Comunicazioni interrotte

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ombre ***
Capitolo 2: *** Cenere e ghiaccio ***
Capitolo 3: *** Echi di guerra ***
Capitolo 4: *** Raccordi e divergenze ***
Capitolo 5: *** Ragionevoli dubbi ***
Capitolo 6: *** Ogni crepa, una voragine ***
Capitolo 7: *** Ogni granello, un macigno ***
Capitolo 8: *** Schegge ***
Capitolo 9: *** Caduta libera ***
Capitolo 10: *** Disgelo ***
Capitolo 11: *** Noi no ***



Capitolo 1
*** Ombre ***


Serie: Schegge
 

 

 

Comunicazioni interrotte



 

 

1. Ombre

 

I sit alone in this winter clarity which clouds my mind
Alone in the wind and the rain, you left me

 

“Steve...”

Si sveglia con un dolore massacrante alla testa e non è sicuro che sia una semplice emicrania. Non è neanche sicuro di poter avere un'emicrania, e sicuramente non ne ha più avuta una da quando gli hanno iniettato il siero. Si raddrizza a sedere sul letto, premendosi le tempie coi palmi ad attutire quella sensazione estranea. Gli è difficile determinare se sia sveglio o meno: non c'è differenza tra le immagini che gli scorrono davanti adesso e quelle che hanno popolato i suoi sogni agitati.

La battaglia continua a riproporgli i suoi echi, cruenta e brutale come poche altre a cui ha partecipato. Sente ancora il sangue scuro e viscoso di quegli esseri che gli imbratta i vestiti, appiccicandoglieli addosso. Sente i loro artigli che gli lacerano le carni, e il loro fiato fetido a un palmo dal volto mentre le loro fauci sbavanti schioccano nell'aria, ansiose di squarciargli la giugulare. Ha passato almeno due ore sotto la doccia a scrostare quegli umori nauseabondi dai capelli e dalla pelle, segnata da nuove ferite che non si merita di far medicare.

Poi, Thanos che avanza verso di lui con la sua mole colossale, gli occhi piccoli e sprezzanti incastonati nel volto rozzo che lo scrutano come avrebbero fatto con un moscerino molesto. E l'ha scacciato esattamente nello stesso modo, con un gesto quasi annoiato della mano guantata che l'ha scagliato bocconi con la faccia nel fango. È stato come se una scure si fosse abbattuta sulla sua testa, spaccandola in due e calandogli un velo nero davanti agli occhi. Si tasta con cautela la tempia, ma non trova alcun segno dell'impatto. Solo quel dolore martellante che sembra provenire dall'interno, quasi a volergli frantumare il cranio1.

Infine, sente di nuovo il primo rintocco funebre che ha segnato la loro sconfitta: quel debole, incredulo appello rivolto a lui e perso nell'aria soffocante della giungla è diventato il sottofondo costante dei suoi pensieri. Gli basta interromperne il flusso per un attimo per sentirlo risuonare vivido nelle orecchie, per percepire la cenere sotto ai polpastrelli insanguinati.

Rimane a lungo seduto nella penombra, con gli occhi chiusi e una mano a sorreggergli la fronte.

Non ha voglia di alzarsi.

 



Note:
1Il mal di testa di Steve è un riferimento a una fan-theory secondo la quale, durante la colluttazione con Thanos, Steve è effettivamente rimasto ucciso dal colpo che gli viene inferto, per poi essere riportato in vita quando Thanos utilizza la Gemma del Tempo per ricomporre Visione.


Note Dell'Autrice:

Salve a tutti!
Non paga di torturare quella povera anima di Tony, sono passata a Steve <3 
Dunque, la storia si articolerà in 7/8 capitoli di varia lunghezza, dei quali questo funge da "introduzione"; nei prossimi giorni pubblicherò il successivo, sorprendentemente già pronto.
L'intera storia è accompagnata dalla (allegrissima) canzone Thistle And Weeds dei Mumford&Sons, di cui piazzerò uno stralcio all'inizio di ogni capitolo.
Questa storia fa parte della serie Schegge, ed è blandamente collegata ad alcune sue storie (specialmente Speaking Terms), ma non è necessario leggerle per riuscire a seguirla. Segnalerò comunque gli eventuali riferimenti :)

Un grazie enorme ad _Atlas_shilyss e T612 che hanno sopportato e supportato i miei deliri su questo progetto, sorbendosi le mie crisi mistiche durante la stesura <3
Buona lettura e a presto!

-Light-

 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel

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Capitolo 2
*** Cenere e ghiaccio ***


2. Cenere e ghiaccio

 

 

Look over your hills and be still
The sky above us shoots to kill
Rain down, rain down on me

 

 

I corridoi sono deserti.

Li percorre a passi lenti, cadenzati, seguendo le orme sbiadite di quelli con cui un tempo attraversava le caserme in giro per l'Europa, calcando sugli stivali lucidi, con la divisa verde scuro ben tirata sul petto su cui spiccavano le spigolose aquile d'argento.

È un'ombra lontana, quella. Le sue spalle sono ancora diritte, ma contratte dalla tensione che non le abbandona da giorni. I capelli un tempo impeccabili sono ora troppo lunghi e schermano gli occhi meno limpidi, mentre la barba incolta cela in parte il volto pulito dell'America. L'uniforme ha lasciato il posto a una delle sue camicie a quadri e a un paio di jeans sbiaditi; lo stridio sommesso delle sue scarpe da ginnastica ha ben poco di marziale.

Normalmente non si dovrebbe sorprendere di non incontrare nessuno a quell'ora del mattino, col sole che ha appena lanciato i suoi primi raggi oltre l'orizzonte piatto; ma gli ultimi giorni sono stati tutt'altro che normali. Si sorprende quindi di non incrociare Thor seduto sul pianerottolo del terzo piano con lo sguardo perso nel vuoto, o Bruce che ciondola davanti alla porta del laboratorio con fare indeciso, o Rhodey che passeggia irrequieto da una parte all'altra del palazzo. Non si sorprende invece dell'assenza di Nataša e Tony, rispettivamente rinchiusi in palestra e in laboratorio dal giorno delle esequie per T'Challa e i caduti in Wakanda1. Lui sta elaborando il suo piano2 – Steve lo spera, lo spera con tutto se stesso – lei sta probabilmente scaricando sui manichini tutta la frustrazione che stavolta le è impossibile nascondere dietro le sue facciate. Forse gli farebbe bene raggiungerla e seguire il suo esempio, ma non riesce a credere di poter provare soddisfazione nel colpire una sagoma inanimata, così manda giù la rabbia e la lascia a macerare dentro di sé, in una massa torbida e acre che gli avvelena il respiro.

Scende fiaccamente le scale, diretto alla sala comune che ormai non rispecchia più il suo nome, visto che vi ha visto al massimo due persone contemporaneamente, e per lo più in silenzio. È passata una settimana dallo schiocco, e ancora non si sono trovati tutti assieme nella stessa stanza. Si aggirano come fantasmi senza meta nella reggia di T'Challa, in attesa. Di cosa, Steve non saprebbe dirlo, ed è sicuro che anche chiedendolo non otterrebbe risposta. Non è esatto dire che si stiano evitando attivamente; piuttosto, seguono i propri ritmi senza badare a quelli degli altri. Ognuno tace e se ne sta nel proprio spazio, che solo sporadicamente si interseca con quello di qualcun altro. E anche in quel caso, tutto ciò che colma le distanze sono silenzi tesi e occhiate sfuggenti, di chi ha molto da dire ma non sa come farlo, né vuole davvero arrischiarsi a lanciare nel vuoto le prime parole.

Non credeva fosse possibile, ma persino Nataša si è fatta più distante del solito. Lei sì che sembra evitare volutamente ogni contatto, in particolare con lui; qualunque sia il motivo, Steve non ha davvero interesse a scoprirlo. Così la lascia a spaccarsi le nocche in palestra, da sola.

Forse lui e Tony sono stati gli unici a cercare un vero dialogo2, per quanto spigoloso, e sofferto, e con un esito più simile a una tregua che a una pace. Un cessate il fuoco momentaneo, perché hanno entrambi troppe ferite fresche per avere la forza di infliggerne o subirne altre, ma anche troppe vecchie cicatrici per poter sventolare una definitiva bandiera bianca. Percepisce ancora delle schegge ben palpabili tra di loro, nascoste in un perdono negato e in un cellulare rimasto spento per due anni, smussate solo dalla consapevolezza che non è questo il momento giusto per rimuoverle del tutto. Non con la cenere che avvolge i loro ricordi e nessuna strada sicura da imboccare dinanzi a loro.

Ma devono fare fronte unito. È l'unica certezza che Steve ha in questo momento, l'unica nozione che è sopravvissuta a settant'anni di gelo e a un decennio in un mondo altrettanto freddo, l'unica che continua a guidare i suoi passi a ritmo di marcia nonostante non ci sia più nessuno ad affiancarlo. Ha perso entrambi i suoi fratelli d'armi, poco importa se nella cenere o nel ghiaccio; se per scelta o per caso.

E tutti loro hanno ormai dimenticato come essere uniti, o magari non sono mai stati davvero una squadra. Si chiede da due anni quando e perché, esattamente, i Vendicatori abbiano smesso di essere uniti. Ormai sa che la risposta che cerca non è in Siberia, e non è più così certo di poter puntare il dito contro qualcun altro senza puntarlo anche contro se stesso. 

Sono dubbi ricorrenti che continuano a rodergli dentro, scalfendo la fierezza con la quale si è sempre fatto carico dell'onere di rappresentarli e guidarli, di comportarsi come dovrebbe fare un bravo comandante. Un bravo comandante che avrebbe dovuto accorgersi delle crepe che si ramificavano tra tutti loro sin dal principio, non fingere di non vederle pur di tenere insieme l'illusione di una squadra alle sue spalle. Quella consapevolezza risveglia una vecchia paura sopita e accantonata in un vicolo buio e fetido di Brooklyn, tra gli stracci striminziti di un ragazzino troppo gracile: la paura che forse, in fondo, è sempre stato troppo debole per farcela da solo contro i bulli.

Varca la soglia della sala comune con quel pensiero che gratta alla sua porta in un raschiare insistente. Il mal di testa sembra amplificarsi non appena si rende conto degli occhi di Nataša e Tony appuntati su di lui. Sopprime un sospiro quando una stilettata di dolore gli trafigge la tempia, ed esita sul posto. Si dimentica per un attimo di essere un supersoldato di un metro e novanta e ed esita ancora, come avrebbe fatto quel ragazzino smilzo all'imbocco dell'ennesimo vicolo cieco.

Si chiede se non sia davvero troppo stanco, adesso, ma entra comunque nella stanza con passo sicuro, evitando i loro sguardi.


 



 

Note:
1I funerali di Stato in Wakanda sono menzionati nella one-shot Interferenze.
2Riferimenti alla one-shot Speaking Terms, in cui Tony e Steve si confrontano per la prima volta dopo Civil War.


Note Dell'Autrice:

Aggiornamento a tempo record: presente!
Innanzitutto, sono rimasta piacevolmente sorpresa dal numero di persone che hanno letto e commentato questa storia, quindi parto subito col ringraziare T612, shilyss, serica, _Atlas_ e ninfetta che hanno lasciato una recensione allo scorso capitolo e coloro che hanno aggiunto la storia tra le seguite e ricordate <3 (Vi risponderò il prima possibile, scusate ma ci tenevo ad aggiornare in tempi brevi <3)

E insomma, ecco voi un altro trip d'angst! Non sarà l'ultimo, ma dal prossimo capitolo le cose inizieranno a farsi movimentate. Questi due scorci servivano soprattutto a "fissare" per bene il PoV Steve, oltre che a dare una panoramica della situazione. La storia coinvolgerà tutti i Vendicatori, nonostante rimarrà rigidamente PoV Steve, quindi tutti avranno il loro momento di gloria, anche se il focus centrale è comunque su Tony e Steve.

Ancora grazie a chi ha letto e recensito, e a mercoledì col prossimo capitolo:)

-Light-

 

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Capitolo 3
*** Echi di guerra ***


3. Echi di guerra

 

Spare me your judgements
And spare me your dreams
'Cause recently mine
Have been tearing my seams

 

 

 

 

La sala comune sembra quasi affollata, anche con solo tre persone ad occuparla.

Tony è sprofondato in una delle poltrone, schermato da un ologramma azzurrino proiettato dal suo cellulare, con una tazza di caffè apparentemente fredda e quasi intatta posata sul tavolino. Nataša sta seduta con le braccia incrociate sulla penisola della cucina, e sembra stare di guardia, nonostante sia in borghese. Gli sguardi di entrambi vengono calamitati su di lui non appena fa il suo ingresso, e Steve quasi spera di aver interrotto qualcosa, piuttosto che pensare a loro due completamente muti nella stessa stanza per chissà quanto tempo. Di certo, non gli sfugge il nodo di tensione che sembra aleggiare tra loro e che si stringe col suo arrivo. Non sa come interpretare la cosa: forse hanno risolto i vecchi dissapori, forse li hanno solo inaspriti. Il nodo sembra tendere i suoi fili anche verso di lui, ingarbugliandosi ancor di più e avviluppandolo a sua volta.

«'Giorno, Cap,» esordisce Tony, flemmatico, con la voce arrochita di chi non parla da molto che fa vacillare le sue ipotesi riguardo a possibili chiarimenti in atto.

«Ehi,» replica lui laconico, con un'occhiata evasiva a entrambi.

Nataša ricambia il saluto con un lieve cenno del capo, che scuote appena i suoi capelli chiari a cui non ha ancora fatto del tutto l'abitudine1. Tony invece si acciglia, storce la bocca e lascia ricadere il telefono in grembo, interrompendo i suoi traffici. Steve, di spalle, scruta entrambi con la coda dell'occhio mentre recupera una tazza dal lavello, e coglie di sfuggita i loro sguardi che si intersecano per un istante. Irrigidisce la mascella di riflesso, ma trattiene ogni commento riguardo a possibili discussioni avvenute a sua insaputa. Con Tony nei paraggi, fare un'osservazione simile sarebbe come togliere la sicura a una granata difettosa.

«Novità?» chiede infine proprio quest'ultimo a mezza voce. 

Nel dirlo, incrocia le braccia e reclina la testa all'indietro sullo schienale del divano, per inquadrarlo meglio e fugare ogni dubbio riguardo a chi si stia rivolgendo.

«Che intendi?» ribatte Steve, preventivamente sulla difensiva.

Ha imparato a non rispondere a una sua qualunque domanda senza vagliare tutti i possibili significati intrinsechi.

Nataša si limita a scrutarli da bordo campo, spostando gli occhi acuti ora su uno, ora sull'altro, probabilmente prendendo nota di ogni mossa per tentare di prevedere le loro reazioni, ma apparentemente decisa a non interporsi. Non gli è ben chiaro quanto sappia di ciò che è accaduto dopo Lipsia, né se questo potrebbe influenzare le sue azioni, considerando che si è sempre mossa in una zona d'ombra indefinita tra i due schieramenti.

«Non arrivano molti aggiornamenti, dalle mie parti,» replica Tony, tranquillo. «Non sapevo neanche che Ross fosse cenere fino a stamattina2... mi aspettavo almeno un brindisi collettivo per l'occasione,» commenta, con appena un'alzata di sopracciglia.

Ci sono talmente tanti risvolti secondari in quell'osservazione amaramente sarcastica, che Steve decide di ignorarli in toto.

«Nessuna novità,» risponde quindi, senza tradire la minima inflessione. «La cyborg si è chiusa nella sua stanza e Scott e Clint sono ancora irreperibili,» aggiunge a mo' di chiarimento, versandosi del caffè tiepido che non ha voglia di bere.

Nel mentre lancia un'occhiata penetrante a Nataša, in attesa di un suo commento, ma la donna non rompe la sua patina gelida e continua a tacere. Se anche sa qualcosa su Barton, non sembra intenzionata a condividerlo. Non con lui, almeno.

Tony libera un sospiro plateale e fin troppo sonoro, come avrebbe fatto in un qualunque giorno di due anni prima in reazione a una risposta poco soddisfacente, ma il tutto assume dei contorni forzati e artefatti. Sarebbe un'imitazione di se stesso quasi credibile, se non fosse per le occhiaie più marcate del solito e per la linee di tensione che non abbandonano gli angoli delle sue labbra; se non fosse per le spalle incurvate, per i capelli e il pizzetto insolitamente poco curati e per lo sguardo che si fissa troppo spesso nel vuoto, appannato.

Steve non è certo che la propria facciata sia poi molto più credibile di quella di Tony. Di sicuro quest'ultimo ha molti anni di allenamento in più alle spalle. Per quanto lo riguarda, raramente ha sentito l'impellenza di mascherare i propri pensieri ed emozioni, se non sul campo di battaglia. Ma lì è nelle retrovie, lontano dal fango insanguinato e dalle urla soffocate: non c'è nessuna esplosione, nessun compagno in pericolo, nessun filo spinato da oltrepassare che possano distoglierlo dal fuoco serrato dei suoi pensieri.
E stavolta non hanno vinto; non ci sono festeggiamenti a colmare il vuoto dei commilitoni caduti e a soffocare il dolore di chi li piange. Ad accoglierlo non ci sono le grida vittoriose del Commando, né il braccio saldo di Bucky sulle spalle, né gli occhi al contempo fieri e dolci di Peggy.
Alza appena lo sguardo oltre il bordo della tazza e si scontra con il muro di silenzio davanti a sé, con le schegge ostili ancora schierate tra lui e Tony, con gli occhi freddi ed evasivi di Nataša.

Beve un sorso di caffè e reprime un conato: sa di rame, e terra, e ruggine, e invia una schicchera acuta alla sua tempia dolorante. Posa la tazza sul bancone, faticando a mantenersi imperturbabile mentre sulla lingua ristagna la consistenza farinosa di un sottile velo di cenere. Il gesto finisce per essere più brusco di quanto intendesse e il rumore improvviso fa trasalire Tony, a sua volta sovrappensiero; Nataša si irrigidisce appena e Steve riconosce la tensione dei muscoli pronti allo scontro. Stringe a sua volta il manico della tazza pensando che, forse, avrebbero tutti bisogno di spendere un paio d'ore a distruggere sacchi da boxe.

«Come procede invece il tuo “piano”?3» butta lì, con un cenno del mento verso Tony, guidato dall'urgenza di spezzare quel silenzio e le ondate di nausea ed emicrania che si infrangono nella sua testa.

Nataša ha un fremito e alza la testa, chiaramente in ascolto. Tony in tutta risposta si mette goffamente in piedi, cercando di non pesare sulla ferita mentre recupera la giacca dallo schienale. Si rassetta in modo meccanico la camicia sgualcita, ritardando la propria risposta. È distratto: Steve se ne accorge dal modo in cui ticchetta per un istante le dita al centro del petto dove un tempo c'era il reattore, per poi realizzare l'inutilità della cosa e afferrarsi fuggevolmente la spalla sinistra, in un gesto estraneo ma ripetuto che Steve non è ancora riuscito a collocare.

«Ci sto lavorando,» risponde poi, poco convincente, guardandolo brevemente negli occhi per poi concentrarsi sullo schermo del telefono.

«Tutto qui?» Steve non riesce a reprimere un'intonazione accusatoria, indirizzata più alla situazione generale che a lui, ma che non lo esclude comunque del tutto.

L'altro alza di scatto lo sguardo, fattosi repentinamente duro e tinto da un'ombra della stessa, gelida rabbia che vi è emersa in Siberia. Rabbia e dolore, si corregge Steve, come si forza a fare ogni volta che rievoca suo malgrado quell'ultimo istante di lucidità prima dello scontro. È un'ombra che si dissipa con un singolo battito di palpebre, e il suo volto torna ad essere una precaria maschera d'indifferenza, gli occhi scuri di nuovo calmi e disinteressati.

«Se hai qualche idea utile, non sarò certo così stupido da rifiutarla per principio,» asserisce piattamente, come al solito in modo non univoco, con mille possibili richiami che pizzicano fastidiosamente la pazienza di Steve. «Anche se ne sarei molto tentato,» aggiunge graffiante, schioccando la lingua con finto rammarico.

Steve sceglie di concentrarsi su quel dolore latente, piuttosto che sulla rabbia; scarta l'opzione di ribattere ancora, lasciando cadere il rimprovero che gli è sovvenuto spontaneo e che, in un'altra situazione, non avrebbe mancato di esprimere.

«Tienimi aggiornato,» dice invece, più pacato, ed è troppo tardi per correggersi ed usare il plurale.

Gli occhi di Tony scattano rapidi verso Nataša, poi rivolge a lui una lieve, eloquente alzata di sopracciglia, ma non commenta. La donna invece trafigge entrambi con una singola, lunga occhiata, ma non rompe il suo mutismo, che a questo punto sta travalicando i contorni di una semplice presa di posizione imparziale, iniziando seriamente a destabilizzarlo.

«Vado da Shuri,» annuncia Tony subito dopo, recuperando una parvenza di brio e distogliendo Steve dall'intento di apostrofare Nataša. «Voleva mostrarmi qualcosa riguardo al vibranio,» continua, in un chiaro tentativo di allontanarsi dalle schegge acuminate che hanno inavvertitamente smosso.

«Avete qualcosa in mente?» Steve coglie la palla al balzo, arrischiandosi ad abbandonare la neutralità dell'angolo cucina per portarsi di fronte a lui e rivolgere così la schiena a Nataša, anche se sente i suoi occhi trapassargli la nuca.

Mantiene comunque una distanza ragionevole da lui e si poggia alla penisola con le braccia incrociate sul petto, diminuendo appena la differenza di statura tra loro e assumendo una posa non ostile; Tony segue con occhi guardinghi quello spostamento, ma non si ritrae, anche se le sue dita si contraggono lievemente sulla stoffa della giacca, che ancora esita a indossare.

«Siamo in fase riorganizzativa,» alza le spalle, come a dare supporto a quella spiegazione vaga. «Io devo ripristinare l'alloggio per nanoparticelle e lei deve rimettere in sesto la tuta di T'Challa.»

Per un attimo, nel parlare di invenzioni e progetti, torna ad essere Tony: il suo sguardo si illumina, anche se è solo un brillio fievole velato dalla menzione di un compagno scomparso.

«Poi ho recuperato qualche dato sullo scontro con quella prugna rinsecchita di Thanos. Raccolto sulla mia pelle, in effetti,» specifica, con una smorfia insoddisfatta e un cenno al suo fianco ancora malandato. «Shuri pensa di poter apportare qualche potenziamento mirato alla Mark per evitare di farmi ridurre a un colabrodo un'altra volta.»

«Le lasci mettere mano alla tua armatura?» Steve fa tanto d'occhi per quell'affermazione, cercando invano di ricordare l'ultima volta in cui qualcuno di loro ha avuto il permesso anche solo di avvicinarsi a una delle Mark.

Tony sposta il peso da un piede all'altro e guadagna mezzo passo di distanza, portando poi una mano a sfregarsi la nuca.

«Solo al reattore, in realtà,» lo corregge, con una palpabile nota di reticenza. «E ti ricordo che aveva quasi salvato Visione e, di conseguenza, l'universo,» ribatte con ovvietà. «È una ragazzina sveglia,» accenna un sorrisetto che però sfuma subito in una linea tesa, e torna a stringersi nervosamente la spalla.

Steve si limita ad annuire, comprensivo. A Shuri farà bene un po' di compagnia, e forse anche a Tony. Hanno tutti bisogno di distrarsi ed è sollevato che almeno loro due possano trovare qualche momento di serenità in laboratorio, che dopotutto è una valida alternativa ai sacchi da boxe.

«A proposito di vibranio... il tuo wok da guerra è in dirittura d'arrivo con una delle armature da trasporto,4» lo informa poi Tony, parlando in fretta e fingendo improvviso interesse per un filo sporgente della giacca con cui prende a giocherellare. «Entro stasera potrai riavere il tuo giocattolino. E anche una calzamaglia succinta nuova di zecca, se mai dovesse prenderti un attacco di nostalgia,» si schiarisce la gola e punta lo sguardo sulla vetrata che costituisce la parete di fondo, come se il suo interlocutore fosse disperso nella savana là fuori.

Steve si concede qualche secondo per assorbire l'informazione e, mentre è grato per il gesto forse non del tutto spontaneo che sta compiendo Tony nei suoi confronti, dubita di voler davvero tornare a indossare quei simboli. Dopo la battaglia ha fatto a pezzi con le sue stesse mani la vecchia tuta da combattimento sdrucita e scolorita, ancora inzaccherata di fango, sangue e cenere. A ricordargli la sconfitta bastano i vuoti e i silenzi impossibili da ignorare. Ha tenuto solo la stella bianca un tempo cucita al centro del petto, staccatasi ormai da mesi; giace nel cassetto del comodino accanto al suo blocco da disegno che non apre da una settimana, un'altra reliquia di un passato ormai sepolto che lui ha smesso da tempo di rappresentare.

«Grazie,» dice comunque, perché in fin dei conti anche quello è un ramoscello d'ulivo e sarebbe sciocco rifiutarlo di nuovo.

«Non lo faccio per te, te l'ho già detto4,» lo rimbecca lui con fare altero, ostinandosi a negare un perdono che Steve vorrebbe almeno intravedere oltre i suoi gesti e parole taglienti, oltre lo scudo sollevato e pronto a colpire. «Shuri mi aspetta,» sentenzia poi, sbrigativo, e indirizzando un'occhiata inaspettatamente truce a Nataša.

Si infila finalmente la giacca, trattenendo una smorfia quando il movimento stuzzica la ferita, si raddrizza il bavero e si avvia verso l'uscita senza voltarsi indietro, alzando una mano fiacca a mo' di saluto. Steve si immette sulla sua scia lasciandogli un lieve vantaggio, diretto a sua volta in palestra.

«Avete visto Bruce?»

L'inaspettata domanda arriva da Nataša, ed entrambi inchiodano sui loro passi e si girano di scatto verso di lei, presi in contropiede dal suo improvviso rianimarsi.

«Ti decidi a entrare in scena e sbagli anche battuta?» osserva Tony con fare saccente, troncando l'inizio di una risatina con un ghigno amaro.

Steve aggrotta le sopracciglia e i suoi occhi si infossano, divenendo cupi; le labbra si tendono, seminascoste dalla barba.

«Mi sono perso qualcosa?» scandisce apostrofando Tony, ma guarda entrambi in cagnesco.

«Nulla d'importante,» ribatte lui, sempre con un'espressione falsamente divertita stampata in faccia, come se il tutto si ricollegasse a qualcosa di comico di cui solo lui è al corrente. «Ci sono problemi più urgenti, a quanto pare,» conclude, con un brusco cenno del capo in direzione di Nataša che dovrebbe essere un invito a spiegarsi.

«Bruce è sparito,» dice lei, sempre atona.

Si è alzata dal suo sedile, con gli occhi verdi che sembrano schermare ogni emozione agendo come specchi per chi cerca di decifrarli. Steve trattiene l'impulso di sospirare: ne ha abbastanza di questi giochetti psicologici e di questo passo gli andrà davvero in pappa il cervello. Di sicuro il mal di testa non è migliorato.

«Pensavo che fosse con te,» si rassegna a lasciar cadere l'argomento e si rivolge a Tony, che scuote seccamente il capo.

«L'ultima volta l'ho visto tre giorni fa e ha declinato la mia offerta di un happy-hour in laboratorio. È ancora presto, starà ronfando nella sua stanza,» ribatte disincantato.

«Non c'è,» ribatte secca Nataša.

«Non ti chiederò come fai a saperlo,» borbotta lui, alzando un sopracciglio inquisitore.

Steve gli rifilerebbe volentieri uno scappellotto per la sua solita, inopportuna impertinenza. Allo stesso tempo è quasi grato che si sia ripreso almeno in parte e che stia procedendo sul suo consueto, indipendente binario di sarcasmo, portando avanti quella labile pantomima in cui l'universo non è davvero finito e loro stanno semplicemente battibeccando come al solito.

«Semplicemente, oggi non l'ho visto,» esplica freddamente lei. «Ed è preoccupante, considerando le sue attuali condizioni...» Nataša lascia in sospeso la frase, inclinando verso il basso la bocca e cercando lo sguardo di Steve, che concorda con un cenno del capo.

«Quali condizioni?» Tony allarga appena le braccia a sollecitare un chiarimento.

«Non lo sai?» si stupisce Nataša, prima che Steve possa rispondere, conscio dei dettagli che Tony deve essersi perso durante il suo isolamento volontario5.

«Sono un genio, ma non posso sapere anche quel che non mi viene detto,» butta lì lui con finta leggerezza, inviando al contempo un'occhiata glaciale nella sua direzione.

Steve si irrigidisce e stringe la stoffa della camicia fino a sbiancarsi le nocche, vedendo il ramoscello d'ulivo lasciare il posto all'ennesima, vana frecciatina.

«Ha avuto qualche “problema” con Hulk. A quanto pare, non riesce a trasformarsi e in battaglia ha dovuto usare la tua Hulkbuster come surrogato,» spiega concisa Nataša, captando il picco di tensione tra loro due e agendo tempestivamente da cuscinetto sia verbale che fisico, visto che le distanze tra loro si sono sensibilmente accorciate e sono ora a un braccio l'uno dall'altro.

«Oh. Male,» commenta lui, sfregandosi allarmato il pizzetto e cogliendo infine la gravità della situazione.

«Quindi, non sappiamo dov'è?» Steve si rivolge istintivamente a Tony, come tante altre volte in passato durante le riunioni strategiche, e quello aggrotta la fronte, interpretandola invece come un'accusa.

«Rogers, non vedo Banner dalla Sokovia,» risponde con voce contratta. «Pensi davvero che abbia un qualche interesse a fargli da balia?» conclude, con uno sguardo laterale a Nataša, che lo fulmina di rimando.

«Non guardare me, Stark. Non lo nascondo certo sotto al letto,» scandisce tagliente, in un chiaro invito a raccogliere quella provocazione servita su un piatto d'argento.

Tony sembra abboccare, e Steve presagisce una battutina sfrontata che farà probabilmente entrare Nataša in modalità KGB.

«Piantatela,» intima, con una nota ferrea e autoritaria che si instilla automaticamente nella sua voce mentre si interpone tra loro con fermezza, alzando corrucciato i palmi. «E fatemi capire bene...»

Prima di continuare, si assicura che Tony non abbia ancora intenzione di dar fiato al suo sarcasmo e che Nataša abbia desistito dall'intento di strangolarlo.

«... abbiamo perso Hulk?»

 



 

Note:
1 Il perché Steve non sia "abituato" ai nuovi capelli di Nataša troverà spiegazione in seguito. Ringrazio sentitamente T612 per le delucidazioni in merito al personaggio <3
2 Questo dettaglio su Ross fa parte del mio headcanon. Suvvia, non possono essersi disintegrati solo i buoni, no? :P
3 Riferimento alla one-shot Speaking Terms, in cui Tony afferma, molto vagamente, di avere un piano.
4 In Siberia, Tony ha riparato lo scudo di Steve, e in Speaking Terms gli comunica l'intenzione di restituirglielo, affermando a libera interpretazione che "non lo fa per lui".
5 Riferimento a Interferenze, in cui Tony ha passato i primi giorni dopo essere tornato da Titano chiuso nella sua stanza ed evitando il contatto con gli altri, ancora sotto shock per la perdita di Peter e il fato incerto di Pepper.

Note Dell'Autrice:

Finalmente, un capitolo un po' più corposo tutto per voi <3
Sottolineo che il tutto è sempre filtrato dagli occhi di Steve, che non è oggettivo né onnisciente, e che qualunque comportamento anomalo degli altri personaggi troverà spiegazione nel corso della storia (o nelle note a pié di pagina come ho fatto finora).

Un grazie enorme a _Atlas_, shilyss e T612 che hanno commentato lo scorso capitolo e a serica e ninfetta che hanno commentato il precedente, oltre a tutti voi che avete aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite <3
Non siate timidi, ogni commento è bene accetto! :D
Tenterò di aggiornare regolarmente ogni mercoledì, vediamo se riesco a tenere il ritmo :')
Alla prossima settimana!

-Light-

P.S. Perdonate i mille riferimenti ad altre storie della serie con relative note, ma ci tenevo a creare un contesto coerente e a gettare ponti collegamento tra tutte loro.

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Capitolo 4
*** Raccordi e divergenze ***


4. Raccordi e divergenze

 

I begged you to hear me
There's more than flesh and bones


 

 

«Abbiamo perso Hulk?»

Una bolla di silenzio incerto accoglie le sue parole.

«Se n'è andato,» lo corregge poi Nataša, guardinga.

«Se n'è andato, dici?» commenta annoiato Tony, alzando gli occhi al cielo. «Non è quello che fa di solito dopo che va tutto a puttane?» la sua replica è scevra di alcuna ironia e schiocca nella stanza come un petardo, facendo scoppiare con sé la cupola di tranquillità rimasta finora intatta.

Steve digrigna i denti, come se ciò potesse frenare le proprie parole, ma è stanco di non ribattere, e quelle trapelano vibranti:

«Stark,» usa di proposito il cognome, andando a colpire quel suo nervo perennemente scoperto, e si avvicina a lui di mezzo passo. «Ti sembra il momento di...»

Tony scatta all'istante, come una molla:

«No, non mi sembra assolutamente il momento di stare appresso alle vostre stronzate da bravi compagnucci amici per la pelle,» butta fuori in un sol fiato, la voce bassa ma sul punto di impennarsi. «Io sono fuori da quel club, ricordi?» rimarca poi, recuperando distanza e dandosi una pacca secca sul petto, proprio dove l'ha colpito con lo scudo due anni fa.

È abbastanza per congelargli la successiva frase in bocca e fargliene scegliere un'altra, più bruciante:

«Hai scelto di uscirne.»

Vede la mascella di Tony serrarsi, e un lampo d'ira offusca lo sfondo addolorato delle sue iridi, per poi sfumare nel suo tipico sorrisetto sardonico, che subentra prontamente a tappare quel cedimento.

«A quanto pare, non sono l'unico che preferisce essere altrove,» commenta sprezzante.

«Se avete finito di giocare ai maschi alfa, avremmo un problema da risolvere,» si intromette infine Nataša, ancora imperturbabile ma con una nota d'urgenza nella voce.

«Un vostro problema,» puntualizza Tony, tagliando l'aria col palmo a troncare anche la questione.

Steve si volta a guardarlo, incredulo. È la prima volta che lo vede tirarsi fuori di netto da una discussione invece di prolungarla all'infinito pur di avere l'ultima parola. Cerca di leggere oltre quel comportamento, ma tutto ciò che incontra è l'aria gelida della Siberia.

«Una mano ci farebbe comodo,» lo esorta la donna, sperando forse di rabbonirlo.

Ma Tony emette un verso esasperato e scuote platealmente la testa.

«Vi sto già dando una mano, ed è quello che dovrebbe fare anche Banner invece di evitarci come la peste e avere crisi adolescenziali,» sbotta caustico.

«E tu invece cosa staresti facendo?» lo pungola Steve, gettando al vento i suoi buoni propositi di pacifismo.

«Quello che voi non siete in grado di fare,» ribatte lui con supponenza, e Steve doma l'istinto di cancellargli quel sorrisino strafottente dalla faccia. «D'altronde, sono a corto di diavolerie e non posso esattamente scorrazzare qua e là senza armatura e con la milza a pezzi, quindi lascio volentieri a voi le missioni da buoni samaritani,» aggiunge, sempre più provocatorio, scostandosi col chiaro intento di andarsene una volta per tutte.

«Tony, non è una vera missione,» sospira Steve, appianando a stento la propria voce ancora bizzosa.

«È Hulk,» ribatte lui con una scrollata di spalle.

«È tuo amico,» lo corregge d'istinto.

Si rende conto dell'errore quando Tony stira le labbra in una piega amara.

«Ecco, mi stavo giusto chiedendo dove fosse finito Capitan Ipocrita,» sorride con scherno, gli occhi gelidi.

La sua voce gronda puro disprezzo, in una distorsione del tono pungente ma canzonatorio in cui intinge solitamente le sue frecciatine. Steve rimane interdetto quel tanto che basta per permettere a Tony di girare bruscamente sui tacchi e imboccare la porta senza degnarli di un ulteriore sguardo.

Steve e Nataša si lanciano un'occhiata reciproca, senza provare a trattenerlo.

«Tocca di nuovo a noi due, eh?» butta lì lui, con leggerezza forzata e la sensazione di essersi liberato almeno in parte della fastidiosa pressione che gli tormenta la testa.

«Così pare,» replica atona lei, con la bocca ridotta a una linea sottile e contrariata.

Non sembra affatto entusiasta e non offre alcun commento riguardo al diverbio appena avvenuto, con rammarico di Steve.

«Sarà meglio perlustrare il palazzo,» gli propone invece, facendogli cenno di seguirla.

«Davvero non hai idea di dove sia?» indaga Steve, senza muoversi e col sospetto che Nataša abbia mentito per il puro gusto di indispettire Tony.

La spia si gira di scatto verso di lui:

«No,» lo fredda. «E non ho intenzione di ripeterlo,» aggiunge minacciosa, per poi riprendere la sua marcia fuori dalla stanza.

Steve sospira con rassegnazione e fa per accodarsi a lei prima di perderla di vista, quando nota il procione acciambellato sul pouf nell'angolo, appena visibile tra le pieghe della stoffa. Si ferma esitando, lanciando un'occhiata a Nataša che è appena sparita dietro l'angolo.

«Ehi, Rocket?» lo chiama prima di poterci ripensare, e quello drizza appena le orecchie nella sua direzione, schiudendo una palpebra. «Vuoi darci una mano?»

Lui si riscuote e lo fissa per un lungo istante con occhi acquosi e annebbiati. Poi scivola a terra e zampetta a testa bassa sulle orme di Nataša, con la coda che struscia mogia sul pavimento.

«Perché no...»

 

***

 

La giungla sembrava meno fitta, vista dalla savana.

Steve e Nataša si fermano al suo limitare, mentre Rocket li precede di qualche passo, senza rallentare. La ricerca a palazzo non ha dato i suoi frutti, così come quella nelle strade limitrofe e deserte di Birnin Zana, spazzate da un vento umido che promette pioggia e appesantisce già la polvere che le ricopre. È stata Okoye a indirizzarli verso la savana ancora scempiata dalla battaglia e invasa dai miasmi putridi degli alieni caduti, ai quali neanche iene e avvoltoi hanno osato avvicinarsi. La giungla è stata la tappa successiva, neanche messa in discussione, come se esercitasse su di loro un naturale magnetismo a cui sarebbe stato inutile sottrarsi. Nell'aria c'è odore di carburante e ferro bruciato, proveniente dalle mostruose astronavi che ancora svettano sugli alberi come lapidi metalliche; a guardarle dal basso, Steve prova una lieve vertigine e ha l'impressione che si protendano all'infinito verso il cielo lattiginoso, quasi a slanciarsi verso il loro luogo d'origine.

Distoglie lo sguardo dai monumenti alla loro sconfitta e lo punta sul muro di vegetazione che sbarra loro la strada: un groviglio di rami, liane, radici, timori ancestrali e paure recenti. Steve concentra ogni energia nell'ignorare il suolo cedevole in cui affondano le sue scarpe, e si ripromette di non guardare mai in basso una volta entrati in quel labirinto.

«Coraggio, cacasotto... e voi sareste gli eroi più forti della Terra?» biascica Rocket tra le zanne, facendosi largo nella selva. «Un gigante verde in una giungla verde... niente di più facile,» borbotta ancora, la voce roca già ovattata dai tronchi e dalle foglie.

Steve inizia a rimpiangere di esserselo portato appresso, e anche l'occhiata che gli rivolge Nataša trasuda rimprovero, ma lui si limita ad accennare col capo alla giungla e a muovere il primo passo, ponendo fine agli indugi.

Subito, il mondo si fa più torbido. L'aria è afosa e il sole filtra a sprazzi dalla cupola vegetale sopra di loro, creando riflessi brucianti sui tronchi e sulle fitte piante esotiche che ostruiscono i loro passi quando la luce riesce a trapassare la doppia coltre di nubi e rami. Il loro avanzare è accompagnato solo dalle scarpe che smuovono il frusciante tappeto di humus e foglie morte e dall'occasionale grido di una scimmia o un volatile che attraversa l'aria umida. Ogni suono è ovattato e amplificato allo stesso tempo, quasi provenisse dalle viscere stesse della terra. Il silenzio è comunque troppo denso: il respiro vitale che di solito permea quei luoghi selvatici e rigogliosi è dimezzato. Steve lancia un fugace sguardo verso il basso: sul marrone rossiccio del sottobosco distingue una sfumatura grigiastra, e si affretta a riportare gli occhi dinanzi a sé prima di tornare in ginocchio di fronte alle ceneri.

Dopo qualche minuto di marcia, con Rocket ormai lontano, lui e Nataša si fermano con tacita sincronia in una radura tappezzata di felci, da dove si intravede il baluginio ferreo e inquietante di una delle astronavi fare capolino tra la vegetazione. Steve sta giusto per sfruttare quella breve sosta per provare a innescare un qualche tipo di discussione, quando Nataša si rimette lesta in cammino, lasciandoselo alle spalle; Steve recupera terreno, allungando il passo e impreca tra i denti quando, nella foga, la camicia si impiglia nel graticcio di rami e liane. Riesce finalmente ad affiancarla, con qualche graffio in più sulle spalle.

«Di cosa stavate parlando prima, tu e Stark?» prorompe infine, e dallo sguardo che gli rivolge la spia capisce di aver appena fatto il suo gioco, esponendosi per primo.

«Di te,» risponde laconica, sorprendentemente senza girarci troppo intorno.

«Ovvero?» Steve cerca di porla come una domanda casuale e disinteressata, ma percepisce uno spiacevole pizzicore allo stomaco, perché quella breve risposta racchiude anni di amicizia stroncati in un bunker gelido.

«Di quel che è successo a Lipsia,» specifica lei, aggirando un tronco che la nasconde brevemente alla vista.

Non aggiunge altro e continua la sua avanzata in silenzio, come se avesse detto tutto ciò che c'è da dire.

«Ti dispiace elaborare una risposta sensata?» sbotta Steve, senza più nascondere la propria frustrazione per quel trattamento inspiegabilmente scostante.

Non che si sia dimostrata molto più loquace nelle occasioni in cui si sono trovati a collaborare nel corso di quegli anni di esilio1, ma adesso che non sono in missione la cosa sta iniziando a logorargli i nervi. Nataša, dal canto suo, sembra sul punto di rifilargli un colpo ben assestato in mezzo alle costole, ma scosta invece con troppa forza una spessa liana sul suo cammino.

«Tony sperava che io potessi mediare tra voi due,» rivela poi, senza fornire davvero una spiegazione. «Questo è quanto.»

Steve scuote la testa, ma evita di commentare quella palese bugia e si rassegna a non sapere mai cosa si siano detti i due di preciso. Conta qualche passo misurato prima di riprendere il discorso:

«E non eri disposta a farlo?»

«Volevo prima ottenere qualche informazione in più,» inclina appena un angolo della bocca, come un felino soddisfatto della caccia, a chiara dimostrazione che è riuscita nel suo intento.

«Cioè, non volevi esporti,» traduce Steve, senza stupirsi troppo.

«Non è compito mio risolvere i vostri contenziosi,» replica lei, imperturbabile ma con una stilla di gelo. «E proprio per questo non ho intenzione di schierarmi di nuovo,» conclude poi, rivolgendogli uno sguardo irremovibile.

Steve evita di commentare il fatto che non ha mai chiesto a nessuno di schierarsi, tanto meno a lei.

«Magari un mediatore è quello di cui abbiamo bisogno,» butta lì, cercando di far leva sul buonsenso di Nataša.

«Quello di cui avete bisogno voi due è prendervi a pugni per un paio d'ore, scordarvi Lipsia e la Siberia e riuscire a...»

«Che ne sai, tu, della Siberia?» scatta Steve, mancando un colpo, e un senso di nausea stringe il cerchio alla testa quando il suo sguardo si fissa inavvertitamente a terra: per un istante la patina grigiastra sulle foglie, più che cenere, sembra brina.

«Solo che ci siete andati,» risponde lentamente lei, scrutandolo incuriosita e assottigliando appena gli occhi. «Tony non ha voluto dirmi di più, a parte che, cito, “è stato un casino”, che è come descrive più o meno qualunque situazione in cui ha fatto una cazzata,» spiega, e Steve è prudentemente incline a crederle.

Non crede che Tony rivelerebbe mai a nessuno ciò che è realmente successo laggiù. Forse solo a Pepper, o a Rhodes, ma non riesce a immaginare Nataša sulla sua lista di “persone fidate” dopo che gli si è rivoltata contro. E lei non parlerebbe così, se non fosse alla ricerca di una conferma o smentita da parte sua su quelle vaghe informazioni. Oppure vuole soltanto sentire entrambe le campane.

«Non ha tutti i torti,» si limita quindi a dire, cercando di mettere un punto all'argomento senza rivelare altro; tutto ciò che può fare è salvaguardare Bucky, anche ora.

Nataša sembra assecondarlo, per poi fermarsi tanto bruscamente che Steve teme di trovarsi davanti un qualche alieno superstite pronto a farli a pezzi e percepisce un breve picco d'adrenalina, già preparandosi a uno scontro.

«Siete esasperanti,» sbotta lei senza preavviso, e si volta verso di lui a braccia incrociate e con un cipiglio tetro che le adombra i tratti.

Steve prende atto di come, probabilmente, il suo piano di stilare una mappa completa della situazione sia appena andato a monte grazie alla combinata reticenza sua e di Tony. Trova ironico che, proprio adesso, si siano inconsapevolmente coperti le spalle a vicenda, e non può evitare che una sommessa soddisfazione emerga sul suo volto.

«Solo perché per una volta concordiamo su qualcosa?» formula pacatamente.

«Così state solo danneggiando la squadra,» rincara lei, in un tono accusatorio che lo fa incupire a sua volta.

«Non sono certo io a seminare zizzania,» replica con stizza.

«Con questo atteggiamento andremo davvero lontano...» sbuffa lei, voltando il capo di lato in un moto indefinito tra il deluso e l'incredulo.

È spiazzante vederla esternare in modo così palese il suo disappunto, ed è difficile dire se sia l'ennesima farsa con secondo fine o se sia realmente preoccupata per la squadra.

«Sei tu quella che va in giro a “raccogliere informazioni” invece di rendersi utile,» la rimbecca con durezza. «Ma capisco che il mestiere di spia sia difficile da abbandonare.»

«Questa l'ho già sentita,» replica, senza scomporsi se non per un'irritata alzata di sopracciglia. «E se lo faccio è perché non sono più così sicura di conoscere i miei compagni di squadra.»

Quell'affermazione ha il doppio effetto di fargli mancare la terra sotto i piedi e di aumentare la pressa che gli stritola le tempie.

«Cosa dovrebbe significare?» chiede guardingo, pronto a difendersi, ma anche ad contrattaccare se necessario.

«Cos'è successo in Siberia?» rimpalla lei senza esitazioni, guadagnando un passo verso di lui e trapassandolo con lo sguardo.

Steve non retrocede, ma si irrigidisce sul posto, serrando la mascella senza abbassare gli occhi.

«Sono faccende personali,» risponde, con un tono troppo basso che dà una sfumatura minacciosa alla sua voce.

«Devono essere piuttosto serie, visto che tu ti rifiuti categoricamente di parlarne e prima Tony sembrava sull'orlo di un attacco di panico,» alza le spalle lei fingendo noncuranza, ma la sua espressione rimane cupa.

Steve deve fare uno sforzo per non rimanere stolidamente a bocca aperta, e i suoi occhi scattano di lato mentre ripercorre la loro ultima discussione sul filo del rasoio. Non riesce a collocare l'osservazione di Nataša nelle parole aggressive di Stark e nei suoi chiari intenti litigiosi di poco prima, e la scruta con sospetto.

«Non è quello che ho visto io,» dichiara infine, con una vacillante nota di dubbio.

«Forse ti serve un ripasso sul linguaggio non verbale,» osserva Nataša, e fa un sorrisino saputo. «Anche il tuo mi è sembrato abbastanza chiaro,» insinua poi, inclinando appena la testa con fare eloquente.

«E sentiamo, cosa direbbe il mio linguaggio non...»

«Ehi, Terrestri!» la voce raschiante di Rocket rimbalza fino a loro sul fitto fogliame, interrompendolo. «Volete muovere il culo?» C'è una nota d'allarme ben palpabile nelle sue parole ed entrambi si mettono in allerta, puntando verso la direzione da cui proviene il richiamo. «Abbiamo un... problemino, credo!»

Un urlo profondo, rauco e prolungato segue quell'affermazione e Steve scatta all'istante in una corsa, seguito a ruota da Nataša.

 

***

 

Gli alberi si interrompono bruscamente sul ciglio di uno strapiombo, affacciato sui flutti irruenti delle rapide create da un'alta cascata2. Anche nella luce esitante che attraversa il cielo velato, l'acqua nebulizzata proietta spezzoni di arcobaleni che si infrangono contro la roccia nuda e scoscesa del dirupo. Sarebbe uno scorcio idilliaco, se non fosse per il dettaglio che spezza l'incanto: Bruce è in mezzo al torrente, seminudo e accovacciato su un masso piatto e levigato che affiora a pelo d'acqua, e sembra ricoperto di sangue.

Anche da lassù, Steve individua dei tagli sulle mani e sugli avambracci, ma non riesce a identificarne l'origine. Che vi fossero davvero degli alieni superstiti nei dintorni? Sente di nuovo l'adrenalina che gli risale le vene, mettendolo sul chi vive.

Rocket è a qualche metro da Bruce, sulla stretta riva pietrosa, e si sbraccia in direzione del compagno, apparentemente impegnato in un'accesa discussione, ma le loro voci si perdono nello scroscio della cascata: Rocket deve averli chiamati prima di scendere fin lì.

Sente Nataša affiancarlo guardinga e sporgersi a sua volta sulle rapide, ma la sua espressione rimane illeggibile. In quel momento Bruce alza di scatto la testa e li nota. Ha un istante di smarrimento totale, per poi urlare qualcosa che assomiglia molto a un “andate via!”, reso inequivocabile dal gesto imperioso che compie col braccio grondante di sangue.

«Sarà meglio tirarlo fuori di lì,» decide Nataša, senza mostrare alcun particolare turbamento nel vederlo ridotto in quello stato.

Steve annuisce in silenzio, osservando il compagno che riprende ad accapigliarsi verbalmente con Rocket scoccando al contempo delle occhiate preoccupate e ostili verso di loro. Nataša ha già individuato un punto più agevole per intraprendere la discesa della parete rocciosa e gli fa cenno di seguirla mentre già si lascia scivolare oltre il bordo. Steve la imita, sfruttando gli appigli della roccia ruvida e delle piante che vi si abbarbicano tenaci, per poi lasciarsi semplicemente cadere da qualche metro d'altezza. Attutisce senza sforzo l'impatto e si ritrova con l'acqua fredda e impetuosa a mezza coscia. Coglie un'imprecazione da parte di Nataša, costretta a scendere ancora un po' prima di fare lo stesso, e a quel punto lui si è già portato di fronte a Bruce.
Da vicino sembra ancor meno collaborativo di quanto sperasse. Non sa esattamente come approcciarlo, tanto meno in questa situazione anomala. Di sicuro ha sempre avuto più confidenza con Tony e Nataša, ma non crede che in questo momento avrebbe molto peso, considerati gli atteggiamenti astiosi di entrambi.

«Vi ho detto di sparire!» esclama lui, non appena lo inquadra nella sua visuale, e i suoi occhi sono cupi e infossati, tanto che sembrano potersi trasformare in quelli verdastri di Hulk.

«Bruce, vogliamo solo parlarti,» lo rabbonisce, sedendosi a sua volta sui talloni e infradiciandosi definitivamente i jeans nel torrente.

Stanno entrambi quasi urlando per superare il fragore dei flutti attorno a loro, ma Steve si sforza di non suonare aggressivo.

«Ehi, Capitano!» sbraita Rocket interrompendolo senza troppe cerimonie mentre saltella sul posto dalla riva. «Non ti consiglio di starci così vicino, a meno che non vuoi beccarti un bel pugno verde in faccia!»

Steve si volta di scatto verso di lui, per poi guardare di nuovo Bruce, che adesso si è chiuso a riccio, facendosi schermo con le braccia; il gesto coincide con Nataša che si è appena avvicinata a lui dall'altro lato, pur mantenendosi a distanza di sicurezza.

«Ti sei trasformato?» chiede Steve, cercando di far breccia attraverso le tenui difese del compagno.

«Eccome!» gli arriva la voce di Rocket. «Mi ha quasi ridotto in poltiglia!» aggiunge, tra l'esaltato e l'offeso.

«Non del tutto,» replica Bruce, e se non fosse per il suo udito particolarmente fine, gli risulterebbe incomprensibile. «Ci ho provato,» prosegue poi, schiudendo le braccia e lasciando intravedere gli occhi sofferenti. «Ma è stato inutile,» dice, mostrando loro i palmi e il viso imbrattati di sangue.

Steve mette finalmente a fuoco le ferite a mezzaluna che gli costellano mani e braccia e si sente sprofondare: sono segni di morsi, alcuni superficiali, altri tanto profondi e feroci da lasciar intravedere la carne viva3.

«Bruce,» stavolta è Nataša a intervenire, muovendo un cauto passo controcorrente verso di lui. «Dovresti andare in infermeria,» continua, col tono basso e leggermente musicale che usava in passato per placare Hulk.

«Tu stammi lontana,» ringhia Bruce fissandola con astio, e c'è un lampo verde nei suoi occhi infossati e circondati da vene rigonfie di rabbia. «E non cercare di incantarmi con le tue filastrocche.»

Steve esita sul posto, chiedendosi se sia il caso di intervenire a disinnescare la tensione sempre più stringente. Se Hulk dovesse effettivamente scatenarsi, forse solo con l'aiuto di Thor potrebbero riuscire a tenerlo a bada. Ma lui è irreperibile, loro sono disarmati e l'Hulkbuster è ridotta a un rottame.
Prende comunque iniziativa e si avvicina di qualche passo, mentre Nataša si limita a scrutarli, gli occhi che saettano tra di loro; Rocket si è placato e li osserva da lontano, seduto su un masso col suo fucile stretto tra le zampe. Bruce si ritrae ancora, ma non con la stessa aggressività che ha riservato a lei, e Steve riesce finalmente a mettere piede sulla piattaforma rocciosa, prendendo atto dello stato preoccupante delle sue ferite, che non si cura neanche di tamponare.

«Bruce? Che cosa è successo?» si decide a chiedere, sperando che spingerlo a parlare possa in qualche modo rasserenarlo.

Lui solleva appena lo sguardo e digrigna i denti, come se fosse preda di un dolore improvviso, o forse è solo una folata di vento più teso che lo fa rabbrividire, fradicio com'è.

«Ho pensato che il “metodo del proiettile” potesse funzionare di nuovo,» dichiara a mezza voce, e stavolta è Steve ad avere un brivido.

Ricorda ancora lo shock di tutti loro alla sua confessione sull'Helicarrier. E ricorda anche come avessero cercato di metterla da parte e di non riportarla a galla ogni volta che lo guardavano, quasi potesse gettare ancor più ombre su una personalità già complicata come quella di Banner.

«Hai cercato di...?» Steve non sa se completare o meno la domanda, ma Bruce glielo evita scuotendo energicamente la testa:

«Volevo solo risvegliare Hulk. Di solito quando sono in pericolo di vita reagisce d'istinto,» spiega, ora più controllato, e si scolla i capelli bagnati dalla fronte, impiastrandola di sangue.

Abbandona finalmente la sua posizione difensiva, abbassando un ginocchio e poggiando un braccio sull'altro ancora piegato a fargli da scudo. I suoi pantaloni sono laceri e strappati al ginocchio, come gli capita sempre dopo la trasformazione; sul torso nudo ci sono diverse escoriazioni, slabbrate e irregolari: non sembra essersele inferto da solo.

Anche Nataša è riuscita ad avvicinarsi un poco, e nonostante Bruce le rifili un'occhiataccia, non la allontana come ha fatto poco prima.

«Mi sono buttato da lassù,» indica la rupe da cui sono appena discesi, alta una buona dozzina di metri, e si lascia scappare una risatina asfittica e disperata alle loro facce sbalordite. «Lo so, è folle, ma che alternative avevo?»

«E ha funzionato?» chiede cauto.

«A metà,» Bruce accenna alle proprie ferite sul busto, che sembrano coincidere con le rocce affilate delle rapide. «Letteralmente. Metà corpo è diventata Hulk, l'altra ha... subito qualche danno,» conclude, quasi imbarazzato, andando a stuzzicare sovrappensiero uno dei morsi sul palmo viscido di acqua e sangue.

È Nataša a bloccare quel gesto, e Bruce fa per scansarla, per poi rilassarsi appena, pur occhieggiandola con sospetto.

«E queste?» gli chiede, senza girarci attorno.

«Sono altri “tentativi”,» risponde lui, sfuggendo infine alla sua stretta. «Ero abbastanza arrabbiato da credere che potesse funzionare, ma evidentemente Hulk ha rotto il contratto e ha deciso di tenermi solo in vita, fregandosene del dolore. O forse ha pensato che me lo meritassi,» aggiunge, con aria assente.

«Rocket,» Steve accenna col capo al procione, che ancora li scruta attento dalla sua postazione, «ha detto che l'hai attaccato.»

«Mi è piombato addosso mentre stavo...» offre il palmo sfregiato a completare la frase. «Voleva solo fermarmi, ma Hulk deve averlo identificato come un pericolo. Mi si è comunque trasformato solo il braccio,» scrolla le spalle, abbattuto.

«È un buon segno, vuol dire che...» tenta di dire Steve, ma Bruce gli impedisce di continuare:

«Non vuol dire un bel niente!» ringhia di nuovo. «Senza Hulk non posso esservi utile! Non vi sono stato utile!» aggiunge, col dolore che gli graffia la voce e riporta tutti loro a sette giorni fa. «E anche come Hulk...» si interrompe e il capo gli crolla in avanti, come se parlare gli costasse troppa fatica.

«Senza Hulk, rimani un genio con sette dottorati,» gli ricorda Steve, ignorando l'ultima affermazione. «Tony e Shuri stanno lavorando da giorni e aspettano che tu vada ad aiutarli,» prosegue conciliante, e l'immagine del compagno che indugia di fronte al laboratorio riemerge davanti ai suoi occhi. «Perché non l'hai fatto?»

Lo sguardo di Bruce si fa sfuggente, e le sue parole evasive:

«Non ci vediamo da tre anni... c'è troppo in sospeso,» ribatte, debolmente.

«Bruce,» Steve si impegna a incanalare tutte le sue doti persuasive in ciò che dice, accompagnandole con uno sguardo quasi implorante, «Thanos ha vinto: non abbiamo tempo per pensare al resto. Adesso dobbiamo rimanere uniti.»

Nel parlare, riesce quasi a sentire gli occhi di Nataša piantati addosso come due spilli roventi. Bruce tira un lungo sospiro tremolante e rabbrividisce di nuovo, ma annuisce appena, evitando i loro sguardi.

«Lo so. Lo so, stavo solo...» esordisce, adesso confusamente.

«Troveremo un modo, ma adesso ci servi tu, non Hulk,» lo rassicura Steve, con fermezza. «Su, torniamo a palazzo,» lo incita poi, con più gentilezza.

Prima che possa aiutarlo a rialzarsi, lui gli fa cenno di aspettare e si volta verso Nataša, improvvisamente serio.

«Ci lasci dieci minuti?»

Steve esita e scambia uno rapido sguardo con lei. Sembra stupita e non troppo contenta di quella richiesta, ma offre un cenno d'assenso.

«Vai. Vi raggiungiamo,» asserisce, tesa e stringata.

Steve li lascia a confabulare per conto loro e guada il torrente, riunendosi a Rocket seduto con le zampe penzoloni sul suo masso.

«Certo che siete messi male, eh?» commenta, quando Steve si siede accanto a lui, strizzandosi i pantaloni inzuppati.

«Ma non mi dire...» sbuffa in risposta, senza negare l'evidenza dei fatti e sfregandosi i capelli scomposti e imperlati da goccioline d'acqua.

Sospira con pesantezza. Sono davvero messi male, peggio di quanto avrebbe mai pensato. Quelle crepe prima appena visibili si stanno allargando tra tutti loro, e si sente come se stessero camminando su un lago ghiacciato ad occhi bendati, senza sapere se il prossimo passo li avrebbe portati su un solido blocco o su una pozza di ghiaccio nero. 

Scocca un'occhiata a Bruce e Nataša, che stanno apparentemente discutendo in modo abbastanza pacato; nonostante lui sia chiaramente più innervosito, lei non lascia mai vacillare la sua consumata espressione neutrale. Capisce fin troppo bene quanto possa essere esasperante avere a che fare con lei – come prendere a testate un iceberg – e quasi preferisce le frecciatine acide di Tony.

Scaccia la considerazione: le parole di Nataša sul compagno continuano a ronzare fastidiosamente nella sua testa, che già non è nelle migliori delle condizioni. Porta una mano a sorreggerla, massaggiando discretamente la tempia dolorante in un vano tentativo di attutire la sensazione che qualcuno vi abbia appena abbattuto un maglio sopra. È quell'ultima associazione a far scattare la sequenza di immagini che l'osservazione di Nataša ha continuato a pungolare fino ad ora: uno sfondo di cemento innevato, due occhi scuri e sbarrati dal terrore e il peso di uno scudo pronto a colpire nelle proprie mani gelate. Deglutisce, sentendosi la bocca secca e inspiegabilmente fredda, quasi stesse inspirando l'aria siberiana. Gli ritorna in mente la battutina sarcastica di Tony durante il loro primo incontro4, che ha evocato quella stessa immagine con colori solo in apparenza spavaldi, volti a tenere sotto controllo la tensione e a non smuovere delle schegge ancora ben percepibili.

Steve chiude stancamente gli occhi, masticando a vuoto e scoccando un'occhiata impaziente a Nataša, riluttante sia ad accettare in silenzio che abbia ragione, sia a chiederle una conferma più esplicita e confermare definitivamente quel fatto.

«Tutto bene?»

La voce di Rocket lo riscuote e quasi sobbalza.

«Sì... ho solo mal di testa,» si lascia sfuggire.

Nota l'espressione assente di Rocket, che sembra ipnotizzato dalle radici contorte di una magrovia a qualche passo da loro.

«Tu?»

«Troppi alberi,» risponde lui, laconico.

Steve gli rivolge uno sguardo mesto, ma non dice altro: non ci sono parole per lenire quel tipo di dolore. Prende a fissare il tappeto di foglie sotto le sue scarpe e il suo sguardo si appanna.
Lo sa fin troppo bene.

 

***

 

Dieci minuti si sono trasformati in mezz'ora di serrata discussione in mezzo al torrente e di pesante e meditabondo silenzio sulla riva opposta.

Steve considera comunque positivo il fatto che Bruce abbia infine acconsentito a lasciare il proprio baluardo, a detergersi le ferite e a fare ritorno, un po' malridotto ma decisamente più sereno. Soprattutto, è un sollievo che la tensione tra lui e Nataša sia diminuita quel tanto che basta per non sentirsi rizzare i capelli sulla nuca nell'interporsi tra loro.

Bruce e Rocket camminano davanti a loro parlando in verità in modo piuttosto amichevole, dopo il primo approccio turbolento. Steve capta qualche stralcio di conversazione riguardo a ingegneria genetica e raggi gamma, e non può fare a meno di sorridere appena, seppur tristemente. Almeno qualcuno ha voglia di parlare. 

Lui e Nataša invece tacciono, entrambi fin troppo consapevoli della discussione in sospeso che aleggia tra di loro, tesa come le nuvole sempre più dense che si trascinano nel cielo. 
È solo quando arrivano al limitare degli alberi che Steve si convince a mettere da parte l'orgoglio:

«Nat?» la trattiene senza forza per un braccio, lasciando un po' di vantaggio agli altri due, e lei asseconda quel gesto senza scomporsi.

I suoi occhi verdi sembrano attraversarlo mentre attende un proseguo da parte sua.

«Cosa diceva il mio “linguaggio non verbale”?» chiede, e il tentativo di suonare ironico o almeno scherzoso fallisce miseramente, perdendosi in un tono grave.

Lei esita un istante e Steve riconosce l'intenzione di mentire nei suoi occhi, subito sostituita dalla consueta trasparenza delle sue iridi chiare.

«Che non ti fidi di lui,» sentenzia, prima di incamminarsi di nuovo.

Steve rimane a un passo dal netto confine della giungla.

Nella penombra del fitto fogliame, inizia a chiedersi se Nataša non abbia ragione.


 
 



Note:
1In questa mia versione dei fatti, Nataša è rimasta in contatto con gli altri solo sporadicamente per qualche missione congiunta. I buchi nella sua timeline verranno colmati successivamente.
2L'ambiente descritto è dove Hulk affronta Cull Obsidian in Infinity War.
3Il fatto di mordersi le mani/braccia per trasformarsi in Hulk è una ripresa dall'anime Attack on Titan/Shingeki no Kyojin, che ho rivisto recentemente e mi ha ispirato la cosa.
4Riferimento a Speaking Terms, in cui Tony dice a Steve "[...] siediti: piazzato là tutto impettito sembra che tu voglia spaccarmi di nuovo qualcosa in faccia."

Note Dell'Autrice:

Ehm, è sempre mercoledì, no? Sssì, sono in ritardo, ma ho incontrato qualche difficoltà nella stesura, cambiata più volte in corso d'opera.
Non sono esattamente esperta col personaggio di Bruce, avendolo trattato poche volte, ma spero che i suoi atteggiamenti possano risultare credibili. Mi sono rifatta pesantemente al periodo di depressione culminato col suicidio di cui accenna in The Avengers. I fatti riguardanti Hulk sono mie supposizioni basate sul fatto che, quando Bruce tenta di trasformarsi, riesce ad evocarne almeno l'aspetto esteriore.
Come sempre, qualunque questione lasciata in sospeso/non chiarita, troverà spiegazione nel corso della storia, fermo restando che il PoV Steve è sempre determinante nell'interpretazione dei fatti.

Ringrazio tantissimo T612, _Atlas_, ninfetta, serica e shilyss che hanno recensito gli scorsi capitoli, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite/ricrdate/seguite (e siete davvero tanti) <3 Se volete farmi un regalo di Natale sotto forma di recensione, è il momento giusto ;) <3

Un caro saluto e, nel caso non riuscissi ad aggiornare prima, Buone Feste! :D

-Light-

P.S. Il rating è stato alzato per i riferimenti a suicidio e autolesionismo nella scena con Bruce.

 

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Capitolo 5
*** Ragionevoli dubbi ***


5. Ragionevoli dubbi
 
 
Corrupted by the simple sniff of riches blown
I know you have felt much more love than you've shown
 
 
 
  
Il tuono rimbomba e rotola cupo dal cielo plumbeo rovinando sulla savana sottostante, ennesimo lugubre annuncio di una pioggia che si fa attendere da ore.
Steve osserva accigliato il lento avanzare delle nubi pesanti, come di pachidermi pronti a collassare di schianto sotto il loro stesso peso. L’aria è densa ed elettrica, riesce a percepirlo anche da dietro la spessa vetrata, e gli fa venire la pelle d’oca. Non ama i temporali, così come non li amavano Bucky, Peggy e Howard. Londra nel ‘41 non si dimentica facilmente1 e ogni sottile vibrazione che scuote l’edificio gli riverbera nelle ossa tenendolo sul chi vive, istintivamente pronto a cogliere il sibilo acuto che precede la detonazione.

Sposta lo sguardo mobile e inquieto sulla sala comune, adesso vuota. Nataša è tornata a prendersela con sacchi da boxe e manichini, mentre Rocket si è dileguato nell’armeria per dare un’occhiata alla tecnologia bellica wakandiana. Bruce è andato in laboratorio con la scusa di farsi dare un’occhiata alle ferite da Shuri, ma Steve ha colto anche una non esplicitata intenzione di riprendere contatto con Tony.
Non nutre troppe speranze in proposito, considerando l’umore scostante dell’ingegnere in quei giorni e il suo scatto adirato di qualche ora prima, ma potrebbe essere un punto di partenza.
Sospira a mezza voce, appannando il vetro di fronte a sé.

Era convinto di averlo già trovato, quel punto di partenza, ma le parole calcolatrici di Nataša hanno rimesso tutto in discussione. Non è così sprovveduto da ignorare totalmente l’opinione di una spia navigata e con uno spirito d’osservazione sicuramente più spiccato del suo, anche se non può fare a meno di chiedersi con quale obiettivo abbia deciso di scoprire a quel modo le spalle di Tony. Se lui dovesse mai venire a saperlo non la prenderà bene, non ha alcun dubbio al riguardo, e l’ultima cosa di cui hanno bisogno è innescare un’altra diatriba su fiducie tradite. Tutto ciò che può fare lui è tacere e lasciarlo a bollire e sbollire nel suo brodo, cercando al contempo di tenerlo d’occhio in attesa di un frangente più favorevole in cui approcciarlo.
Le questioni private possono aspettare, al contrario di tutto il resto.

Un altro tuono più intenso scuote il cielo, facendogli socchiudere le palpebre per il suono amplificato dalle sue orecchie fini, e gli ricorda anche chi è che dovrebbe cercare in quel momento.
Si scosta dalla vetrata sfregandosi la testa dolorante ed esce dalla sala comune diretto al terzo piano, con un sottile, latente nervosismo che affretta i suoi passi marziali.

 
***
 

Trova Thor al suo solito posto, ovvero seduto sul secondo scalino della rampa che conduce al terzo piano. Si chiede se si sia mai mosso da lì nel corso dell’ultima settimana, escludendo quella mattina, per poi interrogarsi su dove mai possa essere andato e se la concomitante scomparsa di Bruce sia un caso o meno. Quei pensieri lo fanno tentennare quel tanto che basta perché l’asgardiano lo noti e sollevi lo sguardo verso di lui. Steve si accorge solo allora della discrepanza tra i suoi occhi, uno del consueto azzurro slavato, l’altro di un nocciola chiaro e quasi dorato.

L’ultima volta che l’ha visto erano illuminati dal bianco accecante dei fulmini, e in seguito non ha avuto modo di guardarlo spesso in faccia. La sottile cicatrice che gli attraversa l’orbita e la guancia destra sembra essere una spiegazione plausibile per quel mutamento. D’altronde, quello non è l’unico che riscontra nel compagno: i suoi capelli sono corti, acconciati in un taglio midgardiano e anonimo; il volto che ricorda aperto e incline alla risata è irrigidito, segnato da linee di tensione che gli costringono la bocca incorniciata dalla barba verso il basso. Non ha Mjöllnir appeso alla cintura, né l’enorme ascia che gli ha visto usare in battaglia, e ha abbandonato la corazza ripiegando su una meno appariscente tuta da ginnastica grigia i cui polsini gli scivolano fino alle nocche escoriate.

«Capitano Rogers,» lo accoglie, con la consueta voce profonda e quei modi un po’ all’antica che in fondo non gli sono mai dispiaciuti troppo.

È però un saluto scialbo, privo d’inflessione, e i suoi occhi sembrano attraversarlo, fissi su un punto dietro di lui.

«Principe Thor,» ricambia, adeguandosi al gioco di formalità ormai superato da un pezzo, ma volendo comunque rispolverarlo in onore dei vecchi tempi, in cerca di un tassello di normalità in quell’accozzaglia di pezzi confusi e dolorosi. «Non più “capitano”,» si trova comunque a puntualizzare con un’alzata di spalle appena accennata, quasi a strapparsi con le proprie mani dall’illusione.

Nota l’espressione corrucciata di Thor, la sua mascella improvvisamente rigida.

«Non più “principe”, già da un pezzo,» replica, quasi masticando quelle parole e accompagnandole con un sorriso grave che per un istante sembra racchiudere tutti i suoi millecinquecento anni.

Steve si blocca sul posto, cogliendo con lieve ritardo i sottintesi di quell’affermazione e ricollegandoli al suo volto stanco e provato, agli occhi arrossati come se li avesse sfregati troppo spesso.

«Mi dispiace. Non lo sapevo,» può solo dire, contrito e senz’ombra di artificiosità.

Non sapeva veramente che fosse succeduto a Odino. Dai suoi brevi e laconici discorsi aveva intuito che Loki fosse morto, ucciso da Thanos, ma ora si rende conto di non avere idea della portata delle perdite subite dal compagno. Forse non vuole averla.

«Condoglianze,» aggiunge comunque, a voce più bassa, e Thor fa un breve, lento cenno col capo ad accettarle.

Tra loro si interpone un silenzio necessario, un breve intervallo che lascia a entrambi la possibilità di relegare sullo sfondo quello scambio di battute. Steve si appoggia con forzata disinvoltura al corrimano delle scale, mentre Thor sembra totalmente assorbito dall’orizzonte che si staglia cupo oltre la vetrata, assediato dalle nubi massicce e rigonfie di pioggia che continuano ad avanzare divorando il cielo. L’asgardiano le segue con lo sguardo, o forse sono loro ad assecondare quest’ultimo. Steve preferisce negare quella possibilità.

«Ho sempre saputo che sarei diventato re,» proferisce d’un tratto Thor, e quell’affermazione si adagia tra di loro con la stessa pesantezza di un tuono lontano. «Anche Loki l’ha sempre saputo,» aggiunge, in un tono indecifrabile tra l’amarezza e il rimpianto.

La sua voce rimane controllata, ma di una rigidezza tale da dar l’impressione di potersi spezzare di netto.

«Ma nessuno di noi due pensava che lo sarei stato per così breve tempo,» conclude con mestizia.

Steve corruga le sopracciglia, certo che gli stia di nuovo sfuggendo qualcosa, ma piuttosto che porre domande inappropriate si limita a fissarlo interrogativamente. Lui nota la sua perplessità e, con sua sorpresa, stira le labbra in un altro sorriso lugubre, amaro. C’è un’ombra del fratello in quell’espressione sardonica, e non gli è chiaro se Thor ne sia cosciente o meno.

«Ormai sono un re senza popolo,» dichiara quindi, e Steve sente la propria faccia deformarsi involontariamente in un’espressione sgomenta.

Non sa perché, ma ripensa a Londra. Camminando con Bucky attraverso l’ennesimo quartiere sventrato dalle bombe e delimitato solo da qualche brandello di muro, aveva pensato più di una volta che la città intera giacesse ormai sotto quelle macerie. Che ogni singolo uomo, donna e bambino fosse stato inghiottito dai detriti e dalla polvere, lasciandoli soli a camminare in un cimitero a cielo aperto, coi pali del telegrafo sradicati a far da croci. Quel pensiero fuggevole veniva prontamente smentito da un colpo di tosse, un pianto sommesso, un lamento debole ma tenace provenienti da un cumulo di macerie, che Steve si precipitava a smuovere così da far respirare la speranza ancora determinata a non farsi annientare.

Quello stesso pensiero si è ripresentato dopo lo schiocco, insistente, alimentato dal velo di cenere che stava ricoprendo l’universo intero e tenuto a bada dalle spalle amiche che ancora lo affiancavano. E torna a galla adesso con l’immagine di una Asgard completamente scempiata e vuota, che nel suo immaginario si sovrappone in modo onirico alle schiere di mattoni rossi anneriti dell’East End. Steve boccheggia stordito, cercando di articolare delle parole coerenti, ma fallisce nell’intento:

«… non la metà?» dice soltanto, suonando ben poco empatico.

Thor scuote la testa un’unica volta, per poi sollevarla e guardarlo direttamente negli occhi. I suoi sono velati, come se vi fosse calato sopra un sipario traslucido.

«Thanos non è stato così clemente,» afferma, sempre in quel tono incolore.

Steve fatica a ricollegarlo alla voce roboante che ha sempre sovrastato quella di tutti loro pronta a trasformarsi in risata, così come gli è difficile scorgere l’impeto guerriero che lo infiamma spesso e volentieri, sepolto forse assieme al suo popolo.

«Non ho più nulla da perdere. Forse è per questo che ho commesso un errore così grande,» rimugina subito dopo, cupamente.

«Tutti noi abbiamo sbagliato,» lo corregge Steve quasi in automatico, ma sente una decisa fitta nel ricordare quanto intensamente avesse sperato che, con l’arrivo inarrestabile di Thor, la vittoria fosse ormai vicina.

«Ma nessuno di voi avrebbe davvero potuto fermarlo,» replica senza durezza Thor, come constatando un fatto ovvio. «Quello era compito mio, come re di Asgard e protettore di Midgard e dei Nove Regni. Ho fallito,» conclude, e l’unico cenno di turbamento è un lieve contrarsi delle mani, un sottile aggrottarsi delle sopracciglia bionde.

«Thor, siamo tutti convinti che sia unicamente colpa nostra,» afferma, con più veemenza. «Questo non ci dà il diritto di arrenderci.»

Di nuovo, in modo del tutto inaspettato, Thor sorride appena con quel fare distante.

«Non c’è motivo di arrendersi,» ribatte sibillino. «E non abbiamo ancora perso.»

«Vorrei condividere il tuo ottimismo,» sospira Steve, preso in contropiede da quello sfoggio di sicurezza.

«Non temere,» esordisce l’asgardiano, con una scintilla indecifrabile negli occhi asimmetrici. «Il sole tornerà a splendere su di noi,» afferma poi con fare quasi profetico, appuntando lo sguardo oltre la vetrata, dove l’unico segno che il sole non si è spento del tutto è il livido, morente pallore che delinea gli ultimi stracci di nubi chiare non inglobate dai giganti ferrei che si schierano all’orizzonte.

Steve accusa una fitta più insistente alla tempia, e stringe i denti camuffando quella e la sua perplessità, assieme alla disturbante impressione che Thor non si stia rivolgendo a lui. Non riesce a sentirsi affatto rassicurato dall’apparente tranquillità del compagno, attraversata da una nota inquietante che non riesce a collocare, ma che stride fastidiosamente in sottofondo e assume man mano i contorni di una qualche flebile, malsana speranza alla quale Thor non può fare altro che aggrapparsi. Forse, per il suo bene, dovrebbe cercare di infrangerla e riportarlo alla realtà, ma adesso tutto ciò di cui ha bisogno è qualcuno che lo affianchi nel raccogliere i pezzi disastrati della loro squadra.

«Dov’eri prima?» cambia repentinamente argomento, dirigendosi verso terreni più solidi e fattuali.

«Ho fatto due passi con Banner,» risponde pacato lui, con una lieve esitazione per quella domanda improvvisa.

Steve sente un campanello d’allarme risuonargli in testa nel ripensare alle condizioni in cui avevano trovato lo scienziato.

«Poi ho parlato con Nebula,» conclude senza enfasi Thor, e nel parlare lo guarda di sfuggita, contrariamente a quanto fa di solito. «La cyborg blu,» specifica, accorgendosi di averlo lasciato interdetto, e Steve ricollega il nome a quel bizzarro volto intravisto per non più di una manciata di secondi quando Tony è tornato da Titano con la navicella sconosciuta.

Non è ancora riuscito a ricostruire cosa sia successo esattamente laggiù, e le risposte stringate e venate di sarcasmo di Tony non sono state di grande aiuto2.

«E cosa ti ha detto?» indaga, sforzandosi di smorzare la curiosità e di mettere da parte sia la questione di Bruce che quella dello scontro.

«A quanto pare, è un’altra figlia adottiva di Thanos.»

«La figlia?» Steve quasi strabuzza gli occhi e lascia il suo appoggio sul corrimano. «E come sarebbe a dire “un’altra”?»

«Gamora è la sorella. L’ho conosciuta, e ti assicuro che Nebula odia Thanos quanto lo odiava lei,» replica lui, senza dare peso alla sua reazione e schierandosi con fermezza a difesa dell’aliena. «Gamora è morta: il padre l'ha uccisa per la Gemma dell'Anima. O almeno così ha detto Nebula,» specifica poi, piattamente.

Steve trattiene il brivido gelido che lo attraversa nel figurarsi un gesto così efferato, e si limita a comprimere le labbra in silenzio, assieme alla rabbia che finisce imbottigliata nel suo petto.

«E a quanto pare anche tutti gli altri membri dei Guardiani sono scomparsi su Titano, insieme ad altri due nostri alleati.»

Steve incrocia le braccia, assorbendo una ad una quelle nuove informazioni. Rocket aveva menzionato questi “Guardiani” – una sorta di Vendicatori su scala galattica – e nutre ancora la tenue speranza che siano sfuggiti allo schiocco, a dispetto della loro astronave tornata vuota. Allora non aveva voluto approcciare direttamente Nebula per chiederle spiegazioni, spinto da un astio non meglio specificato, e Tony era talmente provato dalle ferite e dal digiuno da riuscire a malapena a reggersi in piedi
3, e aveva comunque schivato attivamente qualunque contatto superfluo fino al giorno dei funerali. Gli eventi di Titano rimangono un interrogativo che Steve si sente in dovere di sciogliere, e se non può cavar fuori una risposta da Tony, spera almeno di ricevere qualche frammento indiretto da Thor.

«Rocket lo sa?» chiede infine, titubante e avanzando con cautela verso il nocciolo della questione.

«Lo immagina. Non è stupido,» replica l’altro. «Ma ho intenzione di informarlo io stesso,» replica Thor, e Steve è sollevato che per una volta il compito ingrato di riferire una simile notizia non ricada sulle sue spalle. «Tu non eri a conoscenza di nulla?» gli chiede poi l’asgardiano con tenue stupore, fornendogli l'opportunità di ottenere chiarimenti.

Steve esita, stringendosi nervosamente i bicipiti.

«Stark non è stato molto loquace,» dichiara infine, nel modo più neutrale che gli riesce.

Thor aggrotta le sopracciglia, guardandolo fisso e forse subodorando quella tensione latente tra loro che non ritiene però opportuno spiegare.

«Anche Nebula è stata vaga: ti ho già riferito tutto ciò che mi ha detto. E vuole essere lasciata in pace,» sottolinea allora Thor, a dissuaderlo da potenziali interazioni.

«Non ho intenzione di chiedere spiegazioni a lei,» si lascia sfuggire, in modo forse troppo secco, impregnato dalla frustrazione di non avere in mano tutte le informazioni di cui avrebbe bisogno in un momento simile.

Thor si acciglia ancor di più, ma continua a tacere, chiaro segno che è probabilmente molto poco interessato a quelli che ai suoi occhi dovranno sembrare insignificanti battibecchi tra mortali.
Steve sta giusto per sviare il discorso e riportarlo al motivo per cui lo stava cercando, quando Thor ha un lieve fremito e si alza senza preavviso, diretto alla porta-finestra della vetrata affacciata sul ballatoio esterno. Steve ha un moto di sorpresa: lì fuori, sulla ringhiera, è appollaiato un enorme corvo reale, con le penne color pece che mandano sottili riflessi bluastri e gli occhi vispi e mobili dall’espressione innaturalmente umana. Arruffa le piume all’avvicinarsi di Thor, accogliendolo con un gracchio sonoro e cupo non appena apre la finestra. Steve si avvicina a sua volta, rimanendo però cautamente sulla soglia ad osservare quello spettacolo insolito. Viene investito da una cappa d’afa che sembra comprimersi attorno a lui; il vento porta con sé un sentore d’ozono.

«Huginn4,» proferisce Thor a mo’ di saluto, e il volatile dà un colpo d’ali per raggiungere la spalla dell’asgardiano.

Affonda i lunghi e letali artigli neri nella felpa con una delicatezza inaspettata, per poi inclinare il capo verso di lui come a bisbigliargli qualcosa all’orecchio. Quell’impressione è rafforzata dal breve cenno d’assenso di Thor, ora incupito. Si gira poi verso di lui e il corvo gli scocca a sua volta un’occhiata incuriosita; Steve si sente suo malgrado raggelare dall’acutezza di quegli opali cangianti e inquisitori.

«Ho dato a Huginn il compito di raccogliere ogni giorno informazioni riguardo ai nostri compagni e ai loro cari,» spiega Thor, e mentre parla il corvo sembra quasi gonfiare il petto, inorgoglito.

Steve si fa attento, sentendo la tensione che si insinua invadente nei suoi muscoli.

«Finora non c’è alcuna novità rilevante… o almeno, nulla che possa esserci d’aiuto,» afferma, sgonfiando le sue aspettative. «Ma la ricerca è stata lacunosa e incompleta, forse superficiale,» aggiunge poi, ad attenuare il colpo. «Anche lui ha perso suo fratello,» mormora, forse tra sé e sé o forse a Huginn, passandogli un dito sul becco in una breve carezza.

Il volatile china il capo, poggiandolo contro il palmo di Thor a nasconderlo, in un gesto troppo puntuale per essere dettato dal caso. Steve evita di approfondire la questione, visto che ha già le sue difficoltà ad accettare che esista un signore del tuono alieno che piega fulmini al suo comando, vola con un martello e si teletrasporta tra i Nove Regni. Parlare con un corvo messaggero senziente non è certo la cosa più assurda che gli ha visto fare.

«Quindi Scott e Clint potrebbero essere ancora là fuori,» interpreta pragmatico, senza riuscire a camuffare il sollievo che permea quelle parole.

«La mente diventa fallibile, se la memoria è labile5,» dichiara Thor, facendogli di nuovo perdere il filo. «Forse sono nelle zone d’influenza di Muninn4, o forse non a Midgard,» esplicita poi, riscuotendosi, ma c’è una vena di tristezza ben palpabile nella sua voce, e sembra esitare.

«Thor?» lo incalza Steve, cogliendo la sua reticenza. «Che altro ti ha detto?»

L’asgardiano solleva lo sguardo, fattosi malinconico ma anche più vivo, rendendo liquido il velo che lo offuscava.

«Non ha ancora notizie di Loki,» rivela, affranto.

Steve non può che schiudere appena la bocca incredulo, ritraendosi appena. Negli occhi del compagno legge lo stesso, straziante rifiuto che leggeva in quelli dei suoi commilitoni all’annuncio di un nuovo caduto – un amico, un fratello, un figlio, un altro cadavere che giaceva sulla terra a faccia in giù come se dormisse, a preservare l’illusione. Steve inghiotte le parole di conforto che si è strappato di bocca così tante volte in passato:

«Thor, Loki è morto. L'hai detto tu.»

Il possente re asgardiano assume per un istante l’espressione smarrita di un bambino, come se quel fatto gli fosse semplicemente sfuggito di mente in un momento di distrazione. È subito soppiantata da un cipiglio tetro, consapevole.

«Lo so,» scandisce, con voce ferma. «Così come altre volte in passato,» aggiunge poi, egualmente irremovibile. «Per voi Loki non è che un nemico sconfitto, ma per me rimane mio fratello. E conosco abbastanza mio fratello da sapere che non si sacrificherebbe mai senza la certezza di poter tornare,» conclude, con una traccia di malriposta fierezza.

Steve sta per ribattere, ma si trattiene a forza. Se non avesse visto Bucky dissolversi davanti ai suoi stessi occhi si illuderebbe volentieri anche lui. Si aggrapperebbe a quel granello di dubbio come sta facendo Tony rifiutandosi di chiedere a Friday se Pepper sia viva6, come sta facendo Rocket sostenendo che i suoi compagni non si farebbero uccidere così facilmente, come sta facendo Nataša nell’astenersi dal rintracciare Clint. Quel limbo d’incertezza è tutto ciò che sta impedendo loro di impazzire, e sarebbe proprio ciò che farebbe impazzire lui, più di quanto stia già facendo l’eco di quell’appello disperato che gli tormenta i timpani.

Così rimane in silenzio e si limita a inviare a Thor uno sguardo di muta comprensione, sentendosi meschino e non potendo allo stesso tempo fare altrimenti.
Anche l’asgardiano non aggiunge altro e rivolge gli occhi a Huginn, che leva un breve, rauco grido prima di spiccare il volo e sparire fulmineo alla vista oltre gli alti palazzi della capitale.

«Tornerà,» afferma Thor, senza specificare se si stia riferendo al corvo o a Loki.

Steve non lo contraddice, né cerca una conferma.

«Nel frattempo dovremmo darci da fare,» dichiara invece, raddrizzando appena le spalle e accennando verso l’interno del palazzo con fare eloquente. «La squadra ha decisamente bisogno di fare il punto della situazione.»

Per qualche istante, Thor scruta meditabondo il fronte temporalesco in avvicinamento per poi girarsi del tutto verso di lui.

«Riorganizzare l’esercito, aggiornarci, studiare un piano… sembra sensato,» concorda, pur con fare apatico.

«Stark ha un piano,» butta lì Steve, chiedendosi perché ogni volta che ripete quell’affermazione questa suoni sempre meno convincente.

«Speriamo che sia migliore dell’ultimo,» ribatte lui, accigliandosi circospetto.

Steve evita di metterlo al corrente del fatto che Ultron non è stata l’ultima cattiva idea messa in atto da Tony. Trattiene un sospiro snervato nel pensare alla discussione di quella mattina, che rimanda ad altre discussioni egualmente tese e inconcludenti e ne preannuncia altrettante.
Scaccia il pensiero e fa cenno a Thor di seguirlo verso la sala comune.

«Dubito che potrebbe far di peggio,» si lascia comunque sfuggire, affrettando poi il passo per troncare il discorso.

 
***
 

L’idea di trasmettere un messaggio di adunata generale tramite l’interfono lo sfiora, ma viene prontamente accantonata quando intravede Nataša in fondo al corridoio degli alloggi, diretta in camera sua con ancora la divisa da allenamento addosso e i capelli scomposti, il petto mosso da un lieve affanno. Si affretta a intercettarla prima che apra la porta, mentre Thor rimane discretamente poco più dietro, in attesa.

«Nat, aspetta,» la blocca, cercando di usare il tono più risoluto e allo stesso tempo cortese che gli riesce.

Lei lo guarda storto per una frazione di secondo, forse meditando se atterrarlo o meno, poi abbassa la mano tesa verso la maniglia in un muto invito a parlare.

«Puoi richiamare Shuri, Bruce e Tony dal laboratorio?» le chiede, senza sapere se il suo sia davvero un tono disinvolto. «Io vado a recuperare Rhodey e Rocket,» continua, in fretta.

Entrambe le sopracciglia di Nataša scattano verso l’alto e i suoi occhi si soffermano rapidi su Thor poco più indietro.

«Una riunione?» indovina, e sotto la sua impassibilità c’è un solido scetticismo che non si cura di celare.

«Lo spero,» commenta di getto lui, per poi correggersi: «Per ora è un consiglio di guerra. Abbiamo perso fin troppo tempo.»

«E non potresti ottimizzarlo andando tu in laboratorio e magari cogliere l’occasione per risolvere i tuoi dissapori, mentre io mi rendo presentabile e poi chiamo gli altri?» replica lei, con logica mirata e inoppugnabile alla quale è difficile rispondere in modo altrettanto razionale, così rinuncia a farlo:

«Per favore,» dice soltanto, guardandola negli occhi e vedendo le sue iridi verdi fremere per un istante.

La russa si abbandona a un secco sospiro, per poi scansarlo bruscamente da parte per entrare nella propria stanza; Steve non oppone resistenza e tace, trattenendo l’urgenza di seguirla.

«Rhodey è sul tetto e Rocket probabilmente ancora in armeria,» lo informa concisa mentre cerca a tentoni la luce, prima di girarsi fissarlo da sopra la spalla. «Non ti ci abituare, Capitano,» conclude asciutta.

«Grazie,» replica Steve alla porta già chiusa.



 


Note:
1Il fatto che Steve&co. abbiano passato un periodo a Londra è una pura illazione che però mi suona familiare/plausibile, nonostante non abbia trovato conferme nei fumetti. La condizione di stress innescata dai temporali è molto comune nei reduci di guerra/sopravvissuti a bombardamenti.
2Riferimento a
Speaking Terms.
3Quando è nata la storia il trailer di Endgame non era ancora uscito, così ho accennato ora a Tony disperso nello spazio, che purtroppo non si incastra bene con le tempistiche delle altre storie nella serie, in quanto ho scritto che impiega due giorni, e non quattro (o più) a tornare sulla Terra. Lo dico per amor di completezza, ma dal punto di vista fattuale non cambia nulla, in quanto anche due giorni senza cibo né acqua bastano e avanzano per portare un essere umano gravemente ferito al limite. 
4Huginn e Muninn sono i corvi messaggeri di Odino secondo la mitologia norrena. Qui il loro controllo passa a Thor, succeduto al padre. Huginn simboleggia il pensiero/mente, Muninn la memoria. Qui li ho resi fratelli, ma il legame non è mai esplicitato nei poemi.
5L'Edda (raccolta di poemi norreni) narra che Odino teme la scomparsa di Huginn, ma ancor più quella di Muninn, subordinando così il pensiero alla memoria; di qui il ragionamento di Thor in merito.
6Riferimento alla one-shot
Interferenze, in cui l'atteggiamento di Tony rispetto alla questione viene approfondito.

*[Sono presenti svariati riferimenti a Ungaretti, Quasimodo e Remarque negli pseudo-flashback di guerra di Steve, oltre a marcati richiami a Pascoli nelle descrizioni atmosferiche. Buona caccia :P]


Note Dell'Autrice:

Salve! Chi non muore si rivede, no?
Innanzitutto, buon anno in ritardo a tutti voi! <3 In secondo luogo, questo capitolo è stato un travaglio infinito e probabilmente il peggiore di tutta la raccolta, e me ne scuso. Thor mi ha fatto seriamente uscire di testa.
Non mi dilungo, considerata la mole delle note, e mi limito a sottolineare, come sempre, che il tutto è come sempre categoricamente PoV Steve, con tutti gli errori deduttivi e ragionamenti erronei che ciò comporta (esempio cardine: il non sapere che Loki sia morto proprio davanti agli occhi di Thor e che il suo affermare il contrario non sia esattamente indice di sanità mentale). Ah, il testo dell'intro è un riferimento indiretto a Loki.

Ringrazio enormemente le tantissime persone che hanno aggiunto la storia alle seguite, è stata veramente una sorpresa piacevole e spero continuerete a leggere, e che magari decidiate di lasciare un commentino per farmi sapere cosa ne pensate ;) <3
Grazie a
T612, _Atlas_, shilyss e serica per aver recensito lo scorso capitolo e ad Emma Wayne per aver recensito il primo e aver intrapreso la lettura dell'intera serie <3 Un sentito grazie a shilyss, che ha sopportato i miei scleri per la gestione di Thor offrendomi preziosi consigli e dimostrando una pazienza encomiabile <3

Spero di pubblicare in tempi più brevi il prossimo capitolo. Nel frattempo, potrebbe scapparci qualcos'altro dalle mie parti per "spezzare" l'attesa ;)
A presto,

-Light-

P.S. Tecnicamente la serie è stata rinominata "Schegge"; praticamente EFP si rifiuta di attuare il cambiamento. Sono in attesa di illuminazioni da parte degli admin *sigh*

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Capitolo 6
*** Ogni crepa, una voragine ***


6. Ogni crepa, una voragine
 


Let the dead bury their dead
They will come out in droves
 
 
 

«Più che un piano, è un’intuizione,» esordisce Tony in modo per nulla promettente, dondolando appena sulle punte dei piedi.

«Anche un’intuizione ci farebbe comodo,» replica Nataša, poggiata indolentemente alla parete di vetro al centro della stanza.

Alla fine, Tony è riuscito a trascinarli in laboratorio: sembra che voglia evitare a tutti i costi la sala comune, seguendo chissà quale suo convoluto schema mentale, e Steve lo ha assecondato per evitare attriti. Considera già un successo l’essere tutti nella stessa stanza da più di due minuti, anche se forse dovrebbe dire “schierati”.
Non sa spiegarsi neanche lui se quella disposizione sia casuale o dettata dal preciso quanto inconscio istinto di ogni singolo individuo, ma Tony e Shuri sono in piedi di fronte alla vetrata di fondo affacciata sui giacimenti luminescenti di vibranio, lui con le mani affondate nelle tasche e lei con un tablet a tenere occupate le proprie; Bruce è abbastanza vicino da rientrare chiaramente nel gruppetto degli scienziati, ma si tiene comunque discosto da loro, compostamente seduto a una delle consolle informatiche. Rhodes è su una delle poltroncine addossate alla parete, rigorosamente dal lato di Tony; Rocket è accovacciato su quella accanto, ed è forse l’unico ad aver preso posto senza pensarci troppo, ignaro delle dinamiche interne del gruppo. Thor si è piazzato in disparte da tutto e tutti, seduto su un basso tavolinetto al margine estremo della riunione, quasi a sottolineare il proprio parziale distacco unito alla volontà di osservarli nel loro insieme, e dà l’impressione di essere seduto su un surrogato del proprio trono. Steve si è subito posizionato di fronte a Tony, a una distanza leggermente superiore a quella che avrebbe considerato “sicura” prima della discussione con Nataša, che dal canto suo si trova esattamente a metà strada tra loro due, nel suo solito atteggiamento sornione e compassato.
Steve ostenta la medesima indifferenza, ma non può fare a meno di pensare irrequieto che le loro riunioni non sono mai finite in modo pacifico, né sull’Helicarrier con un’invasione da fronteggiare, né all’Avengers Tower con un robot folle da distruggere, né al Complesso con degli Accordi da discutere. Non vede come essere in Wakanda con un universo da ricomporre possa portare a risultati differenti. In quel momento stanno tutti mettendo da parte i propri dissapori, ma può sentirli chiaramente ribollire appena sotto la superficie, pronti ad eruttare alla minima sollecitazione.
Si impone una calma che non è più così sicuro di possedere.

«Può sicuramente essere un punto di partenza,» prende la parola Bruce, guardandosi cautamente intorno con l’aria di sentirsi fuori posto.

Steve prende nota di come, invece di tenere come al solito le maniche della camicia rimboccate sopra i gomiti, le abbia srotolate a nascondere le ferite e le medicazioni; sulle mani spiccano diversi cerotti e garze. Sembra più posato, nonostante il volto distrutto e i capelli ancora umidi, ma non sa decifrare né da lui né dall’espressione impassibile di Tony se vi sia stato un qualche chiarimento, e la netta distanza tra loro lascia intendere una tensione ancora latente.

«È più che un’intuizione. Abbiamo una traccia,» interviene Shuri col suo solito fare risoluto, privato però della gioiosa vitalità che la contraddistingue.

Non appena messo piede in laboratorio, Steve si è accorto immediatamente della scomparsa delle tute di Black Panther dai loro sostegni, che spiccano adesso bianchi e vuoti sulla parete opposta. È evidente quanto lei, pur mantenendo la sua tempra d’acciaio, sia provata dalla scomparsa del fratello.

«Una traccia di che tipo?» si decide a chiedere, speranzoso ma comunque insospettito dalla vaghezza di quelle affermazioni.

Vede Tony aprire bocca per rispondergli, per poi incrociare il suo sguardo, accigliarsi e voltarsi verso Shuri con un cenno col capo, cedendole la parola.

«Prima delle ipotesi, partiamo da ciò che sappiamo con certezza,» esordisce quindi lei, e con due tocchi precisi sul suo tablet proietta in aria un ologramma delle sei Gemme dell’Infinito. «Le Gemme sono andate perdute, e da quanto sappiamo potrebbero essere l’unico mezzo per ripristinare l’Universo.»

«Incoraggiante,» commenta Rocket con voce rauca e inespressiva, facendosi ambasciatore del pensiero di scoramento collettivo che aleggia nella stanza.

«La buona notizia è che sono riuscita a salvare il 90% della matrice di Visione1,» annuncia Shuri, facendo trattenere loro il respiro. «Non è molto, ma potremmo avere una possibilità di sintetizzare una nuova Gemma della Mente,» sospira infine, con un sorriso talmente sottile da essere a malapena percepibile.

«E a che scopo, se le altre sono irrecuperabili?» obietta pragmaticamente Rhodes, in un chiaro intento di riportare tutti coi piedi per terra.

Tony alza gli occhi al cielo, Shuri tentenna e Bruce le viene in aiuto:

«Le Gemme hanno dei poteri del tutto fuori dal normale: studiarne una potrebbe aiutarci a capire come ricreare le altre. E comunque…» esita brevemente e lascia spaziare lo sguardo sui presenti, come rendendosi conto di essere effettivamente ascoltato.

«E comunque non possiamo continuare a starcene con le mani in mano,» s’intromette a quel punto Tony, storcendo la bocca con fare amareggiato. «Sarà anche un vicolo cieco, ma che alternative abbiamo?» nel porre quell’ultima domanda guarda nettamente in direzione di Steve, che si limita ad assentire in silenzio, così come gli altri.

Sa da sé di essere a corto di opzioni, e per una volta non è in vena di contraddirlo.

«Tornando ai fatti,» riprende la parola Shuri, «Da quanto abbiamo potuto rilevare, questo è una sorta di contenitore per imbrigliare il potere delle Gemme,» accenna ai resti semifusi e deformi dell’enorme guanto bronzeo poggiato sul bancone lì accanto.

Nessuno lo ha guardato direttamente, limitandosi a rivolgergli occhiate circospette, inquiete e furtive. Steve in particolare accusa sempre una fitta più insistente alla testa ogni volta che vi posa sopra lo sguardo, e allo stesso tempo non riesce a impedire ai suoi occhi di cercarne i riflessi opachi, quasi tentassero di leggervi una risposta a tutto ciò che è accaduto e che minaccia di soffocarli sotto le sue ceneri.


Steve...

Si distoglie bruscamente dall’oggetto, rimettendo a fuoco la discussione in sottofondo comunque incentrata su di esso.

«… sembra di origine aliena, il che non mi stupisce, ma non saprei dire…»

«È stato forgiato dai Nani su Nidavellir,» interviene a quel punto la voce di Thor, quasi fuori campo e facendoli voltare verso di lui come un sol uomo.

«Scusa, hai detto “nani”?» strabuzza gli occhi Tony.

«Perché, non hai mai visto un nano?» sbotta Rocket, in un mezzo latrato derisorio.

«Stark, hai combattuto Chitauri e giganti viola e ti stupisci per dei nani?» lo rimbrotta al contempo Nataša, rivolgendogli una delle sue acute occhiate di rimprovero, e lui solleva entrambe le mani a dichiarare la propria resa di fronte a quella doppia replica.

«Questo come ci aiuta?» chiede Steve, ignorando il battibecco e cercando nel frattempo di incastrare insieme i vari pezzi scomposti di quell’assurda situazione.

«Thanos ha sterminato i Nani dopo averli obbligati ad aiutarlo. Eitri è ormai l’unico superstite, ma saprebbe come riparare il Guanto,» rivela quindi Thor, senza abbandonare quella sua nuova cadenza grave e compassata.

«Inutile, senza le Gemme,» sospira piano Bruce, più tra sé che agli altri, ma rimediandosi comunque un’occhiata inspiegabilmente aspra da parte dell’asgardiano.

«Ci sono molte cose inutili, qui dentro,» commenta fissandolo, e Bruce sembra quasi accartocciarsi sotto il suo sguardo.

«Ho fatto il possibile, Thor,» ribatte debolmente.

«Allora non hai fatto abbastanza,» lo zittisce l’altro, impietoso.

Lo scambio di battute lascia tutti interdetti; Steve non riesce a raccapezzarsi, se non pensando alla coincidenziale scomparsa dei due quella mattina, un'incognita che lo lascia ancora inquieto. Sorprendentemente, Tony lo anticipa e interviene per primo a calmare le acque, anche se in modo opinabile:

«Ragazzi, sarei il primo a comprare i biglietti per un incontro Thor-Hulk, oltre ad aprire un banco scommesse, ma magari dopo aver salvato il mondo, mh?» butta lì con fare quasi annoiato, ma il modo in cui i suoi occhi saettano verso Rhodes e poi verso Steve tradiscono la sua perplessità per quel contrasto inaspettato, quasi cercasse in loro una spiegazione sensata.

L’espressione ora repentinamente inferocita di Thor sommata alla palese irrequietezza di Bruce non promette bene; Steve capta un’altra occhiata da parte di Tony, stavolta fugace ed esitante, come se derivasse più dall’abitudine che dal raziocinio. Coglie comunque l’implicita richiesta di gestire la situazione, forse per non compromettersi in prima persona vista la sua posizione già delicata.

«Una mezza Gemma e un guanto rotto,» ricapitola allora, a voce leggermente più alta del necessario per troncare sul nascere altri attriti. «È tutto ciò che abbiamo?»

Bruce e Thor mantengono ancora quello sfrigolante contatto visivo, accigliati e tetri, per poi interromperlo bruscamente ristabilendo una sorta di calma apparente.

«Stark, questo sarebbe il tuo momento di entrare in scena,» butta lì Nataša, in un’evidente ma per ora innocua ripicca.

«Grazie per il promemoria, ci stavo arrivando,» replica Tony, rivolgendole un sorriso tirato che lascia intendere quanto poco abbia apprezzato quel rimando, ma accettando il provvidenziale appiglio offertogli.

Fa buon viso a cattivo gioco e sembra aver riacquistato parte della sua consueta compostezza, anche vi è un sottotono nervoso in ogni sua parola o gesto, oltre che nel modo in cui si guarda continuamente intorno. Steve non se ne stupisce più di tanto: l’unico sostenitore degli Accordi lì dentro è Rhodes, Nataša gli ha voltato le spalle, Shuri e Rocket sono perfetti sconosciuti e sebbene Hulk e Thor siano completamente estranei agli attriti che li hanno divisi, è fin troppo chiaro da che parte si sarebbero schierati. E per quanto lo riguarda, non si aspetta certo di essere visto da Tony come un alleato.
L’ingegnere si fa avanti di un altro mezzo passo, facendo contemporaneamente comparire un ologramma di fianco a lui con un semplice gesto della mano: il familiare modello 3D di un cubo azzurrino e luminescente si materializza a mezz’aria.

«Chi si ricorda del Progetto PEGASUS?» esordisce, scrutandoli rapido uno a uno per prendere nota delle loro reazioni. «Lezione integrativa per gli assenti,» indica in sequenza Rhodey e Rocket, rimasti perplessi, «Questo è il Tesseract, e racchiudeva la Gemma dello Spazio prima che il nostro amico viola se ne appropriasse. È stato a lungo oggetto di studio prima della SSR e poi dello SHIELD, ma non sono riusciti a venirne a capo fino a sei anni fa.»

A quel punto si interrompe brevemente, come raccogliendo le parole giuste; sembra più irrequieto di quanto dovrebbe, anche considerata la situazione, e Steve si chiede se sia per ciò che è successo a New York proprio a causa del Tesseract. Un presentimento gli dice che non è per quello. Ricorda l’atteggiamento falsamente spavaldo che usava nel parlare di quell’evento, e non coincide con la posata cautela con cui si sta muovendo adesso. Tony fa un altro gesto con la mano e stavolta appare quella che Steve, anche con le sue rudimentali e lacunose conoscenze scientifiche, identifica come la struttura di un atomo etichettato Sk.

«Questo è un elemento teorizzato da mio padre nel dopoguerra e sintetizzato da me proprio sei anni fa,» spiega, asciutto e senza altre divagazioni di spirito. «Presenta delle similarità con la struttura del Tesseract, di cui ho recuperato i dati dagli archivi dello SHIELD. E ci sono anche dei suoi schizzi tra gli appunti di mio padre, che a quanto pare ha avuto modo di studiarlo da vicino2,» conclude quasi precipitosamente.

Steve trattiene a stento la sua sbigottita curiosità: se si azzardasse a chiedere lumi su Howard direttamente a Tony, rischierebbe di innescare la bomba a orologeria che ha evitato di far scoppiare quella mattina. Adesso capisce la reticenza dell’ingegnere ad esporre la genesi del suo piano di fronte a lui e agli altri: il tutto ruota attorno a un perno fin troppo suscettibile

«C’è una correlazione tra l’attivazione del Tesseract e il tuo elemento?» intuisce Nataša, allontanando perspicacemente il discorso da Howard e scrutandolo attenta.

Tony fa una smorfia obliqua e incerta, di nuovo restio a esporsi.

«Difficile dirlo. All’epoca diedi a Selvig il permesso di studiare il mio elemento, ma non ero direttamente coinvolto nel Progetto PEGASUS. Sono rimasto all’oscuro del Tesseract in sé fino a quando Fury non mi ha convocato per l’attacco di Loki3

Steve lancia un’occhiata di controllo a Thor, ma questi si è limitato a puntare il proprio sguardo per terra nel sentir nominare il fratello.

«Quindi, il succo del discorso è non hai certezze,» deduce Rocket, che è riuscito a orientarsi a grandi linee grazie alle efficienti integrazioni di Rhodes.

«Il succo è che c’è un punto di contatto,» afferma con veemenza Tony, incastrando le dita delle mani davanti a sé come i pezzi di un puzzle. «Se diamo per buono che lo Starkium sia un derivato del–…»

«Starkium?» stavolta Steve non si trattiene e alza un sopracciglio.

«Mi hanno rifiutato Badassium4,» Tony sbuffa e scrolla le spalle, senza scomporsi. «È provvisorio, ma non posso continuare a indicarlo come “l’elemento inventato da mio padre”; sarebbe ridondante e decisamente troppo pomposo per–…»

«Tones, arriva al dunque,» lo tronca Rhodes, senza troppe cerimonie.

«Abbiamo effettuato un confronto incrociato tra Tesseract, Starkium e Gemma della Mente,» risponde per lui Shuri, aprendo un terzo ologramma di quest’ultima, per poi sovrapporli fino a far coincidere le varie aree evidenziate su ognuno di essi. «Ci sono delle corrispondenze, troppe per essere frutto del caso. Le Gemme sono evidentemente simili, e questo va a nostro vantaggio,» conclude con ferma competenza.

«In che modo?» chiede Nataša, osservando con interesse gli ologrammi ma con un’innegabile nota di scetticismo. «Sono simili, lo vedo da me, ma–…

«Non è solo una questione di somiglianza,» puntualizza Bruce. «Ci sono altri fatti a dimostrare che lo Starkium potrebbe essere la chiave che stiamo cercando,» prosegue, lanciando poi un’occhiata al contempo stupita e d’esortazione a Tony, come se aspettasse un suo intervento che tarda ad arrivare.

Questi si gira, rivolgendo loro le spalle e prendendo a parlare a bassissima voce con lui e Shuri, ma l’udito fine di Steve coglie comunque chiaramente il loro breve scambio:

«Bruce, quella è solo un’ipotesi.»

«Finora hai parlato di fatti?»

«Ha capito ciò che intendo. Non è attendibile.»

«Prima mi sembravi piuttosto convinto.»

«Prima non ero nella fossa dei leoni, bimba.»

«Tony, dillo e basta.»

«Vi dispiace renderci partecipi?» li interrompe Nataša, avvicinandosi di un passo, e Tony si volta di nuovo verso di loro, con un’espressione decisamente infelice a incupirgli il viso.

«Era solo un consulto tecnico, non c’è bisogno di sfoderare i tuoi trucchi da guerra fredda,» la ferma, con un gesto della mano e un sarcasmo insolitamente debole per i suoi standard.

«Tony, se sai qualcosa dovresti dircelo,» lo sprona Rhodes, e Steve ringrazia il cielo per non essere stato costretto a pronunciare lui stesso quella frase.

«Mh-hm, di solito funziona così…» bofonchia infatti lui, e prevedibilmente non gli risparmia l’ennesima occhiata di rimprovero. «Ok, quanti hanno avuto il piacere di incontrare l’amabile fratello di Thor?» chiede poi a sorpresa, alzando lui stesso una mano in aria.

L’asgardiano scatta subito in piedi, come a comando, e rientra a larghe falcate nel labile perimetro della discussione.

«Attento a quel che dici, Stark,» si limita a dire, con voce bassa e non molto dissimile da un brontolio minaccioso.

«Non ho intenzione di sputare sulla memoria di nessuno, Point Break, anche se quel qualcuno mi ha scaraventato dalla finestra dopo avermi quasi strozzato. Ma quello temo sia un vizio di famiglia,» commenta acido Tony, scoccandogli un’occhiata risentita.

Thor ha il buonsenso di non dargli corda, ma Steve nota come i suoi occhi si fanno tetri, coi massicci pugni che si contraggono quasi si stesse frenando dal compiere di nuovo quel gesto che gli è appena stato rinfacciato.

«Che c’entra Loki?» lo incalza secco Steve, cercando di arginare i danni.

«A New York ha usato lo Scettro, alias la Gemma della Mente, per cercare di controllarmi come aveva fatto con Barton, ma non ci è riuscito.» Fa una piccola pausa, ad assicurarsi che la portata della sua rivelazione sia stata colta appieno. «E indovinate un po’ cosa c’era qui sei anni fa?» si picchietta infine un indice sullo sterno con fare eloquente.

«Il reattore Arc,» conclude Nataša, con un cenno d’assenso. «Alimentato dallo Starkium,» specifica a beneficio di Rocket, che continua a seguire attentamente per quanto possibile.

«Bingo,» sorride compiaciuto Tony, allentando per un istante la rigidezza che gli serra le labbra. «Ora, se lo Starkium interferisce con le Gemme, forse può anche interagirvi,» riassume infine, con un altro lampo di soddisfazione e illuminargli il volto tirato.

«Mi sembra una teoria azzardata,» commenta Rhodey, con circospezione.

«Certo che lo è. Ma le mie teorie azzardate di solito funzionano,» sottolinea con sicurezza l’amico.

«Lo so, Tones, ma sembra troppo bello per essere vero,» replica l’altro, scuotendo la testa.

«Sei il solito guastafeste,» bofonchia Tony, senza celare la delusione per il suo poco entusiasmo.

«È una traccia labile, ma non abbiamo altro,» ribatte mestamente Shuri.

Steve, rimasto a meditare fino ad allora su quel cosiddetto “piano”, si riscuote, forzandosi a entra nella discussione e sapendo che quello che dirà ne segnerà anche la fine.

«Tony, ho il massimo rispetto per le tue ricerche e per quelle di Howard,» esordisce, e alla sola menzione del padre vede i suoi occhi mandare scintille. «Ma potrebbero passare mesi prima di riuscire a sintetizzare anche solo una brutta copia delle Gemme, e ci mancherebbero comunque tutte le altre. Il tuo piano è sensato, ma dovremmo prima cercare un’altra strada più rapida e con più garanzie,» conclude, nel modo più neutrale che gli riesce.

«Non c’è un’altra strada,» controbatte seccamente lui.

«Forse dobbiamo solo cercarla meglio.»

Tony, esattamente come quella mattina, scatta senza preavviso, quasi si sentisse inchiodato con le spalle al muro dalla sua semplice osservazione:

«Risparmiami le tue stronzate poetiche, Rogers; cosa pensi che abbiamo fatto nell’ultima settimana?» sbotta, indicando se stesso e Shuri. «E perdonami se non ti includo nel conto, Banner, ma fino a stamattina eri troppo occupato a piangerti addosso per essere utile,» puntualizza con crudeltà gratuita, senza neanche guardare il compagno.

Steve chiude brevemente gli occhi, chinando appena il capo, e la risposta del dottore non tarda ad arrivare:

«Infatti hai concluso molto senza il mio aiuto,» osserva con voce innaturalmente calma. «Ma d’altronde, sei sempre stato più bravo a creare problemi che a risolverli.»

L’unica reazione di Tony è un respiro leggermente più sonoro del normale, ma i suoi occhi sembrano solidificarsi in due lastre scure e opache. Contemporaneamente Thor si avvicina ancora, passando da osservatore esterno a potenziale partecipante, e Rhodey scatta a sua volta in piedi con fare allarmato. Nataša scruta i presenti con sguardo attento, come un felino in agguato, e Bruce non abbandona il suo sguardo ostile e incupito.
Steve sente la situazione precipitare. La percepisce quasi sfuggirgli tra le dita come sabbia mentre cerca freneticamente un modo, una frase, un’azione che possa arrestarne la caduta inesorabile. Non è mai stato in grado di tirarsi indietro, ma stavolta non riesce neanche a farsi avanti, oppresso dai muri di pressione che gli stanno stritolando il cranio e gli rintronano le orecchie con lo stesso mantra assillante:

“Steve...”

«Io almeno i problemi che creo li risolvo da solo, invece di sparire e lasciarli in eredità agli altri,» ribatte infine l’ingegnere, in un tono altrettanto piatto che nasconde solo parzialmente il suo tumulto interiore.

«A volte è meglio farsi da parte, invece di continuare a peggiorare la situazione come stai facendo ora,» lo rimbecca Bruce senza esitazioni, e Tony mastica bile in silenzio. «È tutto qui, il tuo grande piano?» lo provoca poi, con un accanimento impensabile per il pacato dottor Banner, e Steve quasi si aspetta di vedere una sfumatura verdastra tingergli la pelle.

«Cos'è, cercavate una soluzione già incartata e infiocchettata, pronta all'uso?» sillaba allora Tony, senza più trattenere la sua stizza. «Mi dispiace, ma il genio è in vacanza,» conclude sprezzante, rigirandosi come se fosse fisicamente in trappola.

«Tony, nessuno se la sta prendendo con te,» lo riprende con lieve durezza Steve, e accorcia inavvertitamente la distanza tra loro, facendolo entrare di riflesso in modalità difensiva.

«Ah, davvero? Pensavo fosse il tuo hobby preferito, o ricordo male?» lo rimbecca, ogni parvenza di temperanza evaporata dai suoi tratti e ormai instradato nel suo circolo vizioso e autodistruttivo.

Steve mette a sua volta da parte la sua promessa di mantenere la calma e gli si piazza di fronte, sovrastandolo; Tony fa un evidente sforzo per trattenere un istintivo passo indietro, ma mantiene la posizione. Gli altri intorno a loro tacciono di colpo e li fissano con un misto di timore e aspettativa, ma l’assenza di un intervento diretto rende evidente come tutti avessero preannunciato quel confronto in sospeso, rimasto semplicemente ad aleggiare tra loro.

«E con chi altri me la sarei dovuta prendere?» ribatte, la voce distaccata che si contraddice coi suoi occhi ora adombrati.

L’argomento è cambiato, lo sanno entrambi, scivola in tinte più cupe e distanti, più fredde, che sembrano isolarli da ciò che li circonda sprofondandoli in un gelo non poi così lontano.

«Con te stesso, per non aver voluto ascoltare né me, né i tuoi compagni,» sibila Tony, fremendo.

«Vi ho ascoltati, e ho deciso di dissentire, cosa che tu non sei stato in grado di accettare.»

«No, li hai ascoltati e hai deciso di agire di testa tua per principio, buttandoti come un martire sul filo spinato invece di aspettare che lo tagliassi.»

«Tu non volevi tagliare il filo spinato, ma avvolgercelo addosso.»

«Se proprio vogliamo parlare per metafore, io ero quello che voleva tenere una mano sul volante per evitare di schiantarci.»

«Ben fatto, allora,» commenta causticamente Nataša, intervenendo a mezza voce.

«Tu non sei nella posizione di criticarmi, Romanov,» sibila Tony, voltandosi di scatto verso di lei e alterandosi ancor di più.

«Perché?» domanda con falsa innocenza lei. «Perché ho pensato che la situazione ti fosse sfuggita di mano?»

«Mi è sfuggita di mano perché qualcuno è un nostalgico dei bei vecchi tempi di guerra e ha deciso di scatenarne una,» lo accusa, additando con sdegno Steve.

«Non mi sembra che tu ti sia tirato indietro,» ribatte Steve, soffiando aria dal naso per tentare di alleviare la pressione che sente crescere dentro di sé. «Hai avuto una scelta, e pur di non ammettere di aver sbagliato hai scelto di metterti contro i tuoi compagni.»

«Avevamo intenti pacifici,» si intromette Rhodey, ora quasi frapposto tra loro due, di fronte a Nataša; gli altri fanno semicerchio attorno a loro, scambiandosi occhiate tese.

«Pacifici? Ci avete attaccato in campo aperto!» sbotta allibito Steve.

«L’intento era catturarvi. A cosa pensavi che servisse il bimbo-ragno?» puntualizza la donna, oscillando come sempre tra le due fazioni.

Tony tronca bruscamente il suo intervento come se qualcuno gli avesse mozzato il respiro.

«A farmi chiedere cosa ci facesse un bambino su un campo di battaglia?» ironizza Steve, con una sdegnosa alzata di sopracciglia.

«Ci aspettavamo solo te e Barnes, ma avete pensato bene di esagerare coi rinforzi,» lo rimbecca Rhodes, mantenendosi pacato, ma con l'accusa a pesare comunque nelle sue parole.

«Erano tutti rinforzi volontari, di certo non ragazzini allo sbando obbligati a–...»

«Non un'altra parola, Rogers,» ringhia a quel punto Tony, con la voce che traballa sensibilmente e il volto sbiancato. «Non un’altra parola, o ti spedisco a far compagnia al tuo amico assassino,» sibila, con la mascella così contratta da riuscire a malapena a parlare.

Ha fatto un passo verso di lui, riducendo per la prima volta la distanza di sua volontà, e stavolta il suo sguardo è senza veli, un calco perfetto di quello che gli ha scagliato contro in Siberia un attimo prima di perdere il controllo. E anche Steve sente la medesima, rabbiosa tensione, lo stesso misto di anticipazione per lo scontro imminente e reticenza a colpire e ferire un compagno di squadra, annebbiata dall’adrenalina che lo fa fremere sul posto. Vede la situazione che continua a precipitare e sa di non essere più in grado di fermarla, anche se dovrebbe, perché in testa continua a risuonargli quell’ultimo richiamo straziato che adesso gli urla di difendere la sua memoria.
Prima che uno dei due possa far scaturire la prima scintilla dell’incendio, Thor si intromette tra loro con decisione, afferrando lui per una spalla e Tony per il colletto. Un’espressione temporalesca e appropriata al dio del tuono deforma i suoi tratti, e i suoi occhi asimmetrici sembrano pronti a illuminarsi di un bianco accecante. Steve tenta un movimento, ma la presa dell’asgardiano è incontrastabile anche per lui e non lo smuove di un millimetro; Tony si divincola con più vigore, cercando di allentare la morsa che lo costringe, ma rimedia solo un secco strattone che lo spedisce quasi a gambe all'aria.

«Basta così,» sentenzia Thor, con un misto di rabbia repressa e rimprovero a scuotergli la voce roboante. «Non siamo qui per discutere delle vostre beghe mortali,» conclude, dando uno spintone in direzioni opposte a entrambi e mollando al contempo la presa.

Steve si raddrizza subito, affannato per lo sforzo di recuperare il controllo, e Nataša gli posa una mano sul braccio a placarlo; Tony manca l’appoggio dal lato ferito e viene sorretto appena in tempo da Rhodes, che scosta poi stizzosamente da parte.

«I nostri compagni caduti e tutti i Nove Regni contano su di noi. Piantatela di azzuffarvi come mocciosi e comportatevi da guerrieri,» prosegue Thor, sempre con una voce stentorea che si guadagna il silenzio attorno a sé. 

Quel momento d’impasse sembra dilatarsi all’infinito, senza che nessuno abbia il coraggio di romperlo, ciascuno di loro intento a domare le proprie emozioni contrastanti.
Steve sta per ricomporsi, sta per far finta che niente sia accaduto, anche se è accaduto tutto e la lastra sottile su cui stanno camminando è ormai sul punto di sprofondarli nell’acqua gelida lasciando al contempo uscire i fantasmi che racchiude; sta per dire qualcosa che funga da appiglio per farli rimanere a galla, quando ogni suo proposito viene troncato dallo squillo penetrante di un telefono.

E, a giudicare dalla suoneria di Iron Man dei Black Sabbath, è senz'ombra di dubbio quello di Tony.


 

Note:
1In Infinity War si vede Shuri che, un istante prima di venire attaccata dagli scagnozzi di Thanos, riesce a chiudere una schermata, salvando presumibilmente una parte dei dati su Visione.
2Gli schizzi in questione si vedono in Iron Man 2 quando Tony sfoglia il quaderno del padre poco prima di scoprire il messaggio che gli ha lasciato.
3L'espressione sbigottita di Tony nel vedere per la prima volta il Tesseract lascia intendere che sappia cosa sia, ma che non fosse al corrente della sua esistenza.
4No, non è uno scherzo, ha davvero tentato di chiamarlo così-> leprove. Starkium è un nome ispirato ai vari elementi dedicati a scienziati famosi (Einstenium, Nobelium etc.)

Note Dell'Autrice:

Hola!
No, non sono scomparsa, mi sono semplicemente scapocciata su questo capitolo fino ad ora, tra un esame e l'altro...
Premetto che non ne sono soddisfatta al 100%, ma gestire così tanti personaggi in un sol colpo si è rivelato complesso e fornire altre "specifiche" avrebbe allungato a dismisura il capitolo, per cui ho preferito concentrarmi sui dialoghi piuttosto che su slanci introspettivi. Recupereremo nelle prossime puntate ;)
La teoria sull'elemento di Tony è ovviamente un mio headcanon che reputo anche abbastanza improbabile, ma poggia su fatti verosimili e comprovati nei film. Dubito verrà mai utilizzato nel MCU, ma sapendo che a questo punto i nostri eroi sono allo sbando e si stanno arrampicando sugli specchi, ho pensato potesse essere una prima bozza di partenza che verrà poi soppiantata dall'arrivo di Scott (di cui ero ovviamente all'oscuro all'epoca della stesura).

Ringrazio tantissimo tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle seguite, ricordate e preferite, e in particolare T612, shilyss e _Atlas_ che hanno recensito lo scorso capito
lo <3

Il prossimo capitolo, per fortuna, è in fase di completamento e dovrebbe arrivare a breve ;)
Alla prossima,

-Light-


 

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Capitolo 7
*** Ogni granello, un macigno ***


7. Ogni granello, un macigno
 
 
It's getting dark darling, too dark to see
And I'm on my knees
And your faith in shreds it seems
 
 
 
Le squillanti note rock della suoneria spezzano in modo paradossale la tensione, creando un secondo sospeso di interdetto silenzio. Tony sobbalza quasi avesse ricevuto una scossa, per poi portare una mano alla tasca posteriore dei pantaloni; si lancia un’occhiata attorno e prima di estrarre il congegno si fa largo fuori dalla piccola arena creatasi attorno a lui, Thor e Steve, voltando loro le spalle.

Anche così, Steve nota distintamente il modo in cui si fa quasi sfuggire il telefono dalla mano tremante nel metterne a fuoco lo schermo, e come gli servano due o tre tentativi per far scorrere il tasto di risposta con le dita sudate. Si porta il telefono all’orecchio quasi con foga, e se prima sembrava intenzionato a uscire dalla stanza per guadagnarsi un po’ di privacy, adesso è indifferente agli sguardi colmi di apprensione che gli si sono appuntati addosso.

Steve si trova a trattenere il respiro per lui, momentaneamente dimentico del loro diverbio quasi sfociato in rissa, perché qualunque notizia si stia per abbattere su di lui influenzerà tutti, e non possono permettersi di perdere del anche la mente di Tony, oltre a quella di Banner.

«Happy?» chiama nella cornetta, affannato, riprendendo la sua marcia verso la porta, ed è come se con quel nome escludesse il resto del mondo. «Pepper è lì?»

Steve vorrebbe dire qualcosa, riavviare il loro discorso e sovrastare quella conversazione per ora a senso unico, così da schermare quel momento che non è evidentemente inteso per essere ascoltato da loro, ma il ricordo di una voce amata frammentata dalle scariche statiche mentre si precipita contro i ghiacci lo frena, rendendolo muto. Gli altri tendono visibilmente le orecchie, altrettanto tesi e a disagio.

Solo Thor sembra impassibile e osserva con occhi consapevoli ciò che sta accadendo. Steve incrocia il suo sguardo di sfuggita, e si sente raggelare leggendovi la cupa risposta alla domanda di Tony; vorrebbe quasi strappargli il cellulare di mano per impedirgli di sentirla, ma estendere il dubbio che lo consuma da una settimana sarebbe solo più crudele.

L’ingegnere inchioda al centro della stanza, perdendo quasi l’equilibrio, col telefono premuto con troppa forza contro l'orecchio e lo sguardo improvvisamente vacuo. Muove le labbra, ma non ne esce alcun suono, sembrano solo tentare di afferrare delle parole nell'aria. Steve ha la netta percezione dell’anima che gli scivola nei talloni, ma non gli riesce di reagire.
È il non detto a parlare, e non c’è bisogno di esplicitarlo.

«Ho capito,» dice infine Tony, e non ha mai sentito la sua voce così sottile.

Abbassa il telefono con un movimento lento, innaturale, e chiude la comunicazione. La sua postura è composta, ma lo sguardo si fa vitreo. Si volta verso di loro e per un istante sembra ignorare dove si trova, forse anche chi è lui stesso e cosa stia facendo. I suoi occhi li oltrepassano, si appuntano lontano da lì, persi. Poi si riscuote, come a comando. Un guizzo passa sul suo volto, rianimandolo, e si schiarisce la gola riprendendo a parlare col solito brio:

«Tornando a noi… Ziggy1 ha ragione,» afferma indicando Thor, «Lasciamo il passato dov’è e pensiamo a far funzionare il mio piano in modo decente.»

La sua voce non vacilla, ma si fa velata, quasi fosse attutita dai suoi stessi pensieri. Steve si limita a fissarlo di rimando, cercando qualcosa con cui replicare, ma gli è difficile distogliere l'attenzione dai due solchi di lacrime che ora rigano il volto di Tony. Lui sembra non esserne neanche consapevole, e non fa alcun gesto per asciugarle né per nasconderle.
La sua espressione diventa interrogativa, poi confusa nel realizzare come tutti lo stiano fissando a metà tra il contrito e l’esterrefatto.

«Ehi, potreste dimostrarvi un po’ più partecipi, dopotutto sto cercando di…»

«Tony...»

È Rhodes a farsi avanti e a rompere il silenzio, e la sua voce traballa, sfiorando la rottura. Si avvicina a Tony, che fa per ritrarsi, ma prima che lui o chiunque altro abbia modo di realizzare cosa stia accadendo, Rhodes lo abbraccia senza dire una parola, frapponendosi tra l’amico e i Vendicatori.
Tony non oppone resistenza; chiude gli occhi, rimane inerte e si lascia stringere, accettando la mano di Rhodey sulla nuca che lo spinge contro la propria spalla per nascondere il suo volto alla loro vista.sIl silenzio si espande, si posa sulle loro spalle come un sudario, a ricordare loro ancora una volta che hanno perso.

«La riunione è sospesa,» si sente dire Steve, atono, distante. «Riprendiamo domattina,» aggiunge, con un'occhiata eloquente agli altri, che si riprendono dallo shock e iniziano a uscire discretamente dal laboratorio in fila indiana, in una processione muta.

Rhodes gli indirizza un cenno d'assenso, gli occhi lucidi. Non lascia neanche per un istante la presa su Tony, ancora immobile, lontano da lì. Forse a New York, forse a Malibu, o in chissà quale altro luogo sicuro in cui abbia scelto di rifugiarsi.
Nataša esita un istante nel passare accanto ai due, come trattenendo un gesto nei confronti del compagno, poi li supera rapidamente, sfuggendo il suo sguardo nel lasciare la stanza.

Steve è l'ultimo a uscire, con un peso nei piedi che lo spinge a voler rimanere e che lo fa esitare sulla soglia. Un singhiozzo soffocato raggiunge le sue orecchie e si affretta a lasciar chiudere la porta alle proprie spalle.
 
***
 
L’aria fuori dal laboratorio non è meno opprimente e, anzi, si fa viscosa e irrespirabile. A Steve sembra di essere di nuovo in piedi nella piazza centrale della capitale wakandiana, ascoltando la lunga lista dei caduti che non è mai davvero finita e continua ad allungarsi.
Si riunisce agli altri, aggregati in un salottino d’attesa in corridoio e intenti a parlottare tra loro; si interrompono all’istante nel vederlo, ma Steve si sente troppo esausto per indagare sull’argomento in corso, anche se nota l’ennesima occhiata sbieca di Nataša.

«Domattina?» chiede subito Shuri, incredula ma con una traccia di colpevolezza, come se temesse di risultare troppo dura con quell’accusa inespressa.

Steve scuote la testa, senza neanche sforzarsi di trovare una risposta adeguata. Ha agito d’istinto nel concedere quella pausa forse esagerata, ma ha il presentimento che Tony non sarà il solo ad averne bisogno. Tenta nuovamente di intercettare lo sguardo di Thor, ma lui lo tiene fisso in un punto indefinito dietro di loro.

«Ti sembra che adesso Stark sia nelle condizioni di ragionare?» interviene al suo posto Nataša, apparentemente impassibile, ma Steve la conosce troppo bene per non notare la ruga di preoccupazione tra le sue sopracciglia.

La ragazza incrocia le braccia, stringendo le labbra con fare pentito.

«Lo so. Lo so, ma più tempo perdiamo…»

«Importa davvero quanto tempo perdiamo?» interviene Bruce, alzando le spalle. «Mezzo universo è morto, e a questo punto non credo che aspettare un giorno di più cambierà le cose.»

«Soprattutto senza un piano,» concorda Rocket, appollaiato sullo schienale di una poltrona e guadagnandosi un’occhiataccia da lui e Shuri. «Ehi, non venitemi a dire che quello che avete elaborato voi tre genietti è un piano,» si difende, indicando i due scienziati, «Ne so qualcosa, di piani, e questo è uno dei peggiori che abbia mai sentito.»

Bruce sospira pesantemente, ma non replica, mentre Shuri china il capo in una tacita ammissione.
Steve non prende parte al discorso, che si rianima con Bruce che erge una tenue difesa a quel “piano”. Continua a fissare Thor, che dal canto suo continua altrettanto attivamente a non rivolgersi verso di lui.

«Thor,» lo richiama infine, e il breve battibecco si esaurisce all’istante.

L’asgardiano volta appena la testa, invitandolo a continuare.

«Tu lo sapevi,» afferma semplicemente Steve, senza intenderla come un’accusa.

Thor non dà cenno di voler rispondere, al che Steve punta semplicemente l’indice verso la porta da cui sono appena usciti.

«Lo sapevi,» ripete, stavolta con più durezza, e coglie gli sguardi sorpresi degli altri farsi improvvisamente angosciati.

«Huginn me l’ha riferito,» conferma lui, scandendo le parole con insolita lentezza.

Steve non commenta, accettando quella confessione e potendo quasi sentire il peso del manto che Thor si è appuntato sulle spalle; non lo biasima per non aver informato Tony personalmente, ma sente un soffuso senso di disagio che lo prende alla gola, sapendo che quella non è l’unica perdita che hanno subito.
Prima che possa porre quella domanda che preme per uscire, Nataša prende parola con inaspettata veemenza:

«Sapevi di Pepper e non gliel’hai detto?» lo accusa, e sotto la patina di gelida compostezza, Steve avverte la sua rabbia, una rabbia che, si rende conto, potrebbe essere ipoteticamente indirizzata anche contro di lui e che gli fa contrarre lo stomaco.

«Lo so da appena un’ora. Non era mia intenzione nasconderglielo,» replica lui, pacatamente, e la donna sembra quietarsi almeno in parte, anche se quella piega sulla sua fronte non si distende. «Ma quello non mi sembrava il momento per annunciare altri caduti.»

Il plurale fa tendere tutti, minacciando di spezzare il rassicurante filo d’incertezza a cui sono appesi.

«Chi altri è scomparso?» riesce finalmente a chiedere Steve, e quella domanda si abbatte tra di loro come una sentenza inespressa.

Thor incurva le spalle, per poi raddrizzarle in un moto regale, fissando ognuno di loro a testa alta quasi avesse preso parola a un’udienza in una delle sale dorate di Asgard.

«Nick Fury e Maria Hill,» esordisce, stentoreo ma con una nota di tristezza ad addolcire il suo annuncio.

Steve contrae ogni muscolo del suo corpo, e vede Nataša che quasi si accartoccia su se stessa, nel chiaro sforzo di non lasciar trapelare una singola emozione.

«I tuoi compagni,» continua gravemente Thor, rivolgendosi a Rocket, che scuote solo la testa in un muto diniego. «Quill, Mantis e Drax sono scomparsi su Titano. Gamora è stata uccisa da Thanos per la Gemma dell’Anima,» conclude, abbassando il capo.

Rocket serra gli occhi e si accartoccia le orecchie con le zampe in un moto sofferente, raggomitolandosi poi su se stesso e sprofondando nel silenzio.

«Anche Hank e Hope Pym sono scomparsi.»

La lista di Thor continua, inesorabile, scavando dentro di loro con ogni nome.

«Notizie di Scott Lang?» chiede flebilmente Shuri, ma Thor nega col capo.

«Non sono riuscito a rintracciarlo. Sembra fuori dalla mappa,» aggiunge, corrugando le sopracciglia.

«Clint dov’è?» sbotta al contempo Nataša, di nuovo sfiorando la collera, di nuovo col volto di un animale ferito messo all’angolo, come se fosse pronta a fare a pezzi il mondo nonostante si senta disfatta lei stessa.

«Non lo so,» replica subito Thor, e Steve sente il proprio petto aprirsi un poco come a una ventata d’ossigeno, per poi avvizzire nel rendersi conto del cipiglio duro dell’asgardiano.

«E i Barton?» interviene, esprimendo la domanda che pende dalle labbra di Nataša.

Thor esita, e anche quella è una risposta sufficiente, come lo è stato poco prima il silenzio di Tony.

«Tutti?» annaspa la donna, stringendosi con così tanta forza le braccia che le unghie si conficcano nella pelle.

Thor fa un unico, grave cenno del capo, e Steve si sente mancare la terra sotto i piedi mentre lo sfondo di una Londra sventrata dalle bombe si riapre davanti ai suoi occhi, velando la realtà. Si rende a malapena conto di Nataša che si allontana di scatto, di Bruce che si accosta esitante a Rocket in un tentativo di conforto, di Shuri che piange in silenzio lì accanto, con lo sguardo perso nel vuoto.
Thor rimane immobile, composto e austero, vegliando silenziosamente su quella bolla di sofferenza.

Steve si sente tirar via di lì e asseconda i propri passi che sembrano volerlo portare lontano, come se potesse così allontanarsi anche dal dolore e come se il mondo intero non si stesse sgretolando a poco a poco ovunque si posino i suoi piedi.
Avanza calpestando le macerie polverizzate, la terra friabile delle trincee, la cenere nella giungla, e ad ogni passo affonda sempre di più.
 
***
 
Non raggiunge mai la sua stanza, o almeno così gli sembra: i corridoi gli sembrano improvvisamente storti e si deformano ad ogni metro, allungandosi all’infinito, con le vetrate ora tempestate dalla pioggia che offrono illusorie vie d’uscita.
Sente la testa pulsargli così forte da fargli credere di avere uno squarcio sulla tempia, ma ogni volta che va a tastarlo, incontra solo i suoi capelli madidi e la sua pelle bollente.

I nomi gli ronzano in testa in un brusio che lo riporta nell’aereo sull’Artico, con la radio che gli gracchia nei timpani, o nella foresta tedesca con la ricetrasmittente che impartisce ordini lontani. Si guarda attorno, disorientato: dove sono Jim e Dum Dum? Perché Falsworth e Gabe non sono davanti a lui?
Sente i mitra nemici a pochi passi, con le detonazioni che si infrangono sui tronchi e i bossoli che tintinnano attutiti sul fogliame, e le scie dei proiettili gli sfiorano gelide il viso accaldato. Perché non c’è Bucky a coprirgli le spalle?

Il grigio della cenere gli ferisce gli occhi, scaraventandolo di nuovo nella realtà in cui lui è solo e Bucky nient’altro che polvere persa nel suolo.
Accelera il passo, scuotendo la testa a liberarla da quei flash violenti e così reali da fargli percepire l’odore di cuoio della sua prima, obsoleta divisa, l’umidità del bosco che gli penetra nelle ossa e il peso dello scudo che gli batte sulla schiena. Aumenta ancora il passo, quasi in una fuga, consapevole che il mondo gli sta crollando addosso e non ha più quello scudo per proteggersi.

Sta iperventilando e non riesce a stabilizzare il respiro, perché lui quelle sedute che gli ha consigliato Fury non ha mai voluto farle, e gli incubi e i flashback li ha sempre tenuti a bada a suon di corse notturne al Lincoln Memorial; ma adesso è al chiuso e non può correre, e sente quegli stretti corridoi che si restringono come i cunicoli di un bunker ghiacciato, privandolo di aria e luce.
Non si ferma e tira un singolo respiro completo, cedendo per un istante ai ricordi.

Davanti a sé vede il sorriso ampio, contagioso e un po’ vacuo di Bucky dopo qualche bicchiere di troppo in caserma; vede gli occhi dolci e fermi di Peggy guardarlo col medesimo affetto a settant’anni di distanza; vede la sua squadra che festeggia una vittoria mentre Tony e Pepper ballano insieme un po’ in disparte, Nataša e Clint bisticciano scherzosi riguardo al nome del prossimo Barton e Fury li osserva tutti con aria burberamente paterna; vede Clint con un bambino per spalla mentre stringe a sé Laura col terzo tra le braccia.
 
“Steve…?”
 
Quel richiamo interviene a rompere quella successione di immagini, che sembrano sfaldarsi come cenere che gli va negli occhi, annebbiandoli.
È a metà corridoio quando quel bruciore si fa insopportabile, costringendolo a fermarsi e a risucchiare un altro respiro tremolante.
Butta fuori l'aria, deglutisce cercando di riprendere il controllo, ma ormai gli argini hanno ceduto e si ritrova a inghiottire una scia salata.
Si appoggia al muro a pochi passi dalla sua camera e si lascia scivolare a terra, coi palmi premuti sul volto bagnato e la pioggia che batte sui vetri a smorzare ogni altro rumore.
 
***
 
Quando sente dei passi che si avvicinano non ha bisogno di alzare lo sguardo per capire chi sia: riconoscerebbe quell’andatura lieve e felpata ovunque. Non si muove, né scopre il volto, e rimane semplicemente in attesa.
Gli sembra che sia tutto ciò che può fare: attendere, sperando che qualcuno faccia quello che lui non è più in grado di fare da quando ha visto disintegrarsi la sua unica certezza in quel mondo troppo estraneo.

Nataša si inginocchia di fronte a lui, rompe con fermezza lo scudo delle sue braccia e lo stringe a sé senza dire una parola, come ha fatto al funerale di Peggy. Non ha la forza di respingerla, né vuole davvero farlo, e accetta quel contatto ricambiandolo esitante.

«Anche stavolta non volevi lasciarmi da solo?2» mormora fiaccamente, in un vano tentativo di ricomporsi e di far finta che il simbolo dell’America sia ancora integro e intonso.

Nataša libera un sospiro, e Steve avverte il tremito che lo attraversa.

«Forse stavolta non volevo rimanere sola neanch’io,» replica schiettamente, e Steve le passa una mano sulla schiena in un tenue gesto di conforto, sentendosi stringere più saldamente in risposta.

«Non abbiamo ancora perso,» afferma poi, irremovibile nonostante la voce instabile, nonostante le lacrime inequivocabili che continuano a scorrergli sul volto.

Nataša si scosta appena da lui per guardarlo negli occhi: i suoi sono lucidi, ma il volto è pulito, segnato solo sotto la superficie da un dolore che non fa però traboccare.

«Ci credi davvero?» gli chiede a bruciapelo, ed è la prima volta che la vede dubbiosa, e la prima in cui gli pone una domanda così vaga, priva di appigli reali.

Steve tentenna, mentre una fitta d'emicrania si interpone tra le sue parole e i suoi pensieri.
Un tempo aveva affermato di essere disposto a pagare il prezzo della libertà, qualunque esso fosse3. Credeva fermamente in quel concetto spacciato per effimero, che per lui aveva invece contorni definiti e reali, e non aveva mai esitato a pagare il prezzo per salvaguardarlo, anche quando quella libertà era risultata tale solo ai suoi occhi.

Non era mai indietreggiato da ciò che riteneva giusto, nonostante il grigio informe tra il bianco e nero fosse diventato spesso invitante; non aveva mai rinnegato quei suoi ideali, anche quando lo obbligavano a dover mettere la vita degli altri davanti alla propria; non aveva esitato neanche nel voler proteggere una singola vita, perché anche una singola vita dovrebbe fare la differenza.
Ma adesso si trova a pensare amaramente che il prezzo da pagare per quegli ideali sia stato troppo alto, e sa che quella che stanno vivendo rimane una sconfitta su tutti i fronti, che pesa su di loro con ogni fardello di cenere.

«Sì,» mente comunque, sostenendo il suo sguardo, e sa che lei può leggervi la bugia. «Ci credo,» afferma poi, combattendo contro la propria voce in frantumi.

Nataša non lo contraddice e lo stringe di nuovo a sé, lasciandosi stringere a sua volta. Steve chiude gli occhi, cercando di allontanarsi dai flash presenti e passati che gli invadono la mente, e dal mal di testa che lo tormenta.
Realizza che forse le ha detto una mezza verità, perché in fondo vuole continuare a crederci.
Se smettesse di farlo, ha l’impressione che finirebbe per diventare cenere anche lui.
 

 

Note:

1Ziggy:
uno dei soprannomi di David Bowie, famoso per la sua eterocromia riconducibile agli occhi di Thor.
2Ripresa di una battuta tra Steve e Nat in Civil War, appunto al funerale di Peggy.
3Riferimento al discorso che Steve fa allo SHIELD in Captain America: The Winter Soldier.

Note Dell'Autrice:

Buonasera, cari lettori e... allegria!
Seriamente, che ci crediate o no, la genesi di questa storia parte proprio da questo capitolo, in particolare dalla prima scena, e solo successivamente ho deciso di contestualizzarla in forma più ampia. Giuro che questo era il "fondo", più o meno: ci sono altri scossoni in vista, ma decisamente meno devastanti.
Precisazioni del caso: non l'ho mai detto, ma il modo in cui i personaggi si chiamano tra loro o si riferiscono agli altri (per nome, cognome etc.) è piuttosto importante, ed è studiato a tavolino. Oltre a questo, mi sento in dovere di specificare che il rapporto di Steve e Nat, nel contesto di questa storia, è da intendersi in senso puramente amicale.

Ringrazio tantissimo _Atlas_, shilyss e T612 per aver commentato l'ultimo capitolo, e serica per aver recuperato il precedente, oltre a tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le seguite/ricordate/preferite <3

Vi lascio in attesa del nuovo trailer di Endgame (che dovrebbe essere presentato stasera al Superbowl), e del prossimo capitolo, sperando abbiate apprezzato questa dose di angst in endovena <3

-Light-

 

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Capitolo 8
*** Schegge ***


8. Schegge
 

 
And I'm on my knees
And the water
Creeps to my chest
 
 
 
Dimentica sempre quanto sia estenuante piangere.
Non è un gesto che si permette spesso, se non in situazioni in cui è universalmente accettato – ovvero, per quanto ne sa, solo ai funerali. È consapevole che i canoni di comportamento del Ventunesimo secolo sono più flessibili di quelli che era abituato a rispettare da ragazzo, ma è ancora propenso, per istinto, a imbottigliare le lacrime e riservarle per momenti in cui nessuno vi fa caso.
È un soldato, ed è Capitan America: i simboli non piangono.

Adesso, nella penombra confortante del corridoio, viene meno a quel proposito e si sente meno colpevole di quanto dovrebbe, perché non ha una divisa, né uno scudo, e non è più Capitan America da un pezzo. Ha provato inutilmente a frenare il flusso che gli è salito agli occhi, e l’ha lasciato scorrere finché non si è esaurito da solo, lasciandolo svuotato a farsi sostenere da Nataša.
Lei non si è mossa neanche per un istante, come radicata nel pavimento di fronte a lui, e se da una parte trova imbarazzante essere crollato a quel modo in sua presenza, dall’altra è sollevato che non l’abbia lasciato da solo, anche se non è certo di poter trovare la voce per ringraziarla. Si scosta da lei, passandosi una mano sul volto ormai asciutto e ruvido di sale. La sua vista è ancora sfocata, ma almeno non rischia di traboccare ad ogni battito di palpebre.

Rimangono in silenzio, quello stesso silenzio che ha continuato a parlare tra tutti loro fino ad ora e che Steve scopre di odiare più di ogni altra cosa, persino più della cenere. Si strofina la tempia, corrugando le sopracciglia e tirando le labbra quando una nuova fitta lo stordisce.

«Cos'hai?» indaga subito Nataša, sospettosa come sempre.

«Niente, ho mal di testa,» si lascia sfuggire lui tra i denti, senza l'inventiva per accampare scuse plausibili.

Lei non commenta quell'informazione, ma la sua perplessità è innegabile.
Steve fa per rialzarsi di scatto per sfuggire alla sua vista, sentendosi improvvisamente vulnerabile, ma lei lo trattiene, poggiandogli fermamente i palmi sulle ginocchia. Potrebbe vincere senza sforzo la sua resistenza, ma asseconda il movimento, incrociando i suoi occhi impassibili che nella luce fioca sembrano grigi, quasi metallici.

«Dove vai?»

La domanda, nella sua semplicità, gli sembra priva di una risposta sensata.

«Non posso rimanere qui,» replica, senza esporsi ulteriormente e sapendo quanto suoni patetica quella scusa.

«Dovresti, invece,» ribatte lei. «Distruggere sacchi da boxe non è una soluzione,» aggiunge, e Steve si chiede se sia davvero così semplice da leggere, visto che il pensiero di fare a pezzi qualcosa l’ha sfiorato: semplice, invitante e inutile.

Ha sempre trovato i pugni più terapeutici delle lacrime, che fossero contro un gruppo di bulletti, gli scagnozzi dell’HYDRA o un sacco da allenamento. Il volto di Thanos gli balena davanti, ricordandogli a fuoco vivo contro chi dovrebbe indirizzare quella rabbia.

«Tu hai forse altre soluzioni?» chiede senza risentirsi, troppo stanco per contestare la sua obiezione e allo stesso tempo cosciente che non riceverà risposta.

«Un paio,» lo sorprende lei, inclinando la testa di lato con un piccolo scatto. «Per esempio fare in modo che la prossima “riunione” sia una riunione e non un processo pubblico,» continua, ancora a voce bassa, ma più sferzante.

«Stai dicendo che è colpa mia?» sbotta Steve, senza nascondere la propria irritazione latente.

«È colpa nostra. Nessuno escluso,» puntualizza lei, senza demordere.

«Io ho tentato di arginare la situazione, ma…» si interrompe per un istante, per poi continuare con più veemenza, stanco di reprimere le accuse che gli salgono spontanee alle labbra.
«Ma Stark continua a farla precipitare,» conclude seccamente, coi pugni contratti.

Nataša si concede un debole sospiro, senza negare quell’affermazione.

«È arrabbiato, Steve,» mormora infine. «Come lo siamo tu, e io, e Thor e Bruce e tutti gli altri. Siamo tutti arrabbiati, ed è più semplice prendersela con qualcuno che può reagire, piuttosto che con la cenere,» ragiona lucidamente, e lui non può che tirare le labbra, muto, perché capisce fin troppo bene quello che vuole dire.

«Se continuiamo a darci addosso…» Steve non completa la frase e scuote la testa, stropicciandosi le palpebre umide.

«Noi non lo stiamo facendo,» gli fa notare lei, strappandogli l’ombra di un debole sorriso. «È già qualcosa,» conclude, e parrebbe quasi ottimista, se non la conoscesse abbastanza da leggere lo sconforto nei suoi occhi ora meno freddi del solito.

«E neanche tu e Banner,» osserva lui, a suo rischio e pericolo.

Nataša comprime le labbra, quasi a precludergli una risposta.

«Abbiamo… risolto,» rivela poi. «Sempre che ci sia mai stato qualcosa da risolvere,» offre, vaga come suo solito. «Adesso tocca a lui e Thor,» prevede infine, catturando la sua attenzione.

«Bruce ti ha detto qualcosa?» chiede, memore della loro chiacchierata in mezzo al torrente.

«Poco e niente, in realtà,» si stringe nelle spalle lei. «Solo che Thanos ha sconfitto Hulk, e poi ha ucciso Loki davanti al fratello. Si sente responsabile e…»

«E Thor non aiuta,» conclude Steve, amaramente.

«Ha perso il suo intero popolo,» gli ricorda lei. «Puoi davvero biasimarlo?»

Steve scuote la testa, tacendo e cercando di non pensare a Londra e alle macerie, alla cappa di morte e devastazione, che lo opprimeva allora come adesso. All’epoca riusciva almeno ad avere conferma visiva della morte: le case sventrate, i crateri, i cadaveri per le strade che sembravano sempre troppi per appartenere tutti a quel mondo, le corazze plumbee degli ordigni inesplosi. Ora ha solo l’eco intangibile di uno schiocco, e quel dolore martellante alla tempia che sembra gridare con la voce di chi non c’è più.

«Stanno parlando?» chiede invece, consapevole di quanto sia fragile il suo tono, come se qualcuno gli stesse scuotendo le costole dall’interno mentre parla.

«Spero di sì, e spero che non vada a finire come stamattina,» commenta Nataša, accigliandosi.

Steve concorda in silenzio, continuando a massaggiarsi gli occhi di tanto in tanto, nonostante siano ormai asciutti. Lei sembra non avere intenzione di spostarsi; rimane lì in ginocchio, il volto alla sua altezza, una mano a stringergli discretamente il braccio e l’altra in grembo.
La pioggia, breve e violenta, ha smesso di tempestare la vetrata in fondo al corridoio, fiocamente illuminato dalla luce cianotica di un crepuscolo prematuro.

«Anche voi dovreste parlare,» afferma Nataša sottovoce, e nel dirlo sembra quasi sovrappensiero, come se quello fosse un concetto passeggero in cui non ripone troppa fiducia.

Steve se l’aspettava e non ha bisogno di ulteriori specifiche da parte sua, ma non può fare a meno di irrigidire il proprio volto, contrariato.

«Adesso non mi sembra il momento giusto per affrontare…»

«Steve, non c’è più un momento “giusto” per fare nulla,» lo interrompe lei, sollevandogli il viso che aveva inconsciamente abbassato con una mano sotto al mento. «Bruce forse ha ragione: ormai un giorno in più o in meno non fa differenza; ma più aspettiamo, più tutto questo diventa definitivo,» continua, con più energia.

«Abbiamo già parlato, Nat,» rincara lui, con un velo di risentimento.

«Di cosa?» lo incalza lei, senza dargli tempo di continuare.

«Di tutto,» ribatte, e nel dirlo si rende conto che non è vero, e anche lei glielo legge nello sguardo.

Che non hanno parlato di nulla, in realtà1. Che un paio di frasi colme di sottintesi, di risposte allusive, accuse latenti e non detti tra le righe, non equivalgono a parlare. Che lasciar cadere il discorso perché entrambi erano troppo stanchi, troppo logorati dalle perdite per addentrarvisi davvero, non equivale a risolverlo.
Non era perdono, gli aveva detto Tony, e lui ha voluto interpretare quelle parole come uno spiraglio, quando invece gli è ormai chiaro che sono una corazza, una delle tante dietro le quali si è sempre nascosto l’ingegnere.
Butta fuori un lungo sospiro, consapevole di essersi nascosto a sua volta, e chiedendosi se abbia peccato d’ingenuità o di vigliaccheria nel farlo. Sa bene quale possibilità lo disgusterebbe di più.

«Lo sai che ho ragione,» commenta Nataša, inflessibile di fronte al suo breve silenzio.

«Non è detto che parlare migliorerà la situazione,» si costringe a rispondere infine. «So di non aver sbagliato due anni fa, e anche potendo non cambierei la mia scelta,» proferisce poi, rialzando del tutto il volto.

È vero. Rifarebbe tutto, dalla prima all’ultima azione; proteggerebbe Bucky, entrerebbe in clandestinità e si rifiuterebbe di sottostare a una legge sbagliata alla radice.

«Pensi che a Tony farebbe piacere se gli dicessi che, secondo me, ha ancora torto marcio?» sbotta poi, con una vena di scherno.

«Adesso di cosa stai parlando?» lo rimbecca Nataša, impassibile. «Gli Accordi non mi sembrano affatto “faccende personali”,» insinua poi, con la consueta acutezza, e Steve stringe appena i denti sentendosi improvvisamente colto in fallo.

Perché, a pensarci bene, forse non rifarebbe proprio tutto, e, potendo, cancellerebbe la Siberia e tutto ciò che l’ha causata. E sa che il nòcciolo del discorso è di nuovo il silenzio; il suo silenzio. Gli Accordi non c’entrano: sono lo scudo e la corazza oltre i quali si rifiutano entrambi di guardare.

«No, non lo sono,» ammette, con un filo di voce, e si frena dal dire altro.

Nataša lo fissa per quello che sembra un minuto intero, con gli occhi seri e penetranti che non si distolgono dai suoi, quasi sperasse di leggervi quello che ancora le sfugge.

«Vai da lui,» proferisce infine, riscuotendolo con una lieve pacca sulle ginocchia.

Steve trasalisce, sbattendo le palpebre appesantite.

«Cosa?»
«Mi hai sentito: vai da lui. Adesso, prima che ci vada io e vi costringa a risolvere la questione su un ring,» aggiunge minacciosa, e Steve non è sicuro che stia davvero scherzando.

«Perché ho il sospetto che finirà comunque così?» ribatte, con quieta rassegnazione.

Nataša non risponde subito e si rialza in piedi, offrendogli poi una mano per aiutarlo. Lui la accetta con lieve titubanza, sentendosi le gambe di piombo e le articolazioni rigide come argani arrugginiti e mal oliati.

«Sarebbe comunque un miglioramento,» sbuffa Nataša, con un’occhiata eloquente. «Vogliamo tutti la stessa cosa e siamo tutti dalla stessa parte. Cerca di farglielo capire,» conclude, con più fiducia di quanto si sarebbe aspettato.

Annuisce, pur senza convinzione, e si sfrega la barba con fare distratto, a prendersi tempo. A questo punto la giornata può solo finire nel peggiore dei modi, ma gli riesce difficile prevedere anche quello che succederà tra pochi minuti, figurarsi le sorti dell’universo. Guarda Nataša, e di nuovo realizza quanto le sia grato. Non era tenuta a interessarsi, non era tenuta a mettere da parte il suo dolore per occuparsi del suo, e non era tenuta ad assumersi quel ruolo di mediatrice che aveva già rifiutato categoricamente a Tony. Le cerca gli occhi, che si impegna a mantenere sfuggenti quasi potessero tradirla nonostante gli anni di addestramento, e di nuovo gli sembra che abbiano perso la loro trasparenza neutrale, caricandosi di ombre fin troppo scure ed evidenti.

«Tu stai bene?» le chiede, odiando quelle frasi fatte di cui farebbe volentieri a meno, come quando annunciava delle brutte notizie ai soldati o alle loro famiglie.

Lei scrolla le spalle, incrociando le braccia, e non gli serve un libretto d'istruzioni sul linguaggio non verbale per interpretare il gesto come una barriera.

«Passerà,» asserisce, atona. «Alla morte ci si abitua. Tu dovresti saperlo,» aggiunge poi, attaccando per difendersi come fa spesso e lasciando trapelare il suo sconforto oltre la maschera speranzosa che ha mantenuto finora.

«Non ci si abitua mai davvero, nemmeno in guerra,» la contraddice, con gentile fermezza.

«Forse,» concede lei, e freme appena, quasi a reprimere un brivido. «Ma è inutile pensarci. Hai quello che hai quando lo hai. E io non l'ho più2,» sciorina lei tranquillamente, abbassando lo sguardo.

Steve intuisce di nuovo un qualcosa di trattenuto, uno di quei non detti che finiranno per mandarlo al manicomio, ma lascia correre, come ultimamente sta facendo spesso.

«E hai il coraggio di dire a noi due che non parliamo,» la rimprovera soltanto, per poi attirarla a sé senza riflettere, stringendola in un abbraccio.

Lei non lo ricambia, ma non vi si sottrae e si poggia appena a lui, accettando quel supporto che non avrebbe mai chiesto esplicitamente.

«Non c’è niente da dire,» mente comunque, ostinata fino all’ultimo.

Steve non ribatte, perché in fondo ha già detto abbastanza così.

 
***
 
 
Nella brezza, mischiato al penetrante odore di ozono, è sospeso un profumo mellifluo di fiori notturni. Steve inspira a pieni polmoni l’aria umida e limpida dopo il temporale, e punta gli occhi sull’orizzonte ancora delimitato da una sottile striscia verdastra, pronta a cedere al buio incombente.

La sala comune era deserta, con suo sollievo. Si è spinto sul ballatoio che corre attorno al perimetro dell’edificio, camminando a passi lenti nel tentativo di sgombrare la testa accaldata, che sembra adesso piena di un liquido denso e ribollente, quasi vi stessero sciabordando tutte le lacrime che non ha versato. Ha deciso di fare un giro del palazzo per rinfrescarsi la mente, prima di provare a bussare alla porta di Tony, anche se sa già che finirà per aspettare il mattino.

Si sta giusto avvicinando al primo angolo, quando capta un brusio smorzato e si ferma d’istinto. Tende l’orecchio, ma anche così il chiacchiericcio è indistinguibile – riconosce solo due voci familiari, e prega di sbagliarsi. Muove dei passi cauti, poggiando i piedi leggermente di sbieco per non far rumore, anche se è consapevole che dovrebbe fare esattamente il contrario per annunciare la propria presenza, ma gli istinti da soldato sono ardui da reprimere. Si sporge appena oltre l’angolo, e conferma i propri sospetti quando mette a fuoco Rhodes e Tony, seduti uno accanto all’altro sul pavimento del ballatoio, coi piedi penzoloni nel vuoto e le braccia poggiate contro la barra trasversale della balaustra metallica. Tony sta apparentemente parlando a ruota libera, gesticolando svogliatamente, e se non fosse per il contesto e la sua voce roca ed esausta potrebbe quasi sembrare un discorso preso da una giornata qualunque all’Avengers Tower.

«... delle fragole. Di tutto ciò che potevo portarle, ho scelto l'unica cosa a cui era allergica. Se questo non è un segno…» sta raccontando, e dal tono sembra sorridente a dispetto della situazione.

«Un segno della sua infinita pazienza?» ribatte Rhodes, con uno sbuffo ironico.

«Sempre dalla mia parte, eh?» commenta l’altro, scuotendo la testa.

Steve si ripara di nuovo dietro il muro, escludendo dalle proprie orecchie quella conversazione fin troppo privata che continua serratamente in sottofondo. Sta per andarsene, rimandando in modo definitivo il confronto al giorno dopo, quando si blocca a metà movimento nell’udire il proprio nome.

«… come prima con Rogers; bell’amico che sei!»

«Avrei dovuto lasciarvi prendere a cazzotti?»

«L’idea era quella, ed era anche ottima.»

Steve esita. Sa che dovrebbe andarsene, sa che origliare è sbagliato – era lui che da bambino rimproverava Bucky quando lo faceva ed era lui che mal sopportava il concetto di “spia” nell’esercito – ma allo stesso tempo è cosciente che quella sarebbe una mossa strategica. Un modo per aiutarlo ad evitare passi falsi e finire su un ring come ha predetto Nataša.

«Ottima per finire dissanguato, certo,» sbuffa Rhodes, chiaramente esasperato. «Non so come tu abbia il coraggio di alzarti dal letto con quella ferita.»

«Non mettertici anche tu; mi è bastata Nat a farmi la ramanzina. E scusa se non ho voglia di perdere altro tempo a lamentarmi e frignare,» sbotta d’un fiato l’altro, troppo velocemente e con voce traballante in contrasto con le proprie parole.

C’è un breve vuoto nel discorso, e Steve si pietrifica nel gesto di poggiarsi contro il muro, timoroso di far rumore; lo completa solo quando riprendono a parlare, coperto dalle loro voci e dall’insistente frinire di un grillo solitario:

«Hai già fatto molto, Tony. Puoi anche concederti un momento di…»

«No, non posso,» ringhia subito in risposta lui, e c’è un sordo suono metallico a concludere le sue parole, come se avesse dato un colpo alla ringhiera. «Non hai sentito? Il nostro… il mio piano è campato in aria e non ci porterà da nessuna parte, a detta del boss,» continua causticamente, e Steve trattiene a forza un sospiro di fronte a quell’astio non più represso. «Quindi dovrò scervellarmi un altro po’, cavar fuori qualcosa di sensato e poi potrò…» si interrompe di colpo con un respiro spezzato, di nuovo un istante prima di perdere il controllo della propria voce.

«… riabbracciarli,» conclude Rhodes, a voce più bassa e insolitamente delicata, per un qualcuno di così schietto e poco incline a sentimentalismi.

Tony non risponde e tira seccamente su col naso.

«Tu ci credi? Credi davvero che sia reversibile?» chiede poi a bruciapelo, e Steve coglie tutto il suo scetticismo in quella domanda alla quale anche lui ha avuto paura di rispondere.

Si sente gelare, come se qualcuno gli avesse rovesciato una secchiata di neve nello stomaco. Ha continuato ad aggrapparsi inconsciamente alla sicurezza di Tony, a come sembrasse sapere come risolvere tutto, al suo piano scartato che ha offerto comunque un fioco spiraglio. Sentirlo ora così dubbioso gli pesa più di quanto dovrebbe; lo lascia a chiedersi quanto debba essere disperata situazione per costringere qualcuno come Tony Stark ad arrampicarsi sugli specchi e millantare soluzioni troppo fragili basate su dei progetti di Howard di cinquant'anni prima.

«Devo crederci. Tu no?» Rhodes sembra altrettanto sorpreso dalla sua domanda.

«Secondo un calcolo probabilistico, abbiamo una possibilità su 14.000.605 di vincere,» enuncia lui, a colpo sicuro. «Scusa se non ho grandi speranze al riguardo,» conclude, con debole sarcasmo.

«È una stima affidabile o stai solo dando i numeri?»

Uno sbuffo indecifrabile è tutto ciò che Tony offre in risposta.

«Di sicuro le nostre possibilità aumenterebbero se tu e Rogers la smetteste di prendervi a testate,» riprende allora Rhodes, e Steve, tra sé, non può dargli torto.

«Cristo, allora sei davvero dalla sua parte,» bofonchia Tony, strascicando le parole.

«Tony, piantala. Pensi che esistano delle "parti", adesso?»

«Non sono così stupido. Sono stato il primo a dirgli che non me ne fregava più nulla di ciò che è successo con gli Accordi.»

«E quindi?»

C’è un secondo sospeso di pausa, e Steve si rende conto di star trattenendo il fiato.

«Quindi ho mentito,» replica lui, tagliente, senza mezzi termini. «Lo faccio spesso, ormai dovresti averlo imparato,» continua con arroganza.

Steve si costringe a controllarsi, piantandosi pollice e indice nelle palpebre irritate, perché il primo istinto sarebbe quello di uscire allo scoperto, prenderlo per la collottola e dirgli che è un emerito imbecille, nonostante quello che sta ammettendo sia in realtà ovvio. Perde per un attimo il filo del discorso, ma anche Rhodes si è accalorato, mettendo da parte il suo fare comprensivo.

«… invece di continuare a tenervi il broncio e bisticciare come…»

«Domanda: perché sto ancora parlando con te?»

«No, la domanda è perché non avete parlato voi!»

«Perché io ho ragione, e anche lui ha ragione!» sbotta infine Tony, quasi affannato.

C’è di nuovo una parentesi di quiete, interrotta solo da quel grillo indiscreto. Steve è abbastanza certo di aver capito male, ma il silenzio sconcertato di Rhodes è una valida conferma di non aver avuto un’allucinazione uditiva, perché in sei anni Tony non è mai stato neanche vicino a dargli ragione, se non per scopi derisori e con parole traboccanti di supponente sarcasmo.

«L’hai detto,» osserva Rhodes, comprensibilmente spaesato.

Il sospiro di Tony potrebbe decisamente scatenare un tifone.

«L’ho detto,» gli cede il punto, con stizza. «È un paradosso coi fiocchi, ma non abbiamo tempo per risolverlo. Gli Accordi adesso non servono a nulla e questo schifo di situazione è più importante de–...» la frase viene troncata di netto, e Steve può quasi immaginarsi Tony che si rimangia quella parola in sospeso tra loro da giorni.

«Della Siberia?» completa Rhodes, in bilico tra il sarcasmo e l'esasperazione.

«Sì. Più o meno.»

Steve percepisce un deciso vuoto allo stomaco, e si ritrova la bocca improvvisamente arida come carta vetrata.

«Tony, che diavolo è successo, laggiù?»

Steve sa che adesso dovrebbe voltare i tacchi e andarsene.

«Non ha senso parlarne adesso. E non ha senso parlarne con te

Cerca la forza di muovere il primo passo, ma è come se qualcuno l’avesse inchiodato sul posto, per poi rendersi conto che è lui a voler rimanere lì, a voler sentire sentire l'altra campana.

«Non sono qui per giudicarti,» continua intanto Rhodes, di nuovo in tono misurato. «Quando fai qualcosa di stupido mi incazzo, e credimi, mi fai incazzare spesso. Ma non ti mollo, Tones. Non l’ho fatto in trent’anni e non lo farò adesso.»

È la sua ultima possibilità per allontanarsi, perché sa che quando Tony inizierà a parlare, rievocando quel bunker gelido, non ne sarà più in grado.

«Grazie, WarMachineRox,» dice Tony, e si intuisce un lieve sorriso nella sua voce.

«Di nulla, signor Stank,» replica pronto l’amico.

C’è una sorta di sbuffo soffocato da parte di Tony, come un principio di risata troppo debole per lasciare davvero le sue labbra e attutito da un velo che sembra ostruirgli la gola.
Steve rimane al suo posto, le orecchie tese sin quasi allo spasmo e il cuore che gli martella nel petto senza un motivo apparente.

«La Siberia era una trappola,» esordisce d'un tratto Tony, e il suo è quasi un colpo di tosse che lacera l’aria serale.

Prima che Steve possa rendersene conto, ha già iniziato a raccontare, partendo dalla sua visita alla RAFT. È fattuale, stringato, nonostante la voce costantemente sul punto di sfaldarsi. Non aggiunge un singolo commento personale e si astiene anche dall’uso dell’ironia. Gli sembra di sentire uno degli speaker dei cinegiornali di guerra; riesce quasi a vedere la pellicola granulosa scorrergli davanti agli occhi, di pari passo con gli eventi narrati. Quando arriva alla lettera che gli ha spedito si sente stremato quanto lui, e con un principio di nausea a chiudergli la gola.

Ha narrato il tutto in modo asettico, impersonale, ed è proprio in quella scelta ponderata che Steve percepisce quanto quelle schegge che si sono lasciati dietro siano ancora conficcate in profondità nelle carni di entrambi, perché ciò che Tony ha omesso è esattamente ciò che lui stesso non vorrebbe sentire. Per un istante, è paralizzato dal sospetto che Tony sappia che lui è in ascolto; sospetto che viene dissipato dalle successive parole che pronuncia, le prime che infrangono la lastra di silenzio attonito interposta tra lui e Rhodes:

«Non ho perso la sanità mentale solo perché c’eravate tu, Pepper e Peter a impedirmelo,» mormora, a stento udibile. «Altrimenti non so cos’avrei fatto. Non lo so davvero.»

C’è un lungo sospiro da parte di Rhodes, comprensibilmente preso in contropiede da ciò che ha appena sentito. Steve rilassa le dita che ha involontariamente conficcato nei bicipiti, sentendosi un condannato in attesa del verdetto.

«Dio…» proferisce infine, ancora sconcertato. «Mi sarei aspettato di tutto, ma questo…»

«Non dirlo a me,» borbotta Tony, senza alcuna inflessione. «E dire che ero andato lì da amico,» continua, adesso con un respiro sforzato, sinonimo di una rabbia a malapena trattenuta. «Ma a quanto pare, se non sei un soldatino di novant’anni pronto a metterti sull’attenti e scodinzolare, sei escluso dalla cricca di Rogers.»

Steve deve far appello a tutto il suo autocontrollo per non uscire allo scoperto e fargli rimangiare quell’insulto – ed è consapevole che in realtà sarebbe proprio Bucky a trattenerlo e liquidare la questione senza darvi peso. Si lascia fermare dal suo ricordo – perché dopotutto origliare è sbagliato e lui non dovrebbe essere lì.

«Tony... non odiarmi per quello che sto per dire,» dice intanto Rhodes, pesando accuratamente le parole.

«Lo so da me che quello che è successo ai miei è colpa dell’HYDRA,» sbotta l’altro, interrompendolo. «Pensi che questo cambi qualcosa?» continua, in tono esausto e frustrato.

«Infatti non è qui che volevo arrivare,» lo contraddice Rhodes, con insolita pacatezza. «Non riesco neanche a immaginare come ti sia sentito, in Siberia. Ma… tentare di ucciderli con le tue mani?» Rhodes tace per un attimo, esitante. «Lucidamente?» lo incalza poi, e c’è una sfumatura preoccupata in quella domanda.

«Non ero “lucido”,» ribatte Tony, con la collera che gli fa vibrare la voce. «Tu saresti lucido, dopo aver visto strangolare tua madre in diretta?» continua seccamente.

«No, e non pretendo che tu mantenessi la calma. Ma non voglio neanche immaginare che il mio migliore amico possa diventare un assassino,» ribatte piattamente Rhodes.

Tony risponde con un sospiro snervato.

«Veramente?» sibila poi. «Mi stai facendo la paternale?»

«Ti ho detto che non ti sto giudicando. Provo solo a rimanere obbiettivo,» ribatte Rhodes.

«Certo, perché accettare che io abbia ragione è sempre troppo difficile,» osserva lui, con scherno.

«Il punto è un altro, e lo sai. Qui stiamo parlando di omicidio, e tu non…»

«Io non posso essere sempre l’eroe!» sbotta a quel punto Tony, inalberandosi. «Cosa pensi che abbia fatto dei terroristi che mi hanno rapito? E cosa pensi che farò quando mi troverò davanti Thanos?» la sua voce si spezza sul quell’ultimo nome, e Steve si trova a sua volta coi pugni serrati e tremanti, come se il solo pronunciarlo potesse evocarne la presenza.

«Quindi dovresti essere contento che adesso Barnes sia morto, no? Almeno una buona notizia in questa tragedia!» recita sarcastico Rhodes.

Steve si obbliga a rilassarsi e a controllare qualunque reazione potrebbe scaturire dalla risposta di Tony.

«Non posso esserne contento. Ma non posso neanche dispiacermi,» replica dopo qualche secondo, affannato, come se la domanda l’avesse colto alla sprovvista. «E Barnes non è comunque la parte peggiore,» con un tono venato di falso divertimento, sulla soglia di una risatina isterica.

Steve si irrigidisce, sostituendo lo spaesamento per le prime, inaspettate parole con un sottile timore. Pensava di averla già ascoltata, la parte peggiore, e il pensiero che agli occhi di Tony non sia tale gli fa desiderare di andarsene adesso, e allo stesso tempo di rimanere inchiodato al suo posto.

«E quale sarebbe?»

«La parte peggiore è che Rogers, dopo avermi mentito mi ha ucciso

Steve si sente spremere l'aria dai polmoni, e il cuore si congela a metà di un battito. Si chiede se la sensazione sia equiparabile a quella di avere uno scudo infisso nel petto.

«Stavo per morire,» continua piano Tony, di fronte al silenzio attonito dell’amico.

«Stavi… dove? In Siberia?»

Steve può dedurre che Tony abbia annuito, perché Rhodes non chiede altro.

«Sai com’è avere il petto collassato?» sospira poi, deglutendo a fatica. «È più o meno come avere un reattore che ti trapassa lo sterno. O uno scudo che ti spacca le costole. Ti sembra di annegare.»

C’è una pausa così intensa che Steve potrebbe sentire i propri pensieri affondare nel buio circostante. Fa più freddo di quanto dovrebbe; sa che è un’impressione, ma non trattiene un brivido involontario.

«Se ne sono andati, Rhodey,» butta fuori l’aria dal naso lentamente, a calmare il respiro. «Ero lì, col petto fracassato, con una cazzo di armatura rotta che non potevo togliermi, a sputare sangue e crepare di freddo, e se ne sono andati,» conclude, in un mormorio che ha dell’incredulo. «Di cosa dovremmo parlare, esattamente? Del fatto che va tutto bene solo perché sono ancora vivo?»

«Cosa vuoi che ti dica?» risponde Rhodes, in fretta ma altrettanto piano. «Che hai ragione? Che fai bene a non voler parlare con Rogers e a comportarti così?» continua, più pressante, senza cavar fuori una risposta da Tony, adesso chiuso in un ostinato mutismo. «Tony, questo è il momento in cui devi decidere se parlarne con lui o lasciar perdere per sempre. Lo so che non ti piace pensare in bianco e nero, ma stavolta non puoi rimanere nel mezzo,» gli fa notare, cercando di riscuoterlo.

«Vorrei dire che me ne frego,» proferisce infine Tony, impassibile. «Di tutto. Di Rogers, di Barnes, degli Accordi, della Siberia… ma adesso quelle sono le uniche cose che posso risolvere. Preferisco pensare alla Siberia, piuttosto che a… al resto

Non può vederlo, ma sente la sua voce spezzarsi con un singulto sforzato. Cade nuovamente nel silenzio, e Rhodes lo rispetta, senza aggiungere altro.
Steve a questo punto vorrebbe solo allontanarsi, ma teme che ogni minimo movimento potrebbe attirare la loro attenzione, in quell'assenza di suoni così intensa da essere assordante. Si sente frastornato, con una decisa morsa di senso di colpa ad arpionargli lo stomaco, ma non riesce a formulare alcun pensiero coerente. Le parole di Tony gli rimbombano in testa prive di senso, in una cacofonia di suoni sovrapposti ed echeggianti che gli è impossibile mettere a fuoco. Di nitido, vede solo il volto insanguinato del compagno, nell’istante congelato in cui stava per spaccargli la testa con lo scudo.

«Rhodey, li ho persi,» la voce di Tony rompe debolmente la quiete, distante e completamente priva d’inflessione, quasi stesse enunciando un suo nuovo teorema appena elaborato e del tutto astratto, slegato dalla sfera emotiva. «Non ero lì con lei perché l’ho lasciata sola, come sempre… e il ragazzino mi è sparito davanti, e non…»

“Steve…”

Chiude gli occhi, ma la cenere non scompare, rimane sospesa tra loro.

«Non è colpa tua,» lo interrompe Rhodes, adesso tremante. «Non è colpa tua e nessuno di noi poteva…»

«Li ho persi,» ripete Tony in un soffio, ignorandolo. «E non so più cosa fare. Non ho mai davvero avuto un piano e non so più come… dovrei essere in laboratorio, non qui a…»

«Tony,» Rhodes interrompe il suo parlare concitato e sconnesso, e lui ammutolisce. «Ehi, guardami. Farai e faremo tutto il possibile per riportarli indietro, ma adesso hai bisogno di riposarti, perché in questo stato non concluderai nulla. Devi ricaricare le batterie e resettare i neuroni,» gli dice con voce pacata, nel tentativo di calmare il suo respiro fattosi affaticato.

Steve lo sente alzarsi, e i suoi passi fanno vibrare la balaustra metallica.
«Vieni, ti accompagno in camera. Non sei ridotto bene,» dice schietto, e Steve scorge la sua ombra nel riquadro di luce proiettato dalla finestra alle sue spalle, la mano tesa verso Tony.

«Ce la faccio,» replica questi, sollevandosi pesantemente senza aiuto e facendo per un istante capolino da oltre l’angolo.

Steve si irrigidisce, appiattendosi ancor di più con la schiena contro il muro, ma sa di essere in ombra e invisibile, e Tony sembra troppo assente per mettere a fuoco chiaramente ciò che lo circonda.

«Intanto vai. Io voglio stare un po’ da solo,» afferma, con fare spento.

«Tony, ti prego…» comincia l’amico, implorante.

«Non farò nulla che potrebbe farti incazzare, o almeno ci proverò,» lo rassicura subito lui, con appena un guizzo di sorriso nelle sue parole.

Il rumore di un lungo sospiro, unito allo scatto della porta-finestra che si chiude dietro Rhodes segna la fine della conversazione. Tony si mette di nuovo a sedere, soffocando un lamento, e Steve fa lo stesso a pochi metri da lui, lasciandosi scivolare contro il muro. Forse spera di trovare il coraggio per farsi avanti. Forse spera solo di essere scoperto. La sua testa rimane muta, vuota, come se fosse riempita d'elio.
Rimangono seduti lì a lungo, con gli occhi persi in punti diversi della steppa disseminata di ceneri davanti a loro.

Dopo quelle che sembrano ore, sente Tony alzarsi pesantemente. Non lo vede, ma scorge la sua ombra nel riquadro della finestra: si è appoggiato alla balaustra. Sente uno strattone di paura allo stomaco nel realizzare che sono ad almeno venti metri d’altezza e che Tony si è appena proteso verso il buio sottostante, come a volerne scorgere il fondo. Prima di poter scattare in piedi – e fermarlo, trascinarlo al sicuro oltre il bordo, afferrarlo col terrore di lasciarsi sfuggire anche quella mano – lo sente prendere un paio di respiri profondi, per poi scostarsi zoppicante dal parapetto e rientrare sbattendo la porta.

Steve non si muove, con un sollievo caustico che gli scioglie le viscere. Si porta una mano alla tempia e poggia la nuca contro il muro, con lo sguardo rivolto al cielo spento.
Sente l’oscurità premergli sulle orecchie.
Il mal di testa è peggiorato.


 

Note:

1Tutto il passaggio si riferisce alla one-shot Speaking Terms.
2Citazione da una scena tagliata di Civil War, quando Steve e Nat parlano dopo il funerale di Peggy. Ringrazio T612 che tempo fa mi aveva consigliato di guardarla (e so che la interpreterai nel giusto modo <3)



Note Dell'Autrice:

Salve!
No, la storia non è defunta, è solo che questo capitolo ha avuto una genesi estremamente travagliata...
Prima di venir linciata: no, Cap non origlierebbe mai una conversazione se fosse nel pieno delle sue facoltà mentali.
Rendere Tony senza la sua mimica facciale è stata una delle cose più complesse che abbia mai fatto, ma spero gradiate il risultato :) Le reazioni di Steve sono "limitate" per una questione di realismo: nell'ascoltare una conversazione si ha molto poco tempo per riflettere, e ho reputato fuori luogo inserire flussi di coscienza troppo lunghi, anche per timore di rendere il dialogo tra Tony e Rhodey ostico da seguire.

Detto ciò, ringrazio tantissimo _Atlas_, shilyss, serica e T612 per aver commentato lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite <3
Ringrazio in particolar modo la mia cara Atlas, che è stata di grande aiuto nella gestione di Rhodey, uno dei miei storici talloni d'Achille che a questo giro ha fatto ammattire tutte e due. Infatti, caso ha voluto che dovessimo affrontare entrambe l'argomento "Siberia" accoppiato a Rhodes nei rispettivi nuovi capitoli, quindi potreste trovare qualche somiglianza per i temi trattati nella sua (splenderrima) Drowning Man, che vi invito caldamente a leggere ;)

Grazie per aver letto, e spero come sempre di aggiornare presto.
A proposito, mancano due capitoli :D
Ossequi,

-Light-

P.S. Steve che piange è colpa del primo trailer di Endgame, sapevatelo.

 

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Capitolo 9
*** Caduta libera ***


9. Caduta libera
 
 
 
Don't cover yourself with
Thistle and weeds
Rain down, rain down on me

 
 
 
I pesanti scarponi da combattimento incrinano la superficie intatta del manto di neve con uno scricchiolio acuto. Il bosco in letargo attutisce i loro passi, inghiottendoli a poco a poco nelle sue viscere gelate. L’alba è vicina, ma la luce muore nel grigio uniforme del cielo, privandoli della striatura lattea e delle fioche candele turchine che li guidano in notti più chiare. I pini attorno a loro sono incolori e sembrano disegnati a carboncino e grafite su una delle pagine del suo quaderno.

Si accovaccia dietro un abete sradicato dal vento, col respiro denso che gli appanna gli occhialoni da aviatore e le ciglia orlate di brina che gli graffiano le guance; alza il pugno sinistro e lo scricchiolio di scarponi che lo segue s’interrompe all’unisono. Scruta il quadrante mobile e traballante della bussola, e prima del Nord trova gli occhi scuri e dolci che ricambiano sempre il suo sguardo. Vi indugia per un solo istante, per poi richiudere il coperchio con uno scatto e riprendere l’avanzata, una linea diritta, secca, che taglia arbusti e radici e torrenti ghiacciati e basse collinette.

Si accorge in ritardo dell’assenza di suoni dietro di lui. Scocca un’occhiata dietro di sé e incontra il fitto muro d’ombra del bosco; a seguirlo c’è solo la scia profonda delle sue stesse orme. Slaccia rapido lo scudo dal sostegno sulla schiena e lo imbraccia con una mossa sicura calcandosi l’elmetto blu in testa, l’adrenalina che gli scorre bollente nelle vene. S’inerpica sulla scarpata appena discesa, sfaldando i contorni nitidi delle proprie suole impresse nel bianco, fino ad affacciarsi sul basso crinale addolcito dalla neve. Un lumicino in lontananza attira il suo sguardo – forse una lanterna cieca. Un rumore estraneo gli punge i timpani: uno stridere indistinto di ferro contro ferro, di pistoni e pulegge che si incastrano meccanicamente spostando un peso immenso – forse un panzer tedesco. Stringe i legacci dello scudo, sbiancandosi le nocche escoriate, pronto allo scontro man mano che il puntino luminoso s’ingrandisce e lo sferragliare diventa assordante, in rotta di collisione con lui. Lo aspetta a scudo alzato, piantato al suo posto.

Il treno balza fuori dagli alberi su rotaie invisibili, urlando come una bestia ferita mentre perfora il bosco, trascinandolo sospeso su una gola a strapiombo che si spalanca sotto i suoi piedi. La vertigine gli fa girare la testa mentre scalcia nel vuoto e manca l’appiglio di una mano, di nuovo, e stavolta è lui a cadere nell’aria fredda che sembra tagliarlo a metà, ed è lui a urlare contro il vento che lo trascina in basso, sempre più in basso, oltre lo strato di neve e roccia e poi sott’acqua, nella morsa del ghiaccio che lo stritola e gli mozza il respiro, riempiendolo di cenere…

«Steve!»
 
***
 
Riapre gli occhi con uno spasmo, l’urlo di Bucky ancora nelle orecchie e la sensazione di avere i polmoni congelati e compressi nel torace. Ha la pelle d’oca, nonostante la temperatura wakandiana sia dolce, appena rinfrescata dal recente temporale. Si sfrega con vigore le braccia, cercando di scacciare quella sensazione sgradita e inspirando a fondo, espandendo al massimo il petto ampio e formicolante. Viene assalito da un conato quando guarda in basso e scorge il vuoto sotto la grata di ferro su cui è seduto – per un attimo è sospeso tra il treno sulle Alpi e l’ottovolante a Coney Island, e non sa quale ricordo faccia più male. Serra i pugni, cercando un ritmo al proprio respiro sobbalzante.

È per questo che odia dormire, soprattutto dopo le battaglie, soprattutto quando le ha perse: la sua mente diventa un diorama infernale e ossessivo al quale non può sottrarsi, e stavolta neanche la realtà può essergli di consolazione.
Si alza di scatto, le membra di piombo e la testa che pulsa e sembra cigolare, arrugginita; si sente la gola riarsa e dolorante, e si chiede se non abbia urlato davvero nel sonno. Lancia un ultimo sguardo alla savana ormai invisibile nel buio notturno, sopprime un brivido e rientra, chiudendo di scatto la porta-finestra dietro di sé.

Fa troppo freddo, là fuori.
 
***
 
La sua idea di passare in sala comune e bere almeno due litri d’acqua per poi andare a coricarsi – non a dormire: finirà a sfogliare il quaderno o guardare la foto nella bussola rimpiangendo di non potersi ubriacare – s’infrange non appena mette piede nella stanza: scorge i capelli scuri di Tony fare capolino dallo schienale del divano.

Per un istante, è convinto che lo stia aspettando, ma gli basta cambiare un poco angolazione e scorgere il suo volto per rendersi conto che ha gli occhi chiusi. Dalla postura, è evidente che non abbia avuto alcuna intenzione di addormentarsi: è semisdraiato, col cellulare in grembo trattenuto mollemente dalle dita appena contratte e la testa reclinata tra schienale e bracciolo in un’angolazione rigida. Anche nel sonno la sua espressione è corrucciata, con le sopracciglia a formare un solco afflitto sulla fronte. Una notifica lampeggia insistente sullo schermo del telefono, ignorata.

Sarebbe più saggio ritirarsi nella propria stanza e rimandare qualunque discussione al mattino, ma la vista di una bottiglia d’acqua sul piano della cucina è troppo invitante, e si trova a dirigersi lì in punta di piedi. Forse, in fondo, vorrebbe che Tony si svegliasse per parlarci adesso, come poco prima ha desiderato di essere colto sul fatto ad origliare. Si impegna comunque a non fare rumore, perché, a prescindere da tutto, non crede che l’ingegnere abbia avuto molte occasioni per dormire nell’ultima settimana. Svita il tappo della bottiglia e fa scomparire quasi tutto il litro d’acqua in una manciata di secondi, assetato; sta per gettarla nel cestino, quando fa scoppiettare per sbaglio la plastica, con un pop che risuona secco nella sala comune.

Si immobilizza, teso, ma Tony si limita a emettere un respiro un po’ più profondo e rumoroso, prendendo poi a russare flebilmente. Steve getta via piano la bottiglia ed esita ancora a lasciare la sala comune, anche se immagina che Tony non sarebbe felice di saperlo nei suoi paraggi in un momento in cui è completamente vulnerabile. D’altronde, la discussione origliata gli impedisce di comportarsi come vorrebbe, e gli sembra che le parole che gli ha indirizzato continuino a scavare dentro di lui, riaprendo voragini mai del tutto riempite.

Sta meditando sul da farsi, poggiato a braccia conserte sulla penisola della cucina, quando sente Tony lamentarsi debolmente nel sonno, per poi muoversi inquieto. Steve si inclina appena per scorgerlo oltre lo schienale, e nota come adesso la sua mano sia contratta attorno al cellulare, la mascella digrignata, gli occhi serrati con forza a scavare quella piega in mezzo alla fronte. Attende qualche istante e lo vede rilassarsi appena, per poi essere scosso da un altro spasmo che gli spezza il respiro, adesso accelerato come se fosse nel mezzo di una corsa. Steve si avvicina d’istinto, consapevole che svegliare qualcuno da un incubo non è mai una mossa saggia, ma allo stesso tempo incapace di stare semplicemente a guardarlo mentre si dibatte nel sonno. Avrebbe voluto anche lui che qualcuno lo svegliasse prima di precipitare.

«Tony?» tenta a voce piuttosto bassa, ma lui non reagisce, ancora preda delle sue inquietudini. «Tony, svegliati,» prova di nuovo, alzando leggermente il volume, ma tutto ciò che ottiene è mandarlo in una preoccupante apnea.

La mossa successiva gli viene spontanea e non riesce a frenarla per tempo: si china leggermente verso di lui e allunga una mano per riscuoterlo. Se ne pente nell’istante stesso in cui gli sfiora la spalla.
Tony si sveglia con un brusco sussulto, voltando subito la testa verso di lui. Nel giro di una frazione di secondo i suoi occhi annebbiati si sbarrano nel metterlo a fuoco, illuminandosi di un vivo terrore, e le sue mani scattano frenetiche in alto, a riparare il volto. Come in Siberia.

Steve si ritrae immediatamente come se si fosse scottato, col fantasma dello scudo a pesargli tra le mani. Tony mantiene quella posizione difensiva ancora per qualche secondo, quasi paralizzato, prima di rialzarsi a sedere di scatto col respiro ansante, confusione e rabbia che si alternano concitate sul suo volto.

«Che diavolo fai?» annaspa irato, portandosi una mano a stringere convulsamente la camicia all’altezza del cuore.

«Stavi avendo un incubo,» esordisce subito Steve, parando a sua volta le mani avanti a placarlo e proteggersi allo stesso tempo, rendendosi conto di essere in una posizione delicata.

«E secondo te cosa cazzo stavo sognando?» lo aggredisce di rimando lui, per poi alzarsi nonostante l’affanno.

Si piega sul fianco ferito per quel movimento brusco e la sua gamba quasi cede, ma mantiene l’equilibrio. Continua a fissarlo, il volto madido di sudore e lo sguardo furibondo piantato su di lui, senza più alcuna barriera a filtrarlo. Steve vorrebbe sostenerlo, e fino a qualche ora prima ne sarebbe stato in grado – come aveva fatto anche in Siberia – ma adesso riesce a leggere tutte le accuse nascoste in quelle iridi scure e torbide, e si trova a sfuggirle. Rimane comunque saldo al proprio posto e sa che deve rimanerci, se vuole trovare una breccia nel dolore e nel risentimento di Tony, anche adesso che hanno preso il sopravvento su di lui.

«Posso immaginarlo,» risponde a voce bassa, e vede un lampo di confusione stemperare per un istante le linee distorte del suo volto.

Annuisce secco, ricomponendosi nonostante stia tremando, non sa se per la rabbia o per gli strascichi dell’incubo; forse entrambe le cose.

«Bene. Allora sai anche che faresti meglio a sparire,» proferisce, la voce talmente piatta da risultare innaturale e in contrasto con le emozioni aguzze che si agitano nei suoi occhi.

Steve tentenna sostenendo il suo sguardo in modo incostante, di un mirino che sobbalza senza riuscire a fissarsi sul suo bersaglio.

«Non dovresti stare solo, adesso,» replica, in un modo troppo debole che non gli appartiene e accentuato dalla gola irritata.

Tony soffia aria dalla bocca in un verso seccato.

«Cos’è, ti sei messo d’accordo con Rhodey?» un sorrisino di scherno gli attraversa gelidamente le labbra. «Ti ho detto di andartene, soldato. Non farmelo ripetere,» la voce quasi gli stride tra i denti e Steve nota il fremito istintivo delle sue dita, quasi si preparasse a richiamare l’armatura.

«Non è questo il momento per lasciarsi andare,» insiste, vedendo la potenziale breccia restringersi e imponendosi di ignorare quell’atteggiamento scostante. «Adesso dovremmo…»

«Due ore, Rogers!» esplode senza preavviso Tony, e Steve ammutolisce, spiazzato, quasi avesse udito un colpo di pistola. «Ho rinunciato al funerale di Peggy per non intromettermi col tuo dolore, e adesso tu sei incapace di non starmi tra i piedi per più di due ore?!» gli grida ancora addosso, puntandogli contro un dito accusatore che sembra trapassarlo.

Steve quasi boccheggia, mentre tutte le mezze strategie che aveva elaborato in precedenza si sfaldano davanti a quell’anomalia imprevista.
Tony non alza mai la voce. Si irrita e indispettisce, fa uso di un sarcasmo sprezzante, lancia occhiate gelide e frecciatine velenose o si chiude in un silenzio risentito, ma non tenta mai di sovrastare l’interlocutore in modo puramente fisico. C’è stata un’unica occasione in cui si è alterato con lui al punto da ricorrere a quell’espediente dettato dall’esasperazione, e punge ancora nella sua memoria con le fronde di quel primo, maledetto ramoscello d’ulivo rifiutato.

Per un istante, non riesce a collegare ciò che ha appena sentito con pensieri compiuti, ma solo col peso della bara di Peggy sulla spalla e con l’asfissiante odore dei ceri nella cattedrale. Poi ripiomba di schianto nel presente, nell’aria altrettanto soffocante della sala comune, a fissare negli occhi una sofferenza che lui stesso ha provato sulla sua pelle, due volte. Sotto la rabbia per quell’affondo a tradimento, si ritrova a capire Tony, perché anche lui ha perso il conto dei sacchi da boxe distrutti per la scomparsa di tutti i suoi compagni dopo settant’anni nel ghiaccio, e anche lui si è trovato a voler gridare fino a lacerarsi le corde vocali quando è morta Peggy.
Sa che non è la stessa cosa e che agli occhi di Tony non potrà mai esserlo per principio, ma sa anche che il senso di colpa per non essere stati, per Peggy, per Pepper, corrode entrambi allo stesso modo. Spera in quello, adesso, in quel dolore comune che può fare da terra di nessuno, concedendo loro una tregua.

«Tony, so come ti senti,» esordisce con una frattura nella voce che non ha più alcun interesse a camuffare.

«Ah, lo sai?» lo provoca Tony, di nuovo sferzante, ancora a voce troppo alta.

Avanza di un passo verso di lui e indietreggia al contempo, al riparo delle sue stesse parole.

«Sei davvero così ipocrita da giocarti la carta della compassione?» continua sempre più alterato, riducendo ancora le distanze tra loro.

Steve rimane piantato al suo posto, irremovibile, ad arginare la sua avanzata.

«Non sono ipocrita: ho perso anch’io qualcuno,» ripete, trattenendosi dal pronunciare quel “tutti” che gli preme in gola da una settimana, perché non può ancora trasportare quel concetto nel mondo reale.

Le sue parole, per un istante, sembrano far breccia in Tony, perché si arresta a mezzo metro da lui col respiro costretto di chi ha appena ricevuto un pugno nello stomaco; fanno breccia e poi rompono gli argini che si è costruito intorno, liberando tutto il rancore e la sofferenza sotto pressione che ha tenuto sotto controllo finora:

«Chi, il tuo amichetto omicida? Che peccato,» sputa fuori, in uno sbocco di fiele.

Steve incassa il colpo solo perché sa che quella è una facciata e ricorda le sue vere parole sulla morte di Bucky, altrimenti non risponderebbe di sé. Sta per ribattere e rievocare Peggy, l’averla persa prima per uno scherzo del tempo e poi per sempre, ma Tony lo anticipa, impietoso:

«E non venirmi a parlare dei tuoi insulsi appuntamenti mancati, Rogers, perché io sto per mancare le mie nozze!» sbotta, e nel parlare gli rifila un inatteso, violento spintone in pieno petto, come a scansare da sé anche tutto ciò che lo assilla.

Steve reagisce d’istinto, coi riflessi da soldato che agiscono prima del suo ordine: lo respinge indietro nonostante abbia percepito a malapena la colluttazione, facendolo urtare di schiena contro la penisola della cucina. Lo vede barcollare e stringersi il fianco con un sibilo, accecato da una fitta; prima che si possa raddrizzare Steve lo afferra per il colletto, inchiodandolo sul posto e strattonandolo per obbligarlo a guardarlo negli occhi, cercando comunque di non pesargli troppo addosso. A fissarlo di rimando trova solo risentimento e sfiducia, ad annegare le sue iridi un tempo calde e brillanti.

«Lascia fuori Peggy,» gli ringhia in faccia, livido, gettando al vento ogni pacatezza e rispondendo all’indignazione che gli torce le viscere. «E se hai qualcosa da dirmi, dillo adesso. Oppure mettiti l’armatura,» lo sfida poi, come sei anni fa sull’Helicarrier.

Aumenta senza volerlo la presa sulla stoffa e suscita un lampo di panico sul suo volto, lo stesso che l’ha attraversato in Siberia; allenta le dita di riflesso e si sente afferrare il polso in una morsa, mentre Tony cerca di divincolarsi; gli impedisce di sottrarsi.

«Ti ho già detto tutto in Siberia,» replica quindi in un sibilo strozzato. «E lo penso ancora: non ti meriti il mio perdono, come non ti meriti lo scudo di mio padre,» conclude senza alcuna esitazione, freddo come e più di allora.

«Perché mi hai mentito, allora?» lo incalza a voce più alta, senza mollare la presa, impedendogli di ritirarsi ed evitare il confronto come altrimenti cercherebbe di fare.

«Non ti ho mentito!» ribatte lui, alterandosi a sua volta, e Steve non può che digrignare i denti in silenzio a quella sfacciata bugia. «E poi da che pulpito parli, tu?» lo attacca poi, aumentando la stretta sul suo polso fino a conficcargli le unghie nella pelle. «O sei l’unico a poter raccontare stronzate?» lo incalza ancora, serratamente.

«L’ho fatto a fin di bene.»

«Anch’io.»

«L’unico bene che conosci è il tuo,» lo rimbecca Steve, furioso. «Pensavo di essermi sbagliato, ma hai sempre combattuto solo per te stesso,» lo accusa poi, e frena senza difficoltà lo scatto di Tony, che a quelle parole tenta d’istinto di assestargli una testata in pieno viso.

«E tu, invece? Tu non combatti per te stesso, Rogers?» lo rimbecca, la voce che gronda veleno. «Dove li hai bruciati, i rifiuti degli uffici di arruolamento? Dov'era il tuo orgoglio quando hai implorato mio padre ed Erskine per renderti migliore di quanto non fossi? O quando hai messo il bene di una singola persona al di sopra di quello della squadra?»

Steve frena sul nascere il pugno diretto al suo volto, nonostante il sangue gli stia rombando nelle orecchie, invitandolo a riprendere quella lotta mai davvero conclusa in Siberia.

«Quello l’hai fatto tu con Ultron e con gli Accordi, perché non riesci mai a lasciarti alle spalle i tuoi sensi di colpa,» sillaba, aumentando la pressione su di lui. «E se non sei in grado di andare avanti neanche adesso che abbiamo perso tutto, forse è il momento che tu ti faccia indietro,» scandisce, vedendo l’ira accavallarsi sempre più nei suoi occhi.

«Se pensi che io debba farmi indietro solo perché non sono un soldato perfetto avresti dovuto farlo anche tu, quando altri hanno creduto lo stesso di te,» risponde lui, adesso glaciale.

Per un singolo istante, Steve pensa che potrebbe anche lasciarsi sfuggire quel pugno, caricato da quell’ultima accusa, ma forse gli farebbe un favore. Molla di colpo la presa, lasciando Tony ad accasciarsi contro il mobile a riprendere fiato, scosso da brividi. Vorrebbe trovare una replica egualmente meschina e tagliente, ferirlo e vederlo cedere ammettendo i propri suoi errori, ma la stoccata di Tony è stata più rapida. E non ha colpito lui, né Capitan America, ma il ragazzino asmatico e rachitico che faceva a botte nei vicoli di Brooklyn, trovandosi sempre a ingoiare polvere e il suo stesso sangue finché non arrivava una mano fidata a farlo rialzare. Infine, le parole gli salgono spontanee alle labbra in tutta la loro crudezza:

«È tutto qui, quello che sei senza armatura?»

Tony incassa fisicamente il colpo e gli scocca un’occhiata cupa e carica di bile, che però sembra spegnersi quasi subito, mutando in un’espressione addolorata. Fa per dire qualcosa, per poi girare di scatto la testa, premersi una mano sul fianco e zoppicare fuori dalla sala comune senza più degnarlo di uno sguardo.

Steve non tenta di fermarlo, con la rabbia appena emersa che evapora in uno sbuffo effimero. Si lascia scivolare seduto sul divano, sulla parte opposta a quella dove era sdraiato Tony, e si sente le gambe di gelatina. Si passa le dita tra i capelli troppo lunghi, tirandoli indietro per poi afferrarli in un moto di frustrazione, trattenendosi dal gridare quando l’ennesima fitta minaccia di spaccargli il cranio.

L’eco di una porta sbattuta arriva fin laggiù, definitivo.


 


Note Dell'Autrice:

Cari Lettori,
mi sono accorta con immenso ritardo del fatto che, durante una revisione, ho accidentalmente sovrascritto questo capitolo con quello successivo, creando un "doppione" e cancellando di conseguenza note, contronote e svariate correzioni che purtroppo non sono in grado di recuperare, perché da brava cretina non l'avevo salvate su PC. Ringrazio chi ha recensito in precedenza citando delle frasi della storia, fornendomi inconsapevolmente un back-up parziale <3
Mi limito quindi a dire a chi arriva qui per la prima volta che spero abbiate apprezzato questo primo, turbolento confronto tra le nostre due teste calde preferite :')

Grazie a tutti coloro che hanno recensito e inserito la storia nelle loro liste :)

-Light-

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Capitolo 10
*** Disgelo ***


10. Disgelo
 
 
 
All I ever wanted
Secrets that you keep
All you ever wanted
The truth I couldn't speak
'Cause I can't see forgiveness
And you can't see the crime
And we both keep on waiting
For what we left behind

 
[Final Masquerade – Linkin Park]
 
 
 
Steve ha l’impressione che se provasse anche solo ad alzarsi finirebbe per distruggere del tutto ogni muscolo indolenzito del proprio corpo. Così rimane immobile, seduto e contratto, chiedendosi se prima o poi il sole arriverà a far capolino dalla vetrata chiudendo quella notte, o se è rimasto incastrato in un qualche limbo dove le lancette ticchettano sempre sullo stesso secondo. Non sa quantificare quanto tempo sia trascorso, ma viene riscosso dai suoi pensieri concentrici e martellanti da un rumore leggero di passi, che si arrestano sulla soglia della sala comune.

Alza a fatica la testa pesante, colma di biglie rumorose e assordanti, e mette a fuoco la sagoma snella di Nataša poggiata a braccia incrociate contro lo stipite. Non è troppo sorpreso di vederla, ma, invece di pronunciare un qualche prevedibile commento sarcastico, la vede scuotere appena il capo, scoccargli un’occhiata di affilato rimprovero e imboccare rapida le scale, verso il piano degli alloggi.
Lo lascia interdetto, ma invece di alzarsi e seguirla rimane con lo sguardo fisso sulla soglia ora libera e affacciata sul corridoio in penombra. È in attesa, non sa bene di cosa, ma dubita che potrebbe essere peggio di quanto accaduto.

Deve lasciar passare con agonizzante lentezza quasi un’ora, prima di udirla scendere di nuovo le scale, e stavolta entra quasi a passo di marcia nella sala comune. Steve non riesce a nascondere del tutto la sua sorpresa nel notare i dettagli fuori posto: ha gli occhi arrossati, una macchia di quello che sembra sangue sulla maglietta e un lieve sentore di disinfettante addosso. Prima che possa porre una qualsiasi domanda al riguardo lei alza un indice a frenarlo, aggrottando le sopracciglia in un’espressione minacciosa che gli fa improvvisamente ricordare perché lei fosse l’unica a poter avvicinare un Hulk fuori controllo.

«Aspetta mezz’ora,» enuncia semplicemente, in un tono che non ammette repliche. «Se non lo vedi, vai a chiamarlo,» conclude, senza sprecarsi in ulteriori spiegazioni.

Steve fa per andarle incontro, assecondando il sussulto che gli ha scosso il petto, ma lo sguardo perentorio della donna lo convince a desistere e gli fa di nuovo morire le parole in bocca.

«Mezz’ora,» ripete, a ribadire il concetto. «E non rovinate tutto,» conclude, assottigliando gli occhi da felino in una promessa di terribili ripercussioni, prima di avviarsi fuori dalla sala comune con lo stesso incedere temporalesco con cui vi è entrata.

Per la sua incolumità, Steve mette da parte la sua confusione e s’impegna a tener d’occhio trepidante l’orologio. 1

 
***
 

Mezz’ora dopo è davanti alla porta di Tony, ma lascia passare almeno altri dieci minuti prima di accostarvisi, nella vana speranza che si decida a riemergere per conto proprio spinto da non sa bene quale anatema scagliato da Nataša.

Esita ancora con le nocche poggiate contro lo stipite, per poi bussare tre volte, lievemente, in un gesto che riecheggia ancora fresco nella sua memoria2. Coglie un tramestio attutito dall’altra parte, seguito da quello che sembra uno sbuffo, o forse un respiro profondo. Non insiste e aspetta un tempo ragionevole prima di sollecitarlo di nuovo, pacatamente. Non ha più la forza di arrabbiarsi:

«Tony?»

Conta due passi esatti oltre la porta, segno che era probabilmente fermo al centro della stanza, e lo scatto della serratura che si apre ha il potere di far tornare a circolare ossigeno nelle sue vie aeree. Tony si affaccia allo spiraglio, e i suoi occhi sono più rossi e stanchi di quanto si fosse immaginato. Si è cambiato, rinunciando all’impeccabile completo sobrio e rimanendo in una semplice t-shirt grigia e un paio di jeans, e ciò lo fa apparire ancora più vulnerabile. Trasalisce appena nel vederlo e la sua mano si contrae sul pomello della porta.

«Che vuoi, ancora?» esordisce, senza però sforzarsi di suonare davvero seccato, come se quella fosse semplicemente una battuta del copione obbligatoria.

«Parlarti,» replica schietto lui, con le mani giunte davanti a sé.

Entrambi continuano a fissare intentamente un punto indefinito ai loro piedi, come se la moquette fosse improvvisamente diventata l’attrazione principale del Wakanda.

«Non sono in vena di farti da amichetta del cuore,» è la sua replica tagliente, ma non chiude la porta, poggiandovi contro la fronte con gli occhi semichiusi.

Steve sospira internamente, stringendo la propria cintura con le mani in quella posa che assume spontaneamente ogni volta che si trova a dover affrontare una situazione scomoda.

«Mi dispiace,» esala infine, badando bene a non indirizzare con chiarezza quelle parole.

Bastano a far sollevare di scatto lo sguardo a Tony. Steve non aggiunge altro, sentendosi come se il suo corpo si fosse scaldato appena in seguito a quella prima, sofferta confessione, scacciando un po’ del freddo pungente che lo attanaglia. È davvero dispiaciuto, per molte più cose di quanto avrebbe mai potuto credere, e per molte altre invece non lo è affatto. Gli sembra comunque un buon punto di partenza per un dialogo.
Tony lo scruta penetrante, poi si puntella col fianco contro lo stipite, portando una mano a stropicciarsi il volto disfatto dal pianto e dalla stanchezza, marcato da occhiaie più livide del solito. Sembra quasi febbricitante.

«Mi serve un caffè,» bofonchia infine, prima di scostarsi dalla soglia e avviarsi in corridoio, circumnavigandolo a distanza di sicurezza.

Steve riconosce che non è un brutto inizio per i suoi standard, e gli tiene dietro cautamente. Nota la sua andatura pencolante, ma non apre più bocca fino alla sala comune. Tony sembra deciso a far finta che lui non esista, almeno per il momento, così lo lascia a trafficare con la macchinetta del caffè e si siede semplicemente al bancone della cucina, in attesa. Anche quello è un altro implicito passo avanti, la richiesta di un confronto che forse non verrà del tutto accettato. Non sono mai stati bravi a sedersi al tavolo delle trattative: troppe barriere, troppi non detti, troppo orgoglio a dividerli, perché entrambi hanno sempre troppa ragione per vedere quella dell’altro.

Tony si volta infine verso di lui, la tazza fumante in mano, e assottiglia le labbra nel notare la sua presa di posizione. Esita visibilmente prima di muovere un passo verso di lui, issandosi poi sullo sgabello di fronte e accettando il faccia a faccia con manifesta circospezione. Steve nota la sua smorfia trattenuta per quel movimento e aggrotta appena le sopracciglia.

«Stai bene?» indaga, con un’occhiata colpevole al suo fianco.

Lui scrolla la testa, senza guardarlo.

«Avrei dovuto accettare le cure di Shuri,» afferma, esonerandolo di fatto dal quasi-scontro di prima e suggellando l’affermazione con un sorso di caffè. «In Siberia non ti sei fatto tanti problemi,» continua poi, senza alcun preambolo e in tono quasi casuale.

È sempre strano sentir parlare Tony così schiettamente, e gli sembra che anche lui abbia qualche difficoltà a non lanciarsi in complicate perifrasi e rotte contorte che si limitano a sfiorare il fulcro del discorso.

«Credevo stessi bene,» replica, e non riesce a focalizzare su quali basi abbia costruito quel concetto, perché quando è uscito dal bunker non si è mai guardato alle spalle.

Tony schiocca appena la lingua, trapassandolo con lo sguardo tinto da una nota di seccata rassegnazione.

«Certo, dopotutto sto sempre bene,» ribatte sarcastico. «Anche quando un super soldato mi pianta uno scudo nel petto fratturandomi lo sterno e quattro costole a trenta sottozero, rischiando di farmi morire soffocato o assiderato, a scelta,» specifica poi, fissandolo cupo, con una piega rigida a incrinargli il volto. «Anche quando scopro che un compagno di squadra mi ha mentito per chissà quanto e mi ritrovo con l’assassino dei miei genitori a un passo,» rincara sempre più caustico, stringendo la presa sulla tazza con le dita che fremono appena.

«Tony, è stato Zemo a metterci l’uno contro l’altro,» comincia Steve, prendendola alla larga, quasi a invertire i loro ruoli prefissati nel parlare. «E anche Bucky è una vittima. Lo sai anche tu,» prova a farlo ragionare, sperando che almeno con Rhodey sia stato sincero su quel punto.

Tony si limita a guardarlo fisso, ancora adombrato, come se stesse ragionando attentamente su cosa dire; non è un qualcosa che capita spesso, e si ritrova ad attendere la sua replica con lieve apprensione.

«Mettiamo in chiaro una cosa, Rogers,» esordisce infine, scandendo con lentezza le parole. «Sto parlando con te e di te. Barnes non è certo sulla lista di gente che inviterei a cena, ma non ha scelto di…» prende fiato per un momento, rinunciando a completare la frase, «… di fare ciò che ha fatto. Tu sì,» conclude poi, in tono incredibilmente pacato per la mole di astio che gli grava negli occhi.

Steve si ritrae un poco, preso alla sprovvista da quella mancanza di aggressività nei confronti di Bucky, e stringe la stoffa dei jeans per frenare le proprie mani improvvisamente agitate.

«Abbiamo fatto entrambi delle scelte,» gli ricorda, e con sua sorpresa Tony alza appena le spalle, senza difendersi dall’accusa.

«Sì,» conferma laconico. «Ma io non ho mai scelto di tenerti nascosto qualcosa di personale. E non tirare in ballo Ultron, perché un progetto di sicurezza globale non è una faccenda personale,» lo anticipa sbuffando appena, e Steve inarca un sopracciglio.

«E neanche gli Accordi, presumo,» ironizza, senza trattenere una vena di scetticismo.

Tony ha la decenza di non contestare quel fatto, limitandosi a comprimere con forza le labbra, quasi a troncare una replica pronta a lasciarle.

«Non avevo intenzione di colpire te,» asserisce infine, forse con una tinta d’incertezza appena accennata. «Sei tu che hai interpretato il tutto come un attacco mirato,» dice, gli occhi fermi a metà tra la tazza e il suo volto come se non sapesse decidersi su dove puntarli.

«Per me Bucky è una faccenda molto personale,» puntualizza lui, con più foga di quanto sarebbe necessario. «E non potevo rimanere a guardare quando tu hai deciso di dargli la caccia come fosse un criminale,» conclude, sentendo la propria voce barcollare, non sa se per la rabbia o per il dolore di vedere il volto dell’amico di una vita lampeggiargli davanti agli occhi.

«È un criminale, almeno formalmente,» ribatte ostinato Tony. «E magari se avessi evitato di unirti anche tu alla cricca dei fuorilegge mascherati trascinandoti dietro mezza squadra avremmo potuto scagionarlo, invece di farlo finire sulla lista dei ricercati,» ribatte con puntualità, senza esitare.

«E come? Grazie a Ross?» ribatte incredulo Steve, incrociando di scatto le braccia col mento proteso verso di lui. «Uno che voleva ingabbiarci tutti nella tua prigione?»

«Non ho avallato io la RAFT; è stata un’idea del governo e mi sarei fatto rapire di nuovo piuttosto che contribuire a progettarla,» sbotta Tony, piccato dalla sua insinuazione. «Per la RAFT ringrazia la Future Foundations3,» sbuffa, con aperto disprezzo.

«Perdonami se non mi interessa chi l’abbia costruita, ma solo che vi fossero rinchiusi i nostri amici e compagni,» lo rimbecca Steve, innervosito da quel suo sfuggire continuamente ad accuse più che lecite.

«I tuoi amici e compagni,» bofonchia Tony, per poi continuare a voce più alta: «Avrei voluto spaccare la faccia al Ross nel momento in cui ci ho messo piede. Non è nel mio stile sbattere la gente in gabbia solo perché non la pensa come me.»

«E Wanda, allora?» lo pungola, fissandolo in modo eloquente.

Tony sospira in modo plateale, alzando gli occhi al cielo.

«Ti ripeto che il Complesso non è una prigione,» recita, quasi in una cantilena rivolta a un bambino petulante. «Era una misura cautelare a beneficio della Maximoff per evitare imprevisti prima di…»

«È quello che ti ripeti per dormire la notte?» sbotta Steve, interrompendolo, e ciò suscita un lampo di fastidio sul volto di Tony.

«Ci sono molte cose a tenermi sveglio la notte, e aver agito in modo lungimirante piuttosto che su una fiducia inesistente non è tra queste,» mastica, picchiettando con fare seccato un dito sul bancone.

«L’hai rinchiusa,» taglia corto Steve. «Perché era la soluzione più semplice e rapida e perché non ti fidi mai di nessuno,» continua, e Tony emette un verso scocciato, parlandogli sopra:

«Tu ti fai accecare da questa tua… ossessione per la libertà,» inveisce, gesticolando imperioso e ignorando l'ultima accusa.

«Ossessione? Devo ricordarti in che mondo vivresti se non avessi combattuto per la libertà?»

Steve non trattiene un sorrisetto incredulo.

«Non siamo più nel ’43, Rogers! Non puoi pensare di poter ancora scendere sul campo di battaglia al suono della tua marcetta, e non puoi essere certo di essere dalla parte giusta solo perché indossi una tutina a stelle e strisce,» lo accusa, agitandosi sullo sgabello mentre il suo tono si colora di scherno.

«Sono certo di essere dalla parte giusta perché è ciò in cui credo. Non ho mai cambiato idea,» ribatte Steve, quasi stentoreo, e Tony si acciglia per quella netta presa di posizione. «Non credere che dover scegliere non sia stato un fardello, per me,» aggiunge poi, con amarezza.

«Il tuo fardello è aver voluto una guerra,» osserva cinicamente Tony.

«Tu hai voluto compromessi, perché a quanto pare scegliere un ideale per cui combattere è troppo “antiquato”, per Tony Stark,» lo rimbecca con malcelata fierezza.

«E dimmi, “Capitan Libertà”: ne è valsa la pena, di sfasciare i Vendicatori per un ideale?» commenta retorico, inclinando appena la testa con fare di sfida.

Steve si prende qualche istante prima di rispondere, coi pugni serrati quasi a trattenersi dal suonare troppo veemente. Ma stanno parlando di lui, del nucleo vivo di ciò che l’ha fatto andare avanti da quando si è risvegliato e che forse ha permesso al suo cuore di continuare a battere per settant’anni nel ghiaccio.

«Gli ideali a volte costano caro,» proferisce, con gravità. «Ciò non vuol dire che non valga la pena proteggerli.»

«Gli ideali non hanno mai protetto nessuno, Rogers. La gente muore, per gli ideali,» scuote la testa Tony, affatto convinto. «E tu dovresti saperlo,» aggiunge con un’alzata di sopracciglia, come se il fatto gli fosse sovvenuto in quel momento.

Steve lo fissa frustrato, ma non ha mai davvero sperato di potergli far cambiare opinione, come probabilmente non lo spera lui. La linea di tensione tra loro è ancora spessa e tangibile, ma non sembra più essere sul punto di spezzarsi e funge invece da labile tramite tra loro due, in un tira e molla controllato. Non è esattamente il tipo di dialogo che aveva prospettato, ma se lo farà bastare.

«Se non sei un idealista, come lo spieghi New York?» gli chiede a bruciapelo, consapevole di toccare con ben poca delicatezza un nervo scoperto.

Tony sobbalza e contrae ogni singolo muscolo del volto in una reazione istintiva, per poi riprendere abilmente il controllo e scrollare le spalle.

«La vita di una persona contro quella di otto milioni… non è un ideale, ma semplice matematica,» conclude con ovvietà e un’alzata di spalle.

«Io lo chiamerei buttarsi sul filo spinato,» osserva Steve, lasciando cadere quell’osservazione con noncuranza mentre scruta Tony, che vacilla per un istante.

«Non vorrei mai rubarti il posto d’onore, Cap,» commenta, interrompendosi bruscamente e arricciando le labbra come pentendosi di aver usato il suo nomignolo. «Ma forse avevo anche qualcosa da dimostrare,» aggiunge rapido, con studiata cautela e un’occhiata sfuggente.

«Del tipo?»

«Che ogni tanto, oltre ai soldati perfetti, servono anche soldati fuori dalle righe. O senza divisa. O qualcosa del genere,» conclude in fretta, forse a disagio, e prende un sorso di caffè a concludere quel commento.

Steve abbassa per un istante lo sguardo, realizzando adesso quanto quelle sue parole di sei anni fa riguardo a chi fosse senza armatura gli siano rimaste impresse a fuoco nella mente, e quasi si pente di averle riesumate poco fa.

«Non credo di essere un soldato perfetto,» butta fuori allora, altrettanto precipitosamente.

Tony solleva di colpo lo sguardo, allibito, la tazza ancora bloccata a mezz’aria.

«Ok, o sono definitivamente impazzito, o Nat aveva ragione e ho davvero la febbre,» stabilisce poi, portandosi le dita alla fronte con fare preoccupato.

Steve sospira, intravedendo però in quell’affermazione ironica un’ombra in controluce del Tony che ha sempre conosciuto.

«Se io fossi stato perfetto, non saremmo qui,» spiega quindi, poggiandosi sugli avambracci e chinando appena la testa a rafforzare quella confessione.

Tony lo fissa impassibile, stringendo il pugno in un tic nervoso, la mascella contratta.

«Abbiamo tutti fallito,» proferisce infine, con voce che trema appena, ma Steve scuote la testa, perché non è di Thanos che sta parlando, ma di una sconfitta un poco più lontana nel tempo, pungente nel suo gelo.

«Non solo oggi,» specifica quindi, cercando di cavarsi le parole di bocca, e quelle sembrano opporre una strenua resistenza.

Gli occhi di Tony si velano appena, facendosi mesti.

«No, non solo oggi,» concorda con vaghezza, forse includendosi in quelle parole.

Lo vede accigliarsi un poco, e capisci che quei fili sparsi che hanno guidato la conversazione finora si stanno riallacciando al loro fulcro originario.

«Da quanto lo sapevi?» chiede di getto Tony, in tono improvvisamente duro.

I suoi occhi si sono fatti di nuovo ostili e guardinghi e non ha bisogno di aggiungere altro, perché sanno entrambi fin troppo bene che, dalle altezze cosmiche dell’ultima battaglia persa, sono ripiombati di schianto nelle viscere di un bunker ghiacciato. Steve si umetta le labbra prima di rispondere, chiedendosi da quanto stia trattenendo quella domanda, che in tutta la sua futilità gli suona giusta, a tutti gli effetti dovuta.

«Dall'incidente Insight4,» risponde con voce chiara, senza abbassare lo sguardo.

Tony inspira bruscamente. Non riesce a capire se sia un moto di sorpresa o uno di delusione per aver trovato conferma di un’ipotesi. Steve si irrigidisce in risposta, preparandosi all’ondata di rabbia che gli si sta per abbattere addosso, ma Tony si limita a chiudere brevemente gli occhi e a stropicciarli in un gesto rassegnato, poggiandosi poi con un gomito sul bancone che li divide. Tira le labbra, come a prevenire qualsiasi commento, e di nuovo le sue iridi sembrano affondare nel nero delle pupille.

«Mi aspettavo di peggio,» afferma dopo un po’, quasi sovrappensiero. «Hai avuto solo quattro anni, dopotutto,» continua, cercando senza successo di farla passare come un’osservazione noncurante. «Perché non me l’hai detto?» sbotta però, lasciando cadere ogni finzione.

«Il perché te l’ho scritto nella lett– ,» tenta di replicare Steve, ma quelle parole vanno a colpire l’innesco ancora troppo sensibile di Tony:

«Non mi interessa cosa hai scritto nella tua cazzo di lettera!» lo interrompe, e lo sguardo che gli rivolge è lo stesso col quale l’ha fulminato in Siberia5. «Voglio sentirlo da te, adesso,» lo incalza ancora, con la mascella e i pugni serrati, e Steve non esclude che non sia sul punto di colpirlo.

Non reagisce alla provocazione, limitandosi a rispondere:

«Dovevo proteggerlo, Tony. È il mio migliore amico, è… è mio fratello e non sapeva neanche di esserlo,» la sua voce si incrina e non può farci niente, non può mantenerla integra così come non ha potuto mantenere integro Bucky quando si è dissolto a un passo da lui. «La cosa peggiore è che adesso è stato tutto inutile,» si lascia sfuggire alla fine, tamponandosi con rabbia gli occhi diventati umidi contro la sua volontà.

Tony sospira, ancora innervosito, e scuote scoraggiato il capo con un movimento brusco.

«È inutile anche discuterne, eppure eccoci qui,» commenta pragmatico, con un sottotono frustrato.

«Pensavi che sarebbe cambiato qualcosa?» indaga Steve, perplesso da quell’improvviso sconforto, quando fino a pochi istanti fa era in preda alla rabbia.

«Magari lo speravo,» borbotta lui corrucciato, abbassando le ciglia a velare gli occhi scuri per poi serrare con forza la bocca.

Steve non si era aspettato un perdono, forse neanche una comprensione totale, ma Tony adesso sembra smarrito nei suoi stessi pensieri. Lo vede girare la testa di lato a farsi da scudo, evitando il suo sguardo e prolungando quel silenzio.
Percepisce il dialogo arrivare a un brusco punto d’arresto, a schiantarsi con uno stridio di freni contro un muro che Tony sembra non riuscire ad abbattere del tutto nonostante voglia indubbiamente farlo. Steve si fa indietro col busto, permettendosi di inalare più aria del necessario nel tentativo di acquisire più sicurezza per ciò che ha appena deciso di fare. Non sa dire se sia un modo efficace per fare finalmente breccia; di sicuro non lo ritiene un modo intelligente, ma è l’unico che ha a disposizione.

«Prima vi ho sentiti parlare,» proferisce, nel modo più atono che gli riesce, e quell’ammissione gli brucia la gola.

Tony alza di scatto la testa, gli occhi guardinghi e leggermente sgranati; il dialogo si rimette in moto con un sobbalzo violento.

«Prima quando?» lo incita, allarmato e preso dallo sforzo di nasconderlo.

«Con Rhodes,» risponde conciso lui, stringendo istintivamente la stoffa dei pantaloni.

Tony boccheggia per qualche istante, disorientato, e i suoi occhi osservano allibiti il suo volto, forse alla ricerca di un segno che gli permetta di smascherare uno scherzo di cattivo gusto.

«Ci hai… spiati?» chiede conferma poi, senza più celare il proprio sbigottimento, per ora ancora neutrale.

Steve conclude che non esiste davvero altro modo per definire la cosa. Inclina la testa di lato, tentenna e infine espira seccamente la sua risposta:

«Sì.»

Tony potrebbe avere mille e più reazioni tutte perfettamente giustificate, soprattutto considerando la sua indole paranoica, ma tutto ciò che fa è sbuffare sonoramente, incrociare le braccia e inchiodarlo sul posto con uno sguardo acuminato. Sul suo volto si agita ancora un velo d’incredulo sospetto, ma sembra più spiazzato che arrabbiato.

«Da quando hai iniziato a comportarti come un fallibile essere umano?» lo stuzzica poi, ancora serio, ma con un fioco brillio impertinente nello sguardo.

Steve alza appena gli occhi al cielo, ma si concede di rilassarsi un poco a quella reazione pacifica.

«Non avrei dovuto, ma…»

«Fermo lì,» lo blocca Tony, alzando un dito a troncare le sue scuse. «Dovrei incazzarmi, ma in realtà mi hai fatto un favore, quindi tieniti le tue giustificazioni,» continua poi, con l’aria di chi si è appena tolto una tonnellata dalle spalle.

Steve segue la direttiva e tace, rassicurato di fronte a quell’ammissione amara, malamente camuffata dal suo solito modo di fare disincantato.

«Cosa hai sentito?» chiede poi, ora con tangibile apprensione.

«Dalla Siberia in poi,» risponde lui con puntualità, di nuovo con voce grave.

Tony affila lo sguardo, meditabondo, ma non mette in dubbio quell’affermazione, concedendogli una pagliuzza di fiducia che Steve non è intenzionato a sottovalutare.

«Non c’è più niente da dire, allora,» asserisce con fermezza, scostandosi appena dal bancone a sottolineare la distanza che sembra voler ristabilire tra loro.

Steve lo osserva mentire, e sa che non si è impegnato a farlo; lui lo osserva di rimando, altrettanto consapevole di quel fatto. I loro sguardi continuano a cozzare sfuggenti per ancora una manciata di secondi, finché Tony non puntella di nuovo i gomiti sul bancone con fare rassegnato. Steve riesce quasi a intravedere la domanda che aspetta da ore pendergli dalle labbra.

«Hai davvero mirato alla testa?» chiede infatti, a voce molto più bassa del normale.

Non ha bisogno di specificare a cosa si stia riferendo. Tutte quelle domande non hanno bisogno di spiegazioni, di essere collocate: si incastrano perfettamente nelle risposte che entrambi hanno cercato di darsi per due anni. Anche adesso, Steve ricorda il momento in cui la rabbia e il dolore negli occhi di Tony si sono trasformate in terrore cieco e sgomento nel vedere lo scudo pronto a calare su di lui.

«Sì,» proferisce infine. «Per un solo attimo, sì,» ripete, sciogliendo finalmente quel pensiero che gli si era contorto in testa con le sue spire fino ad ora, doloroso.

Potrebbe aggiungere che è stato puro istinto di combattimento, che in quel frangente non stava davvero pensando, che nell’istante in cui ha incrociato i suoi occhi sbarrati ha frenato il colpo e deviato la traiettoria, che non avrebbe mai potuto ucciderlo volontariamente. Ma non lo fa, perché suonerebbero come scuse effimere insufficienti a camuffare il fatto, e sa che Tony non ha bisogno di sentirle: le ha già immaginate da sé, o non starebbe neanche parlando con lui.
Tony giunge le mani davanti a sé per poi intrecciare le dita, e sembra di nuovo pensoso.

«È rassicurante,» lo spiazza di nuovo, con assoluta naturalezza.

Steve gli scocca un'occhiata interrogativa, preso totalmente in contropiede e faticando a seguire le sue solite logiche contorte.

«Vedere finalmente il tuo “lato oscuro” 6,» precisa allora lui, intercettandola e riempiendo parte dei buchi nel suo ragionamento con parole quasi dimenticate.

«L’hai visto ora?» chiede lui accigliandosi, sapendo di sembrare lento di comprendonio ai suoi occhi, ma senza davvero la minima idea di dove stia andando a parare.

«L’hai ammesso ora, il che è un notevole miglioramento rispetto a sbandierare al mondo la tua assoluta purezza d’animo per poi andare in giro a picchiare gente col tuo scudo e lasciarla a morire,» si blocca, come pentendosi delle proprie parole, e scuote la testa, mentre Steve abbassa lo sguardo, realmente mortificato. «Benvenuto anche tu nella zona grigia,» continua poi l’ingegnere, vagamente beffardo.

«Lo stai ammettendo anche tu?» indaga Steve, ancora abbastanza perplesso e aspettandosi da un momento all’altro un’altra stoccata sui fatti della Siberia.

«Non l’ho mai negato e non posso farlo,» ribatte lui, con un breve sospiro che sa di rimorso. «Ho davvero creduto che stessi per uccidermi,» esala poi dopo un breve silenzio, scuotendo appena la testa in un riflesso nervoso, e più che una stoccata quella sembra una domanda implicita.

«Tu avevi quasi ucciso Bucky. Non ci ho visto più,» risponde con franchezza Steve, senza cercare giustificazioni, ed è lieto che neanche lui lo faccia. «Ma tu sei un mio compagno, e io non sono un assassino,» conclude poi, cercando i suoi occhi e trovandoli, ancora oscurati dal dubbio e dal risentimento, ma forse meno cupi.

Annuisce rigidamente, lasciando poi uscire un respiro un po’ costretto.

«Neanch’io,» risponde infine Tony, evitando accuratamente di ricambiare la prima affermazione.

L’occhiata che gli scocca cela forse una scintilla di gratitudine per averlo fermato in tempo, ma Steve si convince di stare leggendo troppo in un uomo che non vede da anni e che forse non ha mai conosciuto così bene.

«Ma sono uno stronzo,» riprende poi Tony, senza preavviso e con malcelata insofferenza per quella confessione.

Steve lo fissa interrogativo, e Tony evita il suo sguardo, tamburellando a disagio le dita sul bancone.

«Non avrei dovuto mettere in mezzo Peggy, prima,» dice d'un fiato, sollevando gli occhi nei suoi nel pronunciare il suo nome per poi abbassarli di nuovo, in un contatto sfuggente.

È la cosa più simile a delle scuse che gli abbia sentito pronunciare da quando lo conosce, e il commento successivo gli sfugge dalle labbra:

«È la prima volta che ti sento ammettere di aver sbagliato.»

«Allora ascolti molto poco e molto male, ma forse è la vecchiaia,» sbuffa lui, recuperando la riserva di frecciatine dedicate a lui. «Sam in realtà mi ha detto la stessa cosa, alla RAFT,» riflette poi, meditabondo, picchiettandosi sovrappensiero le dita al centro del petto e rendendosi poi conto dell’inutilità di quel gesto. «Magari non sono bravo a far capire che so quando ho sbagliato,» dice, con leggerezza solo apparente, e Steve si sforza di non fare altre osservazioni pungenti sull’assurdità di vedere Tony Stark scendere dal suo piedistallo per proferire quelle parole.

«Direi che potremmo lavorarci entrambi,» replica, accettando per una volta quel compromesso.

«È un’altra ammissione, Rogers?» lo incalza Tony, una luce furbetta nello sguardo, ma Steve svicola in scioltezza, senza dargliela vinta.

«Una constatazione,» rettifica, tranquillo, e Tony quasi alza gli occhi al cielo, ma c’è un mezzo sorrisetto a premergli sulle labbra, talmente sottile da sembrare più un riflesso fuggevole.

Scivolano in un silenzio quieto, senza interrogativi molesti a infrangerlo nelle loro menti. Steve si gode quella sensazione come un balsamo che lenisce le sue ferite. Quella più fresca pulsa ancora, incurabile, ma gli sembra quasi di sentire la mano di Bucky sulla spalla, a complimentarsi con lui per non essersi gettato a testa bassa nell’ennesima rissa costringendolo a tirarlo fuori dai guai. Anche Peggy sarebbe stata fiera nel vederlo agire con così poca impulsività. Quell’ultima riflessione porta l’ennesima ombra sul suo volto.

«Tony?» lo chiama, e lui si riscuote, invitandolo a continuare con istintiva circospezione. «Davvero hai rinunciato a venire al funerale di Peggy?» chiede, pizzicandosi nervosamente una pellicina.

Tony pare sorpreso da quella domanda, ma rimane apparentemente tranquillo, solo un po’ accigliato.

«Sì. Non volevo rischiare di trasformare la funzione in un circo per la stampa,» dice, a mo’ di spiegazione. «E tu avevi più diritto di me a stare lì… ho avuto comunque modo di farle visita poco prima che morisse,» aggiunge quasi a rassicurarlo, ma evidentemente rattristato.

«Eravate in confidenza?» azzarda Steve, incuriosito.

Tony alza le spalle e oscilla col busto a indicare una risposta altrettanto vaga.

«Era di famiglia… non la vedevo così spesso, in realtà, ma mio padre l’ha sempre considerata una sorta di sorella minore. Parlava sempre di lei, quando non era occupato a parlare di te,» s’interrompe bruscamente dopo quella confessione, così di scatto che Steve potrebbe giurare che si sia morso la lingua.

«Erano molto legati,» gli conferma, in modo neutrale e un po’ nostalgico. «Lo eravamo tutti, per forza di cose,» specifica, spinto più dall’onda dei ricordi che da una precisa volontà.

«Anche Barnes?»

La domanda arriva inaspettata, tesa, ma Steve ne intuisce la logica e si forza a rispondere. Pensare a lui fa male e rievoca la cenere che sente ancora incollata sui palmi, ma spingersi più indietro è come rientrare in un abbraccio lontano nel tempo. Ricorda il calore fumoso di un pub di Londra, il sapore amarognolo di una birra scadente, le voci roche e stonate dell’Howling Commando che intonava canzonacce in suo onore per punzecchiarlo, Howard brillo e malfermo sulle gambe aggrappato a Bucky per non cadere, gli occhi di Peggy che lo trovavano tra la folla festante, in attesa di un ballo. Si rende conto di avere di nuovo la vista appannata, ma ormai è inutile nasconderlo.

«Eravamo amici, Tony,» proferisce soltanto, incapace di aggiungere altro. «Puoi non crederci, ma è così,» aggiunge, accomodante, immaginando quanto sia difficile per lui accettare che ci sia stato un tempo in cui vittima e involontario assassino bevevano insieme ridendo allo stesso tavolo nonostante gli orrori della guerra.

«Dovrò fidarmi sulla parola,» scrolla le spalle Tony, con sua sorpresa.

L’ingegnere solleva lo sguardo, forse percependo la sua perplessità.

«Non è un qualcosa che mi riesce molto bene, ma ci proverò,» puntualizza, ed esibisce un debole sorriso mesto.

Il suo sguardo però è serio, quasi compito, come se avesse davvero intenzione di impegnarsi in quell’aspetto, e Steve sa che, quando Tony dice che farà qualcosa, la farà a qualunque costo e con qualunque mezzo, a dispetto di tutti gli ostacoli. E forse può dargli un incentivo.
Si alza dallo sgabello stiracchiandosi le gambe, e Tony lo fissa interrogativamente.

«Puoi aspettare un momento qui?»

 
***
 

Arrivare in camera, recuperare il blocco da disegno e tornare in sala comune richiede non più di due minuti. Trovare lo schizzo che aveva in testa quando ha deciso di mettere in atto quell’idea discutibile e dai probabili risvolti rovinosi gli prende almeno un quarto d’ora, in cui Tony si limita a fissarlo a metà tra l’apprensivo, l’interrogativo e con una malcelata preoccupazione per la sua salute mentale che, in fin dei conti, è del tutto giustificata.

Individua finalmente la pagina giusta e d’istinto si affianca a Tony per poggiare il quaderno davanti a lui; lo intravede scostarsi un poco, contratto, e si affretta a lasciargli mezzo braccio di distanza per evitargli un attacco d’ansia, per poi sedersi sullo sgabello lì accanto. Lui rimane guardingo, ma sembra approvare la soluzione e si decide a puntare gli occhi sul disegno. Lo vede assumere un’espressione combattuta, e stringe le labbra con forza nel riconoscere i volti di Howard e Bucky, l’uno accanto all’altro mentre si sostengono a vicenda, ridendo a crepapelle. È un rapido disegno a carboncino, appena abbozzato in una rara serata di libertà dopo un lungo periodo di combattimenti, ma i due uomini sono perfettamente riconoscibili.

Tony distoglie lo sguardo, turbato, e lo punta invece sul disegno che occupa tutta la pagina precedente, su cui Steve ha posato una mano con finta noncuranza. Tony gliela scosta appena, con inaspettata gentilezza, scoprendo il volto fiero di Peggy, tracciato con cura e meticolosità. Steve non oppone resistenza, capendo che forse preferisce dirottare l’argomento principale ancora per un po’, prima di affrontarlo, ma si trova a stringere il pugno nell’incontrare quei lineamenti d’inchiostro che non le rendono giustizia.

«Non ha mai smesso di amarti,» mormora Tony, a occhi bassi, così piano che forse se l’è immaginato.

«Si è rifatta una famiglia,» controbatte lui, senza pensare né riuscire a scacciare quella malinconia dalla sua voce, ma Tony scuote la testa. «E io ero scomparso. Sono felice che l’abbia fatto,» continua quindi, con fermezza crescente, e l’ingegnere, di nuovo, non sembra convinto.

«Smetti di amare qualcuno perché ci litighi, o ti tradisce, o ti fa del male, o perché semplicemente… smetti di farlo,» ribatte lui, le sopracciglia aggrottate. «Non perché scompare,» conclude a voce più bassa, venata di una tristezza che ha tentato di reprimere finora.

Steve si concede un minuto per assorbire quelle parole, dette da chi è nella stessa situazione in cui si è trovata Peggy settant’anni fa. Cerca di immaginarla nel momento in cui la loro comunicazione si è interrotta. Per lui si è interrotto anche tutto il resto, fino a Times Square nel 2011. Per lei no. Lei ha udito il filo che li connetteva tranciarsi di netto in un urlo di lamiere e ghiaccio sbriciolato, con la promessa di un ballo che ha continuato a echeggiare per decenni. No, andarsene non è una conclusione, né un taglio netto: lascia tutto in sospeso, o forse gli permette di radicarsi in modo definitivo.

Guarda di sottecchi Tony, senza parlare e sperando che riesca a leggergli negli occhi quanto gli sia grato per quelle parole forse banali, ma che aveva bisogno di sentire da tempo. Tony s’impegna a evitare i suoi occhi, immergendosi di nuovo nelle linee spesse e grezze che formano il volto di suo padre e di Bucky.

«Puoi averlo, se vuoi,» prorompe Steve, ed è consapevole della sua voce un po’ roca e costretta.

Non sa da dove sia provenuta quell’offerta, ma ha rinunciato da tempo a non seguire sempre il suo istinto.

«Non sono un tipo nostalgico,» ribatte Tony, senza suonare molto convinto della cosa.

È quell’esitazione che spinge Steve a strappare con delicatezza la pagina, avendo cura di non intaccare il disegno.

«Cosa dovrei farci?» sbotta lui, graffiante, con la voce che trema e gli occhi puntati in un punto indefinito di fronte a sé, verso la vetrata buia che restituisce il loro riflesso.

«Quello che vuoi,» ribatte Steve, piazzando il foglio davanti a lui sensibilmente a faccia in giù; sul retro si distingue uno confuso scarabocchio a matita di Trafalgar Square. «Puoi buttarlo, o bruciarlo, o chiuderlo in un cassetto. O puoi tenerlo e pensarci su,» conclude, senza poter prevedere in alcun modo la reazione di Tony.

Lui fissa la filigrana ingiallito di quel pezzo di carta, su cui spicca una macchia di caffè forse vecchia di settant’anni, o forse caduta appena qualche settimana fa. Lo rigira con la punta delle dita, osservando quello schizzo frettoloso dai volti però ben distinguibili, aperti in una risata unisona. Lascia andare un sospiro che sfiora il disegno, per poi piegarlo con precisione in quattro, continuando a stringerlo tra le dita con più forza del necessario, forse indeciso se stracciarlo a metà o meno. Lo sente deglutire rumorosamente e rimane in silenzio, consapevole di non potersi aspettare un perdono, ma sperando che almeno Bucky potrà ottenerne uno quando sarà il momento. Ci sarà un momento, si ripete con veemenza, a scacciare la cenere.

«Possiamo parlare davvero, adesso?» lo riscuote dopo qualche minuto, senza durezza.

Per un momento, è convinto che Tony non risponderà. Che accartoccerà il foglio, si girerà di scatto rifilandogli un pugno sui denti e uscirà dalla sala comune per tornare fuori, affacciato sul buio.
Invece infila il foglietto nella tasca dei pantaloni, con un altro piccolo sospiro. Fa un semplice cenno d’assenso e rialza lo sguardo su di lui: le sue iridi sono leggermente lucide, ma anche più limpide, prive dell’ombra che le ha intaccate finora, forse libere anche dalle schegge e dal gelo.

«Dopo di te, nonnetto.»



But take the spade from my hands
And fill in the holes you’ve made
 

Note:

1L'intervento di Nataša sembra qui un deus ex machina privo di logica, ma è largamente esplicitato e approfondito nella mini-long compagna Ferite.
2Riferimento alla one-shot Speaking Terms, che vede il loro primo incontro post-Civil War.
3Piccolo richiamo ai fumetti: la Future Foundations è un'associazione messa in piedi da Reed Richards alias Mr. Fantastic. Nella Civil War originale, sono lui e Stark (con altri scienziati) a progettare la RAFT nella Zona Negativa; qui ho esonerato Tony dal fattaccio perché nel visitare la RAFT nel MCU sembra visibilmente scioccato, come se non si aspettasse di vederla così brutale.
4Questo fatto non è mai confermato nei film, da quanto so, ma in Captain America: The Winter Soldier, durante la sequenza di Zola, si vede chiaramente l'assassinio degli Stark figurare tra gli "incidenti" voluti dall'HYDRA. Ora, possiamo supporre che Steve non sapesse ancora del coinvolgimento diretto di Bucky, ma ha comunque taciuto a Tony il fatto che la morte dei suoi non fosse stata affatto un incidente.
5Friendly reminder di quello sguardo-> qui
6 Il riferimento è ad Age Of Ultron, quando Tony dice che non si fida di chi non ha un "lato oscuro". A voi le conclusioni di un'affermazione del genere ripescata in questo contesto ;)

Note Dell'Autrice:

Cari Lettori, eccovi finalmente il confronto tanto atteso <3
Mi scuso per la lunghezza del capitolo... ma questo è Il Capitolo per eccellenza, e spero davvero che lo abbiate apprezzato. Ci tengo come sempre a sottolineare che manca in toto il PoV Tony, oltre che la parte integrativa della one-shot. Quindi Steve si fa tanti film mentali più o meno corretti, e alcuni "balzi" nel dialogo sono dovuti ai ragionamenti più contorti del caro ingegnere (esiste una bozza complementare PoV Tony di questa roba, ma spero che il suo filo logico risulti abbastanza chiaro anche senza conoscerla).
Ovviamente non è tutto risolto grazie a una chiacchierata e un disegnino: ferite come queste richiedono anni per essere sanate del tutto, ma al momento ci sono obbiettivamente questioni più urgenti da affrontare, e lo scopo era riacquistare quel minimo di fiducia reciproca necessaria a lavorare in squadra. Spero davvero che in Endgame non banalizzino il tutto riducendolo solo a quanto mostrato nell'ultimo trailer.

Ringrazio infinitamente T612, _Atlas_, shilyss e serica per aver recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite o che leggono soltanto <3
Il prossimo è l'ultimo capitolo, per il quale le informazioni apprese da Capitan Marvel e l'ultimo trailer di Endgame mi hanno costretta a qualche modifica e integrazione sostanziale (oltre a illudermi di essere quasi-veggente). Spero gradirete ;)
Alla prossima, al 100% prima di Endgame,

-Light-

P.S. A questo giro, doppia canzone, perché quella dei Linkin Park in apertura sembrava cucita in toto addosso a Steve e Tony e non potevo esentarmi dall'inserirla :')

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Capitolo 11
*** Noi no ***


Epilogo: Noi no
 
 
 
But plant your hope
With good seeds
Don’t cover yourself
With thistle and weeds
 
 
 
Per una volta, il silenzio è breve.
Il tempo di riprendere le fila sfrangiate dei propri pensieri, cercando di intrecciarle in una trama abbastanza robusta da non cedere sotto il peso di ciò che deve raccontare.

«Da dove comincio?» chiede infine Steve, allargando un poco i palmi a esortare l’altro.

Tony sa, e non sa, questo gli è chiaro. L’ha visto rinchiudersi nella propria stanza non appena tornato da Titano, a malapena in grado di parlare, di reggersi in piedi, con gli occhi spiritati di chi ha visto la morte e non è ben sicuro di come sia sfuggito alle sue grinfie, e segnati dal dubbio che forse non avrebbe dovuto affatto sfuggirle.

«Da…» Tony si interrompe e si preme due dita sulla tempia, dove si intravede ancora un taglio non del tutto guarito. «Dal Wakanda? Dalla battaglia, io…» libera un sospiro stremato. «Da dove vuoi,» conclude, facendo scivolare la mano a sorreggersi il mento e puntando un gomito sul bancone.

Steve lo osserva per un lungo istante, prendendo nota della stanchezza impressa sul suo volto, poi comincia a parlare, in tono pacato ma costante. Tony ascolta in un insolito silenzio, concentrato. Lo interrompe solo un paio di volte per chiedere dei dettagli – su Visione, sull’Hulkbuster, su Thor, a segnare quei punti di raccordo che si è perso strada facendo. Non sembra intenzionato ad approfondire le circostanze della sua permanenza in Wakanda con Bucky, e a quel punto gli è chiaro che l’ha sempre saputo, o perlomeno sospettato. Steve si è abituato a sentirsi parlar sopra almeno una decina di volte nel corso delle riunioni, proprio da Tony, che pareva sempre farne un punto d’onore di contraddirlo più volte possibile di fronte agli altri. Adesso le sue domande sono puntuali, scevre di qualsiasi giudizio latente o meno, e sono poste nel tono grave di chi non vorrebbe chiedere di più ma è costretto a farlo.

«E… e poi l’ha fatto,» conclude Steve con voce un po’ roca e tremante, fermandosi prima della cenere.

Non ha bisogno di rievocarla: gli è ormai chiaro che Tony ce l’abbia già attaccata all’anima. Lo vede abbassare gli occhi, ancora immobile, con la bocca serrata e rigida.

«L’ha fatto,» ripete in tono assente, con una punta di sofferta incredulità che gli scuote la voce, e suona come una sentenza.

Steve aspetta che cominci lui a parlare, e intuisce dalla fronte aggrottata che stia riorganizzando le informazioni appena ricevute, incastrandole con quelle che non ha ancora voluto condividere. Quando quella pausa si protrae troppo a lungo, si decide a parlare per primo.

«Tony,» lo richiama, riscuotendolo con un sussulto. «Cosa è successo su Titano?» gli chiede, senza mezzi termini.

Può quasi scorgere l’armatura che gli si avvolge addosso, a deflettere quella domanda. In qualche modo, è riuscito a evitare di parlarne finora, camminando in punta di piedi attorno a quel nodo cruciale e sanguinante.

«Ve l'ho già detto,» risponde infatti, a sviare l’argomento, come se il solo menzionarlo lo opprimesse.

«No, non l’hai fatto,» osserva Steve, ancora calmo, ma con una punta di durezza in più. «Abbiamo bisogno di tutte le informazioni possibili su Thanos, e…»

«Lo so. Ma non voglio parlarne,» replica lui, con voce esausta, chiudendo gli occhi per un istante.

Li riapre per un attimo e il suo sguardo si fa smarrito e vaga per la stanza, erratico come il suo respiro. Si stringe con forza la spalla, affondando le dita nella stoffa della maglietta.

«C’è di mezzo la vita di mezzo universo, Tony,» lo rimbrotta Steve. «Non sei davvero così egoista.»

Lui incassa il colpo aumentando ancor di più la stretta, probabilmente imprimendosi le impronte delle dita sulla pelle. Prende un grosso respiro, come a farsi forza, spronato da quelle parole.

«La verità è che ho fallito. Nulla di nuovo,» dice con un sorrisetto spento. «Dovrei essere morto,» commenta poi, di nuovo in quel tono distante.

«Stark...» comincia Steve, volendo interrompere sul nascere quell’assunzione di colpa, ma lui non gliene dà modo.

«Non lo dico per dire,» afferma, stringendo i pugni in un moto d'impotenza, quasi potessero mantenere salda la sua voce. «Stavo davvero per morire. Qualcuno ha deciso diversamente,» s’interrompe, incespicando nel discorso e facendo un brusco scatto con la testa a segnalare la sua frustrazione.

«Perché non mi spieghi dall’inizio?» lo invita Steve, conciliante, e vede la riluttanza dipingersi sul suo volto. «Non so neanche come ci sei finito, su Titano,» aggiunge, accigliandosi nel realizzare solo adesso quel fatto.

Tony sospira, ma annuisce, anche se in modo nervoso.

«L’inizio, dici,» ripete schiarendosi la gola. «L’inizio è… a New York, con gli alieni, come sempre. Quando ho visto quell’astronave non potevo crederci,» scuote la testa, come a scacciarne l’immagine ancora vivida. «Sapevo che sarebbe successo, che sarebbero tornati. Lo so da anni, da… da quel cazzo di portale.»

Risucchia un respiro e Steve non lo interrompe. Forse è partito da un inizio un po’ troppo distante, ma gli concede i suoi tempi per arrivare a raccontare ciò che continua a tormentarlo, perché è la prima volta che gli sente menzionare New York in modo serio, senza cercare di mascherare l’evento con la sua solita ironia. Lo ascolta ripercorrere la comparsa di Bruce, l’arrivo dell’astronave, il panico generale, il rapimento di Strange. Fa per chiedere di più quando lo sente menzionare dal nulla Spider-Man, credendo di essersi perso un passaggio negli eventi, ma l’occhiata fissa che gli rifila Tony lo fa desistere.

«Non potevo farli rimanere sulla Terra, o farci arrivare Thanos. Per questo li ho portati su Titano, con la Gemma del Tempo. Sembrava… sembrava la cosa giusta da fare. Ho sbagliato,» conclude, e Steve vede distintamente il velo che gli offusca lo sguardo.

«Non credo ci fosse una strategia giusta,» commenta, senza rancore.

Non si sente in grado di far abbattere la colpa di tutto su una sola persona, soprattutto quando lui stesso si è rivelato così inutile in un momento decisivo. Tony lo scruta come se stesse cercando di decifrare un’accusa intrinseca a quella frase, e contrae ritmicamente la mascella, per poi emettere un respiro secco.

«Stavo per chiamarti, quando Bruce ci ha detto di Thanos,» confessa poi, rapidamente, e Steve non può evitare un lieve moto di sorpresa. «Non ho fatto in tempo. Ho esitato,» conclude, e non è chiaro se stia attribuendo la colpa a se stesso o a lui.

«Forse se mi avessi chiamato avremmo potuto coordinarci meglio, con le Gemme. Ma non saremmo comunque riusciti ad arrivare in tempo,» osserva pragmatico Steve, giocherellando con la copertina scolorita del suo quaderno. «Siamo partiti per Edimburgo non appena abbiamo saputo che eri disperso, ma anche sapendo che eri diretto su Titano, non avremmo saputo come andare recuperarti,» conclude, scuotendo la testa.

Tony storce le labbra, in muto accordo con quei fatti prima di riprendere a parlare con una vena di irrequietezza più marcata:

«Non avevo un vero e proprio piano, ma sai che sono bravo a improvvisare; il punto è…» esita, scoccandogli un’occhiata incerta e incrociando il suo sguardo perplesso. «Non ero totalmente lucido,» conclude con reticenza. «Thanos ha scatenato… New York, e tutto il resto e… e poi il ragazzino non doveva essere lì, mi ha seguito e…»

«Ho capito,» lo interrompe Steve, intuendo dove stia andando a parare, e in verità non vuole che approfondisca adesso degli argomenti su cui ha sempre mantenuto il massimo riserbo.

Tony gli rivolge uno sguardo intenso, forse grato per avergli evitato di spiegarsi.

«Ci siamo arrangiati; intendo io, Strange e Pe– Spider-Man,» dice in fretta, quasi brusco. «Abbiamo avuto un… breve contenzioso con quei Guardiani Galattici, o come diavolo si fanno chiamare, ma abbiamo… concluso che un sei contro uno poteva risolversi a nostro favore,» dice ancora, deglutendo e continuando a serrare la mascella in un tic nervoso.

Steve ascolta attento, e percepisce un qualcosa di torbido in quelle parole, un altro di quei non detti che detesta, ma gli dà modo di concludere.

«All’inizio sembravamo in vantaggio… siamo quasi riusciti a togliergli quel dannato Guanto, ed è intervenuta anche la cyborg. Eravamo a tanto così,» sbotta, con un cenno frustrato della mano. «Poi Quill ha dato di matto e ha fatto di testa sua e… e non siamo stati in grado di reagire,» mormora, e si indica quasi distrattamente il fianco ferito a mo’ di spiegazione. «Thanos ha preso la Gemma ed è sparito. Poi… poi è successo.»

Tony a quel punto tace, con le mani strette tra loro in una morsa rigida. Steve lo osserva a lungo e, come sempre in tutti quegli anni, non gli riesce di leggerlo in modo univoco. Il suo è nervosismo dovuto allo stress di rievocare quei ricordi, o gli sta nascondendo qualcosa? La sua vaghezza è stata involontaria, dettata dal dolore, o studiata, mossa da altre motivazioni?

«Stark,» lo richiama infine, con una punta d’asprezza, consapevole di stare per riaprire le porte dell'inferno. «Cosa non mi stai dicendo?»

Lui trasalisce , ma non dà cenno di volersi difendere da quell’insinuazione, e nel suo sguardo legge ora solo una profonda incertezza.

«Non so se dovrei dirtelo,» confessa infine, improvvisamente agitato. «E no, non è per motivi personali, non è per… per la Siberia, è solo che non… non so se posso dirtelo senza mandare tutto a puttane. E con tutto intendo tutto,» dice, a raffica, con lo sguardo che guizza qua e là in cerca di un appiglio.

Steve continua a fissarlo, preso in contropiede. Non ricorda l’ultima volta che l’ha visto così agitato. Tony è il tipo di uomo che sa sempre cosa fare, e, anche quando non è così, si sforza di dare a tutti i costi quell’impressione. Adesso lo vede passarsi una mano sul volto distrutto, come a riordinare i pensieri, e riprende a parlare prima che Steve possa interpellarlo ancora:

«Io non dovrei essere qui,» sbotta, con un brusco cenno della mano.

«L’hai già detto, ma non capisco cosa c'entri con…» comincia Steve, solo per essere interrotto:

«Dovrei essere morto,» ribadisce Tony, con una luce sconvolta negli occhi.

«Senti, anch’io mi sento in colpa, ma essere morti tentando di fermarlo non avrebbe…»

«Sì, invece!» lo tronca Tony, alterandosi. «Thanos stava per uccidermi e lo avrebbe fatto, ma Strange gliel’ha impedito e…»

«Non conosco Strange, ma siete alleati, quindi…»

«… gli ha dato la Gemma del Tempo per la mia vita!» conclude in un sol fiato Tony, abbassando di colpo la voce troppo alta e riducendola a un grido muto.

Steve non può evitare ai suoi occhi di sbarrarsi, e rimane stolidamente a bocca semiaperta, con un misto di incredulità e indignazione che inizia a ribollirgli nel cuore.

«Cosa?»

Tony sembra farsi più piccolo sotto il peso di quella domanda stupefatta, e i suoi gesti sono ancora frenetici, scossi da un panico che riesce a malapena a tenere sotto controllo.

«Esatto: cosa?» ripete, di nuovo a un volume normale anche se con voce sottile, agitandosi sul suo sgabello come se volesse alzarsi in piedi di scatto per scaricare quell’irrequietezza nervosa. «Non ha senso, non ha alcun cazzo di senso, eppure è ciò che è successo.»

«Non… non hai detto che Strange era il custode… che avrebbe sacrificato la sua vita e la vostra per proteggere la…»

«Appunto. Ci ho pensato per tutto questo tempo; mi sono fatto una lunga seduta di meditazione interstellare per capirci qualcosa, quando non ero troppo impegnato a disperarmi o morire di fame o conservare ossigeno,» lo interrompe Tony, parlando a ruota libera nel chiaro tentativo di calmarsi e di fare il punto della situazione.

«E cosa hai concluso?» lo incalza Steve, impedendogli di divagare e piantando un palmo sul bancone, in cerca a sua volta di un appoggio solido e reale.

Sente un miscuglio di speranza e disperazione più nera che gli attraversa come un tornado la testa, impedendogli di scegliere con chiarezza come reagire a ciò che sta sentendo.

«Strange ha… ha visto il futuro, o meglio i futuri, prima che affrontassimo quel bastardo,» dichiara Tony, scandendo quell’affermazione con gesti decisi delle mani. «Per vedere in quanti modi avremmo potuto vincere.»

Steve sente un groppo gelido che gli si incastra in gola, quando ricollega in un lampo incredulo quelle parole con quelle che gli ha sentito rivolgere a Rhodey poco fa e che credeva essere sarcastiche. Tony sembra leggerglielo in faccia, perché annuisce gravemente.

«È quello che pensi,» gli conferma, stringendo le labbra.

«Una?» chiede Steve, facendo a malapena caso a quanto suoni strozzata quell’unica parola, che sembra comunque rimbombare come i tuoni di poco fa. «Una su… quanti milioni erano?» scuote la testa, rifiutandosi di crederci, ma Tony annuisce di nuovo.

«Una su 14.000.605. E in quell’unica possibilità…» alza le mani in aria, in un’espressione d’impotenza, «… io ero vivo, evidentemente,» esala, e non c’è alcun sollievo in quell’affermazione, solo il peso di una condanna crudele che incombe su di lui. «Dopo avermi salvato e prima… prima che tutti sparissero…» si ferma, ingoiando un respiro tremante. «… ha detto che “era l’unico modo”,» conclude scuotendo la testa, a voler negare quello stesso fatto.

Steve vorrebbe credere che quei giorni passati nello spazio lo abbiano portato alla follia, che tutto questo non sia che il parto allucinato di una mente spezzata, ma gli occhi di Tony sono limpidi, sotto la confusione che vi si rimescola. E lui non ha mai creduto alla magia: è uno scettico, uno che ha sempre cercato di creare miracoli con la scienza, e adesso ripete quelle parole con la stessa convinzione con cui ripeterebbe un teorema matematico. Steve si sente togliere la terra sotto i piedi e avverte un senso di vuoto alla bocca dello stomaco, che identifica come paura.

Una possibilità. Una sola chance di riportare in dietro tutti: mezzo universo, mezza Terra, i loro compagni, i propri cari, Bucky… sente il cervello sul punto di collassare, schiacciato da pareti roventi e invisibili. La ferita inesistente gli invia una fitta alla tempia.

«Dobbiamo dirlo agli altri,» stabilisce quasi in trance, muovendosi di riflesso sul proprio sgabello.

Tony la interpreta come una volontà immediata e gli afferra di scatto il polso, a trattenerlo lì, per poi lasciarlo come se si fosse scottato. Steve lo fissa stupefatto da quel gesto repentino, e conclude che con tutta probabilità Tony è sull’orlo di un attacco di panico.

«No,» scandisce infatti l'altro, e nell’assoluta fermezza di quella parola vi è una nota quasi implorante. «No, no, no, quella è l’unica cosa che non dobbiamo fare…»

«O magari dobbiamo farla, perché è quello che deve accadere.»

«E come fai a dirlo con certezza? Noi non possiamo vedere il futuro.»

«Strange però avrà messo in conto il fatto che tu l’avresti detto a qualcuno, quindi…»

«Non lo sappiamo!» sbotta Tony, e adesso suona davvero disperato. «Forse ho già rovinato tutto. Forse abbiamo già perso perché ho sbagliato qualcosa! Perché ho dormito un'ora in più o perché ho bevuto un caffè o perché ho detto una parola di troppo o una di meno o...»

«Tony, adesso calmati!
» sbotta Steve, parzialmente consapevole che urlargli addosso non è un buon modo per ottenere quel risultato.

Lui si interrompe di colpo, scosso da un lieve brivido, e serra le labbra fino a sbiancarle, col corpo rigido come ferro sul punto di spezzarsi. Steve approfitta di quella pausa per riprendere il controllo della discussione, sperando che l'altro faccia lo stesso:


«Nascondere tutto questo agli altri come ci aiuterebbe?» chiede, cercando di suonare ragionevole.

Tony a quel punto sembra sgonfiarsi e quasi si affloscia sullo sgabello, scuotendo appena la testa e con una mano sul petto all’altezza del cuore come a placarne i battiti. Inspira profondamente, a occhi semichiusi, e Steve ritiene opportuno non incalzarlo adesso per non mandarlo di nuovo in fibrillazione.

«Pensavo solo…» riprende poi l’ingegnere, quasi in un sospiro. «Se è un futuro possibile, ho pensato che forse dovremmo agire tutti in modo inconsapevole… spontaneo,» ragiona, con più calma, una calma illusoria. «Anche su Titano… Strange non ha fermato Quill quando ha reagito d’istinto. E sapeva quello che sarebbe successo.»

C’è una nota rassicurante in quell’affermazione, e Steve non sa se vuole davvero crederci.

«Forse le cose dovevano andare così, e basta,» dice Tony, in un mormorio assorto.

«E potrebbe essere vero il contrario,» gli fa notare Steve, ora corrucciato. «Forse dobbiamo esserne consapevoli per agire nel modo giusto.»

«È un circolo vizioso,» sbotta Tony, con impeto rassegnato.

Probabilmente lo sapeva fin dal principio, senza per questo aver esternato subito quel pensiero fatidico, che pone ogni loro azione sull’orlo del baratro. Steve non sa se dirlo agli altri sia effettivamente la scelta giusta, o se non sarebbe semplicemente crudele porre tutti loro nella condizione di dubitare di ogni passo, respiro e parola pronunciata da quel momento in poi, appesi a un filo fragile e volubile che regge anche l’universo intero.

«Potresti aver ragione tu,» inizia Steve, facendo inarcare un sopracciglio a Tony. «Ma davvero non riesci a immaginare cosa succederebbe se gli altri dovessero scoprirlo da soli? O se fossimo costretti a rivelarlo più tardi?» chiede, rivolgendogli uno sguardo significativo.

Vede Tony irrigidirsi e ritrarsi in modo impercettibile, inclinando il busto verso il bancone, e sa che ha capito.

«Aspettiamo un momento meno… teso,» si pronuncia infine, portandosi una mano a tirarsi pizzetto. «Poi glielo diremo,» conclude fermo, ma vi è una richiesta di conferma implicita che fino a qualche ora fa non avrebbe mai lasciato trapelare.

«Sì, direi che non siamo in un assetto favorevole ad altre rivelazioni,» concorda Steve, cupamente.

Sprofonda nel silenzio, con un nuovo peso a premergli al centro sulle spalle, un peso che però è lieto che Tony abbia deciso di condividere.

«Tu, invece? Hai qualche altro segreto che ti porti appresso?» indaga Tony, scrutandolo a fondo, e sotto il velo di pungente sarcasmo si intuisce una domanda molto più semplice e interessata.

Steve si porta d’istinto una mano alla tempia, lì dove dovrebbe esserci un segno a testimoniare il colpo del Titano è dove c'è invece solo pelle intatta. Gli sembra di poter toccare quel dolore sottile che preme dall'interno come se dovesse eruttare da un momento all'altro, ma ogni volta che la pressione si fa insopportabile, svanisce poi di colpo, tornando ad essere un titillo appena percettibile, comunque abbastanza intenso da non poter essere del tutto ignorato.

«Thanos ha ridotto male anche me,» accenna alla propria tempia, consapevole che Tony non vedrà alcuna ferita a scalfirla. «Forse anch’io dovrei essere morto,» aggiunge, lasciandoselo sfuggire.

Tony aggrotta appena le sopracciglia, comprensibilmente perplesso.

«Stai bene?» chiede, stavolta esplicitamente.

«No, per niente,» sospira lui. «Tu?»

«Secondo te?» scrolla le spalle lui, come a liberarle da un fardello inamovibile. «E non vedo margine di miglioramento.»

Steve sbuffa abbattuto, ma si costringe a non lasciarsi sopraffare da quel sentimento.

«Io credo che adesso abbiamo almeno una base su cui lavorare,» afferma, con più determinazione di quanto senta realmente, e percepisce lo sguardo attento di Tony su di sé.

È come quando in guerra presentava un piano d’azione che rasentava quello di una missione sucida, esponendolo come se fosse la cosa più semplice del mondo, quella più logica e sensata. Riusciva a risollevare lo spirito di un intero squadrone di uomini esausti e prostrati dalla guerra, stanchi delle armi: ci riuscirà anche con un singolo uomo che, lo sa, dentro di sé ha ancora la volontà di non arrendersi e di non rimanere a guardare mentre il mondo crolla.

«Sappiamo che tutto questo doveva accadere, per vincere,» comincia, in tono fermo. «Che Strange sapeva cosa stesse facendo, e ha fiducia in quello che faremo noi; che tu dovevi essere vivo, e lo sei; e che se le cose stanno davvero così e c'è quell'unica possibilità, allora chi è scomparso potrebbe…»

«Non dirlo,» mormora Tony, di getto, quasi sofferente. «Non voglio false speranze. Lavoriamo su ciò che abbiamo. Cioè troppo poco, per i miei gusti,» commenta amaro, accantonando subito quel pensiero inespresso di Steve.

«Abbiamo una squadra,» tenta lui, inclinando un poco la testa.

Tony, prevedibilmente, fa un sospiro scettico.

«Già… quel che ne rimane,» commenta, passandosi una mano stanca sulla nuca.

Steve trattiene a sua volta un sospiro a quel disfattismo, ma non può evitare di ripensare a quei lunghi pomeriggi di riunioni in cui ogni affermazione dell’uno trovava una pronta replica da parte dell’altro, in un rimpallo infinito che però, alla fine, dava i suoi frutti.

«A quanto pare adesso sono io quello troppo ottimista, e tu quello troppo pessimista. Potrebbe comunque essere un’inversione di ruoli vincente...» butta lì, con studiata leggerezza.

«Si chiamano compromessi, Rogers, e sono quelli che tu detesti,» osserva pungente Tony, ma con un tocco d’ironia più smussato. «E, a proposito, giusto qualche ora fa è arrivata la tua padella,» aggiunge rapido, toccandosi nervosamente il naso.

Steve sente il solito cozzare contrastante d’emozioni dentro di sé al pensiero del suo scudo, abbandonato nel gelo due anni prima. Sa come la pensa Tony al riguardo1, e che dal suo punto di vista restituirglielo è una mossa obbligata dalla situazione in cui si trovano, ma non può fare a meno di pensare che, se non avesse tutta quell’importanza simbolica per entrambi – se non significasse pace – non l’avrebbe menzionato adesso. Né l’avrebbe mai riparato2.

«Bene,» si limita a dire. «Non so quanto ci aiuterà adesso, ma è…» esita, scrollando le spalle.

«Rassicurante?» completa Tony, in un modo indecifrabile, ma cogliendo nel segno.

«Più o meno,» annuisce Steve.

«Anch’io sarò più tranquillo quando avrò di nuovo un’armatura funzionante,» aggiunge lui, supportando la sua affermazione. «Ho fatto portare qui anche la tua tuta, i pezzi di ricambio per la Hulkbuster e qualche giocattolino per Barton, nel caso tornasse…» continua poi, e Steve è lieto di vedere come non si sia lasciato del tutto schiacciare dal disfattismo. «… oltre a qualche altra mia diavoleria e a un aggeggio che si è lasciato dietro Fury e che a detta dello SHIELD devo analizzare,» conclude, corrugando le sopracciglia3.

«Fury? E quando…» comincia d’istinto Steve, cercando di non pensare troppo alla scomparsa del loro Direttore.

«Due ore fa, Rogers, sotterra l’ascia di guerra,» lo placa Tony, alzando gli occhi al cielo. «Quando l’ho saputo c’era Nat con me4. Chiedi a lei, se vuoi,» conclude secco, liquidando la questione con un sottotono di sfida.

«Ci credo,» sospira Steve, chiedendosi se quella diatriba finirà mai o se dovranno lanciarsi frecciatine a vicenda per sempre. «E cosa sarebbe questo “aggeggio”?»

«Sembrerebbe un cercapersone,» alza le spalle Tony. «Nat sembra credere che dentro ci sia il manuale d’istruzioni in caso di fine del mondo, il che sarebbe molto utile e molto utopico… comunque è tutto nell’hangar, passo a recuperarlo domattina quando avrò più di due neuroni funzionanti,» conclude, con un cenno generico a indicare sotto di loro.

Steve annuisce in risposta, cogliendo subito l’andamento un po’ più vivace e saldo della sua voce, come se stesse lentamente rientrando nei ranghi, regolando il suo cervello sulla situazione attuale e non sul passato, o peggio, sul futuro.

«Quindi? Hai un piano di riserva?» gli chiede, cercando di mostrarsi altrettanto spigliato, come se il mondo non fosse davvero finito.

Come se fosse solo un’altra missione, una delle tante che hanno portato a termine vittoriosi.

«Partiamo prima dalle basi… ovvero la tua amata squadra,» sospira Tony, notoriamente restio ad affrontare qualsiasi problema coinvolga più di tre persone. «Ci sono dei palesi problemi di comunicazione,» osserva poi, storcendo la bocca con fare ironico.

«Non l’avevo notato,» ribatte Steve con impassibile ironia, e ciò suscita un’espressione insolita sul volto di Tony, un misto tra un sorriso e uno sbuffo esasperato.

«Sì, in effetti di solito si nota di più quando Bruce è incazzato,» sta al gioco, pur con una vena di serietà. «Lui e Thor si sono quasi uccisi a vicenda, a quanto pare… me l’ha detto stamattina in laboratorio,» aggiunge, scrutando la sua reazione.

«Lo sospettavo; l’abbiamo recuperato noi nel bel mezzo della giungla,» scuote la testa Steve, chiedendosi se finalmente otterrà lumi sulla faccenda. «Sei riuscito a capire perché?»

«A grandi linee…» comincia Tony, inclinando la testa dubbioso. «Thanos ha sterminato gli asgardiani e ucciso Loki davanti a Thor. Bruce, cioè Hulk, non è riuscito a fermarlo, e per qualche motivo solo lui è stato trasportato sulla Terra da Hemdell, Hamdull…»

«Heimdall?» suggerisce Steve, assottigliando gli occhi.

«Il tizio del ponte arcobaleno. Morto anche lui,» Tony scuote stancamente la testa, come se non avesse neanche più la forza di mostrarsi dispiaciuto per l’ennesima perdita. «Thor ha pensato fosse ingiusto… uno scambio iniquo, così l’ha definito Bruce, cioè Thor, mentre litigava con Bruce,» alza le spalle Tony. «E a detta di Nat…»

Steve sospira in modo brusco, interrompendolo.

«C’è qualcuno che parla direttamente, qua dentro?»

«A parte noi? Non credo, e tutto questo si sta trasformando in una versione da incubo del telefono senza fili,» concorda Tony, colto dalla medesima esasperazione.

«Abbiamo urgente bisogno di una riunione. Fisica e metaforica,» conclude Steve, incrociando le braccia come a suggellare quell’affermazione.

«Sì, suppongo che dopo la terapia di coppia sia il momento di quella di gruppo…» concorda Tony, in uno sprazzo d’ironia che fa inclinare appena le labbra a Steve. «Ma magari non alle tre e mezza di notte, mh?» suggerisce poi, scoccando un’occhiata obliqua all’orologio che segna quell’orario indecente.

Steve si trova costretto a cedergli il punto, per poi sentirsi calare addosso un velo di stanchezza, pesante come non lo sentiva da tempo.

«Domattina?» propone quindi, attendendo conferma da parte di Tony.

«Non ho impegni,» ribatte lui, scostandosi poi dal bancone e stiracchiandosi con una smorfia un po’ sofferta.

Steve scivola a sua volta giù dallo sgabello, indolenzito e con l’unico desiderio di sfruttare quelle poche ore di sonno in vista di una giornata che si preannuncia campale. Non è certo di come congedarsi da Tony e orbita attorno ai loro posti, senza accennare ad allontanarsi. Si decide infine ad avviarsi verso la porta della stanza, risolvendosi a un neutrale cenno col capo a mo’ di saluto, ma la voce di Tony lo blocca:

«Steve?»

Lui quasi inchioda sul posto nel sentirsi chiamare per nome, e non per cognome o con qualche assurdo nomignolo, e si volta a guardarlo. Lui ricambia con insolita titubanza, spostando il peso da un piede all’altro con i pollici nelle tasche. Esita ancora qualche istante, per poi fare mezzo passo in avanti e offrirgli la destra, in un movimento quasi precipitoso, come a impedirsi di frenarlo. Steve la fissa incredulo, chiedendosi se non sia uno scherzo, o se è semplicemente lui ad essere troppo stanco e vittima di allucinazioni.

«Chiamalo un ramoscello d’ulivo temporaneo e soggetto a variazioni,» precisa Tony, alzando appena le spalle.

Steve esita a sua volta, ma quando gli stringe la mano è con una presa salda, che Tony sostiene con altrettanta fermezza5.

«Me lo farò bastare,» commenta, senza alcun astio e accennando un sorriso che però Tony non sembra ancora intenzionato a ricambiare, limitandosi a tirare appena le labbra di lato prima di ritrarre la mano.

«Uh, ok,» borbotta titubante, spostando il peso sui talloni e tirando appena su col naso con fare imbarazzato. «Basta smancerie: dobbiamo salvare il mondo, l’universo e tutto il teatrino e non posso farlo con tre ore di sonno totali in una settimana,» conclude sbrigativo, incassando la testa nelle spalle e avviandosi verso la porta con il solito fare disincantato.

Steve gli si accoda, adeguandosi al suo passo un po’ rallentato, e ha anche lui tutte le intenzioni di sfruttare quella ritrovata e relativa tranquillità per recuperare un po’ di sonno perso. Forse per una volta sarà anche libero da incubi.

Arrivano al piano degli alloggi, con Tony che non ha neanche preso in considerazione l’idea di usare l’ascensore e si sforza di camuffare il fiatone, e Steve alza tra sé gli occhi al cielo di fronte al suo solito, cocciuto orgoglio, che però in qualche modo è lieto di rivedere. Prende nota di come, a metà corridoio, Tony sfiori fugacemente la tasca anteriore dei jeans, come ad assicurarsi che il foglio col disegno sia ancora lì. Steve spera che serva davvero a qualcosa, che gli sia in qualche modo d’aiuto nel lenire le ferite, alcune delle quali inflitte da lui stesso. Sa che, nonostante tutto, ci sono ancora delle questioni in sospeso tra loro. E forse ci saranno sempre: è inevitabile, ma adesso sa che si impegneranno entrambi a vederle come semplici nuvole all’orizzonte, ora più vicine, ora più lontane, ma troppo minute per essere foriere di maltempo. Ripensa alle parole di Nataša, e si chiede cosa avrebbe da dire sul loro confronto, se direbbe ancora che Tony ha paura di lui e che lui non si fida di Tony.
Ma quella stretta di mano gli sembra una risposta sufficiente, almeno per ora.

Si fermano davanti alla porta di Tony, a un corridoio di distanza dalla sua.

«Mi occupo io di avvisare gli altri per domani,» dice Steve, sapendo quanto l’altro detesti farsi carico di annunci e avvisi alla squadra, e lo vede annuire di rimando, aprendo poi la porta.

«Bene. Però aspettami per l’entrata in scena,» aggiunge, alzando brevemente le sopracciglia con fare significativo. «Potrei offendermi davvero, se mi rubassi il palcoscenico.»

«Allora vai a darti una sistemata: non vorrai sfigurare,» ribatte Steve, ironico ma non troppo.

Tony accetta il commento, probabilmente consapevole del suo aspetto disfatto e provato, e si accinge ad entrare mentre Steve già si avvia oltre con un rapido cenno di saluto. Coglie un movimento da parte di Tony e lo vede lanciargli un’occhiata apparentemente insoddisfatta da sopra la spalla. Poi, con sua sorpresa, un sorrisetto ironico va ad inclinargli appena le labbra.

«E tu tagliati quella barba. Ti invecchia di cent’anni,» gli dice dietro, prima di chiudersi la porta alle spalle.

Steve alza gli occhi al cielo, ma non trattiene uno sbuffo divertito.

 
***
 

Il cielo wakandiano è terso, il sole ancora basso filtra dalle vetrate scaldandogli le spalle, e Tony è in ritardo come da manuale. Steve incrocia le braccia e si appoggia al muro col capo reclinato in avanti, rimpiangendo i venti minuti in più di sonno che sta perdendo impalato lì.

«Finalmente vedo di nuovo il volto pulito dell’America,» gli arriva infine la voce dell’ingegnere, dalla cima delle scale.

«Buongiorno anche a te, Stark,» ribatte pacato, sollevando il capo e passandosi di riflesso una mano sulle guance rasate di fresco6.

Tony lo raggiunge flemmatico, come se fosse perfettamente in orario, e lo affianca mentre si avviano già in direzione del laboratorio. Lo vede decisamente più riposato di ieri sera: si è sistemato pizzetto e capelli e, nonostante le occhiaie ancora ben visibili, ha un colorito più sano e una luce meno cupa negli occhi. Con sua sorpresa, ha rinunciato ai suoi soliti completi semi-formali, optando per una semplice maglia a maniche lunghe, sul colletto della quale ha appuntato un paio occhiali da sole. Quando nota quel particolare trattiene un sorrisetto, che Tony intercetta all’istante scoccando un’occhiata estremamente critica al suo classico outfit jeans-camicia a quadri, senza però commentare.

«Sono già tutti là?» chiede invece, con un pizzico d’irrequietezza.

«Lo spero, non ho voglia di andare a ripescare nessun altro nella giungla,» sospira Steve, chiamando l’ascensore per il laboratorio, e Tony incrocia impaziente le braccia, chiudendosi in un silenzio improvvisamente teso.

Salgono insieme, e Steve si acciglia nel cogliere quella nuova linea di tensione sul volto del compagno, senza riuscire del tutto a collocarla. Non perché non ne immagini il motivo, ma perché ce ne sono troppi.

«Tutto bene?» si decide a chiedere a metà discesa, sapendo in realtà quanto sia futile quella domanda, ma conscio che è solo un mezzo per dare a Tony l’opportunità di esprimersi, se vuole.

«Sì, sì,» risponde affrettato lui, stringendo di più le braccia al petto. «Pensavo, tutto qui,» aggiunge, aprendo uno spiraglio sottile.

Steve lo fissa interrogativo, invitandolo a proseguire. Tony scuote la testa, stringendo le labbra, ma non sembra un gesto di rifiuto, e infatti riprende a parlare non appena si ferma l’ascensore.

«Se non riusciremo a salvare la Terra, la vendicheremo,» proferisce, quasi recitando quelle parole, e Steve si tende, inclinando in avanti la testa. «È quello che ho detto a Loki, a New York, e mi frulla in testa da giorni,» ammette cupamente, per poi tacere mentre scendono dall’ascensore.

«Io puntavo a salvare l’universo,» ribatte Steve, ostentando tranquillità e suscitando un lieve sbuffo da parte sua.

«Sì, certo, anche a me piace puntare in alto, è solo che…» emette un verso esasperato e scuote la testa. «Non lo so. Sto diventando anch’io vecchio e ripetitivo, Cap. Forse finirò per andare in pensione prima di te,» lo dice senza dar peso a quelle parole, ma sembra più un desiderio rivolto a se stesso.

«Sai meglio di me che passeresti comunque la maggior parte del tempo a ficcare il naso dalle nostre parti sparando le tue perle di saggezza,» gli fa notare Steve, in tono altrettanto leggero.

«Probabile. Non mi dispiacerebbe,» concorda lui, quasi sovrappensiero, per poi serrare le labbra come se non avesse voluto dirlo ad alta voce.

«Te lo auguro,» replica d’istinto Steve, strappandogli un’occhiata guardinga oltre le palpebre socchiuse.

«Mh,» mugugna con fare sospettoso. «Cerca di comportarti bene, nonnetto: questa è la tua ultima occasione per guadagnarti un invito di nozze,» la sua voce traballa sull’ultima parola, ma Steve finge di non notarlo e si limita ad annuire, sostenendo la sua speranza che è anche la propria.


«Farò del mio meglio.»

Arrivano in vista del laboratorio e si fermano entrambi come a comando, trattenuti dalla medesima esitazione.

«È un po’ che non faccio un discorso d’incoraggiamento,» commenta Steve, con le mani nervose serrate sulla cintura.

«Vuoi il costume di scena, Trilli?» lo stuzzica Tony, e Steve trattiene l’impulso di dargli una spallata per soffocare il suo ritrovato sorrisetto sardonico.

«Non credo mi aiuterebbe molto,» sospira, senza esternare quanto poco si senta in grado di mostrarsi sicuro di sé quando ad ogni battito di ciglia intravede la cenere.

Sa che deve comunque raccogliere la propria determinazione, e tutta la forza che ancora sente in fondo al cuore, la stessa che tirava fuori sul campo di battaglia quando era certo che non sarebbe tornato a casa e doveva comunque rimanere in prima linea. Per gli altri, per coloro che doveva guidare e proteggere. Per Bucky, per Peggy, per i suoi compagni. L'ha già fatto e continuerà a farlo, come sempre.
Tony si schiarisce la gola, ma invece di incitarlo si limita a parlare senza guardarlo direttamente.

«A un certo punto, mentre ero nello spazio, ho pensato che si dovesse andare avanti,» esordisce, a sguardo basso. «Sai… lasciarsi tutto alle spalle, farsene una ragione e roba del genere.»

Steve si irrigidisce a quelle parole, e vede che anche la mascella di Tony è contratta.

«E lo pensi ancora?»

«Ho concluso che andare avanti non vuol dire per forza lasciarsi tutto alle spalle,» asserisce lui in tono sibillino, intento, e Steve si chiede se l’argomento non sia cambiato di nuovo a sua insaputa. «In questo caso non posso farmene una ragione, perché ho perso tutto. Abbiamo perso tutto. E adesso andare avanti vuol dire non lasciarsi nessuno indietro,» conclude, con una disinvoltura che non smorza il suo fare determinato, con gli occhi fissi su un obiettivo preciso.

Steve respira a fondo, gonfiandosi il petto di quella sicurezza.

«In realtà è quello che dicono anche molti veterani di guerra,» continua poi, in un discorso parallelo. «Che dopo l'ultima battaglia bisogna uscire dai ranghi, riporre le armi e lasciare i caduti nelle loro tombe, anche quando si torna a una casa vuota. Anche quando non si ha più una casa,» commenta, a voce bassa. «Alcuni ci riescono,» aggiunge senza alcuna inflessione, quasi distrattamente.

Cerca lo sguardo di Tony, rimanendo in attesa. Lo vede incupirsi, pieno delle stesse ombre che offuscano anche il proprio, e trova la risposta che cercava, la stessa che si è dato tempo fa e la prova che neanche lui si è mai arreso per davvero.

«Ma noi no,» gli conferma Tony, senza vacillare.

«Noi no,» ribadisce Steve, riportando lo sguardo di fronte a sé.

Entrano insieme nella sala comune, già occupata da tutti i loro compagni che smettono all’istante di parlare, rivolgendo gli sguardi perplessi verso di loro, ora fianco a fianco nell’ingresso.
Vedono i loro volti illuminarsi un poco, rischiarati dalle ombre cupe che li opprimevano. Thor alza la testa scrutandoli con occhi attenti, più sereni, Bruce si alza in piedi con sorpresa, Rhodey sembra fare un cenno d’assenso verso Tony e Nat intercetta gli occhi di Steve, con l’ombra di un sorriso vagamente soddisfatto.

Steve respira a fondo, abbracciando con lo sguardo la loro squadra.
Cerca brevemente gli occhi di Tony in un gesto d’intesa, e vi legge un guizzo di speranza, forse lo stesso che sente lui nel cuore e che si intravede fioco all’orizzonte.

«Vendicatori…»

«Uniti.»
 

 
 
I will hold on
I will hold on hope
But I will hold on
I will hold on hope
 
 
Fine
 

Note:

Riferimento a Speaking Terms e al loro primo confronto già citato varie volte nel corso della long.
Nella long Siberia, Tony ripara lo scudo di Steve dai graffi di T'Challa, spinto da motivi leggermente diversi da quelli che immagina Steve.
Ovviamente, dopo aver visto Capitan Marvel non potevo non fare un riferimento alla scena post-crediti, anche se probabilmente incoerente con quelli che saranno i fatti (considerando che Tony non è ancora tornato a quel punto).
Questo accenno si ricollega alla famosa one-shot compelmentare che spero di pubblicare a breve.
[Potenziale spoiler per chi non ha visto l'ultimo trailer] Ci tengo a sottolineare che la scena della stretta di mano è in cantiere da molto prima dell'ultimo trailer rilasciato.
6 Idem come sopra per la scena della barba.

NB. Come sempre, sono sparse qua e là citazioni dai vari film e trailer, come è evidente dal titolo stesso <3



Note Dell'Autrice:

Carissimi Lettori,
eccoci giunti alla fine di questa storia, giusto in tempo per Endgame (cosa non del tutto scontata, considerando i miei tempi di aggiornamento :')
Sono totalmente incapace di scrivere delle note coerenti quando finisco di scrivere una storia, ma sono realmente soddisfatta di questa nel suo complesso (anche se quest'ultimo capitolo lo definirei un po' meh in confronto agli altri). Forse li ho resi un po' troppo "amiconi" verso la fine... ma ribadisco che questo è il PoV Steve. E Tony avrà voce in capitolo in futuro, tanto per mettere in dubbio tutto ciò che è stato scritto. Il punto è che, a mio parere, certi conflitti non si risolvono mai del tutto. Ci si può mettere una pietra sopra di fronte a delle necessità più grandi, come in questo caso, ma finirà sempre per trapelare qualcosa dal passato, in particolare se si parla di personalità complesse come quelle di Steve e soprattutto di Tony.
Non dico che non arriveranno mai a una tregua o a una riappacificazione, ma non credo neanche che vi sarà mai un perdono totale; piuttosto, un'accettazione dei reciproci errori.

Comunque, gettarsi nella testa di Steve è stata una sfida che, da ostica, si è rivelata molto interessante e mi ha portato a scoprire nuovi lati del personaggio che prima snobbavo o non avevo affatto compreso, quindi direi che, almeno per me, è stata un'esperienza utile. 
Il mio cuore rimane con Tony sulle questioni degli Accordi e della Siberia, sia ben chiaro, ma ho perso il vizio di "blastare" il povero Steve ogni volta che mi capita sotto gli occhi :')
Chiudo lo sproloquio, che ho già esagerato.

Ringrazio infinitamente tutti, e dico proprio tutti coloro che hanno recensito, letto e/o aggiunto la storia alle seguite/ricordate preferite: sappiate che è anche grazie a voi se ho l'ho portata a termine <3 Un grazie particolare a _Atlas_, fedelissima che sopporta fin troppo i miei scleri (qui, altrove e ovunque) e mi aiuta coi Rhodey bizzosi; a T612, che si è sorbita (e si sorbisce) i miei piani diabolici in anteprima fornendomi informazioni utilissime; a shilyss, compagna di muffin e complotti; e a serica che ha letto e recensito tutti i capitoli sin dall'inizio <3 sarei felicissima se chi ha letto fin qui decidesse di lasciare adesso un commento, anche minuscolo, per farmi sapere se la storia è piaciuta o meno nel complesso :)

Detto questo, passo e chiudo (forse). Come forse avrete notato, la serie non è conclusa ;)
Tornerò probabilmente alla carica dopo Endgame, se i miei neuroni sopravvivranno allo shock :')
Buona Pasqua a tutti e se beccamo :P

-Light-

 

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