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Autore: Francine    03/03/2015    7 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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15.

 

 

Il buongiorno si vede dal mattino. O almeno, così dicono. Lei ne è convinta, almeno in parte. Ogni mattina riesce a svegliarsi poco prima dell’alba. Resta sdraiata, le orecchie tese ad ascoltare quello che le sussurra l’aria per prepararsi di conseguenza. Una bella giornata la si accetta a braccia aperte. Una storta la si raddrizza. O almeno ci si prova.
Che tempo farà?
Soffierà burrasca? Vento di maestrale? Scirocco? Ma soprattutto, quello che lei si chiede è chi dei due arriverà. Quello calmo, pacato, riflessivo – e la sua sarà una giornata di chiacchiere e lezioni teoriche ed interrogazioni sulle costellazioni estinte e i miti – oppure l’altro, quello che ama la lotta, che espande il suo cosmo in maniera prodigiosa, che le ha lussato un polso per gioco e che lei seguirebbe anche in capo al mondo?
Sì, il suo maestro incute ammirazione e rispetto senza neppure aprire bocca. Una presenza scenica impressionante. Sembra quasi di respirare la stessa aria che consuma le stelle, lassù nel cielo. Ma l’altro –
ma Lui – è meglio. Ha carisma, Lui. È forte, Lui. Così forte da sbriciolare le stelle come fossero una pietra pomice sotto il tacco dei suoi stivali. Con quella luce negli occhi, quello scintillio che accomuna il martire ed il suicida, quello splendore caldo e avvolgente della fiamma che sale verso il cielo. Una vampata, dritta a ghermire il cuore pulsante di una stella che danza.
Sì, ci si diverte di più quando c’è Lui nei paraggi. Lui sa quello che vuole dalla vita. Dominare il mondo. E ha tutte le intenzioni di mettersi la Terra in tasca, come fosse un sasso colorato o una biglia di vetro. Lui è forte e non fa nulla per nasconderlo. Perché dovrebbe? Non è mica una malattia di cui vergognarsi. È qualcosa di cui andare fieri, piuttosto, sfilando tra la gente. A testa alta. Athena lo ha scelto proprio in virtù della sua forza e Athena non sbaglia, giusto?

Giusto, si dice – si risponde – stiracchiandosi pian pianino. Affina l’udito, annusa l’aria come farebbe un segugio in cerca della preda, ma niente. Non capisce chi si presenterà, oggi, né se si presenterà qualcuno. Non sarebbe la prima volta che si dimentica di lei. Lui e l’altro sono molto, molto impegnati, ché Athena sceglie con cura i suoi Santi ed affida loro missioni su missioni ai quattro angoli della Terra. E il suo è quello più impegnato di tutti.
Forse oggi non verrà nessuno.
O quella porta si sarebbe già aperta, si dice, mettendosi a sedere sulle lenzuola ruvide. C’è un po’ di maretta, in questi giorno, al Santuario. Il Capricorno ha fatto una solenne fesseria e Lui gli ha sguinzagliato dietro il Leone. Sospira. Maschi…
Fuori il cielo si sta tingendo di lilla. Si prospetta un’altra giornata calda. Caldissima. Si trattiene i capelli con le dita, una smorfia a piegarle le labbra. Forse è tutto un trucco. Forse apparirà quello calmo e pacato. O forse Lui irromperà nel momento più cretino della giornata – mentre si lava i denti, ad esempio. Vedremo, pensa, mettendo un piede a terra e recuperando un elastico di spugna. Ma intanto, sarà meglio ripassare l’elenco delle costellazioni estinte – diciannove – prima di colazione. Per le scazzottate c’è sempre tempo.
Posa le mani sulle assi di legno, puntella i piedi ed irrigidisce i muscoli della schiena. «Ape, Arco e Freccia, Argo, Cancro Minore, Capretti, Cerbero, Civetta, Corde, Freccia Australe, Gatto, Iadi, Ippocampo, Oca, Pleiadi, Ragno, Rondine, Tartaruga, Triangoli, Vendemmiatore…»

Il tetto della casa non c’era più. Nessuno aveva più spalato la neve dal tetto o davanti alla porta d’ingresso, e le assi avevano finito col cedere e con lo schiantarsi all’interno, trasformando quella casa in una tomba.
Ikki fissava quell’ammasso di neve e legna ad occhi sbarrati, le mani che tremavano e la bocca socchiusa. Accanto a lui, Ichi si guardava attorno, cercando qualcosa chino sul terreno. Orme, probabilmente, o qualcosa di simile, che rivelasse loro gli ultimi movimenti attorno a quella casa. Idra scosse la testa, il ciuffo argento ne seguì il movimento, e si rialzò.
«Niente», disse. «La neve ha coperto eventuali tracce. Per quel che ne so, potrebbe essere passato qualcuno ieri come non essersi vista anima viva da secoli.»
Nachi annuì. «Vado a controllare», disse, facendo un gesto in direzione di Ikki. «Per scrupolo», aggiunse.
«Vengo con te», disse la Fenice, ma la mano di Ichi si posò salda sul suo polso sinistro.
«Meglio andarci cauti», gli spiegò l’Idra. «Meno peso mettiamo su quelle assi e meno pericolo ci sarà.»
«Ma Shun…»
«… potrebbe essere lì sotto. Come potrebbe non esserci. Ma nel caso in cui, meglio non rischiare di schiacciarlo. Non sei d’accordo?»
Ikki guardò la casupola dritta davanti a loro. La porta e le finestre sulla facciata principale sembravano occhi spalancati sul vuoto ed una bocca aperta in un grido muto. Sentì lo stomaco diventare ancora più freddo. Strinse denti e mascella. Abbassò il braccio, ma Ichi non lo lasciò andare.
«Non credo che siano lì», disse, socchiudendo gli occhi.
«Non c’è bisogno di indorarmi la pillola!», protestò Ikki.
«Non ti sto indorando un bel niente!», ribatté Ichi. «Guarda, piuttosto. Questa bicocca sembra abbandonata a se stessa, e da tempo pure. Se qualcuno vi si fosse rifugiato, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stato liberare il tetto dalla neve. Prima lezione. La neve non perdona.»
Ikki osservò Nachi arrampicarsi pian piano lungo il muro della casa ed affacciarsi all’interno. Sì, quello che diceva Ichi aveva un senso, ma…
«Questo è un ragionamento che può fare chi si è addestrato in un clima rigido come te.»
«E come Hyoga», replicò Ichi. «Qui fa un freddo boia, ma nemmeno in Finlandia si scherza, sai? Quindi, fidati. Se Hyoga è davvero tornato in Siberia, non credi che avrà avuto una maggiore cura di casa sua? Quel tetto è venuto giù da un bel pezzo, dai retta a un cretino.»
Ikki annuì, ma non era del tutto convinto. Si sarebbe tranquillizzato solo quando avrebbe visto coi suoi occhi che no, lì sotto non c’era Shun. Non prima.
Nachi sparì oltre il profilo della casa e sentirono un tramestio provenire dall’interno. Videro la neve alzarsi, come se un cane stesse scavando una buca profonda sollevando la terra oltre le zampe. Poi il Lupo riapparve, con qualche spruzzata di bianco sull’armatura e un’espressione perplessa.
«Il tetto è crollato a causa della neve…»
«Ma?»
Il Lupo sospirò. «Ma dentro è un unico tappeto bianco. Troppo denso e stratificato perché possa essere successo nelle ultime ventiquattro ore.»
«E se…»
«Ikki, no. Shun qui non c’è. Lì dentro la neve è diventata un ammasso di ghiaccio, come te lo devo dire?»
Ikki si liberò del polso di Ichi ed avanzò verso la casupola.
«Ehi!», protestò l’Idra.
«Lascialo andare», gli disse il Lupo. «Non ci crederà fino a quando non l’avrà visto con i suoi occhi. Speriamo solo non si rompa l’osso del collo.»
«Quel bambino… come si chiamava?»
«Jacov?», suggerì il Lupo.
«Lui. Da quant’è che non vede Hyoga?»
«Dall’anno scorso, ha detto», rispose Nachi.
«Quindi significa che Hyoga è partito per la Siberia, ma che qui non è mai arrivato
«O magari non l’ha visto quel ragazzino…»
«No.» Ichi scosse la testa e Nachi si chiese se non gli si fosse congelato anche il cervello. «Se è arrivato qui, sarà di sicuro passato al villaggio.»
«A fare un saluto? Hyoga voleva stare da solo, questo ha detto milady. Ricordi?»
«Sì, ma senza provviste non si campa. Ammettiamo che abbia pescato e che la dispensa fosse piena di lattine e carne essiccata… Un salto al più vicino villaggio lo fai. Sempre. Specie se riapri una casa dopo quanto? Sei, sette mesi? Un anno?»
Nachi annuì.
«Il mistero s’infittisce», disse Ichi, grattandosi il mento. Nachi gli lanciò un’occhiata sghemba. «Snoopy. Mai sentito? Non li leggevi i fumetti, in Liberia?»
«No.»
«Male!» Nachi non commentò. «Che avrei dovuto dire? Spazio, ultima Frontiera
«Lascia perdere. Recuperiamo Ikki, piuttosto e torniamo indietro a Kohobotek. Lì sapranno sicuramente dirci qualcosa…»

 

Il buongiorno si vede dal mattino, pensò Masami sciacquando le tazze nel piccolo lavabo sul retro del jet. Il mal di testa era passato. Solo, da un po’ di tempo, le sembrava che la chiamasse una voce. In continuazione. Ma se si girava, non c’era nessuno. Era sola. Oppure le dicevano che no, non avevano aperto bocca, loro. «Sicura di stare bene, Masami-kun?», le aveva chiesto Furihata, il copilota, prima di salire a bordo. «Hai una brutta cera…»
Masami si concesse un rapido sguardo nello specchietto posto all’interno dell’armadietto dei viveri. Sì, aveva una brutta cera, ma niente che un po’ di correttore ed una passata di cipria non potessero sistemare. Finisco qui e vado in bagno, si disse.
Il Falcon 900 era un aereo progettato per viaggi a lungo raggio e dotato di tutti i comfort per i dieci passeggeri presenti a bordo, ospiti della ricchissima Saori Kido. Lei era l’assistente di volo del personale riservato che era stato acquistato assieme all'aereo, e nel suo contratto spiccavano un paio di clausole che la obbligavano ad essere discreta - leggi: a non fare caso alle persone di cui la signorina si circondava, fossero anche fotomodelli dentro scatole di sardine di taglia extralarge - e ad essere sempre pronta a decollare, a qualunque ora del giorno e della notte.
Questo significava due cose: non avere orari fissi – perché anche se la giovane Kido era ancora troppo piccola per andare a folleggiare in quota assieme ai suoi amici, poteva sempre avere il capriccio di andare a fare shopping a Londra o Parigi appena alzata – e vivere con una valigia sempre pronta sotto al letto. Just in case, come si diceva dall’altra parte del Pacifico.
Sua sorella Asami l’aveva presa in giro, chiamandola “La ragazza con la valigia”, ma quando a fine mese Masami le aveva mostrato il suo estratto conto con lo stipendio appena versato, il colorito di Asami-chan era diventato verde bile. E poi, quel lavoro le aveva permesso di conoscere Tetsuya. E si erano divertiti parecchio, loro due. Niente preoccupazioni, niente legami e un po’ di sano ed eccitante sesso ad alta quota, col pilota automatico inserito e i passeggeri profondamente addormentati. Ma un bel giorno, Tetsuya le aveva detto che era venuto il momento di darci un taglio. Che sua moglie – la stessa donna che non lo capiva, che non lo considerava e che probabilmente lo tradiva con il vicino di casa mentre lui era in volo – aspettava un bambino.
«È stato bello», le aveva detto dandole la schiena, abbottonandosi la camicia mentre osservava il panorama dalla finestra dell’albergo. «Possiamo restare amici. Mi passi la cravatta?»
Masami gli aveva detto che sì, certo, sarebbero rimasti amici senz’altro; ma l’avrebbe strozzato più che volentieri con il suo foulard o gli avrebbe piantato i tacchi delle sue décolleté negli occhi. Si era sentita tradita e umiliata ed offesa. Non si aspettava che Tetsuya lasciasse sua moglie per lei – né era questo ciò che lei voleva, no; Masami desiderava semplicemente uscire a testa alta da quella situazione. Essere lei, quella che se ne andava. I suoi genitori le avevano combinato un incontro con un giovanotto di qualche anno più giovane. Un ingegnere, un medico o un promettente avvocato. «Un buon partito», le aveva detto sua madre per telefono. Qualcuno che le avrebbe permesso di vivere agiatamente senza una valigia pronta sotto al letto. Qualcuno che lei avrebbe accettato dopo un numero ragionevole di incontri, abbastanza da non sembrare troppo disperata da aggrapparsi al primo che passa pur di non restare zitella e sufficienti per non apparire troppo fredda e distaccata. E questo a Masami stava bene. Ma avrebbe voluto essere lei a dire a Tetsuya che era meglio chiudere lì la questione. Lui si sarebbe fatto spostare altrove, per stare più tempo possibile vicino a sua moglie, e lei avrebbe continuato a volare fino al giorno delle sue nozze. Invece, così era lei a dover ingoiare il rospo e a lavorare gomito a gomito con il suo ex – anche se tra loro non c’era stato nulla che potesse qualificarli in quel modo.  Tetsuya era gentile e cortese, come sempre. Molto professionale. E questo le dava ancor più fastidio, perché Masami sapeva che le voci sulla loro rottura erano volate di bocca in bocca più rapide di una freccia. O Furihata non avrebbe fatto commenti sul suo aspetto, quello di una donna abbandonata che piangeva accanto al telefono. E qualcosa le diceva che Tetsuya si comportava così perché era pronto a tornare alla carica. Le gravidanze sono un periodo difficile. E spesso le donne non sono in vena di intimità, specie se, come credeva – come malignava – Masami, il bambino non era di Tetsuya, ma del fantomatico vicino. E cosa c’è di meglio dell’amante abbandonata per spendere qualche ora di relax a diecimila metri di quota senza l’assillo delle nausee, del mal di schiena e di una persona accanto a te che assomiglia più ad un dirigibile che alla donna che hai sposato?
Era stato Tetsuya stesso ad avvertirla, subito dopo mezzogiorno. Sayuri, la segretaria, era malata, così le aveva telefonato lui. E il mal di testa di Masami era peggiorato, assieme al suo umore. Aveva ingoiato un cachet, mentre Tetsuya parlava. Un volo in Grecia, con scalo di due ore a Doha. Perché la signorina Saori voleva passare un po’ di tempo laggiù coi suoi amici. «Atene è splendida in questo periodo», le aveva detto Tetsuya prima di riagganciare, con un tono così idiota e mellifluo che Masami si era domandata cosa ci avesse trovato in lui di tanto interessante.
Avrei fatto meglio a dare una chance a Furihata, pensò, rimettendo a posto le tazze. Il campanello suonò. Masami si asciugò le mani e si armò del suo migliore sorriso prima di rientrare in cabina. Sperò che non la stesse chiamando Saori, ma uno dei suoi amici, magari quello alto e bruno che sembrava uscito fuori da un complesso rock e con un sorriso mozzafiato. E con il quale non le sarebbe dispiaciuto fare un certo tipo di discorso, più tardi, mentre il resto della compagnia dormiva della grossa. Con buona pace di Tetsuya.

 

«Insisti?!»
Shaina sbatté un pugno sul tavolo della cucina. Il cucchiaino nella tazzina tintinnò. Accanto a lei, le lunghe gambe accavallate, il Venerabile Mu la osservava con un’espressione indecifrabile. Un abbozzo di sorriso e lo sguardo gentile di sempre, ma qualcosa suggerì a Lois di non abbassare la guardia. Non era Shaina, quella da cui guardarsi, no. Can che abbaia non morde, dopo tutto. Ma il cane che non abbaia, cos’è che fa?
Morde.
Lois strinse la mascella.
«Non è come sembra», disse – ripeté.
«Abbiamo trovato questi resoconti sotto al tuo letto, nascosti in una cassa », e la voce di Shaina si accordò al tamburellare delle sue unghie sulla tovaglia incerata. «Ora, dimmi, Lois… che ci facevano questi documenti riservati lì sotto?»
Silenzio.
Lois non poteva rivelarle perché avesse preso in prestito quei diari. Non poteva rivelare il motivo innocente per cui l’aveva fatto. Non davanti al Venerabile Mu.
«Allora?» La voce di Shaina la richiamò all’ordine.
Silenzio.
«Non abbiamo tutto il giorno, Lois. O collabori, o…»
«Posso chiedere perché vi siete introdotti in casa mia senza permesso?» Attaccare era la soluzione. Per prendere tempo. Doveva imbastire una scusa credibile, qualcosa che provasse la sua innocenza ma che, allo stesso tempo, preservasse il suo segreto. I suoi sentimenti. Non poteva certo pensare di divulgarli ai quattro venti. L’avrebbero derisa. Si sarebbero presi gioco di lei. Erano soli, in quella cucina – nella sua cucina – ma Lois sapeva che fuori dalla porta i soldati erano tutti orecchie, pronti a carpire ogni singola sillaba per poi spiattellarle in giro, davanti ad un po’ di vino, come tante lavandaie pettegole. No, non poteva assolutamente rivelare perché avesse portato a casa i resoconti del Venerabile Shura. E rigirare la frittata era l’unica opzione disponibile. Per il momento, almeno.
«Le domande le faccio io.» Shaina non si era lasciata incantare. Probabilmente, hanno già provato questa tattica, con lei. I suoi allievi, forse, pensò Lois corrugando la fronte. E forse l’Ofiuco si era alzata col piede sbagliato, quella mattina, perché riprese a tamburellare con le unghie sulla tovaglia e ripeté: «Cosa ci facevano sotto il tuo letto i resoconti del Santo del Capricorno?».
«Dai, su. Dicci la verità, così la facciamo finita», sembrava suggerirle lo sguardo dell’Ariete. Lois sgranò gli occhi. Giravano delle storie, sul Santo dell’Ariete. Storie diverse da quelle che si raccontavano sugli altri. Pareva che riuscisse a teletrasportarsi, lui. Che leggesse nella mente delle persone, lui. E Lois, specchiandosi in quegli occhi dolci, si chiese se, per caso, il Venerabile Mu non si stesse facendo un giretto nella sua testa. E da quanto tempo andasse avanti la passeggiata.
«Venerabile Mu… voi…»
Mu sbatté le palpebre un paio di volte, poi Lois lo sentì dire: «Io, cosa?».
Mi stai leggendo nella mente, bastardo?!, pensò Lois guardandolo dritto negli occhi. Mu piegò la testa alla sua sinistra, di poco, quel tanto che bastò ad una ciocca di capelli per scivolargli su una spalla. Ma tacque. Che faccia da poker!, pensò Lois stringendo le labbra.
«Non vuoi parlare?», le chiese la voce di Shaina. «Ok, mi vedo costretta a farti ostracizzare.»
La testa di Lois tornò a fissare l’Ofiuco come se fosse caricata a molla.
«Come?», chiese. Con un filo di voce spezzata.
«Non mi lasci altra scelta», le disse Shaina, guardandola da sotto in su, seduta sulla sedia della cucina – della sua cucina – con le gambe accavallate. «Abbiamo rinvenuto del materiale riservato in casa tua. Sotto il tuo letto. Sapientemente nascosto sotto dei romanzetti d’amore», Che scommetto tu avrai letto, vero?, pensò Lois regalandole il peggiore dei suoi sorrisi, «Questo si chiama furto, Lois. Ed il furto è un reato che prevede pene severe, qui. Hai dodici ore per fare fagotto ed andartene. Lasceremo due soldati qui fuori, per evitare che tu commetta qualche sciocchezza…»
«No!»
«Mi dispiace, Lois», ripeté Shaina, col tono di chi pensa che in fondo no, non gli dispiace affatto, «ma non mi lasci altra scelta.».
E come marionette animate da una mano sapiente, Mu e Shaina si alzarono insieme con un movimento fluido e armonioso. In perfetta sincronia.
«Aspettate! Aspettate, vi prego!» Lois afferrò il braccio sinistro dell’Ariete. Il quale la guardò da sopra la spalla. «Voi… voi avete letto nella mia mente, vero, Nobile Mu?»
L’Ariete rimase a fissarla per qualche istante, con quella sua espressione indecifrabile e distaccata. Poi scosse la testa e disse:«No. Non sarebbe stato corretto.». E Lois seppe che le stava dicendo la verità.
«E allora, fatelo!»
«Sei impazzita!?», esclamò – strillò – Shaina. Mu le fece un cenno con la testa, zittendola. Lo sguardo dell’Ariete si fece più attento. Più interessato.
«Perché?», le chiese.
«Perché… Perché non posso… parlare…»
«C’è forse qualcuno che ti minaccia?», le chiese lui, con quel suo accento impossibile.
«No. Ma si tratta di una questione… riservata. E so che a voi, Venerabile Mu, posso affidare questo mio segreto…»
Mu e Shaina si scambiarono uno sguardo. Era quello che aspettavano, pensò Lois. Era caduta nel loro tranello, vero, ma almeno avrebbe mantenuto i suoi sentimenti al riparo dalle chiacchiere dei pettegoli di Rodrio.
«Quello che mi chiedi non è convenzionale», disse Mu, ma Lois sapeva che l’avrebbe accontentata. Sempre se non ha già letto nella mia mente ed ha deciso di voler scandagliare più a fondo, pensò, mentre annuiva al Santo dell’Ariete.
«Non ve lo starei chiedendo se non fosse indispensabile», disse. E se tu non sapessi che io sono innocente, o quantomeno innocua, non staremmo avendo questa conversazione, giusto?
«Sarà doloroso», l’avvertì Mu. «Te la senti lo stesso?»
Lois annuì.
«Va bene», le disse. Lois lasciò andare la presa.
«Vi lasciò soli.» Shaina uscì dalla cucina, come se quella fosse la sua battuta di congedo.
Mu non rispose. Ripeté:«Va bene», ponendole le dita sulle tempie. Erano fresche. Fresche e ruvide sui polpastrelli. Le cuticole erano rovinate. Forse se le mangiava. Lois non poté impedirsi di arrossire pensando che quella era la prima volta che un Santo d’Oro le sfiorava la pelle. Quante volte aveva visto le sue mani e si era chiesta come dovesse essere sentirle correre lungo la schiena o scivolare sul collo? Quante notti aveva sognato che Lui s’infilasse nel suo letto e la inchiodasse sul materasso, facendola sua alla luce dei lampi? Quante volte aveva desiderato sentire la sua pelle…
«Adesso svuota la mente da tutti i tuoi pensieri.»
Lois sfarfallò le ciglia. Mu aveva un sorriso indecifrabile. Oddio, non avrà mica?, pensò lei. Il sorriso dell’Ariete si accentuò. Rispondendole di sì.
«Avanti, Lois. Chiudi gli occhi.»

 

Milo osservava il panorama.
C’era un mare di luci, sotto di loro, come una spicciolata di piccoli fuochi d’avvistamento – o di incoraggiamento – sparsi a terra per fare compagnia ai naviganti che attraversavano il cielo di notte. E farli sentire meno soli. Uno spicchio della sua visuale era saldamente occupata dall’ala, e dentro di sé si ripromise che a Doha si sarebbe seduto qualche fila più avanti e si sarebbe goduto il panorama senza quella fastidiosa presenza.
Spostò lo sguardo dal blu della notte al riflesso della fila opposta alla sua. Gemini sedeva composta sul sedile reclinato, le braccia in grembo ed una mascherina a coprirle il viso. Avevano parlottato un po’, strada facendo. Le si era seduto vicino, un bicchiere di vino tra le mani, ed avevano fatto conoscenza. Quattro chiacchiere di mera cortesia, con cui lo Scorpione aveva tentato di mettere a fuoco quella ragazza, sfoderando il più pericoloso dei suoi sorrisi, quello che mieteva più vittime tra le esponenti del gentil sesso; ma lei aveva resistito. Lo aveva guardato atarassica, con quei suoi grandi occhi verde smeraldo sulla carnagione caffellatte. Aveva conversato amabilmente. Aveva riso alle sue battute. Ma non aveva raccontato di sé che lo stretto necessario. Veniva dallo Sri Lanka. Ceylon. «Quell’isoletta a sud dell’India, hai presente?» Non rammentava chi fossero i suoi genitori. Era sempre vissuta per strada. Mendicando. Rubacchiando. Arrabattandosi. Fino a quando non l’avevano portata al Santuario. Chi era stato? Un ragazzo. Aveva un’urna rossa in mezzo alla fronte e i capelli corti. Non le aveva detto il suo nome, né quello della sua costellazione. Lei non l’aveva più rivisto. Il suo maestro? Aveva appeso l’armatura al chiodo parecchio tempo prima, ma lei non sapeva quale fosse. Non amava parlare del suo passato e diventava molto, molto pericoloso quando lo si stuzzicava. Perché non erano intervenute? «Ordini del Sacerdote», gli aveva ripetuto, con la stessa leggerezza con cui si commenterebbe l’ultimo successo musicale. «Noi dobbiamo farci vive solo all’avvento di Ade. Non prima», e Milo aveva capito che non avrebbe ricavato null’altro, da lei, nemmeno estraendoglielo con delle tenaglie arroventate.
«Non vedo l’ora di arrivare. Inizio a dare di matto, qua dentro.»
La voce di Aiolia strappò Milo ai suoi pensieri. Il Leone si era accomodato davanti a lui ed aveva steso le gambe in un clang metallico.
«Ti rifarai sotto a Doha?»
«No», rispose lo Scorpione stiracchiando le braccia. Sì, l’armatura era diventata un fardello, più che un conforto. Il diadema dello Scorpione era posato sulle sue ginocchia, ma era quello l’unico peso di cui si era potuto disfare. Lo stesso aveva fatto Aiolia, che adesso giocherellava con il proprio diadema rigirandoselo tra le mani. «Non si sbottonerà oltre.»
«Che peccato, vero?»
Milo ghignò. «Già. Non ho capito quanti anni abbia, però…»
«Troppo pochi», ribatté Aiolia.
«Tu dici? Varrebbe la pena di chiederglielo…»
«Non mi sembra un comportamento corretto…»
«Oh, ma sentitelo!», e Milo fece un gesto con la mano, come a scacciare una mosca fastidiosa. «In guerra e in amore è tutto concesso.»
«Anche infilarti nel letto del nemico?»
«Ma se non ti ci infili, come lo sai che quello è il nemico? E se fosse un’amica
Aiolia si lasciò scappare un sorriso e scosse la testa. «Allora, che idea ti sei fatto?»
«Non saprei. La sua logica riflette molto la politica del Santuario durante la reggenza di Saga, così come l’ha definita lei. Reggenza, non usurpazione o qualche altro termine meno lusinghiero. Reggenza. Come se Saga, in un certo qual modo, fosse stato autorizzato dalla piega degli eventi a fare quel che aveva fatto.»
E?, gli chiese Aiolia con lo sguardo.
«Quando le ho chiesto cosa intendesse, senza andare troppo per il sottile, lei si è stretta nelle spalle e mi ha detto…  che usare reggenza serve a scaricare in parte la responsabilità di tutti noi. Che abbiamo obbedito alle sue regole, credendolo il Sommo Sion. Solo che lei non ha mai visto il Sacerdote in vita sua, e quindi, in un certo senso, è giustificata. Voi del Santuario che scusa avete?, mi ha chiesto.»
E tu non le hai cavato gli occhi? «Potrebbe essere una posa. Questa sua aggressività, dico. Magari si sente sotto pressione…»
«Oppure no. Per questo non vedo l’ora di atterrare ad Atene e vederci chiaro, in questa storia. Non mi tornano troppe cose.»
«Tipo?»
«Tipo, al Santuario si tiene nota di tutto. Lo sai anche tu, no?» Aiolia annuì. «Ecco, io vorrei sapere chi sia stato ad addestrare queste tizie. Quante ce ne siano. In vita, dico. E con l’armatura assegnata. Saga lo avrà tenuto scritto da qualche parte, non credi?»
«E se avesse distrutto tutto?»
«Non ci credo. Non è possibile. Lo so io e lo sai… tu.» La voce di Milo si spense, affievolendosi come una candela dallo stoppino troppo corto. «Athena? Athena?! Cosa c’entra adesso Athena?! È una pura e semplice questione tra maestro e allievo. Maestro e allievo. Lo so io e lo sai tu.» La voce di Camus, con quel tono ballerino e le erre ingoiate e le adenoidi sul punto di esplodere gli riempì la mente con chirurgica e dolorosa perizia. Strinse la mascella e tornò a guardare fuori. Le lacrime stavano per fare capolino e lui non poteva – non voleva – farsi vedere. Per pudore. Per orgoglio. E per un’altra mezza dozzina di motivi che Aiolia comprese all’istante. Il Leone fissò lo smeraldo al centro del proprio diadema, poi disse – poi bisbigliò: «Saga ha combattuto fino all’ultimo respiro. Anche volendo, non avrebbe avuto tempo e modo di distruggere quei documenti.».
«Appunto», annuì Milo ricacciando indietro le lacrime e la rabbia. «Se avesse appiccato il fuoco a quei documenti, avrebbe incendiato mezzo Santuario. Invece no. Non è stato il suicidio del gerarca messo alle strette, il suo. No.»
Aiolia si voltò alla sua sinistra.
«Avete bisogno di qualcosa?», chiese loro l’assistente di volo. Aiolia pensò che si dovesse proibire ai giapponesi di parlare in inglese. Non che i greci avessero una pronuncia migliore, ma l’inglese, in bocca ad un giapponese, diventava qualcosa di ancora più astruso e contorto. Spezzettato. Maltrattato. Indecifrabile.
L’hostess sorrise. Più a Milo che a lui ed il Leone subodorò puzza di guai.
«Un caffè, per favore. Decaffeinato», le chiese Milo, con una pronuncia creativa. Lei intese. Come, Aiolia non seppe dirlo, ma accadde. Lei sorrise, replicò con un «I’ll be back in a moment», o qualcosa del genere e si allontanò.
«Quanti anni avrà secondo te?», si sentì chiedere da Milo.
Boh? Ventitré? Venticinque al massimo?, pensò Aiolia. «Non vorrai…»
«Certo che voglio! Che domande mi fai?» Milo si alzò. Aiolia allungò le gambe.
«No. Non ci pensare nemmeno.»
«Troppo tardi. Ci ho già pensato.»
«Non ti faccio passare.»
Milo sorrise, una smorfia pericolosa e accattivante, e Aiolia poté intuire come facesse a farsele cadere tutte nel letto.
«Devo andare in bagno. Non vuoi che io la faccia qui, vero, micio?»
«Sei in missione», gli ricordò Aiolia, nel vano tentativo che questo contasse qualcosa, per Milo.
«Sono bloccato su questo coso volante, vorrai dire. Avanti, Aiolia. Che può succederci, quassù? Chi potrebbe mai attaccarci?», disse lo Scorpione guadagnando il corridoio centrale e dirigendosi verso la coda dell’aereo armato del suo migliore sorriso e delle peggiori intenzioni possibili.
Aiolia lo vide scomparire dietro al separé e si stese sul sedile. Mancavano ancora due ore prima dell’arrivo a Doha. Meglio dormire un po’.






Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Il caro Masami ci ricorda che le costellazioni sono ottantotto, e che quindi dobbiamo aspettarci altrettanti Santi preposti alla difesa di Athena e della Terra. Il problema sta nel fatto che le costellazioni sono diventate ottantotto solo tra il 1922 ed il 1930, quando l'UAI, l'Unione Astronomica Internazionale, decise di fare ordine in quel delirio che era diventato il cielo.

Il criterio è il seguente:
- le dodici costellazioni dello Zodiaco
- le trentasei costellazioni di Tolomeo, diventate trentotto per lo smembramento della Nave Argo da parte di Lacaille (e sto progettando un modo per unire il vero Lacaille all'allievo di El Cid. La Teshirogi non è scema. Anzi. E se mi serve questi assist, non posso non raccoglierli, giusto?!)
- altre trentotto costellazioni moderne, raggruppate dal 1600 in poi, per lo più nell'emisfero australe.

Per posizione, le costellazioni sono 18 boreali (emisfero nord), 34 equatoriali  e 36 australi (emisfero sud).

Esistono, poi, delle costellazioni cadute in disuso, perché assimilate da costellazioni più grandi e più semplici da riconoscere (considerate che l'inquinamento luminoso è andato incrementandosi vieppiù nel corso dei secoli). Tra queste, ho eradicato cose improponibili come Lo Scettro di Brandeburgo (vabbé), ed ho tenuto quelle che hanno una qualche attinenza mitologica, o che si possono far rientrare nel meccanismo della catasteria, anche spingendo.
Ne ho individuate diciannove, che sono quelle elencate nel primo paragrafo. Se andiamo a vedere, il povero Cerbero c'è, eccome. E il caro Dante pesta come un addannato con le sue palle chiodate, nonostante i suoi amici lo sfottano a riguardo. Se non ci credete, date un'occhiata qui...
Se poi volete farvi una cultura sulla storia delle costellazioni, buttate uno sguardo qui.

Non ho resistito. Ho collegato la maretta che c'è al Santuario descritta nel primo flashback con quanto sta accadendo in Episode G Assassin. Il caro Okada deve imparare a fare tavole meno illegibili e voglio proprio vedere come gestirà lo sfasamento temporale tra la fine di Episode G (1979) e quanto accade in quest'altro capitolo (1980?). Perché posso capire che Shura sia incappato nel TARDIS e abbia fatto un viaggetto ai giorni nostri, ma Aiolia? Come ha fatto a seguirlo? La porta era rimasta aperta? Ad ogni modo, vedere Shura con gli occhiali mi ha stesa.
E non potevo non citare Star Trek, questa settimana. Ci ha lasciato venerdì scorso Leonard Nimoy, il Signor Spock della serie classica citato ogni tre per due nei primi capitoli.  “Every life comes to an end when time demands it. Loss of life is to be mourned, but only if the life was wasted”.

In Giappone è ancora costume che i genitori arrangino i matrimoni dei figli. Accade nell'alta borghesia, quanto nella medio bassa. Fino a pochi anni fa una ragazza di venticinque, trent'anni non ancora sposata era additata come una zitella irrecuperabile. A metà degli anni ottanta avere venticinque anni ed essere single era considerato come camminare sull'orlo di quel baratro che si chiama solitudine eterna. La cara Masami ringrazia. E sì, Masami può essere anche un nome femminile. Dipende da come lo si scrive. Non ne ho idea, quindi passo. Facciamo in hiragana e amen?

​I suffissi -chan e -kun si usano per i bambini e le ragazze il primo, e per i maschietti il secondo; ma è altresì possibile rivolgersi a qualcuno usando il suffisso -kun in ambito lavorativo, anche se si tratta di una ragazza. In linea di massima, -kun è meno formale di -san e meno stretto di -chan.

Il ricordo della voce di Camus potete trovarlo qui.

In tutto ciò, grazie di cuore a JudithLovesJane per i consigli (utilissimi come il pane!) e a tutti voi per l'affetto con cui seguite questa storia e per la puntualità con cui accorrete ad ogni nuovo capitolo. Grazie. Di cuore. Alla prossima puntata, allora. Ci conto!!
   
 
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