Preludio

di Violet Sparks
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


WARNING: La storia che segue prende avvio da uno spunto, nato esclusivamente tra i fan della saga di Star Wars, secondo cui Ben Solo e Poe Dameron si sarebbero potuti plausibilmente essere conosciuti durante l’infanzia. Partendo da ciò, tutto quel che leggerete rappresenta una mia rivisitazione personale della storia di Ben Solo/Kylo Ren, di cui rivendico pienamente i diritti (alias, non prendete niente, che vi spezzo le gambine)!
Anche gli eventi e la loro successione cronologica, seguirà solo in parte quella delineata dai vari spin-off e dalla Saga stessa! Buona lettura!
 


Capitolo 1
 
 
 
You know how the time flies
Only yesterday was the time of our lives
We were born and raised in a summer haze
Bound by the surprise of our glory days
(Adele, Someone like you)
 
 
 

La prima volta che Ben Solo incontrò Poe Dameron, aveva sei anni.
Sua madre lo aveva costretto ad alzarsi presto quel mattino, quando il cielo cominciava appena a striarsi di arancione, portando su di sé ancora i segni della notte trascorsa. Gli aveva fatto indossare degli abiti molto preziosi, di un tessuto nero, leggero come la carezza di un’ombra e alla sua domanda sulla loro destinazione, aveva semplicemente risposto: “andiamo a salutare una vecchia amica.”
Ben si era addormentato in braccio a Chewbecca quasi subito e una volta ridestato si era ritrovato su un pianeta pieno di verde, dove l’aria profumava di frutti e il calore del sole premeva gentilmente sulla pelle.
A quanto pareva, l’amica della mamma si trovava ad una cerimonia bellissima, bellissima perché diversa dalle feste opulente e chiassose a cui di solito Ben veniva costretto a partecipare.
Ovunque vi erano fiori dai colori pastello che gli pizzicavano le narici e gli solleticavano le manine ogni qualvolta, dall’alto delle spalle di zio Chewbe, lui cercava di afferrarli. In un angolo, un quartetto di giovani donne era intento ad intonare una melodia dolce come una ninna nanna, mentre una piccola folla di persone mormorava sommessamente, quasi a volersi scambiare un indicibile segreto.
Non appena si accorsero della loro presenza, molti si fecero più vicino, ma non con quella curiosità morbosa e quell’euforia che Ben trovava sempre un po' fasulla, piuttosto con una gentilezza pacata fatta di piccoli gesti. Una gentilezza che gli faceva venir voglia di sorridere e, soprattutto, non accendeva in lui il solito istinto di nascondersi dietro le gambe della mamma.
Fu lì, che Ben lo vide.
Ad un certo punto, accanto a due uomini che si erano soffermati a salutarli e a parlare di cose bislacche, successe prima che lui fosse nato, comparve un bambino poco più grande di lui, coi capelli ondulati nerissimi e la pelle ambrata, scottata dal sole.
“Papà, siamo pronti per cominciare.” disse con modi da adulto, rivolgendosi al signore più giovane davanti.
“Certo, figliolo.” rispose l’interpellato, poi però si volse di nuovo verso loro tre e “Leia, ti presento mio figlio, Poe Dameron.” affermò “Poe, loro sono Chewbecca, il generale Leia Organa e suo figlio, il piccolo Ben.”
“È davvero un piacere conoscerti, Poe!” proruppe subito sua madre, gioviale, allungandosi verso il bambino per scompigliargli i capelli “Mi dicono già grandi cose sulle tue capacità di pilota!”
“E intendo ancora migliorare, generale!” ribatté quello, Poe, con un gran sorriso.
“Sai, tu e mio figlio Ben siete quasi coetanei, potreste diventare amici.”
Ad un cenno della donna, Chewbecca lo posò a terra, così che si ritrovasse finalmente faccia a faccia col nuovo arrivato.
“Ciao! Io sono Poe!” ribadì subito l’altro, guardandolo attraverso una corolla di ciglia fittissime e scrollando la mano, in segno di saluto.
Ben lo osservò con più attenzione.
Poe era poco più alto di lui e magro sotto la camicia nera.
I suoi occhi erano di un caldo color nocciola, grandi e lievemente curvati verso il basso, incastrati ad arte in un visetto proporzionato, dai lineamenti morbidi.
Sembrava più maturo della sua età, disinvolto.
A suo agio tra la gente, anche quando non la conosceva.
Ben provò una punta di invidia del tutto istintiva verso di lui, eppure non poté soffermarcisi a lungo, perché all’improvviso un’altra cosa lo colpì di quello strano bambino, una cosa che non riuscì proprio a comprendere e alla fine lo lasciò alquanto disorientato.
Poe era triste.
No, non soltanto triste.
Poe era distrutto, dilaniato.
Spezzato.
Eppure, il suo sorriso era il più luminoso di tutta la sala.
Eppure, la sua voce era salda, senza alcun cenno di tremore.
Eppure, se ne stava lì, dritto innanzi a loro, cortese e spigliato nonostante il suo cuore stesse gridando per l’agonia.
“Ben, avanti, non essere maleducato.” lo incalzò la voce della mamma, in un punto imprecisato dietro di lui.
La verità era che non riusciva a distogliere l’attenzione dal viso di Poe, dal temporale di emozioni che scorgeva al di là della sua pelle di bronzo.
Era come guardare nelle profondità di un oceano, lasciandosi ammaliare dalla pacata tranquillità della superficie celeste, appena increspata dalle onde, per poi immergersi e scoprire un universo intero di creature e di vegetazione, di vita brulicante, prepotentemente ancorata a quei fondali nascosti.
Ben era abituato a scovare la menzogna nell’animo umano.
Non lo faceva di proposito, come la mamma e lo zio Luke gli rimproveravano spesso.
Per lui si trattava di un gesto del tutto naturale, quasi quanto respirare: semplicemente, posava gli occhi su qualcuno e vedeva, così come chiunque altro avrebbe visto un’insegna al neon, un vestito sgargiante, la luce del sole.
Col tempo, a contatto con le persone che di solito circondavano la mamma – politici, li chiamava suo padre, senza disturbarsi a celare il disprezzo- aveva imparato che di rado gli uomini si mostravano per quel che erano davvero, preferendo belle bugie al posto di scomode verità.
Tuttavia, Poe non apparteneva affatto a quella categoria, pur mentendo.
Perché lui non stava fingendo per ottenere qualcosa, per ostentare di fronte ad altri, sedicenti qualità degne di lode.
Poe stava nascondendo il proprio dolore per nient’altro che… amore.
Semplicemente.
Unicamente.
Amore.  
Era la prima volta che Ben sentiva una cosa del genere.
“Piacere.” snocciolò infine, in modo tanto meccanico da sussultare al suono della sua stessa voce.
L’altro bambino inclinò un poco il volto e lo fissò di rimando, incuriosito, finché l’uomo che doveva essere suo padre non gli toccò gentilmente la spalla e “Andiamo, figliolo.” gli disse all’orecchio, guidandolo con sé, verso il fondo della navata.
Lui, zio Chewbe e la mamma invece rimasero indietro, prendendo posto su una panca bianca, imitati da altre persone.
D’un tratto, un uomo con una grossa tunica scarlatta cominciò a parlare in tono solenne, davanti ad una cassa di legno lucido, coperta di fiori, allora un senso soffocante di malinconia cadde su tutti i presenti, avvolgendoli come una coltre di nebbia.
A quanto pareva, l’amica della mamma, Shara Bey, era crollata in un sonno talmente profondo da non riuscire più destarsi e adesso doveva essere riaffidata alla Terra, madre di tutti gli uomini, così che potesse riposare insieme a lei, confondersi con le altre essenze dell’Universo ed entrare a far parte della Forza.
Ben si strinse nelle proprie spalle, a disagio, cercando di tenere lontano da sé quella sgradevole sensazione di angoscia che ormai sembrava permeare l’aria circostante.
Si concentrò sul suo stesso respiro, sul ritmo del cuore che avvertiva martellare freneticamente contro lo sterno, ma non appena i suoi occhi incontrarono di nuovo l’esile figura di Poe, attraverso la folla, la sofferenza dell’altro bambino lo investì con una ferocia indescrivibile, lasciandolo inerme e stordito come uno schiaffo in pieno volto.
Quando la cerimonia finì e la scatola di legno venne sotterrata alle radici di un albero dalla chioma rigogliosa, Ben non ci pensò sopra due volte, prima di lasciare la mano della mamma e correre a cercare Poe.
Lo trovò seduto su un prato poco distante, da solo, che osservava l’azzurro terso del cielo.
Non gli disse niente, neanche lo salutò nemmeno.
Solo si mise a fianco a lui, in perfetto silenzio, lo circondò con le proprie braccia e lo strinse fortissimo, poggiando la testa contro il suo petto.
L’altro sussultò appena, ma non lo scansò.
“Ben?” chiese, evidentemente confuso “Ti chiami Ben, vero?”
“Sì.”
“Cosa… cosa stai facendo, Ben?”
“Ti abbraccio!” rispose lui, secco, quasi fosse la cosa più banale del mondo.
Poe emise una lieve risata e “Questo lo vedo,” disse, il suo fiato caldo che gli sfiorava la fronte “solo che non capisco perché...”
Ben allora sollevò il capo di scatto, immergendo i propri occhi in quelli scuri del coetaneo.
Da quella distanza, pensò che sembravano ancora più profondi, più espressivi e forse sarebbe stato divertente provare a riprodurre tutte quelle sfumature di marrone, utilizzando i pastelli a cera che papà gli aveva regalato per il suo compleanno, “Perché sei triste.” spiegò infine, con una serietà estrema “E mamma dice sempre che quando le persone sono tristi, se le abbracci guariscono.”
Per la prima volta da quando lo aveva incontrato, il viso di Poe si adombrò.
Emise un sospiro tremulo, mordendosi il labbro talmente forte da fare imbiancare la sua pelle di bronzo e subito si affrettò a distogliere lo sguardo, improvvisamente lucido, volgendolo verso un punto imprecisato dell’erba alta intorno a loro.
“Ti sbagli,” mormorò lento, come se parlare gli costasse una immensa fatica “io non sono triste. Ho promesso alla mia mamma che non lo sarei stato.”
A quel punto, Ben sbuffò.
“Non è vero, sei talmente triste che mi stai facendo venire mal di testa!” affermò con tutta la semplicità dell’universo, dopodiché rinsaldò la presa sull’altro bambino e tornò a posare l’orecchio sulle sue clavicole sporgenti.
Poe esitò un istante.
“Cosa dovrebbe significare…” mormorò dubbioso, ma quando non ricevette alcun segno risposta, si limitò a scrollare le spalle.
Ben avvertì una goccia minuscola bagnargli la nuca, prima che la testa di Poe si poggiasse sopra alla sua.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NOTE AUTORE
 Ebbene, signori e signore, è arrivata!
È da quando ho conosciuto la Darkpilot che sto lavorando a questo progetto e cominciare finalmente a dargli la luce, è un traguardo non da poco. Ci ho messo settimane a raccogliere le idee, a calibrare le situazioni, i tempi e gli eventi e alla fine, eccoci qua!
Preludio (che, secondo i calcoli, sarà una minilong in tre capitoli) rappresenta il primo tassello di una serie che cercherà di ripercorrere le tappe fondamentali della storia di Ben e Poe. Racconterà quella che è la mia personale visione dello sviluppo di questa coppia, partendo dagli inizi, come avete potuto vedere, fino ad arrivare all’adolescenza.
Che dire?
Per me sarebbe un onore e un piacere, avervi con me in questo viaggio e cercare di mostrarvi al meglio il meraviglioso potenziale che potrebbero avere insieme questi due improbabili personaggi.
Vi ringrazio anticipatamente!
STAY TUNED!
 
Violet Sparks

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***



Capitolo 2
 

And my body was bruised, and I was set alight
But you came over me like some holy rite
And although I was burning, you're the only light

(Only if for a night, Florence and The Machine)
 
 
 

Delle prime settimane della sua estate su Yavin4, Ben ricordava soprattutto l’odore di chiuso, il fruscio della penna sul foglio di carta, il calore opprimente che gli imperlava la fronte e gli appiccicava addosso ogni singola particella di tessuto.
Sua madre e lo zio Luke avevano degli affari importanti da risolvere, una missione diplomatica che li avrebbe tenuti in quella parte della Galassia fino alla fine della stagione e dopo l’anno passato tra le aride mura del Tempio Jedi, era stato opinione comune che anche a lui avrebbe fatto bene trascorrere del tempo su un pianeta così ricco di verde, dove l’aria era buona, pulita, da respirare a pieni polmoni.
Quando glielo avevano proposto, Ben ne era stato a dir poco entusiasta.
Il pensiero di poter finalmente passare del tempo con i suoi genitori, come quando era più piccolo, gli aveva riempito il cuore di una gioia indescrivibile, che lo aveva lasciato estasiato per giorni.
Quasi non ricordava più l’ultima volta che aveva avuto l’occasione di stare così tanto insieme a loro, o forse sì… era stato il momento in cui la mamma gli aveva detto che andare a vivere con lo zio Luke era la cosa migliore per lui, che così avrebbe avuto modo di controllare meglio quei poteri che qualche volta lo spaventavano a morte.
Quei poteri che, qualche volta, sembravano spaventare a morte anche loro.
Non che non fossero mai venuti a trovarlo, ovviamente.
Sia Leia che Han che perfino Chewbe si avvicendavano spesso al Tempio, sotto lo sguardo seccato di uno zio Luke che, puntualmente, si premurava di ricordar loro che “quello non era un cavolo di campo scuola, per la miseria! L’addestramento Jedi necessitava di disciplina!”, salvo poi arrendersi in un gran sorriso e accogliere la sua sgangherata famiglia a braccia aperta.
Ben adorava quelle giornate, fatte di meno allenamenti e più risate, cene che si protraevano, tra chiacchiere e ricordi, fino a quando il sole lasciava posto ad una trapunta di stelle, ma certo non era la stessa cosa che vivere sotto lo stesso tetto insieme a loro, dividere la quotidianità dei piccoli gesti, sapere i suoi genitori semplicemente nella stanza a fianco.
Ben soffriva a vederli partire, così come crudele e infinita pareva l’agonia della loro attesa: ore passate a scrutare il cielo in cerca di un segno, notti insonni davanti ad un holo che non si accendeva.
Yavin4 gli era suonato come una rivalsa, il premio perfetto per la pazienza dimostrata in quel tempo.
Era stato uno sbaglio.
Suo padre era ripartito con Chewbe dopo appena cinque giorni, lasciandosi dietro nient’altro che un frettoloso bigliettino di scuse sul tavolo da cucina e la promessa di un regalo favoloso, non appena avrebbe fatto ritorno da chissà dove e chissà quando.
Per quanto riguardava sua madre invece, Leia aveva preso l’abitudine di sparire insieme a Luke subito dopo colazione. Ben riusciva a stento a scambiare qualche parola assonnata con lei davanti alla sua tazza di latte e cereali, dopodiché passava il resto della giornata cercando accuratamente di evitare la pedante compagnia dell’androide C-3PO e sperando con tutto sé stesso che, almeno per quella sera, gli impegni della donna non si protraessero oltre l’orario di cena.
In quelle occasioni, Ben combatteva contro il sonno senza tregua, fin quando non crollava, sconfitto, come un albero abbattuto. Sapeva che anche nel cuore della notte, la mamma non mancava mai di curvarsi su di lui per posargli un bacio tra i capelli, lasciargli una carezza sulla testa, con le sue mani fredde e sottili, ma non era abbastanza.
Ben aveva dieci anni e, per l’ennesima volta, si ritrovava irrimediabilmente solo, su un pianeta sconosciuto, ingannato dall’illusione di poter mai condurre con i suoi genitori un’esistenza normale.
Quando lo zio Luke gli aveva suggerito di visitare la biblioteca della capitale e utilizzare i suoi preziosi strumenti calligrafici per ricopiare alcuni testi Jedi, era stato quasi un sollievo.
Il lavoro passivo, metodico, almeno gli permetteva di non pensare.
 
 

Fu lì, che Ben incontrò Poe Dameron per la seconda volta.
Ad un certo punto, mentre tracciava la curva di un’ultima vocale ai piedi della pagina, si sentì come osservato, allora sollevò di scatto lo sguardo dal pezzo di carta: una figura sfuggì dietro agli scaffali, rapida e furtiva, cercando di mimetizzarsi in mezzo alle fitte fila di libri.
Sforzo inutile.
Ben aveva fatto in tempo a scorgere il viso della sua spia, riconoscendola in pochi secondi.
Si trattava di uno dei ragazzini che vedeva sempre giocare nello spiazzo vuoto poco fuori la biblioteca, un enorme zona cementata prima della foresta, intervallata qua e là da rottami e spazzatura.
Ben passava di lì tutte le mattine, scorgendo puntualmente la banda di giovani intenta a giocare tra le lamiere o a calciare a turno qualche pallone di fortuna. In principio aveva anche valutato la possibilità di unirsi a loro, di farsi coraggio e presentarsi, come gli avevano suggerito anche la mamma e lo zio Luke, tuttavia gli era bastato sentirli bisbigliare al suo passaggio, avvertire la loro diffidenza, per scartare immediatamente quell’idea: poco male, Ben non era mai stato bravo a creare dei legami.
La verità era che non sapeva approcciarsi alle persone, non riusciva a comprenderle.
Ogni volta si sentiva inadeguato, fuori posto e quella abilità di cogliere le loro sensazioni più profonde, conoscere le loro paure, le loro bugie, non era certo di grande aiuto.
Su Hosnian Prime, dove era vissuto con la sua famiglia, i figli degli altri membri del Senato erano degli esseri meschini, viziati e pieni di sé, già proiettati verso un futuro di grandezze, tra gli sfarzi della Nuova Repubblica. Al Tempio Jedi, la situazione non era stata diversa: gli apprendisti che Luke aveva raccolto in giro per la Galassia erano bambini senza alcuna attrattiva, zavorre che non facevano che rallentare il suo apprendimento, limitandosi a scalpitare per l’attenzione dello zio, eroe della Ribellione e ad osservare lui con timorosa ammirazione, dal basso della loro mediocrità.  
Ma forse, il problema era che a Ben stesso mancava un pezzo, quel frammento minuscolo ed essenziale che permetteva agli uomini di combaciare con i propri simili.
Questo era lui, una tessera di puzzle sbeccata, ingombrante e superflua, senza una precisa ubicazione nel mondo.
L’unica attrattiva che suscitava sugli altri derivava dalla sua dinastia, quel nome e quel cognome altisonanti che sembravano precedere il suo passo come un’incudine, in attesa soltanto di schiacciarlo.
La figura ondeggiò un poco dietro i volumi polverosi, tergiversò nel suo nascondiglio, probabilmente indecisa sul da farsi, finché non risolse semplicemente per darsela a gambe.
Ben si strinse nelle sue stesse spalle, a disagio.
Il motivo per cui aveva riconosciuto subito il suo segugio, era che quel ragazzino gli era saltato agli occhi fin dal primo momento, anche in mezzo al folto gruppetto di coetanei.
Non sapeva perché, ma gli era sembrato di scorgere qualcosa di familiare nei suoi occhi scuri come la pece, nella zazzera di onde ribelli che gli incorniciavano il volto dai tratti regolari. Rispetto agli altri giovani di quartiere, non aveva mai sussurrato niente alle sue spalle né lo aveva apostrofato in qualche modo. Ritto sulle sue gambe secche e scorticate, si era sempre limitato a fissarlo attentamente, con una punta di sincera curiosità nel cuore.
Una curiosità che, alle volte, pareva frizzare nell’aria come polvere di stelle.
Quel giorno, ad ogni modo, Ben decise di non dare molto peso all’evento, catalogandolo come uno stupido scherzo tra bambini, dunque tornò alle sue mansioni di trascrittore, sebbene con molta meno concentrazione di prima.
Peccato però che la sua spia tornò il giorno dopo.
E quello dopo.
E quello dopo ancora.
Ben provò ancora a far finta di niente, a lasciare che il ragazzino magari rivelasse autonomamente le sue vere intenzioni, ma quello non dava segno di volersi esporre né tantomeno di voler accontentare la sua sete di mistero.
Ogni mattina, quando Ben passava di fronte allo spiazzo, fermava a metà qualsiasi cosa stesse facendo e gli infilava il suo sguardo addosso, con precisione scientifica, dopodiché gli dava un’oretta circa di vantaggio, prima di appostarsi dietro gli scaffali e prendere ad osservarlo, fermo ed in silenzio, fino a pomeriggio inoltrato.
Gli ricordava un gatto, un essere selvatico e curioso, intento ad annusarlo per chissà quale assurda ragione.
Dopo una settimana, Ben perse la pazienza.
Non appena l’altro assunse la sua usuale postazione, tre scaffali più in là del tavolo dove abitualmente sedeva, Ben chiuse gli occhi e lasciò la Forza fluire dentro di sé, allora spostò di lato la pesante struttura di legno, in un tumulto di polvere e volumi cascanti, privando all’improvviso la spia del suo confortante rifugio.
L’altro ragazzino tossì forte, la gola rinsecchita dai pulviscoli nell’aria.
Per un lungo secondo, osservò confuso i libri e lo scaffale che lo avevano appena tradito, lasciandolo alla completa mercé del suo bersaglio, passando gli occhi dagli uni all’altro con genuino stupore, poi però sollevò le proprie iridi scure verso di lui.
Ben rabbrividì.
Lo sconosciuto non sembrava spaventato né tantomeno braccato nel modo in cui ci sarebbe aspettati in una situazione del genere.
Il suo sguardo, sotto il sole cocente di Yavin4 che filtrava tra le grate della finestra, risplendeva di una luce impertinente, quasi giocosa e il sorriso ampio in cui, d’un tratto, si aprì il suo volto, raccontava della sua furbizia da strada più delle ginocchia sbucciate e le unghie lise.
“Ciao!” disse con voce squillante, agitando una mano.
Ben pensò di ricordargli che tecnicamente erano in una biblioteca e avevano già fatto troppo baccano, ma lanciando un’occhiata verso il fondo, notò che Willie, il vecchio custode, stava ancora sonnecchiando al suo posto, per cui “Si può sapere che diavolo vuoi?” decise di chiedere, senza ulteriori esitazioni.
Il ragazzino inclinò un poco la testa, lasciando che alcune onde gli ricadessero sulla fronte.
“Non sai chi sono io?”
“No…” rispose Ben, perplesso.
Che quella sensazione di familiarità avesse un senso?
Davvero si erano già conosciuti da qualche parte?
La mamma gli aveva parlato di alcuni amici di famiglia che abitavano su quel pianeta, ma nel poco tempo che riusciva a passare in sua compagnia, Ben non aveva mai pensato di indagare oltre.
“Non importa, meglio così.” continuò comunque il ragazzo, scrollando le spalle “Io sono Poe!”
Poe…
Chissà perché quel nome gli riportava alla mente il profumo dei fiori…
“Io sono Ben.”  
“Da quanto sai che sono lì dietro, Ben?”
“Da sempre, in pratica!” sbottò, senza nascondere una punta di superbia nella voce “Fai veramente schifo come spia!”
L’altro, Poe, emise una risata cristallina e si avvicinò.
“Vero! Ma tu potevi smascherarmi prima!” ribatté, sfacciato, mentre trascinava una sedia accanto a Ben e ci si piazzava sopra tranquillamente, sebbene nessuno lo avesse invitato a farlo.
Adesso che lo vedeva più da vicino, Ben notava dettagli che gli erano sfuggiti in precedenza.
Poe aveva delle ciglia foltissime e la pelle scura, bruciata in più punti dal sole. Indossava un paio di pantaloncini larghi, corti più o meno fin sopra al ginocchio e una canotta rossa che doveva aver visto giorni migliori, le cui bretelle ricadevano molto sotto le ascelle, lasciandogli scoperta una parte di torso.
Doveva essere un po' più grande di lui, o almeno così pareva: la linea marcata della mascella era già sporca di peluria in più angolazioni e la muscolatura tesa, solida, cominciava ad abbandonare la delicatezza infantile.
“Mi dici cosa diavolo stai facendo? Non sono riuscito a capirlo!” proruppe d’un tratto, puntellandosi sulle ginocchia per sporgersi ad osservare la distesa di libri e fogli sparsi sul tavolo “Sembra noioso! Non preferiresti venire a giocare fuori?”
Ben corrugò le sopracciglia, piuttosto irritato.
“Devo finire di copiare queste cose!” disse quindi, raccogliendo alla bell’e meglio le cose sparse e portandosele davanti, come a volerle proteggere dalla vista dell’altro ragazzino “Sono testi Jedi!” rimarcò infine, per conferire una qualche pomposità al proprio incarico.
“Quindi è vero che sei un Jedi!” esclamò però Poe, con tanto entusiasmo nella voce che Ben si sentì arrossire.
“Sì… cioè no! Sono un apprendista Jedi!”
“E gli apprendisti Jedi non si divertono?”
“Certo che sì!” rispose, sbuffando “Però mio zio mi ha dato il compito di finire questo testo, adesso. Non posso lasciarlo a metà.”
“Che palle tuo zio!”
“Mio zio è Luke Skywalker.”
“Che palle lo stesso!”
Ben si voltò verso di lui, ad occhi sgranati.
Nessuno, in tutta la Galassia conosciuta e non, aveva mai usato l’espressione ‘che palle’ rivolgendosi all’eroe di Guerra, il grande, potente e saggio maestro Jedi, Luke Skywalker.
Ogni tanto Ben lo aveva pensato, questo sì.
Zio Luke era divertente per lo più, un uomo affabile, pieno di interessi, solo che alle volte sapeva essere così noioso e pieno di sé, che Ben si ritrovava ad alzare gli occhi al cielo per lo sconforto.
Certo, non si sarebbe mai sognato di dire una cosa del genere ad alta voce.
Si sentiva in colpa soltanto a considerarlo.
Poe invece gli rivolse un sorrisetto sghembo, come se niente fosse, scoprendo una fila di denti piccoli e bianchissimi, dopodiché si allungò ad afferrare un foglio pulito da sotto al suo naso.
Ben rimase un attimo incantato dal movimento delle sue costole, affilate sotto la pelle nuda, poi però “Che stai facendo?” chiese, accigliato.
“Ti aiuto a finire! Così puoi venire fuori!” rispose quello, mentre agguantava anche un pennino, quello più vecchio e consumato che di solito teneva per riserva.
Ben era sempre più confuso.
“Uffa! Si può sapere cosa vuoi da me!” sbottò quindi, esasperato, sollevando la voce di almeno un tono “Perché sei qui? Perché vuoi aiutarmi? Perché ci tieni così tanto a che esca fuori con te?”
A quelle parole, Poe si voltò lentamente verso di lui e lo trafisse con i suoi occhi nocciola giganteschi, così intensi che gli parve di sentirne il peso sulle ossa e ancora giù, fino al midollo.
Provò a captare le sue intenzioni, a guardare oltre la superficie della sua pelle scura, lì dove l’animo umano aveva dimora, ma tutto ciò che trovò nel suo cuore fu pace e colore e un fuoco vivo che non bruciava, fulgeva.
Fu un attimo.
All’improvviso, mentre Ben era perso nelle sue elucubrazioni, il ragazzino si protrasse verso di lui, lo circondò con le proprie braccia scoperte e se lo strinse al petto, emettendo un forte sospiro che si infranse tra i suoi capelli.
Durò poco meno di un battito di ciglia, un contatto così rapido da somigliare a un’allucinazione, eppure bastò ad investire la mente di Ben di una sequela di immagini diverse – una bara, un altare, una tavolozza di mille sfumature di marrone- e a lasciargli nelle narici uno strano odore di erba.
Non guardò più Poe, si nascose dietro le proprie ciocche nere, crucciando la fronte, fingendo un fastidio che non provava davvero.
Per questo, udì a stento quella che fu la risposta del ragazzo.
“È che sei così pallido, secondo me hai bisogno di un po' di luce…”
Si misero a scrivere spalla a spalla, in silenzio.
Il tempo passò in fretta, quel giorno.
Ben non se ne accorse.
 
 
 
 
 


NOTE AUTORE
Vediamo il lato positivo, almeno la quarantena offre un sacco di tempo libero per scrivere e sclerare!
Non so ancora se ciò sia un bene o un male, vi dirò… In settimana ho finito la filmografia di Oscar Isaac (penso di essermi innamorata di lui, chiedo scusa alla moglie! Guardo Triple Frontier a ripetizione…) e adesso sto passando a quella di Adam Driver (sorry not sorry!).
Metteteci pure che è appena uscito Disney Plus con una intera sezione su Star Wars, non ne uscirò mai più, me lo sento!
 
Sono affezionata a questo secondo capitolo, perché come avrete notato è qui che l’amicizia tra Ben e Poe comincia a piantare radici, anche se sempre in nome del loro primo, vero incontro.
Ben non ricorda Poe (d’altronde è passato tanto tempo), tuttavia quell’evento pare fare capolino in lui in modo quasi atavico, attraverso minuscole sensazioni sottopelle, mentre Poe non ha dimenticato l’aiuto che gli è stato offerto in quel momento particolare della sua vita e, a modo suo, decide di interessarsi al suo coetaneo.
Altre piccole informazioni sul passato di Ben verranno a costruirsi piano piano, state tranquilli, un tassello alla volta.
 
Data la presenza di una OS che praticamente scalpita per farsi scrivere, non so se l’aggiornamento di Preludio arriverà già la settimana prossima o aspetterò per quella dopo ancora. Cercherò di fare entrare tutto quanto in breve periodo, questo è sicuro!
 
In ultimo, vi lascio qui un’immagine molto bella che la gentilissima e talentuosissima Fuuma (siete amanti della coppia Stucky e non la conoscete? FOLLI! Correte a leggerla
QUI!) ha realizzato per Darkness, flash della raccolta Darkpilot Stolen Moments:
http://ndkillian.altervista.org/ALTRO/IlMercanteDiStorie/DarkPilot01.png
 
Alla prossima :)
Violet Sparks
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 

 
If I was dying on my knees
You would be the one to rescue me
And if you were drowned at sea
I'd give you my lungs so you could breathe
I've got you brother.

(Brother, Kodaline)
 
 
 



Ben non aveva preso in considerazione la possibilità che Poe facesse sul serio, quando gli aveva proposto di aiutarlo.
D’altronde, non era come lui: aveva amici al di fuori di quella biblioteca, bambini ugualmente mangiati dal sole che lo aspettavano per giocare tra le lamiere e gli rivolgevano violente grida di incitamento ogni volta che, con quella sua risolutezza da guerriero, primeggiava durante una delle loro battaglie immaginarie, sbaragliando perfino i ragazzi più grandi.
Sfogata la curiosità morbosa verso l’apprendista Jedi, erede degli Skywalker, non vi era motivo per cui uno così dovesse voler passare il suo tempo chiuso in un’ambiente fatto di polvere e silenzio, a copiare testi incomprensibili in bella grafia.
La cosa era talmente ovvia che, al calar della sera, giunto ormai il momento di congedarsi, Ben aveva risposto al caloroso e confusionario saluto dell’altro, limitandosi a snocciolare un ciao poco convinto e nella quiete opprimente degli alloggi diplomatici in cui era tornato, aveva cercato di soffermarsi sul pensiero di Poe Dameron il meno possibile.
Se c’era una cosa che Ben aveva imparato, in dieci anni di vita, era che raramente le persone credevano davvero in ciò che usciva dalla loro bocca.
Gli impegni presi, le promesse fatte, non erano altro che illusioni, bugie ben architettate che gli uomini solevano scambiarsi come caramelle, nella speranza di tenersi reciprocamente a bada: le migliori intenzioni duravano meno di un battito di ciglia se qualcosa di più importante, qualcosa di più urgente, alla fine veniva a galla.
Con ogni probabilità, Poe si sarebbe dimenticato di lui quella notte stessa e il giorno dopo sarebbe tornato dai suoi compagni di sempre, prendendosi gioco dei suoi poteri, raccontando loro come lo strambo erede degli Skywalker fosse in grado di spostare gli oggetti, anche senza toccarli.
Ben ne era assolutamente convinto, per questo fu un’immensa sorpresa per lui, quando non soltanto scorse Poe fuori la biblioteca la mattina seguente – un sorriso gigantesco stampato sul volto, i capelli nerissimi appiccicati alla fronte da un velo di sudore- ma addirittura lo ritrovò lì innanzi tutte quelle successive, pronto a mantenere la parola data.
“Buongiorno, apprendista Jedi!” lo salutava quello di solito, dal basso degli scalini dove sedeva ad aspettarlo.
“Sei ancora qui.” constatava allora Ben, guardando però rigorosamente i propri piedi, nel tentativo di nascondere quella punta di sollievo che, a tradimento, lo coglieva sempre al centro del petto.
“Certo! Dove dovrei essere scusa? Abbiamo del lavoro da fare!” era la risposta squillante dell’altro “Dai, andiamo! Oggi facciamo almeno trenta pagine! Anzi no, finiamo tutto il libro!” e c’era così tanto entusiasmo nella sua voce, tanta fervida fiducia, che persino Ben si ritrovava a credere alle sue elucubrazioni e all’improvviso, il compito di ricopiare dei noiosissimi libri assumeva tutto un altro significato.
Peccato però che di consueto non riuscissero ad arrivare più lontano della seconda pagina.
Perché Poe non era semplicemente poco portato: era del tutto incapace.
Non aveva pazienza né senso estetico né raffinatezza nei modi, qualità piuttosto basilari per approcciarsi all’arte della calligrafia.
I suoi tratti erano nervosi e grossolani, così energici da bucare la carta o rendere inutilizzabili i fogli sottostanti a causa dei profondi solchi lasciati dalla pressione e a fine giornata, aveva una tale quantità di inchiostro sulle mani che avrebbe potuto ridipingerci una parete, se non fosse che metà di quello finiva poi per impiastricciargli la faccia o i vestiti, dato che non riusciva a stare fermo neanche sotto minaccia.
Verso il quinto giorno, esasperato, Ben aveva provato a insegnargli qualcosa, unendo le loro sedie e racchiudendo il pugno di Poe nel proprio, insieme alla penna.
Si erano limitati ad abbozzare qualche lettera a caso, la parola Yavin, la parola Forza e poi i loro nomi, Ben e Poe, uno dopo l’altro, come un’entità unica.
“Più lento…” suggeriva Ben, mentre trascinava con sé la mano del ragazzo “Più morbido… ecco, così…” ma il calore che a un certo punto sembrava irradiarsi dal corpo di Poe, il suo respiro che ogni tanto gli solleticava la pelle, forse avevano reso le sue istruzioni un po' meno convincenti del necessario.
Meno male che l’altro non aveva dato segno di accorgersi di niente, troppo impegnato in quella che, senza alcun dubbio, poteva essere classificata come una delle sue attività preferite: parlare.
Poe parlava un sacco, a macchinetta, vomitando un numero spropositato di parole a volume altissimo, nonostante Ben continuasse a ripetergli che si trovavano in una biblioteca e, secondo le regole del vivere civile, tecnicamente avrebbero dovuto rimanere in silenzio.
Tutta fatica sprecata.
Poe dialogava imperterrito, raccontandogli di sé, della sua vita, della campagna dove viveva con il nonno e con il padre, della sua incredibile passione per il volo.
E non importava che, alla fine, lui interagisse poco e niente, limitandosi più che altro a sbuffare o ad annuire, perché tanto quello continuava incurante del resto, come se non esistesse un reale filtro tra la sua bocca e il cervello e sentisse il bisogno spasmodico di esprimere ogni singola connessione sinaptica venisse partorita dai suoi neuroni.
Per una persona come Ben, abituata alla solitudine dei suoi stessi pensieri, era alquanto bizzarro trovarsi in una situazione del genere.
Una parte di lui, quella più razionale, avrebbe voluto soltanto allontanare l’altro ragazzo, cacciarlo via una volta per sempre, dirgli di tornarsene dai suoi amici con le ginocchia spaccate simili alle sue e non voltarsi mai indietro, tuttavia la parte più istintiva di sé glielo impediva categoricamente, anelando la sua compagnia un po' invadente come ossigeno per i polmoni.
La verità era che Ben non capiva la ragione per cui Poe si intestardisse tanto a voler passare del tempo con lui.
Ogni giorno cercava nel suo cuore l’ombra di un inganno, il sentore dell’abbandono, ma alla fine quell’energia pura, grezza, che sembrava circondare il ragazzino simile ad un’aura splendente, quella sua passione quasi febbrile per il mondo e per le cose che, ad un certo punto, finiva per insinuarsi persino nelle sue parole, avevano il potere di trascinare Ben e di lasciarlo completamente incantato.
Questo era Poe Dameron.
Una supernova.
Un filo scoperto.
La prima, violenta scintilla che anticipava la luce del fuoco.
Era l’essere più lontano da Ben in tutto l’universo.
Eppure lo attraeva a sé, come nient’altro nella sua vita.
 
 
 


L’ora del tramonto, su Yavi4, era in assoluto quella che Ben preferiva.
Il sole che di giorno picchiava coi suoi raggi bollenti, durante il vespro addolciva i propri toni dipingendo il cielo con mille sfumature di arancione, mentre le case basse e squadrate che caratterizzavano la capitale, venivano inondate da una luce ambrata quasi sonnolenta, che avvolgeva la città come un manto rassicurante.
Le strette viottole del centro, finalmente libere dalle grida dei mercanti e dall’odore acre dei corpi sudati degli avventori, accalcati intorno alle bancarelle, lasciavano spazio al profumo degli arbusti circostanti, dei rampicanti pieni di fiori eroicamente aggrappati alle mura scrostate degli edifici e tra le poche persone ancora intente a sistemare ciò che rimaneva delle proprie merci, si arrischiavano a planare minuscoli uccellini neri, i quali agitavano le ali freneticamente, folli di gioia per la ritrovata libertà.
Ben camminava spedito in quell’atmosfera, beandosi della temperatura mite, osservando con divertimento la propria ombra allungarsi sulla pietra dura della strada, fino a distorcere la sua figura.
Era stata una giornata proficua, tutto sommato.
Lui e Poe erano riusciti finalmente ad arrivare a metà del libro di zio Luke.
E okay, in teoria, dopo due settimane di lavoro, avrebbero dovuto essere molto, molto più avanti sulla tabella di marcia – portando a termine il compito per intero, ad esempio- ma visto e considerato il loro abituale ritmo di produzione, anche quello poteva dirsi un ottimo traguardo.
Il resto della mattinata poi, era trascorso come sempre, insieme alle interminabili chiacchiere di Poe, il quale però, quel giorno, aveva deciso di confessargli un importante progetto, un’idea che, a quanto pareva, gli ronzava nella testa da un sacco di tempo e solo adesso aveva trovato il coraggio di concretizzare: il ragazzo desiderava restaurare la vecchia Ala X appartenuta a sua madre, Shara Bey, rimasta a impolverare nel capanno dei Dameron dopo la morte improvvisa della donna.
A Ben quella conversazione era piaciuta da matti per due semplici ragioni: in primo luogo, sebbene non lo avesse mai detto a nessuno, anche Ben, come Poe, adorava tutto ciò che avesse a che fare con il volo.
I ricordi dei momenti passati in braccio a suo padre o allo zio Chewbe, nella cabina di comando del Falcon, erano, senza alcun dubbio, tra i più felici e spensierati che il bambino serbava nel cuore.
Quando il suo allenamento Jedi si fosse concluso e lo zio Luke lo avrebbe ritenuto finalmente pronto e in grado di controllare le proprie abilità, il sogno di Ben era quello di costruire una navicella tutta sua e partire libero, in cerca di avventure nello spazio aperto, proprio come suo padre e lo zio Lando solevano raccontargli, le volte in cui l’amico di famiglia veniva a trovarli nella loro casa su Hosnian Prime.
In secondo luogo, il fatto che Poe avesse sottolineato in più battute che si trattava di un segreto – qualcosa che stava rivelando a lui, soltanto a lui, nell’intero universo- aveva lasciato correre, sotto la pelle di Ben, un profondo senso di euforia.
Era la prima volta che qualcuno riponeva tanta fiducia nella sua persona ed era bello, esaltante, ancor di più se pensava a quanta difficoltà avesse scorto nella voce di Poe, mentre si perdeva nel tenero ricordo della madre.
La verità era che la perdita di Shara costituiva una ferita aperta per lui, una spina nella carne che forse non avrebbe mai smesso davvero di sanguinare, per cui era stato quasi troppo facile per Ben andare al di là delle apparenze, leggere oltre il velo di entusiasmo e agitazione con cui, anche in quell’occasione, il ragazzino aveva preso ad illustrare i dettagli del suo progetto e smascherare il dolore pungente, intenso, che in realtà lo stava attanagliando.
Quel giorno, Poe non gli aveva semplicemente raccontato un segreto, gli aveva mostrato una parte di sé, nascosta e preziosa.
Ben lo percepiva e, nonostante si chiedesse ancora come e quando fosse diventato degno di un dono del genere, non poteva fare meno di sentirsi estasiato.
Ad un tratto, svoltò l’angolo, abbandonando il mercato cittadino per immettersi in uno dei tanti vicoletti laterali che scendevano verso la periferia, in direzione dell’ambasciata.
La capitale di Yavin4 era un dedalo di ramificazioni, piuttosto intricata se non la si conosceva a pieno, tuttavia, dopo quasi un mese di soggiorno, anche Ben aveva imparato ad orientarsi. Girò ancora, infatti, imboccando una stradina stretta e un po' lurida che, sapeva, lo avrebbe condotto a destinazione molto prima del tragitto abituale, quindi affrettò il passo per tornare sulla via maestra, dove il rumore metallico delle saracinesche annunciava la chiusura delle ultime attività.
Era quasi giunto alla fine, quando qualcosa di pesante e duro lo urtò con violenza all’altezza della spalla.
Si fermò, guardandosi intorno perplesso, finché non individuò, accanto ai propri piedi, ciò che gli era appena piombato addosso: una pietra.
Fece per raccoglierla, ma una seconda botta, seguita a ruota da una voce melliflua, glielo impedì.
“Il nipote di Luke Skywalker non dovrebbe saper difendersi da colpi del genere?”
Ben si voltò, dolorante.
Un gruppetto di ragazzi, dall’altra parte del vicolo, lo stava fissando con aria di sfida.
Ci mise poco a riconoscerli: si trattava di alcuni di quei giovani che frequentavano lo spiazzo fuori la biblioteca insieme agli amici di Poe, per l’esattezza la combriccola dei più grandi, la quale si limitava solitamente a starsene in disparte, fumando o bevendo, almeno fin quando uno di loro non decideva di divertirsi a dare fastidio ai bambini più piccoli.
Dovevano avere quindici o sedici anni al massimo. Si somigliavano un po' tutti, a dire la verità, con un fisico asciutto, la pelle brunita e i capelli corti, molto simili al carbone. Uno solo, in particolare, spiccava fra di loro, alto e robusto, gli occhi di un celeste acceso alquanto insolito per un abitante di Yavin, che però faceva risaltare le sue iridi come pietre preziose incastrate sul volto bronzeo.
Fu lui ad afferrare dalle mani di un compagno un’altra pietra e lanciarla nella sua direzione, con una velocità tale che Ben riuscì a scansarla per un soffio.
Le cose si stavano mettendo decisamente male.
“Che volete da me? Lasciatemi in pace!” gridò allora Ben, arretrando di un passo.
“Oh, ma guarda! Il mostro sa anche parlare!” lo schernì il ragazzo dagli occhi intensi, lo stesso che, a quanto pareva, doveva averlo apostrofato anche in precedenza “Non vogliamo farti niente, tranquillo! Vogliamo solo che ci mostri qualche trucchetto di magia!” continuò ridendo, mentre lui e i suoi amici si avvicinavano in blocco, con lo stesso sguardo famelico di un branco di bestie alla vista del pasto.
Ben sospirò pesantemente, cercando di elaborare una strategia.
Il vicolo era deserto, dubitava che qualcuno sarebbe mai accorso in suo aiuto.
Non voleva scappare e d’altronde, dubitava che i suoi avversari glielo avrebbero concesso tanto facilmente.
Dentro di lui, rabbia e adrenalina si mescolavano insieme al sangue, in una miscela esplosiva che gli ustionava le vene, eppure qualcos’altro, nel medesimo tempo, gli impediva di reagire, un pensiero come un brivido freddo che si insinuava tra le sue membra e gli annebbiava il cervello, al punto da stroncare ogni più audace istinto di sopravvivenza.
Il problema non era che Ben non avrebbe saputo difendersi da quegli idioti.
Oh, no.
Il problema era l’esatto opposto.
Perché l’ultima volta in cui si era trovato in una situazione del genere, l’ultima volta in cui si era sentito esattamente così - in pericolo, braccato, inerme- una forza sconosciuta aveva preso il sopravvento e il risultato era stato un incubo senza fine, conclusosi soltanto quando lo zio Luke lo aveva trascinato con sé in una Accademia Jedi, messa su a posta per lui.
All’improvviso, un delirio di immagini, suoni, ricordi, si riversarono nella sua mente come una valanga impietosa, senza che egli potesse fare niente per fermarli.
Le grida.
Il sangue.
Il vetro.
Lo sguardo terrorizzato di sua madre.
Quello contrito di suo padre.
Il volto di Kane.
Il volto di Kane…
Deglutì a vuoto, sentendo distintamente un conato in fondo alla gola, il cuore che batteva così forte nel petto da sembrare in procinto di sfondargli la cassa toracica.
Avrebbe voluto accasciarsi e cingersi nelle sue stesse braccia.
Avrebbe voluto urlare, fermare tutto, il tempo, il mondo.
Avrebbe voluto semplicemente chiudere gli occhi e riprendere fiato.
Ma la verità era che non riusciva a muoversi.
Non riusciva a parlare.
Non riusciva nemmeno a respirare.
Con la testa che vortica furiosamente, dovette reggersi al muro per non rimettere.
“Tuo zio lo sa che tremi di paura?” lo derise ancora il suo avversario, la voce cattiva che suonava lontana anni luce, nonostante i suoi occhi zaffiro ormai lo scrutassero a poca distanza “Lo sapevo, sei solo un mocciosetto viziato…” sentenziò, dopodiché scrocchiò le dita di entrambe le mani, pronto ad attaccarlo.
Aveva appena proteso il braccio quando, “Nathaniel! Vedo che non ti stanchi mai di fare l’idiota!” proruppe qualcuno, dal nulla “Cinque contro uno! Il solito codardo!”
Ben sollevò il capo, a fatica.
Dall’altra parte del vicolo, la figura di Poe si stagliava nella luce avvizzita del tramonto.
Ci mise qualche secondo a riconoscerlo, sia perché, a quanto ricordava, la casa dei Dameron era dalla parte opposta della città, dunque il ragazzino non avrebbe avuto motivo di trovarsi lì a quell’ora del giorno, sia perché il suo aspetto pareva diverso, quasi trasfigurato, complice la tenue oscurità del crepuscolo che gettava ombre lunghissime su di lui.
I suoi lineamenti, di solito così morbidi e gentili, erano inaspriti dalla rabbia. Il suo sguardo color nocciola era duro, pieno di disprezzo, mentre il suo intero corpo irradiava una tensione palpabile, come una molla troppo tesa, prossima allo strappo.
Si avvicinò al gruppo lentamente, brandendo un’espressione insieme arcigna e fiera e a Ben sembrò che, ad ogni singolo passo, la sua sola presenza fosse in grado di infondergli un po' di coraggio, un po' della calma smarrita.
“Dameron! Che ci fai qui? Sei molto lontano da casa!” domandò il ragazzo più grande, Nathaniel, con tono sprezzante, senza però riuscire a dissimulare a pieno la sorpresa che quella improvvisa apparizione doveva avergli causato.
Dal canto suo, Poe fece finta di non averlo proprio sentito.
Lo sorpassò senza degnarlo di uno sguardo, si accostò a Ben e gli rivolse un sorriso quanto più sincero possibile, malgrado la collera che lo incupiva.
“Stai bene?” gli chiese.
“Sì, tranquillo.” si affrettò a rispondere Ben, arrossendo e raddrizzandosi subito sulle proprie gambe.
Il suo calore, i suoi occhi buoni, scacciarono via ogni paura come una ventata di aria pulita.
Ben prese di nuovo a respirare normalmente e anche il suo cuore, attraverso lo sterno, parve rallentare la sua corsa.
“Ma che scenetta commovente! Eri preoccupato per il tuo fidanzatino?” esclamò intanto Nathaniel, sghignazzando.
Ben sussultò appena per quell’allusione, Poe invece sollevò gli occhi al cielo in maniera quasi teatrale, dunque si voltò finalmente a fronteggiare il gruppetto di ragazzi, lanciando soprattutto a Nathaniel lo stesso sguardo schifato di chi aveva appena visto un enorme scarafaggio in mezzo alla spazzatura.
“Premesso che non è così,” disse con calma “se anche fosse, io almeno un fidanzato lo avrei, Nat! Tu fai così ribrezzo che non ti bacia neanche tua madre!”
Ci fu un’ondata di ilarità generale.
Tutti, compreso gli amici di Nathaniel, scoppiarono a ridere per la battuta di Poe.
Il diretto interessato, ovviamente, non trovò la cosa altrettanto divertente.
Il suo volto spigoloso, infatti, si fece paonazzo dalla vergogna e con un’occhiata a dir poco assassina, mise subito a tacere le risatine dei suoi stessi compagni.
“Vieni, Ben, questo qui è soltanto un idiota! Andiamocene a casa!” affermò intanto Poe, incurante della scena, dopodiché, sfoggiando un sorrisetto beffardo, circondò le spalle di Ben e prese a trascinarlo con sé, lontano dal gruppetto di teppisti.
Tuttavia ebbero fatto sì e no qualche passo, quando la voce di Nathaniel li raggiunse ancora, come un pugnale alla schiena.
“Io almeno una madre ce l’ho, Dameron.” disse quello, sadicamente “Ah aspetta! Ora ho capito! È per questo che sei diventato amico dello strambo! Speri che quella puttana della senatrice Organa abbia compassione di te e ti adotti come un animaletto domestico! Fai bene! Buon per te! Così magari riesci a lasciare quella topaia di campagna che tu e i tuoi parenti continuate a chiamare casa!”
Questa volta, non ci fu paura che riuscisse a fermarlo.
Ben si voltò all’istante, la furia che bruciava sotto la pelle, la voglia di sentire la faccia di Nathaniel spaccarsi sotto le sue nocche che quasi gli faceva tremare le mani.
Non gli importava più cosa ne sarebbe stato.
Non gli importava più quale sarebbe stata la reazione di sua madre, di suo padre o di suo zio.
Voleva soltanto rompere.
Voleva soltanto fare male.
Stava pensando esattamente questo, l’attimo prima che Poe, appena dietro di lui, lo investisse come una belva imbizzarrita e si avventasse contro il ragazzo più grande con una veemenza tale da far capitolare entrambi a terra.
“Prova a ripeterlo! Prova a ripeterlo, bastardo!” urlò a squarciagola, sferrando un pugno che si infranse dritto sulla mascella di Nathaniel, facendogli girare la faccia.
Quello si protese di lato, sputando un misto di sangue e saliva, poi rivolse a Poe uno sguardo di fuoco.
“Sei morto, Dameron!”
Cominciò una lotta stenuante, senza esclusione di colpi, in cui i due giovani si accanivano l’uno contro l’altro in un groviglio confuso di corpi, riempiendo il vicolo di insulti, minacce, imprecazioni.
Nathaniel era più alto e sicuramente più grosso.
I suoi muscoli si gonfiarono sotto la T-shirt bianca, mentre con le gambe nerborute cercava in tutti i modi di disarcionare Poe ancora sopra di lui, eppure ogni tentativo si dimostrava vano davanti all’irruenza del più piccolo, il quale si dimenava così convulsamente da non lasciare all’avversario un attimo di tregua.
Era evidente che, dove peccava di stazza, Poe compensasse in velocità e in foga.
Sfruttando la posizione di vantaggio infatti, infuriava sull’altro a calci e a pugni, la bocca distorta in un ringhio ferino, gli occhi stravolti da qualcosa di selvatico che a tratti riluceva.
Ben lo guardava attonito, a corto di fiato e l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che in vita sua non aveva mai visto nessuno combattere in quella maniera: in uno scontro aperto, probabilmente avrebbe fatto impallidire perfino i suoi insulsi compagni di Accademia, perché, sebbene sprovvisto della Forza dei Jedi, l’energia che Poe emanava era quasi accecante, impossibile da gestire, come una scissione atomica bellissima e pericolosa che esplodeva nello spazio esiguo di quel cumolo di ossa.
All’improvviso, Nathaniel riuscì ad afferrarlo per i capelli e, “Maledetto moccioso!” inveì a un soffio dal suo naso, distraendolo abbastanza da sferrargli un colpo alla pancia che lo fece sibilare dal dolore.
D’istinto, Ben si lanciò allora in avanti, per correre in soccorso del ragazzo, tuttavia, non appena mosse un dito, gli amici di Nathaniel gli sbarrarono la strada.
“Dove credi di andare tu?” lo minacciò uno di loro, dandogli uno spintone.
Un altro cercò di afferrarlo per il gomito, ma Ben si divincolò.
“Lasciatemi!”
“Sta’ fermo, mostriciattolo!”
“Lasciatemi, ho detto!”
“Vediamo che sai fare!”
Nel giro di un istante, tutti e quattro gli furono addosso, stavolta però Ben non si lasciò frenare dall’angoscia, rispose all’attacco con altrettanta potenza e in breve, sovrastò i suoi avversari, nonostante la disparità numerica.
I frutti dell’allenamento con zio Luke erano chiari, se non addirittura palesi, rispetto alla forza bruta dei suoi avversari, i quali si limitavano a menare le mani in modo del tutto scoordinato, come le biglie di un flipper senza né logica né direzione. Ben ne mise fuori gioco un paio, soltanto facendoli scontrare uno contro l’altro mentre cercavano di acchiapparlo, dunque schivò facilmente anche il pugno di un terzo, abbassandosi sulle ginocchia e colpendolo a sua volta con un calcio negli stinchi, che gli fece perdere l’equilibrio.
Si trovava faccia a faccia con l’ultimo bersaglio, quando sentì gridare da poca distanza.
“Ben!”
Un brivido freddo gli attraversò la nuca.
Nathaniel era riuscito a liberarsi e adesso teneva Poe sotto di sé che, malgrado continuasse a scalciare, si trovava in evidente difficoltà.
Eppure non era questo ciò che lo spaventava.
Il più grande, infatti, aveva appena afferrato una pietra da terra e adesso la brandiva come un’arma tra le mani.
“POE!” urlò subito il bambino, nel disperato tentativo di avvisare l’altro, peccato però che sfruttando la momentanea distrazione, i suoi quattro avversari si fossero avventati su di lui contemporaneamente, bloccandolo in ginocchio contro l’asfalto sudicio della strada.
Davanti agli occhi spalancati di Ben, tutto prese a girare in maniera frenetica.
La pietra era grande, acuminata, spessa.
Quasi scintillante in mezzo alle lunghe dita di Nathaniel, protese verso l’alto, pronte a colpire.   
Se il ragazzo avesse picchiato Poe con quella, di sicuro gli avrebbe spaccato il cranio.
Forse lo avrebbe addirittura ucciso.
Il solo pensiero lo mandò nel panico, gli fece a brandelli il cuore.
No.
No, non poteva permetterlo.
Non poteva lasciare che accadesse.
Doveva salvarlo.
Fu un attimo.
Una rabbia sorda, gelida, si insinuò d’un tratto tra le membra di Ben.
E un bisbiglio sottile, flebile come un soffio di vento, nella sua testa scandì soltanto una parola.
Fallo.
Ben allora schioccò le dita.
Il secondo dopo, il polso di Nathaniel si ruppe con un sinistro ‘crack’.
“AH!” strillò quello in preda al dolore e alla sorpresa, lasciando cadere la sua arma che piombò comunque sulla faccia di Poe, sebbene con molta meno violenza.
“Poe…” mormorò appena Ben.  
“Cosa sta succedendo qui? Che state facendo?” proruppe improvvisamente una serie indistinta di voci.
Ci fu subito un via vai generale.
I ragazzi che tenevano fermo Ben, mollarono la presa e fuggirono dalla parte opposta del vicolo, senza guardarsi indietro, così rimase soltanto lui, insieme a Poe e Nathaniel che ancora si rotolavano a terra, uno tenendosi la testa, l’altro il polso.
“Quei teppisti! Sempre a fare danni!” affermarono due uomini, probabilmente due abitanti del posto, scuotendo il capo con fare severo, mentre si accostavano ai due feriti per studiare le loro condizioni.
Ben si issò in piedi a fatica, decisamente scosso.
Le orecchie gli fischiavano come dopo una brutta esplosione e una strana elettricità gli attraversava le ossa, in potenti ondate che lo stordivano, rendendo il mondo intorno a lui così intenso da fargli venire la nausea.   
Avrebbe voluto correre da Poe, ma una mano sulla spalla lo costrinse a voltarsi.
Quando sollevò la testa, il bambino incontrò gli occhi celesti di suo zio che lo scrutavano colmi di preoccupazione.
“Ben!”
“Zio, che ci fai qui?” chiese, meravigliato.
“Che ci faccio io? Che ci fai tu, piuttosto!” rispose Luke, in modo concitato “Dovevi essere a casa un’ora fa, stelle del cielo! A tua madre stava venendo un infarto!” lo sgridò ancora, poi prese a studiare lui e gli altri ragazzini nel vicolo, con espressione indecifrabile “Ben, che cosa è successo qui? Che cosa hai fatto?”
A quelle parole, il ragazzino si rabbuiò all’istante.
Che cosa hai fatto…
Che cosa hai fatto.
Come al solito – come con Kane- tutta la sua famiglia era pronta ad addossare la colpa a lui, senza sapere un bel niente, senza conoscere i fatti, senza nemmeno disturbarsi a chiedere la sua versione degli eventi!
Luke era arrivato da sì e no trenta secondi, aveva visto i due a terra, in preda al dolore e subito aveva deciso che era lui il carnefice!
Lui, lui e nessun’altro, doveva averli feriti con il suo potere!
Lui doveva aver combinato qualcosa di male!
Lui era il cattivo di quella maledetta storia!
I suoi occhi si riempirono di lacrime che però non scesero, solo ribollirono in bilico tra le palpebre, lottando contro la rabbia, la delusione, la frustrazione.
“Non sono stato io, hanno cominciato loro!” asserì, con voce rotta.
“E tu che cosa hai fatto?”
“Io non ho fatto niente, zio!”
“Ben, per favore, non dirmi bugie!”
“Non sono bugie! Io non…”
“Ben non ha fatto niente! Sono stato io! Sono stato io!”
Per la seconda volta quel giorno, Poe Dameron si fiondò davanti a Ben, piazzandosi, seppur traballante, tra il suo corpo e quello dello zio, come a volergli fare scudo.
“Sono stato io, signor Skywalker, lo giuro!” continuò, agitato “Mi avevano accerchiato, Ben è corso ad aiutarmi! Ho spezzato io il polso a quell’idiota!”
“Non è vero! È stato quel mostro, con i suoi poteri magici!” piagnucolò Nathaniel da poco lontano, tenuto in piedi da uno degli uomini che erano accorsi a fermare la rissa.
“Oh, tu stai zitto, Nat! Altrimenti vengo lì e ti spezzo anche il secondo!” gridò Poe, furioso. “Non dia ascolto a lui, signor maestro Skywalker, sono stato io, davvero!”
Ben era esterrefatto.
Nessuno aveva mai fatto tanto per lui.
Nessuno lo aveva mai protetto così, a spada tratta, esponendosi in quel modo sincero e incondizionato.  
Perfino suo zio aveva abbandonato l’espressione accusatoria con cui gli si era rivolto in precedenza e adesso osservava Poe, con un misto di perplessità e preoccupazione.
“Va bene, ragazzo, ti credo, ti credo, d’accordo…” disse sempre più allarmato, accostandosi cautamente al ragazzino “Ma tu hai bisogno di un medico! Adesso!”
Ben sussultò e si affrettò a ruotare intorno all’altro, per capire di cosa Luke stesse parlando.
Trasalì.
La pietra alla fine aveva procurato sulla fronte di Poe un taglio netto, dall’attaccatura dei capelli fino al sopracciglio, che zampillava sangue peggio di una fontana.
Metà del suo viso era una maschera scarlatta.
“Poe…” mormorò Ben, tra le labbra.
Il ragazzino gli rivolse un sorrisetto storto, quasi arrogante.
“Non mi sono fatto niente.”
Riuscì ad afferrarlo per un pelo, prima che svenisse a terra.
 
 
 
 
 
 
 

NOTE AUTORE
Un parto plurigemellare + diritto commerciale + 4 minuti di plank: questo è stato per me la stesura del terzo capitolo di Preludio! ^^’’
L’ho buttato giù e riscritto almeno dieci volte, letto e riletto talmente tanto che penso che potrei recitarlo a memoria! Pubblicarlo è quasi una liberazione, credetemi! Io non ne potevo più di lui, lui non ne poteva più di me!
 
Come avete visto, il capitolo riprende da dove si era interrotto il secondo e descrive l’istaurarsi del legame tra Ben e Poe, insieme all’evento finale – la rissa con Nathaniel e il suo gruppo- che porterà i due ad avvicinarsi in maniera definitiva.
Una delle maggiori difficoltà del capitolo è stato, oltre allo scontro, il dover rappresentare il contrasto interiore che Ben avverte nei confronti di Poe: da una parte, lo guarda ancora con sospetto, soprattutto perché non lo comprende, è qualcosa che non ha mai visto né conosciuto nella sua vita, ma dall’altra la sua energia e il suo cuore buono lo attraggono imprescindibilmente, molto più di quanto vorrebbe ammettere finanche a se stesso.
La conferma definitiva arriva nello scontro con Nathaniel, dove Poe si butta a proteggere Ben senza pensarci due volte e Ben è talmente spaventato all’idea che il ragazzino si faccia male che ricorre alla Forza – in modo perfino oscuro, in barba alle sue paura- pur di salvarlo.
 
A proposito di questo, vi tranquillizzo subito: la storia di Kane, a cui Ben si riferisce e gli causa una specie di attacco di panico, verrà raccontata nei prossimi capitoli. Come avrete intuito, si tratta di un evento piuttosto segnante nella sua vita, ciò che lo ha portato a partire insieme a suo zio… okay non voglio dirvi altro.
Aggiungo anche che il sogno di Ben di diventare un pilota come il padre, invece di uno Jedi, è uno spunto che ho trovato in giro molto spesso e a cui sinceramente, credo: nessuno me lo toglierà mai dalla testa che Ben non sia mai stato adatto a seguire le orme dello zio e avrebbe preferito starsene tranquillo, a zonzo per lo spazio, come Han! :P
 
Okay amici, direi che è tutto per adesso! Spero di non metterci la stessa infinità di tempo anche per il nuovo capitolo e di tornare presto da voi! :D
Piano piano sto rispondendo a tutte le vostre recensioni, scusatemi per il ritardo, ma questo capitolo – come avrete capito – mi ha prosciugata come un dissennatore!
 
A presto!
 
Violet Sparks

 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
 
Light will guide you home
And ignite your bones
And I will try to fix you
(Fix you, Coldplay)
 
 
 
La luna splendeva alta nel cielo ormai, quando i medici finirono di visitare Ben, lasciandolo finalmente solo, nell’angusto stanzino della clinica, insieme ai propri pensieri.
Dal basso della branda dove era disteso, il bambino sospirò, osservando il soffitto pallido e scrostato sopra di sé.
Erano state ore frenetiche, quelle appena trascorse.
Ore in cui gli eventi si erano succeduti uno dopo l’altro ad una velocità vertiginosa, come una giostra impazzita che correva e correva e non dava segno di volersi fermare.
Adesso che era di nuovo con i piedi per terra, Ben desiderava soltanto riappropriarsi di se stesso, mettere a tacere quella valanga di pensieri che minacciava di inondargli il cervello e, magari, tornare a respirare ad un ritmo normale.
Serrò le palpebre, mentre i ricordi lo investivano senza pietà alcuna.
Si era sentito morire quando Poe gli era svenuto addosso, la fronte spaccata da un taglio netto, la pelle brunita irrimediabilmente bagnata di sangue.
In un impulso del tutto irrazionale, aveva pensato che gli sarebbe piaciuto poter cancellare quel colore vermiglio come una banale macchia su un foglio bianco, lo schizzo d’inchiostro sfuggito ad una penna difettosa, perché d’un tratto gli era parso così disturbante – così maledettamente sbagliato – vedere quel visetto di solito luminoso giacere lì, deturpato e inerme, che le membra gli si erano congelate dal terrore e il suo intero corpo aveva preso ad ardere sotto il fuoco bruto della rabbia.  
Aveva voluto salvarlo, invece era riuscito soltanto a fargli del male.
A quell’ora, Poe sarebbe potuto essere al sicuro, a casa propria, intento a cenare insieme alla sua famiglia fatta di persone semplici e sorrisi contagiosi, se soltanto lui fosse stato in grado di difendersi.
Se soltanto avesse scelto la via principale al posto di imboccare quel vicoletto stretto.
Se soltanto il suo nome fosse stato uno dei tanti, uno qualunque nell’universo e non Ben Solo…  
“Ben! Ben, dallo a me, andiamo! Il tuo amico ha bisogno di un medico! Adesso!” aveva esclamato all’improvviso lo zio Luke, ridestandolo dai propri pensieri, prima che la sua mano metallica corresse a strappargli il ragazzino ferito dalle braccia per caricarselo sulle spalle.
A quel punto, si erano fatti guidare dagli abitati di Yavin4 fino alla clinica più vicina, fortunatamente non troppo distante dal luogo in cui era avvenuta la rissa.
Poco dopo essere entrati e aver affidato sia Poe che Nathaniel all’equipe medica, sua madre Leia era apparsa alla porta d’ingresso, stravolta e trafelata.
“Mamma!”
“Per tutte le stelle del cielo!” aveva gridato la donna, per poi lanciarsi su di lui e stringerlo tanto forte da mozzargli il respiro “Stai bene? Dimmi che stai bene! Parlavano di ossa rotta, ragazzini feriti e io sono morta di paura!”
“Sto bene, mamma, davvero! Mi stai strozzando però!”
Finalmente, Leia si era decisa a mollare la presa, tuttavia aveva cominciato ad osservare Ben con fare indagatore, tastandolo da tutte le parti come a sincerarsi che non mancasse qualche pezzo.
“Leia, non c’è bisog-”
“Oh, sta’ zitto, Luke! Guarda tu, è pieno di graffi!” era stata la sua risposta piccata, prima di tornare a rivolgersi al bambino in maniera ancor più impetuosa “Ben Solo Organa, avevamo un patto io e te! Tu saresti tornato dritto a casa dopo la biblioteca ed io non ti avrei più fatto accompagnare da C3PO!”
“Lo so, mamma e stavo tornando, però…”
“Mi spieghi cosa è successo? Come ci sei finito in una rissa?”
“Io…”
Davanti al volto turbato della madre, Ben aveva tirato un lento, tremate sospiro di disagio.
Si era avviluppato nelle sue stesse braccia, avvertendo sulla pelle tutto il peso dello sguardo dei due adulti ritti di fronte a sé, dopodiché aveva cominciato a raccontare la sua storia.
Era partito dal principio naturalmente, dal momento in cui Nathaniel e i suoi amici lo avevano accerchiato in quel vicoletto maleodorante, approfittando del fatto che fosse solo, per deriderlo a causa della sua famiglia, del suo nome altisonante, da sempre associati a capacità fuori dall’ordinario.
Aveva continuato, parlando dell’arrivo di Poe, del modo in cui il ragazzino aveva messo in ridicolo i più grandi grazie alla sagacia delle sue battute, al suo cipiglio risoluto e sfacciato, tuttavia non era riuscito ad andare oltre perché, non appena aveva sollevato le pupille dal pavimento, Ben si era reso conto che sua madre non aveva ascoltato neanche una delle parole che erano uscite dalla sua bocca, troppo occupata a fissare gli occhi cerulei dello zio Luke, con un’espressione insieme grave e atterrita, che era arrivata nello stomaco del bambino come una coltellata.  
La conosceva bene, quell’espressione lì, purtroppo.
In dieci anni di vita, l’aveva vista apparire sul volto di Leia così tante volte, in così tante occasioni, che oramai aveva perso il conto.
C’era sempre quando la notte si svegliava urlando, preda di incubi terribili, fatti di voci che lo blandivano e ombre pesanti che cercavano di schiacciargli il petto.
C’era sempre quando le diceva di avvertire i pensieri degli altri addosso, intorno, dentro e i loro stati d’animo arrivavano come zaffate di fuliggine dritte in gola.
E ovviamente c’era stata anche quel giorno, quando era giunta correndo nel grande corridoio, all’ultimo piano del Palazzo di Giustizia di Hosnian Prime e aveva visto ciò che era successo a Kane.
Ciò che lui gli aveva fatto.
“Mamma, non mi stai ascoltando…” aveva mormorato dunque Ben, i pugni stretti quasi a far male, la vista sfocata da una patina salata e lucida.
“Tesoro, come si sono feriti quei due ragazzini?” gli aveva però domandato la madre, con un tono di accondiscendenza assolutamente fasullo “Sei stato tu? Hai usato la Forza?”
“No!” aveva affermato lui d’impulso, ma una singola occhiata verso il sopracciglio inarcato di Leia gli aveva fatto intendere che non sarebbe mai riuscito a mentirle, per cui “Sì, okay l’ho usata!” si era ritrovato a confessare “Ma se solo tu mi lasciassi spiegare…”
“Ben, quante volte lo abbiamo detto? La Forza non deve essere usata così! Non è un’arma! Devi cercare di controllarti!”
“Lo so!”
“Davvero? A me non sembra!”
“Io ho cercato di controllarmi! Ma loro ci avevano accerchiati, Nathaniel stava per…”
“Loro ti avevano accerchiato e tu hai pensato bene di rompere il polso ad uno e spaccare la fronte ad un altro?”
“NO! IO NON VOLEVO FARE MALE A POE! NON L’HO FATTO A POSTA! NON LO FAREI MAI!”
Al tuono delle sue parole, i vetri della piccola clinica avevano preso a vibrare pericolosamente, al punto che sia i medici che le poche persone sedute nella saletta di ingresso, erano balzate in piedi dalla paura.
Ben invece era caduto in ginocchio, piangendo sotto la coltre dei suoi capelli neri.
Non sarebbe voluto esplodere in quella maniera, non avrebbe voluto spaventare i presenti né tantomeno rispondere alla sua mamma con una tale veemenza, ma l’accusa di aver procurato quel taglio a Poe intenzionalmente, mescolata alla voce crudele, meschina, che nel suo cervello non aveva smesso un solo secondo di bisbigliare che sì, quella era la verità, lui non sapeva fare altro che distruggere, che causare dolore, perfino alle persone che si erano dimostrate così buone e gentili come Poe Dameron, gli avevano aperto una tale vuoto, all’altezza del petto, che Ben si era sentito come affogare sulla terraferma.
Ad un tratto, la mano metallica dello zio gli aveva sfiorato lievemente la nuca. Subito dopo però, sua madre si era inginocchiata davanti a lui e se lo era stretto al petto, sbilanciandolo contro la sua figura minuta.
“Scusami… scusami, piccolo mio… sono una stupida… non volevo accusarti così, mi dispiace tanto…” aveva sussurrato la donna, la voce flebile, un po' rotta “Non mi importa cosa sia successo: hai avuto paura e ti sei difeso, è normale. Ciò che conta è che tu stia bene.”
“Mamma, io non volevo… lo giuro…”
“Lo so, amore, lo so.” sempre tenendolo tra le proprie braccia, Leia lo aveva scostato quel tanto necessario a congiungere le loro fronti, dopodiché aveva preso a sistemargli i capelli dietro le orecchie e ad asciugargli le lacrime con le proprie dita sottili “Va tutto bene… va tutto bene… è passata… sei qui con me adesso…”
Quando lo aveva visto più tranquillo, gli aveva rivolto uno dei suoi sorrisi caldissimi, brillanti come le stelle, quindi gli aveva baciato la punta del naso e “Allora, chi è questo famoso Poe? Un tuo amico?” aveva domandato, per stemperare la tensione.
Senza alcuna ragione apparente, Ben era arrossito da capo a piedi, assumendo una vaga tonalità pomodoro.
“No! Cioè sì, più o meno…” aveva snocciolato, pieno di imbarazzo “Lui viene sempre in biblioteca con me, non so perché!”
“È il figlio di Kes Dameron.” era intervenuto Luke, sopra di loro “Dovresti conoscerlo, Leia, secondo me ti piacerebbe! Ha l’argento vivo addosso, proprio come Shara.”
Innanzi a quella rivelazione, l’animo di sua madre si era riempito di una profonda tenerezza, “Il figlio di Shara Bey…” aveva scandito lentamente, mentre i suoi occhi si inumidivano appena “È incredibile! Anche io e lei eravamo buone amiche, sai Ben?”
“Davvero?”
“Oh sì, abbiamo combattuto fianco a fianco in tantissime battaglie! Era una persona meravigliosa, oltre che un pilota eccellente.”
Ben aveva trattenuto il fiato.
Dunque, non si era sbagliato. Quel legame, quel senso di familiarità che aveva avvertito la prima volta in cui Poe Dameron si era presentato a lui nella biblioteca di Yavin4, non erano stati soltanto una sciocca impressione, ma qualcosa di assolutamente reale.
Il profumo dei fiori.
La sensazione dell’erba fresca sulla pelle.
Il suono di quel nome, svelto come un fischio: Poe.
Chissà, forse si erano già incontrati prima di allora.
O forse, si trattava di un nodo ancor più profondo: attraverso lo spazio ed il tempo, il loro sangue era sempre stato destinato a riallacciarsi.  
“Facciamo così,” aveva affermato Leia, sollevandosi di nuovo in piedi “tu ti fai vedere da un medico, per favore. E no, non ammetto repliche al riguardo! Lo so che stai bene, ma voglio esserne sicura! Io intanto contatto Kes e gli spiego la situazione, d’accordo?”
Alla fine, nonostante gli sbuffi e le proteste animate - perfino da parte di Luke- Ben aveva ubbidito, affidandosi alle cure di due droidi-medico, i quali si erano limitati a disinfettargli qualche ferita e a fasciargli la caviglia che sentiva dolorante.
Non reputava necessaria nessuna delle due operazioni, ovviamente, ma sapeva anche che sua madre non avrebbe smesso di insistere fintanto che non gli fosse stato applicato almeno un cerotto, per cui se ne era rimasto buono, sotto le attenzioni dei gelidi arti metallici.
Con un respiro profondo, si scrollò di dosso quei gravosi pensieri, si issò sui propri gomiti e scrutò verso la porta, dove un minuscolo spiraglio permetteva di guardare l’ingresso.
Ben era sempre stato alquanto curioso di conoscere il volto di Kes Dameron, il padre di Poe, tuttavia l’uomo che si era presentato alla clinica e adesso dialogava amabilmente con Leia e Luke, doveva essere suo nonno, Kaspar Bey.
Nonostante l’età e alcune rughe che gli segnavano la fronte, per il bambino fu quasi immediato scovare in lui piccoli tratti del nipote, simili a indizi casuali disseminati qua e là dalla natura.
I suoi capelli erano striati di bianco, ma folti e pieni di onde come quelli di Poe. La sua pelle era ugualmente scura, quasi nera sulle braccia massicce, abituate a lavorare la terra anche nelle ore più calde di sole. Aveva lo stesso, identico modo di ridere, sonoramente e senza alcun risparmio, arricciando il naso in una smorfia giocosa.
Ben si morse il labbro, mentre il suono di un’altra risata - quella autentica, cristallina di Poe- si infilava fastidiosamente nei suoi ricordi.
Non aveva avuto il coraggio di chiedere circa le sue condizioni.
Origliando la conversazione di un paio di infermiere, aveva scoperto che era stato portato nell’ultima stanza in fondo al corridoio, ma lo sferragliare dei droidi che si stavano occupando di lui, purtroppo gli aveva impedito di carpire altre informazioni.
Suo nonno era sembrato sereno dopo essere andato a visitarlo, quindi, con ogni probabilità, doveva essere tutto a posto, solo che…
Ben si agitò sul materasso, avvertendo un prurito spiacevole scivolargli lungo la schiena.
Poe si era svegliato?
Aveva riportato altre ferite?
Quanto sangue aveva perso?
Sarebbe rimasta una cicatrice?
E se il colpo gli avesse causato dei danni permanenti?
Tipo che non sarebbe più riuscito a parlare?
O a mettere in ordine i pensieri?
O addirittura a ridere?
L’ipotesi gli causò un moto di panico talmente forte che per poco non vomitò quei due, tre morsi di razione che era riuscito a sbocconcellare mentre veniva medicato dai droidi.
Provò per l’ennesima volta a concentrarsi, a percepire l’essenza di Poe attraverso le stanze della piccola clinica, ma l’incertezza, la paura, gli rendevano praticamente impossibile focalizzarsi su qualsiasi cosa.
Non poteva resistere oltre.
Doveva assolutamente sapere.
Senza farsi vedere da nessuno, scivolò giù dalla branda, per poi sgattaiolare fuori dalla stanzetta.
Avrebbe dato solo una sbirciatina, giusto il tempo di appurare che Poe fosse sano e salvo, quindi sarebbe corso subito da sua madre e le avrebbe chiesto di lasciare il pianeta.
Dopo ciò che era successo, dubitava che il ragazzino gli avrebbe più rivolto la parola, ma alla fine, non importava.
A Ben bastava soltanto che stesse bene.
Non osava chiedere di più.


 
****** 
 
 

“Ben, sei tu?”
Ben sussultò, stringendosi nelle proprie spalle, pronunciò mentalmente una parolaccia che spesso diceva suo padre e che di solito faceva inorridire la mamma, dopodiché ruotò con estrema lentezza sul posto, finché non fu di nuovo innanzi alla porta.
Poe, semidisteso su un bel mucchietto di cuscini, lo inchiodò con due occhietti vispi ma cerchiati, volgendo verso di lui un’espressione incuriosita.
A quanto pareva, era stato spogliato dei suoi vestiti, sostituiti da una tunica bianca che creava un netto contrasto col suo incarnato bruno. Accanto a lui, il tubo trasparente di un flebo correva fin sotto un cerotto, appiccicato all’incavo del suo braccio nudo e sottile come un giunco, mentre i capelli erano tenuti indietro da una fascetta rossa, per evitare che qualche ciocca ribelle toccasse lo squarcio che ancora svettava caparbiamente sulla sua fronte lucida.
Alla vista di quell’ultimo, il cuore di Ben perse un battito: i dottori avevano ripulito il viso del ragazzino e la ferita, fermando l’emorragia, tuttavia era evidente che il taglio necessitasse di ulteriori medicazioni.
Abbassò lo sguardo, schiacciato dalla vergogna. 
Maledizione.
Non voleva affrontare Poe.
Perché si era fatto scoprire come un’idiota?
“Ciao…” disse quindi Ben, con un filo di voce, torturandosi l’orlo della maglietta.
A quel punto, aspettò diligentemente che l’altro cominciasse ad urlargli contro, lo cacciasse via in malo modo, intimandogli di non farsi mai più vedere su Yavin4, invece, dopo un lunghissimo, infinito istante di silenzio, “Ben! Speravo proprio fossi tu! Sono così felice di vederti!” proruppe il ragazzino, ad un volume di voce spaccatimpani, prendendo ad agitare le braccia con un tale vigore che per poco non fece cadere anche la flebo vicino al letto “Mi stavo annoiando qui da solo! Come stai? Ma tu eri ferito? Non mi ricordo! Ti hanno curato? Come ti hanno curato? Mio nonno ha detto che è venuta anche tua madre! Lo sai che io non ho mai visto tua madre? Cioè, ne ho sentito parlare, ma mica so come è fatta! Lei che ti ha detto? Si è arrabbiata? Mio nonno lo era un bel po'! Ma tanto gli passa: lui non sa stare arrabbiato per tanto tempo! Si scoccia o so lo dimentica! Io non sono così, penso di aver preso da mio padre in questo. Sai che mio padre…”
Ben sollevò lo sguardo, decisamente perplesso.
Non riusciva proprio a comprendere: Poe sembrava davvero contento di vederlo e si stava comportando come se niente fosse successo, come se non avesse mai rischiato la vita per colpa sua.
La sua essenza era calda, amichevole, colma di un entusiasmo vibrante e sincero, nonostante la stanchezza data dalla ferita e dallo svenimento fosse molto più intensa di quanto volesse dare a vedere.
Ben lo fissava, immobile e a bocca aperta e non poteva fare altro che starsene lì, completamente sbalordito mentre, per l’ennesima volta da quando lo conosceva, quell’esplosione umana che rispondeva al nome di Poe Dameron raccoglieva tutte le sue certezze e le gettava via neanche fossero della banale carta straccia, agendo nel modo esattamente opposto a ciò che ci si sarebbe aspettati da lui.
Come un automa, Ben mosse allora qualche passo in avanti e si avvicinò al lettino, “Quando ti sei svegliato?” chiese quindi, interrompendo quel flusso incontrollato di parole.
Poe si placò all’istante.
Con un movimento composto, ripose finalmente le proprie mani in grembo, si rilassò contro i cuscini e gli rivolse un piccolo sorriso stropicciato.
“Da poco, in verità. Devono ancora mettermi i punti, ma credo si siano dimenticati…” prese a spiegare “I dottori hanno detto che ho preso una bella botta, ma starò bene. A me non fa male per niente, infatti volevo tornarmene a casa con nonno, ma preferiscono che rimanga qui almeno stanotte, in osservazione.”
Ben annuì, senza riuscire a trattenersi dal sollevare gli occhi al cielo.
Sapeva che il ragazzino stava recitando la parte dell’eroe coraggioso davanti a lui, visto che poteva avvertire la sua spossatezza, il dolore che a vampante ancora gli picchiava la fronte dandogli le vertigini, tuttavia decise di tenere quelle verità per sé e lasciare che Poe si crogiolasse nella sua recita.
Dal suo canto, sperò ardentemente di aver celato a dovere il sollievo e la felicità che si erano insinuati in lui alla notizia che l’altro si sarebbe rimesso e nessuno dei quadri drammatici che si era prefigurato, si sarebbe mai realizzato: non voleva apparire ancor più patetico di quanto già non fosse.
Il solo fatto di essere stato scoperto a sbirciare le sue condizioni di salute, lo metteva tremendamente in imbarazzo.
“Ehi, mi ero dimenticato!” esclamò all’improvviso Poe, drizzando il busto “Guarda nelle tasche dei miei pantaloni, per favore.”
Ben crucciò le sopracciglia, ma fece come gli era stato indicato, avvicinandosi ai vestiti del ragazzino che erano stati riposti su una sedia e afferrando i suoi calzoni.
Fu una ricerca breve poiché, non appena introdusse le dita nella tasca posteriore, incappò inaspettatamente in uno dei pennini che era solito utilizzare durante il lavoro di copiatura.
Lo osservò confuso per qualche istante, poi fece due più due e capì.
“È per questo che ti trovavi lì, in quella parte della città…” mormorò, stringendo l’oggetto tra le mani “Volevi ridarmi il mio pennino.”
“È il tuo preferito no? Me lo sono ritrovato nello zaino e ho pensato di riportartelo.”
“Il mio preferito?”
“Sì, ho notato che ne hai altri più belli, ma usi sempre questo qui, credo perché ci scrivi meglio. Non volevo che ti dispiacessi pensando di averlo perso, così ero venuto a restituirtelo.”
Il senso di colpa che investì Ben, innanzi a quella dichiarazione, fu così violento che il bambino dovette fare un passo indietro per mantenere l’equilibrio.
Aveva ragione, quello era il suo pennino preferito: suo padre glielo aveva regalato quando aveva otto anni, il giorno prima che si trasferisse all’Accademia Jedi insieme allo zio Luke. Non era il migliore che aveva – come Poe, Han capiva poco e niente dell’arte della calligrafia – era piuttosto semplice, color dell’ebano, addirittura un po' scheggiato accanto alla punta, eppure era il più maneggevole che conosceva, flessibile e leggero simile allo stelo di un fiore.
Il fatto che Poe avesse notato una cosa del genere e si fosse preoccupato dei suoi sentimenti, lasciava Ben parecchio spaesato, ma il pensiero che quello fosse addirittura finito con una ferita alla testa, soltanto per restituirgli uno stupido accessorio, cancellava ogni altro sentimento e gli stringeva il cuore in una morsa dolorosa.
Per questo, si voltò di scatto verso il ragazzino e “Te lo regalo!” affermò, modulando la voce in un tono risoluto.
Poe ruotò appena il capo verso la spalla, sbattendo le ciglia lunghissime con aria confusa.
“In che senso me lo regali?”
“È tuo adesso, puoi tenerlo per sempre.” ribadì Ben, sventolando l’oggetto nella sua direzione “Anche quelli più belli, se li vuoi. Puoi prenderli tutti.”
Poe lo osservò per un istante, poi emise una risata di vetro, il cui suono parve riverberare direttamente sotto la pelle di Ben.
“E tu poi come fai a scrivere, scemo? Io non me ne faccio niente, mica sono bravo come te.”
“Non importa, li puoi rivendere, ti compri quello che vuoi.” insistette ancora. 
“Ma ti piace così tanto scrivere! Sono troppo preziosi per te, non posso accettare.”
“Invece sì, sono tuoi adesso.”
“Ed io te li regalo di nuovo.”
“Cosa?”
“Tu li regali a me ed io li ri-regalo a te, sono di nuovo tuoi adesso.”
Ben sbuffò, frustrato.
Voleva fare qualcosa per Poe - qualsiasi cosa!- ma quel testone glielo rendeva dannatamente difficile.
Cominciò a spremere le meningi e a pensare ad una valida alternativa: fargli un regalo gli era parsa una buona idea – era così che soleva fare suo padre con lui e la mamma, quando stava via più a lungo di quanto aveva promesso- tuttavia era evidente che Poe non avrebbe accettato niente da parte sua, che fosse una penna, un’intera astronave o un qualunque altro oggetto della Galassia.
Gli lanciò un’occhiata furtiva, cogliendo il ragazzino nell’esatto istante in cui una brutta fitta alla testa gli fece accartocciare la faccia in una smorfia dolente.
In realtà, ciò che Ben avrebbe desiderato davvero, era poter curare la sua ferita, raschiando via finanche il ricordo stesso di essa, peccato però che non sapesse nemmeno da dove iniziare e il terrore di causare danni peggiori, gli impedisse di compiere alcun tipo di azione.
Ripose il pantaloncino e la penna sulla sedia, mentre il suo cervello ronzava ancora.
Poi, un’illuminazione improvvisa.
“Posso metterti i punti!” esclamò, in tono vittorioso.
Poe rimase un attimo interdetto, “Vuoi mettermi i punti di sutura? Sai farlo?” chiese.
“Sì!” fece ancora Ben, prima di aggiungere un timidissimo “Sempre se ti va… ovvio…”
L’altro però spalancò gli occhi giganti versi di lui, in un misto di sorpresa e ammirazione, quindi “Certo che sì! Mi fido di te!” rispose, scostandosi subito di lato per fargli spazio sul materasso.
Davanti a quella fede cieca, totale e del tutto gratuita, Ben sentì le proprie orecchie fumare per la vergogna, tuttavia nascose il visetto arrossato sotto i capelli e si affrettò a recuperare l’occorrente da un mobiletto bianco, unico segno di arredamento della vecchia stanzetta medica.
Pose gli strumenti con cura su un vassoio di acciaio, dritti e nell’ordine in cui avrebbe dovuto utilizzarli, dopodiché si avvicinò al letto e vi si arrampicò, sistemandosi nell’angolino appositamente lasciatogli libero dall’altro.
Non appena si sedette, il fiato caldo del ragazzino, a pochi centimetri da lui, gli accarezzò le labbra, procurandogli un brivido che gli rigirò la pancia in una specie di capriola.
Che brutta idea che aveva avuto…
Se ne stava già pentendo.
“Okay, adesso ti farò un po' male, ma tu cerca di resistere. Devi stare fermo, va bene?” gli intimò Ben, mentre preparava la pinza, con l’ago e il filo.
In tutta franchezza, nutriva svariati dubbi circa la capacità di Poe Dameron di non muoversi per più di cinque secondi di fila e infatti, non ebbe il tempo di finire la frase che quello si voltò bruscamente verso di lui. “Non c’è problema! Non sentirò niente, ci vuole ben altro per farmi male! Starò più fermo di una statua!” disse, con una certa fierezza nella voce.
Ben si grattò il capo, “Guarda che ti stai già muovendo!”
“Ma non abbiamo cominciato!”
“Sì, che abbiamo cominciato! Poe, davvero, non voglio fare un pasticcio, non devi muoverti!”
E forse in nome della leggera, quanto nitida vena di disperazione che probabilmente stava emanando la sua espressione facciale, Poe snocciolò un flebile cenno di assenso, congiunse le proprie mani in grembo e si affidò alle cure di Ben, in quale prese a ricucire la ferita con estrema attenzione.
Non gli piaceva fare il gradasso, ma era piuttosto bravo nelle saturazioni.
Come per la calligrafia, anche quello era un lavoro di precisione, di fermezza, persino di eleganza negli scatti del polso che permettevano di annodare il filo in quelle trame sottili.
Ben fece appello a tutto il proprio autocontrollo pur di mantenere i movimenti ben saldi, accurati fino al millimetro, sebbene la vicinanza del ragazzino continuasse a provocargli un formicolio che non capiva e il cuore gli battesse così forte dietro le costole che quasi gli venne il dubbio che qualcuno potesse avvertirne il suono a eoni di distanza.
D’un tratto, dovette afferrargli il mento per ruotarlo un poco e il contatto con la sua cute fresca, più morbida del velluto, generò una scarica elettrica sotto i suoi polpastrelli.
Era così preso da quel turbinio di sensazioni che fece un vero e proprio salto quando Poe ruppe di nuovo il silenzio. 
“Te lo hanno insegnato alla scuola dei Jedi?” chiese il ragazzino, mordendosi le labbra a sangue.
Ben valutò la possibilità di sottolineare che il ‘non muoversi’ comprendeva anche il ‘non chiacchierare’, ma un po' perché intavolare un discorso almeno lo avrebbe distolto dal fuoco che gli stava ustionando le vene, un po' perché intuiva che lo stesso Poe, per quanto si stesse sforzando di nasconderlo, necessitava di una distrazione dal dolore, decise di dargli corda.
“Non è una scuola, è una Accademia!” precisò, con un sospiro. Temendo di essere stato troppo brusco però, si strinse nelle spalle e “Comunque no, me lo ha insegnato mio padre.” si affrettò ad aggiungere, continuando ad armeggiare con ago e filo.
“Han Solo…” scandì invece Poe, con aria sognante “È il mio personaggio preferito, sai? Nelle storie sulla Guerra Galattica, intendo! Dicono sia il miglior pilota vivente ed io ci credo! Un giorno sarò proprio come lui!”
Ben sorrise appena.
“Sì, è forte, in effetti.”
“Non lo vedi molto però, vero?”
Ci mancò poco che infilzasse Poe storzellando l’ago nella ferita.
Si fermò di colpo e osservò l’altro con due occhi sgranati, “Perché dici questo?” domandò, stranito.
Poe si voltò piano piano verso di lui e infilò il proprio sguardo nel suo.
“Perché non parli spesso di lui.” disse, semplicemente “Cioè, tu non parli spesso in generale, ma di lui ancora meno. Di solito nomini tua madre o tuo zio, ma quasi mai tuo padre.”
Ben aprì e chiuse la bocca un paio di volte, senza sapere bene cosa rispondere.
Ancora una volta, Poe dimostrava di conoscerlo molto più a fondo di quanto avrebbe mai immaginato.
“È che lui… viaggia un sacco.” ammise, alla fine “Non gli piace stare sempre nello stesso posto e odia le faccende politiche della mamma, preferisce spostarsi insieme a zio Chewbe. Io vorrei tanto andare con lui, ma credono che sia meglio per me rimanere con lo zio Luke, per via dei miei poteri.” pronunciò, incapace di nascondere il proprio rammarico.
La verità era che non sapeva esattamente ciò che provava riguardo quell’argomento: da una parte capiva la voglia di libertà di suo padre e lo ammirava tanto per questo, ma dall’altra non poteva fare a meno di sentirsi tradito ogni qualvolta l’uomo che avrebbe dovuto essere il suo unico alleato rispetto alla Forza, sceglieva il suo irrefrenabile bisogno di uscire dagli schemi, di vivere all’avventura e non appartenere a nessuno, piuttosto che restare con lui.  
Con la scusa di rimettersi a lavoro, girò nuovamente il volto di Poe, sfuggendo ai suoi occhi nocciola, sempre così sinceri da farlo sentire esposto.
La sua voce, tuttavia, gli arrivò forte e chiara quando parlò.
“Anche mio padre non sta molto con noi.” scandì lento il ragazzino, come se ogni singola parola gli costasse un po' di fatica “Da quando è morta la mamma, non gli piace passare a casa tanto tempo, credo sia perché gliela ricordi troppo.” proseguì, mangiandosi di tanto in tanto l’unghia del pollice, in un vizio che, ormai Ben aveva imparato, egli compiva qualora si sentisse nervoso “Non è che non mi vuole bene o che non gli piace passare il suo tempo con me… è solo che…”
“Lui è fatto così.” si ritrovarono a dire i due bambini in coro, cosa che li fece sorridere, l’uno verso l’altro, in un gesto di intesa che scaldò Ben dall’interno.
Era bello sentirsi capiti.
Era una cosa che non aveva mai provato prima.
Con un movimento deciso, chiuse l’ultimo punto e recise il filo in eccesso.
Aveva fatto un ottimo lavoro, era soddisfatto: i punti erano precisi e ben allineati. Non era del tutto sicuro se gli sarebbe rimasta una cicatrice o meno, nel caso però, sperava almeno che non sarebbe risultata così visibile da dare fastidio all’altro, ogni qualvolta si fosse specchiato.
In quello stesso istante, Poe sollevò ancora le iridi nella sua direzione, regalandogli uno sguardo di gratitudine piena che mise Ben profondamente a disagio.
Non se la meritava.
“Perché fai queste cose?” gli chiese, di getto.
Poe aggrottò le sopracciglia, azione che gli causò una piccola fitta alla testa.
“Queste cose cosa?” domandò a sua volta, perplesso, mentre si massaggiava un poco la ferita.
Ben gli schiaffeggiò la mano con impazienza per allontanarla dalla sutura e “TUTTO!” esclamò “Perché vieni in biblioteca se non ti piace la calligrafia? Perché ti sei messo anche tu contro Nathaniel? Perché hai detto a mio zio che era stata colpa tua anche se non è vero? Perché ti interessa cosa penso o cosa provo? Non lo capisco!”
Poe lo osservò come imbambolato per circa un secondo.
Poi scoppiò in una fragorosa risata.
“Perché siamo amici, mi sembra ovvio!” disse, quasi con le lacrime agli occhi.
La risposta lasciò Ben ancora più stranito.
“Perché dovresti essere mio amico? Non ottieni nulla in cambio.”
A quelle parole, la risata di Poe si spense seduta stante.
Prese la mano di Ben tra le sue e lo guardò dritto negli occhi.
“Io non voglio qualcosa in cambio, mi piaci e basta.” scandì, lento e sicuro.
Ben sussultò come se qualcuno gli avesse appena dato uno schiaffo.
Nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere. Le persone di solito si avvicinavano a lui per la sua famiglia, per il suo nome, provando sempre quella punta di invidia e di immotivata aspettativa nei suoi confronti, che lo facevano sentire in catene, già bollato e catalogato in una identità che nemmeno gli apparteneva.
Nel cuore di Poe Dameron invece, non c’era niente di tutto quello.
C’erano affetto e luce e una purezza talmente intensa da sembrare viva.
E Ben avrebbe sacrificato volentieri tutto ciò che possedeva, persino la sua casa, persino la Forza, se ciò avesse voluto dire poter tenere quelle cose belle con sé fino alla fine dei suoi giorni, peccato però che non ne fosse minimamente all’altezza.
Ritrasse la propria mano da quella di Poe, gli diede la schiena e abbassò il capo.
“Io non posso essere tuo amico, Poe. È meglio se le persone mi stanno lontane.” mormorò affranto, fissando il lucido pavimento della clinica.
“Perché?”
“Perché non so avere un amico, finirei per fargli male.”
“Che stronzate!”
Prima che Ben potesse interiorizzare quell’uscita scurrile, Poe lo circondò da dietro con le proprie braccia, lo stritolò fortissimo e si affacciò dall’alto della sua spalla.
“Amico, tu sei un pelino melodrammatico, lo sai?” disse, ridacchiando “Mica ci sono delle regole per essere amici e poi perché diavolo dovresti farmi male? Sei così mingherlino!”
“Ehi! Non sono mingherlino! Devo ancora crescere!” sbottò Ben “E poi ti ho fatto io il taglio sulla fronte, te lo sei dimenticato?”
“Che cavolo dici? È stato Nathaniel! Tu mi hai salvato! Se non fossi intervenuto tu, adesso sarei stecchito!” affermò Poe, ridendo più forte.
“Ma se fossi stato più attento… se avessi previsto che…”
“Sei un Jedi, mica un chiaroveggente!”
“Un apprendista Jedi!” lo corresse per l’ennesima volta.
“Sì, quello che è!” con una strana mossa, Poe si arrampicò in ginocchio sul letto e costrinse Ben, ancora recalcitrante, a girare il busto di nuovo verso di lui. Gli prese entrambe le spalle, lo strattonò un poco e “Io e te siamo ufficialmente amici, Ben Solo, è deciso! Non si torna indietro!”
Ben sbuffò sonoramente, “Io non ho ancora detto di essere d’accordo!” provò, a un passo dalla disperazione.
Okay, forse Poe aveva ragione – e soltanto le stelle sapevano quanto Ben desiderasse che Poe avesse davvero ragione! - ma una parte di lui, quella più insicura e introversa, gli chiedeva di restare con i piedi per terra.
Come era facile aspettarsi tuttavia, Poe non si diede per vinto.
“Oh sì che lo hai fatto!” fu la sua risposta furbissima.
“Sono sicuro di no!”
“Lo hai fatto cinque minuti fa!”
“Ma di che stai parlando?”
“Venire a trovare una persona in ospedale e curargli una ferita è molto da amico! Ormai non ci puoi fare più niente, mi dispiace!”
Ben rimase lì, a bocca spalancata come un idiota.
Non sapeva più cos’altro argomentare, inoltre il cipiglio risoluto di Poe gli lasciava intuire che il ragazzino avrebbe girato e rigirato il discorso a suo favore fino a quando lui non avrebbe ceduto per sfinimento.
Ci rifletté sopra ancora un instante, diviso tra quei due istinti opposti e nemici che gli urlavano a gran voce di fuggire e di legarsi, confondendosi l’un con l’altro in un brusio vorticoso.
Alla fine, chiuse gli occhi e lasciò decidere il cuore.
“E va bene, se proprio insisti…” bisbigliò, con un filo di voce.
Poe si esibì in un ululato di gioia.
Gli saltò addosso e lo strinse fortissimo contro il suo petto ossuto.
“Hai visto? Te lo avevo detto!” esclamò, l’entusiasmo che vibrava dalla sua cassa toracica direttamente sotto la faccia pressata del più piccolo.
Eppure, mezzo asfissiato e intontito dall’ennesimo sproloquio che partiva, Ben si scoprì a sorridere.
Forse, avere un amico, non sarebbe stato poi tanto male.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NOTE AUTORE
A mia discolpa, vorrei dire che fosse per me aggiornerei minimo una volta a settimana! Metteteci però la mia lentezza, le mie crisi di nervi che mi fanno cancellare e riscrivere un capitolo almeno sette volte, gli impegni di cacca che chiamano e il porn (tipo Just Friends) che pretende di sbaragliare la “to do list”, ecco che impiego il doppio del previsto!
UN APPLAUSO (IN FACCIA) A ME!
 
Scleri a parte, il quarto capitolo di Preludio sancisce definitivamente l’amicizia tra Poe e Ben. Devo ammettere che ho amato particolarmente scrivere la seconda parte ed inventare quei dialoghi un po' scellerati tra i due bambini! Dopo la rissa con Nathaniel e la prima parte nella clinica, dove la tensione è ancora alta, era necessaria una ventata di fluff! Spero tanto vi sia piaciuta e vi abbia strappato un sorriso! :)
Altro dato che ho cercato di inserire nel capitolo, è stato il rapporto controverso che Ben condivide con i suoi genitori, Leia e Han. Sono sempre stata convinta che sia stato anche questo amore/odio nei loro confronti (per adesso ancora accennato e non del tutto consapevole) a spingere Ben al Lato Oscuro. In effetti, è un punto che credo svilupperò ancora nel corso della storia!
 
A questo proposito, ne approfitto per anticiparvi che il prossimo capitolo costituirà la fine di Preludio. Ma non disperate! C’è ancora tanto da raccontare e con un bel salto in avanti, ci focalizzeremo su un’altra estate, osservando come il rapporto tra i due ragazzi crescerà negli anni e affronterà il mostro nero dell’adolescenza! xD
 
Intanto, tenete gli occhi aperti, che il porn è sempre dietro l’angolo!
A presto!
 
Violet Sparks
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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