CAPITOLO I
Run fast for your sisters and brothers.
Immerse le mani
nella bacinella d’acqua – tiepida, che nella scala della temperatura dell’acqua
a casa loro era come dire bollente – e se le passò tra i capelli corti, scuri
come le piume di un corvo. Riportò le dita dentro il catino, stavolta messe a
conca, e si gettò l’acqua sul viso sfregandosi gli occhi con i polpastrelli.
Alzò lo sguardo verso quello che chiamavano ottimisticamente specchio e si
guardò la faccia: era esattamente come tutte le altre mattine. Pallida con due
occhi blu e una zazzera nera sulla nuca.
«Thahn…» sentì
chiamare una voce. Era sua sorella, che gli aveva dato quel nome speciale che
significava sia “cielo azzurro” che “suono” in una qualche vecchia, vecchissima
lingua; non sapeva, lui, come lei lo conoscesse. In realtà lui si chiama Lyosha, Lyosha Isaacs. E quello era il giorno della Mietitura per i
settantaduesimi Hunger Games.
«Lyosha… dannazione, ti sto parlando!» borbottò Vilette, la sua stilista. Si era già affezionato a lei ma
non ne capiva il motivo, probabilmente perché era l’ultima figura realmente
umana che avrebbe visto, considerando che, una volta entrati nell’Arena, sarebbero
stati tutti e ventiquattro delle bestie pronte per il macello.
Scosse la testa,
scacciando il ricordo della mattina in cui era stato condannato alla morte e la
guardò fisso negli occhi, ne aveva uno verde e l’altro ambra e si chiese se
fosse nata così o se fosse il risultato di una qualche operazione fatta a Capitol City, in definitiva, però, le donavano parecchio
considerando la sua carnagione abbronzata.
«Grazie per la
tua attenzione, Lyosha» commentò stizzita, o almeno
fingeva di esserlo, «volevo solo augurarti buona fortuna, okay? Guarderò gli Hunger Games solo per te, e
voglio confezionarti il vestito per quando sarai Vincitore, un bel completo sui
toni del grigio e dell’azzurro per evidenziare i tuoi occhi» gli sorrise, un
sorriso che sapeva di addio ma anche di flebile speranza.
Non aveva motivo
di farlo, si disse, perché alla fin fine lui era risultato tra i peggiori nella
classifica dopo gli allenamenti. Se fosse stato fortunato sarebbe vissuto
abbastanza per vedere morire i primi tributi nella carneficina della
Cornucopia, ammesso e non concesso che lui non fosse tra quei tributi – anche
se era abbastanza convinto che l’opzione migliore fosse quella di seguire il
consiglio della sua Mentore: correre. Qualcosa gli diceva che era un
suggerimento dato spesso ai tributi dei distretti poveri, e puntualmente solo
in pochi lo prendevano in considerazione – chissà se anche lui avrebbe fatto lo
stesso.
Tuttavia le
sorrise di rimando, agitando la mano in segno di saluto. La guardò mentre gli
aggiustava la giacca della tuta e poi entrò dentro il cilindro che lo avrebbe
catapultato in un mondo sconosciuto, dove i fiumi erano sangue e l’aria le
anime dei morti che vagavano senza meta, semplicemente.
D’altronde, non
c’era altro che potesse fare.
Era
un viaggio lento e silenzioso, quella salita verso l’Arena. Sembrava durare
un’eternità eppure prima che potesse accorgersene le pareti trasparenti che lo
accompagnarono fino alla fine del percorso – cosa strana, si diceva, non
succedeva spesso che ci fossero delle mura – erano già calate verso il basso e
dell’acqua gli aveva inondato i piedi; Lyosha era
dentro un altro mondo, probabilmente antico e sconosciuto.
Attorno
ai tributi vi era una fitta vegetazione sui toni del verde scuro, i fasci di
luce di un sole artificiale erano ben visibili mentre calavano tra le foglie
come i fari di un palcoscenico dove loro erano gli attori, eppure la fonte
primaria di quei raggi non era visibile: il cielo era completamente azzurro,
neanche una nuvola. In lontananza si vedevano delle cascate tutte attorno
delimitando una circonferenza, rumori di svariati insetti coprivano il suono
del suo respiro e il battito del suo cuore nelle orecchie.
Il
sudore gli colava ovunque sul corpo per il caldo e l’umidità del posto. Guardò
in basso: aveva i polpacci immersi nell’acqua e una circonferenza luminosa che
attraversava la sporcizia del liquido segnava la sua postazione, come per
ricordare che, attraversata quella linea prima del conto alla rovescia, sarebbe
tutto finito ancora prima di iniziare.
Pensò
che forse era una buona soluzione, saltare fuori dal cerchio e lasciare che le
bombe lo mangiassero vivo. Magari qualcuno lo aveva già fatto, suicidarsi prima
dello scadere dei sessanta secondi – gli pareva di ricordare di sì. Anzi, era
sicuramente successo in settant’uno edizioni dei Giochi.
Il
timer era partito prima che lui potesse accorgersene, ormai erano a meno
quarant’uno secondi, e lui usò i rimanenti per scrutare gli altri ventitré
tributi.
Ricordava
Fraser, del Distretto 1, bello e impossibile come tutti quelli del suo luogo –
aveva avuto modo di constatare che era un ragazzo abbastanza superbo, come se
avesse già in mano la vittoria. Sean, del terzo distretto, aveva sedici anni e
si era offerto volontario, Lyosha ne rimase
abbastanza sorpreso considerando che sapeva di certo non era un favorito e –
soprattutto – non aveva diciotto anni, forse era stupido, o forse avrebbe vinto
lui. C’erano i due del Distretto 12, il maschio Gijs
di sedici anni e la ragazza Yara, di dodici. Lei
aveva la dolcezza negli occhi scuri e quel sorriso che gli ricordava le bambine
più povere del Distretto 8 – quello a cui Lyosha
apparteneva: sempre sereno anche se pieno di dolore; Gijs,
invece, gli incuteva abbastanza terrore considerando gli occhi con cui fissava
gli altri, di un orribile color verde-marrone, simile all’acqua delle
fognature, sembrava sicuro di poter uccidere tutti quanti con la sola forza del
pensiero; era rimasto sorpreso anche di lui: non pensava che i distretti più
bassi avessero tributi così… cattivi, Lyosha non era cattivo, per
esempio. C’era la ragazza del quarto distretto, Ines di diciassette anni con
lunghi capelli ramati, il pubblico la amava molto perché consideravano la sua
presenza una sorta di possibilità di vendetta per la sua tragica storia: sua
madre rimase gravida di lei a diciotto anni, prima della Mietitura, nella quale
fu sorteggiato come tributo il padre della ragazza che non tornò mai a casa.
…E poi Lexi. Lexi era il tributo femmina che accompagnava Fraser,
diciottenne. Lyosha dovette essere sincero con sé
stesso (cosa che non desiderava affatto, in quel momento): lei era bella, molto
bella, e il soprannome che le avevano dato nell’intervista - «la Principessa» -
era molto azzeccato, non tanto per la coroncina che faceva parte del suo
costume durante la sfilata, quanto per i suoi modi di fare, per il suo modo di
parlare, per il suo sorriso e la maniera in cui guardava gli altri, come se si
fosse innamorata della persona che fissava in quello stesso istante – per
qualsiasi cosa facesse: neanche l’atto di uccidere avrebbe potuto strapparle di
dosso quel soprannome.
Venti
secondi. Avrebbe volentieri speso gli ultimi venti secondi della sua vita a
guardare Lexi, assaporare da lontano la sua bellezza
– chiaro che, durante quei pensieri, Lyosha si stava
odiando per il solo averli fatti – eppure non poteva, perché con gli occhi
stava cercando ancora la ragazzina di tredici anni che vestiva il ruolo del
tributo femmina del Distretto 8. Si chiamava Ariel, aveva i capelli come le
spighe di grano al sole e gli occhi chiari.
L’aveva
vista, era lì, appena nascosta dalla Cornucopia.
Diciassette
secondi. Nei suoi occhi c’era la forma più pura del terrore, l’acqua le
arrivava a metà coscia e si chiese come avrebbe fatto a correre, e se Cecelia l’avesse rassicurata, se le avesse detto di
scappare invece di buttarsi sulla Cornucopia.
Dodici
secondi. Ariel sembrava quasi tremare e Lyosha se ne
dispiacque, avrebbe voluto attraversare tutta quella palude e stringersela
contro. Perché se c’era una cosa che li legava veramente, era l’essere fratelli
di sangue.
Otto
secondi. Lyosha alzò le braccia e le incrociò sul
petto, guardandola fisso negli occhi, «ti proteggo io», significava nella loro
speciale lingua di cui necessitavano assolutamente, infatti il ragazzo era muto
– o meglio, qualcosa nella sua gola non funzionava, nelle sue corde vocali –
era come se non ci fossero. E lui non poteva fare nulla che comportava il loro
uso: non poteva parlare, ridere, gridare, addirittura la tosse era priva di
suono, non poteva fare rumore mentre piangeva. Niente che c’entrasse con il
voto di silenzio o roba del genere. Non poteva e basta.
Tre
secondi. Erano tutti pronti: un piede avanti ed uno dietro. Anche lui si
posizionò e vide sua sorella fare lo stesso. Tutti i rumori erano cessati, gli
insetti rimasero in silenzio per vedere l’inizio dei settantatreesimi Hunger Games.
Un
rumore a cui Lyosha non prestò attenzione – forse un
gong – indicò l’inizio dei Giochi, mosse un piede davanti all’altro con
frenesia, come tutti gli altri ventitré concorrenti. Come sua sorella, come Lexi, come quelli di cui non sapeva nome, età e volto.
Si
ricordò l’unico consiglio veramente utile che aveva dato loro la Mentore che si
occupava di lui, Lloyd, e decise che quella sarebbe stata la sua nuova
filosofia di sopravivenza: «correte per vostra madre, per vostro padre, per i
figli che avrete, per fratello e sorella. Correte, dannazione, non posso
passare il resto della mia vita pensando che un’altra volta dei dannati
ragazzini si sono ammazzati ai Giochi perché non si sono messi a correre».
E
poi se n’era andata in terrazza a fumarsi una sigaretta lasciando addirittura Cecelia, l’altra Mentore, senza parole.
«Ritorna con il tuo scudo, o su di esso.»
NOTE D’AUTRICE ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Nonostante tutto, sono ancora qui.
Avevo già pubblicato il prologo di
questa fanfic, ma in preda di un attacco di isteria
(o qualcosa del genere), l’ho cancellato per riscriverlo in una luce migliore,
forse. Tuttavia la trama è rimasta invariata, o almeno così pare.
Quindi sì, parliamo ancora dei
fratelli Lyosha e Ariel, diciassette e tredici anni,
lui muto e lei terrorizzata ma anche coraggiosissima.
Ho voluto tenta un approccio
diverso, quindi iniziando in medias res, tuttavia non vi
priverò di nessun momento degli Hunger Games – i giorni precedenti saranno mostrati attraverso flashbacks o
semplici racconti, come degli spin-off.
Devo dire che la parte più
complicata dell’organizzazione degli Hunger Games è stata l’Arena, perché non avevo assolutamente idea di come farla!
Infatti avrò cambiato molte volte idea e me ne sarò fatte venire in mente altre
cento, ma alla fine ho tenuto la prima che mi è balenata nel cervellino: la
foresta amazzonica con tutto quello che ne comporta. Non so se avete mai visto
Bear Grills nelle suddette foreste, ma sarà una cosa
del genere, con boa di piume e tutto il resto.
Ora, per non deludere(?) coloro che
amano avere una faccia ben precisa sotto gli occhi per immaginarsi i personaggi
citati, di seguito ci sono i volti dei tributi citati più quelli di Lyosha e della sorellina.
Distretto 1: Fraser
(M) e Lexi (F). Distretto 3: Sean
(M). Distretto 4: Ines
(F).
Distretto 8: Lyosha (M) e Ariel
(F). Distretto 12: Gijs (M) e Yara (F).
Concludendo: il titolo della fan
fiction è una frase tratta da una canzone dei One Night Only, intitolata “Say You Don't Want
It”, quello del capitolo è una quasi frase di “Dogs day are Over”
di Florence + the Machine.
Infine, la canzone che fa un po’ da “soundtrack” a questa fan fiction è “Start
a Riot” di Jetta, di cui
voglio lasciarvi il link: click!
Ringrazio ovviamente la cara e
vecchia e buona Iysse che, se non mi avesse
sopportato, non avrebbe visto tutto questo su EFP. E almeno lei ci tiene(?).
Un grazie anticipato a tutte quelle
care e vecchie e buone(…) persone che avranno voglia di lasciare un piccolo
parere per sostenere la causa degli OC che, a mio parere, sono sempre un po’
snobbati – in tutti i fandom. Io lo trovo così
stimolante inserire personaggi nuovi in un bel contesto! *probabilmente
è l’unica, eww*
→ la citazione finale è di 300.
Alla prossima!
radioactive,
EDITs;
03/11 – cambio grafica e revisionato il testo non betato, aggiunta presenza di Cecelia
nella scena finale e cambiato stile di
scrittura dei distretti, ora segue quello del libro (non più Distretto
uno/due/tre ecc., ma Distretto 1/2/3 ecc.).
13/11 – testo betato.
29/11 – cambio ulteriore della grafica.