ewe
quella povera donna ha già abbastanza casini e la vita di Lyosha
non è in modalità “innamoramento”, quindi va bene così.
Ma
non intendo abbandonarvi, ho iniziato un’altra edizione degli HungerGames – la 19esima, per la
precisione – che vi linkerò nell’angolo
spam, spero di ritrovarvi anche lì!~
Non
so mai cosa scrivere nelle note, quindi passerò ai ringraziamenti
velocissimamente, quindi!
- yingsuche
si è impegnata a difendere il QI di Lyosha.
- ivolache
ha deciso di condannarsi spammando il suo fb, e che mi sembrava entusiasta di questa fan fiction.
- iysseche,
anche se non ha tempo, ogni tanto da uno sguardo a Ly.
E poi
tutte le persone che hanno messo tra le preferite/seguite/ricordate questa fan
fiction ma che non ho mai visto ç//ç – e ovviamente anche quelle persone che
ogni tanto si facevano vedere. Insomma, siete fantastici! ♥
Se
ci rivedremo, sarà in quando si muore, si
muore soli