Il senso della vita

di GladiaDelmarre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo Stetoscopio ***
Capitolo 2: *** Eden ***
Capitolo 3: *** Di come Aziraphale convinse Crowley a bere il the ***
Capitolo 4: *** Di nuovo, le nuvole ***
Capitolo 5: *** Novembre ***
Capitolo 6: *** Alpha Centauri ***
Capitolo 7: *** Sale ***
Capitolo 8: *** Il canto di Nikkal ***
Capitolo 9: *** Il profumo di casa ***
Capitolo 10: *** Pelle e cenere ***
Capitolo 11: *** Preghiera di Gennaio ***
Capitolo 12: *** Ostara ***
Capitolo 13: *** Oro ***
Capitolo 14: *** Eco ***
Capitolo 15: *** Il mare ***
Capitolo 16: *** Nemmeno il primo favo di miele ***



Capitolo 1
*** Lo Stetoscopio ***


Londra, 1852


(ascolta)
 
 
A Crowley non serviva bussare. Era un demone.
Non gli piaceva farlo e non lo avrebbe fatto. Inoltre, aveva sempre goduto nel sorprendere gli altri mentre si occupavano dei loro affari privati. Gli dava una sorta di potere, perchè per qualche secondo poteva spiarli, non visto, e imprimersi nella mente dettagli che – non si sa mai – sarebbero potuti sempre tornargli utili.
 
Quella volta non badò molto al fatto che l’angelo – come sempre – fosse trasalito al suo arrivo. Lo faceva sempre. Immancabilmente, anche quella volta era col naso in uno degli innumerevoli libri che accumulava nella sua libreria a Soho.
 
Il demone aveva una borsetta in pelle rigida sottobraccio. La posò con delicatezza sulla scrivania di Aziraphale.
“Angelo” disse “Sono tornato”.
“Sono un paio d’anni che non ci vediamo, Crowley. Dove sei stato?” gli rispose l’uomo biondo, mentre si alzava dalla scrivania, posando il libro che aveva tenuto in mano fino a qualche attimo prima.
 
Crowley lo osservò. Aziraphale era immutato ed immutabile, come lui d’altronde.
Sorrideva, come se fosse davvero lieto di vederlo.
 
“Sono stato in America. Ero curioso sai. Ho viaggiato un pò e sono stato ad Harvard, con tutti quei cervelloni”.
“Capisco. Vuoi un the?” gli chiese l’altro, affabile. Era in assoluto la sua bevanda preferita, la beveva ad ogni ora del giorno e della notte, dato che non dormiva quasi mai, ma non disdegnava il vino, che invece Crowley preferiva di gran lunga.
“Non bevo quella robaccia, se non sono costretto”.
“Beh io sì. Siediti sul divano, arrivo tra poco. Poi mi racconterai del tuo viaggio” gli rispose.
 
Crowley si sedette. Sentiva l’acciottolio della teiera e delle tazze provenire dalla cucina e, molto più piano, il crepitio appena udibile di un fuoco acceso. Teneva di nuovo tra le mani l’astuccio di legno ricoperto di pelle scura.
 
Aziraphale arrivò poco dopo, portando un vassoio con una teiera e due – DUE – tazze. Sbuffando, Crowley si allungò a prenderne una, mentre l’altro si lasciava andare ad un sorrisetto soddisfatto.
Crowley bevve in silenzio, sorseggiando quella bevanda che, suo malgrado, aveva il potere di riscaldarlo dall’interno,
 
“Ti ho portato una cosa. Un regalo per te” disse poco dopo, aprendo l’astuccio.
Al suo interno, un curioso strumento che Aziraphale non riusciva ad identificare. Sembrava qualcosa di medico, ma non ne capiva l’uso. Si trattava di una specie di tubo allungato in metallo, con una delle due estremità che si allargava come la campana di una tromba. L’altra estremità si divideva in due, con una V fatta di stoffa resinata che fungeva da giunto ad altri due tubicini ricurvi, più sottili. Questi, a loro volta, terminavano con una forma arrotondata. Aziraphale lo rigirava tra le mani, non comprendendo le ragioni (nè tantomeno l’uso) di quel curioso regalo.
 
“Grazie Crowley. Hem…Cos’è?” gli chiese, incuriosito.
“Uno stetoscopio. E’ una cosa che usano i medici, un brevetto nuovo”.
“Non ne ho mai sentito parlare. Gli umani sono sempre pieni di nuove idee! Come funziona?”.
 
Crowley sorrise leggermente con una delle sue solite smorfie e non rispose.
 
Poi si avvicinò ad Aziraphale. Gli si sedette vicino, sfiorandolo appena con la coscia contro la sua. Aziraphale non era scuro di averlo visto mai così da vicino. Avrebbe potuto contargli le ciglia, se solo si fosse preso la briga di farlo. O magari le lentiggini che aveva sul naso. Poteva sentire il suo respiro leggero. Per una manciata di secondi fu tutto quello che riuscì ad ascoltare. Spinto dal timore per quella vicinanza così inusuale, odiando la sua stessa voce, gli chiese “Caro, non vuoi rispondermi? A che serve?”.
 
Il demone aveva poggiato i suoi occhiali scuri sul bracciolo del divano, dimentico di loro in quel momento, e lo guardava con le iridi gialle dorate, allargate, a coprire la maggir parte della sclera. Poi, in silenzio, si sciolse la cravatta di seta scura che teneva sempre strettamente annodata al collo. Aziraphale rimase come paralizzato, senza sapere esattamente come comportarsi. Era assolutamente inappropriato come comportamento, ma per qualche motivo non riusciva a dirgli nulla. Qualche strano fenomeno gli aveva seccato la lingua e bloccato in gola le parole.
 
Crowley sciolse anche i primi bottoni della camicia, scoprendo un lembo di pelle chiara costellata di lentiggini, con una leggera peluria rossiccia, appena accennata.
 
Aziraphale a quel punto si riscosse e fece per alzarsi ma il demone lo bloccò, mettendogli una mano sul petto. L’atmosfera si fece tesa, palpabile. Il silenzio era assordante, come un vuoto che faceva pulsare le orecchie di entrambi.
 
Le mani di Aziraphale erano rimaste inerti ed inoperose sul suo grembo, insieme allo strumento che stava esaminando prima che Crowley si sbottonasse la camicia.
 
Fu lui a rompere il silenzio “Angelo, prendilo, metti questi nelle orecchie” gli suggerì, porgendogli lo stetoscopio con due mani. Aziraphale sistemò lo strumento nel modo indicato dall’amico e lo guardò con fare interrogativo “E adesso?”.
 
“Adesso ascolta”.
 
Crowley prese l’altra estremità dello stetoscopio, quella con la forma a campana, e se la poggiò sul lato sinistro del petto. Dapprima Aziraphale non sentì nulla. Poi, abituandosi al fastidio di quei tubicini che gli premevano nelle orecchie, iniziò a sentire un suono ripetuto, cavo, vagamente umido.
 
Un lampo di comprensione gli attraversò la mente. Alzò lo sguardo, con gli occhi un po’ lucidi dall’emozione.
“E’ il tuo cuore?” chiese. Crowley annuì.
 
Aziraphale ascoltò con più attenzione. Lo sentiva più forte adesso. Si concentrò sui pieni e i vuoti, sul loro ritmo, come incantato. Poggiò una mano accanto alla testina e con quella percepì la vibrazione corrispondente sul petto magro del demone. Socchiuse gli occhi, facendosi cullare dal suono ancora per un po’, poi si tolse le olivette dalle orecchie, porse lo stetoscopio al demone e gli sorrise di nuovo, mentre gli occhi gli si circondavano di minuscule rughe d’espressione.
 
Si tolse lentamente la fusciacca in tartan beige che usava come cravatta, sciogliendo il complicato nodo che la teneva e sbottonò la camicia bianca, fino a scoprire anche lui una parte del petto.
 
Crowley guardava la pelle serica, quasi translucida di Aziraphale, mentre lui arrossendo leggermente lo invitava a sua volta ad ascoltare il suo cuore.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Eden ***


Eden

(guarda)

Il serpente strisciava tra quell'erba soffice appena nata che gli solleticava leggermente le squame lucenti, nere come ossidiana con riflessi rosso rubino. Era un solletico piacevole, come una carezza che percorreva tutto il suo corpo possente e allungato, e lo faceva fremere di piacere.

 

Alzò la testa a forma di diamante per guardarsi meglio intorno: un giardino splendido, ricco di profumi, colori, probabilmente sapori. Assaggiò l'aria con la lingua, per trovare la traccia che cercava. Doveva salire sull'albero e aspettare. Aveva un compito molto importante, il PIU' importante: doveva far sì che gli abitanti di quel giardino disobbedissero a Lei, per poi disperdersi nel resto del mondo.

 

Ma nel frattempo doveva trovare l'albero.

 

Quando lo vide, finalmente, sotto di esso c'era un essere luminoso, seduto con la schiena appoggiata al tronco. Sembrava dormire.

 

Crawly – quello era il suo nome, in quel momento – lo guardò. Era un angelo.

Lo sapeva perchè ricordava ancora qualcosa della forma che aveva avuto prima di Cadere. C'era stato un tempo, forse eoni prima, in cui era stato anch'esso un angelo. Ricordava le ali candide e le vesti bianche, una cascata di riccioli rossi (così poco angelici, gli avevano detto) e gli occhi di un color nocciola purissimo.

Ora invece era un serpente. Splendido, sì. Possente, sicuramente. Ma il candore e la purezza erano lontani da lui migliaia di miglia.

 

Dunque, quell'angelo era un nemico. Era ovvio, così doveva essere, così era scritto.

Perchè lui, infido, si era ribellato mentre l'altro era rimasto fedele. Prima o poi avrebbero combattuto l'uno contro l'altro, nella battaglia finale.

 

Eppure Crawly non sentiva odio nei confronti di quell'essere addormentato. Non gli sembrava fosse pericoloso.

Si avvicinò silenzioso, per osservarlo meglio. D'altronde era appoggiato proprio sul SUO albero, quindi si sentiva in pieno diritto di andare a sloggiarlo, se solo ne avesse avuto voglia.

 

Quell'essere non gli sembrava particolarmente forte, nè prestante. Piuttosto era paffuto. Aveva la veste che si gonfiava leggermente all'altezza del ventre in una morbida curva. Le mani vi erano incrociate sopra, e affondavano leggermente, stropicciando un poco l'abito. Le guance erano appena cadenti, come se non fosse più esattamente nel fiore degli anni (strano poi, che avesse un corpo imperfetto). Le labbra però erano piene, con una marcata fossetta sul labbro superiore e i riccioli biondissimi sembravano soffici, impalpabili, più leggeri delle piume delle ali quasi. Si, perchè quell'angelo aveva le ali aperte, poggiate mollemente dietro di lui, che si aprivano ai due lati del tronco dell'albero di mele.

 

Per un attimo, Crawly si rammaricò di non potergli vedere gli occhi.

 

Tutto in quell'angelo emanava purezza, candore, benevolenza. Così tanta che il serpente avrebbe voluto sporcarla, perchè gli feriva quasi gli occhi e di certo il cuore. I demoni potevano avere un cuore? Non lo sapeva, ma la sensazione di struggente bellezza e abbandono che emanava dall'angelo assopito sembrava gli avesse colpito proprio quella zona dove sentiva il sangue scorrere più potente.

 

Quando lo vide iniziare a muoversi, si affrettò ad allontanarsi.

Non voleva che la sua missione fosse rovinata ancor prima che iniziasse.

Si nascose nell'erba più alta, in silenzio, pronto a scattare: d'altronde non poteva sapere se l'angelo fosse diverso da quello che si mostrava. Poteva essere aggressivo, violento, magari subdolo.

 

Crawly era acquattato nell'ombra, aspettando di poter occupare il posto che gli spettava sull'albero.

L'angelo si alzò, stiracchiandosi pigramente. Aveva gli occhi celesti, notò Crawly. Ovviamente, era un angelo, doveva per forza avere quegli occhi fastidiosamente gentili e innocenti.

 

Gli passò accanto, senza notarlo, e il demone lo spiò allontanarsi.

Camminava scalzo sull'erba, in silenzio, guardando con amore quello che aveva attorno.

 

Crawly serpeggiò verso l'albero e vi si arrampicò in silenzio, stringendo e allentando ritmicamente le sue spire. Da quella posizione, in mezzo alle foglie, riusciva ancora a vedere l'altro che camminava pigramente, probabilmente benedicendo questo o quel fiore.

 

Ridicolo, sibilò tra se e se.

 

Non si accorse che l'angelo si era voltato a guardarlo, quando era salito sul tronco, e che era rimasto per qualche attimo incantato a guardare le sue squame che luccicavano di nero e di rosso alla luce del sole.

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Capitolo 3
*** Di come Aziraphale convinse Crowley a bere il the ***


Londra, Exchange Alley, Ottobre 1657

(gusta)
 

Aziraphale in quel periodo abitava in un piccolo appartamento laddove il fiume Tamigi piegava a gomito verso sud. In quel periodo, chissà perchè, aveva preso la sana abitudine di alzarsi di buon ora per passeggiare.

Generalmente preferiva andare verso est, dove la città presto lasciava posto alle fattorie e ai campi coltivati dei dintorni di Londra. Quel giorno invece si diresse nella direzione opposta: aveva voglia di camminare in mezzo alla gente, di osservare l'operoso popolo di Londra intento nelle proprie occupazioni e magari di trovare un poco di compagnia, scambiare due parole. Di tanto in tanto un angelo aveva bisogno anche di quello, e in mezzo alla gente c'era sempre occasione di fare del bene.

 

Si avviò quindi verso le zone più centrali della città, camminando lungo l'argine del fiume. I contadini facevano la sua stessa strada, trascinando carretti carichi dei prodotti della terra di quella stagione: zucche, cavolfiori e addirittura delle patate. I più fortunati avevano anche uova e galline, che chiocciavano nelle gabbiette di legno, ignare del loro destino.

 

Aziraphale percorse circa due miglia in quella direzione, poi, prima di arrivare alla Torre, voltò verso le vie affollate del grande mercato della zona, Exchange Alley: la maggior parte dei contadini era qui che veniva a vendere le proprie merci. Le offerte gridate a gran voce riempivano l'aria, I bambini correvano tra I banchi, a piedi nudi nella terra fangosa.

 

L'angelo si fermò quando vide una piccola folla fuori una bottega che preparava caffè. Ci era già stato, ma non amava particolarmente quella bevanda. La trovava sgradevole, sapeva di bruciato, era spesso troppo densa e in qualche modo polverosa. Non si spiegava la folla al di fuori però, quindi si avvicinò incuriosito.

A quanto pareva c'era qualcosa di nuovo: una bevanda che il proprietario del posto, tale Thomas Garway, chiamava Cha o The, non era riuscito a capire bene con il vocio della gente. Si sedette e aspettò con calma il suo turno: non era certo cosa da angelo sgomitare per arrivare prima.

 

Finalmente, il gestore gli passò una tazza bollente, ripiena di un liquido trasparente e delicatamente tinto di un verde bruno.

 

La tazza calda era gradevole, a Ottobre iniziava a fare freddo a Londra. L'odore era pungente, ma addolcito da qualche nota fruttata. Aziraphale al primo sorso si scottò la lingua, curioso com'era di assaggiarlo.

 

Ma il sapore!

Oh, il sapore era sublime.

 

Vagamente amaro ma delicato e gli stuzzicava il palato in modo incredibilmente gradevole.

 

Con il passare del tempo Aziraphale divenne un po' un habituè di quel posto. Scoprì col tempo che il the era ricco di aromi e poteva cambiare moltissimo a seconda delle varietà: ce n'erano di forti e robusti, di leggeri come petali, di aromatici che lo portavano con la mente lontano. Poteva aggiungere del miele, o dello zucchero, se aveva voglia di un poco di dolcezza in più, mentre a volte lo beveva puro, per gustarne meglio il sapore. Poteva chiedere un'infusione lunga o breve e avrebbe avuto in cambio un gusto più forte o più delicato, ma dello stesso sapore. Ma più di tutto amava come lo riscaldava dall'interno, senza essere sgradevolmente bruciaticcio come il caffè: in poche parole era perfetto.

 

Riuscì anche a comprarne qualche oncia da portare direttamente a casa, in modo da poterlo preparare tutti i giorni senza dover per forza arrivare fino alla caffetteria.

 

Qualche tempo dopo, Crowley si trovò a passare per Londra, e decise di andare a trovare anche Aziraphale. Aveva i suoi compiti da svolgere, sia chiaro, ma una controllata al nemico era sempre prudente.

L'appartamento di Aziraphale era situato sopra una bottega in disuso, e Crowley si era chiesto più volte per quale motivo la tenesse così. Quel dannato posto era pieno di libri di ogni dimensione al punto che avrebbe potuto aprire una stramaledetto negozio per vendere quella roba, se solo fosse riuscito a separarsi da uno solo di quei tomi.

 

Aprì la porta senza occuparsi di bussare e per una volta, non trovò l'angelo intento nella lettura.

Esitante, chiamò Aziraphale, per controllare se fosse in casa. Non che gli interessasse, ma era meglio tenerlo d'occhio. L'Accordo che avevano stabiliva che non dovessero intralciarsi troppo, quindi era suo dovere sincerarsi che l'angelo non stesse tramando qualcosa alle sue spalle.

 

“Angelo? Ci sei?” urlò.

La voce di Aziraphale gli arrivò un po' ovattata da una stanza del retro “Crowley, caro!!! Siediti, arrivo tra un attimo!”.

 

Sedersi.

Dove, che era pieno di libri?

 

Trovò un piccolo spazio tra una pila di classici greci e un cumulo di papiri sparsi su quella che immaginava dovesse essere una scrivania. C'era una poltrona che incredibilmente non era stata ancora usata come supporto orizzontale per questo o quell'ammasso di carta.

Aziraphale arrivò poco dopo portando due tazze di coccio in mano, con un'espressione soddisfatta in volto. Gliene porse una e gli disse “Bevi! E' una bevanda nuovissima, viene dalle Indie addirittura, si chiama the!”.

 

Crowley annusò, sospettoso.

Non gli piaceva.

 

“Che cos'è questa roba, non ho intenzione di berla” - “Come no! E' fantastico! Ci sono tante varietà, puoi assaggiarne così tante diverse! Io oserei dire che sia una bevanda paradisiaca!”.

Il demone sussultò. Paradisiaca. Un motivo in più per non avvicinarsi nemmeno a una roba del genere.

“Non hai del caffè?” - “No. Bevi”.

“Non ho voglia di assaggiarla. Non mi convince.” - “Per l'amor del cielo Crowley è THE, non un veleno!”.

 

Crowley riprovò ad annusare. Odore invariato, sembrava amarognolo senza avere nemmeno lontanamente il gusto forte del caffè. Storse la bocca e poggiò quel coccio in bilico sull'ultimo dei tomi greci alla sua sinistra. Aziraphale lo guardò malissimo. Come se quel dannato demone non sapesse quanto ci teneva ai suoi libri!

 

“Bah, angelo, non sarà veleno ma ci va vicino” - “Cielo Crowley pensi davvero che potrei avvelenarti? Ecco, prendi la mia tazza, ci ho appena bevuto”. Gliela mise tra le mani e subito dopo tolse l'altra da quella pericolosa posizione.

Crowley era evidentemente ancora poco convinto.

 

Esasperato, Aziraphale si alzò in piedi, bevve un grosso sorso e posò un leggero bacio umido sulle labbra dell'esterrefatto demone. Quello rimase pietrificato per una decina di secondi, ma non riuscì comunque a non leccarsi le labbra dopo, assaggiando finalmente quel poco di the che Aziraphale vi aveva lasciato.

 

“Era così orribile il sapore?” gli chiese Aziraphale, che era tornato a sedersi sull'unico altro posto libero di tutto l'appartamento.

“Orribile, confermo” rispose Crowley con un'espressione disgustata sul volto.

Tenne la tazza in mano però, e tentò un sorso per conto suo. “Assolutamente orribile”.

 

Nonostante quello che continuò a dire per tutti i secoli a venire, comunque, Crowley non smise mai di bere il the che gli offrì Aziraphale.

 

Forse, per non dimenticare mai il sapore di quel giorno.

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Capitolo 4
*** Di nuovo, le nuvole ***


Zante, Grecia, 3200 circa a.C.

 

(sfiora)

 

 

Crawly era seduto con le gambe a penzoloni su di un'alta scogliera.

Guardava in basso, c'era un mare trasparente che rifletteva il colore del cielo. La vegetazione si era riuscita comunque ad arrampicare anche su quel lembo di roccia e cespugli odorosi la ricoprivano quasi del tutto.

Ci aveva messo un poco per salire, ma ne era valsa la pena: il paesaggio che poteva ammirare da lì era davvero meraviglioso, e Crawly poteva per un poco riempirsi gli occhi di tutta quella bellezza. Presto sarebbe dovuto tornare ai suoi compiti.

 

La terra gli piaceva.

Gli piaceva passare del tempo al sole, a scaldarsi, e gli piaceva guardare quel mondo cambiare, lentamente, sotto i suoi occhi. Gli umani erano vani e sciocchi e sembravano ancora dei bambini, ma lui aveva un debole per i bambini. Passava sempre più tempo tra di loro.

 

Per tentarli – si diceva – devi essere uno di loro, altrimenti non si fideranno mai.

 

Questo era lo scopo della sua presenza nel mondo, quindi era necessario capire, conoscere, affondare nella terra con le dita dei piedi. Toccare, assaggiare, vivere.

 

Passò un uccello sfrecciando velocissimo davanti a lui, e si gettò senza il minimo pensiero giù per quella scogliera, leggerissimo, scattante. Tutta quella forza e quel coraggio in un essere tanto piccolo. Insignificante. Eppure, con più coraggio di lui. Il demone sospirò.

 

Un tempo, quando era un angelo, anche lui aveva volato, e le sue piume candide splendevano al sole.

Ma poi c'era stata la Caduta. Lui era stato spinto via dal Paradiso, rigettato dagli altri angeli, abbandonato. Era stato dannato, e tutto il suo corpo si era fatto nero. Tenebra i suoi abiti, tenebra le sue ali. Come una sgraziata cornacchia con le ali spezzate, era stato condannato ad un'esistenza terrena, nascosta alla luce. Era diventato meno che una cornacchia: un serpente strisciante, incapace di elevarsi.

Era così che si sentiva Crawly: incatanato a quella terra, senza più il coraggio di guardare il cielo, indegno, infimo.

 

***

 

Aziraphale sapeva sempre, in qualche modo, dov'era Crawly.

Come l'ago di una bussola punta sempre verso il Nord, così Aziraphale aveva come un sesto senso, qualcosa che lo tirava proprio in quella direzione. Si incontravano, di tanto in tanto, nei luoghi più disparati. A volte parlavano, a volte si guardavano da lontano, ognuno intento a seguire i propri doveri.

Quel giorno un desiderio improvviso portò Aziraphale nei pressi del mare, su una spiaggia nell'isola greca di Zante. Un luogo che l'angelo non si sentì troppo in colpa dall'associare al paradiso, tanto era bello. Si sedette sulla sabbia e ci affondò le dita, tirandone su una manciata: microscopici frammenti di conchiglie, granelli luccicanti di quarzo, altri più scuri, quasi nerastri. Aziraphale non si stancava mai di meravigliarsi della bellezza del mondo, e La ringraziava per tutto quello che aveva creato.

 

Si sdraiò e stette per qualche tempo con gli occhi chiusi.

Quando li aprì, vide una chiazza rossa in cima alla scogliera poco distante da lui. Solo Crawly poteva avere una massa di capelli fiammeggianti così. Si mise una mano sopra gli occhi a schermare la luce del sole: era senz'altro lui. Si alzò e spiegò le ali, per raggiungerlo.

Si posò poco dopo a qualche spanna da lui, e si sedette nella sua stessa posizione, con le gambe a penzoloni nel vuoto.

 

Crawly non emise un fiato. Non si voltò nemmeno. Si limitò a continuare a guardare verso il basso.

 

“Mi manca sai” disse, dopo qualche minuto.

“Ti manca? Cosa ti manca?”.

“Volare. Mi manca volare. Non lo faccio da... beh, lo sai.”

 

Aziraphale lo guardò esterrefatto.

 

“Ma... Crawly. Perchè? Hai ancora le ali, no?”.

“Si, le ho. Nere. Questa è la mia natura angelo: sono fatto per strisciare. Per questo mi chiamo Crawly. Striscio. Sono un serpente, non un angelo”: Aveva scandito le parole, quasi sputandole una ad una. Violente, piene di amarezza.

 

“Crawly, i corvi hanno le ali nere, eppure volano” gli disse dolcemente Aziraphale. “Non sei un serpente. Forse ti chiami Crawly, ma puoi cambiare se solo lo vuoi”.

“Sono un demone. Sono già cambiato. Non posso tornare indietro, sono senza perdono”.

 

Crawly non si era ancora voltato verso di lui, ma adesso lo fece, e i suoi occhi dalle pupille verticali lo guardarono fissi, senza espressione. Aziraphale rabbrividì, suo malgrado.

 

“Vedi? Rabbrividisci”. Scrollò le spalle. “E' il mio destino e me lo sono costruito da solo. Non mi serve volare. Non mi servono le ali per andare dove voglio”.

 

Rimasero ancora per qualche tempo seduti su quella scogliera, persi nei loro pensieri.

 

Poi Aziraphale si alzò.

“Io le ho viste Crawly. Le tue ali. Sono uguali alle mie, hanno solo un colore diverso. Puoi volare esattamente come faccio io. Hai scelto di strisciare, non sei obbligato a farlo. Sei solo un vigliacco” gli disse, guardandolo con aria di sfida.

 

Il demone si alzò, fremente di rabbia.

“Come OSI dire una cosa del genere? Io sono quello che ha disobbedito a Lei, ricordi? Io ho combattuto, ho perso, è vero, ma ho combattuto nella ribellione, mentre voi angeli siete rimasti nelle vostre fortezze dorate! Siete voi i vigliacchi, voi che non avete avuto il coraggio e la forza di pensare con la vostra testa!”. Aveva quasi urlato le ultime parole, e le mani strette a pugno gli si stavano sbiancando sulle nocche.

 

“Dimostrami che non sei un codardo allora. Vola”.

Poi, Aziraphale aprì nuovamente le ali e si alzò qualche metro sopra di lui.

 

Crawly ribolliva dentro. Le ali gi spuntarono dietro alla schiena come un manto scuro, che quasi risucchiava la luce. Con pochi colpi, si trovò di fronte all'angelo, pieno di rabbia. Era pronto a combattere, ma Aziraphale stava sorridendo. Lo guardava, raggiante, con gli occhi che sembravano strappati al cielo dietro di lui.

 

 

“Sono bellissime...” si lasciò sfuggire.

 

 

Crawly non le guardò nemmeno. La sensazione di leggerezza era inebriante. Credeva di averla dimenticata, ricacciata in basso nei luoghi della mente dove evitava di andare. E invece era lì, come era sempre stata, quella meravigliosa sensazione di essere senza peso. Il vento gli sfiorava le barbe delle penne, andando a scompigliare la parte più soffice e piumosa, solleticandole lievemente. Socchiuse gli occhi, per concentrarsi solo su quello: il vento, le ali che lo sorreggevano, la leggerezza, il volo.

 

Quasi non si accorse quando Aziraphale gli prese la mano.

 

“Andiamo” disse l'angelo.

“Andiamo a toccare le nuvole”.

 

 

 

 

Miryel , che è una persona meravigliosa, mi ha regalato questo disegno. E io sono tanto tanto felice di aver fatto con lei uno scambio diverso del solito. P.S. se non leggete tutte le sue storie siete cattivi.

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Capitolo 5
*** Novembre ***


Londra, Novembre 1905

 

(annusa)

 

 

Crowley era rintanato nella libreria di Aziraphale. Appoggiò il naso sulla porta per guardare di fuori, ghiacciandoselo, lasciando poi un punto trasparente sui vetri appannati quando se ne staccò.

Pioveva, come al solito.

Pioveva sempre.

 

A volte si chiedeva per quale assurdo motivo avesse deciso di dimorare a Londra, considerando che non era certo un amante dei climi freddi e piovosi. Eppure era lì.

Nella solita libreria.

Insieme al solito angelo.

 

Si lasciò andare in una sorta di grugnito insoddisfatto, mentre camminando nervosamente su e giù per la stanza borbottava tra sè e sè, come una cantilena.

 

- Odio la pioggia - Odio le cose bagnate e fredde - Odio stare rinchiuso così - .

 

 

All'ennesimo sospiro, Aziraphale chiuse di scatto il libro che stava leggendo e gli disse “Per l'amor del cielo Crowley perchè non ti dai pace? E' Novembre, siamo a Londra, lo sai che piove spesso. Sei qui, non fuori, non sei bagnato, mettiti davanti al camino con la potrona e STAI FERMO”.

Il demone storse la bocca e si lasciò cadere sulla poltrona che gli aveva indicato Aziraphale. Suo malgrado, si allungò verso il fuoco che illuminava e scaldava gradevolmente la stanza. Si stirò un poco, come un gatto che fa le fusa, e poi si rannicchiò nuovamente.

 

“Si può sapere che ha la pioggia che non va?”.

“Se ricordi bene sono un serpente, e le cose fredde non ci piacciono”:

“Non ci credo. O meglio, sì, ma non credo ci sia solo questo. Perchè non me lo racconti? Passerai il tempo, e ti tranquillizzerai. Se vuoi, ti preparò un the nel frattempo”:

“Puah, the. Non hai di meglio?” - “Della cioccolata, se vuoi”.

 

Crowley emise un verso che poteva significare indifferentemente sì o no, ma non si lamentò quando Aziraphale gli mise tra le mani una tazza colma di cioccolata calda. Ne annusò l'odore pieno e gradevole, ed era quasi come pregustarne il sapore esclusivamente con l'olfatto, ancor prima che sentirla scendere calda in gola.

 

“Allora, vuoi spiegarmi perchè odi la pioggia così tanto?” gli chiese l'angelo, sedendosi sulla poltrona al lato opposto del camino.

Il fuoco scoppiettava allegro, in contrasto con il tempo da lupi che c'era fuori, e per qualche istante regnò il silenzio. La libreria di Aziraphale, in qualche modo, aveva sempre avuto il potere di calmare l'animo inquieto di Crowley, che si sentiva più a casa lì dentro che in qualunque altro posto. Cento volte più che nel suo appartamento a Myfair, mille volte più che all'inferno.

Era tutto un insieme di odori familiari che attiravano Crowley come un'ape verso un fiore: la legna bruciata (Aziraphale prediligeva la betulla, in quanto la superstizione diceva che scacciava gli spiriti maligni – non che questo fosse mai servito a tenere Crowley lontano da quel posto), la carta polverosa, il vago sentore resinoso del legno del pavimento, le varie fragranze di the mischiato al cioccolato e – più raramente – al caffè che l'angelo preparava esclusivamente per lui, e infine a quell'indefinibile profumo appena vanigliato che emanava dalla pelle di Aziraphale. Quello era odore di casa e di benessere, di chiacchierate e risate, di sbronze prese insieme, di tentazioni e punzecchiamenti.

 

Infine, Crowley disse in un soffio “E' per il diluvio”.

 

Aziraphale si gelò e gli si strinse il cuore. Quella cosa aveva ferito Crowley in profondità. Aveva cercato di mantenere un contegno di fronte all'arca, ma non aveva potuto esprimere prima stupore e poi, in seguito alla spiegazione che gli aveva dato, sdegno per quell'eccidio. Ricordava che aveva dovuto trascinarlo via, quando caddero le prime pesanti gocce di pioggia, e che poi Crowley si era rinchiuso in un mutismo che sapeva di accusa e rabbia. Come se Aziraphale fosse colpevole di una decisione presa da Lei. Come se lui avesse potuto fare qualcosa per contrastarLa.

Eppure, in fondo al suo cuore, l'angelo sapeva che Crowley in quel frangente aveva avuto ragione, e lui torto. Lui aveva avuto il coraggio di ribellarsi, e in occasioni come quella, forse, Aziraphale arrivava a pensare che non era del tutto sbagliato opporsi a una scelta così crudele. Poi però si ricordava che I demoni erano crudeli e infidi e facevano del male per il gusto di farlo, e il fatto che Crowley fosse uno di loro lo relegava comunque in quel regno. Anche se non aveva mai fatto qualcosa di veramente cattivo, soprattutto di fronte a lui, quella era la sua natura, no? Forse. Non era facile da giudicare e lui non voleva farlo. Lasciava quel pensiero sempre in sospeso, e cercava di ignorare il più possibile le emozioni contrastanti che provava.

 

“Mi dispiace... io... so quanto è stato difficile per te”.

“Già” si limitò a rispondere lui, laconico.

 

Il silenzio calò di nuovo.

 

Crowley, dopo qualche minuto, si volse verso Aziraphale e notò che stava sorridendo, e aveva la stessa espressione che gli aveva visto fare di fronte ai suoi dolci preferiti. Era un sorriso privato, gioioso, che gli arricciava leggermente gli angoli delle labbra e gli illuminava il viso.

 

“Perchè sorridi adesso?”

“Oh... un pensiero passeggero. Stavo pensando che a me invece la pioggia piace”.

“Perchè diamine ti piace? E' una punizione, non una cosa bella. Sono quelli delle tue parti che si divertono buttarci addosso acqua, e a guardarci correre tra una goccia e l'altra fino ad inzupparci completamente e a morire di freddo” grugnì, rabbioso.

 

“Beh, a me l'odore della pioggia riporta altri ricordi. Più antichi. Felici”.

Crowley sbuffò per l'ennesima volta in quel pomeriggio “Sentiamo allora, quale sarebbe questo ricordo felice?”

 

Aziraphale si voltò verso di lui, con un sorriso più timido, più riservato “Mi ricorda la prima pioggia. Il profumo della terra bagnata era fortissimo, forse perchè non lo avevo mai sentito, o forse perchè eravamo nell'Eden, non so. Tu ti riparasti sotto la mia ala, ricordi? La pioggia mi riporta immancabilmente a quel momento”.

 

Crowley rimase per un attimo spiazzato.

 

“Ogni volta che piove pensi a questo?” gli chiese poi, in un soffio.

“Sempre”, fu la risposta.

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Capitolo 6
*** Alpha Centauri ***


Venezia, Marzo 1610.

(osserva)

 

Aziraphale era sinceramente deliziato della conoscenza di quell'uomo tanto brillante.

Galileo Galilei, col quale aveva iniziato una corrispondenza nei primi anni di quel nuovo interessante secolo, era un uomo con la barba lunga e gli occhi intelligenti, e una parlantina decisamente affascinante.

 

L'angelo si era recato a Venezia in occasione della pubblicazione del Sidereus Nuncius, il trattato astronomico del quale aveva parlato tanto per lettera con il Maestro Galilei. La Serenissima in quel periodo si stava ancora riavendo dalla perdita dell'Isola di Cipro e da una fase di declino della sua potenza militare.

L'ambiente culturale e scientifico al contrario era estremamente attivo e Aziraphale si era concesso volentieri quel viaggio, sebbene non avesse ricevuto alcun ordine da parte del Paradiso di recarsi in quella zona. Ottenere una delle copie di quel trattato era un motivo più che valido per farlo spostare dalla fredda Londra. Inoltre Venezia era un luogo affascinante, e Aziraphale non si stancava mai di perdersi nei vicoli e attraversare I ponticelli che passavano sui canali.

 

Fu assolutamente un caso che il demone Crowley si trovasse di passaggio a Venezia proprio in quel periodo. Era richiesta la sua presenza più avanti a Torino, perchè l'Inferno sembrava avesse qualcosa contro la Spagna, e lui doveva oliare i giusti ingranaggi perchè venisse firmato un trattato a sfavore di quel paese.

 

Era il tramonto e Crowley stava in piedi affacciato su di uno dei canali, quando vide una figura conosciuta, su di uno dei ponticelli più avanti. Era Aziraphale che, avendolo notato, stava agitando il braccio per farsi vedere.

Crowley aggrottò le sopracciglia: si incontravano più spesso di quanto avrebbe pensato potesse succedere, erano passati meno di 10 anni dall'ultima volta, se ben ricordava.

 

Aziraphale si affrettò verso di lui, salutandolo con un certo calore, mentre Crowley rimase sulle sue, compassato e contegnoso.

“Mio caro! E' piacevole incontrarti qui nella bella Venezia. Cosa ci fai qui? Immagino nulla di buono, come sempre”.

“Come sempre. Ma sono qui diciamo in vacanza. Presto dovrò spostarmi più a Nord, i miei doveri mi chiamano”.

“Doveri? Cosa stai tramando?”.

“Non sssono fatti tuoi, angelo. Limitati a pensare a questa mia visita di piacere”:

 

L'angelo sospirò. D'altronde ognuno aveva i suoi compiti, e l'Accordo che avevano era chiaro: non intralciarsi troppo a vicenda. Si strinse leggermente nelle spalle “Beh, già che siamo entrambi qui in vacanza, come dici tu, ti mostrerò qualcosa di speciale” gli disse, e lo prese sottobraccio, incamminandosi decisamente verso la dimora di Mastro Galilei. Crowley rimase esterrefatto dall'audacia di quell'angelo, ma si lasciò trascinare, senza sapere esattamente cosa pensare.

 

Ormai erano sul calar della sera, e le luci si affievolivano. Le poche torce ai lati dei palazzi si riflettevano tremolanti nei canali, e l'atmosfera era decisamente suggestiva. Entrambi si fermarono per un attimo a guardare il cielo stellato. L'aria era ancora fredda, pur essendo Marzo, e un bel vento di tramontana aveva spazzato tutte le nubi. Crowley rabbrividì.

“Una serata perfetta!” esclamò Aziraphale.

“Perfetta per cosa? Fa FREDDO ancora” lo rimbeccò il demone.

“Oh lo vedrai” gli rispose l'angelo, sorridendo appena.

 

Giunsero infine alla casa del Maestro, che li accolse con calore. Crowley non aveva mai sentito parlare di lui, ma Galileo non se la prese. Aspettarono piluccando del cibo e bevendo un po' di vino che la notte calasse e ricoprisse di un manto scuro tutta la città. Poi, il padrone di casa li precedette nel solaio: lì c'era il suo studio, pieno di carte, disegni di ellissi e formule matematiche ovunque.

Di fronte alla grande finestra, Crowley vide un grosso tubo, con quelli che identificò essere pezzi di vetro convessi alle due estremità. Lo guardò incuriosito, mentre Aziraphale sorrideva soddisfatto.

 

“Maestro, volete mostrare al mio amico l'uso del vostro telescopio?” disse infine l'angelo.

Galileo gli spiegò come fare. Crowley si assicurò che fosse abbastanza buio perchè i suoi occhi non venissero notati, poi si tolse gli occhiali scuri e appoggiò un occhio ad una delle due estremità del cannocchiale.

Di colpo, le stelle – le sue stelle – si fecero vicine. Si ritrasse un attimo, sorpreso, poi tornò a guardarle attraverso quelle lenti. Erano davvero più vicine. Luccicavano di più, gli sembrava, e la sua mente corse al passato, ai suoi ricordi di un tempo in cui ancora le sue ali non erano nere e i suoi occhi erano di un caldo color nocciola, invece che gialli e freddi come adesso.

 

Le guardò ancora e ancora, spostando il telescopio via via che passavano le ore.

Le cercava, conosceva le loro posizioni, sapeva tutti i loro nomi. Era come ritrovare vecchi amici, in qualche modo. Si fece l'alba quasi senza che se ne accorgessero. Galileo si era addormentato con la testa appoggiata sulla scrivania, e Aziraphale era rimasto silenzioso accanto a Crowley, preferendo guardare l'amico più che il cielo.

Quando finalmente l'ultima stella scomparve e il chiarore del mattino iniziò a illuminare la città ai loro piedi, Crowley si trovò ad asciugare una minuscola lacrima (dovuta al fatto che aveva sbattuto con l'occhio sulla lente, ovviamente), mentre l'angelo gli poggiava una mano sulla spalla ossuta.

 

“Grazie” gli disse soltanto.

E poi, se ne andò.

 

 

Londra, Maggio 1689.

 

Crowley quasi si precipitò all'appartamento di Aziraphale, entrando come suo solito senza annunciarsi e alzando il tono di voce oltre il dovuto.

“Angelo, andiamo. C'è una cosa che devi vedere!” - “Per l'amor del Cielo Crowley, quando la finirai di entrare in questo modo? Cosa c'è che non possa aspettare nemmeno il tempo di un the?” - “Dimenticati il the. O meglio se vuoi ricordatelo, perchè stiamo per andare in India e potrai prendere il tuo preziosissimo the direttamente dalle migliori piantagioni” - “Starai scherzando, in India? E perchè mai?” - “Sta zitto e seguimi”.

Schioccò le dita e Aziraphale, sospirando, fece lo stesso.

 

Pondicherry, India, Maggio 1689 (qualche istante dopo).

 

Aziraphale fu investito da un'ondata di aria calda e odori totalmente diversi da quelli di Londra, speziati, piccanti, mischiati a quelli del mare.

“Dove ci troviamo Crowley?” - “Siamo nel sud dell'India. Vieni” gli disse, precedendolo.

 

Aziraphale si guardava intorno. La notte indiana sembrava differente da quella nota della sua accogliente, ordinata Londra. Il buio era più buio, il cielo più vicino e incombente, e scarse luci di focolari punteggiavano quel minuscolo centro abitato mentre Crowley si affrettava verso l'unica abitazione costruita interamente in muratura. Tutte le altre sembravano poco più che baracche e casupole di legno e fango. Aziraphale avrebbe voluto imprecare, ma sapeva di non potere, perchè si stava insozzando i pantaloni IRRIMEDIABILMENTE con tutto quel lerciume per la strada: non c'era nemmeno un accenno di selciato, e tutto sembrava abbandonato e fangoso.

 

Quando finalmente arrivarono all'abitazione, questa sembrava vuota. Aziraphale guardò Crowley incuriosito e questo gli fece segno di rimanere in silenzio. Si insinuarono all'interno, dove tutto era buio, fino ad arrivare in un'ampia sala in cui l'angelo, accanto alla finestra, riconobbe un altro telescopio: forse un poco diverso da quello che aveva visto circa 80 anni prima, ma sicuramente non poteva sbagliarsi.

“Crowley, ragazzo mio, mi hai fatto arrivare fino in India per farmi vedere le stelle? Buon Cielo, le stelle sono anche in Inghilterra!” disse, bisbigliando. Crowley lo guardò con sufficienza “Non le stelle angelo, una stella”. Gliela indicò col dito, e Aziraphale si avvicinò con la testa al braccio del demone, per seguire meglio la traiettoria che gli indicava. Una stella giallastra, luminosa sì, ma non diversa da tante altre.

 

“Non capisco” disse.

“Quella angelo, è la costellazione del Centauro. E quella” disse cercando di indicare al meglio la stella in questione “è Alpha Centauri”. Aziraphale non rispose.

Crowley sbuffò “Vieni, guardala da qui”. Posizionò il telescopio trovando l'angolazione giusta, poi si spostò per fare spazio all'angelo.

“La vedi?”.

“E' una stella, la vedo” disse Aziraphale spazientito “Oh no, aspetta. Non è una stella. Sono due! Ma com'è possibile?”.

“Quello angelo è un sistema binario. Sono due stelle, solo che da qui, senza telescopio, ne vediamo una sola”.

“E'... incredibilmente affascinante mio caro ma... perchè volevi mostrarmela?”.

 

Crowley sbuffò ancora. Poi, con voce bassa, appena udibile, disse “Ruotano attorno l'una all'altra, senza sfiorarsi mai. Arrivano vicine, Alpha Centauri A e B, anche molto vicine, e poi si allontanano. Eppure restano lì, in quel pezzo di cielo. A girarsi intorno.”

 

Un barlume di comprensione attraversò Aziraphale, quando si rese conto che quella stella aveva le stesse iniziali dei loro nomi, Aziraphale e Crowley. Gli si gonfò il cuore per un attimo di una sensazione indefinibile. Calore, soprattutto, e altre cose che non si soffermò a indagare. Lo guardò, mentre Crowley continuava a guardare il cielo, senza voltarsi verso di lui.

 

“Vuoi raccontarmi ancora di questa stella?” gli chiese l'angelo, appoggiando di nuovo l'occhio al telescopio.

 

La notte si fece vecchia e spuntò una pallida alba, mentre il demone ancora gli stava parlando delle stelle.


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Capitolo 7
*** Sale ***


Betlemme – Anno Zero.

(lecca)

 

Era stato un grande giorno per Aziraphale. Per lui, e per tutti coloro che venivano dal Paradiso. In molti, più o meno in silenzio e in privato, avevano osservato la nascita del loro Signore.

 

Un bimbo, è solo un bimbo.

 

Aziraphale era sì felice, ma anche preoccupato. In fondo, su quell'unico bambino gravava il peso di una enorme responsabilità. Era così piccolo. Il libero arbitrio che gli uomini avevano ottenuto migliaia di anni prima avrebbe fatto sì che lui, per quanto Figlio di Dio, avrebbe potuto scegliere la sua strada. Aziraphale si augurò che la vita non fosse troppo dura con quel povero piccolo.

 

***

 

Re Erode, nel suo palazzo a Gerusalemme, aveva sentito parlare di quel bambino, questo neonato che veniva chiamato il Re dei Giudei. Nessuno poteva appellarsi di quel nome, a parte lui. Aveva ordinato a quegli stolti Magi di mostrargli il bambino, ma quelli avevano intuito il suo tentativo di inganno e non erano tornati a riferirgli nulla. Come sempre, avrebbe trovato da solo la soluzione.

 

Poco importava che lui non conoscesse l'identità del bambino: si sarebbe sbarazzato di tutti quelli nati nel villaggio negli ultimi due anni. Betlemme era un piccolo centro, e da quello che gli riferirono i suoi funzionari, non dovevano esserecene più di una ventina. La gente si sarebbe lamentata, ma lui avrebbe fatto passare a fil di spada tutti quelli che si sarebbero opposti.

 

Venti piccole anime che non aveva alcun rimorso a sacrificare, per conservare il suo trono.

 

***

 

Aziraphale svegliò Giuseppe nel cuore della notte.

 

“Devi scappare” gli disse, circonfuso di luce e con le ali spiegate “Prendi tua moglie e il tuo bambino e vattene. Non siete al sicuro. Tornerete quando i tempi lo permetteranno” aggiunse, con un tono forte e squillante, che non ammetteva repliche. Poi, divenne sempre più luminoso e accecante e scomparve alla sua vista.

In silenzio, aspettò che Giuseppe e Maria radunassero le loro poche cose e si mettessero in viaggio. Solo quando li vide allontanarsi dal villaggio e camminare frettolosamente nel buio, si permise di tirare un minuscolo sospiro di sollievo.

 

Era riuscito a salvare il Figlio di Dio, ma la notte era ancora lunga.

 

Si torse le mani, impotente. Perchè Lei permetteva quelle cose? Erano solo BAMBINI. Non meritavano tutto questo.

Udì le urla che venivano da una casa vicina. I soldati di Erode si allontanavano, col sangue che gli gocciolava scuro e osceno dalle spade corte. Una madre piangeva, in ginocchio, con un fagotto inerte tra le braccia, mentre il marito di lei era semi sdraiato a terra, svenuto, con una una chiazza rossastra che gli imbrattava una delle maniche della tunica strappata.

Insieme a loro, una figura abbigliata in lunghe vesti nere e scarmigliata, con una massa di capelli rossi fiammeggianti anche nel pieno della notte, urlava di rabbia impotente.

 

Crowley.

 

Non lo aveva mai sentito urlare così. Nemmeno di fronte alla prospettiva del diluvio.

Ebbe timore di lui. Timore della sua rabbia, timore del suo sguardo che – lo sapeva – sarebbe stato accusatorio. Rimase immobile a guardarlo a distanza di una ventina di metri. Crowley alzò lo sguardo, le pupille verticali ridotte ad una fessura quasi invisibile, gli occhi velati di pianto. L'espressione era folle, così piena di dolore che Aziraphale pensò che non lo avesse nemmeno riconosciuto, nemmeno visto.

 

Non potè aspettare oltre.

Quello sguardo lo avrebbe tormentato per secoli: lo aveva trapassato come una lama di ghiaccio e si sentiva sanguinare, come se gli avesse squarciato il cuore. Ancor più che la strage di quei poveri innocenti erano stati gli occhi di Crowley. Demone, ma più umano degli stessi umani, in grado di pensare a eccidi tanto orribili. E lui si sentì inutile, inerme.

A cosa era valso salvare il Figlio di Dio, se gli altri figli di Dio morivano così? Si uccidevano l'uno con l'altro, senza pietà, senza rimorso, senza curarsi di null'altro che la propria ambizione.

 

Corse verso Crowley, dimentico dei suoi timori di un attimo prima.

Lo strinse, lo portò via lontano, mentre il demone continuava ad urlare frasi incoerenti verso le stelle, verso Dio, verso chiunque. Crowley pianse e pianse, gridando, finchè non gli rimase altro che il vuoto e un dolore sordo, intollerabile.

Si rese conto che Aziraphale lo stava ancora tenendo stretto. Era rimasto con lui.

 

La notte stava volgendo alle prime luci dell'alba, e un vago chiarore azzurrino, freddo, li illuminava entrambi.

 

“PERCHE'?” disse soltanto, in un ultimo, debole ansito.

“Io... non lo so” rispose l'angelo con la voce rotta.

 

Aziraphale allungò un dito a sfiorargli il volto scarno. Poi, gli posò le labbra su una guancia: sentì sulla lingua il sapore salato e puro di un'ultima lacrima, scesa clandestina quando il demone credeva di non averne più neanche una.

 

“Non lo so” ripetè “Perdonami”.

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Capitolo 8
*** Il canto di Nikkal ***


Ugarit, Siria – 1400 A.C.

(vibra)

 

La terra era calda di sole, gonfia di frutti, pronta a donarli all’umanità.

Era stato un anno ricco e ora volgeva al termine con la raccolta delle messi e degli ultimi frutti. Presto avrebbe lasciato posto agli ultimi soli caldi dell’autunno, per poi passare al quieto e silenzioso inverno. Il ciclo delle stagioni era fisso ma allo stesso tempo mutevole e regalava sempre emozioni per chi, come Aziraphale, aveva la capacità e soprattutto la possibilità di vederlo scorrere centinaia e centinaia di volta. Eppure lui trovava che ad ogni nuovo inizio, quando le prime foglie novelle spuntavano timidamente sui rami degli alberi, ci fosse qualcosa di nuovo. Si arricchiva, di stagione in stagione e di anno in anno. Accumulava ricordi, serbati nella sua mente acuta e intelligente, come un infinito archivio della vita del mondo.

 

Le possibilità di muoversi per lui erano pressochè illimitate, ma si trovava a Ugarit per la prima volta.

La città si trovava su di una collina che si affacciava sul Mediterraneo, e godeva della meravigliosa vista del mare che, ogni giorno, inghiottiva il sole per lasciare posto alle stelle e alla luna che facevano luccicare l’acqua di riflesso.

 

Era proprio uno di quei momenti. Il sole stava annegando silenziosamente, lasciando che gli ultimi raggi tingessero di rosso le piane che separavano Ugarit dal mare.

Aziraphale stava seduto pigramente su un basso muretto a secco, quando la quiete del tramonto venne interrotta da una serie di suoni metallici, dissonanti eppure affascinanti.

 

L'angelo si diresse verso quella strana musica, attratto suo malgrado.

 

Coi capelli lunghi che ricadevano sulla schiena in un groviglio di riccioli ramati, resi ancor più fiammeggianti dalla luce del calar del sole, Crowley era seduto su un grosso masso e gli dava le spalle. Ne riusciva a vedere solo in parte il profilo severo con il naso leggermente adunco, il mento piccolo e appuntito, le labbra sottili e tese. I suoi begli occhi d'oro chiusi e con le sopracciglia leggermente aggrottate.

In mano teneva uno strumento musicale con 9 o 10 corde, non riusciva a distinguerle bene da lì: era un kinnor, chiamato anche lira di Megiddo. Crowley le pizzicava, traendone suoni a volte in rapida successione, altre volte più lenti. I toni erano calanti, vibrati, in scale a cui lui era poco avvezzo. Eppure quella melodia lo affascinava incredibilmente. Parlava di luoghi lontani. Era malinconica, a tratti gelida, a tratti struggente.

 

Aziraphale si accovacciò appoggiato al tronco di un albero, ad ascoltare. Sperò che Crowley non lo avesse notato, perchè non voleva interrompere quella meraviglia.

 

Le dita ossute del demone artigliavano le corde quasi rabbiosamente e un attimo dopo le accarezzavano con reverenza, quasi con amore. Come potesse un singolo strumento riempire l'aria di così tanta emozione Aziraphale non avrebbe mai saputo dirlo.

 

Sembrava non seguire uno schema preciso. Quello che suonava sembrava solo correre dietro ai pensieri tumultuosi del demone. A un tratto il ritmo si fece più ossessivo. Divenne una danza. Le note erano più brevi, più ravvicinate, le mani magre correvano agili sulle corde, trovando la posizione giusta, l'accordo perfetto.

 

Rapidamente come aveva iniziato, smise.

Tirò indietro i capelli che gli erano ricaduti sul viso con un movimento rapido del capo e si sedette meglio, per trovare una posizione più comoda.

 

Tornò a suonare, riprendendo la musica dove l'aveva lasciata.

Quando a un tratto accompagnò i suoni con la voce, Aziraphale si rese conto di trattenere il fiato. Crowley aveva una voce chiara e limpida e cantava una melodia senza parole. L'angelo invece riuscì a sentirci tutte le storie del mondo. Parlava della fine dell'estate e della dea che regalava i suoi frutti agli amati figli. Parlava del pianto di un bimbo appena nato, delle risate di un innamorato, del lamento di una vedova. Canti di guerra, canti d'amore, il dolore di un cuore spezzato.

 

Più di tutti, quello.

 

Crowley cantava per se stesso, per le sue ali nere e per il Paradiso perduto. Per le nascite e le morti, per il corso del tempo e per il creato intero.

Senza aver usato alcuna parola reale, aveva cantato di ogni sua esperienza, ogni suo pensiero rabbioso e infiammato, ogni suo dolore e ogni sua vittoria.

 

Aziraphale ascoltava incantato, rinchiuso in una bolla fatta di un sole morente, delle vibrazioni di quella musica improvvisata, del profilo adunco di Crowley e dei movimenti delle sue labbra, del pomo d'adamo sul collo magro che modulava la voce, delle vibrazioni dissonanti del kinnor.

 

Non si accorse quasi quando la musica terminò, tanto era perso nell'immaginazione. Si riscosse, frastornato, col cuore traboccante di troppe emozioni, gli occhi gonfi di lacrime che non sapeva di aver pianto. Si rese conto che Crowley lo stava fissando, gelido, con le pupille verticali, strette in due sottili fessure. Il contrasto con l'espressione assorta e rapita di appena poco prima fu come uno schiaffo. L'angelo si rese conto di aver interrotto un momento privato, e si sentì impacciato, di troppo.

 

Balbettò qualcosa a mo' di scusa, prima di voltarsi goffamente e allontanarsi.

 

Crowley lo lasciò andare, seguendolo con lo sguardo.

 

***

 

Crowley si era accorto della presenza di Aziraphale ancor prima che lui arrivasse su quella collina: era sopravento rispetto a lui e l'odore della sua pelle era inconfondibile. Il demone lo aveva sentito e aveva deliberatamente scelto di cantare. Non aveva usato parole, ma era certo che Aziraphale avrebbe compreso. Aveva voluto che Aziraphale lo ascoltasse.

 

Ma questo sarebbe rimasto per sempre un suo segreto.







Note.
Perdonatemi, qui una nota è d'obbligo. I canti hurriti sono la più antica melodia di cui ci sia arrivata notizia, e di uno in particolare, il canto di Nikkal, ci sono arrivate anche le istruzioni su come suonarlo: Veniva utilizzata una sorta di lira che è appunto il kinnal. Questo tipo di lira è di origine siriana, ma in Israele lo stesso strumento è noto anche come Lira di Megiddo. Il richiamo era troppo forte e non potevo non sfruttarlo. Se siete interessate, questa è la melodia. L'ho immaginata accompagnata da un canto, anche se non ne abbiamo le parole. Godetevela, ed innamoratevi di queste terre lontane e misteriose: https://www.youtube.com/watch?v=QpxN2VXPMLc


Una donna meravigliosa di nome Martina ha amato questa storia e ha deciso di regalarmi un disegno. Non so come esprimere l'emozione che mi ha dato. Seguitela su Instagram perchè è bravissima e meravigliosa. Grazie <3


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Capitolo 9
*** Il profumo di casa ***


Fulda, Germania, 1455

 

(annusa)


 

Erano ormai parecchi anni che quel monaco dai capelli chiarissimi, quasi argentati, dimorava nell'abbazia benedettina di Fulda.

L'abate Erinhard da Whelnau era un uomo pio ma dal pugno di ferro, e osservava spesso i suoi frati perchè fossero ligi alla regola del loro fondatore Benedetto. Non tutti loro erano perfetti. C'erano battibecchi, a volte qualcuno mostrava ambizioni o inclinazioni poco adeguate alla loro scelta di vita, ma non quell'uomo, il quale oltre ai modi aveva anche un nome angelico, Aziraphale. Era quieto, silenzioso, passava quasi tutto il suo tempo nello scriptorium.

 

La verità era che per Aziraphale quello era un luogo di beatitudine. Non esisteva nulla di meglio per lui che vivere in mezzo alle sue pergamene, traducendo da lingue antiche e ormai dimenticate testi di ogni genere. Amava farlo, amava i libri che venivano meravigliosamente abbelliti dai frati miniatori. Amava la trama spessa della carta, le lettere appuntite che la adornavano, amava il pigro grattare dei calami delle penne, il fruscio dei fogli che venivano spostati una volta terminati e perfino il basso brusio che di tanto in tanto riecheggiava nello scriptorium. Ma più di ogni altra cosa, amava il profumo della carta. Che fosse nuova, appena preparata, o antica di secoli, ognuna aveva quell'odore familiare che lo faceva sentire sempre a casa.

Se qualcuno glielo avesse chiesto non avrebbe saputo dare una risposta precisa. Aziraphale non indugiava spesso su questo tipo di pensieri perchè, semplicemente, non era tipo da dare troppa importanza alla sfera sensoriale. Era un angelo, un essere emanato direttamente da Dio nella Sua saggezza, e aveva un corpo materiale solo perchè ne aveva bisogno. Non poteva indulgere sui piaceri fisici, ma non poteva nemmeno impedire al suo corpo sentire.

Quel tipo di profumo era sempre stato incredibilmente bello e puro per lui, perchè foriero di immagini, saggezza, meraviglia. Era sì un piacere, ma sublimato, perfetto.

 

Quel giorno sembrava che ci fosse fermento in abbazia. Perfino Aziraphale scese nella corte ad ascoltare il vocio eccitato dei frati. Un messaggero era arrivato per invitare l'abate a Magonza, distante appena qualche giorno di cammino (poco meno a cavallo), per osservare una nuova invenzione di un orafo che prometteva di riuscire a produrre un intero libro in pochi giorni invece che in mesi. Sembrava incredibile.

Così incredibile che l'abate si rifiutò di compiere un viaggio e di allontanarsi dal monastero per una sciocchezza simile. Aziraphale invece, incuriosito, gli chiese licenza di poter seguire il messaggero fino a Magonza per poi riportare presto notizie. Erhinard glielo concesse.

 

Aziraphale era avvezzo a cavalcare, sebbene non gli piacesse, e il viaggio durò solo tre giorni.

Magonza era poco più che un villaggio a quel tempo. Non differente da tanti che aveva visto in passato.

 

Il messaggero lo portò direttamente alla casa di Mastro Johannes Gutenberg. Qui Aziraphale venne salutato con la deferenza che si confaceva a un monaco benedettino, e venne portato immediatamente a vedere quella nuova meraviglia.

Era incredibile vedere quell'uomo comporre una lastra con centinaia di caratteri, ognuno dei quali rappresentava una lettera. Ancor più incredibile vedere come quel torchio riuscisse ad imprimere sulla carta una pagina intera in pochi secondi. Aziraphale osservava il foglio finito tra le mani con infinita meraviglia, il cuore che batteva e il pensiero che correva in avanti, intuendone le possibilità infinite.

Il sapere non sarebbe andato perduto. Sarebbe stato trasmesso, ampliato, decuplicato. E così i trattati, i pensieri umani, perfino, chissà, le loro emozioni. Fino a quel giorno era stato impossibile scrivere altro che di grandi argomenti, ma il futuro gli sembrava ricco di promesse e gli si riempì il cuore di orgoglio per quella meravigliosa umanità, che era in grado di stupirlo con la sua inventiva, che ogni volta gli insegnava qualcosa.

 

Londra, 1960 circa

 

Seduto alla sua scrivania, l'angelo stava ricordando quei giorni.

Nella sua lunga, lunghissima vita aveva perso molte cose e molte le aveva semplicemente lasciate andare. I libri erano la sua unica costante da quando erano stati inventati, parecchie centinaia di anni prima. Come aveva previsto la stampa aveva permesso la diffusione dei libri, della scrittura e della lettura.

A volte Aziraphale si sentiva quasi travolto. Prima la vita scorreva lenta, seguiva il ritmo del sorgere del sole e l'avvicendarsi delle stagioni. Gli ultimi cento anni erano stati invece una corsa a ritmo sempre più rapido e tutto era troppo cambiato perchè lui tenesse il passo. Viveva in quel suo angolo a Soho in cui aveva fermato il tempo e si era circondato delle cose che più amava. Profumava di casa perchè era piena di libri. Ne aveva accumulati tantissimi di epoche disparate e li conservava gelosamente perchè ognuno di essi celava un ricordo.

Una conversazione con Galileo Galilei. Un miniaturista benedettino dai capelli fulvi che gli aveva sempre fatto pensare a Crowley, per quanto quel paragone fosse assurdo. La perduta biblioteca di Alessandria, di cui aveva pochissimi papiri bruciacchiati. John Keats, con la sua passione e i suoi grandi occhi tristi. Platone. Charlotte Bronte, Milton e Blake e centinaia di altri. Le loro vite e le loro menti brillanti, i loro cuori traboccanti di immagini erano racchiusi in tutta quella carta, e lui non avrebbe mai dimenticato quanto gli avevano donato nel corso del tempo. Per questo, di tanto in tanto, li apriva e ci poggiava il viso, ad inalare passato e ricordi. Per questo i libri erano i suoi migliori amici.

 

Crowley entrò nella libreria proprio mentre Aziraphale formulava quell'ultimo pensiero.

 

L'angelo si scrollò di dosso la dolce malinconia che lo aveva avviluppato e gli sorrise, accogliendolo con calore.

In un piccolo rituale che seguivano da ormai molto tempo, gli preparò il solito the che il demone accolse con la solita malagrazia e i soliti sospiri malcelati, a significare che avrebbe preferito altro.

 

La libreria di Aziraphae era per Crowley un luogo da cui poteva escludere i suoi pensieri confusi, il caos interiore, il fuoco che gli ardeva dentro e che gli bruciava la mente. Li lasciava sull'appendiabiti insieme alla giacca e li indossava di nuovo quando usciva.

L'odore di quel posto, quello del the e della carta polverosa erano familiari e accoglienti, e lui si accontentava di quello in fondo: un po' di oblio. Ma più di tutti quelli la sottile, quasi impercettibile fragranza antica e dolce che gli accarezzava le narici ogni volta che era vicino ad Aziraphale.


Quello, per lui, era odore di casa.

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Capitolo 10
*** Pelle e cenere ***


 

Londra – 1666

(brucia)

 

Le ultime propaggini d'estate gocciolavano via lente.

Era stato un Agosto eccezionalmente caldo, quasi soffocante a tratti, ma prevedendo che come sempre l'autunno avrebbe portato interminabili piogge, freddo e malattie, i londinesi cercavano di goderne ogni singolo attimo. Ci sarebbe stato il tempo in cui sarebbero presto tornati col pensiero a quei pomeriggi pigri, immobili, illuminati da quel sole tanto generoso.

 

Aziraphale aveva conosciuto altri mille soli e non se ne curava: il caldo, come il gelo o la pioggia, lo sfioravano appena. Continuava con le sue ricerche, le sue occupazioni giornaliere, in un cerchio raramente interrotto.

 

Era stata una notte meravigliosa e piena di stelle quella del primo di Settembre. Aziraphale l'aveva accolta con una certa malinconia e aveva pensato a Crowley, perso chissà dove. Erano anni che non si vedevano. Represse subito il pensiero e si concentrò sul libro che stava leggendo. Il vento, cresciuto durante la notte, fischiava lugubre. Le ore passavano lente.

Quando iniziò a sentire puzza di bruciato era ormai il primo pomeriggio. L'odore si fece strada verso di lui sinuoso, sottile ma pungente, attraverso le finestre del suo appartamento a ovest del centro di Londra. Non se ne accorse da principio, ma diventò sempre più sgradevole e gli pizzicò le narici, facendogli storcere il naso.

Si affacciò alla finestra, spalancandola, ma non riuscì a scorgere nulla.

 

In quel momento la porta della bottega al di sotto dell'appartamento si aprì con violenza.

Una voce nota lo chiamò, con urgenza “Angelo, vieni. Dobbiamo andar via”.

 

Crowley.

Che succedeva?

 

Aziraphale scese lesto le scale e lo trovò in piedi, con un'espressione preoccupata, le spalle tese, nervose, e le dita che si stringevano su un bastone da passeggio.

“Angelo, andiamo via. Non puoi stare qui”, disse.

“Ma cosa succede Crowley?”.

“E' scoppiato un grosso incendio. Non si fermerà, devasterà Londra. Perfino... i miei superiori mi hanno detto di andar via. Non c'è nulla da fare: la città è condannata”.

 

Il primo pensiero di Aziraphale andò ai suoi libri. Ne aveva accumulati un buon numero e non poteva abbandonarli. Subito dopo si vergognò di questo pensiero. Deglutì un paio di volte e poi alzò lo sguardo, addolorato ma fiero.

“Non me ne andrò. La gente potrebbe aver bisogno di me. Di noi” aggiunse guardandolo dritto negli occhi.

“Mi hai sentito? La città è spacciata! Non pensi ai tuoi libri? Non pensi al tuo corpo?”.

“Dal paradiso non ho avuto alcuna notizia, quindi vorrà dire che resterò e aiuterò ove mi sia possibile. Devo proteggere gli umani... non i miei libri” disse, coraggiosamente.

“Sei impossibile. Non resterò a vederti bruciare. Addio Aziraphale” gli rispose il demone, voltandogli le spalle e uscendo da lì, lasciandosi dietro l'impressione di aver gelato il pavimento laddove era passato.

 

Aziraphale aspettò qualche istante.

Poi, prese il cappello e il bastone e si precipitò di fuori.

 

Quando infine raggiunse il punto dove era scoppiato l'incendio, si rese conto che Crowley aveva ragione. Non era normale, non era possibile che Londra si fosse trasformata in quel rogo in così poche ore. I tetti di paglia, asciugati dai tanti giorni di sole, erano invasi da fiamme alte parecchie braccia (1). Le strutture delle case sembravano ardere di una luce propria: il fuoco aveva attecchito dalle fondamenta e stava bruciando ogni cosa. La cosa più atroce erano le urla. Le persone imprigionate che stavano bruciando vive gridavano di dolore, chiedevano di essere salvate, chiedevano la morte. Altrove, solo urla inarticolate, dolore puro concentato in un suono disumano.

Per quanto Aziraphale non fosse mai stato all'Inferno, non riusciva a pensare che potesse essere troppo diverso da quello.

 

Lui, che era sempre stato posato, tranquillo, meditativo, agì d'istinto e corse insieme a tutti gli umani per cercare di spegnere quel rogo orribile.

 

Giunse la notte e le fiamme illuminavano ancora la città, spuntando come fiori incandescenti dopo essere state trasportate in minuscole scintille dal vento che non aveva mai smesso di soffiare.

 

***

 

Crowley si era allontanato sbuffando. Sciocco angelo. Cosa pensava di fare, salvare l'intera città?

Camminò velocemente, a lunghe falcate rabbiose. Era impossibile, avrebbe dovuto capirlo. Non sarebbe nemmeno dovuto andare ad avvisarlo.

Idiota.

 

***

 

Quando tornò indietro, all'appartamento, tormentato da immagini di un angelo in mezzo alle fiamme, Aziraphale non c'era più. La porta era stata lasciata aperta, negletta. Come se quel posto non appartenesse più a nessuno.

Crowley fu colto da una sensazione di panico: non sarebbe dovuto andar via. Avrebbe dovuto trascinarlo, stordirlo se necessario. Non era preparato a quello. Non alle fiamme. Non a quel rogo orribile.

 

Corse verso il centro dell'incendio.

 

***

 

Lo trovò ore più tardi, dopo aver gridato a lungo il suo nome. Era il mattino del 3 Settembre e l'incendio non accennava a smettere, dopo oltre un giorno intero.

Aziraphale era accasciato accanto a una fontana, esausto, coperto di fuliggine. Non sembrava nemmeno vivo. Crowley lo scosse e lui aprì gli occhi, di un azzurro cupo e disperato “Sei qui. Sei tornato” . “Perdonami angelo, sono qui, ora”.

 

***

 

Ci vollero giorni interi prima che l'incendio venisse domato. Nuovi focolai si accendevano a distanza di poche ore l'uno dall'altro e tutti gli uomini e le donne capaci di muoversi collaborarono per spegnerli, uno dopo l'altro. Tossivano, piangevano, gli occhi e i polmoni si riempivano di fumo, ma nessuno cedette. Perseverarono, corsero fino a crollare dalla stanchezza, non dormirono, a volte dovettero cedere il campo e abbandonare, tra le lacrime, le loro case, i loro amici, i loro parenti. I loro figli.

 

Insieme a loro, due creature sovrannaturali combatterono al loro fianco.

Trasportarono acqua con loro. Piansero con loro. Trascinarono via madri in lacrime, bambini spauriti con gli occhi vuoti e nessuna lacrima rimasta da versare. Centinaia di vite spezzate.

Il Grande Incendio di Londra non risparmiò nessuno. Passò sulla città come la mano di Dio su Sodoma e Gomorra,e rimase ben poco altro che cenere e carcasse bruciate.

 

***

 

Il 6 di Settembre un angelo e un demone si trascinarono lontano da quella che era ormai una distesa arida di strutture carbonizzate, e morte, e pianto. Entrambi avevano la pelle nera di fumo. Righe biancastre e slavate si allungavano sulle gote tonde di Aziraphale, laddove le lacrime avevano strisciato verso il basso. Si sedettero sui gradini che portavano all'ingresso della casa dell'angelo, rimasta miracolosamente intoccata: l'incendio si era fermato solo qualche casa prima.

Aziraphale si strinse le braccia al corpo e sussultò di dolore: una sensazione inaspettata, a cui non era abituato. Si chinò a guardare il braccio: una lunga bruciatura gli cingeva l'avambraccio destro, arrivando fino all'incavo del gomito. La pelle era tesa, spaccata, e da sotto si intravedeva la carne viva. Faceva male. Ogni minimo movimento strappava la pelle sottile e bruciata, e il sangue si era rappreso formando croste irregolari.

 

Aziraphale la osservò a lungo.

Crowley, preoccupato, gli disse di concentrarsi e rigenerarsi, semplicemente.

“Fallo angelo, non devi sentire dolore per forza”.

 

Aziraphale tornò a guardare quella carne esposta, che oscenamente gli ricordava un piatto da mangiare.

Poi pensò a Crowley, che migliaia di anni prima aveva dovuto affrontare, da solo, la caduta e il fuoco dell'Inferno.

 

“No. Voglio ricordare. Che sia di monito, e che io ricordi sempre quanto può essere terribile il fuoco”.

 

 

Note:

1) All'epoca del Grande Incendio di Londra, secondo il sistema di misura imperiale britannico, un braccio misurava circa 1.8 m

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Capitolo 11
*** Preghiera di Gennaio ***


Londra, 1978

(annusa – soffri)

 

 

Signori benpensanti
Spero non vi dispiaccia
Se in cielo, in mezzo ai Santi
Dio, fra le sue braccia
Soffocherà il singhiozzo
Di quelle labbra smorte
Che all'odio e all'ignoranza
Preferirono la morte.

 

Fabrizio de Andrè – Preghiera di Gennaio (1967)

 

 


Quella Londra non piaceva affatto ad Aziraphale.

 

Non aveva l'eleganza raffinata della fine dell'800 o dei primi del 900.

Non era intrigante e piena di novità come durante gli anni 20 o i 30.

Non era in evoluzione come negli anni 50, non era frizzante come gli anni 60.

 

No, gli anni 70 avevano portato dissolutezza, disordine, musica sgradevole e dissonante, ragazzi e ragazze vestiti come dei barbari, con scarponi militari, magliette sciatte e rovinate, giacche in pelle piene di borchie. Per non parlare dei capelli! Erano spettinati, arruffati, sporchi. Portavano delle creste, per l'amor del Cielo!

 

***

 

Soho, verso la fine degli anni 70, era diventata un ricettacolo di ragazzi stravaganti, assembrati in rumorosi locali. La loro musica assordante rimbombava fuori dalle pareti imbottite, vibrandogli nel petto come il palpito di un cuore eccitato, e ogni qualvolta una di quelle porte si apriva sulle bolge infernali di musica e corpi sudati e balli inappropriati, anche gli acuti lo investivano violenti.

 

Aveva preso ad uscire sempre meno. Si rinchiudeva nella quiete della libreria, circondato dai suoi amici fatti di carta e ricordi, immergendosi nella lettura, dimenticando il contorno.

 

Aveva sempre amato quello stato di cose: la calma, il suo piacevole disordine, gli odori familiari.

 

Quella però era una notte diversa. La quiete lo soffocava. La penombra lo opprimeva. Il silenzio gli rombava nelle orecchie: non gli bastava il chiacchiericcio che sentiva, di tanto in tanto, fuori dalle sue vetrine buie.
 

***

 

Fu trascinato fuori da un desiderio di vita, forse. Voleva trovarsi fuori, non importava come né dove.

 

Perduto nei vicoli come uno straniero, sebbene conoscesse Londra meglio di chiunque altro (quantomeno, da più a lungo di chiunque altro), si trovò per caso proprio nel retro di uno di quei locali. Era buio, ma riusciva a distinguere delle figure muoversi appena.

 

Una di queste era china verso il basso, forse inginocchiata. Le altre due, in piedi, sembravano sostenersi a vicenda. Infine, un'ultima forma scura, indistinta, era stesa in terra. Udì un singhiozzo soffocato.

 

L'attimo che il vento cambiò direzione, Aziraphale fu investito da una zaffata di odori sgredevoli: vomito, urina, forse feci. Strizzò gli occhi, disgustato, e si portò la manica del cappotto a coprire il naso per cercare di evitare quel fetore.

 

Una porta si aprì in quel momento, gettando un fascio di luce sulle persone che finora erano rimaste seminascoste dal buio.

“Andatevene di qui, sporchi ubriaconi! E portate via quello! Non vogliamo che la polizia venga a fare casino!” sbraitò l'uomo che aveva aperto la porta, probabilmente il proprietario del locale. La sbattè subito dopo, richiudendosela dietro.

 

In quei pochi attimi, Aziraphale era riuscito a riconoscere in Crowley l'uomo inginocchiato.

Era chino, le spalle contratte, e teneva le mani su quel ragazzo sdraiato scompostamente a terra. Gli altri due, che sembravano essere scappati da scuola per quanto erano giovani, avevano le guance striate di nero dove le lacrime erano scese, rovinando loro il trucco.

 

Il ragazzo in terra era morto.

 

Gli si avvicinò, dimentico degli odori sgradevoli.

“Crowley” disse a voce bassa “che succede?”.

Il demone non si voltò a guardarlo.

 

“E' morto. Una vita pesa appena 100 mg, quando si tratta di eroina”.

Crowley sembrava svuotato, la voce era fredda, atona.

 

“Ma... perchè? Perchè lo ha fatto?” chiese Aziraphale, addolorato.

“Perchè la gente si suicida? Perchè il peso della vita è troppo grande. Perchè si sentono rifiutati. Reietti. La società non li vuole. Le famiglie non li vogliono. Il conforto lo trovano in altri modi... e a volte nemmeno quelli bastano. Jamie era omosessuale, si prostituiva per una dose. Era solo, dormiva in strada. Daisy e Gavin erano suoi unici amici”.

 

Aziraphale abbassò il capo e gli poggiò una mano sulla spalla.

Lui si girò e lo guardò finalmente. Gli occhi erano tormentati, sbarrati, ma senza lacrime. Forse non ne aveva più.

 

“Angelo, sai dirmi perchè Dio non li vuole? Perchè i suicidi li abbandona a noi? Non hanno già sofferto abbastanza?” gli chiese.

 

Aziraphale rimase in silenzio, investito dall'orrore e dal senso di colpa. Avrebbe potuto dargli le risposte più ovvie. Che la vita era un dono e togliersela era un affronto contro Dio. Che non meritavano il Paradiso, se disprezzavano così tanto quello che avevano in Terra. Che Lei poteva essere terribile, e che non avrebbe dato loro risposta comunque, anche se avessero chiesto.

 

Ognuna di quelle risposte risuonava vuota e fredda nel suo cuore. Non bastava a lui, che non poteva opporsi al Suo volere, come sarebbe potuta bastare al demone in ginocchio, supplicante?

 

Lasciò che fossero le azioni a rispondere.

 

Si inginocchiò accanto a Crowley, non badando al sudiciume né al fetore della morte che già aleggiava in quel buio cortiletto. Mormorò una benedizione, sfiorando con le mani quel corpo ormai freddo e vuoto.

 

Quella notte era uscito spinto da una brezza che chiamava alla vita, ed invece aveva trovato la morte.

 

“Vai a casa” ripetè.

Vai a casa”.

 

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Capitolo 12
*** Ostara ***


Ith, Campagna della bassa Sassonia V secolo d. C.

(intreccia)

 

L'equinozio di primavera era alle porte, finalmente, dopo i lunghi mesi invernali.

Nella Sassonia erano freddi e rigidi, e la neve spesso prima di sparire del tutto impiegava ancora parecchi giorni. Sul lato esposto a nord delle basse collinette della zona chiazze bianche ancora resistevano al pallido sole di marzo.

 

Crowley detestava l'inverno. Così come detestava la pioggia.

E anche il troppo vento, che gli scompigliava i capelli e li rendeva indistricabili.

 

Ma d'altronde aveva un compito da svolgere, e sebbene spesso non si preoccupasse troppo di essere ligio ai doveri infernali, quello era uno che fondamentalmente non gli dispiaceva troppo. Da qualche decina d'anni faceva un'apparizione ogni tanto sulla dorsale di Ith, nel giorno dell'equinozio di primavera. Era un luogo sacro, e i Sassoni vi si radunavano per celebrare i loro riti. Non che l'Inferno fosse particolarmente interessato a promuovere rituali pagani, ma evidentemente era una sorta di dispetto fatto personalmente a Lei. Crowley non aveva fatto domande, almeno non in quel caso.

Si presentava sotto spoglie femminili, coi lunghi capelli fulvi sciolti e ribelli al vento, fiammeggianti nell'ultima luce rossa prima del crepuscolo. Di solito restava appena quel tanto che bastava perchè lo vedessero, quel tanto che uomini e donne radunati lì per lui potessero ammirarlo.

Godeva segretamente di quei momenti.

L'adorazione smuoveva in lui moltissime emozioni che cercava di non classificare con troppa attenzione: di certo, rappresentare una divinità era come un grido verso Colei che, solo per qualche domanda di troppo, l'aveva scacciato dal Paradiso. Era una protesta e un urlo di orgoglio: adorano me, vedono me, vogliono me.

 

La dorsale era un luogo impervio. Pareti calcaree, ripide, con alberi aggrappati alle pendici scoscese, le radici a mordere le rocce per trovare appiglio. Un luogo di bellezza selvaggia, che periodicamente si animava di centinaia di umani, arrivati anche dopo interi giorni di viaggio, per celebrare i rituali del cambio delle stagioni. L'atmosfera era tesa, febbricitante. Crowley conosceva bene la natura di quei festeggiamenti: un grande falò ardeva già da ore, e un giovane per ognuno dei due sessi era stato scelto per rappresentare il dio e la dea e la rinascita della terra, la sua fertilità. La vita breve ed effimera degli umani lo affascinava: avevano una sete di vita che sentiva lui stesso, di tanto in tanto, e che lo spingeva ad osservarli incuriosito.

 

Non si sarebbe mai aspettato di trovare l'angelo seduto insieme a delle giovanette ad intrecciare fiori.

Aziraphale, ingaro della sua presenza, sorrideva a chiunque gli rivolgesse parola, dispensando la sua luce equanimamente. Aveva tirato su le larghe maniche della tunica color crema e le sue dita forti si muovevano in modo sorprendentemente agile su quell'ammasso di fiori di campo. Riusciva a sembrare allo stesso tempo delicato ma pieno di una forza antica, gentile, appena mascherata dalla sua lieve pinguedine.

 

Era tempo.

Il sole stava per scomparire dietro all'orizzonte.

 

Inspirò profondamente e camminò tra di loro, leggero, ancheggiante, sensuale, quasi senza peso. Lunghi capelli che mandavano bagliori ramati nell'ultimo sole dell'inverno, scaldando i presenti della loro luce ultraterrena. I piedi nudi sfioravano l'erba appena nata, solleticandogli appena le dita: avrebbe voluto affondarle tra i teneri steli, ma non ne aveva il tempo. Gli occhi spalancati nuovamente, intensi e dorati, scivolarono sulla folla riunita, e si soffermarono solo un attimo in più su Aziraphale, il quale invece lo stava fissando incantato.

 

Crowley era l'incarnazione del piacere, della morte che cede il passo ad una nuova vita, della sacralità del nuovo anno, del profano godere del sole che tornava a vincere la sua eterna guerra con la notte.

 

Scomparve poco dopo ai loro occhi, conscio solo in quell'attimo di aver trattenuto il fiato.

 

Si rifugiò su una roccia più in alto, silenzioso, mentre la luce bluastra della sera sostituiva le tinte rosse e aranciate del tramonto.

 

Aziraphale lo raggiunse poco dopo.

 

“Una splendida apparizione, mio caro, sembravi una dea”.

“L'idea era quella” gli rispose asciutto.

“Oh non lo metto in dubbio” ridacchiò appena Aziraphale con la sua voce argentina.

 

Crowley si voltò a guardare verso il basso, mentre il falò gettava la sua luce nella conca pullulante di uomini e donne danzanti. La musica antica, ritmata e frenetica, gli arrivava appena attutita dall'aria che si andava raffreddando.

 

“Umani” sbuffò il demone “Danzeranno fino al mattino, o finchè non crolleranno sfiniti”.

“Sono solo umani, appunto. Lasciali festeggiare la vita” sentenziò serafico l'altro, poco più indietro di lui.

 

“Non ti da fastidio? A te. Al Paradiso. Celebrano una dea che non è Lei”.

“Al Paradiso non importa: le cose faranno il loro corso, come sempre, e noi siamo qui solo per guidarli appena verso la giusta direzione”.

“E a te? A te non importa nulla?” insistè Crowley, evitando di guardarlo.

 

Lentamente la luna stava salendo, bianchissima, dietro alle colline.

 

“Sono solo umani” ripetè Aziraphale “Ogni dea è Lei”.

 

Rimasero in silenzio qualche minuto.

Poi, Aziraphale gli sfiorò i capelli. Crowley sentì le sue dita entrare tra le ciocche, mentre lo scalpo veniva percorso da brividi inaspettati. Avrebbe dovuto interrompere quel contatto, ma gli risultò impossibile: un piacere sconosciuto gli serrò la gola e gli impedì di parlare.

 

Aziraphale, angelo guardiano del cancello Orientale, passò ancora qualche attimo a giocare coi suoi riccioli, poi ritirò le dita con un piccolo sospiro, quasi inudibile.

 

“Le dee portano corone” disse, e Crowley seppe che in quel momento stava sorridendo.

 

Aziraphale pose delicatamente un una corona di tarassaco ed iperico intrecciati sul suo capo. Crowley si voltò e si guardarono per un attimo, prima che volgesse di nuovo il volto verso la notte.

 

“Sono dello stesso colore dei tuoi occhi”.

 






Ispirata dal disegno splendido di Martina.
Questo è il file su Instagram, qui metto solo una piccola anteprima. Aggiungetela e amatela.

Grazie, perchè queste sono cose per cui vale la pena di essere davvero felici.


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Capitolo 13
*** Oro ***


Oro
 
Londra, 1990

(perditi negli occhi)

 

Era stata una giornata come mille altre, per Aziraphale.

La libreria era stata aperta, come tutti gli altri giorni, in un orario scelto da lui stesso secondo l’umore del momento. Aveva guardato con orrore, come tante altre volte, un bimbo piccolo con un gelato pericolosamente gocciolante girare trascinato per mano dalla madre tra gli scaffali e le pile di libri (era riuscito ad invitarli con educazione fuori senza danni irreparabili). Aveva anche quel giorno evitato che un compratore gli sfilasse una delle sue preziose primissime edizioni (una del paradiso Paradiso Perduto di Milton, in questo caso). Aveva custodito il sapere umano e la sua collezione come un soldato, come sempre.

E come sempre più spesso accadeva, Crowley era arrivato dopo l’orario di chiusura.

Aziraphale era seduto sulla sua poltrona preferita e sorseggiava un the al bergamotto.

 
Quando vedeva Crowley arrivare Aziraphale non riusciva mai a trattenere un sorriso. Una reazione istintiva alla presenza di colui con cui aveva diviso, bene o male, tutti gli anni della sua lunghissima vita. Col tempo aveva imparato ad associare a quegli incontri un piacere caldo che si irradiava dal centro del petto e raggiungeva ogni parte del corpo: dalle cellule epiteliali a quelle neurali che componevano il suo cervello umano, ognuna di queste fremeva e risuonava alla vista dei capelli dai riflessi di un fuoco da campo, della sua figura magra e nervosa, alla sua voce mutevole.
 
Quel giorno Crowley aveva una busta di carta con sé e se la rigirava tra le mani senza parlare.
“Beh, tieni”, disse infine, inclinando un po’ la testa e tendendogli il pacchetto raffazzonato.
 
Non era la prima volta che gli portava qualcosa in regalo, e la sua libreria era disseminata di oggetti, ninnoli e libri rari che Crowley gli aveva donato nel corso del tempo.

Stracciò la carta, scoprendo una tazza bianca, che al posto del manico aveva due piccole ali da angelo.
 

Rimase in silenzio per un attimo “Crowley, mio caro… è deliziosa!!” esclamò, con un sorriso che avrebbe scaldato uno stadio intero.
Crowley si aggiustò gli occhiali con un contegnoso “Ngk”.

 

***

 

Aziraphale usò la tazza per anni. La adorava, letteralmente.
 
Qualche tempo dopo l’Apocalisse-mai-avvenuta, la tazza gli cadde dalle mani.  Per chissà quale ragione era particolarmente distratto in quel momento, e al tonfo della porta della libreria che si chiudeva colpo semplicemente la lasciò cadere. Aziraphale, come al rallentatore, la guardò rompersi in una serie di frammenti. Le tanto amate ali si spezzarono.

Quando alzò lo sguardo, Crowley era lì a guardarlo.

Ad Aziraphale si riempirono gli occhi di lacrime. Dopo un attimo di silenzio, fu lo stesso Crowley a dirgli “Angelo, non ti preoccupare… basta un minuscolo miracolo… torna come nuova…” e si apprestò a schioccare le dita.
“No!” esclamò Aziraphale. “No non farlo. La riparerò alla vecchia maniera!” gli rispose concitatamente, inginocchiandosi a terra ed iniziando a raccogliere i pezzi. Si sentiva sciocco. Li prese tutti, fino all’ultimo, e li mise in un tovagliolo di stoffa, per riporli al sicuro sul suo scrittoio.

 

***

 

Il giorno successivo Aziraphale non aprì affatto la libreria.

 
La mattina presto si recò da un suo conoscente, Mizuyo Yamashita, con cui aveva spesso pranzato nei migliori ristoranti giapponesi di Londra. Parlarono a lungo, sorseggiando the verde importato dalla terra del Sol Levante, fino a che Aziraphale si inchinò profondamente e si congedò.

Riportò con sé una piccola borsa con dentro alcuni contenitori di coccio e delle pietre d’agata.
 
Dispose i pezzi della tazza ordinatamente sullo scrittoio. Erano una decina, più o meno, e Aziraphale provò più volte l’ordine in cui rimetterli a posto, memorizzandolo con attenzione.

Poi prese uno dei contenitori di coccio e lo fece scaldare, fino a che la pasta vischiosa al suo interno non divenne quasi liquida. Con un bastoncino la spalmò lungo i tagli netti del coccio, facendoli aderire.

“La lacca urushi tira in fretta” lo aveva avvisato Mizuyo, e Aziraphale si attenne scrupolosamente alle sue istruzioni. Ricompose la tazza con attenzione e poi passò alle ali, a cui si dedicò con una cura speciale. Aspettò il tempo necessario perché la lacca solidificasse, poi passò la pietra d’agata in modo da ridurne l’eccesso che aveva sporcato i bordi. Ripeté il processo più volte, riempiendo i vuoti lasciati dai frammenti più piccoli che non era riuscito a rimettere a posto, levigando e smussando via via ogni piccola asperità, fino ad arrivare quasi alla forma perfetta e originale della tazza.
 
Mancava solo l’ultimo strato.

Aziraphale prese la seconda boccetta e ne versò il contenuto su un foglio di carta velina su cui aveva preventivamente fatto una piega al centro. Era una polvere d’oro, sottilissima.

Ne mise un poco all’interno della tazza, appena un velo. Poi, con un tampone di seta, strofinò lievemente la superficie fino a far imprimere l’oro nella lacca stessa. Lo fece ancora su ognuna delle crepe, dentro e fuori, fino a che non furono completamente dorate.
 
Aziraphale si alzò in piedi, sgranchendosi e stiracchiando le membra intorpidite: era notte ormai, e non si era mosso dalla scrivania per ore ed ore. Aveva passato l’intera giornata in silenzio, mentre praticava la tecnica del kintsugi. Era stata un’esperienza mistica, in qualche modo.
Guardò la tazza ancora una volta, nuovamente intatta ma venata d’oro: mille volte più bella di com’era prima.
 
Splendida.
 
Quando Crowley tornò a trovarlo, Aziraphale aveva la sua tazza con le ali tra le mani. La stessa, eppure rinnovata.

Quando Crowley gli si sedette di fronte e lo guardò dopo essersi tolto le lenti scure, Aziraphale si perse per un attimo nella luce dei suoi occhi. Crowley forse era stata spezzato nella Caduta. Le sue ali erano diventate nere. Aveva perso la grazia di Dio.
 

Ma i suoi occhi d’oro, specchio dell’anima, dicevano il contrario.
 
 
 





Note: torno dopo tanto tempo su questa raccolta, dopo aver riflettuto un po' perchè non volevo scadere nella banalità. Spero che possiate apprezzarla. Grazie <3

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Capitolo 14
*** Eco ***


Glastonbury, 1540 

(canta) 

 
 

Aziraphale aveva serbato a lungo il ricordo del canto di Crowley, anche se erano passati, letteralmente, migliaia di anni. Come una scheggia, il suono del kinnor e la sua voce erano rimasti incagliati nel suo cuore, da qualche parte, insieme al ricordo del profumo dell'estate e del mare.  

Non ne avevano mai parlato, e Aziraphale non sapeva se Crowley si fosse mai accorto della sua presenza, sulla cima di quel colle. Se lo era chiesto molte volte ma non aveva mai avuto il coraggio di chiedere. Aveva sempre accettato il demone per quello che era: a volte scontroso, a volte gentile, quasi sempre terribilmente irriverente, ma non gli aveva mai chiesto del suo passato, del perché fosse Caduto. Crowley avrebbe storto il naso e borbottato qualcosa di inintelligibile, e sarebbe finita lì. Ma soprattutto, Aziraphale non voleva ferirlo, e dopo averlo sentito cantare tutto quel dolore, era certo che la sua sarebbe stata una domanda inopportuna. Come si chiede a un demone le ragioni della sua ribellione? 

Eppure, non era mai riuscito a vederlo come un vero e proprio nemico. 

 
 

Ed era per questo che stava per fargli un regalo. 

 
 

Gli aveva fatto recapitare un messaggio e sperava che, nonostante il luogo non fosse certo il migliore per un incontro, né il più comodo, si sarebbe comunque presentato. 

 
 

Aziraphale sedeva sui gradini della chiesa di Glastonbury. 

Maggio era stato un mese buono, quell'anno. L'aria era tiepida e profumava d'erba e di glicine. Non era certo che Crowley sarebbe arrivato, ma aspettò pazientemente, beandosi di quel momento di quiete. Non c'erano molti rumori, nonostante quella fosse un'abbazia famosa. Non c'era nessuno in giro e il tempo sembrava quasi fermo, in un'atmosfera irreale.  

Era quasi il tramonto quando una figura vestita interamente di nero si stagliò su di una collinetta poco lontano. Aziraphale sorrise, sollevato, alzando un braccio in segno di saluto. Si tirò in piedi per accogliere il nuovo arrivato. 

 
 

Crowley aggrottò le sopracciglia inspirando bruscamente con il naso. Chiaramente cercava di cogliere qualche odore che Aziraphale non sarebbe mai riuscito a sentire. 

Non sento puzza di altri angeli, qui intorno” gli disse, a mo' di saluto. 

Altri angeli? Per quale motivo dovrebbero esserci altri angeli? Lo sai che non vengono volentieri sulla Terra” tentennò Aziraphale “Ci siamo solo noi, qui” aggiunse. 

Lo vedo, ed è strano. Che fine hanno fatto tutti, qui? I frati, i contadini, i servitori? Che è successo?” gli chiese continuando a guardarsi intorno, sospettoso.  

 
 

Non c'è più nessuno all'abbazia, Crowley. Voglio che tu possa vedere Glastonbury insieme a me”.  
Aziraphale si illuminò tutto, nel dire questo. Crowley poteva leggere la sua gioia nel dirglielo nei suoi begli occhi azzurri, nella curva delle labbra, nel modo in cui il suo corpo si protese verso di lui. 

 
 

Sei forse impazzito?” si strinse nelle spalle “sono un demone, se per caso non lo ricordi, e quello è suolo consacrato: mi brucerei”. 

Non lo è più. Per ordine di Thomas Cromwell, solo pochi mesi fa, tutti i frati sono stati dispersi. Non c'è più nulla e la chiesa è stata sconsacrata: puoi entrare”.  

 
 

Aziraphale dovette spingerlo fino all'ingresso. 

Crowley esitò ancora per un attimo. Poi irrigidì la mascella e fece un altro passo, varcando finalmente la soglia.  

 
 

Non successe nulla. 

 
 

Sebbene spogliata dei suoi ori e dei suoi beni, Glastonbury manteneva un'atmosfera solenne. Gli archi a sesto acuto della navata centrale portavano a guardare verso l'alto, e la luce entrava in lame, filtrando dalle sontuose finestre decorate a piombo.  

Aziraphale era rimasto all'ingresso, appoggiato ad uno stipite rovinato, mentre Crowley si avventurava da solo all'interno. Nonostante gli stivali morbidi, i suoi passi rimbombavano nella chiesa totalmente vuota. Si muoveva con circospezione, col naso verso l'alto. Era di certo il primo demone che metteva piede in quella chiesa. Probabilmente il primo in assoluto, in una qualunque chiesa. Scoppiò a ridere preso da un'irrefrenabile ilarità, e la sua risata rimbalzò sui muri vuoti, ripetuta più volte.  

Si guardò attorno, meravigliato.  

Provò a dire il suo nome ad alta voce, che gli venne restituito in un'eco. 

 
 

Guardò in direzione dell’angelo che gli stava venendo incontro, con occhi luminosi.  

Vieni, qui c'è l'acustica migliore” gli disse l'angelo, sorridendo a sua volta, tirandolo verso la parte dell'abside. Gli indicò di sedersi su di uno degli scranni rimasti intatti dopo il saccheggio, e si sedette a sua volta su di un altro, di fronte a lui. 

Poi intonò con voce chiara e limpida un antico gregoriano “Deum verum”.  

 
 

Crowley chiuse gli occhi. Inspirò profondamente e per qualche minuto godette della bellezza della voce di Aziraphale che gli accarezzava la pelle, facendolo rabbrividire. 

 
 

Ora capiva.  

 
 

Poco dopo si unì al canto, intrecciando la sua voce tenorile a quella più bassa e modulata dell'altro.  

E fu come un rincorrersi, un tracciare linee curve nell'aria, fu come un volo a cavallo del vento, mentre entrambi, ad occhi chiusi, spiegavano le voci sulle note di una melodia antica.  
 

Una volta finito si guardarono, e Aziraphale si rese conto che Crowley aveva sempre saputo di lui, a Ugarit. Così come Crowley capì che Aziraphale aveva compreso il suo canto senza parole, e gli aveva donato la possibilità di farlo ancora. 

 
 

Non gli disse mai grazie, ma non ce ne fu bisogno. 

 
 

Ricominciarono a cantare un nuovo inno, e un altro ancora, e poi ancora, fino a che non sorse di nuovo il sole a Glastonbury. 











Note: se volete sentire quello che ho pensato per loro, dopo aver ascoltato decine e decine di canti gregoriani diversi per giorni, ecco qui.





Sono una persona fortunata, e la meravigliosa Martina mi ha regalato questa meraviglia. Grazie.
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Capitolo 15
*** Il mare ***


Sardegna, Perda Longa, 3500 A.C circa

(assaggia)

 

Non era la prima volta che l'inferno mandava Crawly a piantare un menhir: creare falsi idoli era stato dal principio uno dei suoi compiti principali. Quella volta però, incredibilmente, si trovava in un luogo piacevole. Le terre del nord erano fredde e piovose: sicuro, l'erica era bella e morbida da dormirci sopra, ma la maggior parte delle volte era umida e lo gelava fin nelle ossa. Il corpo che aveva a disposizione non sembrava immune dai fastidi che provavano anche i comuni umani, e la cosa non mancava di indispettirlo.

 

Comunque, in quell'occasione non poteva lamentarsi.

Il posto, per una volta, era davvero bello. Aveva miracolato una decina di menhir in diverse località dopo essersi materializzato su quell'isola. Crawly non usava le ali: da quando Lei lo aveva cacciato dal paradiso per un peccato che lui giudicava veniale, aveva scelto di rinchiuderle sotto la pelle e non le aveva più voluto nemmeno guardarle. Non gli servivano, dato che poteva apparire sulla terra dove voleva, e comunque non c'era quasi nessuno che potesse vedere cosa faceva: gli umani erano pochi e le rare volte che ne aveva incontrato qualcuno lo avevano scambiato per una divinità. Non aveva ancora deciso se la cosa lo compiacesse o no.

 

L'estate stava volgendo al termine, l'aria profumava di mirto e ginepro, misto ad altre piante tipiche della zona. Gli lasciava un sapore acre e pungente ma gradevole, pulito. Dalla cima del colle dove si trovava Crawly poteva vedere non troppo lontano la distesa azzurra del mare. Sembrava particolarmente bella e luccicante nella luce calda del primo pomeriggio. Decise che aveva tempo a sufficienza per avvicinarsi, prima che qualcuno lo cercasse. Sempre che qualcuno lo facesse. All'inferno, dopo il primo compito portato a termine ai tempi dell'Eden, si erano disinteressati di lui in fretta. Nessuno si curava granchè di quello che faceva o non faceva, e Crawly passava sempre più tempo sulla superficie, che avesse o meno qualche missione da svolgere.

 

Fu una passeggiata abbastanza piacevole ed era giunto ormai alle propaggini della spiaggia, quando un cespuglio irto di aculei gli strappò parte della tunica.

 

Imprecò da principio, ma poi si guardò intorno.

Il sole era talmente caldo e la sabbia sottile e bianchissima tra le dita dei piedi talmente piacevole, che semplicemente la sfilò e la lasciò cadere dietro le spalle. Nudo, continuò a camminare verso l'acqua. Non aveva mai avuto desiderio di immergersi, ma quel posto sembrava talmente bello che non seppe resistere. Il mare era calmo e trasparente.

Il primo contatto con l'acqua fu leggermente sgradevole: era più fredda di lui, ma oramai si era incaponito.  Camminò fino a che non gli raggiunse il ventre. Guardando verso il basso poteva tranquillamente vedere le gambe pallide, leggermente distorte dalle increspature sulla superficie del mare. C'erano alcuni pesci di piccola dimensione che gli nuotavano intorno.

Chiuse gli occhi, volgendo il viso al sole.

 

***

 

Mio caro ragazzo! Che fai qui?”.

La voce di qualcuno che conosceva lo fece sussultare.

 

Aziraphale, Guardiano della Porta Orientale, camminava nell'acqua verso di lui e quasi luccicava alla luce del sole, tanto era bianco. I capelli bagnati rilucevano di centinaia di piccole gocce, così come la peluria sul torace niveo.

 

Crawly si sarebbe dovuto allontanare, ma non lo fece.

 

Che fai qui?” disse, invece.

Oh nulla di che, di tanto in tanto passo a controllare. Gli indigeni sono gentili. E beh... devi ammettere che è un posto veramente molto bello” gli rispose Aziraphale stringendo appena le spalle, mentre le labbra gli si increspavano di un sorriso leggero.

 

Lo avevi già fatto? Nuotare dico. Immergerti” chiese Crawly, muovendo le mani nell'acqua, affascinato.

Qualche volta. Trovo sia piacevole. Hai provato a... lasciarti andare?” gli disse.

Lasciarmi andare? Cosa intendi?”. Crawly era curioso e sospettoso allo stesso tempo. L'angelo era comunque un suo nemico, anche se non si era mai dimostrato pericoloso.

Beh, puoi galleggiare. Se ti lasci andare intendo. Devi gonfiare il torace, riempirlo d’aria”.

 

Aziraphale piegò le ginocchia e scese nell'acqua fino alle spalle. Crawly lo guardò chiudere gli occhi e abbandonare le membra, mollemente, piegare il collo indietro ed emergere lentamente fino ad essere come sdraiato nell'acqua. Le braccia aperte si muovevano appena, a mantenere la posizione. Sembrava rilassato.

 

Si rialzò poco dopo, gocciolando. Sorrideva ancora, luminoso.

 

Vedi? Puoi provare, se credi. Sarò qui in ogni caso” lo incoraggiò.

 

Crawly ripetè le stesse operazioni che aveva visto fare all'altro, rabbrividendo quando l'acqua gli coprì le spalle. Tirò indietro il capo e i lunghi capelli si sparsero intorno a lui, ondeggiando come alghe rosse. Inspirò profondamente e si sentì sollevato verso l'alto. Galleggiare era la cosa più simile al volo che avesse provato negli ultimi 500 anni. Splendido.

 

Un attimo dopo aveva perso la concentrazione e si trovò ad annaspare con la bocca piena d'acqua, mentre Aziraphale lo tirava su per i fianchi.

Tossì, aggrappandosi alle spalle tornite. Per un lunghissimo momento si trovò rannicchiato, con la faccia premuta sul torace dell'altro. Inspirò profondamente, a bocca aperta, contro il suo petto. Strano come, sebbene non avesse davvero bisogno di respirare, la sensazione di soffocamento dell'acqua in gola lo avesse sconvolto.

Quando sentì il sapore del sale mischiato a quello della pelle di Aziraphale in bocca, Crawly si scoprì, di nuovo, più umano di quanto avrebbe voluto.

Più di quanto fosse lecito.

 

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Capitolo 16
*** Nemmeno il primo favo di miele ***


Nemmeno il primo favo di miele, il cui succo denso e vischioso gli era scivolato giù dagli angoli della bocca e sul mento, aveva avuto un sapore tanto dolce. Era stato molto tempo fa, nell’Eden forse? Crowley non lo ricordava più. Non in quel momento, mentre quel corpo solido e morbido allo stesso tempo gli si premeva addosso.

La bocca dolce di Aziraphale era sulla sua, e Crowley non riusciva a ricordare a quando risalisse quel maledetto miele.

Ma non era poi molto importante.

Quello che era importante era la sua bocca. Dolce più di quel miele, morbida come niente altro.

Pochi istanti prima, quando si erano seduti sull’autobus, Aziraphale gli aveva preso la mano, e poi con l’altra gli aveva girato il viso e lo aveva baciato, goffamente, sbattendo prima col naso sul suo.

Era stato un contatto inaspettato quello delle sue dita, ancora di più quello delle sue labbra. Un bacio esplorativo, un contatto umido, elettrizzante, che gli aveva addensato il sangue e quelli che dovevano essere gli organi interni della sua forma umana.

Era quello l’amore?

Lo aveva inseguito nei secoli, nel primo contatto con la pioggia e nei profumi dei ricordi, nel sapore del sale, nel caldo di tramonti lontani, negli echi di una chiesa abbandonata.

Anche Aziraphale lo sentiva, bruciante come fuoco liquido, scendere dalle labbra al collo, avvampare la pelle delicata delle guance, la punta delle orecchie, e poi il cuore. Quello era l’amore che aveva fuggito e lo aveva attratto nei millenni, nelle memorie di melodie antiche, nel profumo dei fiori tra i suoi capelli, nel sapore del té sulle labbra che stava baciando in quel momento.

 

Non fu il pudore a farli allontanare. Le cose umane non erano più di loro competenza, e avevano appena salvato il mondo. Potevano ben concedersi un po’ di indulgenza. Ma a che pro bruciare tutto in pochi istanti? Perché correre, affrettarsi? Avevano aspettato tanto. Che fosse solo una notte o tutto il tempo del mondo, entrambi sapevano che dopo quell’assaggio nessuno dei due ne sarebbe mai più stato davvero sazio.

 

L’appartamento era rimasto al buio, la luce non era servita a ritrovare l’uno la bocca dell’altro.

I capelli di Aziraphale erano sottili e scivolavano tra le sue dita, e profumavano di nuvole e vento. Quelli di Crowley avevano ancora attaccato l’odore del fuoco, della Bentley che aveva dato la sua vita per portarlo al di là del cerchio ardente che aveva stretto Londra.

Crowley lo stava stringendo con un ardore disperato, come se volesse spezzarlo, come se stesse per spezzarsi. Aziraphale si sciolse lentamente, districandosi dalle lunghe membra dell’altro, come se stesse svolgendo le sue spire. Slacciò il papillon facendolo scorrere sotto il colletto, e poi sbottonò un poco la camicia. La pelle chiara del petto luccicava translucida alle luci notturne, sempre troppo bianche e fredde. Crowley ci affondò il viso, per sentirne l’odore, ancora. Era maschile ma dolce allo stesso tempo, centinaia di volte più intenso di quello che conosceva già. Non c’era più traccia della colonia, se non in un vago ricordo appena agrumato. Ma quello era lui, Aziraphale, senza filtri, senza scudi, senza più protezione. Si chiese se fosse la sua anima a profumare così.

Si lasciò spogliare, incapace di farlo lui stesso, incantato dalle ombre sul corpo dell’altro, dal colore rosato dell’incarnato florido dell’angelo, che nemmeno quelle luci fredde riuscivano a nascondere.

Quando finalmente toccò la sua pelle, quella della schiena e delle cosce, tornò a perdersi. Il suo corpo ossuto, che non aveva mai considerato come di alcun interesse, venne totalmente risvegliato dalle sensazioni che il toccare quello di Aziraphale gli suscitava. Il suo corpo, fino a quel momento, non era stato altro un mero involucro. Era stato convinto di avere sensi estremamente sviluppati, ma tutto quello che c’era stato prima era nulla.

Ora Crowley era un unico, glorioso organo per sentire il sapore della pelle di Aziraphale, per ascoltare i suoi respiri e i minuscoli gemiti involontari, per godere della magnificenza della forza delle sue braccia e delle mani che gli stringevano i fianchi, per cercare negli occhi del suo compagno il desiderio, il permesso di continuare.

Aziraphale aveva imparato a trarre molto dalla sua esperienza terrena, ma nulla poteva prepararlo al piacere di essere toccato da colui che era stato con lui per tutto quel tempo, amico e nemico, compagno e nemesi, dolore e amore e ora, per la prima volta, amante.

 

Ognuno per la sua strada, Crowley e Aziraphale hanno intrecciato le loro esistenze, e imparato l’uno dall’altro a comprendere la bellezza e la sofferenza, il piacere e la crudeltà. Esseri perfetti, un tempo, dotati di saggezza e intelligenza incomparabile con quella umana, hanno però imparato da esseri più piccoli e transienti che ciò che vi è di più bello al mondo è concentrato in cose piccole, spesso semplici, in quelli che sono i bisogni primari, legati all’esperienza sensitiva dell’esistenza.

 

Per Aziraphale, per Crowley, che hanno scelto di fare della Terra la loro dimora, il senso della vita è racchiuso nel tempo che hanno speso insieme, negli incontri in tempi e luoghi diversi, nelle sensazioni che hanno esplorato e fatto proprie, nell’amore che, finalmente, hanno deciso di vivere senza più pensare al posto da dove vengono, ma solo alla direzione verso cui andranno.

 

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