Silhouettes - Le Ombre, i Demoni e l'Arte della Guerra

di Ser Balzo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Voi tra tutti ***
Capitolo 3: *** La fortuna non è mai a nostro favore ***
Capitolo 4: *** Più bel posto di casa non c'è ***
Capitolo 5: *** Il coltello dalla parte del manico ***
Capitolo 6: *** Scacco matto ***
Capitolo 7: *** Uno sguardo nell'abisso ***
Capitolo 8: *** Guerrieri sacri e carne da cannone ***
Capitolo 9: *** Indietro non si torna ***
Capitolo 10: *** A noi la mossa ***
Capitolo 11: *** Segui gli spari ***
Capitolo 12: *** Katniss Everdeen! ***
Capitolo 13: *** Non con le armi, le minacce, il terrore o le lusinghe ***
Capitolo 14: *** La Ghiandaia è dei nostri ***
Capitolo 15: *** Il senso di Rose Martin per le fiamme ***
Capitolo 16: *** Gli sconfitti sventurati ***
Capitolo 17: *** Le porte di Dite ***
Capitolo 18: *** Il re sotto la Montagna ***
Capitolo 19: *** Strane serate di un altro domani ***
Capitolo 20: *** Il Dio Bifronte ***
Capitolo 21: *** Fuga dal centro della Terra ***
Capitolo 22: *** Un mostro chiamato destino ***
Capitolo 23: *** Le ombre, i demoni e l'arte della guerra ***
Capitolo 24: *** Silhouettes ***
Capitolo 25: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




















 

 

“A thousand silhouettes
dancing on my chest

No matter where I sleep
you are haunting me

But I’m already there
I’m already there

Wherever there is you
I will be there too”

 

- Of Monsters And Men, Silhouettes










Prologo.

 

 

Un colpo di cannone.
Fu l’ultima cosa che sentì.
Prima venne il buio, e il silenzio. Per quanto, non seppe dirlo. Ma era piacevole. 
Forse un po’ troppo.
Dopo vennero le voci. Prima sussurri spezzati e inconcludenti, poi parole sconnesse, infine frasi compiute.
«Abbiamo rischiato di perderla parecchie volte, ma ora è stabile.»
Stabile.
Parlavano di lei? No, non era possibile. Lei era morta. Ricordava perfettamente la grossa pietra che si era schiantata contro il suo cranio, facendo esplodere nel suo corpo un dolore che mai avrebbe creduto potesse concepire. 
Il resto, però, era oscurato. Come se una fitta nebbia fosse caduta sui suoi ricordi. Non riusciva a rammentare chi l’avesse colpita. Era un tipo grosso, questo sì. Ma la sua faccia era sfocata. 
Come ti chiami?
Cercò di far riaffiorare quel nome dalla palude stagnante che era diventata la sua mente.
Non ci riuscì.
E questo la fece arrabbiare.
Rabbia.
Oh sì. Le piaceva, la rabbia. Questo se lo ricordava. Amava sentirla scorrere nelle vene, bruciare come alcol su uno squarcio schiumante di sangue.
Sangue.
Rabbia.
Uccidere.
E finalmente venne la luce.
Una bomba esplose sotto la superficie della palude, facendo schizzare in aria l’acqua melmosa e puzzolente. Pulendo e mondando. Fu una sensazione quasi intollerabile, sentire la vita rifluirle nelle vene, nelle ossa, nel cuore e nell’anima.
Ma adesso era libera.
Ora ricordava.
Ora sapeva.

Katniss Everdeen.

Devo uccidere Katniss Everdeen.

























L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: È da quando ho visto La Ragazza di Fuoco che l'idea di scrivere qualcosa sul mondo di Hunger Games mi frulla nella testa. Dopo aver letto i tre libri (in inglese, perché sono troppo figo, nonchè la classica pippa che prima guarda il film e poi si legge il libro) l'idea di una storia si faceva sempre più presente (e opprimente). Ho buttato giù qualche capitolo, e la cosa mi intrippava sempre di più. Mi ero ripromesso di pubblicare il tutto a tempo debito, ma questa roba proprio non ce la fa a starsene buona nel mio computer, perciò eccola qui, in tutta la sua traballante incompetenza. 
Tecnicamente parlando, la storia dovrebbe avere inizio dopo la fine del primo libro, e continuare fino al terzo, con un punto di vista diverso da quello di Katniss. La trama originale verrà seguita fino ad un certo punto: ho intenzione di applicare qualche variazione qui e là, sopratutto nel terzo libro (che a mio modesto parere è quello che ho trovato più insoddisfacente). La modifica più consistente che ho deciso di porre in atto è la reintroduzione di quella deliziosa piccola psicopatica che è Clove.
Non potevo lasciarla lì nel primo libro senza farle tirare coltelli a qualcun altro, nossignore.  
Spero di ritrarre il suo carattere e quello degli altri personaggi non originali che compariranno il più fedelmente possibile. 
C'è chi definisce Hunger Games un capolavoro, chi invece un libro piatto e scritto in maniera talmente elementare da sembrare cretino: che piaccia o non piaccia, è innegabile che ci sia qualcosa, in questi tre libri, che ti prende e ti coinvolge: sarà il fascino dei personaggi, sarà la lotta serrata e senza quartiere, sarà che chiunque abbia letto questo libro si sia chiesto "ma se capitava a me, ma io che cazzo facevo?"... qualunque cosa sia, mi ha colpito e messo in moto la fantasia, tanto da voler creare una storia mia.
Per uno scrittore, penso non ci sia complimento migliore.

Direi che ho parlato anche troppo: perciò fatemi sapere che cosa ne pensate, qualunque sia il vostro parere. Come sempre, tutto fa brodo!
Tantissimi cari saluti, e al prossimo capitolo!

...e possa la fortuna sempre essere a vostro favore.

Perdonatemi, non ho resistito.

 

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Capitolo 2
*** Voi tra tutti ***




1.
Voi tra tutti



"Run, run, run away
Buy yourself another day

A cold wind's whispering secrets in your ear
So low only you can hear"

-Kingdom Come, The Civil Wars

 

 

«Un caldo così non c’era da anni...»

Dan Martin si tolse il cappello e si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano. Davanti a lui, a qualche centinaio di metri di distanza, la mandria brucava l’erba con la sua tipica mansuetudine, in un pigro frullare di code e di orecchie bovine.

Lee Harper sorrise sotto le falde ampie del cappello. «Puoi dirlo forte, Dan. Fortuna che abbiamo trovato riparo qui sotto, o ci saremmo già sciolti...»

Dan chiuse gli occhi, cercando di assaporare il più possibile la fresca ombra della grossa quercia sotto la quale si trovavano. «Dio sa quanto vorrei farmi un pisolino...»

«Jim ci ha provato una volta» rispose Lee. «Dieci minuti e l'ha beccato il supervisore. A quanto so, è ancora nelle stalle a pulire...»

Un rumore di zoccoli al galoppo troncò di netto la conversazione. I due ragazzi si voltarono verso la fonte del rumore: un uomo stava venendo dritto verso di loro.

«Parli del diavolo...» borbottò Lee.

Il Supervisore tirò le redini a qualche metro di distanza dai due, facendo slittare gli zoccoli del cavallo sulla terra. L’uomo, ansimante e madido di sudore, prese un palmare dalla propria cintura e cominciò ad armeggiarci.

«Danyl Martin e Leeville Harper?»

«Esatto, signore.»

Il Supervisore toccò due volte lo schermo del palmare. «Il vostro turno finisce ora. Riportate la mandria alla stalla di appartenenza, preparatevi e presentatevi al Municipio tra un’ora.»

Dan e Lee si scambiarono un’occhiata perplessa. «Signore, possiamo sapere cosa succede?»

L’uomo gli scoccò un occhiata in tralice. «Davvero non lo sapete?»

«Temo di no, signore.»

«Ma come, voi tra tutti...»

Dan avvertì una dolorosa fitta al cuore.

Voi tra tutti...

Prima che l’uomo parlasse, aveva già capito.

«In quanto familiari dei tributi del nostro Distretto agli ultimi Hunger Games, avrete un posto d’onore al discorso dei tributi vincitori. Ora muovetevi, vi stanno aspettando.»

 

La prima cosa che vide fu il soffitto della sua stanza. Un bianco così acceso da fare male agli occhi. Dovette sbattere le papebre più volte prima di riuscire a mettere a fuoco dove fosse.

Un letto, un comodino, nient’altro.

Una stanza piuttosto spoglia, anche per gli standard deprimenti degli ospedali.

Scostò il lenzuolo che la copriva. Una veste da ospedale era l’unica cosa che aveva addosso. 

Provò a mettersi seduta, ma un attacco di vertigini estremamente forte la costrinse a ricadere sul materasso. Respirò profondamente, mentre il soffitto piano piano smetteva di muoversi.

Era debole. E lei odiava essere debole. 

Con un ringhio, si sollevò di nuovo. Le vertigini tornarono, ma questa volta decise di resistere. Le vene sulle tempie si gonfiarono, la testa le scoppiava, un forte senso di nausea la avvolse mentre cercava disperatamente di restare seduta. 

Fu una tortura. Ma alla fine le vertigini cessarono, la nausea sparì, e seppe di aver vinto.

Forza, in piedi.

Posò un piede a terra, poi un altro. Prese un bel respiro, e si alzò in piedi. Le gambe le tremarono violentemente, e si dovette appoggiare al comodino per non cadere. In quel momento si accorse della flebo collegata al suo braccio, e si strappò l’ago dalla carne con un ringhio.

Sto bene. Non ho bisogno di cure.

«Non essere stupida. Certo che ne hai bisogno.»

Si girò di scatto. La stanza cominciò a vorticare, e dovette di nuovo appoggiarsi al comodino per restare in piedi.

«Chi sei? Fatti vedere!» Nelle sue intenzioni il tono doveva essere quello di un grido di sfida, ma dalla sua bocca uscì solo un roco rantolio.

«Sono qui. Non mi vedi?»

La stanza smise di muoversi, e finalmente lo vide. Un alto ragazzo biondo era appoggiato alla parete della stanza, con le muscolose braccia conserte.

Inconfondibile.

Non riuscì a trattenere un sorriso. «E così ce l’hai fatta.»

Il ragazzo la guardò perplesso. «A fare cosa?»

«A vincere gli Hunger Games.»

Un espressione indecifrabile passò sul volto del giovane, come una nuvola solitaria in un pomeriggio d’estate. «Temo di doverti deludere, ragazzina. Non ho vinto.»

«E allora cosa ci fai qui?»

«Bella domanda.»

Non capiva. E lei detestava non capire.

«Dove siamo?»

«Non ne ho idea.»

«Bell’aiuto che sei.»

Il ragazzo ridacchiò. «Forse sei a Capitol City. O forse in un altro posto. In ogni caso, tra poco lo saprai.»

«Lo spero. Detesto non sapere.»

«Lo so. Sei sempre stata una tipa sveglia.»

Fece una smorfia, poi guardò il letto. «Forse dovrei riposare un altro po’.»

«Lo credo anche io.»

Si rimise a letto, tirandosi le coperte fino al mento. Il ragazzo era ancora appoggiato alla parete, e la guardava con una strana espressione, che non gli aveva mai visto sul volto prima d’ora. Il cipiglio fiero e determinato che l’aveva sempre caratterizzato era sparito, sostituito da un’espressione indecifrabile, di enigmatica imperturbabilità.

Il silenzio cadde nella stanza. Si sforzò di parlare, ma non riuscì ad emettere alcun suono. Com’era possibile, se la sua testa era piena di così tante cose da dirgli?

Alla fine fu lui a spezzare il silenzio. «Beh, allora io vado.»

Sentì una strana stretta al petto. Come se qualcuno l’avesse afferrata. Una sensazione atavica proveniente da un passato che credeva di aver ormai sepolto.

Paura.

Il ragazzo era quasi fuori dalla stanza, quando le parole le uscirono di bocca come un torrente in piena, impetuose e scoordinate. «Aspetta!»

Il giovane si fermò. «Sì?»

Deglutì. Perché è così difficile parlare?

«Al mio risveglio, tu... ci sarai?» Si sentì incredibilmente stupida, e si affrettò a completare la frase. «In caso dovessi uccidere qualcuno per fuggire via di qui, potresti essermi d’aiuto.»

Ancora una volta, il ragazzo sorrise.

«Ma certo. Ora riposati.»

Uno strano calore le avvolse il petto. Maledetta morfina.

«Allora a dopo, Cato.»

«A dopo, Clove.»







L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Ed eccoci dunque, siori e siore, al primo capitolo di questa nuova mia idea balzana. Come forse i più acuti di voi avranno compreso, Dan e Lee, i due amichetti che compaiono ad inizio capitolo, sono del Distretto Dieci, la cui principale occupazione è il bestiame: una terra di cowboy, praticamente. Nell'ideare questa storia, volevo un personaggio che fosse di un distretto sfigato forte: il Distretto Dieci non compare praticamente mai, non c'è alcun personaggio del distretto dieci degno di nota (a parte un certo Dalton nel terzo libro, ma fa praticamente una comparsata) e i due tributi scelti per i settantaquattresimi hunger games sono talmente sfigati che non compaiono neanche nella scena del bagno di sangue alla Cornucopia (dove in teoria dovrebbero esserci), nel primo film. Si vedono in un paio di scene, giusto qualche fotogramma: hai appena il tempo di dire (sempre se li noti) "ma quanto sono ridicoli quei due vestiti da cowboy?" che già sono spariti, inghiottiti dall'oblio. Entrambi sono senza nome, e quando la femmina muore (dopo tipo 26 secondi) neanche proiettano la sua faccia in cielo.
Insomma, era destino.
Anche Clove compare poco, per quanto sia un personaggio abbastanza importante: sappiamo soltanto che è prepotente, pericolosa e sadica e con un mezzo impiccio "forse no ma magari mezzo che sì" con il suo compare di Distretto. Non ho ancora ben deciso come inquadrarla esattamente, ma spero che la sua rappresentazione sia sufficientemente buona e non faccia indignare i fan della nostra amichevole coltellara di quartiere.
In ogni caso, come sempre, se avete suggerimenti o altro, non avrete che da scrivere. Potreste mettere in moto cose che non avrei mai pensato di poter pensare pensando.

Inchini e riverenze, e alla prossima!

 

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Capitolo 3
*** La fortuna non è mai a nostro favore ***




2.
La fortuna non è mai a nostro favore

 


"What could I say?

I was far away
You just walked away
and I just watched you

What could I say?"


The National,  About Today

 







Quando Dan giunse alla sua abitazione, nel blocco C, fu sorpreso di trovare sua madre ad attenderlo davanti alla porta d’ingresso.

«Forza Dan, muoviti!» esclamò lei, afferrandolo per il braccio e conducendolo dentro la loro povera abitazione. 

Suo padre era al tavolo, a leggere il giornale. Era già stato infilato nel suo vestito buono, uno sdrucito completo nero, e non sembrava molto lieto di avercelo addosso. Sollevò lo sguardo verso di lui, borbottò un saluto e si rituffò nella lettura, un concentrato di ridicola e stucchevole propaganda e avvenimenti del tutto inutili. Lo stesso signor Martin amava ripeterlo - stando ben attento a non farsi udire dai Pacificatori - , ma aggiungeva sempre che preferiva continuare a leggere carta straccia che non leggere affatto.

Un macellaio letterato. Mio padre.

«Forza, che poi l’acqua si fredda.»

Il tragitto verso il bagno fu estremamente breve: la casa era molto piccola e tutte le stanze si affacciavano nella sala da pranzo. Senza tante cerimonie, la signora Martin strappò di dosso i vestiti sudici dal figlio, ignorò le sue proteste e lo ficcò nella grossa tinozza che utilizzavano come vasca da bagno.

«Mamma! Ho una certa età, so lavarmi anche da solo!»

«Certo, come no. Posso accettare i tuoi lavaggi approssimativi nei giorni normali, ma oggi devi essere lindo e profumato.»

Nonostante le sue rimostranze, la signora Martin continuò imperterrita a strofinare, insaponare e risciacquare il suo primogenito, finché non fu soddisfatta del risultato.

«Ecco, ora va meglio! Ora asciugati e preparati, ho messo i vestiti sul tuo letto.» dettò ciò gli lanciò un asciugamano e come un tornado in gonnella si eclissò per andarsi a preparare.

Sembra il giorno del suo dannatissimo matrimonio.

Dan si strofinò i folti capelli biondi, il cuore pesante come una pietra. Entrò in camera, lasciando orme bagnate sul pavimento di assi. Prima della Mietitura, quella era la stanza dei fratelli Martin: la piccola meditabonda e il grande spensierato. Poi erano venuti gli Hunger Games, il bagno di sangue alla Cornucopia, e tutto era stato spazzato via. 

Una mattina Dan era rincasato prima del previsto. I suoi genitori non c’erano; era entrato in camera, e tutto quello che rappresentava sua sorella era sparito: il letto, il comodino, l’armadio con i pochi, rattoppati vestiti che amava tanto, andati, come se non fossero mai esistiti. Solo dopo aveva sentito la puzza di bruciato. Era corso sul retro: una pila di cenere ancora fumante testimoniava la presenza di un falò appena spento. Prima di rendersi conto di quello che stava succedendo, una sottile brezza aveva spinto sui suoi piedi un frammento bruciacchiato di tessuto rosso borgogna.

La coperta preferita di Rose. 

Si era messo in tasca il lembo di coperta ed era rientrato in casa. I suoi genitori non accennarono minimamente alla vicenda: soltanto suo padre borbottò che gli effetti di sua sorella erano andati ai bambini più bisognosi. Ma lui sapeva cosa avevano fatto.

Avevano cancellato Rose dalla loro anima.

Ma non erano riusciti del tutto nella loro opera. Dan rimase in silenzio, in caso sua madre decidesse di fare una comparsata in camera, poi con calma e circospezione spostò un asse del pavimento: sotto di essa c’erano il frammento della coperta e una foto. Dan tirò fuori tutti e due, si sedette sul letto e lasciò che lo sguardo vagasse sulla fotografia, in bianco e nero e rovinata: una ragazzina dal viso tondo e dalle lunghe trecce lo guardava con aria mesta, quasi rassegnata. Come se presentisse la fine dei propri giorni.

«Dan, sei pronto? Forza, che ci aspettano!» gridò sua madre da dietro la porta.

Dan fece un profondo sospiro, poi si alzò dal letto. Rimise a posto la stoffa e la foto, e le coprì con l’asse.

Ci vediamo dopo.

Il tempo di vestirsi ed il dolore era già sparito, rinchiuso diligentemente nelle profondità più recondite della sua anima.

 

Al suo risveglio, tutto era come l’aveva lasciato. O meglio, quasi tutto.

L’ago della flebo infilato nel suo braccio era sparito, sostituito da un cerotto; e ai piedi del letto, accuratamente ripiegati, c’erano dei vestiti.

Questa volta le vertigini non vennero: riuscì a mettersi in piedi senza rischiare di cadere. Si tolse la veste da ospedale e indossò i nuovi indumenti: sembravano fatti su misura.

«Ti stanno bene.»

Ancora una volta, il ragazzo biondo l’aveva presa alla sprovvista. Si girò di scatto, furente. «Finiscila! Come fai ad arrivarmi alle spalle senza che io ti senta?»

«Forse non sei più quella di un tempo.»

«Potrei ucciderti con una sola mano, e tu lo sai.»

«Certo che lo so. Sei sempre stata la mia assassina preferita.»

Le labbra della ragazza si deformarono in una smorfia crudele. «Esattamente.»

Cato fece un cenno verso la porta della stanza. «Credo sia ora di andare.»

«Sì, questo l’avevo capito anche io.»

Fuori dalla stanza c’era un singolo, spoglio corridoio. Oltre a quella della camera di Clove, c’era un’unica altra porta. Senza indugi, la ragazza ci si diresse a passo di carica e la spalancò.

«Buongiorno. Sembri in forma.»

Oltre la porta c’era una piccola stanza quadrata, bianca come quella dove aveva dormito e illuminata da una singola e grande finestra. Al centro della camera si trovava una scrivania; e dietro la scrivania, un uomo la attendeva, con le dita intrecciate sotto al mento.

Era sulla trentina, ma i suoi occhi di un verde incredibilmente intenso sembravano appartenere ad un uomo molto più anziano. Il volto rasato faceva il paio con la divisa nera che indossava: pulito, elegante, minaccioso.

L’uomo indicò una sedia che era posta davanti alla scrivania. «Prego, siediti.» 

Era anche di aspetto tutt’altro che sgradevole, ma a questo Clove non fece caso. La prima cosa che valutava in una persona era quanto tempo avrebbe impiegato ad ucciderla: il suo istinto le suggerì che l’ufficiale che aveva davanti a se’ era tutto tranne che una preda facile.

Sulla scrivania c’era un lungo tagliacarte: una lama rozza, sbilanciata e soprattutto poco affilata, ma poteva essere usata comunque come arma. Rassicurata dal fatto di non essere indifesa, la ragazza obbedì.

Le dita dell’ufficiale si immersero in un fascicolo pieno di scartoffie. Controllò le carte per qualche istante, poi tirò fuori un singolo foglio.

«Nome completo?»

«Clove.»

L’uomo alzò lo sguardo dal foglio e la fissò per un lungo, intenso momento. Con un brivido, Clove venne colpita dal pensiero di essere dalla parte sbagliata della sottile linea rosso sangue che divide la preda dal cacciatore. Un fragile cerbiatto braccato da un lupo mortalmente astuto.

«Nome completo?»

Vai al diavolo.

«Clove e basta. Non credo le interessi di chi sia figlia.»

Le sue parole caddero nel silenzio. L’aria nella stanza parve fermarsi. Per qualche istante, Clove fu certa che l’uomo la stesse per aggredire.

Poi l’uomo fece un sospiro, e il tempo riprese a scorrere.

«Età?»

«Sedici anni.»

«Distretto di appartenenza?»

«Due. Senta, quanto deve durare questo teatrino?»

Gli occhi verde smeraldo non la degnarono neanche di uno sguardo. «È la procedura, signorina Clove. Ma non si preoccupi, tra cinque minuti sarà tutto finito.»

«Non mi interessa che lei se ne vada. Voglio che mi dia delle risposte. Siamo a Capitol City? Che sta succedendo?»

«Non sono autorizzato a fornirle questo tipo di informazioni. Devo accertarmi della sua stabilità psichica e basta.» L’uomo sbuffò. «Abbiamo due minuti, vediamo di fare in fretta. Francamente, ho cose migliori da fare che perdere tempo con una ragazzina.»

Accadde tutto in un istante. Clove scattò in avanti, afferrò il tagliacarte e lo lanciò. Per un attimo l’uomo credette che la ragazza volesse ucciderlo, ma non era lui il bersaglio.

Guardò alla sua sinistra. Un vecchio orologio era appeso al muro, alla parete opposta di quella con la finestra. Il tagliacarte aveva fracassato il quadrante di vetro e si era conficcato proprio sotto la lancetta dei secondi, bloccandola.

La ragazza si rilassò sullo schienale, incrociando le braccia sul petto con una smorfia di superiorità. «Ora abbiamo tutto il tempo del mondo.»

Con sua sorpresa, l’uomo sorrise. «Sapevo che non mi avresti deluso. Sono il colonnello Rorke, e tu sarai la mia arma. Bentornata dal regno dei morti, Clove.»

 

 

La piazza era piena, come sempre in quelle occasioni. Dan sentiva gli occhi della folla su di se’, e la cosa non gli piaceva affatto. L’ultima cosa che voleva era essere lì, su quella piattaforma rialzata, come un agnello sull’altare sacrificale. 

Lanciò un’occhiata al suo amico Lee, anche lui in bella mostra sull’altra piattaforma. Lui e Lee si erano conosciuti così: fratelli dei tributi del Distretto Dieci, due ragazzi uniti da una sventura comune. 

Tutto questo è orribile.

Cercò di rilassarsi. Aveva imparato a tenere a bada il dolore, ma questo raccapricciante spettacolo metteva a dura prova il suo autocontrollo. Solo una mente perversa poteva ideare una tortura simile; due famiglie in lutto, lacerate dalla perdita di una giovane vita stroncata brutalmente in un bagno di sangue, messe davanti ai gli unici due sopravvissuti: sopravvissuti che non potevano essere condannati, ma neanche perdonati. 

Ci fu uno squillo di tromba, poi una donna vestita in un elegante vestito blu con delle piume enormi che partivano dalla schiena e le ricadevano sulla fronte, quasi a toglierle la vista, prese la parola.

«Buongiorno, amici e amiche del Distretto Dieci! È con grande onore ed immensa gioia che ho il piacere di presentarvi i vincitori dei Settantaquattresimi Hunger Games: Peeta Mellark e Katniss Everdeen!»

Le porte del Municipio si spalancarono: un ragazzo alto e ben piazzato e una giovane magra e scura fecero il loro ingresso.

Sembravano più belli alla televisione.

Il ragazzo biondo avanzava senza timore: era riuscito anche a comporre sul suo viso un sorriso soddisfacente. La ragazza, invece, aveva gli occhi piantati a terra e il passo incerto. Dan non poté fare a meno di provare un moto di simpatia nei suoi confronti.

Almeno non sono l’unico che vorrebbe essere dappertutto tranne che qui.

Fu il ragazzo a parlare. Katniss Everdeen, la Ragazza di Fuoco, rimase in silenzio, cercando di farsi la più piccola possibile. Sembrava impossibile che fosse la stessa persona che aveva ucciso entrambi i Favoriti maschi dei primi due Distretti con implacabile sangue freddo.

Peeta Mellark finì il suo discorso. Qualcuno applaudì. Ma la gente voleva ben altro.

Più di una voce si levò tra il mormorio della folla.

«Katniss! Katniss, dì qualcosa!»

«Parlaci!»

La ragazza parve terrorizzata dalla prospettiva di dover proferir parola. Lanciò uno sguardo spaventato al suo innamorato, che la prese per mano e le mormorò qualche incomprensibile parola di incoraggiamento. Dopo qualche istante di tentennamento, Katniss Everdeen si posizionò davanti al microfono.

«Io... esprimo le mio condoglianze per la tragica fine dei tributi del Distretto Dieci. Il loro sacrificio non è stato vano, e nonostante il dolore per la loro scomparsa, vi sia di conforto la certezza...»

La folla cominciò a rumoreggiare, scontenta. Partirono dei fischi, qualcuno gridò.

«Non vogliamo la propaganda! Dicci cosa fare!»

Ma Katniss Everdeen continuò imperterrita, nonostante il volto tradisse un’angoscia a stento trattenuta. La voce si fece più incerta, mentre continuava a declamare quello che aveva tutta l’aria di essere un discorso preconfezionato mandato giù a memoria.

«... nella speranza che la nostra nazione continui a prosperare. Panem ieri, Panem oggi, Panem per sempre.»

La Ragazza di Fuoco rimase un attimo immobile, le labbra dischiuse nel tentativo di formare parole che si accalcavano su per la gola.

Fu in quel momento che il suo sguardo e quello di Dan si incontrarono. E il ragazzo vide negli occhi scuri della vincitrice non una fiera cacciatrice, ma una ragazza qualunque.

Una ragazza indifesa. Spaventata. Inerme.

Una ragazza come Rose.

Non si accorse neanche di aver sollevato il braccio, il pollice e il mignolo stretti insieme, le tre dita centrali alte verso il cielo. Sentì sua madre soffocare un gemito, e la presa forte di una mano sul suo braccio. Si divincolò dalla stretta , facendo qualche passo in avanti, continuando a fissare Katniss Everdeen negli occhi.

Non si accorse che sulla piazza era calato un silenzio di tomba, ne’ che un paio di Pacificatori fendevano la folla nella sua direzione.

La Ragazza di Fuoco non rispose. Gli occhi spalancati, le mani tremanti, non aveva la minima idea di cosa fare. Fu Peeta Mellark a prendere in mano la situazione, afferrandola per un braccio e tirandola delicatamente a se’, allontanandola dal microfono. La donna in blu intervenne prontamente, frapponendosi fra i vincitori e la folla.

«Bene bene! Salutate i vincitori, Katniss Everdeen e Peeta Mellark!»

Le parole non avrebbero potuto essere scelte in modo peggiore. Molte mani si levarono in alto, le tre dita a formare il gesto di saluto del Distretto Dodici, per onorare la ragazza che da sola aveva sfidato una nazione.

I Pacificatori scattarono in avanti, pronti a reprimere brutalmente qualunque scintilla di sedizione. La folla però oppose una resistenza passiva, compattandosi e rendendo difficile il passaggio ai tutori dell’ordine.

Visibilmente a disagio, la donna in blu cercò di rimanere imperturbabile.

«Bene, abbiamo finito. Arrivederci, e che la fortuna sia sempre a vostro favore!»

Che la fortuna sia sempre a vostro favore. Lo slogan degli Hunger Games. Un motto crudele e sadico di un folle gioco al massacro.

In un istante breve come un battito di ciglia Dan vide sua sorella, in piedi su quello stesso palco, tremare come una foglia dopo che il suo nome era stato estratto, disperata, impotente.

Fu in quel momento che non ci vide più.

«La fortuna non è mai a nostro favore!» gridò con tutta la voce che aveva in corpo. 

La donna sobbalzò, i Pacificatori si bloccarono. Sulla piazza scese di nuovo un silenzio di ghiaccio.

Il Distretto Dieci trattenne di nuovo il fiato.

E alla fine espresse il suo verdetto.

«Ha ragione!» 

«La fortuna non è mai a nostro favore!»

«Basta Hunger Games! Basta morti innocenti!»

«La fortuna non è mai a nostro favore!»

«La fortuna non è mai a nostro favore!»

La folla esplose in un boato rabbioso. I Pacificatori cominciarono ad affondare i manganelli nel popolo del Distretto Dieci, ma non erano altro che una sottile linea bianca. Prima lentamente, poi sempre più rapidamente, vennero spinti indietro e poi messi in fuga, mentre la folla trionfante ruggiva la propria vittoria.

Dan gridava parole incoerenti, insultava i Pacificatori, gli Hunger Games, la capitale, persone che non conosceva e che mai avrebbe conosciuto. Tutto il dolore che aveva chiuso dentro di se’ fluiva ora libero e incontrastato. Venne trascinato via urlante, incapace di comprendere e di volere, mentre intorno a lui la rivolta intonava le prime note di quello che sarebbe diventato un lungo, disperato e sanguinoso canto.
















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Il primo capitolo era un po' povero: ecco qui un secondo un po' più corposo per bilanciare le cose. Come sempre, ogni suggerimento è ben accetto.

Confidando di non aver scritto eccessive vaccate, saluti e riverenze, e al prossimo capitolo!

 

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Capitolo 4
*** Più bel posto di casa non c'è ***




Più bel posto di casa non c’è

 

"Whatever they say
These people are torn

Wild and bereft
Assassin is born"

-Muse, Assassin

 

 







Il Distretto Dieci era nel caos.

Gente che correva, uomini che strillavano, bambini che piangevano, donne che tiravano grossi mattoni ai Pacificatori. Qualunque schema che rappresentasse la vita quotidiana era saltato, lasciando spazio all’anarchia.

Dan si guardava intorno intontito, trascinato dai suoi genitori. Dopo lo sfogo sulla piazza, una indicibile stanchezza era calata come un pesante tendaggio su tutto il suo essere, annebbiandogli la mente e infiacchendogli il corpo. 

Gli altoparlanti in tutta la città diffondevano le parole nervose del Sindaco McCain, appena udibili sopra il frastuono degli scontri.

«Cittadini, vi prego, tornate diligentemente alle vostre case. Aggredire un Pacificatore è alto tradimento, ed è punibile con la fucilazione immediata. È inutile combattere. Vi prego, cittadini, cessate questo inutile massacro!»

Ma la rabbia era troppa, e troppo a lungo covata. Il popolo era un barile di polvere da sparo pronto ad esplodere: occorreva soltanto una scintilla per dare fuoco alla miccia.

Una donna sulla cinquantina assaltò un Pacificatore con una mannaia: la donna probabilmente aveva usato quell’attrezzo per tutta la sua vita, e sapeva come usarlo. L’uomo cadde a terra con un profondo taglio sulla coscia; mentre urlava stringendosi la ferita, la donna salì a cavalcioni sopra di lui e affondò la mannaia nella faccia dell’agente, più e più volte, mentre il suo volto deformato dalla rabbia si copriva di sangue.

«Mio figlio, maledetti, mio figlio, maledetti...» ripeteva ossessivamente ad ogni colpo.

Fu in quel momento che Dan la riconobbe: era Grace Hutterton, madre di Josh Hutterton, tributo maschio del Distretto Dieci ai Settantaduesimi Hunger Games. Josh era morto di fame, lentamente e dolorosamente, il diciottesimo giorno dei giochi: Grace era quasi impazzita, e da quel giorno non era stata più la stessa.

Ci fu un boato tremendo, alle sue spalle: ebbe il tempo di vedere una grossa fiammata, prima che i suoi genitori svoltassero l’angolo, sottraendo l’esplosione alla sua vista.

«Dobbiamo andare a casa il prima possibile, così non potranno collegarci a questi tumulti» ripeteva nervosamente la signora Martin. «Noi non abbiamo fatto niente, non abbiamo fatto niente di male...»

Mano mano che si allontanavano dal Municipio, la situazione si faceva più tranquilla; arrivati alla loro casa, i rumori della rivolta erano soltanto degli echi lontani.

«Presto, Dan, va’ in camera» ordinò la signora Martin. Dan obbedì, troppo stanco per replicare. Si sdraiò sul suo letto e lì si addormentò, con ancora indosso tutti i vestiti.

 

«Allora, cosa ha detto?» 

Clove era appena uscita dalla stanza del colonnello Rorke. Cato era lì, appoggiato alla parete e le braccia conserte, la stessa identica posa in cui l’aveva trovato quando si era svegliata.

«Che ho da fare. A quanto pare sta succedendo un bel casino nei Distretti.»

«In che senso? Una rivolta?»

«Non proprio, ma poco ci manca. A quanto pare Rorke è rimasto colpito dalla mia bravura nell’arena, e ha deciso di darmi una seconda opportunità.»

Il ragazzo si staccò dalla parete. «Ti farà uccidere Katniss Everdeen?»

Una smorfia di frustrazione si dipinse sul volto della ragazza. «No. Dice che il Presidente ha altri piani per lei.»

«Un vero peccato.»

«Non ha importanza. Io la ucciderò, dovessi bruciare l’intera Panem per farlo.»

«Non ho dubbi in proposito.»

Clove si incamminò a passo spedito verso la sua stanza. «Verranno a prendermi tra poco. Pare che nel Distretto Due ci sia una cospirazione atta a rovesciare il Sindaco non appena i tributi verranno in visita. Non si sa chi sia il capo dei traditori: il suo nome in codice é Ianos. Devo infiltrarmi fra di loro e scoprire la sua identità.»

Cato la seguiva come un grosso cucciolo obbediente. Non era mai stato particolarmente brillante, ma quel suo strano modo di fare la insospettiva. «Si torna a casa, dunque.»

Clove si sedette sul letto. Una strana miscela di sentimenti le vorticavano nell’animo. Rabbia, sete di vendetta, agitazione, e anche un pizzico di quel veleno corrosivo che tanto detestava: la paura.

«Più bel posto di casa non c’è» disse a bassa voce, più a se stessa che al ragazzo biondo.

 

Era in una palude. L’acqua melmosa gli lambiva le ginocchia, e camminare era estremamente difficile, gli alberi, scheletrici e senza vita, spuntavano dalle acque limacciose come demoniache mani ossute. Il cielo era verdastro e malato, e incombeva su di lui come una cappa di miasmi mortali.

«Dov’e la coperta! Voglio la mia coperta rossa!» gridava con voce roca. O almeno, credeva di gridare.

Si toccò le labbra. Ma le labbra non c’erano.

Era senza bocca. Non poteva parlare. Non poteva respirare. 

Si sentì soffocare. Gli occhi gli bruciavano. Annaspò in avanti, incespicò e cadde a faccia in giù nell’acqua stagnante.

Sapeva che non doveva aprire gli occhi, perché sott’acqua era tutto più pericoloso. Ma lo fece.

Lo spettro di un cane lo guardava con aria  minacciosa. Digrignò i denti, lanciando un basso ringhio di sfida. Poi la sua bocca si aprì.

«Dan! Dan, svegliati per favore!» disse il cane.

E Dan aprì gli occhi.

«Ti prego, non farmi del male...» biascicò impantanato ancora nel dormiveglia.

«Eh? Nessuno ti vuole fare del male... non io, almeno.»

Dan ci mise qualche istante per mettere a fuoco. Lee Harper, il suo amico, lo guardava con aria preoccupata.

«Ah sei tu» borbottò, alzandosi dal letto «ho fatto un sogno strano.»

«Sì, beh, me lo racconterai dopo» rispose Lee, sbrigativo «vieni, dobbiamo andare.»

«Andare dove?» chiese Dan, smarrito.

«Non qui.»

«Non capisco.» 

«Non devi capire» Lee era visibilmente preoccupato. «Andiamo, forza. Potrebbero piombare qui da un momento all’altro.»

Dan si mise il volto fra le mani. Era stordito, e si sentiva piuttosto stanco. 

«Va bene. Dammi un secondo, prendo le mie cose.»

«Tua madre ha già preparato tutto, non c’è bisogno.»

«No, non quelle cose» rispose Dan. Sollevò l’asse, prese la foto avvolta nel fazzoletto rosso e la nascose nella tasca della giacca marrone. «Ok, andiamo.»

Nel salotto c’erano entrambe le famiglie di Dan e Lee. I signori Harper si guardavano intorno con aria nervosa, mentre Lisa, la sorella minore di Lee, era avvinghiata alla gonna della madre.

Dan si avvicino a sua madre. «Mamma, cosa succ...»

La mano della signora Martin saettò nell’aria. Un rumore secco, e la guancia di Dan avvampò.

«Che cosa credevi di fare? Sei pazzo forse? Credi che sia un gioco? La gente sta morendo lì fuori!»

Dan non rispose. Teneva lo sguardo fisso sul pavimento, sforzandosi di trattenere le lacrime.

«Maledizione, Dan! Se tu non ti fossi messo in testa di fare il piccolo rivoluzionario...»

«Martha, per favore» disse il signor Harper, con fare conciliatorio. «sono sicuro che Dan non voleva fare niente di male.»

«Beh, ma l’ha fatto!» scattò la signora Martin, diventando rubizza «L’ha fatto! E ora siamo tutti in pericolo.»

«Lo saremmo stati comunque» ribatté il signor Harper. «Era solo questione di tempo prima che...»

«No» lo interruppe improvvisamente Dan. Il padre del suo amico si zittì. «No, Tomas. È inutile. Non capirebbero. Loro preferiscono bruciare e dimenticare tutto.»

Un silenzio di tomba cadde nella stanza. Le guance della signora Martin abbandonarono il rosso acceso, diventando di un pallore mortale.

«Sentite, non importa chi ha fatto cosa» disse la signora Harper «la rivolta verrà stroncata, questo lo sappiamo tutti, e allora i Pacificatori cominceranno a vendicarsi. Dobbiamo nascondere Dan, prima che lo trovino.»

«E dovete nascondervi anche voi» disse il signor Martin «se non lo trovano voi sarete i prossimi sulla lista.»

«Dobbiamo nasconderci tutti» concluse il signor Harper «finché le acque non si saranno calmate. Poi forse i Pacificatori si dimenticheranno di noi e ci lasceranno stare.»

«Bene, allora andiamo» disse Lee. Fece qualche passo, poi si bloccò. «Ma dove, esattamente?»

«Elias Dodge» disse il signor Harper. «È un mio amico, ed ha un fienile nella sua proprietà. Ci nasconderemo lì.»

«Muoviamoci, allora» sentenziò la signora Harper «ogni secondo potrebbe essere l’ultimo.»

 

«Signorina Clove? Venga con noi.»

Due uomini erano comparsi davanti alla porta della sua stanza. Indossavano un’armatura corazzata simile a quella della fanteria d’assalto, ma invece di essere bianca e smaltata era nera ed opaca. 

Clove non aveva mai visto corazze del genere, il che era strano, dato che nel Distretto Due venivano addestrate le forze di difesa di Panem.

Che siano una qualche forza speciale?

Decise di scoprirlo. «Non ho mai visto queste armature» disse ad uno dei due soldati.

«È roba nuova» rispose quello, un uomo alto e dalla pelle scura «noi siamo roba nuova.»

«I nuovi giocattoli di Rorke» rispose l’altro, altrettanto alto ma dalla pelle così chiara da sembrare trasparente. «Selezionati tra i migliori dell’Accademia.»

L’Accademia era la scuola del Distretto Due. Chi non veniva spedito nelle miniere era obbligato ad andarci; e a seconda del censo, l’Accademia faceva di te un Pacificatore, un soldato oppure un aspirante tributo.

«Immagino dobbiate essere parecchio bravi perché Rorke vi voglia» disse Clove.

«Perché tu lo sei, non è vero?» rispose il bianco, con un ghigno.

Clove lo guardò dritto negli occhi. «La migliore. Se vuoi ti faccio vedere.»

Il nero scoppiò a ridere. «Non preoccuparti, ragazzina, avrai tutto il tempo di mostrarci le tue qualità» disse, poi spalancò una porta.

La luce del sole fece lacrimare gli occhi di Clove. La ragazza si coprì il volto con una mano, ringhiando infastidita.

I due soldati la condussero su una piattaforma di atterraggio. Un hovercraft li attendeva, i motori già accesi pronti al decollo.

«Forza ragazza» disse il bianco «se tutto va bene, forse diventerai dei nostri.»

Clove percorse con passi rapidi la rampa dell’hovercraft, poi si girò e indirizzò al soldato pallido un sorriso diabolico.

«Mi sei simpatico. Ti ucciderò per ultimo.»

















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Quarto capitolo, un po' di intermezzo, ma (spero) comunque gradevole. Nel prossimo capitolo, botte da orbi! (tipo)
Alla prossima allora, e viva la revolusiòn!

 

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Capitolo 5
*** Il coltello dalla parte del manico ***






4. 
Il coltello dalla parte del manico

 

“Race, life’s a race
And I’m gonna win
Yes I’m gonna win

[...]

Yes I am prepared 
To stay alive 

I won’t forgive
Vengeance is mine 

And i won’t give in 
Because i choose to thrive 

I’m gonna win!”


-Muse, Survival

 

 

 




A parte il sordo ronzio dei motori e una lieve ma continua vibrazione, niente avrebbe dato a Clove l’impressione di essere in volo sopra il Distretto Due.
«Arriveremo tra cinque minuti» disse il Nero. Nessuno dei due soldati gli aveva detto il suo nome, così Clove aveva deciso di soprannominarli il Bianco e il Nero. «Ti abbiamo creato un’identità fittizia: da questo momento in poi, tu sei Sapphron Larrie. Dovrai infiltrarti tra le fila dei ribelli, entrare nella loro base e sottrarre qualunque cosa, digitale o cartacea, che attesti l’identità di Ianos. Una volta fatto, ti dirigerai al punto di raccolta, dove andremo a prenderti. Domande?»
«Sapphron Larrie?» disse Clove sollevando un sopracciglio. «Che razza di nome è Sapphron?»
«Ti piace? L’ho inventato io» disse il Bianco, piuttosto divertito. «Non so, sembrava proprio un nome da spia...»
«Un’idea geniale, mandarmi sotto copertura con un nome che mi fa sembrare una spia...»
Questa volta fu il turno del Nero di ridere. «La ragazza non ha tutti i torti...»
«Ah, vai al diavolo» latrò il Bianco «al mio posto te ne saresti uscito con un qualcosa come Mary Sue, non ho dubbi.»
Una spia rossa vicino al portellone iniziò a lampeggiare ossessivamente.
«Tempo di andare, ragazzina» disse il Nero.
«Chiamami ragazzina un’altra volta e ti taglio la gola.»
Il soldato sogghignò. «Per farti prelevare, basta che pronunci “scacco matto” il più chiaramente possibile. Torna vittoriosa, Clove...»
«... e che la fortuna sia sempre a tuo favore» si intromise il Bianco.
Il Nero lo squadrò seccato. «Devi dirlo ogni volta?»
«Ovviamente.»
«La prossima volta potrei decidere di spararti.»
«Puoi sempre provarci.»
I due continuarono a battibeccare, ma Clove smise di ascoltarli. La rampa dell’hovercraft si abbassò con un lamento meccanico, rivelando il tetto di un edificio scalcinato.
Sì girò verso i due soldati. «Dove sono le mie armi?»
«Armi?» fece il Bianco, con aria fintamente sorpresa.
«Coltelli. Da lancio, magari.»
«Certamente, miss» rispose il Bianco, con tono eccessivamente cerimonioso «abbiamo dei coltelli per la signorina? Da lancio, preferibilmente.»
«Piantala» lo rimbeccò il Nero, prima di rivolgersi a Clove. «Armi? Non ne hai bisogno. Sei tu l’arma.»
Clove aprì la bocca per ribattere, ma dopo qualche istante la richiuse. 
Se è una guerra che volete, è una guerra quella che perderete.
Sorrise fra se’. Volevano che giocasse al loro gioco. E lei l’avrebbe fatto, dannatamente bene.


L’avevano lasciata nella zona più povera del Distretto Due, dove ritenevano fosse più facile mettersi sulle tracce di Ianos e dei ribelli. Clove non era mai stata da quelle parti: la sua famiglia era una delle più ricche della città e non aveva avuto mai niente a che fare con simile feccia. 
La mia famiglia.
Il pensiero la colpì più forte del previsto. La sua famiglia. A questo non aveva pensato.
Sapevano di lei? Che non era morta? Che era lì, vicino a loro?
L’istinto le diceva di no. Rorke le era sembrato tutto tranne che un sentimentale: l’ultima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata avvertire i suoi genitori che era ancora viva. 
E sopratutto, quello per cui era messa alla prova, quel qualcosa - qualunque cosa fosse- che stava imbastendo il colonnello aveva tutta l’aria di essere un segreto.
Ma allora, perché Rorke non le aveva proibito di contattare i suoi parenti?
Una fitta di panico le morse le viscere.
La mia faccia...
Alla sua destra c’era un rigattiere, abbastanza facoltoso da avere una vetrina dietro la quale esporre la propria mercanzia. Clove si avvicinò al vetro, cercando di trattenere l’ansia.
Una ragazza dal viso affilato e lievemente lentigginoso ricambiò il suo sguardo sorpreso.
Era lei. I capelli erano sciolti invece di essere legati, ma il resto era come l’aveva sempre conosciuto.
Con un sospiro di sollievo che non riuscì a trattenere, si rese improvvisamente conto di tenere al proprio aspetto molto più di quanto avesse creduto.
Rinfrancata, riprese a camminare. Non fece però più di qualche metro prima che un nuovo dubbio si affacciasse nella sua mente.
Se Rorke non mi ha reso irriconoscibile, perché non ha paura che io vada dalla mia famiglia?
Forse contava sul fatto che lei si attenesse agli ordini. Forse faceva parte della prova. Se avesse ceduto e fosse andata a casa Rorke non l’avrebbe più considerata.
E allora?
Si fermò, colpita da quella nuova prospettiva. Dopotutto, perché doveva entrare a far parte del progetto del colonnello? Il suo obbiettivo, la sua unica missione, era uccidere Katniss Everdeen, ma lo stesso Rorke le aveva detto che non era possibile. Perché sprecare il suo tempo in quel modo?
Già, perchè?
Prima che potesse rendersene conto, i suoi passi presero l’inconfondibile direzione di casa.


Non era passato poi molto tempo da quando Clove aveva detto addio alla sua famiglia per andare alla ricerca della gloria. Eppure quando la ragazza vide spuntare l’inconfondibile profilo della sua casa da dietro i palazzi della zona ricca del Distretto le sembrò che fossero trascorsi secoli.
Si fermò, in preda ad uno sgradevole guazzabuglio di emozioni che le impedivano di pensare lucidamente.
Che cosa gli dico? Ma sopratutto, cosa diranno loro?
Per quanto si ritenesse una ragazza intelligente, Clove non aveva una risposta a quella domanda.
Vide gli occhi grigi di sua madre squadrarla dall’alto in basso, come aveva sempre fatto. Vide lo sguardo ardente di suo padre, le sue parole dure come l’acciaio.
Non hai vinto.
L’avrebbero scacciata? 
Con un’improvvisa lucidità che la lasciò quasi senza fiato, Clove realizzò che sarebbe stato molto probabile.
Nella loro famiglia non c’era spazio per i secondi arrivati. Non c’era mai stato. I suoi genitori non l’avevano mai picchiata, non le avevano mai gridato contro, non avevano mai mancato al loro dovere di genitori. Avevano nutrito lei, sua sorella, e suo fratello, li avevano fatti studiare all’Accademia, avevano gioito quando il loro primogenito si era offerto volontario ai giochi di cinque anni prima, avevano onorato la sua memoria quando era morto combattendo, circondato da cinque tributi e cercando di ricacciare il suo intestino nello spaventoso squarcio che una spada aveva aperto nella sua pancia. Avevano sempre fatto quello che c’era da fare, e tanto si aspettavano dalla loro progenie.
Clove, la figlia che era sempre stata prima in tutto, era viva. Ma la vita non era niente, se paragonata all’onta della sconfitta.
Eppure, c’era una parte di lei che rifiutava di arrendersi. Sua madre e suo padre erano duri, ma erano pur sempre i suoi genitori. Clove sapeva di cosa era capace un genitore, l’aveva visto più volte quando madri disperate avevano cercato di offrirsi volontarie al posto dei propri figli alla Mietitura, quando padri folli di rabbia avevano affrontato da soli un plotone intero di Pacificatori per strappare la propria prole ad una breve e tragica fine.
Che cosa avrebbero fatto, i suoi genitori? 
Avrebbe vinto la compassione o il dovere?
Clove non aveva risposte. Sì sentì stupida. Spaesata. Arrabbiata.
Che si fottano. Io sono viva, che gli vada bene o no.
Prese un respiro profondo, e riprese la sua marcia, i pugni serrati, dritta verso il suo destino.


La porta intagliata di legno bianco le sembrava incredibilmente enorme. Il suono del campanello le parve più forte di un centinaio di campane.
Calmati, maledizione. 
Rimase immobile, dritta come un fuso, la mascella serrata, per quelle che parvero ore. Poi udì dei passi, e la porta si aprì.
Una donna alta e maestosa, avvolta in un vestito verde talmente scuro da sembrare nero, la guardò distrattamente. «È questa l’ora per le consegne? Invierò un reclamo al...» disse, ma le parole le morirono in gola quando riconobbe chi le stava, davanti.
«Salve madre.»
La donna non rispose. Il suo volto rimase impossibile, mentre dietro le sue iridi grigie imperscrutabili spettri di emozioni passavano rapidi come nuvole solitarie un pomeriggio estivo.
Per un istante, rapido come un lampo, la figura statuaria della madre di Clove parve sfaldarsi in preda ad un tremito incontrollabile. 
Un fiotto di gioia sgorgò spontaneo nel cuore di Clove. Una gioia diversa dall’ebbrezza dello scontro, dall’esaltante sapore del sangue. Era una gioia morbida e pacata, meno intensa ma più forte. Una gioia che non aveva mai provato prima.
Per un breve, effimero attimo, la ragazza dei coltelli e la donna dagli occhi di granito si spogliarono delle loro maschere e si guardarono per quello che erano. Una madre e una figlia.
Poi la luce del lampo si spense e l’attimo finì. 
E la madre di Clove parlò.
«Tu sei morta.»
Non era incredulità. Era un dato di fatto. Clove era viva e vegeta, ma per la sua famiglia non era altro che un pezzo di carne fredda e morta. Una figlia che non aveva mantenuto fede alla sua promessa. Suo fratello non aveva vinto, ma era morto con onore. Lei non aveva fatto nessuna delle due cose.
Non ci fu bisogno di dire altro. Clove girò le spalle a sua madre, alla sua casa, alla sua famiglia, e se ne andò. 
La donna osservò la ragazza sparire dietro l’angolo della via, poi chiuse diligentemente la porta.
«Chi era, madre?»
Una bambina dai capelli neri e con il viso coperto dalle stesse lentiggini della sorella fece qualche passo in avanti, le mani intrecciate dietro la schiena, il mento in alto e il portamento fiero, come le era stato insegnato.
La donna dagli occhi di pietra guardò la sua terzogenita. La sua ultima speranza. La sua unica figlia.
«Nessuno, mia cara. Nessuno.»


Rabbia.
Potente, inesorabile, inarrestabile. Violenta e inebriante, sublime e maestosa. Le scorreva potente nelle vene, nel cuore, nel cervello, nelle dita e nelle gambe.
Lo sapeva. Lo aveva sempre saputo. Non c’era spazio per i perdenti nella sua famiglia. Perché quello era. Una perdente. Sconfitta da un pezzente di un Distretto miserabile.
Sua madre aveva fatto bene a scacciarla. Non si meritava la sua stima. Non più. 
Ma non era finita. Le era stata data una seconda opportunità. Una nuova missione. Per riscattarsi dalla vergogna della sconfitta, e tornare ad essere quello che era sempre stata. La migliore.
E questa volta non avrebbe fallito.


Il mercato del Distretto Due era sempre stato un luogo chiassoso: un posto dove gli strati più bassi della società potevano condividere le proprie frustrazioni e i propri stenti. Se c’era un posto dove cominciare a raccogliere informazioni, non poteva che essere quello.
Clove girava fra i banchi di paccottiglia, rottami e cibo scadente, i sensi all’erta, pronti a cogliere qualsiasi brandello di frase sospetta. I discorsi, però, sembravano essere sempre gli stessi.
Fame, sete, figli, mariti... questi pezzenti sono incredibilmente noiosi.
Le facevano quasi pena, per quanto erano luridi e scavati dalla fame. Quasi.
Girò per oltre un’ora. Cominciò ad avvertire i morsi della fame e le fitte della stanchezza. Stava per meditare di andare a riposarsi da qualche parte e riprendere le ricerche dopo, quando l’occhio le cadde su un ragazzo alto e moro. Non fu tanto l’aspetto del giovane, banalmente nella norma, ad attrarla; quanto il suo ridicolo tentativo di apparire tranquillo e disinteressato, e, sopratutto, il pugnale malamente nascosto sotto la giacca.
Chi diavolo sei?
Fece finta di esaminare una bancarella, osservando con la coda dell’occhio il giovane. Il ragazzo fece qualche passo in avanti, poi tornò indietro, poi si girò un’altra volta e si diresse fuori dal mercato, verso un vicoletto buio incassato tra due vecchi palazzi.
Tenendosi a debita distanza, Clove seguì il ragazzo nel vicolo. La puzza e il buio erano quasi opprimenti, ma il giovane parve non curarsene più di tanto. Percorse a passo sicuro il selciato sconnesso e scomparve dietro l’angolo.
Clove si affrettò a raggiungerlo. Ma quando svoltò nella diramazione del vicolo, il suo obiettivo era sparito.
Merda.
Avanzò di qualche passo. La stradina di divideva in altri tre vicoli laterali. Impossibile sapere dove fosse andato il ragazzo.
Maledizione!
Trattenne un ringhio di frustrazione. Si guardò intorno nervosa, ma non c’era alcun indizio che le potesse rivelare la direzione del giovane.
Poi qualcuno gridò.
Poteva essere stato chiunque, ma Clove non aveva alternative. Decise di gettare la prudenza alle ortiche, e imboccò di corsa la prima diramazione alla sua destra.
Corse per qualche minuto, con gli stivali che schiaffeggiavano il terreno bagnato con un rumore viscido. Per un istante temette di essersi persa, quando un nuovo grido, più acuto e più vicino, le diede la certezza di essere sulla strada giusta.
Il ragazzo era a terra, il naso rotto e sanguinante. Tre uomini lo sovrastavano; uno di loro stringeva nella mano il pugnale del giovane.
«Che cosa credevi di fare, eh? Credevi di andare in giro a fare domande come se niente fosse? Volevi fotterci, lurido stronzo, ecco che cosa volevi fare. Oh sì. Ma noi non siamo mica stupidi. Puzzi di governativo da lontano un miglio. Cosa ti hanno proposto, una medaglia di bronzo in cambio della testa di Ianos?»
Il cuore di Clove ebbe un sussulto.
Ecco quello che si chiama un magnifico colpo di fortuna.
Doveva approfittare di quella situazione. Si fece avanti, cercando di essere la più spavalda possibile.
Non che mi venga difficile.
«Serve una mano?»
L’uomo con il coltello la squadrò attentamente. «E tu chi saresti?»
«Mi chiamo Sapphron, e sto cercando Ianos.»
«Attenta a quello che cerchi, ragazzina. Potresti farti male.»
Clove represse a fatica l’istinto di scuoiare vivo quell’irritante pallone gonfiato. «Mettetemi alla prova, se volete.»
Il losco figuro alla destra dell’uomo con il coltello sorrise sinistramente. «La ragazza non ha tutti i torti. Mettiamola alla prova.»
Il terzo tipo diede un calcio al ragazzo prostrato a terra. «Già, facciamole ammazzare questo povero idiota.»
L’uomo con il coltello parve pensarci su per qualche istante, poi prese l’arma dalla parte della lama la offrì a Clove. 
La ragazza strinse la presa sul manico. Le dita accarezzarono la pelle morbida dell’impugnatura, e una scarica di adrenalina partì dal braccio, attraversò la spina dorsale e le esplose nel cervello.
«Fai in fretta» disse l’uomo.
Oh, non immagini quanto.
Clove fu di parola. La lama sibilò dolcemente nell’aria, squarciando la gola del losco figuro con imbarazzante facilità. Prima che quest’ultimo potesse rendersi conto di stare per morire, il coltello affondava nel cuore dell’uomo che fino a pochi secondi prima lo aveva stretto in mano.
L’ultimo rimasto, quello che aveva preso a calci il ragazzo, indietreggiò con la bocca spalancata in un muto urlo di sgomento.
«Tu... tu...» balbettò, il volto pallido come un cadavere.
Con gli occhi fissi sulla sua nuova preda, Clove sfilò il coltello dalla cassa toracica della sua ultima vittima, e con un tocco leggero delle dita lo fece cadere a terra come un sacco di carne e ossa.
Il sopravvissuto parve riprendere un po’ di forze, e con un gemito rauco si diede alla fuga.
Clove gli concesse il lusso di fare qualche metro prima di lanciare il coltello dritto sul suo polpaccio destro.
Con un grido di dolore e un’imprecazione, l’uomo cadde rovinosamente a terra.
Lentamente, molto lentamente, Clove si avvicinò al ferito.
«Adesso fai il bravo e mi dici tutto di Ianos» sibilò con voce suadente, estraendogli il coltello dalla gamba.
«Io... io... non...»
«Risposta sbagliata.»
La lama lorda di sangue si sollevò in aria. 
«N-no, ti preg...»
Il resto della frase fu soffocato da uno strillo acuto e penetrante, un urlo primordiale e animalesco.
«Ecco qua» fece Clove con un sorriso, gettando per terra una striscia di pelle sanguinante. «E siamo solo all’inizio. Aspetta che cominci a scavare a fondo: lì ci sarà da divertirsi.»
«Ianos! Ianos!» esclamò l’uomo fra i singulti, roteando gli occhi come un pazzo.
«Ah, cominciamo a ragionare» fece Clove, allegra «Dove posso trovarlo?»
«Io non... non...»
Clove sbuffò, sollevando il coltello.
«No! Aspetta! La cas... la casa di Pavlov...»
«La casa di Pavlov cosa?»
«Lì... sanno...»
«Non mi stai prendendo in giro, vero? Non mi piace quando mi prendono in giro. Divento piuttosto... violenta
«I-io... no, ti prego... no... te lo... giuro...»
«Va bene. Mi fido di te.»
«G-grazie.»
«Non c’è di che.»
Il sollievo si dipinse sul volto dell’uomo. Poi l’acciaio affondò nella sua trachea, e il sollievo divenne pace.
La ragazza pulì il coltello sui pantaloni del morto, e con un sospiro soddisfatto lo infilò nella cintura.
Il giovane era ancora a terra. Aveva assistito alla rapida e sanguinosa scena lottando fra il terrore e l’ammirazione per quella ragazza così brava ad uccidere.
«Tu. Conosci la casa di Pavlov?» sentenziò Clove, piantandosi a gambe larghe davanti a lui.
«Io... sì. Pavlov è un minatore, abbastanza conosciuto fra la gente dei quartieri poveri.»
«Bene. Mi porterai da lui, e se tutto va bene non ti squarterò come un vitello.»
Lo sguardo del ragazzo saettò da un cadavere all’altro degli uomini che fino a qualche minuto prima lo avevano in pugno. «Immagino di doverti ringraziare.»
«Immagini male. Non avrei esitato un secondo a spellarti vivo; semplicemente, eri più utile di questi sprechi di carne.»
«È un piacere contribuire al bene comune.» Il ragazzo tese la mano. «Elias Donnel.»
Clove guardò la mano tesa del ragazzo come fosse incredibilmente disgustosa. «Non farmi cambiare idea, Elias.»
«Giusto. Scusa» balbettò il ragazzo. «Allora, andiamo. Ci vorrà un po’ per arrivare alla casa di Pavlov. Se scannare questi poveri disgraziati ti ha stancato, conosco un bar niente male in cui potremmo...»
«Elias?»
«Sì?»
«Mi servi vivo, non tutto intero.»
Il ragazzo deglutì. «Ricevuto.» Fece qualche passo in avanti, poi si bloccò. «Ultima domanda: sei sempre così o stamattina ti sei svegliata male?»
Clove sollevò un angolo della bocca, nella sua caratteristica smorfia che era più un ghigno che un sorriso. «Oh no. Oggi sono di buon umore.»
















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: E vai di quinto capitolo (che in teoria sarebbe il quarto, i prologhi sballano sempre tutti i conti). Clove finalmente ha fatto fede alla sua reputazione, con mia (e spero anche vostra) somma gioia. Dan è stato messo un attimo da parte, ma tornerà il prima possibile.
Ah, per il caro Elias mi serviva un tipo grosso e imbranato a cui ispirarmi, e ho scelto quello che conosco meglio: me stesso. Cioè, ispirato fino ad un certo punto: al posto suo avrei avuto i traumi a vita.
Vabbè insomma: sperando che tutto ciò vi piaccia, inchini e ringraziamenti e alla prossima puntata!

 

 

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Capitolo 6
*** Scacco matto ***


5.
Scacco matto
 
“I am not a pattern to be followed
The pill that I'm on is a tough one to swallow
I'm not a criminal, not a role model
Not a born leader, I'm a tough act to follow

I am not the fortune and the fame
Nor the same person telling you to forfeit the game
I came in the ring like a dog on a chain
And I found out the underbelly's sicker than it seems”

- When They Come For Me, Linkin Park



«Ma lo sai che mi ricordi qualcuno?»
«Dovrebbe importarmi?»
«Ti ho già visto da qualche parte, ne sono certo. Ma non ricordo dove...»
«Che cosa avevamo detto sulla tua lingua, Elias?»
«...che se non la tengo a freno me la tagli.»
«Esattamente.»
«Scusa.»
«Le tue scuse te le puoi anche tenere, basta che stai zitto.»
Erano nel cuore del quartiere povero, là dove le abitazioni sorgono alle pendici dell’enorme montagna che domina su tutto il Distretto. Clove stentava a credere che ci fossero posti più desolanti di quello. Doveva viveva la gente nei Distretti poveri?
In case di paglia e sterco, probabilmente.
Tutto quanto, dalle finestre alle cartacce al ciglio della strada, sembrava essere messo lì apposta per fornire un corrispettivo visivo della parola “squallore”. Persino le persone sembravano appartenere ad una strana sottorazza del genere umano. E ogni cosa era impregnata di un odore subdolo e appiccicoso, poco intenso ma molto ostinato.
Mi ci vorrà almeno un’ora sotto la doccia per togliermi tutto questo schifo di dosso.
Elias, invece, sembrava completamente a suo agio. Dopo averci pensato un po’ su, Clove era arrivata alla conclusione che o fingeva o era completamente rincretinito.
«In fondo alla via, poi a destra e ci siamo» disse il ragazzo, sottolineando le sue parole con un gesto  deciso del braccio.
«Ottimo.» Clove indugiò qualche istante. «Come mai conosci il quartiere povero? Non sembri un minatore.»
Le pupille di Elias si dilatarono per la sorpresa. L’ultima cosa che si aspettava era che quella ragazza tanto minuta quanto pericolosa volesse attaccar bottone. Sì schiarì la gola, preso in contropiede. «Non lo sono. Almeno, non del tutto. Mia madre è una minatrice, ma mio padre è il capo della sicurezza al Sottolivello Tredici. Per gli standard della zona è ricco sfondato. Il che gli ha permesso, risparmiando da quando sono nato, di potermi mandare alla scuola ufficiali dell’Accademia.»
«Tu? Alla scuola ufficiali?»
«Eh già» fece Elias, con orgoglio a stento trattenuto. «Sono uno dei pochi di questo posto ad esserci andato. La maggior parte di chi si può permettere l’Accademia preferisce restare all’ombra della montagna.»

E per quale motivo, Clove lo sapeva bene. Per legge l’Accademia era tenuta ad accettare chiunque facesse domanda: anche il più umile straccione poteva essere ammesso, se aveva i requisiti fisici a posto. Certo, poi non poteva aspirare a diventare un generale di divisione o un aspirante Tributo, ma avrebbe comunque ottenuto un posto come soldato semplice o spedito negli ultimi Distretti come Pacificatore. Qui, però, finiva la teoria. L’Accademia era un’istituzione dello stato, ma più della metà dei suoi introiti venivano dalle donazioni delle famiglie più influenti del Distretto, ognuna decisa a fare dei propri figli i migliori di tutta Panem. E le famiglie non tolleravano che un giovane imberbe figlio di nessuno potesse minacciare il posto che spettava loro di diritto.
«E da quanto tempo sei nell’Accademia?»
«Due anni.»
Clove dovette fare uno sforzo per controllare lo stupore. 
Due anni?
Sapeva come funzionava dentro l’Accademia: le reclute della zona povera erano considerati alla stregua di paria, e sottoposti ad una violenza fisica e psicologia costante e spietata. Che lei sapesse, nessuno superava la prima settimana.
Quasi nessuno.
Elias era nell’Accademia da due anni: due anni di isolamento, ingiurie, discriminazione e umiliazione.
Sì, è completamente rincretinito.
«I miei coetanei si accontentano di sopravvivere. Io voglio vivere, e servire il mio paese.»
«Buona fortuna, soldatino.»
«Ad un buon soldato non serve la fortuna.»
«Beh, la fortuna ha impedito a tre straccioni di farti la pelle, giù al mercato.»
«Non è stata fortuna. Sei stata tu.»
Fu una fortuna che fossero arrivati a destinazione proprio in quel momento, perché Clove non avrebbe saputo come rispondere. E a lei non piaceva restare senza parole.
La casa di Pavlov era perfettamente in tema con il resto del luogo: cadente, scalcinata e decisamente repellente. Non c’erano uomini di guardia, ne’ alcun tipo di controllo. Era una casa come tante: se non avesse avuto Elias a farle da guida, Clove non l’avrebbe mai trovata.
«Ok, eccoci qui.» Elias abbassò il tono della voce, mentre continuava a camminare. «Hai un piano?»
«Pensavo di farmi strada sparando.»
«Un momento, cosa? Hai una pistola?»
«No, idiota. Stavo scherzando.»
«Sarai pure brava col coltello, ma in quanto a battute siamo decisamente a livello amatoriale.»
«Sai quanto ci mette un giovane adolescente a morire dissanguato? Un sacco di tempo.»
«È un modo elegante di dirmi di stare zitto?»
«Non so, funziona?»
«Direi di sì.»
«Magnifico.»

La casa di Pavlov era vuota. Il suo occupante probabilmente era al lavoro in miniera, a quell’ora. 
Clove cominciò a setacciare le tre stanze che componevano l’abitazione, in cerca del minimo indizio che potesse essere utile alla missione. Elias vagabondava per la casa, soffermandosi di tanto in tanto ad osservare qualche oggetto particolare. 
«Non ci credo» esclamò, prendendo il manico di una caffettiera tra il pollice e il medio e sollevando l’oggetto con cura. «Questo è un pezzo da museo. Hanno smesso di farle prima che io nascessi... incredibile
«Ti sarei grato se mi dessi una mano» sbottò Clove, mentre stracciava con il coltello il materasso lurido in camera da letto.
«Eh? Oh sì, certo.» Elias si avvicinò ad un armadietto, e cominciò ad armeggiare con i cassetti. «Non credo che troveremo qualcosa, comunque.»
Clove si bloccò, e girando lentamente la testa fissò il ragazzo con aria omicida. «Se per caso mi hai nascosto qualcosa che avrebbe potuto farci risparmiare tempo...»
«Ehi no, no di certo» balbettò Elias, spaventato dallo sguardo inquietante della ragazza. «La mia era solo una supposizione. Voglio dire, se Pavlov fa parte dei cospiratori, non nasconderebbe certo informazioni sensibili in casa sua, no?»
«Non avrei saputo dirlo meglio, figliolo.»
Elias saltò in aria dallo spavento, mentre Clove si girò di scatto verso la porta, il coltello in mano, pronta allo scontro.
Un uomo anziano, con una folta barba sale e pepe e la testa quasi completamente calva, entrò nell’abitazione con passo lento e ponderato.
«Gradirei sapere che cosa ci fate in casa mia, e perché vi siete accaniti contro il mio povero letto.»
Elias deglutì, il volto pallido di chi è stato colto con le mani nella marmellata e non ha la minima idea di come trarsi d’impaccio.
Clove decise di giocare il tutto per tutto. «Sappiamo di Ianos, Pavlov. Ormai è finita. Vieni con noi, e forse avrai una speranza.»
«Ianos? E cosa sarebbe?» ribatté il vecchio, completamente a suo agio.
«Non fare l’idiota, Pavlov» ringhiò Clove, cercando di essere più convincente possibile «Sei bravo, per questo sei uno dei migliori. Ma ormai il vostro gioco è stato svelato. In questo momento, tutti i partecipanti al colpo di stato di lunedì prossimo stanno venendo arrestati. Noi siamo venuti per te. Quindi seguici subito, o dovrò farti del male.»
Pavlov non rispose. Fece qualche passo, trasse a se’ un vecchio sgabello e ci si abbandono sopra con un gemito di soddisfazione. Poi prese dalla tasca dei pantaloni una pipa e cominciò a caricarla.
«Niente male, ragazza. Un po’ grossolano, forse, ma come tentativo non è male. Più che altro, dovresti spiegarmi perché per un temibile terrorista quale io dovrei essere il Presidente si è disturbato a mandare niente meno che due ragazzetti alle prime armi.»
Clove avvampò dall’ira.
Ti faccio vedere io chi è alle prime armi, vecchio bastardo.
Strinse forte il coltello, ma si impose di non fare gesti avventati. Pavlov le serviva. Non sapeva come ne’ perché, ma sentiva che l’uomo che aveva minacciato di sbucciare come una patata non le aveva mentito. La casa di Pavlov, aveva detto. E la casa di Pavlov avrebbe dato loro le risposte.
Rimase qualche istante in silenzio, poi decise di tentare per un’altra strada. «Tu recluti i ribelli, non è così? Hai avuto un addestramento militare, anche se cerchi di dissimularlo vivendo nel degrado più assoluto. Ma prima di mettere a soqquadro la tua camera da letto, ho visto i tuoi umili stracci piegati alla perfezione. Dev’essere l’unico lusso che ti concedi, per mantenere la copertura.»
Per un istante infinitesimo, gli occhi dell’uomo lampeggiarono. Era stato un attimo estremamente breve, ma aveva aperto una minuscola breccia nelle sue difese. Occorreva insinuarsi in quell’apertura e continuare ad allargarla, senza perdere tempo.
«Hai deciso di voltare le spalle al tuo paese, Pavlov, ma non ti biasimo per questo. Ognuno fa quello per cui crede di essere nato: probabilmente, tu sei nato per fare il traditore. Ma se due ragazzetti alle prime armi sono arrivati a casa tua e ti hanno incastrato, forse non sei più tagliato per questo lavoro. Forse, per il bene della ribellione, è meglio che ti consegni a noi, così che qualcuno di più bravo possa prendere il tuo posto.»
Pavlov sbuffò divertito. «Sei una ragazza niente male, questo te lo concedo. Ma io non ho niente da nascondere. Stai sbagliando persona.»
«Ne ho abbastanza» ringhiò Clove. In un istante fu davanti a lui, lo afferrò per la camicia di tela e lo tirò in piedi. La pipa che l’uomo aveva in mano cade, spezzandosi in due. 
Il vecchio non era molto più alto di lei, fortunatamente. Clove si portò alle sue spalle e lo punzecchiò con il freddo acciaio. «Adesso tu vieni con noi, altrimenti ti infilerò questa lama tra le vertebre, uno spazio per volta, finché non muori. E sono piuttosto brava a tenere in vita le persone fin tanto che mi sono utili. Adesso usciamo, forza.»
Pavlov non rispose. Elias era rimasto nella stessa, identica posizione da quando il vecchio era entrato in casa. «Elias, maledizione!» sbraitò Clove «vieni con me, mi serve una mano.»
Il ragazzo parve riscuotersi dall’apatia che lo aveva avvolto fin ora. «Sì, certo. Andiamo.»
Fuori dalla casa, tre uomini erano in attesa. Pavlov non era venuto solo, come Clove temeva.
«Ehi Pavlov, tutto bene?» chiese uno dei tre, mentre gli altri due si avvicinavano, sospetti.
La lama del coltello penetrò nella carne di Pavlov quanto bastava per ricordargli di comportarsi bene. «Tutto a posto, ragazzi. Vado a fare un giro con loro due. Non aspettatemi alzati.»
«Va bene, Pavlov. Stammi bene, eh.»
I tre uomini continuarono a fissarli fin quando non furono spariti dietro l’angolo. Solo in quel momento Clove si permise il lusso di respirare.
«Sei stato bravo. Mantieni la calma e tra poco sarà tutto finito.»
Fortunatamente, il punto di estrazione era nelle vicinanze: una vecchia e traballante torre delle comunicazioni, risalente probabilmente al tempo della ribellione dei Distretti.
«Che cosa hai intenzione di fare?» disse Pavlov, interrompendo il lungo silenzio che si era creato.
«Lo vedrai» fu la stringata risposta di Clove.
Elias lanciò un’occhiata nervosa alle sue spalle. «Credo ci stiano seguendo.»
«Lo immaginavo.»
«Non so cosa tu abbia in mente, ragazzina, ma non credo andrà a finire bene. Sono un uomo benvoluto nella mia comunità, e ai miei amici non piace che mi si faccia del male.»
«I tuoi amici sono l’ultimo problema in questo momento.»
«Saresti già morta se lo avessi voluto. Ma non credo che tu sia minacciosa; soltanto confusa.»
«L’unico confuso qui mi sembri tu, vecchio.»
«Chi ti ha mandato a prendermi non è quello che tu credi che sia. Non è l’unica speranza di pace. Non è l’alternativa alla dannazione.»
«Sembra proprio il discorso di un rivoluzionario.»
«Io sono soltanto un povero vecchio. Ma tu, ragazza mia, tu puoi fare la differenza.»
«Non ho alcun interesse a fare la differenza. L’unica cosa che mi interessa è vincere.»
«E quale vittoria migliore, se non la libertà?»
«Chiudi la bocca, o potrei decidere che saresti più carino senza qualche dito.»
La salita sulla torre fu una faticaccia. L’edificio era sul punto di crollare: la presenza di un’ascensore sarebbe stata un vero e proprio miracolo. Furono venti piani di scalini, con la punta d’acciaio del pugnale sempre appoggiata sulla schiena del vecchio. Quando infine sbucarono sul tetto, fu un sollievo per tutti e tre.
«Bene, ci siamo» disse Elias, ansimando «e ora che si fa?»
Clove osservò le case della zona povera perdersi in lontananza, fino a trasformarsi negli alti edifici di pietra del quartiere alto, sulla linea dell’orizzonte.
«Scacco matto» disse, il più chiaramente possibile.
«...scacco matto?» fece Elias, smarrito. «Cos’è, una specie di formula magica? Oltre ad affettare la gente sai anche fare le magie?»
«Elias?»
«Sì?»
«Stai zitto.»
«Come sempre, mia cara.»
Per qualche minuto nulla parve muoversi. Poi un puntino comparve nel cielo limpido, facendosi sempre più grosso. Con il gemito caratteristico delle eliche e sollevando un gran vento, un hovercraft atterrò sul tetto dell’edificio. Il portellone si aprì con un ronzio, mentre il Bianco e il Nero scendevano con passo lento e sicuro, il fucile imbracciato. 
Il soldato dalla pelle scura lanciò un’occhiata al vecchio. «Ebbene?»
«Lui è Pavlov, vi darà quello che cercate» disse Clove decisa.
«Lo spero per te, ragazzina» disse il Bianco. «E lui chi è?»
«Elias Donnel. È con me.»
Il Nero squadrò il ragazzo per qualche istante, poi digitò qualcosa sullo schermo palmare che aveva fissato sull’avambraccio. «Cadetto Elias Donnel?»
Il ragazzo si mise sull’attenti. «Signorsì, signore.»
«È stato merito tuo la cattura del soggetto Pavlov?»
«No, signore. È stata lei. Mi ha anche salvato, signore, da tre brutti ceffi da cui cercavo di ottenere indizi su Ianos.»
«Quindi è merito della signorina Clove se la missione è stata portata a compimento.»
A sentire quel nome, la bocca del ragazzo si spalancò dallo stupore. 
«Clove...? Ma come...?» balbettò, rivolto verso la giovane fanciulla così brava a maneggiare i coltelli. «No. Non ci credo! Io ti ho visto morire... in televisione...» Più che stupefatto, sembrava meravigliato. L'espressione del suo volto era così buffa che Clove si dovette trattenere dal sorridere.
Il Nero interruppe i borbottii del ragazzo. «La morte non è cosa che possa ostacolare il colonnello Rorke, cadetto Donnell», disse.
Poi sollevò il fucile e gli sparò in testa.
Il ragazzo non ebbe nemmeno il tempo di accorgersene. Morì in un attimo, con l’espressione di stupore e meraviglia ancora dipinta sul volto. Clove vide il suo corpo ormai privo di vita cadere a terra, mentre lo scoppio dello sparo le aggrediva i timpani. 
E in un attimo era tutto finito.
«Forza, muoviamoci» fece il Nero, mentre il Bianco afferrava Pavlov con scarsa cortesia e lo trascinava dentro l’hovercraft. Clove rimase immobile, ad osservare il sangue scuro di Elias bagnare il tetto della torre. La vista del sangue l’aveva sempre esaltata; osservare la vita fuggire via da un essere vivente le aveva sempre procurato un brivido.
Ma in quel momento, Clove non sentiva niente.
La mano guantata del Nero si appoggiò pesantemente sulla sua spalla. «Dobbiamo andare. Rorke ti aspetta.»
«Certo» rispose lei, meccanicamente. Voltò le spalle al cadavere di Elias, risalì la rampa e si lasciò andare su uno dei seggiolini dell’hovercraft. 
Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.
Era la massima di suo padre. Era una delle prime cose ad aver imparato a memoria: prima dell’inno di Panem, prima dell’alfabeto. Prima di tutto.
Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.
Lei voleva vincere. Il resto era secondario.
Quando il portellone si chiuse e l’hovercraft prese il volo, Clove era di nuovo serena.

E in fondo alla sua anima un nuovo demone traeva i suoi primi respiri di vita.






L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: in quanto mio alter ego, era destino che Elias facesse una finaccia. Ho sempre pensato che se finissi per andare in guerra sarei uno di quei poveri sfigati che muoiono prima ancora che inizi l'assalto vero e proprio, colpiti da un proiettile di artiglieria lanciato a caso nelle retrovie. In ogni caso, l'ho tolto di mezzo il prima possibile, o avrei finito per affezionarmici (con una o due zeta? Il dubbio mi attanaglia). 
In ogni caso, confido che anche questo capitolo funzioni: se notate distrazioni o porcherie, fatemelo sapere e sistemerò tutto il prima possibile.

E niente, tanti cari saluti e a presto!

 

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Capitolo 7
*** Uno sguardo nell'abisso ***


6.

Uno sguardo nell’abisso

 

 

“L'albero della libertà
 deve essere rinvigorito di tanto in tanto 
con il sangue dei patrioti e dei tiranni.”

-Thomas Jefferson

 

 

Dan si svegliò con la schiena rigida come una trave di legno. Pensava ci avrebbe fatto l’abitudine, ma il suo corpo tardava a concepire l’idea di dormire per terra. Avrebbe potuto farlo sui cumuli di fieno come facevano i suoi genitori e gli Harper: ci aveva provato, ma non era riuscito a chiudere occhio, sentendosi continuamente pizzicato da tutti quegli steli giallastri. Perciò aveva preferito adagiarsi sulla dura terra, con il solo conforto di una vecchia coperta.

Dodge avrebbe potuto anche darci dei materassi, accidenti a lui.

Si sentì in colpa per quel pensiero malevolo. Il signor Dodge e la sua famiglia rischiavano molto a dare rifugio a dei ricercati: l’importante era essere al sicuro, la comodità era un’opzione.

Si stiracchiò, poi ruotò le spalle e il collo, cercando di riattivare i muscoli bloccati. Le ossa scrocchiarono sommessamente, strappandogli un grugnito di soddisfazione. Si avvicinò ad una piccola finestra tonda e sporca, l’unica del fienile, per la classica occhiata mattutina. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, ma la tenuta del signor Dodge era relativamente isolata e raramente passava qualcuno da quelle parti.

Il sole era appena spuntato, illuminando la facciata di legno dipinto di casa Dodge. Alle spalle di essa, le fronde degli alberi si ergevano silenti. Un boschetto circondava la tenuta dell’amico del signor Harper: in caso fossero stati scoperti, Dan e gli altri potevano darsi alla macchia sparendo nella vegetazione.

È decisamente un buon posto dove nascondersi.

«Ben svegliato. Dormito bene?» Alle sue spalle, Lee si stropicciava gli occhi, sbadigliando rumorosamente.

«Per niente. Prima o poi mi abituerò a dormire per terra.»

«Sei un vero damerino, Dan. Ma non preoccuparti: torneremo a casa prima che tu abbia il tempo di riuscire a trovare comodo il pavimento.»

Dan annuì distrattamente. Come previsto, la rivolta nel Distretto Dieci era stata stroncata in modo rapido e brutale: Capitol City aveva mandato un intero reggimento di Pacificatori, e in mezza giornata la questione era stata risolta. Come punizione per la rappresaglia, più di trecento persone erano state giustiziate. Così l’ordine era tornato nel Distretto, e la vita era ricominciata, come se nulla fosse successo.

Fino a qualche anno prima, non gliene sarebbe potuto importare di meno di lotte e rivolte. Viveva la vita all’insegna della leggerezza, cercando di godere quanto più possibile quel poco di tempo che il lavoro di mandriano gli lasciava. Voleva soltanto essere lasciato in pace: gli Hunger Games erano soltanto un’annuale seccatura, niente di più.

Poi Rose era stata scelta alla Mietitura, e tutto era cambiato. Vedere sua sorella morire in diretta nazionale aveva scosso qualcosa dentro di lui: un seme silenzioso e tenace era stato piantato nel suo inconscio. Un seme che improvvisamente era sbucato fuori dal terreno, il giorno del Tour della Vittoria, quando la sua mano sinistra si era stagliata contro il cielo mattutino. Che cosa sarebbe diventato, neanche Dan lo sapeva, ma questo non gli impediva di essere costantemente preda di una strano ed instancabile tormento. Voleva fare qualcosa, ma non sapeva cosa, e sopratutto come farlo.

Non era soltanto il duro pavimento a farlo restare sveglio la notte. Dan si sentiva inutile, rinchiuso in quel fienile; ma la cosa peggiore era che anche se fosse stato a casa non sarebbe poi cambiato molto. Era un umile mandriano, povero e poco istruito: il suo unico destino era quello di controllare il bestiame, finché avesse avuto la forza di restare in sella.

Il cigolio di cardini arrugginiti lo distrasse dai suoi pensieri: il signor Dodge era venuto per la visita giornaliera, per consegnare provviste e notizie.

Scese al piano inferiore: tutti erano svegli, e riuniti intorno al mandriano di mezza età. Erano affamati di cibo tanto quanto di novità.

«Ho buone nuove, forse» disse il signor Dodge, consegnando un paio di bottiglie di latte e qualche forma di pane alla signora Harper. «La Mietitura si è appena conclusa; i Settantacinquesimi Hunger Games inizieranno tra breve.»

«E perché dovrebbe interessarci?» chiese Lee, perplesso. 

«Perché niente attira l’attenzione della capitale come gli Hunger Games, figliolo. Presto il controllo dei Pacificatori si allenterà, qui nel Distretto, e potrete tornare a casa.»

«Davvero?» chiese la piccola Lisa, spalancando gli occhi. «Potrò tornare a casa, signor Dodge?»

L’uomo si inginocchiò, sorridendo alla bambina e carezzandole una guancia. «Ma certo, cara. Tornerete tutti a casa, promesso. Ora scusatemi, ma devo andare. Ci vediamo domani.»

 

Ma i giorni divennero settimane, e la possibilità di tornare a casa si fece sempre più remota. Il signor Dodge si faceva ogni giorno più taciturno, arrivando addirittura a lasciare il cibo sulla soglia del fienile, pur di non dover rispondere alle domande delle persone che nascondeva.

Da qualche periodo, Dan non riusciva più a dormire. Era perseguitato da un instancabile imperativo categorico, imperscrutabile ma inamovibile, che gli toglieva il sonno e la tranquillità e lo metteva di fronte ad una realtà ineluttabile: restare nel fienile non era più un buon piano. Dovevano andare via, il prima possibile.

Sua madre non avrebbe mai accettato di abbandonare il fienile: doveva discuterne con suo padre, da solo. 

Riuscì a parlarci faccia a faccia quella stessa mattina, approfittando di un momento in cui la signora Martin era al piano superiore. Il signor Martin rimase in silenzio per qualche istante, fissando il figlio con i suoi piccoli occhi scuri.

«Ragazzo mio, capisco la tua agitazione: anche io ero irrequieto, alla tua età... ma questo è un luogo sicuro.» Dan aprì la bocca per protestare, ma suo padre lo zittì. «Siamo un gruppo numeroso, con una bambina piccola. Dove dovremmo andare? Finché il signor Dodge ci ospiterà, noi resteremo qui.»

«Ma...»

«Smettila subito, Dan, e non riferirò a tua madre quello che mi hai detto.»

E Dan chiuse la bocca e incassò la sconfitta. 

 

Dopo la breve discussione con suo padre, la faccenda parve archiviata. Dan ci mise una pietra sopra, e decise di aver fatto tutto il possibile. La sua coscienza parve assecondarlo, donandogli la tanto agognata tranquillità: smise di passare le giornate in silenzio, riprese a parlare con sua madre, con gli Harper, a giocare con Lisa e Lee a brevi ma intense partite ad acchiapparella; riuscì addirittura a dormire per una notte intera, svegliandosi fresco e riposato. Il signor Dodge tornò a portare notizie, sempre migliori: il reggimento di Pacificatori stava smobilitando, e presto sarebbe andato via. Questione di giorni, diceva.

Tutto stava tornando a posto. Presto sarebbero tornati a casa, e Dan ne era lieto. Quello che era successo al Tour della Vittoria era diventato ormai soltanto un brutto ricordo.

Poi, una notte, Rose venne a trovarlo.

Era di nuovo nella palude. Il cielo si era fatto da verde a viola tumefatto, e ogni tanto lampi giallastri squarciavano il cielo. Camminava a fatica nell’acqua melmosa, quando alla fine l’aveva vista.

Era da sola, su un piccolo isolotto, completamente vuoto ad eccezione di un vecchio salice piangente, le cui sottili foglie erano però rosso sangue.

«Rose, vieni via!» gridava Dan. «Vieni con me!»

«Non posso, Dan» aveva risposto lei, gli occhi bassi e la voce ridotta ad un sussurro. «Non posso, e lo sai.»

«No, invece, non ti permetto di andartene!» aveva esclamato Dan, e le aveva afferrato il polso.

«Ti ho detto che non posso!» aveva gridato Rose. Poi aveva lanciato un urlo straziante e aveva preso fuoco, avvampando come una torcia di rami secchi.

Dan era indietreggiato, in preda all’orrore. Ma l’incubo non era ancora finito.

Qualcosa era sorto dalle ceneri di Rose. Qualcosa di grosso, mostruoso e terrificante. La sua pelle era bianca e lucida, i suoi occhi neri come l’oblio, aveva lunghissimi denti aguzzi e lunghe corna affilate. Lo aveva afferrato per la camicia, sollevandolo in aria con estrema facilità.

«Non puoi scappare, Dan. Dovunque andrai, ci sarò anche io. Fino alla fine.»

Aveva cercato di divincolarsi disperatamente, ma la morsa si faceva sempre più stretta. Poi la creatura aveva aperto la gigantesca bocca, e tutto era finito.

Dan si era svegliato di soprassalto, il cuore impazzito e la fronte madida di sudore. Sentiva ancora la stretta del mostro sul suo petto.

Respirò affannosamente per qualche minuto, alla disperata ricerca di aria. Cercò di convincersi che era tutto un sogno, ma le mani non smettevano di tremare.

Non puoi scappare, Dan.

Di colpo, tutte le ansie e le angosce che credeva di aver abbandonato piombarono su di lui, schiacciandolo con il loro nefasto fardello. Erano sempre state lì, in attesa. In quel momento, Dan capì che non l’avrebbero mai abbandonato.

Dovunque andrai, ci sarò anche io.

Non poteva restare. Non più. Doveva andare via ora, o non avrebbe avuto più pace. 

Prima che potesse rendersene conto era già al piano di sotto. Gli altri sarebbero stati bene, lì al sicuro. Si stupì di quanto velocemente avesse deciso di andarsene, e di come non provasse poi molto rimpianto per la scelta di abbandonare i suoi genitori.

I miei genitori non ci sono più. Sono morti anche loro, con Rose, laggiù nell’arena.

Il pensiero lo colpì con la rapidità del lampo, ma non gli fece male. In fondo, lo aveva sempre saputo: nessuno dei Martin era stato più lo stesso dopo i Settantaquattresimi Hunger Games.

Nessuno. Neanche io.

«Dan?»

Dan si bloccò, imprecando fra se’. Lee Harper era sbucato dal nulla, e gli sbarrava la strada.

«Io... voglio solo prendere una boccata d’aria.»

«Certo, come no.» Lee fece qualche passo verso di lui. «Tu vuoi scappare, Dan.»

Dan provò a ribattere, ma la gola era improvvisamente diventata secca. «Lee...»

«Vengo con te.»

«Cosa?»

«Mi hai sentito. Vengo con te.»

«Stammi a sentire...»

«No, tu stammi a sentire. Non credere di essere l’unico a non dormire la notte. A non sentirti oppresso da un peso intollerabile.» Gli occhi del ragazzo parvero scintillare nella penombra. «John... lui era zoppo, ma per me era invincibile. Sapeva cosa dire, cosa fare, nel posto giusto e al momento giusto. Era buono e gentile, e... dannazione Dan, cavalcava come se fosse nato in sella. Ho sempre pensato che sarei finito io nell’arena. Ero io quello sfortunato, quello distratto e imbranato, e lui era sempre lì, a raddrizzare quello che io avevo storto.»

Dan rimase colpito dalle parole del suo amico. Nessuno dei due aveva mai parlato dei rispettivi fratelli morti. Era un tacito accordo, ed entrambi erano più che lieti di rispettarlo. Fino a quella notte, almeno.

Lee sospirò pesantemente. «Una volta persi quasi il mio lavoro. Accadde qualche settimana prima della Mietitura. Ci fu un violento temporale, uno dei più grandi che abbia mai visto. Non riuscii a tenere a bada la mandria: quattro mucche si spezzarono le zampe, e dovettero abbatterle. Il guardiastalla mi licenziò in tronco. Avrei voluto morire, ero disperato. Andai da John, e gli dissi quello che era successo. Lui mi accarezzò la testa, mi disse di non preoccuparmi, che ci avrebbe pensato lui. Il giorno dopo ero di nuovo a guardare le mandrie. Non mi disse mai cosa aveva fatto, ma non mi ci volle molto per scoprirlo: aveva parlato con il guardastalla, e lui aveva deciso di riammettermi, a patto che John prendesse le tessere per i viveri del figlio. Ne aveva centocinquanta.»

Dan aprì la bocca, sbalordito. Centocinquanta tessere significavano centocinquanta biglietti con il tuo nome alla Mietitura. Centocinquanta tessere erano una condanna a morte.

«Lui... lui si è sacrificato per me, Dan. E io l’ho guardato morire.»

Una lacrima solitaria scese lungo la guancia del ragazzo. Dan si sentì pervadere da uno strano tremito interiore: come se un vulcano da tempo sopito avesse deciso di riattivarsi, e spingesse per liberare il suo carico di magma e lapilli. Prima che se ne potesse rendere conto, stava parlando.

«Anche Rose era la migliore. Lei se ne stava lì, a guardare nel vuoto, a meditare e a pensare... io la prendevo sempre in giro. Sorridere non ti uccide, le dicevo. Lei mi guardava e mi rispondeva sorridere vuol dire essere liberi, e noi non lo siamo. Per me era la Piccola Rivoluzionaria, con tante idee strane per la testa e mai uno straccio di risata: a me interessava solo sopravvivere alla settimana e andare a sbronzarmi il sabato sera giù in paese. Aveva cinque anni meno di me, ma era lei la più grande. Io non l’ho mai... non ho mai...»

Un groppo in gola gli impedì di parlare. Dan gli mise le mani sulle spalle, fissandolo intensamente. «Non è colpa tua, Dan. Non devi pensarlo. Non devi pensarlo, o sarà la fine.»

«No, tu non capisci. Non è così semplice. Io... lei... non potrò mai perdonarmelo.»

Lee sbatté rapidamente le palpebre. «Che cosa intendi?»

Dan deglutì rumorosamente. «Io...» 

Qualcuno si mosse, di sopra. I due ragazzi rimasero impietriti, in attesa. Il silenzio, però, restò padrone del fienile.

«Dobbiamo andare, è meglio sbrigarsi» disse Dan. «Potrebbe fare giorno da un momento all’altro.»

Lee annuì. «Va bene. Meglio uscire da qui, è la porta più vicina al bosco.»

Fuori tutto era immerso nel silenzio. La luna rischiarava la scena, permettendo ai due ragazzi di potersi orientare senza problemi. Scivolarono furtivi fra la boscaglia, cercando di fare meno rumore possibile.

«Bene. E ora?»

«Potremmo passare dalle nostre case. Magari riusciamo a recuperare qualcosa di utile.»

«Non lo so, potrebbero aver messo qualcuno a fare la guardia.»

«Possiamo sempre andare a dare un’occhiata da lontano. Se c’è gente, ce la filiamo.»

«Va bene.»

Avere una destinazione fece sentire Dan più tranquillo. Rimase qualche istante in silenzio, ascoltando il fruscio dell’erba prodotto dal vento. Stava per dire a Lee di muoversi, quando un pensiero improvviso lo inchiodò lì dove si trovava.

Era una perfetta serata estiva. Limpida, tranquilla... e senza un’alito di vento.

Non era la brezza a far muovere l’erba. 

Era qualcosa... o qualcuno.

Dan fece dietro front, ritornando al limitare del bosco. Si nascose dietro un cespuglio, e sbirciò fuori.

E il suo cuore semplicemente cessò di esistere.

Pacificatori, almeno una dozzina. Avevano circondato il fienile. Due uomini si dirigevano verso la porta principale. Uno era un Pacificatore a capo scoperto, probabilmente un ufficiale. 

L’altro era il signor Dodge.

Dan sentì la terra mancargli sotto i piedi. Stava per alzarsi, quando sentì una mano premergli sulla spalla.

«Fermo, Dan. L’unica cosa che otterresti è farti prendere.»

Il signor Dodge estrasse il suo grosso mazzo di chiavi, e lentamente aprì il lucchetto che teneva chiusa la porta principale. Lasciò cadere il lucchetto a terra, mentre i Pacificatori sciamavano nel fienile. 

Dan voleva fare qualcosa, gridare, avvertire gli altri del pericolo imminente. Ma cosa avrebbe ottenuto? Il fienile era circondato. Erano in trappola.

Sì udì un grido femminile, qualche imprecazione, poi i cinque fuggiaschi vennero portati fuori.

«Ne mancano due» sentì dire l’ufficiale. «Dove sono i ragazzi?»

«Noi... non ne abbiamo idea.»

«Dove sono i ragazzi?» ripetè ottusamente l’ufficiale.

«La prego, gliel’ho già detto... non lo sappiamo.»

Quello che accadde dopo parve svolgersi su un altro mondo, dove tutto era più silenzioso e i secondi duravano ore. L’ufficiale estrasse la pistola, la puntò contro Lisa e premette il grilletto. Uno sparo, un tonfo sordo, e la bambina era a terra. Prima che qualcuno potesse fare qualcosa, il soldato sparò altre due volte. Per sicurezza.

Lee non gridò: aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Dan afferrò il suo amico, sentendo i suoi muscoli tendersi.

«Lee, ti prego, ti prego, guardami. Non puoi andare, non puoi andare lì, lo sai. Lee, ti prego...»

La signora Harper si buttò  terra, stringendo fra le braccia il corpicino massacrato della sua terzogenita. Il sangue le inzuppò i vestiti, mentre tentava disperatamente di richiamare in vita quello che era ormai un guscio vuoto.

Con un ruggito bestiale, il signor Harper si avventò contro l’assassino di sua figlia, la furia cieca e terribile di un genitore devastato dipinta sul viso. Tre Pacificatori aprirono il fuoco, crivellandolo di colpi. Morì prima di toccare il suolo.

«Prendete gli altri» sbottò in tono annoiato l’ufficiale, rinfoderando la pistola. «Li portiamo al comando.» Poi estrasse qualcosa dal tascapane, e lo consegnò al signor Dodge.

Anche da lontano, Dan lo distinse chiaramente. Era una forma inconfondibile. 

Un mazzo di banconote.

Una rabbia tremenda e selvaggia si impadronì di lui. Trascinò via il suo amico, che lo shock aveva trasformato in un involucro vuoto, addentrandosi nel bosco. Camminò finché non spuntò il sole, poi crollò accanto ad un albero, esausto.

Nessuno dei due parlò. Rimasero in perfetto silenzio, sdraiati sull’erba, entrambi incapaci di comprendere quello che era successo. Poi, quando il sole era quasi tramontato, Dan parlò.

«Devo tornare un attimo indietro. Tu aspettami qui.»

Lee non rispose. Osservò Dan andare via, vide il sole calare, le ombre farsi notte, e attese. Non seppe di preciso quanto tempo fosse trascorso: tutto pareva scorrere in modo diverso dal normale. Ma nonostante il dolore stravolgesse tutti i suoi sensi, di una cosa fu certo: quando il suo amico finalmente tornò, aveva una strana luce negli occhi.

La luce di chi ha guardato nell’abisso e ci si è inevitabilmente perso dentro.

 

Rimasero un altro giorno nei boschi, raccogliendo le forze, andando in cerca di cibo e cercando di mettere in ordine le idee. Decisero che al calare delle tenebre sarebbero andati a casa di Lee, per cercare di rastrellare qualunque cosa potesse servirgli.

Si erano messi in marcia da mezz’ora, quando udirono i primi scoppi. Erano simili a tuoni, ma più bassi e profondi, e facevano vibrare la terra. Dan e Lee si guardarono, perplessi.

Che sta succedendo?

Si aggiunsero altri rumori, più simili a schiocchi che a vere e proprie esplosioni. I due ragazzi affrettarono il passo. Stava succedendo qualcosa, nel Distretto. Qualcosa di grosso.

Si misero a correre, saltando i ruscelli e schivando i rami bassi. Ora il fragore era quasi assordante.

Poi alla fine gli alberi si diradarono, lasciando il posto ad una ripida scarpata. Dan dovette frenare bruscamente per non finire di sotto. Poi guardò lo spettacolo che si presentava dinanzi ai suoi occhi, e seppe di essersi sbagliato.

Non era qualcosa di grosso. Era qualcosa di apocalittico.

Il Distretto Dieci era in guerra.

 



L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Non ho ben capito perchè ogni tanto l'editor mi mette i periodi separati da uno spazio e ogni tanto no. Boh, come gli gira a lui. Comunque sia, qui si dovrebbe chiudere la virtuale prima parte di questa storia. Non so quanto durerà la seconda: forse di più (molto probabile) forse meno (meno probabile). In ogni caso, ne vedremo delle belle (si spera).
Questo capitolo, almeno la prima parte, è abbastanza psicologico: sto lentamente formando il personaggio di Dan, e potrebbero esserci delle incongruenze con i primi capitoli. A tempo debito farò una revisione generale, ma comunque se c'è qualche problema lampante lo aggiusterò il prima possibile.
Allacciatevi le cinture, signori: la guerra è alle porte, e nessuno dei nostri ragazzi ha intenzione di stare a guardare.
Come sempre, grazie infinite per avermi dedicato il vostro tempo, tanti cari saluti e alla prossima!

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Capitolo 8
*** Guerrieri sacri e carne da cannone ***


7.

Guerrieri sacri e carne da cannone

 

 

 

 

“D’altra parte i giovani servono a questo.”

- Adolf Hitler, a proposito delle necessità della guerra

 

 

Fiamme.

Erano dappertutto. Feroci, diaboliche, mortali. Illuminavano la notte buia, gettando il loro bagliore rossastro sulle case sventrate.

«Che diavolo succede?» chiese Lee in un sussurro, come se temesse di farsi sentire.

Dan camminava come ubriaco, intontito dall’imprevedibile svolta degli eventi.

«Non ne ho idea.» 

«Una nuova rivolta?»

«No, non credo.» Dan scavalcò una pila di mattoni rossi che avevano inondato la strada. «È qualcosa di diverso. Qualcosa di grosso.»

Quanto grosso, Dan non ne era certo. Ma quando girò l’angolo e si vide tre fucili puntati addosso, seppe che era abbastanza.

«Mettete le mani dietro la testa e ci eviterete la fatica di uccidervi.»

Non erano Pacificatori: invece che bianca, la divisa era di un colore grigio scuro. Avevano i volti scoperti, elmetti neri e un fucile dall’aria piuttosto minacciosa fra le mani.

«Ma voi chi siete?» chiese Lee sgomento.

«Noi, figliolo, siamo la maledetta cavalleria.» L’uomo al centro fece un passo in avanti. «Sergente Lycard Fennis, al vostro servizio.»

«Da quando il nostro Distretto ha un esercito?»

«Non ce l’ha, infatti, ma è solo questione di tempo.»

«E allora da dove venite?»

Il sergente fece un sorrisetto.

«Mai sentito parlare del Distretto Tredici?»

 

Il colonnello Rorke e Clove erano di nuovo uno di fronte all’altro, separati da una scrivania. La stanza era cambiata, più grande, scura e di forma ovale; loro due no.

«Pavlov» disse Rorke, sfogliando una serie di carte raccolte in una cartelletta. «Imram Geralt. Io ti avevo chiesto Ianos e tu mi porti un vecchio minatore.»

«Pavlov sa chi è Ianos» rispose Clove. «Sa dove si trova, quanti uomini hanno i ribelli e cosa hanno intenzione di fare. Pavlov sa tutto. Forse più di Ianos.»

Rorke si adagiò sullo schienale della poltrona. «Dunque ritieni di aver portato a termine la missione.» 

«Oh no. Io ho fatto di meglio.»

Gli occhi verde smeraldo del colonnello la fissarono. Uno sguardo ammaliante, potente, implacabile. Clove ricambiò l’occhiata, spavalda, cercando di nascondere l’inquietudine che cominciava a formicolarle lo stomaco.

Poi il colonnello sorrise, come l’ultima volta che si erano visti, e lei non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.

«Pavlov ha parlato. Nomi, date, luoghi, tutto quanto: una gallina dalle uova d’oro. Ci è voluto un po’, ma anche l’uomo più forte ha delle... leve su cui fare perno.» Rorke ghignò, mostrando i denti come uno squalo che avverte l’odore del sangue. «I Pacificatori hanno arrestato i principali capi dei ribelli mezz’ora fa.»

«Lieta di aver contribuito alla pace nel mondo» disse Clove, sollevando un angolo della bocca nella sua caratteristica smorfia.

Rorke intrecciò le dita. «Hai mai sentito parlare del Battaglione Sacro?»

Clove rimase interdetta: Rorke non era tipo da perdersi in chiacchiere. «Una volta, all’Accademia. Lezione di Tattica e Storia Militare. Erano dei soldati dell’antica Grecia, se non ricordo male. Un corpo scelto della città-stato di Tebe.»

«Composto esclusivamente da coppie di amanti» continuò Rorke. «Così che, per proteggere il proprio compagno e non rischiare di apparire disonorevole ai suoi occhi, i soldati sarebbero stati motivati a combattere al massimo delle proprie forze. Vinsero tutte le battaglie che combatterono, tranne una. L’ultima. Dove morirono tutti, dal primo all’ultimo.»

«E dunque? Vuole creare un esercito di innamorati?»

Rorke non sorrise. «Non rientra nelle mie potenzialità. Se non posso far combattere i miei soldati per amore, posso farlo per il desiderio di vittoria... e la sana competizione.» Si alzò in piedi, e premette un tasto su un telecomando poggiato sulla scrivania. Uno schermo alla sua sinistra si accese.

«Ianos è stato sconfitto, ma l’attentato al Tour della Vittoria è solo l’inizio. Qualcosa si sta muovendo, e presto o tardi esploderà. E sarà la guerra.»

«Guerra?» disse Clove, scettica. «I Distretti non sono capaci di fare una guerra. Non hanno i mezzi, ne’ le capacità.»

«Sottovalutare il nemico è il primo passo verso la sconfitta» disse Rorke. «Lo zar di Russia e l’imperatore Austriaco sottovalutarono Bonaparte, quando lo videro indietreggiare pavidamente, sgombrando l’altopiano del Pratzen e abbandonando una posizione sopraelevata che gli avrebbe garantito la superiorità strategica. Attaccarono a testa bassa il fianco destro nemico, troppo esteso e disorganizzato, ignorando che era stato mal distribuito apposta per attirarli proprio dove l’imperatore di Francia voleva. E mentre marciavano con gli stendardi al vento, sicuri della vittoria, la Grande Armata sbucò dalla nebbia e tranciò a metà l’esercito alleato, dividendolo e sterminandolo. E così il settimo figlio di un avvocato sconfisse due imperatori... e la battaglia di Austerlitz entrò nella storia come un capolavoro di strategia. Ma comunque non hai tutti i torti» aggiunse, rendendosi conto di essersi lasciato un po’ trasportare. «I Distretti potrebbero crearci dei grattacapi, ma non riuscirebbero mai a sconfiggerci. Sono contadini, agricoltori, minatori, taglialegna, e senza qualcuno che conosca l’arte della guerra resteranno tali.»

«E quel qualcuno esiste?» chiese Clove, avendo intuito dove il colonnello andava a parare. «Magari nel Distretto Tredici?»

Per un attimo, il colonnello Rorke non poté fare a meno di rimanere decisamente sorpreso. Ma si riebbe rapidamente, e ricompose sul suo volto il sorriso da squalo. «Esattamente, mia cara Clove. Sapevo che era uno spreco lasciarti nell’aldilà.»

Clove sorrise. «I pecoroni degli ultimi Distretti si potranno lasciare abbindolare, ma la faccenda del Tredici puzza di carogna lontano un miglio. Avevano un arsenale di armi nucleari, e non l’ha mai usato. Sono spariti così, da un giorno all’altro. Troppo semplice.»

«Durante la rivolta, il Distretto Tredici e il Presidente Snow hanno fatto un accordo. Il Tredici avrebbe giocato a fare il morto e la capitale avrebbe fatto finta di non accorgersene. Si sono nascosti sotto terra, mentre i Distretti ribelli cadevano uno dopo l’altro.»

«Come i codardi che sono» sentenziò Clove.

«Hanno fatto bene i loro calcoli» disse Rorke «Non li posso biasimare. Ma ora il Tredici ha cominciato a sollevare la testa, fiutando l’aria. E sentendo la puzza di opportunità, sta valutando l’idea di fare la sua mossa. I Distretti sono di nuovo agitati, Katniss Everdeen sta diventando un simbolo. Basta una scintilla per dare fuoco alle polveri. E per il Tredici, questa potrebbe essere la volta buona.»

Katniss Everdeen.

L’odio divampò potente e incontrollato. Improvvisamente, Clove provò il feroce impulso di andarsene di lì, andare a caccia della Ghiandiaia Imitatrice e strapparle le ali, una per volta e con molta, molta calma.

Rorke nel frattempo continuava ad elencare il suo piano. «I nostri problemi sono dunque due: Katniss Everdeen e i Distretti. Quanto alla ragazza, il Presidente ha deciso di occuparsene gettandola di nuovo nell’arena e sperando che i tuoi Mentori riescano a toglierla di mezzo. Per i Distretti, invece ha affidato la questione a me. Ed ecco che entra in scena il Battaglione IEROS.»

«Ieros?»

«Vuol dire “sacro” in greco antico. I termini arcaici danno un tocco più affascinante alle cose più banali.»

«La tua squadra di innamorati, giusto?»

«La tua squadra, vorrai dire» puntualizzò Rorke. Poi premette un altro tasto del telecomando e sullo schermo comparvero sette fotografie. «I tuoi compagni di scudo. Tutti aspiranti Tributi, tutti del Distretto Due.» Rorke ingrandì la prima foto. Una ragazza dai capelli rossi tagliati a caschetto fissava l’obbiettivo con sguardo neutro, la bocca perfettamente dritta. «Callissa, sedici anni. Arco. Di poche parole, ma può staccare le ali in volo ad una mosca senza che lei se ne accorga.» La ragazza dai capelli rossi venne sostituita da una faccia familiare. «Cicero, trentadue anni. Tiratore scelto. È il capo della squadra, e di gran lunga il più anziano.»

Il Nero.

Dopo l’uomo di colore, venne il turno del Bianco, con la sua pelle diafana e il sorrisetto insolente. «Plato, venticinque anni. Specializzato in assalti tattici e combattimenti in spazi ristretti. Se vuoi sfondare la porta e uccidere cinque uomini prima che abbiano il tempo di sbattere le palpebre, lui è l’uomo che fa per te. Insieme a Cicero, è l'unico membro che non sia un aspirante Tributo.» La fotografia cambiò di nuovo e Clove sollevò automaticamente un sopracciglio. Una ragazza dai magnetici occhi verdi messi ancora più in risalto da una pesante mano di trucco nero come la cascata di capelli che le incorniciava il volto magro si esibiva nella stessa, identica smorfia spavalda che era sempre stato il suo marchio di fabbrica. «Artemisia, diciotto anni. Spade corte. Ti somiglia parecchio: sarà la tua migliore amica o la tua peggiore nemica. In entrambi i casi, finirete per fare disperatamente a gara di bravura, ed è esattamente quello che voglio.»

Questa volta, al posto di una fotografia singola, sullo schermo comparvero due volti nella stessa inquadratura. Facce smunte, capelli unti, orbite vuote: due gocce d’acqua sporca. «Phobos e Deimos. Sedici anni, gemelli. Inseparabili: hanno quasi ucciso due guardie prima che acconsentissi a fargli fare la foto assieme. La sorella paralizza i soldati con dardi avvelenati mentre il fratello scivola alle loro spalle e gli taglia la gola. Sono efficienti e inquietanti: esattamente quello che mi serve. E per finire» aggiunse Rorke visualizzando l’ultima foto «il nostro ragazzo d’oro.»

Clove non riuscì a trattenere un fremito. Il ragazzo era inquietantemente simile a Cato: stessa mascella squadrata, stessi occhi piccoli e risoluti. I capelli biondi erano sostituiti da una corta cresta castana, ma per il resto la somiglianza era evidente. «Ares, diciassette anni. Spada lunga. Combatte con uno scudo tondo non regolamentare che si è costruito da solo, a foggia di quelli che portavano gli Opliti greci. Ho provveduto a fargliene avere uno di titanio al carbonio rinforzato con polimeri di acciaio e kevlar. È una macchina da guerra, serio e disciplinato. Semplicemente perfetto.»

Il colonnello spense il televisore. «Allora, Clove, che te ne pare?»

«Una bella accozzaglia di disadattati.»

«Un buon assassino deve essere anche un po’ folle, ma credo che tu lo sappia.»

«Ed essere anche parecchio giovane, a quanto pare.»

Il sorriso da squalo di Rorke si accentuò. «Molti miei superiori considerano l’esperienza una qualità fondamentale. Ma i signori della guerra africani addestravano interi squadroni di soldati bambino, perché non avrebbero avuto paura, ne’ rimorso, ne’ pietà. E sai perché, Clove?»

«Perché erano stupidi e ingenui?»

«No. Perché erano convinti che fosse un gioco.» Rorke si risiedette sulla poltrona, intrecciando di nuovo le dita. «Perché questo è il segreto dell’arte della guerra, Clove: non è altro che un gioco. E ogni gioco che si rispetti ha delle regole che possono essere infrante.»

 

 

L’ufficiale di reclutamento sedeva dietro un traballante tavolino di plastica recuperato da chissà dove. Una discreta fila di uomini, donne e ragazzi attendeva il proprio turno, mentre le fiamme della battaglia al Distretto Dieci si andavano lentamente spegnendo.

Una ragazzina che non doveva avere più di dodici anni si presentò all’ufficiale. «Dana Serkins.»

«Età?»

«Undici anni e tre quarti. Ne farò dodici la prossima settimana.»

L’ufficiale parve pensarci su. «Mmh, si può fare. Dana Serkins, dodici anni. Mestiere?»

«Non ne ho ancora uno. Devo finire la scuola, prima.»

«Mmh. Sai fare di conto?»

«Me la cavo.»

«Perché vuoi arruolarti nella Fanteria di Linea?»

«Perché non ho nessuno e non voglio morire di fame. E non voglio che un altra come me in futuro debba fare la mia scelta.»

«Bene. Aiuto apprendista furiere, ventesimo reggimento compagnia D, quarto battaglione. Una firma, prego.»

La giovane prese la pena e con tratto incerto scrisse il suo nome e cognome in stampatello maiuscolo.

«Il prossimo» borbottò l’ufficiale.

«Danyl Martin.»

«Età?»

«Diciotto anni.»

«Mmh, bene bene. Mestiere?»

«Mandriano.»

«Sai cavalcare?»

«Si signore.»

«Perché vuoi arruolarti nella Fanteria di Linea?»

«Mia sorella è morta negli ultimi Hunger Games.»

«Bene. Potresti finire nei corpi ausiliari di cavalleria, se fai il tuo dovere. Soldato semplice, diciottesimo reggimento, compagnia C, quinto battaglione. Una firma, prego.»

 

Dopo il briefing, Clove era stata accompagnata nel suo alloggio. L’indomani sarebbe iniziato l’addestramento intensivo, e avrebbe conosciuto i suoi compagni di squadra.

Quando le porte scorrevoli si aprirono con uno sbuffo, non fu sorpresa di trovare Cato seduto sul suo letto.

«È un po’ di tempo che non ci si vede» disse il ragazzo, accarezzando la coperta del letto con gesti lenti.

«Ho avuto da fare» disse Clove. Rimase in piedi, incerta, poi decise di andare a sedersi accanto al suo compagno di Distretto. «A quanto pare non ero la sola a dover compiere la missione. C’erano cinque candidati: il primo che sarebbe riuscito a portare a termine l’obbiettivo avrebbe avuto il posto nello IEROS. Uno di loro...» Improvvisamente si bloccò. Le parole erano pronte a lanciarsi fuori dalla sua bocca, eppure qualcosa le teneva piantate in gola. «Io... ho creduto che fossi morto, non vedendoti fra le foto della squadra. Che diavolo hai combinato?» aggiunse poi velocemente, parlando con tale rapidità che le parole quasi si accavallarono. Poi, senza che potesse fare niente per impedirlo, arrossì. E si sentì una stupida ragazzina.

«Rorke ha altri piani per me» fu la laconica risposta del ragazzo biondo.

Il rossore sparì, sostituito da un improvviso moto di stizza. «E cioè?»

«Mi dispiace, ma non posso rivelarteli. Protocollo Protheus.»

«Che diavolo è il Protocollo Protheus?»

«Il mio incarico. Posso dirti solo questo, non di più.»

Clove sbuffò, frustrata. 

«Lo so che non ti piace. Neanche a me piace tenerti all’oscuro, ma non possiamo sapere tutto. Dobbiamo fare quello che possiamo con quello che abbiamo.»

Clove lo fulminò con lo sguardo. «Cos’è, sei diventato un amante della filosofia spicciola?»

«È semplicemente la verità.»

«Vai al diavolo» rispose lei, alzandosi di scatto. Non sapeva perché era arrabbiata, ma qualcosa nell’atteggiamento di Cato la faceva impazzire. Come un insetto che si infila nei pantaloni e lentamente risale la gamba, aggrappandosi alla pelle con le sue zampe aguzze.

Fumante di rabbia, Clove uscì dalla porta.

«Dove vai?» le chiese il ragazzo.

«Lontano da te. Goditi pure il tuo Protocollo Protheus, e buona fortuna.»

Alla fine del corridoio, il soldato scelto Thomas Revere vide Clove sparire dietro l’angolo, i pugni serrati e il passo rapido. Sollevò le spalle, borbottò qualcosa sugli adolescenti e gli ormoni della crescita e tornò a fare il suo dovere.

 

Lo sciabordio delle onde sul mezzo da sbarco si mischiava al rumore acuto del motore in una strana cacofonia. Ogni tanto uno spruzzo salato superava i fianchi alti della barca, innaffiando gli elmetti dei soldati ammassati come bestiame.

«Statemi bene a sentire, signorine, perché non mi ripeterò. Il nostro obbiettivo è semplice, quasi offensivo nella sua stupidità: dobbiamo prendere la spiaggia e tenerla al caldo e al sicuro fino all’arrivo delle divisioni corazzate. Tutto chiaro?»

Quasi nessuno rispose. Il quinto battaglione, compagnia C del diciottesimo Fanteria di Linea Volontaria era troppo impegnato a farsela sotto dalla paura. Pressato in mezzo ai suoi commilitoni, Dan lottava con tutte le sue forze per non ributtare la colazione sulla schiena del soldato davanti a lui. Alla sua sinistra Lee guardava dritto di fronte a se’, mormorando qualcosa che aveva tutta l’aria di essere una sentita preghiera.

«Non ti facevo così devoto» disse Dan, cercando qualunque pretesto per non ricordarsi del contenuto del suo stomaco.

«Nessuno è ateo in trincea» rispose una voce alla sua desta. Una ragazza snella con una coda bassa di lunghi capelli neri che fuoriusciva dall’elmetto cercava di comporre  un sorriso sul volto cosparso di lentiggini. Riuscì a sostenere una smorfia storta per qualche secondo, poi fu costretta a rinunciare. Abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro.

Dan le mise una mano sulla spalla, in un pallido tentativo di rassicurarla. «Ricorda il tuo addestramento, e andrà tutto bene. E forse, e dico forse, non finirai a sbucciare le patate.»

La ragazza fece un timido sorriso. Era così che si erano conosciuti, lei, Dan e Lee: in punizione.

Durante l’addestramento, un sergente aveva deciso di prendersela con Dan, insultandolo e minacciando di farlo correre nudo davanti a tutto il campo. Lee si era opposto, e così aveva fatto quella strana ragazza dagli occhiali dalla montatura spessa, citando il codice militare. Il sergente, per evitare che la cosa degenerasse, aveva mandato tutti e tre in detenzione, a sbucciare le patate per una settimana intera. Durante quel periodo, Dan aveva avuto modo di conoscere colei che lo aveva difeso senza neanche sapere il suo nome. Si chiamava Agnes Grey, veniva dal Distretto Nove, amava leggere tutto quello su cui riusciva a mettere le mani e ascoltare della buona musica dal suo vecchio grammofono, che aveva trovato insieme ad una ventina di dischi miracolosamente intatti abbandonato in un vicolo dietro casa sua. Era silenziosa e preferiva starsene sulle sue, ma detestava le ingiustizie e quando decideva di aprire bocca era sempre per dire qualcosa che nessuno avrebbe facilmente dimenticato. Fu l’unica persona che Dan conobbe durante l’addestramento, ma non ebbe bisogno di conoscere nessun altro.

Dan sollevò lo sguardo: il sole stava per sorgere, e in un pezzo di cielo le stelle erano ancora visibili. Uno scenario decisamente poco adatto ad una zona di guerra.

«I Capitolini non si aspettano il nostro arrivo. Abbiamo fatto in modo che i loro culetti immacolati fossero nel posto sbagliato al momento sbagliato, ad affrontare un improbabile attacco al Distretto Tre. Perciò a meno che non premiate per sbaglio il grilletto e facciate saltare la testa del vostro compagno, nessuno morirà quest’oggi.»

«Così ce la tiri, maledetto bastardo» sibilò Lee.

«Chissà che ha combinato per essere qui» disse Agnes, lanciando uno sguardo obliquo all’ufficiale in comando che aveva appena parlato.

«Che intendi dire?»

«È uno del Tredici: se non bastasse il malcelato disprezzo che prova verso di noi a testimoniarlo, c’è anche la sua maledetta uniforme grigia. Avrà passato tutta la notte a stirarla, senza dubbio. Deve aver fatto perdere a carte qualcuno di importante per finire a comandare la carne da cannone.»

Dan sentì uno strano pizzicorio alla nuca al suono di quelle ultime due parole. Non era la prima volta che la sentiva, sibilata da soldati maliziosi o urlata da sergenti istruttori infuriati. 

La propaganda era di tutt’altro avviso, ovviamente. Loro erano la gloriosa Fanteria di Linea Volontaria: “dodici Distretti, un solo fine: libertà!” era il loro motto. Il popolo oppresso che si solleva in armi contro la tirannia, gli umili che combattono i forti armati dell’inestinguibile fuoco della rivoluzione: un esercito di santi, un’armata di eroi. 

Sulla carta era tutto uno squillo di trombe: ma nella pratica il suono era più simile a quello di un vecchio tamburo sfondato.

Nel Distretto Tredici tutti erano soldati, dal primo all’ultimo: ma erano pochi, troppo pochi per sostenere una guerra contro la capitale. Ed ecco dunque fare il suo trionfale ingresso la Fanteria di Linea Volontaria: là dove il Distretto Tredici poteva schierare un soldato scelto ben addestrato, la Fanteria di Linea aveva a disposizione un’intero battaglione, ossia un centinaio buono di padri di famiglia, ragazzi, figlie, nonni e nipoti, con un elmetto in testa, un fucile e una vaga idea di come usarlo. Non avevano neanche un uniforme: il comando logistico le aveva promesse una volta preso possesso delle fabbriche tessili del Distretto Otto, ma ora erano alle porte del Quattro e Dan indossava ancora il suo sdrucito vestito marrone del giorno del Tour della Vittoria. 

Ma quali che fossero le sue mancanze, la Fanteria di Linea Volontaria sopperiva alla scarsità di addestramento con una delle migliori qualità che un esercito possa avere: il numero.

«Bene, signori, tenetevi pronti: ci siamo!»

Fu in quel momento che Dan si ricordò della colazione che aveva disperatamente cercato di tenere a bada in pancia. Si piegò in avanti e vomitò, cercando di evitare di sporcare qualcuno: impresa vana, dato l’assenza quasi fisica di spazi vuoti tra un soldato ed un altro. Qualche giorno prima Dan aveva sentito un sergente tarchiato del Tredici dire che quei mezzi erano stati costruiti per trentacinque persone: lì dentro ce n’erano almeno il doppio, se non di più.

«Restiamo vicini, ok?» disse Lee, con una nota di panico nella voce.

«E lasciamo andare avanti gli altri» aggiunse Agnes tentando disperatamente di assumere un’aria spavalda.

Dan strinse forte il fucile. Non gli era sentito di udire alcuno sparo fino ad ora. Forse sarebbe andata davvero bene.

Il motore del mezzo da sbarco scese improvvisamente giù di giri. Dan si sentì sprofondare.

Ci siamo.

«Avanti, signorine, e ricordate il vostro addestramento!» latrò il capitano.

Il portellone si aprì, rivelando una bianca spiaggia sabbiosa, che terminava in una serie di dune macchiate qua e là da arbusti e cespugli. L’acqua era limpida e si infrangeva sommessamente sul bagnasciuga. Se non fosse stato per le difese anticarro e per il filo spianto, sarebbe stato un gran bel posto dove passare una giornata libera.

Non a caso il Quattro è uno dei distretti più ricchi.

Passò qualche secondo di completo silenzio. Tutti trattenevano il fiato, in attesa della comparsa del nemico. Ma l’unico rumore era quello delle onde e del vento.

Non c’era nessuno. La spiaggia era deserta.

Dan chiuse gli occhi, lasciando che il sollievo lo pervadesse con la sua benefica energia. Agnes si lasciò scappare un risolino isterico.

«Che vi avevo detto, ragazzi? Una passeggiata!» sbottò il capitano, burbero.

Lee diede una pacca sulle spalle a Dan, facendogli calare l’elmetto davanti agli occhi.

Per un istante divenne tutto nero. Poi Dan rimise l’elmetto a posto, e i suoi occhi colsero quella che il suo cervello non poté che interpretare come una strana anomalia.

Le dune brillarono.

Fu una questione di microsecondi, il tempo che l’informazione fosse decodificata e trasmessa al resto del corpo. Un tempo infinitesimo. Ma fu comunque troppo tardi.

E il mezzo da sbarco divenne una trappola mortale.

Le prime file non fecero neanche in tempo ad accorgersi di nulla: furono letteralmente falciate dalle raffiche di mitragliatrice. Sbuffi rossastri esplosero nell’aria salmastra, mentre i corpi dei Fanti di Linea si trasformavano in grotteschi stracci martoriati di carne sanguinolenta. Urla agghiaccianti aggredirono i timpani di coloro ancora in vita, aumentando la confusione e il panico. Uomini e donne disperati tentavano di districarsi dal peso dei cadaveri, cercando disperatamente di sfuggire alla grandinata di pallottole che si abbatteva senza pietà su qualunque cosa osasse ostacolare il loro cammino.

Il capitano strappò la trasmittente dalle mani tremanti dell’addetto alle comunicazioni. «Alfa Uno, Alfa Uno! Incontriamo pesante resistenza, la spiaggia non è sicura! Ripeto, la spiaggia non è sicur...»

La testa del capitano esplose, proiettando l’elmetto in aria e spargendo cervello e schegge di cranio tutto intorno a se’. Quello che restava dell’ufficiale si afflosciò a terra, spruzzando sangue dal collo martoriato.

Dan veniva sballottato, spinto inesorabilmente verso il fondo del mezzo, dove la gente cercava inutilmente di trovare scampo dalle mitragliatrici. Riusciva soltanto a vedere un groviglio di braccia, elmetti e spruzzi di sangue. Le urla erano così forti che dovette premersi le mani sulle orecchie. Perse l’equilibrio e scivolò sul pavimento bagnato dall’acqua, dal sangue, dal vomito e dalla materia cerebrale, cadendo su qualcuno. Un gomitò lo colpì allo stomaco, mentre uno stivale gli schiacciò il piede destro. Era immobilizzato, impotente e assolutamente terrorizzato. L’orrore gli mozzava il respiro.

«Di lato, di lato! Arrampicatevi sulle paratie!»

Un braccio volò in aria, separato brutalmente dal suo proprietario. Il suono secco delle mitragliatrici ammorbava l’aria. Il quinto battaglione  aveva abbandonato qualunque traccia di civiltà, regredendo allo stato animalesco: tutti cercavano scampo come potevano, spintonandosi, facendosi scudo con i corpi degli altri, vivi o morti che fossero.

«Dan! Dan!»

Lee era a cavalcioni della paratia, e gli tendeva la mano. Un proiettile si conficcò nella borraccia a qualche centimetro dalla sua gamba, facendo fuoriuscire una fontanella d’acqua.

Dan raccolse tutte le proprie forze, riuscendo a sollevare il proprio braccio al di sopra della calca e arrivando a stringere la mano dell’amico. Sbuffando e gemendo, si issò sulla fiancata del mezzo.

Lo sbarco si era trasformato in un massacro. Le mitragliatrici non risparmiavano nessuno: i pochi soldati che riuscivano a districarsi dal groviglio di cadaveri dei mezzi da sbarco venivano trucidati senza pietà. Colonne di fumo si sollevavano nel cielo mattutino, là dove le imbarcazioni avevano preso fuoco. Un addetto al lanciafiamme venne colpito alla tanica di propano ed esplose, carbonizzando altri due uomini che si trovavano nelle vicinanze.

«Agnes! Agnes, prendi la mia mano!»

Il quinto battaglione era quasi stato spazzato via: il mezzo da sbarco era lastricato di corpi, arti e teste sbrindellati dalle mitragliatrici.

Dan e Lee tesero le proprie mani. Agnes le afferrò, gli occhi spalancati dall’orrore.

«Al mio tre ti tiriamo su! Uno, due... tre!»

Poc.

Il proiettile bucò l’elmetto, entrò dalla tempia destra ed uscì da quella sinistra. Niente sangue, niente cervella. Solo un piccolo schiocco.

Ed Agnes si afflosciò sulla paratia, morta sul colpo.

No. 

Dan non riuscì neanche a gridare. Qualunque forza possedesse era stata spazzata via come la vita dal corpo della sua giovane amica. 

Lee lo spinse all’indietro, fuori dal mezzo da sbarco. Cadde in mare, come un sacco di carne. L’acqua era gelida, ma fu un piacere esserne avvolto. Tutto era fuori. Tutto era lontano.

Si lasciò andare, cullato dall’oblio. Solo quando i polmoni cominciarono a bruciargli si ricordò che non sapeva nuotare.


















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: come Rorke, anche io mi sono lasciato andare in questo capitolo (sopratutto la mia vena storico-militare), e devo dire che mi sono piuttosto divertito. A parte quando ho ammazzato Agnes Grey, quello non mi è piaiciuto per niente.  Dopo uccidere i poveri ragazzi innocenti, uccidere le povere ragazze innocenti è al primo posto delle cose che detesto fare ma che sono costretto a fare, perchè questo è un lavoro sporco e qualcuno deve pur farlo. Elias sono riuscito a portarlo avanti un capitolo e mezzo prima di farlo sopprimere, con Agnes ho dovuto fare ancora più in fretta o non sarei riuscito a farcela. Non ha sofferto, almeno questo ve lo posso assicurare.

La morte di Agnes era necessaria per rafforzare l'idea simboleggiata dall'agghiacciante citazione a inizio capitolo. I giovani sono forti, entusiasti, speranzosi e drammaticamente ingenui: dei perfetti soldati giocattolo, ottimi per farsi maciullare sotto le mitragliatrici. Dan e Clove forse hanno cominciato a sospettarlo, ma non sono altro che pedine in una guerra più grande di loro. E per quelli come Rorke, il gioco è bello solo se si vince.

L'attacco al distretto quattro è una brutta copia dello sbarco in Normandia: se volete un racconto decente su cosa si provi a sbarcare in mezzo ad una tempesta di proiettili, sapendo che sei lì solo per fare da scudo a quelli che vengono dietro di te, allora guardatevi i primi minuti di Salvate il Soldato Ryan: a mio modestissimo parere una delle scene più evocative del cinema contemporaneo. Già che ci siete guardatevelo tutto, direi, dato che ci recita gente tipo un sempre gradito Tom Hanks, un altro "ce fa sempre piacere" Matt Damon e con le simpatiche apparizioni di Vin Diesel (sì, non ci credevo neanche io) e Nathan Fillion (mito imprescindibile per qualunque whedoniano che si rispetti).

Vabbè insomma gente, direi che ho parlato abbastanza. Come sempre, spero che abbiate gradito le mie farneticazioni: in ogni caso, se avete qualunque cosa da chiedere sarò più che lieto di rispondervi.

Alla prossima, allora, e ricordate il vostro addestramento!



 

 

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Capitolo 9
*** Indietro non si torna ***


8.

Indietro non si torna

 

 

“Della fanteria! E dove volete che la prenda? Volete che la fabbrichi?” 

- Napoleone Bonaparte al maresciallo Ney,
durante la battaglia di Waterloo

 

 

 

 

 

Il vice-ammiraglio Theodosis Lucan vide le dune di sabbia tremolare debolmente, come l’asfalto bollente nelle torride giornate estive, dal ponte di comando della corazzata Dura Lex. Prima che gli schermi olografici si disattivassero, mostrando il vero volto della spiaggia, sapeva già che la tranquilla operazione che era stata prevista si sarebbe trasformata in un calvario. Rimase in silenzio, perfettamente immobile con le mani dietro la schiena, mentre le mitragliatrici aprivano il fuoco sui fanti inermi ammassati nei mezzi da sbarco e i proiettili dei mortai disegnavano parabole di fumo grigiastro nel cielo mattutino.

A parte il vice-ammiraglio, sul ponte di comando c’erano soltanto altri cinque uomini: il suo staff, composto da un maggiore dell’esercito, un capitano di corvetta della marina e un addetto alle comunicazioni, e due soldati di guardia. Il capitano di marina, una giovane donna che cercava con tutte le sue forze di non apparire intimidita, si avvicinò al vice-ammiraglio.

«Il colonnello Maitland chiede quando può entrare in azione, signore.»

Il vice-ammiraglio non distolse lo sguardo dalla vetrata. «Niente carri. Le divisioni corazzate restano sulle navi.»

Lo sguardò del capitano saettò verso la spiaggia. «Signore, ma la Fanteria...»

Il vice-ammiraglio si girò verso l’ufficiale. «Mi sta dando consigli di strategia, capitano?» 

Il capitano abbassò lo sguardo, arrossendo. «Io... assolutamente no, signore.»

«Bene.» Il vice-ammiraglio tornò ad osservare lo scontro. «Sa come è nata questa flotta, capitano?»

La giovane donna parve a disagio. «Noi... l’abbiamo costruita.»

«No, capitano. Non avevamo ne’ le risorse ne’ il tempo per farlo. Queste navi sono state trovate, disseminate lungo la costa: relitti di un’epoca antecedente alla grande guerra, abbandonati come cartacce. Le abbiamo raccolte, una ad una, raggruppate e aggiustate, per quanto possibile. Sono dei pezzi da museo, ma hanno i cannoni e fanno il loro dovere. 

«Siamo stati fortunati con queste navi, capitano; ma non abbiamo avuto la stessa fortuna con i carri armati. Ognuno di essi è prezioso, e non può andare sprecato. Perciò finché la spiaggia non sarà sgombera, i carri resteranno sulle navi.»

Un mezzo da sbarco esplose a metà del tragitto, seminando rottami di ferro e corpi carbonizzati tutto intorno a se’. Nonostante la distanza, le urla erano chiaramente udibili.

«Un bagno di sangue» mormorò il capitano, rabbrividendo.

«È a questo che serve la Fanteria di Linea» sentenziò il vice-ammiraglio, glaciale.

«Il presidente Snow sarebbe d’accordo.»

«Che cosa ha detto, capitano?»

La giovane donna si rese conto di non aver soltanto pensato quelle parole. «Ha perfettamente ragione, signore. Niente carri. Sarebbe uno spreco, e noi del Distretto Tredici disprezziamo gli sprechi.»

«Esattamente.» L’uomo fissò per qualche istante il capitano. «Mi può ripetere il suo nome, capitano?»

«Capitano di corvetta Jacqueline Hendricks, signore, in servizio sulla Incorruttibile. Sono stata assegnata al suo staff come ufficiale di collegamento direttamente dall’ammiraglio, signore.»  

«È giovane, capitano. Quanti anni ha?»

«Ventidue, signore.»

«Ne dimostra sedici, diciotto al massimo. Come mai l’ammiraglio ha scelto un semplice capitano di corvetta per fare da tramite?»

«Ho giocato bene le mie carte, signore. Ero al posto giusto al momento giusto.»

Il vice-ammiraglio parve riflettere. «È strano, capitano. Conosco praticamente tutti gli ufficiali della nostra flotta, eppure non ho mai sentito il suo nome.»

«Sono stata promossa poco tempo fa.»

«Davvero? Eppure l’ammiraglio non mi ha mai parlato di lei. E non manderebbe certo una sconosciuta pescata all’ultimo istante a fare da ufficiale di collocamento.»

Il capitano parve fremere leggermente, come un giovane albero scosso da un vento freddo. «Signore, io...»

Il vice-ammiraglio fece qualche passò verso di lei, facendola indietreggiare istintivamente. «Che cosa ci fa su questa nave... capitano?»

«S-sono qui per ordine dell’amm...»

«Balle» disse il vice-ammiraglio, sputando fuori quella parola con un suono simile ad un ramo secco che viene spezzato. Fece un cenno ad uno dei soldati di guardia, mentre la sua mano corse verso l’impugnatura della pistola. «Soldato, arresta il capitano, scortala in zona detenzione e provvedi che sia sorvegliata accuratamente.»

Uno dei due militari di guardia si avvicinò all’ufficiale di marina. La donna indietreggiò ancora di più alla vista del soldato. 

«Signore, lei si sta sbagliando. Io non ho mai...»

«Finiscila» latrò l’uomo. «So riconoscere una spia quando la vedo.»

Il soldato posò una mano sulla spalla della giovane donna. «Non si preoccupi, capitano. Tra poco sarà tutto finito.»

Il vice-ammiraglio squadrò il soldato... anzi, la soldatessa. Aveva più o meno la stessa altezza del capitano, ma anziché essere verdi, grandi ed espressivi, i suoi occhi erano piccoli e castani.

E sopratutto, lo fissavano con odio.

Il vice-ammiraglio non ebbe tempo di stupirsene. Con una velocità quasi sovrumana, la lama di un coltello penetrò agilmente nel suo collo, tranciando la trachea e la giugulare con imbarazzante facilità. Il suo sangue innaffiò la console di comando, mentre l’uomo tentava disperatamente di rimanere in vita stringendo le dita sulla gola squarciata.

In quell’istante, tutti i presenti credettero che il mondo fosse appena impazzito. La soldatessa approfittò di quei preziosi secondi, lanciando il coltello insanguinato contro l’altro soldato di guardia. Prima che il freddo acciaio potesse penetrare nella gola morbida del militare, la donna aveva già estratto la pistola del vice-ammiraglio dalla fondina. Con un elegante volteggio, si girò di scatto e sparò in testa agli altri due membri dello staff del generale. 

Con un tonfo sordo, i quattro cadaveri toccarono terra allo stesso istante.

Il capitano di corvetta Jacqueline Hendricks dovette fare appello a tutto il suo sangue freddo per non svenire. Quattro uomini tra cui il vice-ammiraglio dell’intera flotta erano stati brutalmente assassinati da una sola persona, davanti ai suoi occhi. E il tutto era accaduto in meno di cinque secondi.

La soldatessa si tolse l’elmetto e lo gettò a terra, liberando una cascata di capelli neri. Se li legò in una coda alta, poi guardò fuori dalla vetrata e parlò, rivolta a nessuno in particolare.

«Sono dentro.»

Con uno strano formicolio allo stomaco, il capitano realizzò che l’assassina non doveva avere più di sedici anni.

 

Galleggiava nel vuoto cosmico, godendo dell’ebbrezza di non avere peso, ne’ riferimenti. Non c’era sopra o sotto, destra o sinistra: tutto era un’unica, meravigliosa singolarità, dove il nulla si piega in se’ stesso divenendo il tutto.

Ogni cosa era finalmente al suo posto. La sua gioia era incontenibile, inarrivabile e inenarrabile. 

Avrebbe voluto rimanere lì per sempre; ma qualcosa lo afferrò. E in quel momento scoprì di non essere un unica forma di materia, una sfera di levigata e rigorosa proporzione, ma di avere un corpo, con delle braccia e delle gambe, delle dita e delle orecchie, delle estremità fragili e sgraziate.

La stretta si fece più insistente. Il tocco era viscido e sporco, un’intollerabile imperfezione in quell’universo di quiete e armonia. Ringhiò, scalciò, urlò, scoprendo di avere una voce rozza e stonata. Venne tirato all’indietro; e dall’indietro venne l’avanti, e la destra, e la sinistra. L’universo smise di essere perfetto e cominciò a disfarsi, come una vecchia cupola erosa dal tempo e dalla natura. Ora c’era un sopra e un sotto, giusto e sbagliato, fame e sete, amore e odio, vita... e morte.

Riprese conoscenza, all’improvviso, spalancando gli occhi e la bocca, rigettato violentemente in quel mondo folle, in mezzo agli spari e alle esplosioni. Poi si voltò su un fianco e cominciò a vomitare acqua salata.

«Grazie a Dio» esclamò Lee, visibilmente sollevato «sei andato a fondo come un sacco di cemento. Ho dovuto toglierti lo zaino, o non ce l’avrei mai fatta a portarti a riva.»

Dan ansimava come un vecchio mantice, sfiancato dallo sforzo di ripulire i polmoni dall’acqua di mare. «Io... non so... nuotare.»

«Beh direi che è ora che impari» disse Lee scandendo le parole, per farsi sentire sopra la terrificante cacofonia che risuonava nella spiaggia. Un proiettile colpì la difesa anticarro dietro la quale i due ragazzi erano nascosti, facendo vibrare l’intera struttura come un grosso diapason. Un soldato si buttò accanto a Lee, in cerca di riparo, ma un proiettile lo raggiunse alla testa, seguito da altri tre che gli si piantarono nel braccio, nello stomaco e nella gamba con uno sbuffo sordo. Lee prese il fucile del morto e lo passò a Dan. «Prendi, il tuo è rimasto sul fondale.»

«Lee... mi hai salvato la vita.»

«Uno a zero, vecchio mio. La partita è appena cominciata.» Un proiettile di mortaio cadde a qualche metro dalla loro posizione, scagliando in aria una porzione abbondante di reticolo di filo spinato, un fucile, e un brandello non meglio identificato di corpo umano. «Sempre che arriviamo interi alla fine.» 

«Spostiamoci nel cratere del mortaio» suggerì Dan, indicando la vasta buca fumante che il proiettile aveva creato. «Lì avremo più copertura.»

«Ottima idea. Dopotutto, le bombe sono come i fulmini: non cadono mai due volte nello stesso posto.»

«Ne sei sicuro?»

«Assolutamente no.» Lee fece qualche respiro profondo, si sporse leggermente e lanciò un’occhiata al di là della difesa anticarro. «Ci vediamo dall’altra parte!»

Dan attese che il suo amico fosse sparito dalla vista, si calcò bene l’elmetto in testa, contò fino a tre poi si lanciò fuori, allo scoperto.

Le pallottole fischiavano come calabroni impazziti. Si piantavano con uno sbuffo morbido nella sabbia, si schiantavano tintinnando contro il metallo dei mezzi, delle difese anticarro o dell’elmetto, si piantavano nei calci dei fucili, nelle borracce, nei tascapani, nei corpi umani. Era un folle tiro al piattello, e la Fanteria di Linea Volontaria era il bersaglio.

Appena fece qualche passo, Dan si rese conto con terrore che la sabbia gli impediva di correre. Si trascinava goffamente in avanti, sbuffando e ansimando, con il cuore in gola e un fischio continuo nelle orecchie. Avvertì un caldo spostamento d’aria vicino alla guancia, segno che un proiettile rovente lo aveva appena sfiorato. Si sentì spacciato, e avvertì i condotti lacrimali riempirsi. Non voleva morire lì, su quella spiaggia, massacrato impietosamente dalle mitragliatrici. Il panico lo aggredì, e minacciò di travolgerlo.

Poi vide Lee, al sicuro dentro il cratere, che agitava la mano. Non poteva morire adesso, non davanti a lui.

Ammazzatemi quando volete, ma non adesso. Non adesso.

Con un urlo liberatorio, diede fondo a tutte le sue energie. Scattò in avanti, ad ampie falcate, sollevando grandi sbuffi di sabbia. Una pallottola colpì l’elmetto di striscio, facendogli scattare la testa di lato e rintronandolo. Quando mancava qualche metro si lanciò in avanti, sbattendo malamente sul bordo del cratere e rotolando all’interno, mezzo soffocato dalla sabbia.

«Bel volo!» commentò Lee, felice di avere il suo amico di nuovo accanto a se’.

«Un’altro po’... e mi ammazzavo... da solo» rispose Dan, sputacchiando per togliersi i granelli di sabbia dalla bocca.

«Lascia quel privilegio a quei figli di puttana lassù.»

Una donna mulatta sulla trentina si lasciò cadere nel cratere. Aveva lunghi capelli scuri raccolti in una treccia, indossava dei pantaloni da lavoro marroni e una camicia grigia, e legata sul braccio sinistro aveva una fascia rossa, segno che era un sergente.

«Gran brutta giornata» disse, mentre un’altra bomba separava violentemente le gambe di una ragazza dal resto del corpo. «Da dove venite voi?»

«Diciottesimo Fanteria, compagnia C, quinto battaglione» recitò a memoria Dan, fraintendendo la domanda della donna.

Il sergente lo guardò perplessa per qualche istante, poi decise di stare al gioco. «Sergente Wilkins, ventiduesimo, compagnia D. C’è qualcun altro dei vostri?»

«Non ne ho idea, sergente» rispose Lee «del nostro battaglione temo non sia sopravvissuto nessun altro. Eravamo con la prima ondata.»

Un soldato cadde nel cratere, contrasse le mani e cominciò a singhiozzare. Con orrore, Dan vide il cervello dell’uomo pulsare debolmente dietro il cranio massacrato. Un conato di vomito lo aggredì, ma non aveva più niente nello stomaco da ributtare.

«Io ero con la terza ondata» disse il sergente, che non si era accorto dell’uomo agonizzante. «Quando lo schermo olografico si è spento e sono cominciate a volare le pallottole, ho seriamente pensato di buttarmi in acqua e fuggire a nuoto.»

«Schermo olografico? Che schermo olografico?» chiese Dan, cercando di togliersi dalla testa i lamenti dell’uomo con il cervello di fuori.

«Le dune, ragazzo» disse il sergente «erano un inganno, creato da uno schermo olografico. Era una trappola. Una maledettissima trappola.»

Dan colse al volo l’occasione di allontanarsi dal ferito. Strisciò fino al bordo del cratere e diede una rapida occhiata. 

E quello che vide bastò a fargli dimenticare tutto.

Le morbide dune di sabbia erano scomparse. Al loro posto c’era un ripido sperone di roccia scura, dentro il quale erano stati costruiti bunker e casematte, le cui strette feritoie erano costantemente illuminate dagli spari delle mitragliatrici. Non c’era una strada, o un sentiero visibile: lo sperone si ergeva maestoso e inaccessibile per tutta la lunghezza della spiaggia.

Non c’era via di fuga da quella spiaggia zuppa di sangue. 

Il sergente aveva ragione. 

Erano in trappola.

 

Il capitano di vascello Victor Pullings, comandante della nave da sbarco Lady di Ferro, attraversava a passi rapidi la possente stiva della sua nave, dalla quale i mezzi da sbarco uscivano per andare verso la spiaggia attraverso una serie di portelloni che si aprivano sulle fiancate della nave, appena sopra la linea di galleggiamento. 

Nonostante fosse stato fatto tutto il possibile affinché la notizia non trapelasse, voci del massacro erano giunte fino ai soldati in attesa di venire imbarcati; oltretutto, i rumori delle mitragliatrici e dei mortai erano inconfondibili. Il capitano passò accanto ad un fante particolarmente corpulento che si rifiutava di salire a bordo. «Sergente, ho paura. Moriremo tutti, laggiù» borbottò il soldato, pallido come un cencio.

«Morirai adesso, se non ti sbrighi a salire» ringhiò il sergente, avvicinando la mano alla fondina della pistola. Il soldato deglutì, mentre lo sguardo atterrito saettava verso l’arma. «Va bene, sergente... vado.»

«Bene!» esclamò acidamente il sergente. «Vedi di muovere il culo, ora! Ma tu guarda: grosso come un orso, fifone come una checca...»

Il capitano si rivolse al primo ufficiale Illes, che cercava faticosamente di tenere il passo rapido del comandante. «Una comunicazione del vice-ammiraglio, dite?»

«Signorsì, signore. Proveniente dalla Dura Lex. Il codice identificativo è quello del vice-ammiraglio Lucan.»

«E che cosa dice?»

«Non... lo sappiamo, signore.»

Il capitano si fermò. «Che vuol dire non lo sapete?»

Il primo ufficiale si guardò le scarpe, inzaccherate dall’acqua marina che entrava dai portelloni aperti. «Il messaggio è secretato, signore. Occorre il vostro codice per poterlo decrittare.»

«Al diavolo» grugnì il capitano Pullings. «Cos’altro vorrà quel tronfio bastardo?»

Il comandante della Lady di Ferro era sempre stato scettico riguardo quell’attacco. Una porzione di spiaggia così ampia, e così vicina al centro nevralgico del Distretto Quattro non poteva essere così perfettamente sgombra, neanche se il nemico avesse abboccato al finto attacco nel Distretto Tre e si fosse trasferito in blocco. E infatti la trappola era scattata, e tutti quegli uomini e quelle donne dentro la sua nave, di cui non poteva fare a meno di sentirsi responsabile, ora filavano dritti verso una fine implacabile e cruenta. Con rabbia e frustrazione, si era chiesto perché l’alto comando non avesse previsto una svolta del genere; e mentre una cappa di gelida consapevolezza gli opprimeva il petto, si era reso conto che molto probabilmente lo sapevano.

Diciamo a questa gente che combattiamo per loro e poi li mandiamo al macello.

Salì le scale di metallo che portavano al corridoio Ventisette e alla sala comando. Era troppo impegnato a pensare per accorgersi che i quattro soldati che normalmente presidiavano la zona erano spariti. Fu solo davanti all’ingresso del ponte di comando che si rese conto che qualcosa non quadrava. 

Poi aprì la porta e vide il sangue.

Una nave da trasporto è un grosso affare pesante una decina di migliaia di tonnellate, e ha bisogno di parecchi uomini per essere tenuta sulla retta via. Almeno una mezza dozzina di assistenti di rotta, una decina di tecnici specializzati, tre ufficiali, e un altra decina buona di aiutanti e addetti: quasi una trentina di uomini affollavano il ponte di comando della Lady di Ferro durante le normali operazioni di manovra. E quei trenta uomini adesso erano lì, in quella sala. 

Tutti morti. Dal primo all’ultimo.

Il capitano Pullings fece qualche passo, sconvolto, e scivolò su una pozza di sangue. Cadde malamente a terra, tentò di rialzarsi e cadde di nuovo, proprio accanto ad un giovane tecnico la cui testa era ridotta ad un teschio sanguinante. Lo stomaco si contrasse violentemente, mentre un terribile attacco di nausea lo sconvolgeva.

Il primo ufficiale Illes sbiancò alla vista di quel massacro. Aprì la bocca per gridare qualcosa, probabilmente una sentita imprecazione. Ma la freccia che con un elegante sibilo si piantò nel suo occhio gli tolse qualsiasi diritto di parola. Sbatté contro la paratia alle sue spalle e scivolò lentamente a terra, con la freccia dall’impennaggio rosso scarlatto ben piantata nella sua orbita destra, come un macabro vessillo.

«Buonasera, capitano. Spero vogliate scusarci per il disordine.»

Quattro uomini erano comparsi nella sala, materializzatisi da chissà dove. Anzi, in realtà solo uno di loro era un uomo, quello dalla pelle scura: gli altri tre erano dei ragazzini. Quella con i capelli rossi e lo sguardo vuoto aveva in mano l’arco dal quale era partita la freccia che aveva ucciso il primo ufficiale. Indossavano tutti delle corazze nere, leggere ma dall’aspetto decisamente resistente. Erano una qualche sorta di corpo speciale, Pullings ne era certo.

Con una punta di ironia, pensò che il Presidente Snow doveva essere disperato visto che arruolava  dei ragazzini nei corpi speciali. Poi si ricordò del soldato semplice Jessica Roddin, che lo aveva urtato per sbaglio e fatto quasi cadere giù dalle scale della rampa C, della sua risata acerba e dei suoi tredici anni e mezzo, e si sentì improvvisamente vuoto.

Non è una guerra. È il mondo che si autodistrugge in preda alla follia.

L’uomo si avvicinò, prese la chiave di comando che teneva nascosta sotto l’uniforme e con un gesto seccò spezzo la catenella che la teneva appesa al suo collo.

«Grazie infinite, comandante.»

«Che cosa credete di fare? Oramai le truppe sono quasi tutte sbarcate. Questa nave non vi serve a niente.»

L’uomo dalla pelle scura non si prese neanche la briga di rispondergli. Fece un cenno ai due ragazzi dal volto pallido e grosse occhiaie nere intorno agli occhi e con un sorriso storto indicò il capitano.

«Tutto vostro, ragazzi.»

Prima che il capitano Pullings potesse anche solo respirare, la ragazza pallida gli puntò contro una piccola balestra e un dardo ipodermico gli si piantò con uno sbuffo sul petto. Il capitano gridò, più che per la sorpresa che per il dolore. «Ma che...» borbottò.

La ragazza inclinò lievemente la testa.

«Quello serve a farti restare sveglio.»

Solo in quel momento si accorse del ragazzo. Era a qualche passo da lui, e non l’aveva sentito arrivare. In mano aveva un coltello ricurvo, ed un sorriso completamente folle dipinto sul volto.

Il capitano Pullings fu travolto da un’ondata di orrore sconvolgente che distrusse qualunque forma di lucidità e raziocinio che ancora possedeva. Urlò come un animale braccato, mentre la vescica si svuotava, inzuppandogli i pantaloni. 

Gli occhi del ragazzo si fecero più vicini, fino ad inglobare tutto il suo campo visivo. Poi la festa ebbe inizio, e il capitano Pullings cominciò ad urlare per davvero.

 

«Sai usare i sistemi di puntamento?»

«Io... in teoria, ma non...»

«Bene.» Clove si era tolta la giacca dell’uniforme da soldato, rivelando la corazza nera che le aderiva addosso come una seconda pelle. Chiuse il terminale di comunicazione, immaginando gli addetti alla comunicazione della Lady di Ferro che ricevevano il messaggio cifrato, costringendo il comandante della nave a salire sul ponte di comando, dove il Nero e gli altri lo attendevano. Fino a quel momento, il piano di Rorke sembrava filare liscio.

«Non ce la farai» disse il capitano Hendricks.

Clove si avvicinò, l’aria minacciosa. «Come, prego?»

La giovane donna la guardò con aria di sfida. «La nave è troppo lontana dalla spiaggia. Non ce la farai mai a colpire i soldati.»

L’angolo della bocca di Clove si sollevò. «Non è la spiaggia che mi interessa. Ora voglio che prepari tutti i cannoni principali, e li punti contro la nave davanti a noi.»

«Che cosa?» L’orrore si dipinse sul volto dell’ufficiale di marina. «Oh no...»

«Oh sì. Adesso sbrigati, o ti taglio la gola e faccio da sola.»

 

Il sergente dei Fanti Scelti Merryweather Bennet, in servizio sulla Dura Lex, strabuzzò gli occhi stupefatto quando girò l’angolo e vide il suo collega Thomas Hardy sbracato su una sedia davanti ad un tavolino, intento a giocare a carte con la sua squadra.

«Thomas, che diavolo stai facendo?» esclamò il sergente. «Perché non sei a fare la guardia al vice-ammiraglio?»

«Rilassati, Merry» fece l’uomo, lo sguardo fisso sulle carte «il vecchio mastino ha detto che voleva essere lasciato in pace, che gli impedivamo di pensare liberamente, così ci ha dato il resto della giornata libera.»

Il sergente Bennet imprecò fra se’. «E tu hai pensato bene di sbaraccare e lasciarlo da solo. Maledizione, Tom! Se gli succede qualcosa finisci dritto davanti alla Corte Marziale.»

Il sergente Hardy posò le carte con un sospiro. «Merry, stai tranquillo, non sono stupido. Ho lasciato Duncan e quella ragazza nuova di guardia. Il vice-ammiraglio è in ottime mani.»

Per un attimo, il sergente Bennet credette che l’udito l’avesse ingannato. «Un attimo, Tom. Quale nuova ragazza?»

«Ma sì, Merry, quella piccoletta. Mi ha detto che l’avevi mandata tu, perché la tua squadra era al completo.»

Un terribile, mortale spuntone ghiacciato trafisse il cuore del sergente Bennet. 

«Tom, io non ti ho mandato nessuna ragazza.»

Un silenzio di ghiaccio accolse quelle parole, mentre il sergente Hardy si bloccò, il volto contratto in un espressione di ottusa incredulità.

Poi l’intera nave sussultò, facendo vacillare il sergente Bennet. Il soldato dovette appoggiarsi alla paratia per non cadere a terra.

Le carte da gioco del sergente Hardy fluttuarono pigramente sul pavimento.

«Oh merda. Quelli erano i nostri cannoni.»

La Dura Lex aveva aperto il fuoco.

 

Il cratere era ormai affollato. La grossa buca offriva un riparo sicuro ai fanti disperati, che, vedendo che qualcuno riusciva a sopravvivere a quella tempesta di piombo, sempre più numerosi si lasciavano cadere lì dentro. Il nemico, però, aveva notato quell’inconsueto assembramento di soldati, e i proiettili di mortaio si facevano sempre più vicini e pericolosi.

«Dobbiamo andarcene da qui!» disse Lee, mentre una bomba cadeva a mezzo metro dal cratere, inondando di sabbia i soldati più vicini al bordo. 

«E dove dovremmo andare?» rispose sarcastica una ragazza bionda del Distretto Cinque. «Non mi pare che abbiamo molta scelta!»

Il sergente Ayla Wilkins osservava attentamente un bunker a qualche centinaio di metri ad est della loro posizione. «Qualcuno di voi ha degli esplosivi?»

«Io, signore» rispose un ragazzo ossuto dai grandi occhi acquosi «soldato Leroy, signore. Avevo un mortaio, ma è andato a fondo insieme al mio compagno di squadra; sono riuscito a salvare i proiettili, però.»

«E che ce ne facciamo di proiettili da mortaio senza un mortaio?» latrò un uomo di mezza età con un paio di folti baffi grigi.

«Basta armarli sbattendo il percussore su qualcosa di duro» disse Leroy «e poi funzionano come bombe a mano, solo che scoppiano appena toccano qualcosa.»

«Andranno bene.» Il sergente Wilkins si rivolse ai soldati ammassati nel cratere. «Ora statemi a sentire. Ci dirigeremo lì» disse, indicando il bunker che aveva precedentemente adocchiato «e ci avvicineremo il più possibile. Le rocce lì sotto sono instabili: con un paio di esplosioni faremo crollare tutto quanto.»

«E tu come lo sai?» chiese Dan, scettico.

«Ho cominciato a lavorare in miniera quando avevo diciott’anni» rispose la donna «riconosco una parete che viene giù quando la vedo.» Guardò tutti quegli occhi disperati puntati su di lei, ingoiò la paura e si costrinse ad essere forte. 

«State pronti: subito dopo la scarica di mortai ci muoviamo. Muovetevi a zig zag e non vi accalcate: un gruppo di uomini è un bersaglio facile, un soldato singolo è uno spreco di proiettili. Ci vediamo davanti al bunker.»

 

La flotta ribelle si era schierata in due file parallele tra loro, con il fianco sinistro rivolto verso la spiaggia. La prima fila era composta da cinque grandi navi da sbarco: la Lady di Ferro, la Sempre Vigile, l’Avanguardia, la Martire e la Lancia di Demos. Alle loro spalle, quattro corazzate facevano loro la guardia: la Dura Lex, la Incorruttibile, la Ceneri di Panem e la Tredicesima Ora. E infine, dietro le corazzate, con la prua rivolta verso il Distretto Quattro, l’ammiraglia Ragazza di Fuoco controllava il campo di battaglia, al sicuro dietro quel muro di acciaio e cannoni.

La Dura Lex era al limite sinistro dello schieramento: a sinistra verso poppa c’era la Lady di Ferro, a sinistra verso prua la Sempre Vigile e davanti a se’ la Incorruttibile. Sotto la minaccia di un pugnale alla gola e con il volto rigato dalle lacrime, il capitano di corvetta Jacqueline Hendrix premette un pulsante e ordinò il fuoco alle batterie di prua della corazzata, tutte puntate contro la poppa della Incorruttibile.

La prima salva distrusse le eliche, disintegrò il timone e aprì ampi squarci nella corazzatura. La seconda penetrò nella sala macchine, polverizzando un centinaio di operai e trasformando i potenti motori in una massa informe di lamiere contorte. La terza attraverso i locali devastati della sala macchine, sfondò le paratie corazzate e detonò dentro la santabarbara. 

Quasi un migliaio di proiettili di cannone a lunga gittata lunghi un metro e mezzo e spessi quasi un braccio esplosero simultaneamente. Il deposito munizioni, i quartieri dell’equipaggio, la mensa e parte della torre principale furono annichiliti dalla gigantesca esplosione che si propagò proprio dal centro della nave. Il comandante, il suo staff e tutti i tecnici della sala operativa ebbero appena il tempo di accorgersi dell’attacco prima di trasformarsi in torce umane ed avvampare come un fascio di rami secchi.

Con un boato apocalittico che scagliò a terra gli uomini sul ponte delle navi vicine e frantumò i vetri della Sempre Vigile, l’Incorruttibile si spezzò in due tronconi, scagliando enormi pezzi di acciaio contorto a chilometri di distanza. L’acqua vicino alla corazzata ribolliva, mentre con uno straziante gemito metallico l’Incorruttibile iniziò lentamente ad affondare.

Il ponte di comando della Ragazza in Fiamme era in preda al caos: l’ammiraglio Collins era letteralmente sommerso dagli ufficiali di collegamento, che riportavano le comunicazioni dei comandanti sgomenti delle altre navi. 

«Signore, la Ceneri di Panem chiede il permesso di rompere la formazione e ingaggiare la Dura Lex...»

«Signore, il tenente Rowlins della guarnigione della Sempre Vigile chiede il permesso di abbordare la nave...»

«La Martire e l’Avanguardia chiedono istruzioni, signore. Devono continuare a sbarcare le truppe?»

«La Sempre Vigile ha intenzione di sbarcare i mezzi pesanti e poi disimpegnarsi, signore. Devo impedirglielo?»

In tutto quel baccano, nessuno si accorse che la Lady di Ferro non aveva inviato alcuna trasmissione, nonostante fosse, insieme alla Sempre Vigile, la più vicina alla corazzata traditrice.

In mezzo alle urla e agli strepiti, il guardiamarina Charlie Adwin osservò sconvolto l’Incorruttibile affondare lentamente. Stupendo se’ stesso, si chiese se quegli uomini avessero sofferto prima di finire carbonizzati.

Poi vide i grossi cannoni della Dura Lex ruotare lentamente verso di lui, e realizzò con orrore che lo avrebbe scoperto molto presto.

 

Se qualcuno si fosse avvicinato ad Ayla Wilkins alla fine del suo turno al Giacimento sussurrandole all’orecchio che un giorno si sarebbe trovata a guidare un gruppo di ragazzi, uomini e vecchi disperati in una spiaggia tempestata dalle pallottole, lei probabilmente sarebbe scoppiata a ridere. Era una madre, non un soldato; non era una di quelle donne toste come la sua amica Macy che battono a braccio di ferro gli spacconi al bar e non hanno paura di niente. Poi però erano arrivate le bombe, le urla, il fuoco: il Distretto Dodici era stato raso al suolo, portandosi via il suo amato André, la sua piccola Sue e la sua amica Macy, che avrebbe affrontato il mondo a mani nude. Macy era morta e lei era lì, con un vecchio fucile in mano e un branco di disperati che la seguivano ciecamente, perché non avevano un opzione migliore di una vedova minatrice come capo.

Correva da un riparo all’altro, cercando di ignorare le fitte alla milza, gettandosi nei crateri, rotolando dietro le difese anticarro, strisciando fra le montagne di corpi che fornivano un grottesco riparo dai proiettili implacabili. 

Cercò di pensare solo al suo respiro mentre attraversava la spiaggia. Non si voltò a guardare se gli altri la seguissero, perché non voleva vederli miseramente falciati dalle mitragliatrici. Ogni tanto incontrava qualche soldato terrorizzato, si fermava qualche istante a illustragli il suo piano, e poi ripartiva, senza attendere una risposta. Teneva gli occhi fissi sul bunker, come se il suo sguardo potesse in qualche modo accorciare la distanza che la separava dal suo obbiettivo.

Proprio davanti al bunker, un gruppo di tre uomini e una donna era rannicchiato dietro una difesa anticarro. «Oh, grazie al cielo!» esclamò uno di loro «credevo saremmo rimasti qui per sempre!»

«Chi diavolo siete voi?» chiese il sergente Wilkins. Quegli uomini avevano la classica divisa grigia del Tredici, ma non sembravano appartenere alla Fanteria Scelta, il braccio armato di quel Distretto che se ne stava al sicuro dentro le navi al largo, insieme ai carri armati. Non avevano armi ne’ protezioni a parte l’elmetto, solo degli affari squadrati di metallo nero che stringevano a se’ come fossero il più prezioso dei tesori.

«Siamo la Troupe numero Sette» rispose la donna «dobbiamo documentare lo sbarco in questa sezione di spiaggia.»

Per poco Ayla Wilkins non scoppiò a ridere.

Quelle cose sono telecamere. È la fottuta televisione!

«Mollate quelle telecamere e prendete dei fucili» disse acida, lanciando un’occhiataccia alla donna. «Tra poco andiamo dall’altra parte.»

«Oh, magnifico!» trillò la donna «E tu che dicevi che qui non avremmo combinato niente di buono!» aggiunse, rivolta ad uno della sua squadra.

Mio Dio, sono fuori di testa.

«Pronti, signore» fece una voce alle sue spalle. Il soldato Leroy la fissava con i suoi occhi acquosi, mentre alle sue spalle il resto della raffazzonata squadra d’attacco si radunava cercando di schivare le pallottole.

«Ottimo. Ora viene la parte difficile. Dobbiamo arrivare a tiro del bunker.»

Molti soldati sbiancarono. Attraversare la spiaggia costeggiando il bagnasciuga era già una perversa roulette russa; andare dritti contro le mitragliatrici era un vero e proprio suicidio.

«Non possiamo andare lì! Moriremo tutti!» disse la ragazza bionda del Cinque, strillando con fare nevrotico.

«Non abbiamo altra scelta» disse il sergente Wilkins. «Indietro non si torna.»

«Sì invece! Prendiamo un mezzo da sbarco, torniamo verso le navi! Se restiamo qui siamo tutti morti!»

Se avesse avuto un po’ di tempo a disposizione, la ragazza del Cinque avrebbe finito per convincere tutti quanti dell’inutilità del piano del sergente Wilkins. I soldati superstiti avrebbero cercato di salvarsi la pelle nuotando o tornando indietro con i mezzi da sbarco ancora integri, e l’assalto al Distretto Quattro sarebbe inevitabilmente fallito, e con esso forse l’intera guerra.

Ma proprio quando la determinazione del sergente Wilkins era sull’orlo di un baratro, il destino decise di tirarla indietro per la camicia.

E la Incorruttibile esplose.

Il bagliore dello scoppio illuminò tutta la baia, nonostante fosse una giornata particolarmente radiosa. Per un istante, anche le mitragliatrici cessarono il fuoco, per ammirare quell’incredibile e agghiacciante spettacolo di fuoco e morte. L’onda d’urto dell’esplosione arrivò fino alla spiaggia, soffiando il suo respiro ardente sui volti dei Fanti di Linea.

E mentre la corazzata lanciava il suo ultimo lamento di metallo ferito prima di inabissarsi, il silenzio scese su tutta la linea del fronte. Poi la ragazza del Cinque guardò il sergente Wilkins con gli occhi spalancati dall’orrore, e con labbra tremanti diede voce ai pensieri di tutti i Fanti lì presenti.

«Dicci cosa dobbiamo fare.»

 

«Hanno puntato i cannoni, signore, ma non sembrano intenzionati a sparare...»

«Il tenente cannoniere Harker assicura che può distruggere le armi nemiche prima che possano causare danni significativi alla struttura...»

«Secondo il reparto logistico le loro armi non sono in grado di compromettere definitivamente la nave. Dovremmo sopravvivere abbastanza a lungo da fornire una risposta adeguata...»

«Il rifornimento è stato ultimato, signore, siamo pronti a fare fuoco.»

L’ammiraglio Collins fece appello a tutta la sua esperienza e a tutto il suo sangue freddo per cercare di mantenere l’autocontrollo. Con un terribile voltafaccia, la Dura Lex era passata al nemico: solo così si poteva spiegare l’accanimento con cui aveva affondato la Incorruttibile. Ma il vice-ammiraglio Lucan era un suo grande amico, non riusciva ad immaginarselo come traditore. Non era semplicemente possibile.

A meno che...

L’alternativa era forse peggiore del tradimento del vice-ammiraglio. Se non era stato Lucan ad ordinare di sparare contro la Incorruttibile, allora qualcun altro aveva dato l’ordine. Qualcuno che aveva catturato o probabilmente ucciso il vice-ammiraglio, e che ora aveva il controllo di una corazzata e dei suoi centotrentotto cannoni.

«Nessuna trasmissione dalla Dura Lex?» chiese l’ammiraglio. Se sulla nave c’era stato un ammutinamento, allora il capo della rivolta aveva sicuramente qualche richiesta da fare per svignarsela con la nave intatta, o almeno per avere il tempo di fuggire e cercare rifugio a terra.

«Nessuna, signore. Non rispondono neanche ai nostri messaggi.»

«Mandiamo della Fanteria Scelta a riprendere il controllo della nave» propose il tenente Marlowe.

«Non abbiamo tempo, tenente. La Dura Lex potrebbe decidere di spararci da un momento all’altro.»

«Lascerete dunque la nave al nemico?»

«No.» L’ammiraglio si rivolse ad un suo attendente. «Al mio segnale, fuoco a volontà. Preferisco vedere quella nave in fondo al mare, piuttosto che nelle mani dei capitolini.»

«Signore, ci sono degli uomini sul ponte della Dura Lex! Stanno facendo dei segnali, signore!»

L’ammiraglio prese il binocolo e inquadrò il ponte della corazzata traditrice. Diversi uomini si sbracciavano, gridando parole incomprensibili e indicando il ponte di comando. Uno di loro muoveva uno specchietto, catturando i raggi del sole ad intervalli regolari.

Codice Morse.

L’ammiraglio prese un blocco note e cominciò a scrivere il messaggio.

N-E-M-I-C-O-P-R-E-S-O-P-O-N-T-E-C-O-M-A-N-D-O-P-O-R-T-E-B-L-O-C-C-A-T-E-I-M-P-O-S-

L’uomo non ebbe tempo di finire il messaggio. Un ragazzo e una ragazza vestiti con una corazza nera sbucarono sul ponte. Gli uomini smisero di sbracciarsi e fissarono attoniti i due nuovi arrivati. Poi, prima che potessero realizzare la situazione, i due sconosciuti si avventarono contro di loro, cominciando a maciullarli con spietata ferocia.

«Oh mio Dio. Li stanno massacrando!»

Il ragazzo brandiva una spada lunga e uno scudo tondo, mentre la ragazza faceva saettare due lame più corte, talmente velocemente che si faceva fatica a distinguerle.

Un paio di Fanti Scelti sbucò sovracoperta. Il ragazzo li vide e si mise in ginocchio, nascondendosi dietro lo scudo. La ragazza si accucciò dietro di lui, mentre i colpi dei soldati si abbattevano senza danni sulla loro protezione. Non appena i Fanti Scelti finirono i colpi, la ragazza si lanciò contro di loro e li abbattè prima che riuscissero a ricaricare.

L’ammiraglio abbassò sgomento il cannocchiale. Chi diavolo erano quei folli assassini? E come erano saliti sulla Dura Lex? Immaginò che non fossero soli, e che in quel momento altri di loro erano nella sala comando, pronti a fare fuoco contro di loro.

Non vogliono fuggire. Vogliono distruggerci.

«A tutte le batterie: mirate alla vampa dei cannoni» comandò. Se prima aveva avuto qualche scrupolo, ora non c’era più alcun dubbio: la Dura Lex andava fatta saltare per aria, il prima possibile. 

«Fuoco!»

La Ragazza di Fuoco rollò verso destra paurosamente, a causa del tremendo rinculo dei cannoni che avevano fatto fuoco tutti da una stessa parte. La Dura Lex fu avvolta dalle fiamme, mentre porzioni intere della nave esplodevano, lanciando detriti fiammeggianti che caddero in acqua con un grosso sbuffo.

«Pronti per la seconda salva!» gridò l’ammiraglio, pervaso da un sacro furore. «Mirate alla torre di comando!»

«Signore, signore! Abbiamo una lettura sul radar! Ostile in avvicinamento da nord-nordovest!»

«Che cosa? Quale ostile? Non...» cominciò l’ammiraglio, ma non ebbe bisogno di terminare la frase.

Qualcosa spezzò la cortina di denso fumo nero che si levava dai rottami della Incorruttibile. Qualcosa di incredibilmente grosso, dal ventre piatto e lanciato a tutta velocità contro di loro.

La Lady di Ferro.

 

Quando il tenente Simmons della Lady di Ferro si accorse del cambio di rotta era già troppo tardi.

Irruppe nella sala comando con tutta la guarnigione di Fanti Scelti della nave, trovandola vuota e lastricata di cadaveri: uno in particolare, che somigliava vagamente al capitano Pullings, era stato scuoiato completamente, dalla testa alle punte dei piedi. Più di un soldato scelto rigettò la colazione a quella vista agghiacciante. 

Il tenente Simmons corse al quadro comandi: la chiave di comando, l’esclusiva proprietà di un comandante che serviva per mettere in moto la nave, era inserita e poi deformata per impedire che venisse estratta. La rotta era stata impostata, il timone distrutto, il terminale di comunicazione crivellato di proiettili. La Lady di Ferro si muoveva a tutta manetta, e non poteva essere fermata.

Ma che cosa ci guadagnano dal far partire questa vecchia bagnarola? I soldati sono sbarcati quasi tutti, quindi...

La vista dalla vetrata era stata oscurata da un denso fumo nero, ma non appena tornò la visibilità, la mente del tenente Simmons ebbe un corto circuito.

Ora sapeva dove stava andando la sua nave.

 

Sul ponte di comando della Ragazza di Fuoco scese il silenzio. Per ricaricare i cannoni, puntarli contro la Lady di Ferro e sparare ci voleva meno di un minuto, ma non sarebbe comunque bastato a fermare la carica di quell’enorme bestione d’acciaio.

Un’istante prima che la nave da sbarco si schiantasse contro la Ragazza di Fuoco, l’ammiraglio Collins pregò per la prima volta in tutta la sua vita.

La Ragazza di Fuoco era una nave possente, la corazzata più grande della flotta; ma quando diecimila tonnellate lanciate a tutta velocità impattarono contro il suo fianco sinistro, si spezzò come un grissino. Con uno schianto e uno stridio agghiacciante, la Lady di Ferro penetrò nella nave ammiraglia, fracassando tutto quello che le si parava davanti e sbucando dall’altra parte, separando la Ragazza di Fuoco in due enormi tronconi.

E in quel momento la Dura Lex, sanguinante ma ancora in grado di combattere, fece fuoco con tutti i cannoni scampati alla bordata dell’ammiraglia. Gli enormi proiettili penetrarono nello scafo della Lady di Ferro e incontrarono le migliaia di litri di carburante che occorrevano per far muovere una nave di quella stazza. Con un botto terrificante che fece impallidire quello della Incorruttibile, la Lady di Ferro si trasformò in un’accecante palla di fuoco arancione. La forza dell’esplosione proiettò in avanti il troncone anteriore della Ragazza di Fuoco, sollevandolo di quasi quarantacinque gradi, dritto contro il fianco destro della Ceneri di Panem. Ci fu un altro schianto assordante, e le lamiere contorte della Ragazza di Fuoco aprirono uno squarcio enorme nella fiancata della corazzata, inondando i locali interni di acqua salata. Il comandante ordinò di abbandonare la nave, mentre la prua dell’ammiraglia colava a picco dopo aver compiuto la sua missione distruttiva.

La flotta ribelle aveva appena perso il suo centro di comando, l’ammiraglio, il vice-ammiraglio e più di metà della sua forza d’attacco. Sulla spiaggia, i Fanti di Linea morivano a centinaia, intrappolati in un inferno di bombe e proiettili senza alcuna via d’uscita.

Nello stesso momento, a parecchi chilometri di distanza, il colonnello Rorke sollevò un pedone dalla scacchiera che aveva di fronte e lo mosse in avanti di due caselle.

Il sole aveva appena raggiunto lo zenit, i ribelli erano ad un passo dalla sconfitta.

La partita era appena cominciata.






























L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Mi sa che mi sono fatto un po' prendere la mano. Questo capitolo è un po' lunghetto e per quanto riguarda i nostri eroi non è che succeda chissà che cosa: per lo più è gente che vomita, sgrana gli occhi e rimane sbigottita di fronte all'inevitabile corso degli eventi... e navi che esplodono. Tante navi che esplodono. Oh sì. E a proposito di navi, non so bene come funzionino le corazzate tipo seconda guerra mondiale (io preferisco i velieri, di cui comunque so ben poco), quindi per molte cose sono andato a naso. Se trovate qualcosa di improbabile, abbiate pietà e segnalatemelo.
Però ho introdotto il sergente Ayla Wilkins, qualcosa di buono ho fatto. La sergentessa è uno di quei personaggi che nascono per caso: all'inizio era un uomo che doveva fare qualche battuta da soldato rozzo sulla merda e sulle fottute trappole, e traghettare Dan e gli altri poveri disgraziati fuori da quell'inferno. Poi però mi è sembrato più interessante far svolgere questo ruolo ad una donna: immaginate una neo-mamma (ex, in questo, caso, perché la guerra è la guerra e io sono un maledetto bastardo schiavo del pathos) con un po' di culone che si improvvisa master and commander e conduce una banda di ragazzetti e vecchi in avanti, verso la gloria. Figo, no? Almeno per me, che ho la fissa della gente comune.
Vabbé insomma, divertire mi sono divertito, ma sono ancora un po' incerto sull'effettivo intrattenimento di questo capitolo: non vorrei che risultasse un po' noioso e con poco spazio per i protagonisti. Fatemi sapere, dunque: sono pagato per prestarvi ascolto. In realtà non mi pagano neanche, però vi rispo lo stesso. Promesso.

Vabbuò ggente, tante care cose, come sempre, e alla prossima!
 

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Capitolo 10
*** A noi la mossa ***


9.

A noi la mossa

 

 

“Avanti, figli di puttana! Volete vivere in eterno?”

-Sergente Dan Daly, durante la battaglia di Bosco Belleau, 1-26 giugno 1918

 

 

 

Nel centro di comando delle Forze Armate Rivoluzionarie, una stanza spoglia qualche centinaio di metri più in basso dell’ex municipio del Distretto Tredici, l’atmosfera era pesante come una cortina di ferro.

Il presidente Coin aveva appena ricevuto i rapporti dello sbarco al Distretto Quattro. Quasi tutte le corazzate affondate, migliaia di morti e altre migliaia intrappolate senza una via d'uscita: quella che doveva essere un’operazione rapida e silenziosa si era trasformata in una sanguinosa battaglia campale.

«Com’é possibile?» chiese, lo sguardo fisso sulla mappa tattica di Panem con la posizione di tutte le armate ribelli che si aggiornavano in tempo reale. 

«Ci era stato assicurato che quella spiaggia era la zona migliore per l’attacco» disse il generale Pointer, a disagio.

Il presidente si girò, fulminandolo con gli occhi ridotti a due fessure «Chi ve l’ha assicurato, generale?»

«Una... fonte interna all’Esercito Regolare. Finora si era sempre mostrato attendibile.»

«Ho chiesto chi, generale.»

«Noi... non lo sappiamo. Per identificarsi usa il nome Ianos: per motivi di sicurezza, non ci ha mai voluto rivelare altro.»

«Quindi l’intera operazione si basava su una segnalazione di un signor nessuno di cui non conosciamo neanche il nome?» sibilò il presidente. Era stata una delle prime cose che il suo stato maggiore le aveva detto riguardo a quell’attacco, ma la donna sembrava esserselo dimenticato.

«Signore, eravamo a conoscenza dei rischi...»

«Al diavolo!» sbottò il presidente Coin. «Avremmo dovuto prendere il sottodistretto principale prima che il nemico se ne potesse rendere conto. Ora sarà tutto più complicato.» Tornò a fissare la mappa. «Notizie dal fronte principale?»

«Buone, signore. Il nemico resiste, ma grazie ai nuovi carri prodotti dal Distretto Sei è solo questione di tempo prima che le linee capitoline collassino.»

«Ma se il Distretto Quattro non cade, i nostri uomini si ritroveranno con il fianco scoperto. Non possiamo rischiare che l’offensiva centrale fallisca. Maresciallo Norton, quanti aerei abbiamo di riserva?»

«Il Dodicesimo Stormo Caccia e il Trentaduesimo Bombardieri: un centinaio di aerei in tutto. Il resto è impegnato nelle offensive al Distretto Due» rispose il maresciallo, un uomo alto e allampanato dai profondi occhi azzurri.

«Bene. Fateli decollare appena possibile e mandateli alla spiaggia. Entro questa sera il nemico deve essere respinto.»

«Faranno il loro dovere, signore» disse risoluto il maresciallo.

«Che è quello che mi aspetto da ognuno di voi» concluse il presidente Coin. «Bene, potete andare.»

Ci fu un sonoro raschiare di poltrone mentre gli ufficiali dello stato maggiore del presidente raccoglievano le loro cartelle e uscivano dalla stanza. Solo una persona rimase al suo posto: una ragazza mora, dall’aria fragile e al tempo stesso risoluta.

Katniss Everdeen, la Ghiandaia Imitatrice, si schiarì la voce. «Signor presidente...»

«So già cosa vuoi chiedermi, soldato Everdeen.» rispose il presidente, gli occhi puntati sulla mappa. «La risposta è ancora no.»

«Signore, con tutto il rispetto» disse la ragazza «Peeta è un’arma molto potente nelle mani del presidente Snow. Se noi non facciamo qualcosa...»

Il presidente Coin si girò di scatto. «Che cosa crede, soldato Everdeen, che mi diverta a vedere quel ragazzo ogni volta in televisione? Le sue maledette interviste sono una costante spina nel fianco per la nostra causa. Se potessi fare qualcosa lo farei, ma non ho le risorse per tirarlo fuori di lì.»

«Sicuramente avrete dei contatti a Capitol City. Qualcuno che possa farlo scappare...»

«Non possiamo rischiare di far saltare la nostra rete di contatti nella capitale per un uomo soltanto.»

«Allora andrò io.»

«Non se ne parla, soldato Everdeen. I rischi sarebbero assolutamente inacc...»

«Me ne frego dei rischi!» gridò Katniss, alzandosi di scatto e mandando lo schienale della sedia a sbattere rumorosamente per terra. «Non starò a guardare mentre Peeta viene torturato. Io non... io non posso. Lui avrebbe fatto lo stesso per me.»

«Soldato Everdeen, farò finta di non aver assistito alla sua palese insubordinazione» disse il presidente, glaciale. «Questa è una guerra. Lei è un soldato, Peeta Mellark è un soldato, tutti siamo soldati. E i soldati fanno due cose: conoscono i rischi e obbediscono agli ordini. Il soldato Mellark lo sa, e lo dovrebbe sapere anche lei.»

«Peeta non...»

«Mi ascolti, soldato. Qui c’è in ballo qualcosa di molto più grande di voi due. Lei è il simbolo dei nostri ideali, di quello per cui combattiamo. Non può permettersi di lasciarsi traviare dall’egoismo. Ognuno di noi è chiamato a fare un sacrificio, in cambio del bene comune. Solo così possiamo vincere questa guerra.» Il presidente Coin tornò a guardare la mappa, con le mani dietro la schiena. «Peeta Mellark è sacrificabile, lei no. La questione è chiusa. Potete andare, soldato Everdeen.»

Katniss rimase qualche istante immobile, le mani convulsamente strette a pugno. Aprì la bocca, poi la richiuse. Fuggì via dalla sala, in preda ad un'ira talmente potente che le faceva battere i denti.

Mentre una folle, sconsiderata idea cominciava a formarsi nella sua mente.

 

Il sergente Ayla Wilkins era a corto di idee. 

Non c’era modo di avanzare. Le mitragliatrici costringevano i Fanti di Linea a restare perennemente con la testa bassa, spazzando la spiaggia con roventi sventagliate di proiettili: sembrava che avessero il presentimento che il nemico stesse per attaccarli. Serviva qualcosa, qualunque cosa, che distraesse i soldati nel bunker per il tempo necessario per arrivare a tiro dello sperone roccioso.

«Abbiamo dei fumogeni?» chiese ai soldati accucciati accanto a lei.

«Non credo, signore. Forse ce li hanno i Fanti Scelti» disse il soldato Leroy con una punta di sarcasmo. 

«Maledetti figli di puttana» rincarò la dose Penelope O’Brian, la ragazza bionda del Cinque.

«Prima o poi finiranno i proiettili, quei bastardi!» esclamò Lee. «Che cosa facciamo, sergente?»

Non ne ho idea, maledizione, non ne ho proprio idea.

Il sergente Wilkins si guardò intorno, alla disperata ricerca di qualunque oggetto potesse esserle utile. Il suo sguardo cadde su un mezzo da sbarco fiammeggiante, arenato sul bagnasciuga a qualche decina di metri da lei.

Forse c’è qualcosa, lì dentro. Un razzo di segnalazione, o che so i-

Fu come se qualcuno avesse spento l’interruttore. Tutto divenne incredibilmente bianco, poi immensamente nero. Una forza rovente la spinse con forza all’indietro, mandandola a sbattere contro la difesa anticarro dietro la quale si era riparata. E infine, quello che la sua mente delirante registrò come l’urlo di guerra di una divinità infuriata le tolse qualsiasi sorta di udito, lasciando un acuto e penetrante fischio.

Aprì gli occhi, ma non servì a nulla. Il terrore di essere diventata cieca la travolse. Si alzò in piedi, tremando come una foglia, e ricadde malamente a terra. Il suo respiro affannoso la intronava, il battito del suo cuore la faceva impazzire. Tossì violentemente, in preda ad uno spasmo nervoso. Poi lentamente, molto lentamente, i contorni di una spiaggia violentata dalla guerra iniziarono a delinearsi davanti a lei. 

E infine lo vide.

Un enorme fungo di denso fumo nero si levava alto dietro la linea delle navi da sbarco, aggredito alla base da gigantesche fiammate. Qualcos’altro era esploso, qualcosa che aveva fatto apparire insignificante il botto della Incorruttibile.

Il sergente Ayla Wilkins non perse tempo a chiedersi cosa fosse successo. Strinse a se’ il fucile, che tremava paurosamente nelle sue mani traumatizzate dall’esplosione, e si avviò con passo incerto verso il bunker. Sollevò l'arma e sparò qualche colpo verso la feritoia, avvertendo soltanto un lieve ronzio. Gettò l’arma a terra e si toccò l’orecchio sinistro: quando le ritrasse, le dita erano sporche di sangue.

Vaffanculo. Vaffanculo a tutti.

Gridò con tutta la voce che aveva in corpo, ma udì solo un’eco lontana. Stordita dallo shock e dall’adrenalina, afferrò i proiettili di mortaio che teneva appesi alla cintura e sbatté violentemente i loro percussori sull’elmetto, poi, con tutta la forza che le rimaneva, li tirò sulla roccia che reggeva il cemento del bunker. Non udì lo scoppio, ma quando vide grossi pezzi di roccia staccarsi e cadere a terra seppe che forse il suo piano suicida avrebbe funzionato.

 

Sul ponte di comando della Dura Lex cominciava a fare caldo.

Il fuoco, che aveva conquistato i settori inferiori, lambiva le vetrate spaccate, pronto a gettarsi dentro la sala e divorare tutto.

Semistordita dall’apocalittica esplosione della Lady di Ferro, Clove si avviò con fare incerto verso la porta corazzata che aveva saldato dall’interno, per impedire a chiunque di fare irruzione. Il pavimento inclinato non aiutava le sue gambe molli, e fu solo grazie alla sua determinazione che riuscì a non cadere a terra. Si appoggiò stancamente alla porta, e vi piazzò una piccola dose di esplosivo plastico superconcentrato, sopra la quale applicò un timer detonatore. Respirò profondamente, sentendo le forze ritornare, poi premette un pulsante sul timer e andò a nascondersi dietro il timone.

Lo schianto della porta massacrata dall’esplosivo le sembrò incredibilmente patetico, rispetto al botto spaccatimpani della Lady di Ferro. Si alzò in piedi, e notò il capitano di corvetta Hendricks che si appoggiava stancamente alla console di comando, con la mano destra premuta sulla tempia e lo sguardo sofferente. Clove si avvicinò di scatto e la afferrò per il bavero dell’uniforme.

«Muoviti, adesso» ringhiò, spingendola davanti a se’. Poi, con una mano premuta sulla sua schiena e l’altra stretta intorno al calcio della pistola del vice-ammiraglio, si apprestò a lasciare la sala comando. 

Era pronta a combattere con chiunque le avesse osato intralciare la strada, ma quando sbucò nel corridoio seppe che non ce ne sarebbe stato bisogno.

Una decina di fanti scelti, le squadre del sergente Bennet e del sergente Hardy, giacevano in terra riversi nel loro stesso sangue. Al centro del corridoio, troneggianti su quello spettacolo di corpi morti e arti tranciati, c’erano Ares, Artemisia e il Bianco.

«Alla buon’ora» fece la ragazza dai lunghi capelli corvini «cominciavo ad annoiarmi.»

«La nave sta affondando» disse Ares con voce profonda e monocorde, indicando il pavimento inclinato. «Abbiamo dieci minuti per arrivare al punto di rendez-vous.»

In quel momento, Artemisia parve rendersi conto della presenza del capitano Hendricks. Ancheggiando languidamente, si diresse verso la giovane donna, che arretrò di mezzo passo, intimorita dall’intenso sguardo della ragazza. «E lei chi è? Ti sei fatta un’amichetta, Clove?»

Il tono ferocemente derisorio della ragazza mise istintivamente Clove sulla difensiva. «L’avevo conservata come ostaggio; ma ora non mi serve più» aggiunse, sottolineando le parole spintonando malamente il capitano Hendricks. In teoria quella mossa doveva servire a farla apparire spietata agli occhi della sua compagna di scudo; ma non appena l’ebbe compiuta si rese conto di sembrare più che altro un bulletto insignificante che cerca di compiacere il capo della banda. Un’ondata di vergogna e frustrazione si abbatté su di lei, e non riuscì a reggere lo sguardo di Artemisia.

«Bene, Clove, sono lieta di sentirtelo dire.»

Con una velocità inquietante, Artemisia sguainò con la mano destra la spada che portava appesa alla schiena e la immerse nello stomaco del capitano Hendricks. Gli occhi della giovane donna si dilatarono per lo stupore, mentre la bocca si spalancava in un urlo muto di dolore.

«Ssh» fece Artemisia, appoggiando un dito sulle sue labbra. Poi improvvisamente il suo volto si trasformò in preda all’ira, e con una torsione del polso sbatté il povero ufficiale al muro.

«Sei carina» sussurrò, mentre estraeva l’altra spada, appesa al fianco «forse un po’ troppo.»

Gli occhi di Jacqueline Hendricks si piantarono disperati sulla seconda lama che si andava inesorabilmente ad appoggiare sul suo collo. Poi lentamente, molto lentamente, Artemisia fece scorrere la spada, sgozzando il capitano di corvetta come un animale e osservando attentamente la vita scivolare via dal corpo della giovane donna.

Con uno strattone violento, la ragazza buttò il cadavere dell’ufficiale in mezzo ai corpi dei Fanti Scelti. «È tempo di andare, Clove. Dì ciao ciao alla tua amichetta morta.»

Clove non rispose. Lo sguardo basso, in preda a sentimenti che non riusciva a decrifrare, si avviò per il corridoio, cercando disperatamente di non incrociare lo sguardo vuoto di Jacqueline Hendrix e quello fieramente sprezzante della sua compagna di scudo.

 

«Buttatelo giù! Maledizione, buttatelo giù!»

Dan sbattè la base del terzo proiettile di mortaio sull’elmetto e lo tirò alla base del bunker. L’esplosione del colpo si unì agli altri scoppi che aggredivano la parete di roccia, scavano un buco sempre più profondo.

Dan lanciò il quarto proiettile, poi il quinto; la sesta volta, la mano corse alla cintura e si strinse sul nulla. Aveva finito le munizioni.

Fu il soldato Leroy ad avere l’onore di tirare l’ultimo colpo. i Fanti di Linea trattennero il fiato, mentre il proiettile di mortaio compiva la sua parabola nell’aria impregnata di polvere da sparo, e atterrava roteando proprio sotto la grande feritoia dell’edificio difensivo. Uno scoppio, frammenti di roccia sparati in ogni direzione, poi silenzio.

Passò qualche lunghissimo, terribile istante. Infine sì udì un sordo gemito, e Dan potè giurare di vedere la struttura di cemento armato piegarsi sotto la forza di tutte le tonnellate di roccia che premevano sopra di lei. Un tremito impercettibile pervase il bunker.

Poi più nulla.

Dan si sentì morire.

Il bunker era ancora in piedi.

«Figli di puttana! Bastardi! Infami! Maledetti!»

Il sergente Wilkins era in ginocchio, i pugni levati verso il cielo, urlando tutto il repertorio di oscenità di cui era fornita. Dan ebbe appena il tempo di correre verso di lei e gettarglisi addosso, buttandola a terra.

Poi le mitragliatrici ricominciarono la loro macabra sinfonia, e la morte riprese a cavalcare sulla spiaggia.

 

Quando il capitano di vascello Gareth Tallmadge riusci a rimettersi in piedi, cercando di tamponare il sangue che sgorgava a fiotti dalla ferita al sopracciglio, pensò a quando il giorno prima della partenza il capitano McNara si era rotto una gamba e aveva ceduto a lui il comando della Tredicesima Ora e a quanto si era sentito fortunato, e provò l’impulso di scoppiare in una risata isterica. Sollevando un muro d’acqua che aveva quasi ribaltato la corazzata, la Lady di Ferro si era trasformata in una palla gigante di fuoco e acciaio liquefatto, trascinando con se’ nell’oltretomba la Ragazza di Fuoco. Quando aveva visto l’ammiraglia spaccarsi in due come una barchetta di legno, il capitano Tallmadge non aveva potuto fare a meno di pensare che la battaglia era oramai conclusa. Poi i vetri del ponte di comando erano esplosi, tutto era scomparso in una luce accecante e lui si era ritrovato sul pavimento, pesto e sanguinante.

Il timoniere Higgins era a terra, il sangue che fuoriusciva dalla testa spaccata. Molte apparecchiature erano andate in cortocircuito, e una puzza acre di bruciato aleggiava nella sala.

Il capitano Tallmadge provò a deglutire, ma la bocca era completamente asciutta. Cercò di concentrarsi, respirando profondamente e provando a rallentare i battiti del cuore.

La situazione era catastrofica. La Ragazza di Fuoco era saltata in aria, la Incorruttibile era ormai in fondo all’oceano, la Ceneri di Panem era inclinata su un fianco, circondata da marinai e Fanti Scelti che abbandonavano la nave; e la Dura Lex, colpita a morte dall’ammiraglia, cominciava lentamente ad inabissarsi.

Con un colpo al cuore, il capitano Tallmadge si rese improvvisamente conto che la sua nave era l’unica ancora in piedi.

«Signore? Signore, che cosa facciamo?»

La voce, tremante e distorta dalla paura, era quella del sottotenente Howling. Il giovane non aveva più di diciott’anni, e ce la stava mettendo tutta per non farsela sotto. Con un moto di compassione, il capitano Tallmadge provò pietà per quel povero ragazzo buttato nel calderone della guerra, che cercava disperatamente di restare a galla per non annegare.

«Ce ne andiamo, è ovvio» berciò il tenente Grendel, il volto distorto da una vecchia cicatrice sulla guancia di cui tutti si guardavano bene dal chiederne l’origine. «Abbiamo perso, torniamo a casa prima che facciano saltare in aria anche noi.»

Nonostante non provasse simpatia per il tetro ufficiale, il capitano Tallmadge fu costretto ad ammettere che non aveva tutti i torti. La flotta era ormai distrutta, l’offensiva era naufragata di fronte alle scogliere del Distretto Quattro; ogni minuto che restavano lì era un minuto in più offerto ai capitolini per affondarli.

Il capitano stava per ordinare il disimpegno, quando un minuscolo bagliore catturò la sua attenzione. Prese il binocolo e lo puntò verso la spiaggia, guidato più dall’istinto che dalla ragione.

Un gruppo di Fanti di Linea lanciava quelle che avevano tutta l’aria di essere granate contro un bunker incastonato nella roccia. All’inizio il capitano pensò che fosse un gesto dettato dalla disperazione, visto che il bunker era troppo in alto perché le granate potessero entrare nella sua feritoia, ma quando vide i grossi pezzi di roccia rotolare sulla spiaggia si rese conto del piano che c’era dietro.

Niente male.

Se la roccia sottostante il bunker avesse ceduto, la struttura sarebbe crollata, provocando una frana che molto probabilmente avrebbe aperto la strada alla cima della scogliera, e alla salvezza.

Con il cuore in gola, il capitano Tallmadge osservò gli uomini e le donne con l’elmetto tirare le loro bombe di fortuna contro il bunker. Le mitragliatrici stranamente tacevano, forse stordite dall’esplosione della Lady di Ferro. Quando l’ultimo proiettile si abbattè contro la parete, trattenne il fiato. Passò qualche istante, ma non accadde nulla. Poi le mitragliatrici ricominciarono a sparare, abbattendo i fanti allo scoperto come mosche.

«Merda!»

«Signore?» fece il sottotenente Howling, che non aveva assistito agli eventi.

Il capitano Tallmadge abbassò il binocolo, pervaso da una febbrile esaltazione.

Ora sapeva cosa fare.

«Sottotenente Howling, sapete usare il timone?»

Il ragazzo annuì nervosamente, mentre il volto perdeva qualsiasi traccia di colore.

«Bene. Barra a babordo, poi avanti tutta. Passiamo accanto alle navi da sbarco e andiamo verso la spiaggia.»

«Signore, gli ordini...» scattò subito il tenente Grendel.

«Fanculo gli ordini» ringhiò il capitano Tallmadge. «È ora che anche noi facciamo la nostra parte, tenente.» Fissò la spiaggia martoriata dalle mitragliatrici, mentre un piano che andava contro tutte le logiche della tattica e della strategia si formava nella sua testa. 

«Andiamo a vincere questa guerra.»

 

Nessuno degli uomini sul ponte della Martire o della Lancia di Demos aveva assistito allo scambio di battute nella sala comandi della Tredicesima Ora; eppure, quando videro l’unica corazzata superstite virare a babordo e procedere dritta verso la spiaggia, tutti seppero quali erano le intenzioni del comandante della nave. I marinai si tolsero i berretti, agitandoli in aria, mentre qualche Fante Scelto particolarmente entusiasta sparava brevi raffiche di fucile in aria. Su tutte e quattro le navi cargo rimaste, i Fanti Scelti disobbedivano ai loro ordini e si imbarcavano insieme ai Fanti di Linea, fra le acclamazioni e il giubilo dei soldati ammassati nei mezzi da sbarco.

Ci era voluto l’annientamento di metà flotta da battaglia, ma finalmente il Distretto Tredici passava all’attacco.

 

«Sergente, dobbiamo andarcene di qui, ora!»

Le raffiche di mitragliatrice spazzavano la spiaggia, massacrando la squadra di attacco che aveva miseramente fallito nel suo piano disperato. Mentre la testa del soldato Leroy e i suoi occhi acquosi sparivano in uno sbuffo rossastro, Dan fu preso da una fitta lancinante di panico. Scosse violentemente il sergente Wilkins, ma la donna sembrava chiusa in una sorta di apatico estraniamento. Le sue labbra si muovevano debolmente, formando parole incomprensibili in quel caos assordante. Quando Dan fu abbastanza vicino da udirle, fu come se un liquido gelato gli fosse stato gettato a forza nella gola.

«Lasciami... qui... voglio... morire.»

Un proiettile si piantò con uno sbuffo ad un paio di centimetri dalla sua scarpa. Gettò uno sguardo pieno di terrore verso le difese anticarro, dove avrebbe trovato un riparo sicuro.

Vattene, vattene maledizione! L’hai sentita, no? Lasciala qui e mettiti al riparo, miserabile idiota!

L’istinto di conservazione urlava a pieni polmoni, tendendogli i muscoli e facendolo ansimare come una bestia ferita. Guardò la spiaggia, poi il bunker, poi di nuovo la spiaggia. Era bloccato.

“Grazie a tutti per essere qui, gentili abitanti del Distretto Dieci! Bene, bando ai convenevoli, dunque, e cominciamo! Come sempre, prima le femminucce...”

Il ricordo lampeggiò per qualche istante nel buio della sua mente, squarciandogli il cuore con un crampo doloroso. Prima che potesse rendersene conto, una rabbia tanto potente da fargli tremare le gambe lo pervase. Afferrò il sergente Wilkins sotto le ascelle e cominciò a tirarla con tutte le sue forze.

Non questa volta. Non questa volta.

Il sergente si dibatteva debolmente. Dan immaginava che lo stesse maledicendo per aver disobbedito alle sue ultime volontà.

Non questa volta. Non questa volta.

Le difese anticarro si avvicinavano. Il sergente non era poi così pesante, ancora qualche metro e ce l’avrebbe fatta.

Quando la pallottola lo colpì, Dan non si accorse dell’impatto. Un secondo prima aveva il totale controllo del suo corpo, l’istante dopo cadeva a terra come una marionetta senza fili.

Sentì le sue energie fluire via dal suo collo sotto forma di una fumante rivolo di sangue. 

Non questa volta.

Poi qualcuno spense le luci, e lui non pensò più. 

 

 

Il soldato semplice Jebediah Van Der Lindt vide in quella donna e quel ragazzo sdraiati sulla spiaggia un’ottima occasione per segnare un altra tacca sul calcio della sua mitragliatrice. Era piuttosto sicuro di averne uccisi centoventitré di quei pezzenti, ma niente gli impediva di gonfiare il numero per vincere la scommessa con Riddle e gli altri una volta finita la battaglia. 

Spostò la canna rovente verso i due, accarezzando il dito con il grilletto.

Spiacente, signori, niente di personale.

Si immaginò le facce deluse dei suoi commilitoni una volta messi di fronte all’evidenza che era lui il vincitore; un sorriso storto affiorò sul suo volto, pregustando la vittoria.

Poi i cannoni da quattordici pollici della Tredicesima Ora colpirono il bunker, disintegrando la struttura di cemento armato e trasformando lui e la sua fida mitragliatrice in polvere ardente.

 

«Colpito in pieno, signore! Il bunker è crollato!»

«Ottimo. Howling, barra a babordo. Motori al massimo.»

La Tredicesima Ora viaggiava a tutta manetta. Dopo aver colpito il bunker del sergente Wilkins, la corazzata aveva di nuovo virato a sinistra, mettendosi parallela alla costa. In cima alla scogliera, le batterie di cannoni pesanti, che avevano passato tutta la mattinata inattivi poiché la flotta ribelle si era schierata fuori dalla loro portata, avevano finalmente l’occasione di dimostrare la loro perizia. Gli enormi affusti ruotarono cigolando, puntando la corazzata che osava sfidarli.

«Batteria secondaria sui bunker, batteria primaria sui cannoni in cima alla scogliera. Facciamo saltare in aria un po’ di luridi capitolini» ruggì il capitano Tallmadge. «Fuoco!»

Centoventidue cannoni tuonarono quasi simultaneamente, scuotendo la Tredicesima Ora. La scogliera tremò sotto i potenti cannoni della corazzata; tre bunker esplosero, mentre ad uno cedette il tetto e fu schiacciato dal peso delle rocce sovrastanti.

«Ricaricate i cannoni, il più in fretta possibile» ordinò il capitano Tallmadge. «Ora si balla.»

Il sottotenente Howling stava per chiedere al capitano che cosa intendesse dire con quelle ultime parole, quando l’intera linea difensiva nemica aprì il fuoco sulla corazzata. Il ponte di comando fu scosso violentemente, e il giovane ufficiale dovette reggersi forte al timone per non cadere. La raffica sembrò durare in eterno; tutti i rumori scomparvero e si fusero in rombo continuo ed assordante, punteggiato da schianti assordanti e gemiti metallici.

Quando riaprì gli occhi, fu sorpreso di essere ancora integro: una sezione di pavimento della sala comandi era stata completamente crollato a causa di un colpo di cannone eploso qualche livello più in basso, trascinando con se' tutti gli uomini e le apparecchiature che sosteneva. Quasi immediatamente, la sala comandi si riempì delle voci dei tecnici che riferivano i danni.

«Il capomastro Haynes segnala un grave squarcio appena sotto la linea di galleggiamento al mascone di dritta!»

«Settori due e tre compromessi, comandante! La sala trasmissioni non risponde!»

«Batterie cinque, sette, dodici e quattordici fuori uso!»

«La sala motori è stata colpita, ma il capo macchinista assicura un trenta per cento di funzionalità, signore!»

Il capitano Tallmadge guardò fuori dalla paratia squarciata della sala comandi. La Tredicesima Ora era ancora in piedi, ma non sarebbe durata a lungo. Un altra scarica come quella e avrebbe fatto la fine dell’Incorruttibile.

Un’ultima salva,  ti chiedo solo un’ultima salva. Poi ti porto via da qui, promesso.

Osservò lo sperone di roccia scura, alla ricerca di un modo per lasciare un segno il più indelebile possibile sul muso dei capitolini. Vide un cannone posizionarsi contro di lui, ed ebbe un’idea.

«A tutte le batterie: puntare la zona tra i bunker e la sommità della scogliera.»

Osservò i serventi del cannone in cima alla scogliera aprire la culatta della gigantesca arma e inserire un proiettile grosso quanto una piccola mucca. Un rivolo di sudore gli corse lungo la tempia.

Forza, maledizione...

«Cannoni pronti, signore!»

«Fuoco!»

Il fragore della bordata assordò tutti quanti, mentre la scogliera si illuminava di un miscuglio di arancio acceso e giallo brillante. Frammenti e grossi macigni volarono sulla spiaggia. 

Per la prima volta dall’inizio dei combattimenti, sulla spiaggia scese il più assoluto e totale silenzio.

Il capitano Tallmadge pregò così forte da farsi male alle tempie. Entrambi gli eserciti trattennero il fiato.

Poi, con un rombo di tuono, l’intera sezione centrale della scogliera crollò, trascinando con se’ la quasi totalità dell’artiglieria nemica, insieme ai loro serventi urlanti. Su tutta la linea del fronte i fanti proruppero in un disperato grido di gioia nel vedere le mitragliatrici assassine e i loro serventi finire stritolati da centinaia di metri cubi di roccia. Per un breve, intenso istante, gli uomini, le donne, i ragazzi e le ragazze sulla spiaggia furono attraversati dallo stesso, identico pensiero; e come un fiume che riesce a trovare uno spiraglio nella diga che per anni lo ha crudelmente intrappolato, la Fanteria di Linea Volontaria uscì dai propri ripari e caricò a testa bassa le posizioni nemiche.

Sul ponte di comando della Tredicesima Ora, il capitano Tallmadge si rese improvvisamente conto della scheggia di acciaio conficcata nel suo fianco destro. Privo di forze, si lasciò scivolare a terra.

«Andiamo via di qui» disse prima di svenire «gli autografi li prendiamo dopo.»

 

Il primo pensiero che riuscì a partorire la mente del sergente Ayla Wilkins quando riaprì gli occhi fu che la vita nell’oltretomba era schifosamente simile a quella terrena. Poi vide il bunker distrutto e la frana che aveva creato una salita scoscesa ma non impossibile verso la cima dell’odiosa scogliera e realizzò con rabbia di essere uno stupido burattino nelle mani di un dio beffardo, che continuava crudelmente a tenerla in vita mentre uccideva tutti coloro che avrebbero meritato di vivere più di lei.

Bene. Vuoi giocare? Allora giochiamo.

Cercando di ignorare le giunture scricchiolanti che protestavano dolorosamente, si alzò in piedi. Tutto intorno a lei, i soldati sciamavano verso il bunker crollato, per andare ad arrampicarsi sulle rocce e salire in cima alla scogliera.

Il mio fucile. Mi serve il mio fucile.

Ricordava di averlo lasciato cadere qualche metro più indietro. Ma quando si girò, non fu la presenza dell’arma a catturare la sua attenzione.

Il ragazzo biondo che aveva provato a trascinarla al riparo giaceva a terra, il collo lordo di sangue.

Improvvisamente si rese conto di quello che era successo pochi minuti prima; di come quel giovane  aveva disperatamente cercato di salvarla, e di come lei lo avesse insultato e ostacolato in ogni modo che la sua mente annebbiata gli rendesse possibile, provando sollievo quando finalmente una pallottola aveva messo fine alla sua generosamente folle impresa.

Il sergente Ayla Wilkins cadde in ginocchio accanto al cadavere del ragazzo, svuotata, e si sentì nient’altro che un ignobile mostro. Prima che potesse rendersene conto, calde lacrime cominciarono a rigarle le guance.

Dovevi lasciarmi lì a morire. Come mi meritavo.

«Si chiama Dan» disse una voce alle sue spalle. «Ed è ancora vivo.»

Ayla Wilkins si girò di scatto, in preda al più completo stupore. Una ragazzina dal volto tondo incorniciato da lunghi capelli biondi che uscivano a ciocche dall’elmetto di diverse misure più grande della sua testa la guardava con aria un aria seria più adatta ad una persona matura che a una bambina cresciuta. Indossava un vestito a fiori sopra il quale aveva messo a tracolla una cintura piena di tascapani. Il sergente Wilkins non poté fare a meno di pensare con profonda amarezza e un pizzico di cinismo che fosse il simbolo perfetto della Fanteria di Linea Volontaria.

La ragazzina si inginocchiò accanto a lei. Si strappò un lembo di tessuto dalla gonna e lo avvolse stretto intorno al collo del ragazzo. «È stato preso di striscio. Ha perso parecchio sangue, ma ce la dovrebbe fare.» Prese da uno dei tascapani una boccetta contenente un liquido trasparente, la stappò e la avvicinò alle narici del giovane biondo. Il sergente Wilkins attese con il cuore in gola; passò qualche minuto, poi gli occhi di Dan si aprirono. Il sergente fu travolta dal sollievo e si nascose il volto fra le mani.

«Come ti senti, Dan?» fece la ragazzina. «Riesci a sentirmi?»

«Forte e chiaro» borbottò il ragazzo. Fissò per qualche istante la giovane fanciulla, sovrapensiero. «Non ti ho già vista da qualche parte?»

«Dana Serkins, ventesimo reggimento, compagnia D. Mi sono arruolata appena prima di te.»

Brandelli di ricordi vorticarono pigri nella testa di Dan. «Quella brava a fare i calcoli, giusto?»

«Non molto. A quanto pare non ero abbastanza svelta a fare le moltiplicazioni, così mi hanno retrocessa a soldato semplice.»

Il sergente Wilkins ebbe l’immagine di un ottuso furiere del Tredici che senza battere ciglio spediva una povera ragazzina in prima linea, e strinse i denti per la rabbia.

«Signore! Signore!»

Penelope O’Brian li raggiunse di corsa, seguita da Lee. «Sergente, cosa facciamo?»

Ayla Wilkins sorrise al pensiero che solo mezz’ora prima quella ragazza aveva palesemente contestato i suoi ordini mentre ora la seguiva come un cane fedele. Si alzò in piedi. Dan era ancora vivo, lei era ancora viva, i ribelli avevano aperto una breccia e la battaglia non era ancora finita.

«Andiamo lassù. Statemi vicino e non vi perdete. Ora tocca a noi.»

 

Clove osservò la carcassa fumante della Dura Lex scomparire alla sua vista in un mare di schiuma e vapore. L’oceano la inghiottì e si richiuse sopra di essa, tornando a scorrere imperturbabile come se nulla fosse successo. Poi il portello dell’hovercraft finì di sollevarsi con uno sbuffo e un clangore metallico, tagliandola fuori dal resto del mondo.

La squadra al completo era a bordo. Sembravano tutti piuttosto allegri: il ghigno di Deimos, il gemello pallido, era ancora più inquietante del solito.

«Ottimo lavoro, signori» disse il Nero «la flotta è praticamente annientata, il loro potere offensivo è ridotto a zero. Ora ci dirigeremo dal generale Lindle per fare rapporto e poi alla base per il meritato riposo.»

«Per quale motivo dovremmo perdere tempo con i militari?» disse Artemisia.

«Non siamo soldati» interloquì il vocione di Ares «ma facciamo comunque parte dell’esercito.»

«Fallo tu il bravo soldatino» rispose la ragazza, sprezzante. «Io non ho tempo per queste cazzate.»

«Tu farai quello che ti viene ordinato» tagliò corto il Nero. «E i nostri ordini sono di andare dal generale. O preferisci mettere in discussione l’autorità del colonnello?»

Gli occhi della ragazza dardeggiarono di sdegno, ma Artemisia non rispose. Si adagiò sullo schienale, le braccia conserte e lo sguardo che fulminava chiunque osasse guardarla per più di qualche istante.

Ecco, ingoia il rospo e stai zitta, stronza.

Clove si stupì del livore con cui aveva pronunciato quelle parole nella sua testa. Artemisia era una guerriera, come lei. Era una compagna di scudo. Poteva piacerle o non piacerle, ma doveva fidarsi di lei. 

Accidenti, lo so!

Si arrabbiò con la parte di lei che le aveva fatto quella ramanzina. Non era la prima volta che aveva a che fare con gente che non apprezzava, ma con cui doveva collaborare: e lei aveva sempre drizzato la schiena e fatto il suo dovere.

Eppure, guardando Artemisia, non riusciva a placare lo strano miscuglio di rabbia e disagio che bruciava inesorabilmente dentro di lei.

Perché?

Odiandosi con tutte le sue forze, fu costretta ad ammettere che, ancora una volta, non ne aveva idea.

Si rilassò sullo schienale, cercando di sgombrare la mente.  Sull’hovercraft regnava una strana calma. I rumori della battaglia giungevano attutiti, come se si svolgessero su un mondo lontano da loro. Persino quando un centinaio di metri di scogliera crollarono rovinosamente al suolo sotto i colpi della Tredicesima Ora, tutto quello che si udì fu un rombo sordo, come di un tuono lontano.

 

Katniss Everdeen cercò di sgombrare la mente, prima che la consapevolezza di quello che stava per fare la inchiodasse a terra come un gigantesco macigno. Non si accorse neanche che una voce aveva appena pronunciato il suo nome.

«Ehi, Katniss! Dico a te, eh!»

La ragazza si girò, sovrappensiero. «Ah, Gale, sei tu.»

Il giovane minatore scrutò per qualche istante la sua vecchia compagna di caccia. «C’è qualcosa che ti turba.»

«Io...»

«Avanti, Catnip. È stata la Coin, vero?»

Katniss deglutì, poi assentì nervosamente. «Le ho chiesto di liberare Peeta.»

«Ah.» Gale fece un respiro profondo. «Katniss, senti, lo so che...»

«Lo farò io.»

«Che cosa?»

«Mi hai sentito bene. Andrò a salvare Peeta, che la Coin lo voglia o no.»

«Katniss, il presidente sarà pure sgradevole, ma se dice che non è fattibile...»

«Non me ne frega un accidenti di cosa è fattibile e cosa no, porca... puttana.»

Gale la afferrò per le spalle, fissandola intensamente. «Katniss, ti prego, rifletti. Tu sei la Ghiandaia Imitatrice. Sei il simbolo della rivoluzione. Se tu ti facessi uccidere in una missione suicida...»

«Non accadrà.»

«Katniss, per favore...»

«Non posso starmene qui a marcire mentre là fuori Peeta è nelle mani di quei luridi assassini...»

«Tu non capisci...»

«No, tu non capisci!» strillò Katniss. Due uomini di passaggio si voltarono, incuriositi. La Ragazza di Fuoco si liberò dalla stretta dell’amico. «Io andrò lì, e nessuno su questa terra potrà impedirmelo. O sei con me, o contro di me, Gale. Hai capito?»

Il ragazzo rimase immobile, gli occhi dello stesso grigio di Katniss fissi su di lei. Alla fine, annuì gravemente.

«Va bene. Ma io vengo con te.»

«Che cosa? Non se ne parla.»

Gale drizzò la schiena, ergendosi in tutta la sua statura. «Non è una trattativa. E poi credo proprio che tu abbia bisogno di qualcuno che ti copra le spalle» aggiunse, sornione.

Katniss lo squadrò con aria di sfida. «Tu credi proprio?»

«Era l'altro ieri che sei svenuta in sala mensa o sbaglio?»

«Poi però ti ho miseramente stracciato alle simulazioni di tiro.»

«Le simulazioni sono una cosa, soldato Everdeen. Vediamo come te la caverai nel vivo dell'azione.»

«Andate da qualche parte?» disse una terza voce, avvolta da una inequivocabile sfumatura ironica. «Oh no, soldato Everdeen e soldato Hawthorne, le scampagnate sono proibite. Dovreste saperlo. Credo proprio che farò rapporto alla grande e potente presidentissima Coin.»

«Ciao Johanna» disse Gale con un sorriso. «Prima o poi mi dovrai spiegare come fai a sbucare sempre nei momenti più inadatti.»

«Non è che ci voglia molta abilità: tra te e la Ragazza di Fuoco non so chi sia il più impedito ad essere discreto.» La giovane donna del Distretto Sette incrociò le braccia muscolose. «Allora, miei cari: dove andate di bello?»

«Da nessuna parte» disse Katniss.

«A salvare Peeta» rispose Gale.

Gli occhi di Johanna si spalancarono dalla sorpresa. «Non mi dire. Questo è avventato anche per te, Katniss. E come pensate di andare fino alla capitale?»

«Non ne ho idea, ma sono sicuro che Katniss ha un piano. Giusto?»

La ragazza scoccò un’occhiataccia al compagno di Distretto. «L’aviazione di riserva sta andando al Distretto Quattro. Mi farò dare un passaggio.»

«Ci farai» puntualizzò Gale. 

«Beh, buona fortuna allora» disse Johanna. «Qualche raccomandazione per il tuo funerale?»

«Avrò modo di spiegartelo per bene durante il viaggio per il Distretto Quattro.»

Johanna sogghignò. «Mi stai invitando ad uscire, Gale Hawthorne?»

«Uno dei migliori appuntamenti della vostra vita, Miss Mason.»

Johanna agitò la mano in un gesto volutamente frivolo. «Mmh, non saprei...»

«È inutile che ci provi, so che non vedi l’ora.»

«Tu non sai un bel niente, Gale Hawthorne. Ficcarmi in una missione suicida, nel ventre della bestia, con il plotone di esecuzione che mi attende al ritorno, e tutto per salvare un solo povero disgraziato?» La bocca di Johanna si spalancò in un inquietante sorriso a trentadue denti. «Tu sì che sai come far divertire una ragazza. Che stiamo aspettando?»




 

















CHIACCHIERE DELL'AUTORE: You know nothing, Gale Hawthorne. 

Miei carissimi! Bentornati dunque ad una nuova entusiasmante puntata di gente sparata e cose che scoppiano. Lo so, sta battaglia ancora non è finita, ma è uno scontro importante nella storia (non ce ne dovrebbero essere altre simili) e siccome è la prova del fuoco dei nostri eroi ci sta se ci si dilunga un po' (sempre nel limite del decoro, ovviamente).

Comunque sia, rullo di tamburi e tanti calorosi applausi per la nostra ragazza di fuoco: non ve l'aspettavate, eh? Ebbene sì, oltre alla gente sfigata dei distretti brutti ci sono anche i nostri ficherrimi eroi.
Come i più avveduti di voi hanno avuto modo di notare, le cose non vanno proprio come dovrebbero: Peeta non viene liberato ed è la stessa Katniss ad andare a cercarlo, insieme a quei due buontemponi "mannaggiantosietefighi" di Johanna e Gale. Perchè insomma, non so voi, ma la Katniss dell'ultimo libro non fa altro che sclerare, svenire, farsi sparare, farsi trip allucinogeni e fare casino, non necessariamente in quest'ordine. Insieme al suo tira e molla con quel povero cristo di Gale (esiste una sorte peggiore della friendzone, ed è quella che è toccata a questo martire: non ho ben capito cosa abbia fatto di male per meritarselo), è uno degli aspetti che voglio eliminare in nome di quel bel personaggio che è la nostra ghiandaia rivoluzionaria. Facciamole fare un po' di pezzi, che diamine.
Questo capitolo è stato tipo un parto (l'ho tagliato, allungato, spezzettato e rinsaldato innumerevoli volte): non so bene se il risultato finale sia soddisfacente, in ogni caso fatemelo sapere.

Quindi niente: grazie infinite, tante care cose, tenete la testa bassa e alla prossima!

 

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Capitolo 11
*** Segui gli spari ***


10.

Segui gli spari

 

"With our backs to the wall, the darkness will fall
We never quite thought we could lose it all

Ready, aim, fire! Ready, aim, fire!

An empire's fall in just one day
You close your eyes and the glory fades
Ready, aim, fire! Ready, aim, fire away (fire!)"

-Imagine Dragons, Ready! Aim! Fire!

 



Il campo base del Terzo Corpo d’Armata dell’Esercito Regolare della Federazione di Panem si trovava fra le trincee e le case del capoluogo del Distretto Quattro. Il generale Lindle si era installato in una villa di proprietà di una delle facoltose famiglie di commercianti del Distretto. Messa a confronto con il baccano e il caos della battaglia, la calma che regnava in quei luoghi aveva un che di irreale.

Circondato da tre Avox, il generale si godeva l’abbondante pasto con vista sul mare. I ribelli gli avevano offerto la vittoria su un piatto d’argento, andandosi gentilmente ad incanalare sotto la scogliera per meglio farsi massacrare dai suoi uomini. Sarebbe stata questione di poche ore ormai, e le ridicole bagnarole del Distretto Tredici sarebbero tornate alla base con la coda fra le gambe. 

Non appena era stato informato delle intenzioni dei ribelli, il generale aveva richiesto l’intervento dell’aviazione per far saltare in aria la flotta in mare; ma adducendo una sequela infinita di scuse, il generale Werner della Tredicesima Flotta Aerea aveva “rispettosamente e con gran dispiacere” rifiutato. Lindle sapeva che la motivazione era ben diversa dalle scorte di carburante e gli impegni nel settore principale: il generale Werner era un soldato del Distretto Due, un nobile figlio dell’Accademia, mentre lui proveniva dalla capitale, ed era sempre stato nell’amministrazione prima che le necessità della guerra lo avessero fatto finire lì, su quella terrazza, lontano dalla sua famiglia e dagli agi di Capitol City.

Che l’inferno si porti quei bastardi del Distretto Due e le loro fottute arie di superiorità.

Stava per attaccare una generosa bistecca al sangue, quando uno degli ufficiali del suo stato maggiore, il maggiore DeGraw, fece il suo ingresso nel terrazzo.

«Avevo detto di non essere disturbato, maggiore» pigolò il generale con voce querula.

«Chiedo scusa, signore» fece l’ufficiale, visibilmente a disagio «ma ho qui un rapporto di massima priorità.» 

«Da parte di chi?»

«Del colonnello Virod, signore.»

Il generale sbuffò, seccato. Meejah Virod, un altro di quei bellimbusti dell’Accademia che parlavano alle sue spalle e ridevano di lui.

«E che cosa vorrebbe il colonnello?»

Il maggiore mosse le dita sul datapad che stringeva fra le mani. «L’unica corazzata superstite si sta portando in posizione di tiro. Il colonnello informa che ha ordinato l’ingaggio da parte delle batterie costiere.»

Quel miserabile figlio di puttana non chiede neanche il permesso!

«Tutto qui?»

Gli occhi del maggiore fissavano un punto alla sinistra della testa del generale. «Sì signore.»

«Allora sparite, e non fatemi perdere altro tempo!»

L’ufficiale non attendeva altro, e si eclissò immediatamente. Il generale si versò una dose abbondante di vino, cercando di recuperare il buonumore indulgendo nella gola.

Alla tua, colonnello Virod. Possa un fottuto contadino ribelle piantarti una pallottola in testa prima che questa guerra finisca.

Bevve un lungo sorso, poi afferrò le posate e si apprestò a riprendere l’attacco alla succosa bistecca.

Ma qualcosa di parecchio grosso rovinò pesantemente al suolo, laggiù sulla scogliera.

Alla terrazza giunse un rombo lontano, ma abbastanza potente da distrarre il generale dal suo pasto. Incuriosito, il comandante del Terzo Corpo d’Armata afferrò il binocolo e regolò le lenti. Non si vedeva nulla, solo una grossa nube di polvere che si levava sempre più in alto, offuscando i riverberi argentati dell’oceano.

La corazzata avrà staccato un po’ di roccia. Magari portandosi con se’ il colonnello Virod.

Ridendo fra se’ per l’immagine dell’alto ufficiale che precipitava urlando giù nella spiaggia, il generale appese il binocolo alla sedia. Si strofinò le mani, con l’acquolina in bocca.

E ora, mia cara, veniamo a te.

E puntuale come solo la sfortuna sa esserlo, il maggiore DeGraw, visibilmente preoccupato, fece di nuovo il suo ingresso sulla terrazza.

«Ma insomma, che diamine!» esclamò il generale, visibilmente seccato di quei continui ostacoli al suo pranzo.

«Mi perdoni, generale, ma il colonnello Virod...»

«Ancora lui! Che cosa vuole adesso?»

«Signore, il colonnello... pare che...» Il maggiore sembrava essere improvvisamente a corto di parole.

«Pare che cosa, maggiore?» sibilò il generale.

«...i ribelli stanno attaccando in forze le nostre posizioni. Il colonnello richiede immediati rinforzi.»

Le parole caddero nel silenzio più assoluto. Poi il generale Lindle scoppiò in una fragorosa risata.

«È così, eh? Il prode Meejah Virod mi chiede rinforzi? Oh, ma sono piuttosto sicuro che un militare del suo calibro saprà gestire la situazione.»

Adesso vediamo chi ride, stronzetto borioso.

Il tenente mostrava chiaramente l’intenzione volersi seppellire. «Signore, dispacci simili sono giunti anche dal colonnello Garran e dal maggiore Kern. L’intero settore è sotto attacco. Pare che... i ribelli abbiano fatto... crollare i bunker e si arrampichino sulle macerie...»

Con uno scatto improvviso che fece rovesciare la bottiglia di vino sulla tavola, il generale si alzò in piedi, puntando minacciosamente il tovagliolo contro il suo attendente. «La smetta, maggiore, o la deferirò alla corte marziale! I ribelli si arrampicano sulle macerie? Sono dei selvaggi, senza dubbio, ma non delle maledette scimmie! Non è assolutamente, categoricamente possibile che i ribelli siano riusciti a superare la scogliera! Maledizione, non hanno mica le ali!» Il generale afferrò la bottiglia caduta e si versò rabbiosamente quel poco di vino che ne era rimasto. «Il colonnello si sarà fatto prendere dallo zelo, causando un’ondata di panico immotivato e disfattista.»

Magari riesco anche a farlo fucilare, se gioco bene le mie carte.

«Quindi, signore... che cosa devo riferire?»

«Mantenere le posizioni. Non saranno certo un paio di villici con il forcone a farci paura. E ora se ne vada, per la miseria, e mi lasci finire di mangiare.»

 

Il Corridoio Dodici del Sottolivello Sette era completamente vuoto, eppure Katniss Everdeen non poteva fare a meno di pensare che era solo questione di secondi prima che un manipolo di polizia militare sbucasse da dietro l’angolo per arrestarla. Ghiandaia Imitatrice o meno, la sua era diserzione, e non era un genere di cosa che il Distretto Tredici tollerava.

Si appoggiò al muro, espirando profondamente. Dopo aver parlato con Gale e Johanna, era andata all’armeria a indossare la sua corazza e prendere l’arco e più frecce possibile. Poi però si era resa conto di aver bisogno di altre due cose, ed era tornata sui suoi passi in direzione dei quartieri abitativi. 

Non ne aveva alcuna voglia, ma prima di partire doveva passare da quel grigio cubicolo dove dormiva la famiglia Everdeen.

Si fece coraggio, attraversò il corridoio e aprì la porta del suo nucleo abitativo, che rientrò nel muro con uno sbuffo.

La stanza era vuota.

Con un sospiro di sollievo, Katniss si affrettò verso il suo letto. Da quando Prim si era arruolata volontaria nei corpi di sanità ed era partita per il fronte, sua madre era piombata in un’apatia inquietantemente simile a quella che l’aveva colpita quando era morto suo marito. Ce la metteva tutta per non ricadere in quel nero pozzo di incoscienza; e l’ultima cosa che Katniss voleva dirle era che stava per andare nel posto più pericoloso di tutta Panem, dritta nel covo del nemico.

Ora forza, fa’ in fretta e via di qui.

 Appesa sul muro c’era la giacca di suo padre: non poteva portarla nel Distretto Tredici perché contravveniva alle direttive sull’abbigliamento, e non poteva indossarla in battaglia perché copriva la splendida e costosissima corazza che era stata creata appositamente per lei.

Ma non questa volta. Questa volta decido io.

Le dita accarezzarono la pelle lisa dal tempo e dall’uso. L’odore inconfondibile che si sprigionò non appena se la mise addosso la fece sentire subito meglio.

Vado a salvare Peeta, e avrò bisogno di tutto l’aiuto possibile. Stammi vicino, papà.

Da una tasca interna trasse il medaglione che il Ragazzo del Pane le aveva regalato sulla spiaggia. Nonostante in quel momento fossero nel bel mezzo di un’arena assassina con gli implacabili Favoriti veterani che gli davano la caccia, quel ricordo era avvolto da un alone di morbido e rassicurante tepore.

Peeta. Sto arrivando.

«Katniss?»

Il cuore della Ragazza di Fuoco si contrasse violentemente. La voce melodiosa e malinconica della signora Everdeen era inconfondibile.

«Mamma.» Molto lentamente, Katniss si girò. Sua madre si frapponeva fra lei e l’uscita, i capelli biondi scompigliati e lo sguardo triste. «Che ci fai qui?»

«Oggi non c’era molto da fare, così il caporeparto ci ha mandato via prima del previsto. Tu non avresti le simulazioni di tiro?»

«Io...» 

Me ne vado, mamma. Me ne vado, e forse non tornerò.

Le parole erano lì, pronte per saltare fuori dalla sua bocca. Doveva dirle di essere forte, di non lasciarsi andare, proprio come aveva fatto quando si era offerta volontaria alla Mietitura al posto di sua sorella. Ma questa volta era diverso. 

Durante quei cinque minuti di addio, prima che i Pacificatori la portassero via, c’era stato tempo solo per le cose essenziali; e c’era Prim, che andava protetta ad ogni costo, che veniva prima di qualunque cosa lei potesse dire e pensare. Ma in quel momento, in quella stanza, erano solo loro due.

In quel momento, erano solo una madre e la sua bambina.

Il groppo in gola divenne una muraglia di cemento e filo spinato. Katniss non riusciva a respirare. Era tutto bloccato, tutto compresso, tutto così incredibilmente difficile.

Peeta avrebbe saputo cosa dire.

Sarebbe rimasta lì in eterno, se la signora Everdeen non avesse improvvisamente deciso di spezzare quel muro che la vita aveva finito per creare fra lei e la sua primogenita. Con passi lenti e ponderati, come se dovesse avvicinarsi ad un gatto randagio messo all’angolo, la donna avanzò lentamente verso Katniss. La Ragazza di Fuoco era immobile, tesa come una corda di violino, pronta a scappare via dall’unico nemico che non era in grado di affrontare. Ma prima che potesse rendersene conto, il dorso morbido e arrossato della mano di sua madre le carezzò la guancia, il tocco così leggero da sembrare un alito di vento, in un gesto intriso di quella sconcertante delicatezza che solo le madri nei confronti dei propri figli possono esprimere.

Katniss era stata temprata da una vita difficile, e non era mai riuscita a perdonare sua madre per non esserci stata nel momento del bisogno; ma contro un potere del genere non c’erano difese che potessero tenere. Prima che potesse rendersene conto, una lacrima solitaria percorse la sua guancia e le solleticò il mento.

«Mamma...»

«Va tutto bene, bambina mia.»

«Io... Peeta... devo... non... non posso...»

«Shh» fece la signora Everdeen, con un timido sorriso. «Non preoccuparti per me. Io me la caverò. Ora vai, presto.»

Katniss annuì nervosamente, mentre stringeva le palpebre per impedire alle lacrime di continuare a scorrere. Sua madre non sapeva, non poteva sapere, eppure aveva capito tutto.

Non disse nulla. La mente era vuota, la gola annodata, gli occhi velati dalle lacrime. Con lo sguardo basso, uscì di corsa dalla stanza, mentre le porte si chiudevano con un ronzio dietro di lei.

 

Dan teneva il fucile spianato davanti a se’, come se potesse solo con quel gesto tenere lontani i soldati nemici. Non che ce ne fosse bisogno: lui e il resto della squadra improvvisata del sergente Wilkins erano completamente circondati da Fanti di Linea che si lanciavano di corsa urlando contro le trincee nemiche. Guardando i loro volti distorti dalla vendetta, Dan fu grato che fossero tutti dalla sua parte.

I capitolini erano pochi e sparsi: il loro fuoco era fermo e preciso, ma insufficiente. I Fanti cadevano a manciate, ma per ognuno di loro che moriva ce n’erano altri tre pronti a vendicare il compagno caduto.

La ferocia con cui i ribelli si abbatterono sulle trincee fu assolutamente devastante: i Fanti si gettavano addosso alle giubbe bianche, molto spesso a mani nude, uccidendoli con selvaggio e agghiacciante abbandono. Dan vide un paio di uomini nerboruti del Distretto Undici trascinare un giovane ufficiale per i capelli fuori dalla trincea per poi massacrarlo a colpi di calcio del fucile, mentre alla loro destra un omone con grandi baffi a manubrio infieriva sulla testa di un soldato ormai morto con un grosso martello da fabbro. Dietro di lui, un ragazzetto di non più di tredici anni si dedicava con perizia a staccare lo scalpo di un capitolino dal cranio sanguinante, sotto lo sguardo fiero e soddisfatto di un Fante allampanato e una soldatessa tarchiata.

Molti soldati regolari, probabilmente quelli meno esperti, gettavano il fucile e fuggivano via in preda al terrore: le giubbe bianche avevano la superiorità tecnologica e militare, ma contro una furia vendicativa di quella portata, supportata da un’esorbitante superiorità numerica, non c’era addestramento che potesse rivelarsi utile. 

La Fanteria di Linea agiva come una mastodontica bestia ferita: caricava a testa bassa, in barba a qualunque tattica e strategia, guidata solo dal furore, dalla paura e dalla sete di sangue.

«State con me» ripeteva il sergente, anche lei turbata da quel massacro «restiamo vicini.»

Serrando i ranghi, come un’antiquato battaglione di fanti napoleonici, la squadra del sergente Wilkins si mosse lentamente, seguendo la scia di distruzione dei loro commilitoni.

 

«Alla buon’ora, miss Everdeen. Cominciavo a temere che fossi svenuta da qualche parte.»

«Tu sei arrivata mezzo minuto fa, Johanna.»

«Diamine quanto sei noioso, Gale. Vorrei proprio capire perché le ragazze ti muoiono tutte dietro.»

Con uno sbuffo, Katniss lasciò cadere a terra il pesante borsone contenente il suo armamentario. «Tutto pronto?»

Gale annuì. «Il tenente Murray ci attende alla piattaforma 7-G. Non è stato facile convincerlo che non aveva avuto ordini di portarci a causa della segretezza della nostra fantomatica missione, ma Johanna è stata piuttosto... convincente

«Tutti diventano estremamente servizievoli quando non ho tempo da perdere» disse la ragazza, in un tono che rendeva impossibile capire se fosse sarcastica o meno.

«Ottimo» borbottò Katniss. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma come sempre le parole erano incastrate.

Gale la guardò per qualche istante, poi decise che la sua amica non avrebbe parlato. «Bene...»

«Gale, Johanna» disse improvvisamente la ragazza. «Io... grazie. Davvero.»

Johanna fece una smorfia divertita. «Aspetta a dirlo, non siamo ancora partiti.» Poi mollò una tremenda pacca sulle spalle di Gale, che fu spinto in avanti di qualche passo, sconvolto da quel gesto inaspettato. «Diamine, ragazzi, è proprio bello stare con voi. Uccideremo un sacco di gente, salveremo quel povero bastardo di un biondino e diventeremo dei fottutissimi eroi!»

 

«Tu quanti ne hai uccisi?»

«Non ne ho idea... non tengo mica il conto.»

«Dovresti. È il numero di avversari sconfitti che determina la tua grandezza.»

«Uccidere novecentonovantanove uomini non mi servirebbe a niente, se poi il millesimo mi piazza una palla in testa.»

«Sarebbe una buona morte.»

«Ricordami di portarti con me la prossima volta che siamo in licenza, Ares.»

«Non credo che lo farò.»

«Non sai che ti perdi, amico mio.»

«Non sono tuo amico.»

Il dialogo tra il Bianco e Ares giungeva alle orecchie di Clove come un ronzio indistinto. Gli occhi chiusi, le dita contratte sulle ginocchia, respirava lentamente nel tentativo di sgombrare la mente.

Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.

Ripeteva quella frase come una preghiera. Era il suo mantra, il suo scudo contro l’incertezza e il dubbio. Ogni volta che era inciampata e caduta in ginocchio, quella frase l’aveva aiutata a rialzarsi.

Chi corre per vin- al mio risveglio, domani... tu ci sarai?

Le parole si inserirono nella sua litania come un’interferenza in un canale radio mal sintonizzato. 

Clove strinse i denti. Una battaglia era appena finita, ma un'altra stava per cominciare. I suoi demoni si ergevano per combatterla.

Chi corre per vincere non si - Cato! Cato!

Chi corre per vin- che possa impensierire il colonnello Rorke, cadet-

Chi corre per vincere non si ferma a guardare - o sei così tutti i giorni?

Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.

Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.

Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.

Aprì gli occhi, gettando fuori l’aria stantia dai polmoni e ispirandone di nuova.

Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.

Ce l’aveva fatta. Aveva vinto di nuovo. Aveva combattuto contro la sua parte più debole, e come sempre l’aveva uccisa. Perché come gli aveva insegnato suo padre, la vita è una lotta contro tutti, specialmente contro te stesso.

E alla fine non sarò io quella a morire.

«Andiamo, Ares, devi avere pure un qualche svago. Giochi a carte? Ai videogiochi? Ricami a magl...»

Qualcosa colpì l’hovercraft, facendolo bruscamente scartare a sinistra. Clove cadde bocconi sul pavimento, mentre gli allarmi si accendevano e gettavano sinistre ombre rossastre nella stiva.

«Allacciatevi le cinture, signori» gridò il Nero «stiamo per incontrare un po’ di turbolenza.»

Mentre fissava la fibbia delle cinture all’altezza dello sterno, Clove si accorse dello sguardo insondabile di Deimos puntato su di lei.

Non ho alcuna intenzione di morire su questo coso, fissata da un fottuto maniaco omicida.

Prima che la carlinga del mezzo fosse travolta da una serie violentissima di scossoni, la Clove stupida, la Clove debole, la Clove patetica, ebbe il tempo di dire un ultima cosa, prima di cadere supina, immersa nel suo stesso sangue, finalmente sconfitta.

Lui è un fottuto maniaco omicida? E tu, allora, che cosa sei?

 

«Il 7-G è da questa parte» disse Gale, indicando la fine del corridoio.

«Grazie al cavolo, Gale, c’è scritto sulla porta» sentenziò Johanna. Katniss si lasciò sfuggire una risatina divertita.

«Farai così per tutto il tempo?»

«Il mio è un atto di carità: hai disperato bisogno di una guida spirituale.»

«Che saresti tu?»

«Ovviamente. Ora, se hai finito con le domande idiote... ah.»

Le porte della piattaforma di lancio 7-G si erano aperte, rivelando i profili affusolati di quattro bombardieri hovercraft corazzati.

E davanti a loro, al gran completo, c’era la squadra 451.

Merda.

Boggs, il roccioso caposquadra, fece qualche passo verso di loro. «Soldato Everdeen. Dobbiamo parlare.»

«Comandante Boggs...»

«Silenzio, soldato Hawthorne. Non è a te che mi sto rivolgendo.»

Le parole giungevano ovattate alle orecchie di Katniss. Il loro piano era stato scoperto: la squadra 451, la loro squadra, era venuta per portarli via.

Gli occhi azzurri del caposquadra la fissavano intensamente. «Allora, soldato Everdeen: che cos’è questa storia?»

«Noi... dobbiamo andare a recuperare Peeta. La missione è...»

«Falla finita, soldato. Non c’è alcuna missione.» Boggs incrociò le braccia e lanciò uno sguardo sprezzante ai tre ragazzi. «Siamo la tua squadra, soldato Everdeen. I migliori del Distretto Tredici. Non puoi pensare di agire alle nostre spalle senza che noi lo veniamo a sapere.»

Improvvisamente, i vapori bollenti di una rabbia incandescente gonfiarono il petto della ragazza del Distretto Dodici. Era stufa di dover combattere contro tutti, di sentirsi un burattino nelle mani di persone non meno spietate di quelle che l’avevano messa nell’arena, di dover costantemente mettere in pericolo tutti coloro che per lei rappresentavano qualcosa. Prima che potesse rendersene conto, stava urlando a pieni polmoni.

«La mia squadra? Mi faccia il favore, caposquadra Boggs, e dica le cose come stanno. Voi non siete miei compagni, non siete miei alleati: siete solo dei... fottuti cani rognosi, mandati per istruirmi, guidarmi e controllarmi. Siete dei patetici burattini... come me.»

Gale guardò la sua compagna di Distretto, allo stesso tempo stupito e spaventato. Johanna mosse lentamente le labbra in un corrispettivo silente della parola wow. 

Le iridi celesti del caposquadra Boggs mandarono lampi. «La mia lealtà va alla causa e al presidente Coin, e non permetto che una ragazzina si...»

«Oh certo, caposquadra Boggs. Lei è un soldato, e i soldati fanno due cose: conoscono i rischi e obbediscono agli ordini. Mi risparmi le tirate fanatiche sul dovere e il sacrificio: ne ho già fatto il pieno, per oggi.» Katniss Everdeen, il volto paonazzo e deformato dall’ira, percorse rapidamente la distanza che la separava dal militare, arrivando a qualche centimetro dal suo viso.

«Peeta è un mio alleato. Peeta è un mio compagno. Peeta è una di quelle pochissime persone a cui io affiderei tranquillamente la mia vita. Peeta è... è in pericolo, e io andrò a salvarlo. E se voi siete davvero la mia squadra, allora non me lo impedirete.»

Il caposquadra Boggs parve tentennare. «Soldato Everdeen... non è questione di cosa sia giusto o meno fare, ma di seguire gli ordini...»

«Oh al diavolo, Boggs» sbottò una delle sorelle Leeg. «Ho sempre fatto il tifo per il biondo. Tu fa’ come vuoi, io vado a prenderlo.» 

Boggs si voltò di scatto, come un leone che è appena stato punto sulla schiena da un grosso tafano.

«Soldato Leeg, questo è ammutinamento!»

«Perdoni mia sorella, capo» interloquì l’altra Leeg «é sempre stata una stupida testarda... ma temo che abbia ragione. Peeta è uno dei nostri, e noi non lasciamo indietro nessuno. E poi non posso farla andare da sola, o si farebbe uccidere da qualche capitolino imbecille.» 

«In effetti, capo, ancora non siamo entrati in azione» disse Jackson, il secondo in comando.

«Ci farà bene un po’ di allenamento» ribatté Homes il belloccio, i denti talmente bianchi da essere scintillanti e i capelli corvini perfettamente pettinati con la riga sulla destra.

«E la pianteremo di girare ridicoli spot pubblicitari» rincarò la dose Mitchell il solitario, con la sua caratteristica voce molto simile ad un sussurro roco.

Boggs parve esplodere di fronte all’ammutinamento dell’intera squadra. Scrutò le iridi scure di Katniss per quelli che parvero secoli.

«Siamo la tua squadra, Katniss Everdeen.» Prese un gran bel respiro, come se stesse per immergersi in un abisso senza fondo. «E dove andrai tu, noi ci saremo. Ma questo non vuol dire che lascerò che questa follia ti uccida. Se le cose si metteranno male ti riporterò indietro, dovessi spararti alle gambe per farlo.» 

Katniss sentì il sollievo scuoterla dalla testa ai piedi. Gale fischiò, decisamente sollevato, mentre Johanna fece l'occhiolino alla prima sorella Leeg. Con i pugni piantati nei fianchi, Boggs si rivolse alla sua squadra. «Fatemi un’altra volta uno scherzo del genere, maledetti bastardi, e vi uccido tutti, dal primo all’ultimo. Ora muovetevi, abbiamo da fare.»

 

Rosso. Nero. Rosso. Nero.

All’inzio Clove non riusciva neanche a dargli un nome. Erano due diversi stati di esistenza che si alternavano rapidamente, uno dopo l’altro. Dopo un istante di tempo non misurabile, i due colori cominciarono ad addensarsi, contraendosi come delle cellule brulicanti di vita, e Clove scoprì che non si succedevano vicendevolmente, ma il rosso compariva a intervalli regolari, mentre il nero permaneva, immobile e sempre vigile. Ad ogni passaggio, il rosso plasmava il nero, con la perizia e l’abilità di un mastro scultore, trasformando un incoerente bozzolo di oscurità in un luogo vero e proprio: la stiva di carico di un hovercraft.

In quel momento, Clove si rese conto di avere gli occhi aperti. E di essere ancora viva.

Si guardò intorno. Il resto della squadra era immobile, i corpi abbandonati sui sedili senza alcuna parvenza di vita.

Tutto questo tempo a reclutare una squadra di perfetti assassini, e ora sono morti tutti.

Clove ebbe un’immagine improvvisa del colonnello Rorke, con la sua aria furba, i suoi aneddoti e le sue manie di onnipotenza e fu travolta da un’improvvisa voglia di ridere a crepapelle.

Ehi, colonnello, i tuoi fottuti amanti sono schiattati come delle stupide bestie!

Le mani tremanti, ancora schiave dell’adrenalina, armeggiarono con la fibbia d’acciaio delle cinture di sicurezza. Ci volle molto più tempo di quanto ritenesse necessario perché finalmente fosse libera di alzarsi in piedi. Le ginocchia le tremarono, come sul ponte della Dura Lex e ancora prima nella stanza asettica dove si era risvegliata. 

Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.

Con un ringhio sordo, sferrò un pugno colmo di rabbia alla parete metallica dell’hovercraft. Il dolore si riverberò nel braccio come un colpo rovente di frusta, ma servì a scacciare la fumosa foschia che le ottenebrava la mente.

La luce rossa degli allarmi, ormai senza voce, le permise di arrivare a tentoni fino al portellone. Spinse il grosso bottone di apertura, ma non successe niente: il comando doveva essersi danneggiato per l’impatto. 

Percorse tutta la stiva e provò ad aprire la porta per l’abitacolo del pilota, ma anche questa era incastrata.

Merda!

Strinse i pugni, pazza di furore come una tigre in gabbia.

Uscirò da qui, in un modo o nell’altro.

Guardò il portellone, così ottusamente refrattario a concederle la libertà, poi prese un respiro profondo e scattò in avanti. La sua parte razionale sapeva che quello che stava facendo era incredibilmente stupido, e che molto probabilmente ne sarebbe uscita con una spalla lussata e l’orgoglio ferito. Ma la sua anima guerriera non si sarebbe sottomessa a nessuno, meno che mai al freddo e irritante potere della logica.

Con un grido selvaggio, impattò con una tremenda spallata contro il portellone dell’hovercraft. Con uno schianto secco, la lastra in lega d’acciaio cedette, cadendo con un tonfo sordo nella polvere. Accecata dalla luce e completamente stupita dal corso degli eventi, Clove cadde in avanti e rotolò all’esterno, fuori dal relitto fumante dell’hovercraft.

Era in una piazza. Il grosso velivolo aveva tracciato un grosso solco nel terreno, frantumando il selciato, e si era andato a schiantare contro la facciata di un palazzo squadrato a tre piani, che era crollata quasi del tutto, mettendo a nudo gli interni abbandonati. L’unica decorazione della piazzola era una fontana con una bizzarra colonna formata da pesci, dalle cui piccole bocche zampillavano flussi intermittenti d’acqua. Boccheggiando, Clove si avvicinò alla fontana e immerse la testa nell’acqua gelida. Rimase in apnea finché glielo permisero i polmoni, poi riemerse di scatto, con la lunga coda che tracciava un’arco di schizzi nell’aria immobile. Ruotò le spalle, sentendo le articolazioni scrocchiare, poi controllò il suo equipaggiamento. I due pugnali a doppio filo, lunghi quasi trenta centimetri e taglienti come bisturi, erano al loro posto ai suoi fianchi; il pugnale a spinta, con la sua caratteristica impugnatura a T, era ancora assicurato al fodero all’altezza dell’osso sacro; e i vari coltelli da lancio, disseminati ovunque fosse possibile tenerli, rispondevano freddamente alle carezze dei raggi solari.

Una volta abbandonata la piazza, Clove si rese conto che non aveva idea di cosa fare. Doveva ancora fare rapporto al generale Lindle? Oppure doveva mettersi in contatto il prima possibile con Rorke? 

Vista la drastica piega che avevano preso gli eventi, la ragazza scelse la seconda opzione. Prese il datapad tattico per verificare la sua posizione, ma una ragnatela di crepe sullo schermetto le diede la prova inconfutabile che il palmare non le sarebbe stato d’aiuto. Scagliò l’inutile oggetto lontano, cercando di fare mente locale. Attivò la modalità bussola sul cronografo da polso, ma si rese improvvisamente conto che non ne avrebbe avuto bisogno.

Non c’era bisogno di mappe o trigonometria per trovare la strada. In un campo di battaglia c’era una bussola molto più efficace di quella tradizionale, impossibile da rompere o manomettere: il rumore degli spari.

Si voltò verso ovest. Una nuova ondata di energia la travolse: aveva di nuovo uno scopo, un obiettivo. Prese a camminare ad ampie falcate, impaziente di fare rapporto al colonnello.

Le strade del capoluogo del Distretto Quattro erano larghe e perpendicolari fra loro: orientarsi non era molto difficile. Clove camminò per una buona mezz’ora, a passo molto elevato e senza sentire la minima stanchezza. Ora che era rimasta l’unico membro del Battaglione IEROS, forse Rorke le avrebbe concesso quello che lei bramava più di ogni altra cosa al mondo.

Uccidere Katniss Everdeeen.

Con una gioia selvaggia che le fece venire i brividi, si immagino di tagliare la lunga treccia di quella stupida ragazza, per poi passare alle orecchie, al naso, alle labbra...

Oh sì, Katniss. Io e te ci divertiremmo molto, insieme.

Non si accorse neanche di aver girato l’angolo, tanto era immersa nelle sue sordide fantasie. I suoi occhi colsero delle macchie sfocate, ad una decina di metri davanti a lei. Il suo istinto di combattente ebbe la meglio, riportandola bruscamente alla realtà.

Erano parecchi. E una di loro aveva i capelli scuri raccolti in una lunga, inconfondibile treccia.

No.

Per un attimo, credette di essere rimasta ancora intrappolata nella sua mente, in balia dei suoi sogni ad occhi aperti.

Non può essere lei.

Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata. L’adrenalina venne pompata rapidamente in tutto l’organismo, pronta alla lotta.

Poi, con una serie di secchi scatti metallici, una ventina di vecchi fucili vennero puntati contro di lei.

«Prova a muoverti e sei morta.»

A parlare era stata la donna con la treccia. Perché era una donna, non Katniss Everdeen. Era più bassa, leggermente più scura di pelle e dal fisico decisamente più florido della Ghiandaia Imitatrice.  Non aveva l’aspetto del guerriero, ma il suo sguardo diceva il contrario. 

Clove rimase immobile, le dita che accarezzavano le impugnature dei lunghi coltelli. 

«Ti conviene dire ai tuoi uomini di mirare bene, allora, perché non avranno una seconda opportunità.»

Fissò quei soldatacci sgangherati, uno ad uno. I loro sguardi erano timidi, spaventati, deboli. Li passò in rassegna, sfidandoli silenziosamente a contestare la sua autorità.

Uno dopo l'altro, i patetici fantaccini distolsero lo sguardo. Clove sentì il potere e il controllo, intaccato dallo scontro psicologico con Artemisia, farsi di nuovo potente e incontaminato.

Poi incontrò i suoi occhi. 

Erano scuri, profondi, immobili. Parvero scrutarla nel profondo dell’anima, poi si spalancarono, in preda al più profondo sgomento.

Clove dovette fare parecchio sforzo per nascondere il turbamento. 

Ma chi diavolo sei tu?

Quel ragazzo la conosceva, ne era certo, ma lei era sicura di non averlo mai visto. Setacciò gli archivi della sua memoria, alla ricerca di quel viso affilato, di quei ciuffi biondo cenere che spuntavano fuori dall’elmetto, di quegli occhi così scuri da sembrare neri.

Niente. Niente, maledizione!

Non ebbe molto tempo per lamentarsene. Il ragazzo fece qualche passo in avanti, il fucile impercettibilmente scosso dalle mani febbricitanti, il volto pervaso da una folle luce selvaggia.

«Rose Martin ti manda i suoi saluti» disse.

Poi premette il grilletto e le sparò in testa.











L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: The Martins send their regards. (Adesso piantala, s'é capito che sta' quarta stagione ti sta piacendo tanto, cominci a diventare noioso)

Checcarini, Dan e Clove. Si sono appena incontrati, ma è stato amore a prima vista. O a primo sparo, chè loro non sono certo due pischelletti qualunque, e devono fare le cose originali.

Accomunque sia, miei carissimi e carissime, spero abbiate gradito il capitolo, anche questo frutto di doglie, travaglio e parto cesareo. Una delle parti che più mi affascina è l'incontro fra Katniss e sua madre (perché anche i feels sono importanti, insieme agli sbam badabum). Da una parte mi è piaciuto molto scriverlo, dall'altra temo di non essere molto riuscito a rendere come si deve il tutto. Insomma, niente battutine, niente irritante ironia, non ero nel mio terreno. Ma mi intriga aver creato questa specie di parallelismo tra Katniss e Clove: entrambe hanno incontrato le proprie madri, entrambe sono fuggite via dallo scontro (con sfumature leggermente diverse, ovviamente, visto che una delle due genitrici ha amorevolmente dato della morta alla figliuola). Mi diverte pensare che abbiano più cose in comune di quanto sembri. Dopotutto, se Katniss fosse nata nel Distretto Due e addestrata fin da piccola per combattere nell'arena, sarebbe ancora la nostra eroina?

Mi diverte anche pensare che uno degli antenati del genale Lindle fosse un corpulento ufficiale dell'esercito di Sua Maestà Re Giorgio che impreca contro  i minutemen perché non combattono come gentiluomini, ma questa è un'altra storia.

Come sempre, grazie di essere giunti qui sotto, evitate di uccidere parenti di gente (ché poi quelli si arrabbiano) e tante, tante care cose! A presto!

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Capitolo 12
*** Katniss Everdeen! ***


11.

 

Katniss Everdeen!

 

 

 

“ ‘Cause I won’t wait for the debt to be repaired

Time has come for you ”

-Linkin Park, Victimized

 

 

 

Il corpo della ragazza non fece quasi rumore quando toccò terra. Più che un tonfo, fu un morbido sussurro.

Dan abbassò il fucile fumante. Uno strano, orrido verso gli uscì dalla bocca.

L’aveva ammazzata. Finalmente, la morte di sua sorella era stata vendicata.

Qualcuno si avvicinò a lui. Non si girò a vedere chi fosse. Non riusciva a staccare gli occhi dalla pozza di sangue scuro che si allargava dalla testa della ragazza.

«Dan...» disse quasi in un sussurro Lee.

«È lei, Lee. Non ho mai dimenticato la sua faccia.»

«Dan, lei è morta da tempo. L’hai visto. L’hanno visto tutti. Thresh, quello dell’Undici, le ha...»

«Lo so cos’ho visto» ribatté Dan «e so anche cosa vedo qui. Non so cosa sia successo, non so come sia possibile, ma l’assassina di mia sorella era ancora viva. Non potevo permetterglielo. Dovevo ucciderla.»

«Non mi importa un accidente di lei» disse Lee bruscamente «Non piangerò certo per la sua morte. Ma... non è questo il problema.»

Il giovane mandriano si girò lentamente, fissando intensamente il suo amico. «Va’ al punto, Lee.»

«Tu... le hai sparato in testa, Dan. Lei era da sola, noi eravamo tanti. Non aveva alcuna speranza. Non le hai neanche dato il tempo di arrendersi. Non hai aspettato che il sergente dicesse cosa fare. Ti sei piazzato davanti a lei, e l’hai... abbattuta come una bestia feroce.»

Le iridi castane di Dan mandarono lampi. «Perché è quello che è. Lei non ha certo dato il tempo a Rose di...»

«Non puoi metterti sul suo stesso livello. Non lasciare che...»

«Certe volte non c’è altro modo.» 

Gli occhi di Lee si ridussero a due fessure. «Sai, Dan, c’è un uomo che ha fatto di questa frase la sua filosofia di vita, ed è l’uomo a causa del quale combattiamo questa guerra. È lui ad aver ucciso tua sorella, non quella patetica disgraziata... non pensavo ci fosse bisogno di dirtelo.»

L'amarezza delle ultime parole dell’amico colpirono il petto di Dan come una scarica di pallettoni. Dopo qualche istante di sbigottimento, una rabbia incredibilmente potente gli fece ribollire il sangue nelle vene. «Belle parole, Lee» ringhiò, livido dalla collera. «Sono sicuro che i Pacificatori che hanno giustiziato tua sorella e tuo padre condividerebbero.» 

Appena dopo aver pronunciato quella frase, si rese conto di cosa aveva detto. Il volto di Lee si deformò in una smorfia di dolore pungente e inatteso. 

«Lee, io...»

Il ragazzo fece un passo indietro, lo sguardo inchiodato a terra. «Sai, Dan, quando ho visto i nostri commilitoni massacrare senza pietà tutti quelle giubbe bianche, mi sono chiesto se fossimo poi tanto diversi dal nostro nemico.» Improvvisamente, i suoi occhi si puntarono su quelli del giovane ragazzo biondo. «Ora ne ho la conferma.»

La bocca di Dan sembrava impastata con della calce viva. Provò a parlare, ma non riuscì ad emettere neanche un sussurro.

Lee puntò il fucile contro la ragazza stesa a terra. «È un peccato che tu l’abbia ammazzata, Dan. Sareste potuti diventare ottimi amici.»

Improvvisamente, un rombo riempì l’aria. Tutti si guardarono intorno, stupiti e spaventati, alla ricerca della fonte di quell’incredibile fragore. 

«Ci attaccano?»

«Sergente, che succede?»

«Sono loro?»

Prima che il sergente Wilkins avesse il tempo di prendere una decisione, un’ondata di hovercraft da combattimento passò rombando sopra le loro teste. I grossi ventri dipinti di grigio scuro li facevano sembrare uno stormo di grotteschi uccelli.

«Arriva la cavalleria!» gridò estasiata Penelope O’Brian.

«Alla buon’ora, maledizione» sbraitò il sergente, visibilmente sollevata.

Una serie di fischi acuti e penetranti si sovrapposero al rombo dei motori, per poi divampare in vibranti e potenti scoppi. L’aviazione ribelle bombardava a tappeto gli ultimi capisaldi della resistenza capitolina.

«Forza, muoviamoci» disse il sergente. «Prima o poi incontreremo qualcuno dei nostri.»

«Sergente» disse Dana Serkins, nel suo caratteristico tono serio e ponderato. La donna le aveva detto più volte che poteva chiamarla per nome, ma la giovane soldatessa sembrava intenzionata a rispettare la catena di comando. «Di lei che ne facciamo?»

Il volto di Clove era rilassato, un’espressione che poco si conciliava con la fine brutale alla quale era andata incontro.

«La lasciamo qui, è ovvio» disse Penelope O’Brian. «Perché dovremmo portarci dietro un morto?»

«Non è un morto qualsiasi» disse Connor Tennar, un uomo il cui fisico scheletrico faceva da contraltare ad un’intelligenza spiccata e vivace «Sembra appartenere a una qualche sorta di corpo speciale. Forse i nostri servizi d’intelligence potrebbero ricavarci qualcosa di utile.»

Il sergente Wilkins assentì. «Buona idea, Connor. Silas, prendila tu. Non dovrebbe essere un problema per te.»

«Certo che no, capo» disse Silas Tomrose, un gigantesco omone con la testa lucida come un uovo e uno spiccato talento nel suonare il violino. Afferrò il corpo di Clove e se lo buttò sulla spalla senza neanche un grugnito.

«Perfetto, signori» sentenziò il sergente Wilkins «ora muoviamoci. Non so voi, ma ho una gran voglia di farmi una gigantesca dormita.»

 

Il capoluogo del Distretto Quattro era la dimostrazione architettonica di quanto le grandi famiglie del luogo tenessero al loro prestigio. Le larghe strade lastricate erano delimitate da grandi edifici in pietra bianca, le cui facciate erano decorate da arcate ricolme di preziosità e intricati dettagli, lunghi porticati i cui intervalli fra colonne erano frutto di rigide proporzioni matematiche, ampie finestre con vetri colorati e mille altri virtuosismi stilistici frutto di lavoro certosino ed esorbitanti quantitativi di denaro. C’erano voluti anni per costruire tali splendidi edifici, ma ci volle meno di mezza giornata perché il Trentaduesimo Stormo Bombardieri dell’aviazione ribelle trasformasse tutto quello sfoggio di bellezza artistica in una landa desolata di rovine massacrate e polvere di calcinacci.

Prima che il caposquadriglia potesse rendersene conto, uno degli apparecchi si svincolo dalla formazione d’attacco, e cominciò a scendere bruscamente di quota.

«Più avanti non posso andare» disse il pilota al caposquadra Boggs «i capitolini tengono ancora il Municipio, l’antiaerea ci farebbe a brandelli!»

«Portaci giù» rispose Boggs «al resto penseremo noi.»

Sollevando una grande nube di polvere, l’hovercraft corazzato scese in una piazza di forma ellittica abbastanza grande da poter contenere la sua notevole mole. Mentre si librava a qualche metro da terra, uno dei portelloni si aprì con uno scatto. Katniss, Gale, Johanna e la squadra 451 toccarono finalmente terra. Coprendosi gli occhi per via della polvere, il gruppo si allontanò dal velivolo, che con un gran fracasso diede potenza ai motori e si risollevò di nuovo in aria.

«Odio volare» sbottò Johanna, lanciando un’occhiataccia al bombardiere che rientrava velocemente in formazione. «Quando questa fottuta guerra sarà finita non voglio più vedere uno di quei cosi per il resto della mia vita.»

«Lo spero vivamente, Johanna» ribattè Gale «sentirti declamare il tuo intero catalogo di imprecazioni per tutta la durata del viaggio non è stato certo il massimo.»

«Ho preso nota delle più fantasiose» disse Homes a Jackson «la ragazza ha davvero talento.»

«Qualche idea sulle nostre prossime mosse, Boggs?» disse Katniss al caposquadra.

«Ci dirigeremo al Municipio» disse l’uomo. «Da lì forse troveremo un velivolo o un altro mezzo di trasporto per avvicinarci al Distretto Due.»

«Perché al Distretto Due, capo?» chiese Leeria Leeg, la sorella che per prima si era schierata dalla parte di Katniss. «Credevo che Peeta fosse a Capitol City.»

«Non possiamo certo entrare nella capitale dall’ingresso principale» ribatté il caposquadra. «Ho dei contatti nel Due che potrebbero esserci molto utili.»

Katniss mosse bruscamente la mano destra, dove stringeva l’arco compound costruito apposta per lei. Con uno scatto, le braccia dell’arma si spalancarono in tutta la loro lunghezza.

Il tempo della debolezza, del riposo forzato e della cieca obbedienza era finito. Era di nuovo padrona di se stessa, e niente e nessuno l’avrebbe fatta tornare indietro.

Con una veemenza che sorprese anche se stessa, una potente ondata di energia la avvolse dalla testa ai piedi. La morbida impugnatura dell’arco la fece sentire estremamente potente. 

E uno strano, ambiguo sorriso le affiorò sul volto.

«Muoviamoci» disse quasi in un sussurro. «Si va a caccia.»

 

Mano mano che gli uomini del sergente Wilkins si avvicinavano al municipio, gli spari e le detonazioni si facevano sempre più potenti. Qualunque cosa stesse succedendo più avanti, la lotta era feroce e accanita.

«I figli di puttana stanno vendendo cara la pelle» disse un agricoltore del Distretto Nove.

«Meglio non avanzare troppo» disse il sergente «facciamo il giro, e vediamo se c’è qualche unità appostata alla quale possiamo aggregarci.»

Svoltarono a destra, avanzando a zig zag tra le rovine e i calcinacci. Ad un isolato di distanza, un grosso proiettile di artiglieria centrò un palazzo stretto e alto, facendolo crollare al suolo in una gigantesca ondata di polvere grigiastra.

Il fracasso del crollo sembrò risucchiare tutti gli altri rumori. Per qualche minuto, si udì soltanto il mormorio della polvere che si andava posando sulle macerie dei palazzi squarciati dalla guerra.

Poi il sergente sollevò il pugno, gli occhi ridotti a due fessure. «Arriva qualcuno. Presto, nascondiamoci.»

La sua squarda non tardò molto a trovare riparo. La strada era ingombra di grossi ostacoli di varia natura e materiale: pietra, metallo, legno, tutto quello che prima era contenuto sotto i tetti delle case e che era stato violentemente sparato fuori dalle bombe.

Il sergente si piazzò dietro un grosso armadio. Controllò che il fucile fosse carico e pronto a sparare, e attese.

Il rumore di passi era inconfondibile, ma la sua intensità era piuttosto ridotta: doveva essere prodotto da non più di una decina di uomini.

Almeno se ci scoprono abbiamo la superiorità numerica.

Ayla Wilkins non aveva alcuna intenzione di affrontare altri scontri a fuoco. Non voleva rischiare inutilmente le vite dei suoi uomini, ma sopratutto l’inferno di quella mattina l’aveva svuotata di qualunque desiderio di combattere. Ne aveva viste troppe: voleva soltanto che il giorno finisse.

Perciò, quando dalla strada vide sbucare una mezza dozzina di uniformi grigio scure, il sollievo fu quasi intollerabile. Erano una squadra di Fanti Scelti, più altri tre ragazzi che avevano un equipaggiamento decisamente inusuale: due di loro stringevano in mano un arco, mentre la terza brandiva una minacciosa ascia.

Una squadra singolare, non c’è che dire.

Rinfrancata e sollevata, prese fiato per ordinare a tutti di uscire dai ripari e andare incontro alla squadra alleata.

Poi qualcuno urlò.

Il sergente si girò di scatto, spaventata, stringendo convulsamente il fucile.

E quello che vide le ghiacciò il sangue nelle vene.

Silas era in piedi, lo sguardo stralunato, le mani contratte e un rivolo di sangue che colava pigro dalla bocca. Si trascinò in avanti per qualche passo, poi crollò a terra, sollevando una piccola nuvoletta di polvere. Alle sue spalle, il suo assassino fece qualche passo in avanti, calpestandogli la schiena ed ergendosi incontrastato sopra tutti loro.

Era piccola, quasi gracile, con l’armatura nera che spiccava sullo sfondo dei grandi palazzi bianchi. 

E stringeva nella mano un lungo pugnale lordo di sangue.

Oh mio Dio, no.

«KATNISS EVERDEEN!» 

Non era un grido, era un’esplosione di collera e gioia selvaggia, talmente potente da sovrastare il frastuono della guerra.

Trionfante, feroce, con il volto imbrattato di sangue e una luce folle negli occhi, la ragazza che fino a poco tempo prima non era stata altro che un cadavere si lanciò in avanti, nella sua direzione.

Ayla Wilkins era sopravvissuta ad una tempesta di fuoco, laggiù sulla spiaggia. Ma in quel momento, vedendo la morte correre dritta verso di lei, sentì il terrore bloccarle ogni cellula del suo corpo e non poté fare a meno di sentirsi miseramente, totalmente spacciata.

 

La testa le pulsava dolorosamente, le tempie le martellavano come una compagnia di grancasse impazzite, l’adrenalina combatteva una lotta senza quartiere contro le ferite e la stanchezza. 

Clove ruggì come una bestia feroce. Il dolore la rendeva più attenta, più forte, più viva.

Una donna si parò davanti a lei. Il corpo si mosse in automatico, mentre la lama affondava nello stomaco della soldatessa. Non la sentì neanche urlare, per quanto la sua mente era concentrata sul suo obiettivo.

«KATNISS EVERDEEN!»

Ogni volta che urlava quel nome sentiva una botta potentissima di energia risalire vibrando la spina dorsale per poi schiantarsi dritta nel cervello. Era come una scarica di defribrillatore a massima intensità. 

Stavolta non si era ingannata. Lei era lì, ad una decina di metri di distanza. Sbigottita, incredula, vulnerabile. Probabilmente non l’aveva ancora riconosciuta.

Scartò a sinistra, evitando un grosso blocco di pietra. Una pallottola le passò ronzando a qualche centimetro dalla spalla e si andò a schiantare sulla dura superficie della maceria.

Altri due di quei soldati improvvisati sollevarono i fucili contro di lei. Con la mano libera afferrò due pugnali e li scagliò violentemente in avanti, poi si tuffò in mezzo alle due vittime, che crollarono a terra stringendosi le gole trafitte. Smorzò l’impatto con il terreno con una capriola, mentre un terzo Fante cercava di aggredirla con il calcio del fucile. Si alzò di scatto in piedi, evitando il colpo sferrato con goffaggine, lo pugnalò violentemente al petto poi con una mossa fluida si portò alle sue spalle, mentre una pallottola si conficcava nel corpo ormai inerte del suo scudo umano improvvisato.

«KATNISS EVERDEEN!»

Ora la vedeva chiaramente. Stava incoccando una freccia nel suo arco, ma era ancora sconvolta dagli avvenimenti e non riusciva ad essere abbastanza lucida.

Troppo lenta. Sei sempre stata troppo lenta.

Fece qualche passo in avanti, poi qualcosa impattò violentemente contro il suo fianco sinistro. Cadde malamente a terra, rotolando insieme all’oggetto che l’aveva investita con tanta foga.

Mentre delle dita cercavano spasmodicamente il suo collo, si rese conto di cosa l’aveva attaccata.

Il ragazzo biondo che le aveva sparato in testa.

 

«Katniss, sta’ indietro!» 

Con movimenti perfettamente sincronizzati, la squadra 451 si chiuse in cerchio attorno alla Ghiandaia Imitatrice.

«Ma chi cazzo è quella?» sbraitò Johanna, brandendo la sua fida ascia.

«Non lo so, ma sembra parecchio arrabbiata» rispose Gale, tendendo l’arco. «Maledizione, non riesco a colpirla.»

La ragazza minuta che aveva seminato una brutale scia di distruzione dietro di se’ ora era avvinghiata in una brutale lotta senza quartiere con un Fante di Linea, che si era gettato contro di lei in un placcaggio da manuale.

«Capo, che facciamo?» disse Leevia Leegs, la cui unica differenza con la sorella era un’unica lettera del nome.

«Dobbiamo proteggere Katniss Everdeen» rispose Boggs. «Ripieghiamo, adesso.»

«Ma il ragazzo...»

«Non mi interessa. Noi dobbiamo...»

«Non lo lascerò morire!» gridò Katniss. E prima che potessero fermarla, uscì dal cerchio di protezione della squadra e scattò in avanti, verso la ragazza che aveva urlato il suo nome con tanta veemenza.

«Andiamo a fare a pezzi quella stronzetta!» esclamò Johanna, prima di lanciarsi all’inseguimento di Katniss, l’ascia sollevata e pronta a colpire.

«Maledizione!» berciò Boggs. «Avanti, avanti, presto!»

La lotta tra i due ragazzi stava per giungere ad una rapida fine: la giovane assassina era a cavalcioni sopra il suo avversario, e spingeva con forza incredibile la lama del pugnale verso il suo collo. Katniss corse fino a quando fu a qualche metro dai due, poi tese l’arco e mirò alla nuca della ragazza. 

«Fermati o ti uccido.»

La giovane assassina parve essere attraversata da un lungo brivido. «Katniss Everdeen. Non puoi neanche immaginare quanto sia felice di rivederti.»

«Chi diavolo sei?»

Per tutta risposta, la ragazza mosse di scatto il pugnale verso destra, liberandolo dalla stretta del giovane, gli sferrò un poderoso pugno sulla tempia e si alzò in piedi.

«L’ultima volta che ci siamo viste stavo per ucciderti. E io detesto lasciare le cose a metà.»

Katniss guardò quel volto affilato spruzzato di lentiggini, quegli occhi castani pieni di odio. Qualcosa le diceva che non era una perfetta sconosciuta, ma sembrava volerci uno sforzo enorme per tirare fuori il suo nome.

Poi la ragazza inclinò la testa e sollevò un angolo della bocca. 

«Allora, come sta il tuo innamorato?»

E finalmente, la luce squarciò le tenebre, e Katniss Everdeen ebbe la sua risposta.

Clove vide il panico farsi strada sul volto della Ghiandaia Imitatrice, e seppe di aver vinto. Brandendo i suoi pugnali, si lanciò contro il suo nemico mortale. Con un sibilò, la freccia abbandonò l’arco di Katniss e si piantò nella sua spalla. Clove ignorò il dolore, tutto il suo essere concentrato sugli occhi grigi della sua preda.

Sei mia.

Lanciando un selvaggio grido di guerra, Johanna si frappose fra lei e Katniss. La lama affilata dell’ascia calò con una velocità impressionante sul suo collo. Con un ringhio di frustrazione, Clove balzò all’indietro, mentre il filo dell’arma tracciava un solco sul pettorale della sua armatura. Il pugnale che stringeva nella mano destra penetrò nelle difese del suo avversario, infilandosi nella zona tra il gomito e il bicipite e imbevendosi di sangue. Johanna imprecò sonoramente, poi sferrò un nuovo, brutale fendente. Clove era troppo veloce per quella rozza e pesante arma: evitò con un volteggio il nuovo attacco, si portò alle spalle della giovane guerriera e le squarciò il polpaccio sinistro. Ruggendo la propria frustrazione, Johanna cadde in ginocchio.

Clove avrebbe voluto sgozzarla, ma non aveva tempo per simili quisquilie. Doveva uccidere Katniss Everdeen, prima che qualche altro stupido eroe decidesse di morire al posto suo.

Muovendosi all’unisono, Jackson e Homes comparvero ai lati di Katniss. I loro fucili vomitarono fuoco su Clove: un proiettile si portò via un bel pezzo dell’armatura del braccio destro, mentre un altro colpo impattò con un tonfo sordo sulla piastra della coscia sinistra. Non c'era tempo di estrarre i coltelli da lancio: Clove percorse con uno scatto poderoso gli ultimi metri che la separavano dai due militari, poi si lanciò in scivolata in mezzo a loro e roteando i due pugnali vibrò un colpo terribile all’altezza del ginocchio. Due spruzzi gemelli di sangue vermiglio si levarono dalle ferite dei due membri della squadra 451 mentre l’acciaio penetrava la carne, squarciava i legamenti e spezzava le ossa. La gamba di Homes venne tranciata esattamente a metà, mentre quella di Jackson rimase attaccata al resto del corpo solo da un minuscolo brandello di carne.

«KATNISS EVERDEEN!» urlò Clove rimettendosi in piedi. «Non puoi scappare! Non puoi nasconderti da me!» Un proiettile sparato da Leeria Leeg le fece scattare all’indietro l’avambraccio sinistro, mentre il pugnale cadeva tintinnando a terra. Per tutta risposta, Clove afferrò un pugnale da lancio e glielo tirò dritto in mezzo agli occhi. La donna ebbe appena il tempo di accorgersi di quello che succedeva prima che la lama d’acciaio penetrasse nel suo cranio, uccidendola sul colpo.

«Dovunque andrai, io sarò lì! Più inseparabile del tuo caro innamorato!»

Leevia Leeg, sconvolta dal dolore, si scagliò contro di lei, brandendo il fucile come una rozza clava. Clove attese che fosse abbastanza vicina, poi estrasse il pugnale a spinta e usò il suo stesso impeto per far conficcare la lama in profondità nello stomaco. Con un rumore disgustoso simile ad un risucchio, sfilò il coltello dalle budella della donna e lo lanciò contro Mitchell, ferendolo alla coscia. Il soldato cadde a terra, mentre il fucile sparava e colpiva Boggs alla schiena.

Clove si lasciò sfuggire un’aspra risata per quell’insperato colpo di fortuna. «KATNISS EVERDEEN! I tuoi eroi stanno finendo!»

Una freccia si piantò nel pettorale, a qualche centimetro di distanza dal cuore, mentre un proiettile sparato da un Fante di Linea impattò sulla sua schiena. Raccogliendo le sue ultime forze, Clove si lanciò in avanti e andò a impattare violentemente contro la Ragazza di Fuoco. Il mondo si trasformò in una ghirlanda vorticante di luci e suoni, mentre le dita fameliche della giovane assassina artigliavano il volto della Ghiandaia Imitatrice.

«Dovevi essere tu a morire! Dovevi essere tu!»

Qualcuno l’afferrò da dietro. Mollò una violenta gomitata al suo assalitore, e un grugnito di dolore la avvertì che aveva centrato il bersaglio. Katniss le sferrò un pugno allo zigomo sinistro, che trasformò il suo campo visivo in una parata di luci e lampi bianchi.

Arretro di qualche passo, cercando di togliere il sangue che le imbrattava tutta la faccia.

Katniss e Gale incombevano su di lei. Con un ghigno, afferrò due coltelli da lancio per mano, sistemandoli fra gli incavi tra le dita.

«Oh Katniss, ti sei fatta un nuovo ragazzo? Che penserà il povero innamorato? Non vorrai ferire i suoi sentimenti, vero?»

«Io mi preoccuperei di qualcos’altro, sadica puttanella!»

Questa volta l’ascia fu più svelta di lei. Con un suono terribile e un dolore terrificante, la pesante lama si schiantò contro la piastra della corazza a protezione della schiena. Clove venne lanciata in avanti, seminando pugnali da lancio intorno a se’, e cadde pesantemente nella polvere. Nonostante la tremenda ferita, ebbe ancora la forza di girarsi, seppure a fatica, ma un paio di frecce e un’ascia puntata sulla sua gola la fecero desistere da ogni velletario tentativo di proseguire la lotta.

«Katniss, ci penso io» disse Johanna, ansimando come un mantice «permettimi di staccare la testa a questa piccola stronza.»

«Già, fallo adesso che puoi» sibilò Clove «potresti non essere così fortunata, in futuro.»

Con un ringhio sordo, Johanna sollevò l’ascia.

«No!» la interruppe Katniss. «Non la uccideremo.»

Johanna la guardò come se fosse appena impazzita. «Che cosa?»

«Potrebbe esserci utile.»

«E in che modo?» esclamò Johanna «Conosco i tipi come lei, Katniss. L’unica cosa che otterremo salvandole la vita sarà darle un’altra opportunità per ucciderci tutti!»

«Intanto vedremo cosa sa» ribatté ostinata Katniss «in caso contrario, potrai farle tutto quello che desideri.»

Johanna guardò la ragazza, poi l’assassina riversa a terra. «Sei tu il capo» disse infine «Ma io ti ho avvertito.» 

Gale la osservò allontanarsi con l’ascia appoggiata sulla spalla, zoppicando vistosamente. «Non ha tutti i torti, Katniss. È pericolosa.»

«Non sai quanto» mormorò Clove. Ora che l’adrenalina aveva smesso di essere pompata nelle vene, la stanchezza e le ferite l’avevano gettata in una sorta di delirante dormiveglia. «Oh sì, Ragazza di Fuoco, portami con te. Saremo amiche per sempre...»

Per tutta risposta, Katniss gettò l’arco a terra, la mise a sedere afferrandola per la corazza e le sferrò un violentissimo pugno in faccia.

«Non sai quanto vorrei lasciargliela uccidere» disse con veemenza, rialzandosi in piedi. 

«E allora qual’è il problema?»

«Io...» Katniss guardava lontano, verso l’orizzonte nascosto dalla città in rovina. «Io non... Quello che voglio io non è...» balbettò. Ora che lo scontro si era concluso, la Ragazza di Fuoco era di nuovo rientrata nel suo guscio, lasciando fuori il suo timido, introverso doppione. «Questo... questo è quello che farebbe Peeta. Lui non l’avrebbe uccisa senza darle... una possibilità.»

«Katniss...»

«Una volta lui mi disse che non avrebbe permesso ai Giochi di trasformarlo in un burattino.» La Ghiandaia Imitatrice guardò la sua antica nemica riversa scompostamente a terra, e sentì uno strano miscuglio di paura, solitudine e compassione vorticarle nel cuore.
«Questa guerra è una gigantesca arena, Gale, e noi siamo tutti Tributi. Siamo stati gettati nel fango e nel fuoco da persone che ci ritengono nient'altro che utili giocattoli. Ma se non possiamo sfuggire al nostro destino, possiamo scegliere come affrontarlo. E io non sarò schiava di nessuno... compresa me stessa.»

























L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Rigà, ma davvero vi pensavate che ammazzavo Clove così, su due piedi? Senza neanche un'ammazzatina di commiato? Tsk.

Comunque sia, avete fatto bene a dubitare: in questa guerra nessuno è al sicuro. I proiettili vagano, le bombe esplodono e le assassine psicolabili sono sempre dietro l'angolo, come ha imparato a sue spese la squadra 451. Clove è tornata alla ribalta alla grande (se avete dubbi sul suo rientro in scena, *COUGH COUGH*Fabio*COUGH COUGH*, avrete chiarimenti nei prossimi numeri), facendosi beffe di una ventina di Fanti di Linea, una mezza dozzina dei migliori elementi del Distretto Tredici, una veterana asciofila di due Hunger Games e per poco non ci tirava anche il collo alla Ghiandaia. Ma per quanto potente, era comunque sola contro una fracca di gente. Se la scoatta tanto, ma alla fine perde sempre. E noi ci abbiamo un debole per i perdenti (diamine se ce l'abbiamo).

Finalmente i Nostri sono tutti insieme, allegri e appassionati. Il viaggio è appena cominciato: si prevedono botte, proiettili, sangue, feels, ancora sangue, ancora feels e tutti quei subdoli espedienti per tenere alta l'attenzione del pubblico. Perché, come ben sapete, sono un povero bastardo schiavo del pathos.

Alla prossima, dunque: affrontate il vostro destino, picchiate forte e circondatevi di gente con una passione per le armi pesanti. Tante care cose, gente, e alla prossima!

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Capitolo 13
*** Non con le armi, le minacce, il terrore o le lusinghe ***





12.

Non con le armi, le minacce, il terrore o le lusinghe

 

 

 

«Come stanno?»

«Non sono ancora morti, ma lo saranno presto.»

Il sergente Ayla Wilkins non poté fare a meno di rabbrividire, nel guardare gli arti amputati dei due soldati svenuti. La voce del loro caposquadra, Boggs, era inquietantemente atona.

«Hanno perso troppo sangue.»

«Il Municipio è a pochi isolati da qui» disse Ayla, indicando la via ingombra di detriti alle sue spalle. «Lì probabilmente ci saranno dei dottori.»

Boggs alzò gli occhi verso di lei. «Probabilmente?»

«È il punto di raccolta delle forze da sbarco. Se qualcuno dei corpi medici è sopravvissuto alla spiaggia, è lì che lo troveremo.»

Il caposquadra annuì distrattamente. «Bene.» Voltò le spalle al sergente senza neanche un saluto e si avviò verso i suoi uomini. «Mitchell, Mason, Hawthorne e Everdeen: pronti a muoversi.»

Everdeen?

Ayla fissò la giovane ragazza smunta con quella lunga treccia così simile alla sua.

Possibile che…

«Sergente?»

Ayla si voltò spaventata, presa alla sprovvista da quella voce. Lee aveva un mezzo sorriso stanco e storto che sembrava essere stato appoggiato momentaneamente sulla sua bocca da qualcun altro.

«Non si preoccupi, sergente, abbiamo vinto.»

«Che cosa c’è, ehm…»

«Harper, signore. Soldato semplice Lee Harper.»

«Lee, giusto.»

«Signore, gli uomini… noi… credo ci sia bisogno di lei, signore.»

«Io?»

«Sì, signore. Da questa parte.»

Ayla seguì il giovane soldato con la mente piena di dubbi. Aveva guidato quel gruppo di poveri disperati più per necessità che per altro, e credeva che una volta cessato il pericolo ognuno di loro se ne sarebbe andato per la sua strada.

Vogliono ancora il mio aiuto… come faccio a dirgli che sono l’ultima che glielo può offrire?

I Fanti di Linea erano disposti a semicerchio, stretti gli uni accanto agli altri come per difendersi dal mondo impazzito. Davanti a loro, sdraiati a pancia in su, i cinque commilitoni che non ce l’avevano fatta sembravano riposare, con gli occhi chiusi e le mani intrecciate sul petto.

Penelope O’Brian sollevò i suoi grandi occhi castani e fece qualche passo verso di lei. «Che cosa facciamo, sergente?»

Il puro e semplice smarrimento di cui erano imbevute le parole della ragazza si schiantarono come un’ondata di mare gelido sul petto del sergente Wilkins.

Fino a qualche ora fa non avrei voluto altro che lei mi obbedisse come un cagnolino. Ora la detesto perché lo fa.

«Riguardo... a cosa?» biascicò. In mezzo ai cinque corpi, il pallore del volto della donna che si era frapposta fra lei e la terrificante giovane assassina sembrava splendere più degli altri. Aveva preso una lunga lama d’acciaio al posto suo, e lei non sapeva neanche come si chiamasse.

Perché lo fate? Perché continuate a morire al posto mio?

«Riguardo a loro» rispose Penelope, indicando i cadaveri. «Dobbiamo seppellirli? O... bruciarli? Li lasciamo qui?» la ragazza fece un respiro profondo, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. «Come... come funziona... in guerra, sergente?» Il suo corpo gracile cominciò ad essere scosso da una serie di tremiti incontrollabili.

Ayla aprì la bocca, ma non sapeva cosa dire. Lei non era un condottiero, non era un bel niente. Era una qualunque, stupida donna dell’ultimo, stupido Distretto, e non aveva la minima idea di come funzionasse una guerra.

In quell’istante, però, qualcosa balenò nella sua mente. Un flash, un’immagine appena. Ma le si impresse così a fondo nelle retine che fu portata a dubitare che fosse solo un parto della sua mente.

Sue era lì, davanti a lei, seduta sul letto e con una gamba a penzolare nel vuoto, pronta a fuggire.

Mamma, ho paura!

La casa vibrava. La tela incorniciata su cui aveva ricamato un mazzo di margherite era caduta a terra. Un mostro fatto di migliaia di voci gridava fuori dalla finestra.

Non è niente, piccola mia. Vieni qui. 

L’aveva presa e l’aveva stretta a se’.

Ci sono qui io. Niente ti farà del male.

Il suo fragile corpicino tremava come una macchina impazzita. Sue era sconvolta. E puzzava. Puzzava di sudore, di sangue, di fango... 

...e di polvere da sparo.

Ci sono qui io.

Solo in quel momento si rese conto di dove fosse. E che il corpo che stringeva fra le braccia non era quello di sua figlia.

I lunghi capelli di Penelope O’Brian le solleticavano il naso, mentre la giovane soldatessa singhiozzava senza alcun freno sulla sua spalla.

«Va tutto bene» mormorò, accarezzandole la nuca con la mano lurida.

Va tutto bene.

Chissà quante altre volte ancora avrebbe dovuto ripetere quella disgustosa bugia.

 

Katniss Everdeen non aveva mai voluto essere un condottiero, ne’ tantomeno un simbolo. Ma in quello sporco pomeriggio, osservando Johanna nascondere una smorfia di dolore mentre si piegava per chiudere gli occhi ai corpi delle sorelle Leeg, arrivò a detestarsi con tutte le sue forze.

È colpa mia.

Qualcuno si mosse alle sue spalle. Il passo di Gale, leggero e ponderato, era inconfondibile.

«Non dovevate venire.»

«Come no. Così quella psicopatica ti avrebbe tagliato a cubetti.»

Katniss gettò uno sguardo alla ragazza minuta dai capelli corvini, legata ad un palo della luce e con la testa reclinata sul petto. Una soldatessa terribilmente giovane le aveva tolto il pettorale dell’armatura per medicarle le ferite, assistita da un ragazzo biondo. Katniss avrebbe dovuto arrabbiarsi al pensiero che l’assassina di tutta quella brava gente fosse stata curata come un’alleata, o almeno sentirsi soddisfatta del proprio sfoggio di virtù per averla lasciata in vita. 

Ma per quanto si sforzasse, per quanto disperatamente lo volesse, non riusciva a provare nulla.

O il vuoto o il fuoco. Nessuna via di mezzo.

«Non passeranno la notte» disse Gale, accennando a Homes e Jackson. «Hanno bisogno di cure immediate.»

«E dove le troviamo, delle cure immediate?»

«Prima ho sentito il capo dei Fanti di Linea parlare con Boggs. Ha detto che il Municipio era il loro punto di raccolta. Forse hanno allestito un campo base.»

Un piccolo refolo di speranza allentò la morsa di pietra che le stringeva il cuore.

Li possiamo salvare.

«Mitchell, Mason, Hawthorne e Everdeen: pronti a muoversi.»

«Non tutto è perduto» mormorò Katniss.

«C’è sempre speranza» replicò Gale. «Una volta non ci credevo, ma poi qualcuno mi ha convinto del contrario.»

La Ragazza di Fuoco fissò il suo amico per qualche istante. «Chi?»

Gale fece spallucce, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Tu, Katniss. Chi altri, se no?»

 

«Perché lo fai?»

«Perché è il mio dovere.»

«Tu non hai doveri, a parte quello di restare in vita.»

«Non mi sono arruolata solo per sopravvivere, Dan.»

Dana emise un flebile grugnito, mentre estraeva il moncone di freccia dalla spalla della ragazza ferita.

«Non se lo merita.»

«Assolutamente no.» La giovane curatrice improvvisata versò dell’acqua sulla fronte incrostata di sangue della sua paziente. «Ancora mi chiedo come abbia fatto a... uh

Dan si piegò in avanti, incuriosito. «Che succede?»

«Credo di aver trovato una spiegazione al suo... ritorno.» Dana si voltò verso di lui, mentre con una mano posata sulla tempia sinistra di Clove teneva sollevate le ciocche che erano sfuggite alla sua lunga coda.

Gli occhi di Dan si ridussero a due fessure, mentre cercava di distinguere qualcosa in mezzo a tutto quel sangue. Poi qualcosa mandò un bagliore opaco, e il ragazzo si lasciò sfuggire un mormorio sorpreso.

«È...»

«...una placca» concluse per lui Dana «e non di un metallo qualunque. Forse è una sorta di potenziamento...»

«È una toppa» disse improvvisamente Dan. «Una maledetta toppa.»

Dana aggrottò le sopracciglia. «Una toppa?»

Dan indicò la ferita. «Lì è dove Thresh l’ha colpita. L’hanno... aggiustata.»

«Thresh?» Dana guardò il ragazzo, poi la giovane ferita, poi di nuovo Dan. Poi la consapevolezza illuminò il suo volto. «Dan, non crederai...»

«Perché è così difficile da capire?» scattò il ragazzo, con più trasporto di quanto avesse voluto. Dana si ritrasse istintivamente, facendolo sentire immediatamente in colpa. 

«Scusa, io...»

«No, capisco» rispose brusca Dana. «Al tuo posto probabilmente farei lo stesso.»

Dan si sedette a terra. «Come hanno fatto? Non puoi sopravvivere ad una botta del genere... non puoi.»

«Capitol City è un altro mondo. Il vecchio Tewey diceva che i capitolini vivono duemila anni e mangiano vetro.»

«Il vecchio Tewey diceva anche che mio padre era il Diavolo in incognito, quindi non lo prenderei molto sul serio.»

I due ragazzi si fissarono per qualche istante nel più completo silenzio. Poi, forse per la stanchezza, forse per il sollievo di essere scampati alla morte o molto più probabilmente per entrambe le cose, Dana e Dan scoppiarono a ridere fragorosamente, dondolandosi avanti e indietro con le mani sulla pancia, nel tentativo di fermare le dolorose fitte allo stomaco.

«Davvero... davvero l’ ha detto?» singhiozzò Dana, cercando di asciugarsi le lacrime.

«Te... te lo giuro!» rispose Dan, altrettanto a corto di fiato. «Una... una volta... l’ha pure inseguito. So chi sei!, gli ha urlato...»

Dana si coprì la faccia, cercando di soffocare le risa. «Ahia... ahia... la pancia...»

«Avete finito, voi due?»

Reggendosi malamente sulla gamba sana, Mitchell li squadrava con altezzoso sdegno. «È morta della gente, abbiate un po’ di rispetto.»

I due Fanti di Linea smisero improvvisamente di ridere. «Io... chiedo scusa» borbottò Dan, tornato bruscamente serio. «Noi non... non era nostra intenzione.»

Mitchell emise un suono basso e vibrante. «Basta che la piantiate» ringhiò.

Poi la sua testa esplose.

 

Come era accaduto già quella mattina sulla spiaggia, per qualche istante Dan credette che gli occhi lo avessero ingannato. 

Poi il rumore dello sparò arrivò fino alle sue orecchie, e quello che un tempo era il cervello del soldato scelto del Distretto Tredici gli schizzò sulla faccia, accecandolo.

«Cecchino!» gridò qualcuno.

Dan sbattè ripetutamente le palpebre, ma la poltiglia rossastra gli oscurava completamente la vista. 

Si alzò in piedi, in preda al panico. Il suo respiro gli rimbombava nelle orecchie. Inciampò su qualcosa e cadde a terra, sbattendo violentemente l’osso sacro.

«Via di qui! Al riparo, al riparo!»

Un altro sparo. Altre grida. Dan si strofinò la manica destra del vestito sulla faccia, per cercare di togliere il sangue. Poi una piccola mano afferrò le dita della sua mano sinistra.

«Dan, vieni!»

Dan si alzò in piedi barcollando, mentre l’adrenalina faceva vibrare ogni suo muscolo. Assecondò la spinta della mano di Dana, lasciandosi guidare dalla piccola soldatessa.

«Salta!»

Dan obbedì troppo tardi. Qualcosa urtò il suo stinco quando ancora era a mezz’aria, sbilanciandolo in avanti. L’impatto con il terreno proiettò lampi giallastri sulle sue retine, mentre rotolava scompostamente, privo della guida di Dana.

Provò ad aprire gli occhi, e questa volta riuscì a scorgere qualcosa. 

Delle figure avanzavano verso di lui con fare minaccioso. Preso dal panico, scattò in piedi e si diresse nella direzione opposta.

«Qui, Dan! Qui!»

Era Lee. Dan si aggrappò al richiamo dell’amico con forza disperata. Riusciva quasi a distinguerlo: la sua testa sporgeva da un edificio sventrato. Si tolse un altro po’ di sangue dal viso, e l’immagine migliorò ancora: i Fanti e gli altri soldati erano asserragliati in quello che un tempo doveva essere stato un negozio di qualche genere. Raccolse tutte le sue forze in uno sprint disperato. Una raffica di spari lo assordò. Quando fu a qualche metro di distanza, spiccò un salto e superò in volo la vetrina in frantumi del negozio, capitombolando malamente all’interno.

«Ormai quest’entrata è un tuo marchio di fabbrica» esclamò Lee, nel tentativo di scaricare la tensione che attanagliava ogni fibra del suo corpo.

«Credo di aver perso di nuovo il mio fucile» mormorò Dan, sentendosi incredibilmente stupido.

«Tranquillo, te ne troverò un altro... ancora.»

«Chi sono quelli e perché ci sparano addosso?» esclamò Johanna, rinsaldando la presa sulla sua ascia.

«Probabilmente dei capitolini rimasti indietro» mormorò Ayla Wilkins, controllando il fucile. 

«Un po’ troppo precisi per essere capitolini allo sbando» disse Boggs, infilando un caricatore nel suo fucile di precisione. «È passato un secondo tra l’impatto e il rumore dello sparo. Un calibro cinquanta, antimateria. Il tiratore ha sparato da quasi cinquecento metri. Con un bersaglio in campo aperto... non poteva sbagliare.»

Johanna fissò gli occhi vitrei del grosso caposquadra. «Boggs...»

«Va tutto bene, soldato Mason» rispose lui, caricando il fucile con furia controllata. «Va tutto bene.»

 

Quando il soldato scelto Homes aprì gli occhi, l’azzurro del cielo era così intenso da risultargli intollerabile. Provò a deglutire, ma la bocca era completamente asciutta. 

I muscoli non rispondevano. Lentamente, provò a riattivarli. Prima le dita della mano destra, poi quelle della mano sinistra, il piede sinistro e infine…

…il piede. Non mi sento… il piede.

Uno scoppio lontano riverberò fino alle sue orecchie.

Fucile di precisione, calibro cinquanta, antimateria.

Stava succedendo qualcosa. Qualcosa che richiedeva il suo intervento. L’ultima cosa che…

La ragazzina.

Ricordava che gli stava correndo incontro. Lui aveva sollevato il fucile…

… poi più nulla.

Ma non era il momento di tergiversare. Qualcuno stava sparando, qualcuno che non era della sua squadra, e lui doveva fare qualcosa.

Forza…

«Ma che bel ragazzo che abbiamo qui. Peccato per la gamba.»

Le pupille del soldato scelto del Distretto Tredici si abituarono finalmente alla luce. Una donna incombeva su di lui. 

No, non una donna… una ragazza.

Indossava un’armatura nera simile a quella della piccola assassina. E in mano stringeva una spada.

Il cuore di Homes si contrasse violentemente. La mano si mosse, a cercare un’arma che non poteva essere lì.

«Lo sai? Sei proprio carino… forse un po’ troppo.»

Anche senza metà gamba mancante, Homes non sarebbe riuscito a fare alcunché. La lama perforò la sua corazza con facilità quasi imbarazzante e gli trapassò il torace da parte a parte.

L’ultima cosa che vide fu lo scintillio selvaggio dei denti della sua assassina.

 

«Alfa due, non è il momento di mettersi a giocare. Libera l’ostaggio e vattene.»

«Datti una calmata, Cicero. Tanto la cara Clove non si muove.»

«Mancami di rispetto un’altra volta e deciderò che non sei più utile alla squadra. Sono stato chiaro?»

Artemisia emise un ringhio sordo mentre estraeva la spada dal corpo del soldato che aveva appena ucciso. L’uomo la fisso istupidito, mentre con un singulto strozzato la bocca gli si riempiva di sangue e la luce della vita abbandonava i suoi occhi.

«Sì.»

«Sì signore.»

«Sissignore.»

«Bene. Ora muovetevi, ho i ribelli sotto tiro ma potrebbero fare scherzi. Liberate l’ostaggio e andatevene.»

Artemisia sollevò una mano, dando il segnale al resto della squadra di proseguire. Callissa avanzava lentamente, l’arco teso pronto a scoccare letali frecce dall’impennaggio rosso, coperta dall’enorme scudo di Ares. Qualche metro alle loro spalle, Plato si era arrampicato su una pila di macerie, per coprire la zona con il suo fucile d’assalto. Quanto ai due fratelli disturbati, erano spariti da quando Cicero aveva spiegato loro il piano per riprendersi la loro compagna di scudo catturata.

Tutta questa fatica per la povera idiota.

Si abbassò per pulire la spada lorda di sangue sulla divisa del soldato appena ucciso, quando qualcosa si mosse ai margini del suo campo visivo. Prima anche solo di pensare a cosa fare, rotolò di lato, estrasse la sua pistola e fece fuoco.

Era l’altro soldato. Una donna. Si era messa a sedere e aveva cercato di spararle. La pistola le cadde di mano mentre il sangue le sgorgava dal buco frastagliato sulla gola.

Sei stata brava: pensavo fossi morta.

Artemisia si rialzò in piedi, rinfoderando l’arma ancora fumante.

Se non altro, ora lo sei di certo.

 

Una sventagliata di proiettili fece irruzione nel negozio distrutto, andando a schiantarsi contro il muro scalcinato alle spalle dei Fanti di Linea e della Squadra 451.

«Vaffanculo!» urlò Johanna «Vaffanculo! Noi ce ne stiamo qui con arco e frecce mentre loro ci fanno saltare la testa da mezzo chilometro!»

Nel frattempo, il sergente Ayla Wilkins aveva tirato fuori dalla tasca dei pantaloni uno specchietto. Lentamente, molto lentamente, lo sollevò oltre il limite del muro massacrato dietro il quale erano tutti nascosti.

Tre figure avanzavano fra le macerie, tutte e tre rivestite dalla stessa armatura nera della ragazza con i coltelli. Anche loro erano giovani, ma le loro movenze mostravano chiaramente un addestramento militare severo e costante. Alle loro spalle, gli scheletri bianchi degli edifici di pietra innalzavano i loro brandelli di muro verso il cielo imperturbabile, come falangi spezzate di disgraziati mendicanti. Nuvole di calcinacci si libravano pigre nell'aria, mentre una densa colonna di fumo nero sovrastava tutto il resto.

Avanti, dove sei…

Cinquecento metri, aveva detto il caposquadra Boggs. Al tiratore serviva un luogo alto e con una buona visuale sullo spiazzo che avevano occupato fino a poco tempo prima.

Lontano dal fumo e da altre possibili distrazioni.

Non ci volle molto per rendersi conto che un posto simile non c’era. Nessuna torre, nessun palazzo di altezza vertiginosa che potesse essere usato da un cecchino.

Dove diavolo sei?

Gli unici edifici che vedeva erano quelli che davano sullo spiazzo, a neanche un centinaio di metri. Troppo vicini.

Ma se non è lì, allora dove…

Un’esclamazione di sorpresa le sfuggì dalla bocca.

Figlio di puttana!

«Caposquadra Boggs!»

Il soldato si girò verso di lei. «Sergente?»

«Un uomo ben addestrato può sparare attraverso il fumo?»

L’uomo corrugò la fronte. «Non è questione di bravura, ma di tecnologia. È sufficiente un mirino ad infrarossi, e può riuscirci anche un bambino.»

«Allora, caposquadra Boggs, credo proprio di aver trovato il nostro cecchino.»

 

Cicero osservò dal mirino del suo fucile di precisione la sua squadra avvicinarsi al loro obbiettivo. A parte la riottosità di Artemisia ad accettare la scala gerarchica, il Nero dovette ammettere che la squadra messa su dal colonnello Rorke non era affatto male.

«Ce l’abbiamo. Ostaggio al sicuro.» La voce ferma e profonda di Ares risuonò nel suo auricolare.

«Ottimo, ragazzi. Ora v…»

C’è un momento in cui, prima di premere il grilletto, il tempo sembra rallentare: ogni tiratore scelto conosce bene quell'istante, e cerca di sfruttarlo appieno. Con il giusto vento e la giusta angolazione, Cicero sapeva colpire la capocchia di uno spillo ad un chilometro di distanza. Così, quando l’elmetto di un fante di linea sbucò da sopra i calcinacci del negozio dietro cui i ribelli si erano rintanati, fu uno scherzo per lui aggiustare la mira, svuotare i polmoni a metà e accarezzare il grilletto.

Poi però accanto al suo obbiettivo ne sbucò un altro. E un altro ancora.

Tutti i ribelli si stavano alzando in piedi allo stesso momento.

Cicero sorrise. Cercavano di prenderlo di sorpresa, probabilmente. Ma lui sapeva già a chi sparare.

Li aveva osservati a lungo, prima di attaccare. 

Ho visto chi c’é con voi.

Non ne aveva fatto menzione con gli altri: avrebbero attaccato a testa bassa, rischiando di farsi ammazzare, e soprattutto, di uccidere quella che poteva essere la persona più importante di tutta la guerra.

Katniss Everdeen.

La sua morte non sarebbe servita a niente. Sarebbe divenuta una martire, un simbolo ancora più pericoloso di quanto non lo fosse da viva.

Non era a lei che Cicero voleva piantare una pallottola in testa. Non era lei quella pericolosa, non al momento.

Dove sei…

Il sergente dei Fanti di Linea, Gale Hawthorne, Johanna Mason…

Dove sei!

E in quel momento lo vide.

Norman Boggs, il capo della squadra 451, l’unico rimasto in grado di potergli tenere testa tra quella marmaglia di fantaccini e guerrieri da circo, gli puntava contro il suo lungo fucile.

Nascosto dietro l’unica cosa in tutta Panem che non poteva essere perforata da un suo proiettile.

Katniss Everdeen.

No.

Non ci fu bisogno di vedere il lampo dello sparo. Sapeva già che era troppo tardi.

 

Per qualche istante, la Ragazza di Fuoco ebbe la certezza che sarebbe rimasta sorda da un orecchio a vita. Il fucile di Boggs, la cui lunga canna era appoggiata sulla sua spalla destra, aveva scalciato come un mulo, e un botto assordante si era schiantato contro il suo timpano. Katniss era scartata di lato, coprendosi l’orecchio ferito.

Un fischio acuto le rintronava la testa. Come se fosse una spettatrice di un’altra dimensione, vide Johanna urlare qualcosa, scavalcare il muro distrutto e cominciare a correre, il sangue che inzuppava le bende strette intorno al polpaccio ferito.

Nessuno, però, la seguì.

I Fanti Scelti rimasero immobili, inchiodati dal terrore. I loro occhi sgranati spiccavano in mezzo alla faccia lurida come un paio di fosche lanterne. 

Non usciranno mai.

Katniss avrebbe dovuto arrabbiarsi con loro, spronarli ad uscire dai ripari e caricare a testa bassa il nemico. Cercò l’ira, che tante volte divampava così feroce nel suo animo, per prenderla e usarla per infiammare quelle anime disperate.

E ancora una volta, non trovò niente.

O fuoco o vuoto. Nessuna via di mezzo.

Non voleva, non poteva mandare quegli uomini al macello: erano ragazzi, bambini, vecchi, gente comune. Non erano soldati; erano vittime. E lei ne aveva viste già troppe, nella sua breve ma lunga vita.

Sentì le gambe cedere. Era stanca, stanca da morire. Era da tempo che non faceva un sonno lungo e senza sogni.

Forse non l’ho mai fatto. E mai lo farò.

Poi, però, qualcosa si mosse. Qualcosa che l’animo di Katniss indurito dalla vita e dalla guerra mai avrebbe creduto di vedere.

Il sergente dei Fanti Scelti, quella donna con quella lunga treccia così simile alla sua, si lanciò fuori dal negozio, dietro alla Mentore del Distretto Sette. E in un istante, senza che ci fosse bisogno di una parola, di una preghiera o di una minaccia, tutti i Fanti si alzarono e la seguirono. Tutti, dal primo all'ultimo. E nessuno tornò indietro. 

Mentre i loro volti deformati dal terrore gridavano in preda ad una disperata forma di coraggio che neanche loro sapevano di avere, un lampo le attraversò la mente.

In quel momento, Katniss Everdeen comprese perché il Presidente Coin la tenesse in una gabbia dorata come il più prezioso degli oggetti e la mandasse in battaglia solo quando era strettamente necessario e nelle zone dove lo scontro era ormai praticamente concluso.

Perché certe persone possono trasformare le vittime in eroi, gli agnelli in lupi, i perdenti in vincitori, possono volgere il corso di una battaglia con la loro sola presenza e annichilire gli eserciti con una parola. E un simile potere non si può ottenere con le armi, con le minacce, con il terrore o le lusinghe.

Un vero eroe non sa di esserlo.

Katniss Everdeen aveva sempre saputo di essere un simbolo; aveva sempre saputo di essere speciale, anche se non sapeva completamente bene perché. Solo in quel momento capì che cosa realmente significasse. 

Solo in quel momento si rese conto che Coriolanus Snow e Alma Coin, l’uomo e la donna più potenti di Panem e forse del mondo intero, provavano nei suoi confronti lo stesso, identico sentimento.

Un profondo, agghiacciante e sconfinato terrore.



















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: era un po' che non ci si vedeva da queste parti, e finalmente sono riuscito a mandare avanti questa storia di sangue, pazzi e altra bella gente. A quanto pare non c'è un attimo di requie, e la squadra 451 è in pole position per aggiudicarsi il titolo di gruppo più sfigato della storia (e ce ne vuole). Ma sapete come si dice, un conto è l'addestramento, un conto è il campo di battaglia: la guerra non ha preferenze, non fa favoritismi e non risparmia nessuno, buoni o cattivi che siano.
Gli IEROS erano troppo psicopatici per morire così sul colpo: si impegnano così tanto per essere così candidamente detestabili che sarebbe scortese lasciarli fuori dal gioco così presto. Si sono appena incontrati con i Nostri, ma già volano teste e brava gente ci lascia la pelle: i cattivi stanno decisamente facendo quello che gli riesce meglio. Ma in quanto cattivi, ogni volta dimenticano sempre la stessa cosa: che i buoni sono buoni, ma quando un brav'uomo va in guerra, anche i demoni fuggono a gambe levate (ogni riferimento a serie tv con cui sto ammorbando il prossimo è puramente casuale).
In sintesi? Tanto per cambiare, botte da orbi.

Restate sintonizzati, dunque, tenete la testa bassa e alla prossima!

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Capitolo 14
*** La Ghiandaia è dei nostri ***





13.

La Ghiandaia è dei nostri

 

 

“ Esiste un unico Dio: il suo nome è Morte. 
E c'è soltanto una cosa che puoi dire alla Morte... 'Non oggi'. "

-Syrio Forel, Il Trono di  Spade

 

 

 

Non funzionerà.
Fu l’unica cosa che Ayla Wilkins riuscì a pensare, quando si alzò in piedi e sollevò il fucile contro le sagome scure davanti a lei.
«Fuoco!»
Il calciò dell'arma le sbatté sulla spalla, mentre la raffica le assordava i timpani e il bossolo fumante veniva espulso dalla camera di scoppio. Alla sua sinistra, la voce secca e potente del fucile di Boggs si innalzò sopra il canto dei suoi fratelli.
Prima che potesse anche solo rendersi conto degli effetti della scarica di proiettili dei suoi uomini, la ragazza con l’ascia scavalcò il muretto sbrindellato dietro il quale si erano riparati e si lanciò urlando contro il nemico, l’arma che ondeggiava tra le braccia asciutte e muscolose.
Dove accidenti sta andando?
Non era questo il piano. Caricare a testa bassa una squadra di soldati addestrati specificatamente per il combattimento  corpo a corpo, seppur in superiorità numerica, era un vero e proprio suicidio. Boggs doveva eliminare il cecchino nemico; poi, una volta fatto, avrebbero respinto quei ragazzi in armatura nera sparando a più non posso, ben nascosti e al riparo.
La ragazza continuava a correre, nonostante la vistosa fasciatura sul polpaccio. Ayla vide con orrore  la giovane soldatessa con le due spade rimettersi in piedi, apparentemente illesa, mentre il gigante con l’enorme scudo roteava la sua lunga lama.
Non ce la farà.
Prima che potesse rendersene conto, stava correndo anche lei.

Artemisia strinse l’impugnatura delle sue fidate spade con un ringhio di sfida. La raffica di spari l’aveva colta impreparata, e un paio di pallottole avevano colpito il pettorale della sua armatura con la forza di una scarica di pugni.
Quell’idiota di Cicero… meno male che li teneva sotto tiro!
Quando vide uno dei nemici abbandonare la copertura per lanciarsi contro di loro, non poté fare a meno di rimanere stupita.
Che…?
Poi la ragazza gridò, e qualcosa scattò nella sua testa. 
Io ti conosco.
Quando si rese conto di che cosa il suo prossimo avversario stringeva fra le mani, la perplessità venne rapidamente travolta da una scarica di adrenalina.
Non ci credo.
Dovette trattenersi dal mettersi a ridere. C’era una possibilità su un milione di ritrovarsi proprio contro di lei.
Uccidere il proprio idolo di un tempo non è cosa che capiti tutti i giorni.
«Lei è mia» ringhiò rivolta al resto della squadra. Roteò le spade, mentre avanzava di qualche passo. «Se le sparate, vi uccido.»
«Tranquilla, Arte.» La voce di Plato, filtrata dall’auricolare, le si insinuò nell'orecchio. «A quanto pare, ce n’è per tutti.»

La mente di Dan era un foglio bianco.
Correva, e non sapeva perché. Aveva semplicemente seguito Dana e Lee, senza un fucile, senza alcuna arma che non fossero le sue mani luride ed escoriate. Tutto si muoveva, ondeggiava, gridava; sentiva il suo cervello rimbalzare nella scatola cranica e le orecchie fischiare per il troppo rumore.
Qualcuno sparò; si gettò a terra, senza sapere dove o a chi fossero diretti i colpi. Un uomo anziano con i folti baffi grigi crollò davanti a lui; il fucile scivolò via dalle mani ormai fredde e si fermò a qualche centimetro dal suo naso. 
Raffiche precise di proiettili ronzarono sopra di lui. Dan afferrò il fucile dell’uomo morto e appoggiò la canna sul suo petto inzuppato di sangue.
Non vedeva nulla, a parte le schiene dei Fanti di Linea e la polvere che essi avevano alzato. A destra, su un mucchio di macerie, qualcosa brillò. Quattro colpi, e quattro Fanti rovinarono a terra fulminati.
Dan spostò il fucile verso il cumulo di detriti e premette il grilletto una, due, tre volte, fin quando il caricatore vuoto venne eiettato con un tintinnio dalla sommità dell’arma.
Tre proiettili fischiarono vicino all’elmetto, altri tre si piantarono nel cadavere del vecchio con un tonfo disgustoso: il tiratore rispondeva al fuoco.
Dan si appiattì il più possibile, mentre il sangue dell’uomo gli imbrattava la faccia. Cercò a tentoni il tascapane del morto, alla ricerca di nuovi proiettili, ma una nuova raffica lo dissuase dal continuare. Rimase sdraiato a terra, la cinghia dell’elmetto che gli artigliava la gola, il sangue di un altro uomo addosso e il terrore che gli attanagliava le viscere.
Poi qualcosa sibilò dietro di lui. Si girò d’istinto, gli occhi sgranati dalla paura e il fucile scarico davanti a se’.
Una ragazza troneggiava sopra di lui. L’armatura a piastre metalliche era parzialmente nascosta da un vecchia giacca da caccia su sui era appuntata una spilla dorata.
«Tranquillo. Sono io.»
Katniss Everdeen, la Ghiandaia Imitatrice, gli tese una mano.
«Stai con me. Andiamo a salvare il tuo sergente.»

Quando quattro Fanti di Linea davanti a lei crollarono a terra come se qualcuno avesse staccato loro la spina in rapida sequenza, Ayla Wilkins realizzò con sorprendente lucidità che non avrebbe visto l’alba del giorno dopo. Era finita, non c’era nient’altro da fare: i loro avversari erano troppo veloci, troppo bravi, troppo forti.
Non ebbe neanche l’istinto di sollevare il fucile: rimase lì immobile, goffa e stupida, imbambolata di fronte alla fine.
Uccidimi, bastardo, e falla finita.
E ancora una volta, accompagnato da fischi e ronzii, giunse il destino a beffarla. 
Una serie di colpi si piantarono tra i calcinacci, sollevando sbuffi di polvere: qualcuno la stava coprendo. Il tiratore rispose al fuoco, ignorandola completamente.
Probabilmente non mi ritiene una minaccia, patetica come sono.
Quasi non si accorse dell’incendio che divampò feroce nel suo stomaco. Si rese improvvisamente conto di essere preda di una rabbia cieca e inestinguibile, mentre il mondo intorno a lei rallentava al ritmo del suo respiro.
Cominciò a correre, ma questa volta sapeva dove stava andando, e perché. Gettò a terra il fucile, senza rendersi minimamente conto di cosa questo comportasse, e prese ad arrampicarsi sul cumulo di detriti, a quattro zampe come una bestia feroce. La testa le pulsava, il cuore sembrava voler scoppiare da un momento all’altro, ma a lei non importava.
Il tiratore era disteso, e non sembrava essersi accorto di lei: continuava a sparare, premendo il grilletto del suo sofisticato fucile a intervalli regolari.
Ayla non urlò. Si gettò contro di lui con un balzo, strappandogli un grido di sorpresa. Poi cominciarono a rotolare in mezzo ai calcinacci, e lì non fu altro che rabbia, zanne e artigli, come belve ataviche di una terra dimenticata squassata da una furia divina e implacabile.
Ayla colpì, scalciò, tentò di mordere e di graffiare, selvaggiamente desiderosa di non arrecare altro che non fosse dolore. Il suo avversario grugniva, cercando di rispondere a quella tempesta di rancore e impetuosa adrenalina che si era abbattuta su di lui. Ayla lottò al meglio delle sue forze; ma non le ci volle molto prima di rendersi conto che non poteva vincere.
Il ragazzo era giovane, esperto e addestrato. Non fu particolarmente feroce o violento, ma nel giro di qualche istante Ayla si trovò inchiodata a terra, impossibilitata a muoversi o reagire.
«Niente male» sibilò il soldato. Ayla vide le vene gonfiarsi sotto la pelle talmente bianca da sembrare trasparente. «Ma credevi dav…»
Uno sparo, un tonfo sordo. Un proiettile aveva colpito lo spallaccio sinistro del pallido ragazzo, sbilanciandolo. Ayla sentì la presa sul braccio destro allentarsi, e senza pensare chiuse le dita a pugno e colpì lo zigomo del suo aggressore con tutta la forza che era ancora rimasta. Una scossa di dolore le attraversò il braccio mentre la testa del ragazzo si girava di scatto e il suo corpo piombava a peso morto fra i detriti.
Ayla non aveva la forza di alzarsi, perciò strisciò via, graffiandosi sui bordi aguzzi dei calcinacci, cercando di mettere quanta più distanza fra lei e il giovane con la corazza nera.
«Sergente…»
Ayla provò uno strano miscuglio di sollievo e spavento all’udire quella voce. Piccoli passi calpestarono la dissestata superficie di frammenti di edificio, e la sua visuale periferica colse l’immagine di un’esile figura con un vestito a fiori.
«Dana…»
«Sergente!»
La parola era la stessa, ma il tono era completamente diverso. Strozzato, acuto, terrorizzato.
Non ci volle molto a comprendere il perché.
Il soldato pallido era in piedi. In mano stringeva una pistola, e i suoi occhi erano colmi di furia vendicativa.
Lo sparo le assordò i timpani. Dana aveva premuto di nuovo il grilletto, ma il proiettile mancò completamente il bersaglio.
Un ghigno rabbioso si aprì sul volto del giovane soldato. «Quello si chiama rinculo, ragazzina. Se giochi con armi più grosse di te, finisci con il culo per te…»
Ancora una volta, il ragazzo non riuscì a finire la frase. Una freccia nera dall’impennaggio in resina aeroportante viaggiò tra le grida e la polvere da sparo e si piantò con estrema semplicità nella sua piastra pettorale. Il sergente Wilkins fece appena in tempo a vedere gli occhi del giovane dilatarsi dalla sorpresa prima che il suo corpo cadesse all’indietro, scomparendo dietro l’ammasso di detriti su cui si era arrampicato.
Sì girò per vedere chi fosse stato a tirare quella freccia, anche se in cuor suo aveva già la risposta.
Dopotutto, le opzioni non sono molte.
Anche in mezzo a tutto quel caos, Katniss Everdeen avanzava con passo felpato, come se fosse tra i boschi invece che in una città stravolta dalla guerra. Alle sue spalle, vide lo strano ragazzo biondo che aveva sparato alla ragazza con i coltelli guardarsi intorno nervosamente, poi sollevare il braccio, fissarla dritto negli occhi e urlare qualcosa che andò perso nella baraonda. 
Ayla non ebbe bisogno di sapere quale fosse il senso di quelle parole. Afferrò Dana e si gettò a terra, mentre una freccia dall’impennaggio rosso sibilava di frustrazione attraversando lo spazio che fino a qualche secondo prima era occupato dal suo cuore. Lo slancio, però, fu eccessivo: la donna e la giovane ragazzina finirono oltre la sommità del cumulo di detriti e precipitarono di sotto, rotolando senza alcun controllo mentre intorno a loro si alzava una nube di polvere sporca.
Ayla ebbe l’impressione che quella girandola folle non avrebbe mai avuto fine. Quando la sua corsa si fermò, non riuscì ad aprire gli occhi per diversi secondi, tanto le girava la testa.
Non appena il mondo smise finalmente di ondeggiare, si rese conto con sollievo che Dana era accanto a lei; il suo fucile, che la ragazzina aveva usato per fermare il soldato pallido, era qualche metro più in là.
Per qualche istante rimase immobile, la mente piatta come il mare in bonaccia. Anche i suoni giungevano attutiti. Tutto era calmo, tutto era tranquillo.
Riposare. Voglio riposare.
Quasi non si accorse della seconda freccia.
Se fosse stata lei il bersaglio, non avrebbe potuto fare nulla: la punta d’acciaio le avrebbe trapassato la gola e sarebbe morta affogata nel suo stesso sangue. La macchia rosso e argento passò però a qualche metro sopra la sua testa, ignorandola completamente.
Ancora una volta, non è il mio giorno.
Poi qualcuno gridò e lei si rese improvvisamente conto che c’era un motivo ben preciso se la freccia l’aveva mancata.
«Gale!»
Katniss Everdeen si era lanciata verso il suo compare, che era caduto in ginocchio; il cupo piumaggio vermiglio si ergeva dalla spalla del ragazzo del Distretto Dodici come un sinistro vessillo.
«Non badare a me, Katniss! Uccidila!»
Ayla ne aveva viste abbastanza per sapere quando un avvertimento era stato dato troppo tardi. 
L’esile fanciulla dall’armatura nera e dai brillanti capelli rosso fuoco aveva già incoccato un’altra delle sue letali frecce scarlatte. 
La Ghiandaia Imitatrice era allo scoperto, a portata e inoffensiva. Da quello che Ayla aveva visto, per quella ragazza era come colpire un elefante a mezzo metro.
La freccia partì, desiderosa di morte, roteò pigramente sul suo asse mentre fendeva l’aria e si piantò qualche metro oltre il piede di Dana.
La ragazza rossa barcollò stupefatta e frustrata, mentre si voltava per fronteggiare colui che con il calcio del suo fucile aveva impedito la buona riuscita del tiro.
Lee scattò in avanti, brandendo il fucile come una mazza, ma la ragazza aveva di nuovo il controllo della situazione. Evitò il goffo attacco scartando di lato e impugnando l’arco con entrambe le mani lo calò violentemente sulla nuca del Fante di Linea.
«Sergente!»
Dana era sveglia, e teneva in mano il fucile di Ayla. Con un gemito lo lanciò accanto alla soldatessa, che lo afferrò febbrilmente e lo puntò contro l’implacabile saettatrice. La ragazza, però non era più lì.
«Sta scappando.»
Ayla colse un rapido movimento in cima al cumulo di detriti, accompagnato da un lampo scarlatto. La giovane tiratrice aveva deciso che la situazione non era più a suo favore, e aveva optato per la ritirata strategica.
«Buon per lei» mormorò il sergente Ayla Wilkins, senza però riuscire a dare un tono minaccioso a quelle parole.
La ragazza aveva colpito duro, ma Lee sembrava aver retto alla botta. Con sollievo, Ayla lo vide alzarsi in piedi, usando il fucile come un bastone. Il ragazzo guardò le sue due compagne d’armi, fece un cenno d’assenso e sorrise.
Ayla e Dana, però, non risposero al sorriso. I loro volti mostravano ben altro che soddisfatta e cameratesca intesa: gli occhi spalancati, le bocche semiaperte, fissavano con orrore qualcosa di cui lo stremato e soddisfatto ragazzo era completamente ignaro.
Maestoso e terribile come un dio della guerra, Ares era alle sue spalle, la spada levata e pronta a colpire.


L’ascia era lenta, rozza, inefficace. Lei era veloce, agile, mortale.
Artemisia deviò con facilità un’altro fendente dell’arma di Johanna. La veterana del Distretto Sette ringhiò di frustrazione mentre parava con il manico un’altro attacco dell’assassina del Distretto Due.
Sempre più affaticata. Sempre più lenta.
Il volto di Artemisia era contratto in una inquietante smorfia di gioia selvaggia. Qualcuno cercò di colpirla con il calcio del fucile; lei evitò il colpo con un elegante volteggio e con un rapido colpo recise la gola del suo aggressore.
Un altro patetico subumano mandato dove gli compete: sotto terra.
L’ascia calò dall’alto, con l’intenzione di spaccarle la testa esattamente a metà.
Johanna, Johanna… francamente mi aspettavo meglio.
Sollevò le spade tenendole incrociate e intercettò con facilità il colpo della sua avversaria.
«E tu avresti vinto gli Hunger Games?» ringhiò in faccia a Johanna con tutta la feroce derisione di cui era capace.
«Esatto.»
Il calcio arrivò rapido e inaspettato, colpendola a lato della protezione del ginocchio destro. La scarica di dolore le dilaniò la mente, mentre la gamba si piegava innaturalmente di lato.
Assistette impotente al suo corpo che rovinava a terra, l’impatto col terreno che le sbalzava via di mano la spada destra. Alzò quella sinistra, nel vano tentativo di opporre un’ultima resistenza.
«Ho vinto fottendo gli idioti come te.»
Johanna Mason le restituì il suo agghiacciante sorriso mentre calava l’ascia dritta sul suo collo.


La spada di Ares calò con una brutalità agghiacciante. Lee ebbe appena il tempo di alzare il fucile prima che questo venisse tranciato esattamente a metà con la facilità con cui un fulmine attraversa l’aria. 
Lee cadde a terra, completamente disarmato. Ares alzò di nuovo la spada, ma fu costretto a sollevare lo scudo per intercettare le due frecce e il proiettile che erano diretti al suo corpo.
«Lee, scappa!»
Il ragazzo cominciò a trascinarsi all’indietro, spingendo con i gomiti e i piedi: aveva il terrore che il tempo che avrebbe impiegato ad alzarsi avrebbe permesso all’enorme guerriero di tagliarlo esattamente a metà, proprio come aveva fatto con il suo fucile.
«Fermi dove siete!»
Senza sapere perché, Lee obbedì. La voce era risuonata forte e chiara, e quasi immediatamente il silenzio scese sul campo di battaglia.
Ares era immobile, la spada sollevata, e guardava con astio qualcosa alla sua destra. Cercando di fare il meno rumore possibile, Lee continuò ad allontanarsi dal giovane imponente, che però sembrava essersi completamente dimenticato di lui.
Non ci credo. Si può dire di tutto su di te, Lee Harper, ma non che tu abbia un gran cu…
Lo scatto di un percussore che si porta in posizione di tiro lo riportò bruscamente alla realtà.
«Alzati lentamente e mani sulla testa, ragazzo.»
Finalmente qualcuno si era accorto dello scontro. Il tono di voce non sembrava molto amichevole, ma siccome la Fanteria di Linea non aveva una divisa ufficiale quei soldati non avevano idea di chi avessero davanti.
«Va tutto bene, siamo dei vostri. Soldato Lee Harper, diciottesimo Fanteria di Linea…»
Un attimo di silenzio, poi qualcuno dietro di lui parlò. «Ehi ragazzi, tutto bene… è uno dei nostri
Un coro di risate accolse quelle parole. Lee non colse appieno il loro significato fin quando non riuscì ad alzarsi in piedi, combattendo contro il tremore delle gambe.
La piazzola era piena di uomini, intenti a controllare i cadaveri e tenere sotto tiro i sopravvissuti.
Lee vide Johanna gettare pesantemente a terra la sua ascia, imprecando sonoramente, mentre la ragazza che combatteva con le due spade si rialzava in piedi, il viso contratto dall’ira fisso sulla sua avversaria. La spada di Ares si infilò rabbiosamente nel terreno, mentre l’arco di Katniss venne poggiato a terra con una cura che sconfinava nella riverenza.
Probabilmente era per il calo di adrenalina che gli infiacchiva i sensi, ma Lee non riusciva a comprendere tutta quella tensione, gli sguardi carichi di nervosismo se non di paura vera e propria.
È finita, siamo ancora vivi, qual è il problema?
La sua mente era come avvolta in morbidi batuffoli di cotone. Con distacco quasi beato osservò due uomini avvicinarsi a Katniss, squadrarla a lungo e poi confabulare tra loro.
Portate rispetto, ragazzi, è la Ragazza di Fuoco quella che avete davanti.
Forse fu quella frase a riscuotere il suo cervello dall’apatia. Fu come se gli avessero tolto un lenzuolo bagnato dalla faccia: prima era cieco, ora vedeva.
Eppure era proprio davanti ai suoi occhi. Un piccolo, essenziale particolare che rendeva quella situazione completamente diversa.
Uno dei due uomini che avevano squadrato Katniss Everdeen prese la cornetta di un telefono da campo che soldato gli porgeva e la avvicinò all’orecchio.
«Comando, qui è il capitano Aber, ottantaduesima divisione Fanteria. Abbiamo la Ragazza. Ripeto, abbiamo la Ragazza. La Ghiandaia è dei nostri.»
Tutti quegli uomini erano soldati, su questo non c’era dubbio.
Soldati armati e addestrati, con una divisa di un colore inconsueto ma per questo assolutamente riconoscibile.
Bianco come la neve.
L’Esercito Regolare della Federazione di Panem aveva appena catturato Katniss Everdeen.


















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: E niente, la mamma dei mainaggioia è sempre in cinta. Welcome to Panem, rigaz.
Irrispettosamente in ritardo giunge un nuovo capitolo della vostra fanfy preferita, dove tutto spara e urla parolacce. Con un nuovo colpo di scena e un altro colpo di sfiga per la 451 (come dite, basta così? Oh, sweet summer children...), l'avventura di Katniss & co. prende un'inaspettata (spero) quanto incasinata nuova direzione. E mo'? Eeeeh... come si dice da queste parti, so' ca... tartici avvenimenti.
Questo capitolo era pronto piuttosto tempo fa, ma non ero sicuro della sua effettiva efficacia: dopotutto, è un capitolo intero di combattimento, e io ho abbastanza ansia dei combattimenti lunghi. Ma dal prossimo capitolo le botte dovrebbero un attimino attenuarsi (un attimino eh, 'che mica stiamo affà la gitarella fuori porta) per riprendere un attimo le fila mentali dei nostri eroi e antieroi. Dopotutto, è anche ora che Clove si svegli... 
...ah, meglio zitta? Ma quindi non la trovate inter... ah... no, certo, capisco... addirittura? Beh, è ovvio che essendo una sociopatica... ah. Ok. Beh, scusate tanto, eh.
(litigo da solo. Bene.)
E niente, care genti: al prossimo capitolo (che prego fortemente arrivi prima dell'anno nuovo), diffidante delle genti vestite di bianco e alla prossima!

 

 

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Capitolo 15
*** Il senso di Rose Martin per le fiamme ***


14. 

Il senso di Rose Martin per le fiamme

 

 

 

“Lately I'm not feeling like myself

When I look into the glass, I see someone else

 

I hardly recognize this face I wear

When I stare into her eyes, I see no one there

 

Lately I'm not feeling like myself”

 

- Lera Lynn, Lately

 

 

 

 

 

C’erano parecchie cose che potevano attirare gli occhi e la mente del tenente Conrad Baeley in quel momento: i prigionieri malridotti che attendevano il loro destino in riga davanti a lui, i cadaveri che giacevano scomposti fra le macerie, sparpagliati qui e lì dagli spiriti della guerra, i suoi uomini che sebbene stanchi morti sorvegliavano dritti e attenti il perimetro… e ovviamente Katniss Everdeen, la Ragazza di Fuoco, sul cui giovane volto era dipinta un’espressione indecifrabile, lo sguardo fisso sul terreno. Ma nonostante tutto lo spettacolo che si stava così generosamente dispiegando davanti a lui, l’unica cosa da cui non riusciva a staccare gli occhi di dosso era il fodero scuro della spada da cerimonia del capitano Aber, che dondolava ritmicamente seguendo i passi del suo proprietario. 

Da bravo abitante della capitale, Scipio Aber aveva una morbosa passione per tutto ciò che era teatrale, sgargiante ed intrinsecamente effimero, che fosse nel modo di comportarsi, di vestirsi o di condurre gli uomini in battaglia; ma, a differenza di altri militari suoi concittadini, bisognava ammettere che il capitano si era tenuto ben al di sotto dello standard capitolino: le uniche modifiche che aveva apportato alla rigida e funzionale uniforme della Fanteria Regolare erano una fascia di seta rossa in vita e, appesa ad una cintura al di sotto di essa, una magnifica sciabola in lega di titanio-diamante. Era un’arma sontuosa, scomoda da usare in battaglia e ridicola da portare in una guerra dove potevano farti scoppiare la testa da mezzo chilometro di distanza; ma, come il tenente Baeley poteva notare dall’accozzaglia di armi bizzarre accatastate ai suoi piedi, il capitano Aber non era certo l’unico a preferire la forma alla sostanza.

«Ordunque» disse il capitano, le mani intrecciate dietro la schiena dritta e lo sguardo altero. «C’è per caso un capo tra di voi? Un rappresentante? Una figura autoritaria? Qualcuno che possa parlare a nome di tutti?»

Il tenente Baeley sospirò mentre si sedeva sui talloni, chiedendosi se il capitano Aber si fosse reso conto che i prigionieri forse non erano tutti dalla stessa parte, visto che li avevano colti a massacrarsi allegramente fra di loro.

«Noi non c’entriamo nulla con loro!» sbottò la ragazza con l’armatura nera. Baeley la osservò con una certa apprensione mentre faceva un passo in avanti, tesa e pronta a colpire. «Il colonnello Rorke…»

A sentire quelle parole, Baeley avvertì un ingranaggio scattare nella sua testa. Aveva già sentito parlare di Aelius Rorke: il Capitol Herald una volta gli aveva dedicato la prima pagina, qualche anno prima. Ma era qualcosa che riguardava i Giochi, se la memoria non lo ingannava; non certo l’arte della guerra.

Anche il capitano Aber parve colpito dalle parole della ragazza. Si avvicinò lentamente, squadrandola da sotto le sopracciglia brizzolate.

«Il colonnello Rorke, hai detto?»

La ragazza gli restituì lo sguardo. «Artemisia De Nor, matricola zero cinque due quattro nove nove. Io e il mio compagno Ares» disse, indicando l’altro ragazzo in armatura «siamo alle dirette dipendenze del colonnello Rorke.»

«Alle dirette dipendenze, eh?» disse il capitano, divertito. «E allora, di grazia, cosa ci fate da queste parti?»

«La nostra missione era creare scompiglio nella flotta ribelle. Dovevamo fare rapporto al generale Lindle, ma il nostro hovercraft è precipitato.»

Il tipo grosso e minaccioso chiamato Ares fece un passo avanti. «Pertanto, signore, siamo pronti a fare rapporto a lei, o a qualunque altro ufficiale lei ritenga adeguato.»

Il capitano li fissò per un lungo istante. «Sia, dunque. Vi scorteremo al Termodromo assieme alla signorina Everdeen e, se la vostra storia corrisponde a verità, farete rapporto e rientrerete in possesso delle vostre armi. Altrimenti… beh, immagino lo sappiate.» La sciabola dell’ufficiale tintinnò mentre si spostava verso gli altri prigionieri. «E voi? Anche voi siete alle dirette dipendenze di qualcuno?»

Baeley notò che il ragazzo alto e moro stava per aprire bocca, ma la donna mulatta con la fascia rossa al braccio lo precedette. «Signore, sono il sergente Ayla Wilkins, Ventiduesimo Fanteria di Linea. Questi uomini sono sotto il mio comando.»

Il capitano Aber si portò davanti a lei, poi fece un mezzo inchino. «Salute a voi, madamigella. Sono desolato di incontrarvi in questo luogo… e in queste condizioni.»

La donna non sembrava aspettarsi un comportamento del genere, perché parve improvvisamente a corto di aria. «Io…»

«Parlate pure, sergente. Non dovete temere nulla.» disse il capitano, affabile.Per un istante, il tenente Baley fu folgorato dal pensiero che il suo ufficiale superiore stesse facendo la corte a quella donna.

Va bene che è capitolino, ma fino a questo punto…

Dovette trattenersi per non scoppiare a ridere. Il capitano Aber e una ribelle: quella sì che sarebbe stata una storia da raccontare.

Che poi, ad essere sinceri, non è che ci sia tutto questo granché da corteggiare. Passabile, senza dubbio, ma certo neanche lontanamente paragonabile…

Improvvisamente, il tenente Baeley si rese conto del luogo bizzarro e inconsueto nel quale i suoi pensieri l’avevano condotto. Distolse lo sguardo dalla donna e lasciò che vagasse fra le rovine fumanti, mentre uno strano senso di vergogna continuava a fermentare nel suo stomaco.

Nel frattempo, la soldatessa era riuscita a riprendere il controllo di se’. «Vorrei soltanto sapere cosa ci aspetta… signore.»

«Oh beh, è presto detto» fece il capitano, cordiale. «Il comando ha dato ordine di portare Katniss Everdeen al Termodromo, qui vicino. Se non vi dispiace, sergente, voi e i vostri uomini la accompagnerete, come nostri graditi ospiti, finché non sarete affidati alle cure delle autorità competenti e, ahimè, toccherà salutarci.» Le labbra dell’ufficiale si dischiusero in un elegante sorriso. «È tutto chiaro, mia cara?»

Gli occhi del sergente Ayla Wilkins evitarono accuratamente di incrociare quelli del capitano. «Io… certo… sì…»

«Bene, sono lieto di saperlo!» Con un secco colpo di reni, l’uomo fece dietro front esibendosi in una piroetta impeccabile. «Tenente, li faccia muovere! Compagnia… in marcia!»

Conrad Baeley si alzò stancamente, facendo scrocchiare le ginocchia. A pieno organico, una Compagnia di fanteria era composta da tre plotoni, ognuno di una cinquantina di uomini e comandato da un tenente; al momento, la gloriosa Terza Compagnia, Ventiduesimo Reggimento, Quinta divisione, Terzo Corpo d’Armata del formidabile Esercito Regolare della Federazione di Panem si componeva di quindici uomini e sette donne, di cui due ufficiali: tutti quelli che erano riusciti a trascinarsi via dal mattatoio in cui si era trasformato il campo base sulla scogliera. 

Era pertanto ovvio che il capitano non avesse alcun bisogno di aiuto per far sì che i suoi ordini venissero trasmessi alla truppa; ma, come lui stesso amava ripetere alla vista di un’uniforme macchiata durante un’ispezione, “l’ordine, la disciplina e l'esser galantuomini sono le uniche cose che ci distinguono dalle bestie selvagge”.

«Forza ragazzi, avete sentito il capitano» borbottò Baeley «Ci muoviamo.» Si mise il fucile a tracolla e soffocò uno sbadiglio. «I prigionieri in fila per due, ognuno sorvegliato; la signorina Everdeen in testa alla fila, cinque metri più avanti, quattro per lei; Ortez, Leedo, voi aprite; Forrest, Donovan, a voi la retroguardia. Tutto chiaro?»

«Signore» fece uno degli uomini. «Cosa facciamo di lei?»
Legata ad un palo della luce c'era un'altra ragazza in armatura. «Non possiamo permetterci il lusso di seppellire i morti» fece il tenente. «Lasciatela lì.»
«Non è morta. È ancora viva.»
A parlare era stata la soldatessa con il vestito a fiori. Quando l'aveva vista, Baeley si era chiesto come potessero ritenere di essere dalla parte del giusto delle persone che mandavano dei ragazzini a combattere in prima linea.
«È una tua amica?» chiese. Senza essersene reso conto, aveva assunto il tono di chi parla ad un bambino che ha smarrito la madre. Evidentemente, la sua mente non riusciva a riconoscerla come un soldato nemico.
La ragazzina lo fissò con i suoi grandi occhi azzurri. «No. Ma è una mia paziente.»
«Sei... un medico?»
«Faccio quello che posso con quello che ho.»
Baeley distolse lo sguardo, profondamente a disagio. C'era qualcosa in quella ragazzina, in quel suo vestito strappato, quel suo elmetto e quei suoi occhi gelidi che lo facevano sentire parte di qualcosa di terrificantemente sbagliato, illogico, amorale.
«Allora forse potrai esserci utile. Abbiamo due feriti, ma non sappiamo come curarli.»
La ragazza annuì. «Vedrò che posso fare.»
«Bene.» Baeley si incamminò verso il soldato che gli aveva fatto notare la ragazza svenuta, lieto aver concluso la discussione. «Slegala, Simmons. La portiamo con noi.»

 

Il Termodromo non distava che un paio di chilometri dalla loro posizione; ma la geografia della città era stata completamente stravolta dai bombardamenti ribelli e dall’artiglieria capitolina, e delle strade e dei palazzi segnati sulle mappe tattiche rimaneva ben poco. Tutto si era trasformato in un labirinto desolante, intricato e pericoloso.

La Terza Compagnia si muoveva a fatica, intralciata dai detriti e dal passo lento dei prigionieri. Gli stivali del tenente Baeley scivolavano sui calcinacci, e più di una volta l’uomo rischiò di cadere.

«È un bel giorno per la nostra brava nazione» fece il capitano Aber soddisfatto, come se si trovasse ad un pic-nic invece che in una città sventrata dalla guerra.

«Panem per Sempre, signore» mormorò in risposta Baeley, più sarcastico di quanto avrebbe voluto .

«Suvvia tenente!» lo redarguì bonariamente il capitano. «È stata una mattinata faticosa, ma ora abbiamo tra le mani la chiave della guerra. Katniss Everdeen!» Il capitano ne esclamò il nome in una perfetta imitazione di Cesar Flickerman. «Ah, i ribelli hanno i giorni contati…»

Baeley non ne era così sicuro, ma non aveva alcuna intenzione di dirlo al capitano. Perché esprimere quel pensiero a voce alta lo avrebbe reso reale più di quanto già non fosse.

Il capitano intuì i pensieri del suo sottoposto. «Questi straccioni mordono, non c’è che dire» disse, sicuro di se’. «Ma finché avremo la potenza del Distretto Due e la guida illuminata del Presidente, la vittoria finale sarà inevitabile!»

Il sole era quasi tramontato quando la compagnia vide finalmente la grossa cupola del Termodromo fare capolino tra le sagome irregolari dei palazzi in rovina.

«Bene, figlioli, siamo quasi arrivati!» esclamò allegro il capitano Aber. «Ancora un poco e avrete cibo e riposo: ve lo siete più che meritato.»

Nessuno, però, sembrava condividere la gioia dell’ufficiale: via via che la massiccia sagoma si faceva più grande, infatti, gli spari e le esplosioni aumentavano di intensità. Il tenente Baley colse due soldati scambiarsi occhiate preoccupate; avrebbe voluto tirarli su di morale, ma in cuor suo sapeva di non poterlo fare.

Era ormai evidente: intorno al Termodromo si stava svolgendo una violenta battaglia.

I botti dell’artiglieria facevano ormai tremare i detriti più piccoli sul terreno. Quando un proiettile di mortaio si schiantò alle spalle della compagnia, fin troppo vicino anche per le ferventi illusioni del capitano, la colonna ebbe ordine di fermarsi.

Aber si guardò intorno con aria fosca. «Temo che la strada fino al Termodromo non sarà così semplice» mormorò. «Tenente, prenda due uomini e vada in avanscoperta: voglio sapere cosa ci aspetta.»

Baeley fece un cenno d’assenso. «Simmons, Thorne, con me.» Un uomo e una donna si staccarono dal gruppo e gli vennero stancamente incontro. «Quell’edificio mi sembra un buon punto d’osservazione» disse, indicando un complesso alto e squadrato quasi completamente integro. «Vediamo se riusciamo a salire.» Con un gesto fluido, imbracciò il fucile. «Mi raccomando, state bassi e occhi aperti: è proprio quando sei tranquillo che cominciano i guai.»

 

A giudicare dai macchinari semidistrutti e coperti di biancastra polvere di cemento, l’edificio doveva essere una qualche sorta di impianto di produzione industriale.

In ogni caso, ci vorrà un bel po’ prima che qualcuno qui ricominci a inscatolare aringhe.

I vetri delle grandi finestre crocchiavano sotto i piedi dell’avanguardia della Terza Compagnia; probabilmente erano state le prime cose a cadere, in quel posto. Da fuori, il bagliore sanguigno del tramonto e delle esplosioni gettava all’interno una luce fosca e sovrannaturale.

Baeley ispezionò il locale cavernoso: una scala di metallo si arrampicava su un fianco della fabbrica, aprendosi in tre piani di rampe e correndo a zig zag fino al soffitto.

«Lassù» indicò. «Se siamo fortunati, il tetto è ancora raggiungibile.»

Al termine delle scale, un grosso catenaccio arrugginito bloccava l’accesso al loro punto di osservazione. Baley lo spezzò con il calcio del fucile e spinse la pesante porta, che si lasciò aprire non senza una malinconica e dolorosa protesta.

I raggi del sole costrinsero per un attimo il tenente a schermarsi il volto. Fece qualche passo in avanti, ma non appena fu all’esterno una violenta folata di aria calda lo travolse, facendolo barcollare.

Con un gemito acuto, un hovercraft d’assalto passò a tutta velocità sopra la sua testa. Il velivolo si tuffò in picchiata, sganciò un paio di missili e poi risalì in alto con una vertiginosa cabrata, sfiorando pericolosamente la sommità di una torre di comunicazione e lasciandosi alle spalle due grosse esplosioni.

Baley era salito fin lassù per dare un’occhiata alle vicinanze, ma per qualche istante dimenticò quale fosse la sua missione. Dinanzi ai suoi occhi, la battaglia per il Distretto Quattro si stagliava in tutta la sua terrificante gloria.

In fondo alla sua destra, ad Ovest, il sole al tramonto si inabissava nelle acque dell’oceano, infiammando le creste delle onde. Poco più avanti, una nube di polvere e fumo avvolgeva ancora la scogliera e il campo base della Terza Armata. Poi la città, i bianchi edifici, le rovine e le fiamme, tutto a comporre un terrificante, maestoso paesaggio.

«Signore» disse la soldatessa Thorne. «Il Termodromo…»

Baeley si voltò, ancora turbato per la visione di un’intera città in guerra. Non ebbe tempo di riprendere fiato: un altro spettacolo gli si parava davanti, facendo sembrare quello che aveva appena ammirato scialbo e insignificante.

La cupola del Termodromo dominava la scena, colpita in più punti ma ancora integra. Alla sua ombra, spiccando come neve in un letto di carbone, le file bianche della Fanteria Regolare avvampavano ogni volta che una devastante raffica si abbatteva sui nemici, una massa scomposta e brulicante che sbucava da ogni luogo, circondando le posizioni capitoline.

Un improvviso moto d’orgoglio si accese nel cuore del tenente alla vista dei suoi commilitoni che affrontavano la battaglia con tanto sangue freddo, ma altrettanto rapidamente si rese conto che l’esito dello scontro era ormai già deciso.

Baeley sapeva che il numero degli abitanti dei Distretti ribelli superava di gran lunga quello della capitale e dei distretti ricchi; ma quello che circondava il Termodromo non era un esercito. Era un’invasione inarrestabile, uno stormo diabolico di cavallette, un’onda anomala talmente alta da oscurare il sole: contro un simile numero, spinto da una simile rabbia, non c’era disciplina che potesse tenere.

Nessuno dei tre soldati parlò. Rimasero immobili, muti e sgomenti, mentre le linee bianche si assottigliavano sempre di più e venivano infine travolte da quell’infinita marea sporca, delirante e senza pietà.

 

«Qui è il capitano Aber, Ventiduesimo Fanteria, codice di identificazione alfa-zero-delta-sei. C’è qualche galantuomo che gentilmente può rispondermi?» 

I frusciare statico della radio fu l’unica cosa che il capitano ricevette in risposta. «C’è nessuno? Mi sentite? Oh, per la miseria, Darnell!» esclamò, rivolto al soldato che si occupava della radio da campo. «Perché questo marchingegno non funziona?»

«È Daniell, signore…»

«Daniell? Che sia dannato, vile furfante! Tagliare in modo così proditorio le linee di comunicazione…»

«…no, signore, Daniell sono io.»

«Che cosa?» Il capitano Aber squadrò il giovane soldato. «Figliolo, state cercando per caso di prendervi gioco di me?»

«No, certo che no, signore…»

«E allora cosa farfugliate, in nome del Presidente?»

«…è che mi chiamo Daniell, signore, non Darnell. Il nome… insomma…»

L’ufficiale rimase qualche istante in silenzio, interdetto, poi finalmente parve capire. «Oh, certo, il nome! Certamente, sì. Ma ora basta perdervi in chiacchiere, Darnell, e fate funzionare quell’affare!» Posò una mano sull’elsa della spada, assumendo un’aria tronfia e soddisfatta. «Il Termodromo dev’essere avvertito del nostro arrivo. Casomai il generale Lindle volesse congratularsi di persona…»

«Temo dovremo aspettare per quello, signore.»

Il capitano si voltò, sorpreso. «Ah, tenente, siete voi. Ebbene, che accade? Ci sono forse degli inconvenienti?»

Il volto di Baeley non dava luogo a fraintendimenti. «Il Termodromo è caduto, signore» disse senza mezzi termini. «E con esso molto probabilmente anche il resto della città.» 

«Oh, per tutti i numi» ribatté il capitano, con l’aplomb di chi ha scoperto che il suo ristorante preferito ha appena terminato le tartine al caviale. «Occorre un nuovo piano, dunque.»

«La fabbrica nel quale sono stato è ancora sufficientemente integra, signore» suggerì Baeley. «Potremmo passare lì la notte e poi decidere il da farsi.»

«Sì» mormorò il capitano. «Sì, faremo così. Bene, tenente, ci guidi alla fabbrica: noi la seguiremo.»

 

«Sono deluso, Clove. I morti non tornano, e i saluti vanno ricambiati.»

Rorke era lì, in piedi dietro la sua scrivania. Questa volta, però, non sorrideva.

«Ma io l’ho fatto!» replicò lei con veemenza.

«Il tuo amico, qui, sembra non essere d’accordo» replicò Rorke, gelido e compunto, indicando con un cenno della mano Cato, dritto sull’attenti come un bravo soldatino.

«Signorsì signore!» esclamò il ragazzo, lo sguardo che fissava intensamente qualcosa qualche centimetro sopra la testa di Clove. «I morti non tornano, e arrivano sempre per ultimi!»

«Voi non capite!» strillò lei, scattando in piedi. «Guardate qui, ho le prove!»

Una cartelletta portadocumenti volò sul tavolo di Rorke. L’uomo si chinò ad osservarla, la aprì, guardò per qualche istante il contenuto e  scoppiò a ridere. 

«Sapevo che eri una perdente, Clove, ma non fino a questo punto!»

Lei si avvicinò alla scrivania, furente. Ma invece del rapporto dettagliato della missione in cui spiegava come era riuscita a vincere la guerra uccidendo Artemisia, c’era un un unico foglio bruciacchiato sul qualche qualche stupida bambina aveva disegnato un grosso, sgraziato sole giallo.

«Oh cielo, è davvero disgustoso» disse Katniss Everdeen, proprio dietro le sue spalle. Lei si girò di scatto, portando la mano alla cintura; le dita, però, strinsero il vuoto.

Ma dove aveva la testa? Aveva ceduto tutti i suoi coltelli a Cato, in cambio di un cucciolo di cane. E quel miserabile aveva finito per regalarli tutti a Rose Martin!

«Ti odio, Rose Martin!» gridò, avventandosi su Katniss Everdeen.

«Niente Giochi, quest’anno» rispose la ragazza, sprezzante. Poi prese fuoco.

Lei balzò all’indietro, le braccia ormai completamente avvolte dalle fiamme.

«Rose Martin!» gridò di nuovo, mentre il fuoco avanzava inesorabile, bruciandole la carne e divorandole le ossa. «Rose Martin!»

«ROSE MARTIN!»

«TI ODIO, ROSE MARTIN!»

 

Le tenebre erano ormai calate sulla martoriata capitale del Distretto Quattro. Gli spari e le cannonate si erano fatti sempre più radi, fino a scomparire quasi del tutto. Quando Clove rinvenne, il silenzio era praticamente completo.

Sbatté rapidamente le palpebre, mentre il suo campo visivo si faceva sempre più nitido. Davanti a lei, un alto soffitto si stendeva immenso e cavernoso. Era sdraiata a terra, e alla sua sinistra avvertiva una fonte di luce. Qualcuno stava parlando. Una voce di giovane donna.

Katniss Everdeen!

Cercò di gridare, ma riuscì ad emettere soltanto un mugolio strozzato. Improvvisamente, si rese conto di avere la bocca asciutta e la gola riarsa. Aveva sete. Dannatamente sete.

«Già sveglia? Non credevo avresti aperto gli occhi prima di domani.»

Clove voltò la tesa, facendo scrocchiare il collo indolenzito.

Una ragazzina con un vestito a fiori la stava osservando. Era seduta accanto ad una lampada da campo, con le mani appoggiate sui polpacci nudi sporchi ed escoriati. Indossava un vestito a fiori e un elmetto troppo grande per la sua testa. 

«Se aspetti… un attimo… ti faccio vedere un altro paio di cosette» biascicò Clove con voce roca, fallendo miseramente nel tentativo di sembrare spavalda.

La giovane non rispose. La luce della lampada illuminava i suoi occhi azzurri, che la squadravano con compassato distacco. Occhi stanchi. Occhi indifferenti.

Occhi vecchi.

Clove deglutì, mentre la stessa sensazione che l’aveva colpita nell’ufficio di Rorke le pizzicava la nuca.

«Ti ho pulito e medicato le ferite» disse la ragazzina, compunta e formale. Tutto in lei strideva e cozzava: era come se una bambina innocente e una implacabile guerriera fossero costrette a condividere lo stesso corpo. «Non credo di aver fatto un buon lavoro, ma questo è quello che hai a disposizione al momento.» Si alzò in piedi, stappando una borraccia e avvicinandola alla bocca della sua paziente. 

Per qualche istante Clove meditò se rifiutare l’acqua, ma la sete era troppa. Prima che potesse rendersene conto, aveva sollevato la testa e stava bevendo rumorosamente e senza ritegno.

«Piano, o ti prenderà un colpo» disse la ragazzina, sottraendo la borraccia alle sue labbra assetate. «Sei una resistente, non c’è che dire. Ma vista la placca di acciaio che ti hanno messo in testa non c’è poi molto da stupirsene.»

«...placca?» borbottò Clove, ansimante per la bevuta vorace.

«Certo» ribattè la ragazza. «Altrimenti non vedo come saresti potuta sopravvivere quando Dan ti ha sparato.»

Dan.

Dunque era così che si chiamava il giovane biondo che sembrava avercela così tanto con lei.

Dan... che diavolo vuoi da me?

Non che le importasse poi molto. Si era messo contro di lei. Aveva cercato di ucciderla. Aveva fallito. 

Pessima mossa.

Nel frattempo la ragazzina si era avvicinata di nuovo a lei, questa volta stringendo tra le mani una barretta di multienergetico concentrato. Clove addentò un boccone generoso, masticò rumorosamente e mandò giù con gran soddisfazione. Poi però, qualcosa parve accendersi nella sua mente.

«Se cerchi di impietosirmi...» ringhiò all’indirizzo di colei che la stava nutrendo. Era una frase terribilmente ridicola da dire vista la sua posizione, ma a lei non importava.

Lo sguardo della ragazzina si fece di ghiaccio. «Non voglio niente da te. Faccio solo il mio dovere.»

«Ma che bravo soldatino» ribatté lei con stupida veemenza. Il bruciore delle ferite stava cominciando a farsi strada in tutto il suo corpo, e il fatto di essere lì a terra, senza alcun controllo della situazione, le faceva ribollire il sangue.

La ragazzina rimase qualche istante in silenzio. Poi avvicinò il suo volto a quello di Clove, fin quasi a sfiorarla.

«Potrei tagliarti la gola prima che tu possa gridare aiuto, e anche se ci riuscissi nessuno farebbe poi molto per salvarti. Perciò stai zitta, e sarà meglio per entrambe.»

Clove respirò profondamente con il naso, pronta a rispondere a muso duro a quella stupida mocciosa. Ma quando aprì la bocca, nessuna parola al vetriolo si precipitò fuori. Solo aria. Aria e vuoto.

«Si è svegliata?»

Il volto della ragazzina si tolse dalla sua visuale, e Clove vide un ufficiale dell’Esercito Regolare dall’aria stanca avanzare con incedere lento e pesante verso di loro. Per un minuscolo, delirante attimo, Clove fu grata all’uomo per averla tolta d’impaccio da uno scontro verbale che l’aveva messa con le spalle al muro.

Piantala, cretina! Una volta che ti sarai ripresa, caverai quei begli occhietti azzurri a quella insopportabile bambinetta e le dimostrerai che solo tu hai il diritto di avere l’ultima parola.

Appagata da quell’immagine truculenta, Clove si adagiò sulla barella sulla quale era stata messa.

«I tuoi compari stanno mangiando» stava dicendo intanto l’ufficiale. «È tempo che tu vada.»

«Sì, ho appena finito di sistemarla» rispose la ragazzina, accennando a Clove. «Arrivo subito.»

L’uomo lanciò uno sguardo imperscrutabile a Clove, poi fece dietro front e si diresse verso il falò. Due soldati, che fino a quel momento erano stati alle sue spalle, comparvero improvvisamente nel suo campo visivo e si posizionarono ai fianchi della ragazzina, con l’intenzione di scortarla via. Dopo qualche passo, la voce arrochita di Clove la raggiunse.

«Rose Martin.»

L’acerba soldatessa si bloccò, fulminata. Lentamente, si girò verso Clove. Il suo sguardo era di furente disprezzo. Strinse i piccoli pugni sui fianchi, e si avviò a rapide falcate verso la ragazza ferita, seguita a ruota dai due militari in divisa bianca.

«Non osare anche solo pronunciare...»

«…chi è Rose Martin?»

Dana si bloccò di nuovo. Questa volta, però, sul suo volto era dipinta la più completa sorpresa.

Per qualche istante, tra le due non ci fu altro che silenzio.

«Davvero non lo sai?» mormorò infine la ragazzina.

«No, o mi risparmierei di abbassarmi a chiedertelo» sputò Clove con un ringhio.

Sul volto di Dana passarono spettri di diverse emozioni. Incredulità, rabbia, sconforto, pena.

«Era sua sorella.»

La bocca di Clove si accartocciò in un ghigno sarcastico. «E cosa dovrei c’entrare io con una stupida...»

«L’hai ammazzata.»

La frase di Clove rimase lì, troncata a metà.

Uccisa?
Dana osservò con disprezzo la confusione sul suo volto. «Già. Non ti è mai servito sapere il suo nome.»

Ancora una volta, Clove non seppe cosa rispondere. La ragazzina la guardò per un ultimo istante, poi si allontanò finalmente da lei, diretta verso il tepore del fuoco e la soddisfazione di un pasto caldo, per quanto severamente controllato. Clove osservò l’elmetto sproporzionato ballonzolare sopra la sua testa, la mente confusa.

Non capiva. Prima di quel giorno, non aveva avuto occasione di uccidere qualcuno.

A parte quei tre stupidi idioti il giorno in cui ho incontrato... Pavlov.

Chi era Rose Martin? Quel ragazzo non aveva esitato quando l’aveva vista: era passato dall’incredulità all’odio bruciante in un istante. 

Sapeva chi ero. Lo sapeva benissimo.

Ma come faceva a conoscerlo così bene, mentre lei non aveva idea di chi fosse? In quale occasione si sarebbe mai potuta verificare una cosa del...

...oh.

Clove si sentì terrificantemente stupida. Era palese, lampante, ottusamente ovvio.

Aveva finalmente capito.

Ora sapeva dove aveva ucciso Rose Martin.

Che la fortuna sia sempre a vostro favore.

Nello stesso luogo dove avevano ucciso lei.

 

Gale era intento ad aprire la sua lattina di concentrato proteico quando Johanna esplose in un roboante colpo di tosse. Il contenitore sobbalzò violentemente fra le sue mani e per poco non si versò tutta la cena addosso. 

«Ma porca merda, questa roba fa schifo» abbaiò la ragazza con il suo solito tatto, fissando con disgusto la brodaglia biancastra contenuta nella sua lattina. «E io che credevo che il cibo della mensa al Distretto Tredici fosse terrificante.»

«È pur sempre cibo» rispose Penelope O’Brian.

«Un cibo senza sapore» borbottò in risposta la ragazza.

«Meglio niente sapore che un sapore orribile» sentenziò Penelope. «Hai mai sentito parlare delle tarme dei cingoli?»

«…no?» rispose Johanna, sarcastica.

«Sono dei grossi insetti pigri e lucidi. Si nutrono della gomma degli pneumatici e dell’olio motore. Sono pieni di proteine, ma ti sembra di mangiare una vecchia ruota immersa nel petrolio. Non è il massimo.»

Johanna la guardò disgustata. «Davvero li hai mangiati?»

«Sono un ottimo spuntino per rinvigorirti durante i turni pesanti. Alcuni li portano a casa e li bollono. Non che ci sia altra alternativa» aggiunse la giovane soldatessa.

«Ma che schifo

«E non hai mai mangiato un vermebuco» sentenziò Gale. «Quelli che fanno schifo.»

«Oh, piantatela!» esclamò Johanna. «Mi fate vomitare, cazzo.»

«Sembra proprio che gli anni da vincitrice ti abbiano rammollita» disse Gale, con l’intento di fare dello spirito. Ma appena quelle parole ebbero lasciato la sua bocca si rese conto di aver parlato con troppa leggerezza.

L’espressione di Johanna cambiò con la velocità del lampo. I lineamenti si irrigidirono, lo sguardo si fece di pietra, la bocca divenne una minuscola fessura.

«Tu non sai nulla di quegli anni, Gale Hawthorne.»

Il silenzio scese attorno al fuoco da campo improvvisato. Gale aprì la bocca diverse cose, poi gettò la spugna e affogò il suo sguardo nel concentrato di proteine.

«Se non altro ci hanno lasciato accendere un fuoco… e non sembrano molto interessati a sorvegliarci strettamente» disse Lee dopo un po’. Si guardò intorno, prima di continuare. «Per la verità, me li aspettavo decisamente più cattivi.»

«Sono soldati come noi» disse Ayla, che fino a quel momento era rimasta in silenzio. «Fanno il loro dovere… almeno credo.»

«Che si fottano» berciò Johanna. «Io non combatterei mai per quel bastardo di Snow.»

«Alcuni di loro potrebbero dirti che non combatterebbero mai per il Presidente Coin» replicò il sergente. «Forse per loro Panem è il male minore.»

Johanna la squadrò sorpresa. «Li stai forse difendendo?» 

«Io non difendo niente e nessuno» rispose la donna. Gettò un pezzo di carta sudicia e appallottolata nel fuoco. 

Riesco a malapena a difendere me stessa.

«Beh, in ogni caso» disse Lee, guardandosi di nuovo intorno per sincerarsi che nessuno dei loro carcerieri fosse in ascolto. «Meglio soli che male accompagnati.»

«Che intendi?» disse Gale, gettando un’occhiata alle spalle del ragazzo.

«Penso che non sarebbe male se avessimo… un piano. Del tipo “prendi la ragazza e scappa”, non so se mi spiego.»

Ayla si permise una fugace occhiata alla sua sinistra, dove, accanto al secondo fuoco, Katniss Everdeen era strettamente sorvegliata da quattro soldati. «Lee ha ragione. Dobbiamo essere pronti ad approfittare di qualunque occasione ci si presenti.»

«Bene. Noi siamo otto, quindi…» Lee si interruppe, fissando qualcosa al di sopra della spalla di Ayla.

Il sergente si girò, temendo che fossero stati scoperti. Il cenno che Dana le rivolse le diede più sollievo di quanto avrebbe immaginato.

La ragazzina si sedette a terra. «Ho una fame tremenda. È rimasto qualcosa?»

Ayla le porse una lattina. «Tieni, te l’abbiamo tenuta da parte.»

Dana fece un cenno di ringraziamento, prese la lattina e cominciò a mangiare il concentrato usando la mano come un rudimentale cucchiaio.

«Questa roba fa schifo» disse, fra un boccone e l’altro. «Ma sempre meglio di un vermebuco…»

Johanna guardò lei, poi Gale, poi di nuovo lei. «Voi del Dodici siete proprio dei cazzo di soggetti.»

«Com’è andata?» chiese Lee alla ragazzina. «Voglio dire, i feriti e tutto il resto…»

«I loro non ce la faranno» rispose la ragazza, con una freddezza che spiazzò tutti. «Lei invece sì.»

«Lei?» chiese Lee, perplesso. «Intendi…»

«…Clove.»

Tutti si girarono verso colui che aveva concluso la frase. Dan sedeva in disparte, appoggiato ad un grosso schedario arrugginito. Nella penombra, i suoi occhi scintillavano in modo inquietante.

«…sì» mormorò Dana. Ayla fu sorpresa nel sentire la voce della ragazzina prima tanto sicura incrinarsi improvvisamente.

Non sono l’unica che gioca ad essere più forte di quello che è.

«È in grado di muoversi?»

La voce di Dan era un sussurro roco: sembrava provenire dritta dall’oltretomba.

«È… stabile. Non ho mai visto nessuno guarire così in fretta.»

«Già.»

Nessuno parlava. Ayla cercò di dire qualcosa, nel tentativo di distrarre i presenti come aveva fatto Lee prima, ma non riusciva a staccare gli occhi da quelli di Dan. Quel ragazzo le aveva salvato la vita, eppure adesso non riusciva a trattenere un brivido di paura.

Ti prego, fa’ che questa guerra finisca presto.

«Dan…» Dana sembrava provare la stessa pena del sergente nel cercare di tirare fuori le parole dalla gola. «Lei… ha chiesto di Rose.»

Ayla poté sentire il cuore del ragazzo mancare un battito. 

«Che cosa?»

Non era una voce umana, quella. Non poteva esserlo. Era rabbia, pura e semplice furia omicida.

Dana deglutì, cercando di trattenere le lacrime. «Dan… non aveva idea di chi fosse.»

Il ragazzo non rispose. Ayla ebbe l’impressione che tutta l’aria fosse stata appena risucchiata fuori da quella fabbrica fantasma.

«Già. Non ha mai avuto bisogno di saperlo.» La figura di Dan si stese a terra. «Credo che riposerò, adesso. Dovreste fare lo stesso.»

«Dan…»

«Buonanotte, Dana.»

Rimasero in silenzio, ascoltando i borbottii dei soldati e il rumore del loro respiro. Alla fine, Dana passò la lattina vuota ad Ayla. «Grazie, sergente» disse, recuperando il tono neutro che le era tanto familiare.  

Ayla abbozzò un sorriso storto. «Non c’è di che.» La guardò per un istante, cercando di entrare nella sua testa, fra quelle martoriate regioni mentali di innocenza infranta. «Sai che puoi chiamarmi Ayla, vero?»

«Sì, sergente.»

La donna esitò. «Ma se preferisci sergente, non c’è pro…»

«Un sergente che muore fa parte della guerra. Se muore Ayla, invece, è diverso.»

Ayla aprì la bocca, ma non aveva la minima idea di cosa dire. «Io…»

«Non voglio che Ayla muoia, sergente.»

La donna deglutì, impotente. «Neanche io, Dana. Neanche io.»

«Bene. Buonanotte, sergente.»

«Buonanotte.»

Le due soldatesse si sdraiarono sul pavimento, seguendo l’esempio di Dan. Gale e Johanna li seguirono subito dopo, e in breve il suono dei loro pesanti respiri si unì al crepitare delle fiamme morenti. Mentre chi poteva dormiva, il sergente Ayla Wilkins rimase immobile, gli occhi persi nel vuoto, a chiedersi da quanto tempo ormai mentire fosse diventato per lei semplice come respirare.

 

Questa volta non c’era nessuna palude, nessun tronco ricurvo e nessun cielo marcio. Il sole illuminava tiepido una radura erbosa, al centro della quale si trovava una curiosa struttura a forma di corno. Una ragazza gli dava le spalle, la lunga coda di capelli scuri agitata pigramente dal vento. Era lei. Era l’assassina.

Dan avanzava di soppiatto verso di lei, stringendo in mano una scheggia di vetro. I bordi taglienti dell'arma improvvisata gli ferivano le mani, ma doveva tenere a bada il dolore: sapeva bene che nessuno dei due sarebbe sopravvissuto se l’altro non fosse morto. Doveva farlo, non c’era altro modo. 

La ragazza continuava a rimanere immobile. Dan gettò all’aria ogni prudenza, si lanciò in avanti e la girò bruscamente, infilzandola con il pezzo di vetro affilato.

E mentre il sangue caldo della ragazza gli inzuppava la mano, unendosi con quello delle sue ferite, Dan si rese conto di aver sbagliato bersaglio.

«Non funziona così, Danny» disse Rose, la voce stranamente calma e profonda nonostante il rivolo di sangue che le fuoriusciva dalla bocca. «Io sono già lì.»

Dan indietreggiò, terrorizzato. «Come sempre, prima le femminucce!» esclamò Rose, allegra; poi ondeggiò di lato e stramazzò al suolo, morta stecchita.

Dan cadde in ginocchio. Gli occhi di Rose lo stavano fissando, ma non erano più quelli di sua sorella. 

L’assassina, la Favorita del Distretto Due di nome Clove, lo guardò con aria divertita. 

«Che c’è, Danyl Martin, vuoi uccidere anche me?»

«No!» 

Dan si lanciò su di lei. Voleva chiederle scusa, era così mortificato per quell’increscioso incidente. «Non volevo, non volevo!» gridò, sollevando il corpo morto di Clove. «È tutto sbagliato, tutto… nessuno doveva morire, non era nei piani, non era previsto…»

Un colpo di cannone, e il prato prese fuoco. La struttura a forma di corno si sciolse in un lago sfrigolante di metallo fuso, mentre le fiamme divoravano tutta la radura.

Dan sentì il fuoco mordergli i vestiti, salirgli sulla schiena, pizzicargli il viso. Poi, mentre tutto stava per scomparire in un accecante vortice di fiamme e luce, la ragazza gli sorrise.

«Non preoccuparti, Dan. Dovunque tu andrai, ci sarò anche io.»























 

 

 

 

 

L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Le vacanze sono finite, la scuola ricomincia, la sessione di settembre spalanca le sue mefitiche fauci... e il vostro amichevole Ser Balzo di quartiere ritorna alla carica con la sua gente psicolabile e le sue avventure presuntuose. Ci eravamo lasciati un po' (sempre troppo) tempo fa con i nostri eroi catturati dal vile nemico, in un perfetto ZAN ZAN ZAAAAN da fine puntata: un nemico talmente vile e terribile che è composto da una ventina di uomini stanchi morti guidati da un tipo uscito direttamente dal secolo decimo ottavo ("messieurs les anglais, tirez les premieres!") e da un tenente costantemente in lotta contro la propria disillusione. I nostri sembrano poter tirare un attimo un sospiro di sollievo, dunque, anche se la loro situazione non è certo delle più rosee. Ce la faranno i nostri? Cosa accadrà? E soprattutto, la pianteranno Dan e Clove di fare sogni carini e coordinati dove tutti prendono improvvisamente fuoco?
Le domande sono parecchie, le risposte sembrano farsi attendere (principalmente perché sono un miserabile scribacchiatore lento, e poi perché se no dove la mettiamo la saspens): la strada per Capitol è ancora lunga, ma la partenza è ormai sparita dietro la curva. Avete ancora le cinture allacciate? Bene, continuate a tenerle strette: la battaglia per Panem è più furibonda che mai.
Al prossimo capitolo dunque, tante care cose e alla prossima!


 

 

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Capitolo 16
*** Gli sconfitti sventurati ***


15.

Gli sconfitti sventurati

 

 

 

And she said, Romeo, Romeo, I’m your Juliet
I’m the pot of gold that you haven’t found yet

And I’m here, right here

He said, Juliet, I believe every word you said
Time is running backwards every single day

I’m here, right here

 

– The Fratellis, Starcrossed Losers

 

 

 

Artemisia schiumava dalla rabbia.

Ringhiando per la frustrazione, calciò un sasso davanti a lei. La piccola pietra scartò bruscamente di lato, sollevando una scia di polvere mentre rimbalzava fra la terra rossastra.

«Risparmia le forze» le disse Ares, alla sua sinistra.

«Come se ci servissero a qualcosa» berciò lei di rimando, fissando la nuca di Katniss Everdeen come se potesse atomizzarle la testa con la potenza del solo sguardo. «Quella puttana codarda, tutti buoni ad uccidere restando nascosti…»

«Sono giorni che marciamo» continuò Ares, ignorando i violenti improperi della sua compagna di scudo. «E il Distretto Due è ancora lontano.»

«…li potrei uccidere tutti prima che miss Bruciate-con-noi sollevi il suo stupido arco giocattolo…»

«I viveri stanno per finire, e non credo che–»

«…la faccio a pezzi, sì, lei e quell’altra stronza simpaticona»

«Artemisia.»

La mano di Ares si chiuse sulla spalla della ragazza, costringendola a voltarsi. Il volto del massiccio IEROS era una maschera di granito.

«Smettila. Adesso.»

Artemisia rimase qualche istante interdetta, colpita da quell’ordine secco e perentorio. Poi il suo voltò si deformò in preda all’ira e le sue labbra si dischiusero violentemente, pronte a ribattere adeguatamente a quella sfrontata insolenza.

«No.» La voce di Ares era ferma e possente, un monolite ancestrale inattaccato dal tempo. «Sei una guerriera, non una stupida. Non dimenticare chi è il vero nemico.»

Gli occhi di Artemisia lampeggiarono. «Ma noi…»

«Noi aspetteremo gli ordini del colonnello Rorke. E in ogni caso, anche se ci dovessimo riuscire, uccidere Katniss Everdeen non servirebbe a niente. E tu lo sai bene.»

La ragazza inspirò profondamente, poi si girò di scatto, riprese a camminare e tirò un calcio ad un altro sasso.

Rimasto indietro, Ares sospirò.

«Non è semplice, eh?»

Il ragazzo si voltò, sorpreso. Il tenente Baeley guardava Artemisia, una mano sulla cinghia del fucile e l’altra sulla cintura tattica. «Cerchi di fargli capire dove andare, cosa fare, quando fermarsi, ma la verità è che non puoi fare altro che restare a guardare.»

Ad Ares non piaceva il tono di quell’uomo. Sapeva di codardia, rassegnazione e, peggio ancora, qualcosa che non riusciva a catalogare. Qualcosa che sapeva avere tremendamente a che fare con la strana ombra in un piccolo angolo della sua memoria.

Cenere.

«Non sono il caposquadra. Il sergente Cicero…»

«Non c’è, a quanto vedo» finì per lui Baeley. «E soprattutto, non è qui a tenere a bada la piccola campionessa…»

Qualcuno lo interruppe.

«Si chiama Artemisia.»

Baeley si azzittì. Ares sentì la gola seccarsi, ammirato e al tempo stesso turbato da colui che aveva aggredito così fieramente il tenente.

«Certamente. Ti suggerisco di muoverti, o finirai in fondo alla colonna. Immagino che tu non voglia che la retroguardia ti spari.»

Baeley riprese a camminare, lasciandolo Ares da solo. Il ragazzo rimase interdetto ancora per qualche istante.

Poi, finalmente, comprese che a parlare era stato lui.

 

C’era stato un tempo in cui Dan avrebbe apprezzato il territorio che lo circondava.

Ai lati della polverosa strada che stava percorrendo si stendeva un’arida distesa di terra e cespugli, in mezzo alla quale si innalzavano ogni tanto rilievi più o meno elevati di roccia rossastra. Le Lande Ingenerose, aveva sentito due soldati davanti a lui chiamarle. Immaginava che l’aggettivo si riferisse all’infertilità del suolo; ma per quanto lo riguardava, quella terra non era avara per niente. Avrebbe potuto cavalcare per tutto il giorno senza mai fermarsi: cosa c’era di meglio?

Si sorprese a pensare una cosa del genere. Quelli erano tipi di elucubrazioni che riguardavano il vecchio Dan. Cose precedenti alla guerra, alla Ghiandaia Imitatrice, agli Hunger Games.

Cose in cui compariva il volto di sua sorella.

Dan si ritrovò a pensare a cosa sarebbe successo se avesse deciso di aggredire una guardia. Così, senza motivo. Di correre addosso ad una di quelle divise bianche, buttarle giù a terra e far finta di credere davvero di poter scappare. Gli avrebbero sparato subito? Oppure lo avrebbero inseguito, riportato indietro e condannato ad attendere un vero e proprio plotone d’esecuzione? Stando a quanto sembrava bizzarro il loro comandante, la seconda poteva essere un’opzione più che probabile.

Riflettere in tono così distaccato sulla propria dipartita gli procurò un piccolo brivido. Forse c’era una parte di lui che ancora desiderava tornare ad essere una persona normale: essere ancora il giovane mandriano del Distretto Dieci, tornare a casa tutte le sere morto di fatica ma in qualche strano modo soddisfatto, guardare il cielo seduto davanti alla porta di casa ed aspettare con ansia il giorno di riposo.

«Un penny per i tuoi pensieri» gli disse Dana, che camminava vicino a lui.

Dan la guardò perplesso, diede un'occhiata a Penelope, in marcia alle sue spalle insieme a Lee, e riportò lo sguardo su di lei. «Penny? Cosa c'entra Penny?»

La risata di Dana raccolse le attenzioni di un paio di soldati; nessuno, però, le disse di fare silenzio.

«Oh, capisco, sei finalmente diventata matta» disse Dan, sospirando.

«Oh, tranquillo, non ancora. Non del tutto, almeno.»

«Allora cosa avevi tanto da ridere?»

«Un penny per i tuoi pensieri. Non mi riferivo a Penelope.»

«E a cosa, allora?»

«A un penny.»

«E che accidenti è, un penny?»

«A dirti la verità, non ne ho idea.»

«Andiamo bene.»

«È una cosa che diceva mio padre. Un penny per i tuoi pensieri. Probabilmente neanche lui sapeva cosa fosse, un penny. E neanche suo padre, e il padre di suo padre, fino a prima di Panem e delle Ribellioni. E ora io sono qui, e loro sono tutti morti, e ancora non ho idea di cosa sia un maledetto penny.»

«A giudicare dalla struttura della frase, dovrebbe essere un qualche oggetto di valore.»

«È l'idea che mi sono fatta io. E comunque, stai rovinando il mio flusso di coscienza.»

«Sono desolato.»

«Comunque, il senso è: a cosa stavi pensando?»

Dan lasciò che il suo sguardo vagasse sull'immensa distesa di terra rossa. «A casa.»

«Oh.» Dana guardò per terra, poi sollevò lo sguardo, socchiudendo le palpebre per non farsi accecare dal sole. «Non era male, il Distretto Dieci.»

«Era una schifezza.»

«Lo so bene, volevo solo essere di supporto emotivo.»

Dan la guardò, e un sorriso storto gli affiorò sul viso. «Ti ringrazio, ma non ce n'è bisogno.»

«Questo lo dici tu.»

«Certo che lo dico io.» E detto ciò, Dan tolse a Dana l'elmetto e se lo mise in testa.

«Ehi!»

«Non male. Mi sento già più schizzato.»

«Ridammelo.»

Dan allontanò una mano di Dana che cercava di riprendersi il proprio copricapo. «Va grande persino a me, vorrei sapere come accidenti fai a muoverti con questo coso in testa.»

«Perché la tua testa è stupida, e la mia no. L'elmetto sa dove trovarsi meglio.»

«Ah beh, buon per lui allora.»

«Senz'altro. Ora ridammelo, stai facendo una figura veramente misera per un prigioniero di guerra.»

Dan allontanò un'altra mano di Dana, ridacchiò e posò la propria sulla testa bionda della ragazzina. «Accidenti, vecchia mia, la tua testa scotta.»

«Fa caldo, e – sorpresa – qualcuno mi ha rubato il cappello.»

Dan sospirò. «D'accordo, hai vinto.» Rimise l'elmetto in testa a Dana, che se lo sistemò con fare soddisfatto. «Ma devi bagnarti la testa, o comincerai a delirare molto più di quanto tu non stia già facendo adesso.»

«D'accordo, d'accordo... fratellone.»

«Molto bene...» disse Dan. Stava per aggiungere "sorellina", ma la parola divenne cemento quando raggiunse le labbra. 

Dana vide il suo sguardo mutare con la rapidità di un sospiro. Forse comprese quello che era successo, ma non disse nulla.

Tra i due cadde il silenzio.

Nel frattempo, la colonna continuava a marciare.

 

Giunse il tramonto, stendendo sul mondo la sua tavolozza di arancio, azzurro e rosa. Fu come se le Lande Ingenerose si vestissero di un morbido drappo di seta, e la guerra apparve d’un tratto lontana. Non c’era vita, non c’era morte, non c’era violenza; solo l’incommensurabile silenzio del deserto. 

Era una cosa che faceva effetto, pensò il tenente Baeley. 

«Oh, se solo avessi una tela» disse ancora una volta il capitano Aber. «Che splendido paesaggio ne uscirebbe fuori!»

Baeley si chiese se avrebbe continuato a ripeterlo, ogni volta per ogni tramonto, fin quando non fossero riusciti a tirarsi fuori da quel maledetto deserto. Per quanto lo riguardava, il tramonto poteva essere bello come il paradiso: ma finché non gli avesse portato acqua, viveri e – se proprio voleva essere gentile – uno stramaledetto corpo d’armata, lui avrebbe continuato a considerarlo in meri termini di rifrazione di raggi solari. 

«Compagnia, alt!» vociò il capitano Aber, facendo scattare il pugno all’altezza della tempia. 

Stanca e mormorante, la trentina di persone al suo seguito smise di trascinare i piedi, piegò la schiena verso terra e si fermò.

Aber tirò fuori da una tasca il suo cannocchiale dorato, lo allungò con uno scatto e prese ad osservare qualcosa oltre un paio di grosse rocce. «Tenente, lo vedete anche voi?»

Baeley prese il cannocchiale che gli veniva offerto dal capitano e lo puntò dove presumibilmente il suo superiore stava guardando. La bocca gli si dischiuse in un moto repentino di sorpresa.

«Alberi.»

«Dunque non mi sono ingannato!» esclamò il capitano, più soddisfatto di quanto forse il suo ruolo di comando permetteva. «Un bel bosco, a neanche mezz’oretta di camminata. Sarà un ottimo posto dove passare la notte.»

«Senza dubbio» rispose Baeley, restituendo il cannocchiale ad Aber. Una macchia di verde era decisamente uno spettacolo inconsueto in mezzo a tutto quel rosso, ma Baeley sapeva che spesso nei deserti si potevano trovare delle oasi vicino a delle sorgenti d’acqua.

Acqua.

Sentì il pomo d’Adamo sobbalzare nella gola riarsa. Erano passati ormai cinque giorni da quando si erano lasciati dietro il Distretto Quattro per avventurarsi nel deserto che lo separava dal Distretto Due, e ormai da tre erano stati costretti a razionare le scorte di acqua e di cibo. 

Acqua. Ombra. Riparo.

Mentre il sollievo accarezzava il suo corpo sfinito dal sole e dalla marcia, Baeley realizzò che c’era voluta una guerra per fargli capire la bellezza delle cose semplici.

 

«Deve muovere le mani verso il basso.»

Baeley sollevò lo sguardo dal mucchietto di legna a cui stava cercando di dare fuoco. Seduta a gambe incrociate, circondata come sempre da quattro dei suoi soldati migliori, Katniss Everdeen strofinò rapidamente le mani e le mosse verso il basso.

Baeley diede un’occhiata al legnetto che teneva tra le mani. «Oh.» Prese il legno tra i palmi, poggiò un estremità su un altro pezzo piatto e largo e cominciò a sfregare. «Così?»

La Ragazza di Fuoco annuì, l’ombra di un sorriso che sfumava sul volto come una goccia di pioggia su del metallo incandescente.

«Grazie.»

«Non c’è di che.»

Baeley era troppo stanco per badare al surrealismo della conversazione appena avvenuta. Convogliò tutte le energie che gli rimanevano per sfregare i due pezzi di legno tra di loro: ma per quanto si sforzasse, il legno sembrava risoluto nella sua convinzione di non farsi carbonizzare.

«Forse questa può aiutare.»

Baeley fu ancora una volta costretto a sollevare lo sguardo dal mucchio di legnetti: il sergente dei Volontari, la donna con cui il capitano aveva tentato di fare il galante, gli stava tendendo una mano, sul cui palmo riposava una pietra verde scuro.

«Che cos’è?» chiese Baeley.

«Una pietra focaia» rispose Katniss Everdeen. «Ma così è vincere facile.»

Baeley le scoccò una rapida occhiata, un po’ a disagio di averla come spettatrice dei suoi fallimenti in materia di sopravvivenza.

«Permette?» chiese la donna. 

Baeley indicò con le due mani il suo pallido tentativo di fuoco da campo. «È tutto suo.»

Ayla si inginocchiò di fronte ai legni. «Mi servirebbe un pezzo di metallo. Di norma usavo il mio coltello, ma da un po’ di tempo non è più in mio possesso.»

Baeley rifletté un attimo su cosa poteva dare alla donna che corrispondesse alle sue richieste, poi optò per l’oggetto più innocuo che aveva a disposizione: si sfilò la propria piastrina identificativa dal collo e gliela porse.

«Grazie» disse Ayla. Sfregò la pietra sulla piastrina, e un paio di scintille caddero sui ciuffi di erba secca in mezzo a cui Baeley aveva messo i rametti; un altro paio di colpi, e finalmente una piccola fiammella si alzò tra il legno.

«Magnifico» commentò Baeley.

«Non c’è di che.»

«Finora avevo usato il liquido del mio accendino…»

Katniss Everdeen emise un brontolio di disapprovazione. Baeley la fulminò con lo sguardo. «Silenzio, tu.»

«Certamente» disse Katniss, poi borbottò qualcosa di vagamente molto simile alla parola accendino.

«Lei fuma…» Ayla diede un’occhiata alla piastrina, poi la restituì a Baeley. «…Tenente Baeley?»

«No» disse Baeley, rimettendosi la piastrina al collo e lasciandola scivolare sotto l’uniforme bianca. «Me l’ha dato mia madre prima che partissi per il fronte. Diceva che era un accessorio indispensabile per un soldato.»

«Beh, è sicuramente molto utile.»

Baeley fece un sorriso amaro ed emise un piccolo sospiro. «Temo che lei lo intendesse in senso puramente estetico. È una stilista.»

«Oh.»

«La grande Calpurnia Van Berian!» esclamò il capitano Aber, seduto poco distante su una sedia pieghevole, agitando in aria la pipa. Al suo fianco, il soldato Daniell, ormai ufficiosamente promosso a suo aiutante di campo, dovette spostarsi di mezzo passo di lato per evitare che la mano del capitano facesse cadere la bottiglia d’acqua che lui teneva in equilibrio su un vassoio. «Ah, che donna, che tatto, che squisitezza! Ha insistito molto perché venissi affidato alla mia protezione, ma con una classe, un’eleganza… normalmente un gentiluomo non acconsentirebbe a simili favoritismi, ma per la grande Van Berian… ebbene, lo confesso, ho dovuto fare un’eccezione.»

«E grazie tante» disse Baeley, a mezza voce.

«Come dice, tenente?»

«Che non smetterò mai di ringraziarla, signore.»

«Oh, suvvia, per così poco» tubò Aber, deliziato. «Per la grande Van Berian, questo e altro…»

Baeley si accorse che la donna lo stava guardando con aria divertita. Prima che si rendesse conto di quello che stava facendo, ricambiò lo sguardo. Lei si coprì la bocca con una mano per evitare di ridere, e Baeley avvertì uno strano formicolio accarezzargli lo stomaco.

Cosa diavolo sto facendo?

Scattò in piedi, come se un serpente fosse strisciato alle sue spalle e gli avesse appena morso il didetro. «La ringrazio, sergente. Può tornare dai suoi uomini.»

La donna si alzò in piedi con la stessa rapidità, le guance dipinte da un leggero rossore. «Certamente.»

Baeley fece cenno ad un soldato, che andò ad affiancarsi al sergente. La donna parve voler dire qualcosa, poi si girò e cominciò a camminare.

«Sergente.»

La donna si fermò. Nel suo sguardo Baeley colse una traccia di timore, e in un misto improvviso e irrazionale di rabbia e senso di colpa fu tentato di non dirle nulla.

«Al contrario di lei, non ho avuto l’opportunità di spiare la sua medaglietta: dunque, non so ancora il suo nome.»

La donna parve sorpresa da quelle parole. «Ayla» disse, dopo un attimo di tentennamento. «Ayla Wilkins.»

«Molto bene, sergente Wilkins. Buonanotte.»

«Buonanotte, tenente.»

 

Ancora una volta, Clove si svegliò di colpo. 

I contorni del sogno stavano ormai sfumando, ma poteva ancora sentire le fiamme lambire le estremità della sua mente. Che il colpo sparatole da quel ragazzo psicopatico le avesse definitivamente incasinato la testa?

Come se fosse colpa sua.

Sebbene pesta e sanguinante, Clove la Debole sembrava aver recuperato abbastanza energie da potersi permettere di parlare. Stringendo i denti e premendosi i palmi delle mani sulle tempie, Clove visualizzò Clove la Forte che afferrava i capelli di Clove la Debole e le ficcava la testa sott’acqua, osservandola contorcersi fin quando, con un ultimo spasmo, Clove la Debole cessava finalmente di vivere.

Ripreso il controllo della situazione, Clove si guardò intorno. I tre fuochi che erano stati accesi dal gruppo – uno per i militari regolari, uno per i pidocchiosi ribelli, e uno per gli IEROS – erano ormai quasi estinti. Una mezza dozzina di soldati, in piedi ma stanchi morti, montavano la guardia svogliatamente, convinti che in fondo nessuno sano di mente avrebbe cercato di filarsela in un deserto senza acqua né cibo, neanche la stramaledetta Katniss Everdeen in persona.

Clove bruciò di rabbia a sentire quel nome invaderle la testa: eppure, ebbe l’impressione che l’intensità del sentimento avrebbe dovuto essere molto maggiore di quanto stava provando al momento. Oh, era furibonda, questo sì: ma non così tanto quanto avrebbe voluto.

O dovuto?

Si alzò, come se volesse scacciare un fastidioso e pruriginoso insetto che le si era acciambellato tra le gambe. I soldati non sembrarono neanche accorgersi del suo movimento.

Le ore prima dell’alba, quando tutti pensano che la notte sia ormai finita. Il momento migliore per attaccare.

In silenzio, leggera e mortale come aveva imparato ad essere all’Accademia, Clove uscì dal cerchio di luce del fuoco e si inoltrò nella boscaglia.

Qualche secondo dopo, Dan si mosse per seguirla.

 

Era passato così tanto tempo dall’ultima volta in cui Dan aveva dormito come si deve che ormai aveva dimenticato cosa volesse dire lasciarsi cullare dall’oblio in una notte profonda e senza sogni. Ma non tutto il male veniva per nuocere: se non fosse stato sveglio, quella notte non avrebbe visto Clove cercare di darsela a gambe. E non avrebbe avuto l’occasione perfetta per sistemare il suo conto in sospeso, una volta per tutte.

Evitare lo sguardo dei soldati e tuffarsi nel bosco era stato fin troppo facile. In parte, Dan era convinto che le sentinelle l’avessero visto, ma l’avessero lasciato andare: un prigioniero in meno voleva dire più cibo e acqua per tutti, senza doversi prendere il disturbo di piantargli una pallottola nella nuca. In ogni caso, doveva trattarsi di destino.

La mano corse alla falda sinistra della giacca, proprio dietro la tasca. Lì, in un risvolto del tessuto bruno, aveva nascosto uno dei coltelli da lancio di Clove.

Uno spasmo d’acciaio gli contrasse il volto.

Il cerchio si chiude.

Perché era così che doveva andare.

 

Non sapeva dove stesse andando, né tantomeno perché lo stesse facendo. Sapeva di star percorrendo una linea retta, così da avere una via sicura per tornare al gruppo accampato; ma lì, in mezzo a quegli alberi, il suo desiderio di continuare a combattere sembrava d’un tratto attenuato.

Dev’esserci qualcosa in questa foresta. Qualcosa che rammollisce, che inibisce, che mi rende debole.

Forse era per questo che Clove la Debole aveva scelto quel posto per ritornare in tutto il suo patetico splendore. Peccato che non fosse durata a lungo, pensò Clove con una smorfia di feroce soddisfazione.

Non hai mai vinto e non vincerai mai.

Questi alberi maledetti, continuò a mugugnare tra sé mentre camminava. Dev’essere per colpa loro che alla loro vista si era sentita, anche solo per un istante, prendere dal panico. Da quando Rorke l’aveva fatta rientrare in gioco, era la prima volta che li vedeva.

Ed era stata l’ultima cosa che aveva visto, prima che Thresh le spaccasse la testa.

Beh, mi dispiace tanto, ma neanche voi siete riusciti a battermi. Io ho vinto, io vinco, io vincerò sempre. Sempre.

Si rese conto solo dopo qualche passo che era uscita dal folto del bosco. Davanti a lei, per circa una decina di metri di diametro, si apriva una piccola radura.

E in mezzo alla radura, una struttura di metallo simile ad una cornucopia la attendeva.

 

Dan la vide uscire allo scoperto e fermarsi dopo qualche passo. Fissava qualcosa al centro della radura, qualcosa che lui non riusciva a vedere ma che sembrava averla bloccata con la forza di un muro invisibile.

Chissà cosa starà vedendo. Film folli di una testa rotta.

Qualunque cosa fosse, per Dan era un’occasione d’oro.

Estrasse il coltello, lo afferrò per il piccolo manico e iniziò ad avanzare.

Quando entrò nella radura, temette che lei si accorgesse del fracasso che stava facendo il suo cuore. Ma l’assassina di Rose rimaneva immobile, come se fosse su un altro mondo.

Solo un secondo e ce l’accompagnerò volentieri.

In quel momento, le immagini del suo sogno si sovrapposero alla realtà. Il terrore che lì davanti ci fosse Rose rischiò di travolgerlo.

Non stai sognando, non adesso. Questa è la realtà. Rose è morta, lei è viva. Quindi fai quello che devi fare, e uccidila. Solo allora sarai in pace.

Dan strinse forte il pugnale da lancio.

Solo allora sarò in pace.

 

Clove sbatté le palpebre. La cornucopia, con la sua superficie così lucida da sembrare liquida e con la sua bocca straripante di armi, provviste e medicine, sparì in un istante.

E in quel momento, si accesero le luci.

Gialle, bianche, alcune arancio fuoco. Sapeva cos’erano. Le aveva viste spesso, nel giardino di casa sua, fra gli alberi di Capitol City, e anche lì nelle rare isole di verde delle Lande Ingenerose, dove più di una volta era venuta ad addestrarsi per gli Hunger Games. Le avevano create a partire dalle lucciole, modificandole geneticamente perché fossero più grandi, più luminose, più colorate. Ne aveva viste, ma mai così tante.

Quella radura risplendeva di una gigantesca colonia di Luminarie.

Il ricordo di un terrazzo affollato di abiti eleganti la colpì con una tale forza da farla quasi vacillare. Rivide sé stessa – dodici, tredici anni? – che avanzava impettita, cercando di non inciampare nei tacchi alti con cui si era esercitata fino a farsi sanguinare le piante dei piedi, raggiante e trionfante nel nuovo vestito che le era stato confezionato per l’occasione. E poi vide in fondo al terrazzo, con uno smoking bianco, un ragazzo che sembrava a disagio. Le venne quasi da ridere al pensiero che in quell’occasione aveva pensato fosse un povero pusillanime: ben presto avrebbe scoperto che era il guerriero più forte che il Distretto Due avrebbe mai potuto sognare.

Si girò, rapita dai ricordi di un passato che sembrava non essere mai esistito e da quella miriade di luce che trapuntava il blu che cominciava a tingersi d’azzurro.

E in quel momento si accorse che Dan stava per ucciderla.

 

Le luci lo presero alla sprovvista. Per un’istante pensò fosse tutta una trappola, tesa da non si sa chi e non si sa bene per quale motivo, e fu preso dall’istinto animalesco di correre via e rifugiarsi nel folto oscuro della foresta.

Poi Clove si girò verso di lui, e vide l’espressione che le dipingeva il viso. Né rabbia, né rancore, né selvaggia euforia. Gli occhi erano spalancati, la bocca semichiusa. Vide l’orlo degli incisivi riflettere le luci tra gli alberi, e vide che erano storti, irregolari. Come quelli di una bambina.

E vide che Clove, in quella radura punteggiata di piccole stelle, era felice.

 

Era fermo, la mano levata, un coltello da lancio stretto goffamente tra le dita. La guardava, gli occhi spalancati, un’aria sciocca, stupida e stupita dipinta sul volto.

La faccia di un cerbiatto che si ritrovi davanti ad un cacciatore.

Era da solo, senza nessuno a proteggerlo. Sarebbero bastati meno di quattro secondi a disarmarlo, prendere il pugnale e tagliargli la gola. O l’arteria femorale, in caso avesse voluto guardarlo mentre moriva lentamente dissanguato.

L’avrebbe ucciso, come aveva ucciso sua sorella. E lo sapeva anche lui.

Forse fu per questo che abbassò la mano e gettò il coltello a terra.

Sapeva di essere già morto.

«Rose Martin.»

Il nome aleggiò tra i due, come se fosse stato evocato dalle viscere della terra. Era stato pronunciato da una voce strana, roca, un po’ stridula. Una voce che, infine, Clove riconobbe come sua.

Il ragazzo parve non reagire. I suoi occhi erano fissi su di lei. Grazie alla luce delle Luminarie, Clove poté notare che erano color nocciola. Banali. Volgari. Stupidi.

Fin troppo simili ai suoi.

Come vuoi, Clove. Ma sappi che peserà anche quello, al momento della scelta degli sponsor. Tuo fratello si fece gli occhi verde scuro, perché quell’anno andava per la maggiore…

«Era tua sorella.»

Non era una domanda, perché lo sapeva già. Ma sentì comunque il bisogno di chiederglielo. Perché sentisse questo bisogno, invece, non riuscì a capirlo.

«Sì.»

Fu un bisbiglio più che una voce vera e propria. Il tono non era meno rauco e spezzato del suo. D’altronde, quando passi una settimana in un deserto con poca acqua e ancora meno cibo, è già tanto che tu riesca a parlare.

«Era tua sorella, e io l’ho uccisa.»

«Sì.»

«L’ho uccisa, e tu vuoi uccidermi.»

«Sì.»

«Arrivi tardi. L’hanno già fatto.»

Il ragazzo non rispose. Continuava a fissarla, anche se adesso non aveva più l’aria della preda braccata. Era diventato attento, calcolatore; ma nonostante questo, nello sguardo non c’era quella luce che aveva avuto quando aveva premuto il grilletto.

Senza sapere perché, Clove continuò a parlare.

«Mi hanno spaccato la testa. Hanno preso un grosso sasso e mi hanno fracassato il cranio. Non sono neanche morta subito, a quanto pare. Ci ho messo un po’ a tirare le cuoia. Ho fatto in tempo a sentire il mio assassino dire a Katniss Everdeen “per Rue”. Per Rue. Sai qual è la cosa divertente? Io Rue neanche l’ho uccisa.» Lo spettro di un’orrenda risata le uscì dalla gola. «Ne ho ammazzati un sacco, di quei poveri disgraziati. Ho ucciso tua sorella, ho torturato quella povera stupida che aveva avuto la grande pensata di accendere un fuoco quando i Favoriti erano a caccia, ne ho sgozzati un paio che non dovevano avere più di dodici anni… ho persino ammazzato una lucertola per il semplice fatto che mi annoiavo. Eppure, per tutti i peccati che ho compiuto, l’unico per cui sono stata punita è quello che non ho commesso.» 

Scese il silenzio. Clove si aspettava una risposta sprezzante, un dovrei provare pietà per te? o qualcosa di simile. Qualcosa che lei avrebbe detto se fosse stata nella sua posizione.

Perché – e se ne rese conto così, all’improvviso, con un senso di vertigine, vuoto e mestizia che la prese all’altezza dello sterno – era la prima volta che parlava a qualcuno senza un secondo fine dietro. Che parlava perché aveva qualcosa dentro, e aveva bisogno che quel qualcosa uscisse.

Forse era la luce prima dell’alba, forse erano le Luminarie, forse era la quiete degli alberi: ma in quel momento, Clove non si sentì una stupida per quello che era appena successo.

«Hai ucciso mia sorella.»

Non c’era rabbia nelle sue parole, ma era come se volesse disperatamente che ci fosse. Parole che probabilmente aveva ripetuto più e più volte, ma che ora sembravano sfuggirgli, scivolando via nel momento del bisogno.

«Sì, l’ho fatto. Ma dimmi una cosa: se ci fosse stato mio fratello nell’arena, e tu fossi stato al posto mio, che cosa avresti fatto? Ti saresti fatto ammazzare? Solo uno resta vivo. Solo uno ce la fa. Solo quello conta. Certo, a meno che tu sia una povera stupida del Dodici con una treccia carina e il tuo ragazzo sia lì con te.» Clove sbuffò tutto il suo disprezzo, mentre un sorriso terribile le dipingeva il volto. «Gli Amanti Sventurati. Credono sempre di essere loro a prendersi il peggio della vita.» Lo sguardo di Clove si perse nel vuoto. «Ma nessuno pensa mai agli Sconfitti Sventurati.»

Quelle parole sembrarono toccare qualcosa da qualche parte nascosto dentro l’animo del ragazzo. Il suo sguardo cambiò di nuovo, ma questa volta Clove non riuscì a comprendere cosa si nascondesse dietro di esso.

«Gli Sconfitti Sventurati» disse. 

Clove non rispose. Qualcosa – forse gli alberi, forse le Luminarie – le diceva di aspettare. Anche solo per un istante, anche solo per una volta.

E così, aspettò.

Non seppe esattamente quanto tempo trascorsero, lei e il ragazzo che aveva cercato di ucciderla, l’uno davanti all’altra, circondati dal silenzio e dalle luci di un’alba che ancora non sapeva di dover nascere. 

Poi, alla fine, il ragazzo parlò.

«Dicono che nessuno sopravviva davvero agli Hunger Games. Ma parlano sempre e solo di quelli che finiscono dentro l’arena. Io e te possiamo pure respirare, ma non siamo più vivi di mia sorella.»

E detto ciò, le volse la schiena e rientrò nel bosco.

Clove attese, incerta e scossa da sentimenti che non riusciva a decifrare, poi si incamminò per la stessa via di Dan. Prima che il sole sorgesse, erano entrambi rientrati nel gruppo.

E nella radura, la fredda lama di rasoio del pugnale restò a dare il benvenuto ai nuovi raggi del sole. 







L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Ok. Quattro anni. È un po' di tempo, e io non ho nessuna scusa che non sia: sono successe un po' di cose, dal duemilaquindici. (Mi sa che ai tempi c'era ancora Obama, buon Dio...) In ogni caso, come potete vedere, questa storia è ancora qui. Come i suoi personaggi è stata maltrattata, dimenticata, lasciata a marcire in trincea con delle vaghe promesse e qualche pallida rassicurazione; ma ha stretto i denti, ha tenuto giù la testa ed è sopravvissuta fino ad oggi. Quello che vi posso dire è che ho stabilito quanti capitoli saranno in tutto (circa ventiquattro) e che voglio fare tutto il possibile per portare a casa questa strana matassa di pallottole, bombe e perdenti sventurati. Perché lo devo a tutte quelle anime disgraziate che hanno seguito questa storia e l'hanno vista interrompersi tutta d'un tratto, senza un perché. Dovunque ora siate e qualunque cosa ora stiate facendo, se ce la farò a finire è solo merito vostro.
E poi, come si può smettere ora che Clove e Dan per la prima volta non hanno cercato di uccidersi? 
A presto, Panem per sempre e tante care cose!  

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** Le porte di Dite ***





16.

Le porte di Dite

 

 

It’s who we are

Doesn’t matter if we’ve gone too far

Doesn’t matter if it’s all ok

Doesn’t matter if it’s not our day

 

– Imagine Dragons, Who We Are

 

 

 

 

Il primo carro che avvistarono fu nel pomeriggio. 

Imbaldanzito dalla scoperta, il capitano Aber rischiò di rovinare il suo costoso cannocchiale, tanta era la foga con cui l’aveva ficcato tra le mani del povero soldato Daniell.

«Finalmente i nostri!» esclamò. «Parola mia, non vedo l’ora di lasciarmi alle spalle la seccante arsura di queste lande dimenticate e farmi un bel bagno caldo… beh, forse non tanto caldo.»

Al contrario del suo superiore, Baeley accolse la scoperta con una certa inquietudine. Trovare un carro armato, così, nel mezzo del nulla, era quantomeno sospetto: poteva essere abbandonato, poteva essere una trappola, poteva essere mille altre cose; in ogni caso, il nemico era molto probabilmente non troppo lontano. E poi, doveva ammetterlo: una parte di sé – una parte alquanto masochista dato che non sembrava tener conto della mancanza di viveri e di un caldo terrificante che aveva rischiato a tratti di farlo impazzire – non sembrava molto entusiasta di rientrare nella buona, vecchia Panem strangolata dalla guerra.

«Guai in vista?»

Baeley si girò verso il sergente Wilkins. Era alquanto singolare il grado di libertà che i suoi soldati avevano deciso di accordare alla donna, visto che era stata in grado di arrivargli alle spalle senza alcun problema; ma evidentemente, la sua condotta irreprensibile e la stanchezza delle sue sentinelle le avevano fatto guadagnare un guinzaglio un po’ più lento del dovuto. 

O forse, visto che sono dei vecchi bastardi senza madre, hanno capito che ti piace averla intorno.

Baeley scacciò brutalmente quel pensiero dalla testa con un certo imbarazzo e una punta di rossore sulle guance.

«Tutto bene?» le disse lei, cogliendo il suo turbamento ma non i motivi dietro.

«Deserto permettendo. E comunque, i miei guai sono la sua manna dal cielo, quindi perché chiamarli in quel modo?»

«Quando qualcuno spara è sempre un guaio. E poi, non vorrei che invece di beccare uno dei suoi bastardi capitolini un proiettile vagante finisca per ammazzare uno dei miei.»

«Oh, su quello non deve avere dubbi, sergente: se incontreremo qualche sporco ribelle, metteremo voi in prima linea come scudo umano. È stato il Presidente in persona a raccomandarsi di farlo.»

«Per come stanno le cose, non posso minimamente sapere se stia scherzando o meno.»

«Il che, suppongo, sia il motivo per cui io e lei combattiamo per due schieramenti diversi.» 

Baeley appoggiò il fucile in spalla e si diresse dal capitano Aber. «Permesso di andare in avanscoperta, signore.»

«Mh? Oh, certo tenente, andate pure. E mi raccomando, non dimenticatevi le buone maniere.»

«Come sempre, signore.»

Baeley scelse tre dei suoi per accompagnarlo in esplorazione. Più avanti, il sentiero digradava, incassato fra sporgenze rocciose, fino ad aprirsi di nuovo in una pianura, punteggiata di macchie di arbusti e piccoli alberi nodosi. Un centinaio di metri più avanti, solo come un bisonte fuoriuscito dalla mandria, si trovava il carro armato, la vernice bianca istupidita dalla forza del sole che lo faceva risaltare come un grosso cristallo di sale in un tappeto infinito di rosso brunastro.

«Mi raccomando, ragazzi» disse Baeley. «Se quel coso si attiva, sparpagliatevi e buttatevi a terra.»

«E poi, signore?»

«E poi pregate che abbia finito i colpi.»

Abbandonarono il sentiero stretto tra le rocce, avanzando in formazione a V, larghi abbastanza da non finire tutti quanti vaporizzati dalla prima cannonata il bestione avesse deciso di tirare loro. Il sudore scendeva dalla fronte di Baeley, calando sulle palpebre e andandogli a finire negli occhi, ma lui resistette alla tentazione di asciugarselo con il dorso della mano. Il suo sguardo era puntato sul carro armato, ogni fibra del suo corpo e della sua mente tesa a percepire la minima vibrazione, il minimo sospiro. Sentiva i suoi uomini trattenere il respiro, poteva percepire il battito forsennato dei loro cuori.

Quattro soldati contro un carro armato. Mai nella storia del genere umano una cosa del genere era andata a finire bene.

In cima al declivio, il resto del gruppo attendeva.

«I vostri uomini hanno coraggio, capitano» disse Ares.

«Il mio orgoglio» rispose il capitano, mentre gli occhi gli si inumidivano di commozione.

I quattro continuarono ad avanzare, nel silenzio più assoluto. Ora solo dieci metri li separavano dal carro armato.

Senza quasi che se ne rendesse conto, Ayla incrociò mentalmente le dita.

Cinque.

Quattro.
Tre.

Due…

Baeley arrivò sotto la fiancata del mezzo. Abbassò il fucile, inspirò, poi appoggiò una mano sulla superficie corazzata.

«Voi, state indietro» disse al resto della squadra. «Vado a dare un’occhiata dentro.»

«Porca puttana, ora scoppia tutto» disse Johanna, mentre la macchia di bianco che rappresentava il tenente si arrampicava sul mezzo e apriva il portello della torretta.

Il deserto, però, rimase in silenzio.

Da lontano, Baeley agitò le mani per indicare il via libera.

Almeno per questa volta, nessuno era morto.

 

«Abbandonato» disse Baeley, mentre Aber osservava il carro armato accarezzandosi il mento. «Probabilmente avevano finito il carburante.» O hanno deciso di disertare, pensò poi, ma sapeva che il capitano non avrebbe gradito quelle parole.

«Mh. È un peccato non avere dei carristi tra noi.» Il suo sguardo corse ai prigionieri. «O forse sì?»

«Vorrebbe far pilotare il carro ai prigionieri, signore?»

Aber si rese improvvisamente conto di quello che aveva lasciato intendere. «No, no, certo che no, poffarbacco. Certo però è un peccato lasciarlo qui.»

«Non si preoccupi, signore. Una volta al Distretto Due avremo tutti i carri armati del mondo.»

Se esisterà ancora, il Distretto Due.

All’inizio della guerra, Baeley era convinto che, per quanto potesse andar male, i ribelli non avrebbero mai avuto una possibilità contro la terrificante potenza militare del Distretto Due. Al tempo era una prospettiva fosca, perché presumeva che tutti gli altri Distretti fossero stati presi; tutti, a Capitol City, erano convinti che sarebbe stata una scampagnata, una mera occasione di fare sfoggio di mostrine e belle uniformi. Il Presidente Snow aveva addirittura ordinato di lanciare una nuova linea di moda militare e un nuovo programma televisivo, chiamato Orgoglio della Nazione: e tutti i capitolini, convinti che quei disgraziati morti di fame dei ribelli mai avrebbero osato sollevare le armi per rovinare le loro splendide divise, ci erano cascati con tutte le scarpe e si erano arruolati in massa.

E in quel numero di fessi, Baeley era costretto a inserire anche se stesso.

«Bene, allora» disse Aber. «Trovato niente di utile all’interno?»

«Un kit medico e un paio di razioni. Non molto, ma sicuramente meglio di niente.»

«Meglio di niente, sicuramente» disse Aber, più a se stesso che a Baeley. «Dunque bando alle ciance, tenente. Siamo quasi arrivati, ma ancora non è finita. È tempo di rimettersi in marcia.»

«Certo, signore» rispose Baeley, colpito dal tono determinato del suo superiore.

Mentre provvedeva a trasmettere gli ordini al resto della compagnia, si chiese se il sole del deserto avesse fatto impazzire il capitano a tal punto da farlo diventare un vero soldato.

 

Avvistarono il secondo carro dopo mezz’ora di marcia, proprio quando le montagne del Distretto Due cominciavano ad essere ben visibili davanti a loro. Questa volta, però, c’era poco da interrogarsi: il mezzo era completamente carbonizzato, la torretta divelta che giaceva ad una decina di metri dal corpo principale. Sul fianco, un foro delle dimensioni della testa di Ares mostrava il colpo mortale che il carro armato aveva ricevuto: qualunque cosa l’avesse colpito, l’impatto era stato talmente potente da liquefare parte della corazza, che si era raccolta in una pozza grigiastra ai piedi del carro, circondata da un’aureola di sabbia vetrificata.

«Porca merda» fu il commento di Johanna. Nessuno della compagnia si sentì in dovere di aggiungere altro.

A meno di un chilometro di distanza trovarono il terzo carro. Cento metri dopo, il quarto e il quinto.

E infine, cominciarono i cadaveri.

Dopo lo sbarco al Distretto Quattro, Dan era convinto che mai avrebbe visto un numero di cadaveri tanto grande quanto quello accatastato sulla spiaggia e sulla scogliera; a quanto pare, prima di abbandonarli, il deserto aveva deciso di togliergli quell’ultima sicurezza, come felice dono d’addio.

Buche, crateri, carcasse fumanti di veicoli, grumi nerastri di quelli che un tempo erano stati corpi umani: la distesa di morte si dipanava per chilometri e chilometri, fino a confondersi con la polvere e l’orizzonte tremolante del deserto. 

Tutti nella compagnia avevano avuto almeno una battaglia alle loro spalle, eppure Dan vide che lo spettacolo violento e assoluto che li circondava stava sortendo il suo effetto. Vide Dana stringere la mano del sergente, Gale e Johanna farsi più vicini, mentre i due assassini vestiti di nero mormoravano tra loro e le dita di Lee e Penelope si sfioravano.

Circondati dalla morte, tutti quanti, non importa se buoni o cattivi, capitolini o ribelli, si aggrappavano disperatamente alla vita. Tutti cercavano qualcuno.

Tutti, tranne lui. 

Perché Dan era rimasto da solo.

«Le Porte di Dite.»

La voce improvvisa lo fece quasi sobbalzare.

Clove indicò qualcosa dritto davanti a loro. In mezzo alle montagne, una densa colonna di fumo nero si levava nel cielo.

«Si chiama così perché usciti dal Distretto Due finivi nell’inferno del deserto. Ma suppongo che il discorso valga ugualmente al contrario.»

Dan non rispose. Non riusciva a capire cosa ci facesse lei lì, accanto a lui, spiegandogli qualcosa che lui non aveva mai sentito il bisogno di dovergli chiedere.

È pazza. Una pazza psicopatica. Non devi chiederti il perché delle sue azioni. Lo fa e basta.

«Evidentemente i ribelli hanno provato a sfondare qui. Effettivamente, è il punto più debole delle difese del Distretto. Io avrei fatto lo stesso. L’ho fatto anche, all’Accademia. Per compito.»

Dan non aveva la minima idea di cosa replicare. Era così privo di senso che lei stesse parlando con lui dei compiti che faceva all’Accademia, che neanche se avesse avuto cent’anni a disposizione avrebbe saputo cosa dire.

Fortunatamente per lui, Clove non gli richiese quello sforzo. Senza aggiungere altro, silenziosamente come era arrivata, rallentò l’andatura fino a ritrovarsi vicino ai suoi compari.

Dan vide il lungo sguardo con cui l’altra assassina la accolse nel gruppo e sentì un remoto, strano eco infrangersi sul suo petto.

Qualcosa di vecchio. Qualcosa di nuovo. 

Qualcosa che assomigliava orribilmente a della compassione.

 

Le Porte di Dite, più che a una porta vera e propria, somigliavano per struttura e presenza fisica ad una gigantesca diga: un mostro di cemento e acciaio, alto quasi più delle montagne che lo stringevano ai lati,  atto a tenere a bada il mare di miseria di desolazione e smarrimento che proveniva dal deserto e, ancora più in là, dal resto miserabile dei Distretti più poveri.

«Se questa è la porta di servizio» disse Gale «non ho la minima intenzione di sapere quant’è grossa quella principale.»

«Più uno è grosso, più fa rumore quando cade» gli rispose Johanna.

«Ma per farlo cadere deve volerci un bel po’ di forza.»

«Non se usi le giuste leve.»

Gale lasciò correre lo sguardo per tutta la lunghezza del gigantesco cancello. La struttura, sebbene conservasse ancora la sua aura di potenza e pericolo, era ormai una gigantesca carcassa, un leviatano squarciato e sanguinante. Da quello che poteva capire, il cancello consisteva in un’unico, mastodontico battente che si apriva scorrendo lateralmente, penetrando per centinaia e centinaia di metri all’interno della montagna; di questo battente ormai non restava che un profilo dai bordi straziati e irregolari, sporgente di una ventina di metri dalla sua rientranza: il resto del cancello si trovava dappertutto, disperso in frammenti che andavano da trenta centimetri a una decina di metri di lunghezza, sparpagliati nella vallata e conficcati nei fianchi delle montagne.

«Dev’essere stata la mamma di tutti i botti» mormorò Johanna.

«Devono essere stati i genieri del Tre» disse Gale. «Potrebbero far esplodere un hovercraft usando una matita e un pezzo di gomma.»

«Sempre siano lodati, secchionissimi figli di puttana.» 

Gale osservò un carro armato separato esattamente a metà da un frammento di cancello alto il doppio del mezzo. Non riuscì a trattenere un  brivido. «Panem per sempre» mormorò. 

Nessun altro parlò durante l’attraversamento delle Porte. Aber, Baeley e gli altri soldati regolari erano schiacciati dalle conseguenze che quella visione comportava, mentre il resto del gruppo era semplicemente ammutolito dalla scala di mastodontica distruzione che quella guerra era riuscita a raggiungere. Lo sconfinato hangar che faceva da tramite tra il deserto e il Distretto due era ingombro di rottami, macerie, cadaveri, armi, uniformi bianche e vestiti di tutti i colori mischiati assieme, avvinghiati come se fossero stati fusi gli uni agli altri con la fiamma ossidrica. 

Un ragazzino inchiodato ad un blocco di soffitto da una trave larga quasi quanto il suo petto li passò in rassegna, la testa reclinata in una vaga espressione di sorpresa e il corpo grottescamente dritto come se fosse sull’attenti. Tra tutti, solo Dan riuscì a guardarlo negli occhi.

Quando uscirono dall’altro lato, l’intera compagnia venne attraversata da un invisibile ma palpabile moto di sollievo; ben presto, però, fu evidente a tutti che quello che avevano visto poteva voler dire soltanto una cosa. Nessuno dei regolari osava dirlo, per timore che pronunciandolo a voce alta l’idea potesse magicamente trasformarsi in realtà; ma quando la strada che partiva dal cancello voltò bruscamente a destra, lasciando intravedere la grande piana del Distretto Due, e, in fondo, stretto intorno ad un massiccio solitario, il suo capoluogo, nessuno poté più negare quello che era ormai in atto.

Il Distretto Due bruciava.

La guerra bussava alle porte di Capitol City.

 

La strada si snodava in una serie di tornanti che scendevano giù per il fianco della montagna: ad ogni curva, Baeley temeva di ritrovarsi faccia a faccia con un centinaio di fucili ribelli puntati contro di lui.

Fu una lunga discesa, ma per sua fortuna la compagnia non incontrò mai nessuno. Ma se prima, nel deserto, il silenzio era naturale – quasi mistico in certe occasioni –, ora cominciava a diventare piuttosto inquietante.

In fondo ai tornanti c'era un villaggio: una mezza dozzina di case scarse, nient'altro che un pretesto di agglomerato in cui far vivere ufficiali di dogana e altri dipendenti preposti al controllo di chiunque e qualunque cosa decidesse di arrampicarsi sulla montagna per uscire dal Distretto. Le mura delle abitazioni erano integre, le porte ancora al loro posto: persino i vetri erano ancora attaccati alle finestre. Il villaggio sembrava essere stato risparmiato dalla furia della guerra – il che, forse, lo rendeva ancora più inquietante.

Aber fermò la compagnia e mandò una mezza dozzina di soldati a controllare le case: tutti ritornarono con la stessa informazione.

«Vuoto, signore. Sembrano scomparsi nel nulla.»

«Probabilmente hanno capito che le cose stavano andando male e hanno deciso che era meglio non farsi trovare qui» disse Baeley.

«Un atto di deplorevole codardia ma sì, alquanto probabile» rispose Aber. «Beh, il sole è ormai praticamente calato e a quanto pare gli abitanti di questo ridente villaggio ci hanno silenziosamente offerto la loro ospitalità. Mi sembra alquanto scortese rifiutare.»

 

La compagnia si sistemò nell'edificio più grande a disposizione, un ufficio a due piani ingombro di scartoffie e vecchi terminali.

«Credevo che quelli del Due fossero ricchi» disse Penelope guardando uno degli ingombrati e squadrati computer. «Questa roba sembra più vecchia degli Hunger Games.»

«Beh, quelli del due sono soldati» disse Lee, facendo spallucce. «Tipi pratici. Probabilmente dormono sui sassi perché fortifica il carattere.»

«Sai cosa fortifica davvero il carattere?» gli rispose Artemisia, che non aveva potuto fare a meno di ascoltare. «Squartare i pezzenti dei Distretti poveri.»

«Silenzio, voi due» berciò una soldatessa di guardia. «Anche se sono d'accordo» si premurò poi di aggiungere.

Artemisia si appoggiò alla parete, gli avambracci poggiati sulle ginocchia, una crudele smorfia sulle labbra e gli inquietanti occhi verdi fissi su Lee.

«Sarà una lunga notte» disse lui, mentre si coricava accanto ad uno schedario, sottraendosi allo sguardo predatorio dell'assassina.

«Mi mettono i brividi» sussurrò Penelope, cercando di non farsi sentire dalla ragazza vestita di nero e dal suo grosso compare. «Ma lei più di tutti. Non sembra... non sembra neanche umana

«Probabilmente non lo è» rispose Lee. «Almeno, non del tutto. Chissà che cosa gli avranno ficcato dentro, quei pazzi bastardi della capitale. Magari li metteranno in campo come mutanti, nei prossimi Hunger Games.»

«Non ci saranno altri Hunger Games» disse Penelope, d'un tratto ferma e decisa.

Lee la guardò, colpito dal suo cambio repentino di atteggiamento. «Tu credi?»

Penelope rimase in silenzio. Si morse il labbro, come se stesse prendendo una decisione importante, guardò verso Artemisia e poi di nuovo verso di lui. «Conosci Cordelia Finch?»

Lee aggrottò le sopracciglia nel tentativo di ricordare. «Il nome l'ho già sentito, ma non mi ricordo dove. È qualcuno che conosco?»

«In parte, sì» disse Penelope. «Cordelia Finch era mia compagna di classe, ai corsi di avviamento di ingegneria solare. Io ero brava, ma lei lo era di più. Prendeva sempre il massimo dei voti. Saremmo potute essere amiche, credo; ma solo il primo della classe poteva accedere al programma speciale di avviamento professionale. Mi superò di soli tre punti.» Penelope fece un sorriso amaro. «Avevo passato settimane a dormire un paio d'ore a notte per prepararmi adeguatamente. Quando seppi che avrebbero preso lei al posto mio, la odiai. La odiai davvero, da povera stupida qual ero.» Sbuffò, divertita e amareggiata allo stesso tempo. «Cordelia era davvero dotata. Una ragazza prodigio, forse. Ma questo non le impedì di venire estratta per i Settantaquattresimi Hunger Games.»

Un'immagine balenò nella mente di Lee. Capelli rossi, viso appuntito, intelligente e calcolatrice. Il tributo femmina del Distretto Cinque. Aveva buone speranze di vittoria, e arrivò quasi alla fine.

«Non ho mai capito perché abbia mangiato quelle bacche» continuò Penelope. «Una morte davvero idiota, per una che era riuscita a sopravvivere fino a quel punto. Ogni tanto mi convinco che l'abbia fatto apposta. Che la sua morte facesse parte di un piano, che quel piano avesse avuto inizio tanto tempo prima di essere estratta, e che magari in quel piano, almeno in parte, ci fossi anche io.» Penelope si fermò. Deglutì. Poi guardò Lee negli occhi, e riprese. «Vuoi sapere perché mi sono arruolata?»

Lee non rispose. Sapeva che la risposta sarebbe arrivata da sola. E infatti, accadde esattamente così.

«Perché quando Cordelia venne estratta, non mi arrabbiai, non mi intristii, non feci niente di tutto questo. Quando Cordelia venne estratta, io fui felice. Perché aveva rubato il posto che era mio di diritto, e per questo era stata punita. E la giustizia aveva finalmente fatto il suo corso.»

Lee era perfettamente immobile. Penelope si sdraiò su un fianco, la faccia verso la parete, e non parlò più. Qualche minuto dopo, la sentì soffocare un singhiozzo.

Senza dire nulla, cercando di essere il più delicato possibile, Lee si sdraiò accanto a lei e la abbracciò da dietro. Penelope si girò, e Lee fu convinto volesse mandarlo via. Si sentì in colpa per aver esagerato, per aver varcato un confine che forse avrebbe fatto bene a non oltrepassare, e fece per sottrarsi e tornare al suo posto.

Ma Penelope non voleva che se ne andasse.

Lee vide i suoi occhi azzurri gonfi di pianto, e si rese conto di non averli mai visti così da vicino. Poi Penelope gli poggiò una mano sulla guancia, lo attirò delicatamente a sé e lo baciò sulle labbra.

Si addormentarono così, abbracciati l'uno all'altra, stremati da una marcia infinita.

Lontano, quasi in un altro mondo, il Distretto Due continuava a combattere.

 

L'alba colse Clove irrigidita e anchilosata. Non sapeva bene perché aveva deciso di passare la notte fuori, dormendo con il sedere sulla dura terra e la schiena appoggiata ad una grossa cassa: probabilmente, non aveva voglia di vedere nessuno.

Tantomeno i miei cari compagni di scudo.

C'era qualcosa, in Ares e Artemisia, che la destabilizzava profondamente. Qualcosa che non riguardava tanto la loro pericolosità – non era certo una stupida pusillanime ribelle – quanto il modo in cui si muovevano, in cui interagivano, in cui controllavano l'ambiente circostante. Qualcosa che aveva a che fare con la loro giovane età, con l'addestramento estremamente speciale a cui erano stati sottoposti e con la certezza di aver già vinto ancor prima di aver iniziato a combattere.

Allora, Clove... mi hanno detto che sei molto brava a lanciare oggetti... soprattutto se sono affilati.

Oh, Caesar... potrei colpire quel signore laggiù in fondo alla sala e staccargli l'orecchio sinistro senza che lui se ne accorga. Se vuoi ti faccio vedere.

Cori di sorpresa, grida, applausi. Le piacevano, ma non tanto quanto ad altri. Vincere, quella era sempre stata l'unica cosa che le era mai interessata.

Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.

Si alzò in piedi, stiracchiandosi e sentendo la colonna vertebrale scrocchiare rumorosamente. I due soldati di guardia nel cortile le concessero un'occhiata distratta, niente di più. 

D'altronde, quando hai Katniss Everdeen tra le grinfie tutto diventa improvvisamente secondario.

Katniss Everdeen. Uccidere Katniss Everdeen. Era quello il suo obbiettivo, giusto?

Certo che è giusto. Certo che è giusto! La vittoria era mia. Mia e di Cato. Non uno, ma ben due tributi del Distretto Due a conquistare i Settantaquattresimi Hunger Games. Il massimo della gloria per il Distretto. Il massimo della gloria per me. E nessuno, in nessun luogo e nessun tempo, avrebbe più potuto fare di meglio.

Si girò verso l'edificio dove il resto del gruppo aveva trascorso la notte. Guardò la facciata grigiastra con l'intonaco crepato intorno alle finestre, e si chiese dove fosse Katniss Everdeen.

E come uno spettro evocato dall'oltretomba, Katniss Everdeen uscì dalla porta.

Era scortata, come sempre: quattro soldati solo per lei, così vicini che quasi le toccavano le spalle. Dietro zampettava il capitano, quel povero fesso capitolino, guardando la sua preda quasi stordito, come se non riuscisse a credere di avere avuto tanta fortuna.

Nessuno sembrò rendersi conto del fatto che Clove si trovava proprio davanti a loro. Forse avevano deciso di non badarle, tirando dritto e contando sul fatto che al momento del bisogno si sarebbe tolta di mezzo; ma Clove non aveva alcuna intenzione di farsi da parte. Il suo obbiettivo era lì davanti, lei era di nuovo in grado di combattere: un'occasione del genere non si sarebbe mai più ripetuta.

L'occasione perfetta per uccidere Katniss Everdeen. 

Strinse i pugni, e sentì il tempo rallentare. L'adrenalina stava facendo il suo effetto. I muscoli entrarono in tensione, pronti a scattare. Il cervello aveva già calcolato il tempo necessario a prendere il pugnale dal fodero del soldato di destra, uccidere quello di sinistra e poi pugnalare la sua preda dritto nel cuore. Era pronta a colpire.

Poi Katniss Everdeen sollevò lo sguardo, la vide, spalancò gli occhi e si bloccò, talmente in fretta che i due soldati dietro di lei rischiarono di andare a sbatterle addosso.

Il Tributo femmina del Distretto Due e quello del Distretto Dodici si guardarono. I soldati erano immobili. Il resto del mondo era come bloccato, tagliato fuori, impossibilitato a intervenire in una questione a cui mai, in nessun modo e in nessun tempo, avrebbe potuto prendere parte.

«Clove» disse Katniss.

Era la prima volta che le sentiva pronunciare il suo nome.

«Katniss.»

«Non ho mai avuto modo di dirtelo.» I suoi occhi erano grandi, scuri, castani. Come quelli del ragazzo biondo. Come i suoi. «Mi dispiace.»

Clove si vide saltarle addosso, affondarle i denti nella gola, strapparle la vita di dosso con tutto quello che aveva a disposizione. Credeva di averlo fatto, ne era assolutamente convinta.

Poi vide che Katniss le passava accanto, e si rese conto di essersi fatta da parte.

Era tua sorella, e io l’ho uccisa.

Sì.

L’ho uccisa, e tu vuoi uccidermi.

Sì.

Arrivi tardi. L’hanno già fatto.

Mentre il sole sorgeva sul Distretto Due, Clove si rese conto che forse, nonostante ne fosse uscita indenne, celeberrima e con il suo amato tra le braccia, anche Katniss Everdeen era ancora lì, con lei, un'ombra danzante dentro l'arena dei Settantaquattresimi Hunger Games.

 

Baeley era stato convinto che avere, dopo tanto tempo, finalmente un tetto sopra la testa lo avrebbe fatto dormire come un bambino; invece, nonostante fosse riuscito a trovare addirittura un divano su cui sdraiarsi, non aveva praticamente chiuso occhio. Forse perché un pensiero che si era portato dietro fin dal Distretto Quattro ora cominciava a diventare una solida realtà: nonostante tutto il potere, la superiorità tecnologica e le armi dell'Esercito Regolare, i ribelli stavano vincendo. La guerra per Panem, iniziata in un tempo che sembrava allo stesso tempo qualche settimana prima e secoli addietro, era ormai all'ultimo atto. 

E Baeley, ancora una volta, si trovava dalla parte sbagliata della mappa.

«Molto bene, siamo tutti pronti?» disse il capitano Aber, sempre sfavillante nella sua uniforme bianca con la fusciacca rossa in vita. «Forza signori, in marcia!»

Baeley pensò che era un peccato che non ci fossero pifferi e tamburi ad accompagnare le parole del capitano. Ma in ogni caso, doveva ammettere che il suo inossidabile ottimismo aveva un che di rassicurante.

È un imbecille, ma un buon imbecille. E di questi tempi, uno prende quello che può.

La compagnia si immise di nuovo nella strada principale. La lingua d'asfalto, una volta uscita dal villaggio, avanzava dritta per una cinquantina di metri, circondata da alti abeti, per poi compiere una decisa virata a destra. Ancora una volta, la svolta era ignota.

Baeley si mise in testa alla colonna. Come il giorno prima, regnava il silenzio. Questa volta, però, Baeley percepiva qualcos'altro. Una bassa vibrazione, così evanescente da essere quasi impercettibile.

«Controllate gli alberi, ragazzi» disse ai suoi. Qualcosa non stava andando per il verso giusto. Qualcosa che aveva a che fare con le case vuote, con il vuoto pneumatico che li circondava, con il silenzio assordante tra le fronde degli abeti che avrebbe dovuto essere riempito da insetti, uccelli e altri animali.

Niente si muoveva. Sembrava un mondo finto.

Poi, da dietro la curva, sbucò fuori qualcuno.

Era avvolto da un mantello di tela brunastra, che sembrava essere stato rimediato da una serie di sacchi per alimenti. Era una figura piccola, minuta, solitaria. E stava venendo proprio contro di loro.

Aber estrasse la sua sciabola. «Soldati, linea di tiro! Per due!»

Obbedienti, metà della ventina di soldati ai comandi del capitano scattarono in posizione alla testa del gruppo, formando due file accanto a Baeley. La prima fila si inginocchiò, ed entrambe sollevarono i fucili e li puntarono contro la figura in mezzo alla strada.

«In nome della Federazione e dell'Esercito Regolare di Panem» gridò il capitano Aber. «Fermati immediatamente, o apriremo il fuoco!»

La figura continuò ad avanzare. Si tolse il cappuccio, rivelando un volto di donna e dei capelli corvini legati in due trecce. Stava dicendo qualcosa, ma troppo a bassa voce perché potesse essere udita.

«Soldati, puntare!» comandò Aber, sollevando la sciabola.

La donna non sembrò minimamente sentirlo. Metteva un passo dopo l'altro, lenta ma inesorabile.

E finalmente, Baeley poté udire cosa stava dicendo.

 

Are you, are you

coming to the tree?

They strung up a man

They say who murdered three

 

«Ultimo avvertimento!» gridò ancora Aber. «Fermati immediatamente, o parola mia ti colpiremo lì dove ti ergi!»

 

Strange things did happen here 

No stranger would it be

If we met at midnight

In the hanging tree

 

La spada di Aber rimase levata, e Baeley comprese che, nonostante tutto, ancora non riusciva ad ordinare ad un gruppo di soldati di uccidere una persona apparentemente indifesa. Ma anche se non riusciva a distinguere gli occhi della ragazza, sapeva qual era il suo sguardo. Sapeva che non si sarebbe fermata.

Baeley sollevò il fucile. 

E il bosco cominciò a cantare.

 

Are you, are you

Coming to the tree

Where the dead man called out

For his love to flee

 

Sbucarono dagli alberi, dalla strada, dai tetti delle case dietro di loro. Erano un centinaio, se non di più. E tutti stavano cantando.

 

Strange things did happen here 

No stranger would it be

If we met at midnight

In the hanging tree

 

Il capitano Aber girava freneticamente la testa, come se volesse guardare in un colpo solo tutta quella gente che aveva circondato la sua misera compagnia. Poi, resosi conto di non avere alcuna via d'uscita, abbassò la spada.

Baeley gettò a terra il fucile e sollevò le mani. Uno dopo l’altro, i suoi uomini lo seguirono.

La Terza Compagnia, Ventiduesimo Reggimento, Quinta divisione, Terzo Corpo d’Armata dell'Esercito Regolare di Panem si era appena arresa al nemico.










L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: E siamo dunque giunti, alla fine, al (in)famoso Distretto Due, che la lore vuole (o se non lo vuole, lo decido io) essere il Distretto più vicino a Capitol City: l'ultima barriera prima della Città – e del cattiverrimo Presidente Snow. E Rorke cheffà, mi direte voi? State a vedere, vi dico io. In ogni caso, sono un sacco contento di aver finalmente potuto inserire qui dentro la canzone degli Impiccati (che, inseme alla scena della diga che la accompagna, è una delle cose salvabili degli ultimi due film) che mi è sempre piaciuta un sacco. Anche se parla di gente impiccata. Questo dovrebbe dire qualcosa sui miei problemi, ma sto già scrivendo una fanfy di Hunger Games, quindi direi che non c'è bisogno di chiarirlo ulteriormente.
Stay Hungry, Stay in copertura e al prossimo capitolo!

 

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Capitolo 18
*** Il re sotto la Montagna ***




17.

Il Re sotto la Montagna

 

 

My daddy was a miner 

He’s now in the air and sun 

He’ll be with you fellow workers 

Until the battle’s won 

 

Which side are you on, boys

 Which side are you on? 

 

Don’t scab for the bosses 

Don’t listen to their lies 

Poor folks ain’t got a chance 

Unless they organize

 

Which side are you on, boys

 Which side are you on?  

 

– Natalie Merchant, Which Side Are You On

 

 

 

 

 

La donna non aveva bisogno di impartire i suoi ordini a voce alta. Senza che le fosse necessario fare alcunché, un gruppo di persone si staccò dalla folla e andò rapidamente a recuperare le armi che i soldati regolari avevano lasciato cadere.

Il capitano Aber le si avvicinò, le mani strette delicatamente intorno alla lama della sciabola.

«Capitano Scipio Aber, Terza Compagnia, Ventiduesimo Reggimento, Quinta divisione, Terzo Corpo d’Armata dell'Esercito Regolare di Panem. Con chi ho l’onore di parlare?»

Se anche la donna fosse rimasta colpita dai modi affettati del capitano, non lo diede a vedere. Accolse con un cenno del capo le sue parole e soffermò lo sguardo sull’elegante guardia dorata della spada. Il lato sinistro del suo volto era attraversato da una lunga cicatrice: qualunque cosa gliel’avesse procurata, aveva anche reso inutilizzabile l’occhio, ridotto ad una pallida e spenta imitazione di quello destro, piccolo, verde-oro ed estremamente attento. Il capitano Aber sembrò a disagio quando quell’occhio ritornò su di lui.

«Codrina Wheaterson. Guido queste persone.»

Aber guardò gli uomini e le donne dietro di lei, confuso dalla mancanza di gradi ed etichetta della sua interlocutrice. «Bene, dunque. Allora offro a voi la mia spada, come simbolo di resa formale della mia compagnia.» Con un leggero inchino, le porse la sciabola dalla parte dell’impugnatura.

«Tenetela pure» rispose Codrina, sollevando una mano. «Non è mio compito accettare la resa, sua o di chiunque altro.»

«Oh» disse Aber. Avvicinò a sé la spada, ma continuò a tenerla per la lama, incerto su come muoversi. «E di chi sarebbe, ordunque?»

«Per saperlo, dovrete venire con noi.»

«Con voi? E dove, di grazia?»

«Alla Montagna. Una volta lì, potrete decidere del vostro destino.»

Il capitano Aber si volse a guardare quel che restava dei suoi uomini, la Ghiandaia Imitatrice e i suoi due compari, gli inquietanti ragazzini con le corazze nere e i cinque ribelli.

«Bene» disse infine, impugnando la sciabola e rimettendola nel fodero. «Signorina Wheaterson, siamo nelle sue mani.»

 

Da quello che poteva capire Dan, erano ancora una volta prigionieri. A prima vista, la folla che li circondava sembrava in tutto e per tutto appartenente alla Fanteria di Linea Volontaria; ma c’era qualcosa di diverso, in ognuno di loro. Più che ad una colonna di pecore destinate al macello, somigliavano ad una colorata comitiva diretta ad una qualche festa di paese. I loro volti erano permeati di una strana energia, le loro schiene erano dritte, ogni tanto qualcuno addirittura rideva.

E sopratutto, cantavano.

 

If you love somebody enough
You’ll follow wherever they go

That’s how I got to Memphis

That’s how I got to Memphis

 

«Memphis» disse Dana. «Chissà che accidenti è, Memphis.»

«Credo sia come un penny» disse Dan. 

«Forse una città. Di prima di Panem.»

«Forse.»

 

 

If you love somebody enough

You’ll go where your heart wants to go

That’s how I got to Memphis

That’s how I got to Memphis

 

 

«Credo che non abbia importanza, in fondo» disse Lee.

«In che senso?» gli rispose Dana.

«Qualunque cosa sia stata, Memphis non esiste più. Nessuno sa dove sia. Quindi può essere in ogni luogo.»

«Casa è dov’è il tuo cuore» disse Dana.

Lee lanciò un breve sguardo a Penelope, che gli rivolse un timido sorriso. «Amen, sorella. Dov’è il tuo cuore.»

 

Impiegarono tutta la giornata ad attraversare una pianura inondata dall’acqua, molto probabilmente uno stratagemma adottato dai capitoli per rallentare l’avanzata nemica. Al tramonto, il cielo e i piccoli laghi creati dalla guerra rifrangevano le ultime luci del giorno in un’incredibile acquerello di rosso, blu, arancione e rosa, trasformando le sparute carcasse di veicoli ed edifici in strane creature di un’altra era.

Appena il sole scomparve dall’orizzonte, alla testa della colonna, una voce di donna calda e roca si levò a salutare il crepuscolo.

 

Who’s gonna dig theses graves?

Who’s gonna dig theses graves?

Somebody help me dig these graves, I can’t do it all my own

 

«Non ci credo» si lamentò Artemisia, esasperata. «Qualcuno li faccia smettere… o ci penserò io.»

La minaccia però, sortì l’effetto opposto: tutta la colonna, come fosse un’unico organismo, si unì alle parole della donna per continuare il canto.

 

Who’s gonna dig these graves?
Who’s gonna dig these graves?

Somebody help me dig these graves, I can’t do it all my own

 

«Sbaglio o improvvisamente non sembrano più tanto allegri?» disse Penelope.

«Nessuno è allegro quando deve scavare tombe» rispose Lee.

«Spero solo che non siano le nostre.»

Lee abbassò lo sguardo sulle sue scarpe rotte. «Lo spero anche io.»

 

Who’s gonna dig these graves?
Who’s gonna dig these graves?

Somebody help me dig these graves, I can’t do it all my own

 

«Arriva la notte» disse ad un tratto Dana. «Cantano per lei.»

 

Dopo mezz’ora di marcia, le terre allagate erano definitivamente alle loro spalle. Si fermarono vicino ad un gruppo di alberi, uno dei quali era stato abbattuto da un proiettile di artiglieria inesploso che aveva trapassato lo spesso tronco come fosse di seta e si era infilato nel terreno, scavando intorno a sé un cratere di un metro di diametro. Ancora una volta, senza bisogno che ci fosse bisogno di ordini, una decina di persone armate di asce si diressero al tronco e lo fecero rapidamente a pezzi. Mezz’ora dopo, un grande fuoco illuminava la notte.

 

Stranamente, nonostante fosse il momento migliore, nessuno sembrava avere voglia di mettersi a cantare. Silenziosa come uno spettro, Codrina si sedette su una roccia, tirò fuori dal mantello una spada dalla lama leggermente ricurva e la estrasse dal fodero, lasciando che le fiamme illuminassero cupamente l’acciaio.

«Una katana» disse Ares. «Non un’arma che si vede spesso in giro.»

«Non è mia» disse Codrina, che si era messa a pulire la lama con un panno. «Non completamente, almeno.»

«L’hai trovata sul campo di battaglia?»

L’occhio di Codrina fissava la lama. «Mi venne regalata, tanto tempo fa.»

«Capisco.»

«Non credo» disse Codrina, sollevando l’occhio verso il suo volto. «Sei del Distretto Tredici?»

«Certo che no» rispose d’impeto Ares, una sfumatura di disgusto nella voce.

«Chiedo scusa. L’armatura nera mi ha confuso» disse Codrina, come se avesse sbagliato ad indovinare la sua età.

«La mia lealtà va al Distretto Due» disse Ares, con una certa enfasi. «E al Presidente Snow.»

«Certamente.» Codrina sollevò la lama, osservando come le fiamme si riflettevano sulla sua superficie lucida. «Dimmi…»

«…Ares.»

«Ares. Oh, lei avrebbe gradito…»

«Lei chi?»

«Dimmi, Ares» proseguì Codrina, ignorando la domanda. «Sei mai stato nell’Arena?»

Ares parve d’un tratto a disagio. «Non ho ancora avuto quest’onore.»

«Neanch’io.» Codrina appoggiò la katana sulle gambe. «Perché trent’anni fa qualcuno andò al posto mio.»

«Oh.» Ares cercò delle parole per riempire il vuoto che si era creato dopo quell’esclamazione, ma non ci riuscì.

«Non era una combattente, ma era sveglia. Forse anche troppo. Arrivò fino alla fine: a contenderle la vittoria era rimasto solo un ragazzino del Sette, a cui uno dei Favoriti aveva praticamente staccato un braccio. Era fatta. Ma lei non voleva uccidere un innocente.» Codrina sollevò la spada e la puntò contro Ares. «Guardò verso le telecamere, mi disse addio e si gettò su questa spada. Morì, piuttosto che venire meno ai suoi principi.»

«È stata una buona morte» disse Ares, che non si aspettava di rispondere a quel modo.

Lo sguardo di Codrina si indurì di scatto, ed Ares fu sicuro che l’avrebbe colpito; poi però parve sovvenirle una sorta di incredibile, nostalgica tristezza, che le fece abbassare la lama e sollevare l’occhio verso il cielo. «Per lei forse lo fu. Non l’ho mai veramente capito. Anche adesso, a trent’anni di distanza, mi chiedo se non fosse quello il suo unico scopo. Una morte nobile, un guanto di sfida lanciato alla tirannia, all’oppressione e al folle massacro dell’innocenza.» Lo sguardo cadde dal cielo e andò a morire sul fuoco. «Ci sono notti in cui ancora non la perdono.»   

Ares restò in silenzio. A tradimento, senza che avesse il tempo di difendersi da quell’intrusione, venne colto dal pensiero che se lui fosse stato scelto per gli Hunger Games nessuno si sarebbe offerto volontario per salvarlo. Forse sarebbe stato risparmiato, questo sì, ma solo perché qualche altro aspirante Tributo l’avrebbe scavalcato per andare al posto suo. 

«Venne il Presidente Snow in persona a consegnarmi la sua spada. Una sua qualche perversa punizione, suppongo. O forse, in qualche remota parte dentro di lui, era rimasto sinceramente ammirato da quell’atto di suprema abnegazione.»

«Combatti per lei?» disse Ares, che ancora non riusciva a capire da dove gli venissero quelle parole.

Codrina rimase in silenzio. «A volte» disse infine. «Quel che è certo, è che non la dimenticherò mai.»

Trascorse qualche minuto, in cui l’unico rumore erano gli schiocchi della legna ardente. Poi, Codrina si alzò in piedi, l’occhio puntato su qualcosa oltre la spalla destra di Ares.

«Sta arrivando.»

Ares si girò per seguire lo sguardo della donna. «Che cosa?»

Il rumore di un hovercraft in arrivo cominciò a spandersi intorno al falò.

«La vostra via per la Montagna.»

 

Con una leggiadria sorprendente per la sua stazza, l’hovercraft si poggiò delicatamente a terra, mentre la rampa posteriore si apriva per permettere l’entrata dei passeggeri. Il capitano Aber salutò con un rigido saluto militare Codrina, che rispose con un cenno del capo; poi la Terza Compagnia e i suoi ex prigionieri si imbarcarono, diretti verso la Montagna. Dove, a quanto pareva, sarebbero stati in grado di decidere il proprio destino.

 

La Montagna era il centro nevralgico del Distretto Due, un massiccio di roccia rinforzato da acciaio, cemento, carbonio e quanto servisse a renderla una base minacciosa da osservare e impossible da conquistare. Lì erano ammassati i principali armamenti dell’Esercito Regolare, lì venivano sviluppati i nuovi progetti militari, lì erano addestrati gli ufficiali e i corpi speciali: era il verbo furente di Panem fatto roccia, un’inespugnabile fortezza che aveva retto agli anni terribili della prima rivolta. Niente sembrava indicare che la cosa fosse cambiata: non c’erano segni di proiettili d’artiglieria sui suoi fianchi scoscesi, niente fumo che fuoriusciva dalle feritoie dei bunker e dalle terrazze dove erano posizionate le batterie di antiaerea e l’artiglieria a lungo raggio. 

«Non sembra neanche si sia combattuto, qui» disse il capitano Aber, guardando attraverso l’oblò dell’hovercraft.

«Forse è quello che è successo» rispose Baeley.

Aber si voltò di scatto verso di lui. «Come dite? Osate forse affermare che la Montagna si sia arresa senza combattere? È semplicemente inaudito!»

«Arrendersi non è disonorevole, se è impossibile proseguire la lotta» disse Ayla. «Voi stesso l’avete fatto.»

Il capitano Aber la fulminò con lo sguardo. Stava per replicare, quando una voce si diffuse in tutto l’abitacolo. 

«Signori, siamo in arrivo alla Montagna. Tra breve potrete sbarcare. Restate seduti mentre viene eseguita la manovra d’atterraggio.»

«Mai sentito un pilota più cortese» disse Baeley.

«La guerra è finita dentro la Montagna» commentò Dana. Quando si accorse dello sguardo perplesso che Dan e Lee avevano puntato su di lei, fece spallucce. «È un’impressione.»

«Sii meno inquietante quando esprimi le tue opinioni, per favore» disse Lee.

«Con tutto quello che c’è fuori tu hai paura di me?»

«Assolutamente sì.»

Dana assottigliò lo sguardo e tirò su una faccia scioccamente minacciosa. «Fai bene.»

Lee iniziò a ridere; appena i suoi occhi incrociarono quelli di Artemisia. però, smise immediatamente.

Con un sobbalzo, l’hovercraft toccò terra. Immediatamente dopo, il ronzio dei pistoni idraulici segnalò l’apertura del portellone.

Un refolo di aria fredda si infilò all’interno dell’hovercraft. Dan non poté fare a meno di rabbrividire.

Lì fuori, la Montagna era in attesa.

 

 

Quando aveva sentito parlare della Montagna, Ayla si era immaginata un labirinto di cunicoli non dissimile dal Giacimento del Distretto Dodici – una ragnatela di gallerie scavata nella roccia e illuminata da una cieca luce biancastra dei riflettori – quando andava bene – e da quella arancione e flebile delle lanterne, quando andava male –; invece, nella Montagna di roccia non ce n’era neanche l’ombra. Tutto era ricoperto da paratie d’acciaio, infinite tubature e portelloni a tenuta stagna: ovunque si guardasse, il segno del potere di quel luogo era inequivocabile. Eppure, mentre avanzavano sempre più all’interno del ventre della bestia, Ayla cominciava a scorgere segni che qualcosa, effettivamente, aveva ferito una creatura dall’apparenza così invincibile.

«Qualcuno ha combattuto» disse Baeley, che a quanto pare stava pensando la stessa cosa. «Quelli sono fori di proiettile.»

«Evidentemente deve esserci stata una rivolta interna.»

«Eppure non sembrano essere dei vostri.»

Ayla diede un’occhiata al distintivo di stoffa che i soldati che li scortavano avevano al braccio: giallo con un triangolo nero al centro. Che lei sapesse, nessuno nell’esercito ribelle portava quel simbolo. «Così pare.»

«Non preoccupatevi» disse il soldato della Montagna accanto a loro. «Presto vi sarà tutto chiaro.»

Ayla sbuffò ironicamente dal naso. «Sarebbe la prima volta.»

 

Il centro comandi della Montagna era una stanza imponente dalla pianta circolare, al centro della quale era posizionato un grande e cilindrico tavolo tattico. Almeno una mezza dozzina di soldati con il distintivo della montagna erano indaffarati attorno al tavolo, sulla superficie del quale si intravedeva una mappa tridimensionale con le posizioni delle divisioni dell’Esercito Regolare, in bianco, e di quello ribelle, in nero.

Il centro aveva un’aria decisamente più trascurata di quando c’era stata l’ultima volta, fu l’impressione di Clove. Allora era ancora una studentessa dell’Accademia.

Prima dei Giochi. La mia vecchia vita.

Uno strano sentimento si impossessò di lei al sentire quelle parole riecheggiare nella sua testa. Vecchia vita. C’era qualcosa che la metteva profondamente a disagio, al riguardo. Nostalgia? Rimpianto? 

Risentimento?

Il suo sguardo venne attirato da una presenza quantomai singolare: ad una decina di metri da lei, dentro quello che pareva uno squarcio del pavimento causato da una bomba, qualcuno aveva piantato un albero. Clove seguì la curva del tronco e la nube verde creata dalle foglie. Sembrava quasi che fosse nato lì, cresciuto come una pianta d’edera nel cemento spaccato.

«Ti piace?»

Clove si voltò di scatto, la mano alla cintura. Un uomo anziano la osservava, un lieve sorriso enigmatico dipinto sul volto.

«L’ho fatto portare io dai giardini dei quartieri superiori. Credo sia un buon messaggio di speranza.»

Clove sgranò gli occhi. «Tu.»

Pavlov fece un piccolo cenno con la testa. «Salute anche a te.»

Gli uomini di scorta scattarono sull’attenti. «Signore» disse uno di loro. «L’ultimo carico, signore.»

«Berio, quante volte ti ho detto di smettere di chiamare in questo modo i nuovi arrivati?»

«…molte, signore. Scusi, signore.»

«Tranquillo, sono sicuro che i nostri ospiti non si sono offesi. In confronto a quello che c’è là fuori, il tuo è stato un gran complimento.»

«Suppongo— sì, signore.»

«Bene.» Pavlov staccò una mano da dietro la schiena e indicò una delle porte della sala. «Se volete essere così gentili da seguirmi, vi mostrerò tutto quello che c’è da sapere sulla Montagna… e quello che adesso rappresenta.»

 

 

Per quanto le riguardava, Clove non aveva alcun interesse a sapere che cosa accidenti rappresentasse la Montagna: i ribelli ne avevano preso il controllo – probabilmente con qualche stratagemma ingannevole e codardo – e questo le bastava. Nonostante le maniere gentili, però, Pavlov non aveva fornito loro alcuna opzione diversa dal seguirlo. Regolari, ribelli, IEROS e persino la stramaledetta Ghiandaia gli andavano dietro come cuccioli obbedienti, tallonati dai fucili dei soldati della Montagna.

Pavlov li condusse in una stanza dalle pareti grigio chiare, dove una serie di luci biancastre toglievano qualunque ombra da un ambiente completamente sgombro, ad eccezione di un tavolo in mezzo alla stanza. Sopra di esso, un portaprovette reggeva cinque fiale di vetro piene di un denso liquido rosso.

E dietro di loro, dritto come un fuso, c’era Cato.

Clove si bloccò. Ares, dietro di lei, finì per sbatterle addosso.

«Che ci fa lui qui?» ringhiò Artemisia.

«Non ne ho idea» disse Ares. «Ma non può essere un caso.»

«Molto bene, signori» annunciò Pavlov. «Mettetevi pure comodi.»

Clove sollevò le sopracciglia. In quella stanza non c’era neanche una sedia, figurarsi qualcosa sul quale mettersi comodi.

I prigionieri – anzi, i nuovi arrivati – si disposero in un gruppo informe che ricordava molto una galassia a spirale. Clove si tenne dietro, quasi nascondendosi dietro la mole di Ares. Non sapeva perché, ma temeva che Cato la vedesse.

Pavlov si portò vicino al tavolo e intrecciò le dita dietro la schiena. «Immagino che tutti voi vi stiate chiedendo qual’è la nostra parte in questa guerra. Coloro di voi che combattono per il presidente Snow ci avranno sicuramente identificati come nemici, visto che abbiamo preso il controllo della loro base più importante; gli altri, invece, si chiedono come mai non sono ancora stati slegati, visto che, avendo combattuto contro l’Esercito Regolare, dovremmo essere alleati. La risposta, come sempre, sta nel mezzo: noi non stiamo né con i ribelli né con Capitol City. Noi siamo la Montagna. E la Montagna è superiore a questa vile e desolante guerra.»

Clove osservò l’espressione di Cato. Guardava dritto davanti a sé, senza alcuna traccia di emozione sul volto. Non sembrava quasi rendersi conto che ci fossero altre persone dentro la stanza.

«In un mondo che sembra non conoscere alternative tra bianco e nero, noi siamo il grigio che spezza le catene. Perché la Montagna non è altro che questo: una libera scelta. Ed è proprio ad una scelta che sarete chiamati.» Pavlov indicò il liquido scuro nelle provette. «Questo che vedete è un siero sperimentale. Era stato creato da Capitol City per svuotare la testa, cancellare ricordi che poi sarebbero stati sostituiti con finte memorie. Uno degli infiniti, mefistofelici trucchi del Presidente per piegare la gente al proprio volere. Ma nelle nostre mani, è ora uno strumento di liberazione.»

«Volete resettarci il cervello?» chiese uno dei soldati in divisa bianca.

«Certo che no» rispose Pavlov. «La questione è semplice. Di fronte a voi avete una scelta: rimanere qui, nel caldo abbraccio della Montagna, e dimenticare tutto il male che c’è là fuori; oppure scegliere di ritornare nei vostri ranghi, qualunque essi siano, a pregare per una morte rapida e misericordiosa. Nel secondo caso, però, saremo costretti a cancellare ogni ricordo della vostra permanenza qui. Per evitare… spiacevoli incomprensioni.»

Il silenzio cadde nella sala immacolata. Clove poteva avvertire l’impercettibile ronzio dell’impianto del riciclo dell’aria. Quanto a Cato, sembrava quasi non battere le palpebre.

«Nient’altro, miei gentili ospiti» concluse Pavlov. «Avete fino a domattina per decidere: fino ad allora, sarete confinati nei nostri quartieri di detenzione. È un po’ spiacevole, mi rendo conto, ma credo che rispetto a quello che avete passato fino ad adesso un po’ di riposo, con un tetto sopra la testa per giunta, non vi sarà poi così d’impiccio.»

Pavlov non disse altro. Senza bisogno di ordini, le guardie spinsero il gruppo di prigionieri fuori da una porta laterale, poi giù per un corridoio e, dopo un’altra porta, ai loro confortevoli alloggi.

Pavlov non aveva tutti i torti, pensò Clove mentre un soldato la spingeva dentro una piccola cella dalle pareti lisce e grigie: rispetto alle macerie e ai rottami dove aveva dormito fino a quel momento, quello era senz’altro un miglioramento.

Si sedette a terra, appoggiò le spalle alla parete e lasciò lentamente uscire l’aria dai polmoni.

Subito dopo, si rese conto che il ragazzo biondo la stava guardando.

Tra tutti i dirimpettai… quando si dice il caso.

Tirò su un ginocchio, cercando di assumere un’aria sprezzante e stravaccata; ma le labbra si rifiutavano di collaborare e la testa sembrava incapace di concepire qualunque espressione la potesse aiutare a sentirsi in controllo della situazione. Si rese conto di essere incredibilmente stanca, e che quello sguardo addosso cominciava a darle veramente fastidio.

«Che cazzo vuoi» gli sputò contro.

Davvero feroce. Complimenti.

Il ragazzo non parve neanche aver registrato le parole. Continuò a guardarla, lo sguardo vuoto, finché le sue labbra non si dischiusero.

«Chi si vede, Sconfitta.»

Quelle parole sembravano così fuori luogo – il fatto stesso che le parlasse era così fuori luogo – che Clove credette di essersele immaginate.

«Chi si vede, Sconfitto.»

Cosa cazzo ho appena detto?

«Credo sia la prima volta che mi stai davanti e non sto cercando di ucciderti.»

«Cercando è la parola giusta.»

Clove non riusciva a crederci. Quel dialogo era così surreale che doveva per forza trattarsi di un sogno. Eppure lei era lì, a sentirsi dire cose che sembravano uscire da una parte di lei su cui non aveva alcun controllo. E lui era di là, a qualche metro di distanza… a fare conversazione.

Il ragazzo parve avere lo stesso tipo di pensiero, perché si irrigidì come se avesse appena preso un colpo di spada alla schiena. Si allontanò dalle sbarre, le voltò la schiena e si sdraiò sul materasso steso sul pavimento della cella.

Clove lo osservò farsi immobile, come se volesse mimetizzarsi con il grigio scuro delle pareti. «Certo è buffo» si sentì dire. «Per due volte hai cercato di uccidermi, e ancora non so il tuo nome.»

Il ragazzo non rispose. Clove attese per un po’, poi decise che avrebbe seguito il suo esempio e si sdraiò sul materasso.

Proprio mentre stava per chiudere gli occhi, una voce le giunse dall’altra cella.

«Dan. Mi chiamo Dan.»

 

 










 


L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Un altro capitolo, un altro pezzo di strada per arrivare a Capitol City. Che potrebbe anche essere la nostra Memphis, se non ci fosse una guerra di mezzo. In ogni caso, ci tenevo a farvi sapere che il personaggio di Codrina Weatherson (il cui dialogo con Ares è forse il mio pezzo preferito di tutta questa sbarellante fanfy) non è precisamente farina del mio sacco, ma un cameo che ho deciso di inserire – senza chiedere alcun permesso all'autrice, perché sono un lestofante – per omaggiare la storia da cui la vera Codrina è tratta: si chiama "Sorelle di Sangue" e la potete trovare qui. Se volete leggere una bella storia di amore fraterno, combattimenti urbani, fanciulle con gran cervello e altre meraviglie, sapete dove andare. In più, potrete osservare come nelle recensioni io perda quel poco di dignità che ancora mi restava. Era destino, d'altronde.
E mentre Clove e Dan – che fanno amicizia rivangando i bei vecchi tempi in cui cercavano di ammazzarsi a vicenda – scivolano tra le braccia di Morfeo, non mi resta che augurarvi buona fortuna, ricordarvi di allacciarvi bene l'elmetto e sperare di rivederci alla prossima!
Tante care cose, e a presto!


 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 19
*** Strane serate di un altro domani ***


18.
Strane serate di un altro domani

 

 

 

So if you're crazy, I don't care, you amaze me

But you're a stupid girl, oh me, oh my, you talk

I die, you smile, you laugh, I cry

And only a girl like you could be lonely

And it's a crying shame, if you would think the same

A boy like me's just irresistible

 

– The Fratellis, Whistle For The Choir

 

 

 

 

Fu un frullo d'ali a risvegliarlo. 

Dan sollevò la testa dal cuscino e guardò fuori dalla finestra della sua camera. Fuori, il crepuscolo persisteva negli ultimi momenti di luce prima di cedere finalmente il passo alla sera.

Si stiracchiò con pigra lentezza, lasciando che le vertebre scrocchiassero una per una. Si alzò, raggiunse la finestra e si affacciò. Il profumo della siepe di gelsomino che separava il suo giardino da quello degli Harper lo salutò con la cortesia di una vecchia amica. 

Seduto su una poltrona di vimini, un libro abbandonato in grembo e un bicchiere di tè freddo in mano, John Harper lo salutò dalla veranda di casa sua.

Mentre ricambiava il saluto, Dan provò una strana fitta di malinconia. Confuso da quella reazione apparentemente immotivata della propria anima, si allontanò dalla finestra e uscì da camera sua. Nel corridoio risuonava l'eco di una canzone proveniente dal piano di sotto.

 

 

I had a dream last night

I dreamt that I was swimming

And the stars up above

Directionless and drifting

And somewhere in the dark

Were the sirens and the thunder

And around me as I swam

The drifters who'd gone under

 

Dan scese le scale e si diresse verso il salotto. Si sorprese ad avanzare con circospezione, come se temesse di spaventare qualcuno. Arrivato allo stipite dell'apertura che dal corridoio conduceva in salotto, si fermò. Aveva la forte impressione che qualcosa di oscuro stesse cercando di tirarlo indietro. Si rese conto che non ricordava nulla di quanto successo prima di addormentarsi, e sentì l'eco di un lontano spavento accarezzargli lo sterno. Ma prima che potesse chiedersi perché, tutto sparì come se non fosse mai successo.

 

Time, love

Time, love

It's only a change of time 

 

Dan si affacciò nel salotto. 

Seduta sul divano, intenta a muovere due ferri d'acciaio per creare una sciarpa, Rose Martin sollevò lo sguardo su di lui e sospirò.

«No, mi spiace, non ho cambiato idea.»

Questa volta la fitta fu quasi dolorosa. Stupito e in parte anche un po' spaventato, Dan si portò una mano al petto. 

«Ehi» disse Rose, abbassando i ferri e aggrottando le sopracciglia. «Tutto bene?»

«Sì, io – credo di sì.» Dan si sentiva la bocca impastata, come se non parlasse da giorni – da anni, addirittura. «Mi sono appisolato.»

«Lo vedo» replicò Rose, adocchiando i suoi capelli arruffati. «Non hai proprio l'aria di uno che deve andare a una festa.»

Dan la guardò stranito. «Festa?»

Rose inclinò la testa, scrutandolo con aria clinica. «Sei sicuro di star bene?»

«Sì, scusami. Mi sento un po' strano. Mi sa che ho avuto un incubo.»

«Ah. Mi dispiace.» Rose poggiò i ferri con l'embrione di sciarpa attaccato a uno di essi e si alzò dal divano. «Senti, se proprio ci tieni vengo. Ma non giudicarmi se dopo dieci minuti voglio scappare via.»

«Sì» disse Dan, con un'intensità che lo stupì. «Ci terrei.»

«Ok, va bene. Allora io... vado a cambiarmi, sì.» Rose fece qualche passo verso le scale, poi si fermò. «Lee ha detto che dovrebbe essere qui tra una decina di minuti. Dovrebbero bastarmi, spero.»

Rose sparì al piano di sopra. Dan rimase impalato nel soggiorno, poi decise che sarebbe andato in giardino. Non sapeva perché, ma avvertiva il bisogno di sentire di nuovo l'odore della siepe di gelsomino.

Ritornò verso le scale, passò alla loro destra ed entrò in cucina. Si rese conto che stava morendo di sete. Andò al rubinetto, sollevò la maniglia e rimase a guardare l'acqua scorrere, come se fosse la prima volta che compiva un gesto del genere. Mentre continuava a guardare il getto d'acqua colpire la superficie d'acciaio dell'acquaio, aprì la credenza sopra il lavandino, prese un bicchiere e lo riempì. Bevve in maniera scomposta, stupendosi della propria foga. Era come se fosse appena tornato da settimane di camminata nel deserto. Qualunque incubo la sua mente aveva prodotto, doveva essere stato piuttosto intenso.

Aprì la porta della veranda, e un leggero venticello di inizio estate penetrò sotto la sua maglietta. Sopra gli alberi che sorgevano poco oltre lo steccato in fondo al giardino, il cielo era un tripudio di viola, rosa, azzurro e arancione.

«Danny-dan... che accidenti hai fatto ai capelli?»

Sua madre si alzò dal divanetto e si avvicinò con fare risoluto, lasciando suo marito seduto a leggere un libro.

«Dove credi di andare conciato così? Capisco che il look trasandato abbia il suo fascino, ma fino ad un certo punto...»

Dan provò l'impulso di lamentarsi mentre sua madre cercava disperatamente di fargli un'acconciatura che potesse considerarsi socialmente accettabile, ma non lo fece. Rimase in silenzio, osservando le falene danzare intorno alla lanterna che illuminava con luce morbida e calda la veranda. 

Suo padre lo scrutò da sopra la copertina del libro. «Tutto bene, Dan?»

Lui ci mise un po' per rispondere. «Credo di sì. Non so... mi sento un po' strano.»

«Non stento a crederlo, visto che stai sopportando le torture di tua madre senza battere ciglio.»

«Oh, piantala, Adam» ribatté la signora Martin. «Tuo figlio mi ringrazierà, fidati. Ci sarà anche quella ragazza alla festa, vero?»

«Che ragazza?»

«Va bene, ho capito, non vuoi parlare con i tuoi vecchi» sospirò sua madre. «Mi sembra anche giusto, d'altronde.» Finì di sistemargli i capelli e arretrò di un passo. «Mmh... direi che ci siamo. Puoi andare.»

«Grazie, mamma» rispose lui. Sentiva che avrebbe voluto aggiungere altro, ma articolare le parole gli risultava difficile come cercare di stringere il pulviscolo tra le dita. 

«Figurati, tesoro» rispose lei, dandogli un buffetto sulla guancia. «Uh, questo dev'essere Lee» aggiunse, sentendo il suono del campanello. «Beh, cosa aspetti? Vai!»

Dan si rese conto che quelle parole erano dirette a lui. «Oh, certo, vado.»

«Sicuro di star bene, Dan?» disse sua madre, scrutandolo con cipiglio da infermiera. «Potrebbe essere quell'influenza estiva che gira...»

«No, sto bene. Davvero.»

Suo padre gli lanciò uno strano sguardo. Sembrò sul punto di dire qualcosa; ma la signora Martin lo interruppe.

«E allora vai, su! E non fare troppo tardi, mi raccomando. Ma neanche troppo presto. Rientra al giusto orario, insomma.»

«Certo, mamma.»

Dan guardò suo padre, in attesa di quelle parole che era stato sul punto di pronunciare. ma lui era già sparito dentro il libro, trasportato in qualche luogo lontano dove non poteva più sentirlo.

 

Dan andò alla porta aspettandosi di trovare Lee; ma al posto del suo amico, ad attendere sul marciapiede c'era una ragazzina con una treccia bionda e un bianco vestito a fiori.

«Tu devi essere Dan.»

Dan annuì. Scrutò il suo volto, mentre la sensazione di doversi ricordare qualcosa gli pizzicava la nuca. «Ci siamo già visti da qualche parte?»

«Più o meno tutti hanno visto tutti, da queste parti» rispose lei. «Mi chiamo Dana, comunque. Sono un'amica di Rose. O meglio, credo. Voglio dire, spero che lei mi consideri come tale, perché per me lo è—»

«Sì, Dana, per l'ennesima volta – sei mia amica.»

Rose era comparsa alle spalle di Dan. Si era messa le sue vecchie scarpe di tela, ma il vestito nero che portava tradiva un certo desiderio di essere adatta all'occasione. Guardò verso sinistra, e fece un cenno di saluto. Qualche metro più in là, Lee chiuse il cancelletto di casa sua e si avviò di gran carriera verso di loro.

«Signori – e signore, buonasera.» Lo sguardo di Lee saettò divertito su Rose. «Non mi dire che ti ha convinto.»

«Ebbene sì. Ma ho negoziato di potermene andare quando voglio.»

«Oh, vedrai» ridacchiò lui. «La festa di stasera non è roba di tutti i giorni. Vieni anche tu?» aggiunse, rivolto a Dana.

«Sì» rispose Rose per lei. «L'ho invitata io. Così avrò qualcuno con cui parlare quando voi maschi alfa andrete in giro a rimorchiare.»

«Tu ci sopravvaluti, cara Rose» disse Lee. «Io e tuo fratello danziamo continuamente sul tagliente filo che separa i penultimi dai reietti sociali.»  

«Penelope O'Brian non sembra pensarla a questo modo.»

«Cos – intendi Penelope O'Brian del Club di Scienze?»

«Proprio lei. Sono settimane che aspetta che tu le chieda di uscire.»

«Ma come – tu come fai...?»

«Osservo, mio caro.»

Lee si schiarì rumorosamente la gola. «Ok, ehm – buono a sapersi. E... per caso, ehm – credi che lei ci sarà... non per – insomma, chiedo solo—»

«Non voglio certo rovinarti certo la sorpresa, vecchio mio.»

«Dan, vuoi dire qualcosa a tua sorella per favore?»

Dan guardò i due con aria confusa. Sembrava come se qualcosa gli pesasse sulla testa, impedendogli di pensare lucidamente.

«Scusate, non vi seguo.»

Lee gli lanciò un'occhiata preoccupata. «Tutto ok? Ti vedo un po' strano.»

«Oggi pomeriggio si è addormentato» disse Rose. «È da quando si è svegliato che è così.»

«Ah, capisco. Brutta storia, i pisolini. Se passi la mezz'ora di sonno sei fregato.»

«Sognare di giorno non è mai una buona idea» disse Dana. «Sono quasi sempre incubi.»

Dan la guardò. Non sapeva perché, ma le sue parole sembravano più chiare rispetto a quelle degli altri due, come se venissero trasmesse su un canale sintonizzato meglio rispetto a quello degli altri.

«Credo di aver sognato» disse. «Ma non ricordo cosa.»

«Beh, meglio così» disse Lee. «A giudicare da come stai messo, non doveva essere un bel sogno.»

Dan osservava la treccia con cui Rose aveva legato i suoi capelli. Non si era mai reso conto quanto i suoi capelli castani tendessero al rosso.

«No, infatti.»

 

I quattro uscirono dalla Decima Strada e svoltarono a sinistra, diretti verso la Quarta.

«Qualcuno conosce il tipo della festa?» chiese Rose. 

«Odair, intendi?» replicò Lee. «Di vista. Per essere uno delle prime strade, è abbastanza a posto. E poi casa sua è una gran figata. C'è anche un sentiero che porta dritto al Pontile delle Luminarie...»

«Ovviamente» commentò Dana.

«Ho sentito che ci sarà Katniss Everdeen» disse Lee. 

«Lo spero» replicò Rose. «Ma lo vedo difficile. Non mi pare un animale da festa. E poi, con questa storia della borsa di studio ha già parecchi riflettori puntati addosso...»

«Borsa di studio?» chiese Dan.

Rose gli scoccò un'occhiata perplessa. «Mi pare che ci fossi, al Raccolto.» 

Lee sospirò. «Smettila di chiamarlo Raccolto

«Beh, ma è quello che è. Una baracconata che con la scusa di premiare il merito fa avanzare sempre i soliti. Che cosa se ne dovrebbero fare i ricconi delle prime strade della borsa di studio per il Capitol College? Eppure, casualmente, quasi sempre è uno di loro a ottenerla.»

«Oh, piantala... stasera è vietato borbottare.»

«Non è questione di borbottare, ma—»

«Sh-sh» la interruppe Lee. «Ne riparleremo quando sarai Presidente. Per ora, rilassati e goditi il momento.» Inspirò profondamente, poi buttò fuori l'aria con grande soddisfazione. «L'inizio dell'estate. Quando ancora il sole non scioglie l'asfalto e tutti sono ancora convinti che queste saranno le migliori vacanze di sempre. Esiste un periodo migliore?»

«Sei sempre così allegro?» gli chiese Dana.

«Mi tocca, devo compensare i fratelli Musolungo...»

«Ehi!» protestò Rose.

Ancora una volta, Dan ebbe la netta sensazione che avrebbe dovuto dire qualcosa. Come se, da qualche parte, esistesse un altro Dan che, al suo posto, avrebbe fatto esattamente quello. 

Guardò la strada sgombra, le case che iniziavano a punteggiarsi di luci e le prime stelle che cominciavano a fare capolino nel cielo della sera.

E seppe che, almeno per lui, non c'era altro da aggiungere.

 

La casa – anche se chiamarla casa era alquanto riduttivo, viste le sue dimensioni – di Finnick Odair era in fondo alla Quarta Strada, proprio sul ciglio della scogliera che dava sul mare. Per questo motivo, e per il fatto che i suoi genitori erano spesso assenti nei finesettimana, era il luogo preferito dai ragazzi del quartiere quando si trattava di organizzare una festa.

Finnick era sull'ingresso, appoggiato allo stipite della porta con un bicchiere di plastica in mano, impegnato a parlare con una ragazza minuta dai capelli biondi talmente chiari da sembrare quasi argentati. Vedendoli arrivare fece un sorriso di smagliante complicità, sollevando il bicchiere in cenno di saluto.

«Benvenuti, benvenuti» disse quando furono abbastanza vicini. «Gli Odair vi offrono la loro umile dimora. Dentro c'è da bere... e da mangiare, credo. Nessuno mi chiede mai se c'è da mangiare. Oh, e se riescono a non farmi saltare la luce anche questa volta, Penny e la sua nuova band dovrebbero suonare in giardino.»

Lee dischiuse la bocca in maniera particolarmente idiota. «Penny non è Penelope O'Brian, vero?»

«Nuova?» chiese Rose. «Ne ha messa su un'altra?»

Finnick fece spallucce. «A quanto ho capito. Ha tirato dentro una della Nona Strada e addirittura uno  della Seconda. Ora si chiamano... non ne ho la più pallida idea.»

«Penelope O'Brian ha una band?» disse esterrefatto Lee.

«Beh, signori, direi che questo è tutto» li esortò Finnick. «Andate, divertitevi e state attenti nel moltiplicarvi, se potete.» Prese qualcosa dalla tasca della camicia e la porse a Dana. «Zuccherino?»

 

Il vasto salone subito dopo l'ingresso traboccava di persone provenienti da tutte le Strade, stravaccate sui preziosi divani, ammucchiate intorno a fragili suppellettili e, in certi casi, anche sdraiati sul lungo tavolo posizionato di fronte alla vetrata panoramica che dava sul mare.

«Ok, bella festa» disse Rose, con una strana vocetta acuta. «Posso andare a casa adesso?»

«Io passerei dal giardino prima» propose Dana.

«Giusto» approvò Lee. «Giardino. Sì. Il giardino è molto importante. Le aiuole, le fontane – cose belle.»

Rose gli lanciò un'occhiata esasperata, poi sospirò. «Va bene. Andiamo a vedere se Penny riesce a non far saltare la corrente.»

Mentre gli altri si preparavano ad affrontare il viaggio per arrivare in giardino – che, viste le dimensioni della villa, si prospettava non poco impegnativo –, Dan riconobbe il fratello di Lee appoggiato a una parete, vicino ad un tavolo da biliardo dove due ragazzi e una ragazza sembravano così impegnati in una partita da dare l'impressione che in palio ci fossero le loro stesse vite.

«Ora vedrai, Hawthorne» disse la ragazza.

«Tu che spacchi il tavolo da biliardo?» rispose il ragazzo interpellato.

«Io che faccio nere le tue chiappette da Ultima Strada.»

«Non era un'amichevole questa?» fece il terzo ragazzo.

«Niente è amichevole quando si tratta di bilardo» sentenziò la ragazza.

«E questa, mio caro Peeta, è una povera vittima di ipercompetizione compulsiva...»

«Zitto e gioca, Hawthorne.»


«John?» disse Dan quando fu vicino al fratello di Lee. Pronunciò il suo nome con voce incerta,  come se non fosse sicuro che quello fosse veramente il suo nome.

«Ehilà. Bella serata, eh?»

«Suppongo di sì.»

John lo soppesò con lo sguardo. «È strano, Dan. Se non ti conoscessi, direi che non ti piace essere qui.»

«In che senso qui?» disse lui d'impulso.

John lo guardò stranito. «Qui alla festa. Nel senso che hai l'aria un po' frastornata, come il sottoscritto quando è di fronte a più di tre persone. Se ti ho offeso non—»

«No, figurati. Ho solo... ho dormito troppo, oggi.»

«Oh. Capisco. Mi dispiace, non è piacevole quando succede.»

Dan rimase in silenzio. Sentiva che c'erano un milione di cose che avrebbe voluto chiedergli; ma erano domande che avvertiva lontane, come se provenissero da un luogo remoto di cui lui aveva scarsa se non nulla comprensione. 

«Ehi» disse alla fine John, «ho sentito che hai mollato il Club di Scherma. Mi dispiace, ma immagino che avessi i tuoi motivi.»

«Già» si sentì rispondere Dan.

«Beh, se sentissi il bisogno di qualcosa un po' più riflessivo, puoi sempre passare al Club degli Scacchi. Certo, non è un'esperienza che puoi rivenderti alle feste, ma è una di quelle cose che ti aprono la testa. E poi il professor Rorke ha una mente davvero geniale... anche se ogni tanto è un po' strano. Ma suppongo che sia inevitabile, per quelli come lui.»

«Oh, ti ringrazio... ma gli scacchi mi sono sempre sembrati troppo complicati.»

«Beh, è per questo che si impara.»

«Anche questo è vero.»

John si staccò dal muro. «Beh, tu pensaci. Io intanto vado a rifornirmi di... qualunque cosa stia bevendo. Credo sia aranciata, ma conoscendo Finnick ci sarà sicuramente dentro della Vodka.

Dan salutò John e lo vide sparire zoppicando in mezzo alla folla. Ritrovatosi solo, ebbe l'impressione che tutti i rumori si fondessero in un unico, basso mormorio ovattato, e che le persone intorno a lui non fossero veramente lì, presenti con la loro carne e le loro ossa, ma fossero semplicemente delle proiezioni impalpabili, impossibili da toccare. 

Per scacciare l'angosciante sensazione di vuoto che si stava espandendo dentro di lui, Dan decise di raggiungere gli altri in giardino. Abbandonò il salone, percorse un lungo corridoio e si ritrovò in un altra sala, un po' più piccola della precedente ma abbastanza grande da contenere una zona cucina, un tavolo da poker, un megaschermo di parecchi metri di diametro e una vasca idromassaggio là dove un'altra vetrata panoramica, ovviamente rivolta verso il mare, faceva angolo. 

«Marvel? Marvel!» gridava una ragazza bionda in bikini, saltellando dall'impazienza dentro la vasca. «Serve altro champagne!»

Un ragazzo seduto al tavolo da poker alzò lo sguardo dalle proprie carte e le scoccò un'occhiataccia. «E allora vattelo a prendere!» le gridò di rimando.

«Ma non ho voglia!»

«E io sì invece?»

Dan si lasciò il loro battibecco alle spalle e uscì fuori in giardino. Mentre setacciava la variopinta moltitudine sparsa fra l'erba e i cespugli aromatici, il fischio acuto di un amplificatore proveniente da un gazebo sulla destra assordò per un momento tutti i presenti.

«Scusate, scusate» disse una ragazza bionda, girando una manopola sulla propria chitarra elettrica. Scambiò uno sguardo con i suoi due compari, una al basso e l'altro alla batteria. «Ok, direi che ci siamo.» Appoggiò il palmo della mano destra alle corde e cominciò a muovere rapidamente il plettro. «Signori e signore, grazie di essere qui per caso. Siamo gli Odds in your favor e forse riusciremo a non spaccare tutto alla fine di questa serata... forse.»

Un grido di esultanza accolse quelle parole. Mentre il basso e la batteria si univano agli accordi della chitarra, Dan riuscì finalmente a scorgere il vestito a fiori di Dana – e subito accanto, quello nero di sua sorella. Si immerse nella folla e avanzò verso di loro, mentre la voce della bassista, una ragazza mora che per l'occasione aveva deciso di mettersi un cerchietto con una freccia che pareva attraversarle la testa, riempiva il giardino.

 

I always flirt with death

I could kill but i don't care about it

I can face your threats

Stand up tall and scream and shout about it

 

Dana e Rose erano in fondo, vicino allo steccato che separava il giardino dalla scogliera; insieme a loro c'era un'altra ragazza. Aveva un vestito arancione e una strana coda ottenuta con diversi elastici che le stringevano e le allargavano i capelli scuri in un movimento ondulato. 

 

I think I'm on another world with you,

With you

I'm on another planet with you,

With you

 

«Ehi, Dan. Posso presentarti Clove?»

Quando lo sguardo della ragazza e quello di Dan si incontrarono, successe una cosa molto strana. La prima fu che Dan venne travolto da un vertiginoso e impossibile miscuglio di terrore e sollievo; la seconda fu che lui ebbe l'assoluta certezza che la stessa, identica cosa fosse accaduta anche a lei.

«Siamo compagne del Club di Dibattito» proseguì Rose. «Finora non sono mai riuscita a batterla. Ma un giorno chissà...»

Clove continuava a fissarlo. Sembrava che gli altri neanche esistessero.

«Tua sorella si batte bene» disse. «Se avesse un po' più di esperienza potrebbe anche tenermi testa.»

«Clove?»

Dan si girò. Un ragazzo biondo alto e muscoloso si era avvicinato senza fare il minimo rumore, un bicchiere di plastica rossa per mano. Lo guardava con aria quasi sorpresa.

«Grazie» disse Clove, prendendo uno dei due bicchieri. «Cato, lui è Dan. Il fratello di Rose.»

«Dan» disse Cato. «Danyl Martin, giusto? Eri nel Club di Scherma, se non ricordo male.»

«A quanto pare.»

Cato rimase in silenzio. Il suo sguardo si fece inquietantemente identico a quello di suo padre, sulla veranda. Quando era sul punto di dirgli qualcosa di veramente importante.

«Non ci credo!»

Siccome gli Odds in your favor si stavano preparando ad una nuova canzone, le tre parole si levarono nel giardino momentaneamente in quiete come altrettanti spari. A pronunciarli era stata una ragazza con il viso affilato come quello di Clove, ma con gli occhi grandi, verdi e pieni di un feroce divertimento.

«Cato, vecchio bastardo! Non pensavo ti saresti mischiato a noi poveri mortali. Mi avevi detto che rimanevi a casa a studiare. O era ad allenarti? Magari entrambe le cose insieme.»

La ragazza era accompagnata da un energumeno se possibile ancora più grosso di Cato, un ragazzo biondo dall’aria furba, una ragazza rossa dallo sguardo schivo e due tipi mingherlini che avevano gli stessi identici occhi freddi.

«Ma da dove sbucano questi?» mormorò Lee a denti stretti.

«Artemisia» disse Cato, il tono ad un passo dall’essere gelido.

Lo sguardo della ragazza si spostò su Clove. «Ah. Immagino che ti abbia trascinato lei qui.»

«Nessuno mi trascina da nessuna parte. Se sono qui, è perché l’ho deciso.»

«Certo, certo.» Artemisia scoccò un’occhiata avvelenata a Clove, poi passò in rassegna Rose, Dana, Lee e, infine, Dan.

«Che fate, legate con gli sfigati?»

Dan avvertì Lee irrigidirsi alla sua destra. Senza rendersene conto, strinse le dita a pugno.

«Cosa faccio non è affar tuo» ribatté Cato. «In ogni caso e Clove ce ne stavamo giusto andando.» Si avviò verso la villa, poi si rese conto che Clove non lo stava seguendo e si fermò.

Sulle labbra di Artemisia si disegnò un sorriso crudele.

«Che fai, non vai con il tuo fidanzatino?»

«Senti, perché non ti levi dai piedi?»

Dan si rese conto che era stato lui a parlare. E soprattutto, che aveva fatto due passi in avanti e ora si frapponeva tra l’inquietante combriccola e i suoi bersagli.

Tra i quali, evidentemente, c’era anche Clove.

«Scusa, non ho capito» ringhiò Artemisia. «Ce l’hai con me?»

«Non vedo altre stronze psicopatiche in giro.»

Per essere un tipo così grosso, il bestione accanto ad Artemisia si mosse in un tempo orribilmente breve. Prima che Dan potesse fare anche un solo sospiro si ritrovò a rotolare per terra, la testa che rintronava in un vortice di luci biancastre e lampi violetti.  

Un po’ di metri più in là, la bassista degli Odds in your favor vide la scena e si girò verso gli altri due.

«Rissa!»

«Ricevuto» disse Penny. «Sai quello che devi fare» aggiunse, rivolta al batterista.

Lui annuì con un convinto cenno della testa, poi sbatté le bacchette tra loro quattro volte e diede inizio alla festa nella festa.

 

They're selling postcards of the hanging

They're painting the passports brown

And the beauty parlor is filled with sailors

The circus is in town

 

«Ehi, brutto stronzo!» gridò Lee. «Nessuno picchia il mio migliore amico senza che picchi anche me!»

Dan si rialzò in piedi, il mondo che girava. Fece in tempo a vedere Lee che si lanciava contro il gigante, poi qualcuno lo buttò di nuovo a terra.  

 

And the riot squad they're restless

They need somewhere to go

As Lady and I look out tonight

From Desolation Row

 

«Strano» fece Dana. «Me la ricordavo diversa, questa canzone.» 

Poi la ragazza inquietante la prese da dietro, stringendole l’avambraccio sulla gola.

 

And now here comes Romeo, moaning

"You Belong to Me I Believe"

And if someone says, "You're in the wrong place, my friend

You better leave”

 

«Fidati» disse il ragazzo biondo a Dan. «È meglio se resti giù.»

Per tutta risposta, lui gli tirò una testata.

 

And then the only sound that's left

After the ambulances go

Is Cinderella sweeping up

On Desolation Row

 

«Lasciala!» gridò Rose, aggrappandosi al braccio della ragazza che si stringeva sul collo di Dana.

Liberato dalla stretta del ragazzo biondo, Dan udì il grido di sua sorella e corse verso di lei.

 

They're going to bring them to the factory

Where the heart-attack machine

Is strapped across their shoulders

And then the kerosene

 

Il compare mingherlino provò a bloccarlo. Dan gli tirò un pugno dritto sul naso, scavalcò il suo corpo che si contorceva in preda al dolore e raggiunse Rose. 

«Lasciala» ringhiò alla ragazza dallo sguardo vuoto.

«Dan!» gridò sua sorella.

Poi il mondo vorticò di nuovo e lui si ritrovò ancora una volta per terra.  

 

 

Is brought down from the castles

By insurance men who go

Check to see that no one is escaping

To Desolation Row

 

La suola di una scarpa gli premeva sul collo. Le dita di Artemisia stringevano il polso del suo braccio destro, tirato fin quasi a essere disarticolarlo. Gli occhi verdi erano due pozzi di lucida follia.

«Vuoi sapere che rumore fa un uccellino quando gli passi sopra con la macchina?»

 

Because right now I can't read too good

Don't send me no letters, no

Not unless you're going to mail them

From Desolation Row

 

 «Ehi! Ehi! Finitela, brutte teste di cazzo, o vi spacco la faccia a tutti quanti!»

La pressione sulla gola si allentò di colpo. Dan emise un rantolo strozzato, si girò su un fianco e vide chi era stato a mettere fine a quell’assurda e improvvisa rissa.

«Chiedo scusa» disse Artemisia. «Sono stata attaccata e mi sono difesa. È un mondo pericoloso, una ragazza deve imparare a badare a se stessa.»

«Puoi dirlo forte» ringhiò la ragazza che Dan aveva visto al tavolo da biliardo. «Ora sparisci.»

Artemisia fece per replicare a muso duro, ma qualcosa sembrò trattenerla. 

«Certamente. Ragazzi, andiamo.»

In silenzio, l’allegra combriccola si ritirò dal giardino come ombre in fuga dalla luce del mattino.   Gli Odds in your favor attaccarono una canzone lenta, e la festa in giardino tornò alla normalità.

«Vieni, ti aiuto io» gli disse una voce calma come uno specchio d’acqua in un bosco, mentre una mano si tendeva verso di lui. Dan la afferrò e una forza notevole lo rimise in piedi come se fosse fatto d’aria.

«Grazie» disse. Sentiva metà della sua faccia pulsargli come se l’avesse appoggiata su un nido di vespe. «Scusatemi, io non—»

«Tranquillo» gli rispose il ragazzo chiamato Hawthorne. «Al tuo posto, probabilmente avrei fatto lo stesso.»

«In ogni caso, grazie.»

Lui fece un cenno d’assenso, poi si diresse verso Lee, che cercava a fatica di rialzarsi da terra.

«State bene, ragazze?»

Dan si girò. La ragazza avevo messo una mano sulla spalla di Rose e una su quella di Dana. Le due annuirono, anche lo spavento era visibile sui loro volti pallidi.

«Tranquille, ora è tutto a posto. Ci pensiamo noi.» Diede una piccola pacca a entrambe, poi si avvicinò a Hawthorne. «Senti, io vado a fare un giro per vedere se se ne sono andati davvero.»

«Ok» rispose lui. «Vengo con te.»

«Se li trovate e volete picchiarli… ahia, io di certo non mi oppongo» disse Lee, dolorante. 

Dan si avvicinò a sua sorella. Quando vide che si allontanava da lui di un passo, qualcosa dentro di lui si torse violentemente.

«Perché l'hai fatto?» gli disse Rose, gelida. Avrebbe preferito mille volte che gli urlasse contro.

«Rose…»

 «Te l'avevo detto che non dovevo venire.»

La bocca serrata e gli occhi lucidi, Rose gli voltò rigidamente le spalle e scappò via.

«Mi dispiace» disse Dana. «Evidentemente, è così che deve andare.» Gli fece uno strano sorriso e si allontanò, camminando a passo svelto per raggiungere Rose.

Dan sentiva su di sé gli sguardi di tutti. Mentre gli Odds in your favor proseguivano imperturbabili la loro scaletta, lui si affrettò verso il fondo del giardino, aprì il cancelletto che dava sul sentiero che percorreva la scogliera e scappò via dalla festa.

 

So if you're lonely, why'd you say you're not lonely

Oh you're a silly girl, I know I hurt it so

It's just like you to come and go

And you know me, no you don't even know me

You're so sweet to try, oh my, you caught my eye

A girl like you's just irresistible

 

Immobile e ormai sola, Clove lo osservò imboccare il sentiero. Poi le ombre della sera lo avvolsero, e lui non ci fu più.

 

 

Il Pontile delle Luminarie non era più lungo di una decina di metri – e in realtà, non era neanche poi così luminoso. Un tempo dei fili di piccole luci passavano da un lampione all’altro, ma ormai erano quasi tutte spente. Era un posto molto tranquillo, ma era pervaso anche da una certa malinconia.

Appoggiato alla ringhiera, la vernice verde crepata che gli grattava delicatamente gli avambracci, Dan osservava la distesa buia del mare.

«Ehi.»

Dan si girò di scatto. Clove era lì, le dita intrecciate davanti alla pancia, come se non avesse idea di cosa farsene. Sembrava così assurdamente impacciata che Dan provò l’assurdo impulso di mettersi a ridere.

«Sei stato piuttosto un'idiota, poco fa. Solo contro sei...»

«Senti» sospirò lui, esausto. «Se sei venuta qui solo per farmi—»

«No.» Clove si morse il labbro inferiore, a disagio. «In realtà, non so neanche esattamente perché sono qui.»

A Dan scappò da ridere. «Beh, siamo in due allora.»

Riportò lo sguardo sul lago. Ascoltò il quieto infrangersi dell'acqua sui piloni del pontile. Nel silenzio, gli giunse un profumo morbido e delicato.

Guardò alla sua sinsitra. Clove era appoggiata alla ringhiera, a meno di un metro da lui.

«Il tuo ragazzo sa che sei qui?»

Non aveva idea del perché l'avesse detto. Ancora una volta, ebbe l'impressione di avere solo preso in prestito la vita di un altro. 

«Non è il mio ragazzo.» Una pausa. «Non proprio, almeno. È...»

«...complicato.»

«Esatto.»

Dalla cima della scogliera, propagatesi nella quiete immobile di quella sera, giungeva la musica degli Odds in your favor.

 

I remember the days when we’d stay up late

And we’d show and tell all our darkest demons

Arrogant as hell

But I’ll live to tell

At least we had ourselves to believe in

 

«È strano, questo posto» disse Clove. «Una parte di me si sente a casa, ma un'altra si sente estranea. Come se non fossi mai stata veramente qui.»

Dan non riuscì a capire se con qui intendesse il pontile, la città o qualcosa di ancora più grande.

«Tu almeno puoi andartene» si sentì dire. «Sei una delle Prime Strade. Una Favorita.»

Clove fece un sorriso amaro. «Mentre tu credi di non avere scelta.»

«Non credo di essermela mai posta. Ma non ha importanza: me la sono sempre cavata, e continuerò a farlo. Non è per me che mi preoccupo...»

«...ma per tua sorella.»

Dan sospirò. «A volte ho l'impressione che non importa quale scelta faccia, finirò sempre per fare quella sbagliata.»

«Io credo... non sono una grande esperta, ma sono piuttosto sicura che lei ti adori.»

«Il che non migliora le cose.»

«No, non lo fa.»

I play it safe

But I know there’s something I should say

I just want you

Would you want me too

 

«Sai, quello che ha detto l'amica stramba di tua sorella...»

«Dana.»

«Dana. Sempre stramba rimane, comunque. In ogni caso, prima che arrivassi tu mi ha fatto tutto un discorso sugli universi paralleli e sulle implicazioni infinite delle scelte.»

Dan rimase in silenzio. E questa volta, fu certo che fosse lui a volerlo.

«Se ci sono infiniti noi, infinite combinazioni di attimi irripetibili... c'è almeno un universo in cui tu hai fatto la scelta giusta.» Clove esitò, poi si girò e lo guardò negli occhi. «E soprattutto, in cui l'ho fatta io.»

I’ve been waiting for a sign

To let you know that

We are running out of time

 

Dan sentì i battiti del suo cuore accelerare. Clove era lì, davanti a lui, le pieghe del vestito arancione che si muovevano appena, spinte dal tocco gentile della brezza di un mare di inizio estate. Vicina, silenziosa e terribilmente vulnerabile.

 

Now I’m waiting here tonight

I need to tell you somehow

I’m nervous and your guard’s down

I know that you’re the one

 

«Avevo sentito delle storie» mormorò. «Dicevano che eri pericolosa. Che uccidevi animali per divertimento. Che un giorno sarebbe morto qualcuno, e tutti avrebbero saputo a chi dare la caccia, se solo avessero potuto.»

 

All I want is to get this off my chest

Say the words and our lips can do the rest

Say the word and my lips will do the rest

 

«Sì» disse lei in un sussurro. Ora Dan vedeva le ciglia incollate dal mascara, l'irregolarità delle sue lentiggini, le screpolature sul labbro inferiore. «Le ho sentite anche io.»

Clove si avvicinò per l'ultima volta. Dan sentì il suo respiro.

 

It’s safe to say I know that you’re the one

 

E infine, il mondo saltò per aria.

 

All'inizio pensò fosse un grido. Il lamento sferragliante di una creatura abissale, che tentava di sfuggire alle viscere della terra strisciando verso di lui. Quando la sua mente finì di riemergere dalla palude limacciosa del subconscio, Dan si rese conto che era il rumore della porta della sua cella che si riapriva.

«Il tempo è scaduto» gli disse un soldato della Montagna.

Dan si alzò dal suo giaciglio e oltrepassò la soglia della cella. Con sua sorpresa, vide che anche Clove era stata fatta uscire.

Lei lo soppesò con una strana occhiata. Come se volesse sincerarsi che fosse veramente lui.

«Hai una faccia orrenda. Ti hanno preso a pugni mentre dormivi?»

Lui la guardò, chiedendosi se fosse un caso che avesse scelto proprio quelle parole.

«Più o meno.»

«È un peccato che non fossi lì ad assistere.»

«In un certo senso c'eri.»

Un lampo passò negli occhi di Clove. Qualcosa che poteva essere facilmente scambiato per sorpresa, ma che forse non lo era.

«Forza, muovetevi» disse bruscamente il soldato che aveva fatto uscire Clove. Per sottolineare il concetto, lui e il suo compare sollevarono i loro fucili. «Non abbiamo tutto il giorno.»

Clove li incenerì con lo sguardo. «Chiediamo umilmente venia» disse, il tono grondante di sarcasmo. Poi spostò gli occhi su Dan, e parve quasi triste; ma tempo una frazione di secondo, e guardava già dritta davanti a sé.

«Altra ragazza, altro pianeta» mormorò.

Dan sentì qualcosa bloccarsi all'altezza dello sterno. «Cosa?»

Clove non rispose. Era già diretta in avanti, le braccia rigide sui fianchi, diretta verso il destino che forse, per una volta, avrebbe potuto scegliere.

 

«Lasciateci soli» ordinò Cato. 

I due soldati si scambiarono uno sguardo nervoso.

«Nessun estraneo deve essere presente. I candidati devono poter scegliere in totale libertà.»

Per un momento, Dan fu certo che i soldati si sarebbero rifiutati di obbedire; ma alla fine lo sguardo d'acciaio di Cato ebbe la meglio. 

Mentre i due uscivano, Dan si rese d'un tratto conto che gli sarebbe toccato fare una scelta. Restare nella Montagna o tornare tra i ribelli? Ora come ora, non aveva la minima idea di cosa avrebbe deciso. Dovunque lui guardasse, non vedeva soluzioni. Nascondersi dentro la Montagna, combattere per i Ribelli: per lui aveva tutto lo stesso sapore.

Cato mantenne lo sguardo sui due soldati fin quando la porta non si richiuse dietro di loro. Una volta fatto, si voltò rapidamente verso Clove e Dan. 

«Ora ascoltatemi attentamente, perché non mi ripeterò» disse, il tono duro che tradiva una certa urgenza. «Voi due comunicherete ufficialmente di voler rinunciare a restare nella Montagna, io vi somministrerò questo siero e tra qualche ora vi risveglierete fuori di qui.»

«Non vedo cosa—» iniziò a dire Clove.

«Non ho finito» la interruppe Cato. «Il siero che vi darò è praticamente identico a quello usato di solito, ma senza l'effetto di alterazione della memoria. Vi risveglierete ricordando tutto, compreso quanto vi dirò adesso. Ed è bene che ascoltiate attentamente, perché da quello che farete dipenderà il destino di tutta Panem.»

Clove finalmente capì cosa ci faceva Cato dentro la Montagna. Il Colonnello doveva averlo spedito lì come infiltrato, in attesa di attuare uno dei suoi oscuri piani per riportare la Montagna sotto il controllo della Capitale. Eppure, la presenza del ragazzo biondo in quella stanza rappresentava un'incognita. Che anche lui lavori per Rorke?

«Una volta fuori di qui, andrete a Capitol City. Lì ci sono due siti segreti del colonnello Rorke, uno dei quali è nascosto sotto la Piazza dei Martiri dei Giochi. Voi vi dirigerete lì, entrerete grazie alle qualifiche IEROS di Clove e lo farete saltare in aria.»

Clove sbarrò gli occhi, scioccata. «Cosa? Ti ha dato di volta il cervello? Perché mai dovremmo—»

«Perché Rorke è pazzo, Clove» sentenziò Cato con tono d'acciaio. «Il Progetto Protheus è entrato nella sua parte finale. Io, te, gli IEROS... non eravamo altro che test. Mentre Ribelli e Capitolini si massacravano l'uno con l'altro, Rorke ha creato un esercito di supersoldati e ne ha regalati un po' a entrambi i Presidenti – a Coin per consolidare il proprio potere una volta finita la guerra, e a Snow come ultima arma per capovolgerne le sorti. Al momento non sono ancora pronti, ma quando finiranno di elaborare i dati biometrici che la squadra IEROS ha continuamente inviato loro dal giorno della sua formazione, entrambe le fazioni li attiveranno. Ma quando questo succederà, non saranno i loro ordini quelli che seguiranno. Quelli nella città uccideranno Snow e travolgeranno l'esercito ribelle, mentre quelli nel Distretto Tredici elimineranno la Presidente e il suo stato maggiore, attiveranno gli armamenti nucleari e, insieme alle riserve di Capitol, li punteranno contro i Distretti. Dopo aver fatto questo, il gruppo del Tredici sovraccaricherà i reattori di alimentazione, facendosi saltare in aria insieme a tutto il Distretto. E in un colpo solo, Panem cesserà di esistere.»

Nella stanza cadde il più completo silenzio. Dan fissava le provette del siero con sguardo vuoto. Clove sentì un vago bruciore pizzicarle i palmi delle mani. Si rese conto di essersi conficcata le unghie nella carne.

«Questa cosa non ha senso» riuscì a dire alla fine. «Che cosa se ne farà Rorke della sola Capitol? Lui e i suoi supersoldati rimarranno senza cibo, acqua o riscaldamento. Il suo nuovo ordine mondiale durerebbe meno di un mese...»

«Non ne ho idea. La sezione finale del Progetto si chiama Ultima Thule, ma non sono riuscito ad accedervi. Non so cosa abbia intenzione di fare, ma non aspetterò di scoprirlo. Voi distruggerete il sito sotto la piazza, io mi occuperò dell'altro. E forse, così riusciremo a salvare Panem.»

«E ti aspetti che io ti creda, così su due piedi?»

«No. È per questo che c'è qui anche lui.»

Clove si girò di scatto verso Dan. Lui però, guardava Cato. I suoi occhi tradivano la più completa sorpresa.

«Cosa?»

«Tu farai in modo che lei arrivi al sito» gli disse Cato. «E ti assicurerai che ci arrivi viva.»

«E perché dovrei?»

«Perché nella Piazza dei Martiri dei Giochi, sigillati in bare a tenuta stagna, sono conservati i resti dei partecipanti di tutti gli Hunger Games. Compresi quelli di tua sorella.» Lo sguardo di Cato era così fisso che non batteva neanche le palpebre. «Se Clove è ancora viva dopo che avrete distrutto il sito, io porterò Rose nel laboratorio segreto di Rorke e la farò tornare in vita.»

Dan divenne una statua di sale. Clove ebbe l'impressione che pure il mormorio dell'impianto di riciclo dell'aria fosse diventato più silenzioso.

«Bene» disse infine Dan. «Farò quello che devo.»

«Molto bene. Adesso muoviamoci, non c'è—»

Una sorda vibrazione, attutita dalle pareti della stanza. 

Dan fissò Cato perplesso, in attesa che riprendesse a parlare. Spostò lo sguardo su Clove, e vide che anche lei era in allerta.

«Che—»

Un'altra vibrazione. Questa volta, si udì anche il lontano rombo di un'esplosione.

Le luci della stanza si spensero. Dopo qualche secondo, vennero sostituite dalle illuminazioni d'emergenza. Il loro colore era viola.

«Ci attaccano?» chiese Dan, spaesato.

«No» disse Clove. «In caso di attacco esterno il codice di allarme è rosso. A meno che Pavlov non abbia fatto qualche cambiamento, il viola è...»

Cato estrasse la sua pistola.

«...rivolta interna.»

Un grido, due raffiche brevi di spari. Poi silenzio.

Fuori dalla stanza risuonarono dei passi pesanti. Stivali corazzati.

In un sussurro, la porta si aprì.







L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Chi va piano va sano e va lontano, si suol dire. Ci ho messo un po' (ma per i miei standar mezzo che ho fatto presto) ma finalmente questa storia che proprio non vuole saperne di morire si arricchisce (si fa per dire) di un nuovo capitolo, in cui un quasi trentenne che non riteneva già abbastanza problematico scrivere fanfy di hunger games alla sua età ha deciso di peggiorare ancora le cose auto-producendo una sequenza onirica High school AU talmente teen drama che se avvicinate l'orecchio allo schermo potete sentire Ryan Atwood ringhiare sai cosa mi piace dei figli di papà?

(Perdonatemi, miei cari genitori: so che non era questo che speravate per il vostro figliolo. Almeno non considero la festa della Liberazione divisiva. È già qualcosa.)

In ogni caso, dopo questo strano sogno-che-forse-è-un-po'-più-di-un-sogno-ma-ndo-vai-mica-è-Lost-ma-per-favore, i nostri due compari di botte&pugnali ricevono un notizione non indifferente. Il buon Rorke, a quanto pare, saltella da uno schieramento all'altro, intenzionato a portare avanti un folle piano di rigenerazione postapocalittica; e per fermarlo, Cato ha buttato sul tavolo il briscolone da novanta: Rose Martin. E mo'? E mo' tocca vedere chi c'è dietro la porta, visto che ho deciso di chiudere con un cliffhanger da romanzo d'appendice di serie z. Ogni tanto queste cose scappano, agli scribacchiatori. Sono creature strane. Molto strane.

Il cerchio attorno a Capitol City si fa sempre più stretto. Le ombre, i demoni e l'arte della guerra sembrano essersi dati appuntamento lì. Possiamo forse mancare?

E niente, miei cari. Se siete ancora qui, dirvi grazie sarebbe semplicemente riduttivo. Per quanto mi riguarda, sappiate che farò tutto quanto in mio potere per arrivare in fondo. Non dico che comincia a vedersi la fine del tunnel, ma siamo ormai alle fasi finali. Quindi testa bassa, tante care cose e alla prossima!

 

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Capitolo 20
*** Il Dio Bifronte ***


19.
Il Dio Bifronte

 


"We knew the world would not be the same.
I remembered the line from the Hindu scripture, the Bhagavad-Gita.
Vishnu is trying to persuade the Prince that he should do his duty, and to impress him
takes on his multi-armed form and says: "now I am become Death, the destroyer of worlds".
I suppose we all thought that, one way or another."

– Robert Oppenheimer
 
 
 
«Sergente» disse Lee. «Lei cosa sceglierà?»
Dall’altra parte del corridoio, Ayla si riscosse dal suo torpore. «Come?»
«Dicevo… quando toccherà a noi. Rimarrà qui o si farà cancellare la memoria?»
Ayla esitò prima di rispondere. «L’unica cosa che voglio è mettere fine a tutto questo. E l’unico modo per farlo è arrivare a Capitol City.»
Lee guardò le proprie mani poggiate sulle ginocchia. Sporche, dure, graffiate. Due piccoli blocchi di roccia scura.
«Temo che lei abbia ragione, sergente.»
Lee si chiese se dovesse aver paura. Perché non ne aveva. E non sapeva se questo dovesse confortarlo o spaventarlo a morte.
«Bravi, passerottini» disse una voce lontana. «Uscite dal nido. Sarà un piacere darvi la caccia.»
Né Lee né Ayla si diedero la pena di risponderle. Più o meno da quando era stata rinchiusa, la ragazza dall’armatura nera e gli occhi verdi aveva continuato a lanciare minacce più o meno velate a chiunque lei considerasse meritevole, senza preoccuparsi di fare distinzione tra nemici e alleati; ma ormai anche la sua riserva di rancore – che certo non era indifferente – cominciava ad esaurirsi, e il suo ringhio si stava riducendo al gracchiare di un disco rotto.
Abbaia pure. Tanto finché sei un gabbia, non—
Con un pesante scatto e un mormorio calante, le luci della stanza si spensero.
«Ma che—»
«Cosa…?»
Lee vide le sbarre della sua cella tingersi di un riflesso violaceo.
«Codice viola!» sentì lo strampalato comandante dei soldati capitolini esclamare. «Ai posti di combattimento!»
Lee non ebbe tempo di chiedersi cosa stesse succedendo. Per prima cosa, gli giunse il rumore lontano di un esplosione. Poi, con un ronzio, la serratura della porta della sua cella si sbloccò.
Lee avvicinò la mano, come se temesse che fosse tutto un test e che le sbarre fossero state elettrificate per verificare se avesse deciso di essere così sciocco da voler fuggire.
Le sbarre erano ruvide e fredde. Senza neanche fare troppo sforzo, Lee fece scivolare di lato la porta.
Ayla aveva la sua stessa espressione guardinga e stupita quando uscì anche lei dalla propria cella.
«Non so come, sergente, ma siamo liberi» disse lui, stupito e contento che anche lei fosse stata liberata.
Il sergente, però, non condivideva la sua gioia.
Lee seguì il suo sguardo.
Due occhi verdi lo stavano fissavando.



Mentre la porta si apriva, Dan realizzò che dietro ci poteva essere chiunque. Una fazione dissidente della Montagna poteva aver preso il controllo, togliendo di mezzo Pavlov; l’Esercito Regolare poteva aver ripreso la Montagna, così come i ribelli; oppure, in qualche modo, la coppia inquietante in armatura nera era riuscita a liberarsi e stava massacrando tutti quanti. Eppure, nonostante il numero di opzioni a sua disposizione, niente avrebbe potuto prepararlo a quello che comparve sulla soglia.
Era alto quasi due metri ed era completamente avvolto da una corazza molto simile a quella della squadra di Clove, ma invece del nero l’armatura aveva come colore predominante un viola denso e scuro. La faccia della figura era coperta da un elmo con la visiera a specchio, e tra le mani stringeva un fucile d’assalto dall’aria tozza e pesante.
«Cato Sullivan» disse con una voce rauca e robotica. «Il colonnello Rorke ti solleva dal tuo incarico.»
Mentre sollevava il fucile, Clove aveva già afferrato il portaprovette sul tavolo. Il siero rossastro esplose sul visore del soldato corazzato, concedendo a Cato la frazione di secondo sufficiente a puntare la propria pistola e a premere il grilletto tre volte.
Il guerriero rinculò, mentre due proiettili impattavano sul pettorale della sua corazza e uno gli graffiava la visiera. In un silenzio innaturale, qualunque cosa ci fosse sotto la visiera a specchio riprese in un attimo l’equilibrio e puntò nuovamente il fucile su Cato. Mentre premeva  il grilletto, Clove gli prese il grosso coltello da combattimento dal fodero che aveva fissato sul petto e glielo ficcò nel collo, nel sottile spazio tra il casco e la corazza. Clove lo sentì emettere uno strano gorgoglio simile ad una radio non sintonizzata, poi lo sparo del fucile la assordò e una potente gomitata la mandò distesa per terra. Ebbe il tempo di vedere il guerriero girarsi e fare un passo verso di lei, il manico del coltello ancora piantato nel collo, prima che Dan lo investisse usando il tavolo come un ariete, schiacciandolo contro il muro. Cato oltrepassò il ragazzo, spinse la canna della pistola sotto l’elmetto e sparò altre quattro volte. Il guerriero ebbe uno spasmo, emise un altro gorgolio elettrostatico e si accasciò sul tavolo, finalmente morto.
«Cosa – cosa diavolo è questo?» disse Dan, ansimando per l’adrenalina che ancora circolava a grandi quantità nel suo corpo.
Cato non disse nulla. Fissava il cadavere corazzato, la mascella contratta e il volto pallido come le luci di quella stanza.
Clove osservò la superficie lucida dell’armatura dell’avambraccio, dipinta di quella strana sfumatura violacea. Le tornarono in mente le dita di Rorke incrociate sopra la sua scrivania, il suo sguardo implacabile e i suoi discorsi sull’arte della guerra.
Hai mai sentito parlare del Battaglione Sacro?
«Porpora» mormorò.
Dan la guardò stranito. «Cosa?»
«Era un colore difficile da ottenere, nell’antichità. Per questo lo indossavano solo i più ricchi, o i corpi militari scelti. Come la Guardia Pretoriana degli imperatori romani.»
Gli occhi di Dan si abbassarono sul cadavere in armatura. «Vuoi dire che—»
«Sono loro» lo interruppe Cato. «Ho visto gli schemi di questa armatura tra i file segreti del progetto Protheus. Non so come, ma sono loro. Rorke li ha svegliati.» Batté un paio di volte le palpebre, sgomento. «È finita.»
«Aspetta» disse Dan. «Non può essere. Stando a quanto hai detto, non dovrebbero esserci supersoldati qui. E non sono venuti da fuori, dato che l’allarme segnalava un attacco interno.»
«Rorke potrebbe aver nascosto un esercito anche qui» disse Clove.
«Ok, allora se davvero l’ultima parte del piano è già in atto, perché siamo ancora qui e non ridotti in polvere dalle armi del Tredici?»
«Perché forse le testate sono in volo in questo momento ed è solo questione di minuti.»
Cato si lasciò cadere a terra, il cane della pistola appoggiato alla tempia e lo sguardo perso nel vuoto.
«Lo sapeva» mormorò. «Sapeva che avevo visto i piani. Sapeva che ci aveva provato. Forse ha usato un livello di protezione dei file non troppo complicato da aggirare proprio perché io li guardassi. Forse era una prova. Forse voleva
che io lo tradissi.»
«Sentite» disse Dan. «Forse questo Rorke sarà pure un genio del male, ma finché siamo ancora vivi vuol dire che il suo piano non è ancora giunto a compimento. E se è così, forse facciamo ancora in tempo a fermarlo.»
Clove lo fissò per un paio di lunghi secondi, poi spostò lo sguardo verso Cato.
«Il centro operativo» disse. «Sai come arrivarci?»
«Io… sì» balbettò Cato. Si rialzò in piedi, fece un respiro profondo e riacquistò la sua solita aria inattaccabile. «Andiamo.»
 


Artemisia non disse nulla. Coprì i metri che lo separavano da Lee in un tempo orribilmente breve, si tuffò su di lui e lo sbatté pesantemente a terra.
«E adesso ti ammazzo» sibilò, mentre con una mano gli artigliava la gola.
Ayla la prese e la allontanò con un ruggito da lui, mandandola a sbattere contro le sbarre della porta aperta di una cella.
«Adesso ti ammazzo io» disse, contraendo le mani a pugno e preparandosi alla lotta.
Un grido, poi una raffica di spari. Dalla curva del corridoio in fondo alla stanza sbucò correndo un soldato della montagna.
«Bastardi!» gridò correndo verso di loro, il volto deformato dalla rabbia e dal terrore. «Siete stati voi, siete stat—»
Uno squarcio rossastro gli  si aprì sul petto. L’uomo distese le braccia davanti a sé, lanciando il suo fucile in avanti, e cadde a terra morto.
Con passi lenti e pesanti, un enorme soldato coperto da un’armatura viola  avanzò nella stanza con il fucile tenuto dritto davanti a sé.
«E questo chi è?» mormorò Lee.
L’espressione di Artemisia vacillò per un momento, colta alla sprovvista da quell’enigmatica figura; poi la guerriera riprese il proprio cipiglio d’acciaio e fece un passo verso il soldato corazzato.
«Artemisia De Nor, matricola zero cinque due quattro nove nove. Sono al—»
Il proiettile che si schiantò sul suo petto le chiuse brutalmente la bocca. Artemisia crollò a terra, abbattuta dal fucile d’assalto del guerriero corazzato. Rapida e precisa, la canna dell’arma si spostò su un soldato in divisa bianca e fece nuovamente fuoco.
Ayla afferrò Lee per la manica della camicia. «Via! Via!»
Dall’altra parte della stanza c’era un altro corridoio. Ayla ebbe appena il tempo di vedere Ares raccogliere il fucile caduto al soldato della Montagna e rispondere al fuoco, poi prese Dana, se la buttò sulle spalle come gli infiniti sacchi di carbone che aveva trasportato per gran parte della sua vita e cominciò a correre più forte che poteva.



Cato apriva la fila con il fucile d’assalto sottratto al supersoldato morto, poi veniva Dan disarmato e infine Clove con la pistola di Cato.
I corridoi vuoti e silenziosi avvolti dalle luci violastre avevano un’aspetto così innaturale che Dan si chiese se non stesse di nuovo sognando. Forse era morto nell’attacco al Distretto Quattro, e tutto quello che era successo dalla spiaggia in poi non era stato altro che un delirio prodotto dagli ultimi istanti di vita del suo cervello ormai sul punto di morire. Forse era ancora lì, con il suo sangue che raggrumava la sabbia e gli occhi spalancati che ormai non vedevano più.
Più avanti, il corridoio piegava a gomito verso destra. Cato si avvicinò alla parete e strisciò verso l’angolo. Dan sentì una mano chiudersi sulla sua spalla e spingerlo con decisione verso la parete.
«Per essere uno che dovrebbe evitare che io muoia non sembri conoscere granché il tuo mestiere.»
«Siamo in due, allora.»
Clove rimase interdetta, non sapendo come interpretare esattamente quelle parole; in ogni caso, Cato la tolse dall’impiccio dichiarando che la zona più avanti era sgombra.
I tre girarono l’angolo. Il corridoio oltre la curva era esattamente identico a prima, con un grosso tubo che correva in alto a destra, le tozze teste delle rivettature che correvano verticalmente lungo le giunzioni tra un pannello di paratia e l’altro e le luci viola ad ammantare tutto in una grottesca penombra; l’unica differenza stava nella sua brusca conclusione una decina di metri più avanti, segnata da una porta d’acciaio chiusa.
«Merda» imprecò Dan.
«Non è detto che sia bloccata» replicò Cato. «E anche se fosse, le mie credenziali dovrebbero bastare ad aprirla.»
Si avvicinarono circospetti alla lastra liscia d’acciaio, che in alto aveva dipinti uno zero e un tre.
«Ok» disse Cato, analizzando il piccolo quadro comandi a fianco della porta. «È chiusa, ma posso aprirla.» Aprì una piccola tasca che aveva sull’avambraccio e passò una tessera magnetica a Dan. «Quando te lo dico, poggiala sul lettore.»
Dan annuì. Lui e Cato si scambiarono di posto, poi i due Favoriti del Distretto Due puntarono le armi contro la porta.
«Adesso» disse Cato.
Dan trattenne il respiro, poi fece quanto gli era stato detto. Il lettore emise un piccolo bip, poi la porta si aprì salendo verso l’alto.
Dall’altra parte c’era una stanza circolare. Il pavimento era ricoperto di cadaveri.
Al centro, illuminata dalle luci viola come la sua armatura, c’era una figura gigantesca, ancora più corazzata del  supersoldato che aveva cercato di uccidere Cato. In una mano teneva un’enorme spadone, la cui lama larga scendeva lentamente verso il pavimento; nell’altra stringeva il collo rotto di una soldatessa della Montagna. Al posto della visiera a specchio, il suo viso era nascosto da una maschera statuaria scolpita in un materiale ceramico dello stesso colore del marmo. Le orbite vuote fissavano senza alcuna espressione la testa della soldatessa piegata in un angolo innaturale, come se stesse cercando di capire cosa stesse tenendo tra le dita.
«Chiudi la porta» sussurrò Cato. «Adesso.»
La faccia senza occhi si girò verso di loro. La mano che teneva in alto la soldatessa si aprì, e il cadavere cadde sopra quello di un altro uomo della montagna con un piccolo tonfo carnoso.
«Dan, chiudila!»
Dan schiacciò la tessera sul lettore. «Non funziona!»
L’enorme spada si sollevò da terra. Schiacciando i corpi dei soldati sotto le sue gigantesche suole corazzate, il supersoldato prese ad avanzare contro di loro.
Cato e Clove aprirono il fuoco. I proiettili rimbalzarono contro la corazza del bestione, mentre lui continuava ad avanzare imperturbabile.
«Dan» ripeté Cato, il tono inflessibile che cominciava a incrinarsi.
Dan pulì febbrilmente il lettore con la manica della giacca, poi riappoggiò la tessera.
Il supersoldato afferrò l’impugnatura dello spadone anche con l’altra mano e lo sollevò sopra la testa, la punta che strideva mentre graffiava il soffitto.
«Stupido pezzo di merdaccia capitolina!» imprecò Dan, sbattendo ripetutamente e con violenza la tessera sul lettore.
«Cato» gridò Clove. «Dobbiamo—»
Bip.
 La porta si chiuse proprio quando il supersoldato stava accelerando il passo per attaccarli. Dan si aspettava che il gigante colpisse la porta, ma così non avvenne. Nel corridoio cadde nuovamente il silenzio.
I tre si guardarono, ansimanti.
«Stupido pezzo di merdaccia capitolina?» disse Clove, scoccando a Dan un’occhiata sarcastica.
«E sono stato anche troppo gentile.»
«Muoviamoci» disse Cato, allontanandosi dalla porta. «Ci toccherà fare il giro più lungo, ma—»
«Cato?» disse Clove, vedendo che si era bloccato.
«Oh no.» Mormorò Dan.
In fondo al corridoio, talmente immobile da non sembrare neanche viva, un altra corazza viola li stava osservando.



«Da questa parte!» gridò il tenente Baeley.
Qualcosa che era insieme logico e irrazionale disse ad Ayla che non avrebbe dovuto fidarsi di qualcuno con indosso la divisa bianca dell’Esercito Regolare, ma il suo istinto di sopravvivenza ebbe immediatamente la meglio. Corse verso di lui, il corpo esile di Dana che le sbatacchiava sulla schiena come se fosse senza vita. Fu presa dal terrore che fosse stata colpita da un proiettile vagante, così quando ebbe svoltato l’angolo si fermò e la sollevò dalla propria spalla.
Con un sollievo che le fece quasi venire le vertigini, si rese conto che la ragazzina non aveva alcun problema a poggiarsi suoi propri piedi.
«Tutto bene, sergente?» le chiese Dana.
«Sei ferita?»
«No, sergente. Mi ha portato via giusto in tempo.»
Ayla sospirò. Lo spero. «Stammi vicina.»
«Sempre.»
Qualcuno sbucò correndo dal corridoio. Ayla fece per frapporsi tra la nuova minaccia e Dana, quando si rese conto che era Penelope O’Brian.
«Penny!» esclamò Lee, stringendola in un abbraccio disperato.
«Presto, seguitemi» disse il tenente Baeley. «Il capitano conosce questa base. Sa dove—»
«Aspetta un attimo» lo interruppe Lee. «Perché mai dovremmo fidarci di te? Fuori di qui quelli come me e quelli come te si sparano a vicenda.»
«Hai detto bene» rispose di lui. «Fuori di qui.»
A sottolineare le sue parole, una nuova raffica di spari provenne dalla curva del corridoio.
Il tenente Baeley guardò Ayla dritta negli occhi. «Sergente, ora come ora la migliore speranza che abbiamo è restare uniti.»
Ayla esitò. Il suo sguardo corse sui tre volti dei ragazzi vicino a lei. La sua squadra. Tutto quello che le rimaneva.
«Facci strada, tenente.»

Proseguirono lungo il corridoio, che dopo un paio di svolte salì di livello e si allargò fino a permettere ad una decina di persone di camminare uno di fianco all’altro, se avessero voluto. Percorsero un’altra ventina di metri, poi si fermarono di fronte ad un incrocio con un altro corridoio più piccolo.
«Ok» disse il tenente Baeley, guardando in entrambi i rami dell’incrocio, «il capitano ha detto di aspettarlo qui. Diceva che sarebbe andato in cerca di armi, quindi non stupitevi se lo vedete tornare con un servizio da tè o una vecchia enciclopedia. Ma è l’unico che conosce questo posto, quindi…»
«…ce lo terremo buono» concluse Lee per lui.
«Una cosa del genere.»
«Pensavo che tutti gli ufficiali dell’Esercito Regolare conoscessero la montagna» disse Dana.
«Quelli seri di sicuro.»
«Perché, lei non lo è?»
«Ah, eccovi tenente!»
Seguito da un paio di soldati in divisa bianca, il capitano Aber avanzava baldanzoso verso di loro, un sorriso di grande soddisfazione sul volto e la sua amata spada di nuovo appesa alla cintura.
«Non è meraviglioso? L’ho ritrovata! Era in una stanza con un sacco di altri oggetti interessanti…» Il capitano accennò ad una grossa custodia che uno dei due soldati teneva in mano. «…tra cui questo.» Fece un ghigno di gioia feroce. «Non vedo l’ora di utilizzarlo contro quei marrani in armatura. Oh, vedo che avete portato con voi i prigionieri» aggiunse, notando solo in quel momento Ayla e gli altri. «Molto zelante, tenente: i miei complimenti. Anche se sorvegliarli in questa circostanze potrebbe essere… potenzialmente problematico.»
«Signore, so che quello che sto per chiederle potrebbe suonarle strano» disse Baeley. «Ma credo che dovremmo dare delle armi anche a loro.»
Il capitano lo fissò per qualche istante. «Come, prego?»
«Come ha detto lei, le circostanze sono decisamente particolari. Qualunque cosa siano, quegli affari non sembrano fare distinzione tra ribelli e capitolini. Vogliono ucciderci tutti. Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo unire le forze, anche solo per questo momento.»
I due soldati dietro Aber si scambiarono un’occhiata. Ayla tese i muscoli, pronta alla fuga in caso le cose fossero precipitate.
«Non nego che il suo ragionamento abbia il suo senso» rispose il capitano. «Ma chi ci dice che i prigionieri non rivolgano le armi contro di noi una volta finito tutto?»
«Signore, per prima cosa dobbiamo arrivarci, alla fine di tutto. Quei soldati sono pesantemente corazzati e uno di loro potrebbe facilmente tenere testa ad una mezza dozzina di noi. Qualunque aiuto, più che bene accetto, è assolutamente necessario.» Baeley si girò verso Ayla. «Se non è convinto, il sergente le dà la sua parola d’onore che non ci sparerà addosso.»
Ayla rimase in silenzio per qualche istante, poi si rese conto che da lei si attendeva una risposta. «Io – certo» balbettò. «Non avrebbe senso uccidervi adesso.»
Il capitano Aber la scrutò per una manciata di lunghi secondi. «Sta bene» disse infine. «Posso fidarmi della parola di una gentildonna che fino ad ora si è comportata più che bene nel suo non semplice ruolo di prigioniera di guerra. Ma è una sua responsabilità, tenente, quindi i prigionieri andranno con lei.»
Baeley aggrottò le sopracciglia. «In che senso, signore?»
«Nel senso che ho un piano, tenente. E perché questo piano funzioni, è necessario fare due cose: andare nella sala controllo per comunicare al Quartier Generale quanto accaduto, e verificare se nell’hangar di attracco al quinto livello ci sono ancora degli hovercraft utilizzabili con cui fuggire da qui. Lei e i prigionieri andrete all’hangar, mentre io, Daniell e Tosky…»
«È Tasky, signore» disse il soldato sulla destra alle sue spalle.
«…andremo alla sala controllo e cercheremo di comunicare con la capitale. Nel mentre voi prenderete il controllo di un hovercraft, lo rifornirete di carburante se serve e attenderete il nostro arrivo. Così potremo finalmente fuggire via da questo inferno, dritti verso casa.»
«Molto bene, signore» disse Baeley, stupito dal fatto che il piano del capitano avesse un qualche minimo di senso, «ma non sarebbe meglio restare uniti, andare al centro comandi e poi all’hangar?»
«Divide et impera, tenente» rispose il capitano.
«Signore, credo che il senso della frase sia che a dividersi siano—»
«Tenente, non questioni» lo interruppe il capitano Aber. «È probabile che incontreremo parecchia resistenza, una volta al centro comandi. Se io dovessi cadere, che ci sia almeno un ufficiale a portare avanti il nome della Terza Compagnia.»
«Signore…»
«Il tempo è poco, tenente.» Aber lanciò a Baeley una pistola mitragliatrice in uso tra i Pacificatori. «Avevo preso questa per lei, ma se vuole armare i prigionieri dovrà andare nella stanza in cui siamo stati. Deve andare avanti, girare a sinistra ed entrare nella seconda porta sulla destra. Una volta fatto, deve tornare qui, continuare per il corridoio piccolo finché non trova una piccola porta sulla sinistra. Sono le scale d’emergenza. Dovrà arrampicarsi per un po’, ma la porteranno dritto al quinto livello e all’hangar di attracco. È tutto, tenente.»
Aber irrigidì la schiena e si portò la mano tesa alla tempia. Con una certa sorpresa, Baeley si ritrovò a fare lo stesso.
«Non le dico buona fortuna, tenente, perché non ne avrà bisogno. Ci vediamo all’hangar.»
«Veda di esserci, signore.»
«Ah, non è ancora nato il bastardo che mi metterà sotto terra.» Con la sua solita teatralità, Aber sguainò la sua sciabola. «Avanti, miei prodi! Per il Presidente, per la Patria e per il bottino!»



La creatura di Rorke era parzialmente nascosta dietro uno scudo a torre grande praticamente quanto la porta alle loro spalle. Dall’altra spuntava un’impugnatura massiccia, da cui una catena scendeva a terra per fissarsi in un cilindro costellato di spuntoni.
Ora Dan ne era certo. Era impossibile che non stesse sognando.
«Perché non si muove» sibilò Clove.
«Perché non ne ha bisogno» rispose Cato. «Ci aspetta.»
Bip.
La porta dietro di loro si aprì.
Dan si girò.
La maschera con lo spadone lasciò andare il braccio del soldato della Montagna che aveva usato per aprire la porta.
Cato sollevò il fucile e sparò. Da uno dei tubi che correvano sul muro uscì un getto di azoto liquido, che investì in pieno il guerriero con lo scudo.
«Via!»
I tre si gettarono in avanti, mentre il gigante alle loro spalle faceva il suo ingresso nel corridoio.
Accecato dal getto sottozero, l’altro supersoldato fece roteare il suo grottesco mazzafrusto. Cato si abbassò, mentre gli spuntoni del cilindro perforavano l’acciaio della paratia.
Dan sentì lo spostamento d’aria dello spadone accarezzargli le spalle, poi uno schianto sul pavimento. La catena del mazzafrusto si tese, mentre il supersoldato accecato cercava di disincagliare gli spuntoni dalla parete. Dan passò sotto la catena e superò l’angolo, correndo a perdifiato.
Un ringhio strozzato, poi un tonfo.
Dan vide Clove cadere a terra, scaraventata sul pavimento dal un colpo dello scudo. Il supersoldato lasciò andare il mazzafrusto e si tolse l’elmetto incrostato di ghiaccio. Le luci violastre illuminarono un volto bianco come l’osso, attraversato da vene scure. La sclera degli occhi pareva rilucere di un bagliore elettrico e malsano, donando al loro sguardo una luce aliena e inquietante.
Se un tempo era stato un essere umano, ora certo non lo era più.
La creatura spostò il suo sguardo su Dan. Il bianco degli occhi brillava nella penombra. Dan rimase immobile, schiacciato dall’orrore di quella visione.
Una raffica di spari, e la testa pallida si trasformò in un grumo di sangue e ossa.
«Muovetevi!» gridò Cato.
Dan tese la mano verso Clove. Lei la strinse.
Poi insieme ripresero a correre, dietro a Cato e verso il cuore della Montagna.



«Non guardate giù» disse Baeley, afferrando il piolo d’acciaio della scala d’emergenza. Allungò il piede nello stretto tunnel verticale e lo poggiò su un altro piolo. «Ok, sembra reggere. Andiamo.»
«Dana, prima tu; poi voi due» disse Ayla, rivolta ai suoi tre ragazzi. «Io chiudo la fila.»
Osservò nervosa il corridoio, l’acciaio scuro del fucile d’assalto che le accarezzava la pancia. Era più leggero del vecchio fucile che le era stato dato quando si era arruolata nella Fanteria Volontaria, ma lo sentiva estraneo e scomodo tra le mani.
Se non altro, questo coso spara il doppio dei proiettili con un singolo caricatore. Non che servirà a granché, se ci ritroveremo di fronte un altro di quei bestioni.
Nella penombra violacea del corridoio, le giunse l’eco lontano di quello che sembrava un profondo lamento metallico. Un lungo brivido le fece accapponare la pelle delle braccia.
Guardò di nuovo verso la scala. Lee si era appena issato sui pioli.
Ayla non poté fare a meno di tirare un grande sospiro di sollievo quando poté finalmente accodarsi a lui, chiudendosi il portellone alle spalle.

Era abituata a stare al buio e a doversi infilare in lunghi corridoi angusti: al Giacimento, più di una volta le era capitato di doversi acquattare per strisciare in un punto piuttosto stretto di una galleria. La stessa cosa in verticale, però, era tutta un altra faccenda.
Ayla fece come aveva detto il tenente e non guardò giù; per sicurezza, evitò anche di guardare in alto, per non rischiare di rimanere schiacciata dalla vista di quanta strada rimaneva ancora da fare. Così fissò lo sguardo sul muro di fronte a sé  e si concentrò solo sul ritmo di mani e piedi, uno scalino dopo l’altro.
Nessuno parlò, durante la salita. Le luci nel tunnel erano rosse anziché viola, e il basso mormorio dei condotti di areazione era l’unico rumore presente. C’era odore di metallo e l’aria aveva uno strano retrogusto terroso, che si appiccicava sulla lingua rendendola pesante e pastosa. Ayla aveva la gola secca e le mani indolenzite, ma continuò a salire. Sopra di lei, sentiva ogni tanto i grugniti e i sospiri degli altri. Ad un certo punto credette di sentire Dana emettere un piccolo guaito, e fu terrorizzata dall’idea che stesse per cadere; ma non ci fu nessun grido, nessuna imprecazione, e i pioli continuarono a scorrerle davanti alla faccia, uno dopo l’altro.
Quando Baeley parlò, la sua voce gli fece quasi fare un sobbalzo, tanto il silenzio del tunnel era penetrato dentro di lei.
«Livello cinque. Ci siamo.»
Baeley salì sul predellino davanti al portellone, abbassò faticosamente la maniglia e spinse.
«Via libera.»
Quando oltrepassò il portellone, Ayla sentì le proprie forze ritrarsi e una grande stanchezza farsi strada nel suo corpo. Con molta fatica, ricacciò l’impulso di crollare a terra. Temeva che se si fosse seduta non sarebbe più riuscita a rialzarsi.
«Tutti bene?» chiese Baeley.
«All’incirca» disse Lee, agitando le mani arrossate dalla scalata. «Ma per gli standard di questo posto, stiamo alla grande.»
Si trovavano in un  corridoio molto simile a quello da cui avevano cominciato la salita. Più avanti, in maniera speculare al suo corrispettivo più in basso, il corridoio incrociava una galleria più grande.
«Ho come l’impressione che l’hangar sia da quella parte» disse Dana.
«Le vostre armi sono cariche?» chiese Baeley.
«Sempre» disse Penny, in quello che parve quasi un tono di sfida.
«Bene» rispose Baeley. «Allora avanziamo. Io davanti, voi ragazzi in mezzo e il sergente dietro.»
«Signore» disse Dana. «È sicuro di volerci lasciare alle sue spalle armati?»
«Sicuro? Per niente» replicò Baeley. Poi il suo sguardo si spostò su Ayla. «Ma confido che farete la cosa giusta.»
«Nessuno ti farà del male» disse Ayla. «Nel senso» aggiunse rapidamente, rendendosi conto di quello che aveva detto, «nessuno di noi le sparerà, tenente. Il vero nemico, qui, è un altro.»
Baeley annuì. «Grazie sergente. Adesso, in marcia.»
Il tenente imbracciò la sua pistola mitragliatrice e si mosse verso la galleria. Forse era uno scherzo delle luci viola, ma un momento prima che si girasse Ayla aveva avuto l’impressione di scorgere sul suo volto l’ombra di un sorriso.



 «Lo abbiamo seminato?»
«Credo di sì. Per quanto possa essere forzuto, girare con quello spadone non lo rende granché agile.»
Dan si permise il lusso di appoggiare le mani sulle ginocchia, respirando pesantemente per rifornire di ossigeno i suoi muscoli stremati dalla lunga corsa.
«La tua giacca.»
Clove lo guardava con una strana espressione divertita. Stranamente, però, nei suoi occhi non c’era l’aria di crudele sfida con cui di norma accompagnava la curva in su delle labbra.
«Cos’ha di strano?»
«Toglitela e vedrai.»
Perplesso, Dan la sfilò dalle spalle e la prese tra le mani.
«Mi sembra sempre la stessa.»
Prima che potesse fermarla, Clove gliela tolse dalle mani e la sollevò tenendola per le spalle. Solo in quel momento, Dan si rese conto che, dall’altezza delle scapole fino in fondo, un taglio netto aveva quasi diviso la sua giacca in due parti praticamente identiche.
«A quanto pare la spada di quel bestione ha regalato una modifica all’ultimo grido a questo pezzo di tela color fango. A Capitol ne andrebbero pazzi.» Gli restituì la giacca lanciandogliela addosso. «Sei stato fortunato. Non farci l’abitudine.»
Lui osservò la giacca per qualche istante, poi se la rimise addosso. Stava per rispondere a Clove, quando si rese conto che Cato era comparso dalla curva del corridoio.
«Più avanti è libero» disse. «Ci siamo.»
Clove e Dan si affrettarono a raggiungerlo. Un paio di metri dopo la curva c’era una porta, che Cato aveva aperto col suo tesserino. Oltre la soglia c’era un ampia stanza piena di massicci scaffali ripieni di casse voluminose di materiale plastico grigio. Tre carrelli elevatori erano fermi di traverso sulla corsia centrale, che conduceva ad una seconda porta. Con tutta probabilità, qualcuno li stava adoperando quando era suonato l’allarme, costringendo i loro manovratori ad abbandonarli in fretta e furia.
Cato avanzò con passo rapido tra i carrelli elevatori. Alle sue spalle, Clove e Dan non poterono fare a meno di lanciare rapide occhiate tra gli scaffalature.
«Non c’è nessuno» disse Cato, come se avesse percepito il loro nervosismo. «Sono tutti nella sala comando.»
«Ti hanno visto?» chiese Dan.
«La vedo difficile» rispose Cato, mentre attraversava l’altra porta.
«Perché sei bravo a nasconderti?»
«No.»
I tre sbucarono su un’ampia galleria. A destra, dietro due pesanti lastre d’acciaio, c’era il centro comandi.
«Perché sono tutti morti.»
Le due paratie scorrevoli che bloccavano l’accesso alla sala comandi erano chiuse, ma lì dove le due lastre d’acciaio si incontravano qualcosa aveva creato una breccia frastagliata, alta un paio di metri e larga quasi altrettanto. Ai lati della porta c’erano due postazioni di difesa protette da una barriera di sacchi di sabbia. Due soldati della Montagna erano riversi sopra di sinistra. A uno dei due mancava un braccio, mentre l’altro aveva perso l’elmetto, scoprendo la testa bionda parzialmente mangiata da un proiettile nemico. A pochi passi da loro, un guerriero in armatura viola giaceva a terra, la corazza del petto squarciata da una raffica di quella che un tempo era stata la mitragliatrice della postazione di destra, ormai ridotta ad un ammasso informe di metallo contorto e parzialmente liquefatto.
«Merda» imprecò Clove.
Dan e Cato non aggiunsero altro. In silenzio, i tre oltrepassarono la breccia.
Nel centro comandi doveva essere avvenuto uno scontro disperato e senza quartiere. I soldati della Montagna erano riversi ovunque, molto spesso ridotti a brandelli quasi impossibili da riconoscere; ma anche i supersoldati di Rorke avevano pagato un prezzo non indifferente, e costellavano il pavimento della sala come macchie viola in mezzo ad sanguinante tappeto bruno.
Cato passò vicino ad un supersoldato letteralmente ricoperto di uomini e donne della Montagna. La mano del guerriero corazzato era ancora stretta al polso di uno di loro. «Sapevano di non potersi arrendere. Non c’è stato quartiere.»
Lo sguardo di Clove venne attirato dall’albero vicino al centro della stanza. Lì, accasciato con la schiena sul tronco e due fori sfilacciati sul petto, c’era Pavlov.
Povero bastardo, pensò Clove. Ecco dove se ne vanno i tuoi patetici sogni di vivere lontano da tutto.
Il petto lordo di sangue di Pavlov ebbe uno spasmo. L’uomo era ancora vivo.
Senza rendersi conto della rapidità con cui aveva compiuto il gesto, Clove lo raggiunse e si inginocchiò davanti a lui.
Quando i suoi occhi  riuscirono a metterla a fuoco, Pavlov fece un sorriso tirato.
«Chi si rivede.»
Clove dischiuse le labbra, ma si rese conto che non aveva la minima idea di cosa dire.
Pavlov sollevò una mano e le strinse debolmente l’avambraccio. «Rorke…»
Quel nome riattivò la mente di Clove. Protheus. Il piano. Ultima Thule.
«È stato lui» disse, mettendo la sua mano sopra quella del vecchio. «Lo sappiamo. Vuole usare questi supersoldati per distruggere Panem.» Esitò, prima di continuare. «Dobbiamo fermarlo.»
Pavlov provò ad emettere una piccola risata, ma riuscì solo ad emettere un paio di liquidi colpi di tosse. «Lo sapevo che prima o poi avresti deciso di salvare il mondo.»
«Non essere idiota» scattò lei. «Cerco solo di salvarmi la pelle.»
Quando quelle parole lasciarono la sua bocca si rese conto che, per la prima volta, desiderava vivere non per vincere o vendicarsi, ma solo per vivere.
Pavlov parve intuire i suoi pensieri, perché emise un piccolo sbuffo dal naso.
«Dobbiamo comunicare con il Distretto Tredici e con Capitol City» disse lei, cercando di scacciare con le parole lo strano disagio che sentiva crescerle dentro. «Da dove possiamo farlo?»
Pavlov indicò faticosamente il grande tavolo circolare al centro della stanza.
«Da lì» mormorò.
Clove fece un rapido cenno a Cato e Dan, che si affrettarono verso il tavolo. Pavlov, però, non aveva finito di parlare.
«Ma non ce la farete. Rorke ha bloccato le comunicazioni.» Il volto di Pavlov si contrasse in una smorfia di dolore. « Ci ha chiusi tutti qui dentro. Eravamo un esperimento. La Montagna, Ianos… tutto un esperimento.»
«Aspetta – cosa?»
«Avrei dovuto capirlo. Ianos, il capo della rivolta del Distretto Due, nient’altro che un colonnello della Guardia Presidenziale… era troppo per essere vero. Ma Rorke aveva giocato bene le sue carte. Ci convinse che un piccolo sacrificio, per illudere Capitol di aver stroncato la rivolta, ci avrebbe regalato le chiavi per la Montagna: quando questo successe davvero, nessuno poteva dubitare più di lui. E in cambio della roccaforte più potente di Panem, chiese solo di lasciare a lui l’ultimo sottolivello. Non avrei mai pensato che lì sotto potessero nascondersi…»
Un accesso di tosse squassò il petto di Pavlov. Un fiotto di sangue gli imporporò il labbro inferiore.
«Prima di bloccare tutto ha avuto la cortesia di informarci di quello che stava succedendo. Ha detto che se fossimo stati così bravi da uccidere tutti i suoi avrebbe riattivato le comunicazioni e ci avrebbe lasciato in pace. Ma so che una squadra di quei mostri sta andando nella sala dei generatori. Manterrà la sua parola. Riattiverà le comunicazioni… dopo averci fatti tutti saltare per aria.»
Clove restò qualche secondo in silenzio. Avrebbe pensato dopo a processare le implicazioni di quando gli aveva detto Pavlov; in quel momento, l’unica cosa che non si poteva permettere era perdere tempo. «Quanto ci resta?»
«Il posto di guardia a difesa dei generatori hanno smesso di trasmettere un quarto d’ora fa. Una decina di minuti… forse meno.»
Clove fece un lento respiro. «Non sono tornata in vita per crepare in questo schifo di posto. Ce ne andremo di qui.»
Le sopracciglia di Pavlov si inarcarono. «Questo non me l’aspettavo. Vuoi davvero portarmi con te, Clove?»
Gli occhi di Clove si dilatarono dallo stupore. «Cosa? Io – non…»
«Tranquilla.» Pavlov tossì una risata. «Ti prendevo in giro. Un vecchio deve pure togliersi qualche sfizio, prima di andarsene…» Altri colpi di tosse. «Più avanti, fuori dalla porta, c’è un ascensore. Andate al quinto livello. Se questi affari non lo hanno fatto saltare in aria, l’hangar degli hovercraft può essere l’unico biglietto d’uscita da qui.»
Pavlov gemette. La stretta sull’avambraccio di Clove si fece disperata, poi si rilassò di colpo.
«Vivi, Clove» disse Pavlov. «È l’unica vendetta che conta.»
E detto ciò, reclinò la testa sul petto e non parlò più.
Clove abbassò lo sguardo. La sua mano libera era su quella di Pavlov. Non si era resa conto di averla stretta.
Si alzò, inebetita. Un senso di vertigine le fece girare la testa. D’un tratto le parve tutto così remoto, estraneo, quasi insignificante.
Cosa ci faccio qui?
Guardò Pavlov, seduto sotto l’albero. Se non fosse stato per i fori di proiettili e la giubba inzuppata di sangue, sarebbe stato impossibile dire che fosse morto e non semplicemente assopito.
Vivi, Clove. È l’unica vendetta che conta.
Strinse i pugni, girò i tacchi e si allontanò da lui.
Cato aveva tolto un pannello alla base del tavolo circolare e stava tentando di districare una foresta di cavi e interruttori, mentre Dan girava intorno al bordo per cercare qualche manopola o pulsante che gli consentisse di attivare lo strumento.
«Non c’è tempo» disse loro Clove. «In questo momento una squadra dei giocattoli di Rorke sta per far esplodere la Montagna. Dobbiamo andarcene.»
«E come?» chiese Dan. «Se questo stramaledetto coso non si accende, non abbiamo modo di visualizzare le planimetrie di questo posto e cercare una via d’uscita.»
«Non ce n’è bisogno. Fuori di qui c’è un ascensore. Andremo all’hangar di lancio del Livello Cinque e fuggiremo da lì.»
«Se non troviamo il modo di comunicare con Capitol e il Tredici potrebbe non esserci più, un lì» disse Cato, le mani ancora immerse tra i cavi.
«Se non muoviamo il culo sarà il qui ad essere un problema» ribatté Clove. «Quando prenderemo un hovercraft, useremo quello per comunicare.»
Cato sollevò lo sguardo. «Non è così semplice. Ma potrebbe funzionare.»
«Magnifico. Ora, per favore, ce ne andiamo da qui?»
«Potrebbe… non essere più possibile» disse Dan.
Clove si voltò verso di lui. Il suo sguardo era inchiodato alla breccia della porta.
E al guerriero con l’enorme spada che vi stava davanti.
       


Rivedere la luce fu strano. Era fioca e sporca, un bagliore color seppia di un mattino sabbioso, ma fu abbastanza per far protestare le pupille di Ayla, abituate alla luce viola degli allarmi.
Un lungo rettangolo di cielo riempiva l’apertura dell’hangar nel fianco della Montagna. Allineati davanti ad essa, una fila composta da una dozzina di hovercraft  attendeva in silenzio il loro arrivo.
«Guardate» disse Penny, avvicinandosi al velivolo più vicino e indicando un disco di metallo attaccato alla carlinga, sulla cui superficie era accesa una piccola luce led rossa.
«Esplosivo» disse Baeley. «Avranno minato tutti gli hovercraft.»
«Se li hanno minati, perché sono ancora in piedi?» chiese Lee.
«Non ne ho idea» replicò Baeley, sollevando la pistola mitragliatrice. «Diamo un’occhiata.»
Passarono a fianco di un hovercraft e poi di un altro ancora: entrambi avevano esplosivi piazzati su di loro, le piccole luci rosse fisse come demoniache capocchie di spillo.
«Potrebbe essere una trappola» disse Lee. «Aspettano che saliamo per poi farci esplodere in volo?»
«Mi sembra inutilmente complicato» rispose Penny.
«Ti darei ragione, se non avessi passato l’ultima ora a scappare da un gigante in armatura viola.»
«Guardate!» esclamò Dana, indicando una pila di casse verde scuro una decina di metri più avanti. Dietro il bordo di una di esse, faceva capolino un piede corazzato.
Erano in quattro, scoprirono quando raggiunsero le casse. Erano più piccoli di quello che li aveva attaccati nella zona di detenzione, e indossavano una corazza della stessa foggia ma più leggera. Tre di loro avevano fucili dalla foggia lunga e sottile, mentre il quarto sulla schiena portava una coppia di spade corte inquietantemente simili a quelli dell’assassina dagli occhi verdi. Riversi a terra, avevano tutta l’aria di essere morti.
«Non c’è sangue né fori di proiettili» disse Penny. «E se fossero—»
Ayla puntò il fucile sul collo di uno di loro e sparò un colpo. Il corpo sussultò, ma nessuno dei quattro si mosse.
«Non lo sono.»
Lee le lanciò uno sguardo quasi intimorito. «Accidenti, sergente.»
I cadaveri erano disposti intorno ad una valigetta corazzata. Dana scavalcò il cadavere di quello con le spade corte, si inginocchiò e la aprì con cautela. Dentro c’erano diversi selettori, ognuno dei quali aveva sopra di esso un led verde lampeggiante. Erano tutti spostati verso l’alto, ad eccezione di quello centrale, che era rosso e leggermente più grande. Il led sopra di esso era dello stesso colore, e non lampeggiava.
«È il detonatore» disse Baeley. «Tutti gli esplosivi sugli hovercraft sono armati. Basta solo muovere il selettore rosso per farli detonare.»
«Erano pronti a distruggere tutto» disse Dana. «Ma qualcosa li ha fermati. La domanda è: che cosa?»
Alle loro spalle, qualcuno tossì.
Ayla, Baeley e i tre ragazzi si voltarono, spianando le armi.
«Calmi» disse Katniss Everdeen, le mani bene in vista. «Amici.»



«Ricordatevi» disse Cato. «È grosso, ma è lento. Se lo confondiamo abbastanza, dovremmo riuscire a superarlo.»
Il bestione portò l’elsa del suo spadone all’altezza della tempia. Le orbite vuote della maschera erano puntate su Cato.
Clove sollevò la pistola.
Fatti sotto.
Il gigante fece un passo. Poi ci fu un sibilo, e il suo torace corazzato scomparve in una vampata di fuoco e luce. Lo spadone vorticò di lato come il rotore di un elicottero impazzito, una mano e un pezzo di avambraccio al seguito ancora attaccati all’impugnatura, mentre la testa schizzava in alto come un tappo di spumante e il fragore dell’esplosione rimbalzava sulle pareti del centro comando. Lo spadone cadde a terra con gran clangore, accompagnato dai tonfi sordi dei brandelli di armatura che atterravano sul pavimento. Le gambe del guerriero, ancora attaccate ad un moncone carbonizzato che un tempo era stato il tronco del suo corpo, parvero voler fare un altro passo, come se neanche la distruzione di metà del suo corpo potesse fermarlo; ma alla fine rovinarono a terra, seguendo il resto di quello che un tempo era stato un mostro apparentemente impossibile da battere.
«Ma che cavolo—» fece Dan, sbigottito.
«Ottimo colpo, Darnell!»
«Daniell…»
«Come?»
«Niente, signor capitano.»
La divisa bianca del capitano Aber – che, nonostante la lunga traversata dal Distretto Quattro fino a lì, persisteva nell’essere incredibilmente immacolata – svettava in mezzo alla breccia. Accanto a lui, il soldato Daniell lasciò cadere il lanciarazzi ormai scarico.
«Orbene, signori, vedo che siamo giunti appena in tempo» fece Aber. «Questi infingardi sanno essere alquanto resistenti.»
«Parole sante, capitano» disse Cato. «Ma dovremo rimandare i ringraziamenti. La persona responsabile di questo attacco ha intenzione di ripetere la stessa cosa a Capitol City. Dobbiamo fuggire di qui e avvertirli.»
«Lo stesso, dite?» replicò Aber, colpito da quella rivelazione. «Decisamente increscioso.»
«Tanto quanto i generatori sotto i nostri piedi che esploderanno da un momento all’altro» aggiunse Clove. «Quindi, per favore, andiamo via.»
«Non temete» disse Aber, «ho inviato una squadra al Livello Cinque a preparare un hovercraft. Il tempo di mandare un messaggio alla Quartier Generale e—»
«Non è possibile» disse Cato. «Il nemico ha sabotato le comunicazioni. Dovremo comunicare una volta fuori.»
L’espressione del capitano Aber si fece sospettosa. «Chi mi dice che non mi stiate ingannando?»
«Può provare, se vuole» disse Cato, accennando al tavolo circolare. «Ma non ci riuscirà. E una volta resosi conto che avevo ragione, l’esplosione della Montagna renderà inutile il suo zelo.»
Il capitano Aber restò in silenzio per qualche istante. «Sia, dunque» disse alla fine. «Seguitemi.»

 
 
L’inquadratura della telecamera di sicurezza sfarfallò per un momento. Le immagini bluastre restituirono i movimenti dei tre ragazzi mentre abbandonavano il comando centrale, unendosi al trio di soldati dell’Esercito Regolare per dirigersi all’hangar del Livello Cinque.
In piedi davanti allo schermo, le mani unite dietro la schiena, Rorke fece un piccolo sorriso.
«Squadra IEROS» disse. «Rapporto.»
Un fruscio elettrostatico segnò l’arrivo di una comunicazione radio.
«In arrivo, signore» disse la voce del Nero. «Dodici minuti alla Z-A.»
«Molto bene. Aggiornate una volta fatto.»
«Ricevuto. Passo e chiudo.»
Rorke scorse gli indicatori vitali degli IEROS, incolonnati uno sotto l’altro. Osservò la loro tensione inarcare le linee dell’elettrocardiogramma e spostare verso l’alto gli indici del battito cardiaco. Solo due facevano eccezione: quello del Nero, che aveva gli stessi battiti di una persona intenta a leggere al sole in una mattina d’estate, e quello di Clove, completamente piatto.
Vederla comparire negli schermi della Montagna lo aveva lasciato piuttosto sorpreso –  cosa che capitava piuttosto raramente. Quando il suo segnale si era spento, durante la missione nel Distretto Quattro, Rorke non si era turbato più di tanto: le probabilità che quella ragazza instabile si facesse uccidere di nuovo erano state calcolate e previste, e il margine di profitto dato dai suoi dati biometrici si era rivelato non così brillante ma di certo sufficiente. E invece, a quanto pareva, Clove era riuscita a resuscitare ancora una volta.
Rorke si avvicino alla scacchiera e prese in mano un alfiere. L’ipotesi più probabile era che Clove avesse subito un trauma al cranio abbastanza forte da danneggiare i nanoprocessori di controllo installati nella placca di rinforzo, senza però ucciderla. Così ora era viva, ma lui non poteva più controllarla. Una pedina libera, né bianca né nera.
Rorke fece sparire l'alfiere nel pugno e guardò lo schermo.
Il Gioco si faceva sempre più bello.




L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Poffarbacco, come direbbe qualcuno, qui le cose si fanno problematiche – o meglio, ancora più problematiche, visto che ci troviamo in un mondo dove la più grande attrattiva è un reality show dove i regazzini si trinciano tra loro. Che Rorke abbia ormai segnato il destino di Panem? Quel che è certo è che si sta divertendo un mondo a trasformare la base più potente della nazione in un parco giochi horror con giganti viola armati in maniera piuttosto pittoresca. I nostri però ne hanno passate parecchie, e ormai sono diventati piuttosto refrattari al farsi ammazzare: ce la faranno a scappare di lì prima che la Montagna si trasformi in un grazioso vulcano? E soprattutto, quanto ancora resisterà la divisa immacolata del capitano Aber?
Mentre vi arrovellate su questi fondamentali interrogativi (soprattutto il secondo) non mi resta che ringraziarvi oltremodo assai, come sempre, e augurarvi di rivederci quanto prima. Tante care cose, gambe in spalla e alla prossima!

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Capitolo 21
*** Fuga dal centro della Terra ***


 
20.
Fuga dal centro della Terra
 

“This is the captain. We have a little problem with our entry sequence,
so we may experience some slight turbulence and then... explode.”

– Malcom Reynolds, Serenity


 
Era ormai parecchio tempo che Ayla si trovava sulla stessa strada della Ragazza di Fuoco; eppure, quella era la prima volta che la vedeva così da vicino. A guardarla così non sembrava poi tanto diversa da qualunque altra giovane donna del Dodici: castana, non troppo alta, il fisico smunto e indurito dalla fame. Il suo sguardo  era temprato dalla guerra, ma ormai era difficile trovarne uno che non fosse così; eppure, in quegli occhi castani Ayla ci lesse anche qualcos’altro. Qualcosa che aveva una sfumatura verde come la speranza, ma anche rossa come il cuore oscuro di un incendio. Qualcosa che, Ayla ne era piuttosto convinta, la ragazza stentava a credere di possedere.
I veri eroi non sanno di esserlo.
Rendendosi conto che l’istinto le aveva tenuto sollevata la canna del fucile d’assalto, si affrettò ad abbassare l’arma. Dana, Lee e Penny fecero altrettanto.
Baeley, invece, manteneva la pistola mitragliatrice puntata contro Katniss Everdeen.
«Amici» ripeté lei, guardando Baeley dritto negli occhi.
Baeley lanciò un’occhiata ad Ayla. Per un attimo, lei ebbe la ridicola certezza che stesse chiedendo il suo permesso.
«Sì» disse infine, abbassando l’arma.
«Li avete sistemati voi?» disse Johanna, accennando alle quattro corazze viola per terra. «Ottimo lavoro. Questi stronzi sono piuttosto duri da buttare giù…»
«Non siamo stati noi» replicò Lee. «Erano già morti quando siamo arrivati.»
«Non sembrano avere ferite» osservò Gale. «Forse sono stati avvelenati.»
«Già… ma da chi?»
«Sentite» li interruppe Johanna. «Mi fa molto piacere che vi divertiate a giocare al piccolo detective…. ma possiamo gentilmente sciacquarci da questo cazzo di parco giochi dell’orrore prima che altri stronzi viola vengano a farci il culo a cubetti?»
«Mi trovo d’accordo» disse Penny. «Prendiamo uno di questi cosi e filiamo da qui.»
«A proposito di questi cosi» disse Dana. «Potrebbe esserci qualcosa che non abbiamo previsto.»
«Ossia?» le chiese Ayla.
«Qualcuno di noi sa guidare un hovercraft?»
Il silenzio calò nel gruppo.
«Merda» borbottò Johanna.
«Non ne ho mai guidato uno» disse Gale alla fine. «Ma ne ho studiato i progetti e ho visto come si fa.»
«Non c’è bisogno di grandi acrobazie» disse Ayla. «Basta che esci da questo posto e poi atterri il meno dolorosamente possibile dovunque tu riesca ad arrivare.»
Mentre Gale annuiva in risposta, Johanna stava già salendo sulla rampa dell’hovercraft più vicino.
«Siete ancora lì?» disse, voltandosi e vedendo che non si erano mossi. «Ma porco Panem, li ho visti solo io i giganti assassini che ci danno la caccia o cosa?»



L’ascensore era un montacarichi largo abbastanza da contenere un mezzo corazzato. La piattaforma però non c’era, lasciando intravedere la tromba oscura che si apriva come un pozzo senza fondo precipitando giù fino al cuore buio della Montagna.
«Qualcuno deve averla già usata» disse Cato, premendo il pulsante di richiamo.
«Non può essere stato il mio tenente» replicò Aber. «Ha usato il condotto di servizio.»
«Potrebbe essere stato qualche soldato sopravvissuto della Montagna. O qualche prigioniero. Oppure, una squadra di supersoldati è andata all’hangar per distruggere gli hovercraft e bloccarci definitivamente qui dentro.»
«Due su tre» mormorò Daniell. «Potrebbe andare peggio.»
«Già» disse Artemisia. «Potrebbe piovere.»
I due sono bravi, dovette ammettere Clove. Ares e Artemisia erano fermi a meno di sei metri di distanza da loro, entrambi armati con un fucile d’assalto e – a parte un taglio sulla guancia di Artemisia e tre piccoli crateri scavati sulla sua piastra pettorale antiproiettile – apparentemente illesi.
«Andate da qualche parte?» continuò Artemisia. Il fucile era abbassato, ma Clove poteva percepire la tensione dei muscoli delle braccia pronti a scattare.
«E secondo te dovremmo dirtelo?» replicò Dan.
Artemisia lo guardò con sprezzante sorpresa. «Incredibile, gli animali dei Distretti Fogna sanno anche parlare.» Poi i suoi occhi si spostarono verso Clove, e le sue labbra assunsero una piega crudele. «Ti accoppi con le bestie, Clove? Non pensavo ti piacessero certe cose…»
D’un tratto, il volto del capitano Aber si illuminò di una strana consapevolezza. «Voi due» disse. «Se non erro mi diceste che eravate alle dirette dipendenze del colonnello Rorke.»
Artemisia si fece guardinga. «Perché—»
«È così» la interruppe Ares.
«Stando a quanto dice il giovanotto qui» disse Aber accennando a Cato, «i soldati corazzati che stanno spargendo il terrore in questa base sono opera sua.»
Clove vide i due irrigidirsi. Fu solo questione di un attimo, però: in men che non si dica, entrambi avevano ripreso  i loro consueti atteggiamenti – impassibile lui, sprezzante lei.
«Onestamente» disse Artemisia, «non è una cosa di cui mi freghi particolarmente.»
Il cipiglio di Aber si indurì. «Questi soldati hanno aperto il fuoco contro dei membri dell’Esercito Regolare. Se quanto mi è stato detto dovesse risultare vero, condurrò personalmente il plotone di esecuzione del colonnello Rorke.»
Artemisia ghignò. «Buona fortuna.»
Alle loro spalle, la piattaforma dell’ascensore si fermò al piano con uno sbuffo idraulico. La grata di protezione si sollevò, aprendo il passaggio.
 «Ares» disse Cato. «La partita era truccata fin dall’inizio. Lo è sempre stata. Qualunque cosa credi di poter fare, non riuscirai mai a vincerla.»
Ares rimase qualche istante in silenzio. «Chiunque perda può sempre prendersela con il gioco» disse infine. «Tu hai perso, nell’Arena. Se avessi vinto, saresti forse lì dove sei adesso?»
Cato fece un lungo respiro. Sulle sue labbra si disegnò un sorriso triste.
«Due anni fa, avrei detto lo stesso.»
Poi sollevò il fucile e premette il grilletto.
Ares sobbalzò mentre i proiettili colpivano la piastra sul petto. Sbilanciato dalla forza di quei colpi, mancò il bersaglio con la sua raffica di risposta, trapassando la giubba bianca del soldato Tosky e aprendogli otto fori vermigli sul corpo. Prima che il suo cadavere potesse toccare terra, Artemisia piazzò due colpi in testa al soldato Daniell e lacerò la pelle del braccio sinistro del capitano Aber, prima che le pallottole sparate da Clove e Dan la costringessero a nascondersi dietro un cassone di rifornimenti.
«Vili marrani!» strillò Aber, sollevando la spada. «Vi percuoterò lì dove vi ergete!»
«Non faccia l’idiota» abbaiò Dan, afferrandolo per la giubba immacolata e spingendolo a forza nell’ascensore. Corse verso l’interruttore e premette il tasto corrispondente al Livello Cinque, mentre Clove e Cato indietreggiavano sparando per tenere Ares e Artemisia dietro le loro coperture. La grata di protezione scese con una lentezza esasperante, i proiettili che mandavano scintille quando si scontravano con la rete metallica; poi, finalmente, la piattaforma si mise in moto, salendo verso l’alto e lasciandosi definitivamente alle spalle i due IEROS.
«Rorke» ringhiò il capitano Aber, agitando il pugno come se ce l’avesse davanti. «Avrò la sua testa, lo giuro sul Presidente!»
«Una volta fermata l’apocalisse sarà tutto suo» disse Cato.
Clove notò una strana inflessione rigida nelle sue parole. Abbassò lo sguardo sul suo fianco, e vide che la sua giubba mimetica era umida di sangue.
«Cato» disse di getto, avvicinandosi per controllare meglio la ferita.
«Sto bene» disse lui, alzando una mano per fermarla. «Non abbiamo tempo, adesso.»
La piattaforma vibrò. Dalle profondità della Montagna, giunse il cavernoso eco di un boato.
«Temo proprio di no» disse Dan.



«Dove la metto questa?» disse Lee, tenendo tra le mani la pesante mina a disco che aveva staccato dall’hovercraft.
«Il più lontano possibile» rispose Ayla.
«Ancora una volta, sono più che d’accordo con lei, sergente.»
Mentre Lee si sbarazzava con cautela della mina, Ayla si girò verso l’hovercraft. Un brivido parve attraversare la carlinga, poi le eliche incassate nelle ali presero a girare con un mormorio sempre più acuto.
«Ce l’ha fatta» disse Dana.
«Già» rispose Penny. «Ora non resta che la parte più difficile.»
«Ok ragazzi» esclamò Johanna, sbucando dal ventre dell’hovercraft e scendendo a passi pesanti dalla rampa di carico. «Sembrava impossibile, ma siamo pronti per catapultare i nostri inestimabili culi fuori da qui.» Il suo sguardo saettò sul tenente Baeley. «Non possiamo semplicemente sparargli?»
Ayla vide le dita del tenente che stringevano la pistola mitragliatrice contrarsi.
«No» sentenziò, con tutta l’assertività di cui era capace. «Lui è con me.»
Baeley alzò gli occhi su di lei. Sembrava quasi stupito. Ayla sentì uno strano rimescolamento allo stomaco e distolse lo sguardo, sperando che lo sporco sul volto nascondesse il rossore delle sue guance.
Johanna guardò l’uno e l’altra, poi sospirò. «Come volete. Basta che vi diate una mossa, o rischiate che Gale decolli per sbaglio e vi lasci qui a crepare…»
Il pavimento dell’hangar venne attraversato da uno scossone. Un lungo e inquietante lamento metallico si propagò nell’aria, seguito da un lontano frastuono che somigliava ad un centinaio di enormi cilindri di metallo lasciati cadere giù da una scalinata.
«Forza, dentro!» gridò Johanna.
«Alziamo i tacchi, sergente!» esclamò Lee, salendo di corsa sulla rampa; a metà strada, però, si fermò di colpo. «Dan! Non possiamo partire senza di lui.»
«Dobbiamo attendere il capitano» disse Baeley. «È un imbecille, ma senza di lui non saremmo qui.»
Il pavimento diede un altro scossone. Un pezzo di roccia orrendamente grande si staccò dal soffitto e andò a schiantarsi su di un hovercraft.
«Non c’è tempo!» esclamò Ayla. «Dobbiamo andare.»
«Sergente, la prego!» la implorò Lee.
Ayla sentì lo sguardo del ragazzo pugnalarle il cuore. Odiandosi con tutta se stessa, lo afferrò e lo spinse nell’hovercraft. Penny e Dana lo presero, impedendogli di uscire di nuovo.
Ora fuori dall’hovercraft c’era solo Baeley.
«Tenente!» gli gridò Ayla, tentando di sovrastare il fragore della Montagna al collasso che si faceva sempre più forte. «Il capitano voleva che vivesse, quindi non sia stupido e salti su!»
Baeley pareva non avere sentito. Guardava dritto davanti a sé, lungo il corridoio. Sembrava concentrato su qualcosa.
Poi, d’un tratto, i suoi occhi si spalancarono.
«Arrivano!»



La Montagna si stava letteralmente disfacendo, sciogliendosi come un castello di sabbia eroso dalle onde del mare. Una pioggia di calcinacci cominciò a piovere dentro il montacarichi, rimbalzando sulla piattaforma con rumori ottusi. Un’altra scossa agitò la tromba dell’ascensore, e ancora una volta Dan pensò che non ce l’avrebbero fatta.
Troppo lenti, siamo troppo lenti…
Una striscia di luce comparve in cima alla grata di protezione. Il Livello Cinque. L’hangar. La loro via di fuga.
Avanti, avanti…
Il montacarichi si fermò sbuffando. La grata si sollevò per mezzo metro, poi si bloccò.
«Perbacco, siamo bloccati» disse il capitano Aber.
Dan lo guardò allibito. «Basta strisciare sotto» disse, indicando Clove e Cato che erano già per metà fuori dall’ascensore.
«Ma così mi sporcherò l’uniforme» protestò lui.
«Lei è… come ha fatto a sopravvivere fino a oggi?»
«Classe, figliolo. E una dieta ricca di antiossidanti.»
Dan non si diede neanche la pena di rispondere. Raggiunse la grata, si sdraiò a terra e strisciò dentro l’hangar. I suoi piedi avevano appena superato la barriera di reticolato metallico quando un paio di mani lo tirarono bruscamente su.
«Spicciati, Distretto Fogna» gli disse Clove. «Non ho alcun problema a lasciarti indietro.»
Dan fu sul punto di chiederle perché allora l’avesse aiutato a rimettersi in piedi con tanta solerzia, ma preferì non farlo. Anche perché il soffitto dell’hangar si faceva ogni secondo più instabile, e non ci sarebbe voluto molto prima che si ritrovassero tutti sepolti sotto una valanga di roccia.
«Poffarbacco» mugugnò Aber, uscendo faticosamente fuori dall’ascensore. «Strisciare per terra è proprio un affare spiacevole.»
«Non quanto rimanere sepolti vivi» replicò Dan, tirandolo su. Una volta in piedi, il viso del capitano si illuminò.
«Tenente!» esclamò, agitando le braccia come se avesse riconosciuto un amico al parco.
Dan seguì il suo sguardo. Al centro dell’hangar, un altro soldato in giubba bianca sollevò la mano per ricambiare il saluto.
«Gambe in spalla, figliolo!» disse gioioso Aber a Dan. «È ora di una cortese uscita di scena.»
E ciò detto prese a correre con lo scatto di un centometrista, lasciando gli altri tre a mordere la polvere come dei pivelli qualunque.



«Allora, Gale, ci sei o no?»
«Ho quasi fatto. Magari se non mi strillassi nell’orecchio farei anche prima…»
«Oh, scusa se sono leggermente preoccupata dalla stracazzo di Montagna che ci sta letteralmente crollando addosso…»
«Piantala e tira su l’interruttore rosso davanti a te.»
«Questo?»
Un acuto segnale d’allarme rimbalzò nella cabina di guida dell’hovercraft. Terreno, terreno, ripeteva ossessivamente una composta voce femminile.
«Non quello.»
«Ok, ok!» ringhiò Johanna alla voce insistente. Abbassò l’interruttore, e nella cabina tornò il silenzio. «Che diavolo era?»
«Con tutta probabilità, il comando di apertura del portellone ventrale. Il sistema di sicurezza ti stava gentilmente avvisando che sganciare mezza tonnellata di bombe senza essere prima decollati avrebbe potuto portare qualche spiacevole complicazione.»
«Sì beh vaffanculo. Avrebbero potuto metterci delle etichette o una cosa del genere. Stupido affare…»
«…che ci sta salvando la vita.»
Katniss si affacciò nella cabina, poggiando le mani sui due sedili. «Come procede?»
«Oh, alla grande» rispose Gale. «Johanna stava per farci saltare in aria.»
«Sei tu che mi hai detto di premere quel coso!»
«Ti avevo detto quello rosso davanti a te…»
«Sono tutti rossi e davanti a me!»
 Katniss sospirò e guardò dietro di sé, verso la stiva di carico. Vide che l’ufficiale dell’Esercito Regolare era ancora fuori dalla rampa, con il sergente dei Volontari poco vicino, e imprecò.
«Torno subito» disse. «Aspettate a decollare.»
«E chi si muove» abbaiò Johanna.
Katniss percorse a passi rapidi la stiva. «Cosa ci fate ancora lì?» gridò rivolta ai due. «Salite, adesso!»
L’ufficiale dell’Esercito Regolare indicò un punto dell’hangar a lei invisibile. «Un secondo, ci sono quasi!»
«Ci sono quasi chi?»
Qualche secondo dopo, un altro uomo dalla divisa bianca entrò di corsa nella stiva, con tanta foga che rischiò quasi di infilzare Katniss con la sciabola che stringeva in pugno.
«Tuoni e fulmini, finalmente in salvo!» esclamò Aber, ansimando pesantemente. Quando riconobbe la Ragazza di Fuoco, le sopracciglia si incurvarono in un’aria di composta sorpresa. «Toh, Miss Everdeen. Anche lei qui.»
«Capitano» borbottò lei in risposta.
«Potreste farmi la grazia di attendere qualche istante, prima di partire? I miei valenti compari dovrebbero… oh, eccoli dunque.»
«Dan!» esclamò Lee, vedendo il suo vecchio amico salire la rampa dell’hovercraft. Insieme a Dana e Penny si affrettò verso di lui; finalmente riuniti, i quattro ragazzi si strinsero in un abbraccio liberatorio.
Katniss vide il sergente dei Volontari e l’ufficiale dell’Esercito Regolare portare dentro un giovane biondo. Era ferito ad un fianco, e il volto statuario era pallido e tirato. Un volto che lei conosceva.
Non c’erano più dubbi: come la sua compagna di Distretto, a quanto pare anche Cato era tornato dall’oltretomba.
«Bene» disse il sergente dei Volontari, «direi che adesso possiamo anche levarci dai piedi.»
«Non avrei saputo dirlo meglio, tesoro!» esclamò Johanna. «Avanti, Gale, metti il turbo e sfanculaci fuori di qui!»
«Forte e chiaro.»
Gale fece scattare delle levette sopra di lui, poi strinse la manetta del gas e cominciò a spingerla in avanti. I rotori sulle ali aumentarono i giri, mentre il sibilo acuto del motore si trasformava in un rombo potente.
Due frammenti di roccia caddero sull’hovercraft, facendo risuonare la carlinga con un rumore sordo.
«Gale» disse Johanna, il tono pieno di apprensione.
«Ci sono» disse lui. «Ci sono.»
Con un sobbalzò, l’hovercraft si alzò da terra.
Johanna emise mandò un grido di gioia. «Vecchio bastardo, sapevo che ce l’avresti fatta!»
«Abbiamo appena cominciato» replicò lui, teso e concentrato. «Chiudi la rampa. Manopola vicino alla mia mano destra.»
«Ok, ce l’ho.»
«Girala verso di te.»
«Fatto.»
Nella stiva, Ayla accolse il sollevamento della rampa con gran sollievo. Guardò Dana, seduta accanto a lei, e controllò che avesse l’imbracatura ben allacciata.
«Sergente» disse Dana. «Ho visto qualcosa che non mi torna.»
Benvenuta nel club, pensò Ayla. «Che cosa?»
«Il cadavere con le spade, nell’hangar…»
«Sì?»
«…non ce le ha più.»
Ayla si girò per guardare fuori dall’hovercraft, lì dove avevano trovato i quattro guerrieri morti misteriosamente. La rampa però ormai era praticamente chiusa, e tutto quello che riuscì a vedere fu una sottile linea grigia che si spense in un paio di secondi.
«Non preoccuparti» disse a Dana. D’istinto, le prese la mano e gliela strinse. «Ora ce ne andiamo.»
 


Alle undici, ventitré minuti e cinquantotto secondi i mastodontici generatori d’energia della Montagna, lanciati a potenze dieci volte superiori le loro tolleranze massime e con i sistemi d’emergenza disattivati impossibilitati a fermarli, si annichilirono in una vampata incandescente. L’esplosione distrusse l’intero Sottolivello Cinque, incendiò il Sottolivello Quattro e scavò verso l'alto un pozzo di roccia e metallo fuso che arrivò a toccare il Sottolivello Tre, dove erano conservate le riserve idriche della base. Privo del supporto statico dei piani inferiori, il pavimento del Sottolivello Tre collassò, riversando centinaia di tonnellate d’acqua nel pozzo infuocato. L’enorme massa liquida dilagò nel Sottolivello Quattro, spegnendo gli incendi che si erano generati al suo interno, e irruppe nel Sottolivello Cinque. A contatto con la distesa di magma incandescente in cui si era trasformata la sala generatori, si vaporizzò istantaneamente trasformandosi in energia.
A quel punto, la Montagna esplose per davvero.
Il Terzo Squadrone del Cinquantunesimo Stormo da Caccia dell’Aviazione Ribelle stava passando in quel momento ad un centinaio di chilometri dalla Montagna, diretto nella fascia di territorio tra il Distretto Due e Capitol City dove l’esercito ribelle si stava preparando all’offensiva finale. I piloti credettero di soffrire di allucinazioni quando videro la base della Montagna ammantarsi di nuvole grigie e dense e l’intero massiccio sollevarsi in alto come se fosse un’astronave in procinto di abbandonare il pianeta; una frazione di secondo dopo, una luce accecante aggredì le loro retine, seguita da un’onda d’urto che mandò fuori scala tutti i sistemi e colpì gli hovercraft con la violenza di un uragano. Lo Squadrone dovette dare fondo a tutta la propria abilità di guida per restare in quota, i velivoli dispersi nell’aria come foglie secche sparpagliate da un bambino capriccioso; una volta ripreso il controllo, videro che sulle ceneri della base più imponente di tutta Panem si ergeva una gigantesca, oscura colonna di fumo, polveri e pezzi di Montagna di più di una ventina di metri di diametro lanciati a chilometri di altezza come fossero ghiaia.
A bordo dell’hovercraft di punta, il Sottotenente Terren Clyve si riscosse dallo sconcerto.
«Chiama il comando» ordinò all’Aviere Scelto Seck, seduto alla postazione di copilota. Il ragazzo fissava la torre infinita di tenebra, gli occhi vitrei e il volto tirato. «Seck, chiama il comando.»
«Signore» mormorò Seck, con un filo di voce. «Cos’era… che sta succedendo?»
La fine, pensò il Sottotenente Clyve. Della guerra. Del mondo. O di entrambe le cose.
 
 

Gradiente di vento, gradiente di vento, ripeteva ossessivamente la voce femminile. Gli allarmi e il frastuono dell’aria che martellava la carlinga dell’hovercraft accompagnavano le sue parole come una sorta di orchestra demoniaca, riempiendo la cabina di pilotaggio di un brutale e angosciante uragano di rumori.
«Stai zitta, brutta stronza!» le strillò Johanna. «Dov’è la mia ascia? Mi serve la mia ascia!»
«Dopo potrai fare a pezzi tutto quanto l’hovercraft se vuoi» le gridò di rimando Gale. «Ma ora tieni la barra dritta e piantala di litigare con il sistema d’allarme!»
Nessuno di loro aveva visto cosa fosse successo alla Montagna: ma a giudicare dall’onda d’urto che li aveva investiti doveva essere stato qualcosa di parecchio grosso. Gale era riuscito a malapena ad evitare che l’hovercraft si inabissasse in una spirale rotatoria senza via d’uscita, e ora lui e Johanna stavano dando fondo a tutte le energie per contrastare le terribili forze che si abbattevano incessanti sul velivolo.
 Fuori dal vetro della cabina, il mondo era avvolto in volute grigie e bruno chiare.
«Dove accidenti siamo?»
Gale diede una rapida occhiata ai sistemi di posizionamento. I numeri delle coordinate cambiavano senza soluzione di continuità, mentre la bussola ondeggiava come una zattera alla deriva in un mare in tempesta.
«Gli strumenti sono andati…»
«Magnifico!»
«…ma prima che entrassimo nel banco di nubi e saltasse tutto quanto eravamo diretti a Sud-Sudest, verso la nostra zona aerea.»
«E non pensi che entrare nella nostra zona aerea con un hovercraft della Montagna possa essere un minimo rischioso?»
«Basta che li avvertiamo prima che ci abbattano.»
«E con cosa, visto che non funziona un cazzo di niente qui dentro…»
Gradiente di vento, gradiente di vento
«…a parte questa intollerabile fracassapalle?»
«Ci penseremo una volta che avremo visto dove siamo. Ora stai pronta, scendiamo.»
Il più lentamente possibile, Gale mosse in avanti la barra di controllo. L’hovercraft venne attraversato da un lungo brivido, poi la pressione sulle sue tempie gli fece capire che il velivolo si stava abbassando.
«Tienilo fermo… tienilo fermo…» mormorò a Johanna. Le due barre si agitavano come cavalli imbizzarriti, cercando con tutte le sue forze di sottrarsi alla presa dei loro conduttori.
«Ha il culo pesante, questo affare» ringhiò Johanna, la fronte sudata e i denti serrati nello sforzo di tenere la barra dritta.
Gale vide le nubi farsi più rade e sfilacciate. Un rettangolo di terra comparve tra i riccioli fumosi di vapore condensato.
In quel momento, la voce cambiò argomento.
Cabrare, terreno; cabrare, terreno…
«Oh merda.»
La visione di una collina con alti alberi spogli riempì tutto il parabrezza della cabina.
«Oh merda!»
«Tira su, tira su!»
Gale e Johanna tirarono indietro le barre con tutta la forza che era rimasta loro. La carlinga vibrò mentre il muso dell’hovercraft si risollevava verso l’alto, i motori che urlavano e il metallo che gemeva sotto l’effetto dell’aria e della gravità.
Cabrare, terreno; cabrare, terreno…
Gli alberi si facevano sempre più vicini. Ora Gale poteva distinguere i loro rami secchi e contorti, le rocce alla base dei loro tronchi, la terra secca e bruna tutto intorno.
Cabrare, terreno; cabrare, terreno…
 «Avanti, avanti, avanti…»
La vibrazione della carlina era così forte da togliergli la sensibilità alle gambe. Lentamente, il cielo si stava riappropriando del parabrezza, cacciando gli alberi sempre più in giù sotto il ventre dell’hovercraft.
Con un ruggito di guerra, Johanna piantò un piede sulla plancia e inarcò la schiena all’indietro, in uno sforzo bestiale di tirare indietro la barra.
Gli alberi sparirono alla vista.
Gale lanciò un grido di gioia.
Poi uno schianto orribile si propagò dalla coda dell’hovercraft. Le barre di controllo schizzarono in avanti, sbattendo contro la plancia. L’hovercraft si tuffò in avanti, dritto contro la collina.
Caduta, terreno; caduta, terreno…
Furono le ultime parole che sentì, prima che il buio, il legno e la terra arrivassero a spegnere tutto.



Rosso. Nero. Rosso. Nero.
Non era la prima volta che l’esistenza di Clove si riduceva a quei due colori. Mentre qualcuno le toglieva l’imbracatura e la adagiava a terra, si chiese se non fosse il caso di smetterla di volare, visto che la cosa non sembrava portarle molta fortuna.
Serrò le palpebre, mentre il sangue che si era accumulato dentro la testa riprendeva a scorrere normalmente nel resto del corpo. Quando le riaprì, si rese conto di essere seduta sul soffitto dell’hovercraft. Davanti a lei, il ragazzo del Dieci che le aveva detto di chiamarsi Dan la scrutava.
«Bene, sei viva» le disse, con una voce brusca che sembrava più imposta che spontanea.
«Già» rispose lei, alzandosi in piedi con un gemito soffocato. «Restare morta è una cosa che mi riesce un po’ difficile.» Diede un rapido sguardo ai sedili vuoti. «Dov’è Cato?»
«Fuori. Insieme agli altri. Siamo stati… beh, è un po’ ridicolo da dire, ma siamo stati fortunati.»
Clove fece qualche passo in avanti. Con la coda dell’occhio vide Dan sollevare le mani per sostenerla e poi riabbassarle rapidamente, come se una bacchetta invisibile si fosse abbattatuta su di loro. Contrariamente a quanto credeva, non le venne in mente nessun commento sprezzante da fare.
Questa volta il mutevole corso degli eventi aveva deciso di risparmiarle la fatica di aprire il portellone. La cabina di pilotaggio e parte della stiva erano scomparsi; al loro posto c’era un canale di terra, rottami e brandelli di albero scavato dal velivolo lungo tutto il fianco della collina.
Nonostante il solle fosse coperto dalle nubi, la luce del giorno le fece comunque socchiudere gli occhi. Schermandosi il volto con una mano, individuò il resto dei passeggeri dell’hovercraft, riuniti in gruppo sparso ad una decina di metri del relitto. Vicino al tenente dell’Esercito Regolare e alla ragazzina dei Volontari con il vestito a fiori, Cato giaceva a terra, privo di sensi.
Clove corse verso di loro. Ad un paio di passi si bloccò, come se non riuscisse ad andare oltre.
«Come sta?»
La ragazzina dei Volontari sollevò gli occhi azzurri su di lei e la guardò con freddo distacco. «È vivo, ma ha perso parecchio sangue. Nell’hovercraft c’era un kit medico, così siamo riusciti a stabilizzarlo. La pallottola è uscita e non ha creato lesioni gravi, ma senza cure adeguate non ci vorrà molto prima che la ferita si infetti.»
«Bene» disse il sergente dei Volontari. «È il momento di decidere il da farsi.»
«Dov’è Katniss Everdeen?» chiese Dan.
«È andata a cercare i due valenti piloti» rispose il Capitano dell’Esercito Regolare. «Mi ha dato la sua parola d’onore che tornerà quanto prima.»
Clove vide l’altra ragazza bionda dei Volontari e il suo compare scambiarsi un’occhiata significativa.
Difficile dar loro torto, pensò. Con gente del genere a comandare l’Esercito Regolare, è incredibile che questa guerra non sia già finita.
«Il sergente ha ragione» disse il tenente. «Abbiamo bisogno di un piano. Innanzitutto, dobbiamo capire dove siamo.»
«E come facciamo, senza una mappa o una bussola?» chiese la bionda più grande.
«Potremmo salire in cima alla collina» disse il sergente. «Magari da lì si vede qualcosa.»
Il tenente annuì. «È un inizio. Un paio di noi possono risalire la collina, mentre il resto setaccia i rottami in cerca di qualcosa che—»
«Ha!» lo interruppe il capitano, guardando verso il canale scavato dall’hovercraft. «Ve l’avevo detto! La sua parola d’onore.»
Clove non poté fare a meno di rimanere sorpresa. La Ghiandaia Imitatrice, invece di scappare via come qualunque essere umano dotato di un minimo di cervello, stava tornando da loro, portandosi dietro i suoi malconci compari.
E lei avrebbe vinto gli Hunger Games?
Lei e il tipo alto che Clove aveva intuito venire sempre dal Dodici fecero sedere a terra la Vincitrice del Distretto Sette. La ragazza era cosciente, ma non sembrava capire molto di quello che stesse succedendo.
«Miss Everdeen» disse il capitano. «Sono lieto di vedervi sana e salva.» Con la gravità di un cerimoniale di stato, drizzò la schiena e le fece il saluto militare. «È un onore combattere con un avversario come voi.»
Katniss Everdeen lo fissò per qualche momento. «Se lo dice lei» borbottò infine.
«Avreste potuto scappare, ma non l’avete fatto. Solo una vera gentildonna si comporterebbe in tal modo.»
Le labbra della Ragazza di Fuoco si piegarono in un piccolo sorriso ironico. «Mi sono sentita chiamare in parecchi modi, ma mai gentildonna
«Questo è perché lei ha deciso di schierarsi con una masnada di selvaggi incivili e maleodoranti. Se combattesse per l’unica, vera, giusta causa, non riceverebbe altro che elogi.»
«Oh, non ho dubbi in proposito.» Katniss Everdeen passò accanto al capitano, gli diede una pacca sulla spalla e si avvicinò al sergente e al tenente. «So dove siamo.»
«Davvero?» chiese il tenente, stupito.
Lei fece un breve cenno di assenso. «Il muso dell’hovercraft era quasi in cima alla collina. Mi sono arrampicata su un albero per avere una visuale migliore.» Indicò verso Nordovest, lì dove il fianco della collina irto di tronchi continuava a scendere. «Di là c’è Capitol City. Neanche un giorno di marcia, probabilmente.» Spostò il braccio di una frazione di giro verso destra. «Lì invece ci sono i ribelli. Un po’ più lontani, ma non di molto.»
«Numi del cielo» esclamò il capitano. «Già così vicini?»
«A quanto pare.»
Il capitano Aber guardò a terra, il volto tirato e l’espressione grave. Sospirò, poi riportò gli occhi su Katniss Everdeen. «Miss Everdeen, il mio amore, la mia lealtà e il mio onore vanno a Capitol City. Il mio dovere è difenderla, e farò tutto quello che è in mio potere perché questo accada.» Indicò il volto pallido di Cato, ancora privo di sensi. «Se quello che sostiene questo ragazzo è vero, io e voi abbiamo un traditore in comune. Pertanto vi libero dalla vostra condizione di prigioniera di guerra, e vi esorto a riferire al vostro Alto Comando che il Colonnello Aelius Rorke è un nemico del genere umano, e che qualunque cosa abbia offerto loro in dono va distrutta prima che possa rivoltarsi contro di voi – e infine contro noi tutti.»
Sul gruppo cadde un silenzio pesante e teso. L’unico rumore era il sibilio della carlinga surriscaldata dell’hovercraft.
«Aspettate» disse infine il ragazzo dei Volontari dalla pelle olivastra. «Cosa?»
«Loro non lo sanno» disse Dan al capitano.
«Sapere cosa?» chiese l’amico alto di Katniss Everdeen.
«Che è in atto un piano per cancellare Panem dalla faccia della Terra» disse Clove. «Un piano folle che prevede un arsenale nucleare, supersoldati corazzati e due fazioni troppo impegnate a distruggersi a vicenda per notare che nella partita c’è un terzo giocatore che punta a rubare loro la vittoria.»
«Quegli affari che ci hanno attaccato nella Montagna» continuò Dan. «Erano una prova. Un test per verificare le loro prestazioni. Questo Rorke, chiunque egli sia, ha creato un esercito di mostri e li ha dati sia a Capitol City che al Tredici, come arma segreta da usare come ultima risorsa. Nessuno dei due sa che anche l’altro ha quest’arma. Quando verrà il momento Rorke li attiverà, prenderanno il controllo di entrambe le riserve nucleari e distruggeranno tutti i Distretti. Una volta fatto, quelli del Tredici sovraccaricheranno i generatori come hanno fatto con quelli della Montagna, e sarà tutto finito.»
«Ma… non ha senso!» esclamò la bionda più grande dei Volontari. «Senza i Distretti Capitol non può sopravvivere.»
«È quello che ho detto anche io» rispose Clove. «Ma Rorke pare avere un piano anche per quello.»
«Non è possibile» disse l’amico di Katniss.
Clove lo guardò negli occhi. «Stai parlando con una persona morta da due anni. Dovresti fare una revisione a quello che ritieni impossibile.»
«Ok, mettiamo che abbiate ragione» disse il tenente. «Se il piano prevede di prendere il controllo del Tredici e farci saltare tutti per aria, perché siamo ancora qui? Questi… supersoldati non dovrebbero aver già compiuto la missione?»
«Forse è quello che stanno facendo in questo momento» disse Clove. «O forse non sono ancora pronti per essere risvegliati. In ogni caso, non c’è tempo da perdere.»
«Io andrò a Capitol City a informare il comando» disse Aber. «Miss Everdeen farà lo stesso con i ribelli. Una volta tolto di mezzo il Colonnello Rorke, potremo tornare a decidere del destino di Panem come si deve.»
«Ci state chiedendo di fidarci di voi sulla parola» replicò il sergente dei Volontari. « Di qualcosa che avrei difficoltà a non ritenere ridicolo anche se me lo dicesse la persona di cui mi fido di più al mondo. E di cui non avete le prove, ma solo, da quanto ho capito, la testimonianza di questo sconosciuto…»
«Non è uno sconosciuto» disse Katniss Everdeen. «È il tributo maschio del Distretto Due dei Settantaquattresimi Hunger Games. Io l’ho visto morire.» Sollevò lo sguardo su Clove, e ancora una volta i loro occhi, così simili e così diversi, si incontrarono. «Tu credi che Cato abbia ragione?»
«Sì.»
Non credeva che l’avrebbe detto così velocemente. Fino a quel momento, non credeva di esserne davvero convinta. Ma a quanto pareva, era così.
A quanto pareva, Clove avrebbe voltato le spalle all’uomo che le aveva ridato la vita. E tutto per un qualcosa che non riusciva neanche a comprendere.
Sopravvivenza? Competizione? Lealtà?
Fede?

«Bene» disse Katniss Everdeen. «Allora gli credo anche io.»
«Ma—» tentò di dire il suo amico.
«Se hanno ragione salviamo il mondo, se ci sbagliamo sarà solo un falso allarme» ribatté lei. «Vale la pena tentare.»
Lui sospirò, alzando le mani. «Come vuoi.»
«La Storia ricorderà la vostra rettitudine, Miss Everdeen» disse il capitano Aber. «Infine, le nostre strade si separano. Tenente, confido che lei e la signorina riusciate a trasportare il nostro ragazzone qui a terra. Andremo un po’ lenti, ma in quattro dovremmo—»
«In cinque» lo interruppe Dan. «Vengo anche io.»
Il capitano lo fissò perplesso. «Figliolo, apprezzo il vostro entusiasmo, ma—»
«L’entusiasmo non c’entra nulla» ribatté lui. «L’esercito di supersoldati di Capitol City è nascosto in due luoghi. Uno di questi è la Piazza dei Martiri dei Giochi.» Accennò a Clove. «Essendo anche lei un giocattolo di Rorke, è la nostra chiave per entrare nella base segreta. Io devo fare in modo che ci arrivi viva.» Fece una pausa, guardò l’assassina di sua sorella e riportò lo sguardo sul capitano. «Dove va lei, andrò anche io.»
Aber rimase in silenzio, stupito dal quel discorso. «Beh, giovanotto, se siete così desideroso di infilarvi tra le fauci della bestia non sarò certo io a fermarvi. Ma c’è un problema: una volta a Capitol City, il mio dovere mi impone di catturarvi in quanto nemici di Panem.»
«Non sarà necessario» disse Dan. «Prima di entrare nella città, ci separeremo. Una volta avvisato il suo comando, potrà fare quello che riterrà più opportuno.»
 Il capitano lo scrutò con attenzione, le mani intrecciate dietro la schiena. «Si può fare» disse alla fine. «Allora anche lei verrà con noi, signor…»
«Dan. Dan Martin.»
«Ottimo, signor Martin. Lei prenderà il posto della signorina nel trasporto del nostro amico ferito. E con questo è tutto, direi.»
«Non proprio» disse il compare della ragazza bionda. «Vengo anche io.»
«Come?»
«Lee, non essere stupido» scattò Dan. «Non—»
«È inutile che parli, non ho intenzione di ascoltarti.»
«Ti servirà aiuto, lì dentro» aggiunse la ragazzina. «E poi, ormai siamo una squadra.»
«Già» mormorò l’altra bionda. Fece un respiro profondo, poi fece un cenno d’assenso con la testa, come se stesse rispondendo a una domanda che lei stessa si era posta. «Noi siamo con te, Dan. E poi, dopo il Quattro e la Montagna, il resto può solo farci il solletico.»
Dan li guardò uno dopo l’altro, non sapendo come ribattere. Alla fine, il suo sguardo cadde sul sergente. «Gli dica qualcosa» la implorò. «Non può lasciarli andare.»
«No, infatti» ribatté lei. «È per questo che verrò con loro.»
«Rassegnati, Dan» disse Lee, una smorfia divertita sul volto. «Sei fregato.»
«Voi non…» Dan provò a dire qualcosa, poi lasciò che le mani gli sbattessero sulle gambe. «E va bene. Come ha detto il capitano, non posso impedirvi di gettarvi in bocca alla bestia.»
«È la prima volta che mi capita di avere così tanti volontari in squadra» osservò il capitano, quasi divertito. «Di norma ho il problema contrario…»
Ayla si girò verso Katniss Everdeen. «Voi ce la farete ad arrivare dai nostri?»
«Non preoccupatevi» rispose lei. «Io e Gale sappiamo muoverci tra gli alberi.»
«E alle brutte posso sempre buttarne giù un paio» biascicò la Vincitrice del Sette. Tese una mano verso Gale, che si affrettò a stringergliela per aiutarla a rialzarsi in piedi.
«Come stai?» le chiese Katniss.
«Una discreta merda» rispose lei. «Ma mi posso muovere.»
Katniss Everdeen si girò verso il resto del gruppo. Clove ebbe l’impressione che le sue labbra tremassero.
Vuole dire qualcosa, ma non ne è capace.
Fu una consapevolezza che lasciò quasi stordita. Qualcosa la colpì al fianco, e per un attimo lei pensò che qualcuno l’avesse attaccata a tradimento; ma niente si era mosso intorno a lei. Era una strana fitta quella che l’aveva colta di sorpresa; un qualcosa da cui non poteva difendersi, perché centrava direttamente un luogo di cui lei non aveva mai avuto la minima cura e di cui non aveva mai sentito il bisogno. Perché, semplicemente, aveva sempre dato per scontato di non possederlo.
Il capitano Aber estrasse la sciabola e portò la lama al volto.
«Terza compagnia!» esclamò. «Onore alle armi!»
Il tenente dell’Esercito Regolare guardò il suo superiore con aperto sbigottimento; ma prima che potesse fare alcunché, anche il sergente dei volontari decise di impartire un ordine.
«Fanteria di Linea Volontaria! In-riga!»
La voce della donna agì come un interruttore dentro le teste dei quattro ragazzi. Anche Dan, che più tra tutti aveva altro a cui pensare, si ritrovò di fianco a Dana, lo sguardo dritto davanti a sé.
«Presentat-arm!»
Penny e Lee portarono il proprio fucile parallelo al proprio corpo e ad una decina di centimetri da esso, la canna dell’arma puntata verso il cielo; Dan e Dana, che erano disarmati, portarono le dita tese della mano alla tempia.
Clove vide il sergente lanciare una rapida occhiata al tenente; dopodiché, anche lui si mise in posizione.
Sarebbero dovuti essere uno spettacolo miserabile, quei sette fantaccini sporchi, smunti e quasi tutti senza neanche un’uniforme; eppure, Clove non poté fare a meno di avvertire una strana, gentile forza prenderla all’altezza del petto. Guardò verso Katniss Everdeen, impietrita e con gli occhi spalancati come un cervo sul punto di essere investito da una frana, ed ebbe la certezza che non avesse la minima idea di cosa fare.
Muovendosi senza fare alcun rumore, il tipo alto del Dodici le arrivò dietro e le mise una mano sulla spalla, facendola sussultare. Le mormorò qualcosa all’orecchio, a cui lei rispose con un piccolo assenso.
Katniss Everdeen passò in rassegna con lo sguardo un’ultima volta quell’assurdo e impossibile picchetto d’onore in riga dinanzi a lei. Clove non era abbastanza vicina da poterne essere sicura, ma le parve di vedere scintillare qualcosa di umido nei suoi occhi.
La Ragazza di Fuoco sollevò la mano, il mignolo e il pollice già pronti a toccarsi; ma quando le dita furono all’altezza del petto cambiò idea, e le poggiò strette a pugno sul cuore. Rimase lì per un lungo momento, gli occhi castani fissi in un punto imprecisato tra le spalle del sergente e quelle del tenente; poi fece un lungo respiro, voltò loro le spalle e, insieme ai suoi due compagni, si inoltrò tra gli alberi, scomparendo alla vista.


 
Dolore pulsante e uno spicchio di cielo.
Nella penombra, il corpo massiccio di lui sembrava un cumulo di sacchi di pietre. Nascondersi lì dentro era sembrata una buona idea, all’inizio. Poi era iniziata la danza, e ancora dopo la centrifuga.
Si arrampicò sopra i lunghi fusti delle bombe, e raggiunse la sottile linea di luce. Il fatto che tutto quell’esplosivo non fosse detonato dopo quell’atterraggio era semplicemente incredibile. Destino, pensò. Neanche il destino può uccidermi.
Il portello si mosse sotto la sua spinta. Quando il metallo contorto iniziò a gemere, si fermò. Non doveva fare troppo rumore. Se erano ancora lì fuori, la sorpresa era essenziale. Non tanto per motivi tattici: li avrebbe ammazzati tutti comunque, che la vedessero arrivare o meno.
Semplicemente, rendeva tutto più divertente.



«Rapporto» frusciò la voce di Rorke nell’auricolare.
«Siamo sul sito dello schianto» disse il Nero. «L’hovercraft è vuoto.»
«Nessuna vittima?»
«Affermativo.»
Qualche istante di silenzio. «Proseguite verso Capitol City. Ares e Artemisia si stanno dirigendo lì. È probabile che stiano inseguendo gli obbiettivi.»
«Sì, signore.»
Il Nero represse l’impulso di toccarsi la benda sull’occhio. Sapeva che il colonnello avrebbe potuto riempire con qualche ottica avveniristica l’orbita massacrata dal colpo del fucile di precisione che lo aveva quasi ucciso; ma Rorke non l’aveva fatto, né lui l’aveva chiesto. Era la giusta punizione per essersi lasciato sorprendere.
«Buona caccia, sergente. Passo e chiudo.»
«Passo e chiudo.»
Il Nero chiuse la comunicazione. Davanti a lui, il Bianco tratteneva a stento il nervosismo.
«Allora?»
«Si va verso Capitol.»
«Gemma di Panem, città potente…» salmodiò a bassa voce Phobos.
«Recuperiamo i nostri compagni. Uccidiamo il resto.»
Il Bianco fece un ghigno compiaciuto. «Il mio gioco preferito.»
Quelle parole fecero prudere nuovamente l’orbita vuota del Nero. Un gioco. Una parte di sé sapeva che per il colonnello il Battaglione IEROS non era altro che quello; ma qualunque cosa pensasse Rorke, per lui non aveva importanza. Quei ragazzi erano la sua squadra. E nessuno di loro sarebbe rimasto indietro.



Una volta chiusa la comunicazione, lo sguardo di Rorke si spostò sulle immagini riprese dal drone spia di cui aveva discretamente preso il controllo per qualche minuto. I tronchi nudi, il solco lasciato dall’hovercraft, i Volontari e i Regolari sull’attenti e il pugno della Ghiandaia Imitatrice sul cuore. Qualche istante, e quelle immagini sarebbero stati inviate in via estremamente confidenziale al Palazzo Presidenziale e al Distretto Tredici. Un solo video, due significati opposti e complementari.
Katniss Everdeen collabora con il nemico.
Quattro traditori delle Forze Armate di Panem collaborano con Katniss Everdeen.

I due Presidenti avrebbero tratto le loro conclusioni. Era possibile che il loro contributo non sarebbe servito; ma perché negare loro la possibilità di partecipare?
Rorke si avvicinò alla finestra panoramica del suo ufficio. Il profilo frastagliato e multiforme di Capitol City splendeva di fronte a lui.
«Per me, dico, datemi la guerra» mormorò.
Poi sollevò il bicchiere di vino che teneva in mano e brindò all'ultimo atto di Panem.








L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA E mentre Rorke continua con il suo strano hobby di fare cose teatrali (in questo caso letteralmente, visto che a questo giro si è messo a citare una tragedia di Shakespeare. Indovinate qual è il suo titolo...) completamente solo nella sua stanzetta, a noi non resta che renderci conto che sì, sembrava impossibile, ma siamo veramente entrati nell'ultimo atto di questa storia. I nostri sono lanciati in una missione impossibile per salvare il mondo, mentre i Ribelli sono decisi a sferrare l'ultimo, terribile attacco contro il Leviatano di Panem. Forse il destino di Capitol City è segnato; ma quel che è certo, è che non si arrenderà senza lottare.
Come sempre, se siete giunti fin qui, tutto all'infuori di "grazie" è semplicemente superfluo. Occhio agli angoli, non sprecate colpi e in bocca al lupo... ci vediamo lì dentro.  




 

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Capitolo 22
*** Un mostro chiamato destino ***


21.
Un mostro chiamato destino
 
No one knows where the ladder goes
You’re gonna lose what you love the most
You're not alone in anything
You're not unique in dying

- Lorde, The Ladder Song





La sentinella che aveva quasi rischiato di ucciderla teneva lo sguardo piantato a terra mentre la conduceva verso l’edificio dove si era acquartierato il generale Paylor, comandante in capo della Quinta Armata ribelle. Katniss conosceva il viso della donna, avendolo visto molte volte nei video di propaganda del Distretto Tredici, ma non l’aveva mai incontrata di persona. Era piuttosto sicura che avrebbe ascoltato quello che aveva da dire; ma che ci avrebbe poi creduto, sarebbe stata tutta un’altra questione.
«Katniss – cioè Miss Everdeen» balbettò la sentinella, che ancora non riusciva a sollevare gli occhi dalle sue scarpe. «Io non so come—»
«Tranquillo» rispose lei, per la terza volta. «Non è stata colpa tua. Non sono abituata a fare rumore.»
Il proiettile le era passato a qualche centimetro dall’orecchio sinistro. Il fischio era quasi sparito, ma non se n’era ancora andato. Per fortuna Johanna non era nel pieno delle sue forze, pensò. Altrimenti lo avrebbe fatto a pezzi a mani nude.
Percorrevano quella che un tempo avrebbe dovuto essere una strada, ma che ormai era talmente ricoperta di erbacce e detriti da lasciar intravedere l’asfalto solo in qualche punto – piccole macchie crepate che testimoniavano di un tempo remoto in cui quella che ora era solo una serie di rovine nascoste da felci e rampicanti doveva essere stata una vera e propria città.
Katniss provò ad immaginare un mondo disseminato di tante Capitol City, una nazione costituita da una moltitudine di palazzi, ponti e grandi viali. Il pensiero le fece girare la testa.
Ai bordi della strada, per terra e tra le rovine, i soldati della Quinta Armata erano accampati in diversi gradi di dissolutezza e organizzazione. Katniss aveva temuto di venire circondata da una folla sbigottita prima di riuscire a raggiungere il generale, ma praticamente nessuno sembrava badare a lei e ai suoi compari. I soldati borbottavano, si agitavano inquieti, mentre tutti gli sguardi erano puntati lontano, verso ovest, lì dove l’enorme colonna di fumo della Montagna saliva su fino in cielo, espandendosi sempre di più – come lo spettro di quella guerra che, anche se ormai giunta alle porte della capitale nemica, nessuno riusciva ad avvertire come prossima alla fine.
Nessuno li disturbò. Giunsero di fronte a quello che un tempo doveva essere stato un immenso grattacielo, ma di cui non rimaneva altro che una mezza dozzina di piani. I pilastri d’acciaio ritorti che sbucavano fuori dalla sommità della rovina parevano una sinistra corona di chiodi.
Una soldatessa dei Volontari prese in consegna i tre. Mentre la sentinella biascicava ancora smozzicate parole di scuse per aver quasi ucciso per sbaglio la Ragazza di Fuoco, la giovane donna squadrò Katniss, come se volesse essere sicura che fosse veramente lei e non un qualche inquietante doppione mutato di Capitol City. Katniss si aspettava che la soldatessa le facesse almeno qualche domanda, ma lei non disse nulla mentre li accompagnava su per delle scale mobili consumate dalla ruggine e ricoperte di rampicanti. Tutta quell’indifferenza la inquietava: era l’ultima persona sulla Terra ad aver bisogno di attenzioni, ma dopo tutti gli spot, la propaganda e le tre dita tese verso il cielo scoprì che ritrovarsi non più al centro di tutto la destabilizzava.
Salirono altre due rampe di scale, attraversarono un corridoio e giunsero di fronte ad una porta sorvegliata da due guardie in uniforme. Katniss, abituata al nero del Distretto Tredici, si stupì di vederle vestite in grigio-verde.
«Prego» disse la soldatessa dei Volontari. «Il generale vi aspetta.»
La stanza, di forma semicircolare, presentava su tutta la sua superficie curva una lunga vetrata che, sebbene macchiata, graffiata e opaca in molti punti, era riuscita a resistere alla prova del tempo. Oltre i finestroni si vedeva la strada lungo cui la sentinella li aveva condotti fin lì, poi i boschi, il profilo di una collina e infine, in fondo, tremolanti nell’aria come una Fata Morgana, le torri e i grattacieli di Capitol City.
«Katniss Everdeen.»
Katniss spostò lo guardo verso il centro della stanza. Dietro un piccolo tavolo luminoso su cui degli ologrammi evanescenti e tremolanti quanto il profilo della città all’orizzonte mostravano la mappa tridimensionale della capitale, gli occhi scuri del generale Paylor erano puntati su di lei.
Sullo schermo sembrava più alta, fu il primo pensiero di Katniss. Ma le telecamere finiscono sempre per distorcerti. A me fanno addirittura sembrare un’eroina.
«Generale.»
Doveva aggiungere qualcos’altro? Per favore, prima di fucilarci, potreste un attimo starci a sentire? Era sempre stata un disastro a parlare. Anche i discorsi mandati giù a memoria le parevano sempre forzati e fiacchi quando uscivano dalla sua bocca. Il fatto che un intero esercito la considerasse un simbolo e non un patetico manichino era un mistero che forse non sarebbe mai riuscita a spiegarsi.
Sentì Gale accanto a sé muoversi in maniera impercettibile. Stava per parlare – forse per dire proprio quello che lei stava pensando –, ma il generale Paylor alzò una mano per bloccarlo.
«Lasciateci soli» disse ai tre ufficiali intorno al tavolo e alle quattro guardie in divisa grigio-verde che piantonavano la stanza. «Adesso» aggiunse, vedendo che nessuno pareva muoversi.
I militari passarono rapidamente ai lati del trio come un torrente intorno ad un gruppo di rocce. Il generale Paylor rimase con gli occhi puntati su di loro finché non furono tutti usciti dalla stanza, poi fece loro cenno di avvicinarsi.
«Miss Everdeen. Cominciavamo a chiederci dove foste finita.»
«L’abbiamo portata a fare un giretto» disse Johanna. «Ho visto quali danni al cervello può fare lo stare tutto il tempo sotto terra...»
Il generale Paylor fece un piccolo sorriso. «Se vuole continuare a fare dello spirito, Mason, le consiglio di essere un po’ più arguta. Quelli del Tredici non sono stupidi. Non così tanto, almeno.»
Gale lanciò a Johanna una lunga occhiata – come a dirle che era una faticaccia dirle sempre te l’avevo detto, ma, che diamine, gliel’aveva proprio detto; lei lo fulminò con lo sguardo, poi abbassò gli occhi sulla mappa tridimensionale di Capitol City e incrociò le braccia. «Così ci siamo, eh?»
Lo sguardo del generale Paylor si perse per qualche momento tra i viali e le guglie della città.
«Ci siamo.»
«Signora» disse Katniss Everdeen. «Temo che Capitol City possa non essere il nostro problema principale, al momento.»
Il generale Paylor puntò le iridi scure su di lei, aggrottando le sopracciglia.
«Come?»
Katniss esitò. Ancora una volta, le parole le si incastrarono in gola. Doveva aspettare che Gale o Johanna parlassero al posto suo? Perché non potevano essere loro gli stramaledetti simboli della Rivoluzione? Anche Johanna aveva vinto gli Hunger Games, ed era molto più in gamba e spigliata di lei; Gale era più sveglio, più sicuro di sé, senza contare che ne sapeva di armamenti, tattiche e strategie più di quanto lei avrebbe potuto imparare in una vita intera. Lei non era altro che una ragazzina che per non crepare di fame aveva dovuto imparare a cacciare di frodo. Era questo che serviva per essere un eroe?
«Questa guerra potrebbe essere già finita, signora» si sentì dire. «E non saranno né Capitol né la ribellione a rivendicare la vittoria. Qualcuno si è infilato tra i due contendenti e conta di toglierli di mezzo ora che sono al limite. È stato lui a distruggere la Montagna. Ora sta per toccare a Panem.»
Il generale Paylor fissò le tre facce che le stavano di fronte una dopo l’altra. Alla fine, i suoi occhi ritornarono su Katniss. Il suo sguardo era fermo e teso come un cavo d’acciaio.
«Chi» disse.
Katniss fece un lungo respiro. Che vada come deve andare.
«Ha mai sentito parlare del colonnello Aelius Rorke?»



«È inutile che continui a guardare fuori» disse Ares. «Ci metteranno ancora un po’.»
«Non si è mai troppo sicuri» grugnì Artemisia.
«Vero. Ma se non ti riposi sarai meno efficiente e finirai per commettere un errore di troppo.»
Lei gli scoccò un’occhiata acida. «Cos’è, sei diventato il nuovo caposquadra?»
«No» rispose lui, stupendosi della fretta con cui l’aveva fatto. Fece un lungo respiro, poi continuò. «Hai ragione.»
«Lo so» ribatté lei, con uno sdegno che le risultò più fiacco di quanto avesse creduto. Riportò lo sguardo sul vetro tondo dell’abbaino e riprese a scrutare fuori; dopo un po’, però, i suoi occhi tornarono su Ares, seduto per terra con il gomito destro appoggiato sul ginocchio sollevato.
«Sei strano.»
Lui sollevò la faccia, impassibile come sempre.
«Strano?»
«Non sei mai stato un chiacchierone, grazie al cielo; ma ultimamente sei…»
«…strano
«Già.»
Ares si alzò da terra, andò verso uno scaffale di metallo e percorse con lo sguardo le scatole polverose che erano allineate sui ripiani.
«Perderemo, lo sai vero?»
Le iridi verdi di Artemisia si fecero lontane e fisse come quelle di un gatto.
«Noi?»
«Capitol, il Presidente, il governo… siamo ormai alla fine.»
«È già successo che i ribelli arrivassero alle porte della capitale. Non—»
Ares si girò verso di lei. «Questa volta è diverso. E tu lo sai.»
«Cosa è diverso?» ringhiò Artemisia. «Quella deficiente di Katniss Everdeen? Mi pare che anche tu abbia avuto modo di vederla. È una cazzo di morta di fame...»
«È un simbolo. E la forza di un simbolo non sta nell’essere potente di per sé, ma nel rendere potenti tutti gli altri.»
«Quindi non ho capito, hai deciso che è tempo di saltare allegramente dalla parte dei ribelli?»
Ares si irriggidì. Lo sguardo si fece di ghiaccio. Il corpo di Artemisia si tese per istinto, pronto al contrattacco.
«Mai.»
La parola aleggiò a lungo nell’aria sospesa della mansarda. I due IEROS si fissavano, come due predatori pronti a scattare.
Sorprendentemente, fu Artemisia la prima a sciogliere la tensione.
«Ok» disse, rilassando i muscoli ma continuando a tenere gli occhi fissi su di lui. «Bene.»
«Il colonnello Rorke è il mio comandante. Gli obbedirò fino alla fine.»
Nella mansarda tornò il silenzio. Ares si allontanò dallo scaffale, passò accanto ad Artemisia e si sedette sul bordo dell’abbaino.
Artemisia si guardò intorno, incrociò le braccia, le distese, appoggiò il peso prima su un piede e poi sull’altro.
«Non volevo intendere che tu fossi codardo» buttò fuori ad un tratto, con un tono che pareva quasi sorpreso di se stesso.
«Lo so.»
«È solo che…» Artemisia contrasse la mascella, poi sbuffò dal naso. «…merda, Ares, sei il... miglior guerriero che conosca. Non è da te… questo.»
«Lo so.»
Il testone di Ares continuava ad essere rivolto verso la finestra. Con una strana circospezione, Artemisia si avvicinò a lui. Sollevò una mano, l’abbassò, la sollevò di nuovo e a tentoni, come se la muovesse al buio, la diresse sulla sua spalla.
All’inizio, Ares non parve neanche accorgersi del tocco; poi, ad un tratto, ruotò la testa verso di lei, lo sguardo che partiva dalla mano e saliva verso i suoi occhi.
La mano di Artemisia saltò via come se la spalla fosse diventata bollente, mentre le guance della ragazza guerriera ebbero un guizzo brunastro prima di tornare pallide come sempre. Se non fosse stata Artemisia, Ares avrebbe quasi potuto dire che fosse arrossita.
Si sentì d’un tratto scomodo, lì sul davanzale di quella finestra. Stava per alzarsi e andare di sotto – con una scusa, qualunque motivo sarebbe andato bene – quando la voce di lei lo interruppe.
«Guarda.»
Ares scrutò fuori dalla finestra.
Oltre la curva della stradina, sulla linea degli alberi, qualcosa si stava muovendo.



Clove seppe che erano giunti nei pressi della capitale perché gli alberi si erano fatti rigogliosi, ordinati, quieti – come se anche loro fossero influenzati dall’aria di superiorità di cui erano imbevuti gli abitanti di Capitol City. Forse lo sono davvero, pensò. Saranno stati bio-ingegnerizzati per essere il miglior sfondo alla finestra di qualche nuovo ricco dei sobborghi. Magari si tagliano anche i rami da soli.
Dalla testa della fila – dove si trovava quel fanfarone del capitano – giunse un’esclamazione di sorpresa.
«E questa sarebbe la periferia?»
A parlare era stato Lee, il ragazzo mulatto dei Volontari. Clove trovava il suo facile entusiasmo irritante e i piccoli gesti che si scambiava con la sua compare bionda patetici e molesti, ma doveva ammettere che rispetto ai suoi compari di scudo era una compagnia decisamente meno… beh, inquietante.
Allora, Clove, com’è stare con degli esseri umani? La vita è strana senza il lavaggio del cervello…
Sbuffò irritata per scacciare quel pensiero e rinsaldò la presa sul braccio di Cato, il cui peso aveva cominciato a crearle crampi al collo e alle spalle ormai da qualche ora.
«Stanca?» le disse Dan, in una strana voce che rendeva impossibile capire se la stesse prendendo in giro o fosse sinceramente interessato.
«A posto» replicò lei. «Andiamo.»
Il gruppo uscì dagli alberi. Davanti a loro, la curva di una stradina di asfalto proseguiva dritta, circondata da entrambi i lati, con regolarità perfetta e armoniosa, da eleganti villette a due piani dalle facciate di pietra bianca, adornate di statue di marmo dalle proporzioni impeccabili e lo sguardo grave e ponderato. Dopo un centinaio di metri, la stradina si concludeva in una rotonda, al centro della quale si riusciva a distinguere un albero dall’aria antica e il tronco ricurvo e nodoso.
«Non sembra esserci nessuno» disse Dana, la piccola Volontaria che Clove non riusciva a guardare negli occhi – perché non aveva tempo da perdere con certe irritanti bimbette, era la scusa a cui faceva finta di credere.
«Meglio non correre rischi» disse il sergente. «Avanziamo con calma e lontano dalla strada.»
Nessuno la contraddì, neanche il capitano – almeno un minimo di cervello ce l’ha, pensò Clove –; il gruppo prese dunque a seguire a distanza il percorso della stradina, tenendosi vicino alla linea degli alberi e passando accanto ai giardini sul retro delle villette.
«Guarda tu questi bastardi» disse la volontaria bionda, che Clove aveva inteso chiamarsi Penny. «In una sola di questa casa potrebbero viverci almeno venti persone.»
«E questo è niente» disse il tenente. «Per i capitolini del centro, gli abitanti dei sobborghi sono a malapena degni di essere salutati per strada.»
Penny rimase in silenzio per qualche momento, poi replicò.
«Come avete fatto a vivere per così tanto tempo senza rendervi conto che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo?»
«Potrei farti la stessa domanda.»
Clove trovava quello scambio del tutto fine a se stesso. Quello che era successo era successo, non aveva senso rimuginarci sopra. Se i Distretti erano stati così stupidi da farsi dominare per settantacinque anni, peggio per loro; Capitol City aveva goduto dei benefici della propria forza, fin quando non ne aveva persa abbastanza da permettere ai suoi schiavi di arrivare armati alle sue porte. Uccidere o essere uccisi. Semplice come tutte le grandi verità.
Giunti all’altezza della rotonda, il sergente fece segno di muoversi verso di essa, raccomandandosi di avanzare in formazione più larga possibile e di buttarsi a terra al primo sentore di una minaccia. La piccola Volontaria, però, sembrava aver avuto ragione: neanche un’ombra si mosse da dietro le finestre delle due villette davanti a loro, e nessun rumore sospetto giunse alle loro orecchie mentre si infilavano nello spazio tra le due case, si accostavano al muro di quella di destra e proseguivano fino all’angolo tra il muro e la facciata della villetta.
«Ok, voi aspettate qui» disse il sergente. «Io entro dentro a vedere se la casa è libera.»
Se speri di potertene andare da sola senza che il caro tenente venga a tenerti la mano, ti sbagli di grosso, fu il pensiero di Clove.
«Vengo anche io» disse il tenente.
Chi l’avrebbe mai detto…
«E anche io» disse la ragazzina dei Volontari. «Magari dentro ci sono delle medicine o qualcosa che posso riciclare come tali.»
Il sergente esitò; ma Clove sapeva già come avrebbe risposto.
«Va bene. Voialtri, restate qui.»
Clove si accorse che il capitano stava per replicare – molto probabilmente per protestare di essere stato scavalcato in maniera così poco elegante – ma il tenente fu lesto ad anticiparlo.
«Pattuglia di ricognizione: giusto, signore?»
«Ehm – certo, sì. Giusto, giusto…»
«Se entro mezz’ora non siamo tornati…» disse il sergente, «…beh, che diamine, venite a cercarci.»



Stanno entrando.
Lo so.
Sei pronta?
Sempre.
Aspettiamo che si sentano a loro agio.
Ovviamente.
Io prendo i due. La ragazzina la lascio a te.
Oh, che caro… sei sempre così gentile.




«Poggiamolo» disse Dan.
Clove assentì. I due adagiarono Cato a terra, appoggiandogli la schiena al muro della villetta. Una volta liberato dal peso, Clove si sgranchì le spalle.
«Pesa» disse Dan.
«Anche troppo» replicò lei. «Non vedo l’ora che si svegli.»
Le palpebre di Cato tremolarono. Mormorò qualcosa di incomprensibile, poi dischiuse gli occhi.
«Mi sa che ti ha sentito» disse Lee.
Clove si inginocchiò di fronte a Cato. «Ehi. Mi senti?»
Lui serrò le palpebre, poi le riaprì. «Acqua» mormorò.
«Acqua» ripeté Clove a Dan.
«Ok.» Dan si guardò in giro, poi sembrò trovare qualcosa. «Ok. Un secondo.»
Tornò indietro costeggiando il muro per qualche metro. Un grazioso rubinetto usciva dalle fondamenta della villa: attaccato ad esso, un tubo di gomma gialla arrotolato in numerose spire.
«Spero sia potabile» disse, girando il rubinetto.
«Non siamo mica dalle vostre parti» ribatté piccato il capitano Aber. «Certo che è potabile.»
L’acqua prese a zampillare dall’imboccatura del tubo. Dan lo portò verso Cato, che mise le mani a coppa e prese a bere avidamente. A quella vista, il resto del gruppo si rese conto di avere le gole secche da parecchio tempo; quando il ragazzo biondo ebbe finito, tutti si affrettarono a dissetarsi.
«Lei non beve, capitano?» chiese Lee, asciugandosi la bocca con il dorso della mano.
«Da una canna da giardino? Rispettosamente rifiuto.»
La risposta lasciò Lee interdetto. «Sta cercando di avvelenarci?»
«Per chi mi avete preso? Non sono certo un farabutto.»
A Clove venne in mente le voci che giravano sul Presidente Snow e sul suo metodo preferito di togliere di mezzo chiunque gli si mettesse di traverso, ma era troppo impegnata a bere per potergli rispondere.
«E allora perché non beve?»
«Lee» disse Dan. «Non vuole. Lascia perdere.»
«Ok» disse Lee, facendo spallucce. «Ma se poi casca a terra disidratato io non lo raccolgo.»



In quella casa, i Giochi e la guerra non sembravano essere mai esistiti.
Ayla si muoveva nel grande salone come se si trovasse su un altro pianeta. Il pavimento di tasselli di legno – che Baeley le aveva detto chiamarsi parquet –, le pareti bianche, le poltrone dalle forme curve e allungate come dei pezzi di plastica caduti in un forno; tutto era così distante da quello che aveva sempre conosciuto che ogni tanto veniva colta da piccoli attacchi di vertigine.
 Baeley colse lo smarrimento sul suo volto. «Vuoi sederti?» le disse a bassa voce.
«Su quei cosi?» replicò lei, accennando alle poltrone. «No grazie.»
«Sono un po’ pretenziose, ma sono sorprendentemente comode. Non ti uccideranno, promesso.»
«Stando a quanto si dice della tua città, la cosa non mi pare così scontata.»
«Vero, ma qui siamo ancora in periferia. Per le sedie assassine dobbiamo aspettare di essere in centro.»
Su un lato della stanza si apriva un’apertura ad arco che conduceva in un altro locale. Ayla intravide mensole aperte, ripiani di pietra lucida, rubinetti dorati: per lei era più grande di una casa, ma per gli standard di quel posto doveva essere nient’altro che la cucina.
Baeley scrutò all’interno, la pistola mitragliatrice che scandagliava rapidamente gli angoli. «Libero» disse alla fine.
«Bene» disse Dana, togliendosi l’elmetto. «Vado a vedere se è rimasto qualcosa.»
«Fai attenzione» disse Ayla senza pensarci.
Dana le rivolse un’occhiata interrogativa.
«Voglio dire» aggiunse rapidamente lei, rendendosi conto di essere sembrata più una madre preoccupata che un sergente scrupoloso. «Cautela. Non… non si sa mai.»
Lo sguardo di Dana indugiò su di lei per qualche momento.
«Certo, sergente» disse alla fine.
Baeley si avvicinò ad Ayla. «È incredibile che sia riuscito a portarselo dietro» disse, accennando all’elmetto che la ragazzina teneva in mano come fosse un cestello di vimini.
«Non lo lascerebbe neanche sotto tortura. È il suo…» Ayla fece per dire animaletto di pezza, ma una morsa d’acciaio al petto glielo impedì. «…portafortuna.»
«Un portafortuna schifosamente efficace, visto che siamo sopravvissuti a… beh, tutto quanto
Ayla sbuffò leggermente dal naso. «Già. E io che pensavo che voi dannate giubbe bianche foste il peggio che avrei dovuto affrontare.»
«Non dirlo a me. Io mi ero arruolato per farmi una foto davanti alle rovine del Distretto Tredici, non certo per impedire ad un colonnello schizzato di farci saltare tutti per aria.»
Ayla si chiese se dovesse detestare quell’uomo. Lei era andata in guerra per vendicare la sua famiglia cancellata dalle bombe, lui per fare una simpatica scampagnata; per certi versi, rappresentava tutto quello che lei odiava di Panem e il motivo per cui aveva deciso di rischiare la vita per distruggerla. Eppure, se lei fosse nata al posto suo, avrebbe agito forse diversamente? Quanti abitanti di Capitol City erano veramente malvagi e quanti erano semplicemente stati educati ad esserlo? Il Tenente Baeley aveva mostrato rispetto per i suoi uomini e per i suoi prigionieri; e quando si era ritrovato in mezzo alle pallottole, aveva fatto tutto il possibile per salvare quelli che aveva vicino. Aveva fatto il meglio che aveva potuto con quello che aveva avuto a disposizione. Proprio come lei.
Tra la zona delle poltrone e la porta della cucina c’era un dislivello coperto da un paio di gradini. Baeley si sedette su quello superiore, poi si allungò a raccogliere qualcosa: una piccola matita rossa, con la punta spezzata e la base mangiucchiata. La guardò per qualche istante, poi disse qualcosa.
«Rorke.»
Ayla lo guardò con aria confusa. «Come?»
«Avevo sentito parlare di lui prima della guerra. Mi ricordavo che fosse qualcosa riguardante i Giochi, ma non ricordavo esattamente cosa fosse. Ora mi è tornato in mente.» Baeley si rigirò la matita tra le dita, come se stesse cercando di darle un senso. «Per caso ricordi i Sessantacinquesimi Hunger Games?»
«No. Non mi è mai interessato farlo.»
«Certo. Non volevo…» Baeley si interruppe, a disagio. «Vorrei dirti che non ne ho mai visto uno, ma non è vero. Fino a diciannove anni, ero un appassionato. Una volta ho pure vinto una discreta somma azzeccando il vincitore. Poi ho smesso di guardarli.» Rimase qualche istante in silenzio, lo sguardo vuoto che fissava la punta spezzata della matita; poi si riscosse e proseguì. «A parte le edizioni speciali che si celebrano ogni venticinque anni, anche gli Hunger Games che cadono ogni cinque ricevono un trattamento particolare. I cambiamenti non riguardano i tributi, ma l’arena. Per la Sessantacinquesima edizione, venne deciso che i partecipanti avrebbero dovuto affrontare, oltre che loro stessi, anche dei soldati geneticamente modificati. Lo Stratega designato era Aelius Rorke.»
Ayla spalancò gli occhi. «Vuoi dire che…»
«Già, non sarebbe la prima volta che il buon colonnello pasticcia con la bio-ingegneria.»
Ayla si rese conto di avere la gola incredibilmente secca. Ebbe l’impulso di correre fuori da quella casa e scappare via, lontano, senza fermarsi mai. Ma ora c’era una domanda che si affannava a saltare via dalla sua lingua, una domanda di cui aveva il terrore di sentire la risposta.
«E… com’è finita?»
Baeley lasciò cadere la matita a terra. I suoi occhi erano puntati verso il finestrone panoramico del soggiorno, persi tra gli alberi in fondo al giardino.  «I soldati erano stati modificati per obbedire senza esitazioni a qualunque ordine sarebbe stato impartito loro. Avrebbero dovuto muoversi con cautela e sarebbero stati usati con parsimonia, più per mettere pressioni ai tributi che per far loro la guerra. Ma al terzo giorno dei Giochi, qualcosa andò storto. Le creature di Rorke impazzirono e iniziarono a massacrare qualunque cosa si trovassero davanti – compresi loro stessi. I tributi rimasti si allearono tutti quanti per cercare di fermarli. Resistettero per un altro giorno; poi, quando uno dei soldati stava per strappare le braccia all’ultimo tributo rimasto, le telecamere si spensero. Dissero che si era trattato di un guasto, e che sfortunatamente non erano riusciti a riprendere il tributo che si liberava eroicamente dalla presa del mostro e lo uccideva, vincendo così gli Hunger Games. Casualmente, fu l’unico vincitore a cui non venne mai fatta un’intervista; qualche settimana dopo, venne detto che era morto per una rara malattia ereditaria. Rorke venne rimosso dal ruolo di Stratega, e sparì dalla circolazione. E dopo qualche mese, fu come se i Sessantacinquesimi Hunger Games non fossero mai esistiti.»
Ayla non disse nulla. Ora sì che aveva bisogno di sedersi; ma piuttosto che farlo su quelle assurde poltrone, si sarebbe buttata per terra. Fatto qualche passo, si lasciò cadere accanto a Baeley.
«Quindi è così» disse in un soffio. «Undici anni dopo, un esperimento si ripete. Ma questa volta, l’arena è l’intera Panem e i tributi siamo tutti noi.» Una smorfia piena di amara ironia le si dipinse sul volto. «Che i Settantaseiesimi Hunger Games abbiano inizio» mormorò. «E possa la fortuna non essere mai a nostro favore.»
Baeley rimase in silenzio per qualche momento. «Per quanto mi riguarda, la fortuna può fare quello che le pare e piace» disse alla fine. «Noi abbiamo qualcosa di meglio.»
Ayla gli rivolse un’occhiata perplessa. «Ossia?»
«Lo stramaledetto sergente Wilkins, poffarbacco.»
Ayla lo guardò con un’aria di stupore quasi comica; Baeley sostenne il suo sguardo con aria sorniona per qualche momento, poi cominciò a ridacchiare.
«Lei è veramente un…» biascicò Ayla, sentendo le guance formicolare.
«…lurido capitolino?» suggerì Baeley.
«Qualcosa del genere.»
Era veramente strano, stare lì seduta per terra in mezzo al salone di una villa svuotata, con accanto un gran simpaticone che tecnicamente era un suo nemico. Era strano, come tante altre cose lo erano state nella vita di Ayla; ma almeno questa volta, non era un problema.
Mentre un tenue e morbido calore le avvolgeva il petto, Ayla spostò lo sguardo su Dana. La ragazzina teneva l’elmetto tra le mani e stava tornando verso di loro.
«Tutto bene?»
«Sì, sergente» disse lei, guardando a terra per evitare di scivolare su un’arancia spiaccicata a terra. «Devo solo—»
Dana sollevò lo sguardo e guardò Ayla. Gli occhi azzurri le divennero di pietra.
Poi lasciò cadere l’elmetto e cominciò a urlare.
 


Lee imbracciò il fucile.
«Che succede?» chiese Penny in un filo di voce.
«Non so. Mi pareva di aver visto qualcosa.»
«Dove?»
«Tra gli alberi.» Lee abbassò l’arma. «Ma devo essermelo immaginato.»
«Meglio non rischiare» disse Dan. «Raggiungiamo il sergente e poi andiamo via da qui.» Fece per prendere il braccio di Cato, ma lui lo fermò con un gesto.
«Ce la faccio.» Con una smorfia, Cato si sollevò in piedi. «Ci sono.»
Dentro la casa, qualcuno gridò.
Dan sbarrò gli occhi.
«Dana.»

 

Ayla cercò di alzarsi, ma si rese conto di non riuscire a farlo.
«Tranquilla» le sussurrò una voce all'orecchio. «Tra poco farà effetto.»
Sul collo di Dana era comparsa una piccola freccetta rossa. La ragazzina barcollò, poi cadde a terra.
«Ora verrete tutti con noi» disse un altra voce, questa volta femminile. «Vedrete, ce la spasseremo.»
Ayla provò a gridare. Ma ormai le luci si stavano spegnendo, e non c’era più niente che lei potesse fare.



Dan scattò in avanti, mentre sentiva una voce tentare di richiamarlo. Sbucò nella rotonda, si girò verso destra e riprese a correre. Prima che potesse rendersene conto, si ritrovò per aria.
Un botto terrificante gli fece tremare tutte le ossa, mentre una ventata bollente lo lanciava all’indietro. Colpì il terreno e rotolò senza controllo. Sembrava che la superficie della Terra si fosse inclinata, e che lui stesse scivolando giù verso un pozzo nero e senza fondo. Provò invano ad artigliare l’asfalto per cercare di fermarsi; poi il suo corpo venne bloccato da un ostacolo, la sua testa batté contro qualcosa di molto duro, e non sentì più.



L’attacco contro Capitol City sarebbe dovuto cominciare alle cinque di mattina in punto; ma i treni con le munizioni per l’artiglieria d’assedio vennero ritardati da una serie di guasti e complicazioni, così si dovette posticipare il tutto alle sette. A quel punto la Presidente Coin propose di iniziare alle sette e cinque minuti, un orario simbolico per ricordare i Settantacinquesimi Hunger Games e l’inizio ufficiale della Ribellione; i generali Paylor e Lyme, comandanti della Quinta e dell’Ottava Armata ribelle, su cui era ricaduto il grande e sanguinoso onore di prendere la capitale, convennero che qualche minuto in più non avrebbe cambiato di molto le cose e obbedirono di buon grado.
Quando la lancetta lunga degli orologi raggiunse la prima tacca, le divisioni d’artiglieria dei ribelli aprirono il fuoco. Lo sbarramento con cui iniziò l’assedio per il cuore di Panem durò un’ora esatta: in quel lasso di tempo, la Quinta e l’Ottava Armata consumarono più munizioni di quanto erano riusciti a fare entrambi gli eserciti in tutta la guerra. Alle otto e zerocinque precise, le bocche da fuoco tacquero: un silenzio d’acciaio scese sul campo di battaglia.
E poi, come se si levasse dall’oltretomba, l’Inno di Panem riempì l’aria.

 
Oh Horn of Plenty
One Horn of Plenty for us all!
And when you raise the cry
The brave shall heed the call
And we should never falter

Schierata sulla linea sud del fronte, la Seconda Divisione di fanteria attendeva, ammassata dietro la linea dei carri armati del Settimo reggimento mobile. All’udire le parole dell’inno, il soldato Macob si guardò intorno spaesato.
«Ma che cazzo succede?»
«Che i bastardi vogliono farci capire che non cederanno» disse il sergente maggiore Opper, lo sguardo dritto davanti a sé.
«Ma da dove arriva la musica?»
«È la strafottuta Capitol» disse la soldatessa Perrier. «Avranno altoparlanti nascosti pure nelle rocce.»
«Quelli non sono umani» mormorò Macob. «Se entriamo lì dentro, noi... oh merda, ci mangeranno vivi...»
«Silenzio!» intimò il sergente maggiore, per scacciare la paura che iniziava a serpeggiare tra i soldati – e anche dentro se stesso. «Se spari a un capitolino, crepa come tutti noi. La loro Montagna è andata, la loro aviazione è andata, e il Due non può più venire a salvargli le chiappe. È il loro ultimo atto, e noi ci metteremo la parola fine. Sono stato chiaro?»
I soldati borbottarono un qualcosa che somigliava vagamente ad una risposta affermativa.
«Non ho capito!»
«Sì signore!»
«Bravi.»
Le ultime note dell’inno si spensero. Trascorsero due, tre, cinque secondi di quiete immobile; poi i motori dei carri armati aumentarono i giri, e i cingoli presero a scorrere sul terreno.
«In marcia» disse il sergente maggiore Opper. Andiamo a caccia di mostri.



C’era qualcuno che gridava.
Dana.
Ma era davvero lei?
Devo… io devo… cosa devo fare?
Quando aprì gli occhi, Dan ebbe la certezza di non essere più sulla Terra. Tutto era avvolto da una luce biancastra, in cui particelle di marmo galleggiavano come fossero senza peso. La gravità sembrava sparita. Gli tornarono in mente gli attimi prima di risvegliarsi sulla spiaggia, quando ogni direzione era scomparsa e a lui era parso di muoversi nel vuoto.
Era sdraiato su un fianco, la schiena appoggiata contro qualcosa e il polso sinistro schiacciato tra il suo corpo e il terreno. Mosse in avanti la mano libera, lasciando che strisciasse sull’asfalto coperto di uno strato di polvere chiara. Sentì un pizzicorio, sollevò il palmo verso la sua faccia e si rese conto di essersi conficcato una scheggia di vetro nella mano. Guardò il frammento traslucido con aria istupidita, poi se lo portò alla bocca, lo strinse tra i denti e lo estrasse dal palmo ferito. Sputacchiò la scheggia di vetro, mosse la spalla destra in avanti e ricadde di pancia sul terreno, sentendo il profilo aguzzo e irregolare dei detriti grattargli il petto.
Puntellandosi con i gomiti, riuscì a mettersi in ginocchio. Quando fu in piedi, si rese conto che il grido che aveva sentito e sentiva tutt’ora non era altro che il fischio delle sue orecchie, martoriate da… qualunque cosa fosse successa in quel posto.
Una figura vaga giunse barcollando. Quando fu abbastanza vicina, Dan riconobbe Penny. La treccia bionda era ricoperta di cenere, gli occhi sbarrrati e la bocca che si apriva e chiudeva, come se si fosse dimenticata come si facesse a respirare.
Dan la raggiunse con passo malfermo. Il fischio aumentò di intensità, poi scomparve con un piccolo pop.
«Penny?» disse, come se si meravigliasse della sua esistenza.
«Dan. Dan. Oddio – stai… stai bene?»
«Io – credo, non so – sì, forse…»
La coltre biancastra stava cominciando a posarsi. Dan vide emergere ombre grigie intorno a sé, gli spettri di quelle che un tempo erano state le villette.
«Hai visto gli altri?» le chiese.
«Non… quando sono cominciate le prime… credo mi sia caduto qualcosa in testa.»
«Non possono essere andati molto lontano. Cerchiamoli.»



«Ar…Artemisia. Artemisia? Artemisia?»
«…merda. Sono qui. Sono… ah, vaffanculo.»
«Sei ferita?»
«Niente di rotto. Solo… non pensavo fossimo già a tiro di cannone.»
«I ribelli si muovono in fretta.»
«Come i ratti che sono. Bestie schifose, parassiti bastardi—»
«Arte, non adesso. Dobbiamo—»
«Zitto.»
«Non—»
«Zitto, ti ho detto. Ore undici. Cinquanta metri.»
«Non vedo niente.»
«Io sì. Sono due. Sono loro
«Ok. Avviciniamoci con circospezione, e—»
«Vaffanculo la circospezione. Sono stanca della circospezione. Ora la facciamo finita.»
«No, ferma – Artemisia, dobbiamo—»
«Dobbiamo cosa? Aspettare, valutare, riconsiderare, ripiegare? Siamo guerrieri, Ares. E i guerrieri combattono. Fino alla fine. Non è quello che mi hai sempre detto?»
«Artemisia, aspetta—»
«Non più.»
«Aspetta, ti pre— Artemisia!»



Scendevano dentro crateri, salivano sopra cumuli di detriti, passavano intorno a resti frastagliati di muro: la geografia di quell’isolato di rispettabili abitazioni era stata completamente stravolta dai cannoni, trasformandosi in una landa spettrale al di fuori del tempo.
Dan lasciava che le sue gambe si muovessero da sole, seguendo ottusamente Penny che chiamava Lee con la gola arrochita dalle polveri e dalla cenere. Ad un certo punto si ritrovarono davanti all’albero al centro della rotonda, miracolosamente scampato al bombardamento, e si resero conto di aver girato in tondo. Dan si chiese se non fossero in realtà già morti, destinati a vagare in quel limbo di vacuo grigiore per l’eternità.
Ad un tratto, il volto di Penny si illuminò.
«Lee!» gridò. «Lee, arriviamo!»
Penny affrettò il passo verso una pila di macerie poco distante. Dan non aveva udito niente. Aveva sentito parlare degli effetti che poteva causare un bombardamento prolungato sulla mente di un essere umano, e fu preso dall’atroce dubbio che Penny si stesse immaginando tutto quanto. Stava per prenderle la mano e dirle di fermarsi, quando vide una figura comparire da dietro un brandello di muro.
«Oddio siete vivi» disse Lee in un soffio. «Grazie a… tutto quanto, siete vi—»
Il resto della frase venne troncato dalla foga di Penny, che lo abbrancò come fosse un salvagente in un mare devastato da un uragano.
«Penny… non respiro.»
«Meglio se non parli, allora.»
Dan li osservò in silenzio; e prima che potesse impedirselo, odiandosi ma soprattutto stupendosi di se stesso, li invidiò. Non sapeva da dove gli venisse quel sentimento, né quale senso avesse. Che invidia si poteva provare per due sventurati che potevano rischiare di morire – o, forse peggio, veder morire l’altro – in ogni momento?
«Ehi.»
Anche i capelli di Clove erano grigi di polvere. In un primo momento, Dan pensò che quell’improbabile tintura pareva renderla, con una certa, grottesca comicità, più vecchia; ma dopo aver indugiato sul suo sguardo fermo su di lui, si rese conto che, in realtà, quella cenere non faceva altro che mostrare all’esterno quello che lei – e lui, Penny, Lee, la Fanteria di Linea Volontaria, Katniss Everdeen e tutto il resto del mondo –  portavano dentro.
«Ehi.»
«Ti davo per spacciato.»
«A quanto pare non sei l’unica brava a scappare dalla morte.»
 «Poffarbacco» disse in tono sommesso il capitano Aber. «Guardate che disastro. Voglio dire, casette di poco conto, eh… però è comunque un peccato vederle ridotte così.»
«Siamo tutti immensamente sconvolti da questo barbaro attacco» disse Lee.
«Grazie, giovanotto. Voi sì che avete coscienza…»
Dietro il capitano, incerto ma in piedi, c’era Cato. Dan lo guardò e fece per chiedergli quale fosse il suo stato, ma lui anticipò la domanda con un cenno d’assenso.
«Ci siamo tutti» disse Penny.
«Manca il sergente» fece Dan.
Lee lo guardò, gli occhi lontani e tristi. «Dan… la casa è completamente crollata. Non credo ce l’abbiano fatta.»
«E se anche fossero ancora vivi» disse Cato, «non abbiamo tempo di cercarli. I ribelli saranno qui tra poco. Dobbiamo muoverci.»
Dan rimase immobile per quelle che gli parvero ore; poi, alla fine, parlò.
«Non ho intenzione di lasciarla lì.»
«Dan—»
«Non senza averci almeno provato.»
«Non c’è tempo.»
«Cinque minuti» disse d’un tratto Lee. «Dateci cinque minuti. E poi ce ne andiamo.»
Cato guardò Clove. Lei guardò Dan.
«Cinque minuti.»
Dan annuì, poi si voltò a guardare quello che restava della casa. Il tetto era sparito; quello che restva del primo piano era collassato sul piano terra, distruggendo l’ingresso e qualunque altro punto d’accesso a livello della strada.
«Dobbiamo salire da sopra» disse Lee. «Seguitemi, da qui dovremmo farcela.»
Messosi il fucile a tracolla, Lee si arrampicò su per una china di mattoni e tranci di cemento armato che scendeva giù dal fianco della casa come una lenta colata di lava. Arrivato in cima, prese a scrutare i dintorni, schermandosi la fronte con un gesto automatico un po’ ridicolo, visto che in quel momento la massima fonte di luce era un tenue e uniforme chiarore grigiastro.
«Ok, confermo: non si vede un accidenti» disse. «Chissà perché, la cosa non mi stupisce.»
«Ora che hai finito di fare lo scemo, per favore potresti scendere?» disse Penny, il tono che cercava il più possibile di non suonare apprensivo.
«Signorsì signora… un secondo e sono subito da lei.»
Lee si girò, abbassò un piede e fece il primo passo per scendere giù dal cumulo di detriti; mentre era lì per compiere il secondo, si rese conto che la gamba si rifiutava di obbedirgli. Il piede si è incastrato, pensò. Ci mancava solo questa.
Poi abbassò lo sguardo per controllare, e vide che dal petto gli spuntavano due lame corte e affilate. Con una certa, assurda sorpresa, si rese conto che quello di cui erano imbevute era il suo sangue.
Pensò che doveva gridare, ma non ci riuscì. Uno strano rumore di risucchio parve giungergli da molto lontano. Nella sua testa, chisssà perché, gli venne in mente di quando Merv Barbican gli aveva fatto vedere come si dissanguava una mucca. Perché poi è più comodo macellarle, gli aveva detto.
Lanciò uno sguardo a Penny, e si rese conto che neanche lei stava urlando. Forse allora va tutto bene, pensò.
Poi cadde giù dal cumulo di macerie e rotolò fino in fondo.
In cima, nera e scarmigliata, il profilo nero stampato sul biancore del cielo, Artemisia trionfava in tutta la sua terrificante gloria.
Penny aveva ancora il fucile a tracolla, la cinghia che passava intorno alla spalla destra; quando la sua mente sconvolta riuscì a ordinarle di imbracciare l’arma, Artemisia era già atterrata davanti a lei. In preda al panico, la ragazza agì seguendo l’isntinto e cercò di pararsi con il braccio destro; con un guizzo del polso, Artemisia glielo tranciò all’altezza del gomito.
Penny indietreggiò a passi sbilenchi, come fosse ubriaca. I suoi occhi fissavano sgomenti il moncherino sanguinolento che si ritrovava al posto del braccio. Aprì e chiuse la bocca, come se volesse dire qualcosa, poi rovinò a terra e non si mosse più.
Artemisia avanzò a passi rapidi verso il resto del gruppo, roteando le spade corte che aveva sottratto al guerriero nell’hangar. Sul volto splendeva una gioia folle e feroce. Gli occhi verdi erano spalancati e colmi di una luce terribile.
«Signori» disse il capitano Aber, la voce tesa ma coraggiosamente ferma, «me ne occupo io.» Con gesto lento e grave, snudò la sciabola e si pose a fronteggiare la IEROS. «Avanti, ribalda, e affronta il tuo de—»
Artemisia gli tirò la spada corta che teneva nella sinistra. La lama dritta e affilata spaccò lo sterno del capitano con un piccolo schiocco e trapassò il suo corpo con un tonfo liquido. Le ginocchia del comandante della Terza Compagnia sbatterono sul terreno, mentre Artemisia lo lasciava cadere a faccia in giù e passava oltre.
Clove e Cato ebbero il tempo di sparare un paio di colpi. Artemisia ringhiò mentre una pallottola le strisciava sulla tempia, un’altra le bucava la coscia e una terza impattava contro il pettorale antiproiettile. Tagliò la canna della pistola di Cato e lo buttò a terra con un calcio, poi lanciò via l’arma di Clove e la colpì con un violento pugno alla mascella.
Clove cadde a terra, l’impatto col terreno in parte assorbito dalla protezione dei gomiti della divisa IEROS. Strisciò febbrilmente in avanti, ma un calcio al fianco le strappò un gemito e la fece girare pancia all’aria.
«Perché scappi, Clove?» le disse Artemisia in un sibilo. «Io e te siamo amiche
Un lampo nero le esplose negli occhi quando un altro pugno la colpì in piena faccia.
«E come tutte le brave amiche, adesso giochiamo un po’



«Ehi!»
Il campo visivo traballante di Clove restituì l’immagine confusa di Artemisia che si voltava verso qualcuno alle sue spalle. La risata della spadaccina si unì al fischio che le intasava le orecchie.
«Cosa vuoi fare con quella? Da bravo, posala, prima che ti faccia del male.»
La sua vista recuperò un minimo di stabilità. Guardò oltre Artemisia, e vide che Dan aveva raccolto la spada del capitano e la puntava goffamente contro di lei.
«Vienitela a prendere» le disse.  
Artemisia si avvicinò, la luce opaca del giorno che gettava un lucore pallido sulla lama grondante di sangue.
Dan indietreggiò, incespicò e cadde a terra.
Artemisia rise di nuovo.
«Complimenti… ottimo gioco di gambe.»
Dan si rialzò e riportò tremante la sciabola contro Artemisia, tenendola malamente con due mani. Clove si preparò a una fine rapida e prevedibile.
Lo ucciderà.
Non c’era storia. Dan non aveva alcuna possibilità contro di lei. Il gatto avrebbe giocato un po’ con il topo e poi, quando si sarebbe stufato, gli avrebbe tagliato la testa senza pensarci due volte.
Eppure, mentre osservava Artemisia girare lentamente intorno alla sua preda, Clove avvertì che c’era qualcosa che non quadrava. Qualcosa che sfuggiva alla sua logica di traiettorie balistiche e trachee recise. Qualcosa che lanciò un grido, quando vide Artemisia lanciarsi su Dan, la spada nella mano destra sollevata in aria e pronta a colpire.
Poi Dan scartò di lato e, con inquietante leggiadria, tranciò di netto la mano della sua avversaria.
Artemisia ebbe appena il tempo di capire che cosa era successo che la lama in lega di titanio-diamente la colpì una seconda volta, tagliandole via quattro dita della mano ancora sana. La IEROS gridò. E questa volta non di rabbia.
Clove vide la luce negli occhi di Artemisia cambiare completamente, riempiendosi di un’altra emozione. Un sentimento antico, di cui la giovane e spietata guerriera aveva quasi scordato il sapore.
Paura.
La sciabola saettò di nuovo, tranciandole i tendini dietro le ginocchia. Artemisia cadde in ginocchio, si sbilanciò in avanti, tese le mani per attutire la caduta e urlò quando quello che restava dei suoi arti inferiori sbatteva violentemente con il terreno.
«Brutta storia mordere la polvere.»
Clove non riusciva a crederci. Trasfigurato dal sangue e dalla follia, Dan troneggiava su Artemisia, che cercava invano di strisciare verso la sua spada.
«Oh, fai pure» disse Dan inquietantemente amabile, inginocchiandosi accanto a lei. «Avanti, fai pure. Ti prometto che se ci riesci mi faccio ammazzare.»
Artemisia boccheggiava, paonazza, gli occhi fuori dalle orbite. Mosse il braccio destro in avanti, i moncherini di dita che strisciavano sul terreno come vermi ciechi e disperati.
«Avanti… avanti… ci sei quasi…»
Quel che restava del dito medio della guerriera toccò il pomo della sua spada.
«Bravissima! Meriti una ricompensa.»
Con la mano libera Dan le afferrò la coda dei suoi capelli, le tirò bruscamente in alto la testa e poi la sbatté violentemente a terra. Clove potè udire distintamente il rumore del setto nasale che si spezzava.
«Oh no, perdonami! Non volevo romperti il naso. Spero vorrai accettare le mie più sincere scuse.»
Un mormorio incomprensibile giunse da dietro la nuca della ragazza.
«Scusa, non riesco a sentirti.» Dan le tirò di nuovo su la testa.
Il volto di Artemisia era una maschera di sangue. Gli occhi roteavano senza alcun controllo, mentre la bocca si apriva e chiudeva come quella di un pesce agonizzante.
«Ti prego, mia cara, sii così gentile da ripeterti.»
«…tih… oorgl…»
«Scusami, non capisco. Andiamo, non avere paura…»
«T-ti… prego…»
«Che cosa?» Dan la guardò, lo sguardo vuoto e glaciale di un rapace. «Fammi capire bene» disse, avvicinandosi al volto della ragazza e assumendo un’espressione educatamente perplessa. «Mi stai implorando? Dopo tutto quello che hai fatto?»
Artemisia emise un gemito strozzato.
«Oh certo, capisco» continuò Dan «tu pensi che siccome io sia uno dei buoni, allora ti risparmierò la vita. Il povero, piccolo Dan, così spaurito e imbranato, che cerca solo giustizia per la sua povera sorellina.» Le parole erano scarne, metalliche, spaventose. Clove sentì la schiena ricoprirsi di un infinità di piccoli spilli. «Mi piacerebbe molto che fosse così, Arte – posso chiamarti, Arte, non è vero? –, ma temo di doverti deludere. Mi piacerebbe molto risparmiarti la vita, lasciarti andare da bravo cavaliere e vederti rispuntare un’altra volta sulla mia strada.» Dan si spostò indietro, sempre tenendo la testa di Artemisia sollevata, e appoggiò la punta della sciabola sulla nuca della ragazza.
«Ma la verità è, cara Arte, è che io non sono uno dei buoni. Sono come te. Siamo molto simili da molto, molto tempo. Siamo entrambi già morti.»
La lama potenziata trapassò la pelle, le vertebre, la trachea, di nuovo la pelle, e uscì lentamente, molto lentamente, dalla gola della ragazza.
«Sì, mia cara, quella è la lama che ti sta uccidendo. Addio.»
Artemisia assistette impotente alla lunga lama d’acciaio che sbucava sempre di più dalla sua gola. Gli occhi iniettati di sangue sembrarono volergli schizzare dalle orbite, mentre il suo corpo era scosso da un tremito incontrollabile. Poi, dopo quello che sembrò un lasso di tempo infinito, l’invincibile guerriera del battaglione IEROS sputò un ultima colata di sangue denso e scuro e smise di muoversi.
Dan attese qualche istante, poi estrasse con zelante cura la spada dal collo della ragazza, la pulì sui pantaloni di lei, si alzò in piedi e guardò Clove.
E lei scoprì di non riuscire a fare nulla se non stare lì a guardare quel giovane che era improvvisamente diventato uno spietato assassino.
Il lontano rombo di una schiera di motori si fece largo tra la polvere delle ville distrutte.
«Non c’è tempo da perdere» disse lui. «Dobbiamo andare.» Andò verso il capitano Aber, gli tolse la cintura con il fodero della sciabola e se l’allacciò in vita.
Clove si alzò in piedi, frastornata. «Tu… come—»
«Sveglialo» tagliò corto lui, indicando Cato. «Ce lo porteremo dietro finché sarà possibile.»
In silenzio, Clove obbedì. Sentiva il sangue colare dal naso e bagnarle le labbra, il fianco pulsare per il calcio che Artemisia le aveva rifilato; eppure, non riusciva a credere di essere sveglia. Artemisia era morta, e ad ucciderla era stata l’ultima persona che lei avrebbe ritenuto capace di farlo.
E di cui, adesso, poteva anche avere paura.






L’ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Ok. Bene. Direi che sono successe un po’ di cose.
Erano tipo boh, quattro anni?, che avevo salvata nel computer la scena in cui Dan uccide Artemisia: vederla pubblicata fa sicuramente un certo effetto. Dopo tanti capitoli (e capitolini, ehehehe… scusate) passati a inquietare, insultare e uccidere il prossimo, la nostra IEROS ha finito per fare il passo più lungo della gamba: certo è che, dando a Cesare quel che è di Cesare, più che sciocca è stata decisamente sfigata. Insomma, Dan? Ok che è un po’ fuori di zucca, ma questa sua improvvisa maestria del duellante da dove accipigna è uscita fuori? Vi assicuro che una risposta c’è… da qualche parte dentro Capitol City.
Ancora una volta, grazie infinite per essere qui. Lo so, sono orribilmente lento a pubblicare, ma come vedete non demordo. Ci siamo quasi, manca poco. La Capitale non è facile da conquistare, ma noi non cederemo.
Alla carica, tante care cose e alla prossima!


 

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Capitolo 23
*** Le ombre, i demoni e l'arte della guerra ***


22.
Le ombre, i demoni e l'arte della guerra



I couldn’t help but ask for you to say it all again
I tried to write it down, but I could never find a pen
I’d give anything to hear you say it one more time
That the universe was made just to be seen by my eyes

– Sleeping at last, Saturn


La svegliò un tintinniò di metallo. Sentiva le spalle avvolte da uno strano, formicolante torpore, così provò a muoverle.
Pessima idea.
Il dolore che le attraversò i muscoli bloccati le strappò un gemito. Si rese conto di essere in piedi, le braccia spalancate e legate con delle catene a due tubi incrostati di ruggine. La schiena grattava contro una parete umida e sconnessa.
«Buongiorno, principessa.»
Una piccola figura curva e pallida era emersa dalla penombra. Indossava una divisa nera, le maniche arrotolate fino ai gomiti. Sugli avambracci, segni bianchi di vecchie cicatrici.
Il sergente Ayla Wilkins posò lo sguardo su Deimos, vide il nulla dentro i suoi occhi e seppe di essere già morta.



Fuori dallo squarcio pioveva. Dentro il locale devastato – che forse un tempo era stato una libreria,   forse un negozio di profumi o forse entrambe le cose –, Cato e Clove osservavano le gocce spesse percuotere l’asfalto spaccato.
«Morta» disse Cato.
«Sì» rispose Clove.
«Ed è stato lui.»
«Sì.»
«Con la sciabola del capitano.»
«Sì.»
Cato tracciò delle curve errabonde con le dita sul pavimento ricoperto di polvere. «Curioso.»
«Curioso un cazzo» sibilò Clove. «Tu non l’hai visto. È stato…»
Cato alzò lo sguardo su di lei. «…terrificante?»
Le labbra di Clove si rattrappirono come carta gettata nel fuoco. Spalancò gli occhi e gli lanciò uno sguardo assassino; ma oltre all’ira, c’era qualcos’altro che brillava dietro le sue pupille. Prima che potesse dire qualcosa, un rumore di passi la azzittì. Accompagnato dal tintinnio sinistro della sciabola al fianco, Dan rientrò nella stanza.
«Nessuno in vista» disse. «Per un po’ dovremmo essere tranquilli.» Lo sguardo gli cadde sul fianco di Cato. «La ferita?»
«Va.»
«Bene.» Dan si sedette sui talloni di fronte a lui. «Fa’ il punto.»
Cato prese un dischetto nero dalla tasca e lo poggiò a terra. Al centro del disco si accese una luce bianca, da cui partì un fascio azzurrognolo che si allargò in un quadrato di una trentina di centimetri di lato. Cato unì pollice e indice sopra il quadrato e poi li separò, ingrandendo la ragnatela di strade della capitale fino a visualizzare una piazza rettangolare. «Noi siamo qui» disse, indicando il lato nord della piazza. «Un centinaio di metri più su c’è il fiume. Una volta attraversato, saremo nel centro di Capitol City.» Spostò la mappa per inquadrare una larga strada dritta orientata verso nordest. «Da lì vi basterà seguire Corso degli Eroi fino ad arrivare alla Piazza dei Martiri.»
Dan sollevò lo sguardo su di lui. «E tu cosa farai?»
«Io vi accompagnerò fino a tre quarti del tragitto, poi prenderò Via dei Primigeni, qui, e proseguirò verso il Senato.»
Dan mugugnò un assenso e tornò a guardare la mappa. «Non manca molto, quindi.»
Cato spense il disco e lo rimise in tasca. «Una mezza giornata, più o meno.»
«Mezza giornata» ripetè Dan a bassa voce. Rimase con lo sguardo perso nel vuoto per qualche momento, poi si riprese. «Poco, ma non troppo. Dieci minuti e ci muoviamo.»
Mangiarono mezza razione a testa e si divisero un pezzo di pane bruciacchiato che avevano trovato per strada, abbandonato vicino ad un cappottino azzurro e un orsacchiotto di pezza sventrato. Quando aveva visto l’imbottitura sparsa per terra, Clove era stata ad un passo dal dire agli altri due di non raccogliere il pane. Ancora adesso, non riusciva a capire perché.
Quando ebbe finito, Dan si alzò in piedi, spazzolandosi le briciole di pane dai pantaloni lisi. «Andiamo.»
Clove guardò fuori dal buco nel muro. Se possibile, la pioggia era ancora più forte. «Adesso?» si sorprese a chiedere.
Lui la scrutò, confuso più che stupito. «Hai paura di bagnarti?»
Un impercettibile rossore colorò le guance di Clove. «No.»
«Allora muoviti.»
C’era stato un tempo in cui Clove avrebbe ucciso per simili parole; e forse, per una frazione di secondo, ebbe anche l’istinto di farlo. Ma non mosse un muscolo, né disse una parola. Prese la sua roba, aiutò Cato a rialzarsi in piedi e seguì il ragazzo del Distretto Dieci oltre la soglia, lì dove tutto era grigio e lo scroscio della pioggia si mischiava con il rombo dei cannoni.



«Devo dirlo, hai proprio un ottimo tempismo. Stavamo giusto per svegliarti. Ci tenevamo che assistessi.»
La faccia morta di Deimos si ritrasse dal campo visivo di Ayla. A qualche metro da lei, sulla sua destra, il tenente Baeley, ancora svenuto, era incatenato ad un altro tubo, le braccia unite per i polsi e tese sopra la sua testa.
Dana.
Si guardò intorno, il cuore che martellava. La stanza era un piccolo, lurido scantinato. Tubi di ghisa ovunque sulle pareti annerite dalla muffa, illuminati da un’unica lampadina appesa al soffitto basso. Al centro, uno spesso e largo tavolaccio di legno. Sopra di esso, immobile, c’era Dana.



Il fiume Limen entrava a Capitol City da nordovest, scendeva giù verso sud, compiva una curva ampia un chilometro e risaliva poi verso nordest, dove si perdeva nel mare. Abbracciato da questa lunga ansa, il centro della città si ergeva sulla sponda nord. Clove ricordò i grattacieli di vetro e i palazzi di pietra che aveva visto scorrere fuori dai finestrini panoramici del treno che portava lei e Cato dritti verso il loro destino. Capitol City le era sembrata un regno abitato da dèi, perfetta per accoglierla quando sarebbe tornata vittoriosa dai Settantaquattresimi Hunger Games. Era talmente certa che l’avrebbe rivista che non aveva neanche perso tempo ad osservarla come si deve. Sapeva che sarebbe tornata.
In un certo senso, aveva avuto ragione.
«Libero» disse Cato.
Lei e Dan lo seguirono oltre il relitto del carro armato. Davanti a loro, alla fine dello spiazzo, il ponte della Giustizia si intravedeva appena oltre il muro scrosciante della pioggia. Il centro della città appariva come un’informe ammasso di curve e spigoli impastati tra loro.
«L’incomparabile profilo di Capitol City» disse.
A Dan scappò uno sbuffo divertito. Lei lo guardò quasi stupita; lui si irrigidì come se fosse stato fulminato da un arco elettrico, girò la faccia dalla parte opposta alla sua e tirò un piccolo calcio a un tubo di plastica ritorto.
Giunsero di fronte all’imboccatura del ponte. Ora Clove riusciva a sentire il rumore continuo e inesorabile del fiume scorrere sotto il rullare incessante della pioggia.
«Merda» disse Dan.
La strada del ponte si spezzava dopo una mezza dozzina di metri e scendeva giù dritta tra le acque. L’Esercito Regolare l’aveva fatto saltare.
«Era inevitabile» disse Cato, «ma pensavo avremmo fatto in tempo.»
Dan si avvicinò alla crepa larga un piede dove finiva la parte dritta della strada e scrutò in basso. «La base dei pilastri è ancora intatta» disse ai due. «Gran parte dei detriti affiorano dall’acqua. Non sarà una passeggiata, ma possiamo attraversare.»
Clove guardò Cato. «Non c’è un altro modo?»
«Possiamo percorrere il lungofiume finché non troviamo un ponte ancora intatto: con tutta probabilità, o il ponte Crassus o il ponte della Vittoria. Dove ci toccherà sgomitare tra i ribelli ammassati per l’assalto da un lato e tra i regolari trincerati dall’altro.»
Clove occhieggiò la schiuma bianca del fiume che si infrangeva contro i detriti del ponte. «Quasi quasi lo preferisco.»
Dan si slacciò la cintura con la sciabola dal fianco e se la mise a tracolla. «Andiamo.»
Clove lo osservò scivolare giù per la strada inclinata con un certo brivido. Non aveva grandi simpatie per i fiumi e le correnti in generale. Mentre poggiava le mani sull’ultimo pezzo di strada dritta e si preparava a lasciar lavorare la gravità, vide lampeggiare il ricordo di un giavellotto che sfiorava una treccia di capelli castani e piombava in acqua con una specie di pluf.
Pluf. Chissà se farai anche tu quel suono, quando poggerai il peso nel punto sbagliato e cadrai nel fiume.
«Ci sei?»
Cato era vicino a lei. Vide la sua mascella contratta, e si sforzò per non far cadere lo sguardo sul fianco ferito. «Sempre» gli rispose. «Andiamo?»
«Andiamo.»
L’asfalto bagnato non offrì alcuna resistenza. L’accelerazione le strappò una stilla di panico, ma prima che potesse prepararsi a tenerla a bada era già arrivata in fondo. Sentì gli stivali battere sui detriti e scattò in piedi, ma usò troppa forza e si sbilanciò in avanti. Vide l’acqua turbinare oltre il bordo frastagliato del cemento sul quale stava incespicando, e seppe che non ce l’avrebbe fatta a fermarsi.
Pluf.
Una stretta forte la bloccò sul limitare del bordo, le spalle e la testa già pronte a farsi inghiottire dalla corrente.
Dan la spinse indietro per il pettorale dell’armatura. «Prima o poi ti toccherà imparare a non correre troppo.»
Lei lo guardò istupidita. Ancora una volta, si trovò nella condizione di non riuscire ad aprire bocca.
Dan tese una mano a Cato e lo aiutò a rimettersi in piedi. «I detriti sembrano stabili» disse. «Ma meglio andare piano.»
«Tranquillo» gli disse Clove. «Non ho fatto tutta questa strada per crepare adesso.»
Lui le puntò addosso i suoi occhi scuri. In mezzo alla coltre grigia della pioggia, sembravano due pezzi di ossidiana. La fissò per un tempo che parve infinito, senza dire nulla; poi si girò e cominciò a camminare.



Ayla scattò in avanti. Le catene sferragliarono, sprizzando due nuvolette di ruggine sui tubi dove erano fissate. «Non la toccate
Dall’altra parte del tavolo, Phobos le fece un sorriso scheletrico. «Speravamo proprio che lo dicessi.»
«Vedi» le disse Deimos, facendo lampeggiare un bisturi alla luce della lampadina. «Scuoiare vivo qualcuno è sicuramente divertente. Ma farlo in compagnia… è il massimo.»
Ayla guardò Dana. La piccola Volontaria aveva gli occhi spalancati, le pupille sgranate puntate su di lei in una disperata richiesta d’aiuto. Era immobile, ma cosciente. Volevano che fosse sveglia, mentre la torturavano.
«Allora» disse Phobos con voce piena di allegra follia, «da dove cominciamo?»



Clove si issò sull’ultimo tratto di banchina e strisciò all’ombra di un blocco di marmo, uno dei tanti frammenti dell’obelisco che ornava il centro della piazza prima che l’artiglieria ribelle lo facesse saltare per aria. La pioggia se n’era andata, aprendo il sipario dietro cui aveva nascosto la città. Vedendo gli edifici anneriti dalle vampate delle esplosioni, le facciate come gengive sanguinanti a cui erano stati strappati i vetri delle finestre, Clove si chiese se non fosse stato meglio continuare a non vederla.
Cato sbirciò da sopra il pezzo di obelisco, poi estrasse di nuovo la mappa portatile. «Questa è la piazza dove siamo» disse indicando un semicerchio che si restringeva allontandosi dal ponte. «In fondo avrebbe dovuto esserci l’inizio del corso degli Eroi, ma ora è sepolto sotto i palazzi che gli stavano ai lati. Dovremo deviare verso nord, restare paralleli al corso e sperare di riuscire a riprenderlo il prima possibile.»
Dan annuì. «Quante munizioni abbiamo?»
Clove estrasse il caricatore della propria pistola. «Sette colpi.»
«Dovremo procurarci delle armi.»
«Non preoccuparti» disse Cato in tono lugubre. «Ne troveremo a mucchi.»



«Direi che per questa volta possiamo fare una cosa diversa: io comincio da sopra, tu da sotto. E ci incontriamo a metà strada. Non è carino?»
«Certo, caro, ma così lei soffre per metà del tempo. È un po’ un peccato.»
Ayla sentiva le lacrime scenderle giù per le guance. Non poteva fare niente. Era incatenata, inerme, costretta a guardare una ragazzina per cui avrebbe dato la vita scuoiata viva da due agghiaccianti psicopatici.
«Vi prego» singhiozzò. «Prendete me. Vi prego.»
Phobos le fece un gran sorriso. «Grazie, cara, davvero. Sei la spezia che rende il piatto più… come dire…»
«…gustoso?» propose Deimos.
«…magico.»
Lui ridacchiò. Sembrava il raglio di una carcassa d’asino. «Magico. Sì sì.»



I colpi dei cannoni cominciavano a farsi sempre più vicini. La terra era pervasa da una vibrazione sorda e continua, mentre le raffiche veloci delle mitragliatrici e quelle gravi e ponderate della contraerea spezzavano l’aria.
«Cos’è questo?» chiese Dan, accennando all’edificio alla loro destra. Nella facciata che stavano fiancheggiando non sembrava esserci alcuna finestra: era un blocco unico, alto decine di metri e lungo centinaia, liscio e bianco come un guscio d’uovo.
«È il ministero della Cooperazione» disse Cato. «Questo lato dell’edificio è quello occupato dal quartier generale dei Pacificatori. Per questo non ci sono finestre. Nessuno deve sapere cosa succede dentro.»
Clove misurò con lo sguardo l’altezza della facciata. Sembrava un’onda anomala di pietra, pronta a travolgere chiunque fosse sulla strada. O una lapide. Una grande, gigantesca, scintillante lapide.
La strada era relativamente sgombra da macerie e cantieri; se non fosse stato per qualche lampione a terra e i tronchi spezzati degli alberi ornamentali nelle aiuole, Clove difficilmente avrebbe potuto dire che ci fosse una battaglia in corso.
«Una volta superato il ministero» disse Cato, «dovremmo riuscire a girare a destra e tornare finalmente sul corso. Questa zona sembra essere stata—»
Con uno scatto meccanico, dalla facciata monolitica emerse al livello del terreno un tassello rettangolare alto un paio di metri e lungo il doppio. Il tassello iniziò a scorrere di lato, ma si bloccò a metà strada.
«Qui» disse Dan, indicando la vasca vuota di una fontana circolare. I tre saltarono dentro e si appiattirono dietro il bordo.
Dalla porta giunse uno scambio indistinguibile di voci nervose. Un uomo in completo blu uscì dal varco che il tassello aveva aperto, si guardò intorno e poi fece segno a qualcuno di seguirlo. Dalla porta uscirono una donna bionda avvolta in un lungo cappotto e un’altro uomo dai capelli rasati in maniche di camicia.
«Non possiamo andare via senza chiuderla» disse l’uomo rasato. «Non ci vorrà molto perché capiscano—»
«Ma cosa vuoi che gli importi» ribatté l’uomo in completo blu. «I tesserini, forza.»
L’uomo rasato e la donna col cappotto gli consegnarono due portafogli neri. Lui ci aggiunse il suo e li lanciò in mezzo alla strada. Fece per muoversi, ma si bloccò fissando la donna. «Che cazzo è quello?»
La donna aveva aperto il cappotto per consegnargli il tesserino; sotto, si intravedeva il candore immacolato di una divisa da Pacificatore.
«Ho pensato che se ci imbattiamo nei nostri, noi…» balbettò lei. «Con questa in caso possiamo fargli credere che—»
«Che cosa, che ti eri allontanata un attimo per un caffè?» sbottò l’uomo con il completo blu. «Ma porca puttana, Camilia…se becchiamo una pattuglia dei nostri ci fucilano. Sempre se non incrociamo quei cazzo di invasati degli Universitari, perché in quel caso…»
«Sentite, non c’è tempo» disse l’uomo rasato. «Prima raggiungiamo il fiume, prima troviamo un modo di passare. Non importa cosa abbiamo addosso, tanto qualcuno che cercherà di farci saltare la testa lo troveremo sempre.»
L’uomo con il completo blu sospirò, poi annuì. La donna si abbottonò il cappotto, e i tre si diressero a testa bassa nella direzione da cui Clove, Cato e Dan erano giunti.
«Le pulci abbandonano il toro» disse Dan, alzandosi in piedi.
Cos’è, uno dei vostri modi di dire da distretto povero?, pensò Clove. Si immaginò anche di dirle, quelle parole; ma non ci riuscì.
«È davvero finita» disse Cato, più a se stesso che agli altri due.
«Ti dispiace?» gli disse Dan, la bocca curva in una piccola smorfia.
La stessa di Artemisia, pensò Clove. La stessa che avrei fatto io.
Cato fissava la facciata del ministero. «Non più.»
Uscirono dalla fontana e si rimisero in cammino. Dopo qualche passo, Dan si fermò e prese a raccogliere qualcosa da terra. Erano i tesserini che l’uomo con il completo blu aveva gettato.
«Che fai?» gli chiese Cato.
«Non si sa mai» disse lui, mettendosene uno nella tasca della giacca. Mentre si rialzava, la punta del fodero della sciabola sibilò strisciando sull’asfalto. «Chi sono gli Universitari?»
«Non ne sono certo» rispose Cato, «ma immagino si stessero riferendo agli studenti o ai professori dell’Università. È la scuola più importante di tutta Panem. Nel nostro Distretto, solo i due studenti migliori dell’Accademia potevano avere il permesso di iscriversi.»
«Solo due» mormorò Dan, un sorriso amaro sul volto. «Il caro Presidente non resiste a certe cose.»
Nel mentre che Dan si era fermato per raccogliere il tesserino, lo sguardo di Clove era rimasto catturato dal portellone dischiuso da cui erano usciti i tre pacificatori. Nel varco lasciato aperto dal grosso tassello bianco si intravedeva una breve galleria, una porzione di un grande cortile interno e in fondo una sezione del colonnato che doveva corrergli tutto intorno. Qualcosa di strano stava accadendo in quel cortile, qualcosa che Clove non riusciva a comprendere del tutto. Sembrava…
…neve?
Senza che se ne rendesse conto, cominciò ad avvicinarsi. Il selciato del cortile interno era coperto da grandi macchie di un bianco ancora più immacolato della facciata senza finestre. Le bastò qualche passo per rendersi conto che quelli che volteggiavano nel cortile per poi adagiarsi a terra non erano giganteschi fiocchi di neve, ma fogli di carta. Un oceano di fogli di carta.
«Clove?»
Si girò. Dan la fissava con aria guardinga.
«Guardate» disse lei, indicando lo spicchio di cortile. «Che stanno facendo?»
Cato si affiancò a lei e scrutò oltre il portellone. «Credo siano documenti» disse.
«Documenti?»
«Li buttano tutti nel cortile per poterli raccogliere e bruciare più in fretta.»
«Fanno pulizia» disse Dan. «Per poi scappare dall’uscita di servizio.»
D’un tratto, nell’inquadratura del cortile, comparve un gruppo di Pacificatori. I tre, colti alla sprovvista, si nascosero al lato dell’apertura.
«Ci hanno visti?» sussurrò Dan.
«Non credo» rispose Clove.
«Allora andiamo via» disse Cato.
 «Un momento» replicò lei.  
«Che vuoi fare?»
Clove sbirciò oltre il portellone. Il gruppo era ancora nel cortile. «Sono fermi» disse.
«Bene» commentò Cato. «Andiamo, forza.»
«Un secondo.»
Dalla squadra dei Pacificatori si era staccata una donna alta e massiccia dai capelli rossi legati in una rigida crocchia. La sua divisa bianca aveva i risvolti neri e le spalline dorate. Si girò di scatto di 180 gradi, fronteggiando il gruppo.
«Plotone! In-riga!»
I Pacificatori obbedirono, allineandosi di fronte a lei. L’acciaio scuro delle loro armi baluginava tra la pioggia di carta.
La donna prese un foglietto dalla taschino della divisa, lo spiegò e lo tenne disteso in verticale, come fosse un’antica pergamena.
«In nome di Panem e Panem sola, per l’autorità conferitami dal Presidente della Federazione, dal ministro della Cooperazione e dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza, dichiaro il Primo Questore Octavia Xander, Comandante in Capo della Guardia Pacificatrice, colpevole di tradimento e di vilipendio degli ideali dello Stato, secondo gli articoli 340 e 341 del codice penale, e la condanno a morte tramite fucilazione.» La donna ripiegò con cura il foglio e lo rimise nel taschino. «Plotone! Caricate!»
I soldati in linea si scambiarono sguardi nervosi. Le armi puntate a terra, esitavano.
«Plotone!» strillò la donna, paonazza. «Ho detto caricate!»
Gli otturatori delle pistole mitragliatrici scattarono in posizione di tiro.
«Puntate!»
I Pacificatori sollevarono le armi.
«Panem oggi! Panem domani! Panem per sempre! Fuoco!»
Il fracasso della raffica giunse rimbalzando fino alle orecchie di Clove. Vide la faccia della donna, rossa come i suoi capelli, contratta in un ringhio di dolore. La osservò fare un passo in avanti, il busto massacrato dai proiettili, come se volesse rimproverare i suoi uomini di non aver fatto un buon lavoro; poi cadde in ginocchio, emise un gorgoglìo soffocato e rovinò a faccia in giù nel cortile.
«Che è successo?» disse Cato.
«C’era una donna» rispose Clove, ritraendosi dall’angolo. «Lei… credo fosse il comandante in capo dei Pacificatori.»
«Il comandante?» chiese Dan.
«Sì.»
«E…?»
«Credo… credo si sia condannata a morte da sola.»
Dan la fissò. Ancora una volta, lei ebbe l’impressione di guardare due pezzi di vetro nero.
«Succede» le disse.



Ayla provò l’impulso di vomitare. «Prendete me, prendete me» mormorò, la voce rotta in una cantilena. Con assurda lucidità, decise che piuttosto che continuare ad assistere sarebbe volontariamente scivolata nella follia. «Me, me, me…»
«Senti che musica» disse beato Deimos. «Va bene, abbiamo perso abbastanza tempo. Comincio io.»
Phobos sbuffò. «Cominci sempre tu.»
Lui sospirò con fare paternalistico, poi abbassò il bisturi. «Va bene. Vai, sù.»
Phobos saltellò felice, avvicinandosi alla faccia di Dana. «Grazie caro.»
«Mi raccomando: prima le orbite, poi la mandibola. Non fare pasticci come l’altra volta.»
«L’altra volta era un sacco di tempo fa… ancora che me lo rinfacci?»
«Fin quando servirà. Sù forza, il pubblico sta aspettando.»
Ayla abbassò la testa e chiuse gli occhi. Aveva visto corpi esplodere come sacchi di vernice, occhi schizzati fuori dalle orbite per l’onda d’urto di un’esplosione, cadaveri arrostiti che le avevano fatto rimescolare lo stomaco per la nausea e la fame insieme; ma questa volta non poteva vedere. Chiuse gli occhi e abbassò la testa, pregando qualunque spietata divinità ci fosse lassù che le concedesse, se non la pace, almeno l’oblio.



Prima ombre sfuggenti, poi gruppetti rapidi e silenziosi; infine, una vera e propria massa, tutta incolonnata e diretta verso nordovest. Non ci volle molto a capire quale fosse la meta di quella folla di capitolini inermi: negli schermi sopravvissuti ai bombardamenti, il presidente Snow invitava tutti gli abitanti della città a trovare rifugio nei confini della propria villa.
«Pazzo bastardo» disse Dan. «Qual è il suo piano?»
«Non ne ho idea» replicò Cato. «Ma potrebbe esserci Rorke di mezzo. Ribelli, regolari e civili, tutti convergenti verso un unico punto...»
«…sta radunando la mandria per il macello.»
Nessuno pareva far caso alla corazza nera di Clove, alla divisa mimetica di Cato o alla sciabola da cerimonia di Dan. Uomini, donne e bambini strascicavano un piede dopo l’altro, lo sguardo stralunato perso nel vuoto. C’erano pellicce, piume, cravatte, seta, velluto, plastiche e fibre vegetali: una gigantesca, grottesca sfilata che avanzava tra rovine e la polvere di un mondo che un tempo era suo. Gli abitanti di Capitol City, invidiati e temuti da tutta Panem, ridotti ad un branco di pagliacci dementi e spaesati.
Se non fosse che stiamo per crepare tutti quanti, pensò Clove, ci sarebbe veramente da ridere.
Tre camion passarono rombando a sinistra della colonna, diretti in direzione opposta alla loro. Clove intravide delle divise kaki e si chiese a quale corpo speciale appartenessero i soldati che le indossavano. Quando furono ormai lontani, si rese conto che il kaki non era altro che bianco talmente sporco di polvere e terra da aver cambiato colore.
Rispetto alla marcia nelle Lande Ingenerose, quella non era altro che una passeggiata; eppure, essere costretti a seguire il passo infinitesimo quell’esercito talmente svuotato dagli eventi da non essere neanche più in grado di provare disperazione rendeva ogni metro percorso una conquista esasperante. Non era neanche più possibile uscire dalla colonna: la strada si faceva sempre più stretta, schiacciando le persone le une contro le altre. Erano costretti ad andare avanti, inermi di fronte alla spinta immensa della massa.
«Ore due» disse ad un certo punto Cato. «Laggiù in fondo. Li vedete?»
Clove sollevò lo sguardo. Un palazzo crollato aveva lasciato un varco nella schiera di edifici che chiudevano il lato destro della via: stagliati nel cielo plumbeo, tre grattacieli gemelli svettavano esili e intatti.
«Cosa sono?» chiese Dan.
Una scossa bruciò le tempie di Clove. «È il Paratorium» mormorò.
«Il cosa?»
«È dove vengono ospitati e allenati i Tributi prima dell’inizio di ogni Gioco» disse Cato. «È dove siamo stati io, Clove e tua sorella... prima dell’Arena.»
Dan rimase impassibile. «Capisco» replicò. «E quindi?»
«Piazza dei Martiri» disse Clove. «È lì.»
«Cento metri più a nord» specificò Cato. «Ma sì. È lì.»
«Bene» disse Dan. «Come ci arriviamo?»
«Per prima cosa dobbiamo uscire da qui. Spostiamoci verso destra, un poco per volta. Appena si aprirà una strada, ci infiliamo dentro.»
Dan annuì. «Va bene.»
Clove sollevò lo sguardo verso un balcone al primo piano. Un soldato in giubba nera strillava da un megafono, leggendo da un tablet che teneva in mano.
«…non chiedo molto, anzi non chiedo niente: solo che coloro per cui combatto non mi voltino le spalle. Qui al ponte nessuno riposa, nessuno cede: i ribelli affogano nel loro sangue, piangono di rabbia di fronte al nostro ardore. I miei fratelli sono morti, i miei figli sono morti, ma io non cederò, perché so che voi siete con me. Perché so di essere la sottile linea bianca che separa il popolo di Panem dalla bestia della ribellione!»
Clove aveva già visto quell’uniforme: dietro un tavolo, sotto un volto alieno dagli occhi verdi. Quell’uomo sul terrazzo non era il colonnello Rorke, ma come lui apparteneva alla Guardia Presidenziale. A quanto sembrava, il corpo paramilitare più importante della nazione aveva deciso di prendere in mano la gestione del morale.
«Se io cado, i ribelli vi cercheranno, i ribelli vi staneranno, i ribelli sevizieranno le vostre mogli, schiavizzeranno i vostri mariti, prenderanno i vostri figli e li faranno combattere tra loro per il proprio divertimento!»
«Clove?»
Lei girò la testa verso Dan. Lui la guardava, la mano tesa verso di lei. «Sì?»
«Dammi il braccio.»
Clove lo guardò come se le avesse appena chiesto di ballare con lei. «Come?»
«Il braccio. Dobbiamo stare uniti mentre ci spostiamo.»
Oh. «Sì. Certo.»
Clove passò la mano attorno all’incavo del gomito di Dan e si ritrovò spalla a spalla con lui. Non era la prima volta che si trovavano così vicini, ma era sicuramente la prima in cui questo accadeva senza che cercassero di uccidersi a vicenda. Il lato imprevedibile della vita.
«Tutta Panem diventerà un’Arena! Cittadini di Capitol City, non mi tradite! Cittadini di Panem, fate il vostro do—»
Non ci fu molto tempo per reagire. Un fischio acuto, un botto assordante e Clove cadde a terra, spinta da un’ondata rovente. Qualcuno sotto di lei gridò, mentre qualcosa le rotolava sopra. Saltò in piedi, spinta dagli automatismi dell’addestramento. Gli occhi erano pieni di polvere. Prese a tentoni la borraccia dalla cintura e si versò un po’ d’acqua in faccia. Sbattè le palpebre, tossì e vide il cratere che si era aperto sulla strada una ventina di metri più avanti. Un mattone rotolò verso di lei: quando si fermò davanti ai suoi piedi, si rese conto che era un pezzo di avambraccio.
Alla sua destra, Dan stava aiutando Cato a rimettersi in piedi. Clove si avvicinò a loro, passò sopra un corpo immobile e afferrò la mano libera di Cato. «Ci siete?» chiese ai due.
«Io sono a posto» disse Dan.
«Anche io» mormorò Cato. I suoi occhi fissarono il cratere. «Qualche metro più vicini e qualche persona in meno a prendersi le schegge e quel proiettile ci avrebbe fatto a brandelli.»
«E che la fortuna sia sempre a nostro favore» disse Dan.
 Uno dopo l’altro, gli sfollati di Capitol City si rialzarono in piedi, mentre gemiti, urla e singhiozzi riempivano la via. Qualcuno rimase a terra, inginocchiato vicino a corpi senza vita con cui fino a qualche momento prima aveva condiviso quel viaggio di folle speranza; ma la maggior parte, stordita, silenziosa e mansueta, tornò al proprio posto, serrò i ranghi e riprese a marciare. Tenendosi stretti sottobraccio, Clove, Dan e Cato seguirono il flusso della folla, spostandosi appena era possibile verso destra. Erano ormai quasi giunti a toccare la sponda di quel ciclopico fiume di esseri umani, quando la marcia rallentò fino a fermarsi.
«Che succede?» chiese Clove.
«Non ne ho idea» rispose Cato.
Si mossero di qualche passo, poi si fermarono di nuovo. Un vociare confuso cominciò a serpeggiare tra la folla.
«C’è un blocco…»
«Che blocco?»
«Controlli.»
«Non ci fanno passare?»
«Il Presidente ha detto—»
«Fanno passare, fanno passare! Vogliono vedere se ci sono ribelli infiltrati.»
«Come infiltrati!»
«Merda» sussurrò Dan.
Cato scrutò oltre la distesa di teste davanti a loro. «Duecento metri, posto di blocco. Due mitragliatrici, sette uomini. Ma ce ne saranno altri.»
«Quanti?»
«Un plotone, almeno.»
«Non ce la faremo mai» disse Clove. «Dobbiamo andarcene.»
La folla si mosse di nuovo. Un paio di metri più avanti, la strada si allargava in una piazza quadrangolare: non era molto larga, ma sarebbe bastata a sottrarsi alla spinta della folla.
«Muoviamoci con calma» disse Cato. «Sarà difficile per loro notarci, ma non si sa mai.»
Un metro e mezzo. Un metro. Un braccio. Un passo, poi un altro ancora, e furono nella piazza. Com’era naturale, la colonna allentò le maglie non appena fu libera dell’angusta costrizione della via; approfittando di quel riflesso, Clove, Dan e Cato si addossarono ad un portone di legno massiccio dipinto come se fosse coperto di verderame.
«Ci hanno visto?» disse Dan.
Clove sbirciò il posto di blocco in fondo alla piazza. Da quella distanza, coperti dalla folla, i soldati non erano altro che piccoli coriandoli bianchi. «Non credo proprio.»
Cato passò un dito sulla serratura del portone. «È una serratura vecchia. Meccanica, addirittura. Potremmo farla saltare, ma lo sparo attirerebbe l’attenzione.»
Un coacervo di grida rabbiose giunse dalla testa della colonna. Clove vide l’agitazione attraversare la folla come un’onda elastica.
«Ho come l’impressione che tra poco non sarà più un problema» disse Dan.
«Chiudono!»
«Chiudono?»
«Come chiudono?»
«Non fanno più passare!»
«Non è possibile!»
«Il Presidente ha detto di andare da lui!»
«Dobbiamo andare dal Presidente!»
«Fateci andare dal Presidente!»
La folla prese a spingere contro il posto di blocco. Le macchie bianche si moltiplicarono. Qualcuno gridò un ordine perentorio.
«Traditori!» gridò qualcuno.
«Traditori!»
«Bastardi!»
«Sono ribelli mascherati!»
«Fateci entrare!»
«Ammazziamoli!»
Clove estrasse la pistola, mirò alla seratura e premette il grilletto.
In quel momento, i soldati cominciarono a sparare.
Cato spinse il battente della porta. Non si apriva. «È bloccata.»
Gran parte della folla stava cominciando a rinculare verso la via. Le persone si urtavano, cadevano, venivano calpestate. Qualcuno cominciò a correre verso di loro.
«Spingete!» gridò Dan. Tutti e tre puntarono i piedi e spinsero con tutta la loro forza sul battente. Sotto gli spari si udì un gemito e un gran tonfo; nella porta si aprì uno spiraglio di una trentina di centimetri.
«Dentro, dentro!»
Clove attraversò lo spiraglio dopo Cato. Dietro la porta c’era un androne ampio con il pavimento a scacchi e due colonne di porfido rosso, oltre le quali un’ampia scalinata si avvolgeva intorno ad un ascensore di ferro battuto. Una lunga tavola di legno laccato, che un tempo forse era stata il fianco di un pesante scaffale, giaceva a terra, vicino a un cassettone e un divanetto ancora addossati all’anta semiaperta.
Dan era per metà ancora fuori, quando qualcuno lo spinse nell’androne con violenza, facendolo cadere a terra. Il cassettone gemette strusciando sul pavimento, mentre la folla disperata si accalcava sul portone.
Clove afferrò il polso di Dan e lo tirò su. I tre si lanciarono verso le scale, mentre il portone si apriva di schianto e una mandria impazzita di capitolini terrorizzati si riversava nell’androne. Un altro proiettile d’artiglieria cadde nella piazza, facendo tremare tutto il palazzo.
Clove saliva le scale due gradini per volta, mentre Cato sbuffava come un mantice e la sciabola di Dan sbatteva ritmicamente contro la sua gamba. Arrivati al sesto piano, Cato emise un gemito e crollò in ginocchio sul pianerottolo.
Clove si lanciò verso di lui. Con sollievo, scoprì che non era stato ferito; ma era pallido e sudato, il corpo scosso da un tremito leggero ma persistente.
«Andate» mormorò lui. «Non posso—»
«Non ci provare» lo interruppe Clove. «Dan!» Indicò la porta sul pianerottolo davanti a loro. «Aprila!»
Dan andò alla porta e provò a spingere. «Chiusa!»
Clove trascinò Cato vicino alla porta. Non c’era serratura. A destra dell'uscio, un lettore ottico segnalava l’alto livello di protezione dell'appartamento.
Il macello di strilla della folla rimbalzava tra le pareti. Ancora qualche momento e sarebbero arrivati a travolgerli.
«Andate» disse di nuovo Cato. «Andate o è la fine.»
«Sta’ zitto!» gli urlò Clove. Con un ruggito di rabbia, si lanciò contro la porta. Il battente rimase immobile.
«È inutile, è corazzata» disse Dan.
Lei lo incenerì con lo sguardo. «Hai forse un’idea migliore?»
Lui si frugò nelle tasche e tirò fuori il tesserino dei pacificatori; sul suo viso parve brillare una luce trionfante, ma si spense subito per lasciare spazio a un ringhio di frustrazione. «No.»
Clove guardò le scale. La folla stava aggredendo l’ultimo tratto che li separava da quel piano. Il tempo a disposizione per inventarsi qualcosa era finito. Non potevano più scappare.
Poi la sua mente ebbe un lampo, strappò il tesserino dalla mano di Dan e lo poggiò sul lettore ottico.
Con uno scatto, la serratura si aprì.
«Vai, vai, vai!»
Dan prese Cato e si infilò dentro l’appartamento. Clove schizzò alle loro calcagna, afferrò la porta e spinse; ma un braccio si infilò nell’apertura, impedendole di chiudere il battente. Il peso della folla cominciò a spingere contro di lei. Puntò i piedi, ma gli stivali iniziarono a scivolare sul pavimento. Contro una simile sproporzione di forze, non poteva competere.
Un leggero spostamento d’aria, un tonfo liquido; poi Clove avvertì la forza di Dan unirsi alla sua, e insieme riuscirono a chiudere il battente. Le grida e gli spari si spensero, come se qualcuno avesse premuto un interruttore. Esausta, Clove si lasciò cadere a terra. 
Accanto a lei, avvolta in una pozza di sangue, c'era la metà del braccio che aveva tenuto aperta la porta
Con un sibilo e un piccolo scatto, Dan rinfoderò la sciabola. La guardò, e per un momento parve quasi che volesse dirle qualcosa; ma tenne le labbra dritte, le diede le spalle e si allontanò, lasciandola lì sul pavimento.



«Cara, cara, aspetta» sentì dire Deimos in tono irritato. «Non sta guardando.»
«Come non sta guardando?»
«Eh no.»
«Te l’avevo detto che dovevi tagliarle le palpebre.»
«Non ricominciare, per favore…»
«Be' allora fa’ qualcosa!»
Mentre sentiva i passi di Deimos avvicinarsi, Ayla si rese conto con una strana chiarezza di aver finito le lacrime. Poteva sentire distintamente i dotti lacrimali pompare inutilmente a vuoto, alla  ricerca del pianto in cui avrebbe dovuto mutarsi almeno una minima parte del dolore infinito che urlava dentro di lei. Ma non c’era più niente, lì dentro. Non c’erano più lacrime. Aveva creduto di averle finite da tempo; ma ne aveva ancora un’ultima, piccola scorta, nascosta nelle profondità del suo animo. E anche quella, adesso, era finita.
Non c’erano più lacrime, per il sergente Ayla Wilkins.
Restava solo l’odio.



Erano in quattro: madre, padre e figlia piccola seduti sul divano di velluto verde smeraldo, l’avox servitore di fronte a loro. Le tende bianche alle finestre ammorbidivano la luce grigia che veniva da fuori.
Clove posò lo sguardo sulla bambina. Somigliava a sua sorella.
Chissà se è viva. Chissà se mia – quella che avrebbe dovuto essere mia madre è viva. Con ogni probabilità, non lo saprò mai.
La madre aveva la faccia tonda e gli occhi azzurri, mentre il padre era un ometto con dei baffi folti e la testa liscia e lucida come un pomo d’ottone. Il volto dell’avox aveva un’espressione lontana e serena, come una gelida polla d’acqua di montagna. Aveva ancora in mano la pistola.
Dan aprì le dita contratte dal rigor mortis e prese l’arma. Era un vecchio revolver, un oggetto da collezione che aveva l’aria di non aver mai visto una guerra. «Ha sparato agli altri tre e poi si è fatto saltare la testa» disse, guardando l’avox. «Ma perché?»
«È un avox» disse Cato. «Con tutta probabilità, gliel’hanno ordinato.»
Dan alzò lo sguardo su di lui. «Ordinato?»
«Gli avox sono proprietà della famiglia presso cui servono» disse Clove. «Fanno tutto ciò che gli viene chiesto.» Continuava a fissare la bambina. «Evidentemente, non volevano vivere in un mondo che non era più il loro.»
Dan parve sul punto di dire qualcosa, poi si alzò e lanciò la pistola a Cato. «Due colpi. Ma almeno è qualcosa.»
Esplorarono il resto della casa. L’appartamento era grande e immacolato, ma spoglio, senza identità – quasi un non-luogo. In cucina, Clove trovò un paio di coltelli e se lì infilò alla cintura; poi, per un istinto che non riuscì a comprendere, si mise a cercare la camera della bambina. La trovò in fondo alla casa, quasi agli antipodi della stanza dei genitori. Una grande finestra illuminava un letto singolo poggiato su un pavimento di parquet lucido, circondato da armadi laccati di un bianco immacolato che coprivano tutte le pareti. Non c’erano altri mobili. Uno strano senso di vertigine la colse, e si allontanò in fretta da lì.
Trovò gli altri due nella stanza di disimpegno dell’ingresso. «Dov’eri finita?» le chiese Dan.
«Ero… ho trovato questi» disse lei, accennando ai coltelli alla cintura.
Dan lanciò uno sguardo distratto alle due armi improvvisate, poi spostò gli occhi verso Cato. «A quest’ora la folla si sarà dispersa» disse. «Possiamo provare a proseguire.»
«Ormai è buio» disse Clove. «Forse ci farebbe bene riposare.»
«Riposeremo quando sarà tutto finito.»
«Siamo esausti e Cato è ferito» ribatté lei. «Non ha senso fare le corse se poi muori perché non riesci più a stare in piedi.»
Un lampo oscuro passò negli occhi di Dan. «Rorke—»
«Sta aspettando che i ribelli e gli sfollati si concentrino nella villa del Presidente» lo interruppe lei. «Un paio d’ore non cambieranno le cose.»
Dan la fissò a lungo. Una parte di Clove si preparò a estrarre i coltelli.
«Due ore» disse lui alla fine. «Non una di più.»



Quello che accadde negli istanti successivi in quel misero e anonimo scantinato perso nella periferia di Capitol City si può forse spiegare con l’incuria e la forte umidità che aveva corroso le tubature e con i prodigi che può creare l’adrenalina quando si riversa nel corpo di un essere umano deciso a proteggere i propri figli. Che tra il sergente Wilkins e il soldato semplice Serkins non ci fosse alcun legame biologico, non aveva mai avuto così poca importanza.
Con un rumore a metà tra uno schiocco e un gemito, i due tubi che tenevano ferma Ayla si squarciarono. La ghisa cedette come se fosse stata creta, e il sergente cadde addosso a Deimos, paralizzato dallo stupore.
«Phobos!» gridò Deimos. «Pho—»
 Ayla gli infilò le mani in bocca. Sentì i denti dello IEROS affondare nelle sue dita, ma non provò alcun dolore. Non provava nulla. La sua ira era così piena da averle svuotato la mente, lasciandola con l’adamantina, agghiacciante volontà di uccidere.
Deimos gorgogliò qualcosa, le mani bianchicce che graffiavano la faccia di Ayla.
Lei cominciò a tirare.
Paralizzata da un orrore che per una volta era tutto suo, Phobos assistette all’orribile spettacolo della bocca di suo fratello che si apriva sempre di più, bloccata nella morsa ferrea e sanguinante del sergente. Un mugolio uscì dalla bocca di Deimos, sempre più acuto e penetrante; poi ci fu un orribile suono che pareva il digrignare di un esercito di denti, uno schiocco e da uno strappo carnoso, e il mugolio divenne lo strillo di una bestia scannata.
Phobos sentì qualcosa di umido attraversarle le guance, e si rese conto che stava piangendo.
Abbassò lo sguardo, istupidita. Sul tavolo, vicino al ginocchio sinistro della ragazzina, c’era la sua pistola lanciadardi. Il suo corpo venne attraversato da un brivido, e realizzò che a produrglielo era stato un ringhio così basso da essere quasi inudibile. Rialzò gli occhi. Ayla era in piedi, le mani lorde di sangue, le catene che le pendevano dai polsi e uno sguardo così fermo e spietato da farle girare la testa.
Non riuscì ad impedirselo. Mentre prendeva la pistola, la sua vescica cedette e le inzuppò i pantaloni.
«Non è possibile» mormorò, un sorriso folle sul volto rigato di lacrime, mentre puntava la pistola contro Ayla. «Non è possibile.»
Premtte il grilletto. Il dardo si piantò sulla spalla destra di Ayla. Imperturbabile, lei continuò ad avanzare.
«Ho calcolato» balbettò lei. «Ho sempre calcolato. Non dovresti… non potresti…»
Con calma orripilante, Ayla mosse il braccio destro di scatto e le schiantò la catena sulla tempia.
Phobos cadde a terra, emettendo uno squittio strozzato. Gli occhi le roteavano nelle orbite scure senza alcun controllo.
«Non – nonnononono – no…»
Ayla chiuse le dita martoriate dai denti di suo fratello sulla sua caviglia, la sollevò da terra e poi, come fosse un pezzo di carne da ammorbidire per bene prima di venire cucinato, la sbatté con violenza sul pavimento.
Schegge di denti e schizzi di sangue partirono dal volto massacrato di Phobos. Lei provò a dire qualcosa, ma le uscì solo un rantolo sputacchiato. Ayla la sollevò di nuovo e la mandò a schiantare sulla parete. Poi di nuovo a terra. E poi sulla parete, ancora una volta.
Stava per ricominciare quando si rese conto che Dana la stava guardando.
Lasciò andare la caviglia di Phobos. D’un tratto, non aveva più alcuna forza.
«Tranquilla» si sentì dire. «Sono qui. Sono qui.» Fece per accarezzarla, ma quando vide le sue dita lorde del sangue suo e dei due IEROS, si fermò. «Ora ce ne andiamo» le disse. «Tranquilla, ce ne andiamo.»
Un orribile suono di risucchio, poi qualcosa che avrebbe potuto essere una risata.
Aggrappandosi al tavolo, Deimos era riuscito a mettersi in piedi. La mascella strappata pendeva come una pezza carnosa stesa ad asciugare. Il labbro superiore era ritratto, scoprendo l’arcata di denti arcuata in un raccapricciante sorriso rossastro. I suoi occhi erano due biglie di vetro fisse su di lei.
Deimos sollevò il bisturi che aveva raccolto da terra e lo calò su Dana.
Ayla mosse in avanti il braccio sinistro e lasciò che la lama affilata gli penetrasse nell’avambraccio. Ancora una volta, non sentì dolore.
Deimos emise un lungo sibilo, mentre cercava di estrarre il bisturi dalla carne di Ayla. Lei gli prese il polso con cui stringeva lo strumento e glielò spezzò.
Un gemito bestiale uscì dalla gola di Deimos. Quello che ormai non era altro che un sacco di ossa e carne martoriata si sbilanciò all’indietro e cadde a terra.
Ayla estrasse il bisturi dall’avambraccio, aggirò il tavolo e si fermò davanti a lui. Lo guardò lì a terra, misero, rantolante e inerme, ed ebbe l’impulso di gettare il bisturi e correre via da lì.
È finita. Non possono più farle del male. È finita.
Poi spostò lo sguardo su Dana, la fissò nelle sue grandi iridi azzurre e le disse di non guardare.



Decisero di riposare in una piccola stanza vicino all’ingresso, così da poter tenere sotto controllo più facilmente eventuali movimenti sul pianerottolo. L’elettricità, già scarsa dopo la distruzione della diga del Distretto Cinque, con i bombardamenti era diventata pura utopia; nella stanza però c’era una vecchia stufa a legna, forse una reliquia della prima guerra tra Capitol e i Distretti, che Dan riuscì a far partire strappando un lembo di tessuto dalla tovaglia che copriva il tavolo da pranzo nel salone e facendo a pezzi lo schienale di una sedia.
Lo scoppiettare delle fiamme e la luce ambrata che usciva dallo sportellino aperto di ghisa fecero scendere su Clove un manto di calda stanchezza. Si tolse i coltelli dalla cintura, si distese per terra, appoggiò la schiena al muro e si addormentò. Quando li riaprì, era ancora buio. Dan e Cato erano davanti alla stufa. Nessuno dei due dormiva. Parlavano a bassa voce, ma nel silenzio assoluto di quella casa Clove non faceva alcuno sforzo nel distinguere le parole.
«Quindi a Capitol City ogni allegra famigliola ha con sé una versione domestica dei giocattoli di Rorke?» chiese Dan.
«No» rispose Cato. «O meglio, non esattamente. Gli avox non subiscono processi di condizionamento mentale. A parte la lingua, non viene rimosso loro nulla. Sono liberi di intendere e di volere.»
«Vuoi dire che lui ha ucciso tre persone, di cui una bambina, volontariamente? Per… cosa, lealtà? Dovere? Amore?»
«Non tutti i capitolini sono folli.» Cato indicò con un gesto vago la stanza. «Alcuni, semplicemente, nascono in questo mondo e non ne escono più.»
Una scintilla volò fuori dalla stufa. Dan seguì la sua traiettoria e la osservò spegnersi sul pavimento. «Ti ho visto morire» disse a un tratto. «In diretta tv. Ho guardato fino alla fine.»
«Capisco.»
Dan gli puntò gli occhi addosso. Non c’era rabbia sul suo volto. Era come guardare l’eco di un sasso che cade in un pozzo. «Davvero?»
«Volevi vendetta. Al tuo posto, avrei fatto lo stesso.»
«Al mio posto saresti—» Dan si interruppe, come se qualcosa gli avesse impedito di terminare la frase. Si guardò le mani, posate sulle ginocchia. «Non era per vendetta, comunque. O meglio, all’epoca pensavo lo fosse. Ma non lo era.»
Cato non disse nulla. Passò un minuto, poi Dan riprese a parlare. «Non mi frega niente di tutto questo. La guerra, i ribelli, Rorke, il piano… per me possono morire tutti. Che Panem bruci, atomizzata da un povero fesso. Sarebbe la giusta fine per questo posto di merda. Ma voglio rivedere mia sorella, e quindi farò tutto il possibile perché il tuo piano folle riesca. È per questo che mi hai scelto, no? Questo e perché non avevi di meglio a disposizione.»
Cato sbuffò dal naso e piegò le labbra in un sorrisetto amaro. «Piuttosto accurato.»
«Quello che non capisco» continuò Dan, «è perché tu. Perché non sei andato anche tu a caccia di Katniss Everdeen? Perché, dopo quello che ti è successo, ti sei messo in testa di salvare il mondo?»
Cato fece un profondo respiro. Chiuse gli occhi, poi gli riaprì. «Comincia tutto con mio padre.»
«Tuo padre?»
«Generale Leo Sullivan della Guardia Pacificatrice. Rispettato, ammirato, temuto, con molti agganci al Dipartimento dei Servizi d’Informazione. E grande amico di Aelius Rorke.»
Clove dovette fare un grande sforzo per continuare a far finta di essere addormentata. Non aveva idea che il padre di Cato fosse amico di Rorke. Non aveva idea neanche di quale fosse il suo nome. Cato non gliel’aveva mai detto. E lei non gliel’aveva mai chiesto.
«Il generale Sullivan è orgoglioso di suo figlio» proseguì Cato, «e come ogni bravo patriota sogna il giorno in cui si coprirà di gloria nell’Arena. Quando si offre volontario è fiero come non mai. Ma il giorno dei punteggi degli allenamenti lo coglie di sorpresa. Una disperata del Distretto Dodici, dal nulla, è schizzata in cima alla classifica. Il generale Sullivan è famoso per avere un grande intuito, e capisce che qualcosa non sta andando nel verso giusto. E che i Settantaquattresimi Hunger Games saranno più speciali che mai.» Prese un sorso d’acqua dalla sua borraccia e la posò a terra. «Così va dal suo amico Rorke, che in quanto ex Stratega sa come muoversi e ha ancora certe conoscenze nell’ambito, e gli chiede, in gran segreto, di aiutarlo a far vincere suo figlio. Lui accetta, ma a una condizione: che dopo gli Hunger Games la sua progenie lavori per lui.»
Negli occhi vuoti di Dan si acccese la sorpresa. «E quindi loro due hanno…»
«…truccato il gioco, sì» concluse Cato per lui. «O meglio, truccato ancora di più. Bypassando le telecamere dell’Arena, Rorke riesce a parlare con il giovane e sprovveduto figlio del generale Sullivan. Gli dice dove andare, cosa fare, come muoversi; se obbedisce e fa quello che gli viene detto, sostanzialmente, vincerà senza quasi muovere un dito. Ma il figlio, spavaldo ed esaltato dal sangue che ha appena versato, rifiuta sdegnato. Vuole vincere con le proprie forze, come gli è sempre stato insegnato. Così che, finalmente, possa essere all’altezza di suo padre.»
Cato fece una pausa, lo sguardo perso tra le fiamme della stufa. Dan lo osservò per qualche momento, poi lo spinse a continuare. «E quindi il giovane stupido figlio è andato avanti senza trucchi?»
Cato parve ridestarsi da un sogno a occhi aperti. «Per un po’ sì. Ma mano a mano che i Tributi muoiono e i numeri si restringono, le parole di Rorke cominciano a occupare sempre più spazio nella sua testa. Non vuole confessarlo a se stesso, ma quell’Arena sta cominciando a fargli paura. E anche se non vuole ammetterlo, i Tributi con cui gira, che in parte detesta, teme e non capisce, comincia a quasi a sperare che vivano. Finché non trovano Katniss Everdeen, la braccano e la accerchiano. E lei, da sola contro il meglio dei Favoriti, li frega tutti quanti.» Sospirò e scosse la testa. «Da quel momento, il giovane e stupido figlio del generale diventa un po’ meno giovane e un po’ meno stupido. Si fregia di essere impavido, e sicuramente lo è, ma di fronte al corpo gonfio e massacrato di quella che quasi poteva considerare un’amica comincia a rendersi conto che fino a quel momento non ha fatto altro che macellare dei poveri ragazzini inermi, e che in quell’Arena di vespe mutanti e palle di fuoco c’è molta meno gloria di quanto credesse.»
Dan fece un ghigno. «E l’eroe scoprì di avere una coscienza.»
«L’eroe scoprì di essere un ragazzino intrappolato con altri ragazzini in una gabbia mortale» replicò Cato, «ma sì, la tua versione è senza dubbio migliore. Fatto sta che il nostro eroe è tentato di accettare la proposta di Rorke, ma non riesce ancora a prendere in considerazione l’idea di truccare la partita. Finché la scorta di provviste che lui ha pazientemente raccolto salta per aria, il suo unico amico muore, e gli Amanti Sventurati conquistano sempre più sponsor e sempre più cuori. Così, una notte, il figlio del generale capisce che il gioco, più che truccarlo, forse è il caso di distruggerlo.»
Gli occhi di Dan si dilatarono per la sorpresa. «Non ci credo. Tu… davvero?»
«So che sembra ridicolo e furbo dirlo adesso, e non mi aspetto che tu ci creda» disse Cato. «Ma in quell'Arena non è stata solo Katniss Everdeen a pensare alla rivolta.»
«Non ti ho visto alzare tre dita al cielo, però» gli disse Dan.
«Perché ho pensato che non aveva senso fare rumore in quel momento» replicò lui. «Una volta vinti gli Hunger Games avrei potuto cominciare la mia piccola grande rivoluzione. Allora mi sembrava un gran piano, molto più sensato dei gesti ridicoli della disperata del Dodici. In ogni caso, alla fine il figlio del generale parla con Rorke, e accetta il suo aiuto. Ma pone una condizione: che non sia più uno il vincitore, ma due.»
Dan sbatté le palpebre un paio di volte prima di riuscire a processare l’informazione. «Aspetta, cosa? No, non è – quindi sei… tu hai – Katniss e Peeta hanno vinto per—»
«Sì, no, forse» rispose Cato. «Forse la cosa era già nell’aria, e Rorke ha solo dovuto dare una piccola spinta. In ogni caso, è riuscito a mantenere le sue promesse. E il ragazzo, per la prima volta, spera. Ancora non ha messo a parte del piano la sua compagna di Distretto, ma lo farà. Prima bisogna vincere. Prima bisogna uccidere Katniss Everdeen.»
Nella stanza cadde il silenzio. Clove sentiva i propri polmoni bruciare per la mancanza di ossigeno, ma non osava respirare. Non poteva permettersi di farsi sentire. Non riusciva a fare altro che continuare ad ascoltare.
Cato inspirò, aprì la bocca, deglutì e riprese. «Ma poi le cose non vanno secondo i piani. È solo quando corre sentendo gridare il proprio nome che il ragazzo capisce perché ha voluto che fossero due, i vincitori; ma in ogni caso, è troppo tardi. La gloriosa rivoluzione del figlio del generale finisce ancora prima di iniziare. Gli resta solo la rabbia, e la rabbia lo porta alla fine.»
Per un momento, Clove vide qualcosa brillare negli occhi di Dan; ma fu una luce che si spense subito.
Cato abbassò lo sguardo a terra. «Il giorno dopo la fine dei Settantaquatresimi Hunger Games, il generale Sullivan si chiude a chiave nel suo ufficio, prende la sua pistola di ordinanza e si spara in bocca. Qualche settimana più tardi, suo figlio apre di nuovo gli occhi. Ci è voluta un po’ di fatica per sistemare il corpo massacrato dai lupi mutati, ma ora sta bene. Ed è pronto ad onorare l’accordo tra Rorke e suo padre.»
Un pezzo di legno si spaccò dentro la stufa. Il suono riecheggiò come uno sparo.
«E… Clove?»
Il cuore di Clove mancò un battito quando lei sentì Dan pronunciare il suo nome.
«Clove cosa?» chiese Cato.
«Perché Rorke ha fatto tornare in vita anche lei? Non faceva parte dell’accordo.»
«Non lo so. Non me l’ha mai detto. E in parte, io ho sempre avuto paura di chiederglielo. Forse era un perverso regalo da parte sua, forse una leva da sfruttare in caso si fosse trovato a costringermi a collaborare. In entrambi i casi, ho preferito non saperlo.»
Mentre il silenzio tornava nella stanza, Clove realizzò qualcosa che forse, in fondo, aveva sempre saputo: che non era stata la sua bravura a riportarla in vita. Era stata solo una coincidenza, un effetto collaterale, una grammo di carne nel gigantesco piatto di una bilancia.
L’articolo di un accordo.
Si chiese se non fosse stata nient’altro che quello, in tutta la sua vita.
Sentì qualcosa pizzicarle gli occhi, come se si fosse strofinata del sale sulle palpebre; e in sottofondo, quasi impercettibile, uno scatto. Siccome entrambe le cose la stavano inquietando e Cato e Dan erano rimpiombati nel silenzio, pensò fosse il momento migliore di far finta di svegliarsi. Staccò la schiena dalla parete, appoggiò la mano sinistra a terra e spinse con il baccio destro per sollevarsi. Più per caso che per altro, lo sguardo le cadde sulla soglia della stanza.
Lì, immobile, c’era Ares.
«Nemico!» gridò Clove, scattando in piedi.
Ares si lanciò su Dan ruggendo come una bestia, in mano una delle due spade corte che Artemisia aveva avuto prima di morire. Clove si rese conto di aver lasciato i due coltelli a terra; ma in ogni caso, era troppo lontana per fare qualcosa.
Dan guardò con orrore la montagna di ossa e muscoli venirgli addosso, la sciabola ancora per metà nel fodero; ma prima che Ares potesse calare la spada su di lui, Cato gli si gettò contro, placcandolo e mandandolo a schiantarsi contro la parete. «Clove!» gridò. «Clove, andate—»
La lama rossastra  della spada corta gli sbucò dalla schiena. Cato sputò un fiotto di sangue, poi infilò il revolver da collezione sotto il mento di Ares, gli ringhiò in faccia e premette il grilletto.
Lo sparo si abbattè sui timpani di Clove, mentre una lingua rossastra schizzava il muro fino al soffitto. Il corpo gigantesco di Ares ebbe un ultimo sussulto, poi franò addosso a Cato e, insieme a lui, cadde per terra.
Il fischio acuto che risuonava nei timpani di Clove si ridusse ad un sussurro ovattato. Immobile, istupidita, osservò le dita di Dan aggrapparsi alla corazza di Ares per tirarlo via da Cato. Lui era a terra, supino. Il peso di Ares gli aveva spinto la spada nel petto fino all’elsa, inchiodandolo al pavimento.
«L’olomappa» mormorò lui. «Prendetela…»
«Ehi» gli disse Dan, mentre le dita si agitavano intorno all’impugnatura della spada corta. «Aspetta. Aspetta.»
«Per entrare serve un’impronta, del Dna e la scansione della mia retina.» Cato puntò lo sguardo su di lui. «Un occhio e un dito dovrebbero bastare.»
«Non serve» rispose Dan. «Non serve, tranquillo, non serve.»
Cato chiuse gli occhi. L’espressione del volto si rilassò. «Per quel che vale, Dan… mi dispiace.»
«Aspetta, ti ho detto, aspe—»
Cato si piegò la testa verso destra, pallido come una statua, e non si mosse più.

 

Il sergente maggiore Opper sollevò un pugno all’altezza della tempia. Alle sue spalle, la squadra si abbassò poggiando un ginocchio a terra. Davanti a loro, la strada era invasa da una nebbia grigiastro.
«Ti prego, non di nuovo il gas» mormorò la soldatessa Perrier.
«Il gas è più chiaro» disse il soldato Macob. «Questa sembra più polvere.»
«Anche a Grier sembrava polvere, e quella merda se l’è mangiato vivo.»
«Silenzio» intimò loro il sergente. «C’è qualcuno.»
«Fumogeni» gemette Macob. «Forse era meglio il gas.»
«In copertura, svelti.»
La squadra si divise, spostandosi ai lati della strada. I soldati si acquattarono tra le macerie, spianando i fucili verso la cortina di fumo.
Tremolando in mezzo alla dense volute grigie, una strana sagoma informe fece la sua comparsa.
«Alt!» gridò il sergente.
La figura si arrestò, ondeggiò come se fosse ubriaca e crollò a terra, sfaldandosi come se fosse fatta di un fluido viscoso
«Non sparate!» ordinò il sergente alla sua squadra.
«Potrebbe essere una trappola, sergente» disse la soldatessa Perrier.
«Lo so» borbottò lui. «Tenete quella roba sotto tiro, io vado a dare un’occhiata.»
Il sergente Opper superò la trave d’acciaio dietro la quale si era nascosto e avanzò lentamente in mezzo alla strada, il fucile abbassato ma pronto a sparare. Alle sue spalle, la squadra attendeva.
Una folata di vento gli accarezzò le spalle, percorrendo la via e scacciando indietro la nube di fumo. Per terra, a una decina di metri da lui, Opper riuscì a distinguere la figura.
Non era una strana creatura, ma un essere umano. Anzi, tre. Un uomo, una donna e una ragazzina.
Opper si avvicinò con cautela. L’uomo indossava una divisa dell’Esercito Regolare, mentre la donna aveva la fascia rossa dei sergenti dei Volontari al braccio.
Ma che diamine…
L’uomo tossì, aprì gli occhi, vide il sergente e cercò di alzarsi.
«Fermo» gli intimò Opper, puntandogli contro il fucile. «Non ti muovere, stronzo capitolino.»
«Ammazzami, se devi» mormorò l’uomo. «Basta che le salvi. Devono… devi portarle da Katniss Everdeen.»
Il volto di Opper lampeggiò di sorpresa. «Come?»
«Katniss Everdeen» ripeté l’uomo, a fatica. «Portale da Katniss Everdeen, se non vuoi che crepiamo tutti.»
«Ma chi cazzo sei, tu?»
L’uomo non rispose. Era già svenuto.
Opper fece segno alla squadra di raggiungerlo. Perrier e Macob scrutarono le tre figure a terra, perplessi.
«Questa sì che è strana» disse Macob.
«Che facciamo, sergente?» chiese Perrier.
Il sergente Opper scrutò il volto dell’uomo.
Katniss Everdeen. Un ufficiale dei regolari che mi chiede di Katniss Everdeen. Che cazzo di città fuori di testa.
«Prendeteli» disse. «Li portiamo al comando. Vedranno loro se fucilarli o meno.»



Clove fissava il corpo di Cato da lontano, come se fosse sulla cima di una montagna e guardasse giù verso il mare. Una lontana eco sembrò giungerle portata dal vento. Si fece più forte, più insistente; finché non si rese conto che era la voce di Dan.
«Clove.»
Spostò lo sguardo su di lui, inebetita. Una mano sporca del sangue di Cato era tesa verso di lei.
«Un coltello.»
Lei guardò il volto di Cato, poi tornò con gli occhi su Dan. «Cosa?»
«Mi serve uno dei tuoi coltelli» ripeté lui, scandendo inesorabile le parole.
«Cosa… cosa vuoi fare?»
Gli occhi bui di Dan erano più freddi dei due cadaveri nella stanza. «Secondo te?»
Un occhio e un dito dovrebbero bastare.
«No.»
Dan inclinò leggermente la testa, scrutandola come se appartenessero a due specie diverse. «Come?»
«Non lo toccare.»
«Non sta a te deciderlo.»
«Non lo toccare, stronzo mandriano pezzo di merda, o ti uccido.»
Dan sollevò le mani, impassibile. «Va bene» disse.
Poi scattò in avanti e le tirò una testata.
Clove rinculò con un grido, il naso spaccato che le inondava la faccia di sangue. Intravide il pugno sinistro di Dan giungere verso la sua faccia, e sollevò l’avambraccio per intercettarlo. Mentre la forza del colpo si scaricava attraverso le ossa, concentrò le forze sulla gamba sinistra e gli tirò un calcio in mezzo alle gambe. Dan emise un guaito strozzato, piegandosi in avanti e consentendole di ricambiare la testata.
«Stronzo bastardo, schifosa, patetica, pezzente nullità» gli sputò addosso mentre lui crollava a terra. Con un ghigno sadico, raccolse i due coltelli che aveva lasciato sul pavimento. «Bovaro del cazzo, ora ti scuoio vivo.»
Dan rotolò all’indietro, afferrò la sciabola che giaceva vicino al corpo di Cato e saltò in piedi. «Sono qui, pagliaccio psicopatico. Magari questa volta ce la fai.»
Clove scattò in avanti. Dan scartò di lato, lasciandola a colpire il vuoto, poi calò la sciabola sul suo collo. Lei sollevò un coltello, e un orrendo stridiò di metallo risuonò nella stanza mentre le due lame strisciavano una sull’altra.
«Sei bravo», disse Clove ansimando. «È un vero peccato che non ci fossi, nell’Arena. Chissà, magari quella stupida ritardata di tua sorella riuscivi pure a salvarla.»
Il volto di Dan si deformò in preda all’ira più nera. Sollevò in alto la spada, urlò come mai in vita sua e calò la lama sulla testa di Clove.
Era quello che lei stava aspettando. Incrociò i coltelli, li sollevò, parò il colpo di Dan e lasciò che la lama della sciabola scivolasse fino all’elsa; poi, con un violento strattone, la spinse di lato, strappandogliela dalle mani. Dan saltò all’indietro, evitando un fendente che gli avrebbe aperto la pancia, incespicò e cadde.
Clove roteò i coltelli per portare la lama sotto il pugno e si lanciò su di lui. Dan riuscì ad afferrarle il polso destro, mentre la mano sinistra si chiuse attorno alla lama dell’altro coltello. Il sangue prese a colargli sulla sua camicia, mentre l’attrezzo da cucina gli squarciava le dita e si avvicinava sempre di più al suo petto.
Clove lo guardò con gioia sadica. «Puoi fermare l’uno o l’altro, non entrambi. Fai la tua scelta, stupido mandriano.»
Qualcosa cambiò nello sguardo di Dan. Le sue iridi, che fino a quel momento le erano sembrate buie come una notte senza stelle, parvero riacquistare il loro caldo tono castano. Gli occhi si inumidirono, e due lacrime scesero sul pavimento, scavando un solco immacolato sulle tempie sporche di guerra.
Avrebbe dovuto essere un momento di trionfo sopraffino, per Clove; lo era sempre stato, ogniqualvolta era riuscita a far piangere il suo avversario. Le lacrime e la disperazione le erano sempre sembrate un nettare delizioso, il segno inequivocabile che era riuscita a spezzare il suo nemico oltre ogni possibile soglia di dolore. Eppure, quella volta, guardando quel patetico disperato del Distretto Dieci sotto di lei, non riuscì a sentire nient’altro che una strana, amara, acida malinconia.
«Vuoi sapere qual è stata la mia scelta?» disse Dan. «Voler essere come te.»
I muscoli con cui Clove spingeva i coltelli verso di lui ebbero un fremito. Cosa?
«Volevo essere come voi. Essere un Favorito, combattere nell’Arena e conquistare la gloria immortale. Ma non potevo, perché ero nato nel Distretto sbagliato. Finché un giorno non conobbi un uomo. Un capitolino, caduto in disgrazia e spedito da noi come Pacificatore. Sapeva molte cose, perché aveva ricevuto una raffinata educazione. Fu lui che mi insegnò a duellare.»
Clove fu presa dall’istinto di spingere il più possibile e affondare i coltelli dentro di lui, perché una parte di lei aveva il terrore di quello che avrebbe potuto dire. Ma le sue braccia rimasero immobili, e lui proseguì.
«Mi allenai in segreto per anni. L’uomo mi insegnò anche come comportarmi, cosa dire, come atteggiarmi per catturare l’attenzione degli sponsor e vincere il cuore del pubblico. Quando giunsero i Settantaquattresimi Hunger Games, ero pronto. Ero una macchina da guerra. Un Favorito. Proprio come te.»
Clove sentì la mascella contrarsi. Basta, pensò disperata. State zitti. Smettetela di parlare. Basta. Basta. Basta—
«Come sempre, prima le fanciulle.» Dan emise una piccola, stridula risata amara. «Senza queste parole, forse io e te oggi non saremmo qui. Mia sorella venne scelta, e io andai nel panico. Perché volevo vincere, ma sapevo che per vincere avrei dovuto ucciderla. Non pensai a proteggerla, a sacrificarmi per lei, al fatto che forse la storia dei due fratelli sventurati avrebbero potuto commuovere così tanto il pubblico da convincere lo Stratega a fare uno strappo alle regole. Pensai solo che quella cretina di mia sorella aveva rovinato tutti i miei piani. Così rimasi lì, immobile, e lasciai andare il fratello zoppo del mio migliore amico a farsi uccidere al posto mio.» Le sue labbra si accartocciarono in un ghigno orribile. «Non sei l’unico mostro in questa storia, Clove. Non sei neanche il peggiore. Io e te siamo stati una squadra perfetta. Io te l’ho portata, tu non hai esitato. E insieme l’abbiamo uccisa.» Dan la guardò, e il suo volto parve distendersi in una maniera molto simile a quella di Cato sull’orlo della morte. «Pensavo che riportarla in vita avrebbe sistemato tutto, ma in realtà non è così. In realtà volevo solo morire nel tentativo. Che accada adesso o dopo non ha importanza.» Chiuse gli occhi, appoggiò la testa al pavimento e lasciò la presa sui coltelli.
Un secondo. Due secondi. Tre.
Due tonfi sordi, ed era finita.
Clove si alzò in piedi. I coltelli, piantati nel legno del pavimento, ondeggiavano vicino agli zigomi di Dan. Lui aprì gli occhi e la guardò con stupore, quasi stralunato.
Lei raggiunse la sciabola e la calciò verso di lui. «Vattene» gli disse. «Fai quello che devi fare. Vai da tua sorella, crepa in questa tua stupida cavalcata da poveraccio in cerca di redenzione. Non me ne frega niente. Non me ne frega più niente. Morite tutti e lasciatemi sola.»
Sbatté la schiena alla parete, si lasciò cadere a terra e lì rimase. I passi di Dan che si allontanavano gli giunsero come in sogno. Passò un tempo che non riuscì a calcolare, lì seduta mentre il sangue di Ares e Cato si mischiava e irrancidiva, finché il suono di altri passi non giunse alle sue orecchie.
«Bene bene» disse la voce del Bianco. «Guarda un po’ chi si rivede.»









L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: capitolo lungherrimo (penso il più lungo di tutta questa fanfy, ma non sono sicuro), ma era difficile non uscisse fuori così. Rivelazioni sono state rivelate (ve l'avevo detto che c'era un motivo per Dan d'Artagnan, hehhè), gemelli psicopatici sono stati mazzuolati (Ayla unchained – la D è muta) e piani disperati sono diventati ancora più disperati. Dan è ormai lanciato verso il suo destino, mentre Clove pare ormai aver gettato la spugna (no Caesar, io esco... oh cielo perdonatemi). Quindi boh, è finita? La guerra praticamente sì; tutto sta nel come.

Ci siamo quasi, gente. Nel prossimo capitolo, l'ultimo atto dei Settantaseiesimi Hunger Games. Eggià.


Tante care cose, fate quello che dovete fare, e a presto!

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Capitolo 24
*** Silhouettes ***


 

23.

Silhouettes




 
Then that light hits your eye
I know, I swear we’ll find somewhere
The streets are paved with gold

Bullets fly, split the sky
But that’s alright, sometimes sunlight
Comes streaming through the holes

– Coldplay, U.F.O.

 



Qualche metro dopo aver superato i cancelli della villa, il motore del veicolo leggero da trasporto prese a singhiozzare e si spense.
«Mi dispiace, Generale» disse il maggiore Ibsen, girandosi sul sedile del passeggero per rivolgergli una smorfia di pigre scuse. «È finita la benzina. Mi sa che le toccherà proseguire a piedi.»
Il generale di brigata Elenius Lorn rispose con un secco cenno del capo. Lanciò una breve occhiata al suo aiutante di campo, il tenente Jensen, seduto accanto a lui, aprì la portiera corazzata del veicolo e scese.
Era una splendida mattina di ferro. Se non fosse stato per la cortina di case e persone in polvere che aleggiava sopra la città, avrebbe potuto essere una grande giornata di sole, una di quelle in cui in cui il generale era solito passeggiare con i suoi figli lungo il Limen. Mentre marciava verso la villa, Lorn si chiese se Maia e Virgil stessero bene. Il bunker era uno di quelli della prima ribellione, solido e testato dalla prova dei fatti. Aveva fatto tutto il possibile perché fossero indirizzati lì; ora, non gli restava che sperare.
Non c’erano sacchi di sabbia né nidi di mitragliatrici di fronte all’ingresso della villa; le due Guardie Presidenziali di sentinella si misero sull’attenti con una certa svogliatezza. Sembrava quasi che non fosse la loro città, quella che stava bruciando appena fuori dai cancelli. La mascella del generale si irrigidì. Senza degnarli di uno sguardo, procedette dritto ed entrò nella villa.
Il grande ingresso era vuoto. La pietra nera della scalinata di rappresentanza, un tempo così lucida da far quasi male agli occhi, era disseminata di oggetti: casse aperte, carrelli rovesciati, bottiglie rotte, un quadro fatto a pezzi, la cornice dorata spaccata e la tela squarciata in tre lunghi tagli; sul corrimano d’argento, attorcigliata e bruciacchiata, c’era una tenda scarlatta.
Il generale distolse lo sguardo da quello spettacolo desolante e marciò deciso verso l’unica persona nel salone, un giovane impiegato dello staff del Presidente seduto dietro a una scrivania vicino alla porta di un ascensore. Aveva la giacca nera sbottonata e la cravatta rossa allentata. Quando il generale gli si piantò davanti, sollevò due spenti occhi acquosi. Con tutta probabilità, era ubriaco.
«Generale di brigata Lorn. Sono stato convocato dal Presidente.»
L’impiegato sbatté le palpebre. «Nome?» biascicò con la bocca impastata.
Il generale soffocò l’istinto di colpirlo. «Elenius Lorn. Sono qui per vedere il Presidente.»
L’uomo chiuse gli occhi, e per un momento parve sul punto di addomentarsi; poi si riscosse con un piccolo fremito e gli indicò la porta dell’ascensore. «Piano… meno quattro» gli disse, passandogli una tessera di metallo con mano incerta. «Sì, meno quattro. Lui no» aggiunse, quando vide che il tenente si stava muovendo per accompagnare il proprio superiore.
Il generale ordinò con un breve sguardo al tenente di obbedire, poi entrò nell’ascensore, infilò la tessera nella fessura sotto la pulsantiera e premette il tasto corrispondente al quarto livello sotterraneo. Non avvertì alcun rumore, solo l’inerzia muoversi attraverso il suo corpo; in meno di dieci secondi le porte si riaprirono di nuovo, mostrandogli un corridoio grigio illuminato dalla piatta luce di lampade al neon.
Come quattro piani più sopra, c’era un tavolo vicino all’ascensore: al posto di un addetto del presidente, seduto dietro di esso c’era un ufficiale della Guardia Presidenziale.
«Documenti» recitò l’uomo con voce stanca.
Il generale sbottonò il taschino destro della divisa e gli passò la sua tessera identificativa. L’ufficiale la passò su un lettore ottico, lesse qualcosa sul monitor appoggiato al tavolo e gliela restituì. «Terza porta a destra» gli disse. «La sua arma, prego.»
Il generale estrasse la pistola dalla fondina al fianco. Avrebbe potuto dire che era scarica – perché lo era, da più di tre giorni ormai – ma non avrebbe fatto molta differenza. Un po’ come quasi tutto quello che stava accadendo in quelle ore. Ovviamente, non disse neanche questo.
Dietro la terza porta a destra c’erano sei gradini e una piccola stanza. L’aria era ammorbata dall’odore di tabacco bruciato. Intorno a un traballante tavolino di plastica, tre uomini e una donna erano intenti a giocare a carte. La donna gettò la sua mano sul tavolo con un gesto irritato e fece un lungo tiro dalla sigaretta che teneva tra indice e medio. «Lenio!» strillò quando si accorse del generale. «Che ci fai qui?»
Lui scese i gradini. «Rodia» le disse, salutandola con un cenno del capo. «Sono stato convocato dal Presidente.»
La donna si alzò in maniera scomposta, facendo traballare il tavolino. «Nientemeno!» biascicò, muovendosi a passi incerti. Aveva la divisa sbottonata, i capelli corvini sconvolti e lo sguardo che galleggiava in un mare di beata incoscienza. «E a cosa devi questo… fantastico onore?»
Il generale Lorn conosceva il colonnello Rodia Godwyn da quasi vent’anni ormai. Non sapeva tutto di lei, ma era certo che detestasse l’alcool e chiunque ci fosse affezionato. E ora era lì, davanti a lui, completamente ubriaca.
«Credo che il Presidente voglia farmi fucilare» disse.
La donna lo guardò con aria ebete, si voltò verso i suoi compari, riportò gli occhi su di lui e scoppiò a ridere.
E il generale Lorn comprese che la Federazione di Panem aveva ormai perso la guerra.



«La guerra?» disse il Nero. «Persa da tempo, ormai. Ma è l’ultima cosa che ci interessa, adesso.»
Avevano attraversato il posto di blocco, lasciandosi alle spalle lo spiazzo ingombro di cadaveri. I soldati che l’avevano presidiato fino al giorno prima, proteggendo quel varco a costo di sparare ad alzo zero su una folla di civili inermi, erano spariti. Sangue e fatica per nulla, pensò Clove. Il motto della nostra amata nazione.
«E così il bovaro ti ha messo al tappeto» ghignò il Bianco. «Chi l’avrebbe mai detto.»
«È più pericoloso di quanto sembri» rispose Clove. «Ha ucciso Artemisia.»
«Ma non te» disse Callissa, una sfumatura circospetta nella voce.
Clove girò la testa verso di lei. «Credo che tu stia insinuando qualcosa.»
«Nessuno insinua niente» ribatté secco il Nero.
«Calli è sempilicemente curiosa» aggiunse il Bianco. «È una domanda legittima. Perché lo zotico ti ha lasciato in vita?»
«Perché è un povero stupido» disse Clove. «Ha voluto fare l’eroe e mostrarmi pietà. Pessima mossa.»
Mentre il bianco sogghignava e borbottava qualcosa riguardo agli sprovveduti, Clove si chiese perché non avesse detto loro la verità. Non c’era alcun motivo logico dietro alle sue bugie: Dan aveva lasciato il corpo di Cato intatto, quindi non aveva alcuna possibilità di accedere alla struttura segreta sotto la piazza. Forse Katniss Everdeen avrebbe fermato in tempo la cellula nascosta nel Distretto Tredici, ma il resto del piano sarebbe andato avanti. Un nuovo esercito sarebbe sorto tra le macerie di Capitol City, spazzando via chiunque avrebbe trovato sul proprio cammino. E a quel punto, forse, il Tredici si sarebbe deciso ad atomizzare la capitale.
E allora, perché?
«Al riparo» disse il Nero. «Ostili in arrivo.»
Si nascosero dietro quello che restava di un muro. Più avanti, a una ventina di metri di distanza, c’era un incrocio. Nel centro si apriva una voragine di forma rettangolare, una trappola del Presidente scattata e ormai inutilizzabile. O almeno così credeva Clove, prima di veder comparire un cavallo nero.
Era una bestia magnifica, alta, possente e dal manto lucido. Sulla groppa, adagiato su una sella di cuoio rifinito, c’era un giovane uomo. Indossava un’elegante uniforme dello stesso nero profondo del manto del suo animale, con i bottoni e i ricami d’argento; la fila di alamari sul petto scintillava lugubre come la cassa toracica di uno spettro. Appesa al fianco aveva una sciabola molto simile a quella di Dan; sul volto, una maschera a foggia di teschio gli copriva gli occhi e il naso.
Il giovane uomo fermò il cavallo e gli fece compiere una giravolta con un guizzo esperto del polso. Lo seguiva una dozzina di altri cavalieri, le divise nere e argento come la sua. I primi due del gruppo si portavano dietro, legati a una catena, un ragazzo e una ragazza.
«Allora» trillò il giovane uomo, «chi ha voglia di morire per primo?»
«Allan!» singhiozzò la ragazza. «Ti prego…»
Lui sospirò. «Priscilla…»
«…ti prego, ti scongiuro, non stavamo – non stavamo scappando…»
«…Priscilla, Priscilla…»
«…ti prego, Allan, ti prego – ti conosco da quando avevi otto—»
«…Priscilla!» Lo strillo di rabbiosa follia del giovane uomo rimbalzò tra le macerie. La ragazza sobbalzò e si azzittì. «Priscilla» continuò lui, l’aria paziente del vecchio amico. «So bene da quanto ci conosciamo. E so altrettanto bene che per me ci sei sempre stata. Voglio solo ricambiarti il favore. Voglio essere sicuro che i traditori non ti prenderanno mai.» Poggiò le mani sul pomo della sella e si piegò in avanti, verso di lei. «Tutto questo… lo faccio per te
«Stronzo fanatico pezzo di merda!» ruggì il ragazzo, lanciandosi contro di lui. Il cavaliere che lo teneva per la catena lo tirò indietro, facendolo cadere a terra. Un coro di risate cattive si alzò dalla combriccola vestita di nero.
«Per te invece non faccio un bel niente» disse il giovane uomo, sdegnato. «Se sei qui è solo per grazia della nostra amica disgraziatamente in comune. Va bene, basta» aggiunse, con un gesto nervoso della mano. «Non perdiamoci in chiacchiere. Chi va per primo?»
La ragazza raddrizzò la schiena e lo guardò negli occhi. Sul viso sporco di cenere e lacrime, brillava ora uno sguardo fiero e deciso. «Ci vediamo lì sotto, Allan.»
Il giovane uomo scoppiò in una risata stridente. «Ora ti riconosco, Priscilla! La stirpe dei Carradan brilla in te.» Con un gesto lezioso della mano, le indicò la voragine che si apriva davanti a loro. «Dopo di voi, mia cara.»
Lei non distolse lo sguardo. «Puoi giurarci.» Spostò gli occhi davanti a sé, fece una decina di passi in avanti e si fermò davanti al bordo della voragine. Lì sotto, tra le ombre, qualcosa si mosse, pregustando il sapore della carne.
Nascosta dietro un brandello di muro, Clove la vide impallidire, alzare lo sguardo e guardare dritta verso di lei. Il suo cuore perse un battito.
Poi lo sparo, e l’orbita sinistra della ragazza scomparve in una nebbia rossastra.
Mentre il suo cadavere precipitava nel baratro, un coro di voci insoddisfatte si alzò dai cavalieri. «Che cazzo, Allan» disse qualcuno. «Così non vale.»
«Lo so, lo so» disse lui, rinfoderando una pistola decorata dalla canna lunga. «Ma stava per scappare. Ho voluto concederle il privilegio di morire con l’onore intatto. Un favore per una vecchia amica. E poi, era anche tra le migliori tre del nostro anno.»
Un borbottio comprensivo accolse queste parole. «Però uffa» disse sempre la stessa voce.
«Tranquillo, Petrus» disse il giovane uomo, comprensivo. «Con questo andrà tutto come deve.»
Il ragazzo, ripresosi dallo shock di vedere la sua compagna morire, provò di nuovo a lanciarsi contro il giovane uomo. Strillò, scalciò e si agitò per tutto il tempo, costringendo il cavaliere che lo teneva a chiedere aiuto a un altro compare: insieme, i due lo atterrarono, lo presero per le gambe e sotto le ascelle e lo portarono sul bordo. Sul fondo, il rumore di vesti stracciate e carne lacerata arrivava come un lontano eco.
«E uno!» esclamarono i due, cominciando a far dondolare il ragazzo. «E due… e tre!»
Un ultimo, disperato ruggito riempì l’incrocio. Il ragazzo precipitò giù, mentre i due sollevavano le destre per darsi un cinque; prima che le mani potessero scontrarsi, però, il cavalleggero a destra cadde a terra e scivolò verso la voragine, artigliando l’asfalto con le mani. Il suo compare provò ad afferrarlo, invano: la catena del ragazzo, attorcigliataglisi alla caviglia, non gli lasciò alcuno scampo. Il suo grido di terrore risuonò per cinque lunghi secondi, poi si spense con un tonfo lontano.
Tra i cavalieri scese il silenzio.
Il capobanda guardò la voragine per qualche momento, come incantato; poi si girò verso i suoi, estrasse la sciabola e la puntò verso il cielo. «Ave Artorius, benedetto da Madre Guerra!»
L’incrocio si riempì del sibilo d’acciaio di una dozzina di spade sguainate. «Ave!»
Con un tocco degli stivali, il giovane uomo mise in moto il cavallo. «Avanti, fratelli e sorelle!» esclamò mentre passava davanti ai suoi. «Verso la rovina… e la fine del mondo!»
«Urrà!» ripeterono loro, gioiosi; e con il proprio degno capo in testa – e il compare del povero Artorius che si affannava a rimontare in sella in fondo – , ripresero la via, gli zoccoli dei cavalli che graffiavano l’asfalto e l’acciaio dei finimenti e dei foderi che tintinnava.
«Ok» disse il Bianco, quando fu certo che i cavalieri se ne fossero andati. «Che cazzo ho appena visto?»
«Non ne ho idea» rispose il Nero.
Nella testa di Clove lampeggiò un ricordo.
Se becchiamo una pattuglia dei nostri ci fucilano. Sempre se non incrociamo quei cazzo di invasati degli—
«Universitari» disse.
I tre IEROS si girarono a guardarla.
«Era una squadra di Universitari.»



La vide scivolare giù da un mucchio di detriti, sbucciandosi le ginocchia, graffiandosi la faccia  e storcendosi la caviglia. Quando la tirarono su aveva la bocca impastata di sangue. Il nastro che le legava i capelli castani era di raso azzurro, come il suo vestito o le camicie di coloro che l’avevano raccolta da terra. Il fratello lo trovarono quasi subito; si era sporto dal suo nascondiglio più del dovuto. Lei doveva avere intorno agli undici anni, lui non più di otto. Le camicie azzurre li misero uno affianco all’altro, spazzolandogli con le mani i vestiti, e li squadrarono per qualche momento, assorti.
«Direi che è il caso che li impicchiamo» disse uno di loro.
Gli altri annuirono, concordi.
«Ma dove?» chiese il membro più anziano della squadra, una distinta signora di una sessantina d’anni, guardandosi intorno. «È importante che sia un luogo fresco e asciutto, o mi andranno a male in men che non si dica. E ben illuminato, così che risaltino come si deve.»
«Io direi un lampione» disse un uomo dalla fitta barba nera. «Un classico.»
«Caro, perdonami ma mi sembra un po’ banale» squittì una donna sulla quarantina con un caschetto viola acceso.  «Sul braccio proteso della statua in Piazza della Giustizia: ecco la location definitiva.»
Erano talmente impegnati a discutere che si accorsero di lui solo quando fu a un paio di metri da loro. L’uomo con la barba fu l’unico a sollevare il fucile: la sciabola gli aprì la gola con un sussurro, strappandogli un gorgheggio strozzato. Gli altri fuggirono, travolgendo la distinta signora e lasciandola a terra, dolorante.
«Ti prego» piagnucolò, vedendolo avvicinarsi con la lama lorda di sangue. «Stavamo giocando… stavamo solo giocando.»
«Lo so» disse Dan. «Anche io.»
L’acciaio trapassò il cuore della donna. Lei morì senza un sospiro.
Dal taschino della sua camicia sbucava un fazzoletto di seta con una fantasia di occhi di pavone. Dan lo prese e lo usò per pulire la lama della sciabola.
«L’hai uccisa?» disse il bambino.
Dan abbassò lo sguardo sulla donna con aria distratta, come se non si ricordasse cosa le aveva fatto. «Sì.»
«Bene.»
Gli occhi di Dan si inchiodarono su di lui con tale impeto che il bambino sussultò. Era ancora in piedi accanto alla sorella, rigido come una bestiola che cerchi di rendersi invisibile. D’istinto, lei si spostò per coprirlo. «Non voleva» disse, come se suo fratello avesse appena pronunciato un’offesa irripetibile. Si lasciò scappare un singulto, deglutì e serrò le labbra tremanti, mentre una lacrima le rigava la gota tonda. «Per favore, non ci uccidere.»
Dan si accorse che aveva l’incisivo sinistro scheggiato. E fu quel dettaglio quasi innocuo, così facile da perdere in quell’uragano di sangue e violenza e corpi massacrati, che lo colpì più di qualunque altra cosa.
Fece un passo verso di loro. I due fratelli indietreggiarono d’istinto, gli occhi puntati sulla sciabola; lui si fermò, si inginocchiò e posò la spada a terra. «Come vi chiamate?»
I due fratelli si scambiarono un rapido sguardo.
«Virgil» disse il bambino.
«Maia» disse la ragazzina.
«Virgil, Maia…» Dan portò la destra al cuore. «Io sono Dan. Non avete alcun dovere di credermi, e non vi biasimerei se non lo faceste… ma vi prometto che non vi farò alcun male. Né oggi, né mai.» Fissò prima l’uno, poi l’altra. «D’accordo?»
I due esitarono per un momento, poi annuirono con cenni rapidi e nervosi.
Dan chiuse gli occhi, fece un piccolo sospirò e raccolse la sciabola. «State nascosti per un altro paio di giorni» gli disse. «Ormai è quasi finita.» Si alzò, diede loro le spalle e fece scivolare la lama nel fodero.
«Signor Dan?»
Maia gli si era avvicinata, portandosi per mano il fratellino.
«Sì?»
«Posso chiederle dove sta andando?»
La domanda era stata formulata in un tono così da gentildonna che a Dan venne quasi da ridere. «A Piazza dei Martiri» rispose.
Gli occhi di lei si accesero. «Noi abitiamo lì vicino.» Gettò una rapida occhiata a suo fratello. «Abbiamo perso la mamma quando tutti hanno cominciato a correre, e stiamo tornando a casa per vedere se per caso lei o papà sono lì. Magari potremmo fare la strada insieme.» Lo sguardo si fece timoroso. «Se non le è di troppo disturbo.»
Per un momento, Dan fu sul punto di dirle che andare a cercare i suoi genitori non aveva alcun senso, visto che entro poco sarebbero finiti cancellati dall’arsenale del Tredici tutti quanti. Ma lei potrebbe dirmi la stessa cosa, quindi chi sono io per giudicare? «Nessun disturbo» rispose. «Quando siete pronti possiamo andare.»



La sua mano era bianca, le dita piccole e tonde. Farina, pensò Katniss. Bianco come un sacco di farina. Fino alla fine, il mio ragazzo del pane.
Le sue labbra si contrassero in un piccolo sorriso imbarazzato. Si guardò intorno, le gote cotte dal sole che si coloravano di una sfumatura colore dell’alba, come se temesse che qualcuno nelle vicinanze avesse potuto origliare la sua ridicola battuta. Il tendone era vuoto. Necessario, per un simile paziente.
Gli occhi di Katniss tornarono al dorso della mano di Peeta, stretta tra le sue dita lunghe, rozze e spellate, risalirono lungo il braccio stretto dalle fasce di sicurezza e si fermarono sul volto morbido e regolare. Il tributo maschio dei Settantaquattresimi Hunger Games dormiva, steso dai tranquillanti. Ora che le difese aeree della Capitale erano pressoché inesistenti, era stato un gioco da ragazzi raggiungere il Ministero della Propaganda, dentro il quale era tenuto prigioniero. Nessuno le aveva detto quante persone erano morte per tirarlo fuori da lì, ma lei sapeva che non dovevano essere state poche.
Sollevò la mano sinistra, con l’intenzione di accarezzargli una guancia; ma a metà strada pensò a quanto sarebbe stato un gesto stupido e goffo se fatto da lei, e lasciò che le dita si appoggiassero all’altezza del suo gomito. Volevo salvarti, pensò mentre serrava le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, ma non sono stata in grado neanche di fare quello.
I lembi del tendone si aprirono, lasciando passare una figura tarchiata e claudicante.
«Katniss.»
Lei riaprì gli occhi, emise un lungo ed esile sospiro, si alzò in piedi e si girò verso la voce. «Capo Stratega.»
Plutarch Heavensbee giunse le mani sul ventre e la soppesò con lo sguardo, un sorriso indecifrabile scolpito sul volto. «È buffo: l’ultima persona a chiamarmi così è stata il Presidente Snow in persona. Non sei sorpresa di vedermi.»
Non era una domanda. Plutarch Heavensbee non ne faceva quasi mai. «No» rispose lei.
L’espressione di lui non cambiò di una virgola. «Immagino tu sappia del mandato d’arresto nei tuoi confronti. E che la generale Paylor è stata sul punto di sparare alla squadra venuta per metterlo in atto.»
«Così mi è stato detto.»
Plutarch disgiunse le mani dal ventre e le riunì dietro la schiena. «Tempi straordinari consentono tolleranze straordinarie. Paylor non affronterà la corte marziale e tu sarai libera di muoverti dove vorrai; una volta finita la guerra, però, le cose potrebbero non essere più così.» Emise un piccolo sbuffo divertito. «Ho addirittura sentito che potremmo anche essere tutti morti.»
Gli occhi di Katniss rimasero immobili. Affilati, tesi, ferrei. Come quando fissava una preda subito prima di colpire. «La cosa non mi sorprende.»
Il sorriso sulla bocca di Plutarch si accentuò. «Sei sempre stata la mia concorrente preferita, Katniss. Non dimenticherò mai il giorno in cui mi hai spedito a fare il bagno dentro quella vasca di pessimo punch.» A passi lenti e ondeggianti, si avvicinò al lettino da campo su cui era steso Peeta. «Il finto arresto di Gale e Johanna è stato un buon piano per farli rientrare nel Tredici senza troppi sospetti, mi complimento con te. Erano quasi riusciti a entrare nel cosiddetto hangar segreto quando li abbiamo presi. Avevano persino formato una notevole squadra di eroi. Immagino che tu ora voglia uccidermi» aggiunse, intercettando lo sguardo di Katniss, «ma non te lo consiglierei. La fine del mondo è di certo prossima… ma dipende tutto da come intendi il concetto.»
Katniss rimase in silenzio per qualche secondo. «E come dovrei intenderlo?»
Plutarch si girò verso di lei, rigido e ondeggiante come un vecchio giocattolo a molla. «Il colonnello Rorke, come me, è stato un allievo brillante e ambizioso; ma, sempre come me, non è mai riuscito a crederci fino in fondo. Lei non ha mai avuto problemi a cogliere la prima parte della similitudine; la seconda, invece, temo che fino all’ultimo sarà incapace di vederla.»
Un lampo di confusa sorpresa brillò negli occhi di Katniss. «Lei chi?»
«È stato un piacere averti visto» rispose lui, accennando un piccolo inchino. «Paylor si prepara ad assaltare il Senato, come immagino tu sappia; tra qualche minuto verrà qui e ti chiederà di portare la bandiera che ha intenzione di issare in cima al palazzo.» Si mise in moto, claudicante e ineffabile come sempre. «Costruzione molto affascinante, il Senato: nonostante non sia altro che un tempio di vuota formalità, al suo interno si possono trovare sorprese inattese. Fossi in te, ci farei un pensierino…»



 Il centro di comando delle Forze Armate della Federazione di Panem era un locale misero e spoglio con un tavolo olografico al centro e chiazze di muffa sugli angoli del soffitto. L’unica sedia della stanza era occupata da un vecchietto ingobbito con la barba sfatta e la cravatta allentata. Quando lo vide, il primo pensiero del generale Lorn fu che doveva essere il padre di un qualche ministro o alto ufficiale, parcheggiato lì grazie a un maneggio della propria progenie; ma nel momento in cui si rese conto che era proprio a lui che il generale Viber, capo di stato maggiore dell’Esercito, stava riferendo gli ultimi aggiornamenti nella difesa della città, capì chi si trovava di fronte e fu sul punto di crollare a terra senza più forze.
«La Terza divisione resiste sul ponte della Vittoria» stava dicendo Viber, «rinforzata da elementi della Settima e della Quinta. Quanto all’Ottava armata ribelle, il suo accerchiamento verso ovest è reso ogni giorno più difficoltoso dall’azione combinata delle misure difensive e degli sforzi eroici della Decima brigata corazzata. Il loro numero non può nulla contro la nostra superiorità morale e tecnologica, signor Presidente. È solo questione di tempo.»
Il Presidente Snow fissava con sguardo vuoto la superficie evanescente della mappa tattica proiettata dal tavolo olografico. Lorn ebbe il terribile dubbio che non avesse ascoltato una parola, finché non vide un angolo della sua bocca sollevarsi appena in una sorta di sorrisetto divertito. «Bene, bene» mormorò. «Attendete ancora ventiquattr’ore, poi ordinate a Braun di iniziare l’attacco sul fianco. Ci vorrà un grande tempismo, ma se agiamo correttamente le due armate ribelli verranno tranciate a metà, sventrate da una falce precisa e affilata.»
Fu solo un momento, ma a Lorn bastò per vedere il panico irrigidire il volto di Viber. «Certamente, signor Presidente» rispose imperturbabile.
Lorn si chiese se fosse il caso di far presente al suo Presidente – nonché suo comandante in capo – che il generale Braun, intrappolato in una sacca con tutta quanta la propria Quarta armata qualche giorno prima dell’inizio dell’assedio, si era arreso ai ribelli senza quasi colpo ferire; che la Terza, la Settima e la Quinta divisione erano soltanto fantasmi su una mappa, visto che ormai ammontavano a meno di cinquecento unità messe tutte insieme; e che della Decima brigata corazzata, i cui gloriosi mezzi avevano finito il carburante il secondo giorno d’assedio, non si avevano più notizie da dodici ore. Guardò Viber, responsabile della difesa della città dopo che il general-ministro Antonius, capo di stato maggiore delle Forze Armate, era stato rimosso permanentemente dal suo incarico una sera a cena, e si rese conto che la sua non era fanatica dissociazione dalla realtà, ma mero istinto di sopravvivenza.
«Signor Presidente.»
Snow alzò gli occhi dal tavolo e gli dedicò una strana occhiata, beffarda e guardinga al tempo stesso. «Chi bussa alla mia porta?» domandò, con un tono melodioso che pareva uscito da un palcoscenico più che dalla stanza di un bunker sotteraneo.
«Generale Lorn, signore. Sesta brigata fanteria.»
«I miei omaggi, generale Lorn. A cosa devo la vostra visita?»
«Alla condanna a morte per diserzione che ho ricevuto questa mattina, signore.»
Snow lo fissò per qualche momento. Il suo sorriso si accentuò. «Molto interessante. Siete…» Un accesso di tosse stroncò le sue parole, costringendolo a coprirsi la bocca con un fazzoletto.
«Mi dispiace, generale» disse il Maresciallo del Cielo Crane, in piedi alla destra del Presidente con la sua sfavillante divisa azzurra, «ma le Direttive Generali non ammettono esenzioni. Chiunque abbandoni o retroceda dalle proprie posizioni senza ordini diretti è considerato un traditore della patria e giustiziato come tale. Il disturbo che si è preso per venire fin qui a implorare pietà non le servirà a evitare la sentenza.»
Essendo l’aviazione della Federazione ormai un ricordo, al Maresciallo Crane era stato regalato, come un giocattolo con cui passare il tempo, il comando della Milizia Volontaria e Patriottica, un coacervo di fanatici e sbandati dalle divise azzurre che terrorizzava i civili, intralciava le operazioni dell’esercito regolare e si scontrava con gli Squadroni Universitari, un’altra banda paramilitare che galoppava per la città dispensando morte e follia a chiunque le capitasse sotto tiro. Nei confronti dell’uomo, Lorn provava un sentimento molto vicino all’odio. «Se il Presidente ritiene che io debba affrontare il plotone d’esecuzione, lo farò» ribatté, glaciale. «Ma non ho mai abbandonato la linea del fronte.»
Crane guardò sdegnato il tavolo olografico. «Stando ai rapporti, la Sesta brigata…»
« La Sesta brigata mantiene la posizione.»
«…ha abbandonato al nemico il settore Rosso-Dodici…»
«Signore, questo non è quello che—»
«…consentendo vigliaccamente alle forze ribelli di—»
«I miei soldati si stanno facendo massacrare per questa città» esclamò Lorn, furibondo, «e non ammetto che un miserabile pagliaccio metta in discussione il loro sacrificio!»
Il silenzio travolse la stanza come una valanga. Pallido di rabbia, Crane fissò Lorn con sguardo omicida. «Generale, lei ha appena—»
«Pontus» lo interruppe Snow sollevando una mano. Crane si azzittì, continuando a incenerire con lo sguardo Lorn. Il Presidente, invece, osservava il generale con occhi freddi e compiaciuti. «Qual è il vostro nome, avete detto?» gli chiese.
«Elenius Lorn, signor Presidente.»
«Elenius» mormorò il Presidente tra sé, come se stesse decidendo se il suono gli andasse a genio o meno. «Sareste potuto scappare o piantarvi una pallottola in testa, Elenius Lorn; ma siete venuto fin qui a sfidarmi per l’onore vostro e dei vostri guerrieri. La dimostrazione di un coraggio che da queste parti sembra latitare.» Spostò lo sguardo verso Viber. «Generale.»
Lui scattò sull’attenti. «Sì, signor Presidente.»
«Il generale Lorn è qui nominato General-ministro della Difesa, Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze Armate e responsabile della difesa della capitale. Ora è il vostro superiore nonché referente. Lo aggiornerete su tutto quello che riguarda i nostri piani e gli obbedirete senza esitare.» Gli occhi freddi e beffardi si spostarono sul Maresciallo Crane. «Questo vale anche per voi, Pontus.»
Lui strabuzzò gli occhi e divenne ancora più pallido, ma riuscì a ricomporsi. «Ai suoi ordini, signor Presidente.»
Lorn cercò di dominare il tremito che gli aggrediva le gambe. Di tutto quello che pensava sarebbe successo una volta presa la strada per la villa del Presidente, diventare il comandante supremo delle forze armate di Panem era oltre l’ultima cosa che si aspettava. Era una vera e propria follia.
Ancora una volta, guardò il generale Viber. L’uomo gli restituì un’occhiata stanca, quasi compassionevole. E in quel momento, Lorn capì che cosa doveva fare.
«Ne sono onorato, signor Presidente» disse. «Panem oggi, Panem domani, Panem per sempre.»



Seduto sull’asfalto a gambe incrociate, il Bianco mescolava la zuppa nella lattina con un cucchiaio d’argento. L’aveva trovato in una credenza semidistrutta in mezzo alla strada, abbandonata lì da qualcuno o lanciata fuori da chissà quale appartamento dall’esplosione di un proiettile d’artiglieria. In ogni caso, a Clove pareva uno spettacolo quasi grottesco.
Il Bianco succhiò la zuppa dal cucchiaio con un rumore sgradevole e lasciò cadere la posata nella lattina, che toccò il fondo con un piccolo tonfo ottuso. «Cato» disse. «Ca-to. Bel nome. Semplice e bisillabo. Come quello di un cane.» Un ghigno beffardo gli si disegnò sulla bocca, per poi sparire come era arrivato. «Eravate amici? Innamorati? Nessuna delle precedenti risposte?»
«Non vedo cosa te ne dovrebbe fregare.»
Lui ridacchiò, mentre riprendeva a mescolare la zuppa. «Niente, in teoria. Ma tu sei una tipa interessante. Morta, risorta, poi morta di nuovo e per finire ritrovata in compagnia di due ragazzoni tanto statuari quanto cadaveri. E poi il bovaro, che prima ammazza Artemisia e poi ti lascia in vita.» Prese un’altra cucchiaiata. «Oh, Artemisia… che stronza insopportabile. A quel ragazzo stringerei la mano. Un po’ mi secca doverlo accoppare.»
Clove avvertì uno strano suono alla base della nuca, come di un martello che sbatta contro una lastra d’acciaio in fondo a un pozzo. «Beh, buona fortuna. Chissà dove sarà, adesso…»
«In procinto di arrivare alla Piazza dei Martiri, suppongo.»
Un blocco di cemento le cadde sulla gola. «Come?»
Il Bianco la fissò a lungo. Sotto l’aria divertita del suo sguardo, Clove vide muoversi qualcosa di molto pericoloso. Il suo istinto la mise in allerta, consigliandole di prepararsi a combattere. «E così il tuo amichetto Cato non ti ha detto niente, eh?»
«Non era mio amico» ringhiò lei. «Ero prigioniera, te l’ho già detto. Lui e Dan volevano fare qualcosa, qualcosa per cui a quanto pare servivano le mie credenziali IEROS. Ero solo un pezzo del loro piano, non si sono certo sprecati a spiegarmelo. E in ogni caso, ormai direi che è bello che fallito.»
Il Bianco ridacchiò di nuovo. «Oh, puoi dirlo forte.» La punta del cucchiaio strisciava sul fondo della lattina con un gemito quasi animalesco. «Quello che sto per dirti è altamente classificato… ma come ti ho detto, tu sei una tipa interessante.» Prese l’ultimo sorso di zuppa, poggiò la lattina a terra, sollevò un ginocchio e ci poggiò sopra l’avambraccio. «Come te, il buon vecchio Cato è stato sottoposto a una prova; una prova che però non era di forza e intelligenza, come nel tuo caso, ma di fedeltà. Gli viene sottoposto il dossier di un piano folle e apocalittico, che prevede la distruzione dell’intera nazione e il trasferimento di pochi eletti in un’isola incontaminata; a questo piano lui dovrà collaborare, facendogliene conoscere per giunta solo la prima parte.»
Clove si impose di mostrarsi guardinga ma incuriosita; sotto la corazza antiproiettile, però, il cuore le batteva all’impazzata.
«Questo piano ovviamente non sarebbe mai stato portato a termine» proseguì il Bianco, «ma se il ragazzo avesse dimostrato di essere disposto a veder bruciare il mondo pur di obbedire al colonnello, sarebbe diventato il suo braccio destro. Altrimenti… beh, diciamo che il caro bovaro non ha idea di quello che lo aspetta, in quella Piazza.»
«Ossia?»
Un’altra risatina. «Non un esercito di supersoldati, questo è sicuro.» Il Bianco lanciò un’occhiata verso la sua destra, osservando il Nero e Callissa che rientravano dal loro giro di perlustrazione, e  si alzò in piedi, spazzolandosi i pantaloni. «Non preoccuparti, Cicero ti spiegherà strada facendo. E in ogni caso, presto lo vedrai. È lì che stiamo andando. Come ti ho detto, sono piuttosto contento che il bovaro abbia cancellato il faccino di Arte da questo mondo; ma per quanto la disprezzi, resta sempre una della squadra. E chi uccide uno dei nostri ha i giorni contati.» Le lanciò una lunga occhiata, fredda e affilata. «Immagino che tu sia d’accordo.»
Clove si alzò in piedi a sua volta. «Certo.» Guardò il Bianco negli occhi. Dopo molto tempo, un ghigno sadico le tornò sulle labbra. «Ho un conto in sospeso con quel pezzente. Se me lo lasciate vivo, mi piacerebbe giocarci un pochino.»



Dan si impose di non guardare verso l’alto, lì dove, centinaia di metri sopra le loro teste, la metà superiore di un grattacielo era crollata verso l’altra parte della strada, incastrandosi dentro un palazzo e formando una specie di mastodontico arco di cemento, vetro e travi d’acciaio che minacciava di crollare sulla strada da un momento all’alto. Aveva la certezza che, se avesse alzato gli occhi per vedere il troncone fissarlo attraverso lo sguardo vuoto e famelico delle sue centinaia di finestre, sarebbe caduto a terra schiantato dall’orrore.
«Signor Dan» gli disse Maia. «Se vuole mettermi giù e riposarsi, non ha che da dirlo.»
«Magari tra un po’.»
Siccome si erano resi conto che la storta che Maia aveva preso alla caviglia le impediva di camminare, Dan se l’era presa sulle spalle come fosse uno zainetto. Se non fosse stato per i colpetti delle sue scarpe sulle gambe e per le indicazioni che gli dava ad ogni svolta, si sarebbe quasi dimenticato di lei e di Virgil che trottava loro dietro, stringendo tra le piccole braccia il fucile che Dan aveva preso all’uomo con la barba. A un certo punto, quando si erano infilati in un vicolo stretto e umido, lui non aveva potuto fare a meno di chiedersi se quei due per caso non lo stessero conducendo in una qualche trappola; poi però erano sbucati all’aperto, e un senso di stupore e vertigine aveva cancellato qualunque altra emozione.
Virgil l’aveva guardato aggrottando le sopracciglia. «Che c’è» gli aveva detto, «non hai mai visto il Decumano?»
Era l’arteria principale di Capitol City, gli aveva spiegato Maia. Attraversava la città da ovest a est, divisa in due carreggiate talmente ampie che solo una di esse sarebbe bastata per ospitare tutto il quartiere in cui lui era nato e cresciuto. E nonostante questo, il grattacielo era riuscito ad attraversarla per appoggiarsi agli edifici dall’altro lato. In quella città, anche le strade e i palazzi sapevano di follia.
La luce del sole era pallida e malata, ma quando la sentì di nuovo sul viso Dan la accolse come fosse un mezzogiorno d’estate. Si allontanò dal grattacielo di un altro centinaio di metri, poi si sentì abbastanza sicuro da far scendere Maia. Si sedettero a lato della carreggiata, su dei pilastri scheggiati di marmo caduti a terra disposti in quello che sembrava quasi un cerchio. Virgil infilò il calcio del fucile tra le gambe incrociate, tenendo la canna appoggiata alla spalla come una piccola vedetta.
«Spero non ti pesi troppo» disse Dan.
Lui scosse la testa, deciso.
«Signor Dan» disse Maia.
Lui sospirò. «Maia, non c’è bisogno che mi chiami ogni volta signor Dan
Lei spalancò gli occhi, scandalizzata. «Ma lei è un adulto
Dan emise uno sbuffo che poteva essere l’eco di una risata. «Se lo dici tu. Dimmi, comunque.»
Lei si schiarì la voce, accavallò le gambe e posò le mani sul ginocchio. «Signor Dan, spero che la domanda non le risulti inopportuna, ma… lei è un ribelle, vero?»
Del tutto a tradimento, nella mente di Dan lampeggiarono un elmetto e dei capelli biondi. Lui prese quelle immagini e le nascose dietro una porta. Ormai gli riusciva davvero bene. «Se intendi dell’esercito dei Distretti in rivolta sì, sono uno di loro.»
Lei annuì con un sobrio cenno del capo, come se lo stesse sottoponendo a un colloquio di lavoro. «E come mai sta andando a Piazza dei Martiri? Se posso chiederlo, ovviamente.»
«Certo» rispose Dan. «È una missione personale.»
«Oh.»
Lui aprì la bocca, la richiuse, esitò. «Sto andando a trovare mia sorella.»
«Tua sorella abita vicino a noi?» chiese Virgil, stupito. «Magari la conosciamo.»
Dan scosse la testa, l’ombra di un sorriso amaro sul volto. «No, non credo.»
«Come si chiama?» chiese Maia.
Lo sguardo di Dan si fece lontano. «Rose.»
«È un nome bellissimo» disse Virgil.
«Lo penso anche io» aggiunse Maia.
Una brezza di vento portò a Dan un sentore di polvere, foglie secche e sapone per il bucato. Udì un lontano cigolio, come di un vecchio segnavento arruginito. E poi, un suono inconfondibile.
Zoccoli di cavalli.
«Nascondetevi. Adesso.»
Maia e Virgil ubbidirono di corsa. I tre si accucciarono dietro il frammento di pilastro più grande, nascosti alla carreggiata e alla strada che vi si immetteva più avanti sulla destra. Da lì, il rumore di zoccoli si faceva sempre più forte. Un coro di voci rauche e violente si accese a cantare una fosca canzone.

We’re damned after all!
Through fortune and flame we fall!
And if you can stay then I’ll show you the way
To return from the ashes you call

Uno squadrone di cavalieri vestiti di nero sbucò dalla strada e si immise nell’enorme carreggiata del Decumano. Il cavaliere in testa virò verso sinistra, seguito dal resto della colonna. Entro breve li avrebbero avuti a pochi metri.
«Virgil, il fucile» sussurrò Dan.
Il bambino glielo passò con mani tremanti. L’arma che aveva preso all’uomo con la barba era una doppietta da caccia, con il calcio levigato in legno di noce e delle incisioni a forma di foglie sulla canna, vicino alla culatta. Sembrava ben tenuta. Forse non mi scoppierà in faccia se proverò a usarla, pensò. Ma preferirei di gran lunga non doverlo scoprire.
I ferri di cavallo strusciavano sull’asfalto come un esercito di artigli d’acciaio. La colonna continuava a cantare.
«Se succede qualcosa» bisbiglò Dan ai due fratelli, «voi correte verso i palazzi. Io li distrarrò il più possibile.»
«Se devo essere sincera, signor Dan» pigolò Maia, «spero proprio che questo qualcosa non accada.»
Lo squadrone non doveva contare più di una sessantina di cavalieri; eppure sembrò dilatarsi fino a contenerne un migliaio. Il rumore degli zoccoli e il tintinnio dei foderi d’acciaio era ormai talmente radicato nella mente di Dan che si chiese se gli sarebbe mai uscito dalla testa.

We all carry on
When our brothers in arms are gone
So raise your glass high
For tomorrow we die
And return from the ashes you call!

Un coro di risate e ululati folli accolse la fine di quelle parole. Come un’armata di spettri, la colonna passò oltre, superò il grattacielo in rovina e si allontanò verso ovest, dissolvendosi nella caligine.
«Signor Dan» sussurrò Maia, come i cavalieri fossero ancora lì. «Sono ribelli anche loro?»
«Non lo so» rispose lui, «e non ho alcuna intenzione di scoprirlo.» Scrutò il punto dove i cavalieri erano scomparsi, poi si alzò in piedi. «Togliamoci da qui» disse. Passò il fucile a Virgil, si caricò di nuovo Maia sulle spalle e si rituffò tra le vie della città, lasciandosi alle spalle il titanico Decumano e le sue grottesche apparizioni.



Le voci arrivavano rotte, frammentate, quasi sempre incoerenti; ma non c’era alcun dubbio sul loro significato.
«Caporale – …an, Due Due Cinque Se… temo non ci sia nessuno di più alto in gra—»
«I ribelli sono dappertutto ad Ovest di Via– …non potremo tenere il settore per più di un’ora. Ripeto—»
«Ci hanno tagliato fuori, ci hanno tagliato fuori!»
«Due Uno, Due Uno, levati da lì, maledizione—»
«Respinti tre attacchi nel corso del pomeriggio, ci prepariamo a sostenere il quarto – …remo il possibile.»
«Dove andate, figli di puttana! Panem per sempre, Panem per se—»
«Richiedo sbarramento di artiglieria sulla nostra posizione. Ci restano una dozzina di caricatori, più un pa– …portateli giù con noi.»  
«…ripeto, nessun segno di Sierra Otto… dove cazzo sono i carri? Dove cazzo sono i—»
«Oh no, no no no…»
«Ci avete ficcato in una trappola mortale, pezzi di merda! Il mio plotone sta diventano verni—»
«Mi senti, Presidente? Se c’è un inferno… ti aspettiamo tutti lì sotto!»
Lorn si tolse le cuffie e le posò sulla console dell’operatore radio. Gli diede una leggera pacca sulla spalla, poi con passi pesanti tornò al tavolo olografico della sala tattica, più lungo e stretto di quello tondo della sala comando davanti al quale sedeva il Presidente.
Viber fece un lungo tiro dalla sigaretta, buttò fuori il fumo con una sorta di sospiro e spostò gli occhi stanchi su di lui. «Quanto, ancora?»
Lorn abbassò lo sguardo sul tavolo. «Sei ore, non di più.»
Viber si gettò nei polmoni altro fumo. La cenere della sigaretta cadde sul tavolo, facendo sfarfallare l’angolo di un quadrante vicino alla riva nord del fiume. «Per quel che vale, General-ministro» disse con un piccolo sorriso triste, «mi dispiace. Ha fatto quello che ha potuto.»
Lorn si appoggiò al tavolo con i pugni, sospirò e gli riestituì un’occhiata di esausto cameratismo. «Per quel che vale, generale, anche lei.»
Lui si lasciò cadere su una sedia vicino al tavolo e tirò fuori una fiaschetta argentata dalla tasca dell’uniforme.
«Dico sul serio» continuò Lorn. «Annullare l’ordine del Presidente di radunare i civili davanti alla villa... Nessuno l’avrebbe fatto. Con una folla così grande qui davanti… sarebbe stata una carneficina.»
Per tutta risposta, Viber sollevò la fiaschetta verso la stanza occupata dal Presidente, qualche decina di metri più avanti nel corridoio. «Panem per sempre, vecchio bastardo» fu il suo brindisi. Ingollò un paio di sorsi, poi tese la fiaschetta verso Lorn, che rifiutò con un cortese cenno del capo. «Come preferisce, General-ministro. In ogni caso, non esageri con i complimenti. Il Presidente scivola ogni giorno di più nella demenza: potreste dirgli in faccia di andarsene a cagare e il minuto dopo se lo sarebbe già scordato. Ho perso il conto delle volte che ha minacciato di fucilarmi… in ogni caso, ho continuato a obbedirgli. Il piano dello scudo umano di teneri innocenti è l’unica cosa che gli ho fatto saltare tra le mani. Ma è solo perché so che di mezzo c’era quello stronzo di Rorke… e quel mostro di Gaul.»
Lorn sentì un’innaturale corrente fredda attraversargli la nuca. «Il ministro Gaul?» mormorò, quasi avesse timore a pronunciare il nome a voce più alta.
«In persona» sputò Viber. «Volumnia la Sempiterna, miserabile carcassa di sadismo inestinguibile e gas putrefatti. Se questa città affoga nel sangue e le strane sono piene di psicopatici lo dobbiamo soltanto a lei. È sempre stata lei, l’unico punto fermo di questa nazione malata. Noi, i ribelli, il Presidente, la Ghiandaia… tutte ombre, miseri spettri che abbandoneranno ben presto questa terra. Ma lei… il suo spirito continuerà a vivere, come un demone immortale.» Ripose la fiaschetta nella tasca e chiuse con cura il bottone dorato. «Sei ore, ha detto.»
Lorn annuì.
«E poi?»
La domanda lo lasciò interdetto. Non ci aveva pensato. Non veramente. Cercò di trovare qualcosa da dire, ma Viber lo interruppe.
«Io penso che la farò finita. In un certo senso, è un sollievo. Devo solo capire se sia meglio in bocca o sulla tempia. Ho sentito pareri discordanti, in proposito.»
Ancora una volta, Lorn fu sollevato dal difficile compito di replicare a quelle parole. Dal corridoio venne un certo trambusto, un pasticcio di stivali e voci contrastanti.
I due generali si allontanarono dal tavolo e aprirono la porta della stanza. Il corridoio era invaso dalle giubbe nere della Guardia Presidenziale.
«Che succede?» chiese Lorn.
«Dobbiamo prelevare il Presidente» disse un giovane sottufficiale.
Lorn e Viber si scambiarono un’occhiata. «Prelevare per portarlo... dove?» chiese quest’ultimo.
«Mi dispiace, signore, non mi è consentito rivelarlo.»
«Figliolo» disse Lorn. «Sono il Capo di Stato delle Forze Armate. Se il Presidente va da qualche parte, io devo saperlo.»
«Mi dispiace, signore, ma—»
«Levati dai piedi» sbottò Viber. Fece per muoversi, ma il sottufficiale lo fermò con una mano, mentre l’altra correva alla fondina. Dove, in aperta violazione alle regole del bunker, c’era una pistola.
«Stia fermo, signore.»
«Altrimenti mi spari, piccolo bastardo?» replicò Viber, un ghigno gelido e beffardo dipinto sul volto. «Non sarebbe male, mi risparmieresti una pallottola.»
Lorn gli mise una mano sulla spalla. «Cassian» gli mormorò con voce ferma, prima di tornare con lo sguardo sul sottufficiale. «Vorrei parlare con un suo superiore» gli disse. «Non serve che—»
«Lorn? Anche tu qui?»
Un ufficiale della Guardia con le mostrine da capitano si era avvicinato ai tre. Lorn lo squadrò per qualche momento, poi riconobbe il volto di Belisarius Ervine, suo vecchio compagno di Università e figlio del ministro del Lavoro. «Ervine» gli disse, salutandolo con un cenno del capo. «Che sta succedendo?»
«Niente di preoccupante» ripose lui. «Trasferiamo il Presidente in un luogo sicuro.»
Viber si guardò intorno con aria sarcastica. «Più sicuro di questo?»
«La villa è un obbiettivo sensibile» replicò il capitano. «I ribelli potrebbero colpirla con missili anti-bunker. Il Presidente verrà trasferito in un luogo sicuro.»
«Il Presidente non accetterà mai» disse Viber. «Vuole morire qui, l’ha detto più volte. Sta aspettando che lei arrivi.»
Lorn si girò verso di lui, inquieto. «Lei chi?»
Viber parve trattenersi dallo scoppiare a ridere. «Non è ovvio? Katniss Everdeen. La Ragazza di Fuoco. Quel vecchio rincoglionito pensa che sia la Vendetta personificata venuta a trascinarlo nell’oltretomba. È convinto di essere in un qualche tipo di spettacolo teatrale… anche se, tocca dirlo, come attore non è il massimo. Ogni tanto sbaglia le battute e la chiama con un nome diverso.»
Di fronte a quelle parole di aperto vilipendio del Presidente, il sottufficiale spalancò gli occhi esterrefatto; ma prima che potesse dire qualcosa, la porta in fondo al corridoio si aprì, lasciando passare un picchetto di Guardie alte e dalla faccia di marmo, in mezzo al quale, curvo e con un fazzoletto premuto sulla bocca, si trascinava il capo della nazione in persona.
«Sì, forse avrebbe voluto morire qui» disse il capitano. «Ma anche il Presidente ha qualcuno a cui rispondere.» Si toccò la visiera del berretto. «Signori, devo andare. Lorn, è stato un piacere. Ci rivedremo dall’altra parte, qualunque essa sia.»
Lorn mormorò un vago saluto in risposta, gli occhi fissi sul presidente e il nugolo di Guardie Presidenziali che lo scortava. In mezzo a quelle divise nere, i capelli bianchi e candidi come il nome della sua famiglia spiccavano così tanto da essere quasi abbaglianti. Quando passò accanto a loro, si tolse il fazzoletto di bocca. Lorn pensò che fosse per salutare se non lui, almeno il generale Viber; ma il Presidente non sembrava neanche averli visti. Le sue labbra si muovevano.
Canticchiava una canzone.



Qualche chilometro più a nord della Villa del Presidente, davanti alla copertura di un silos di lancio che si affacciava sul vasto lago in cui andava a morire il fiume Limen, un gruppo di persone dai vestiti eleganti ma sciupati attendeva con sempre più impazienza.
«Ma insomma, quanto ci mettono?» sbottò Galen Kobel, il Ministro degli Armamenti.
Corvus Leviter, il Ministro delle Finanze, gli scoccò un’occhiata gelida. «Stai forse mettendo fretta al presidente, Galen?»
Kobel sbuffò spazientito. «Certo che no. Ma è già la terza volta che rimandiamo—»
«Non temete» lo interruppe il Prefetto Generale Ilio Welliver, sfavillante nella sua uniforme nera da comandante in capo della Guardia Presidenziale. «Ancora poche ore e potrete tornare a trastullarvi con i vostri schiavetti.»
Kobel gli lanciò un’occhiata avvelenata, ma ebbe il buonsenso di non replicare.
«Riuscite a immaginarla?» disse ad un tratto Alea Mattfeld, Ministra dei Distretti, con voce sognante. «Un’isola incontaminata, palazzi bianchi e immortali…»
«…e perché no, magari qualche unicorno» ghignò Leviter, suscitando una risatina querula da parte di Kobel.
Mattfeld li fulminò con lo sguardo. «Voi due avete sempre avuto poca fede nel Progetto Finale. Se non fosse per i vostri miserabili soldi, il—»
«Sta per caso insinuando» la interruppe il Prefetto Welliver, «che si siano comprati il biglietto d’ingresso per Ultima Thule?»
La donna impallidì. «No, io, certo che—»
L’uomo ridacchiò. «Perché in quel caso avrebbe perfettamente ragione.»
Preceduto da un suono d’allarme, la copertura del silos si separò in due ante scorrevoli, che si allontanarono l’una dall’altra lasciando intravedere un profondo pozzo di lancio. Accompagnata da un rombo meccanico, una piattaforma emerse dalle ombre e si fermò con uno sbuffo al livello del terreno. Sopra di essa c’era un hovercraft dalla carlinga di un metallo così lucido e scintillante da sembrare argento vivo. Davanti al velivolo, su una sedia a rotelle elettrica bianca, liscia e stondata, c’era il corpo grasso e deforme di Volumnia Gaul, Ministra della Scienza e dell’Educazione e Direttrice dei Servizi d’Informazione. E dietro di lei, a spingere la carrozzina come un bravo figliolo, il colonnello Rorke.
«Signora» disse il Prefetto Welliver. «La attendevamo con ansia.»
Gaul emise una serie di rapidi ansimi rochi che avrebbero dovuto essere una risata. «Non ne dubito, non ne dubito» disse, con una vocetta acuta che rendeva la sua figura ancora più grottesca. «Il Presidente ha avuto qualche contrattempo, ma sta arrivando. Nel frattempo, voi potete andare. Noi vi raggiungeremo subito dopo.»
La Ministra Mattfeld sgranò gli occhi, sbigottita. «Noi? Per primi? Ma non possiamo, è un onore troppo grande!»
Volumnia Gaul emise di nuovo quell’orrido suono che considerava una risata. «Alea, Alea, mio piccolo coniglietto adorato» cinguettò, «non sarete certo i primi. Sono mesi che avox, funzionari e soldati stanno venendo trasferiti in segreto sull’isola. Vi aspettano lì. Voi ci precederete, così che possiate magnificare la venuta del presidente quand’egli toccherà le sacre sponde di Ultima Thule. Vorresti forse negargli un simile comitato di benvenuto?»
Gli occhi di Mattfeld scintillarono di panico. «No, no, certo che no! Andremo subito.»
Come a sottolineare le sue parole, la rampa d’accesso dell’hovercraft si abbassò.
«Forza, andate» disse Gaul, sollevando tre dita come a impartire loro una benedizione. «E che gli dèi siano con voi.»
«Sempre!» esclamò Alea Mattfeld; e con gli occhi pieni di luminoso ardore, entrò a grandi falcate nell’hovercraft.
Kobel e Leviter non se lo fecero ripetere due volte. Con rapidi cenni di saluto, si accomiatarono da Gaul e Rorke e si affrettarono a salire a bordo. Dietro di loro, a passi lenti, veniva il Prefetto Welliver. «Molto bene, Rorke» disse, fissando il suo sottoposto negli occhi. «La Ministra-direttrice si fida di lei. Non la deluda.»
«Mai» rispose Rorke.
Welliver lo fissò per qualche altro momento, poi abbassò lo sguardo su Gaul. «Volumnia, se vuoi che resti…»
«Non essere sciocco caro» civettò lei, facendo un gesto nervoso e querulo con la mano. «Ci vedremo in men che non si dica.»
Lui parve esitare, poi fece un profondo cenno d’assenso. «Va bene. A dopo allora.»
«A dopo, caro.»
La rampa si chiuse dietro la schiena fasciata di nero del Prefetto Generale. Il fragore dei motori ammorbò l’aria, schiaffeggiando l’erba del prato che sorgeva tutto intorno alla piattaforma. L’hovercraft si sollevò in aria, girò il muso verso il lago e prese quota, diretto verso un altro mondo.
Gaul e Rorke lo videro rimpicciolirsi sempre di più, finché non fu quasi un sassolino sospeso sopra le acque calme del lago.
«Quando vuoi, tesoro» disse lei.
«Agli ordini» fece lui, una sfumatura divertita nella voce. Guardò l’orologio che aveva al polso, osservò la lancetta dei secondi ticchettare lungo il quadrante e premette il piccolo tasto sopra la ghiera di regolazione dell’ora.
Quasi un chilometro più in là, a diverse centinaia di metri d’altezza,l’hovercraft esplose in una palla di fuoco.
Con un sospiro soddisfatto, Volumnia Gaul osservò i frammenti dell’hovercraft e di quel che restava del governo di Panem precipitare nel lago. «Molto bene, mio passerotto» disse, girando la sedia verso Rorke e guardandolo con l’aria di un prigioniero di guerra messo di fronte a un banchetto. «O forse dovrei dire… Prefetto Generale?»
Rorke le prese la mano gonfia e tozza e gliela baciò. «Qualunque nome voi preferiate, mia signora.»
Gaul scoppiò in una risatina gracchiante. «Oh, Aelius… sei sempre stato il più galante.»
«È un dono che riservo solo a chi se lo merita davvero.»
Una scintilla di fosca libidine scintillò nelle iridi verdi della donna. Quando quelli con cui era nata erano ormai da buttare, si era scelta dei nuovi occhi con un altro colore, puntando sullo smeraldo come aveva sempre voluto: ma era un tono così intenso da risultare innaturale. «Andiamo, tesoro» disse, «il treno ci sta aspettando.»
Rorke si avvicinò a una pulsantiera vicino all’ingresso della piattaforma e spinse il comando dell’interfono. «Ci siamo.»
L’allarme disturbò di nuovo la quiete del prato. Con un sibilo degli elevatori idraulici, la piattaforma cominciò la discesa.
«Non è meraviglioso?» trillò Gaul. «Un’isola tutta per noi. Io sarò la dea di un nuovo mondo, e tu il mio fedele sacerdote. Faremo grandi giochi, mille volte più spettacolari degli Hunger Games, e godremo della nostra eternità.»
«Un sogno, mia adorata.»
Gaul emise un piccolo sospiro di gioia. «E il giovane Corio?»
«È qui sotto che aspetta. Ignaro di tutto, come tu hai chiesto.»
La bocca di lei si deformò in un ghigno di sadico compiacimento. «Magnifico. Ora raccontami, Aelius, di come lo ucciderai.»
Sulla lebbra di Rorke affiorò il suo sorriso da squalo. «Ma certo.» Si spostò dietro di lei e le posò le mani sulle spalle, facendole emettere un suono basso e sordo simile a delle fusa. «Quando la piattaforma sarà scesa, lui sarà proprio lì davanti. Voi gli chiederete…»
«…sei pronto a squarciare il Velo?» mugolò Gaul in estasi.
«Nel mentre io gli andrò alle spalle. Solo voi osserverete la reazione del suo volto. Ne godrete quanto ne vorrete. Poi vi basterà un cenno…»
Deliziata, Gaul sollevò di scatto un indice verso l’alto.
«…e io ucciderò la regina.»
Il filo monomolecolare le accarezzò la pappagorgia e si strinse attorno al collo tozzo, affondando nelle carni gonfie e pallide come fossero burro. Per qualche secondo, Volumnia Gaul non si rese neanche conto di quello che stava succedendo; poi le iridi verdi parvero gonfiarsi fino a scoppiare e le dita tozze e deformi si lanciarono verso la gola, nel disperato tentativo di tirare fuori la garrota dal mare di grasso e tessuti deformi nel quale si era inabissata.
Rorke appoggiò il ginocchio allo schienale della sedia e tirò ancora più forte. Gaul emise un lungo, orrendo sibilo, come se dalla sua bocca stesse uscendo un rettile alieno pronto a uccidere chiunque stesse attaccando la sua padrona. Le sue piccole gambe fremettero, le dita scivolarono sul sangue che le inzuppava il collo; poi la donna più potente di Panem si scosse in preda a un ultimo spasmo e giacque immobile, senza vita.
Quando la piattaforma giunse in fondo al silos di lancio, Rorke stava ancora tenendo la garrota stretta al collo di Gaul. I due soldati della Guardia sulla passerella d’uscita fissarono il corpo della donna, ma non dissero nulla.
Con uno sbuffo stanco ma soddisfatto, Rorke mollò la garrota, lasciandola affondata nella trachea di Gaul. «E anche questa è fatta» disse, strofinandosi le mani come per pulirsele. «Procedete» ordinò alle due Guardie.
La coppia di divise nere si affrettò a raggiungere il cadavere di Gaul, ognuno con una tanica di benzina in mano. Svuotarono il contenuto su di lei e le diedero fuoco.
Rorke rimase qualche momento a osservare lo spettacolo, le mani dietro la schiena e gli occhi verdi, così simili e così diversi da quelli della sua mentore, che si specchiavano nelle fiamme. Poi si ricordò che aveva un treno da prendere, ordinò ai due sottoposti di ridurre in polvere qualunque cosa sarebbe rimasta di lei e si avviò a concludere la sua lunga partita.



Erano tutti ammassati lì, all’imboccatura dell’enorme ponte, nascosti nelle trincee strappate al nemico e dentro i crateri lasciati dalle esplosioni. L’artiglieria tuonava alle loro spalle, rovesciando una valanga di fuoco su quanti ancora rimaneva dei difensori capitolini. Tre volte i ribelli si erano lanciati sopra le lunghe campate del ponte della Vittoria, e tre volte erano stati ricacciati indietro dall’Esercito Regolare, sanguinante e ridotto a brandelli ma deciso a vendere cara la pelle. Ora, in silenzio, coperti di polvere e cenere, uomini, donne, ragazze e ragazzi della Quarta divisione Fanteria Volontaria attendevano a dentri stretti il loro appuntamento con il destino.
Il primo che la vide fu un vecchio operaio tessile dell’Otto, accucciato dietro un frigorifero carbonizzato. Dopo qualche attimo di completo stupore, l’uomo si alzò in piedi e levò le tre dita al cielo. Anche se erano imbrattati di fango e terra, aveva gli stessi capelli candidi del Presidente Snow. Odiandosi per questo, Katniss Everdeen distolse lo sguardo per non vomitare.  
Paylor le aveva affidato una scorta di una dozzina dei suoi migliori soldati. Guiderai l’assalto, ma solo per il primo tratto del ponte, le aveva detto. Non preoccuparti, a loro basterà.
Del fragore delle esplosioni non le giungeva che un eco remoto. Strinse le dita fredde e formicolanti sull’asta della bandiera. Quando le avevano mostrato il rettangolo di stoffa verde ricamato, aveva avuto l’impulso di scappare via fino alle foreste ai confini del Dodici. Le avevano spiegato che il disegno l’aveva fatto Peeta in uno dei suoi momenti di lucidità, ma non ci sarebbe stato alcun bisogno di dirlo: l’aveva già visto, ormai più di un anno prima, sul pavimento della sala prove del centro di preparazione ai Giochi. Una bambina che riposa serena, ricoperta di fiori. Il ritratto che il Ragazzo del Pane aveva fatto di Rue.
Si alzarono tutti, uno dopo l’altro. Alcuni si tolsero l’elmetto e se lo portarono al petto, colmi di una reverenza che sconfinava nella devozione. Non fate gli idioti, state al riparo, vi prego, urlava la Ragazza di Fuoco nella sua testa; ma non sarebbe mai riuscito a dirlo ad alta voce. Perché ormai aveva capito che quello che stava accadendo in quel momento, davanti a quell’ultimo ponte tra loro e la fine di tutto, era qualcosa che né lei, né Paylor, Plutarch, Rorke, Coin o Snow avrebbero mai potuto comprendere, né controllare.
Davanti a lei era comparso un giovane uomo in divisa grigio-verde. Le stava dicendo qualcosa.
«…signorina Everdeen?»
Lei emerse dal baccello di cotone nel quale si era rifugiata. «Mi scusi» mormorò.
«Come?» disse lui a voce alta. «Mi dispiace, signorina Everdeen, ma i nostri cannoni fanno un gran baccano quando ci si mettono!»
«Non importa» borbottò di nuovo lei. Un’occhiata burbera del sergente maggiore che comandava la sua scorta, un donnone dai capelli biondi con un naso piccolo e all’insù, la spinse a schiarirsi la voce. «Mi scusi, non ho capito il suo nome.»
«Capitano di corvetta Gareth Tallmadge.»  
Katniss lo guardò stranita. «Corvetta?»
Lui annuì. «È un tipo di nave, signorina Everdeen.»
Lei guardò verso il fiume, confusa. La risata di lui si perse tra il fragore delle esplosioni. «Avevo una nave, ma non è qui» le disse. «In realtà è praticamente distrutta, quindi non so se posso dire di averne una. In ogni caso, mi hanno riassegnato qui. Il Tredici non butta via niente, giusto?»
Katniss annuì, l’ultima frase del capitano annodata attorno alla bocca dello stomaco.
«Mi è stato detto ci farete compagnia per un pezzetto di strada.»
«Esatto… cioè, esatto
Lui le indicò la prima fila di soldati. Nonostante fossero almeno un centinaio, bastavano appena a coprire i novanta metri di larghezza del ponte della Vittoria. «La compagnia del capitano Leggett partirà per prima, poi andremo noi con il resto del battaglione.» Spostò lo sguardo su di lei e le fece un sorriso. «Non si preoccupi, i capitolini tengono il meglio per l’ultimo quarto del ponte.»
Katniss si chiese da quale accidenti di posto il capitano di corvetta Tallmadge trovasse la forza di sorridere in mezzo a tutto quel macello. Forse è impazzito, pensò. A volte mi chiedo se non sia l’unico modo per sopravvivere.
Lui abbassò lo sguardo sull’orologio che aveva al polso. «Un minuto e ci siamo!»
Katniss avvertì il sergente maggiore chinarsi verso il suo orecchio. «Non ti preoccupare» le disse. «Stacci vicino e non succederà niente.»
Quelle parole le fecero balenare in mente l’immagine di Boggs. D’un tratto, si rese conto che non aveva idea del fatto che fosse ancora vivo o meno.
Un po’ come tutti noi.
Il silenzio cadde insieme agli ultimi proiettili di cannone. Una quiete innaturale avvolse il ponte. In silenzio, la compagnia in testa cominciò ad avanzare.
Katniss rimase interdetta da quello che vedeva svolgersi davanti ai suoi occhi: la parola assalto le aveva trasmesso un’immagine un po’ più movimentata e rumorosa di quello che stava accadendo in quel momento. Un miscuglio di sollievo e terrore la afferrò alla gola: nonostante si trovasse più a suo agio con il silenzio e la furtività, una parte di sé avrebbe preferito concludere la faccenda urlando di corsa il più in fretta possibile.
«Il ponte è lungo» le disse il sergente maggiore, come se le avesse letto nel pensiero. «Non ha senso sprecare tutte le energie adesso.»
Una donna con una fascia bianca al braccio segnalò l’avanzata. La seconda compagnia si mosse dietro alla prima.
«Ci siamo» disse Tallmadge. «Prego, signorina Everdeen, dietro di me.»
La superficie del ponte era butterata dai proiettili, chiazzata dal nero delle esplosioni e costellata da carcasse di automobili, di carri armati e dai frammenti delle grandi statue che un tempo ne decoravano i parapetti. Il vento spingeva il fumo del bombardamento verso di loro, rendendo impossibile scorgere cosa ci fosse più avanti di una decina di metri.
«Non preoccupatevi per il silenzio» le disse Tallmadge. «Tra poco ci sarà una bella festa.»
Proseguirono per quelle che parvero delle ore, finché, dal nulla, la compagnia in testa si fermò.
«Ci siamo» disse Tallmadge. «Da qui in poi tocca andare di corsa.» Emise un colpo di tosse. «Non serviranno neanche i fumogeni. Il che mi solleva assai, visto che hanno un odore terri—»
Katniss venne buttata a terra da quello che a lei parve una muraglia di ferro. Qualcuno gridò qualcosa, poi il suo udito venne annichilito da un esplosione. Avvertì la guancia sinistra farsi rovente, mentre il cervello veniva preso a martellate dentro la sua scatola cranica. La muraglia di ferro che l’aveva buttata a terra le impediva di aprire gli occhi. Ebbe il terrore che fosse rimasta intrappolata sotto qualche maceria, e sentì i polmoni collassare in preda al panico. Mosse le gambe: la destra era libera. La piegò per appoggiare lo stivale a terra, poi mise le mani sul peso che la schiacciava e spinse con tutte le sue forze verso l’alto. Sentendo che la muraglia di ferro si stava sbilanciando verso la sua sinistra, assecondò il movimento: ci fu un tonfo come un sacco di pietre che cada a terra, e fu libera.
Si alzò a sedere di scatto, ingoiando aria e cenere a pieni polmoni. Le polveri le irritarono la gola, causandole un accesso di tosse rauca. Si passò il dorso della mano sulle labbra secche, e guardò alla sua sinistra: il sergente maggiore, la muraglia di ferro che si era gettata su di lei facendole scudo con il suo corpo, giaceva a terra, una scheggia di metallo conficcata nella tempia.
Katniss distolse lo sguardo, lottando contro i succhi gastrici che si arrampicavano su per la gola. Alle sue spalle, altre tre esplosioni brillarono tra i volontari ammassati sul ponte.
«Granate!» gridò qualcuno. «Ma non può es—»
Uno scoppio, un altro ancora; poi il silenzio.
Katniss si alzò in piedi, barcollando come un automa difettoso. Ebbe appena il tempo di vedere il capitano Tallmadge con la schiena appoggiata a un blocco scheggiato di marmo e le mani premute sul fianco destro; poi, nella nebbia sporca davanti a lei, qualcuno gridò.
«Panem domani!»
«Panem per sempre!» rispose, rauco e rabbioso, un coro.
«Carica!»
Un urlo di centinaia di voci riempì il ponte. Sbucando dalla cortina di fumo come una legione di spettri, una colonna di giubbe bianche lacere e sporche si gettò correndo a perdifiato contro i ribelli in avanzata. La compagnia di testa, stordita dalle granate e da quel folle rivolgimento degli eventi, riuscì a malapena a sparare qualche colpo; in un attimo, l’ondata di capitolini si schiantò contro di loro.  
Katniss osservava la mischia furibonda davanti a lei come se si stesse svolgendo dietro la parete di vetro di un acquario. Guardava i volti contratti dalla furia e dalla disperazione delle giubbe bianche, i pugnali che affondavano nella carne morbida dei volontari, i calci dei fucili che sollevavano schizzi di sangue nella caligine. Tutto sembrava quasi svolgersi al rallentatore: la lama sottile di una sciabola che sbucava dalla schiena di una volontaria, la vampa di un fucile che cancellava la faccia di un ragazzo, un capitolino lanciato giù da un varco frastagliato del parapetto. Ebbe la netta impressione che, se nessuno fosse venuto a disturbarla, sarebbe potuta rimanere impalata su quel ponte fino alla fine dei tempi. Poi qualcosa la colpì al petto con la forza di una testata e la fece di nuovo piombare a terra.
Battè la nuca sull’asfalto. I denti schioccarono sbattendo tra loro, facendole vibrare le tempie. Abbassò lo sguardo: sulla corazza pettorale, un proiettile deformato dall’impatto giaceva a meno di dieci centimetri dalla sua gola. Fece per rialzarsi, ma le braccia le cedettero e ricadde a terra, avvinta da una stanchezza infinita. Intorno a lei, il fronte dei ribelli cominciava a sfaldarsi, travolto dalla furia spietata dell’assalto capitolino. Non ha importanza, pensò. Verrà qualcuno. Verrà qualcuno.
La mente tornò al Distretto Quattro, a quel momento in cui la sua squadra si era ritrovata decimata e messa all’angolo. Quando aveva creduto che tutto fosse ormai finito, quel sergente dei Volontari si era lanciato nel vuoto, incurante dei proiettili e dell’acciaio che l’attendeva oltre il suo comodo riparo. Succederà di nuovo, si disse. Qualcuno… sì, qualcuno ci salverà.
Ma le urla si facevano più forti, sempre più Volontari si davano alla fuga e nessuno sembrava giungere in loro soccorso. Dove andate, pensò Katniss. Non scappate. Ci salveranno. Dovete solo avere un attimo di pazienza.
Il volto di Boggs si affacciò di nuovo nella sua testa. E poi Haymitch, Peeta, Plutarch, Gale, Johanna, il sergente dei Volontari, il capo della sua scorta, uno dopo l’altro, sempre più vividi, sempre più intensi. Mi hanno sempre protetta, pensò, mentre nel suo petto una morsa terribile si aggiungeva al dolore del proiettile. Per tutto questo tempo, non ho fatto altro che essere salvata.
Si ritrovò in piedi. Le sue dita stringevano qualcosa. Non sapeva se era stata lei ad alzarsi e raccogliere l’asta della bandiera o se qualcuno l’aveva fatto al posto suo, ma non aveva importanza.
Ora sapeva chi li avrebbe salvati.
Mentre correva, il cuore sembrò allargarsi a dismisura, riempiendo ogni poro della sua pelle. La testa era un caleidoscopio ardente di luci, odori, suoni, voci; ma nessuna di quelle sensazioni veniva dal mondo esterno. Passò tra i volontari in rotta come una freccia piccola, secca e scura, la bandiera verde speranza che garriva sopra di lei.
Poi vide le giubbe bianche, le loro facce, le armi sollevate. E in mezzo a quel mare di carne, stoffa e acciaio, il fantasma del ghigno di Snow.
Katniss Everdeen tenne alta la bandiera, ruggì tutto quello che le era rimasto dentro e accolse il fuoco a braccia aperte.



«Possiamo aprire gli occhi adesso?» chiese Virgil, il calcio del fucile a tracolla che strusciava per terra e la mano chiusa sulla gonna della sorella.
«Non ancora» rispose Dan. «Non ancora.»
 Le creature erano almeno un centinaio, i soldati una dozzina scarsa. Le bestie mutate, pallide e con sei arti, avevano fatto a pezzi i militari, spargendo i brandelli dei loro corpi per tutta la via; ma nessuna di esse era sopravvissuta allo scontro.
Dan passò a sinistra di quello che rimaneva di un torso: sebbene sbrindellata e zuppa di sangue, in quel poco che rimaneva della divisa si riusciva ancora a distinguere il bianco della stoffa. Poveri bastardi, pensò. Ammazzati da mostri che loro stessi hanno creato.
«Questa puzza è terribile» disse Maia. «Per caso hanno trasformato la strada in una discarica, signor Dan?»
Dan deglutì per spingere giù la nausea. «Più o meno.»
Lei emise un piccolo sbuffo. «Che incivili.»
Dovette procedere molto adagio, per impedire che Virgil andasse a sbattere contro qualcosa o che lui stesso scivolasse sopra l’icore violastro delle bestie o gli intestini dei soldati. Quando giunse al termine della via, si assicurò di aver svoltato l’angolo abbastanza da poter nascondere l’orrendo spettacolo ai due anche se avessero deciso di voltarsi indietro. «Ok» disse. «Ora potete aprire gli occhi.»
«Signor Dan» disse Maia. «Credo che la caviglia ora sia a posto. Se non le spiace, vorrei provare a fare qualche passo.»
«Va bene.» Dan la lasciò scendere, poi indicò con un pollice dietro di sé. «Ma non da quella parte.»
Lei gli scoccò un’occhiata di garbata riprovazione. «Beh, questo mi pare ovvio. Non ho alcuna intenzione di saltellare in mezzo a rifiuti e liquami.»
«Chiedo umilmente venia» rispose lui. Iniziò una scherzosa riverenza, ma si bloccò – come se avesse scoperto se stesso nell’atto di compiere qualcosa di proibito – e tornò ritto con una strana espressione di rimorso e disagio sul volto. Osservò Maia prodursi in una camminata un po’ incerta, compita ma sicuramente funzionale; quando lei si girò verso di lui, annuì con fare di approvazione. «Bene, direi che puoi muoverti da sola. Virgil, ora puoi darmi il fucile.»
«Sarà anche bello» disse lui consegnandogli l’arma, «ma cacchio se è pesante.»
Dan aprì la culatta, controllò che i proiettili fossero a posto e la richiuse con uno scatto. «Un motivo in più per sperare che tu non ne debba mai più tenere in mano uno.»
Proseguirono dritti per un centinaio di metri, poi svoltarono a sinistra, a destra e poi di nuovo a sinistra. «Ci siamo» disse Maia, indicando l’incrocio davanti a loro. «Quella è via delle Figure. Al numero 74 c’è casa nostra.»
Precedettero rasentando gli edifici, lo sguardo che saliva spesso a controllare le finestre vuote. Il rumore dei combattimenti era lontano, verso est, ma in una città assediata, specialmente una come Capitol City, nessun posto poteva dirsi tranquillo. Giunti all’incrocio svoltarono a destra, entrando in un porticato che, con il suo gemello dall’altra parte della strada, correva per tutta la via. La pavimentazione di marmi colorati era disseminata di mobili, vestiti, suppellettili, lampade, anche alcune statue: sembrava che le case avessero vomitato in strana tutto quello che avevano dentro, creando una sorta di mercatino delle pulci silenzioso ed evanescente.
«Dietro di me» mormorò Dan. «E attenti agli angoli.»
Con la schiena curva e a passi felpati, i tre si insinuarono nella matassa spettrale di oggetti.  I rumori della guerra parvero farsi lontani. D’un tratto, Dan udì un fruscio; avvicinatosi a un armadio con il cuore in gola, lo oltrepassò con uno scatto. Con uno strepito e un frullare d’ali, un enorme pappagallo blu abbandonò il portico e sparì su nel cielo.
«Che colpo» mormorò Virgil.
«Meglio un colpo che le camicie azzurre» sentenziò Maia con un filo di voce. «O i cavalieri neri.»
«Sagge parole» disse Dan, abbassando il fucile. «A che punto siamo?» disse, girandosi verso Maia.
Lei si girò e puntò il dito verso l’alto. Sopra le loro teste, alla destra di un portone, due cifre dorate formavano il numero 74.
«Oh.»
Virgil appoggiò il dito su un rettangolino nero sotto il citofono, la cui placca, forse perché di un qualche tipo di materiale prezioso, era stata asportata, lasciando i fili dei contatti scoperti e penzolanti. Qualche secondo di silenzio, poi la serratura del portone scattò.
«Ci siamo» disse Maia. «Per piazza dei Martiri non deve far altro che continuare dritto e girare alla terza a destra. Ora, signor Dan, potrebbe per favore abbassarsi un attimo?»
Sorpreso, lui obbedì. Decisa ma delicata, lei appoggiò una mano sul suo braccio e gli diede un bacio sulla guancia. «Grazie» gli disse. «Ci ha riportato a casa.»
Dan la fissò, incapace di emettere alcun suono che fosse anche solo paragonabile a una parola. Il suo volto fu attraversato da una vasta, rapida e quasi impercettibile ridda di emozioni. Poi, alla fine, chiuse gli occhi e annuì.
«Ciao» fece Virgil, salutandolo con la mano. «È stato fico, girare con te. Ci torni a trovare, dopo che sei passato da tua sorella?»
Dan si alzò in piedi. «Andate» gli disse. «Non uscite prima di un paio di giorni. Non manca molto, ma non è ancora—»
Più che un movimento, fu quasi un’increspatura della realtà. Lo vide quasi per caso, riflesso sulla superficie martoriata del lungo specchio da terra appoggiato sull’anta del portone rimasta chiusa. Prima di pensare a qualunque cosa, Dan si gettò a terra. Tre colpi, e quello che rimaneva dello specchio esplose.
«Andate!»
Ebbe appena il tempo di vedere Maia e Virgil tuffarsi dentro dentro il portone, mentre un altro paio di colpi si infilava nel legno spesso dell’anta. Strisciò verso l’armadio, si alzò nascosto dietro di esso e diede una rapida occhiata oltre lo spigolo. La scia rovente di una pallottola gli accarezzò la guancia. Rimise la testa al riparo, appoggiò la nuca al fianco levigato dell’armadio e armò i due cani del fucile.
Gli era bastata quella frazione di secondo per capire chi gli stesse sparando.
Il Battaglione IEROS era venuto a finire il lavoro.



«Ah, merda» sbottò il Bianco abbassando il fucile d’assalto. «Il bastardo è svelto.»
«Io te l’ho detto» ringhiò Clove. «Ma tu non—»
Due fucilate dall’altra parte della strada constrinsero i due ad abbassare la testa.
«Sta scappando» disse il Nero. Il suo fucile da cecchino si spostò verso sinistra, stabile come se fosse appoggiato a un treppiede. Il caposquadra degli IEROS appoggiò il dito sul grilletto, trattenne il respiro e, dopo qualche secondo, abbassò l’arma. «Troppi ostacoli» disse. «Dobbiamo portarlo all’aperto.»
«Lasciate fare a me» disse Clove. «Ho un piano.»
E senza aspettare risposta, saltò fuori dalla copertura, si lanciò in strada e cominciò a correre.



Scivolò sopra un cassettone, buttò a terra un’attaccapanni e scartò di lato per evitare una catasta di sedie; gli spari erano cessati, ma non aveva intenzione di stare a vedere cosa avessero in mente i compari di Ares e Artemisia. Non appena raggiunse la prima via a destra, ci si buttò dentro con tutto l’impeto dato dall’adrenalina.  
Dopo qualche metro, si rese conto di aver fatto un errore.
Strada sbagliata, gli comunicò la parte logica della sua testa. Dovevi girare a quella dopo.
Frenò di colpo, rischiando di sbilanciarsi in avanti. È tutto a posto, continuò a dirgli la sua mente, nel disperato tentativo di lottare contro la realtà delle cose. Devi solo tornare indietro. Lui, però, non si mosse.
Guardava la via di fronte a sé, e la folla silenziosa che la riempiva.
Erano una vera e propria orda, decine e decine di giovani rigidi e ciondolanti che lo fissavano. Armati di spade, coltelli, asce, lance, giavellotti e archi, indossavano tutti una giubba viola. I loro volti erano grigiastri e tirati, le loro bocche e i loro nasi nascosti da maschere per l’ossigeno. Gli occhi, vuoti, brillavano di un luccichio spettarle. Ed erano tutti fissi su di lui.
Qualcosa di pesante atterrò alle sue spalle. La mente di Dan venne attraversata da una sorta di schiocco, e l’istinto di sopravvivenza tornò ad avere il controllo. Si lanciò verso sinistra, diretto verso un vicolo. Udì un coro di suoni bassi e ringhianti, poi qualcosa gli ferì di striscio la spalla. Sentì il sibilo delle frecce e il tintinnio dell’acciaio che rimbalzava sull’asfalto, poi fu dentro il vicolo. Scartò a destra, salì una rampa e si ritrovò di fronte a un cancelletto chiuso da una catena. Aprì la culatta del fucile, infilò la mano nella tasca della giacca e trovò due cartucce. Alle sue spalle, respiri ringhiosi e passi strascicati. Una freccia gli accarezzò i capelli.
Dan caricò il fucile, lo puntò sul catenaccio e sparò al lucchetto. Udì un verso acuto, si girò e premette il secondo grilletto, polverizzando il petto di una giubba viola armata di tridente e lanciando il suo cadavere contro il resto dell’orda. Spalancato il cancelletto con una spallata, attraversò un piccolo cortile, scavalcò un muretto e atterrò qualche metro più in basso. Guardandosi intorno, localizzò una scaletta che scendeva verso un seminterrato. Fu sul punto di ignorarla, ma all’ultimo si rese conto che la porta d’ingresso era socchiusa. Scattò verso di essa, mentre il cortile sopra di lui si riempiva di ringhi e guaiti. Scese i gradini a due a due, il fodero della sciabola che sbatteva sul muro chiazzato di muffa, aprì la porta se la richiuse alle spalle, rimanendo da solo con i battiti del suo cuore.
Si trovava in uno scantinato, illuminato da un paio di finestre a bocca di lupo sulla parete di fronte a lui. Il locale era ingombro di scaffali di metallo pieni di scatole e faldoni. Un po’ di carte erano per terra, segno che qualcuno aveva sperato che dentro i contenitori ci potesse essere qualcosa di prezioso; ma il resto della stanza era in ordine, come se nessuno fosse mai entrato.
Dan si guardò intorno in cerca di qualcosa con cui bloccare la porta: per un momento considerò l’idea di rovesciarle contro una delle scaffalature, ma dubitava sarebbe riuscito a spostarne una – senza contare il fracasso che avrebbe creato. Appoggiò l’orecchio alla porta: da fuori non sembrava giungere alcun rumore. Contò fino a tre, fece un respiro profondo e si staccò dalla porta.
Nulla.
Avanzò tra gli scaffali, la nuca che gli pizzicava per l’orribile sensazione che fuori da quello scantinato stessero solo aspettando il momento giusto per fare irruzione. In fondo alla stanza, a sinistra, vide un’altra porta. Mentre la raggiungeva, il silenzio divenne quasi un grido. C’era troppo poco rumore, in quel luogo. Qualcosa non andava.
Si fermò davanti alla porta. Le dita strinsero la maniglia. Spinsero in giù.
Un cigolio sommesso, e davanti a lui comparvero delle scale.
Dan guardò ancora verso la direzione da cui era entrato. Niente sembrava muoversi. Si richiuse la porta alle spalle, salì due rampe di scale e trovò due porte. Quella di sinistra era chiusa; l’altra no.
Si ritrovò in un piccolo soggiorno. Un finestrone coperto da tende bianche illuminava un divano nero, un tappeto circolare a strisce concentriche gialle, rosse e bianche, un mobiletto di legno e una televisione. L’aria sembrava sospesa, come se chi abitava quell’appartamento avesse fermato il tempo poco prima di uscire. Dan avvertì un piccolo giramento di testa, come se fosse entrato in un altro mondo.
Fece qualche passo in avanti. Sul tappeto c’era qualcosa.
Un foglio di carta, su cui qualcuno aveva disegnato un sole.
La parete del finestrone esplose, lanciando calcinacci, brandelli di tenda e schegge di vetro addosso a Dan. Lui cadde a terra, mentre qualcosa di enorme piombava nella stanza, facendo tremare il pavimento.
Un passo pesante, poi un altro. Rumori di idraulica, giunti e metallo. Il silenzio. E poi, una voce.
«Una festa a sorpresa… per me? Oh, Dan… non avresti dovuto.»
Il cuore di Dan smise di battere. La mano che gli copriva gli occhi ricadde a terra.
Un esoscheletro di due metri, nero come la notte, troneggiava su di lui. Un drappo viola, a mo’ di grottesca fascia da ufficiale, gli attraversava il petto. Incassato tra le spalle, una sorta di oblò lasciava intravedere un volto circondato da cavi e immerso in un fluido amniotico.
Due labbra livide si piegarono in un sorriso.
«È bello rivederti, fratellone.»



Dan comprese che il suo corpo si era staccato da terra, ma era come se fosse un fatto vecchio, appartenuto a qualcun altro, due o tre vite prima della sua. Continuava a guardare il volto di Rose, mentre il suo cervello si spegneva, si riavviava e si spegneva di nuovo. Tutta quella strada, tutti quei morti, tutto per tornare a riaverla con sé, anche solo per una volta. E ora lei era lì, sempre più vicina ora che il potente braccio meccanico che l’aveva raccolto lo avvicinava agli occhi di sua sorella.
«Rose» mormorò.
«Dan. Oh, Dan, sono così felice di vederti.»
Il viso di lei sfarfallò e si dissolse in una nube di cristalli iridescenti. Le lacrime glielo nascondevano alla vista, come se non fosse abbastanza meritevole di poterlo guardare. «Rose… io… io…»
«Lo so. Non preoccuparti. Sei stato bravissimo.» Un lamento acuto si accese nella stanza. «Solo un secondo, e sarà tutto finito.»
Il lamento si fece sempre più forte. Dan si rese conto che qualcosa si stava avvicinando al suo orecchio sinistro. Qualunque cosa fosse, non aveva importanza.
Ormai era tempo di andare.
«Ehi, stronza! Quanto tempo, eh?»
Uno sparo, poi un urlo selvaggio che mischiava carne e metallo. Dan sentì il suo corpo galleggiare nel vuoto, poi la sua schiena colpì un piano duro e uniforme e scivolò giù.
Voleva restare lì, dimenticato come uno straccio di atomi e polvere, fino a dissolversi nella propria insignificanza. Il momento supremo, quell’attimo di gloria e destino in cui avrebbe potuto redimersi dai propri peccati e abbandonare l’esistenza libero e sereno, era ormai passato. Era ripiombato lì, nell’ultimo atto di un’amara tragedia, in mezzo alle ombre, ai demoni e all’arte della guerra. Non voleva alzarsi. Non voleva muoversi. Non c’era più niente, ormai, per cui valesse la pena vivere.
Mio caro, vecchio, tonto fratello maggiore… ne sei proprio sicuro?
Ancora una volta, la voce di Rose. Ma questa non era filtrata da cavi e segnali elettronici: risuonava pura e semplice in ogni fibra del suo spirito.
Io ti ho uccisa.
No, Dan. Mi ha uccisa l’idea che le uniche due cose che l’essere umano sia davvero in grado di comprendere siano vendetta e spettacolo. E fino a questo momento, tu non hai fatto altro che darle ragione.
Ma—
Non vendicarmi, Dan. Non è mai servito e non servirà mai a niente. Se proprio devi, cerca giustizia.
…e come?
Per prima cosa, apri gli occhi. Poi, alzati. E infine… combatti.

Fu come essere risucchiato nuovamente dentro i cinque sensi. Il fracasso, il dolore, le ferite: fu sul punto di arrendersi, e scappare nuovamente verso un bozzolo di atarassia. Ma l’eco delle parole di Rose risuonavano ancora in lui: così fece come gli era stato detto, e aprì gli occhi.
Era sul pavimento, addossato al muro. La casa tremava mentre le gambe meccaniche dell’esoscheletro ondeggiavano facendolo girare in tondo, il braccio con la pinza idraulica e quello con la sega circolare che cercavano di afferrare, tagliare e sminuzzare l’esile figura nera abbarbicata alle sue spalle.
«Piccola… cagna… puttana schifosa!» ruggiva Rose dagli altoparlanti, il liquido amniotico che colava giù dal foro di proiettile aperto nel suo oblò. «Ti squarterò viva, ti scioglierò la faccia, ti impalerò lentamente come la stronza lurida troia che sei!»
«Devo dirlo» esclamò Clove, abbassando la testa per evitare la lama ronzante della sega, «questa tua versione mi piace molto di più. È quasi—»
La pinza idraulica riuscì a colpirla alla spalla. Clove perse l’equilibrio, sparò un colpo che si ficcò nel soffitto e cadde a terra. Rotolò sul pavimento e si rialzò in piedi, ma la pinza di Rose fu più veloce e la inchiodò al muro.
«E ora» disse la piccola Martin, la voce sempre più deformata da distorsioni elettroniche, «iniziamo a lavorare su questo bel faccino.»
«Se fossi in te» sputò lei, «io comincerei dalle labbra.»
«Grazie, tesoro.»
«Non c’è di che.»
Dan si alzò in piedi come ubriaco. Vide la sega circolare avvicinarsi al volto di Clove, gli occhi scuri di lei, fissi sul punto in cui dovevano esserci quelli che un tempo appartenevano a sua sorella; la sua espressione fiera, determinata, serena. Era pronta a farsi torturare, seviziare e uccidere da una spietata macchina assassina. Era pronta a morire, così come lo era stato lui.
Credono sempre di essere loro a prendersi il peggio della vita.
L’acciaio della sciabola baluginò nel piccolo soggiorno.
Ma nessuno pensa mai agli Sconfitti Sventurati.
La lama penetrò nel retro dell’esoscheletro con un gemito e uno stridio di lamiere accartocciate. Rose gettò un urlo agghiacciante. Con un ruggito di rabbia e disperazione, Dan appoggiò il palmo della sinistra sul pomo della sciabola e spinse ancora più a fondo. Ci fu uno schiocco, un suono strozzato, e l’urlo di Rose si spense. L’esoscheletro si girò, liberando Clove dalla presa della pinza idraulica, fece un passo verso Dan, incespicò di lato e cadde a terra, sfondando il pavimento e crollando al piano di sotto in una nuvola di polvere, cemento e travi ritorte.
Clove si rialzò, strusciando la schiena sulla parete. Si toccò il costato con una smorfia, poi guardò la voragine che l’esoscheletro aveva aperto nel pavimento. «Più sono grossi e peggio cadono.»
Dan la fissava come se non riuscisse a comprendere la sua esistenza all’interno della trama dell’universo. «Che ci fai qui?»
Lei spostò le iridi castane su di lui. «Non è ovvio? Ti sto dando la caccia.» Si staccò dal muro ed emise uno sbuffo affaticato. «Per dimostrare ai miei cari compagni di squadra che sono ancora una dei loro.»
«Ed è così?»
Lei si strinse nelle spalle. «Mi basta che loro lo pensino. Al massimo qualche giorno, e non saranno altro che un ricordo.»
Lo sguardo di Dan andò al buco nel pavimento, poi si spostò verso la parete distrutta dall’arrivo dell’esoscheletro. In mezzo ai due palazzi di fronte, si riusciva a vedere uno specchio di cielo. «In un certo senso, sono lieto che tu mi abbia impedito di obbedire a Cato» disse. «Anche se gli avessi cavato un occhio, sarei comunque arrivato troppo tardi. Almeno il suo corpo potrà diventare cenere tutto insieme.»
Clove lo scrutò per qualche secondo, le sopracciglia aggrottate. «In che senso?»
Lui si tolse la cintura con il fodero della sciabola e la gettò nella voragine. «Come in che senso» le disse. «L’hai visto l’esercito di giubbe viola giù in strada, suppongo.»
«Certo.» Clove diede delle piccole pacche ai due cinturoni pieni di coltelli da lancio che portava incrociati sul petto. «Uno di loro mi ha anche regalato questi.»
Negli occhi di Dan brillò un lampo di rabbioso sbigottimento; ma non durò che qualche secondo, lasciando di nuovo spazio a una quieta rassegnazione. «È ormai evidente che il Protocollo Protheus è giunto alla fine. Non resta che decidere cosa fare con il tempo che ci rimane.»
Clove rimase in silenzio a fissarlo. Un secondo. Due. Tre. Uno sbuffo dal naso. Poi un altro. E alla fine, come un fiume che rompe gli argini, la sua risata riempì la stanza. Si piegò in avanti per appoggiarsi alle ginocchia, sotto lo sguardo allibito di Dan, scossa da un accesso di ilarità incontenibile. «Oh, Dan» riuscì a dire tra un singhiozzo e l’altro. «Mio povero, rabbioso, oscuro Dan. Non hai saputo la notizia? Il Protocollo Protheus non esiste.»
Lui sbatté le palpebre un paio di volte. «…cosa?»
«Eh già.» Lei sospirò, asciugandosi una lacrima dall’occhio destro. «A quanto pare era soltanto uno specchietto per le allodole, un finto piano per mettere alla prova la lealtà di Cato. E lui, ovviamente, ci è cascato con tutte le scarpe. Stupido, eroico Cato, sempre dalla parte sbagliata al momento sbagliato.»
Dan indicò il cratere nel pavimento. «E questo, allora?»
«Quello?» disse Clove. «Un’ultima modifica fatta da Rorke quando ha scoperto che anche tu eri coinvolto nel fantastico piano segreto per salvare il mondo. In caso Cato o chi per lui fosse giunto nei pressi della piazza con l’intento di sabotare la fantomatica base segreta, tutti i Tributi caduti nelle settantaquattro edizioni dei Giochi – quelli abbastanza integri, almeno – erano pronti a dargli il benvenuto. Lei era il tuo regalo.»
Dan sembrò non averla sentita. Rimase immobile per qualche momento, come se fosse entrato in una sorta di stasi criogenica, poi raggiunse la doppietta da caccia, scivolata vicino alla tv caduta a terra, e la raccolse. «Quindi il mondo non sta per finire?»
«Beh, questo è ancora tutto da vedere» ghignò lei. «Diciamo che le probabilità sono scese di un po’.»
Dan ricaricò il fucile e chiuse la culatta. «I Tributi redivivi» disse. «Quanti sono?»
«Non ne ho idea» rispose Clove. «Probabilmente un migliaio. Perché?»
«Rorke li controlla in qualche modo?»
«Non direi, mi sembrano abbastanza allo stato brado. Anche se, visto il personaggio, sicuramente avrà qualche pulsante segreto che li blocchi o li uccida in caso di emergenza.» Clove esitò un momento, poi gli lanciò un’occhiata sospettosa. «Che cosa vuoi fare?»
«Non è ovvio?» disse lui. «Trovare quel pulsante e premerlo.»
Lei spalancò gli occhi, incredula. «E come?»
«Nella piazza ci sarà qualcosa. Un nodo di controllo, o qualche altra diavoleria—»
«Tu sei fuori di testa.»
Per la prima volta, Clove vide Dan fare un sorriso. «Beh, questo si era capito.» La salutò con un cenno del capo. «Addio. Sono piuttosto sicuro che te la caverai.»
Clove lo guardò dirigersi verso la porta. Le dita sulla maniglia, la tromba delle scale. Un attimo e sarebbe scomparso, portato via come la cenere dalle strade di Capitol City. E lei sarebbe stata libera di scomparire nel mondo, e di trovare, forse, un giorno, la sua strada.
«Dan.»
Lui si girò. Non si aspettava di sentire ancora il suo nome. Non si aspettava di sentirlo pronunciato a quel modo.
«Là fuori c’è un’intera orda di mostri – senza contare i tre IEROS che ti vogliono morto. Non ce la farai mai.»
«Forse» disse lui. «Ma devo provare.»
Lei fece un paio di passi avanti. «Ma perché?»
Lui sollevò le sopracciglia, sorpreso dal trasporto infuso in quell’ultima parola. «E a te che importa?»
Lei si irrigidì, come se fosse stata attraversata da una scossa elettrica. Le sue guance avvamparono, per poi tuffarsi nel ghiaccio. «Niente, infatti» mormorò. «Ci tieni proprio a farti ammazzare. E visto che non ci sei riuscito con tua sorella, tanto vale provarci con i suoi amichetti.»
Lui la scrutò per qualche momento, un’espressione indecifrabile sul volto. «Quella cosa là» disse, «non era mia sorella.» Si guardò le punte delle scarpe, poi rialzò gli occhi. «Durante la mia stupida cavalcata da poveraccio in cerca di redenzione» disse, vedendo la sorpresa accendersi negli occhi di lei nel sentirsi ripetere le proprie parole, «ho lasciato indietro due bambini. Ho detto loro di restare chiusi in casa per un paio di giorni, ma non so nemmeno se siano riusciti a entrarci. Se tornano in strada, i Tributi li uccideranno. Devo impedire che accada.» Vedendo che Clove stava per replicare, fece anche lui due passi in avanti. «Sì, lo so, forse sono già morti, forse i loro genitori sono dei bastardi capitolini che ogni anno si ingozzano sul divano guardando i Giochi, forse—»
«Forse non vale la pena rischiare la vita per la probabilità di una probabilità, magari?» lo interruppe lei. Coprì lo spazio che li separava, il volto che si accendeva di rabbia, e questa volta toccò a lei interromperlo prima che potesse ribattere. «Forse potresti fare di meglio con quello stupido ammasso di carne e ossa che ti ritrovi, invece che lanciarlo in pasto agli animaletti di Rorke per una qualche sorta di ridicola, eroica—»
«Non c’è niente di eroico in tutto questo» ribatté Dan, inamovibile. «È semplicemente la cosa giusta da fare. Per la prima volta dopo anni, posso fare qualcosa che non sia…»
«…incredibilmente stupido?» sbottò Clove, gettando le braccia al cielo per l’esasperazione. «Oh, che peccato, c’eri quasi: ritenta la prossima volta, sarai più fortunato.»
«Senti, non—»
«Non ha alcun senso, nessuno, che tu—»
«Ma in nome di tutta quanta questa stramaledetta guerra» esclamò Dan, «che cos’è che vuoi?»
«Che resti con me, infinita testa di cazzo!»
Lui spalancò gli occhi e vacillò, come se una palla di cannone gli avesse bucato lo stomaco. Aprì e chiuse la bocca, fissando Clove con l’aria più idiota del mondo.
«Maledetto imbecille» disse lei.
Poi lo afferrò per la camicia e lo baciò sulle labbra.
Dan sentì sapore di terra, metallo e pelle screpolata, ma anche qualcosa di più profondo, quasi nascosto. Qualcosa di morbido, fresco, dolce e un po’ aspro, come una pianta di agrumi vista di sfuggita dentro un cortile.  Il fucile cadde a terra con un tonfo, le sue mani si appoggiarono alla schiena di lei. Non sapeva il come, il dove o il perché di quello che stava succedendo, ma non aveva importanza. In quel momento, niente doveva aver senso, niente doveva avere motivo. Il resto del mondo era fuori, da qualche altra parte. Stampato su una parete lontana, come una silhouette.
A separarli fu il suono di una raffica di spari, da qualche parte giù nelle strade.
«Forse sono loro» disse Clove.
«I tre che mi vogliono morto?» replicò Dan, sentendosi stranamente calmo.
Lei annuì, poi guardò fuori dalla parete esplosa. «Immagino di non riuscire a farti cambiare idea.»
Lui esitò. «Temo di no.»
Clove riportò gli occhi su di lui. «Come si chiamano?»
«Chi?»
«I due bambini.»
Lui raccolse il fucile. «Maia e Virgil.»
«È meglio che uno dei due da grande diventi come minimo presidente, o li inchiodo entrambi al soffitto.» Controllò che i cinturoni con i coltelli fossero ben messi e si avviò verso la cucina del piccolo appartamento. «Di qua, c’è una scala antincendio che ci porterà a terra.» Si accorse che Dan era rimasto fermo e si girò. Ancora una volta, lui la guardava stupito. «Beh, che c’è?» gli disse. «Credevi davvero che ti avrei lasciato da solo? Se proprio devi salvare questo schifo di posto, io vengo con te.»



Appoggiarono il mortaio sopra i sacchi di sabbia, il tubo d’acciaio puntato contro la facciata del Senato. Tecnicamente, il tiro diretto non era affatto contemplato negli utilizzi di quel tipo di arma: ma gli uomini e le donne che erano giunti fin lì erano ormai veterani pieni di risorse, abituati a volgere qualunque attrezzo, oggetto o situazione a loro vantaggio.
«Pronti?» chiese Katniss Everdeen.
«Pronti!» esclamarono i tre Volontari attorno al mortaio.
«Fuoco!»
Si udì un suono forte e argentino, come di un martello che colpisca una moneta. Il proiettile uscì con uno sbuffo dalla canna, volò sopra la scalinata annerita dal fumo e dalla cenere ed esplose contro una delle entrate murate dai difensori, spedendo calcinacci e pezzi di mattone a rotolare giù dai gradini. I Volontari attesero con il fiato sospeso; poi, quando il fumo si diradò mostrando la breccia aperta, esplosero in un grido di esultanza.
«Popolo di Panem!» gridò Katniss Everdeen, senza sapere da dove le uscissero quelle parole. «Con me!»
Il grido divenne un boato. Usciti dai ripari e dalle trincee, i ribelli si lanciarono sulla scalinata del Senato. I fucili e le mitragliatrici dei difensori ne abbattevano a decine, ma erano ormai incapaci di contrastare il loro impeto.
Katniss teneva ancora in mano la bandiera: la metà inferiore dell’asta si era spezzata durante il combattimento sul ponte e la stoffa era ormai lacera e piena di fori di proiettile, ma il verde speranza e il volto di Rue continuavano a svettare sopra le teste dei Volontari.
Due vampe si accesero nel buio della breccia. Una Volontaria alla sua sinistra cadde sui gradini, mentre un proiettile le apriva l’ennesimo strappo sulla manica della giacca da caccia. I ribelli risposero al fuoco, inondando di piombo l’interno del Senato.
Una squadra di Volontari si lanciò dentro la breccia, le baionette inastate sui fucili e i volti lividi di ferocia. Ci furono grida, grugniti, spari a bruciapelo, singulti strozzati; quando Katniss entrò nel palazzo, la mischia si era già conclusa.
A eccezione della dozzina di cadaveri dalle divise bianche e nere riverse a terra, la sala nella quale avevano fatto il loro ingresso era vuota, ingombra di una quiete innaturale. Di tutte le cose che si aspettavano i ribelli una volta penetrati nel Senato, il silenzio non era previsto.
«A ventaglio» ordinò un ufficiale del Tredici quasi in un sussurro, come se si sentisse in qualche modo oppresso dal cambio imprevisto di atmosfera. «Avanzate con cautela. Tutto qui dentro può essere una trappola.»
«Ghiandaia» disse un Volontario enorme che imbracciava una mitragliatrice pesante come fosse un fucile giocattolo. «Stai con noi. Ti proteggiamo.»
Katniss annuì, troppo stanca per replicare. Quell’improvviso vuoto d’azione le aveva fatto precipitare l’adrenalina sotto i tacchi, lasciandole solo una sorda pulsazione di inquietudine. Si lasciò circondare da un quadrato di Volontari, e insieme a loro, passo dopo passo, si inoltrò nel cuore del Senato.
Lenti e silenziosi come una processione funebre, i ribelli attraversavano i corridoi di pietra lucida, adornati di bracieri in cui ardevano fiamme inestinguibili, drappi rossi e statue di figure umane in toga dai cipigli implacabili. Se non fosse stato per gli echi degli spari e la continua vibrazione del terreno data dall’artiglieria, nessuno avrebbe potuto dire di essere in un teatro di guerra: sembravano finiti in un altro mondo, una sorta di limbo in cui lo spazio e il tempo avevano altri significati e altre dimensioni.
«Di qua» disse l’ufficiale del Tredici, indicando una scalinata alla loro sinistra. «Secondo le mappe, la Camera è da questa parte.»
«Ehi, Bigsby» bisbigliò una Volontaria a un suo compare mentre salivano i gradini. «Perché stiamo cercando una camera?»
«Che vuoi che ne sappia» ribatté lui.
«Non una camera» si inserì un terzo Volontario. «La camera. È dove si riuniscono i senatori.»
«Ah» disse l’altro. «E una volta riuniti, che cazzo fanno?»
«Lo so io che fanno…» ghignò la Volontaria.
«Che cazzo, Kaffia» sbottò il terzo Volontario. «Devi sempre—»
Spari, grida. In cima alla seconda rampa di scale si apriva un pianerottolo. Dietro una grande porta chiusa, qualcuno stava combattendo.
«Ma che cazzo…?» disse qualcuno.
«Una squadra con me» disse l’ufficiale. «Gli altri stiano pronti.»
Una decina di Volontari raggiunsero il pianerottolo e si disposero in linea di tiro, mitra e fucili puntati contro la porta. Sulle scale, attorniata dalla sua scorta improvvisata, Katniss osservava con il cuore in gola.
Un colpo, poi un altro. La porta vibrava, come se qualcuno stesse cercando di sfondarla. Un grido raccapricciante scese giù per la scala come un torrente di acqua nera e ghiacciata.
«In nome di quel vecchio porco del Presidente» mormorò la Volontaria che il suo compare aveva chiamato Kaffia, «che cazzo succede lì dentro?»
Altri due colpi, poi un terzo; la porta si spalancò. Katniss ebbe giusto il tempo di vedere un drappello di soldati regolari e guardie presidenziali correre verso le scale, fermarsi di colpo fissando attoniti i Volontari e provare ad alzare le mani; ma l’istinto di sopravvivenza della linea di tiro era già scattato. Il fragore della raffica rimbalzò sulle mura immacolate della scalinata: il gruppo di capitolini crollò a terra, falciato da una scarica a bruciapelo.
«Cessate il fuoco!» gridò l’ufficiale. Fissò i cadaveri a terra ed emise un piccolo sospiro. «La prossima volta aspettate il mio ordine.»
«Poveri stronzi» disse un Volontario vicino a Katniss. «Tanto peggio per loro.»
«Tenente?» disse una voce nella squadra di tiro. «Secondo lei… stavano scappando?»
«Non lo so, soldato» rispose lui. «Non—»
«Katniss Everdeen?»
La voce proveniva dal corridoio. Aveva tutte le caratteristiche per essere umana, eppure… c’era qualcosa di impercettibile, come una sorta di rumore bianco di sottofondo, che la rendeva perturbante, quasi aliena.
«Chi parla?» chiese l’ufficiale.
«Desideriamo conferire con Katniss Everdeen.»
«Per quale motivo?»
La voce non rispose.
I Volontari si scambiarono occhiate nervose.
«Come fanno a sapere che è qui?»
«Ma chi è?»
«È una trappola. Il vecchio porco ne sta inventando un’altra delle sue.»
Katniss non avrebbe avuto problemi ad essere d’accordo. Conosceva bene Snow e il suo gusto per l’inganno, la teatralità e la tortura psicologica; ma c’era una parte di lei che sentiva che non era il Presidente a nascondersi dietro quella voce.
Costruzione molto affascinante, il Senato: nonostante non sia altro che un tempio di vuota formalità, al suo interno si possono trovare sorprese inattese. Fossi in te, ci farei un pensierino…
Fece per muoversi verso il pianerottolo. Il Volontario enorme la bloccò.
«Non è sicuro, Ghiandaia.»
Lei alzò gli occhi su di lui. «Non lo è mai stato.»
Lui la fissò per qualche momento, poi si fece di lato. «Ti seguiamo.»
Lei annuì. I Volontari si aprirono per lasciarla passare, pesta, sanguinante e con la bandiera lacera ancora tra le mani. Raggiunse il pianerottolo, si fermò dietro la squadra di tiro e guardò il corridoio. «Sono Katniss Everdeen» disse. «Chi mi cerca?»
«È richiesta la tua presenza nella Camera del Senato» rispose la voce. «Ti è consentita una scorta, ma dovrai entrare da sola.»
«E per quale motivo dovrei accettare?»
«Il Protocollo Protheus è alla sua conclusione. Sei convocata per deciderne l’esito finale.»
Un mormorio di confusione e stupore si propagò tra le fila dei Volontari. Katniss sentì lo sguardo dei soldati su di lei. L’ufficiale la scrutava con aria indecifrabile.
«Va bene» disse. «Verrò.»
Dalle colonne del corridoio, silenziosi come spettri, si materializzarono sei figure in armatura antiproiettile.
 «Da questa parte» disse quella in fondo.
Seguita dalla sua scorta, Katniss si inoltrò nel corridoio. Le figure corazzate la seguirono con lo sguardo, perfettamente immobili. I loro volti erano nascosti da una maschera respiratoria e da ottiche illuminate da un fioco bagliore sulfureo. Lei ebbe il forte, orribile dubbio che non fossero umani.
Il soldato che aveva parlato con lei la condusse giù per una rampa di scale e poi a destra in un altro corridoio. Arrivato di fronte ad una piccola porta sorvegliata da due suoi compari, si fermò. «Prego» disse, indicando la porta. Non appena percepì il movimento dei Volontari che la seguivano, puntò di scatto le ottiche gialle contro di loro. «Come ho detto, da sola.»
Katniss guardò la sua scorta cercando di ostentare una sicurezza che non aveva affatto. «Tranquilli» disse loro. «Vado e torno.»
Poi raggiunse la porta, la aprì e fu dentro.
La Camera del Senato della Federazione di Panem era una sala immensa, bordata di legno scuro, broccato rosso e smalto d’oro. A un centinaio di metri dal suolo svettava una gigantesca cupola di vetro, la cui superficie in gran parte distrutta dai bombardamenti era precipitata sulla schiera di sedili disposti a emiciclo. Di fronte ad essi, dietro un lungo tavolo di marmo nero, erano disposte le poltrone vuote dei ministri della Federazione; alle spalle di queste, su un podio rialzato di un paio di metri, si trovava lo scranno del Presidente.
Sul quale era assiso, inconfondibile nei suoi capelli bianchi, Coriolanus Snow.



Il vicolo era avvolto da un silenzio innaturale. Quando Dan saltò giù dall’ultimo piolo della scala, l’impatto con l’asfalto gli parve risuonare come una cannonata.
«Di là, poi a destra» disse Clove, indicando la fine del vicolo. «La piazza è a quattrocento metri.»
«Come fai a saperlo?»
«Ho fatto i compiti a casa» rispose lei. «E li hanno fatti anche i miei compari, quindi tieni la testa bassa e s—»
Un grido, poi un rumore di vetri rotti. In una cascata di schegge opalescenti, una donna con un lungo vestito giallo si schiantò al suolo. Dal petto le spuntava l’asta leggera di un giavellotto.
Dan sollevò lo sguardo. Dalla finestra del terzo piano del palazzo di fronte a quello da cui erano usciti, due Tributi li guardavano con i loro occhi pallidi.
Uno dei due tese l’arco. Dan sollevò il fucile e gli sparò.
«Via!» gridò Clove.
Corsero verso l’imboccatura del vicolo. Tre tributi comparvero a sbarrare loro la strada. I coltelli da lancio di Clove sibilarono, piantandosi nelle fronti di due di loro; il ginocchio del terzo venne fatto saltare dalla doppietta di Dan.
Usciti sulla strada, i due ebbero giusto il tempo di vedere un enorme cratere pieno di acqua piovana e liquami di fognatura che una bomba aveva aperto in mezzo alla via; si tuffarono dietro una macchina rovesciata, mentre due frecce sibilavano lì dove avrebbero dovuto esserci le loro teste, scattarono dentro il rimorchio di un camion, entrando dai portelloni divelti e uscendo da uno squarcio aperto da un’esplosione, e si lanciarono dentro un negozio, saltando oltre il bancone e usandolo come riparo.
«A che punto siamo?» chiese Dan, ricaricando la doppietta.
«Avremo fatto una ventina di metri, più o meno» rispose Clove.
«Beh» rispose lui, mentre una freccia staccava un pezzo d’intonaco dal muro oltre il bancone, «è un inizio.»
«Forse ora sarebbe il caso di espormi la prossima fase del tuo piano, Dan» disse lei. «Ma ho come l’impressione che tu non ne abbia uno.»
Lui sbuffò con aria di superiorità. «Certo che ce l’ho.»
«Illuminami, allora.»
«Sta’ a vedere.» Dan si levò in piedi di scatto. Dall’altra parte del bancone, un Tributo emise un verso gutturale filtrato dalla maschera respiratoria e sollevò l’ascia; lui alzò la doppietta e gli fece saltare la faccia, poi spostò la canna e spedì il secondo proiettile contro un’arciera sulla soglia del negozio. «Ecco, più o meno così.»
Clove si appoggiò al bancone e si tirò su con un lamento esasperato. «Giusto adesso dovevi diventare cretino.»
I bossoli vuoti della doppietta tintinnarono rimbalzando sul pavimento lurido. «Ti svelerò un segreto» disse lui, rimettendo in posizione la canna della doppietta con uno scatto. «Lo sono sempre stato.» Poi si lanciò fuori da una vetrina in frantumi e riprese a correre.
«Aspetta!» gridò lei, gettandosi all’inseguimento. «Sei troppo—»
Un Tributo dai capelli rossi e corti si tuffò su Dan, gettandolo a terra e facendogli saltare il fucile dalle mani. Clove gli tirò un coltello al polso destro, costringendolo ad aprire la mano armata di spada; Dan la raccolse e gliela infilò nel collo.
«Che cazzo credi di fare?» gridò Clove, tirandolo su in malo modo. «Qui siamo esposti!»
Dan guardò oltre le spalle di lei. «Onestamente, non credo faccia poi molta differenza.»
Si trovavano al limite di un incrocio. La strada che correva verso la piazza, che si trovava alla loro destra, era sgombra; ma tutto il resto, in qualunque direzione guardassero, pullulava di giubbe viola.
Clove estrasse la spada dal collo del Tributo; Dan riprese il fucile. Schiena contro schiena, si prepararono all’ultimo atto.
«Se corriamo forse ce la facciamo» disse Dan.
«Non credo» rispose Clove. «Ma vale la pena tentare.»
Dan prese un respiro profondo. «Al mio tre. Uno… due…»
Clove tese i muscoli, pronta a scattare. Individuò un primo spazio tra un Tributo piccolo con una lancia e un altro esile con due pugnali. Non ce l’avrebbero fatta, questo lo sapeva: le maglie viola del grottesco sciame di Rorke si chiudevano sempre di più. Ma era armata, era pronta e non era sola.
In fondo, ci sono lati peggiori in cui stare.
I Tributi davanti a lei mossero la testa. Per un momento pensò di esserselo immaginato, tanto era stato uno scatto rapido e infinitesimo; ma dopo qualche secondo si rese conto che stavano tutti fissando qualcosa alle sue spalle.
«Clove?» gli disse Dan. «Li vedi anche tu?»
Lei si voltò. Più avanti, ad una cinquantina di metri di distanza, i detriti di un palazzo franato sulla strada avevano creato una collinetta di travi spezzate e cemento triturato. In cima, stagliato contro il grigiore dei palazzi e del cielo, c’era uno squadrone di cavalieri neri.
Lontano come il riflesso del sole su una moneta, lampeggiò l’acciaio di una spada.
«Morte!» gridò una voce stridula ma possente.
«Morte!» risposero tutte le altre.
Un urlo di gloria e pazzia scese giù rotolando dalla china, seguito dalla schiera buia come la notte lanciata a tutta velocità. Qualche cavallo inciampò tra i detriti, spendendo il proprio cavaliere a schiantarsi tra la polvere, ma la maggior parte riuscirono a scendere giù in strada e a lanciarsi contro i Tributi, falciandoli come fossero spighe di grano e affondando le lame ricurve delle loro sciabole nelle loro carni grigie.
Clove osservò attonita una ragazza larga due volte lei in sella a uno stallone gigantesco venirle contro con la forza di un treno impazzito. Un Tributo che ebbe la sfortuna di trovarsi in mezzo alla sua cavalcata venne sbattuto a terra e calpestato dagli enormi zoccoli della bestia; la calotta cranica di un altro roteò in aria, tagliata via dal resto della testa come il tappo di uno champagne. Clove vide gli occhi spalancati della ragazza luccicare dietro la maschera a foggia di teschio; poi gli alamari scintillanti della sua divisa scoppiarono in una nebbia scarlatta, mentre lo sparo del fucile di Dan si perdeva nel caos dello scontro.
«Clove! Andiamo!»
Lei non se lo fece ripetere due volte. Tallonando Dan, si lanciò in una corsa a ostacoli in mezzo a lance, spade, cavalli, muggiti e grida di dolore. Infilò la spada nel petto di un Tributo, lanciò un coltello sul cuore di un cavaliere, afferrò al volo il revolver che aveva lasciato cadere e usò i quattro colpi rimasti nel tamburo per abbattere altrettante giubbe viola. Si girò appena in tempo per vedere Dan sollevare la doppietta per intercettare il fendente di una sciabola: la lama affondò nel metallo e tranciò la canna del fucile con uno schiocco.
«Morituri te salutant!» strillò il tipo, preparando l’affondo.
Il giavellotto lanciato da Clove spaccò la maschera, trapassò il suo zigomo sinistro e lo proiettò via dalla sella.
«Altrettanto» rispose lei.
Dan le lanciò uno sguardo che era di panico e sollievo insieme; poi afferrò le redini del cavallo rimasto senza padrone e con un guizzo rapido delle reni ci montò sopra. «Sali!» le disse, tendendole la mano.
Lei si arrampicò sulla schiena del destriero e si strinse alla sua schiena. «Sai come farlo muovere?»
«Stupido mandriano, ricordi?» le rispose lui. «Tieniti forte!» E con uno schiocco di redini e un colpo di talloni, lanciò il cavallo al galoppo.
L’animale partì con uno scatto talmente rapido che Clove fu quasi sul punto di perdere la presa. Lanciando grida di incoraggiamento, Dan lo spinse nella via verso la piazza, gettando a terra Tributi come fossero spaventapasseri. Un paio frecce passarono dietro di loro mentre si allontanavano dallo scontro. Gli zoccoli del cavallo divoravano l’asfalto, mentre le giubbe viola si facevano sempre più rade. Di fronte a loro, in mezzo al fumo e agli scheletri di palazzi mangiati dalla guerra, comparve un maestoso arco di pietra.
«L’entrata della piazza!» esclamò Clove. «Ci siamo!»
Qualcosa di rovente strisciò sulla sua testa, strappandole un grugnito di dolore. Lanciò un’occhiata alle sue spalle: dietro di loro, due cavalieri si erano lanciati all’inseguimento.
«Quest’affare può andare più svelto?» gridò all’orecchio di Dan.
«Non posso» rispose lui, «a questa velocità basta un sassolino e ci schiantiamo!»
Due pallottole fischiarono alla loro destra. «Se non ci ammazziamo da soli» gridò Clove, «ci penseranno loro!»
Dan spronò ancora di più il cavallo. La povera bestia lanciò un nitrito disperato, ma aumentò la velocità.
Clove si guardò ancora una volta alle spalle. I cavalieri avevano guadagnato terreno. «Ci stanno raggiungendo!»
«Ci siamo quasi!» gridò Dan. «Avanti» aggiunse a voce più bassa, in una disperata preghiera al cavallo. «Avanti, avanti, avanti….»  
Clove si accorse che il suo polpaccio destro sbatteva contro un grappolo di forme stondate. Abbassò lo sguardo e vide una bisaccia sbatacchiare sul quarto posteriore del cavallo. Staccò una mano dal corpo di Dan, si piegò verso la bisaccia e, a fatica, riuscì ad aprirla.
«Che stai facendo?» le gridò Dan, sentendo che non si teneva più del tutto a lui.
Le dita di Clove si chiusero attorno ad un oggetto liscio e ovale.
La bisaccia era piena di granate.
«Dan» gli disse, «ho appena avuto una pessima idea!»
«Cosa?»
Lei pescò due bombe a mano. «Tra poco sentirai qualche botto. Qualunque cosa accada, tieni questa bestia dritta e a tavoletta!»
La risposta di Dan si perse nel fragore del galoppo. Clove strappò con i denti le due spolette ad anello, lasciò che le levette di sicurezza saltassero via, attese quanto più possibile e poi le lanciò dietro di sé.
In quel momento, il cavallò saltò.
Sentendosi cadere all’indietro, Clove afferrò la camicia di Dan. Oltre le zampe posteriori del loro destriero, tese per superare il fossato che si apriva improvviso in mezzo alla strada, vide le due granate cadere in mezzo al fango. Proprio vicino ad un tubo spezzato, vicino al quale l’aria tremolava come se fosse estate.
Non sentì l’esplosione. Avvertì solo il muro ardente che li lanciava in avanti, la criniera del cavallo che si agitava al vento, Dan che sollevava le mani. Poi l’impatto, un lampo nero, una tempesta di martellate, sulle gambe, i gomiti, le tempie, il suo corpo che restava fermo mentre tutto il mondo scorreva sotto di lei; e alla fine non rimase che un fischio acuto e continuo, e un terribile odore di bruciato.
Aprì gli occhi. Era ancora viva.
Per l’ennesima volta in quella giornata, si alzò in piedi con un gemito.



Katniss rimase in silenzio, in attesa che fosse Snow, come sempre, a fare la prima mossa. La testa del Presidente si era girata verso sinistra, lì dove si trovava la porta secondaria dalla quale lei era entrata; ma a parte questo, non sembrava dare alcun segno di voler iniziare la conversazione. Lei attese qualche altro momento, guardinga e confusa, poi scese i gradini che attraversavano le file di sedili fino a ritrovarsi davanti al tavolo dei ministri. Ora si trovava proprio di fronte a Snow; ma dall’alto del suo scranno, lui continuava a non voler dire una parola.
«È quasi un peccato vederlo ridotto così, non trovi?»
Katniss si girò di scatto, brandendo l’asta rotta della bandiera come una sorta di lancia. Seduto su uno dei sedili in seconda fila, un uomo con la divisa nera da ufficiale della Guardia Presidenziale le rivolse un sorriso gelido.
«Ave, Katniss Everdeen. Forse ti suonerà strano detto da una persona in un simile abito, ma sono molto, molto lieto che tu sia riuscita a venire sin qui, quest’oggi.»
Katniss abbassò l’asta della bandiera. Scrutò l’uomo per qualche secondo, impassibile. «Lei è Rorke» disse alla fine.
Lui assentì con un lento cenno del capo. «Aelius Seianus. Onorato di fare la tua conoscenza.»
«Non posso dire altrettanto, temo.»
Sulla bocca di Rorke brillò un ghigno divertito. «Ah, magnifico. Sapevo che Plutarch non era stupido a puntare su di te. Come sta? È un po’ che non lo sento.»
«Il Protocollo Protheus» ribattè Katniss, gelida. «Mi è stato detto che devo deciderne l’esito.»
Rorke emise un piccolo sbuffo divertito e sollevò la mano, a mo’ di scuse. «Perdonami, hai ragione.» Si alzò in piedi, passandosi le mani sulla giacca della divisa. «Procediamo.» Uscì dalla fila di poltroncine e si avvicinò a Katniss, le mani dietro la schiena. «Dunque, per prima cosa: immagino avrai sentito che il Protocollo Protheus comporta la distruzione della nostra amata nazione così che un manipolo di prescelti possa rifondare la civiltà su basi ben più alte e nobili della precedente.»
«Conoscevo solo la prima parte» rispose lei. «E francamente, è l’unica che mi interessi.»
Lui annuì con un sorrisetto affabile. «Ti stupirà saperlo, ma anche per me è sempre stato così.» Spostò gli occhi sul Presidente Snow, che puntava su di loro uno sguardo vacuo e assente. «Il Protocollo Protheus venne ideato da Volumnia Gaul, una donna tanto geniale quanto psicopatica, come sorta di piano d’emergenza da usare in caso di una seconda ribellione dei Distretti – segno inequivocabile, a suo dire, che la forza morale di Panem era ormai decaduta oltre ogni soglia di possibile recupero. Incaricò me di porlo in atto. Cosa che ho fatto… secondo i miei termini, ovviamente.»
Nella mente di Katniss risuonarono le parole di Plutarch. Il colonnello Rorke, come me, è stato un allievo brillante e ambizioso; ma, sempre come me, non è mai riuscito a crederci fino in fondo. Lei non ha mai avuto problemi a cogliere la prima parte della similitudine; la seconda, invece, temo che fino all’ultimo sarà incapace di vederla. «E i suoi termini sarebbero…?»
«Un accordo con la Presidente Coin» replicò Rorke imperturbabile. «L’indulgenza per tutte le mie… intemperanze di gioventù, in cambio del pezzo più importante della scacchiera.» I suoi occhi verdi indugiarono su di Katniss, e per un momento lei venne trafitta dalla certezza di essere in pericolo di vita; ma poi lo sguardo di Rorke si spostò nuovamente su Snow. «Il Re è morto… viva il Re.»
Katniss cercò di mantenere un’aria impassibile. «E io cosa c’entro, in tutto questo?»
Rorke fece qualche passò avanti e si girò verso di lei. «Io e te siamo entrambi alfieri, Katniss Everdeen. Decisi e inesorabili come torri ma bizzarri ed errabondi come cavalli. Andiamo avanti per la nostra strana, ma mentre tutti procedono dritti, noi andiamo in obliquo. Gli altri ci deridono, credono di sfruttarci; e quando pensano di averci ormai capiti noi sbuchiamo dal nulla… e li mangiamo senza pietà.» La mano destra emerse da dietro la sua schiena e indicò con un gesto il tavolo di pietra nera dei ministri. «Ti offro un’occasione.»
Lei si avvicinò al lungo blocco di marmo. Sul piano freddo e levigato, in mezzo polvere e schegge di vetro, erano posati un arco e una freccia.
«I miei accordi con la Presidente prevedono che le consegni Snow» disse lui. «Ma non è stato mai specificato se vivo o morto.» Fece un paio di passi indietro e si appoggiò ai banchi della prima fila, come se volesse godersi al meglio lo spettacolo. «L’ultima scelta, Katniss Everdeen. È il mio regalo per te.»
Lei rimase di fronte al tavolo, paralizzata. Sollevò lo sguardo su Snow, poi lo riportò sull’arco e la freccia. Li prese, si allontanò di una decina di passi e si girò a fronteggiare il suo più grande nemico. «Se provassi a colpire lei» disse a Rorke, «i suoi soldati nelle gallerie superiori mi ucciderebbero prima che io possa fare solo una mossa, immagino.»
«Oh, sono bravi» rispose lui, affabile, «ma non così tanto. Moriresti, questo sì; ma avresti tutto il tempo di colpirmi.»
Lei non rispose. Portò l’impennaggio della freccia allo zigomo, sollevò l’arco e sparò la freccia fuori dalla cupola. «Mi dispiace» disse a Rorke, «ma da qualche tempo il mio bersaglio preferito è il cielo.»
Lui le sorrise. «Molto bene» disse, staccandosi dal banco su cui si era appoggiato. «Se non c’è altro, direi che possiamo andare. È tempo di concludere questa faccenda che i più chiamano guerra, non trovi?»



La piazza era lunga e grigia, le file di loculi che si alzavano lungo tutto il perimetro come gradinate di un lugubre stadio. Le due figure che avanzavano in mezzo ad essa erano quasi dei puntini, perse nel mare color cemento di quella solenne e ostile magnificenza.
Clove si camminava a fatica, le dita strette sul colletto della camicia di Dan e l’intero corpo che pulsava per la fatica, le ferite e le scottature lasciate dall’esplosione. L’aveva trovato ancora in sella, la gamba destra rotta sotto il peso del cavallo riverso a terra. Nell’atto di liberarlo dal corpo della bestia, gli aveva strappato un grido di dolore; da quel momento, lui riemergeva e sprofondava nell’incoscienza a intervalli  irregolari, trascinato sull’asfalto come un sacco interte di carne e stoffa lurida.
«Rose…» mormorò.
«Tranquillo» le rispose lei a denti stretti, la mascella serrata per lo sforzo. «Ci siamo. Ci siamo quasi.»
Non aveva idea del perché gli stesse dicendo quelle parole. Fin dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su Piazza dei Martiri, aveva capito che non ci sarebbe stata alcuna antenna o nodo di controllo da far saltare in aria. La corsa fatta per arrivare fin lì non aveva avuto alcun senso; eppure, lei continuava ad andare avanti.
Al centro della piazza si ergeva una colonna di marmo alta quasi quaranta metri. Su di essa, ad ogni edizione degli Hunger Games, venivano scolpiti i nomi di chi non era sopravvissuto all’arena. Clove si era sempre chiesta cosa sarebbe successo una volta che non ci fosse stato più spazio su cui scrivere. Non le sarebbe mai potuto passare per la testa che a finire prima sarebbero stati i nomi.
«Ci siamo» continuò a dire a Dan, quasi fosse una preghiera. «Ci siamo, tranquillo, ci siamo…»
Raggiunse la colonna, tirò su Dan, salì i tre gradoni del piedistallo e lo appoggiò alla base squadrata. Il vento accarezzava l’asfalto crepato e divelto della piazza, le tombe dei Tributi spalancate, vuote e buie come le orbite di una distesa di teschi. Il sole era tiepido; in mezzo ai fumi della battaglia, si riusciva quasi a distinguere l’azzurro del cielo.
«Clove?» mormorò Dan.
Lei si inginocchiò al suo fianco. «Sono qui.»
«Ce… ce l’abbiamo fatta?»
Lei deglutì. La sua gola sembrava piena di scheggie di vetro. «Certo» gli disse. «Ce l’hai fatta, Dan. Li hai salvati.»
Lui chiuse gli occhi. Sulle sue labbra aleggiò lo spettro di un sorriso. «Non è vero. Ma grazie… lo stesso…  di averlo detto.»
Lei rimase immobile, come se non avesse idea di cosa fare. Gli prese la sinistra con entrambe le mani, gliela strinse forte e poi si alzò in piedi. «Torno subito» gli disse. «Vado a vedere se sul cavallo è—»
Non ci fu tempo di fare nulla. Un piccolo tonfo liquido, uno schiocco sordo. Dan spalancò gli occhi, la bocca dischiusa in una sorta di compunta sorpresa, mentre il proiettile attraversava il suo petto e si andava a conficcare nel marmo della colonna.
Niente.
La mente di Clove non registrava più nulla. Nè il fragore dello sparo, né il terzetto di figure che si avvicinava a lei, ne’ il sangue caldo di Dan che si allargava a inzuppargli la camicia.
Niente.
«Ottimo lavoro, Clove. Rorke sarà molto felice.»
Niente.
Le parole del Nero le giunsero alle orecchie come un ronzio ovattato. Non aveva senso ascoltarlo. Non aveva senso ascoltare nulla.
«Maledetto, piccolo bastardo» ringhiò il Bianco. Sollevò il fucile e sparò altri due colpi nel petto di Dan. «Per essere un maledetto bovaro, è stata una brutta gatta da pelare.»
Niente.
Clove era lì, ancora una volta in piedi, ancora una volta viva, ad osservare la terra bere avidamente il sangue di qualcuno. E come era già successo, la sua mente la portò lontano.
Chi corre per vincere non si ferma a guardare gli altri.
Aveva vinto. Ancora una volta, a dispetto di tutto e di tutti. Aveva corso, sempre da sola, sempre per prima. Perché fermarsi voleva dire perdere. Voleva dire un povero illuso la cui innocenza viene ricambiata con un proiettile in testa, un disgraziato figlio della vittoria che per due volte si ribella, e per due volte muore; e uno stupido mandriano che cavalca verso i propri rimorsi, abbattuto come un cane senza essere riuscito a salvare nessuno.
Ora erano cenere, corpi morti, memoria.
Lei, invece, no.
«Clove?»
Il Bianco si era avvicinato. Un’espressione interrogativa aleggiava sul suo volto. «Hai sentito il capo? Dobbiamo muoverci.»
Lei sollevò gli occhi su di lui.
«Clove…?»
Il Bianco aveva sempre avuto quel qualcosa in più, a differenza di combattenti più abili come Ares o Artemisia. Il Bianco era umile. Sapeva quando qualcosa non girava per il verso giusto ed era tempo di lasciare l’orgoglio a terra per darsela a gambe e sopravvivere; e fu proprio quell’istinto che gli gridò di scappare, quando il suo sguardo incrociò quello di Clove.
Si mosse, ma non fu abbastanza veloce. Il coltello da lanciò lo centrò dritto dell’occhio destro.
Per una frazione di secondo, Cicero e Callissa non furono in grado di realizzare quello che era accaduto; solo quando il loro compagno di squadra cadde a terra urlando, lasciando dietro di se’ una scia di sangue e umor vitreo, si permisero il lusso di sollevare le armi.
I pugnali, però, erano già in viaggio.
La lega di acciaio temperato e diamante penetrò nella trachea di Callissa e uscì dalla nuca con un sussurro. La ragazza strabuzzò gli occhi, lasciò cadere l’arco e si portò le mani alla gola.
«C-ch-ch…»
Il Nero era in ginocchio, il piccolo manico del coltello che sbucava dalla fronte. L’unico occhio che gli era rimasto roteava come una giostra fuori controllo, mentre la gola sussultava alla ricerca di un nome ormai quasi impossibile da pronunciare.
Clove non aveva parole per il suo caposquadra. Gli prese la pistola dalla fondina, gliela premette sul petto, lo tenne fermo per il bordo superiore della corazza e tirò il grilletto una, due, tre volte. Poi osservò la vita scorrere via dal suo vecchio caposquadra e lo lasciò cadere a terra.
«…Clove…»
Un rantolo, roco e strozzato, le accarezzò la spalla.
Dan.
Gettò la pistola. In un attimo era accanto a lui. «Dan…»
«Ehi… là..»
Dan era bianco come uno spettro. La camicia era scura e zuppa per il mare di sangue che abbandonava il suo corpo; ma i suoi occhi erano vivi. Si staccarono da lei, a indicare il corpo del Bianco. «Niente… male.»
«Dan…»
«Sì, è il… mio nom…e.» Dan scoprì i denti in un sorriso insanguinato e cercò di ridere, ma riuscì solo a sputare un grumo pastoso di sangue e saliva. «Clove… ce… l’hai fat-ta…»
Clove sentì le sue labbra raggrinzirsi in quello che tentò con tutte le sue forze di far passare per la sua classica smorfia di sfida. «Certo che ce l’ho fatta. Sono la migliore, io.»
Prima che potesse rendersene conto, la mano di Dan si strinse alla sua. Un tocco delicato, gentile, buono. Un gesto che presupponeva una quotidianità e di una tranquillità che un dio beffardo e sanguinario aveva loro negato ancora prima che le loro strade si fossero incrociate.
Fu quel gesto, così semplice, così stupidamente normale, a fare breccia in una fortezza che aveva resistito a qualunque cosa gli si fosse scagliata contro.
Fu quel gesto che le permise finalmente di piangere.
Non se ne rese conto finché non vede una sua lacrima cadere sulla camicia di Dan.
«Oh, que-sta è bel…la» il sorriso di Dan si allargò ancora di più. «Ora che le ho davvero… viste tutte, direi che posso anche… andare.»
«No.» Clove strinse la mano di Dan, come se gli stesse impedendo di scappare via. «Tu non vai da nessuna parte. Non. Ti. Azzardare.» Le lacrime ormai fluivano senza controllo. Una pioggia, pura e salvifica, cadeva sul collo e sul viso di Dan. «Noi… io – ti porto via di qui. Ce ne andremo… ce ne andremo – in un… esisterà un maledetto posto dove – dove vivere in pace…»
«Sì.» Le iridi castane la fissarono, cercando di trasmettere un intero futuro in un unico sguardo. «Ma non per me e per te.»



Il sole era alto nel cielo quando Rorke consegnò il presidente Snow dritto nelle mani di Katniss Everdeen. Rimasto solo in un bunker affollato di cadaveri, il generale Lorn, capo di stato maggiore delle Forze Armate di Panem, aveva appena ordinato a tutte le truppe rimaste a difendere la capitale di abbassare le armi e arrendersi.
Due minuti dopo la fine della guerra, il cuore di Danyl Martin smise di battere.
E Clove seppe di aver vinto i Settantaseiesimi Hunger Games.
















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Madò. Madò.

Se siete arrivati fino qui in fondo: complimenti, davvero. Questo capitolo è un mostro, una bestia enorme con un sacco di roba dentro; ma non potevo spezzarlo in una o più parti. Perché avendo lo stesso titolo di questa fanfy è come se rappresentasse il nucleo, una sorta di miniatura, di questa sballatissima storia; e perché è l'ultima cavalcata dei nostri eroi verso la fine... di tutto? Della guerra, sicuramente: ma la nostra storia ancora non è finita. Restano da chiudere un paio di cose; e poi, verrà il momento dei saluti.

Una parte di me ancora non riesce a credere di essere arrivato fino a questo punto. La scena della piazza, insieme a quella di Dan e Artemisia, era lì nel mio computer che attendeva da almeno quattro anni, più o meno: essere riuscito a pubblicarla, a prescindere dal tutto, è una cosa che devo dire mi soddisfa assai.

La partita per il destino di Panem sembra essere terminata, dunque: ma come Rorke non sa – perché purtroppo per lui non ha letto Asimov – è che nella vita, a differenza degli scacchi, la partita continua anche dopo lo scacco matto...

Ancora una volta, grazie grazie grazie per essere giunti fin qui. Un passo alla volta, trascinandoci dietro poveri disperati con le gambe rotte, siamo quasi arrivati alla fine. Ci siamo, gente. A casa ci accoglieranno da eroi.

Tante care cose, come sempre, e alla prossima!

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Capitolo 25
*** Epilogo ***


 

25.
Epilogo

Hey, is there a place for us?
Where flames flicker and wave for us


And we can see the future
and the dreams it’s made of


Hey, is there a place
A place for us?

 

– Mikky Ekko, Place For Us

 

 

Un nastro verde. Se lo rigirava tra le mani, come se nascosto da qualche parte tra le pieghe di quella striscia di tessuto ci potesse essere il senso di tutto quello che le era accaduto fin lì.

La gonna del vestito, mossa dal vento leggero, le sfiorava i polpacci. Era tanto che non la vedeva indossare un abito come quello. Semplice. Normale. Quello che avrebbe dovuto sempre essere, ma non era mai stata. E forse non sarà mai.

Al suo fianco, curvo sul proprio bastone, Peeta fece un mite sorriso.

«Verrete a trovarci, spero.»

«Ovvio» disse Johanna. «Anche se devo ancora capire cosa ci trovate di bello, laggiù in culo al mondo.»

«Immagino – ma è solo un ipotesi, eh» disse Gale, «immagino che sia proprio il fatto che è in culo al mondo, che gli piaccia.»

Johanna fece spallucce. «Contenti voi.»

Gli occhi di Peeta si assottigliarono in un’espressione di affetto, poi un tic gli contrasse la bocca in una smorfia che pareva di disgusto. Gale guardò il suo bastone, a cui si appoggiava nonostante avesse alcun problema alle gambe, e il nastro di Katniss che ancora si rigirava tra le mani.

«Posso abbracciarvi?»

Katniss sollevò gli occhi dal nastro e aggrottò le sopracciglia in una strana sorta di garbata, quasi infantile perplessità.

«Certo» disse. «Ma piano.»

Gale li sfiorò appena. Sentì la clavicola di Katniss sotto il vestito, il calore del sole sulla schiena ampia di Peeta. 

«Non so se qualcuno di noi riuscirà mai a stare bene» disse loro. «Ma se c’è qualcuno che se lo merita, quelli siete voi.»

Katniss si staccò da lui. Nei suoi occhi, Gale vide il fuoco che l’aveva condotta fino a lì. 

«Non merito niente più di chiunque altro» disse. «E spero davvero che continuerà a essere così.» 

Il trillo del fischietto del capotreno attraversò la banchina assolata.

«Andate, forza» disse Johanna, «o vi tocca rimanere qui con noi.»

Peeta offrì il braccio a Katniss. Lei lo prese e gli mise il nastro verde nel taschino della giacca.

«Fate buon viaggio» disse Gale. 

«E crepi la fortuna, col cui favore possiamo a malapena pulirci il culo» disse Johanna.

«Sempre» disse Peeta.

Katniss sbuffò dal naso, chiuse gli occhi, sorrise appena e annuì.

Nessuno aggiunse altro. I due Amanti Sventurati salirono sul treno e partirono. Niente fanfare, niente trionfi, niente sfilate. Forse fu quello, più di qualunque altra cosa, che fece capire a Gale che la guerra era davvero finita.

Un piccione zampettò davanti a loro, scese giù tra le traversine e prese a beccare qualcosa.

«Notevole» disse Gale.

«Cosa?»

«Crepi la fortuna, con cui ci possiamo pulire il culo

«Cosa? Qual è il problema?»

«Ah, nessuno.»

«Ecco.»

«Una perfetta frase di commiato.»

«E comunque era a malapena

«Eh?»

«Con cui a malapena possiamo pulirci il culo.»

«Giusto. Scusami, se puoi.»

«Posso, posso.» Johanna sospirò. «Bene, i due piccioncini hanno ufficialmente preso il volo. Ora che ne sarà di noi?»

«Non so te, ma io avrei una certa voglia di fare colazione.»

«Colazione, eh? Mi piace il concetto. Conosco giusto un posto qui vicino… se non è saltato per aria.»

«Direi che vare la pena tentare.» Gale accennò all’uscita dal binario. «Guidami, allora.»

Lei lo prese per mano.  

«Come sempre, Gale Hawthorne» gli disse. «Come sempre.»

Uscirono dalla banchina. C’era un bel venticello.

Da qualche parte, un uccellino lanciò il suo richiamo.

 

 

Dopo aver riletto per tre volte la stessa frase, Conrad si rese conto che forse era giunta l’ora di andare a dormire. Posò il libro a terra – per i comodini ci sarebbe voluto ancora un po’ – e fece per spegnere la luce, quando si rese conto che affacciato alla porta della stanza c’era qualcuno.

Sobbalzò, preso alla sprovvista.

«Scusa» disse Dana.

«Tranquilla…»

«Mi dispiace.»

«Figurati.» Conrad fece un piccolo sospirò di sollievo. «Che succede?»

«Io… no, niente. Scusa.»

La testa bionda sparì dalla porta.

«No, Dana – aspetta…»

Le molle del letto cigolarono.

«Che succede?» borbottò Ayla.

«Dana. È sveglia.»

Ayla si tirò su a sedere.

«Dana?» chiamò.

«Sì?» rispose la sua voce, dal corridoio.

«Non riesci a dormire?»

Dana riemerse dallo stipite.

«No. Ma non è un problema. Mi faccio una tisana.»

«Dana» disse Conrad.

 «Scusatemi ancora, tornate a dormire.»

«Non preoccuparti, lo faremo. Solo una cosa, poi ti lascio andare a prendere la tisana.»

«Ok.»

«Se hai incubi e… insomma, la stanza o la solitudine ti fa paura…» Poggiò la mano sullo spazio di letto tra lui e Ayla. 

Lei guardò la mano, poi risalì fino ai suoi occhi. «Non sono una bambina.»

«Lo so. E noi non siamo i tuoi genitori. È per… ci facciamo la guardia a vicenda.» Girò la testa verso Ayla. «Giusto?»

Lei lo guardò con affetto e annuì. «Certo.»

«La guardia» disse Dana. «Ok.»

Salì sul letto e si infilò sotto le coperte. Aveva i piedi gelati e i capelli che sapevano di lavanda.

Conrad spense la luce. 

Dopo poco, dormivano tutti e tre.

 

 

Virgil calciò un sasso. La pietra rimbalzò un paio di volte e si fermò davanti a un cancello di ferro scuro. Dietro si intravedeva una corte, una fontana, una statua.

«Chissà chi ci abita.»

«Un tizio» disse Maia. «Uno importante. Era nell’esercito. Tipo.»

«Quale, il nostro?»

Maia gli tirò uno scappellotto.

«Ahia!»

«Non si dice più nostro, cretino. Guarda che ti fucilano.»

«Scusa.»

«Ecco. Che non è che mi vada che ti sparino, eh.»

«Chi te l’ha detto?»

«Cosa?»

«Chi abita qui.»

«Nessa.»

«L’amica della zia? Ma quella puzza.»

Maia gli tirò un altro scappellotto.

«Ahia!»

«Si pensa ma non si dice.»

«Ti dico io cosa—»

«Comunque, la cosa è che la sua domestica lavora anche da lui. Dice che la casa è grande e vuota e lui è sempre solo. Sta tutto il giorno a giocare a scacchi, e guarda fuori dalla finestra.»

«Ah.»

«Già.»

«Ma scusa… se è solo, come gioca a scacchi?»

«Ah boh. Mi sa con se stesso?»

«Si può?»

«Ah boh.»

«Mi sembra una cosa piuttosto triste.»

«Sì, anche a me.»

I due fratelli rimasero qualche momento a osservare la grande casa elegante; poi la vita li richiamò indietro, ripresero la strada di casa e l’uomo triste e solo sparì dai loro pensieri.

 

 

Bussò. Attese.

Alla porta comparve una signora.

«Posso aiutarla?»

Deglutì. Pensò di andare via. D’altronde, che senso aveva?

«Salve.» Si schiarì la gola. «Salve. Mi chiamo Penelope O’Brian. Sono una… ero… conoscevo vostro figlio. Lee.»

«Oh.»

Penny avvertì un prurito fortissimo all’avambraccio. Mosse la mano per grattarsi, ma le dita incontrarono solo aria. Le avevano detto che sarebbe successo. Sindrome dell’arto fantasma. Prima o poi, forse ci avrebbe fatto l’abitudine.

«Ero con lui quando… noi… non so se vi hanno…»

«Sì» disse la donna. «Sì, ci hanno… una lettera.»

«Ecco, io – io ci tenevo a dirvi…» Deglutì. «Vi hanno detto com’è morto. Io vorrei dirvi com’è vissuto.»

La donna rimase in silenzio. Una busta di plastica strusciò sulla strada terrosa. Un suono remoto di campanacci giunse portato dal vento.

«Penelope, giusto?»

«Sì.»

«Stavamo per metterci a tavola. Ma posto in più ce n’è. Che dici, vieni dentro?»

«Ah. Io… è sicura?»

«Sicura.»

Penelope guardò la strada. Era morto, andato, perduto. Che senso aveva?

«D’accordo. Se per voi non è… certo. Con piacere.»

Tutto.

 

 

Una lacrima.

Fu l’ultima cosa che sentì.

Prima venne il buio e il silenzio. Per quanto, non seppe dirlo. Ma era piacevole.

Forse un po’ troppo.

Dopo vennero le voci. Prima sussurri spezzati e inconcludenti, poi parole sconnesse, infine frasi compiute.

«Abbiamo rischiato di perderlo parecchie volte, ma ora è stabile.»

Stabile.

Parlavano di lui? No, non era possibile. Lui era morto. Ricordava i tre proiettili che gli avevano trapassato il petto. Il resto, però era oscurato. Come se una fitta nebbia fosse caduta sui suoi ricordi. Non riusciva a ricordare di chi fossero le lacrime che l’avevano toccato. Era una tipa minuta, questo sì. Ma la sua faccia era sfocata.

Come ti chiami?

Cercò di far riaffiorare quel nome dalla palude stagnante che era diventata la sua mente.

Rose?

No, quel nome era importante – fondamentale, anzi – ma non era quello giusto.

Clove.

E finalmente venne la luce.

 

 

Non ci fu alcuna esplosione di sentimenti quando lo vide muoversi. Nessuna sensazione intollerabile, nessuna grande energia vitale che rifluiva nelle vene, nelle ossa, nel cuore e nell’anima.

Una strana calma si era impossessata di lei. Non aveva mosso un dito quando l’hovercraft era atterrato nella piazza, né quando i soldati li avevano trascinati via; non aveva chiesto a Plutarch Heavensbee con fare beffardo cosa avrebbe voluto in cambio di quello che lui sosteneva essere nient’altro che un regalo; non aveva neanche pensato a come uccidere Rorke. Tutto le sembrava lontano, tutto le sembrava vuoto. Ma un vuoto strano. Uno di quelli che, forse, chiedeva di essere riempito con calma, nel tempo, piano.

Aveva ucciso, era morta, aveva ucciso di nuovo.

Ma adesso, forse, era libera.

Ora non avrebbe dimenticato.

Ora non sapeva più, ma forse cominciava a capire.

 

Danyl Martin.

 

Posso vivere con Danyl Martin.











L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Ho iniziato questa storia nel febbraio del 2014. Oggi, dieci anni e qualche giorno dopo, arriva la parola fine.
In dieci anni ne cambiano di cose: come si scrive, quello che si scrive, quello che si pensa, l'angolazione con cui si pensa quello che si pensa. Il me di dieci anni fa stava in fissa con il grimdark e sognava che Clove entrasse nella villa di Rorke e uccidesse lui e le sue guardie del corpo in un frullatone sovraesposto di Kick Ass e V per Vendetta; il me di adesso pensa che beh, figo è figo, ma forse non è poi così necessario. Forse sti poveri cristi hanno già combattuto abbastanza, ed è giusto che li si lasci andare per la loro strada.
Hunger Games è stata la mia fissa Young Adult: ancora oggi, non so esattamente cosa mi attraesse (e mi attrae ancora) di questa saga. Ma le voglio ancora bene, e sono molto contento che la cara Susanna, al contrario di certune altre personalità, se ne stia tranquilla e non scriva stronzate su Mojo Dojo Casa House (pardon, X – pardon, twitter). Così come sono felice, davvero felice, di aver portato questa storia a compimento. Chi seguiva dall'inizio probabilmente adesso sarà da qualche parte a fare il 730 e altre cose sensate da bravi adulti; a voi, o prodi, posso solo dire che mi dispiace tanto averci messo tutto questo tempo a finire quella, che, in effetti, non è altro che una sciroccata fanfiction. Ma è per voi che l'ho finita: vi meritavate almeno questo. Per chi altri è giunto qui per qualsivoglia strano accidente del caso: felicissimo di vedervi qui, spero che questo ottovolante di pallottole pugnali cannoni adolescenti e piani che non sono piani che sono partite di scacchi 5d senza alcun capo né coda vi abbia intrattenuto – per non dire piaciuto. È stato un onore scendere dai mezzi da sbarco con voi, e seguire Clove Senza Madre e Dan Senza Gloria mentre sbattono il muso contro il muro della vendetta e cercano di capire se c'è qualcosa dietro. Saranno due disgraziati non proprio mentalmente stabili, ma li porterò sempre nel cuore.
Bene, direi che tutto quello che era da dirsi è stato detto. È il 2024, ho trentadue anni e sono ancora qui su efp. Come si suol dire, ho anche dei difetti.


Vi direi buona fortuna, ma la penso come Johanna; quindi solo: tanti cari saluti, tante – tante – care cose, e alla prossima storia (qui o da qualche altra parte)!

Il vostro cavaliere fittizio, 
Ser Balzo 

 

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