Sette bambini decisamente cattivi

di Yellow Canadair
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo spirito viandante del 13 dicembre ***
Capitolo 2: *** Concerto in piazza del Balconcino D'Oro ***
Capitolo 3: *** Voci di corridoio a crescita istantanea e germinazione fulminea ***
Capitolo 4: *** Dalla tatuatrice ***
Capitolo 5: *** Non sono gay, ma posso imparare! (atto primo) ***
Capitolo 6: *** Non sono gay, ma posso imparare! (atto secondo) ***
Capitolo 7: *** Sangue sulla pista (Western!AU) ***
Capitolo 8: *** Non ho bevuto abbastanza per questa... ***
Capitolo 9: *** Per una volta, invece dell'assassino, fammi fare l'eroe (parte I) ***
Capitolo 10: *** Per una volta, invece dell'assassino, fammi fare l'eroe (parte II) ***



Capitolo 1
*** Lo spirito viandante del 13 dicembre ***


★★    Questo capitolo partecipa all’iniziativa “Calendario dell’Avvento 2017!” a cura del geniale Fanwriter.it ★★

 

Lo spirito viandante del 13 dicembre

 

Rob Lucci era seduto alla scrivania del suo ufficio al primo piano della Torre di Catarina, intento a compilare un rapporto dettagliato sull’ultima missione. Lui e Kaku erano tornati il giorno precedente da un’isola invernale, e ora stavano nei loro uffici a sbrigare il lato burocratico: scartoffie, rapporti, firme. Nulla di eccezionale, faceva parte del loro lavoro ed era anche la garanzia che tutto si fosse svolto secondo gli standard del Cipher Pol Aigis 0.

Hattori gli teneva compagnia, in sonnacchioso equilibrio sulla sua spalla. Dall’altra parte della stanza, anche Kaku, con Califa in supporto, era concentrato sui carteggi, ben intenzionato a togliersi quell’impiccio dalle scatole il prima possibile.

All’improvviso, nella cristallina tranquillità della stanza, risuonò un tintinnio. Lucci drizzò le orecchie e rimase in allerta, pur rimanendo con il capo chino sui suoi documenti.

Accigliò lo sguardo: li aveva sentiti di nuovo, non aveva dubbi. E non era solo una sua impressione, visto che anche Kaku aveva sollevato la testa e si guardava attorno.

Era la seconda volta, da quella mattina: sentiva il suono argentino di una piccola campanella, come se qualcuno la stesse scuotendo a pochi palmi da lui; pochi secondi, e poi tutto tornava a tacere.

Il governativo si era affidato ai suoi sensi, quelli umani e quelli felini: tutto negativo. Poi aveva usato l'Ambizione della Percezione, e anche quella aveva confermato solo la presenza dei suoi colleghi e delle altre persone che lavoravano nella torre sparse per le altre stanze e ai piani inferiori.

Si affacciò alla finestra, insospettito. Forse si trattava solo di una delle carrozze che scorrazzavano sui ponti e nel parco dell’isola: si avvicinava il Natale e non sarebbe stato assurdo se un cocchiere avesse deciso di mettere una campanella sulla sua vettura. Anzi, sull’Isola dell’Ovest, che aveva un rigido clima invernale, addobbare anche le slitte e le carrozze era una tradizione. Ma in quel momento non c’era alcuna carrozza, né nei pressi della Torre, né sul ponte più vicino.

L’uomo si sporse a guardare anche sulla facciata dell’edificio, ma non c’era proprio nessuno che tentava l’arrembaggio in quel modo. E, del resto, perché attaccare la Torre di Catarina? Era solo una sede del CP0. Non era così importante da essere oggetto di atti dimostrativi, e non c’era nulla di valore all’interno, a meno che qualcuno non fosse così scemo da cercare di rapire gli agenti, ma era un’ipotesi assurda.

Prima di tornare all’interno, Lucci notò che, proprio dall’Isola Ovest, stava arrivando una perturbazione: vedeva saettare i lampi oltre le montagne, in lontananza, e probabilmente in serata si sarebbe scatenato il Diluvio Universale. L’aria era elettrica, il vento portava pioggia.

E le campanelle continuavano a rimanere un mistero, pensò chiudendo la finestra per la felicità di Hattori, che era rimasto sulla scrivania e aveva arruffato tutte le piume per il freddo.

Rob Lucci si rimise a sedere e decise di accantonare il pensiero, e di godersi la tranquillità del dopopranzo nella Torre di Catarina.

Catarina era un arcipelago composto da cinque isole, disposte come i cinque punti sulla faccia di un dado, e su quella centrale c’era la sede del reparto del CP0 guidato da un anno circa da Rob Lucci; lui era fiero di aver restituito ai suoi colleghi il posto che spettava loro nel CP0 dopo l’incidente di Enies Lobby e, dopo varie peripezie, aveva ottenuto la guida di un reparto che ricalcava pari pari quello che era stato il CP9. Nessuno di più, nessuno di meno.

Unica modifica: Spandam era stato declassato da direttore a zerbino, per dirla con i gentili termini di Jabura.

All’improvviso, nel silenzio salì un minuscolo “cheff-cheff”. Un colpino di tosse.

Hattori cominciò a tossire timidamente e a cercare riparo e calore fra i capelli sciolti di Rob Lucci.

All’uomo non sfuggì la manovra del colombo e, sentendo che Hattori tossiva e riusciva appena a stare appollaiato sulla sua spalla, s’insospettì. Lo prese tra le mani e lo poggiò sulla scrivania alla quale stava seduto, tra i rapporti, le fotocopie e il caffè.

Il piccione si accoccolò immediatamente, come se fosse troppo stanco per mantenersi sulle zampine. Tossì di nuovo, arruffò le piume bianche.

Rob Lucci lo osservava in silenzio. Gli accarezzò con un dito il petto e si fermò sotto la gola dell’uccellino. Dopo qualche istante riprese a vezzeggiargli la pancia, poi gli lasciò una carezza sulle ali e infine si tolse la giacca nera e vi avvolse l’animaletto.

Califa, seduta alla scrivania dirimpetto a quella di Lucci, notò il movimento. Alzò discretamente lo sguardo sul collega attraverso le lenti e domandò: « Influenza? »

« Probabile. » rispose laconico Lucci, senza lasciar trapelare nulla del suo stato d’animo.

« Accidenti. » commentò Kaku alzandosi dalla sua, di scrivania, che si trovava perpendicolarmente a quelle di Califa e Lucci. Andò vicino all’agente con cui aveva fatto squadra fino al giorno prima e guardò verso il colombo, la cui testa faceva capolino tra il tessuto morbido della giacca. « Non farci scherzi » lo ammonì. « Se vuoi portarlo a casa, me la sbrigo io con i documenti. » promise rivolto a Lucci.

Il leader del reparto abitava qualche piano più su, all’ultimo.

La porta si spalancò ed entrò Jabura. « Ehi, sto andando al bar con Kumadori. Se Spandam ci cerca, siamo già andati verso l’imbarco, ok? » poi si rese conto che c’era Lucci che teneva in braccio quello che da lontano pareva un bambino avvolto in una coperta, Kaku sollecito chino sull’involto, e Califa dall’altro lato che avvicinava al fagottino con una siringa. « Ma che cazzo fate!? »

 

~

 

Lucci era pieno di sé, presuntuoso e apatico, però Hattori non si toccava: Jabura invece di andare al bar aveva fatto una corsa al distributore, comprato una bottiglietta di minerale, l’aveva svuotata e l’aveva riempita con acqua calda. Era uno scaldino di fortuna, e Hattori riposava beato sulle ginocchia del suo padrone, abbracciato alla bottiglia e avvolto nella giacca.

Intanto gli agenti erano ormai tutti riuniti nella stanza, ognuno a modo suo preoccupato per la salute del piccione.

« Il veterinario non è allo studio, al momento. » disse Kaku mettendo più la cornetta del lumacofono.  

« Maledetto lavativo. » si lamentò Jabura.

« Yooo-yooooi! » intervenne Kumadori « Le festività natalizie sono un’occasione per riposare il cooooorpo e la menteeee… » poi ci ripensò: « Tuttavia… per un uomo che svolge la sacra missione del medico è assolutamente indegno non rispondere a una richiesta di aiuto… »

Blueno scosse la testa, rassegnato. « È ancora presto per le vacanze » disse calmissimo « Siamo solo al dodici dicembre »

« Faaaaarò Seppuku e laverò il disonore! »

« Fate silenzio! » tuonò Lucci seccato, imponendo la calma ai suoi subordinati.

« Possiamo tenerlo al caldo, nel frattempo. Ecco, mettilo qui » suggerì Califa, efficiente a qualsiasi ora, portando un cesto di vimini con una morbida coperta che faceva da materasso. Prima stava solo passando a Lucci la siringa senz’ago piena d’acqua, per far bere Hattori.

Rob Lucci nascondeva sempre benissimo quello che gli passava per la testa, ma i suoi colleghi sapevano che, mentre stava lontano dagli altri con Hattori avvolto nella sua giacca e stretto al petto, era preoccupato e nervoso.

« Avrà mangiato qualche schifezza di nascosto! Domani starà benissimo. » minimizzava Jabura.

La porta si spalancò ed entrò Spandam. « Mbè? Che sta succedendo qui? Kumadori e Jabura erano attesi mezz’ora fa all’aereo! »

« C’è un problema. Chiama la pilota, e rinvia la partenza. » declinò Jabura.

« Che problema? » si stupì lui. In effetti tutti gli agenti nella stessa stanza erano uno spettacolo riservato alle grandi occasioni, in particolar modo Lucci, Jabura e Kaku che non se ne dicevano addosso di tutti i colori.

« Si tratta di Hattori. » spiegò Califa. « Suppongo abbia contratto qualche ceppo influenzale durante l’ultima missione affrontata. »

Spandam ragionò un attimo sulla cosa, poi affermò: « Il piccione ha la febbre? »

« …questa è molestia sessuale. »

« Ho solo riassunto quello che mi hai detto! » protestò il galoppino. « Perché siete tutti qui a perdere tempo? È solo un piccione! »

Silenzio.

Mai, mai, mai, mai nessuno aveva osato dire una cosa del genere del colombino, nemmeno Jabura nelle peggiori risse: litigare con Lucci era un passatempo sano, prendersela con un uccellino era una vigliaccata.

Tutti si voltarono costernati a fissare Spandam. Poi guardarono Rob Lucci.

L’agente espirò dal naso, porse l’involto con Hattori a Califa, poi si alzò in piedi molto lentamente.

 

Mentre l’ambulanza portava via ciò che rimaneva di Spandam, gli agenti si interrogavano sul da farsi.

« Portalo a casa e rimani lì anche tu » suggerì Kaku al collega « Me la sbrigo io con le scartoffie, se proprio c’è qualche problema ti lumacofono »

« Il veterinario? » chiese di nuovo Lucci.

« Chapapa, sto riprovando, ma squilla sempre libero » rispose Fukuro, con la cornetta del lumacofono in mano.

All’improvviso si sentì un discreto bussare alla porta.

« Avanti » permise Rob Lucci, senza voltarsi neppure verso l’uscio, intento com’era a saggiare per Hattori il cestino portato da Califa.

Si affacciò alla porta la signorina Lilian, una segretaria della Torre assunta circa un anno prima; si occupava principalmente dell'amministrazione, ma occasionalmente faceva da pilota d'aereo per le missioni in trasferta del reparto. Era una tipa tranquilla e dall'aspetto minuto, e in quel momento aveva l'aria molto preoccupata.

 « Boss, scusi… oh! Ciao a tutti » sorrise agli altri agenti. « Scusi se la disturbo, ma è urgente: alla radio hanno diramato un’allerta per il maltempo, chiuderanno i ponti tra venti minuti perché sono previste delle terribili mareggiate. Quindi volevo chiederle il permesso di andare via prima. Se chiudono anche la filovia, rimango bloccata qui! »

Ognuna delle isole dell’Arcipelago di Catarina aveva un ponte che la collegava a quella centrale; Lilian, però abitava sull’isola dell’Est, l’unica che non aveva un ponte, ma una filovia che portava fin sulla collina che dominava l’isola: se veniva chiusa, lei rimaneva tagliata fuori.

« Merda, se i ponti saltano… » cominciò a dire Jabura

« Non dirlo neanche per scherzo! » lo interruppe Lilian « Li chiudono per sicurezza, mica devono crollare! È per evitare che qualcuno finisca a mare, con il vento che c’è e con le onde alte!» e lei già aveva una fifa pazzesca di prendere la filovia con quel vento, senza che ci si mettesse anche Jabura!

« Se i ponti vengono interrotti, il veterinario non può venire » concluse Kaku.

« Boss, io… » azzardò timidamente la ragazza.

« Va’, muoviti » la liquidò spazientito il capo.

« Grazie » Lilian chinò la testa in segno di gratitudine e sparì inghiottita dal corridoio, e di lei non rimase che il suono dei tacchi sul marmo.

Quando tornò il silenzio, un leggero scampanellio riempì l’aria per pochi secondi.

« Stavolta li avete sentiti tutti! Dovete averli sentiti! » saltò su Jabura.

Tutti i suoi colleghi erano sospettosi e in ascolto, col fiato sospeso.

« È da stamattina che li sento, ma avevo pensato a qualcuno nel parco » osservò Kaku.

Kumadori si lanciò in ginocchio sul pavimento. « CHE IO SIA DAAAANNAAAATOOOO!!! » declamò in preda alla disperazione « Ho dubitato delle parole dell’amico, del fratello! Senza fede sono stato, e non ho prestato orecchio a quel che aveva da dirmi! Ribrezzo! Obbrobrio! »

« Piantala di fare casino! »

Jabura schizzò fuori dalla porta della stanza: nessuno. Guardò fuori dalla finestra: il buio inghiottiva il parco, folate di vento portavano le prime gocce di pioggia, si sentivano i tuoni in lontananza; usò la Percezione, ma sull’isola non c’era più nessuno: c’era solo la presenza minuscola di Lilian che correva verso la filovia, sul vialetto tra gli alberi, e poi più nulla. L’isola centrale era già deserta e l’uomo dovette arrendersi: né i sensi umani, né quelli da lupo, né la Percezione gli comunicavano nulla oltre alla disperazione di Kumadori alle sue spalle.

« Non riesco a moriiiireeeee… » pianse l’agente dai capelli rosa.

« Chiudi il becco e cerca di capire da dove veniva quel rumore! »

Perché era almeno la quinta volta nell’arco della giornata che sentiva un rumore di campanelle, e la prima volta che anche gli altri che erano con lui lo sentivano: un trillo argentino, breve, ma chiaro come se qualcuno gliele avesse suonate davanti al muso.

« Questa storia deve finire » decise Rob Lucci deponendo Hattori nella cesta. « Perquisite tutta la torre e le immediate vicinanze; Blueno, tu spostati senza un ordine preciso con il Door-Door. Voglio l’intruso fuori dall’elenco dei vivi entro due ore. »

E così dicendo, si avviò anche lui verso la porta.

Ma Jabura gli piantò una mano sulla spalla e gli intimò lo stop.

Lucci scoprì i denti, pronto a staccargliela di netto, ma la lingua dell’agente fu più rapida: « Non lasciare solo Hattori »

« Levami le mani di dosso » scandì gelido il leader afferrandogli il polso e trovando il Tekkai d’acciaio del collega.

« C’è un intruso nella Torre, prendi Hattori e andatevene nel vostro appartamento. » ruggì basso Jabura, forte della maggiore esperienza e dell’istinto di branco, che a quel presuntuoso mancava del tutto.

« Non osare… » Lucci cominciò ad andare in forma ibrida.

« Hattori in questo momento è il più debole tra di noi, ha la precedenza. Lo lasci a casa, e rimani nelle vicinanze. »

I due uomini scoprirono i denti, ma Kaku li interruppe: « No no no, fermi. Non possiamo perdere tempo così » poi suggerì a Lucci: « Potresti perquisire l’ultimo piano e il terrazzo »

« Io vado nella palestra interrata » informò Jabura staccandosi schifato dal rivale e infilando la porta, filando nel buio con un velocissimo Soru, sapendo benissimo che Lucci non avrebbe mai assecondato il suo suggerimento, se fosse rimasto nei paraggi. « Kumadori, datti una mossa! »

 

~

 

Gli agenti, dispiegati per tutta la Torre, la perquisirono da cima a fondo senza trovare anima viva. Usarono tutti i poteri e le abilità in loro possesso, ma nella Torre, oltre a loro, non c’era nessuno. E le campanelline non s’erano più fatte sentire.

Un’ora dopo, Jabura e Kumadori, i primi a cominciare il lavoro, bussarono alla porta dell’appartamento di Rob Lucci.

Il padrone di casa, dopo averli fatti entrare, cominciò a fare il giro delle finestre per chiudere le tutte le persiane in vista della pioggia battente, e i due rimasero nel grande e familiare salone; il caminetto di marmo bianco era acceso, e Hattori era al calduccio nella cesta su uno dei due divani gemelli che dominavano la stanza. Non un posto a caso, non la camera da letto, più remota: Lucci l’aveva messo in un luogo difendibile, dove potevano esserci più vie di fuga in caso di allarme improvviso.

Fuori aveva cominciato a infuriare la tempesta: i tendaggi candidi ondeggiavano anche se le finestre erano serrate, e si sentiva ululare il vento e, sicuramente la grande bandiera del Governo, sul tetto, schioccava tra le raffiche minacciando quasi di esser trascinata via.

Le rivalità facevano parte del mestiere, o delle inclinazioni dei più bellicosi, ma dopo tanti anni di missioni e allenamenti portati avanti gomito a gomito, per gli agenti del CP9 era naturale trovarsi sotto lo stesso tetto, senza che nemmeno qualcuno esplicitasse un invito.

Succedeva da sempre, persino quando, a Enies Lobby, Kaku e Califa mangiarono i loro Frutti del Diavolo: era indimenticabile, quando quasi vomitarono sul divano della camera di Rob Lucci, mentre Jabura, entrato perché la porta era stata lasciata tranquillamente aperta, parlava di assurde maledizioni per chi avesse già i poteri di un Frutto.

« Questa storia non mi piace » ruggì basso il Lupo al termine dell’ispezione, ritirandosi sul divano di Lucci e incrociando le gambe. « Va avanti da stamattina »

« Yoyoi… il suono delle campanelle annuncia sovente la presenza di entità provenienti da magici e lontani mondi… fate e spiriti, ‘mbriane e monaci. Tutte le creature che popolano i sogni e gli incubi dei mortali. »

« Quindi roba che porta malissimo… » fece una smorfia il compare.

« Leva i piedi dal mio divano » lo ammonì Lucci.

All’improvviso si sentì bussare alla porta, e il padrone di casa andò ad aprire.

Kumadori non aveva l’Ambizione della Percezione, però a quell’ora tarda potevano essere solo i loro colleghi; infatti a bussare era stato Kaku.

« Jabura è qui? » domandò senza salutare.

« Che diavolo vuoi? » mandò una voce dal salotto il diretto interessato.

« Mi è venuta un’idea per la storia dei campanelli. » spiegò il ragazzo, fatto entrare in casa da Lucci « Che ore erano quando li hai sentiti questa mattina e questo pomeriggio? »

« E che ne so? Erano… le undici e mezza, una cosa del genere. » rispose lui arrivando nell’ingresso. « Poi li ho sentiti subito dopo pranzo, verso le due. »

« Allora combacia anche con quello che mi hanno detto Blueno e Fukuro. Li abbiamo sentiti tutti alla stessa ora. »

In quel momento, sull’uscio aperto, comparve anche Califa.

« Non credo sia uno spirito, penso che potrebbe trattarsi, invece, di un malfunzionamento dei lumacofoni: è l’unica spiegazione, visto che sentiamo tutti lo stesso rumore anche in posti differenti: i lumacofoni sono presenti in tutta la torre, quindi… »

« Stai scherzando? Lumacofoni!? Questo è chiaramente qualche spirito che si sta prendendo gioco di noi! Non penso proprio che- »

Un tuono cadde vicinissimo alla Torre, e tutte le luci si spensero all’improvviso.

 

~

 

« Cerca di mantenere la calma, Jabura. Ti ricordo che sei un Governativo, non l’ultima delle comari. » disse serio Rob Lucci.

Casa di Rob Lucci si era popolata. Tutti gli agenti si erano riuniti lì, sui comodi divani del suo salotto e, sul basso tavolino al centro, ardevano due candele, e Califa stava delicatamente accendendo la terza.

« Mentre ispezionavo il nostro archivio e la biblioteca, ho trovato una cosa… » disse compita la donna, aprendo vicino alle candele un grosso libro, con in copertina una foto panoramica di Catarina. « La notte del tredici dicembre, cioè questa, a Catarina può sovente succedere che si sentano rumori di campanelle; si tratta di uno spirito, venerato nell’Isola dell’Ovest, che passa fra le case »

Cadde un tuono, e Califa s’interruppe.

« Mi rifiuto di credere a qualche fenomeno paranormale. » disse Kaku appena cessò il fragore.

« Chapapa, però ci sono parecchie testimonianze in merito! » lesse Fukuro. « E il libro è nuovo, non sono vecchie leggende dimenticate! »

« Fanculo! Vi rendete conto? La torre è infestata! »

« Non dovresti farti suggestionare così tanto. » intervenne Blueno, affacciato allo schienale del divano al di sopra di Jabura. « Sono storie da ragazzini. Nulla di cui preoccuparsi. »

« È colpa dell’atmosfera, ti sta facendo innervosire » gli concesse Kaku.

Il temporale infuriava e batteva alle finestre, il vento fischiava furioso e il fatto che fosse andata via la luce rendeva tutto molto spettrale, con le ombre che tremolavano e si allungavano sui muri, tra i quadri e tra le mensole.

Rob Lucci se ne stava seduto vicino ad Hattori; si alzò in piedi e andò a guardare attraverso le fessure delle pesanti persiane: cercò di scorgere nell’oscurità i profili delle isole, che di solito erano illuminati, ma la corrente elettrica era saltata dappertutto a causa del temporale. Brutto affare. Tornò dal colombino, che lo fissava con gli occhietti semichiusi e aveva un’espressione afflitta, quasi volesse scusarsi di essersi ridotto così. Ma Lucci lo coccolò senza astio, accarezzandogli il capino e rimboccandogli meglio la coperta.

« E che diavolo è questo?? » la voce fastidiosa di Jabura lo costrinse a guardare nella sua direzione, verso l’altro divano su cui si accalcavano gli altri agenti.

« Chapapa, è l’illustrazione dello spirito che viene questa notte! » rispose Fukuro aprendosi la zip.

« Che hai da urlare? Non fa paura. È una donna normalissima. » cercò di calmarlo Blueno.

« Non avete notato? Sul piattino che ha in mano… » Jabura prese il libro e lo piazzò aperto sotto al naso di Blueno. « CI SONO DUE OCCHI! »

Califa sospirò. « Si dice che le furono cavati durante una persecuzione » spiegò « Ma c’è anche scritto che forse non è un fatto vero, però viene sempre rappresentata così. »

« Me ne frego di come viene rappresentata! » si lamentò ancora Jabura « Fa venire i brividi! »

« Finiscila di fare cagnara » lo stilettò Rob Lucci.

« Yoooyoooiiii! Sei tremendamente irrispettoso, Jabura! E inoltre la tua paura fa sì che dimentichi la parte della storia più suggestiva e più cara alle genti che abitano la fredda Isola dell’Ovest… »

« E sarebbe? »

« Chapapa, la parte dei doni » lesse Fukuro. « Si dice che se si lasciano sotto l’albero di Natale latte e biscotti, lo spirito viandante li mangerà, e in cambio lascerà dei regali. »

« Mi sembra una storiella da bambini… » obiettò Kaku.

« Trovo molesta l’idea che qualcuno si introduca qui » disse Califa, stringendosi nel golfino. Portava una minigonna vertiginosa, però aveva messo delle calze pesanti e un bel maglioncino di lana scuro.

Nessuno replicò. I sette agenti rimasero in silenzio ad ascoltare il temporale, e a ringraziare in cuor loro di essere tutti insieme in quella notte così nera. Il vento soffiava così forte che sembrava far oscillare la torre, e le candele tremavano sul tavolino. Il resto della casa era immerso nel buio, le decorazioni natalizie messe dall’uccellino nei giorni precedenti brillavano tenui.

« Comunque sia, come sta Hattori? » s’informò Blueno sporgendosi a guardare nella cesta.

« Ha la febbre. Lasciatelo tranquillo. » tuonò Rob Lucci, sulla difensiva.

I toni di tutti si abbassarono, Jabura smise persino di lamentarsi per lo spirito e Kumadori posò la katana con cui voleva praticarsi il Seppuku.

« Hai provato a dargli i soliti rimedi? » chiese discreto Kaku.

« Naturalmente, ma dovrebbero avere già fatto effetto. »

E invece il piccolo colombino continuava a scottare, e ogni tanto tossiva. Jabura prese la bottiglietta che gli aveva messo qualche ora prima, ormai fredda e accantonata in un angolino della cesta, e la riempì di nuovo con l’acqua calda dal rubinetto della cucina. Hattori l’abbracciò con gioia, Lucci decise di non insultarlo per almeno dieci minuti.

 

~

 

La luce continuava a non tornare; le candele si consumarono e Califa andò a casa sua a prenderne altre. Decisero di accenderne solo una alla volta per risparmiare, visto che probabilmente avrebbero passato tutta la notte senza corrente.

« E dovete proprio passarla qui? » fece Lucci. « Posso sbrigarmela da solo, non c’è bisogno di tutte queste cerimonie »

« Ma piantala » sussurrò Jabura per non svegliare Kumadori e Califa che si erano già addormentati sui divani, arrotolati nei plaid. « Non lo facciamo certo per la tua faccia da culo: lo facciamo per Hattori »

« E perché non ci fidiamo del primo spirito che passa, chapapa » bisbigliò Fukuro « Se rimaniamo insieme siamo meno vulnerabili, e possiamo fare i turni di guardia per sorvegliare Hattori » disse andando verso la cucina.

Lucci lo lasciò fare; anche se protestava, era abituato ad avere i colleghi in giro per casa, e Fukuro e Kumadori avevano imparato a servirsi da soli dalla cucina; Jabura aveva imparato anche (e fin troppo bene) a servirsi dallo stipetto dei liquori.

Quello che Lucci non si aspettava, però, era che Fukuro uscisse dalla cucina con un vassoio, e sopra al vassoio c’erano una grande fettona di pandoro e un bicchiere di latte. Ma invece di sedersi al tavolino e mangiarlo, andò a deporlo ai piedi dell’albero di natale dalle decorazioni bianche e azzurre che c’era nell’ingresso.

« Che diavolo stai facendo? » l’apostrofò Jabura.

Fukuro si aprì la cerniera e rispose con ovvietà: « Lascio latte e pandoro allo spirito! »

« No, ti prego. » Kaku si tolse il cappellino e si scompigliò i capelli « Non succederà niente di niente, lo sai! »

« Non fare il disfattista, scemo » Jabura a certe storie ci credeva eccome « Se serve a toglierci dalla testa quel suono di campane, va benissimo! »

« Abbassate la voce! » ringhiò il padrone di casa « O vi sbatto fuori a pedate. »

 

~

 

Califa si svegliò all’improvviso. Si guardò attorno spaesata: non si era nemmeno resa conto di essersi addormentata. Era seduta sul divano di Rob Lucci, con una felpa maschile sulle spalle e persino gli occhiali sul naso. Addormentarsi durante un turno di guardia? Non era da lei.

Controllò Hattori, ma dormiva nel suo cestino; respirava con il becco aperto e la bottiglietta, ormai fredda, era tornata nel suo angolino dell’infamia. La donna controllò di avere le mani ben calde e accarezzò il colombino sotto la gola: era vivo e vegeto. Non aveva idea di come stabilire se avesse o no la febbre, ma l’essenziale era che fosse vivo. Benissimo.

Si strinse nella felpa e la infilò del tutto, anche se le stava grandissima e dovette rimboccarne le maniche; di chi era? forse Blueno. O forse Jabura. Spostò leggermente Kaku, che si era addormentato vicino a lei, guardinga si aggiustò i capelli dietro un orecchio, e si alzò dal divano per sgranchirsi le gambe.

Era l’unica sveglia; i suoi colleghi dormivano e alcuni russavano alla grossa, come Kumadori che si era impossessato del matrimoniale di Lucci: si sentiva il suo russare fin dentro al salone. Jabura si era sdraiato sul tappeto; come facesse a dormire così a suo agio per terra, Califa non l’aveva mai capito.

Blueno e Fukuro avevano esplorato le infinite possibilità di un divano-letto: qualcuno doveva aver capito il meccanismo per allargare il divano e, nella notte, si era trasformato in un letto accogliente: molto meglio che dormire per terra.

Kaku si era steso sul divano vicino a lei, e dalla parte opposta, più vicino alla cesta di Hattori, c’era Rob Lucci. Dormiva acciambellato e con la testa sotto al plaid, esattamente come Hattori di norma metteva la testa sotto l’ala. O forse, pensò la donna, l’aveva fatto per ripararsi dalla luce: era l’alba e dalla finestra filtravano i primi pallidi raggi.

Il temporale era finito.

Califa guardò l’orologio: si era addormentata per non più di dieci minuti, e decise di andare in cucina per concedersi il primo caffè della giornata. Passando accanto all’ingresso, vide il vassoio deposto da Fukuro la sera prima: del pandoro non erano rimaste che bricioline dorate, il bicchiere del latte era vuoto.

Chissà chi di loro aveva fatto piazza pulita: Jabura? Kumadori? Ma poi Califa notò qualcosa.

Qualcosa che la sera prima non c’era: un sacchetto.

Si inginocchiò sotto l’albero, tra le lucine spente e le palline bianche.

Un sacchetto di stoffa verde scura, chiuso in cima da un fiocchetto giallo, grande quanto due pugni. E sul fiocco c’era un bigliettino: “Hattori”.  L’agente lo prese tra le dita e lo tastò con delicatezza: era morbido, dentro c’era dell’erba essiccata.

Lo spirito dell’inverno ci ha lasciato un dono?, pensò Califa. Ma poi si diede della sciocca: erano storie da bambini, come diceva Kaku, buone per le comari (e per Jabura).

Prese il sacchetto e lo portò in cucina.

 

~

 

« Il veterinario? »

« Chapapa, ancora niente »

« Che vuoi fare? Gli dai quella roba? »

Il sacchetto verde era sul tavolo, come un imputato davanti a sette spietati giudici.

« Sei sicura che prima del tuo turno di guardia non ci fosse? » chiese ancora Blueno, rivolto a Califa.

« Non ci ho fatto caso. Ho guardato sotto l’albero solo al mattino, quando sono andata in cucina. »

« Chapapa! di sicuro, quando ho messo il latte e il pandoro, non c’era nulla! »

« Quindi escludendo che sia stato qualcuno di voi… perché voglio escludere che qualcuno avesse un rimedio per Hattori, ma sia stato così stronzo da tenerlo nascosto fino al mattino… »

« Ehi, ma per chi ci hai presi? » si lamentò Jabura.

« Qualcuno si è introdotto in quest’appartamento e ha lasciato queste erbe. » disse Kaku, aprendo il sacchetto e annusandone il contenuto. « Sono piante officinali, anche se non saprei riconoscere di preciso quali »

« YOOOOOYOOOOIIIII!!!! » Kumadori aveva abiurato dal sacro lettone di Lucci ed era tornato nel mondo dei vivi « Lo spirito ha ascoltato il disperato grido d’aiuto di una famiglia lontana dalla civiltà! Legami! Sangue! Speranze e conforti! »

« Sembra una tisana. Da mettere in infusione e bere. » valutò Blueno.

« La domanda è: ti fidi? »

« No, ovvio. » rispose Rob Lucci.

cheff-cheff, si sentì dal cestino.

« La berrò prima io » disse risoluto l’uomo.

 

~

 

Hattori era nel suo cestino, sul divano di casa. La bottiglietta era di nuovo calda, la coperta era soffice. E lui se ne stava comodamente seduto, con il capino dritto e gli occhietti vispi che controllavano i movimenti nella stanza.

Si sentiva molto meglio.

Nel camino bianco, le fiamme erano basse ma le braci ardevano e spandevano un dolce tepore; Kaku era venuto a gettarci dentro delle bucce di mandarino, e ora c’era un odore buonissimo nell’aria. Passando, il ragazzo gli aveva grattato il capino e poi gli aveva dato un biscotto, che Hattori aveva sgranocchiato nascondendosi sotto la copertina.

Vedeva Jabura bere direttamente dalla bottiglia del vino aperto la sera prima, e che giocava a carte tra le briciole della colazione con Fukuro, Kumadori e Blueno; ogni tanto gli lanciava un’occhiata per controllare che fosse tutto a posto.

Califa si era addormentata di nuovo. Si era acciambellata sul divano e aveva chiuso le comunicazioni; Kumadori le aveva messo addosso uno dei plaid, e lei riposava beatamente.

Rob Lucci, in piedi, guardò per qualche minuto le giocate degli amici, e notò soddisfatto che le carte di Jabura non erano per niente buone; poi tagliò una fetta di pandoro e si sedette a mangiarla lì sul divano, vicino al cestino.

Poteva sembrare accigliato come al solito, pensò Hattori. Ma chiunque avesse conosciuto un po’ meglio Rob Lucci, avrebbe capito che da qualche parte, molto in fondo, stava sorridendo.

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Dopo averli strapazzati come uova nelle ultime due storie, ritornano gli agenti del CP0! Grazie per aver letto questa piccola OS. Grazie a Eneri Mess e alle sue meravigliose iniziative che mi tengono incollata alla tastiera. Un grazie speciale a chi recensirà ♥ 

Importante: la storia si inserisce in una serie di storie sul CP9/CP0 che ho scritto! In particolare la storia dell'Arcipelago Catarina e di Lilian, la segretaria, sono raccontate in "La Lunga Caccia alla Mano de Dios", qui su EFP. Questa raccolta tuttavia è indipendente, e può essere letta come storia a sé stante. Sappiate che... il CP0 è sull'Arcipelago di Catarina e ha una segretaria di nome Lilian, che occasionalmente fa anche da choffeur pilota d'aereo per il gruppo!

Se qualcuno legge dalla Lombardia o da altre zone dell'Italia del nord, forse ha capito chi è lo "spirito viandante" della storia: è ispirato a Santa Lucia, che nella tradizione porta i doni ai bambini il 13 dicembre; la tradizione vuole che sia martire, e le furono strappati gli occhi (poi miracolsamente ricresciuti): per questo è la patrona della vista, ed è riconoscibile nelle chiese perché viene sempre raffigurata con... i suoi occhi nel piattino che ha in mano! Se qualcuno legge invece da Campania e dintorni, forse ha sentito familiari le parole di Kumadori che parla di "'mbriane e monaci": si tratta di due spiriti della casa della cultura partenopea; la prima è una donna, ed è uno spirito positivo, l'altro è un monaco ("munaciello", in dialetto) ed è uno spirito dispettoso.

Spero che questa storia vi sia piaciuta! È molto diversa dai miei soliti canoni, però ci tenevo a scrivere qualcosa di fluff in occasione dell'inverno! In particolare sono stata molto contenta di esplorare il lato "dolce" di Rob Lucci, quello legato ad Hattori e che si preoccupa se al suo piccolo colombino succede qualcosa di male :) ce lo vedo, altero e superbo come sempre, ma in cuor suo molto teso per il suo piumoso amico. Spero vi sia piaciuto!

Stessa cosa Jabura, spero di non averlo reso troppo... dolce! Adoro il suo lato protettivo, quello che esce fuori nelle Miniavventure del CP9, però allo stesso tempo ehi, è un efferato assassino, non voglio che l'IC ne risenta!

Grazie per aver letto! Appuntamento a presto,

​Yellow Canadair

Per favore, o tu che leggi: va', vota per inserire Stussy e Hattori nell'elenco personaggi presente in alto a destra nella home di One Piece! Aiutami ad allargare la famiglia del CP! ♥ grazie ♥

 

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Capitolo 2
*** Concerto in piazza del Balconcino D'Oro ***


Concerto in Piazza del Balconcino D’Oro

 

Casa di Rob Lucci era all’ultimo piano della Torre di Catarina: un attico che confinava con quello di Kaku, e che aveva una superba vista di tutto l’arcipelago; non per nulla quello era l’edificio più alto dell’intera Catarina: con la grande bandiera del Governo Mondiale che sventolava sul tetto, tuonava a tutto il mondo che la Giustizia era al di sopra di chiunque. E se quello era il reparto guidato da Rob Lucci, allora voleva dire che la Giustizia era quella Oscura.

Era l’ultima sera dell’anno. Tutte le isole brillavano di luci colorate, ed erano uno spettacolo meraviglioso da godersi dall’alto della torre: sospese nel nero del mare, sembravano quattro gioielli sfavillanti sul velluto, e i ponti erano lunghi e sottili fili splendenti che correvano fra le Isole principali e quella centrale, illuminati da centinaia e centinaia di faretti bianchi. L’isola dell’Est, invece, collegata con una filovia, era regolarmente servita dalla cabina rossa che, per le feste, scintillava coperta di luci d’oro e sembrava una grossa sfera di fuoco che si rifletteva nel mare sottostante.

Ma la più luminosa di tutte era l’Isola dell’Ovest, quella con il clima rigido dell’inverno: ogni persona infatti, per tradizione, aveva il compito di posizionare un lungo filo di lucine. Uno solo a testa, lungo quattro metri e mezzo: i primi quattro metri erano il simbolo delle quattro isole maggiori, il restante mezzo metro era per l’isolotto centrale. Era il modo dell’Isola dell’Inverno per ricordare a tutti che quell’angolo di mondo esisteva per la cooperazione degli abitanti di quattro isole (più una), e grazie alla collaborazione era diventata una perlina del Mare Occidentale.

Lì, sull’Isola dell’Ovest, si sarebbe tenuto il tradizionale concerto di Capodanno, nella grande Piazza del Balconcino D’Oro, dove da tre giorni c’era un gran daffare per montare il mastodontico palco dove si sarebbero esibiti i cantanti dell’arcipelago e anche qualche star chiamata da fuori! Alcuni anni prima l’organizzazione si era superata e aveva fatto venire il grande Brook, il Re del Soul, alzando decisamente l’asticella per tutti gli altri artisti che si sarebbero esibiti dopo di lui negli anni a venire. Era stato un grandissimo concerto ed era stato proprio lo scatenato musicista a declamare il conto alla rovescia per l’anno nuovo.

« E quest’anno? Chi suona? » domandò Kaku togliendosi il tovagliolo dalle gambe e depositandolo sul tavolo della sala da pranzo di Rob Lucci.

« Che importa? » si strinse nelle spalle Jabura, vuotando la bottiglia del vino e puntando lo stipo degli alcolici più pesanti che c’era sotto il giradischi nell’angolo « Io un giro laggiù me lo vado a fare comunque! »

Fukuro, viaggiare informati, si aprì velocemente la zip che aveva serrato per evitare di servirsi di altro pandoro, dopo i due mangiati, e disse: « Cantano le Pink Slip dell’Isola dell’Sud, i Bitter Cabages dell’Isola del Nord e un gruppo di ballerine di samba dell’Isola dell’Est! Da fuori invece canteranno gli All Blue Brothers! »

Califa, elegantemente fasciata in un tubino rosso fuoco e con le calze nere scintillanti di piccoli fili argentati, lo guardò da sopra le lenti degli occhiali: « Ma tu non avevi votato per rimanere qui, dopo cena? » e invece era quello che la sapeva più lunga di tutti.

« Chapapa, Gigi L’Unto dell’osteria mi ha dato il programma della serata » spiegò l’agente cavandosi un volantino colorato dalla tasca « Ha detto che sua figlia Souzette lavorerà con i tecnici, perciò era molto informato »

E passò a Califa, sul tavolo ingombro di bricioline, bicchieri vuoti e le carte dell’ultimo giro di Mercante in Fiera, lo sfavillante volantino, che venne guardato anche da Kaku e da Blueno, lì vicino.

Hattori spiccò il volo dalla spalla di Rob Lucci e si avvicinò per ficcanasare anche lui.

« YOOOOOYOOOOOI!! LA TRADIZIONE SECOLARE DELL’ISOLA DELL’OVEST! IL LUOGO DOVE IL CUORE DEL POPOLO SCALDA UNA TERRA FREDDA E VENTOSA, DOVE L’INVERNO AVVOLGE I MONTI PER TUUUUTTO L’ANNOOO! » declamò Kumadori roteando il proprio bastone, pericolosamente vicino alle stoviglie sul tavolo. « Per i nostri animi, di assassini e vagabondi, sarebbe una grande occasione per assaporare, una volta l’anno, tradizioni lontane che dolcemente incatenano gli uomini alla terra. » concluse affacciandosi alla finestra e guardando verso l’Isola dell’Ovest, dove si sarebbe tenuto il concerto.

« Sì, questa roba qua » tagliò corto Jabura andando verso l’ingresso « Sono le dieci passate, tra poco inizia. Io vado, se vi va mi raggiungete »

« Dove diavolo stai andando? » gli sbarrò il passo Rob Lucci raggiungendo l’uscio con il Soru « Mi dovete aiutare a mettere a posto »

« Lo facciamo domani mattina » promise il Lupo.

« Domani mattina dormirai » gli disse Califa sfilandogli il giaccone bordato di pelliccia che si era già messo sulle spalle.

« Già, il piano era proprio quello » riconobbe Kaku di malumore, mentre impilava uno sull’altro i piatti sporchi che c’erano sul tavolo.

« Stai insinuando che sono un lavativo, Kaku? » sguainò i denti il litigioso Jabura, portandosi a un soffio dal naso di Kaku.

« Lascia perdere, Kaku » tirò le redini Lucci « Nel suo caso non insinui, puoi fare accuse precise »

« YOOOOO YOOOOOIIII! » Kumadori aveva assistito fin troppo spesso a incipit del genere. « L’atmosfera della festa non venga turbata da futili motivi! Tutti insieme abbiamo cenato nell’ultima sera dell’anno, e tutti insieme faremo tornare la casa dell’ospite al suo originario aspetto »

 

~

 

« Beh, io vado » disse dopo una mezz’ora scarsa Jabura, e quella volta nessuno gli sfilò il cappotto per fargli sciacquare i piatti.

« Non ti facevo mica così appassionato di musica » commentò Kaku « Perché sei così impaziente? Tanto anche se facciamo tardi non succede niente, è un concerto in piazza, arrivi quando ti pare » osservò abbottonandosi il giubbino imbottito.

« Cosa c’entra la musica? » si lamentò Jabura.

« Almeno il nesso tra “concerto” e “musica” pensavo lo afferrassi… » lo punzecchiò Lucci.

« È per il conto alla rovescia, genio » rispose seccato Jabura con una mano sullo scintillante pomello. « Se rimaniamo chiusi qua dentro, ci perdiamo l’inizio dell’anno nuovo! »

« Chapapa, lo trasmette la Marina anche dai videolumacofoni » osservò Fukuro.

« Possiamo seguirlo anche da qua, solo affacciandoci » ovviò Blueno, ricordando a tutti che dall’appartamento di Lucci si vedeva benissimo il palco dell’Isola dell’Ovest « Non mi va molto di muovermi… »

« Invero i vostri discorsi sono tardivi e il nostro amico sta già scendendo le scale » disse Kumadori. « E io mi appresto a seguirlo »

 

~

 

Jabura aveva fatto bene a infilare la porta e costringere tutti a uscire, perché l’atmosfera lì sull’Isola dell’Ovest era frizzante, eccitante, magica e c’era un gran via vai di persone di ogni razza. La neve, che invadeva le strade tutto l’anno, era stata spazzata via e accumulata negli angoli, dove mucchi di bambini componevano pupazzi e castelli usando ciò che riuscivano a raccattare. Le enormi luminarie scintillavano sulle facciate dei palazzi dai tetti a spiovente, si vedevano da lontano ed erano così luminose da illuminare persino le montagne aguzze in lontananza e proprio al centro dell’abitato, nella grandissima piazza del Balconcino D’Oro, c’era l’immenso palco, vuoto ancora per poco, dove si affaccendavano tecnici per l’ultimo soundcheck.

Un sacco di persone assediavano il palco, ed era impossibile avvicinarsi; per lo più si trattava di fan scatenati di questo o quel gruppo, lì per supportarli con cori e striscioni; gli agenti decisero di non andare a sfidare quelle bande di esagitati per un posto in prima fila che, tutto sommato, a loro non interessava granché.

Bene infagottati nei cappotti invernali, si fermarono sul limitare della piazza, all’angolo di una strada laterale che conduceva al grande spiazzo. Da lontano vedevano la calca che s’era formata sotto al palco, ma loro erano in una zona più distante, dove ci si poteva muovere liberamente e godersi l’aria di festa che c’era sull’isola.

Le persone, finiti i cenoni, stavano sciamando dalle altre isole a quella; i Governativi avevano visto dall’alto lunghe file di carrozze e di persone a piedi, sui ponti, mentre loro saltavano liberi e leggeri con il loro Geppo per spostarsi di isola in isola. Saltare con il Geppo sul mare aperto era una cosa che metteva i brividi, seppur per brevi tragitti: le luci della Torre illuminata si facevano piccole e lontane, e sotto le gambe non c’era che una distesa d’acqua buia, che si muoveva come un animale addormentato, nera da far paura. Gli agenti badavano sempre di tenersi nei paraggi del ponte per evitare cadute indesiderate: due chilometri di salto non erano nulla, per loro, ma essendo per lo più possessori di Frutti del Diavolo non volevano correre rischi inutili.

« Eccoci qua. Soddisfatto? » fece Rob Lucci a Jabura.

« Oh sì » sospirò allegro il compare, con le mani affondate nelle tasche che si guardava attorno tutto contento.

Hattori se ne stava appollaiato sul suo palco reale, la spalla di Rob Lucci, e ammirava la moltitudine di persone e di luci attorno a lui. Lui e il suo padrone erano avvolti nella stessa grande sciarpona verde scuro di lana grossa. Lucci aveva inventato un nodo speciale per coprire sia lui che il piccione, ma che lasciava ad Hattori la libertà di volare via, se lo desiderava. Molto utile, se all’improvviso si richiedeva necessario combattere, e l’uccellino non doveva assolutamente essere coinvolto.

Kaku e Califa si scambiarono uno sguardo e cominciarono silenziosamente a studiare la posizione del palco rispetto alla piazza, i luoghi più riparati, dove si accalcavano più persone e da dove arrivava la fiumana di gente. Deformazione professionale. Notarono inoltre che, agli angoli delle strade, c’erano alcuni Marine in divisa, e individuarono anche due o tre agenti in borghese.

Non era strano che ci fosse anche la Marina su un’isola dove era presente anche una falange del CP0: loro si occupavano di affari internazionali, e che coinvolgevano i Draghi Celesti, ma era sempre la Marina che vegliava sulla sicurezza dei comuni cittadini.

« Per favore, per favore, fate un’offerta! » pregava a gran voce un ragazzino con dai riccioli rossi. Era benvestito e portava con sé un sacco di iuta. « Fate un’offerta al Movimento per la Liberazione dei Lumacofoni! » vide il gruppetto di agenti che lo scrutava con curiosità e si avvicinò speranzoso.

« Volete comprare una lumacamera usa-e-getta, signori? » domandò « Guardate: hanno un rullino da venti fotografie, e quando le avete scattate tutte il guscio si stacca, e potete liberare la lumachina nel vostro giardino! Così può vivere libera! »

« L’hai fatto tu? » chiese Blueno prendendo tra le mani l’animaletto, dal guscio dipinto di rosso brillante.

« Sì signore » rispose il ragazzino « Compro i lumacofoni all’ingrosso, da quelli scartati per piccoli difetti e destinati al macello. Li aggiusto e li rivendo. »

« CHE SISTEMA INGEGNOSO! CHE AMORE PER LE CREATURE! »

« I signori sono dei veri intenditori » cercò di arruffianarseli il ragazzino.

« Quanto costa? » chiese Lucci, interessato.

« Seicento Berry! Prezzo speciale per Capodanno, di solito è mille »

Fu Hattori ad allungargli due monete, che il ragazzino prese estasiato. « Oh, che carino! » si complimentò « È davvero bellissimo, signore! »  e se ne andò tutto contento, cercando di attaccare bottone con gli altri turisti tra la folla.

« Non ti facevo appassionato di fotografia » osservò Kaku.

« Non lo sono, in effetti » rispose il leader del gruppo « L’ho comprato ad Hattori. »

Il colombino, in effetti, aveva nascosto il minuscolo lumacofono sulla spalla di Lucci, infagottandolo nella grande sciarpa verde fino a risultare invisibile. Chissà se l’obiettivo sarebbe riuscito a valicare le coltri!

Da una bancarella poco distante venne una zaffata di profumo di cannella e di brioche, che fece voltare immediatamente gli agenti in quella direzione.

« Chapapa, sono i dolci dell’isola! Li fanno solo in questo periodo… » commentò Fukuro.

Kumadori si mise una mano nella tasca del giaccone e tirò fuori il proprio portafogli.

« Hai appena finito di vuotare la dispensa di Lucci » osservò Blueno guardandolo contare gli spiccioli « Come fai ad avere ancora fame? »

« YOYOI! Con la Tecnica della Reazione Vitale! »

« Hai digerito tutto per ricominciare a mangiare?! » disse Califa allibita. Lei prima di uscire di casa aveva bevuto acqua e bicarbonato!

« NON ESSERE IRRISPETTOSA, CALIFA! Non è per soddisfare la fame, ma per onorare le usanze di una terra straniera per noi ancora vergine! » spiegò barocco, prima di dirigersi velocemente verso il banchetto.

 

Dietro il bancone, a servire i clienti in fila, c’era una signora piccola e rotondetta, con una grande massa di capelli color carota sapientemente acconciati in trecce e chignon sulla cima della testa, cosa che le regalava qualche centimetro in più d’altezza. Era regina nel suo dolcissimo regno, e riempiva uno dietro l’altro i sacchetti di carta dentro i quali vendeva le sue squisitezze. Prendeva le monete e restituiva dei cartocci profumatissimi. I bambini si accalcavano e si alzavano sulle punte, ognuno sperando che si notasse più degli altri la propria moneta, ma gli occhi della piccola signora sapevano già chi era arrivato prima e chi dopo, e non permetteva a nessuno di scavalcare la fila.

Kumadori si trovò quindi dietro Biscina, di anni otto e mezzo, incaricata di far la fila per sé e per gli altri cinque fratelli; era una dei pochi ad avere non le monete, ma una banconota per pagare.

All’improvviso una ragazza si avvicinò trafelata al bancone: « Inna, scusami, puoi farmi un cartoccio con due Morbidoni? » era Souzette L’Unto, figlia di Gigi L’Unto, quello che aveva una locanda frequentata spesso dagli agenti del CP0: evidentemente era in pausa, visto che Fukuro aveva detto che avrebbe lavorato nello staff del concerto, e infatti aveva il giubbino giallo catarifrangente e nero che indossavano tutti i tecnici, con la scritta “crew” sulle spalle. I capelli neri a caschetto le incorniciavano il volto truccato, e su un orecchio c’era incastrata la prossima sigaretta che avrebbe fumato.

« Ehi! » si lamentò una bambina « Ha saltato tutta la fila! » e prendendo coraggio, anche altri bambini cominciarono a lamentarsi e guardare torvi la proprietaria del banchetto. La quale tuttavia non si lasciò soverchiare e disse sbrigativa: « Lei sta lavorando come me, e non è in vacanza. Hai già i soldi contati, vero? »

Souzette le allungò esattamente le monete che servivano a pagare.

« Ciao, Kumadori » lo salutò disinvolta.

Kumadori le sorrise, onorato da quella presenza « Souzette, di Cocca e Gigi L’Unto, sante le tue mani che sfamano gli avventori della tua locanda!! »

« Veramente papà ha contratto una strana malattia quando ha pranzato lì » intervenne Biscina, la bambina in fila davanti a Kumadori, la quale stava assistendo alla scena.

« Giovane virgulta, la tua età giustifichi la gravità delle tue azioni » tuonò Kumadori « O DOVRÒ PRATICARMI IL SEPPUKU PER ESPIARE LA MALDICENZA! »

« No, non è un problema » lo consolò la ragazza facendo spallucce « Non c’è maldicenza quando lo stabilisce la commissione d’igiene » e senza aggiungere altro, la ragazza prese il suo cartoccio con i dolci e si voltò per andare via, ma Kumadori la trattenne gentilmente con una ciocca di capelli rosa.

« Vuoi onorare con la tua presenza questo gruppo di compagni? Sarà una pausa di pochi minuti dal tuo lavoro, per rinfrancare il corpo e la mente » le offrì Kumadori, indicando gli agenti che si tenevano lì vicino, non così tanto da sembrare in fila anche loro, ma abbastanza da non perdere di vista Kumadori.

Souzette li salutò con la mano, sorridendo: frequentavano tutti, chi più e chi meno, la locanda del padre e li conosceva bene; però, accendendosi la sigaretta, rispose: « Negativo, amico. Anzi, perché non venite con me? Uno dei vostri galoppini ha problemi con la Marina. »

« Quel coglione di Spandam? » s’infuriò Jabura.

« Non spreco la notte di Capodanno per cavargli le castagne dal fuoco » tuonò Lucci.

Souzette inarcò le sopracciglia, sorpresa, ma non aveva tempo per indagare cosa ci fosse dietro tutto quell’astio. « Come volete, ma non si tratta di lui, è la ragazza, Lilian: l’hanno scippata, e lei ha reagito al ladro » spiegò la donna incamminandosi.

Gli occhi di Rob Lucci divennero più gelidi della notte di San Silvestro. La Marina, di guardia in quell’isola, aveva permesso a un ladro di operare indisturbato?

« L’hanno ferita?! » si preoccupò Jabura.

« Ma che ferita! Rischia di farsi arrestare per porto d’armi abusivo! » rispose Souzette affrettandosi, ormai seguita dagli agenti del CP che avevano rimandato l’idea di comprare i dolci al baracchino. Andarono a finire in un’altra piazzetta dell’isola, meno grande di quella del Balconcino D’Oro, dove c’erano tante altre persone che passavano allegramente il capodanno. Sotto un portico illuminato, in mezzo a un capannello di curiosi c’era una ragazza, visibilmente alterata, e un Marine con le manette in mano.

« No che non vengo! » dichiarava furiosa la ragazza « Devo recuperare il borsellino! »

Il Marine però non voleva concederle nulla: « Signorina, quello è possesso illegale di arma bianca, mi segua e non mi costringa a trascinarla via, proprio la notte di Capodanno »

« Mi ridia il coltello, per favore » ringhiò Lilian, con le lacrime agli occhi e sempre meno calma.

Il Marine rise, non prese nemmeno in considerazione la richiesta.

« E allora mi lasci andare » disse strattonando la presa del Marine, che la teneva per un braccio « tanto senza coltello che male posso fare? »

« Le teste calde come lei un modo lo trovano, dovessero usare le unghie. Forza, andiamo in caserma »

« IO NON CI VADO, IN CASERMA! »

Rob Lucci e i suoi si fecero strada in mezzo alla folla che assisteva al diverbio e scommetteva sulle due parti.

« Che sta succedendo qui? » domandò senza salutare, rivolgendosi direttamente al Marine.

« Signor Lucci! » lo salutò con deferenza l’uomo in divisa, chinando il capo; Rob Lucci era una personalità ben nota nell’isola, per il ruolo che aveva, e le leggende dei suoi massacri erano conosciute da tutti. « Nulla che possa turbare la giustizia, abbiamo sorpreso questa ragazza con un’arma in mano. Le hanno rubato il borsellino nella folla, e voleva farsi giustizia da sé. »

Quando vide Rob Lucci avvicinarsi, Lilian divenne di fiamma per la paura e per l’imbarazzo di farsi sorprendere in una situazione così scomoda. Un suo sottoposto che si faceva arrestare dalla Marina? Lui aveva ucciso per molto, molto meno.

« Buonasera, boss » salutò il suo superiore, e salutò gli altri agenti con la mano. Sorrise senza neanche rendersene conto e l’istinto le fece prendere spalancare le ali per correre da loro, ma il Marine la acchiappò per il bavero del cappottino e non la fece allontanare.

« Sta trattenendo il derubato e ha lasciato andare il ladro? » riassunse Califa.

Lili cominciò a rilassarsi: se Califa la metteva così, forse Lucci non sarebbe stato arrabbiato con lei che voleva difendersi, ma con il Marine che glielo aveva impedito.

« Sono riusciti a fregarti? » se la rise Jabura « Non è da te, Lili! Troppo spumante, stasera? »

« Troppo poco » rispose la ragazza.

« Tieni, ti ho portato questi » disse Souzette offrendole i Morbidoni ancora caldi « così se ti trascinano in caserma sul serio, almeno non rimani a stomaco vuoto » spiegò, mentre Lilian esplorava il dolcissimo cartoccio.

« Sei un vero angelo » le disse.

Lucci ignorò quelle chiacchiere: in giro c’era qualcuno che derubava le persone, che la Marina non era stata in grado di fermare, e a lui prudevano le mani.

Il Marine però evidentemente sottovalutava il pericolo che stava correndo, e disse: « Mi scusi, signore, ma devo portare la ragazza alla nostra base per porto illegale d’arma bianca »

Kaku sbirciò il volto di Rob Lucci e poi si guardò attorno: bambini che si inseguivano ridendo, famiglie che aspettavano l’inizio del concerto, persone tranquille con i bicchieri in mano in attesa dell’anno nuovo.

« Pensa a San Popula » mormorò soltanto, abbassandosi il bordo della sciarpa che gli arrivava sotto al naso.

Il leader della sezione soffiò irritato, poi disse gelido al Marine: « Lascia la ragazza e vattene. »

« Grazie » Lili aveva trovato l’ennesima ragione per adorare il suo capo.

« E restituisci subito l’arma » lo sguardo di Rob Lucci non ammetteva repliche, e se l’uomo si fosse rifiutato non sarebbe bastato il ricordo di quanto successo a San Popula a fermarlo.

Il Marine allungò alla ragazza un coltello dalla lama lunga una trentina di centimetri, scintillante e letale, che sparì come per magia in pochi attimi nella manica del cappottino di Lilian.

« Andiamo » ordinò al suo reparto.

« Dove? Vi posso offrire qualcosa? Se non era per voi… » cominciò a dire Lilian.

Jabura si voltò verso di lei e si fece scrocchiare le nocche. « Tra dieci minuti riavrai il tuo borsellino »

« Aspetta qui » le ordinò perentorio Rob Lucci, indicando quell’esatto punto con l’indice puntato verso il basso.

« No! Fermi, non ci sono problemi! Erano pochi soldi, non vale la… » ma era inutile parlare, i governativi avevano spiccato un salto con il Geppo ed erano già spariti tra i fiocchi di neve, confondendosi fra la notte e le luci.

Souzette le ricordò dell’esistenza del cartoccio di dolci « Mangia questi e non preoccuparti » le disse.

« Ma è una sera di festa » protestò la ragazza « Non voglio rovinargliela… »

« Rovinato la serata? Ma scherzi? » si meravigliò la donna « Non vedono l’ora di menar le mani. Gli hai fatto un favore! E l’hai fatto alla Marina che dovrà occuparsi di un ladro in meno »

 

~

 

Non fu un gran San Silvestro, per Sonny Sonnino. Venne sorpreso con le mani nella borsetta di una signora di mezza età distratta a guardare una luccicante vetrina, e prima che potesse dire mezza sillaba si trovò addosso tre diavoli che lo inchiodarono al primo muro disponibile, e poi altri quattro lo perquisirono senza troppi convenevoli, denudandolo quasi completamente per poi recuperare, unico in mezzo a tanti orologi d’oro e portafogli, un borsellino a fiori.

Un borsellino che gli aveva portato rogne fin dall’inizio, visto che le sue “dita di fata” avevano fallito, la ragazza si era accorta dell’improvviso alleggerimento, e gli aveva intimato a mano armata di restituirgli il maltolto, minacciandolo di urlare se non le avesse obbedito! Poi, unica volta in tutta la sua vita, aveva benedetto la Marina per essere arrivata a fermarla, o si sarebbe fatto beccare!

Rob Lucci e Jabura osservarono quel borsellino posato sul palmo di Blueno, mezzi mutati in leopardo e lupo, e poi decretarono che era proprio lui: nella forma ibrida, riconoscevano l’odore della proprietaria. Il leader afferrò per il collo il malvivente e lo trascinò via.

Il drappello tornò dieci minuti dopo dalla segretaria, che si era seduta sulle scale di una casa vicino al punto che le aveva indicato il suo capo, non osando disobbedire anche se ferma lì le si stavano ghiacciando i piedi.

Tutti gli agenti non avevano un capello fuori posto, e Rob Lucci trascinava Sonny Sonnino tenendolo per il collo. Il tizio era decisamente malconcio, e sembrava che fosse stato calpestato da una delle carrozze che passeggiavano sui ponti delle isole.

« È lui? » chiese spiccio a Lili alzando la testa del tizio per i capelli.

La ragazza fece cenno di sì con la testa.

« Forza, ridaglielo. » ordinò secco il governativo.

L’uomo tese una mano verso Lilian: stringeva il suo borsellino a fiori, inequivocabilmente lui.

« Controlla se c’è tutto » disse Jabura.

Lili aprì velocemente la clip e contò i soldi. Alzò la testa, con uno sguardo quasi più gelido di quello di Lucci « Mancano dei soldi » disse al ladro « Trentamila Berry »

Il tizio si frugò in tasca e le allungò i soldi. Lili li intascò e Lucci lasciò la presa sul ladro, che cadde faccia a terra sul marciapiede innevato.

« Ehi aspetta! » Lilian fermò Jabura che lo stava per trascinare via. « Non vorrete ammazzarlo! »

« Che domande » rispose il Lupo « È il nostro mestiere. E ha derubato un agente governativo »

Fu Lucci a prendere in mano la situazione « Dallo ai Marine » ordinò.

« È nostra preda » sguainò le zanne Jabura.

« Saranno felici di restituirci il favore, prima o poi. Non fare casini inutili la notte di Capodanno, nel luogo più affollato dell’arcipelago. L’eccesso di giustizia si ritorce contro di noi, lo sai. »

Avevano imparato a loro spese nella lontanissima San Popula che i civili sono molto impressionabili, e uccidere a sangue freddo davanti a loro vuol dire essere o ostracizzati dalla popolazione, o ricercati dalla Marina. Nel loro caso, dovendo continuare a vivere all’Arcipelago di Catarina, era meglio conservare dei rapporti cortesi con la popolazione.

 

~

 

Lilian salutò tutti con affetto, ringraziandoli per la gentilezza di averle recuperato il borsellino e congedandosi. Jabura non approvò, se la prese sotto al braccio come un vitello sollevandola da terra e la costrinse a rimanere con loro, saltando con il Geppo fino al terrazzino che Kaku e Califa avevano proposto per godersi il concerto.  

Era una terrazza vuota e riparata dal vento che affacciava sulla Piazza del Balconcino D’Oro; forse un appartamento sfitto, forse i proprietari erano in giro a far festa, ma l’importante era che fosse grande e vuoto, tutto per gli agenti. Era come stare sul palco d’onore, si aveva la sensazione che, solo allungando un dito, sarebbe stato possibile toccare i cantanti durante lo spettacolo. Riconobbero persino Souzette, che nella sua tenuta da elettricista, controllava un’ultima volta che gli strumenti fossero collegati agli amplificatori. Proprio davanti a loro, dall’altro lato del palco, c’era il balconcino dal tetto dorato che dava il nome alla piazza, con tante persone sedute che, come loro, avrebbero seguito il concerto dall’alto.

All’improvviso le luci si abbassarono e sul palco apparve un uomo con un microfono in mano. « Benvenuti! » disse il panciuto presentatore « Grazie per tenerci compagnia nella notte più scintillante dell’anno! »

Tutto il pubblico della piazza gridò e applaudì, e gli agenti si affacciarono per godersi lo spettacolo.

« Abbiamo in serbo tante sorprese per voi coraggiosi che avete sfidato il freddo dell’Isola dell’Ovest per essere qui, stasera! Sappiamo che venite da tante isole diverse, avete tante storie diverse e i vostri sorrisi sono tutti diversi… ma stasera saremo tutti insieme! E tutti insieme faremo il conto alla rovescia per l’anno nuovo! Siete contenti?? »

« SÌÌÌÌÌÌ!!! » rispose come un sol uomo il pubblico, e anche Kumadori, Fukuro, Kaku e Jabura.

La svolta alla serata però la diede Blueno: tirò fuori tante di quelle bottiglie che, dopo mezz’ora, il Door-Door venne dichiarato il Frutto più utile del mondo per quanto riguardava il contrabbando di alcolici, e Water Seven fu compianta per aver perso uno degli osti più in gamba di tutti i Mari: l’agente per infiltrarsi aveva dovuto informarsi un bel po’, ma in compenso non c’era nessuno migliore di lui per preparare un capodanno con i fiocchi, anche se in un luogo desolato come una terrazza. Ma, in fondo, bastava un tocco di Door-Door per procurarsi drink, cocktail e bottiglie di champagne.

Le sue mani erano veloci e sicure nello scegliere le bottiglie giuste in pochi attimo, le sue braccia shakeravano e riempiva i bicchieri ai colleghi con una velocità e un’eleganza che non avevano nulla da invidiare a chi il barman lo faceva sul serio.

E molti bicchieri vennero riempiti, quella notte, e altrettanti ne vennero svuotati. Alla fine, l’unico a seguire in maniera lucida il conto alla rovescia per l’anno nuovo fu proprio Blueno.

Ma fu il Capodanno più bello e sereno che avesse visto loro passare, pensò Hattori, e anche il loro primo Capodanno a Catarina. Forse era anche uno dei pochi Capodanni che Rob Lucci passava con le persone che considerava “casa”, oltre a lui, pensò osservando l’espressione meno truce del solito e sentendo le larghe spalle rilassate sotto le zampine.

Sì, pensò il colombino ascoltando il suo compagno sciogliersi in una risata dopo una battuta di Kumadori: sarebbe stato davvero un bellissimo anno.

 

Dietro le quinte…

Chi pubblica il primo dell’anno, pubblica tutto l’anno!!! Eccomi tornata ad aggiornare la raccoltina invernale! Buon 2018 a tutti i lettori e grazie per aver letto questa storia. Giusto poche note:

Piazza del Balconcino D’Oro esiste davvero, si trova a Innsbruck, nel Tirolo austriaco, ed è la città cui mi sono ispirata per l’ambientazione dell’Isola dove si svolge questa One Shot.

Finalmente è entrata attivamente in scena, dopo anni nelle retrovie, l’avvenente Souzette, figlia di Gigi L’Unto! Me la sono sempre immaginata piuttosto carina, con un bel caschetto moro alla francese, sigaretta e molto affaccendata tra la locanda di suo padre e vari lavoretti secondari per arrotondare :) spero vi sia piaciuta!

C'è Lilian perché... volevo dare un Capodanno felice anche a lei ♥ non ha un background dei più allegri, e infatti sull'isola invernale inizialmente era sola.

Grazie mille per essere arrivati fin qui e… ehi, aspettate! C’è l’epilogo! Non bullizzate l’epilogo!

Buon 2018,

Yellow Canadair

Ps. Siate buoni, se ci sono errori segnalatemeli, ho letto e riletto ma tanti occhi son meglio di due!

 

 

Rob Lucci, seduto alla sua scrivania, aiutò Hattori ad aprire il pacchetto di fotografie che gli erano state recapitate dallo studio fotografico dell’Isola del Nord, dove aveva portato a stampare il rullino di Capodanno. Meglio vederle prima da solo, e solo poi mostrarle ai colleghi, nel caso in cui ci fossero stati scatti troppo impietosi: quelli sarebbero stati polverizzati nel cestino dei rifiuti.

Le prime erano molto sobrie: il Balconcino D’Oro, alcune luminarie, Kumadori che faceva la coda al baracchino dei dolciumi, Blueno vicino a una delle renne di legno. Uno scatto mossissimo di Jabura che pestava Sonny Sonnino. Una foto sfocata ai denti di Fukuro. Un autoscatto di Lilian e Kumadori fatto con i capelli di quest'ultimo.

Poi si cominciava a degenerare, notò Lucci.

Tutti insieme sul terrazzino, con i bicchieri in mano; Blueno circondato da bicchieri e shaker; Lilian e Califa con due bicchieri in mano a mo’ di microfono (se Lucci non ricordava male, stavano cantando All I Want For Christmas Is You, strillando come due tredicenni).

Poi c’erano lui e Jabura che tracannavano facendo a gara: l’uno prendeva l’ennesimo bicchiere dicendo “è l’ultimo”, e l’altro rilanciava. Jabura era finito miseramente a frignare per vecchie fiamme, culminando sempre con un “non sa cosa si perde, quella!”. Vittoria di Lucci.

Kumadori in lacrime: gli era presa la sbronza triste e piangeva pensando alla madre; invani i tentativi di Fukuro di tirarlo su di morale raccontando aneddoti scabrosi di cose successe nella Torre di Catarina.

Califa spalmata in braccio a Kaku, il quale era o troppo brillo o troppo stanco per dirle che casomai era lui il molestato sessualmente, in quel momento.

E infine lui, Rob Lucci, con la testa su uno dei tavolini circondato da bicchieri vuoti, che cercava di farsi passare la sbronza senza fare danni. Era seduto tra le due ragazze, anche loro mezze addormentate. Sullo sfondo c’era Kumadori che… sembrava stesse cantando in bilico sul bordo del terrazzo.

Scatti mossi, scatti tutti neri, la pelliccia di Califa, bicchieri, il disco bianco del sole dietro al mare nella prima alba dell’anno.

E poi l’ultima foto del rullino: una foto di gruppo. Non era più l’Isola dell’Ovest, dal clima invernale: era l’Isola del Sud, quella con il clima primaverile, la riconosceva dalla foggia dei palazzi che era completamente diversa e dal fatto che quello alle loro spalle era senza dubbio il porto dell’Isola del Sud. Lucci ci pensò un attimo su: non aveva memoria del fatto che, quella notte, avessero cambiato isola.

Erano seduti su delle casse in un vicolo del porto, alla luce fioca dell’alba. Kumadori e Fukuro, i più alti, erano sullo sfondo, e Kumadori aveva disteso tutti i capelli finché il colore predominante della foto era senza dubbio il rosa; Fukuro si stava aprendo la zip e stava parlando; Blueno, dal cappotto slacciato che mostrava il suo panciotto grigio, era appoggiato a una cassa e guardava da tutt’altra parte rispetto all’obiettivo. Califa era seduta sulla cassa, accanto a Lucci, con la testa poggiata sulla spalla dell’uomo; sembrava dormire, e in braccio teneva Hattori, l’unico nella foto ad avere lo sguardo vispo: evidentemente, pensò Lucci, aveva impostato l’autoscatto e stava controllando che funzionasse. Kaku stava ridendo a crepapelle, chissà cosa aveva detto Fukuro per farlo divertire così, con la testa rovesciata all’indietro e le mani a tenersi la pancia. Jabura era accanto a Califa e vicino c’era Lilian, che non voleva farsi la foto assieme a loro; ma lui era un armadio e lei una piuma, sollevarla di peso e depositarsela in braccio non era stato difficile. Nella foto, lei rideva e lui indicava l’obiettivo con un dito, ghignando vittorioso.

Al centro di tutto quel bailamme, tra Kaku e Califa, c’era lui, Rob Lucci. Aveva il cappotto su un braccio, la tuba in testa, i capelli sciolti dopo essere stati acconciati con perizia per tutta la sera, la cravatta allentata sul completo grigio e nero, e sorrideva verso la fotocamera.

Forse uno dei pochi veri sorrisi che avesse mai fatto in tutta la sua vita.

Sarebbe stato davvero un bell’anno.

 

 

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Capitolo 3
*** Voci di corridoio a crescita istantanea e germinazione fulminea ***


Voci di corridoio a crescita istantanea e germinazione fulminea

(con la partecipazione dell’Agente Stussy)

 

Vedere le luci di Catarina in lontananza, con l’isola invernale avvolta nella neve e sferzata dai venti, fece rabbrividire Stussy, che si strinse addosso il suo cappottino di pelliccia. Aveva approfittato di alcuni giorni di vacanza prima di Natale, per quella traversata, e ora era finalmente giunta a destinazione.

Stussy, agente ai vertici del CP0 e maestra delle Sei Tecniche, aveva sentito spesso parlare dell’apertura della nuova sede di Catarina, che ospitava il reparto del CP0 guidato da un redivivo Rob Lucci.

Catarina era un arcipelago formato da cinque isole disposte come i cinque punti sulla faccia di un dado; le quattro isole periferiche avevano ognuna un clima diverso: estivo, invernale, primaverile e autunnale; l’isola centrale, la più piccola, subiva le influenze delle altre isole a seconda dei venti, e da tempo era proprietà del Governo; due anni prima i vertici del Cipher Pol avevano discusso sul renderla sede di una nuova ala del CP0, e lei aveva votato a favore dell’iniziativa.

Una gran bella faccia tosta, Rob Lucci! Aveva sollevato un bel polverone due anni prima, però non solo era, da anni, uno dei migliori agenti segreti con licenza di uccidere in circolazione ma, con quello che si era scoperto del fattaccio di Enies Lobby, aveva tutto il diritto di accampare pretese e pretendere un indennizzo per sé e per i suoi colleghi.

Gli avevano offerto un posto di comando all’interno del CP0, sarebbe stato il leader indiscusso di uno dei reparti del servizio segreto più potente del mondo, e già questo avrebbe accontentato una persona ambiziosa: essere al servizio dei Draghi Celesti voleva dire missioni prestigiose, fama immortale, e risorse praticamente illimitate.

Ma Rob Lucci non era ambizioso: era furioso, il che era molto peggio.

Il posto di comando lo accettava, ma voleva avere come sottoposti solo agenti di cui si fidava, e nessun altro. Impossibile, gli avevano risposto dai piani alti.

E allora io stacco la testa all’ostaggio, aveva fatto sapere.

L’ostaggio in questione era Spandam, ma a causa delle lunghe e tentacolari mani di suo padre, in pasta un po’ ovunque, non poteva essere ucciso impunemente: la pretesa era stata accolta dal Cipher e, visto che un nuovo reparto avrebbe necessitato di una nuova sede, e qui c’era stata una votazione tra gli altri leader del CP0. Molti, rosi dall’invidia, avrebbero confinato Rob Lucci nell’amena Punk Hazard, ma alcuni erano ben coscienti del valore del CP9, e avevano proposto una sede più tranquilla, adatta più a vivere tranquillamente che a scontare un ergastolo. Stussy era stata tra quelli.

Non aveva dubbi che, a tempo debito, avrebbe potuto chiedere a quel ragazzo, gagliardo e sanguinario, un piccolo favore personale.

«Prego signorina, mi dia la mano! L’aiuto a sbarcare!» propose galante un marinaio della nave con cui Stussy aveva viaggiato.

«Molto gentile» sorrise l’agente accettando l’aiuto.

Era così appena sbarcata sull’Isola dell’Inverno, una delle cinque che formavano l’Arcipelago. Non aveva reso il suo viaggio ufficiale, viaggiava come semplice turista, preferendo non dare nell’occhio e non allertare prima del tempo il suo collega.

Si abbottonò svelta i bottoni del cappotto di pelliccia di volpe, e si calcò meglio sulla testa la cloche di lana: era davvero rigido il clima di quel posto! Ma perché il porto turistico era stato messo sull’isola invernale? Per far ammalare i turisti all’arrivo?, pensò la donna.

Si infilò i guantini in pelle e s’incamminò verso il suo hotel, dove già erano già state recapitate le sue valigie, stando ben attenta a non scivolare sulla neve con le sue deliziose scarpine.

 

 

 

Intanto, alla Torre di Catarina, nella sede centrale del reparto dell’ex CP9, quella mattina c’era un po’ di maretta.

«Non sono d’accordo con questa pagliacciata» tuonò Rob Lucci perentorio, sedendosi sulla sedia della propria scrivania.

«Purtroppo bisogna adeguarsi» sospirò Califa inforcando gli occhiali e rileggendo il dispaccio proveniente dalla sede centrale del Cipher Pol «È scritto nero su bianco; se non lo facessimo, rischieremmo di avere fastidi, dopo…»

«C’è di peggio» cercò di consolarlo Kaku «Teniamoceli buoni, visto che non sempre riusciamo a uccidere lo stretto necessario» disse guardando storto Jabura.

«Che hai da fissarmi?! L’ho detto cento volte: Fukuro ha messo la voce in giro da che abbiamo messo piede sull’isola, e mezza città sapeva del piano! o li ammazzavo tutti, o sarebbe saltata la mia copertura!»

Rob Lucci scrisse “Fukuro” su un post-it e lo appiccicò sul primo cassetto della sua scrivania, quello dove conservava gli oggetti di Hattori e che apriva spesso durante la giornata; Jabura era una testa di cazzo, ma Fukuro doveva togliersi l’abitudine di spettegolare dei loro piani top secret: era inammissibile, per un agente segreto!

Erano nell’ufficio di Lucci, al primo piano della Torre di Catarina. Aveva ricevuto un pacco dall’amministrazione centrale, quella mattina, e bisognava occuparsi del suo contenuto. Kaku era stato il primo ad essere interpellato in merito, e Califa la seconda, vista la sua esperienza con faccende burocratiche.

Jabura si trovava lì per ficcanasare, come un cane fra le gambe della folla. Ma il boss non aveva voglia di litigare in quel momento, e non lo disse ad alta voce: aveva roba più seria di cui occuparsi.

«Non c’è altra scelta» sospirò infine Kaku prendendo a due mani il contenuto del pacco: un cavo lunghissimo di lucine multicolori che avrebbero illuminato entro sera il profilo della Torre. «Chi le mette?»

Le lucine di Natale.

 

 

 

Stussy si sedette con grazia nella carrozza scoperta che l’albergo aveva mandato a chiamare apposta per lei, e il cocchiere le porse la coperta da mettere sulle gambe. Si avvolse per bene nella grande sciarpa di lana appena comprata in una boutique dell’isola e si accomodò meglio sul sediolino della carrozza.

«Su che isola l’accompagno?»

«Quella centrale» ordinò Stussy «Alla Torre del Governo. In fretta.»

 

 

 

Jabura fece tre passi indietro per guardare la facciata della torre. Strinse le labbra, piegò la testa da una parte e dall’altra, scettico.

«Le hai messe storte»

«Non le ho messe storte!» ribattè pronto Kaku.

«Pendono da una parte, scemo» indicò il Lupo «Partono dritte, poi dopo la seconda finestra fanno una discesa.»

Kaku si voltò irritato: «È perché per metterle mi sono basato sulle lucine che hai messo tu! E che tu hai messo con i piedi!»

«Piantala di gridarmi addosso! Che succede? I tuoi Doriki non ti aiutano?»

«Ancora con questa storia?! Ti ho detto cento volte che questa roba non mi è mai interessata!»

In quel momento la carrozza di Stussy si fermò in capo al vialetto di ghiaino che portava alla torre. Vide i colleghi discutere tra loro a voce alta e arrabattarsi per sistemare un filo di lucine sull’architrave dell’ingresso. Sorrise beffarda e rimase qualche minuto a godersi lo spettacolo, osservando i due uomini che prima parlavano in maniera quasi civile, poi cominciavano ad alzare la voce, e prima che dalla forma ibrida passassero alle botte, decise di palesarsi.

Jabura e Kaku non la sentirono arrivare, abituati al consueto via vai di gente che passeggiava per il parco in cui era immerso l’edificio in cui vivevano. Jabura continuava a sbraitare che era colpa di Kaku, Kaku si difendeva e ricordava al collega che era stato lui a intrufolarsi nell’ufficio di Lucci a ficcanasare, nessuno l’aveva obbligato.

«Ancora a litigare?» esordì la donna «Sembrate sempre due mocciosi»

I due uomini riconobbero subito la voce e si voltarono. Kaku si adombrò fra sé e sé, ma decise di fare buon viso a un agente superiore di grado. «Stussy!» la salutò a braccia conserte «Da quanto tempo sei qui?»

«Anche per me è un piacere vederti» sorrise sorniona la donna, aprendosi i bottoni del cappottino «Uff! Qui fa decisamente più caldo, meno male» considerò.

«Stussy! È un secolo che non passo dalle tue parti!» rise Jabura «Come vanno gli affari?»

«Maluccio, da quando non spendi dalle mie parti» si leccò le labbra la proprietaria del quartiere a luci rosse di un’isola piuttosto lontana.

«Ti piacerebbe, che spendessi dalle tue parti» ringhiò l’uomo «Ma sfortunatamente per te, non ne ho mai avuto bisogno»

«Che ci fai qui? Guai alla sede centrale?» la interrogò Kaku, posando per terra il filo di lucine stando ben attento a non ingarbugliarlo. E soprattutto, non aveva nessuna intenzione di lasciare al collega lo spazio per approfondire le proprie abitudini private!

Stussy staccò lo sguardo dal petto scoperto di Jabura, e scese anche più in basso. Infine sorrise e decise che, per quanto bello fosse lo spettacolo, lei puntava più in alto, e si degnò di rispondere a Kaku: «No, nessun guaio. Ma devo parlare con Lucci, dov’è? Spero sia dentro: non mi va di fare un altro giro in carrozza per le isole.»

Perché che Lucci fosse a Catarina e non in missione, Stussy lo sapeva già.

«È di sopra» indicò Jabura con un cenno del capo «Al secondo piano»

«Non mi accompagni?»

«Ho da fare» mostrò i denti Jabura, riprendendo in mano il filo delle lucine e guardandosi attorno alla ricerca della scala «Ti porto solo fino alla guardiola nell’ingresso, poi ci penserà Spandam» Stussy non era male, ma a Jabura piaceva cacciare, non fare la preda; e poi, con lei c’era sempre il rischio che meditasse di venderti al miglior offerente del suo quartiere a luci rosse! Che lui, per dovere di cronaca, non aveva mai avuto nessun bisogno di frequentare!

 

 

Spandam consegnò Stussy nelle mani di Rob Lucci, la cui espressione fredda e altera mostrava chiaramente il desiderio di polverizzare la testa all’ex capo che, da quando era ex, starnazzava una quantità irritante di salamelecchi.

Però tutto sommato, una funzione Spandam la assolveva: quella di galoppino tuttofare. Lucci badava sempre di assegnargli compiti che non richiedessero un’eccessiva manualità (come fare il caffè, tagliare la carta, battere a macchina un rapporto, fare ricerche: quelle cose le faceva fare alla segretaria, la quale aveva il pollice opponibile). Prima di chiudere la porta e dare inizio al colloquio privato con la sua collega, l’agente disse a Spandam: « Chiama Fukuro. Lo voglio qui tra trenta minuti » ordinò.

«Certo signore!» scattò sull’attenti il tirapiedi, ma a “signore” Lucci aveva già sbattuto la porta chiudendolo fuori.

Stussy intanto si era tolta il cappottino e si era seduta elegantemente sulla sedia davanti alla scrivania più grossa della Torre di Catarina, senza aspettare che il collega si sedesse o le desse il permesso.

«Che vuoi?» Lucci non aveva tempo da perdere, e Stussy sorrise. Le piaceva quel modo di fare arrogante e freddo, ma anche molto pratico e poco incline a perdersi in chiacchiere inutili. Un assassino perfetto.

Lei cominciò a parlare, e lui ascoltò il breve discorso della sua pari di grado senza un solo commento, salvo occasionali cenni del capo e qualche occhiata gelida quando le parole diventavano più audaci, e si allontanavano dal rassicurante solco della Giustizia.

 

 

«Chapapa, pendono all’altezza del terzo piano, sotto la finestra di Kumadori» disse Fukuro.

Jabura e Kaku si voltarono per guardarlo con aria omicida: come osava? Come osava, dopo tutto il lavoro che avevano fatto, dopo mezzo pomeriggio passato a litigare, fra loro e contro le lucine.

Ma prima che qualcuno potesse aprir bocca e ribattere, dal portone principale, lasciato socchiuso perché i due agenti potessero salire ai piani alti senza la noia di doverlo aprire ogni volta, uscì Spandam.

«Domando scusa» disse agli agenti.

Kaku, Fukuro e Jabura trovavano ancora stranissimo, a distanza di più di un anno, che il loro ex direttore si rivolgesse a loro in quel modo, quando aveva passato la vita a dar loro degli imbecilli, a impartire ordini, e poi frignare come un bambino alla sottana della mamma quando comincia a correre il minimo rischio.

Vederselo così ossequioso e rispettoso era, per tutti, ancora insolito.

Spandam, dal canto suo, per un verso era schiumante di rabbia (i suoi sottoposti! Il suo CP9! Il suo posto da direttore!), dall’altro era perfettamente conscio di doverseli mantenere buoni, se voleva riprovare la scalata verso l’alto.

«Fukuro, Lucci ti vuole nel suo ufficio tra…» non ricordava benissimo «venti minuti» disse infine. Tanto, era sicuro che Lucci non avesse detto più di mezz’ora, e se Fukuro fosse arrivato con un po’ di anticipo, tanto meglio. Così lui, Spandam, sarebbe risultato ancor più efficiente!

«Chapapa» borbottò Fukuro aprendosi la cerniera « E va bene » poi si ricordò di una cosa: «Ehi, da chi mangiamo a Natale?» chiese a Kaku.

Lui e Jabura erano appena tornati da una missione fuori, e si erano persi tutti i preparativi per le feste di Natale. Non sapeva nemmeno se ci sarebbero stati tutti gli agenti presenti o no: succedeva spesso che l’uno o l’altro fossero in trasferta per missioni sotto copertura, il Natale insieme era cosa rara, e per questo nessuno ci teneva molto.

Ma se ce n’era la possibilità, di sicuro gli agenti presenti a Catarina si sarebbero organizzati per passarlo insieme, invece che ognuno segregato nel proprio appartamento.

«Da Lucci, salvo imprevisti» rispose Kaku «Blueno ha già cominciato a fare la spesa per il pranzo. Se vuoi qualcosa in particolare, ti conviene andare a dirglielo» gli consigliò.

«E ora spicciati, altrimenti a Spandam viene un infarto per paura che tu faccia tardi» gli consigliò il collega più anziano del reparto.

Quando Fukuro se ne andò, Jabura e Kaku cominciarono a chiedersi se effettivamente le lucine al terzo piano fossero storte.

 

 

Rob Lucci stava riflettendo su quanto gli era stato appena proposto, squadrando freddamente Stussy. Quando quell’idiota di Spandam aveva annunciato che Stussy chiedeva di parlare con lui, aveva pensato all’ennesima svista. Ma poi aveva sentito quell’inconfondibile odore dolciastro di colonia, che quella donna si portava appresso, e si era rapidamente ricreduto. Legati i capelli in una coda bassa sulla nuca, si era preparato a ogni possibile duello, ma non c'era stato bisogno di combattere: solo di ascoltare, e poi, di scegliere.

Hattori non le staccava gli occhietti di dosso, vedendosi improvvisamente invaso il proprio sacro territorio, e beveva caffè dal bicchiere di carta con fare minaccioso.

«Vuoi una risposta adesso?» disse Lucci.

Stussy sorrise. «La mia nave salperà tra due giorni, io alloggio all’Isola dell’Ovest… se entro quel momento non avrò risposta, ti considererò fuori da ogni programma» concluse.

«L’avrai stasera a cena» promise l’uomo alzandosi, facendo intendere che la conversazione era finita.

Stussy inarcò le sopracciglia, sorpresa e compiaciuta «Oh» commentò «allora il mio invito è stato accettato… almeno quello»

«Il tuo invito a cena è stato rifiutato» sottolineò Lucci senza un’ombra di galanteria nel tono «Questo è il mio invito a cena»

Stussy era una collega molto pericolosa, e Lucci era ben deciso a non darle nessun vantaggio. Avrebbe scelto lui luogo e orario, Stussy doveva solo badare a non mettere i suoi graziosi piedini in fallo, o glieli avrebbe staccati.

«Però non voglio solo la tua risposta » rilanciò la donna raccogliendo il proprio soprabito « Voglio anche quelle di tutti i tuoi colleghi. Specialmente di Califa»

 

Fukuro, ballonzolando fluidamente per i corridoi di marmo della Torre di Catarina, si dirigeva verso l’ufficio di Rob Lucci canticchiando una canzone che stava inventando mano a mano che andava avanti. Salì le scale saltando i gradini a due a due, e si trovò nel corridoio dell’ufficio del leader del reparto proprio mentre costui era sulla porta dell’ufficio a congedarsi dalla bella Stussy.

«Allora sei dentro? Partecipi?» stava dicendo la donna.

«Basta che non ti fai vedere fino ad allora» ascoltò Fukuro dire all’uomo.

Stussy rise di un riso scampanellante, e rispose giuliva: «Sarà un modo veramente bellissimo per festeggiare il Natale!»

«Fatti trovare al ristorante per le otto» ordinò Lucci.

«Non faccio mai aspettare i clienti importanti» fece l’occhiolino Stussy.

Stussy se ne andò ticchettando sui suoi tacchi, il visino truccato tutto pieno di soddisfazione, e Fukuro la seguì con lo sguardo mentre lo superava e spariva nella tromba delle scale che portava al piano di sotto.

Poi il rotondissimo agente cominciò a rimuginare sulle parole che aveva appena sentito: a cosa doveva partecipare Rob Lucci? Perché sarebbe stato “un modo bellissimo per festeggiare il Natale”? E quell’appuntamento al ristorante?

Rimase a pensare a quella conversazione a cui aveva assistito persino durante il colloquio con Rob Lucci, persino mentre il leader gli faceva una sonora lavata di capo per la sua abitudine di mettere voci in giro quando era in missione. Le parole di Lucci a Stussy gli giravano in testa, si incastravano e si ricombinavano come un gigantesco sudoku di parole, e persino gli sguardi gelidi del suo superiore non riuscirono a penetrare quella corteccia di rimuginii.

Fukuro del resto era un agente del CP0, e non lo era per nulla: era addestrato a fingere, e non ascoltare minimamente i toni aspri di Rob Lucci dovette sembrargli più che facile, naturale.

Appena due anni prima Fukuro avrebbe rischiato la vita, a spiattellare dettagli durante una missione sotto l’egida del reparto di Rob Lucci. Quest’ultimo non era certo il tipo da donare una seconda chance a un agente che aveva fatto un errore, anzi: la leggenda voleva che avesse ucciso cinquecento Marine solo perché non erano stati in grado di portare a termine un compito.

Ma erano cambiate alcune cose, e Rob Lucci aveva preso l’abitudine di non uccidere dei colleghi, se questi gli avevano letteralmente salvato la vita. E poi insomma, uccidere Fukuro, per quanto molto funzionale all’esito delle missioni, avrebbe decisamente stravolto quell’equilibrio che si era creato a Catarina. Quell’equilibrio che, di nascosto, nel buio e nella solitudine del proprio letto, Rob Lucci sussurrava mentalmente essere familiare.

Comunque, non lesinò i toni duri, perché non era possibile che quell’idiota, a trentun anni suonati, metà dei quali passati come agente operativo e la quasi totalità sotto il controllo del Cipher Pol, andasse ancora a mettere in giro voci compromettenti.

Così Fukuro annuiva ora triste ora contrito alle parole di Lucci, e sembrava seriamente intenzionato a non commettere più quell’errore fatale, ora che gli era stato spiegato per filo e per segno perché non farlo e come non farlo: accidenti, aveva una zip sulla bocca, bastava tenerla chiusa per essere al sicuro dalle tentazioni!

 Quando Fukuro venne congedato, un faretto gli si accese sotto la zazzera verde.

Partecipare a qualcosa. Passare il Natale. Stussy e Lucci a un appuntamento al ristorante.

«Chapapa!» pensò Fukuro scendendo le scale che portavano al pianterreno «Lucci passerà il Natale da Stussy al Quartiere a Luci rosse!»

 

 

 

Congedata, Stussy venne scortata fuori dalla Torre da un ossequioso Spandam, prodigo di complimenti per una delle agenti più in gamba del CP0 nonché pari di grado con Lucci e con la possibilità di mettere, se lo voleva, una buona parola per lui e risollevarlo dal destino di portinaio a Catarina.

Stussy lo ignorava, non aveva accettato il braccio che l’uomo le aveva offerto e con falcate eleganti non gli permetteva di tenere il passo con lei, e percorreva con grazia e leggerezza i corridoi della Torre di Catarina fino ad arrivare nel patio, vicino all’ingresso. Notava che c’era aria di Natale persino lì, in un edificio di crudeli e spietati assassini, e non potè fare a meno di considerare che era singolare che persone del genere, votate alle stragi, armi umane senza sentimenti, ragazzi strappati alle famiglie e cresciuti per massacrare, celebrassero a modo loro una festa dedicata alla pace.

Ma in fondo il fine ultimo della Giustizia Oscura non era proprio quello?

Si trovò così a passare davanti al grande albero che stavano addobbando Califa e Kumadori, e rimase per un po’ a osservarli dopo averli salutati.

Califa prendeva le palline colorate bianche e azzurre da una scatola e le passava al collega, che con i lunghissimi capelli rosa provvedeva a posizionarle sui rami più in alto. Ed erano alti davvero, considerando che il soffitto arrivava a cinque metri e l’albero quasi lo sfiorava!

«Signorina Stussy, se vuole le chiamo una carrozza per riaccompagnarla in albergo»

Stussy trafisse Spandam, che aveva osato interromperla, con uno sguardo di fuoco. «Tornatene ai tuoi incarichi, uscirò da sola dalla Torre.»

Spandam con la coda tra le gambe tornò al suo ovile, e Stussy potè riprendere a guardare i preparativi dei due agenti.

La donna dai lunghi capelli biondi era davvero bellissima, considerò la visitatrice; alta e slanciata, con le gambe messe bene in mostra dalla minigonna vertiginosa, e un seno prosperoso. Proprio quello che ci voleva per il suo progetto, pensò. Sarebbe stata perfetta!

«Califa» disse quindi «Vorrei proporti una cosa… potrei parlarti in privato?» chiese. Cercava di essere gentile e di non fare pressioni, perché il suo piano era ardito e fuori dagli schemi del Cipher Pol, e non voleva che la troppa fretta facesse scappare le sue prede.

«Questa è senza dubbio una molestia sessuale»

Accidenti, pensò seccata Stussy, come faceva a saperlo già? Non era possibile che Lucci fosse riuscito a parlarle mentre lei scendeva le scale tra quel piano e quello superiore! La loro conversazione allora era stata ascoltata?

«Yoooyoooi, Califa, non essere irrispettosa con un’ospite venuto da lontano!» l’ammonì Kumadori «Ella voleva soltanto parlare con te da donna a donna, due fiori rari in questo edificio popolato dalla forza e dalla virile durezza!»

Stussy si rilassò, anche se non lo diede a vedere: era stata solo un’incomprensione, forse Califa non sapeva nulla. Poco male, comunque, perché nel giro di cinque minuti le rivelò tutti i dettagli del suo progetto.

Califa, seduta comodamente nel suo salottino personale al pianterreno, ascoltò con pazienza quello che la collega aveva da dirle. Riflettè attentamente sulle sue parole e Stussy lasciò che le facesse tutte le domande che voleva, capendo che quel progetto doveva destare molte perplessità, visto che Califa non aveva mai preso parte a nulla del genere.

Stussy si congedò dicendo di avere ancora del tempo per pensarci, proprio come aveva assicurato a Rob Lucci. Ci pensasse con calma, e le facesse sapere entro due giorni. Non era un ordine perentorio ma, se avesse deciso di partecipare, avrebbe dovuto tener fede all’impegno.

Passando nell’ingresso, sentì il rumore di una macchina da scrivere che batteva il suo ritmo serratissimo. Strano che Spandam sapesse usarla così in fretta, pensò, era davvero lui a darci dentro così rapidamente? Si affacciò nella stanzetta che era proprio di fianco al portone e sorrise furba, mettendo a fuoco una preda che non aveva previsto. Forse non era nemmeno un’agente, ma cosa importava? Lavorava al CP0, quindi era a tutti gli effetti una governativa! Sapeva bene di non poter fare la schizzinosa, specialmente con le donne.

Da quella preda raccolse una risposta inaspettatamente rapida e positiva, e ringalluzzita dal successo decise di tentare di coinvolgere anche Kaku e Jabura nel suo oscuro piano: erano due gran bei ragazzi, avrebbe funzionato alla perfezione, se avessero accettato!

Inoltre erano due tipi molto diversi, sarebbero venuti incontro alle sue esigenze in maniera eccellente! E Lucci avrebbe completato il terzetto.

Tra una chiacchiera e l’altra, era ormai scesa la sera, e Stussy uscì dalla Torre di Catarina mentre le luci sulle isole cominciavano ad accendersi, brillando sul mare. Anche sui ponti i lampioni si accendevano uno dopo l’altro, e nel parco dell’isola centrale i vialetti prendevano un’aria ovattata e romantica, perfetta per le coppiette in amore delle isole.

«Finito di parlare col gran capo?» domandò ironico Jabura accogliendola all’esterno.

«Con lui sì» ammise Stussy «ma volevo anche…»

«Guarda qua!» le disse invece l’agente afferrando saldamente due prese elettriche e collegandole con uno schiocco di scintille.

La Torre di Catarina emerse dal buio del crepuscolo con uno sfavillio di luci rosse e oro che salirono dal pianterreno fino al cielo, inerpicandosi lungo la facciata e fin su, contornando le finestre e in ultimo arrampicandosi sul pennone della bandiera del Governo Mondiale.

Né Jabura, né Kaku, né Stussy fiatarono: erano rapiti dallo scintillio della Torre, che pareva vibrare sulla tenebra del mare. Qualche secondo appena, e poi le lucine cominciarono ad accendersi e spegnersi, buio, luce, buio, luce.

«Accidenti» imprecò Kaku «Dev’esserci un falso contatto. Vado a prendere il nastro isolante»

«Ma quale falso contatto!» protesto Jabura «Così è bellissima! Attira l’attenzione! Si vede da lontano!»

«Così ricorda il mio distretto» considerò Stussy. «Kaku, aspetta. Devo parlarvi!» disse, come ridestandosi.

 

 

 

«Lucci a Natale non sta qui? Ma come? Aveva detto che andava bene organizzare da lui!» si sorprese Kaku.

«Chapapa, è proprio quello che ho sentito! Lo passerà da Stussy! Lei è venuta qui per invitarlo.»

«YOOOOYOOOOIIII SEI PROPRIO SICUROOOO??» intervenne Kumadori «STUSSY HA AFFRONTATO LE TEMPESTE, IL MARE, LO SPAZIO SCONFINATO DEL GRANDE BLU PER UN’ALTRA E BEN PIÙ NOOOOBILE MISSIONE!»

«Ma no, ha chiesto a Lucci di passare il Natale con lei, e Lucci ha detto sì, a patto che se ne andasse.»

Kaku, seduto a uno dei tavolini del bar di Gigi L’Unto, girava e rigirava il cucchiaino nel suo caffè, durante la pausa di metà mattina; il giorno dopo Natale sarebbe partito per una missione che l’avrebbe tenuto impegnato per qualche settimana, stava studiando con perizia tutti i dettagli del piano, però si concedeva volentieri delle pause con i suoi colleghi.

«Non mi sembra da Lucci, un comportamento del genere» considerò. «Con chi passi il Natale sono fatti suoi, però ci eravamo organizzati per andare a casa sua… mi sembra il minimo avvisare che non c’è!»

«Ma figurati! Gli è mai importato degli altri, a quell’alzato di culo?» sbottò Jabura. «Staremo meglio senza di lui» sentenziò scolandosi le ultime dita del suo drink.

«Però bisogna pensare a dove mangiare» intervenne pratico Blueno, che chiudeva il terzetto. In quel momento la bella Souzette, figlia di Gigi, gli servì la birra che aveva ordinato. «Avevo pensato a casa di Kumadori».

Jabura e Kaku annuirono, favorevoli.

Casa di Kumadori era al secondo piano della Torre; una casetta calda, accogliente, con i mobili di bambù e le porte scorrevoli, piacevolissime da aprire e chiudere perché profumavano di fiori di ciliegio; in cucina c’era sempre una vasta selezione di tè, e nei pomeriggi piovosi Jabura scendeva sempre a casa del compare per stare in compagnia, e lui il tè lo correggeva sempre con un cucchiaio di qualche alcolico pesante.

Anche se Kumadori era molto chiassoso, e Jabura estremamente irascibile, stavano volentieri insieme: si conoscevano da tutta la vita ed erano gli agenti più anziani del reparto.

«Quindi il signor Lucci non ci sarà, questo Natale? » fece dispiaciuta Souzette. « Qualche missione?»

Che gli agenti del CP0 andassero in missione non era un segreto, si poteva dire; ovviamente Souzette non avrebbe mai saputo i dettagli, né li avrebbe chiesti, ma conosceva bene gli agenti che spesso si intrattenevano nella locanda di suo padre, e le piaceva chiacchierare con loro.

«Nessuna missione» le rispose Jabura.

«Chapapa, ha un appuntamento romantico con una ragazza!» intervenne Fukuro, con disappunto degli altri agenti.

Souzette fece tanto d’occhi, sorpresa.

«Non è detto che sia così! La vuoi smettere di mettere queste voci in giro?»

 

 

 

«Lucci con quella signorina che è venuta qui alla Torre? Stai scherzando?»

Lilian Rea, la segretaria della Torre di Catarina, era incredula: mai e poi mai avrebbe pensato che Rob Lucci potesse… cioè, in realtà poteva eccome: era un bell’uomo, sulla trentina, anzi era strano che nessuna donna avesse mai incontrato i suoi favori. Aveva qualche difettuccio, tipo l’istinto omicida, la passione per il sangue dei suoi nemici, l’arroganza senza pari, ma nessuno è perfetto.

E la signorina Stussy era… beh, era un’agente proprio come lui: spietata e bellissima.

«Sì, pensa che sono usciti anche a cena ieri, li ho visti con i miei occhi» rispose Souzette dandole il resto.

Erano tutte e due al pianterreno della Torre di Catarina, e Souzette aveva appena consegnato un vassoio di dolci, cornetti, caffè e birre che gli agenti avevano fatto ordinare a domicilio al suo bar. Lilian era costernata alla notizia, ed era evidente che non sapesse bene come prenderla.

Souzette, diplomatica, la consolò: « Pranzano insieme il giorno di Natale, Lucci non le fa certo una promessa di matrimonio. »

In quel momento passò per di lì la cuoca che lavorava alla mensa della Torre, che stava al pianterreno e di cui usufruivano gli agenti. Capì una cosa sola: “Lucci” e “promessa di matrimonio”.

Contattò la sua collega che cucinava alla Torre, e lei telefonò alla modista che lavorava agli abiti degli agenti (abiti estremamente curati nei dettagli e costituiti da una fibra eccezionalmente elastica e resistente, per evitare di strapparsi durante le trasformazioni ibride o di prender fuoco durante le elevatissime frizioni di quando usavano le Tecniche); la modista chiamò il personal trainer che allenava Califa, e lui rigirò la telefonata a Lilian, la quale immediatamente lumacofonò a Jabura alle undici e mezzo di sera, facendolo precipitare a casa sua, sull’isola dal clima estivo, per bere un goccio e calmare i nervi all’idea di dover partecipare al matrimonio del rivale.

Erano nella cucina di Lilian, accogliente e dal piano di lavoro in muratura, come si usava una volta, con il tavolo in mezzo alla stanza e il balcone socchiuso per far entrare il fresco, con la tenda di lino bianco che ondeggiava e lasciava intravedere il porticciolo deserto. Erano seduti uno di fronte all’altra e con una bottiglia di cachaça a separarli, quando Lilian cominciò a mettere un po’ di ordine in quella situazione.

Jabura era in pieno panico, ma lei riusciva ancora a formulare qualche pensiero lucido, nonostante l’ora tarda e il turbinio di chiacchiere che era stata quella giornata.

«Senti, a me tutta questa storia sembra davvero strana. Non ci si sposa così, da un giorno all’altro, e poi non mi è sembrato che tra Lucci e Stussy… voglio dire, di solito quando due si amano e si vogliono sposare, qualcosa si sente. Da come si guardano, da come stanno insieme… noi sappiamo solo che sono andati a cena una volta e che hanno parlato per venti minuti nell’ufficio di Lucci. Mi sembra un po’ poco, per un matrimonio!»

«Ti aspetti le serenate al chiaro di luna, i fiori e le promesse, da Lucci? È stato cinque anni senza parlare, a Water Seven!»

«Chi è la fonte della notizia del matrimonio?» fece Lilian. «Fukuro? Spandam?»

«Lo sa mezza Catarina! E Lucci ha passato mezza giornata a rimproverare Fukuro di non mettere voci in giro, quindi è impossibile che sia stato lui!»

Lilian non era del tutto convinta. «Avete chiesto a Lucci se questa storia è vera?»

 

 

 

Fu Kaku a prendere l’iniziativa, non ne poteva più di voci di corridoio, sospetti e mezze verità! E lui ci teneva molto a separare il lavoro dalla vita privata, quindi decise di rompere gli indugi e fare quello che avrebbero dovuto fare già da ieri: chiedere a Lucci se avrebbe pranzato con loro, a Natale. E se avrebbe sposato Stussy.

Rob Lucci se li vide entrare uno dietro l’altro nel suo ufficio: prima Kaku, e questo era normale amministrazione; poi Califa, e anche lì poteva starci. Poi arrivò Kumadori piangendo e parlando di amore e di figli maschi, Jabura che lo fissava minaccioso digrignando i denti, Fukuro con l’aria innocente e la zip chiusissima (e questo sì che era sospetto), poi Blueno, poi Spandam.

Hattori sgranò gli occhi guardando entrare anche il resto della processione: la segretaria, le cuoche e le sguattere della mensa.

E di tutto quel presepe, venne avanti Kaku.

Mama Floridia, tutta contenta, andò verso il leader del reparto, felice come una Pasqua, gli mise un pacchettino tra le mani e disse in fretta: «Lei fa sempre tutto in silenzio! Questo è da parte mia, di Lizabeta, di Farmaceuta e di Siza Grande! Auguri a lei e alla sua sposa! Congratulazioni! Fate dei bei bambini il prima possibile!»

E sparirono dalla stanza, lasciando soli gli agenti e la segretaria.

Lucci si risedette alla scrivania, con la stessa grazia dei felini che girano attorno al proprio territorio; posò la scatolina ricevuta dalle cuoche sul piano, si legò i capelli e infine guardò in faccia Kaku e domandò a lui: «Spiegami che diavolo sta succedendo»

Intanto Hattori stava svolgendo il pacchettino, curioso di vederne il contenuto.

«Mangi con noi a Natale, o vai fuori?» domandò Kaku a braccia incrociate. Non aveva nessunissima soggezione di Lucci, erano colleghi da tanti anni e per loro la differenza gerarchica era solo una formalità. «Perché se non ci sei, dobbiamo organizzarci diversamente»

Rob Lucci aggrottò le sopracciglia e fissò tutti con sguardo gelido.

«E siete venuti in… nove a chiedermelo?»

Hattori tirò fuori dalla scatolina due perizomini leopardati.

Nel silenzio, si udì il rumore di una zip che veniva aperta.

«Chapapa, gira voce che stai per sposarti, e che a Natale vai dalla tua ragazza»

«E siccome abbiamo già perso troppo tempo attorno a questa faccenda, ho pensato di venire a chiedertelo di persona: a Natale ci sei o no?»

Lucci non sapeva chi dei presenti cominciare a uccidere. «Cosa diavolo vi siete fumati?»

 

 

 

Toccò a Califa, santa donna, districare quella matassa di frasi ascoltate per errore, incomprensioni, notizie false, idiozie e patemi d’animo, e poi infine arrivò la lieta novella: Lucci non avrebbe sposato Stussy; non ne aveva la minima intenzione, e la relazione tra i due non esisteva, non era mai esistita e, assicurò il diretto interessato, “non sarebbe mai esistita”, con tanto di quel veleno che trasudava dalle zanne che nessuno ebbe dubbi in merito. Avrebbe passato il Natale lì, a Catarina, con i suoi colleghi, e non nel Quartiere a Luci Rosse, dove non avrebbe mai e poi mai messo piede. L’appuntamento con Stussy c’era effettivamente stato, avevano cenato insieme, parlato di lavoro, e Rob Lucci l’aveva piantata in asso al ristorante subito dopo aver pagato il conto per entrambi senza nemmeno accompagnala in albergo.

Jabura gettò la testa all’indietro e fece una grande risata liberatoria, seguita da più sospiri di sollievo. Kumadori piantò il bastone a terra e cominciò a declamare piangendo: «YOOOOYOOOI! LAAA CAAALUNNIAAA È UN VENTI-CE-EEEELLO! UN’AAAUUURETTAAA ASSAI GENTIII-III-LE!!»

Fukuro era allibito. «Chapapa, e… e la partecipazione per il giorno di Natale? Ho sentito Stussy dire che “sarebbe stato un bel modo di passare il Natale”»

Lucci frugò in un cassetto e tirò fuori un oggetto, mostrandolo ai colleghi. Blueno lo prese in mano: era un calendario di quell’anno, quello che sarebbe finito pochi giorni dopo.

«Stussy mi ha chiesto di posare per il nuovo calendario del Cipher Pol, cosa che del resto ha chiesto anche ad alcuni di voi, a quanto mi risulta.»

Gli agenti sfogliarono il calendario: dodici scatti, rigorosamente senza veli, di agenti del Cipher Pol, alcuni dei quali li conoscevano! Califa arrossì violentemente guardando dei suoi superiori posare senza un minimo di pudore, con le grazie al vento, censurate a mala pena!

Nell’ultima pagina c’era spiegato il motivo di quel calendario: beneficenza. Il ricavato sarebbe andato alle famiglie degli agenti morti in servizio, e alle scuole che istruivano le nuove leve. Per questo i nudi: vendevano benissimo!

«Fukuro » tuonò Lucci « Cosa ti avevo detto, riguardo il non mettere voci in giro?»

«Chapapa…»

 

Un mese dopo…

 

«Ho fatto benissimo a non prestarmi a questa cosa » si compiacque Kaku. «Lo sapevo che sarebbe stato imbarazzante»

«È poco più di quello che mettiamo in mostra durante un combattimento» si strinse nelle spalle Rob Lucci.

«Devo continuare a chiamarla Boss o posso dire Mister Giugno?» domandò la segretaria della Torre, la signorina Lilian Yaeger.

Sfogliava compiaciuta il progetto che Stussy era venuta a presentare loro il mese scorso: il calendario sexy del Cipher Pol, che ogni anno aiutava le vedove e gli orfani degli agenti caduti sul lavoro! Come ogni anno, i modelli per i dodici mesi erano gli stessi agenti, fotografati senza troppi veli sulle pudenda!

La segretaria ammirava quello sfoggio di addominali definiti, pettorali maestosi, glutei sodi e spalle a tre ante, pensando che aveva speso bene i suoi soldi ad ordinarne ben due copie: una per l’ufficio e una per casa sua. I modelli di giugno e di luglio, poi, erano merce di primissima qualità.

«Chapapa, il calendario del Cipher Pol quest’anno ha fatto il record di copie vendute!»

Quella mattina un corriere postale aveva consegnato alla sede del CP0 un piccolo pacco, che come mittente aveva Stussy in persona. Preso in consegna dalla segretaria, era stato trasportato subito nell’ufficio di Lucci per essere aperto in pompa magna con tutti gli agenti presenti.

«YOOOYOOOI… non rientra nei compiti canonici degli agenti, ma altresì è un GRAAAAANDE RISULTATO PER LA NOSTRA ORGANIZZAZIONE! Se solo la mia povera mamma fosse qui…»

«Avrebbe fatto il calendario anche lei.» considerò Blueno.

«Ma no, è solo con gli uomini. Il calendario delle donne non lo fanno mai, perché non ci sono abbastanza ragazze che si prestano.» spiegò Jabura aprendo le pagine del calendario a cui aveva collaborato.

«Chapapa, non dovresti credere a queste maldicenze, Jabura.» disse scavando fra la carta di giornale che proteggeva i calendari nel loro pacco «Quest’anno Stussy è riuscita a reperire undici volontarie e il calendario delle donne è uscito! e ha incassato più di quello maschile! Eccolo qua!!» rimbalzò Fukuro sventolando il “gemello” del calendario.

«I mesi non erano dodici?» fece Lucci.

«A dicembre c’è la foto di gruppo, tutte in autoreggenti e cappellino da Babbo Natale» spiegò Fukuro, informato come al solito.

«Ma dai! Scommetto che hanno accettato solo le racchie, le figone non… accettano… mai…» mano a mano che sfogliava, la voce di Jabura si affievoliva e tentennava. «Ma questa è Califa!» arrossì inaspettatamente, aprendo la pagina del mese di aprile.

Una grande fotografia a colori di Califa riempiva la parte superiore del calendario. Era stesa a pancia in giù su una scrivania, tra le tazze del Governo Mondiale e i rapporti, si reggeva sui gomiti e  metteva in evidenza i seni enormi e candidi, in primo piano; le gambe erano fasciate in calze a rete con il loro reggicalze e aveva la schiena ben arcuata per mettere in evidenza i glutei perfetti. Aveva i capelli acconciati in uno chignon e ammiccava da sopra alla montatura degli occhiali. Rossetto di fiamma e unghie laccate rosso fuoco erano l’ultimo tocco. Oltre alle calze, non indossava proprio nulla.

«Chapapa, sta benissimo, che problema c’è?» domandò con noncuranze Fukuro.

«Non mi aspettavo che facesse una cosa del genere!» protestò Jabura, lasciando che Blueno gli prendesse il calendario dalle mani per esplorare anche gli altri mesi.

«Jabura, questa è una molestia sessuale» lo ammonì la donna, che stava sfogliando il corrispettivo maschile del calendario. «E comunque, tu ti sei scoperto molto più di me, quindi che hai da sbraitare?»

«Non me l’aspettavo! Stai sempre ad accusare il mondo di molestarti!»

«Jabura…» sussurrò la donna.

«Che c’è?»

«Mi stai molestando»

Jabura la mandò a quel paese con un gesto e ammirò la sua foto che dominava il mese di luglio, surclassato da Lucci nella competizione per avere giugno.

Rob Lucci era stato fotografato sotto una piccola cascata, quasi uno scatto rubato: completamente nudo, rovesciava appena appena la testa all’indietro per godersi l’acqua ghiacciata che scendeva, e si ravviava i capelli, per far godere gli spettatori dei suoi muscoli tesi e bagnati, con l’acqua che sciorinava disegnando la rada peluria che scendeva verso il basso. Purtroppo un uccellino bianco era passato tra uomo e obiettivo al momento sbagliato, censurando lo stretto indispensabile, ma la visione rimaneva comunque superba.

Jabura lo degnò appena di attenzione e considerò: «Tanto lo sanno tutti che luglio è più caldo»

«Dovevano darti ottobre, tra le zucche vuote» rispose a tono Lucci.

La foto di Jabura era stata scattata in uno dei boschi dell’isola dal clima estivo, lì a Catarina. Jabura si rialzava gli occhiali da sole sulla fronte e in braccio teneva una gallina bianca; avanzava nudo sotto le fronde con il sole che gli guizzava sui muscoli, e aveva l’espressione ghignante di uno che, alla gallina, avrebbe tirato il collo di lì a poco. La censura non esisteva, o, meglio, la foto era stata tagliata sul più bello.

Califa fissava la foto.

«Ti piace?» fece Jabura, tutto fiero.

«Hai un pollo in mano» replicò la ragazza, interdetta.

«Quella è Rosita!»

«Non è quella che vaga per casa tua?»

«Sarà il brodo della fine di gennaio! Il fotografo blaterava di cercare di essere naturali, di mettersi a proprio agio…»

«E lui ha pensato bene di portarsi il ruspante da casa» completò Lucci, che era stato presente quando avevano fatto le foto «Il fotografo è stato più scemo di te, ad assecondarti»

«Sempre meglio che te che ti lavi! Che razza di foto è?»

«YOYOI! CHE VUOI DIRE CON “IL BRODO DI GENNAIO”? JABURA! COME PUOI ABBANDONARLA A UN SIMILE DESTINO? LA FEDELE COMPAGNA DELLA TUA VITA!»

«Compagna di vita?! Ne ammazzo almeno cinque ogni anno!»

Kaku lo squadrò orripilato: «Dove diavolo le uccidi, tutte queste galline? In casa tua??» va bene che erano assassini, ma ospitare un mattatoio in casa era un’altra faccenda!

Blueno intervenne per sedare la rissa prima che degenerasse, come al solito. « Guarda qua » distrasse Jabura sottoponendogli la pagina di giugno del calendario delle governative. Il Lupo si perse per un attimo in un paio di natiche nude di tutto rispetto, poi mise a fuoco una scritta tatuata sulla pelle della modella sotto alla curva del gluteo: « Oh no, the ground » lesse Jabura. Salì ancora con lo sguardo verso la cima della pagina e trovò gli occhi allegri di Lilian che puntavano l’obiettivo. Era girata di tre quarti, si stava raccogliendo i capelli umidi con le mani e sorrideva, quasi si fosse divertita a farsi scoprire dal fotografo tutta nuda e con il sedere infarinato di sabbia, che spiccava sull’abbronzatura.

«Ti piace?» sorrise serafica Lilian, che si stava godendo il calendario maschile «se vuoi, te l’autografo!»

«Quando l’hai fatta?»

Lilian si strinse nelle spalle «Boh? la settimana prima di Natale, mi pare»

«E io dov’ero?» protestò l’agente.

«Cos’è tutto quest’interesse per il mio culo, all’improvviso?!» scoppiò a ridere la pilota.

Fukuro cominciò a slacciarsi la zip, e già si sentivano le sue celluline grigie ronzare alla ricerca di idee e informazioni: «Chapapa, è un interesse sospetto, non vorrei-»

Gli agenti si tuffarono a chiudergli la zip all’istante! Se da un semplice calendario era venuto fuori un matrimonio (con tanto di perizomini di coppia: Jabura avrebbe sfottuto Lucci per l’eternità), figurarsi cosa poteva uscire da una voce del genere!

 

 

 

Dietro le quinte...

Eccomi di ritorno!! :D Fukuro, Fukuro, cosa ci combini? O, per dirla con le parole di Jabura... A CHE TI SERVE QUELLA ZIP SE NON LA TIENI MAI CHIUSA? 

Ho poco da dire, a questo giro! Per Califa e Lucci ho scelto aprile e giugno, loro mesi di nascita. Anche Jabura è nato a giugno, ha litigato con Lucci e demolito tre edifici per stabilire a chi toccasse quella pagina, e alla fine Jabura è scalato a luglio... tanto è più caldo *ammicca*. 

Ho trovato interessante muovere Stussy! Mi sembra una tipa intrigante e con una certa dose di grazia, spero che nel canon ci diranno di più (ma sicuramente il suo ruolo non si è ancora esaurito). L'ho vestita un po' anni '20, con gli abiti al ginocchio, i capelli a caschetto e la cloche in testa, come si è presentata SPOILER al matrimonio di Sanji e Pudding. Kumadori intona "La calunnia è un venticello", aria di Rossini tratta dal Barbiere di Siviglia!

Grazie per aver letto questa storia!! :D lasciate una recensione, se vi va, e ditemi pure cosa ne pensate sui vari personaggi! :D un grande bacione,

Yellow Canadair

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Dalla tatuatrice ***


Dalla tatuatrice

 

Un giorno a Enies Lobby, un pomeriggio di dieci anni prima della sua distruzione

 

«Che bei pettorali muscolosi!»

Non aveva peli sulla lingua, Kat.

«Trattali bene, mi raccomando» ridacchiò Jabura riponendo la maglietta sul tavolino.

«Sei sicuro? Lo facciamo? Guarda che una volta cominciato, non si torna indietro» lo ammonì Kat.

Jabura la fissò con un ghigno deciso ed eccitato. «Vai, Kat.»

Kat faceva la tatuatrice. Aveva cominciato quando, da piccolina, aveva scoperto che disegnare le piaceva tantissimo, e riempiva quaderni su quaderni di splendidi disegni. Un giorno, per disgrazia, finì i fogli e cominciò a scarabocchiare sul proprio avambraccio, e poi ancora sulle mani della sua compagna di banco: fu amore.

L’intera classe di bambini aveva tutte le braccia affrescate, con gran disappunto dei genitori, e Kat abbracciando la mamma all’uscita della scuola aveva dichiarato: «Farò la tatuatrice!» e così era stato.

Ne aveva fatta di strada, era diventata sempre più brava, e adesso era una ragazza grande con la sua bella bottega a Enies Lobby. Aveva avuto fiuto ad aprire il negozio lì, perché c’erano sempre un gran via vai di gente che andava e veniva, e spesso si faceva tatuare per ricordo.

Quel giorno in agenda c’era l’appuntamento di un ragazzo di venticinque anni al massimo, un governativo che aveva chiesto un tatuaggio semplicissimo: “lupo”, in kanji, bello grande sul pettorale sinistro, proprio sul cuore.

Kat gli aveva proposto qualche bella elaborazione sul tema, magari un bel lupo stilizzato accanto, qualcosa che gli si arrampicasse sulla spalla; era un’artista, una disegnatrice, le piaceva personalizzare i tatuaggi che i clienti le proponevano. Ma, in quel caso, il cliente era stato molto fermo: voleva solo quel kanji, nessun orpello. Doveva essere chiaro e leggibile.

La tatuatrice non si era offesa: alcuni tatuaggi avevano un significato particolare, e dovevano rispettare al millimetro l’idea del cliente. Il primissimo tatuaggio, e per di più, sul cuore; era una posizione molto delicata: ci doveva essere un motivo molto importante.

Jabura si stese sul lettino, che era quasi troppo piccolo per un ragazzone come lui, e cercò di rilassarsi; non perché avesse paura o soffrisse il dolore, ma lui era stato addestrato a fare il Tekkai istintivamente, quando qualcosa cercava di colpirlo: chiaramente però non poteva attivare lo scudo perfetto sotto l’ago della tatuatrice, oppure lei non sarebbe riuscita a lavorare! Quindi doveva impegnarsi per non fare il Tekkai, per una volta. Modificare un’abitudine così radicata era difficile, ma poteva riuscirci.

Kat s’infilò i guanti di lattice, inserì l’ago nuovo nella macchinetta, e non senza soddisfazione pulì con un batuffolo di cotone bagnato di alcol il pettorale sinistro del ragazzo. Accidenti, quei muscoli erano fatti di marmo! Per non parlare degli addominali a pacchettini, i bicipiti grossi quanto le sue gambe… sorrise, e si concentrò.

Per quanto attraente fosse il cliente, quando era sotto i suoi aghi diventava solo una tela bianca. Non esistevano pettorali, né flaccidi né muscolosi. Esisteva solo lei e il disegno.

Al massimo si concedeva una chiacchiera, anche per distrarre il governativo dalla sensazione dell’ago.

«Posso chiederti se ha un significato particolare?» disse, discreta.

Jabura non aspettava altro. «Certo che ce l’ha» rispose «Tu… conosci i Frutti del Diavolo?»

Eccome, se Kat li conosceva! Ink-Ink, era il nome del suo, ma non lo rivelò.

«Ne ho mangiato uno! E ho avuto fortuna… zoo-zoo modello Lupo! Quando l’ho scoperto ero così contento che ho deciso: devo scrivermelo addosso» la sua faccia era così felice e così fiera che Kat non ebbe dubbi.

Quello che non sapeva era che Jabura si voleva scrivere “lupo” sul petto anche perché c’era quel poppante rognoso di Lucci che gli dava del cane. Era un lupo! Un lupo, accidenti!

Ma era anche molto fiero e orgoglioso di quel potere, per questo aveva deciso di tatuarsi addosso il kanji di “lupo”.

Kat fu velocissima: in capo a un’ora il tatuaggio (che era molto semplice, lineare e tutto nero) era finito, perfetto, preciso. Le linee finali erano sottili.

Solo il famoso pettorale muscoloso era un po’ arrossato, ma Kat spiegò che era normalissimo.

«Mettici questa crema un paio di volte al giorno, e se ci sono problemi torna qui» gli ricordò la ragazza, che gli aveva già spiegato per filo e per segno cosa avrebbe dovuto fare per i primi giorni.

Jabura, contento, emozionato e con il pettorale sotto pellicola alimentare, pensò che finalmente avrebbe potuto dire a quello scemo di Lucci “Sono un Lupo, vedi? C’è anche scritto! non sai proprio leggere?”

Si rimise la maglietta, e per Kat calò il sipario su quegli splendidi pettorali muscolosi.

Pazienza, pensò stringendo le spalle e tornando nel suo studio. Almeno aveva passato un’ora a palparglieli allegramente, con la scusa di essere più salda mentre disegnava!

 

 

 

Dietro le quinte...

Eccomi tornata! Chiedo scusa a tutti i lettori per il ritardo! Ero impegnata in un contest di scrittura a squadre, il Cow-T, che è durato otto settimane, e... sono stata impegnatissima a scrivere senza sosta! Quindi ho sospeso momentaneamente la pubblicazione. Ma adesso il Cow-T è finito (e la mia squadra ha vinto -FORZA RUBY-) e ho accumulato un sacco di storie del CP9 da postare qui! Alcune saranno brevi, come questa, altre molto più corpose! Questa è la prima della serie... la traccia da rispettare era "pettorali muscolosi", e chi meglio di Jabura? ♥ 

Il nome della tatuatrice deriva dalla tatuatrice statunitense Kat Von D, che è diventata molto famosa nel suo ambiente! 

Grazie per aver letto fin qui! Lettori, ci siete ancora? D: 

Un bacione e a presto (sul serio),

Yellow Canadair

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Capitolo 5
*** Non sono gay, ma posso imparare! (atto primo) ***


Il CP9 in: non sono gay, ma posso imparare! 

Atto I: nuovi coinquilini

 

Ormai erano quindici giorni che all’Arcipelago di Catarina pioveva senza sosta. Pioveva ovunque, sull’Isola della Primavera, su quella dal clima estivo, e naturalmente anche su quella dal clima autunnale. Sull’isola dal clima invernale, a Ovest, la temperatura gelida faceva sì che nevicasse, ma il nocciolo della questione non cambiava.

Era, Catarina, un arcipelago le cui isole erano disposte come i punti sulla faccia da cinque di un dado; ogni isola aveva un clima diverso, mentre quello dell’isola centrale era una banderuola che faceva quello che decideva quando si svegliava la mattina.

Mentre su ogni isola esterna c’era una diversa città, l’unico edificio sull’isola centrale era la grande torre dove operava il reparto del CP0 guidato da Rob Lucci.

In quel pigro e piovoso mattino gli agenti erano radunati a casa di Kumadori, al secondo piano della torre, favorita da tutti perché aveva tanti divani e tanti pouf sparsi in giro, e l’austerità dello stile orientale era mitigato dal colore che l’agente aveva scelto per la maggior parte dei tessuti: rosa confetto, come i suoi capelli.

Gli agenti si erano ritirati lì quella mattina, stanchi delle continue strilla di Spandam, che inveiva contro la squadra delle cuoche di Spilletta, contro le signore che erano venute a pulire i corridoi, contro la segretaria Lili, contro i fattorini e contro chiunque lumacofonasse agli uffici e contro tutto l’Universo.

Ogni tanto gli capitavano giornate così, in cui l’essere stato degradato da direttore del CP9 a zerbino del CP0 era più pesante del solito. Lucci non poteva ucciderlo, quindi preferiva abbandonare il campo, e tutti i suoi colleghi con lui.

Anche se non erano fisicamente negli uffici, gli agenti erano a tutti gli effetti in servizio; la segretaria aveva il permesso di venire lì a bussare, ma solo in caso di emergenza assoluta (e con “emergenza assoluta” si intendeva che fosse stato chiamato un Buster Call su Catarina, che ci fosse uno tsunami in vista, che Barbabianca fosse risorto e avesse deciso di attaccare la Torre o cose del genere). Spandam? Se la sbrigasse lei.

Loro, gli agenti, avevano voglia di rilassarsi e studiare per bene la loro prossima missione. Erano abbastanza nervosi per il clima lugubre in cui era sprofondato l’arcipelago: non si vedeva che grigio, a qualsiasi finestra ci si affacciasse. E, inoltre, erano tornati solo da una settimana da una missione molto pericolosa e il Governo Mondiale gliene aveva subito affidata un’altra: bisognava infiltrarsi in una competizione di ballo per dilettanti in cui ci sarebbero stati numerosi esponenti di alcuni reami e della criminalità organizzata.

Nulla di complicato, ma… due di loro dovevano infiltrarsi come partecipanti e gli altri sarebbero stati uno dei giudici, tre concierge e un addetto ai camerini.

Ovviamente senza una preparazione di base sui passi di danza, i due “ballerini” sarebbero stati scoperti in un attimo.

Tanto per cominciare, Lucci aveva relegato alla segretaria l’onere di cercare un buon maestro.

E adesso bisognava comunicare a tutti gli agenti i rispettivi ruoli della missione.

Lucci era comodamente seduto al tavolo della cucina di Kumadori con un bel caffè corretto davanti, Hattori sulla spalla, e addosso un completo di tuta grigio chiaro: quando non era negli uffici, o in missione, poteva permettersi di andare in giro vestito più comodamente.

Si legò i capelli che gli scendevano sugli occhi con un elastico e dichiarò: «Dov’è quell’animale di Jabura?»

«Chapapa, sta dormendo!» si scucì la bocca Fukuro. «Ieri ha fatto le ore piccole con…»

«Non credo che sia la sede adatta, Fukuro» lo bloccò Califa con severità.

«Tanto si è sentito su tutto il piano!»

«Per favore…» implorò Kaku, al quale le attività notturne di Jabura avevano impedito di dormire.

«È UN RITARDO ESTREMAMENTE IRRISPETTOSO!» declamò Kumadori. «FARÒ SEPPUKU PER LAVARE L’ONTA!» ma ormai nessuno si spaventava più, a quella minaccia.

«Cominceremo senza di lui» ovviò Lucci senza curarsi di quell’assenza. «Abbiamo una richiesta di intervento. Una settimana a Ruby Island, gara di ballo per dilettanti. Il nostro obiettivo è la principessa del sultanato di…»

Seguì una spiegazione dettagliata della missione, durante la quale tutti ascoltarono con attenzione, e Califa prese anche degli appunti.

A metà arrivò Jabura.

«La riunione era alle 10» lo stilettò Lucci.

«Fukuro aveva detto 11» rispose Jabura.

«Chapapa, ho sempre detto 10» si difese.

Jabura si sedette scomposto il più lontano possibile da Lucci, al capo opposto del tavolo, e sbirciò gli appunti di Califa.

«Una gara di ballo? E io che dovrei fare?»

Rob Lucci finalmente gustò la frase che avrebbe messo il lupastro in una posizione a lui del tutto sfavorevole. «Ballare»

«Ma non ne sono capace!»

«…con Califa»

«Questa è molestia sessuale!»

«No!» saltò su Kaku, prevedendo l’alternativa; si rivolse a Lucci: «Mi rifiuto di vestirmi un’altra volta da donna.»

«Non ti vestirai da donna.» promise il boss.

«E io? Dovrei essere molestata per… per la missione?» protestò Califa accavallando le gambe con un movimento sensuale e incrociando le braccia. Anche se era mattina, e aveva addosso un morbido golfino, sfoggiava in tutta naturalezza delle autoreggenti ricamate messe bene in mostra dalla minigonna.

«Ehi, ma chi ti vuole molestare!? Si tratta solo di ballare insieme!» che cavolo, Jabura era stronzo ma non avrebbe mai messo le mani addosso a una donna senza il suo consenso!

«E comunque, non sono in grado di ballare.» concluse Califa, credendosi al sicuro da ulteriori problemi.

«A questo ho già rimediato. Ho fatto chiamare un maestro di ballo.»

«E chi sarebbe?» domandò con astio Jabura.

«È in fase di scelta.» ammise il leader. «Ma ormai sarà questione di minuti.»

«Io ballerò, Califa ballerà, Fukuro sarà nei camerini… ah, ma nei camerini non potevo andarci io?» si lamentò Jabura, ma poi riprese a leggere gli appunti. «Blueno, Kumadori e Kaku faranno i… che c’è scritto? concierge? Ok… e tu?»

«Io sarò nella giuria» rispose Rob Lucci.

«Hai competenze tecniche per una gara di ballo?» si sorprese Kaku.

«Io no. Ma Hattori sì.»

Il colombo si impettì con aria di importanza.

Jabura radunò i fogli che gli spettavano e cominciò a scorrerne le righe. Uccidere gli piaceva e probabilmente quella gara di ballo si sarebbe risolta in un bagno di sangue, però gli scocciava sempre la parte della documentazione; ma era il suo dovere da agente e lo faceva, senza storie, e con tutta la sua professionalità.

Mentre sfogliava le pagine, gli venne in mente: «Sai che è saltato il concorso Miss Perizoma, all’Isola dell’Est, per via della pioggia?» disse rivolto a Blueno.

«Chapapa, però l’hanno sostituito con “Miss Maglietta Bagnata”» informò Fukuro.

«Sfacciati!» commentò seccata Califa.

«YOOOO YOOOOIIII!» Quando Kumadori roteava il proprio bastone mentre parlava, gli sguardi di tutti correvano automaticamente al lampadario, che rischiava di essere colpito, ma l’agente dai capelli rosa aveva padronanza assoluta del bastone e non toccava mai nulla. «Le lacrime del Cielo sono le lacrime di noi che abitiamo questa valle di cenere… piove su i nostri volti, silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggeri, su i freschi pensieri che l'anima sch-»

«E basta, ogni volta che piove è sempre la stessa lagna! Contegno!»

«Non è il momento di pensare a cosa ti stai perdendo all’Isola dell’Est» sottolineò Rob Lucci, alzandosi con eleganza e lasciando il tavolo da pranzo e spostandosi sul morbido divano rosa che c’era in un angolo della cucina di Kumadori. «Ti ricordo che hai dei documenti da leggere per la tua prossima missione sotto copertura, e che devi informarti a dovere su cosa prevedono i concorsi di ballo»

«Non ho mai saputo ballare» si ribellò Jabura «Non potresti farlo tu!? Quando eri nelle reclute partecipavi ai corsi di ballo, no?»

«No» negò Rob Lucci.

Hattori sorseggiava sakè da una tazzina che Kumadori conservava solo per lui e scuoteva il capino, critico, guardando Jabura.

«Devi esibirti al massimo per due o tre canzoni» disse Blueno, seduto alla tavola da pranzo a giocare a carte con Fukuro. «Segui la musica, prendi Califa, vai avanti»

«La stai facendo troppo facile!»

«Per favore! Questa è molestia sessuale!» insorse Califa.

Gli agenti se ne stavano tranquilli a commentare la missione, a ragionare sui passaggi che avrebbero dovuto affrontare e a osservare la pioggia che avvolgeva Catarina come un liscio e trasparente manto, quando all’improvviso si sentì (manco a dirlo, o non staremmo qua a raccontarlo) un insistente bussare alla porta.

« Avanti » risposero Lucci, Kumadori, Fukuro e Jabura, ognuno con un tono diverso.

Poi si ricordarono che non erano in ufficio, ma a casa di Kumadori, e fu Kaku ad alzarsi da tavola e ad andare ad aprire. Trovò la segretaria bagnata fradicia come se avesse passato l’ultima mezz’ora sotto la pioggia torrenziale.

«Lil-»

«Kaku, è un’emergenza!» invocò lei, incurante della pozzangherina che si stava formando ai suoi piedi, con tutta l’acqua che le sciorinava dalle vesti e dai capelli «Li ho fermati al porto, ma non posso rallentarli ancora per molto! Per favore, il boss deve-»

«Che sta succedendo?» sopraggiunse Rob Lucci, che aveva sentito la voce concitata della segretaria «Hai trovato un maestro di ballo?»

Ma non rivelò il nome di un esperto ballerino, bensì una realtà molto più scabrosa: «Boss, vogliono far trasferire qui un altro reparto!»

 

~

 

Il Comandante Fedora era una donna alta, dai modi gentili, e dal curriculum vitae lungo quanto l’elenco del lumacofono. Una famiglia da sempre nelle forze dell’ordine, la sua: forse solo un paio di lontani zii avevano preferito una vita da civili. Lei era stata Vice-ammiraglio in Marina fino a qualche anno prima, poi aveva deciso di passare ai piani alti del Cipher Pol.

Indossava un bellissimo completo bianco da uomo, anche se la giacca era aperta non su una camicia ma su una blusa di pizzo sangallo. In testa aveva un meraviglioso cappello in feltro, a tesa larga, bianco con la striscia di pizzo.

Anche suo fratello Kizaru era nelle forze armate, ma lui era rimasto dov’era cresciuto: in Marina. Aveva fatto una carriera niente male, tanto che era Ammiraglio.

 

 «Purtroppo un reparto ha avuto un problema con la propria sede: è stata rasa al suolo durante un bombardamento navale. La ricostruiranno, ma ci vorranno diversi mesi» spiegò Fedora a Lucci con serenità, mentre attorno a lei andavano e venivano gli operai che si affaccendavano a scaricare sacchi di cemento, mattoni, pale e picconi «Nel frattempo, quel reparto alloggerà qui con voi: la sede centrale del Cipher Pol ha deciso che questa Torre è sprecata per sole sette persone, e che siete i più adatti a ospitare i vostri colleghi, finchè non ricostruiranno la loro sede effettiva» dispose la donna, e poi terminò: «Per evitare problemi tra i due comandanti, io farò da superiore a entrambi»

«E perché non sono stato informato prima di questa decisione?» tuonò Rob Lucci, infastidito dal via vai di operai che volevano ristrutturare gli appartamenti in vista dell’imminente trasloco di un altro reparto «Non può esser stata presa da un giorno all’altro» era sceso dagli appartamenti in fretta e furia, vestendosi con il suo completo nero elegante, e Hattori gli aveva portato in volo la tuba quando lui già stava ridiscendendo le scale.

I due stavano parlando nell’atrio della Torre di Catarina, a poca distanza dal portone principale, ora spalancato, e con l’umido panorama del parco sott’acqua davanti a loro, oltre la porta.

«Ho lumacofonato personalmente un mese fa: ho passato la comunicazione al tuo galoppino, Spandam, con l’ordine tassativo di informartene, e tu non hai mai risposto» rivelò Fedora.

Spandam. Rob Lucci l’avrebbe ammazzato e poi avrebbe impalato il cadavere all’asta della bandiera della Torre, se l’avesse avuto sotto gli artigli in quel momento.

La rivelazione era stata sconcertante per tutti: la Torre di Catarina, che fino ad allora era appartenuta solo a loro (piano terra e primo piano per gli uffici, gli ultimi quattro per gli appartamenti personali) adesso sarebbe stata divisa con un altro reparto del Cipher Pol per circa sei mesi, forse di più.

«Che reparto è?» chiese Lucci. Era nel Governo Mondiale da una vita, almeno di nome poteva dire di conoscere tutti quanti: quale scocciantissimo reparto gli sarebbe toccato avere, come vicino della porta accanto? Sperava quanto meno in qualcuno poco invadente e rumoroso.

«Si tratta di-» ma Fedora venne interrotta.

«Boss, mi dispiace tantissimo» venne a pigolare vicino a Lucci la segretaria, Lili, ancora bagnata fino al midollo «Ho fatto il possibile per fermarli, ma…»

«Vatti ad asciugare, stupida. E poi torna immediatamente qua» la stilettò il capo, severo. La ragazza chinò il capo e sparì dalla circolazione.

In effetti quel poco che aveva fatto non era servito a niente, se non a bagnarla da capo a piedi. Circa un’ora prima stava nel suo ufficetto del pianterreno con Spandam, lui leggeva il giornale e beveva il caffè dalla sua tazzina di plastica col coperchio (a prova di rovesciamento), lei lumacofonava senza successo a tutte le scuole di danza del Nuovo Mondo. All’improvviso avevano sentito il rumore di una chiave che girava nella toppa del portone d’ingresso, e si erano guardati allarmati perché tutti gli agenti erano in sede, loro due erano lì, e quindi teoricamente nessuno doveva avere la chiave dell’edificio per entrare!

Siccome Lucci aveva dato ordine di non disturbare, Spandam e Lili erano andati all’ingresso a fronteggiare chiunque stesse cercando di forzare la porta. «Porta Funkfleed!» aveva detto la ragazza all’uomo, lei aveva sollevato la lunga gonna a ruota, aveva infilato una pistola nelle autoreggenti, ed erano andati all’arrembaggio.

Lili aveva preso la situazione di spalle, appoggiandosi con tutte le sue forze contro il portone e bloccando l’ingresso. «Qui sede del CP0, identificatevi!» aveva recitato con forza mentre da fuori spingevano il battente.

«Sono Lusky, del Governo Mondiale! Aprite immediatamente il portone»

«È un veterano! Del reparto di mio padre!» aveva sussurrato con deferenza Spandam, e aveva aperto la porta.

Lusky era un uomo sulla cinquantina, severo e rigoroso. Dopo pochi ed essenziali convenevoli, spiegò ai due galoppini la situazione: scortava un reparto del Cipher Pol che avrebbe dovuto insediarsi lì, alla Torre di Catarina. Aveva ordinato a Lili e Spandam di spalancare il portone, perché potessero entrare gli operai per la ristrutturazione e i nuovi inquilini, aveva detto indicando fuori, sotto la pioggia, dove già si vedeva un gruppo di uomini in divisa gialla che trasportavano mobili e materiale edile.

«Ma quelli sono operai!» aveva riconosciuto la ragazza «Cosa volete fare alla Torre?»

«Che domande! Fare qualche modifica! Vivranno qui altri sette agenti, da adesso!»

«Il signor Lucci non ha mai dato autorizzazione di ciò!» aveva protestato la segretaria.

«Noi abbiamo mandato un avviso a questa sede, se non l’avete letto sono affari vostri» aveva commentato Lusky.

«Dateci almeno qualche minuto…! Fatemi andare a chiamare gli agenti!» aveva implorato Lili.

«Non dipende da me, bimba. Va’ da Fedora» aveva detto Lusky, indicando una nave al molo, che quasi non si vedeva sotto la pioggia torrenziale e oltre le fronde del parco dell’Isola centrale.

Spandam non si sarebbe mosso di una virgola, così Lili, in fretta e senza nemmeno prendere l’ombrello, era corsa verso quella nave per parlare con la Fedora indicata da Lusky, ed era salita a bordo della nave della Marina che intanto continuava a sputare operai che non vedevano l’ora di metter le mani sulla Torre.

«E tu chi saresti?» l’aveva accolta Fedora, il Comandante Capo, che era intenta a fumare una pipa affacciata agli oblò della nave, sul ponte di comando.

«Sono la segretaria della Sede di Catarina! Signora, temo ci sia un increscioso equivoco…»

E invece l’equivoco non c’era, Fedora aveva ragione. Però fu molto cortese e concesse un’ora agli agenti per sgombrare la Torre, mentre lei e il nuovo reparto avrebbero aspettato nella nave.

Lili non aveva potuto fare altro che affrontare di nuovo la pioggia, salire le scale e bussare all’appartamento di Kumadori per avvisare Rob Lucci. Poi, si consolava, il suo compito sarebbe finito perché il boss certo avrebbe preso sulle proprie forti spalle tutta quella confusione.

Rob Lucci recuperò il filo del discorso interrotto dalla sua subordinata: «Di che reparto si tratta? Quanti sono?»

«Sono sette in tutto, come voi. Sei donne e un uomo. Il leader del reparto è Stussy, ti dice niente?»

«Stussy del Quartiere a Luci Rosse. Le hanno bombardato i bordelli?»

«Esatto, mio caro Rob Lucci» confermò una voce femminile.

Stussy fece la sua trionfale entrata in scena in quel piovoso giorno di fine aprile. Una visione in bianco sullo sfondo grigio e allagato di Catarina. Aveva dovuto sostituire le solite scarpine con il tacco per degli stivali di gomma bianchi, ma rimaneva comunque impeccabile nella sua eleganza d’altri tempi; indossava un vestitino bianco, corto, ed era riparata dalla pioggia da un impermeabile bianco lasciato aperto, e i capelli corti e biondi erano perfettamente acconciati, coperti da un’elegante cloche. Aveva in mano un ombrello del Governo Mondiale, bianco con il grande simbolo in nero e le scritte “CP0” sui quattro spicchi mediani. Un’apparenza angelica ed eterea per una delle assassine più spietate e tremende che il Governo avesse mai avuto nelle proprie file.

Rob Lucci la squadrò da capo a piedi con sommo fastidio, con l’aria di un felino sul piede di guerra che vede invadere il proprio territorio.

«Ahimè, durante una missione, il mese scorso, la nostra sede è stata rasa al suolo da un bombardamento navale… passerà del tempo prima che venga ricostruita. Quindi la sede centrale ha deciso di spostare momentaneamente qua me e le mie ragazze. Non è meraviglioso? Sarà come quando eravamo piccoli, agli addestramenti, dormiremo sotto lo stesso tetto» sorrise melliflua la donna.

«Non abbiamo mai dormito sotto lo stesso tetto» precisò Rob Lucci «I dormitori sono sempre stati separati»

Stussy sorrise, civettuola. «Come se tu fossi stato sempre nel tuo, di letto…»

Hattori sentiva già il vulcano ribollire sotto le proprie zampine, quando Fedora pensò bene di disinnescare le bombe (cosa che, temeva, avrebbe dovuto fare nei mesi a venire). «Stussy, perché non torni sulla nave? Gli agenti qui hanno bisogno di tempo per radunare i loro effetti e aiutarci nel trasferimento… Lucci, avrai bisogno anche tu di…»

«Rimango qui a controllare la situazione» dichiarò l’uomo. «Kaku è salito a casa sua a fare le valige; quando finirà, ci daremo il cambio»

Lasciare tutto nelle mani di Spandam un’altra volta? Non se ne parlava proprio.

 

Non si trattava di un semplice trasferimento: una delle rivelazioni più sconcertanti di quella giornata era che bisognava ridistribuire le abitazioni, e gli agenti avrebbero dovuto dire addio alla loro tranquilla esistenza: un appartamento per ciascuno di loro era stato definito “uno spreco” dal Governo Mondiale. Dei sette appartamenti che avevano, ne avrebbero persi quattro.

Anche il reparto di Stussy contava sette agenti: sei donne e un uomo. Per fortuna, però, il Cipher non avrebbe lasciato Lucci e Stussy a scannarsi per decidere chi avrebbe comandato a Catarina: a capo della sede ci sarebbe stata Fedora, mano santa, a vigilare sia sull’operato degli agenti, sia sull’andazzo delle questioni burocratiche perché non succedessero più casi di cattiva trasmissione delle informazioni, come quello che era successo con Spandam che non aveva avvisato Rob Lucci di una cosa così fondamentale!

La squadra di operai, una volta che gli agenti del reparto di Lucci tolsero dalle proprie case i propri averi (e dopo che Kumadori minacciò il suicidio, e dopo che la voce furente di Jabura fu sentita fino alle silenziose foreste innevate dell’Isola dell’Ovest), era rapidissima a montare, smontare, distruggere e ricostruire: in meno di dodici ore la Torre sarebbe stata completamente ristrutturata, e si sarebbe trasformata.

 

~

 

La camera da letto di Rob Lucci si trovava all’ultimo piano della torre, idealmente proprio sotto la grande bandiera con il simbolo del Governo Mondiale che sventolava gagliarda sul tetto.

Camera da letto che ora era in discussione, come ogni singola stanza dei sette appartamenti degli agenti. Il rifugio ultimo di Rob Lucci, il luogo più segreto della torre, la stanza dove uno degli assassini più pericolosi ed efferati del pianeta si abbandonava al sonno. Nemmeno le sue compagnie notturne, ammesso che ne fossero esistite, avevano mai avuto accesso al talamo di quell’uomo.

«Io da qui non mi muovo» dichiarò Lucci.

Gli operai avevano girato i tacchi e avevano lasciato che se la sbrigassero gli agenti: loro, con quelli là, non volevano discuterci! Alzavano le cazzuole solo se Fedora assicurava loro, per iscritto, che potevano lavorare senza timore di essere uccisi!

«Per favore, esci dalla mia camera da letto» chiosò Stussy, che affrontava polvere e calcinacci per la voglia di controllare se tutto sarebbe stato costruito come da programma, senza interferenze da parte dei vecchi coinquilini.

«Sono a casa mia, Stussy» incrociò le braccia Lucci.

«Benissimo» alzò le spalle la donna «Rimani pure nel tuo letto. Però ci entrerò anche io, stanotte»

 

~

 

«Dove vai con quel materasso?»

«Vaffanculo, Jabura. Non è giornata»

«La tua, non è giornata?!» si ribellò il Lupo «Hanno sgombrato casa mia! Mi dici dove dormirò, stanotte?» sbraitò.

«Da Blueno o da Kumadori, come tutti noi. Credi di essere l’unico sfrattato, qui?!» ringhiò Lucci.

«La fate facile, voi, che dormite nei letti!» gridò Jabura «HANNO RASO AL SUOLO IL MIO GIARDINO, DANNAZIONE!»

«QUESTO PERCHÉ SEI UN SELVAGGIO E DORMI A TERRA, COME UN CANE!»

Jabura mollò a terra lo scatolone che stava portando e si trasformò nella sua forma ibrida. «NON OSARE DARMI DEL CANE, MALEDETTO GATTO DA SALOTTO»

Anche Lucci si sbarazzò del materasso e della forma umana. «ABBASSA LA CRESTA, IDIOTA!»

Hattori spiccò il volo: non voleva essere coinvolto.

«Per favore, non ricominciate!» cercò di tirare le redini Califa, che passava di lì trascinando due trolley e, sentendo le voci alterate dei suoi colleghi, era accorsa ad evitare il peggio.

«Abbiamo già abbastanza problemi così. Non vi ci mettete anche voi due» disse Kaku.

«Non fare l’alzato di culo con me, ragazzino!» attaccò ancora Jabura.

«Ma sei scemo?» si girò l’agente più giovane, seriamente sorpreso che Jabura tentasse di attaccar briga per futili motivi anche in quel momento.

«Lascialo perdere, Kaku» si ricompose Lucci riaccogliendo il suo colombino in spalla «Ha il dente avvelenato»

«Come tutti, oggi» muggì Blueno imponendosi per stazza e tono della voce. «Venite a casa mia. Il secondo piano non vogliono toccarlo, potete rimanere da me quanto vi va»

 

~

 

Impacchettato tutto in fretta e furia in valige di fortuna, gli agenti fecero il nido a casa di Blueno, al secondo piano della torre. Era un appartamento tranquillo, e affacciandosi alle finestre sembrava di stare nel parco dell’isola perché non era molto in alto, e arrivava ancora il rumorio del via vai delle carrozze che transitavano da un’isola all’altra. Se non avesse piovuto così tanto, sicuramente sarebbero arrivate anche le risa e gli schiamazzi dei bambini che giocavano nel grande parco che circondava l’edificio.

Blueno aveva subito acceso i fornelli della sua cucina e aveva messo su qualcosa di caldo, perché nel trambusto generale la cuoca della mensa, Spilletta, aveva radunato la sua squadriglia di cuoche ed era migrata via, in attesa che quella babilonia si calmasse.

«Per adesso non ci possiamo fare niente» cercò di placare gli animi l’uomo, versando mestoli di “zuppa del carpentiere” in tante scodelle quanti erano i colleghi. «Però abbiamo il progetto della Torre… come sarà una volta ultimata. Possiamo decidere come sistemarci»

La segretaria era riuscita ad averne una copia dall’architetto e l’aveva data a Kaku, uno dei pochi che nonostante odiasse la situazione non se n’era fatto soverchiare e manteneva un’apparente calma. Anche Lucci, in realtà, manteneva un aspetto tranquillo, ma doveva fronteggiare direttamente gli invasori ed era troppo impegnato a difendere i territori del CP9.

«I primi due piani non cambieranno: archivi e mensa erano, e archivi e mensa rimarranno» cominciò ad elencare Califa aggiustandosi le lenti sul naso sottile. «L’unica aggiunta sarà una sala per le telecomunicazioni e la decriptazione dei messaggi in codice, per i quali sarà chiamato uno specialista» concluse accomodandosi la minigonna e sedendosi graziosamente sul tappeto blu scuro, accanto a Kumadori.

Il salotto di Blueno infatti non era molto grande, e aveva una sola grande poltrona sulla quale si era assiso Rob Lucci, con il fido Hattori alla sua destra. Gli altri agenti si erano accucciati sotto un bel kotatsu, un tavolino basso con annessa coperta riscaldata, per star comodi e caldi.

Califa si era chiamata fuori da quel trabiccolo: molestia sessuale, con le sue gambe così vicine a quelle dei colleghi maschi, mentre Kumadori si muoveva troppo, e rischiava sempre di ribaltare il tavolo.

«Califa, sei sicura che il tuo animo sia in pace?» si accertò l’agente dai lunghi capelli rosa, bocconi sul tappeto blu accanto a lei.

«Certo, perché?» domandò la donna.

«Yoooyoi… perché il tuo genitore, da te disperso da tempo, ha accompagnato qui le ospiti della nostra Torre… ma nessun segno di giubilo scorgo sul tuo viso dopo l’agognato ricongiungimento»

Califa fece spallucce e disse con voce forzatamente neutra: «Mio padre non è mai stato “disperso da tempo”. Io sapevo dove fosse, e lui sapeva dove fossi io. Non c’è stato nessun “agognato ricongiungimento”. Vogliamo continuare con la disposizione degli appartamenti?» ricordò.

«YOOOYOI!! EPPURE TU APPARI TURB-»

«Kumadori. Basta.» lo ammonì Jabura difendendo la privacy della collega mentre si lasciava andare anche lui sul tappeto, ma rimanendo con le gambe avvolte nella coperta termica del kotatsu. «Abbiamo questioni più urgenti da sbrigare» concluse guardando il lampadario appeso al soffitto e lasciando che una delle sue galline gli beccasse le briciole dei biscotti che aveva sul palmo.

Blueno guardò la scena rassegnato: non gli piaceva avere volatili in casa, ma non poteva far entrare Hattori e lasciare fuori le galline di Jabura, o avrebbe scatenato un Buster Call. Per le piume che i ruspanti lasciavano in giro, pazienza, avrebbe spazzato prima di andare a dormire.

Califa sospirò come per scacciare un pensiero sgradevole dalla sua testa e proseguì: «Abbiamo perso gli ultimi due piani e metà del terzo. Al terzo piano ci sarà la casa più grande, potremmo viverci in tre; al secondo piano invece rimarranno i due appartamenti più piccoli, quindi questo e quello di Kumadori.»

«Io vado da Kumadori» alzò subito la mano Jabura, il quale voleva evitare di avere a che fare con Lucci e Kaku, o non avrebbe retto senza ucciderli fino alla prima sera, e non voleva convivere con Fukuro, che era “silenzioso” solo con la zip chiusa, cosa che sfortunatamente succedeva di rado!

«YOOOYOIII! IL VALORE DELLE AMICIZIE SI RIVELA NEI MOMENTI PERIGLIOSI! METTO A DISPOSIZIONE DEL COMPAGNO LA MIA UMILE DIMORA!»

«Al terzo piano c’è l’appartamento più grande, potremmo abitarci in tre» considerò Kaku guardando le planimetrie e indicando verso l’alto con un dito «Mentre qui a casa di Blueno può abitare al massimo solo un altro di noi»

Finì che Lucci e Kaku, abituati a condividere le missioni, sarebbero andati al terzo piano, e Fukuro e Blueno sarebbero rimasti nell’appartamento di quest’ultimo. Rimaneva Califa.

«Dovresti venire con noi, è l’appartamento più grande» azzardò Kaku.

Una donna che viveva con due uomini? «È palesemente una molestia sessuale»

Lucci sapeva che sarebbe finita così, ma non aveva intenzione di preoccuparsene, non nell’immediato almeno.

Si sentivano, dal piano di sopra, i rumori di martelli pneumatici, trapani e motori elettrici degli operai, al lavoro per cambiare il volto della Torre di Catarina.

 

~

 

Su. Giù. Su. Giù. E di nuovo. Su. Giù.

La palestra era un’oasi di pace. Il parquet spazzato e lucidato era liscio, le venature color ambra erano un labirinto in cui perdersi durante le lunghe ore di allenamento.

Su. Giù.

Gli agenti del CP dovevano mantenere una forma fisica fenomenale, per poter eseguire le proprie tecniche. E, se c’era qualcuno come Kaku che amava fare jogging all’aria aperta nel parco dell’isola, altri come Rob Lucci preferivano consumare le assi della palestra interrata, e darci dentro per ore e ore con pesi ed esercizi.

Rob Lucci era giunto alla terza ora di allenamento, quel giorno. Gliene mancavano circa due. Abituato da anni a quel ritmo, non gli pesava più di tanto, anzi, lo aiutava a smorzare la tensione.

E di tensione in quei giorni ne aveva tanta, troppa, decisamente più di quanta volesse sopportarne quando si trovava alla base e non in missione. L’invasione del reparto di Stussy gli aveva urtato i nervi più di quanto potesse riuscire a esprimere a parole: li avrebbe volentieri massacrati tutti, e se pensava al suo sfratto (il suo meraviglioso appartamento. Il suo letto. La sua doccia con le piastrelle color ambra) andava quasi in forma ibrida dalla rabbia.

Meglio sfogarsi, meglio andare su e giù con quelle flessioni, meglio aggiungere pesi ai bilancieri, sudare, e cercare di non pensarci per qualche ora.

Capelli legati, tuta grigio fumo, maglietta del Governo, Hattori tranquillo su una mensolina che aveva montato solo per lui in un angolino, e poteva isolarsi dal mondo. Non c’era neanche la radio accesa, a lui piaceva allenarsi in silenzio. Quelli che la accendevano erano Jabura, Fukuro, oppure Califa, se era lì con il personal trainer che faceva venire dall’Isola dell’Estate. Kumadori era lui stesso la radio, e a Blueno di solito non importava di sentire o no la musica e gli speaker. Il lumacofonino sembrava impegnato in una muta conversazione con Hattori, lì vicino a lui, e non faceva rumore nemmeno quando sembrava esprimere con il volto una certa preoccupazione, per chissà che cosa.

Problemi da lumache, pensò Lucci. Chissà Hattori cosa gli stava rispondendo. C’erano momenti in cui quel piccione era un mistero anche per lui, quei momenti in cui era più profondo il solco tra umani e animali, e neppure l’amicizia ventennale che c’era tra loro riusciva a colmarlo.

Su. Giù.

La porta della palestra si aprì all’improvviso, ma Rob Lucci non interruppe le sue flessioni. Sapeva che era Califa, accompagnata da Kaku: li aveva percepiti con l’Ambizione. Che ci faceva Kaku lì? Ah, già… la pioggia. La doccia preferiva farla dopo gli allenamenti, non durante. E poi c’era Fukuro, che appena vide Lucci si chiuse la zip, ben ricordando le sue preferenze in materia di radio durante le sessioni di allenamento.

Tutti e tre in tuta sportiva, si misero nel loro posticino preferito (la palestra era davvero grande, però ognuno aveva il suo metro quadrato del cuore) e cominciarono i riscaldamenti.

Ogni tanto si scambiavano qualche parola tra loro.

Lucci preferiva il perfetto silenzio, però si trattava di Kaku, e di Califa. Erano abbastanza educati da non creare caciara e lui li sopportava volentieri, e qualche volta interveniva nel loro discorso.

«Chapapa, sono sei donne in tutto, ha detto Fedora» riportò Fukuro. «E poi c’è un ragazzo che dovrebbe avere circa la tua età, Califa, però non l’ho ancora visto»

Califa era nervosa per quell’intrusione. Ci aveva messo anni per abituarsi ai suoi colleghi maschi, anche forte del suo periodo alla Galley-La in cui era l’unica donna, e odiava vedersi spezzare quell’equilibrio che si era costruita.

«Non mi piace. È molesto, l’ho intravisto nel corridoio quando scaricava la sua roba» confidò la ragazza.

«Non ti devi preoccupare» tuonò Lucci mentre metteva una mano dietro la schiena e continuava le flessioni con un braccio solo. «Non si azzarderanno ad avvicinarsi al nostro reparto, qualsiasi cosa succeda. Fedora è stata chiara: siamo nello stesso edificio, ma siamo due gruppi diversi» terminò scandendo bene le ultime tre parole.

Poche frasi ancora, e anche Fukuro, Kaku e Califa piombarono nella concentrazione degli allenamenti. Califa s’impossessò del tapis roulant e si mise le cuffiette nelle orecchie dopo averle collegate al lumacofonino (strappato dalla conversazione con Hattori), chiudendo le comunicazioni.

 

La porta della palestra si spalancò.

«Oh! Buongiorno!» salutò una ragazza alta alta, e con due lunghi codini verdi.

Solo Kaku rispose freddamente al saluto, mentre Fukuro disse allegramente: «Chapapa, ciao!»

«Voi siete quelli di Catarina! Scusate se vi abbiamo interrotti…» si volse verso il corridoio fuori dalla sala ed esclamò: «Vieni Quero Vas! Dai!» e poi tornò a parlare a Lucci e ai suoi colleghi: «Scusatelo, è un tipo riservato…»

«Questa è decisamente una molestia sessuale!» si sentì dire con voce profonda.

Kaku, Lucci e Fukuro si voltarono istintivamente verso Califa: la donna però si tolse un auricolare dalle orecchie dicendo: «Che c’è? Perché mi guardate?»

E poi tornarono a rivolgersi all’ingresso: c’era un ragazzo pressappoco della loro età, dai tratti delicati e i capelli corti e biondi pettinati all’indietro. Era fasciato in una tuta tecnica nera con i dettagli rosa fluo, e il pantalone aderente gli evidenziava cose che a molte persone non interessava che fossero evidenziate.

«Smettila, Yue! Insomma» diceva protestando «Questa è decisamente una molestia sessuale!»

«Lui è Quero Vas! Il nostro gallo del pollaio! E io sono Yue! Abitiamo al quarto piano»

Quello che era stato di Jabura. Quello in cui era stato spazzato via il magnifico giardino zen. Lucci, Kaku e Califa assottigliarono lo sguardo, Fukuro sbattè gli occhietti porcini.

«Vi dispiace se ci alleniamo qui con voi? Non parleremo, non vi daremo fastidio! Ma stare nella nave è stato così noioso, vorremmo…»

«Non fate casino» la interruppe lapidario Lucci. Le stava permettendo di rimanere perché sì, ormai Catarina era anche casa loro e lui non voleva dichiarare guerra prima del previsto e nel bel mezzo dei suoi allenamenti, però la signorina doveva imparare da subito con chi avesse a che fare «Altrimenti vi ammazzo sul posto»

E trattandosi di Rob Lucci, quella non era una minaccia a vuoto.

Quero Vas si diresse altezzoso nel posto della palestra più lontano dai suoi occupanti, e cominciò anche lui ad allenarsi, con bilancieri che sarebbero stati impossibili da sollevare anche da un peso massimo sotto steroidi.

Yue preferì prendere una delle corde e mettersi a saltare, con evoluzioni incredibili a guardarsi (se Lucci, Kaku e Califa l’avessero degnata di uno sguardo, ovvio). A un certo punto si tolse le scarpette e tenne la corda con le dita dei piedi, saltando sulle mani. I codini verdi danzavano con lei, senza annodarsi mai con la fune.

Tutto procedeva tranquillamente, quando dopo qualche minuto Yue e Quero Vas cominciarono a bisbigliare tra di loro.

«Non mi piace parlare di lui, mi fa rivangare brutti ricordi» piagnucolò Quero Vas.

«Quero, sei stato tu a cominciare a lamentarti che fare questo genere di esercizi ti ricorda il tuo ex!» fece Yue.

Lucci e Kaku si scambiarono uno sguardo: verissimo, preferivano allenarsi in pace, ma ottenere informazioni da quei perfetti sconosciuti poteva rivelarsi tutto sommato utile, così decisero di aguzzare le orecchie e rimanere ad ascoltare quelle chiacchiere.

«Chapapa, sei stato mollato dal tuo ragazzo? Chi era?»

Fukuro, del resto, aveva già sciolto la lingua e dato fuoco alle polveri.

«Ci sono cascato un’altra volta: era un Marine» sospirò il Governativo.

Quero Vas lasciò andare il bilanciere, che cadde sul parquet con un sonoro “sdeng!”.

«Era bravissimo, ragazzi, mi dovete credere» si spalmò con voluttà sul pavimento. «Sapeva fare un sacco di giochetti carini»

«Chapapa, che giochet-»

«QUERO, NON LO DIRE!» lo pregò Yue.

«Quando eravamo in un locale…»

Yue era arrossita fino alla radice dei suoi capelli verdi «Non ascoltatelo! Scusatelo! È ancora sotto shock!»

«Prendeva il mio bicchiere e, sotto al tavolo…»

«QUERO SMETTILA!! NON TI CONOSCONO, PENSERANNO CHE SEI UN PERVERTITO!»

Califa era visibilmente turbata, Lucci e Kaku non sapevano nemmeno cosa dire, Fukuro continuava a insistere: «Chapapa, chi ha lasciato?»

Quero Vas sospirò. «Ho lasciato io» disse «Lui era sempre più… come dire…»

Yue lasciò la corda per saltare e prese la parola «Lui ha scoperto che in questo reparto si uccide con facilità, e che siamo al servizio dei Draghi Celesti. Stomaco delicato. Che palle. Hai fatto benissimo a lasciarlo, aveva cominciato a trattarti malissimo»

«Ma prometteva così bene!»

«Cerca nel Cipher Pol, così non hai questo problema!»

«A me non piacciono gli agenti del Cipher Pol!» protestò Quero Vas «Senza offesa: ma sono tutti intenti a pettinarsi, a curarsi, a vedere come stanno, a curarsi e a lisciarsi i capelli -io per primo-» precisò quando notò Lucci che si stava decisamente alterando.

Quero Vas esplose: «Io voglio un vero uomo! Sono stanco delle checche come me!! Uno che ti ribalti! Ispido, animale, con due pettorali così» allargò le mani per definire una larghezza spropositata «Un vero selvaggio! Uno che imprechi, che se ne fotta dell’etichetta e dei completi eleganti!»

La porta della palestra sbattè con prepotenza.

«Vaffanculo! Maledetta pioggia!»

Jabura.

Si tolse con un gesto nervoso la giacca, completamente bagnata, la gettò vicino all'uscio, e rimase a torso nudo.

Gli agenti ammutolirono.

«Mbè? Che cazzo avete da guardare?» sbraitò Jabura strizzandosi la treccia. 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Ciao a tutti!!! Sono tornata! :D Ecco di nuovo gli agenti del CP9 alle prese con una massiccia intrusione! Cosa succederà tra questi due reparti? Riusciranno a convivere pacificamente? (no)

Il Comandante Fedora: ringrazio MLegasy per avermela suggerita! È la sorella di Kizaru, anche lei sotto le armi, rilassata e pacifica come il fratello... almeno in contesti come questi! Sul campo di battaglia, chissà! Il suo nome, "Fedora", deriva dalla foggia del cappello che indossa, un Fedora appunto, così come il soprannome del fratello deriva dal tipico cappello "Borsalino"! Entrambi sono creazioni storiche della moda italiana, e sono contenta che Oda abbia inserito uno di essi tra i suoi personaggi!

Questa storia è stata scritta per la Settima Settimana del Cow-T, e il prompt era "rivelazione"... e di rivelazioni ce ne sono un bel po' in questo capitolo! Ma anche il prossimo non sarà da meno!

Ma soprattutto, Lucci riuscirà a trovare un maestro di ballo per Jabura e Califa? E Quero Vas riuscirà a riprendersi dall'amara delusione d'amore?

Rimanete sintonizzati e lo scoprirete!

Un bacione e grazie per aver letto,

Yellow Canadair

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Capitolo 6
*** Non sono gay, ma posso imparare! (atto secondo) ***


Il Cp9 in: non sono gay, ma posso imparare!

Atto II: corri, Jabura!

 

«Qual è il problema? Perché non si trova un maestro?» Rob Lucci non ne poteva più: cercare un bravo maestro all’inizio gli era sembrato una quisquilia, un minuscolo sassolino sulla strada, un ostacolo facilmente superabile, e invece era difficile quasi quanto convincere Jabura a prendere lezioni di ballo!

«Il motivo più diffuso è il periodo: siamo quasi a maggio, ci sono i saggi delle scuole di danza, nessuno vuole lasciare le sue classi per una trasferta, per quanto molto ben pagata» rispose Lili, la loro segretaria.

Naturalmente Lucci le aveva lasciato un foglio con tutti i dettagli per il possibile maestro, dal compenso al vitto, all’alloggio, al trasferimento. E sì, era una trasferta davvero ben pagata.

Visto che la Torre era ancora in ristrutturazione, le riunioni dell’ex CP9 venivano svolte nel salotto di Blueno, seduti chi sui cuscini, chi sul parquet, e Lucci sulla grande e morbida poltrona di velluto rosso.

«Ci sono altri tre numeri nell’elenco, posso completare il primo giro di chiamate e poi decidiamo se aumentare la parcella o diminuire i giorni di prove.»

«Dov’è Jabura?» chiese Lucci a bruciapelo alla ragazza.

Lili lo fissò smarrita. «Non lo so, boss. Di solito è sempre in giro, ma è da ieri che non lo vedo.»

«Chapapa, lo dicevo io, che si sta nascondendo!» intervenne Fukuro aprendosi di pochi centimetri la zip.

«E da chi?» chiese Blueno, al quale suonava strana un’azione del genere da parte di quell’attaccabrighe del collega.

«CHAPAPA, DAL TIZIO GAY DELL’ALTRA DIVISIONE!» spalancò la bocca Fukuro «Vuole assolutamente avere una storia con lui!»

«YOOOOYOOOIII» intervenne con voce tonante Kumadori «FUKURO, IL TUO ATTEGGIAMENTO VERSO GLI ALTRUI SENTIMENTI È MOOOOOOOOOOLTO IRRISPETTOSOOOOOOOOOOOOO!!»

«È davvero braccato da uno che vuole uscire con lui?» domandò Lili al boss.

«È quello che si merita per il suo vizio di non mettersi una camicia decente» le rispose Lucci.

«FARO SEPPUKU PER ESTINGUERE IL PECCATO DELLA TUA LEGGEREZZA SU QUESTI SACRI ARGOMENTI!»

«Vallo a cercare» ordinò il leader alla segretaria «Lo voglio qui entro mezz’ora»

«Tekkai!» Kumadori ci tentava ogni singola volta. «NON RIESCO A MORIREEEEEEEEE»

In quel momento si sentì bussare alla porta di casa.

«Avanti» dissero Lucci, Kaku e Fukuro, con tre toni diversi, ma poi si ricordarono che non erano in ufficio, ma a casa di Blueno; fu il padrone di casa ad andare ad aprire.

«Buongiorno!» salutò calorosamente il Comandante Fedora «Non vi ho trovati nella zona degli uffici, e ho immaginato che foste in uno degli appartamenti!»

Rob Lucci si alzò dalla poltrona e, attraversato il salotto, raggiunse il Comandante nell’ingresso. «C’è qualche problema?»

«No, volevo chiedere invece se voi aveste qualche problema. Perché vi siete rintanati qui?»

«Troppo via vai nelle altre zone» rimediò immediatamente Lucci, senza perdere la sua algida compostezza «Quando gli operai saranno andati via, torneremo a occupare i primi due piani della Torre. Per ora, preferisco tenere le riunioni qui»

Gli agenti in realtà avevano bisogno, anche se nessuno l’ammetteva a voce alta, di qualche giorno in un posto tranquillo prima di prendere atto che la loro meravigliosa Torre era stata invasa e i loro appartamenti rasi al suolo.

«Vado, boss» lo informò Lili, approfittando dell’interruzione del Comandante Fedora. «Comandante» la salutò formalmente con un cenno del capo, e uscì trotterellando sui suoi tacchi.

Fedora rispose al saluto e la guardò allontanarsi. Ai suoi quarant’anni di carriera bastò far caso a come camminasse per capire che non era un’agente. «Ah, gironzola nella torre da quando sono arrivata! Chi è?» domandò a Lucci.

«La segretaria amministrativa»

«Chapapa, e pilo-» stava per salire la voce di Fukuro dal salotto, ma Kaku gli richiuse la zip con un movimento rapidissimo, degno di un ninja.

Perché Rob Lucci non voleva assolutamente far sapere a nessuno che il suo reparto aveva in dotazione un aereo, e che la ragazza oltre a essere segretaria era anche la loro pilota personale. Mai e poi mai. Sarebbe stata una rivelazione troppo importante, e lui non voleva che Stussy ci mettesse le unghie su.

«Cosa?» domandò Fedora.

«Pilastro della nostra amministrazione» sottolineò Califa aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Gestisce Spandam» completò.

«Oh, naturalmente» sorrise Fedora aggiustandosi il cappello di feltro «Non dev’essere facile, per lui, ritrovarsi a un rango così basso…»

Per lui. Certo. Mica per Rob Lucci e soci, che avevano assunto del personale apposta per rimediare agli errori di Spandam: era così che all’inizio era stata ingaggiata la ragazza.

«State preparando la missione per Ruby Island, vero?» domandò Fedora. Ovviamente lei era a conoscenza delle mansioni dei due reparti sotto di lei.

«Esatto» rispose a tono Lucci «Ci stiamo documentando»

«C’è qualche problema? Vi serve nulla?»

Nessuno riuscì a fermare Fukuro, che spiattellò subito: «Chapapa, ci serve un maestro di ballo, ma non troviamo nessuno disposto a…»

«Un maestro di ballo?» si illuminò Fedora «Non c’è bisogno di chiamare nessuno!» disse.

«In che senso?» la incalzò Lucci.

«Nel senso che un sottoposto di Stussy è un ballerino professionista! Pensate, ha vinto anche dei concorsi!»

Alcuni dei colleghi di Lucci avevano già fatto un disastroso due più due: il ballerino in questione non poteva essere che Quero Vas, unico maschio in mezzo a tante donne.

E l’allievo sarebbe stato, ovviamente, Jabura.

«Non è un maestro di ballo, ma sicuramente saprà dare una buona infarinatura a chi andrà sotto copertura!» proseguì il Comandante Fedora, soddisfatta per la soluzione che, sia in termini economici che in termini pratici, era perfetta.

Lucci da un lato godeva tantissimo per la situazione scabrosa in cui si era cacciato il rivale, dall’altro…  nah, non c’era un altro lato. Vedere Jabura che da cacciatore si era trasformato in preda era troppo divertente.

Proprio in quel momento passò in corridoio il ragazzo del reparto di Stussy, che vagava nella Torre alla ricerca del suo oggetto del desiderio.

Fedora lo notò al volo, forse per un colpo d’occhio, forse per l’Ambizione della Percezione. «Oh, Quero Vas!» gioì la donna, prima che qualcuno degli agenti potesse dire qualcosa, prendere tempo, rifiutare, temporeggiare, ma purtroppo la pietà non sarebbe mai stata la prima istintiva reazione dei Governativi.

Richiamato dal suo superiore, Quero Vas si avvicinò e salutò sconsolato gli agenti che si erano accalcati sulla porta di casa di Blueno.

«Quero, che succede? Sei un po’ giù?» considerò Fedora, quando lo vide più vicino.

«Fedora, ho trovato l’uomo della mia vita» dichiarò Quero Vas «Ma si è nascosto!»

Fedora, reputando la risposta poco rilevante, la ignorò: «Ho una novità per te, potresti dare delle lezioni di ballo a…»

La quota azzurra del reparto di Stussy implorò Rob Lucci: «Sto cercando Jabura! Dimmi che è qui»

Lo sguardo gelido dell’uomo e quello minaccioso di Hattori lo fecero desistere dall’appendersi al bavero per pregarlo.

«Non è qui. Abbiamo mandato qualcuno a cercarlo» lo freddò.

«Quero Vas» s’impose Fedora «Per una missione dovrai insegnare a ballare a due membri dello staff di Lucci: solo pochi passi, le basi. Serve per un’infiltrazione a una gara di ballo.» spiegò sbrigativamente.

Il ragazzo, da che era concentrato sulla ricerca dell’amato, cambiò espressione e si fece serio e attento, come ben si confaceva a un agente del Cipher Pol al quale si chiede una professionalità altissima.

«Per una gara di ballo le sole basi non basteranno» avversò, con voce ferma e ben conscio di quanto stava dicendo. «Bisognerà fare un corso intensivo, e naturalmente dipende dalla preparazione dei ballerini e dalla loro… predisposizione alla danza.» disse in poche parole. «Non posso fare miracoli, se loro non mi daranno una collaborazione totale. Quanto tempo abbiamo?»

«Meno di due mesi» rispose Califa, emergendo da dietro alle spalle di Lucci.

«È pochissimo» disse Quero Vas scuotendo il capo con scetticismo.

«Quero Vas ha un vero talento per ballare! è bravissimo, ed è un bravo insegnante, anche se i vostri agenti non hanno mai ballato, con lui non avranno problemi!» promise Fedora, la quale aveva imparato qualche passo persino durante la traversata per arrivare lì a Catarina.

«Ho solo vinto qualche premio…» appuntò l’uomo, falsamente modesto. «A chi è che dovrei insegnare qualche passo?»

«I due ballerini in questione sono lei» Lucci indicò la sua collega Califa «e Jabura» aggiunse come gran finale.

Gli occhi di Quero Vas si illuminarono della luce di mille galassie, il suo sorriso si aprì fino a raggiungere le vette opposte della Grand Line, il suo appetito sessuale… no, non ve lo dico. Riuscì a sembrare un lupo famelico anche senza avere il Frutto Dog-Dog modello Lupo. «Oh, ma davvero?» disse. «Ci sarà bisogno di molto impegno da parte di entrambi, ma sono sicuro che io e Jabura ce la faremo» promise il ragazzo.

«Devi insegnare anche a Califa» sottolineò Lucci indicando la donna.

«Questa è molestia sessuale!» rispose lei bellicosa.

«Ha ragione, sarebbe molestia sessuale. Mi concentrerò solo su Jabura.» promise l’agente.

«Quero Vas» lo rimproverò Fedora «Non anteporre i tuoi interessi alla missione. Insegnerai a tutti e due»

«Vado a cercarlo allora» promise il nuovo maestro di ballo «Così possiamo cominciare subito» e prima che Fedora o Lucci potessero fermarlo, sparì con il Soru nel corridoio della Torre.

«Ottimo» si deliziò Fedora «Avete già risolto il problema!» sorrise andandosene.

Tornarono tutti in casa, e Blueno chiuse la porta.

Il silenzio venne rotto da Kumadori: «YOOOYOI… UN GRANDE DANNO ABBIAMO PORTATO AL NOSTRO FEDELE COMPAGNO, MA ALTRESÌ IMMENSO GUADAGNO PER LA NOSTRA OPERAZIONE! IL FALLIMENTO DI UNO È LA VITTORIA DELL’ALTRO! IL BIANCO CHE COMPENSA IL NERO! IL BENE CHE SI BILANCIA CON IL MALE! AMORE! ODIO! L’ASSASSINIO E LA NUOVA VITA! COSA ANDRÀ A TRIOOOONFARE?»

«Chapapa, per Jabura, non la verginità ana-»

«FUKURO QUESTA È MOLESTIA SESSUALE!» insorse Califa.

«Per favore, non perdiamo la concentrazione» tirò le redini a tutti Rob Lucci «Abbiamo risolto un problema, ma ce ne sono ancora altri. Cerchiamo di muoverci.» concluse riportando l’ordine.

Kaku stava per ricominciare a esporre alcune sue idee, e chiedere a Califa di riassumere alcuni punti salienti della missione, quando si sentì un rumore provenire dalla finestra, come se qualcuno ci stesse lanciando contro dei sassolini.

Kaku, infastidito dall’interruzione, si affacciò alla finestra, e la sassaiola cessò.

«Jabura?» si sorprese.

«È andato via?» gridò il Lupo sottovoce.

L’agente era nel parco, ai piedi della Torre, sotto un ombrello con la segretaria, la quale aveva in mano una manciata dei sassolini del ghiaino dei vialetti.

«Ti stiamo cercando da tutta la mattina» disse gelidamente Lucci affacciandosi.

«Apri del tutto quella finestra, entro col Soru!» ordinò Jabura. Poi si rivolse alla segretaria: «Preparati, saliamo» disse apprestandosi a sollevarla.

«Non ci pensare neanche» rispose la ragazza sorridendo. Certo non si faceva prendere in braccio da uno degli agenti!

Blueno sospirò.

«Entra, dai» muggì apparendo dall’Air Door accanto a Jabura e alla ragazza (che l’aveva ripescato nella sala d’attesa della filovia che portava sull’Isola dell’Est).

Con Jabura finalmente presente, la riunione per la missione a Ruby Island poteva riprendere.

Lilian Rea, la segretaria, fu fatta accomodare sul divano vicino al termosifone per asciugarsi i piedi; Blueno le mise in mano un pacco di biscotti, e lei continuò il proprio rapporto con i suoi superiori: «Dicevo… per quanto riguarda un maestro di danza, ci sono altri tre numeri nell’elenco, posso completare il primo giro di chiamate e poi decidiamo se aumentare la parcella o diminuire i giorni di prove»

«Abbiamo risolto» disse Lucci «Abbiamo trovato un maestro interno»

«E chi sarebbe?» chiese Jabura.

Lucci glissò con noncuranza. «Prenderemo appuntamento il prima possibile e frequenterai le lezioni nella palestra della torre a partire da domani»

«Perfetto, ma posso sapere di grazia chi è?» ringhiò il Lupo «Se è un “maestro interno” sarà qualcuno del Cipher, no?»

Califa si guardò interessatissima la punta delle sue scarpe col tacco.

Blueno si alzò e cominciò a mettere pentole a caso sui fornelli.

Kumadori tentò il Seppuku per solidarietà.

«Mbè? È un segreto mondiale? Che vi prende?»

Una zip si spalancò! «Chapapa, è Quero Vas! Sarà lui il tuo maestro!»

«Volevamo dirtelo in maniera meno molesta, Jabura» disse Califa.

Jabura saltò in piedi rosso di collera. «COSA?! DOVRÒ BALLARE CON LE MANI INCOLLATE AL CULO!» imprecò «QUELLO NON ASPETTA ALTRO PER-» poi si ricordò chi era il leader del reparto: «SEI STATO TU! L’HAI FATTO APPOSTA!»

«Non sei così importante, idiota!» rispose a tono Lucci «Non spreco il mio tempo progettando vendette infantili contro uno come te!»

«SAPEVI CHE QUELLO MI DÀ LA CACCIA!»

«E quindi?! Sei un agente, devi eseguire gli ordini, non sei costretto a uscirci a cena!» si alzò in piedi Rob Lucci, furioso.

Kaku aprì la zip di Fukuro.

«Chapapa, in realtà è stato il Comandante Fedora!» chiacchierò subito lui, catturando l’attenzione del litigante. «Quando le abbiamo detto che stavamo cercando un maestro di ballo, l’ha subito detto a Quero Vas! Nessuno di noi ha potuto farci niente!»

Così concluse, e Jabura rinunciò a prendersela con Rob Lucci.

Si trascinò sul divano e vi si sedette cogitabondo.

Lili, seduta lì da prima a godersi lo spettacolo degli agenti che si urlavano addosso, gli offrì prontamente i biscotti dal sacchetto che Blueno le aveva dato.

«YOYOI!» colmò il silenzio Kumadori «TACERE BISOGNAVA, ANDARE AVANTI» recitò con voce profonda.

«Era la soluzione più a portata di mano» concluse Kaku «Bisogna dare la priorità alla missione, lo sai.»

Rob Lucci avrebbe voluto continuare con la pianificazione, ma la lingua di Jabura fu più lesta: «Possiamo rapirne uno, di maestro! Lo mandiamo a prendere con l’aereo, e domani possiamo cominciare!»

«Sì, ma in quel caso dobbiamo prima capire qual è quello più indicato da rapire» propose Califa, analitica. «Bisogna andare a colpo sicuro» suggerì.

«Si perderebbe ancora più tempo e noi non ne abbiamo, lo sai» lo guardò Kaku severamente.

Rob Lucci li guardò gelido: non valeva nemmeno la pena sprecare parole.

 

~

 

Gli operai erano andati via, gli agenti si erano sistemati ognuno nei propri appartamenti, stringendosi un po’, e Fedora aveva preso il pieno comando dei due reparti di Catarina. Anche se c’era meno spazio in casa, i lavori del Cipher Pol procedevano meglio, ed era più facile per tutti lavorare con il doppio dell’organico.

E poi Fedora ci aveva guadagnato un super-attico: l’ultimo piano, che dove una volta vivevano Lucci e Kaku nei rispettivi appartamenti, e che poi era stato conteso da Stussy, alla fine se l’era preso lei, il Comandante. Tutto lo spazio che voleva.

Lucci cercava di non pensarci, perché quando ci pensava gli montava la rabbia.

Undici e cinquantacinque, lì nell’atrio della Torre di Catarina. Cinque giorni dopo il trasloco del reparto di Stussy. Cinque giorni di agguati a Jabura, di inseguimenti, di uso smodato del Door-Door di Blueno per scampare a trappole mortali.

Quero Vas poteva avere un gusto dubbio nello scegliere le microfantasie che adornavano le sue camicie, ma una cosa era certa: come agente segreto specializzato nei pedinamenti era davvero bravissimo, tanto di cappello.

Ma Jabura era un osso duro per chiunque, anche per un altro agente del CP0, e se aveva deciso di non farsi acchiappare, non si sarebbe fatto prendere. E poi la posta in gioco era altissima!

A quel punto, però, la storia rischiava di diventare lunga e logorante: per questo il Lupo, stanco, aveva deciso di scendere in campo a volto scoperto, lì, nell’atrio della Torre di Catarina, davanti al grande portone di legno e bronzo lavorato, e dire ancora una volta, davanti a testimoni, che NO, NON GLI PIACEVANO GLI UOMINI.

«Ci vediamo oggi pomeriggio alle cinque!» disse Quero Vas, alludendo alla loro prima lezione di ballo.

«Toccami e ti ammazzo» minacciò Jabura.

Quero Vas sorrise davanti a quella fiera determinazione, davanti a quell’uomo così ostinato e orgoglioso che gli risvegliava i migliori moti risorgimentali che difficilmente i suoi slip di seta a fiorellini riuscivano a contenere.

«Ma come…? Io volevo mostrarti che Shigan speciale so fare…» rispose, allusivo.

Jabura si piantò a gambe larghe davanti a lui, incrociò le braccia e sogghignò: «Nessuno Shigan può farmi niente… io sono un maestro del Tekkai. L’unico in grado di muoversi con il Tekkai su tutto il corpo»

«E questo è molto interessante» considerò Quero Vas «Riesci a fartelo anche sul tuo…»

«Il pene non è un muscolo, Quero Vas» gli ricordò Yue, la ragazza dai capelli verdi, passando di lì. «Non si può fare lì, il Tekkai»

«Anche perché non ne avrei certo bisogno» sottolineò incautamente Jabura, tradito dal suo stesso vanto.

A proposito…

«Che intimo porti?» chiese sfacciato Quero Vas, senza staccare gli occhi grigi dai pettorali di Jabura.

«Che cazzo di domanda è?» fece il Lupo. «Per l’ultima volta, idiota, MI PIACCIONO LE DONNE»

A beneficio dei lettori sottolineiamo che Jabura gliel’aveva già detto molte altre volte, ma Quero Vas non voleva capire.

«E dai, che intimo porti?»

Califa, arrivata scendendo le scale e fermatasi a sentire, commentò acida: «Che razza di molestia sessuale»

«Porto i boxer, maledetto mentecatto!»

In quel momento arrivò Fukuro, entrando con Blueno dall’ingresso principale. «Chapapa, in realtà spesso e volentieri non usa nient-» Blueno ritenne opportuno chiudere la zip a Fukuro ed evitare di buttare benzina sul fuoco.

«Perché non mi vuoi dare un’opportunità?» s’infuriò Quero «È perché sono gay, vero?»

«No, maledizione! È perché hai il cazzo!»

«Magari ti piace!»              

Rob Lucci, giunto lì guidato dalla cagnara, cominciava a non sopportare più quella situazione. Va bene che Jabura era il suo rivale naturale, ma quei due stavano mettendo a rischio una convivenza cominciata già nel peggiore dei modi.

Stussy intervenne in difesa del suo agente e si rivolse a Jabura: «Potresti almeno comportarti civilmente, invece di scappare come un moccioso»

«È IL TUO SOTTOPOSTO CHE DOVREBBE METTERSI UNA MUSERUOLA!» s’infuriò Jabura.

«STUSSY, LA TUA POSIZIONE NON GIUSTIFICAAAAA LE TUE PAROLEEEE!» cominciò Kumadori roteando il suo bastone. «YOOOYOI! Ma del resto la mia posizione non giustifica le mie… io… io…»

Spandam e Lili si affacciarono dal loro ufficio, attirati dalla grandissima caciara, e persino Funkfleed con un piccolo barrito fece capolino alle spalle di Spandam.

«IO FARÒ SEPPUKU PER LAVARE LE MIE COLPE!»

Arrivò anche Kaku, e si fermò accanto al suo leader a osservare serio la situazione, temendo che degenerasse in rissa sanguinosa. Rischio che, considerando i caratteri arroganti e facili alla lite che avevano un po’ tutti gli agenti del Cipher Pol Aigis 0, tanto più se del reparto di Rob Lucci, era più che concreto.

Comparvero anche le altre agenti di Stussy: Stella, Giò-Giò la cantante, e Tortilla: l’atrio si andava sempre più popolando.

«Che devo fare per provarti che non mi piacciono gli uomini?» sbottò Jabura «Baciare tutte le presenti?»

Le agenti con uno scatto di Soru fecero un passo indietro.

«Questa è una molestia sessuale» intervenne Califa, e tutte annuirono.

Jabura era commosso da tale cooperazione.

Quero Vas interruppe: «Non è che baciare una donna ti renda automaticamente etero» chiosò «Ne ho baciate parecchie anche io, e no, non sono bisessuale» assicurò.

«FUKURO, MALEDIZIONE, PARLA! PER UNA VOLTA CHE PUOI SPETTEGOLARE!»

Fukuro fece un salto per la sorpresa, poi cominciò a chiocciare: «Chapapa, tutto quello che potevo raccontargli, l’ho raccontato! Le tue storie, i flirt a Enies Lobby, quando Gatherine ti ha respinto per Lucci»

Hattori quasi cadde dalla spalla di Lucci per l’inaspettata rivelazione, mentre il suo proprietario si rivolse con aria inquisitoria verso Fukuro.

«Non la conosci, chapapa, era una ragazza che faceva l’inserviente a Enies Lobby e quando ti ha visto scendere dal treno ha piantato Jabura in meno di cinque min-»

Jabura si avventò sul collega e gli chiuse la zip. «TUTTO MA NON QUESTO, STUPIDO CHIACCHIERONE!»

«Ah, davvero?» sorrise perfido Lucci «Ti ho rubato la fidanzata?»

«Non vantartene! Ci hai messo tre anni e mezzo per saperlo!» abbaiò Jabura, rosso per l’imbarazzo.

«Perché non dai una possibilità a Quero Vas?» propose Stussy con sussiego, rovistando nella sua pochette in cerca di un rossetto. «Magari ti piace. È un bravo ragazzo, sai?»

«MA IO AMO LE TETTE!»

«Finora» lo corresse l’aspirante partner.

«Come devo fare a convincerti?!» s’incazzò il Lupo. «Se baciarle non è abbastanza, e non posso certo chiedere a qualcuna di…»

«ANCHE QUESTA È MOLESTIA SESSUALE» si ribellò Califa.

«I racconti del tuo passato non mi incantano… e poi lo sanno tutti che sei un bugiardo»

Jabura si guardò intorno: tutti gli agenti si erano radunati in quel posto, e la situazione andava chiusa. Baciarle non valeva, scoparne una lì non era fattibile…

Si buttò in ginocchio davanti a Lili, la segretaria.

Lei arrossì e si strinse al faldone che portava in braccio. «Ti prego non dirmi che veramente stai…» sussurrò agghiacciata mentre l’uomo le prendeva platealmente la mano.

«Lilian Rea Yaeger» declamò Jabura guardandola negli occhi «Mi vuoi sposare?»

«Ma sei scemo…?» balbettò la ragazza.

“Salvami” le fece Jabura con il labiale.

«No!» rispose Lili «Hai saltato cena, cinema, completini sexy e via dicendo!»

Ma proprio in quel momento arrivò con impeto il Comandante Fedora. «Che ci fate tutti qui?» disse «Sembra quasi il finale di una storia corale!»

«Chapapa, Jabura e Quero Vas si stanno accordando sulle lezioni pomeridiane di ballo!»

«IO NON CI BALLO, CON QUELLO!» esplose l’allievo.

«Poche storie» lo rimbrottò Lucci, cercando di riportare il proprio sottoposto all’ordine «L’infiltrazione lo richiede, e quindi si fa» disse perentorio. Che diamine, d’accordo che si trattava di quello scemo di lupo, ma era pur sempre uno dei migliori agenti governativi in circolazione, non poteva fare i capricci!

«Quero Vas è bravissimo e molto professionale, quando si tratta di danza, non ti devi preoccupare» cercò di invogliarlo Avicina, una delle agenti del reparto di Stussy che conosceva bene il suo collega.

Jabura gridò: «Se è così bravo, perché non ci va lui, in missione al posto mio?!»

«Sarebbe da pensarci» suggerì Kaku a Lucci. Era molto più comodo usare un’agente che sapesse già ballare, piuttosto che istruirne uno da zero. Lucci annuì: non era una cattiva idea.

Ma intanto, al centro dell’atrio, si stava svolgendo il dramma.

«Non cercare di sottrarti… ti insegnerò a muovere il bacino, Jabura.» gongolò Quero Vas. «E comunque, lezioni o no… viviamo sotto la stesso tetto. Prima o poi abbasserai la guardia, e io sarò dietro di te.»

E in quel momento Jabura si fermò. Si guardò attorno e capì di essere arrivato al capolinea. Aveva terminato le risorse ed esaurito le idee. Gli si prospettavano dei mesi di fughe e agguati lì, a casa sua. Niente più relax tra una missione e l’altra. Niente più bevute in libertà nella sua casa-giardino. Niente più pause pacifiche da Gigi L’Unto.

Strinse i pugni contemplando l’ultima disastrosa spiaggia, una distesa di sabbia di un metro quadrato circondata da vulcani in eruzione.

«E va bene!» gridò «HAI VINTO, QUERO VAS!»

Tutti gli occhi erano puntati su di lui.

La pendola suonò mezzogiorno.

«SONO GAY!»

Silenzio.

«Lo sapevo» sussurrò eccitato l’agente segreto dalle fantasiose camicie.

«MI PIACCIONO GLI UOMINI!» rincarò la dose Jabura.

Poi sparì, con il Soru più rapido mai visto.

E un attimo dopo aveva preso Rob Lucci per il bavero e lo stava baciando in piena bocca, ad occhi chiusi, con il bacino pericolosamente a contatto con quello del leader del suo reparto.

Un bacio intenso, appassionato, che lasciò senza parole chiunque in quella stanza.

In primis Rob Lucci, che rimase per la prima volta in vita sua paralizzato.

Jabura si staccò dalle labbra del rivale e lo guardò per un attimo languido, poi si voltò verso Quero Vas, allontanò Lucci con un gesto secco e rivelò: «Sono gay. Ma non potevo dirlo a nessuno, perché non potevo tradire il mio compagno, il quale ci teneva molto al segreto e adesso probabilmente vorrà ammazzarmi»

Hattori svenne, ma Califa lo prese al volo.

«Stiamo insieme da due anni, e io non posso uscire con te perché… sto con lui»

Spandam si dileguò: era bravissimo a fiutare il pericolo.

«Io sono mortificato, non credevo che…» sussurrò velocissimamente Quero Vas.

«È stato difficile per me arrivare a questa decisione» ammise Jabura, pulendosi il muso « Facciamo sempre come cane e gatto per salvare le apparenze, ma la situazione è diventata insostenibile…» si interruppe: nessuno lo stava guardando, né tantomeno ascoltando, e l’ombra di qualcosa enorme (e folle di ira) lo coprì del tutto.

Quero Vas con un battito di Soru sparì alla vista, imitato da tutti i presenti che corsero al riparo.

Jabura si voltò.

Ah beh, se l’aspettava.

Rob Lucci, in forma ibrida e alto circa quattro metri lo stava puntando, con la coda che frustava l’aria, le orecchie all’indietro e le fauci scoperte, pronte a distruggere quel maledetto deficiente, cane infame, sordido escapista del cazzo.

Jabura ghignò. «Avresti fatto altrettanto, tu»

Andò in forma ibrida, e scappò a tutta velocità sotto la pioggia, nel parco dell’isola, e poi sul ponte che portava a una delle altre isole, con Rob Lucci dietro che voleva semplicemente ucciderlo infliggendogli più dolore possibile.

Corsero all’impazzata sui tetti di Catarina per cinque giorni e cinque notti, poi cominciarono a suonarsele di santa ragione in un vecchio campo di pallacanestro all’aperto dell’Isola dell’Ovest; le scommesse volarono alle stelle, soprattutto quando il combattimento superò i tre giorni di durata.

Stussy consigliò al Comandante Fedora di abbatterli a fucilate, ma per fortuna il consiglio rimase inascoltato. Invece si aprì un fiorente giro di scommesse clandestine, a Catarina, giro da cui nemmeno gli agenti si sottrassero: era troppo divertente.

«Ma non si faranno male?» fece la segretaria, Lili, preoccupata.

Kaku fece spallucce: «Jabura incassa, Lucci attacca. Non credo si faranno nulla di serio. Sono degli esseri sovrumani, cosa credi?» ribadì.

Della sessualità di Jabura non si parlò più per un sacco di tempo, a Catarina: ogni volta che Quero Vas lo incrociava nei corridoi, Jabura gli ghignava, e lui chinava il capo come un penitente. Per non parlare di Rob Lucci: nessuno aveva il coraggio di ricordargli l’accaduto, neanche Fukuro. Anche gli altri sottoposti di Stussy mantennero il riserbo sulla questione, anche per non dare adito ad altri giri di scommesse clandestine su incontri di lotta libera.

A Ruby Island andarono Quero Vas e Califa, e vinsero anche la competizione: lui fu bravissimo, e lei si sentì più tranquilla e non lo accusò di “molestia sessuale”; la missione finì con otto cadaveri, ventitre contusi e la principessa da proteggere in analisi perché quelli che dovevano difenderla erano più violenti dei rapitori, ma questo nella storia del Cipher succedeva spesso.

Quando i due litiganti tornarono dalla terapia intensiva erano un po’ ammaccati, ma di nuovo rissosi e irascibili come al solito, e ai loro colleghi bastava questo.

«Chapapa, quindi è vero che hai una relazione con Lucci?»

«Ma sei scemo? era per scollarmi Quero Vas» ribattè Jabura bevendo birra gelata da un boccale nella locanda di Gigi l’Unto. «Quel gattaccio non lo toccherei nemmeno con un bastoncino»

«Certo che era davvero un bel bacio, però» considerò Lili con aria sognante.

«La tua occasione l’hai avuta e l’hai sprecata» ridacchiò Jabura.

«Non mi aspettavo che saresti arrivato a tanto, per uscire da quella situazione» cincischiò Blueno.

«YOOOYOOOI!! TOTALMENTE INASPETTATO, E MAI PENSATO DA NESSUN ESSERE VIVENTE!» intervenne Kumadori.

Jabura fece spallucce e si pulì il muso sporco di birra. Sospirò e disse: «Ero con le spalle al muro. Ho pensato…»

Pausa ad effetto.

«”Non sono gay, ma posso imparare”»

 

 

 

Dietro le quinte...

E la mini-storia è finita! Grazie Jabura, puoi toglierti le mani dal di dietro, non ti molesterà più nessuno! Grazie mille ai lettori, che con le loro recensioni tengono in piedi l'umore dell'autrice ♥ grazie davvero tantissimo!

La mini-storia è finita, la raccolta no: rimanete su questo canale, aggiornerò sicuramente! 

Per quanto riguarda la storia, ho poco da dire. Il nome "Quero Vas" è preso da un comune italiano in provincia di Belluno, Kumadori con "Tacere bisognava, andare avanti" cita La Canzone del Piave del 1918. La battuta finale che dà il nome alla storia è di Homer J. Simpson. 

Spero che vi siano piaciuti tutti i personaggi!! Non ho approfondito molto le sottoposte di Stussy, non erano di rilievo nella trama e non volevo appesantirla inutilmente, volevo solo che i lettori avessero "la percezione" di un altro gruppo un po' simile a quello di Lucci (almeno per numero e ruolo all'interno del CP), salvo ovviamente Quero Vas e la sua amica Yue, in qualche scena.

Come stanno invece i Bambini Cattivi del CP0? Spero di non essermi arrugginita e di riuscire ancora a gestirli! ^^ sono sempre ipercontenta quando scrivo di loro, li adoro, e mi piace sapere se ai lettori sono piaciuti ♥ e se hanno, invece, dei suggerimenti :3 

Jabura è stato il protagonista assoluto della storia, contro il suo volere. La scena finale del bacio è stata partorita da quel martire di MLegasy, sorprendendomi tantissimo perché lui e lo yaoi sono come il diavolo e l'acqua santa. Eppure! 

Grazie ancora a tutti quanti per essere arrivati fino a qui e per supportare con le visite questa storia! E grazie soprattutto ai miei recensori di fiducia ♥ grazie, grazie tantissimo! ♥

Un bacione enorme,

Yellow Canadair

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Capitolo 7
*** Sangue sulla pista (Western!AU) ***


Sangue sulla pista

Alternative Universe: Far West!

 

Rob Lucci smontò da cavallo e guardò critico a terra, chinandosi tra la neve e le rocce.

Si alzò, avanzò di un paio di passi facendo ondeggiare il lungo e pesante cappotto nero che lo proteggeva dal gelo, e tornò verso il suo collega, ancora in sella.

«Sono lontani?» domandò Kaku abbassandosi il bavero della sciarpa che gli copriva la bocca.

«Hanno al massimo due ore di vantaggio.» stimò Lucci issandosi di nuovo sul suo cavallo. «Quello ferito li sta rallentando.»

Persino dall’alto del cavallo i due avevano notato il sangue sulla neve.

Kaku rimase pensoso per qualche istante. «Strano» disse infine.

Spronarono i cavalli e si rimisero in marcia.

Fermi a Durango, in Colorado, erano stati raggiunti da un telegramma del loro superiore, Spandam; interpretarlo era stato difficile, visto che Spandam non era in grado di usare il telegrafo e non si affidava a Califa, la loro bravissima telegrafista, ma Lucci e Kaku avevano afferrato il senso del messaggio: la squadra di agenti mandata a fermare la banda di Bagy il Clown era stata sconfitta, e loro dovevano catturare quei quattro banditi prima che passassero il confine.

Un inseguimento infame nel bel mezzo dell’inverno delle Montagne Rocciose.

«È lavoro.» aveva asserito sbrigativo Rob Lucci sellando il proprio cavallo e stringendo il sottopancia.

«A proposito…» aveva considerato Kaku. «Li hanno davvero uccisi tutti, secondo te? Kumadori, Blueno… persino Jabura?» gli sembrava strano che degli agenti professionali e letali come i loro colleghi fossero stati sconfitti da quattro rubagalline.

“Chapapa, ho sentito che quei banditi sono feroci e mooolto pericolosi” aveva detto Fukuro, un loro collega incrociato nella città da cui erano partiti “Non si farebbero problemi… tanto pena di morte in più, pena di morte in meno, è uguale, per loro!” aveva chiacchierato con noncuranza prima di partire per l’Oregon.

Rob Lucci si era calato il cilindro sugli occhi e si era avvolto nel suo cappotto pesante, ghignando sprezzante. «Se si sono fatti ammazzare, il primo è stato proprio quel coglione di Jabura.»

E ora erano lì, a seguire le tracce di quei balordi che avevano trucidato i loro colleghi. Ormai mancava poco, presto sarebbe stato tutto finito. Senza prigionieri, come al solito.

La pista innevata rendeva difficile il cammino dei cavalli, Kaku e Lucci li facevano avanzare con cautela attraverso il sottobosco e dovevano stare attenti a non fargli rompere le zampe nelle buche nascoste dalla neve, che era scesa fittissima in quei giorni.

«È strano che si stiano trascinando dietro un ferito» chiese Kaku all’improvviso, mentre ricominciava a nevicare.

«Ci ho pensato anche io» annuì Lucci «Non è gente che si porta dietro pesi morti... a meno che il ferito non sia il loro capo, o abbiano un motivo molto valido per non abbandonarlo in una fossa»

La marcia era dura, ma i cavalli erano robusti e i due agenti conoscevano bene la regione; passarono la notte in un bivacco, e il mattino dopo arrivarono a un casolare, eretto tra gli alberi probabilmente dai trappers, i cacciatori di pelli della zona.

Era isolato, lontano da villaggi, nel bel mezzo di un bosco fra le Montagne Rocciose e sembrava abbandonato, ma un filo di fumo usciva dal camino e c’erano quattro cavalli nel paddock: dentro c’era qualcuno.

Kaku e Lucci lasciarono cavalli lontani e si avvicinarono strisciando silenziosamente nella neve gelida, con le armi in pugno e i sensi in allerta.

Si acquattarono su una collinetta che dominava la casa, al riparo da eventuali proiettili di benvenuto.

Nessuna sentinella: avevano controllato facendo un largo giro e non avevano trovato nessuno. All’inizio Kaku aveva coperto le spalle al collega rimanendo dietro di lui per un buon centinaio di metri, ma poi i due avevano realizzato di essere soli.

Kaku prese la mira con il suo Winchester, il fucile di precisione, e lo puntò verso una delle finestre. Era una bella distanza, ma la canna lunga di quel fucile faceva miracoli in mano a un assassino come lui.

«Posso ucciderli senza problemi» sibilò «Ma hanno le tende chiuse. Bisognerà farli uscire.»

Rob Lucci sorrise sadicamente, riponendo nella fondina la sua pistola dalla canna lucida. «Sono già tutti morti.»

Si avvicinarono con circospezione alla casa, stando bene attenti a rimanere sottovento per non mettere in agitazione i cavalli con il loro odore.

Arrivarono in un angolo senza finestre e, agilmente, Lucci si prese Kaku sulle spalle e lo fece salire sul tetto pieno di neve, passandogli poi un potente lacrimogeno.

L’agente, agile e senza paura di scivolare sulle tegole coperte di neve, riuscì ad arrivare al comignolo, attento a non fare rumori che potessero allertare gli inquilini (che gli avrebbero sparato attraverso il tetto, probabilmente). Con un cerino accese il lacrimogeno e lo lasciò cadere nella canna, poi fece un gesto a Lucci, che intanto era tornato dietro la cunetta, mentre lui si appostò in cima al tetto, sopra alla porta d’ingresso, pronto a sparare appena quei sudici sarebbero usciti.

Lucci, con la sua lucida Colt in pugno, si preparava a sparare a bruciapelo alla prima testa che fosse uscita dalle finestre; Kaku teneva sott’occhio la porta.

Passarono alcuni secondi, poi si sentirono delle urla provenienti dall’interno: il lacrimogeno aveva cominciato a fare effetto, riempiendo di fumo irritante la casupola: già qualche filo usciva dalle fessure delle imposte, e le voci erano sempre più agitate e furiose.

Ma erano voci che suonavano stranamente familiari.

Lucci, dalla sua postazione, vide Kaku girarsi verso di lui: non potevano certo parlare, a quella distanza, ma era evidente che anche l’agente più giovane avesse notato qualcosa di strano.

Finalmente, all’improvviso, una finestra s’infranse e un uomo uscì riparandosi la testa dai cocci di vetro.

E meno male che era stato quell’uomo, a uscire: la grande massa di capelli rosa impedì ai cecchini di sparare a bruciapelo: Kumadori!

Lucci fece un gesto convenuto a Kaku, intimandogli di non aprire il fuoco.

E meno male: dalla porta d’ingresso uscirono fuori, tossendo, imprecando e spianando le armi, anche Jabura e Blueno.

Che diavolo ci facevano, vivi, lì?

 

~

 

«Come ti è saltato in mente di usare un lacrimogeno?!» abbaiò Jabura, avvolto nel proprio poncho di lana grossa con il cappuccio che gli copriva i lunghissimi capelli neri. «Bastava bussare!»

«Te l’ho detto, cretino: pensavamo che dentro ci fosse la banda di Bagy.»

«Mentre aspettiamo, vi va…?» Blueno aveva sempre una bottiglia piena nascosta tra le pieghe del pastrano.

I cinque uomini, seduti nella neve, si passarono la bottiglia. La casa dove avrebbero voluto passare la notte era invasa dal fumo, e bisognava aspettare che uscisse dalle finestre spalancate.

«Vi abbiamo trovati seguendo il sangue sulla neve» disse Kaku, passando la bottiglia a Jabura «Siete stati feriti?»

Jabura scosse la testa, ingollando il liquore. «Era la cena, ho ucciso un paio di alci. Ne era rimasta, ma ci avete buttato il fumogeno su. Complimenti.» terminò seccato.

Guardarono il rifugio, che ancora vomitava fumo. Rob Lucci sospirò. Segretamente era sollevato che quelle teste vuote non si fossero fatte uccidere, ma mai e poi mai l’avrebbe dato a intendere, pensò mentre guardava un minuscolo colombino bianco posarsi sul tetto della casa proprio mentre l’ultima nuvoletta di fumo si disperdeva.

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Ciao a tutti, grazie per aver letto anche questa storia! Si tratta di un universo alternativo: il nostri governativi sono diventati degli agenti federali, e si trovano in uno scenario che tutti conosciamo bene... il Far West! 

Era un sacco di tempo (quasi un anno!) che avevo in pentola questa OS, e ancora grazie al Cow-T l'ho risistemata e tirata fuori!

Ho lasciato invariati i nomi di tutti i personaggi... lo so che è difficile trovare un Kaku, un Jabura o un Kumadori nel vecchio West, ma spero che la cosa non sia di troppo disturbo ^^' 

Di solito non scrivo Alternative Universe, ma il CP0 fa miracoli... e questo non sarà l'unico Universo Alternativo di questa raccolta! 

Grazie ancora tantissimo per aver letto e grazie ai recensori ♥♥♥ siete veramente dolcissimi e a voi va tutta la mia gratitudine! 

A presto,

Yellow Canadair

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Capitolo 8
*** Non ho bevuto abbastanza per questa... ***


Non ho bevuto abbastanza per questa…

 

«Non ho bevuto abbastanza per questa stronzata» disse Kaku alzandosi dal tavolo. «E non mi interessa» Barcollò leggermente, poi riuscì a infilare la porta della cucina di casa di Rob Lucci, e in breve fu a dormire nel suo letto, ancora vestito.

Rimasti soli, Jabura e Lucci si guardarono in faccia.

«Non ci pensare neanche» sibilò Lucci, senza muoversi dalla sedia.

«Ti tiri indietro anche tu?» ghignò Jabura, cominciando a togliersi la giacca.

Erano due forti bevitori, alla fine di una serata in cui le bottiglie vuote stavano a terra come i morti sul campo durante le loro missioni. Birra? Vino? Non erano stati neppure contemplati: Jabura e Lucci bevevano cose che avevano più in comune con la benzina agricola, che con i normali alcolici; l’unica differenza era che il primo era più plateale, e trincava senza alcun riguardo, mentre il secondo sorseggiava in maniera più elegante e discreta.

Ma sempre bevitori di acquaragia rimanevano.

E per quanto fossero armi umane, per quanto fossero due uomini massicci, per quanto avessero le basi della Reazione Vitale per smaltire in fretta ciò che inghiottivano, erano pur sempre delle persone fatte di ossa e carne, e dopo la quinta bottiglia i sensi cominciavano a vacillare.

E sul pavimento della cucina dell’appartamento di Lucci, in quel momento, c’erano ben più di cinque bottiglie.

Jabura si tolse la giacca e rimase a torso nudo, con quella cravatta appesa al collo che prima o poi sarebbe stata usata da qualcuno per strangolarlo.

Rob Lucci lo squadrò da capo a piedi, critico e superbo, mentre il rivale si sfilava la cintura dai passanti del pantalone.

Era miracolosamente con un pantalone vero, e non con una di quelle sue solite tute, perché erano appena tornati da una missione che richiedeva un minimo di formalità: scortare i Nobili Mondiali era una delle seccature da pagare per essere saliti di rango, da CP9 a CP0.

«Non puoi essere così stupido» biascicò Lucci.

«Ti stai arrendendo» lo stuzzicò il Lupo.

 

Hattori non voleva nemmeno guardare. Si era accovacciato nel suo nido, un cestino di vimini con un vecchio maglione di Lucci, appoggiato sul piccolo frigorifero, e voleva solo dormire, visto che anche lui quella sera ci aveva dato dentro di brutto, con gli alcolici.

Era abituato alle scaramucce di quei due, bestie competitive della stessa risma, e per quanto la colpa fosse sempre di Jabura, che cominciava a stuzzicare con quella maledetta lingua tagliente, non poteva negare che Lucci ci cascasse sempre, e continuasse il litigio.

Ma quella era la gara più stupida del mondo. Fatta da due ubriachi, per di più. Il colombino si sforzò di tenere gli occhi aperti, se non altro per aiutare il suo amico in caso ce ne fosse stato bisogno.

Una gara a chi aveva i pettorali più forti. Roba che, in confronto, i campionati dell’oratorio a chi sputa più lontano erano competizioni di alta classe.

I due contendenti, a torso nudo nella cucina vuota, alla tre del mattino, si sfilarono dai pantaloni le rispettive cinture, se le legarono attorno ai pettorali, e… Hattori provava imbarazzo per loro.

E facevano a gara a chi la rompeva per primo gonfiando i muscoli.

Era una cosa così tamarra, così inutile, così demenziale e così rozza che il colombino provava vergogna per Lucci. Per Jabura no, era una cosa totalmente nelle corde di quel cavernicolo, che non era in grado neppure di allacciarsi una camicia. Ma Lucci non avrebbe dovuto cedere a certe provocazioni.

Hattori sperò che le due cinture, sotto la morsa di ferro di quei pettorali muscolosi, si spezzassero nello stesso identico istante: era l’unico modo per non far finire quella contesa in rissa.

Jabura era più grosso, Lucci più resistente.

L’avrebbe spuntata quello con la cintura di qualità migliore, sicuro. E chi era? Teoricamente, pensò Hattori, Lucci, con un gusto raffinato per i dettagli, però non aveva idea della qualità della cintura del rivale.

I due uomini si fissavano negli occhi, accesi dalla competizione e dall’alcol.

Poi Hattori, con il suo udito sottile, percepì un minuscolo cedimento.

E poi STRAP!

Una cintura si ruppe, uno dei due uomini rise con superbia.

Hattori chiuse le comunicazioni e volò via dalla cucina: ancora trenta secondi, e sarebbero volate le sedie.

E lui voleva dormire, non poteva perdere tempo con quei due animali che facevano a gara, nel cuore della notte, a chi avesse i pettorali più muscolosi!!

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Piccola, stupida, e decisamente imbarazzante! Grazie lettori per aver letto nonostante l'altissimo tasso alcolico e di stupidità dimostrato da questi due maschi alfa... Hattori, sei tutti noi!

La One Shot nasce -ancora- da quella miniera di ispirazione che è stato il Cow-T 2018... e il prompt era PETTORALI MUSCOLOSI! Non poteva che uscire qualcosa di tamarrissimo.

Yellow Canadair

 

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Capitolo 9
*** Per una volta, invece dell'assassino, fammi fare l'eroe (parte I) ***


Per una volta, invece dell’assassino, fammi fare l’eroe

parte prima

 

Lili in quei mesi era stanca e inquieta.

A fatica scendeva dal suo letto bianco, al mattino, e controvoglia infilava i vestiti, anche se di solito per lei andare a lavoro era motivo di felicità e scusa per sfoggiare abiti nuovi. Guardinga scendeva le scale di casa sua, attraversava l’androne deserto, e poi correva in scarpette di tela per la città, con i tacchi in mano, fino ad arrivare al piccolo edificio della filovia che portava all’isola centrale dell’arcipelago, sospirando di sollievo quando, in lontananza, vedeva finalmente l’omino che si occupava del gabbiotto rosso che andava su e giù tra le due isole.

Scappava per disperazione dall’Isola dell’Est e arrivava alla Torre di Catarina come un profugo che tocca finalmente una spiaggia. Ma alla Torre, invece di stare tranquilla, si dimenava ansiosa alla scrivania, e a volte era così distratta che lasciava appeso persino il cartellino del negozio ai vestiti nuovi. Se era fortunata, intervenivano Fukuro o Jabura a tagliarglielo, se invece era sfortunata era Lucci a farle notare che una distrazione così plateale, a loro Governativi, non era permessa. Se la giornata cominciava male dal principio, invece, era Spandam a notare il cartellino, a prenderla in giro e a fare la paternale su quanto fosse costato quel capo e quanto dovesse essere grata a lui se poteva permetterselo.

Erano giorni e giorni che le cose andavano peggiorando: non vedeva l’ora di uscire di casa, ma poi voleva solo che le ore di lavoro passassero in fretta per andarsi a rimettere a letto, tirarsi le coperte sopra la testa, e dormire fino al mattino; ma questo non succedeva mai: poggiava la testa sul cuscino, ascoltava i rumori della casa silenziosa, si alzava, prendeva le pistole dal loro nascondiglio, andava avanti e indietro per l’appartamento vuoto in una ronda che durava tutta la notte.

Era nervosa e triste, arrabbiata col mondo intero, anche se continuava a caracollare sui tacchi, a passare telefonate, ad organizzare l’agenda del reparto del CP, a prenotare le visite mediche di routine e le terme sull’Isola dell’Inverno per gli agenti, e a volte lasciava semplicemente che gli impegni la sommergessero, e non la facessero pensare.

Anelava un letto che non le dava riposo, scappava a lavoro ma non trovava pace, e nelle sue giornate libere vagava per le città delle isole, di vicolo in vicolo, cambiando rapidamente percorso, camminando a ritroso, e poi tornando la solita segretaria gentile quando entrava nella Torre di Catarina.

Proprio in quel periodo, doveva capitare un momento di ferma alla base! Avrebbe voluto decollare con il suo amato Canadair, sentire quella sensazione di staccarsi dal suolo mentre la spinta dei motori l’affossava nel sedile, e non pensarci più.

Era rabbiosa, avrebbe voluto avere la licenza di uccidere che avevano gli agenti per fare una strage di civili, distruggere le case, prosciugare il mare, cuocere i cadaveri su una griglia e infine dare fuoco a tutto, di nuovo. E poi mettere tutta la poltiglia bruciata in un frullatore, e il frullatore acceso in un altro frullatore, e poi i due frullatori in un frullatore più grande, finché…

« Ehi »

Una mano le si era posata sulla spalla e la stava scuotendo.

A lei sembrava di essere con la testa dentro al frullatore nel frullatore…

« Lili »

La ragazza aprì gli occhi di scatto e si alzò a sedere; si guardò attorno: la stanza era quasi buia, filtrava dalla finestra la luce dei lampioni del parco, il sole era tramontato da un pezzo, e lì con lei c’era Jabura.

« Merda… » biascicò la ragazza, con la lingua impastata « mi sono addormentata »

Jabura ghignò « Me ne sono accorto! » disse.

« Che ore sono? È tardissimo » pigolò la ragazza, alzandosi dalla scrivania e barcollando verso la porta. Era infreddolita, si strinse nell’impermeabile chiaro e cercò di accomodarsi con le mani l’abitino nero tutto stropicciato.

« Mezzanotte passata da un pezzo. » le rispose il Lupo offrendole una mano per appoggiarsi, visto che era sbilenca sui tacchi.

Jabura non fece fatica a ricostruire cosa dovesse esserle successo: doveva esser pronta per andare via, aveva il suo impermeabile addosso e la scrivania era in ordine, poi però doveva essersi risieduta a controllare quel faldone che c’era sul tavolo, forse aveva paura di aver trascritto male qualcosa, forse voleva accertarsi di qualche documento, ed era crollata addormentata lì.

Lui tornava a quell’ora dal suo giro serale per i locali dell’Isola del Sud, quella dal clima autunnale: un posticino fresco e profumato dove, ogni sera, nei locali, si davano appuntamento i suonatori di jazz, e tutta la cittadina diventava quasi elettrica per il ritmo e per i tacchi delle donne sul selciato, impegnate a ballare fino a quell’ora tarda.

Poi, passata mezzanotte, nell’Isola del Sud tutto si spegneva, i clarini e i sassofoni venivano riposti nelle loro custodie e le signore scendevano dai tacchi: la notte era fredda persino per gli amanti del caldo jazz, e poi il giorno dopo bisognava lavorare; avrebbero riaperto le danze la sera successiva, come al solito.

A Jabura piaceva un sacco l’Isola del Sud: trovava sempre ottimi alcolici, e gli piaceva l’anima festosa del posto, e poi c’erano sempre belle ragazze da far ballare. Lui non era molto bravo, però doveva ammettere che, preso il ritmo, non era così complicato improvvisare, e poi era il modo migliore per conoscere le signorine.

Anche quella sera il jazz era andato a nanna, e Jabura stava giusto tornando al suo appartamento, al quarto piano della Torre di Catarina, quando aveva notato una luce accesa al pianterreno. Andato a vedere, aveva trovato la luce della scrivania di Lilian accesa, e la ragazza profondamente addormentata con la testa sul tavolo.

« Devo tornare a casa! » spasimò la ragazza ricomponendosi. « È tardissimo! Grazie per avermi svegliata! » ed era già pronta a rimettersi in moto e correre verso la filovia che portava alla sua isola, sperando di fare in tempo per l’ultima corsa.

« Fermati un attimo, tu » Jabura la prese per le spalle e la costrinse a guardarlo in faccia. « Si può sapere che ti prende, da qualche giorno? »

« In che senso? »

« Non fare la commedia con me! » Jabura la lasciò andare e le bloccò la strada mettendosi davanti a lei, che già stava attraversando il patio e veleggiava verso il portone d’ingresso. « Sono tre giorni che vai in giro a fare guai: mi sono trovato sulla scrivania un rapporto destinato a Kumadori, e lui si è trovato in agenda un appuntamento dall’estetista di Califa. E hai fissato la prenotazione alle terme per noi agenti nel giorno di chiusura. »

Lili spalancò gli occhi e divenne bianca come un lenzuolo.

« Sono… non può essere »

« E ringrazia che ce ne siamo accorti io e Kumadori, e non Lucci » le fece notare il Lupo « Abbiamo messo a posto le cose e non abbiamo detto niente a nessuno… »

« Sono mortificata » mormorò la ragazza, spaventata all’idea di commettere errori simili con Rob Lucci.

« E sono tre giorni che non parli con nessuno, non giochi con Kumadori e non litighi con Spandam! Ah, e stavi per portare a Lucci un caffè macchiato, ti ricordi? Ti ha fermata Kaku! C’ero anche io! » elencò sulle dita.

Una svista banale: Lucci prendeva sempre il caffè espresso e senza zucchero, tanto che negli ultimi mesi l’uomo non lo specificava nemmeno più: bastava che ordinasse un caffè, e Lili glielo portava già esattamente come voleva.

L’assistente sospirò, abbassò lo sguardo.

Sperava di essere riuscita a dissimulare bene, ma andiamo, quello era un agente segreto!

« Sono un po’ giù in questi giorni » ammise evasiva, sperando di convincerlo. « Sono solo stanca, ma è tutto ok, davvero. » sorriso falso, di quelli che faceva quando prendeva in giro Spandam « Adesso vado a casa e mi riposo un po’. »

« Sei sicura? » Jabura la squadrò critico da capo a piedi: non era la solita Lili; c’era qualcosa che non andava.

« Sì, sono sicura… grazie per… » mormorò congedandosi « Beh, per l’interessamento » Anche se aveva fatto di tutto per non darlo a vedere, era davvero felice che qualcuno invece avesse notato che non stava bene. Ma non voleva dare preoccupazioni a nessuno, raccolse la grande borsa e si chiuse i bottoni del soprabito.

Che le stava succedendo? L’uomo la guardò mentre lei apriva il pesante battente del portone della Torre, spingendolo con tutte le sue forze; era spaventata, aveva paura, e lo stress l’aveva resa più debole.

Varcarono insieme l’ingresso monumentale della Torre, rimanendo in cima ai tre gradoni di pietra grigia. L’aria della sera li investì, facendo ondeggiare la lunga treccia dell’uomo e i suoi baffi, mentre fece aderire il lungo impermeabile alle gambe della ragazza.

Lilian osservava guardinga i dintorni della Torre, soffermandosi sul viottolo del parco che avrebbe dovuto percorrere, sulle ombre tra i cespugli, sulle panchine di legno. Aveva l’aria sconvolta che, di solito, Jabura vedeva nelle sue prede, negli occhi delle persone che terrorizzava a morte e che poi uccideva senza pietà.

Non aveva bisogno dell’Ambizione per sentirle il cuore martellarle più forte ogni volta che una folata scuoteva le fronde.

« Ti accompagno a casa » decise senza chiederle un parere.

Lili sollevò il volto e si affrettò a rispondere con un: « No, no, non ti preoccupare! Sto benissimo, e poi non abito così lontano! Dai, ci vediamo domani! » lo salutò.

« Come vuoi » Jabura fece spallucce e bevve un sorso dalla sua fiasca.

Lili si mise in marcia in fretta, sperando di trovare la filovia ancora aperta, altrimenti avrebbe dovuto lumacofonare a qualcuno sull’Isola dell’Est e farsi venire a prendere in barca… già, ma per lumacofonare sarebbe dovuta tornare alla Torre e…

Un rumore la fece sobbalzare; si voltò di scatto e spianò la pistola che aveva nella tasca dell’impermeabile.

« Siamo nervosi » ghignò Jabura alzando le mani al cielo.

Lili sospirò di sollievo e abbassò l’arma. « Che ci fai qui? »

« Ho finito l’alcol, ne voglio altro. Sulla tua isola non vendono quel liquore, la cassaca, casciasa, o come diavolo si chiama…? » rispose brusco l’uomo.

« La cachaça…? » lo corresse la ragazza, incredula. « Ma… avevi la fiaschetta mezza piena, due minuti fa! »

Jabura grugnì contrariato, tirò il collo alla fiasca e versò sul ghiaino il liquore, che con un rumore di cascatella si sparse sui sassolini bianchi, rilucendo alla luce dei lampioni.

« Adesso è finito » disse l’uomo rimettendo il tappo di sughero alla fiasca « Andiamo »

E tutti e due, Lilian riluttante, Jabura con malcelata soddisfazione, andarono verso la filovia che portava sull’Isola dell’Est.

Chiusa.

« Merda » pigolò la ragazza guardando il gabbiotto del custode vuoto, l’impianto spento, e la cabina ben fissata nel suo box « Hanno già chiuso tutto! »

Jabura non era per niente preoccupato. « Ti porto con il Soru. Facciamo in un attimo. » le promise.

« Davvero, non è necessario, non vorrei- »

Jabura non le diede il tempo di protestare, la sollevò fra le sue braccia e la guardò arrossire all’improvviso. « Per una volta, invece dell’assassino, fammi fare l’eroe »

Lilian sorrise imbarazzata, gli occhi le scintillarono. « Ho proprio bisogno, di un eroe » confessò faticosamente, con un sussurro. Cinse le spalle al gentile accompagnatore e si mise la borsa a tracolla, che non cadesse durante il salto.

Jabura ghignò trionfante « Reggiti forte » tuonò.

E spiccò un salto nella notte buia.

Godette nel sentire la ragazza, dapprima esitante, stringergli le spalle per la paura di cadere. Era ancora più leggera di quanto si aspettasse, e inaspettatamente lei si imbarazzò quando si rese conto di aver posato una mano sul suo petto, lasciato come al solito scoperto dalla giacca aperta.

Saltarono sul tetto del gabbiotto della filovia, e da lì l’agente fece un lungo, interminabile balzo sul mare nero, durante il quale a entrambi parve di trattenere il fiato, mentre le luci dorate dell’Isola dell’Est si facevano sempre più vivide e vicine, e cominciava a sentirsi l’odore dei fiori.

 

~

 

« Ecco, la signorina è servita! » scherzò Jabura sulla porta della palazzina di Lili, rimettendola a terra.

« Non dovevi… » rise emozionata la ragazza « Però grazie, davvero… mi hai salvata! »

« Non potevo certo lasciare la nostra pilota a dormire nel parco, con tutti i brutti ceffi che ci sono in giro! »

« …perché? Hai notato qualcuno attorno alla Torre? » sussurrò in fretta Lilian, cercando le chiavi nella borsa. Barcollò leggermente, il Lupo fu pronto a reggerla.

All’improvviso si sentirono dei passi sul marciapiede: nulla di strano, per Jabura: erano in una cittadina dalla vita notturna piuttosto vivace, ma fu abbastanza per far tornare Lili sull’immediato chi vive, e questo il Governativo lo capì subito.

La ragazza guardò in alto, verso il secondo o terzo piano della casa d’angolo della via. Le tremarono le mani, le chiavi tintinnarono di più. L’allegria dell’abbraccio, del volo stretti l’uno all’altra, sparì, e tornò la segretaria triste di quegli ultimi giorni.

« Vuoi che ti accompagni fin sopra? » propose l’uomo, serio.

« Sì. » lei non fece storie stavolta, neanche di circostanza « Sì, ti prego. »

 

~

 

La porta di casa venne chiusa in fretta, le stanze vennero ispezionate appena messo piede in casa, le tende rimasero chiuse e le imposte aperte quanto bastava per far entrare un filo d’aria nella sera calda dell’isola.

Infine i due si sedettero al vecchio tavolo di legno azzurro della cucina, sulle sedie dalla vernice scrostata color del cielo.

« Chi ti sta braccando? » Jabura era un professionista, non gli ci era voluto molto per arrivare alla conclusione più logica.

Lili si afflosciò sulla sedia della piccola cucina e chinò la testa sul tavolo. Rimase immobile, salvo per i piedi che si tolsero le scarpe alte e le mandarono a ruzzolare da un lato.

Non sapeva da dove cominciare.

Si sciolse lo chignon, che le tormentava la testa, e un nugolo di capelli neri le si sparsero sulle spalle disseminando forcine sul pavimento, che caddero con un impercettibile tintinnio.

Sospirò. « Forse avrei dovuto parlartene prima… » mormorò. « Ma pensavo di riuscire a gestire la situazione… però… »

« Che cazzo hai combinato? » chiese Jabura appoggiandosi al tavolo e protendendosi verso di lei.

« Un uomo mi perseguita. »

« Chi diavolo è?! » domandò calmissimo. Un lieve istinto territoriale gli tirò una gomitata nello stomaco, reclamando attenzioni.

« L’ho conosciuto tre mesi fa » confessò la ragazza stringendosi fra le proprie braccia. « Ero sola al Roxanne, il bar che c’è qui, alla fine della discesa… e questo tizio mi si è avvicinato. Ha cercato di attaccare bottone con me, e… »

Jabura già aveva voglia di strangolare lui e i suoi parenti fino alla sesta generazione, ma non diede spazio ai propri progetti in materia. « Come si chiama? » domandò invece.

La ragazza, abbassando la voce, rivelò il suo nome e poi continuò a raccontare: « All’inizio l’ho lasciato fare. Non sembrava minaccioso, sembrava solo… uno che voleva scambiare due chiacchiere. Non mi aveva fatto nulla di male, e andarmene mi pareva scortese, e non avevo voglia di uscire prima dal bar » disse « Non siamo andati da nessuna parte, sono rimasta al bancone… figurati se vado col primo che capita! » sottolineò.

Jabura non aveva dubbi: Lili non era la tipa da esporsi inutilmente al pericolo, ed era ben cosciente che una donna sola, per certi avanzi di galera, fosse un bottino molto prezioso.

« Siamo rimasti a chiacchierare per un po’, poi mi ha offerto da bere, e ha cominciato a farmi domande un po’ invadenti… cioè, erano innocenti, però mi sembravano troppo personali. Dove lavorassi, con chi vivessi, se avessi il ragazzo… a quel punto ho fiutato qualcosa di strano e ho declinato l’offerta del drink. Siamo rimasti a parlare per qualche altro minuto, poi me ne sono andata. Non mi fidavo, avevo una brutta sensazione. Sono tornata qui a casa »

Ecco il primo errore, pensò Jabura: correre direttamente a casa, senza fare qualche giro che facesse perdere le proprie tracce. Il Roxanne per di più era vicinissimo alla palazzina della ragazza.

E infatti Lilian continuò: « Ma lui… deve avermi pedinata, perché ha scoperto dove abito… all’inizio pensavo che fosse un caso continuare a trovarmelo sotto casa, lui faceva finta di passeggiare… ma poi ho capito che si stava appostando, ha cominciato a seguirmi quando uscivo… e allora ho deciso che la storia doveva finire, e l’ho affrontato. » affermò sollevando la testa e fissando con fierezza il suo interlocutore.

« Ho approfittato di un sabato mattina, mentre ero in giro qui per l’isola, e guardavo i negozi. Mi sono accorta di essere seguita, lo vedevo nei riflessi delle vetrine, però rimanevo tranquilla: volevo vedere fino a che punto avesse intenzione di pedinarmi. »

Il riflesso degli inseguitori nel vetro dei negozi! Un trucchetto da vecchia scuola, considerò il Lupo.

« Solo che dopo un’ora di questo gioco mi sono scocciata » sospirò Lilian « e siccome era pieno giorno, e c’era tanta gente, sono andata direttamente da lui a chiedergli cosa diavolo volesse »

« E lui? »

« Ha negato, ovviamente. Ha detto che ero pazza, che era lì per caso, che mi inventavo le cose. Le persone intanto si sono fermate a guardare, e la cosa lo mandava in bestia »

« A te invece non ha fatto né caldo né freddo »

« No, anzi, ero ben felice che la gente si fermasse a vedere la sceneggiata: meno rischio che quel pazzo mi trascinasse via, capisci… »

Lili sospirò e interruppe per qualche secondo il racconto per tendere le orecchie.

« Gli ho ordinato di non farsi vedere mai più e di lasciarmi in pace. L’ho minacciato apertamente e lui ha cominciato a frignare qualcosa sui suoi diritti, e a quel punto gli ho sparato un colpo d’avvertimento ai piedi. »

Ma che bella scena da Far West, pensò Jabura. Non si stupiva della reazione della ragazza: era molto tranquilla e aveva una pazienza enorme, ma quando si esauriva lei metteva mano alle armi, sempre. E aveva una mira eccezionale.

« E non l’ho più visto per giorni e giorni, ho cominciato a rilassarmi. Poi però sono cominciate queste… »

La ragazza si alzò e andò a prendere una scatola che stava sul frigo. Si allungò sulle punte per raggiungerla, alla fine la agguantò e la portò sulla tavola. Non ne toccò il contenuto, la passò direttamente all’uomo.

Jabura vide che conteneva lettere, senza mittente e senza destinatario.

« Le trovo sullo zerbino, almeno due o tre a settimana. A volte infilate sotto la porta » spiegò la ragazza « La prima che ho ricevuto è in basso, l’ultima è in cima alla pila »

Il Governativo aprì la prima lettera che gli capitò sotto mano, cioè l’ultima ricevuta dalla ragazza. La tirò fuori dalla busta e cominciò a leggere, diventando sempre più rosso d’imbarazzo e sempre più furibondo a mano a mano che procedeva.

« DOVE CAZZO ABITA QUESTO STRONZO!? » gridò saltando in piedi.

« NON LO SO! » gridò disperata la ragazza « DA QUANDO L’HO MINACCIATO NON SI FA PIÙ VEDERE! HA FATTO ANCHE DELLE FOTO QUI! »

Le dita di Lili andarono a ripescare, nel fondo della scatola, alcune fotografie: lei che si cambiava, nella camera da letto, che cucinava in mutande e canotta, che dormiva. E poi alcune in strada, mentre andava a lavoro o aspettava il turno alla filovia. Una addirittura era nel camerino di un negozio.

Jabura arrossì guardando quelle foto così intime, ma poi si sentì morire quando si accorse che Lili stava piangendo.

« Sono state prese da uno dei palazzi di fronte » disse tra le lacrime « Da quel palazzo, capisci? » pianse indicando un punto fuori dalla finestra della cucina. « A volte, di notte, sento qualcuno che cerca di forzare la finestra… e non riesco più a mangiare, non riesco più a dormire… » si sfogò. « Una volta, quando tornavo la sera, l’ho trovato nell’androne del palazzo, qui giù… per fortuna in quel momento stava salendo anche il figlio della mia padrona di casa, quello che gioca a rugby, te lo ricordi? »

No, Jabura non se lo ricordava, ricordava solo la padrona, la brava Estela Monica De Sosa, dalla pelle nera e dagli occhi truccatissimi a tutte le ore del giorno, che odorava sempre di cucina.

Lilian continuò: « …l’ha mandato via e per fortuna non è successo niente… » poi abbassò la voce finché non diventò un sussurro: « Da quando è cominciata questa storia mi è saltato il ciclo, e mi è tornato con gli interessi due giorni fa… anche per questo sono così stanca, a lavoro… scusami, questo non volevo dirlo, però… » si alzò in piedi per prendere un fazzoletto dalla borsa che giaceva abbandonata per terra.

Si ritrovò a piangere disperata, stretta al petto dell’uomo.

Jabura la tenne stretta a sé per un po’, mentre tendeva i sensi da lupo per controllare che nessuno si stesse avvicinando alla casa. Maledizione, doveva arrivare fino al punto di scoppiare, per dirgli che c’era un problema?!

Piano piano si calmò. « Grazie… » mormorò finalmente Lili, sorridendo e allontanandosi imbarazzata dall’abbraccio del Lupo.

Jabura le accarezzò la testa.

Dovere, tesoro, ghignò tra sé e sé.

« Adesso fuori di qui. » disse spiccio indicando la porta d’ingresso.

« In che senso?! »

« Non ti faccio dormire qui stanotte, vieni da me. » esplicitò il Governativo.

« Ma sei scemo? » cercò di ricomporsi la ragazza asciugandosi le lacrime con un tovagliolo « Dove mi metti a dormire, che vivi in un giardino, tu? »

« Dove dormo io, no? » abbaiò l’uomo. « Senti… »

Prese la ragazza per le spalle. « Forse tu non ti sei resa conto della situazione… hai un pazzo che ti insegue, ti minaccia, ti ha scritto lettere oscene, e che sta cercando di entrare dentro casa tua. Hai veramente rischiato di venire uccisa, riesci a capirlo? E hai rischiato di essere violentata in mezzo a una strada! Andiamocene, muoviti » tagliò corto.

« Devo andare in bagno » sussurrò Lili.

« Va’ in bagno, metti in uno zaino le tue cose, e andiamo via » concesse Jabura.

« Tu non entrare » sottolineò.

« Non entro, però prima controllo che sia tutto a posto. E non chiudere a chiave. »

Attraversarono il corridoio insieme, con la stessa angoscia di due viandanti in un bosco infestato da fantasmi. Lili accese tutte le luci di casa, e arrivata al bagno aprì la porta e lasciò che Jabura controllasse dietro l’accappatoio appeso, nei cassetti, negli stipi, persino dietro i sanitari bianchi; aprì la finestra e si affacciò, chiudendola poi con cura.

Quando lui si ritirò per lasciarle il suo spazio, la ragazza sussurrò, prima di chiudere la porta: « Grazie di tutto… mi dispiace disturbare così tanto » singhiozzò cercando di asciugarsi le lacrime con le dita per non far sbavare il trucco, anche se era del tutto inutile perché aveva pianto così tanto da essere ormai quasi struccata « Non volevo dare tutti questi pro-

« Ehi. » la interruppe il Lupo ghignando, appoggiato alla parete con un braccio e divertendosi a notare quanto fosse più grosso rispetto alla ragazza, con quella solita aria da bastardo che non si sforzava nemmeno di nascondere « Se ti lasciassi a quel maniaco, come faremmo a gestire Spandam? Muoviti, cinque minuti e usciamo »

« Quindici! » contrattò la ragazza.

« Dieci, non un attimo in più »

 

~

 

La Stanza del Lupo aveva le finestre più grandi di tutta la torre. Era difficile capire come fosse possibile: dall’esterno, la costruzione era simmetrica e tutte le finestre erano della stessa grandezza. Eppure, quando si entrava in casa di Jabura, sembrava di stare all’aperto, c’era luce, c’erano piante, c’erano le galline che ruspavano sull’erba e c’era un bellissimo ruscello che scorreva tra l’erba, sgorgava da due massi e finiva in un buchetto sotterraneo nascosto tra due sassi e delle cannette. E c’era il cartello, “Stanza del Lupo”, ben visibile appena dopo l’uscio.

Non era un ambiente selvaggio, non era un bosco: era un giardino. Il vento zufolava tra i cespugli ben potati, l’erba era tosata, le gallinelle andavano a dormire nel loro pollaio, una casetta di legno in un angolo con una rampetta per entrarvi.

C’erano dei finestroni enormi, lasciati sempre aperti, che facevano entrare tutto il sole dorato dei giorni estivi. Oppure la luce bianca e morbida della luna, quando splendeva piena e illuminava il mare del porto militare, e sembrava che sulla scia bianca lasciata sulle onde ci si potesse camminare, fino a perdersi in un sognante cielo notturno.

Jabura amava bere acquavite steso per terra, sull’erba, ascoltando il ruscello che scorreva tra le piante. Le galline erano abituate e non lo temevano (e facevano male, perché lui quando aveva fame ne afferrava una per il collo, glielo torceva e si faceva un bell’arrosto).

In un angolo protetto, fra gli alberi e le rocce muscose, c’era il letto del padrone di casa: una sorta di tenda di stoffa e bambù, sospesa da terra, attaccata al soffitto da corde di canapa (dal cuore di acciaio), e che dondolava lievemente a circa mezzo metro da terra. Quando Jabura aveva sonno, si rintanava lì dentro, dove si stava molto caldi e dove c'erano mille coperte a far da nido, e non c'era per nessuno. Era come una stanza nella stanza, buia, intima e calda. Vista dall'esterno poteva sembrare piccola, ma ci sarebbero entrate tre persone senza sforzo.

Per cucinare c’era un piccolo fuocherello che ardeva tra pietre bianche e ordinate, su cui era stata messa una griglia per far reggere le pentole sopra la fiamma viva; davanti c’era un tavolino basso e i cuscini tutt’attorno. Sembrava che in quella casa non si potesse star seduti normalmente, come su di una sedia: o sdraiati, o stravaccati, o in piedi.

Appena arrivati a casa, nel cuore della notte, Jabura mise sul fornello del brodo di gallina e del riso; aveva fame, e la sua ospite non toccava cibo probabilmente dall’ora di pranzo, e questo per lui era inconcepibile. Il brodo di gallina era buono e delicato, e l’acquavite l’accompagnava benissimo. Mangiare il riso con le bacchette era stato insolito, per Lili, ma Jabura le insegnò subito la presa migliore, ed ebbe la scusa per sederle accanto invece che di fronte.

Quando finirono di mangiare, andarono a sedersi davanti alla finestra che dava sull’isola dell’inverno, che quella sera non aveva nuvole e si vedevano, da lontano, le lucine delle case, mentre la Luna piena disegnava i contorni degli alberi della grande foresta imbiancata dalla neve.

Una grande coperta avvolse la ragazza, quando l’aria della notte si fece più fredda.

« Grazie per… beh, per tutto » mormorò Lili « Mi sono cacciata in un brutto guaio, vero? »

« Ma no… la soluzione c’è. » ed è l’obitorio, completò mentalmente l’uomo, sedendosi accanto a lei dopo averle dato la coperta. « Sei stata stupida a non dirlo a nessuno » concluse però con severità.

Lili scosse la testa, guardò a terra, sospirò tesa. « Mi vergognavo » disse finalmente.

« Hai posato per un calendario sexy e ti vergognavi di questo?! »

« E poi c’è anche un’altra ragione » disse la ragazza tornando a guardare l’uomo « Non voglio che il boss lo sappia. »

« …Lucci? Che c’entra quel bastardo? »

« Avrei dovuto gestire meglio l’intera situazione, e invece guarda in che guaio mi trovo. Lucci uccide i suoi subordinati che non riescono ad essere all’altezza del reparto, no? L’ho sentita anche io, la storia di Nero… »

Jabura scosse la testa, poco convinto « Nero era un idiota » asserì « Era stato preso come agente operativo senza che nemmeno sapesse fare uno Shigan. Tu sei un’assistente che è stata presa di mira da uno psicopatico. Sono due situazioni completamente diverse »

Lili si abbracciò le ginocchia e rimase pensierosa. Non era convinta.

« Jabura… » mormorò, alzando lo sguardo sull’uomo. « E se viene anche qui? Se succede qualcosa di grave qui alla Torre? »

« Tu devi sperare, che venga qui. » sottolineò Jabura leccandosi le fauci. « Perché se mette davvero piede in questo posto, non ne esce vivo. »

La ragazza sorrise e si strinse di più nella coperta. Cominciava ad avere sonno; Jabura si era preso sulle sue spalle quel macigno di paure che non la lasciavano dormire, e adesso che finalmente poteva riposare tranquilla con il Lupo a proteggerla, la stanchezza le era crollata addosso a tradimento.

« In realtà, per quanto non mi piaccia dirlo » riprese il discorso il Lupo « Penso proprio che dovresti riferirlo, a Lucci. Se quel maniaco decide di attaccarti qui alla Torre, e quello scopre che noi eravamo a conoscenza di questa possibilità e lui no, allora sì che ti ammazza. »

 

~

 

« Questi sono gli ultimi. Puoi andare. » concesse infine Rob Lucci mettendo in braccio alla segretaria due scatoloni contenenti armi sperimentali recuperate nell’ultima missione, che dovevano essere inoltrati ai laboratori di Caro Vegapunk ad Alexandra Bay.

« Boss, posso parlarle un momento? Per favore? » chiese educatamente la ragazza. Lucci sollevò lo sguardo su di lei e la guardò interrogativo, ma senza tradire nessuna particolare aspettativa: freddo e controllato, come al solito, mortalmente elegante nel suo completo bianco da boss del CP0.

Ogni tanto vestiva il nero, come ai bei vecchi tempi del CP9 ma, evidentemente, dopo l’ultima strage per recuperare quelle armi, l’uomo aveva mandato tutto il guardaroba scuro in lavanderia.

Lilian lo lesse come un segno positivo e continuò: « Le vorrei chiedere un parere… ecco… professionale. Ho un problema, e credo riguardi la legge, se lei potesse suggerirmi come muovermi… »

Aveva deciso di mettergliela così, come un consiglio. Come una civile che si stava appellando al più valoroso difensore della Giustizia Oscura.

« I problemi dei singoli civili sono competenza della Marina, non del CP0. Sai benissimo che lavoriamo per i Nobili Mondiali. Puoi andare. » ripetè lentamente Lucci.

« Oh, non glielo chiedo in qualità di boss del reparto. Glielo chiedo in qualità di agente molto esperto che conosce bene il suo campo, e di grande esperienza. »

Che Lucci non sarebbe stato disposto ad aiutarla subito, come Jabura, Lili l’aveva ampiamente messo in conto, e infatti stava attentissima alle parole che usava:  la ragazza sapeva che l’uomo era vanitoso come un gatto, e gli faceva più piacere di quanto avesse voluto ricevere complimenti e apprezzamenti.

« Basta arruffianarmi » disse sprezzante Lucci. « Vai al sodo. » le ordinò.

Ecco, ora era il momento di vuotare il sacco anche con lui.

« C’è una persona che mi pedina. » disse subito, senza girarci intorno. « Mi segue per strada, mi scrive lettere… schifose » disse sdegnata « Mi fa le foto dentro casa e mentre sono fuori, e me le manda. E ho ragione di credere che stia anche tentando di forzare le mie finestre. »

Rob Lucci ascoltava con attenzione, e anche Hattori si era disposto tranquillamente ad seguire il racconto della ragazza: era accovacciato sulla scrivania, fra le mani del suo amico, seduto su una rubrica telefonica dalla copertina di tela blu.

« Idee sull’identità? »

Lilian gli raccontò brevemente di come aveva conosciuto l’uomo al bar.

« Errore molto grossolano, quello di andare subito a casa tua dopo averlo conosciuto » considerò infine con durezza.

« Purtroppo l’ho capito troppo tardi » ammise la ragazza chinando il capo e sudando freddo « Non pensavo che la situazione sarebbe diventata così pericolosa »

« Hai con te le lettere? »

« Le due più recenti, e le foto che c’erano assieme » disse l’assistente prendendo della corrispondenza da una tasca interna della giacca. Le mise sulla scrivania di Lucci e l’uomo sguainò con noncuranza un artiglio per ripescare i fogli dalle buste.

« Sono… sono scritte cose molto volgari, e tengo a precisare che ne sono del tutto estranea. » sottolineò la ragazza.

Lucci non ritenne neanche necessario replicare, e scorreva in rassegna con Hattori le lettere. Lui rimaneva impassibile e freddo, il piccione aggrottava gli occhietti e scuoteva il capino con disapprovazione. Le fotografie allegate per fortuna erano abbastanza sobrie: una scattata al gabbiotto della filovia sull’Isola Centrale, mentre Lili scendeva dalla cabina, e un’altra presa attraverso le finestre della cucina, mentre cucinava in copricostume.

Hattori decollò dalla scrivania, descrisse un ampio cerchio sopra di essa e si posò sulla spalla dell’uomo. Infine, lui fece scivolare le lettere che aveva letto verso la ragazza: riprenditele.

« Sono affari della Marina, non del Governo. » decise infine. « Puoi andare » ripetè per la terza volta.

Lili, intuendo che non l’avrebbe ripetuto di nuovo, chinò la testa. L’aveva messo in conto, Lucci non si sarebbe certo scomodato per lei. Ma era già soddisfatta così: il suo obiettivo era dirglielo, e l’aveva raggiunto. Ed era riuscita anche a non farsi uccidere.

Salutò Lucci con un rispettoso cenno del capo e si affrettò a uscire dalla stanza con gli scatoloni in mano.

« Rimani all’interno della Torre e non uscire senza una scorta » aggiunse a sorpresa l’uomo mentre lei usciva dall’ufficio.

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Alla fine ho preso coraggio e mi sono decisa a pubblicare una storia (divisa in due capitoli) con Lilian protagonista! Spero vi piaccia! È progettata per essere una ragazza forte, per difendersi e per essere piuttosto indipendente, però a volte deve rendersi conto anche lei che, in certe occasioni, è necessario chiedere aiuto. Ovviamente il tema della violenza sulle donne qui è mediato dall'universo di One Piece: credo che poche persone, stalkerate brutalmente, reagiscano minacciando a mano armata l'aggressore; ma qui è One Piece, Lilian lavora in fin dei conti per la Giustizia Oscura, e come personaggio non può essere completamente indifeso. 

Tuttavia la situazione è degenerata, e credo sia fortunata ad avere Jabura vicino, visto il guaio in cui è incappata. Ormai sapete che il loro rapporto è una di quelle cose che adoro scrivere, e farlo in maniera così plateale, come in questo capitolo, mi ha emozionata! Spero vi siano piaciuti, ho cercato di mantenere inalterato il carattere di entrambi, ma anche di adattarlo alla situazione molto delicata.

Per favore, ditemi se è tutto ok con l'IC di Jabura e di Rob Lucci! Sono più abituati a uccidere che a difendere, ma spero li troviate convincenti! Il carattere di Jabura è più aperto e istintivo, si è subito sentito coinvolto nella vicenda (e dalle miniavventure, lo sapete, è emerso anche un insospettabile altruismo -a modo suo-). Lucci ovviamente è stato più controllato, ma non ce lo vedevo a non dire assolutamente NIENTE per un problema che, in fin dei conti, riguarda comunque la Giustizia Oscura. Comunque, come ha ribadito Jabura, l'essenziale era dirgli dell'esistenza di questo galantuomo che importuna le pilote indifese.

Il molestatore di Lili per ora è rimasto nell'ombra, ma ovviamente "dirà la sua" nel prossimo capitolo, così come anche i restanti membri del CP0... ve lo immaginate, Kumadori che sta zitto? Io no.

Grazie per aver letto ♥ se ci sono refusi o errori non esitate a farmeli notare in recensione! Un grande bacione,

Yellow Canadair

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Capitolo 10
*** Per una volta, invece dell'assassino, fammi fare l'eroe (parte II) ***


Per una volta, invece dell’assassino, fammi fare l’eroe

Parte seconda

 

«I Rivoluzionari si stanno preparando» disse Stussy secca, senza giri di parole. «Mancano quattro giorni al Reverie, ma siamo sicuri che abbiano qualcosa in mente. Devi venire qui a Marijoa.»

La donna era nel suo elegantissimo ufficio dall’altra parte del mondo rispetto all’Arcipelago di Catarina: sulla Linea Rossa, negli appartamenti riservati alle scorte del Cipher Pol dei Draghi Celesti; seduta composta e perfettamente truccata nonostante si fosse appena svegliata, era avvolta in una sontuosa vestaglia di seta e chiffon, e cercava di non far capire al suo interlocutore che stava mangiucchiando dei biscottini. Ma era una professionista, fingere era il suo mestiere, e sapeva che il suo tono di voce non avrebbe lasciato trapelare neanche una briciola.

«Quanti attentati ci sono stati?» chiese la voce profonda e seria di Rob Lucci, all’altro capo del filo.

«Cinque. Oh grazie, caro» rispose Stussy, a Lucci prima e a Quero Vas poi, che le aveva appena recapitato sulla scrivania un rapporto proveniente da Lulusia, un regno tranquillo molto lontano da lì.

«Di niente!» rispose educato Quero Vas, mettendole anche un bel caffè caldo sulla scrivania; a prima vista sembrava un tranquillo dandy, curato e dal faccino pulito, e invece era un assassino spietato e senza pietà, come tutti lì dentro.

Il ragazzo andò via ancheggiando lievemente, e chiuse la porta bianca dello studio di Stussy alle proprie spalle.

«…cinque attentati, tutti dinamitardi» precisò Stussy «Hanno piazzato delle bombe vicino a punti affollati di tre isole del Mare Occidentale, ti mando i rapporti completi via lumafax»

«Quanti morti?»

Stussy sapeva benissimo che a Lucci non interessava il lato umanitario della faccenda, come nemmeno a lei, del resto; però il numero delle vittime poteva far capire a cosa mirassero i Rivoluzionari. Una sommossa popolare? Spargere terrore? Punire?

«Due, uno dei quali è stata una vecchia che ha avuto un infarto per il botto. Nessuna vittima diretta: le bombe erano messe in edifici pubblici che in quel momento erano vuoti… due erano caserme, una era una chiesa, due erano dei mercati coperti. Però le esplosioni hanno suscitato il panico generale, e durante il fuggi-fuggi sono arrivati i Comandanti ad aizzare la folla.»

Rob Lucci e Stussy parlarono ancora per qualche minuto: i Rivoluzionari si stavano muovendo, e con il Reverie alle porte il CP0 non poteva permettersi di indugiare.

La lumacofonata si concluse con Stussy che diceva: «Ormai siamo sicuri che i Rivoluzionari puntino qui, al Reverie che si aprirà tra quattro giorni: ci serve la tua squadra»

Lucci ribattè pragmatico: «Non dire idiozie, dovevi dirmelo prima. Sono tre settimane di mare, per arrivare lì, usando le rotte più rapide»

«E allora chiama quella tua ragazza, quella con l’aereo. Non te lo sto dicendo io, di venire qui, è un ordine dai piani alti. Ti sto inviando i documenti via lumafax in questo istante»

A Stussy non andava molto giù il fatto che Rob Lucci avesse contatti con la famiglia Vegapunk tali da permettergli l’uso di un mezzo volante, ma era abituata a pensare razionalmente e non poteva che concludere che sì, le rodeva il culo, ma era un’opportunità che il CP0 aveva il dovere di sfruttare.

 

~

 

Nell’ufficio luminoso e ordinato di Rob Lucci, intanto, un colorato lumafax sputò piano piano, borbottando e tribolando, tutta una serie di fogli stampati che si incolonnarono docilmente ai piedi dell’animaletto.

L’uomo osservava sovrappensiero il lavoro del lumafax, mentre ancora aveva in mano la cornetta del lumacofono;  Hattori era seduto sulla sua spalla e teneva il capino poggiato alla cornetta per non perdersi neanche una parola di quella conversazione

Quando Lucci posò il ricevitore e lo guardò, il colombino sapeva già cosa gli avrebbe detto: “Preparati. Si parte”. Come tutte le volte. Ma Hattori non era per nulla preoccupato, per lui ogni trasferta era come una vacanza: se ne stava accoccolato sulle spalle accoglienti del suo amico, e si guardava attorno. Ogni tanto, se la copertura lo permetteva, poteva anche stare con Califa o con Kaku, o con Blueno, giusto per variare, ma il suo trespolo preferito era sempre Lucci, ed era sempre da lui che ritornava tubando.

Lucci spinse il tasto dell’interfono che lo collegava con l’ufficetto della segretaria, che presto forse avrebbe ricoperto il ruolo di pilota.

«Mandami subito qui gli agenti» ordinò sbrigativo alla ragazza.

 

~

 

Dispacci dalla sede centrale, una cartolina di Stussy con tre tipe a culo nudo in primo piano con Cacao Island sullo sfondo e la scritta “qui fa davvero… caldo!”, una lettera privata per Califa da parte di Lusky, volantini pubblicitari, la bolletta della luce, un avviso dal Comune di Catarina sulle ultime nuove in materia di raccolta differenziata. E poi una lettera senza mittente, con il timbro postale dell’arcipelago a indirizzata a “Lilian Rea Yaeger”.

Una volta la consegna della posta era il momento preferito di Lilian, perché spesso portava novità e pettegolezzi, adesso era diventato un appuntamento fisso con quel maniaco che la inseguiva. Si lasciò cadere sulla sedia della sua scrivania, scoraggiata, guardando la busta uguale a tante altre che aveva già visto.

Spandam notò la cosa e ghignò. «Devi avergli dato parecchia corda» insinuò «Ti conosce addirittura col nome completo»

Ormai era dominio pubblico che la ragazza avesse uno stalker, e che dormisse lì alla Torre. Lei non avrebbe voluto far sapere a tutti di quella situazione, men che meno a Spandam, ma la voce era girata in meno di ventiquattr’ore.

«Magari gli do il tuo indirizzo. Chissà che non andiate d’accordo»  rispose svogliata. Non aveva voglia di sostenere una conversazione con lui, e per di più sul filone del “com’eri vestita, quanto avevi bevuto, com’eri truccata”. E il nome completo l’aveva letto sul campanello, tanto per far capire meglio quanto si fosse avvicinato alla casa.

Spandam, non pago, si alzò e andò verso di lei, appoggiandosi alla sua scrivania e cercando di metterla in soggezione. «Sai che non ti è permesso dormire qui, alla Torre, vero? e per di più nell’appartamento di uno degli agenti… tutto ciò è molto scabroso, e potrei anche decidere di riferirlo ai piani alti… non credo sia permessa una relazione tra agenti»

Lilian accavallò le gambe. «I tuoi neuroni non sono agenti, possono averla una relazione, cosa ti preoccupa?»

Kaku si fermò sulla soglia e osservò rassegnato la scena, con le braccia incrociate sul petto.

Spandam continuava a essere ingestibile, ma ormai né lui né Lucci sapevano più dove spostarlo per limitare i danni.

Notò la posta ammucchiata sulla scrivania della ragazza, e decise di mandarlo via: la giornata doveva andare avanti, e con la partenza imminente c’era molto lavoro da fare per tutti.

«Ehi, tu» tuonò autoritario verso l’uomo, entrando nella stanzetta e facendo sobbalzare i due galoppini. «Ti avevo chiesto di lumacofonare al tecnico per il lampadario dell’ufficio di Califa. A che ora viene?»

Spandam ritornò immediatamente una creatura sottomessa e untuosa. «Lo chiamo subito, l’ho chiamato prima ma suonava sempre occupato, ma adesso lo-

«Non ha toccato il lumacofono da stamattina» lo tradì subito Lilian. «Ma è arrivata la posta…» disse smistando meticolosa le varie buste.

«Datti una mossa, non possiamo lasciare Califa al buio» ordinò Kaku, spedendo Spandam nel suo angolo a lavorare. Guardò i vari plichi arrivati e poi notò la busta che la factotum aveva accantonato.

«Ancora quello lì?» disse riconoscendola. «Aprila»

«No, per favore, non ho proprio la testa per farlo» sbuffò la ragazza, stufa marcia di leggere oscenità con se stessa protagonista.

«Quante storie» osservò severo Kaku «Dovresti essere contenta, invece: il tuo amico non si sente più tanto al sicuro: prima ti metteva le lettere sullo zerbino, ora non si azzarda ad avvicinarsi alla Torre e te l’ha spedita con la posta ordinaria… guarda, c’è l’indirizzo della Torre e il timbro di Catarina.»

La ragazza guardò il retro della lettera e sospirò rassegnata. Fece per aprire la busta, ma poi si scoraggiò e aprì un cassetto della scrivania. «Non la voglio.» disse decisa e seccata.

«È inutile girarci attorno» Kaku riaprì il cassetto, prese la lettera e la aprì senza perder tempo in permessi e per favore.

Del resto era stato chiarito che lei non aveva nessuna responsabilità in quelle lettere, e certo Kaku non si faceva impressionare dalle parole di uno squilibrato. In assenza di tracce sull’identità dell’uomo, quelle missive erano l’unica fonte da cui ricavare uno straccio di informazione.

Riferimenti a qualche luogo?

A qualche progetto?

Kaku scorse rapidamente le righe, mentre intanto Lili, con un sospiro d’impotenza, rispose al lumacofono che intanto aveva cominciato a squillare, e aveva preso le fattezze di Rob Lucci.

L’agente segreto guardò fuori alla finestra, lasciata aperta per far passare l’aria fresca del parco; sarebbe stato facile, pensò, entrare dalla finestra e recapitare quella lettera a mano; evidentemente il molestatore aveva capito che non gli conveniva andarli a sfidare in casa, considerò soddisfatto.

Lili mise giù la cornetta e lo informò subito: «Lucci è in trattativa con Caro Vegapunk per avere un Canadair. Speriamo bene. È normale partire subito dopo una missione? Siete appena tornati…»

Kaku sospirò e si strinse nelle spalle. «È lavoro» se ci sarebbe stato da far scorrere sangue, lui l’avrebbe fatto.

Poi la ragazza decise di affrontare il problema della missiva del molestatore: «Qualcosa di importante nella lettera? Riusciamo a capire dov’è?»

L’agente guardò distrattamente il resto della posta. «Ti sta spiando. Probabilmente gira spesso nei dintorni della Torre, e dice che ti sta tenendo d’occhio.»

«Ahahah» sghignazzò Jabura entrando. «“Tenendo d’occhio”! noi lo facciamo per mestiere, quell’idiota non si avvicina perché sa benissimo con chi avrebbe a che fare»

«Già di ritorno?» fece Kaku scartando la cartolina di Stussy e aprendo la busta della bolletta elettrica «Gigi L’Unto ha chiuso?»

«Chapapa, l’Ufficio Igiene si batte con coraggio, ma Souzette resiste. Vedremo» chiacchierò Fukuro, anche lui appena tornato dalla pausa al bar assieme a Jabura e Kumadori.

«OASI DI PACE NEL DESERTO! PAUSA FELICE DOPO ORE DI LAVORO! YOOOOOYOOOOI! L’UNICO NOSTRO SOLLAZZO PER LE POCHE ORE DI RIPOSO CHE CI CONCEDE LA NOSTRA SVENTURATA VITA!»

«A proposito» disse Kaku alla ragazza «Novità sul viaggio per il Reverie?»

 

~

 

« Non si può fare. Sono veramente dispiaciuta »

L’animo di Caro Vegapunk non era costruito per essere “veramente dispiaciuto”, lo sapeva la donna e lo sapeva Rob Lucci.

Ecco perché quella frase, alle orecchie del boss del Cp0 di Catarina, suonava come una sfacciata presa per i fondelli.

«Mi dia quel Canadair e basta» la voce di Lucci era durissima e decisa, senza ombra di cedimento. «Non mi interessa se dovrà mandarne due, per farlo in tempi brevi.»

«Questo significa scomodare ben due piloti. Non lo farò, signor Lucci. E non può costringermi, anche se è del CP0!»

Caro Vegapunk godeva nel tenere Rob Lucci finalmente con le spalle contro il muro, e avere un valido motivo per rifiutargli il prestito dell’aereo! Cosa voleva, quel cafone arrogante, che lei, lei, da Alexandra Bay facesse partire due Canadair, con relativi piloti, per consegnarne uno a Catarina? Stava sognando, il signorino!

Se voleva l’aereo, che mandasse la pilota a prenderselo, come al solito. Ci volevano due settimane di navigazione? Problemi di Lucci!

Il Reverie tra due settimane sarebbe stato ormai finito? Ancora problemi di Lucci, avrebbe dovuto svegliarsi prima!

«E invece la posso costringere proprio perché sono del CP0» avversò l’uomo, che avrebbe volentieri navigato per due settimane solo per spaccare la testa alla figlia di Vegapunk. «Motivi di sicurezza: il Reverie è alle porte e i Draghi Celesti non possono sottostare ai suoi futili capricci»

«Può girare la frittata come le pare, ma i Canadair se li sogna» replicò la donna con noncuranza.

Lucci però non era il tipo da stare disarmato, nemmeno durante una lumacofonata. «Signorina Vegapunk» disse calmissimo «Il mio reparto è stato ufficialmente convocato per il Reverie proprio perché in grado di raggiungere Marijoa in tempi brevi grazie ai suoi Canadair. Mi rattristerà dover riferire che non potremo essere presenti per sua diretta responsabilità» e rallentò magistralmente sul finale.

«Non crederà di spaventarmi, lurido…»

«Una donna come lei non si spaventa per così poco » sussurrò Lucci con un sorriso che avrebbe fatto rabbrividire dei sassi «Ma sa bene che i soldi per i suoi esperimenti dipendono dai Draghi Celesti. Si ricordi dell’acronimo che ha dato al suo progetto, e mi richiami quando si sarà data una calmata.»

E mise giù il ricevitore.

Tempo qualche ora, e sarebbero stati pronti a partire per il Reverie.

 

~

Job Five tornò a casa tardi, quella sera.

Girò le chiavi nella toppa quasi senza centrarla al primo colpo per la frustrazione, e accese subito tutte le luci del suo appartamento nell’Isola del Sud, per poi richiuderle subito tutte eccetto per quella della cucina e della camera da letto.

Apparecchiò per due, come tutte le sere, e mandò un bacio alla foto appesa al muro della madre, morta l’anno prima, che aveva vissuto con lui in quell’appartamento fino alla sua ultima ora.

Poi cominciò a cucinare, molto piano, e nel mentre rifletteva su quello che aveva visto pochi giorni prima.

Non sapeva cosa l’avesse spinto a rimanere acquattato nei cespugli, in lontananza, nel buio del parco dell’Isola Centrale ormai deserto… avrebbe dovuto comportarsi da uomo e mettere in chiaro le cose, che quella ragazza era la sua ragazza, e nessuno poteva toccarla.

Eppure…

Sua mamma gli aveva sempre detto che gli uomini del Governo, lì sull’Arcipelago, sono i buoni, ma non bisogna dar loro fastidio. Forse era per questo che non si era avvicinato, Mamma Five glielo ripeteva sempre. Loro sono i buoni, ma non bisognava avvicinarsi.

E poi, sembrava una cosa innocente. Camminavano solo insieme, senza nemmeno toccarsi.

Avrebbe dovuto intervenire prima, pensò Job Five tagliando con infinita perizia dei gambi di sedano, che poi buttò in una pentola d’acqua. Era abile con il coltello, che era lungo quanto il suo braccio, e dopo i sedani toccò a dei minuscoli pomodori rossi; nonostante la grandezza della lama, anche loro furono delicatamente tagliati e tuffati.

Ma l’uomo era stato infinitamente più veloce, aveva preso in braccio Lilian e… Job Five ribollì di rabbia e accoltellò le carote sul tagliere, incidendo con furia il legno… come aveva osato, quell’uomo, toccare la sua donna? Lì non ci aveva visto più dalla rabbia, era uscito fuori dal suo cespuglio e aveva cominciato a correre, con quello stesso coltello che ora sbucciava la cipolla, ma prima che potesse compiere due metri… l’uomo era scomparso, e Lilian con lui.

Job Five li aveva cercati attorno al gabbiotto della filovia, e poi per tutto il parco, ma il parco era deserto, e non aveva potuto fare altro che tornare a casa.

E ora era ancora a casa, dopo un’altra serata estenuante a cercare la sua Lilian. E l’aveva trovata. Ma non riusciva a capire quando uscisse dall’ufficio… non gli aveva detto che finiva sempre di lavorare a metà pomeriggio? Va bene, non gli aveva mai detto l’ora esatta, però di solito cenava a casa sua, sempre con quei pantaloncini azzurri che gli piacevano tanto.

Lasciò il brodo vegetale a cuocersi, e andò in camera sua.

La luce accesa che aveva lasciato gli diede l’impressione che qualcuno, in quella stanza, lo aspettasse.

Lilian non usciva più, da quella maledetta torre. L’avevano rinchiusa lì dentro.

La stavano tenendo prigioniera, sicuramente con la forza. Ecco perché l’uomo del Governo l’aveva sollevata e poi era sparito… rimugivava Job Five.

Doveva farla uscire.

In quel momento chissà quali lordure le stavano facendo…

 

 

Kessy Teller, con un bambino in braccio nell’appartamento di fianco a quello di Job Five, sobbalzò spaventata e corse da suo marito. «L’ha fatto ancora…» mormorò all’uomo.

Teller Teller, il marito, le circondò le spalle con un braccio e sospirò: «Se continua ancora a dare pugni nel muro, ci trasferiamo. Domani proverò a parlargli, ma se dovessi capire che è pericoloso, ci trasferiremo in un’altra isola» le promise.

 

 

Job Five ritirò la mano dal muro. Si era di nuovo massacrato le nocche dalla rabbia.

Il dolore lo aiutò a pensare più lucidamente.

Doveva mettere in atto un piano per liberare Lilian. Sicuramente non poteva combattere contro i Governativi… mamma gli raccomandava sempre di non mettersi contro di loro, quindi doveva giocare d’astuzia.

Ormai il brodo era pronto; Job Five tornò in cucina con l’intenzione di completare il suo solito semolino serale, ricetta della mamma, quando l’occhio gli cadde sul quotidiano del giorno. Non lo leggeva mai, ma la Signora Five era abbonata e lui non aveva avuto il coraggio di disdire.

Lesse gli articoli in prima pagina, e pensò e ripensò al grosso velivolo giallo, per lui misterioso e sconosciuto, che era arrivato qualche giorno prima a Catarina.

Sollevò il ricevitore del lumacofono, compose un numero.

«Sono io… no… certo, certo… non c’è più tempo. Devo intervenire subito.»

 

~

 

Lilian stava sistemando le carte nautiche che le sarebbero servite per il volo, recuperandole dall’archivio della Torre, e Jabura le teneva svogliatamente compagnia. Spandam per fortuna non c’era: era stato mandato all’Isola dell’Autunno a comprare qualche cassetta di arance da portare in volo durante la missione; ce l’avrebbe fatta?

Lili prese un faldone e lo aprì, cercando chissà che carta. Lo richiuse, fece il nodo alle fettucce, e fece per portarlo via; si fermò sulla soglia, rimise il pesante involto sulla scrivania, sciolse il nodo, lo riaprì, trovò la carta che le serviva. Imprecò.

Jabura si voltò verso la ragazza. «Sei nervosa?»

«No.»

«Sì che lo sei. Sei andata in bagno tre volte nell’ultima ora, ti fai aria con il ventaglio, non hai toccato cibo da stamattina»

«Ma che cazzo, mi controlli?! Cos’è, una moda?»

Jabura ridacchiò. «Sono un agente segreto, scema. E comunque è palese che sei tesa»

«Sono solo stanca»

L’aveva detto anche prima di confessargli che veniva stalkerata brutalmente da un pazzo.

Jabura la guardò truce. Sarebbe stata la prima volta che metteva piede fuori dalla Torre, dopo la notte in cui gli aveva confessato di essere inseguita. Forse era per quello, che era così nervosa? «Ci sono io, ci sarà Califa, e anche Kumadori. Non può succederti niente. Ah, ci sarà anche quell’idiota» mai, per nessuna ragione al mondo, avrebbe messo Rob Lucci in testa a un elenco o si sarebbe abbassato a chiamarlo semplicemente per nome.

La segretaria si girò a guardarlo: «Non sono in pensiero per il pazzo» disse «Sono solo un po’… nervosa. Sono almeno cinque anni che non vedo i miei colleghi… ex colleghi»

«Tutto qui?»

«Beh, l’hai detto tu: che rischi corro vicino a voi?» sorrise serena, perdutamente fiduciosa nelle capacità combattive dei suoi superiori.

Jabura incrociò le braccia e scosse la testa, senza commentare.

La ragazza sospirò pesantemente; chissà come erano cambiati. Chissà se si erano sposati, se sarebbero arrivati due perfetti sconosciuti, se si ricordavano ancora di lei. Soppesò con una mano il riccioluto boccolo nero che le scendeva sul petto e si chiese se le complicate sfumature di ombretti fossero ancora al loro posto.

All’improvviso, mentre Jabura osservava dalla finestra una classe di yoga che si allenava nel parco,  Lilian percepì un rumore in lontananza: motori.

«Stanno arrivando» sussurrò in fretta. Afferrò il lumacofono per le comunicazioni interne, compose un breve numero, e scandì: «Boss, aerei in avvicinamento»

«Lo so benissimo, sciocca» la bacchettò severa la voce di Lucci, dall’altro capo del filo.

La segretaria poteva avere le orecchie più che allenate, per il rumore del motore del Canadair, ma Lucci aveva Hattori, e aveva i sensi felini: strumenti che Lilian Rea non poteva compensare neppure con la propria esperienza.

La ragazza incassò senza fiatare e senza meravigliarsi. Il boss era fatto così.

«Tieniti pronta a dare il permesso di ammarare. Ho fatto sgombrare la baia nord-est.» Lucci aveva imparato in fretta la prassi per le manovre, ma da lui nessuno si sarebbe aspettato di meno.

«Agli ordini boss. La tengo aggiornata»

E all’improvviso eccoli: sfondarono le nubi basse e filacciose del mattino arrivando da ovest, laddove il cielo era azzurro e sfumava nel grigio della pioggia della notte passata; a cinque secondi di distanza, i due Canadair gialli solcarono il cielo dell’Arcipelago di Catarina, e il rombo dei loro motori fece vibrare il pigro silenzio in cui erano immerse le isole. I loro musi color canarino spiccavano nel blu e le loro grandi ali parevano voler abbracciare la baia verde del porto militare.

«Qui Canadair 6490, Paul Blackwood in cockpit, chiedo il permesso di ammarare per due Canadair, passo»

Lilian rabbrividì emozionata nel sentire dopo anni la voce del suo ex collega. «Qui torre di controllo di Catarina, ti riceviamo forte e chiaro, Paul Blackwood. La baia di nord-est è sgombra, permesso di ammarare accordato a entrambi i velivoli. Passo.»

«Che piacere sentire di nuovo la tua voce dopo tanti anni, Lilian» sorrise mellifluo Paul Blackwood dalla sua cabina. Poi tornò di nuovo serio: «Ricevuto, torre di controllo. Cominciamo le manovre di ammaraggio, passo e chiudo.»

 

~

 

Erano giganteschi, erano rumorosi, erano due enormi gabbiani gialli che riposavano dondolando sulle serene acque della baia attirando gli sguardi di chiunque si trovasse a passare sui lungomari dell’Isola del Nord e dell’Isola dell’Est; l’acqua riluceva alla luce del sole e danzava sulle carlinghe color canarino, disegnando sottili fili luminosi che s’intrecciavano nel ritmo lento delle onde.

I due piloti erano scesi dai rispettivi cockpit ed erano stati prelevati da una motolancia che faceva da spola tra aerei e terraferma, e portati rapidamente al porto militare dell’Isola Centrale, quella della Torre del Cp0.

Il pilota del Canadair più grande era un uomo alto, dallo sguardo ironico e freddo, perfettamente rasato, con dei pantaloni azzurri dal taglio classico, camicia bianca e giacca azzurra portata sulla spalla per via del caldo delle isole, e una lunga coda di capelli neri e liscissimi che gli ricadeva sulle spalle. Il genere di uomo che per eleganza e portamento non avrebbe sfigurato tra gli assassini del CP0.

Saltò agilmente dalla motolancia alla banchina di cemento, tenendosi lievemente il cappello con una mano, un raffinato Borsalino color panna, perché non volasse in acqua.

«Paul Blackwood, responsabile su pista del progetto Ca.Na.D.Air» si presentò formalmente «Lei dev’essere Rob Lucci»

«Siete in ritardo» osservò freddo il comandante degli agenti.

Rob Lucci e Paul Blackwood non si tesero la mano, né si rivolsero saluti.

Il pilota sorrise, freddo nella sua cortesia. «Siamo arrivati esattamente all’orario concordato stamattina»

Rob Lucci si girò a guardare la segretaria, a pochi passi da lui, tra Jabura e Kumadori: non gli aveva riferito di variazioni dell’orario?

Lilian si sentì lo Shigan di Lucci già ampiamente piantato fra le scapole.

«Ho parlato alla radio con un uomo» aggiunse Paul Blackwood, scagionando la ragazza «Ho dovuto ripetere più volte chi fossi, ma ha detto che vi avrebbe riferito il nuovo orario d’arrivo.»

Lucci mascherò bene l’irritazione verso Spandam con un soffio divertito; l’incontro aveva generato un’elettricità inquietante, che aveva raggelato le persone sul molo.

«E vedo che c’è anche una… mia vecchia conoscenza» sorrise mellifluo «Ciao, Lilian. Da quanto tempo.»

«Non avrei mai immaginato di vederti su questo molo, Paul!» lo salutò con un sorriso la signorina Yaeger, ma senza avvicinarsi.

Blackwood si lasciò andare a una breve quanto agghiacciante risata: «Non immagini la sorpresa, quando ho saputo che tu, un militare radiato dai reparti del servizio segreto, fossi tornata a lavorare per il Governo. Sono felice di vedere che stai bene, e che sei anche particolarmente a tuo agio con i tuoi nuovi colleghi.»

Anche il sorriso di Lilian si fece freddo; non gradì il riferimento alla sua passata e disastrosamente terminata carriera militare: «Questo è un ambiente migliore, rispetto al Dipartimento Scientifico.»

Lucci intervenne, riportando i presenti all’ordine: «Basta sciocchezze.» disse «Consegnami le carte, e tornate ad Alexandra Bay»

Paul Blackwood aprì la bocca per rispondere, affabile, ma un grido sovrastò le sue parole: «LILIAN!»

Sbucò dalle spalle di Paul Blackwood un altro individuo, che era sceso con fatica dalla motolancia e lentamente aveva guadagnato terra.

La signorina Yaeger sobbalzò: «Ch-Charlie?»

Un ragazzo alto e muscoloso, in divisa militare azzurra, le corse incontro festoso, la sollevò tra le proprie braccia e la scaraventò in mare con una facilità impressionante, tanto che lì per lì nessuno intervenne.

Un volo di almeno tre metri che si concluse con il tonfo dei sassi che affondano, cancellando in meno di un attimo tutto il lavoro di trucco e acconciatura della ragazza.

Per cinque secondi si sentirono solo le onde, che sollevate all’improvviso sciabordavano contro il molo, e quello scemo di Jabura che rideva a crepapelle.

«COSÌ IMPARI A SPARIRE, E A NON FARTI VIVA PER CINQUE ANNI!»

 

~

 

«Tutto regolare, boss» riportò Lilian Rea al suo superiore, Rob Lucci, dopo aver ispezionato il Canadair che le era stato consegnato. Indossava degli abiti maschili asciutti e i capelli erano un nugolo soffice appena asciugato col phon, ma riusciva comunque a sembrare professionale, nonostante le apparenze cui era stata costretta dall’improvviso tuffo in mare.

Charles Lehired, il suo antico compare di bevute, non aveva apprezzato la sua idea di sparire alla chetichella, e aveva avuto la sua vendetta. Ora era al pascolo con Jabura, che gli aveva proposto un giro turistico per Catarina; tutti sapevano benissimo che il giro sarebbe cominciato e finito nel bar di Gigi L’Unto, a nessuno importava: c’erano questioni ben più importanti in ballo.

Lucci era nel suo ufficio, e stava parlando con Paul Blackwood di alcune faccende relative al Dipartimento scientifico di Caro Vegapunk, e possibili collaborazioni. Parlare con Caro Vegapunk era spesso difficile, ma il tenente Blackwood, il pilota con il grado militare più alto, nonché il più anziano, era una persona ragionevole con la quale, nonostante la freddezza nascosta dietro dei modi affabili, si poteva ragionare.

Il governativo studiava con attenzione ogni minima espressione di Paul Blackwood, cercando di espugnare quella fortezza di buone maniere palesemente false, e di queste cose Rob Lucci era maestro assoluto; ma il tenente era altrettanto bravo a tener nascoste le proprie carte, e Lucci per il momento doveva accontentarsi solo di prender nota delle sue frasi sottilmente sarcastiche e della sua millimetrica precisione nel parlare degli aerei.

Poi prese la parola Lilian, che aveva ispezionato l’aereo che sarebbe spettato loro, e confermava al suo superiore che era in perfette condizioni, pulito come una nave ammiraglia della Marina, con il serbatoio quasi pieno e con le taniche di scorta.

«Ti ricordo, cara Lilian, che stai per mettere le tue mani su un modello estremamente avanzato, e sai bene che tipo di tecnologia esca dai laboratori Vegapunk»

«Basta chiacchierare.» lo bloccò Rob Lucci. «Dammi i documenti.»

Paul Blackwood piazzò sulla scrivania una risma di fogli compilati a macchina in maniera fittissima, veri e propri muri di parole sul bianco dei fogli. «Una firma qui, una a pagina 25, poi al paragrafo 7.8, e alla fine servono tre firme; caporeparto, vice e la pilota. » disse Paul indicando le righe da autografare.

Hattori atterrò sulle scartoffie e ci si accovacciò sopra, come a dire che ormai erano affari del loro reparto, e sapevano sbrigarsela anche senza quelle spiegazioni.

Blackwood ridacchiò divertito, poi continuò la sua arringa: «Il leader del reparto è l’unico responsabile di qualsiasi danno riportato dal Canadair… non basterebbe l’intero palazzo con ciò che contiene, per ripagarlo»

Lilian si accese subito, scoprendo i denti: «Sei venuto per cercare ro-» ma a Lucci bastò un cenno della mano per farla tacere.

Non era il tipo da cadere in certe provocazioni, lui. «Ciò che contiene questo palazzo non è informazione che possa comprendere il reparto di Caro Vegapunk» disse sprezzante.

Paul Blackwood ghignò, soddisfatto dello scambio di battuta. «Allora non mi resta altro che augurarvi buon viaggio, CP0» concluse facendo danzare davanti a Lucci le scintillanti chiavi del Canadair appena consegnato.

 

~

 

Quella sera Jabura fece un giro di ronda a piedi attorno alla Torre e nel parco, per controllare la situazione e fare qualche domanda ai vetturini che portavano le persone in carrozza sui ponti delle isole, e agli addetti della filovia che portava sull’Isola dell’Est.

Lili era al sicuro, a casa di Kumadori, e probabilmente in quel momento o stavano giocando a truccarsi o stavano seguendo qualche sceneggiato lumacofonico vergognosamente tragico facendosi coraggio a vicenda sulle melensissime sorti dei protagonisti.

Incrociò Kaku, di ritorno dal suo quotidiano giro di jogging; il ragazzo trovava rilassante, oltre che utile, andare a correre nel parco dell’isola centrale, e spesso si dilungava anche sulle colline dell’isola dal clima autunnale. Gli piacevano i colori rosati dell’alba e quelli bruni del tramonto, per cui era facile vederlo trottare lungo le strade intorno a quell’ora.

«Che ci fai qui in giro? Gigi L’Unto ha chiuso prima, oggi?» stuzzicò pigramente.

«Stupida giraffa» lo rimbeccò il collega più anziano. «Sono in ricognizione»

E gli spiegò cosa stava facendo lì, attorno alla Torre, in quella fresca serata.

«Qui non ho visto nulla di strano» mormorò Kaku sondando i dintorni e scrutando i cespugli e i prati deserti. «Hai fatto qualche domanda sull’Isola dell’Est?»

«Certo che l’ho fatta. Ho messo praticamente sottosopra la strada dove abita» rispose il Lupo, riferendosi naturalmente alla strada dove viveva Lilian.

«E non l’hai trovato.» un’affermazione ovvia, o non lo starebbero cercando nel parco.

Anche se in realtà non era una vera e propria caccia all’uomo: se l’avessero trovato, gli avrebbero fatto passare per sempre la voglia di perseguitare qualcuno, ovvio. Ma i due agenti non sapevano nemmeno se l’uomo fosse effettivamente lì, volevano solo fare un giro di controllo nei dintorni.

«Se si azzarda a mettere piede qui, non ne rimarrà nemmeno abbastanza per il funerale.» promise Jabura.

«Poco ma sicuro» disse Kaku, in miracoloso accordo con il collega. Non che avesse paura del molestatore, ma non gli piaceva sapere che c’era qualcuno così fuori di testa da cercare di minacciare la quiete della loro Torre.

E poi era una questione di Giustizia, cosa che gli era stata inculcata fin da bambini: se una persona era pericolosa, e se metteva a rischio persone innocenti, doveva essere eliminato prima che commettesse altri crimini.

«Sei riuscito a scoprire qualcosa su di lui?» domandò l’agente più giovane calcandosi il cappellino sulla fronte.

«Solo che non è dell’Isola dell’Est. I negozianti della zona di Lili l’hanno visto spesso, ma sono tutti concordi nel dire che non è loro cliente abituale, e che non l’hanno mai visto in giro.»

Kaku osservò il disegno fatto da Lilian, che non era una ritrattista eccellente ma aveva colto almeno dei dettagli salienti: fisico prestante, spalle larghe, capelli biondi molto corti, mandibola forte, rasato, occhi azzurri. Con “una testa che emerge tra la folla”, per usare le parole della ragazza, cosa che lo rendeva facilmente individuabile per lei che ne scappava.

«Sono andato in giro tra le altre isole, ma per il momento è come cercare un ago in un pagliaio. Ha anche dato a Lilian un nome falso, figurati.»

«Hai portato l’identikit alla Marina? Magari è già schedato»

Ovviamente sull’Arcipelago di Catarina c’era un avamposto di Marine, con sede sull’Isola dell’Ovest.

«Noi che ci rivolgiamo alla Marina?!» si ribellò il Lupo. Sarebbe stata un’onta terribile, per dei Governativi!

«L’hai fatto?» insistette Kaku.

Jabura sbuffò tra i denti. «Ho mandato la padrona di casa. Negativo, non è schedato e non sanno chi sia»

Jabura conosceva di persona la padrona di casa di Lilian, Estela Monica De Sosa: abitava al primo piano, proprio sotto l’appartamento di Lilian, ed era rimasta sconvolta nell’apprendere quanto stava succedendo proprio sopra la sua testa! Aveva promesso a Jabura di prestare attenzione, se nei giorni successivi avesse visto o sentito qualcosa di strano nel palazzo, o dei rumori dall’appartamento della sua inquilina.

«Non ci rimane che aspettare» concluse Kaku. «Tanto, partiremo dopodomani: per un bel po’ potremo accantonare il problema e riprenderlo al nostro ritorno»

Rimasero in silenzio per un po’, osservando ogni anima viva che sorprendevano ad attraversare il parco di notte, ma non notarono nulla di sospetto.

 

~

 

BOOM!

Tutti gli abitanti dell’Arcipelago di Catarina sollevarono la testa, allarmati: cos’era quello scoppio da far tremare la terra?

BOOM!

Di nuovo. Due fili di fumo si levarono dall’Isola del Sud, quella della primavera.

Rob Lucci, con i resoconti di Stussy sui rivoluzionari che ancora gli echeggiavano in testa, con un tocco di Soru corse ad affacciarsi ai finestroni del suo ufficio.

BOOM! BOOM!

Stavolta toccò all’Isola del Nord, dal clima autunnale: non si vedeva fumo, ma agli occhi attenti di Lucci notarono subito un fiume di persone in preda al panico, piccole come formiche, che uscivano dalle piccole strade del centro e si accalcavano verso il ponte, in fuga.

BOOM!

«Merda» ringhiò Lucci.

L’interlumacofono squillò, e Lucci rispose immediatamente riconoscendo i lineamenti di Califa. «Lucci!» invocò la donna, con la sua serissima voce «L’arcipelago è sotto attacco. Non penso che la Marina riuscirà a gestire un’emergenza proveniente da più isole.»

BOOM!

«Passa la voce. Nell’atrio della Torre tra dieci secondi» ordinò.

Era un’emergenza assoluta: attacchi dinamitardi in tutte le isole dell’Arcipelago di Catarina, con le stesse modalità degli attacchi dei Rivoluzionari; non erano faccende che riguardavano solo la Marina, sempre ammesso che quegli inetti riuscissero a gestire una situazione così complessa.

Gli agenti si riunirono in pochi attimi nell’androne della Torre, e Lucci fu rapidissimo a scegliere le squadre e mandarle in ricognizione tra le isole: nel giro di un minuto tutti furono fuori, e Spandam chiuse i pesanti battenti della Torre in attesa del loro ritorno.

 

~

 

Jabura, qualche mese prima, durante una missione aveva appuntato dei numeri di lumacofono di certi affiliati a un clan malavitoso su un pezzaccio di carta unta. A Spandam, quindi, era stato assegnato un compitino semplice: ricopiare quei calligrafici sgorbi su una bella rubrichina, in modo da poterli consultare senza ungersi le mani di sugna ogni volta.

L’uomo era tutto intento nel lavoro da amanuense, e non sbraitava né dava fastidio.

Lilian stava controllando alcune liste per la partenza imminente, e doveva disdire tutti gli impegni che gli agenti avevano preso sull’isola per i giorni successivi: visite mediche, barbieri, parrucchiere per Califa, sauna sull’isola dell’Inverno, e poi doveva fare un ultimo check alle proprie liste: cos’aveva con sé a casa di Jabura, e cosa sarebbe dovuta andare a prendere a casa propria? Doveva prenotare una seduta lampo dalla sua estetista di fiducia quello stesso giorno, o andare di lametta? Dilemmi così.

I due galoppini lavoravano a capo chino e senza provocarsi, mentre le esplosioni proseguirono per altri due minuti, facendo tremare i vetri, e poi all’improvviso smisero, e cadde il silenzio.

TUNF

Spandam e Lilian sollevarono il capo e si guardarono a vicenda.

«Era il portone» proferì Spandam «Sono già tornati»

«Nessuno lo sbatte mai in questo modo» sussurrò Lilian «E non credo che il boss si sia portato le chiavi, è uscito in fretta…»

Spandam continuò: «E chi altri dovrebbe essere?»

«Spandam» non lo chiamava mai per nome, e già questo avrebbe dovuto far capire all’uomo che qualcosa non andava «Hai chiuso bene il portone, vero?»

La segretaria, come presa da uno strano presentimento di inquietudine, aprì l’ultimo cassetto della propria scrivania e tirò fuori la propria pistola, quella che di solito usava durante le missioni.

Non aveva bisogno di controllarla: sapeva già che, da due mesi a quella parte, l’arma era carica e pulita, pronta all’uso.

Non erano gli agenti… si sarebbero sentiti i versi epici di Kumadori, le imprecazioni di Jabura gli sbuffi intolleranti di Califa, il tubare di Hattori…

La ragazza arrivò sulla soglia dell’ufficio e si affacciò cauta al corridoio che dava sull’atrio della Torre di Catarina.

«Lilian» disse una voce spaventosamente gentile «Ti ho vista lavorare tutto il giorno»

Era lui. Era venuto a prenderla. Era entrato nella Torre nell’unico momento in cui era completamente indifesa. La ragazza lo vide lì, a pochi metri da lei, gentile e minaccioso.

E le bloccava l’unica via di fuga, il portone principale.

«Hai tre secondi per uscire da qui come sei entrato» lo minacciò la ragazza sollevando l’arma e puntandola alla testa dell’uomo.

«Lilian, perché non mi vuoi ascoltare?»

«Tre…»

«Volevo soltanto uscire con te… ma tu hai cominciato a scappare, e hai complicato tutto» disse avvicinandosi lentamente.

«Due…»

«Tu sei mia, piccola Lilian…» mise una mano nella tasca interna del suo giubbino, ed estrasse un coltello. «Non stare con altri uomini… loro non ti meritano, io invece…»

BANG!

«AH!»

L’uomo cadde per terra, piegato dal dolore improvviso.

«Prendi la tua rotula e vattene subito.» disse Lilian guardando il sangue che usciva a fiotti dal ginocchio.

«Tu non capisci…» ansimò l’aggressore ferito. «Non avrei voluto arrivare a questo» dichiarò spianando a sua volta una pistola.

«Merda» soffiò la ragazza. Ritirata!

BANG!

Il proiettile non la colpì per un soffio, Lilian fece un salto dentro l’ufficio, Spandam lanciò un grido da sotto al tavolo dove si era nascosto.

La segretaria ribaltò la propria scrivania facendo volare tutti i fogli che ci stavano sopra come in uno stormo e facendo ruzzolare giù i lumacofoni terrorizzati. Ci si asserragliò dietro e sparò un colpo contro l’intruso stando ben attenta a non far sporgere troppo la propria testa dal riparo.

Il proiettile si conficcò nello stipite della porta, a un palmo dalla testa dell’uomo.

«Il prossimo andrà a segno, ESCI SUBITO DALLA TORRE»

«Dormirai con me questa notte!» gridò il molestatore.

Spandam strisciò da sotto alla propria scrivania a dietro quella ribaltata che faceva da trincea. «CHI DIAVOLO È QUESTO TIZIO?!» urlò alle orecchie di Lilian, che teneva sotto tiro l’uomo.

«Prendi Funkfleed!» gli ordinò la ragazza ignorando la domanda.

«Come osi darmi ordi-»

«PRENDI FUNKFLEED, CAZZO, LO VEDI CHE SIAMO SOTTO ATTACCO?!»

Era un topo in trappola dentro l’ufficio, maledizione! Eppure non poteva scappare via nell’atrio, o sarebbe rimasta scoperta contro i proiettili del suo aggressore! Lì nell’ufficio, per quanto pericoloso avrebbe potuto riuscire a trattenerlo in attesa degli agenti che, ne era sicura, avrebbero sentito gli spari provenienti dalla Torre.

Lilian mise di poco la testa fuori dal riparo: dov’era quel pazzo?

«Forse è andato via…» sussurrò Spandam.

«GIÙ LA TESTA!» Lilian lo afferrò per il colletto e lo tirò con forza dietro al tavolo.

Aveva visto giusto in tempo una delle sedie dell’atrio volare verso di loro, lanciata dall’aggressore, e con un grandissimo frastuono si sfasciò contro il loro rifugio.

«Cazzo!» imprecò la ragazza

E fu in quel momento, mentre Lilian era impegnata a ripararsi la testa dalle sedie dell’atrio che venivano lanciate contro il suo rifugio, che Job Five entrò di prepotenza nella stanza, afferrò il tavolo dietro il quale era nascosta la ragazza, e lo scaraventò via, mettendo allo scoperto la sua vittima.

Spandam e Lili gridarono, Lili abbandonò il galoppino al suo destino e infilò la porta correndo sui tacchi, mentre le pallottole fischiavano attorno a lei e sentì una gamba bruciare, ma rimase miracolosamente in piedi e corse fuori, si girò nel panico e anche lei rispose al fuoco, e andò di corsa alle scale che portavano al secondo piano, dove c’erano gli uffici degli agenti.

Si scalciò via i tacchi e prese a salire le scale come una forsennata, ma all’improvviso la gamba destra le tremò di più, inciampò e lui le fu addosso in un attimo e cercò di strapparle via la gonna.

«Farà male solo all’inizio, te lo giuro…» mormorò l’uomo.

Lilian gridò forte, troppo spaventata per riuscire a rispondere, strinse l’arma nella mano destra, sparò, ma non servì a niente, l’uomo continuava nella sua orribile follia.

«Ti piacerà, vedrai che ti piacerà» diceva, e il rumore della zip dei pantaloni suonò così forte nella testa della ragazza da sembrare una mitraglia. Ma solo un secondo prima che le facesse davvero del male, arrivò qualcuno.

Venne preso per il collo e scaraventato a terra, così forte che le mattonelle si creparono.

Lilian si tirò a sedere, spaventata, e capì quello che avrebbe dovuto fare già molto tempo prima: chiedere aiuto a Jabura e a Rob Lucci. Li vedeva, in forma ibrida ed enormi, come belve fameliche che puntavano al suo molestatore. Incazzati neri.

Non ebbe nemmeno un po’ di pietà.

E nemmeno loro.

 

Non sentiva dolore, vedeva solo il sangue scorrere lungo le gambe, le calze rotte, e si alzò in piedi. Le scarpe erano in fondo alla scala, voleva raggiungerle, si appoggiò al muro e poi si rese conto di non riuscire a camminare perché era quasi paralizzata dalla paura. Sollevò la testa e vide che, finalmente, stavano tornando tutti gli altri agenti.

«YOYOI! COME ABBIAM POTUUUUUTO ESSER SÌ SVENTATI? Come abbiam potuuuuuto lasciare il nostro presidio? Stolti fummo, e beffati dal gran clamore di bombe!» recitò commosso l’agente avvicinandosi a grandi passi alla ragazza per soccorrerla.

«Kumadori!» invocò la signorina, tuffandosi a capofitto ad abbracciare l’agente, tremando, e con la sensazione del sangue che impregnava sempre di più il tubino nero.

«Accidenti, ce l’aveva quasi fatta» si lamentò Kaku mentre arrivava dalla loro parte, superando e osservando da lontano Lucci e Jabura che si litigavano un femore.

Kumadori roteava il suo bastone. «FARÒ SEPPUKU PER-» e si interruppe, perché Lilian era scoppiata a piangere disperata, stretta alla sua giacca.

Intanto, Lucci e Jabura abbandonarono finalmente i brandelli di quello che era stato il molestatore e tornarono, per quanto potevano, umani.

 

Rob Lucci, ancora in forma ibrida, si avvicinò a Kaku e gli porse un portafogli da uomo. Kaku, più che abituato a vederlo mezzo leopardo e sporco del sangue dei nemici, non si scompose di una virgola.

«Va’ all’indirizzo scritto nei documenti» gli ordinò il boss «Voglio vederci chiaro, prima che s’intrometta la Marina»

 

~

 

Quando Califa entrò nell’androne della Torre di Catarina si trovò davanti una scenografia degna di un horror splatter. Sospirò, mormorò qualcosa su quanto fossero moleste le abitudini dei suoi colleghi, e poi con le sue bolle spinse in un angolo tutto lo schifo di sangue e brandelli che regnava nell’ingresso di marmo chiaro; quando si sentì odore di pulito e non più quella puzza ferrigna che caratterizzava le sue missioni, la donna attraversò sui tacchi a spillo l’androne e si diresse verso i suoi colleghi, che stavano cercando di calmare Kumadori che piangeva abbracciato a Lilian, a sua volta vergognosamente spaventata.

«È ferita?» chiese Califa, analitica.

«Il bastardo l’ha colpita alla gamba destra» rispose Jabura «Ma senza toglierle la gonna…»

«Sarebbe una molestia sfacciata.» sibilò l’algida agente.

«Non gliela volevo togliere» ringhiò il Lupo. Non era uno psicologo, né eccelleva nell’empatia, però poteva immaginare che era meglio non denudare con la forza una ragazza ferita e in lacrime che era appena scampata a uno stupro in piena regola!

Califa si inginocchiò vicino alla ragazza. «È un colpo di striscio» riconobbe «Non vedo fori di entrata e di uscita»

«Hai sentito? È solo un graffio» la consolò Jabura «È più la paura che il danno» disse battendole due colpi sulle spalle.

La pilota strinse i denti e mormorò: «E adesso?»

«Fukuro» chiamò il Lupo.

«Chapapa!» si mise sull’attenti l’agente.

«Il kit di primo soccorso, muoviti. È nell’ufficio di Spandam» ordinò Jabura. Poi disse a Lilian: «Adesso blocchiamo il sangue, e poi ti porto al pronto soccorso»

 

Rob Lucci, poco interessato alle manovre mediche, si rimise la giacca, e Hattori gli si posò sulla spalla. Osservava il corpo dell’assalitore, ormai privo di parvenza umana, e i colleghi che mano a mano tornavano dall’emergenza che li aveva chiamati fuori dalla Torre.

E, finalmente, tornò anche Kaku dalla sua piccola missione.

«Avevi ragione» disse il ragazzo riconsegnando al leader del reparto il portafogli di Job Five «C’è lui dietro alle esplosioni. In casa aveva un arsenale in costruzione»

«Complici?»

«Credo di no, però bisogna vederci chiaro sui fornitori. Molta roba che ho trovato è illegale.» rispose pronto Kaku. «Ah, ho fatto qualche domanda ai vicini di casa: mi hanno detto che si tratta di una persona molto chiusa e a tratti violenta, tanto che pensavano di essere in pericolo»

«Boss…?»

La voce della segretaria fece voltare Lucci e Kaku.

«Era stato lui a piazzare tutte le bombe nelle isole, vero?» chiese la ragazza, mentre Jabura le medicava personalmente la ferita. Califa era riuscita a sfilarle le calze e alzare l’orlo della gonna quanto bastava per tamponare almeno il sangue.

«Molto probabile» rivelò Lucci, eccezionalmente. Poi si rivolse a Kaku, riprendendo il discorso: «Le bombe dovevano essere un diversivo per noi?

«Sì, penso di sì.» affermò Kaku «E penso che il fatto che ci stessimo preparando alla partenza possa avergli fatto perdere la calma e fatto affrettare il piano»

«Il reparto avrà… avrà dei problemi per colpa mia?» pigolò la ragazza, mortificata.

«Se un uomo entra armato nella mia sede e aggredisce una mia dipendente, è ovvio che io abbia tutto il diritto di ucciderlo» sottolineò il suo capo, con le mani affondate nelle tasche, dritto e fiero davanti a lei.

«Finito» le disse Jabura «Adesso ti porto al pronto soccorso, vieni, muoviti» le ordinò spiccio prima di prenderla in braccio.

«Naturalmente» riprese severissimo Rob Lucci fermando i due che stavano per correre all’ospedale più vicino «Questo contrattempo non ti esula dal tuo lavoro. Decolleremo domani mattina, come programmato»

«Non era mia intenzione ritardare la partenza o ritirarmi dalla missione, boss»

 

~

 

«Ti fa male?»

«Voglio dormire»

«Allora devi metterti a letto, non lì.»

Jabura l’aveva previsto: una volta andata via l’adrenalina, scesa la sera, e tornata dall’ospedale, Lilian era letteralmente crollata a terra, priva di forze. Il suo corpo, quello di una civile, aveva dato tutto.

E non aveva trovato posto migliore per farsi mancare le forze, che lì dove si era sentita al sicuro: nella Stanza del Lupo, l’appartamento di Jabura, in quel meraviglioso giardino con l’erba tosata e il ruscello che scorreva tra i massi, con le galline che russavano chiocce già chiuse nel loro pollaio.

Jabura ghignò e si sdraiò su un fianco, vicino a lei. «Guarda che non ti porto in braccio.» disse, ma era una panzana da lupo. Le aveva anche prestato una vecchia tuta larga, perché lei non riusciva a infilarsi i suoi vestiti senza sfiorare il vistoso cerotto bianco che le avevano messo per proteggere i punti.

La osservò, abbandonata pateticamente per terra. I medici dell’ospedale avevano tirato giù un pandemonio, quando lei aveva chiesto se l’indomani sarebbe stata nelle condizioni di ripartire: avevano sciorinato cose come riposo assoluto, stress post-traumatico, controlli regolari lì da loro, ambiente tranquillo, insomma proprio il genere di cose facilmente reperibili al Reverie.

«Quel coglione di Lucci… almeno qualche ora di respiro in più te la poteva concedere.» considerò l’agente constatando che l’aviatrice era veramente fuori servizio.

Lili scosse la testa. «Devo portarvi al Reverie» affermò decisa, con gli occhi chiusi «C’è bisogno di voi.»

L’ipotesi che lei domani non avrebbe pilotato e non avrebbe portato gli agenti al Reverie non era contemplata da nessuno, nemmeno da Jabura, nemmeno da lei stessa, per non parlare poi di Lucci. In ognuno era ben scolpito nella mente l’importanza della missione, superiore anche alla propria salute personale. Persino Lilian, che agente non era, comprendeva di non poter chiedere un congedo, e sarebbero partiti come previsto l'indomani. Sarebbe stato pericoloso, i Rivoluzionari avrebbero tentato un colpo di stato. Sarebbero morte persone. Molte le avrebbe uccise proprio Jabura.

L’uomo non era un grande fan dei Draghi Celesti, a dirla tutta; ma avevano una facilità disarmante nel commissionare omicidi, e questo al Lupo faceva venire brividi di piacere dalla coda al collo.

Ma anche lui avrebbe corso dei rischi, e Lilian era ben cosciente del suo ruolo di supporto: non avrebbe riportato a Catarina un agente di meno.

In quel momento, però, non c'erano né Rivoluzionari né Nobili Mondiali: c'era solo una notte silenziosa che chiudeva la giornata più lunga di Lilian Rea Yaeger da quando era lì, all’Arcipelago di Catarina.

E c'erano un Lupo e una pilota che sonnecchiavano vicini davanti a un cielo stellato.

Rimasero tranquilli ancora qualche minuto, Jabura svuotò pigramente la bottiglia e mangiucchiò gli ultimi biscottini al cioccolato della scatola per conciliarsi il sonno, poi decise che era ora di migrare verso il grande letto del Lupo: la tenda di stoffa e bambù, sospesa da terra, dondolante come una barca nel mare placido.

Jabura prese in braccio la ragazza, raccogliendola da terra.

«Ce la faccio da sola» mormorò lei, stringendosi all’uomo.

«Ma piantala» la zittì. Attento a non farle urtare niente, la portò nel ventre caldo e accogliente del letto, franarono insieme tra i cuscini, e finalmente Jabura coprì entrambi con la morbidezza delle coperte.

«A proposito…» sussurrò Lili, quando le luci della casa furono tutte spente tranne una minuscola candela posata su un masso, la cui fiammella danzava sulle docili onde del ruscelletto. «Sei stato davvero un eroe» le sorrideva anche la voce «Grazie per… per tutto quanto… sarei morta, se non fosse stato per te»

Jabura ghignò nel buio.

«Dovere, pupa»

Si sporse dal letto, e con uno Shigan Bachi spense l’ultima candela.

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Chiedo immensamente scusa a tutti i lettori.
Ci ho impiegato una vita ad aggiornare, perché ci ho anche messo una vita a scrivere l'ultimo capitolo. Tra esami che sapevo di dover sostenere e altri che sono spownati tipo miniboss a tradimento, ho avuto genio zero per scrivere, e mi dispiace tantissimo perché avevo promesso che avrei aggiornato presto, e di solito ho sempre aggiornato in tempi brevi.

Altra notizia: sto radunando le idee per una nuova long, che però non so quando uscirà (e One Piece mi offre spunti nuovi di settimana in settimana), quindi per il momento dichiaro chiusa questa raccolta! Grazie mille a John Spangler e a Shinigami di Fiori per le bellissime recensioni e per il supporto! siete dei lettori meravigliosi e i recensori che tutti gli autori dovrebbero avere ?
Auguro a voi e a tutti i lettori una bella estate! 

Ma adesso parliamo della storia! 

***SPOILER ONE PIECE***

Lucci e Kaku al Reverie! Non poteva essere altrimenti: loro, dalla parte dei Draghi Celesti, si riconfermano "i cattivi", contro i quali si scontrano le principesse Bibi e Shirahoshi, Leo, Don Sai, e chiunque si stesse opponendo alla volontà dei Nobili. Oda purtroppo ha chiuso subito il sipario su di loro, ma tanto è bastato per farmi venire in mente una degna conclusione per questa raccolta: si lascia Catarina, e si va verso il Reverie, dove appunto da canon ritroviamo i nostri eroi. 

***FINE SPOILER ONE PIECE***

Chi mi segue da un po' sa che i personaggi di Lilian e Caro vengono da una vecchia storia e sono stati ripescati, ripuliti e adattati per questo filone narrativo sul Cp9; ecco, anche Paul Blackwood e Charlie vengono da lì! Come al solito, non c'è bisogno di andare a leggere vecchie storie: come si evince dal capitolo, sono gli ex colleghi di Lilian, e Paul era il suo diretto superiore. È nato da un'idea di mlegasy e da lui è stato sviluppato e curato in questo capitolo, cosa di cui lo ringrazio ♥ anche se l'ho sempre usato io nelle storie, è un suo personaggio originale, e ce lo siamo sempre immaginati con l'aspetto di Solf J. Kimblee di Fullmetal Alchemist Brotherhood.

L'acronimo cui fa riferimento Rob Lucci durante la lumacofonata con Caro Vegapunk è "Canadair". Vi lascio due righe tratte dal terzo capitolo di "La lunga caccia alla Mano de Dios" che spiegano l'arcano:

 

"La ragazza prese fiato e recitò: « CAro & Nobili Aristocratici - Dipartimento di Aeromobili e Istituto di Ricerca »
« UNO NOME POETICO, UN NOME IMPORTANTEEE!! » festeggiò Kumadori roteando il bastone e ignorando Kaku che tentava di fermare la gazzarra tra Jabura e Lucci « UN NOME FASTOSO CHE UNISCE QUELLO DELLA SUA CREATRICE E L’APPORTO ECONOMICO DEI NOBILI NELLA FONDAMENTALE SCIENZA DELL’ARIA! Tuttavia… è un acronimo terribilmente forzato… io… »
« Non è “forzato”, fa proprio schifo! » lo corresse la ragazza « Ma Caro si era messa in testa che doveva uscire “Canadair”, e… »
« FARÒ SEPPUKU PER LAVARE QUESTO TERRIBILE DISONORE! »"

...capito? :D 

Lo Shigan Bachi che usa Jabura all'ultimo rigo è una versione dello Shigan che in realtà è stata vista usare solo da Rob Lucci, ma non è assolutamente escluso che anche il Lupo la sappia usare; si tratta di quella mossa che si fa facendo con indice e pollice quel movimento che spinge avanti una biglia. Usando lo Shigan, invece della biglia si fa partire dell'aria come un proiettile, e in questo modo si uccide una persona o... si spegne una candela. Mettere nella storia questa spiegazione mi avrebbe un po' rovinato la scena, spero mi perdonerete!

Grazie a tutti per essere arrivati fino a qui.

Sono contenta di aver dato spazio ai meravigliosi ragazzacci del CP9 nel nostro fandom ♥ a presto, buone feste,

Yellow Canadair

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