Il filo rosso

di _Lady di inchiostro_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** XIII ***
Capitolo 15: *** XIV ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
Prologo
~





C’è chi dice che il nostro destino sia scritto nelle stelle. 
Certo, chiunque dovesse sentirsi dire una cosa del genere, probabilmente penserebbe che quella persona sta dando di matto o è semplicemente troppo ubriaca, ma detto in termini meno poetici, c’è chi crede davvero che il nostro destino sia già scritto. 
Come se fosse un pesante tomo di storia, una fonte che aspetta solo lo storico giusto per essere interpretata. 
C’è chi sostiene, invece, che la nostra storia sia ancora tutta da scrivere, e allora bisogna prendere in mano penna e calamaio e completare il tomo da soli. 
E poi c’è l’idea più comune, ovvero che la nostra vita dobbiamo costruircela, ma che a volte il destino gioca con noi, e allora il percorso fa una piccola deviazione. Insomma, è l’opinione di chi sostiene entrambe le teorie. 
Questi discorsi, però, li fanno solo i “grandi”. Li fanno le persone che sono dubbiose della propria vita, chi si chiede cosa farà in futuro, chi si sente costretto a interpretare un ruolo che non vuole e allora vuole cambiare radicalmente stile, interpretazione. 
Questi discorsi non li fanno di certo i bambini. Sono altre le domande che pongono, e sono così ingenue che riescono a scaldare il cuore di chiunque. 



Oikawa Tooru aveva cinque anni, e di queste cose non ne capiva niente, impegnato com’era a giocare con gli altri bambini e a cercare di fare amicizia, il grembiulino blu meticolosamente abbottonato. Non aveva difficoltà a stare con gli altri, anche se era un bambino piuttosto fragile e dalla lacrimuccia facile. Nel complesso, però, le maestre lo adoravano, e come non avrebbero potuto con quel faccino e i capelli castani sempre arruffati? 



Iwaizumi Hajime aveva cinque anni, e anche lui di queste cose non ne capiva niente, impegnato com’era… beh, a starsene in disparte. Non era un bambino molto socievole, capitava di rado che si soffermasse a giocare con gli altri suoi compagni. Preferiva di gran lunga osservare gli insetti che popolavano il piccolo giardinetto della scuola, e qualche volta le maestre si erano ritrovate qualche bel scarabeo che camminava sulla cattedra, causando l’ilarità dell’intera classe. Nel complesso, però, non potevano lamentarsi, quel bambino era un santo e non si lamentava mai. 



Oikawa e Iwaizumi non si erano mai parlati un granché. Forse il castano aveva provato a rivolgergli qualche parola, ma l’altro era troppo concentrato sulla lucertola che voleva acchiappare per dargli ascolto, e questo fu il motivo per cui Oikawa se ne era andato sbuffando e a braccia conserte, offeso. 
Il pretesto per parlare venne dopo un po’ di tempo. Le maestre avevano ben pensato di giocare all’aperto, visto che era una bella giornata, e avevano fatto riunire i bambini in cerchio per farli giocare meglio a pallone. 
All’inizio erano un po’ titubanti, ma alla fine tutto procedette nel migliore dei modi. Fino a quando Hajime – forse involontariamente, forse perché non voleva davvero giocare in quel modo – non mise troppa forza nel lancio e colpì in piena faccia un suo compagno. 
E quel compagno era Oikawa. 
Le maestre rimproverarono subito Hajime, mentre il nasino rivolto all’insù del castano cominciava a sanguinare, e da come le sue iridi tremolarono, le donne capirono che una crisi di pianto era imminente. 
Continuò a singhiozzare anche dopo che riuscirono a calmarlo, portando sia lui che Hajime in infermeria – perché quest’ultimo era stato incaricato di aiutare la maestra a medicare il compagno, per scusarsi di quello che aveva fatto. 
E singhiozzò ancora, seduto su una sediolina di plastica colorata, asciugandosi gli ultimi residui di lacrime con i polsi. 
Smise solo quando Hajime gli infilò nel naso un batuffolo di cotone per fermare l’emorragia, senza troppe cerimonie e con poca grazia – del resto, non era mica colpa sua se quel cretino sapeva solo lagnarsi. 
«Adesso la smetti di piangere?» gli disse, usando un tono brusco, rude
La maestra era già pronta a rimproverarlo di nuovo per il suo atteggiamento, tuttavia non fu necessario. Oikawa stava fissando il suo coetaneo con gli occhi spalancati, e non si seppe mai per quale motivo, ma smise di piangere in quell’esatto momento. 



Quando le mamme vennero a prenderli, le maestre spiegarono l’inconveniente, eppure non ci furono problemi di sorta: le due donne erano amiche, o meglio, chiacchieravano spesso mentre aspettavano che i bambini venissero congedati, e quello gli aveva permesso di scoprire che avevano partorito nello stesso ospedale a distanza di un mese. 
Presero la cosa con filosofia, e la madre di Hajime riprese il figlio con una dolcezza che riusciva comunque a smuovere il bambino, facendogli provare qualcosa di caldo all’altezza del petto e simile al senso di colpa; non per quanto successo, ma per paura di aver fatto intristire la mamma.
Si scusarono entrambi con un inchino, Tooru che non riusciva a togliere gli occhi di dosso a Iwaizumi, incuriosito.
«Ci vediamo domani, Iwa-chan!» esclamò, quando quest’ultimo e sua madre si stavano già incamminando verso casa. Ottenne solo un cenno con la mano forzato dalla stessa signora Iwaizumi, ma questo non gli impedì di sorridere ugualmente. 



Purtroppo, il giorno dopo, Iwaizumi Hajime non venne. E non venne neanche nei giorni avvenire. 
La possibilità di diventare suo amico, per Oikawa, era sfumata via col vento.



Si dice che nella vita, non importa in cosa tu credi, ci saranno sempre delle persone che decideranno di restare al tuo fianco e delle persone che, invece, decideranno di andarsene; o che saranno costrette ad andarsene. 
Oikawa e Iwaizumi erano cresciuti, e avevano entrambi la loro personalissima idea su come girasse il mondo. 
Se è vero come si dice che noi siamo i giocattoli del destino, allora il destino aveva giocato con loro due. Perché aveva deviato il percorso, perché aveva ricongiunto persone che si erano allontanate. 
E allora, in questi casi, è giusto dire che alcune persone sembrano essere destinate per stare assieme.







Delucidazioni:
*entra piano piano da una porticina*
Salve a tutti! Vi starete chiedendo che cosa sia esattamente questa cosa… E’ la mia prima Long. Quindi siate clementi.
No, a parte lo scherzo, è una cosuccia insulsa su cui lavoro da un po’ di tempo. In realtà, ho cominciato scrivendo dei semplici dialoghi, finché la mia beta non ha pubblicato questa storia qui, e mi è venuto il lampo di genio. E sì, lo so che per adesso non ha a che vedere con quello che c’è scritto qui, ma pazientate e vedrete.
Quindi niente, è una storia che sfocia nell’angst (fin troppo) e nel fluff, e sono arrivata ad un punto di non ritorno, mi faccio schifo da sola :’)
Commenti sempre aperti, fatemi sapere se ho catturato la vostra attenzione! <3 
Uh, ultima cosa, penso che tutti voi sappiate in cosa consista più o meno la leggenda giapponese sul filo rosso; se non è così, ecco a voi la pagina Wikipedia, vi darà qualche informazione generale.
Che dire, hasta la vista, e ci si vede alla prossima ;)
_Lady di inchiostro_


P.S: psss! Se volete qualche aggiornamento in più, sono anche su Twitter… *vola via* 

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Capitolo 2
*** I ***


I
~
 



[23 settembre 2016]






La sveglia trillò all’improvviso, e il suo rumore riempì la stanza per diversi minuti, mentre la figura stesa a letto si rigirava tra le coperte, la testa sotto il cuscino, nella speranza di riuscire a scacciare quel suono e di poter tornare a dormire un altro po’. 
Alla fine si arrese, fissando il tetto bianco sporco, la sveglia adesso spenta. Si chiese perché diavolo l’avesse impostata per quell’orario, dato che oggi avrebbe lavorato direttamente da casa, ma oramai il danno era fatto e, trascinando i piedi, si recò in cucina. 
Tirò fuori l’occorrente per prepararsi un buon caffè, accendendo la televisione per vedere quali notizie c’erano mentre aspettava che l’acqua bollisse. Al notiziario del mattino mandarono solo qualche servizio sporadico sul traffico, titoli in borsa, e qualche omicidio avvenuto nel cuore della notte. 
Tornò in stanza, la tazza verde menta adesso colma di caffè, e afferrò il cellulare per vedere se era arrivato qualche messaggio importante.
Rischiò quasi di versare il liquido marroncino, accorgendosi di una chiamata senza risposta effettuata dal suo capo, che si affrettò a richiamare subito. 
«Iwaizumi-kun?»  Una voce calda ma austera gli arrivò dritta all’orecchio, tradendo una nota d’irritazione, probabilmente dovuta al fatto che il ragazzo l’aveva richiamato dopo quasi un’ora. 
«Salve Oohashi-sensei!» disse, cercando di evitare di sbuffare, alzando comunque gli occhi al cielo. «Desiderava qualcosa?»
«Potresti passare in ufficio?» Per quanto potesse sembrare una richiesta, non lo era per niente. «Devo parlarti di una cosa.»
Il ragazzo strinse gli occhi stanchi, le dita a tenere il ponte del naso e il cellulare tra l’orecchio e la spalla. Stavolta, gli sfuggì un sospiro rassegnato, e per il momento non gli importava che il suo capo se ne fosse accorto. «Sto arrivando.»





Iwaizumi Hajime lavorava come giornalista per una rivista sportiva nata da un paio di anni – anche se prima era stato relegato nella sezione stampa. La Supootsu, per quanto non potesse competere con altre riviste di maggior successo, in quegli ultimi anni aveva riscontrato una certa fama e, nonostante tutto, continuava a tirare avanti. 
Dopo aver abbandonato l’università, l’unica occupazione che Hajime era riuscito a trovare, era stata quella di addetto alla stampa, e per un anno dovette accontentarsi di uno stipendio misero, prima di riuscire a spedire qualcosa al capo redattore; alla fine, resosi conto di avere tra le mani un ragazzo che ci sapeva fare, l’aveva preso con sé e sotto la direzione del suo team. 
Oohashi-sensei non era una persona cattiva, era solo un tipo molto pretenzioso e scrupoloso, ma non c’era da stupirsi visto che aveva lavorato per anni per il Tokyo Journal e che temeva sempre di vedersi sfumare davanti tutta la sua carriera e la sua redazione. 
Quella mattina il sole era tiepido e l’aria pregna di umidità. Hajime provò un certo sollievo quando entrò nella hall, trovandosi la graziosa segretaria ad accoglierlo, una signora di circa cinquant’anni e che in quegli anni gli aveva sempre portato caffè e ciambelle per colazione.
«Te ne tengo una da parte!» gli disse, facendogli poi segno di sbrigarsi, e Hajime le rivolse solo un sorriso di cortesia, veloce, prima che le porte dell’ascensore si chiudessero. 
Raggiunto il nono piano, trovò i suoi colleghi seduti alla scrivania, chini sui loro appunti, oppure intenti a fissare lo schermo del loro computer. Solo alcuni alzarono il capo per rivolgergli un saluto, che Hajime ricambiò in tutta fretta. Buttò un’occhiata alla sua scrivania, trovandola ovviamente vuota, come anche quella di fronte. Tomoko-san non era venuta quella mattina.
Era l’unica tra i suoi colleghi con cui Hajime avesse un minimo di confidenza. L’aveva conosciuta durante uno dei suoi primi giorni di lavoro, e ricordava di averla sentita litigare di brutto con uno degli altri addetti. Non ricordava bene per che cosa, né chi fosse quell’idiota, ricordava solo di essersi immischiato nella faccenda e di averla difesa. Da allora, veniva spesso a trovarlo sul posto di lavoro ed era solo grazie a lei se adesso aveva raggiunto quella posizione, altrimenti starebbe ancora tra le fogne a sentir macinare le stampanti. L’unica cosa buona di quel posto era l’odore della carta e dell’inchiostro. 
«Iwaizumi!» Voltò la testa, trovando il suo capo sulla soglia del suo ufficio, facendogli cenno di avvicinarsi. 
«Buongiorno Oohashi-sensei» disse, dopo averlo raggiunto e chiudendo la porta. Accolse l’invito del suo capo ad accomodarsi. 
La barba e i capelli erano bianchissimi, il viso tondo, ed era smilzo come un giunco. Si protrasse in avanti, i gomiti sulla scrivania, fissandolo con quegli occhi cerulei e taglienti.
«Andrò dritto al sodo, so che ti avevo dato il permesso di lavorare a casa in questi giorni. Ma mi serve il tuo aiuto…» s’interruppe un attimo. «Anzi, serve a Tomoko.»
Hajime spalancò appena gli occhi verdi, rimanendo comunque serio. 
«Domani aveva un’intervista in programma…» continuò. «Purtroppo, ha avuto un contrattempo… Ti ha accennato al concorso fotografico?»
Gliene aveva parlato qualche mese prima, quando entrambi si erano dedicati anima e corpo agli articoli sulle Olimpiadi, su come sarebbe andata questa stagione per i campioni giapponesi. Uno dei motivi per cui avevano iniziato a parlare era proprio il fatto che entrambi condividevano l’amore per la fotografia. Hajime aveva sentito parlare di questo concorso, ma aveva deciso di non partecipare perché preferiva fare un buon lavoro in vista di un periodo così intenso com’era quello delle Olimpiadi. 
Non pensava si tenesse adesso, credeva che l’estrazione del vincitore sarebbe stata la prossima settimana. 
«Mi ha assicurato che farà di tutto per arrivare in tempo, ma nel caso non fosse così…»
«Aspetti un attimo, ma l’intervista non si può rimandare?» chiese. 
«Purtroppo, la persona in questione è piuttosto esigente, e domani è il suo unico giorno disponibile…»
Iwaizumi storse il naso. Certo, domani era sabato, tutti erano disponibili per quel giorno, ma magari la gente avrebbe preferito riposarsi invece di lavorare solo perché  lei o lui doveva farsi i propri comodi. Si lasciò sfuggire un grugnito, e Oohashi-san alzò le sue folte sopracciglia verso l’alto, costringendo Hajime ad abbassare la testa, come a chiedere scusa. 
«Questa intervista è molto importante per noi» gli spiegò. «Sono quasi certo che le vendite schizzeranno alle stelle, come non si è mai visto! Non possiamo assolutamente rinunciare!»
«Posso sapere di chi si tratta?»
L’uomo si grattò la nuca, visibilmente a disagio. Conosceva Hajime da circa tre anni per sapere che tipo di persona fosse: era un giornalista eccellente, e a volte si trovava a pensare che un talento del genere fosse sprecato all’interno della sua agenzia; ma era anche una persona difficile con cui trattare, e sapeva che a seconda della persona che avrebbe dovuto intervistare, probabilmente avrebbe rifiutato. Come in quel caso.
«Oikawa Tooru.»
Come aveva giustamente previsto l’anziano uomo, Hajime si alzò in piedi, posizionandosi poi dietro la sedia. «No. No, no, no. Mi spiace, se lo può sognare!» Non gli piaceva parlare così con il suo capo, tuttavia non c’era altro modo per esprimere il suo disappunto. 
«Iwaizumi, ti rendi conto che l’alzatore titolare della Nazionale ci ha concesso un’intervista? Non ci capiterà più un’occasione del genere!»
«Questo lo capisco, ma conosco abbastanza sul conto di quel tipo per sapere che, possibilmente, lo investirei con la mia macchina!»
Non l’avrebbe fatto veramente – ci mancava solo una condanna all’ergastolo –, ma quasi sicuramente lo pensava.
Il signor Oohashi si passò una mano sul viso, esasperato. «Ti darò un aumento, se è necessario!» si affrettò a dire. 
«Non ho bisogno del suo aumento, grazie!»
«Ne sei sicuro? Devo dedurre che il pagamento degli alimenti vada bene?»
Hajime sgranò lo sguardo, masticando un’imprecazione, mentre Oohashi-sensei mostrava i denti, leggermente ingialliti per via della nicotina e dei sigari che continuava a fumare nonostante avesse oramai una certa età. Quell’uomo conosceva benissimo la sua vita privata per sapere che, in ogni caso, quei soldi gli servivano, e il suo stipendio gli serviva a stento per mantenere se stesso. L’idea che potesse usare la scusa dell’aumento per corromperlo, mandava Hajime in bestia, come quel sorriso di chi sapeva di avere appena fatto centro. 
«Hajime-kun, – cominciò, cercando di essere il più diplomatico possibile – se non vuoi farlo per me, fallo almeno per Tomoko. So che siete molto amici, e lei teneva veramente a questa intervista.»
Il giovane strinse lo schienale della sedia, prima di lasciarlo andare. Quell’uomo ci sapeva davvero fare con le parole, e dai libri sull’uso dell’arte oratoria che teneva nel suo ufficio, era facile intuire che avesse studiato abbastanza da sapere quali punti sensibili toccare per incantare le folle.
Assottigliò lo sguardo, prendendo poi un respiro profondo. Gli passarono davanti le immagini dell’alzatore della squadra di pallavolo, che sorrideva gioviale alle telecamere, e già sapeva che si sarebbe pentito della sua decisione. 
«Lo faccio solo per Tomoko-san.» 
L’uomo sorrise, prendendo un sigaro e piazzandoselo tra i canini. «Avrai comunque il tuo aumento. Grazie Hajime!»
Il ragazzo fece un lieve inchino, lasciando poi l’ufficio, mentre l’altro si recava in balcone per concedersi il gusto dolceamaro di un buon sigaro.




 
~


 
[24 settembre 2016]





Non appena era uscito dall’ufficio, Hajime aveva chiamato al telefono Tomoko per avere qualche informazione in più su come dovesse svolgersi l’intervista, oltre per sapere come stesse. 
La ragazza fu felice di sentirlo, e si era scusata un centinaio di volte per l’inconveniente, promettendogli che avrebbe fatto di tutto per farsi perdonare. Gli aveva detto che l’intervista si sarebbe svolta in un bar nei pressi dell’ufficio, piccolo e non troppo affollato, così che Oikawa potesse sentirsi a proprio agio e non avesse altri giornalisti o – peggio ancora – qualche fan a infastidirli. L’appuntamento era per le nove. 
Tomoko gli aveva mandato tutti i suoi appunti e la lista delle domande la sera stessa, via email, dopo avergli annunciato tutta entusiasta che la sua foto era arrivata terza, e Hajime non poté che farle i complimenti. 
Sbuffò rumorosamente, gli occhi che saettavano dai fogli che aveva davanti, all’entrata, all’orologio a forma di gatto appeso al muro; quel tipo era già in ritardo di quindici minuti, e Hajime aveva il brutto presentimento che non si sarebbe presentato e che in realtà avesse solo preso in giro tutti. 
No, quel tipo non gli piaceva per niente. Lo trovava irritante.
L’unica nota positiva della sconfitta della squadra, era che non avrebbe più dovuto sentirlo parlare in televisione, o almeno non troppo spesso.
Bevve un altro sorso di caffè, il campanello appeso alla porta del locale che tintinnò. Lo sguardo attento del giornalista si spostò sulla figura che aveva appena fatto la sua comparsa nel locale: indossava un cardigan blu e dei semplicissimi jeans, il cappotto scuro adesso nelle mani della cameriera minuta che si trovava all’entrata. Strofinò le mani per riscaldarle, mentre faceva vagare lo sguardo da un tavolo all’altro, come alla ricerca di qualcuno. 
Per un attimo, Hajime non lo riconobbe – forse erano gli occhiali che stava indossando a tradirlo –, ma poi si disse che quei capelli assurdi e sempre fuori posto li aveva già visti da qualche parte. 
Si alzò in piedi, cercando di essere il più delicato possibile; la sedia strisciò comunque contro il pavimento, e il ragazzo ruotò la testa di lato, dritta nella sua direzione. Sbatté un attimo le palpebre, rimanendo imbambolato, mentre Hajime lo fissava come se aspettasse che si avvicinasse. 
«Sei tu il collega che deve sostituire Tomoko-chan?» chiese, e Hajime si sentì squadrato dalla testa ai piedi, con superiorità, come se lui fosse solo un insettino fastidioso. Inoltre, chi diavolo gli aveva dato il permesso di usare quel suffisso? Era stata Tomoko stessa?
Male. Molto male. Hajime voleva già versargli il caffè rimasto in testa.
Cercò di utilizzare tutto l’autocontrollo possibile. «Sì, sono Iwaizumi Hajime, piacere!»
Se fosse stato possibile, il ragazzo rimase più imbambolato di prima, osservandolo come se ci avesse appena visto qualcosa di anomalo in lui, gli occhi che si assottigliarono all’improvviso. Non aveva idea se quel tipo lo stesse facendo seriamente di proposito e aspettasse soltanto di ricevere un pugno sul naso per poterlo denunciare; di certo non stava guadagnando punti. 
«Tutto bene?» chiese, cercando di essere il più educato possibile, e il ragazzo parve riscuotersi improvvisamente, come se fosse stato sotto l’effetto di un qualche incantesimo. 
«Sì, scusami!» disse, sorridendo, e anche così Hajime continuò a trovarlo insopportabile.
«Bene, allora cominciamo?» Si sedette e aspettò che anche l’altro facesse lo stesso. «Vuoi ordinare qualcosa?» chiese poi, più per cortesia che per altro. 
«Un caffè macchiato è più che sufficiente, grazie!» trillò, e Hajime si trattenne dal produrre un verso infastidito mentre chiamava la cameriera. 





Era già passata un’ora, e l’istinto omicida di Hajime sembrava essersi placato, anche se in alcuni momenti aveva raggiunto vette altissime, soprattutto dopo che una delle cameriere l’aveva riconosciuto e Oikawa ne aveva approfittato per togliersi gli occhiali con fare affabile e filtrare con lei. 
Non era credente, tanto meno cattolico, ma conosceva abbastanza della cultura occidentale grazie a Tomoko per sapere che, in questi casi, bisognava pregare tutti i santi possibili. Ecco, probabilmente Iwaizumi l’aveva fatto inconsciamente, anche se l’unico nome che conosceva era quello della madre della sua collega. 
Tutto sommato, non era andata male, e anche se per lui le informazioni ricavate sarebbero bastate a riempiere almeno quattro pagine della rivista, Tomoko aveva pensato davvero a tutto, e c’era come minimo un’altra colonna di domande da poter porre. 
Cercò quella che poteva essere più interessante, mentre l’alzatore lo fissava, le mani giunte e il mento sopra le dita, un sorriso a incorniciargli il viso; e se Hajime prima avrebbe voluto strapparglielo dalla faccia, adesso ci aveva fatto l’abitudine.
«Dunque…» cominciò, per essere poi interrotto subito dopo.
«Vieni dalla prefettura di Miyagi, per caso?»
Alzò un sopracciglio, leggermente irritato. Che cosa c’entrava lui?
«Sono io che dovrei fare le domande…»
Oikawa rise di gusto. «Scusami, hai ragione, e solo che… io credo di conoscerti, sai?»
Hajime era leggermente scettico su questo. Se avesse davvero conosciuto un tipo del genere, probabilmente non se lo sarebbe mai dimenticato in tutta la sua vita. 
«Andavi al Sendaishi Aoyama Nursery quando eri piccolo?»
Ah.
Poteva effettivamente essere che non si ricordasse di quella faccia da schiaffi. Quegli anni della sua vita li aveva cancellati completamente. 
Avrebbe voluto rispondergli che non erano affari suoi, ma a quel punto non sapeva come avrebbe reagito il ragazzo, e non voleva che Tomoko-san ci andasse di mezzo. Gli aveva mandato un messaggio e stava per arrivare, quindi quella tortura sarebbe finita tra un po’. Tanto valeva dargli corda. 
«Sì...?» disse, non ancora sicuro su cosa volesse andare a parare.
Il ragazzo sorrise, e stavolta era sincero, luminoso, e Hajime non credeva che ne fosse seriamente capace, pareva che quell’espressione da donnaiolo fosse l’unica che riuscisse a produrre. «Allora ci avevo visto giusto! Non ti ricordi proprio di me?»
Il giornalista strinse gli occhi, mentre il ragazzo si sporgeva in avanti per permettergli di osservarlo meglio – non che ci fosse chissà quanta vicinanza, visto che Hajime era indietreggiato.
Non riusciva a vedere altro se non la faccia dell’alzatore della squadra di pallavolo, la sua espressione ripresa in primo piano quando era sul campo, il suo sorriso quando si stringeva la sua ragazza addosso. E no, quella faccia non gli aveva mai detto nulla, gli provocava solo un senso di fastidio, come un’ortica sulla pelle. 
«Ti do un indizio» disse allora il setter, continuando a sorridere. «Mi hai tirato la palla in faccia, una volta, e mi hai fatto sanguinare il naso…»
E a quel punto l’immagine di un ragazzino della sua età, i capelli castani scompigliati, il viso rosso e bagnato dalle lacrime, gli apparve davanti. Come anche l’immagine di lui che gli infilava dentro il naso sanguinante un batuffolo di cotone. 
I suoi occhi si spalancarono, tornando a ricomporsi subito dopo, visto che Oikawa lo osservava speranzoso.
«Oh» disse, senza mostrare particolare interesse, quando in realtà non poteva che essere sorpreso quanto l’alzatore. «Eri tu?»
«Eh già!» disse, ridendo. «Sei stupito?»
«Più che altro mi stupisce che l’alzatore titolare della Nazionale fosse una totale schiappa da piccolo!» E che l’avesse fatto sanguinare, ma questo non poteva che essere un motivo di vittoria per Hajime. 
Il castano rise ancora, e Iwaizumi si sentì a disagio nell’avvertire quegli occhi che brillavano su di sé, che lo scrutavano in ogni minima parte, e si ritrovò curioso di scoprire perché diavolo lo osservasse così. 
Quel gioco di sguardi continuò per un po’, prima che il giornalista tornasse sui suoi fogli, e Oikawa ebbe solo il tempo di aprire la bocca per potergli porre un’altra domanda, quando…
«Hajime-kun!»
Tomoko raggiunse i due giovani in tutta fretta, la coda di cavallo mezza storta e la mantellina che indossava che quasi strascicava per terra. 
I capelli erano rosso Tiziano, ricci come quelli di sua madre, e aveva i tratti fini di una qualsiasi ragazza giapponese. Nessuno, neanche Hajime la prima volta che l’aveva conosciuta, avrebbe mai detto che per metà fosse italiana. Sua madre si era trasferita anni prima, e adesso lavorava come mangaka per una piccola rivista per ragazzi. Era per questo che Tomoko era tra le preferite di Oohashi-sensei – oltre al fatto che avesse proprio un debole per sua madre –, guadagnandosi di tanto in tanto l’astio dei colleghi. A lei, però, non importava granché. 
«Scusami per il ritardo!» Ne approfittò per abbracciare il collega, ora in piedi, che le fece subito i complimenti di persona, strappandole una risatina nervosa. Si rivolse poi alla persona seduta di fronte, visibilmente in imbarazzo. «Tu devi essere Oikawa Tooru, giusto? Molto lieta!»
«Madame, – e nel pronunciare quella parola in francese, le fece il baciamano, e Tomoko andò in fiamme – il piacere è tutto mio!»
Hajime alzò gli occhi al cielo, soprattutto perché conosceva bene la sua collega da sapere che era la prima volta che riceveva delle avance di questo tipo, e quel tipo l’aveva capito perfettamente. Si chiese come facesse la sua fidanzata a sopportarlo, probabilmente lui l’avrebbe picchiato fino a farlo sanguinare… peggio di quanto avesse fatto quando erano bambini.
La consapevolezza di quanto aveva appena scoperto lo investì in pieno, e sentì il necessario bisogno di levare le tende.
«Posso andare, o hai bisogno di me?»
La ragazza si voltò verso Hajime, la mano ancora tenuta da quella di Oikawa, rivolgendogli un lieve sorriso. «Certo, Hajime-kun, e grazie di tutto!»
Salutò entrambi, lei con la promessa che si sarebbero visti lunedì in ufficio, Oikawa con un cenno di cortesia, silenzioso e giusto per dire che gli aveva fatto piacere conoscerlo. O rivederlo, dipende dai punti di vista. 
Di certo, per il castano valeva la seconda ipotesi. Hajime, però, questo non poteva saperlo. Come non poteva vedere l’espressione velata di tristezza che Oikawa rivolse alla sua figura mentre si allontanava dal locale.





Quello che restava della sua infanzia, sua zia l’aveva conservato in una scatola. Avrebbe voluto lasciarla a casa della donna, ma quest’ultima aveva insistito perché lui se la portasse dietro; alla fine, gliela aveva portata lei, durante il trasloco.
Hajime l’aveva relegata in un angolo sopra l’armadio, e non credeva che l’avrebbe mai ripescata, pensava che sarebbe rimasta lì a fare la muffa. E, di fatti, quando la prese tra le mani la trovò ricoperta da un doppio strato di polvere, e una persona allergica probabilmente sarebbe morta all’istante.
La spolverò per bene prima di aprirla, trovandogli dentro cianfrusaglie varie, qualche giocattolo che era riuscito a salvarsi dalla spazzatura, e un album di fotografie.
Lo sfogliò il più velocemente possibile, anche se il solo aprirlo gli fece venire una stilettata al petto, trovando poi la pagina che gli interessava.
C’erano un paio di fotografie di lui da piccolo, il visino imbronciato ma gli occhi vispi per via dello scarabeo che aveva appena catturato, e alcune foto con suo padre, il retino in mano. Poi, eccola, l’unica foto che aveva conservato dei suoi compagni d’asilo: una foto di gruppo per cui le sue insegnanti avevano insistito parecchio, tutti con i grembiulini celesti, mentre le due donne indossavano un grembiule rosa e dai richiami floreali.
Osservò ad uno ad uno quei volti, non ricordandone neanche mezzo; non che avesse molta confidenza con gli altri bambini, del resto nella foto lui stava vicino ad una delle maestre, sempre con lo sguardo contrito. Alla fine lo trovò, in prima fila, stretto tra due ragazzine che probabilmente smaniavano per averlo più vicino, e nonostante questo Oikawa continuava a sorridere.
Ora aveva una visione più chiara di chi fosse quel ragazzino, e ricordò la sua vocina stridula che lo salutava dopo l’incidente della palla. Strinse l’album tra le mani, perché non aveva ricominciato a ricordare solo quello, ma anche che cosa successe quel giorno, e forse era per questo che il suo cervello aveva deciso deliberatamente di cestinare tutto.
La suoneria estremamente fastidiosa di Skype lo risvegliò dai suoi pensieri, avvertendolo che stava ricevendo una videochiamata. Si sbrigò a sistemare tutto, sedendosi poi davanti al suo portatile e accettando la videochiamata.
Per i primi secondi, vide solo un’immagine sfocata, come se un pittore impazzito avesse gettato dei colori sulla tela per sbaglio; poi, piano piano, i contorni si fecero più delineati, e la figura di una bambina di circa quattro anni apparve sul suo campo visivo. Era seduta su un lettino, le gambe incrociate, ma balzò subito non appena lo vide.
«Ciao papà!» esclamò, entusiasta, e Hajime non riuscì a resistere dal sorriderle, intenerito.
«Ciao Akane!» le rispose. «Come stai? Hai cenato?»
La bambina annuì vigorosamente. «Katsu-san ha comprato il sushi! Mamma non è ancora tornata! Tu papi?»
«Sì, certo, ho già cenato.» Stava mentendo, in realtà aveva lavorato tutto il giorno a un articolo che aveva in cantiere da mesi, e quando ebbe finito, erano già le nove di sera inoltrate. Era andato alla ricerca della scatola in attesa che sua figlia lo chiamasse, visto che quel tarlo non lo aveva abbandonato per tutto il pomeriggio. «Com’è stata la giornata?»
«Mi sono divertita un sacco! Abbiamo giocato a lanciarci la palla!» E la bambina continuava ad annuire e ridere, mentre il padre imbastiva la migliore espressione di sorpresa di cui fosse capace. «La maestra ha detto che sono molto brava! Tu giocavi a qualche gioco del genere, vero? Me l’ha detto una volta la mamma!»
«Sì, giocavo a pallavolo.»
«Quando sarò grande voglio provarci!»
Non sapeva quale stella ringraziare per avere la fortuna di poter parlare con sua figlia, sebbene lui e sua moglie non fossero più sposati; anzi, a dirla tutta, era una fortuna che sua figlia lo considerasse suo padre. Aveva solo tre anni quando lui e Minori, sua compagna per tutto il liceo e sua moglie per solo un anno, avevano deciso di lasciarsi. La donna, tuttavia, era una persona dal carattere mite, e non gli aveva mai vietato la possibilità di venirla a trovare, anche se le visite si facevano sempre più rare.
Ora che Akane era più grande, vedersi su Skype praticamente quasi tutti i giorni era una comodità a cui non potevano rinunciare.
Doveva essere sincero, forse doveva ringraziare proprio Minori per non avergli mai vietato nulla, neanche il privilegio di essere padre.
«Ma non avevi detto che quando eri grande volevi essere una violinista come la mamma?» Minori suonava nell’orchestra di Osaka da diversi anni, oramai, ed era conosciuta in quasi tutto il paese.
Akane parve rifletterci su. «Non posso fare entrambe le cose?»
«Se ci riesci, sì!» disse, ridendo, e la bambina non poté che ridere a sua volta, assolutamente convinta di potercela fare. 
Ci fu un attimo di silenzio, rotto dalla bambina, che – notò adesso Hajime – aveva i capelli raccolti in due treccine. «Quando ci vediamo, allora, giochiamo assieme?»
Non rispose subito, si concesse un attimo per guardare sua figlia, che gli assomigliava così tanto nell’aspetto, gli occhi verdi e i capelli nerissimi, mentre caratterialmente era lo specchio di sua madre, così gentile e pura che ad Hajime venne quasi il dubbio di essere veramente lui il padre di quella bambina.
C’era solo innocenza in quella semplicissima domanda, e il giornalista fece un sorriso forzato, perché per lui quella domanda era come un colpo allo stomaco, perché non sapeva quando l’avrebbe effettivamente rivista. 
«Certo!» le rispose, e fortunatamente la bambina non parve accorgersi del repentino cambio di umore del padre. 
«Tu che hai fatto oggi?» gli chiese poi.
Alzò le spalle. «Niente di che, ho intervistato un membro della squadra di pallavolo della Nazionale.»
La bambina si sporse in avanti, scattando e facendo quasi cadere il computer di lato. Ad Hajime venne un colpo. «Davvero? Quindi è uno famoso?»
«Sì…»
«Che bello, il mio papà ha intervistato un personaggio famoso!» urlò, battendo le mani. «Posso dirlo ai miei compagni, domani?»
Iwaizumi allargò il sorriso sul suo viso e annuì. Fu in quel momento che sentì lo scricchiolare di una porta che si apriva, e una voce che parlava a sua figlia.
Doveva essere Katsu. Hajime si chiese perché diavolo si spaventasse di lui. Okay, erano stati compagni al liceo, c’era stato un buon rapporto, niente di che, e adesso stava con la sua ex-moglie. Glielo aveva detto, non c’era nessun rimpianto, era una decisione che lui e Minori avevano preso insieme.
«Ciao Katsu!» lo chiamò, e sentì il giovane produrre un verso di stupore. Gli apparve davanti poco dopo, i capelli neri e corti, il viso puntellato di lentiggini, affiancato a quello della bambina. 
«Ciao Iwaizumi!» lo salutò, con una leggera titubanza. «Stavo giusto dicendo ad Akane che è ora di andare a letto, no?»
Fissò l’orologio del portatile, notando che erano già le dieci di sera. «Hai ragione. Akane, coraggio, a letto!»
La bambina mise il broncio per un po’, per poi alzare le spalle e mormorare un: «Va bene!», poco convinto. Meno male che era una bambina obbediente, tutto sommato.
«Buonanotte, papi!» disse, salutandolo con la manina che sventolava, e Hajime ricambiò, mentre Katsu-san cercava di chiudere la chiamata senza sembrare troppo invadente. 
In pochi secondi, Hajime si ritrovò di nuovo solo, la casa completamente in silenzio, se non fosse per l’orologio a muro che ticchettava. Si alzò in piedi, stiracchiandosi, indeciso se andare a letto presto o rileggere l’articolo un’altra volta. 
Ad attirare la sua attenzione, però, fu la scatola posata sulla sedia, l’album lasciato in bilico là sopra. Lo riaprì, proprio alla pagina di prima, trovandovi il faccino paffuto di Oikawa Tooru che lo fissava, sorridente.
Ora che ci pensava, lo aveva lasciato con un’espressione da pesce lesso per ben due volte e a distanza di anni. Fece un mezzo sorriso, richiudendo poi il raccoglitore e posandolo dentro la scatola.
Qualunque cosa volesse il setter non l’avrebbe saputo mai. E poi, probabilmente si era già dimenticato di lui.
Come doveva fare lo stesso Hajime, mentre rimetteva la scatola al suo posto. Non avrebbe fatto riaffiorare ancora una volta il suo passato.
Purtroppo, però, Hajime si sbagliava di grosso.





 
[I’m feeling better since you know me
I was a lonely soul but that’s the old me
A little wiser now but you show me
Yeah, I feel again]




 
Delucidazioni:
E sono tornata ad aggiornare, yay! ^^
Spero che si sia capito, ma Oikawa e Iwa-chan si sono conosciuti quando erano piccoli, ma non sono mai diventati amici; dunque, l’intera storia girerà attorno a questo punto, e non solo… #youknowhatImean

Qualche spiegazione random:
-Supootsu è la traduzione di “sport” in giapponese, fantasia portami via!
-Il Tokyo Journal esiste davvero.
-Oohashi-sensei è tipo un Pericle mancato; io non sono responsabile di questo, la colpa è tutta della Storia Greca che ho studiato per un esame.
-Il Sendaishi Aoyama esiste davvero, è un nome di un asilo che ho cercato personalmente :’)
-Sì, Tomoko è per metà italiana, e il personaggio della madre è stato costruito sulle fattezze di mia sorella; nei prossimi capitoli avrà maggiore spazio, ve l’assicuro. Il significato del nome della ragazza, invece, è il seguente: “Bambina amichevole” o “Bambina saggia”. Spiegherò meglio il significato di questo nome verso la fine della storia, trololol!
-Hajime ha avuto un passato turbolento, ma non vi dirò mai perché. Se volete saperlo, leggete *le danno fuoco* Comunque, Akane è una bambina preziosissima e io la amo tanto! *nasconde la lacrime* Il significato del suo nome è il seguente: “Rosso brillante”. E niente, basta il titolo a spiegarlo xD
-Minori invece significa: “Verità”, e anche qui la spiegazione del nome avverrà dopo; Katsu: “Vittoria”. Perché questo nome? Uhm… forse perché ha fregato la moglie ad Iwa-chan e quindi ha vinto su di lui? *la lanciano in aria*

Che dire, questo era tutto quello che dovevo dire. Oh, lo spezzone alla fine prende spunto dalla canzone dei OneRepublic, Feel Again <3
Ringrazio chiunque sia disposto a farmi sapere cosa ne pensa della storia, della caratterizzazione dei personaggi, o anche chi solo legga questa cosuccia insulsa :’)
E un grazie speciale va alla mia beta e waifu LysL_97, che sta amando sta storia pur non conoscendo il fandom! *piange porporina*
Al prossimo aggiornamento, allora! ;)
_Lady di inchiostro_
 

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Capitolo 3
*** II ***


II
~


 
[8 ottobre 2016]





Iwaizumi si era svegliato un po’ più tardi del solito, gli occhi ancora impastati di sonno, il soffitto bianco sporco che lo accoglieva ogni mattina davanti a sé. Sbatté le palpebre un paio di volte, prima di controllare che razza di ore fossero – e no, questa volta la sveglia non l’avrebbe quasi mandato con la faccia per terra nel tentativo di spegnerla. Erano solo le dieci, e aveva tutto il tempo per potersi preparare e uscire. Tanto, ne era quasi certo, nel posto in cui sarebbe andato non ci sarebbe stata tanta confusione. 
Prese il cellulare tra le mani, il cavo dell’alimentatore ancora attaccato, notando che aveva ricevuto qualche messaggio su Line da parte di Tomoko-san, che lo mandava gentilmente a quel paese per non essere passato in ufficio neanche quella volta. Hajime fece una mezza risata, prima di risponderle, continuando a prenderla in giro. 
Riuscire ad ottenere un permesso del genere da parte di Oohashi-sensei, contando che tutti quanti stavano lavorando per la copia che sarebbe uscita a breve, era una vera e propria rarità. Ma non era solo Tomoko quella ad essere prediletta all’interno dell’ufficio, e questo era uno dei motivi per cui si trovasse bene solo con lei; oltre al fatto che, in un modo o nell’altro, si ritrovassero invischiati nei favori e favoretti che dovevano svolgere per il loro capo, come a ripagarli per essersi presi un permesso di troppo. E questo implicava l’intervista ad Oikawa Tooru.
Dato che aveva finito il suo articolo prima del previsto, aveva chiesto se potesse lavorare a quello del mese prossimo direttamente da casa, almeno per quel sabato. L’uomo, per telefono, gli era sembrato molto combattuto, c’erano ancora un paio di cose che dovevano essere riviste prima della stampa ufficiale, ma alla fine aveva ceduto. In quel momento, disteso comodamente a letto, ad Hajime non venne in mente niente che potesse essere peggiore di quella stramaledettissima intervista, perciò qualsiasi favore Oohashi-sensei gli avrebbe chiesto, l’avrebbe svolto senza troppe lamentele – non che si lamentasse, di solito. 
Si alzò, recandosi in cucina e cercando l’occorrente per poter fare una buona colazione, una volta tanto. Non trovò nulla di speciale, solo un pacco di biscotti aperto da chissà quanto tempo, ma decise lo stesso di accontentarsi. La televisione era già accesa, e sentiva alle sue spalle il telecronista annunciare un servizio dopo l’altro, mentre aspettava il fischio tipico della caffettiera. 
Qualche minuto dopo, si sedette sul divano, e in televisione un simpatico meteorologo stava annunciando le previsioni del tempo. Hajime cambiò canale con una smorfia, saltando da una stazione all’altra, finché non trovò qualcosa che catturò la sua attenzione. Era la replica di un’intervista avvenuta qualche mese prima dell’inizio delle Olimpiadi, e uno dei canali sportivi che seguiva maggiormente la stava giusto rimandando in onda, come quelle di tanti altri atleti. Solo che Hajime questo non poteva saperlo, perché si ritrovò davanti a quella fatta proprio ad Oikawa. Ricordava bene quell’intervista, il ragazzo aveva annunciato, con una punta di sfacciataggine, che avrebbero vinto l’oro, e glielo aveva anche ripetuto qualche settimana prima a lui, sostenendo che avrebbero avuto una vittoria facile proprio in casa. 
Iwaizumi era un poco scettico su questo: non che la squadra non fosse forte, ma c’erano alcuni anelli deboli che a suo avviso dovevano essere saldati.
Bevve un sorso di caffè, continuando a tenere gli occhi fissi verso Oikawa, il classico sorriso finto sul viso, e Hajime non poté fare a meno di sovrapporlo a quello sincero che aveva visto illuminargli il viso, chiedendosi se fosse esattamente la stessa persona che adesso ammiccava verso la telecamera. Si chiese come mai proprio lui, sì lui, fosse riuscito a causare un tale felicità a quel setter che, secondo la modesta opinione del giornalista, non faceva che coprirsi di ridicolo con quei suoi atteggiamenti da sciupafemmine, ma alla fine il pubblico lo adorava anche per questo.
Scosse la testa, spegnendo il televisore e concludendo la sua colazione in pochi minuti.
Non avrebbe mai ottenuto una risposta. O almeno, questo era quello che pensava.





Iwaizumi non era nuovo alle bugie. Non che le dicesse per male, o perché fosse una persona cattiva, semplicemente voleva evitare di arrecare danno a qualcuno, compreso se stesso. Era solo un modo facile e veloce per evitare di dire la verità.
In questo caso, dire a Oohashi-sensei che il permesso era per poter scrivere in pace l’articolo, piuttosto che dirgli che gli serviva per poter assistere ad una mostra fotografica, serviva a salvare se stesso da una possibile lavata di capo e dal licenziamento. 
L’unica a sapere del suo segreto era Tomoko, che aveva già assistito alla mostra qualche tempo prima. Se non fosse stato per lei, probabilmente non l’avrebbe mai saputo; e se si fosse documentato meglio prima, ora non sarebbe arrivato con l’acqua alla gola, costretto a mentire al suo capo per una sciocchezza simile.
In un’altra occasione, Hajime avrebbe rinunciato: non era da lui fare queste cose, dopotutto. Ma qui si parlava di una mostra che racchiudeva tutte le migliori fotografie rappresentanti i paesaggi della Bolivia. Aveva sempre avuto il desiderio di visitare quei posti, fin da quando, da adolescente, non aveva trovato un libro con una serie di fotografie sul Salar de Uyuni; da allora, si era ripromesso che avrebbe scattato qualche fotografia di persona, un giorno.  
Era solo un ragazzino appena entrato nel mondo del liceo, ma la passione per la fotografia era rimasta, come anche il suo amore per la Bolivia. No, questa volta non poteva rinunciare. 
Il cielo era plumbeo e l’aria frizzante, un classico paesaggio autunnale, e Hajime si ritrovò a stringersi nel suo impermeabile verde per cercare un po’ di calore. Aveva deciso di lasciare la macchina a casa e prendere la metropolitana, alla fine non gli faceva male fare due passi. Non si aspettava di trovare questa temperatura, però, e quando arrivò nel luogo prestabilito sentì i muscoli che si rilassarono al contatto con l’aria riscaldata.
Come aveva giustamente previsto, non c’era troppa folla, sia perché si trattava dell’ultimo giorno, sia perché non tutti erano interessati a mostre di quel tipo. 
Cominciò subito a guardarsi attorno, esaltatissimo – anche se non lo dava a vedere –, studiando ogni foto minuziosamente, scovando quel dettaglio che magari altri non avevano trovato.
Sorrideva mentre analizzava i paesaggi, un sorriso limpido, di chi si trovava a proprio agio in quell’ambiente, di chi non era in una semplice galleria d’arte ma era immerso totalmente nelle fotografie, nelle stradine caratteristiche, nel deserto di sale, nella volta celeste. Stava ancora fissando con intensità una foto scattata alle cunette di sale, quando captò una voce alla sua destra, stridula e fastidiosa come un ronzio. 
«Iwaizumi!»
Il giornalista girò la testa lentamente, con l’intento di freddare con lo sguardo chiunque l’avesse appena fatto deconcentrare, trovandosi davanti l’ultima persona sulla faccia della terra che avrebbe voluto incontrare.
Oikawa Tooru lo fissava dalle lenti di quegli stessi occhiali che, aveva scoperto Hajime, altro non erano se non il suo travestimento; indossava un giubbotto blu scuro come il cardigan dell’altra volta e un paio di pantaloni marrone chiaro. Teneva la testa inclinata di lato e gli sorrideva, sotto lo sguardo atterrito dell’altro.
«Sorpreso di vedermi?» rise. 
Sì, molto sorpreso di vederti.
Hajime pregò che gli venisse in mente qualcosa per potersene uscire in tutta fretta. Deglutì, tanto per cominciare, cercando di ricomporsi. 
«Devo essere onesto? Sì» gli rispose. «Non ti facevo un appassionato di fotografia..» aggiunse poi, in un flebile sussurro. 
«Oh, mi piace scattare qualche foto, ma non sono un esperto!» disse, tornando a fissare una foto che rappresentava le montagne illuminate dalle luci notturne, con la funivia che si stagliava all’orizzonte. «Sono venuto solo perché si trattava della Bolivia. Sai, desidero andarci da quando ero solo un ragazzino…»
Qualcosa si smosse dentro Hajime, una sensazione calda che non provava da anni, oramai, e che era riaffiorata solo nel sentir parlare Tooru, nel vederlo con un’espressione genuina, sincera, pura, mentre osservava le fotografie. Qualcosa si smosse dentro Hajime, perché non era possibile che un individuo del genere avesse il suo stesso medesimo desiderio, e la cosa lo fece innervosire ulteriormente, più di sentire quel calore dritto al petto e che voleva scacciare via a tutti i costi.
«Okay» disse, non badando più alle fotografie, tornando finalmente con i piedi nel presente. «Alla prossima allora!»
Si recò a passo di marcia verso l’uscita, lasciando Tooru leggermente spiazzato, e cercò di far finta di non sentire i suoi continui richiami. Adesso, l’aria frizzante dell’esterno era diventata più piacevole, e Hajime si affrettò a compiere a ritroso la stanza che aveva percorso neanche un’ora prima. 
Non era al sicuro, però, per niente. Venne strattonato all’indietro per il braccio, trovandosi davanti Oikawa con il fiato corto e che, avendo realizzato di essere riuscito a raggiungerlo, sorrise poco dopo. Non c’era da stupirsi, quel ragazzo correva praticamente tutte le mattine. 
Hajime riuscì a liberarsi dalla presa. «Si può sapere che vuoi?» disse, brusco. 
«Non è questo il modo di rivolgersi a una persona, lo sai?»
«Me ne fotto delle tue maniere!»
«Modera il linguaggio!» continuò a canzonarlo l’altro, e Hajime era quasi sul punto di saltargli addosso e pestarlo a sangue. «Volevo solo invitarti a pranzo.»
Iwaizumi non credeva di aver sentito bene. «Invitarmi a pranzo?»
«Sì, hai da fare?» chiese, alzando le spalle.
Questo era il punto in cui Hajime avrebbe dovuto rifiutare, ringraziare forse, e andarsene. C’era qualcosa, tuttavia, che lo trattenne ancorato lì: la consapevolezza che Oikawa Tooru volesse qualcosa da lui, anche se non aveva ancora ben chiaro che cosa. 
«Posso sapere perché?»
L’altro alzò ancora una volta le spalle. «Per ringraziarti del caffè dell’altra volta?» Vedendo il sopracciglio alzato del giornalista, si affrettò ad aggiungere: «E perché mi piacerebbe conoscerti, dico sul serio! Visto che non abbiamo potuto farlo prima!»
Era questo quello che voleva? Conoscerlo, magari diventare per giunta suo amico? 
Forse Oikawa non aveva ben capito che tipo di persona fosse lui, di certo non il classico amicone e animale da festa di turno; non era di certo una persona che avrebbe potuto fare amicizia con uno come lui anche volendolo, erano di due mondi totalmente diversi, come due galassie lontani anni luce. 
E poi, aveva promesso a se stesso che il passato sarebbe rimasto nel passato. Punto. Non sarebbe più tornato a fargli visita. 
«Ascolta…» Stava già per troncare quella mezza chiacchierata lì, quando Tooru lo interruppe di nuovo. 
«Conosci Seb’s? E’ un ristorante italiano che hanno aperto da poco, ti va di venire?»
Certo che Hajime conosceva quel ristorante, Tomoko non aveva fatto altro che ripetergli che i proprietari erano delle persone gentilissime e che, lì, il cibo richiamava veramente quello italiano, a detta di sua madre. Forse era anche per questo che si faceva pagare, e Hajime sapeva che con il suo stipendio sarebbe riuscito a mangiare in quel posto solo a ottant’anni. 
«Allora, accetti?» Oikawa lo guardava con fare affabile, giusto con un po’ di malizia, facendo vece del famoso detto secondo cui per conquistare un uomo si deve prima passare per il suo stomaco. 
Ma non era tanto quello a far gola – in tutti i sensi – ad Hajime. Anzi, a dirla tutta, era abbastanza lucido per poter rifiutare l’invito. 
Fu qualcosa a spingerlo: per lui, si trattò solo della sua quasi mortale curiosità, ma altri avrebbero detto che il destino stava già cominciando a posizionare i pezzi del suo gioco.





Si pentì di aver accettato l’invito non appena si ritrovò davanti il ristorante, la porta a vetri e laccata di nero, un cameriere all’entrata che si apprestò subito a servirli, controllando se c’era qualche tavolo libero per loro. 
Hajime si guardò intorno, storcendo il naso: troppo sfarzo per i suoi gusti, e la gente seduta ai tavoli non era di certo vestita con impermeabili e scarpe da ginnastica, sembravano tutte persone di un certo lusso. 
Non che a lui importasse chissà che cosa, e si stupì di vedere che per Oikawa era lo stesso, quest’ultimo che scherzava con il cameriere. Probabilmente lo conosceva. 
Vennero guidati dentro la sala, decisamente più accogliente dell’entrata, e il giornalista fu sorpreso di trovare non una, ma almeno una ventina di fotografie appese alle pareti. Si sedettero al tavolo che, a detta del cameriere, era il preferito di Oikawa, l’enorme vetrata sulla destra, la parete alle spalle del setter, e su questa vi era appesa una foto del tempio greco d’Agrigento. Erano tutte fotografie che rappresentavano diversi monumenti italiani, e Hajime cercò di individuarne il più possibile da lontano. Alcuni li conosceva, altri, come quella che aveva di fronte, un po’ meno. 
«Sapevo che ti sarebbe piaciuto!» Tornò a focalizzarsi sulla persona che gli stava seduta davanti, producendo solo qualche borbottio in risposta a quanto detto dal setter. 
Benché Oikawa gli avesse detto di ordinare tutto quello che riuscisse a mangiare, non si lasciò andare troppo – certo, poteva fargli pagare un occhio della testa, ma non voleva seriamente essere così meschino. Rimasero in silenzio per la maggior parte del tempo, Hajime si era limitato a chiedergli se fosse già venuto in quel posto, domanda dalla risposta piuttosto ovvia, e poi al tavolo calò il mutismo. 
Fu mentre stavano mangiando i primi, cercando di usare nella maniera più corretta possibile le posate, che Oikawa sbottò: «Sei sposato, per caso?»
Il giovane alzò lo sguardo dal piatto, posando poi la forchetta con un rumore sordo. Non gli piaceva la piega che stava prendendo la situazione. «Se vuoi parlare con me, vedi di essere meno diretto con le domande!»
«Ho capito, sei divorziato allora…» mormorò, mettendo in bocca un ennesimo boccone del suo piatto. 
Hajime avvertì il sangue ribollirgli nelle vene, scorreva come un fiume in piena, ed era tentato di strattonare quel bamboccio da quattro soldi per la collottola.
Prese un bel respiro, contando fino a dieci, dopodiché strisciò la sedia all’indietro, con l’intenzione di alzarsi e andarsene. «Va bene… Abbiamo finito qua!» disse. 
Per la seconda volta, avvertì qualcosa che gravava sulla manica del suo maglioncino, e girandosi poté vedere Tooru che lo fissava, sinceramente mortificato. 
«Okay, scusami. Volevo solo sapere qualcosa in più su di te…»
Il giornalista si rimise comodo sulla sedia, tornando al suo posto, serio, mentre le labbra dell’altro si incresparono in un piccolo sorriso. 
«Puoi farmi le domande che vuoi… ma non ti assicuro che risponderò a tutte» gli intimò, e Oikawa annuì vigorosamente, continuando a sorridere. 
Ci fu solo un attimo di silenzio, prima che tornasse di nuovo alla carica: «Non ti ho chiesto che cosa ci facessi lì…»
A questa, si disse Hajime, poteva rispondere. «Sono un appassionato di fotografia» Il castano lo fissò come se aspettasse che continuasse a parlare. Sospirò. «E mi piace molto la Bolivia.»
«Uh, questa sì che è una bella sorpresa, Iwa-chan!» esclamò l’altro. 
Ci mise un po’ per elaborare quanto aveva appena detto l’altro, e l’immagine di quel bambino con il grembiulino celeste si sostituì a quella che aveva davanti, e adesso Oikawa di anni ne aveva cinque, un batuffolo dentro una narice e la sua manina si agitava verso l’alto. 
Ci vediamo domani, Iwa-chan!
«Non chiamarmi così…»
«Così come?» Oikawa parve cadere dalle nuvole. 
«Non storpiare il mio cognome con quello stupido suffisso… L’hai fatto anche con Tomoko-san, ed è una cosa che mi manda sui nervi!»
«Oh» Si sporse in avanti. «Perché, sei geloso di lei?»
Iwaizumi avvampò leggermente. «Io e lei siamo solo colleghi, non è questo il punto. Mi da solo fastidio che si usi quel nomignolo, tutto qua!»
«Un giapponese che non usa il “chan”, questa mi è nuova!» esclamò, lasciandosi andare a una risata sprezzante. La vena del collo di Hajime cominciò a pulsare irrefrenabilmente. «Mi spiace deluderti, Iwa-chan, ma mi viene spontaneo chiamarti così!»
«Beh, vedi di farti passare questa abitudine!»
«Iwa-chaaan ~!» cantilenò. Era più probabile che così facendo, Oikawa si sarebbe fatto un nuovo nemico, più che un amico! Eppure non poteva farci niente, gli piaceva stuzzicare quel ragazzo: era l’unico che non rispondeva alle sue provocazioni con risatine civettuole, e finora solo i suoi compagni di squadra gli avevano risposto a tono. Non gli era mai capitato con una persona quasi sconosciuta. 
«Dacci un taglio, Shittykawa!»
Il setter spalancò le iridi scure, fissando Hajime come se l’avesse appena sentito parlare in marziano, quest’ultimo che mangiava come se nulla fosse, come se non avesse detto nulla di che. «Come mi hai chiamato?»
«Oh, ti sei offeso?» Stavolta fu il turno del giornalista di sporgersi in avanti, i gomiti sul tavolo e un mezzo sorriso sulle labbra. «Immagino che nessuno ti avesse mai chiamato così, di solito usano nomignoli tipo: “Il grande Oikawa Tooru”, o “La rivelazione della pallavolo” e altre stronzate varie!»
«Mi stai prendendo in giro, Iwa-chan?» disse, retoricamente, posando il mento sul palmo aperto. 
«No, Shittykawa, è solo una tua impressione!» rispose l’altro, sarcastico. 
«Smettila di chiamarmi così!»
«Solo se tu la smetti di chiamarmi col “chan”!»
«Scordatelo!»
«Allora sarai costretto a doverti sorbire questo nuovo soprannome!»
Erano faccia a faccia, in un confronto che non pareva avere alcun vincitore, e per Hajime fu qualcosa di assolutamente nuovo, perché non gli era mai capitato di discutere animatamente con qualcuno senza che non volasse qualche schiaffo o qualche pugno. E dire che proprio Oikawa Tooru se lo meritava qualche schiaffetto sulla testa, secondo Hajime era stato picchiato poco nella sua vita. 
Il setter, alla fine, scostò lo sguardo verso il basso, ma solo perché non riuscì veramente a trattenere la risata che aveva bloccata in gola da un po’. «Hai davvero una faccia buffa, lo sai Iwa-chan?»
Una parte di Hajime gli disse che era quello il momento per mollare un pugno in testa al giovane, o – per essere più gentili – di versargli il contenuto del piatto sui capelli castani. Un’altra parte, però, che si fece strada con prepotenza, gli disse di non fare niente. 
Rimase a fissarlo, mentre quello tornava a puntare gli occhi su di lui, e per la prima volta provò una strana sensazione: era stato praticamente provocato, stuzzicato, ma c’era qualcosa di diverso rispetto alle altre volte, quasi come se gli fosse seriamente piaciuto essere trattato così da un’idiota come quello. 
Scosse appena il capo, evitando quelle iridi color cioccolato e tornando a concentrarsi sul piatto.





Il pranzo si rilevò piacevole, tutto sommato.
Oikawa si era limitato a chiedergli che liceo avesse frequentato, e Hajime gli rispose che aveva frequentato una scuola di poco conto, con una squadra di pallavolo che non brillava per chissà quali doti, e Oikawa del resto non ne aveva mai sentito parlare. 
Lui gli parlò della sua squadra all’Aoba Johsai e di come, poi, avesse ottenuto la nomina di alzatore titolare della Delegazione mentre ancora frequentava l’università. Hajime non si espose troppo riguardo quel punto, decidendo di raccontargli solo lo stretto necessario su come avesse ottenuto il suo attuale lavoro, e ringraziando il cielo che Oikawa non avesse fatto ulteriori domande. 
Lo aspettò fuori mentre pagava il conto, i piedi sul gradino, lanciando qualche occhiata annoiata ai passanti di tanto in tanto. Mordicchiò la zip del suo impermeabile, spostando lo sguardo di lato quando Oikawa aprì la porta del locale. 
«Cavolo se fa freddo!» disse, sistemandosi di nuovo gli occhiali sul naso che, durante tutto il pranzo, aveva tenuto dentro la tasca della giacca. 
Hajime annuì distrattamente, scendendo dal gradino. «Bene, allora io vado.»
«Dove hai la macchina?» 
Tutta quella gentilezza da parte del setter stava cominciando a dargli fastidio, e sperava che quella fosse la prima e l’ultima volta che uscisse con lui. «Vado con la metro.»
Oikawa annuì, facendo poi cenno a un taxi di avvicinarsi. Iwaizumi credeva fosse per lui, gli aveva accennato che gli allenamenti per quel sabato sarebbero stati solo nel pomeriggio, e invece fece cenno a lui di entrare dentro l’abitacolo. Saettò lo sguardo dal sorriso sfacciato di Oikawa, alla portiera gialla aperta. 
«No, mi hai già pagato il pranzo» disse, scuotendo le mani come a rifiutare l’invito. 
«Oh, tranquillo, la prossima volta offri tu!» disse, dando un’abbondante mancia al taxista, che non evitò di esprimere la sua sorpresa. 
Hajime alzò una sopracciglio. «La prossima volta? Chi ti dice che io voglia rivederti?» E, in effetti, non era nei piani del giovane uscire di nuovo con lui. Era convinto che quel pranzo gli fosse bastato. 
«Ci rivedremo, fidati!» disse, senza smettere di sorridere. «Ti sentirai in colpa per il pranzo e ti sentirai in dovere di ricambiare.»
«Sinceramente? Non me ne frega niente, per me puoi pure nuotarci nel tuo denaro!»
E, detto questo, Hajime salì in macchina, non prima di sentire Oikawa che urlava qualcosa del tipo: «Nessuno sfugge a Oikawa Tooru!», a cui rispose con un bel dito medio alzato in direzione del ragazzo. 
Il castano non ebbe il tempo di protestare per i modi fin troppo rudi del giornalista, ma in fondo si ritrovò a sorridere in direzione della macchina che sfrecciava via: Iwa-chan non era cambiato per niente, era rimasto lo stesso ragazzino di cinque anni che aveva tentato di medicarlo. E mentre saliva su un altro taxi, Oikawa sperò che Iwa-chan lo richiamasse veramente.
Qualcuno stava già cominciando a giocare, e i pezzi si erano già mossi. Ma questo, né lui né Iwaizumi potevano saperlo.




 
[It’s getting stupid, cause I shoulda known but I forgot
That you think we’re something that we’re not]





 
Delucidazioni:
SONO VIVA! *resuscita come Mushu*
Chiedo scusa per la mia assenza (ma tanto nessuno segue sta storia…), ma nell’ultimo periodo sono stata impegnata con l’università, giorno venti devo dare un esame, sigh! T^T
Pensavate seriamente che sti due non si sarebbero rincontrati? AH!
Ho sparso un po’ di riferimenti qua e là, a cominciare dalle foto sulla Bolivia: prende spunto da un doujinshi della Somma Gusari (questa qui), e vi consiglio caldamente di andare a cercare qualche immagine della Bolivia su Internet, perché sono veramente meravigliose! *^*
Per quanto riguarda il nome del ristorante, prende spunto dal film La La Land, ah ah, alcuni di voi l’avevano notato immagino, vero? *la menano*
Mentre il tempio di Agrigento è questo qui, scusate, ma sono della Sicilia e mi sentivo il dovere di valorizzare questo monumento, sorry :’)
La citazione è tratta da Something that we’re not di Demi Lovato; mi ha aiutato durante la stesura.
Altro da dire? Non mi sembra lol
Ringrazio chi sta seguendo questa storia e chi è stato disposto a lasciarmi un’opinione. Tenderò a rispondere quando aggiornerò, se il tempo me lo permette… *il manuale la risucchia*
Ci si vede alla prossima allora! Pensate che Hajime ricambierà alla fine? ;)
*la lanciano in aria*
_Lady di inchiostro_


P.S: Per avere ulteriori aggiornamenti, o se vi interessa sapere qualcosa sulla mia patetica vita potete andare sull’uccellino che cinguetta!
 

 

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Capitolo 4
*** III ***


 
III
~


 
[17 ottobre 2016]





L’atmosfera, in ufficio, era quella di un classico lunedì come tutti gli altri: noioso e apatico, fatto di persone che si erano pentite di essersi alzate dal letto quella mattina. 
Hajime, di solito, non era tra queste persone, per lui tutti i giorni erano uguali, tutti i giorni potevano essere neri o una scusante perfetta per non abbandonare il proprio letto. Rimaneva sempre lo stesso, continuava a rivolgersi ai suoi colleghi nello stesso modo, anche se questi tendevano ad essere più stizziti, con i nervi a fior di pelle, ma alla fine sapeva di essere odiato da almeno la metà di quelle persone, e l’altra metà gli parlava solo per farsi notare da Oohashi-sensei. 
Solo che, quella mattina, ad avere un diavolo per capello era proprio Hajime, i nervi tesissimi: decisamente, non aveva mai avuto una giornata più nera di quella, almeno fino ad ora. 
Cercava di tenere in tutti i modi lo sguardo concentrato sulla pagina digitale, ma aveva riscritto e cancellato l’ultima riga per ben cinque volte. Sbuffò, abbandonando le braccia lungo la sedia girevole. Pensava che non potesse esserci nulla di peggiore che intervistare Oikawa Tooru, e invece si era sbagliato di grosso, qualcosa c’era: il doverlo chiamare per riferirgli che il numero con la sua intervista sarebbe uscito quel giovedì stesso; senza contare che Hajime gli aveva assicurato che non c’era alcuna possibilità che si risentissero. 
Il suo capo l’aveva fregato un’altra volta, e tutti i buoni proposti di riuscire a scrivere un pezzo decente erano sfumati non appena Oohashi era passato dalla sua postazione per riferirgli quello che doveva fare. Sperava di poter contare su Tomoko, ma la ragazza stava già lavorando al suo prossimo articolo, e quest’ultimo richiedeva diverse ricerche più accurate, per cui in quei giorni non sarebbe stata spesso in ufficio.
Gli era arrivato il suo messaggio con il numero di Oikawa due ore prima , sotto suggerimento del suo capo, e in quel lasso di tempo Hajime non aveva fatto altro che spostare lo sguardo dal cellulare alla pagina digitale, la lucetta dello smartphone che brillava a intermittenza. 
Rilesse velocemente quello che aveva scritto, la gamba destra che si muoveva su e giù irrefrenabilmente, in un tic fastidioso; non si salvava niente di quello che era riuscito a scrivere fino ad allora, era tutto da buttare. Si passò le mani sul viso, aprendo poi le dita per dare la possibilità ai suoi occhi di fissare lo schermo nero del telefono.
In fin dei conti, non doveva giustificarsi con lui, non c’erano secondi fini, lo stava sul serio chiamando per una questione di lavoro – anche se non capiva bene perché il suo capo volesse che gli dicesse una cosa del genere. Ringraziarlo della disponibilità?
Afferrò il cellulare, aprendo finalmente il messaggio dell’amica, accompagnato da una serie di “ma dove sei finito?”, poco dopo il numero in questione. Lo digitò e aspettò che qualcuno rispondesse.
La voce gioviale del setter arrivò al suo orecchio dopo un minuto circa. «Pronto?» 
Rimase in silenzio, mordendosi la lingua nel frattempo.
«Pronto ~?»
«Ciao Oikawa…» si decise a rispondere. 
Si pentì amaramente di averlo chiamato non appena sentì Oikawa esclamare una serie di “ohhh”, sorpreso. 
«Te l’avevo detto, avevo ragione io, Iwa-chan!»
«Ti chiamo per una questione di lavoro, cretino!» Sbuffò, spazientito. Non lo conosceva per niente, ma lo aveva inquadrato abbastanza da capire che tra lui e il bambino dal grembiulino celeste non c’era differenza. «Il mio capo voleva farti sapere che giovedì esce il numero con l’intervista di Tomoko-san. E vuole farti avere una copia gratuita.» Sì, era decisamente un modo per ricambiare la sua disponibilità. 
«Oh, perfetto, e quando potrò averla?»
«Passa in ufficio e te la darà direttamente lui» disse, sbrigativamente. Voleva tagliare quella discussione lì e, possibilmente, cancellare il numero di Oikawa. Sperava solo che quello non cominciasse a torturarlo via messaggi. Forse avrebbe dovuto cambiare direttamente numero.
Oikawa fece schioccare la lingua, stizzito. «Pensavo me la portassi tu, Iwa-chan ~!»
«Ah?»
«Ma sì, in fondo ci hai lavorato anche tu, no? E poi devi ancora ricambiare l’invito!» insistette, il suo tono di voce sempre più acuto, e Hajime era quasi tentato di scostare il telefono dall’orecchio per poter parlare con lui senza diventare sordo. 
«Ti ho già detto che non devo ricambiare un bel niente. Il mio capo mi ha detto questo e io te lo sto riferendo…»
«Oh, andiamo Iwa-chan ~!» cantilenò. «Non ti è piaciuto passare del tempo con me?»
Il giornalista si passò ancora una volta la mano sul viso. Vero, avevano trascorso una giornata abbastanza gradevole, ma la cosa poteva benissimo chiudersi lì – anzi, se fosse stato per Hajime, si sarebbe chiusa la mattina in cui l’aveva intervistato. Sarebbe stato un volto come tanti altri che vedeva passare per le strade, sui treni, al semaforo e – in questo caso – in televisione. Avrebbe atteso che il setter dicesse qualcosa di stupido all’intervistatrice, forse avrebbe ricordato il loro pranzo e come a Oikawa gli occhiali stessero storti sul naso, poi avrebbe fatto un verso stizzito e avrebbe cambiato canale. 
Erano così che le cose dovevano andare. 
Allora perché lui continuava a insistere? Perché voleva a tutti i costi che diventasse suo amico? Cosa ci aveva visto di speciale in quel ragazzino che l’aveva preso in faccia con la palla fino a farlo sanguinare? 
Hajime non era sicuro di volere sapere la risposta. Si puntellò la fronte con le dita, la mano ancora sul viso, cercando di cancellare con tutto se stesso l’immagine di Oikawa che scoppiava a ridere al ristorante, dopo quel gioco di sguardi tra loro due.
Non seppe cosa lo costrinse a guardare dentro il cestino sotto la sua scrivania, colmo di carta fino al midollo. Forse era stato il colore acceso di un volantino che stava quasi per straripare fuori. Doveva averlo buttato distrattamente, senza degnarlo di un’occhiata, un rimasuglio della posta che aveva controllato giusto quella mattina.
Lo aprì, e si accorse che riguardava una promozione che davano in un cinema vicino casa sua. 
Fissò la scritta a caratteri cubitali, corrucciato, cercando di scacciare l’idea che si era insinuata nella sua mente e che sapeva sarebbe stata pessima.
No. Non poteva cedere. L’avrebbe salutato, sperando di non incontrarlo un’altra volta da qualche parte. Tuttavia, c’era una parte di lui che smaniava per sapere dove voleva andare a parare Oikawa, e Hajime aveva oramai la certezza che la sua naturale curiosità l’avrebbe ucciso, primo o poi. Aveva vinto lei. Come sempre, del resto, e se  non fosse stato così probabilmente non sarebbe riuscito a scrivere l’articolo che gli aveva permesso di lavorare lì. 
«Sei ancora lì, Iwaaa-chan ~?» La vocetta di Oikawa lo risvegliò dai suoi pensieri, tuttavia continuò a tenere lo sguardo contrito sul volantino, pentendosi per la centesima volta della decisione che stava per prendere e di essere nato. 
«So per certo che, se adesso ti chiudessi il telefono in faccia, probabilmente tu mi tortureresti con messaggi vari su Line, o addirittura mi richiameresti tutte le volte che ti è possibile fino a quando non sarò costretto a rispondere…» Non arrivò nulla d’altra parte, e Hajime si ritrovò a fissare la cornetta nera del telefono dell’ufficio. Se non fosse così sicuro che Oohashi gli avrebbe detratto i soldi della telefonata dalla paga, probabilmente avrebbe potuto chiamarlo da lì. Maledetto Oohashi-sensei e il suo dannatissimo atteggiamento da oratore da quattro soldi. «Ti piace il cinema?»
Lo disse con un sospiro affranto, ed era quasi sicuro che Oikawa stesse sbattendo gli occhietti per la sorpresa. Pensava di dover insistere un altro po’, ed era già pronto a tormentarlo sul Line con tutte le immagini possibili o i messaggi più coloriti. Scoppiò a ridere. «Sì, mi piace andare al cinema!»
«Te lo saresti fatto piacere comunque! Sto facendo questo solo per farti stare zitto!»
«Certo, certo…»
Hajime si massaggiò la tempia con la mano libera: se non fosse stato in ufficio, gli avrebbe già urlato contro.
«Allora facciamo giovedì alle…?»
«Ti mando un messaggio io» disse, sbrigativamente.
«Ottimo! Allora ci sentiamo, Iwa-chan!»
«Okay, Shittykawa.» Non badò alle lamentele del castano, chiudendo direttamente la chiamata.
Prese un respiro profondo, rigirandosi il volantino tra le mani, e ogni tanto lanciando un’occhiata seccata alla pagina ancora aperta sul suo computer. 
Poi, un lampo di genio, un concetto espresso male ma che sapeva benissimo dove doveva essere aggiustato. «Ecco cosa ho sbagliato!» E si dimenticò completamente di Oikawa. 



 
~



 
[20 ottobre 2016]





Quando aveva portato Oikawa in un ristorantino da quattro soldi vicino il cinema, aveva sperato che quest’ultimo si disgustasse al tal punto da rinunciare alla serata e tornarsene direttamente a casa. Cosa che, ahimè, voleva fare anche Hajime. 
E invece, quello se n’era stato seduto tutto tranquillo e composto, come se niente lo scalfisse, né le famigliole con bambini che, quasi sicuramente, erano dirette al cinema anche loro, né gli schiamazzi dei cuochi alle sue spalle. Insomma, come poteva una persona abituata a mangiare in posti come quello dell’altra volta, essere entusiasta della sua semplicissima scodella di noodles?
Hajime non riusciva, tutt’ora, a capirlo, e alla fine era finito con l’essere lui quello sconcertato, mentre Oikawa non aveva fatto altro che guardarsi intorno, curioso e senza smettere di sorridere. 
Avevano optato per il secondo spettacolo serale, poiché Oikawa usciva tardi dagli allenamenti, e avevano avuto giusto il tempo di mangiare qualcosa al volo prima che il film iniziasse. Si erano scambiati qualche parola durante la cena, Iwaizumi si era limitato a chiedergli come fossero andati gli allenamenti, e Oikawa gli aveva fatto tutto il resoconto per filo e per segno. Si era sorpreso di essere sinceramente interessato a quello che stesse dicendo il setter, ma d’altronde si trattava pur sempre di sport, e poi la pallavolo era stata la sua compagna di avventura durante quasi tutto l’arco della sua vita. Per questioni di forza maggiore l’aveva dovuta abbandonare, ma non era raro che avesse qualche ripensamento. 
Oikawa, invece, gli aveva chiesto come andasse il lavoro, e Hajime rispose senza particolare enfasi, consegnandogli poi la rivista, e si era ritrovato a osservarlo di sottecchi mentre, con gli occhi che brillavano, il giocatore aveva divorato l’intervista in una manciata di minuti, facendo i complimenti tra sé e sé a Tomoko-san. 
L’aveva osservato anche dentro la sala buia, sperando di trovarci una parvenza di noia nel suo viso, invece era rilassato, tranquillo. 
Hajime non era tipo che stava a fissare la gente, neanche con la sua ex-moglie l’aveva mai fatto, pur sapendo quanto tenesse lei all’idea secondo cui, dallo sguardo di una persona, si capisce se questa è veramente innamorata. Ad Hajime bastavano poche cose per capire la gente e per sapere che non doveva averci a che fare, e per Tooru aveva una lista di motivazioni che era quasi infinita. Eppure, erano lì, seduti al cinema, in silenzio, con altre milioni di persone dai volti sconosciuti, e lui lo stava guardando. 
Oikawa Tooru, lo sapeva, aveva qualcosa di magnetico, ma non ci aveva creduto per davvero fino a quando non lo aveva incontrato di persona. E per quanto continuasse ad elencarsi a mente i motivi per cui doveva stare alla larga da quell’individuo, c’era sempre qualcosa che lo spingeva a continuare a parlargli, almeno un minimo, per capire che cosa effettivamente volesse.
Forse, dopo quella sera, sarebbe finalmente stato in pace con se stesso.
Uscirono dalla sala dopo un’ora e mezza circa, il venticello fresco che li accolse non appena misero piede fuori. Iwaizumi continuò a torturare la zip del suo impermeabile, mordicchiandola, spostando poi lo sguardo di lato, verso un Oikawa che si stava stiracchiando. 
«Ti è piaciuto il film?» chiese, ancora le braccia alzate verso l’alto.
«Sono venuto al cinema solo per farti stare zitto, quindi non mi interessava granché» disse con fare eloquente. 
In quei pochi giorni – come Hajime aveva giustamente previsto – non aveva fatto altro che inondarlo di messaggi assolutamente inutili, e fu persino tentato di lanciare il telefono dalla finestra o di denunciarlo per molestia alla polizia. Passi per le fotografie che gli intasavano la memoria, ma era davvero necessario chiedergli cosa stesse facendo alle cinque del mattino? Non tutti sono dei disadattati mentali che corrono la mattina presto, diamine!
Il castano uscì la lingua. «Sei antipatico, Iwa-chan!»
«Bene, ma adesso la serata è finita, no?» disse, ponendosi davanti a lui, le mani in tasca. «Quindi adesso devo dedurre che ho pagato il mio debito?»
Oikawa parve pensarci su. «Non ancora, devi fare qualcosa per me!»
Se c’era un momento adatto per un terremoto di dimensioni catastrofiche, beh, era quello; a quanto pare, però, la terra sotto i piedi di Hajime non voleva proprio cedere, così, amareggiato, fu costretto a seguire il vicecapitano della squadra di pallavolo, che camminava all’indietro proprio davanti a lui. Desiderò, per una frazione di secondo, che cadesse e si facesse seriamente male. 
Non ci volle molto, le strade deserte, solo il rumore di qualche macchina lontana o di persone che si urlavano dentro casa a fargli compagnia. Sì, Hajime non abitava in una delle zone migliori di Tokyo, e questo era anche uno dei motivi per cui si chiese che cosa ci facesse lui con uno tutto sfarzo e lusso. Oikawa amava mettersi in mostra, parecchio. A lui non importava, se riceveva qualche gratificazione era più che bene, ma non amava vantarsi dei suoi successi. 
Lo aveva sempre creduto incapace di stare con la gente comune, il massimo era passare qualche minuto con le proprie fan, giusto il tempo di qualche autografo. Una cosa nuova, che aveva avuto il piacere di scoprire su Oikawa Tooru, era che invece sapeva adattarsi a qualsiasi cosa. 
«Eccoci arrivati!» Era talmente immerso nei suoi pensieri dal non essersi accorto che erano arrivati davanti a un parco giochi. Conosceva quel posto, di solito era utilizzato dai bambini dell’asilo affianco, ma capitava che ci andassero a giocare altri bambini durante le vacanze. 
Hajime alzò un sopracciglio. «E io esattamente che dovrei fare?»
Il castano gli sorrise e si sedette su uno dei piloni all’entrata del parco. «Adesso tu ti siedi – e nel dirlo, indicò il pilone accanto a lui – e fai due chiacchere con me!»
Adesso, entrambe le sopracciglia erano verso l’alto. «Mi vuoi psicanalizzare?»
«Forse…»
Il giornalista produsse un rumoroso sospiro col naso, la mano di Oikawa che batteva sul marmo freddo, roteando poi gli occhi e accettando l’invito. Lo spettacolo era desolante, l’altalena che si muoveva per via del vento e produceva un fischio inquietante. 
«A me non è dispiaciuto… Il film, intendo» sbottò poi il castano, inclinando la testa. «Anche se i thriller non sono proprio il mio genere. A te davvero non è piaciuto?»
L’altro si sporse in avanti, i gomiti sulle ginocchia. «A me non piace andare al cinema in generale…»
«Allora perché mi ci hai portato?»
«Te l’ho già detto, per chiudere quella tua cazzo di bocca!»
«Quindi non guardi mai i film?»
«Certo…» esitò un attimo. «A casa mia.»
Oikawa mise su un’espressione molto simile a quella che gli aveva fatto una volta Akane, dopo che si era arrabbiata con lui per un motivo che, sul momento, gli sfuggiva. Ma le sopracciglia erano contratte verso il basso e il labbro inferiore era leggermente sporto in fuori proprio come nell’espressione di sua figlia. «Sei così noioso, Iwa-chan!»
Hajime decise di non rispondere all’esclamazione del giovane, fece solo schioccare la lingua per fargli capire di essere rimasto comunque stizzito dalla cosa.
«Almeno hai un film preferito?»
«In realtà, non ci ho mai riflettuto…» Ci rimuginò su. «Forse Pulp Fiction.»
«Uh, non ti facevo tipo da questo genere di film!»
«È solo quello che ho visto più spesso, tutto qua…»
Oikawa lo guardò, in attesa di qualcosa, seduto adesso a cavalcioni. «Non vuoi sapere qual è il mio?»
«Non me frega un tubo, sinceramente!» esclamò, seccato. Sperava di potersene tornare al più presto a casa. 
«Okay, te lo dico lo stesso!» disse, ignorando completamente quello che gli aveva detto l’altro, esattamente come farebbe un bambino capriccioso. «In realtà, si tratterebbe della saga di Star Wars, quindi sono più di uno, ma…»
Le ultime parole morirono ancor prima di nascere, perché Hajime lo stava guardando come se lui avesse appena confessato di aver ucciso un uomo a mani nude. «Non ti piace la saga di Star Wars?» gli chiese, aggrottando le sopracciglia.
«Odio la saga di Star Wars…» disse, quasi in un sibilo simile a quello di un serpente.
Ci fu giusto un momento di silenzio, in cui il cervello di Oikawa stava cercando di elaborare la notizia, senza riuscirci. Alla fine, sbottò: «Iwa-chan, non puoi vivere senza aver visto Star Wars!»
«Sei sordo? Ti ho detto che lo odio!» Alzò anche lui il tono di voce per cercare di sovrastare quello dell’altro, sperando che nessuno nelle vicinanze si lamentasse. 
«Lo odi solo perché non l’hai visto veramente!» continuò a farsi ragione l’altro, agitando le mani come un forsennato. 
«Anche se dovessi vederlo, continuerebbe a farmi schifo, perché io non sopporto i film di fantascienza!»
Se Oikawa avesse deciso di darsi al mondo dello spettacolo, probabilmente come attore melodrammatico avrebbe fatto furore. Si portò una mano al petto, simulando una sorta di arresto cardiaco, mentre con l’altra artigliava la spalla di Hajime, che guardò la scena senza smettere di pensare che quel ragazzo avesse in realtà dei seri problemi mentali. 
«Mi stai dicendo che non hai mai visto un film di fantascienza…?» domandò, quasi ansimando. 
«No. Odio la fantascienza da quando, una volta, ho provato a guardare qualche episodio di Star Trek con mio padre, e di anni ne avevo cinque…» rispose.
«Vedi, tuo padre è un grande uomo, in confronto a te!»
«Era.»
Non era necessario fare quella precisazione. La conversazione poteva benissimo andare avanti senza che lui correggesse Tooru. Eppure, c’era una parte di lui che credeva fosse una mancanza di rispetto nei confronti di chi…
«Scusami…» La voce, adesso abbassata di qualche grado, di Tooru, lo percosse tutto come una scarica elettrica. «Quando è successo?»
Hajime, dapprima spalancò gli occhi, poi li ridusse a due fessure: voleva capire se lo stesse seriamente prendendo in giro, oppure… 
«Tu non lo sai…»
Oikawa parve stralunato. «Sapere cosa?»
«Cazzo…» Non sapeva se piangere o ridere, mentre si stropicciava gli occhi con l’indice e il pollice, la mano del setter ancora sulla sua spalla. 
Se non fosse che non credeva in queste cose, probabilmente avrebbe pensato che il destino si stesse prendendo gioco di lui – ed era così, giocava con lui già da parecchio tempo. 
«Iwa-chan, mi vuoi dire che ti prende?»
Congiunse le mani, guardando un punto non ben preciso davanti a sé, oltre il parco, oltre i cespugli rinsecchiti, prendendo profondi respiri come se fossero sorsate d’acqua. «Il motivo per cui mi sono trasferito è perché i miei genitori sono morti in un incidente d’auto.»
Lo disse tutto d’un fiato. Non faceva meno male, ma se lo avesse detto con più lentezza avrebbe rischiato di sentire il dolore conficcarsi sotto la pelle, come pezzi di vetro o di cristallo. Serrò la mascella e le labbra, gli occhi smeraldini puntati in quelli color cioccolato di Oikawa, che boccheggiava sconvolto. 
La mano scivolò, ciondolando, e Hajime giurò di aver visto i suoi occhi farsi lucidi. Sbatté le palpebre, passandosi poi una mano davanti la bocca e cercando di guardare altrove.
«Mia madre mi aveva detto che tuo padre aveva trovato lavoro qui…» Era la prima volta che si sentiva così, lo stomaco praticamente sotto la suola delle scarpe, il cuore che ogni tanto tornava  a battere, pompando un po’ di sangue. Era la prima volta che si sentiva investito da una moltitudine di sensazioni negative, neanche dopo una sconfitta era mai stato in queste condizioni, incapace di dire anche solo mezza parola senza balbettare come uno stupido. «Merda, non ne avevo idea…»
«Sì, beh…» Hajime tornò a guardare davanti a sé, senza focalizzarsi su nulla in particolare. «Almeno adesso sai come mai non sono più venuto al Sendaishi…»
Piombò il silenzio, un silenzio che Oikawa avvertì come un ospite indesiderato tra loro due, e Iwa-chan sembrava avesse sollevato una barriera tra lui e il resto del mondo, lasciandolo fuori. Ed era successo proprio quando credeva di essere riuscito a fargli abbassare la maschera, a liberarlo da quella armatura che lo proteggeva dal malvagità del mondo. Era normale che fosse diventato così, chissà quante malelingue aveva sentito alle sue spalle, Oikawa poteva soltanto immaginarle. 
Studiò il suo profilo, asciutto, privo di qualsiasi emozione, per qualche secondo, senza comunque darsi per vinto. Avrebbe fatto abbassare anche quel muro, se fosse stato necessario. «Non sei obbligato a parlarne con me…»
«Non c’è molto da dire…» disse Hajime, atono, continuando a guardare avanti a sé. In realtà, avrebbe voluto parlarne. Fino a quel momento, aveva creduto che lui si comportasse così per compatirlo, come se sbattergli la sua splendida vita in faccia non fosse già abbastanza. Adesso, però si rendeva conto che non lo faceva di proposito, lui voleva veramente passare del tempo con lui come… amico? Beh, Hajime non ricordava quando era stata l’ultima volta che ne aveva parlato con qualcuno; probabilmente a casa di Tomoko-san, mentre lei stava preparando il tè e sua madre stava rifinendo i disegni. Si era sentito leggerlo come un palloncino, aveva sentito dolore, ma non troppo, e si era reso conto in quel momento che forse era stato più doloroso tenere tutto dentro. 
Iwaizumi Hajime era fatto così, bisognava conquistare la sua fiducia per riuscire a conoscerlo davvero. Lui non si esprimeva facilmente. Quella sera, però, sebbene Oikawa non avesse conquistato appieno la simpatia del giovane, Hajime gli raccontò tutto. Era come se avesse il bisogno di svuotarsi, un’altra volta, dopo… tre anni? 
Prima di parlare con Tomoko aveva resistito per quattro anni; con Minori, aveva resistito per otto anni.
«È successo lo stesso giorno in cui ti ho preso in faccia con la palla…» cominciò, torturandosi le mani, e sperava di riuscire a tirare fuori tutto con la stessa velocità con cui lo aveva raccontato all’amica, ma non ci riuscì. Gli mancava l’aria. «I miei genitori dovevano andare a cena con degli amici, e poi sarebbero andati a vedere un film assieme…» Oikawa spalancò gli occhi, cercando di registrare quello che stava succedendo. Iwa-chan gli stava confessando…?
«Avevano chiamato la babysitter, perché il film non era proprio adatto ai bambini…» continuò, lasciandosi sfuggire una risata gutturale, gli angoli degli occhi che pizzicavano. Prese un bel respiro prima di esalare le ultime parole. «Non sono più tornati…»
Oikawa cominciava a sentire una spiacevole sensazione scorrergli sotto pelle, e avrebbe voluto strapparsela di dosso, dire a Iwaizumi di smetterla di parlare, ma rimase muto, per paura di poter rompere qualcosa, come se fosse dentro un labirinto di specchi. 
«Ora capisci perché non vado spesso al cinema…» disse, e adesso parlava come se fosse una macchina rotta che ripeteva sempre lo stesso nastro da anni e che nessuno era stato in grado di aggiustare. Si stropicciò gli occhi. «Sono stato al cinema dopo anni per il compleanno di mia figlia… Faceva quattro anni e le ho fatto una sorpresa…»
Fece un piccolo sorriso, immerso totalmente nei suoi pensieri per accorgersi che Oikawa lo stava fissando sconvolto. Certo, lui non sapeva neanche questo…
Sospirò, grattandosi la nuca. Oramai il danno era fatto, tanto valeva continuare a parlare. «Ho avuto una figlia quando ero molto giovane con la mia fidanzata. Ci siamo sposati dopo qualche anno, ma non è durata… Un anno e abbiamo divorziato.» Credeva che Oikawa esultasse per aver indovinato, quella volta al ristorante, ma invece lo sentì deglutire pesantemente. «Akane era piccola, perciò il giudice ha pensato bene di affidarla a sua madre. Dopo poco, la mia ex-moglie si è trasferita a Osaka per lavoro. Fortunatamente, non mi vieta mai di andare a trovarla… Siamo rimasti in buoni rapporti…»
La sua voce scemò all’ultimo, diventando sempre più bassa, Oikawa che continuava a guardarlo serio e stupito, bianco come il marmo su cui era seduto. Non sapeva davvero che cosa dire, non si era mai trovato a dover gestire il lutto di una persona, soprattutto il lutto di una persona che ha perso i propri genitori. 
Lui aveva perso i nonni quando andava alle elementari, tuttavia aveva dei ricordi sfocati di quei momenti, ricordava solo sua madre che si inginocchiava davanti a lui mentre guardava la televisione e gli dava la notizia. Cosa… cosa dicevano gli altri a sua mamma? 
Tentò, sebbene la lingua si fosse incollata al palato, di aprire la bocca, ma lo scrosciare delle mani di Hajime che battevano lo riscosse, come se fino ad allora stesse sognando e tutta quella conversazione non avesse avuto luogo. Si riscaldò le mani, il giornalista, girandosi ora verso di lui. «Bene, ora che hai scoperto quasi tutto della mia vita, possiamo dire che il mio debito sia saldato?»
Tooru non si aspettava quella domanda, non dopo un discorso del genere, e sulle prime non seppe proprio come reagire. La risposta, quella che si era già preparato da un po’, uscì fuori senza che lui volesse, e non ne sembrava tanto convinto a quel punto. «Una scodella di noodles e un biglietto del cinema non compensano il conto del pranzo…»
Hajime scosse la testa, lasciandosi sfuggire una mezza risata. «Vai a farti fottere, Shittykawa.»
«Grazie, lo farò senz’altro!» rispose, riuscendo a scrollarsi la tensione che gravava sulle sue spalle. 
E ancora, si fissarono come quella volta al ristorante, solo che questa volta a ridere per primo fu proprio Hajime. Non era una risata colorita come quella di Oikawa, ma per il setter aveva un bel suono, era contagiosa, e si ritrovò a ridere senza motivo anche lui, come se fossero rimasti in silenzio sino ad allora e non avessero mai parlato di quella storia. 
«Giuro che è la prima volta che qualcuno mi risponde in questo modo!» esclamò Hajime, inumidendo le labbra e continuando a ridacchiare di tanto in tanto. 
Ci voleva. Quella rispostaccia, dopo quanto detto, ci voleva. 
Era giusto quello che serviva ad Iwaizumi per tornare nel presente e non rischiare di rimanere arenato nel passato. 
«Beh, a me nessuno aveva mai detto una cosa del genere in faccia!» Il setter continuava a ridere, mischiando le lacrime di tristezza a quelle di gioia, asciugandosele con l’indice. 
Restarono così per un po’, prima che Oikawa si prendesse di coraggio e parlasse di nuovo. «Iwa-chan… Mi dispiace davvero…»
Hajime lo scrutò per diversi secondi.
Non era la prima volta che si sentiva dire una frase del genere: alcuni la dicevano perché si usava così ai funerali, non perché lo sentissero veramente, e aspettavano solo di potersi servire al rinfresco; altri la dicevano guardandolo con pietà, e persino a casa di Tomoko si sentì puntato nel vivo, e la cosa gli diede non poco fastidio. Preferiva quelli cui la cosa non interessava, preferiva quei suoi compagni che lo prendevano in giro – almeno, quelli, poteva pestarli fino a quando le nocche non cominciavano a sanguinare.
Quelli che lo compativano, li odiava. Odiava essere compatito, non ne aveva bisogno. Perché la gente che compatisce è quella che crede di sapere come ci si sente, ma in realtà non ne ha la più pallida idea. 
In quel momento, Oikawa non lo stava compatendo. Era dispiaciuto sul serio, e fu una cosa nuova per Hajime. Pensava che un’espressione come quella potesse trovarla solo in sua figlia quando gli chiedeva se fosse triste. Voleva fargli sapere che c’era, qualsiasi cosa fosse successa di lì in poi. 
Assottigliò lo sguardo, inarcando le labbra appena verso l’alto. «Grazie…»





In seguito, i due si misero a parlare del più e del meno, e Oikawa era addirittura riuscito a farsi promettere che Iwa-chan avrebbe visto tutta la saga di Star Wars, fino all’ultimo film uscito – ma questo solo perché, ancora, voleva che il setter chiudesse quella sua dannatissima boccaccia. 
Non si accorsero per niente dell’orario, e decisero di incamminarsi verso le auto quando già era notte fonda; per fortuna, Tokyo era una città abbastanza caotica, anche se quella zona non era certo delle migliori.
«Vuoi un passaggio?» chiese il castano, giunti davanti la sua macchina rosso Ferrari.
«Abiterò qua vicino, ma non sono mica uno sprovveduto come te! Ho la mia» disse, e notò di averla posteggiata poco più avanti, all’angolo di una strada là di fronte.
«Ah-ah, molto spiritoso, Iwa-chan!» Anche se aveva ragione, la sua costosa macchina avrebbero potuto rimetterla a nuovo completamente in quel quartiere.
Iwaizumi non riuscì a replicare perché, improvvisamente, il telefono cominciò a vibrare dentro la sua tasca. Si accigliò nel leggere il numero di Minori sullo schermo. 
«Pronto?»
«Pronto papà?» Una vocetta assonata arrivò alle sue orecchie, e per poco non trasalì.
Sbloccò il telefono solo per intravedere l’orario. «Akane, si può sapere perché sei ancora sveglia? È tardissimo!»
«Scusami papà!» La bambina fece uno sbadiglio, poi tornò a parlare. «Ho aspettato che tornasse la mamma per chiamarti. Volevo darti la buonanotte di persona…»
Si passò le dita sugli occhi, prima di posarle sul ponte del naso. Se non fosse che Oikawa lo stava fissando con curiosità, probabilmente gli sarebbero venuti gli occhi lucidi un’altra volta. «Okay, ma adesso fila a letto.»
«Ti ho disturbato? Mamma mi ha detto che dovevi uscire…»
Hajime diede giusto un’occhiata veloce ad Oikawa prima di parlare, quasi come se avesse bisogno di confermare che era sul serio uscito con lui. O uscito con qualcuno in generale, senza che c’entrasse il lavoro o qualche mostra fotografica. «No, stavo giusto tornando a casa…»
«Okay… Buonanotte, papà! Ti voglio bene!»
«Anche io te ne voglio» disse, ammorbidendo la voce, e per un attimo gli parve che Oikawa si fosse irrigidito sul posto. Era davvero così innaturale sentirlo parlare così?
«La mamma è lì?»
«Sì, ma mi ha detto che ti chiama domani!»
«Va bene… allora buonanotte.»
Chiuse la chiamata, i piedi che si mossero verso la figura snella di Oikawa appoggiata alla macchina, le mani dentro le tasche del giaccone verde. Solo allora, con una punta d’invidia, si occorse che l’altro era più alto di qualche centimetro. 
«Era tua figlia?» chiese il setter. 
Hajime si passò una mano tra i capelli. «Di solito ci vediamo su Skype, ma le avevo detto che per stasera non sarebbe stato possibile, perciò…»
Oikawa avvertì il senso di colpa percorrere tutta la trachea, raggiungendo la gola, e bruciava da morire. «Oh, mi spiace…»
Il giornalista alzò un sopracciglio, riponendo il telefono in tasca. «Non è da te scusarti così tante volte nell’arco di poche ore, ti sei rammollito tutt’assieme?»
Oikawa sbatté gli occhietti color cioccolato, che quasi brillarono sotto la luce dei lampioni. «Ma guarda che io sono una persona molto sensibile, Iwa-chan!»
Lo sapeva che la domanda retorica di Iwaizumi stava a significare che era tutto nella norma, che non c’era bisogno di scusarsi. Sembrava una persona così complicata, ma in realtà era come un libro aperto: facilissimo da leggere. 
Fece uno sbuffo più simile a una risata. «Certo, hai la stessa sensibilità di un gorilla.»
«Veramente, tra i due, quello che assomiglia di più a un gorilla sei tu!»
«Tu lo sai che posso farti sanguinare anche l’altra narice, vero?»
Oikawa non rispose, però entrambi risero di nuovo, ed era bello vedere Iwa-chan così, che si lasciasse andare, che si sciogliesse e riuscisse a dare a quelle labbra la parvenza di un sorriso. Si mordicchiò il labbro inferiore, mentre l’altro tornava a scuotere la testa un’altra volta, chiedendosi se per sbaglio non avesse inalato dell’aria tossica e stesse impazzendo del tutto. 
Il setter stava per parlare ancora, ma Hajime lo precedette. «Tu piuttosto, non avevi impegni con Eiko?»
Oikawa sbatté ancora una volta gli occhi.  
«Al contrario di te, io conosco molte cose sul tuo conto… purtroppo!» continuò il giornalista, con una punta di divertimento nella voce. 
Il setter alzò le spalle. «Le ho detto che dovevo uscire con degli amici, e lei mi ha detto che doveva fare lo stesso con delle sue amiche. Anche se siamo fidanzati, vediamo altra gente, cosa credi?»
Hajime non badò alla domanda che gli era stata riposta, seppur teoricamente. «Amici?» si limitò a domandare. «Perché hai usato il plurale? Eiko-san potrebbe ingelosirsi, per caso?»
Tooru sorrise, mellifluo. «Dovrebbe.»
«Ah?» esclamò l’altro.
«Hai un certo fascino, lo sai?»
«Mi stai prendendo per il culo?» disse, aumentando il tono di voce, l’espressione del castano che non si decideva a sparire dal volto. 
«Sono serissimo, Iwa-chan! Hai solo un carattere di merda…»
Gli mollò una manata sul braccio, involontariamente, senza riuscire a controllare più gli impulsi nervosi che arrivavano al suo braccio. Dovette ammettere a se stesso che era stato quasi liberatorio, come se aspettasse solo il momento adatto per poter fare una bella lavata di capo a quell’alzatore tutto sorrisi e carinerie; non perché volesse fargli male seriamente, solo che sosteneva che i suoi compagni di squadra avrebbero dovuto lanciargli più spesso la palla su quella bella testolina. 
«Iwa-chan! Sei violento!» si lagnò, massaggiandosi la parte dolorante. «Che fine ha fatto il ragazzino che mi ha medicato il naso?»
«Così impari a prendermi in giro!» 
«Ma io dicevo la verità!»
«Lo sai, se non sapessi che sei la persona più eterosessuale della terra, probabilmente sospetterei che tu ci stia provando con me!» disse, con un’espressione contrariata. 
«Questo è un modo carino per dirmi che non vuoi più vedermi?»
Hajime lo osservò: aveva il capo chinato di lato, il bagliore di un sorriso a illuminargli il viso, esattamente come poco prima, come se quelle labbra non si fossero imbronciate per via del colpo di prima. Era tranquillo, quasi sicuro del fatto che il giovane giornalista volesse rivederlo ancora, e la cosa faceva andare Hajime fuori di testa. Forse, se avesse avuto un pallone tra le mani, glielo avrebbe lanciato dritto in faccia in quel preciso momento. Si chiese, in un angolo recondito della sua testa, che cosa diavolo stesse facendo, perché diavolo stesse passando la serata con un mezzo sconosciuto, perché diavolo non fosse a casa a parlare con sua figlia, che cosa diavolo gli era venuto in mente quando aveva deciso di portarlo al cinema.
Alla fine, la sua risposta l’aveva avuta: quel ragazzo estremamente petulante e invadente voleva sul serio stringere amicizia con lui. Ma se a una domanda era riuscito a trovare una risposta, ora toccava ad un altro quesito l’arduo compito di essere risolto: lui cosa voleva fare con Oikawa Tooru? Era seriamente intenzionato a stringere amicizia con lui? 
Non ne capiva niente di queste cose. Gli amici che aveva avuto durante l’adolescenza, li poteva contare sulle dita di una mano, escludendo Katsu e Minori, e di questi aveva perso i contatti anni fa, dopo la fine del liceo. Non era stato lui ad avvicinarli, erano venuti di loro spontanea volontà, e quella che Hajime considerò come amicizia nacque nel tempo, dopo aver condiviso hobby, pomeriggi di studio e sessioni di allenamento. 
Con Oikawa, però, aveva condiviso una cosa che aveva sempre cercato di tenere nascosta, forse per paura di sentirsi giudicato, o forse perché a quell’amicizia non ci credeva fino in fondo. Con un mezzo sconosciuto aveva condiviso una cosa importante come il suo passato, e solo allora realizzò di essersi completamente sbagliato, che alla fine il passato era in qualche modo ritornato, non l’aveva tagliato fuori del tutto. 
Si era rivolto al suo passato, perché Oikawa Tooru ne era comunque una parte. E, per assurdo, si era sentito completamente a suo agio a parlargli in quel modo, come se fossero amici di vecchia data e chiacchierate del genere fossero all’ordine del giorno. Si chiese perché proprio lui, con tutte le persone che lo circondavano, ma questo forse l’avrebbe saputo col tempo. 
Intanto, si limitò a dare voce a quello che gli aveva detto al parco con tono affranto. «Mi hai detto tu che devo ancora saldare il mio debito, no?»
Se fosse stato possibile, Oikawa sorrise ancora di più, quasi come se potesse esplodere per la contentezza, e Hajime si chiese esattamente quale fosse la ragione di tutta quella gioia. 
«Bene Iwa-chan, allora ci riaggiorniamo?» chiese, e quest’ultimo annuì, salutando poi il ragazzo e dirigendosi verso la sua macchina.
Si fermò di botto, le mani nella tasca del giubbotto, sentendolo canticchiare qualcosa a labbra chiuse. «Shittykawa?» Anche questa volta, non diede tempo all’altro di reagire all’insulto, che subito parlò. «La prossima volta, sceglilo tu il posto, così mi libero di te prima!»
Si voltò, solo per trovare Oikawa davanti alla portiera aperta e con un mezzo sorriso rivolto a lui. «Chi ti dice che non farò di tutto per sabotarti?»
«Tu sei uno di classe, non ti abbassi a frequentare i luoghi della plebe! È già tanto per te frequentare uno come me!»
«È una sfida?» chiese. 
«Se vinco, mi lascerai in pace?»
«E se vinco io, tu ti arrederai al fatto che sarai costretto a frequentarmi come amico?»
Se Oikawa si metteva una cosa in testa, Iwaizumi lo sapeva, avrebbe anche sollevato massi di duecento tonnellate pur di riuscirci. Su questo, era impeccabile, ed era anche per tali ragioni che la sua carriera d’atleta brillava come quella di una stella. Hajime non dubitava di quello che aveva appena detto, ma una vocina fastidiosa nella sua testa gli diceva di fare attenzione. 
La ignorò completamente. Lui e Tooru si stavano guardando come quella volta al ristorante, forse con più intensità, e Hajime credeva che il privilegio di quello sguardo potessero averlo solo gli avversari dall’altra parte del campo. E si rese conto che quell’atteggiamento di sfida era più elettrizzante di qualsiasi altra cosa. 
«Ci sto!»





Tooru salì in macchina poco dopo, le mani sul volante e la chiave inserita. Continuava a mordicchiarsi il labbro inferiore, sorridente. C’erano ottime probabilità che l’avrebbe spuntata lui, Iwa-chan non aveva scampo!
Mentre faceva queste considerazioni, pronto a mettere in moto, il suo cellulare squillò e la foto di Eiko apparve sullo schermo. 
«Pronto amore?» disse una voce femminile non appena la chiamata fu agganciata, una gran confusione in sottofondo. «Tutto bene lì?»
«Sì, abbiamo finito, sono appena entrato in macchina, da te invece?»
«Eh, le ragazze hanno un po’ alzato il gomito…» 
Si sentì il rumore tipico della musica da discoteca, e Oikawa si ritrovò a dover parlare più forte per farsi sentire. «Vuoi che ti passi a prendere io?»
«Oh, grazie, sei sempre un tesoro!» esclamò l’altra tutta contenta. «Ti amo tanto!»
Fu la prima volta da quando stava con Eiko – quattro lunghissimi anni di relazione – che si ritrovò ad esitare nel risponderle. Di solito lo faceva con facilità, come se fosse la cosa più semplice di questo mondo. In realtà, non lo era. 
Si tendono a dare per scontate cose che non lo sono. In quel caso, possibile che quelle due paroline le dicesse soltanto perché, oramai, ci aveva fatto l’abitudine?
Scosse la testa. «Ti amo anch’io!» e riagganciò.
Strinse le sue dita sottili sul volante e prese un bel respiro, lo sfondo del cellulare illuminato e che gli mostrava una foto scattata tra lui e la sua ragazza. Girò le chiavi e partì.
Qualcosa non andava, Oikawa lo comprese solo adesso, anche se cercò di scacciare il pensiero. Perché non era possibile che, mentre osservava l’immagine di loro due, gli fosse tornato in mente Iwa-chan che sorrideva. 





Loro non potevano saperlo, ma erano come due pupazzi nelle mani del destino. 
Due bambole di pezza le cui mani non sono definite, non hanno i segni delle cinque dita; questo, però, non gli impediva di legarle comunque tra loro con un filo di colore rosso.


 
 
[If you're gonna let me down, let me down gently
Don't pretend that you don't want me]




 
 
Delucidazioni:
Ed eccomi di nuovo qui, con un capitolo ricco di emozioni! ;)
*la gente scoppia a ridere*
No, sul serio, mia sorella mi ha detto che l’aveva capito che i genitori di Hajime erano venuti a mancare, quindi penso che alcuni di voi l’avessero già intuito :’)
Per farla breve: aveva più o meno cinque anni quando i genitori sono morti ed è stato affidato alle cure di sua zia, che abita a Tokyo. Di conseguenza, la sua vita l’ha passata lì. La mamma di Oikawa sapeva benissimo cosa era successo ai genitori del ragazzo, ma non ha detto niente al figlio per paura di impressionarlo. L’argomento non è mai stato ripreso, e lui non ha mai saputo la verità fino ad adesso.
Tramite alcune informazioni varie, ho scoperto che l’età in cui viene consentito il matrimonio in Giappone è venti, per cui Minori e Hajime hanno avuto Akane in quel periodo, e il ragazzo ha dovuto abbandonare l’università e la pallavolo per cercare lavoro. Con Minori si sono resi conto che non funzionava e hanno deciso di divorziare; non so come funzioni in Giappone, ma di solito si tende a prediligere la madre nei casi di affidamento, tranne in casi estremi. Per questa ragione, Akane sta con la madre. Poco dopo, quest’ultima è stata presa all’orchestra di Osaka e si è dovuta trasferire.
Spero di essere stata abbastanza esaudiente :’)
Qualche piccola informazione: Kotomi mi ha ricordato di dirvii che ci sono delle date all’inizio di ogni capitolo, se non si fossero notate; non c’è un motivo preciso, volevo rendere la storia più attuale *la picchiano*; Line è una piattaforma simile a Whatsapp ed è molto usata in Giappone; il film che sono andati a vedere è uno di Nicholas Cage, uscito proprio a ottobre del 2016 (ora capite i problemi che mi faccio…?); lo spezzone finale è tratto da Water Under The Bridge di Adele, amatela! <3
Che dire, fatemi sapere che cosa ne pensate di questo capitolo! Spero di non aver fatto un casino…
Secondo voi che sta succedendo a Oikawa? Eh, eh? Ditemi gente! :3
_Lady di inchiostro_
 
P.S: passatemi a trovare sull’uccellino che cinguetta, se vi va! ♥
 
 
 

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Capitolo 5
*** IV ***


IV
~




 

[4 novembre 2016]






«Va bene, per oggi abbiamo finito!»
La voce del mister gli arrivò ovattata alle orecchie, mentre si asciugava il sudore col dorso della mano. L’aria della palestra, come alla fine di ogni sessione d’allenamento, si era fatta più pesante e veniva quasi difficile respirare, come se i polmoni cercassero nuova aria ricca di ossigeno. 
Oikawa si diresse verso gli spogliatoi assieme agli altri suoi compagni, l’allenatore che sorrideva al loro indirizzo, sebbene sul suo volto non mancassero quei tratti spigolosi che lo caratterizzavano. Era stata dura, per tutti, dopo la sconfitta che non aveva permesso alla squadra di qualificarsi per le Olimpiadi. C’erano state diverse tensioni, litigi, qualche insulto, ma alla fine la situazione era tornata come quella di prima. 
Oikawa non era uno che si arrendeva, mai. Certo, la sconfitta bruciava ancora, ma ricordava benissimo le parole dell’allenatore dopo la partita, le sue scuse per non essere riuscito a fare il bene della squadra, e il suo pensiero gli faceva pizzicare gli occhi e prudere le mani. Non sarebbe successo un’altra volta: c’erano tante cose in cui la squadra doveva migliorare, forse da troppo tempo oramai, ma lui non si dava per vinto. Sarebbero migliorati, avrebbero vinto l’oro nelle prossime Olimpiadi. Forse era una cosa un po’ spavalda da dire, ma Oikawa non si era sentito così deciso dai tempi del liceo, quando si ammazzava di fatica per riuscire ad essere sempre in gran forma.
Magari, in quegli anni, aveva preso la pallavolo un po’ sottogamba, l’ammetteva, ma adesso la cosa non gli andava più giù. 
Aprì il suo borsone celeste, molto simile al colore di quello che aveva al liceo, afferrando il cellulare e controllando se gli fossero arrivati dei messaggi. Qualche notifica su Twitter, un messaggio di Eiko su Line e uno di… 
«Guarda un po’ come è contento Oikawa…»
«Certo, il mister non ha fatto che omaggiarlo oggi!»
«Ma no, parlo della sua espressione mentre fissa il cellulare…»
Il castano si girò verso la fonte delle voci, un sopracciglio appena alzato, trovandosi davanti Kuroo appoggiato al suo armadietto e Bokuto che si asciugava il viso e sorrideva, divertito. Prima di conoscerli, aveva avuto modo di sentir parlare di loro, erano conosciuti per la loro bravura durante il liceo, e non c’era da stupirsi che fossero riusciti a entrare nella Nazionale. Quando Oikawa debuttò all’interno della squadra, non era ben sicuro su come prendere quei due, almeno fuori dal campo, perché era sempre stato bravo a capire quale tipo di alzata uno schiacciatore preferisse o meno. 
E, dai discorsi su come perfezionare la traiettoria della palla, si era passati alla confidenza nuda e cruda, senza che tra di loro ci fosse alcuna vergogna. Erano pur sempre i suoi compagni. 
«Molto spiritoso Ku-chan! Davvero molto spiritoso!» disse, rispondendo di fretta al messaggio e richiudendo il telefono dentro il borsone.
Il centrale rise. «Oh, andiamo, volevo solo sapere che cosa ti avesse scritto Eiko!»
«Kuroo, ma non saranno affari suoi?» intervenne l’ace della squadra, togliendosi la maglietta e lanciandola in direzione del suo borsone aperto. 
«Grazie Boku-chan!»
«Non prendere le sue difese, tanto lo so che muori anche tu dalla voglia di saperlo!» continuò a ridacchiare l’altro, i suoi occhi affilati come quelli di un gatto puntanti in quelli grandi e vispi del compagno. 
«Ti sbagli» disse, incrociando le braccia. «Al contrario di te, io porto rispetto all’alzatore della squadra.»
«Il che vuol dire che gli lecchi semplicemente il culo!»
Volò qualche colpo da parte sia dell’uno sia dell’altro, ma senza che si facessero realmente male, e Oikawa stette ad osservarli senza sapere se ridere o, semplicemente, alzare gli occhi al cielo. Era sempre così con loro due. 
Tossicchiò, e i due giocatori lasciarono l’opera a metà. «Comunque, il messaggio non era di Eiko, ma di una persona con cui devo uscire stasera…»
«Aspetta, non mi dirai che tradisci Eiko-san!» Come al solito, Bokuto era saltato a conclusioni troppo affrettate, e aveva spalancato gli occhi e alzato la voce per la sorpresa. 
«Che c’è di male se Oikawa vuole divertirsi un po’?» disse Kuroo, togliendosi anche lui la maglietta. «Come si chiama?»
«Non è una lei» cominciò, rendendosi conto solo in quel momento che lui era ancora l’unico a non essersi tolto nulla in quello spogliatoio. «Mi vedo con Iwa-chan, stasera!»
Dopo l’ultima serata che avevano passato assieme e dopo quanto Iwaizumi gli aveva raccontato, i due avevano continuato a sentirsi, scambiandosi qualche messaggio di tanto in tanto. Certo, adesso Oikawa cercava di mandarli ad orari più decenti e che non svegliassero Iwa-chan nel cuore della notte, perché altrimenti rischiava che si arrabbiasse e che non si facesse sentire per tutta la giornata. Letti da un esterno, probabilmente sarebbero stati visti come dei messaggi di poco conto, dove l’uno – in questo caso il setter – chiedeva all’altro cosa stesse facendo, mentre si organizzavano per una futura uscita.
Oikawa avrebbe voluto vederlo prima, ma tra gli allenamenti e gli impegni di lavoro di Hajime non erano riusciti a trovare delle ore buche per una possibile uscita. Alla fine, il giornalista l’aveva contattato la sera prima, dicendogli che era riuscito a liberarsi e che, se voleva, potevano vedersi l’indomani. Non aspettava altro, Iwa-chan gli aveva dato campo libero e alla fine, facendo una lista di tutti i posti meno cari del paese, non troppo lontani e dove si mangiasse bene, era riuscito a trovare il posticino che avrebbe visto Hajime come il perdente della scommessa. 
Ripensò alla sua risposta al selfie che aveva scattato prima di entrare nel palazzetto e sorrise. Iwa-chan, per messaggi, era sempre lo stesso, poteva sembrare freddo e distaccato, ma sotto sotto si nascondeva una persona dall’animo gentile e paziente. Molto paziente. 
I suoi compagni inclinarono la testa di lato, e se non avesse avuto la mente da un’altra parte, Oikawa li avrebbe persino trovati divertenti. «Iwa-chan è… il giornalista di cui ci hai parlato?» chiese Kuroo e all’affermazione del compagno, tutto sorridente, non poté non rispondere con un altro sorrisetto che lasciasse intendere altro. «Oh, allora è così che stanno le cose!»
«Così come?» chiese Oikawa, confuso. 
Il centrale ed ex-capitano della Nekoma, una tra le squadre più forti del paese, finì di spogliarsi prima di rispondere, sentendo gli occhi di Oikawa e di Bokuto, ex-capitano della Fukurodani, addosso. Non smise di sorridere neanche per un minuto. «Tranquillo, Tooru, tanto l’ho sempre detto che fondamentalmente sei bisessuale.»
Se non fosse che oramai conoscevano Oikawa da diversi anni, entrambi i compagni avrebbero giurato di averlo visto arrossire, in una frazione di secondo, anche se la sua pelle bianco latte era tornata ad essere immacolata.
«E con questo cosa vorresti insinuare?» chiese, storcendo il naso, quasi indignato e cercando di non far trasparire il suo imbarazzo per quella frase. 
Come se non bastasse, non solo venne totalmente ignorato, ma Bokuto si affrettò ad aggiungere la sua. «Dici? Io ho sempre sostenuto che fosse pansessuale…»
Kuroo lo guardò perplesso, ed entrambi non badarono affatto al crescente stupore del setter, che adesso non si apprestava più a celare. «Perché, tu sai che cosa significa?»
«Certo che so che cosa significa!»
«Allora hai seriamente un cervello…?»
Bokuto stava per mollargli uno scappellotto sulla nuca, ma il centrale bloccò facilmente il suo polso, ed entrambi stettero a fissarsi come due animali che stavano per scannarsi a vicenda; Oikawa era quasi certo che sia Kuroo sia Bokuto sarebbero stati in grado di spezzare il braccio all’altro se ne avessero avuto la possibilità. 
«Guardate che io sono ancora qui…» disse, ancora offeso per essere stato messo da parte nonostante l’oggetto della discussione fosse proprio lui. 
Il centrale lasciò il polso dell’ace per avvicinarsi ad Oikawa, passandogli un braccio attorno al collo, e il setter si ritrovò a stringere le spalle. Di norma, non aveva problemi con manifestazioni di questo tipo – con Kuroo, poi, era stato il primo con cui era riuscito ad avere ottimi rapporti –, ma in quel caso stava facendo di tutto per mostrare all’altro il suo sdegno. Questo, però, non lo fermò ugualmente. 
«Ehi, capitano, secondo te Oikawa è bisessuale o pansessuale?»
Tooru spostò lo sguardo di lato, incontrando gli occhi affilati del capitano della squadra, nonché suo avversario di vecchia data. Ushijima Wakatoshi li stava guardando senza fare alcun cenno o far trasparire alcun stupore.
Dopo essere riuscito a entrare, finalmente, nella squadra come alzatore titolare, Oikawa sapeva benissimo che avrebbe avuto a che fare con quel tipo che, da sempre, era stato il motivo fisso per cui si allenava fino a cadere stramazzato a terra. 
Ricordava che una volta, mentre si stava allenando alla battuta, aveva quasi rischiato di pestare a sangue un suo kohai solo perché gli aveva chiesto se potesse allenarsi con lui, ma questa era un’altra storia. 
L’idea di vivere nell’ombra, di non riuscire a diventare il giocatore che voleva essere, l’aveva torturato da sempre. Dopo quella storia e dopo aver rischiato di finire in ospedale un paio di volte, quell’ossessione si era un poco attenuata, specie dopo aver avuto a che fare con la sua squadra del liceo, che nonostante tutto l’aveva sostenuto sempre. Ma non era scemata del tutto, ogni tanto ricompariva, soprattutto quando sapeva che tra lui e Ushijima c’era un livello di forza notevolissimo, e fu uno dei motivi per cui non riuscì mai a batterlo al liceo. 
Adesso erano compagni e doveva ammettere che, dopo averlo conosciuto un po’, per quanto gli fosse stato possibile, non era male come persona. Tutto sommato, avevano un buon rapporto.
Li guardò, perplesso, anche se non si dava a vedere. «Ma Oikawa non è fidanzato, scusate?»
«Sì, ma a quanto pare si è preso una sbandata per il giornalista che l’ha intervistato l’altra volta.»
Oikawa cercò di fare di tutto per non trasalire, per non dare a Kuroo ulteriore conferma di quello che stava dicendo. Certo, quella settimana era stata forse la più strana che avesse mai vissuto nei suoi ventidue anni di vita: aveva cominciato ad essere un po’ scostante nei confronti di Eiko, ma questo non significava che non le volesse più bene e non era più capitato quanto successo la sera che si era visto con Iwa-chan. Eppure, quel ragazzo era sempre un pensiero costante, a dimostrazione del fatto che avesse totalmente ignorato il messaggio della sua fidanzata per rispondere a quello del giornalista. 
Ammettere che stava cominciando a sentire qualcosa di diverso per Iwa-chan era fuori discussione: era solo preso dalla foga del momento, probabilmente sarebbe passata col tempo e avrebbe ripreso a baciare e coccolare Eiko-chan come faceva sempre. 
«Non mi sono preso una sbandata per Iwa-chan!» bofonchiò. «Stiamo solo diventando amici!»
Kuroo continuò a non ascoltarlo, e avvertì lo sguardo pungente di Wakatoshi su di sé, che lo squadrò da capo a piedi. Era una cosa che faceva anche Oikawa, ma quando era lui ad essere la vittima designata gli dava fastidio. 
«Mi sembra che vi abbia risposto» disse, e nel mentre si diresse verso la doccia, un asciugamano a coprirgli il basso ventre. 
«Dai, capitano, non mollarci così!» gli urlò Kuroo, lasciando Oikawa che non la smetteva di produrre versi indignati. 
«Tuttavia – e Wakatoshi si fermò poco prima di raggiungere gli altri in doccia – ho sempre avuto il sospetto che fosse bisex.»
Il centrale produsse un’esclamazione di vittoria, guadagnandosi un dito medio da parte di Bokuto. Il setter, in tutto questo, aveva osservato Ushijima mentre si dileguava dentro la doccia senza riuscire a spiccare parola. Riuscì a elaborare una frase di senso compiuto solo poco dopo.
«Ushijima-chan, questa me la paghi!»







Il posto in cui aveva deciso di portare Iwa-chan quella sera non era altro che una semplice bancarella di takoyaki, e non appena si erano trovati là davanti, il proprietario che gli aveva sorriso, Iwaizumi aveva pensato che l’altro lo stesse prendendo in giro. Non gli avrebbe propinato un posto simile a quello dell’altra volta, questo era ovvio, ma non si aspettava nemmeno un classico cibo da street food. 
Oikawa si era fatto le più belle risate della sua vita, seduti sugli sgabelli, in una delle zone più popolose di Tokyo, Hajime che lo guardava torvo e mormorava tra sé e sé parole che l’altro non capiva. 
«Questo vuol dire che ho vinto io, giusto Iwa-chan ~?» gli aveva detto, e l’altro rispose masticando un’imprecazione; cosa che destò ancora di più l’ilarità di Tooru, guadagnandosi uno schiaffo dietro la testa.
Benché avesse perso la scommessa, Hajime si era sentito più a suo agio in un posto del genere, il proprietario che gli parlava pacatamente, l’odore di polpo che saliva lungo le sue narici. Li aveva provati la prima volta a Osaka, sua figlia aveva insistito tanto perché li mangiasse, e aveva sorriso per tutta la serata, Akane che muoveva le gambine troppo corte per la sedia, la faccia tutta impasticciata e che Hajime dovette aiutarla a ripulire. 
E, proprio come allora, non solo aveva trovato i takoyaki ottimi, ma si era persino ritrovato a sorridere. Oramai era appurato che Oikawa avesse un certo ascendente su di lui, non sapeva bene se in senso positivo o negativo. Questo suo lato – quello di un ragazzo qualunque, cui semplicemente bastava passare una semplice serata in compagnia per essere felice – piaceva ad Hajime. Preferiva parlare con lui in questo modo, con quella persona che stava fuori dallo schermo, dal campo di gioco, dalle fotografie nelle riviste, che con l’altra parte, quella che oramai conoscevano tutti.
Appariva molto più vero così, divertendosi a mangiare un semplice piatto cucinato per strada.
Avevano passeggiato per un po’,  le strade coloratissime e illuminatissime come sempre, fiumi di persone e macchine che si muovevano attorno a loro; avevano parlato del più e del meno, Oikawa raccontando che Eiko stava facendo le valigie per un servizio fotografico che avrebbe girato a Parigi, Iwaizumi parlottando un po’ di sua figlia e della carriera da violinista di sua moglie. Il setter aveva cercato di essere il meno invadente possibile, anche se andava contro la sua natura, e sebbene Hajime avesse sospirato più e più volte, oramai non c’era nulla che non potesse seriamente dirgli. Gli aveva parlato del suo passato, la cosa che da sempre nascondeva al mondo, per Oikawa non aveva più segreti e questo lo sapeva bene.
Erano incappati in una bancherella di taiyaki, e Oikawa lo aveva assillato talmente tanto, mettendo persino gli occhi da cucciolo bastonato, che alla fine Hajime li aveva comprati – e questo, con la cena di adesso e il cinema, si sommava a tutto il resto. 
Senza volerlo, mangiucchiando i dolci ancora caldi, erano arrivati fino al parco dove erano stati l’altra volta. Certo, le bancarelle non erano poi così lontane, ma neanche tanto vicine. 
«Guarda dove siamo finiti, Iwa-chan!» aveva esclamato Oikawa, finendo di mangiare il suo taiyaki, e Hajime aveva sbattuto gli occhi, ancora incredulo. Avevano camminato sul serio così tanto?
Decisamente sì. Ed era la prima volta che Iwaizumi apprezzava la compagnia di Oikawa. Non c’è due senza tre, dice un famoso detto, e anche se la seconda volta è sempre la migliore, in quel caso non era andata così. Era come se il fatto di sentirsi praticamente quasi tutti i giorni con messaggi vari, il fatto che gli avesse raccontato della morte dei suoi genitori, lo facesse sentire più leggero, capace di aprirsi liberamente con lui. Rimaneva sempre la classica persona burbera e che sorrideva in occasioni rare, ma Oikawa… era un bambino un po’ troppo cresciuto, eppure sotto sotto gli piaceva andargli dietro. Del resto, con una figlia piccola, sapeva benissimo come comportarsi. 
Per cui, sì, fu la prima volta in cui Hajime non avvertì il desiderio di voler fuggire a gambe levate verso casa; ovviamente, non lo avrebbe ammesso mai. 
Adesso, erano seduti ancora una volta sui piloni, senza dire nulla in particolare, mentre Oikawa teneva il naso rivolto verso l’alto, come nel tentativo di respirare un po’ d’aria pulita. Si accorse di un pallone di pallavolo abbandonato, solo quando i suoi occhi vagarono sugli alberi che circondavano il perimetro e che si muovevano sotto i colpi del vento.
«Ti va di fare qualche alzata?» chiese, un sorriso affabile a dipingergli il volto.  
Iwaizumi aprì appena le palpebre, gli occhi verdi leggermente sopresi, grattandosi poi la nuca. «Non gioco da diverso tempo, non so…»
«Andiamo, Iwa-chan, voglio vedere quanto sei bravo!»
Il giornalista prese un bel respiro, prima di alzarsi e dirigersi verso Oikawa, al centro del piccolo parco, mettendosi davanti a lui e aspettando di ricevere la palla.
«Ti avverto che ci andrò pesante!» gli disse, e ancora una volta assunse quell’aria di sfida che procurava ad entrambi una scarica di adrenalina lungo tutto il corpo. 
«Non aspetto altro!» rispose, scoprendo i denti un ghigno famelico, e Oikawa si sentì subito euforico. 
Non scherzava quando disse che avrebbe giocato ad un livello superiore rispetto alla media – d’altronde, lui era abituato così; questo, però, non scoraggiò minimamente Hajime, che rispose sempre alla palla che riceveva con la giusta mossa e il giusto tempismo. All’inizio era stata un po’ dura, ma alla fine era riuscito ad abituarsi al ritmo, e ammetteva che gli mancava da morire: sentire i polmoni che quasi bruciavano, le ginocchia cedere, lo esaltava da morire. E, a giudicare dall’espressione di Tooru, anche per lui doveva essere lo stesso.
Era talmente concentrato su quello che stavano facendo, sull’espressione del setter che a una prima occhiata avrebbe ucciso anche un killer, dal non accorgersi che, nel frattempo, l’altro gli stava parlando. Gli faceva più che altro dei complimenti, chiedendo ogni tanto qualcosa sulla sua squadra del liceo o perché non avesse ancora deciso di ricominciare a giocare, e Hajime rispondeva sempre usando monosillabi. Fu la successiva domanda che lo fece distrarre del tutto.
«Lo sai che l’altra notte ti ho sognato?»
I suoi occhi erano oramai solo per la figura di Tooru che, con un gesto fluido e calcolato, come se non avesse detto niente di che, mandò la palla nella sua direzione, convinto che l’altro l’avrebbe presa. Si accorse del madornale errore solo quando Iwaizumi fu a terra, massaggiandosi il naso per il dolore. 
«Cazzo!» esclamò, e guardandosi il palmo della mano si accorse che era leggermente sporco di sangue. Niente di grave, però.
«Iwa-chan, tutto okay?» chiese, avvicinandosi di tutta fretta verso di lui, che si era sollevato da terra. Notò il leggero rivoletto di sangue che gli usciva dal naso. «Sei stato fortunato, era una delle mie battute peggiori. Se fosse stata più forte forse avrei potuto romperti il naso…»
«E dovrei ringraziarti per questo?» disse, asciugandosi con un fazzoletto. Per fortuna, la perdita non fu eccessiva, smise di sanguinare poco dopo. 
«Dai, ti do una mano» e nel dirlo gliela porse, gesto a cui Hajime rispose spingendo l’altro per terra, verso di lui. Sentì le lamentele di Tooru poco dopo, mentre si toccava la fronte. «Ma ti sei bevuto il cervello?»
«Questo è per esserti vendicato del colpo che ti ho dato io quando eravamo piccoli!» In effetti, poteva sembrare un piccola vendetta che il vicecapitano della squadra si era preso per quanto successo anni prima. 
«Ti giuro che è stato un incidente, Iwa-chan!» pigolò, la fronte che cominciava ad arrossarsi proprio al centro. «E poi, se mi faccio male, ne subirai le conseguenze, lo sai?»
«Vuoi farmi causa? O vuoi picchiarmi anche tu, perché su quest’ultimo punto sono un po’ restio a crederci…»
«Guarda che posso farti venire un occhio nero, Iwa-chan!»
«Voglio proprio vedere, Shittykawa!»
Ed eccola di nuovo, quell’atmosfera di sfida, solo che questa volta era c’era qualcosa di diverso, come se improvvisamente si fosse innescata una reazione chimica e fosse esploso qualcosa, come se l’aria fosse pregna di elettricità e loro ne fossero inevitabilmente delle vittime. Oikawa non scherzava quando diceva che se la sapeva cavare con le mani anche senza un pallone, aveva visto talmente tante volte Kuroo e Bokuto arrivare alle mani, scherzosamente, che oramai era abituato a certe cose. 
E la faccia che aveva assunto Kageyama, il suo kohai, dopo che gli aveva mollato un ceffone in faccia, gli diceva che non era stato un colpo così leggero. 
Si era scusato con quel ragazzo solo dopo anni, quando la sua squadra, la Karasuno, aveva battuto la Seijoh nella semifinale che avrebbe decretato quale scuola sarebbe stata rappresentante al Torneo Primaverile. In quel lasso di tempo, tra i due c’era stato solo un muto odio, oltre che alla determinazione di superare l’altro in tutto e per tutto. 
Rimaneva il fatto che, in quel momento, quello ad essere più manesco era decisamente Iwa-chan, e forse era per questo che stava avendo la meglio, nonostante Oikawa gli avesse fatto male in diversi punti. Sembravano due ragazzini di quindici anni, e anche se Hajime aveva picchiato diverse persone nella sua vita, non l’aveva mai fatto senza l’intento di voler seriamente ferire qualcuno. Non c’era rabbia tra i due. Era solo un gioco. 
Gli fu addosso solo poco dopo, bloccandogli il collo con una mano, e Oikawa si ritrovò a gemere leggermente e a imprecare in maniera colorita, anche se Hajime non poté sentirlo per via del colpo che gli aveva dato all’orecchio e che l’aveva stordito un po’. Sorrise, un sorriso di vittoria sul suo volto, e si chiese quante persone potessero dire di avere visto Oikawa Tooru così, vulnerabile e con la consapevolezza di essere stato appena battuto. Il petto gli si alzava e abbassava a un ritmo costante, come anche il suo, alla continua ricerca di un po’ di aria. Avevano entrambi i capelli appiccicati ai lati della fronte e i vestiti mezzi sporchi, ma non si posero il problema che sarebbero dovuti ritornare a casa conciati in questo modo.
Senza volerlo, Oikawa puntò gli occhi castani nei suoi, e fu la prima volta che riuscì ad osservarli così bene, ogni singola nervatura che diventava più scura non appena si avvicinava alla pupilla, e avvertì il cuore schizzargli direttamente in gola. Iwa-chan non era uno che aveva l’abitudine di evitare lo sguardo dell’altro, era un po’ come lui, non aveva paura di sostenerlo, perciò non era la prima volta che gli capitava di incrociarli; ma non li aveva mai guardati da così vicino, e voleva credere che la sensazione di calore che sentiva salire dalla bocca dello stomaco, fino al petto, fosse dovuta alla fatica di poco prima.  
«Non mi sono preso una sbandata per Iwa-chan!»
La sua voce gli rimbombò dentro le orecchie come un ricordo lontano, e graffiava persino i timpani. No… Non poteva seriamente essersi preso…
Il filo dei suoi pensieri fu spezzato, non appena si rese conto che Iwa-chan si era buttato di lato, togliendosi da sopra di lui, e l’altro riuscì finalmente a respirare decentemente, entrambi affannati. 
«Hai ragione, non te la cavi male…» ammise.
Oikawa fece una mezza risata, scacciando quello che era successo prima dalla mente. «Te l’avevo detto…»
Continuarono a prendere fiato, entrambi restii ad alzarsi da terra – perché, al momento, gli doleva da tutte le parti. Fu Oikawa a parlare, di getto, senza pensarci.
«Una volta ho mollato uno schiaffo a un mio kohai…»
Hajime voltò la testa di scatto, sorpreso. L’idea che anche Oikawa potesse picchiare qualcuno per pura rabbia, lo metteva un po’ a disagio, ma non disse niente, lasciò che fosse lui a parlare liberamente, esattamente come aveva fatto Tooru quando lui raccontò il suo passato. Evidentemente, dalla faccia che aveva assunto, non ricordava quell’episodio con tanta fierezza. 
«Mi aveva chiesto di aiutarlo con le battute… Ero alle scuole medie, la mia squadra era stata sconfitta ancora una volta da quella di Ushijima-chan, perciò non facevo che altro che allenarmi.» S’interruppe un attimo, il viso rivolto verso il cielo stellato. No, per adesso non riusciva proprio a guardarlo di nuovo negli occhi. «Tobio-chan era del primo anno ed era decisamente più bravo di me in molte cose, un talento naturale. Perciò lo vedevo come una minaccia… E quando mi chiese se poteva allenarsi con me, io…»
Si morse il labbro inferiore, sapeva che lo sguardo indagatore di Iwa-chan – quello che, senza che se ne rendesse conto, assumeva quando lavorava – lo stava giudicando. 
«Mi ha odiato, ovviamente. Il mister insabbiò la cosa, per fortuna era arrivato prima che potessi fare di peggio…»
«Te ne sei pentito?»
La domanda di Iwaizumi fu inaspettata, e adesso Oikawa riuscì finalmente a spostare lo sguardo sull’altro. Non si ritrovò davanti lo stesso spettacolo di prima, né uno sguardo di rimprovero da parte di Hajime, sembrava quasi che… lo capisse. 
Annuì. «Dopo anni… ma sì. Anche se non è stato facile scusarmi, ho pur sempre un orgoglio, io.»
Hajime alzò gli occhi al cielo, le braccia dietro la nuca; adesso, erano i suoi occhi puntati verso il cielo. Gli aveva raccontato quell’episodio di cui tutti erano all’oscuro pur sapendo che faceva il giornalista sportivo e che, queste cose, per lui erano come oro colato. Non sapeva come sentirsi a proposito del fatto che Oikawa gli aveva praticamente dato piena fiducia. «Sempre meglio di niente…»
Tornarono in silenzio e a fissare il cielo per poco, poiché il giornalista parlò di nuovo. «La mia prima rissa è stata a sette anni… Dei miei compagni, avevano offeso mia madre…» Mandò in gola un grumo di saliva, Oikawa che lo guardava con la stessa espressione di quella sera d’ottobre. Si massaggiò le nocche, come se ricordasse il dolore che aveva provato non appena si era reso conto non solo di essersele scorticate, ma anche di quello che aveva fatto. «Mi avevano affidato alla sorella di mia madre, e lei andò fuori di testa quando lo seppe. La strigliata vera e propria arrivò solo a casa, e ricordo di… essere scoppiato a piangere. Al funerale non avevo pianto, e probabilmente non lo facevo da due anni… Mi rintanai in camera e non sono uscito per delle ore.»
E ancora una volta, Oikawa non seppe cosa dire. Solo che stavolta non c’era essenzialmente niente da dire. Funzionava così tra loro due, si scambiavano messaggi futili e di poco valore quando non si vedevano, e si raccontavano tutto alla prima occasione. Era come se sapessero esattamente che l’altro l’avrebbe ascoltato, che gli avrebbe potuto raccontare qualsiasi cosa senza rimpianti. Come se parlassero così da tutta la vita e non da un mese scarso. 
Hajime decise di non continuare il discorso, una domanda che ancora gli pizzicava sulla punta della lingua e che aveva dato il via a tutto. «Quindi, mi avresti sognato?»
Non era un esperto di psicologia, ma sapeva che non era mai una cosa positiva. Il setter sorrise. «Tranquillo, non è niente di che! Ho sognato che eravamo diventati amici dopo l’incidente della palla!»
«E meno male che era solo un sogno!»
«Iwa-chan, sei antipatico!» e nel dirlo gli mollò un pugno sul braccio, ricambiato subito  dall’altro, e probabilmente ce ne sarebbero stati degli altri, se Oikawa non avesse continuato a parlare. «Eravamo persino nella stessa squadra alle medie e al liceo, e tu giocavi nel ruolo di asso.»
«E magari andavamo pure d’accordo?»
«Mi picchiavi sempre, ma eravamo in perfetta sintonia!»
Hajime fece una smorfia poco convinta, poi aggiunse. «Beh, di certo avrei evitato che picchiassi il tuo kohai dandoti una craniata sul muso e facendoti sanguinare…»
«Iwa-chan, perché devi essere sempre così cattivo con me?» gli urlò nell’orecchio, offeso. 
«Se urli di nuovo così, giuro che te la do adesso una testata!» gli rispose l’altro, e Oikawa non poté che sporgere il labbro inferiore e tornarsene buono buono a guardare il cielo stellato. 
Era raro poter assistere ad una cosa del genere a Tokyo. Le luci dell’insegne erano troppo forti e la gente troppo presa dalla sua vita sulla terra per accorgersi di chi popolava la notte. Oikawa era sempre stato un patito di tutto quello che riguardava lo spazio, e lo era fin da quando – da bambino –  guardava le stelle con suo nonno nella sua piccola villetta fuori città, in campagna. Là, lo spettacolo era mille volte meglio, ma ci si poteva accontentare: qualche piccola stella ancora si intravedeva. 
Fu una questione di qualche minuto, i due ancora distesi come se fossero sul pavimento pulito delle loro case, prima che l’umore di Oikawa cambiasse repentinamente. Hajime se n’era già accorto prima, quando aveva parlato di quel piccolo battibecco, e si meravigliò di constatare che Oikawa Tooru era effettivamente umano e non un macchina pronta al servizio. Nascondeva tanto, forse un mondo, dietro quella maschera che indossava solo durante le dirette televisive e, possibilmente, con i suoi compagni di squadra. 
Gli occhi gli brillavano mentre osservava il cielo, stella dopo stella, eppure giurò che il volto gioviale di Tooru avesse assunto una sfumatura malinconica, quasi triste. 
«Iwa-chan» lo chiamò lievemente. «Non hai mai avuto la sensazione che qualcosa mancasse nella tua vita?»
Emise una sorta di grugnito, senza dare troppo peso alla domanda che gli era stata rivolta e che, in verità, gli aveva causato una fitta all’altezza del petto. Cercò di non dare a vedere nulla, come se stesse cercando di cacciare via qualcosa che lo stava infastidendo, tornando ad osservare il cielo. 
«La mia vita è sempre stata un casino, quindi non ci ho mai pensato veramente…»
Oikawa accennò una risata, giochicchiando col cordoncino della sua felpa. «Io sì…»
L’altro si appoggiò sul gomito, squadrandolo dall’alto in basso, un sopracciglio alzato. «Sta parlando il setter della Delegazione Nazionale Giapponese, fidanzato da quattro anni con una delle modelle più famose del paese?»
«Sei sempre così antipatico, Iwa-chan!»
«Mi fai incazzare, cosa mancherebbe alla tua vita perfetta, sentiamo?»
«Non lo so.» Ci fu un attimo di silenzio, il cordoncino che si attorcigliava all’indice di Oikawa, quest’ultimo che lasciava vagare lo sguardo. Sguardo che, ancora, Iwaizumi non poteva fare a meno di scrutare con un leggero cipiglio. «L’ho sempre avuta… Fin da quando ero piccolo. Non ci prestavo attenzione sempre, ma quando ero solo era tremendo… sentivo un vuoto all’altezza dello stomaco e non se ne voleva andare più via…»
Per un po’, non dissero niente, Hajime che scrutava il suo viso facendo saettare gli occhi dall’alto verso il basso, e viceversa. Ora aveva finalmente capito che tipo di persona fosse Oikawa: in campo, sui social e in televisione era quel favoloso setter che tutti ammiravano, quella furia che in campo pareva inarrestabile, trincerata in una squadra che, nonostante gli elementi forti, detenesse ancora qualche debolezza; fuori dal campo, tuttavia, era una persona estremamente fragile. Tooru aveva delle debolezze, Tooru forse si sentiva ancora surclassato dalla figura magistrale e imponente di Ushijima, e lui nascondeva tutto questo dietro un sorriso e il suo atteggiamento scherzoso.
Aveva avuto anche lui i suoi momenti in cui si sentiva completamente solo, tagliato fuori da tutto e da tutti, e forse era per questo che aveva avuto bisogno di credere che ci fosse qualcosa che non andasse nella sua vita. Come se gli mancasse qualcuno accanto a riscuoterlo dal suo stato di totale depressione. 
Hajime non ci credeva a queste cose. O, semplicemente, non ci voleva credere per principio. Perché, oltre alla sensazione di inadeguatezza, oltre alla sensazione di sentirsi sbagliato, aveva provato anche quella sensazione di vuoto. Ma troppe cose erano mancate nella sua vita, e oramai ci aveva fatto l’abitudine. 
Era una cosa normale, magari dettata dalla sua mente. Niente di che. 
«Tu lavori troppo di fantasia… Probabilmente era solo la fame…»
Gli arrivò un altro pugno, stavolta sulla spalla. Provò una sensazione di sollievo, giusto il tempo di vedere Oikawa di nuovo con il broncio da bambino. «Iwa-chan! Io stavo facendo un discorso serio!»
«Questo l’avevo capito… Peccato che io non riesca a rimanere serio se si parla di fatalità e destino» disse, quasi con uno sbuffo. «Lo facevo anche con la mia ex-moglie…»
Il castano non seppe perché il solo essere paragonato all’ex-moglie di Hajime gli fece venire una fitta proprio all’altezza del petto, la gola secca e ruvida come cartavetrata, gli occhi che tremolavano mentre osservavano il profilo del giornalista. Scosse appena la testa, ma un dolore non fisico aveva oramai rimpiazzato quello che sentiva lungo tutto il corpo. No, si sbagliava. Lui non… 
«Credeva persino alla leggenda del filo rosso, pensa!»
«Perché, tu non ci credi?»
Hajime districò i capelli sudaticci tra le dita. «L’ho sempre considerata una storia per bambini o che si racconta a qualcuno col cuore spezzato.»
«Io non la penso così. Penso che la gente sia realmente legata tra loro, in qualche modo. Prendi noi due, – nel dirlo, si guadagnò un’occhiataccia scettica da parte dell’altro – io penso che eravamo destinati per forza ad incontrarci!»
«O forse si è trattato solo di uno sfortunato caso, tu che dici?»
«Ah, Iwa-chaaan ~!» strascicò Oikawa, tornando a sorridere come sempre, anche se gli angoli della bocca gli vibravano appena. E non era per quello che aveva detto, no, probabilmente c’era dell’altro, ma Hajime al momento non seppe identificare cosa. Una parte di sé avrebbe voluto che tornasse in quel modo per poter avere una migliore conversazione con lui, ecco, sentirlo più vicino al suo mondo.« Non sei per niente romantico, sai?» 
Fece schioccare la lingua e non disse una parola, rimettendosi seduto, il dolore al naso che era nullo in confronto a quello della schiena.
«Ad ogni modo, – cominciò, sapendo già che quello che stava per dire avrebbe scatenato un putiferio – Tomoko mi ha prestato l’intera saga di Star Wars, e l’ho vista…»
Era stato a casa della sua collega qualche tempo prima, per aiutarla a riorganizzare le idee per il suo nuovo articolo e, come ricordava bene, aveva uno scaffale pieno di dvd messi in bella mostra in salotto, e il cofanetto nero contenente tutti i film della saga spiccava rispetto agli altri. O forse era Hajime che tendeva a buttarci un occhio, ripensando a come da una semplice sciocchezza come quella si fosse passato a tutt’altro. Alla fine, era stata Tomoko stessa a darglieli, notando la sua continua disattenzione a quello che stesse dicendo, e anche se Hajime cercò di rifiutare con tutte le sue forze, la ragazza era comunque riuscita a metterglieli in mano.
Decidere di guardarli fu come andare contro se stesso e i propri principi.
«E che ne pensi?» Il setter si issò anche lui a sedere, speranzoso come non mai. 
Era quasi tentato di dirgli che sì, aveva confermato la sua idea su quei film, eppure…
«Che non sono poi così male…» borbottò, e come c’era d’aspettarsi Oikawa produsse un urletto degno di una gallina cui era stato torto il collo, e con un balzo veloce fu in piedi, dimenticandosi del dolore lanciante alle gambe, per via degli allenamenti e di quanto era successo poco prima. Maledizione a lui, ai suoi stupidi assilli e alle sue fotografie idiote di lui con una spada laser in mano che gli mandava tramite messaggi!
«Lo sapevo, lo sapevo che saresti passato al lato oscuro della Forza!» urlò, e Iwaizumi inarcò un sopracciglio, perché sentirlo parlare come un nerd non era di certo una cosa che si addiceva ad Oikawa. «Che c’è, non dirmi che non ti piacerebbe essere un Sith!»
Preso allo sprovvista – e ancora più stupito di come quel ragazzo sapesse cambiare umore in una frazione di secondo, in base a ciò di cui si stesse parlando – il giornalista non rispose subito, prendendosi un attimo per assimilare la domanda. «Scusami, quindi non stai dalla parte di Luke Skywalker?»
Il ragazzo infossò il collo. «Beh, sì… Ma non ti nego che mi dispiacerebbe essere un Sith…»
«Ora che ci penso… Ti ci vedo come re dispotico o signore del male…»
«Però a te non ti ci vedo proprio come Jedi, Iwa-chan…»
L’altro alzò gli occhi al cielo. «Non sono intenzionato ad esserlo…»
«Allora andiamo a vedere lo spin-off che esce a dicembre assieme?»
Il giornalista sgranò lo sguardo, ancora una volta preso in contropiede, fissando Oikawa senza sapere cosa rispondere esattamente. Per un attimo, il setter si era pentito di averglielo chiesto, considerando quanto gli avesse detto, e la sua faccia non suggeriva nulla di nuovo. Non era tanto questo, però, il vero problema di Iwaizumi al momento. Se inizialmente aveva ritenuto che vedere quei film sarebbe stata un tortura, quando aveva cominciato a capire i vari meccanismi e incastri della serie li aveva trovati estremamente interessanti. Anche l’ultimo uscito – contenuto in un dvd a parte rispetto al cofanetto – non gli era dispiaciuto, sebbene non raggiungesse l’epicità delle altre trilogie, ma questo non era buon motivo per essere trascinato al cinema da quella specie di fanatico. 
«Scusami, di solito non ci vai con Eiko-san?» gli chiese.
Il castano si grattò la nuca, le dita sui capelli soffici e fini, un sorriso nervoso che cresceva, partendo dalla gola. «L’ultimo film l’ho visto da solo… A nessuno delle persone che conosco piace questa saga…»
Ci fu giusto un attimo di silenzio, prima che Iwaizumi sbottasse, quasi indispettito. «E allora si può sapere perché con gli altri non hai insistito e con me sì?»
«Smettila di urlarmi contro, Iwa-chan!» Lo disse con la stessa vocina acuta di quel bambino di cinque anni che si era avvicinato per chiedere ad Hajime di giocare. Ricordava perfettamente quel momento, e come allora si era ritrovato a temere un possibile rifiuto.
Si perse nell’osservare i suoi occhi, ancora leggermente perplessi, sebbene l’espressione di Hajime fosse sempre accigliata, e si ritrovò bisognoso di poter scrutare meglio quelle sfumature più scure sui suoi occhi. E quando l’altro distolse lo sguardo, scuotendo la testa e ridendo, Oikawa sentì ancora il cuore lungo la gola, e gli ostruiva il passaggio, temeva di non riuscire più a respirare bene.
Lui… lui si era…
«Lo sai che sei proprio uno stronzo?»
Le pupille di Oikawa, se possibile, divennero sempre più piccole, frastornato tra quello che gli aveva detto Iwa-chan e quello che sentiva lui. Non fu in grado di rispondergli adeguatamente, che l’altro fu già in piedi, scotolandosi la terra da dosso e facendo scrocchiare la schiena leggermente indolenzita. 
«Andiamo?» chiese, schioccando le dita davanti a un Oikawa imbambolato, che parve riscuotersi subito. Lo raggiunse poco dopo, tossicchiando e cercando di assumere nuovamente il suo solito atteggiamento. 
«Allora, dopo stasera possiamo dire che siamo diventati amici?»
Iwaizumi lo guardò di traverso: aveva la testa inclinata, uno stupido sorriso stampato in faccia e le mani nelle tasche dei pantaloni, esattamente come lui. Dapprima non rispose, sibilando qualcosa tra i denti, e Oikawa dovette tendere letteralmente l’orecchio per sentire, aumentando soltanto l’irritazione di Hajime.
«Per quanto mi scocci ammetterlo, ho perso, quindi…» sospirò, e le labbra dell’altro si incurvarono in un piccolo sorriso.






Iwaizumi e Oikawa aveva oramai imparato a conoscersi.
Per quanto detestasse ammetterlo, il primo aveva cominciato ad apprezzare la compagnia del giovane setter, anche se non sapeva bene come chiamare quel loro singolare rapporto, perché non riusciva proprio a vederla nell’ottica di un’amicizia.
Il secondo, invece, era certo fin dall’inizio che quella non fosse altro che una bella amicizia. Una bellissima amicizia che rischiava di sfiorire prima che arrivasse ad essere qualcosa di concreto a causa di semplici e stupidi presentimenti senza fondamento, per via dei suoi attacchi di gelosia nei confronti della moglie di Iwa-chan, per via di come si sentiva quando lo guardava troppo intensamente. 
Oikawa non voleva sentirsi così. Quei sentimenti gli stavano scomodi e forse non erano necessari. E sentiva il polso stingere e fargli male, lì dove il destino aveva messo un filo di colore rosso.


 
[Lately, I've been, I've been losing sleep
Dreaming about the things that we could be
But baby, I've been, I've been praying hard
Said no more counting dollars
We'll be counting stars]
 



Delucidazioni:
Giuro che non sono sparita dalla circolazione, ma in questo periodo ho avuto una prova e quindi ho dovuto studiare. Mi scuso per il ritardo nell'aggiornamento >.<
Per il resto, abbiamo scoperto qualcosa in più riguardo al nostro setter del cuore, e sono apparsi altri personaggi. Mi è sempre piaciuta l'idea di una squadra composta da Kuroo come centrale, Bokuto come asso e Ushijima come opposto; tuttavia, ho cercato di essere il più coerente possibile con la situazione attuale della squadra giapponese, quindi ho tentato di spiegare che per adesso la squadra è forte ma non c'è l'unità adatta per vincere una partita del calibro delle Olimpiadi.
Per quanto riguarda la storia tra Kageyama e Oikawa, spero si sia capito: non c'era Iwa-chan a fermarlo, quindi Kags il colpo se l'è preso. E mi piace l'idea che Oikawa se ne sia pentito.
Qualche informazione in più: queste sono delle foto dei tokoyaki, sono delle polpette di polpo molto in voga in Giappone, soprattutto ad Osaka; qua ci sono altri cibi tipici, tra cui i taiyaki; il cofanetto dei film di Star Wars è ispirato a quello che ho io a casa; lo spin off di cui parla Oikawa è Rogue One, e questo è anche uno dei motivi per cui ho deciso di scrivere la storia in questo periodo, sto male; lo spezzone alla fine è tratto dalla canzone Counting Stars dei One Republic.
Tralasciando il fatto che Hajime è passato al lato oscuro della forza (??), che ne pensate della reazione del nostro Oikawa? Secondo voi che sta succedendo?
*la lanciano in un bidone*
Vi avviso di un paio di cose: nel prossimo capitolo avremo ancora Bokuto, Kuroo e Ushijima <3; farà la sua comparsa Eiko; ci sarà della musica da discoteca (???)
Che dire, grazie di essere arrivati fin qui. Fatemi sapere cosa ne pensate della caratterizzazione dei personaggi, sto un po' in ansia...
Alla prossima miei prodi <3
_Lady di inchiostro_

l'uccellino cinguetta ♥ 

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Capitolo 6
*** V ***


V
~



 
[19 novembre 2016]





Alla radio, gli speaker stavano discutendo animatamente, ma Iwaizumi non riusciva proprio a seguirli. Aveva messo la solita stazione sportiva che ascoltava quando era alla guida, e ogni tanto passavano anche delle informazioni abbastanza utili, seppur non troppo approfondite. Quella sera, però, mentre cercava sia un posto dove parcheggiare l’auto, sia il locale, aveva altro cui pensare per prestare attenzione.
Si era già pentito di aver accettato l’invito, non solo perché l’idea di entrare in un posto troppo affollato, con musica a palla e gente ubriaca gli dava fastidio, ma perché non sapeva proprio come comportarsi con gli amici di Oikawa. 
Erano giocatori che lui conosceva più che bene, passavano di bocca in bocca nel suo ufficio, e la cosa che lo rendeva ancora più nervoso era il fatto che la loro vita, sportiva o privata che fosse, passava dalla sua scrivania a una rivista. Okay, il setter non si era creato problemi, tuttavia la situazione era particolare, lui aveva insistito a conoscerlo poiché erano compagni d’asilo; se fosse stato qualcun altro, Oikawa non avrebbe avuto tutti questi riguardi, ne era quasi certo. Ed era per questa ragione che l’idea di essere visto con diffidenza non gli piaceva per niente. 
La sua vita era e continuava a essere costellata di persone che bisbigliavano mentre lo guardavano, non gli andava che succedesse anche con i compagni di squadra di Oikawa; ed era quasi certo che sarebbe andata così. 
Sbuffò, sbloccando il telefono e ricercando l’indirizzo tra i messaggi di Oikawa, la macchina finalmente posteggiata. Gli aveva mandato lo screen direttamente da Google Maps, e Hajime si accorse che non era poi così lontano da dove si trovava lui. Scese dalla macchina, sbattendo lo sportello con violenza, sbuffando ancora e ficcando le mani nella tasca della giacca.
La sua presenza era assolutamente fuori luogo. Insomma, stavano pur sempre festeggiando il compleanno di un loro compagno di squadra, lui non c’entrava assolutamente nulla. Oltretutto, era stato praticamente costretto a venire, visto che Eiko-san era partita e Oikawa non aveva nessuno a tenergli compagnia. Come se ne avesse bisogno, conosceva tutti lì dentro; semmai era lui quello che aveva bisogno di qualcuno con cui fare due chiacchere.
Capì di essere quasi arrivato, la strada che aveva percorso stretta e semibuia, quando sentì un rimbombo da lontano. Era meno forte rispetto a quelle di altre discoteche, ma era comunque inconfondibile. Scansò dei ragazzi, alcuni di loro sicuramente ubriachi o strafatti di droga, palesandosi davanti al bodyguard e mostrandogli il pass per entrare. Oikawa era venuto personalmente a portaglielo in ufficio – e per fortuna la signora della hall non lo conosceva, e lo aveva trovato a chiacchierare con la donna mentre quest’ultima gli offriva una ciambella. Per fortuna che non aveva deciso di salire in ufficio, sarebbe stato difficile da spiegare, anche se la prima e l’unica a sospettare qualcosa fu, come al solito, Tomoko-san. 
Gli aveva chiesto con insistenza cosa fosse quel biglietto che Hajime cercò di nasconderle, ma non appena era riuscita a sfilarglielo tra le mani, la ragazza aveva inclinato la testa, confusa. Non capiva perché Hajime stesse andando in un posto del genere, soprattutto visto che anche Oikawa Tooru ci sarebbe andato quella sera – informando mezzo mondo con un tweet. Alla fine, fu costretto a cedere. 
«Frequenti Oikawa Tooru?» La ragazza aveva urlato, e Hajime si era affrettato a chiuderle la bocca per farla tacere. Le permise di parlare poco dopo, come se fino ad allora avesse aspettato che succedesse qualcosa per via di quello che aveva detto. «Hajime, è fantastico!»
Aveva fatto una smorfia, poco convinto. «Non proprio, veramente…»
«No, non è tanto perché è una persona importante… cioè, anche» lo aveva rassicurato. «E’ fantastico che tu abbia un amico!»
Hajime era rimasto non poco sorpreso da quell’esclamazione. «Perché, tu pensi che io non abbia amici?»
«Perché, ne hai?»
«Certo!»
«Tipo chi?»
«Te, per esempio» e Hajime aveva giurato di averla vista diventare dello stesso colore dei suoi capelli, le poche lentiggini che risaltavano ancora di più.
Ma quando la ragazza – dopo l’iniziale imbarazzo – gli aveva chiesto di tirare fuori altri nomi, non ci era riuscito. Aveva ragione, preferiva starsene per conto suo piuttosto che in compagnia degli altri, e aveva ripreso a uscire per puro svago e non per lavoro solo grazie a Tooru. A dimostrazione del fatto che sì, forse quel ragazzo era seriamente suo amico e avrebbe dovuto considerarlo come tale. 
Entrado dentro il disco-pub, l’aria era densa e satura di fumo, sia delle sigarette che di quello proveniente da qualche effetto speciale appostato qua e là in sala. Non entrava in una discoteca da quando Minori aveva deciso di festeggiarvi i suoi diciassette anni, e anche allora si era lasciato trascinare, ma tutto era esattamente identico a prima. Gente che ballava in mezzo alla pista, strusciandosi addosso, specie se si trattava di una ragazza dai facili costumi, e il terreno appiccicaticcio per via dei drink che erano stati versati per sbaglio. Per fortuna, non era troppo affollato, si trattava pur sempre di un locale, e molta gente se ne stava seduta a mangiare e parlottare tra loro. 
Fu a uno dei tavoli più numerosi che trovò Oikawa. Si stava sbracciando già da un po’ per farsi notare, richiamandolo più volte, ma non lo biasimava, la musica era troppo forte. Per fortuna, lo strazio era terminato, anche se sapeva che sarebbe durato poco.
«Iwa-chan!» lo raggiunse di corsa, la felpa aperta, mostrando una semplice maglietta nera che risaltava la sua muscolatura. Il giornalista ebbe la sensazione che stesse correndo da lui per abbracciarlo, ed era indeciso se la cosa gli avrebbe fatto ribrezzo o lo avrebbe solo irritato. Optò subito per la seconda, anche se una parte di lui non l’accettava, ma non successe nulla. «Ti stavamo aspettando, vieni!»
Stavolta, il castano gli afferrò il polso e lo trascinò verso il tavolo, come per non lasciarlo fuggire. Fu una cosa nuova per lui, non era mai stato abituato ad essere trascinato a forza da qualcuno, neanche quando era piccolo. Era un bambino particolare, ma non capriccioso. Lo lasciò fare ugualmente, ancora troppo frastornato, e realizzò di essere davanti al gruppo solo quando cominciò a sentirsi a disagio.
Tutti quanti gli sorridevano, alcuni più coraggiosi avevano fatto un gesto appena con la mano per salutarlo; e poi c’era Bokuto Koutarou: «Oh? Allora è lui il giornalista di cui ci hai parlato!»
Sì, Bokuto era lo stesso anche fuori dalla luce dei riflettori, e Hajime dovette ammettere che fu quasi una benedizione per lui. Oikawa gli sorrise, non parendo irritato dal suo brusco e chiassoso intervento. Lo indicò. «Esatto! Lui è Iwa-chan!» Il ragazzo fece appena un cenno col capo, anche se in quel contesto risultava troppo formale. «Iwa-chan, loro sono…»
«Alcuni di loro li conosco…» si affrettò a dire. Si accorse subito che mancavano diversi componenti all’appello, sostituiti da altri individui che non conosceva, e questo gliela diceva lunga sulle dicerie a proposito del fatto che da diverso tempo c’erano tensioni in squadra. 
Una risata gutturale si levò dal gruppo, facendo voltare Hajime verso la sua destra e incrociando due occhi da felino che lo fissavano. Tetsurou Kuroo aveva il gomito posato sul tavolo e il mento sul palmo aperto, sorridente più che mai. «Già mi piace questo tipo!»
Hajime inspirò profondamente dal naso. Si sentiva un completo imbecille in quel momento, e gli parve che i suoi movimenti fossero quelli di un automa. «Auguri in ritardo…»
«Grazie!»
Preso dallo sguardo ipnotico di Kuroo, non si era minimamente accorto che Bokuto si era alzato dal tavolo per raggiungerlo, dandogli una pacca sulla spalla che quasi lo fece cadere per terra. Quel tipo ne aveva di energia da vendere. «Tranquillo, vedrai che passato del tempo con noi, ti scioglierai un po’!»
Alcuni sorrisero, altri ridacchiarono, ma nulla era fatto per prenderlo in giro. Quelle persone lo stavano seriamente accogliendo nel loro mondo, perché era di questo che si parlava, entrare a far parte di un qualcosa che non gli apparteneva, col rischio di frantumare un equilibrio. Si sedette vicino a Oikawa, aspettando di ordinare almeno un drink, e si stupì che il setter non gli avesse ancora rivolto la parola.





Aveva scoperto che alcune delle persone che si trovavano lì, altro non erano che i compagni di squadra al liceo di Kuroo e Bokuto, e Hajime si sentì un po’ più sollevato perché neanche gli ex membri della Fukurodani erano esattamente a proprio agio in quella situazione. Alcuni di loro gli erano familiari, come Akaashi Kenji: era stato uno di quelli che, assieme a Oikawa, era stato selezionato per poter entrare a far parte della Nazionale. Non pareva portare rancore nei confronti del setter in questione, anzi, si rivolgeva sempre in maniera controllata e gentile, e Oikawa non faceva che sorridere, com’era solito con tutti.
Dopo l’iniziale mutismo, Oikawa gli aveva parlato come faceva sempre, e molto spesso i loro battibecchi fecero sorridere tutti a quel tavolo. Hajime si scoprì stranamente a suo agio tra quelle persone, peccato solo per il posto troppo affollato e popolato da mocciosi che si credevano già degli adulti. Gli parlavano normalmente, senza temere di dire qualcosa di troppo, senza avere paura che quello che potessero confessargli lui avrebbe potuto scriverlo in un articolo. Di solito, non era tipo che scriveva articoli di gossip, si limitava semplicemente a parlare delle partite o dei giocatori in ambito professionale, e per quanto conoscesse abbastanza su di loro, questo non gli dava il diritto di infangargli la carriera in una maniera così meschina. 
Probabilmente qualche suo collega l’avrebbe fatto, ma lui no, ed era per questo che loro si fidavano. Improvvisamente, fu curioso di sapere che cosa gli aveva raccontato Oikawa su di lui.
Era seduto al tavolo, il drink che aveva ordinato a inizio serata ancora nel bicchiere, il ghiaccio oramai sciolto, mentre quasi tutti i ragazzi erano buttati in pista. La serata era decisamente entrata nel vivo, e se all’inizio si limitavano solo a mettere qualche musica di tanto in tanto, adesso vi era una sequenza infinita di canzoni che Hajime conosceva solo perché qualche volta passavano in radio. 
Osservò Kuroo – molto molto brillo, tra parentesi – che cercava di trascinare un ragazzo dai capelli biondicci, e che come lui era stato di poche parole, in pista. A detta di Tooru, era il migliore amico di Kuroo, ed era stato l’alzatore della Nekoma e il cervello della squadra. Sorrise, mentre il ragazzo scuoteva la testa e cercava di divincolarsi dalla presa dell’amico, gli altri che lo incitavano ad unirsi a loro. Ci avevano provato anche con lui, chiamandolo da lontano, ma Hajime si era limitato ad alzare il drink e a salutarli. Da come si muovevano, era quasi certo che la metà di loro fosse ubriaca marcia, compreso Oikawa. Quante birre aveva bevuto? Quattro? Senza contare che aveva scommesso con Bokuto che avrebbe bevuto più cicchetti alla vodka di lui. 
Stava per alzarsi e portarlo via dalla pista per un orecchio, quando avvertì la presenza di qualcuno affianco a lui, che si era appena seduto, forse con l’intento di parlargli. Ushijima non disse niente, ed era probabilmente l’unico in quel gruppo ad essere rimasto ancora lucido. A detta dei suoi compagni, non sapeva reggere l’alcool, e quando si ubriacava era davvero uno spasso. Da quella volta, aveva deciso di contenersi; e non gli pareva decisamente tipo che si ridicolizzava ballando su una musica assolutamente senza senso, e Hajime nella sua testa lo ringraziò per questo.
«Il tuo nome completo è Iwaizumi Hajime, giusto?» gli chiese, e lui fu colto alla sprovvista, annuendo appena. Gli parve di vederlo sorridere, ma forse era la sua impressione. «Ho letto diversi tuoi articoli… È un peccato, sei sprecato lì.»
Si concesse un attimo per riflettere, corrucciandosi, non sapendo se quel tipo gli stava facendo effettivamente un complimento o se aveva intenzione di offendere il suo posto di lavoro. Gli disse, sinceramente, quello che pensava. «Devo molto a Oohashi-sensei… E poi, non ho ancora ricevuto un’altra proposta di lavoro, quindi…»
Wakatoshi annuì, come a dire che capiva le sue ragioni, ed entrambi bevvero il loro drink quasi in contemporanea. 
«Oikawa ti ha raccontato qualcosa di particolare di recente?» Hajime alzò le sopracciglia verso l’alto, e il capitano della squadra capì subito di non essersi espresso nella maniera adeguata. «Nell’ultimo periodo è strano… quasi distratto. Non è da lui, perciò volevo sapere se fosse successo qualcosa.»
Il giornalista sbatté le palpebre, spostando lo sguardo su un Oikawa che, non si sapeva in quale maniera, si trovava sopra le spalle di Bokuto e urlava come un folle, gli altri che rispondevano a tono e ridevano nel frattempo. Sì, la vittoria a quella sfida lo aveva decisamente portato a quelle condizioni pietose, e anche l’ace non era messo meglio.
E mentre l’immagine che aveva davanti sfumava via, il giornalista ripensava all’atteggiamento che aveva avuto Oikawa nei suoi confronti negli ultimi giorni, dopo che si erano visti. Per lui, era rimasto sempre lo stesso, i messaggi che gli mandava erano sempre gli stessi; quando gli aveva consegnato il pass per l’ingresso aveva visto che c’era qualcosa che non andava, ma pensò che fosse solo un suo presentimento, e lui si era comportato come aveva sempre fatto, sfottendolo e sorridendogli con fare carezzevole. Vero, quella sera era stato strano, soprattutto quando sembrò ritrarsi da un possibile abbraccio, ma a parte questo e l’iniziale silenzio tra i due, tutto era andato per il meglio.
Tornò a concentrarsi su Ushijima. «No, non mi ha raccontato niente…»
Ushijima bevve l’ultimo sorso del suo drink, rosso come il sangue, lo sguardo sui suoi compagni di squadra e di cui, probabilmente, era responsabile. E non solo per quella sera. «Pensavo avesse litigato con Eiko, per questo te l’ho chiesto…»
Il giornalista non rispose, captando la vocetta di Oikawa da lontano, ed era ancora sopra Bokuto, entrambi quei deficienti che si muovevano a ritmo di musica e agitando il pugno verso l’alto. Era una fortuna che, da quella posizione, il frastuono arrivasse leggermente attutito.
«Posso darti un consiglio, Iwaizumi?» Il diretto interessato spostò lo sguardo su Wakatoshi, che si era alzato con l’intenzione di concedersi un altro drink prima che la serata degenerasse e cambiasse idea. «Presta più attenzione a quello che fa Oikawa quando è con te.»
Non riuscì a chiedere ulteriori informazioni, che l’altro se ne era già andato, lasciandolo a bocca asciutta, i suoi occhi verdi che si posavano sul viso arrossato e sorridente di Oikawa.





«Ushijima-chan ti sta simpatico?» Un singhiozzo, la voce completamente impastata e che strascicava sulle parole finali.
Come aveva giustamente previsto, erano quasi tutti ubriachi, forse si salvavano solo lui e Wakatoshi, e pochissimi componenti della Nekoma e della Fukurodani. Era una fortuna che si fossero già organizzati in tal senso, e ad ognuno era stato assegnato una o più persone da riaccompagnare a casa. Inizialmente, doveva essere Ushijima a riaccompagnare a casa Oikawa, ma quest’ultimo si era attaccato al braccio di Iwaizumi, strofinando il viso sulla sua spalla e lamentandosi sul fatto che voleva essere riaccompagnato dal “suo Iwa-chaaaan ~!”. Il giornalista si accorse dello sguardo severo che gli rivolse, dando più che mai voce a quello che aveva detto prima, ma il capitano della squadra non si oppose. Sì sentì leggermente giudicato da quegli occhi, e fu investito da una nuova consapevolezza, come se si fosse svegliato da un sogno con una secchiata di acqua gelida.
Adesso, seduti in macchina, Hajime faceva molto più attenzione al modo di porsi di Oikawa, anche se in quel momento non aveva poi molto senso, visto il suo stato. Eppure, c’è chi dice che sotto gli effetti dell’alcool le persone sono molto più sincere e tendono a fare pazzie.
Storse il naso, rispondendo alla domanda. «Non è che abbiamo parlato molto…»
Il setter, svaccato sul sedile e tenuto fermo solo dalla cintura di sicurezza, annuì vigorosamente, non del tutto convinto. Aveva parlato a vanvera durante il tragitto, ed era una fortuna che sapesse dove si trovasse la sua dimora: i privilegi di avere come amica una persona come Tomoko-san, e che quest’ultima avesse informatori un po’ ovunque. Si era messo a parlare del fatto che sarebbe voluto diventare signore dell’universo, o che avrebbe voluto viaggiare sull’Enterprise, o ancora delle sue disavventure con due individui di nome Mattsun e Makki.
«Pensavo ti piacesse… Ushijima-chan piace a tutti» disse, moggio, quasi depresso, quasi come se l’idea che Hajime ci avesse scambiato solo due parole in croce gli desse fastidio. Era come se gli avessero rubato qualcosa da sotto il naso.
Non disse niente, squadrandolo di lato, mentre accostava davanti il cancello di casa sua. Ci volle un po’ prima che Oikawa si ricordasse dove avesse messo il telecomando automatico del garage, ruotando il busto e toccandosi dappertutto. Alla fine, era nella tasca interna del giubbotto, assieme alle chiavi di casa. Poco dopo, spegnendo del tutto la macchina, lo aiutò a scendere, facendo passare il braccio del castano attorno al suo collo e sorreggendolo. Non era un’impresa facile, quel ragazzo pesava e in quel momento sembrava più un sacco di patate che un essere umano, il che non era d’aiuto. 
L’altro continuò a parlare di Wakatoshi, mormorando cose sul fatto che era giusto che lo preferissero a lui come giocatore, mentre Hajime cercava la chiave giusta. Quando finalmente la serratura scattò, promise a se stesso che sarebbe andato a pregare gli dei per ringraziarli, entrando e accendendo la luce. Fece sedere Oikawa sul bordo del gradino e lo aiutò a togliersi le scarpe, quest’ultimo che continuava a lamentarsi come un bambino, e quando finì, si occupò delle sue, trovando un paio di ciabatte non ancora usate riposte nella scarpiera. 
A una prima occhiata, si vedeva palesemente che quella casa era abitata da Oikawa Tooru: sfarzosa, ma non troppo, giusto quel tocco moderno e al passo coi tempi che caratterizzava lo stile del setter. Il salone era enorme, un divano ad angolo che occupava tutto lo spazio davanti al televisore al plasma, la cucina con penisola e laccata di bianco che quasi diventava un tutt’uno con l’ambiente senza che stonasse. Si chiese come diavolo dovevano essere arredate le altre stanze, ma non ebbe il tempo di pensarci troppo, perché si era appena reso conto che Oikawa si era messo in piedi da solo, senza che nessuno lo aiutasse, e lo stava fissando. O almeno, questo era quello che credeva Iwaizumi, in realtà pareva che fosse in un mondo tutto suo.
«Oikawa, tutto bene?» gli domandò, e quest’ultimo parve riscuotersi, ricevendo un brivido lungo tutto il corpo. 
Aprì solo la bocca. Poi la richiuse e corse subito via, e quello valse ad Hajime come spiegazione sufficiente. Imprecò, rincorrendolo lungo il corridoio buio e riuscì a intravederlo mentre si fiondava dentro una stanza, probabilmente il bagno. Aveva acceso la luce, costatò Hajime, e per fortuna era riuscito a trovare il water, dove stava già riversando tutto quello che aveva ingurgitato quella sera.
«Merda…» disse, e non aveva mai visto nessuno vomitare in quel modo; lui, cui era venuta una crisi di panico quando sua figlia aveva vomitato a soli due anni e non sapeva che cosa fare. Sembrava che Oikawa avesse venduto l’anima al diavolo e fosse un povero disgraziato che urlava dagli inferi.
Gli si avvicinò, reggendogli il capo e scostandogli dalla fronte alcuni ciuffi di capelli. Si fermò un attimo, e Hajime stava per chiedergli se andasse meglio, ma ricominciò subito dopo. Probabilmente, anche gli altri erano ridotti più o meno così, ed era quasi certo che se l’allenatore li avesse visti, li avrebbe costretti ad almeno trenta giri lungo tutto il perimetro del palazzetto per punizione. Fortunatamente, l’indomani era domenica e gli allenamenti erano sospesi.
«Va meglio?» ritentò, e il setter annuì, le palpebre semichiuse e la gola corrosa dalla bile. Tentò di aiutarlo a darsi una sciacquata, ripulendogli la faccia con un asciugamano lì vicino.
«Questo è per via del tuo stupido orgoglio!» lo rimproverò, ripensando a quel giochetto attuato con Bokuto, ma la sua voce aveva assunto comunque una sfumatura preoccupata. 
Oikawa sembrava ancora nel suo mondo, quando la sua guancia si appoggiò sulla mano di Hajime, impedendogli qualsiasi movimento, e si sentì raggelare.
Il suo viso era più bianco e la pelle era contratta in un’espressione che non gli apparteneva. Anzi, non aveva alcuna espressione e basta. 
Schiuse appena gli occhi, prima di mormorare con un filo di voce. «Iwa-chan, sei troppo buono con me.»





Decise di portarlo in camera e farlo distendere, nella speranza che si addormentasse di botto. Sentiva ancora il tocco della sua guancia sui suoi polpastrelli, il sudore freddo che gli scendeva lungo la schiena mentre si trovava faccia a faccia con lui; stava parlando con un’altra persona, non con l’Oikawa che stava in campo, non con l’Oikawa con cui aveva mangiato takoyaki. Era qualcuno con cui non riusciva ad avere un confronto, qualcuno lontano anni luce.
Cercò di scacciare quel pensiero dalla sua mente, trasportandolo dentro la stanza da letto. Era piuttosto sobria rispetto al resto della casa, un’enorme cabina armadio a occupare tutta una parete, una finestra da cui probabilmente filtrava un sacco di luce la mattina presto e un cassettone pieno zeppo di fotografie.
Cercò, come meglio poteva, di scostare le coperte, mettendo poi Oikawa a letto, come se in realtà stesse rimboccando sua figlia e non un adulto vaccinato. Buttò fuori tutto l’ossigeno che aveva trattenuto, sedendosi sul bordo del materasso, Oikawa che in automatico si era rintanato sotto le coperte.
«Vuoi che ti porti qualcosa?» gli chiese. «Faccio il caffè?»
Oikawa non rispose alla domanda. «Mi fa male la testa…»
«Perché sei uno zuccone!» E ci sarebbe andato giù pesante con gli insulti, ma non era il momento. Casomai, l’indomani.
«Iwa-chan, ma tu mi vuoi bene?»
No, non era decisamente Oikawa a parlare, ma quella parte fanciullesca e che gli ricordava tanto il bambino col batuffolo sporco di sangue dentro il naso. Quella parte che aveva bisogno di essere apprezzata da qualcuno, forse, e stava venendo fuori solo grazie all’alcool. Hajime sapeva benissimo che, in quei casi, era sempre meglio assecondare chi era ubriaco, a meno che non ci fosse il rischio di un qualche suicidio. In quel caso, però, non c’era nulla di male nel rispondere a quella domanda.
Si passò una mano sugli occhi, senza avere il coraggio di guardarlo per paura di ritrovare sul suo volto quell’espressione innaturale, quella luce negli occhi che non era la sua. «Sì, ti voglio bene Tooru.»
Era la prima volta da quando si conoscevano che lo chiamava per nome, ma non ci diede troppo peso, abbassando lo sguardo con l’intento di alzarsi e recarsi in cucina alla ricerca della caffettiera. Stava per chiedere al setter se il caffè lo prendesse sempre macchiato, quando…
«Iwa-chan, credo di essermi innamorato di te.»
Hajime non ebbe il tempo di metabolizzare niente. Se prima aveva sentito freddo, adesso si sentiva un pezzo di ghiaccio. Si voltò, lo sguardo completamente dilatato, e il suo cervello non riuscì neanche a registrare la figura del setter che si alzava a sedere e che si avvicinava verso di lui. Capì quello che stava succedendo solo quando Oikawa lo stava già baciando e le loro labbra erano già entrate in contatto.
Fu veloce, perché Hajime lo scostò qualche secondo più tardi, brusco. Il setter non parve prendersela, scoppiando a ridere poco dopo. «Sei buffissimo, Iwa-chan!»
La prima volta che si era ritrovato nella spiacevole sensazione di non sapere che cosa dire fu quando la babysitter, una ragazza di appena quindici anni, cercò di spiegargli che i suoi genitori non sarebbero mai tornati. Era un bambino, certo, ma non era stupido, e sapeva che quando si diceva una cosa del genere era perché era vero.
Hajime, quella volta, non disse niente. Strinse il giocattolo tra le mani, per poi gettarlo da qualche parte nella stanza e andarsi a sedere sulle scale di casa sua. E rimase lì per tutto il tempo necessario, fino a quando i suoi genitori non furono seppelliti.
Anche stavolta, Hajime non sapeva cosa dire. Se ne stava boccheggiante, davanti a un Oikawa disteso sul letto e che ridacchiava. Era stato talmente assurdo e immediato, che quasi gli parve di stare assistendo alla scena e non di starla vivendo lui stesso. Come se lo stesse raccontando a qualcuno, e allora la scena gli passava in mente, ma Oikawa non stava baciando lui, stava baciando qualcun altro.
La sua vocina stranamente calda e mielosa gli rimbombava dentro i timpani, al ritmo del suo cuore che batteva senza sosta. Respirava con affanno, come se avesse corso una maratona. 
Non era serio. Lo aveva fatto per sbaglio. Doveva essere così!
Non poteva essersi seriamente innamorato di lui…
Il rumore della porta d’ingresso che si apriva lo fece sollevare di scatto dal letto: ci mancava solo qualche malintenzionato in quel momento. Con piccoli passi, tese l’orecchio verso il corridoio, avvertendo il tonfo di un borsone che cadeva per terra. Si sporse verso l’uscio per vedere meglio, accorgendosi di una figura che si sfilava le scarpe, e quando si accorse che quelle erano scarpe col tacco a spillo, capì immediatamente chi fosse.
«Amore, sei a casa?» La figura femminile assottigliò lo sguardo, notando probabilmente qualcuno nell’ombra e sorrise. «Che fai, giochi a nascondino? Non sei felice di vedermi?»
Iwaizumi si mosse cauto, cercando di non farla spaventare, recandosi verso l’unica fonte di luce della casa, appena a ridosso del corridoio.
«Tranquilla, non voglio farti male» le disse, quando la ragazza aveva sollevato una scarpa, pronta a lanciargliela, non appena realizzò che quello non era il suo fidanzato. «Sono solo un amico di Oikawa.»
La ragazza sbatté le palpebre, lasciando che la scarpa cadesse per terra. «Oh, tu devi essere Iwa-chan! Oikawa non fa che parlare di te in continuazione, molto piacere!»
Eiko era una ragazza poco più bassa di lui, i capelli biondo ossigenato raccolti in una treccia e le labbra contornate da un rossetto troppo rosso per i suoi gusti. Indossava un tailleur nero, e a giudicare dal borsone che aveva gettato poco più avanti, doveva essere tornata da poco dal suo viaggio.
«Oikawa dov’è? Voglio fargli una sorpresa!» disse, entusiasta.
«Ecco…» Hajime era nel panico, come se avesse il timore che avrebbe scoperto quello che era successo solo stando dentro la stanza da letto. La stanza da letto sua e di Oikawa. La stanza da letto dove stava disteso un Oikawa ubriaco e che l’aveva baciato solo cinque minuti prima. «Oikawa ha esagerato con gli alcolici e…»
Eiko si mise un mano davanti alla bocca, come a marcare il suo stupore, e dai suoi atteggiamenti si vedeva benissimo che faceva la modella. «Non dirmi che tu l’hai dovuto trasportare fino a qui? Sono proprio mortificata, dove si trova?»
Indicò il corridoio, e in un’altra situazione si sarebbe dato del cretino per il modo in cui si stava comportando, pareva incapace di intendere e di volere, ancora frastornato. Per fortuna la ragazza capì subito, e la seguì fino alla camera. Oikawa già ronfava, come se non fosse successo nulla di che e lui non avesse fatto chissà che cosa.
Si risvegliò solo quando Eiko fu accanto a lui.
«Eiko-chan…?» La ragazza gli sorrise, e lui si agitò sul posto, come a simulare il suo intento di mettersi seduto. «Eiko-chan, ti devo parlare…»
E se prima ad Hajime salì il panico, la sensazione che provò in quel momento non riuscì neanche a descriverla. Continuava a sentire freddo, un freddo polare sulla pelle, il sangue che scorreva veloce nella sue vene, la schiena disseminata da goccioline di sudore. Non era neanche capace di muoversi, di impedire ad Oikawa di fare qualche stupidaggine, magari con un pugno sulla testa, e meno male che c’era Eiko-san e sapeva come controllare la situazione.
«Non ora, Capitano Kirk» disse, posandogli l’indice sulle labbra e facendogli l’occhiolino. «Prima ti preparo un caffè, che dici? Di quelli speciali, che ti piacciono tanto!»
Il setter annuì, non del tutto convinto, e tornò sotto le coperte. Forse, il caffè non era davvero necessario, avrebbe ricominciato a dormire poco dopo.
«Grazie, Iwa-chan, adesso ci penso io!» Sorrise, un sorriso perfetto e smagliante, la sua mano che carezzava la spalla scoperta del suo fidanzato, e Hajime si ritrovò a fissare quel movimento come se fosse ipnotizzato. «Mi spiace solo per lo spiacevole inconveniente…»
Scosse la testa, come se si fosse appena svegliato da un sogno ad occhi aperti, cercando di ricambiare nel migliore dei modi possibili il sorriso della giovane modella.





Eiko-san lo accompagnò fino alla porta, facendosi ripromettere che la prossima volta si sarebbero conosciuti un po’ meglio, e Hajime si congedò con un semplice saluto, entrando dentro la macchina. Sentiva il bisogno di fuggire da quella casa, e quando fu abbastanza lontano, si accostò sul ciglio di una via che non conosceva, le mani ancora sul volante. Tremavano.
Posò la mano davanti alla bocca, come a cancellare quello che era successo, come a cancellare la sensazione di quelle labbra che toccavano le sue, come a impedire al suo fiato di uscire a tratti.
Non erano così che le cose dovevano andare. Non si sarebbe mai potuto aspettare che le cose andassero in quel modo, e Hajime pregava, sperava, che fossero i fiumi dell’alcool ad avergli fatto dire quella frase. Non per forza si deve dire sempre la verità sotto l’effetto degli alcolici… giusto?
La scena del bacio gli passò davanti come un flash, e Hajime dovette darsi un paio di schiaffi per far sì che smettesse di comparire. Aveva ancora le mani sul volto, quando sentì il suo cellulare vibrare in tasca, e per un attimo aveva paura che Oikawa avesse recuperato il telefono e gli stesse scrivendo. Sullo schermo illuminato, però, gli apparve un messaggio di Minori.

“Ho paura che Akane sia ancora sveglia ad aspettare che tu torna a casa. A che punto sei?”

Rispose molto frettolosamente, mentendo sul fatto che fosse già a casa, e tutto si fermò quando gli apparve davanti lo sfondo del suo cellulare. Una delle poche foto che era riuscito a scattare in compagnia di Akane, e fu per il suo compleanno, l’anno scorso. Minori era riuscita a prenderli in primo piano, la bambina che rideva mentre lui le faceva il solletico, il naso posato contro la sua guancia.
Di solito non era un sentimentalista, ma quella foto… era uno dei motivi per cui si alzava tutte le mattine senza sputare al suo riflesso nello specchio. Era uno dei pochi casini di cui andare veramente fiero, e non poteva seriamente rovinare tutto per… cosa? Un’amicizia che era andata un po’ oltre?
No, lui non poteva sentire per Oikawa quello che sentiva lui. Era padre, era stato un marito, aveva delle responsabilità. Tuttavia, mentre rimetteva in moto, si accorse di sentire uno strano dolore, non fisico, all’altezza dello sterno.





Il destino si era sempre preso gioco di lui, e probabilmente perché in realtà non ci credeva. Le cose succedono, punto. C’è chi è più fortunato e chi meno, ma la vita è fatta di alti e bassi, bisogna saperli accettare. Forse Hajime guardava il bicchiere mezzo vuoto, ma non lo si poteva biasimare per questo.
Un’altra persona, al suo posto, avrebbe detto che era destinato ad essere così sfortunato. Questa volta, però, il destino aveva dei piani ben diversi per lui. E sì, sarebbe riuscito a far legare il suo filo rosso, quello che gli stringeva al polso, a quello di Oikawa.



 
[Not really sure how to feel about it
Something in the way you move
Makes me feel like I can’t live without you
It takes me all the way]




 
Delucidazioni:
Allora, sì...
Immagino che non vi aspettavate questo risvolto; o forse sì, non so, di solito tendo ad essere abbastanza prevedibile.
E niente, il nostro setter del cuore si è dichiarato, e da qui cominceranno i casini. Vi avviso, ce ne saranno tanti.
E Iwaizumi? Deve ancora capire quello che deve fare, perché è pur sempre padre e deve rimettere in discussione quello in cui ha sempre creduto. Anche qui, vi avviso che qualche atteggiamento di Hajime potrebbe darvi fastidio nei prossimi capitoli, ma vi assicuro che ogni cosa ha una sua spiegazione. Quindi, Iwaizumi merita amore, okay? *lo abbraccia*
Piccole annotazioni:
-Il giorno è scelto di proposito, poiché Kuroo compie gli anni il 17 novembre, di conseguenza lo festeggiano il sabato. Ho fatto un calcolo, secondo me loro hanno le attività solo durante la settimana, il sabato solo il pomeriggio e la domenica sono liberi. Ho pensato così, poiché i giapponesi hanno avuto rapporti con gli americani, e molte cose le hanno tratte da loro, quindi boh... *le danno un colpo in testa*;
-Il Capitano Kirk e l'Enterprise sono un riferimento a Star Trek, una serie tv a tema fantascientifico. Oikawa ha deciso di farsi chiamare così da Eiko;
-La musica da discoteca su cui ballano Bokuto e Oikawa è questa, me l'ha fatta conoscere la mia beta. E, pls, quanto può essere bella la scena di loro due che ballano in quel modo?;
-Invece, la canzone finale è Stay di Rihanna, e lo so che ha già diversi anni, ma l'ho riscoperta di recente, e boh, senza rendermene conto l'ho usata per scrivere questo capitolo.
Che dire, fatemi sapere che cosa ne pensate: questo capitolo è stato un parto, ogni volta che dovevo mettermi a scrivere c'era sempre qualcosa che me lo impediva!
Alla fine, però, sono soddisfatta, il capitolo è venuto come volevo io, e anche per questo ho paura che non piaccia, perché non succede quasi mai :')
Intanto, il prossimo capitolo sarà pregnissimo d'angst...
Bon, spero di poter pubblicare presto, per adesso il periodo degli esami mi uccide *piange*
Aspetto i pomodori c':
_Lady di inchiostro_

l'uccellino cinguetta ♥

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Capitolo 7
*** VI ***


VI
~



 
[20 novembre 2016]





Oikawa aprì un occhio, e ciò che aveva davanti gli apparve subito sfocato. Sentiva come un chiodo che gli perforava il cervello, proprio al centro, mentre i raggi del sole gli scaldavano la pelle lasciata scoperta dalle coperte. Mugugnò, producendo dei lamenti per via del dolore alla testa, nascondendo per un po’ la faccia nel cuscino.
Si girò dall’altro lato del letto nel tentativo di capire dove fosse, se a casa sua o in un altro posto: la finestra era decisamente quella della sua stanza, e dovette chiudere gli occhi, perché la troppa luce gli dava fastidio. Era talmente frastornato, dal non essersi accorto della figura che stava distesa al suo fianco, gli occhi chiusi e i capelli sciolti sul cuscino.
Sbatté gli occhi, la luce che continuava a infastidirlo. «Eiko-chan?»
La saliva che aveva in bocca era amara, aveva lo stesso sapore della vodka mischiata alla bile, e si passò la lingua sulle labbra nel tentativo di scacciare quel retrogusto disgustoso. La ragazza aprì gli occhi non appena sentì pronunciare il suo nome – probabilmente, era in dormiveglia –, sorridendo all’indirizzo del fidanzato, un sorriso luminoso come i raggi di quella mattina. «Buongiorno amore!»
Gli diede un veloce bacio a stampo, il setter ancora troppo disorientato per capire cosa stesse effettivamente succedendo. «Cosa ci fai qui?» chiese poi, cercando di mettere a fuoco la sua figura – impresa veramente ardua. 
La ragazza fece un risolino. «Non sei felice di vedermi?»
Era felice di vederla? In questo momento, il suo cervello annaspava ancora in un mare fatto di vodka e birra, non era in grado di mettere due parole di fila senza risultare un totale idiota, figurarsi fare un ragionamento contorto su quello che sentiva per Eiko!
Okay, il loro rapporto era un po’ anticonvenzionale, entrambi avevano bisogno dei loro spazi, ed era per questo che intravederli assieme quando non erano dietro uno schermo, era uno scoop per i paparazzi. Eppure, non era una cosa che avevano deciso assieme, volevano solo avere la possibilità di poter svolgere la propria professione e vedersi con chi volevano senza essere vincolati da una possibile relazione.
Il problema è che, sì, i componenti di una coppia devono avere anche i loro spazi… ma se si parla di un qualcosa di forzato, qualcosa che ti vincola, allora non si parla di coppia. Si parla di un qualcosa nato solo perché conviene ad entrambi, perché possono vantarsi di stare con una persona importante.
Era così che, oramai, considerava la relazione tra lui e Eiko. Adesso ne era più consapevole, ma probabilmente questa storia era iniziata ancor prima che incontrasse Iwa-chan.
Il suo cuore fece un capitombolo. Il suo cervello mezzo annacquato gli mandò l’immagine di un Hajime che lo osservava sconvolto, e non sapeva davvero a cosa collegarla. Probabilmente, un sogno di cui non aveva memoria.
Si passò le dita sugli occhi, rispondendo alla domanda della ragazza. «Certo che sono felice di vederti, ma credevo che saresti venuta dopodomani…»
«Beh, sorpresa!» disse, agitando le mani e ridendo nel frattempo, anche se la sua risata fece un attimino accigliare Oikawa. «Abbiamo finito il servizio prima, volevo girare Parigi, ma poi ho pensato che sarebbe stato un po’ penoso senza di te…»
No, dal modo con cui Eiko si stava avvicinando a lui, facendo risalire le dita sul suo petto, probabilmente per lei quella relazione non era un vincolo. Per lei era così che doveva essere, doveva comunque divertirsi senza che il suo fidanzato glielo impedisse; a lei, le relazioni piacevano così, o forse era il suo lavoro che le aveva insegnato che erano così che dovevano andare le cose. Come se una modella non fosse un essere umano e non potesse amare, ma dovesse solo apparire, apparire e apparire.
Lo baciò, succhiando leggermente il labbro inferiore, e Oikawa si ritrovò ad essere infastidito, come se in quel momento non avesse bisogno di quel contatto. Aggrottò le sopracciglia, decidendo comunque di lasciarla fare, il pollice che gli carezzava delicatamente la guancia. E all’improvviso, come se il suo cervello fosse riuscito a prendere un po’ d’aria, avvertì la voce di Hajime, lontana, come se stesse parlando da un’altra stanza.
«Sì, ti voglio bene Tooru.»
Scostò Eiko leggermente, cercando di non essere troppo brusco nei movimenti, ma la ragazza parve accorgersi che c’era qualcosa che non andava. «Non ti va?» gli chiese.
Oikawa puntò le sue iridi color cioccolato in quelle scurissime, quasi nere, di Eiko, cercando di captare ancora una volta la voce di Iwa-chan per avere la certezza che non se l’era immaginata.
Era quasi certo di non averlo mai sognato mentre gli diceva qualcosa del genere – anzi, nell’unico sogno che aveva fatto su di lui, non glielo diceva proprio. Allora perché la sua mente continuava a fargli quei giochetti? Che cosa era successo ieri sera?
Cominciò a sudare freddo senza alcun motivo ben preciso.
«Sei buffissimo, Iwa-chan!»
«Oikawa?» 
La voce preoccupata di Eiko lo riscosse dai suoi pensieri, e provò a tranquillizzarla con un sorriso, scostandole poi i capelli biondicci dietro l’orecchio. «Scusami. Ho un mal di testa fortissimo, e…»
Non lo lasciò finire di parlare, che gli diede un altro bacio a stampo. «Non preoccuparti» e scese dal letto, la camicia da notte rosa che la lasciva praticamente seminuda dalla vita in giù. «Vado a fare il caffè, okay?»
Gli fece l’occhiolino prima di sparire, cui Oikawa rispose con un piccolo sorriso. Sbuffò, però, quando si ritrovò solo, rimanendo disteso a letto e cercando riordinare i suoi pensieri: ricordava di aver sfidato Bokuto a bere più cicchetti di vodka possibili e di aver vinto, poi c’erano flash, immagini veloci che gli passavano davanti e che non riusciva a riordinare. Iwa-chan, però, non era in nessuna di queste. Era come se fosse completamente sparito dalla serata, come se avesse deciso di andarsene.
Provò a ricordare se avessero avuto una discussione loro due, al locale, ma non gli veniva in mente proprio niente. E anche se fosse, perché allora avrebbe dovuto dirgli che gli voleva bene? Non aveva senso…
Decise di provare a mandare un messaggio a Iwa-chan, ma il suo cellulare si era ovviamente scaricato. Emise un grugnito, seccato: non aveva proprio la forza, per il momento, di andare alla ricerca dell’alimentatore, ci avrebbe pensato dopo. Si alzò, affranto e sempre più confuso, infilandosi la vestaglia e dirigendosi verso il bagno come se fosse un fantasma. Cacciò fuori la confezione delle aspirine dall’armadietto dei medicinali, per poi spostarsi in cucina, dove Eiko stava preparando tutto l’occorrente per fare colazione, la caffettiera già sul fuoco.
«Ushijima-chan ti ha detto qualcosa su quello che è successo ieri sera?» disse, mentre versava l’acqua nel bicchiere. Era già capitato che Oikawa avesse bevuto un bicchiere di troppo e fosse tornato a casa ubriaco, ma niente che gli avesse mai causato una sensazione di nausea come quella che aveva ancora adesso, ed era sempre stato Wakatoshi a riaccompagnarlo. Probabilmente, avrebbe fatto un bel discorsetto a lui e agli altri ragazzi l’indomani.
«Oh, ma non ti ha riaccompagnato Ushijima!» esclamò la ragazza. «È stato Iwa-chan a farlo!»
Il castano parve sorpreso. «Iwa-chan…?»
«Sì, sapessi quant’era preoccupato! Si vedeva benissimo dalla sua faccia che l’avevi fatto stare in pena, era più bianco di un cadavere…»
Oikawa non la stava più ascoltando. Non stava ascoltando niente dentro quella stanza, perché tutto gli dava fastidio in quel momento, la luce, la voce di Eiko, il fischio della caffettiera. Era tornato nel passato, a qualcosa che la sua mente voleva cancellare con forza e che lui, invece, era riuscito a salvare prima che finisse nel dimenticatoio.
Forse, sarebbe stato meglio.
«Iwa-chan, credo di essermi innamorato di te.»
Iwa-chan l’aveva riaccompagnato a casa, Iwa-chan era accanto a lui quando si era sentito male, Iwa-chan l’aveva aiutato a mettersi a letto… 
Iwa-chan gli aveva detto che gli voleva bene… mentre lui gli aveva praticamente confessato di provare per lui qualcosa di diverso. Adesso, era sicuro di sapere perché Hajime avesse quella faccia sconvolta: l’aveva baciato.
Il bicchiere colmo d’acqua e del medicinale rovinò per terrà, disseminando pezzi di vetro ovunque, ed era una fortuna che Eiko fosse abbastanza distante dal ragazzo.
Spostò lo sguardo prima per terra, poi su Oikawa, che guardava davanti a sé, totalmente perso in un mondo suo, la mano ancora sollevata a mezz’aria. «Amore, che succede?»
Gli si avvicinò con l’intento di posargli una mano sul viso, ma a quel punto Oikawa aveva tirato fuori tutta l’aria che era rimasta dentro i polmoni, e credeva di stare per avere un collasso. Saettò i suoi occhi spiritati verso la ragazza, spaventata nel vederlo in quello stato, ma lui non la stava osservando veramente. Aveva ancora l’immagine di Iwaizumi che rideva, che scuoteva la testa e sorrideva, e successe la stessa identica cosa di quella volta in macchina, pensava a lui davanti alla sua fidanzata. Poi, il suo viso sconvolto si sovrappose a tutto e Oikawa sentì le gambe cedere.
«Devo andare in bagno…» riuscì solo a dire, muovendosi come un fulmine verso la porta, lasciando Eiko indietro. L’aveva richiamato un paio di volte, lui però non si era voltato, aveva solo chiuso la porta a chiave e si era lasciato andare contro la superficie di legno.
Si guardò attorno, tremava. Eiko bussò un paio di volte. «Ti senti male?» gli chiese.
Non rispose, si prese solo la testa tra le mani, il rumore che gli rimbombava nel cervello. Era quasi certo che quello non era stato un sogno, perché altrimenti non lo avrebbe fatto finire così, si sarebbe risolto tutto. Invece no, Iwaizumi l’aveva guardato senza riuscire a pronunciare nemmeno una sillaba, non era riuscito neanche a insultarlo o a mandarlo a quel paese. Ed era, probabilmente, quello che avrebbe fatto ora.
Si alzò in piedi, guardandosi allo specchio, posando le mani sul lavandino rettangolare nel tentativo di farle stare ferme. Respirava con affanno, gli pareva che sulla terra si fosse esaurito tutto l’ossigeno disponibile.
Voleva morire. All’istante.
Perché quello che provava realmente per Iwa-chan, quel tarlo, quella sensazione calda e piacevole che sentiva quanto stava con lui, di queste cose non sarebbe dovuto venirne a conoscenza. Era un dubbio, un semplicissimo piccolo dubbio, che Oikawa avrebbe dovuto risolvere passando del tempo con lui, vedendo se le cose cambiavano. 
Adesso, però, impaurito dalla sola idea di perderlo, Tooru si disse che non c’era più alcun dubbio.

 



~



 
[7 dicembre 2016]





Nell’ultimo periodo si era sentito come uno straccio. Riusciva a concentrarsi solo stando sul campo, solo giocando, anche se alcune volte i suoi movimenti non erano fluidi come avrebbe voluto. Per il resto, si distraeva facilmente, non era in grado di ascoltare quello che gli dicevano i suoi compagni di squadra o Eiko senza che non la smettesse di osservare lo schermo del cellulare, in attesa di chissà che cosa.
Come aveva giustamente previsto, Iwa-chan non l’aveva ancora contattato. Dopo che era riuscito a ricordare quanto accaduto quella sera, gli aveva mandato una serie di messaggi, chiedendogli se potessero vedersi per spiegargli come stavano le cose. Poi, aveva provato a lasciargli qualche messaggio in segreteria, il telefono sempre staccato, nella speranza che lo richiamasse.
Era stato tutto vano. Si era recato solo una volta nel suo ufficio, chiedendo alla graziosa segretaria se quel giorno si fosse presentato, e quest’ultima, domandando al capo redattore, gli rispose con titubanza che Hajime-kun quel giorno non c’era. Fu in quel momento che si rese conto che Iwa-chan non voleva proprio vederlo, né sentirlo. Era chiaro come il sole che, in quel periodo, sembrava essere scomparso dietro i nuvoloni grigi. 
Avrebbe dovuto rassegnarsi, Oikawa lo pensava spesso mentre prendeva un bel respiro e si esercitava sulle battute. Avrebbe dovuto rassegnarsi e far smettere di preoccupare tutti, compresa Eiko-chan; e anche se lui cercava di nascondere tutto dietro un sorriso falso, anche se ammiccava verso le sue fan come faceva sempre, l’immagine di Iwa-chan che sorrideva, che lo allontanava, l’espressione stralunata, ricompariva sempre sul suo campo visivo, e allora Oikawa si impensieriva, si intristiva, come se fosse finito dentro un’epoca che non gli apparteneva e volesse rimanere nel periodo in cui lui e Iwa-chan stavano cominciando a conoscersi.
Aveva fatto un casino, ne era ben consapevole. E la colpa era solo sua.
Gli allenamenti erano finiti da poco, e come succedeva spesso in quel periodo, non era stata una delle sue migliori performance; l’allenatore l’aveva persino fatto sedere in panchina, per fargli schiarire le idee, e in quei giorni era già capitato diverse volte, l’uomo che lo fissava con uno sguardo severo, mentre lo studiava. Probabilmente, tutti si erano accorti che c’era qualcosa di diverso nei suoi comportamenti, nel suo umore, nel suo modo di giocare. E no, in panchina non riusciva a schiarirsi mai le idee. Era anche peggio, perché la sua mente si affollava di pensieri; preferiva quando stava in campo e la sua mente era vuota.
I suoi compagni di squadra – tutti, anche quelli con cui non aveva una grande confidenza – non facevano che fissarlo, parlottando tra di loro, a volte in segreto, del suo pessimo modo di giocare nell’ultimo arco di tempo. Ovviamente, dell’opinione di quei trogloditi non gli importava granché. Eppure, sapeva che c’erano ben altre persone che discutevano su di lui, e non per sfotterlo, ma perché erano sinceramente preoccupate.
Kuroo, Bokuto e Ushijima non ne sapevano niente di quello che era successo tra lui e il giornalista, sia perché non voleva tediarli con quella storia, sia perché non se la sentiva di confessare un’altra volta quello che provava per Iwa-chan. Però sapeva che non erano stupidi, e quando gli avevano chiesto se potessero organizzare un’uscita e invitare anche Iwaizumi, lui aveva cambiato subito discorso. Era facile capire, a quel punto, quale fosse il problema, anche se probabilmente non lo immaginavano di una tale portata.
I tre giocatori lo stavano fissando anche adesso, Oikawa lo percepiva da dietro le sue spalle, ma cercò di far finta di niente, mentre apriva il borsone e tirava fuori il cellulare. Le probabilità che Iwa-chan gli avesse scritto erano scarsissime, oramai non ci sperava più.
«Ehi, Oikawa!» L’esclamazione di Kuroo arrivò come un suono lontano, e il centrale provò a dargli una pacca sulla spalla, ritirando poi la mano. «Abbiamo costretto Wakatoshi a vedere la partita da lui, stasera! Ti va di venire?»
Oikawa non lo stava minimante ascoltando, troppo concentrato a scorrere e cancellare le varie notifiche che gli erano arrivate. Fino a quando, non ne trovò una che richiamò la sua attenzione.
«Dai, compriamo anche le birre!»
Le parole di Kuroo gli scivolarono addosso, come se l’avessero attraversato e non l’avessero raggiunto, la mano destra che tremava, rischiando di far cadere il cellulare.
Un messaggio. Aveva ricevuto un messaggio. Aveva ricevuto un messaggio di Iwa-chan. 
Provò a respirare, ma gli venne difficile, sentiva come degli spilli che si erano conficcati dentro la carne fino a raggiungere i polmoni. Le gocce di sudore freddo che gli percorsero tutta la schiena si mischiarono a quelle calde che aveva già addosso, e cominciò ad avere i brividi, la carne delle braccia che si rizzava.
«Oikawa?»
Era quasi certo che Kuroo si stesse spaventando – ed era quanto dire – perché probabilmente era diventato più bianco della carta, la vena sotto la mascella che risaltava ancora di più. Aprì il messaggio, la mano che ancora tremava, leggendo velocemente quello che c’era scritto.



“Ti aspetto davanti al negozio di antiquariato.”



Era lì.
Era lì vicino. Voleva vederlo.
Il resto non aveva importanza, lo sguardo dei suoi compagni di squadra mentre cacciava tutto in borsa, Kuroo che non riusciva proprio a capire dove stesse andando, niente. Niente aveva importanza. L’importante era che Iwa-chan fosse lì.
«Mi dispiace… Devo andare!» si affrettò a dire, salutando appena un Kuroo sempre più scioccato, e dirigendosi verso l’uscita del palazzetto.
Fuori faceva freddo, ma anche questo non aveva importanza.
Senza volerlo, si mise a correre, il borsone che sbatteva contro la sua schiena, producendo un rumore sordo. Evitò i passanti, respirando a tentoni, nuvolette bianche che fuoriuscivano dalla sua bocca.
Non gli importava. Quello che c’era attorno non esisteva. Il dolore alle gambe, dopo una dura sessione d’allenamento, non esisteva.
Hajime gli aveva scritto. Hajime voleva vederlo, dopo settimane che non si parlavano.
Svoltò l’angolo, e lo trovò lì, proprio davanti la vetrina del negozio d’antiquariato, proprio come gli aveva scritto nel messaggio. Cercò di riprendere fiato, inspirando più aria possibile, massaggiandosi in un movimento rapido le ginocchia.
«Ciao…» disse, avvicinandosi a lui e scostandosi dagli occhi la frangia per metà appiccicata alla fronte.
Dapprima, l’altro non disse niente, concentrato com’era ad osservare le cianfrusaglie esposte in vetrina, quasi come se non l’avesse sentito. Oikawa riprovò ad aprire la bocca, ma Hajime si era già girato verso di lui, lentamente, con uno sguardo glaciale che lo attraversò tutto. Sussultò impercettibilmente, e l’altro non parve accorgersene.
«Non voglio perdere tempo, quindi andrò dritto al sodo.» Neanche un saluto. Neanche un sorriso. Oikawa si chiese se quell’incontro non avrebbe solo peggiorato le cose, per lui, per entrambi. «Voglio sapere se quello che hai detto l’altra sera era vero.»
Raggelò sul posto, gli occhi color cioccolato spalancati e il cuore che rischiava di schizzare fuori dal petto. Hajime fece un paio di passi, in modo da poterlo confrontare faccia a faccia. «Rispondi.»
Il giovane setter si morse il labbro inferiore, cercando di evitare il suo sguardo, e questo bastò all’altro come risposta.
«Cazzo.» Fece una risata amara, sprezzante, scuotendo il capo e voltandosi a guardare la strada, le macchine che sfrecciavano veloci, le persone che camminavano, famiglie intere che stringevano le mani dei proprio figli, e per un attimo si rivide in quel genitore che sorrideva alla figlia.
«È una cosa così tremenda?» Bastò questo a farlo distrarre, a spostare lo sguardo sulla persona che gli stava davanti e che, in quei giorni, l’aveva fatto sentire uno schifo. Non sapeva bene perché. Sapeva solo che la sua vita già abbastanza incasinata aveva raggiunto il culmine con quella storia.
«Che ti aspettavi, esattamente? Che mi dichiarassi?»
Non era mai stato bravo con le parole. Quando si trattava di metterle per iscritto, di parlare di una cosa, gli veniva facile, perché non aveva davanti una persona, aveva davanti un foglio di carta, una pagina digitale, la tastiera di un computer, una matita. Non era mai stato bravo con le persone, e da quando i suoi genitori non c’erano più la cosa era peggiorata, si era chiuso in se stesso e gli veniva difficile esprimersi veramente, riversare quello che provava sulla gente. A Oikawa veniva così facile, diceva tutto quello che gli passasse per la testa. Lui ci riusciva solo quando era arrabbiato: con la rabbia, non doveva fare un grande sforzo.
Il castano fece una smorfia, quel tono di voce che gli arrivò alle orecchie come se fosse il fischio di una mina. «Mi aspettavo che parlassimo, almeno… e che chiarissimo…»
«Ottimo, perché era quello che volevo fare pure io!»
Assottigliò lo sguardo e strinse i pugni, cercando di dare un controllo alla serie di emozioni che, come dei cavalli in corsa, si smuovevano dentro di lui. «Da come mi stai parlando… non sembra.»
«Oh, pensavi forse che mi sarei rivolto a te con un tono docile?» domandò, retorico, allargando le braccia. 
«Sei incazzato…»
«Parecchio!»
«Posso sapere perché?» Non rispose, Hajime, si limitò solo a produrre un verso frustrato, continuando a tenere lo sguardo sulla gente dall’altra parte della strada. «Ti disgusto?»
«Non è questo il punto!»
«Allora qual è?»
«Che io sono padre e che tu sei fidanzato, ecco qual è!»
L’aveva detto, alla fine. Tooru lo sapeva, lo sapeva che avrebbe reagito così. Lo sapeva che il motivo per cui non l’aveva cercato stava proprio in questo, eppure sperava ancora di essersi sbagliato, che forse avrebbero potuto risolvere la cosa assieme. Che Hajime non l’avrebbe lasciato andare via così, senza neanche dire una parola. 
E, arrivati a questo punto, con il volto dell’altro a due centimetri dalla sua faccia, Tooru avrebbe preferito di certo che lui lo ignorasse per il resto della sua vita. Avrebbe fatto meno male. 
«Soddisfatto?»
«No.» E senza volerlo, quella parola gli uscì fuori in un singhiozzo strozzato. «Continuo a non capire perché tu ce l’abbia con me!»
Iwaizumi quasi gli scoppiò a ridere in faccia. «Ti rendi conto della posizione in cui mi hai messo?»
«Non ti sto chiedendo di scegliere!»
Oikawa non era uno sciocco. A volte era egoista, ma non in quel caso. Non dopo essere venuto a conoscenza del rapporto che Hajime aveva con la figlia. Ed era consapevole che, probabilmente, stava facendo quel discorso per lei, perché non sapeva come avrebbe reagito lei, come avrebbe reagito la sua ex-moglie. Aveva paura, aveva paura che non gli sarebbe stato concesso di vederla, e per lui quei pochi incontri contavano più di ogni altra cosa. 
«Veramente non mi sembra!»
Non poteva far finta di niente, non dopo quanto accaduto. Non stava chiedendo ad Iwa-chan di scegliere… ma non voleva neanche essere relegato in un angolo buio ed essere dimenticato. Non voleva che quelle serate passate insieme finissero soltanto per essere delle ombre dei suoi stessi ricordi, dei rimpianti per non aver cercato di trovare una soluzione. 
«Pensi che a me questa situazione piaccia?»
«Bravo, continua a fare la vittima! Non hai pensato per niente a quello che potrebbero provare gli altri, vero?»
Hajime non voleva parlare così. Non voleva che tutto finisse così.
Aveva rimuginato per giornate intere su quello che fosse giusto fare, e non era così che si era programmato il suo discorso. Non doveva essere così freddo, perché se c’era una cosa che aveva capito di Oikawa Tooru era che fosse fin troppo sensibile. Che si affezionasse davvero alla gente. E alla fine, aveva finito per affezionarsi anche lui. 
Ma c’erano doveri, i doveri di padre, i dover di ex-marito, i doveri di buon cittadino eterosessuale che pagava le tasse, e altre stronzate varie. Aveva pensato più a quelli, che non a ciò che era più importante: cosa voleva fare con Tooru? Continuare a vederlo, o semplicemente far finta che non si fossero mai incontrati?
E quando ci pensava, finiva per arrabbiarsi, perché quello che lui desiderava non combaciava con quello che era giusto fare. 
Senza volerlo, aveva contattato Tooru in quelle condizioni, senza che ce l’avesse realmente con lui. Ce l’aveva solo con se stesso. 
Una lacrima sfuggì al controllo del giovane setter, che si asciugò velocemente col palmo della mano. Una parte di lui avrebbe voluto ignorare quella discussione e ricominciare daccapo; e poi, c’era quella parte che soffriva, come se l’avessero colpito in pieno viso e stesse sanguinando. 
Iwaizumi non aspettò una risposta, semplicemente gli lanciò un’ultima occhiata prima di voltarsi. Si girò solo quando sentì nuovamente la voce del setter da lontano, altri occhi puntanti su di loro, ma la gente era troppo presa dalle loro vite per stare ad ascoltarli, e a breve ripresero a fissare davanti a sé o lo schermo di un cellulare. 
«Finisce così, quindi?» urlò. «Tutto quello che abbiamo passato non significa niente?»
«Ti conosco a malapena, Tooru!» urlò di rimando, allargando ancora le braccia. «Cosa avremmo passato assieme?»
Quel paio d’occhi color cioccolato, se possibile, si spalancarono ancora di più. Non l’aveva detto sul serio…
«Ho vissuto più con mia moglie che con te!» disse, riprendendo a camminare per la sua strada, ignorando i richiami del giovane alle sue spalle, ignorando la sua voce strozzata dal pianto.
«Hajime!» urlò ancora, stavolta chiamandolo per nome. «HAJIME!» 
Non lo pensava veramente. Quelle serate con Oikawa erano state più intense di qualsiasi altro momento passato con Minori, da sposati o da semplici fidanzati. Almeno, però, avrebbe trovato un motivo per odiarlo.






Bevve un altro sorso di birra, tenendo lo sguardo concentrato sulle figure che correvano sul campo verde acceso, la palla che si muoveva tra le loro gambe.
«Ah, maledizione!» Bokuto si schiaffeggiò una coscia, quasi pronto ad alzarsi e esultare per un possibile goal, ma il calciatore aveva mirato nella direzione sbagliata, prendendo il palo.
Kuroo lo guardò di sottecchi e sorrise: Bokuto si sovreccitava per qualsiasi cosa, anche per una banale partita di calcio.
«Vedrai che torneranno di nuovo all’attacco» e gli passò la birra che aveva in mano, l’altro che ne bevve un bel sorso senza staccare gli occhi dal televisore. «Tu non bevi, capitano?»
Ushijima alzò lo sguardo dalla sua rivista – e solo allora Kuroo si rese conto che era quella per cui lavorava Hajime –, scuotendo poi la testa.
Non era la prima volta che quei tre – quattro, contando che le altre volte era venuto anche Oikawa – si riunivano a casa di uno di loro per vedere le partite; solitamente erano partite di pallavolo, ma poteva capitare che guardassero assieme anche qualche partita di calcio. Sceglievano sempre tra la casa di Oikawa e quella di Ushijima, poiché erano quelle più grandi.
L’abitazione di Wakatoshi era decisamente più minimalista rispetto a quella del setter, era arredata con il minimo indispensabile, e a detta sia di Kuroo sia di Oikawa c’erano fin troppi spazi vuoti. Erano passati degli anni, ma tutto era rimasto intoccato.
Sospirò, Kuroo, grattandosi dietro la nuca e riprendendo a guardare la partita. O almeno, così credeva.
«Kuroo?» Si voltò verso la fonte della voce, trovandovi un Bokuto che fissava imperterrito lo schermo. «Secondo te Oikawa dov’è andato?»
Dapprima non rispose, leggermente scosso dal tono di voce basso con cui l’ace gli aveva parlato, spostando anche lui lo sguardo sul televisore. «Non lo so…»
La questione sembrò essersi chiusa quando Bokuto annuì distrattamente, e il massimo delle parole che si scambiarono furono dei commenti e delle esultazioni riguardo la partita. Dopo circa una mezzoretta abbondante, da fuori cominciava a percepirsi un gran casino. Chi stava per arrivare da poco, lo sentiva bene.
Il campanello suonò, giusto una volta, e tutti si voltarono verso la porta d’ingresso.
«Aspettavi qualcuno?» chiese Kuroo ad Ushijima, che si era alzato per andare a vedere chi fosse.
«No» gli rispose, ed aprì con cautela la porta. Le sue spalle parvero irrigidirsi, e sembrò strano dato il soggetto, e Kuroo si alzò per cercare di intravedere chi fosse, seguito a ruota da Bokuto.
Non poteva vederlo, rivolto di spalle com’era, ma sicuramente Ushijima aveva dipinta sul volto la loro stessa medesima espressione, gli occhi spalancati mentre fissavano la persona che gli stava davanti.
Oikawa aveva i capelli appicciati ai lati del viso, le guance rosse, gli occhi iniettati di sangue, forse per via delle troppe lacrime che aveva versato e che gli avevano rigato gli zigomi. Non riuscì a dire niente, solo a tirare su col naso, il respiro che gli usciva a tratti.
«Oikawa…?» provò a chiedere Bokuto, quando trovò la forza di parlare, non riuscendo seriamente a crederci.
Non l’avevano mai visto in queste condizioni. Era capitato che avesse pianto, giusto un po’, ma il suo orgoglio di atleta gli impediva di farlo davanti alla squadra, a partita conclusa. Con loro poteva concederselo, avevano un rapporto che andava ben oltre le mura della palestra. Ma quell’espressione addolorata, quel viso stravolto, non l’avevano mai visto, né avrebbero mai potuto associarlo ad uno come Tooru.
Le labbra del castano tremolarono leggermente, prima che posasse la fronte sulla spalla di Wakatoshi, come se fosse stato sconfitto e non riuscisse a reggersi più in piedi. Il capitano rimase fermo, ancora rigido come uno stoccafisso, ma i suoi occhi erano adesso puntati sulla quella zazzera castana.
Oikawa buttò fuori un fiotto d’aria e ricominciò a piangere. E per un po’, lo lasciarono fare.






Bokuto si richiuse la porta a vetri alle spalle, appoggiandosi poi alla ringhiera del balcone. Stette a guardare il cielo annuvolato per un po’, prima di rivolgere la sua attenzione alla persona che gli stava accanto.
«Avevi detto che ti era passato il vizio…»
Kuroo, appoggiato anch’egli sulla ringhiera verde, aspirò la sigaretta che teneva tra le dita, rilasciando poi il fumo verso l’alto e creando delle piccole volute. «Mi sono innervosito… E ne ho sentito il bisogno…»
Si era preso il vizio quando aveva cominciato a frequentare l’università e, tra le lezioni e le partite, gli esami avevano finito per accavallarsi tra di loro. Non aveva mai smesso seriamente, ma adesso ne fumava una ogni tanto, solo quando aveva bisogno di sfogarsi.
Ne passò una a Bokuto, che gli fece vedere la birra che teneva in mano, come a dire che anche lui aveva trovato un espediente per poter sfogare la rabbia. Perché, dopo quello che gli aveva raccontato Oikawa, e l’iniziale shock, non potevano non essere  furibondi, anche se lo mascheravano bene.
«Che cosa dobbiamo fare?» chiese Bokuto, dopo aver bevuto un sorso di birra.
«Noi? Nulla» rispose l’altro, alzando appena le spalle.
«Oh, andiamo Kuroo!» Bokuto si spazientì, allargando le braccia. «Non dirmi seriamente che vuoi startene con le mani in mano!»
Kuroo lo osservò con scetticismo. «E tu che cosa vorresti fare, sentiamo?»
«Parlare con Iwaizumi, casomai?»
«Non servirebbe a niente…»
«Possiamo tentare!»
Kuroo spense la sigaretta sul bordo del parapetto di metallo, prima di girarsi verso l’ace, guardandolo negli occhi. Quando Bokuto si metteva una cosa in testa, era difficile fargli cambiare idea, e quella volta era più determinato che mai. Come quella volta che aveva spiegato al centrale della Karasuno quale fosse il motivo per cui giocasse a pallavolo, e il ragazzo si era ritrovato sorpreso da quello sguardo di fuoco.
«Ascolta – cominciò, emettendo prima un verso frustrato – so quanto a te piaccia Iwaizumi» Ed era così, perché lui era stato l’unico a rassicurare Oikawa sul fatto che la cosa si sarebbe potuta risolvere, che Hajime avrebbe capito. Non era nella natura di Bokuto essere diffidente. «E so anche quanto tu tenga a Oikawa, ma se andassimo a parlare con Iwaizumi, potremmo solo peggiorare le cose… mi capisci?»
L’ace rimase un attimo interdetto, cercando di riflettere su quanto gli era stato detto, e alla fine annuì. Fu strano e insolito che entrambi si girarono verso la porta a vetri in contemporanea, ma del resto loro erano abituati così, le loro scuole erano state avversarie e amiche per tanti anni, per cui non erano nuovi questi loro atteggiamenti.
L’immagine che gli fu rimandata fu quella di Tooru rannicchiato in angolo del divano, le gambe al petto. I suoi occhi erano rivolti verso la televisione ancora accesa, ma la sua mente probabilmente era da tutt’altra parte.
Potevano soltanto immaginare quanto gli fosse costato confessargli quello che provava per il giornalista. E sì, si erano un po’ stupiti, ma in fondo sapevano che quei due tramavano qualcosa; e se da un lato non potevano non sostenere Tooru dopo il modo in cui era stato trattato, dall’altro capivano anche le ragioni di Hajime.
Era una storia da cui non si riusciva ad arrivare a capo.
«So che non la pensi allo stesso modo…» continuò Kuroo. «Ma è meglio per lui se prende le distanze… fidati.»
Bokuto li sosteneva come coppia, Tooru e Hajime. Forse anche Kuroo, ma era un po’ restio a credere che ci sarebbe stato qualcosa dopo l’accaduto di qualche ora prima. E Oikawa non poteva rischiare di affossarsi per via di un sentimento che, alla fine, non era ricambiato. Era meglio non vederlo, non contattarlo, non sentirlo. Cominciare a svagarsi, a ripensare con più intensità alle partite e meno a lui.
Comunque sarebbero andate le cose, loro erano i compagni di Oikawa. Ci sarebbero stati, per qualsiasi cosa.
Bokuto produsse un sospiro da naso, aprendo la porta a vetri e rientrando dentro casa con Kuroo.





Oikawa rimase un po’ in macchina, fissando il logo stampato sul volante per una decina di minuti, prima di decidersi a rientrare in casa.
Aveva bisogno di riorganizzare le idee, decidere sul da farsi.
Come c’era d’aspettarsi, i ragazzi non avrebbero mai immaginato che lui si fosse seriamente preso una sbandata per Iwa-chan; Kuroo, quella volta, lo stava solo canzonando. Eppure, non l’imbarazzava l’idea che lui provasse attrazione per un uomo, quello era soltanto un fattore secondario, quasi insignificante. Ciò che li preoccupava erano le sue reali condizioni, come si sarebbe comportato da adesso in poi.
Gli avevano suggerito di allontanarlo, su questo sia Kuroo sia Ushijima erano stati irremovibili – e si sorprese del fatto che anche Wakatoshi, per quanto avesse un cuore di pietra, stessa cercando di aiutarlo. Bokuto non sembrava tanto convito di questa scelta così drastica, ma in fondo Oikawa sapeva che era un tipo piuttosto pacifico, si picchiava con Kuroo solo per divertimento.
Il problema, però, era quello che voleva lui. Perché no, sapeva che ignorare Iwa-chan non gli sarebbe risultato facile come si pensi.
Sbuffò, scendendo dalla macchina e dirigendosi verso casa. La porta d’ingresso non era chiusa a chiave, e dedusse che Eiko dovesse essere già arrivata. La deduzione, infatti, si rivelò corretta, la ragazza che si palesò davanti a lui in uno schiocco di dita.
«Ciao amore!» esclamò, dandogli un bacio leggerlo cui però Oikawa non voleva rispondere. «Dove sei stato? Ti ho chiamato un sacco di volte, sai?»
Oikawa tirò velocemente il telefono fuori dalla tasca della tuta, ritrovandosi la barra delle informazioni piena zeppa di chiamate perse, messaggi e notifiche di vari social. Lo sbloccò, e la schermata con il messaggio di Hajime gli apparve davanti: era rimasta aperta per tutto quel tempo.
Un grumo di saliva ostruì il passaggio dell’aria. «Scusami…» disse, flebilmente.
«Tranquillo, mi ha informato Bokuto-kun che tu eri a casa di Ushijima!» disse, scompigliandogli appena i capelli. «Hai già mangiato? Perché sono tornata un po’ prima dalle prove per la sfilata, e stavo preparando qualcosa da mangiare!»
Oikawa la fissò, serio, triste, frustato; non sapeva nemmeno lui come descrivere quello che stava provando. Eiko non era una stupida, né un ingenua, perché probabilmente si era accorta delle sue condizioni, e di certo non era una cosa normale o all’ordine del giorno. Semplicemente, non voleva pressarlo inutilmente, aspettava che fosse lui a parlarle dei suoi problemi con spontaneità.
Eiko non si meritava tutto questo. Eiko si meritava qualcosa di meglio, qualcuno che la sapesse apprezzare veramente. Lui, oramai, ci riusciva a fatica.
«Non hai pensato per niente a quello che potrebbero provare gli altri, vero?»
Iwa-chan aveva ragione. Si era talmente concentrato su quello che sentiva lui, da non pensare cosa avrebbero potuto sentire gli altri.
Non voleva essere cattivo con lei, ma non voleva neanche essere un’ipocrita, non quando pensava a un’altra persona mentre la guardava.
I ragazzi gli avevano detto di andarci piano, che forse si sarebbe potuto pentire di quella scelta, che i giornalisti ficcanaso gli avrebbero reso la vita un inferno se l’avessero saputo, ma lui non era d’accordo. Non quando si parlava di giocare con la sensibilità di una persona. La sua era già stata accartocciata e gettata in un cestino, perciò sapeva come ci si sentiva.
«Eiko…» e per la prima volta in quattro anni la chiamò senza usare il suffisso. «Ti devo parlare…»
Alla ragazza venne quasi un colpo a vederselo apparire accanto in quel modo, mentre lei l’aveva lasciato solo a rimuginare per finire di preparare. Spalancò gli occhi, e da quella distanza era facile vedere la sofferenza del ragazzo sul suo volto.
«Tooru, adesso mi stai facendo paura…» disse, arretrando un po’.
Il castano chiuse gli occhi, il tutto sotto lo sguardo perplesso e atterrito di Eiko, prendendo un profondo respiro e apprestandosi a dire quelle fatidiche parole.
«Mi sono innamorato di Iwa-chan.» 






Il filo rosso stringeva, e faceva male. Entrambi sentivano i polsi che quasi sanguinavano, e si erano creati dei solchi profondissimi, lì dove non si sapeva quando iniziava la pelle e quando il filo.
Tirava, nel tentativo di riavvicinare i due sfortunati, ma quest’ultimi finivano con l’allontanarsi sempre di più. Il filo era teso, ma non si spezzava.
Forse, si disse il destino, avrebbero dovuto soffrire un po’assieme, prima che le due metà si ricongiungessero del tutto.




 
[Almeno tu rimani fuori 
Dal mio diario degli errori 
Da tutte le mie contraddizioni 
Da tutti i torti e le ragioni 
Dalle paure che convivono con me 
Dalle parole di un discorso inutile]


 
Delucidazioni:
*si nasconde dietro una trincea* Non fatemi tanto male, okay?
Allora, era logico che Oikawa prima o poi si ricordasse di quanto accaduto quella sera, e vi giuro che mi ha fatto malissimo scrivere della discussione tra loro due (continuo a immaginare Oikawa che piange e mi fa male l'anima ;_;).
Ve l'avevo detto che Iwaizumi avrebbe avuto degli atteggiamenti scostanti (e sarà sempre peggio... *la menano*), ma vi assicuro che le cose andranno meglio nel prossimo capitolo.
Il pezzo finale é tratto da Il Diario Degli Errori di Michele Bravi, ed è la prima volta che uso una canzone italiana per scrivere, ma mi sembrava assolutamente perfetta per questa parte della storia *piange*
Che dire, fatemi sapere che cosa ne pensate, soprattutto della caratterizzazione dei personaggi, ho paura di aver combinato dei casini con i due bro e Ushijima... *rotola male*
AVVISO IMPORTANTE: ora inizia il periodo intenso di studio, quindi non so quando potrò aggiornare... Sperate che sia presto... *piange forte*
Grazie a chiunque sia arrivato e a chiunque lascerà una recensione! <3
Fatemi gli auguri >.<
_Lady di inchiostro_

l'uccellino cinguetta <3
 

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Capitolo 8
*** VII ***


 
[Ai miei lettori, vecchi e nuovi]



VII
~



 
[17 dicembre 2016]





«Hajime-kun, ci sei anche tu?»
Si sforzò di sorridere, mostrando appena i denti e facendo un lieve cenno col capo. Sebbene conoscesse quella donna da diverso tempo, continuava a sentirsi in imbarazzo in sua presenza. 
Gli fece segno di avvicinarsi, gesticolando. «Entra pure! Lo sai che sei sempre il benvenuto!»
Il giornalista mise un piede oltre la soglia; era un appartamentino un po’ angusto per essere abitato da tre persone, ma alla fine ci si poteva adattare. La stanza che lo accolse fu il salotto, che fungeva anche da sala da pranzo e da studio, la scrivania sulla destra piena zeppa di fogli vari. Si tolse la giacca, appendendola nell’attaccapanni là vicino, e accomodandosi su uno dei cuscini che si trovavano attorno al piccolo tavolo, al centro della stanza. Per quanto non sapesse come gestire quella donna – e dire che, per certi versi, si assomigliavano pure –, doveva ammettere che si sentiva a suo agio tra quelle quattro mura.
«Oh, ma non abbiamo niente per cena…» La voce della donna non era troppo lontana, la cucina era lì affianco, e se Hajime si sporgeva un poco indietro, poteva vederla mentre rovistava dentro il frigo. «Poco male, tanto io non ho fame…»
«Mamma!»
Voltò la testa verso l’unica persona che, fino ad allora, non aveva ancora spiccato parola. Tomoko si tolse la sua amata sciarpa, riponendola sull’attaccapanni, rivolgendo poi un sguardo di rimprovero alla madre. «Lo sai che dovresti mangiare…»
«Allora cucini qualcosa tu?» disse la donna, stampandole poi un bacio sulla guancia per corromperla.
«Ah, adesso pretendi che sia io a cucinare? Guarda che anche io sono stanca!»
«Ma io non ho ancora finito…»
«Bugiarda, l’altro ieri mi hai detto che il capitolo era già pronto!»
La madre della ragazza, nel frattempo, si era comodamente seduta sulla sua poltrona girevole, guardando la figlia con un sorriso che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque. Aveva un che di sadico e malvagio. «Ma devo pubblicare su Twitter gli spoiler fasulli… Per far impazzire i miei fan!»
Per un attimo, calò il silenzio, tanto che il rumore del clacson delle auto era udibile anche se si trovavano al nono piano.
«Sei proprio un mostro, lo sai?»
«Grazie!»
«Non era un complimento…»
Ma la donna era già tornata a suoi bozzetti fittizi, curva sulla sedia, mentre canticchiava a bocca chiusa una melodia che Hajime non conosceva. Probabilmente, qualche canzone italiana di cui non sapeva il nome, né chi fosse il cantante.
«Scusami…» disse Tomoko, facendo un piccolo inchino. «Mi spiace che tu debba sopportare sempre queste scenate…»
«Figurati!» Hajime le sorrise, e Tomoko si portò un ciuffo ribelle dietro l’orecchio. «E poi, tu e tua madre siete divertenti.»
«Spiritoso!» e nel dirlo, gli mollò un calcio sulla spalla, che lo spinse per terra. Tomoko non aveva chissà quanta forza, ma Hajime non se l’aspettava e per un po’ fece comunque male. Ovviamente, la ragazza non si scusò. «Ti va bene se prendiamo la pizza?»
«Oh sì!» esclamò la madre di Tomoko, senza sollevare lo sguardo.
«Non parlavo con te, mamma…»
«Ti rendi conto di come mi tratta, Hajime? Questa gioventù persa…»
Sembravano un duo comico, la madre che scuoteva la testa ancora bassa, la figlia che la imitava e alzava nel contempo gli occhi al cielo. Si lasciò sfuggire un sorriso.
Gli serviva. La sensazione di casa, di famiglia, gli serviva, dopo dieci lunghi giorni di vuoto, silenzio e solitudine. Dopo dieci lunghi giorni passati al chiuso, nella sua fredda e asettica casa, e non l’aveva mai sentita così estranea, un posto che non conosceva, che non si era costruito col passare degli anni.
Ne aveva bisogno, dopo dieci lunghi giorni passati a sentire la voce di Oikawa che lo chiamava da lontano, la voce rotta per via del pianto, rimbombargli nella testa.
«Allora, per te va bene?»
La voce dell’amica parve riscuoterlo dai suoi pensieri, sbattendo appena gli occhi stanchi. «Sì, per me va benissimo.»





Non era la prima volta che Tomoko lo invitava a casa sua: era capitato che gli fosse stato assegnato qualche articolo in comune, e di solito alternavano gli appuntamenti per decidere la scaletta a casa dell’uno o dell’altro. Qualche volta, però, Tomoko l’aveva invitato semplicemente per passare la serata in compagnia, sebbene sua madre fosse sempre tra i piedi. Non dava fastidio, di solito era una donna piuttosto taciturna, ma quando si trattava di Hajime sembrava che facesse di tutto per metterlo a disagio. Il ragazzo sapeva che non lo faceva di proposito, forse aveva soltanto una naturale simpatia nei suoi confronti. Era Tomoko che si esasperava.
Il padre della ragazza, invece, non sempre era presente in casa, molto spesso preparava la sua prossima collezione d’abiti. Era uno stilista di poco conto, non troppo conosciuto in Giappone, ma che aveva comunque la sua porzione di fama.
E anche quella sera, l’uomo aveva troppo da fare per poter riuscire a cenare con loro, per cui si ritrovarono ad essere soltanto in tre seduti attorno a quel piccolo tavolo.
La cena era stata piuttosto piacevole, anche se a tenere viva la conversazione erano state le due donne, che non la finivano di punzecchiarsi a vicenda, la più grande che parlava svogliatamente di come stesse procedendo il manga, apprestandosi poi a chiedere ad Hajime come andassero a lui le cose. 
In realtà, non aveva saputo rispondere bene a quella domanda. A lavoro le cose andavano come sempre, i suoi articoli continuavano ad essere tra i più letti della rivista, e con sua figlia era tutto normale.
Solo… era stanco. Si sentiva sempre stanco, stanco di mettere il muso fuori di casa, a meno che non fosse per necessità, stanco di sentire la gente, stanco di stare con la gente. C’erano volte in cui desiderava ardentemente che tutto sparisse e rimanesse solo lui; cambiava idea solo quando gli appariva sullo schermo del portatile Akane che sorrideva tutta contenta.
Tomoko aveva dovuto trascinarlo fuori a forza, convincendolo a distrarsi un po’, invece di rimanere a crogiolarsi sul suo divano. Certo, non l’aveva portato chissà dove, ma sapeva che la compagnia di sua madre sarebbe stata comunque utile.
Avevano da poco finito di cenare, e Hajime si era offerto di aiutare l’amica a lavare i piatti, visto che sua madre si era completamente scordata di scrostare la padella che aveva usato quella mattina per cucinarsi una frittata. La ragazza stava lavando un piatto, Hajime accanto a lei che nel frattempo asciugava, quando parlò, dandosi della stupida un secondo dopo.
«Non hai più sentito Oikawa… vero?»
Il ragazzo la guardò con la coda dell’occhio, e lei lasciò la spugna a galleggiare sull’acqua piena zeppa di schiuma. Non rispose, rimanendo col piatto sollevato a mezz’aria, immobile. Ovviamente, Tomoko sapeva quello che era successo tra lui e il setter, aveva dovuto raccontarglielo quando aveva capito che c’era qualcosa che non andava, che non era normale che lui sviasse il discorso quando si parlava del castano.
Non sapeva tutto però, e come avrebbe potuto raccontarglielo? Come avrebbe potuto confessargli che il setter della Delegazione Nazionale Giapponese si era innamorato di lui? Come poteva dirgli di aver baciato un uomo?
Tomoko poteva aiutarlo come meglio le riusciva, ma non sempre era detto che funzionasse. La situazione era più intricata del previsto, come una rete da pesca intrecciata su se stessa, e lui si sentiva come un pesce che era stato catturato da quella stessa rete. Troppe cose correvano dentro la sua testa, e si sentiva combattuto tra la voglia di ricontattare Tooru e la voglia di lasciar tutto alle spalle e tornare a guardare avanti.
La verità era che, qualsiasi scelta avrebbe preso, sarebbe stata comunque sbagliata.
Anche il solo atto di respirare, anche il suo essere ancora vivo e con i piedi per terra lo faceva sentire sbagliato.
Non aveva la forza di fare niente, neanche di distrarsi. Perché, quando ci provava, gli tornava lo stesso in mente il volto straziato dal pianto di Oikawa, sentiva ancora le sue urla dietro le spalle, dentro le orecchie, nei timpani.
«HAJIME!»
«No» disse, atono, riponendo poi il piatto assieme agli altri e tenendo lo sguardo basso.
La ragazza lo osservò, un ciuffo rossastro che le dondolava davanti al viso, l’elastico per capelli che non riusciva più a tenere fermi quei capelli. Iwaizumi non l’aveva mai vista così seria in vita sua, e la sentì mandare giù un grumo di saliva, mentre anche lei tornava a dedicarsi ai piatti sporchi. «Almeno hai provato a contattarlo?»
Hajime non sapeva come sentirsi a tal proposito. Voleva contattarlo? 
Alzò le spalle. «Non penso che concluderei qualcosa…»
Era convinto su questo. Anche volendolo, anche se desiderava sul serio cercarlo, cosa avrebbe ottenuto?
Nulla. E se lo meritava dopo il modo in cui l’aveva trattato.
Oikawa Tooru non era stata una persona qualunque. Era petulante, fastidioso, invadente, non stava mai zitto, si lamentava peggio di sua figlia quando aveva undici mesi… ma non era stata un persona qualunque. Era stata la sua persona qualunque. Era stato colui che gli aveva fatto provare cose che credeva di non riuscire a provare mai, cose che non aveva sentito mai, neanche nella sua breve adolescenza, nella sua insignificante esistenza. Ed era anche per questa ragione che si sentiva in quel modo, perché lui gli aveva esplicitamente detto che non era così. Che per lui era stato un passatempo.
Eppure, no, non sentiva per Oikawa quello che sentiva lui. La sola idea che potesse provare per lui un sentimento così forte lo faceva indietreggiare. Voleva bene a Tooru, era serio quando gliel’aveva detto quella sera… ma non in quel senso. Scombussolare la propria vita solo per dei bei sentimenti era da folli. E lui non era innamorato di Oikawa.
Tomoko decise di non continuare la discussione, annuendo distrattamente, e tra i due calò il silenzio. Un silenzio che fu rotto solo dall’urlo di stupore della madre della ragazza, e che fece girare entrambi, scioccati. Aveva concluso da poco i suoi bozzetti e, dopo averli postati sui social, si era messa a fare zapping tra un canale e l’altro, fino a quando non era incappata in un talk show dove a parlare erano due graziose ragazze, la pelle diafana e i capelli color pece. Era un programma che aveva riscosso un grande successo nell’ultimo periodo, grazie ai vari gossip che sfornavano quasi ogni giorno, e anche quella sera – da come le due presentatrici parlottavano tra di loro – sembrava che ci fosse qualche novità interessante.
«Mi dispiace così tanto per lei…» mormorò la donna tra sé e sé, voltandosi poi verso la figlia.
«Chiara, ci hai fatto prendere un colpo!» disse l’altra, chiamando la madre per nome.
Lei non parve ascoltarla. «Tuo padre la conosceva, sai? Una volta aveva posato con un suo abito…»
Nessuno dei due aveva prestato attenzione alla notizia, men che meno Hajime. E quando alzò lo sguardo, le immagini che correvano veloci, sentì lo stomaco salirgli lungo la gola, per poi scendere ad altissima velocità in basso, ai piedi; come se fosse stato sospeso nel vuoto fino ad allora e, adesso, stesse cadendo improvvisamente, il terreno che si avvicinava sempre di più.
«Stavano così bene assieme…»
Avvertì gli occhi di Tomoko su di sé, ma non ricambiò lo sguardo, troppo impegnato a sentire quello che dicevano quelle due oche in televisione, la testa che pulsava.
Erano riusciti a tenerlo segreto per tutto quel tempo – ed era per questo che non ne sapeva niente –, fino a quando lei non aveva vuotato il sacco, confessando che era stato lui a lasciarla.
Oikawa e Eiko si erano lasciati. Quello che più temeva, alla fine si era avverato. Lui era davvero un folle, lui era davvero disposto a scombussolare la sua vita per un sentimento che non era ricambiato. A lui importava essere solo sincero. Qualcuno avrebbe detto che era stato un bastardo a lasciarla così, senza un motivo preciso; ma il motivo c’era, ed era proprio Hajime stesso.
Oikawa aveva fatto la cosa giusta. Alla fine, aveva capito che anche altra gente sarebbe stata coinvolta in quella storia, che quelle persone a lui care avevano dei sentimenti, e che bisognava lasciarle fuori.
Iwaizumi ritornò bruscamente alla realtà solo quando il piatto che teneva in mano si infranse contro il pavimento.




 
~



 
[26 dicembre 2016]





Fissò per l’ennesima volta il suo orologio da polso, rendendosi conto di averlo fatto appena venti secondi prima. Sbuffò, la gamba sinistra che tremolava, mentre una serie di persone attorno a lui aspettavano anche loro l’arrivo di un familiare o conoscente.
L’aereo era atterrato già da un paio di minuti, ma dei passeggeri non vi era neanche l’ombra. Qualche bambino gli sgusciarono accanto, mentre giocavano allegramente tra di loro, e Hajime non poté fare a meno di sorridere. C’era una bella sensazione, al reparto arrivi, la sensazione di chi non vede l’ora di tornare a casa e riabbracciare chi era stato via per tanto, troppo tempo.
Le volte in cui aveva preso l’aereo si potevano contare sulle punta delle dita, tuttavia era la prima volta che provava quella sensazione, ed era la prima volta che si trovava dalla parte di chi attendeva con ansia, trepidante, di vedere le porte scorrevoli aprirsi, la persona agognata che si dirigeva verso l’uscita tutta sorridente.
Spostò lo sguardo sul tabellone digitale, che segnava che il volo da Osaka era da poco atterrato, chiedendosi per quale ragione stessero perdendo tutto quel tempo, e per un attimo sentì il panico salirgli lungo l’esofago. Fortunatamente, le porte si aprirono poco dopo, e i primi passeggeri iniziarono a riversarsi in quel ampissimo, quanto piccolo in quel momento, luogo. Alcuni dovevano essere rappresentanti di chissà quale compagnia, perché sfrecciarono via, diretti probabilmente verso la zona dei pullman e dei taxi; molti, però, si ricongiunsero con le loro famiglie, alcune ragazze che abbracciarono strette la loro mamma, sovrastandola, altri che salutarono i propri amici con vigorose pacche sulle spalle e urletti vari.
La persona che aspettava Hajime, però, arrivò quando già la maggior parte della gente era scesa dall’aereo. Era accompagnata da un simpatica hostess vestita di verde, la mano tenuta da quella più grossa della donna, e i suoi occhi vagavano curiosi tra la gente, alla ricerca di qualcuno. I suoi lunghi capelli neri erano legati in una treccia a mo’ di cestino, i pantaloni leggermente stropicciati sulle ginocchia e lo zainetto sistemato per bene sulle spalle.
Si accorse di lui quando già si era messo in ginocchio, una gamba posata interamente per terra, e il suo viso si illuminò di colpo. Hajime, intanto, non la smetteva di sorridere. Chiese all’hostess se poteva andare, e all’affermazione di quest’ultima non ci pensò due volte a correre verso di lui. Due secondi dopo, le sue braccia la stavano stringendo, i capelli che gli solleticavano la punta del naso, e Hajime dovette respirare un paio di volte prima di rendersi conto che quello era il suo profumo e che lei era veramente lì, che le sue braccia gli stavano circondando veramente il collo.
«Mi sei mancato tanto, papà!» la sentì dire, e la sua presa aumentò di poco.
«Anche tu, Akane… Anche tu…» disse, con voce un po’ roca.
Rimasero in quel modo per un po’, prima che l’hostess si avvicinasse, consegnando la piccola valigia e assicurandosi che fosse tutto nella norma. Fu quando si allontanò che padre e figlia ripresero a parlare, e Hajime non poté non notare un particolare.
«Sbaglio, o sei diventata più alta?» Dalle videochiamate, molti cambiamenti non si notavano bene.
La bambina annuì vigorosamente. «Sì, di cinque centimetri!» e glielo fece vedere con la mano.
«Beh, almeno sappiamo che anche l’altezza l’hai presa da me» disse, alzando le spalle e abbottonando la giacca alla figlia, che non poté non ridere dopo la battuta in questione.
Stava per prendere la bambina per mano, l’altra occupata dalla valigia, quando quest’ultima ammise, con un po’ di titubanza: «Mi sarebbe piaciuto se tu mi avessi portato sulle spalle…»
Hajime la guardò, impassibile, un piccolo sorriso velato da una sfumatura malinconica stampato sul volto. L’ultima volta che l’aveva vista era stato per il suo compleanno, e ricordava di avere la paura boia che lei non si ricordasse per niente di lui, di chi fosse realmente: in fondo, aveva appena tre anni quando Minori si era trasferita ad Osaka. Eppure, quella che adesso era la sua ex moglie aveva fatto di tutto per tenere viva la memoria della figlia, e quando Hajime se l’era ritrovata davanti, appena un anno fa, la bambina l’aveva indicato e aveva chiesto alla madre se fosse veramente il suo papà. Poi, si era diretta verso di lui, correndo, e Hajime ricordava che non c’era stata cosa più bella di tenerla in braccio. Era leggerissima, e rideva contro la sua spalla, mentre i suoi occhi avevano cominciato a pizzicare.
La bambina tenne lo sguardo basso per tutto il tempo, non accorgendosi che suo padre si era abbassato alla sua altezza, dandole la possibilità di aggrapparsi sulle sue spalle.
«Solo per questa volta, okay?» le intimò, non riuscendo però ad essere duro con lei.
«Okay!» esclamò, sorreggendosi per bene, mentre una mano del giornalista era impegnata a trascinare il trolley.
Iwaizumi sapeva che, probabilmente, non glielo avrebbe richiesto un’altra volta, era solo un piccolo sfizio che voleva soddisfare dopo tanto tempo che non si vedevano. E, del resto, neanche a lui dispiaceva sentire il calore del suo corpicino contro la sua schiena.





Avevano passato assieme una giornata piuttosto ordinaria, senza troppi colpi di scena, e ad entrambi andava bene così. L’importante era stare assieme, non importava se seduti al tavolo di un bar a fare colazione o se sul divano di casa. Ad Akane bastava stare con suo padre, poterlo vedere veramente, sentirlo veramente e toccarlo veramente. E per Hajime era esattamente lo stesso.
La bambina non aveva fatto altro che parlare per tutto il tempo, esaltandosi nel raccontare anche il più piccolo dei particolari, passando dal descrivere i suoi compagni di classe, a come erano belle le decorazioni di Natale a Osaka. L’aveva ascoltata, intervenendo di tanto in tanto, e aveva sorriso per tutto il tempo. E quando la bambina gli aveva chiesto se lui avesse qualcosa da raccontare, si era limitato ad alzare le spalle e a dirle che la sua vita era sempre la stessa, che il lavoro era sempre lo stesso, e che non c’erano chissà quali novità.
Non voleva che si intristisse con quella storia. Oltretutto, non era proprio sicuro di volergliela raccontare, il solo pensiero lo faceva rabbrividire, la bocca dello stomaco che si chiudeva all’improvviso. No, non voleva decisamente riportare a galla i suoi problemi in quel momento. Non voleva riportare a galla le immagine del solito Natale passato da sua zia, delle notizie su Oikawa che continuavano a comparire in televisione, della sua intervista fatta per la vigilia; del suo sorriso imbarazzato, un sorriso forzato e falso come non si era mai visto. Hajime non voleva ricordare il silenzio della sua casa, interrotto solo dal rumore sordo della sua mente che continuava a macinare un pensiero dopo l’altro, spegnendosi poi con “click” dinanzi a quel sorriso, così lontano da quello che conosceva realmente.
Era felice in quel momento, come non lo era da molto tempo. Tutto il resto, era secondario.
Avevano da poco finito di cenare, e Hajime aveva appena riposto i piatti dentro la credenza, mentre Akane  guardava la televisione, dondolando a tempo di musica, seguendo la melodia di un anime che era finito da poco. Si sedette accanto a lei, con l’intento di lasciarla in pace a guardare i cartoni, aprendo il suo portatile e posizionandolo sopra le cosce. Aprì la scaletta che si era preparato per il prossimo articolo, seguita a ruota dalla serie di informazioni che aveva raccolto in quell’ultimo periodo: per fortuna, gli era rimasta la buona volontà, quella gli serviva per lavorare.
Stava per cominciare a scrivere, quando la vocina di Akane arrivò alle sue orecchie. «Papà, sei triste?»
Hajime sbatté le palpebre, perplesso. «No, perché dovrei esserlo?»
La vera domanda era un’altra: come aveva fatto Akane ad accorgersene? Eppure aveva fatto di tutto per mascherarlo!
La bambina infossò appena il collo. «Non lo so… E’ solo che non sei felice come lo sei sempre…»
Gli occhi verdi del giornalista – ora dilatati – si rispecchiarono completamente in quelli dello stesso colore della figlia. Solitamente, sono i genitori a preoccuparsi per i figli; quello che non sanno, però, è che anche i figli si preoccupano per loro. È un rapporto reciproco, e se c’è qualcosa che non va se ne accorgono subito. Forse Hajime era stato bravo a nasconderlo, forse Akane non conosceva suo padre alla perfezione, ma lo sentiva dentro che c’era qualcosa di diverso dall’uomo che di solito le parlava via Skype. Non era la stessa persona, il suo tono di voce era piatto quando parlava, sembrava perdersi, come se la sua mente stesse vagando in alto mare. E la sensazione che aveva provato nel sentirlo, le faceva dolere il cuore.
Iwaizumi richiuse il portatile, posandolo poi sul tavolino basso là difronte, e avvicinandosi a sua figlia, che adesso teneva lo sguardo basso. Le posò delicatamente una mano sopra la testa, e la sentì sobbalzare, come se aspettasse che succedesse qualcosa da un momento all’altro.
«Ho fatto qualcosa di brutto? È colpa mia?» chiese allora, la voce leggermente incrinata. E quando alzò lo sguardo, gli occhi lucidi, non si ritrovò davanti il volto di poco prima. Si ritrovò davanti il solito volto sorridente che vedeva tutte le sere da uno schermo.
Hajime appoggiò appena la fronte contro quella della figlia, guardandola negli occhi. «E che cosa avresti fatto, sentiamo!»
La bambina parve pensarci su. «Ecco… non ti ho portato un pensierino per Natale…»
Sorrise, dandole poi un bacio sulla fronte. «Non ne ho bisogno, tranquilla.» Non avrebbe mai ammesso ad alta voce che averla a casa sua era un regalo più che sufficiente.
Akane, però, non sembrava del tutto convinta dell’affermazione del padre, continuando a guardarlo con le pupille che tremolavano, il labbro inferiore leggermente sporto in fuori. Quell’espressione, per un attimo, gli ricordò Oikawa, ma cercò di scacciare immediatamente il pensiero. Si stropicciò gli occhi: doveva trovare un modo per rassicurare Akane che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che era solo stanco per via del lavoro; ma sapeva che sua figlia era fin troppo perspicace per cascarci, l’unica soluzione era dirle la verità… senza scendere troppo nei particolari.
«Ho litigato con una persona di recente…» mormorò, tentando di far apparire l’intera faccenda come un qualcosa di poco conto, eppure Hajime si sentì piombare nuovamente in una casa fredda e vuota. Come se Akane non fosse lì, seduta accanto a lui.
La bambina si incupì di colpo, e Hajime si apprestò subito a tranquillizzarla. «Non è nulla di grave, eravamo solo in disaccordo su una cosa…»
Aveva semplificato fin troppo la sua discussione con Tooru. Non erano in disaccordo su una cosa qualunque, perché altrimenti avrebbero smesso di frequentarsi già parecchio tempo addietro: quel ragazzo aveva degli aspetti totalmente diversi dai suoi, a cominciare dai suoi discutibili gusti in fatto di film. No, avevano discusso per qualcosa di decisamente più grande e complicato. E uno dei motivi per cui avevano litigato gli stava seduta davanti, la testa leggermente inclinata.
L’espressione di Akane si era rilassata rispetto a prima, e adesso guardava Hajime con le palpebre che sbattevano irrefrenabilmente. «Ma tu sei dispiaciuto… vero, papà?»
Sussultò sul posto, un brivido freddo che lo percosse a partire dalla spina dorsale, diradandosi poi in tutto corpo, la carne che si rizzava di colpo. Fece di tutto per non perdersi a fissare il vuoto e per non far spaventare sua figlia, mentre le immagini di Oikawa gli passavano davanti: da quando si erano conosciuti, fino all’ultima volta in cui l’aveva visto. Da quando era scoppiato a ridere al ristorante, a quando si erano messi a ridere al parco, alla sua faccia sconvolta quando l’aveva costretto a terra, disteso sotto di lui. A quando gli aveva detto che era innamorato di lui e l’aveva baciato. A quando si era messo a piangere in quel modo per strada, tra milioni di persone che potevano riconoscerlo.
«Non hai mai avuto la sensazione che qualcosa mancasse nella tua vita?»
La sensazione di vuoto, Iwaizumi la provava da sempre; però, da quando Oikawa era entrato nella sua vita, così, con prepotenza, qualcosa era cambiato, ed era anche uno dei motivi per cui aveva continuato a vederlo nonostante all’inizio gli stesse bellamente sulle balle. Per questo era stato giornate intere ad arrovellarsi nel tentativo di trovare una soluzione, indeciso se contattarlo o meno. Hajime non voleva gettarlo via così. Si sbagliava: Oikawa Tooru non era stato la sua persona qualunque. Tooru era molto più, per lui. Solo che non sapeva come descriverlo.
Rispose alla figlia annuendo appena, e il volto della bambina si illuminò in un piccolo sorriso. «Lo sapevo, perché altrimenti non saresti così triste» disse, mascherando una punta di vittoria per aver indovinato e facendosi più vicina. «Hai provato a chiedere scusa?»
Hajime non sapeva se ridere per quella domanda così ingenua, o sospirare affranto. «È complicato… Non credo funzionerebbe…»
«Perché no?» Spostò lo sguardo sulla figlia, che gli sorrideva. «Se sei veramente pentito, perché non dovrebbe funzionare?»
Il suo corpo, fino ad allora teso, si rilassò di colpo, una sensazione calda all’altezza del petto. Osservò sua figlia, ogni minimo dettaglio, dai capelli sciolti, alla ruga che le si formava quando aggrottava le sopracciglia. Era lei che lo stava inducendo a fare un passo avanti verso Tooru. Una delle tante giustificazioni che aveva usato contro di lui per indurlo a odiarlo.
«Le maestre ci dicono sempre che, se siamo veramente dispiaciuti, scusarsi è la cosa migliore. Perché non provi a spiegare quello che è successo? Magari fate la pace!»
Erano delle parole fin troppo mature per una bambina di quell’età, ma in fondo Hajime era conscio che Akane era straordinaria in tutti i sensi. Non avrebbe mai pensato, però, che potesse essere in grado di dirgli una cosa del genere: nella sua ingenuità, l’aveva illuminato su quello che doveva fare realmente, senza troppi giri di parole e ripensamenti. Doveva scusarsi. Doveva spiegare a Tooru il perché della sua reazione. Doveva fargli sapere che non ce l’aveva a morte con lui, che aveva reagito in quel modo solo perché era giusto che lui lo dimenticasse, per il suo bene.
Restava il problema su come e quando avrebbe dovuto contattarlo, ma a quello ci avrebbe pensato da sé; magari, l’avrebbe contattato dopo che Akane sarebbe tornata a casa e lui sarebbe rimasto di nuovo solo.
Hajime, però, non sapeva che il destino si stava divertendo ancora un po’ a giocare con lui, trascinandolo come una bambola di pezza.
Quella sera, dunque, si limitò solo a dare un bacio sulla guancia ad Akane, e a sussurrarle a voce bassa un: «Grazie.»





 
~



 
[28 dicembre 2016]





In quei giorni, la neve non aveva fatto altro che scendere incessantemente, e adesso le strade ne erano ricoperte. Camminava, guardandosi attorno di tanto in tanto, senza una meta ben precisa, l’atmosfera di festa dipinta sui volti di tutti. Le insegne a tema natalizio erano ancora rimaste, e ogni tanto si ritrovava ad osservarle senza particolare interesse.
Affondò metà viso nella sciarpa allacciata per bene al collo, le mani che tentavano di cercare un po’ di calore dentro le tasche del suo cappotto nero. Lui, di solito, amava questo periodo dell’anno, in cui tutti si animano per cercare il regalo giusto, per preparare l’albero di Natale e il vestito adatto per l’ultimo dell’anno. Quest’anno, però, Oikawa non aveva proprio voglia di festeggiare. Se sperava che le cose migliorassero, si sbagliava di grosso.
Eiko, dapprima, aveva pensato che lui le stesse tirando un qualche scherzo esilarante dopo la sua confessione, ma poi la sua espressione non era cambiata, e lei era diventata bianca come un lenzuolo. Poi, aveva cominciato a urlare, la cena che aveva preparato che era finita sul pavimento, mentre lo insultava in ogni maniera possibile.
«Vuoi buttare quattro anni di relazione, per cosa? Per una cotta del cazzo?» gli aveva detto, procedendo poi a utilizzare tutti gli insulti che aveva in repertorio sulla sua presunta omosessualità.
Era furiosa. Oikawa non l’aveva mai vista così.
Il giorno dopo, aveva già fatto le valige e se n’era andata via, e lui non la biasimava per questo. Non la biasimava neanche per quello che gli aveva detto, in fondo Oikawa sapeva di essere in torto marcio. Aveva passato con lei quattro anni della sua vita, e lui aveva gettato tutto al vento per… per Iwa-chan. E per quanto fosse dispiaciuto per Eiko, per quanto bruciassero ancora le parole di Hajime, lui non riusciva a pentirsi della sua decisione.
Era stato meglio così. Per lei, per tutti. Forse, all’inizio l’avrebbe odiato, ma poi avrebbe trovato qualcuno che l’avrebbe trattata decisamente meglio, come voleva essere trattata lei. Lui non era più in grado di accontentarla già da parecchio tempo.
«Ho vissuto più con mia moglie che con te!»
Quelle parole continuavano a tornargli in mente fino a tormentarlo, tra poco anche nel sonno. Si svegliava la mattina e trovava un lato del letto vuoto, e due secondi dopo era rannicchiato contro le coperte, stringendo la federa del cuscino intoccato tra le dita: perché desiderava ardentemente che ci fosse lui disteso accanto?
Forse i ragazzi avevano ragione, doveva cominciare a dimenticarlo. Iwa-chan l’aveva già fatto di sicuro. Doveva andare avanti, altrimenti si sarebbe distrutto lentamente, sia a livello professionale, sia a livello psicologico.
Fu la prima volta, da quando aveva messo piede fuori casa, che osservò per bene dove si stesse dirigendo. Si era solo limitato a guardare la gente, nel caso riconoscesse qualche giornalista ficcanaso: dopo che Eiko aveva sganciato la bomba – anzi, aveva tenuto la bocca chiuso per troppo tempo –, era stato circondato dalla stampa per giornate intere. Aveva cercato di spiegare come stavano le cose continuando a sorridere come sempre, eppure gli veniva difficile parlare, come se fosse stato ferito e stesse perdendo le forze, e no, non riusciva a chiamare più aiuto.
Adesso, però, aveva alzato lo sguardo in alto, dal solito grigio dell’asfalto, dalle sue scarpe, per guardare dove fosse finito e se non si fosse perso in qualche punto sperduto di Tokyo.
Si rese conto, con orrore, che conosceva benissimo quella zona, che anche se gli alberi erano ricoperti di neve sapeva benissimo a quale parco appartenevano, e le voci lontane di bambini che ridevano gli diedero la conferma, mentre lui si metteva ritto sul posto, rabbrividendo. Intravide i piloni grigi, e per un attimo si rivide lì seduto, con Iwa-chan accanto, a ridere, come se fosse un esterno e stesse assistendo alla scena in quell’esatto momento.
Si morse l’interno della guancia, maledicendosi da solo. Non doveva essere lì. Se voleva dimenticarlo, allora non doveva stare lì. 
Aveva appena girato i tacchi, quando una voce calda sovrastò le altre, facendolo fermare sul posto. «Akane, aspetta, non si fa così!»
Doveva lasciar perdere, scuotere la testa, e tornare sui suoi passi; di questo ne era conscio. Eppure, bastò che quel timbro di voce arrivasse alle sue orecchie perché lui lo riconoscesse. Aveva la stessa sfumatura di quando gli aveva detto che gli voleva bene.
Bastò una frazione di secondo, e si ritrovò davanti l’entrata del parco. Sgranò lo sguardo, il respiro che si fece improvvisamente pesante.
Iwa-chan era lì. L’aveva intravisto subito, seduto sui talloni davanti a una bambina che Oikawa non conosceva, probabilmente sua figlia. La piccola stava palleggiando, anche se dopo tre tentativi riusciti la palla le finiva sempre in testa. Rimase a fissarlo: aveva le labbra piegate in un morbido sorriso e gli occhi che quasi brillavano. Quella bambina sortiva in lui un effetto che il setter non si sapeva spiegare, e per un attimo sentì che la gelosia gli stava mangiando gli organi.
Ma non aveva motivo di essere geloso. E non aveva motivo di avercela con quella bambina.
Cercò di respirare come meglio poteva, il fiato che usciva in piccole nuvolette bianche. Adesso, per uno sfortunato caso, la palla era finita sopra la testa di Hajime, e la bambina si mise subito a ridere; lui fece il finto offeso e cominciò a farle il solletico.
«Papà, smettila!» disse la bambina, districandosi tra quelle dita.
«Solo se mi chiedi scusa!»
Iwa-chan parlava come sempre. Iwa-chan sorrideva. Iwa-chan stava bene.
Oikawa lo realizzò in quel preciso istante. Realizzò che l’aveva dimenticato proprio in quel momento, vedendolo con sua figlia. Ingoiò un grumo di saliva che aveva lo stesso sapore delle lacrime, le gambe che non si muovevano.
E il panico cominciò a salire, veloce, sempre più veloce, quando vide Hajime girarsi verso la sua direzione. Forse si sentiva osservato, o forse lo fece per puro caso. Questo non si può sapere con certezza.
Sta di fatto che gli occhi verdi di Hajime incontrarono quelli color cioccolato di Tooru.






Si erano avvicinati quasi in contemporanea, Iwaizumi dicendo alla figlia che si allontanava per un attimo, Oikawa limitandosi a superare i piloni. Si erano salutati appena, stando l’uno accanto all’altro, con almeno dieci centimetri di distanza.
Erano rimasti in silenzio per tutto il tempo, come se avessero sentito il necessario bisogno di avvicinarsi all’altro, senza però riuscire a spicciare parola. Alla fine, fu Oikawa a rompere il ghiaccio.
«Tua figlia…?» disse, indicando la bambina con un lieve cenno del capo.
Il giornalista lo guardò con la cosa dell’occhio, metà viso coperto dalla sciarpa blu, gli occhiali che gli scivolavano sul naso lucido. Spostò lo sguardo verso sua figlia, che faceva andare avanti e indietro l’altalena, imbacuccata in quel cappotto troppo ingombrante per lei, i capelli nerissimi raccolti in due codine.
«Sì, è venuta a trovarmi per le vacanze di Natale…» rispose. 
Oikawa annuì, e il silenzio calò ancora tra loro due. Passarono un paio di minuti, in cui riecheggiava solo il chiacchiericcio delle mamme che parlavano tra di loro, le urla dei bambini, la canzone che Akane stava canticchiando, coinvolgendo altre bambine che giocavano con lei. Probabilmente era la sigla di quell’anime che di solito guardava la sera, tutta entusiasta.
Il sorriso che piano piano si era formato sul suo viso morì non appena sentì la voce del setter arrivargli alle orecchie: «Come hai passato le feste?»
Era tentato di non rispondere. Era tentato di girarsi e urlargli in faccia, un’altra volta, perché lui non doveva essere lì. Non doveva essere in quel maledetto parco, avrebbe dovuto andarsene non appena l’avesse visto. E invece era lì. Ci stava provando, di nuovo. Stava di nuovo provando a farsi del male. Hajime avrebbe voluto intimarlo di smetterla, prenderlo a ceffoni, perché lo sapeva che Oikawa aveva sofferto per quella sera, la sua espressione ne era la prova. 
Alla fine, si disse che non era il caso di farlo stare male ulteriormente. Akane aveva ragione: se lui era veramente dispiaciuto per quello che era successo, avrebbe dovuto trovare un modo per spiegargli quali erano le sue ragione, ora che era lucido, ora che non era sopraffatto dalla rabbia. 
Alzò appena le spalle. «Sono stato da mia zia. Akane è venuta a trovarmi dopo Natale… Ha espresso il desiderio di passare l’ultimo dell’anno con me, per non lasciarmi solo. Sua madre l’ha accontentata.»
Tooru fece un lieve sorriso. «È un pensiero dolce.»
«Già!» Ancora silenzio. Hajime strinse le dita tra il tessuto della giacca. «Tu? Sei stato con Eiko-san?»
Fu allora che, con un movimento lento, Oikawa si girò verso di lui, con uno sguardo severo. Odiava quando Iwa-chan lo prendeva per uno stupido. Era un giornalista sportivo, si interessava sia delle partite, sia delle figure degli atleti, della loro vita privata, di come questa potesse ritorcersi sulla loro carriera e sulla loro professione. 
Ne avevano parlato per settimane su ogni rete televisiva, com’era possibile che lui non lo sapesse?
«Ci siamo lasciati…»
«Ah…»
«Lo stesso giorno della nostra discussione…»
Ecco, lo immaginava. Gli ritornò in mente il rumore del piatto che si infrangeva sul pavimento della cucina di Tomoko, i suoi occhi che – frenetici – osservavano le immagini della coppia perfetta che si era appena frantumata. E per colpa sua. 
Hajime credeva di impazzire. C’era una parte di lui che voleva che le cose tornassero come erano sempre state, ognuna a loro posto; e poi c’era quella parte che, no, non voleva che lui e Tooru tornassero ad essere dei perfetti sconosciuti, anche se questo comportava la sofferenza di Eiko… e Akane. 
Si sentiva un mostro quando pensava queste cose. Non meritava veramente di essere padre di una creatura come Akane. 
Trattenne la bile che sentiva salire lungo la gola, mentre Oikawa continuava a parlare. «Sono andato a casa di Ushijima-chan, dopo che abbiamo parlato… C’erano anche Bokuto e Kuroo…»
«Immagino che adesso mi detestino…» disse, lasciandosi sfuggire un verso che presagiva una risata nervosa. 
«Un po’…»
«Come l’hanno presa…? Insomma, il fatto che tu sia…»
Stavolta fu il turno di Oikawa di alzare le spalle, liberando la faccia dalla sciarpa. «Mi hanno confessato di avere dei sospetti. Ero troppo espansivo nei tuoi confronti, con Eiko ero troppo rigido… E Boku-chan mi ha confessato che per lui formeremmo una bella coppia!»
«Quel tipo non ha peli sulla lingua!»
«Mi ha detto che ti farà cambiare idea a suon di pugni!»
E poi, eccola. La risata di Tooru, contagiosa come sempre e che ad Hajime era mancata terribilmente, in quelle grigie giornate di fine dicembre. Rise anche lui, senza volerlo, lasciandosi trascinare da quel suono cristallino e che, nonostante il dolore, nonostante Tooru stesse morendo dentro, non era cambiato affatto. 
Era in momenti come questi che Hajime si pentiva delle sue parole. Poi, sentiva sua figlia che urlava, lontano, e la realtà tornava a gravargli improvvisamente addosso, ricordandogli che le cose non potevano stare come lui voleva. 
Girò la testa con uno scatto, e la vide assieme ad altri bambini mentre lanciava palle di neve, l’altalena adesso abbandonata.
«Ushijima e Kuroo, invece, mi hanno detto di starti lontano…»
Tooru si era accorto del repentino cambio d’umore di Iwa-chan, come se si fosse messo improvvisamente sull’attenti, un allarme che risuonava dentro la sua testa e che aveva il rumore delle urla di gioia di sua figlia. Si perse un attimo ad osservare la linea dura della sua mascella, il verde dei suoi occhi puntato sul cappottino rosa della bambina, prima che si puntassero su di lui, seri. 
Abbassò la testa, ed era la prima volta che si ritrovava in difficoltà a sostenere il suo sguardo. Eppure, l’aveva fatto un milione di volte. «Ad essere sincero, volevo fare così, ma… sono venuto qui. I miei piedi si sono mossi da soli, e poi hanno deciso di fare i capricci quando ti ho visto giocare con tua figlia… Volevo andarmene, eppure non riuscivo a muovermi. È stupido?»
Iwaizumi incurvò le labbra verso l’alto. «Francamente, mi sono abituato alle tue stupidaggini…»
Erano l’uno di fronte all’altro, proprio come l’ultima sera in cui si erano visti, solo che stavolta non aleggiava alcun sentimento negativo nell’aria. Solo tanta tristezza. 
«Tu cosa vuoi?» sbottò Hajime. Tooru sbatté le palpebre, confuso. «Tu hai ascoltato quello che ti hanno detto loro, ma tu cosa vuoi fare?»
Rise, e stavolta il suono fu diverso, come quello di un violino scordato, niente di più doloroso per i timpani. O per la bocca dello stomaco, perché quel tono fu per Hajime come un pugno ricevuto da Oikawa stesso. E, detto tra noi, se lo meritava. Anche solo per la domanda scomoda che gli aveva posto. 
«Lo sai cosa voglio…» disse, cacciando in gola un grumo di saliva. «Ma non è quello che vuoi tu…»
Iwaizumi lo osservò con aria grave mentre cercava di trattenere le lacrime, si perse in quegli occhi color cioccolato lucidi e che adesso stavano dietro un paio di lenti fasulle. Poi, fu il suo turno di spostare lo sguardo su sua figlia, e Hajime ne rimase sorpreso, rimase sorpreso di vedere i lineamenti del suo viso ammorbidirsi.
Non la odiava. Non la conosceva, ma dopo quanto era successo era normale che questo accadesse. Invece, la stava guardando con curiosità, la stava studiando. Oikawa non era nuovo a questo tipo d’atteggiamento, squadrava la gente come a volerne svelare i difetti più assurdi; con Akane, però, non lo stava facendo. Era come se stesse cercando, disperatamente, qualcosa che la richiamasse a lui, come se avesse bisogno di una conferma che era giusto così, che Iwa-chan aveva le sue motivazioni per non volerlo più vedere. 
«Ci ho provato… ad odiarti» ammise, senza scostare lo sguardo. «Non ci sono riuscito...»
Un altro sorriso velato di tristezza fece la sua comparsa sul suo viso, e Hajime sentiva la rabbia cominciare a ribollire, aveva il sentore che se la sarebbe presa con lui proprio perché era lì, proprio perché non aveva fatto abbastanza per odiarlo, proprio perché continuava ad amarlo. 
«Ho pensato parecchio a quello che mi hai detto quella sera… Avevi ragione, non ho pensato a quello che potessi provare tu, di certo non te l’aspettavi!» Abbozzò una risata, ma continuava ad essere un suono stridulo nei timpani di Hajime. «E ho pensato che forse tutto questo si poteva evitare… e che avrei potuto continuare a vederti…»
Il fischio del vento arrivò improvvisamente, Hajme lo percepì mentre si abbatteva su di loro, mentre guardava le ciocche castane di Tooru scompigliarsi, nascondendo disperatamente le prime lacrime che gli inumidivano gli angoli degli occhi. 
«Tu vuoi continuare a vedermi?» Il setter alzò di scatto la testa, gli occhi ora completamente dilatati, lasciando che qualche lacrima sfuggisse al suo controllo. «Vuoi continuare a vedermi nonostante tutto?»
Quella domanda la pronunciò con la lingua attaccata al palato dalla saliva. Si pentì subito di averlo fatto: insomma, non voleva farlo soffrire, e adesso gli chiedeva questo? Era ovvio che volesse continuare a vederlo, Oikawa Tooru era un libro aperto per lui! Per quanto potesse cercare di negarlo – e non lo biasimava per questo – era chiaro come il sole, anche se Hajime sperava con tutto se stesso che si dimenticasse di lui e continuasse con la sua vita, con la sua futura carriera olimpionica. 
E poi, c’era qualcosa che riaffiorava in lui, qualcosa che gli diceva che voleva cenare ancora una volta con Oikawa, che gli diceva che voleva accompagnarlo al cinema, che gli diceva che si sarebbe divertito volentieri a picchiarlo un’altra volta.
«Sì, anche se è profondamente sbagliato…»
«Bene, perché se non sbaglio, mi avevi chiesto di accompagnarti al cinema…»
Oikawa non ci poteva credere. Alcuni avrebbe preso Iwa-chan per un insensibile, uno che gioca solo con i sentimenti degli altri, ma non lui. Era per questo che glielo aveva chiesto, perché non avrebbe mai fatto niente che andasse contro la sua volontà. Stava mettendo in primo piano quello che voleva lui, non il suo bene personale e della sua famiglia, di sua figlia, ma il suo. Quello di Oikawa.
Probabilmente, si sarebbe fatto del male. Sentiva già dolore dopo aver ammesso che non riusciva a non pensarlo, che avrebbe continuato a passare volentieri tutto il tempo disponibile con lui. Così, stando accanto a una persona che sapeva di non poter avere… 
Iwa-chan era troppo importante. Era quel pezzo di puzzle che aveva perso. Era l’unico che riusciva a far sparire la sensazione di vuoto. 
«Ti contatto io… okay?» gli disse, e Tooru era quasi tentato di mettersi lì a piangere, ma non riuscì a fare nulla, scioccato com’era. 
Osservò la giacca verde acqua di Hajime, le sue spalle larghe, mentre quest’ultimo prendeva un bel respiro e gli -occhi di sua figlia si posavano su di loro, leggermente perplessi. 
«Tooru,» lo richiamò, e quest’ultimo sentì un brivido caldo scendergli lungo la nuca. «Non ti pentire di quello che hai fatto. Mai.»





Il filo, adesso, si era allentato giusto un po’, ma faceva ancora male, stringeva. Iwaizumi aveva deciso di fare un passo indietro, nel disperato tentativo di incontrare Oikawa a metà strada. Ma lui rimaneva sempre il giocattolo preferito dal destino, era colui che veniva sballottato di qua e di là.
E mentre ragionava sulla sua mossa, il destino si chiese se tale decisione fosse stata un bene o un male.




 
[Right from the start
You were a thief
You stole my heart
And I your willing victim]


 
Delucidazioni:
SONO TORNATA!
Perdonate la mia lunga assenza, ma per chi mi seguisse su Twitter, sa benissimo che ho avuto un periodo abbastanza brutto e pesante, dovuto anche agli esami della maledetta sessione estiva. Ma adesso sono ufficialmente libera, quindi conto di tornare ad aggiornare più spesso ;)
Per la vostra gioia o per vostra sfortuna, questo sta a voi deciderlo :’D
Dunque, che dire di questo capitolo?
CHE AKANE E’ PREZIOSA, VI PREGO PROTEGGETELA!  ♥ (??)
No, sul serio, dopo la mazzata di feels che vi ho dato l’altra volta, e dopo che vi avevo lasciato con questi due che hanno litigato, dovevo darvi un po’ di dolcezza, no? E vi giuro, io amo quella bambina, è tipo la copia di Iwa-chan, ed è bellissima e purissima! ♥ 
Per quanto riguarda la madre di Tomoko, vi avevo già detto che era basata sulle fattezze di mia sorella, che desidera poter disegnare un fumetto tutto suo – e sì, lei sarebbe capace di postare degli spoiler fasulli su Twitter, è fin troppo sadica. Le due donne, a volte, parlano in italiano tra di loro, e la figlia spesso la chiama per nome – che poi è lo stesso di mia sorella lol
Altro? Per adesso no.
Nel prossimo capitolo dovrebbe esserci molto più fluff, ma non vi assicuro nulla :’)
La frase che dice Akane al padre, sul fatto che dovrebbe scusarsi con Oikawa è tratta da un altro anime, Special A: guardatelo, è molto carino; la canzone è Just Give Me a Reasons, e per adesso riscopro canzoni e le utilizzo per scrivere, io boh…
Infine, ringrazio tutti coloro che seguono questa storia, a chi è appena arrivato, a chi sclera con me e a chi mi ha lasciato delle recensioni. Davvero, grazie, siete la mia gioia! ♥
Alla prossima [e vi assicuro che stavolta sarà presto!]
_Lady di inchiostro_ 
 

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Capitolo 9
*** VIII ***


VIII


~
 



[5 gennaio 2017]





Come aveva detto l’ultima volta che si erano incontrati, Iwaizumi l’aveva chiamato per telefono.
Oikawa aveva sentito il cuore rimbombargli dentro le orecchie quando aveva preso il telefono tra le mani, distrattamente. Gli occhi erano completamente sgranati, puntanti sul nome “Iwa-chan” scritto sullo schermo, mentre l’aggeggio vibrava ininterrottamente. Aveva cominciato a ragionare su un milione di cose: sul fatto che non aveva zuccherato il caffè quella mattina, che forse avrebbe dovuto cambiare il nome del ragazzo sulla sua rubrica, che magari non avrebbe dovuto rispondere; l’unica cosa su cui Oikawa non aveva ragionato, però, era che Hajime l’aveva effettivamente contattato.
Non si era preso gioco di lui. Aveva dato la sua parola, e l’aveva mantenuta.
Alla fine, dopo aver mandato giù in gola fiotti di saliva, aveva deciso di rispondere. Aveva cercato di parlare col suo solito tono gioviale, anche se la sua voce non aveva nulla di allegro. L’altro aveva risposto esattamente allo stesso identico modo, come se avesse fatto la telefonata ma non si fosse preparato un discorso prima.
Si erano scambiati una decina di parole, chiedendo all’altro come avessero passato l’anno nuovo, ed entrambi avevano risposto che non avevano fatto nulla di che.
In realtà, Oikawa aveva festeggiato l’ultimo dell’anno andando per locali con Bokuto, Kuroo,  Hanamaki e Matsukawa; era felice che i suoi due compagni di liceo fossero venuti a trovarlo, preferendo passare il Capodanno a compatirlo, piuttosto che passarlo con le loro famiglie. Credeva che sarebbe tornato a casa ubriaco marcio, ma non fu così, nessuno si ubriacò fino a quel punto, e forse l’esperienza dell’altra volta aveva messo un po’ in allarme Bokuto e Kuroo.
Insomma, anche se avesse voluto inveire contro Hajime, era quasi certo che non l’avrebbe fatto mai, neanche da ubriaco.
Non quando gli compariva davanti l’immagine di lui che faceva il solletico a quella bambina. Non quando, per una strana ragione, vedeva quella stessa bambina sull’altalena che canticchiava.
Il giornalista gli aveva chiesto se fosse ancora disposto ad andare al cinema con lui, e il setter sentì il cuore schizzargli direttamente in gola, ostruendogli le vie respiratorie. Due parti del suo essere stavano combattendo tra di loro, e Oikawa non sapeva se seguire quella che gli diceva di accettare l’invito, o seguire la parte più razionale, quella che gli diceva di rifiutare e provare a dimenticarlo.
A salvarlo, si fa per dire, fu una vocetta fanciullesca che provenne dall’altro lato del telefono.
«Chi è, papà? È il tizio dell’altra volta?»
«Non adesso, Akane…»
«È la persona con cui esci sempre? La voglio conoscere!»

Il castano era rimasto un attimo interdetto mentre ascoltava quella discussione tra padre e figlia, non capendo per quale ragione la figlia di Iwa-chan volesse conoscerlo. In effetti, gli era sembrato che quella bambina lo stesse fissando con curiosità, quella mattina al parco, ma era preso da tutt’altro per badare a lei.
Non seppe per quale ragione, forse le emozioni avevano vinto sulle ragioni, forse si era lasciato impietosire da quella vocetta che continuava a pregare il padre, o forse era solo un autentico masochista. Sì, forse l’ultima opzione era decisamente la più plausibile. Perché altrimenti non avrebbe detto ad Iwa-chan che desiderava vederlo ancora, pur sapendo che non c’era alcuna speranza. Perché altrimenti non avrebbe risposto a quella telefonata. Perché altrimenti non avrebbe proposto di vedersi per una semplice cena, invitando anche Akane.
Sospirò, una nuvoletta bianca che si alzò verso l’alto, mentre lui indugiava davanti alla porta. Il giornalista, in un secondo momento, gli aveva mandato un messaggio, dicendogli che avrebbero cenato a casa sua, scrivendo poi l’indirizzo.
Oikawa era arrivato da una decina di minuti, aveva fissato il messaggio per essere sicuro di non essersi sbagliato, e poi era rimasto lì, le mani infilate nelle tasche del cappotto e la faccia mezza nascosta dalla sciarpa. Aveva ripensato alla discussione che avevano avuto per telefono, a quello che si erano detti quella mattina al parco…
«Non ti pentire di quello che hai fatto. Mai.»
Oikawa non ebbe tempo di chiedergli spiegazioni per quella frase, e onestamente non era sicuro di volerle. Con Iwa-chan funzionava così, era come se stessero giocando al tiro alla fune, e ogni volta lui si ritrovava senza più una corda da tirare, le mani che bruciavano. Quando pareva che il giornalista facesse un passo avanti verso di lui, poi ne faceva altri cinque indietro.
Era stanco. Era stanco di fare delle supposizioni, era stanco di sperare.
Le cose stavano così, doveva solo accettarlo. Forse, se l’avesse fatto sul serio, magari avrebbe potuto cominciare a vedere il rapporto con Iwa-chan in maniera diversa, come una bella e semplice amicizia.
Prese un bel respiro, suonando poi al campanello e aspettando un paio di minuti davanti allo zerbino. Ad aprirgli fu Hajime.
«Ciao» disse, atono, senza guardalo negli occhi.
Lui rispose quasi in un sussurro, prima che un’altra voce lo sovrastasse. «Tu sei l’amico del mio papà?»
Oikawa abbassò lo sguardo, sentendo la carne raggelare di colpo non appena incontrò due occhi smeraldini come quelli di Iwa-chan che lo fissavano, entusiasti. Non si era sbagliato, quella bambina era veramente la fotocopia del giovane: stesso colore della pelle, degli occhi, dei capelli; forse, solo caratterialmente era ben diversa dal padre, ma nessuno avrebbe mai potuto dire che quella bambina non fosse sua figlia.
«Piacere! Mi chiamo Akane!» disse, tendendogli la manina, e il castano sentì uno fastidioso prurito dietro la nuca, come se le sue braccia si rifiutassero di muoversi e la sua bocca di pronunciare alcun suono.
Hajime teneva una mano posata sulla sua spalla, mentre l’altra era ancora appoggiata alla maniglia della porta. Anche lui non sapeva che cosa dire. Il cinema gli era sembrata un’ottima idea, non dovevano per forza parlarsi durante la visione del film, e poi sapeva che Oikawa sarebbe stato troppo occupato a fissare i dettagli per pensare a lui. Ma in questo caso, dovevano comunicare tra loro, stare seduti a tavola e fare un minimo di conversazione. Era come se non si fossero mai incontrati al parco e si stessero rivedendo ora dopo parecchio tempo. Come se quella discussione non ci fosse mai stata e non avessero deciso assieme di continuare a vedersi nonostante tutto.
Iwaizumi stava per dire alla figlia, scherzosamente – giusto per smorzare la tensione – che di solito non ci si presenta così bruscamente alla gente, ma Oikawa lo precedette, ricambiando subito la piccola stretta di mano.
«Oikawa Tooru, molto piacere!» esclamò, e il giornalista riconobbe subito quel sorriso che aveva dipinto sul volto: era lo stesso che utilizzava per le telecamere, forzato e a tratti fasullo. La cosa gli diede molto fastidio.
Akane, comunque, non sembrò farci caso – e come poteva, per lei i sorrisi erano tutti uguali ed erano sempre belli –, ricambiando a sua volta.
«Prego, accomodati» gli disse poi il giornalista, lasciandogli spazio per passare.
Oikawa non si aspettava chissà quale tipo di appartamento, in fondo Iwa-chan viveva pur sempre in un comunissimo condominio, eppure doveva ammettere che quella abitazione non era affatto male. Era piccola, non appena era entrato aveva subito trovato una cucina con una piccola penisola sulla destra e un tavolo sulla sinistra; poi c’era il divano, più avanti, con tanto di televisione già accesa, e alla fine della stanza c’era un piccolo corridoio.
Si tolse il cappotto e la sciarpa, riponendo tutto nell’appendiabiti là vicino. Per quanto fosse l’appartamento di un padre single, era tutto abbastanza curato.
«Ti va bene il ramen?» Il castano sobbalzò nel sentire la voce di Hajime direttamente rivolta a lui. Aveva il busto girato verso la sua direzione, e lo stava fissando, lo sguardo tagliente come la lama di un coltello, mentre si trovava davanti ai fornelli.
Oikawa annuì.
«L’uovo lo vuoi sbattuto?»
«Va benissimo in qualsiasi modo… grazie.»





Non ci volle molto prima che si mettessero a tavola.
Oikawa aveva osservato tutta la scena senza scollare gli occhi di dosso da Akane, che si muoveva avanti e indietro mentre sistemava il tavolo. Avrebbe voluto dare una mano, ma la bambina stessa gli aveva intimato di stare fermo, raccontando poi come la sua mamma si arrabbiasse ogni volta che un ospite cercasse di fare qualcosa per aiutare.
Il castano sentì le corde vocali che quasi si stringevano, come se fossero state legate con un nastro, lo stesso che portava la bambina tra i capelli, e poté giurare di aver visto le spalle di Hajime sussultare leggermente. La madre di Akane era stata la fidanzata di Iwa-chan per tanto tempo; ed era anche stata sua moglie.
«Ho vissuto più con mia moglie che con te!»
Non sarebbe mai stato come la madre di Akane. Da come ne parlava la bambina, sembrava una donna molto dolce e paziente, una di quelle madri che sa sempre come risolvere anche le situazioni peggiori.
Si chiese, data la reazione di Hajime, se lui in realtà non fosse ancora innamorato di lei…
«Oikawa-san, papà ti ha detto cosa abbiamo fatto l’ultimo dell’anno?»
Il ragazzo parve riscuotersi dai suoi pensieri, rendendosi conto che sia il padre sia la figlia lo stavano fissando, mentre le bacchette continuavano a rigirare la brodaglia oramai fredda.
Sbatté gli occhietti, posando poi il mento sul palmo della mano e cercando di farsi vedere interessato all’argomento. Da quando si erano messi a tavola, l’unica ad aver parlato era stata proprio Akane. Lui e Iwa-chan non si erano scambiati neanche una parola.
«No, il tuo papà non mi ha detto nulla!» disse, anche se le parole avevano un sapore amaro sulla punta della lingua. «E tu puoi chiamarmi Tooru, tranquilla!»
La bambina spostò lo sguardo sul padre, come a chiedere se potesse veramente farlo, e non appena capì che lui non aveva nulla da obiettare, continuò:  «Siamo andati al tempio, e papà mi ha aiutato a mettermi il kimono!»
«Sul serio?» disse. «Non ti facevo così bravo, Iwa-chan!»
Fu in quel momento che si rese conto di essersi effettivamente rivolto a lui, chiamandolo come faceva sempre, usando il suo solito tono di voce. E soprattutto, gli aveva parlato direttamente, come se tra loro due non ci fossero anni luce di distanza che li separavano. Erano lì, seduti a un tavolo, ed erano l’uno di fianco all’altro. Niente di diverso da quella volta che erano andati a pranzare assieme. Solo che, quella volta, non si conoscevano ancora.
Il ragazzo alzò le spalle, tenendo sempre lo sguardo sulla scodella di ramen. «Non ho fatto tutto da solo, è venuta anche mia zia a darci una mano.»
«Sì, ma la zia mi ha solo sistemato i capelli! Il kimono me l’hai messo tu!» si affrettò ad aggiungere la bambina, balzando poi in piedi sulla sedia.
«Beh sì…» si limitò a dire, per poi squadrare la figlia dall’alto in basso. «Akane, siediti.»
La bambina obbedì senza fare storie, per poi rivolgersi ancora una volta verso Oikawa. «Ho anche espresso un desiderio!»
La guardò, sorpreso, come se cercasse con tutto se stesso di essere cortese con quella bambina che gli stava parlando come se fosse un loro amico di famiglia e lo conoscesse da una vita. Come se l’avesse vista crescere, e Oikawa si ritrovò a pensare come sarebbe stata la sua vita se Iwa-chan fosse rimasto a Miyagi e loro fossero diventati amici prima. Forse, tutto questo non sarebbe successo. O forse, avevano solo tardato l’inevitabile.
Questo, però, Oikawa non poteva saperlo. Solo il destino ne era a conoscenza.
«Davvero?»
Akane annuì vigorosamente. «Ho chiesto questo – e giunse le mani e stinse gli occhi come a simulare quello che aveva fatto al tempio – “per favore, quando sarò grande voglio giocare a pallavolo e fare anche la violinista!”»
Quello che Hajime stava per mettere in bocca rimase sospeso in aria, mentre lui spostava lo sguardo sulla figlia, segno che lui non era a conoscenza di quello che la bambina avesse espresso al tempio. Oikawa, invece, aveva sbattuto ancora una volta le palpebre, sorpreso.
Ripensò alla scena che aveva visto quella mattina al parco, la bambina avvolta in quel cappottino, mentre tentava di palleggiare usando una piccola palla e Iwa-chan le diceva come doveva posizionare le mani.
«Ti piace giocare a pallavolo…?» chiese, quasi con la paura di rompere un equilibrio che, per quanto precario fosse, si era venuto a creare in quelle poche ore.
Iwaizumi saettò lo sguardo verso di lui, la bocca ancora semi aperta, immobile.
«Sì, mi piace un sacco! Papà, prima, ci giocava più spesso, lo sai?»
Oikawa guardò di sottecchi il ragazzo, che aveva ricominciato a mangiare, tenendo lo sguardo fisso sulla sua pietanza. Il gelo di quelle giornate di gennaio pareva che fosse entrato improvvisamente dentro quella stanza.
«Sì, lo so…» disse, l’immagine di loro due che giocavano a pallavolo che gli comparve davanti, e Tooru cercò di ricordare con tutto se stesso le sfumature degli occhi di Hajime, rendendosi conto che la sua mente le stava piano piano cancellando dai suoi ricordi. Aveva bisogno di rivederle ancora una volta. Aveva bisogno che quegli occhi lo guardassero. «E ti ha detto che anche io so giocare?»
La bambina, che aveva messo un paio di spaghetti di miso in bocca, li risucchiò con voracità , producendo un rumore un po’ fastidioso. Iwaizumi, per la prima volta da quando il setter era entrato in casa, lo stava guardando nella sua interezza, gli occhi appena spalancati.
«No, non me l’ha detto!» disse poi Akane, passandosi la lingua sulle labbra.
«Gioco nella Nazionale, sono l’alzatore titolare» rispose, prendendo un boccone dal suo piatto.
Ci fu un attimo di silenzio, e adesso il gelo era misteriosamente scomparso. Oikawa sentì una sensazione calda all’altezza del petto, diversa da quella che di solito provava quando stava con Iwa-chan. Era fastidiosa, la sentiva scorrere dentro le vene, eppure gli aveva dato un senso di pace che non sentiva da tempo.
La bambina si mise nuovamente in piedi sulla sedia, sbattendo entrambe le manine sul tavolo e lasciando entrambi gli adulti stupiti. Poi, si rivolse al padre.
«Allora è lui la persona famosa che hai intervistato?» disse, quasi offesa. «Perché non me l’hai detto, papi?»
«Non te l’ho detto…?» Hajime finse di cadere dalle nuvole.
La bambina gonfiò le guance, rimettendosi seduta. «Smettila di prendermi in giro…» bofonchiò.
E poi successe qualcosa che Oikawa non avrebbe mai immaginato, mentre osservava la scena come se fosse stato catapultato improvvisamente in un contesto di cui non faceva parte – e, in un certo senso, era così.
Hajime rise. Non troppo forte, ma a un livello abbastanza alto da riempire completamente sia la stanza sia i timpani del giovane setter. La sensazione di calore si fece sempre più persistente, e adesso sentiva il petto che bruciava come un tizzone ardente, mentre andava su e giù ogni volta che immetteva l’ossigeno dentro i polmoni. Era diversa dalla risata che aveva sentito quella sera al parco, tutto per Tooru aveva un aspetto diverso in quel momento. Come se fosse rimasto davanti a un dipinto per troppo tempo senza osservare con attenzione cosa ci fosse ritratto, i vari particolari, il significato nascosto sotto quella tela.
Era come se Hajime fosse un’altra persona quando stava con sua figlia, e Oikawa sentì il bisogno quasi fisiologico di avere quella persona nella sua vita; di avere Hajime e basta, con tutte le sue sfaccettature, perché a lui piaceva così. Perché lui voleva che fosse così, non doveva cambiare per forza.
Oikawa era arrivato a un punto di non ritorno. E se ne rese tristemente conto mentre ascoltava quella risata come se fosse la più bella melodia composta sulla faccia della Terra. Abbassò la testa, cercando di nascondere il suo crescente imbarazzo, mentre l’altro continuava a ridere.
«Perché stai ridendo, smettila!» continuò la bambina, ridendo anche lei. «Lo sai che hai la risata contagiosa!»
In realtà, non sapeva neanche lui perché stesse ridendo. Era come se l’espressione di Akane avesse finalmente smorzato quella tensione opprimente. «Scusami… Ma non capisco perché ne stai facendo una tragedia!»
«Perché non vorrei che smettessi di raccontarmi le cose…»
Eccolo. Il morbido sorriso che si era dipinto quella mattina al parco sul volto di Hajime: lo stava facendo anche adesso, e Oikawa si rese conto che gli veniva quasi naturale sorridere in quel modo. Era pur sempre di sua figlia che si stava parlando, era normale che si comportasse così, soprattutto visto quello che era successo tra lui e sua moglie.
Il giornalista si sporse un poco, in modo da poter posare la mano a palmo aperto sulla testolina della bambina, in un gesto affettuoso e che era solito fare solo con lei. «Tranquilla, lo sai che sei la mia consulente numero uno» le disse. «La prossima volta farò più attenzione, okay?»
La bambina annuì, un ciuffo di capelli che le ballonzolava davanti agli occhi. Tornarono entrambi sul proprio piatto, e fu in quel momento che Hajime spostò lo sguardo sul ragazzo che gli stava accanto, seduto a capo tavola. Teneva gli occhi bassi, ma non li aveva scostati nemmeno un attimo da quella scena. Si guardarono per un tempo che parve un’infinità, attuando il loro solito gioco di sguardi, e il primo a perdere questa volta fu proprio Hajime.
Si aspettava di trovare negli occhi di Tooru un velo di tristezza, di malinconia, di rabbia. Ma no, in quegli occhi vide solo il desiderio del giovane ragazzo di essere parte integrante di quella scena.






Oikawa si era offerto di aiutare Iwaizumi a lavare i piatti, ma quest’ultimo gli aveva detto di non preoccuparsi e di pensare invece a stare comodo; ovviamente, non lo aveva guardato in viso nemmeno una volta mentre parlava.
Il castano decise di rinunciarci, gironzolando per la stanza senza nulla da fare, mentre Akane era concentrata a guardare un anime che trasmettevano in televisione.
La casa di Hajime era diversa dalla sua: non troppo spoglia, ma neanche così ricca di dettagli, giusto quell’essenziale che serviva a guarnire l’ambiente. Come immaginava, c’erano più cornici con fotografie che soprammobili a riempire i vari spazi. Alcune rappresentavano paesaggi di ogni tipo, solitamente di Tokyo, e Oikawa si ritrovò a riscoprire certi scenari che aveva sotto gli occhi ogni giorno, dai cartelli pubblicitari, al mercato, alla torre. Altre fotografie – come immaginava del resto – erano tutte di sua figlia. Non c’erano troppe, ma abbastanza da poter ammirare la crescita di quella bambina nei suoi quattro anni di vita. Osservò ogni foto con attenzione, come se stesse cercando di imprimere nella mente, con forza, i vari dettagli sul viso di quella bambina, e scorgeva sempre una particolarità che era anche di Hajime, come quando corrucciava la fronte, o come quando sollevava l’angolo della bocca per sorridere. E questi particolari li notò ancora di più quando si ritrovò davanti a una cornice a quattro foto, tutte ritraenti una piccola Akane di soli due anni, tranne una: in questa c’era anche Hajime, e la bambina, forse seduta sulle sue ginocchia, gli aveva messo una mano sopra il naso. Sorridevano entrambi.
Oikawa ingoiò un grumo di saliva amaro. Si chiese perché stesse facendo tutto questo, che cosa ne avrebbe ricavato in futuro. Eppure, la risposta era così ovvia: nulla, non ne avrebbe ricavato nulla. Aveva sentito quello che gli aveva detto Iwa-chan, non avrebbe mai rinunciato a sua figlia per lui, per quella che considerava come una bella amicizia. C’era sempre qualcosa che non tornava, però, a cominciare dalla frase che aveva detto l’altro giorno, e il setter credeva di stare per impazzire.
Sentiva le mani bruciare per via della fune.
Sentiva il polso stringere, e non sapeva neanche lui perché. E il destino, intanto, lo sbeffeggiava.
«Ti piace?»
A riscuoterlo dai suoi pensieri fu la vocetta di Akane alle sue spalle, e per poco Oikawa non fece un balzo sul posto. Si girò, come se fosse stato sorpreso a rubare, rivolgendo poi un sorriso tirato alla bambina, annuendo; quest’ultima sorrise, la cannuccia tra i denti, mentre stava bevendo un succo all’arancia rossa.
«Ho poche foto col mio papà, però per me sono le più belle!» disse. «Non lo dire alla mia mamma, okay?»
Il castano spalancò appena gli occhi. Avrebbe voluto risponderle che non c’era alcuna possibilità che lui incontrasse la sua mamma, e di certo non se ne sarebbe ricordato, ma decise di limitarsi ad annuire. La bambina sorrise ancora, dandogli poi le spalle e tornando a posizionarsi davanti al tavolino basso. Solo allora Oikawa si accorse che sulla superfice erano sparse diverse carte, tutte provenienti dal mazzo delle hanafuda.  Che cosa ci faceva una bambina di appena quattro anni con delle carte del genere?
Akane, probabilmente sentendosi osservata, alzò lo sguardo verso di lui, e notando che la stava guardando con un’espressione di puro sconcerto, si mise a ridere, trattenendosi con una mano davanti al viso.
Oikawa alzò un sopracciglio. «Ti stai prendendo gioco di me, per caso?» disse, rendendosi conto di aver usato un tono di voce scherzoso, non di rimprovero.
No… Non poteva affezionarsi anche a lei…
«Sei buffo!» gli rispose. «Hai una faccia strana!»
Adesso, entrambe le sopracciglia erano sollevate. «Cosa avrebbe la mia faccia che non va? Guarda che sono pagato anche per questa, sai?»
«Non lo so, è che fai un sacco di espressioni strane!» rispose, alzando le spalle, una spallina della salopette che scivolò via.
Incrociò le braccia. «Le mie espressioni sono normalissime» disse, facendo l’offeso, anche se in realtà non gli riusciva per niente. «Ero solo sorpreso di vederti usare le hanafuda.»
La bambina sbatté le palpebre, spostando lo sguardo nello stesso punto in cui era puntato quello dell’altro. «Ti riferisci a queste?» domandò, e senza aspettare una risposta, aggiunse: «Mi servivano solo per l’anime che stavo guardando. Prende il nome da queste carte, anche se il mazzo che usano le protagoniste è diverso!»
Doveva essere uno di quei anime fatto apposta per le bambine, dove le protagoniste erano delle supereroine, e ogni volta avevano un potere o una qualche abilità che le contraddistingueva da tutte le altre protagoniste. In questo caso, c’erano le carte.
Il castano si avvicinò, mettendosi poi vicino ad Akane, seduto sui talloni. Ora che la guardava meglio, aveva dei tratti più fini rispetto a quelli di Hajime, ma si trattava pur sempre di una bambina.
«Ho chiesto alla mia mamma se posso usare questo» continuò. «Anche se le mie amiche si arrabbiano con me quando giochiamo assieme!»
«Mi spieghi come funziona?»
La sua lingua si era mossa senza che fosse attaccata al cervello. Era come se qualcun altro lo stesse controllando, come se fosse un burattino nelle mani di un burattinaio. In un’altra occasione, non avrebbe fatto quella domanda, in un’altra occasione non avrebbe scherzato con lei. In un’altra occasione, Tooru non sarebbe stato lì.
Il viso di Akane parve rischiararsi. «Ecco, ci sono dodici eroine, e ogni eroina ha il proprio seme. Ogni seme ha un’abilità diversa.»
Probabilmente avrebbe continuato a parlare, raccontandogli la trama e tutti i vari intrecci tra le ragazze e, probabilmente, i loro rispettivi fidanzati, ma la interruppe quasi subito, una parte del suo cervello che continuava a mandargli segnali d’allarme: adesso era rinchiusa, però, relegata in un angolo, e poteva soltanto urlare e insultare la stupidità e la noncuranza del giovane. «Anche questo mazzo ha dodici semi, qual è il problema?»
«È che io sono l’unica che non ha il mazzo buono… quello della serie…»
Assottigliò lo sguardo. «Se ci tenevi, perché non l’hai chiesto per Natale?»
«Perché per Natale ho chiesto il violino, anche se la mamma mi ha detto che me lo farà usare quando sarò un po’ più grande… E poi ho chiesto questo.» Indicò il nastro che le legava i capelli, e solo allora Tooru si accorse che aveva lo stesso colore di un pallone della Mikasa, giallo e blu. Gli fece uno strano effetto vedere quei colori su quei capelli scuri. «Ne ho un altro rosso, bianco e verde. Li ho visti in un negozio, e mi hanno subito ricordato i colori dei palloni che si usano per giocare a pallavolo.»
Oikawa, senza rendersene conto, si era ritrovato a sorridere.
Stava succedendo, alla fine, sebbene quella bambina non avesse fatto nulla di che. Si stava affezionando. Era come se, parlando con lei, avesse improvvisamente dimenticato la distanza che separava lui e Iwa-chan, come se le sue domande contorte sul perché si stessero vedendo fossero sparite. Akane era diventato il loro punto di incontro, la luce del faro che segnava il cammino.
Il sorriso di quella bambina, la sua dolcezza, il suo rivolgersi in maniera sempre pacata e naturale avevano finito per catturarlo come una mosca col miele. Ma, del resto, era figlia di suo padre: Iwa-chan l’aveva catturato fin da subito, e per un attimo il suo cuore fece una capriola nel ricordare le sfumature degli occhi del ragazzo. Erano state quelle ad attirarlo e farlo smettere di piangere, tanti anni fa.
Erano state quelle ad attirarlo quella mattina al bar.
Era state quelle a farlo innamorare di lui.
E Oikawa si rese conto che anche Akane aveva le stesse sfumature, ma brillavano di una luce diversa.
«Beh, potevi sempre chiederle, non penso che Iwa-chan te le avrebbe mai negate.» Sentiva sempre la lingua pizzicare ogni volta che chiamava quel ragazzo con il solito appellativo. Come se non avesse più il diritto di chiamarlo in quel modo.
Il faccino di Akane si rabbuiò di colpo, e il ragazzo spalcò appena gli occhi, chiedendosi che cosa avesse mai detto di male.
«Papà… Me le avrebbe comprate, ma adesso ce ne sono poche in giro.» Rimase un attimo in silenzio. «Quando sono uscite lui doveva dare dei soldi alla mamma. Una volta, Katsu-san mi ha spiegato che servono per me… Papà spende un sacco di soldi per me…»
Se c’era una cosa che aveva capito di quella bambina era che fosse fin troppo intelligente per la sua età. Non aveva idea di chi fosse il tizio che aveva nominato, ma probabilmente doveva avere captato qualcosa di una conversazione avvenuta tra lui e la sua mamma, mentre parlavano dell’argomento, chiedendo poi di cosa si trattasse. Quello a cui si riferiva Akane erano gli alimenti che di solito, uno dei due genitori paga all’altro per il mantenimento dei figli.
Girò la testa con violenza, e si ritrovò ad osservare le spalle larghe di Hajime, curvo sul lavello, la fronte che sfiorava la credenza decisamente troppo bassa. Scorse il suo profilo, serio, sovrappensiero, mentre lavava gli ultimi piatti rimasti.
Akane non aveva chiesto niente al padre perché sapeva quanto già facesse per lei, anche se non poteva averlo sempre presente a casa.
Oikawa era quasi tentato di volerle chiedere in che tipo di rapporti fossero rimasti lui e la sua mamma, se davvero fossero in buoni rapporti, se litigavano, se lui sembrava essere ancora innamorato di lei… ma si fermò, prima di commettere una qualche sciocchezza, e la sua razionalità lo ringraziò da lontano, ancora confinata in quell’angolo e imprigionata da delle catene spesse.
Di certo, era sicuro che Hajime amasse sua figlia più di ogni altra cosa e che per lei sarebbe stato disposto a far tutto. L’aveva detto, quella sera, e adesso Oikawa si sentiva un completo idiota per non averlo capito prima.
«Sei fortunata ad avere un papà come Iwa-chan…» mormorò tra sé e sé, lasciandosi sfuggire un sorriso, lo sguardo ancora rivolto verso la figura del giovane.
«Oh, lo so, il mio papà è imbattibile!» disse, prendendo poi un paio di carte tra le mani. «Tooru-san, sai giocare a qualche gioco usando queste carte?»
Il ragazzo, ancora concentrato a fissare Hajime, quasi come se fosse ipnotizzato, voltò la testa lentamente, vedendo che la bambina gli stava offendo le carte, piazzandogliele praticamente a due centimetri dalla faccia. Esistevano diversi giochi che si potevano fare con le hanafuda, tuttavia…
«Non sono molto bravo a giocare a carte» ammise, ricordando come Makki lo battesse sempre, quando capitava che riuscissero a giocare durante la pausa pranzo. «Mi spiace.»
La bambina sporse il labbro inferiore, intristita, anche se successivamente cercò di non darlo a vedere. «Pazienza…»
Oikawa la squadrò mentre cercava di riordinare come meglio poteva le carte, per poi rimetterle dentro lo scatolo. Era ovvio che ci fosse rimasta male, forse si aspettava che fosse lui a proporle qualcosa da fare.
In un attimo, il viso del giovane setter si incupì, e adesso la sua parte razionale non solo era incatenata, ma stava per essere sommersa da qualcosa di caldo e di assolutamente nuovo per lui. Era la stessa sensazione che provava quando stava con Hajime, un calore che proveniva dal petto e che quasi gli bruciava la pelle. Aveva la stessa identica intensità, solo che adesso gli prudevano le mani, come quando si allenava a fare più alzate di seguito. Dovette chiuderle a pugno, i polpastrelli che pulsavano, prima di aprire bocca. Sapeva benissimo cosa significasse quella sensazione: che era spacciato.
«Però un mio amico italiano mi ha insegnato a fare una cosa…»
La bambina lo guardò, gli occhi che sbattevano frenetici, non sapendo che cosa aspettarsi. Oikawa sorrise, prendendo due carte tra le mani e liberando un piccolo spazio sul tavolino; le mise in piedi sulla superfice, facendole combaciare, sperando che non cadessero due secondi dopo.
Per una persona qualsiasi, quelle due carte non avrebbero avuto nulla di speciale, ma per una bambina di quattro anni quello che stava vedendo era il frutto di una qualche magia. Come lo fu per Oikawa la prima volta, solo che lui era molto più grande di Akane, e si era ritrovato a giocare con i ragazzi della Nazionale italiana senza un motivo, tenendo in mano un mazzo di carte che non conosceva. Non ricordava come ci fosse finito assieme a quei ragazzi, probabilmente perché Bokuto li conosceva, sapeva solo che uno di loro – brillo, come lo erano un po’ tutti – aveva preso quello stesso mazzo di carte e si era messo a fare quello che lui chiamava “castello”.
«Wow, che forza!» disse, avvicinando il volto verso le carte, trattenendo il respiro per paura di farle cadere.
«Posso provare a fare un castello, se vuoi!» disse, facendole poi l’occhiolino.
La bambina lo guardò con gli occhi colmi di meraviglia, e Oikawa non ebbe bisogno di sapere qual era la risposta.





Si era reso conto di averci messo il doppio del tempo per lavare i piatti, di solito era molto più veloce. La sua mente, però, era affollata da pensieri, da immagini, e gli veniva difficile concentrarsi, anche per una cosa così facile come quella.
Ancora non capiva che cosa diavolo gli fosse passato per la testa quando aveva deciso di invitare Tooru a uscire di nuovo, quando l’aveva richiamato. Eppure lo sapeva, lo sapeva che sarebbe stato un bene per entrambi se si fossero separati, se fossero tornati alle loro rispettive vite, se si fossero dimenticati l’uno dell’altro.
Ma no, lui si era lasciato vincere da quell’espressione addolorata, da quei sentimenti che gli avevano scombussolato lo stomaco dopo aver scoperto la notizia della sua separazione, e adesso Tooru era lì.
Lì, con sua figlia, e lui non sapeva come comportarsi in merito.
Per un attimo, voleva con tutto se stesso che lui la odiasse, così avrebbe trovato un motivo per odiarlo a sua volta. Oikawa Tooru, però, era un uomo pieno di sorprese, e quando aveva visto quegli occhi che quasi lo imploravano, che quasi urlavano di voler essere parte integrante di quel qualcosa, di quell’atmosfera di complicità tra padre e figlia, il cuore del giornalista era quasi schizzato fuori dal petto.
Non considerava il rapporto che aveva con Akane come qualcosa di esclusivo, altrimenti lei non avrebbe vissuto ventiquattrore al giorno con sua madre, in una città totalmente diversa. Tuttavia, capitava che gli desse fastidio che la gente si intromettesse in quei momenti che erano solo per loro due.
Oikawa, però, non gli aveva dato questa impressione. Lui sapeva adattarsi a tutto, persino alle situazioni che volgevano a suo sfavore, e in quella casa era come un gladiatore dentro un’arena piena zeppa di leoni, con le spalle al muro. Eppure, per quanto Hajime avesse visto le linee che segnavano il suo viso, appena sotto gli zigomi, lui era riuscito tranquillamente a parlare con Akane, la persona che doveva essere in verità l’oggetto del suo odio.
Ma non lo era. Ed era questo il problema.
Oikawa stava entrando completamente nella sua vita, senza dargli la possibilità di respirare, e Hajime si sentiva annegare. C’era qualcosa, però, che gli diceva che quel ragazzo era il pezzo mancante del puzzle, quello che si incastrava perfettamente con un Akane sorridente.
Scosse la testa, riponendo poi l’ultimo piatto asciutto nella credenza, buttando fuori l’aria che gli pareva di aver trattenuto fino ad allora.
«Papà, guarda! Guarda che figo!» Il genitore si voltò, sorpreso di sentire la voce della figlia così allegra, rimanendo poi di sale.
Sopra il tavolino basso c’era quella che doveva essere una costruzione fatta con delle carte, una base di sei a reggere tutte le altre. Strabuzzò gli occhi, incredulo, le pupille che si spostarono verso il fautore di tale creazione.
Oikawa sorrideva, un sorriso un po’ impacciato e che non gli aveva mai visto fare, tenendo tra le dita altre due carte. Akane, intanto, era di fianco a lui, e fremeva sul posto, euforica.
«Non sembra un castello?» chiese, e Hajime rispose dopo un po’, annuendo, mentre cercava di metabolizzare la cosa.
Il sorriso sul volto del setter si allargò, ma non disse niente, posizionando poi le ultime due carte rimaste sopra le altre; ma proprio quando sembrava che stessero per reggersi in piedi, il castello di carte crollò sotto il suo stesso peso, e le altre due carte rimasero sospese a mezz’aria, ancora tra le mani di Tooru.
Per un po’ regnò il silenzio, fino a quando Akane non si mise a ridere a crepapelle, tenendosi lo stomaco con entrambe le braccia. Anche il giornalista si ritrovò a sorridere dinanzi a quella scena che aveva del comico.
«Continui a prenderti gioco di me, uh?» disse il castano, rivolgendosi alla bambina, alcune lacrime di gioia che le solcavano il viso. «Voglio proprio vedere se riuscirai a fare meglio del sottoscritto!»
«Oh, sì, voglio provare!» esclamò l’altra, prendendo le carte dalle mani del ragazzo, quest’ultimo che intanto incrociava le braccia, come a sottolineare il suo totale disinteresse nell’aiutarla.
Alla fine, però, vedendo il modo in cui si concentrava per tentare di mettere le carte dritte, quasi come se potesse invocare un qualche potere telecinetico, si posizionò dietro di lei, non prima di aver sbuffato e alzato gli occhi al cielo col suo solito fare teatrale.
«Guarda Akane, così…» e nel dirlo, le prese le manine tra le sue e l’aiutò a far congiungere le carte.
Ecco, quello fu il momento in cui successe qualcosa che Hajime non si seppe spiegare. Era come se il puzzle fosse finalmente completo, ma per lui, per la sua mente, c’era qualcosa che non andava. Era come se stesse fissando un’illusione ottica nel tentativo disperato di cercare un’immagine giusta, un’immagine che fosse vera, ma non c’era. Si trovava ad essere dimezzato, combattuto tra due realtà del suo stesso essere, perché se la mente gli intimava di ignorare tutto, il cuore…
Beh, non lo sapeva ascoltare, perciò non sapeva che cosa gli stesse dicendo veramente. Lo sentiva solo martellare contro lo sterno, contro l’intera cassa toracica, e se fosse stato da solo gli avrebbe urlato contro di smetterla. L’aria non era più pesante come prima, anzi, era una ventata fresca per Hajime, come il venticello che soffia sulle montagne.
Stava ancora fissando Oikawa, gli occhi completamente aperti, senza riuscire a sentire quello che stesse dicendo a sua figlia, sorridendo; poi, quest’ultimo alzò lo sguardo su di lui, e per la prima volta da quando era iniziata la serata il giornalista non lo evitò. Abbozzò un sorriso, uno di quelli veri e che Hajime credeva fossero riservati solo a lui – e invece si sbagliava, perché quello era il vero Tooru, quello che stava giocando con sua figlia.
Oikawa era felice. Era felice nonostante fosse a casa della persona che l’aveva fatto soffrire, che era stata la causa della sua insofferenza.
Adesso, il cuore del giornalista, smise di battere e per un attimo pensò che stesse per morire. Non stava per avere un infarto, però, era un altro il motivo per cui si sentiva così, e l’idea gli passò davanti nella mente come se fosse uno striscione colorato.
No, non poteva essere. Tooru non poteva avere ragione, si era sbagliato, lui aveva delle priorità…
Lui non poteva essersi…
Scostò lo sguardo, avvertendo l’espressione ferita del giovane che lo guardava da lontano, cancellando immediatamente quell’idea dalla mente e tornado a sistemare la cucina.






«Allora – cominciò, non appena fu oltre l’uscio – grazie dell’invito a cena.»
«Prego, figurati…»
Continuarono a non guardarsi negli occhi, preferivano concentrarsi su altro, su quello che stava sullo sfondo dietro all’altro, la mente che vagava. Avrebbero dovuto dire qualcosa, entrambi ne erano consapevoli, ma le loro labbra erano cucite con ago e filo, nessuno fiatava. Era molto probabile che, dopo quella cena di cortesia, non si sarebbero più rivisti, e quella consapevolezza investì Tooru come un treno in corsa.
Iwa-chan aveva organizzato quell’incontro solo perché lo voleva lui, solo perché non voleva farlo stare male ulteriormente; per questo gli aveva chiesto cosa volesse realmente lui, perché altrimenti il problema non sarebbe sussistito e loro non si sarebbero mai più rivisti.
E invece erano lì, uno di fronte all’altro, una linea a separarli. Lo stesso confine che aveva disegnato il destino tra di loro, come una bimba dispettosa che gioca con i gessetti bianchi.
Dopo che aveva attenuto ciò che voleva, Oikawa non era più tanto sicuro che avrebbe rivisto Iwaizumi: non così, non con lui che evitava il suo sguardo. L’idea di uscire da solo, con lui che lo ignorava, lo faceva sentire come se mille coltelli gli stessero trafiggendo la schiena.
Faceva male.
Il polso faceva ancora male, e il filo rosso stringeva, mentre la bimba dispettosa rideva.
Fu un’altra bimba, però, a destare entrambi gli adulti, comparendo di fianco a Iwaizumi. «Tooru-san, dopodomani vieni a salutarmi in aeroporto?»
Il giornalista per poco non cadde all’indietro dopo questa affermazione. Sapeva che sua figlia si affezionava facilmente alle persone, ma non era mai arrivata a fare una richiesta simile. Saettò lo sguardo da Oikawa – che stava cercando di trovare una risposta adeguata – a sua figlia, in leggera agitazione.
«Akane, Oikawa non può venire… Avrà sicuramente gli allenamenti, e…»
«A che ora parti?»
Adesso, i suoi occhi erano per davvero puntati su quelli color cioccolato di Oikawa, la solita luce che li rivestiva come una patina che luccicava. Era sincero, non aveva posto la domanda tanto per farla contenta, voleva seriamente sapere quando partiva.
Le iridi del giovane ebbero un guizzo, e per un attimo si fissarono come solo loro sapevano fare.
Oikawa era felice di poter rivedere, finalmente, le sfumature degli occhi di Iwa-chan, e quest’ultimo ancora non riusciva a spiegarsi il grappo che gli ostruiva le vie respiratorie.
Se solo entrambi avessero saputo che i loro cuori rumoreggiavano allo stesso modo…
«Alle nove!» rispose.
Il castano rifletté un attimo, cercando di ricordare che cosa avesse in programma per quella mattina. «Ho un’intervista per quell’orario.» Akane abbassò immediatamente la testa, ma la rialzò subito dopo non appena sentì la successiva frase del setter. «Però posso farla spostare. Non credo si faranno problemi, farebbero questo e altro per me, figurarsi!»
Oikawa parlò col suo solito tono lezioso, ma sorrise subito non appena vide il volto di Akane farsi colmo di speranza; e il suo sorriso era sincero.
«Me lo prometti?» e sollevò il mignolo nella sua direzione.
Dapprima, rimase un poco spiazzato da quel gesto, poi però abbassò anch’egli il mignolino, stringendolo a quello della bambina, che fece un sorriso a trentadue denti.
E tutto, avvenne sotto lo sguardo vigile e basito di Iwaizumi, e adesso aveva capito che cosa dovesse aver provato il ragazzo nel sentirsi come l’ultima ruota del carro, messo da parte. Era come se si fosse innestato un legame tra quei due, come se fossero bastati un mazzo di carte e un paio di ore per fare di loro dei grandi amici.
I bambini, si sa, sono soliti dimenticarsi di alcune persone che hanno conosciuto nella loro vita, magari qualcuno viene ricacciato fuori dalla loro memoria, ma solo perché queste persone avevano fatto qualcosa di speciale per loro.
Come Oikawa aveva fatto qualcosa di speciale per Akane, anche se ancora non sapeva che cosa.
Il fatto che quella bambina gli avesse fatto una richiesta del genere, denotava che lei ci tenesse veramente a farselo amico. Gli piaceva, e Iwaizumi si ritrovò ancora una volta a non sapere che cosa fare in merito, se esserne felice o meno.
Perché avrebbe dovuto esserne felice, poi?
«Vedi di mantenerla…» mormorò a denti stretti, anche se in realtà avrebbe voluto tenersi tutto dentro.
Tuttavia, sapeva quanto ci rimanesse male Akane ogni volta che qualcuno cui teneva non manteneva una promessa.
Il ragazzo sbatté le palpebre, e di nuovo lo guardò negli occhi, di nuovo osservò quelle sfumature. «Certo» rispose, con un filo di voce.
Stettero in silenzio per un po’, poi il setter prese un bel respiro, e annunciò: «Grazie ancora di tutto. Buonanotte!»
Sollevò la mano, ricambiando il saluto di Akane, che gli aveva dato la buonanotte con un certo entusiasmo, poi aveva infilato entrambe le mani in tasca. E mentre percorreva il corridoio, Oikawa non poteva sapere che Iwaizumi lo stava fissando da dietro, fino a quando non lo vide scomparire sulla rampa di scale.






Oikawa aveva sempre pensato di avere un rapporto un po’ contrastante con i bambini, quasi come se l’idea di averli attorno lo infastidisse. L’unica eccezione era sempre stata Takeru, suo nipote, ma forse perché l’aveva visto crescere, l’aveva tenuto in braccio quando era ancora un bambino e l’altro era solo un frugoletto avvolto in un lenzuolino bianco. Per il resto, non aveva mai avuto l’occasione di stare in compagnia di un bambino che non fosse suo nipote, e l’idea gli faceva venire il ribrezzo: i bambini erano petulanti, piagnucolavano e si lamentavano per qualsiasi cosa. Un po’ come lui, del resto, per quanto fosse un alzatore di fama mondiale, Oikawa non era mai cresciuto veramente.
Si tamburellò il mento con il suo smartphone, il parcheggio attorno a lui completamente deserto. Era uscito da casa di Iwaizumi da almeno cinque minuti, ed era rimasto seduto in macchina, completamente sovrappensiero, un piccolo sorriso che faceva capolino sulle sue labbra.
Era seriamente spacciato.
Lo sapeva, l’aveva capito non appena aveva provato quella sensazione di calore che, in seguito, si era irradiata in tutto il corpo. Era la stessa medesima sensazione che provava ogni volta che ripensava a quello che avevano passato assieme lui e Iwa-chan. Era la stessa che aveva sentito non appena aveva capito di essere innamorato di Iwa-chan. Il sentimento che provava per quel giovane era forte, fortissimo, non si trattava di una semplice infatuazione.
Perché, se fosse stato così, Oikawa non sarebbe stato disposto a fare un passo indietro, lasciandogli tutto lo spazio che gli serviva per pensare alla sua vita, a sua figlia.
Oikawa, lo ammetteva, a volte si era comportato come un egoista, scavalcando gli altri per privilegiare se stesso. Ma non in questo caso. Non quando gli pizzicavano gli occhi al solo pensiero di quel visino che gli sorrideva.
Con Akane, non era stato diffidente, gli veniva quasi naturale parlarle, come se avesse bisogno di una complice che lo facesse stare bene in quel momento, con cui potesse seriamente sorridere.
Lasciò il cellulare, mettendo poi in moto la macchina, le mani sul volante; si fermò di nuovo, colto da un singhiozzo, posando poi la fronte contro il volante, prendendo profonde boccate d’aria. Le lacrime gli offuscavano la vista.
Adesso capiva che cosa volesse dire Hajime quella sera. C’erano delle priorità nella sua vita, e lui non era tra queste.
Eppure, ora che aveva conosciuto Akane, non se la sentiva di puntagli il dito contro.
Hajime aveva scelto sua figlia. E forse, era la scelta migliore per tutti.





 
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[7 gennaio 2017]






L’aeroporto era gremito di persone, e Hajime era quasi certo che sarebbe stato così, del resto erano in molti a tornare a casa dopo le ferie. La fila di persone che aspettavano di fare il controllo bagagli occupava per metà la zona di attesa, alcune persone che invece chiacchieravano e bevevano il caffè al bar là vicino.
Era una fortuna che Akane non dovesse fare tutta quella fila, in fondo doveva essere pur sempre un hostess ad accompagnarla, per cui era normale che passasse per la zona a loro riservata per i vari controlli.
Guardò l’orologio, sbuffando. Se l’atmosfera degli arrivi lo faceva sentire quasi leggero, quella delle partenze era come una camera delle torture per lui. Si era mosso tra quella gente quasi come se fosse un automa, sforzandosi di sorridere alla figlia che gli teneva la mano, ma il nodo alla gola si era già formato.
Stava per lasciarla, di nuovo. Per l’ennesima volta.
Le lancette segnarono le otto e un quarto, Akane aveva già imbarcato la valigia, doveva solo aspettare di passare gli ultimi controlli e che il gate si aprisse; il problema era che il tempo stava per stringere, e l’hostess che doveva accompagnare la bambina li aveva già avvertiti diverse volte.
Eppure era inutile, Akane non si voleva proprio smuovere da lì. In un’altra occasione, ad Iwaizumi avrebbe anche fatto piacere, se non fosse che sua figlia stava aspettando una certa persona…
«Akane…» disse, affranto, distrutto alla sola idea di quello che stava per dire. «È tardi, devi andare.»
«Altri cinque minuti, papà!» rispose la bambina, mettendosi in punta di piedi e cercando di scorgere un volto familiare tra quelle migliaia di persone che camminavano nella sua direzione.
«Akane…» riprese Hajime. «Non verrà…»
«Ma me l’aveva promesso!»  Si girò verso di lui, gli occhi verdi che erano diventate due pozze d’acqua.
Strinse le mani a pugno, le unghia che si conficcavano nella carne. L’idea di lasciare sua figlia in quelle condizioni gli faceva male, e probabilmente se si fosse ritrovato davanti Oikawa in quel momento l’avrebbe pestato a sangue. Tuttavia, non era il momento di lasciarsi sopraffare dalla rabbia, fece solo quello che gli venne più spontaneo: le accarezzò la testolina, dolcemente, mentre lei l’abbassava e tirava su col naso.
«Forse non è riuscito a spostare l’intervista… Sono sicuro che anche lui ci è rimasto male…» Sperava veramente che fosse così, perché non poteva esserci altra spiegazione possibile, gliel’aveva persino detto. E poteva sempre fare una telefonata, comunque…
Proprio quando si erano entrambi rassegnati all’idea che l’alzatore non sarebbe venuto, una voce li richiamò da lontano: «Iwa-chan! Akane!»
La bambina voltò subito la testa, Hajime invece alzò lo sguardo, sorpreso di trovarsi la figura di Tooru che correva verso di loro, la felpa sbottonata che ballonzolava di qua e di là. Si fermò a pochi passi da loro, riprendendo un po’ di fiato, mentre Akane gli sorrideva, le lacrime di prima completamente sparite.
«Sei venuto!» esclamò.
«Scusate il ritardo» disse l’altro, parlando più con Iwaizumi – che lo guardava tra il serio e il sorpreso – che con la diretta interessata. «Mi sono fermato in un posto e ho perso tempo» si giustificò.
Non diede ulteriori spiegazioni, semplicemente si limitò ad abbassarsi all’altezza di Akane, seduto sui talloni proprio come l’altra sera, mentre padre e figlia lo fissavano perplessi. Smaniò un po’ con la tasca della felpa, tirando poi fuori un pacchetto regalo, con tanto di fiocco rosso e carta rosa.
Lo porse ad Akane. «Buon Natale… in ritardo!» disse, aprendo un po’ di più il suo sorriso.
Alzò il capo verso Iwaizumi, e per un attimo i loro occhi si incontrarono. Non trovò segno di alcun rimprovero in quello sguardo, solo tanta meraviglia, tante domande che si affollavano nella testa del giornalista, e il cui oggetto era sempre e solo Oikawa. Non riusciva davvero a capire perché avesse fatto una cosa simile, sua figlia gli era piaciuta sino a questo punto?
Il castano abbassò lo sguardo, leggermente imbarazzato, le sfumature di quegli occhi che quasi gli bloccavano il respiro al solo vederle, tornando su Akane; stava ancora rigirando il pacchetto tra le mani, indecisa e un po’ titubante. Alla fine, cominciò a scartarlo, e appena il primo pezzo della carta rosa fu tra le sue mani, la bambina cacciò un urlo fortissimo. Quasi tutta la gente si voltò verso di lei, Iwaizumi fece un passo indietro e Oikawa fece una smorfia, chiudendo gli occhi e storcendo il naso, ma senza smettere di sorridere. Gli fischiavano le orecchie, e anche se non si aspettava un urlo del genere, era contento che il regalo avesse sortito quell’effetto.
«Tooru-san, dove le hai trovate?»
Ora che l’intera carta era stata tolta,  Hajime poté vedere che il regalo non era altro che un mazzo di carte; anzi, non un mazzo di carte qualsiasi, ma quello tratto dall’anime che Akane adorava tanto. Sapeva che quasi tutte le sue amiche l’avevano, ma lei stessa aveva detto che non gli importava granché. Era sempre più confuso. Perché sua figlia avrebbe dovuto dirgli quella bugia?
«Ma è l’edizione nuova, quelle con due carte in più!» esclamò ancora la bambina, tenendo un tono di voce abbastanza alto, aprendo immediatamente il mazzo e individuando subito le carte in questione. «Tooru-san, sei un mito!»
«Beh, modestamente...» disse, gongolando. «Allora va bene?»
Akane annuì vigorosamente. «Grazie grazie grazie! Come posso ricambiare?»
Oikawa sbatté le palpebre. Non si era preparato a una cosa del genere, aveva girato mezza città e speso una fortuna per quel mazzo nuovo di zecca e in edizione limitata senza sapere neanche lui per quale motivo. Non pensava di certo che la bambina volesse fargli un regalo a sua volta, credeva che se ne sarebbe andata via tutta contenta, vantandosi poi con le sue amichette. 
Mise le mani in avanti. «Tu non mi devi niente, è stato un regalo che ho voluto farti io!»
«Ma tu l’hai comprato solo perché ti ho detto io che lo volevo!»
Ecco. Akane, senza volerlo, aveva appena rivelato la realtà dei fatti, ma Iwaizumi fece finta di niente. Era ancora troppo scioccato per dire o fare alcunché, e poi voleva vedere dove andava a parare quella discussione.
Ancora una volta, era stato messo sullo sfondo, come una controparte nella scena tra i due attori principali, e non gli dispiaceva. Era sempre stato abituato alla gente che lo ignorava, e per quanto lui dicesse che non gli importava granché, all’età di sette anni era difficile non essere tristi quando non si hanno degli amici attorno solo perché si viene considerati come persone strane.
Col tempo, Hajime si era fatto le ossa e oramai ci era abituato, ma in una situazione del genere, dove sua figlia stava parlando con quello che per lei era un mezzo sconosciuto, non ci si era mai ritrovato. Non se la sentiva di rompere quel momento con un suo intervento. Era come se temesse di smontare quel puzzle che piano piano si era formato.
Solo allora si accorse di sua figlia che si toglieva lo zainetto rosa dalle spalle e lo posava per terra, aprendolo e infilando quasi tutta la faccia dentro, alla ricerca di qualcosa. Sia lui che Oikawa la fissarono, inclinando entrambi la testa. Era come se avesse avuto un lampo di genio e avesse trovato l’oggetto giusto da poter regalare a Oikawa.
«Trovato!» disse poi, emergendo dallo zaino e tenendo nella mano destra, stretto a pugno, il nastro giallo e blu che portava l’altra sera. Si girò e lo porse al setter. «Per te!»
Gli occhi color cioccolato del ragazzo saettarono dal nastro, al volto della bambina, a Iwa-chan. Probabilmente Akane non l’aveva fatto con l’intenzione di ferire i sentimenti del padre, ma aveva appena offerto un regalo che le era stato fatto per Natale a lui, che per la sua famiglia non era nessuno. Era come se stesse dicendo che il regalo non le era piaciuto.
«Akane, non posso accettare. È un regalo che i tuoi genitori ti hanno fatto per Natale, e…» si affrettò a dire, ma la bambina lo interruppe poco dopo.
«È un prestito!»
Oikawa sbatté le palpebre. «Un prestito…?»
La bambina annuì. «Quando verrò di nuovo qua a Tokyo me lo ridarai, ma per adesso voglio che lo tenga tu. Te l’ho detto che porta fortuna?»
Cercò di assimilare tutto quello che la bambina gli stesse dicendo, e lo stesso valeva per Iwaizumi che si trovava alle sue spalle. Nemmeno lui sapeva che per lei quel nastro in particolare fosse un portafortuna.
«L’ho trovato per caso, nessuno usa questi colori per dei nastri» spiegò. «Quindi è stata una fortuna trovarlo, no? Per cui mi sono detta che ogni volta che l’avrei messo mi sarebbero successe solo cose belle. Ed è vero, perché ho incontrato te l’altra sera, Tooru-san!»
Le pupille del castano si dilatarono, assieme a quelle del giornalista.
Nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere, ed era vero che si trattava di una bambina, ma Akane non era una bambina qualsiasi. Akane era la figlia di Iwa-chan, Akane era il motivo per cui Oikawa era disposto a fare un passo indietro.
«Mi piaci un sacco, Tooru-san, sei simpatico!» disse, sorridendo, la testa leggermente piegata di lato.
Le labbra del ragazzo tremarono appena, il calore di prima che si era fatto più intenso, come se due fiamme bruciassero dentro di lui: una era alimentata da quello che provava per Iwa-chan… e l’altra era alimentata dall’affetto che provava per Akane.
Quella bambina aveva accesso un nuovo moto di speranza in lui, perché se lei gli stava dicendo questo, allora voleva dire che non c’erano problemi di sorta, che tutto era nato dagli sciocchi complessi di Hajime.
Alzò lo sguardo, cercando qualcosa in quelle dannate sfumature, senza trovarvi nulla di nuovo. Era come se per lui conversazioni del genere fossero all’ordine del giorno, come se fosse abituato a sentire certe cose uscire dalla bocca di sua figlia, quando per il setter valevano più di mille lingotti d’oro.
Deglutì, fissando adesso le sfumature degli occhi di Akane, e lesse solo della bontà pura in quello sguardo, dell’affetto che sentiva ricambiato, ed era così che avrebbe voluto che Iwa-chan lo guardasse. Come faceva prima, con quel suo sguardo vivo, non spento come lo era adesso.
Sorrise, prendendo poi il nastro tra le dita e attorcigliandolo attorno al polso sinistro.
«Va bene se lo porto così?» chiese, e la bambina semplicemente gli rispose gettandogli le braccia al collo.
In un primo momento, i suoi muscoli si fecero tesi, sentendo un corpo estraneo addosso, poi si rilassarono, ma Oikawa non fu comunque capace di ricambiare l’abbraccio. Era una cosa nuova per lui, e quella fiamma era come se fosse esplosa proprio dentro il suo cuore, facendolo pompare a una velocità disumana. Si sentiva succube di un vortice di emozioni che la sua mente, con disperazione, cercava di decifrare, cercava di darne un senso, nonostante tutto ciò non fosse mai stato registrato sotto alcun nome.
Credeva di stare sognando quando sentì un sussurro provenire dal suo orecchio sinistro. «Stai un po’ col mio papà, magari porti fortuna anche a lui e ritorna ad essere felice!»
Oikawa guardò Iwaizumi, le labbra che tremavano, gli angoli degli occhi che stavano incominciando a inumidirsi, e fu allora che lo vide: un guizzo, un flash, qualcosa che non riuscì a cogliere con precisione, ma che risaltò gli occhi dell’altro, rendendoli di un verde brillante. Aveva la sua stessa medesima espressione, era come guardarsi allo specchio, ed era chiaro che anche per lui era una cosa totalmente inaspettata. Forse, era la prima volta che Akane si comportava così con qualcuno, per quanto in quella bambina non esistesse alcun segno di diffidenza nei confronti del prossimo.
Quando si staccò, non sembrò dispiaciuta da quell’abbraccio non ricambiato, anzi, continuò a sorridergli, e Oikawa si sentiva un completo imbecille, perché non riusciva a fare niente se non guardala con un’espressione imbambolata stampata sulla faccia.
A fare tornare tutti quanti nel mondo reale fu un hostess dai capelli biondi, attaccati in una coda di cavallo, che li avvertì dell’orario e delle ultime procedure che dovevano essere ancora svolte. Iwaizumi annuì distrattamente, come se la sua mente in realtà fosse rimasta concentrata sulla scena di poco prima.
Si mise anche lui sui talloni, e adesso aveva sia Oikawa che la figlia di fronte, quest’ultima che si avvicinò a lui, in modo che potesse sistemarle la giacchetta e le facesse le ultime raccomandazioni. Akane annuì, le piccole treccine che aveva ai lati del viso che penzolavano sulle sue spalle.
Parlò non appena il padre ebbe finito con la solita tiritera. «Papà, tu lo sai che ti voglio bene, vero?»
Il giovane rimase un attimo spiazzato. Era abituato alle manifestazioni d’affetto improvvise di sua figlia, ma ogni volta era come la prima per lui.
«Certo che lo so» disse. «Perché me lo stai chiedendo, scusa?»
Akane alzò le spalle, imbronciando appena le labbra. «Non vorrei che ti fossi dispiaciuto perché ho abbracciato Tooru-san e non te…»
Non lo disse tanto forte. Ma nemmeno troppo piano, e Oikawa riuscì a sentirla benissimo, il senso di colpa che cominciò a montargli dentro come un cavallo da corsa impazzito. In effetti, quel momento doveva essere solo tra loro due, poiché non sapevano quando si sarebbero rivisti, quando avrebbero avuto del tempo da poter passare assieme, non era detto che per le prossime feste sarebbero stati assieme. Lui non c’entrava, lui era di troppo. Lui si era inserito in un contesto che non gli apparteneva, lui aveva privato Iwa-chan del tempo che doveva passare con sua figlia.
Il giornalista gli lanciò una veloce occhiata, serissimo, e Oikawa ebbe un singulto, simile a un singhiozzo; poi, si rivolse alla figlia. «Vieni qui…»
Allargò le braccia e la bambina si lasciò accogliere in un morbido abbraccio che sapeva d’affetto e della speranza di potersi rivedere ancora. Hajime strinse forte la presa, convinto di non doverla lasciare sul serio, respirando per un attimo il suo profumo, per poi stamparle un bacio sulla guancia e sulla tempia.
«Chiamami appena sei con la mamma, okay?» le disse, la voce appena incrinata.
La bambina annuì, stringendo la presa e aggrappandosi alle spalle del papà. «Ci vediamo stasera?»
«Ci vediamo stasera…»
Oikawa era rimasto lì, immobile, un piccolo sorriso sulle labbra, ancora combattuto tra i sensi di colpa e la tenerezza che quei due mostravano stando solo così, vicini l’uno all’altro. La versione paterna di Iwa-chan era un qualcosa che Oikawa avrebbe voluto scoprire giorno per giorno, fino a coglierne la reale essenza. Per adesso, aveva compreso il motivo per cui fosse una persona totalmente diversa con sua figlia: era la dolcezza di Akane che, volente o nolente, lo faceva comportare così.
Si alzò in piedi nello stesso momento in cui lo fece Iwaizumi, dopo che aveva affidato la bambina alla hostess. Entrambi la osservarono da dietro un vetro, mentre aspettavano che il piccolo zainetto e altri oggetti venissero accuratamente revisionati, e ogni tanto Akane salutava in direzione del padre, che ricambiava sempre, sollevando appena la mano. Lo fece anche quando superò i controlli, agitando le braccia come una forsennata; solo quando si rese conto che stava salutando anche lui, Oikawa alzò timidamente la mano, in un piccolo gesto che stava a indicare che l’aveva vista e che stava ricambiando.
Akane sorrise, poi l’hostess la prese per mano ed entrambe sparirono dietro a un muro.
«I tuoi papà?» La bambina era stata distratta dalle insegne dei vari negozi, e si accorse che la donna si era rivolta a lei solo successivamente. Non era una ragazza giapponese, forse era un’americana che momentaneamente era stata trasferita dalla sua compagnia, ma questo Akane non poteva saperlo. Aveva solo compreso che quella ragazza aveva un accento un po’ particolare e che veniva da un altro paese.
Scosse la testa. «Solo uno di loro lo è, l’altro è un amico.»
«Peccato» disse la donna, sorridendo, il rossetto viola chiaro che rendeva le sua labbra ancora più grandi. «Sembravano una coppia visti da lontano…»
Akane aggrottò le sopracciglia, le insegne che adesso non le interessavano poi così tanto. Forse, nel posto da cui proveniva quella signora veniva vista come una cosa normale, ma per la bambina non lo era. Non che le dispiacesse, in ogni caso, Tooru-san era una brava persona e si vedeva che voleva bene al suo papà.
Solo… si potevano avere due papà?






Oikawa fissò la gente che si muoveva avanti e indietro oltre la vetrata con fare annoiato. Iwa-chan voleva aspettare di vedere decollare l’areo prima di andarsene, per avere l’effettiva certezza che Akane stesse partendo per davvero.
Forse faceva più male, ma era anche l’unico modo che aveva per autoconvincersi della cosa.
Il setter non sapeva perché l’avesse seguito, né perché l’altro non l’avesse mandato gentilmente a quel paese con i suoi solito modi rudi, e durante il tragitto fino alla vetrata che dava propria sulla pista da cui sarebbe decollato l’aereo non avevano spiccato parola.
Spostò lo sguardo sul giovane che gli stava accanto, come aveva fatto già più volte in quel lasso di tempo. Si chiese quanto tempo ci avrebbe messo prima che quella messinscena indetta per Akane avrebbe avuto fine, e Iwa-chan tornasse ad essere… uno sconosciuto. Un tizio che passava per strada. Un nome salvato sulla rubrica, o scritto sull’articolo di un giornale. Si chiese quanto tempo ci avrebbe messo prima che lo posasse come se fosse un pezzo d’antiquariato. Doveva essere onesto con se stesso, l’altra sera era andato tutto bene solo perché c’era Akane, altrimenti la serata sarebbe stata un disastro.
Eppure, Oikawa non voleva demordere: non così, non quando Akane gli aveva detto quelle cose, non quando sentiva che da parte di Iwa-chan non c’era poi tutta questa voglia di liberarsi di lui. Era vero, aveva avuto un momento di debolezza, aveva pensato di scegliere la strada che avrebbe fatto meno male, quella che non era piena di rovi; ma poi si disse che lui, proprio Oikawa Tooru, era un tipo che non demordeva mai. Buttava sangue e fatica sugli allenamenti, perché doveva migliorare la sua forma fisica, perché era ancora troppo debole.
Oikawa Tooru, se voleva qualcosa, faceva di tutto per prendersela.
C’era ancora una possibilità, una carta vincente da giocare; la partita non era ancora finita, non aveva ancora perso, doveva ancora iniziare il secondo set.
«Non dovevi accettarlo per forza…» A riscuoterlo dai suoi pensieri fu la voce calda di Hajime, che lo fece sobbalzare sul posto, mentre i suoi occhi si spostavano dal suo viso al nastro che portava al polso.
Impulsivamente, il setter lo strinse con l’altra mano, abbassando lo sguardo. «Ce l’hai con me perché tua figlia mi ha dato un tuo regalo di Natale…?»
L’altro alzò le spalle. «Conosco Akane meglio delle mie tasche, e so per certo che non l’ha fatto con cattiveria, le sue intenzioni erano sincere. E poi, se lei intende un prestito, allora vuol dire che si tratta veramente di una cosa temporanea.» S’interruppe, continuando a fissare il polso del giocatore. «Solo… ci rimarrebbe male se scoprisse che non lo porti…»
«E perché non dovrei?» chiese, quasi offeso.
Il giornalista alzò ancora una volta le spalle, mordicchiandosi l’interno della guancia. Rimasero per un attimo in silenzio, poi fu di nuovo Hajime a parlare, questa volta spostando lo sguardo altrove. «Non eri neanche tenuto a farle un regalo…»
Tooru continuò a fissare il nastro, le dita dell’altra mano che scivolarono delicatamente sul tessuto setoso, e si ritrovò stranamente a sorridere, pur sapendo che tra lui e Iwa-chan c’era una tensione altissima in quel momento, come due calamite che si respingevano. Di questo, se ne accorse anche l’altro, che si ritrovò a corrucciare la fronte.
«Sai, Iwa-chan – cominciò –, ora ho capito perché hai scelto lei. Akane è…» Provò a cercare un termine adatto, stringendo le mani a pugno davanti a sé. «… Travolgente. Sì, è come un’onda che ti travolge e ti trascina via, non so se mi spiego…» Torturò un ciuffo di capelli un po’ troppo lungo prima di ricominciare a parlare, ridacchiando per il nervosismo. «O forse sono solo uno sciocco, ma… Non credo che esistano altre bambine come tua figlia, e non lo dico solo perché sei tu. Io… Nessuno mi aveva mai fatto stare così bene.»
Fu in quel momento che i timpani di Hajime smisero di funzionare. Era come se fosse diventato improvvisamente sordo e non riuscisse più a sentire, ed era una fortuna che Oikawa avesse smesso di parlare, continuando a guardare insistentemente quel nastro giallo e blu.
Sentì come una presa lungo la gola, come se qualcuno lo stesse strozzando e lo stesse privando del respiro. Era in preda ai brividi di freddo, eppure sentiva le gocce di sudore che piano piano scendevano lungo la linea della spina dorsale.
«Iwa-chan, tutto bene…?»
Sentì la voce di Oikawa che lo richiamava poco dopo, e solo allora si rese conto che aveva smesso completamente di respirare. Si lasciò andare a un lungo sospiro, la bocca semi spalancata, gli occhi lucidi senza alcuna ragione apparente. Il castano lo stava fissando, preoccupato, e i suoi occhi erano solo per lui.
Quegli occhi erano sempre stati per lui. In un attimo, come una vecchia pellicola, si vide scorrere davanti le immagini di Oikawa da quando l’aveva conosciuto, rendendosi conto che quegli occhi avevano sempre la stessa sfumatura: al bar, alla mostra, le volte che erano stati al parco, dopo la festa di Kuroo…
Oikawa l’aveva sempre guardato così. Forse neanche lui stesso se n’era mai reso conto, ma era così, era stato attratto da lui fin da subito, fin da quando erano bambini.
«Ci vediamo domani, Iwa-chan!»
Era come se la sua mente si trovasse in due posti totalmente diversi, il presente e il passato: una parte era immersa nei ricordi, e un’altra registrava quello che gli succedeva attorno. Come l’immagine di Oikawa che faceva un paio di passi verso di lui, titubante, e Hajime non riusciva minimamente ad agire, i muscoli intorpiditi. Quei ricordi erano come un bagno caldo, rilassante, che sciacquava via la tensione, le insicurezze, la paura.
«Non hai mai avuto la sensazione che qualcosa mancasse nella tua vita?»
Si rese conto che il volto di Oikawa stava sporgendo pericolosamente verso il suo, come se cercasse un ennesimo contatto con le sue labbra. In quel momento, però, Hajime stava registrando le sfumature degli occhi semichiusi del setter, rendendosi conto che forse, quella volta al parco, si erano intensificate, gli occhi di Tooru brillavano con più prepotenza. E adesso, era esattamente la stessa cosa…
«Iwa-chan, credo di essermi innamorato di te.»
Mancava davvero poco prima che qualcosa di cui, molto probabilmente, se ne sarebbe pentito successivamente avvenisse, ma Hajime non riusciva a trovare le forze per scostarsi. E forse non ne aveva voglia.
Fu il rumore di una suoneria a fermare il giovane setter.
Quando il cervello del giornalista poté riprendere aria, quando quel bagno inebriante tra i ricordi ebbe fine, si rese conto che il viso di Oikawa era praticamente a tre centimetri dal suo. Entrambi si fissarono negli occhi, quella musichetta fastidiosa che continuava a risuonare nelle loro orecchie, e Iwaizumi la prese come un campanello d’allarme. Stava per commettere un errore madornale.
Si girò, lentamente, tornando con lo sguardo fuori, all’aereo su cui sua figlia era salita e che si apprestava a partire. «Non rispondi…?» chiese, freddo, ingoiando grumi amari di saliva.
Oikawa rimase per un attimo fermo, serrando poi le labbra e cacciando fuori il suo telefono dalla tasca dei pantaloni. Rispose senza nemmeno guardare chi fosse.
«Pronto...?» disse, tossicchiando prima di parlare. I suoi occhi si spalancarono un po’ nel realizzare chi fosse. «Mamma…?»
Il giornalista lo osservò con la coda dell’occhio, mentre l’altro teneva la testa bassa. «No, non mi stavi affatto disturbando, come mai mi stai chiamando…?»
Alzò un attimo lo sguardo, alla ricerca degli occhi di Iwa-chan, in modo da poter ricevere il consenso per potersi allontanare, ma dato che quello non lo stava neanche guardando, fece da sé, strascicando un po’ i piedi.
Solo quando si ritrovò completamente solo, Iwaizumi poté cacciare fuori dai polmoni tutta l’aria in eccesso che aveva accumulato, appoggiando la fronte contro il vetro.
Le sue mani tremavano, l’ultimo rimasuglio del turbinio di emozioni che aveva provato in quel momento.
Lui si era seriamente…
Ma quando? Come? Perché?

Osservò l’areo che, a poco a poco, percorreva la pista, fino ad aumentare la velocità e sollevarsi in aria. Il suo pensiero volò immediatamente ad Akane, alle sue manine che – chissà – stavano stringendo i braccioli dei sedili per la paura. E lui non era accanto a lei per confortarla.
Mentre fissava l’aereo che diventava un puntino nel cielo celeste, Hajime si disse che qualsiasi cosa provasse per Oikawa doveva cercare di reprimerla per sempre, in tutti i modi possibili.





I due malcapitati sembravano avessero trovato un punto di incontro, una linea che li separava ma che poteva essere comunque superata.
Intanto, il destino dispettoso li osservava, vedendo come Oikawa mettesse la punta dei piedi sulla linea, il polso adesso stretto non solo dal filo rosso, ma anche da qualcos’altro…
Iwaizumi, invece, per quanto avesse fatto di tutto per riavvicinarsi al giovane, adesso si riguardava indietro, rivalutando i suoi passi. Eppure, per quanto stesse tentando, la sua ultima occhiata era sempre per Tooru.



 
[Feeling like my heart's mistaken, oh 
So if I'm losing a piece of me 
Maybe I don't want heaven?]



 
 
Delucidazioni:
VI GIURO CHE HO LACRIMATO SCRIVENDO QUESTO CAPITOLO, AKANE IS SO PURE, PROTEGGIAMOLA TUTTI!
Okay, sì, ci tenevo particolarmente a scrivere questo capitolo: non lo so perché, ma l’idea di Oikawa che gioca con quella bambina mi mette una tenerezza immensa *w*
E lei che l’abbraccia, OMG, passatemi dei fazzoletti perché piango per le stesse cose che scrivo io *scoppia in lacrime*
L’anime che guarda Akane è una cosa di mia invenzione, ma le hanafuda esistono veramente (qui per ulteriori informazioni); il ramen può essere fatto con l’uovo sbattuto o sodo, e i giapponesi hanno l’abitudine di indossare il kimono tradizionale per Capodanno; i nastri, ancora, sono una cosa di mia invenzione, ma penso che tutti quanti conoscano i colori dei palloni di pallavolo lol. La canzone usata in questo capitolo è Heaven di Troye Sivan, IL CANTANTE IWAOI PER ECCELLENZA! 
Altro da dire?
Ah sì, la scena finale non doveva esserci, è stata una cosa che ho inserito all’ultimo minuto… *la picchiano forte*
Come avrete capito, nel prossimo capitolo avrete MORE ANGST, che bello, e un personaggio avrà una certa rilevanza… *fischietta e se ne va*
Oh, e appuntatevi la chiamata della madre di Tooru: ci servirà per una cosa che accadrà tra un paio di capitoli.
Che dire, se avete altro da chiedere, fate pure! ♥
_Lady di inchiostro_

l'uccellino cinguetta
 

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Capitolo 10
*** IX ***


 
IX



~
 



[12 gennaio 2017]





Aveva bisogno di parlarne con qualcuno.
Credeva di poter riuscire a trattenere tutto dentro, ma dopo quello che era successo quella sera con sua figlia, dopo quanto stava per succedere in aeroporto, Hajime non ce la faceva più a trattenere tutto dentro.
E prima di rendersene conto, si era ritrovato a suonare al campanello di Tomoko. La ragazza gli aveva aperto, una felpa allacciata alla vita, le mani sporche di farina. Il sorriso che aveva sul volto scemò all’improvviso, vedendo come lui la stava fissando, lo sguardo stralunato, il respiro affannoso. La madre della ragazza apparve poco dopo alle sue spalle, salutando con la sua solita allegria, ma non ci volle molto prima che anche lei realizzasse che c’era qualcosa che non andava in lui.
Disse alla figlia di lavarsi le mani e di far accomodare il ragazzo, che sembrava avesse l’urgente bisogno di parlarle. E, infatti, era proprio così.
Non aveva smesso di pensarci. Da quando casa sua era tornata ad essere vuota, da quando la sua vita era tornata ad essere monotona, spenta, un susseguirsi di gesti che si ripetevano sempre, costantemente, non aveva smesso di pensare al volto di Tooru che sorrideva ad Akane.
A lui dietro le spalle di sua figlia, le loro mani intrecciate, mentre le insegnava a mettere le carte dritte. A lui seduto sui talloni in aeroporto, che le consegnava il regalo. A lui che guardava costantemente il nastro che aveva attaccato al polso… e lui.
Ogni volta che ci ripensava, il suo cuore perdeva un paio di battiti, e faceva male, malissimo, si ritrovava ad artigliare la maglietta nella speranza che smettesse. Doveva smettere di pensarci.
Anche adesso, mentre era seduto sul bordo del letto, nella stanza di Tomoko-san, nell’attesa che la ragazza arrivasse, sentiva le stesse emozioni che aveva provato l’altra volta ribollire dentro lo stomaco come se fosse un calderone bollente. Si passò le mani sugli occhi, strofinando il viso, nella speranza che l’immagine del volto del castano a pochi centimetri dal suo svanisse via dalla sua mente.
In quel momento, Tomoko aprì la porta, richiudendola poi con cautela alle sue spalle. Indossava la felpa nera che prima portava allacciata, e aveva dato una ripulita al viso e alle mani.
«Scusami…» biascicò Hajime. «Non sarei dovuto venire così all’improvviso…»
«Tranquillo!» lo rassicurò la ragazza, spazzolandosi i pantacollant leggermente sporchi. «Avevo intuito che c’era qualcosa che non andava, stamattina non sei venuto in ufficio…»
In realtà, era da un po’ che la ragazza aveva notato dei cambiamenti in Hajime: era distratto, lontano, come se la sua mente si trovasse su un altro pianeta. Non era neanche riuscito a scrivere il pezzo per il prossimo numero, il che era strano, poiché lui era sempre in anticipo coi tempi.
Si sedette accanto a lui, quest’ultimo che si torturava le mani, facendo scrocchiare le nocche e le dita, entrambi senza spiccicare una parola. Alla fine, fu Tomoko a rompere il ghiaccio, ridacchiando imbarazzata.
«Io e mia madre stavamo facendo la pizza… Se vuoi, puoi restare per cena.»
«No, grazie… Non ci metterò molto» disse, piatto, senza dare alcuna intonazione alla voce, e la ragazza sentì i peli delle braccia rizzarsi improvvisamente, come se fosse stata colpita da una raffica gelata.
Non era da lui parlare così…
«Iwaizumi-kun – cominciò, la voce appena incrinata dall’ansia – sei sicuro di stare bene?» 
Il ragazzo si lasciò sfuggire una mezza risata, dovuta probabilmente al nervosismo. «Io credo di stare impazzendo…» Si chiese – così, all’improvviso – perché non le avesse raccontato tutto prima. Lui, però, era fatto così, teneva tutto dentro fino a quando quella massa informe non diventava troppo grande, e allora straripava fuori tutta d’un colpo. Bisogna sapere vivere le proprie emozioni, giorno per giorno, ma invece Hajime preferiva tenerle chiuse dentro un forziere. «C’è una cosa che devo dirti…»
La ragazza annuì, le labbra serrate; si era fatta rigida, e le sue mani stringevano con forza il tessuto del piumone.
E alla fine, quella massa venne finalmente fuori. Iwaizumi raccontò tutto a Tomoko dal principio, fissando con insistenza la scrivania della ragazza, cercando di imprimere nella sua mente tutti i più piccoli dettagli: il colore del cestino, com’erano disposti i libri, la lampada piena di adesivi di Hello Kitty. Se la sua mente registrava quelle piccolissime cose, allora non aveva bisogno di registrare quello che stava facendo in quel momento, come se fosse qualcun altro a parlare attraverso lui. Parlò anche delle cose più futili, spesso in maniera sconnessa, spesso grattandosi la nuca, ma i suoi occhi erano sempre spalancati, e sembravano quelli di un malato sotto l’effetto di un qualche farmaco.
Non vide quale reazione ebbe Tomoko quando gli raccontò del bacio. Non vide l’espressione che aveva lei quando parlò di come si era sentito quella mattina al parco, di come si era sentito nel vedere Oikawa giocare con sua figlia, di come si era sentito quando l’altro stava per baciarlo di nuovo in aeroporto. Tomoko spostò lo sguardo per terra, mordendo il labbro inferiore fino a farlo sanguinare.
Era sempre stato così con Hajime. Non l’aveva mai guardata veramente.
Quando il ragazzo ebbe finito, poté finalmente riprendere fiato e voltarsi verso di lei, nella speranza di sapere quale fosse la sua opinione in merito a tutto quel casino. Sul momento, lei non seppe cose dire, ed era quasi sicura di essersi persa qualche pezzo; poi chiese, prendendosi di coraggio: «Quindi, mi stai dicendo che ti piace Oikawa...?»
Fu percosso da una scarica elettrica, mentre guardava negli occhi la sua amica, e ancora una volta si vide passare davanti diverse immagini di Oikawa, come se stesse guardando delle fotografie: lui che scoppiava a ridere al ristorante, al parco, davanti la sua macchina rossa…
«Hai un certo fascino, lo sai?»
«Lo sai, se non sapessi che sei la persona più eterosessuale della terra, probabilmente sospetterei che tu ci stia provando con me!»

«No...» rispose, deglutendo, per poi scuotere la testa. «No, è assolutamente fuori discussione.»
La ragazza abbassò la testa riccioluta. Era la prima volta che si ritrova a non sapere distinguere quello che stesse dicendo il ragazzo, se stesse dicendo la verità o stesse solo prendendo in giro se stesso. Sembrava veramente convinto di quello che aveva appena detto, eppure da quello che le aveva raccontato, provava esattamente le stesse cose che provava…
«È perché si tratta di un ragazzo?» chiese, deglutendo fiotti di saliva. «Hai paura che Minori-san ti possa vietare di vedere Akane?»
Tomoko aveva centrato il punto. Era come se quella paura fosse diventata l’ossessione di Hajime, un chiodo fisso nella sua mente che non riusciva ad abbandonarlo. Era come se volesse vietarsi di essere felice per il bene di sua figlia. Era come se preferisse farsi del male, riducendosi in quelle condizioni, pur di sapere che avrebbe potuto rivedere Akane.
E lo sapeva, lo sapeva che si stava comportando da perfetto egoista, di star facendo del male anche ad Oikawa, ma non riusciva a pensare ad altro se non a sua figlia. La sentiva lontana ogni giorno, l’idea che potessero persino vietargli di vederla lo mandava in paranoia.
Sbloccò il telefono, trovandosi davanti la fotografia con sua figlia, facendo poi tornare lo schermo nero. L’amica si accorse di quel gesto, e prese un bel respiro prima di ricominciare a parlare.
«Perché semplicemente non glielo dici?»
«Dirle cosa esattamente…?» Come avrebbe potuto raccontare una cosa del genere a Minori? E se la sua famiglia l’avesse condizionata al tal punto da negargli la possibilità di vedere Akane? E se Akane non avesse più voluto vederlo perché provava attrazione per un…
«Dirle che ti piace Oikawa-san.» Quelle parole erano state degli spilli roventi sulla lingua di Tomoko, e facevano male.
«Tomoko…» cominciò Hajime, non riuscendo più a controllare i sentimenti che brulicavano dentro di lui e che si manifestavano sotto forma di pesanti respiri. «Ti ho già detto che non provo nulla per lui…»
«Eppure i sintomi sono quelli…» disse, abbassando lo sguardo, e si rese conto di essersi lasciata sfuggire un singhiozzo.
«Posso sapere come fai ad esserne così sicura?» Hajime non si era reso conto di avere alzato la voce, ed era la prima volta che succedeva con lei. Non riusciva più a controllarsi, non aveva più un freno, e sapeva che quando si riduceva così le cose non potevano che degenerare. «Sei mai stata innamorata di qualcuno per poterlo dire con assoluta certezza?»
Tomoko non rispose a quelle parole. Semplicemente, si alzò, la testa ancora china, cercando di nascondere i singhiozzi e le lacrime che le rigavano le guance. Aprì la porta, ritrovandosi poi nella sala da pranzo, sotto lo sguardo sconvolto della madre, che aveva sentito le urla dall’altra stanza.
«Tomoko!» la richiamò Iwaizumi, afferrandole poi il polso per farla voltare.
L’espressione che vide lo lasciò di stucco. Era rossa in viso, gli occhi erano gonfi e il labbro inferiore era leggermente spaccato; ma soprattutto, quello che vide nei suoi occhi fu solo sofferenza, e non poté non paragonarla all’espressione che gli rivolse Tooru quella sera, quando credeva che non si sarebbero più rivisti.
«HAJIME!»
«Non hai mai capito quello che io provo per te, vero…?» disse, liberandosi dalla stretta del ragazzo con uno strattone, e adesso era lei che aveva alzato la voce, sotto lo sguardo sbigottito del ragazzo e della madre. «Io sono innamorata di te praticamente da quando ti ho conosciuto, e tu vieni a parlami di quello che credi di provare per quel ragazzo, come credi che dovrei sentimi io?»
Era come se gli avessero gettato addosso una secchiata di acqua gelida, come se fosse stato sotto un velo per tutto il tempo e adesso riuscisse finalmente a vedere la verità. I sorrisi impacciati, i messaggi, il rossore sulle gote della ragazza quando le faceva un complimento: tutto adesso aveva un senso, come se il quadro si fosse finalmente completato da solo.
E come quella sera con Oikawa, anche questa volta Hajime si ritrovò a non sapere che cosa dire. Rimase con la bocca semiaperta, gli occhi spalancati e lucidi. Aveva appena litigato con una delle persone più importati della sua vita, aveva appena scoperto che questa era innamorata di lui e che era stato troppo impegnato da altro per potersene accorgere. Perché? Perché non se n’era accorto prima? Forse la sua vita non sarebbe andata così a rotoli…
Cercò di dire qualcosa, questa volta ci provò sul serio, ma non ne ebbe il tempo. Tomoko tornò in direzione della sua stanza, dandogli una spallata, e urlando: «Dio, Hajime, sei proprio un idiota!»
Realizzò quello che era appena successo quando sentì la porta sbattere, e si voltò, con l’intenzione di andare da lei e di cercare di chiarire.
«Iwaizumi-kun.» Quasi non riconobbe la voce della madre di Tomoko quando lo richiamò, e il suo sguardo lo fece sentire ancora più colpevole. Non ebbe bisogno di altro, Hajime, per capire che forse era il caso che lasciasse quella casa il prima possibile.






Aveva camminato per tutto il pianerottolo come se fosse uno zombie, la sua mente che cercava di rielaborare quanto era appena successo.
Iwaizumi si chiese che cosa avesse mai fatto di male nella sua vita per meritarsi tutto questo, per ritrovarsi invischiato in una situazione così intricata, per ritrovarsi a dover litigare con Tomoko e con Oikawa. Per la prima volta nella sua vita, chiese al destino se ce l’avesse veramente con lui, e lui non poteva sapere che l’aveva osservato per tutto il tempo, tra il compiaciuto e il divertito, sotto le sembianze di una giovane donna.
Adesso, mentre era seduto in macchina, Hajime desiderò con tutto se stesso di poter tornare alla sua vecchia vita, quella fatta solo delle serate passate su Skype con Akane e delle battute scherzose fatte con Tomoko-san. Magari sarebbe riuscito ad accorgersene, finalmente. E senza rendersene pienamente conto, desiderò di poter tornare ad avere una vita senza Oikawa Tooru.
Prese il cellulare, e quasi in automatico compose un numero. Aspettò un paio di minuti, prima che qualcuno rispondesse. «Pronto?»
Rimase in silenzio un attimo. «Ciao zia.»
«Hajime, sei tu? Tesoro, non sai quanto mi faccia piacere sentirti!» disse la donna, utilizzando quel tono di voce docile che un po’ gli ricordava sua madre. «Come stai? Tutto bene?»
«Sì, sto bene…» Ci pensò un attimo, prendendo un profondo respiro, gli angoli degli occhi che pizzicavano e la mano libera chiusa a pugno e tremante. «Cioè, in realtà non sto proprio benissimo…»
Sua zia era diversa da sua madre. Era una donna più caparbia, un’avventuriera, per questa ragione se n’era andata da Miyagi quando era molto giovane. Dopo la morte della sorella, sembrava che non potesse più riprendersi, e l’affidamento di Hajime non aveva fatto altro che peggiorare le cose, lo sgridava in continuazione. Quella volta che, però, il ragazzino si sfogò in quel modo, scoppiando a piangere senza potersi più fermare, qualcosa era scattato in lei. Alla fine, condividevano esattamente lo stesso dolore.
L’aveva cresciuto, in fin dei conti, e Hajime spesso pensava che non le dimostrava mai quanto le fosse sinceramente grato.
«Posso passare a trovarti…?» chiese, alla fine, con voce rotta. Era per questo che l’aveva chiamata, perché lei era l’unica persona che l’aveva già visto sfogarsi, più e più volte. Perché, nonostante tutto, era pur sempre parte della sua casa.
Non poteva vederla, ma sapeva benissimo che la donna stava sorridendo. «Certo, ne sarei felice! Stasera sono sola a casa, lo zio torna tardi…» S’interruppe un attimo. «Non ho ancora cucinato, preparo il tuo piatto preferito, che ne dici?»
Il ragazzo si ritrovò a sorridere, le labbra che tremolavano e la testa reclinata sul poggiatesta. «Sì, perfetto… grazie.»
«Hajime? Poi ci facciamo una bella chiacchierata, intesi?»
Non lo disse con l’intento di rimproverarlo. Anzi, in un certo senso gli tornò in mente la voce di sua madre quando gli disse di chiedere scusa a Oikawa. Quella era stata l’ultima volta che l’aveva sentita parlare così, con quella voce che sembrava tra il dispiaciuto e il preoccupato. E in quel momento, sua zia aveva parlato esattamente allo stesso modo.
Sentì il peso di tutto quello che era successo in quegli ultimi mesi fluire via con prepotenza, e Hajime si sentì nuovamente un bambino fragile che si rintanava sotto le coperte a piangere.
Chiuse gli occhi, una lacrima che sfuggì al suo controllo. Poi sorrise. «Intesi.»


 



~
 




 
[14 gennaio 2017]






Decisamente, quella sera era stata una delle più brutte della sua vita, non ricordava quando era stata l’ultima volta che si era sentito così, uno straccio con le gambe.
Sua zia l’aveva accolto a braccia aperte – letteralmente –, abbracciandolo, non prima di aver fatto un mezzo passa di danza, agitando le spalle; Hajime si era ritrovato ad alzare gli occhi al cielo e a ricambiare la stretta, senza però smettere di sorridere.
Era un bene che sua zia fosse fatta così, altrimenti non sapeva se avrebbe retto dinanzi a un ennesimo sguardo preoccupato: probabilmente, sarebbe scoppiato in un altro moto di rabbia.
La donna profumava di casa e del bagnoschiuma che utilizzava di solito, e il ragazzo fu colto improvvisamente dalla nostalgia. Non gli era mai capitato di rimpiangere, anche solo per un secondo, il periodo che aveva vissuto in quella casa, con i suoi cugini che spesso lo guardavano come se fosse un guscio vuoto, un fiore appassito. In quel momento, però, Hajime era tornato improvvisamente un bambino, bisognoso di quell’affetto materno che era venuto a mancare e che aveva riposto nella donna che aveva abbracciato.
Cenarono in tutta tranquillità, e inizialmente parlò solo la donna, raccontandogli le novità dell’ultimo periodo, ogni tanto distraendosi per guardare quello che dicevano sui notiziari. Solo a fine pasto decise di spegnere la televisione e di smettere di parlare, lasciando spazio a suo nipote, offrendogli una tazza di gyokuro.
Fu diverso rispetto a quello che successe qualche ora prima con Tomoko, non aveva i nervi tesissimi, non si sentiva come se stesse confessando di essere un omicida. Accoccolato sul divano vecchio di diversi anni, Hajime non si era sentito giudicato da nessuno, e si chiese perché non andasse a trovare più spesso sua zia. 
Era sempre così, del resto, la sua famiglia non l’aveva mai giudicato veramente; nemmeno Minori l’aveva mai fatto. Le persone che lo circondavano non l’avevano mai giudicato, realizzò in quel momento Hajime, almeno fino ad allora.
Non era sicuro di volere sapere cosa pensassero Oikawa e Tomoko di lui, in questo momento, come non era sicuro di volere sapere come avrebbero reagito tutti nello scoprire che – forse – provava qualcosa per un altro uomo.
Sbuffò, una nuvoletta bianca che uscì dalla sua bocca, il naso rosso e che strofinava sulla sciarpa che sua zia gli aveva relegato, assieme ai guanti. Aveva nevicato un’altra volta, e adesso le strade erano ricoperte da uno strato bianco, qualche fiocco che continuava a cadere tutt’ora.
Aveva raccontato tutto a sua zia, per filo e per segno, cercando di essere il più coerente possibile, e partendo da quando aveva incontrato Oikawa al bar, in quella giornata di settembre. Lei aveva annuito, senza interromperlo, se non per chiedere qualcosa cui Hajime poteva rispondere con un semplice sì o un no. Solo quando ebbe finito, espresse la sua opinione, e il ragazzo scoprì che la donna aveva sempre sospettato che lui avesse un interesse per lo stesso sesso, poiché con le donne non ci sapeva proprio fare. Ed era vero che anche suo zio era una schiappa – a detta anche della donna – ma non ne aveva mai visti come lui. Hajime non sapeva se prendere quelle parole sul ridere o se rimanere assolutamente sbigottito da questa nuova rivelazione. La donna continuò, sostenendo che avrebbe dovuto rivedere Oikawa se voleva veramente capire quello che sentiva per lui; se non fosse successo niente, allora voleva dire che si era lasciato intenerire dal modo con cui si era comportato con Akane. E, ovviamente, avrebbe dovuto parlare al più presto con Tomoko.
Tirò fuori il telefono dalla tasca, sbloccandolo con la mano guantata, e la schermata di Line gli apparve davanti, con tutte le diverse chat. Aveva mandato una serie di messaggi alla ragazza in quei giorni, ma senza ottenere alcun risultato: aveva visualizzato, ma non aveva risposto. In successione, c’era la chat di Oikawa, l’ultimo messaggio che indicava l’orario in cui si sarebbero dovuti incontrare davanti al cinema. Gliel’aveva pur sempre promesso, non poteva rimangiarsi quello che aveva detto, non era da lui.
Ripensò a quello che disse sua zia, al fatto che non avesse alcun problema con la sua presunta omosessualità – ammesso che fosse veramente omosessuale. Di certo non si aspettava quella reazione così controllata, come se la cosa le fosse scivolata di dosso, senza arrecarle alcun fastidio; Hajime credeva che, come minimo, avrebbe fatto una faccia scioccata o che avrebbe storto il naso. Possibile che fosse un problema solo per lui?
Il visino sorridente di Akane gli apparve davanti, e si disse che no, sicuramente non sarebbe stato un problema solo suo. Alzò lo sguardo verso l’alto, notando che stava ricominciando a fioccare con più insistenza, e qualche fiocco di neve andò bagnare la punta del suo naso e lo zigomo destro. Forse invitare Oikawa a uscire era stata una pessima idea. Insomma, dopo quello che era successo in aeroporto, c’era la netta possibilità che una scena come quella si ripresentasse.
«Iwaizumi-kun!» Sul momento, riuscì a captare quella voce, sapendo benissimo a chi apparteneva, ma non si rese minimamente conto che stava chiamando lui fino a quando non si fece sempre più vicina. Si girò poco dopo, trovando Tooru proprio accanto a lui, un mezzo sorriso che faceva capolino dalle sue labbra. «Ciao…»
Hajime sbatté gli occhi verdi. Per messaggi, Oikawa era sembrato sempre il solito, anche se le battutine scadenti e i messaggi invasivi e inutili si facevano sempre meno frequenti, ma non sembrava che fosse rimasto troppo turbato dal suo rifiuto. E anche adesso, trovandoselo davanti, non sembrava diverso dall’ultima volta che l’aveva visto. Certo, c’era sempre dell’imbarazzo – soprattutto dopo quanto successo – tra loro due, ma tutto era esattamente come quella sera a cena: si guardavano a malapena negli occhi e si scambiavano giusto due parole in croce.
Iwaizumi non poteva sapere che, nonostante quel rifiuto, nonostante sentisse un dolore atroce al petto ogni volta che non incrociava il suo sguardo, Oikawa aveva deciso di non rinunciare a lui. Forse, sarebbe riuscito a fargli cambiare idea, e quel messaggio per lui era stata come una manna dal cielo.
«Come sta Akane?» chiese poi, e il giovane padre lo guardò di traverso.
Il respiro, per una frazione di secondo, gli si fermò in gola, incontrando gli occhi del ragazzo, sinceramente interessati alle condizioni della bambina, e dovette scostare subito lo sguardo. «Bene» rispose, senza aggiungere altro.
Il castano abbassò la testa, giochicchiando con la neve usando la punta delle sue scarpe. Come al solito, Iwa-chan si comportava con una certa reticenza nei suoi confronti.
Abbassò la manica della giacca e della felpa, facendo vedere al ragazzo il nastro blu e giallo che portava al polso. «Hai visto che lo porto?»
Iwaizumi spostò lo sguardo dal nastro al volto sorridente del giovane, il cuore che temeva sarebbe schizzato fuori all’improvviso, mentre ripensava a come sua figlia gli avesse gettato le braccia al collo.
Akane era sempre stata gentile con la gente, ma gli abbracci… Quelli erano riservati alle persone speciali, lei lo diceva sempre. Quando si abbraccia una persona è perché la si vuole confortare quando è triste, o per dimostrarle tutto l’affetto che si prova nei suoi confronti. Se Akane aveva abbracciato Oikawa, voleva dire che voleva sia confortarlo sia fargli sapere che si era affezionata veramente a lui; e non si parla di un affetto qualsiasi, ma di uno vero e sincero.
«Vedo» disse, dandogli poi le spalle e aprendo la porta a vetri del cinema. «Andiamo?»
Il sorriso di Tooru sparì quasi subito, annuendo appena e seguendo il ragazzo dentro l’edificio. Per loro fortuna, non c’era parecchia gente quella sera, forse per via del brutto tempo, e riuscirono a sbrigare la faccenda dei biglietti in pochi minuti.
Si sedettero senza spiccare una parola, il che era strano, visto che Oikawa stava andando a vedere un film di Star Wars; come minimo, avrebbe dovuto straparlare da quel momento, fino alla conclusione del film.
Non che non fosse eccitato, e forse era questo che gli aveva dato un po’ più di coraggio, ma era quasi sicuro che, a quest’ora, sarebbe stato tutto diverso se lui non si fosse dichiarato, quella sera. Lui avrebbe cominciato a fare delle supposizioni su come sarebbe stata la pellicola, e probabilmente Iwa-chan avrebbe borbottato qualcosa di qua e di là, magari chiedendogli cose che non si ricordava dei precedenti film. Ma avrebbero riso, avrebbero scherzato, l’avrebbe fatto esasperare parlando durante il film. Non ci sarebbe stata quell’aria tesa e un sedile a separarli.
Fece un rumoroso sospiro, e temette che il giornalista se ne fosse accorto quando lo richiamò poco dopo. «Oikawa?»
Trasalì. «Sì?» disse con voce stridula.
Lo vide armeggiare con i suoi guanti neri, nel tentativo di toglierli, prima di parlare. «Posso sapere perché non mi hai chiamato usando il tuo solito nomignolo?»
Ci pensava già da un po’. Era come se si fosse talmente abituato a sentirsi chiamare in quel modo, che gli era risultato strano quando non era successo. E anche se continuava a dargli fastidio, era come se una parte di lui reclamasse con tutta se stessa quello stupido nomignolo che utilizzava con lui, solo con lui.
Il ragazzo spalancò gli occhi, artigliando il bracciolo del sedile con le sue lunghe dita, quasi racchiudendolo a pugno. Era ben conscio di averlo chiamato in un altro modo, e si era morso la lingua più di una volta prima di farlo. Pensava di non avere più il diritto di chiamarlo così, non dopo quello che era successo, non dopo che era stato rifiutato più di una volta…
«Credevo ti desse fastidio…» balbettò, la lingua attaccata al palato.
L’altro alzò appena le spalle. «Ho finito con l’abituarmi ad essere chiamato così da te.»
Il castano osservò il profilo del giornalista, che finalmente era riuscito a liberare la sue mani dall’impiccio dei guanti, e lo trovò serio, concentrato su chissà che cosa; eppure, quella affermazione non l’aveva detta per offenderlo. Lo… pensava veramente.
Poco prima che le luci si spegnessero, anche Hajime spostò lo sguardo su Tooru. Stava sorridendo.
Stava sorridendo per davvero.






Non passò molto prima che Oikawa cominciasse ad esaltarsi, cercando di trattenersi, anche se la sua sedia tremava assieme a lui, e Hajime si era ritrovato a riconsiderare la sanità mentale di quel giovane ventitreenne; probabilmente, aveva ancora un’età mentale di circa dieci anni.
Aveva guardato il film con un certo interesse – anche perché era l’unica distrazione all’interno della sala –, ma lui e Oikawa non si scambiarono nemmeno una parola durante la visione, solo il setter si lasciò a qualche commento abbastanza vivace, accompagnato dai restanti nerd presenti in sala. Sembrava come se, per un attimo, avesse dimenticato quello che era successo tra loro due e tutto fosse tornato al suo posto, come doveva essere. Che poi, doveva essere così? Loro due dovevano rimanere soltanto amici? O meglio, loro due potevano rimanere solo amici?
Era talmente concentrato su queste domande, da non essersi accorto che erano rimasti solo loro due in sala, lo schermo adesso completamente nero e le luci accese.
«Pensavo ci fosse qualche scena dopo i titoli di coda…» sbuffò il ragazzo, stropicciando la giacca come se fosse un bambino capriccioso che aveva appena chiesto alla madre le caramelle.
Il giornalista si guardò intorno, in trance, per poi rivolgersi al ragazzo. «Mi hai fatto stare qui per niente?»
«Iwa-chan, lo sanno tutti che bisogna rimanere in sala fino alla fine dei titoli di coda!» esclamò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Potresti perderti una clip importante!»
Non ricordava quando era stata l’ultima volta che si rivolgeva così a lui, che il ragazzo gli parlava con la sua solita vocetta petulante ma che, comunque, stava a significare che stava veramente bene. Era come se fossero tornati improvvisamente indietro nel tempo, a quando erano andati al cinema la prima volta, a quando Hajime gli aveva raccontato dei suoi genitori, a quando erano scoppiati a ridere dopo la battutaccia di Tooru.
Erano tornati ad essere loro due, a comportarsi come facevano sempre, non erano solo due individui che sembravano non conoscersi affatto. E per la prima volta, il ragazzo realizzò che il setter era entrato con una facilità oltremodo disarmante nella sua vita, come mai nessuno aveva fatto, nemmeno Minori. Era passato del tempo prima che cominciassero a conoscersi, lui e la sua ex-moglie, ma Tooru aveva imparato a capirlo fin da subito.
Scosse la testa, prendendo le sue cose e alzandosi. «Tu non sei affatto normale…» borbottò, indossando la giacca a vento e lasciando il ragazzo indietro; quest’ultimo lo raggiunse poco dopo, incespicando di tanto in tanto nei suoi stessi piedi.
Fuori, la temperatura era gelida, probabilmente sotto lo zero, e Oikawa si strinse nel suo cappotto blu, infilando immediatamente le mani dentro le tasche. Il giornalista era già fuori e stava osservando i fiocchi di neve che, con movenze delicate, scendevano sulle strade e sui loro indumenti.
Non era successo nulla. Quello che aveva provato l’altra volta all’aeroporto non era successo. Sua zia aveva ragione, si era solo lasciato prendere dal momento, da sua figlia che sorrideva al giovane alzatore, dalle belle parole che quest’ultimo aveva detto su di lei.
«Allora ti è piaciuto?» Sussultò, spostando poi lo sguardo su Oikawa, che non faceva altro che saltellare sul posto, non solo perché era contento ma anche per potersi riscaldare.
Quegli occhi così taglienti facevano male, e se avesse potuto vedere il suo cuore, Oikawa era quasi certo che l’avrebbe trovato squarciato e che gocciolava sangue. L’euforia era appena fluita via e il dolore era tornato, eppure continuava a sorridere lo stesso. Come faceva sempre. Perché era pur sempre con Iwa-chan, aveva un’occasione per poter ritentare. Si era già messo in posizione, in attesa che la palla arrivasse e lui potesse fare un’alzata perfetta. Il fischio dell’arbitro aveva annunciato l’inizio del secondo set.
Il ragazzo tornò a fissare davanti a sé, mordicchiandosi la zip della giacca. «Non è male. Devo dire che c’è molta più azione rispetto agli altri, secondo me» disse.
«Lo so!» esclamò, forse con una certa enfasi, tanto che Iwaizumi spalancò gli occhi per la sorpresa. «E hai visto com’era fatta bene la principessa Leia? Mi è persino venuto un principio di nostalgia…»
Ci mancò poco che si asciugasse una finta lacrima con l’indice, l’altro che l’osservava sconcertato, come se stesse parlando con un alieno e non con un qualsiasi abitante di Tokyo. Decisamente, Oikawa Tooru era un nerd e tendeva a mostrare la sua vera natura di rado, quando poteva sproloquiare su qualcosa senza sentirsi giudicato. O quando poteva condividere qualcosa con qualcuno, e Hajime fu improvvisamente colto da questa consapevolezza: come lui si era aperto con il giovane setter, anche Oikawa aveva mostrato tutto se stesso, senza sorrisi falsi, senza smancerie inutili, come faceva di solito con le sue fan.
Le persone erano solite vederlo come l’atleta irraggiungibile, che tutti bramavano, che sorrideva sempre alle telecamere e che sapeva sempre che parole usare. Iwaizumi, invece, lo vedeva come quel ragazzo che, adesso, stava parlando di un film di fantascienza e che indossava una felpa con su scritto: “May the force be with you”. Lo vedeva come quel ragazzo che non era mai cresciuto, come il bambino con il batuffolo dentro il naso, e stava continuando a ridere nonostante dentro stesse marcendo.
C’era un mondo dietro il giocatore di pallavolo che stava oltre la rete, e la gente non ne era a conoscenza, forse solo i suoi amici più stretti. Non sapeva bene perché, ma venne pervaso da un moto di gelosia, come se gli altri non meritassero veramente di conoscere Tooru per quello che era. Come se solo lui lo meritasse veramente.
Scosse la testa, lo sconcerto che era stato sostituito da una sensazione calda e appiccicosa che quasi lo rivestiva. Stava succedendo di nuovo…
Dannazione, non doveva succedere di nuovo!
«Io dovrei andare» disse, in un sussurro, e la sua voce ebbe la capacità di far tornare il setter sulla Terra, mentre stava ancora parlando di galassie lontane lontane e di altre cose che lui non stette a sentire.
Con gli occhi che ancora brillavano dall’eccitazione – ma con le labbra che tremavano per via del dolore – Oikawa lo guardò, con la sua solita espressione da bambino. «Oh» disse. «Dove hai posteggiato?»
Fece un cenno con la testa. «Oltre il ponte.»
«Anche io!» esclamò, e Hajime ebbe l’istinto di stringere i pugni fino a sentire la pelle entrare in contatto con le unghia. «Possiamo fare la strada assieme…»
In principio, voleva voltarsi e scappare il più lontano possibile: dai suoi problemi, dalla sua vita disastrosa, da quello che sentiva, da Oikawa… E arrivato a questo punto, all’idea di dovere scappare da lui, Iwaizumi non era più sicuro di quello che voleva fare.
Voleva… voleva sul serio fuggire da lui e non saperne più niente?
Maledizione!
Alzò le spalle, come a dire che la cosa non gli interessava, continuando a martoriare la zip della giacca coi denti. «Okay…» brontolò.
Oikawa sorrise, piazzandosi vicino a lui, ma lasciando comunque un margine di spazio. Un punto per lui.
Quella sera era stato il setter a decidere in quale cinema andare, in una delle zone più trafficate di Tokyo e non troppo lontano da dove abitava lui – anche se per Iwaizumi significava percorrere metà città. Ci teneva particolarmente a vedere il film in quel cinema, aveva le sale più belle e con l’audio migliore, per cui aveva chiesto al giornalista se per lui andasse bene; lui aveva risposto che, in fondo, un cinema valeva l’altro.
Salirono le scale, entrambi in assoluto silenzio, il rumore di una sirena che si protraeva in lontananza. Lo scalpitio dei passi della gente era diventata una specie di nenia per Tooru, che osservava il giovane che gli stava accanto di tanto in tanto, di sottecchi, nella speranza che dicesse qualcosa; o che a lui venisse qualcosa da dire, che non fosse inerente al film, o al fatto che il tempo stava peggiorando, o che c’era un sacco di gente quella sera.
Aprì appena la bocca con l’intento di parlare, quando fu colto da uno starnuto improvviso. Fu in quel momento che l’altro si fermò di botto, guardandolo allo stesso modo di un pediatra che squadra un bambino malato.
«Ti sei preso il raffreddore…?» chiese, con una voce che arrivò distorta alle orecchie di Oikawa, quasi come se fosse scocciata.
Il ragazzo non rispose, tirando su col naso, e aspettandosi un altro starnuto da un momento all’altro. Non successe niente. Qualcuno stava sparlando alle sue spalle, ne era quasi sicuro.
«Come mai sei senza sciarpa?» continuò l’altro, e Oikawa non seppe come prendere quell’ultima domanda: lo domandava solo per curiosità o perché ci teneva veramente a lui?
Si passò un dito sotto il naso. «L’ho dimenticata…»
Ci fu un attimo in cui il tempo, per il castano, si fermò. La gente non esisteva, il rumore delle macchine lontane non esisteva, erano solo lui e Iwa-chan, proprio come quella volta in aeroporto. Sentì solo il suo verso esasperato, e prima di rendersene conto il ragazzo gli aveva gettato al collo la sua sciarpa nera e gliela stava allacciando.
«Sei impossibile…» mormorò tra sé e sé, senza guardarlo negli occhi.
Oikawa aveva una visuale perfetta, in quel modo, e poteva vedere i lineamenti duri di Iwa-chan ingentilirsi improvvisamente; come quando si rivolgeva a sua figlia, e chissà quante volte aveva vissuto scene come quella nella sua vita.
«Me l’ha fatta mia zia, quindi poi dovrai ridarmela. Ci tengo.»
Aveva un buon profumo. Sapeva di casa, d’affetto e di sapone. E poi, aveva il profumo del dopobarba che utilizzava Iwa-chan, un profumo che era capace di inebriarlo in meno di venti secondi.
Sentì la testa farsi più leggera, come se non dovesse più sostenere il peso del cervello, come se fosse vuota da tutti i suoi pensieri, e adesso le sensazioni si erano ampliate, si erano fatte più forti.
Iwaizumi si rese conto di quello che aveva appena fatto solo quando alzò lo sguardo su di lui. Il suo sguardo si fece scioccato quasi quanto quello del setter. Oltre ad essere molto – troppo – vicini, Hajime si era accorto di un piccolo dettaglio che gli aveva mozzato il respiro.
Oikawa stava arrossendo. La sua pelle bianco latte si era arrossata, lasciando due chiazze rosee all’altezza degli zigomi e delle guance. Non era mai successo prima, per quanto lui si fosse confessato da più di un mese, adesso.
In teoria, è normale avere una reazione del genere con la persona per cui si prova qualcosa, ma era come se Oikawa tendesse a nascondere certe cose dietro a una risata nervosa o una battuta di troppo. O forse, il rifiuto era stato troppo immediato e il dolore troppo grande che non ne aveva avuto il tempo.
Il giornalista lasciò la presa sulla sciarpa con uno scatto, allontanandosi di un paio di centimetri da lui, e adesso gli occhi color cioccolato di Oikawa erano bassi, come se avesse compreso benissimo il perché di quella reazione. Come se si stesse maledicendo mentalmente.
E ancora una volta, il cuore di Hajime si fermò, i polmoni smisero di funzionare e il cervello era completamente annebbiato da una sensazione calda e piacevole, che quasi lo faceva scivolare in un sonno profondo.
Se succedeva un’altra volta, allora voleva dire che era sul serio spacciato e che non c’era modo di tornare indietro: così gli aveva detto sua zia.
Se succedeva un’altra volta, allora voleva dire che lui si era…
Istintivamente, la sua mano andò a stringere il suo cellulare, ricordandogli della foto che ogni giorno aveva sotto gli occhi, insieme a tante altre. Ricordandogli che aveva delle priorità, che era padre, e che tutto quello che faceva lo faceva per Akane.
Si schiarì la voce, fissando l’asfalto innevato, per poi tornare sui suoi passi, lasciando Tooru indietro.
Lo raggiunse poco dopo, anche lui senza dire niente, mordicchiandosi il labbro inferiore fino spaccarlo. Percorsero gli ultimi metri entrambi in un totale stato di trance, e si resero conto di star scendendo i gradini solo poco tempo dopo, quando i loro piedi incontrarono la solida terra. 
Tra loro due, ci fu solo silenzio, perché il resto del mondo continuava a non esserci, non c’erano i rumori dei clacson, le occhiate indiscrete della gente, i fiocchi di neve, nulla. C’erano solo loro due.
Fu Oikawa a rompere il silenzio per primo. «Io… avrei la macchina di là» disse, indicando alle sue spalle.
L’altro annuì, già pronto a salutarlo in tutta fretta e a recarsi dalla parte opposta; cosa che di fatto fece, rendendosi conto che alla fine stava scappando per davvero.
Aveva fatto giusto i primi passi – anche se sembravano più le falcate di un soldato –quando si sentì chiamare. «Iwa-chan!» 
Non era sicuro di riuscire ad affrontare ancora il suo sguardo, il suo viso segnato da solchi profondi come fossi. Faceva male.
Prese un bel respiro, dicendosi mentalmente che altri due minuti in più non avrebbero fatto niente, ma si sbagliava. Non appena si girò nuovamente in direzione del setter, si ritrovò faccia a faccia con un’espressione determinatissima, e che Hajime non gli aveva mai visto, neanche quando era in campo.
Metà viso era coperto dalla sua sciarpa, eppure lo scintillio dei suoi occhi si vedeva oltre quegli occhiali fasulli.
«Ho preso una decisione» cominciò, e si sentiva come quando si trovava alla battuta, in uno di quei momenti in cui era in perfetta forma e credeva di poter sfondare il pavimento con un solo colpo. «Io non voglio rinunciare a te, né come amico né… come qualsiasi altra cosa. Perciò, voglio sapere se tu sei ancora disposto a volermi vedere… e a restare al mio fianco.»
Se prima i polmoni di Hajime avevano smesso di funzionare, adesso erano totalmente collassati, erano diventati una poltiglia informe; il suo cuore, invece, rischiava di esplodere da un momento all’altro, come se fosse una mina antiuomo. I suoi occhi erano totalmente spalancati, l’iride si confondeva con la cornea, e tutto sembrava che non avesse più un senso, come se il pianeta avesse cominciato a girare al contrario o fosse tutto sottosopra.
Quella volta, al parco, avrebbe voluto dire a Tooru che doveva dimenticarlo, farsene una ragione e andare avanti con la sua vita; avrebbe sicuramente trovato qualcun altro – che fosse una ragazza o un ragazzo – disposto ad amarlo e a cadere ai suoi piedi. Ma adesso, con tutto quello che sentiva dentro, con lo stomaco che faceva su e giù al ritmo del suo respiro, Hajime non ne era più tanto sicuro. Era come se volesse dirglielo, ma allo stesso tempo qualcosa lo bloccava: la saliva che era rimasta in gola, la mancanza di ossigeno al cervello, il sangue che sembrava fluire più velocemente.
«Tooru…» Il nome del ragazzo venne pronunciato come un rantolo dalle sue labbra.
«Non devi rispondermi adesso» lo interruppe l’altro. «Ti chiedo solo di pensarci.»
Iwaizumi non seppe cosa dire, e sentì un fastidiosissimo formicolio lungo tutto il corpo, che quasi lo faceva tremare più del freddo pungente di quella sera.
«Ti prego…» e l’espressione ferita che aveva caratterizzato il volto di Tooru in quei giorni si ripresentò nuovamente, accentuata dalla presenza della sciarpa.
Rimase immobile per dei secondi che parvero secoli, non sapendo cosa dire, il suo cervello completamente in tilt e sotto il controllo delle sue emozioni. Le stesse emozioni che sentiva adesso per Oikawa e che stava schiacciando con tutto ste stesso, in modo che diventassero polvere.
Alla fine, senza che lo volesse veramente, riuscì a formulare due semplici parole. «Ci penserò.»





Fuori faceva troppo freddo per uscire.
Tomoko osservò il cielo plumbeo dalla finestra, la televisione accesa e sintonizzata su un documentario sugli insetti stecco. Sua madre era andata a letto presto, stranamente, anche se aveva fatto di tutto per convincerla a mollare quelle tavole e a riposarsi un po’. Bevve un sorso di tè, le mani posate sulla ceramica calda della tazza. Scorse con poco interesse alcuni tweet, senza leggerli per davvero, per poi andare a controllare se le fosse arrivato qualche messaggio su Line. E l’ultima chat che vide fu proprio quella di Iwaizumi, in cui le chiedeva se potessero vedersi e chiarire la faccenda.
Ma lei voleva davvero chiarire? Voleva davvero rivederlo?
Non ne era poi così sicura.
Sua madre, per quanto si animasse molto facilmente in situazioni del genere, era stata insolitamente calma e paziente, l’aveva fatta piangere sulla sua spalla, aveva sciolto i nodi sui suoi capelli riccioluti. E, infine, le aveva detto che non tutto era perduto, che c’era stato solo un piccolo malinteso, ma che capitano in tutte le migliori relazioni. Lei le aveva suggerito di ridargli un’altra possibilità, anche solo per spiegare le sue ragioni.
Il problema era che, per quanto Tomoko ce la mettesse tutta per cercare di rispondere ai suoi messaggi, non ci riusciva. Per questa ragione, li visualizzava ma non rispondeva.
Aprì nuovamente la chat con un profondo sospiro, la tastiera digitale che apparve quasi subito, e il suo cervello stava già cominciando a lavorare su quello che avrebbe dovuto scrivergli quando qualcuno suonò al campanello.
Guardò l’orologio: era quasi mezzanotte, chi diavolo poteva essere a quest’ora?
Si recò a piccoli passi verso la porta, guardando poi dall’occhiello il nuovo venuto.
E vide Iwaizumi.
Si girò di scatto, quasi tenendosi alla porta, il panico che cominciò a salirle dentro sotto forma di bile. Era una sensazione orrenda. Prese dei profondi respiri, contando fino a dieci, scacciando pensieri riguardanti il fatto che era in pigiama e che sembrasse avere una pecora al posto dei capelli.
Aprì appena l’uscio della porta, cercando di apparire il più seria possibile, anche se una parte di lei era felice di rivederlo. Il ragazzo fece un mezzo sorriso che quasi la fece sciogliere.
«Ciao» disse, un braccio appoggiato allo stipite della porta.
«Ciao…» rispose, a voce bassa.
Ci fu un attimo di silenzio, poi Hajime continuò. «Ti posso parlare?»
La ragazza indugiò un attimo, prima di aprire completamente la porta, e adesso si trovava di fronte al ragazzo, il cuore che le era direttamente schizzato in gola dall’emozione. Sì, le era mancato da morire.
«Ecco, volevo chiederti scusa. Sono stato pessimo a dirti quelle cose… E che io non avrei mai immaginato che tu…» s’interruppe, e la ragazza continuò per lui.
«Nessun problema, Hajime. Sospettavo che tu non avessi capito nulla, e poi anch’io mi sono comportata male, perciò – tentò di ridere come faceva sempre, ma probabilmente sembrava solo un’isterica – siamo tutte e due degli idioti, no?»
Il ragazzo sorrise, abbassando la testa, come a dire che in un certo senso condivideva l’idea dell’amica. «Spero che tu voglia continuare a frequentarmi…»
«Hai problemi col fatto che tu mi piaccia…?»
«Solo se tu ne hai.»
«Perfetto, allora vorrà dire che mi avrai per i piedi per un altro po’!»
E questa volta, Tomoko rise nel suo solito modo cristallino, come se quell’atmosfera cupa che si era venuta a creare tra loro due si fosse finalmente dissolta, allo stesso modo di una nube temporalesca.
Iwaizumi, intanto, la stava osservando, il suo viso che si rabbuiò di colpo. Stava arrossendo. Mentre parlava e rideva, Tomoko stava arrossendo. Proprio come aveva fatto Oikawa pochi minuti prima. Eppure, Hajime non stava provando le stesse cose, tutto era normale, come sempre, ed era quasi certo che per lei, invece, regnava il caos in quel momento.
Si chiese insistentemente perché, perché con Oikawa, perché doveva capitare a lui, e altri mille perché che non ottenevano comunque risposta. Sentì il necessario bisogno di dimenticare quello che era successo quella sera; sentì il necessario bisogno di dimenticare quella promessa che forse non avrebbe mantenuto, lo sguardo del setter, le sue gote rosse mentre lo guardava.
Forse fu per questa ragione che, senza rendersene conto, aveva calato le labbra su quelle di Tomoko. Si trattò di una cosa rapida, nulla di eclatante, ma per Tomoko quei pochi secondi erano stati i più belli della sua vita; e anche i più dolorosi, perché sapeva che Hajime non lo stava facendo perché lo voleva veramente, ma perché voleva dimenticare qualcun altro.
Si staccarono quasi subito, e come aveva previsto dentro di sé tutto era rimasto come era prima, ogni cosa era al suo posto. Questo, però, non gli impedì di respirare con affanno.
«Perdonami…» mormorò, guardandola negli occhi, trovandovi solo dello stupore e della confusione nel suo sguardo.
Indietreggiò, masticando un’imprecazione, e senza neanche salutare l’amica un’ultima volta, si voltò, tornando indietro. Tomoko, però, decise di non richiamarlo, la sua mente che cercava di dare una spiegazione a quello che era appena accaduto.
Iwaizumi l’aveva appena baciata, senza alcun trasporto, senza alcun sentimento, e le sue labbra erano gelate, non per via del freddo, ma per via di qualcos’altro. La paura, forse? Il rimorso per quello che stava facendo? O il senso di colpa?
Questo lei non poteva saperlo con certezza, ma di una cosa era sicura: se Hajime avesse deciso di continuare in questo modo, l’avrebbe fatto non perché era seriamente interessato a lei, ma perché voleva cercare di capire che cosa provava veramente, e non di certo per lei.
Forse alcuni avrebbero pensato che era un atteggiamento un po’ meschino, da parte sua, ma non per Tomoko: lui non voleva ferirla veramente.
E poi, in quel momento, mentre l’osservava allontanarsi in tutta fretta, le dita che andavano a stringere le sua labbra, anche lei aveva fatto un pensiero egoista.
Se avesse avuto la possibilità di passare più tempo con Iwaizumi, allora forse gli avrebbe fatto cambiare idea…





Il destino è un po’ come i bambini, poi si stufano di giocare sempre allo stesso gioco, bisogna inserire qualche elemento originale per farli divertire.
In questo caso, l’inserimento di un nuovo personaggio rendeva la cosa ancora più divertente. E mentre accarezzava i soffici capelli ricci della sua nuova bambola, si disse che questo nuovo gioco aveva tutte le carte in regola per essere uno dei migliori.


 

 
[Funny how the heart can be deceiving
More than just a couple times
Why do we fall in love so easy
Even when it’s not right]






Delucidazioni:
*appare da una porticina*
Non volete mica farmi male, vero…?
*una folla inferocita la insegue*
Tornando seri, siete liberissimi di odiarmi, perché in realtà Tomoko non si merita tutto questo, IO LE VOGLIO UN MONDO DI BENE, OKAY? *piange*
E so che alcuni avevano già dei sospetti sulla sua cotta stratosferica per Hajime, per cui… SORPRESA, avevate indovinato! :’)
Il bacio finale era DAVVERO necessario? Sì, ai fini dell’angst che ho causato a voi e a me stessa :)))))
*si accoltella*
Per il resto, che altro dire? Il gyokuro è un tè verde molto particolare e un antidepressivo naturale; amo la zia Hajime, nella mia testa è una gran figa, dovevate saperlo; il film che sono andati a vedere Oikawa e Iwaizumi è Star Wars: Rogue One, e stavolta non ci sono problemi di date, poiché l’ho fatta combaciare con la data in cui sono andata a vederlo io con mio padre; per chi l’ha visto, ci sono scene alla fine dei titoli di coda? Perché noi siamo rimasti fino alla fine, come dei bravi nerd, ma non c’è stato nulla, non so, mi è venuto ugualmente il dubbio; QUALCUNO DISEGNI OIKAWA CON QUELLA FELPA, GRAZIE; quando Oikawa dice che la principessa Leia era fatta “bene”, si riferisce al fatto che l’hanno creata con la computer grafica; la canzone usata per questa storia è Try di Pink, sempre perché io riscopro canzoni…
Che dire, da adesso in poi l’angst sarà sempre maggiore, anche se avremo la comparsa di alcuni personaggi che alleggeriranno il carico ;)
Non odiatemi, ci vediamo ad un prossimo aggiornamento <3
_Lady di inchiostro_

l'uccellino cinguetta

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Capitolo 11
*** X ***


[A Gaia, la mia piccola kohai ♥]


 
X



~




 
[1 febbraio 2017]





Erano passati più di una decina di giorni da quando lui e Iwaizumi si erano visti l’ultima volta. Oikawa aveva richiamato tutta la forza di volontà che gli era rimasta per evitare di contattarlo lui stesso, nella speranza che fosse l’altro a farlo, che fosse l’altro a dargli una risposta su quello che aveva intenzione di fare con lui.
E, probabilmente, il fatto che non l’avesse più cercato, stava a significare che non aveva più alcuna intenzione di vederlo.
Sbuffò, sbloccando ancora una volta il cellulare e fissando con insistenza la chat che aveva avuto con Iwa-chan, risalente a quella sera prima di vedersi al cinema. Come immagine del profilo aveva una foto con sua figlia, la bambina che rideva e lui che sembrava così sereno in viso che a Oikawa quasi faceva male vederlo così. Non perché non gli piacesse, ma perché… era così diverso dall’Iwa-chan che aveva visto l’ultima volta. Quello era freddo, scostante, quasi restio a voler parlare con lui.
Solo quando gli aveva messo la sciarpa al collo aveva rivisto la persona che aveva riso con lui al parco, aveva rivisto quelle sfumature nei suoi occhi che tanto desiderava poter fissare ogni giorno, per il resto della sua vita.
Iwaizumi Hajime era diventata la nuova ossessione di Tooru, e la sciarpa che portava al collo ne era la prova.
Prese un bel respiro, inalando quel profumo che gli faceva girare la testa e che era capace di tranquillizzarlo in egual misura, per poi aprire la chat e cominciare a scrivere. Il problema era che, dopo neanche due righe, cancellava tutto e ricominciava daccapo. Sospirò, affranto, il naso affondato nel tessuto nero, e sentì la piacevole quanto spiacevole sensazione di avere Iwa-chan accanto, con addosso quell’indumento.
Si stava prendendo una pausa fin troppo lunga da quella partita, e questo non giocava a suo vantaggio. Era come se si fosse distratto poco prima di andare al servizio e avesse sbagliato la battuta, mandando la palla fuori di pochissimo.
Forse era stato troppo precipitoso a dire quelle cose ad Hajime, quella sera. Forse non si era ancora ripreso, forse passava del tempo con lui perché gli faceva pena, forse non voleva essere ancora suo amico, dopotutto. Eppure, non riusciva proprio a cancellarsi dalla mente la sua espressione dopo che l’aveva visto arrossire. Non era stata una reazione di repulsione o disgusto; era sorpreso, agitato, un po’ come lo era lui in quel momento, ed era stata la cosa più imbarazzante della sua vita.
Oikawa Tooru non arrossiva. Mai.
Il fatto che un semplice giornalista gli avesse sortito quell’effetto, stava a significare che quella persona aveva davvero qualcosa di speciale, non si trattava di una semplice sbandata.
«Ci penserò.»
Si spiaccicò le mani – e lo smartphone  – sul viso, percependo le sue orecchie e le sue guance che già cominciavano ad andare in fiamme. Si stava comportando come una tredicenne alle prese con la sua prima cotta, e si rese conto che l’ultimo briciolo d’integrità era appena andato a farsi benedire.
Con la mente ancora rivolta a Iwa-chan, fu un fischio a lui familiare che lo riportò alla realtà, abbassando poi lo sguardo sul campo che aveva di sotto. Quella mattina aveva deciso di andare ad assistere alle partite del Torneo Interscolastico Primaverile, giusto perché la pallavolo – assieme alla fantascienza – era l’unica cosa che riuscisse a distrarlo per davvero. Il che non era facile, dato che la sua mente era nella confusione più totale, ma sia come giocatore che come spettatore Oikawa rimaneva ben concentrato sui movimenti degli altri giocatori, sulle strategie attuate e sulle possibili prossime mosse.
In quel momento, una partita era appena iniziata, e le braccia di Tooru tornarono a posarsi sulla ringhiera; si sporse leggermente in avanti per vedere meglio, i colori della squadra che aveva di spalle che quasi lo infastidivano. A quanto pare, ce l’avevano fatta anche per quell’anno, ed erano finalmente riusciti ad ingaggiare una tifoseria degna di nota.
Produsse un profondo respiro col naso, le mani che gli prudevano al ricordo di quello che era successo tanti anni prima. Certo, lui adesso aveva una carriera davanti, ma qualsiasi sconfitta per lui bruciava ancora. Soprattutto quella, visto che era stato battuto dal suo kohai nell’ultima partita che disputava al liceo.
Sospirò ancora, spostando lo sguardo sulla panchina: il loro coach era rimasto sempre uguale, e avevano persino trovato una nuova manager, probabilmente del secondo anno. Tornò a osservare come procedeva il gioco, notando che la squadra avversaria aveva già fatto due punti. Il loro libero, però, riuscì a ricevere la battuta con facilità, dando una possibilità al setter di alzare la palla perfetta per l’asso.
Oikawa osservò per bene il ragazzo in questione, mentre la squadra esultava per il punto ottenuto, assottigliando le palpebre. Era del terzo anno, non c’erano dubbi, e con molta probabilità era stato un allievo di…
«Sbrigati, è già cominciata!»
«Non sono io che ho dovuto fare una sosta al bagno! Ci hai fatto perdere un sacco di tempo!»
Tooru non era sicuro di conoscere perfettamente quelle voci. Qualcosa, nel timbro, sembrava cambiato, tuttavia la cadenza e il tono erano assolutamente quelli. Prima di riuscire a capire che cosa stesse succedendo – e prima che la sua mente gli dicesse di filarsela –, si era già voltato verso la fonte di quelle grida, raggelando poi sul posto.
I suoi sospetti erano fondati, e del resto doveva aspettarselo che sarebbero venuti a vedere la loro squadra giocare: molto probabilmente, alcuni di quelli erano stati dei loro allievi, e l’idea che quei due imbecilli fossero stati dei senpai lo faceva rabbrividire.
Sfortunatamente, anche loro si accorsero di lui, e i loro occhi si incrociarono, rimanendo a fissarsi per attimi infiniti.
«Oikawa-san…?» Hinata quasi non lo riconobbe con quell’abbigliamento e gli occhiali da vista sul viso; di solito, era abituato a vederlo con la divisa della Nazionale, e ogni volta gli lanciava tutte le maledizioni possibili. «Cosa ci fai qui?»
Il ragazzo sorrise – anche se probabilmente loro non lo videro, poiché la sciarpa gli copriva il viso e lui non aveva alcuna intenzione di scostarla. «Che c’è? Adesso non posso vedere giocare la squadra del mio kohai?»
«Ex kohai» precisò Kageyama, guardandolo in cagnesco. Non si era mai ripreso per quello che era successo tra loro due alle scuole medie, il ceffone bruciava ancora sulla sua guancia. E lo sapeva che Oikawa-san era stato sincero quando si era scusato con lui, ma erano colpi che non si superavano con facilità.
Sventolò una mano. «Fa lo stesso» disse, come a voler sorvolare su certi, miseri dettagli.
Il fischio dell’arbitro li fece sobbalzare, e le loro teste si voltarono praticamente simultaneamente. La Karasuno aveva appena segnato un altro punto, distanziandosi così dalla squadra avversaria.
«A quanto pare, anche per quest’anno avete battuto la Shitorizawa» disse Oikawa, tornando alla posizione di prima.
«E la Seijoh» aggiunse Hinata, facendo saettare lo sguardo del setter della Delegazione proprio su di lui, senza che questi lo scostasse.
Sapeva benissimo a cosa si riferiva, all’ultima partita che avevano disputato per ottenere un posto nel Torneo. Quella partita che, sotto lo stupore di tutti, aveva visto la sconfitta dell’Aoba Johsai e la vittoria di una rinata Karasuno. Da allora, da quando la squadra dei corvi aveva vinto il Torneo Primaverile, tre anni fa, era stata un ciclone inarrestabile, a dimostrazione del fatto che anche per quell’anno rappresentava la prefettura di Miyagi. Solo una volta non era riuscita a passare il turno.
«L’anno scorso, però, vi abbiamo dato una bella batosta» disse Oikawa, senza smettere di sorridere, e stavolta i due giovani riuscirono a vederlo perfettamente.
«Ma non avete vinto il Torneo» incalzò Kageyama, guardandolo di traverso. «Noi l’abbiamo vinto già quattro volte… di fila.»
Era chiaro che stessero parlando delle squadre come se ne facessero ancora parte, quando i bei tempi del liceo erano solo un ricordo lontano. Adesso, erano solo degli adulti che si sentivano ancora adolescenti e che, nonostante tutto, sarebbero rimasti per sempre legati a quelle squadre.
Oikawa storse il naso, rivolgendolo all’insù. «Siamo arrivati terzi. Mi sembra un attimo risultato» protestò. «E poi, io sono la dimostrazione vivente che non bisogna vincere il Torneo Interscolastico per essere campioni!» disse, indicando la sua persona.
Se non fossero stati troppo concentrati sulla partita, probabilmente sia Kageyama che Hinata avrebbero dato voce ai loro istinti omicidi e alla voglia di prenderlo a pugni. Si scambiarono qualche parola durante i vari set, esprimendo la propria opinione su come stava procedendo il gioco, non senza che Oikawa e Kageyama si lasciassero andare a qualche battuta, beccandosi in continuazione.
Alla fine, dopo che la Karasuno aveva vinto due set tondi tondi, la squadra aveva fatto l’inchino di fronte al proprio pubblico, Hinata che quasi spiccava dei salti mortali dalla contentezza. Aveva visto il suo pupillo, l’asso della squadra, fare delle azioni che gli aveva insegnato lui stesso, e la cosa non poteva che esaltarlo. Oikawa, invece, aveva borbottato allo stesso modo di un vecchio che si lamenta per il troppo chiasso.
Finiti i saluti, decisero di andare a salutare la squadra e magari di andarsi a presentare agli altri membri, rivolgendo appena un cenno a Oikawa, che rimase ad osservare la partita successiva. Mentre stavano camminando, però, Hinata si fermò di botto.
«Che succede?» chiese Kageyama, accorgendosi del repentino cambio d’umore del compagno e voltandosi indietro. «Hai cambiato idea? Oppure devi andare di nuovo in bagno?»
Il rosso si guardò indietro, il piede già sul primo gradino, ripensando al modo con cui avevano lasciato Oikawa-san. C’era qualcosa nella sua espressione che non lo convinceva, che aveva riportato a galla ricordi di un periodo che credeva morto e sepolto.
Schiuse appena le palpebre, voltandosi poi verso Kageyama, sorridendo. «Scusami, devo prima fare una cosa! Ci vediamo dopo, okay?»
Il giovane setter alzò il sopracciglio, scettico, per poi scollare le spalle. «Non ci mettere troppo, altrimenti me ne vado senza di te!» disse, mentre scendeva le scale.
Hinata fece un mezzo sorriso – sapeva benissimo che non l’avrebbe mai abbandonato in una città che conosceva appena, lo diceva tanto per fare il duro –, e tornò indietro, trovando Oikawa-san dove l’avevano lasciato pochi minuti prima. Il castano spostò lo sguardo di lato, dove si era messo quel piccoletto, nella sua stessa identica posizione.
Rimasero in silenzio per un po’, prima che Tooru si decidesse a parlare. «Ho saputo.» L’altro parve cadere dalle nuvole, per cui fu costretto a continuare, non prima di lasciarsi andare a un ennesimo sospiro. «Ho saputo che tu e Tobio-chan siete stati presi nella Nazionale Under21.»
«Oh» esclamò Shoyo, in leggero imbarazzo.
In realtà, non aveva avuto chissà che tipo di confidenza con l’ex setter dell’Aoba Johsai, e adesso si domandava che cosa ci facesse lui lì, da solo, senza qualcuno a fargli da spalla. Aveva già avuto un mezzo scontro con lui, cui poi si era aggiunto anche Ushijima e Aone-san, ma la situazione era diversa. Non erano più rivali – per il momento – e per quanto lo invidiasse per essere riuscito ad entrare nella Nazionale, c’era qualcosa nel suo sguardo che gli diceva che aveva tutt’altro nella mente per poter badare a lui e Tobio. Quasi come se gli venisse difficile prenderli in giro come faceva sempre, con quei suoi atteggiamenti civettuoli.
«Congratulazioni» bofonchiò, facendo tornare però il ragazzo con i piedi per terra.
«Grazie!»
Ci fu un altro attimo di silenzio, poi fu Hinata a parlare per primo, questa volta. «È questo che ti turba?»
Il castano aggrottò le sopracciglia. «Prego?»
Si martoriò le mani, cercando di placare il suo crescente nervosismo. «Ecco, non sei come il “Grande Re” di cui mi ricordavo… So che le persone cambiano, ma mi è parso che ci fosse qualcosa che non andasse quando ci hai parlato. Hai paura che Kageyama ti rubi il posto in Nazionale?»
Il ragazzo lo fissò, gli occhi totalmente dilatati. Quel piccoletto che si lasciava guidare dall’istinto, che si fidava ciecamente del suo alzatore al punto da chiudere gli occhi prima di schiacciare la palla, si era perfettamente accorto del suo stato d’animo. E, proprio come la prima volta che i loro sguardi si erano incrociati, in campo, anche quella volta aveva finito per stupirlo.
Fece una risata sprezzante, anche se gli faceva male lo stomaco nel frattempo. «Pensi seriamente che cederei facilmente il mio posto a Tobio-chan? Dovrà lottare con le unghie e con i denti per averlo!»
Non lo stava dicendo con la solita convinzione. Non che non ci credesse in quello che diceva, figuriamoci; era come se provasse fatica a comportarsi così, ad essere quel ragazzo che lottava con tutto se stesso per quello che voleva. Era come se avesse smesso di lottare, o fosse uno di quei soldati che aspettava la venuta di qualche miracolo, mentre sentiva le bombe cadere a pochi passi da lui.
Era stanco. Quella partita tra lui e Iwa-chan lo stava distruggendo, lo stava logorando dall’interno. E di questo, Hinata se n’era accorto perfettamente.
Prese un bel respiro, entrambi serissimi, prima di passarsi una mano sugli occhi, spostando di poco gli occhiali fasulli. «Si nota così tanto…?»
«Beh, ho già visto un’espressione simile…» disse, infossando un po’ il collo. Siccome l’altro non disse niente, continuò. «Riguarda per caso quello che è successo con Eiko-san…?»
Oikawa fece una mezza risata, alzando gli occhi al cielo. «Già, dimenticavo che la gente tende a farsi gli affari miei…» E in parte sapeva che la colpa era sua, poiché glielo aveva lasciato fare, ma adesso non aveva più importanza.
Hinata non parve turbato da quella risposta data in malo modo, con un retrogusto quasi amaro, attendendo che l’altro continuasse con una calma e una pazienza che erano assolutamente innaturali per lui; Oikawa, quasi quasi, ne era spaventato.
«Mi sono preso una sbandata per qualcuno. Per questo io e Eiko ci siamo lasciati» disse, tutto d’un fiato.
Si rese conto che era la prima volta che confessava quello che provava per Iwa-chan a qualcun altro che non fosse Bokuto, Kuroo o Ushijima. Loro erano suoi compagni di squadra, si erano già accorti che qualcosa non andava in lui, ma con quel piccoletto non si vedevano da anni, e in meno di un minuto aveva capito che c’era qualcosa che lo preoccupava, un pensiero costante di cui non riusciva a liberarsi. Un’immagine che gli compariva sempre davanti: il sorriso di Iwa-chan e i suoi occhi che quasi brillavano.
Si chiese se anche gli altri si fossero accorti del suo cambiamento, se i suoi fan stessero cominciando a dubitare di lui e del suo modo di giocare. Istintivamente, portò l’indice a insinuarsi tra la stoffa del nastro. Era l’unica cosa che riusciva a tranquillizzarlo, in quelle giornate nere e tetre. Akane era come la luce del mattino di un nuovo giorno, e il suo sorriso genuino ne era la prova vivente.
Hinata si accorse di quel suo gesto, pensando che c’entrasse in qualche maniera con la persona di cui stavano parlando. «Come l’hai conosciuta?» chiese poi.
Il castano spostò lo sguardo verso di lui, e per un attimo trattenne il fiato. Aveva usato il femminile. Era normale, per quattro anni era stato il fidanzato di una delle modelle più belle e acclamate di tutto il paese, che compariva in qualsiasi rivista che trattasse di cosmetici o di qualche abito. Per settimane, si era sorbito gli insulti più coloriti per essersi lasciato sfuggire una bellezza del genere, per cui era logico che quel piccoletto si chiedesse per quale ragazza avesse lasciato una come Eiko. Probabilmente, nessuno sospettava una cosa del genere, e se le sue fan l’avessero scoperto si sarebbero di certo strappate i capelli per il dolore e l’impossibilità di potersi mettere con lui, un giorno, continuando a fantasticare su una cosa assolutamente improbabile.
«Non è una lei. È un ragazzo.»
Dapprima, il rosso spalancò gli occhi, cercando di metabolizzare quello che gli era stato appena detto. Per una manciata di secondi, rimase immobile, boccheggiante, non sapendo cosa dire. Come aveva immaginato, quel piccoletto non se l’aspettava.
«Questa non me l’aspettavo…» disse, dando voce ai pensieri di Oikawa. «Cioè, quindi mi stai dicendo che sei…»
«Non lo so» lo interruppe. Era vero, non era sicuro di essere gay. Gli era capitato di dire, a voce alta, che non avrebbe avuto problemi a fare sesso con uno dei suoi compagni di squadra – con quelli con cui aveva più confidenza, era ovvio. Eppure, era diverso, di solito si trattava di una battuta, e in ogni caso sarebbe stato per puro divertimento; l’idea di poter invece fare un passo del genere con Iwa-chan, invece, lo faceva sentire come se… stesse facendo qualcosa di importante. Qualcosa che avrebbe segnato, definitivamente, che quella persona era una parte di lui, e che lui era una parte di quella persona. Aveva avuto diverse ragazze, nella sua adolescenza, non ricordava qual era stata la prima con cui aveva perso la verginità; ma nessuna, nemmeno Eiko, l’avevano fatto sentire così. «Probabilmente, sono solo innamorato di lui.» E lo pensava veramente.
Hinata non disse niente, e la sua espressione era seria: non disgustata, ma seria. Come se, in un certo senso, lo capisse.
«È un giornalista» disse, non riuscendo più a contenersi. Era come se avesse davvero bisogno di raccontare a qualcun altro quella storia, qualcuno che fosse un esterno, qualcuno che non conoscesse tutti i retroscena fin dal principio. Si passò una mano tra i capelli arruffati. «L’ho conosciuto durante un’intervista…»
«Come si chiama?»
Lo guardò un po’ prima di rispondere. «Iwaizumi Hajime.»
«Oh, lo conosco!» disse Hinata, facendo alzare un sopracciglio al setter. «Cioè, ho solo letto un suo articolo sul Torneo, anni fa. Mi è piaciuto davvero!»
Deglutì, tornando a fissare la partita che si stava svolgendo nel campo sottostante, senza però prestarci veramente attenzione. Sì, Iwa-chan era davvero bravo a scrivere, era davvero bravo a mettere le parole nel giusto ordine, a spiegare alla perfezione quello che voleva dire senza risultare troppo prolisso o troppo negligente. Buffo, lui sapeva sempre che parole usare, e Iwa-chan sapeva sempre che cosa scrivere. Solo che, adesso, gli veniva persino difficile scrivergli un messaggio. L’aveva talmente assillato, da averlo fatto scappare…
«E poi?» A risvegliarlo dai suoi pensieri fu la vocetta di Hinata, titubante, ma curiosa di sapere come procedeva la storia.
«Poi… ci siamo rivisti» rispose. «Ho scoperto che anche lui era di Miyagi e che andavamo nello stesso asilo. Ci eravamo già conosciuti prima.» Deglutì, indeciso se continuare o meno, arrivando alla nota dolente. «Una sera ho alzato il gomito… E l’ho baciato… dopo essermi dichiarato.»
Tra di loro calò il silenzio, i rumori circostanti che si andavano ampliando: la voce del pubblico che esultava, lo stridere delle scarpe da ginnastica sul pavimento, la palla che veniva schiacciata. Tutto era amplificato, Tooru riusciva persino a sentire il sangue scorrere nelle vene e il respiro farsi pesante. Era un’agitazione nuova, non era come quella che provava prima di una partita e che lui trasformava in adrenalina; questa, non sapeva come combatterla, e avrebbe voluto strapparsela di dosso.
«Beh… è un bel casino.» Hinata si grattò la nuca, mogio, e Oikawa avrebbe voluto insultarlo in maniera abbastanza acida, poiché una frase del genere non l’aiutava per niente, se non fosse che il ragazzetto continuò a parlare. «E lui? Non si è fatto più sentire?»
«No» ammise, la saliva che quasi corrodeva le pareti della sua gola. «Ci siamo incontrati, dopo Natale. Lui ha una figlia, questo me l’ha dato lei.» Sollevò il polso sinistro. «E ci siamo rivisti diverso tempo fa. Da allora, non si è più fatto sentire…»
Shoyo parve riflettere, prima di fare un’altra domanda, sperando che Oikawa-san gli rispondesse e non lo mandasse al quel paese per essere diventato troppo invasivo. Tuttavia, se il suo istinto ci aveva visto giusto nel cogliere il motivo della sofferenza del ragazzo, adesso voleva sapere se la sua situazione fosse simile a quella che aveva vissuto lui, diverso tempo fa.
«Posso sapere come si comportava con te? Ti ignorava completamente quando stavate insieme?»
Oikawa trasalì, e adesso anche il profumo di Iwa-chan si era fatto più intenso, persistente, e si ritrovava a camminare sul quel ponte, il ragazzo che gli metteva la sua sciarpa al collo e… sorrideva. Un sorriso gentile, lo stesso sorriso che può fare un padre alla figlia, lo stesso sorriso che poteva fare una persona veramente innamorata.
Improvvisamente, come se fosse stato accecato da un lampo, si rese conto che Iwa-chan non l’aveva ignorato del tutto. Che Iwa-chan gli aveva sorriso, quella volta a casa sua, mentre giocava con Akane. Che Iwa-chan non si era spostato quando stava tentando di baciarlo, in aeroporto. Che Iwa-chan volveva essere chiamato così da lui e da nessun altro.
Il respiro gli morì in gola, e il ragazzo non ebbe bisogno che l’altro dicesse niente, la sua espressione parlava da sé. Sorrise, un piccolo sorriso nostalgico che comparve sulle sue labbra, sporgendo poi le braccia oltre la ringhiera in ferro.
«Lo sai, mi ricorda tanto una persona di mia conoscenza…»
Oikawa ci mise un po’ ad elaborare quello che gli aveva appena detto il ragazzo, un’idea che gli passò velocemente in mente, come se fosse un razzo che si era appena librato in cielo. Non disse niente per parecchio tempo, ancora incapace di spiccare parola, prima che quell’idea si trasformasse in una frase concreta e udibile da tutti. «Sei fidanzato con Tobio-chan…»
Non lo disse sotto forma di domanda, era un’asserzione vera e propria, frutto di tutti quei preconcetti che si era fatto su quei due ragazzi. Tooru non aveva mai avuto un rapporto come il loro con l’asso della squadra, la colonna portante del gioco; certo, lui era uno che faceva buon viso a cattivo gioco, e si adattava a qualsiasi cosa, non si poteva dire che già alle scuole medie o al liceo non eccellesse per il suo modo di giocare. Tuttavia, aveva avuto diversi compagni che avevano schiacciato le sue alzate, e nessuno era riuscito a dargli quella sensazione che, invece, irradiavano quei due giovani ragazzi. La sensazione di avere qualcuno alle proprie spalle, qualsiasi cosa sarebbe successa, nel campo come nella vita. La sensazione di potere fare un’alzata diretta verso l’altra parte del campo, e che quella persona l’avrebbe comunque presa. La sensazione di onnipotenza che si innesca quando basta uno sguardo per capirsi.
Che quel ragazzetto tutto matto avesse un altro tipo di interesse per Kageyama era palese, l’unico a non esserne accorto era proprio il setter, e adesso Oikawa capiva perché era venuto da lui: era palese che anche lui avesse un interesse per qualcun altro.
Hinata divenne dello stesso colore di un pomodoro maturo, ruotando la testa verso il castano con assoluta lentezza, apparendo come una bambola un po’arrugginita; l’altro, nel frattempo, sembrava ancora frastornato, e se qualcuno li avesse visti in quel momento li avrebbe trovati abbastanza ridicoli.
«Ecco, cioè… io…» Fece congiungere gli indici, prendendo un respiro profondo, nella speranza che il suo viso tornasse del suo colorito naturale. Maledizione, sentiva la faccia che diventava bollente, non era di certo un bello spettacolo. «Sì… Io e Kageyama stiamo assieme…»
Adesso, era il turno di Oikawa di rimanere assolutamente sorpreso dalla piega che stava prendendo il discorso. Aveva avuto dei sospetti, in passato, ma non credeva che tra di loro potesse mai succedere qualcosa; anzi, non credeva che Kageyama potesse innamorarsi di qualcuno, in generale. Aveva sentito delle voci di corridoio, durante l’ultimo anno delle scuole medie, che dicevano che si fosse preso una cotta per lui, ma era troppo occupato ad allenarsi per badare a questa faccenda; e poi, dopo quanto era successo in palestra, era quasi certo che qualsiasi cosa provasse per lui fosse svanita tutta d’un colpo, trasformandosi in odio e in rabbia repressa.
«Da quanto…?» esalò, aggrottando appena la fronte.
«Tre anni» rispose, mordendosi la lingua per l’imbarazzo. Dopo un attimo di silenzio, proseguì. «Ci siamo messi insieme dopo la finale del Torneo, al terzo anno. Due anni prima, sempre nello stesso periodo, io mi ero dichiarato e…»
«E lui ti ha rifiutato…»
«E lui mi ha rifiutato» ripeté.
La sensazione che provò Tooru, in quell’esatto momento, fu qualcosa di velenoso e che sentiva penetrare all’altezza dell’aorta, proprio vicino al cuore, e rischiava di farlo collassare a terra, morente; o di farlo morire dall’interno, ed era anche peggio. Tooru era invidioso. Invidioso che quel piccoletto ci fosse riuscito, invidioso del fatto che lui adesso poteva vantare di stare con la persona di cui era sinceramente innamorato, invidioso che lui avesse fatto cambiare idea a quella zucca vuota di Kageyama. Era invidioso, sì, perché lui non era stato in grado di fare neanche la metà delle cose che si era prefisso, dopo quello che gli aveva detto Akane in aeroporto, era solo stato capace di stare lì, a compiangersi; e non era neanche da lui fare così, ma Iwa-chan aveva mischiato le carte in tavola, e adesso la sua vita era nella confusione più totale, una trottola che girava senza fermarsi. Era arrivato al punto di non sapere neanche lui chi fosse, se l’atleta acclamato dai media, o il nerd fissato con la pallavolo e la fantascienza, e che probabilmente era gay.
«Non è stato facile» disse Hinata, risvegliando il ragazzo dalle sue riflessioni. «Ho creduto che lui non volesse più avere a che fare con me, a un certo punto.» Fece una pausa, il labbro inferiore che tremava. «Però non è stato così: certo, all’inizio cercava di ignorarmi, ma col tempo mi sono accorto che, in alcune occasioni, si comportava diversamente con me… Era gentile… e premuroso… Può sembrare strano, ma è così!»
Il tenero sorriso che si formò sulle labbra di Shoyo ebbe la capacità di far sparire completamente i sentimenti negativi che, fino ad allora, stavano mettendo radici dentro di lui. Si accorse che quel sorriso l’aveva visto già sul volto di qualcun altro, o almeno, qualcosa di simile; del resto, quando si è innamorati si tende a esaltare tutto quello che appartiene all’altro e che ti fa andare fuori di testa, ma quel sorriso era lo stesso che aveva Iwa-chan quella sera, sul ponte. Non aveva nulla di diverso da quel sorriso che gli rivolgeva, quando alzava gli occhi al cielo e scuoteva la testa, come quella sera al parco, quando ancora doveva cercare di capire che nome dare a quello che provava.
Che Iwa-chan fosse…?
«A fine della partita, è venuto lui da me… E mi ha detto che era stato uno stupido e che aveva sbagliato tutto. È stato anche abbastanza divertente!» rise, le gote adesso velate da un rossore tenue, lo stesso che si vede poco prima che la luce del sole sparisca all’orizzonte.
Oikawa sbatté gli occhi, ancora stralunato, prima che il rosso gli sorridesse, in maniera sincera e si rivolgesse a lui, sapendo esattamente cosa stava pensando l’altro: stava pensando a lui. Come aveva fatto Hinata per più di un anno, forse due, continuando a stare accanto a una persona che credeva non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti. E, adesso, stavano assieme, sia fuori che sul campo, come voleva da sempre.
«Ascoltami, Oikawa-san – disse, prendendo il coraggio a due mani – se è vero che questa persona ha degli atteggiamenti particolari nei tuoi confronti, allora non ti arrendere. Io non l’ho fatto, eppure mi è capitato un sacco di volte di sentire Kageyama sempre più lontano… Dagli tempo. Continuante a vedervi come avete sempre fatto e non pressarlo troppo.»
In un’altra occasione, se fosse stato abbastanza lucido, avrebbe sicuramente detto a quel ragazzo che era l’ultima persona da cui avrebbe voluto ricevere consigli; in quel momento, però, Oikawa si rese conto che quello che gli aveva appena detto aveva un suo senso logico, che… aveva perfettamente ragione. Kageyama e Iwaizumi erano completamente diversi – questo era ovvio – ma la situazione era più o meno la stessa: perché non avrebbe dovuto funzionare con lui?
Riposò le braccia sulla ringhiera, sentendo una risata nervosa crescere lungo la sua gola, e la lasciò uscire poco dopo, passandosi una mano sui capelli come uno scienziato pazzo che era appena stato colto da un’idea fulminante.
«Lo sai, Sho-chan?» disse, e Hinata si stupì di sentirsi chiamare in quel modo. «Non sei male come pensavo…»
Il ragazzo fece un sorriso luminoso, come sempre, e per un po’ nessuno dei due si mosse, né disse niente.






Raggiunsero Kageyama e la nuova squadra della Karasuno poco dopo, quei ragazzi che non la smettevano di fissarlo, avendolo riconosciuto immediatamente. Come c’era d’aspettarsi, il giovane setter aveva atteso il suo fidanzato, pur sapendo che ci stava mettendo troppo tempo, e non mancò di dirglielo non appena se lo ritrovò davanti, storcendo il naso nel vederlo accompagnato da Oikawa-san. Sottovoce, gli disse che gli avrebbe spiegato dopo.
Vedendoli da una prospettiva diversa, il castano si rese conto che, effettivamente, quei due stavano benissimo assieme: erano due imbecilli totali, non c’erano dubbi, ma quel piccoletto tirava fuori quel lato di Kageyama che, per anni, aveva tentato di seppellire con tutte le sue forze. Era il consorte perfetto per riuscire a tenere bassa la cresta del Re.
Restò poco con loro, salutando i due ragazzi, non prima di averli pizzicati con qualche battuta pungente, uscendo poi dal palazzetto. Fuori, l’aria era frizzante e il vento soffiava forte, abbattendosi sugli alberi circostanti, scuotendoli. C’era freddo, ma non troppo, eppure Oikawa sentì il necessario bisogno di stringersi nella sua amata giacca blu e si portò la sciarpa di Iwa-chan a coprirgli il viso. Quella sciarpa che, oramai, era diventata il suo appoggio, la sua ancora di salvezza, la sua ultima possibilità di cambiare le sorti della partita.
Quella sciarpa significava che, no, Iwa-chan non gli era indifferente. Perché, se lo fosse stato, se sul serio non avesse più voluto avere a che fare con lui, l’avrebbe abbandonato tempo fa. Certo, forse ci si era messo il destino dalla loro parte, ma questo Oikawa non poteva saperlo.
Come ogni bambino, il destino gioca e muove i pezzi a suo piacimento.
Se non si fossero incontrati, quella mattina al parco, forse le cose sarebbero state diverse, forse non l’avrebbe rivisto per davvero; ma l’aveva rivisto, invece, e adesso sapeva per certo di avere innestato qualcosa in lui, che in qualche modo anche lui si sentiva legato a questo loro rapporto, qualsiasi cosa fosse.
Respirò a pieni polmoni, e le sue narici si riempirono degli odori dell’inverno che, piano piano, stava andando via, e insieme a questi si mischiò il profumo del dopobarba del giornalista. Se avesse potuto, si sarebbe beato di questo profumo per tutta al vita, desiderando ardentemente di poterlo sentire addosso.
Prese il telefono tra le mani, sbloccandolo e cliccando sull’icona della rubrica. Voleva chiamarlo, non per chiedergli se avesse pensato a quello che gli aveva detto, ma solo per sentire la sua voce, sapere come stava, magari per uscire…
Quel ragazzo aveva ragione, non doveva forzare troppo la mano. Durante una partita bisogna osare, certo, ma bisogna anche saper aspettare l’occasione giusta; e, con un po’ di pazienza, Oikawa era quasi certo che l’avrebbe trovata e avrebbe finalmente ricevuto la risposta del ragazzo.
Stava per chiamare quel numero segnato ancora sotto il nome di “Iwa-chan”, quando il telefono cominciò a vibrargli tra le mani, in un primo momento senza capire il perché. Qualcun altro lo stava chiamando, ma non era Iwa-chan: era sua sorella.
Ancora perplesso, agganciò la chiamata. «Pronto?» Dall’altro capo si sentivano solo voci lontane e metalliche, sua sorella che parlava in maniera confusa, nel panico più totale. «Hoshi, aspetta… Non riesco a capire niente se parli così! Calmati.»
Ci volle un po’ prima che sua sorella riuscisse a parlare in maniera comprensibile, tradendo comunque una nota di ansia nella sua voce. E dopo quello che gli disse, Tooru capì anche perché.
Il freddo invernale quasi lo trafisse mentre sua sorella parlava, le gambe che cedevano e il telefono che rischiava di scivolare dalle sue mani.


 



~





 
[6 febbraio 2017] 






Era un codardo. Un emerito codardo.
Non aveva paura di salire su un albero, rischiando di cadere e rompersi qualcosa per prendere un insetto; non aveva paura di fronteggiare i suoi colleghi, pur sapendo che molti di questi erano il doppio di lui, in quanto a stazza; ma per quanto riguarda l’idea di contattare Oikawa… ecco, Iwaizumi era scappato a gambe levate, proprio come aveva fatto quella sera – anche se aveva avuto la decenza di fermarsi e sentire che cosa avesse da dire il giovane.
Non l’aveva cercato, non gli aveva mandato neanche un messaggio, la foto del profilo di Oikawa che continuava a tormentarlo. Quel faccino sorridente che ammiccava alla fotocamera, la lingua di fuori e le dita che facevano il simbolo della vittoria, aveva la capacità di farlo sentire tremendamente in colpa, come se lui volesse effettivamente dargli una risposta.
Il problema era che non l’aveva, questa fatidica risposta.
Quella sera aveva compiuto un gesto spontaneo, fatto senza che il suo cervello acconsentisse veramente; e il vedere Oikawa in quel modo, che lo guardava come se quel momento fosse stata la cosa più preziosa dei suoi ultimi anni di vita, smuoveva in lui qualcosa, una miscela potente e simile a quelle che preparavano le streghe nelle favole. Se avesse spiegato a sua zia tutto quel tumulto interiore, probabilmente gli avrebbe detto che non c’era nulla da fare, e che a lui Oikawa piaceva sul serio.
Eppure, non riusciva a smettere di pensare a quanto fosse sbagliata l’intera faccenda, a quello cui avrebbe dovuto pensare per prima. Aveva una figlia, una ex-moglie, come avrebbero mai potuto reagire a una tale dichiarazione?
Ecco cos’era che lo rendeva un codardo di prima categoria: l’idea di essersi innamorato – e questa volta sul serio – lo spaventava, specie se si trattava di un amore verso un uomo.
La frase che aveva detto Tooru lo aveva spaventato, perché lui avrebbe voluto continuare a vederlo, ma… doveva smettere. Per il bene suo, per quello di tutti, dovevano smettere di frequentarsi. Dovevano incontrare nuova gente, vedere nuovi posti, e magari un giorno si sarebbero rivisti per strada, si sarebbero salutati, e la storia sarebbe finita lì, senza alcun risentimento.
Quando ci pensava, però, Hajime sentiva un dolore al petto che quasi gli lacerava il cuore in mille pezzi. E questo, era uno degli altri motivi per cui non aveva preso un posizione determinante nei confronti del giovane setter.
A riscuoterlo dai suoi pensieri, fu il rumore delle molle del suo divano e il peso di una persona che si sedeva poco distante da lui. Saettò lo sguardo dallo schermo del computer – dove stava concludendo il nuovo articolo – alla persona che si era appena seduta accanto a lui.
Tomoko di solito non portava le gonne, le odiava, proprio come sua madre; quella sera, però, aveva deciso di mettersene una, lasciando scoperte le gambe, indossando un tailleur marrone che le calzava a pennello. Hajime non l’aveva mai vista così elegante, anche se il viso rimaneva sempre pulito e non troppo impiastricciato da trucchi inutili. Si passò un ciuffo dietro l’orecchio, i restanti capelli legati in uno chignon, in leggero imbarazzo, e lui si limitò a sorriderle, non sapendo però che cosa fare.
Oltre ad essere un codardo, Iwaizumi era anche uno stronzo – e sì, se lo diceva persino da solo.
Perché, pur di dimenticare i suoi problemi, pur di convincersi di quello che non era in realtà, pur di trovare una soluzione al suo problema, aveva riposto nella sua migliore amica degli obiettivi che, in verità, non avevano alcun fondamento. Era come se avesse un bisogno disperato di trovare un rimpiazzo a Oikawa, come se la cotta di Tomoko fosse il pretesto perfetto, e lui si sentiva un autentico mostro.
Sperava davvero che, sì, stando con Tomoko sarebbe riuscito finalmente a voltare pagina, chiudere quel capitolo della sua vita e ricominciare daccapo. E, se il nuovo inizio sarebbe stato accanto alla ragazza, tanto meglio per tutti… no?
«Ti è piaciuta la cena?» le chiese poi, per cercare di smorzare la tensione.
«Oh, era tutto squisito, grazie!» rispose, sorridendo, le guance leggermente colorite.
Quello che Iwaizumi non poteva sapere era che anche Tomoko stava adottando un gioco simile. Sapeva benissimo che, in realtà, il ragazzo non aveva smesso di pensare a Oikawa, si vedeva dal modo con cui fissava il cellulare; e sapeva anche che il suo intento non era quello di frequentarla perché era sinceramente interessato, ma per dimenticare proprio quel ragazzo che, per entrambi, era diventato un tormento. Per questa ragione, aveva deciso di continuare a vedere Iwaizumi, dicendogli che non se l’era presa per il bacio e accettando l’invito a cena a casa sua. Se lui voleva fare di tutto per dimenticarlo, allora lei avrebbe fatto di tutto perché fosse così, magari conquistandolo.
Era un cane che si inseguiva la coda, in un certo senso, e il destino si stava divertendo un mondo a vederli così.
Si sentivano entrambi meschini e crudeli, sfruttando l’altro a loro piacimento. Si dice che in amore e in guerra è tutto lecito… Ma quello che c’era tra di loro non era di certo amore, era solo qualcosa di malsano, e in un certo senso entrambi sarebbero voluti tornare alla loro semplice quanto forte amicizia.
Era come se, d’un tratto, tutte le certezze che avevano sul loro rapporto, sul loro stare insieme, fossero crollate, e adesso non sapevano come comportarsi; c’era dell’imbarazzo, certo, ma aveva un retrogusto simile a quello che lascia una medicina sulla lingua.
«È il nuovo pezzo…?» chiese la ragazza, titubante, sporgendo un po’ il collo per vedere quello che c’era scritto.
Il ragazzo annuì. «Sì, sto quasi per finirlo.»
Continuò a battere sulla tastiera, e solo allora si accorse che Tomoko si era fatta più vicina, in modo da poter avere una visuale migliore dello schermo. Non era la prima volta che succedeva, anzi, era capitato più volte, e si chiese che cosa provasse lei ogni qualvolta capitasse. Il suo cuore, probabilmente, faceva una serie di giravolte quadruple, mentre lui non sentiva assolutamente nulla. Era tutto normale, come prima, il suo cuore stava bene. Non come quella sera, quando Oikawa era venuto a casa sua e si era messo a giocare con Akane…
«Secondo me ci vuole una virgola, qui» disse, indicando col dito il punto esatto, e in quel momento si rese conto che la sua guancia era praticamente appicciata a quella di Iwaizumi. Se lui si fosse girato, avrebbero avuto l’occasione perfetta per scambiarsi un altro bacio.
Lei l’avrebbe voluto con tutta se stessa… ma lui?
Si ritrasse, le guance adesso in fiamme, balbettando una serie di scuse e agitando le mani davanti a sé. L’altro, intanto, era rimasto impassibile.
«Non ti devi scusare» le disse, parlando con un tono neutro, che raramente usava con lei. Tomoko era una persona docile, che spesso faceva uscire quel lato paterno che utilizzava solo con Akane, ma nulla di più. Non c’era nulla di più. «Ci stiamo frequentando, giusto? Quindi è normale che cose del genere accadano.»
Si stavano frequentando?
Hajime non era poi così sicuro, e forse non lo era neanche la stessa ragazza. Quando si erano rivisti in ufficio, si era subito affrettato a scusarsi per il suo gesto, e la ragazza l’aveva presa con diplomazia, dicendo che non c’era nulla per cui allarmarsi. L’invito a cena venne dopo, era stata una decisione presa sul momento, senza rifletterci veramente, e adesso si pentiva amaramente di averle proposto una cosa del genere.
Tomoko era una – forse l’unica – delle sue amiche più care, la persona che era riuscita a inserirlo tra le fila dei giornalisti, la persona che lo teneva sempre informato sulle mostre fotografiche, la persona che comunque Hajime proteggeva da qualsiasi cattiveria. Eppure, non provava le stesse cose che sentiva lei per lui.
C’era qualcosa che rimaneva con persistenza quando stava con lei, quando stava con tutti: la sensazione di vuoto. La stessa di cui parlava Oikawa, e che lui aveva tanto canzonato; la sensazione che, appunto, non provava più quando stava in compagnia del ragazzo, come se avesse trovato il pezzo mancante e tutto fosse tornato al proprio posto. 
Iwaizumi, però, era reticente, quel pezzo non voleva posizionarlo. Perché, se non c’era il vuoto, allora c’era la paura e tante incertezze.
La ragazza annuì, confermando l’affermazione del ragazzo, tornando con la testa china, le mani giunte, mentre l’altro riprendeva a scrivere.
Tomoko odiava quella situazione, odiava tutto questo. Non stava facendo alcun progresso, era come se Hajime si fosse trincerato in se stesso, come la prima volta che l’aveva conosciuto, in sala stampa: una persona fredda, che si lascia scivolare tutto addosso e che ha perso l’interesse per qualsiasi cosa. E sapeva che non era lei a innescargli tutto questo, ma il contesto in generale, gli avvenimenti degli ultimi mesi, ed era per questo che Tomoko si odiava.
Sì, si odiava, perché sapeva che il suo intento non avrebbe portato a nulla. Hajime tornava a far trasparire le sue emozioni solo quando fissava la foto con sua figlia sul cellulare, o quando fissava la foto del profilo di Oikawa. L’aveva visto, più volte, mentre lo faceva.
Poteva dire che non provava nulla per quel ragazzo, che forse si trattava di una cosa passeggera e che il loro frequentarsi l’avrebbe portato a dimenticare tutto, ma Tomoko sapeva che non era così, in fondo. Il suo sguardo diceva fin troppo.
Scosse la testa, afferrando il telecomando posato sul tavolino basso. «Posso?» chiese, e ricevuto il consenso del ragazzo, accese il televisore, facendo zapping da un canale all’altro.
Il ragazzo alzò lo sguardo dallo schermo del portatile per un attimo. Sua zia aveva ragione, era sempre stato una frana con le donne; Minori era stata la prima ad approcciarsi, chiedendogli di uscire, non lui. Non aveva idea di come ci si dovesse comportare con una donna, e adesso si rese conto di cosa intendesse sua zia quella sera. Non che a lui il gentil sesso non piacesse per niente, ma con Oikawa era stato tutto più semplice, perché era lui. Forse c’era dell’attrazione fisica – sì? No? –, tuttavia non era quello che aveva colpito Hajime: per quanto possa essere assurdo da dire, era stato il suo modo di fare che l’aveva colpito.
Nessuno era mai stato capace di rivolgersi a lui così, senza che ci fosse la pietà di mezzo.
Tornò a scrivere le ultime righe, imponendosi un minimo di concentrazione, Tomoko che aveva scelto di guardare un telegiornale sportivo, ovviamente. Scrisse la conclusione in pochi secondi, stiracchiando poi le braccia in alto e ricontrollando quante pagine avesse fatto.
«Ho finito!» Stava per chiedere alla ragazza se le andava di sentire quello che aveva scritto, ma appena si voltò verso di lei, vide il suo viso farsi bianco come la carta, gli occhi totalmente sbarrati. «Tomoko…?»
Seguì lo sguardo della ragazza puntato al televisore, e in un primo momento non riuscì a scorgere la notizia di cui stava parlando la presentatrice; poi, qualcosa lo colpì dritto al petto, una sensazione che faceva male quanto una lancia appuntita. Senza rendersene conto, le sue mani cominciarono a tremare, e la sua espressione era esattamente la stessa di Tomoko-san.
Ricordi che credeva di aver sepolto per sempre, vennero nuovamente fuori, come se fosse stato scoperchiato il vaso di Pandora.

«Mi raccomando, vai a letto! Non ci aspettare alzato, torniamo presto, va bene?»

Il viso di sua madre, sorridente, una mano stretta a quella di suo padre, apparve improvvisamente sul suo campo visivo, assieme a quella voce docile che riusciva comunque a farsi rispettare. Quella fu l’ultima cosa che gli disse, prima che entrambi uscissero fuori di casa, e adesso avrebbe voluto urlargli di non farlo.

«Hajime-kun… Mamma e papà non torneranno a casa…»

Adesso, vedeva il volto della babysitter davanti a sé, sul volto un’espressione addolorata. Era rimasta con lui tutta la notte, mentre lui dormiva, ignaro di tutto, e quella mattina era sceso dalla scale, un giocattolo in mano, convinto di trovare sua madre che preparava la colazione. E invece trovò lei, le occhiaie che le segnavano gli occhi.
«Hajime…» mormorò Tomoko, stingendogli un lembo della manica, ma il ragazzo non la stava ascoltando, troppo intento a fissare l’immagine che aveva davanti.
Era una foto che era stata scattata durante la selezione per le Olimpiadi di Londra, e rappresentava Oikawa, la divisa della Nazionale addosso, che abbracciava una donna. Sembrava una persona mite, ma allo stesso tempo dal carattere molto forte.
No, decisamente non sembrava una persona così debole…
Lesse ancora una volta il titolo della notizia, non riuscendo seriamente a crederci, le orecchie che gli fischiavano.
La madre di Oikawa era morta qualche ora prima.






Il destino non era responsabile di una cosa del genere. Era venuto a fargli visita un omone, alto e magro, vestito di grigio e nero, che aveva deciso di scombinare le regole del suo gioco, e adesso il destino se ne stava in un angolino a piangere, arrabbiato e frustrato.
Adesso più che mai, però, Oikawa aveva bisogno di Iwaizumi. E forse, ce l’avrebbe fatta a superare quella maledetta linea.



 
[Oh, you can't hear me cry
See my dreams all die
From where you standing on your own
It's so quite here
And I feel so cold]



 
Delucidazioni:
EHI! GUARDATE CHI E’ TORNATA! UN’AUTRICE ESTREMAMENTE SADICA E MASOCHISTA! *balla avvolta dalle fiamme*
No, tornando seri: ora vi chiederete perché ho deciso di fare una cosa del genere… E la verità è che non lo so nemmeno io.
Quando ho iniziato a stendere la storia, sapevo già che avrei dovuto scrivere questa parte; anzi, vi dirò di più, nell’idea originale Oikawa doveva finire in coma per via di un incidente, E FRACAMENTE PREFERISCO QUESTO A QUELLO SCENARIO, KAY? *una folla inferocita la insegue*
Che altro dire su questo capitolo?
Dovevo inserire quei precious babies di Hinata e Kageyama, giusto per darvi un po’ di gioia prima della mazzata finale. E spero che la mia kohai apprezzi ♥
L’idea che si siano messi assieme dopo il torneo interscolastico mi fa impazzire, e io continuo a sperare che questa cosa accada anche nel canon… *piange dalla disperazione*
Inoltre, mi piace proprio l’idea di vedere Oikawa che parla con Hinata, NON CHIEDETEMI PERCHE’!
Per chi avesse letto anche “Like an Astronaut”, sì, per me la sorella di Oikawa si chiama Hoshi oramai, punto. La canzone per questo capitolo è So Cold di Ben Cocks, vi consiglio di ascoltarla perché è bellissima e devastante.
Ci si vede alla prossima. Preparate i fazzoletti.
_Lady di inchiostro_

L’uccellino cinguetta ♥ 

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Capitolo 12
*** XI ***


XI



~
 



[7 febbraio 2017]






La veglia doveva essere finita da poco. Hajime rimase davanti alla dimora per diversi minuti, alcune persone che gli lanciavano giusto un’occhiata veloce prima di continuare per la loro strada. Si ricordava di quella casa. Distintamente, ma ricordava che una volta ci era passato davanti con un sua madre, i sacchetti della spesa in una mano mentre l’altra stringeva la sua, piccola in confronto. Ricordava che aveva sorriso e che gli aveva detto che lì abitava la mamma di un suo compagno d’asilo. Era uno degli ultimi momenti che avevano passato assieme, e Hajime ricordava quanto fosse divertente accompagnare sua madre a fare la spesa, con i banconi tutti colorati e troppo alti per lui. 
In realtà, sul momento, saputa la notizia, non avrebbe mai collegato le cose, ci stava ripensando solo adesso. Se non fosse stato per Tomoko-san e per la sua rete di informatori, non sarebbe mai riuscito a trovare il posto. Sorrise appena: per una volta, avevano ficcato il naso in buona fede, ed era felice di non vedere troppi giornalisti in giro. 
Prese un profondo respiro, prima di fare il primo passo ed entrare dentro il vialetto di casa. L’aria circostante era pesante, e Hajime ricordava benissimo la sensazione di non sentire più l’ossigeno arrivarti ai polmoni, come se si respirasse solo vuoto. E ricordava benissimo gli occhi colmi di pietà della gente, i tocchi delle loro mani sulla sua giacca, il chiacchiericcio e le parole dette sottovoce per non disturbare, per non urtare la sensibilità di qualcuno, per non farsi sentire. 
Se fosse stata un’altra persona, probabilmente Hajime avrebbe già girato i tacchi e se ne sarebbe tornato a casa col primo treno. Cercò di raccogliere più aria possibile, di cancellare le immagini della veglia dei suoi genitori, mentre firmava il registro e lasciava la busta sul tavolo all’entrata. 
Lo cercò tra i gruppetti di persone che parlavano in corridoio, bloccando il passaggio. Dovevano essere usciti tutti dalla stanza dopo la veglia. Hajime entrò, trovandovi solo poche persone sedute attorno al corpo, l’altare di famiglia che spiccava per via del bianco brillante di cui era ricoperto. Una donna sembrava fin troppo devastata anche per piangere, e seppe benissimo cosa stesse provando: la sensazione di trovarsi, improvvisamente, con la vita sottosopra, dove tutte le certezze crollano come un castello di carte, e il paragone non poté che fargli venire un grappo alla gola nel ripensare a Oikawa, sorridente, che giocava con Akane. 
Solo in pochi fecero caso a lui, tra l’altro con lo sguardo di chi è perso nel nulla, mentre accendeva l’incenso, suonava il campanello e pregava. Notò Ushijima, seduto tra gli altri, vicino a quella che oramai Hajime aveva intuito fosse la sorella di Oikawa, solo quando ebbe finito. Fece giusto un cenno con la testa, come a volerlo salutare, e quest’ultimo si alzò, avvicinandosi a lui. 
«Dov’è Oikawa?» gli chiese. 
Gli indicò la stanza che stava proprio di fronte, quella che Iwaizumi identificò come la cucina e la zona giorno; probabilmente, la stanza dov’era appena stato doveva servire solo per quelle spiacevoli situazioni, e questa doveva essere la prima volta che veniva aperta. Lo vide subito, seduto su una sedia, i gomiti sulle ginocchia, una gamba che tremava per il nervosismo – o solo per lo sforzo che ci metteva per trattenere le lacrime –, le dita strette tra di loro. Non poté fare a meno di rivedere se stesso, seduto sulle scale di casa sua, troppo simile a quella in cui stava adesso, con lo sguardo di chi è piombato dentro ad un incubo. La gente gli rivolgeva qualche parola, di tanto in tanto, e lui rispondeva, sorridendo con fatica. Cosa che Hajime, a quattro anni, non era riuscito a fare, si era solo chiuso nella sua stanza, sperando di non vedere più volti di persone che non conosceva ma che parlavano tanto bene dei suoi genitori. 
La differenza tra lui e Oikawa era questa. Lui, per anni, aveva rifiutato l’aiuto degli altri, perché pensava che lo facessero per compassione, e lui non ne aveva bisogno; Oikawa era orgoglioso, certo, ma lui aveva bisogno di sapere che gli altri c’erano. Non la gente sconosciuta, non i parenti che aveva visto mezza volta, non chi gli parlava per compassione, ma chi gli voleva bene veramente. Sua sorella, i suoi amici e compagni di squadra… Hajime stesso. 
La frangia troppo lunga gli copriva la faccia, e riuscì a inquadrarla solo quando la alzò per rivolgere un sorriso a Bokuto e ricambiare la sua stretta sulla spalla. Fu allora che lo vide, e i suoi occhi si colmarono di stupore, perché sapeva benissimo quanto odiasse questo genere di situazioni, lui più di tutti. Eppure era lì. Era venuto. 
Non disse niente, nessun cenno, aspettò solo che Oikawa si alzasse e venisse da lui spontaneamente; cosa che fece, e in un paio di passi fu tra le sue braccia, stringendo la giacca nera fino a sentire la pelle viva sotto, e si lasciò sfuggire un singhiozzo. Rafforzò la presa più e più volte, come se temesse di crollare improvvisamente, e Hajime fece altrettanto, in un incastro che in un’altra occasione gli avrebbe tolto il respiro. 
«Grazie…» sussurrò, e Hajime giurò che quelle fossero le prime lacrime delle giornata che stava versando. 





La stanza di Oikawa, come immaginava, era abbastanza grande, il letto sulla sinistra, di fronte a una scrivania ancora colma di libri e schede, e una vetrinetta piena di fotografie varie e qualche premio. Erano seduti sul bordo del materasso da una decina di minuti circa, senza che nessuno dei due avesse il coraggio di spiccicare parola. Hajime non lo giudicava per questo, non lo giudicava per averlo portato lì senza una spiegazione precisa, fosse stato per lui avrebbe smesso di parlare anni e anni fa. E sapeva che qualsiasi parola avesse detto, qualsiasi conforto, non sarebbe servito a niente.
Aprì comunque la bocca, mettendo in fila una frase che avesse un ragionamento logico; tuttavia, Oikawa lo precedette. «Non chiedermi come sto…»
«Non era mia intenzione…» Voleva provare con una domanda semplice, chiedendogli se i ragazzi in quella foto di gruppo fossero i suoi compagni di squadra al liceo, sperando che quello servisse a scioglierlo un po’, ma alla fine era stato lui a fare il primo passo. 
Tornò il silenzio per un po’, rotto ogni tanto dalle dita delle mani di Oikawa che scricchiavano, come dopo una pallonata ricevuta mentre tentava di murarla.
«Io… ti ringrazio ancora di essere venuto…»
«Ti ho già detto che non mi devi niente, Tooru.»
Alzò lo sguardo su di lui, sedutogli accanto, e lo trovò perso nell’osservare i dettagli della sua stanza, come se sapesse quanto gli fosse difficile affrontare una discussione in quel momento, e allora cercava di distarsi, di lasciargli il tempo di riflettere su quello che voleva fare. Strinse gli occhi, notando le stropicciature della giacca di Hajime, così simile alla sua e quella di tutti gli uomini che stavano di sotto. Non si era sbagliato, per quanto la sensibilità cambi da persona a persona, certe cose rimangono uguali, e Hajime sapeva benissimo quali cose evitare in una situazione come quella. Come se avesse un codice inciso a fuoco sulla pelle, una croce che si portava dietro, e non c’era modo per eliminarla. 
«Come ci riesci?» Solo allora Hajime spostò lo sguardo su di lui, serio, e Oikawa si rese conto che erano seduti nella stessa identica posizione. «Come riesci a conviverci?»
Sapeva benissimo a cosa stesse alludendo il setter. Alludeva al dolore che si prova nel perdere una persona cara, senza avere avuto la possibilità di salutarla un’ultima volta, di trasmetterle la nostra gratitudine, il nostro affetto un’ultima volta. 
«Non ci convivo.» Oikawa non disse niente, ma non sembrò neanche tanto sorpreso. «Se pensi che io l’abbia superata, ti sbagli. Semplicemente, vado avanti. Non credo che i miei genitori volessero vedermi morire lentamente…»
Ci fu un attimo di pausa, in cui Hajime cercò di riordinare il filo aggrovigliato dei suoi pensieri, fallendo miseramente. La logica, in questi casi, non serviva. Serviva la spontaneità, la sincerità, la voglia di liberarsi di un peso dallo stomaco.
L’ambiente di quella stanza gli ricordava quello della sua, in quella giornata d’autunno. 
Oikawa seduto in quel modo, col volto che sembrava scavato e sciupato dal dolore gli ricordava tanto lui, e si disse che in quel momento quello che aveva provato bastava come risposta. 
«Sai, mia zia mi ha mandato in terapia per un po’…» In un altro momento, probabilmente Oikawa avrebbe fatto qualche battuta per sdrammatizzare, ma non in quel caso. «Non è servito a niente, mi sono… “sbloccato”, diciamo così, dal mio mutismo quando ho cominciato a frequentare le elementari. Ricordo una cosa che mi disse quella donna, però…» Si fermò, avvertendo gli occhi lucidi, e per un attimo si rispecchiarono in quelli di Tooru, in un guizzo veloce. «Anche lei aveva perso i genitori in giovane età, e per quanto le dicessero che loro erano sempre con lei, che sapevano quanto lei gli volesse bene, la cosa che la faceva andare avanti era… Il dolore stesso.» S’interruppe, lasciandosi sfuggire un sorriso dolceamaro, sentendosi molto sciocco nel dire quelle cose e allo stesso tempo così… libero. «Tentò di spiegarmelo dicendo che la perdita di una persona cara è come una ferita, e noi ne siamo costellati. Fanno sempre male e si riaprono spesso, però sono delle ferite… si rimarginano in qualche modo.»
Era stano. Vedere Hajime parlare così, esporsi così, ed esprimere quel pensiero con le stesse parole di un visionario. 
Lui non credeva quasi in niente che fosse leggendario o raccontato nelle tradizioni, ma a quella metafora ci credeva con tutto se stesso, perché era vero. Aveva continuato a vivere, portandosi dentro questo dolore, sfogandosi di tanto in tanto, lasciando che le cicatrici si riaprissero, per poi fare in modo che queste si chiudessero. Aveva continuato a vivere, sentendo sotto la pelle il pulsare di quelle croste, e faceva male, ma nonostante questo era andato avanti, senza mai lamentarsi. 
Sorrise appena Tooru, e in una parte di sé la felicità fece un sobbalzo nel vedere che era ricambiato. Fu una questione di un attimo, poi Hajime tornò con gli occhi puntati sulla vetrinetta. 
«Oikawa, posso solo consigliarti una cosa?» Il castano rimase un attimo interdetto, non riuscendo a rispondere. «Se devi sfogarti, fallo. Te lo dice uno che l’ha fatto a due anni di distanza… ed è peggio.»
Era sempre stato uno dalla lacrima facile. Non perché non avesse un minimo di orgoglio, figuriamoci, ne aveva anche fin troppo. Piangere non è sempre sinonimo di debolezza, a volte è l’unico modo che ci permette di comunicare con la gente, di farle sentire quello che c’è nella parte più recondita del nostro essere. Era per questo che Oikawa, proprio per via del suo orgoglio, non si vergognava di far vedere le sue lacrime agli altri. Piangeva, e si rialzava più forte di prima.
Questa volta, però, c’era qualcosa di diverso. C’era la consapevolezza che, adesso, milioni di cose gravavano sulle sue spalle, che suo padre forse non avrebbe mai superato la solitudine, che sua sorella sembrava essere diventata improvvisamente la sorella minore da consolare, sebbene fosse lui il più piccolo. E, questa volta, doveva mostrarsi più forte del solito. 
Voleva piangere, lo voleva davvero. Ma era come se una parte di lui gli dicesse di non farlo, perché c’era bisogno di una persona forte in tutto quel casino, c’era bisogno di una persona che rimanesse a vegliare su sua madre senza che urlasse o si disperasse. 
A un certo punto, aveva quasi sperato che qualcuno gli chiedesse di farlo, di piangere. E Hajime questo l’aveva capito. 
Hajime non piangeva, mai. Tuttavia, sapeva benissimo cosa si provava a trattenere tutto dentro fino a scoppiare, come un palloncino, anzi una bomba ad orologeria. Hajime si era sfogato, dopo anni, e a volte Oikawa si chiedeva se non lo facesse in solitaria, quando nessuno poteva vederlo, quando non ce la faceva più a trattenere il dolore delle piaghe di cui era ricoperto. 
Anche questa volta, se Oikawa avesse pianto, poi sarebbe comunque riuscito a tornare quello di prima, forse più forte. Proprio come Hajime. 
Posò la testa sulla spalla, lasciandosi cullare per un po’ dal suo respiro regolare, dal vento che proveniva dalla finestra semichiusa, prima di artigliare una mano sulla sua camicia bianca, facendo scostare lo sguardo al giornalista. 
Alzò anche l’altra mano, e adesso la sua fronte era posata lungo lo sterno di Hajime, che non disse niente, che non si dimenò, rimase semplicemente così, e Oikawa non sapeva quale divinità ringraziare per averlo portato lì, nonostante non si sentissero da quelli che per lui sembravano decenni.
Gli uscì un singulto, poi un altro, e poi questi si trasformarono in un urlo disperato, in calde lacrime che bagnavano la cravatta nera di Hajime, e la presa diventava sempre più forte. Fu un impulso quello che spinse Hajime a passare le dita sui suoi capelli castani, posando poi la bocca sulla cute, senza schiudere le labbra, ma quel gesto per lui, per loro, significava già tanto. 
Rimasero così, anche quando Oikawa smise di piangere, entrambi senza dire più niente.






Decisero di restare nella stanza ancora per un altro po’, fissando il vuoto, entrambi in assoluto silenzio. Il castano aveva posato la testa sulla sua spalla, dopo che era riuscito ad arrestare i crescenti singhiozzi, anche se aveva gli occhi gonfi e rossi, e ogni tanto tirava su col naso.
Sembrava un bambino in quelle condizioni, un bambino fragile cui era stato strappato via qualcosa di importante, e Hajime non poté fare a meno di rivedere in lui se stesso. Lui, però, aveva bisogno di sentire che Iwa-chan ci fosse, nonostante il loro rapporto fosse oramai incasinato oltre ogni misura, aveva bisogno di stare così, di sentire il suo respiro regolare e il suo profumo. Era l’unico motivo per cui, ancora, non si era isolato, ignorando totalmente il mondo circostante. Non aveva aperto neanche uno dei messaggi che gli erano stati inviati e non controllò nemmeno sui social, pur sapendo che tutti si erano premurati di fargli le loro più sentite condoglianze. Non ne aveva la forza.
Senza che se ne rendesse conto, aveva cominciato a parlare poco dopo, d’impulso. Raccontò di sua madre, partendo dal passato, da quando lui era un bambino e si metteva a piangere per un nonnulla, fino ad arrivare a qualche giorno prima, quando aveva ricevuto la chiamata di sua sorella.
Hajime non credeva che gli avrebbe confessato una cosa del genere, e onestamente non era tanto sicuro di volerla sentire. Ma lo lasciò fare, così come gli aveva concesso di sfogarsi e di appoggiarsi a lui, senza dire una parola, solo guardandolo. E, dio, perché il cuore doveva fare così male nel vederlo ridotto in quel modo?
Disse che sua madre stava già male da parecchio tempo, ma non aveva mai detto nulla a nessuno per non far preoccupare la sua famiglia, poiché la figlia aveva una bambino a cui badare e Oikawa doveva pensare alla sua carriera; a detta del ragazzo, non era la prima volta che nascondeva di avere qualche malessere.
Tuttavia, non avrebbero mai pensato che potesse arrivare sino a quel punto, sino a negare di avere un tumore, fino all’ultimo, quando si era sentita male sul serio. Oikawa aveva preso il primo treno diretto, arrivando qualche ora dopo, sua sorella che piangeva nel corridoio d’ospedale e suo padre completamente perso nei sensi di colpa. Non si era accorto di nulla, e si malediceva, perché se avesse prestato più attenzione, forse la donna sarebbe ancora viva.
La brutta notizia gliela diedero loro: un tumore al pancreas all’ultimo stadio. I medici non potevano fare granché.
La donna morì qualche giorno dopo, quando nella stanza c’erano solo lei e il figlio, e il ragazzo stava cercando di convincerla a mangiare una gelatina alla frutta.
«Sai qual è stata l’ultima cosa che mi ha detto?» Le lacrime ricominciarono a scendere copiose sul suo volto. «Di essere felice. Poi, mi sono girato verso il suo lettino e non ho sentito più niente, solo il fischio dei macchinari… Ho provato a chiamarla, a scuoterla, ma…»
Non continuò, sentendo che poteva ricominciare a piangere un’altra volta, passandosi una mano sugli zigomi bagnati, i suoi polmoni che ricercavano sempre nuova aria.
Hajime si chiese che cosa fosse peggio, se non aver avuto l’occasione di vedere i propri genitori un’ultima volta, oppure…
La verità era che non c’era una situazione migliore rispetto a un’altra. Un figlio non è mai pronto all’idea che, un giorno, dovrà separarsi dai propri genitori, le persone che l’hanno cresciuto, men che meno in giovane età.
Lui sua madre non aveva potuto godersela appieno, Oikawa sì, ma era ugualmente un dolore troppo grande. Le situazioni erano diverse, ma alla fine provavano entrambi la stessa identica sensazione.
Il setter si alzò solo quando si rese conto che erano lì da troppo tempo, passandosi le mani umide sui pantaloni stropicciati. Si diede un paio di schiaffi sul viso, nella speranza che nessuno notasse i suoi occhi gonfi, e Hajime lo osservò mentre compiva tutto quel procedimento, per poi seguirlo lungo le scale. Le scesero a passi lenti e pesanti, e mano a mano che la sua visuale si allargava, si accorgeva che c’era sempre meno gente, alcuni che probabilmente erano andati via in quel lasso di tempo.
La figura di una donna, però, catturò la sua attenzione, e sentì una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco. Era accompagnata da un uomo, vestito con l’abito cerimoniale, mentre lei indossava un abito nero con un copri spalle in tulle e anch’esso nero. I capelli biondi erano raccolti in una coda alta.
Era di spalle, ma Hajime capì subito chi fosse, spalancando gli occhi, non sapendo bene per quale ragione.
«Eiko…?» sentì dire al ragazzo che gli stava davanti di pochi gradini, e la ragazza si girò, mostrandosi in tutta la sua bellezza, pur cercando di essere pacata e contenuta nei modi.
In fondo, poteva benissimo avercela con Oikawa a vita, eppure era venuta. Per un attimo, nessuno si mosse, un sorriso dolceamaro che segnava le labbra rosse di Eiko, incapace di dire alcunché. No, decisamente non era il momento adatto per essere arrabbiata con lui. Fu il ragazzo ad avvicinarsi, scendendo gli ultimo gradini rimasti, e solo quando furono uno di fronte all’altro, Eiko gli gettò le braccia al collo.
«Mi dispiace così tanto…» sussurrò, ed era sincera, poiché aveva avuto modo di conoscere la madre del ragazzo e – adesso – suo ex fidanzato.
Le pizzicavano gli occhi, mentre Oikawa aveva posato la fronte contro la sua spalla, nascondendosi ancora una volta dalla crudeltà della situazione. Non importava quante cose orribili avesse detto su di lui, quella sera: era arrabbiata, e Tooru lo capiva benissimo. Era il gesto che contava.
Intanto, Hajime era rimasto in piedi, ancora sulle scale, la testa bassa. Si mordicchiò il labbro inferiore, sentendo il bisogno di distogliere lo sguardo da quella scena. Perché, di certo, non era il momento adatto per lasciarsi prendere dalla gelosia.


 



~
 



[8 febbraio 2017]






Il cielo era plumbeo, cupo, grigio. Sembrava che le nuvole dovessero inghiottire la terra da un momento all’altro. Hajime ricordava che il cielo era dello stesso colore quando si era svolto il funerale dei suoi genitori. Lui non era presente. Era rimasto seduto sulle scale, lo sguardo perso nel vuoto, e quando sentì la serratura della porta scattare sperò di veder comparire sua madre, scoprendo che in realtà si trattava solo di un brutto sogno.
Ma sulla soglia apparve sua zia, non sua madre. Il resto, erano solo ricordi confusi, immagini sfocate di una Tokyo che, a un primo impatto, già odiava. Col tempo, aveva finito per accettare la sua condizione e cominciare ad apprezzare la famiglia che gli era rimasta e la città in cui viveva. Anche se doveva ammettere che gli mancava il calore che emanavano i negozi, le strade, le persone di Miyagi. Forse era troppo piccolo per farci caso, ma era come se fosse tornato improvvisamente indietro nel tempo e avesse cominciato a dare più valore a quello che aveva perso.
Piovigginava. Alcuni avevano portato con sé qualche ombrello per ripararsi, mentre lui lasciava che le gocce d’acqua gli bagnassero la giacca nera. Alzò lo sguardo, intravedendo Oikawa in testa al gruppo di persone che si stavano muovendo verso il tempio, Eiko accanto a lui, entrambi con un ombrello nero in mano.
Non sembrava che stessero parlando, eppure quella sola immagine lasciò dentro Hajime un senso di fastidio che sperava di poter cancellare al più presto. Qualsiasi cosa provasse per Oikawa, qualsiasi natura avessero quei sentimenti che gli corrodevano lo stomaco, doveva sopprimerli. Tooru aveva già sofferto troppo, e lui non poteva permettersi di comportarsi da egoista, in quel momento. Non lui, che sapeva come ci si sentiva in una situazione del genere.
Arrivarono al tempio e tutti – nessuno escluso – onorarono il defunto, ponendo un po’ d’incenso dinanzi alla bara e al nuovo nome che gli era stato posto. Alla fine, quando ebbero finito, fu Oikawa a ringraziare tutti per conto della famiglia; né il padre né la sorella erano in grado di farlo, e con un sforzo immane dovette pronunciare un piccolo discorso per esprimere la riconoscenza di tutta la sua famiglia per essere stati presenti. Si era messo ritto sul posto, allargando le spalle, prendendo un bel respiro, e la mente di Hajime registrò quei gesti in una frazione di secondo. Era come se stesse guardando delle fotografie che andavano in sequenza, ricostruendo perfettamente la scena, e le riguardava fino allo sfinimento.
Non smetteva di fare male, però. Il cuore continuava ad essere stretto in una morsa, lo stomaco gli si stringeva quando Eiko si avvicinava a lui, e la sua mente sembrava che stesse andando in tilt. Credeva di impazzire.
Possibile che quello che provava per lui lo stesse portando fino a quel punto?
Aveva gli zigomi arrossati per via del pianto, ma nonostante questo riuscì a parlare senza che la voce si incrinasse, e Iwaizumi lo osservò da lontano. Perché era quello il suo posto, perché Oikawa aveva bisogno di lui, sì, ma lui non si era fatto sentire per giorni, gli aveva urlato contro che con lui non aveva provato nulla di particolare… lui era quello che stava tentando di seppellire per sempre quello che provava attraverso la sua migliore amica.
Per cui, sì, era quello il suo posto.
La cassa fu portata via, la gente che riponeva alcuni fiori sopra, e gli ombrelli divennero il doppio, la pioggia che si faceva più insistente. Rimase indietro, ancora, mentre Oikawa parlava con i suoi compagni di squadra, forse per decidere che cosa avrebbe fatto in quei giorni: sarebbe sicuramente rimasto accanto a suo padre per un po’, poi c’erano alcune pratiche da compilare, questioni rimaste in sospeso che dovevano essere risolte. Probabilmente, la pallavolo era l’ultimo dei suoi pensieri, e per fortuna tutti sembravano capirlo. L’ultima immagine che vide fu un Oikawa che giochicchiava con un ciottolo, Eiko che sembrava essere scomparsa misteriosamente nel nulla, per poi voltarsi e camminare lungo la strada che conduceva alle altre tombe. C’era una cosa che doveva vedere, prima di andarsene del tutto.
Aveva chiamato sua zia, la sera prima, quando era arrivato in albergo, raccontandole quello che era successo, e parve dispiaciuta dell’accaduto, dicendogli che anche lei faceva le sue condoglianze alla famiglia. Non le raccontò quello che era successo nell’ultimo periodo, non gli disse quello che sentiva ogni volta che vedeva il viso stravolto dal dolore di Oikawa, o anche solo quando lo pensava. Era altro che lo tormentava, in quel momento, e quando riuscì a chiederglielo, la donna gli rispose con un mezzo singhiozzo, anche lei sorpresa quanto lui. Del resto, era normale che si commuovesse.
Cercò tra le lapidi, vari nomi che gli passavano davanti senza che avessero un reale significato, mentre teneva le labbra serrate e le mani infilate dentro le tasche dei pantaloni neri. Trovò quello che cercava dopo attimi che parevano eterni, la pioggia che adesso era più forte, ma a lui continuava a non importare.
La tomba dei suoi genitori, ad un prima occhiata, sembrava curata, tutto sommato: i suoi nonni erano morti da tempo, per cui immaginò che a occuparsene fossero i fratelli di suo padre, che ancora abitavano a Miyagi. Rimase a fissare ogni singolo dettaglio con sguardo vacuo, le incisioni sulla pietra, i vasi per i fiori vuoti, e ciò che aveva davanti si sovrapponeva a ricordi passati che credeva di aver chiuso dentro quella famosa scatola sopra l’armadio.
Ma adesso, tutto in lui era stato rimesso in discussione, e non sapeva più cosa fosse giusto o sbagliato, bianco o nero. Si chiese che cosa ne avrebbero mai pensato i suoi genitori di una situazione del genere, se avrebbero approvato, se avrebbero provato ribrezzo per quello che stava diventando, o se semplicemente sarebbero rimasti delusi. Su quest’ultimo punto, Iwaizumi aveva tante cose da dire. Se è vero che i morti ci guardano da lontano, allora era quasi certo che i suoi genitori non era proprio entusiasti delle sue scelte di vita; forse Akane era stata l’unica cosa buona che gli fosse mai capitata, e ancora ricordava cosa aveva provato quando l’aveva tenuta in braccio.
Si sentiva sballottato come una zattera in mezzo a una tormenta, onde e onde che lo sommergevano e lo privavano del respiro. Stava ancora ricordando il viso di sua madre quando gli sorrideva la mattina, o suo padre che lo aiutava a cercare gli scarabei, quando una voce lo richiamò. «Iwa-chan…?»
Le sue spalle tremarono, ripiombando nel freddo e duro presente, e rendendosi conto che la pioggerella di prima si era trasformata in un acquazzone. Oikawa doveva essere tornato dalla cremazione… Da quanto era fermo in quel modo?
Non disse niente, Oikawa semplicemente si limitò a coprirlo con il suo ombrello, facendosi leggermente più vicino e osservando anche lui i nomi scritti sulla lapide.
«Immaginavo che saresti venuto qui…» mormorò poi, la voce leggermente incrinata.
Non poteva biasimarlo per questo. Non l’avrebbe fatto prima, e non l’avrebbe fatto di certo adesso, non dopo che aveva visto sua madre diventare cenere, non dopo che aveva pensato alla sua felicità fino all’ultimo istante della sua vita. Abbassò la testa, senza dire più nulla, e solo dopo minuti infiniti, Iwaizumi tornò finalmente a respirare come un normale essere vivente.
Il fiato gli uscì quasi strozzato. «Questa è la prima volta che gli faccio visita…»
Oikawa alzò la testa, il profilo del ragazzo che era completamente diverso da quello che aveva avuto dinanzi quando gli aveva raccontato quella tragica storia. Non sembrava neanche lui, adesso, gli occhi persi nel vuoto e il viso velato di tristezza, nostalgia e dolore. Non sembrava tanto diverso dal suo, quando si era svegliato quella mattina, con la consapevolezza che avrebbe dovuto dire addio a sua madre.
«Non mi hanno permesso di partecipare al funerale…» continuò il giornalista. «E non ho mai avuto l’occasione giusta per venire a trovarli… O forse non volevo, avevo troppa… paura.»
Buttò fuori l’aria fino ad allora trattenuta, e si sentiva come un palloncino che era appena stato sgonfiato, le mani che gli tremavano, proprio come quando aveva sentito la notizia in televisione. Le ferite si erano appena riaperte, e facevano male, tiravano e sanguinavano, di più, sempre di più. Era come se sapesse che i suoi genitori fossero morti, ma lo stesse realizzando pienamente solo adesso, davanti alla loro tomba. Ecco dove stava la sua paura, nel non sapere come avrebbe reagito. 
Tooru, però, non lo stava giudicando. Si accovacciò poco dopo, un tulipano bianco in mano, e lo ripose in uno dei vasi vuoti. L’aveva preso dal bouquet, con molta probabilità, poco prima di riporlo sulla cassa.
Tornò dritto sul posto, le gocce di pioggia che bagnavano i petali del fiore, e stettero tutti e due a guardarlo, come in trance.
Fu Oikawa a rompere il silenzio. «Era il fiore preferito di mia madre…»
L’altro non rispose, in un primo momento, come se stesse riflettendo. «A mia madre piacevano le orchidee…» disse poi.
Tuttavia, non era quello l’importante. Era il gesto che contava. Oikawa, che a stento conosceva sua madre, si era comunque premurato di portare un po’ di colore su quella tomba spoglia.
Il castano fece un lievissimo sorriso, rimanendo lì per un paio di minuti; poi, capendo che forse era di troppo, decise di andarsene, visto che aveva quasi smesso di piovere. Stava per dire a Iwaizumi che gli avrebbe lasciato l’ombrello, quando si sentì afferrare la mano.
Spostò lo sguardo verso il basso, trovando la mano del giovane che stringeva la sua, e il suo cuore mancò qualche battito. Gli occhi verdi di Hajime, adesso, non erano più spalancati, persi nei ricordi, erano tristi, velati da una patina lucida che Oikawa non gli aveva mai visto.
Stava crollando. Sarebbe crollato da un momento all’altro, come aveva fatto lui nella sua stanza.
«Resta» gli sussurrò, quasi come se sapesse che se ne sarebbe andato e che l’avrebbe lasciato solo, voltandosi a guardarlo negli occhi. Quegli stessi occhi le cui sfumature erano coperte dalle lacrime.
Le labbra di Tooru tremarono, e tutto quello che riuscì a fare fu annuire. Tornarono entrambi con gli occhi fissi sulla lapide, le dita strette tra di loro.






Non c’era abbastanza tè per tutti, in casa, per cui Iwaizumi si era offerto di andare al supermercato più vicino per comperarlo, dato che aveva anche smesso di piovere. Le strade erano colme di pozzanghere, ma il cielo si era schiarito, lasciando intravedere gli ultimi raggi di sole.
Era rimasto davanti al bancone senza fissarlo veramente, Tomoko che gli aveva mandato qualche messaggio per chiedergli come stesse e come procedesse la situazione. Le aveva risposto, ma non gli andava proprio di chiamarla. Era come se avesse bisogno di stare da solo per un po’, cercando di riordinare le idee, senza pensare a Oikawa che stava seduto accanto a lui e che soffriva come un povero disperato. Aveva bisogno di staccarsi dalla realtà e ragionare con occhio critico su quello che era successo, un po’ come faceva quando doveva analizzare una partita e dare poi le sue opinioni. Per questo si era offerto di uscire, per far prendere un po’ d’ossigeno al cervello, stando davanti a quel bancone, gli abiti da cerimonia addosso e un po’ umidicci a contatto con la pelle.
Ripensava alla tomba dei suoi genitori, il petto che ancora gli doleva, ma soprattutto ripensava alla stretta delle dita di Oikawa. Credeva che la sua mano fosse ghiacciata,  e invece era stranamente calda. Hajime poteva ancora sentire quel tocco leggero sui polpastrelli, la pelle ruvida e segnata da anni e anni di allenamento.
Sospirò, passandosi un mano dietro la nuca. La situazione stava peggiorando, e se prima credeva che dimenticare quello che provava sarebbe stato facile, adesso lo credeva quasi impossibile. Non dopo che era stato lui a dire di restargli accanto, non dopo che desiderava poter stringere quella mano ancora, e ancora, e ancora, fino a quando non ne avesse avuto abbastanza; e forse non ne avrebbe mai avuto abbastanza.
Ma ecco, quando credeva che avrebbe potuto benissimo dire a Oikawa di provarci, tornava di nuovo una sensazione d’ansia e panico che premeva contro la cassa toracica, le costole che spingevano lungo la carne dei polmoni. Era come se il senso del dovere non volesse abbandonarlo, come se stesse andando contro i suoi stessi principi. O contro l’unica famiglia che gli era rimasta, in un certo senso.
Alla fine, prese più di una spezia, oltre a quella che gli era stata richiesta, e pagò, ripercorrendo la strada a ritroso. Si trovava a pochi metri dalla casa del setter, quando li vide: un gruppo di paparazzi che chiacchieravano tra di loro, ridendo; più avanti, un po’ nascosto, c’era un furgoncino di una rete televisiva.
Hajime si mise un po’ quatto, osservandoli da lontano. Credeva che, almeno stavolta, avrebbero avuto la decenza di lasciare il giovane atleta in pace, ma a quanto pare era troppo bello per essere vero.
Si accorse di un particolare che destò la sua attenzione solo in un secondo momento. Il logo del furgoncino non gli era nuovo, e gli ci volle un po’ prima di ricollegarlo a qualcosa che aveva già visto, gli occhi che si spalancarono.
Non era una rete televisiva sportiva, come pensava. Era il logo del canale dove avevano annunciato la notizia della rottura tra Eiko e Oikawa.
Ora tutto tornava ad avere un senso: nessuno si era fatto vivo fino all’arrivo di Eiko, e adesso, come per magia, appariva una delle reti che la giustificava davanti a tutto il paese, prendendola per una divinità.
In un’altra occasione, probabilmente, sarebbe già andato a spaccare il muso a quegli imbecilli, facendo poi scappare a gambe levate le due presentatrici dello show, ma non fece niente di tutto questo: per la prima volta nella sua vita, Iwaizumi Hajime riuscì a controllare la rabbia che aveva dentro, che smaniava, ribolliva dentro le sue viscere. La trasformò in una calma controllata, una maschera di ferro e priva di emozioni, mentre entrava dentro casa.
Lo fissarono tutti, sorpresi, perché dalla sua espressione sembrava che avesse visto qualcosa di troppo sconvolgente per essere spiegato, ma lui non lasciò trapelare nulla. Diede i suoi acquisti ad Oikawa – che comunque lo fissava di sottecchi, preoccupato –, e poi il ragazzo si mise a preparare il tè. Fu in quel momento, quando ebbe finito di fare tutto, che poté dedicarsi alla sua rabbia; o meglio, all’oggetto della sua rabbia.
«Eiko-san?» disse, la ragazza seduta sul divano che lo guardava dal basso, dopo che lui si era avvicinato, approfittando del fatto che gli altri fossero distratti. «Ti posso parlare un attimo in privato?»
Tenne lo sguardo su quello di Iwaizumi, talmente determinato da non sembrare quasi umano, per poi spostarlo sul ragazzo che l’aveva accompagnata, intento a fissare il cellullare, e tornare sul giornalista. Annuì, seguendo il ragazzo verso il salotto e l’enorme porta a vetri che dava sul giardino.
Hajime la richiuse, prima di cominciare a parlare. «Mi vuoi dire a che gioco stai giocando?»
Eiko fu colta alla sprovvista dal quel tono così freddo e acido. «Prego…?»
«Qua fuori – fece un cenno col capo, oltre le mura che circondavano la casa – ci sono i giornalisti che hanno annunciato, per primi, la tua rottura con Oikawa.» Fece una pausa. «Li hai chiamati tu?»
La ragazza spalancò gli occhi, facendoli diventare più grandi di quanto fossero in realtà, incredula e, soprattutto, offesa. «E perché mai avrei dovuto farlo?» sbottò, indignata.
Il ragazzo alzò le spalle, come se nulla fosse. Non si riconosceva, non era lui che parlava, era un altro Iwaizumi che aveva preso il suo posto; lui era quello che scattava, che urlava, che aveva preso a pugni un suo compagno. Lui non era quello che plasmava la sua rabbia fino a renderla una totale indifferenza verso il mondo.
Lui, la sua rabbia, era come se la vivesse, sempre.
Questa volta, però, si imponeva di rimanere calmo, di non saltare subito alle conclusioni, di non cominciare ad urlare… perché , altrimenti, avrebbe dato altre seccature a Oikawa, e in quel momento non erano necessarie.
«Vendetta? Ripicca? Decidi tu!» disse.
Le palpebre della ragazza, adesso, si ridussero a due fessure. «Pensi seriamente che io sia così meschina da fare una cosa del genere a Oikawa? Io sono venuta qui per stargli vicino!»
«Oh, e come? Sbattendogli in faccia il tuo nuovo fidanzato?»
«Quello è il mio manager, e non sono affari che ti riguardano!»
Erano entrambi consapevoli di star alzando la voce, e si guardavano in cagnesco, pronti a divorarsi da un momento all’altro. Forse nessuno dei due ce l’aveva con l’altro, o forse sì, ma erano entrambi offuscati dall’ira per poterlo capire al meglio.
Iwaizumi sapeva che quello sfogo, in fin dei conti, non dipendeva solo da quello che aveva visto: dipendeva anche da tutto quello che aveva tenuto dentro, da cosa aveva provato quando aveva visto Oikawa abbracciare Eiko, da cosa aveva provato quando li aveva visti vicini, al funerale, lui che sembrava essere su altro pianeta.
Dannazione, perché voleva esserci lui accanto a Oikawa?
«Sono affari che mi riguardano, se si tratta di Oikawa…» rilanciò.
Eiko lo guardò, scuotendo appena la testa, sempre più sconcertata. «Ma tu pensi che io voglia umiliare Oikawa fino a questo punto? So benissimo come ci si sente ad un funerale, e-»
Avrebbe continuato, ma non gliene fu dato tempo. Hajime non sapeva se Eiko avesse perso o meno qualcuno a lei caro. In quel momento, però, la rabbia che aveva deciso di tenere buona come un cane da caccia, straripò all’improvviso, tutta in un colpo, travolgendo tutto e tutti come se fosse uno tsunami.
«No, non lo sai come ci si sente!» urlò. «Non lo sai come ci si sente a perdere i propri genitori, e non sai neanche come si sente Oikawa, in questo momento! Credete tutti di saperlo, ma la verità è che lo dite solo per far star meglio gli altri. Beh, non è così! Peggiorate solo le cose, perché voi tornerete alle vostre dannatissime e meravigliose vite, mentre c’è chi deve affrontare cose di una portata sempre più grande!»
Sapeva di stare parlando al plurale, sapeva di urlare talmente tanto forte da farsi sentire dai vicini, dai paparazzi, dalle stesse persone che stavano dentro casa. Eppure, le sue parole erano come un fiume in piena, sgorgavano veloci e lui non riusciva a controllarle.
Avvicinò di poco il viso a quello di Eiko, sconvolta da quella reazione. Era impallidita. «Lo sai cosa serve a Oikawa, in questo momento?» domandò, retoricamente, indicando la porta a vetri, oltre il salotto, fino a giungere alla cucina. «Sua madre. Non serviamo né io, né tu, né nessun altro, quello che vuole lui è riavere sua madre. E lo sa che questo non potrà succedere, per questa ragione se ne sta in cucina a preparare il tè, cercando di dare una parvenza di normalità alla sua vita. Perciò, se vuoi davvero fare qualcosa per Oikawa, allora vedi di far sparire quegli stramaledettissimi giornalisti!»
Non aveva il diritto di parlare così. Non aveva il diritto di urlare addosso ad Eiko quello che lui, per anni, aveva covato dentro di sé. Non aveva il diritto di dirle cosa avrebbe dovuto fare con Oikawa, lo conosceva da più di quattro anni, oramai.
Lui era solo il nuovo venuto che aveva avuto l’enorme sfortuna di finire in un groviglio intricato e impossibile da sciogliere.
Non aveva neanche il diritto di stare accanto a Oikawa, non nel modo in cui lui intendeva – anzi, in cui entrambi intendevano. 
«E stagli più vicino…» disse, in un flebile sussurro, come se stesse cercando di riavvolgere il filo dei suoi pensieri, dandogli una certa coerenza.
Fu in quel momento, sotto lo sguardo ancora basito della modella, che la porta a vetri si aprì, e i due interlocutori si girarono verso un Oikawa ancor più sconvolto di Eiko, gli occhi lucidi. L’aveva sentito, ovviamente. Dietro di lui, invece, c’era Kuroo, che lo fissava, livido in volto.
Si perse per un attimo a osservare quei visi, per poi concentrarsi sulle sfumature color cioccolato di Oikawa. Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma erano bellissime. Hajime credeva di starsi per perdere dentro quegli occhi, dentro quelle pozze d’acqua lucida.
Abbassò la testa, sentendosi maledettamente colpevole. Perché, proprio come quando l’aveva rifiutato, quegli occhi si erano riempiti di lacrime a causa sua. Non ricordava quando avesse cominciato a far così male il vederlo piangere.
Si fece un po’ di spazio, rientrando dentro casa e recandosi immediatamente in bagno, spruzzandosi della acqua gelata sul viso e chiedendosi che cosa diavolo gli fosse passato per la testa.






Iwa-chan sembrava essere sparito nel nulla. L’aveva seguito, bussando più di una volta alla porta del bagno, non ricevendo comunque risposta, e quando stava cominciando a preoccuparsi sul serio, Kuroo gli aveva suggerito di lasciarlo in pace e che, alla fine, sarebbe uscito da solo, senza che ci fosse bisogno che lo tirasse fuori lui. Aspettò per un po’, ma il ragazzo non si fece vedere, e stava per andare a bussare ancora una volta alla porta del bagno – sotto lo sguardo rassegnato di Kuroo – ma a bloccarlo fu proprio Eiko, che fino ad allora se n’era rimasta in silenzio, seduta in un angolo del divano. Aveva rigirato il cucchiaino nel tè per quelle che parevano delle ore, il suo manager che la fissava da capo a piedi, prima di decidersi di andare da Oikawa e chiedergli di parlare.
Il castano, ancora frastornato per la piega che aveva preso quella giornata, rimase un attimo interdetto, fissando con la coda dell’occhio il corridoio che portava alla porta del bagno, chiedendosi se Iwa-chan non fosse uscito di soppiatto e fosse sgattaiolato fuori.
Alla fine, accettò, suggerendo di andare a parlare nella sua stanza. Salire i gradini gli risultò difficile, uno sforzo quasi immane, soprattutto perché la sua mente era completamente rivolta al giovane giornalista e a quello che stava facendo. Si richiuse la porta alle spalle, notando solo adesso che aveva lasciato tutto in disordine, il letto sfatto e un paio di vestiti sparsi in giro. Erano stati Kuroo e Bokuto che gli avevano portato i vestiti adatti per il funerale, più qualche altra cosa che gli serviva, ed era una fortuna che una volta avesse dato all’ace della squadra una copia delle sue chiavi, in caso di emergenza.
Buttò un occhio alla sua scrivania, anche questa in condizioni pietose, prima di decidersi a sistemare. «Scusami…» biascicò, togliendo i vestiti da sopra il letto e tirando per bene le coperte.
La ragazza scosse il capo, i capelli adesso sciolti e le guance leggermente arrossate. Era rimasta fuori per un po’ a parlare con il suo manager, prima di rientrare, e Oikawa aveva una mezza idea su quello che si erano detti: probabilmente, aveva pianto. Probabilmente, si aspettava che Iwa-chan gli dicesse che la odiava a morte, o simili, e invece no. Gli aveva detto di stare vicino a lui. Gli aveva detto che neanche lui si meritava di stare al suo fianco.
Si fermò a metà dell’opera, come in trance, accorgendosi solo in quel momento che Eiko si era avvicinata a lui, titubante, e lo stava aiutando a sistemare le coperte. Quasi trasalì quando se la ritrovò accanto, spalla contro spalla, e la ragazza si limitò solo a sorridergli, un sorriso un po’ forzato, il rossetto leggermente sbavato. Era una cosa che facevano spesso, quando erano fidanzati: sistemare il letto e chiacchierare nel frattempo. Oikawa conservava quei momenti tra quelli più belli del loro rapporto.
Ricambiò appena il sorriso, dando un’ultima aggiustatina al letto, per poi sedervisi sopra. Stettero in silenzio per diverso tempo, Eiko con le mani intrecciate sulle gambe, e le stringeva nervosamente, mentre il setter le guardava, quasi ipnotizzato. Era la prima volta, da quando quella storia era iniziata, che aveva smesso di pensare a Iwa-chan.
«Io…» cominciò, dopo aver prodotto un respiro basso.
Fu interrotto dalla ragazza, che sollevò la testa in uno scatto veloce, gli occhi lucidi. «Ti devo delle scuse.»
Tooru ne rimase sorpreso.
No, era lui quello che doveva scusarsi. Era lui che l’aveva lasciata in tredici. Era lui che si era innamorato di un uomo, non lei, buttando al vento quattro anno di relazione. Non era lei che doveva scusarsi.
«Perché… perché ti stai scusando?» disse, confuso, aggrottando appena le sopracciglia.
«Perché – un singhiozzo – perché ti ho detto delle cose veramente orribili!» disse, asciugandosi poi il naso con il dorso della mano.
Sembrava una bambina, Oikawa non l’aveva mai vista così.
Rifletté un attimo sulle sue parole: si riferiva, quasi sicuramente, a tutta la serie di insulti che gli aveva urlato contro quando gli aveva detto che era innamorato di Iwa-chan, a tutte quelle parole cattive e offensive nei confronti non solo suoi, ma anche di tutti quanti gli omosessuali sulla faccia della Terra.
Oikawa sapeva che non l’aveva detto perché lo pensava veramente, Eiko non era una che aveva atteggiamenti omofobi. Era furiosa. In quel momento, era furibonda, e il ragazzo non le dava torto. Lui se n’era venuto fuori così, di punto in bianco, con un’affermazione di quel tipo, mentre stavano ancora lavorando sul loro rapporto. Dopo che lei gli aveva preparato la cena ed era tornata da Parigi per lui, convinta di fargli una sorpresa. Forse, Eiko ce l’aveva un po’ con se stessa, perché invece di pensare al fatto che il suo ragazzo la stava lasciando, stava pensando alla sua carriera, a cosa avrebbero detto i media e la gente sui social. Forse, si sentiva in colpa perché non era stata un brava fidanzata.
Tirò su col naso. «E… e mi sono resa conto di aver sbagliato tutto!» disse, la bocca impastata di saliva. «Dopo che ci siamo lasciati ho capito… che sarebbe successo comunque, che ci saremmo lasciati comunque! Come se…»
«Come se dovessimo stare insieme per compiacere la gente e non perché lo volevamo veramente» continuò la frase per lei, puntando poi le iridi color cioccolato in quelle piccole di Eiko.
Era così. Erano vincolati a stare insieme. Perché tutti ne gioivano, ma loro?
Ne gioivano? Potevano dire seriamente di stare con quella persona perché ne erano sinceramente innamorate? O lo dicevano solo perché la gente voleva che fosse così?
La vita di una persona che sta dietro ad uno schermo, che è seguita sui social, che è continuamente intervistata e appare su una rivista è difficile. Difficilissima. Si è sempre puntanti nel vivo, e ogni minima azione viene sempre giudicata, come se fossero sotto processo. Come se non fossero esseri umani che hanno le loro idee, ridono, si arrabbiano, si vantano di sé e si comportano da stronzi, alle volte; ma sono sempre esseri umani, come tutte le persone che le seguono.
Il fatto che Eiko e Oikawa stessero assieme, faceva sentire entrambi come in una botte di ferro, una cupola di cristallo che non poteva essere toccata: erano la coppia perfetta, quella che tutti quanti bramavano di poter avere con il proprio partner. Ma, appunto, la cupola era fatta di cristallo, e basta un nonnulla per romperla: ad esempio, il mettere il proprio essere in primo piano, fregandosene di quello che avrebbe pensato la gente.
Era questo che aveva fatto Oikawa. Aveva detto a Eiko quello che sentiva per Hajime, perché era giusto che lei lo sapesse, e aveva messo i propri desideri al primo posto, per una volta. Non c’era solo la pallavolo, per quanto fosse strano dirlo. Non era solo un’atleta. Era anche un essere umano, e come tale aveva il diritto di amare chi diavolo voleva.
Per questo, non aveva badato ai commenti negativi che gli erano stati rivolti dopo che si era scoperto della loro rottura: semplicemente, non gli importava. Aveva altro per la testa.
«Mi dispiace tanto, Tooru…» mormorò Eiko, non riuscendo più a trattenersi dal singhiozzare. 
«Ehi!» Era la prima volta che Oikawa si ritrovava a dover consolare qualcuno che stava piangendo: dopo una sconfitta, di solito, si limitava a dare qualche pacca sulla spalla ai suoi compagni, in modo da farli riprendere, anche se gli occhi lucidi venino pure a lui. La situazione, però, era diversa. Fece solo quello che gli venne più spontaneo, e avvicinò il capo di Eiko contro la sua spalla, accarezzandole poi le lunghe ciocche bionde. «Guarda che non è colpa tua.»
La ragazza singhiozzò ancora contro la sua spalla, piagnucolando, e adesso anche Tooru sentiva gli angoli degli occhi che pizzicavano. Si scostò poco dopo, posando poi i pollici lungo gli zigomi umidi di Eiko, e abbozzò un sorriso, cui la ragazza cercò di ricambiare nel migliore dei modi.
«Siamo due idioti, mh?» disse Oikawa.
«Parla per te!» E Eiko gli mollò un colpo, usando uno dei cuscini che aveva posati sul letto, e il castano fu felice di sentirla ridere. Fu felice di ridere lui stesso, perché era questo che avrebbe voluto sua madre, che non smettesse mai di farlo.
Rimasero in silenzio, Eiko che si passava le mani sulle braccia, come a riscaldarsi. Fu lei a parlare di nuovo: «Lo sai, Tooru? Ora capisco perché ti sei innamorato di lui…»
Oikawa spalancò gli occhi, e adesso la sua mente era tornata a Iwa-chan, a dove fosse, con il timore che se ne fosse andato via, lasciandolo lì. Da solo.
Non avrebbe mai pensato che, dopo quello che era successo tra loro due poco prima, Eiko potesse dire una cosa del genere. Ma adesso, era appurato che non ce l’avesse veramente con lui, e la dimostrazione l’aveva data quando non aveva detto il motivo per cui si erano lasciati.
La ragazza fece un piccolo sorriso, la testa reclinata all’indietro. «Ci tiene a te. Parecchio. Più di quanto facessi io.» Si girò verso il ragazzo, sempre più provato, senza però smettere di sorridere. «Non lasciartelo sfuggire, intesi?»
Eiko pensava che dire quelle parole avrebbe fatto male, ma non era così. Lo pensava veramente. Anche se aveva avuto quella reazione così brusca con lei, Iwaizumi teneva veramente a Oikawa, in un modo che non aveva mai visto con nessun altro al mondo. Desiderava sul serio che qualcuno tenesse a lei allo stesso modo, come se conoscesse perfettamente l’altra persona e potesse dire ciò che fosse giusto o sbagliato per lei; come se sapesse sempre e comunque come prenderla; come se non ci fossero più segreti, ma allo stesso tempo quel rapporto fosse un’avventura da scoprire ogni giorno.
Iwaizumi doveva solo capirlo da sé, ma era oramai evidente a tutti.
Il setter non riuscì a rispondere, sulle prime, poi tentò di sorridere, le labbra che tremavano. «Contaci» rispose.
Rimasero così, a guardarsi e a sorridersi a vicenda.
«Allora, Uhura, questo significa che rimaniamo amici, giusto?»
«Certo, Capitano Kirk!»






Oikawa intravide Hajime solo quando stava scendendo le scale. Lo vide arrivare dal corridoio, e il ragazzo quasi sbalzò nel vedersi arrivare due figure alle sue spalle, come se fosse un ladro che era stato appeno colto a gironzolare per la casa.
Evitò il suo sguardo, preferendo fissare il pavimento, e si scusò immediatamente con Eiko, facendo anche un piccolo inchino, nonostante la ragazza gli dicesse che non era necessario. Continuò a non guardarlo anche dopo, quando le poche persone rimaste erano tutte quante riunite nella sala da pranzo, sedute sui divani e sulle sedie. La casa sembrava essere vuota, c’era troppo silenzio, e questo faceva sì che il cervello di Oikawa non la smettesse di martellare dentro il cranio, quasi come se potesse esplodere da un momento all’altro. 
Ogni volta che alzava la testa verso Iwaizumi, quest’ultimo teneva sempre gli occhi fissi su qualcos’altro, che fosse uno dei piatti posizionati sulla credenza, o uno dei presenti attorno a lui. Mai, mai una volta in quelle poche ore che gli rivolgesse uno sguardo, e Oikawa sentiva che, adesso, tutto era tornato punto e accapo.
Non era cambiato niente.
Si era illuso che dopo quella stretta di mano, qualcosa fosse cambiato, che avesse fatto qualche punto in più, che Hajime stesse facendo un passo avanti verso di lui. Ma non era così: sarebbe passato qualche giorno, e tutto sarebbe tornato come prima.
In quel momento, però, nonostante la sua testa stesse vorticando tra realtà, ricordi, immagini di sua madre che sorrideva, contrapposte a immagini del suo viso spento e segnato dalla malattia, Oikawa si disse che avrebbe continuato a seguire i consigli di Hinata.
Non l’avrebbe pressato, anche se faceva male, anche se sentiva ancora il contatto della mano del giovane contro la sua. Era calda, caldissima, bagnata dalla pioggia e ruvida in alcuni punti. Se avesse potuto, avrebbe intrecciato le sue dita con quelle di quella mano per tutto il tempo del mondo.
Alla fine, non passò molto prima che anche gli ultimi rimasti cominciassero ad andarsene. Molti si erano offerti di restare, di fargli compagnia per cena, ma sia lui che la sua famiglia dissero che non era necessario; oltretutto, non erano neanche sicuri che avrebbero cenato, erano ancora troppo scossi.
Se ne andarono ad uno ad uno, con la promessa che si sarebbero fatti sentire per sapere come stava, e Oikawa credeva che non fosse rimasto più nessuno, finché non si vide comparire Iwa-chan sulla soglia della porta che dava sulla cucina.
Fece quasi un balzo, spaventato, e per la prima volta da quando era successa la discussione con Eiko-chan lo stava guardando. 
Lo stava guardando dritto negli occhi.
Aveva le mani nelle tasche, come al suo solito, e prese un bel respiro prima di parlare. «Volevo chiederti scusa.» Si rese conto che erano troppe le cose per cui avrebbe dovuto scusarsi, ma non era quello il momento per mettersi ad elencare tutto, né per fare discorsi di quel tipo. «Per quello che è successo prima.»
«Hajime…»
«Non avevo il diritto di parlare così, e…»
Si fermò di botto solo quando le mani di Oikawa furono sulle sue spalle. I suoi occhi si spalancarono, spostandosi dalle mani alle iridi color cioccolato del setter. Ci fu un momento, allo stesso modo di quello successo in aeroporto o sul ponte, in cui il tempo parve fermarsi, e Iwaizumi poté ammirare più da vicino il viso di Oikawa.
Era bellissimo. Non l’avrebbe detto mai ad alta voce, ma lo pensava veramente.
Un tempo avrebbe detto che quella faccia era solo da prendere a schiaffi, mentre adesso… Dio, adesso sentiva il cuore praticamente in gola, e non riusciva a non scostare lo sguardo da quei lineamenti morbidi, da quel sorriso forzato che era rivolto a lui, solo a lui, e da quei occhi che continuavano a scrutarlo. Che l’avevano sempre scrutato, e di questo se ne rese conto solo adesso.
Avevano una sfumatura particolare, anche così, anche se trasparivano tutto il dolore che quel ragazzo provava dentro. E Iwaizumi si sentì un autentico mostro, perché in parte era lui la causa di quel dolore.
Perché facciamo soffrire di più proprio ciò che vorremmo proteggere?
«È tutto okay» gli disse, facendolo sbloccare dal suo stato di trance. «Non hai detto niente di così tremendo… anzi… sei stato…»
Non riuscì a continuare, il respiro che si era fatto più affannoso, e adesso anche lui si rendeva conto di quanto fossero vicini l’uno all’altro. Si fissarono per un tempo che per loro parve infinito – e non bastava, non bastava comunque –, poi le mani di Oikawa scesero lungo le braccia di Iwaizumi, quest’ultimo che sentì una scarica elettrica percorrergli tutto il corpo.
Questa volta fu il turno del castano di abbassare lo sguardo, e dopo essersi schiarito la voce, si allontanò un attimo, raggiungendo l’attaccapanni e prendendo l’unica giacca che era rimasta.
Il giornalista, intanto, rimase immobile come uno stoccafisso, limitandosi a pronunciare un flebile: “grazie”, quando Oikawa gli porse la giacca. Aveva appena finito di mettere l’ultima manica, quando avvertì qualcosa che gli avvolgeva il collo.
La carne, improvvisamente, si intirizzì, e Hajime sentì delle goccioline di sudore freddo percorrergli velocemente la schiena; in confronto, il freddo che aveva sentito per via dei vestiti un po’ umidi non era niente.
Alzò lentamente lo sguardo, e lo vide: un sorriso genuino. Oikawa gli stava sorridendo, per davvero. Non lo faceva per mascherare il suo dolore.
Se prima aveva sentito il cuore che ostruiva il passaggio dell’ossigeno, adesso lo sentì sgonfiarsi, farsi sempre più piccolo. Perché, se il viso di Oikawa era bello, lo era di più quando era illuminato da un sorriso vero.
«La tua sciarpa» disse, indicandola. «Hai visto? Te l’ho trattata bene!»
Hajime prese una parte del tessuto, tastandolo come se non l’avesse mai visto in vita sua, ancora frastornato.
«Uhm… sì… grazie» si limitò a dire, e Oikawa semplicemente annuì.
Lo accompagnò alla porta, dove il ragazzo recuperò le sue scarpe, allacciandosele poco dopo. «Sei sicuro che non vuoi che io rimanga?» disse, non appena ebbe finito, e avrebbe subito voluto mordersi la lingua. Lui era la persona meno adatta per poter fare una richiesta del genere.
Oikawa, però, non ne parve turbato. «No, tranquillo.» Fece una piccola pausa. «Riparti domani mattina?»
«Probabilmente sì» rispose Hajime. «Tu?»
«Non so…» Si mordicchiò il labbro. «Ci sono troppe cose da fare…»
«Certo, capisco…» mormorò, oramai praticamente fuori casa. Guardò prima alle sue spalle, poi diede un’ultima occhiata a Oikawa, che come lui indossava ancora gli abiti del funerale. Prese un bel respiro. «Allora… ci riaggiorniamo.»
Il castano diede il suo consenso, ma non sapeva fino a che punto avrebbe rispettato quanto detto, e lo vide allontanarsi lungo la breve stradetta che portava verso il piccolo cancello.
Solo che non poteva sapere che qualcosa si era smosso dentro Iwaizumi, qualcosa che aveva messo in subbuglio tutto, annebbiando la sua mente e i suoi sensi. L’immagine di Oikawa che piangeva contro il suo petto, il tocco della sua mano, il sorriso sincero di poco prima… era tutto davanti ai suoi occhi, anche se l’aveva lasciato alle spalle, anche se faceva parte del passato.
Era inebriato da quel profumo che Oikawa aveva lasciato sulla sua sciarpa, il profumo del suo bagnoschiuma, e tutto quanto era andato in cortocircuito nella sua massa cerebrale.
Alla fine, senza volerlo, fece dietrofront con un abile scatto, richiamando il ragazzo poco prima che chiudesse la porta. «Tooru!»
Il castano aprì appena l’uscio, e sulle prime il giornalista non seppe che cosa dire; poi, seguì semplicemente l’istinto. «Credo di poter rimanere un altro po’ qua… Mi trovo bene in albergo. Quindi se vuoi possiamo… ripartire assieme, uh?»
Hajime non seppe né che cosa scattò in lui, né che cosa scattò in Oikawa. Seppe solo che le guance del ragazzo si rigarono quasi subito di lacrime.
Furono le ultime lacrime che versò, per quel giorno, ma furono anche le prime lacrime di gioia.




L’omone se n’era andato, e adesso il destino poteva riprendere in mano le redini del gioco, stupendosi dei passi da gigante che stavano facendo i due protagonisti principali.
Iwaizumi si stava avvicinando sempre più, e Oikawa non era da meno. Mancava veramente poco per superare la linea di confine.
E per questa ragione, il destino si chiese se fosse giusto lasciarli fare, o se dovesse metterci il suo zampino ancora una volta. Perché, per quanto tutto sembrava procedere a gonfie vele, c’erano ancora troppi nodi da dover sciogliere.
Il primo, uno di quelli che si era formato sui capelli ricciolini della sua bambola.



 
[Hold on to me
'Cause I'm a little unsteady
A little unsteady]
 


Delucidazioni:
Ma come? Hai già portato una valanga di feels con la tua precedente storia, e decidi di aggiornare così presto?
Ebbene sì, miei baldi giovani (??), ho fatto un promessa a una mia cara amica (*manda bacino a Mitsuki no Kaze*), e ho deciso di postare il capitolo oggi. Spero che per voi non sia un problema… *le lanciano pomodori*
Volevo scrivere questa scena da una vita, anche perché io ho dei problemi mentali, e ogni volta che sento Unsteady dei X Ambassadors (la canzone a fine capitolo, per intenderci), mi immagino Hajime che entra dentro la casa di Oikawa, di spalle, esattamente come nel video, AHHHHHH; E LORO DUE CHE SI ABBRACCIANO, AIUTO, NON RESPIRO!
Spero solo che sia venuta com’era nella mia testa e che vi abbia ucciso di feels quanto me mentre la scrivevo :’)
Ho preso spunto da questo sito per quanto riguarda l’ambientazione e lo svolgimento dei funerali in Giappone; per quanto riguarda la questione del tumore, ho fatto qualcher riceca, ma ho lo stesso paura di essere sfociata nell’inverosimile, non so, fatemi sapere…
Oh, ovviamente Eiko non c’entrava nulla con la storia dei paparazzi, LEI E’ PURISSIMA, AVETE CAPITO?
Semplicemente, sono venuti a saperlo, e vi assicuro che è un caso che le giornaliste sono le stesse che hanno annunciato la rottura con Oikawa; o, forse, il destino voleva solo far incazzare Hajime (o p s)
E Tooru e Eiko rimarranno amici, ve l’assicuro, e continueranno a chiamarsi Capitano Kirk e Uhura (altro personaggio di Star Trek).
Sappiate che mancano solo quattro capitoli alla fine (CHE COSA?), e da qui in poi le cose si faranno più intense ma sempre piene di feels *la bruciano viva*
Auguratevi che il prossimo aggiornamento sia presto e che lo studio non mi sopprima,
_Lady di inchiostro_

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Capitolo 13
*** XII ***


XII



~
 



[8 marzo 2017]



Era passato praticamente un mese dal funerale. Le cose, all’interno della famiglia di Oikawa, si stava stabilizzando, e suo padre aveva cominciato a vedere qualcuno per fare in modo che i sensi di colpa non lo rodessero del tutto.
Oikawa era tornato a giocare, e pareva più attivo che mai. Era l’unico modo che conosceva per svagare la mente, del resto; e poi, voleva che sua madre lo vedesse felice, ovunque ella fosse.
E in quel periodo, se da un lato soffriva per via di tutte le pratiche ancora da mettere in ordine e altre questioni che gli stringevano l’intestino in un nodo stretto, almeno sapeva che accanto a lui avrebbe avuto Iwa-chan.
Aveva mantenuto fede alla sua richiesta, erano partiti assieme da Miyagi. Iwaizumi era riuscito a farsi dare un altro paio di giorni, ed era rimasto con lui, aiutandolo anche a sistemare tutti gli oggetti che erano appartenuti a sua madre. Era ancora troppo presto per disfarsene, la ferita bruciava troppo, ma era giusto che venissero messe al loro posto, un po’ come se la donna fosse ancora in casa. Oikawa non ricordava come mai fosse venuto da lui e, di punto in bianco, avessero cominciato a ripiegare i vestiti e a parlare di lei. Hajime l’aveva lasciato fare, pensando che per lui fosse un modo per sfogarsi, e in effetti era così.
Parlare con Hajime lo faceva stare bene. In quel periodo aveva bisogno di parlare, parlare e parlare. E il fatto che Iwa-chan ci fosse, che fosse partito con lui, che venisse a trovarlo tutti i giorni, dopo gli allenamenti, per lui contava come tutto l’oro del mondo.
Quella zazzera rossa aveva ragione: alla fine, era stato Hajime ad avvicinarsi a lui, proprio quando ne aveva più bisogno. Gli aveva teso una mano proprio quando stava per affondare. Aveva abbassato la guardia durante l’ultimo set.
Durante il viaggio non successe nulla di particolare, fu sempre Tooru a parlare, e non solo di sua madre, ma anche del più e del meno, chiedendogli ogni tanto di Akane e del lavoro, e Hajime rispondeva sempre. Amava il fatto che l’ascoltasse, nonostante la maggior parte delle volte dicesse baggianate. Da quel momento, Iwaizumi si decise a non perderlo più di vista. I messaggi non bastavano, aveva capito che Oikawa aveva bisogno di un contatto reale, di vedere la persona in viso, e non di un contatto virtuale. Per questa ragione, si faceva trovare sempre fuori dal palazzetto, in attesa che il ragazzo uscisse, e percorrevano la strada a piedi, fino a raggiungere la casa del setter.
Era vero, Oikawa aveva bisogno di un contatto umano, ma non solo basato sulla comunicazione verbale. Aveva bisogno di toccarlo, di sentire il profumo di Iwa-chan dentro le narici, di abbracciarlo, di avvertire quelle mani che sfioravano i suoi capelli e che poi stringevano le sue. Era successo, durante le volte in cui stavano passeggiando, che le dita di Oikawa si fossero ritrovare a stringere quelle del giornalista, ma lui non parve ritrarsi, come avrebbe fatto poco tempo prima, né sembrò infastidito.
Che Iwa-chan avesse abbassato la guardia sino a quel punto…?
Che si fosse seriamente innamorato di lui?
Hajime questo non lo sapeva; o meglio, aveva capito che il sentimento che nutriva per Oikawa era decisamente più profondo di quello che, a suo tempo, aveva provato per Minori. E questa cosa, lo spaventava un po’.
Per quanto si sforzasse, non riusciva a chiamare quella cosa con il nome giusto. La sua mente si rifiutava, troppo radicata nelle sue convinzioni per provare a vedere le varie parti, i vari momenti vissuti con Tooru, in un tutto più completo.
Ancora, c’era la convinzione che lui fosse etero, che era stato sposato, che fosse padre, ed erano cose che non poteva accantonare e basta, avevano un suo peso. Significava cancellare per sempre le sue credenze, quelle di cui era sempre stato convinto. Anche per chi conduce una vita poco agiata o non ha avuto un’infanzia esattamente felice, ci sono delle convinzioni che si portano dentro, sulla propria persona, ed è tipico di tutti quanti gli esseri umani.
Era difficile, per Hajime, estirpare quelle convinzioni e gettarle via.
Si sentiva diviso tra la persona che aveva sempre creduto di essere, e un nuovo Hajime, quello che avrebbe voluto ricambiare il tocco delle dita di Oikawa, o che si imbarazzava a sistemare gli oggetti della madre del giovane, o che lo ascoltava parlare e basta. Delle partite, del fatto che Eiko fosse rimasta sua amica, del caffè orrendo che aveva preso quella mattina, di sua madre che non gli aveva mai fatto vedere il film di Bambi per intero… Di tutto. Dalle stupidaggini, ai ricordi, alle cose serie.
La prima volta, era stato un gesto spontaneo, gli aveva scritto un messaggio per avvertirlo e subito dopo era sceso per strada. Non aveva preso neanche la macchina, e quella volta fu il setter a dargli uno strappo a casa. Parlarono lì, dentro l’abitacolo, e per lui il tempo parve troppo breve, figurarsi per Oikawa. La seconda volta e quelle avvenire, fu una cosa sistematica, e Oikawa aveva smesso di prendere la macchina.
Hajime, ogni tanto, si riguardava allo specchio e non si riconosceva. Non si riconosceva in quello che stava facendo.
Lui non metteva mai se stesso al primo posto, faceva sempre quello che fosse giusto per sua figlia e, un tempo, per sua moglie. E soprattutto, lui non illudeva mai un amico.
Hajime stava illudendo Tomoko, facendole credere che la loro relazione potesse avere qualche speranza, mentre lui si vedeva ancora con Oikawa e faceva maturare quel sentimento senza nome – o che non poteva essere nominato. Aveva visto più spesso il setter di quanto non avesse visto lei, quasi come se quell’ora e mezza di camminata fosse diventata di vitale importanza, mentendole spudoratamente.
Tomoko ce la stava mettendo tutta, e sembrava anche parecchio felice.
E lui? Cosa stava facendo per renderla felice?
Nulla. Era più impegnato a preoccuparsi per Oikawa, per le sue condizioni, che non di quello che era giusto fare con Tomoko. Dovevano uscire fuori, doveva portala al cinema, a mangiare qualcosa assieme, e… e… ed erano tutte cose che aveva già fatto con Oikawa.
Tomoko aveva notato che c’era qualcosa che non andava in Hajime, che sembrava anche più distratto del solito, ma non accennò mai a nulla. E del resto, non sospettava minimamente che il ragazzo continuasse a vedersi con Tooru.
Tuttavia, per il momento, a lei andava bene così. Dovevano procedere per piccoli passi, continuando a parlarsi normalmente in ufficio e a vedersi quando potevano. Piccoli contatti fisici di poco conto, e ogni tanto qualche piccolo bacio.
Baci che facevano esplodere la ragazza dalla contentezza, ma che ad Hajime non lasciavano quasi nulla. E, per la prima volta, si chiese che cose avrebbe provato se avesse baciato Oikawa un’altra volta…
«Iwa-chan?» La vocetta stridula del setter lo riscosse dai suoi pensieri, accorgendosi solo allora che erano già arrivati davanti casa di Oikawa. «Tutto bene?» gli chiese.
Hajime guardò prima l’abitazione, come se fosse la prima volta che si recava lì, poi il castano e scosse la testa. «Sì, scusami. Stavo ragionando su una cosa.»
«Riguarda quello che ho detto?» Il giornalista alzò un sopracciglio, e Oikawa intuì che probabilmente si era perso un pezzo del suo discorso. «Sul fatto che ci abbiano invitato in Italia per disputare un paio di partite…»
«Avete ancora due mesi per prepararvi, se è questo il problema» disse.
Il ragazzo annuì: Iwa-chan aveva capito tutto senza bisogno che lui glielo rispiegasse, e soprattutto senza aver sentito metà della conversazione. A volte era impressionante. Loro erano impressionanti. Sembravano capirsi al volo, come se si conoscessero da una vita.
«Bene, allora ci vediamo domani alla stessa ora!» Hajime si voltò, ripercorrendo la lunga strada che avevano fatto, se non fosse che Oikawa lo richiamò poco dopo.
Si girò ancora, perplesso, il setter che si era avvicinato a lui. «Trasmettono una partita di pallavolo, stasera…» disse, titubante, e ci mise un po’ prima di formulare la successiva frase. «Ti andrebbe di… insomma, ti andrebbe di entrare?»
Gli occhi smeraldini di Iwaizumi, se fosse stato possibile, si fecero più grandi. Era a conoscenza che avrebbero trasmesso quella partita in televisione, ne aveva persino parlato con Tomoko, cedendole volentieri l’articolo e lasciando che fosse lei a parlarne. Gli aveva persino proposto di vederla assieme, ma Hajime si era rifiutato, inventando scuse su scuse che, probabilmente, la ragazza non si era neanche bevuta, ma non disse ugualmente nulla. Non si aspettava di certo che Oikawa gli chiedesse la stessa medesima cosa, d’altronde si trattava di una partita tra due università che erano sempre state rivali della sua, poteva benissimo non interessargli. Ma si parlava pur sempre di Oikawa Tooru, non si vergognava a dire che in realtà era un nerd fissato con la pallavolo. Se il mondo l’avesse conosciuto meglio, avrebbe detto tutto tranne che fosse uno stronzo di prima categoria dannatamente seducente – cioè, anche questo faceva parte della sua natura, ma non solo. Era ben altro.
Hajime stava per dirgli che per quella sera avrebbe rinunciato, magari avrebbero fatto un’altra volta – o forse mai –, decidendo di tornare a casa e riflettere su quanto era successo in quell’ultimo periodo. Era stato troppo impegnato, diviso tra due delle persone più importanti della sua vita – perché sì, anche Oikawa lo era –, e non aveva avuto modo di elaborare una strategia, di prendere una decisione, di capire che cosa avrebbe dovuto fare. Credeva che quella sera, in cui aveva detto a Tomoko che non si sarebbero visti, sarebbe stata perfetta, ma adesso…?
Mosse appena le labbra, e tutte le spiegazioni che aveva elaborato nella sua testa sparirono come la polvere con un colpo di scopa, lasciando la mente vuota. Senza che lo volesse veramente, mormorò una piccola parolina, in un flebile sussurro, tanto che entrambi credettero di aver sentito male. «Sì…»
Oikawa rimase un attimo interdetto. Era vero, aveva chiesto ad Iwa-chan di entrare in casa, ma non si aspettava una risposta affermativa, era quasi certo che gli avrebbe detto di no. Era stato puro istinto quello che l’aveva spinto a fargli quella proposta, e si rese conto che non aveva nulla da offrirgli per cena e che casa sua era nel caos più totale.
Complimenti, Tooru, bella mossa! 
«Okay…» mormorò, abbassando la testa, e cercando le chiavi di casa dentro la tasca della tuta. 
Aprì prima il portoncino, percorrendo poi il vialetto, e per la prima volta Iwaizumi ebbe modo di osservarlo meglio: c’era la macchina del ragazzo posteggiata sulla sinistra, mentre la restante parte delle casa era circondata da un giardino con un paio di alberi e cespugli fioriti. Si chiese se fosse lo stesso setter a occuparsene, o se chiamasse qualche giardiniere per farlo.
Mentre si trovava dietro le spalle del ragazzo, pensò di indietreggiare e darsela a gambe. Non doveva essere lì. Non doveva dare false speranze a Tooru. Non dovevano passare del tempo insieme in quel modo, lui lo stava facendo solo perché sapeva come ci si sentiva dopo la perdita di una persona cara, lo stava facendo perché Oikawa aveva bisogno di parlare con qualcuno. Non doveva fare questo. Non a lui, non a Tomoko…
Ma quando stava per dire al setter che si era ricordato di avere delle cose da fare a casa, e che poi avrebbe dovuto chiamare Akane, il ragazzo aveva già aperto la porta di casa, e a quel punto non ce l’aveva fatta a mentire al giovane.
Complimenti, Hajime, bella mossa!
Lo accolse il buio più totale, e quando il castano accese la luce, Hajime sbarrò appena gli occhi: non se la ricordava così incasinata, l’ultima volta splendeva più di uno specchio.
«Mi dispiace…» disse l’altro, mentre si toglieva le scarpe da ginnastica. «Di solito odio tenere le cose in disordine, ma in quest’ultimo periodo mi sono arrivati un sacco di pacchi per posta, e…»
In effetti, c’erano diversi scatoloni sparsi per il salotto, e probabilmente contenevano tutto quello che aveva lasciato nella precedente casa. Dopo essersi tolto le scarpe – e dopo che Oikawa gli aveva passato un paio di ciabatte inutilizzate, le stesse che aveva indossato l’ultima volta che era entrato lì –, si avvicinò ad uno degli scatoli, e si rese conto che non provenivano tutti da Miyagi: alcuni erano stati spediti dalle zone più disparate del Giappone, e contenevano pensierini di poco conto.
«Il mio fanclub» disse Oikawa, alle sue spalle, mentre richiudeva uno degli scatoli. «Nell’ultimo periodo mi hanno tartassato di regali e barrette di cioccolato, per farmi stare meglio.»
«Ah» esclamò Hajime, leggermente infastidito.
«Se vuoi puoi aiutarmi a magiare tutto questo cioccolato…» disse, sorridendo sotto i baffi.
Dapprima, il giornalista non rispose alla provocazione, poi si voltò verso di lui, quasi indignato. «Cosa?»
«Io non posso mangiarlo, seguo una dieta!»
«E quindi io sarei la tua pattumiera ambulante?»
Non rispose, ma la sua espressione diceva tutto, e Hajime lasciò la foto che rappresentava Oikawa con il suo fanclub ufficiale – e che forse gli aveva mandato la presidentessa –, per afferrare un cuscino lasciato lì per terra e lanciarglielo in faccia.
Il ragazzo riuscì a pararsi con le mani, e glielo rilanciò poco dopo, quando Hajime aveva già afferrato un altro cuscino e glielo stava rilanciando di rimando. Alla fine, iniziarono una piccola lotta, proprio come quella volta al parco, quando avevano cominciato a picchiarsi e Oikawa si era ritrovato sotto ad Iwaizumi.
Per un attimo, entrambi credettero che tutti i problemi che avevano, che parevano insormontabili e che li allontanavano sempre di più, non esistessero. Potevano comportarsi come due diciassettenni senza che affiorassero sensi di colpa o altro. Potevano ridere di gusto senza che nessuno li giudicasse. E se volevano, tutto questo poteva essere reale, potevano stare assieme, e Hajime si disse che forse era possibile, che forse avrebbe potuto lasciare da parte le sue preoccupazioni inutili. Che forse, ne sarebbe valsa la pena, se poteva bearsi di quella risata ogni volta che voleva.
Fu Oikawa a ruzzolare per terra, scivolando in una delle cartoline che aveva lasciato sparse sul parquet, finendo sopra ad Iwaizumi. Sulle prime, scoppiarono entrambi a ridere, talmente forte da riempiere la stanza, attraversando persino le pareti, la fronte del ragazzo premuta contro il petto del giornalista. E prima che riuscisse a fermarsi, la sua risata era scemata del tutto e le sue dita stavano percorrendo la linea dei muscoli che si intravedevano sotto la maglietta. La pelle di Iwaizumi tremò, come percossa da una scarica elettrica, e gli occhi color cioccolato di Tooru incontrarono quelli verdi di Hajime. Il respiro gli si mozzò quando il giornalista scostò la sua frangia con un movimento delicato della mano, in modo da poterlo vedere meglio in viso.
Le sue preoccupazioni urlavano da lontano, ma per una volta Hajime non voleva dargli ascolto.
Non ce la faceva più. Non ce la faceva più a vedere Oikawa in quel modo. E sapeva che si sarebbe pentito quasi subito di quello che avrebbe fatto, ma in quei pochi secondi non aveva più importanza.
Le loro bocche stavano per incontrarsi, ma si fermarono a metà strada, poiché un telefono aveva cominciato a vibrare improvvisamente. Si guardarono dritti negli occhi, per poi scostare lo sguardo immediatamente, Iwaizumi che tentò di ripescare il suo cellulare dalla tasca dei jeans, mentre Oikawa si rimetteva in piedi.
Quasi trasalì quando vide chi era il mittente della chiamata. «Akane! Scusami, stavo per chiamarti io…»
Disteso ancora per terra, piegò appena la testa all’indietro, intravedendo un Oikawa che sistemava gli altri scatoli, il viso velato di malinconia. Iwaizumi si passò una mano sul volto, mentre sua figlia aveva cominciato a parlottare della sua giornata, e si chiese se il destino non gli stesse ricordando che c’erano delle cose che doveva risolvere prima di lasciarsi andare del tutto. E, in effetti, era proprio quello che stava facendo.






La chiamata con Akane durò poco, giusto il tempo di raccontare la loro giornata – anche se Hajime non aveva molto da raccontare – e darsi la buonanotte. Aveva detto alla bambina che, per quella sera, non si sarebbero visti, e quando la sua risposta monosillabe arrivò moscia dall’altra parte del telefono, qualcosa lo attanagliò alla bocca dello stomaco, sentendosi tremendamente in colpa. Non solo per averla fatta intristire, ma anche per quello che stava per accadere un attimo prima.
Era come se quella chiamata fosse stato un campanello d’allarme. Insomma, lui stava per…
Alla fine, però, Akane lo rassicurò, dicendogli che non era arrabbiata con lui e che comunque gli voleva bene. Si sarebbero visti l’indomani. Hajime non poté fare a meno di sorridere, la tempia appoggiata al vetro della finestra. Anche Akane gli era sembrata distante negli ultimi giorni, sarà che l’anno scolastico stava per terminare, ma aveva l’impressione che sospettasse qualcosa. Non era stupida, sapeva che c’era un motivo se Tomoko si trovava quasi tutte le sere a casa sua.
Il sentirle dire che gli voleva ancora bene, che per lei era importante, il sentirla ridere, lo rendeva più sollevato, come se si fosse tolto un peso dal cuore.
Tuttavia, i suoi occhi non potevano fare a meno di spostarsi di lato, ad osservare la figura di Oikawa che, finalmente, si era deciso a sistemare quello che c’era nelle scatole.
Conclusa la chiamata, il giornalista si avvicinò, titubante, mentre il ragazzo posava le varie fotografie e premi sul tavolo, ancora indeciso su come distribuirli sull’enorme libreria laccata di bianco. Quasi trasalì quando si trovò Hajime accanto, i nervi a fior di pelle, probabilmente per via di quello che stava per succedere prima. Nessuno dei due sembrò voler toccare l’argomento, comunque, e nessuno dei due era intenzionato a guardare l’altro negli occhi.
Rimasero in silenzio per un po’, poi fu Oikawa a parlare, tenendo ugualmente la testa bassa. «Cosa ti andrebbe per cena?»
Hajime fu colto alla sprovvista. «Non so… Qualsiasi cosa va bene…»
«Non è che abbia molto in casa…»
«Ah…» Calò nuovamente il silenzio. «Cibo cinese?»
«Ottima idea!» E questa volta il castano alzò lo sguardo, incontrando gli occhi di Iwaizumi, che nonostante tutto non avevano smesso di fissarlo, sentendo il cuore salirgli in gola, per poi tornare al suo posto. «Offro io!»
L’altro alzò un sopracciglio. «Non dovrei essere io a farlo…?»
Gli occhi color cioccolato di Oikawa si posarono su quelli del giornalista, e per un attimo il respiro mancò ad entrambi.
Tooru avrebbe potuto baciarlo proprio in quel momento, senza che avesse detto o fatto alcunché, ma era come se l’aria fosse ancora satura di elettricità, come se i rimasugli di un esperimento chimico aleggiassero ancora intorno a loro.
Si impose di rimanere lucido, e stirò le labbra in un piccolo sorriso – forzato, e Hajime lo vide immediatamente. «Hai saldato il tuo debito.»
«Cosa?»
«Ma sì, mi hai offerto ben due cene, senza contare quella a casa tua!» esclamò, contando sulle punte delle dita. «Poi, hai pagato il mio biglietto del cinema per ben due volte, e l’altro ieri mi hai offerto un ghiacciolo! Penso che sì… hai ufficialmente saldato il tuo debito!»
Hajime non sapeva come sentirsi in merito a questa notizia. Tutto era iniziato per via di uno stupidissimo pranzo in uno dei locali più costosissimi e in voga di Tokyo, e adesso, dopo che erano passati diversi mesi, si ritrovavano a parlarne faccia a faccia, in estremo imbarazzo. Ne erano successe di tutte i colori, in quel periodo, e nessuno dei due avrebbe mai potuto immaginare che il loro rapporto potesse evolversi in una tale maniera.
Di certo, Tooru non pensava di potersi prendere una cotta per Hajime, come quest’ultimo non credeva di ritrovarsi a vacillare, a ricredersi sulla sua stessa persona.
In una frazione di secondo, l’immagine di Oikawa che scoppiava a ridere, seduto al tavolo, gli occhiali fasulli sul naso, gli apparve davanti, e dovette scostare lo sguardo dal volto che aveva di fronte per poter ricominciare a respirare, ingoiando fiotti di saliva.
«Beh… buono a sapersi» disse, incespicando nelle sue stesse parole, e in un’altra occasione si sarebbe dato una botta in testa.
In seguito, il setter chiamò il ristorante cinese più vicino, ordinando assieme al ragazzo – che, in ogni caso, non si era messo a fare lo schizzinoso, dicendogli che gli andava bene tutto. Avevano ancora un po’ di tempo prima che la partita iniziasse, perciò Hajime si offrì di aiutarlo a sistemare gli ultimi oggetti, e Oikawa prese la scala, in modo che potesse posizionare le fotografie dove era rimasto qualche spazio vuoto.
Fu in quel momento che, piano piano, la tensione di prima svanì di colpo. Bastò una semplice fotografia con tanto di cornice, rappresentate un Oikawa di appena quindici anni con un paio di altri ragazzi, tutti della sua età, che indicavano il numero che portavano sulla divisa del club di pallavolo. Da lì, cominciarono a parlare delle partite che avevano disputato, dei loro anni al liceo, e Oikawa non faceva altro che vantarsi dei vari premi che aveva ricevuto nella sua vita, facendo alzare gli occhi al giornalista.
Risero parecchio, ed entrambi sembrarono dimenticare quello che era avvenuto nemmeno mezz’ora prima. Si guardavano e sorridevano, quelle espressioni che dicevano tutto e non dicevano niente. Oikawa e Iwaizumi avrebbero voluto parlare, avrebbero voluto dire tutto quello che tenevano nascosto, ma non ci riuscivano; o meglio, il giornalista non ci riusciva, e il castano poteva leggere perfettamente il suo rammarico nei lineamenti del volto.
Se fosse stato per lui, gli avrebbe detto che l’amava ogni volta che bastava.
L’ultima fotografia rimasta fu Hajime a riporla. Oikawa gli aveva semplicemente detto di metterla sul cassettone che si trovava nella sua stanza da letto, mentre lui sistemava la scala al suo posto. Ebbe quasi timore a rientrare in quella stanza, quasi come se temesse di rivedersi seduto su letto e con il viso di Oikawa a pochi centimetri dal suo. Quella volta l’aveva scostato bruscamente, ma adesso non sapeva se avrebbe avuto la stessa reazione…
Scosse la testa, cercando scacciare via quel pensiero, mentre si limitava ad entrare e a posare la fotografia in un battibaleno, senza neanche guardarsi attorno. Eppure, qualcosa catturò ugualmente la sua attenzione. 
Il cassettone era pieno zeppo di fotografie, l’ultima e unica volta in cui era stato dentro quella casa: ora, invece, erano decisamente diminuite, e questo gliela diceva lunga sul fatto che, molto probabilmente, erano tutte foto scattare con Eiko. Una era rimasta, e rappresentava loro due in un parco divertimenti, ma le altre erano state sicuramente conservate; non buttate, conservate. In fondo, erano rimasti in buoni rapporti.
Il suo sguardo si spostò sulla foto che aveva appena riposto, rappresentate tutti i ragazzi della squadra di pallavolo, l’ultima fotografia scattata dopo la cerimonia del diploma. Sorridevano tutti, ma si vedeva che molti di loro avevano pianto nel frattempo, tra cui Oikawa, che ostentava un sorriso a trentadue denti. Le altre foto, invece, rappresentavano il setter in giovane età, e in molte aveva già un pallone in mano; in una era persino in compagnia della sorella, e in un’altra vi era tutta quanta la famiglia al completo. Rimaneva solo una foto, messa in bella mostra rispetto alle altre, e Hajime capì immediatamente il motivo.
Era la foto che aveva visto quella sera al notiziario, quando avevano annunciato la morte della madre di Oikawa. La foto in cui madre e figlio si stringevano in un caldo abbraccio.
Senza volerlo, prese quella foto tra le mani, passando i pollici sulla cornice in legno, un sorriso dolceamaro sulle labbra, diverso da quello che aveva Oikawa nella foto. Era luminoso, felice di sapere che sua madre era fiera di lui nonostante tutto. E lei era felice di vederlo così, sorridente.
Un genitore non vuole mai che il sorriso di un figlio si spenga a causa sua, Hajime questo lo sapeva bene. Forse era per questo che gli aveva detto di essere felice. O forse perché aveva capito che c’era qualcosa che non andava in Tooru, e quel pensiero quasi gli bloccò il respiro in gola.
Per poco non lasciò cadere la foto per terra quando sentì il rumore del campanello che squillava incessantemente. Si palesò sull’uscio, incrociando un Oikawa che correva come un forsennato verso l’ingresso. «Vado io!» urlò, aprendo poi la porta.
Iwaizumi si avvicinò poco dopo, rendendosi conto che il setter non riusciva a tenere tutto quello che gli aveva dato il fattorino e, allo stesso tempo, a pagare, dandogli una mano.
«Giusto in tempo, la partita sta per iniziare!» disse, cantilenando, dopo aver chiuso la porta alle sue spalle e aver guardato l’orologio. «Ho un po’ di birra, ti va?» chiese poi.
Il giornalista alzò le spalle. «Perché no?»







La serata stava procedendo meglio di quanto avessero sperato entrambi. L’imbarazzo per quanto successo prima sembrava essere svanito come neve al sole, ed erano troppo concentrati sullo svolgimento del match per pensare ad altro, in quel momento. Era come se fossero riusciti, per la prima volta dopo tanto tempo, a svuotare la mente, a svagarsi, a lasciare da parte le loro preoccupazioni, come se non ci fosse una cortina di ferro che li separava.
Quella cortina, per quelle poche ore, era crollata, e non erano più due uomini adulti in preda agli assilli, ai sensi di colpa e a sentimenti che non avevano mai sentito per nessuno, ma erano due giovani adolescenti, che come tutti guardavano le partite in televisione.
«Per chi tifi?» domandò a un certo punto Iwaizumi, bevendo poi un po’ di birra.
Oikawa storse il naso. «Per nessuno, mi pare ovvio. Se potessi, vorrei che perdessero entrambe le squadre!»
Il ragazzo rimase a guardarlo per un attimo, prima di riprendere a sorseggiare la sua birra. «Sei proprio uno stronzo…»
«Ho solo detto quello che penso, Iwa-chaaan ~!»
«Rimani sempre uno stronzo!»
«La smetti di trattarmi così?» E nel dirlo tirò un pugnetto sulla spalla del giornalista che, senza che lo volesse veramente, si lasciò sfuggire una piccola risata.
Credeva che non l’avrebbe mai più sentito ridere in quel modo. Anche prima, quando erano finiti entrambi per terra, credeva di stare sognando, che non appena avrebbe alzato lo sguardo tutto sarebbe improvvisamente sparito. Tuttavia, Iwa-chan era lì, sotto di lui. Iwa-chan si era messo a ridere, con lui. Iwa-chan gli aveva scostato delicatamente i capelli con il pollice, e lo guardava come non aveva fatto mai in quei pochi mesi. Iwa-chan… lo stava…
«Oikawa?» Il setter ebbe un sussulto nel vedersi davanti al muso due dita che schioccavano: Iwaizumi aveva richiamato la sua attenzione su di sé, facendo scendere il ragazzo dal mondo delle nuvole.
Sbatté un paio di volte le palpebre, per poi grattarsi la nuca. «Scusami, non ti stavo ascoltando, dicevi?»
«Ti ho chiesto cosa ne pensi della partita…» ripeté, guardandolo con aria grave.
«Oh.» Spostò lo sguardo sul televisore, fissando per un po’ le figure che si muovevano in campo, corrucciando la fronte. «Per quanto mi scocci ammetterlo, non se la stanno cavando male. Ed entrambi hanno un’ottima difesa…»
Sbuffò, mentre lo diceva, prendendo poi un sorso di birra, e Hajime rimase ad osservarlo per un po’. Aveva già visto quell’espressione concentrata diverse volte, ma era la prima volta che l’aveva così vicina. Era magnetica, persistente, sembrava quella di un predatore che studiava per bene la sua prenda prima di attaccarla, cercando di individuare il suo punto debole.
Oikawa Tooru era un setter straordinario, questo lo pensava anche prima di conoscerlo di persona. La sua personalissima opinione sul fatto che meritasse qualche scappellotto sulla testa non cambiava, ma doveva ammette che quel ragazzo ci sapeva davvero fare. Forse non era un talento naturale, forse aveva dovuto allenarsi parecchio per diventare così bravo, ma aveva un senso del giudizio che era unico al mondo. Nella maggior parte dei casi, sapeva sempre che cosa fare per il bene della squadra, e quando sbagliava qualche previsione non mancava di scusarsi con tutti.
Forse era l’umore poco felice della squadra che non riusciva a farlo brillare come avrebbe dovuto. O forse, era solo il suo umore in generale…
«Non hai mai avuto la sensazione che qualcosa mancasse nella tua vita?»
La serata, in seguito, passò nella normalità più totale, con loro che si scambiavano qualche opinione sulle azioni di gioco attuate dalle due squadre, ma nulla che li lasciò particolarmente sorpresi, l’aria della stanza pregna di frittura e dell’odore della birra. Per un attimo, Oikawa si ritrovò ad immaginare cosa sarebbe successo se scene del genere si fossero ripetute tante e tante altre volte. A cosa avrebbe provato nell’aprire la porta di casa, e trovarsi Iwa-chan che… l’aspettava…
Scosse la testa, rendendosi conto non solo di essere diventato veramente ridicolo, ma che la partita era finita proprio in quel momento. Era durata più del previsto, fino all’ultimo set, e adesso il giornalista si era messo in piedi, scrollandosi i pantaloni senza un motivo apparente.
«Va bene… Sarà il caso che io torni a casa» disse tra sé e sé, ma facendosi ugualmente sentire dal ragazzo che gli stava accanto.
Non voleva. Non voleva che Iwa-chan se ne andasse. Non voleva che la sua casa tornasse ad essere vuota e silenziosa.
Lo voleva lì, con lui. Lo voleva intorno, sempre e comunque, e non solo per qualche ora. Non bastava mai, il tempo si accorciava sempre di più. E lo sapeva che doveva essere paziente, proprio come lo era sul campo, soppesando la prossima mossa, ma quella volta si lasciò guidare dall’istinto, e senza volerlo afferrò la manica della camicia di Iwa-chan, che si voltò di scatto.
L’espressione di Oikawa era stralunata, neanche lui si era capacitato di quello che aveva fatto. Trattennero il respiro per un attimo che parve uguale a un secolo.
«Perché non rimani qui, stasera…?» gli chiese in un soffio, e non appena vide gli occhi del ragazzo farsi più grandi per lo stupore, si affrettò ad aggiungere: «Ecco, è tardi, non è il caso che tu te ne vada in giro…»
Iwaizumi rimase un attimo interdetto, non sapendo bene come prendere l’affermazione del castano, se come un gesto dovuto alla sua preoccupazione, o come una richiesta di rimanere a casa sua perché si sentiva solo. E un po’ lo capiva: da ragazzi si sogna di poter andare a vivere per i fatti propri, ma non appena si diventa adulti e i problemi cominciano ad aumentare si capisce che forse era stata solo una mera illusione. Nessuno vuole stare da solo.
Hajime credeva che andasse bene rimanere da solo, eppure nell’ultimo periodo aveva cominciato a soffrire di quell’eterna solitudine.
Da quando aveva cominciato a desiderare di avere qualcuno affianco?
Da quando aveva cominciato a pensare di poter avere Oikawa come partner?
Devo smetterla di fare certi pensieri!
Si sedette nuovamente, credendo di sentire le gambe cedere da un momento all’altro, il setter che continuava a stringere il tessuto tra le dita. 
«Posso sempre chiamare un taxi» disse.
Oikawa aprì la bocca, per poi richiuderla subito dopo, lasciando la presa e pensando a come avrebbe potuto rispondere. «Beh – cominciò – ma non sei lucido! Hai bevuto un sacco di birra!»
«Veramente sono lucidissimo, Shittykawa.»
L’altro non l’ascoltò nemmeno. «E poi lo sanno tutti che i taxisti sono dei pervertiti, guarda che ti sto salvando la vita, Iwa-chan!»
E questa da dove saltava fuori? Che cosa gli avevano fatto di male i taxisti?
Nulla. Solo che non riusciva ad inventarsi delle scuse decenti…
Il giornalista si tenne il ponte del naso tra l’indice e il pollice. «Oikawa…»
Il ragazzo in questione continuò a non starlo a sentire, afferrando il telecomando in tutta fretta e cominciando a cambiare canale. «Potremmo guardare uno di quei film scadenti che danno a quest’ora!» disse, alzando la sua voce di qualche ottava. «Che ne so, magari qualche film sui degli squali assassini, oppure qualche film di Godzilla!»
«Perché, non ti piacciono i film di Godzilla?» chiese l’altro, aggrottando le sopracciglia. 
«Non sono tra i miei preferiti» disse, facendo spallucce, per poi voltarsi verso Iwa-chan. Quell’espressione aveva qualcosa di strano. «Perché, a te sì?»
Non rispose, ma la sua faccia diceva già tutto, e Oikawa balzò sul posto, afferrando un cuscino e stringendoselo al petto. «Mi hai mentito, avevi detto che Pulp Fiction era il tuo film preferito!» esclamò, offeso.
«Alt!» replicò l’altro. «Io ti ho detto che era il film che avevo visto più spesso!»
«Questo non significa niente!» rincalzò Tooru. «Avresti dovuto dirmelo subito!»
«Non li vedo da tanti anni» disse. «Ricordo che li guardavo quando ero piccolo con mio padre e che mi piacevano.»
Certo, avrebbe dovuto pensarci. Era logico che se Hajime non gli avesse detto niente, era perché forse riportava a galla dei ricordi che facevano male, troppo male. Per lui era troppo il dover ricordare suo padre, magari seduto accanto a lui sul divano, mentre guardavano un film, come per lui era ancora troppo doloroso rivedere sua madre in foto o in un qualche filmino di famiglia.
La ricordava quando gli medicava le ferite, quando gli preparava la colazione la mattina presto, quando era scoppiata in lacrime non appena l’aveva visto giocare con la maglia della nazionale. Piccole cose che Tooru avrebbe custodito come il più grande dei suoi tesori, che comunque condivideva con le persone a lui più care.
Si dice che una persona muore veramente non appena la si dimentica. Il corpo non c’è più, ma lo spirito e il ricordo rimangono tra i viventi. Lui ci credeva veramente, ma per Hajime era diverso, era stato un trauma troppo grande per lui. Probabilmente, certe cose voleva tenersele per sé.
Oikawa si sentì un completo stupido, e avvertì il cuore stretto in una morsa. Stava per scusarsi, ma il giornalista lo precedette. «A casa di mia zia dovrebbe esserci un giocattolo di Godzilla che mi hanno regalato per Natale…»
Sulle prime, Oikawa non seppe che cosa dire, le pupille dilatate; realizzò quello che aveva detto l’altro solo in un secondo momento, e dovette tapparsi la bocca con una mano per reprimere una risata. «Un giocattolo?»
«Sì, dovrebbe essere grande più o meno così» E lasciò uno spazio vuoto tra le due mani lungo una sessantina di centimetri. 
Il setter non riuscì più a trattenersi, scoppiando a ridere, cogliendo di sorpresa il ragazzo che – per quanto la discussione potesse sembrare ridicola – stava usando un tono serio. «Mi stai prendendo in giro?» chiese l’altro, quasi indignato.
«E io che credevo di essere l’unico infantile, qui!» Si asciugò una lacrima. «Io ho delle spade laser nascoste nella cabina armadio!»
Ci fu un attimo di silenzio, poi fu Iwaizumi a parlare, alzando gli occhi al cielo. «Perché la cosa non mi stupisce?»
«E ho anche il costume del Capitano Kirk!» continuò l’altro. «Ora lo metto e te lo faccio vedere!»
«Per carità, no!»
La risata del setter si fece più forte, e il ragazzo dovette reclinare la testa all’indietro per lasciarla fuoriuscire tutta, i capelli castani che gli solleticavano la nuca.
Iwaizumi non l’aveva mai sentito ridere così. Forse era per via dei fumi dell’alcool, tuttavia non si era divertito in tale maniera neanche quella volta in discoteca.
Era un risata genuina, melodica, a tratti fastidiosa, ma che scaldò in un attimo il cuore di Hajime. Era un suono così piacevole, che avrebbe potuto ascoltarlo a ripetizione, come se fosse la più bella canzone sulla faccia della Terra.
Da quanto Oikawa non era così felice? Forse non lo era mai stato veramente.
Era soddisfatto della sua vita, dei suoi risultati, ma non aveva tutto quello che voleva. La sensazione di vuoto c’era ancora, questo Iwaizumi l’aveva oramai capito.
E non era per via della perdita che aveva subito, no: era perché gli mancava qualcuno accanto, era perché gli mancava la persona giusta.
Per un attimo, si ritrovò a riflettere su come sarebbe stata la sua vita se avesse continuato a vivere a Miyagi, se lui e Oikawa avessero continuato a parlare dopo l’incidente della palla e fossero diventati migliori amici, inseparabili. Avrebbero vissuto per anni l’uno di fianco all’altro, raccogliendo milioni di ricordi, e poi forse avrebbero preso strade diverse.
Oikawa avrebbe avuto una cotta per lui, ugualmente? Questo non poteva saperlo con certezza.
L’unica cosa che sapeva era che non poteva essere lui la persona giusta, non poteva essere lui la persona capace di far scaturire quel sorriso. 
Lui amava il sorriso di Oikawa. Lui non se lo meritava.
E mentre gli passavano davanti tutte le immagini di Tooru che sorrideva al suo indirizzo, i muscoli tesissimi, Iwaizumi sapeva che quello che avrebbe fatto di lì a breve avrebbe solo peggiorato le cose, che avrebbe fatto male a entrambi. Il suo buon senso gli urlava contro di non farlo, perché poi se ne sarebbe pentito, mentre il suo cuore… dio, quanto martellava contro la cassa toracica! Aveva la gola arsa e la bocca secca, mentre osservava il setter che smetteva di ridere, gli occhi che brillavano allo stesso modo di due gemme preziose.
Accade tutto in un battito di ciglia, Oikawa ebbe solo il tempo di chiedergli se ci fosse qualcosa che non andava, e poi le sue labbra entrarono in contatto con quelle di Iwaizumi. Chiuse immediatamente gli occhi, assaporando quel dolce pizzicore che sentiva sulla lingua e lungo la spina dorsale.
Credeva di aver cancellato il sapore delle labbra di Hajime, e invece tutto tornò improvvisamente a galla, lui che si protraeva verso il ragazzo e suggellava quel micidiale contatto. Un po’ come aveva fatto il giornalista adesso, e Oikawa credeva di star vivendo un sogno troppo bello per essere vero.
Sogno che si infranse pochi secondi dopo, poiché Hajime si staccò velocemente, e adesso aveva quegli occhi smeraldini praticamente a pochi centimetri dai suoi. E quello che vide fu solo un gran senso di panico.
Il giornalista si passò una mano sulla bocca, come se cercasse disperatamente di cancellare il ricordo di quello che era successo; l’aveva fatto anche dopo che era stato Oikawa a baciarlo, ma questa volta aveva fatto tutto lui. Oikawa non ne aveva colpa. Poteva prendersela solo con se stesso.
Si alzò in piedi, passandosi una mano tra i capelli e raggiungendo la penisola della cucina, mentre Oikawa era ancora troppo frastornato, l’indice tenuto premuto sul labbro inferiore. Spostò poi lo sguardo verso il ragazzo, trovandolo di spalle.
«No no no…» continuava a mormorare, e adesso gli occhi di Oikawa pizzicavano da morire.
Non poteva fargli questo…
Stavano ridendo e scherzando…
Perché?
«Iwa-chan…» mormorò, la voce roca, alzandosi in piedi e raggiungendolo.
«Non ti avvicinare» gli intimò, dopo essersi girato, e Oikawa poté vedere che anche i suoi occhi si erano fatti lucidi. «Ti prego…»
Represse un singhiozzo. «Perché mi respingi?» gli chiese poi, non riuscendo più a contenere le lacrime. «Ti… ti disgusta tanto l’idea di essere innamorato di me?»
«Non è questo…»
«E allora cosa, Hajime? Cosa?» Aveva alzato la voce, le lacrime che gli solcavano le guance. «Non mettere in mezzo Akane, perché lei non c’entra!»
Iwaizumi lo guardò, sentendosi tremendamente colpevole. Avrebbe dovuto dirglielo, dirgli che c’erano persone che avrebbero potuto portagli via sua figlia solo schioccando le dita, ma questo non avrebbe migliorato la situazione…
Respirava a tentoni, l’aria di quella stanza che pareva quasi rarefatta.
«Sai che cosa mi ha detto Akane quando mi ha dato questo?» Fece vedere il nastro che aveva continuato a tenere al polso, trattandolo con cura. «Di starti vicino!»
Strinse il labbro tra i denti. No, di certo non si aspettava quella rivelazione. Akane era fatta così, si preoccupava sempre per lui, per gli altri. E Hajime, in fondo, non era poi tanto diverso… Lo dimostrava solo nei modi peggiori.
Voleva fare la cosa giusta, voleva seriamente che tutti ne uscissero sereni da quella faccenda, ma aveva solo finito per incasinare le cose. La colpa era solo sua.
«Io non ce la faccio più!» continuò Oikawa, asciugandosi il naso col dorso della mano. «Ho cercato di essere paziente, ma poi tu mi guardi in quel modo…»
Abbassò il capo, scuotendolo, in preda alle lacrime e ai singhiozzi, non riuscendo a continuare la frase come avrebbe voluto.
Voleva dirgli che lo vedeva, dannazione, il modo in cui era cambiato. Lo vedeva che lo guardava diversamente, che lo trattava diversamente, che nonostante tutto lui era lì. Eppure, tutto quello che riusciva a fare in quel momento era solo piangere.
Non ce l’aveva fatta, a tenere tutto dentro.
«Hajime, io ti amo!» disse poi, tra un singhiozzo e l’altro, alzando lo sguardo verso quello sconvolto del ragazzo.
Desiderava potergli rispondere allo stesso modo. Desiderava potergli dire che anche lui provava le stesse cose, ma non poteva.
Doveva mantenere una certa immagine. Doveva farlo per Akane, altrimenti l’avrebbe persa, e anche solo l’idea di una vita senza di lei gli lasciava addosso una sensazione di puro terrore.
Perdere Oikawa o perdere Akane?
Se avesse potuto, Hajime avrebbe scelto entrambi.
Credeva di stare per ricambiare le parole di Oikawa, e invece gli uscì l’ultima frase che avrebbe voluto dire in quel momento. «Io… sto con Tomoko, adesso.»
L’intonazione della sua voce era strana, quasi come se avesse voluto dire le stesse cose, ma invece era uscito tutt’altro dalle sue labbra, Oikawa se ne accorse subito.
E questa volta niente poteva fargli credere di aver sentito male. Una coltellata in pieno petto avrebbe fatto meno male. Comunque, il suo cuore sanguinava ugualmente.
Aveva appena ammesso ad alta voce i suoi sentimenti, e Hajime li aveva calpestati. Un’altra volta.
«Ci siamo messi assieme qualche mese fa…»
Basta, basta, basta!
Spostò lo sguardo di lato, mordendosi il labbro inferiore fino a spaccarlo. «Vattene…» sibilò.
Iwaizumi non replicò, si limitò a tirare su col naso e a raccattare le sue cose. Lanciò un’ultima occhiata alla figura di Oikawa, che era rimasto di schiena, incapace di guardare il ragazzo mentre andava via. Lasciò andare un respiro dal naso, solo quando sentì il rumore della porta che sbatteva, chiudendo le palpebre.
Si asciugò velocemente col dorso della mano, compiendo poi i successivi gesti con fare meccanico: spegnere la televisione, togliere i cartoni, aprire la spazzatura, buttare gli avanzi.
Neanche si accorse di aver aperto il rubinetto del lavello, rimanendo ipnotizzato a fissare l’acqua che soccorreva. Strinse la superfice in marmo bianco tra le dita.
Stava con Tomoko. 
Hajime si era messo con Tomoko.
Certo, era un ragazza carina, dolce, gentile… La moglie perfetta…
Si rese conto di aver lanciato un bicchiere di vetro contro la parete solo in un secondo momento, e questo non fece altro che aumentare la sua rabbia e la sua frustrazione.
Strinse i suoi capelli tra le dita, lasciandosi scivolare lungo il mobile della cucina, piangendo più forte di prima. 


 



~
 



[11 marzo 2017]






Sbloccò il suo smartphone, in modo da controllare l’orario: quella sera, gli allenamenti si erano protratti fino a tardi, per cui l’idea di andare in giro per locali era sfumata tutta d’un colpo. Sbuffò sonoramente, rimettendo il telefono dentro la tasca esterna del borsone e sistemandosi la tracolla sulla spalla.
Proprio quando stava prendendo in considerazione l’idea di tornarsene a casa e, magari, chiamare Kenma per dirgli di passare da lui e vedere un film assieme, gli si parò davanti Bokuto, anche lui pronto a uscire dallo spogliatoio dove erano rimasti solo loro due. Aveva la tracolla del borsone ben stretta al petto, che si muoveva su e giù a ritmi alternati.
«Hai visto Oikawa?» gli chiese l’ex capitano della Fukurodani.
Kuroo sbatté le palpebre. Credeva che il setter fosse entrato con loro in spogliatoio e si fosse fatto la doccia come tutti gli altri, ma ora che ci pensava bene non l’aveva proprio visto. Si girò alle sue spalle, intravedendo il borsone del ragazzo posato per terra, esattamente dove l’aveva lasciato quando era arrivato.
Alzò appena le spalle. «Forse si è offerto di sistemare la palestra… Sai, per scusarsi di non essere venuto negli ultimi giorni…»
In effetti, c’era qualcosa che non andava in Oikawa. Sembrava che si fosse ripreso alla grande dalla perdita della madre, eppure era mancato per due giorni di seguito dall’allenamento, presentandosi solo quel pomeriggio, chiedendo immediatamente scusa all’allenatore per non averlo avvertito. L’uomo non se la prese troppo, del resto sapeva quale fosse la situazione familiare di Oikawa in quel momento, anche se per motivi personali non era potuto venire al funerale. Gli aveva semplicemente dato una serie di esercizi in più da fare, ma quello non sembrò ritirarsi all’idea di doversi affaticare di più.
Era stato scostante, lontano, gli aveva rivolto solo un lieve saluto. Sembrava troppo concentrato sull’allenamento, nei movimenti che doveva compiere, e né i suoi compagni né il mister l’avevano mai visto così in forma, così determinato. Era come se non avesse mai perso il ritmo. Era come se fosse improvvisamente rinato. Era come se avesse liberato la mente da tutti i pensieri malevoli che aveva avuto in quell’ultimo periodo.
Tuttavia, non sorrise. Nemmeno una volta. Neanche quando gli fecero i complimenti per un’azione ben riuscita. Era come se non gli andasse bene nulla.
Era arrabbiato. Con se stesso? Con loro? Con qualcun altro?
Bokuto, le iridi che brillavano come due topazi, si recò a passo di marcia verso la porta che conduceva al campo da gioco, e suo malgrado Kuroo fu costretto a seguirlo, roteando gli occhi verso l’alto.
«Oikawa?» lo chiamò l’ace, non appena aprì la porta, e in risposta gli arrivò il rumore di un paio di scarpe da ginnastica che stridevano e di un pallone che veniva schiacciato per terra.
I due giocatori si avvicinarono ulteriormente, e quello che videro fu Oikawa sulla linea di battuta, che si preparava a compiere uno dei suoi servizi killer. Sollevò il pallone giallo e blu verso l’alto, schiacciando poi con violenza, e la palla finì esattamente dall’altro lato, atterrando sulla linea di bordo campo. Masticò un’imprecazione, come a evidenziare il suo disappunto.
Stava per riprendere un altro pallone, prima che Bokuto lo richiamasse ancora. «Oikawa…?» Il ragazzo si girò, i capelli castani appiccicati ai lati della fronte e il fiatone. Grondava sudore ed era pallido in viso, sembrava che la spossatezza stesse per sovrastarlo, eppure lui non lo dava a vedere. «Si può sapere che cosa stai facendo?»
«Non lo vedi, Boku-chan?» disse, pungente. «Mi sto allenando con le battute!»
«Questo l’avevo capito, ma gli allenamenti sono finiti.»
«Ho chiesto al mister se potevo rimanere un altro po’» disse, ripetendo gli stessi medesi gesti di prima, e questa volta la palla finì fuori dal campo. «Ah, maledizione!»
«Oikawa, non ti sembra il caso di tornare a casa?» Questa volta fu Kuroo a parlare, serio. «Hai lavorato abbastanza per oggi…»
«No, non era abbastanza!» affermò Oikawa, e la sua voce si era fatta leggermente più alta. «Devo rimediare, ho sprecato delle ore preziose in questi giorni!»
Non stava bene. Il suo colorito era bianco come la carta anche prima, quando si era presentato davanti ai suoi compagni di squadra, in ritardo di un paio di minuti. Gli angoli degli occhi sembravano segnati da rughe profonde, sembravano scavanti, come se avesse pianto ininterrottamente. E avevano anche il sospetto che non avesse mangiato in quel periodo, come se fosse rimasto a letto per tutto il giorno.
Ed era così. Oikawa era rimasto rannicchiato sotto le coperte, toccando quel lato vuoto del letto, con la speranza di svegliarsi e di trovarci accanto Iwa-chan. Non si sarebbe alzato nemmeno dal letto se non fosse stato per Eiko, che era venuta a trovarlo e gli aveva portato gli yakitori fatti da lei, giusto per fargli mangiare qualcosa. L’aveva chiamata nel cuore della notte – e probabilmente l’aveva disturbata, aveva sentito qualcun altro mugugnare accanto a lei – in lacrime, mentre le raccontava cosa era successo con Iwaizumi.
La ragazza era subito corsa da lui e gli aveva preparato un tè caldo per farlo stare meglio, e per la prima volta Oikawa la vide girare in tuta: di solito, era sempre vestita perfettamente, anche in casa. In quei due giorni, era sempre venuta a trovarlo quando poteva, gli portava da mangiare e lo faceva uscire dal letto, almeno per farsi una doccia, ma il più delle volte il ragazzo si limitava a lavarsi e poi a tornarsene nascosto sotto le coperte, a piangere senza un freno e senza neanche toccare cibo.
Si era deciso a uscire dalla sua tana solo quella mattina, quando aveva capito che non era più tempo di piangersi addosso e che, comunque, aveva pur sempre un orgoglio. E poi, non poteva abbandonare gli allenamenti così. Non poteva abbandonare tutto solo perché Iwa-chan si era fidanzato con…
Scosse la testa, alcune gocce di sudore che ricaddero sul pavimento lucido dalle punte dei suoi capelli.
Fece un’altra battuta, e ancora una volta la palla finì fuori. Strinse i denti, facendoli strisciare tra loro.
«Tooru, è successo qualcosa?» Non erano soliti chiamarsi per nome, e questo faceva intendere quanto la situazione, sia per Kuroo che aveva parlato, sia per Bokuto, fosse seria. «C’entra la tua famiglia?»
«La mia famiglia sta benissimo!» disse, prendendo un bel respiro e tenendo lo sguardo fisso sull’altro lato del campo.
Vedeva Iwa-chan. Lo vedeva, era dall’altro lato del campo, pronto a ricevere la sua battuta. Era buffo quanto la sua mente lo stesse prendendo in giro: lo vedeva con la divisa dell’Aoba Johsai. Vedeva se stesso con la divisa che indossava al liceo. Come se non si trovasse nel presente, ma in un passato alternativo, dove lui e Iwaizumi frequentavano lo stesso club sportivo e rimanevano oltre l’orario d’allenamento, poiché il setter aveva insistito per avere qualcuno pronto a ricevere le sue battute.
E ogni volta che sbagliava, ogni volta che la palla finiva fuori, era come se nella sua mente Iwa-chan l’avesse presa.
Lo vedeva ghignare. Si stava prendendo gioco di lui.
«Riguarda Eiko?» ritentò il centrale.
«Non è successo niente, sto benissimo ragazzi!» disse, senza guardarli negli occhi, mentre afferrava un pallone dal cesto.
«Riguarda Iwaizumi?»
Le spalle del setter ebbero un sussulto, ed entrambi i compagni di squadra capirono che avevano fatto centro. Ci sarebbero dovuti arrivare subito, ma con tutti i casini che erano successi in quell’ultimo periodo, credevano che il ragazzo si fosse dato una regolata e che avesse smesso di farlo soffrire. Inoltre, non erano neanche a conoscenza del fatto che i due continuassero a vedersi, l’avevano intuito quando se l’erano visti spuntare al funerale, e il modo con cui Oikawa l’aveva abbracciato aveva fatto capire ad entrambi che quel ragazzo aveva bisogno di lui.
Che poteva provarci in tutti i modi, ma Oikawa aveva bisogno di Iwaizumi, come se fosse diventato l’unica aria che fosse in grado di respirare.
L’avevano visto fuori dal palazzetto tutte le sere per circa un mese, e il ragazzo li salutava sempre da lontano; il setter sembrava sempre così allegro quando lo vedeva. Che cosa era successo?
Tooru si girò verso i suoi compagni, gli occhi adesso lucidi. «Coraggio, ditemelo!» I due parvero frastornati. «Ditemelo: “te l’avevamo detto”. Coraggio, che cosa aspettate?»
I due si scambiarono un’occhiata, prima di tornare sul giovane, lo sguardo fiammeggiante e le mani che tremavano.
Bokuto stava per aprire bocca, ma il setter riprese subito a parlare. «Mi ha baciato» disse, lasciando i due giocatori di sale. «Mi ha baciato, e solo dopo si è degnato di dirmi che è fidanzato, dopo che io gli confessato per l’ennesima volta quello che provo per lui!»
Guardò dall’altra parte del campo, e dovette sbattere le palpebre per smettere di vederlo lì, in mezzo al campo, a braccia conserte e con un sguardo accigliato, come se lo stesse aspettando. Si morse il labbro, tenendo il pallone stretto tra le dita. Avrebbe voluto lanciarglielo contro.
«Avevate ragione!» disse, scuotendo appena la testa. «È un grandissimo pezzo di merda. Un insensibile e un egoista.» Tornò con lo sguardo rivolto al campo da gioco, e Iwa-chan era sempre lì, sempre a braccia conserte, e continuava a guardarlo. «Mi ha sempre trattato come se fossi un moccioso, e ogni scusa era buona per criticarmi! E mi ha sempre giudicato, con quel suo dannatissimo sguardo che…»
Con quel suo dannatissimo sguardo che amo.
Produsse un verso frustrato, il labbro inferiore ancora tenuto tra i denti, prima di ritentare un’ennesima battuta, e questa volta la palla passò vicino al viso di quell’Iwaizumi immaginario che aveva davanti. Non si mosse. Era impassibile, anche quando la palla finì completamente fuori.
Se qualcuno si fosse trovato seriamente su quella traiettoria, ci sarebbe rimasto secco, costatarono sia Bokuto che Kuroo.
«Senti, Oikawa – cominciò il centrale, deglutendo un grumo di saliva – capisco che ce l’hai a morte con lui, ma questo non è un buon motivo per farti il fegato marcio, ti pare?»
«Kuroo, ha ragione!» intervenne Bokuto, a sostegno del compagno. «E poi sono sicuro che troverai qualcun altro…»
Non ebbe il tempo di continuare la frase, perché il setter si era girato verso di loro, la palla stretta dalle sue lunghe dita, e avrebbe potuto romperla se avesse avuto abbastanza forza in corpo.
«Ma io non voglio nessun altro!» gridò. «IO VOGLIO LUI!»
E a quel punto, i due giovani ragazzi non seppero veramente che cosa dire.
Avevano parlato spesso delle relazioni che avevano avuto in passato, e Oikawa aveva ammesso di essere stato lasciato diverse volte, poiché non era il fidanzato perfetto come tutte pensavano. Eiko sembrava che fosse l’eccezione alla regola, ma non era così, non era lei ad essere l’eccezione alla regola: era Hajime. Un uomo.
E non perché ci fosse qualcosa di strano, ma perché Oikawa non aveva mai versato una lacrima per le fidanzate che l’avevano lasciato, in fondo se lo sentiva che non sarebbe durata con nessuna di loro; con Eiko la faccenda era più complicata, quel loro bizzarro rapporto andava bene ad entrambi e nessuno dei due sembrava lamentarsene. Ma non era amore, era solo una solida amicizia, quella tra un ragazzo e una ragazza, che forse lascia la gente perplessa ma che esiste sul serio.
Adesso, però, Oikawa si ritrovava con le guance rigate da due lacrime che erano sfuggite al suo controllo e con il naso gocciolante, mentre distoglieva lo sguardo da Kuroo, Bokuto e da quella sagoma di Hajime che era solo il frutto della sua testa.
Stava piangendo.
Oikawa Tooru si era innamorato veramente, e l’oggetto del suo desiderio l’aveva gettato via come se fosse un giocattolo vecchio.
Nessuno poteva vantare di aver visto uno degli atleti più in voga dell’intero Giappone in quelle condizioni.
Neanche un suono fu emesso in quell’enorme palestra, mentre Oikawa si asciugava il naso e gli zigomi e riprendeva con il servizio. L’immagine di Iwaizumi era svanita, poiché adesso la sua mente era popolata da diverse immagini dello stesso giovane: lui che si alzava dal tavolo al bar, lui che si mordicchiava la zip fuori dal ristorante, lui che lo bloccava per terra, lui che gli urlava contro per strada…
«Ho vissuto più con mia moglie che con te!»
Lui che rideva con la figlia, lui che si non si scostava quando stava per baciarlo in aeroporto, lui che gli metteva la sciarpa al collo, lui che gli stringeva la mano, lui… che gli diceva che era…
La palla colpì il nastro, e questa volta Oikawa si lasciò andare ad un’espressione ben più colorita. «Merda!»
Stava per girarsi e prendere un altro pallone, se non fosse che qualcuno gli afferrò il polso sinistro, costringendolo a guardarlo in faccia.
«Capitano» mormorò Kuroo.
Oikawa e Ushijima erano a due centimetri di distanza, e se il setter lo fissava con l’intento di sbranarlo, l’altro aveva mantenuto la sua solita aria composta, stringendo con forza la presa. Probabilmente, aveva assistito all’intera conversazione, decidendo di intervenire solo in quel momento.
«Wakatoshi» sibilò, e gli fece uno strano effetto il chiamarlo per nome. Da quando si conoscevano, non era mai successo. «Lasciami.»
«Sei pallido» gli disse, mentre l’altro si dimenava. «Rischi di collassare per terra.»
Il castano afferrò il polso dell’altro, nella speranza di liberarsi da quella presa che – ne era quasi certo – sarebbe stata capace di rompergli le ossa, soprattutto nelle condizioni in cui si trovava. Strinse anche lui, e se prima era stata l’adrenalina, la rabbia, a tenerlo in piedi, adesso la sentiva fluire via velocemente.
Era stanco. Troppo stanco.
Iwa-chan l’aveva privato di tutte le energie.
Perché? Perché doveva sentirsi così?
Non poteva essere come tutte le altre volte?
Cosa aveva lui di speciale?
«Lasciami!» disse, stavolta aumentando il tono di voce, e riuscì finalmente a liberare il polso dalla presa di Ushijima. Doleva, e dovette massaggiarlo diverse volte per permettere al sangue di ricominciare a circolare. Le ossa scricchiavano.
Fissò con astio il capitano della squadra da oltre la cortina di capelli che aveva davanti al viso, il fiato che si faceva mano a mano più corto. Poi, i suoi occhi ricaddero su un particolare che, in quei giorni, aveva quasi scordato di avere al polso.
Il nastro giallo e blu di Akane. Quel nastro che quella bambina gli aveva dato – o meglio, prestato –, con la speranza che un giorno si sarebbero rivisti e che lui avrebbe potuto restituirglielo. Era rimasto immacolato: qualche volta l’aveva tolto dal polso per dargli una pulita, ma lo teneva sempre allacciato.
Da quando l’aveva messo, tutti, nessuno escluso, gli avevano chiesto che cosa fosse  e perché lo portasse in quel modo, e lui aveva spiegato che era un portafortuna che gli aveva regalato una fan.
La più bella tra le sue fan, e lo pensava veramente.
Anche se Hajime continuava a usarla come scusa, lei non c’entrava nulla in quella storia. 
Sentì nuovamente il tocco di quelle braccine attorno a lui, e si pentì di non aver ricambiato l’abbraccio, quella volta in aeroporto, mentre adesso lacrime più copiose bagnavano il suo viso e il nastro in questione. Erano fredde a contatto con la sua pelle bollente.
«Stai un po’ col mio papà, magari porti fortuna anche a lui e ritorna ad essere felice!»
Cercò di non far fuoriuscire  i crescenti singhiozzi mettendo l’altra mano davanti alla bocca, e non c’era più la palestra attorno a lui, c’era solo… vuoto.
Il niente. Tutto era bianco, riempito solo dalle immagini del visino sorridente di Akane e di quello di Iwa-chan.
Aveva fallito. Non era riuscito a mantenere fede alla promessa.
Il fischio che segnava la fine della partita era arrivato ai suoi timpani da un pezzo, oramai. Aveva perso anche il secondo set. Aveva vinto Iwa-chan, dopotutto.
Sentì le ginocchia cedere, la stanchezza che prese definitivamente il sopravvento, e in un attimo si ritrovò per terra, la fronte premuta contro il pavimento e i pugni chiusi. La tenera carne dei palmi premeva contro le unghia, mentre alcuni ciuffi di capelli si erano sparsi attorno a lui.
Piangeva, in preda ai singhiozzi.
«Sono un fallito» biascicava, la bocca impastata di saliva. «Sono un fallito e un miserabile, sono… sono patetico, ecco perché Iwa-chan non…»
Non riusciva a parlare, i singhiozzi crescenti glielo impedivano. Il suo pianto si fece più forte, ed era grato che non ci fosse nessuno in quel momento e che, soprattutto, i suoi tre compagni avessero deciso di rimanere in silenzio.
Si limitarono solo a sedersi accanto a lui, le schiene appoggiate contro il suo corpo fragile e tremante. Bokuto e Kuroo erano alla sua destra, mentre Ushijima alla sua sinistra, e tutti e tre avevano i respiri pesanti.
Solo in un secondo momento avvertì la mano di Bokuto che gli carezzava la schiena; e poi, sentì quelle di Kuroo e Ushijima a reggergli il capo.
E rimasero così fino a quando il pianto di Oikawa non cominciò a scemare.






Il filo rosso aveva finito per annodarsi su stesso. Era teso come la corda di un violino, e per questa ragione rischiava di rompersi da un momento all’altro.
Il destino credeva che sarebbe stato interessante osservare i due protagonisti del gioco a due passi di distanza l’uno dall’altro, senza mai incontrarsi. Adesso, però, vedeva come stessero appassendo, come il polso su cui era stretto quel filo sanguinasse.
Poteva rimediare. Doveva rimediare.
E avrebbe usato la sua bella bambola riccioluta per farlo.



 
[I gave you all of me
My blood, my sweat, my heart, and my tears
Why don't you care, why don't you care?]


 



Delucidazioni:
Okay, potete picchiarmi. Avete tutto il diritto di farlo. Considerate che la mia beta ha detto frasi del tipo: “Io quella cosa non la leggo!” (in riferimento alla frase che dice Hajime) e “QUESTO CAPITOLO E’ IL MALE!”.
Non dovevo farlo, sto già facendo soffrire troppo Tooru, ma questa è un’altra delle tante cose che avevo in mente sin dall’inizio della storia. E lo so, Hajime è un autentico idiota, e questa volta non ha giustificanti. Per il resto, che dire, vi lascio il beneficio del dubbio su quanto accadrà nei prossimi capitoli… Perché, in fondo al mio cuore, sono una persona molto cattiva e crudele, lo ammetto. Ma se parlo troppo, poi non vi godete i capitoli finali! *la imbavagliano*
Allora, le partite in Italia di cui parla Tooru si sono svolte veramente, a maggio, e ho avuto la fortuna di beccarle in stream su YouTube, per cui ho deciso di inserirle; gli anni scolastici, in Giappone, finiscono a marzo, con uno stacco di qualche settimana, e ricominciano i primi di aprile, poi per il resto hanno anche loro le vacanze invernali ed estive (tutto qui); no, non ho alcun tipo di discriminazione contro i taxisti, mi serviva solo un espediente per impedire a Iwa-chan di andarsene subito; la madre di Tooru non ha mai fatto vedere il film di Bambi per intero al figlio, come mia madre fece con me... Immaginate lo shock quando ho scoperto cosa succedeva, non appena sono cresciuta; il giocattolo di Godzilla alto sessanta centimetri esiste davvero, l’ho trovato su Amazon, come anche le spade laser; la canzone, per questo capitolo è Questions di Camilla Cabello.
Che dire, spero che non abbiate deciso di droppare tutto dopo questo capitolo. Si parla di una bambola riccioluta alla fine, eh ;)
Ora, fuggo, prima che una folla inferocita mi assalga *vola a cavallo di una scopa*
_Lady di inchiostro_ 

l'uccellino cinguetta <3 
 

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Capitolo 14
*** XIII ***


XIII


~


 
[25 marzo 2017]




«Che ne pensi di questo?»
Osservò dall’alto in basso il vestito bianco che aveva difronte, storcendo il naso. «Ti farebbe i fianchi troppo larghi, non va bene…»
La ragazza sbuffò, facendo spostare una ciocca di capelli che era sfuggita alla lunga treccia che la madre le aveva fatto quella mattina. «Potresti essere almeno di aiuto, mamma!» disse, stizzita, e riposando il vestito assieme agli altri.
«Te l’ho detto, dovresti mettere il vestito nero, quello che tuo padre ha fatto su misura per te!»
In effetti, quel vestito sarebbe stato assolutamente perfetto per un’occasione del genere, ma quando l’aveva tirato fuori dall’armadio, quella mattina, l’aveva trovato troppo eccessivo. Come se una cena organizzata da quello che – presumibilmente – era il suo fidanzato, non fosse il pretesto perfetto per poterlo indossare.
Sua madre le aveva detto che, probabilmente, vedendola con quel vestito addosso Iwaizumi-kun avrebbe sicuramente riconsiderato la loro relazione, ma Tomoko non ne era poi tanto sicura.
Era come se Hajime la stesse evitando. Ogni volta che incrociava il suo sguardo a lavoro, cambiava direzione, non rispondeva alle sue chiamate, e quando aveva provato a chiedergli se fosse successo qualcosa, le aveva semplicemente detto che era stanco e le aveva dato un bacio tra i capelli. 
Eppure, Tomoko si accorse subito che stava mentendo. Il suo sguardo non era solo segnato dalla stanchezza, ma anche da dolore. Come se ci fosse qualcosa che, in quei giorni, non faceva altro che tormentarlo, impedendogli di dormire la notte. Come se avesse finalmente realizzato il suo desiderio e avesse deciso di far sparire il resto del mondo dalla sua vista, perché era questo quello che si meritava, di rimanere completamente solo.
Tomoko, certe volte, non lo capiva. Non capiva perché si ostinasse a farsi del male così, a soffrire così. Poi ci rifletteva un attimo, e si diceva che in fondo lei non era tanto diversa da lui.
Un’altra ragazza, al suo posto, forse non avrebbe accettato l’invito di Hajime, dopo che lui era sparito per giornate intere, o dopo che non si era fatto sentire. L’aveva chiamata, chiedendole scusa per il suo comportamento orribile e proponendole di passare assieme la serata, magari mangiando qualcosa in uno dei ristoranti che avrebbe deciso lei, pagando lui tutto. Tomoko aveva sorriso, e anche se dentro di sé non era tanto convinta del tono di voce con cui Hajime glielo stava proponendo, alla fine aveva accettato.
Da quanto tempo non passavano del tempo assieme? Troppo. 
Come quel vestito che era rimasto appeso davanti all’armadio. Era troppo.
Le bugie erano troppe. Perché lei non era stupida e sapeva che il ragazzo le mentiva ogni qualvolta dicesse che aveva altro da fare, o che era troppo stanco, e altre stronzate varie.
C’erano volte in cui Tomoko lo odiava per questo. Tuttavia, conosceva Hajime da troppo tempo, e no, non era affatto una persona meschina e doppiogiochista. Aveva sicuramente i suoi motivi. E da quando avevano iniziato quella sorta di relazione, lui non era più capace di confidarsi con lei.
Quella mattina – quando, d’impulso, aveva deciso di buttare giù dal letto sua madre, dicendole che doveva accompagnarla al centro commerciale – Tomoko si chiese se non avesse fatto male ad accettare quell’invito a cena.
Qualcosa la riscosse, una melodia allegra cantata a bocca chiusa da sua madre, mentre stava frugando tra un vestito e l’altro, un sorriso dolce che le incorniciava il viso. Sapeva che sua madre era di gusti particolarmente difficili in fatto di look, ma c’erano alcune giornate in cui era capace di svaligiare un negozio intero e comprare tutto quello che trovava sottomano.
Forse quella non era una di quelle giornate, tuttavia la donna sembrava fin troppo allegra per i suoi gusti.
Tomoko scostò lo sguardo dalla madre, tornando a guardare i vestiti. «Spara, cosa è successo con papà, ieri sera?» disse, come se stesse parlando all’abito nocciola che aveva davanti.
Non poteva vederla, ma era quasi certa che la donna non si fosse minimamente scomposta per quello che le aveva detto la figlia. «Sei abbastanza cresciuta, c’è proprio bisogno che io te lo dica? E poi, la vita sessuale mia e di tuo padre non ti riguarda, signorina
La ragazza fece una mezza risata, mettendo poi una mano sul fianco e girandosi verso la madre. «Lo hai ringraziato perché ti ha portato un gattino tutto nero, proprio come gli avevi chiesto tu mesi fa?»
Non rispose alla domanda della figlia, sollevò semplicemente lo sguardo. «Povero, l’ho lasciato solo con quella piccola creatura.» Sporse il labbro inferiore. «Ricordami che dobbiamo comprare l’occorrente per il micio… e che dobbiamo trovargli un nome!»
Tomoko alzò gli occhi al cielo. «Basta che non lo chiami con nomi strani.»
«Quello è compito di tua zia, non certo mio!»
Rise di gusto, e non avrebbe mai smesso di essere grata a sua madre per essere così: una donna che faceva sempre di tutto per fare stare bene le persone che la circondavano.
Fece un piccolo sorriso. «Ho visto un vestito carino, poco fa, vuoi che te lo faccia vedere?» disse poi, e vedendola annuire aggiunse: «Torno subito!»
Si diresse a passo di marcia verso un gruppo di abiti posti non troppo lontani dall’entrata, adocchiando subito il vestito rosso scuro che aveva visto sin da quando aveva messo piede in quel negozietto, ma che non aveva preso per paura che non fosse della sua taglia. Con uno scatto, la sua mano fu sulla gruccia del vestito, accorgendosi solo dopo che qualcun altro l’aveva afferrata proprio nello stesso momento.
Sollevò lo sguardo, dilatando subito le pupille nel vedere la persona che le stava di fianco, la pelle del volto che si era fatta più bianca del solito, sebbene quella mattina l’avesse cosparsa per bene di fondotinta.
Oikawa Tooru aveva la sua stessa medesima espressione di puro terrore stampata in faccia, e si affrettò a lasciare la presa, in modo che la ragazza potesse prendere l’abito in questione. Cosa che fece, e le sue dita tremanti non facevano altro che tastare il tessuto per via del nervosismo.
Che cosa doveva fare? Doveva parlargli? Doveva salutarlo? O poteva semplicemente ignorarlo?
Non dovette riflettere troppo sulla sua prossima mossa, poiché fu Oikawa a parlare, e Tomoko capì subito che quel sorriso era forzato. Era come se il suo viso fosse segnato da linee invisibili, come se qualcosa lo stesse consumando dall’interno.
«Tomoko-chan! Che sorpresa!» esclamò, fingendo un tono di voce allegro.
La giovane giornalista tenne comunque lo sguardo basso, in estremo imbarazzo. «Oikawa-san… Come mai da queste parti?»
Era una domanda un po’ stupida, in fondo ognuno era libero di andare dove voleva, nessuno gli vietava di entrare in un negozio di abiti esclusivamente femminili, eppure Tomoko non poteva fare a meno di sentirsi completamente a disagio. Insomma, lui era la persona che probabilmente Hajime…
«Ho accompagnato Eiko-chan, le servivano un paio di abiti» disse.
La ragazza alzò appena il capo, trovando la modella a pochi metri da loro e che li stava fissando con tanto d’occhi. Non appena i loro sguardi si incrociarono, questa abbassò subito la testa, fingendo di star cercando qualche cosa che le interessasse veramente.
Quindi questo significava che erano…
«Se te lo stessi chiedendo, no, non siamo tornati assieme» disse il setter, dando voce ai suoi pensieri. «Siamo solo rimasti in buoni rapporti.»
«Ah, mi fa piacere…» disse, tornado a scostare lo sguardo, stringendo il vestito tra le mani, non azzardandosi a toccare la gruccia.
«E tu, invece?» Tooru inclinò la testa, e finalmente la ragazza ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi, oltre quelle lenti fasulle che indossava sempre quando usciva in mezzo alla gente. «Come mai sei qui?»
«Ecco…» La ragazza prese un bel respiro, decidendo di dirgli la verità senza scendere troppo nei dettagli. «Ho un appuntamento stasera e cercavano qualcosa di decente da mettere…» Fece una mezza risata, che non fu per niente ricambiata dal castano, il sorriso falso di prima che venne sostituito da una linea piatta.
Calò il silenzio per un attimo, sostituito successivamente dalla voce incrinata di Tooru. «Hai un appuntamento con Iwaizumi… giusto?»
Tomoko alzò lo sguardo, gli occhi sbarrati. Si rese conto che aveva già visto quell’espressione da qualche parte. Era la stessa espressione che aveva visto sul viso di Iwaizumi qualche giorno prima.
Un’espressione ferita, lacerata, che doleva la gente solo stando a guardarla. E Tomoko riuscì a vederle, quelle linee invisibili che scavavano piano piano la carne del giovane atleta, come se fosse un frutto che stava marcendo piano piano fino a morire.
Hajime aveva lo stesso sguardo. Hajime stava soffrendo allo stesso identico modo. Hajime stava ancora pensando a lui. E lei era una stupida, perché avrebbe dovuto capire che, in qualche modo, l’oggetto dei turbamenti del ragazzo non poteva essere che Oikawa. La persona che amava veramente.
O forse l’aveva capito, ma aveva fatto finta di non vederlo. L’aveva capito da quando gli aveva detto che Oikawa era innamorato di lui, da quando l’aveva baciata senza un motivo preciso.
Aveva finalmente capito che cosa pensava veramente Iwaizumi Hajime.
«Bene, mi ha fatto piacere rivederti!» disse il ragazzo, gli occhi appannati per via delle lacrime che stavano per scendere lungo le sue guance. Non c’era bisogno che lei rispondesse alla sua domanda, era quasi certo che fosse così. Doveva farsene una ragione. «Credo che Eiko-chan mi stia chiamando – indicò la direzione verso cui si trovava la ragazza – divertiti stasera, Tomoko-chan, e salutami Iwaizumi!»
Il ragazzo non andò da Eiko. Semplicemente, uscì fuori dal negozio, a una velocità sostenuta, la modella che lo richiamava. E prima che lo inseguisse, rivolse uno sguardo a Tomoko, che aveva osservato la scena, sconvolta e stravolta in egual misura.
Fece un piccolo inchino verso la sua direzione, e si rese conto che non la stava giudicando, che non ce l’aveva con lei per aver fatto fuggire Tooru.
Loro non avevano alcuna colpa. Erano diventate delle pedine di un gioco troppo grande per loro, ma non per questo odiavano i due ragazzi in questione. Si sa, l’odio non porta proprio a nulla. E in quel caso, c’erano in ballo non solo i loro sentimenti, ma anche quelli due giovani.
Due giovani che, nonostante tutto, amavano con tutto il cuore, seppur non in senso romantico. E loro non erano nessuno per impedirgli di potersi amare, nessuno poteva dirgli quello che dovevano fare.
Forse c’era chi era più confuso dall’intera faccenda, ma quella era un’altra storia.
Per la prima volta da quando stava con Hajime, anzi, da quando si era presa una cotta per lui, cominciò a dubitare sulla natura dei suoi sentimenti. Perché, di certo, sul suo viso non si era mai dipinta la stessa espressione di Oikawa.
Quando anche la modella se ne andò, tornò da sua madre, strascicando il vestito per terra e camminando come se fosse uno zombie.
«Oddio, Tomoko, che succede?» disse la donna, non appena vide la figlia davanti a sé, in lacrime.
«Ho sbagliato tutto, mamma… Tutto!» disse, abbracciando la donna e cominciando a singhiozzare contro la sua spalla.





Oikawa camminava senza vedere dove stesse andando, milioni di persone che gli sfrecciavano accanto, come se fossero delle ombre colorate, o forse era lui che camminava troppo velocemente e non riusciva a vedere quei volti sorridenti che gli stavano attorno. Gli mancava l’aria, e stava cercando disperatamente di non far fuoriuscire le lacrime, ma sapeva che oramai era troppo tardi.
«Sto con Tomoko, adesso.»
La voce gli rimbombava dentro la testa, le immagini della ragazza che gli passavano velocemente davanti agli occhi, come se stesse mandando indietro un vecchio filmino di famiglia. Quel volto pulito, quella treccia perfetta e che le scendeva lungo la schiena curvilinea, quel corpo che qualsiasi uomo con un po’ di sale in zucca avrebbe agognato disperatamente. E Hajime non si era lasciato sfuggire l’occasione.
Era vero. Era tutto dannatamente vero.
Stava con lei. 
Hajime stava con Tomoko. Hajime l’aveva invitata fuori a cena.
Hajime non voleva più avere a che fare con lui. Hajime voleva cercarsi una moglie, qualcuno che avrebbe compiaciuto le aspettative della sua ex-moglie e, forse, di sua figlia. Hajime voleva al suo fianco qualcuno che non potesse causargli ulteriori problemi.
Erano la coppia perfetta, del resto, sembravano usciti da una di quelle commedie dove i due migliori amici si mettono assieme, dopo che hanno soppresso i loro sentimenti verso l’altro per anni.
Tutti li avrebbero apprezzati, tutti li avrebbero amati. Un po’ come avevano amato lui e Eiko.
Avvertì una presa sul suo polso che lo fece voltare indietro, e ci mise un po’ a focalizzare la figura della persona che aveva davanti, poiché le lacrime gli offuscavano la vista. Eiko aveva la coda completamente sfatta, un ciuffo biondo che le dondolava davanti l’occhio, il fiato corto. L’aveva lasciata da sola, senza dare alcuna spiegazione, anche se non ce ne fu veramente bisogno: la modella aveva capito da sé che quella ragazza, molto probabilmente, era la nuova fidanzata di Iwaizumi, quella di cui aveva parlato non appena era entrata nella sua vecchia casa, trovando Oikawa seduto per terra e in lacrime.
«Sta con una ragazza… Mi odia, Eiko. Mi odia!»
Aveva ripetuto quella frase una quindicina di volte, prima che lei l’abbracciasse e lo lasciasse piangere sulla sua spalla e lei non poté non commuoversi nel sentirlo soffrire in quel modo. Oikawa non aveva mai pianto in sua presenza, si era sempre comportato come il giocatore di pallavolo forte e impavido, il fidanzato che sapeva sempre come proteggere la sua donna. Ma lui non era così. Non era solo un sorriso a trentadue denti stampato sui giornali e sulle reti televisive. Lui era anche il ragazzo che aveva perso una madre, che amava i film di fantascienza e che si era innamorato di un uomo. Lui era il ragazzo che, in quel momento, stava piangendo un’altra volta, il cuore lacerato e martoriato per l’ennesima volta, come se fosse un pezzo di carne insignificante.
Lasciò la sua presa, asciugandosi il viso con la manica della felpa. «Scusami… Sto bene…» biascicò, spostando poi lo sguardo di lato.
Un’altra persona, probabilmente, gli avrebbe suggerito di lasciare perdere e di andare avanti. Che non era poi la fine del mondo, che la vita era piena di opportunità, che avrebbe sicuramente trovato la persona perfetta e che avrebbe ricambiato i suoi sentimenti. Eiko sapeva bene che, forse, erano queste le parole giuste da dire, eppure non ci riusciva. Non quando ripensava a Iwaizumi che le urlava contro dopo il funerale. Non dopo che aveva visto il modo in cui guardava Tooru.
Si dice che basti osservare il modo in cui una persona guardi un’altra per capire se quest’ultima sia innamorata. E Iwaizumi era innamorato di Oikawa, stava soltanto tergiversando, stava solo rinnegando i suoi sentimenti, ma era palese, forse persino allo stesso Oikawa.
Per questa ragione, lei non si sentiva di dire a Oikawa di dimenticarlo. Perché lui aveva già trovato la persona perfetta. Lui aveva già trovato la persona che ricambiava i suoi sentimenti. Lui aveva già trovato la persona che riempiva quel maledetto vuoto.
Si avvicinò, prendendo il viso del ragazzo tra le mani e sorridendo come se fosse una madre che consolava il suo figlioletto. «No, non stai bene…» sussurrò.
Oikawa tirò su col naso, nuove lacrime che gli solcarono le guance, segnando ulteriormente quel viso oramai spento.
Abbassò lo sguardo, singhiozzando. «Era la fidanzata di Iwa-chan…» disse, e per un attimo avvertì una fitta alla gola, come se qualcuno gli avesse tagliato la giugulare. Avrebbe fatto sicuramente meno male.
Era patetico, se ne rendeva conto. Tremava come una foglia, non si prendeva più cura di se stesso, mangiava a stento, e passava la maggior parte della giornata disteso a letto, continuando a immaginare Iwaizumi che rideva, che l’abbracciava, che gli stringeva la mano…
Era patetico, perché aveva perso importanza per qualsiasi cosa, persino per la pallavolo, lo sport che un tempo era stato il suo unico scopo di vita. Si sentiva morto dentro: un morto che era costretto a camminare tra i vivi, che era ancora costretto a nutrirsi, ad apparire in televisione, a giocare a pallavolo, sebbene desiderasse solo riposare in pace.
Oikawa Tooru era morto. Aveva subito la sconfitta peggiore che potesse mai capitargli nella vita.
Sentì le braccia di Eiko che lo circondavano, e ricambiò l’abbraccio, reprimendo i crescenti singhiozzi sulla sua spalla. Rimasero per diversi minuti in quel modo, ignorando la gente che li guardava, alcuni ragazzi che li indicarono, bisbigliando tra di loro. Probabilmente, anche con quel travestimento e con il viso stravolto, Oikawa era riconoscibile, così come Eiko.
«Senti – cominciò la ragazza, accarezzandogli la schiena come se stesse consolando un bambino –, che ne dici se vieni a pranzare da me?»
«Non vorrei essere un peso…» disse, scostandosi. «E poi lo so che Akio-san non vorrebbe avermi tra i piedi…»
Akio era il manager della modella, e stavano insieme da un mese circa. Eiko glielo confessò quando, una sera, aveva deciso di invitarlo a cenare nel suo nuovo appartamento, e Oikawa si stupì nel trovare Akio davanti ai fornelli, intento a cucinare. Aveva sempre avuto dei sospetti, quell’uomo era sempre stato fin troppo gentile e cordiale con Eiko, e non perché fosse un vero e proprio gentleman, ma perché sembrasse avere un sincero interesse verso di lei.
Interesse che, evidentemente, era ricambiato dalla stessa modella, ma cui forse non aveva badato per amore di continuare la sua relazione con Oikawa.
Eppure, adesso, il castano era sinceramente felice di vederli assieme. Stavano bene, formavano una bella coppia, anche se non avevano ancora ufficializzato la cosa: del resto, lui era più grande di dieci anni.
«Oh, tranquillo!» Eiko gli diede una pacca sulla spalla. «Akio è sempre felice di cucinare per gli altri, è la sua passione segreta, lo sai! E poi, anche lui è disposto ad aiutarti, non ce l’ha mai avuta con te, nonostante fosse innamorato di me.»
Strinse il tessuto della felpa rossa del ragazzo, un piccolo sorriso malinconico che le incurvò le labbra: Oikawa non era mai stato un tipo geloso, sapeva benissimo che lei aveva bisogno dei suoi spazi. Eppure, molto spesso passava più tempo con Akio che con Oikawa, aveva con lui una complicità che non aveva con il suo fidanzato, per quanto lui fosse un uomo molto più grande di lei. Era sempre stato al suo fianco, soffrendo ogni volta che baciava Oikawa, ma non aveva mai detto nulla, non si era mai ritirato, perché avrebbe fatto questo e altro pur di continuare a starle accanto.
E quando le aveva confessato quello che provava per lei da anni, Eiko si rese conto che forse anche lei nutriva nei suoi confronti qualcosa di assolutamente diverso dalla semplice stima e dall’affetto. Buffo: ha dovuto aspettare la sua rottura con Oikawa per rendersene finalmente conto.
«Siete entrambi troppo buoni con me…»
«Credimi… Lui sa come ci si sente…»
Tooru fece un sorriso forzato, gli occhiali che scivolavano sul suo nasino lucido. «Io non so come ringraziarti, Eiko… Dopo tutto quello che ti ho fatto, io non mi merit-» Non concluse la frase, poiché l’indice della ragazza gli bloccò le labbra.
«Pensavo fosse un capitolo chiuso, Capitano Kirk!» disse, intimandolo con quel suo sguardo severo, i capelli ancora scompigliati. «Non mi devi ringraziare di nulla, lo sai che lo faccio perché ti voglio bene!»
Oikawa avrebbe voluto replicare, ma la modella gli afferrò immediatamente il polso, trascinandolo dal lato opposto verso cui stava andando poco prima, sotto lo sguardo interrogativo di alcuni passanti. «Coraggio, ora chiamo Akio e gli dico di cucinarti gli yakitori. Ti assicuro che quelli che fa lui sono più buoni dei miei!»
Per un po’ non rispose, limitandosi a lasciarsi trascinare come se fosse un sacco vuoto. «Eiko?» disse poi.
«Sì?»
«Anche io ti voglio bene.»




Sembrava uno scherzo del destino e, in un certo senso, lo era. Il destino, quella bambina capricciosa che osservava tutto da lontano, un’entità astratta che faceva girare il mondo come meglio credeva, si divertiva come non mai a prendere in giro alcuni malcapitati, gli infedeli, coloro che con credevano.
Hajime, per la prima volta nella sua vita, stava seriamente cominciando a crederci, mentre osservava una coppietta seduta al tavolo, lo stesso tavolo dove avevano pranzato lui e Oikawa.
Quando Tomoko gli aveva detto che desiderava cenare da Seb’s, visto che sua madre parlava così bene della loro cucina, gli era quasi venuto un colpo. L’immagine di Oikawa che scoppiava a ridere gli era apparsa davanti come se fosse una luce intermittente, gli feriva gli occhi, il cuore che perdeva un paio di battiti. E dopo attimi di silenzio, la collega gli aveva chiesto se andasse bene per lui, dall’altra parte della cornetta, e lui aveva dato la sua approvazione.
Adesso, era seduto a un tavolo diverso, ma aveva la perfetta visuale di quel tavolo – il loro tavolo, gli veniva da pensare, scioccamente –, la vetrata che mostrava la città di Tokyo con i suoi giochi di luci e le macchine che sfrecciavano per le strade. Aveva cercato di scostare lo sguardo, cominciando ad analizzare il menù, ma ogni volta i suoi occhi si posavano su quella coppietta che mangiava allegramente, come se fosse una mosca attratta dal miele.
Hajime non vedeva quella coppietta. Lui vedeva se stesso e Oikawa che pranzavano, che si fissavano negli occhi, sentiva ancora dentro le orecchie la risata del castano.
«Mi stai prendendo in giro, Iwa-chan?»
«No, Shittykawa, è solo una tua impressione!»
«Smettila di chiamarmi così!»
«Solo se tu la smetti di chiamarmi col “chan”!»
«Scordatelo!»

Tornò con lo sguardo sul menù plastificato, sfogliandolo svogliatamente, la mente rivolta a tutt’altro. Non aveva mai smesso di pensare a quella sera, quando aveva ammesso di aver iniziato a frequentare Tomoko, quella che per lui era sempre stata la sua migliore amica, la persona con cui poteva confidarsi apertamente. La persona con cui, adesso, non riusciva nemmeno più a parlare, non riusciva nemmeno guardala in viso.
Si sentiva un mostro, si sentiva sbagliato.
Si sentiva morto dentro, come una radice secca e che non avrebbe mai dato frutto.
«Hajime, io ti amo!»
Se non fosse che si trovava in un luogo pubblico, probabilmente avrebbe già posato la testa sul tavolo, affranto, sconfitto. Strinse il menù tra le dita, i fogli che penetravano la carne dei palmi, lasciando dei segni rossi evidenti. Gli pizzicavano gli occhi.
Sentiva quella voce sempre, costantemente, ogni volta che apriva gli occhi la mattina, conscio che un altro giorno sarebbe cominciato. Un altro giorno senza sentire né vedere Tooru. Un altro giorno in cui avrebbe evitato Tomoko, perché lei non doveva stare con lui, perché lui le stava solo facendo del male.
In teoria, quella cena serviva per chiarire, per spiegarle che quello che aveva fatto era tremendamente sbagliato, che lei meritava di meglio.
Lei non meritava di stare con lui. Nessuno meritava di stare con lui, nemmeno Tooru.
Era vero, in fondo: chiunque gli stava accanto, finiva per morire, sia fisicamente che metaforicamente parlando.
Il respiro gli si bloccò in gola, la testa che pulsava e milioni di frasi che continuavano a rimbombargli in testa.
«Hajime, io ti amo!»
«Non hai mai capito quello che io provo per te, vero…?»
«Hai già rovinato la vita di mia figlia, non ti permetterò di rovinare anche la vita di mia nipote!»

«Hajime?» Il ragazzo alzò lo sguardo, gli occhi lucidi, e ci mise un po’ prima di realizzare che la ragazza che aveva davanti era Tomoko, un vestito di raso nero e lungo che le calzava a pennello. Aveva l’espressione preoccupata, di chi sembrasse aver visto un fantasma. E infetti, lui non era tanto diverso da un fantasma.
Si alzò in piedi, rendendosi conto che la camicia e la giacca che aveva addosso non reggevano il confronto con l’eleganza della giovane. «Ciao…» disse, faticando persino a respirare, l’ultima frase che continuava a graffiargli i timpani, la guancia sinistra che pulsava. «Stai… stai benissimo…»
«Grazie…» rispose Tomoko, inclinando la testa di lato.
Rimasero in silenzio, e solo quando Hajime si offrì di spostarle la sedia per farla accomodare, riuscirono finalmente a sedersi, la giornalista che disse all’amico di lasciar perdere, che tali formalità non erano necessarie.
«Sei già stato qui?» chiese poi la ragazza, aprendo il menù.
Iwaizumi sentì la gola che gli pizzicava, milioni di spilli che gli pungevano le corde vocali. Dovette bere un sorso d’acqua prima di parlare. «Come?»
«Volevo sapere se sei già stato qui… Mia madre è venuta qui con mio padre, ed è tornata a casa entusiasta. Te l’ho detto che ha fatto persino amicizia con i proprietari?»
«Sì, me l’hai detto…» mormorò, tenendo anche lui lo sguardo inchiodato al menù, sforzandosi di non guardare oltre le spalle della ragazza.
«Non hai risposto…»
Alzò lo sguardo, incontrando gli occhi di Tomoko, carichi di una determinazione che non le aveva mai visto, nemmeno quando aveva lavorato ad articoli che le avevano fatto guadagnare gli elogi di Oohashi-sensei. Per quanto si stesse sforzando di mantenere gli occhi puntati su quelli di Tomoko, inevitabilmente, come una calamita, si spostarono verso quel maledetto tavolo, l’immagine di Oikawa seduto davanti a lui che gli apparve davanti, assieme al suo sorriso, assieme… assieme alle lacrime che versò quella sera e…
«No, questa è la prima volta che vengo» mentì, tornando a guardare il menù.
La ragazza non disse nulla e i due rimansero in silenzio, almeno fino all’arrivo di un giovane cameriere al loro tavolo, che chiese se avessero scelto che cosa prendere. Alla fine ordinarono gli stessi piatti e, a parte qualche piccola parola, non si dissero quasi nulla.
Fu Tomoko a ravvivare la conversazione, proprio mentre stavano mangiando, il destino che intanto stringeva la sua bambola riccioluta tra le mani. «Ho visto Oikawa-san, oggi.»
La mano di Hajime, impegnata a tagliare la carne, si fermò, alzando lo sguardo fino ad allora tenuto rigorosamente basso. Si rese conto di aver cominciato a respirare in maniera irregolare, e cercò di controllarsi. «Ti ha detto qualcosa in particolare?» chiese, non prima di essersi schiarito la voce.
«Era con Eiko, stavano facendo shopping.»
«Ah.»
La sua mano andò a stringere il coltello, le nocche che divennero bianche, e Tomoko si accorse immediatamente di quel gesto. Aveva fatto centro.
Non le piaceva l’idea di dover importunare Hajime per arrivare al fondo della questione, ma era davvero l’unico modo per cacciare fuori la verità. Purtroppo, il ragazzo aveva la bruttissima abitudine di nascondere tutto quello che provava dentro una scatola, la stessa scatola dove adesso si trovavano i suoi ricordi d’infanzia. Solo che questa era immaginaria ed era anche ben sigillata, spesso impossibile da aprire.
Tomoko sapeva che Hajime si era sempre sentito un inetto, qualcuno che doveva essere eliminato fin dal principio. Tomoko sapeva che lui si sentiva in colpa per la morte dei suoi genitori, anche se non c’entrava nulla. Tomoko sapeva che ogni sua azione, per lui, era uno sbaglio.
Lei non era tanto diversa da lui, anche lei si sentiva sbagliata, un’inetta, anche se i suoi genitori erano ancora vivi e non la smettevano mai di infonderle fiducia.
Si sentiva sempre di troppo, sempre quella premiata non perché lo meritasse veramente, ma perché sua madre era una donna di fama.
Hajime era stato il primo a trattarla per quello che era, non come la figlia di una famosa mangaka, e forse era questo che le era piaciuto di lui. Ma non l’amava.
Quello non era amore. Dopo una lunga chiacchierata con sua madre, se n’era finalmente resa conto.
«Sa di noi due…» disse, osservando attentamente i movimenti di Iwaizumi.
Le nocche erano ancora bianche, l’argento poteva quasi fondersi con la carne. «Gliel’ho detto io» ammise.
Per un po’ nessuno disse niente, poi Tomoko tornò nuovamente alla carica, una domanda che gli pizzicava la lingua da quando si era seduta a quel tavolo. «È successo qualcosa tra voi due?»
Iwaizumi, sulle prime, non sapeva come rispondere, avvertendo nuovamente le labbra di Tooru contro le sue. Che… che sapore avevano quelle labbra? Perché l’aveva dimenticato, perché adesso lo ricercava così disperatamente?
«Ehi, Hajime, non preoccuparti! Vedrai che sarai un ottimo padre!»
La voce di Minori gli tornò improvvisamente in mente, e il panico cominciò a montargli dentro. Era come se l’universo, il mondo intero, il destino stessero cercando di dirgli che quello che sentiva dentro di sé non avrebbe arrecato alcun danno al suo ruolo di padre; che quello che sentiva non era sbagliato, era soltanto umano, poco importava di che sesso fosse la persona che amava.
Eppure, lui continuava a dirsi che no, non meritava di provare quel sentimento. Doveva ripeterselo continuamente, come una mantra.
Io non amo Oikawa Tooru.
Io non amo Oikawa.
Io non…
Io…

«No, perché?» disse, ostentando un mezzo sorriso fasullo.
Tomoko lo squadrò con aria grave, le sopracciglia contratte, sbattendo poi le posate sul piatto di porcellana e incrociando le braccia. «Stai mentendo» affermò.
«Cosa?»
«Non fare il finto tonto, si vede benissimo che stai mentendo!»
«Tomoko, ti sto dicendo la verità, tra me e lui non è successo niente. Non ci vediamo dal… giorno del funerale, ecco!» Forse, se l’avesse detto con più convinzione, ci avrebbe creduto persino lui stesso.
La ragazza rimase zitta, le braccia ancora incrociate, un sorriso triste che fece capolino sulle sue labbra. «Hai il suo stesso sguardo…» mormorò, e questo bastò per far congelare Hajime sul posto, come se qualcuno gli avesse infilato una stalattite di ghiaccio in gola, impedendogli di respirare.
Aveva gli occhi sbarrati e temeva di poter rigettare quello che aveva appena mangiato da un momento all’altro. Stava male, questo era evidente anche a lui, il colore della sua pelle non era più lo stesso, soffriva ogni qualvolta dovesse immettere del cibo nel suo corpo, e da quando il suo letto era diventato così freddo e vuoto?
Tuttavia, era così che le cose dovevano andare, rimaneva in vita e sorrideva solo perché c’era Akane, ma lui non meritava nemmeno l’amore di sua figlia.
Lui non meritava niente, nessun desiderio gli era concesso.
«Hai già rovinato la vita di mia figlia, non ti permetterò di rovinare anche la vita di mia nipote!»
«Io non ho mai avuto quello sguardo» disse Tomoko, facendolo tornare con i piedi per terra. «Neanche quando sono stata male dopo che ti ho confessato che tu mi piacevi.»
Passò il dito sul bordo in cristallo del bicchiere, ora colmo di vino, pensierosa. «Ho usato di proposito il passato» continuò. «Io non sono mai stata veramente innamorata di te, Hajime. Nessuno mi ha mai trattata come hai fatto tu, sei sempre stato gentile, non ti importa niente di quale professione faccia mia madre, tu mi parli perché… ti piace passare del tempo con me, perché ti piace la mia persona.»
Si rese conto di star cominciando a singhiozzare, le lacrime che le inumidivano gli angoli degli occhi, mentre Iwaizumi era boccheggiante, incapace di fare alcunché.
«Nessuno, ripeto, mi ha mai fatto sentire… accettata. Tu sei stato il primo, e forse è per questo che pensavo che tu fossi l’uomo giusto, che mi ero sbagliata quando pensavo che sarei rimasta sola tutta la vita. » S’interruppe, le mani e la voce che le tremavano. «Ma non sei tu, Hajime. Non voglio stare affianco di uomo che… non mi ama…»
«Tomoko…» azzardò l’altro.
Fu nuovamente interrotto. «Non ce l’ho con te, lo so che tu mi vuoi bene, e anche io te ne voglio. Ma questo – e indicò entrambi – non è amore.»
Le labbra di Iwaizumi tremavano, gli occhi lucidi, il respiro corto e la mente che cercava di registrare quello che aveva appena detto la ragazza, la sua migliore amica; quella che sarebbe stata una moglie perfetta, ma che non voleva sul serio accanto. Non in quel modo, non con un rapporto forzato.
«Quindi la chiudiamo qui?» disse, dopo aver inghiottito fiotti di saliva.
«Hajime.» La ragazza si alzò in piedi, posandogli una mano sulla spalla. «Tu ami Oikawa. Non so per quale ragione tu non voglia ammetterlo, ma è così.»
Iwaizumi doveva prima imparare ad accettare se stesso, le sue azioni, le sue scelte, e forse avrebbe finalmente accettato quello che provava per Oikawa. Sperava dal più profondo del suo cuore che ci riuscisse presto, perché il tempo non si può fermare, e Oikawa non poteva aspettarlo in eterno, non era una principessa da salvare in una favola per bambini.
Iwaizumi doveva imparare a cancellare per sempre quella voce viscida e malevola che gli faceva il lavaggio del cervello e che lo convinceva che, sì, lui non doveva venire al mondo.
«Va da lui…» gli disse, prima di avviarsi verso l’uscita del ristorante.
Il giornalista rimase un attimo interdetto, seguendo il suo profilo con le iridi smeraldine spalancate, passandosi poi una mano sulla bocca, come a cacciare dentro l’ossigeno necessario.
«Tomoko!» urlò poi, alzandosi dal tavolo in tutta fretta e uscendo fuori, il vento che quasi gli graffiò il viso.
Si guardò intorno, alla ricerca della sua figura, ma sembrava essersi volatilizzata nel nulla. Rimase fuori per una decina di minuti, due lacrime che sfuggirono al suo controllo; poi, rientrò e pagò il conto.




Le strade erano stranamente semi deserte, forse perché quella zona non era di certo una delle più frequentare di Tokyo. Produsse uno sbuffo dal naso, le spalle curve e le mani infilate in tasca. «Bokuto, sei proprio sicuro che non ci siamo persi?» disse l’ex capitano della Nekoma.
Il ragazzo chiamato in causa protestò, puntando i piedi come se fosse un bambino che chiedeva le caramelle alla madre. «Ti ho detto che si trova da queste parti, abbi un po’ di fiducia!»
Kuroo sbuffò nuovamente. Stavano vagando da un mezz’ora circa, alla ricerca di un locale che aveva aperto da poco e che, a detta di Bokuto, era uno dei migliori in città. C’era stato con i suoi vecchi compagni di liceo la scorsa settimana, solo che adesso aveva completamente dimenticato dove si trovasse di preciso; e pur di non ammettere che aveva un pessimo senso dell’orientamento, aveva continuato a camminare, tranquillizzando Kuroo sul fatto che sarebbero arrivati a breve.
«E va bene, tu continua pure a cercare, io intanto chiamo Akaashi per farmi dire dove si trova!»
Bokuto si bloccò di colpo, girandosi verso l’amico – che intanto aveva composto il numero – con lo stessa espressione di un ladro che era stato colto in flagrante. Gli sì gettò addosso nel vano tentativo di sfilargli il telefono dalle mani.
«Non c’è affatto bisogno di disturbare Akaashi!» protestò. «So benissimo dove si trova!»
«No, non lo sai, razza di idiota! E togliti di dosso!»
Continuarono a lottare allo stesso modo di due animali che si contendevano lo stesso cibo per diversi minuti, alcune persone che gli passarono accanto e che li guardarono scioccanti – visto che, tra le altre cose, avevano ancora la divisa addosso, il logo della Nazionale stampato sopra. L’idea era quella di andare a mangiare e a bere qualcosa, giusto per svagarsi un po’, per poi tornare a casa, ma erano usciti dall’allenamento da circa un’ora e non avevano ancora combinato nulla.
Alla fine, Bokuto riuscì a togliergli l’aggeggio dalle mani, anche se quest’ultimo rovinò per terra, a una dovuta distanza da loro. Kuroo gli lanciò uno sguardo di fuoco, chiaro segno che l’avrebbe strozzato di lì a breve, se non fosse che lo smartphone era caduto proprio ai piedi di qualcuno.
Entrambi i giocatori alzarono lo sguardo, rimanendo di sale, così come la persona che stava dinanzi a loro: Iwaizumi li stava guardano con gli occhi sbarrati, il cellulare di Kuroo in una mano.
Si rese conto solo in quel momento di aver camminato per miglia e miglia, senza guardare dove stesse andando veramente, per poi ritrovarsi a percorre la strada che faceva di solito per andare a trovare Tooru al palazzetto, la mente che ancora rimandava l’immagine di Tomoko che usciva dal ristorante.
«Va da lui…»
Abbassò lo sguardo, avvicinandosi ai due ragazzi e consegnando il telefono al proprietario. L’intento era quello di far finta che non fosse successo nulla, continuando a camminare per la sua strada; il destino, però, aveva altri piani per lui. La bambola riccioluta aveva fatto il suo dovere, adesso toccava a lui fare il suo. E quell’incontro fortunato era proprio il momento perfetto.
Hajime si sentì tirare per la giacca e fu costretto a voltarsi, trovandosi davanti il viso di Kuroo, un’espressione tra il furioso e l’indignato. Dal canto suo, Hajime rimase impassibile, troppi pensieri che gli vorticavano in testa, troppi tumulti interiori che mandavano in subbuglio il suo stomaco e le sue viscere, la cena che quasi gli risaliva in gola.
«Hai bisogno di qualcosa, Kuroo?» chiese, e si stupì del suo tono di voce, aveva lo stesso effetto dell’acido sulla carne.
Il centrale fece una risata sprezzante. «Che faccia tosta!» esclamò. «Pensavi seriamente che non ti avrei fermato, dopo quello che hai fatto?»
Il giornalista si liberò dalla presa, guardando il ragazzo dall’alto in basso. L’aveva sempre fatto, subito prima di una discussione o di una rissa con i suoi compagni. Era sempre stato un bambino un po’ irruento, specie dopo quello che gli era successo, ma col tempo aveva finito per calmarsi, soprattutto perché non voleva arrecare ulteriori dispiaceri a sua zia. Quella sua natura, però, non se n’era mai andata veramente, e Kuroo lo stava guardando come avevano sempre fatto gli altri: con disprezzo.
«Io non ho fatto assolutamente nulla. E ora, se vuoi scusarmi…» E nel dirlo, fece nuovamente dietrofront; questa volta, però, fu spostato di peso e sbattuto contro la saracinesca di quello che probabilmente era un negozio di alimentari.
Si aspettava di vedere nuovamente il viso di Kuroo, ma invece vide solo gli occhi gialli e penetranti di Bokuto, il volto livido e quasi rabbioso. E non era l’unico ad essere rimasto scioccato dal gesto compiuto dall’ace, anche Kuroo guardava la scena con gli occhi spalancati.
«Non hai fatto nulla?» urlò. «Con che coraggio dici una cosa del genere? Non te ne frega proprio un cazzo di Oikawa?»
Un brivido percosse tutta la spina dorsale di Hajime, una vocina nella sua testa che gli diceva che no, a lui importava. Che avrebbe voluto sentirlo ridere per il resto della sua vita. Che avrebbe voluto scacciare ogni male che lo affliggeva. Che voleva esserci ogni volta che avrebbe pianto.
Che voleva baciarlo ancora una volta.
E poi c’era quella voce graffiante, viscida, crudele, che gli perforava i timpani e che gli diceva che era colpevole, che Oikawa soffriva per colpa sua, che non meritava di provare per lui qualcosa di così grande.
Il rimbombo di uno schiaffo gli risuonò ancora in testa, come se fosse il fischio di una mina, e si ritrovò catapultato a tre anni prima.
«Hai già rovinato la vita di mia figlia, non ti permetterò di rovinare anche la vita di mia nipote!»
Hajime avrebbe voluto chiudere gli occhi e lasciarsi andare contro quella parete di metallo, ma non poteva, non poteva farsi vedere debole davanti agli amici di Oikawa. Doveva fargli capire che quella relazione assurda che aveva con quel ragazzo era assolutamente finita, che non ci sarebbe stato più nulla, che l’aveva fatto per il suo bene. Che non era innamorato di lui.
«Sì» disse, e sentì una fitta lancinante all’altezza del petto. «Non me frega un cazzo. Ora posso andare?»
Era un pessimo bugiardo, lo sapeva. Anche se per anni aveva tenuto dentro un segreto troppo grande per lui, pur di non rovinare la felicità di Akane e Minori. E ancora si sentiva colpevole, perché se lui fosse morto in quel dannato incidente, tutto questo non sarebbe successo. Se lui fosse andato con i suoi genitori, tutto questo non sarebbe mai successo. Tutti sarebbero stati meglio senza di lui.
Oikawa sarebbe stato meglio senza di lui.
Senza volerlo, una lacrima sfuggì al suo controllo, ma continuò a tenere gli occhi puntati su quelli di Bokuto, il respiro pesante.
«Sei un pessimo bugiardo» gli disse il ragazzo, piano, allentando la presa che, fino ad allora, aveva tenuto ben salda sulla collottola della camicia bianca.
Iwaizumi riuscì a liberarsi anche questa volta, asciugandosi velocemente il volto. I due ragazzi non lo guardavano più con odio, bensì con una grande, grandissima tristezza. Non provavano pena per lui; solo, si sentivano catapultati in uno strano déjà-vu, come se quella scena l’avessero già vissuta, ma il ragazzo aveva i capelli castani ed era il loro compagno d’avventure da un paio di anni, oramai.
«Si può sapere che cosa volete da me?» sbottò poi Hajime, tirando su col naso.
Fu Kuroo a parlare. «Vogliamo sapere perché hai baciato Oikawa…»
«Non lo so, okay? Non lo so perché l’ho fatto! È una colpa questa?»
Altre lacrime continuarono a solcargli il viso, il tono di voce che si fece sempre più alto, infischiandosene della gente che stava a guardarlo, che fosse da una finestra o per strada.
«Perché non lo ammetti?» disse poi Bokuto, una voce velata di malinconia che lasciò perplessi i due giovani uomini.
«Che cosa?»
«Quello che provi per lui…»
Il respiro gli morì in gola. Un’altra, l’ennesima dannatissima persona che gli diceva di ammettere ad alta voce i suoi sentimenti. La vocina di prima, proveniente da una nicchia nascosta nel suo cuore, continuava a urlare e a sbraitare, puntando i piedi e facendo aumentare i battiti del suo cuore. Ancora quel fischio, ancora il rumore di uno schiaffo che risuonava in una stanza semi buia, ancora quegli occhi che lo fissavano, lo giudicavano. Adesso, però, tutto era confuso, ovattato, coperto dal rumore del suo cuore che batteva, dalle immagini di Oikawa che gli sorrideva, che inclinava al testa di lato, che l’abbracciava al funerale. Chiuse le dita a pugno, e le sentiva ancora, le dita di Oikawa che stringevano le sue.
Poteva avere davvero quello che voleva? Poteva concederselo senza provare costantemente dei sensi di colpa verso le persone a lui care?
Poteva davvero concedersi di amare?
Stavolta, non riuscì a non abbassare le palpebre e prese un respiro profondo. «Ti ho già detto che di lui non me ne frega nulla…» provò a dire, ma gli tremava la voce.
«E allora perché gli avresti detto di continuare a vedervi dopo che ti ha baciato?» incalzò Kuroo.
«Perché era un ottimo passatempo, okay? E adesso, coraggio, picchiatemi pure se volete, tanto lo so che morite dalla voglia di farlo!» Allargò le braccia, come se si aspettasse di ricevere seriamente un pugno da uno dei due ragazzi, ma questo non arrivò mai.
Era vero, all’inizio erano furiosi con lui e l’avrebbero volentieri preso a calci, ma adesso che lo guardavano meglio si resero conto delle condizioni in cui si trovava: erano le stesse condizioni in cui riversava Oikawa dopo che l’avevano consolato, in palestra. Stavano entrambi male da troppo tempo, entrambi senza saperlo, entrambi convinti che l’altro stesse andando avanti. Erano due sciocchi.
C’erano delle ragioni per cui Iwaizumi si stava comportando così, Bokuto ne era sempre stato convinto, e adesso anche Kuroo la pensava come lui. Tuttavia, non voleva rendere partecipi gli altri del suo dolore, per quanto fosse evidente all’esterno.
Se era vero, come diceva, che Oikawa era stato solo un passatempo piacevole, allora non si sarebbe ridotto in quel modo.
«Continui a mentire, Hajime…» disse l’ace, ed era una piccola ammonizione detta con tutta la gentilezza possibile.
«Cazzo, ma lo volete capire o no che io sto dicendo la verità?»
I suoi polmoni cercavano aria, si sentiva come un gatto intrappolato tra quattro piccole mura, e tentava di risalire con le unghie che graffiavano le pareti rocciose. Sarebbe esploso di lì a breve, la vocina che si faceva sempre più persistente, sempre più forte, e adesso quella voce crudele non esisteva più, niente più mantra, niente più sensi di colpa, solo il desiderio di vedere Oikawa. Di abbracciarlo. Di baciarlo ancora una volta e di chiedergli scusa.
Di dirgli che… che era…
«Ti costa così tanto dirlo ad alta voce?» Questa volta Bokuto alzò la voce, avvicinandosi sempre di più.
«Che cosa? Dire che cosa?» urlò Iwaizumi, il respiro che scemava sempre di più.
«Il motivo per cui hai baciato Oikawa. Ti costa così tanto ammetterlo?»
«Io non devo ammettere niente!» insistette. «E sono stanco di questa buffonata!»
Si allontanò da quell’interrogatorio che lo stava opprimendo, lo stava schiacciando, stava facendo uscire quella vocina che lo importunava da mesi, oramai, e i due non lo seguirono come lui si aspettava. Semplicemente, Bokuto gli urlò contro, mentre lui era girato di spalle e camminava a passo svelto, allontanandosi sempre di più. «Dillo, dannazione, non scappare come un codardo!»
In quel momento, avvenne l’impensabile, quello che Hajime non si sarebbe mai aspettato, non mentre stava facendo di tutto per fuggire, ancora una volta. Si voltò, e le sue parole uscirono senza che lui lo volesse, la vocina di prima che prese definitivamente il controllo della sua persona, della sua mente, dei suoi pensieri.
«PERCHE’ LO AMO, CAZZO, ECCO PERCHE’ L’HO BACIATO!»
Calò il silenzio, interrotto solo dal rumore delle macchine che passavano lì vicino. Si sentiva scombussolato, come se avesse appena confessato di essere il fautore di un qualche reato grave, quando invece aveva solo confessato di essere innamorato di una persona. Di amarla come non aveva mai fatto con nessun altro. 
Dire di amare una persona non deve essere qualcosa di scontato. Deve essere qualcosa di vero e sincero.
Hajime avrebbe voluto dire questa frase diverso tempo prima, ma c’era qualcosa che glielo impediva, qualcosa che doveva ancora risolvere, e che forse poteva trovare una soluzione. Era stanco di nascondersi, era stanco di reprimere quello che sentiva in quella stramaledettissima nicchia.
«Lo amo…» mormorò, e per la prima volta nella sua vita apprezzò il suono della sua voce, lacrime copiose che segnavano i suoi zigomi.
I due giocatori si guardarono un attimo e sorrisero, per poi avvicinarsi al giovane giornalista. Gli diedero un piccolo pugnetto sulla spalla per farlo riprendere.
«Sei sempre uno stronzo» disse Kuroo. «Ma non ti picchiamo solo perché devi andare da Oikawa e, insomma, devi essere un minimo presentabile!»
«Ben detto, Kuroo!» si aggiunse Bokuto.
Iwaizumi non disse niente, prendendo boccate d’aria come se fossero sorsi d’acqua fredda, le membra che quasi tremavano. Chiuse gli occhi e prese un ultimo profondo respiro prima di parlare, e la sua mente cancellò finalmente l’immagine di quegli occhi che lo giudicavano come se fosse una spugna. Adesso, aveva davanti l’immagine di Oikawa che gli sorrideva, che arrossiva, che giocava con sua figlia. Ed era bellissimo.
«Ragazzi... Prima di andare da Oikawa c’è una cosa che devo risolvere…» Guardò prima l’uno e poi l’altro, serio. «Posso contare sul vostro aiuto?»
I due lo osservarono perplessi, per poi sorridergli. Sì, poteva decisamente contare sul loro aiuto.



Il destino aveva osservato tutto da lontano, un sorriso soddisfatto stampato in faccia. Fece cadere la piccola bambola riccioluta e si allontanò, sparendo piano piano, come se fosse un fantasma.
Alla fine, si era reso conto di aver giocato troppo con quei due. Voleva lasciargli le redini, sarebbero stati loro a guidare l’ultimo round.
Loro avrebbero scelto se far legare quel filo rosso, o se spezzarlo definitivamente.
Da come stavano procedendo le cose, però, il destino era decisamente propenso per la prima ipotesi.


 
[I run away when things are good
And never really understood
The way you laid your eyes on me
In ways that no one ever could
And so it seems I broke your heart
My ignorance has struck again
I failed to see it from the start
And tore you open 'til the end]




 
Delucidazioni:
SIGNORI E SIGNORE, VI PREGO, FACCIAMO UN APPLAUSO LUNGO NOVATADUE MINUTI AD IWAIZUMI HAJIME!
Ebbene sì, finalmente il nostro ace ha ammesso di amare quel cutie pie di Oikawa Tooru. Ce n’è voluto di tempo, eh? *le sparano*
Comunque, adesso posso finalmente spiegarvi la motivazione del suo comportamento, anche se si vedrà meglio nel prossimo capitolo: la voce che Iwaizumi sente – e di cui voi leggete le parole nella scena al ristorante – è quella della madre di Minori. A quanto pare, né lei né il marito va a genio il rapporto che ha Hajime con la figlia, e hanno fatto di tutto per allontanarlo dalla nipotina, ancora troppo piccola. Ovviamente, Iwaizumi l’ha scoperto, ma non ha voluto dire niente perché temeva seriamente di rovinare la carriera di Minori o la vita di Akane. E sì, quella donna ha avuto il coraggio di dare uno schiaffo a Iwaizumi, PROTEGGIAMOLO! 
Spero che questo giustifichi il suo comportamento da stronzo…
Also, le donnine di questa storia hanno avuto finalmente il loro spazio: Eiko è adorabile e sì, Iwaizumi ci aveva visto giusto quando ha affermato che provava qualcosa per il suo manager; e Tomoko si è finalmente resa conto che quello non era affatto un rapporto sano (la mia beta sostiene che questa è la sua canzone lol)
Comunque, se volevate saperlo, Tomoko usa alcune parole in italiano con la madre. E mia sorella mi ha costretto a inserire alcuni riferimenti alla vita sessuale della donna e tutta la questione del gatto. Sì, sono io che do nomi strani ai gatti… Come Nerone, Agrippina o Odino (??)
Spero che i mei due bro del cuore non siano risultati OOC e che la discussione sia convincente, ugh. La canzone che fa di sfondo al capitolo è Sorry di Halsey, ORA DITEMI SE NON E’ PERFETTA!
Oh, quasi dimenticavo: il prossimo è l’ultimo capitolo. Lo so, in teoria dovrebbe esserci un altro capitolo prima della fine, maaa… C’è l’epilogo. Ops.
*la imbavagliano e le danno fuoco*
Alla prossima ;)
_Lady di inchiostro_

l’uccellino cinguetta
 

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Capitolo 15
*** XIV ***


XIV


~
 


[1 aprile 2017]





Alla fine, Bokuto e Kuroo erano stati di grande aiuto. Gli aveva spiegato tutto quella stessa sera, dopo che aveva urlato in mezzo alla strada quanto in realtà amasse Oikawa. Aveva raccontato tutto fin dal principio, davanti a una birra, e i due atleti avevano annuito, spalancando appena gli occhi non appena Hajime arrivò alla parte più saliente e cruda dell’intero discorso. Tuttavia, non l’avevano guardato con pietà, e Iwaizumi gli sarebbe stato per sempre grato per questo.
Gli avevano mollato un pugno sul braccio, giusto per dirgli che avrebbe potuto dire tutto prima e che nessuno l’avrebbe mai biasimato, eppure entrambi sapevano perché l’aveva fatto, non c’era bisogno che lo dicesse ad alta voce: in una situazione come quella, Iwaizumi aveva paura che la reputazione di Oikawa sarebbe stata infangata per sempre. E lui non voleva rovinargli la vita. L’aveva rovinata già a troppe persone.
Per i due giocatori – così come per lo stesso Hajime – adesso tutto tornava ad avere un senso, e di certo non si sarebbero tirati indietro di fronte al favore che gli aveva chiesto.
Avevano smosso mari e monti pur di aiutarlo, coinvolgendo anche Ushijima, spiegandogli l’intera situazione; Bokuto aveva persino chiesto l’aiuto del padre di Akaashi, un poliziotto ora in congedo, per quanto non corresse buon sangue tra lui e il figlio. Alla fine, dopo mille insistenze, l’uomo aveva accettato di aiutarli. E Hajime non poteva fare a meno di sentirsi commosso dalla faccenda.
Insomma, quei ragazzi lo conoscevano a malapena, eppure non avevano mai smesso di farsi sentire per fargli sapere come procedevano le indagini, oltre per chiedergli come stesse.
Iwaizumi stava un po’ meglio, si era decisamente tolto un peso dal cuore, ma non era ancora abbastanza. Il bruciore dovuto allo schiaffo c’era ancora. La paura per quello che avrebbe detto Minori, ora che avevano scoperto gli scheletri dentro l’armadio, era tanta. L’ansia per la reazione che avrebbe potuto avere Akane quasi gli mangiava gli organi.
Tuttavia, la voglia di vedere Oikawa superava persino l’ansia e la paura. Ogni volta che si svegliava, la mattina, sperava di trovarlo lì, accanto a lui, perché significava che ogni problema era svanito come neve al sole, perché significava che lui poteva toccarlo, abbracciarlo, baciarlo senza alcun remore. E puntualmente, si svegliava con un senso di nausea che gli pervadeva persino le narici; puntualmente, afferrava il telefono con l’intento di chiamarlo, di sentire la sua voce, e sapeva che se lui avesse risposto avrebbe sicuramente detto che l’amava. Che gli dispiaceva da morire per quello che gli aveva fatto. Che poteva picchiarlo, se questo lo faceva stare meglio – e detto da uno come lui, significava tanto.
Che voleva vederlo sorridere tutte le mattine. Che voleva baciarlo un’altra volta, e ancora, e ancora, finché non ne avesse avuto abbastanza, e non ne avrebbe mai avuto abbastanza.
Ma, puntualmente, riposava il telefono, il respiro che gli mancava e la testa che vorticava. Per quanto volesse seriamente vederlo, Iwaizumi voleva anche sentirsi al sicuro. Voleva che lui fosse al sicuro. Per questa ragione stava per mettere a nudo quello che, per troppi anni, aveva tenuto nascosto anche alle persone a lui più care.
La musichetta fastidiosa di Skype arrivò alle sue orecchie, segno che stava ricevendo una chiamata, e Iwaizumi diede un’ultima veloce occhiata ai documenti che aveva in mano, prima di avvicinare la sedia alla penisola, la schermata celeste davanti. C’era una foto di Minori e Akane nell’icona, e fece un piccolo sorriso, prima di schiarirsi la voce e cliccare il pallino verde.
In un primo momento, l’immagine apparve distorta, confusa, ma dopo un paio di secondi si trovò davanti alla figura di Minori, non troppo nitida, ma abbastanza da vedere che la donna aveva le braccia incrociate e il volto livido. Le volte in cui Hajime l’aveva vista in quel modo si potevano contare sulla punta delle dita. Lei era sempre gentile e sorridente con tutti, di rado si arrabbiava.
In questo caso, però, Hajime se l’aspettava.
Nessuno dei due disse niente, si limitarono solo a fissarsi negli occhi, il rumore di alcune canzoni che proveniva da lontano, segno che da qualche parte si stava svolgendo una qualche festa.
Alcune urla di gioia furono il pretesto perfetto per il ragazzo per dire almeno qualcosa. «Come sta procedendo la festa di Akane?»
Non si era di certo dimenticato del compleanno di sua figlia, ancora adesso avrebbe potuto descrivere il momento dell’attesa e della sua venuta al mondo con enorme gioia e malinconia in egual misura. Ancora ricordava il momento in cui l’aveva tenuta in braccio, la testolina scura che si era posata sulla sua giacca rovinata, e Hajime aveva sentito le gambe farsi molli. Credeva che non si potesse piangere di gioia, eppure quel giorno l’aveva fatto.
«Bene» rispose Minori, piatta, senza dare alcuna intonazione alla sua voce.
Iwaizumi aveva sentito la figlia quella mattina, avevano parlato per quasi un’ora, perché lei doveva raccontargli di come stesse organizzando la sua festa di compleanno. Per la prima volta da quanto quella storia era iniziata, aveva sentito che il loro rapporto era tornato come quello di prima, anzi era nettamente migliorato.
Avrebbe voluto esserci, come l’anno precedente, ma anche se ce ne fosse stata la possibilità, non era più tanto sicuro che Minori glielo avrebbe concesso, dopo quello che le aveva mandato via mail.
Si grattò la nuca, cercando di trovare le parole giuste, anche se aveva lo stomaco completamente sottosopra. Non gli piaceva mettere zizzania. Per niente. «Minori, io…»
«Che significa questo?» Fu la donna a parlare, sollevando un paio di fogli, e Iwaizumi li riconobbe subito: erano i documenti che le aveva mandato, gli stessi che aveva lui proprio lì accanto. «Se è uno scherzo, non è per niente divertente, Iwaizumi!»
Da quando la conosceva, non l’aveva mai chiamato per cognome, e questo significava che non era solo arrabbiata: era furibonda, e adesso Hajime non era più tanto sicuro di essere pronto a un suo scatto d’ira.
Non era la stessa ragazza che, timidamente, gli aveva chiesto di uscire. Non era la stessa donna che aveva sposato. Non era la stessa donna che, distesa su un lettino d’ospedale, gli sorrideva, mentre lui teneva la loro figlioletta in braccio.
Era diversa. Era troppo simile alla donna che l’aveva umiliato, schiaffeggiandolo.
Prese un bel respiro, guardandola negli occhi, serio. «Non è uno scherzo, Minori…» disse, pacatamente. «Tutto quello che c’è scritto lì è la pura verità!»
«Ti rendi conto che stai infamando i miei genitori?» disse la donna, la crocchia che teneva legati i suoi bei capelli color oro adesso completamente sfatta. «Come ti permetti, dopo tutto quello che hanno fatto per te?»
Iwaizumi si lasciò sfuggire una mezza risata. Certo, lei credeva che avesse ottenuto il lavoro da giornalista per merito loro, non sapeva che quel posto aveva dovuto guadagnarselo con il sudore e la fatica, lavorando prima in sala stampa, a contatto con i macchinari. Non sapeva che era stato merito solo ed esclusivamente di Tomoko se lui era riuscito a mandare qualcosa a Ooashi-sensei. Lui le aveva fatto credere che i suoi genitori fossero degli eroi, quando invece…
«E adesso? Perché questa risata?» La sua voce era simile al veleno che un serpente rilascia sulle sue prede.
Iwaizumi si prese un attimo prima di parlare. «I tuoi genitori mi hanno trovato un lavoro solo per tenermi occupato.» Alzò la mano, in modo che Minori capisse che doveva lasciarlo continuare. «Non gliene importava nulla del fatto che volessi fare il giornalista, è stato solo un caso. Cercavano un addetto alla stampa, e l’hanno trovato. Sono diventato un giornalista solo perché Tomoko ha mandato un pezzo al mio capo redattore.»
Minori rimase in silenzio, la bocca semi spalancata, la sua mente che cercava di elaborare quello che aveva appena detto il ragazzo.  
«E non volevano neanche che io pagassi gli alimenti, se proprio vogliamo essere sinceri…» aggiunse, quello che aveva tenuto dentro per anni che veniva finalmente fuori.
«Cosa?» disse lei, incredula.
«È così, a quanto pare il mio misero stipendio non vale quanto la loro pensione. I miei soldi sono troppo… sporchi
Hajime si ricordava ancora le parole che gli aveva detto la madre di Minori, dopo che gli aveva dato uno schiaffo e l’aveva minacciato di stare lontano da sua nipote.
«E riprenditi il tuo sporco denaro. Non abbiamo bisogno dei soldi di un pezzente come te!»
Minori non aveva mai sospettato nulla. E come poteva?
Se i suoi genitori avessero detto qualcosa sul fatto che la loro nipotina vedeva quel pezzente di suo padre ogni sera, tramite il computer, sarebbero stati troppo sospetti; se avessero detto qualcosa sul fatto che Hajime si era presentato al compleanno di Akane su invito di Minori, sarebbero stati troppo sospetti; se avessero insistito per non mandare la bambina da lui, per Natale, sarebbero stati troppo sospetti.
Eppure, Hajime si ricordava ancora lo sguardo che gli avevano rivolto, quando Minori l’aveva fatto accomodare in casa. Gli occhi grigi di quella donna avevano la capacità di raggelarlo sul posto. Lo sguardo di puro odio del padre aveva la capacità di farlo sentire piccolo e insignificante come un insetto.
Anche per questo motivo Hajime non era lì, a festeggiare i cinque anni di sua figlia, perché era già venuto una volta, e tanto bastava. Non doveva succedere più.
Abbassò lo sguardo, gli occhi di Minori che si erano riempiti di lacrime, come se stesse maturando in lei una nuova consapevolezza che però tentava di scacciare con tutte le sue forze. Provava una profonda stima verso i suoi genitori, due violinisti come lei che, fin da quando era piccola, le avevano insegnato l’amore per la musica. Eppure, adesso che ci pensava… ogni volta che provava a dire che avrebbe voluto fare un altro mestiere, da grande, le loro espressioni si facevano cupe, severe…
«Ti rendi conto di cosa stai insinuando?» disse, la voce che tremava. Non riusciva neanche ad alzarla. Prese nuovamente i fogli, quasi sbattendoli sullo schermo. «Ti rendi conto che stai insinuando che i miei genitori avrebbero truccato il mio provino per l’orchestra di Tokyo?»
Ecco su cosa avevano indagato lui e i giovani giocatori di pallavolo in quegli ultimi giorni. Hajime già sapeva che i genitori di Minori avevo chiesto a una loro vecchia conoscenza di truccare il provino, in modo che non venisse presa come membro dell’orchestra e che, di conseguenza, fosse costretta ad accettare l’incarico ad Osaka. Non avevano avuto esitazione a dirglielo, quando li aveva sentiti parlare, e gli avevano sputato addosso il loro disprezzo e il loro desiderio di tenerlo il più lontano possibile da Akane.
Iwaizumi si toccò la guancia, sentendola ancora bruciare per via dello schiaffo, gli occhi lucidi e carichi di odio piantati in quelli grigi e piccoli della donna, così simili a quelli che aveva adesso davanti.
«Hai già rovinato la vita di mia figlia, non ti permetterò di rovinare anche la vita di mia nipote!»
Chiuse la mano a pugno, imponendosi di rimanere calmo, anche se ogni cellula del suo corpo sembrava tremare per via della tensione. Del resto, sapeva benissimo che la sua parola sarebbe stata contro quella dei due idoli per eccellenza di Minori, i suoi genitori, e Hajime odiava con tutto se stesso questa situazione. Nessuno dovrebbe essere portato a odiare i propri genitori. Nessuno dovrebbe impedire a un padre di vedere la propria figlia, per questa ragione aveva chiesto aiuto a Bokuto e Kuroo, in modo da poter avere qualche prova da tenere in mano, in modo da poter dimostrare alla sua ex-moglie quanto in realtà quei due fossero dei farabutti. In modo da aprirle gli occhi.
Tirò su col naso, gli angoli degli occhi che pizzicavano. «Te l’ho detto, tutto quello che è scritto lì è la pura verità» disse, piano, sentendo il petto improvvisamente pesante.
«E io dovrei crederci?» domandò la ragazza, retorica. «Perché i miei genitori avrebbero dovuto farti una cosa del genere?»
«Perché mi odiano, cazzo!»
Iwaizumi non aveva mai alzato la voce con lei, e adesso Minori lo stava guardando con gli occhi colmi di stupore, mentre quelli del ragazzo stavano cominciando a inumidirsi.  Era riuscito ad ammetterlo ad alta voce, finalmente. Anni e anni di soprusi, insabbiati solo per non far dispiacere Minori e sua figlia. Solo per non rovinargli la vita.
Hajime si era sempre sentito in colpa, per qualsiasi cosa, come se trasportasse una croce sulle sue spalle, come se fosse stato marchiato a vita e tutti potessero vedere i segni lasciati dai suoi errori. Era come se non accettasse di essere umano e di poter sbagliare. Come se non accettasse quello che gli era stato dato dalla vita, anche se forse era troppo poco, ma era ugualmente importante. Da quando i suoi genitori se n’era andati, il mondo per lui era definitivamente crollato, non importava se c’erano delle persone accanto a lui pronte a proteggerlo.
Le uniche persone che l’avevano fatto sentire davvero al sicuro erano davvero poche. E Oikawa era una di queste.
Le parole dette dai genitori di Minori, dai nonni di Akane, l’avevano convinto a tal punto che sì, credeva seriamente di essere un male per la gente che lo circondava.
Smetteva di crederci solo quando vedeva Akane sorridere. Smetteva di crederci solo quando vedeva Oikawa sorridere al suo indirizzo.
Perché era colpa di quelle sue maledette paure se aveva fatto soffrire Oikawa.
Tenne la testa bassa, cercando di immettere nei polmoni quanta più aria possibile, le mani che gli tremavano, mentre Minori continuava a fissarlo con un’espressione di puro sconcerto.
«Io non sono mai stato un buon partito, per te» cominciò Iwaizumi, fissando con serietà la donna che, un tempo, era stata sua moglie. «Insomma, guarda Katsu: è un ottimo violinista, i suoi genitori lavorano in banca, era ovvio che avrebbero approvato di certo! Ma io? Io per loro sono solo il ragazzino orfano la cui più grande ambizione era fare il giornalista sportivo!» Rimase in silenzio, la bocca impastata di saliva. «Non mi hanno mai voluto come genero, Minori. E quando sei rimasta incinta… Merda, mi sono sentito così in colpa, e… e loro mi hanno detto quello che ho sempre temuto, che ti avrei rovinato per sempre la carriera…»
Sentiva gli zigomi bagnati, la voce che andava scemando sempre più, incrinata per via dell’emozione. Immagini veloci gli passarono davanti, assieme al momento in cui lui e Minori avevano deciso che tra loro due non funzionava, che loro due non erano veramente innamorati l’uno dell’altra. Era una scelta che avevano preso insieme, nessuno li aveva costretti. Non dovevano stare assieme, se non si amavano. Tuttavia, per i genitori della ragazza era solo colpa sua, perché in realtà il suo intento era rovinarla per sempre, rovinare la loro reputazione.
Anche Minori aveva iniziato a piangere e a singhiozzare, come se quella consapevolezza fosse finalmente sbocciata in lei, e adesso vedeva le cose da una prospettiva diversa: i suoi genitori non volevano che seguisse la sua strada, volevano che seguisse la strada che loro avevano costruito per lei. E questo includeva la scelta del marito perfetto e che, di fronte alla stampa, le avrebbe fatto fare una bella figura.
«Mi sono innamorato, Minori…» disse il ragazzo, senza dare una parvenza di logicità al suo discorso. «Mi sono innamorato di un uomo…»
Lo disse tutto d’un fiato, lasciando la ragazza di stucco – come se l’intera situazione non stesse già ribaltando completamente quello in cui aveva sempre creduto. Si portò una mano alla bocca, come a cacciare dentro l’ossigeno, le lacrime che lasciavano scie bagnate sulle sue guance, e Iwaizumi la guardava come se da lei dipendessero le sorti del suo cuore. Come se lei potesse decidere se gettarlo via o ridarglielo in mano.
Abbassò la testa, stringendo poi le dita tra di loro. «Ti ricordi quando mi hai detto che credevi alla leggenda del filo rosso?» In un primo momento, la ragazza non capì, ma annuì ugualmente. «Io ti ho detto che ho sempre pensato che fosse una favola per bambini, ma… ma da quando ho conosciuto lui… sai, ho cominciato a crederci…»
Si lasciò sfuggire una risata amara, ripensando a Oikawa disteso accanto a lui, al parco, nel momento esatto in cui gli aveva confessato che la sua vita non era mai stata del tutto completa. E lui si era sempre sentito allo stesso modo.
Si era chiesto, più volte in quei giorni, che cosa sarebbe successo se loro si fossero conosciuti prima, se fossero andati nella stessa scuola.
L’avrebbe amato allo stesso modo? Probabilmente sì.
Il giornalista alzò lo sguardo, gli occhi ora gonfi e rossi, e rivide la stessa medesima espressione nel volto niveo di Minori.
«Non m’importa, i tuoi genitori possono rovinare la mia vita… ma lui è troppo importante…» disse, quasi in un sussurro. «Non posso scegliere tra lui e Akane… Non posso…»
Un singhiozzo risalì lungo la sua gola, e lui cercò malamente di sopprimerlo, mentre gli apparve in mente l’immagine di Akane che apriva appena gli occhietti ancora privi di colore e lo fissava. Le sue orecchie si riempirono della sua risata, e Iwaizumi ricordava di essersi messo a piangere come un perfetto sciocco; poi, quella stessa risata si unì a quella di Oikawa, e adesso li vedeva entrambi, mentre giocavano con le carte.
Fece un lieve sorriso malinconico, osservando il pavimento, poiché non aveva davvero il coraggio di guardare Minori in faccia.
Il motivo per cui era sempre stato restio ad ammettere i suoi sentimenti non dipendeva solo dalla paura di poter perdere per sempre Akane, ma anche dalla paura che quei due potessero rovinare per sempre la carriera e la vita di Oikawa. E lui non se lo sarebbe perdonato, né ora né mai.
«Tu lo ami?» Guardò Minori come se stesse fissando un miraggio, la ragazza che scioglieva la crocchia e inclinava la testa di lato. Non c’era più rabbia nella sua voce, solo tristezza. «Lo ami sul serio?»
Iwaizumi non esitò a rispondere. Gli passò tutto davanti, come una pellicola veloce, da quando aveva conosciuto Oikawa, fino alla sua confessione, arrivando poi al momento in cui l’aveva baciato, a casa sua. Voleva sentire ancora quel sapore sulle sue labbra.
«Sì» disse, per poi lasciarsi sfuggire una risata nervosa. «Diresti che è l’ultima persona sulla faccia della Terra di cui potrei mai innamorarmi… ma è così.»
La ragazza sorrise. Non c’era alcun segno di disgusto, perché aveva già visto quell’espressione sul volto di Hajime: avevo lo stesso sguardo quando aveva tenuto Akane in braccio. Amava sua figlia più di qualsiasi altra cosa al mondo, e lo stesso valeva per quella persona. E anche se Minori non la conosceva, era sicura che quella fosse la persona giusta per Hajime, proprio perché aveva quell’espressione. Proprio perché significava che era innamorato perso di lui, poco importava di che sesso fosse.
Rise anche lei, asciugandosi il naso con il dorso della mano, e si guardarono allo stesso modo con cui si erano guardati in ospedale, seppur tra di loro non ci fosse più l’intesa di prima, solo un sincero affetto.
«Parlerò con i miei» esordì poi Minori. «Ma sappi che hai la mia approvazione, se è questo il problema. E no, nessuno ti impedirà di vedere Akane… Nemmeno i suoi nonni…»
Iwaizumi si mise una mano davanti agli occhi, cercando di nascondere le lacrime, e si sentì improvvisamente leggero, come se fosse stato liberato da quella maledetta croce, come se le piaghe delle sue colpe si fossero finalmente rimarginate. Minori non l’odiava.
Non si era mai sentito così in vita sua.
«Grazie…» disse con un filo di voce.
Stava ancora piangendo quando sentì lo scricchiolio di una porta che si apriva, proveniente dall’altro lato dello schermo. Le lacrime gli offuscavano la vista, ma vide chiaramente Minori che voltava la testa di lato e cercava di asciugarsi velocemente il viso.
La vocetta di Akane arrivò in un secondo momento, e Iwaizumi cercò di ricomporsi come meglio poteva, prendendo profondi respiri. «Scusami se ti disturbo, mamma, ma la mamma di Akihiko vuole vederti. Mi ha portato anche un sacchetto di cioccolatini!»
«Oh, perfetto, era da parecchio che non la vedevo!» disse Minori, cercando di apparire il più allegra possibile, anche se sentiva un groppo pesante lungo la gola. «Ha il braccio ingessato?»
Iwaizumi non poteva vederla, ma era quasi sicuro che la bambina avesse annuito. «Mamma, hai pianto? Sei triste? È successo qualcosa?»
«No, tesoro, è solo che – guardò un attimo Hajime e sorrise lievemente e con tenerezza – tuo padre mi ha raccontato una cosa tanto bella!»
«E allora perché hai pianto?»
«Perché sono felice per lui!» Gli occhi verdi di Iwaizumi si spalancarono. «Sono felice perché lui ha ottenuto quello che si meritava, finalmente!»
Era sincera, e il giovane si ritrovò a sorridere a sua volta, mentre lei si alzava dalla sedia e faceva accomodare sua figlia. «Adesso sarà lui a raccontartelo!» disse, facendo l’occhiolino a entrambi. «Io intratterrò gli ospiti per un po’, okay?»
La bambina annuì contenta, anche se non era del tutto convinta dalle parole della madre. Aveva i capelli completamente sciolti e indossava un completino celeste che le calzava perfettamente. Era splendida, ma questo Hajime lo pensava sempre, e avvertì il bisogno di poterla abbracciare ancora una volta.
«Come sta andando la festa?» chiese, dolcemente.
La bambina fece un sorriso a trentadue denti, tenendo il mento appoggiato sulla scrivania. «Benissimo! Lo sai che mi hanno portato un sacco di regali? Non vedo l’ora di aprirli! Oh, e sono convita che la torta che ho fatto con la mamma sarà buonissima! Poi la facciamo assieme quando vengo da te, va bene?»
Il sorriso di Iwaizumi si aprì maggiormente. Adesso era certo che le cose sarebbero cambiate radicalmente, che avrebbe avuto più possibilità di passare del tempo con sua figlia. Per la prima volta nella sua vita, si ritrovò a pensare positivo.
«D’accordo.»
«E inviti anche Tooru-san quando la facciamo? Ti prego, sono convinta che si divertirebbe un mondo!»
Hajime spalancò appena gli occhi: non si aspettava una proposta simile, ed era convinto che sua figlia si fosse completamente dimenticata di Oikawa, presa com’era dalla sua festa di compleanno e dalle altre mille cose che aveva vissuto in quel periodo. Eppure, Akane aveva abbracciato Oikawa senza alcun problema, e questo stava a significare che per lei era più di un semplice conoscente.
Si grattò la nuca, in leggero imbarazzo. «A proposito di questo…» cominciò, la voce che vibrava appena, guardando negli occhi sua figlia, le iridi verdi che risplendevano alla luce artificiale della lampada. «Come la prenderesti se ti dicessi che mi piace Oikawa?»
Lo disse tutto d’un fiato, sembrava un palloncino che era appena stato sgonfiato, mentre sua figlia inclinava la testa di lato, perplessa. «Credevo che ti piacesse Tooru-san…» disse.
«Ecco…» Hajime chiuse le mani a pugno, cercando di trovare le parole giuste. Doveva dirglielo. Sua figlia aveva il diritto di saperlo, era pur sempre la sua consulente numero uno, no? «Se ti dicessi che provo per lui la stessa cosa che prova la mamma per Katsu… come la prenderesti?»
I secondi che seguirono – e che ci mise Akane per elaborare la notizia – furono interminabili, per Hajime. Come se ogni secondo si portasse via dieci anni della sua esistenza. Alla fine, con suo enorme stupore, sua figlia si mise in piedi sulla sedia, sbattendo le mani sulla scrivania.
«Allora si possono avere due papà?» esordì, lasciando Hajime di stucco.
«Eh?»
«L’altra volta, una hostess mi ha detto che tu e Tooru-san sembravate come due papà. Pensavo che non fosse possibile una cosa del genere, anche se mi piacerebbe un sacco avere Tooru-san come secondo papà… Ti prego, non lo dire a Katsu-san!» La bambina era sovraeccitata mentre parlava, come se l’idea di poter vedere Oikawa al fianco di suo padre stesse finalmente prendendo forma.
Katsu l’aveva in parte cresciuta, era sempre gentile e buono con lei, ma Tooru… con lui  aveva provato una complicità che aveva con una sola persona su questo pianeta: suo padre. Per questa ragione l’idea che potesse divenire come un secondo padre non le dispiaceva affatto. Anzi, era come se un desiderio oltremodo impossibile si stesse invece realizzando.
«Oh, papà, sono tanto contenta! Tooru-san mi piace un sacco, e quando sei con lui sei più felice, sai? Quando ti vedevo con Tomoko-san, invece, eri molto triste… Ti prego, non dirlo nemmeno a lei, le voglio un sacco di bene, però…» Akane non riuscì a continuare la frase, poiché fu interrotta dalla successiva risata del padre.
Una risata liberatoria, che cancellava per sempre tutti i suoi timori, tutte le sue preoccupazioni, la sua paura di non riuscire a fare abbastanza e di essere un peso per tutti.
La sua famiglia voleva che fosse felice. Sua figlia voleva che fosse felice.
«Papà, perché piangi?» chiese la bambina, incrinando la voce. «Riguarda qualche cosa che ho detto?»
Hajime si asciugò le lacrime di gioia che gli avevano solcato le guance, sorridendo alla figlia e cercando di rassicurarla. «Sono sollevato. Credevo che mi avresti odiato perché mi sono innamorato di Oikawa.»
«Cosa?» disse lei, quasi indignata. «E perché? Io voglio che tu sia felice!»
Cercò di trattenersi dal ricominciare a piangere, sorridendo ancora e ancora, ricambiando quel sorriso a trentadue denti che aveva davanti. Avrebbe voluto dirle che era la cosa più preziosa al mondo, l’unico motivo per cui si svegliava ogni mattina da quando era nata. E adesso, anche Oikawa sarebbe diventato qualcun altro da proteggere, il suo più grande tesoro.
«Ti prometto che faremo quella torta tutti e tre assieme.» S’interruppe, come se gli fosse balenata in mente un’idea. «Anzi, sai che ti dico? Glielo proporrai tu domani stesso, durante la videochiamata, che ne pensi?»
«Che sarebbe bellissimo, papà!»
Era sicuro che Oikawa ci sarebbe stato l’indomani, quando padre e figlia avrebbero parlato su Skype. Perché, non appena avrebbe chiuso la chiamata, sarebbe subito schizzato fuori per andare a parlare con lui. 




Aveva cominciato a tuonare e a piovere a dirotto da una mezzoretta circa. Tomoko era in piedi, davanti alla finestra, mentre fissava le gocce di pioggia che lasciavano una scia bagnata sul vetro, la luce arancione del lampione che si accendeva a intermittenza. Dovevano ripararla da un paio di settimane.
Sua madre stava lavorando, era leggermente in ritardo rispetto alla scadenza e il capitolo non era del tutto pronto, ma non per questo era meno serena del solito. Aveva imparato a gestire la sua terribile ansia, e adesso stava ascoltando della musica, probabilmente una qualche boy band che aveva apprezzato molto da giovane.
Non si accorse di lei mentre si sedeva sul cuscino, la tazza bianca in ceramica posata sul tavolo e colma del tè verde che si era preparata qualche minuto prima. L’aveva lasciata a riposare un po’, rimanendo ipnotizzata da quello spettacolo così suggestivo.
Sbuffò. Non era triste, anzi, da quando aveva avuto quella specie di rottura con Hajime si sentiva molto più tranquilla, come se fosse stata la svolta necessaria alla sua monotona vita. Tuttavia, il ragazzo non l’aveva più contattata, e lei non se l’era sentita di mandargli un messaggio per sapere come stesse, temeva solo di peggiorare le cose e di renderlo più confuso.
Doveva capire da sé quello che provava veramente.
Bevve un sorso di tè, e quasi come se le avesse letto nel pensiero, il suo telefono cominciò a vibrare, la chiamata fatta da Iwaizumi che aspettava di essere agganciata. Tomoko quasi si strozzò, ma riuscì a prendere al volo il telefono, rispondendo con affanno.
«Pronto?» Uno scrosciare lontano interferiva con la chiamata. «Pronto? Hajime?»
«Tomoko…?» Il ragazzo parve cadere dalle nuvole, come se non riuscisse a credere di poter sentire la voce della ragazza. «Grazie di aver risposto…» 
«Si può sapere dove sei? Ti sento malissimo!»
«Sono per strada...»
«Per strada?» La ragazza si alzò nuovamente in piedi, scostando la tenda. «Hajime, sei impazzito? Dove vuoi andare con questo tempaccio?»
Il ragazzo non rispose subito. Respirava con affanno, Tomoko poteva sentirlo benissimo, e a giudicare dagli altri rumori che provenivano in sottofondo il ragazzo non era nemmeno chiuso in macchina. Era letteralmente per strada.
Beh, almeno non guidava con il telefono in mano.
«Devo andare da lui…» disse, quasi sussurrando, e Tomoko credeva di essersi sbagliata. Si fece rigida, come se aspettasse, trepidante, un altro segno da parte del ragazzo. Segno che non tardò ad arrivare. «Devo dirgli che lo amo, Tomoko…»
La giovane giornalista sorrise. L’aveva capito, finalmente, anche se ce ne aveva messo di tempo. Qualsiasi cosa avesse voluto raccontarle Hajime, sarebbe comunque stata pronta ad ascoltarlo. Lo conosceva troppo bene, se lui si metteva in testa una cosa, niente e nessuno poteva fermarlo. Se esitava, era perché c’era qualcosa che lo turbava.
«E allora perché stai chiamando me?» disse lei, canzonandolo.
«Perché mi sono perso.» La ragazza sbarrò gli occhi. «Volevo prendere la macchina, ma poi ho cominciato a correre senza che lo volessi… Merda, si è pure messo a piovere!»
Si avvicinò alla scrivania della madre, il piccolo portatile aperto e semi sommerso da una marea di fogli, strappandolo dalla grinfie del genitore, che non mancò di mostrare il suo disappunto. Solo allora si accorse che la figlia stava parlando al telefono, e cogliendo degli sprazzi di quella bizzarra conversazione intuì che stava dando indicazioni a Iwaizumi su un certo posto, non sapeva bene quale. La ragazza le fece cenno, dicendole che le avrebbe spiegato dopo.
«Sulla destra dovrebbe esserci una scorciatoia. Arriverai in una quindicina di minuti» disse poi, la schermata di Google Maps aperta davanti agli occhi.
«Perfetto, grazie!» Esitò un attimo. «Tomoko… Io ti devo delle scuse…»
«Hajime, ti ho già detto-»
«No, lasciami parlare!»
La ragazza rimase sorpresa, scoccando un’occhiataccia a sua madre, che si era letteralmente appiccicata alla sua faccia per ascoltare anche lei quello che avesse da dire il ragazzo. Alla fine, fu costretta a mettere il vivavoce, attendendo che il ragazzo formulasse una qualche frase.
«Sono stato meschino con te, e tu non ti meritavi tutto questo.» Prese un bel respiro. «Sei una persona splendida, Tomoko. Sei brillante… e divertente… e porca la miseria, sei stata capace di farti amica la persona più burbera e antipatica dell’universo!»
La ragazza si mise a ridere, gli angoli degli occhi che pizzicavano, mentre sua madre le accarezzava la schiena, sorridendo a sua volta.
«Non ti permetto di pensare che rimarrai da sola, okay? Non te lo permetto!» le disse con voce severa, ma non troppo da risultare un rimprovero. «Probabilmente incontrerai una persona che saprà apprezzarti come io non sono riuscito a fare e che mi darà del cretino per essermi lasciato sfuggire una come te!»
Tomoko tirò sul col naso, asciugandoselo poi con dorso della mano. «Questo è un modo carino per chiedermi se siamo rimasti amici, Iwaizumi Hajime?» chiese, senza cercare di far trasparire quanto avesse pianto mentre lui aveva parlato.
«Ti prego, non sono proprio capace a farmi degli amici… Sono già fortunato se gli amici di Oikawa non mi hanno pestato a sangue!»
Si mise a ridere, e lei non poteva vederlo, ma Hajime era felice di sentirla ridere così. Significava che non era triste, dopotutto.
Tutto si stava aggiustando, piano piano, e Iwaizumi ancora non riusciva a crederci.
«Sì, Hajime, siamo ancora amici!» Rimase un attimo in silenzio. «Adesso basta perdere tempo con me, devi andare a riconquistare il cuore di Oikawa, perciò muoviti!»
Sì, tutto stava decisamente tornando al suo posto. Mancava solo l’ultimo tassello.




Era seduto all’angolo del divano, le mani sulle ginocchia, rigorosamente portare al petto. Stava sempre seduto così, nell’ultimo periodo, quasi come se potesse nascondersi per sempre dalla faccia della Terra. Quasi come se potesse sparire per sempre dalla vita di tutti. Era un peso per chiunque, oramai.
Sbuffò, i canali televisivi che ogni tanto saltavano per via del brutto tempo, e afferrò il cellulare. Aprì Line, la schermata delle chat che gli apparve davanti. L’ultima persona con cui aveva parlato era stata Eiko, e di seguito trovò subito il gruppo che aveva creato Bokuto con lui, Kuroo e Ushijima, che rispondeva di rado.
Osservò la foto che aveva la ragazza, accompagnata da alcune sue amiche. Gli aveva confessato che avrebbe voluto cambiarla e metterne una con Akio, ma fino a quando non avrebbe annunciato la loro relazione in diretta nazionale, sarebbe risultato troppo compromettente. Ed era frustante, per lei, perché avrebbe voluto fregarsene allegramente e dire che sì, era innamorata di un uomo decisamente più grande di lei.
Fece un mezzo sorriso, rileggendo quello che si erano detti a proposito di questo discorso, tornando poi indietro. Senza volerlo, il suo dito scorse le varie chat, arrivando a quella che aveva avuto con Iwa-chan quasi un mese prima.
Il suo volto si fece improvvisamente serio, mentre guardava la fotografia che il ragazzo aveva con sua figlia.
Non poteva continuare così. Non poteva continuare ad essere un peso per tutti. Non poteva continuare ad aspettare una persona che, in realtà, non lo voleva nella sua vita. Doveva andare avanti. Doveva cercare qualcuno che avrebbe cancellato per sempre il suo amore per Iwa-chan.
Stava per eliminare la chat, quando qualcuno bussò freneticamente alla porta, come se un bue impazzito avesse preso la ricorsa e fosse andato a sbattere contro la porta. Oikawa trasalì, spegnendo la televisione. All’inizio credeva di essersi sbagliato, forse era stato il vento a provocare quel rumore; ma subito dopo sentì il campanello suonare, accompagnato da quel bussare insistente, e a quel punto si disse che qualcuno stava decisamente smaniando per entrare.
«Chi diavolo…?» disse, lasciando il cellulare sul tavolino basso.
Ottenne subito la sua risposta.
«Oikawa, apri la porta!»
Conosceva perfettamente quella voce. Raggelò sul posto, come se le sue vene fossero state ricoperte da un sottile strato di brina, il cuore che batteva dentro le sue orecchie e contro la cassa toracica. Aveva paura di collassare da un momento all’altro, e si avvicinò alla porta con cautela, reggendosi a tutto ciò che poteva.
Si mise le scarpe e guardò dall’occhiello della porta, trattenendo poi il respiro.
Era lui. Era Iwa-chan.
Cosa… cosa ci faceva lì? Come diavolo aveva fatto ad entrare?
Aveva… aveva scavalcato il cancello?
Si girò, aggrappandosi alla porta e imponendo ai suoi muscoli di non cedere alla tentazione di aprirgli e di gettargli le braccia al collo.
«Oikawa – bussò ancora, e quel rumore gli rimbombò dentro il cervello –, ti prego, apri!»
Strisciò contro la superficie, rannicchiandosi per terra e cominciando a singhiozzare, piano, in modo da non farsi sentire. Dio, quanto gli era mancata la sua voce. Avrebbe voluto sul serio aprire la porta e stringerlo a sé, sentire l’odore della sua pelle addosso, ma quel minimo di razionalità che gli era rimasta lo costringeva a stare fermo.
Non poteva soffrire ancora. Non ce l’avrebbe fatta questa volta, non si sarebbe limitato a un semplice scottatura, sarebbe morto bruciato. E non poteva. Ne aveva abbastanza.
«Ti prego…» Il cuore di Oikawa si incrinò per un attimo. Lo stava implorando…?
«Sono stato un bastardo, lo so, e tu...» s’interruppe un attimo, come se stesse cercando di riprendere fiato. «Ti meriti decisamente qualcuno migliore di me, okay?»
Sentì la fronte del ragazzo che sbatteva contro la porta, mentre Oikawa lo ascoltava parlare, gli occhi completamente spalancati. Si diede un pizzicotto sulla guancia, rendendosi conto che no, non stava sognando.
«Ho mentito» disse, la voce un po’ roca. «Quella sera, al parco, ho mentito. Non è vero che non ho mai avuto la sensazione che qualcosa mancasse nella mia vita. L’ho sempre avuta. Sempre. Come se avessi perso qualcosa e non me ne fossi accorto. Solo che, col tempo, non ci ho più fatto caso.» Gli sfuggì un singhiozzo, e Tooru pensava di stare per impazzire. Stava piangendo. Iwa-chan, la persona più seria di questo mondo, stava piangendo per lui. «Pensavo che fosse qualcosa legata alla perdita dei miei genitori, che non se ne sarebbe andata mai, eppure… da quando ho incontrato te, non l’ho più avvertita. E per colpa tua, mi sono convinto che questo è successo perché non ci siamo incontrati prima. Per colpa tua, ho cominciato a farmi anch’io tutti quei film mentali assurdi su noi che andavamo nello stesso liceo, che giocavamo nella stessa squadra, e tutte le stronzate che mi hai detto! Per colpa tua, cazzo, ho cominciato a credere a quella stupidissima leggenda del filo rosso, sulle persone che sono destinate assieme, e…»
Seguirono dei lunghissimi attimi di silenzio, in cui Oikawa credette di essersi immaginato tutto e di essere diventato completamente matto; invece, sentì la risata un po’ roca di Iwaizumi arrivargli alle orecchie e mai, mai avrebbe detto che c’era un suono migliore di quello.
«Spero che tu sia in casa, perché non lo ripeterò un’altra volta…» disse, sovrastando la pioggia che continuava a scrosciare. «Oikawa Tooru sei la persona più fastidiosa che io abbia mai conosciuto. Ti lamenti per qualsiasi cosa, ti comporti come un bambino e fai sempre il cascamorto con la prima fan che ti passa davanti… Però ti amo anche per questo…»
Il castano trattenne il fiato. Aveva detto che… aveva sul serio detto che…
«Quella sera, quando ti ho baciato, avrei voluto dirtelo» continuò. «Avrei voluto dirti che preferisco di gran lunga il sorriso che fai quando stai con me, rispetto a quello che fai davanti alle telecamere. E che ero stanco di farti soffrire così…»
Tutto rimase immobile dopo quella dichiarazione, i muscoli di Oikawa che divennero pietra, la mente pesante come un macigno, mentre registrava le parole del giornalista.
Lui ha detto che…
Ha detto…
Cazzo, ha detto che mi ama!

Si alzò in piedi, aprendo in tutta fretta la porta, e lo vide lì, sulla soglia, completamente fradicio. E anche così, con quello sguardo stralunato e che lo guardava come se fosse un’illusione ottica, era la cosa più bella che avesse mai visto nella sua vita, mai come in quei giorni grigi e spenti.
«Ciao…» disse, gli occhi smeraldini lucidi e il fiato che gli usciva in pesanti respiri. Rimase immobile per paura di fare qualche mossa azzardata, ma non ce ne fu veramente bisogno.
Oikawa si gettò tra le sue braccia, stringendolo per non lasciarlo più andare via, perché quello non era sogno, quello era il vero Iwa-chan e gli aveva appena detto che l’amava.
«Hajime…» mormorò tra un singhiozzo e l’altro, nascondendo il viso nella curva del suo collo.
«Sì, sono qui…» gli disse, quando riuscì a riprendere fiato, ancora incapace a credere che stesse abbracciando Oikawa e che quest’ultimo stesse singhiozzando freneticamente contro la sua spalla.
Strinse tra le dita il cardigan di lana che il castano portava addosso, chiudendo gli occhi, nuove lacrime che cominciarono a solcargli le guance, assieme alle gocce di pioggia che gli bagnavano il viso. «Ti amo Tooru… ti amo… ti prego, perdonami…»
Lo continuò a ripetere più e più volte, abbracciando con sempre più forza quel corpo caldo e che tremava contro il suo.
In quel momento, tutto quello che c’era stato prima non contava più nulla. Erano lì, assieme, stretti l’uno all’altro, ed era bellissimo.
Fu Oikawa a spostarsi, scostando poi le ciocche bagnate dal viso del ragazzo per guardarlo meglio. Aveva gli occhi gonfi e rossi, esattamente come i suoi, ma quelle sfumature verdi di cui si era innamorato perdutamente c’erano ancora. C’erano sempre state. Premette la fronte conto la sua, la tensione di quell’ultimo mese che fluì improvvisamente via, un ultimo tuono che si protraeva in lontananza.
«Ti amo…» sibilò Iwaizumi, tenendo sempre la fronte premuta contro quella di Oikawa, e quando lo sentì ridere ringraziò qualsiasi entità esistente per aver ricevuto il suo perdono.
Gli accarezzò la guancia con il pollice, studiando il suo volto con intensità, prima di coprire definitivamente la distanza che c’era tra loro due.
Le labbra di Oikawa avevano un sapore dolce, ora se l’era finalmente ricordato, mentre approfondiva il bacio.
Oikawa, invece, ricordava benissimo il sapore delle labbra di Iwaizumi: era aspro, deciso, esattamente com’era lui, eppure avrebbe voluto sentire quel sapore sul palato e sulla lingua per sempre, fino a che avesse avuto respiro. Lasciò che la lingua dell’altro entrasse, intrecciandosi alla sua, mentre faceva un passo indietro, dentro casa.
Fu Iwaizumi a richiudere la porta, e si staccarono solo per riprendere fiato: entrambi videro negli occhi dell’altro gli stessi medesimi sentimenti.
«Mi sento morire…» Oikawa non avrebbe voluto dirlo ad alta voce, ma se lo lasciò sfuggire ugualmente, e dall’espressione che fece Hajime capì che anche per lui era lo stesso.
Ripresero a baciarsi, disseminando i loro indumenti superiori per la casa, mentre si dirigevano verso la stanza da letto, senza mai allontanare le labbra dell’altro. 

 



~
 



[2 aprile 2017]





Iwaizumi aveva baciato ogni porzione di pelle, lasciando dei segni rossi evidenti.
Oikawa aveva graffiato quella carne bollente, e sentiva sulle mani quel profumo che era capace di mandarlo in confusione in un millisecondo.
Aveva pianto per tutto il tempo, mentre Hajime lo guardava e gli diceva, ogni volta che poteva, che l’amava. Come se dovesse recuperare del tempo che aveva inevitabilmente perso.
Era così diverso dal giornalista che aveva conosciuto la prima volta, in quel bar. Era diverso dal solito Iwa-chan.
E non era una cosa così negativa.
Lo aveva trattato come se fosse la cosa più preziosa al mondo. Come se dovesse proteggerlo. Come se fosse finalmente riuscito ad averlo per sé, e adesso non se lo sarebbe più lasciato scappare. Non avrebbe commesso lo stesso errore.
Entrambi ansimarono, si lasciarono sfuggire qualche gemito, mentre sentivano che il cuore dell’altro batteva allo stesso identico ritmo del proprio.
Quando Hajime venne dentro di lui, Oikawa si era lasciato sfuggire un suono gutturale, reprimendo un singhiozzo.
L’avevano fatto. Avevano fatto l’amore e Hajime era ufficialmente suo.
Hajime voleva essere suo e di nessun altro.
Aveva fatto un mezzo sorriso – uno di quelli che quasi lo facevano morire –, per poi asciugargli le lacrime e stringerselo addosso.
Oikawa aveva un buon profumo. Sapeva di… casa, affetto, amore…
«Mi dispiace…» aveva detto, ispirando ancora una volta quel profumo, e il castano non sapeva perché si stesse scusando.
Per quello che era successo? Perché pensava di avergli fatto male?
Si era solo limitato a scuotere il capo, chino sulla spalla del giovane, continuando a singhiozzare come un bambino. Un bambino finalmente felice.
Poi, più nulla.
Oikawa, semplicemente, si svegliò, le tende della finestra tirate e il sole che gli feriva gli occhi. Si guardò attorno, frastornato, il panico che cominciò a strisciare come una biscia dentro di lui. 
Era stato tutto troppo intenso. Non poteva… non poteva essere un semplice sogno…
L’altro lato del letto era vuoto, ma sfatto, e se Tooru passava le dita tra le pieghe sentiva che il tessuto era caldo, come se qualcuno avesse effettivamente riposato lì.
Che Iwa-chan se ne fosse andato?
Si morse il labbro inferiore. Certo, non poteva chiedere di più da Iwaizumi, del resto.
La porta della stanza scricchiolò e il ragazzo alzò di scatto la testa, trovandosi davanti Iwaizumi, due tazze fumanti in mano. Indossava soltanto i boxer, e lo stava guardando con gli occhi colmi di stupore: forse, non si aspettava di trovarlo sveglio, e Oikawa di certo non si aspettava di trovarlo lì.
Era rimasto.
«Buongiorno…» mugugnò, scostando lo sguardo.
«Buongiorno» disse Oikawa, inclinando la testa di lato e sorridendo, un sorriso che lasciava intendere quanto in realtà fosse felice della sua presenza.
Rimasero in silenzio, in estremo imbarazzo, prima che Iwaizumi si sedesse a letto e gli porgesse la tazza. «Ci ho messo un po’ per capire come funziona la tua macchinetta per il caffè… Spero vada bene…»
Il castano bevve un sorso del suo caffè macchiato, sorridendo, le labbra premute contro il bordo caldo. «Va benissimo, grazie.»
Calò nuovamente il silenzio, entrambi senza sapere che cosa dire, anche se c’era davvero tanto di cui parlare.
Stavano ufficialmente assieme, adesso? Oikawa era ancora arrabbiato? Perché Iwaizumi si era comportato così nei suoi confronti?
Il giornalista guardò con la coda dell’occhio il ragazzo, accorgendosi che il rossore sulle sue guance si era protratto anche sulla punta dell’orecchie, e il suo cuore perse un centinaio di battiti.
Stava per aprire bocca, ma fu Oikawa a precederlo. «Credevo te ne fossi andato…»
Il ragazzo richiuse la bocca, accorgendosi che quel sorriso non era sparito per niente, le labbra ancora tenute sul bordo in ceramica. Si era addormentato con lo stesso medesimo sorriso.
Non era la prima volta che Hajime dormiva con qualcuno, ma era la prima volta che dormiva con qualcuno che… sì, insomma, che amava veramente.
«Mi sento morire…»
«Ti… – esitò un attimo, la gola arsa come il deserto del Sahara, mentre il ragazzo si voltava a guardarlo – ti ho fatto male?»
Oikawa sbatté gli occhietti, per poi sorridere nuovamente. «Un po’» ammise. «Ma non è niente, tranquillo!»
Iwaizumi abbassò la testa, scrocchiandosi le dita, alla ricerca di un modo facile e indolore per spiegargli il motivo del suo pessimo comportamento. Del perché avesse atteso così tanto per confessargli quello che provava veramente.
«Però adesso capisco che cosa provano le ragazze.» Il giovane alzò la testa, perplesso. «È imbarazzante dover allargare le gambe…»
Iwaizumi alzò un sopracciglio. «È una questione biologica, Shittykawa.»
«Quindi mi stai dicendo che sostieni che noi siamo contro natura?»
«Non ho detto questo!»
«Facciamo così, la prossima volta sarai tu a dover allargare le gambe, mh? Così capirai che cosa significa!»
Nel momento in cui vide il volto del ragazzo farsi più cupo, Oikawa credette di aver sbagliato a dire quella frase. Era tornato ad essere l’Iwa-chan che gli aveva detto che non voleva più avere contatti con lui, che sosteneva di amare Tomoko quando in realtà… non era vero.
«La prossima volta?» La voce gli tremava. «Vuoi… vuoi seriamente stare con me?»
Oikawa posò la tazza sul comodino, facendosi più vicino al ragazzo, che fece i suoi stessi gesti. «Certo» disse, ammorbidendo il suo sorriso.
«Dopo tutto quello che ti ho fatto?»
Un brivido gli percosse la schiena. «Tu non vuoi stare con me… vero?» disse, la voce rotta dal pianto.
Iwaizumi ci mise un po’ a rispondere, poiché il suo respiro si era fatto più pesante e non riusciva seriamente a parlare. Alla fine, calò le labbra su quelle di Oikawa, in un bacio lungo e che sapeva di panna, caffè e zucchero.
«Ti devo delle spiegazioni…» disse, dopo che si furono staccati, ansimando leggermente. «Non posso vivere con il rimorso per quello che ti ho fatto…»
Aveva la fronte premuta contro quella del castano, gli occhi color cioccolato che brillavano alla luce del sole, e sentì le lunghe dita del setter che stringevano le sue. «Okay…» sussurrò, come a dire che era pronto ad ascoltarlo.
E senza mai staccarsi, senza mai spostare lo sguardo da quegli occhi bellissimi, Iwaizumi raccontò tutto fin dal principio. Raccontò quei retroscena che Oikawa  non sapeva, raccontò dei genitori di Minori che lo detestavano e che l’avevano per giunta picchiato; raccontò delle minacce e dei metodi meschini che l’avevano fatto allontanare da Akane. E gli occhi di Oikawa si fecero sempre più grandi ogni volta che il ragazzo diceva qualcosa di nuovo.
Ora capiva. Ora capiva tutto.
Si guardò il polso, il nastro giallo e blu stretto per bene. «Perché… perché non me l’hai detto?» disse, interrompendolo mentre stava ancora parlando.
«Perché avevo paura…» ammise, quasi come se fosse una colpa. «Perché non volevo rovinarti la vita…»
Ci fu un attimo di silenzio. «Rovinarmi la vita?» domandò, retoricamente, l’alzatore. «Hajime, tu sei praticamente l’unica cosa che rende la mia vita decisamente completa, perché pensi che potresti rovinarmela?»
Gli occhi di Iwaizumi pizzicavano, e sentì il bisogno di staccare la fronte da quella dell’altro, anche se le dita erano ancora intrecciate tra loro. «Tu non li conosci… ti avrebbero distrutto la carriera…»
«Ah, ci devono anche solo provare!» esclamò.
«E mi avrebbero costretto a scegliere tra te e Akane…»
Il respiro gli morì in gola, osservando Iwa-chan che, con tutto se stesso, stava cercando di non piangere, di non piegarsi un’altra volta.
Ecco. Era questo l’Iwa-chan che avrebbe voluto conoscere. Quel bambino fragile che non aveva avuto modo di consolare.
«E io non posso scegliere tra te e lei…»
Due lacrime sfuggirono al controllo del setter, e se le asciugò con la spalla, perché era troppo bello tenere le mani intrecciate a quelle calde di Iwaizumi.
Hajime non l’odiava.
Hajime aveva sbagliato, certo, aveva scelto Tomoko credendo che, stando con lei, non avrebbe avuto problemi, ma si sbagliava.
Hajime l’amava.
Hajime non poteva scegliere tra le due persone più importanti della sua vita.
«Non ti facevo così, Iwa-chan» disse, facendo alzare lo sguardo al ragazzo. «Ho sempre pensato che fossi un gorilla insensibile, brutale e assolutamente incapace di provare empatia.» L’altro stava per protestare, ma Oikawa continuò. «E, invece, quando ti ho visto giocare con tua figlia… ho visto un Iwa-chan diverso, gentile, altruista, che si preoccupa sempre per gli altri…»
I loro occhi si incontrarono, e attuarono quel gioco di sguardi che solo loro sapevano fare. Gli era mancato da morire.
«Non ti devi preoccupare per me, okay?» Gli prese il viso tra le mani, e sentì quelle dell’altro che andavano a posarsi sul dorso, carezzando quella pelle candida e ruvida. «Qualsiasi cosa accadrà, in futuro, la supereremo assieme... E sappi che farò di tutto per impedire che ti portino via Akane… Anzi, sai che ti dico? Più tardi chiamo il mio avvocato-»
Oikawa non riuscì a finire la frase, le labbra di Iwaizumi che gli impedivano di parlare, e si rese conto che avevano il sapore delle lacrime salate che il ragazzo aveva versato mentre lui straparlava.
Si staccarono, condividendo lo stesso respiro, e Hajime lo guardò negli occhi, donandogli per la prima volta il suo cuore e i suoi sentimenti in mano. «Voglio stare con te» sussurrò, sottovoce, quasi come se fosse un segreto, eppure Oikawa riuscì a sentirlo benissimo perché riprese a baciarlo subito dopo.
«Ti amo…» soffiò poi tra le sue labbra.
Si staccarono solo per stringersi in un forte abbraccio, pelle contro pelle, e Oikawa sentì la voce vibrante e profonda di Iwaizumi che diceva: “Ti amo anch’io” .
Non c’era niente di più bello di sapere che i propri sentimenti erano ricambiati.
«Allora – esordì poi, spostandosi solo per guardare Iwaizumi in viso –, devi raccontarmi altro?»
Oh, aveva ancora da raccontare parecchio: la cena con Tomoko, l’incontro con Bokuto e Kuroo, il loro preziosissimo aiuto, la chiamata su Skype e il fatto che sua figlia volesse vederlo quella stessa sera. Tuttavia, avevano ancora tutta la mattina per poterne parlare, magari mentre facevano colazione.
Iwaizumi si mise a mordere il mento del giovane atleta, stappandogli una mezza risata, seguito da un gemito, per poi passare al labbro inferiore.
«Facciamo che “la prossima volta”  è adesso?» disse, usando un tono di voce così sensuale, che Oikawa sentì la carne che si rizzava improvvisamente.
Fece un mezzo sorriso. «Significa che sei tu a stare sotto.»
«Voglio vedere se mi imbarazzerò ad allargare le gambe…»
Oikawa lo spinse contro il materasso, baciandolo con foga, entrambi senza smettere mai di sorridere.





Molto spesso, gli eventi della vita ci fanno prendere una strada diversa da quella che, in un’altra occasione, avremmo certamente seguito.
L’essere umano, però, non smette mai di chiedersi che cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente, se in una guerra avesse vinto l’altra fazione, se si fosse sposata un’altra persona, se si fosse scelto il lavoro alla famiglia.
Oikawa e Iwaizumi erano destinati a passare l’infanzia assieme, ad andare nella stessa scuola fino al liceo, dove poi si sarebbero separati per andare in università diverse.
Si sarebbero rincontrati? Questo neanche il destino lo sa, poiché le cose sono andate diversamente, e i due giovani hanno dovuto percorrere una strada piena di spine prima di conoscersi.
Su una cosa, però, il destino era assolutamente sicuro: le loro anime erano legate da un filo rosso. E non importava in quale modo si sarebbero conosciuti, che strade avrebbero percorso…
Erano comunque destinati a stare insieme.


 
[They say love is pain, well darling, let's hurt tonight 
If this love is pain, then honey let's love tonight]
 




Delucidazioni:
Vi racconto una storia. Questa storia comincia con una ragazza che, il cinque gennaio del 2017, era andata a vedere “Collateral Beauty”. Dopo essere uscita dalla sale con le lacrime agli occhi ed essere tornata a casa, ha ascoltato la canzone che faceva da sfondo a questo film. Piccolo spoiler: ha continuato a piangere come una disperata.
La verità è che quella ragazza ero io e che la canzone era Let’s Hurt Tonight dei OneRepublic, che siano fatti santi. La verità è che da questa canzone è nata questa storia e l’idea di sfruttare la leggenda del filo rosso. La verità è che questa storia è cominciata dal finale, dalla scena di Iwaizumi che corre come un matto in mezzo alla pioggia e scavalca un cancello per poter parlare con Oikawa. La verità è che io non vedevo l’ora di arrivare a questa scena, e lo so che avrei pianto con quella dannata canzone nell’orecchie. Non so voi, ma io piango rileggendo di loro due che si riappacificano con quella canzone, CHE MALATTIA.
Also, diamo un po’ di spiegazioni: dopo che Minori è rimasta incinta, la sua famiglia ce l’ha sempre avuta con Iwaizumi. Lo vedevano come il classico poveraccio senza alcun obiettivo nella vita e che avrebbe solo rovinato la carriera della figlia. Per questa ragione, non solo sono riusciti a fargli ottenere un posto di lavoro, così che gli venisse difficile spostarsi in una nuova città, ma hanno anche truccato il provino di Minori per l’orchestra di Tokyo. Facendo domanda a Osaka, Akane è cresciuta senza conoscere suo padre, se non per sentito dire. Fino all’arrivo del suo quarto compleanno, quando l’ha conosciuto di persona.
La paura di Iwaizumi stava non solo nel rischiare di perdere Akane se si fosse scoperto che era omosessuale – e che quindi avrebbe insegnato valori sbagliati alla figlia –, ma anche che la famiglia di Minori potesse rovinare la vita di Oikawa per semplice ripicca. Inolte, temeva che attuassero il giochetto del: "scegli lui o scegli lei", no okay, sono dei bastardi. 
E qui si chiude il cerchio. Alla fine, dopo tutto l’angst, le cose si sono risolte :’) *le lanciano pomodori*
Che dire, io sto ancora piangendo, non ci credo che manca solo l’epilogo… *piange più forte*
Ringrazio davvero tutte le persone che hanno commentato questa storia, sia con un recensione sia che con un semplice messaggino su Twitter. Vi amo ♥
I ringraziamenti finali li farò la prossima settimana, con l’arrivo dell’ultimo capitolo ufficiale ;)
Alla prossima,
_Lady di inchiostro_  
 

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Capitolo 16
*** Epilogo ***


Epilogo



~



 
[9 agosto 2020]





I corridoi dello stadio, per sua fortuna, erano semideserti, altrimenti sarebbe stato un problema dover spintonare la gente per poter passare. Tutti, probabilmente, erano ad assistere alla partita che, a detta di molti, avrebbe fatto la storia.
Capì di essere quasi arrivata quando sentì delle urla lontane, la luce dei riflettori che quasi le ferì gli occhi.
Tomoko aveva il fiatone, ma il suo sguardo si spostò ugualmente sulle figure che scorrazzavano per il campo. Il cuore quasi le schizzò in gola quando vide una figura che corse a gran velocità dall’altra parte del campo per cercare di recuperare la palla. Purtroppo, questa finì irrimediabilmente fuori. Le parve quasi di sentire la voce del ragazzo che imprecava anche da quella distanza.
Fece un mezzo sorriso, la squadra che si riunì in cerchio per infondere coraggio non solo al compagno che, nonostante tutto, sarebbe anche stato capace di gettarsi sui cartelloni pur di recuperare la palla, ma anche a se stessi.
Nessuno vedeva un team così affiatato da anni.
L’ultima volta che la squadra di pallavolo maschile aveva vinto le Olimpiadi era il 1972. Da allora, la squadra giapponese non aveva ottenuto grandi successi, spesso non riuscendo nemmeno a qualificarsi per i giochi.
Adesso, però, quella stessa squadra che, un tempo, arrancava nelle tattiche di gioco, che aveva dei grandi elementi ma che non sapeva sfruttarli al meglio, stava giocando la finale contro la squadra che, quattro anni prima, era stata vincitrice di una medaglia d’oro: il Brasile.
Sì, quel gruppo di ragazzi che aveva lavorato duramente sul loro rapporto, sul loro essere una vera squadra, aveva comunque fatto la storia, a prescindere da come si sarebbe conclusa la partita.
Lo sguardo di Tomoko seguì il ragazzo di poco prima, quella zazzera castana che gli ricadeva alla perfezione sui lati del viso, sebbene il giovane avesse giocato ben cinque set; e si chiese come diavolo facesse, insomma, lei era ridotta un disastro, correre di qua e di là non era affatto di aiuto per il suo look.
Scese le scale, gli occhi che saettavano tra il pubblico e i giocatori in campo, esultando ogni qual volta i ragazzi riuscissero a segnare. Alla fine, dopo una decina di minuti, riuscì a trovare la persona che stava cercando: era in piedi, non troppo distante dal campo, e accanto a lui c’era una bambina che quasi gli arrivava alla vita.
Arrivò giusto quando l’allenatore del Brasile aveva richiamato la sua squadra per il secondo time-out che avevano a disposizione.
Picchiettò la spalla del ragazzo, due occhi smeraldini che incontrarono i suoi. «Tomoko!» esclamò.
«Tomoko-san, ce l’hai fatta a venire!» aggiunse la bambina, gli occhi dello stesso colore del padre.
«Non me la sarei persa per niente al mondo!» disse, facendole l’occhiolino. «Come sta andando Oikawa-san?»
«Una forza, come sempre!»
Akane fece un sorriso a trentadue denti, mentre il padre le passava una mano tra i capelli corvini, legati da un nastro. Poi, spostò l’attenzione sulla ragazza. «Sono contento che tu ce l’abbia seriamente fatta!»
Iwaizumi sorrise e la ragazza fece lo stesso, grattandosi poi la nuca, imbarazzata. «Beh, sai, avevo da intervistare un sacco di atleti, ma quella a Oikawa e alla sua squadra sarà l’ultima della giornata!» disse, facendo nuovamente l’occhiolino, e l’amico si limitò solo ad alzare gli occhi al cielo.
Iwaizumi lavorava ancora per la rivista di Oohashi-sensei, mentre Tomoko, da un paio di anni, era stata presa come giornalista sportiva per una mittente televisiva, quindi non era facile che i due amici riuscissero a vedersi, visto che avevano entrambi i loro impegni, ma continuavano comunque a sentirsi. Il loro rapporto – incredibile, ma vero – era tornato quello di prima, e non c’era nessun segno di odio da parte della giovane.
E poi, come poteva odiare la persona che aveva ceduto, volutamente, il suo posto come giornalista per una mittente televisiva a lei?
Iwaizumi glielo doveva. Si era comportato troppo male con lei, e anche se l’amica aveva cercato di dissuaderlo, lui era convinto della sua scelta. Per questa ragione, Tomoko non la smetteva mai di esprimere la sua più profonda gratitudine nei suoi confronti. Perché, come Iwaizumi aveva trovato la sua persona speciale, anche lei era riuscita a trovare la sua.
Non si era neanche accorta che Iwaizumi era tornato a concentrarsi sullo svolgimento del match, sebbene in quel momento fosse tutto fermo per via di alcuni problemi tecnici. Fissò con intensità la figura seduta in panchina, la testa leggermente reclinata all’indietro, la maglia rossa che segnava le curve delle sue spalle.
Oikawa aveva dato il massimo, e non solo in tutti i set che avevano giocato, non solo durante tutti i giochi: in quei quattro anni, aveva dato il massimo come giocatore e come persona. La maschera era crollata, adesso i suoi fan vedevano un’altra facciata del giocatore tutto sorrisi e carinerie. E se all’inizio aveva ricevuto una serie di lamentele – per non dire insulti – per via di questo suo cambiamento, in seguito la gente aveva cominciato ad accettarlo così com’era. A cominciare da quei compagni con cui non aveva alcun tipo di rapporto, se non a livello professionale, e con cui adesso condivideva di tutto.
Oikawa Tooru era diverso, adesso. Un’atleta eccezionale, certo, ma che sorrideva più spesso, e stavolta per davvero.
Era felice. E molti sostenevano che fosse per merito suo.
Iwaizumi si imbarazzava spesso quando glielo dicevano, ma anche lui aveva notato che Oikawa era cambiato, che entrambi erano cambiati. Che erano entrambi più sereni.
Certo, inizialmente i fan erano rimasti sconvolti dalla notizia, e non erano mancati gli insulti sul fatto che lui avesse sempre ingannato Eiko, che in realtà era soltanto un “frocio”, e via dicendo. Eppure, la stragrandemaggioranza si era accorta del repentino cambio d’umore del setter. E, adesso, non mancavano di far notare quanto Oikawa fosse felice quando stava con lui e con Akane – già, anche sua figlia aveva il suo manipolo di fan che la adoravano.
Tutto si era aggiustato, dopotutto. Lui e Oikawa stavano assieme, Eiko si era ufficialmente fidanzata, e la gente su Internet non faceva che adorare le foto che ritraevano lui e Oikawa, dove nessuno dei due guardava l’obiettivo, perché non solo Iwaizumi preferiva fare le foto ad altri che a se stesso, ma perché erano quelle più belle. Erano spontanee. Erano quelle dove si vedevano i loro sorrisi.
Come quella della sera precedente, scattata di nascosto da Eiko – dopo l’immancabile selfie tra lei e Oikawa –, dove lui era scoppiato a ridere e, di conseguenza, Oikawa si era messo a ridere a sua volta. Non ricordava neanche lui perché stesse ridendo.
Sbuffò, ripensando a quella foto. Oikawa le postava sempre a tradimento, facendosele passare a sua insaputa.
Guardò poi l’amica, accorgendosi solo in quel momento che era arrivata da sola. «Scusami Tomoko, ma dov’è Hideki?»
«Oh, sta preparando l’attrezzatura per l’intervista! Mi ha detto che avrebbe visto la partita dai monitor!» gli rispose la ragazza.
Hideki era il cameraman di Tomoko, nonché suo fidanzato da ben due anni. Si erano frequentati per pochi mesi, prima di ufficializzare la cosa. E anche lei sembrava veramente felice, aveva trovato un uomo che l’apprezzava veramente, un uomo che aveva persino deciso di cominciare a leggere i manga solo per fare bella figura davanti a sua madre. Era un ragazzo straordinario, estremamente dolce, e trattava Tomoko come se fosse una regina. Tuttavia…
«Avanti, spara!» sbottò, notando che l’amico non aveva smesso di mugugnare qualcosa sottovoce. «Qual è il problema?»
«Parli con me?» Hajime fece finta di cadere dalle nuvole. «Io non ho nessun problema. Forse è il tuo ragazzo che ha qualche problema con me…»
«Hajime-kun…»
«Insomma, lo capisco se mi odia!» esclamò.
«Ancora con questa storia, Hajime? Ti ho già detto che Hideki non ti odia, sa benissimo quello che… “c’è stato” – fece il segno delle virgolette con le dita – tra noi due, e ti assicuro che non ti vede affatto come un possibile rivale!»
La ragazza sorrise, e il giornalista si limitò a produrre un profondo respiro dalle narici, tornando a guardare il profilo del suo fidanzato da lontano, in apprensione. L’allenatore della squadra avversaria aveva tenuto di proposito quel time-out fino all’ultimo: sapeva che se Oikawa perdeva la concentrazione durante la battuta era ufficialmente la fine per la squadra.
Il sorriso di Tomoko si fece più grande. «E poi lo sa che sei il mio migliore amico… e che sei gay» continuò.
Hajime fece una mezza risata. «Ma pensa, sono diventato la rappresentazione vivente del cliché del migliore amico gay!»
Tomoko gli mollò un pugnetto sulla spalla, facendo ridere non solo Hajime stesso, ma anche la piccola Akane, che non la finiva di molleggiare sul posto.
«In realtà – proseguì il ragazzo – io non mi definisco omosessuale.» Spostò lo sguardo di lato, l’amica che aggrottava la sopracciglia. «Io non amo Oikawa perché è un uomo... Io amo Oikawa perché è Oikawa, con i suoi pregi e i suoi tanti difetti.»
Le guance di Tomoko si colorano leggermente dall’emozione. Era bello sentirlo parlare così. Era bello vedere quanto Hajime, adesso, tenesse di più ai suoi sentimenti, a quello che provava per la persona che amava e per sua figlia, la sua famiglia. Era bello vederlo sorridere, perché i media parlavano soltanto di Oikawa, ma non conoscevano il passato di Hajime. Ed era quasi sicura che i suoi genitori sarebbero stati della sua stessa opinione.
Senza rendersene conto, il suo sguardo si spostò in basso, una piccola luce argentea che aveva attirato la sua attenzione. Quasi trattenne il fiato.
«Hajime… Quella è…»
La voce della bambina, però, sovrastò la sua. «Ricomincia!» urlò, indicando poi il campo, la voce dello speaker che annunciava che i giocatori entravano nuovamente in partita in seguito a un piccolo malfunzionamento.
Dopo un piccolo applauso generale, all’interno della sala calò un silenzio tombale. Gli sguardi di tutti erano puntati su Oikawa, un pallone giallo e blu tenuto in mano.
Sarebbero dipese da lui le sorti della partita? Difficile dirlo, per vincere servivano quattro punti.
Un punto in più, però, non faceva per nulla male.
Il castano prese un bel respiro prima di lanciare la palla e apprestarsi a batterla.
Ogni parte del suo corpo vibrava, quasi come se stesse producendo elettricità. Ogni cosa attorno a lui era sparita, quasi non esisteva. Esisteva solo il campo avversario.
Fu un ace netto.
Aveva già battuto altre volte, nel corso di quelle lunghe partite, ma era la prima volta che gli avversari rimanevano immobili, come se avessero i piedi incollati al terreno.
Quel punto, però, non li scompose minimamente, e dopo l’iniziale esaltazione da parte della squadra giapponese, tutti tornarono in posizione. E di nuovo, il pubblico esultò e poi tornò ad ammutolirsi.
Erano tutti col fiato sospeso.
Anche la seconda battuta fu un ace diretto, seppure stavolta gli avversari tentarono comunque di recuperare invano la palla.
Un altro esulto, altri voci che si levarono per tutta la sala, e Oikawa sentiva che il cuore gli batteva troppo veloce nel petto. Credeva che sarebbe esploso di lì a breve.
Erano pari. Avevano raggiunto la squadra avversaria.
Potevano farcela.
Un’altra battuta, un altro ace diretto, altri esulti, altre urla, la squadra che lo abbracciava e gli scuoteva i capelli.
Non era la prima volta che faceva tre ace consecutivi. Il problema era che, dopo il terzo ace, di solito sbagliava la battuta, mandando la palla fuori, oppure toccando la rete.
Deglutì, e per la prima volta da quando aveva iniziato a giocare la finale avvertì il silenzio che c’era attorno a lui. Si stava innervosendo. Le gocce di sudore gli offuscavano la vista e le sue mani cominciarono a tremare.
Fece palleggiare la palla per terra, aspettando che l’arbitro fischiasse e che fosse tutto pronto, mettendosi poi in posizione.
Solo che, alle sue orecchie, non arrivò il fischio dell’arbitro, bensì una vocetta che conosceva fin troppo bene e che lo fece trasalire.
«FACCIAMO IL TIFO PER TE, TOORU!»
Voltò la testa di scatto, cercando con lo sguardo la figura della piccola Akane, riuscendo ad individuarla a malapena tra gli spalti. Era quasi certo, però, che stesse sorridendo, mentre Iwa-chan stava morendo per via dell’imbarazzo. Tutti avevano sentito quello che aveva detto.
Solo che nessuno, né Iwaizumi né Oikawa, avrebbe mai immaginato che quel piccolo grido potesse sortire una sorta di tifo generale. I tifosi giapponesi cominciarono a battere le mani, prima lentamente, poi sempre più veloci, sillabando per bene il nome del setter, come se fosse un unico coro di voci.
Oikawa era sconvolto. Le sue labbra tremavano e avevano assunto un colore bluastro per via dell’emozione. Un conto era sognare momenti del genere, un conto era viverli sul serio. E se un tempo si lasciava trasportare da questo genere di tifo, adesso, come giocatore professionista, era tutta un’altra storia: significava che quei mesi di fatica, di sudore, di lividi e spesso di lacrime erano valsi a qualcosa.
Doveva appuntarsi a mente di ringraziare Akane, più tardi. Quella bambina era eccezionale.
«Il pubblico ti acclama, vice!» Sentì la voce di Ushijima da lontano, troppo intento a guardarsi intorno come se fosse un bambino smarrito, prima che il suo sguardo si posasse su Iwaizumi.
Non stava battendo le mani come gli altri, ma era quasi sicuro che non avesse mai smesso di guardarlo. Gli fece segno di prendere un bel respiro, e Oikawa annuì, proprio poco prima che l’arbitro placasse il pubblico e fischiasse.
L’ultima cosa che Oikawa vide, prima di lanciare la palla, furono due colori: il giallo e il blu. E non erano solo quelli emanati dalla palla che teneva in mano, poiché erano ben stretti al suo polso, un nastro colorato simile a quello che Akane gli aveva dato quattro anni fa e che, in quel momento, portava tra i capelli. Poi vide una luce argentea, e sapeva benissimo da cosa fosse provocata. Sorrise.
Infine, più nulla. Se il momento in cui si apprestava a colpire la palla avvenne quasi a rallentatore, quello in cui la palla finì dall’altra parte del campo fu troppo veloce.
Gli avversari non si mossero di un millimetro, ma per un motivo ben preciso: la palla era finita fuori.
Le urla derisorie e di disapprovazione da parte del pubblico avversario gli arrivarono alle orecchie come se fossero dei fischi, delle bombe a mano gettate lì vicino.
I compagni si avvicinarono, dandogli delle vigorose pacche sulle spalle e dicendogli che, comunque, avevano recuperato alla grande. Si accorse solo in seguito che il mister aveva richiamato l’arbitro, chiedendo di poter usufruire del video registrato dalla moviola, cosa cui il giovane arbitro acconsentì.
Ancora, tutti quanti trattennero il fiato, compresi i giocatori delle due squadre, mentre si stringevano tra di loro, spalle contro spalle, e guardavano in alto, verso lo schermo che avrebbe mandato il video.
Se la palla era finita dentro, allora significava che avevano vinto. Che avevano segnato definitivamente la storia. Che ne avrebbero parlato per mesi, forse per anni.
«Ti prego…» mormorò Tomoko, congiungendo le mani, mentre Iwaizumi aveva preso Akane in braccio. Era teso quasi quanto Oikawa.
Quei minuti di attesa furono una vera agonia.
Poi, lo stupore generale, la gente che si alzava in piedi. Prima di registrare quello che era effettivamente successo, Oikawa si era ritrovato i suoi compagni addosso, un abbraccio che quasi gli mozzò il respiro, e si mise a piangere in un secondo momento.
«È dentro!» continuava a urlare Tomoko, seguita a ruota da Akane, che non la smetteva di indicare lo schermo.
Iwaizumi, invece, non sapeva che cosa dire. Era sconvolto, continuava a guardare Oikawa che veniva abbracciato dai suoi compagni che urlavano, saltavano, e lo facevano sentire come se fosse l’eroe della situazione – e, in effetti, lo era. Aveva anche lui gli occhi lucidi, e lo vide mentre si inginocchiava per terra e cominciava a piangere, non prima di aver gettato un urlo liberatorio.
L’ultima cosa che intravide furono i compagni del giovane alzatore che si avvicinavano a lui, inginocchiandosi a loro volta, prima che Tomoko lo riscuotesse. «Che ci fai ancora qui?» Il ragazzo sbatté le palpebre, ancora frastornato. «Vai da Oikawa, muoviti!»
Iwaizumi guardò prima l’amica, poi sua figlia, che era scesa dalle sue braccia di sua spontanea volontà, sorridendogli; poi, si mise a correre tra la gente esultante, cercando di avvicinarsi agli spalti più vicini al campo. I suoi occhi erano puntati sulla figura di Oikawa che, adesso, si era rimesso nuovamente in piedi e stava festeggiando con i suoi compagni. Il giornalista non sapeva per quale motivo, ma sentiva il cuore battere all’altezza delle corde vocali.
Riuscì a chiamarlo solo quando giunse a destinazione, la voce un po’ roca. «Oikawa!»
Il castano si girò, osservandolo per una manciata di minuti, prima di dirigersi da lui a passo di marcia, scavalcando i cartelloni con un abile salto. Fu un abbraccio un po’ scomodo, poiché il giovane giornalista era qualche metro più in alto di lui, ma questo non gli impedì di singhiozzare contro la sua spalla, di stringere con forza la maglietta del ragazzo.
«Ehi!» gli sussurrò ad un orecchio. «Smettila di piangere…»
Tooru si lasciò andare ad un ultimo singhiozzo, prima di spostarsi e di posare le labbra su quelle del suo ragazzo. Sapeva che Hajime, di solito, non amava esternare certi momenti davanti al mondo intero, tuttavia in quel momento era l’ultimo dei suoi pensieri. Lo sguardo che lanciò Oikawa, quando si separarono, lasciava intendere tante cose: “grazie di esserci”, “ci vediamo dopo”, “ti amo”.
Oikawa tornò dal suo gruppo di compagni, e quando tutti gli atleti, compresi gli avversari, si presero per mano e sollevarono le braccia in alto, la sala scoppiò in un enorme boato.
Iwaizumi osservò gli atleti che si inchinavano davanti il pubblico, Oikawa che tentava di asciugarsi il viso mentre tutti ancora lo acclamavano, anche lui con le lacrime agli occhi.





La cerimonia di premiazione era stata, di certo, la più emozinante tra le tante che si erano svolte durante i giochi. Dopo essersi dati una sistemata – e aver continuato a festeggiare in spogliatoio –, gli atleti erano saliti sul piedistallo, acclamati con urla e applausi dall’intero pubblico, Oikawa che continuava ad avere gli occhi lucidi. Stava pensando alla sua famiglia, ad Hajime e Akane, a sua madre…
Era sicuro che, ovunque ella fosse, lo stesse guardando. Ed era sicuramente fiera di lui, fiera dell’uomo che era diventato.
Aveva lanciato una lunga occhiata ad Iwaizumi, salutando poi Akane con la mano, prima che l’inno nazionale partisse e loro cominciassero a recitarlo a bassa voce. Gli sfuggirono due lacrime, ma non aveva mai smesso di sorridere.
Ogni volta che Iwa-chan lo guardava, credeva di star sognando, e invece quello sguardo era lì, ogni mattina, non appena apriva gli occhi. Quello sguardo c’era ogni giorno, ad ogni ora, e questo significava che non aveva mai smesso di amarlo. Che continuava ad amarlo nonostante tutto, nonostante lo facesse impazzire il più delle volte. Quei quattro anni di fatica erano stati anche i più belli della sua vita, e sperava che fosse così per sempre.
Alla fine dell’inno, ci fu un altro applauso generale, mentre Bokuto e Kuroo gli scompigliarono i capelli e gli dissero di smetterla di frignare.
Iwaizumi, intanto, era rimasto in disparte, la mano tenuta ben salda in quella di Akane, mentre osservava il suo fidanzato che veniva intervistato dai giornalisti più disparati e si metteva in posa per le fotografie. Si lasciò sfuggire una mezza risata, non appena vide i suoi compagni di squadra che lo sollevarono da terra, lanciandolo letteralmente in aria. Come facessero ad avere ancora tutta quella energia, era un mistero. Probabilmente era l’euforia del momento che li faceva stare in piedi. Tornati a casa, Oikawa sarebbe sicuramente andato alla ricerca del suo amato materasso. E avrebbe cominciato a ronfare non appena la sua testa si sarebbe posata sul cuscino.
Tomoko si era allontanata poco prima, raggiungendo Hideki, che li aveva salutati da lontano, in modo da poter preparare tutto l’occorrente per l’intervista. Stava ancora osservando il trio composto da Oikawa, Bokuto e Kuroo che si lasciavano fotografare in tutte le posizioni più assurde, quando sentì una voce alle sue spalle.
«Complimenti, è stata una bellissima partita! Anche se i complimenti dovrei farli a Oikawa-kun…»
La prima a girarsi fu Akane. «Mamma!» esclamò, abbracciando di slancio la donna.
«Akane, ti prego, fai attenzione…» Fu Katsu a parlare, una mano stretta a quella della sua compagna.
«Katsu, sto bene, tranquillo!» lo rassicurò Minori, un sorriso luminoso che le ingentilì il volto.
«Avete visto cosa ha fatto Tooru-san? L’avete visto? Non è stato un mito?» disse Akane, gli occhi che le brillavano, il mento appoggiato alla pancia della madre.
La donna le scompigliò i capelli. «Sì, l’abbiamo visto.»
Hajime sorrise, le mani tenute dentro le tasche dei pantaloni. Stava per parlare, quando una voce lontana e che gli era familiare richiamò la piccola Akane. Videro Oikawa che le faceva segno di avvicinarsi, sorridendo: a quanto pare, una fotografa si era accorta della presenza della bambina, e aveva chiesto se potesse scattare un paio di foto in sua compagnia. Ovviamente, si aspettava che fossero i suoi genitori a darle il consenso, e gli occhi color cioccolato del giovane incontrarono quelli verdi Iwaizumi. Aveva un sopracciglio alzato e sembrava un poco scettico, del resto non gli piaceva l’idea che sua figlia venisse utilizzata come un mezzo mediatico per aumentare le vendite, aveva pur sempre otto anni. Eppure, Iwaizumi sapeva anche che Akane adorava farsi delle foto con Tooru, per non parlare di quando la riprendeva di nascosto e lei si divertiva a fare le smorfie.
Il castano uscì la punta della lingua e alzò le spalle, come a dire che non poteva farci nulla. Iwaizumi aveva un rapporto contrastante con quell’espressione. Certe volte gli veniva voglia di prenderlo a testate sui denti, ma la maggior parte delle volte avrebbe voluto baciarlo seduta stante, non importava chi ci fosse intorno. Si sentiva come la prima volta in cui era stato fotografato con Oikawa, sebbene non stessero facendo nulla di che. Il setter aveva confessato da poco di stare con uomo, ed era tornato da due lunghi giorni di trasferta negli Stati Uniti. Quella volta, in aeroporto, Hajime era andato a prenderlo senza pensarci. Si erano abbracciati davanti ai paparazzi, e per la prima volta non gli importò nulla di cosa avrebbe pensato la popolazione mondiale di loro due. A lui importava solo di Oikawa.
«Posso? Posso? Vi preeeeego!» disse la bambina, congiungendo le mani e stringendo gli occhi.
«Per me non ci sono problemi… Ma deve essere tuo padre a decidere.»
Minori lanciò uno sguardo eloquente ad Hajime, che alzò gli occhi al cielo. «Va pure!»
«Grazie!»
Osservarono Akane che si faceva strada tra la folla, gettandosi poi tra le braccia di Oikawa, che la prese in braccio. Si dissero un paio di cose, Akane che non la smetteva di agitare le mani, Oikawa che non aveva mai smesso di sorridere. Poi successe una cosa che lasciò di stucco i due genitori e probabilmente la stessa Akane: Oikawa si tolse la medaglia d’oro che aveva al collo e la mise attorno a quello della bambina, quest’ultima che se la rigirava tra le mani, fissandola con intensità. Era il suo modo di ringraziarla per quello che aveva fatto prima, per avergli regalato un momento che non avrebbe dimenticato mai, finché avesse avuto respiro. La bambina gli diede un bacio sulla guancia, e poi rimasero così, fronte contro fronte, a ridere a crepapelle. Sì, con Akane poteva concedersi di essere un po’ più bambino del solito.
Iwaizumi dovette abbassare lo sguardo per evitare di arrossire. Era sempre così quando li vedeva assieme. Si innamorava ogni giorno di più, ogni volta che vedeva Oikawa che abbracciava sua figlia, o che rideva con lei. Ed era sicuro che per il ragazzo fosse lo stesso, era come se si fosse innamorato un’altra volta.
Adesso non era solo Hajime a voler proteggere Akane da qualsiasi male. Per Tooru era diventata troppo importante, come se fosse veramente sua figlia.
«Io ne approfitto per andare a prendere qualcosa da mangiare…» esordì Katsu, facendo voltare i due genitori. Poi, si rivolse a Minori. «Gradisci qualcosa in particolare?»
«Solo un succo di frutta, grazie!»
Il ragazzo si allontanò poco dopo, e i due rimasero in silenzio, uno di fianco all’altro, continuando a fissare Oikawa e Akane, e adesso si erano aggiunti anche Bokuto e Kuroo, assieme ad altri membri della squadra. Quest’ultimi tenentarono di coinvolgere anche Ushijima, interrompendo la sua intervista con un giornalista. Era come se Akane fosse diventata, improvvisamente, la maschotte della Nazionale.
«Allora, – sbottò poi Hajime, dondolandosi sui talloni – la neo mamma non ha niente da dirmi?»
La donna rise, spostando una ciocca bionda che le ostruiva la vista. Abbassò gli occhi, sfiorando con la punta delle dita la pancia che, piano piano, stava cominciando a crescere. «È un maschietto!» disse, sorridendo e inclinando la testa di lato.
Hajime sorrise a sua volta. «Immagino che Katsu sarà entusiasta!»
«Lo è, ma è anche molto apprensivo.» E questo era uno dei motivi per cui Akane era andata alla partita con il padre e non con Katsu e Minori, poiché la ragazza non era stata tanto bene e il compagno aveva dato di matto. Aveva persino deciso di portarla al pronto soccorso, sebbene la donna gli avesse detto che si trattava di un semplice mal di testa. «Anche Akane è entusiasta» aggiunse.
«Già, non smette mai di parlarne!»
Non ricordava quando era stata l’ultima volta che l’aveva visto così, eppure sapeva che era stata quella luce che gli illuminava gli occhi a farla innamorare di lui, la prima volta. Hajime poteva sembrare un tipo un po’ burbero, che difficilmente esternava i suoi sentimenti, ma in realtà era un persona estremamente buona e paziente – e di pazienza ne aveva da vendere, considerando che stava assieme a Oikawa Tooru. E Minori l’aveva visto quella sera di quattro anni fa, quando le aveva confessato di amare un uomo, quando le aveva confessato di provare per lui dei sentimenti che non aveva mai sentito in vita sua. Non poteva fare a meno di mettere a confronto quell’immagine, quell’espressione, con quella di lui che teneva in braccio sua figlia.
«Si chiamerà Hisoka.» Il ragazzo spalancò gli occhi, voltandosi lentamente verso la donna, le labbra che gli tremavano. «Katsu è d’accordo.»
Per un attimo, credette di aver capito male, ma lo sguardo determinato che gli lanciò la ragazza gli disse che no, non aveva capito male. Il fiato gli uscì in pesanti sospiri, mentre si passava una mano sul viso per cacciare indietro le lacrime. Quello era il nome di suo padre. Il figlio di Minori e Katsu avrebbe avuto il nome di suo padre.
Gli sfuggì una risata amara. «Io… io non so che cosa dire…»
«Non devi dire niente» disse lei, continuando a sorridere. «Vorremmo che tu e Oikawa foste presenti nella vita di nostro figlio. In fondo, siete i due papà di Akane, no?»
Ricordava ancora il disegno che aveva portato Akane da scuola, raccontando come fosse stato complicato dover spiegare che, per lei, Oikawa Tooru era il suo secondo padre.
«Non capiscono perché loro non sanno il rapporto che ho io con Tooru-san, è speciale!»
Ricordava ancora il suo visino imbroncianto quando le aveva mostrato il disegno, le braccia conserte, e accanto al nome di Oikawa c’era scritto “papà”, esattamente come per Hajime. Era felice che Katsu non se la fosse presa, del resto sapeva che il rapporto che aveva con Akane era diverso da quello che aveva con Iwaizumi o con Oikawa. Forse era per questo che si comportava in maniera così apprensiva, perché pensava di non riuscire a portare a compito il suo ruolo di padre. Gli ricordava un po’ Hajime.
Con enorme sorpresa da parte della giovane, il giornalista la avvicinò a sé, stampandole poi un bacio tra i capelli, calde lacrime che gli solcavano il viso. «Grazie» sussurrò.
Quando due persone si separano, c’è la seria possibilità che tra di loro il rapporto si sfaldi completamente: entra in gioco l’odio, la vendetta, e tutti quei sentimenti negativi che portano le due persone a non frequentarsi più, a non riuscire a guardarsi più in faccia o a stare nella stessa stanza. Non era così per Hajime e Minori, loro si volevano ancora bene. Non c’era più amore tra di loro, ma l’affetto, oh, quello non era mai scomparso. Minori aveva fatto tantissimo, per lui, negli ultimi anni, e le sarebbe stato per sempre debitore.
«I tuoi genitori sarebbero fieri di te…» disse lei, e Hajime si lasciò sfuggire un singhiozzo, seguito da una risata un po’ roca.
La ragazza le posò le sue mani bianche come il latte sulle sue guance, leggermente più scure, asciugandogliele. Entrambi sorrisero, ed era bello che tra di loro non ci fosse imbarazzo. Non c’era rancore, non c’era odio: loro erano la prova vivente che si può volere il bene di una persona che, un tempo, era stata la propria amante, la propria compagnia di vita.
«Okay, credo di aver pianto abbastanza per oggi!» disse poi il giornalista, schiaffeggiandosi la faccia con ambedue le mani, e strappando una risata a Minori.
Ci un attimo di silenzio, prima che la ragazza tornasse a parlare, dando una gomitata sul braccio al ragazzo. «E tu, invece? Non hai niente di bello da dirmi?»
Il ragazzo finse di pensarci un attimo. In realtà, sapeva benissimo a cosa si riferiva. «No, non ho niente da dirti.»
«Hajime… Guarda che si nota…» disse, indicando poi la piccola fedina argentea che portava all’anulare della mano sinistra, esattamente nello stesso punto dove la portava Oikawa.
Iwaizumi non disse niente, limitandosi solo a incrociare le braccia per nascondere la prova incriminante e ad alzare gli occhi al cielo, mentre la ragazza lo scuoteva, eccitata. «Quando?»
«La prossima settimana» disse, lasciandola di stucco. «Lo so, è presto, e conoscendo Oikawa mi sarei aspettato che volesse fare le cose in grande, ma ho scoperto che in realtà… non gli importa.» Fece un piccolo sorriso, rigirandosi l’anellino tra le dita. «Gli basta sapere che siamo sposati…»
Sentì le braccia dell’amica che gli stringevano il collo, e Hajime ricambiò subito l’abbraccio. Era stata dura, ma alla fine il Giappone aveva finalmente deciso di ufficializzare i matrimoni tra due persone dello stesso sesso; del resto, le stesse regole olimpioniche stabilivano che il paese ospitante dovesse rispettare qualsiasi tipo di religione, di cultura, di orientamento sessuale.
In parte, alcuni avevano dato il merito di tutto questo proprio a Oikawa, perché era stato il primo atleta giapponese ad aver ammesso, davanti al mondo intero, di amare una persona del suo stesso sesso. La sua squadra l’aveva sostenuto sin dall’inizio, assieme a tantissimi altri atleti provenienti dai paesi più disparati, fino a quando non erano cominciate a uscire delle voci sulla presunta omesessualità di altri atleti giapponesi. Alla fine, dopo anni di proteste, dopo che la maggior parte delle prefetture avevano riconosciuto le coppie dello stesso sesso come coppie di fatto, il governo nipponico decise di approvare il matrimonio tra le coppie omosessuali.
Forse era esagerato dire che fosse per merito loro, ma le proteste si erano fatte più intense proprio quando stavano per cominciare le Olimpiadi, proprio perché molti dicevano che gli atleti della stessa Tokyo non dovevano più nascondersi. E tra questi, spiccava sicuramente il nome di Oikawa.
«Sono così felice per voi!» disse la ragazza, dopo che si furono allontanati.
«Sì, beh, mi sono informato, e a quanto pare posso sposarmi nonostante io sia divorziato…» Si torturò una ciocca di capelli, una risata nervosa che risalì lungo la sua gola. «Non ci credo che sto per sposarmi con quel cretino…»
Scosse la testa, ridendo, e Minori non potè fare a meno di sorridere. «Quindi sarà un cosa più intima…?» chiese.
«Sì, almeno spero… Non so cosa intenda Oikawa quando dice di voler invitare poche persone.» Scoppiarono a ridere. «Poi, partiremo per la Bolivia… Desideriamo farlo da anni, e adesso abbiamo il pretesto perfetto.»
«Te lo meriti… Ve lo meritate…» Nessuno dei due smise mai di sorridere, continuando a guardarsi negli occhi. Poi, Minori aggiunse: «Quando ti ha fatto la proposta?»
«In realtà, sono stato io a fargliela…»
La ragazza sbattè le palpebre, incredula. «Hai sempre detto che l’idea di fare la proposta a qualcuno ti imbarazzava!» Infatti, era stata lei a fargliela, tanti anni prima, e Hajime si era imbarazzato anche in quel caso, rimanendo in silenzio per cinque minuti buoni.
«Lo so, ma conosci Oikawa, se non gliel’avessi fatta io me l’avrebbe rinfacciato a vita!» disse, cercando di essere il più convincente possibile, fallendo miseramente.
Iwaizumi era davvero cambiato. Iwaizumi aveva finalmente maturato il desiderio si voler passare il resto della sua vita con la persona che amava, di poter dire davanti a tutti che erano sposati. Per questa ragione, era stato lui a fare il primo passo.
«E poi, gliel’ho fatta solo perché ieri sera non la smetteva di lamentarsi e non mi faceva dormire!»
Minori continuava a non bersela, dandogli comunque corda, un sorriso divertito che faceva capolino sulle sue labbra rosa. Avrebbe voluto chiedergli che cosa ci faceva con due fedine perfettamente abbinate se non aveva intenzione di fargli la proposta, ma lasciò perdere, non voleva imbarazzarlo più del dovuto, aveva già le guance in fiamme.
Non poteva sapere che stava ripensando alla sera precedente, il lenzuolo attorcigliato alle caviglie, Oikawa rannicchiato dall’altra parte del letto e che non la smetteva di lagnarsi, l’ansia che quasi lo mangiava vivo. Poi, i suoi occhi color cioccolato che si fecero più grandi non appena sentì quella parolina magica provenire dalla bocca di Iwa-chan.
«Sposami.»
Sulle prime, si mise a ridere, perché pensava che lo stesse prendendo in giro, ma non appena vide che la sua espressione non era cambiata di un millmetro, aveva cominciato a piangere. E le lacrime si fecero sempre più copiose, Iwaizumi che tirava fuori la fedina d’argento e gliela metteva al dito. Sentiva ancora la risata di Oikawa dentro le orecchie, e i suoi palmi cominciarono a farsi appiccicaticci per via del sudore.
Spesso si domandava perché uno come Oikawa stesse con lui: erano come due abitanti di due mondi diversi, erano come il bianco e il nero, così diversi, eppure così simili. Così bisognosi di qualcuno che fosse in grando di completarli.
Tooru aveva dato ad Iwaizumi quello che, per una vita, aveva sempre cercato, e adesso non voleva più perderlo. Voleva che tutti sapessero che era una parte della sua vita, che era legato a lui in una maniera che, forse, in molti non riuscivano a capire.
E per Oikawa era esattamente lo stesso. Non lo odiava per quello che gli aveva fatto, poiché Hajime c’era, era rimasto, non se n’era più andato. Hajime continuava ad amarlo ogni sera, ogni volta che le sue labbra incontravano la sua pelle rovente, ogni volta che apriva gli occhi di prima mattina. La proposta era solo una conferma che, sì, avrebbe continuanto a farlo per il resto della sua vita.
«Iwa-chan!» Il ragazzo in questione si girò verso la fonte della voce, e questa volta vide Oikawa che gli sorrideva, accompagnato da Tomoko e, ovviamente, da Akane.
Era talmente preso dalla conversazione con Minori, da non essersi accorto che l’amica era riuscita a strappare Oikawa dalle grinfie dei fotografi, ottenendo finalmente la possibilità di intervistarlo. E, dato che c’era anche Akane, perché non intervistare l’allegra coppietta che faceva impazzire milioni di fan?
Il ragazzo scosse il capo, ma a schiodarlo dalla sua posizione, fu la pacca che – gentilmente – Minori gli diede sul sedere. «Dai, Hajime, che ti costa! Accontenta tua marito, una volta tanto!»
«Non è ancora mio marito! E su certe cose rimarrò comunque inflessibile!» esclamò, dirigendosi lo stesso verso il gruppetto che non aveva mai smesso di fissarlo.
«Eccolo qui!» annunciò Tomoko, sorridendo all’indirizzo di Iwaizumi. «Stavo giusto dicendo a Oikawa-san che sarebbe davvero carino se vi scambiaste un piccolo bacio, proprio come è successo qualche anno fa, vi ricordate?»
«Oh, sono sicura che Iwa-chan se lo ricorda perfettamente!» esclamò Oikawa, ripensando al video che aveva postato sui social, dopo che l’intero mondo sportivo era esploso per via del suo coming out.
Iwaizumi, intanto, lo stava guardando negli occhi, i suoi che si erano ridotti a due fessure, e si ricordò della prima volta in cui si erano guardati così. Erano seduti al tavolo di un ristorante e non avrebbe mai immaginato che con quel ragazzo – lo stesso ragazzo che aveva avuto il dispiacere di intervistare – potesse nascere qualcosa di così importante.
Sorrise, spostando poi lo sguardo su Akane, e in un primo momento Oikawa aggrottò le sopracciglia, confuso. «In realtà, stavo pensando a un bacio un po’ diverso…» disse, e a quel punto il giovane setter capì, spostando i capelli scuri della bambina.
In un attimo, le loro labbra calarono sulle guancie di Akane, ancora tenuta dalle robuste braccia di Oikawa, che si lasciò sfuggire un’esclamazione di stupore.
«Non vale, ero distratta!» protestò la bambina, ridendo ugualmente, dopo che i due ragazzi si furono staccati.
«Okay, ci accontentiamo, è stato davvero carino!» disse invece Tomoko, i denti scoperti in un sorriso luminoso.
Stava per congedare i due ragazzi, ma Iwaizumi la fermò, continuando a parlare. «Che ne dici, Shittykawa? Diamo alla nostra amica una piccola esclusiva?»
«Ci stai prendendo gusto a farti riprendere, Iwa-chan?»
«No, affatto, ma mi sembra giusto che Akane e Tomoko lo sappiano… E visto che ci siamo…»
«Cosa devo sapere?» scattò subito Akane, spostando lo sguardo da Oikawa a suo padre, entrambi sorridenti.
Iwaizumi non disse niente, si limitò solo a mostrarle la mano sinistra, e se all’inizio la bambina non capì cosa ci fosse di diverso rispetto al solito, non appena vide la mano di Oikawa cacciò un urlo fortissimo, più forte di quello che fece in aeroporto, abbracciando subito suo padre.
«Papà si sposa! Si sposa con Tooru-san!» continuava a dire contro la spalla del genitore, i capelli neri che gli solleticavano la punta del naso. «Tooru-san, ora sei per davvero il mio secondo papà! Anche se lo eri già da prima, per me!» disse poi, voltandosi verso Oikawa.
Il ragazzo sorrise, le labbra che tremavano, per poi abbracciare la piccola Akane. Non riusciva ancora a capacitarsi di quanto la sua vita fosse cambiata, a cominciare dal fatto che quella bambina lo considerava come un genitore a tutti gli effetti. Era ancora un emozione troppo grande da riuscire a contenere.
E Oikawa non era l’unica persona che si era lasciata sfuggire qualche lacrima. Anche Tomoko aveva cominciato a piangere e singhiozzare senza alcun motivo, Hideki che aveva già spento la telecamera da un po’, giusto il tempo di riprendere la scena incriminante, e che le aveva posato le mani sulle spalle. 
«Ehi, perché stai piangendo?» le disse Iwaizumi, abbracciandola in un secondo momento.
«Non lo so… Hajime, sono così felice per te, diamine…» biascicò, la bocca impastata di saliva.
Il ragazzo aumentò la presa, senza smettere di sorridere. «Grazie di tutto, Tomoko, davvero…»





Una giovane donna non la smetteva di dondolare le sue lunghe gambe nel vuoto, seduta sulla ringhiera metallica e color ferro, mentre osservava un gruppetto di persone che cercava di ricomporsi. Erano già passati quattro anni da quando era rimasta in disparte? Sembrava di più.
Il destino aveva deciso di lasciare in pace i due giovani, eppure era tornato per vedere se il filo rosso c’era ancora, sempre sotto le vesti di quella donna che faceva disperare i due malcapitati, quella donna con l’animo un po’ fanciullesco. Sorrise: il colore del filo si era fatto più accesso. Osservò i due ragazzi mentre si guardavano negli occhi e, lontani dalle telecamere e dai fotografi, si scambiavano un fugace bacio.
«Non ho mai visto mio figlio così felice…» disse una voce alla sua destra, la madre di Oikawa seduta accanto a lei. «Grazie per avermi permesso di vederlo…»
Il destino inclinò la testa di lato e sorrise.
«Hajime non è più solo, adesso…» Un’altra voce, i genitori del ragazzo posti alla sua sinistra, e il destino ricambiò il sorriso maliconico della madre.
Lanciarono un ultimo sguardo ai due ragazzi, al loro sorrisi, alle loro mani strette a quelle della piccola Akane, ai loro polsi legati da un filo rosso invisibile, prima di dissolversi come una nuvola di fumo, un dolce profumo che si librò nell’aria.



 
[Meeting you was fate, becoming your friend was a choice, but falling in love with you was beyond my control.]





Ultime delucidazioni:
Ebbene sì, siamo giunti alla fine di questa avventura. Come dite? Volete sapere se sto piangendo? Ma sciocchini, certo che STO PIANGENDO, MA VI PARE, E’ COME SE STESSI LASCIANDO MIO FIGLIO IN BALIA DEL SUO DESTINO! STA STORIA L’HO IN MENTE DA QUASI UN ANNO, VE NE RENDENTE CONTO?
*soffoca nelle sue stesse lacrime*
Tornando a fare le persone serie – forse – prima dei ringraziamenti finali, vorrei spendere due paroline su questo epilogo: se non si fosse capito, è ambientato durante le Olimpiadi che, proprio nel 2020, si terranno nella mitica isola del Sollevante. La data non è casuale: in teoria, i giochi si concluderanno proprio quel giorno e di solito le finali di pallavolo si svolgono a conclusione del percorso olimpionico. Per quanto riguarda la vincita di Tooru e compagni… Potevo non regalare una gioia a questo ragazzo? Insomma, ne ha passate di tutti i colori e diamogli un po’ di pace, su! *la menano*
E vi ho regalato una gioissima (??) finale – credo: i due idioti si sposano. Ora, vi chiederete come è possibile visto che la magica terra dei manga lucra sugli yaoi, ma non approva i matrimoni gay. A parte che tra tre anni le cose potrebbero cambiare, ho fatto anche un paio di ricerche e ho visto che alcune prefetture, effettivamente, riconoscono le coppie gay come coppie di fatto. Perché? Beh, proprio per evitare il problemino delle Olimpiadi e del fatto che ogni atleta deve essere rispettato a prescindere dal sua religione o dal suo orientamento sessuale. Non so come si concluderanno le cose, ma io spero veramente in meglio per tutte quelle persone che ancora, in Giappone, aspettano di aver riconosciuti i propri diritti.
La frase finale è questa e l’ho beccata per puro caso su un post tamblah, non giudicatemi.
Non credo di dover aggiungere altro, per il momento, quindi passiamo ai ringraziamenti:
-Ringrazio tutte le persone che hanno recensito ogni capitolo o che, comunque, hanno lasciato un messaggio dopo il bip (Obsidian_Butterfly, nigatsu no yuki, Kotomi, GinnyBlack12, Anown, Mikaelaknight, momoko89, unamoresolitario, ariannalosi). Una menzione specialissima va a Sarck, il mio Kit Kat del cuore, e Elis9800, le cui recensioni mi davano un carica immensa per il capitolo successivo. GRAZIE PER QUESTI 63 MESSAGGI DOPO IL BIP (??)
-Ringrazio tutte le persone che non mi hanno lasciato una recensione, ma che si sono premurate di lasciarmi SEMPRE un recapito telefonico a fine capitolo: la mia piccola kohai Gaia, la mia waifu _Aria, Ayumu, la senpai Selene, Alexys_Tenshi, le piccole ari-chan e Erc. Ne avrò senz’altro dimenticato qualcuno. Non prendetevela. Ho vent’anni, sono vecchia.
-Ringrazio, soprattutto, la mia beta, che si è premurata di leggere e di sclerare per ogni singolo capitolo di questa storia. Non sarei la persona che sono oggi senza di lei ♥
-Ringrazio tutte le persone che hanno messo questa storia tra le preferite, le seguite o addirittura tra le ricordate. E ringrazio chiunque sia arrivato a leggere fino a qui, anche se ha cominciato la storia molto tempo dopo. Apprezzo il coraggio di chiunque abbia voglia di leggere un’epopea del genere.
Che dire, ci vediamo a una prossima storia su questi due trogloditi. Come dite? Mi state chiedendo se ce ne saranno delle altre?
E CERTO! Tooru menziona di un certo video che ha postato sui social, e poi permettete che io voglia divertirmi a descrivere Iwa-chan in totale imbarazzo mentre fa la proposta a Oikawa? E non dimentichiamoci della torta che sti due devono preparare con Akane! 
Brace yourself. L’ennesima nuova serie sta arrivando! *vola a cavallo di una scopa*
Grazie ancora di tutto! Buon Natale e buone feste a tutti ♥
_Lady di inchiostro_

l'uccellino cinguetta 

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