La canzone del vento

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** Primo tempo ***



Capitolo 1
*** 1. ***



Aquaman® Mort Weisinger e Paul Norris, 1941.
Wonder Woman® William M. Marston, 1941
Saint Seiya® Masami Kurumada, 1986.

 
 
Tutti i personaggi nominati in questa storia appartengono a chiunque ne detenga i diritti legali. Questa storia è stata scritta per puro diletto personale; non ha alcun fine lucrativo. Nessun copyright si ritiene leso. L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell'autrice (Francine) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

 



 



La canzone del vento

1.





 





 

«Posso farti una domanda?»

La voce di Arthur è profonda come le onde a cui appartiene. Ti sembra quasi di percepire il suono della risacca, come una nota di fondo. Nemmeno fosse un profumo, pensi, ché se dovessi definire Arthur tramite un’essenza, questa non sarebbe una di quelle che si acquista in profumeria. Nossignore. Arthur odora di cuoio invecchiato, alghe e spuma di mare. Si porta l’acqua dentro, lui, e te ne accorgi se lo osservi bene, se ti fermi un istante sui suoi occhi di un verde impossibile che sembrano, quasi, acqua di mare al mattino in perenne movimento, come a voler trovare il proprio posto del mondo.
Una bazzecola, ti dici, rispondendogli: «Certo. Dimmi pure.».
«Perché ti chiami Diana?»
Pieghi la testa di lato. «A mia madre piaceva questo nome», rispondi. «E tu? Perché ti chiami Arthur?», gli chiedi a tua volta. Un’ovvietà, ma chi ha cominciato?
«Era il nome di mio nonno», risponde. Poi tracanna un altro bicchiere di whiskey – torbato, come piace a lui – e torna alla carica: «Ma perché tua madre ha scelto proprio Diana.».
Sbatti le palpebre, come a cercare di afferrare il senso delle sue parole. C’è una storia dietro, è questo che ti sta chiedendo? Poi Arthur rompe gli indugi e si spiega: «Diana è un nome d’origine latina. Visto che siete discendenti dell’antica Grecia, il tuo nome dovrebbe essere… A… Ar…».
«Artemis.» Lo vedi annuire, e spostarsi i capelli all’indietro, come a voler comprendere meglio le tue parole. «Il fatto è che Artemis è la nostra divinità protettrice, e sarebbe sembrato... sconveniente dare il suo nome ad una mortale. Sarebbe stato tracotante.»
«Tracotante?» Arthur sgrana gli occhi, divertito. «Caspita, Diana, ogni volta che parlo con te mi sembra di sfogliare un dizionario! Che significa, tracotante?», e fa un gesto con le dita, aprendole e chiudendole.
«Non capirò mai perché voi umani facciate quel gesto.»
«Quale gesto?»
«Questo», e ripeti quello compiuto da Arthur un secondo fa.
«Ah, questo», dice lui. «Mimiamo delle virgolette. È per dare enfasi ad un concetto.»
«A me sembrate matti», replichi, afferrando il tuo bicchiere e controllandone il livello in controluce. «Tracotante significa superbo, presuntuoso. Anche se in realtà, tracotante è qualcosa di più.»
«Tipo?»
«Tracotante è chi crede che i limiti imposti dagli dei non valgano per lui», spieghi, avvicinandoti, come se gli stessi sussurrando chissà quale segreto.
«Ed è un male?», ti domanda, un lampo divertito negli occhi. Reprimi un sospiro, ma non puoi impedirti di stringerti nelle spalle. Arthur è così: ingenuo, impetuoso, sanguigno; dispettoso come un bambino o un’onda che ti bagna l’orlo della gonna a tradimento; sempre pronto a chiedersi quali siano i suoi limiti; ma quando ti porti il mare nel cuore, colla sua voce ossessiva che si mischia al battito del sangue, puoi essere diversamente?
«Sì», gli rispondi, nemmeno avessi a che fare con un monello che si diverte a centrare i vetri delle finestre con una sassata.
«E perché?», ti chiede. Serio. Serissimo. «Che male c’è nel voler superare i propri limiti?»
«Nessuno», replichi, «almeno fino a quando non si eccede. Tutti abbiamo dei limiti, Arthur. Io, tu, il mare… È bene conoscerli, è bene cercare di spostare l’asticella un passo più in là. Ma non è bene ignorarli.»
«Non ti capisco», dice, versandosi un altro giro di liquore. Posi la mano sul tuo bicchiere appena in tempo. «Un limite è fatto per essere superato. E se non vuoi superarlo è perché, appunto, non vuoi. Non perché te l’ha detto il tuo amico immaginario.»
«Amico immaginario
«Sì.» Ti sta provocando. E si sta divertendo un mondo, nel farlo. «Gli dei, dico. Lo sanno tutti, che non esistono.»
Troppo alcol in corpo fa perdere la lucidità. Troppo alcol in corpo scioglie lingue e cuori. E fa dire anche quello che non vorremmo mai dire – anche quello che non dovremmo mai dire. E fa dire cose che è bene non neppure pensare. Guardi fuori dalla finestra. Il cielo è di un acciaio irreale. Le nuvole corrono, veloci, nemmeno qualcuno avesse sciolto i lacci dell’Otre dei venti, nemmeno Poseidone volesse dire la sua, sulla questione.
«Sei in errore.»
Arthur ti guarda da dietro il fondo spesso del suo bicchiere.
«Come?», dice, abbassando il braccio sul legno sbeccato del tavolo.
Sorridi. «Gli dei esistono», ripeti, mentre Arthur scuote la testa. «E io lo so.»
«Certo che lo sai. Tu credi negli dei!», protesta lui, un braccio sullo schienale della sedia. Se si agita ancora un po’, gli si sfonderà sotto il sedere, pensi. E forse gli starebbe anche bene.
«Ci credo, perché li ho conosciuti.»
«Sì, nei tuoi sogni!»
«No!», replichi, sbattendo un pugno sul tavolo. Arthur ti fissa con insistenza. Non sembra accorgersi che gli altri avventori – tutti pescatori che non sono potuti uscire col maltempo e che le loro mogli hanno spedito di gran carriera al bar del paese – hanno smesso di chiacchierare dei fatti loro e si sono girati a fissarvi. Aspettano la rissa, ti dici, curiosi di sapere chi la spunterà. Resteranno delusi. «Gli dei esistono. E lo sai anche tu. O vuoi dirmi che ad Atlantide non s’è parlato della battaglia tra Athena e Poseidone?»
Stringe la mascella. L’hai colto sul vivo, lo vedi dal lampo che gli attraversa lo sguardo. Si fa avanti. «Leggende…»
«Leggende?» Adesso sei tu che lo sfidi. «Non sono leggende, Arthur. Lo sai anche tu.»
«No, non lo so», insiste. Calmo. Pacato. Ma sotto il pelo dell’acqua si sta addensando una corrente turbolenta che rischia di portare via la linea di costa.
«Trent’anni fa. Più o meno. Ci furono violente alluvioni. Le acque si sollevarono per giorni e giorni, e poi finì tutto.» Pausa. «Non ne hai mai sentito parlare?»
Vedi nei suoi occhi che sì, ne ha sentito parlare eccome. Probabilmente, avrà visto coi suoi stessi occhi gli strascichi che quella guerra s’è lasciata alle spalle. Lei parlava di colonne abbattute, vestigia abbandonate, rovine di un mondo fatto di leucagata e corallo e orricalco. Hai passeggiato per quelle strade, Arthur?
«Sì. Me l’hanno raccontato. Non ero ancora nato, quando è successo.»
«E?»
«E niente», risponde, incrociando le braccia, con aria di sfida. «Niente, Diana. I cambiamenti climatici non sono una novità, no?» Non si arrende.
«I saggi di Atlantide? Cosa dicono, loro?»
Rotea gli occhi all’insù, un sorriso sulle labbra screpolate, e ti dice: «Leggende, Diana. Sono tutte leggende.».
«Raccontamele.»
È quasi un ordine il tuo, e i suoi occhi si catapultano su di te. Stai dando un comando al Re di Atlantide?, sembrano dirti quelle iridi d’acqua verde, com’è il mare al largo della Sardegna. Sostieni lo sguardo. È un duello di volontà, adesso, ché lui sì, sarà anche il Signore dei Sette Mari, ma tu sei la principessa delle Amazzoni. E non ti fai mettere i piedi in testa così facilmente. Neppure da lui.
Arthur storna lo sguardo per primo. Scuote la testa, allarga le braccia e dice: «Massì. Tanto questa è una notte perfetta per raccontarsi storie…».
Avvicina la sedia, posa i gomiti sul tavolo e fa cenno all’uomo dietro al bancone che vi porti un’altra bottiglia di whiskey. «Tu cosa preferisci, principessina?».
Non raccogli. «Una birra andrà benissimo, grazie.»
Arthur indica il tuo boccale all’oste, si versa l’ultimo bicchiere, abbandona la bottiglia sul tavolo, di taglio, e si gingilla col liquore. Ti ricorda quel personaggio di quel film fantasy che sei andata a vedere qualche anno fa. Com’è che si chiamava? Toradol? No, quello è un medicamento…
«Allora, principessa», inizia Arthur, «la storia che ho sentito io racconta che, dopo la morte di mia madre, Atlantide è piombata nel caos. Non c’era nessuno che potesse sedersi sul Trono e guidare il nostro popolo. Io ero lontano, mio padre mi aveva portato via. Per proteggermi. E comunque, ero solo un moccioso che amava nuotare. Non sarei stato di nessun aiuto. Quindi, che è successo?»
«Che è successo?», chiedi.
«È successo che il dio Poseidone è venuto in soccorso del suo popolo.» Silenzio. L’oste, Olaf, posa sul tavolo una bottiglia nuova e un boccale per te, e poi se ne ritorna dietro al suo bancone ad ascoltare le chiacchiere dei pescatori e le bestemmie sul tempo inclemente e sul mare arrabbiato che muggisce oltre la porta spessa della taverna.
«Ma questo non significa nulla.»
«Ah, no?»
«No.» La sua voce ha il suono secco di un ramo che si spezza, o di un’accetta che cala sul ceppo. «Sono leggende, Diana. Se Poseidone avesse davvero deciso di schierarsi con il suo popolo, perché è sparito? Dov’è andato?»
«Poseidone è stato sconfitto da Athena.»
Sbatte le palpebre. «Sì, quando si sono litigati quel formicaio a cielo aperto che è Atene…»
«No, Arthur. Trent’anni fa, Athena ha salvato la terra dalla furia di Poseidone.»
Tace. Si sistema sulla sedia, ti scocca un’occhiata poco convinta e ti dice: «Ma davvero?».
«Sì, Arthur. Davvero.»
Alza le mani, sorridendo. «Avanti, D. Non puoi credere sul serio che…»
«In questo posto c’è il wi-fi?», domandi, tirando fuori il cellulare dalla tasca della giacca incerata giallo anatroccolo. Arthur annuisce. «Password?»
«Orin.»
La inserisci e inizi a navigare. «Trent’anni fa, ho conosciuto la dea Athena», gli racconti, avvicinando lo schermo dello smartphone. C’è una pagina di YouTube, il video è quello di una ragazza giapponese vestita in maniera antiquata impegnata in quella che ha tutta l’aria di essere una conferenza stampa.
«Cos’è?», ti domanda.
«Trent’anni fa, questa ragazza ha dato il via ad una serie di eventi che sono passati inosservati alla maggior parte della popolazione.» Scruti il suo viso per carpire le sue reazioni. Fa un cenno, come a dirti Va’ avanti. E tu obbedisci. Lui è pur sempre il Re di Atlantide, no? «Questa ragazza ha organizzato un torneo di lotta. Questa ragazza, è la dea Athena.»
«Quest’uccellino spaventato?» esclama Arthur, sorridendo.
«Non mi credi?»
«Avanti, D. Quello che mi chiedi è più di un atto di fede», e sai che ha ragione. L’impossibile è entrato a gamba tesa nella vita di Arthur da troppo poco tempo perché abbia sufficiente elasticità mentale da lasciare aperto uno spiraglio di possibilità. Sta mettendo su una diga, una chiostra di scogli come denti aguzzi degli squali, qualcosa che lo protegga, in qualche modo. Ma puoi arginare il mare con una manciata di sassi aguzzi?
No. Senza se e senza ma.
«Lo so. Per cui, ecco la mia proposta», gli dici posando lo smartphone sul tavolo. «Io ti racconto una storia. Una storia che ho vissuto in prima persona. Poi, sarai tu a decidere se gli dei esistono o se sono solo… leggende.»
«Perché la racconti a me?», ti domanda.
«Perché gli altri sono figli del loro tempo. Tu ed io, no.»
«No? Sei sicura, Diana? Perché io sono più che certo di essere nato sulla Costa Est, di essere andato al liceo, di…»
«Hai capito cosa intendo, Arthur», lo interrompi. «Tutti noi siamo ponti tra la realtà e quello che si nasconde nelle pieghe del suo mantello. Io, te, Clark, Barry, Victor. Anche Athena. Siamo la dimostrazione che esiste una terza strada.»
«Dimentichi Bruce», ti fa notare Arthur giocherellando con il proprio bicchiere.
«Anche Bruce è un ponte», ribatti. Ma dove conduca questo ponte, non lo so… «Allora, vuoi sentire la mia storia, oppure no?»
«Certo che sì», ti risponde, accennando con la spalla al panorama fuori dalla finestra: un cielo di piombo che promette di rovesciare sulle vostre teste il fortunale perfetto. «O hai un altro posto dove andare, D?»
«Se intendi un posto dove non fa freddo e non piove in continuazione, sì. Parigi è deliziosa, in questa stagione…»
«Touché. Vorrà dire che la prossima volta ti verrò a trovare io.» Arthur ridacchia. Non succederà mai, lo sa lui e lo sai tu; però è bello poterci credere, anche solo per un momento. «Allora, questa storia?»
Ti schiarisci la voce. «In un bel giorno di Settembre di qualche anno fa, mentre pranzavo in un bistrot di Parigi, ho visto questo…» Le tue dita scorrono sullo schermo, Arthur tace, fuori il vento canta la sua canzone d’acqua e sangue.



Note: sì, sono impazzita, ma quest'idea continuava a ronzarmi nella testa da un paio di mesi; sicché, siccome la mia resistenza è pari a quella di un foglio di carta velina che dondola nella tempesta, mi sono detta che l'unica salvezza, per me, era cedere, nella pia seranza di sbloccarmi con Ciò che Sapete Voi.
Il Là per fare interagire Arthur e Diana me l'ha fornito una storia di _Akimi, Fish don't cry; quanto funzionano bene, questi due...
Sì, lo so che nel mio headcanon Saori e soci hanno un incontro con la
Casa delle Idee (Altrui); e allora?
 
 

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Capitolo 2
*** Primo tempo ***


Primo Tempo


 
1.
 

Pensavi di essere pronta. Credevi che sarebbe stato semplice. Facile no, ché la facilità va a braccetto con la banalità, con quella leggerezza di mente che non ti appartiene. La semplicità, invece, racchiude in sé il rassicurante senso del dovere. Ti libera dall’angoscia dell’errore che si annida nelle pieghe della distrazione. L’ansia evapora quando non hai più altre scelte. Esaurite le opzioni possibili, quello che resta è l’inevitabile, la certezza che le svolte sono terminate e che il cammino può essere uno, e uno solo. Puoi solo andare avanti, a testa alta. Rasserenata.
E allora, perché ti tremano le gambe?
Perché il tuo cuore batte come i tamburi di guerra durante l’assedio di Ilio?
Perché qualcuno non è d’accordo.
Qualcuno non si è ancora arreso e quel qualcuno, che pesta – caparbio e disperato – i piedi come fanno gli asini sui sentieri di montagna, è Saori. Saori che si chiede – ancora! – se non ci sia un’altra strada. Se non sia possibile ripercorrere i passi all’indietro e magari trovare una svolta diversa. O tracciarla, anche a costo di uscire dal sentiero battuto e scivolare per i prati e le forre e il fango armati di un paio di ballerine rosso ciliegia di Salvatore Ferragamo.
Saori che non s’è rassegnata a percorrere il cammino che Tyche ha tracciato per lei. Saori che nel suo vestito bianco – un vestito da principessa! – vorrebbe solo voltarsi, raccogliere le gonne in grembo e mettere quanta più strada possibile tra lei e tutta quella storia, senza sospettare, la sventurata, che quelle scarpette di pelle rossa la tradirebbero dopo pochi passi.
La suola di cuoio sdrucciolerebbe sulla prima pozzanghera. I suoi piedini delicati si riempirebbero di vesciche. E alla prima buca dispettosa, o alla prima radice che spunta dal terreno come un calappio, ci guadagnerebbe una bella storta.
No, quelle scarpette non sono fatte per correre, per scappare fino al faro in capo al mondo, in cerca di salvezza, di un muro sbeccato contro cui gridare «Tana!»; sono fatte per incedere, maestosa, sotto gli sguardi del mondo intero.
Athena risponde con queste considerazioni. Athena conosce i rischi, li calcola, li pondera, li soppesa; Saori no; Saori è ancora un cuore d’uccellino che vorrebbe frullare le ali e far finta che sia stato tutto un brutto, bruttissimo sogno.
«Signorina, è ora», e la voce di Tatsumi ti mozza il respiro, la stilettata del congiurato che si infila tra le tue costole e nei tuoi polmoni mentre lui guarda altrove; un volo di rondini, una nuvola che passa, il gioco d’acqua di una fontana. «Dobbiamo andare», ed è la voce di Athena che riverbera nella sua. Acciaio temprato e affilato, che chiama il tuo nome e sulla cui superficie lucida puoi scorgere il tuo viso dall’espressione sperduta, nemmeno ti fossi persa nel bosco con un paniere di leccornie per la nonnina ammalata, o sentissi i passi pesanti del guardiacaccia che la Regina Cattiva ha inviato a prendere il tuo piccolo cuore.
È Athena, la tua personale Matrigna Crudele? È lei che vuole il tuo cuore, la tua vita, il tuo sangue?
Probabile. Ma quando Athena chiama – e la sua voce sta chiamando proprio te – nessuno può tirarsi indietro. Neppure tu.
«Arrivo.»
Inspira. Espira. Ecco, così. Brava. Le ginocchia non tremano più, è solo un lieve guizzo dei muscoli; lo stomaco si fa di pietra, ma ha smesso di contorcersi; il cuore si placa. Adesso è troppo tardi per avere paura. I giornalisti aspettano e a te non piace farli aspettare.
Le porte si aprono. I flash ti accecano. Apri la bocca. Si va in scena.


 
2.
 

Quando il Sacerdote manda a chiamare una mezza cartuccia come te è perché c’è da togliersi di dosso qualche rogna. Troppo piccola per inviare un Santo d’Argento, ma troppo fastidiosa per ignorarla oltre. Così tocca a te, Kåre dell’Ippocampo, ultimo – e unico – Santo di Bronzo presente al Santuario, risolvere la questione. Hai salito le scale fino alla Tredicesima Casa, ti sei fatto la tua ora e mezza di anticamera – bisogna pur adattarsi ai tempi del Sacerdote, ché il Sommo Sion ha una certa età, pover’uomo, e trova conforto nella meditazione e in lunghe e prolungate abluzioni – e hai ascoltato a capo chino un monologo che è durato per quarantacinque minuti, intervenendo al momento opportuno.
La mia cervicale, pensi, massaggiandoti il collo mentre fai il percorso a ritroso.
Pare che in Giappone ci sia un’esaltata che sta infangando il buon nome del Santuario, organizzando un torneo di lotta con l’Armatura del sagittario come posta in palio.
E già questo, pensi, è di per sé una balla colossale.
L’Armatura del Sagittario è al sicuro, al Santuario, sotto la vigile custodia del Sacerdote. Ma balla o non balla, questa tizia – Saori Kido, ti ripeti, come a fissarti il suo nome bene in mente – non può indire alcun torneo. Né i Santi di Athena possono prendervi parte.
E che stiamo facendo? Una scampagnata?, pensi, stiracchiando il collo all’insù. Il cielo è un tappeto di stelle sparse a pioggia contro il velluto nero della notte. Ti dà le vertigini, alle volte; ma è così rilassante, da guardare, mentre si cerca qualcosa: un tassello, una risposta, il bandolo di una matassa ingarbugliata.
«È solo una bambina con troppi soldi e troppa noia contro cui scontrarsi, che ha scelto di attirare l’attenzione nella maniera sbagliata», ha detto il Sacerdote, con un tono di voce comprensivo, «ma il nome del Santuario e dei Santi di Athena deve restare segreto. Per il bene di tutti.».
In un altro momento, il Sommo Sion avrebbe chiesto la testa di quella ragazzina annoiata, ma il sant’uomo deve aver sviluppato negli anni una notevole dose di pazienza; oppure non vuole perdere elementi preziosi contro una mocciosa, ché solo il Cielo sa quando Ade attaccherà. In una notte di primavera, dicono gli Annali che hai mandato a memoria durante gli anni dell’addestramento, ma non è quello a lasciarti un sapore viscido in bocca.
Io sono sacrificabile, ti dici. Non è una novità, ma fa male lo stesso. Non resta che prendere la corazza, imbarcarti in una traversata mica da ridere e spiegare a quella pazza folgorata che è meglio se la faccenda finisce qui. Un bel gioco dura poco. Abbiamo scherzato, ma adesso basta. E sarà meglio che ti dia retta. Meglio per lei. Il sacerdote ti ha dato licenza di uccidere, come James Bond, e lei non ha né l’età né il fisico per interpretare una Bond girl.
Sì, basterà fare la voce grossa e assestarle un paio di sculacciate come si deve.
Sarà meglio studiare un’entrata ad effetto, ti dici, massaggiandoti il collo mentre riprendi a scendere le scale.


 
3.
 

La televisione non ti piace.
È chiassosa, volgare e spesso – troppo spesso – riempie un silenzio che non ha bisogno di essere colmato. Per questo hai esiliato il televisore sul fondo di un armadio e tanti saluti. Meglio la radio. Oppure la puntina del giradischi che cala, delicata come una carezza, sul solco del vinile.
Ma anche un orologio rotto segna l’ora giusta. Due volte al giorno, ha detto un uomo, un tedesco pacifista ossessionato dalla colpa e dal potere salvifico dell’amore. E a volte anche la televisione si rivela utile, come oggi, al bistrot di Jean-Marie, lo Chez Papa, in rue Gassendi, proprio al confine meridionale di Montparnasse.
Il piccolo televisore d’angolo è acceso come sempre, ma oggi, diversamente dal solito, hai deciso di non dargli le spalle e concentrarti sul tuo pasto in solitaria prima di rientrare a casa e correggere quelle versioni di greco che hanno fatto sudare i tuoi allievi. Oggi ti siedi proprio di fronte a quell’aggeggio infernale. E chiedi a Jean-Marie se può alzare il volume, per cortesia, ché quel servizio al tg dell’una ti interessa. E molto. Jean-Marie esegue, puntando il telecomando contro lo schermo come fosse la bacchetta di un rabdomante.
Il giornalista parla, accerchiato da un numero impressionante di colleghi, uno schieramento di mezzi e uomini – e quattrini – senza precedenti e bla bla bla; quello che ti interessa è altro e ha a che fare con la corazza in bella vista alle spalle di quella ragazzina dal vestito demodé. Una ragazza di tredici anni, di nome Saori Kido.
Ha un bel suono, pensi, mentre ti dici che non stanno raccontando tutta la storia. Se lei è giapponese, io sono un pinguino, pensi; ma non è tanto questo a suonarti strano, quanto l’armatura che si staglia luccicante sul piedistallo alle spalle di quella ragazza dagli occhi fierissimi che guarda dritto in camera con lo stesso cipiglio di tua madre quando ti ordinava di ricacciare indietro le lacrime e di rialzarti, ché lei era ancora in piedi e l’allenamento non era ancora finito.
Tua madre e i suoi racconti sull’esercito della dea Athena che, ogni duecentocinquanta anni – anno più, anno meno – si raduna attorno alla Fanciulla per combattere contro le schiere dello Sconosciuto, il dio il cui nome è sempre bene evitare di pronunciare a cuor leggero.
I loro pugni fendono l'aria e i loro calci spaccano la terra; ma i loro corpi sono quelli di normali esseri umani, ti ripeti, mormorando quella frase a fior di labbra. Una leggenda, diceva tua madre, che non faceva mistero di non gradire che le donne di quest’armata dovessero celare il loro volto dietro una maschera; ma le leggende hanno sempre un fondo d verità, ed eccotela lì, la tua leggenda, in carne, ossa e lunghissimi capelli lisci come seta, sbattuta in prima pagina nell’edizione dell’ora di pranzo.
«Questi giapponesi! Non sanno più cosa inventarsi!», chiosa Jean-Marie al termine del servizio, e mentre riprende la sua bacchetta personale e abbassa il volume ad un brusio di sottofondo, ti dici che sì forse è vero, forse ha ragione lui, nella sua beata ignoranza, e si tratta solo dell’ennesima trovata pubblicitaria.
Ma se invece le cose stessero diversamente?
Se invece la leggenda si fosse fatta realtà?
«Che ti porto, Didì?»
«Il piatto del giorno, Jean-Marie», rispondi, senza riuscire a staccare gli occhi dallo schermo del televisore.
«Oggi abbiamo il manzo alla borgognona», dice,  e quando la tua testa gli fa cenno che va bene, lui se ne torna nel suo regno, dietro quel bancone sempre ordinato che tra poco verrà preso d’assalto dagli impiegati delle Assicurazioni AXA, dai turisti di ritorno dal Cimitero e dagli studenti universitari che hanno deciso di saltare le lezioni e bighellonare per il centro godendosi una mattinata stranamente calma e assolata, per essere settembre.
«E una bottiglia di beaujolais», gli gridi dietro, tornando a concentrarti sulla tovaglia a quadretti bianchi e rossi e sulle tue perplessità. Avrai bisogno di pensare. E non si può pensare a stomaco vuoto. E i pensieri si fanno più scorrevoli quando c’è il dono dello Straniero a fare da fluido.  Più coraggiosi. E ne avrai bisogno, di coraggio, quando uscirai dal bistrot di Jean-Marie con la pancia piena e deciderai che le versioni creative dei tuoi alunni possono aspettare, e ti andrai a ficcare di testa in una situazione che non ti convince.
Quella ragazza sta attirando l'attenzione, ma l'attenzione di chi?



Note: ed eccoci col secondo capitolo.
Vogliate scusare l'attesa.
L'azione si colloca qualche giorno prima dell'inizio della Guerra Galattica. Saori ha organizzato una conferenza stampa per pubblicizzare l'evento, e Seiya, con ogni probabilità, se non ha ancora vinto la sua corazza, poco ci manca.
Kåre è un nome scandinavo di origine norrena che significa
riccioluto e capita proprio a fagiuolo con la costellazione dell'Ippocampo.
Sì, lo so. Lo so. L'Ippocampo - il Cavallo del Mare - è la corazza assegnata a Baian della Colonna del Pacifico del Nord - lo smargiasso che Seiya pesta dopo aver preso una sana dose di mazzate, ricordate? -; tuttavia, nei tempi remoti, esistevano tutta una serie di costellazioni che, per un motivo o per l'altro, sono cadute in disuso. La faccenda la spiego meglio qui, e siccome nel mio
headcanon esiste il Santo dell'Ippocampo, eccovi tirato in scena il povero Kåre, con somma gioia sua e della sua cervicale.
Ma che credevate che non ci fossero altri Santi di Bronzo fino all'avvento di Seiya e soci? Brr, Athena dev'essere messa davvero malaccio, allora...

Il bistrot
Chez Papa esiste davvero all'indirizzo che vi ho fornito. Fateci un salto, si mangia benissimo ed è assiepato da ragazzi e turisti (il Cimitero di Montparnasse è proprio ad un tiro di schioppo); s'intende che non sto facendo pubblicità a quell'esercizio commerciale, ma mi piaceva fornire un piccolo spaccato di vita vissuta all'interno di una storia di fantasia.
Settembre è, di solito, un mese uggioso a Parigi: o almeno, tutte le volte che ci sono stata - e sempre di settembre - ho trovato il cielo nuvoloso, e a volte anche la pioggia.

Diana, in questo momento della sua vita, è professoressa di greco in un qualche liceo classico francese (Lycée Sezione L). Non potrà spacciarsi in eterno per restauratrice, no? Anche loro, invecchiano!

La frase
I loro pugni fendono l'aria e i loro calci spaccano la terra; ma i loro corpi sono quelli di normali esseri umani vorrebbe essere l'epigrafe che il Cialtronissimo ha scelto per il manga, ma non ricordando io le parole esatte - ad una certa età, la mente vacilla! - e non avendo i volumetti a portata di mano, mi sono rivolta a google, che mi ha indicato la fidatissima avalon9 e la sua Arms. Di battaglie e di memorie che ho usato come fonte più che attendibile.

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