Mentre tutto scorre

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Limbo ***
Capitolo 2: *** Parte prima - Capitolo 1: Cecità ***
Capitolo 3: *** Parte prima - Capitolo 2: Inerzia ***
Capitolo 4: *** Parte prima - Capitolo 3: Buio ***
Capitolo 5: *** Parte prima - Capitolo 4: Inferno (I) ***
Capitolo 6: *** Parte prima - Capitolo 5: Inferno (II) ***
Capitolo 7: *** Parte seconda - Capitolo 6: Lancette ***
Capitolo 8: *** Parte seconda - Capitolo 7: Coordinate ***
Capitolo 9: *** Parte seconda - Capitolo 8: Controllo ***
Capitolo 10: *** Parte seconda - Capitolo 9: Crepe ***
Capitolo 11: *** Parte seconda - Capitolo 10: Coraggio (I) ***
Capitolo 12: *** Parte seconda - Capitolo 11: Coraggio (II) ***
Capitolo 13: *** Parte seconda - Capitolo 12: Equilibrio ***
Capitolo 14: *** Parte seconda - Capitolo 13: Purgatorio ***
Capitolo 15: *** Parte seconda - Capitolo 14: Ritmo ***
Capitolo 16: *** Parte seconda - Capitolo 15: Legàmi ***
Capitolo 17: *** Parte seconda - Capitolo 16: Normalità ***
Capitolo 18: *** Parte seconda - Capitolo 17: Tentativi ***
Capitolo 19: *** Parte seconda - Capitolo 18: Confini ***
Capitolo 20: *** Parte seconda - Capitolo 19: Fratture ***



Capitolo 1
*** Prologo: Limbo ***


~ Mentre
tutto
scorre ~

 





 

1ª Dimensione:

x


 








Prologo
 

 
“Morire non è nulla. Non vivere è spaventoso.”
V. Hugo
 
 
Giugno 2018, Wakanda [1]
 

Morto. Thanos è morto.

E Tony non prova alcuna emozione. Un briciolo di sollievo, uno sprazzo di esultanza, un fremito di appagamento: nulla. Il suo petto rimane inerte, viene mosso solo dal ritmo obbligato del respiro. Un sibilo fioco che gli fa stridere le costole ancora contuse e che gli tende il fianco sensibile e caldo al tatto, di nuovo infiammato.

Stringe le mani e il dolore acuto dei tagli che le solcano risale fino all'avambraccio, lungo i tendini rigidi. Il suo corpo è troppo teso, una corda sul punto di spezzarsi, ma non è in grado di rilasciare la tensione. Sembra solo aumentare con ogni minuto che passa e che gli fa serrare sempre più i denti in una morsa dolorosa che soffoca ogni suono.

Abbassa di nuovo gli occhi sul cellulare, posato davanti a lui sul davanzale dell'ampia vetrata sul quale si è accovacciato. Si china e preme il tasto per accendere lo schermo; lo sblocca col pollice e deve tentare più volte perché i cerotti mascherano l'impronta digitale. Ignora le decine di chiamate perse di Rhodey. Il messaggio di Rogers riappare davanti ai suoi occhi, nella sua cornice azzurra falsamente rassicurante, scritto in caratteri troppo anonimi per il suo contenuto:

Thanos è morto, ma aveva distrutto le gemme. Le abbiamo perse.

Lo legge e lo rilegge, nonostante l'abbia già fatto migliaia di volte. Perse. Le abbiamo perse. Stringato, telegrafico, una comunicazione di guerra dal fronte rivolta ai soldati rimasti indietro. Serra di nuovo i pugni facendo tendere i cerotti, e ne sente uno che si scolla dal palmo, scoprendo il solco vermiglio sottostante.

L'ha persa, l'ha perso. Pepper, Peter. Li ha persi.

Continua a ripeterselo perché, per quanto tenti di afferrare il concetto, quello continua a sfuggirgli: svicola dalla sua mente e si rintana nella voragine che gli si è aperta nel petto. Lo fissa dal buio. Un animale notturno pronto ad emergere non appena chiuderà gli occhi. Preme la fronte contro le ginocchia ripiegate e non li chiude neanche adesso, anche se gli bruciano da impazzire. È ancora troppo disidratato per riuscire a piangere. Forse non avrebbe dovuto sfilarsi la flebo dal braccio. Forse non avrebbe dovuto fare molte cose, incluso tornare vivo da Titano, anche se in effetti non si sente davvero vivo. Si sente scomparire, come tutti gli altri.

Stringe di nuovo con forza i pugni, scatenando un dolore acuto che lo riporta al qui e scaccia quel desiderio inespresso e sfiorato più volte. Si costringe a respirare; inspira dal naso ed espira dalla bocca. È diventato esperto a controllare il panico, ma stavolta sa che è diverso: di cos'altro dovrebbe aver paura, ormai? La sua paura peggiore si è appena avverata.

Quello che minaccia di annegarlo è solo dolore, nella sua forma più pura, di quello che straborda dagli occhi e strizza il petto come uno straccio bagnato. Ma lo respinge, lo respinge sempre, come ha continuato a fare per quelle ultime quattro ore, perché non si merita nemmeno di piangere. Forse, in fondo, non si merita nemmeno di morire, ma di passare il resto della propria esistenza a spingere aria dentro e fuori dal proprio corpo cercando di non diventare folle.

Solleva il volto e si poggia di nuovo al vetro, col cellulare ai suoi piedi pronto a mostrare di nuovo il suo messaggio incomprensibile. Fuori, sulla savana, il cielo è assurdamente rosa, screziato da pennellate di un arancio che pensava impossibile, così intenso che sembra bruciargli dentro. Qualcosa gli dice che non soffrirà mai il mal d'Africa, almeno non nel senso comune del termine; non potrebbe mai mancargli un luogo così pieno di cenere, così rosso. Continua comunque a seguire le variazioni di tonalità del tramonto finché non scendono nelle tinte fredde del crepuscolo. Una sfumatura più pacata, che per un istante sembra lenire il bruciore agli occhi, pesanti di sonno rifiutato.

D'un tratto sente dei passi, diretti proprio verso di lui, e trattiene un respiro: la missione fallimentare deve essersi ufficialmente conclusa e questo significa dover intavolare discorsi inutili con persone con cui non vuole parlare. Nemmeno con Rhodey, soprattutto non con Rogers. Rimane in ascolto, e quelli che si avvicinano sono passi leggeri, quasi felpati – decisamente non militareschi. Considerando che qua dentro c'è una sola persona che non si muova con la grazia degli elefanti che stanno passando ora pigramente all'esterno, non si cura neanche di voltarsi a controllare chi sia.

«Nel caso non fosse intuibile, voglio stare solo, Romanov,» dichiara saltando i convenevoli, contro il vetro appannato dal suo respiro.

La voce gli esce molto più debole delle sue intenzioni, in un sussurro roco. Lei lo ignora, come fa spesso, e si siede invece di fronte a lui sul davanzale, braccia e gambe incrociate. La osserva con la coda dell'occhio e la vede pallida, col volto smunto come se anche lei avesse quasi digiunato per un mese. Vorrebbe dirle qualcosa, ma ha appena deciso di non alimentare più la speranza che aveva continuato a covare dentro di lui; quindi come potrebbe ravvivare la sua? Neanche lui è così ipocrita.

Natasha adocchia le sue mani bendate senza esternare alcuna sorpresa. Non parla: sa già tutto, come sempre, chissà come.

«Sei passato in infermeria?» gli chiede soltanto.

«Perché dovrei?» sbuffa lui. «Puoi improvvisarti di nuovo crocerossina, se vuoi, ma stavolta me la sono cavata piuttosto bene.» [2]

A riprova le mostra le mani incerottate, scegliendo di ignorare le chiazze di sangue che si intravedono oltre le garze. Le nasconde di nuovo nelle pieghe dei gomiti, poggiando la tempia al vetro, lo sguardo rivolto alla savana. Batte le palpebre e vede rosso, come le dune di Titano. Vede una distesa di galassie che si allarga nella savana come lucciole erratiche. Vede l'orizzonte che si sfalda in torrenti di pulviscolo scuro portati dal vento. Fa stridere la mandibola e cerca di non pensare alla cenere. Di non astrarla, di non ricordare Peter e di non immaginarsi come deve essere stato anche per...

Natasha gli impedisce di completare il pensiero: si sporge verso di lui senza preavviso e gli prende un polso, tirandolo a sé con delicatezza finché lui non allenta la morsa delle proprie braccia, più per indolenza che altro. Le permette di esaminare il palmo più malandato, quello che stringeva la bottiglia quando l'ha spaccata – assieme a tutto il resto. Lei passa un polpastrello sul cerotto che copre solo in parte l'incisione triangolare appena sopra le vene, nella fossetta tra polso e palmo.

Ora lo sta fissando in viso con insistenza, e lui non incrocia il suo sguardo. Non sa neanche come abbia fatto a intuirlo, che quel taglio non è del tutto casuale, che ha volontariamente spinto in profondità quel coccio conficcato sottopelle. Non si ritrae, anzi, rilassa la mano e lascia che sfiori quel quadratino di garza adesiva in una carezza muta. Non gli chiede nulla, ed è quasi un invito a parlare.

«Non volevo davvero,» mormora, senza sapere se sia la verità, anche se si era fermato con uno spasmo incredulo un attimo prima di compiere l'irreparabile. «Ero solo... cieco,» conclude, senza trovare una definizione migliore.

Cieco di rabbia, di dolore, di rassegnazione. Al punto che forse quel coccio che si era infilzato proprio sopra le vene del polso gli era sembrato quasi un segno, quando l'universo si era rifiutato di dargliene uno per ventotto giorni. Se lo sapessero Rhodey o Rogers, o chiunque altro, lo prenderebbero a pugni, gli urlerebbero addosso, lo accuserebbero di egoismo e stupidità e gli direbbero che non hanno ancora perso – una bugia.

Natasha invece tace il silenzio di chi capisce fin troppo bene ed è stanco di mentire, e continua a passare con delicatezza il pollice su quel punto sensibile, senza fargli male. Lui la lascia fare. Poggia di nuovo la testa contro il vetro freddo, con l'impressione che quel silenzio vuoto sia l'unica cosa ancora reale attorno a lui.






 

Note:

[1] Questa prima scena è ambientata in Wakanda poiché parzialmente coerente con dei miei scritti precedenti (la serie Schegge) concepiti ben prima di Endgame e basati quindi su presupposti diversi (avevo ipotizzato che i Vendicatori si sarebbero riuniti appunto in Wakanda, non al Complesso). Il resto della storia si attiene prevalentemente alla versione canonica, se non per la significativa differenza della scomparsa di Pepper, idea che deriva anch'essa da una mia ipotesi rivelatasi al tempo errata. I punti di contatto terminano qui, in quanto la storia si concentra poco sugli eventi della serie e prende una direzione propria e indipendente.

[2] Piccolo riferimento alla mini-long Ferite, in cui Natasha aiuta Tony dopo lo scontro su Titano.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, buonsalve :)
Questa storia è partita come un piccolo esperimento quasi a tempo perso, ma si è poi tramutata in un progetto molto, molto più ampio che è andato a inglobare tutti i cinque anni di vuoto che intercorrono tra Infinity WarEndgame.
Gli sviluppi si impegnano a esplorare aspetti che mi auguro potranno risultare interessanti e che esulano un po' dai vari headcanon che ho visto circolare su questo e altri fandom... un po' azzardati, forse, ma spero di aver catturato la vostra attenzione <3
Il rating rosso è preventivo e copre sia l'ambito delle tematiche affrontate che quello strettamente grafico; magari risulterà esagerato, ma preferisco doverlo abbassare in futuro piuttosto che il contrario.

Un grazie enorme, gigantesco e mastodontico ad _Atlas_, T612, Miryel (la mia Guascosa che ha creato le due meravigliose fanart che fanno da banner e che non smettero mai di ringraziare çç) e shilyss che si son sorbite le mie crisi esistenziali sui presupposti e il senso d'esistere di questo progetto, e che fortunatamente mi hanno spinta a non cestinarlo <3 Grazie, ragazze, siete una certezza :*

Se vi va, lasciate un commento, ogni feedback è gradito, e grazie anche solo per aver letto fin qua <3
A presto,

-Light-

P.S. I titoli delle "dimensioni" = parti in cui è divisa la storia acquisteranno man mano senso <3



   
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel

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Capitolo 2
*** Parte prima - Capitolo 1: Cecità ***


.1.

Cecità
 
 

“Il mondo è pieno di ciechi vivi.
J. Saramago - Cecità



 Luglio 2018, Complesso dei Vendicatori
 


Il mondo ha cessato di esistere. Non solo la sua metà tramutata in cenere, ma ogni singola particella che lo compone: è disgregato, scomposto ai minimi termini in atomi che non riescono a legarsi tra loro per creare forme solide. Scivolano gli uni sugli altri come tasselli sfuggenti di un puzzle, rimescolandosi all'infinito in vortici grigi.

Tony non riesce a seguirne i movimenti, non ricorda neanche quale fosse il loro assetto originario. Non sa se ne sia mai esistito uno, né sa interpretare le nuove forme che gli si parano davanti. Prendono tutte le sembianze di galassie sfumate di colori impossibili, di sprazzi di cielo di un nero più buio di quello terrestre e che l'occhio umano non può sondare. Si sparpagliano in cenere farinosa e sottile, appiccicata ai palmi e alla fronte viscida di sangue e sudore.

Quelli sono gli unici tasselli vividi, collocati in punti precisi dispersi sull'arazzo sfilacciato della sua mente. Galassie e cenere. Buio e sangue. Quattro punti cardinali nefasti in una bussola priva di nord.

Ma è cieco, non riesce neanche a vederla, quella bussola. È cieco e si ostina ad avanzare a tentoni, in trance, tra schermi olografici e proiezioni e banchi di lavoro, ma non vede nulla di ciò che fa, è solo il suo corpo che agisce in preda agli ultimi scampoli di energia di un serbatoio in riserva.

Non sa cosa farà quando si esauriranno. Non lo sa.

Lo sa perfettamente. Dovrà trovare del carburante alternativo – un surrogato scialbo e patetico di tutto ciò che ha perso, del calore fasullo che lo brucia invece di scaldarlo: kerosene infiammabile, acre, volatile. Benzina sul fuoco. Alcol. Lo sa, lo sente in quel punto dello stomaco che prima voleva un bicchiere in più e che adesso si contorce in cerca di sollievo tossico condensato in bottiglia.

Ma non può ancora cedere – non dovrebbe mai – perché non può uscire dalla stanza. Deve rimanere qui in laboratorio, a pensare. A creare e disfare le sue galassie personali composte da possibilità e calcoli e schemi. Dare ordine al caos. Tracciare rette regolari attraverso le sue nebulose di pensieri – ma anche se le rette sono infinite e immateriali, tornano sempre a congiungersi, in un cerchio rovente che gli avvolge la testa come una corona troppo stretta – pesante, inadeguata. Inquieto è il suo capo, piena di scorpioni è la sua mente. [1] Parole astruse e lontane, lette di sfuggita secoli prima e che adesso sono in primo piano, in sovrimpressione alle sue retine.

Diventerà pazzo. La sente, la follia, un passo dopo la soglia su cui continua a indugiare, tentato dall'oblio... ma non può permettersi neanche di impazzire. Può solo sognare a occhi sbarrati, fissi su immagini sempre più sbiadite anche nei ricordi più freschi, ormai sogni che fluttuano eterei.

Non dorme. Non mangia, non beve. Non piange: non gli è ancora riuscito. Non prega più, come non ha mai pregato in vita sua. Non trova soluzioni: gli sfuggono sempre tra le dita come fumo, lasciandolo con un pugno di cenere.

 
§


Settembre 2018, Complesso dei Vendicatori 

«Tony,» emerge una voce familiare, piuttosto sonora anche per i suoi timpani ovattati.

Scolla gli occhi arrossati dal piano olografico inattivo da ore, forzando la testa verso la porta del laboratorio, i palmi puntati contro il bordo del tavolo a sorreggersi. Distingue una sagoma sulla soglia. Si sforza di eliminare le smerigliature dalla sua vista, di ricollegare quella figura a qualcosa di conosciuto – di ricollegarsi, di smettere di fissare le stelle appese dietro ai suoi occhi – e per un attimo teme che il suo cervello sovraccarico stia per implodere nel tentativo di eseguire quel processo elementare, quel codice binario di base.

«Tony,» ripete Steve – è Steve? – più lentamente, «stiamo per cenare. Tutti quanti, ci è sembrata un'idea... per stare insieme. Vieni anche tu.»

Tony impiega quelle che sembrano due ore e che probabilmente corrispondono a un intero minuto per sentire le sue parole, sbrogliarle dai propri pensieri, analizzarle e comprenderle abbastanza da riuscire a formulare una risposta: un semplice cenno d'assenso, a malapena percettibile. Ha la lingua incollata al palato da giorni, forse settimane: non lo sa. Ha fatto prendere un attacco isterico a Rhodey perché non parlava da troppo. Da allora si sta sforzando di dare dei cenni sonori almeno con lui, di tanto in tanto, anche perché teme di dimenticare come articolare i suoni. Ma gli si blocca sempre l'aria in gola, come su Titano, viene soffocato da parole non dette.

Adesso dovrebbe mandare al diavolo Rogers e cacciarlo via a forza, scagliarsi contro di lui come ha fatto un mese fa, ma sente di avere ancora meno energie di allora. E non porterebbe a nulla. Riaprirebbe solo le ferite, si spaccherebbe di nuovo il petto e riprenderebbe a sentire fitte acute e gelide allo sterno. Non è con Rogers che vuole prendersela, non stavolta. E lui si è comportato in modo estremamente pacato anche dopo il loro acceso diverbio, non sa se per compassione verso di lui – probabile, ipocrita com'è – o perché anche lui è solo troppo stanco per accapigliarsi sul nulla, sulla cenere. Non ha senso contare le colpe, come non ha senso contare ogni granello di cenere o ogni stella che gli macchia le retine.

Rogers esita ancora sulla soglia, e forse si aspetta che si scolli subito dai suoi traffici inconcludenti per seguirlo in sala comune. Tony vorrebbe, ma non sa neanche dove siano i propri piedi, figurarsi riuscire a muoverli. Si sente disarticolato, come se ogni suo arto fosse leggero come aria e incontrollabile, come se avesse dell'elio nello stomaco, al posto degli organi interni, e gas infiammabili e in espansione nel cranio. Prende un respiro profondo, e quell'immissione improvvisa di ossigeno e anidride carbonica – e cenere, perché è ovunque, ovunque – è pesante, gli fa girare la testa proprio mentre cerca di muovere un passo.

Si aggrappa al bordo del piano olografico e vi si poggia di schiena, evitando una caduta rovinosa. Vede Rogers scattare verso di lui e si ritrae d'istinto, il palmo teso per tenerlo a distanza.

Zero fiducia.

Il mondo potrà anche essere finito, ma non è ancora arrivato il giorno in cui Rogers può toccarlo come se niente fosse – e senza causargli un principio di attacco di panico.

Bugiardo.

La sua stessa voce gli rimbomba in testa, e sa che i suoi occhi urlano anche adesso quelle parole. Steve si ferma di colpo, il viso corrucciato, segnato da troppe rughe anche per un ultracentenario.

«Tony?» lo chiama di nuovo, e lui chiude gli occhi esasperato, peggiorando solo le vertigini. «Da quanto non mangi?» gli chiede, ancora con quel tono accondiscendente che si userebbe con un bambino che sta male.

Tony mette da parte quella considerazione per ponderare la domanda, rendendosi conto di non avere risposta. È vero, considera tra sé, dovrebbe anche mangiare, oltre a farsi a pezzi il cervello in laboratorio. Deglutisce a vuoto, ora conscio della secchezza della propria gola e della piccola zona arida al centro della lingua che non gli riesce di inumidire, e forse l'ultima volta che ha bevuto è stata ieri sera – più di ventiquattr'ore fa, almeno crede.

Guarda Rogers e si limita a scuotere la testa, indicandogli seccamente la bottiglia d'acqua posata sul bancone a qualche metro da lui. Il fu Capitan America sospira e sembra volerlo rimproverare, ma gli porge comunque prima la bottiglia. Tony se la porta alle labbra spaccate e beve a sorsi minuscoli – consigli lontani dati in una grotta desertica gli suggeriscono di non tracannarla di colpo. Sembrano spazzare via la polvere dalla propria bocca abbattendosi poi a cascata nello stomaco vuoto, ristretto, ma ancora esente dai morsi della fame.  Finisce lentamente il litro d'acqua nel giro di qualche minuto, evitando di causarsi uno shock, e Rogers aspetta, semiseduto sul bancone a braccia incrociate, lo sguardo fisso sulle linee del pavimento. Lo aspetta, e Tony lo detesta anche per questo.

Dopo aver bevuto le vertigini diminuiscono quel tanto che basta per farlo camminare senza avere l'impressione di avanzare su una giostra in movimento, anche se le piastrelle sembrano ancora fissate a delle sabbie mobili.

«Andiamo,» lo sprona quindi e, Dio, la sua voce è disumana, gli gratta in gola con un raschietto e sembra avere il sottotono metallico delle sue armature.

Raggiungono la sala comune senza incidenti, forse perché Tony decide di ascoltare il proprio buonsenso e prendere l'ascensore, piuttosto che le scale. Il suo cervello entra di nuovo in stand-by quando vede il tavolo, già apparecchiato e occupato dai superstiti.

Superstiti. Pochi, troppo pochi.

Si scollega in automatico, risponde a cenni, evita attivamente lo sguardo di Rhodey e sente un crampo alle gambe quando si siede alleviando il peso sulle ginocchia. Non sa quanto sia rimasto in piedi. Forse per tutta la notte. Non si sdraia su un letto da quando è tornato, al massimo sprofonda in poltrona e dorme un paio d'ore. La maggior parte delle volte si ritrova ad addormentarsi in piedi, scivolando in un dormiveglia instabile che lo fa spesso risvegliare mezzo chinato su un banco di lavoro, con la fronte dolorante premuta sul metallo freddo e la schiena a brandelli.

Cerca di riscuotersi, di uscire dalla catalessi, ma attorno a lui sente solo fruscii, come se fosse nel bel mezzo di un torrente, e i suoi pensieri continuano a viaggiare, mescolati tra loro; i sensi lo guidano quel tanto che basta per non causare disastri mentre si versa una mezza cucchiaiata di purè nel piatto – l'unico cibo semi-solido che crede di poter mandar giù al momento senza rimettere. Sente lo sguardo di Rhodey su di sé e tiene il proprio fisso verso il basso, mentre punzecchia il cibo senza appetito, conscio però di doverlo mangiare se non vuole davvero morire d'inedia, come sulla Benatar. Per un istante, la spirale che ha tracciato distrattamente nel purè con la forchetta sembra quella di una galassia lontana. Reprime un conato e prende a forza un boccone insipido, quasi con rabbia, a distruggere quella congregazione di stelle inesistente.

Passa un pollice sul piccolo segno ancora roseo che gli è rimasto inciso alla base del palmo, stringendo la forchetta con più forza del dovuto, ancora estraneo a quello che sta accadendo attorno a lui. Gli sembra di sentirli parlare in un borbottio indistinto, ma ha smesso di fidarsi del suo udito quando, un paio di volte, gli è sembrato di riconoscere le voci di Pepper e Peter in mezzo a quei discorsi.

Continua a mangiare in silenzio, considera una conquista essere addirittura riuscito a finire la propria porzione, e si alza senza ulteriori indugi. Il suo sguardo incontra la tavolata vuota. Si sente smarrito per un istante e pianta le dita nello schienale della sedia – sono scomparsi, sono scomparsi tutti –  prima di vederli in salotto, e di sentire Rhodey che si avvicina per recuperare il suo piatto dal tavolo, già sparecchiato da chissà quanto senza che lui se ne accorgesse. Tony lo anticipa portandolo da solo in cucina, i movimenti meccanici come quelli di un automa, ma sente di riuscire a controllare leggermente meglio i propri passi, che non affondano più nelle sabbie mobili.

Crede di sentire il sospiro di Rhodey dietro di sé mentre piazza il piatto in lavastoviglie, ma non si gira per accertarsene, poi sente la sua mano ampia e salda che gli stringe la spalla. La trattiene lì abbastanza a lungo da fargli capire che, forse, vorrebbe abbracciarlo, se solo lui glielo permettesse. Tony si avvolge invece il busto con le braccia, sentendo un'ondata di nausea al solo pensiero di lasciarsi stringere da qualcuno – di stringere qualcuno e sentire di nuovo la consistenza orripilante di un corpo che si sfalda nel nulla sotto le dita.

Risucchia un respiro a forza e svicola alla sua stretta, diretto in laboratorio, verso il suo mondo freddo di ologrammi e strade senza uscita che è comunque deciso a battere fino in fondo.

Nell'attraversare il salotto, adesso un po' più nitido di fronte ai suoi occhi, rallenta perplesso. Steve è seduto sul divano, lo sguardo perso oltre la vetrata sul patio buio; Bruce traffica con un tablet immerso in chissà quali progetti; Carol, che per qualche motivo orbita ancora qui con loro al Complesso, è intenta a messaggiare con qualcuno; Nebula e Rocket sono impegnati in una partita silenziosa di finger-football – e lei sta decisamente vincendo; Thor è fuori, nel patio, e fissa gli alberi immersi nel buio.

Aggrotta la fronte e scocca un'occhiata a Rhodey, ancora in cucina con lo sguardo preoccupato fisso su di lui. Tony scuote la testa ed esce infine dalla stanza, senza riuscire a scrollarsi di dosso una strana sensazione, come un'intuizione mancata, ovvia ma troppo inarrivabile per il proprio cervello sconnesso.

È solo mezz'ora dopo, mentre cerca di concentrarsi su un modello incompleto e frammentato della Gemma dell'Anima, che realizza cosa ha visto; o meglio, cosa non ha visto. Si blocca nel manipolare un tassello olografico a mezz'aria, schiudendo le labbra in un lieve moto di sorpresa.

Natasha non c'era.





 

Note:

[1] Inquieto giace il capo che porta la corona: citata nei film, è uno stralcio dell'Enrico IV di Shakespeare; Piena di scorpioni è la mia mente: citazione del Macbeth. Il perché Tony conosca citazioni letterarie simili viene spiegato da miei headcanon che verranno ripresi nel corso della storia.



Note dell'Autrice:

Cari Lettori,

eccoci giunti al secondo capitolo e, no, non vi addolcirò la pillola dicendo che siamo al punto più basso... non ci siamo arrivati neanche lontanamente :')
La storia era partita in modo estremamente lineare ma, come con quasi tutti i miei progetti, si è poi ramificata a dismisura, portandomi ad affrontare molti più aspetti e tematiche di quanto avessi preventivato, primo tra tutti il declino fisico ed emotivo di Tony in una situazione del genere. Il resto (chissà cosa, poi *fischietta*) arriverà, ma con i dovuti tempi ;)
Colgo l'occasione per dire che le parti in corsivo sono, a seconda del contesto, pensieri veri e propri di Tony o concetti più forti che spiccano nei suoi flussi di coscienza/introspezioni.
Ringrazio infinitamente voi belle persone che avete recensito lo scorso capitolo (you know who you are) e vi bacio tutte, così de botto senza senso a tradimento <3
A presto col prossimo capitolo, e come sempre ogni commento è gradito o voi Lettori silenziosi <3

-Light-

P.S. Un grazie e una scusa a Saramago per averlo sfruttato indegnamente al fine di ispirarmi, e non sarà neanche la prima volta. E comunque leggete Cecità, è un libro meraviglioso.



 

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Capitolo 3
*** Parte prima - Capitolo 2: Inerzia ***


.2.

Inerzia
 


“Il tempo passava come una mano che saluta da un treno sul quale avrei voluto essere.”
J.S Foer – Molto forte, incredibilmente vicino
 
 
 
Settembre 2018, Complesso dei Vendicatori
 
L’indomani sparisce anche Steve, ma lui se ne accorge solo la sera dopo tramite Rhodey che viene a controllarlo come sempre in laboratorio. Tony decide che la cosa non gli interessa abbastanza da indagare ulteriormente, e accoglie la novità con la stessa apatia con cui continua a passare le notti incollato agli schermi.

Il Complesso si svuota ancora nel corso della settimana successiva, quando Rocket e Nebula partono con la Benatar e Carol e Thor decollano di punto in bianco nei rispettivi fasci di luce, senza spiegazioni. Rimangono solo Rhodey e Bruce a orbitargli attorno, distanti e troppo vicini al contempo.

Tony sente le pareti dell’edificio in espansione, come se gli spazi fossero diventati improvvisamente troppo enormi, ma mai del tutto vuoti, mai del tutto silenziosi contro il rumore statico del proprio cervello. Si trascina da un giorno all’altro perdendone il conto, e dal divano al piano olografico inciampando nei suoi stessi piedi. Ultimamente – quant’è ultimamente? – cerca essere il più rumoroso possibile mentre lavora e si lambicca i neuroni esauriti. Ma non lo è mai abbastanza da coprire il resto.

Il resto, che non ha rivelato né a Rhodey, né a nessun altro, perché quello sprazzo di lucidità e raziocinio che si erge ancora a baluardo della sua mente sa che parlarne gli procurerebbe un biglietto di sola andata in una stanza imbottita.

“Signor Stark! Che bello rivederla!”
“Amore, sono a casa.”

Tony le ignora, quelle voci. Sa che non sono reali, ma a volte si volta comunque nella penombra del laboratorio alle tre di notte, quando è troppo stanco per separare la realtà dal sogno. E ogni volta si sente tradito e ingannato da se stesso nell’incontrare il vuoto attorno a lui. Ha un brutto rapporto con le visioni. Crede di aver avuto qualche allucinazione sulla Benatar, ma allora aveva la scusa di essere appena scampato alla morte, febbricitante e spossato dall’inedia. Qui non ha scusanti, è solo il suo cervello che fa falsi contatti producendo scintille effimere.

Ci sono momenti in cui non smettono mai di parlare, e una parte di lui sanguina a sentirli, si dissangua. Si sente un mostro a pensarlo, ma vorrebbe solo mettere a tacere le loro voci e riavere il silenzio nei suoi pensieri, mentre un’altra lo spinge a rispondere, lo pungola maligna verso l’orlo della follia che lui continua a non voler varcare.

“Tesoro, dopo la riunione alle Industries ho prenotato per due al ristorante a Santa Monica, ti passo a prendere io...”
“Signor Stark, dobbiamo assolutamente vedere questo film vecchissimo, Il Pianeta delle Scimmie, è pazzesco...”

Le ignora. Lo trapassano con ogni frase, ma le ignora, coi timpani che gli dolgono dall’interno e gli occhi perennemente appannati, mai abbastanza da strabordare, mai abbastanza da dargli sollievo. Si annega nei calcoli inconcludenti, nelle teorie sempre più astratte che dipingono le sue notti insonni senza portargli soluzioni.

“… e non farti aspettare come al solito perché non sai che giacca mettere, chiaro?”
“… e poi deve recuperare anche Star Wars, non ci credo che non l’ha mai visto, è cultura di base!”

Vuole abbracciarli. Vuole baciarli, vuole stringerli a sé così forte da annullarsi in loro. Teme che da un giorno all’altro inizierà a vederli, e si ripete che è sano averne paura, una sana follia.

“Fragole? Di nuovo fragole? Buon Dio, Tony, ti amo, ma giuro che uno di questi giorni…”
“Oh, mio Dio, signor Stark, è per me? È per me? È… è bellissima, grazie! Grazie! E lo sa che anche la sua armatura starebbe bene, rossa e blu?”

Un giorno comincia a mettere in dubbio la tangibilità di Rhodey, che ormai sembra un fantasma lui stesso per quanto è dimagrito, per quanta preoccupazione ha ad inghiottirgli gli occhi e per quante volte lo vede urlargli contro, con la frustrazione che erompe in lacrime rabbiose, mentre lui rimane inerte a subire la sua furia addolorata da perfetto amico ingrato quale è. Tony spera che lo prenda a pugni per farlo rinsavire, ma lui si limita a scuoterlo e poi ad abbracciarlo, ignaro di quanto quel gesto lo terrorizzi ogni volta, e ogni volta si divincola e lo spinge via, odiandosi, con mezze parole brusche che si arrampicano fino alle labbra.

“Per questo anniversario potremmo fare qualcosa… di non nuovo. Venezia, il Cipriani… il solito, insomma. Che ne dici?”
“La Midtown sta pensando di organizzare una gita in Europa l’anno prossimo! Andremo a Praga e Parigi e Venezia… lei ci è mai stato, signor Stark?”

Ignorarli non è abbastanza, e sa che non ci riuscirà ancora per molto. Niente è abbastanza, nulla di ciò che fa, nessuno dei progetti che ondeggiano a mezz’aria attorno a lui da quelli che forse sono mesi, o forse anni.

“Signor Stark…”
“Amore…”
“Tony…”

Una sera si scopre ad ascoltarli, e si coglie da solo in flagrante nell’atto di rispondere. Sente una doccia fredda lungo le vene e poi il suo corpo si muove da solo, spinto dal poco istinto di conservazione che gli rimane, ormai del tutto mal tarato. Ha resistito finora, ma perde la presa sul proprio buonsenso e si lascia trascinare dal pungolo bruciante che gli buca le viscere.

Sale i gradini a due a due sulle gambe molli e irrompe nella cucina deserta – non sa neanche che diavolo di ore siano, ma il mondo là fuori è sempre grigio, cinereo – aggrappandosi poi allo sportello della credenza come un naufrago. Le sue mani trovano a tentoni ciò che cerca, si stringono sul vetro spesso, svitano il tappo con uno stridio liberando una zaffata acre e portano la bottiglia alle labbra senza indugio, anestetizzandosi bocca e gola in una lunga sorsata.

Rimane in piedi tremante, a riprendere fiato, e gli sembra che le voci si attutiscano un poco oltre il primo velo d’intontimento che gli avvolge la testa. Prende un altro sorso, più lento stavolta, più intenzionale, quasi con dedizione, e le sente oltre i suoi timpani che si ingarbugliano tra loro. A metà bottiglia sono indistinguibili, riecheggiano lontane.

Arrivato al fondo finalmente tacciono, e le sue prime lacrime sanno d’alcol.


 
§

 
Ottobre 2018, Complesso dei Vendicatori
 
«Torno a New York,» annuncia Tony senza convenevoli, entrando di buon mattino nella sala comune con le mani in tasca e un’andatura disinvolta, la stessa con cui è arrivato in ritardo a innumerevoli riunioni.

Rhodey alza lo sguardo dal giornale olografico che sta scorrendo sul tavolo della colazione, e lo fissa come se fosse impazzito. Non può biasimarlo.

«Mi prendi per un idiota completo?» sbotta in tutta risposta, e non sa se stia fremendo per la rabbia o perché ultimamente è sempre sull’orlo delle lacrime per causa sua. «Tu non ci torni, a New York. Non se ne parla,» continua poi, alzandosi con quel suo fare marziale che lo fa sembrare un soldatino di stagno diritto e impettito, a dispetto dei tutori.

«E chi sei tu, per impedirmelo?» chiede Tony con voce annoiata e una frase fatta, piazzandoglisi di fronte col peso spostato sui talloni, il mento alto.

«Il tuo migliore amico,» ribatte secco lui, coi pugni così serrati da potergli probabilmente frantumare la mascella, se decidesse di usarli. «So cosa vuoi fare, lì, e non ho intenzione di permettertelo.»

«Ovvero?»

«Farti del male, in ogni modo possibile. E hai già iniziato. Tony, non negare, lo so,» lo anticipa, con un gesto secco e inequivocabile verso l’armadietto degli alcolici.

Tony si passa una mano sul volto, sentendosi d’un tratto troppo stanco per litigare. È troppo stanco anche per parlare e camminare al contempo, è troppo stanco per vivere, non sa neanche più come si litiga o si parla da persona normale. Si guarda intorno assente, nella sala comune deserta, con l’ira di Rhodey che gli pende sulla testa stretta da un principio d’emicrania. La prima sbronza è sempre la peggiore.

«Dove sono gli altri?» chiede poi, in un mormorio soffocato dal suo palmo, realizzando che da un paio di giorni non ha visto nemmeno più Bruce.

«Non cambiare argomento, visto che non te n’è fregato nulla per un mese; cosa diavolo ti passa per la…»

«Rispondi alla mia domanda e io rispondo alla tua,» scatta Tony, senza suonare davvero aggressivo o irritato, solo ancor più esausto di quanto già non sembri.

Rhodey incrocia le braccia corrucciato, stringendosi i bicipiti in quella che sembra una morsa dolorosa.

«Gli altri chi?» ribatte poi, volutamente lento di comprendonio, e Tony trattiene uno sbuffo esasperato.

«Tutti,» replica, sempre senza particolare emozione. «Mi sono perso dei passaggi e non capisco come siamo passati da un’intera famigliola in lutto a una coppia di sposini scontrosi,» butta fuori, ostentando indifferenza e cercando di rimettere in moto a calci il gene assopito del suo sarcasmo.

Rhodey sospira così a fondo che Tony teme di vedergli scoppiare il petto.

«Carol è tornata dai Kree, Thor è occupato con Nuova Asgard, Bruce sta conducendo delle ricerche in Wakanda che spera possano tornare utili e Rocket e Nebula sono partiti per un pianeta di cui neanche so pronunciare il nome. Xanthos [1], una roba del genere.»

Il suo intervento finisce lì, e Tony incalza un continuo con lo sguardo.

«E Capitan Ghiacciolo? Romanov?» chiede infine, quando non ottiene risultato.

Rhodey arriccia le labbra, scuotendo appena il capo.

«Natasha è sparita dai radar, di punto in bianco. Lo sai com’è fatta,» specifica, le sopracciglia aggrottate. «Steve sta cercando di rintracciarla, ma… è brava a nascondersi,» conclude, alzando le spalle.

«Come Barton,» osserva Tony, sovrappensiero.

«Pensiamo stia cercando proprio lui, ma con loro non c’è mai nulla di sicuro,» sospira Rhodey.

«Figurarsi,» commenta Tony, sbuffando seccamente aria e pizzicandosi la radice del naso in un moto irritato.

Ovvio. Fanno quello che fanno spie e assassini. Spariscono. Ricominciano da capo. E tanti saluti all’allegra famigliola felice. Quasi li invidia.

Rhodey gli concede un momento di riflessione che per i suoi standard impazienti è anche troppo lungo, poi torna alla carica:

«Riguardo a New York… vuoi spiegarmi?» chiede di nuovo, in modo leggermente più conciliante.

Tony respira a fondo dal naso e trattiene l’aria per qualche secondo, prima di rilasciarla lentamente. Come glielo spiega, il principio d’inerzia? In realtà Rhodey lo conosce già, i principi della dinamica sono roba da liceo e loro si sono laureati insieme... ma come glielo spiega qui, applicato a questo sistema,  in modo che abbia senso e soprattutto senza sembrare folle?

Se la forza che agisce su un corpo è nulla, la velocità di quel corpo non può cambiare. Rimane fermo, oppure si muove all’infinito nella stessa direzione se è già in movimento. E lui adesso è fermo, totalmente fermo, bloccato, imprigionato in un laboratorio che non offre soluzioni o vie d’uscita. Se tornasse a New York sente che potrebbe almeno muoversi. Arrancare, magari. Un po’ alla volta, sempre nella stessa direzione che probabilmente è anche quella sbagliata, ma non sarebbe più costretto a rimanere inchiodato sul posto. Continuerebbe sempre a muoversi per inerzia, sospinto dai ricordi che custodisce in quel luogo – e dall’alcol, molto probabilmente – ma quel moto rettilineo uniforme gli sembra preferibile a uno stato d’immobilità assoluta.

Certo, il sistema di riferimento non cambierebbe. Lui rimarrebbe sempre alla deriva in un universo di cenere, che a un occhio esterno rende difficile capire se qualcosa sia in movimento o assolutamente immobile. Non c’è differenza: andare avanti o rimanere fermi, addirittura tornare indietro… sono movimenti che coincidono, che si rincorrono senza fine. Ma deve mettere a tacere le voci, non importa come, o dove.

Scaccia quelle considerazioni, apre la bocca per rispondere e la richiude, mandando giù la formula basilare che aveva sulla punta della lingua. Non crede che la scienza sia l’approccio giusto per farsi dare ascolto da Rhodey. Lui è pragmatico, ferreamente logico, ma forse vedere il proprio migliore amico ridursi ai minimi termini di un principio fisico turberebbe anche lui. Espira aria dal naso e cambia rotta, sapendo che abbattere la diga emotiva che tiene a bada ogni giorno è rischioso.

«Rhodey, è semplice: impazzisco, a stare qui,» mormora poi, chinando appena il capo e mandando al diavolo la fisica, Galileo, Newton e tutta la loro schiatta. «Non serve a nulla, non servo a nulla, inchiodato qui, e… voglio andare a casa. Voglio… averli intorno, ricordarli. Qui li sto dimenticando tutti e due,» continua, e si sente un’incudine in gola perché non gli riesce di pronunciarne i nomi.

Lo sente avvicinarci, e poi sente le sue mani sulle spalle che lo stringono fin quasi a fargli male, ma accoglie la sensazione con sollievo. Lo fa sentire radicato a terra, ma non in trappola. Presente a se stesso, con un po’ meno nebbia in testa e qualche puntino stellare in meno sulle retine.

«Ti capisco,» esordisce, in modo conciliante. «Davvero.»

Tony scuote la testa, ma non lo contraddice. Sa di potersi fidare di Rhodey. Lo sa, e sa anche che stavolta non può davvero capirlo fino in fondo, né si aspetta che lo faccia. Lo ascolta comunque, perché ormai è l’unico che può e vuole farlo.

«Ma ho paura a lasciarti solo,» scandisce poi con calma, affondando gli occhi nei suoi senza concedergli vie di fuga, e i sottintesi di quella frase sono chiari.

Lui scuote di nuovo la testa, senza convinzione. Non riesce a dargli torto, ma non può nemmeno rimanere qui un secondo di più, nella reggia abbandonata di eroi sconfitti che fingono di non conoscersi.

«Sei abituato a vedermi dare il peggio di me,» risponde, in un modo troppo mordace, troppo scostante per qualcuno come Rhodey, che non si merita nulla di tutto questo da parte sua. «Stavolta però puoi anche evitare di raccogliere i pezzi,» conclude noncurante, e rialza gli occhi imbastendo un’espressione dura che gli ripiega il cuore su se stesso. «Non m’importa di quello che succede, o che mi succede. Voglio solo tornare a casa,» ripete come un bambino, come un disco rotto.

A quel punto Rhodey gli prende di colpo il viso tra le mani, costringendolo a non distogliere lo sguardo, e la sua presa è così salda che trema leggermente sotto la tensione.

«Tones [2], va bene. Va bene. Ma torniamo a New York tutti e due. E poi io ti lascio stare, ti lascio i tuoi spazi,» afferma rapido, con sua sorpresa. «Ma tu non fare cazzate. Mi hai capito? Non fare cazzate, ti prego. Ti prego,» ripete, con voce tesa, aumentando la stretta e imprimendogli quasi le linee dei suoi palmi sulle guance.

Tony annuisce appena, frenetico; non l’ha mai visto così disperato e teme di scoppiare a piangere lì da un istante all’altro sotto la pressione che gli comprime il volto e il suo sguardo implorante.

«Va bene, non faccio… troppe cazzate,» gli concede soltanto, quasi balbettando, perché sa di non poter mantenere del tutto quella promessa.

«Non fare cazzate irrimediabili,» specifica allora Rhodey più esplicito, ma non del tutto, forse perché non ha il coraggio di formulare quel pensiero che per ora ha solo sfiorato Tony, gli ha solo lasciato una piccola cicatrice che gli ricorda flebilmente di non farlo.

«Non faccio cazzate irrimediabili,» gli assicura lui, con un filo di voce, sapendo che ci dovrà mettere tutto se stesso. «Ora mi lasci andare? Mi fai venire il torcicollo, così,» aggiunge poi, dandogli un buffetto sul dorso di una mano e facendogli infine allentare la stretta, che gli ha effettivamente indolenzito la mandibola. «Sei veramente un orso… dovresti andarci più piano, coi tuoi amici,» si sforza di dire, sfregandosi il pizzetto.

Tutte le parole che gli escono dalla bocca suonano sbagliate, appartengono a un passato che non gli riesce di ricordare, e anche il sorrisetto che tira è distorto. Ma ci prova lo stesso, ad essere Tony Stark.

«Promettilo,» gli intima Rhodey, ancora mortalmente serio, e sembra di nuovo sul punto di picchiarlo, a dimostrazione del fatto che lui non è l’unico ad accusare un lieve bipolarismo, ultimamente. «Prometti di non fare… nulla

Tony lo fissa negli occhi e la tentazione di mentire è enorme, molto più grande della sua volontà. Fa un sorrisetto smorto e si traccia una piccola croce sul cuore mentre si cava fuori la risposta a forza. Brucia sulla sua lingua assieme ai buoni propositi che manderà fumo:

«Promesso.»



 

Note:

[1] Rhodey si riferisce a Xandar.
[2] Tones è un soprannome abbastanza desueto per "Anthony" e un ulteriore vezzeggiativo di "Tony". Nei miei headcanon, Rhodey è l'unico a usarlo (e a poterlo usare senza incorrere in menomazioni), ed è diventato un po' un mio marchio di fabbrica per il personaggio.



Note dell'Autrice:

Salve!
Tony va di bene in meglio, eh? Se può consolarvi, però, siamo quasi al punto di svolta ;)
Descrivere la depressione e l'abbattimento di qualcuno non è mai facile, principalmente perché ognuno di noi la vive e può viverla in mille modi differenti e con ancora più sfumature dietro a ogni singolo gesto. A parte le elucubrazioni riguardo all'inerzia, Ho voluto lasciare più spazio alle sensazioni e alle emozioni nude e crude, rispetto a veri e propri pensieri di senso compiuto, perché in questo frangente non l'ho "visto" in grado di essere razionale o analitico nei confronti di ciò che sta vivendo. Rhodey, dal canto suo, si è accaparrato un ruolo molto più rilevante di quanto avessi programmato inizialmente, e spero lo abbiate apprezzato <3

Qualche appunto doveroso: nel MCU Tony non è mai stato esplicitamente alcolista: questo è un dato ricavato dai fumetti, in cui Tony ha sempre e costantemente problemi anche molto gravi con l'alcol. Seguendo il mio headcanon, Tony si è ripulito da quando ha iniziato a lavorare con Pepper (ciò non vuol dire che non beva, ma che semplicemente non ne è più dipendente, poi è ovvio che i suoi eccessi in Iron Man/Iron Man 2 ci siano comunque).
L'alcolismo ha però un tasso di ricaduta altissimo, soprattutto in combinazione con altri disturbi o situazioni stressanti, e per questo ho deciso di farlo cedere adesso, contando che sono passati più di quattro mesi dallo schiocco e dal suo ritorno sulla Terra. Per evitare di scrivere castronerie ho consultato della letteratura medica e psicologica riguardo a questo problema, ma in certi passaggi ho favorito la storia al realismo (li indicherò comunque sempre nelle note).
Per quanto riguarda le "allegre vocine" che sente, verranno anch'esse spiegate ;)

Chiudo la mega-parentesi e ringrazio infinitamente
_Atlas_, shilyss, Miryel e T612 per aver commentato gli scorsi capitoli rendendomi felicissima <3
Al prossimo capitolo (consci che le gioie di Tony sono lontane),

-Light-


P.S. In citazione, un altro dei miei libri preferiti, anch'esso consigliatissimo :')


 

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Capitolo 4
*** Parte prima - Capitolo 3: Buio ***


.3.

Buio
 

 
“For all those born beneath an angry star
Lest we forget how fragile we are

On and on the rain will fall
Like tears from a star
On and on the rain will say
How fragile we are”

 
 [Fragile – Sting]



Dicembre 2018, ex-Avengers Tower, New York
 
Procede a tentoni, privo d’orientamento.

Si aggrappa alle mani che lo toccano senza neanche chiedersi di chi siano, le stringe e cerca di trattenerle anche se sembrano tutte sfaldarsi sotto i suoi polpastrelli, friabili e illusorie. Le uniche che vorrebbe sfiorare non arrivano mai.

Li riconosce così: dalle mani, soprattutto; attraverso i loro gesti. I buffetti impacciati di Rhodey sulla nuca, i suoi palmi ruvidi e saldi che lo sostengono come hanno sempre fatto; le mani ampie e paffute di Happy che gli sorreggono la fronte e gli danno pacche leggere sulla schiena; raramente qualcun altro che non riconosce, più brusco. Forse Banner, meno probabilmente Rogers: poco importa, finché raggiungono lo scopo di non lasciarlo a soffocare per terra in una pozza d’alcool.

Odia il contatto fisico, l’ha sempre odiato con tutto se stesso, se non con quelle poche, pochissime persone a cui lo concedeva di buon grado – e metà di esse adesso sono cenere. Ma quegli sporadici contatti sembrano dargli la forza che sente di non avere. E in fondo, chiusa a doppia mandata in fondo al petto, una piccola parte di lui ha sempre cercato quell’affetto e quell’amore che pensa di non essersi mai davvero guadagnato. Le carezze e i baci di Pepper, le parole che gli sussurrava all’orecchio; quei mezzi abbracci che rimpiangerà per sempre di non aver regalato del tutto a Peter, la sua risata spontanea, contagiosa.

Adesso sono solo fantasmi che gli sfiorano la pelle. Fredda, insensibile. Come se non riuscirà mai più a provare qualcosa di bello in vita sua, come se il suo petto non fosse più adatto ad accogliere alcuna emozione se non i singhiozzi che lo scuotono nel cuore della notte, automatici, privi di lacrime e innescati non appena poggia la testa sul cuscino.

Si aggrappa ad ogni tocco, ad ogni orma di calore che sente addosso, nel tentativo di risvegliarsi e di sentire di nuovo qualcosa che non sia dolore e vuoto – perché anche quella casa è vuota e parla di loro, in ogni metro quadro, e sa che è qui che è scomparsa Pepper, gliel’hanno detto, e ogni volta ha l’impressione che la polvere sia cenere, una patina grigia onnipresente che gli aderisce addosso come una seconda pelle.

Un giorno – ed è dicembre, sa sempre quando è dicembre – le mani che si tendono verso di lui cominciano a sfuggirgli tra le dita. Comincia a non vederle, o a ignorarle. Sprofonda, un millimetro di più ad ogni ticchettio d’orologio. Beve meno, ma in modo più costante, precipitandosi in un torpore perenne e non concentrato in poche, intense ore di oblio completo. Sente persone che vanno e vengono nel suo attico trascurato e smette di salutarle, percepisce le loro mani che gli passano attraverso, e a volte batte le palpebre e si trova teletrasportato a qualche giorno dopo senza sapere come.

Si sveglia e si addormenta senza logica, e vorrebbe solo non abbandonare mai quella parentesi buia che si popola di sogni dolci – non più incubi; quelli ormai si sono avverati tutti – che lo fanno rimanere sospeso sulla realtà. La mattina, quando si sveglia, le sue labbra sanno sempre di sale.
 

 
§
 

Rimane intrappolato in se stesso per mesi. Forse sono solo giorni o settimane, ma ha perso il conto tempo fa.

Ha perso il conto anche di quando, esattamente, il tempo abbia smesso di avere significato, tramutandosi in una lastra di lucido basalto nero privo di dimensioni sulla quale continua ad arrancare. Il principio d’inerzia adesso gli rema contro, perché lui vorrebbe solo sedersi e lasciare che il tempo gli scorra addosso, invece di continuare a inseguirlo come se potesse raggiungerlo. E non può, non ci riuscirà mai, perché si estende all’infinito davanti a sé, e dietro di lui c’è un muro impossibile da infrangere che continua a premergli tra le scapole, doloroso.

Così arranca, un passo dopo l’altro, striscia tra bottiglie vuote, notti insonni, progetti incompiuti che forse non ha mai iniziato per davvero. Non si ricorda neanche più il momento in cui ha smesso di cercare una soluzione i nlaboratorio. In cui ha smesso di fare qualsiasi cosa, quell’istante in cui anche solo varcare la soglia di casa per perdersi tra le strade sfatte di New York ha iniziato a presentarsi come un’impresa impossibile – e poi è toccato a quella della camera da letto, e poi al letto stesso.

Se Rhodey non avesse fatto irruzione nel suo eremo su misura, prendendolo di peso e costringendolo a rimettersi in piedi urlando come un ossesso, è sicuro che avrebbe finito per scomparire, raggomitolato tra le lenzuola e nella conchetta del materasso modellata dal suo corpo deperito. Sarebbe scomparso in silenzio, senza un grido, né un pensiero, annidato nel suo angolo di buio e alcool e false stelle. Come sulla Benatar, lontano da tutti, disperso nel suo cosmo che adesso è personale e gli spalanca gli occhi anche quando vorrebbe solo chiuderli per farli strabordare senza controllo – e invece sono sempre asciutti come carta vetrata.

Solo che Rhodey è arrivato, l’ha sollevato di peso, l’ha forzato prima sotto la doccia ancora vestito e poi a sedersi al tavolo del salone – sterminato, vuoto, spento – facendogli mandar giù a forza qualche boccone sotto il suo occhio vigile. Lui non ha opposto resistenza, o almeno non troppa. Anche se avesse voluto non ne sarebbe stato in grado. Fissa il suo migliore amico con occhi enormi e continua a chiedersi perché si stia ostinando a tenerlo in vita. Non esprime ad alta voce quel pensiero, perché così gli spezzerebbe il cuore e, in fondo, sa benissimo perché lo fa. Forse è solo per quello che si sta lasciando andare a quel modo nel vuoto: perché c’è qualcuno che all’ultimo momento gli impedisce di sfracellarsi a terra, ogni volta.

«Sono contento che tu sia vivo,» gli dice quel giorno dopo secoli di silenzio, mentre segue i suoi movimenti in cucina, col mento poggiato sul dorso delle mani e le braccia conserte sul tavolo come un bambino in punizione.

Sa che suona egoista, detto così. E in parte lo è, ma lui non è abituato a dire certe cose ad alta voce, né Rhodey è abituato a sentirsele dire. Non si gira verso di lui, ma lo sente sospirare.

«Io a volte mi chiedo se tu sia ancora vivo,» sbotta, e c’è un’ombra di pianto represso nella sua voce.

Tony abbassa lo sguardo, colpevole. Non ha visto piangere Rhodey in trent’anni; forse solo quella volta in cui l’ha recuperato in Afghanistan ha avuto gli occhi un po’ lucidi – gioia, lacrime di gioia – e adesso è tutto ciò che gli vede fare. Costantemente, soprattutto attorno a lui.

«Non lo so neanch’io,» mormora contro le proprie nocche, e vi poggia poi la fronte a nascondere del tutto il proprio volto sfatto; la penombra è un sollievo per i suoi occhi affaticati e fotosensibili. «Stavo provando a… a resistere, ma non ha funzionato molto bene,» conclude, schiarendosi la voce, e i suoi occhi scattano involontariamente verso il bancone, calamitati dalle troppe bottiglie semivuote che occhieggiano tentatrici.

È consapevole di essere in condizioni pietose, e a posteriori sente la vergogna risalirgli le guance per aver costretto Rhodey a ripulirlo e renderlo presentabile. Si liscia le ciocche di capelli ancora umide sulla fronte, pettinandole poi all’insù nonostante siano diventate troppo lunghe dopo mesi d’incuria. Si è guardato di sfuggita allo specchio, ed è abbastanza convinto che di ritorno da tre mesi di patimenti avesse un aspetto migliore. Più sano, sicuramente, forse perché dopo quell’esperienza aveva ricominciato a vivere, e non a morire come sta facendo ora, un minuto alla volta.

«Come ti senti, adesso?» cambia argomento Rhodey, riponendo il canovaccio e poggiandosi al bancone della cucina a braccia incrociate, a distanza. «Fisicamente,» specifica poi.

«Un po’ più vivo. Fisicamente,» replica lui con parole strascicate, senza alzare la testa come se fosse a risparmio energia. «Sei una frana a fare i pancake, ma apprezzo lo sforzo,» continua poi, con un sorrisetto celato e sinceramente riconoscente nonostante il tono ironico.

Lo sente sbuffare divertito.

«Ha parlato Master Chef,» lo rimbrotta, e Tony non alza lo sguardo per paura di stare solo immaginando il sorriso che intuisce sul suo volto.

«Avevo una specializzazione d’onore in omelettes, quelle sono molto più difficili dei pancake,» ribatte, forzando la voce in modo da renderla briosa, con scarso successo.

Lo sente quasi trattenere il fiato, e rinuncia a proseguire su quella linea inutilmente vivace. Continua a premere il volto contro il tavolino, ad attutire il mal di testa da dopo sbornia. Se davvero può parlare di “dopo” sbornia, perché non c’è mai un momento in cui si senta del tutto sobrio.

«Tones, io non so più cosa fare con te,» sbotta Rhodes, senza preavviso, e lo sente agitarsi sul posto, le suole delle scarpe che strusciano contro il pavimento. «Hai perso ancora peso e hai il fegato gonfio, credo... se continui così dovrò portarti in ospedale,» continua, più nervoso.

«Stai chiedendo alla persona sbagliata, se cerchi una soluzione,» replica serafico lui, senza più sforzarsi di articolare chiaramente le parole e ignorando l’ultima frase.

«Ma deve esserci,» ribatte lui, stentoreo.

«I miei calcoli dicono il contrario, e sono ancora in grado di…»

«No, non sto parlando di quello, Tony, ma di te,» lo interrompe Rhodey, e sembra infervorarsi di nuovo. «Una soluzione per te. E non è l’alcol. Dovresti parlare… con qualcuno. Non con me, perché sai benissimo che sono incapace. Fare come… come dopo New York,» insiste, e Tony sa perfettamente che si sta arrampicando su specchi e false speranze.

«Rhod, dopo quello che è successo anche i terapisti hanno bisogno di terapisti, non…» risucchia un sospiro svogliato. «Non è un qualcosa che si può “risolvere”. Né aggiustare. Non lo faccio neanche apposta. Non voglio stare così,» aggiunge, scoprendo gli occhi senza guardarlo, fissando lo skyline fuori dalle vetrate e poggiando di nuovo il mento sul dorso delle mani. «So che non mi credi, ma…»

«Ti credo. Ti credo,» ribatte Rhodey, passandosi una mano sulla bocca inclinata verso il basso per la preoccupazione, poi si stacca dal suo appoggio e gli si avvicina, sedendosi sul tavolo accanto a lui. «Ma ci dev’essere qualcosa che potrebbe farti stare meglio. A parte…»

«… l’impossibile,» completa Tony, amaramente, senza muoversi ma volgendo ora gli occhi verso di lui, sapendo che si sono appannati. «Tu,» risponde poi, sbuffando e riprendendo il filo del discorso. «Anche Happy. E non mi far diventare melenso, così mi sto già rovinando la reputazione, se ancora ne ho una,» si affretta ad aggiungere, contraendo appena le dita e sentendosi esposto, come ogni volta che tenta di usare le parole al posto delle azioni.

«Avere gente intorno,» dice Rhodey, con cauta lentezza, e forse un pizzico di calore in più dopo quelle parole.

Tony annuisce appena, per poi sospirare pesantemente, stropicciandosi la pelle in mezzo alle sopracciglia con un gesto esausto.

«Divento autodistruttivo, da solo. Lo sai,» si costringe ad ammettere, e preannuncia la replica dell’amico.

«Lo so, è proprio per questo che non volevo che lasciassi il Complesso,» ribatte infatti, piccato, e Tony è sicuro che stia trattenendo un “te l’avevo detto” esplicito solo perché è troppo arrabbiato per buttarla sul ridere.

Sfugge al suo sguardo accusatore e schiocca la lingua, a corto di parole.

«Lo sapevo anch’io, ma… credo fosse un passaggio obbligato, in un certo senso,» dice, sottovoce.

Sente Rhodey inspirare a fondo, ed è decisamente incazzato. Quando è incazzato, Rhodey tende a usare i pugni al posto delle parole, così si affretta a proseguire:

«Se n’erano comunque andati tutti, non faceva molta…»

«Ora sono tornati. Alcuni, almeno. Il Complesso funge di nuovo da base operativa,» lo interrompe lui, e per un istante sembra quasi rallegrato, come se riunire i Vendicatori superstiti potesse fare una qualche differenza.

«Base operativa per cosa, esattamente?» chiede, cercando di non suonare troppo sarcastico.

«Per il poco che possiamo ancora fare. Non ti sto dicendo di tornare ad essere Iron Man, ma almeno torna da noi. Anche se non siamo più i Vendicatori, proviamo comunque ad andare avanti,» continua, con più veemenza e, Tony lo sa, una punta di speranza.

«Andare avanti…» ripete scettico, facendo aderire un palmo al piano lucido del tavolino, prendendolo come appoggio solido in un mondo che ancora traballa leggermente. «Ci devo pensare. Non mi sembra una soluzione, solo un modo per tenermi meglio d’occhio,» sbuffa, senza nascondere l’irritazione.

«Infatti è anche per quello,» non nega Rhodey, e gli posa una mano proprio sul polso, facendolo sussultare e inviandogli una scarica di fredda elettricità lungo la spina dorsale.

Gli sembra che il piccolo marchio roseo sul polso inizi a pulsare con violenza, come quando vi era ancora infisso il coccio affilato. Si aspetta un commento da un istante all’altro, ma Rhodey, cosciente o meno di quel quasi-incidente, si limita a stringerlo appena in quello che, lo capisce in ritardo, è un gesto per cercare conforto, non per darlo.

«Ho mantenuto la promessa,» si trova a dire Tony, con la gola stretta e piena di bugie, perché è stato più volte a un passo dall’infrangerla, frenato solo da voci che non avrebbe neanche dovuto sentire.

Rhodey annuisce in silenzio, meccanicamente, e Tony capisce che non vuole neanche discuterne, di quello. Non vuole prendere in considerazione quell’eventualità, anche se probabilmente l’ha tormentato in ogni istante in cui non è stato lì con lui, vedendolo coi propri occhi ancora vivo.

«Non ho mai avuto molto, Tones, e il poco che avevo l’ho perso quasi tutto nella Decimazione,» dice poi, semplicemente, aumentando la presa sul suo polso e arricciando le labbra nel fissarlo.

Lui non riesce a sostenere il suo sguardo e si limita ad annuire, poggiando poi la fronte sul dorso della sua mano, che ancora gli stringe il polso. Si sente uno schifo – fin troppo se stesso – per non aver pensato a lui, alle conseguenze che ha dovuto affrontare, come tutti gli altri. Rhodey ha sempre considerato gli Stark la propria famiglia, per quanto disfunzionale, e loro due sono diventati fratelli d’elezione – ma ciò non vuol dire che non abbia sofferto nel perdere la sua vera famiglia [1]. Forse l’ha reso solo più difficile, realizza, pensando a quanto a lui ancora faccia male il cuore nel pensare a Howard, nonostante tutto il rimprovero e l’ambiguità che si è lasciato alle spalle per posarli sulle sue.

«Va bene, Rhod,» mormora infine, accomodante, il capo ancora chino contro le sue nocche a trarne supporto. «Ci penso. Dammi solo un po’ di tempo.»

Quasi gli viene da ridere, perché è esattamente quello, che vorrebbe fermare o riavvolgere. Sente Rhodey che respira a fondo varie volte, a cadenzare la propria indecisione.

«Non aspettare troppo, o ti vengo a prendere di peso,» conclude, con un tono che sa già di sconfitta.

«Basta che non mi butti di nuovo nella vasca da bagno,» sorride appena lui, sbuffando una risata stanca.

«Quello non posso promettertelo,» ribatte, e gli strofina i capelli sulla nuca in una carezza ruvida e rassicurante rimasta identica per trent’anni.
 

 
§

 
Evidentemente ha aspettato troppo, perché qualche giorno – settimana? – dopo, mentre si sta ancora chiedendo come diavolo sia finito per terra ai piedi del proprio armadio, sente il trillo dell’ascensore in soggiorno. Non si odono imprecazioni, né passi pesanti, né Tones gridati con voce minacciosa e preoccupata al contempo, quindi non è sicuro che sia Rhodey.

Rilascia un lamento esasperato, chiedendosi quanti miliardi di persone – se davvero ne sono rimaste così tante al mondo – abbiano il codice d’accesso per casa sua. Fa leva su un gomito per alzarsi, riuscendo solo ad scollare la testa dal pavimento e a rimescolarsi i pensieri ancora liquidi di scotch. La bottiglia giace sul comodino, semivuota, non più così invitante dopo essere rotolato malamente giù dal letto. Il mondo beccheggia e s’impenna, e vede che deve essere sera, o tardo pomeriggio – è ancora inverno? Il pavimento congelato che gli preme sul lembo d’addome scoperto gli risponde di sì – e le luci di New York sono accese – in parte, troppo poche, coi ponti ridotti a reticoli neri e contorti nel crepuscolo. Niente luminarie natalizie, quest’anno, e potrebbe essere l’unico miglioramento nel mondo post-Decimazione.

Emette un altro lamento, più acuto, quando la sua porta si schiude e viene accecato dal bagliore che immette nella stanza. Strizza gli occhi contro la lama luce che fende la penombra, senza riuscire a distinguere il nuovo arrivato, ma stabilendo con parziale certezza che, vista la stazza, non sia Rhodey, né Happy.

Poi sente dei passi leggeri, in punta di piedi, e batte le palpebre in un moto d’incredulità nel distinguere meglio quella sagoma minuta che gli si sta avvicinando.

«Romanov?» mormora lentamente ogni sillaba, a malapena comprensibile, e un capogiro lo invoglia a poggiare di nuovo la testa sul pavimento, guardandola sbilenco dal basso.

«Ehi, playboy,» sospira lei con voce più grave di quanto ricordasse.

Si accovaccia di fronte a lui, permettendo alla luce di delinearle il profilo del volto stanco, le labbra piegate in un piccolo sorriso smorto.

«Ti sono mancata?»




 


Note:

[1] Le dinamiche familiari di Rhodes nei fumetti sono piuttosto intricate e ho preferito semplificare il tutto, visto che invece nel MCU non si sa assolutamente nulla. Basti sapere che ha un rapporto conflittuale in particolare la sorella, che non vede per molti anni finché non viene a sapere della sua morte in circostanze tragiche (qui assimilate alla Decimazione).



Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
prima o poi la cara Nat doveva pur entrare in scena, e spero che sia stata una svolta gradita. Le sue vicissitudini, ve lo preannuncio, non saranno chiarite del tutto ancora per un bel po', e si divertirà lei stessa a tenere sulle spine sia voi che Tony.
Ora, mi aspetto una standing ovation per Rhodey e per la pazienza che quel povero cristo dimostra con Tony, che ovviamente dovrà ripagargli tutti i danni psicologici, prima o poi.
Da qui in poi, la storia entra nel vivo, se così si può dire, e ciò significa che i due martiri di turno ne dovranno passare delle belle ;)

Ringrazio immensamente tutti voi che avete recensito fin qui e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste <3 Questa è una storia che sto curando con particolare premura, quindi mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate, a prescindere dalla lunghezza del commento: ogni parola conta ed è motivo per migliorarsi <3

Detto questo, vi aspetto al prossimo capitolo!

-Light-

P.S. Per chi segue o ha già letto la versione su Wattpad: sottolineo che quella è in tutto e per tutto una bozza/modo per vederla "su carta" prima della stesura definitiva, e che quindi vi saranno discrepanze tra le due versioni, probabilmente sempre più incisive col passare dei capitoli e soprattutto in relazione alla cronologia della storia, che è cambiata in corso d'opera.

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Capitolo 5
*** Parte prima - Capitolo 4: Inferno (I) ***


.4.

Inferno
I
 
 

“Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte
fino al punto di non vederlo più.”
I. Calvino
 
 


Gennaio 2019, Avengers Tower, New York
 
«Ma che cazzo…?» esordisce poco elegantemente Tony dopo il primo istante di stordimento, incapace di trovare le energie per sollevare di nuovo la testa da terra.

«Molto poetico, Stark,» commenta lei, facendosi più vicina.

La vede sfocata, adesso, come se fosse sott’acqua.

«Mh… stai ferma lì dove sei, mi fai venire la nausea,» bofonchia, cercando di scollarsi dal pavimento e facendolo solo diventare un piano inclinato grazie al suo disorientamento mentale alcolico.

Il cervello gli rimbalza nella scatola cranica come un pallone da calcio, e forse non è solo a causa dello scotch. Si porta le dita alla tempia e trattiene una smorfia per il dolore acuto che la colpisce, unita alla sensazione di caldo gonfiore che avverte sotto ai polpastrelli.

«Hai un bel bernoccolo,» osserva serafica Natasha, scostandogli la mano e premendovi il suo palmo più fresco a valutare i danni.

Tony riesce solo a modulare un lamento prolungato, perdendo la facoltà di parola mentre cerca di ricomporre i pezzi scomposti della propria visuale – oltre che di quello che sta succedendo, perché è ubriaco marcio, ma è comunque piuttosto sicuro che Natasha non dovrebbe essere qui. Né qui nel suo attico, né a New York, né negli Stati Uniti, né probabilmente in questa parte del globo.

«Rhodey…» esala, strascicando le sillabe, «… non doveva venire lui?»

«Non rispondi al telefono da cinque giorni: Rhodes aveva troppa paura di trovarti impiccato a una cravatta o sfracellato ai piedi della Tower per presentarsi di persona qui,» ribatte lei, asciutta.

«Ho… perso il telefono,» biascica Tony, vagamente cosciente di averlo scagliato sotto al divano in preda a un delirio alcolico. «E no, non…» prende un grosso respiro cercando di ossigenare il cervello e causandosi solo un capogiro, «non… c’è il blocco di sicurezza alle finestre, ci pensa FRIDAY, a non farmi volare di sotto…» bofonchia, e realizza di essersi di nuovo spalmato per terra, con la guancia che aderisce al parquet e una mano premuta inutilmente a far leva sul legno senza riuscire a imprimervi alcuna forza.

«Che sollievo,» è la cinica risposta della donna, e la sente muoversi svelta attorno a sé.

Avverte una spinta improvvisa verso l’alto, comprendendo in ritardo che lo sta sollevando, cingendogli il busto da dietro per farlo mettere seduto contro l’armadio. Compie il gesto con fin troppa facilità, considerando che è praticamente abbandonato a peso morto, e trova un riflesso della propria considerazione nel modo in cui la sente tastargli di sfuggita le costole, ben percepibili anche attraverso la maglietta.

«Nuova dieta,» bofonchia anticipando i suoi possibili commenti, e riesce a mettere a fuoco il suo cipiglio contrariato.

«A base d’alcol?» sbuffa lei, di nuovo seduta sui talloni di fronte a lui, e da questa posizione riesce a distinguere un po’ meglio i suoi lineamenti.

Non è l’unico ad essere dimagrito, e i suoi occhi verdi hanno una sfumatura quasi grigia. Ma quello, sospetta, è solo frutto della sua immaginazione soffocata dalla cenere.

«Quando sei… no, meglio,» si corregge, sollevando una mano e trovandosi a sventolarla in modo del tutto scoordinato rispetto alle sue intenzioni, «dove sei stata fino a…»

«Non adesso, Stark,» lo tronca lei, stringendo le labbra severamente. «Sei così sbronzo che non so neanche come fai a parlare. Non ho voglia di spiegarti tutto da capo quando sarai sobrio.»

«Per quello potrebbe volerci un po’,» biascica Tony, chiudendo gli occhi e riaprendoli di scatto quando il buio si trasforma in una trottola nauseante. «Stai meglio quasi rossa,» osserva poi, cogliendo solo ora suoi capelli che adesso sono lunghi fino alle spalle e hanno perso buona parte della tinta alle radici.

Si rende poi conto che quello non è esattamente un commento coerente, ma ritiene un successo il riuscire a frenare anche solo un decimo delle stronzate che gli arrivano alla bocca, e non ha le facoltà sufficienti ad approntare un bypass mentale funzionante. Natasha sospira dal naso, profondamente, e presume si sta trattenendo a stento dal farlo rinsavire con metodi poco ortodossi.

«Lo so,» risponde comunque, pacata ma con un sottotono metallico. «È più facile rinunciare alla tinta, quando non devo nascondermi e non sono ricercata,» conclude seccamente, con uno spillo di rimprovero che gli si conficca alla base della nuca.

«Okay, okay, sei ancora incazzata per Lipsia e tutto il teatrino,» deduce lui, ripiegando un ginocchio al petto e poggiandovi il mento, senza però commettere di nuovo l’errore di chiudere le palpebre, che sono comunque pericolosamente a mezz’asta. «Hai qualche buon motivo per essere qui, visto che sei… comprensibilmente astiosa verso di me?» chiede poi, impantanandosi nelle sue stesse parole senza la certezza di averle pronunciate tutte e in modo comprensibile.

«I buoni motivi sono risparmiare a Rhodes e Happy lo sporco compito di venire a raccattarti – di nuovo. E mandare qui Steve o Banner non mi sembrava esattamente una mossa sensata, ma forse mi sbaglio io,» continua lei, su un’onda di tagliente sarcasmo, e Tony quasi la preferisce al velo di compassione costante che irradiano appunto Rhodey e Happy.

«Non sbagli,» mormora, scollando la lingua dal palato, impastato del retrogusto acidulo dello scotch. «Però non mi schiodo comunque da qui,» conclude poi, spalmandosi una mano sulla fronte a coprirsi gli occhi, lasciando filtrare quel poco di luce sufficiente a non fargli venire le vertigini.

«Avevi detto di voler tornare,» lo rimbecca prontamente, e Tony sbuffa sciogliendosi poi in un sospiro esausto.

«Ero troppo sobrio, quando l’ho detto,» ridacchia, senza riuscire a frenare quella reazione inconsulta che, decisamente, non versa in favore della propria lucidità.

Di lucido, adesso, sente solo gli occhi, e ormai non sa più a cosa attribuire quella reazione fisica che sfugge al proprio controllo senza mai donargli il sollievo di un pianto vero. Forse avrebbe dovuto disattivare il blocco alle finestre di FRIDAY. Solo che non può farlo, perché ha impostato come chiave vocale la voce di Pepper. Per sicurezza, a tagliarsi definitivamente qualsiasi via di fuga troppo estrema. Almeno una delle tante. Quella misura preventiva gli sembra ancora una pugnalata autoinflitta, ma ha funzionato.

«Non voglio tornare,» mormora ancora sconnessamente, senza neanche aver avuto l’intenzione di dirlo ad alta voce.

«Gliel’hai promesso, Stark,» insiste lei, con brusca durezza, e vede i suoi occhi farsi minacciosi, un’eco di quelli di Rhodey meno il velo di pianto, perché Natasha non ha mai tempo, per piangere: è sempre in missione.

«Sono fatti miei, quello che decido di fare,» ribatte lui, incupendosi. «Non voglio tornare… un posto vale l’altro, ormai, e ho deciso di rimanere qui,» continua, ripetendosi.

Vorrebbe davvero smettere di parlare, ma è partito per la tangente e non sta neanche dicendo quelle frasi come vorrebbe dirle, riesce solo a suonare patetico e terribilmente alticcio.

«No, tu hai scelto di crearti il tuo inferno personale,» gli fa notare lei, con calma inumana.

Tony si ritrae un poco, incontrando la superficie dura dell’armadio con la testa ancora dolorante.

Creiamo i nostri demoni e rendiamo il mondo il nostro inferno. [1] Gli rimbomba in testa quella frase, letta o forse sentita un giorno di troppo tempo fa, quando sbirciava i libri che leggeva sua madre non perché gli interessassero davvero, ma per stare in sua compagnia, accoccolato a lei sul divano con gli occhi curiosi che facevano capolino sulle pagine da sopra la sua spalla accogliente. Alcune l’hanno accompagnato per una vita intera: immagini di corone pesanti e anime spazzate via da venti impetuosi, di mari in tempesta dominati da mostri fantastici e voli impossibili e folli troppo vicini al sole e alla luna. Un affastellarsi immaginifico che di tanto in tanto pungola il suo ingegno, o la sua coscienza, o i suoi mondi onirici.

Ora però tutto ciò che popola la sua mente sono frammenti distorti di scene già vissute e irrecuperabili. Niente lieto fine, niente poeticità o viaggi favolosi. Solo un buco al centro del cuore, con quell’organo vitale che continua a battere cercando inutilmente di richiuderlo.

«Cosa ne sai, tu?» sputa fuori, tremante, non sa se per l’alcol o per tutte le emozioni che si dibattono nel suo petto spento, ma che adesso sembra ripiegarsi su se stesso e fare attrito, destando qualche fievole favilla.

«Io l’ho già visto, l’inferno,» replica lei, glaciale. «È un posto da cui fuggire, non in cui crogiolarti perché hai scelto di lasciarti andare.»

Tony scuote la testa, testardo, e medita se dirle delle voci. Ha come l’impressione che lei potrebbe capirlo meglio di chiunque altro… a parte quel maledetto di Barnes, e quel fatto è così paradossale e beffardo che sente la rabbia montare all’istante. Serra i pugni sulla stoffa dei pantaloni e scaccia il freddo e la Siberia: ci riesce con fin troppa facilità, perché quello è un abisso molto meno profondo di quello in cui sta sprofondando adesso.

Si fissa le mani contratte e le parole continuano a solleticargli la lingua, senza che lui si decida a spingerle fuori. Non può tornare, in nessun senso: rinunciare a quell’intontimento alcolico vuol dire rischiare di ritrovarsi fantasmi in testa. E chissà cosa succederebbe, poi, chissà se allora il suo senno decollerà per rifugiarsi tra gli astri, troppo lontano per essere recuperato. [2] Cerca di tornare presente a se stesso, di remare contro quelle fantasie romanzesche che dirottano le sue sinapsi.

«È comunque meglio dell’alternativa,» si lascia scappare infine, e vorrebbe suonare fermo e risentito, ma la sua voce è troppo stanca, troppo filtrata dai pensieri che si interpongono tra testa e bocca.

Ha l’impressione di sentire una scossa elettrica provenire da Natasha. Quando solleva il volto, la sua espressione è granitica.

«Io ho un’altra valida alternativa,» dichiara, muovendo appena le labbra rigide e piene nel parlare.

Sparisce dalla sua visuale e Tony quasi crede che quell’alternativa sia lasciarlo a marcire lì. Poi si sente strattonare di peso per le spalle della maglietta, così bruscamente che quasi si strappano le cuciture e la stoffa gli affonda nella pelle.

«Ehi!» protesta debolmente, e fa per divincolarsi, ma Natasha lo blocca da dietro facendo leva sul suo collo, in quella che è abbastanza sicuro sia una presa potenzialmente letale, lo strattona via ed è forte, molto più forte di quanto abbia mai sospettato. «Romanov, mollami, maledi–» viene interrotto quando impatta con la tempia già ammaccata contro quello che crede sia uno stipite.

Vede le stelle, vere e non, che gli esplodono dietro le palpebre. Per un istante pensa di richiamare l’armatura, per poi realizzare di non avere l’alloggio nel petto da mesi, e di aver disattivato i micro-trasmettitori che costellano il proprio corpo. Lo realizza solo dopo essersi stupidamente assestato due ridicoli colpetti sullo sterno, e sente Natasha emettere un verso di derisione, aumentando la stretta sul suo collo e immobilizzandogli anche l’altro braccio, l’altra mano ad arpionargli i capelli sulla nuca per non fargli opporre resistenza.

«Sul serio, Stark?» sibila, e lo sta ancora trascinando con una facilità imbarazzante, anche considerando le sue condizioni malmesse.

Poi annulla i suoi tentativi di puntare i piedi per terra con un colpo di tallone ben assestato dietro le ginocchia, e lui fa appena in tempo a mettere a fuoco le piastrelle del bagno, troppo vicine alla sua faccia, che si ritrova scaraventato dentro la vasca da bagno – di nuovo. Soffoca una bestemmia tra i denti, avvertendo le proteste del proprio corpo per l’impatto contro la ceramica dura, ed è stato decisamente più irruento di quello subito qualche giorno fa per colpa di Rhodey.

«Romanov, porca putt–» inizia a ringhiare, ma il getto congelato della doccia in pieno volto gli spezza le parole in bocca, facendogli trattenere rumorosamente il respiro per lo shock termico.

Annaspa e inghiotte un respiro acquoso che gli si incastra in gola – e all’improvviso è buio, è buio e fa troppo freddo – sta annegando, è sott’acqua, sente mani rudi che gli strappano i capelli e gli torcono il collo per tenerlo sotto la superficie e privarlo dell’aria, della luce – e gli sfugge un grido involontario di puro panico, mentre il petto gli si contrae in modi che dovrebbero essere fisicamente impossibili. Trema e para le mani avanti, incurante di sembrare patetico, con lo stomaco che si dimena e si avvita a spirale strizzandogli fuori un gemito; il getto d’acqua si interrompe di colpo, lasciandolo rannicchiato contro il bordo della vasca, il volto premuto nell'angolo del muro ad amplificare la cacofonia del suo respiro erratico.

«Tony?» sente la voce di Natasha, distante, che lo chiama insolitamente per nome, e per la prima volta da quando la conosce c’è una sfumatura d’incertezza a farla tentennare.

«Sono sobrio, cazzo!» grida lui, stridulo, mentendo in parte e cercando di controllare i brividi di freddo, di terrore, di momenti che a volte lo sorprendono ancora come pugni a tradimento ben assestati in pieno petto. «Sono sobrio! Ora piantala di annaffiarmi e fammi respirare!» continua tra i denti con la voce pericolosamente vicina a rompersi in un singhiozzo, decidendosi poi a voltarsi verso di lei per fulminarla.

Natasha ha ancora il doccino in mano e lo fissa con quella che è indubbiamente un’espressione spaesata, una nota stonata sul suo volto di solito illeggibile. Tony rilascia un respiro spezzato e si scosta i capelli fradici appiccicati al volto, col cuore che sfarfalla in ritmi incomprensibili come quando dipendeva ancora da un reattore di fortuna. Chiude gli occhi, venendo assalito dalla nausea, e si artiglia il centro del petto cercando di stabilizzare quei respiri convulsi, con l'impressione di avere una mannaia piantata nello sterno.

La sente ancorare la testa della doccia al suo sostegno, per poi sistemarsi in ginocchio accanto al bordo della vasca. Sa anche senza guardarla che non era quella, la reazione che voleva scatenare in lui. Anche se in effetti si sente decisamente più sobrio, almeno a livello mentale. Il mondo è ancora una massa viscosa di una consistenza variabile tra la melassa e un materasso troppo morbido, ma ha un velo d’alcol in meno ad occludergli la mente, seppur per i motivi sbagliati.

Rhodey l’aveva spinto sotto la doccia senza troppa delicatezza, è vero, ma l’aveva tenuto in piedi, non gli aveva bagnato subito il volto né aveva usato acqua gelida, e soprattutto l’aveva lasciato respirare a pieni polmoni. Perché lui sa, anche se Tony non ricorda di averglielo mai raccontato. Lo sa e basta, gliel'ha letto negli occhi nel momento in cui l'ha riabbracciato mezzo morto in Afghanistan. Natasha ha sbirciato il suo file, ne è certo, ma dubita che vi sia una sezione dedicata nel dettaglio alla sua prigionia, né tanto meno al waterboarding. [3] Forse lei sta mettendo insieme i pezzi adesso, perché crede di scorgere un lampo di colpevolezza nel modo in cui lo guarda, e sente che gli stringe appena la spalla attraverso la maglietta fradicia.

«Non lo sapevo,» gli dà conferma, quasi in un sussurro che sembra una scusa, e Tony scuote la testa a scacciarla, facendo così ondeggiare il mondo attorno a sé.

«Rhodes se la cava decisamente meglio, con i rimedi da doposbornia» dice soltanto, tremante, riprendendo a fatica il controllo.


Soffoca un’imprecazione tra i denti e si tira su dal fondo della vasca, respirando a intermittenza e ruotando la spalla per svicolare alla sua stretta. La fissa con occhi stralunati, fradicio, col petto che ancora si alza e si abbassa frenetico senza incamerare abbastanza aria. Continua a fissarla e non gli riesce di parlare, si trova solo a inghiottire parole troppo sensibili per essere pronunciate da Tony Stark, anche se ubriaco. Ringrazia solo ora di avere il volto bagnato, perché sente delle lacrime sfuggirgli dagli occhi, silenziose, calde sulla patina gelida che lo bagna. Le prime coscienti da mesi, e non sono nemmeno per loro, ma per se stesso e i ricordi che lo inseguono. Percepisce una parte di sé intrappolata in un luogo buio e umido, sottoterra, col fantasma di una mano aspra premuto sulla nuca che gli intacca lo scalpo. Gli sembra quasi di avere le iridi penetranti di Yinsen appuntate addosso, e sente qualcosa attorcigliarsi nel proprio petto, forse quel poco d’anima che è rimasto intatto e che si dibatte nella sua gabbia d’ossa.

Formula lo stesso pensiero di dieci anni prima: non vuole morire così. Neanche fisicamente, no, ma non vuole vivere così, non vuole non vivere come un’ombra di se stesso alimentata da alcool e buoni propositi altrui. Lui dovrebbe essere il primo a tenersi in vita, visto che c’è gente che è morta per permetterglielo. E adesso ce n’è fin troppa che non è riuscito a salvare. Natasha sembra conscia della battaglia inconcludente che sta avendo luogo nella sua testa, perché rimane ad osservarlo in silenzio, gli occhi chiari che lo scrutano in attesa di una reazione, pazienti.

«Tirami fuori di qui,» mormora infine lui, espirando lentamente. «Per favore,» aggiunge a mitigare la sua voce brusca.

Non è con lei, che ce l’ha. Non ce l’ha mai con gli altri – quasi mai – perché in qualche modo è sempre lui a dare loro motivo di fargli del male, volontariamente o meno.

«E poi?» chiede lei senza muoversi, piano, con una voce soffice che le sente usare di rado.

«Poi dormo, smaltisco la sbronza, mi do una sistemata e torniamo al Complesso,» si costringe a dire, ogni parola tirata fuori con le pinze, quasi a collaudare il suo reale significato.

«Sei serio?» indaga lei, comprensibilmente restia a credergli.

Lui alza il volto, ancora inondato di pianto silenzioso che sembra impossibile da frenare. Un meccanismo di difesa inutile, che odia con tutto se stesso. Alza un sopracciglio tremante.

«È un’ottima alternativa all’inferno, no?» afferma sarcastico, sapendo di non essere molto credibile in quelle condizioni.

Natasha non risponde, ma si alza in piedi con un movimento fluido e gli tende le mani, afferrandolo per i polsi e lasciando che faccia leva sui suoi per issarsi fuori dalla vasca, rischiando pericolosamente di scivolare sul pavimento coi piedi bagnati. Lo sostiene per un gomito e gli tende un asciugamano; lui lo accetta il silenzio, tamponandosi subito il viso sfatto. Inutilmente, perché a quanto pare i suoi occhi hanno deciso di dare del loro meglio proprio adesso, così se lo preme con forza sulle palpebre, cercando di soffocare lacrime che non sente nemmeno di dover versare. Non è più triste di una giornata qualunque negli ultimi sei mesi, e ciò lo fa solo infuriare di più con se stesso. Si sente rotto, con una rotella mancante nei suoi meccanismi interni che gli fa avere reazioni insensate, e soffoca un lamento frustrato contro la stoffa.

«Cristo,» impreca poi con rabbia, la voce rotta ovattata dal panno, fin troppo consapevole di avere lo sguardo di Natasha puntato addosso.

Fa per voltarle di scatto la schiena, con l’asciugamano ancora pressato sul volto fino a farsi dolere le orbite e il gonfiore sulla tempia, ma i suoi piedi confusi rispondono al rallentatore e si aggrappa al termosifone per non cadere; sente Natasha che lo sostiene con fermezza, una mano sulla schiena e una sul petto a fargli ritrovare l’equilibrio. Gli toglie il panno dalle mani, scoprendogli il volto. Lui non si oppone – come se avesse le forze per farlo – e lascia che gli asciughi rapidamente le guance, con una delicatezza inaspettata ma ferma, metodica. Manda giù acqua e lacrime e preme d’istinto il volto contro i suoi palmi attutiti dalla stoffa morbida, lasciandosi sostenere il capo da lei per qualche istante, gli occhi semichiusi. Affonda brevemente in quel contatto, sentendosi sfinito in ogni fibra che lo tiene ancora in piedi, e la sente sospirare appena mentre gli cinge il mento, tamponandogli le goccioline d’acqua impigliate nel pizzetto. Le lacrime si fermano, addensate agli angoli delle palpebre.

«Ti senti male?» gli chiede poi, in modo diretto e puntuale, quasi stesse seguendo una procedura medica.

«Certo che sto male, che razza di domanda…» comincia lui, con voce appannata, e lei fa un piccolo sbuffo.

«Ti sto chiedendo se devi vomitare, Stark,» esplicita quindi con una punta di durezza in più.

«No, no,» si affretta a rispondere lui, scuotendo il capo e sperando che sia davvero così. «Non… non sto messo così male,» bofonchia, ed è costretto a reggersi a lei quasi a confutare le sue stesse parole. «Sono solo molto stanco, e molto, molto brillo,» continua, con uno sbuffo soffocato che fortunatamente non si completa in una risatina del tutto fuori luogo.

«Bene, pensi di riuscire a cambiarti da solo senza ucciderti?» chiede ancora lei, sempre in quel modo asettico e distaccato, tinto però da una lieve traccia d’ironia.

«Farò uno sforzo,» annuisce lui, cambiando cautamente il proprio appoggio da lei al mobiletto del bagno.

Si stacca la maglietta incollata alla schiena e realizza di essere ancora fradicio da capo a piedi. Capta l’occhiata interrogativa di Natasha.

«Uh, i miei vestiti sono in camera… da qualche parte, prendi quello che ti capita,» borbotta quindi, sopraffatto da un’ondata di vertigini che lo costringe a sedersi cautamente sul bordo della vasca.

Tiene lo sguardo fisso a terra, ma sente i passi rapidi di Natasha che si allontanano senza commentare, e sa di essere scivolato in quell’universo distorto in cui un secondo sono ore e viceversa, così non sa quanto tempo passa tra il momento in cui la sente uscire, quello in cui riesce a togliersi la maglietta senza strangolarsi e quello in cui la sente schiudere di nuovo la porta e poggiare qualcosa sul piano del lavandino.

«Se cadi, urla,» le sente dire, strizzandogli il braccio per riscuoterlo e lasciandolo poi solo in bagno.

Lui annuisce in ritardo, e cerca di prendere i vestiti senza farseli sfuggire dalle dita scoordinate. Realizza che forse Natasha ci ha messo più impegno di quanto pensasse, a cercarli, perché oltre a un paio di boxer e pantaloncini del tutto anonimi, piegata in cima al mucchio c’è la sua maglietta dei Black Sabbath. Sente un sorriso sfuggirgli dalle labbra, malinconico. Stringe appena la stoffa ormai scolorita e se la preme sul naso, traendo un sospiro calmante e obbligandosi a riempire del tutto i polmoni col profumo di pulito. C'è un'orma di quello dolce di Pepper, se inspira abbastanza a fondo; non sa se sia suggestione o meno ma continua a cercarlo, riprendendo infine un ritmo di respirazione normale.

Riesce a spogliarsi, asciugarsi e rivestirsi senza rompersi l’osso del collo, e ci impiega così tanto che alla fine si sente abbastanza sobrio da mettere ulteriormente alla prova la propria coordinazione motoria per lavarsi i denti e asciugarsi i capelli. Natasha lo trova chissà quanto tempo dopo, poggiato col palmo al mobile del lavandino col fon puntato contro la nuca, intento a godersi il suono continuo e ipnotico e la carezza dell’aria bollente addosso. È restio ad abbandonarla: ha l’impressione fasulla che riesca a scaldarlo anche un po’ dall’interno, e vuole crederci per un istante.

Le rivolge uno sguardo di sottecchi e gli sembra di intravedere una luce meno cupa sul suo volto impassibile da spia. Spegne l’apparecchio, arruffandosi i capelli scomposti, e accetta titubante il suo appoggio, per non infrangere
con una caduta fuori programma la patina di amor proprio che ha ricostruito su di sé in quel breve intervallo.

«Mi sto fidando,» sbotta quando sono a metà corridoio, incapace di trattenere oltre quel concetto, lasciato a briglia sciolta dalla sua bocca poco filtrata. «Non lo faccio spesso,» puntualizza, quasi risentendosi con se stesso per quel fatto.

«Ti fidi di una spia col doppiogioco nel DNA[4] lo rimbecca lei, riecheggiando parole note e troppo aspre, di cui in parte si pente.

«Perché no? Se riesci davvero a trovare un utilizzo persino per me, in questo stato, non me la prenderei troppo neanche se mi stessi raggirando,» ribatte, inclinando di lato la testa mentre superano la soglia. «O magari ti manco e basta. Puoi ammetterlo, agente Romanov,» conclude, tirando su un angolo delle labbra in un tentativo d’ironia fomentato dall’alcol.

Lei si limita a scrollare la testa e a sospingerlo un po’ bruscamente sul letto, dove lui si accascia all’istante, accogliendo il materasso morbido e l’abbraccio delle coperte come fossero l’Eden in terra. Nasconde il volto nel cuscino e gli sfugge un sospiro di sollievo unito a un piccolo brivido per quel tepore che gli stempera le ossa. Realizza con quelche istante di ritardo che sono nella stanza degli ospiti. Natasha non gli chiede di poter rimanere a dormire lì, né il permesso di sdraiarsi con lui sul letto: sente che lo fa e basta, e lui è troppo scombussolato per protestare e rifiutare la sua compagnia silenziosa. Non trova davvero motivi per non fidarsi, non più: sono persi negli anni in cui avevano ancora un senso. E in fondo pensa che sia una buona idea che lo tenga d’occhio per quella notte, considerando che da sdraiato il suo stomaco continua a fare capriole su capriole e che la sua testa sembra volergli stare appresso rigirandosi nella scatola cranica.

Forse dovrebbe ringraziarla, ma non è mai stato bravo con le parole, tanto meno ora che le usa così poco e ha la bocca impastata dalla sbornia. Medita se rimandare la cosa a domattina, ma non gli riesce comunque di addormentarsi, e sarebbe bene sfruttare quella parentesi alticcia che forse fungerà da copertura all’immagine inconcepibile di Tony Stark che dice “grazie” a qualcuno. Dopo potrà sempre dire che è stato l’alcol, a parlare.

Gira infine del tutto la testa con un cigolio di vertebre e la vede distesa sopra le coperte, rivolta verso di lui, mezza addossata al cuscino appallottolato e alla testiera. Ha il volto illuminato dal telefono ed è intenta a scorrere apaticamente qualche schermata col pollice. I contorni degli oggetti sono ancora sbilenchi, e ha l’impressione che lei galleggi su un materassino ad acqua, ma ora ha abbastanza percezione dello spazio attorno a sé per allungare un braccio e stringerle cautamente la mano libera adagiata sulle coperte. A suo rischio e pericolo, visto che neanche Natasha è mai stata una grande fan del contatto fisico, e forse per stasera ha già largamente superato il suo limite giornaliero.

Mette in conto di potersi ritrovare con le dita fuori uso nel giro di un nanosecondo, ma lei si limita a rivolgergli brevemente gli occhi e ad accarezzargli appena il palmo col pollice, soffermandosi sul rilievo della cicatrice che ancora gli segna l’incavo del polso. Gli sembra quasi un messaggio muto, ma non gli riesce di decifrarlo e batte solo con stolidità le palpebre. Lei lascia la mano adagiata nella sua stretta e torna a concentrarsi sullo schermo senza una parola, concedendogli quel tenue contatto. Tony socchiude gli occhi, infastidito dal lieve riverbero elettronico, e cerca qualcosa da dire.

Serra brevemente le palpebre, affonda nel buio con l’intenzione di raccogliere un poco di concentrazione per riuscire a sillabare quel grazie, ma quando le riapre si scontra con la luce soffusa del mattino e con la sponda del letto vuota, la mano ancora tesa davanti a sé, vuota anch’essa.



 


Note:

[1] Qui cito ovviamente l'incipit di Iron Man 3, oltre ad alcune immagini ricorrenti/citate nel corso del MCU, come cadute, voli e corone troppo pesanti. 

[2] Riferimento esplicito all'Orlando Furioso e all'episodio di Astolfo sulla Luna.
[3] Il waterboarding non è esattamente ciò che viene inflitto a Tony nel primo Iron Man. Mi astengo da fornire link diretti a pagine trattanti di tortura, ma il fatto che Tony subisca questa tipologia specifica è un mio headcanon che verrà approfondito nel corso della storia. Rhodey intuisce cosa gli sia accaduto perché è un militare e, purtroppo, era una tecnica utilizzata in modo più o meno legale dai servizi segreti e dall'esercito statunitense ufficialmente fino al 2008-2009 (sic), oltre a essere largamente impiegata dai terroristi.
[4] Citazione testuale da Civil War.


Note dell'Autrice:

Carissimi!
Torno dall'oblio ed ecco che si entra nel vivo, in un certo senso, anche se la strada è ancora lunga sia per Tony che per Natasha... ma come si poteva dubitarne?
Colgo l'occasione per focalizzare un po' meglio l'intento della storia, adesso che siamo a una sorta di punto di svolta: a dispetto del titolo, l'amore rappresenta solo una minima parte dei temi che verranno affrontati; o meglio, ne rappresenta il substrato costante nelle sue diverse declinazioni, ma non la definirei prettamente una storia "romantica", anzi. Tony e Natasha sono a parer mio anime affini, ma ciò prescinde dal lato romantico della faccenda, soprattutto in un contesto in cui hanno entrambi subìto perdite devastanti. Spero che apprezzerete gli sviluppi che ho in serbo per loro :)

Ringrazio infinitamente
_Atlas_, Miryel, shilyss e T612 (se volete approfondire la backstory di Natasha fate un giro sul suo profilo!) per aver recensito gli scorsi capitoli, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite <3
Alla prossima, spero al più presto,

-Light-


P.S. I capitoli bipartiti non saranno una rarità, in quanto ho preferito mantenerli piuttosto brevi e condensati rispetto ai miei standard. Inoltre, la presenza di citazioni all'inizio sarà altalenante, in quanto preferisco metterne di meno, ma incisive e ben ricollegabili al testo/tema, piuttosto che strafare e far loro perdere senso e scopo.

 

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Capitolo 6
*** Parte prima - Capitolo 5: Inferno (II) ***


.5.

Inferno
II

 
 
“Il secondo [modo] è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:
cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
I. Calvino
 


Entra in cucina il mattino dopo infilandosi infreddolito una felpa consunta, risvegliato dal profumo di uova e di caffè appena fatto che gli punge le narici, indecise se considerarlo piacevole o rivoltante dopo il suo incontro ravvicinato con l'alcool.

È la prima mattina in cui si sveglia senza attaccarsi direttamente a una bottiglia, e sente dei lievi brividi che gli percorrono la schiena, facendogli vibrare lo stomaco e ricordandogli che l'astinenza, quella fisica, non tarderà ad arrivare in forma più potente. Per ora, però, ci ha pensato Natasha a far sparire dalla sua vista qualunque bottiglia di liquore, e la ringrazia prima mentalmente e poi con uno sguardo che risulta fin troppo spaesato e forse ancora un po' alticcio.

Lei è già seduta alla penisola della cucina ed è intenta a finire il suo toast, col piatto già vuoto di fronte a sé. A quanto pare dall'altro lato del piano ce n'è uno per lui, coperto da un altro piatto rovesciato, oltre a una tazza di caffè; la colazione sarà già fredda da un bel po', ma apprezza comunque quel pensiero decisamente inaspettato e non dovuto. La cosa non si traduce in parole e parla prima di potersi frenare, impugnando la propria fetta di toast con una convinzione che il suo stomaco non sembra affatto apprezzare, visto che fa un salto mortale al solo contatto col cibo:

«Che carini, non pensavo che tu e Rhodey aspiraste a diventare le mie colf personali,» si pronuncia, con una voce da incubo che sembra provenire da una delle armature.

«Devo mangiare anch'io, Stark. E magari la tua porzione l'ho avvelenata,» ribatte gelida Natasha, e Tony ferma a mezz'aria il primo morso pensando che, conoscendola, potrebbe anche averlo fatto davvero.

Cloroformio, magari, così sarà più semplice trascinarlo via di lì da incosciente. Decide di correre comunque il rischio, ma il massimo pericolo che incontra è il sapore e la consistenza di segatura e compensato che si propaga nella sua bocca ancora molto restia a mangiare qualcosa di solido. Scopre la propria porzione di uova strapazzate e pensa che, , apprezza il pensiero, ma obbligarsi a finirle sarà più simile a un'elaborata tortura cinese. E forse Natasha ne è perfettamente consapevole, a giudicare dall'occhiata che gli scocca.

«Allora?» lo incalza poi, impassibile come sempre. «La notte ha portato consiglio?»

Tony fa una piccola smorfia, deglutendo a fatica e bevendo poi un sorso d'acqua – troppo insipida per le sue papille gustative desensibilizzate dall'alcol.

«Non ha portato incubi, il che è già un miglioramento,» si decide a rispondere, concludendo che se c'è una persona che può capire quell'argomento è lei, anche se in effetti quelli che fa lui sono ormai quasi solo patchwork di ricordi, non per questo meno dolorosi.

Lei gli rivolge un piccolo cenno del capo, indecifrabile, ma sembra apprezzare la sincerità, oltre che il fatto in sé. Continua a rivolgergli occhiate sfuggenti e feline, ed è chiaro che stia aspettando una vera risposta. Tony rigira il proprio cibo nel piatto, e una parte di lui ringrazia che, tra gli innumerevoli modi per cucinare un uovo, non abbia avuto la disgraziata idea di scegliere un'omelette. Scaccia il pensiero e si prende qualche secondo prima di riprendere il discorso:

«L'autodistruzione non è produttiva. Funziona solo quando c'è effettivamente ancora qualcosa da salvare,» sciorina in fretta, e non può evitare uno sguardo fugace verso la vetrata, nel punto in cui anni e anni prima si è aperto il portale che l'ha quasi inghiottito.

Natasha segue il suo sguardo e storce le labbra in una smorfia quasi malinconica.

«Era tutto più facile, allora,» commenta solo quasi sovrappensiero, prendendo l'ultimo morso del suo toast.

«Abbiamo solo avuto fortuna,» la contraddice lui, bevendo un sorso di caffè e sforzandosi di mantenerlo nello stomaco inacidito. «Ho avuto fortuna.»

«Ci hai salvati.»

Lui emette una mezza risata priva d'allegria.

«Già,» le concede, forzandosi. «E Paganini non ripete,» conclude amaramente, poggiando la tazza per timore di far traboccare la bevanda tra le sue dita non così salde.

Si stropiccia la fronte, con un milione di anni a scavarvi sopra pieghe di preoccupazione aggiuntive. Rimangono in silenzio, spezzato solo dal vento che, all'esterno, fischia tra i grattacieli abbattendo grossi fiocchi di neve contro le vetrate. Non è una visione che migliora il suo umore. Riporta lo sguardo al suo piatto ancora pieno. Si sforza di mandar giù una forchettata di uova sotto il controllo vigile di Natasha, che probabilmente non lo farà alzare da tavola finché non avrà assunto una quantità di calorie secondo lei sufficiente a tenerlo in piedi. Potrebbe volerci qualche ora, conclude Tony, picchiettando svogliato la posata contro il vetro del bicchiere.

«Quindi?» riprende dopo un po', rivolgendole uno sguardo interrogativo. «Tu dov'eri finita? Sono sobrio, adesso,» puntualizza, ricordandole la mezza promessa di ieri sera e puntandole contro la posata.

Natasha prevedibilmente svia la domanda, oltre ai suoi occhi:

«Avevo bisogno di un cambio d'aria. Penso che tu possa capirmi.»

Tony annuisce cautamente, e sa già che non riuscirà a strapparle altre informazioni, ma tentar non nuoce. Di solito, almeno, perché con la Vedova Nera non si è mai davvero al sicuro.

«Rogers ti ha cercata. Da quanto so, almeno, cioè molto poco,» specifica, chiedendosi quanto tempo sia effettivamente passato tra un evento e l'altro.

Forse dovrebbe aggiornare il proprio calendario mentale, magari quando non avrà un'emicrania coi fiocchi a stritolargli le meningi.

«Mi ha anche trovata, il che è un'impresa considerevole,» conferma lei senza scomporsi, le mani strette attorno alla sua tazza di tè, e Tony nota come le sue nocche sbianchino appena.

«E hai deciso di tornare colta dalla nostalgia dei bei vecchi tempi?» continua, e non vorrebbe essere così insistente, ma dopo mesi di buio sfocato e totale chiusura verso il mondo sente finalmente una scintilla d'interesse fare capolino in lui, forse dettata dalla lucidità forzata. Così si sforza di alimentarla prima che appassisca di nuovo nella cenere, usando lei come catalizzatore di fortuna.

Natasha però tace, e lui si lascia sfuggire un tenue sospiro tra le labbra, chinando di nuovo il capo sulla sua colazione, che si sta rivelando un osso più duro di Ultron, o chi per lui. Quando sembra ormai chiaro che quella domanda non otterrà risposta, lei spezza il silenzio:

«Non è così semplice,» dice a bassa voce, ma senza vacillare. «Ma non sei l'unico ad aver passato un brutto periodo,» conclude poi, come sempre evasiva, ma offrendogli una parvenza di spiegazione che per i suoi standard è anche troppo specifica.

Tony a quel punto la fissa in volto, e adesso che è presente a se stesso riesce a fare un netto confronto tra la Natasha che ha sempre conosciuto e quella che ha davanti ora. Il viso che ricordava pieno e rotondo ha lasciato il posto ad angoli più aguzzi, che le accentuano gli zigomi e le ombre sotto gli occhi. I suoi capelli sembrano meno folti, sfibrati, e sono raccolti in una coda frettolosa. Indossa una felpa scura oversize e un paio di pantaloni morbidi che celano in parte le sue forme, ma anche così si rende conto che è meno florida, più minuta, con le curve quasi inghiottite dalla stoffa pesante. Nota con qualche istante di ritardo il chiassoso dettaglio mancante: non ha più al collo la catenina argentata con la freccia. Comprime brevemente le labbra, ma opta per rimanere in rispettoso silenzio, scoccandole solo un'occhiata comprensiva e in parte inquieta al pensiero che persino Natasha Romanov si sia lasciata andare dopo la fine del mondo.

«Tu, piuttosto,» riprende la donna, evidentemente decidendo che è il suo turno per porre domande scomode. «Perché stai dando retta a me, e non a Rhodes?» chiede poi a bruciapelo, nel tono di chi sa già la risposta.

Tony impegna la bocca con un altro boccone insapore, prendendo tempo inutile.

«Perché di te non mi fido neanche nel sonno, ma di Rhodey sì... però state dicendo entrambi la stessa cosa. Sarebbe da idioti ignorarvi, e non mi reputo un idiota, almeno non così spesso,» ribatte infine, con un piccolo scatto delle sopracciglia verso l'alto.

«Ieri hai detto che di me ti fidavi,» puntualizza lei, inclinando appena la testa come un gatto incuriosito.

«Ieri ero ubriaco,» sbuffa lui, con leggerezza e un sorriso spento che gli tira gli angoli delle labbra.

«In vino veritas,» mormora lei, con fare un po' saputo, e Tony soffoca uno sbuffo esasperato.

«Piantala con le tue frasi in latino, Romanov,» [1] la rimbrotta, e pur avendo capito fa il finto tonto, punzecchiandola: «Questa che voleva dire?»

«Che a volte anche Tony Stark sa usare un po' di buonsenso,» ribatte lei, pressando le labbra a trattenere una smorfia divertita.

«Ehi, non farmi cambiare idea all'ultimo momento: finora eri andata benissimo,» scuote la testa lui, e stavolta il sorrisetto che gli passa sul volto è spontaneo, quasi completo.

«Quindi stai tornando per davvero,» conclude svelta, e dal modo in cui lo dice Tony intuisce che è una domanda, sincera e solo mascherata da un velo d'ironia, e che non si aspettava di trovarlo così accomodante e propenso ad ascoltarla.

«Qualunque cosa voglia dire,» alza le spalle, svicolando a una risposta diretta che non è sicuro di saper dare.

«Vuol dire provarci,» ribatte lei, con semplicità. «Come stiamo facendo tutti.»

Tony stringe con forza la forchetta tra le dita e lascia passare qualche secondo prima di incontrare il suo sguardo, ancora appuntato su di lui. Annuisce impercettibilmente con l'impressione che quel piccolo gesto gli smuova una montagna di piombo dalle spalle. Forse è arrivato il momento di contrastare il principio d'inerzia e mettere in pratica quello di azione e reazione, pensa con un tremito interiore che potrebbe essere paura, così come aspettativa. Lo accetta come una variazione positiva rispetto al proprio torpore, e a questo punto qualsiasi cambiamento che gli faccia provare qualcosa è positivo.

Mezz'ora dopo è impegnato a ficcare in un borsone da viaggio lo stretto indispensabile per sopravvivere qualche settimana al Complesso. Non vuole darsi scadenze precise, ma far entrare fisicamente il tempo in quello spazio ristretto sotto forma di calzini, mutande e camicie gli dà l'impressione di poterlo controllare, di ridurlo a una forma fisica e innocua. È rassicurante, lo fa sentire di nuovo con le redini in mano e non in balia di un cavallo ombroso e imbizzarrito, per quanto sia ancora pericolosamente vicino ad essere disarcionato.

Quando esce dal bagno col pizzetto di nuovo distinguibile e un completo informale addosso, Natasha lo aspetta seduta ai piedi del letto, impegnata a seguire la cascata di fiocchi di neve che si rincorrono in vortici bianchi all'esterno. Si volta verso di lui e gli sembra che il suo sguardo si ammorbidisca, e anche lui si sente un po' più se stesso, con quell'outfit spigliato che richiama almeno un'ombra del fu Tony Stark. Gli occhi di Natasha si socchiudono nello scrutare perplessa la maglietta che porta sotto la giacca antracite.

«Quella è una papera o un coniglio?» chiede, con un guizzo divertito.

«Uh, entrambi,» replica in fretta lui, schiarendosi la voce con un mezzo sorriso e pizzicando il buffo disegno al centro del petto. 
[2]

Non offre altre spiegazioni e infila una mano nella tasca dei pantaloni, sfiorando la scatoletta di velluto blu custode di un futuro troppo sperato con la punta delle dita. [3] Solo due oggetti. Solo due. Se l'è imposto, e non ha intenzione di tornare sui propri passi proprio adesso che ne sta facendo uno avanti – così spera, almeno. Non ha cuore di lasciare tutto qui – di lasciarli del tutto qui, e sa che potrebbe pentirsene, ma quel passo gli sembra già più lungo della gamba e ha bisogno di una cima di sicurezza. Due, per la precisione. Natasha forse – sicuramente; è una spia, dopotutto – intuisce qualche non detto, ma non insiste e riporta il discorso su un terreno sicuro:

«Ora almeno sei quasi presentabile,» scherza alzandosi, e prima di precederlo la sua bocca forma un accenno appena intuibile di quel sorriso sbarazzino che gli rivolgeva spesso per prenderlo in giro.

Lui alza gli occhi al cielo e si mette in spalla la borsa. Pesa molto più di quanto dovrebbe, non sa se per la propria fiacchezza o per il fatto che racchiude in sé una scelta che non è del tutto certo di voler o dover fare. La sua vita è un susseguirsi di scelte sbagliate, in fondo, ma adesso non sa davvero cos'altro abbia da perdere, e si trova a voler scoprire i risvolti di quell'ultimo colpo di testa quasi con trepidazione. In quanti modi può ancora distruggersi, dopotutto?

Poi si sente muovere in modo automatico, dall'alto, come se ci fosse qualcun altro di invisibile a tirare i suoi fili, e una minuscola parte di lui percepisce il tocco lieve e fresco di Pepper sulla pelle, una carezza lontana e incorporea che lo sospinge nella direzione giusta, continuando a guidarlo anche adesso. Si lancia uno sguardo alle spalle e quasi la vede raggomitolata sul loro letto, in quella posizione per lui inconcepibilmente scomoda in cui dormiva sempre, stretta a lui, col respiro che si infrangeva sulla sua schiena e una mano premuta al centro del suo petto, prima sul metallo e poi sulla pelle. Vacilla, ma la spinta che guida i suoi piedi è più forte di quello sprazzo illusorio, e batte le palpebre a disgregarlo.

"Vai, Tony. Provaci. Va bene così."

Chiude la porta dietro di sé, con dolcezza.

Gli sembra di sentire uno scalpiccio ovattato in corridoio e sa che non è reale, ma lo cerca comunque con gli occhi, un'ombra rapida e frizzante che svanisce davanti a lui con passi fumosi.

"Ci provi, signor Stark! Ci provi, lei riesce sempre a fare tutto!"

China il capo per un istante, il tempo di vederlo – o non vederlo – svoltare di corsa l'angolo del salone, poi si incammina a passi tenui verso l'uscita, calcando orme invisibili, sospinto da mani impalpabili, con echi irreali nelle orecchie che per una volta accoglie con sollievo.

Natasha lo aspetta paziente accanto all'ascensore, senza mettergli fretta ma già avvolta in un lungo cappotto pesante e in una sciarpa vermiglia. Tony lancia un'ultima occhiata smarrita all'attico, sullo sfondo della nevicata grigiastra, e sente un impulso improvviso, reale, che gli grida di allontanarsi da lì, da quella tomba, dalla neve e dal cemento e dallo spazio enorme spazzato dai suoi pensieri irrequieti come rapide d'alcol. Lascia brevemente cadere a terra la borsa mentre infila anche lui una giacca lunga invernale, sentendo quei fili che lo guidano tendersi con fermezza ad ogni gesto.

«Andiamo,» dice poi, con la gola un po' contratta, serrando le dita attorno alla cinghia del suo bagaglio. «Prima che quel grizzly di Rhodey ci venga a cercare,» conclude, ostentando una decisione che non è davvero sua, infusa nelle sue ossa e nei suoi muscoli da qualcun altro che non esiste più.

Natasha apre l'ascensore e lui esita un ultimo istante, per poi afferrare dal mobiletto d'ingresso un paio d'occhiali da sole bluastri e inforcarli, sfoggiando un flebile sogghigno da spaccone. Lei sorride – da quanto non lo fa davvero? – si alza sulle punte e gli solleva il bavero della giacca in un gesto a metà tra il giocoso e il premuroso, prima di guidarlo nell'ascensore e poi fuori, un passo alla volta, un braccio che si àncora al suo a offrire e cercare sostegno.



 
[Fine parte prima]


 


Note:
[1] Richiamo al fatto che in Iron Man 2 si accenni al fatto che Natasha conosca il latino, e rifili a Tony la frase di Seneca "Fallaces sunt rerum species", ovvero, in soldoni, "l'apparenza inganna".
[2] La maglietta di Tony è quella che indossa nella foto con Peter per il riconoscimento del tirocinio-> qui.
[3] Per chiarezza: mi riferisco alle fedi nuziali di Tony e Pepper.


Note dell'Autrice:
Cari Lettori, siamo finalmente arrivati al famoso punto di svolta... e alla fine della prima parte. Col prossimo capitolo spiegherò anche una parte del principio che sta dietro la suddivisione della storia, anche se dovrete aspettare la fine della seconda per averne una più incisiva. Sì, mi piace tenervi sulle spine ;)
Come sempre, tutti gli eventuali riferimenti che possono sembrare fuori luogo o inspiegati troveranno lumi più avanti. Tutto ciò che riguarda il rapporto tra Tony e Natasha deriva da miei headcanon già parzialmente sviluppati nella minilong
Ferite, che non è rilevante ai fini della trama in sé, ma funge per certi versi da parziale presupposto.
Ringrazio come sempre tutti coloro che seguono e commentano, e vi abbraccio dal primo all'ultimo, ché senza di voi questa storia giacerebbe incompiuta in una cartella recondita del PC <3
Alla prossima, spero a presto,

-Light-

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Capitolo 7
*** Parte seconda - Capitolo 6: Lancette ***




 
2ª Dimensione:

y


 



.6.

Lancette


 


Soffiate via la polvere dai vostri orologi, sono rimasti indietro. 
Aprite le tende pesanti che vi sono tanto care – 
non lo sospettate nemmeno, ma là fuori sta già albeggiando.
A. I. Solženicyn

 

 

Gennaio 2019, Upstate New York, Complesso dei Vendicatori


Natasha si mette al posto di guida della sua Audi e Tony non protesta, visto che ha ancora più alcol che sangue in circolo. Si addormenta dopo pochi minuti quasi senza accorgersene, sprofondato nel sedile del passeggero con brandelli di sogni aggrappati alle ciglia.

Quando lei lo riscuote brusca, si trova a fissare i folti boschi dell'Upstate New York che circondano il Complesso. Il cielo è ancora grigio di neve, e ve n'è un generoso strato a smussare i pendii delle colline e le punte svettanti degli alberi smossi dal vento. Un ricamo bianco e freddo, appuntito come il gelo che gli pizzica la pelle e i fiocchi che si posano contro il vetro, frastagliati. Il fragore delle fronde richiama l'oceano con una stilettata dolceamara.


Scolla la fronte dal finestrino appannato e sente l'altra portiera che sbatte; si scosta appena in tempo dalla propria prima che Natasha la apra con decisione, rischiando di farlo ruzzolare giù dall'auto. Lui si districa dalla cintura di sicurezza e gli sembra di sentirsi infinitamente peggio di appena un'ora prima, ma scende comunque dalla macchina, senza trattenere una smorfia quando il suo piede affonda nella neve sul ciglio della strada con uno scricchiolio umido. Recupera la borsa e sente un cipiglio involontario che gli increspa la fronte, irrigidendola. Caccia le mani nelle tasche con un gesto brusco, stringendosi nelle spalle col mento affondato nel bavero, gli occhi socchiusi contro l’aria frizzante.

«Freddo?» chiede Natasha, perfettamente a suo agio nel suo habitat naturale.

«Odio la neve,» bofonchia lui tra i denti senza offrire chiarimenti, e si affretta a portarsi sull'asfalto cosparso di antigelo, sempre accartocciato su se stesso come una foglia secca.

Ha un brivido che sembra più una scossa elettrica e ha il sospetto che quelli siano in realtà primi sintomi dell'astinenza. Si trova automaticamente a desiderare un sorso di whiskey e deve dirottare a forza i propri pensieri, conscio che diventeranno solo più insistenti col trascorrere del tempo. Ci è già passato, e sapere cosa lo aspetta non lo rallegra. Sente lo scatto della serratura e le luci dell'Audi lampeggiano, dandogli un segnale per iniziare a incamminarsi verso l’entrata principale Complesso. Attraversa il patio di cemento esterno a passi cadenzati, sovrapposti a quelli più leggeri di Natasha subito dietro di lui, e sfoggia più sicurezza di quanto non senta.

«Quanto tempo è passato?» si informa a qualche metro dalla porta d'ingresso in vetro, ostentando un sussiegoso disinteresse.

«Manchi da ottobre,» replica lei, senza scomporsi, fuori dalla sua visuale. «Siamo a metà gennaio,» aggiunge, forse realizzando il fatto che, no, non ne aveva idea.

È rimasto bloccato col conto a dicembre. Un dicembre infinito, di neve e freddo e Vigilie solitarie, con le lancette dell'orologio incastrate sullo stesso secondo, a ticchettare incessanti nella sua testa, un colpo secco ad ogni battito. Rivolge un cenno d'assenso a Natasha e lei si porta infine al suo fianco, sembrando improvvisamente più distaccata di quanto sia stata finora.

«Chi è rimasto?» le chiede ancora, senza decidersi a fare quell'ultimo passo che lo separa dalla maniglia.

Natasha lo scruta a fondo, con la parte inferiore del viso coperta dalla sciarpa vermiglia e qualche fiocco di neve intrappolato tra i capelli. Lui passa una mano tra i propri di riflesso, trovandoli umidi, e una parte di lui vorrebbe entrare là dentro solo per sfuggire al gelo.

«Steve e Rhodes. Bruce va e viene; ora credo sia da qualche parte sulla costa Ovest. Ci teniamo in contatto con gli altri a distanza, anche se ogni tanto si fanno vivi, soprattutto Nebula e Rocket,» sciorina senza esitazioni. «Thor si è barricato a Nuova Asgard, in Norvegia,» aggiunge come ricordandosene ora, a indicare che sia un evento di vecchia data di cui ha un vago ricordo anche lui.

Tony annuisce di nuovo e non chiede di Barton.

Può sopportare la presenza di Steve, se non è costretto ad averci a che fare troppo spesso. Dovrà forse scusarsi con Rhodey – sicuramente. Con Bruce non ha più avuto molto a che fare da Ultron, se non per il fugace incontro prima... prima di tutto. Non sa cosa pensare di lui. Rocket è uno sconosciuto, ma gli è sembrato il tipo che ha una parola di scherno per tutti, indistintamente, e non lo ritiene un difetto. Nebula gli ha salvato la vita, e non gli dispiacerebbe ingaggiare qualche altra partita di finger-football con lei, ora che non sta morendo – non di fame, almeno. Natasha... Natasha è sempre un'incognita, ma per ora sembrano entrambi disposti ad andare un po' oltre la reciproca sopportazione.

Si lascia scorrere in testa quei legami ingarbugliati mentre ancora non si decide ad aprire la porta, con la borsa che inizia a pesargli sulla spalla. Esita sulla soglia. Gli sembra una decisione oltremodo definitiva, come se varcare quel confine potesse far apparire un solido muro dietro di lui. Non di mattoni, né di cemento o acciaio: qualcosa di intangibile e infinitamente più resistente di qualsiasi materiale conosciuto. Barriere mentali, una serratura che si chiude a chiave per poi lanciarla lontano lui stesso, perché è a corto di alternative.

«Da qui fai da solo?» lo riscuote Natasha, e lui non si volta a guardarla.

Usa quel solito tono di voce neutrale, che fa sembrare tutte le sue domande delle affermazioni, ma l'aggiunta della sua mano che gli stringe appena il gomito aggiunge quella stilla di attenzione in più che potrebbe davvero esigere una risposta da parte sua.

«Sì,» dice, o forse lo pensa e basta, e l'aria fredda gli punge le labbra già screpolate. «Sì,» ripete nel dubbio, un po' più forte, e una parte di lui vorrebbe contraddirsi.

Muove un passo deciso e spinge la porta, superandola e lasciandosi lei dietro. Entra nella bolla di calore all'interno ed è scosso da un lieve tremito stavolta naturale, lieto di essere di nuovo al caldo. L'atrio è deserto, più anonimo di quanto sia mai stato, e sembra la sala d'attesa di una clinica privata, con troppe sedie imbottite e troppe riviste mai lette abbandonate su tavolinetti di vetro. Si sente tendere come una corda di violino, una tacca alla volta, ed è vicino al punto di rottura, terribilmente vicino. Vede fantasmi di cenere aggirarsi in quello spazio, e ha paura di battere le palpebre per timore di non vederli scomparire. Almeno le voci tacciono.

«È rimasto tutto come prima,» lo informa Natasha, che nonostante tutto è ancora qui. «Inclusa la tua–»

«No,» scatta subito Tony, con un nodo al cuore e un altro fantasma troppo conosciuto che gli si para davanti, frutto di quelle poche volte che hanno dormito insieme al Complesso.

Trova a tentoni la scatoletta di velluto attraverso la tasca della giacca e si pente di averla presa.

«No, preferisco... avevamo delle stanze singole libere per i futuri Vendicatori. Prendo una di quelle,» conclude, passandosi con forza una mano tra i capelli, facendosi quasi male. «So dove andare, dopotutto questo posto è mio,» sbotta poi, avviandosi a passo di marcia verso le scale, con le ginocchia rigide che protestano per la lunga immobilità.

Crede di sentirla sospirare appena, senza per questo commentare. Gli rimane di nuovo quel "grazie" impigliato tra petto e labbra, ma non si gira nemmeno a guardarla.

 

§


 

Dal modo in cui lo guardano Steve e Rhodey la prima volta che scende in sala comune, quella sera stessa, capisce che il suo arrivo era atteso. Cerca di assumere una postura spavalda, ma le spalle sembrano pesare una tonnellata e rimangono leggermente incurvate. Ha cercato di camuffare la propria magrezza indossando una tuta grigia, morbida e senza pretese, ma sa che è comunque evidente e si sente sotto esame come un bue al macello.

«Bentornato, Tony,» lo accoglie subito Steve, quasi accorato, prima che lui possa dire qualcosa.

Lui si rigira una risposta acida in bocca, assaporandola, poi la ingoia limitandosi a un cenno del capo verso il soldato, che abbassa lo sguardo annuvolato per quella reazione schiva. La sua stazza lo rende meno evidente, ma anche lui è dimagrito; si è lasciato anche ricrescere la barba, che cela in parte il volto più smunto.

Tony cerca Natasha, ma non la vede e si sente esposto, persino con Rhodey là vicino. O meglio a studiata distanza, perché si ferma a un paio di passi da lui, con un "Tones" sommesso a mo' di saluto che gli fa capire quanto abbia avuto paura di non rivederlo. E quanto adesso sia troppo arrabbiato con lui per dire o fare di più. Accetta in silenzio anche quel saluto, con un’occhiata un po’ tremante che abbraccia il volto dell’amico, poi si unisce spontaneamente ai preparativi per la cena.

Steve e Rhodey parlottano tra loro del più e del meno e Tony fatica a tenere il loro passo. Parlano di un evento di beneficenza a New York organizzato da May per inizio febbraio, parlano di una partita di hockey a cui Steve vuole portare Cassie sabato prossimo, parlano del fatto che devono comprare più waffles istantanei perché Natasha fa continua razzia delle loro scorte, e Tony non riesce a seguirli. Non riesce a traslare nel suo mondo di fantasie labili quei discorsi reali e tangibili. Premono contro le pareti del suo spazio onirico, ma rimbalzano via. Il suo orologio continua a ticchettare sullo stesso secondo impedendogli di uscire dal quadrante.

Si concentra quindi nell'apparecchiare la tavola come se stesse trafficando coi delicati componenti delle sue armature, tentando di estraniarsi di nuovo, ma non trova più la propria spina da staccare. Si sente troppo lucido e al contempo avverte un lieve tremito alle mani sommato a nausea. Sarà una notte orribile, lo sa già, ma cerca di focalizzarsi sulla cena, che sarà probabilmente il secondo pasto decente che fa in quei mesi.

«Tony?» si sente chiamare, e dal timbro ha il sospetto che non sia la prima volta.

Alza lo sguardo, e Steve lo sta fissando interrogativo.

«Per te va bene?» gli chiede ancora.

«Uh, sì,» risponde lui di riflesso, ignaro di cosa stia parlando, poi scrolla il capo in un'ostentazione di noncuranza, poggiando al contempo l'ultima forchetta con troppa forza. «Certo, certo, qualunque... mi va bene tutto,» dice in fretta, sentendo i palmi sudati e il sospiro profondo, deluso, di Rhodey che lo fa barcollare.

«Ti stavamo chiedendo se vuoi venire a New York sabato prossimo, all'evento di beneficenza del FEAST,» dice Rhodey, chiaramente ripetendosi, e Tony si sforza di sostenere il suo sguardo. «Ci saranno May e Happy e...»

«Ho appena risposto di ,» lo interrompe secco Tony, alzando un sopracciglio e mantenendo il punto per principio. «Non ho di nuovo perso la facoltà di parola,» aggiunge sarcastico, sbuffando dal naso e poggiando di malagrazia i tovaglioli al centro del tavolo.

Una morsa gelida gli stringe il petto, dietro la sua facciata spavalda. Non vede May da quando è tornato. Senza Peter. Non vuole ripensare al loro incontro: ci sono state troppe urla e troppe lacrime e troppe accuse e preghiere e abbracci così stretti da essere dolorosi, da lasciargli lividi sulla schiena che ora sente dolere di nuovo.

Coglie l'occhiata rassegnata che si scambiano di sfuggita gli altri due e sceglie di ignorarla, così come li ignora per il resto della cena a cui Natasha si unisce in ritardo, senza una parola né un saluto. Tony capta un grado di tensione in più quando lei si siede a tavola, e ripulisce il proprio piatto con rinnovata velocità a dispetto del poco appetito, così da alzarsi per primo e lasciare la sala comune, lanciandosi dietro uno svogliato, laconico "'notte" strappato tra i denti. Cammina rumoroso per poi fermarsi a portata d'orecchio. Lascia passare qualche secondo e poi li sente avviare una fitta conversazione in cui è certo di captare il proprio nome. Serra gli occhi, ripiegando il mento sul petto e si lascia sfuggire un sospiro tra le labbra piegate in una smorfia amara. Riprende a camminare facendo volutamente stridere le scarpe sul pavimento, notando con tacita soddisfazione come le loro voci si arrestino di colpo a quel suono.

Si rifugia in camera sua, che non è davvero camera sua, in quanto spoglia e priva di qualsiasi personalità. Meglio così, conclude, svestendosi con le mani che adesso tremano innegabilmente. Sente tornargli su la cena, troppo abbondante per il suo stomaco rattrappito, e rinuncia a mettersi subito a letto, mettendosi semi-seduto sul pouf nell'angolo con un lamento frustrato. Si copre gli occhi con le mani, a scanso di possibili allucinazioni, e sente i suoi piedi che cercano di guidarlo verso la porta quasi reagissero a una forza magnetica, alla ricerca di un sorso d'alcol. Si affonda le dita nelle orbite cercando di attenuare il mal di testa e ottenendo l'effetto contrario.

Rischia quasi di ignorare il bussare alla porta, prendendolo per il proprio cervello che si schianta a ripetizione contro le pareti interne del cranio. Quando realizza che non se lo sta immaginando, non gli riesce di formulare una risposta comprensibile, ma il suo gemito basso e dolorante sembra bastare al visitatore, perché la porta si schiude, facendo filtrare una lama di luce all'interno. Distingue tra le dita a mo' di sbarre la sagoma di Natasha, che sembra stringere qualcosa in mano.

«Chiudila,» bofonchia irritato facendo un cenno scattoso verso la porta, con gli occhi che lacrimano per quel fievole cambiamento di luminosità.

«Sei già fotosensibile,» commenta lei pragmatica, avvicinandosi al suo angolo.

«Sono anche in mutande, se è per questo; hai davvero poco rispetto per la privacy altrui,» replica lui in pilota automatico, con una mano che scende a ovattare parzialmente la propria voce.

«Hai mai avuto una privacy?» lo rimbecca pronta lei, e sente che gli piazza sul ventre qualcosa di freddo, di vetro. «E comunque dovresti coprirti, hai la febbre,» aggiunge, sfiorandogli la fronte con le nocche.

Tony la ignora e abbassa lo sguardo a fissare l'oggetto: distingue una bottiglietta di Jack Daniel's, di quelle da viaggio che entrano in un palmo.

«Sei diventata la mia spacciatrice?» chiede, con un tremito nella voce e le dita che si contraggono sul vetro nell'impulso di aprirla, la gola che già gli brucia. «Non lo voglio, Romanov,» bofonchia, ma non molla la presa sul flacone.

«Entrare in crisi d'astinenza e fare la cura del tacchino non mi sembra una buona mossa, [1]» ribatte lei, in piedi con le braccia incrociate, gli occhi appena distinguibili nella penombra. «Fai le cose gradualmente e prenditi tempo: non puoi essere in delirium tremens quando vedrai May.»

Tony quasi inghiotte un respiro a quell'affermazione e scosta appena la mano dal volto, strizzando gli occhi.

«Non penso che ci andrò davvero,» mormora, e non sa neanche perché lo stia dicendo a lei, considerando che lo riferirà immediatamente agli altri. «Non... non siamo più in buoni rapporti,» aggiunge, tornando a stringersi le tempie, e percepisce la cenere incollata ai palmi viscidi.

Forse la sente sospirare, ma lui non alza lo sguardo e serra la stretta sul flacone d'alcol, svitandone il tappo un millimetro alla volta in un movimento inconscio che non controlla del tutto.

«Sanno già che non ci andrai,» commenta poi Natasha, e il suo tono sembra farsi più gentile e privo d'accusa, come se forse, in fondo, avesse sperato nel contrario conscia che fosse vano farlo.

Gli passa una mano sulla guancia in una carezza un po' brusca, poi la sente uscire dalla stanza così come vi è entrata, un'ombra tra le altre. Gli si chiude di nuovo la gola attorno a quella parola impronunciabile, che forse lei non vuole neanche sentirsi dire, e la annega in quel misero sorso d’alcol.

 


 



Note:

[1] La "cura del tacchino" (Cold turkey in inglese, ovvero "tacchino freddo") consiste nel'astinenza improvvisa e volontaria da alcol/droghe, ed è di solito portata avanti chiudendo la persona dipendente in una stanza, lasciandola a smaltire l'intossicazione senza alcun surrogato né vere e proprie cure. Negli alcolizzati gravi, ciò porta solitamente al delirium tremens, rivelandosi spesso fatale.
NB. 
La somministrazione di piccole dosi d'alcol per lenire gli effetti dell'astinenza dallo stesso è una pratica controversa e generalmente sconsigliata. Mentre con gli stupefacenti è spesso adottata, con l'alcol si preferisce l'uso di benzodiazepine per attenuare gli effetti collaterali, onde evitare di cadere nel citato delirium tremens, che ha un tasso di mortalità piuttosto alto se non adeguatamente trattato.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, eccomi di nuovo qui!

Questa storia ha preso una piega un po' diversa dall'intento originale... quindi ecco a voi Tony alle prese col suo demone personale, almeno nei fumetti. Vi sarà sempre una commistione del MCU, base di tutto e preponderante, con stralci rarefatti presi dai comics, sia per Tony che soprattutto per Natasha, le cui vicissitudini rimarranno però sempre quasi del tutto in ombra.

Come promesso, il principio dietro ai titoli delle varie parti dovrebbe essere un po' più chiaro: abbiamo affrontato la "Dimensione x" e adesso arriva la "Dimensione y"... la prossima dovrebbe essere piuttosto prevedibile, ma con l'ultima (saranno quattro parti più epilogo) spero di sorprendervi almeno un poco. Insomma, abbiamo davanti agli occhi un piano cartesiano, con l'incognita (spero) di quel che si prepone di misurare. Ricordo che la denominazione degli assi è puramente convenzionale: potrebbero chiamarsi Gertrude, Anastasia e Genoveffa e aver comunque senso... in questo caso, contrariamente al solito, considero x l'asse verticale delle ordinate, e y quello orizzontale delle ascisse, col semplice intento di non far precedere la y alla x nella narrazione, che vanificherebbe il senso logico che vorrei dare loro e che chiarirò in seguito. Scusate la divagazione, ma trattandosi di Tony non potevo non gettare un po' di scienza nel minestrone :')

Ringrazio infinitamente tutti voi che avete commentato e aggiunto la storia alle liste finora, e spero continuiate a seguire <3 Avere feedback mi renderebbe felicissima, vista la natura "sperimentale" della storia, e ogni parola conta, davvero <3
Alla prossima, ovvero la prossima settimana,

-Light-

 

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Capitolo 8
*** Parte seconda - Capitolo 7: Coordinate ***


.7.

Coordinate
 
 
"All the things that worry me
All the things you don't believe
I've been told just what to do
Where to look and point my view
All the things that I could be
I think I learned in therapy
Am I just a shadow you drew?"

[It Comes Back To You – Imagine Dragons]
 

 
Gennaio 2019, Complesso dei Vendicatori

Natasha l'ha ingannato.

Doveva aspettarselo. Dovrebbe essere sempre sul chi vive, con lei. Invece ha abbassato la guardia, perché dopo tre giorni passati a vegetare in camera propria, sudando alcol e imprecando costantemente contro i sintomi dell'astinenza leniti solo dai liquori formato tascabile che gli fornisce lei stessa, avrebbe accettato la compagnia di chiunque. Persino Rhodey si è tenuto a debita distanza, e ha fatto capolino da lui solo una volta. Un'occhiata gettata dallo spiraglio della porta, fugace, accompagnata da un sospiro al contempo frustrato e sollevato e dallo scatto della serratura subito dopo. Non l'ha trattenuto, è stato troppo orgoglioso per farlo.

E adesso Natasha l'ha ingannato. Ha un mal di testa così atroce che ha a malapena compreso cosa gli abbia detto esattamente per farlo alzare dal letto, ma si è lasciato convincere a vestirsi e ad uscire dalla sua stanza con la promessa di un rimedio efficace contro quella tortura auto-imposta. Invece l'ha spinto là dentro a tradimento per poi chiudergli la porta alle spalle, tagliandogli la via di fuga.

Stringe le labbra, amareggiato per esserci caduto come un bambino, e tiene lo sguardo piantato a terra mentre se ne sta a piedi penzoloni dal lettino, seminudo e con Bruce che gli ausculta intento cuore e polmoni. Ha dei lievi capogiri per i respiri profondi che gli ha detto di prendere, ma non si lascia sfuggire una sola protesta. Fa scattare lo sguardo attorno a sé come una tigre in gabbia, esaminando il cubicolo per le visite che occupa un angolo dell'ala medica, e contrae impaziente le dita dei piedi, spronando mentalmente Bruce a darsi una mossa. Lui stacca in quel momento il sondino dello stetoscopio dalla sua schiena smagrita, con un cenno d'assenso.

«Stenditi,» lo invita in tono privo d'inflessione, cambiando rapido strumento d'analisi e ficcandosi gli auricolari di quello nuovo e apparentemente identico nelle orecchie. [1]

Tony medita se fare qualche battuta sarcastica e scontata sul fatto che sembra non avere alcuna intenzione di lasciarlo andare via, ma si limita a trattenere un'alzata d'occhi al cielo ed eseguire. Sente il sondino freddo premergli contro l'addome, spostandosi a intervalli regolari, aggirando la cicatrice slabbrata e sensibile sul fianco; trattiene una smorfia e appunta lo sguardo al soffitto.

Non gli sono mai piaciuti i medici, né gli ospedali. Pepper diceva sempre, in parte a ragione, che era ipocondriaco e iatrofobico: una combinazione nefasta per i suoi nervi. Trattiene un lieve sospiro e scaccia il ricordo con veemenza, prima che gli si appanni la vista. A prescindere da tutto, non è comunque sulla sua lista di desideri farsi visitare da un ex-amico e collega che non vede da anni e con cui ha ancora un dissidio irrisolto riguardante un superbot omicida fuori controllo. Se non altro, l'altro si sta comportando in modo estremamente professionale. Sembra molto dottor Banner e molto poco Hulk.

«Potresti sentire un po' di dolore,» lo avverte in quel mentre, scostando il fonendoscopio ed esercitando poi col palmo una lieve e mirata pressione sul suo plesso solare.

Tony strizza appena gli occhi quando un sordo, molle fastidio gli risale le viscere, come se fossero compresse in uno spazio ancor più ridotto del normale, e non gli serve una laurea in medicina per capire che non è un buon segno.

«Uh, per ora sento solo uno schifidol nella pancia,» borbotta tra i denti, mascherando a fatica il disagio.

Bruce mugugna qualcosa tra sé, apparentemente contrariato, lancia un'occhiata accigliata alle sue costole sporgenti e completa il check-up medico forzato esaminandogli gli occhi e costringendolo a guardare in almeno cinque direzioni diverse prima di ritenersi soddisfatto. Tony sopporta quell'ultimo esame con insofferenza che ormai non si cura di celare più di tanto.

«Bene, possiamo escludere qualunque rischio di cirrosi epatica,» conclude infine Bruce, spegnendo la torcetta con uno scatto.

Tony scuote la testa, chinando il capo e massaggiandosi le palpebre ad attutire le chiazze luminose.

«Bevo da qualche mese, non da qualche anno,» bofonchia, un po' risentito. [2]

«Non sei mai stato un esempio di salute perfetta: volevo solo essere sicuro,» gli fa notare Bruce, assumendo un cipiglio severo.

Lui si sfrega in un riflesso nervoso lo sterno martoriato quasi a dargli ragione, e non trova di che ribattere.

«Quindi? Adesso sono libero?» chiede, scendendo dal lettino e recuperando i pantaloni senza aspettare di ricevere un consenso.

«Tra un attimo,» lo ferma Bruce, alzando un indice e mettendo nel frattempo da parte i campioni di sangue che gli ha prelevato poco fa.

Tony sbuffa sonoramente, ma finisce di rivestirsi e invece di fuggire rapidamente da lì si poggia contro il lettino a braccia incrociate, in attesa con le mani affondate nelle tasche della felpa. Osserva Bruce e si chiede quando mai l'abbia visto sereno da quando lo conosce. Crede che in questo momento si stia superando, per quanto riguarda le inquietudini, ma non dovrebbe stupirsi: ha delle occhiaie livide che fanno concorrenza alle sue e, anche se non nota un dimagrimento percepibile a occhio nudo, ha le guance pallide, la barba poco curata e i capelli ingrigiti che necessitano di una urgente spuntata. Forse "potatura" sarebbe un'espressione più corretta. Si passa una mano tra i propri, anch'essi troppo lunghi, e si dice che prima o poi dovrà decidersi a tagliarli, invece di sembrare una controfigura più malmessa di se stesso appena tornato dall'Afghanistan.

Si schiarisce la gola, a spronare Bruce prima che l'emicrania gli spacchi in due la testa con la sua mannaia, e questi distoglie l'attenzione da quella che sembrano le sue anamnesi e cartelle mediche fornite dallo SHIELD. Rassetta i fogli con un colpo secco sopra al tavolino e li posa ordinatamente sulla cartellina. Tony coglie una foto di se stesso dieci anni prima, che ricambia il suo sguardo dalla carta con una certa arroganza. Già... ha visto decisamente giorni migliori. Bruce rimane seduto di fronte a lui, tamburellando sui documenti, e sembra incerto su cosa dire.

«So che non sono la persona con cui vorresti parlare,» esordisce poi, con cautela, quasi avesse a che fare con un ordigno inesploso.

«No, ti fermo qua,» lo interrompe Tony, scuotendo una mano. «Non voglio parlare con nessuno, non prenderla come un'antipatia personale. Natasha mi ha attirato qui con l'inganno, se fosse stato per me...»

«... saresti rimasto in camera tua senza risolvere assolutamente nulla, esattamente nelle stesse condizioni in cui ti ha trovato qualche giorno fa,» completa lui, pungente, e Tony si chiede da quando il mite dottor Banner sia così spigoloso.

«Stronzate,» sbotta in tutta risposta con un po' troppa forza, e gli sembra quasi di sentirsi calare un martello sul cranio per la scossa punitiva che gli invia l'emicrania. «Sono sobrio come un bambino, adesso. Al cento per cento.»

«E come va l'astinenza? Il mal di testa? La nausea? La febbre, i brividi, i crampi e tutto il teatrino?» chiede lui, serafico, poggiando la tempia contro indice e medio e puntellandosi sul tavolino col gomito. «Tra l'altro, se fossi davvero in astinenza completa, saresti probabilmente già in delirium tremens,» aggiunge, sempre con lo stesso tono quasi noncurante. 

Tony serra le labbra fino a sbiancarsele, riuscendo a contare a uno a uno tutti i singoli sintomi da lui elencati, anche se lievemente smorzati, e Bruce sospira.

«Se vuoi, puoi imboccare la porta e andartene, Tony: io non ti trattengo. Magari non ci stimiamo più così tanto da parlare per ore, ma credo che ci rispettiamo ancora abbastanza da non prenderci in giro,» continua, con una punta d'irritazione ben percepibile, e i suoi occhi sembrano farsi più scuri.

Tony si agita sul posto, colto in fallo. Medita se seguire il suo invito e alzare i tacchi, ma si trattiene là, a forza. Con più forza di quella invisibile che lo arpiona allo stomaco e vorrebbe trascinarlo nei suoi fiumi alcolici. Si pianta lì in mezzo a quei flutti e cerca di non farsi trascinare sotto, anche se sarebbe infinitamente più semplice. Ma a lui non piacciono le cose semplici, da sempre.

Gli sembra comunque paradossale fare quel tipo discorso con Bruce. Bruce, che non vede da tre anni. Bruce, lo scienziato sofferente e un po' svampito, dal sorriso gentile, che gli aveva dato la scusa per studiare un manuale d'astrofisica in una notte solo per fare una buona prima impressione con lui, quando di solito quasi ci teneva a farsi odiare da tutti sin dal primo istante. [3] Lo stesso genio tormentato che si è perso per anni nel cosmo profondo, intrappolato in un corpo indesiderato e poi su un pianeta alieno. Che si è dichiarato esplicitamente colpevole per la fine del mondo, come tutti loro. Che forse ha il demone personale peggiore, quello che non gli permette nemmeno di scappare da se stesso. Lo fissa brevemente negli occhi e, in automatico, lascia scivolare la manica della felpa oltre il polso, a coprire meglio l'incisione biancastra che sembra ancora bruciargli pelle e vene.

«Ho bevuto. Un po',» ammette infine tra i denti, senza giri di parole. «Poco, solo per non andare fuori di testa,» aggiunge, guardandolo di sottecchi ed escludendo il ruolo di Natasha dalla sua equazione autodistruttiva.

Bruce sembra rilassarsi un poco a quell'atteggiamento più collaborativo e annuisce appena, aggrottando subito la fronte con fare concentrato. Poi riprende a parlare, e gli pone almeno una decina di domande specifiche sui suoi sintomi e sul grado di dipendenza che ha sviluppato. Tony risponde con stringatezza, martoriato dal mal di testa, riluttante, ancor più quando lo vede prendere un paio di appunti sul tablet, ma si obbliga a non schizzar via di lì come gli sta gridando di fare il suo orgoglio. Si sente troppo esposto, privo di pelle, con la carne viva che pulsa sensibile a ogni refolo d'aria. Continua a passarsi una mano sulla fronte ogni volta che Bruce abbassa lo sguardo, e la trova sempre più rovente, madida. Si sente in una sauna ed è consapevole di avere un aspetto tremendo e sfatto, ben lontano dalla sua solita e disinvolta eleganza. Considera un gesto di estremo tatto l'assenza di commenti da parte dell'ex-collega.

È con sollievo che lo vede fare un cenno apparentemente definitivo e quasi soddisfatto, per poi fissarlo un'ultima volta con fare inquisitore.

«Vuoi dirmi altro?» chiede, vago e specifico al contempo.

Tony corruga le sopracciglia, titubante, perché gli è fin troppo chiaro dove stia puntando con quella domanda: vede quasi l'indice puntato verso la sua testa. Ma non si sente affatto in vena di parlare della propria salute mentale – sempre che ne abbia ancora una. Soprattutto se il suo quadro clinico include voci che non dovrebbe sentire.

Sa che sarebbe sensato dirglielo. Al Dottor Banner, non a Bruce. Vorrebbe separare fisicamente quelle due figure, ma gli sembra un pensiero maligno, rivolto a qualcuno che ha già indiscussi problemi di personalità. Schiocca sommessamente la lingua in segno di diniego e rimane in silenzio, aspettando di essere rimesso in libertà con i suoi pacchetti di pilloline generiche e dei consigli medici sensati che probabilmente ignorerà. [4]

O forse no. Forse no, perché non vuole morire in una pozza d'alcol e vomito come ha costantemente rischiato di fare vent'anni fa. Sarebbe come gettare al vento tutti gli sforzi fatti per uscirne. Tutti gli sforzi di Rhodey, Happy e Pepper per tenerlo alla larga dallo squallore in cui è precipitato di nuovo, non sa neanche bene come. Quasi la sente, la voce di Pepper. Nei suoi ricordi, non per davvero; più che la sua voce, i sospiri rassegnati che si lasciava sfuggire agli albori, quando quasi ogni mattina lo trovava sbronzo, accasciato inerte in luoghi impensabili. Si sente torcere lo stomaco, e non c'entra l'astinenza.

«Tony,
» lo richiama Bruce, distogliendolo, «non te lo sto chiedendo per farmi i fatti tuoi, ma per capire come aiutarti. Professionalmente,» aggiunge, togliendosi gli occhiali da vista.

«L'ultima volta che ti ho parlato dei miei problemi, mentali e non, ti sei addormentato,» mastica Tony, tra i denti.

Bruce rilascia uno sbuffo incredulo.

«Sei seriamente ancora...»

«Sì, no, forse, chissà,» spara a raffica Tony, gesticolando svogliatamente qua e là con mani tremanti e, Cristo, sta sudando troppo e vorrebbe solo scappare di lì, lui che si è gettato a testa bassa in un portale alieno. «Non ha importanza e non è certo il fatto più grave. Il punto è: rimarrebbe tra noi, vero?» chiede, mordendosi un labbro in un tic nervoso e imponendosi subito di smettere. «Tutto questo. Le mie "confessioni cuore a cuore" e cazzate simili. Qui non ho esattamente l'imbarazzo della scelta per quanto riguarda il personale sanitario, sarebbe veramente uno schifo se tu decidessi di...»

«Dovrei sentirmi offeso,» lo interrompe Bruce, cupo. «Molto offeso. Ma capisco che la situazione è quella che è, e che non sono la tua prima scelta. Quindi posso solo dirti che, sì, rimane tra noi. Puoi scegliere se crederci o meno,» conclude seccamente.

Tony si passa entrambi le mani sul volto umidiccio e vorrebbe rimescolarsi i connotati per assumere un'espressione impassibile. Neutrale, e non combattuta e distorta dall'emicrania e dal principio di febbre che va e viene costantemente. Gli sembra di sentirli, adesso, lontani, ma sa che è solo suggestione, perché non ne distingue le parole. È solo suggestione... che però potrebbe diventare realtà un giorno non troppo lontano. Forse. Non sa nemmeno da dove scaturiscano, quei fantasmi, e non è certo la persona più adatta a capirlo... lo ammette a se stesso sentendosi sconfitto, incapace più che mai di dipanare le matasse aggrovigliate della propria mente. Parlare adesso non sarebbe nemmeno chiedere aiuto, quanto esigere un'opinione. Detesta sentirsi giudicato, ma è anche molto allenato a lasciarsi scivolare addosso i giudizi altrui, e porsi sotto questo punto di vista fa sembrare tutto più gestibile. Opinioni, come quelle che gli avrebbe chiesto su un progetto in corso – non Ultron, non deve pensarci – e che avrebbe poi avuto la libertà di ignorare – come in effetti ha sempre fatto.


«Credo...» comincia infine di slancio, scostando una mano e facendo poi una lunga pausa col volto coperto a metà. «Non sono sicuro, è solo una supposizione logica, ma...» nega vigorosamente col capo, negando a se stesso ciò che sta per dire, «... credo di aver avuto delle allucinazioni,» dichiara poi, d'un fiato. «Solo... solo uditive. Niente spettri e fantasmi a spasso qua e là in stile Casper. O forse sì, una volta… una e basta,» aggiunge, in fretta, alzando un indice a sottolineare il concetto.

Lo sguardo di Bruce si fa più acuto.

«Sulla Benatar?» chiede, e quella domanda lo coglie alla sprovvista.

«Uh, no... cioè, non solo. Dopo. Subito dopo e... poi sono peggiorate,» si strappa fuori, immaginandosi di parlare a se stesso e non con un'altra persona fisica; un concetto che non è comunque molto invitante.

«L'avevo immaginato,» dice lui, mestamente, e si affretta a continuare nel cogliere il suo sguardo interrogativo. «Potrebbero essere sintomi di space dementia [5]. Avevo ipotizzato che avresti potuto soffrirne dopo la tua permanenza nello spazio, ma... ho lasciato correre, perché francamente nessuno di noi era nelle condizioni di prendersi cura di se stesso, o degli altri,» confessa con un mezzo, teso sorriso che sembra di scuse, nonostante tutto. «È per questo che hai ripreso a bere?»

Tony finge di riflettere sulla domanda, mascherando la sorpresa per il suo intuito. D'altronde, sta parlando con un genio con sette dottorati. E problemi di gestione della rabbia che per fortuna sembra aver archiviato. Comprime le labbra, riducendole a una linea sottile, poi annuisce in modo impercettibile. Bruce ricambia il cenno, e sembra concentrarsi.

«E in seguito ne hai avute altre?»

«Non mi sembra, ma... non sono stato la quintessenza della lucidità, ultimamente,» si trova costretto ad ammettere. «Ne ho avuta una... una specie, qualche giorno fa, quando Nat mi ha fatto uscire a calci dal mio antro. Ma forse stavo solo... ero sobrio, ma forse quella volta erano... volontarie?» esita sull'ultima parola, incerto lui stesso riguardo a cosa abbia sentito, o immaginato, che l'ha convinto a venire qui, per poi essere ingannato e farsi psicanalizzare da un ex-mostro verde rabbioso. «Sogni ad occhi aperti, più o meno,» conclude, così in fretta da mangiarsi le parole.

Bruce non fa commenti, né si mostra sorpreso. Tony ha l'impressione che tutti loro abbiano ormai un po' troppa dimestichezza con cose che non dovrebbero esistere.

«Se ti ricapita, dimmelo,» lo invita semplicemente, e Tony conclude che in tal caso quelle famose pilloline sarebbero in deciso avvicinamento.

Prendi dei farmaci? No. Dovresti prenderli? Probabilmente. Gli sfugge un sorriso privo d'allegria e si ripromette poi di non fare alcuna chiamata in Tennessee. Preferisce non sapere. [6]

«Quindi... cosa consiglia il dottore?» chiede, staccandosi dal lettino con tutte le intenzioni di andarsene dopo aver detto molto più di quanto avrebbe voluto, cosa di cui si sta già abbondantemente pentendo.

«Ti consiglia di uscire dalla tua tana, mangiare in modo decente e tenerti lontano in modo definitivo dall'alcol,» risponde Bruce, puntuale.

«Non... non voglio cadere in... in quella cosa orribile che voi fissati del latino continuate a ripetere,» cerca di scherzare lui, senza molto successo e stringendo un palmo fremente. «Ci sono già andato vicino, e non è piacevole,» si acciglia poi, contrariato, e gli sembra di prendere a sudare di più solo al pensiero di quanto fosse stata dura la sua disintossicazione all'epoca – e la sua dipendenza era infinitamente meno drammatica di quella attuale.

Si sfrega la fronte madida, dolorante dall'interno, e vuole solo rimettersi a letto e dormire per tre giorni, se solo non rischiasse di svegliarsi in preda alle convulsioni.

«Se i sintomi si aggravano, ti somministro delle benzodiazepine. E per la storia delle allucinazioni, potresti averne a prescindere: sono un possibile effetto collaterale dell'astinenza. Di quelle ci occuperemo quando sarai completamente sobrio, se dovessero persistere,» spiega Bruce, in modo pacato ma fermo, clinico. «Ignorale, o almeno provaci. Per il resto, devi mettere su peso e ripulirti il fegato che ti sei distrutto,» lo rimprovera poi, con sguardo duro.

«Sissignore,» bofonchia Tony, poco entusiasta.

«E fai un bel po' di attività fisica quando riuscirai a reggerti in piedi senza collassare,» aggiunge ancora, quasi sovrappensiero.

«Attività fisica?» sbuffa Tony, sperando di aver sentito male.

«C'è una maxi-palestra, qui al Complesso: potresti averla notata,» ribatte Bruce, con un sarcasmo inaspettato, per poi sospirare appena. «È principalmente per distrarti e tenerti occupato. Se senti l'impulso di bere, corri una decina di minuti,» spiega poi, in tono un po' rassegnato, come se si aspettasse di venire ignorato. [8]

«Preferivo il classico metodo del "se ti viene voglia, mangia una caramella",» commenta Tony, giocherellando con la zip della felpa e già rivolto impaziente verso l'uscita.

«Non vorrei dovermi occupare anche della tua iperglicemia,» lo rimbecca prontamente Bruce.

Stavolta un'ombra di scherzosità sfiora i suoi occhi pacati, suscitandogli a sua volta un mezzo sorrisetto e un occhiolino spavaldo a mo' di saluto.

 
§


La prima cosa, o meglio persona, che vede non appena esce dalle porte automatiche dell'ala medica è Natasha. Tony alza platealmente gli occhi al cielo e svolta nel corridoio a passo di marcia – più o meno zoppicante – ignorandola. Sente i suoi passi che lo tallonano e vorrebbe avere addosso l'alloggio per nanoparticelle, almeno potrebbe mettersi il casco e insonorizzare l'ambiente circostante per non doverla sentire.

«Allora?» quasi trilla con una giovialità inopportuna, affiancandolo con uno scatto.

«Allora, sei davvero una traditrice. Fatta e finita. Hai un marchio di fabbrica, con copyright e tutto,» borbotta Tony, senza però voglia di mostrarsi davvero risentito, soprattutto perché nel suo stato attuale non risulterebbe molto minaccioso.

Natasha solleva le sopracciglia arcuate senza dare peso alle sue accuse, invitando ancora una risposta. Lui prende un respiro, fermandosi a un passo dall'ascensore per fronteggiarla. Si caccia le mani in tasca e inclina il capo all'indietro, rilasciando poi lentamente l'aria tra i denti.

«A quanto pare, devo darmi all'aerobica,» dice infine, concludendo la frase con un ultimo, secco sbuffo dal naso ad esprimere il suo scetticismo in merito.

Gli sembra quasi di veder brillare gli occhi di Natasha come quelli di un gatto di fronte al topo, e si pente già di aver parlato.

«Questa è un'ottima notizia.»
 

 
 
 
Note:

[1] Per amor di realismo e mia pignoleria, Bruce qui passa dallo stetoscopio, usato per l'auscultazione del torace, al fonendoscopio, preposto a quella dei visceri.
[2] La cirrosi epatica si sviluppa appunto dopo anni e anni di assiduo alcolismo: sarebbe totalmente inverosimile che Tony ne soffrisse. Prendetelo come un segno di sfiducia da parte di Bruce, considerando che non si vedono da AoU. La visita è quanto più possibile realistica, in quanto questa patologia causa, tra le altre cose, ingrossamento del fegato e ittero nelle sclere.
[3] Riferimento al primo Avengers.
[4] Ci tengo a specificare che queste sono opinioni di Tony, in linea col suo personaggio, che non rispecchiano in alcun modo le mie per quanto riguarda la cura e il trattamento di disturbi psichiatrici e/o depressivi.
[5] Disturbo di cui possono soffrire gli astronauti dopo un lungo periodo passato nello spazio. I sintomi includono appunto le allucinazioni, oltre a un senso di profondo isolamento ed estraniamento dalla realtà (che spero sia stato colto nei primi capitoli). 
[6] Riferimento ad Harley Keener, di cui cito le testuali parole che pronuncia in Iron Man 3.
[7] La correlazione tra attività fisica e diminuzione dei sintomi dell'astinenza non è scientificamente dimostrata (o meglio, non vi sono studi specifici al riguardo), ma si è comunque riscontrato un influsso positivo su molti pazienti.


Note dell'Autrice:

Carissimi, riecco il nostro appuntamento settimanale con l'angst :')
In questo capitolo ho ritenuto necessario fornire un po' di specifiche di tipo medico&co.considerando gli argomenti trattati, spero abbiano soddisfatto eventuali domande/dubbi, e in caso contrario sono pronta a smollare papiri indigesti in risposta a vostro rischio e pericolo.

Per quanto riguarda ciò che accade in sé... credo sia ormai palese che vi stia presentando un Tony molto più fragile di quanto faccia/sia di solito (credo davvero che questo sia il suo minimo storico nei miei scritti, e preciso che anche normalmente non lo tratto coi guanti).
Sono consapevole che potrebbe risultare difficile da associare al "nostro" Tony, ma c'è da dire che non ci hanno mai mostrato i suoi momenti di vero e proprio crollo emotivo (in Civil War vediamo la rabbia immediata e non l'elaborazione successiva; in Iron Man 3 si tratta, male, un disturbo che esula dalla pura sofferenza emotiva). Questo per dire che mi sono data un po' di carta bianca, sempre tenendo a mente che lui è uno che col senso di colpa ci va a braccetto, che col passato ha un rapporto controverso a dir poco, e che tenta costantemente di dissimulare ed essere sfuggente. Non a caso la confidenza con Bruce (riguardo al suo stato mentale) è un "falso passo in avanti", compiuto più per scrollarselo di dosso e assicurarsi di non stare così male, che per una vera e propria volontà di lavorare su quell'aspetto (di qui il commento cinico sugli psicofarmaci). Per tutto il resto, c'è la sua collaborazione più o meno imposta con Natasha :')
Scusate lo spiegone, ma essendo tematiche delicate preferisco essere il più possibile trasparente per evitare fraintendimenti.

Grazie a tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste e a chi ha commentato gli scorsi capitoli (e non siate timidi, ogni commento/critica è bene accetto!)
Un grazie in particolare a
_Atlas_ e Miryel, che continuano a supportarmi assiduamente su questo progetto <3
Alla prossima settimana,

-Light-




 

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Capitolo 9
*** Parte seconda - Capitolo 8: Controllo ***


.8.

Controllo


 
“Someone tell me I’m dreaming
The freaks are rising up through the floor
Everything I believe in
Is telling me that I want more, more, more”


[Bag It Up – Oasis]



Gennaio 2019, Complesso dei Vendicatori

Spaesamento.

È questa la prima sensazione che prova Tony non appena varca la soglia della palestra del Complesso. È l’ambiente chiuso più ampio in cui abbia messo piede negli ultimi mesi, e una parte di lui trova più invitante il prato esterno privo di confini o mura – se solo non ci fossero un metro di neve e una temperatura polare a ostacolare qualunque tentativo di esercizio fisico.

Qui si sente minuscolo, con un soffitto troppo alto sopra la testa che gli dà esatta misura della propria grandezza irrisoria, e c’è così tanto spazio racchiuso in troppo poco – confinato, compresso – che sembra imporgli di percorrerlo tutto da cima a fondo. Fuori ci sarebbero solo la linea d’ombra del bosco, la sponda grigia del fiume, le collinette lontane. Barriere naturali che non chiedono di essere raggiunte, al massimo osservate a distanza. Deglutisce e si chiede cosa abbia avuto in mente quando ha progettato questo posto, pur sapendolo. È una palestra per supereroi, quella, che deve permettere di volare a un’altezza ragionevole a chi ne è in grado e offrire una distanza di lancio, corsa e combattimento opportuna a tutti gli altri. Una palestra inutile, al momento.

Si pente di aver seguito Natasha. Ha ceduto per sfinimento dopo tre giorni d’insistenze da parte sua, quando ha minacciato di prenderlo di peso e trascinarlo là dentro per la collottola. Non sa perché pensa di potersi permettere di essere così autoritaria con lui, ma non è esattamente nelle condizioni fisiche o mentali per potersi opporre. Ha comunque il vivo sospetto che sia Rhodey ad aizzargliela contro. Lui dopotutto ha già fatto la sua parte, per quanto possibile, e ora si limita ad osservarlo da dietro le quinte. Non hanno ancora davvero parlato, ma ci sono le schegge della sua promessa quasi infranta a rendergli dolorosa ogni parola che tenta di rivolgergli. Quelle, e troppi vuoti che lo fanno inciampare a ogni passo.

«Quindi, playboy?» lo riscuote Natasha, con un colpetto secco sul suo bicipite non più così tonico quasi a sottolinearne il decadimento. «Idee?»

Tony non la guarda e trattiene un sospiro mentre si stropiccia le palpebre. Non ha dormito bene stanotte, tanto per cambiare, e gli attrezzi più invitanti al momento gli sembrano i materassini di gommapiuma in un angolo.

«Uh, dovrei correre, così ha detto Bruce,» risponde poi distrattamente, strizzandosi la pelle tra le sopracciglia.

Coglie uno sbuffo da parte della donna.

«Noioso,» dichiara, incrociando le braccia con contrarietà.

«Sfondi una porta aperta,» replica Tony, avviandosi comunque verso i tapis roulant. «Non sei obbligata a farmi da balia, comunque: puoi anche andare a fare qualcosa di più interessante… tipo girare video in cui spieghi come uccidere qualcuno in venti modi diversi con una limetta per unghie,» aggiunge con voce svogliata e un cenno speranzoso del capo verso la porta.

Natasha sorride enigmatica.

«Ho dei passatempi più interessanti,» ribatte, staccandosi dal suo fianco per dirigersi a passo spedito verso uno dei sacchi da boxe appesi vicino ai tapis roulant.

Tony si lascia sfuggire un mezzo sorrisetto nel vederla avvolgersi con gesti esperti le fasciature protettive sulle nocche, e nota solo adesso che sono comunque escoriate. Nota solo adesso molte cose, incluso il fatto che le sue occhiaie sembrano essersi accentuate, nel corso di quella settimana. E che è dimagrita più di quanto avesse pensato, ora che la vede senza indumenti larghi addosso.

«Rabbia repressa?» le chiede, senza troppa ironia.

«Molta,» replica secca lei, assestando al contempo un gancio ben piazzato sul lato del sacco, con una forza che avrebbe probabilmente sfondato la cassa toracica a un essere umano.

Tony si morde l’interno della guancia e non ritiene necessario commentare la cosa. La capisce fin troppo bene, e in effetti anche lui sente il bisogno di uno sfogo fisico per tutto il coacervo di emozioni che gli ribolle dentro. Magari correre un po’ non è poi un’idea così malvagia. Osserva ancora per qualche secondo Natasha che si avventa accanita contro il suo avversario immaginario, con una furia controllata che raramente le ha visto esternare. Si chiede a chi stia pensando, mentre massacra quell’agglomerato di cuoio e gommapiuma, e crede di avere già una risposta. Sono tutti vittime dello stesso carnefice.

Si passa una mano tra i capelli e si decide a salire sul tapis roulant impostando una velocità moderata che non rischi di ucciderlo entro i primi cinque minuti. È stato fin troppo ottimista, perché ne resiste a malapena tre prima di ritrovarsi sfiatato e di dover scendere con delle acute fitte alla milza. E lui che credeva fosse il fegato, il problema. Si poggia di schiena alle sbarre dell’attrezzo, una mano premuta sul fianco e la testa gettata all’indietro, e sa che Natasha lo sta guardando di sottecchi mentre martoria quel povero sacco da boxe.

«Già finito?» gli arriva infatti, dopo circa un minuto in cui crede di aver sudato tutti i liquidi presenti nel proprio corpo.

Non risponde e si attacca alla propria borraccia, prendendo una lunga sorsata dal vago retrogusto di vodka. Ce ne ha messa giusto un bicchierino – forse due, forse tre – per un litro d’acqua, tanto per ingannarsi, ma sa che Bruce lo strozzerebbe comunque, a vederlo. È ancora intento a bere quando si accorge che la sequenza ritmata di nocche che si abbattono sul cuoio è cessata. Si ritrova Natasha di fianco, con uno sguardo indagatore stampato in faccia che non promette nulla di buono.

«Me ne dai un sorso? Ho dimenticato la mia,» chiede, con nonchalance eccessiva, per essere spontanea.

Tony impreca tra i denti, e si chiede come diavolo abbia fatto a capirlo – perché ovviamente l’ha colto in flagrante nei suoi patetici tentativi di attenuare quell’astinenza bruciante. Deglutisce e si stacca dalla borraccia, stringendola con fare un po’ troppo possessivo fuori dalla sua portata.

«Nah, non ti conviene: mononucleosi, me l’ha diagnosticata Bruce,» inventa, alzando le spalle con un sorrisino di sfida glaciale e un gesto generico verso di sé.

Natasha lo ignora totalmente e allunga fulminea un braccio, quasi strappandogliela di mano. Prende subito una breve sorsata, assaporandola come fosse diventata d’improvviso una sommelier e alzando poi le sopracciglia con falso stupore nel distinguere il retrogusto alcolico.

«Beccato,» commenta solo, impassibile, per poi tendergliela di nuovo.

Tony alza gli occhi al cielo scrollando il capo, ma sente anche un’ondata di bollente vergogna arrampicarsi dal collo in volto, come un bambino a dieta a cui viene scoperta la riserva segreta di merendine sotto al letto. Tira rigidamente le labbra, trattenendo la risposta sarcastica che vi aveva fatto capolino e sapendo di non potersi permettere di pronunciarla. Non si è mai sentito così debole in vita sua, e ritiene di averne viste abbastanza da far impallidire un veterano di guerra. Era più sicuro di sé sulla sabbia di Titano, a dispetto di tutto. Abbassa lo sguardo e prende la borraccia senza incrociare gli occhi di Natasha, che non si è ancora schiodata da lì. Potrebbe rinfacciarle che è lei a passargli l’alcol sottobanco, ma sa che non è questo il punto. Non si tratta di coerenza o moralità: sono due concetti troppo fumosi per entrambi. Stuzzica con un’unghia il tappo del contenitore, causando un irritante suono metallico, e cerca di forzarsi a parlare.

«Tu hai la tua, vero?» le chiede, con un breve sospiro.

«Certo,» risponde, con un cenno verso la propria postazione.

«Non corretta,» si assicura poi, piegando la bocca in una smorfia indecisa se tramutarsi in un sorriso ironico.

«Non oggi, no,» replica disinvolta lei, alzando appena le spalle.

«Ti spiace dividerla?» si obbliga a chiedere infine, in fretta, e il solo gesto di rinunciare a quella sorta di rete di sicurezza lo fa sentire come se avesse un improvviso, disperato bisogno di quell’intruglio annacquato.

Non ritratta comunque la richiesta, ignorando il lieve fremito che gli attraversa le mani e la morsa allo stomaco che gli ricorda quanto saranno tremende le prossime ore senza neanche un surrogato a cui attaccarsi. Sente già salire la nausea, e sa che non può ancora chiedere altro diazepam a Bruce. Si rassegna a dover semplicemente stringere i denti, in attesa della successiva dose d’alcol palliativo sotto supervisione di Natasha.

«Facciamo a cambio,» replica lei dopo un istante di riflessione, sequestrando di nuovo il contenitore dalle sue mani. «Non vorrei rischiare di nuovo di prendermi la mononucleosi,» lo prende in giro poi, con un sorrisetto furbo che gli fa di nuovo roteare gli occhi.

«Ti sbrighi ad andartene o vuoi che te la attacchi in altri modi?» la minaccia, per poi inclinarsi repentinamente verso il suo viso in un gesto giocoso.

Lei svicola via agile con una mezza piroetta sulle punte, il volto illuminato da un sorrisetto decisamente soddisfatto per la missione compiuta.

 
§
 

Gennaio 2019, Complesso dei  Vendicatori

La faccia di Thanos.

Un altro montante, così potente che sente un dolore sordo alle nocche e forse stavolta se le è quasi rotte. Carica comunque il colpo successivo: un diretto che gli si scarica lungo le gambe ben piantate a terra, facendogli vibrare le ginocchia.

La faccia di Thanos, di nuovo. Sfigurata, sanguinante.

Serra i denti, perché non è abbastanza, non è abbastanza: vuole distruggerla del tutto, vuole ridurla in poltiglia e incassargli il naso, disarticolargli la mandibola, far scomparire i suoi occhi porcini; ma ogni volta quel volto si ricompone beffardo di fronte a lui, ghignante, intaccato solo da quel taglietto ridicolo che è riuscito a infliggergli sullo zigomo violaceo a suon di pugni ferrei.

Torce all’indietro il busto e sferra un violento calcio che fa ondeggiare il sacco e tintinnare la grossa catena che lo sorregge, per poi arrestarne il movimento con un pugno nel mezzo dell’imbottitura che chiude mentalmente quella sequenza di combattimento.

E poi ricomincia, con più foga, le braccia fuori allenamento che bruciano e dolgono e sembrano volersi staccare dalle spalle. Gli pulsa la milza, acute stilettate di dolore che si espandono nel suo addome, ma non si ferma. Abbatte i colpi sul cuoio del sacco e sente le ossa di Thanos che si spezzano, la carne tumefatta, come se senza armatura potesse mai davvero scalfire il Titano. Ad ogni vibrazione sente qualcosa che si lacera dentro di sé, uno strappo che si allarga invece di ricucirsi, dei punti di sutura malfatti vicino al cuore che saltano uno dopo l’altro.

«Stark,» sente la voce di Natasha, più vicina, lontana, oltre la cascata del sangue che gli romba nelle orecchie.

La ignora, troppo preso dalla sua vendetta astratta e dipinta col sangue del suo nemico, troppo immerso in fantasie cruente che non l’hanno mai sfiorato in tutta la sua vita – nemmeno in Afghanistan, nemmeno con Stane, nemmeno con Killian.

«Tony,» lo chiama Natasha, più forte, e sente la sua mano che gli stringe decisa la spalla impegnata a caricare il colpo. «Ti stai facendo male,» aggiunge, come se quello fosse un motivo valido per fermarsi.

Lui rilascia comunque quell’ultimo colpo, svicolando in parte dalla sua stretta, e si paralizza così per qualche istante, con le nocche immerse in sangue e carne devastata esistenti solo nella sua mente, il fiato che gli sibila tra i denti. Poi lascia scivolare via il pugno, le braccia di nuovo molli lungo i fianchi. Natasha riaggiusta la presa e vi aggiunge quella simmetrica dell’altra mano, a tenergli entrambe le spalle che si alzano e si abbassano rapide, la maglietta incollata alla pelle. Rimane lì ansimante, con le mani che gli dolgono e le sopracciglia così contratte da indolenzirgli l’intero volto. Deglutisce rumorosamente e si passa un palmo fasciato sulla fronte, poggiandola brevemente contro il sacco e rifiutandosi di voltarsi a guardare in faccia Natasha.

«Fine primo round,» commenta soltanto, tra un respiro spezzato e l’altro, e sta tremando da capo a piedi mentre si scosta dal sacco – solo un sacco di cuoio nero, non il corpo martoriato di Thanos.

«Stai bene?» chiede Natasha, neutrale, e sembra molto dubbiosa su quel fatto.

Ma lascia scivolare via le mani e gli permette di allontanarsi a occhi bassi, un passo malfermo alla volta. Afferra la borraccia e finisce di bere una lunga sorsata d’acqua pura prima di decidersi a risponderle.

«No,» dice secco, con voce arrochita per lo sforzo. «Forse,» le concede poi, e stringe e rilassa ripetutamente i pugni doloranti che probabilmente gli diventeranno lividi.

Scioglie le fasciature e stende le dita, trattenendo bruscamente il respiro per la fitta scricchiolante che gli risale l’avambraccio. Ha decisamente esagerato, e non si sente del tutto padrone di sé. L’istinto ancestrale di riprendere a sferrare pugni e calci lo divora, e la rabbia continua a risalirgli le vene a ondate, dei piccoli tsunami che gli si abbattono sul cuore.

Questo è decisamente più appagante della corsa, ma risveglia in lui delle sensazioni finora inibite, sepolte sotto tutta l’apatia e la prostrazione in cui si è rifugiato. Non sa se disseppellirle sia un bene o un male. Non sa se stia davvero meglio. Se quella sia energia positiva o negativa, se sia normale provare il desiderio di fare a pezzi il mondo per poi riassemblarne tutti i pezzi scomposti. Ma ne ha paura, in un certo senso che non sa spiegarsi, ha paura di quanto siano potenti quelle emozioni che lo attanagliano.

Scuote la testa a scacciar via quei pensieri, posa la borraccia e si pianta le mani sui fianchi, prendendo grossi respiri per ossigenare muscoli e cervello. Si sente già sfinito. Non è in forma, per niente: gli si contano ancora le costole e ha le anche aguzze, ma la settimana di allenamenti intensivi gli ha fatto almeno recuperare un po’ di fiato. Molto intensivi, perché la sua voglia di bere è molto intensa e preferisce farsi prendere un infarto piuttosto che avere una ricaduta.

È da mesi che non ha pensieri così lucidi e si aggrappa ad ognuno di essi anche se finisce sempre per ustionarsi, perché molto di rado sono bei pensieri. Annebbiarsi la mente di fatica è una soluzione decisamente più sana e meno deleteria che farlo con l’alcol, ma non è costantemente applicabile, a meno che non inizi a correre anche di notte e nel sonno. Per fortuna – non avrebbe mai creduto di poterla considerare una fortuna – Rhodey e Natasha lo sorvegliano a vista, e crede che anche Rogers e Banner abbiano ricevuto direttive ben precise nel caso dovessero pescarlo con una bottiglia di whiskey in mano. Per ora, si fa bastare i flaconi sempre più sporadici che gli recupera Natasha, solo un flebile placebo che gli concilia il sonno nei momenti più duri.

Si asciuga il volto con un panno, sfregandosi il principio di barba che sta ricrescendo fastidiosa e troppo lentamente, per i suoi gusti. È stato infine obbligato a quel gesto radicale per dare un senso alla massa incolta che un tempo era un pizzetto ben curato, ma non vede l’ora di riavere in faccia quel segno distintivo per sentirsi un po’ più Tony Stark e un po’ meno alcolista anonimo ripescato dal fondo del burrone. Natasha gli si avvicina circospetta, aggirandolo a un passo di distanza, per poi scrutare con occhio clinico le chiazze di un rosso vivo che spiccano sulle sue nocche.

«Forse devi fare un altro pit-stop da Bruce,» suggerisce, e porta i palmi sotto i suoi per sollevarli e mettere in evidenza le lesioni, sfiorandole coi pollici.

Lui annuisce di riflesso, senza alcuna intenzione di seguire il suo consiglio, per poi fissarla accigliato.

«Tu a chi pensi?» le chiede a bruciapelo, con un cenno del capo verso il sacco da boxe.

Lei alza le spalle e ritrae svelta le mani, come se potesse tradire i propri pensieri con quel semplice contatto.

«Dipende, ho una lunga lista,» risponde evasiva.

Tony scrolla appena la testa: è esattamente il tipo di risposta che si aspettava. Né spera di ottenerne altre, ma la scruta comunque da sotto le ciglia con fare insistente, con un’aria un po’ dispettosa a inclinargli il volto: punzecchiarla è un’ottima distrazione e lei sta quasi sempre al gioco, dando il via a gare d’astuzia per chi riesce a mettere per primo all’angolo l’altro con domande e insinuazioni scomode. Nessuno dei due pretende risposte reali o sincere, anche se a volte sfuggono ambigue tra le maglie di depistaggi, vaghezza e menzogne. A lui sta bene così, e presume anche a Natasha: non sono tipi da schiudere troppo spesso le porte dei propri pensieri, ed è meglio che ognuno rimanga con la propria chiave ben stretta in mano.

«Qualche favorito sulla lunga lista?» chiede quindi, con fare noncurante.

«Sei un genio: puoi arrivarci,» ribatte lei, sempre pronta a deflettere i colpi, veri o immaginari che siano.

«Riceverò mai una risposta diretta da te?» sbuffa lui tra il serio e il faceto, spezzando per un istante il gioco.

«Solo se non è qualcosa di personale,» sorride lei, disarmante. «Tu? A chi pensi?» sferra poi il suo contrattacco.

Tony medita per un istante se rivelarle l’ovvio, quel Titano che nella sua mente si rimpicciolisce per poi farsi invalicabile negli incubi. Poi solleva appena un angolo delle labbra in un sorrisetto scaltro, anche se rigido.

«Sei una spia: lo sai già,» la rimbecca, e lei sembra segretamente apprezzare quella risposta. «Secondo round,» dichiara poi, afferrando dalla panca i mezzi guanti imbottiti, che offrono decisamente più protezione delle bende.

«Ho un’idea migliore,» lo ferma lei, indicando il ring.

Tony sbatte i guanti l’uno contro l’altro con un rumore sordo e tentenna sul posto, colto alla sprovvista.

«Uh, non so se è davvero migliore,» ribatte, mantenendo un tono leggero, ma quel sottile filo di furia che gli fa tremare le vene sembra inspessirsi e contorcersi con spire serpentine.

«Perché no? Non ho avuto mai il piacere.»

«Ti ho vista in azione. In realtà è la prima cosa che ti ho visto fare,» rammenta poi, e tutto ciò gli sembra accaduto sette vite fa in un mondo parallelo. «Mi avevi quasi messo fuori gioco l’autista. Una... pessima prima impressione, signorina Rushman, non avrei mai dovuto assumerti,» specifica, sbarrando gli occhi a simulare orrore e pentimento.

«Oh certo, è sicuramente la prima cosa che hai pensato quando mi hai vista,» rotea gli occhi lei. «O googlata,» aggiunge, assestandogli un piccolo pugno vendicativo sulla spalla nel passargli accanto, prima di avviarsi con fare deciso vero il ring.

Tony carica un sonoro sospiro, ma ritiene superfluo controbattere e rilascia invece uno sbuffo divertito.

«E date sempre a me del narcisista,» si lamenta soltanto, muovendo un paio di passi a seguirla, per poi arrestarsi.

Natasha è già salita sul ring, dando per scontato che lui le tenesse dietro. E lo farebbe volentieri, in realtà, se solo non sentisse un pungolo nello stomaco a frenarlo, uno strascico di paura irrazionale che gli occlude il cervello.

«Romanov,» la richiama, facendosi serio. «Lo so che adesso sembro... non so, allegro ed equilibrato e stronzate del genere, ma non so se riesco a... a boxare in modo amichevole, in questo momento,» replica, offrendo riluttante la propria scarsa stabilità emotiva.

Natasha si poggia sulle corde del ring, intrecciando le mani sotto il mento. Sembra ancora imperturbabile, anche se le sue sopracciglia sono inclinate in un’angolazione più dura del solito.

«Stark, mi sono allenata con persone molto meno delicate di te e non morirò certo per qualche livido. Sempre che tu riesca a farmelo,» lo punzecchia, ma sotto all’atteggiamento ancora scherzoso si cela una nota più composta, attenta, come se stesse camminando sul ciglio di un crepaccio nascosto.

Tony serra la mascella intuendo il riferimento implicito e cercando di troncare le associazioni mentali inevitabili legate al braccio metallico di Barnes [1]. Non commenta, limitandosi a scuotere la testa con le labbra strette in una pressa. Rimane piantato sul posto, i guantoni stretti in mano, e la rabbia lo scotta ancora dall’interno in vampate intermittenti. Non ha dubbi sul fatto che Natasha sia perfettamente in grado di tenergli testa, ma continua a pensare a quel singolo pugno non trattenuto, al calcio sferrato con troppa violenza e sa che anche non mettendo a segno neanche mezzo colpo si sentirebbe in difetto, meschino.

«Non sei un sacco da boxe,» si limita a dire, in tono semiserio, e sa che non deve aggiungere altro perché ha visto la foga con cui lei stessa scarica le proprie frustrazioni.

«No, ma magari ti evito di farti male perché sei troppo fuori di te per accorgerti di esserti rotto le nocche.»

Tony sospira, tentato e allo stesso tempo reticente; stringe appena i pugni constatando che, sì, probabilmente ha qualche microfrattura.

«Cosa dovrebbe essere? Una specie di addestramento Jedi?» commenta sovrappensiero

«Una specie,» replica lei, arcuando le sopracciglia con lieve sorpresa.

Quando realizza in ritardo da dove provenga quella nozione di cultura pop, Tony sente il fiato comprimersi in gola, e sa che non riuscirà mai più a guardare un film di Star Wars in vita sua. Non riuscirà più a fare una marea di altre cose, incluso passeggiare sulla spiaggia a Malibu o mangiare pop-tarts fino alla nausea, o passare di fronte alle vetrine con dentro abiti da sposa o seguire le linee geometriche di una ragnatela. Non senza quel dolore acuto sotto lo sterno che gli ricorda le schegge e il reattore.

Sente di nuovo un fiotto di rabbia che lo invade, mischiato a dolore debilitante. Un cocktail micidiale che gli strizza il petto e lo lascia stordito per un istante, col desiderio di avere una miscela alcolica reale in mano per annegarsi. Sa che dopo il prossimo round contro il sacco si ritroverà con una massa sanguinolenta al posto delle mani.

Sale sul ring senza quasi rendersene conto, con il volto che vibra tra lo scoppiare a piangere e il liberare un grido lancinante. Trema appena e sa di essere tutto tranne che indecifrabile, agli occhi della spia, ma si sforza di controllarsi. Indossa i guantoni, impiegandoci più tempo e concentrazione del dovuto, in uno di quegli istanti di straniamento che lo colgono quando il sovraccarico emotivo si fa troppo grande. Accoglie il senso di vuoto, lascia che gli avvolga la mente e poi lo scaccia di nuovo, risintonizzandosi sul presente materiale.

Quando rialza lo sguardo su di lei, la coglie intenta a fissarlo, per poi realizzare che è concentrata su un punto poco dietro di lui. La osserva per un istante e sembra spaesata, con le ombre sotto gli occhi che sembrano abissi lividi.

«Nat?» la riscuote a mezza voce, e lei quasi sussulta nel rimetterlo a fuoco di colpo.

Quasi: si controlla, ma lui intravede comunque quel tremito involontario specchio del suo.

«Possiamo anche rimandare a domani,» le propone, goffamente.

Non sa mai come comportarsi di fronte a queste sue microscalfitture, agli spiragli fugaci che ogni tanto lascia trasparire senza volerlo nonostante la maschera da spia. Non sta bene neanche lei, gli è fin troppo chiaro, ma lui non ha mai saputo come stare vicino alle persone. È un qualcosa che ha mancato d’imparare da piccolo, da bambino, quando si attaccava alle gambe di completi gessati che lo scalciavano via e rifiutava braccia materne e consolatorie. Un’abilità che evidentemente non gli è mai stata innata, e che non crede proprio di poter sviluppare adesso, tanto meno con una persona fin troppo simile a lui.

«Non c’è alcun bisogno,» ribatte lei, monocorde, e di nuovo il suo sguardo si scollega per un momento, opera uno scavalcamento di campo. «È passato solo molto tempo dall’ultima volta che mi sono allenata in combattimento con qualcuno,» alza le spalle poi, con indifferenza, la voce quasi robotica.

Tony contrae le sopracciglia perplesso, una perplessità ha un sottotono d’inquietudine ben marcato.

«Credevo ti allenassi spesso con Rogers,» osserva, esitante, e coglie un cenno di nebulosa confusione nei suoi occhi verdi, un altro spiraglio che si richiude immediatamente.

«No,» replica in fretta. «Quasi sempre separati. Lui dovrebbe trattenersi troppo con me e questo vanificherebbe il senso della simulazione,» spiega concisa, poi il suo volto torna una lastra impassibile.

Tony esita, indeciso se lasciar correre o meno. Se afferrare il lembo svolazzante di quel telo buttato a coprire malamente una menzogna e tirarlo via, o se lasciare che si adagi su di essa, celandola per quanto possibile. Incontra gli occhi di Natasha ed è chiaro che sappia sia di aver avuto uno scivolone, sia che lui non è così stupido da non essersene accorto.

La guarda fisso per un istante, prolungando la pausa quel tanto che basta per sottolineare il fatto che, sì, sta solo facendo finta di non essersi accorto di nulla; poi mette su un mezzo sorrisetto, controllando la chiusura dei guantoni con fare di nuovo rilassato.

«Beh, allora sto vanificando anch’io i tuoi allenamenti,» commenta, abbattendo un pugno sul palmo del guantone per saggiarne la tenuta, e lei infila rapida i propri.

«Non ho certo detto che mi tratterrò,» sorride poi, perfida, mettendosi in guardia con un movimento fulmineo.

Tony libera un flebile sospiro, imitandola flemmatico: adesso si sta decisamente pentendo di essere salito su quel ring.




 

Note:

[1] Natasha e James sono una coppia canonica nei fumetti sin dall'alba dei tempi. Qui Tony è a conoscenza della cosa in luce della mia mini-long
Ferite, in cui questo è il tema centrale. Vi invito a recuperarla per avere un quadro più chiaro della situazione, e a farvi un giro sulla serie M.T.U. di T612 se vi interessano i retroscena canonici tra James e Natasha <3 Va comunque detto che non tutto ciò che viene detto/accade in Ferite trova riscontro in questa long, soprattutto riguardo al passato di Nat, essendo comunque due lavori ben distinti e per lo più indipendenti.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, rieccoci qui con le disavventure alcoliche (o quasi) del nostro sbandato preferito. Solo che, evidentemente, lui non è l'unico sbandato che gironzola nel Complesso ;)

Tutti gli accenni inerenti a Natasha, al suo passato e alle sue menzogne verranno svelati pian piano nel corso della narrazione, per rispettare il suo canonico riserbo e il fatto che ufficialmente i retroscena nella Stanza Rossa non siano di dominio pubblico, né Tony li ha mai ricercati. Come accennato nelle note precedenti, c'è un blando collegamento con la mia mini-long
Ferite, principalmente per evitare di dilungarmi troppo sulla questione-Barnes, in quanto temo svierebbe troppo dal tema portante della storia.

Che, a proposito di temi portanti: una studiata riflessione al riguardo mi ha spinta a modificare il titolo. La struttura di questa storia si è rivelata più complessa e stratificata di quanto avessi previsto inizialmente, e credo che quello precedente fosse in un certo senso fuorviante: sicuramente l'amore è uno dei nuclei narrativi, ma non l'unico, né il più importante. Amore che vieni, amore che vai fa comunque idealmente da colonna sonora in determinati passaggi futuri, incastrandosi bene coi concetti espressi, ma credo che questo Mentre tutto scorre renda meglio il contesto in cui è ambientato il tutto: appunto i cinque anni "transitori" in cui si cerca di andare avanti.
Il nuovo titolo è un prestito dei Negramaro, e qui ringrazio
T612 che mi ha invogliata ad ascoltare meglio l'omonima canzone, presente nelle mie playlist della storia ma non presa più di tanto in considerazione... per poi rendermi conto che calzava a pennello su questi due fiori di zucca idioti.

Chiudo il papiro e ringrazio tutti coloro che continuano a leggere e ad aggiungere la storia alle loro liste.

Grazie di cuore <3

-Light-

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Capitolo 10
*** Parte seconda - Capitolo 9: Crepe ***


.9.

Crepe


 
"There's a crack,
A crack in everything:
That's how the light gets in"

[Anthem – Leonard Cohen]
 


Gennaio 2019, Complesso dei Vendicatori

I suoi piedi tremanti lo portano in palestra nel cuore della notte, impazienti di abbattersi in una successione sfiancante sul tapis roulant. Vuole distruggersi la facoltà decisionale e inibirsi i neuroni, correre al punto di collassare di schianto. È scosso da brividi così forti che teme di sgretolarsi in mille pezzi tintinnanti. Ha la nausea, violenta, che gli risale lo stomaco contratto in attesa del liquido bruciante dal quale sta cercando di liberarsi con tutte le sue forze dopo esservici tuffato a capofitto.

Si artiglia la faccia a metà corridoio, con la porta della palestra che si spalanca sul fondo come una promessa di salvezza. Viene scosso da un conato che trattiene a malapena e si piega sulle ginocchia per contenerlo, per contenere la bestia affamata che ha posto la propria dimora dentro di lui. Sente il sapore della bile in bocca, ma riesce a trattenere la cena e muove qualche altro passo traballante, scoordinato. È una crisi violenta, tanto che neanche attorcigliarsi nelle lenzuola in una camicia di forza ha dato i suoi frutti. Sente il bisogno impellente di fare a pezzi qualcosa, o sfiancarsi, o stringersi a qualcuno, e tutte queste necessità si accavallano l'una sull'altra, caotiche, indistinguibili, spaventose perché c'è ancora cenere ovunque.

Pianta la testa contro il muro e gli viene da urlare, un urlo che strozza in gola per non far accorrere gli eroi più potenti della Terra – forse un tempo, ora non più – a rimettere a letto un relitto ambulante e smanioso d'alcol. Chiude gli occhi e la nausea aumenta, e lui non fa che strizzare di più le palpebre fino a farsi scoppiare gli occhi, sentendo il mondo che si rigira sottosopra attorno a lui, dentro di lui. 

Un suono si intromette nei suoi pensieri fluidi che scorrono verso la cucina e l'armadietto degli alcolici: dei piccoli tonfi regolari, secchi, quasi dei passi saltellanti. Schiude gli occhi annebbiati e si concentra su quella successione irriconoscibile, estranea: si stacca dal proprio corpo e la sente risuonargli attorno, ritmica, regolare. 

Un-due-tre, un-due-tre.

Il suo se stesso lucido e non febbricitante l'avrebbe presa per qualcuno che si diverte a saltellare casualmente qua e là, ma quella sua versione debilitata da febbre e astinenza vi riconosce un tre tempi cadenzato. Di quelli che sentiva risuonare eterei dal giradischi gracchiante a New York, nella magione di Long Island.

Stacca la fronte dal muro fresco e riprende la propria avanzata patetica, sentendosi torcere le budella. La porta della palestra è già aperta, e quando vi mette piede capisce perché. Scorge una sagoma affusolata, sinuosa, che attraversa l'ampio spazio in punta di piedi. Si libra leggiadra a mezz'aria, a un'altezza impossibile, poi ricade lieve sulle dita tese dalle ballerine, senza alcun suono se non un lieve picchiettio di pioggia primaverile. Dovrebbe ritrarsi nell'ombra del corridoio, invece si poggia cautamente allo stipite e rimane a guardarla, con la nausea che si attenua e gli occhi lucidi persi in coreografie che non comprende.

Battement tendu. Passé. GlissadeBrisé. Gli risuonano in testa termini tecnici che non sa associare ai loro corrispettivi reali, parole isolate fuse a quel poco, stentato francese che gli ha insegnato sua madre quando lui sapeva a malapena balbettare qualche frase di senso compiuto, e saltava fuori tempo sulle note dello Schiaccianoci suscitando le sue risate. [1] Non lo ricorda, ci sono solo un paio di foto sfocate di Jarvis a testimoniarlo. Ma per un istante si sente lontano da lì e torna nella stanza della musica a Long Island, con sua madre che faceva risuonare qualche accordo scherzoso in tre tempi solo per vederlo ridere e saltellare a piè pari deliziato, per poi stringerselo al petto e farlo volteggiare su passi dimenticati anche da lei, enunciandoli ad alta voce.

Batte le palpebre, riportato bruscamente al presente quando il ritmo dei passi di Natasha si interrompe. Si trova a vedersi trafitto dai suoi occhi, pericolosi e acuminati anche a distanza. Sono appena distinguibili nella penombra della palestra, illuminata solo dal riverbero della luna sulla neve oltre la vetrata. Si toglie le cuffie che le coprono le orecchie, lasciandole appese al collo, senza smettere di inchiodarlo sul posto con le sue iridi penetranti. Sembra un predatore indeciso se assalire una preda più grande di lui, sicuro di farcela, ma chiedendosi se ne varrà la pena.

Tony si schiarisce la voce, conscio di non essere in una posizione favorevole, e provando anche un lieve disagio per essersi fatto cogliere in flagrante a guardarla, anche solo per caso.

«Non ti stavo spiando, parola di boy-scout,» mette quindi in chiaro, muovendo un passo esitante verso di lei e segnandosi una blanda croce sul cuore con l'indice. «Non sono un maniaco, solo... un alcolista insonne.»

«Me ne sarei accorta, se mi avessi seguita,» ribatte lei con frigida altezzosità.

Tony non la contraddice, conscio che ha ragione e che probabilmente non ce l'ha con lui, ma con se stessa per essere stata poco accorta. Comunque sia, adesso dovrebbe andarsene... ma dopotutto lui ha diritto a stare lì, anche nel cuore della notte. E tornare a dormire... beh, non tornerebbe a dormire, questo è poco ma sicuro. Si avvicina cauto di qualche passo barcollante e Natasha non si ritrae, lo osserva solo con circospezione mentre riprende fiato. Tony sa di avere un aspetto devastato, ma non si nasconde, sapendo che gli occhi della spia lo scoverebbero in ogni caso.

«Sei... molto brava,» commenta, vacuamente. «Non che io ne capisca qualcosa, di danza,» scuote il capo, con una smorfia incerta.

Lei sbuffa appena e alza le spalle, in quella che lui prende come un'accettazione silenziosa del complimento. Tony serra le labbra. Poi parla, dando voce spontanea a quel pensiero infantile che è rispuntato dalla sua memoria:

«Per caso era, uh, Lo Schiaccianoci?» chiede in fretta con un cenno del mento verso le cuffie, per poi schiarirsi la gola pentendosi della domanda.

Natasha alza lo sguardo, e per una volta sembra averla presa in contropiede.

«Tu conosci Čajkovskij?» chiede, inarcando un sopracciglio, e Tony scrolla le spalle.

«Non ho idea di come si scriva, ma chi non lo conosce?» butta lì, a sviare la domanda implicita... per poi cedervi inclinando appena il capo: «Mia madre ha fatto danza classica, da bambina. Le era rimasta la passione per il balletto... che però con me non ha mai attecchito,» sbuffa appena, soffocando una risata un po' triste, e intreccia d'istinto le mani di fronte a sé come faceva da piccolo quando si vergognava per qualcosa.

Natasha sorride appena, ed è uno dei pochissimi sorrisi spontanei che le ha visto fare in vita sua. Rende più piene le sue guance, e le accende gli occhi di riflessi di solito opachi.

«La Bella Addormentata[2] enuncia poi, inaspettatamente, e il suo sorriso si torce appena in una piega dolorosa, distruggendo la patina serena del suo volto.

Tony la osserva e la vede più rigida, con del filo di ferro a tenderle gli arti.

«Eri... una ballerina al Bol'šoj, vero?»chiede cautamente, sentendo di camminare sulle punte quanto lei, solo con mille spilli sotto le piante dei piedi. [3]

Si aspetta una secca risposta di depistaggio e non le darebbe torto, invece Natasha fa solo un piccolo sospiro, incrociando i suoi occhi con sguardo rattristato.

«In un certo senso. È una storia lunga,» conclude, riportando con decisione le cuffie a coprirsi le orecchie.

Tony annuisce e torna al presente, venendo scosso da un brivido molesto che gli ricorda perché è qui, con le viscere annodate in cappi brucianti.

«Hai bisogno di un pubblico?» chiede, cambiando argomento, e Natasha scrolla perentoria la testa schivando di nuovo attivamente il suo sguardo. «Peccato. Allora mi dedico alle mie "distrazioni",» conclude, senza insistere e ritenendo di aver ottenuto anche più informazioni del dovuto.

Sale sul tapis roulant senza un'altra parola, con una velocità che dovrebbe farlo cadere a corpo morto entro pochi minuti garantendogli, spera, un blackout totale non appena toccherà il cuscino. Scorge con la coda dell'occhio Natasha che si riaggiusta lo chignon e riprende a danzare, ponendosi in un angolo cieco rispetto a lui, a meno di non voltare del tutto la testa. Tiene lo sguardo fisso davanti a sé, intravedendo solo il fantasma del suo riflesso nella vetrata, etereo contro il buio punteggiato da fiocchi di neve che sembrano sgraziati, rispetto alle coreografie seguita da Natasha. Sente, appena percettibile, il ronzio indistinguibile della musica emesso dalle cuffie, impostate a un volume decisamente troppo alto per essere salutare, ma, da persona che si è spaccata per anni i timpani a suon di rock, non è nella posizione più adatta a commentare.

Continua a correre su quella successione di pensieri, una falcata alla volta, e avverte una piccola fitta di nostalgia per quei pomeriggi passati a smontare e rimontare macchine e armature, con sottofondi tutt'altro che rilassanti che facevano impazzire Pepper ogni volta che tentava di dirgli qualcosa oltre assoli di chitarra e bassi spaccavetri. Lui rideva, fingeva di non capire e alzava il volume, finendo per far ridere anche lei. Si passa rapido un palmo sotto gli occhi subito lucidi e aumenta il ritmo della corsa, ignorando il dolore che gli pulsa feroce sotto lo sterno mozzandogli il fiato.

Corre molto più di qualche minuto e si ferma solo quando gli tremano i polpacci, per assicurarsi di non avere alcuna energia residua che possa alimentare sogni o pensieri troppo articolati. Vede che anche Natasha ha interrotto la sua sessione di danza, e si è seduta per terra per togliersi le ballerine. Sembra sfinita quanto lui, e ha perso il conto di quanti salti e piroette abbia fatto, quelle fugaci volte in cui l'ha intravista nel vetro.

«Va meglio?
» gli chiede senza preavviso quando le si avvicina, e Tony si sorprende nel sentirla parlare per prima.

Scuote la testa e cerca di pettinare alla buona i capelli troppo lunghi: la domanda di Natasha è come sempre a doppio fondo, oltre che superflua. Sa benissimo di avere gli occhi rossi, per tutti quei pensieri che non è riuscito a reprimere sul nascere e gli sono scivolati dalle ciglia. Non va affatto bene, né fisicamente, né mentalmente. Ma crede che sarebbe stato molto peggio se fosse stato da solo.

«Dipende dai punti di vista,» replica infine, senza scomporsi, e la sua voce suona roca. «Non sono esattamente un bijou, al momento,» aggiunge, e manda al diavolo il pudore asciugandosi il volto col davanti della maglietta, impaziente di ficcarsi sotto una doccia bollente e probabilmente addormentarsi in piedi là dentro.

«Neanch'io,» alza le spalle lei, sciogliendosi lo chignon e scuotendo la matassa scompigliata di capelli rossi ancora sopraffatti dal biondo. «Ma ci siamo visti in condizioni peggiori,» aggiunge, con una mezza allusione forse nostalgica, forse amara.

Tony si limita ad assentire con un cenno del capo, col pensiero ai rientri dalle missioni, quando erano doppiamente esausti e con molti più tagli, lividi e sangue ad aggiungersi ai semplici crampi e sudore. Ma la maggior parte delle volte erano anche soddisfatti, contenti di aver svolto il loro compito con successo. È un'emozione che stenta a ricordare. Non c'è spazio per quella quiete spontanea: solo per quella vuota e assoluta dell'assenza, della mancanza, che si ramifica sulle pareti spoglie del proprio petto come un'erba infestante.

Esita per un istante prima di lasciarsi scivolare a terra, in linea con lei ma con un buon braccio di distanza a separarli. Natasha lo adocchia sospettosa, ma non commenta, e Tony pensa che è fin troppo accomodante e troppo poco schiva. Inspira a fondo e rincorre parole che non è mai stato bravo a trovare. Gli è chiaro che qualcosa non va. Lo ha notato da giorni, da più di una settimana, ma gli mancano le basi per approcciare qualcuno e convincerlo a parlare senza risultare molesto e invadente come suo solito. È abile coi giri di parole, ma solo se vede gli altri come avversari da battere in arguzia... e nonostante la maggior parte delle sue conversazioni con lei si riducano a questa dinamica, non è quella che vuole innescare adesso. Vorrebbe un pizzico di sincerità, una volta tanto; ed è consapevole che lui è il primo ad evitarla, a incartare verità scomode in manifeste bugie che raramente indorano davvero la pillola, perché lei sa perfettamente quanto sia amara. Ma la fiducia si paga a caro prezzo, ed è convinto che entrambi l'abbiano imparato a proprie spese.
Vale troppo
 per donarla alla cieca.

«E tu, Romanov?» chiede infine, rinunciando ai giochetti psicologici e optando per un approccio più diretto quanto fallimentare. «Va meglio?»

Lei scuote la testa, e non sa se è un respingere in toto la sua domanda o un diniego alla stessa.

«Non va mai meglio,» sbotta poi, con inaspettata frustrazione, e scalza via la seconda ballerina con troppa veemenza per qualcuno di così controllato come lei.

Tony quasi trattiene il respiro a quella che è a tutti gli effetti una rivelazione, per i suoi standard, e si morde la lingua per non chiedere altro, sperando che porti avanti da sola il discorso. Ma lei tace, rivolgendogli un'occhiata quasi spaurita da sotto le ciglia arcuate e sigillando poi le labbra. Tony aspetta per quasi due minuti interi, prima che sia lei a spezzare il silenzio, non con le parole che avrebbe voluto sentire, ma con echi distanti delle proprie:

«Non voglio parlarne, Stark.»

Tony espira seccamente, annuendo appena, e fa per rimettersi in piedi.

«Legittimo. Sacrosanto, direi,» commenta, in cuor suo un po' deluso ma pronto a lasciarla ai suoi pensieri.

Con sua sorpresa lei lo trattiene a metà movimento, posandogli una mano sul ginocchio.

«Ho detto solo che non voglio parlare,» ripete, con una scrollata di spalle e inarcando le sopracciglia con un fare saputo che nasconde una richiesta semplice e molto esplicita.

Tony si lascia ricadere lentamente sul pavimento, tornando a sedersi accanto a lei a gambe incrociate. Si aspetta di sentire mille frasi che gli premono in gola, lottando per emergere: non ha un buon rapporto col silenzio. È pericoloso, cela tranelli in cui cade fin troppo facilmente, soprattutto ora che ha perso due persone in grado di riempirlo del tutto al posto suo, chi con i gesti, chi con le parole.

Invece ora lo asseconda con naturalezza, cercato, necessario. Lui che deve sempre colmarlo, disporre a falange le proprie parole in misura preventiva, attaccare prima di venire attaccato, parlare senza sosta fino a sfinirsi e sfinire gli altri spinto da un insensato horror vacui. Gli viene da ridere per l'improvvisa nota assurda che coglie in quella situazione, in Tony Stark che trova naturale chiudere il becco, una volta tanto. Sente le sue labbra che si incurvano senza riuscire a trattenersi. Natasha lo nota subito e lo fissa interrogativa.

«Rimanere zitto non è il mio forte, dovresti saperlo,» dice poi lui, a bassa voce, in un blando tentativo di tenersi stretta quell'identità sbiadita attraverso la quale ormai tutti riescono a vedere, soprattutto lei.

Natasha sbuffa appena aria dal naso e, sotto il suo cipiglio tetro, scorge una scintilla divertita.

«Almeno provaci, Stark,» gli intima, dandogli una secca spallata laterale e rimanendo poi più vicina, quasi poggiata a lui, in un avvicinamento spontaneo ma al contempo studiato.

Tony le offre sostegno inclinandosi appena, poi inspira a fondo e cambia posizione, stringendosi le ginocchia al petto. Vi poggia il mento, con lo sguardo puntato sulla nevicata incessante all'esterno.

«Farò uno sforzo solo perché sei tu, Romanov,» alza le spalle infine, con fare saccente, e intuisce la sua espressione rilassata.

Quel silenzio è ancora spaventoso, senza fondo, ma ora gli sembra un po' meno vuoto. Solo un po', quanto basta per non sentirsi del tutto solo.



 
 
© shilyss Note:

[1] Tony, stando alle scene a Monaco di Iron Man 2, mastica un po' di francese e riesce a comprenderlo. Il fatto che lo parlasse Maria e che gliel'abbia insegnato è un mio headcanon, così come il fatto che abbia studiato danza classica e tutti i riferimenti alla stanza della musica a Long Island, citata per la prima volta nella mia shot Sonata N°5, «Primavera» (o anche: I Love Rock 'n' Roll).
[2] La Bella Addormentata: il balletto di Čajkovskij meno noto in Europa dei tre da lui composti, ma il più amato e di successo nella natìa Russia. Per i curiosi, trovate il brano che avevo in mente in questa scena qui.
[3] Ricordo i flashback agghiaccianti di Natasha in Age of Ultron rispetto alla sua attività di "ballerina". Tony parla esclusivamente per deduzione e per ciò che ha letto nei dossier ufficiali su di lei, che non necessariamente riportano la verità. Il periodo nella Stanza Rossa è per lo più un mistero nel MCU, e così rimarrà anche in questa storia, eccezion fatta per la relazione canonica con Bucky e altre parentesi simili condite anche da miei headcanon.


Note dell'Autrice:

Ma Buon Natale!
Quale miglior modo di festeggiarlo, se non con un po' di sano angst? Passo in volata in una pausa pre-Cenone, lascio questa bomba atomica di feels indigesti quanto le pietanze che mi attendono, e vi auguro una bella serata, ovunque voi siate e con chiunque la passerete <3

Un grazie stratosferico a Miryel per le recensioni bellissime che mi ha lasciato di recente, a shilyss per il meraviglioso aesthetic che accompagna questo cpaitolo, e a tutti coloro che continuano a leggere, seguire e aggiungere la storia alle liste <3
Buone Feste a tutti,

-Light-
 
 




 

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Capitolo 11
*** Parte seconda - Capitolo 10: Coraggio (I) ***


.10.

Coraggio
I


 
"Dancing with the missing
They’re dancing with the dead
They dance with the invisible ones
Their anguish is unsaid
They’re dancing with their fathers
They’re dancing with their sons
Dancing with their husbands
They dance alone"


[They Dance Alone (Cueca Solo) – Sting]
 


Febbraio 2019, Complesso dei Vendicatori

L’unico completo elegante che si è portato dietro gli va largo.

Emette uno sbuffo spazientito e prolungato di fronte allo specchio, scrollando per l’ennesima volta le spalle che non riescono assolutamente a riempire quelle della giacca antracite con cui sta combattendo da un quarto d’ora. Coi pantaloni non va meglio, ed è stato a un passo dal dover aggiungere un buco di fortuna alla cintura per evitare che gli scendano troppo in vita. Ha rimesso su un po’ di peso, ma arriva appena ai sessanta e lui non è mai stato un fuscello, col risultato che il completo Tom Ford su misura è adesso molto fuori misura. Si tasta le costole sotto la camicia, le clavicole sporgenti, i fianchi troppo stretti e angolosi, e non c’è modo di coprire quegli spigoli, di mostrarsi nei panni del Tony Stark impettito che il mondo ricorda. I suoi occhi infossati nel volto smunto lo fissano dallo specchio, scoraggiati.

«Cristo,» impreca, sistemandosi di nuovo la fibbia della cintura che gli arriccia l’orlo dei pantaloni.

È tentato dal lasciar perdere tutta quella farsa, di buttarsi a letto solo per rimanere insonne, divorato dalla sua inettitudine. Sta andando avanti solo a orgoglio e sensi di colpa, pur di non rimangiarsi la parola già data e non sfigurare. Afferra la cravatta dall’armadio in un gesto automatico, per poi congelarsi nel gesto di farla passare sotto al colletto. È una frana a fare il nodo, una vera frana. E adesso non ha nessuno ad aggiustarglielo, che lo rimbrotti per non aver mai imparato a farlo decentemente. La realizzazione gli appanna la vista a tradimento. Prende un lento respiro che quasi gli buca i polmoni e torce quella striscia di tessuto nero satinato cercando di non far tremare le dita. Fa un nodo semplice, troppo piccolo e storto, tenendo le labbra tirate. Se le morde, piantando a fondo i denti e inviandosi una stilettata di dolore. Non scoppierà in lacrime per una cazzo di cravatta.

Si fissa un’ultima volta nello specchio, si passa un palmo sul pizzetto rasato di fresco – maledizione, da dove spunta tutto quel grigio? – e si rassetta i capelli di nuovo presentabili con una presa di gel appena accennata sul davanti, abbozzando solo una copia stinta e malriuscita di se stesso. Un fantasma in ghingheri, una sorta di allampanato Jack Skellington fuori stagione. 

Sospira tra i denti ed esce dalla stanza innervosito, con una viva tensione allo stomaco e la tentazione perenne di scolarsi un goccio che si acuisce. Spera che non ci sia alcol, là. Spera davvero che non ci sia, o potrebbe mandare a puttane quasi dieci giorni di sobrietà più o meno totale in un batter d’occhi. È un qualcosa che gli riesce molto bene: rovinare tutto nel minor tempo possibile. Si getta addosso il cappotto pesante e in quel mentre coglie il rombo di un motore all’esterno; si affretta a uscire con gli alamari ancora mezzo slacciati, senza guanti e rischiando di rompersi l’osso del collo sulla patina di ghiaccio infido che lo accoglie appena oltre la porta.

I fari della vecchia Ford di Rogers lo accecano, e vede che sta solo scaldando il motore mentre Natasha e Rhodey sbrinano il parabrezza. Tony finisce di allacciarsi il cappotto e solleva il bavero contro l’aria pungente e tempestata di fiocchi di neve, prima di accostarsi a loro fingendo disinvoltura, come se la sua presenza fosse scontata. I due si girano nel sentire i suoi passi, e Rogers lo scruta perplesso da oltre il vetro, gli occhi chiari adombrati dalla piega delle sopracciglia.

«Tony,» lo saluta titubante Rhodey, con un moto che non nasconde la sua sorpresa. «Vieni anche tu?» chiede, e gli sembra di cogliere un invito implicito a rimanere lì, in quella domanda.

Schiocca la lingua senza nascondere la sua contrarietà, scoccandogli un’occhiata risentita.

«L’avevo detto, no?» pronuncia solo, con le parole mozzate dal freddo che gli ha già congelato le guance.

Natasha non commenta e finisce di sbrinare rapidamente la propria metà di parabrezza, rivolgendogli a malapena un’occhiata sbieca. Se è sorpresa, è brava a nasconderlo, ma lui sa benissimo che non si aspettava di vederlo qui. La situazione sembra cadere in stallo, tra Rhodey che lo fissa incerto, Natasha che lo ignora mentre ripone il raschietto nel portaoggetti, e Steve che sembra non averlo mai visto in vita sua, con quegli occhi sbarrati da cervo in autostrada. Tony rilascia un sospiro spazientito.

«Se siete al completo prendo la mia,» conclude, facendo già per avviarsi verso l’Audi bianca, nonostante sia chiaro che ci sia almeno un sedile ancora libero nella loro. «Ci metterò comunque meno di questo catorcio,» aggiunge, assestando un calcetto alla ruota anteriore della Ford Focus e parlando a voce più alta così che anche Rogers lo senta.

«C’è posto,» lo ferma Rhodey, in fretta, quasi a tappare la falla all’ultimo momento.

«Ma non mi dire,» replica lui, sardonico, ma inverte comunque la rotta e s’infila sul sedile posteriore sbattendo la portiera. «Tienila su di giri e vediamo di non arrivare tardi, nonnetto,» apostrofa Rogers a mo’ di saluto, incrociando strettamente le braccia al petto e imbozzolandosi nel cappotto cercando di recuperare sensibilità nelle dita già intirizzite.

L'altro fa un sospiro silenzioso e si limita a lanciargli un’occhiata accigliata dallo specchietto retrovisore, mentre Rhodey si siede sul sedile del passeggero e Natasha si lascia scivolare accanto a lui. C’è un coro di cinture di sicurezza che scattano, e Rogers lo guarda fisso dallo specchietto finché anche lui non se la allaccia, non mancando di alzare eloquentemente gli occhi al cielo. Partono slittando appena, e poi il buio puntinato di bianco e fari sporadici oscura i finestrini.

Rogers accende la radio a smorzare il silenzio, Rhodey finge di non stare cercando di guardarlo di sfuggita dallo specchietto esterno e Natasha si chiude nel suo angolo di sedile, ancora muta. Tony li ignora. Si sta decisamente pentendo di essersi messo in trappola da solo e, Cristo, vuole un sorso di whisky, di rum, di gin, di una qualunque bevanda che gli scaldi le viscere e gli ottenebri il cervello. Coraggio liquido, un cordiale d’emergenza prima di gettarsi sul campo di battaglia, perché ci sono ottime probabilità di non tornare tutto intero.

May lo farà a pezzi. Lui si farà a pezzi. Potendo, il mondo intero lo farebbe a pezzi.

Risucchia un respiro, cercando di ricordarsi che lui è – o almeno era – Iron Man e che quella è solo una festa di beneficenza. Una festa funebre, in pratica, visto che la totalità dei partecipanti è in lutto per colpa sua. Fissa i fiocchi bianchi che turbinano oltre il vetro. Cenere, cenere, cenere.

Si stringe le tempie in una morsa e smette di pensare, come se potesse davvero farlo a comando, strizzarsi i pensieri fino ad annullarli. Passano venti minuti, e gli sembrano sette ore. Quando finalmente entrano nell’area urbana di New York, Natasha inclina di lato il busto, sporgendosi dalla propria metà di sedile per accostarsi a lui.

«Ne hai fatta una questione di principio,» commenta a mezza voce, mentre gli altri due parlano tra loro del più e del meno, col chiacchiericcio monotono della radio in sottofondo.

«Sì, ma non per il motivo che pensi tu,» ammette Tony, inclinando appena la testa di lato per non dover parlare troppo forte, sempre senza guardarla. «A voi non devo dimostrare nulla,» aggiunge, aggrottando appena le sopracciglia e tirando un angolo della bocca.

È una questione con se stesso, in un certo senso, ma pensa che lei possa intuirlo da sé. Si sistema intentamente il bavero del cappotto, cercando di tenere occupate le mani e di scrutare al contempo di sottecchi Natasha, che ancora non si è ritirata. Lei non commenta, ma gli stringe senza preavviso il polso, quello marchiato, in un gesto che non sa bene come interpretare. Incoraggiamento, forse, oppure approvazione; magari anche una sorta di monito a non strafare con le decisioni coraggiose. O il suo nuovo standard di coraggioso, che si è drasticamente ridimensionato dai tempi in cui si tuffava in portali alieni a testa bassa. Immette un respiro stentato nei polmoni e serra rapido la mano libera sopra la sua, attirando il suo sguardo interrogativo.

«Sarà un casino,» le mormora tra i denti, e potendo salterebbe giù dall’auto in corsa.

«Molto probabile,» conferma tranquilla Natasha, affatto rassicurante. «Soprattutto se parti così,» aggiunge, cercando il suo sguardo, e lui le concede un fugace contatto visivo.

«Così come? Realista?»

«Nevrotico.»

«Dammi un goccetto e mi converto al buddhismo,» la provoca, detestando lasciar trasparire il proprio disagio fisico anche solo sotto forma di battuta.

La presa di Natasha sul suo polso si fa più salda, e di riflesso anche la propria. Non saprebbe dire chi si sta àncorando all’altro.

«Dopo,» risponde poi, appena udibile, e deve praticamente leggerle il labiale per capirla.

«Dopo,» ripete Tony, umettandosi le labbra e prendendo un altro respiro tentando di essere il più silenzioso possibile, anche se Rogers e Rhodey non prestano loro attenzione. «No, meglio di no,» si costringe a correggersi poi, stringendo gli occhi come se quel rifiuto gli infliggesse un tangibile pugno nello stomaco. «Ma se alla fine di questo cazzo di evento sono ancora vivo, mi devi almeno un'ora sul ring per compensare,» aggiunge, cercando di tornare a battere una strada scherzosa che contrasti il suo bruciante bisogno d’alcol.

Non ci arriverà, a fine serata. Si sente già consumare, scaldare dall’interno in un’emulazione illusoria del calore liquido che cerca. Gli tremano le dita, e sa che Natasha lo percepisce. La sente sospirare appena, mentre scioglie la stretta attorno al suo polso passandogli poi un pollice sulle nocche escoriate in modo esplicativo, suscitandogli un lieve pizzicore a fior di pelle.

«Di questo passo, dovrai inventare delle mani di riserva,» commenta, con una punta di severità ben marcata.

«O magari dovrei darmi al balletto,» ribatte lui, voltandosi infine a fissarla con l’espressione più seria che gli riesce, un sopracciglio lievemente inarcato.

Natasha lo fissa per un istante, ed è chiaro che un’istantanea della scena gli attraversi la testa, perché trattiene a forza un verso divertito; Tony sbuffa sonoramente cercando di contenersi a sua volta, il dorso della mano a celare la bocca. Steve e Rhodey interrompono i loro discorsi, attratti dai loro versi inconsulti, e lanciano loro uno sguardo comprensibilmente perplesso.

«Se vuoi ti rimedio un tutù,» lo punzecchia sottovoce lei, e sta sorridendo sotto i baffi.

«Scordatelo, Romanov,» ribatte lui, soffocando a sua volta un risolino.
 
§

 
Febbraio 2019, New York City

New York è spenta, una lampadina bruciata in uno sgabuzzino buio.

Tony la osserva scorrere oltre il finestrino e si sente fuori posto, sente un benvenuto mancato che lo sfiora. Cerca un abbraccio festoso di luci, di torri che sfidano la legge di gravità, di frenetico via vai e vociare concitato sulle note di clacson e stridii di freni, ma trova solo penombra e silenzio, i grattacieli solo dita rigide e immote di giganti caduti.

Ha odiato New York più di quanto l’abbia mai amata: il suo sguardo veniva sempre catturato con troppa insistenza dal cielo, aspettandosi di vedere occhi interstellari a fissarlo maligni. Ma è stata casa, in un certo senso, in un tempo in cui vedeva ancora il mondo come una distesa di possibilità per decollare. Una casa un po’ disordinata, con qualche difetto strutturale e qualche mobile brutto e troppo vecchio, ma comunque casa, un luogo vissuto che reca un sentore stinto di focolare domestico. Ora si sente un estraneo in casa propria.

Vede Times Square vuota e con gli schermi oscurati, qualche neon che lampeggia fievole e senza vigore. Vede l’ex-Avengers Tower che svetta solitaria, buia e abbandonata, con la gigantesca A simile a una pallina di Natale rotta e fuori stagione. Central Park è una selva oscura che costeggiano come fosse il limitare di una foresta proibita, densa di spettri; la vegetazione incolta si fa strada oltre i propri confini, rivendicando il cemento un centimetro alla volta. Le poche macchine viaggiano senza fretta come a preservare un’illusione di traffico perenne; i passanti sembrano seguire l’uno i passi dell’altro su percorsi rigidi e prefissati, quasi temendo di perdersi per quelle strade troppo regolari.

Tony affonda il mento nella giacca e riporta lo sguardo davanti a sé, usando il bavero rialzato come paraocchi di fortuna. Si sente il petto indolenzito come dopo un incidente stradale, e incassa la testa tra le spalle cercando di sciogliere le contratture. La mano di Natasha non ha mai lasciato il suo polso, la sua stretta si è fatta solo un po’ più salda da quando sono entrati in città. Il silenzio impregna l’abitacolo in un cordoglio comune. Scruta Steve dallo specchietto e vede le sue sopracciglia arricciate, gli occhi duri come schegge di ghiaccio conficcate nel suo volto teso; stringe il volante con le nocche sbiancate e forse rischia di deformarlo. È anche la sua città, è anche la sua casa, l’unica che abbia mai avuto. Vede il simbolo d’America sgretolarsi con ogni giro di ruota dell’auto.

Tony stringe la stoffa del cappotto e la mano di Natasha; socchiude gli occhi trattenendo un respiro troppo profondo. Ogni singola parte di lui lo sta facendo pentire di essere venuto qui.

 
§

 
 
Febbraio 2019, Chelsea Terminal Warehouse, Manhattan [1]

A dispetto di tutto, si concede una stilla d’orgoglio per se stesso quando riesce a calmare l’iperventilazione, uscire dalla toilette e reinserirsi senza trambusto nel cuore dell’evento, sempre con la segreta quanto vana speranza di non essere riconosciuto.

Ha seminato Rhodey e gli altri senza troppe difficoltà, ed è abbastanza convinto che siano stati loro la causa del suo quasi-attacco di panico. È in grado di gestirsi, maledizione: l’ha fatto per anni, dopo i mesi durante i quali ogni passo pareva condurlo nelle fauci di un portale alieno. È sopravvissuto – e sempre siano lodate le lezioni di meditazione di Bruce. Può resistere qualche ora incastrato a un evento di beneficenza senza una schiera di baby-sitter alle costole che lo rendono solo più nervoso di quanto già non sia.

Si guarda attorno, esaminando in poche occhiate l’ambiente in cui si svolge l’evento, di cui aveva colto solo un’istantanea sfocata durante la sua ritirata strategica in bagno. Sono in una delle tante, ampie sale un tempo destinate allo stoccaggio delle merci, poi a raffinate esposizioni d’arte, ora usata come rifugio per coloro che vi si sono riuniti in massa quando le loro case sono diventate troppo vuote. Adesso lo spazio dagli alti soffitti e dai parquet lucidi, illuminato un po’ malamente, è occupato da una moltitudine di bancarelle, banchetti e stand variopinti dedicati alle varie associazioni di beneficenza, alcune storiche, innumerevoli altre nate dalle ceneri della Decimazione. Quella del FEAST è una delle più affollate, ma se ne tiene a debita distanza.

Coglie qualche sguardo incuriosito o sorpreso che lo pungola con malcelata insistenza, e imposta subito la sua facciata un po’ sbiadita da miliardario filantropo, con un misurato sfoggio di spigliatezza che gli tende gli angoli delle labbra. Si sente un serpente dopo una muta che cerca di rientrare nella propria vecchia pelle, e vista la scomodità dei suoi vestiti non è nemmeno un’immagine troppo lontana dalla realtà.

Dopo aver passato venti minuti agonizzanti a tentare di riempire le spalle ampie che spiovono in modo fin troppo vistoso, si toglie la giacca con un moto frustrato abbandonandola al guardaroba, per poi rimanere in maniche di camicia mandando al diavolo il dress code, con tanto di cravatta mal annodata. Era comunque troppo elegante, per una festa di beneficenza in un mondo post-apocalittico. Torna ad aggirarsi tra i partecipanti all’evento sentendosi un fantasma visibile in pieno giorno che la gente scruta con un misto di diffidenza, perplessità e meraviglia. Non sa esattamente cosa debba fare, né se qualcuno si aspetta che faccia qualcosa. Non c’è più niente da salvare, ormai, e forse sono tutti soltanto fantasmi che si trovano ad infestare luoghi un tempo vissuti.

Si ferma meditabondo di fronte a una bancarella di un’associazione che si occupa di collocamento lavorativo, per quelle aziende e le industrie fallite per mancanza di personale o la scomparsa dei dirigenti. Deglutisce a disagio. Non ha idea dello stato in cui versino le Industries: non è andato in bancarotta, dal poco che gli ha comunicato Rhodey, ma non sa se può ancora permettersi di elargire donazioni a destra e a manca. Forse sarebbe meglio astenersi, almeno per il momento. Sondare le acque, muoversi sul fondale basso per capire se il decaduto Tony Stark può ancora effettivamente fare qualcosa per questo mondo dopo averlo lasciato sfumare.

È inevitabile che alla fine si ritrovi a gravitare attorno allo stand del FEAST. Scorge Rhodey e Rogers intenti a parlare con un paio di uomini ben vestiti, che crede di riconoscere da qualche summit aziendale di un decennio fa. Natasha è invece occupata... con May, realizza, col cuore che cade a picco nello stomaco e quest’ultimo che gli si chiude attorno a riccio con tanto di aculei pungenti. Sta per girare i tacchi, quando May alza lo sguardo distrattamente e lo vede, senz’ombra di dubbio. Lui si sente pietrificare sul posto come se avesse guardato negli occhi una Gorgone, e sa di aver sbarrato i propri e di avere un aspetto tutt’altro che presentabile.

May si congeda da Natasha, la quale gli scocca un’occhiata che sembra quasi apprensiva, poi si dirige inequivocabilmente verso di lui, a passi decisi ma con sguardo incerto, forse impensierito. Tony ordina ai propri piedi di muoversi, così da non rimanere lì impalato, e accorcia la distanza di un paio di passi prima che lo raggiunga, svicolando però dal suo sguardo. Le rughe sul suo volto sono aumentate e c’è una nuova ciocca grigia tra i suoi capelli, più corti di quanto ricordasse. Gli occhi dietro la montatura metallica sono ancora gli stessi, anche se piagati da una sofferenza che conosce bene e al contempo non conosce affatto; ma conservano una traccia di calore ambrato, un’onda tiepida che non si aspettava di trovare nel guardare lui.

«May,» riesce a cavarsi fuori a mo’ di saluto, con un filo di voce sfibrato.

«Ciao, Tony,» replica lei quasi in un sospiro, e la sua espressione sembra oscillare incerta tra mille sfaccettature. «Non mi aspettavo di vederti qui,» si ricompone poi, e incrocia le braccia sotto al seno, le labbra tirate in quello che sembra un tenue sorriso o forse solo una smorfia melanconica.

Tony storce appena la bocca e si passa una mano nervosa sul pizzetto, con lo sguardo che sfarfalla tra i suoi occhi, la gente attorno a loro e i propri piedi. Nota che May indossa jeans, maglietta e giacca neri e si chiede se sia una scelta studiata. O se ormai faccia semplicemente parte della sua routine quotidiana. Tentenna, scrutando la sua reazione, che finora non è affatto quella che si era aspettato. Niente freddi benvenuti, niente accuse taglienti, niente sguardi di rancoroso rimprovero. Solo un quieto dolore e una perplessità latente, oltre che una punta di durezza nel modo in cui lo scruta da capo a piedi, così conciato. May non ha perso la caratteristica di farlo sentire un bambinetto discolo colto in flagrante sul luogo di una marachella, e gli viene spontaneo raddrizzare un poco le spalle quasi potesse arrivargli un rimprovero per la sua postura insolitamente cadente.

«È stata una decisione dell’ultimo minuto,» replica infine, con un’occhiata laterale agli altri, conscio che li stanno osservando; incrocia gli occhi acuti di Rhodey e si acciglia, intimandogli in silenzio di non interferire. «Mi piace ancora improvvisare, anche se non sono sicuro di essere una... sorpresa gradita,» si lascia sfuggire, trattenendosi la punta della lingua tra i denti l’istante dopo.

«Mi chiedevo che fine avessi fatto, invece,» ribatte lei, senza dare adito a quell’occasione per attaccarlo servita su un piatto d’argento. «Happy non è molto loquace, e mantiene uno stretto segreto professionale su tutto ciò che ti riguarda,» continua, con una traccia di leggerezza inaspettata.

«Uh... abbiamo allentato i contatti, diciamo,» si schiarisce la voce lui, stringendosi le maniche arrotolate della camicia, ed è titubante a rivelare quanto sia stato davvero vicino a toccare il fondo. «Ho un talento naturale per farmi terra bruciata attorno,» conclude, precipitoso e un po’ spavaldo, quasi fosse una cosa di cui vantarsi.

May lo fissa per un secondo interminabile e sembra incline a chiedergli altro, per poi alzare appena le spalle e fare un cenno del capo verso uno dei corridoi che sbucano nella sala principale.

«Vieni, parliamo in un posto più tranquillo; ti offro qualcosa da bere al...»

«No, no, grazie,» la frena preventivamente Tony, sentendo una trazione prepotente allo stomaco al solo pensiero. «Sto... sto smettendo,» aggiunge poi, evitando i suoi occhi perplessi, a conferma che i propri compagni non sono stati così bastardi da sbandierare le proprie condizioni ai quattro venti. «O almeno ci provo. E ci sto provando piuttosto bene, finora,» continua, scegliendo di ignorare il fuoco bruciante che lo scotta al centro del ventre.

May ha un moto di evidente sorpresa, tira le labbra, poi il suo volto si addolcisce di nuovo con altrettanta rapidità.

«Posso offrirti uno spritz analcolico o è off-limits anche quello?» si corregge quindi, sospingendolo con gentilezza attraverso la sala senza aspettare risposta.

Tony trattiene un sorriso nervoso, affatto sintomo di allegria, e accetta con un cenno del capo impuntandosi però per offrire lui – ci mancherebbe. Si dirigono verso la zona ristoro, dove troneggia il bancone lucido di un bar; lui tiene lo sguardo basso per escludere dalla visuale la successione multicolore di liquori davanti a sé, e May ordina i due spritz, entrambi analcolici. Tony apprezza silenziosamente quella forma di tatto non dovuta e prende un sorso del suo, a tenere impegnata la bocca. È May a parlare per prima, e lo fa nel modo più semplice che esista:

«Come stai?»

Tony quasi strabuzza gli occhi all’assurdità di quella domanda.

«Dovrei chiedertelo io, piuttosto,» ribatte, con gli occhi affondati tra i cubetti di ghiaccio.

May scuote il capo e la sua espressione si tende un poco, facendosi più severa, ma ancora in qualche modo materna.

«Sto come sta il resto del mondo. E tu sembri stare peggio,» conclude arguta. «Sei dimagrito molto,» dice poi, sempre col tono di una madre contrariata, e quasi si aspetta che gli pizzichi le guance emaciate per constatarlo con mano.

Non la contraddice e prende un altro sorso del suo drink troppo dolce, praticamente un succo di frutta. Si strappa gli occhi dalla parete di alcolici dietro il bancone e si sente davanti all’albero di mele dell’Eden nei panni di Eva. Sospira a sguardo basso.

«Quasi quindici chili,» risponde infine, mezzo poggiato contro il bancone. «Colpa della dieta spaziale. E poi sono un disastro a cucinare: credo che lasciarmi da solo ai fornelli leda qualche diritto umano fondamentale, compresi i miei,» tenta di scherzare, con un sorrisetto spento. «Non è un bell’incentivo a mangiare normalmente,» conclude schiarendosi la voce e dicendo tutto e niente.

May scuote appena la testa affatto convinta, e gli passa una mano sulla schiena soffermandosi sulle sue scapole ben distinguibili sotto la stoffa della camicia.

«Riguardati, Tony,» gli dice, con una premura inaspettata e che di sicuro non si merita, soprattutto non da parte sua. «Non ha senso lasciarsi andare adesso.»

Tony si irrigidisce e si sente più confuso che mai; vorrebbe quasi che se la prendesse di nuovo con lui, che gli urlasse contro, che lo tempestasse di colpi e insulti come quando l’ha incontrata di ritorno da Titano. La ferita tira gelida sul fianco, e sente ancora le sue braccia esili che lo stritolano mentre gli scoppia in lacrime addosso, singhiozzando così forte da fargli credere di sentirla andare in pezzi. Sente ancora i lividi sulle spalle, nello stesso punto in cui l’aveva stretto anche Peter.

«Credevo che mi odiassi,» esterna infine, con la mascella contratta quasi si preparasse ad attutire un colpo in pieno viso, o ad accoglierlo. «Non ti darei torto: faresti parte della ragionevole maggioranza della popolazione mondiale... o di ciò che ne è rimasto grazie a noi,» sputa fuori d’un fiato, sentendosi inacidire la lingua solo a parlarne.

May sospira profondamente, e rimescola la propria bevanda interponendo tra loro un silenzio che sembra inesauribile.

«Ti ho odiato,» conferma infine, la voce quasi irriconoscibile e scevra di qualunque morbidezza. «Più di quanto volessi, in realtà. Poi ho capito che se avessi odiato te avrei dovuto odiare anche Peter,» sussurra, con quel nome che le scivola tra le labbra quasi lo stesse accarezzando col pensiero. «Hai provato a salvare il mondo, e ci ha provato anche lui. Non posso odiarvi perché avete fallito e non posso odiare chi è sopravvissuto,» conclude, con una fermezza artefatta che non nasconde le lacrime che le sono salite agli occhi. «Soprattutto, non te. Hai fatto tanto per lui. E so che gli volevi bene.»

A Tony si incastrano troppe parole in gola: di accusa verso se stesso, d’elogio per Peter, di scuse vacue per lei e per mezzo universo, di rifiuto per quella sorta di perdono immeritato e di conferma per quell’ultima affermazione che manda una lingua di fuoco a ustionargli il cuore. Non le pronuncia, gli si conficcano spigolose nel palato e sente un sapore ferrigno in bocca, di ferite infette e mai guarite. May non sembra comunque aspettarsi risposta e sorseggia in silenzio il proprio drink, lasciandolo con frasi inespresse che gli si contorcono tra le labbra.

«È bello che stiate partecipando all’evento,» riprende poi con un sorriso un po’ debole, offrendogli una scappatoia. «Alla gente serve vedervi, e siete uno sprone per i finanziatori.»

Tony sbuffa scettico, sganciando seccamente il fardello di pensieri e ricordi che gli appesantisce la mente, sapendo che tornerà inesorabilmente a galla. Probabilmente quella notte.

«Io mi stupisco che nessuno ci abbia ancora aggredito. Dubito che tutti la pensino come te,» ribatte, guardandosi nervoso intorno, e ogni sguardo che incrocia sembra scavargli un solco d’accusa addosso.

Lei si limita a scuotere la testa, come dichiarandolo un caso perso – e lo è, perché negarlo – poi la intravede mentre si passa rapida la punta dell’indice sotto gli occhi improvvisamente umidi.

«Al momento ci sono questioni più urgenti di cui preoccuparsi. Hai sentito della proposta dell’ONU per… per i memoriali collettivi?» sciorina poi d’un fiato, e l’ossigeno attorno a lui si tramuta in acido.

«Uh, no,» replica in fretta, ora a corto d’aria. «No, sono rimasto un po’... isolato,» ammette, con un formicolio sgradevole che gli invade lo stomaco mentre l’immagine di troppi obelischi o qualsivoglia monumento abbiano ideato pianta le fondamenta nel proprio cervello. «Quando l’hanno proposto?»

«Un paio di settimane fa. A quanto pare ci sarà una sorta di referendum globale e ogni Stato deciderà se aderire,» spiega lei concisa, scrollando le spalle. «Dicono che servirà a lenire il dolore di tutti e a offrire un’opportunità di aggregazione a chi è rimasto,» dice poi, quasi recitando una parte scritta, e la sua contrarietà è evidente. «Ma...»

«... ma la verità è che delle tombe singole sarebbero semplicemente troppe da gestire,» deduce Tony, alzando mestamente le sopracciglia e stringendo il bicchiere con più forza.

Se le immagina, tre miliardi e mezzo di tombe, di urne, di lapidi che costellano il mondo, e la sua parte cinica e pragmatica trova un senso a quella risoluzione. L’altra, quella rimasta da mesi su Titano con la fronte sanguinante premuta tra ceneri e sabbia, lancia un singhiozzo straziato che si sforza di non tramutare in realtà.

«Dovrebbe riposare accanto a Ben e ai suoi genitori, non in mezzo a degli sconosciuti,» afferma d’impeto May, spezzando i suoi pensieri, e la sua voce si fa tremula.

Tony china il capo e si sente la gola costretta. Ha una breve istantanea di un piccolo, ipotetico memoriale bianco per Pepper sulla scogliera di Malibu e batte le palpebre, deglutendo a vuoto. Nella sua mente rimane spoglio, privo di bouquet o ghirlande, perché non ricorda quale fosse il suo fiore preferito. Forse non l’ha mai saputo. Non sa se lei gliel’abbia detto, e magari è lui a non ricordarlo perché troppo distratto. Portava spesso un profumo al giglio... o era ibisco? Non vuol comunque dire che le piacesse il fiore in sé, no? I suoi pensieri si avvitano su quel concetto futile che adesso sembra assumere proporzioni mastodontiche, sopprimendo qualunque razionalità finché non si lascia strappar via da quegli arzigogoli mentali dalla voce di May:

«Non abbiamo nemmeno dei corpi, e vogliono privarci anche di questo?» continua con più foga, e tira su col naso con rabbia, frugando poi nella borsa alla ricerca di un fazzoletto.

Tony ritorna ancora a Titano e alla cenere frammista alla sabbia rosso sangue. A come il pensiero di raccoglierla, di grattarla via dalle rocce con le unghie rotte e riportarla sulla Terra l’abbia sfiorato, per poi rendersi conto che tutto ciò che rimaneva di Peter era già incollato ai suoi palmi. Serra i pugni e la sente ancora.

«Si merita di più,» concorda, appena udibile, mentre fiori, cenere e sabbia rossa gli vorticano in trasparenza davanti agli occhi, trasportati da un liquido ambrato di cui sente il retrogusto falsamente salvifico in bocca.

Lei annuisce appena, continuando a fissarlo. Sa che vorrebbe chiedergli di più. Non le ha mai raccontato come è successo e dubita che riuscirà mai a farlo, o che lei voglia davvero saperlo. Gliel’ha chiesto tra i singhiozzi, mesi e mesi fa, ma lui è rimasto muto, afono, proprio come con Peter.

“Mi dispiace.

Gli è sparito tra le braccia. Dovrebbe dirglielo. Dovrebbe dirglielo adesso.

«E lo avrà, te lo prometto. Almeno questo posso farlo,» conclude invece, guardandola con occhi tremolanti che si impegna a non far traboccare.

«Glielo devi,» dichiara lei, semplicemente.

Tony accetta quelle parole, prive d’accusa e terrificanti nella loro veridicità. Chiude brevemente gli occhi desiderando con tutto se stesso di scomparire lì, in mezzo a tutta quella gente che finge di andare avanti, finendo solo per danzare a tentoni nel vuoto mentre il mondo si è fermato.




 


Note:

[1] Terminal Warehouse: Ex-magazzino e centro di smistamento merci situato sulle rive dell’Hudson. In tempi moderni è stato davvero adibito a sala mostre, sede di uffici aziendali, centro congressi e quant’altro.

NB. L’ultima frase del testo è ispirata alla canzone dell’intro. They Dance Alone/Ellas danzan solas si riferisce a tutt’altro contesto, ovvero alla tragedia dei desaparecidos in Sud America durante la Guerra Sporca. Lungi da me sminuire o dissacrare questo dramma storico associandolo a contesti immaginari quali quello di Endgame: ho semplicemente trovato un parallelismo calzante tra il testo del brano di Sting e la Decimazione, trattandosi in entrambi i casi di persone scomparse e mai dichiarate ufficialmente morte.


Note dell’Autrice:

Buonsalve!
Inauguriamo questo 2020 con una bella martellata d’angst, come da catalogo <3 Scherzi a parte, questo credo sia uno dei capitoli più ardui da digerire, di qui la scelta di dividerlo in due parti (ed evitarvi un Mammozzone di 27 pagine, che mi sembrava un atto d’umanità dovuto).

Come già accennato, l’intento della storia è anche quello di ampliare e coprire i purtroppo numerosi buchi di trama e imprecisioni che si è lasciato dietro Endgame; tra questi, appunto la rappresentazione di un mondo post-apocalittico, che dall’essere molto credibile nella prima parte di film è finito per risultarlo molto meno successivamente (per non parlare di Far From Home, che sembra ignorare totalmente i trascorsi della Decimazione). Qui ho semplicemente voluto sottolineare quanto una grande metropoli come New York abbia accusato il colpo, e ragionare su come si sia arrivati all’idea di quei memoriali collettivi che vediamo a San Francisco con gli occhi di Scott.

Detto questo, ringrazio tutti coloro che continuano a seguire, leggere, commentare e aggiungere la storia alle loro liste <3 E se volete lasciare un commentino per farmi sapere cosa ne pensate e per uno scambio d’opinioni, sarei più che felice :)
Un grazie speciale alle mie solite quattro Cavaliere (?) dell’Apocalisse (di cui una è Er Cavajjere Nero infiltrato <3): mi avete regalato un anno fantastico e siete praticamente il motivo per cui continuo a scrivere <3
Buon 2020 a tutti voi!

-Light-

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Capitolo 12
*** Parte seconda - Capitolo 11: Coraggio (II) ***


.11.

Coraggio
II
 

“One day we'll dance on their graves
One day we'll sing our freedom
One day we'll laugh in our joy
And we'll dance”


[They Dance Alone (Cueca Solo) – Sting]


 
Febbraio 2019, New York

Il vento gelido che soffia dall'Hudson spazza via la nebbiolina che gli serpeggia davanti agli occhi, e Tony incamera l'aria fredda a pieni polmoni, sentendosi sul punto di accartocciarsi su se stesso come una foglia nel fuoco. Tenta di recuperare lucidità, di aggrapparsi alle sensazioni fisiche che sente attorno a sé, ma riesce solo a captare quelle interne al proprio corpo. Il suo stomaco sembra in preda alle palpitazioni, un essere vorace e scisso dalla propria volontà che tenta di fagocitarlo. Si àncora alla ringhiera delle scale antincendio fino a sentire il ferro corroso che gli si imprime nei palmi. Le sue meningi sussultano nella scatola cranica come maracas fuori tempo, e ha l'impressione di vedere doppio, o che ciò che lo circonda vibri leggermente. Prende grosse boccate d'aria fino a farsi girare la testa, a dirottare l'attenzione su quel fastidio momentaneo e non sul coacervo di input impazziti che lo sta soverchiando.

L'ultima, seria bevuta è stata una settimana fa, quando in un momento di debolezza si è scolato quasi mezza bottiglia di whiskey. Da allora, si è concesso solo dei flaconcini di liquore di contrabbando tramite Nat, troppo poco per ingannare a lungo il proprio corpo assuefatto. Si tasta le tasche dei pantaloni e individua l'ennesima fiaschetta che gli ha fatto scivolare in mano di nascosto pochi minuti fa, quando si è accorta, come da manuale, che la sua crisi d'astinenza stava raggiungendo picchi difficilmente controllabili. La stringe attraverso la stoffa e sente già le proprie mani che agiscono di loro volontà, tirandola fuori; sopprime il movimento e la ricaccia in fondo alla tasca, mordendosi l'interno del labbro in un moto irato. È Tony Stark, maledizione, e un tempo era anche Iron Man. Piegarsi in modo così arrendevole a un qualcosa di così gretto come un sorso d'alcol sa di sconfitta, ancor più della sabbia di Titano.

Punta lo sguardo davanti a sé, sulla città illuminata per metà. L'Hudson scorre pigro, privo di imbarcazioni e punteggiato da sottili lastroni di ghiaccio che viaggiano rilucenti verso la foce. Butta fuori un respiro rovente, che si condensa nell'aria in una voluta di vapore, e lascia che il gelo lo rinvigorisca attraverso il cappotto mezzo aperto che si è gettato addosso prima di uscire. Gli verrà una polmonite. È l'inverno più freddo di cui abbia memoria, e l'intera metropoli sembra ibernata sotto uno strato di neve. [1]

Fa fischiare un respiro attraverso i denti, che gli dolgono per l'aria polare, poi afferra repentinamente la bottiglietta, carica il braccio all’indietro e la scaglia lontano, verso il fiume addentato da moli e pontili. Non vede dove impatta, sente solo un tintinnio di vetri infranti che riecheggia fin lì, ma è abbastanza sicuro che nessuno di chi è rimasto si stia avventurando fuori a quest'ora della notte. Sente al contempo un doloroso strattone e un vuoto di sollievo allo stomaco per quel gesto avventato.

Traffica col taschino della camicia e ne tira fuori un piccolo blister di compresse, mandandone giù rapidamente una a secco sperando di non strozzarsi. Non è sicuro di non stare eccedendo la dose di diazepam, ma lo scoprirà probabilmente a sue spese. Per ora, avverte un soffuso effetto placebo che già gli rilassa i nervi, in attesa di quello vero e proprio che dovrebbe barattare la sua inestinguibile sete d'alcol con un'emicrania martellante e un fastidioso torpore. Spera che gli tolga anche da davanti agli occhi le immagini che trasbordano indesiderate dal loro limbo onirico.

Sta giusto godendo dei primi effetti benefici dell'ansiolitico, quando sente la porta antipanico dietro di lui che si apre con un cigolio di plastica e metallo penetrante, costringendolo a raddrizzare le spalle e a schiaffarsi in fretta e furia un'espressione da Tony Stark in volto. Si gira con un sopracciglio già incurvato e un commento pungente tra i denti, quando l'intento gli muore in bocca nel ritrovarsi davanti un Happy piuttosto esagitato.

«Tony! Ecco dove ti eri cacciato,» esordisce, stringendosi nelle spalle ampie a schermarsi dal gelo improvviso. «Rhodes stava dando di matto, là sotto, sei sparito senza...»

«Non posso neanche prendere una boccata d'aria senza ritrovarmi il team sanitario che non ho richiesto attaccato alle chiappe?» lo interrompe Tony, in modo molto più acido di quanto volesse.

Happy sospira pesantemente, con una delle sue espressioni a metà tra il contrito e il seccato in volto, e gli si si fa incontro con le mani affondate nelle tasche del cappotto. Almeno lui non sembra poi essere cambiato così tanto, con solo un po' di grigio in più a screziargli la barba e i capelli stempiati; porta uno dei suoi soliti, lineari completi neri con cravatta abbinata. C'è un che di rassicurante in questo fatto, in questa sua stoica immutabilità.

«Non vogliamo starti col fiato sul collo. È solo che...»

«Lo so,» taglia corto Tony, risucchiando un corto respiro e accusando i primi sintomi d'emicrania e intontimento. «Come al solito, sono artefice del mio destino,» dice con un gesto svogliato della mano, in una macabra battuta che gli esce spontanea.

Si poggia di nuovo coi gomiti contro la ringhiera e Happy gli si affianca, con più rigidezza e impaccio di quanto non sia abituato a esternare, ma comunque col suo solito modo di fare un po' bizzoso.

«Non mi aspettavo di vederti qui,» si pronuncia dopo un po', riecheggiando May.

«Era una questione di principio. O qualcosa del genere,» ribatte lui, storcendo un poco la bocca. «Non potevo darmi all'eremitaggio ancora a lungo.»

Happy si muove nervoso accanto a lui, con un colpetto di tosse a scuoterlo.

«Tony...» dice poi, a voce più bassa. «So che è stata dura per te, ultimamente… Rhodey mi ha accennato qualcosa. Mi sarei fatto vivo più spesso, davvero, ma con May le cose si sono messe sempre peggio, prima di mettersi meglio e...»

«Ti ho dato un compito, e lo stai portando a termine,» lo ferma subito Tony, senza rancore. «Mi è sembrato che May stesse... bene, per quanto si possa stare bene durante un revival di The Day After Tomorrow, quindi direi che hai fatto esattamente quello che ti avevo chiesto,» continua poi, forzando un sorrisetto.

«Già, a quel proposito...» Happy struscia i piedi sul pavimento in metallo e sembra imbarazzato, un'emozione che gli avrà visto esternare sì e no tre volte in vent'anni. «Io e May, se tutto procede secondo i piani, dovremmo... iniziare a convivere ufficialmente il mese prossimo,» annuncia poi, a mezza voce e parlando rapidamente.

Tony batte stolidamente le palpebre e si fa un poco indietro, aggrappato alla ringhiera con più forza. Si sente come se qualcuno l'avesse stordito con una padellata sulla nuca. O forse quelli sono gli ansiolitici, non saprebbe dirlo.

«Convivere?» ripete, e non sta tenendo alta la sua nomea di genio, con quelle domande ridondanti.

«Sì... insomma, è già capitato che mi fermassi da lei, soprattutto i primi tempi, per non lasciarla sola, e... da cosa nasce cosa e... sì, insomma, mi trasferisco il mese prossimo,» conclude, annuendo a raffica con un lampo di sorriso esitante sul volto pieno.

«Oh,» proferisce soltanto Tony, e si sente ancora impallato, fuori fase.

May e Happy. Che convivono. Che, con tutta evidenza, fanno anche altro. Chiude il teatrino mentale che sta per aprire il sipario nella sua testa per preservare la propria sanità mentale, perché se c'è qualcosa su cui non vuole riflettere è la vita sentimentale e sessuale di Happy. O di May, se è per questo. Cos'altro diavolo si è perso, mentre era impegnato ad affogarsi nel whiskey? Soprattutto, quando è successo?

Happy è chiaramente convinto di averlo mandato nel pallone – cosa del tutto vera – perché si affretta a parlare di nuovo:

«Scusami, non c'era un modo delicato per...»

«No, no, è... è fantastico, davvero,» si affretta a rassicurarlo Tony, e gli affiora finalmente un sorriso oscillante alle labbra, sincero nonostante lo shock. «Solo che, nell'infinita moltitudine di eventi che avrei potuto prevedere, questo è decisamente... imprevisto,» s'incarta leggermente, come sempre quando si trova a fronteggiare situazioni in cui sarebbe richiesto un minimo di tatto da parte sua.

«Non che fosse programmato. È successo, e basta,» alza le spalle Happy, con la sua solita schiettezza e un briciolo, gli sembra, di allegria che sembra fuori posto in quel mondo. «Stiamo bene e non abbiamo alcun motivo per tirarci indietro. May è stata... molto chiara in proposito. Quando le ho chiesto se fosse davvero sicura, visto che... insomma, visto il contesto e i precedenti...» Happy tossicchia di nuovo, a disagio, con l’ombra inespressa di Ben sulle spalle. «... si è infuriata. Dico sul serio. Fuoco e fiamme,» sottolinea, con un ampio gesto delle mani paffute.

«Sì, ho presente,» ridacchia Tony, malinconico, e vede Happy che si rilassa un poco a quella reazione. «Mi sono beccato molte ramanzine firmate Parker,» sospira, serrando i palmi già congelati sulla ringhiera fredda e umida. «Felicitazioni, allora. Davvero, sono contento per voi,» sottolinea, annuendo quasi a permettersi di interiorizzare meglio quel concetto.

«Grazie,» risponde lui con un'alzata di spalle, e sotto la sua faccia perennemente distesa da un velo di irritato fatalismo, scorge un vivo guizzo di felicità.

È questo che vuol dire "andare avanti"? Tony se lo chiede fugacemente, per poi rimproverarsi all'istante e annegare quella considerazione inopportuna verso due persone a cui tiene.

Non è comunque mai riuscito a definire quella frase fatta che ha sempre sentito sulla bocca di tutti. Non l'ha mai percepita come propria. Lui non va davvero avanti, mai: si lascia sempre dei frammenti dietro di sé, fossilizzati in grotte e portali e pianeti lontani e strade buie e innevate. Una scia che lo accompagna e segna i suoi passi. Va avanti e si lascia sempre qualcosa indietro, qualcosa che gli pesa dentro nella sua mancanza. Non sa che farsene, di quei frammenti diseguali sparsi ovunque; se raccoglierli oppure lasciarli dove sono, ma in entrambi i casi sente quell'impulso innato che lo spinge a voler riparare sempre tutto, a incastrarli tra loro e dentro di sé anche se non combaciano. Vuole risolvere tutto e finisce solo per ingarbugliare la matassa, scombinare il puzzle o ficcarsi in vicoli ciechi.

«Sei finito in una rissa?» gli chiede in quel mentre Happy, riscuotendolo di colpo, e lui scrolla appena la testa per strapparsi a quell'odioso torpore indotto in cui è scivolato senza neanche accorgersene.

«Io? Non ultimamente,» replica un po' disorientato, per poi seguire il suo sguardo interrogativo e rivolgere il proprio verso le nocche escoriate. «Oh, sì, questo... è il mio nuovo antistress,» alza le spalle, con vaghezza e un po' di riluttanza a entrare nello specifico. «Banner ha dato le direttive e Romanov mi ha costretto a metterle in pratica... è stata una congiura. Preferivo te come compagno di boxe, almeno avevi decisamente più riguardo per la mia faccia,» conclude, schioccando la lingua e alzando appena il mento per esporre un piccolo livido seminascosto dal pizzetto.

«Natasha, eh?» commenta Happy, facendosi serissimo. «Non fidarti: sembra innocua e poi ti mette KO quando meno te l'aspetti, parlo per esperienza personale,» lo avverte, con un finto cipiglio contrariato che gli strappa un sorriso.

«Lo so, è un osso duro,» replica lui, sbuffando una nuvoletta di vapore.

«Molto. Sta anche collaborando con May, ultimamente,» aggiunge Happy, dirottando sensibilmente la conversazione.

«Che intendi? Col FEAST?» lo incalza lui, interdetto.

«Non te l'ha detto?» corruga le sopracciglia lui, e Tony si trova costretto a scuotere la testa, ammettendo l'ennesimo fatto di cui è all'oscuro. «Gestisce l'associazione co-dipendente al FEAST che si occupa degli orfani della Decimazione,» spiega quindi il suo ex-autista, indicando col pollice oltre la propria spalla, in direzione dell'edificio.

«Lei?» chiede conferma Tony, quasi strabuzzando gli occhi. «Romanov? Natasha femme fatale Romanov, ex-assassina e spia del KGB, che si vota alla carità per i bambini bisognosi?» [2]

«Non chiedere a me,» si schermisce Happy, incassando la testa tra le spalle rotonde e tirandosene fuori. «Dico solo quello che vedo e riporto quel che mi dice May. E vedo e mi dice che sta facendo un ottimo lavoro,» conclude, con un sorrisetto sicuro di sé.

Tony mugugna una qualche risposta affermativa e si chiede se non stia avendo di nuovo un'allucinazione, stavolta audiovisiva e in technicolor. Conclude che il modo più diretto e rapido per accertarsene sia scovare Natasha e avviare un interrogatorio serrato, sperando di non trovarsi a invertire i ruoli come sempre, così si lascia infine riaccompagnare da Happy nel tepore dell'edificio, sfuggendo al gelo della città desolata.

 
§

 
La trova dove si è aspettato di trovarla, ma decisamente non come si era immaginato: lo stand al quale è appoggiata porta l'insegna "RESCUE: Kids!" a sgargianti lettere arcobaleno dipinte a pennellate, con l'impronta di decine di piccole mani premute nella vernice a incorniciarla. Lei invece è attorniata da una dozzina di bambini che sembrano intenti a tempestarla di domande, i due più piccoli aggrappati al suo vestito nero e quelli più grandi che si stringono a lei, e l'immagine si sovrappone comicamente a quella di tanti anatroccoli che si stringono alla loro mamma.

Tony si ferma di colpo, più spiazzato che divertito nel vedere Natasha che sorride in risposta a qualcosa che le sta dicendo una bambina, il busto appena chinato verso di lei per ascoltarla meglio mentre cerca al contempo di sfogliare quello che sembra un incartamento ufficiale. La osserva per qualche istante, indeciso se rompere il quadretto con la sua pesante presenza di eroe caduto e offuscato. Prima che possa fare dietrofront, gli occhi della donna lo trovano a colpo sicuro e lo trafiggono, segno che l'aveva già notato da un po'. Lo invita con un cenno della mano ad avvicinarsi.

Tony sente la propria facciata d'indifferenza che viene lavata via un passo alla volta, le mani cacciate nelle tasche con fare falsamente indolente. Si ferma appena fuori dalla cerchia serrata di bambini, e non sa bene se rivolgersi a loro o ignorarli. Sono gli unici esseri viventi in grado di metterlo in seria difficoltà – preferirebbe degli alieni, davvero. Le uniche volte che ha avuto a che fare con loro era all'interno della sua armatura, per qualche tour di un reparto pediatrico o qualche sporadico Meet&Greet in cui si limitava a firmare quanti più poster e disegni possibili prima di farsi venire un tunnel carpale. Si acciglia lievemente nello scacciar via il ricordo di parole e desideri espressi troppo tardi, quel giorno di una vita fa in un parco assolato, frutto di un sogno troppo vivido per essere vero.

Uno dei bambini più grandi si volta, notandolo, lo guarda dritto negli occhi e lo indica non molto discretamente sussurrando qualcosa all'orecchio di una compagna; Tony distoglie lo sguardo, mandandolo a schiantarsi verso la parete di fondo in mattoncini rossi, come se li trovasse improvvisamente di sommo interesse. Sente ancora dei leggeri brividi lungo la schiena, ha delle occhiaie da zombie e, Cristo, non vuole farsi vedere in questo stato pietoso da chi forse lo considerava il proprio eroe fino a poco meno di un anno fa.

Natasha sembra percepire il suo impaccio perché con poche, precise frasi pronunciate a mezza voce e un'elargizione di volantini da distribuire, fa disperdere l'assembramento sedizioso in un batter d'occhio, spedendo a coppie i bambini a mischiarsi alla folla circostante in un guizzo di piedi rapidi e scalpiccii concitati, con qualche ultimo sguardo curioso che lo sfiora.

«Via libera, Scrooge,» [3] lo prende in giro, ora concentrata sulle carte che stava tentando di visionare.

Tony rilascia un secco sbuffo di risposta e si poggia accanto a lei con gli avambracci sul bancone dello stand, sbirciando i documenti. Sono permessi d'adozione, e tira appena le labbra in una piega dolceamara.

«Non mi sarei mai aspettato di vederti in versione mamma chioccia,» commenta, leggero ma con un nodo in gola al pensiero di tutti gli orfani dimenticati che non hanno trovato l'ala protettrice di May e Natasha. «O magari mamma orsa... credo sia più appropriato,» aggiunge, pungolandola dispettoso col gomito.

Natasha appone una firma ordinata a piè di pagina e inclina il viso verso di lui, scrutandolo dal basso verso l'alto in quel suo solito modo penetrante.

«È strano?» chiede guardinga, alzando appena le sopracciglia, e Tony scuote appena la testa, col nodo che si stringe.

«Inaspettato,» commenta poi, sincero.

Come la maggior parte delle cose che sta scoprendo stasera, in effetti.

«Non troppo, se ripenso al mio orfanotrofio in Russia. O al poco che ne ricordo,» [4] replica lei, con semplicità disarmante e una tinta quasi nostalgica nella voce, come se quello non fosse stato un periodo poi così brutto della sua vita.

Tony arriccia le labbra e annuisce gravemente in silenzio, prendendo quel tassello d'informazione con dita caute e riponendolo nella saccoccia etichettata "Natasha" a tintinnare con tutti gli altri, sparsi e scompagnati.

La osserva compilare un altro documento, su cui spicca la foto di un bambino con capelli rossicci, occhi scuri e lentiggini, e sradica i propri pensieri dalla direzione pericolosa in cui si stanno incanalando. Fissa invece la pila di scartoffie che ha in mano, e le altre che troneggiano sul bancone lì dietro. Sono centinaia, ordinatamente divise e catalogate, compilate in bella grafia e firmate quasi tutte da lei. C'è una dedizione, dietro quella semplice e metodica organizzazione di dati, che lo prende in contropiede e che gli riesce difficile associare a lei. Eppure, la cura che sta mettendo in ciò che fa sarebbe lampante agli occhi di chiunque, persino ai suoi che non la conoscono poi così tanto meglio di altri. Vede un piccolo spiraglio di possibilità, una piccola parola non detta in controluce, e lo imbocca d'istinto, pronunciandola tra le righe:

«Se vi servono fondi...» comincia prima di poterci ripensare, e si raddrizza appena sui gomiti, inclinandosi di lato e cercando i suoi occhi. «La September Foundation è per ora inattiva, visto che ero io a gestirla di persona e... e ultimamente mi è un po'... sfuggita di mano, ma...» incontra infine il suo sguardo, che si illumina d'interesse, e sa di non dover aggiungere altro.

«È un'offerta seria?» chiede quindi lei, assottigliando di poco gli occhi ora brillanti e scrutandolo fra le ciglia.

«Tutte le mie offerte sono serie. Possiamo discuterne con May anche ora,» aggiunge lui, quasi offeso, con un cenno del mento verso lo stand principale del FEAST. «Però magari... magari prima fammi vedere come... come funziona, che progetti avete, e tutto il teatrino,» aggiunge in fretta, schiarendosi appena la voce e pensando che dovrebbe almeno sapere cosa sta per finanziare, a prescindere da chi lo gestisce.

Natasha trattiene un sorriso, si sporge oltre il bancone e afferra a colpo sicuro un dépliant da una pila ordinata sul tavolo, porgendoglielo con un gesto deciso. Lui lo accetta in silenzio, prendendo a scorrerlo con dita ancora poco collaborative. Lei gli si accosta, premendo di proposito il braccio contro il suo e intercettando il tremito che lo attraversa. Abbassa la voce, nonostante attorno a loro vi sia un sostenuto brusio di fondo.

«Hai bevuto?» chiede, infilando a tradimento una mano nella tasca vuota in cui custodiva il flaconcino d'alcol.

Tony sospira secco, con le righe di testo che si intersecano tra loro per un istante.

«Cos'è, devo essere per forza ubriaco per comportarmi da persona perbene?» replica un po' tagliente, e riesce a rimettere a fuoco le lettere strizzando gli occhi.

Si scosta da lei, che ritira svelta la mano e scuote appena la testa, ma non insiste e sembra dare per buona la sua parola, già fin troppo palesata dai suoi movimenti scattosi e dalla fronte madida nonostante il diazepam. Rimane lì accanto e gli lascia modo di scorrere il programma che, deve riconoscerlo, è ben fatto e neanche troppo dispendioso da mettere in pratica. Case-famiglia, reti d'adozione, rifugi e orfanotrofi, mense collettive... lei e May si sono davvero date da fare, nel corso di quest'anno. Se è stato davvero un anno, realizza poi.

«Da quanto ci lavorate?» chiede con noncuranza, girando una pagina che ora non sta davvero leggendo.

«C'era già un progetto embrionale gestito dal FEAST... ho solo proposto di renderlo indipendente per metterlo più in risalto,» alza le spalle lei, schivando la domanda e fornendogli però parte della risposta.

Tony la fissa di sottecchi in silenzio e chiude poi il libretto, chiedendosi se ritorcerle contro le sue stesse tattiche porterà a un risultato concreto. Natasha trattiene visibilmente un sospiro a quello sguardo prolungato, ma lo sostiene senza vacillare.

«Tre mesi, più o meno,» replica quindi, senza distogliere le pupille dalle sue, in un quieto invito ad abbassarle che Tony non raccoglie.

«Da quando sei tornata?» chiede, senza più giri di parole. «O meglio, da quando Rogers ti ha "trovata"?» si corregge, e nel momento in cui pronuncia quell’ultima frase capisce troppo tardi di aver rotto l'equilibrio e aver tirato la corda fino a farsela scappare di mano, perché il volto di Natasha torna imperscrutabile.

«Chiedilo a Steve, no?» lo invita, senza alcuna inflessione e una smorfia scaltra, tornando poi a guardare il dépliant con un gesto rapido del capo che le scuote la chiama biondo-rossiccia e che sembra molto un'esternazione di vittoria.

Tony si lascia scappare un sospiro e abbandona l'argomento, decidendosi ad aspettare un altro frangente più propizio, ma determinato a capire dove diavolo si sia cacciata Natasha per quasi cinque mesi, dal momento della sua scomparsa al Complesso. Scrolla le spalle e la spintona appena di lato, a comunicarle che le dà vinto questo round, ma non il match.

«Quell'ora sul ring è ancora in ballo,» borbotta poi, risentito.

«Non mi sembri più così nevrotico,» lo rimbecca lei, serafica, e sa che ha notato le sue pupille più dilatate del normale. «E non mi sembra che il tuo catastrofismo fosse giustificato,» continua, di nuovo con un sottile compiacimento, non sa se per aver avuto ragione o per il modo in cui si è saputo gestire lui.

«Ho ancora tempo per rovinare tutto... dammi fiducia: sono un esperto,» sogghigna appena lui, sentendo però un nodo di tensione in meno nelle viscere e una scintilla di calore in più a scaldarlo.

Natasha non risponde, ma la scorge alzare gli occhi al cielo, e il lieve scappellotto che gli rifila sulla nuca è più che esplicativo e gli strappa uno sbuffo divertito.

«Posso già avviare le procedure per il finanziamento,» le comunica poi, riprendendo il suo modo di fare noncurante. «È in linea con gli obbiettivi della September... e credo che avrebbe anche la benedizione di mia madre,» scherza un po' malinconico, sapendo però di dire il vero.

«Le sarebbe piaciuto molto,» concorda Natasha, con insolita delicatezza.

«Già. Anche a Pepper,» replica lui a bassa voce, senza pensare, con gli occhi che si fanno subito più liquidi nel captare di nuovo le foto di quei bambini.

Non è quello che voleva dire, né ciò a cui si riferisce davvero, e quel desiderio inesaudito di una vita fa lo scotta in tutta la sua irrealizzabilità. È la prima volta che pronuncia il suo nome e quasi non se n'è accorto: gli invia tardivamente una fitta sorda e indistinta che parte dal cuore e si irradia lungo le arterie. Come se qualcuno gli avesse tolto un chiodo dal petto. Doloroso, ma necessario.

Quando alza cauto lo sguardo, Natasha lo sta fissando con un sorriso sottile, appena intuibile che sa d'incoraggiamento. Si trova a ricambiarlo esitante, con un sospiro di sollievo che quasi lo scioglie sul posto.




 

Note:

[1] Gli inverni a New York sono notoriamente rigidi, ma questo è un velato accenno al fatto che, con un'umanità dimezzata, si assisterebbe comunque a cambiamenti climatici sostanziali per via delle emissioni drasticamente ridotte, almeno nel primo anno dallo schiocco.
[2] A dispetto di quanto possa sembrare assurdo, questo fatto era previsto nella prima bozza di Endgame, ed è stato eliminato dalla sceneggiatura per una questione di tempo e gestione del minutaggio, venendo convertito nell'impegno che Natasha mette nella coordinazione dei rimanenti Vendicatori.
[3]
 Riferimento al personaggio di A Christmas Carol di Dickens, notoriamente bisbetico e misantropo.
[4] Le informazioni sulla prima infanzia di Natasha sono estremamente lacunose, e mi sono presa la libertà di riempirle con questo fantomatico "orfanotrofio", a tappare il buco tra la morte dei suoi durante un incendio a Stalingrado (1928) e il suo ingresso nella Stanza Rossa. Non tengo volontariamente conto di altri eventi canonici nei fumetti.
NB. Le benzodiazepine causano spesso intontimento e minano la concentrazione, di qui l'atteggiamento più flemmatico di Tony in alcuni passaggi della seconda parte del capitolo.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, ormai contare su degli aggiornamenti regolari è un'utopia, quindi torniamo alla cara, vecchia abitudine di postare completamente a random :')
Questo, in un certo senso, può essere considerato un capitolo di svolta, seppur abbastanza statico... e dal prossimo entriamo nel vivo della "cosa".

Piccolo appello, che vi assicuro non sono solita fare: ho notato che siete relativamente in molti a seguire questa storia e, davvero, ogni commento è gradito per sapere cosa ne pensate <3 Non m'importa assolutamente nulla del numero di recensioni in quanto tale, né tantomeno della loro lunghezza, ma è bello ricevere un riscontro e conoscere i pareri di chi legge, negativi o positivi che siano. Sto spendendo molto tempo e impegno su questa storia, che oggettivamente è un po' un salto nel buio per trama e argomenti trattati, quindi avere delle opinioni sulla gestione dei personaggi/sviluppo generale mi renderebbe davvero felice e mi darebbe qualche spunto di riflessione per eventuali miglioramenti :)

Chiudo la parentesi accollosa, e grazie a prescindere a tutti coloro che leggono, seguono e a chi ha recensito gli scorsi capitoli <3
Alla prossima settimana,

-Light-


 

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Capitolo 13
*** Parte seconda - Capitolo 12: Equilibrio ***


.12.

Equilibrio
  

 

“Rimanemmo così, sulla sommità di quel campo, per quello che ci sembrò un tempo infinito,
abbracciati senza dire una parola, mentre il vento non smetteva di soffiarci contro,
e sembrava strapparci i vestiti di dosso;
per un istante fu come se ci tenessimo stretti l'uno all'altra,
perché quello era l'unico modo per non essere spazzati via dalla notte.”

 K. Ishiguro – Non lasciarmi



 
Febbraio 2019

Il viaggio di ritorno gli sembra l'equivalente di traversata oceanica su un veliero durante un uragano.

Ha la fortuna di essere relegato da solo sui sedili posteriori, perché Rhodey è rimasto a New York per aiutare Happy col trasloco e Natasha ha avuto la buona grazia di occupare il posto del passeggero accanto a Steve. Si preme i palmi sulle orbite e sente gli occhi sul punto di schizzar fuori. Un retrogusto acido gli punge la lingua e gli brucia la bocca dello stomaco. Spera di non vomitare sui tappetini. Spiaccica la fronte contro il finestrino quasi potesse fermare le convulsioni del proprio cervello, e sente solo le dita fredde del gelo che premono con insistenza oltre il vetro.

Scende dall'auto non appena si ferma, rischiando di caracollare a terra nel nevischio, e rivolge un cenno di sbrigativo, disinvolto saluto ai suoi due compagni. È certo di non ingannarli minimamente, ma in qualche modo deve pur salvare le apparenze. Riesce persino a togliersi cappotto e scarpe prima di fiondarsi nel bagno privato e trovare sollievo nel gabinetto, rimettendo solo bile inutile visto che fortunatamente è a digiuno dal pranzo. Si sente come quella volta in cui si è beccato un brutto ceppo d'influenza che l'ha debilitato, triturato e rimescolato a casaccio rendendolo una poltiglia umana informe. All'epoca era ancora al MIT, e Rhodey aveva passato tre notti a fare la spola tra la camera e il bagno per assicurarsi che fosse ancora vivo. Solo che questa non è influenza, e lui non ha alcuna intenzione di chiamare qualcuno al proprio capezzale, tanto meno qualcuno che non sia Rhodey.

Quando si sente di nuovo padrone di se stesso, per quanto possibile, si dà una rinfrescata e si distende a letto con poche speranze di rimanervi, un desiderio inesaudito nelle viscere ritorte contro se stesso. Cerca di soffocarlo, aprendo e chiudendo ossessivamente la scatoletta di velluto che ripesca dal cassetto del comodino. I due piccoli occhi di brillanti incastonati nell'oro che ricambiano il suo sguardo sono freddi, rilucono come ghiaccio gelido nella penombra. Lo accusano, silenzioso – non farlo, Tony – finché non richiude un’ultima volta il coperchio con uno schiocco netto ricacciandoli al loro posto. [1]

Non si accorge del sonno finché non ne cade vittima, e non realizza che è un sogno finché non sbarra di nuovo gli occhi nel buio denso e ondulato. Gli echeggiano voci conosciute in testa e non le sta immaginando, sono vere, reali, quelle parole le ha sentite davvero.

"Signor Stark..."

Scalcia via le coperte umide di sudore, col cuore a mille che gli sussulta in gola, e diventa ben presto una di quelle notti in cui si trova a vagare senza meta per il Complesso, macinando chilometri su chilometri nel tentativo di sfinirsi. Una di quelle in cui vorrebbe svitarsi la testa dal collo, poggiarla sul comodino e smettere di pensare fino al mattino dopo. In cui vorrebbe mettersi l'armatura e volare a velocità folle oltreoceano, per poi toccare base in un punto remoto del globo, godersi l'alba o il tramonto da qualche eremo solitario e tornare indietro a propulsori spianati facendosi scorrere accanto la notte un fuso orario dopo l'altro.

Nessuna delle alternative è applicabile, al momento, così continua a consumarsi i piedi sui pavimenti lisci, col freddo che trapela attraverso i calzini. Ogni due passi, un respiro, con un'espirazione e un'ispirazione a cadenzare le falcate. L'iperventilazione è dietro l'angolo, il batticuore è fuori controllo da minuti interi, ma si chiude nello stato di trance indotto dalla camminata meccanica, lo sguardo fisso sulle linee regolari delle piastrelle di ceramica e dei listelli del parquet, a seconda delle stanze che attraversa senza vedere, sfocate nella visione periferica.

Ha la cenere appiccicata addosso. Non ce l'ha davvero, ma ne sente la patina farinosa sulla pelle, mista a sabbia rossastra. Il fianco gli brucia, anche se la ferita è chiusa da mesi, e impone alle proprie mani di non toccarsela per non amplificare la sensazione viscida che gli invia.

"Non mi sento molto bene..."
 
È su Titano. Non è su Titano. È nel limbo, privo d'equilibrio, e deve cadere dalla parte giusta, quella reale.

"Non voglio morire, signor Stark.”

Prende un respiro enorme, rumoroso, a soffocare quella voce che gli spacca i timpani nonostante sia così flebile. Così spaventata. Si pizzica il ponte del naso duramente, lasciandosi forse un segno rosso in mezzo alle sopracciglia, e si impone di non aumentare il passo. Di non deviare dalla propria rotta concentrica per ritrovarsi in cucina, attaccato a un armadietto sottochiave. Non può cedere. Non deve cedere, anche se qualche tremito residuo lo scuote e lo implora di concedersi un bicchierino di scotch, di vodka, di tequila, di kerosene, di un qualsiasi liquore gli capiti a portata di mano. Serra la mandibola fin quasi a slogarsela e marcia a testa bassa. Peter non vorrebbe. Pepper non vorrebbe. A dispetto di tutto, sa che gli strapperebbero entrambi la bottiglia di mano.

Gli è capitato già altre volte, di essere ghermito dalla smania dell'astinenza combinata a qualche incubo troppo realistico, e nei casi più gravi ha fatto irruzione da Rhodey senza offrire spiegazioni, lasciandosi poi cadere a dormire sulla poltroncina in camera sua e confidando nel fatto che l’amico chiudesse poi a chiave la porta per difenderlo da se stesso. Ma adesso Rhodey non c'è, e si lascerebbe scivolare in un delirium tremens piuttosto che bussare alla porta di Rogers o Banner. Si sfrega con forza le braccia ad attenuare la pelle d'oca, e si impone di resistere almeno un’altra ora prima di cedere alla sua unica alternativa.

Venti minuti dopo sta bussando con nocche tremanti alla porta di Natasha, che la schiude con sorprendente rapidità. Lo trapassa con occhi troppo svegli per essere stata davvero addormentata, ma decide di non indagare sulla sua probabile insonnia; sarebbe comunque più produttivo interrogare l'intonaco. Lo fissa con fare inquisitorio, ma non troppo, e Tony sa di avere un'espressione abbastanza stravolta da non necessitare di spiegazioni.

«Ti va un drink, Romanov?» chiede senza mezzi termini, e quasi inciampa nelle proprie stesse parole per la smania che lo consuma.

Si pianta pollice e indice sulle palpebre sudate, a stropicciarle e farsi esplodere puntini luminosi davanti agli occhi. Sente addosso lo sguardo della donna, conscio che sta valutando le sue condizioni; gli sfrecciano immagini cruente davanti, nel buio, e trema. Non si sente se stesso. L’alcol è tangibile, informe: lo afferra e lo appende per i piedi, lo spancia con un coltellaccio e lo eviscera per soppiantare tutto ciò che ha dentro. Ghigna con denti di fuoco mentre gli strappa il cuore. Non è più se stesso. È un'ombra, un burattino vuoto, di quelli in cui si ficcano dentro le mani per far ridere i bambini. Li sente in sottofondo, mentre lo additano e si bisbigliano perfidie – verità – all'orecchio.

«Offri tu?» lo richiama la voce di Natasha, canzonatoria, più vicina.

«Non stasera,» ribatte lui, e spera che capisca l'antifona, corroborata da uno sguardo sfuggente che sfiora soltanto le sue iridi verdi oltre la barriera del proprio palmo.

È vuoto. È vuoto, orbita a casaccio attorno a centri di gravità che si trasformano in buchi neri liquidi incapaci di riempirsi. Non è in grado di controllarsi, non adesso; non vuole neanche toccarlo direttamente, l'alcol, solo averne un assaggio effimero per svuotarsi la mente. Nulla di più; non può concedersi di più. Cerca di comunicarlo a Natasha con lo sguardo, lo stesso che sembra ondeggiare fuori controllo.

«Va bene,» gli accorda lentamente lei dopo un breve silenzio, per poi scostargli con uno strano misto di brusca delicatezza la mano dal volto. «Passi, ma solo per questa volta,» mette in chiaro, a un palmo da lui e con sguardo ferino da Vedova.

«Contaci: detesto chiedere favori,» ribatte con un po' meno prontezza del solito, tallonandola poi lungo il corridoio.

Pochi minuti dopo è intento a frenare i tremiti scomposti delle proprie dita intrecciandole tra loro sopra il bancone, oltre che a seguire ogni movimento di Natasha intenta a trafficare nel cucinino tra sportelli e bicchieri. Gli versa due dita esatte di bourbon, centellinate e con molto ghiaccio a smorzarlo, poi prende per sé un bicchierino di vodka colmo fino all'orlo. Lo fa cozzare contro il suo tumbler, inneggiando a chissà cosa nel silenzio, e lo scola d'un sol sorso senza fare una piega. Tony fissa il liquido ambrato con la sensazione di avere uno spillo piantato nella lingua per ogni papilla gustativa. Gli si contrae lo stomaco e quando deglutisce gli sembra di avere un blocco di segatura in gola. Serra le dita fra loro in una morsa ferrea a impedirsi di prendere il bicchiere, poi vi poggia contro la fronte, premendo con forza contro le proprie nocche fino a farsi male.

«Stark, non mi hai fatta alzare nel cuore della notte per rimanere astemio, vero?» lo pungola senza inflessione Natasha, e sa che lo sta mettendo alla prova.

«Come se tu stessi davvero dormendo,» bofonchia in risposta lui, pungente.

Natasha non nega, e anche senza vederla può immaginarla gettar via il proprio sguardo per mascherarlo. Tony si decide a rialzare il capo, riprendendo a studiare il bicchiere e il suo contenuto. Lo berrà, non c'è dubbio. Si chiede solo se sia meglio dosare ogni piccolo sorso per assaporarlo al meglio, o se non sia più saggio mandarlo giù d'un fiato per poi tornare a soffocarsi testa e pensieri sotto al cuscino. Opta per la seconda via, senza però percorrerla fino in fondo: beve e rimane lì, col calore che gli avvolge bocca e stomaco, la lingua inebriata dal sapore deciso e stemperato da una punta di miele che adesso riesce di nuovo a riconoscere e a non considerare semplice fuoco liquido. Rimane , stremato, col suo ghiaccio alcolico in mano e senza aver risolto nemmeno uno dei problemi che lo tengono sveglio. Con un demone che lo riempie e poi lo svuota, soppiantando ciò che è per far ridere il suo pubblico invisibile.

Natasha gli toglie il bicchiere dalle dita e lui non oppone resistenza. Si sente stordito, ma non per l'alcol, di certo non per così poco. Gli rimbalzano mille frasi in testa. Sentite, immaginate, dette e non dette. È su Titano, è in Afghanistan, è poggiato al bancone di un bar, è sulla soglia di una villa con due figure che si allontanano, è sospeso tra terra e cosmo con una linea telefonica interrotta a far da àncora, è in una stanza buia con un flaconcino tra le mani e una porta che si chiude. Parla troppo quando non dovrebbe, e poi rimane sempre in silenzio, muto, con parole inutili che gli grattano in gola e pensieri sconclusionati a far da rumore di fondo.

Si accorge solo ora che Natasha si è poggiata al bancone lì accanto, e che lui ha di nuovo serrato tra loro le dita, col principio di un crampo a solleticargli spiacevolmente i palmi. Lei gli sfiora le nocche ancora escoriate, forse in un invito ad allentare la stretta, e lui fa l'esatto contrario, facendo slittare avanti e indietro la mandibola in un tic nervoso.

«Penso a Thanos, ogni volta,» sbotta poi, indicandole con un impercettibile cenno del mento quei segni lividi che sta sfiorando e che a quelle parole lambisce con più decisione, spostandosi poi sul rilievo sensibile della cicatrice sul polso.

Sente la faglia che ha nel petto allargarsi, vittima del terremoto che lo scuote internamente, e non riesce più a frenarsi, non riesce a rimanere ancora muto:

«Peter mi è sparito tra le braccia,» esala in un respiro con voce non sua, quel nome che gli si sfalda a metà strada tra cuore e bocca. «E non ho fatto niente,» aggiunge con un nodo in gola e quelle parole si formano spigolose come ciò che raccontano.

Lei rimane in silenzio, una mano ancora sulle sue; un invito a tacere, o forse a continuare.

«L'ho guardato, e basta. Gli ho detto che stava bene. Gli ho detto che stava bene... e non era vero

Ogni frase risuona come un'esplosione muta: enormi onde d'urto che si propagano nello spazio facendolo tremare. Sono confessioni che si sono addensate dentro di lui per mesi, comprimendosi sempre più, diventando testate atomiche pronte a liberare il loro potere distruttivo. May è stato l’innesco, la scissione fatale, l’ennesimo silenzio che avrebbe dovuto rompere lui. Risucchia un respiro tremante e scuote il capo, per poi alzarsi quasi di scatto, le mani che vanno a stringersi i gomiti fino a conficcarsi le unghie nella pelle. Si blocca davanti alla vetrata, cogliendo il proprio riflesso pallido contro il buio innevato.

«Quindi... tutto qui, penso a Thanos,» conclude vacuamente, stirando una mano di fronte a sé e fissando con una stilla d'odio vivo i segni rossi che la marchiano. «E non risolvo nulla.»

Natasha non risponde, né lui si aspetta che lo faccia. Si rende d'un tratto conto di quanto suonino fuori luogo quelle sue derive dettate dal poco sonno, dai farmaci e dall'astinenza che lo corrode un centimetro alla volta, pronta a gettarlo nel baratro del delirio.

«Non... credo di essere lucido,» conclude, con la voce che si arrochisce per le lacrime che sta reprimendo, conscio di quanto siano inutili. «Era... un drink pessimo, Romanov,» dichiara girandosi verso di lei, cercando a tentoni una sponda sicura e ritrovandosi solo in alto mare.

Lei gli rivolge un'occhiata indecifrabile. Spenta, come l'espressione che le incurva i lineamenti verso il basso. I suoi occhi diventano dischi opachi: verderame stinto e privo di riflessi.

«James mi è sparito davanti, e non ho nemmeno fatto in tempo a guardarlo in faccia,» mormora poi in un sol fiato, così piano che Tony trattiene il respiro per timore di coprire le sue parole. «Non che mi avrebbe riconosciuta, ma...» alza le spalle quasi con noncuranza, poi china il capo, rimane in sospeso e non completa la frase, senza alzare gli occhi.

Tony sente il vuoto che si espande attorno a loro, strisciante. Assorbe in silenzio quell'informazione, combattuto. Sa chi è Barnes; o almeno, conosce una parte di lui. Quella sbagliata. Quella che di tanto in tanto fa ancora capolino nei suoi incubi, nei grani sfocati di un filmato di sorveglianza. Ma ora cerca di immaginarsi James, l'uomo tormentato che Natasha si è portata nel cuore per decenni, e quel fotogramma di cenere si sovrappone a Pepper, all'istante di cui lui non è stato testimone. L'ha solo potuto ipotizzare, in mille modi diversi e sempre uguali. Ogni volta, è un punteruolo incandescente gli recide le arterie, che lo fa tornare ai respiri rantolanti e umidi di sangue che gli smuovevano le schegge nel petto, prima del reattore, prima di avere un cuore. Non sa come starebbe adesso, se avesse visto davvero quel momento. Se fosse stato lì e non l'avesse guardata negli occhi in quegli ultimi istanti. Ricorda la luce fioca in quelli castani di Peter, un attimo prima che diventassero grigi di cenere, e per quanto straziante la preferisce a uno sguardo sfuggito, a una connessione voluta e mancata.

Deglutisce in silenzio e non si espone, torna semplicemente ad affiancarla mentre la portata di quella confidenza gli si posa sulle spalle, a inspessire il sudario che sembra trascinarsi sempre addosso come il mantello di un re detronizzato e senza regno. Si pente di aver parlato, o forse no, e percepisce Natasha bloccata nello stesso limbo, ancora a capo chino, col peso di confessioni comuni eppure scomode tra loro. Si accosta a lei con titubanza, sfiorandole una spalla, e i suoi occhi felini scattano subito nella sua direzione, sospettosi, ritraendosi impercettibilmente da lui. Tony realizza quanto poco opportuno sia quel gesto e incrocia di nuovo strettamente le braccia porgendole il fianco, lo sguardo puntato oltre la vetrata come pochi istanti fa.

Natasha sospira appena, preme con decisione sul suo gomito e lo costringe a fronteggiarla di nuovo, per poi avvolgergli saldamente le braccia al collo, tesa sulle punte per arrivargli alla spalla e poggiarvi il mento. Tony scioglie le mani dal petto e la cinge ricambiando esitante la stretta, per poi rilassarsi del tutto e premere il volto contro la sua spalla. Inspira il suo odore ed è nuovo, sconosciuto, arduo da identificare; cerca di incanalarlo in corrispondenze note e trova solo tracce evanescenti che lo eludono.

Lei rompe il silenzio a un soffio dal suo orecchio:

«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra, con voce velata, e Tony sorride appena contro di lei a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.

«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata, a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei, come se quell'abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.

Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l'alto, a fluttuare incerto a mezz'aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.



 

Note:

[1] Per quanto io stessa trovi pacchiana una fede nuziale con un diamante incastonato, non dimentichiamoci che parliamo di Tony Stark, ovvero l'uomo più pacchiano del pianeta. Quindi, ecco qui spiegati gli "occhi di brillanti".



Note dell'Autrice:

Cari Lettori!
No, non mi sono dimenticata di questa long... è solo che questo è, in un certo senso, uno dei capitoli centrali e più importanti di tutta la storia: non a caso un suo stralcio fa da introduzione. Ho voluto rimuginarci un po' su prima di pubblicarlo, per essere certa che tutto tornasse.
Spero abbiate apprezzato questo nuovo sviluppo, ovviamente "telefonato" sin dal primo capitolo, ma che mi auguro sia stato egualmente godibile <3

Edit: Devo smetterla di pubblicare alle tre di notte, ché mi perdo i pezzi, ovvero la splendida fanart opera di
T612 (grazie, cara 
) che accompagna questo capitolo e che trovate a piè di pagina <3 E vi lascio qui il suo account Instagram [tilde_stuff] , pieno di belle cosine <3

Ringrazio infinitamente
Miryel, T612, shilyss e _Atlas_ per aver recensito gli scorsi capitoli e per supportare questa storia/esperimento un po' bislacco, e tutti voi che seguite in silenzio e/o aggiungete la storia alle liste <3
A prestissimo,

-Light-

P.S. Per la rubrica "Light consiglia libri", quello citato in apertura, Non Lasciarmi, è in assoluto uno dei più belli (e strazianti) che abbia mai letto. In fase di revisione mi sono resa conto che la scena finale tra Tony e Nat ricalca in un certo senso quella del libro, e ho quindi deciso di citarlo.
 
 ©T612

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Capitolo 14
*** Parte seconda - Capitolo 13: Purgatorio ***


.13.

Purgatorio


 
"Il labirinto non è la vita, o la morte”
“Uh, okay. E quindi cos’è?”
“È sofferenza,” disse lei. “Sbagliare e vedersi accadere cose ingiuste.
È questo, il problema. Bolivar parlava del dolore, non della vita o della morte.
Come si esce dal labirinto della sofferenza?”
J. Green – Cercando Alaska


Febbraio 2019, Complesso dei Vendicatori 

Schiva il primo montante, incassa il secondo sul fianco con un sibilo e scarta bruscamente di lato, individuando un'apertura nella guardia serrata di Natasha. È un'esca: lei scansa la testa mandando a vuoto il suo diretto e gli blocca poi in una leva dolorosa il braccio, costringendolo su un ginocchio con una semplice pressione. Tony si solleva ruotando di scatto nel tentativo di assestarle una testata nell'addome e riesce a farle perdere l'appoggio per un istante sfruttando il proprio slancio, per poi ritrovarsi a impattare con la schiena sul pavimento del ring, sbalzato via da uno sgambetto ben calcolato. Natasha gli incunea un ginocchio tra le gambe, inchiodandolo a terra e mozzandogli il fiato per il carico che gli pianta sull'inguine e sulle fluttuanti. Gli sta ancora torcendo il braccio, e si affretta a battere il palmo libero a terra a segnalare la sua resa.

«Oggi sei distratto,» constata spiccia lei, facendogli la grazia di alleviare la pressa sui suoi punti più o meno vitali, o che ha comunque un discreto interesse a preservare.

Si rimette a sedere, accusando una fitta al fianco che non ha molto a vedere col combattimento serrato che ha appena sostenuto, e si tasta la cicatrice slabbrata da sotto la maglietta con l'impressione falsata che sia troppo calda. La palestra oscilla impercettibilmente attorno a lui, come se qualcuno ne stesse scuotendo con forza le pareti. Si stropiccia gli occhi pesti di sonno con la base del palmo e cerca di umettarsi la bocca che continua a inaridirsi dopo pochi istanti. Non beve da una settimana, ma continua ad avere un retrogusto d'alcol in bocca, come se quel bourbon di troppe notti fa gli si fosse sedimentato sotto alla lingua.

«Non... non è stata una mossa corretta, quella,» dichiara poi, deviando all'ultimo istante da una frase che non ha alcuna intenzione di pronunciare.

Non si sente molto bene da quando si è svegliato. C'è una nebbiolina persistente davanti ai suoi occhi e sente gli organi interni che passano a ripetizione dentro un imbuto, strizzandosi ed espandendosi a intervalli discontinui. Sa che avrebbe dovuto parlarne con Bruce, invece di salire a testa bassa sul ring, ma è sempre stato troppo testardo e orgoglioso per il suo stesso bene, e ne sconta ogni volta le conseguenze. Si rimette in piedi nonostante le gambe cedevoli, sotto lo sguardo intento di Natasha, che gli sembra più accigliata del solito. Si asciuga inutilmente i palmi sudati sui pantaloncini, strizzando la stoffa nel tentativo di aggrapparsi a qualcosa di fisico attorno a lui.

Ci sono le loro voci in sottofondo, indistinguibili. Gli ronzano nelle orecchie come api insistenti, pronte a pungerlo. Si sta sforzando di tenerle a bada, di concentrarsi sullo scontro fisico e sui colpi che assesta e subisce: di solito funziona, ma oggi ad ogni colpo che mette a segno sente riecheggiarle nei timpani, una vibrazione acuta e fastidiosa che lo fa sentire privo d'orientamento, come se avesse la labirintite. Guarda Natasha di sottecchi e il solo pensiero di abbracciarla come qualche sera prima gli scatena un'ondata di brividi e vampe di calore terrorizzato. Ha la cenere addosso, ce l'ha sulle mani, in bocca, gli fa bruciare gli occhi, gli intasa i polmoni.

Rialza di scatto la testa e si rimette a forza in posizione di combattimento, con una guardinga Natasha che lo imita assecondando i suoi propositi autolesionisti. La cicatrice sul polso si tende e la sfrega senza pensare sul fianco, ad attenuare un prurito inesistente; gli occhi della donna guizzano a seguire il gesto. Tony sa di essersi tradito, e dà inizio allo scambio slanciandosi in avanti senza nemmeno pensare a cosa stia facendo, coi sensi ovattati che sembrano registrare in ritardo colpi e movimenti. È di nuovo disorientato e il mondo si inclina, lo inganna con sbuffi di fumo spuntati dal nulla. Un pugno lo raggiunge nello stomaco, smorzato; non sa se Natasha l'abbia trattenuto più del solito o se sono i suoi sensi ad essere fuori fase. Incespica e cade di fianco a terra parandosi di riflesso col palmo; sente la scossa dell'impatto che gli riverbera in ogni singolo osso. Sono fragili, tintinnano come fogli d'alluminio compattato. Sbatte le palpebre a ripetizione, ma la sua vista rimane sfocata.

«Stark, non hai una bella cera...»

«Sto bene,» quasi ringhia lui, mandando giù a fatica un groppo impastato di saliva e sabbia e cenere.

Fa per rimettersi subito in piedi, ma si sbilancia e ricade pesantemente a terra di sedere, in un modo che forse sarebbe anche risultato comico, se non fosse per il conato che lo piega in due subito dopo. Strizza gli occhi e la stanza si capovolge, inizia a mollificarsi e a diventare gelatinosa, sembra colargli addosso in rivoli di sudore freddo.

«Stark?»

La voce di Natasha gli arriva da un megafono rotto e non gli riesce di riaprire gli occhi mentre cerca di contenere la nausea e i brividi. Il pavimento del ring diventa sabbia, e getta fuori un respiro sforzato dal naso, cercando di scacciare quella sensazione irreale. È irreale, è irreale, non è davvero laggiù, non è su Titano.

"Tesoro, stai bene?"

"Signor Stark, che le succede?"

Smorza i richiami istintivi che gli salgono alle labbra, mentre le loro voci si intrecciano e sovrappongono a quella di Natasha, che percepisce china su di lui con una mano sul suo volto mentre cerca di strappargli una risposta. Ma lei non è davvero qui: non può essere qui, perché lui è sulla Benatar, tra le stelle fredde. Sotto i suoi palmi c'è il pavimento metallico dell'astronave, e oltre le palpebre chiuse lo aspettano occhi stellari e immobili. Il suo cuore batte così rapido che non distingue le singole pulsazioni, avverte solo quelle mancate e il muscolo cardiaco che sbatte contro le costole come se volesse romperle per schizzargli via del petto.

Sta andando a fuoco, realizza con sconcertato orrore, sentendo le carni che bruciano scoperchiando le ossa e il fetore di ferro e plastica bruciati che lo prende alla gola. Gli sfugge un lamento acuto, un'istintiva richiesta d'aiuto, come se qualcuno potesse trovarlo in mezzo allo spazio profondo in una navicella in fiamme, e porta una mano al volto ad attutire tutte le sensazioni che gli si stanno abbattendo addosso. Poi è lui ad abbattersi a terra di schianto, precipitando nel buco nero che si spalanca sotto di lui.


 
§

 
Voci entrano ed escono dalla sua coscienza, mormorii e sussurri che gli avvolgono la testa e si disperdono come acqua nebulizzata di un torrente. Non è acqua, però, quella che sente.

Galleggia su un mare d'ombra, immobile, ma sta ancora bruciando. Una chiazza di petrolio a pelo d'acqua. Il fuoco gli divampa nello stomaco e risale ogni arto, gli carbonizza occhi e lingua, arde nei suoi polmoni. Può essere estinto in un solo modo, con lo stesso liquido che lo alimenta, e si contorce ricercandolo tra gli spasmi che lo squassano.

«... dose massima... rischiare il coma...»

«... turni... Rogers?»

«... sì... tutti...»

Spilli di conversazioni che trapassano la febbre, e sbatte gli occhi nel buio puntinato di stelle enormi e troppo vicine. Mani che lo immobilizzano, che gli premono sulla fronte e che gli rimboccano le coperte che scalcia via. Serra i denti per impedirsi di delirare, ma parla lo stesso, le parole mozzate dai tremiti.

Li chiama. Sa che li chiama, anche se non possono più rispondergli, e i loro nomi hanno il sapore del sale, delle speranze infrante. Qualcuno lo stringe nel delirio tenendolo a galla, mani forti e salde e familiari a cui si aggrappa.

Sprofonda, poi riemerge. Annega, respira, ingoia acqua e torna sotto, nel mare ora nero, ora d'ambra, tra onde acide e fredde. Si aggrappa a relitti fragili. Sprazzi di nitidezza, cristallini nella massa di inchiostro che lo avviluppa. Banner sulla sedia accanto al letto, gli occhiali sul naso, una mano a stringere un libro e l'altra a reggere un termometro. Rhodey sulla sponda del materasso, che parla, racconta qualcosa che non comprende nemmeno, monocorde, ricordi adolescenziali di una vita e mezzo fa. Rogers lì in piedi, una sentinella sull'attenti che gli rivolge occhiate limpide e miti. Natasha accanto a lui, silenziosa, gli occhi in ombra, le dita che gli arricciano i capelli scivolandolo nel sonno.

Pepper che lo bacia, che si stringe nuda a lui sotto le lenzuola. No, quello non è reale. Peter che si appoggia a lui per fargli le orecchie da coniglio di soppiatto. Nemmeno quello è reale. Entrambi seduti accanto a lui, uno per lato, a parlare e parlare e parlare, a riempire il suo silenzio stringendogli le mani. Non è reale, non è reale. Ma ci crede lo stesso.

Bicchieri d'acqua e compresse. Aghi sottopelle. Bile e battiti frenetici e scorpioni e ragni. Lampi, percosse invisibili e lacrime. Vuole morire. Non vuole morire. No, no, non vuole morire, la morte è troppo simile a un portale senza sbocco, a un buco nero, ad acque profonde e torbide che gli rubano il respiro.

«Non stai morendo, Tones. Non stai morendo,» ripete qualcuno, distorto, e non sa se sia reale o nella sua testa.

Lo ascolta comunque, e non sta morendo, si convince, non sta morendo. È Iron Man. È Iron Man e non può morire. Il ferro non muore: si corrode e arrugginisce, si sgretola. Lui si sgretola, osso dopo osso.

Non se lo merita, di morire. Urla, ed ha di nuovo l'armatura addosso, è invincibile e troppo fragile, la sua corazza si sfalda e si ricompone in un ciclo infinito finché non si fonde a lui, donandogli un vuoto allo stomaco e l'impressione fasulla del volo che precede la caduta.

 
§
 

Schiude gli occhi e la luce è accecante, anche se è solo penombra – grigia e viola, brulicante di puntini. Apre appena le labbra, una fessura sottile che libera un gemito rauco: qualcosa, qualcuno, si muove accanto a lui facendo affondare il materasso.

«Pepper,» chiama, appena udibile, e ci crede davvero, ci crede con tutto se stesso finché non distingue i lineamenti duri di Rhodey, contorti in un'espressione addolorata.

Non gli risponde e forse pensa che sia semincosciente e stia solo delirando. Chissà quante volte l'ha chiamata inutilmente. Quante volte ha costretto lui e tutti gli altri ad ascoltarlo. Sente che gli scosta i capelli dalla fronte, premendovi il palmo ampio per testargli la temperatura. Sospira insoddisfatto, gli sistema meglio le coperte a coprirgli le spalle e rimane in silenzio, immobile, per un tempo che gli sembra lunghissimo. Tony respira appena, una molecola d'aria alla volta, il volto sprofondato nel cuscino. Ha una flebo nel braccio e si sente sporco; gli gira la testa e ha freddo, dopo l'incendio ha un freddo terribile, ma non riesce nemmeno a muoversi per rannicchiarsi meglio sotto le coperte. Richiude gli occhi, intorpidito.

Lo scatto della porta gli trapassa i timpani, e qualcuno si affaccia dallo spiraglio buio.

«Vuoi il cambio?» chiede Natasha, sottovoce.

«Sì, grazie,» replica Rhodey, e la sua voce è roca, sfibrata, come se avesse urlato per ore.

«Novità?»

«Continua a delirare, ma la febbre si è abbassata.» Lo sente deglutire rumorosamente. «Banner che dice?»

«Che siamo entrati nella curva positiva e che possiamo sospendere il lorazepam,» risponde concisa lei, e il materasso sprofonda ancora quando si siede accanto a lui e armeggia poi con la sua flebo, rimuovendo l'ago con un pizzico acuto e metallico che gli risale la vena. «Ha detto che ha visto di peggio, e che in fin dei conti è un bene che abbia smesso di bere gradualmente.»

Tony è certo, anche oltre il drappo torrido della febbre, che vi sia un pizzico di compiacimento nella sua voce. Rhodey sospira profondamente, in quel modo esasperato di solito associato a quel migliore amico che gliene fa passare di tutti i colori.

«Mi farà prendere un infarto, Cristo, ed è lui il cardiopatico,» sbotta snervato, ma con una sensibile nota di sollievo.

Tony si trattiene dal parlare perché è certo che quello sia un ottimo modo per farglielo venire, quell'infarto. E non riesce comunque a racimolare abbastanza inventiva per una replica arguta. Un brivido gli risale la spina dorsale, evidente, e Rhodey gli stringe di riflesso un braccio come a impedire ad esso di diffondersi.

«Ci siamo andati vicini tutti,» risponde Natasha, pragmatica ma con una punta di rimprovero. «Vai a riposarti, Rhodes. Il mio o quello di Steve dovrebbe essere l'ultimo turno, poi ci penserà Bruce,» dice con sicurezza.

Sente Rhodey che lo scrolla appena per la spalla a mo' di congedo, per poi alzarsi dal letto e imboccare a passi pesanti la porta. Natasha rimane in silenzio e Tony tiene gli occhi chiusi, cercando di capire se le ondate di nausea che sente siano abbastanza preoccupanti da doverla avvertire. Un altro brivido, e stavolta porta appena le ginocchia al petto, stupendosi di non sentire una patina di ghiaccio che scricchiola quando si muove. O di non sentire mille esseri zampettargli sulla pelle. Ragni, di tutte le creature orripilanti a questo mondo. Ragni e tarantole. Le intravede agli angoli della sua visuale, sui muri, si chiudono su di lui in un'orda brulicante.

«Sei sveglio,» dice d’un tratto Natasha a mezza voce, con la stessa inflessione che userebbe per proferire un "tana per Tony".

Lui si forza ad aprire uno spiraglio negli occhi, trovandosi a fissarla in volto. La replica pungente che gli sale alle labbra emerge in un gracidio incomprensibile, vanificando il suo intento sarcastico. Crede di vedere un fioco sorriso sul suo volto, ma non ne è certo.

«Se già cerchi di rispondermi per le rime, stai meglio di quanto pensiamo,» commenta poi, raccogliendo le gambe sotto di lei in una posizione più comoda.

«Non...» gracchia Tony, e si schiarisce la gola sentendo un sapore metallico e acido in bocca. «Non sto così male,» riesce ad articolare, debolmente.

Lei scrolla la testa, alzando un sopracciglio.

«Tutto qui? "Non sto così male?"»

A Tony sfugge un sorriso fiacco che gli tende le labbra screpolate.

«Cosa pretendi, da un uomo appena scampato alla morte?» dice, con un filo di voce.

«Il solito esagerato,» lo rimbecca lei premendogli svelta una mano gelida sulla fronte.

Lui si ritrae, pentendosene all’istante quando sente un'incudine piombargli sul cranio a quel minimo movimento.

«No, non toccarmi… faccio schifo,» bofonchia in uno sprazzo di consapevolezza, sentendosi come se qualcuno l'avesse gettato in un tritacarne.

«Non è la tua ora peggiore: ti abbiamo fatto un bagno prima,» ribatte Natasha, riuscendo nell'intento di distruggere quell'ultimo barlume di dignità che gli rimaneva, e riuscendo anche in quello di misurargli la febbre. «È ancora alta. Dormi, ne hai bisogno,» gli intima poi, seccamente.

Tony sospira senza energia. È esausto, ma dietro le palpebre lo attendono ombre non più informi e spettri traslucidi. C'è Pepper nel buio, distesa accanto a lui. C'è Peter seduto ai piedi del letto, appena distinguibile. Li vede. Non dovrebbe vederli.

«Non ho sonno,» ribatte a stento, combattendo l'impulso di chiudere gli occhi.

«Bugiardo.»

«Non voglio dormire,» si corregge quindi, scosso da un altro brivido che gli fa vibrare le vertebre come sonagli.

Natasha non risponde. Aspetta, intuendo chissà come che ha altro da dire, ed è come se con quella pausa gli tirasse fuori le parole: gli scivolano dalle labbra come un ruscello appena sgorgato.

«Sono qui,» sussurra di getto, senza riuscire a frenarsi, e forse la febbre è davvero troppo alta e dovrebbe tacere. «Li... vedo, anche adesso, e so che non...» prende un respiro troppo grande, doloroso, stringendo il cuscino con forza, la poca che sente nelle mani, «... che non è possibile,» esala infine con la bocca impastata, soffocando un singhiozzo prima che si formi del tutto.

Sente gli occhi farsi lucidi lungo le ciglia. Non vuole vederli, anche se ne ha bisogno, non vuole riscivolare nei suoi mondi onirici fasulli. Vuole di nuovo un sonno senza sogni, di quelli neri e profondi che si fanno dopo una sbronza. Blackout totale. Si sente già oltre l'orlo dell'incoscienza e vorrebbe strapparlo. Non può ricominciare da capo, non può dare inizio a un ciclo infinito di oblio e agonia, un eterno ritorno alcolico.

«Non sono qui,» replica lei, mestamente, un dato di fatto scontato che però diventa più reale nel sentirlo pronunciare da altri.

La intravede voltarsi appena, sente un click e la stanza viene irrorata dalla luce soffusa dell'abat-jour che gli fa bruciare gli occhi. Rimane accecato, ma loro spariscono dissolti dal chiarore, miraggi mai esistiti. Vede Natasha, vera e reale accanto a lui, con più occhiaie del solito, una felpa decisamente enorme e non sua addosso e una piega corrucciata a segnarle le sopracciglia.

«Bruce ci aveva avvertito di non tenerti al buio. Immagino avesse ragione,» dice senza perdersi in chiacchiere, fattuale come sempre. «Dormi,» ripete poi, intimandogli con lo sguardo di seguire quella direttiva.

Tony vorrebbe chiudere gli occhi, ma sente il peso dell'oscurità addosso, liquida, densa. Ha ancora freddo e galleggia in un mare ghiacciato, con esseri spiraliformi che si contorcono negli abissi, pronti a ghermirlo.

«Potrei… avere incubi...» mormora, e c'è un tremito che gli scuote la voce, incontrollabile.

«Ti sveglio,» completa lei prontamente, con una sicurezza che lo disorienta.

«Dillo anche a Rogers,» si obbliga ad aggiungere, odiando la sola prospettiva di mostrarsi così vulnerabile in sua presenza.

«Rimango io,» ribatte lei. «Ora dormi, Tony,» ripete ancora, un ordine, ma con la voce che si ammorbidisce sul suo nome.

Lui scuote la testa accaldata, sfregando contro il cuscino, e sa che potrebbe comunque essere lasciato in balia di incubi ormai realizzati. Non ha garanzie, ha solo un abbraccio fragile, gesti che non comprende fino in fondo e mezzi non detti. Tiene gli occhi aperti, quasi sbarrati, cerca quelli di Natasha e ha paura a crederle; c'è un pugnale che gli preme contro la schiena e si chiede quando gli affonderà tra le costole come l'ultima volta in cui si è fidato di qualcuno. Trattiene a forza le lacrime che minacciano di rigargli il volto, come fosse più un modo per indurre l'alcol ad abbandonare pian piano il suo corpo, depurandolo, che una vera esternazione di tristezza. Di sconfitta, di frustrazione e nulla, il nulla che gli stringe il petto. Le ricaccia da dove sono venute e rilascia un sospiro tremante, umido. È stanco. È così stanco.

«Ti sveglio,» mormora di nuovo Natasha con più decisione, e nel dirlo si distende accanto a lui, vicina.

Lo circonda con un braccio da sopra le coperte, attirandolo a sé come qualche sera fa, quando il mondo aveva smesso di crollare per un istante. Tony respira il suo odore ancora estraneo e stavolta vi trova una nota rassicurante, boschiva, che gli dà l'impressione di giacere in una radura nel folto di qualche foresta. Si lascia stringere inerte, le braccia raccolte al petto come un bambino, perdendo lucidità in quel tepore uno spiraglio di luce alla volta. Mentre cede al sonno e alle inquietudini, sente che gli posa un bacio impalpabile sulla fronte bollente, ad accompagnarlo nel buio.

«Fidati.»



 


Note: 

- Il delirium tremens può scatenarsi in modo repentino e inaspettato circa una-due settimane dopo l'ultima assunzione d'alcol. Tutti i sintomi riportati sono realistici, anche se ognuno li sviluppa con gradi d'intensità e combinazioni diverse. Il vedere e sentirsi addosso ragni/insetti, per esempio, è un sintomo molto comune (formicolio) e si consiglia per questo di tenere i pazienti in piena luce, onde attenuare allucinazioni simili.
- Il lorazepam (Ativan) e il diazepam (Valium) sono entrambi benzodiazepine: il primo è più potente e viene smaltito più in fretta, mentre il secondo è più leggero ma rimane più a lungo nel sistema, di qui la scelta di differenziarne l'uso nel corso della storia a seconda della gravità dell'astinenza. Qui chiudo il bugiardino e perdonate la pignoleria :')
- Nella citazione d'apertura i protagonisti del libro Cercando Alaska citano Il generale nel suo labirinto di Gabriel G. Màrquez; il generale in questione è appunto Bolìvar.



Note dell'Autrice:

Cari Lettori... eccoci qui! Al punto clou (?) della faccenda, forse. O meglio, a un punto d'inizio. 
Il capitolo poggia le basi delle varie interazioni presenti su quella scena di Iron Man 2 in cui Tony e Natasha parlano prima della disastrosa festa di compleanno a Malibu, oltre ai vari momenti di debolezza esternati da Tony in Iron Man 3. È molto bravo a dissimulare e cercare distanze, ma si può fare ben poco quando si è colti da un disagio che da puramente mentale diventa anche fisico e debilitante. Ricordo che gli strascichi di space dementia sono ancora ben presenti, e sono solo enormemente amplificati dai deliri d'astinenza.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e/o recensito fin qui <3
Alla prossima,

-Light-

 

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Capitolo 15
*** Parte seconda - Capitolo 14: Ritmo ***


.15.

Ritmo

 

 

“E, a partire da quel momento, non avevo più un solo passo da fare,
il terreno camminava per me in quel giardino dove da tanto tempo
i miei atti avevano smesso di accompagnarsi a un’attenzione volontaria:
l’Abitudine mi aveva preso tra le sue braccia
e mi accompagnava fino al mio letto come un bambino piccolo.”

M. Proust – Alla ricerca del tempo perduto

 

 
 

Febbraio 2019, Complesso dei Vendicatori
 

Quando finalmente Bruce gli dà il via libera per alzarsi dal letto – ignaro che abbia già ampiamente sfruttato le ore notturne per misurare in lungo e largo la propria stanza – la prima cosa che fa è fiondarsi in cucina ancora in pigiama e versarsi una generosa dose di caffè fumante. Coglie l’occhiata bonariamente esasperata di Rhodey, affacciato sulla soglia della stanza. Lui lo scruta furbetto da dietro la tazza, alzando le spalle.

«Meglio caffeinomane che alcolista, no?» commenta, con la voce che gratta contro la gola per averla usata troppo poco nell’ultima settimana.

Rhodey scrolla la testa e sopprime chiaramente un sorriso, irrigidendo il volto in modo non molto convincente, per lui che lo conosce da una vita.

«Ti tengo d’occhio,» dichiara invece, con un gesto esplicativo con indice e medio verso di lui che vola tra le proprie pupille e le sue, e anche in quell’atteggiamento severo il suo sollievo è palpabile.

Tony alza la mano libera in segno di resa e lo osserva defilarsi, poi tuffa di nuovo il naso nel caffè nero e si poggia alla credenza sentendo le gambe deboli. Si sente debole in generale. Fiacco, un sacchetto di carta svuotato che un bambino si prepara a far scoppiare, per poi rendersi conto che ha troppe falle per sortire l’effetto desiderato. Sospira e beve un sorso di liquido amaro e corroborante, trovandolo insipido rispetto a quello a cui ha abituato la propria bocca negli ultimi mesi.

Sente una decisa morsa che lo prende alla bocca dello stomaco, a ricordargli che può prendere tutte le medicine che vuole, ma che è prima di tutto lui a doversi difendere dalla bestia annidata nei suoi visceri. I suoi occhi vengono catturati dall’armadietto degli alcolici e vi rimangono infissi come un coltello sferrato nel legno. Stringe il manico della tazza e sorseggia il caffè, con un tremito che è in parte fisico, in parte frutto dello sforzo mentale che sta facendo per non lasciarsi sopraffare.

Non è stato così difficile, la prima volta. Forse perché, da un certo punto in poi, il pensiero di doversi presentare a Pepper ogni mattina gli dava un motivo per apparire sobrio; forse perché all’epoca non aveva più – o ancora – dei motivi così seri per consumarsi il fegato. Forse, semplicemente, perché poteva ancora spacciarlo per un divertimento e uno stile di vita, e non come una tabella di marcia segnata da bottiglie vuote per uccidersi pian piano.

Fissa il fondo della tazza, coperto dall’ultimo dito di caffè. Sta pensando, disquisendo con se stesso. Non ricorda l’ultima volta in cui abbia rimuginato lucidamente su qualcosa, men che meno su se stesso e la propria condizione. Gli sembra di entrare in campo aperto sotto il fuoco serrato dei suoi stessi pensieri non più annebbiati, ma la mitragliata che si aspettava non arriva. C’è solo qualche sparo soffuso, distante, pochi bossoli che rimbalzano su una terra di nessuno. Pensieri... banali, innocui.

Pensa che è una bella giornata, anche se il vento inclina con impeto le cime dei pini e la neve è ancora ben radicata al suolo. Bianco su verde su azzurro, e poi di nuovo bianco negli stracci di nubi che avanzano pigri nel cielo terso. 

Non si era accorto di quanto fossero falsati i propri sensi, prima; di quanto corta fosse diventata la sua vista e quanto inaffidabili il tatto e l’udito. Il suo gusto è ancora leggermente sballato, con note acidule e stantie che non ha mai associato al caffè a patinargli la lingua, ma non gli sembra più di respirare alcol. Il piano della cucina è di solido marmo sotto i suoi polpastrelli, e il salotto è nitido, con linee regolari a definirlo. La sala comune è silenziosa, ma distingue il ronzio del frigorifero e lo stormire attutito delle fronde all’esterno, coperti fino a poco tempo fa da un’interferenza di fondo, un rotore d’aereo piantato nei timpani.

Un pensiero un po’ più forte degli altri risuona con un lieve boato; un’onda d’urto appena percettibile che gli invia comunque un dolore fantasma al costato. Lo scaccia, tappa le orecchie, ma quel suono vi si insinua lo stesso, venendo buttato fuori a forza in un sospiro muto: e adesso?

Rimane poggiato al bancone, volendo far scorrere un altro po’ di tempo inutile e vuoto davanti a sé. Il primo segmento di una lunga retta che si dipana da quel punto verso l’infinito. Si proietta lontano, troppo lontano, così si costringe a rimanere nella scatola temporale dell’oggi e del qui. Adesso... un toast, sperando di non carbonizzarlo. Una doccia bollente che occupi almeno mezz’ora. Una sistemata al pizzetto sfatto, magari. Poi deve passare da Bruce per farsi prescrivere una dieta in grado di rimettergli un po’ di carne sulle ossa. Magari riesce a convincere Natasha che è abbastanza in forma per un round di boxe... e a quel punto sarebbe già metà giornata, quasi sera, quasi un altro giorno. E poi un altro, e un altro.

Gli torna in mente Natasha che danza in punta di piedi nel cuore della notte: passi studiati, cadenzati, uno dopo l’altro in sequenza e in crescendo. Un ritmo apparentemente semplice da seguire, ma con dietro uno studio di anni per il passo più semplice da ripetere poi infinite volte. 
Un-due-treun-due-tre.

È fisica, è meccanica. Leve e forze e baricentri, gli stessi che muovono i fili del mondo e che lui è già in grado di individuare. Di comprendere, con un po’ di sforzo. Deve solo... applicarli, rispolverare il principio di azione e reazione per davvero. Un passo alla volta. In punta di piedi. Nel vuoto, in bilico su una fune.

Finisce il caffè in un sorso e si decide a staccarsi dal bancone per rovistare nelle credenze alla ricerca di qualcosa con cui fare colazione, sperando di non dar fuoco alla cucina.

Un-due-treun-due-tre.

 

§

 

Marzo 2019, Complesso dei Vendicatori
 

La routine che riesce a ricostruire, sebbene un po’ a sobbalzi e con molte avarie, come un’auto d’epoca maltenuta che si rimetta in moto, fa scorrere i suoi giorni. Tutti uguali, tutti viscosi come melassa, ma quasi indolori.

I bordi della voragine nel suo petto smettono di allargarsi, si fissano in un buco nero perenne che minaccia costantemente di risucchiarlo. Riesce a sentirlo nella sua pienezza, ora, non più offuscato. Esiste, è l’altra bestia in agguato nei suoi sogni; ma visto che esiste lo può vedere, e sentire, e arginare. Riesce ad ancorarsi da qualche parte nel buio, troppo vicino al centro e costretto a scalciare per rimanervi fuori. Ma le bottiglie d’alcool rimangono piene e sull’attenti sulle loro mensole, e qualcuno dei suoi pensieri riesce a sfuggire al vortice per proiettarsi verso l’esterno, verso… qualcosa, un punto di fuga all’orizzonte che non ha ancora disegnato ma che deve esistere per forza.

Rhodey ritorna una figura ai margini della sua visuale. Gli orbita attorno, a distanza, come se la forza di gravità che esercita su di lui si fosse affievolita, ma è sempre lì, a fargli da satellite. Entra nel suo spazio quando sono nella stessa stanza, ma non lo cerca quando sparisce. Tony sa che ha ancora paura. Paura di aprire la porta della sua stanza e trovarlo catatonico, o peggio. O peggio, soprattutto. È quel tipo di paura che non può strappargli di dosso in un paio di settimane, forse mai, ma si impegna ad allontanarla almeno da se stesso.

Si destreggia tra una giornata e l’altra come può, all’inizio, sbanda da un’ora all’altra e brama e teme la sera al contempo, quando rimane solo nel buio coi propri pensieri. L’insonnia rimane la sua amica fedele, gli tende la mano ogni volta che cerca di chiudere gli occhi, gli confonde la vista e poi lo precipita in sonni inquieti che gli fanno percepire quanto sia vuoto il suo letto singolo, quanto fredde le coperte. Sogna Pepper, la sogna quasi ogni notte. Si sveglia di scatto, avvampando, e rimane rattrappito nel suo letto singolo sapendo che la sua mano incontrerà solo il vuoto e non la curva delicata dei suoi fianchi, né le ciocche lunghe sparse sui cuscini. Sono tante, le notti in cui riprende a percorrere chilometri e chilometri da un capo all’altro del Complesso nel tentativo di scrollarsi di dosso quei picchi di desiderio inconcludenti e rivolti verso il nulla, che lo accendono e spengono come un fiammifero a un soffio di vento gelido.

Nonostante tutto, nonostante l’insonnia, l’incostanza e il suo essere quasi nevrotico, si sforza di mantenere un atteggiamento civile con gli altri. Un sorriso e una mezza parola a Rhodey, uno sguardo grato a Banner, un insulto rimangiato a Rogers. Ci prova, a tornare se stesso, quello che tutti conoscono, ma per la maggior parte del tempo evita i suoi ex-compagni, schivo come non è mai stato.

Evitare Natasha è impossibile, perché lei conosce la solitudine ed è brava a insinuarsi in quella degli altri, che lui lo voglia o meno. Prova anche a fidarsi, ma gli è sempre stato difficile farlo a parole: di solito sopperisce coi gesti, ma adesso gli vengono meno anche quelli. Altre volte sente che finirebbe per esasperarli finendo per farsi male, e li trattiene. Trattiene affetto e le sue esternazioni come ha sempre fatto, col modus operandi di chi si è ostinato a rendersi scostante per anni e anni pur di evitarsi strappi e lacerazioni che avrebbero disfatto le cuciture appuntate al suo cuore. È stato un percorso faticoso e non indolore, quello di scostare il sipario dalla propria anima per farla intravedere ad altri, col costante timore di esporsi troppo, di scegliere gli spettatori sbagliati. Ha scelto quelli giusti, che sono diventati loro stessi attori sul suo palco, ravvivando il suo spettacolo e trasformandolo grottesco a commedia piena e viva. Ora si ritrova con parti mancanti e dei fili recisi che gli penzolano dal cuore, dove fino a poco meno di un anno prima era cucito qualcuno, qualcosa. Persone perdute nella cenere che sfrega ogni giorno su quelle ferite infette.

Non sa come dovrebbe appuntarsi al cuore qualcun altro, scostare di nuovo il sipario col rischio di veder crollare l’intero palco. Non sa fidarsi davvero. Anche se vorrebbe, ora più che mai. Così rimane immobile, muto, lasciando che sia Natasha ad agire.

Alimenta quei silenzi condivisi, sospesi, di pensieri che poggiano l’uno sull’altro a sostenersi e integrarsi. Dei silenzi che aumentano, sembrano farsi abitudine e poi finiscono per diventarla di tacito accordo. Parentesi di quiete che vanno a punteggiare le costanti turbolenze dei suoi pensieri più lucidi. Si siedono fianco a fianco in palestra e tacciono dopo essersi sfiniti mente e corpo, rimangono seduti a tavola dopo cena lasciando scorrere insieme i minuti che li separano da un’altra notte insonne, se ne stanno entrambi sui gradini del patio a tarda notte, a guardare l’universo della volta celeste che continua a scorrere, indifferente alla cenere che lo occlude.

A volte, gli riesce troppo faticoso essere Tony Stark, o chiunque altro se è per questo. Vorrebbe tornare a imbozzolarsi nelle coperte, chiudere gli occhi e lasciarsi scorrere il tempo addosso, farlo andare avanti mentre lui aspetta il momento giusto per uscire dalla sua crisalide di ferro ormai arrugginito. Lo fa, una volta, o almeno ci prova. Rimane a letto per l’intera giornata, con gli occhi semichiusi che sfogliano pagine e filmati passati. Si perde in se stesso, guardandosi dall’esterno. Pensa che potrebbe rimanere così un altro paio di giorni, a dissolversi pian piano, a vivere in un altro tempo: gli sembra sempre che i suoi pensieri rallentino in quella sorta di beatitudine letargica in cui è pericoloso chiudersi e ancor più pericoloso credere.

Sfiora quell’idea, la accarezza, la lascia a galleggiargli nelle sinapsi fino a sera e poi quella finisce per scivolare via, come trascinata a valle dalla corrente. Preme sulla cicatrice che gli segna il polso, e sente il fantasma di un dolore lontano. Nessuna voce a incalzarlo, nessuna ombra ai margini della visuale, eppure porta le gambe oltre la sponda del letto e si alza, intorpidito ma pervaso da un formicolio che lo invita a non stare fermo. Simile, molto simile a quello che lo portava inevitabilmente in laboratorio, in un tempo in cui offriva ancora vie di fuga e non strade senza uscita. Lo ignora, ma cerca altri modi per evadere: corre a perdifiato sul tapis roulant e saltella sul ring fin quasi a collassare, ignorando l’uscita d’emergenza più vicina e racchiusa in bottiglie di vetro dai bordi taglienti.

Continua a correre sul posto mentre il tempo passa a falcate lente, superandolo. E per la prima volta dopo quasi un anno lui prova l’impulso di inseguirlo, di attaccarsi a una falda svolazzante del suo strascico e scoprire cos’altro ha ancora da mostrargli.



 



Note dell'Autrice:

Carissimi Lettori, dopo una vita e mezza di pausa, rieccomi ad aggiornare <3
Questo è chiaramente un capitolo di stallo, ma mi serviva come trampolino di lancio per i prossimi avvenimenti, che smuoveranno definitivamente la situazione di Tony, e anche di chi lo circonda.
Ringrazio infinitamente chiunque abbia letto e recensito fin qui, oltre a coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste <3 Grazie in particolare a
_Atlas_, Miryel, shilyss e T612 per il supporto, il tempo e la pazienza che hanno dimostrato e dimostrano nel seguire questo mio progetto e nel sopportare i miei scleri estemporanei :')
Alla prossima, spero con più prontezza,

-Light-

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Capitolo 16
*** Parte seconda - Capitolo 15: Legàmi ***


15.

Legàmi



 

“Non è vero, come dicono molti, che si può seppellire il passato.
Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente.”

K. Hosseini – Il cacciatore di aquiloni




Marzo 2019, Complesso dei Vendicatori

La primavera inizia a far capolino dal gelo bianco e nero. Solo nel vedere la neve compatta che lascia pian piano spazio al verde sottile dei fili d'erba, Tony si sente più in grado di respirare, di credere che al mondo esista ancora qualche colore in grado di riaccendergli gli occhi. Gli sembra di avere il cervello più pulito e funzionante, anche quando si inceppa per quella sete che gli sta sempre alle calcagna e che a volte gli dà l'impressione di avere le vene prosciugate e riarse.

Un giorno prova a spostare le sue corse verso il nulla all'esterno, nell'aria gelida e frizzante che gli punge la pelle riattivando il suo corpo un po' più solido, un po' meno aguzzo. Si sfianca, rientra accaldato e con passo leggero e dopo un paio di tentativi inserisce anche quell'esercizio nel proprio ritmo quotidiano, assieme ai pasti di nuovo regolari, ai miglioramenti minimi che continua ad apportare ogni giorno a FRIDAY per tenere occupato il cervello, e a quelle letture classiche che aveva sempre ripromesso a sua madre di portare a termine. Adesso ha tutto il tempo di intraprenderle. Si obbliga quindi a svegliarsi prima per non passare tutte quelle ore a letto, ad aspettare che il sole sia alto per far scorrere più rapidamente le mattine: sono sempre il momento più difficile da affrontare, dopo il logorante assedio notturno di sogni e incubi.

Si sente in continua guerra con se stesso: percepisce i propri pensieri che, di nuovo scattanti, si fanno lo sgambetto da soli portandolo su sentieri che intersecano sempre gli stessi crocevia. Gli ripropongono le stesse immagini, le stesse associazioni; poi ne inventano di nuove e lui non riesce a star loro dietro. 
Quella era la marca di cereali preferita di Peter; il colore dei tovaglioli è lo stesso di un vestito di Pepper; la canzone che passa alla radio è una che gli ha fatto conoscere Peter; dimentica i toast nel tostapane e quasi sente il richiamo divertito di Pepper dall'altra parte del Complesso. Lampi e frammenti che non hanno più un posto dentro di lui: lo spazio è saturo nella sua vuotezza, non ci sono appigli per fissarli e finiscono per spargersi alla rinfusa, stuzzicando quella parte di lui che vuol sempre riparare tutto e tutti ed è ora incapace di riparare se stesso.

La maggior parte delle volte va a dormire con un'emicrania latente, frutto proprio di quei troppi pensieri senza posto che spianano la via a notti insonni. Una delle poche, amare consolazioni è condividere di tanto in tanto quell'inconveniente con Natasha: a volte, quando mette piede in sala comune alle due di notte la trova lì sveglia, o lo raggiunge lei poco dopo. Non le ha mai fatto domande, né lei gliene ha mai poste: è chiaro a entrambi cosa li derubi del sonno, e basta una vicendevole occhiata cerchiata di viola a sottolinearlo, senza ricorrere a parole superflue. Una comunanza mesta e silenziosa che un po' gli pesa, un po' lo spinge a non lasciarsi affondare sul posto al pensiero di poter fare da appiglio a qualcuno.

In un certo senso lei si ostina ancora a spronarlo e stargli dietro, ma adesso che è un po' più cosciente di ciò che lo circonda si rende conto che sembra riservare quel tipo di attenzioni a tutti. La vede sempre appaiata a qualcuno, instancabile, come se la sua nuova ragione – missione – di vita fosse assicurarsi che gli eroi più forti della Terra non sprofondino in loro stessi, privandosi anche della flebile luce rimasta in questo mondo. Passa ore e ore a parlare con Steve, sulle panchine esterne; sembra cercare un qualche tipo di comunicazione distaccata con Bruce, che si fa vedere al Complesso sempre più di rado; è spesso chiusa in sala riunioni con Rhodey, a chiacchierare via ologramma con Nebula e Rocket; dedica a lui quasi tutti i pomeriggi in palestra per non fargli battere la fiacca. Quando non è con loro, sta china sulle scartoffie della RESCUE: Kids, intenta e concentrata mentre parla al telefono con May e appone firme su firme, oppure prende posto alla centralina d'emergenza, attorniata da schermate di controllo e in attesa di richieste d'aiuto di cui i Vendicatori rimasti possano occuparsi. Non arrivano quasi mai.

Tony si chiede spesso come faccia a gestire con così tanta scioltezza le persone più problematiche del pianeta senza avere un esaurimento nervoso. O magari è proprio quello, che glielo evita. Ha provato più di una volta a entrare in punta di piedi nel suo spazio, ma non è riuscito a carpire null'altro se non quello che gli ha lasciato intravedere finora. Dovrebbe bastargli, visto con chi ha a che fare, eppure vorrebbe sapere per fare di più. È sempre un pensiero pericoloso, quello, perché la maggior parte delle volte finisce per scatenare disastri e rovinare tutto ciò che tocca, quasi avesse delle mani tossiche e corrosive.

Così si tiene a bada come può cercando, per una volta in vita sua, di accontentarsi e di non essere il solito, invadente, insaziabile Tony Stark. Ritiene comunque una piccola conquista aver ottenuto il privilegio di poterle stare vicino senza doversi aspettare un KO tecnico da un momento all'altro, o di vederla allontanarsi o allontanarlo bruscamente come ha sempre fatto con tutti, eccetto Barton. Non gli dà l'impressione di essere indesiderato, gli offre quasi una sorta di rifugio. Se stare in compagnia di Rhodey lo fa sentire stabile, coi piedi per terra, ma obbligato in qualche modo a parlare con lui, di sé, del mondo tutto, cercare la sua gli permette di rimanere sospeso e reclamare il semplice, umano diritto di rimanere in silenzio.


 

§

 

Quella mattina si sta imponendo con particolare dedizione di tenere costantemente occupato il cervello. Capitano sempre dei lassi di tempo vuoti, in cui si trova a rimestarsi i pensieri in testa, ma oggi non può permetterselo. Deve sfiancarsi, incanalare i pensieri in attività che richiedano un livello di concentrazione molto alto per non addentrarsi in considerazioni troppo articolate.

Ha quasi perso un polmone sul ring, quando Natasha l'ha portato su sua richiesta al limite per lui umanamente sostenibile nelle sue condizioni di salute ancora un po' precarie, e vi avrebbe passato volentieri il resto della giornata, se lei non gli avesse intimato inflessibile di concedersi una pausa almeno fino al tardo pomeriggio, visto che “non voleva averlo sulla coscienza”. Spiegazza nervoso le pagine del libro, nel tentativo di non distrarsi, e si riassesta il cuscino dietro la schiena scoccandole un'occhiata. Si è piazzata da una decina di minuti al capo opposto del divano col suo libro incomprensibile in cirillico e, al contrario di lui, è intenta e concentrata nella lettura. Le invidia quella apparente capacità di estraniarsi dal mondo. Di non dar retta ai calendari e non farsi influenzare dalle date che, all'atto pratico, non sono che numeri vacui per dare un senso al tempo, ma riescono comunque a fissarsi sulle sue retine con ferri roventi.

Comprime le labbra e cerca un appiglio sulle pagine un po' ingiallite del libro, cercando di mantenersi saldo sul ponte immaginario della Pequod [1] e non sconfinare sul fatto che oggi sarebbe stato il compleanno di Pepper – e lui era partito per l'Afghanistan, quello stesso giorno di dieci anni fa. Quasi immerge la testa nella carta a punirsi per aver completato quei pensieri che continuano a riemergere in sordina da ore, dopo averlo folgorato la sera prima inviandogli una scossa di destabilizzante tristezza e smarrimento. Anche ora si sente strangolato dai i suoi stessi pensieri e, di nuovo, prova una fitta di qualcosa che si avvicina molto a risentimento per Natasha, per il suo sapersi tenere impegnata mente e corpo in altro. Senza fatica, un'inclinazione naturale ad estraniarsi dal mondo e dalle proprie emozioni. Quasi torce la copertina morbida del libro, e si lascia scappare un respiro secco, un bolo d'angoscia che non lo alleggerisce minimamente e che fa alzare gli occhi alla donna per una frazione di secondo.

«Come fai?» sbotta infine lasciando ricadere il libro, trattenuto sulle gambe con un dito tra le pagine a tenere il segno, e Natasha alza del tutto lo sguardo, un sopracciglio lievemente inarcato. «A... a fregartene di tutto, intendo. A non... esternare,» chiarisce Tony, rendendosi conto della vaghezza della domanda, e non migliora poi di molto la situazione con quell'aggiunta.

Però Natasha interrompe comunque la propria lettura per guardarlo meglio, e coglie un'ombra sospettosa sul suo volto, nel modo in cui lo guarda un po' lateralmente quasi a offrire meno bersaglio.

«Abitudine, suppongo.»

Tony si chiede se abbia davvero capito la domanda, o se sarebbe stata la sua risposta standard a prescindere da ciò che le avrebbe chiesto.

«È una brutta giornata?» chiede, secca, a dimostrazione che, forse sin da quella mattina, sa perfettamente che ricorrenza sia questa, così come conosce probabilmente quelle che turbano l'esistenza di tutti i suoi compagni di squadra.

Tony si limita a deflettere i suoi occhi e a inclinare la testa con un mezzo cenno d'assenso, senza offrire altro in risposta. Sposta lo sguardo all'esterno, dove cade un nevischio sottile, residuo dell'inverno che volge al termine e che va a sciogliere pian piano le coltri bianche che ancora ricoprono i prati. Non potrebbe immaginare cassa di risonanza più intonata al proprio umore incostante.

«Era una domanda seria,» gracchia poi, scacciando il fiume di ricordi e pensieri che gli straripa in testa, di giorni invernali passati accoccolato con Pepper sul divano, un plaid ad avvolgerli e in sottofondo un film che non avrebbero guardato davvero. «Vorrei riuscirci anch'io, a far finta di niente. Magari potresti darmi un corso accelerato,» conclude, stentando un sorriso mal riuscito.

Natasha ricambia in modo automatico, con una traccia d'amarezza ben visibile nel modo in cui tira le labbra compresse.

«Non sono sicura che sia un bene, o che vorresti essere come me,» ribatte poi, sfuggente, ma con una loquacità che in effetti non si era aspettato.

«Ci sono svantaggi, ad essere come te?» si lascia scappare lui, con un mezzo sbuffo incredulo che si fa quasi risata, volendo per sé l'abilità di scegliere quali emozioni provare e quando.

Si rende conto di aver mosso un passo falso nel vedere il lampo risentito – e ferito, sofferente – che attraversa il suo volto, e preannuncia la replica acuminata che gli scaglia contro senza per questo riuscire ad attutirla:

«Ci sono svantaggi molto consistenti per diventarlo, Stark. Non credo sopravvivresti al corso accelerato,» conclude, rialzando il margine del libro a netta barriera tra loro due.

Tony si umetta le labbra, realizzando in ritardo la sua indelicatezza. A volte si dimentica che, a dispetto di quella facciata imperturbabile che le invidia tanto, anche Natasha è fatta di carne e ossa e sentimenti. Ben nascosti, ma vivi. Le fanno capolino negli occhi solo di rado, in passaggi di silhouettes fugaci e difficili da cogliere. Stava giusto credendo di riuscire a captarli un po' meglio, prima di quello scivolone evitabile. Si rende però conto che, a dispetto della concentrazione rivolta al libro, Natasha sembra ancora in partita e sul chi vive. Potrebbe benissimo non renderlo palese, considerando gli anni di addestramento spionistico, ma sta chiaramente scegliendo di renderlo tale: ci sono delle pause nel modo in cui muove gli occhi nel leggere, a fissare anche la visione periferica che lo include, e il suo ritmo nel voltare le pagine è variabile, incostante. Sta giocando con lui come il gatto col topo. Ciò dovrebbe irritarlo, se non per il fatto che gli offre collateralmente anche un'opportunità di porre rimedio a quel commento a cuor troppo leggero – opportunità che lei è con tutta evidenza disposta a concedergli.

L'ultima cosa che vuole fare è allontanarla – anche se vorrebbe non essersi mai avvicinato così tanto, lui che è così abile nel mandare a monte tutto e nello sfaldare legami in un batter d'occhio. Ma non vuole allargare il baratro tra loro, non ora che sembrano aver trovato una sorta di pericolante equilibrio che permette a entrambi di non precipitarvi. O forse quello è lui, solo lui: Natasha sembra sempre avere un baricentro perfetto, da ballerina, a dispetto dei suoi scossoni e passi maldestri. Reprime un sospiro sul nascere: sono entrambi troppo orgogliosi per porgere o accettare delle scuse dirette, quello è certo... così si trova costretto ad aggirare il problema e a lavorare d'ingegno.

«Ti va una boccata d'aria?» le propone, di nuovo senza fermarsi a ponderare le parole.

Lei rialza di scatto gli occhi, allo stesso modo di un animale ferito e messo all'angolo, o di un serpente che snuda i denti pronto a mordere. Getta uno sguardo fuori, alla pioggerellina ghiacciata che continua ad attecchire sul manto nevoso.

«Perché?» chiede, invece di un molto più sensato e secco "piove".

«Perché no? Si soffoca qua dentro,» scrolla le spalle lui con assoluta nonchalance, come se il loro scambio teso non fosse mai avvenuto, e si alza già per recuperare il cappotto.

Lei continua a fissarlo dietro al doppio schermo del libro e delle sue ciglia, per poi elargirgli un piccolo, impercettibile cenno del mento in direzione della porta.

«Vai. Io ti raggiungo.»

È la risposta più simile a un  che potesse ottenere da lei, e le getta un ultimo sguardo che non trova riscontro prima di imboccare la porta. Si tira su il bavero della giacca pesante e allaccia gli alamari esterni: non fa poi così freddo, ma si ritrova i capelli bagnati dopo pochi minuti. Non è una sensazione sgradevole, a dispetto del suo odio generale per la neve, e rallenta il passo lungo il vialetto lastricato che segue il perimetro del Complesso. Ha completato il primo giro, è infreddolito e ha il cappotto ricoperto di nevischio, quando finalmente sente i passi lievi di Natasha dietro di lui che lo raggiungono rapidi, per poi affiancarlo.

«Era una lettura avvincente?» si arrischia a canzonarla, gettando un'occhiata teatrale all'orologio da polso e ricacciando poi le mani nelle tasche.

Natasha sbuffa dal naso, scuotendo i capelli già invasi di cristalli che luccicano alla luce flebile del sole, e lo spintona appena di lato senza per questo rispondere. Continua a piovere, o a nevicare, a seconda dei punti di vista. Non importa a nessuno dei due, mentre ritracciano le orme lasciate da lui poco fa sul sottile strato di neve e fanghiglia ghiacciata che delimita il vialetto. A un certo punto lei lo prende sottobraccio, aggrappandosi all'incavo del suo gomito. La sua stretta è salda, quasi contratta, e ne percepisce la tensione anche attraverso la stoffa pesante.

«Non sai niente di me,» sbotta dopo un po' Natasha, e a dispetto della natura di quell'affermazione la sua voce rimane pacata, morbida.

Tony rallenta appena il passo, sentendosi però tirare da lei, che non asseconda il suo movimento.

«Uh, concordo in toto, ma cosa c'entra con...»

«Nella Stanza Rossa ci hanno addestrate a controllare le emozioni,» rivela lei, di punto in bianco, con un colpo di pistola che risuona attutito nei dintorni innevati.

Tony si blocca del tutto nei suoi passi, costringendo infine anche lei a fermarsi, la mano trattenuta tra il suo braccio e il suo fianco. Gli sembra il genere d'informazione da rivelare faccia a faccia, magari davanti a un bicchiere di qualcosa di molto forte... non durante una passeggiata intrapresa nel tentativo di scacciare troppi pensieri e di dare modo a lui di rettificare parole fuori luogo, e non con lo stesso tono che avrebbe usato per raccontargli un aneddoto di poca importanza.

Lo guarda fisso, forse aspettandosi una reazione, e lui richiude la bocca rimasta stolidamente aperta, inalando aria gelida che gli invia una scossa alle radici dei denti. Gli si chiude la gola e ripensa a quel poco che sa effettivamente su di lei, a quelle sporadiche righe dei suoi file che ha letto di sfuggita. Nonostante la fuga di notizie che scatenata da lei dopo Insight, i dati su di lei sono rarefatti, ben celati... e lui non ha mai trovato un valido motivo per approfondire la questione, ma gli sono bastati gli stralci intravisti di tanto in tanto, che figuravano metodi di coercizione e addestramento non troppo dissimili dalla tortura.

Batte rapido le palpebre, faticando a far collidere l'immagine di Natasha ora, impettita e diritta di fronte a lui a dispetto del volto smunto, con la foto della ragazzina troppo magra e troppo giovane appuntate sul fascicolo sovietico macchiato di sangue e polvere da sparo che si è trovato tra le mani mentre indagava su Barnes, riesumando gli archivi superstiti dello SHIELD. C'erano quelle che sembravano cartelle mediche in russo, là dentro; poi rapporti, dati, appunti che non ha mai chiesto a FRIDAY di tradurre e che ha lasciato ad ammuffire nella loro cartellina ingiallita, in uno schedario dimenticato sotto ai resti del Triskelion. Le foto... quelle non ha potuto impedirsi di vederle, ma immortalavano sempre l'operato di Natasha, non Natasha stessa. Bersagli e obbiettivi, tutti cancellati dall'esistenza con croci rosse e indelebili: istantanee di corpi riversi in pozze di sangue e ripiegati su se stessi in angoli scomposti, con timbri rossi a bruciapelo stampati sulla fronte. Lei stessa cancellata con due tratti netti e calcati rabbiosamente, a incidere la carta fotografica.

«Nat...» fa per bloccarla quando vede che sta per continuare, ma viene interrotto e ignorato:

«Non scelgo sempre io cosa esternare, e neanche come sentirmi. Sono difettosa,» alza le spalle con una noncuranza chiaramente esercitata, chissà a quale prezzo.

Se proprio dovesse esprimere un'opinione, direbbe che l'hanno rotta, non che lei sia difettosa per natura. Non gli sembra una scelta di parole molto migliore. Sa comunque per certo che Natasha non è il tipo da accettare pietà gratuita, anche se in realtà per lei non prova altro che quieta ammirazione, per mille motivi che sarebbe probabilmente vano esprimere ad alta voce adesso. Non servono frasi fatte indirizzate a un conforto inesistente, a lei che è stata derubata così tante volte della propria vita. In questo ostinato e inutile orgoglio almeno si somigliano, e gli riesce più facile muoversi di conseguenza. Potrebbe sempre contraddirla o chiedere di più, fare quel di più che lo tenta di giorno in giorno; invece fa un passo indietro e retrocede nel proprio spazio lasciandole il proprio, già così esiguo, accontentandosi di quello spiraglio di confidenza che gli ha accordato.

«Non... non credo che mi serva un corso accelerato, né un addestramento intensivo,» proferisce a mezza voce, con gli occhi piantati nei suoi. «Mi tengo le mie emozioni fuori controllo,» conclude quindi, più goffamente.

«Tienitele strette,» ribatte lei senza durezza, come se quello fosse esattamente il tipo di atteggiamento che avrebbe voluto vedergli assumere.

Si riporta di fianco a lui, ancora aggrappata al suo braccio mentre riprendono a camminare. Tony vorrebbe credere che quello scambio di battute coincida con uno scusa e uno scuse accettate, ma non ne ha la certezza, come non ne ha mai con Natasha, ed è paradossale che proprio lei stia diventando un punto fermo nella sua vita in tutta la sua insondabilità. Quando si decide a parlare di nuovo, è ormai talmente intirizzito da riuscire a malapena a camminare e da essersi guadagnato un biglietto di sola andata per una polmonite; lei invece appare totalmente indifferente a quella temperatura e sembra quasi gradirla.

«Come mai questo... momento rivelatorio stile Downton Abbey?» chiede, cercando di rincorrere un tono brioso in contrasto con ciò che ha appena sentito e che fatica ancora ad assimilare.

«La fiducia funziona in entrambi i sensi, di solito,» replica svelta lei, ancora senza guardarlo.

Tony si trova a sospirare e stringe un poco il braccio attirandola a sé mentre cammina, a corto di parole giuste. Incassa la testa tra le spalle e si sente allo stesso tempo vittorioso e sconfitto in partenza. Si chiede quanto ci vorrà per farla ricredere, e si bea al contempo della consapevolezza di averle strappato quella stilla di coraggio, o follia, per spingerla a fare affidamento su di lui, fosse anche per le poche parole che si è arrischiata a condividere.

«Sono molto bravo a deludere le persone.»

«Almeno abbiamo qualcosa in comune.»

Alzano le spalle sfalsati, a ritmo con le rispettive frasi contro quelle due verità inamovibili.

Riprendono a camminare, protraendo la passeggiata più a lungo di quanto sarebbe salutare. Tony inizia a sentire i piedi che sguazzano nella neve sciolta, filtrata nelle sue scarpe da ginnastica decisamente non invernali. Natasha però non si ferma; sembra quasi aver messo il pilota automatico mentre avanza scricchiolando tra le pozze ghiacciate, seguendo con precisione la linea del mattonato quasi stesse avanzando sul parquet di una scuola di danza, esercitando passi imparati a memoria.

D'un tratto, si sgancia dal suo braccio e si scosta un poco da lui, affondando il mento tra il collo della giacca e la sciarpa, gli occhi che si fanno schivi quasi ci fosse una nuvola ad oscurarli. Tony, pur perplesso, non commenta, e trattiene il moto di istintiva sorpresa che stava per attraversargli il volto, oltre al richiamo che gli sale alle labbra. Ogni volta che pensa di averla capita, o di aver fatto breccia... si rende conto di aver preso un abbaglio, o di essere stato ingannato. Ed è convinto che lei non lo faccia nemmeno apposta: sembrano semplicemente scattare dei meccanismi di difesa che può immaginare solo in parte, ma che lo fanno sentire parte di tutto ciò che potrebbe ferirla, almeno dal suo punto di vista. Non gli è estraneo come concetto, solo che lui è molto meno... controllato, in quei casi. Nel peggiore dei quali si ritrova avvinto da un attacco di panico, cosa che dubita Natasha possa anche solo lontanamente concepire – colpa o merito dell'addestramento, conclude irrequieto, seguendo le sue falcate ora più ampie e quasi militaresche, scevre della grazia latente di un balletto.

«Credo che una partita di Cluedo sarebbe più semplice,» esterna infine, quando Natasha si porta quasi di scatto un paio di passi avanti a lui.

Lei volta appena la testa, continuando a camminare, ma sembra forzarsi a rallentare fino a permettergli di affiancarsi di nuovo a lei, quasi si fosse resa conto solo ora di essersi allontanata. Tony smorza un sospiro, lasciando una spanna di distanza tra loro. Non sa cosa le abbia smosso dentro la confessione di poco fa, ma è evidente che sia irrequieta... forse pentita, a dispetto delle sue dichiarazioni di fiducia.

«Che intendi?»gli chiede, con poca energia, la voce attutita dalla stoffa morbida che le cinge il collo.

Tony tira leggermente su col naso in un riflesso nervoso, inclinando un poco il volto verso l'alto e sentendo i cristalli di ghiaccio che gli si posano aguzzi sulle guance arrossate. Il cielo grigio e uniforme lo abbaglia col suo riverbero, e strizza un poco gli occhi, sentendo l'infantile, inopportuno impulso di acchiappare al volo quegli sparuti fiocchi di neve completi che viaggiano leggeri nell'aria. Gli piacerebbe anche la neve, se non ricoprisse ricordi così tetri.

«Intendo,» riprende poi, abbassando il capo e passandosi una manica ad asciugare il volto umido, «che se davvero vuoi tenermi a distanza dovresti farlo prima di lasciarmi avvicinare, no?» continua infine con una scrollata del capo.

Cerca di non farla suonare come un'accusa, anche se quel giorno sembra che ogni parola che gli esce dalla bocca sia una potenziale coltellata sferrata a casaccio attorno a sé.

«Non ti sembra un po' ipocrita, come discorso?» rilancia Natasha, di nuovo rigida, ancora sulla difensiva. «Sei il primo che si isola sempre da tutti,» continua poi, rapida e mirata, centrando quel bersaglio sensibile come se l'avesse sempre avuto in testa sin dall'inizio. «Ti rinchiudi nel tuo eremo, scansi Rhodey, eviti Happy...»

«Assolutamente,» la interrompe Tony, fissandola poi senza vacillare. «Non ti sto facendo la predica, Romanov; sto dicendo che ti capisco, e che va bene così,» conclude, anche se quella è un'affermazione sincera solo a metà.

Ovvio, capisce benissimo l'impulso di mantenere una distanza ragionevole con le persone, dopo anni passati a farlo lui stesso; ma adesso non è sicuro che andrebbe davvero bene così. Pensa di fermarsi lì, di non aggiungere altro, invece schiude la bocca e protrae il flusso di parole, lasciandolo scorrere lungo quegli argini di fiducia che non ha ancora testato con mano.

«Happy ha già il suo da fare con May. E Rhodey... è il mio migliore amico. C'è sempre stato, ma in alcuni casi non sa bene come... gestirmi,» conclude, a malincuore, ripensando in un lampo a quanto, quanto avessero litigato subito dopo la morte dei suoi.

Giornate intere passate a urlarsi addosso perché lui non voleva occuparsi del funerale, non voleva scegliere le foto per le tombe, né i bouquet funebri, né voleva sentire nulla che avesse a che fare con suo padre e sua madre. Alla fine, Rhodey si era fatto carico di tutto: un ragazzone testardo e ambizioso che aveva rimandato il suo ingresso in Aeronautica per stare appresso al suo migliore amico allo sbando, pur di farlo arrivare sobrio alla funzione. L'aveva tenuto in piedi, è vero, ma anche allora aveva sentito quell'esigenza inespressa da parte sua, quel pungolo a parlare di fatti che lui invece voleva e vuole tenere chiusi a chiave in fondo all'anima.

«Io so gestirti?» lo riscuote Natasha, e sembra quasi divertita mentre contrae appena le labbra. «È per questo che mi ronzi attorno?» aggiunge, con una traccia affilata che potrebbe essere malizia scherzosa, o fastidio camuffato.

Tony sospira a quel ribaltamento della discussione, sentendosi messo all'angolo, come tante volte durante i loro scambi sul ring. Ammette che preferirebbe un montante in piena faccia, all'interruzione dei loro concordi silenzi che gli ridanno respiro, ma non è nemmeno disposto a lasciarsi sfuggire quella rara falla nelle barricate di Natasha.

«Non esattamente,» ammette quindi. «Neanche tu mi conosci così bene... e forse questo aiuta,» dice in fretta, stringendo le mani nelle tasche e torcendone la stoffa. «E poi, sei stata tu a cercarmi per prima: starti appresso è quasi un passo obbligato, visto che continuo a non spiegarmi da dove tu sia sbucata fuori,» la rimbecca, con un guizzo del mento verso di lei.

«Stavi per ammazzarti; e se non ci fossi stata io ti avrebbe recuperato di peso Steve, credimi,» lo rimbecca lei, seccamente evasiva come al solito. «Comunque ho dovuto studiarti, la prima volta che mi hanno ordinato di tenerti d'occhio, sai? Ti conosco quanto basta.»

Tony tira le labbra, adesso incupito da quella presunzione. Sbuffa fastidio dal naso.

«Vorrei pensare che non sono così facile da leggere.»

Non è mai stato un libro aperto per nessuno... se non per Pepper, e anche lei commetteva qualche errore d'interpretazione per via del carattere terribile che si ritrova.

«No, non lo sei. Mi ci è voluto un po' di esercizio, per inquadrarti,» gli concede lei, quasi a fargli un favore, e Tony sente un pizzicore molesto nell'orgoglio.

«Per inquadrarmi,» ripete, e tira di nuovo le labbra reprimendo un altro sbuffo. «È così difficile instaurare rapporti umani normali, Romanov? Che so, magari non vedere la gente come dei profili vaganti o dei potenziali obiettivi?» sbotta, allargando i gomiti in un gesto frustrato, le mani ancora affondate nel caldo delle tasche.

Si pente della propria scelta di parole nel veder riemergere dietro agli occhi le immagini dei suoi obbiettivi, e sa che anche per Natasha quella deve essere la prima associazione logica.

«Non mi scomodo a inquadrare spontaneamente qualcuno senza un motivo. Se mi sapessi leggere anche tu un minimo, l'avresti capito,» osserva però lei, schivando l'argomento e facendosi d'un tratto gelida.

«Ci sto provando, a capirti,» ribatte lui, moderando la voce prima troppo alta e fallendo subito dopo, confuso da quell'affermazione. «E mi fa... incazzare non riuscirci,» ammette poi, di getto e con un ondeggiare frustrato delle spalle.

«Quindi cercare di decifrarmi è il tuo nuovo passatempo?» lo rimbecca Natasha, alzando il volto verso di lui con uno sguardo pungente che lo fa sentire in difetto.

Tony si morde le labbra, esitando a rispondere. Non riesce a darle del tutto torto, anche se non condivide la scelta di parole – o forse teme solo che corrisponda troppo al reale.

Quell'aura di mistero che Natasha si porta appresso è effettivamente un diversivo, un qualcosa su cui concentrare la propria attenzione e su cui lambiccarsi il cervello stanco di calcoli e teorie fallimentari. Un enigma umano con variabili imprevedibili; e vista la sua affinità con le macchine e la sua storica incapacità con le persone non può nemmeno frustrarsi troppo nel non riuscire a venirne a capo, come farebbe in laboratorio con gli occhi logorati dagli schermi. Sta con lei e si trova a pensare ad altro; non alle perdite, non alla sconfitta, non al peso che gli schiaccia i polmoni, non alla propria inutilità. E quando pensa a ciò che gli manca, trova un riscontro di assenze in lei. Non speculare, ma nemmeno così diverso. È la sua natura di incognita ad attrarlo, a illuderlo di poter dimenticare almeno parte del vuoto mentre è intento a decifrarla. Poi ci sono quelle crepe, quelle incrinature che scorge di tanto in tanto in lei, che gli fanno desiderare come sempre di poter riparare tutto prima di vederle allargarsi o mandare tutto in pezzi lui stesso. Si sente d'un tratto un bambino annoiato che ha scoperto un giocattolo nuovo. Realizzarlo lo fa sentire sporco, come se la stesse usando.

«È un modo come un altro per distrarmi,» confessa infine a mezza voce, fissandosi fugacemente sulle scarpe che affondano nel nevischio grigiastro per poi tornare sui suoi occhi.

Percepisce con mano quelli inquisitori di Natasha su di sé, e si sente scrutare dall'interno in un modo che lo fa sentire spiacevolmente nudo in mezzo alla neve, come se avesse scostato un po' troppo il sipario che cela la propria anima.

«Ci sarebbero attività molto più utili e costruttive con cui distrarti,» commenta infine la donna, con un tono affatto duro che arriva inaspettato.

«Per esempio?»

Tony si guarda attorno sconfortato, accennando a quel vuoto che sembra rispecchiarsi ovunque, in ogni angolo di quel mondo incolore in cui si insinua solo qualche pagliuzza stentata di verde. Natasha sospira profondamente, e il suo sguardo si fa ora severo, come se stesse fissando un alunno particolarmente indisciplinato che si rifiuta di applicarsi al massimo.

«Sei un genio, Stark,» gli ricorda con un colpetto sul gomito, pronunciando quella frase fatta che si sente ripetere da una vita e che non risolve mai nessuno dei suoi problemi. «Puoi arrivarci da solo,» conclude, continuando poi a camminare in silenzio e sospingendolo appena per invitarlo a fare lo stesso.

Tony annuisce con molta poca convinzione, mentre i pensieri riprendono a girare in circolo, simili a un cavallo imbizzarrito che si cerca di far arrestare stringendo sempre più il cerchio. Non è un metodo che con lui funziona molto bene: al centro di quella ruota in perenne movimento trova solo ricordi troppo vividi e frammenti senza più posto... non una soluzione, né qualcosa da fare. Almeno, considera, Natasha non gli ha intimato una nuova distanza di sicurezza. Forse – un po' lo spera e un po' lo teme – vuol dire che quella fiducia esiste davvero, e non sia solo un concetto gettato a far da ammortizzatore tra loro.

Sarebbe comunque una conclusione piuttosto tetra per quel discorso, se il caso non decidesse di impugnare un pennello e di ravvivare il verde nel grigio, a scacciare un po' delle tinte monocromatiche che ormai fanno parte dei suoi occhi. Basta poco, davvero poco: una chiazza di ghiaccio nero invisibile, su cui Natasha pianta il piede con un po' troppo slancio, le mani bloccate nelle tasche. Neanche le sue doti atletiche e di ballerina riescono a salvarla: scivola, perde contatto col terreno in modo quasi cartoonesco, rimanendo sospesa a mezz'aria per una frazione di secondo e atterra poi di schianto, col fondoschiena che affonda nella neve ammassata sul ciglio del vialetto.

Tony sbotta a ridere sonoramente senza nemmeno rendersene conto, e scorge una lampante espressione d'orgoglio ferito che appanna il volto di Natasha, apparentemente non intenzionata a rialzarsi e sotto shock per essersi messa al tappeto da sola. Sa benissimo che gliela farà pagare doppia per quell'episodio: per avervi assistito e per aver riso di lei, ma non fa nulla per smorzare la propria ilarità, che anzi aumenta, tanto che alla fine vede un accenno di sorriso affiorare anche sul suo volto, anche se vagamente perfido, come se stesse già architettando la sua vendetta.

«Come ci si sente, a essersi messi KO? Esperienza nuova?» la canzona, parlando attraverso un altro risolino e tendendole al contempo la mano per aiutarla in un'offerta di pace.

Lei prevedibilmente scuote il capo e ignora la mano, facendo perno per alzarsi... per poi afferrarlo di scatto per la manica e far capitombolare anche lui a terra, con le scarpe che slittano inutilmente sulla stessa pozza di ghiaccio che ha atterrato lei. Impatta di fianco sulla neve, senza troppi danni e con un'altra risata che decolla dalla sua gola nell'aria cristallina, unendosi alla sua, inaspettata.

«Per te invece non è una situazione nuova,» lo rimbecca lei, con un sorrisetto compiaciuto che le inclina le labbra.

Tony assottiglia gli occhi con fare minaccioso, divenendo mortalmente serio; poi, senza curarsi delle conseguenze, raccoglie un pugno di neve e lo scaglia con forza tra i capelli di Natasha. Con quello, sa di aver firmato la propria condanna a morte. Lei infatti lancia un verso sorpreso e non perde tempo a ricambiare con un proiettile ben più corposo che lo coglie con precisione da cecchino in pieno volto, per poi assalirlo senza ulteriori cerimonie. Ingaggiano una lotta a terra ostacolata dai loro cappotti ingombranti, a suon di mezzi insulti, neve che si infila ovunque, risate soffocate e prese decisamente illecite. Non gli ci vuole molto a capire chi avrà la meglio – come quasi sempre – ma si difende come può e riesce a infilarle un po' di neve nel colletto del maglione, per poi vedersi ritorcere contro il gesto e uggiolare sotto shock nel sentire una massa congelata che gli scivola lungo la schiena.

Natasha ne approfitta e lo immobilizza a faccia in giù nella neve, alzandogli il braccio e torcendogli appena il palmo, con una leva a una prima occhiata semplice che potrebbe però dislocargli in scioltezza una spalla. Tony batte rassegnato la mano libera a terra, chiedendo la grazia, e alla sua mezza risata sconfitta si unisce quella invece vittoriosa di Natasha, che gli rende infine la libertà dopo avergli spalmato un altro po' di neve tra i capelli sulla nuca – a mo' di promemoria su cosa succede a chi sfida la Vedova Nera.

Tony si raddrizza seduto, sorridente e a corto di fiato, col fondoschiena e i capelli fradici, la neve nelle scarpe e un principio d'embolia polmonare a forza di respirare gelo, ridere e incassare colpi al contempo. Guarda Natasha accanto a lui e non è ridotta molto meglio, in ginocchio nella neve coi capelli scarmigliati e altrettanto umidi che sta tentando di districare, la sciarpa quasi sciolta che le pende in disordine dal collo. Sta palesemente reprimendo un sorriso che le accentua comunque le guance arrossate; e per un momento esatto la vede spensierata, con gli occhi verdi privi di quelle ombre che impediscono al sole di renderli iridescenti, come fronde smosse dal vento che fanno filtrare un singolo raggio di sole.

Si trova a pensare che è esattamente per questo, per i fugaci istanti di luce piena che intravede di tanto in tanto, che vale la pena portare avanti quel "progetto fiducia" un po' sconclusionato. Per ricordarsi che possono – che può – farcela.

Una nuova risata gli solletica la gola, assieme a qualcos’altro, di più affilato: una scheggia che incrina quel momento e lo sfaccetta come uno specchio rotto deformando l’immagine. Perché stanno ridendo e il suo petto si è gonfiato d’elio per una singola frazione di secondo sgombrando la testa, eppure è ancora su quella Terra, è ancora quel giorno, c’è ancora un vuoto in espansione dentro di lui, è ancora in mezzo alla neve che odia. Quel senso di assurdità, di feroce ironia, lo agguanta alle spalle e gli strizza il cuore, troncandogli fiato e pensieri. Sente la risata appena nata che si spezza in un singulto acuto; e lo camuffa, lo soffoca, tinge quell’allegria mutilata di fronte agli occhi cristallini di Natasha sapendo di non poterla ingannare del tutto. È allo scoperto, smascherato, con gli occhi appannati e un singhiozzo a mezza via tra petto e bocca.

Agisce senza pensare in cerca di un riparo per il proprio volto vicino a cedere: coglie quell'attimo in fuga e si sporge ad abbracciarla prima che la cenere possa trattenere quel gesto. La stringe saldamente a sé, premendo gli occhi sul punto di straripare contro la stoffa del suo cappotto. La sente ricambiare con qualche istante di ritardo, cautamente, in una presa maldestra che gli cinge il busto e una spalla in modo asimmetrico, poco avvezzo. Teme per un istante, la paura gli lampeggia bianca e nera in fondo alla testa, ma lei rimane solida tra le sue braccia, viva, reale, con un'orma di resina e aghi di pino a sfiorarlo.

Quella risata gli muore tra le labbra in un respiro confuso, e teme di scostarsi per rivelare l’entità di quel turbamento. Forse la sta stringendo con troppa forza, ma lei non protesta e sente che gli cinge la nuca con dita gentili, trattenendolo a sé. Come se avesse capito tutto, senza dir niente. Si chiede quanto abbia capito; se in luce di ciò che si sono detti prima sia doloroso vederlo esternare a quel modo le proprie “emozioni fuori controllo”. Se abbia senso quel risentimento doloroso che lo brucia nel sentirsi derubato da se stesso di qualcosa di bello, di quello sprazzo di leggerezza che gli aveva immesso un po’ d’aria nei polmoni. Ha una faglia che lo divide a metà, tra desiderio infantile di tornare a ridere e rotolarsi nella neve cancellando quel giorno dall’esistenza con un colpo di spugna, e di rincantucciarsi in un angolo del proprio letto spremendosi fuori le ultime, aride lacrime che gli sono rimaste in corpo, ricalcando indelebilmente i contorni di quello stesso giorno in modo ossessivo. Non sa cosa sarebbe più giusto, né cosa voglia davvero, né cosa preferirebbe Pepper. Serra gli occhi. No, sa perfettamente cosa preferirebbe lei: ha solo troppa paura e troppi sensi di colpa a tirarlo verso il basso per permettersi di essere spensierato.

Respira a fondo, sentendo gli occhi un poco più asciutti e si arrischia a sollevare il volto, poggiando il mento sulla spalla di Natasha senza offrirle ancora una visuale completa della sua espressione traballante. Lei si limita a stringerlo con forza appena più percettibile, sopportandolo a stento, o forse riconoscendo quelle labili emozioni che a lei non è dato provare appieno. Quando crede di avere più controllo sulla propria voce non si trattiene dal parlare, in quel suo modo goffo e assolutamente fuori luogo che spera lei abbia ormai imparato a leggere, perché meglio di così non sa fare:

«Sei un’ottima distrazione, ma a quanto pare anch’io sono difettoso,» bofonchia a mo' di difesa tardiva, mezzo attutito contro il suo cappotto, e la sente sbuffare di rimando contro la sua guancia in una nuvoletta di vapore.

«Su quello dovremmo lavorare entrambi,» gli fa notare con blanda e al contempo tesa severità senza però scostarsi da lui, inspirando poi a fondo e stringendo la presa delle sue dita.

«Visto che sono un genio, qualche idea già ce l'ho,» ribatte lui, sentendo le sinapsi che mandano qualche scintilla al solo pensiero di rimettersi all'opera, di occuparsi il cervello con altro.

Scioglie per primo la stretta, ricomponendosi per quanto possibile, fissandola con un mezzo sorrisetto sicuro di sé macchiato da pensieri plumbei.

«Tipo: evitarti l'esaurimento nervoso nel lasciarti gestire da sola me, gli altri sbandati e il mondo intero... sono un grande fan del multitasking, ma credo tu abbia raggiunto un record,» continua con slancio, ma con uno sprazzo di serietà che le fa storcere appena la bocca.

«Me la cavo benissimo così,» ribatte in automatico, per poi rialzarsi rapida, rimettere netta distanza tra loro e tendergli le mani, come tante altre volte sul ring. «Ma magari un genio a portata di mano può farmi comodo, di tanto in tanto,» continua furbetta, lasciando che si agganci ai suoi polsi per issarlo in piedi.

Tony le scocca un'occhiata truce da sotto le sopracciglia aggrottate, scrollandosi la neve sciolta dai capelli sconvolti.

«Sfruttatrice,» dichiara, spingendola appena di lato con una spallata.

«Egocentrico,» ribatte lei, imitando pronta il gesto.

La piantano con il botta e risposta quando rischiano di ritrovarsi di nuovo carponi nella neve dopo un doppio axel sincronizzato sul ghiaccio infido e si avviano verso l'ingresso. Tony le sente, quelle piccole cuciture che si è appena appuntato sul cuore. Tirano come quelle di una ferita appena ricucita che non guarirà mai del tutto, e spera che non cedano. Che resistano, almeno per un po’.




 


© T612
[Immagine originale -> tilde_stuff]



 



Note:
[1] La Pequod è la nave del capitano Achab (Moby Dick).
NB. Nel capitolo originale la ricorrenza del capitolo era l'anniversario di Tony e Pepper: l'ho convertita nel compleanno di lei perché, facendo i calcoli precisi nella timeline del MCU, il loro anniversario non potrebbe mai cadere a marzo, considerando che si mettono insieme a ridosso del compleanno di Tony, a maggio. Inoltre, come si vede nel primo film, il suo compleanno cade il giorno del rapimento di Tony.



Note dell'Autrice:

Cari Lettori, ritorno con un capitolo corposo che spero sia stato gradito.
Mi sembra evidente, ma sottolineo che, essendo la storia rigidamente PoV Tony, molte delle sue considerazioni/ipotesi su Natasha sono soggette a margine d'errore, in particolar modo rispetto al suo passato. Quest'ultimo è una commistione studiata tra MCU, sprazzi esigui di canone fumettistico (fondamentalmente, solo la relazione con Barnes e un altro dettaglio che troverà spazio in seguito rappresentano punti fondanti)
 e headcanon personali. Vi è comunque una netta preponderanza di MCU, principalmente per il fattore-PoV Tony, che renderebbe difficoltoso seguire le vicende fumettistiche risultando credibile nel contesto della storia, o del tutto inutile in quanto non avrebbero mai modo di venire esplicitate. Per dubbi o chiarimenti, sono sempre disponibile :)

Ringrazio di cuore
_Atlas_, Miryel, shilyss e T612 (grazie per la fanart meravigliosa <3) per aver recensito gli scorsi capitoli, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste o che leggono soltanto <3
Alla prossima,

-Light-

 

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Capitolo 17
*** Parte seconda - Capitolo 16: Normalità ***


.16.

Normalità
 
“Friends will be friends
When you're through with life
And all hope is lost
Hold out your hand
'Cause friends will be friends
Right till the end”

 
[Friends Will Be Friends – Queen]



 
Marzo 2019, Complesso dei Vendicatori

Riconosce i passi di Rhodey ancor prima di vederlo, grazie al familiare sibilo dei cuscinetti a sfera prodotto dai suoi tutori. Alza indolente la testa dal proprio tablet, riscuotendosi nel vedere l’amico avanzare verso di lui in un modo che potrebbe solo definire… minaccioso. Si raddrizza un poco di scatto, ancora semi-sdraiato sul divano con un braccio ripiegato attorno al cuscino dietro la nuca; lo fissa con allarme negli occhi, perlustrando al contempo i dintorni in cerca di una rapida via di fuga, in un riflesso istintivo di preda messa all’angolo.

«Rhodey?» tenta, conciliante e ripensando ad ogni errore passato, presente e futuro che ha commesso o commetterà. «Che cosa…»

«Forza, in piedi,» lo esorta lui sbrigativo, senza convenevoli e con la sua spiccata marzialità che prende il comando dei suoi gesti.

«Veramente starei…» Tony fa per accennare allo schermo sul quale campeggia il progetto di reboot di FRIDAY, ma Rhodey fa un gesto imperioso con le mani che taglia a metà l’aria e le sue proteste.

«Poltrendo, lo vedo benissimo. Ti alzi da solo o devo prenderti di peso?»

Tony mostra le mani in segno di resa, poggia il tablet sul tavolinetto e si mette seduto con gesti volutamente rallentati, ignorando il suo fare impaziente e il fatto che una nube temporalesca sembra aver appena fatto il proprio ingresso nella stanza. Ha appena il tempo di alzarsi che Rhodey lo sprona a passo sostenuto verso la porta d’ingresso, cacciandogli una giacca in mano lungo il tragitto e agguantando la propria mentre presta attenzione a tagliargli sempre la ritirata. Non gli dà nemmeno modo di cambiarsi e rendersi un po' più presentabile, obbligandolo a uscire con una camicia a quadri sformata addosso e un paio di jeans da casa. Tony volge gli occhi al cielo, riluttante, ma l’altro lo sospinge ben poco delicatamente oltre la soglia e si affretta così a infilarsi la giacca contro la pioggerellina primaverile che lo accoglie all’esterno. Trenta secondi dopo si ritrova seduto come recalcitrante passeggero nella propria Audi, con Rhodey al volante – quando gli ha preso, anzi, sottratto le chiavi? Sente lo scatto delle serrature risuonare nell’abitacolo e inarca un sopracciglio, scuotendosi la pioggia dai capelli.

«Questo è…» esita, fa un gesto ad abbracciare l’interezza dell’auto, «… un rapimento, ne sei consapevole?»

«Certo, e questa è la spasso-mobile,» constata Rhodey, mettendo in moto senza battere ciglio.

«L’ho provata una volta: mezza stella su cinque, non la consiglio,» commenta piattamente Tony, trattenendo però un sorrisetto all’impassibilità dell’amico che inizia ormai a rasentare il comico. «Posso almeno sapere dove stiamo andando?»

«No.»

Tony si rassegna al silenzio, sprofonda nel sedile e spalma la fronte sul finestrino picchiettato dalla pioggia.

 
§
 
 
Rhodey gli piazza il vassoio davanti con la stessa delicatezza che userebbe un secondino nel propinare il rancio a un ergastolano. Tony sobbalza senza volerlo, per poi mettere a segno un’occhiataccia mentre l’amico gli scivola di fronte sulla panca imbottita.

Il Burger King è quasi vuoto, ma sente comunque troppi sguardi appuntati addosso, impigliati nella nuca. Si calca meglio gli occhiali da sole rossi sul naso, ringraziando di averne trovato un vecchio paio nella tasca della giacca, e incassa la testa nelle spalle, mezzo chinato sul tavolo a farsi da scudo. Rhodey sembra invece del tutto a suo agio e addenta beato come un bambino il suo whopper; Tony apre con cautela la propria scatoletta da asporto, ispezionandone il contenuto con aria critica: doppio cheeseburger, niente ketchup, niente cetriolini. Bravo Rhodes: sa ancora come comprarlo.

Lascia però il panino dov’è, limitandosi a bere un sorso di coca-cola fin troppo annacquata mentre scruta inquisitore il suo migliore amico nel vano tentativo di leggerlo, in qualche modo; nella speranza di aver assorbito per osmosi un briciolo dell’abilità spionistica di Natasha. Il risultato che ottiene è una tabula rasa non molto promettente che gli strappa uno scatto snervato del piede contro il sostegno del tavolo.

«L’intento di tutto questo teatrino sarebbe…?» proferisce infine dopo un paio di minuti, durante i quali Rhodey non si è minimamente preoccupato di avviare una conversazione, se non una muta e piuttosto vorace col proprio panino.

«Cercare di farti vivere come una persona normale,» replica dopo aver deglutito con calma, sempre con quella flemma imperturbabile. «Se non lo mangi tu, lo mangio io, anche se toglierci i cetriolini è un sacrilegio,» lo avverte poi, additando il suo pasto ancora intatto.

Tony sbuffa appena un sorriso, ma contrae nervoso le dita a quella mancata risposta. Si chiede cosa sia successo di così catastrofico per spingere Rhodey ad ammansirlo a suon di cheeseburgers. L’ultima volta che l’ha fatto, lui era appena sopravvissuto a New York. E ha avuto il primo attacco di panico. Il ricordo gli invia una scia di gelo lungo la spina dorsale.

«Rhod, sono il primo a cui piace scherzare e girare intorno alle cose,» ritenta, corrucciato. «Ma qui stai facendo concorrenza a John Locke in Lost, non credi?» [1]

«In realtà mi sembra di essere piuttosto diretto,» lo contraddice lui, pulendosi col tovagliolo e suscitando una sua eloquente alzata d’occhi al cielo.

Si reclina contro lo schienale e spilucca un paio di patatine fritte, col suo appetito traballante che gli chiude lo stomaco con nodi di nervosismo. Non dovrebbe essere nervoso. Di cosa dovrebbe mai avere paura? Il peggio è già successo, dopotutto; si porta appresso quel “peggio” ogni giorno ingabbiato dietro le costole, ed emerge ogni notte accucciandosi sul suo sterno e nutrendosi d’incubi – e provocandoli, in un circolo vizioso e autotrofico.

Scuote il capo tra sé, scansando un poco il vassoio e lanciando un’occhiata laterale al di fuori della vetrata. Il parcheggio esterno del fast-food è grigio, deserto e invaso di pozzanghere tamburellate dalla pioggia fattasi più intensa. Scorge un paio d’ombrelli in movimento sul marciapiede, in una fugace chiazza di colore che viene lavata via non appena escono dalla sua visuale. Il mondo sembra ancora più spento di quanto non sia, visto così. D’un tratto, Rhodey lascia il proprio panino a metà, poggiandosi a sua volta contro lo schienale a braccia incrociate in una pantomima d’interrogatorio. Tony sente le antenne del proprio sesto senso drizzarsi con una scarica di tensione elettrica.

«Quand’è stata l’ultima volta che sei uscito?»

Tony batte le palpebre, come se farlo potesse dare uno scossone alle parole che ha appena pronunciato e mutarle. Non succede, così si poggia lateralmente su un avambraccio ostentando disinvoltura: non gli piace non riuscire a prevedere le traiettorie, che siano matematiche o reali.

«Ieri mattina, per correre,» risponde poi con ovvietà. «Come ogni mattina, in realtà… dovresti averlo notato, visto che rischio sempre di rimetterci la milza.»

Vede un sospiro esasperato morire sulla bocca di Rhodey, mutato in un lento, calmo inspirare. A volte ha l’impressione che prenda lezioni di yoga a intervalli regolari solo per non mettergli le mani al collo.

«Intendo uscire, Tony,» scandisce infine, sfregandosi uno zigomo col palmo. «Intendo: l’ultima volta che hai fatto qualcosa al di fuori del Complesso.»

«E cosa, di grazia? Organizzare festini e tornare a vent’anni fa? Non mi sembra il caso, visto che tra poco guadagno la medaglietta dei due mesi,» osserva caustico, tirandosi il colletto della camicia a sottolineare quel fatto.

«Esiste una via di mezzo,» ribatte Rhodey, irremovibile. «Un compromesso. Esiste non rinchiuderti tra quattro mura a vegetare, esiste non evitare qualunque viaggio in città come la peste, esiste non evitare noi, esiste questo, adesso,» sbotta, prendendo il bordo del suo vassoio e sbattendolo piano sul tavolo in un rumore di plastica contro plastica.

A quel punto Tony si toglie gli occhiali, poggiandoli sul piano con un gesto misurato nonostante il fremito che gli attraversa il braccio sinistro e le proprie sopracciglia che si corrugano di riflesso, senza che lui possa fare molto per evitarlo. Scocca occhiate laterali attorno a sé, ai colori vivaci del fast-food specchiati nella vetrata ingrigita da nuvole e pioggia. La scintilla di realizzazione che gli sfrigola nel cervello scotta, fa male.

«Fammi capire bene,» dice poi, col tono e il volume della propria voce che si inabissano, acquisendo sfumature tetre. «Tu mi hai trascinato fin qui per farmi una ramanzina da madre apprensiva sul modo in cui impegno il mio tempo libero? Il prossimo passo qual è, organizzarmi le uscite con gli amici e iscrivermi al corso di atletica dell’oratorio?»

«Ti ho trascinato qui per fare quello che stiamo facendo ora,» nega lui, indurendo la voce. «Distrarci. Parlare. Non lo facevi spesso prima, e adesso sei… sei a tenuta stagna, Tony, io non–»

«E pensi che un cheeseburger e una scampagnata sotto la pioggia siano un buon mezzo per “scassinarmi”?» lo interrompe lui, e inizia a pulsargli a sbalzi e singhiozzi il cuore mentre s’infervora. «Cristo, Rhodes! Non tento più di affogarmi nell’alcol e non sono più in stato catatonico, ma non puoi pretendere che mi stampi un sorriso in faccia, mi metta in ghingheri e vada rimorchiare come a ventun anni per “elaborare il lutto”!» sbotta in un sibilo, con una bolla di dolore che gli scoppia in gola prima di raggiungere le labbra.

Rhodey si irrigidisce, e Tony coglie un lampo ferito nei suoi occhi; lo vede chinare appena il capo, sfuggendo il suo sguardo e negando quasi tra sé.

«Non pretendo questo,» riprende, sotto la pressione del suo sguardo alterato. «Vorrei solo, egoisticamente… rivederti,» formula poi, gesticolando appena in un modo troppo vago per essergli comprensibile. «Rivedere te, trovarti in laboratorio mentre traffichi e armeggi e crei qualcosa… non impegnato a distruggerti i pugni su un ring, a rintronarti con la burocrazia che odi o a vegetare su un divano leggendo roba che non ti è mai interessata.»

Tony deglutisce a vuoto e stringe le mani sul tavolo, guardandolo fisso e sentendosi svuotato, come se quello scatto avesse sublimato la sua furia in u neccesso di calore. Fissa il suo migliore amico e cerca di vederlo, oltre a quella che ha asetticamente etichettato come una manipolazione per costringerlo a parlare, oltre all’istinto di rifuggire ogni tipo di attenzione o approccio che lo costringa a schiudere spiragli vulnerabili. E scorge una mano tesa verso di lui, come sempre, con quei modi un po’ troppo diretti e quasi coercitivi che l’hanno però rimesso in piedi così tante volte da averne perso il conto.

Di nuovo, come mesi fa, vorrebbe spiegargli tutto in termini scientifici, elaborare una formula o un teorema che si adatti a lui e converta in matrici numeriche quelle che sono solo emozioni ineffabili. Ma se all’inerzia trovava un qualche riscontro reale e fisico, ora non sa come dare spiegazione all’improvviso aumento del peso specifico di quella che, crede, potrebbe essere la sua anima. Il suo essere; il suo nucleo, che si addensa e gli si pianta di traverso in mezzo al petto e nello stomaco e nei talloni rendendo massacrante qualunque movimento. Una zavorra che scaturisce da lui stesso, da dentro, e di cui non sa come liberarsi; che patina il vuoto ma non lo riempie del tutto. Lo blocca, gli paralizza mani e cervello e incatena il genio. Gli verrebbe da gridare per la frustrazione, anche se gli uscirebbe solo un rantolo asfittico e privo di voce. Sente nel retro dei propri pensieri una presa gentile che cerca di trattenerlo per i capelli e che associa istintivamente a Pepper, con un sobbalzo del cuore, e la asseconda adagiandosi nella sua mano gentile, calmante. [2]

Butta fuori un respiro, e con esso gli ultimi scampoli sfilacciati di rabbia; giunge i palmi davanti a sé e si pianta i pollici sulla fronte, a premersi le sopracciglia in un riflesso di esausto nervosismo. Trattiene l’impulso inderogabile di rimettersi gli occhiali e tornare nella loro penombra rossastra.

«Lo so che non è quello che vorresti vedermi fare. Lo so che sono, forse, al 15% delle mie potenzialità. Lo so che devo sembrare patetico e lo so che sto rinnegando l’intera filosofia del “correre prima di camminare”, e stronzate simili,» si costringe ad ammettere infine, in un mormorio che quasi si perde nel chiacchiericcio del locale. «Ma è tutto quello che riesco a fare.»

Elimina la barriera delle proprie mani, trovando Rhodey che lo scruta attento. Un riflesso invecchiato, stinto, ma ancora nitido, del ragazzone irruento e impacciato che all’alba di quel gelido dicembre si è presentato sulla porta di casa sua con la divisa ancora addosso e un sacchetto di cheeseburger per fargli capire che il mondo non era finito. [3] Adesso è finito… e al tempo stesso non lo è. Non può essere del tutto finito, se il suo migliore amico è ancora lì davanti a lui, col solo intento di strappargli di testa i pensieri velenosi che gli infettano i neuroni.

«E questo?» chiede allora Rhodey, con un moto cauto delle braccia a indicare l’ambiente circostante. «Questo riesci a farlo?»

Non c’è ironia nella sua voce, né scherno. È una semplice domanda che sollecita una risposta sincera alla quale deve seriamente pensare. Un “come stai?” camuffato tra le righe e al quale per una volta non vuole sfuggire, nemmeno dentro di sé. Come sta? Beh, ha una leggera fame. Non ha dolori fantasmi riconducibili a vecchie battaglie. Il panno scuro che gli occlude la testa è appena scostato e lascia trapelare il riverbero di una giornata uggiosa, ma tranquilla. Normale.

Quel senso di normalità che si trova sempre a inseguire e che non ha mai davvero fatto parte della propria vita, nemmeno in tempi più sereni privi d’orrore e cenere. Di quella normalità, ne trova uno spicchio infinitesimale lì, in uno squallido fast-food di provincia dove l’odore di fritto regna sovrano, il pavimento in linoleum si scolla dal fondo scricchiolando ad ogni passaggio di piedi e il condizionatore mal tarato gli soffia aria calda e stantia sul collo. Lo avvolge rassicurante col picchiettio della pioggia contro il vetro.

«Annegare i dispiaceri nella Coca-Cola annacquata e nel colesterolo mi sembra un passatempo abbastanza sopportabile,» scrolla infine le spalle, afferrando il suo cheeseburger e addentandolo con un gesto svogliato che cela un pizzico di ritrovata golosità. «Freddo fa schifo,» proferisce a mo’ di giustificazione, inclinando appena un angolo della bocca piena verso l’alto.

Rhodey scuote la testa di rimando, ma un sorriso appena intuibile albeggia di rimando sul suo volto mentre lo imita, cogliendo il segnale.

«Non sto mica con le mani in mano, comunque. Quel 15% di carica residua fa faville ed è targato Stark,» riprende a parlare Tony, con fare leggero che un po’ sente proprio e un po’ no.

Un po’ in bilico, come sempre, tra l’accettazione di poter respirare e concedersi di farlo a pieni polmoni, e il rubare invece all’aria una molecola d’ossigeno alla volta, timoroso di consumarla e sottrarla ad altri. Ne prende una boccata, adesso, rapida ma ampia, e sente il petto espandersi un poco con un senso d’indolenzimento piacevole, di muscoli che tornano ad essere usati. Rhodey emette un piccolo sbuffo, per poi stuzzicarlo:

«Tipo? Torni a salvare i gattini sugli alberi?»

«Non scherzare,» lo redarguisce svogliato, scegliendo di prenderla come una semplice battuta, anche se un pizzico di speranza ce l’ha letto comunque. «Nah, ma ho fatto un reboot completo di FRIDAY e apportato qualche miglioria qua e là… così sarete più coperti quando voi andrete a salvare gattini sugli alberi.»

Rhodey alza gli occhi al cielo, ma continua ad ascoltarlo, con un brillio negli occhi che, realizza Tony, forse deriva proprio dal fatto di sentirlo parlare e parlare di ciò che ha sempre amato fare; e non rispondere a monosillabi o scansare ogni conversazione con delle molle da camino come fossero carboni ardenti.

«Anche il FEAST va a gonfie vele. E di conseguenza il RESCUE,» aggiunge, facendo fuori al contempo una manciata di patatine fritte. «E questo vuol dire che May e Natasha sono contente, e che io sono un uomo con due cause di morte probabile in meno di cui preoccuparmi.»

«Quella di farti rompere l’osso del collo sul ring rimane, però,» gli fa notare lui, con un cenno del mento a spronare una risposta in merito.

Tony si limita a scrollare le spalle, senza negare.

«Sono al sicuro: Nat non mi mette fuori gioco solo perché le ho promesso dei fondi, sono stato previdente,» butta lì, cercando di minimizzare la cosa con un filo di sarcasmo. «E perché se non mi sfiancasse a suon di allenamenti rischierei di ridiventare un po’ troppo me stesso, e nessuno vuole un Tony Stark al massimo potenziale a zonzo per il Complesso. Finirei per starmi tra i piedi da solo.»

Rhodey comprime appena le labbra, in risposta alla mestizia che ha lasciato trapelare dalle sue parole suo malgrado, ma ignora quell’affermazione e torna alla carica:

«Natasha ci sa fare,» concede infine, con una buffa smorfia indecifrabile. «E dev’essere davvero interessante, se riesce nel miracolo di inchiodarti alla scrivania per ore,» conclude, affrettando le parole.

«È terribilmente convincente, piuttosto. E 
“per ore” è un’esagerazione,» schiocca la lingua Tony, glissando sulla sua insinuazione.

«Beh, allora avete uno strano concetto di tempo, visto che sei sempre irreperibile.»

Tony morde tra le labbra il bordo della cannuccia, interrompendo di scatto l’afflusso di caffeina e zucchero al cervello, e scruta di sottecchi l’amico mentre questi torna a concentrarsi sulla sua porzione di patatine con intensità sospetta. È… un rimprovero, quello che ha appena colto?

«Aspetta… un attimo,» prende tempo, assottigliando gli occhi e notando come quelli dell'amico si siano fatti sfuggenti, mentre la realizzazione sorge improvvisa nel suo cervello. «Oh, buon Dio… tu sei geloso,» proferisce, senza poi trattenere una mezza risata incredula che si prolunga nel vederlo strabuzzare gli occhi in una malriuscita esternazione stupefatta.

«Io? Ma che diavolo dici?»

«Quello che ho detto,» ripete ovvio lui, trattenendo l’ilarità con un verso nasale e non molto elegante, il dorso della mano che corre a celare la bocca e le pieghe agli angoli delle labbra.

A quel punto Rhodey incrocia strettamente le braccia sul petto con fare sostenuto, squadrandolo storto in modo quasi caricaturale.

«Hai finito?» lo interroga, alzando le sopracciglia con un fare impassibile che risulta ancor più comico.

«Nah, ne ho per altri dieci minuti: rimani in attesa,» continua a sogghignare lui, facendosi liberamente beffe di quel risvolto imprevisto. «Rhodey, seriamente?» chiede però subito, scrollando la testa incredulo e puntellandola sul pugno, scrutandolo come se stesse assistendo a una telenovela particolarmente avvincente.

Lui alza i palmi, l’uomo innocente più colpevole dell’universo.

«Non ho detto questo,» esordisce, controllato, per poi avere un fremito e puntare le braccia sul tavolino, continuando con più fretta. «Però, sì, ho notato una… diversa ripartizione del tempo che dedichi a chi ti sta intorno, che non è chissà quanta gente. E io, per qualche motivo, o errore, ne esco decisamente sconfitto, quindi presumo…»

«Alt, frena, pausa, time-out,» lo blocca all’istante Tony, piantando le dita tese sul palmo e facendosi più serio. «Il tuo unico errore è stato non lasciare che un amico evidentemente di merda si autodistruggesse… vediamo… ventotto anni fa,» conclude, indicandolo solennemente con una patatina fritta che poi divora con gusto. «Se non mi avessi ripescato allora adesso saresti un uomo libero, Mr. Musone. Pensaci.»

«Non dire cazzate,» sbotta lui, scontroso come sempre e quasi offeso.

«Richiesta impossibile,» constata lui, cacciandosi in bocca l’ultimo pezzo di cheeseburger e prendendosi una pausa meditativa mentre mastica.

Rhodey sospira pesantemente a quelle parole, e sotto il suo velo imperturbabile riesce a cogliere della delusione, forse anche della mera tristezza al pensiero di venire allontanato, rimpiazzato così dal suo migliore amico. Un’erronea interpretazione dei fatti. Come se potrebbe mai accadere: non riesce nemmeno a immaginare la propria vita senza di lui, neanche nel più disastrato degli universi, ed è grato, infinitamente grato di averlo qui con sé quando tutto il resto è ormai scivolato via. È un confronto che non sussiste, quello di cui parla. Natasha è una folata d’aria fresca – a tratti un po’ corrosiva e decisamente infiammabile – che lo destabilizza e gli ricorda più spesso di respirare, a dispetto di quanto possa essere difficoltoso. Rhodey… Rhodey è terra, è suolo solido su cui piantare i piedi e rimanere in equilibrio. Porta con sé quel sentore di casa anche adesso che è così flebile, incastonato dentro di lui nel vuoto appena sotto al cuore.

«Lo sai, vero?» spara a bruciapelo, facendogli inarcare interrogativamente le sopracciglia.

«Lo so cosa?»

«Lo sai,» scrolla le spalle lui, cedendo a un sorriso sincero, più morbido, che gli distende la tensione nelle guance. «Lo sai dal 1985, secondo semestre, quando ho messo quella trappola elettrica nell’armadietto di Hammer per averti deriso in pubblico.» [4]

Rhodey schiude la bocca in un moto esterrefatto, e lo indica di colpo, boccheggiando; Tony sorride, furbetto e compiaciuto.

«Un momento, sei stato…»

«Voilà,» conferma, con uno svolazzo teatrale delle mani a mostrarsi con un mezzo inchino. «E ci arrivi solo adesso?»

«Tony! Hanno pensato tutti che fossi stato io per ripicca e mi hanno sospeso per due settimane!»

«Beh, poi mi sono fatto sospendere anch’io con quello scherzetto al professor Clarke… ti ricordi? Quando ho presentato la lezione di biotecnologie – no, che non mi ricordo, ero sospeso! – al posto suo… e poi abbiamo passato due meravigliose settimane insieme a fonderci il cervello con Stack-Up [5] e a costruirci un cabinato da salotto, quindi direi che è andata bene, no?» ride Tony, difendendosi nel frattempo dagli attacchi maneschi di Rhodey, che cerca di rifilargli uno scappellotto in ritardo di qualche decennio.

«Sei – un – deficiente,» conclude a spezzoni, riuscendo infine nell’intento e mettendo a segno un colpetto sull’orecchio.

Tony ride di nuovo, cedendogli quel punto sempre valido.

«Quindi lo sai?»

«Sì, lo so!» sbotta Rhodey, lasciandosi scappare un ampio e fugace sorriso misto a risata dietro la facciata di falsa indignazione. «E ora muoviti a offrirmi il pranzo, matricola!»

Tony non se lo fa ripetere, batte in ritirata verso la cassa portafogli alla mano e ordina un’altra porzione di cibo spazzatura per entrambi invece di saldare il conto, senza per questo ottenere alcuna protesta in merito. Sogghigna sotto i baffi, scansando lo sguardo truce e divertito di Rhodey: gli piace, quella normalità.

 
§
 
 
Il viaggio di ritorno è rapido, ma non abbastanza da impedire alla conversazione di nascere di sua sponte, incontrollata, anche dopo la parentesi di goliardia in cui si sono annidati per quel breve lasso di tempo. E questo perché, se Rhodey sa essere illeggibile nei suoi intenti precisi, è anche assolutamente incapace di fingere noncuranza o indifferenza, e sembra stamparsi ogni turbamento a caratteri cubitali sul suo volto impassibile.

In questo caso la spia d’allarme è la sua concentrazione quasi spasmodica per la strada perfettamente diritta, gli specchietti e il quadro comandi, neanche fosse nella cabina di un F22 in fase di tracciamento. E incapace però di allineare i mirini e far partire il colpo. Tony quasi impreca ad alta voce: e poi sarebbe lui, quello schivo e scostante.

«Ehi, Winnie,» lo richiama, quando sono a poco meno di cinque minuti dal Complesso, nel verde degli alberi che costeggiano l’Hudson. «La sessione del “chiedi a Tony Stark ciò che vuoi senza essere mandato a quel paese” sta per scadere, quindi ti conviene approfittarne ora.»

Lui non risponde, finge un’espressione perplessa che non ingannerebbe nemmeno un infante e si lascia infine sciogliere in un lungo sospiro – di nuovo quelle lezioni di yoga sottobanco, Tony ne è certo. Sta per fare una battuta idiota in proposito, lasciando cadere l’argomento, quando Rhodey ritrova il dono della parola:

«Tones, non prenderla per il verso sbagliato…»

Vezzeggiativo, più mani parate avanti, più tono conciliante: Tony si arrocca sulle proprie postazioni difensive in automatico.

«E dirmi così mi aiuterà sicuramente a non farlo, giusto?»

Rhodey sospira di nuovo.

«Natasha è il motivo per cui i Vendicatori esistono ancora, gliene do atto,» esordisce, prendendolo in contropiede, visto che il discorso gli pareva chiuso già tre cheeseburger fa. «Per lei ormai siamo diventati una sorta di… famiglia adottiva.»

Tony scuote appena la testa, non a negare quell’affermazione, ma a correggerla:

«Siamo la sua famiglia a tutti gli effetti, e lo eravamo anche prima. Ha perso tutti, Rhod. Più volte. Se ci fosse una competizione tra chi ha perso di più nella Decimazione, lei la vincerebbe a mani basse,» continua con macabro umorismo, stando attento a non lasciarsi sfuggire nulla di preciso, anche se nota il lampo di curiosità sul volto di Rhodey.

La testa gli si riempie di vuoti non suoi che però ha potuto sfiorare; la sola idea di sondarne le profondità gli provoca un senso di nausea e asfissia, e se ne tiene bene alla larga.

«Dove volevi arrivare? C’è la magagna, vero?» lo sprona poi, impaziente.

«Volevo arrivare al fatto che, nonostante tutto, è… incostante. Non devo spiegarti cosa intendo.»

«Mi stai dicendo di non fidarmi?» deduce pronto lui con una nota aggressiva, ma non trovando quei pensieri poi così ridicoli e fuori dal mondo.

«So come sei fatto, e so anche che non reagisci bene quando qualcuno non si comporta come vorresti o ti lascia indietro senza preavviso. Ti sto dicendo di non affezionarti

Tony sospira a mezza voce, intuendo un “Siberia” tra le righe anche senza sentirlo pronunciare: no, non reagisce affatto bene a tradimenti e voltafaccia. E Natasha non è esattamente un esempio primo di trasparenza. Scuote appena la testa, di nuovo senza intenderlo come un diniego, ma pensa in sordina al sostegno che ha trovato in lei, al suo calore impensato in mezzo al gelo, alla loro tacita promessa di reciproca fiducia. Ma quanto valore può avere, per qualcuno abituato a cambiare identità in un battito di ciglia, a cambiare se stessa pur di sopravvivere in un mondo a lei ostile? Un mondo che, in qualche modo, lui sta cercando di renderle meno ostile. Non è riuscito a salvarlo, questo mondo, e non avrà una seconda occasione per provarci di nuovo – quel pensiero gli brucia gli occhi col fumo di futuri bruciati – ma almeno questo può farlo. Sentirsi utile a qualcosa, a qualcuno.

Quelli di Rhodey sono timori dannatamente sensati… solo che l'amico è fuori dall’equazione e lui invece c’è dentro fino al collo assieme a lei: debiti, sensi di colpa, emozioni difettose e tutto il resto. Tutto il resto, soprattutto, che cammina su un confine sottile e fin troppo friabile oscillante tra la dipendenza, la fiducia e il puro masochismo. Si sta affezionando, e non dovrebbe.




 

Note:

[1] Chi è abbastanza attempato da aver seguito la serie tv Lost capirà perfettamente cosa intende Tony. Per tutti gli altri: vi siete risparmiati molti lambiccamenti mentali, in quanto il personaggio in questione parla per enigmi per quasi sei stagioni.
[2] Una piccola eco del passaggio dell'Iliade in cui Atena frena l'ira di Achille trattenendolo per i capelli.
[3] Miei headcanon, più una citazione rielaborata del commissario Gordon da Il cavaliere oscuro – Il ritorno.
[4] Tutti riferimenti ad altri miei headcanon rispetto all’adolescenza di Tony e Rhodey. Clarke è un omaggio all’omonimo professore di scienze di Stranger Things e Hammer ha canonicamente frequentato il MIT con Tony [come menzionato in Iron Man 2]
[5] Stack-Up è un vecchio gioco per NES del 1985.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori!
Finalmente, dopo mesi di stesura, sono riuscita a completare questo benedetto capitolo! Rhodey, per quanto io lo ami, riesce sempre a rendersi odioso ogni volta che mi trovo a doverlo muovere e gestire, lo possino.
Avviso: Non so esattamente quanti di voi seguano sia qui su EFP che su Wattpad, ma questo capitolo è un inedito, e da qui inizieranno a vedersi delle modifiche più o meno sostanziali per quanto riguarda la trama – o meglio, l'evoluzione del rapporto tra Tony e Natasha. Questo per dire che potreste trovare qualche sorpresa e variazione qua e là – compreso il rating, scalato da rosso ad arancione. Come ho detto più volte, quella su Wattpad, per quando dotata di un senso e una coerenza propri, è a tutti gli effetti una bozza ;)

Ringrazio immensamente shilyss, _Atlas_, Miryel e T612 per aver recensito gli scorsi capitoli, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste o che leggono soltanto <3
Alla prossima, spero in tempi umani,

-Light-

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Capitolo 18
*** Parte seconda - Capitolo 17: Tentativi ***


.17.

Tentativi

 
 
 
 
 
“The stars collide
They're beautiful and much maligned
In a universe where you see the worst
And it's up to you to fix it
Now you've worked it out
And you see it all”
 
[Aftermath – R.E.M.]
 
 

Aprile 2019, Complesso dei Vendicatori

«Happy?» chiama Tony nella cornetta, inclinandosi pericolosamente sulla sedia con un ginocchio puntato contro il bordo del tavolo, mentre Natasha lo osserva in palese attesa del momento in cui si schianterà a terra.

«Tony? Tony, sei tu?» replica l’amico, con qualche secondo di ritardo e uno stupore malcelato.

«Uh… sì. Sì, lo so che non mi faccio sentire da un po’, ma… sei con May?» chiede poi senza pensare, colto dal dubbio e pregando di non aver interrotto nulla.

«No. Cioè, sto per tornare a casa adesso, quindi non ancora.»

«Oh. Bene. Bene,» ripete stentando ancora a realizzare il fatto che loro due convivano e cercando di smorzare la propria incredulità. «Bene, no?»

«Molto bene,» conferma Happy, e percepisce il mezzo sorriso nella sua voce. «Tu?» chiede, con una cautela che gli ricorda quella di qualcuno che si avvicina a una bomba innescata.

«Meglio. Relativamente. Con… molte clausole,» si sforza di dire, tendendo il ginocchio per dondolarsi un poco più in bilico. «Ma… sì, meglio,» annuisce tra sé, ignorando le occhiate non troppo discrete che gli invia Natasha e pentendosi di aver voluto fare la chiamata davanti a lei e non in privato. «Senti, sai… sai come stanno messe le Industries, di preciso?» si affretta a chiedere, sterzando con decisione da ogni argomento di natura personale.

«Cosa? Le Industries? Dipende da come lo…»

«In senso monetario. Mi servono i bilanci degli ultimi sei mesi per il progetto RESCUE e… un quadro generale basterà, giusto per capire quanto siamo vicini al lastrico e se devo sfruttare l’armatura per chiedere l’elemosina in metropolitana,» chiede in fretta, sfregandosi il pizzetto e ostentando noncuranza, mentre una parte di sé prega che nessuno squalo abbia preso le redini del consiglio d’amministrazione mentre lui era assente, in un’odiosa replica del 2008.

«Contatto Bambi e ti invio tutti i resoconti appena arrivo da May. Sarà contenta anche lei,» risponde Happy, con più prontezza del previsto, e lo sente sorridere di nuovo mentre parla.

«Ottimo,» annuisce lui, buttando fuori un respiro un po’ costretto. «Hap, quando la vedi, dille… dille che…» gli si spezzano le parole in bocca: non c’è un modo neutrale per salutarla, e chiederle scusa sarebbe ipocrita, meschino. «… che ci sono. Solo questo,» conclude, col mento puntato sul petto a nascondere lo sguardo.

«Lo sa, Tony,» lo rassicura lui, con voce ferma e un piccolo sospiro triste. «Lo sa. E non ce l’ha con te.»

Lui deglutisce a vuoto, tendendo le labbra per non contraddirlo, e poggia di nuovo i piedi a terra curvandosi sul tavolo.

«Sì, okay, ma tu diglielo lo stesso,» ripete, chiudendo poi la chiamata senza attendere risposta.

Sente lo sguardo di Natasha addosso – ormai ha imparato a riconoscerne l’impronta, la lieve pressione che gli esercita tra le scapole – ma tiene il proprio fisso sulle scartoffie dinanzi a sé.

«Bene, tra poco sapremo se quei fondi che ti ho promesso esistono davvero,» annuncia, cercando di usare un tono di voce neutrale, e la vede annuire appena con la coda dell’occhio.

Torna a concentrarsi sulle carte e il principio di emicrania inizia a farsi più insistente, accerchiandogli le meningi; sospetta che oltre ai propri pensieri poco gradevoli c’entri anche il carattere microscopico in cui il mondo si ostina a stampare i documenti legali. Quello, almeno, non è cambiato.

«Queste dove vanno?» chiede distratto in un mezzo borbottio, sventolando sotto al naso di Natasha le domande d’affido temporaneo che ha appena compilato.

«Stark, giuro che se apri di nuovo bocca nei prossimi dieci minuti ti darò degli ottimi motivi per non parlare,» lo zittisce la donna, schiodando a malapena gli occhi dai moduli che sta firmando e rinstaurando il clima di terrore che regnava prima della telefonata.

Non le dà del tutto torto, visto che nell’ultima ora è stato leggermente pedante con le domande di natura burocratica. È un miracolo che non l’abbia ancora accoltellato con la penna.

«… terrificante, Romanov, ma avrei davvero bisogno di sapere dove vanno questi cosi. Non vorrai perderti dei minori in giro, spero,» la incalza lui impassibile, agitando ancora il pezzo di carta a mezz’aria ad attirare la sua attenzione.

Natasha sospira e si decide a puntellarsi su un gomito per sporgersi verso di lui e i moduli che sta compilando, senza lesinare sull’occhiata omicida che gli rivolge.

«Vanno spediti via fax al FEAST,» annuncia poi, lapidaria, lasciandosi ricadere di peso sulla propria sedia.

Tony è certo che si stia pentendo di aver accettato il suo aiuto in prima persona per gestire le scartoffie del RESCUE, anche se non l’ha ancora esternato esplicitamente. Sa di essere fastidioso, quando viene inchiodato a una scrivania, e avrebbe dovuto sapere che quel genere di distrazione gli sarebbe andato stretto. Si rigira la penna tra le dita, scuotendo appena la testa.

«Era… era Pepper, quella brava a districarsi in questo genere di cose,» mormora poi, sferrando un calcio mirato a quella porta blindata che sa di non dover tenere così chiusa, almeno non quando Natasha schiude porte che avrebbero molta più ragione di rimanere ben serrate. «Io non ho mai davvero imparato.»

Neanche ad annodare le cravatte. Neanche a cucinare un’omelette decente. Lascia sibilare un respiro tra i denti, sfregandosi la punta del naso e pentendosi di aver parlato. Peter, Pepper. Sono , anche se non ne sente più le voci e anche se non crede più di vederli ai margini della propria visuale. Ombre nella sua testa prive di riscontro, che si insinuano però nelle sue parole quasi a reclamare per loro un attimo di vita fasullo.

«Io non ho mai neanche iniziato,» replica tranquilla Natasha, a bassa voce. «Non sono mai stata portata per il lavoro d’ufficio, anche se Hill e Fury ci hanno provato, a impormelo,» conclude con una lieve alzata di spalle, senza mai alzare lo sguardo e fingendo di non aver sentito la prima parte della sua affermazione.

Tony serra appena la mascella, come sempre quando capta i nomi degli scomparsi, ma Natasha rimane imperturbabile, almeno esternamente. Forse anche internamente. Non sa più cosa pensare di lei, delle sue emozioni.

«Potresti…» lascia in sospeso la frase, picchiettando la punta della biro sul tavolo con improvvisa titubanza, e continua solo quando Natasha lo fissa di sottecchi, in attesa. «… fare entrambe le cose. Lavoro d’ufficio e lavoro sul campo, intendo,» ragiona quindi senza guardarla, con un lieve scatto dei palmi verso l’alto e un gomito che si poggia disinvolto sullo schienale della sedia.

«Non è una buona idea,» lo smentisce lei senza la minima vibrazione a incresparle la voce, che si srotola piatta e monocorde mentre riprende a lavorare.

Tony comprime le labbra, sbiancandole un poco, e fa oscillare rapidamente la penna tra due dita. Ma riabbassa lo sguardo sui propri incartamenti senza insistere, recependo senza difficoltà la sua richiesta di distanza da quell’argomento. L’ha schivato fin troppe volte senza mai irritarsi apertamente, come se sapesse che lui ha ragione, nel volerla spingere a riprendere il ruolo di agente operativa, ma non si fidasse abbastanza di se stessa per soppesare lucidamente quella possibilità.

«Potrei dirti lo stesso, comunque,» gli rimpalla dopo qualche secondo, facendolo quasi trasalire. «Abbiamo una seria carenza di personale e Iron Man ci farebbe molto comodo, in alcune…»

«No,» la tronca di netto lui, con molta meno moderazione di quanta ne abbia usata lei. «L’armatura sta bene dove sta: appesa al chiodo,» conclude mordace, riportando gli avambracci irrigiditi sul tavolo e chinando fermamente il capo per leggere così da escluderla dal proprio campo visivo.

Rinuncia a quella barriera dopo pochi minuti, poggiandosi con forza contro lo schienale fino a farlo cigolare, e davanti a sé trova Natasha che lo osserva placidamente da chissà quanto, le sopracciglia inarcate di mezza tacca nella sua direzione. Tony stringe il pugno sinistro in un riflesso condizionato che gli tende i muscoli del suo braccio più malmesso, rievocando alla mente vecchie battaglie. Trattiene l’urgenza di portare una mano allo sfregio sul fianco, irritato da un pizzicore sommesso. Distoglie lo sguardo da lei, puntandolo verso la vetrata affacciata sul campo d’addestramento deserto. L’erba incolta preme contro i margini di cemento, mentre foglie e terra intersecano le linee bianche e regolari che lo dividono. Gli ronza in testa la recente discussione con Rhodey, quei suoi pungoli fin troppo sensati a fare qualcosa.

«Tu vuoi tornare,» spara infine Natasha, con mira infallibile che gli pianta il proiettile proprio sotto al cuore. «E potresti, al contrario di me.»

«Perché mai tu non potresti?» la interroga svelto, sfuggendo all’affermazione principale e girando di nuovo il capo verso di lei, due rughe perplesse a incidergli la fronte in mezzo alle sopracciglia.

Lei lo fissa inespressiva, e non gli riesce di capire se quella sia stata un’informazione ceduta in modo volontario, così da stuzzicare il suo interesse, o semplicemente scivolata tra le maglie di segretezza che la avviluppano. La risposta che riceve non lo aiuta in nessun senso, criptica come sempre:

«Falsi contatti. Non si può fare affidamento su un operativo difettoso,» conclude con una scrollata di spalle, come se fosse il concetto più semplice del mondo.

Si sistema una ciocca di capelli sfuggita alla treccia che li raccoglie, col biondo che inizia a cedere il passo al rosso, e Tony scorge un tremito nelle sue falangi, nelle sue ciglia che si socchiudono per un istante. Lo fissa negli occhi, con un’aria che sa di sfida e le agita le iridi solitamente immote.

Tony inclina il capo in avanti, le dita strette sui bicipiti, incerto se riferire quell’affermazione ai “difetti” racimolati nella Stanza Rossa o, piuttosto, a falle più recenti dovute a perdite troppo profonde; le stesse che congelano a lui gli organi interni ogni volta che pensa ad Iron Man. E alla sua morte, su Titano, con un pugnale conficcato nel fianco a stillargli via sangue e vita. Una fitta gli punge la milza perforata.

«Concordo. Quindi dovresti intuire perché sarebbe controproducente ricacciarmi dentro quella lattina di Coca-Cola ammaccata,» dichiara infine, cogliendo la palla al balzo e mettendo da parte l’empatia in favore di una via di fuga rapida.

«Ma vorresti,» insiste lei, con tenacia insolitamente esplicita.

«Piantala, Romanov,» ribatte cupo, quasi in un ringhio difensivo, e nel vedere una scintilla di vittoria nei suoi occhi verdi finisce solo per irritarsi di più. «Pensavo che la nostra “partnership” dovesse essere una “distrazione”, non una trappola,» sbotta quindi, con filo aguzzo a bordare le sue parole.

Lei sembra quasi divertita dal suo disagio, come se cercare di metterlo all’angolo fosse il suo modo per distrarsi. Un po’ sente di meritarselo, ma non smussa lo sguardo che le ha piantato contro.

«Hai cominciato tu. E avevi detto di essere disposto a “dare una mano”,» osserva con schiettezza, con un piccolo scatto laterale del capo e un rapido cenno della biro verso di lui.

«A te. Non… non certo alla banda di casi umani che ti sta appresso,» si affretta a specificare precipitosamente, tornando al riparo delle proprie barriere in fretta e furia, con la sensazione di essersi sporto troppo su un crepaccio rischiando di cadervi a peso morto. «Andiamo, mi ci vedi, a dare una mano a Rogers? Che dovrei fare, aiutarlo ad attraversare la strada?» sbuffa poi, con un sorriso sardonico e maldestro a incrinargli le labbra contratte.

Torna a occuparsi delle sue scartoffie con rinnovata dedizione, apponendo un timbro di chiusura definitiva alla discussione. Natasha sembra indecisa tra l’assecondare quella sua scelta e il braccarlo di nuovo per fargli ammettere che, , l’idea di rimettersi l’armatura l’ha sfiorato… e gli causa un principio di attacco di panico ogni volta che gli veleggia per sbaglio in testa. Alla fine, però, opta per concederli una tregua lasciando posto al loro solito silenzio rassicurante, col solo rumore delle penne che grattano sui rispettivi fogli a colmarlo.

Ma, se Tony ha imparato a conoscere Natasha anche solo un minimo, sa che non è affatto finita lì.


 
§


Natasha, poco ma sicuro, gli ha messo la pulce nell’orecchio. Di quelle irritanti, insistenti e fastidiose che ripetono sempre la stessa frase in modo logorante. Iron Man. Iron Man. Un mantra infinito che gli rode i timpani e che cerca di mettere a tacere con tutto se stesso.

Può essere utile anche come Tony Stark, continua a ripetersi. Non ha bisogno di uno strato di metallo addosso. Cristo, Pepper glielo ripeteva in continuazione, gliel’ha ripetuto per quindici anni ininterrottamente, cercando di inculcargli nel cervello quel concetto che lui rigettava strenuamente. Gli viene la nausea a pensare che le stia prestando ascolto adesso.

A forza di imporselo, si ritrova davvero impegnato senza nemmeno realizzare bene come. Scopre di nuovo cosa voglia dire avere poco tempo per fare tutto ciò che ha in mente di fare, e si bea di quella sensazione e del fatto di non riuscire a percepire con chiarezza ogni suo singolo pensiero anche senza ricorrere all’alcol.

La situazione alle Industries è a dir poco catastrofica: il cercare di arginarla e rimettere in sesto la scomoda eredità piazzatagli sulle spalle da suo padre inizia a divorare gran parte delle sue giornate, tra riunioni, telefonate e montagne di burocrazia rimaste ad ammuffire per mesi durante la sua assenza. Non rischia di morire indigente, quello no, ma scopre di doverci andare piano con le donazioni e con le opere di beneficenza.

Il resto lo divide tra il recuperare una forma fisica decente e l’aiutare Natasha con la sua dose di impegni, avvicinandosi cautamente, un passo titubante alla volta, alla centralina di controllo del Quartier Generale. Si tiene nelle retrovie, schivo e restio a farsi vedere là dentro o a mostrare interesse per le sporadiche operazioni dei Vendicatori… ma è fisicamente lì. È cosciente di come quello sia un punto di non ritorno, e che la spia russa l’ha abbindolato per bene fino ad attirarlo esattamente dove voleva lei, fino a lasciargli sempre più spesso il compito di tener d’occhio i monitor delle emergenze mentre lei strappa un paio d’ore all’insonnia sulla poltrona nell’angolo. È una sconfitta che sa di vittoria, e si trova a non volerla rifiutare.

Questo… questo riesce a farlo, si trova a concludere, durante una notte in bianco che trascorre monitorando a distanza un’operazione di soccorso marittimo capitanata da Rhodey e Steve. Rimane in silenzio, nell’ombra, senza interferire nelle comunicazioni tra i suoi due compagni che non sono nemmeno consapevoli di averlo come osservatore esterno. Ma si occupa comunque di gestire le loro interfacce virtuali in modo che siano efficienti al massimo, di manovrare personalmente un paio di droni da ricognizione e altre mille minuzie di certo superflue, ma che apportano un contributo alla buona riuscita della missione.

E sente un grumo di nostalgia addensarsi nel petto al pensiero di parteciparvi fisicamente, ma l’alloggio per nanoparticelle rimane chiuso in un box di vibranio nei laboratori, dove avrà messo piede si è no tre volte dal suo ritorno da New York, e continua ad esercitare una forza repulsiva in netto contrasto con ogni volontà di ripararlo, anche se c’è un sottile, traballante filo che prova ancora ad attirarlo e che non riesce a recidere di netto.

Non sa bene dove stia andando a parare, con tutto quel fermento mentale che teme lo lascerà a piedi nel pozzo vuoto del suo dolore da un momento all’altro, ma le settimane passano e lui non se ne accorge, in modo positivo, in un modo che aveva dimenticato e gli ricorda anche come si respira.
 

§
 

Quel giorno si trova a scendere in laboratorio volontariamente, con lo stesso passo cauto ma fermo che userebbe un funambolo senza rete di sicurezza. Non è esatto dire che voglia entrare lì dentro: è piuttosto una naturale conseguenza del modo in cui si sono concatenati i suoi ragionamenti dell’ultima mezza giornata. Arrivando all’inconfutabile conclusione che, se davvero ha intenzione di metterli a frutto, deve sedersi a un banco di lavoro e avere sottomano le apparecchiature all’avanguardia che ha installato lui stesso, e non una cassetta degli attrezzi scalcinata e un paio di monitor che vanno in overload – dovrà anche occuparsi della manutenzione informatica, prima o poi, e se lo sta lasciando come impegno d’emergenza per ammazzarsi i pensieri.

Pensieri che al momento si muovono attorno a un singolo concetto basilare, quello che lo rincorre abbaiando da mesi: fare di più. Senza Iron Man. O meglio, marginalmente con Iron Man. Continua a ripetersi che quella che ha scelto è una distanza di sicurezza più che ragionevole, una che non lo farà ritrovare chiuso in quella trappola di ferro che ai suoi occhi assume sempre più i contorni di una vera e propria tagliola per orsi pronta a mordergli le carni.

Apre con titubanza malcelata una serie di schermate a mezz’aria, giostrandosi con un groppo in gola tra le sessioni lasciate aperte l’ultima volta e rischiando di perdere all’istante la propria determinazione. Schemi parziali delle Gemme, il tentativo fallito di ricostruire la matrice di Visione, teoremi senza capo né coda che fluttuano a mezz’aria, alcuni scritti in una grafia febbrile che non riconosce come sua.

I video. Il video recuperato dalla Mark in cui è quasi morto. Aveva avuto la forza di guardarlo una singola volta, alla disperata ricerca di un’intuizione, di un indizio qualsiasi che potesse indirizzarlo sulla giusta via. Aveva trovato solo cenere, parole rotte e occhi che si spegnevano davanti a lui con più nitidezza di quanto riesca a ricordare lui stesso. Non ha guardato i filmati di sorveglianza alla Tower. Non ha mai trovato il coraggio, ma la tentazione maligna lo pungola anche adesso, insensata, come se dopo più di dieci mesi potesse trovarvi un’illuminazione cosmica. Una soluzione a cui non ha mai smesso di pensare, ma che ha rinunciato a costruire con le proprie mani.

Quell’unica soluzione su quattordici miliardi che non smetterà mai di pulsargli nella mente ricordandogli che è vivo per una ragione che lui non è in grado di scoprire né comprendere. Rimane fermo al centro di quell’esercito azzurrino che sembra volerlo circondare per non lasciargli via di scampo, bloccandogli i pensieri e spingendoli a forza verso la voragine di materia oscura spalancata nel suo petto.

“Mi dispiace”
“Tony, torna subito qui–”

Inspira seccamente dal naso e con un gesto repentino chiude in un sol colpo tutte le schermate, liberando lo spazio attorno a lui e rendendo l’aria meno densa, più facile da scomporre in ossigeno. Si rende conto di avere la fronte imperlata di sudore freddo, oltre a un deciso principio di tachicardia, ma irrigidisce i muscoli fino a rischiare un crampo e si impone di non collassare su se stesso. È passato quasi un anno – quasi un anno, gli echeggia in testa come un rintocco funebre – e non sa se quella debba essere un qualcosa che condanni o giustifichi le sue reazioni.

Serra i denti e avvia con gesti scattosi una nuova sessione, borbottando a FRIDAY dei comandi frettolosi. Finalmente, apre di fronte a sé le cartelle relative alla Iron Legion. È praticamente in stato di fermo da Ultron, salvo qualche sporadica armatura di stanza in zone problematiche – ma quale luogo non è problematico, adesso? – e quel paio che tiene da anni in stato dormiente, pronte ad attivarsi in caso d’emergenza. Una per Peter, l’altra per Pepper. Fissa quella rimasta, blue oro, e la lascia dov’è, senza toccarla né modificarne le impostazioni.

Si concentra piuttosto sul resto, sulla sua… armata di droni che non è più un’armata, quanto uno sparuto gruppo di ferraglia troppo malmessa per cadere sotto il controllo di Ultron, all’epoca. Natasha è stata molto chiara, nel suo essere allusiva: i Vendicatori, se ha ancora un senso chiamarli così, sono pressoché inutili. E forse questo può essere il suo modo di dare una mano… senza darla direttamente, mettendo così a tacere Natasha, le pretese inespresse dei suoi ex-compagni di squadra, le aspettative del suo migliore amico e il proprio rovente senso di colpa che vorrebbe spingerlo a calci in culo in un’armatura per dissolversi in un altro provvidenziale portale alieno o esplosione atomica.

Butta fuori un respiro e scardina i propri occhi dal box in cui ha rinchiuso l’alloggio per nanoparticelle, accostandosi invece a un banco da lavoro libero. Tamburella sulla superficie liscia e metallica, e quello è l’unico suono che gli picchietta i timpani. Vi fa aderire i palmi, percependo la pressione sui calletti un po’ più smussati per la lunga inattività, e si concede di chiudere gli occhi per trenta secondi. Forse più. Forse passano ben più di cinque o dieci minuti, prima che si riscuota, tiri appena su col naso e dispieghi il progetto olografico di fronte a sé, saldatore e occhiali protettivi già alla mano.

 
§

 
«Tones?»

Tony balza quasi via dal banco di lavoro quando Rhodey lo coglie sul fatto come un bambino con le mani nella marmellata. Cincischia col saldatore a penna tra le dita, incrociando lo sguardo decisamente sorpreso dell’amico, poi lo aggancia al proprio sostegno prima di ustionarsi con qualche movimento inconsulto.

«Oh, ehi,» riesce ad articolare poi in un encomiabile sfoggio di dialettica, togliendosi gli occhiali e scollandosi le ciocche appiattite sulla fronte con un gesto nervoso. «Che ci fai qui?» spara poi, dando il fuoco! Alla prima frase coerente che il suo cervello gli mette in canna.

«Stavo per chiedertelo io,» ribatte Rhodey, circospetto, oscillando tra quello che sembra un sorriso incredulo e l’espressione più corrucciata che gli abbia visto addosso ultimamente.

«Uh… armeggio,» risponde in un riflesso condizionato, per poi mordersi in silenzio l’interno della guancia.

«Lo vedo…» commenta Rhodey, decidendosi a schiodarsi dalla soglia per allungare il collo verso il banco di lavoro su cui è chinato lui.

«Non– ti assicuro che non è come sembra,» si affretta a mettere in chiaro Tony, con un movimento agitato che sballottola a destra e a manca gli occhiali che gli pendono dal collo.

Il fatto che sul bancone faccia bella mostra di sé l’esoscheletro rudimentale di quella che sembra un’armatura non gioca in suo favore, ne è consapevole… ma conta sulla laurea in ingegneria aerospaziale dell’amico per capire che là dentro non potrebbe mai entrarci una persona, nemmeno rachitica. Però vede comunque un guizzo speranzoso che gli accende gli occhi per un istante, scacciato da un cenno del capo.

«Non torni a svolazzare,» dichiara infatti, incrociando le braccia.

«Oh, no. Decisamente no, non capisco perché vi siate tutti fissati con questa storia assurda,» rincara lui, scuotendo con energia il capo. «No, è che… insomma, devo tenere attivi i neuroni o di questo passo mi ridurrò a un vegetale, e poi dovrei… sì, dovrei fare terapia, e lo sai che vado più d’accordo con le macchine che con uno psicologo,» borbotta, articolando a malapena le parole.

«È per questo che in giardino è appena atterrata un’armatura da trasporto con DUM-E e U?» indaga l’amico, e Tony sillaba un “ops” muto, senza negare.

«Mh, più o meno, ho bisogno di bassa manovalanza per… per quest’idea che… per un paio di miglioramenti su progetti già sviluppati, e visto che l’Iron Legion era un’ottima iniziativa mal sfruttata…
» fa scemare la frase nel silenzio nel vedere che Rhodey sta sorridendo.

Non un sorriso triste, come quelli che si è ormai abituato a vedersi rivolgere, ma uno di quelli che ammorbidisce le linee dure del suo volto portando un brillio vivace negli occhi scuri.

«È bello vederti di nuovo “armeggiare”,» dice semplicemente, accostandosi lateralmente a lui e spingendolo da parte con la spalla.

Tony si schiarisce la gola senza dir nulla, puntellandosi coi palmi sul piano di lavoro, con una linea di tensione che cede sul suo volto permettendogli di rilassarlo un poco. Ricambia il sorriso in un modo timido che non gli appartiene, e ha paura che ogni sua mossa possa far scoppiare quella bolla di sottile serenità che si sta espandendo attorno a loro, più consistente di quella gita al Burger King di qualche settimana fa. È tentato dall’abbracciarlo, per la prima volta in modo spontaneo da mesi, adesso che sa che non gli si scomporrà tra le mani. Ma è sempre stato un idiota in queste cose. Coosì non lo fa, tiene lo sguardo puntato stoicamente sull’abbozzo di armatura davanti a lui.

«Ti ha convinto Natasha?» gli chiede Rhodey dopo qualche secondo, perspicace come è sempre stato per ciò che lo riguarda.

Tony fa un mezzo sorrisetto colpevole, portandosi una mano alla nuca.

«Diciamo che Natasha è un ottimo Grillo Parlante…»

S’interrompe e teme di vedere una punta di gelosia da parte dell’amico, in luce dell’ultima discussione. Ma non ne trova traccia sul suo volto pacato. Anzi, sembrerebbe… soddisfatto. Sta praticamente gongolando. Trattiene l’impulso di schiaffarsi una mano sul volto nel connettere i pezzi.

«… o forse sarebbe meglio dire che voi due siete il Gatto e la Volpe,» conclude, con uno sbuffo scenico.

Rhodey trattiene una risatina un po’ colpevole, un po’ compiaciuta che conferma le sue parole.

«Non c’è modo di prenderti direttamente, Pinocchio: ci fai fare sempre il triplo del lavoro.»

Tony alza gli occhi al cielo, senza dargli la soddisfazione di mostrarsi realmente contento nel vederli fare fronte unito.

«Dov’è lei? Scommetto che ci guarda mangiando popcorn,» sbotta invece, guardandosi intorno con un movimento esagerato e fissando gli occhi in una telecamera nell’angolo.

«Probabile,» annuisce l’altro, serafico.

Tony scuote la testa, ancora incredulo. È una sorta di smacco, realizzare che è davvero finito per tornare in laboratorio per colpa – o per merito – loro. Uno smacco che è ben lieto di sopportare.

«E che succede, adesso? Divento un bambino vero?» scherza poi, tenendosi ancora sulle sue con un briciolo di sussiego di facciata.

«Il piano è quello,» replica Rhodey, stando al gioco e aggiungendovi un pizzico di serietà. «Quindi vedi di comportarti bene.»

Tony tiene lo sguardo fisso sul prototipo adagiato sul banco di lavoro, e tira le labbra in un sorriso appena accennato di chi vorrebbe credere che basti quello, a farlo tornare un Tony Stark vero.

«Va tutto bene coi tuoi tutori?» tenta dopo poco, a voce bassa, con un’occhiata sfuggente verso i congegni che sibilano appena ad ogni movimento dell’amico. «Ti ho… trascurato un po’, ultimamente: sono un pessimo meccanico di fiducia e puoi sporgere reclamo per un rimborso, se vuoi, sono sicuro che riusciremo a…»

«Funzionano ancora a meraviglia. Ho un meccanico di fiducia idiota, ma molto competente,» lo rassicura lui, e adesso ha in faccia quell’espressione di puro affetto che gli ha rivolto forse tre volte in vita sua, con quella linea tremolante che gli attraversa le labbra e le palpebre senza strabordare, perché Rhodey è sempre troppo composto per lasciarsi andare – tranne quando il suo migliore amico cerca di autodistruggersi e poi riesce a salvarsi per il rotto della cuffia.

«Non farmi quegli occhioni dolci, grizzly scorbutico,» lo rimbrotta, e sente una mezza risata bloccata in gola, che esita a liberare ma che si fa comunque strada fino ai suoi occhi.

«Mi sei mancato, Tones,» si lascia sfuggire Rhodey, avvolgendolo d’un tratto nel goffo, preannunciato abbraccio che lui ha avuto paura di cominciare.

Tony sbuffa divertito contro la sua spalla, lasciandosi stringere e dandogli delle pacche impacciate sulla schiena. Rilassa il busto, e prende un respiro profondo come se così potesse incamerare la sua essenza, per poi rammentarsi che non ne ha bisogno: Rhodey c’è sempre stato, a prescindere da chi fosse lui in quel momento. A prescindere da quanto fosse rotto e allo sbando, o chiassoso ed esuberante e ingrato e insopportabile: è sempre stato lì, a condividere le sue gioie e a dimezzare il peso delle sue sofferenze. Lo stringe appena, con forza per tenerlo lontano dalla cenere, senza dirgli niente di tutto ciò. Non ce n’è mai stato bisogno. Lo sanno entrambi.

«Ti ricrederai quando ricomincerò a fare casino,» borbotta poi falsamente scontroso, senza staccarsi da lui.

Il solo fatto di aver pronunciato quella frase come se fosse posta in un futuro possibile fa fare un paio di piroette confuse al suo cuore malconcio.

«Non vedo l’ora, geniaccio,» lo rimbrotta lui, con una mezza risata che gli risuona nel petto e un’energica pacca sulla schiena. «Non vedo l’ora.»



 

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
avevo messo in stallo questa storia poiché non mi sentivo in vena di scrivere l'angst più puro in un periodo turbolento come questo, così ho preferito metterla in pausa per qualche tempo e dedicarmi a una revisione totale dei capitoli pubblicati. Sostanzialmente non è cambiato molto, se non per la correzione di refusi e qualche cambiamento minimo, quindi non c'è alcun bisogno di recuperare "arretrati". Poi, dal prossimo capitolo in poi ci immergiamo a testa bassa in una bella marea d'introspezioni e avvenimenti tutt'altro che allegri e leggeri... quindi vi consiglio di prepararvi psicologicamente ;)

A parte tutto, ho meditato un poco sul futuro svolgimento della storia prendendo un paio di decisioni piuttosto radicali, ovvero:
1) Come già accennato, i capitoli di Wattpad pubblicati da questo in poi non sono più "validi" (mi occuperò poi di riaggiornarli con quelli attuali). Per chi li ha già letti, i cambiamenti potrebbero non sembrare subito lampanti, ma nell'arco esteso della storia lo saranno;
2) In relazione a Natasha, ho preso la decisione di attenermi esclusivamente alla sua versione MCU, senza quindi andare a toccare il canone fumettistico se non per la sua relazione con Barnes (che in realtà aveva già un aggancio in Captain America: Civil War) e con un ulteriore dettaglio su cui ho ricamato sopra, che però svelerò successivamente per evitare spoiler. Per il resto, il tutto si muove attorno ai pochissimi punti fermi mostrati nei film, con i dovuti ampliamenti operati per deduzione logica che si distaccheranno dagli eventi fumettistici. Natasha ha una storia fin troppo complessa per essere raccontata tramite un PoV Tony rigido e senza scavalcamenti di campo che la includano direttamente, quindi preferisco muovermi su un terreno a me ben conosciuto che mi lasci libertà di azione e di riempire i buchi di trama con materiale/headcanon miei. Mi aspetto che il film su Vedova Nera aggiunga carne al fuoco sul suo passato sotto molti punti di vista, ma vedrò a tempo debito se tenerlo in considerazione. In luce di questa nuova ottica, ho modificato alcuni dettagli degli scorsi capitoli durante la revisione, ma ripeto che finora non era nulla di decisivo e sono state solo pignolerie mie :')

Chiudo il papiro e ringrazio tutti coloro che hanno commentato e/o letto la storia fin qui, in particolare _Atlas_, Miryel e shilyss per i loro ultimi splendidi commenti <3 Ah, e per chi dovesse vedere risposte sporadiche alla recensioni, non lasciatevi ingannare: rispondo sempre ciao, è solo perché alcune povere anime hanno la sfortuna di dovermi sopportare in privato :')
Spero a presto col prossimo capitolo,

-Light-

 

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Capitolo 19
*** Parte seconda - Capitolo 18: Confini ***


.18.

Confini


 
“È l’epoca a gonfiare d’angoscia
umana il flutto che s’increspa; e l’aurea
misura dell’epoca ha il respiro
della vipera nascosta fra l’erba.”
Epoca – O. Mandel’štam


 
Maggio 2019

Alla fine, si convince che sia probabilmente il compleanno migliore che abbia mai avuto da anni. Principalmente perché nessuno ha ritenuto opportuno obbligare lui a festeggiarlo. Quella mattina rimedia solo una calorosa pacca sulla schiena da Rhodey e una colazione abbondante che attenterà probabilmente al suo fegato, e considera chiusa quella tediosa pratica quanto mai infelice, quest’anno.

Rimane seduto al tavolo, meditabondo, con un caffè troppo forte in mano e gli occhi che non leggono davvero la rivista digitale proiettata sul vetro. Sospira a mezza voce, sfregandosi il naso e addentando una fetta di bacon che perde di sapore e consistenza con ogni secondo che perde a rimuginare. Non riuscirà mai più a scindere il proprio compleanno dallo schiocco. Tre giorni prima. Solo tre giorni prima. [1]

Tre giorni prima della fine era andato con Peter, Pepper, Happy e Rhodey a Malibu. Gli avevano organizzato quella gita improvvisata come regalo riuscendo di fatto a sorprenderlo, visto che tendeva sempre a perdere la cognizione del tempo all’avvicinarsi del proprio compleanno – un meccanismo di autodifesa, in effetti, collaudato nel corso degli anni. Avevano trascorso lì il fine settimana, godendosi i primi scampoli dell’estate oziando alla villa, crogiolandosi sulla spiaggia immacolata e passeggiando nelle stradine turistiche e ancora semivuote di Santa Monica.

Lì aveva passato un paio d’ore con Pepper bloccato in un negozio di abiti da sposa, visto che a poco più di due mesi dal fatidico giorno erano ancora a corto di un vestito che la soddisfacesse. Rhodey, Happy e Peter avevano invece intrapreso il tour dei negozi di souvenir alla ricerca di quello più kitsch e pacchiano… trovandolo: una bambolina da auto di Iron Man in bermuda, con una ghirlanda di fiori al collo e una tavola da surf in mano. A dispetto del suo solito veto categorico per i regali materiali, glielo avevano comunque rifilato come tale, obbligandolo poi a piazzarlo sul cruscotto di una delle sue macchine di stanza lì. Sorride appena al pensiero, combattendo le linee di tensione agli angoli delle labbra.

Ricorda ancora la meraviglia negli occhi di Peter nell’affacciarsi per la prima volta sul terrazzo a picco sulla scogliera, e il modo in cui aveva allargato quasi inconsciamente le braccia ad abbracciare l’oceano, suscitando da parte sua una battuta scontata su Titanic e una risata del ragazzo finta e allo stesso tempo sincera, a prenderlo in girlo. Era stata la sua prima volta sulla Costa Ovest. La prima e l’ultima, nonostante Tony gli avesse promesso di invitare lì lui e sua zia per un paio di settimane estive, come regalo di maturità. Un premio assicurato e già vinto, gli aveva detto. Promesse al vento, ormai cenere.

Erano stati giorni sereni, durante i quali aveva lasciato da parte fantasmi ancora scomodi e preoccupazioni incombenti, ma adesso sono avvolti da un senso di irrealtà. Una parte di lui si ripete che avrebbe dovuto saperlo, già allora. Che non poteva durare per sempre. Che non ha mai avuto diritto a quel tipo di felicità, perché se la lascia sempre sfuggire dalle dita o la stringe troppo forte, frantumandola. Oppure la lascia evaporare o raffreddare, perché non sa controllare la fiamma con cui la alimenta. Si è scottato, di nuovo.

Finisce il caffè a fatica, forzandolo oltre il groppo che gli si annoda in gola.

È di nuovo il primo ed ennesimo compleanno in cui c’è solo Rhodey, a fargli gli auguri. Mette le mani su quella realizzazione, anch’essa ustionante, e si imprime sui palmi un calore rovente, come quello che gli brucia gli occhi col ricordo di un sole che non è più così caldo.

 
§


Degli altri non c’è traccia. Se ne rende conto dopo aver fatto due passi all’esterno nell’aria tiepida ed aver poi trovato la palestra vuota, mandando in fumo i suoi propositi di un match autodistruttivo con Natasha. Si stupisce anche dell’assenza di Rogers, visto che solitamente vaga su e giù per il Complesso come se fosse l’uomo più indaffarato sulla faccia della Terra. Non è sicuro se ricollegare il tutto al proprio compleanno, in uno sprazzo d’egocentrismo illogico, o alla causa più probabile dell’anniversario alle porte.

In ogni caso si prospetta una giornata oziosa: non si azzarda a toccare le pratiche del RESCUE in sospeso senza Natasha, a scanso di mutilazioni per aver gestito in modo errato qualcosa. Si piazza così nella sala di controllo coi piedi sulla consolle e riprende per la settima volta la lettura di Moby Dick, chiedendosi se riuscirà mai ad arrivare al punto clou, o se è destinato a vagare per sempre tra i flutti del Pacifico in cerca di un mostro evanescente – non sa nemmeno se tifare per Achab o per Moby, a questo punto – intervallando la lettura con qualche armeggio sporadico sull’Iron Legion e sul reboot di FRIDAY.

Sorseggia caffè scoccando di tanto in tanto occhiate agli schermi silenziosi, e la giornata gli scorre addosso più rapida di quanto avrebbe pensato, arrivando in modo quasi indolore alla fine delle ventiquattr’ore preposte ai suoi festeggiamenti.

Tira un sospiro insapore, carico d’apatia, ma quella notte è priva d’incubi.

 
§


Steve e Natasha non si fanno vivi nemmeno il giorno dopo e Tony, dal menefreghismo rasentante il sollievo, passa ad allarmarsi. O meglio, a insospettirsi mantenendo un basso profilo.

Cerca di interrogare alla larga Rhodey in proposito, ma ne sa quanto lui – o almeno finge che sia così. Bruce torna proprio quel pomeriggio, con l’aria provata che lo accompagna dopo le sue lunghe sessioni “faccia a faccia” con Hulk. Nessuno ha ben capito in cosa consistano, né ha la sconsideratezza di chiederglielo; sta di fatto che nemmeno lui ha idea di dove sia finito il dinamico duo di ex-Vendicatori, né sembra poi così interessato a scoprirlo. Ha altro a cui pensare, conclude evasivo. Sembra sia tornato solo per tormentarsi riguardo al partecipare o meno alla cerimonia commemorativa per l’anniversario della Decimazione, ed è un qualcosa di cui dovrebbe preoccuparsi anche lui, anche se non ha scampo: l’ha già promesso a May, dopotutto.

Quell’incombenza pesa come un’incudine sulle spalle di tutti; anche di Rhodey, che sorprende un paio di volte con lo sguardo distante, perso nel vuoto. Non ha intenzione di assentarsi, mette però in chiaro, affermando che, anche se non volesse presenziare, farebbe comunque parte dei suoi doveri militari.

A volte Tony pensa che gli farebbe comodo, avere degli obblighi imprescindibili che non derivino solo dalla sua bussola morale ipersensibile e mal tarata. Ma allo stesso tempo si ripete che, così come non era un soldato dieci anni fa, non lo è nemmeno adesso, e finirebbe per disertare fin troppo spesso da quei doveri sovrimposti.

Preferisce comunque occuparsi la testa col mistero dei due agenti svaniti nel nulla da un istante all’altro, ripetendosi che la faccenda non gli stia affatto interessando più di quando sarebbe logico. È che sente uno di quei suoi brutti presentimenti in fondo allo stomaco. Non ha superpoteri: non ne ha mai avuti, se si esclude una lampadina azzurrina e traballante nel petto, ma quella sorta di sesto senso che gli si innesca di tanto in tanto lo tradisce raramente, e continua a rodergli le viscere. A dirgli che nell’aria c’è qualcosa di sbagliato che esula dalle sue paranoie. Che le sue paranoie, comunque, si rivelano spesso fondate, e che l’averle ignorate all’epoca li ha portati a vivere in un mondo cenere per metà. Non vorrebbe darsi ragione, ma sa di averla.

Per questo il giorno dopo, vigilia dell’anniversario, si piazza sin dal mattino presto in sala controllo, con un maxi-thermos di caffè a portata di mano, un surplus di ansiosa irrequietezza e le dita che volano rapide sulle tastiere olografiche.

Si sono resi irrintracciabili, Rogers e Romanov: i loro dispositivi elettronici sono offline od oscurati, i GPS delle loro tute da combattimento disattivati. Sono in missione, questo gli è chiaro… ma perché mai andarci in segreto? E proprio adesso, poi. Proprio adesso, gli si rimesta nelle camere oscure del cervello, in quel preciso punto in cui ora manca un ancoraggio che impedisce ai propri pensieri di andare alla deriva.

Si sfrega spazientito – irritato, sospettoso – il mento, digitando input su input ed elaborando stringhe di codice nel tentativo di localizzarli, ma dopo poco conclude che non stiano utilizzando alcun apparecchio collegato a FRIDAY: accedere tramite le sue backdoor rileva che il tutto è riposto in sicurezza nei magazzini dello stesso Complesso, e l’IA gli conferma che non è un reindirizzamento fasullo.

Rinuncia ai metodi diretti e passa alle scansioni ad ampio raggio: ci vorrà più di qualche ora, ma può sperare che in un istante di disattenzione i due vengano o siano stati individuati da qualche telecamera di sorveglianza. Non è del tutto legale – non lo è per niente, in realtà – ma lui si è ormai troppo intestardito nel volerli trovare e ha troppe poche attività alternative per le mani per dichiararsi sconfitto.

Subito dopo pranzo lo raggiunge Rhodey, seguito inaspettatamente da Bruce – che credeva rintanato in modo perenne nella sua stanza.

«Li stai ancora cercando?» chiede il suo migliore amico, senza preamboli.

Dal tono che usa sembra che stia sperando in un suo successo in merito, come se stesse prendendo pian piano consapevolezza che potrebbero trovarsi di fronte a una situazione sul punto di degenerare.

«Mh-hm,» lancia in risposta, stringendo le braccia al petto e inclinandosi inquieto contro lo schienale, gli occhi che seguono con piccoli scatti il continuo flusso d’informazioni digitale che si riversa davanti a lui.

«E ci sono novità?» tenta Bruce, piazzandosi lì di fianco con aria più corrucciata e incurvata del solito.

«Ho la faccia di uno che ha novità?» scatta Tony, con troppo caffè in circolo e un principio di emicrania che gli stringe le ossa parietali.

Bruce si limita a un mezzo sospiro trattenuto, mentre lui si preme pollice e indice tra le sopracciglia, a sciogliere la tensione.

«Pensi che gli sia capitato qualcosa?» continua Rhodey, premendogli subito una mano sulla spalla a frenare altre risposte nevrotiche a quella gragnuola di domande.

Tony si stropiccia la radice del naso, con gli occhi disabituati agli schermi che bruciano.

«Penso che stiano nascondendo qualcosa. Il che non è una novità, per nessuno dei due,» conclude, con un verso seccato, e svicola dalla sua stretta per inclinarsi meglio verso gli schermi.

Bruce non commenta, ma dall’espressione è chiaro che la pensi allo stesso modo. O forse sono solo gli strascichi dell’ultimo uno-a-uno con Hulk che lo rendono più serioso di quanto già non sia. Ha ancora più grigio, tra i capelli, e gli occhi infossati parlano di molti pasti mancati. Rhodey, invece, sembra trattenere qualche risposta volta a smentirlo: sposta il peso da un piede all’altro, appaiandovi una lieve stretta sulla sua spalla.

«Speriamo che sia così,» commenta, laconico.

Tony comprime rigidamente le labbra, mentre una microscopica parte di lui non può evitare di prendere in considerazione la possibilità implicita espressa da Rhodey. Il mondo è ancora allo sbando, domani è l’anniversario del disastro che loro hanno permesso. Quanto sarebbe improbabile un incidente? Un lunatico qualsiasi in mezzo alla folla che li riconosce, alza una pistola, mira alla testa e preme il grilletto? Ma Natasha se ne accorgerebbe, e Rogers è un soldato addestrato: saprebbero prevenire e reagire. Si coprirebbero le spalle a vicenda. Gli si agita comunque quel sentimento viscido nella bocca dello stomaco e si ritrova con la bocca secca, i denti che affondano nell’interno della guancia con un po’ troppa foga.

Potrebbe accadere a lui, domani, alla commemorazione. Non riesce a rendere spaventoso quel pensiero: ai suoi occhi ha la stessa rilevanza di un qualunque accadimento quotidiano sulla faccia della Terra, e si costringe a prende un respiro profondo per scacciare la mola che gli spacca in due il petto. Non dovrebbe essere un pensiero allettante, non più.

Trae un respiro smorzato dall’ansia. Sta giusto meditando per l’ennesima volta di mandare tutta la ricerca in malora solo per frenarsi all’ultimo secondo, quando un acuto trillo elettronico lo fa scattare sull’attenti, gli occhi calamitati dalla schermata lampeggiante; Bruce e Rhodey lo imitano, altrettanto tesi.

«Dove…» comincia Rhodey, cercando di individuare la provenienza del feed della telecamera, che mostra a loop i pochi istanti in cui il volto di Natasha viene inquadrato in un anonimo corridoio, forse di un qualche magazzino.

«Rio,» lo anticipa Tony, attendendo impaziente che FRIDAY ricostruisca la traccia digitale in base alle nuove coordinate.

Un minuto dopo si trovano di fronte a un mosaico di avvistamenti affastellato e sparpagliato ai quattro angoli dell’immensa metropoli tropicale, in quella che a giudicare da orari e distanze sembrerebbe una serie di spostamenti erratica e priva di logica. Tony socchiude le palpebre, rimettendo insieme i pezzi con qualche intento battito di ciglia: troppo frammentari e frenetici per essere un’indagine metodica… perfettamente sensati se si trattasse di un pedinamento, soprattutto se il bersaglio stesse attivamente cercando di far perdere le proprie tracce svicolando tra le favelas più nascoste e decrepite.

«Capo, credo che dovrebbe dare un’occhiata alle ultime notizie di Rio de Janeiro,» annuncia in quel mentre FRIDAY, subito proiettando a un suo cenno perplesso la diretta di un notiziario brasiliano.

Il titolo tradotto in simultanea dal portoghese – BRUTALE STRAGE TRA GANG A VIDIGAL [2] – campeggia in sovrimpressione alla ripresa di uno stabile fatiscente. Anche con una qualità video sgranata, e anche da quella distanza, è evidente che le chiazze rossastre, irregolari e asimmetriche sul muro esterno non siano un errore di tinteggiatura con vernice rossa.

«Perché qualcosa mi dice che non è opera di una gang?» mormora Rhodey, con fare rassegnato e un lieve scrollare del capo.

Tony non risponde e deglutisce a secco un bolo di carta vetrata, accedendo con pochi, rapidi comandi al sistema di sorveglianza interno. Quello che si para di fronte ai loro occhi rispecchia appieno il titolo del notiziario: i corpi sono almeno una dozzina, smembrati e sventrati con furia e poi disposti in una fila ordinata che segna la metà della stanza da un capo all’altro, con una macabra linea di divisione sbavata a collegarli. Il pavimento è pregno di sangue e questo sembra essere stato sparso ovunque con intento. Nonostante in vita sua abbia visto cose peggiori, anche se non di molto, Tony ringrazia che il feed delle telecamere sia in bianco e nero, così da non rimettere il pranzo sulla consolle informatica.

«Dio...» esala a mezza voce Bruce, strizzando gli occhi di fronte al massacro in una reazione raccapricciata.

Rhodey si limita a rattrappire con forza le labbra, con lo sguardo un po’ vitreo che lo coglie quando pensa un po’ troppo intensamente al suo Afghanistan [3]. Tony gli posa una mano sull’avambraccio contratto, stropicciandosi di rimando le palpebre per sfaldare quell’immagine vivida prima che prenda colore.

«Fri… ci stai dicendo che sono stati loro?» chiede poi, tirandosi il pizzetto con troppa forza.

In tutta risposta, l’IA fornisce una manciata di esplicativi fotogrammi della sorveglianza risalenti a un paio d’ore prima: due sagome dai volti sfocati, ma perfettamente distinguibili come Natasha e Rogers per via della stazza, che fanno capolino a passi cauti nella stanza già colma dello scempio. Tony rilascia un respiro tirato con le pinze, che non si è reso conto di trattenere. Torna poi a seguire i movimenti di Natasha e Rogers, che esitano sulla soglia e si guardano intorno evidentemente spaesati, aggirando la carneficina a distanza di sicurezza. Natasha si inginocchia ad esaminare un cadavere; Rogers si tiene discosto, di vedetta. Non ha davvero lo scudo con sé, prende nota, con un briciolo di sollievo fuori luogo.

«I filmati sono stati manomessi al momento della strage. A giudicare dall’impronta elettronica, si tratta delle nostre tecnologie,» annuncia laconica FRIDAY.

Tony cerca lo sguardo di Rhodey e lo trova altrettanto incupito, a conferma di stare pensando la stessa cosa.

«Barton?» esterna infine l’amico, sollevando le sopracciglia e dandogli prova di essere chiaroveggente.

Tony si reclina sullo schienale senza rispondere, molleggiando appena mentre chiude le schermate fluttuanti, a calare il sipario su quel macabro palcoscenico. Dà comunque ordine di mantenere attivo il tracciamento di Natasha e Rogers, così da seguire i loro movimenti nel mentre.

«Senza frecce?» osserva Bruce, con occhi dubbiosi dietro le lenti.

«Abbiamo subìto tutti uno “slittamento di carriera”.»

Tony alza le spalle, noncurante, sempre tenendo sotto controllo con la coda dell’occhio gli schermi – un’altra individuazione al Galeão Airport, il che fa presumere che siano sulla strada di casa.

«Però non me lo spiego,» lo distoglie Rhodey scuotendo la testa. «Barton non mi sembra tipo da…»

«Qualcuno tra i presenti può dire di conoscere davvero Barton?» lo ferma Tony, inclinando il capo e ruotando sulla sedia per fronteggiarlo e guardare al contempo Bruce.

Il loro silenzio è esattamente ciò che si aspettava. Schiocca sommessamente la lingua a riconferma della propria affermazione, per poi spostare rapidamente lo sguardo tra i due, ponderando le opzioni che hanno davanti. Indica Bruce, cercando di mantenere un tono leggero:

«Con tutto il rispetto, Shrek, ma non credo che un tuo ipotetico approccio a Rogers per interrogarlo avrebbe risvolti positivi; per non parlare di approcciare…»

«Lascio a voi il divertimento,» si schermisce subito lui, cogliendo l’antifona e alzando i palmi a dargli ragione. «Non ho comunque interesse a trovare o saperne di più su Barton, se è davvero lui il responsabile.»

Tony annuisce secco, per poi guardare Rhodey e puntarsi eloquentemente un pollice sullo sterno, dandovi un paio di colpetti per sottolineare vecchie ferite non del tutto rimarginate; a quel semplice gesto Rhodey sospira, annuendo rapido.

«A Steve penso io,» conclude, evidentemente poco entusiasta alla prospettiva, e si acciglia ancor di più in quell’espressione che precede uno dei suoi tanti ammonimenti: «Tu cerca di non farti uccidere da Natasha.»

«È un rischio cosciente che corro ogni giorno,» lo liquida lui, con leggerezza che non sente davvero.

Abbandona poi di gran carriera la sala di controllo per affogarsi in una dose di caffè caldo. Col passare delle ore, quel brutto presentimento si è espanso dallo stomaco al petto, rubandogli l’aria. Gli sembra che tutti gli eventi mancati di un anno intero si stiano concentrando in quei pochi giorni di tensione che aveva sperato di oltrepassare a occhi bendati senza nemmeno riuscire a vederli, e ogni respiro gli comprime il petto schiacciandogli i polmoni dal basso.

Barton, l’anniversario, il suo compleanno, Natasha. Cerca di non rimuginare troppo sul fatto che lei l’abbia tenuto all’oscuro di un’operazione evidentemente pianificata, ma quello si insinua comunque a forza tra cuore e sterno, un altro frammento fuori posto nel vuoto che si muove con un incastro sbagliato.

Scocca un’occhiata all’orologio: domani alle otto di mattina deve essere a Central Park. Il volo Rio-New York dura nove ore. Dovrebbe dormire adesso, per poi intercettare Natasha non appena varcherà la soglia, a notte fonda. Così potrà rubare senza troppi contraccolpi il tempo solitamente preposto al sonno per portare avanti una discussione inconcludente, che lo spingerà probabilmente sull’orlo di un esaurimento nervoso impedendogli di chiudere occhio fino alla sveglia.

Si pianta la base dei palmi nelle palpebre, con la consapevolezza latente che domani, a un’ora imprecisata del mattino, Peter gli si è sfaldato tra le braccia su Titano e Pepper è scomparsa in un soffio di cenere alla Tower. Aumenta la pressione, fino a generare dei puntini luminosi sulle retine, e si prepara un’altra dose di caffè, accantonando il sonno.

Non chiuderebbe comunque occhio, stanotte.

 
§


Si sveglia al suono dello schiocco, con un brivido sussultante che gli gela le ossa e le palpebre che sfarfallano frenetiche in cerca di luce, sbarrata dalle ciglia. Lo accoglie la penombra bluastra della sala comune, accompagnata da un indolenzimento delle spalle e del collo per la posizione scomposta in cui si è abbandonato sul divano, in attesa.

Un rumore sordo gli fa voltare il capo verso l'ingresso, dove scorge due silhouette note stagliate contro la vetrata; ricollega lo schiocco onirico allo scatto materiale e metallico della serratura. Rimane immobile, in parte celato dallo schienale del divano, e distingue con l’orecchio teso un breve scambio mezzo mormorato, mezzo masticato tra i due, che viaggia amplificato nella sala vuota:

«... fartene una ragione, Nat. Non puoi di nuovo rischiare di...»

«È un rischio che ho sempre corso. So controllarmi.»

C’è un tramestio di stoffa, cappotti appesi e borse sollevate da terra.

«Buonanotte, Steve.»

Rogers sospira, in quel modo lento e pesante che sembra carico del suo secolo anagrafico, poi i suoi passi soldateschi si allontanano da lei e lo superano ignari, scemando d’intensità verso le scale. La luce del disimpegno si accende solo adesso, ferendogli gli occhi, e si arrischia ad allungare il collo oltre lo schienale, indeciso se annunciare la propria presenza o meno – sempre che lei non l’abbia già notata, e in tal caso è strano che non l’abbia ancora apostrofato come suo solito.

Si dà risposta quando la vede ferma sul posto come se avesse sulle spalle un fardello insostenibile, invece di un semplice zainetto. Lo lascia cadere di peso di fianco alla porta, poi si stringe i gomiti nei palmi e sembra… scollegarsi, come l’ha già vista fare altre volte, in un modo che gli è sempre rimasto indecifrabile. Ha il viso inclinato verso il basso: i capelli striati di biondo, solitamente raccolti in una coda severa, ricadono a nasconderle il volto, ma riesce a visualizzare la sua espressione vacua, fissa su immagini inesistenti.

Non ha mai più varcato le soglie che Natasha gli preclude, sebbene la tentazione di avvicinarsi sia sempre presente, e anche lei ha imparato a tenersi a distanza dalle sue barricate. Adesso rimpiange di non aver osato di più agli inizi, quando non avrebbe rischiato di tirare troppo la corda di una fiducia che, allora, nemmeno esisteva. Si prende ancora qualche secondo per osservarla – mentre respira in un modo che gli ricorda fin troppo se stesso mentre si prepara ad arginare un attacco di panico – e proprio per questo si immobilizza, limitandosi ad esaminarla a distanza. Sembra illesa: i vestiti civili mostrano solo qualche strappo non rilevabile a colpo d’occhio, e ha una fasciatura di poco conto sulla mano, che si sfrega infastidita, rompendo un respiro più sonoro e scuotendosi di dosso quella sorta d’impasse malsana. Solo allora Tony si alza dal divano in modo volontariamente rumoroso.

«Non avete alcun rispetto per la quiete altrui, voi giovinastri molesti. Mi ero appena addormentato,» sbadiglia senza neanche bisogno di fingere, e ostenta qualche acciacco di troppo mentre si stiracchia appena.

Lei rialza di scatto la testa, con gli occhi che mandano lampi allarmati inchiodandolo sul posto. Sono nebulosi, ancora non del tutto sintonizzati sul qui e ora; quando mette a fuoco, per un istante, sembra combattuta tra l’imboccare di nuovo la porta e il fronteggiarlo invece a passo di carica. Tronca sul nascere entrambe le reazioni e si limita a farsi calare sul volto la consueta maschera impassibile: e rimane ferma al suo posto, lasciando a lui la mossa successiva. Che, considerando la sua perfetta incapacità in questo tipo di situazioni, si rivelerà probabilmente sbagliata, ma forse è esattamente ciò che si aspetta lei. Così la accontenta, adottando un tono leggero, come se le stesse chiedendo di una vacanza appena conclusa:

«Com’era Rio?»

Non ottiene risposta, solo uno sguardo appuntito, e arriccia un poco il naso nell’avvicinarsi a lei di un paio di falcate falsamente svogliate, le mani che affondano nelle tasche.

«Io la ricordo… caotica.  Ci sono stato una volta nel 2006. O forse 2007.» Lo ricorda benissimo, in realtà: omette la presenza di Pepper, perché quel piccolo viaggio d’affari nella capitale brasiliana è uno dei tanti ricordi caldi, di quelli che deve maneggiare con cura. «Quel Cristo è inquietante, piazzato là sopra a spiare tutti, e non ha fatto alcun miracolo, almeno non per la mia paranoia… però c’era un chioschetto di brigadeiros e cachaça sulla piazza principale che…» [4]

«Stark,» lo ferma infine lei, in un tono secco come un colpo di schioppo. «Non devi imbastire una pantomima solo per estorcermi delle informazioni che non ti darò.»

Tony inarca teatralmente un sopracciglio.

«Chiederti “cosa è successo?” tra le righe equivale ad estorcerti delle informazioni? In effetti è quello, che vorrei fare, vista la situazione… solo che temevo di ritrovarmi con un coltello alla gola, conoscendoti

Calca con intenzione quell’ultima parola, consapevole di padroneggiarla nemmeno per un quarto, e con sua sorpresa Natasha sfugge il suo sguardo. Vede le sue difese ritirarsi brevemente, per poi ricostruirsi dalle fondamenta, come un’onda rapida che si abbatte sulla costa, per poi ritirarsi e tornare ancor più imponente.

«Mi è bastato Steve, a farmi il terzo grado,» risponde poi, scostante e sibillina al contempo. «Non avrei dovuto coinvolgerlo.»

«Giusto, avresti dovuto tenerlo all’oscuro di tutto come hai fatto con noi,» ribatte altrettanto caustico Tony, optando per un plurale generico, anche se quel singolare quasi gli decolla di sua sponte dalle labbra.

«Non vi devo sincerità,» lo liquida, schiodandosi dal proprio posto per dirigersi verso l’uscita e sembrando intenzionata a chiudere lì il discorso.

«Allora hai davvero uno strano concetto di “fiducia”,» le fa notare Tony, bloccandola nei suoi passi con quell’arma che non progettava di usare così alla leggera – né mai, in effetti.

Natasha sembra meditare per qualche istante su quello che sta per dire, invece di spacciarlo per un silenzio definitivo che prelude a una risposta inaspettata. Infine si volta di tre quarti verso di lui, senza degnarlo di un confronto completo.

«Vero. È il motivo per cui di solito la gente tende a starmi alla larga, e io tengo alla larga la gente.»

Tony non trattiene un sospiro esasperato, che si tramuta in uno sbuffo sarcastico mentre incrocia le braccia al petto.

«Non sei stata molto brava a “tenermi alla larga”, allora. E sai benissimo che a me non piace mischiarmi alla “gente”, quindi credo dovresti rivedere la tua linea di difesa,» la tronca, rispolverando un po’ di arroganza su misura e arrischiando al contempo un paio di passi.

Lei si ritrae, ripristinando la distanza originaria con una naturalezza affilata. Tony serra di più le braccia e si prende il mento in un palmo, smorzando in parte la propria schiettezza e lasciando infine trapelare una tinta fin troppo evidente di tensione che non si cura di celare.

«Natasha…» tenta rassegnato, cercando a fatica di ammorbidire la voce sotto lo strato di risentimento e confusione che la tinge inevitabilmente, nella convinzione infantile che pronunciare il suo nome possa fungere da chiave per aprire quelle porte sbarrate.

«Il punto è che non c’è bisogno,» lo ferma subito lei, con una nota inquieta a danzarle sul volto.

Tony si ferma interdetto dal funzionamento di quella chiave improvvisata. Rimane ancora parzialmente inclinato verso di lei, ma coi piedi ben piantati indietro, come se si stesse avvicinando a un animale pronto a dileguarsi. O ad azzannarlo alla gola. Non parla e la fissa interrogativo, un sopracciglio che si inarca tacca dopo tacca ad esprimere la sua perplessità.

«Di… di cosa? Non parlare in codice, Romanov, la Guerra Fredda è finita e non mi sembra il–»

«Di parlare,» specifica quindi lei. «Non c’è niente di cui parlare.»

Tony si lascia sfuggire un’inclinazione appena più accentuata delle labbra, in un sorrisetto involontario, e scopre le proprie carte senza più veli:

«Quindi, mi stai dicendo che non stavate tentando di rintracciare Barton.» Lo sguardo di Natasha si fa evasivo. «E che non è stato lui a sfogare il proprio “estro artistico” con innovativi murales di sangue a scapito di qualche delinquente del Cartello. Buono a sapersi, altrimenti mi sarei preoccupato.»

Serra la bocca di scatto quando quell'ultimo stralcio di frase gli rotola via dalla lingua, pericoloso. Natasha sospira rapida.

«Non hai prove per…»

«Romanov, non trattarmi da idiota,» scandisce seccamente, indurendo volto e voce con un picco d’irritazione. «C’è una sola persona per la quale ti precipiteresti oltre l’Equatore per vagare alla cieca nelle favelas due giorni di fila, soprattutto considerando che le altre sono cenere,» enuncia, privandosi di ogni edulcorazione e gioco di parole per esprimere quel concetto che gli appesantisce il respiro.

Natasha incrocia a sua volta le braccia, decidendosi a fronteggiarlo del tutto, ma i suoi occhi rimangono mobili e schivi, anche se non lo rifuggono più del tutto. Batte le ciglia, assottigliando le labbra in una linea rigida che le taglia a metà il volto.

«Bene, allora: Clint ha… fatto ciò che ha fatto,» sentenzia poi, sempre con quel tono in bonaccia che non gli permette di cogliere le emozioni, vere o meno, che vorrebbe far trapelare. «Non c’è altro da dire.»

Tony fa scorrere avanti e indietro la mandibola serrata, facendola quasi scricchiolare, per poi decidersi a permettere il passaggio d’aria e suoni tra i denti, anche se le sue parole sono pietre grezze:

«Io direi che non conta ciò che ha fatto ieri, ma ciò che non ha fatto in un anno intero.»

La vede vacillare appena come se, per una volta, fosse lei a trovarsi dalla parte sbagliata di un mirino. Non esplicita il concetto, ma intuisce dai suoi occhi improvvisamente annuvolati che l’ha colto comunque. Che sa di essere stata abbandonata dall’unica persona di cui si fidava davvero. E che non basta un surrogato a colmare quel vuoto, come non basterebbe a lui per colmare i propri.

Gli si avvicina di un passo, un singolo passo, fissandolo in volto con iridi di nuovo cristalline, e a Tony sembra quasi di leggervi una sfocata ombra di rispetto per aver osato centrare quel bersaglio. Inclina il mento verso il basso, inspirando a fondo, per poi tornare a piantare le pupille nelle sue:

«Ho esaminato i corpi e analizzato il modus operandi,» dichiara infine, monocorde. «Non vedevo questo Clint da molto tempo. E ciò renderà più difficile rintracciarlo ancora.»

«Vuoi ancora trovarlo? Dopo quello che gli hai visto fare?»

«Io ho fatto di peggio,» lo gela lei, rialzando gli occhi adesso opachi. «E non è una questione di volere. Ho un debito con lui.»

Tony scuote la testa, e il rimpianto per non aver voluto varcare soglie proibite evapora in uno sbuffo di fumo. Non vuole immaginare di quale sorta di debito stiano parlando, ma quell’affermazione va a tirare corde sensibili dentro di lui: gli soffia una spiacevole ventata gelida nel cuore, di quelle che fomentano le scintille del sospetto già fin troppo radicate in lui, facendole baluginare pericolose. Natasha gli scocca un’occhiata pungente e sembra ammonirlo di non chiedere troppo. Una richiesta di distanza, di confini che si ridefiniscono dopo un terremoto.
 
«A questo punto, spero che tu non abbia debiti anche con me,» commenta soltanto, a metà tra il sarcastico e l’inquieto.

La fissa negli occhi insistente, a scoprire le menzogne velate sotto le sue ciglia scure e mobili.

«No. I nostri conti sono in regola. Da entrambe le parti,» risponde formalmente, quasi stessero siglando una trattativa d’affari, e quella risposta lo lascia solo più confuso. «Ora dovremmo dormire, Stark. Domani sarà una lunga giornata.»

Svicola via senza aggiungere altro e Tony non la trattiene, con le parole precedenti che girano in cerchio al centro del suo cervello. Cosa significa, nel linguaggio criptico di Natasha, non avere debiti? Che sono legati da altro, da quella fiducia traballante? O che non sono legati affatto? Quella domanda s’ingarbuglia ancor di più quando, nel superarlo, gli stringe di sfuggita il braccio, in una comunicazione inaspettata e silenziosa che per lui è ancora oscura. Ma, forse, equivale a una fessura lungo quelle barriere sempre più friabili che Natasha continua ad erigere attorno a se stessa, murandosi viva contro il mondo. Se quello sia un preludio al collasso o a un’apertura vera e propria, Tony non sa ancora dirlo, ma entrambe le possibilità lo ancorano sul posto con radici di paura.

La lascia andare via, anche se l’impulso è di trattenerla. La ascolta andare via a passi leggeri e lascia scorrere una mano esausta tra i capelli. Guarda fuori dalla vetrata, verso il bosco e i prati verdeggianti che preannunciano l’estate, ora immersi nel buio.  L’orologio inesorabile segna ore improbabili della notte.

Il giorno è arrivato, e ad ogni minuto che scorre, Tony sente l’anima farsi un po’ più pesante, come se volesse scivolargli nei talloni per abbandonarlo del tutto.



 

Note: 
 
[1] Da fonti attendibili, la Decimazione avviene a giugno 2018. In questa storia ho posto il ritorno di Tony a giugno, dopo 27 giorni passati nello spazio. Questo vuol dire che lo schiocco deve essere avvenuto al massimo tra il 1° e il 3 giugno, ponendo logicamente il compleanno di Tony pochi giorni prima, in quanto nato canonicamente il 29 maggio nel MCU.
[2] Favela realmente esistente a Rio de Janeiro.
[3] Rhodey è un ufficiale dell’Aeronautica Statunitense: è molto probabile che abbia partecipato a uno o più “tour” in Afghanistan e che proprio per questo accompagni Tony nel suo viaggio d’affari nel 2008.
[4] Tony si riferisce alla famosa Statua del Cristo Redentore, simbolo di Rio de Janeiro. I brigadeiros sono dei dolcetti al cioccolato, mentre la cachaça è un liquore, entrambi tipicamente brasiliani.
NB. Tony ha fatto passi da gigante, negli ultimi capitoli, ma in quest’ultimo subentra tra le righe la “sindrome dell’anniversario”, già accennata in relazione al compleanno di Pepper. Qui ricorrono a poca distanza sia il compleanno di Tony che l’anniversario della Decimazione, e si è psicologicamente più soggetti alla depressione all’avvicinarsi di date associate a traumi. Di qui l’atteggiamento più incostante di Tony in questo e nel prossimo capitolo.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, dopo una pausa più o meno lunga, torno di gran carriera con questo capitolo un po' più movimentato che spero abbiate gradito <3
In teoria avrei voluto aggiornare venerdì, quando sarebbe dovuto uscire il film di Vedova Nera *sigh*, ma ho pagato lo scotto dell'ispirazione carente :')
Grazie a tutti coloro che hanno letto, recensito e/o aggiunto la storia alle loro liste. E un grazie speciale a
leila91 che ha recuperato in un baleno tutti i capitoli, rendendomi felicissima, e ad _Atlas_ e T612, che stanno facendo lo stesso <3
Alla prossima,

-Light-

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Capitolo 20
*** Parte seconda - Capitolo 19: Fratture ***


.19.

Fratture
 
 
 
 
“Gli apparvero ora in una specie di voragine, appena visibile in basso, sotto ai suoi piedi, tutto quel passato e i pensieri di una volta,
i problemi e gli argomenti e le impressioni di un tempo, e tutto quel panorama, e lui stesso, e tutto, tutto...
Gli sembrava di volar via in alto, chissà dove, e che tutto dileguasse ai suoi piedi.
 
Gli parve di essersi in quel momento staccato, come con un colpo di forbici, da tutti e da tutto.”

 Delitto e Castigo – F. M. Dostoevskij


 
 
 
3 Giugno 2019, Primo anniversario della Decimazione, Complesso dei Vendicatori
 
Non è riuscito a spremersi fuori nemmeno una lacrima. Neanche una per le telecamere, per mostrare al mondo che Tony Stark ce l’ha, un’anima, anche se malridotta. Ma senza alcol non ha lacrime. Un’alternanza imperfetta e deleteria con la quale non riesce a tenere il passo.

Sbatte la porta della camera dietro di sé. O almeno, pensa di farlo, pensa che sarebbe il modo più adatto ad esprimere il caotico tumulto che lo scuote da capo a piedi, l’acido che lo brucia e gli rimesta dentro in gorghi venefici, ma finisce per accostarla con dita tremanti, abbassando la maniglia per chiuderla. Piano, cercando di non far rumore. Come per illudersi di non esistere, di non essere davvero lì. 

Non lo è.

È su Titano. È sulla Benatar. È nel portale, sette anni fa. Ma al posto delle navi aliene, ad attenderlo dall’altra parte vede dei monoliti che fluttuano tra le stelle. Marmo antracite, inciso di migliaia, migliaia di nomi. Milioni. Tozzi e sgraziati, imponenti come la perdita che rappresentano, troppo piccoli per racchiuderla davvero.

Li odia. Ha odiato vederli lì, in mezzo a Central Park. Troppi, troppi, troppe file, troppi nomi. Peter. Peter. Peter. Gli sembrava ripetuto all’infinito, al posto di tutti gli altri. Non Pepper, non l’ha voluta là sopra, non l’ha voluta impressa nel marmo. Non l’ha vista là sopra perché è stata accanto a lui, per tutto il tempo, un fantasma che non ha avuto il coraggio di guardare davvero – e si pente, avrebbe dovuto farlo, anche solo per convincersi di non aver dimenticato il suo volto – ma è proprio per questo che non l'ha fatto, perché non è sicuro di ricordarlo e lei non è davvero lì. I suoi lineamenti sono annacquati, tremolano sulla superficie dei suoi ricordi e ha paura di metterli a fuoco per timore di non riuscirci.

È su Titano. È sulla Benatar. È nella grotta – deve uscire, deve uscire – è Iron Man, deve uscire – ma gira su se stesso nel buio. Le mura sono nere, incise di nomi; si sgretolano, si ricompongono e si fanno sabbiose, granelli di stelle che gli perforano le retine.

Sta allucinando. Una parte di sé, quel barlume di sanità che ancora gli tiene attaccata la mente al corpo, lo sa. Space dementia, strascichi alcolici – comunque sia, non è reale. Sente la voce di Bruce, rassicurante: non è reale. Respira. Trova un appiglio, concentrati. Respira. Ripeti.

La stanza trema e stinge, diventa grigia di cenere. Lo ricopre con una patina, un sudario polveroso che gli si incolla ovunque sulla pelle madida. Non si è accorto di essere scivolato a terra, contro il letto. Non si è nemmeno reso conto di aver recuperato una bottiglia da chissà dove – l'ha nascosta, lo ricorda. Non la apre. La stringe tra i palmi viscosi di fuliggine e sangue – sta sanguinando, ha il fianco squarciato che palpita atroce – e fissa il pavimento.

Sabbia, roccia, vuoto cosmico. Marmo inciso di nomi – dello stesso nome. Si alternano psichedelici come un dance floor difettoso. La intravede accanto a sé e non si gira perché non la ricorda: non sa più il punto d’azzurro dei suoi occhi, i riflessi dei suoi capelli, non conosce più le vibrazioni della sua voce. Lascia che la sua sagoma evanescente si accosti a lui senza poterlo toccare. La respira, la immette nei polmoni fino a farli esplodere e li sente sgonfiarsi con una stilla di sollievo acidulo che lo fa tremare. Un ricordo, etereo, che gli soffia sull’anima a ravvivarla. Un profumo – l’ha sempre saputo.

Gigli. Erano gigli.

 

§


Ore dopo, Complesso dei Vendicatori

Lo stillicidio si è protratto per quelli che gli sono sembrati anni luce. Una tortura fatta di pensieri fin troppo chiari e nitidi, che però non ha voluto annebbiare con l'alcool. Torture di ri ricordi, quelli che per un anno intero ha tenuto imbrigliati come poteva e che adesso erompono pretendendo la sua attenzione, intimandogli di non essere dimenticati. Gli sembra sempre così spietatamente ironico che lui, il Futurista, sia costantemente stritolato dalle zanne del passato. O forse è proprio per quello che si slancia sempre verso il futuro, in quella che somiglia fin troppo a una fuga cieca.

Di peggio, però, c'è rimanere bloccato nel presente. Nel qui ed ora, nei dicembri innevati e nelle astronavi alla deriva. Quello è il tempo che più detesta, e deve proiettarsi, deve guardare avanti anche solo di un millimetro. Un Futurista in miniatura: il prossimo giorno, la prossima ora, anche solo il prossimo secondo. Il prossimo passo, uno alla volta. Un-due-tre. E diventano mille, diventano chilometri che consumano le sue forze, ma anche il dolore; lo smussano calpestandolo.

Quei passi finiscono per portarlo in sala comune. È mezzanotte e la trova vuota proprio come aveva sperato, se non per una persona – e ammette che aveva tacitamente sperato anche in quello, a un livello inconscio che non è certo di voler accettare del tutto, visto che la fiducia è un'arma a doppio taglio.

Natasha è seduta sul divano, con una bottiglia di quella che sembra vodka in una mano e un bicchierino pieno fino all’orlo nell’altra. Gli rivolge un’occhiata sbieca non appena lo vede avanzare nell’alone di luce tiepida della lampada da lettura, per poi vuotare d’un fiato il bicchiere e rabboccarlo senza battere ciglio. La bottiglia è vuota per metà.

Tony distoglie lo sguardo senza un commento, sentendosi ancora avvolto da sensazioni che non dovrebbe provare, anche se più ovattate rispetto a quel pomeriggio. Ha dormito un sonno denso come pece, indotto da spossatezza, Valium e volontà di far scorrere rapidamente via quella giornata interminabile. Manca comunque mezz’ora, e quell’ultima sezione di quadrante sull’orologio sembra dilatarsi con ogni secondo che passa – o non passa.

La sua testa è ancora una boccia per pesci rossi troppo piena, pronta a strabordare da un momento all’altro in ondate di pensieri, ma almeno è di nuovo qui. L’emicrania latente gli preme contro la base del cranio, a confermare la propria solidità fisica. Beve un bicchier d’acqua e ha per un istante l’illusione del bruciore dell’alcol sulla lingua, subito rimpiazzata dalla frescura vellutata del liquido insapore nella sua bocca riarsa.

Sente un lieve cozzare di vetro contro vetro, e scorge con la coda dell’occhio Natasha che poggia la bottiglia sul tavolo, tenendo il bicchierino pieno tra due dita con lo sguardo perso altrove. La vede assente come di solito non è mai, chiusa in un limbo tra estrema tensione e spossatezza che rende scattosi e al contempo fiacchi i suoi gesti. Manda giù anche l’altra dose di vodka, apparentemente insensibile alla gradazione alcolica fuori norma.

Tony ripensa ai filmati di sorveglianza a Rio, alla mattanza che si sono ritrovati davanti agli occhi lei e Rogers, alla discussione sul filo del rasoio in sospeso da ieri. La ben nota sensazione in fondo allo stomaco si ripresenta più aguzza. Non è superstizioso, ma ormai la associa sempre a un cattivo presagio, all’avviso perentorio che qualcosa stia per precipitare. È lui ad assestare la spinta definitiva:

«Non c’eri, stamattina,» osserva, con voce arrochita e ancora lievemente impastata.

Il retrogusto dei medicinali è nauseabondo.

«Ho del jet lag latente,» ribatte lei serafica, senza scomodarsi ad allestire una bugia più credibile. «Vi ho visto in TV

A Tony sembra che ogni frase che pronunciano sia volta a ferire più o meno sottilmente l’altro. Sì, è decisamente un'arma a doppio taglio, la fiducia, e anche ben affilata.

«Un bello spettacolo, spero,» replica lui, scacciando la sovraimpressione delle gigantesche lapidi dalla propria visuale.

La intravede scrollare appena le spalle, come se non trovasse un motivo per esprimere un’opinione al riguardo, ma è conscio che gli obbiettivi delle telecamere hanno fornito un servizio impietoso su lui, Rogers e gli altri. Serra i palmi sul bordo della penisola, accigliandosi alla realizzazione che, mentre lui è messo costantemente a nudo in ogni circostanza, lei continua a tenersi stretti quei “difetti di fabbricazione” senza mai esternare davvero nulla. Non fa commenti in proposito: sarebbe solo crudele. Si avvicina invece con passi rallentati, scrutando le sue reazioni in cerca di un qualche segnale rivelatorio che è destinato a non trovare, lo sa.

«Sei ubriaca?» chiede poi, prima di ponderare la sensatezza di quella domanda.

Lei, inaspettatamente, sbuffa un risolino beffardo.

«No. Avrei bisogno di una distilleria intera.»

Tony sospira a mezza bocca e affonda di più le mani nelle tasche.

«Se vuoi compagnia…»

«Ho passato sei mesi a tenerti lontano dall’alcol: lo considererei un affronto personale,» lo blocca Natasha, ingollando un altro bicchierino d’un sorso.

Tony sbuffa attraverso un sorriso carico di tensione.

«Non ho intenzione di vanificare i tuoi sforzi.»

«Ho comunque l’impressione che prima stessi facendo qualcosa di altrettanto poco sano.»

Quella finta e affondo va a segno con precisione. Reclina il capo, attendendo una sua risposta, e lui si limita a liberare un respiro più sonoro dal naso.

«Sì, ma sono stato bravo,» puntualizza con voluta vaghezza. «Te l’ha detto Rhodey?» chiede poi, inquisitore e con un velo di sospetto che lo fa agitare sul posto.

«L’ho intuito da sola. Sei prevedibile,» constata lei, accompagnandosi con un’alzata di spalle che lo irrita e spiazza al contempo. «Adesso sei qui?» chiede poi, con una naturalezza tale da prosciugargli ogni volontà di mentire.

«Più o meno,» mormora riluttante, con ancora delle sparute lucciole a danzargli nella visuale. «Al… 60%, direi. È una percentuale accettabile rispetto ai miei ultimi standard.»

Natasha sorride appena, come se avesse detto qualcosa di divertente. La fissa interrogativo nel cogliere poi un lampo rattristato nel suo sguardo, in contrasto con quel gesto. Forse non è il solo a non sentirsi davvero “qui”. Lancia un’occhiata all’orologio, che segna pochi minuti prima di mezzanotte, e in un sol movimento mal ragionato si lascia cadere seduto accanto a lei, facendo un cenno del mento verso la bottiglia.

«È una giornata di merda per entrambi: un goccetto per concluderla posso concedermelo anch’io, sotto la supervisione di un adulto responsabile,» dice poi, sostenendo il suo sguardo penetrante.

Lei lo tiene sulle spine per qualche istante ponderato, poi riempie il bicchierino a metà e glielo porge senza una parola, colmando anche il proprio fino all’orlo.

«Non mi definirei “responsabile”,» gli contesta poi, con un angolo delle labbra che si solleva impercettibilmente.

«Perché credi che venga da te, quando voglio fare qualche cazzata?» ribatte pronto lui, imitando specularmente la sua espressione, che si allenta di un’ulteriore tacca a quelle parole e che le porta però un’ombra aggiuntiva negli occhi a quella recriminazione inespressa.

Tony fa cozzare il fondo del bicchierino contro il bordo del suo.

«Alla fine di questa giornata di merda.»

Mandano giù il brindisi in sincrono con l’orologio che batte la mezzanotte, senza che per questo possa cambiare davvero nulla. Tony trattiene un rimasuglio d’alcol in bocca, assaporandone il bruciore quasi dimenticato e sentendolo marcare il proprio percorso di labili fiamme fino allo stomaco vuoto. Sente la pressione che gli spinge la mano a versarsene altro, ma Natasha lo pone fuori dalla sua portata e lui riesce a soffocare l’impulso prima che prenda il sopravvento, osservandola poi mentre elimina la tentazione alla radice versandosi un ultimo bicchiere e scolando il fondo di vodka in pochi sorsi cadenzati direttamente dalla bottiglia.

«Quanto ci vuole, per farti ubriacare?»

È suo malgrado impressionato, pur rammentando occasioni in cui l’ha vista bere quantità d’alcol decisamente più notevoli.

«Molto, e nessuno ti obbliga a rimanere,» è la sua risposta difensiva, accompagnata da uno sguardo d’un tratto ostile, come se avesse processato solo ora l’accusa indiretta d
irresponsabilità che le ha rifilato prima.

«Era una domanda disinteressata,» ribatte Tony, facendo appello a una pazienza che di solito non gli appartiene.

«Meno di Steve,» risponde, più accomodante ma senza fornire dati precisi. «Ma non sono mai riuscita a incastrarlo per una gara, quindi sono stime del tutto teoriche.»

«Se mi stai chiedendo di andare a ripescarlo per condurre l’esperimento, la risposta è no

«Con lui ho già chiuso, per oggi. Poi è toccato a Bruce e adesso a te… poi spero di finire il turno.»

«Scusi tanto: avrei dovuto prendere appuntamento prima, dottoressa Romanov,» replica lui, sarcastico e un po’ piccato, abbandonandosi contro lo schienale per poi incastrarsi semi seduto nell’angolo rivolto verso di lei.

Lei scuote la testa, e la intravede sfregare rapida un indice sotto la rima degli occhi, in un gesto difficilmente fraintendibile che però sceglie di ignorare, trovandolo più destabilizzante di un pianto sfrenato. Si rigira il bicchiere in mano, e l’ultima dose di vodka scompare a un gesto deciso del suo polso.

«E quando tocca a te?»

Natasha lo fissa quasi contrariata, per poi addolcire la propria espressione.

«Mai,» risponde soffusa, chiudendo la bottiglia con un’avvitata decisa, ed è sicuro di cogliere un tremolio nei suoi occhi.

L’antifona è chiara, come d’altronde lo sarebbe anche senza alcun bisogno di esprimerla vocalmente: non c’è nulla di cui parlare. Non parlano mai davvero, si scambiano solo frasi dimezzate che si incastrano stridendo con quelle dette in precedenza, a formare una trama sempre maldestra e mai completa.

«È per Barton, vero?» insiste comunque, fissandola intento dal suo cantuccio improvvisato e includendo la bottiglia vuota nella sua visuale. «Non mi sembri il tipo che tiene molto da conto le ricorrenze,» specifica poi, in risposta alla piega contratta che le compare tra gli occhi.

Lei si rigira il bicchierino vuoto tra i palmi, curva coi gomiti sulle ginocchia, e Tony quasi trattiene il fiato nel capire che forse non sta per ricevere una risposta artefatta, né un depistaggio, né una richiesta di distanza. Le tremano appena le dita, e ha di nuovo quello sguardo vacuo che le apre abissi nelle iridi.

«È personale,» proferisce poi, rigidamente. «Quello che ha fatto Clint. Sono anni che non usa armi bianche, che vuole una distanza dalla morte.» 

Tony si chiede per quanto tempo si sia rigirata in testa quel concetto prima di esprimerlo ad alta voce.

«Parliamo di conti in sospeso?» la interroga piano, consapevole di camminare su del ghiaccio molto sottile.

«Parliamo di persone diverse,» replica lei, serrando le labbra in una smorfia amara. Incontra per una frazione di secondo il suo sguardo, rivelando un’ombra di sofferenza che non le ha mai visto addosso. «Forse non voglio davvero trovarlo, ma devo.»

«Per i debiti.»

«Non si estinguono da soli.»

Tony frena la lingua e tace altre domande, assecondando il silenzio di pensieri che porta con sé quell’affermazione. Invece, imbocca d’istinto una strada più diretta, più pratica, come quel giorno innevato che sembra già appartenere a un'altra epoca:

«Ti lascio libero accesso a FRIDAY per le ricerche.»

Si pente di averlo detto nel momento stesso in cui finisce di articolare l'ultima sillaba, ma non è tipo da tornare sui propri passi, e quindi trasforma le parole in fatti con pochi comandi che impartisce tramite il cellulare che ripesca dalla tasca. Sente il suo sguardo silenziosamente stupefatto addosso, e pizzica come cristalli di ghiaccio acuminati contro la pelle. Interrompe i suoi traffici e fa un profondo respiro, senza alzare lo sguardo.

«Conosci i miei standard, Romanov… non farmene pentire,» specifica poi, con voce un po’ contratta.

L’improvvisa mole di fiducia che le sta accordando gli sembra d'un tratto ingestibile. Ed è consapevole che, indirettamente, le sta chiedendo di ricambiare quella concessione. È un gesto che non lascerà debiti, ma non privo d'interessi: è solo questione di capire se Natasha sia disposta a ripagarli con la stessa moneta. La fiducia è una valuta fin troppo mutevole che rischia di lasciare chiunque con un pugno di niente.

Lei sembra presa in contropiede, per uno di quei singoli istanti che svelano le sue emozioni malridotte, poi annuisce con un unico, lieve cenno del capo che le irrigidisce i lineamenti. Tony si trova confuso a sua volta quando Natasha, come se fosse il gesto più naturale e scontato del mondo, porta le gambe sopra alla seduta, gli volta le spalle e si reclina all’indietro poggiando la schiena contro di lui. Tony quasi sussulta a quella richiesta di contatto decisamente fuori dagli schemi, ma si immobilizza senza ritrarsi, un braccio bloccato dal suo peso.

Coglie un picco di turbamento quasi elettrico da parte sua, un qualcosa che non le riesce a controllare, né volontariamente, né tramite quell’addestramento odioso che le è stato imposto. Paura. Di esporsi troppo, o troppo poco. Di essere troppo vicina all'orlo del baratro e perdere l'equilibrio. Di chiedere un conforto di cui forse ha bisogno anche lui.

«Hai intenzione di dormire così?» le chiede infine, con un filo di rassegnazione volutamente esasperata.

«Forse. Sei meno scomodo di quanto sembri e ho dormito in posti peggiori.»

Tony sbuffa un sospiro, alzando gli occhi al cielo.

«Se doveva essere un complimento, non sembrava tale.»

«Non vorrei rischiare di fomentare ulteriormente il tuo ego da diva, Stark.»

Lui esala un mugugno basso e seccato in risposta, lasciandosi scivolare ancora sullo schienale e allungando un poco sul pavimento le gambe già indolenzite. Natasha reclina la nuca sulla sua spalla, cercando di utilizzarla meglio come cuscino, e dopo un paio di manovre turbolente sembra assestarsi definitivamente contro il suo busto. Non riesce a vederla in volto, così, ma presume che non abbia ancora chiuso gli occhi. Rimangono muti per molti ticchettii d’orologio, col calore condiviso che si espande tra loro. Tony si ritrova a socchiudere gli occhi, con le palpebre che si fanno più pesanti, ma si riscuote con un fremito.

«Ti aiuta, almeno? O è solo un modo fantasioso per rompermi le scatole?» chiede sottovoce, un po' scherzoso e un po' no.

In tutta risposta si ritrova un suo gomito piantato con precisione chirurgica nella milza, cosa che a dispetto della fitta gli strappa una risata sommessa.

«Entrambi,» la sente mormorare poi controvoglia, mentre si stringe le braccia al petto quasi a offrire meno bersaglio.

«Bene, mi piace rendermi utile,» borbotta lui, gli occhi di nuovo a mezz’asta, deciso però a non lasciarle l’ultima parola. «Massimo risultato col minimo sforzo,» aggiunge poi in un mezzo grugnito, svicolando il braccio bloccato sotto di lei e passandoglielo inavvertitamente attorno alla vita alla vana ricerca di una posizione più comoda che non gli distrugga la schiena.

La sente irrigidirsi di scatto, bloccando il fiato in gola, e lo ritrae immediatamente incastrandolo invece tra loro e il divano, in zona neutrale. È lei a riportarlo delicatamente nell’assetto di partenza, andando poi a cingergli il polso sfregiato. Tony si acciglia, ma non commenta quel ripensamento, né lei fornisce spiegazioni in proposito. Non vuole immaginare quali tasti possa aver sfiorato, e reprime la propria molesta curiosità mista a preoccupazione, limitandosi a mettere in rilievo il fatto che, forse, per una volta è lui a fare qualcosa per lei.

Scansa da parte la realizzazione che quella è la terza volta che dorme con Natasha e la prima in cui sia pienamente cosciente di sé, la prima in cui dovrebbe sentirsi effettivamente esposto e vulnerabile. Ma non arriva nessun pensiero convoluto ad occludergli la mente, se non quello che, a dispetto di tutto, è rassicurante avere un semplice tepore umano che lo distrae dal freddo del lato vuoto di un letto – soprattutto oggi. Per un momento, il passato smette di rincorrerlo e il presente non tenta più di inghiottirlo, così non è costretto a correre incontro al futuro. Esiste e basta, sospeso nei tempi
.

Si limita a stringere Natasha e a chiudere gli occhi per cancellare quelle riflessioni, prima che gli avvolgano la mente col loro drappo oscuro e stellato. La sente respirare in controtempo addosso a lui, sveglia, e si abbandonano un respiro alla volta al sonno che arriva leggero, in punta di piedi e con incubi puntualmente interrotti da mani fidate.



 
 

Note:

-Vi è un collegamento abbastanza stretto tra la prima parte del capitolo e la one-shot
H-8, che originariamente ne faceva parte ed è poi stata riadattata come pezzo a sé stante... ma se volete un'altra dose d'angst in endovena, ve la consiglio :D


Note dell'Autrice:

Massalve, cari Lettori!
No, la storia non è morta e sepolta... è solo che ho avuto bisogno di uno stacco netto dalla scrittura per un periodo, in particolar modo di una pausa da questo fandom, visto che ero arrivata a un punto di saturazione. Adesso credo di essere rientrata in carreggiata, e per questo ho deciso di "ricominciare" da questa long, abbandonata a se stessa da fin troppo tempo. A voi i commenti, io mi limito a dirvi che questo è il capitolo di svolta e che spero davvero di sorprendervi col prossimo... sì, anche voi che avete letto la versione-bozza su Wattpad :P

Ringrazio di cuore leila91 e _Atlas_ per aver recuperato tutti i capitoli in tempo record, e Miryel, shilyss (grazie per l'aesthetic!) e T612 per i commenti e per supportare la storia <3 E un grazie anche a chi legge in silenzio e aggiunge alle liste. Sappiate che tutti voi siete il motore di questa storia e il motivo per cui continua ad andare avanti <3
Alla prossima,

-Light-

 

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