Dove non possono ferirci

di Gaia Bessie
(/viewuser.php?uid=141599)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0: Il regno del fanciullo ***
Capitolo 2: *** 1: Questa vita tutta rotta ***
Capitolo 3: *** 2: Due vite per aspettarti ***
Capitolo 4: *** 3: Dove non possono ferirci ***
Capitolo 5: *** Epilogo: La promessa ***



Capitolo 1
*** 0: Il regno del fanciullo ***


«Potrebbe farmi tornare indietro ancora una volta?»
 
 
Dove non possono ferirci
0. Il regno del fanciullo
 

 
«Luke è venuto a trovarmi a San Francisco (…). Era venuto a parlare. Disse che gli servivano solo cinque minuti. Sembrava terrorizzato, Percy. Mi confessò che Crono aveva intenzione di usarlo per impadronirsi del mondo. E che voleva scappare, come ai vecchi tempi. Voleva che andassi con lui».
(Annabeth a Percy, Lo scontro finale)
 
αι̉ὼν ε̉στι παίζων πεσσεύων˙ παιδὸς η̉ βασιληίη.
Il tempo (Aion) è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo.
(Eraclito)
 
 
È un giorno di un anno, e nulla di più. Quando ti guardi allo specchio e scopri che, nonostante sia il tuo compleanno, non sei cambiata: hai ancora un’ombra che ti scava il volto, e non hai dimenticato. Che, nel bagliore aranciato delle candeline, sei sempre tu, nel tramonto morente che segna la fine di una giornata vedi sempre le medesime cose.
È un giorno di una vita in cui, all’alba del tuo diciottesimo compleanno, puoi chiedere a tua madre tutto quello che desideri. Ed è anche il momento, forse l’unico da quando sei nata, in cui puoi finalmente concederti di essere egoista.
In cui puoi concederti di ignorare lo sguardo sgomentato di Percy, quello tristemente sommesso di Chirone, e quello consapevole di tua madre. Degli Dei, solamente Ermes sembrava essere illuminato da una tiepida scintilla di felicità, Atena era seria e concentrata mentre valutava la richiesta della sua giovane figlia.
«Dobbiamo metterla ai voti, Annabeth» osservò, infine, con cautela. «La tua richiesta… è rischiosa, potrebbe distruggere l’equilibrio che conosciamo attualmente».
«Mi ridarebbe mio figlio, Atena» il tono di voce di Ermes ne tradiva l’impazienza. «Penso sia sufficiente per convincervi: date alla ragazza la possibilità di riportarlo indietro».
«Mio figlio ha combattuto proprio per evitare tutto questo» intervenne Poseidone, gli occhi che lampeggiavano ira. «Non permetterò che sia tutto gettato via, per i desideri di una ragazzina».
«Pace, Poseidone» lo interruppe Zeus, con voce tonante. «Come ha suggerito Atena, mettiamola ai voti. Chi è a favore?».
Il re degli Dei si guardò attorno, osservando le mani alzate di Afrodite, Ares, Dioniso, Ermes ed Efesto. Stava per dichiarare che la proposta era stata bocciata dal consiglio quando, inaspettatamente, anche la Divina Atena alzò la mano.
 
***
 
Il tempo altro non era che un bambino che giocava a tirare i dadi, su una scacchiera usurata e crepata: sembrava quasi che mormorassero, le caselle, come se le bianche e le nere si dovessero raccontare un segreto antico quanto il mondo. Aion sedeva paziente, l’espressione che tradiva una saggezza che calzava come inadatta al suo viso ancora giovane, aveva l’aria di un filosofo intrappolato nel corpo paffuto di un bambino di sette anni.
A differenza delle altre divinità, non incuteva timore, o reverenza: i suoi occhi non apparivano come fiammeggianti, ma erano semplicemente bruni e attenti, pronti a cogliere qualsiasi aspetto del proprio interlocutore.
«Sapevo che prima o poi saresti arrivata» commentò il bambino, scuotendo i riccioli corvini. «Vieni, siediti pure» disse, indicando un cuscino di fronte a sé. «Sai giocare a backgammon?».
«Veramente no» ammise Annabeth, a disagio. «Non… non amo i giochi da tavolo».
«Perché voi Semidei siete troppo irrequieti per poter apprezzare la tranquillità di un simile gioco» osservò Aion, placidamente. «Grande invenzione, il backgammon. Abbiamo perso qualcosa, da quando è crollata la civiltà sumera…».
Il Dio bambino la guardò, quasi come si fosse appena ricordato che aveva un’interlocutrice cui doveva prestare attenzione. «Ma non è per questo che sei qui, lo so» concluse.
«Io…» borbottò Annabeth, cercando di trovare le parole. «Ho bisogno di tornare indietro, in un momento specifico».
«Oh, lo so benissimo» disse Aion, annuendo. «Tornare indietro, salvare Luke Castellan: suo padre si è premurato di informarmi».
«Devo tornare a una notte di due anni e mezzo fa» spiegò la ragazza. «Quando Luke mi chiese se... se volessi fuggire con lui».
Il Dio sorrise leggermente, facendosi spuntare sulle guance rubiconde due fossette gemelle. «Per impedire che Crono prenda il suo corpo, decretandone la morte».
«Sì» mormorò lei, chinando il capo. «Sono certa che potrei salvarlo».
«Certo che potresti» confermò Aion, meditabondo. «Ma, Annabeth, il tempo è più complicato di un “potrei”. Ci sono infiniti mondi possibili, come disse un tuo fratello qualche secolo fa, e ogni azione compiuta ti proietta in uno di questi».
«Deve essercene uno dove posso riuscire a impedire che Luke muoia» osservò Annabeth, con forza. «Uno in cui potremmo essere di nuovo…».
Una famiglia. Le parole le si bloccarono in gola, come sabbia o cocci di vetro, facendola tossire.
«Potrebbe» convenne il Dio. «Chi lo sa? Se solo potessimo vedere l’infinita catena di conseguenze derivanti da ogni singolo gesto, allora, te lo saprei dire con certezza».
«Non mi serve, una certezza» borbottò lei. «Mi serve tentare, e lo farò finché non riuscirò a salvarlo. Mi aiuterà?».
«Certo che lo farò, non ci tengo ad oppormi a una decisione dell’Olimpo» disse Aion, scrollando le spalle. «Ma devo avvisarti: quando tornerai indietro avrai ben chiaro chi sei e perché hai viaggiato nel tempo ma, andando avanti, questa certezza… si affievolirà».
«Tornerò a vivere nel passato, quindi?» domandò Annabeth, incuriosita. «Come se questo presente non fosse mai esistito?».
Il Dio bambino annuì. «Precisamente» commentò. «E, se per qualche motivo tu dovessi fallire, c’è la possibilità di ritornare a questo preciso istante».
«Un loop temporale» mormorò la ragazza, affascinata. «Se dovessi ritornare qui, potrei continuare a tentare?».
«Finché avrai voglia di provarci, io ti manderò indietro a quel preciso istante» asserì Aion. «Ma fai attenzione, Annabeth Chase: il passato, il più delle volte, è solamente una grossa delusione cui non possiamo porre rimedio».
Lei non ebbe il tempo di replicare: il Dio prese i dadi, li rigirò tra le mani paffute e, con un abile lancio, li fece atterrare sulla scacchiera con un tonfo sordo.
Distrattamente, Annabeth pensò che certamente non erano i dadi adatti per giocare a backgammon: tutte e sei le facce erano bianche.

 
Ammetto che sono sull'orlo della commozione: sono passati sette anni (non ho sbagliato a scrivere, sono proprio sette) da quando, nel 2013, pubblicai la mia prima mini-long nonché ultima Fanfiction su Percy Jackson che io abbia mai scritto. E, ammetto, se non fossi stata intrigata da una frase del contest indetto da SherylHomes sul forum di Efp, che ovviamente ringrazio per avermi permesso di fare questo tuffo nel passato, non sarei mai tornata a scrivere qualcosa su questo fandom. Ciò dipende principalmente dal fatto che i miei gusti in merito a questa saga sono molto poco convenzionali: odio Percy con tutte le mie forze e avrei preferito un epilogo diverso per Luke, che secondo me per quanto riguarda la prima saga è l'unico personaggio che ne valga davvero la pena.
Così, eccomi qui. Questa fanfiction è stata la prima, da anni a questa parte (penso proprio da quella famosa mini-long del 2013, Farfalle di carta), storia a capitoli che riesco a pubblicare e, spero anche se sono agli sgoccioli, a terminare. Vi dico subito che sarà un mini-long, composta da quattro capitoli e l'epilogo: ogni capitolo sarà strettamente collegato al precedente tramite una ripresa di alcune parti peculiari del suddetto capitolo precedente, una ripetizione che, a mio avviso, è terribilmente necessaria (alcune volte vi saranno delle modifiche, quindi fate attenzione).
L'OOC, per quanto io ultimamente abbia riscoperto i piaceri dell'IC sempre e comunque, si è rivelato a mio parere necessario e inevitabile, soprattutto nello snodo del capitolo terzo (non farò spoiler).
Segnalo inoltre la citazione che ho scelto dal contest, che sarà presente in vari punti della storia e ne costituisce anche la tematica più generale: "Se solo potessimo vedere l'infinita catena di conseguenze derivanti da ogni singolo gesto".
Per quanto riguarda Aion, invece, quel che so è una vaga reminescenza dei miei studi di filosofia: Eraclito parla di quest'entità, chiamata appunto Aion, che governa il tempo come un bambino che gioca con i dadi (il backgammon è una mia idea molto stupida). E ho pensato che fosse la divinità adatta per i miei scopi, così ho scelto di assegnarlo al tempo inteso come "in divenire" (ovvero come lo intendevano Eraclito e Aristotele) e che quindi poteva vederne tutti gli snodi possibili, i famosi mondi possibili citati nella storia e che provengono invece da un filosofo moderno, Leibniz.
Detto questo ringrazio chiunque abbia avuto il coraggio di arrivare fin qui, spero che la storia si riveli una lettura piacevole.
Ci vediamo con il primo capitolo venerdì 19 giugno, prometto di essere iper puntuale.

Gaia

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1: Questa vita tutta rotta ***


«Finché avrai voglia di provarci, io ti manderò indietro a quel preciso istante» asserì Aion. «Ma fai attenzione, Annabeth Chase: il passato, il più delle volte, è solamente una grossa delusione cui non possiamo porre rimedio».
Lei non ebbe il tempo di replicare: il Dio prese i dadi, li rigirò tra le mani paffute e, con un abile lancio, li fece atterrare sulla scacchiera con un tonfo sordo.
Distrattamente, Annabeth pensò che certamente non erano i dadi adatti per giocare a backgammon: tutte e sei le facce erano bianche.
 
 
1. Questa vita tutta rotta


People always say
Life is full of choices
No one ever mentions fear!
Or how the world can seem so vast
On a journey ... to the past
(…)
Home, Love, Family.
There was once a time
I must have had them, too.
Home, Love, Family,
I will never be complete
Until I find you
(Anastasia, Journey to the past)
 
Non importa quanto lunga sia la strada
I finestrini aperti e le risate nella notte
Mi basteranno per tornare ad essere più forte
Ci lasceremo indietro quello che non ci appartiene
Ho sempre rotto tutto in questa vita
Adesso voglio stare bene
(…)
Ma tanto tutto questo un giorno passerà
Comunque vadano le cose qui con te
Va tutto bene
(Giulia Molino, Va tutto bene)
 
«Annabeth, ti prego» Luke, controluce, aveva gli occhi ricolmi di lacrime. «Vieni con me. Non… per te posso lasciare tutto e fuggire, ma da solo…».
Lei lo guardò, meravigliata: aveva ancora negli occhi il sorriso del Dio bambino, Aion, mentre gettava i dadi vuoti sulla scacchiera. Quel lancio aveva generato un rumore che l’aveva assalita, come un’onda d’urto, facendola tremare.
Quando il rumore s’era esaurito, davanti a lei era comparso Luke Castellan. Era esattamente come se lo ricordava, come lo aveva sognato, per più di due anni, mentre le chiedeva di fuggire insieme. Di fregarsene della guerra, della morte, degli Dei avversi e, soprattutto, di Percy.
Avrebbe mai potuto perdonarla, Percy, se mai avesse avuto il coraggio di confessargli che, in un altro futuro che non avrebbero mai più vissuto, avrebbe quasi potuto amarlo?
Quasi. Se quel quasi non avesse avuto un nome, un cognome, e due occhi azzurri che la scrutavano in paziente attesa, pieni di aspettative.
«Luke» mormorò lei, dolcemente. «Non possiamo semplicemente fuggire, se dovessero trovarci…».
«Ci ucciderebbero» completò lui. «Ma morirei in ogni caso. Sarebbe una morte migliore, del morire solo e spaventato».
«Perché hai lasciato che le cose si spingessero così oltre?» domandò la ragazza, con una vena di astio che la sorprese. «Perché hai preferito abbandonare il Campo e… me».
«Ho sbagliato, Annabeth» mormorò Luke, con un tono che ne tradiva la stanchezza. «Ha manipolato i miei sogni. Pensavo… che avrei potuto avere la mia rivincita. E che mi avresti seguito».
«E come avrei potuto?» rispose Annabeth, dolcemente. «Ho fatto ciò che credevo fosse giusto, ma non significa che…».
Che non m’importasse di te, vorrebbe dirgli. Ho scomodato l’intero Olimpo, e il Dio minore del tempo, solamente per salvarti.
«Hai preferito giocare agli eroi con Percy Jackson» borbottò lui, scuotendo il capo. «Anche ora, stai preferendo rimanere dalla sua parte».
«Io sono dalla tua parte» replicò lei, rossa in viso. «Ma non possiamo semplicemente fuggire, Luke, cerca di essere ragionevole».
Lui la guardò, senza dire una parola, in un silenzio che se la mangiò viva: si era scavato, Luke, così tanto che gli zigomi sembravano volergli bucare la pelle, l’ennesima e inutile armatura, per poter vedere la luce. Sembrava ne avesse bisogno, di luce e calore, perché era così pallido e stanco da apparire sul punto di crollare sulle proprie ossa.
«O sei con me o sei contro di me» commentò Luke, atono. «Capirò, se non vorrai venire con me. Significherebbe che, dopotutto, ho preso un abbaglio e… i miei sentimenti non sono ricambiati».
A lei, per un attimo, mancò il respiro. Le sembrò quasi di tornare indietro, o forse avanti, nel tempo e di vedere Luke morente che le dedicava le sue ultime parole.
Si domandò, silenziosamente, se anche questa volta avrebbe avuto il coraggio di mentirgli, di dirgli che non lo aveva mai amato. Che non aveva mai creduto, nel loro amore da favola, che anzi si era sgretolato sotto la pressione dei suoi sogni di bambina.
«Io…» borbottò, imbarazzata. «Come puoi credere che io non…».
Luke la guardò, un sorriso ironico che gli sfigurava il volto come una seconda cicatrice. «Lo so» disse mestamente. «Jackson».
«No!» disse lei, con voce insolitamente acuta. «Penso che Percy potrebbe piacermi, se solo… se solamente non ci fossi tu».
E nemmeno allora, pensò distrattamente, potrei pensare a lui soltanto: ci ho provato, credimi, ma quando non c’eri percepivo comunque la tua assenza, e mi stava facendo diventare matta.
«Quindi verrai con me?» domandò Luke, la voce che tradiva un principio di sorriso. «Come i vecchi tempi?».
Annabeth sorrise, sentendo che tutto il mondo che aveva conosciuto fino a quel momento cominciava a incrinarsi inesorabilmente
 
***
 
I suoi sogni, quella notte, si popolarono di bianco: era come se ogni immagine, ogni proiezione che la sua mente ideasse, venisse automaticamente cancellata, come se il suo cervello non fosse più in grado di elaborarla. Quando si svegliò, era ancora a casa sua, a S. Francisco: pensò quasi di essersi immaginata tutto quanto, che il punto di partenza del suo strano viaggio nel tempo dovesse ancora verificarsi. Se non fosse stato per il braccio di Luke che le sfiorava la vita: evidentemente anche il ragazzo aveva avuto sogni agitati, perché si era sensibilmente avvicinato a lei, seppur rannicchiato su sé stesso.
Chissà se stava sognando Crono, Luke, chissà se avrebbe mai smesso di sognarlo: e, infine, chissà se la loro vita sarebbe stata spesa fuggendo, da Crono, prima, e dagli Olimpi, infine, quando avrebbero scoperto che erano scappati insieme. Atena, sicuramente, sarebbe rimasta delusa dal comportamento della figlia. Solamente Ermes avrebbe parlato in loro favore, ma sarebbe bastato?
«Luke» mormorò, scuotendolo leggermente. «Svegliati».
Lui aprì gli occhi a fatica, come se le energie gli fossero state prosciugate dalla conversazione avuta la sera precedente.
«Buongiorno» borbottò, insonnolito. «Che succede?».
Lei lo guardò, stupida. «Dobbiamo andare» disse, semplicemente. «Prima che qualcuno si renda conto che ieri sera non sei tornato sulla nave».
Luke subito annuì, vigile. «Hai ragione» convenne. Posò lo sguardo sul mappamondo sulla scrivania di Annabeth. «Scegli dove vuoi andare, se vivremo abbastanza potremmo perfino dover tornare due volte nello stesso tempo».
«Dove voglio andare?» domandò lei, stupita. «Possiamo veramente andare da qualunque parte?».
«Io inizierei con una meta negli Stati Uniti» rispose Luke, scrollando le spalle. «Ma saremo più al sicuro se ci allontaneremo dall’America. Non ti piacerebbe visitare l’Europa?».
Annabeth annuì, incantata. «Certo che mi piacerebbe» mormorò. «La Grecia, ad esempio…».
Lui sorrise. «Il Partenone» la anticipò. «Lo immaginavo. Ma potremmo andare anche in Italia, in Francia… se non farà troppo freddo, perfino in Russia. Dovunque vorrai».
Lei pensò che sarebbe stato fantastico, per qualche mese, forse, perfino per qualche anno. Ma quanto potevano resistere, loro due soltanto, senza una casa, dovendo scappare continuamente?
Cercò di scacciare questo pensiero: le bastava solamente che sopravvivessero entrambi, senza farsi notare né dall’esercito di Crono né dagli Dei. Silenziosamente, pregò Ermes che vegliasse sul loro eterno vagabondaggio.
«Sono contento che tu abbia deciso di venire con me» ammise Luke, chinando il capo. «Altrimenti non so che fine avrei fatto».
Annabeth sorrise, conciliante, mentre stralci di un futuro perduto le passavano davanti agli occhi e mano a mano sbiadivano, come cancellati dal rumore di due dadi interamente bianchi.
«Avrei fatto qualunque cosa pur di salvarti da lì» sussurrò, così piano che si sentì solamente lei. «Qualunque cosa».
 
***
 
«Spero che tu non soffra il freddo» commentò Luke, uscendo dalla finestra. «Non possiamo rischiare attraversando l’intero Atlantico… dovremo passare dall’Alaska alla Siberia, il tratto di mare è più breve».
Si voltò e, sebbene lei non ne avesse bisogno, le porse la mano per aiutarla a uscire da camera sua. Senza farsi vedere, aveva lasciato al padre un biglietto scritto a matita, sperando che le sue scuse fossero sufficienti. Probabilmente, non lo avrebbe visto mai più.
«Dobbiamo allontanarci il più possibile da New York» borbottò il ragazzo, cominciando a camminare. «Ci conviene seguire il confine con il Canada».
«Luke…» mormorò, così piano che si stupì del fatto che lui fosse riuscito a udirla. «Perché sei tornato indietro?».
Lui si fermò, soppesando le parole. «Ho fatto un sogno» disse, infine. «Erano mesi che non dormivo bene, invece quella notte… è stato come se finalmente gli incubi potessero lasciarmi in pace».
Luke sorrise, riprendendo a camminare. Forse sperava che lei lasciasse cadere il discorso, ma sottovalutava la necessità, che Annabeth provava, di ricevere risposte: di sentirsi dire che non aveva sbagliato, nonostante ogni evidenza contraria, a credere nell’amore delle favole. E nella stupida e ingenua convinzione che lui potesse amarla per davvero, non semplicemente come una sorella o una migliore amica.
«E questo cosa c’entra con me?» domandò, quindi. «Cosa avevi sognato?».
«Una stanza con una scacchiera e dei dadi tutti bianchi» rispose Luke, scrollando le spalle. «E c’eri tu seduta su un cuscino. Mi hai detto di venire da te, che mi avresti aiutato e che…».
Si interruppe, voltandosi per guardarla negli occhi. Controluce, sembrava che la cicatrice che gli sfigurava il viso fosse sparita.
«Che proteggi sempre le persone che ami».
 
***
 
Quando erano ormai vicini alla periferia di S. Francisco, Luke si fermò davanti a un parcheggio: anche senza guardarlo in volto, Annabeth ne intuiva l’imbarazzo dalle spalle strette, e dalla mano che nervosamente vagava tra i capelli.
«Ci serve un’auto» disse, infine. «Più in fretta raggiungiamo il confine, meglio è. Io potrei…».
Gli mancò la voce. Era paradossale, che Luke, colui che aveva abbandonato tutto per votarsi al Dio peggiore che potesse scegliere, avesse delle remore nel compiere un furto d’auto. Aveva avuto il coraggio necessario per lasciarsi alle spalle la vita – e lei stessa – che aveva sempre conosciuto, ma non quella piccola scintilla che serviva per accettare di essere progenie di Ermes, Dio dei ladri.
«Vado io?» domandò Annabeth, cercando di mostrarsi comprensiva. «Non… non l’ho mai fatto, ma imparo velocemente».
Luke scosse il capo. «No» mormorò. «Vado io. Ho… ti ho già messa in una situazione che non meritavi. Non ti lascerò fare qualche altra cosa che, in fondo, non vuoi».
«Luke…» borbottò lei, contrariata. «Io non…».
Lui scosse il capo. «Non dire niente» disse. «Non… sono stato egoista. Ma io avevo bisogno che tu venissi con me».
A lei, per un attimo, mancò il respiro. Cercò, dentro di sé, le parole giuste per dirgli che era lei, quella egoista, quella che, in un altro futuro ormai sbiadito e irraggiungibile, lo aveva condannato a morte. Che l’aveva sognato, per più di due anni, mentre affranto lasciava che la sua anima immortale si staccasse dal corpo, dopo che lei si era dovuta cavar di bocca una bugia con cui, a conti fatti, aveva ferito anche sé stessa.
«Rimani qua» le disse Luke. «Cercherò… di far presto».
Ma, quando si voltò, rimase come pietrificato, come di fronte a una resuscitata Medusa: Ermes lo guardava, e aveva un dispiacere innestato tra le rughe della fronte, che lo faceva apparire stanco, e deluso.
«Luke» disse il Dio, quasi come se faticasse a pronunciare il nome del figlio prediletto. «Vedo che hai abbandonato la tua guerra, figliolo».
«Non era la mia guerra» sibilò Luke, stringendo gli occhi. «Io… sono altre, le mie battaglie».
«Lo so» concesse Ermes, chinando il capo. «Ma adesso tutti gli altri Dei vogliono la tua testa. Non… non importa quanto tu possa fuggire, ti troveranno».
«Quindi hai pensato di consegnarmi tu a loro?» domandò il ragazzo. «Prendimi pure. Non sarebbe la prima volta, che…».
«Che ti abbandono» completò per lui il Dio. «Credimi, lo so. Ho cercato in ogni modo di rimediare, ma per te non sono mai stato in tempo per farlo».
«Esattamente. Ma sono disposto a seguirti sull’Olimpo senza opporre resistenza, se…» Luke si voltò a guardare Annabeth, indicandola con un cenno del capo. «Se lascerete stare lei. Io… io l’ho obbligata a seguirmi, padre».
Lei lo sguardò, stupefatta, ma non fece in tempo a discolparlo che il divino Ermes scoppiò in una fragorosa risata. Quando rideva era straordinariamente simile a suo figlio: sembrava quasi che una nuvola di passaggio gli avesse proiettato sul viso la medesima cicatrice.
«Risparmiati questa scusa se mai riusciranno a trovarvi» commentò Ermes, scrollando le spalle. «Io sono dalla tua parte, Luke. Sappi che benedico il tuo viaggio e, quando la guerra sarà finita, chiederò a Zeus di concederti il suo perdono».
Il ragazzo lo guardò, stupito, ma non disse niente. Chinò semplicemente il capo, aspettando che il Dio vi posasse su la mano, per accoglierne la benedizione.
Ma Ermes esitò.
«Luke» borbottò. «Fai attenzione. Avrai sempre qualcuno, Dio o Titano, alle calcagna finché la guerra non sarà finita».
Il Dio dei viandanti prese un respiro, mentre con il palmo della mano accarezzava il capo color sabbia del proprio figlio prediletto. «Fai attenzione. C’è una macchina che ti aspetta dietro l’angolo, partite subito» ripeté, con maggiore enfasi. «Percy Jackson vi sta cercando».
 
***
 
Nell’abitacolo del pick-up blu di Ermes, Luke si era rinchiuso in un mutismo insondabile e ostinato: se avesse semplicemente guidato, guardando con attenzione la strada, Annabeth non avrebbe mai intuito quanto le parole del Dio lo avessero turbato. Ma il ragazzo stringeva il volante con forza innaturale, che gli aveva fatto sbiancare le nocche. Forse, a breve, gli avrebbero potuto bucare la pelle, rompendola.
«Luke…» mormorò Annabeth, incerta. «Io non… non pensavo sarebbe venuto a cercarmi».
«Io ne ero certo» borbottò lui, con aria contrariata. «Tu e lui… ho sempre pensato che avessi fatto in fretta, a… a colmare i vuoti».
Lei penso che, di tutte le cose che Luke avesse mai detto, o fatto, questa era la più strana e innaturale: Annabeth non aveva dimenticato, le notti passate a temere per la sua vita, sapendolo soggetto a Crono. Non aveva dimenticato quel dolore viscerale che aveva provato, nel pensare che, un giorno chissà quanto vicino, avrebbe dovuto combattere contro di lui. Da qualche parte della sua memoria, ripescò la disperazione con cui aveva scelto di tornare indietro, scomodando un Dio bambino, solamente per poterlo salvare.
«Tu te ne sei andato» disse, invece, con voce rotta. «Non… mi hai lasciata da sola, Luke, hai scelto di non dirmi che erano mesi che sognavi Crono. Quando hai smesso di dirmi le cose?».
«Pensavo non avresti capito» mormorò lui, sommessamente. «Che avresti pensato che fossi impazzito, o peggio».
«L’unica cosa che non riesco a capire è perché tu abbia deciso di voltarmi le spalle» borbottò Annabeth. «Avremmo… avremmo potuto risolverla insieme, come i vecchi tempi».
Luke sorrise, a disagio. «Lo so» ammise. «Ed è per questo che ho abbandonato tutto quanto per venirti a cercare. So di averti chiesto un sacrificio enorme, e se tu dovessi pentirtene…».
«Non lo farò» lo interruppe lei. «Io… per tutti questi anni stavo aspettando che tu tornassi indietro».
Lui sorrise ma, con il sole che stava già cominciando a tramontare, sembrava solamente un’altra cicatrice. Il sole morente gli aveva restituito il biondo originario dei capelli ma, nonostante tutto, Luke continuava a sembrare infinitamente stanco. E, per quanto potesse voler fingere che quella non fosse altro che una vacanza tra amici, spaventato.
«Sono quasi sei ore che guidi» osservò Annabeth, incerta. «Ormai dovremmo essere vicini a Medford… forse potremmo fermarci lì, per la notte».
«Posso farcela» mormorò Luke, senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Davvero. Più distanza mettiamo tra noi e New York e meglio sarà».
«Luke» mormorò lei, posandogli una mano sul braccio. «Sei troppo stanco per continuare a guidare. Cercheremo un hotel a Medford, devi riposare».
Il ragazzo finalmente annuì. «Sul sedile posteriore c’è uno zaino» borbottò. «Nella tasca posteriore c’è un portafoglio, dovrebbero esserci delle carte di credito».
Annabeth non disse niente, ma pensò che Luke fosse stato cieco, a non rendersi conto che suo padre, il Dio Ermes, aveva sempre cercato di favorirlo in ogni modo possibile. Anche adesso che era costretto a fuggire dai nemici più potenti al mondo, l’Olimpo intero e Crono, e l’unica maniera che avesse per sopravvivere era nascondersi.
Luke non la meritava, la morte del topo: nascosto in un vicolo cieco odoroso di muffa, con la paura che invade ogni nervo. Eppure, comprese Annabeth in quel momento, se qualcuno li avesse trovati, adesso o tra cent’anni, sarebbero morti come ratti.
È comunque una morte migliore, le aveva detto Luke. Ma lei, mano a mano che si allontanavano da New York, non era poi così convinta.
 
***
 
Luke aveva dovuto guidare un’altra mezz’ora, prima di scorgere l’insegna dell’Holiday Inn. Sospirando, si avviò verso il parcheggio.
«Sei sicura?» domandò ad Annabeth, mentre si metteva in tasca le chiavi del veicolo. «Possiamo sempre proseguire e fermarci più tardi».
Lei scosse il capo. «Andiamo» disse, semplicemente.
Alla reception li attendeva una donna con i capelli tinti di uno squillante rosso acceso, probabilmente una tintura casalinga. «Buonasera» trillò. «Vi serve una camera?».
Luke annuì, frugando nello zaino ed estraendone il portafoglio. «Sì, grazie» disse, cordialmente.
La receptionist si illuminò: guardandola bene, si rese conto che probabilmente aveva la stessa età di Luke.
«A te e tua sorella andrebbe bene una doppia?» domandò la ragazza, sbattendo le ciglia con fare caricaturale. «O preferireste due singole?».
Solamente in quel momento Luke parve emergere dalla propria stanchezza: guardò in viso la receptionist, facendola arrossire. Sorrise leggermente.
«No, io e la mia ragazza preferiremmo una matrimoniale, se possibile» disse, candidamente. «Ti servono i documenti d’identità?».
«Oh, no» biascicò la ragazza, il viso divenuto del medesimo colore dei suoi capelli. «La 5B è libera: quinto piano, l’ascensore è sulla destra».
Luke le allungò la carta di credito, senza far caso alla delusione che aveva macchiato la voce della ragazza. La ringraziò con un cenno del capo e si diresse verso l’ascensore, con Annabeth che lo seguiva, scontenta.
«Spero non ti dispiaccia, se ho preso una camera sola» disse Luke, cautamente, mentre l’ascensore si fermava al quinto piano. «Ho pensato che sarebbe stato più… semplice, da gestire».
«Pensavo l’avessi fatto solamente per liberarti di quella mortale» rispose lei, acida. «O sbaglio?».
Lui la guardò, stupito. «Certo che no» disse, scrollando le spalle. «Per quanto riguarda poteva pensare anche che fossi tuo padre, figurati».
«Sono stanca, scusami» disse Annabeth, dirigendosi verso la sponda sinistra del letto. «Non mi va di chiacchierare».
«Annabeth» disse lui, tirandola lievemente per un braccio. «Non ti stavo prendendo in giro».
«Lo so» borbottò lei, scuotendo il capo. «So già che per te sono come una sorella, Luke, non c’è bisogno di ripetermelo».
Luke sbuffò, facendola voltare lentamente: con orrore, si rese conto che Annabeth aveva gli occhi lucidi. «Se non fosse contrario alle leggi di un buon 80% degli stati degli Stati Uniti» disse, con una dolcezza strana, nuova. «Ti chiederei di sposarci anche adesso. Se… se lo volessi anche tu».
Lei lo guardò, stupita. Provò a dire qualcosa ma, per la prima volta in vita sua, non le vennero le parole.
«Spero che fra due anni te ne ricorderai» disse Luke, con un sorriso furbo. «Perché te lo chiederò veramente».
 
***
 
Quando Annabeth aprì gli occhi, la mattina seguente, ancora doveva sorgere il sole. Eppure, Luke sedeva di fronte alla finestra, sulla propria sponda del letto, bisbigliando qualcosa.
Per un attimo che durò un’eternità, Annabeth temette che stesse parlando con Crono. Poi, si rese conto che stava pregando.
«Scusami» disse, improvvisamente, accorgendosi che lei lo stava osservando. «Non pensavo fossi già sveglia».
Luke si spostò sul letto, avvicinandosi a lei. «Vuoi fare colazione?» domandò. «Non credo che l’Oregon abbia chissà quali piatti tipici, ma potremmo comunque dare una chance a questo posto».
«Luke…» mormorò lei, incerta. «Dicevi sul serio, ieri sera?».
«Certo che dicevo sul serio» rispose lui, serio. «Io… lo penso da mesi, ormai. E… sono tornato anche per questo».
«Non pensi che sarebbe bello avere una casa, una famiglia?» domandò Annabeth. «Pensare che un giorno potremmo solamente scegliere un posto e vivere lì?».
«Sì, sarebbe bello» convenne Luke, ma sembrava perso in altri pensieri. «Se solamente ci fosse un modo».
Annabeth pensò che c’era, un modo, o forse semplicemente un altro mondo in cui lei e Luke potessero essere ancora, magari per sempre, una famiglia. Ma era anche un mondo in cui lei avrebbe dovuto trovare il coraggio di dirglielo, che una soluzione c’era. E a lui non sarebbe piaciuta.
 
***
 
«Dove siamo diretti?» domandò Annabeth, salendo in macchina. «L’Alaska è ancora parecchio distante».
Luke, sedendosi sul sedile del guidatore, annuì. «Possiamo fermarci a Vancouver» disse. «Sono poco più di quattro ore di macchina, ho controllato ieri sera su una cartina alla reception».
Annabeth annuì solamente, mettendosi a guardare il paesaggio che lentamente iniziava a scorrere davanti ai suoi occhi.
Sarebbe bello, pensò con una nota di tristezza. Casa. Una famiglia.
«Luke…» mormorò. «So che non ti fa piacere, ma… dovremmo chiedere aiuto a tuo padre».
Lui non rispose subito, ma Annabeth notò una certa tensione annidata nella mascella: chissà che parole stava cercando di non dire, Luke, chissà quanta disapprovazione si stava trattenendo dal rovesciarle addosso.
«E perché?» disse, infine, semplicemente. «Noi… possiamo cavarcela da soli. Come una famiglia».
«Vuoi davvero scappare per tutta la vita?» domandò lei, posandogli una mano sul braccio. «Se tuo padre parlasse in nostro favore, forse…».
Luke scosse il capo. Con orrore, Annabeth si accorse che aveva gli occhi lucidi. «Mi ucciderebbero comunque» mormorò, gli occhi fissi sulla strada. «E… mi starebbe anche bene: ognuno deve pagare per le proprie colpe, in questo mondo. Ma… ». La voce gli si ruppe. «Sono egoista, se voglio solamente rimanere con te qualche mese, forse qualche anno, in più?».
Per un momento dolorosamente lungo, ad Annabeth mancarono le parole: a cosa si era ridotta, quella vita, se non a un buffo segmento di ossa rotte che, però, non riusciva a saldare insieme, come ne mancasse un frammento.
Poteva davvero costringerlo a consegnarsi agli Olimpi, mettendo fine a quella loro avventura, insieme, che potenzialmente sarebbe benissimo potuta durare in eterno? Poteva dirgli che non le importava, rimanere con lui finché le Moire l’avessero consentito, essere per l’ultima volta, quella definitiva, la sua famiglia?
«Non lo sei» bisbigliò, infine. «Non… hai ragione, non possiamo semplicemente chiedere pietà e sperare che funzioni. Possiamo solamente andare avanti».
«So che non è tutto quello che hai sempre sognato» continuò Luke, imbarazzato. «Ma farò del mio meglio, per renderti felice. Te lo prometto».
Lei si sistemò meglio sul sedile, voltandosi verso il finestrino, per non fargli vedere quanto fosse arrossita. Pensò al ricordo di un altro Percy, che ormai era più una fantasia che un vero ricordo, e si domandò se si sarebbe mai pentita della scelta di aver seguito Luke.
«Ho sempre rotto tutto, in questa vita» mormorò il ragazzo, sottovoce. «Adesso voglio stare bene».
 
***
 
Luke si fermò improvvisamente in un parcheggio sotterraneo, nel centro di Vancouver. Girò le chiavi nel vano e si voltò verso Annabeth, che lo scrutava perplessa.
«Credo sia ora di pranzo» si giustificò lui, imbarazzato. «Conosco… c’è un ristorante all’interno del Queen Elizabeth Quarry Gardens. Ho pensato che sarebbe stato bello, pranzare insieme come… come se fosse normale».
«Come se non stessimo fuggendo?» domandò lei, scherzosa. «Mi farebbe piacere pranzare con te» disse, con tono forzatamente formale. «Devo considerarlo un appuntamento?».
«Se pensi ancora che io e te abbiamo bisogno di un appuntamento» rispose Luke, scrollando le spalle. «Ma possiamo comunque considerarlo tale, se ti fa piacere».
Annabeth gli sorrise, raggiante, mentre risalivano in superficie: al sole sembrava tutto immensamente più semplice, più immediato. Pensò che se lo meritavano, un pranzo, un’ora soltanto, in cui poter fingere di aver tutto quello cui avevano rinunciato. Casa, una famiglia tutta loro.
«Io penso proprio che ne abbiamo bisogno» mormorò Annabeth. Istintivamente chinò il capo, come per indicargli la propria mano. «Anche senza fare finta».
Lui parve intuire il sottinteso e le tese la propria mano: era ancora quella che si ricordava, biscottata dal sole e resa callosa dal peso della spada. Non c’era nulla che raccontasse della loro improvvisa fuga, che le suggerisse le rischiose scelte che, per tornare da lei, Luke aveva dovuto compiere.
Lei non esitò a lasciargli prendere la propria mano: tienila pure, ti appartiene, come occhi, testa e cuore. Sono sempre stati tuoi. Avrebbe mai avuto il coraggio di dirglielo, che avrebbe rinunciato a ben più di una casa e una famiglia, pur di seguirlo?
Ma, improvvisamente, Luke si fermò. «Torna indietro» le sussurrò. «Presto».
Annabeth alzò lo sguardo e, se non fosse riuscita a trattenersi, avrebbe urlato. A pochi metri di distanza, Percy Jackson si guardava attorno, come se aspettasse qualcosa. O qualcuno.
 
***
 
«Come ha fatto a trovarci?» bisbigliò Annabeth, come se temesse che Percy potesse udirla, una volta salita in macchina.
Luke la guardò, ma non disse nulla, limitandosi a mettere in moto il veicolo. «Dobbiamo allontanarci» disse, infine. «In fretta, prima che possa capire che siamo stati qui».
Annabeth, sul sedile del passeggero, aprì una cartina geografica e iniziò a scrutarla, strizzando gli occhi quando non riusciva a concentrarsi abbastanza per decifrare il nome di una strada o di una città.
«Potremmo fermarci alla prossima città» suggerì infine. «Hope. Ci servirebbe proprio, della speranza».
Luke sorrise, ma fu come se quella stessa azione avesse il potere di affaticarlo, di togliergli con il semplice lavoro dei muscoli tutte le energie. E, temeva Annabeth, anche le speranze.
«Forse avrei dovuto lasciarti andare da lui e continuare da solo» ammise, infine. «Non… se ti presentassi tu, dagli Dei, sicuramente saresti perdonata. Io… non c’è posto, per i traditori».
«Io non ti lascio» lo interruppe Annabeth, con fermezza. «Andiamo avanti. In qualche modo riusciremo a lasciarci tutto questo alle spalle».
«In qualche modo che non sappiamo» mormorò Luke, stanco. «Forse avevi ragione, dovremmo veramente arrenderci e… lasciar perdere».
«No» disse lei, scuotendo il capo. «Significherebbe lasciar perdere te, e io non voglio».
Ma Luke la guardò negli occhi e, riflessa in un azzurro ormai scolorato e opaco, vi era una disperazione così profonda che sembrava essergli incisa dentro. Quando aveva iniziato a pensare, Luke, che avrebbe dovuto semplicemente consegnarsi?
Quando aveva capito che, per quanta volontà potesse metterci, per quanta pazienza potesse dimostrare, si trovava ancora una volta immerso in un guaio che era irrisolvibile. Che non sarebbe bastato, fuggire per tutta la vita, a donargli quella tranquillità che silenziosamente desiderava.
Quando un sogno gli aveva suggerito che più kilometri avrebbe messo tra lui e l’Olimpo, più con ferocia l’avrebbero braccato. E, alla lunga, avrebbe solamente rischiato di ferire anche lei.
La sua casa, la sua famiglia.
A volte, puoi essere talmente egoista da distruggere tutto quel che ami, cercando di proteggerti.
A volte.
Altre volte, riesci a capire quando devi fermarti.
 
***
 
Arrivati a Hope, Luke si era fermato nel primo parcheggio disponibile, ed era sceso dalla macchina: dal finestrino, Annabeth non comprese immediatamente cosa stesse facendo e, quando se ne rese conto, sentì distintamente il proprio cuore ridursi a una massa grumosa e informe di tristezza. Luke stava pregando.
Avrebbe voluto scendere dalla macchina, dire qualcosa, impedirgli di consegnarsi a degli Dei che lo avrebbero trattato con una crudeltà che non meritava. E, pensò, forse era questo il problema che muoveva il suo mondo: qualunque cosa facesse, che si schierasse con Crono o implorasse piangendo il perdono degli Olimpi, Luke Castellan riusciva a massacrarle il cuore fino a renderlo una poltiglia di sangue e muscolo, che batteva incessantemente come una campana a morto.
Anche Annabeth, in quei momenti che durarono quanto mezza eternità, avrebbe voluto voltarsi e pregare: ma, se avesse dovuto scegliere un Dio, non avrebbe saputo verso chi indirizzare le proprie preghiere. E, come silenziosamente aveva fatto da quando era ancora una bambina, probabilmente avrebbe pregato Luke: di non andare, di non lasciarla di nuovo, in una maniera che sarebbe suonata terribilmente definitiva.
Se Luke fosse morto, a lei sarebbero rimasti solamente stracci di ricordi, fatti a brandelli dalla memoria che progressivamente si nutre dei momenti belli, e un viaggio che non avrebbero mai fatto: non l’avrebbero mai vista, la Grecia, Parigi, perfino la Russia. E magari lei ci sarebbe anche andata, a vedere il Partenone, ma da sola, e ogni respiro fatto in quel momento sarebbe stato quell’ultimo respiro che Luke non avrebbe mai potuto fare, e Annabeth si sarebbe solamente sentita soffocare.
«Ti prego» mormorò al finestrino. «Non farlo. Io… sarebbe andata bene, solo noi due».
Ma il Divino Ermes stava già camminando verso di loro, con un’espressione scontenta sul bel volto.
Luke stava ancora mormorando qualcosa, con il viso nascosto tra le braccia.
 
***
 
L’Olimpo rumoreggiava: Annabeth aveva puntato i piedi e aveva scelto di seguire Luke, fino alla fine, e adesso, nel fronteggiare lo sguardo scontento e deluso di sua madre, tremava. Nell’osservare gli Olimpi, così tesi sui propri troni, si domandò se la guerra fosse finita o no, dove fosse Percy. E se, in qualche mondo possibile, avrebbero potuto semplicemente lasciare andare via Luke.
Annabeth guardò Ermes, sperando di cogliere almeno sul suo volto un briciolo di speranza, quella che avevano perso lungo la via per l’Alaska, ma non ne vide: il Dio dei ladri sedeva, scontento, come se già conoscesse l’esito per una decisione ancora in attesa di votazione. Fu allora, che Annabeth iniziò a sentire l’aria che si rifiutava di entrare nei polmoni.
Era come se vi fosse un tappo di sughero, incastrato nella faringe, che impediva il passaggio dell’aria. È comunque una morte migliore, sembrava dire Luke con lo sguardo. Ma, lei, non ne era poi più così convinta.
In principio, l’idea di costituirsi era stata sua: solamente adesso che Luke si trovava al centro della sala dei troni, e sembrava così immensamente piccolo, se ne pentiva. Nella sua fantasia, perché solamente quella le rimaneva, erano ancora in macchina, sotto un cielo stellato, i finestrini aperti.
Stavano ancora viaggiando verso il freddo secco dell’Alaska, verso una vita di vagabondaggi e qualcosa, forse una voce, forse un sussurro, le stava dicendo che sarebbe andato tutto bene.
Ma Luke era inginocchiato davanti al trono di Zeus, a testa china, e sembrava quasi che il re degli Dei fosse pronto a mozzargli la testa con un colpo di scure.
«Padre» intervenne Ermes, prima che Zeus prendesse la parola. «Mio… mio figlio vorrebbe dire due parole».
Zeus sospirò pesantemente, probabilmente trattenendosi dal dire che la reputava solamente l’ennesima e stupida perdita di tempo. «Che parli, allora» disse, burbero. «Lo ascolteremo con attenzione».
«Divino Zeus» cominciò Luke, la voce sorprendentemente salda. «Volevo solamente dire che sono colpevole di tutte le accuse che mi muovete».
Annabeth stava quasi per mettersi a urlare, che non era vero, che sapeva quel che stava cercando di fare, che non poteva. Che non. Ma Atena, dall’alto del suo trono, la zittì con una singola occhiata gelida e corrucciata, quasi come volesse ordinarle di non deluderla ulteriormente.
«Io… avevo capito i miei errori, ma non volevo pagare la punizione» disse Luke, mestamente. «Scappare è stata un’idea stupida, sì. Ma mia, interamente mia e… ho costretto Annabeth a venire con me».
Annabeth chiuse gli occhi, imponendosi di respirare: prima di farlo aveva visto Afrodite volgersi interessata verso il ragazzo, come se solamente in quel momento lo notasse per la prima volta.
«Lei non voleva venire con me, mi aveva detto che sarebbe rimasta con Percy a combattere contro Crono e… contro me» continuò Luke. «Ma io ero già stanco di combattere. L’ho caricata in macchina con la forza, e siamo partiti. Per tutto il tempo ha cercato un modo per tornare indietro, finché… finché mio padre non ci ha trovati».
In quel momento, fu come se il mondo intero si fosse fermato, come se il tempo fosse divenuto una matassa aggrovigliata di nervi e impulsi elettrici. Annabeth si costrinse ad aprire gli occhi, pregando in un miracolo.
Ma che Dio avrebbe potuto pregare, se tutti erano intenzionati a distruggere Luke, se perfino Ermes gli aveva permesso di discolparla a sue spese.
«Votiamo» disse Zeus, atono. «Chi è a favore del lasciare in vita il ragazzo?».
Annabeth non si accorse nemmeno di star piangendo, mentre in tutta la sala si alzavano solamente le mani di Afrodite ed Ermes. Atena la guardò, con un misto di scontento e comprensione, ma non si mosse di un millimetro.
«Divino Zeus» intervenne nuovamente Luke. «Se fosse possibile… vorrei la morte del guerriero».
Zeus si voltò verso Ermes, che lo guardava supplichevole. «E sia» concesse. «Ares, figlio mio, ti dispiace?».
Ares sguainò la spada. Annabeth chiuse gli occhi.
 
***
 
«Certo che potresti» confermò Aion, meditabondo. «Ma, Annabeth, il tempo è più complicato di un “potrei”. Ci sono infiniti mondi possibili, come disse un tuo fratello qualche secolo fa, e ogni azione compiuta ti proietta in uno di questi».
«Deve essercene uno dove posso riuscire a impedire che Luke muoia» osservò Annabeth, con forza. «Uno in cui potremmo essere di nuovo…».
Una famiglia. Le parole le si bloccarono in gola, come sabbia o cocci di vetro, facendola tossire.
«Potrebbe» convenne il Dio. «Chi lo sa? Se solo potessimo vedere l’infinita catena di conseguenze derivanti da ogni singolo gesto, allora, te lo saprei dire con certezza».
«Non mi serve, una certezza» borbottò lei. «Mi serve tentare, e lo farò finché non riuscirò a salvarlo. Mi aiuterà?».

 
Ciao a chiunque sia arrivato fin qui. 
Ho poco da dire su questo capitolo, se non che la citazione "Ho sempre rotto tutto in questa vita, adesso voglio stare bene" proviene da una delle canzoni citate a inizio capitolo, Va tutto bene (Giulia Molino).
Per il resto spero sia stata una lettura piacevole. Prossimo aggiornamento: mercoledì 24 o giovedì 25 (a seconda di quando ho una visita che ho dimenticato di appuntare sull'agenda).
Grazie a tutti
Gaia
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2: Due vite per aspettarti ***


Poteva davvero costringerlo a consegnarsi agli Olimpi, mettendo fine a quella loro avventura, insieme, che potenzialmente sarebbe benissimo potuta durare in eterno? Poteva dirgli che non le importava, rimanere con lui finché le Moire l’avessero consentito, essere per l’ultima volta, quella definitiva, la sua famiglia?
«Non lo sei» bisbigliò, infine. «Non… hai ragione, non possiamo semplicemente chiedere pietà e sperare che funzioni. Possiamo solamente andare avanti».
«So che non è tutto quello che hai sempre sognato» continuò Luke, imbarazzato. «Ma farò del mio meglio, per renderti felice. Te lo prometto».
Lei si sistemò meglio sul sedile, voltandosi verso il finestrino, per non fargli vedere quanto fosse arrossita. Pensò al ricordo di un altro Percy, che ormai era più una fantasia che un vero ricordo, e si domandò se si sarebbe mai pentita della scelta di aver seguito Luke.
«Ho sempre rotto tutto, in questa vita» mormorò il ragazzo, sottovoce. «Adesso voglio stare bene».
 
 
2. Due vite per aspettarti
 
 
Solo per stanotte
Inganniamo la sorte
Con te ogni ansia si stanca
Si annoia di combattere e se ne va
(…)
Solo per stanotte
Inganniamo il destino
La felicità
Credo che abbia a che fare con te
(Giordana Angi, Stringimi più forte)

 
 
Tra cent'anni non ci ricorderemo
Degli sbagli di domani
(…)
Abiterò nel tuo sorriso
La mia idea di paradiso
E noi ci ricorderemo
Della pioggia in cui piangevo
Insieme resteremo immuni alla sorte
(Giordana Angi, Amami adesso)
 
«Luke» mormorò Annabeth, agitandosi sul sedile della macchina. Mancavano solamente tre ore, prima di arrivare a Vancouver dove, lei ormai lo sapeva, Percy li stava aspettando. «Ti andrebbe di fermarci a Seattle, e non a Vancouver? Inizio ad avere fame».
Luke annuì, senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Certo» confermò. «Scusami, non abbiamo nemmeno fatto colazione».
Annabeth si trattene dal sorridere, mentre un’ondata di sollievo le riscaldava le vene: forse, questa volta sarebbero riusciti ad arrivare in Alaska, poi in Europa e poi ovunque avessero desiderato. Forse, il rumore dei dadi di Aion avrebbe smesso di risuonarle in testa e lei, chissà quanto in fretta, sarebbe riuscita a dimenticare il suono della spada che attraversava il torace di Luke, senza che lui facesse nulla per impedirlo.
«Potremmo cercare di recuperare qualche vestito» propose Annabeth. Quanto tempo sarebbe dovuto trascorrere, prima che fosse sicuro passare da Vancouver? «In Alaska farà freddo».
«Hai ragione» convenne Luke. «Vorrà dire che vedremo Vancouver un’altra volta… abbiamo una vita per tornare indietro».
Adesso andiamo avanti, si disse Annabeth guardando fuori dal finestrino. Il rumore dei dadi di Aion, lanciati sulla scacchiera, continuava a risuonarle in testa. Adesso andiamo avanti.
 
***
 
A Seattle, Luke si fermò di fronte al mare, sul Magnolia Boulevard. Quando scese dalla macchina, una ventata d’aria fresca gli scombinò i capelli, facendolo sorridere.
«Non siamo stati fortunati» commentò. «Sembra che si metterà a piovere».
«Forse è un segno» rispose Annabeth, scrutando il cielo con aria pensosa. «Potremmo passare la giornata qui».
«Cos’ha Vancouver che non ti piace?» chiese Luke, interessato. «Sembra che tu stia facendo di tutto per non passare di lì».
«Io…» lei sospirò. Che valore ha una bugia a fin di bene? «Ho solamente un brutto presentimento… ci stanno cercando, Luke. Vancouver non è un posto estremamente probabile dove trovarci?».
«Va bene» convenne lui, annuendo. «Niente rischi inutili. Eviteremo Vancouver. Stasera guarderò una cartina per decidere che strada fare».
«Grazie» sospirò lei, imbarazzata. «So che ti sembra una cosa stupida, ma…».
«Ma io mi fido di te» completò Luke. «E non mi sembra stupido. So cosa vuol dire, sognare qualcosa».
O qualcuno. Chissà se Percy li aveva sognati, se era così che, in un futuro che ancora ricordava chiaramente, era riuscito a trovarli. Annabeth pregò silenziosamente che così non fosse, altrimenti non si sarebbero mai potuti sentire al sicuro.
«Te l’avevo promesso, che saremmo andati dove preferivi» mormorò Luke. «Forse non basterà per renderti felice, ma…».
«Mi basta» lo fermò lei. «Se rimaniamo insieme, possiamo comunque andare avanti».
«Se un giorno ti pentissi, e volessi tornare indietro» borbottò Luke, come se si stesse cavando a forza quelle parole. «Dimmelo».
Annabeth non disse niente, quando una goccia d’acqua le trafisse il viso, scavandola come acido: ti sembra mai di poter essere uccisa anche da un semplice frammento di pioggia?
Guardò Luke, domandandosi se anche lui avrebbe potuto semplicemente sciogliersi come un sogno alla luce del sole, se la pioggia avrebbe potuto ferirlo come una punizione. E, allora, lei si sarebbe sciolta insieme a lui, nel veder fallire l’ennesimo tentativo di salvarlo.
Un’altra goccia le scivolò lungo le guance.
 
***
 
Per quella sera, Luke scelse un hotel vicino al mare: sembrava come se volesse sfidarlo, il fato o Percy Jackson, avvicinandosi quanto più vicino a quella zona pericolosa che era l’oceano. Nel guardare il tramonto che veniva lentamente inghiottito dalla sera che avanzava, la cicatrice sul suo viso sembrava aver ripreso a sanguinare.
Annabeth ricordava vagamente, il giorno in cui Luke era ritornato al Campo Mezzosangue con il viso decorato di polvere e sangue, e un taglio che gli sfigurava i lineamenti. Sfigurava era il termine corretto, perché questo avevano detto di lui. Che sarebbe rimasto per sempre sfregiato, rovinato, perfino la sua bellezza si era rivelata difettosa, imperfetta.
Lei non l’aveva mai pensato. Si era arrabbiata in silenzio tutte le volte in cui Silena Beauregard e le sue sorelle l’avevano compatito, quasi come fosse cambiato, avesse smesso di essere quel Luke forte e affascinante che tutti loro avevano conosciuto.
Eppure, probabilmente anche Luke stesso aveva dovuto pensarlo, di esser diventato un rifiuto, qualcuno degno solamente di suscitare pietà. Perché anche in quel momento, si strofinava la cicatrice con fastidio malcelato, quasi come potesse cancellarla con un banale movimento delle dita.
Annabeth sapeva che, sottecchi, la stava guardando: ancora una volta avevano preso una camera matrimoniale e, mentre Luke prendeva le chiavi dal receptionist, lei aveva preso a guardarsi le scarpe con aria interessata. Non era la prima volta che dormivano nello stesso letto, ma qualcosa le suggeriva che, questa, avrebbe potuto essere la volta. Quella in cui sarebbe riuscita a dirgli che c’era un motivo in particolare per cui aveva scelto di seguirlo, ed era che non era più disposta a vivere una vita di rimpianti e possibilità sprecate.
Che, nell’ennesima sequela di giorni in cui s’era svegliata con la certezza che Luke aveva smesso di esistere da mesi, no, da anni, aveva realizzato che quella mancanza non sarebbe scemata, fino a diventare solamente un fastidio, un lieve pizzicore che, chissà in quanto tempo, avrebbe potuto ignorare. Invece, al posto di scemare, quella sensazione di disagio era solamente aumentata fino a diventare un dolore costante che le impediva di respirare, schiacciandole il torace. Ma avrebbe capito?
Le avrebbe detto che anche lui aveva provato lo stesso, negli anni che erano rimasti separati, quando aveva intrapreso un percorso sbagliato, lasciandosi tutto, anche lei, alle spalle?
«Sei stanca?» domandò Luke, con finta noncuranza. Aveva la camicia mezza sbottonata, come se avesse voluto mettersi il pigiama, cambiando però idea a metà strada.
Annabeth annuì. Aveva messo nello zaino, prima di lasciare S. Francisco, uno dei suoi pigiami preferiti, un pantaloncino terribilmente rosa e una maglia bianca con la stampa di un avocado sorridente. Inizialmente non ci aveva fatto caso ma, adesso, le sembrava tutto un’idea pessima: il pantaloncino corto, la maglia trasparente e con quel disegno infantile. Se avesse potuto dirlo a qualunque figlia di Afrodite l’avrebbe presa in giro per tutte le sue vite future.
Dandole le spalle, Luke si sfilò la camicia, e successivamente si stese con ancora i jeans addosso sul copriletto bianco del letto matrimoniale. «Penso leggerò qualcosa» mormorò, aprendo una cartina e una guida turistica, e segnandovi un appunto con una matita.
Lei si accovacciò accanto a lui, chiudendo gli occhi. Dopo qualche minuto, sentì che Luke distrattamente le stava accarezzando i capelli.
«Puoi smetterla di trattarmi come se fossi tua sorella?» borbottò, contrariata. «Io… sono stanca di pensare che per te sono rimasta una bambina, e basta».
«Ma…» cominciò Luke, perplesso. Si passò una mano tra i capelli color sabbia, a disagio. «Pensavo che…».
«Che cosa, Luke?» domandò Annabeth, acida. «Che siccome ho ancora sedici anni, tu non…».
Quelle parole le morirono nel rossore che le colorava le guance. Abbassò lo sguardo, imponendogli di non fargli vedere che aveva gli occhi lucidi.
«Non è questo» mormorò lui. Gli rimase una mano ferma a mezz’aria, come se avesse voluto toccarla e gli fosse mancato il coraggio all’ultimo secondo. «Io non voglio forzarti».
Puoi forzare qualcuno a fare qualcosa che aspetta da tutta una vita, si domandò Annabeth, guardandolo negli occhi.
«Non mi forzeresti a fare niente» rispose lei. «Io… è solamente una vita che aspetto che tu ti accorga di me».
«Io mi sono sempre accorto di te» la interruppe Luke. «Ma… ho ventidue anni, Annabeth. Non posso aspettarmi che tu comprenda, ma… temo di starti influenzando troppo».
«Non è vero» intervenne lei, alzando il tono della voce. «Perché devi essere così… insondabile. Io voglio stare con te».
Lui abbassò lo sguardo. «Non voglio ferirti un’altra volta» sussurrò. «Io… se ti avessi lasciata con Percy, saresti stata al sicuro. Non ti avrebbe mai trattata come ho fatto io».
«Ma non sono rimasta con Percy» commentò Annabeth, atona. «Qualcosa dovrà pur significare».
«Ho le mani sporche di sangue, Annabeth» disse Luke, scuotendo il capo. «Non potrei mai sfiorarti e rischiare di sporcare anche te».
Per un momento, Annabeth desiderò di potergli urlare contro. Ma, nella luce artificiale della camera, sembrava così solo, e disperato, che non riuscì a proferire parola.
Si guardava le mani, Luke, quasi come potesse realmente vederle macchiate e incrostate di sangue. Se avesse fatto più attenzione, Annabeth si sarebbe accorta che stava tremando.
«Vorrei tanto che tu potessi andare oltre il passato» mormorò, invece. «Che tu riesca a dimenticare cosa hai fatto. Io ti posso perdonare, ma dovresti riuscire a farlo anche tu».
Luke le regalò un sorriso amaro, che parve sul punto di rompergli la faccia in due parti diseguali.
«Ma io non posso» disse, semplicemente. «Come potrei mai perdonarmi?».
Lei non seppe rispondergli.
 
***
 
Quando quella mattina scesero nella sala dell’albergo adibita alla colazione, Luke aveva due vistosi cerchi neri che gli contornavano gli occhi.
«Non hai dormito» osservò Annabeth, sbocconcellando una fetta di pane tostato. «Come mai?».
«Sogni» rispose Luke, laconico. Stava scrutando un croissant alla marmellata di arance quasi come potesse trovare una risposta nel ripieno. «Ti ho svegliata?».
«No, ma avresti dovuto farlo» rispose lei, scontenta. «Avrei potuto…».
«Vedermi mentre tremavo come un bambino?» chiese lui, scontento. «No, Annabeth. È stato meglio così».
«Perché fai così tanta fatica a dirmi come ti senti?» domandò Annabeth, posando il toast nel piatto e guardandolo negli occhi. «Perché hai smesso di fidarti di me?».
Luke fece per risponderle, ma fu interrotto dall’arrivo di un cameriere. «Posso portarvi qualcosa?» domandò l’uomo. «Tè, caffè?».
«Per me un caffè. Corretto» rispose Luke, con aria sollevata. «Tu vuoi un tè?».
Annabeth scosse il capo. «Anche per me un caffé» rispose. «Corretto».
«Sei troppo giovane per l’alcol» la rimbrottò lui, quando il cameriere si fu allontanato.
«A quanto parte sono giovane per un po’ troppe cose» rispose lei, fredda. «Quando avrai finito di trattarmi come una bambina, fammi un fischio».
«Te la sei presa per…» cominciò Luke, cauto.
«Per l’assoluta contraddittorietà delle tue affermazioni, sì» completò Annabeth. «Come fai a dire che mi sposerai, se poi…».
«Annabeth» la chiamò Luke, interrompendola. «Non possiamo» disse, semplicemente. «Io… sei ancora…».
«Piccola» sibilò lei, tagliente. «Lo so già, grazie. Continua pure con il tuo amore platonico, e chiamami quando cambi idea».
 
***
 
In macchina, Annabeth si rifiutò categoricamente di proferire parola, guardando ostinatamente fuori dal finestrino. Luke non ci provò nemmeno, a estorcerle anche soltanto un brandello di discorso, percependo la tempesta che la ragazza avrebbe scatenato, se solamente le avesse rivolto la parola.
Così continuò a guidare, senza dire niente, gli occhi ostinatamente puntati sulla strada. Poi, dopo tre ore in quel silenzio che se lo stava spolpando vivo, Luke si decise a parlare.
«Non è che sei piccola…» mormorò. «Non vorrei che te ne pentissi, tutto qua».
«Perché dovrei?» chiese Annabeth, senza distogliere il proprio sguardo dal paesaggio che scorreva via, fuori dal finestrino. «La scelta dovrebbe essere mia».
«Lo è» convenne Luke, piano. «Ma… non è solo per il sesso, Annabeth, è ciò che comporta. Io non vorrei che dopo ti sentissi vincolata».
«Sei tu, quello che non vuole sentirsi vincolato» rispose lei, acida. Con la coda dell’occhio, Luke si accorse che aveva gli occhi lucidi. «O non ti importa abbastanza».
«Proprio perché mi importa, voglio darti la possibilità di scegliere» replicò Luke, serio. «Come… come fai ad essere sicura che sia giusto, stare con me?».
Inizialmente, Annabeth non rispose. Silenziosamente Luke si trovò a fare i conti con il peso delle sue stesse parole, domandandosi se, almeno questa volta, non fosse riuscito a convincerla.
E cosa comportasse, allora, quella convinzione. Se potesse decidere che, a conti fatti, il gioco non valesse la candela e, per questo, decidere di lasciarlo scivolar via, di tornare indietro da Percy Jackson, al Campo Mezzosangue, casa sua.
Cosa poteva dargli lui, Luke Castellan, che aveva smesso da tempo di essere padrone della propria stessa esistenza?
«Perché è una vita che ti aspetto» borbottò Annabeth, così piano da temere che lui non la sentisse.
Ma Luke distolse brevemente lo sguardo dalla strada per guardarla negli occhi, sorpreso.
«Sei stato il mio eroe per tutta la mia vita» continuò Annabeth, dolcemente. «Sono riuscita a perdonarti anche quando credevo che tu e Talia… quindi sì, sono sicura».
 
***
 
Per quella sera, Annabeth aveva iniziato a nutrire aspettative già dall’ora di pranzo, quando ogni ora che la separava dal tramonto era divenuta un’ora di troppo, superflua e inutile.
Luke, al contrario, era diventato più teso con ogni minuto che trascorreva, e sembra voler rimandare, di città in città, il momento in cui si sarebbe dovuto fermare. Questo finché, dopo nove ore trascorse al volante e una piccola pausa lungo la strada, arrivati a Williams Lake si era dovuto arrendere all’idea di essere troppo stanco per continuare a guidare.
Annabeth, almeno con sé stessa, si era rifiutata di cogliere i segnali e aveva ignorato con noncuranza gli sbadigli di Luke, mentre si lasciava condurre verso una cena che non le interessava consumare. Quella sera, aveva deciso, sarebbe stata la svolta: se non mi bacia stasera, pensò distrattamente mentre giocherellava con le posate, non lo farà mai più.
«Posso indovinare da qui a cosa stai pensando» osservò Luke ma, più che divertito, sembrava solamente rassegnato. «Te lo giuro, ti si legge in faccia».
«La metti come se ti stessero costringendo» rispose Annabeth, seccata. «Pensavo di piacerti».
«Non mi piaci, io sono innamorato di te, che è diverso» rispose lui, facendole mancare un battito. «E proprio per questo vorrei il tuo bene. Il che significa non metterti un dito addosso mentre sei minorenne e… poco lucida».
«Lo dici tu, che sono poco lucida» commentò lei, alzando un sopracciglio. «Io… è quel che ho sognato per anni. Ma posso sforzarmi di capire, se non mi vuoi, e continuare a essere… la tua sorellina».
Luke inghiottì un boccone di insalata, e scosse il capo. Lo sapevano gli Dei, quanto doveva essergli costato quel singolo gesto, e Annabeth vide con quanta fatica si stava trattenendo dal dirle che, per il suo bene, accettava di tornare a considerarla sua sorella.
«Non potrei» disse, infine. «L’unica volta che ho provato ad allontanarmi da te è andato tutto male. Io… la parte di me che ti ama è la migliore che ho, non posso semplicemente lasciarla andare».
Annabeth posò le posate sul piatto vuoto, e gli tese semplicemente una mano, sopra il tavolo.
«Allora non farlo» disse, semplicemente. «Non lasciarmi andare di nuovo».
 
***
 
«Annabeth, senti…».
Luke non indossava il pigiama, era ancora interamente vestito, con una vecchia maglia stropicciata e dei bermuda azzurri. «Un passo alla volta, okay? Non puoi pensare di pianificare anche questo».
Lei, stranamente, accantonò, e si limitò ad annuire, con aria distratta.
«Possiamo rimanere un po’ svegli?» domandò, invece. «Anche senza parlare. Solo… ti puoi mettere qui, accanto a me?»,
Luke si sedette sulla sponda del letto, per poi stendersi al suo fianco, le mani dietro il capo. «Pensavo fossi stanca» mormorò. «Oggi abbiamo fatto tardi».
Lei non disse niente, ma si raggomitolò contro il suo petto. Con orrore, Luke si rese conto che Annabeth stava piangendo.
«Scusami» mormorò, contro la sua maglietta. «Io… è solo un momento».
Lui finalmente riuscì a riprendere il controllo di sé, sebbene il terrore di sapere cosa avesse provocato quelle lacrime lo paralizzasse, e le accarezzò piano il capo. «Che succede?» domandò, piano. «Puoi dirmi qualunque cosa, lo sai».
«Oh, non che non può» commentò una voce, proveniente dal piccolo balcone della camera d’albergo. «Tu non sei esattamente quel tipo di ragazzo cui si può confessare qualunque cosa, Luke Castellan».
Luke sobbalzò, allungandosi sul comodino per prendere il coltello di Annabeth, unica arma che erano riusciti a portare con loro senza destare sospetti.
«Chi sei?» chiese, con la voce che non ne tradiva il tremore interiore. «Fatti avanti».
«Andiamo, non c’è bisogno di alcuna arma» disse una donna, entrando nella stanza, dopo aver aperto la portafinestra con uno schiocco di dita. «Non è un campo che mi compete, diciamo».
«Lei è…» bisbigliò Annabeth, ma poi si morse la lingua prima di pronunciarne il nome. «Cosa… perché è venuta qui?».
La donna si accomodò su un soffice pouf rosso, incrociando le gambe: era bellissima, sebbene il viso avesse qualcosa di indefinito, come se mutasse continuamente. Aveva i capelli neri e, il secondo dopo, era già divenuta bionda.
«Fai bene a non chiamarmi» convenne Afrodite. «Attireresti inutilmente l’attenzione. Comunque sono qui per congratularmi, mia cara».
«Non…» cominciò Luke, perplesso. «Non è venuta per riportarci a New York?».
«E rovinare la storia più interessante dai tempi della guerra di Troia?» domandò la Dea, laconicamente. «Nemmeno per sogno, mio bell’eroe. Mi stavo divertendo a guardarvi, prima che tu riscoprissi di avere una coscienza e una morale».
«Io non ho riscoperto di avere una morale» sibilò Luke. «Io…».
«Come vuoi» lo interruppe Afrodite. «Ciò non toglie che sei diventato noioso: carino sei carino, ma in quanto a iniziativa… scommetto che sei d’accordo con me, cara».
Annabeth fece per rispondere, poi scosse il capo e si fermò. «Se non vuole consegnarci a… suo padre, perché è venuta fin qui?» chiese. «Pensavo che nessuno sapesse dove siamo diretti».
«Oh, ma io sono dalla vostra parte» asserì la Dea, con enfasi. «Ho convinto Ermes a dirmi tutto, per aiutarvi. Non hai idea da quanto non capitava, un bell’eroe che rapisce la donna di un altro…».
«Non è la donna di nessun’altro» sibilò Luke. «E qui nessuno ha rapito nessuno».
«Vedi, Annabeth, la verità è che avevo altri piani per te» continuò Afrodite, come se non avesse minimamente sentito ciò che Luke aveva detto. «Tu e Percy Jackson… sai che smacco, per tua madre. Ma hai deciso autonomamente, rovinando tutto. E meno male! Ora è tutto immensamente più divertente».
«E quindi perché è venuta fin qui?» domandò Annabeth, pensosa. «Non per dirci che siamo diventati il suo show preferito».
«Nemmeno per dirvi che Percy Jackson sta battendo tutta l’America per cercarvi» aggiunse la Dea. «E dovresti vederlo, Annabeth, è furioso: pensa che Luke ti abbia costretta a seguirlo, con chissà quali minacce».
«Okay, immagino che dovremo fare attenzione» rispose la ragazza. «Per quale altro motivo è qui?».
«Volevo farvi alcune piccole, ma essenziali rassicurazioni» disse Afrodite, con aria serie. «In primo luogo, siamo tutti troppo occupati per venirvi a cercare, quindi dovreste fare in tempo a lasciare l’America prima che mio padre si ricordi di voi».
Luke annuì, come se stesse prendendo mentalmente nota. «La ringrazio per l’informazione» disse, cortesemente. «Se non c’è altro».
«Certo che c’è dell’altro» lo interruppe la Dea. «Annabeth, mia cara… non si gioca tutto stasera, continua a sperare. E, te lo assicuro, quel che temi… non è semplicemente mai successo».
Annabeth spalancò gli occhi sorpresa. «Come fa a sapere…?» mormorò. Poi si rese conto che Luke si era voltato verso di lei, curioso, e riuscì a troncare a metà la domanda.
Afrodite rise, con un suono simile a uno scampanellio. «È il mio lavoro, cara» disse. «Sei fortunato, Luke Castellan. Se la tua fuga romantica non mi avesse divertita così tanto, saresti già morto. Cerca di non deludermi ulteriormente».
 
***
 
Sull’autostrada pioveva a dirotto, gocce d’acqua così grandi che la visibilità si era ridotta drasticamente e Luke, che si rifiutava di fermarsi da più di quattro ore di viaggio, era costretto a guidare con gli occhi puntati sulla strada. Da quando Afrodite aveva lasciato la loro stanza d’albergo, nella cittadina di Williams Lake, Luke non aveva più detto una parola.
Annabeth si era adeguata con sollievo a quel suo mutismo, lieta che non le domandasse niente sulla rassicurazione che al Dea le aveva offerto, come un’elemosina schifata. Quel che temi non è assolutamente mai successo, le aveva detto la Dea dell’amore. E lei, da quel momento, si era sentita invadere da una profonda ondata di sollievo che le aveva sciolto i nervi, aggrovigliati fino a quel momento.
Luke non era mai stato innamorato di Talia, le aveva fatto intendere Afrodite, e lei non riusciva a smettere di pensarci. Era sollievo, assolutamente fuori luogo nella situazione in cui si trovava, che non riusciva a reprimere in nessun modo.
Forse lui non se n’era reso conto, di quanto Annabeth si sentisse più leggera da quando aveva scoperto che quel dubbio no, quel tarlo, che le aveva masticato nervi e sinapsi per mesi non era mai esistito.
«Perché stai sorridendo?» domandò Luke, distogliendola da quelle riflessioni. «A cosa stai pensando?».
«A ieri sera» borbottò Annabeth, incerta. «A… una cosa che ha detto lei».
«Ha detto qualcosa che valeva davvero la pena ascoltare?» chiese lui, laconicamente. «Qui piove sempre più forte, ci conviene fermarci alla prossima città… penso sia Houston».
«Forse non sei stato abbastanza attento, allora» osservò lei. «Comunque sì, è Houston. Circa mezz’ora da qui, credo».
«Siamo proprio nel bel mezzo del nulla canadese» osservò Luke. «Fantastico. E io sono sempre attento».
«Certo» commentò Annabeth, con un sorrisetto ironico. «Attentissimo».
«Quindi, si può sapere di cosa non dovevi preoccuparti?» chiese il ragazzo, sorridendo. «L’ho notato perché sono poco attento».
In quel momento, Annabeth si vide davanti all’ennesimo bivio della sua vita: dire la verità o mentire.
«Se stai per dire una bugia, evita» osservò Luke, scuotendo il capo. «Piuttosto non rispondermi».
«Non ti mentirei mai» disse lei, impulsivamente. «Non… pensavo a te e Talia, che stessi solamente ripiegando su di me».
«Ringrazia che siamo nel bel mezzo di un’autostrada, quindi non posso semplicemente inchiodare e chiederti come tu sia riuscita a partorire un pensiero del genere» disse il ragazzo, a denti stretti. «Ma, comunque: come sei riuscita a pensare una cosa del genere? Immagino ci sia voluto un certo impegno».
«Ero una bambina, quando ho incontrato te e Talia» disse Annabeth, senza scomporsi. «Non… come potevi semplicemente accorgerti di me, dopo avermi vista crescere?».
«Non potevo» convenne Luke. «Ma, in un certo senso, è come se avessi passato quegli anni ad aspettarti».
 
***
 
La pioggia era progressivamente aumentata nel corso del pomeriggio così che Luke, dopo aver passato tre ore seduto in macchina in attesa che la visibilità migliorasse per poter ripartire, aveva capitolato e aveva guidato fino all’albergo più vicino, un piccolo motel non troppo lontano dall’autostrada.
In camera, il ragazzo si era seduto sul letto, pensoso, guardando fuori dalla finestra la pioggia che, con il vento a dirigerla, picchiettava sempre più forte sul vetro. Annabeth si era raggomitolata nella propria parte di letto, dandogli le spalle, e dopo poco si era assopita.
Si voltò a guardarla, mentre borbottava qualcosa a un tono di voce troppo basso perché potesse udirla, e le accarezzò dolcemente il capo. Pensò che, per quanto lei si fosse arrabbiata se soltanto avesse provato a dirglielo, quando dormiva Annabeth era di nuovo bambina: dormiva rannicchiata su sé stessa, quasi come se cercasse una sorta di conforto nel rumore del suo stesso respiro, una mano stringeva il copriletto quasi come se vi si stesse aggrappando per non sprofondare in quel mondo di sogni, incubi, che l’attendeva.
Respirava piano ma, ogni tanto, sembrava quasi fosse scossa da singhiozzi. E, allora, Luke pregava di non essere lui, la causa di quegl’incubi talmente affilati da farla piangere.
Si dovette impedire di svegliarla, quando Annabeth si girò, mostrandogli il volto: stava piangendo davvero. Luke rimase con la mano che le sfiorava i ricci biondi, annichilito, mentre le parole che stava pronunciando non iniziarono ad acquisire una forma e un colore, svelandogli il senso di quel discorso bisbigliato.
«Ti prego, Percy» stava borbottando la ragazza, da chissà quanto. «Lascialo stare».
A Luke si gelò il sangue nelle vene.
 
***
 
Quando Annabeth finalmente si svegliò, era notte fonda e Luke stava distrattamente sfogliando una guida turistica, con un grande Alaska scritto in caratteri azzurrini.
«Ben svegliata» disse il ragazzo, sorridendo. «Hai dormito parecchio, ormai è quasi mezzanotte».
«Potevi svegliarmi» mormorò lei, strofinandosi gli occhi. «Spero che almeno tu sia andato a mangiare qualcosa».
Luke scosse il capo, continuando a sfogliare il libricino. «No» ammise. «Non volevo lasciarti sola… hai avuto un incubo».
«Credo di sì» disse Annabeth, scrollando le spalle. «Nulla di importante comunque».
«Hai sognato che… che ci trovassero, non è vero?» domandò Luke, con un certo tremolio nella voce.
Lei lo guardò e pensò che, ancora una volta, poteva scegliere se mentire o dire la verità: io non ti mentirei mai, gli aveva detto, in un momento che iniziava già a sembrare lontano secoli. Ma aveva detto la verità o aveva già cominciato a mentirgli anche allora?
«Sì» disse infine. «I miei incubi peggiori sono quelli dove non riesco a salvarti».
Solamente dopo aver pronunciato quella frase si rese conto che conteneva un’implicazione che Luke non avrebbe potuto comprendere, ma a lei apparve nuovamente chiara ed evidente tutta la catena di sforzi e cambiamenti che aveva dovuto creare con un solo scopo. Salvare Luke da sé stesso. Questa volta ci sarebbe riuscita, ne era certa.
«È che siamo così vicini» mormorò. «Ho paura che qualcosa… qualcuno ci costringa a tornare indietro».
«Non succederà» disse Luke, sfiorandole il braccio. «Vedrai… tra cent’anni non ricorderemo nemmeno di questa sera».
«Conti di essere ancora vivo, tra cent’anni?» chiese Annabeth, sorridendo. «Sei molto ottimista».
«Conto di essere vivo, felice e circondato dai nostri nipoti» rispose Luke, sorridendo. «E saranno tutti quanti biondi e adorabili e… saremo felici, vedrai».
Lei annuì ma, dentro di sé, avvertire come un’ombra che macchiava quel bellissimo sogno che Luke stava cercando di mostrarle. Un mosaico sporco d’inchiostro che, nella mente di Annabeth, s’incrinava e vomitava calcinacci con ogni secondo che passava.
«Sì» disse lei, e quella singola parola le graffiò la gola come un frammento di vetro. «Saremo felici».
«Io ne sono certo» ribadì Luke, dolcemente. «Credo che la mia felicità abbia a che fare con te».
Lei cercò di sorridere, ma quel presentimento non la lasciava.
 
***
 
Poco prima di aprire gli occhi, in un confuso dormiveglia dove i pensieri s’accavallavano con la realtà, Annabeth pensò distrattamente che era stata sciocca, la sera precedente, a nutrire così tanti dubbi sull’ottimismo di Luke: meno di trenta ore di viaggio li separavano dal confine con l’Alaska, erano così vicini che lei, seppur mezza addormentata, riusciva quasi a percepire il freddo sulla pelle.
Finché non si rese conto che la finestra della camera era aperta e qualche goccia di pioggia, trainata dal vento, era riuscita a macchiarle il viso.
«Buongiorno, Sapientona» Percy Jackson era seduto sulla sponda del letto. «Strano che tu ti sia svegliata solamente ora».
C’era un’ombra strana, nello sguardo del figlio favorito di Poseidone, che ne sfigurava i lineamenti e faceva sembrare i suoi occhi verdemare come vetri appannati da un fumo grigiastro.
«Meno male che ti abbiamo trovata» continuò Percy. «Io… ti ho sognata, quando stavate andando a Vancouver, ma non sono riuscito a intercettarvi lì».
«Mi avete trovata?» domandò Annabeth, perplessa. Mentre scandiva quelle parole, al centro esatto del suo petto si era formato un grumo doloroso di sensazioni, che pulsava come un secondo cuore.
Percy annuì, serio. «Abbiamo chiesto un’impresa» disse. «Io, Tyson e… Clarisse. Ha insistito per venire anche lei».
La ragazza si guardò attorno, cercando il viso della figlia di Ares o del ciclope, ma non vide nessuno. Entrambi i suoi cuori persero un battito, nel constatare anche Luke non era più lì.
«Luke?» riuscì infine a chiedere, sperando che la propria voce non tradisse il turbamento che stava provando.
Percy affilò lo sguardo, come se anche soltanto l’udire il suo nome potesse infastidirlo. «Clarisse e Tyson lo stanno portando sull’Olimpo» disse. «Spero che paghi per tutto questo».
Annabeth non riuscì nemmeno a guardarlo negli occhi, certa che, se solamente lui avesse ricambiato il suo sguardo, si sarebbe sciolta in un fiume di lacrime: lo sapeva perfettamente, che le possibilità che aveva Luke di uscire dall’Olimpo ancora in vita erano nulle.
«Eravamo tutti preoccupati, quando abbiamo scoperto che ti aveva rapita» continuò Percy, scompigliandosi i capelli imbarazzato. «Ma, almeno, fuggendo ha impedito che Crono riuscisse nei suoi intenti».
«Pensi che lo terranno in conto?» bisbigliò Annabeth, quasi come se si pentisse del suono delle proprie parole. «Che ci ha salvati da una guerra?».
«Una guerra causata da lui stesso» rispose il figlio di Poseidone, con evidente astio. «Non dimenticartelo… nemmeno suo padre potrà fare niente».
«Lo so» mormorò Annabeth, chinando il capo. «Volevo solamente esserne sicura».
La finestra era ancora aperta, il vento sibilava tra gli alberi gonfiandone i polmoni, qualche goccia d’acqua le colpì nuovamente il viso. Pregò silenziosamente che Percy potesse scambiarle per pioggia.
 
***
 
«Certo che potresti» confermò Aion, meditabondo. «Ma, Annabeth, il tempo è più complicato di un “potrei”. Ci sono infiniti mondi possibili, come disse un tuo fratello qualche secolo fa, e ogni azione compiuta ti proietta in uno di questi».
«Deve essercene uno dove posso riuscire a impedire che Luke muoia» osservò Annabeth, con forza. «Uno in cui potremmo essere di nuovo…».
Una famiglia. Le parole le si bloccarono in gola, come sabbia o cocci di vetro, facendola tossire.
«Potrebbe» convenne il Dio. «Chi lo sa? Se solo potessimo vedere l’infinita catena di conseguenze derivanti da ogni singolo gesto, allora, te lo saprei dire con certezza».
«Non mi serve, una certezza» borbottò lei. «Mi serve tentare, e lo farò finché non riuscirò a salvarlo. Mi aiuterà?».
«Posso farti tornare indietro tutte le volte che vuoi» rispose Aion. «Ma guarda un attimo la mia scacchiera, e dimmi se ne sei ancora così convinta».
Annabeth guardò la scacchiera e, sulle caselle, si alternarono scene da due futuri distinti, di cui lei a malapena riconosceva l’esistenza.
«Hai capito, adesso?» domandò il Dio bambino. «Il futuro è come una ragnatela: puoi tagliarne un filo, percorrerne un altro, cambiare strada. Ma qualunque percorso tu decida di imboccare ti porterà sempre, inevitabilmente, al centro».
«Ho bisogno di tornare indietro» lo interruppe Annabeth, secca. «Questa volta so come fare».
In un modo che avrebbe segnato una netta cesura con i loro sogni: non l’avrebbero mai vista, l’Alaska, o la Grecia, la Francia e perfino la Russia. Erano sogni da bambini che, in quel mondo duro e crudele, non trovavano più posto.
«Puoi continuare a tentare» disse Aion, conciliante. «Ma temo che, per quanto tu possa provarci, non esista un mondo in cui si riesca a salvare Luke Castellan».
«Un modo c’è» insistette Annabeth. «Io ne sono sicura».
Il Dio chinò il capo, prendendo in mano i dadi, rigirandoli tra le mani paffute, e lanciandoli sulla scacchiera con un tonfo sordo. Distrattamente, Annabeth pensò che certamente non erano i dadi adatti per giocare a backgammon: tutte e sei le facce erano bianche


 
Buongiorno a tutti con questo secondo capitolo.
Spero sia stata una lettura piacevole: oggi non mi dilungherò in spiegazioni, sto postando questo capitolo in un momento di pausa studio. Ciò implica che non posso nemmeno fare discorsi sensati, ho il cervello fuso. E non posso nemmeno dare una data certa per il prossimo capitolo, di cui mi manca circa 1/3 da scrivere... indicamente, penso sarà online verso il 3/4 luglio, mentre quello successivo, che sarà anche l'epilogo di questa storia, sarà online entro il 13 luglio, data di scadenza per il contest cui partecipa, sperando di riuscire a finire in tempo, ma sono ottimista.
Grazie a tutti quelli che hanno impiegato il proprio tempo per leggermi.

Gaia

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3: Dove non possono ferirci ***


«Hai capito, adesso?» domandò il Dio bambino. «Il futuro è come una ragnatela: puoi tagliarne un filo, percorrerne un altro, cambiare strada. Ma qualunque percorso tu decida di imboccare ti porterà sempre, inevitabilmente, al centro».
«Ho bisogno di tornare indietro» lo interruppe Annabeth, secca. «Questa volta so come fare».
In un modo che avrebbe segnato una netta cesura con i loro sogni: non l’avrebbero mai vista, l’Alaska, o la Grecia, la Francia e perfino la Russia. Erano sogni da bambini che, in quel mondo duro e crudele, non trovavano più posto.
«Puoi continuare a tentare» disse Aion, conciliante. «Ma temo che, per quanto tu possa provarci, non esista un mondo in cui si riesca a salvare Luke Castellan».
«Un modo c’è» insistette Annabeth. «Io ne sono sicura».
 
 
3.  Dove non possono ferirci

 
Quel giorno sembravo un mostro
Quel giorno è durato un anno
(…)
Ma quale Dio prego? Non so se mi spiego
Sono cresciuto pure senza di te
Ma sai quanti tagli ormai che non saprò mai più richiudere
(…)
La vita ci ha preso a calci, ci ha unito come due fedi
L'amore rende instabili, forti e pure indifesi
Piangiamo come dei salici, lottiamo come dei guerrieri
(Irama, Un respiro)

 
In all the good times I find myself
Longin' for change
And in the bad times I fear myself
I'm off the deep end, watch as I dive in
I'll never meet the ground
Crash through the surface, where they can't hurt us
(Lady Gaga, Bradley Cooper, Shallow)
 
«Annabeth, ti prego» Luke, controluce, aveva gli occhi ricolmi di lacrime. «Vieni con me. Non… per te posso lasciare tutto e fuggire, ma da solo…».
Lei lo guardò, meravigliata: aveva ancora negli occhi il sorriso del Dio bambino, Aion, mentre gettava i dadi vuoti sulla scacchiera. Quel lancio aveva generato un rumore che l’aveva assalita, come un’onda d’urto, facendola tremare.
Quando il rumore s’era esaurito, davanti a lei era comparso Luke Castellan. Era esattamente come se lo ricordava, come lo aveva sognato, per più di due anni, mentre le chiedeva di fuggire insieme. Di fregarsene della guerra, della morte, degli Dei avversi e, soprattutto, di Percy.
Avrebbe mai potuto perdonarla, Percy, se mai avesse avuto il coraggio di confessargli che, in un altro futuro che non avrebbero mai più vissuto, avrebbe quasi potuto amarlo?
Quasi. Se quel quasi non avesse avuto un nome, un cognome, e due occhi azzurri che la scrutavano in paziente attesa, pieni di aspettative.
«A cosa servirebbe, fuggire?» domandò Annabeth, con una certa dose di rammarico. «Ci troverebbero, Luke. L’unica cosa che posso fare è…».
Prese un profondo respiro, costringendosi a pronunciare quelle parole, così contrarie a tutto quello in cui aveva creduto fino a quel momento. Luke parve comprendere cosa stesse per dire, e fece per impedirle di dirglielo, ma Annabeth lo bloccò con un gesto della mano.
«Potrei venire con te» disse. «Io sono così stanca di combattere contro qualcosa che non posso controllare. Voglio venire con te, se davvero ci sarà una nuova età dell’oro… lì non potrebbero ferirci».
«Si prenderà il mio corpo» mormorò Luke, chinando il capo. «È il prezzo da pagare».
«Troveremo un modo» mormorò Annabeth. «Per fargli scegliere qualcun altro. Io… scappare è inutile, Luke. Possiamo solamente combattere dalla stessa parte».
«E abbandoneresti tutto quanto per venire con me?» domandò il figlio di Ermes, con una vena d’ironia che gli sfregiava la voce. «I tuoi amici, tuo padre, Percy Jackson… per servire Crono?».
«Non per servire Crono» rispose lei, mestamente. «Per seguire te, però, sì».
«Te ne pentirai, Annabeth» disse Luke, scuotendo il capo. «Non… io sono destinato a morire, che rimanga con Crono o che mi consegni agli Dei. Tu no».
«Io voglio venire con te» insistette Annabeth. «Siamo una famiglia, Luke. L’hai promesso».
«Proprio perché siamo una famiglia vorrei evitarti di finire nel fango insieme a me» mormorò lui. «Sono un mostro, potrei rovinare anche te… ma accetterò di prendermi le mie colpe, con chiunque. Ma non posso permettere che tu mi segua».
Lei pensò che non poteva permettersi di tentare l’ennesima fuga che non avrebbe portato da nessuna parte: non avrebbero mai visto l’Alaska insieme, forse, ma Luke doveva sopravvivere alla guerra.
Lui stava già per andar via, con il capo chino immerso in chissà che pensieri, ma Annabeth lo fermò tirandolo per la manica della maglietta.
«Aspetta» gli disse. «Forse non posso spiegarti perché voglio venire con te. Ma potrei mostrartelo».
Luke non fece in tempo a risponderle, che Annabeth fece un passo avanti, imbarazzata, e gli cinse il collo con le braccia.
Lui spalancò gli occhi, sorpreso, e fece per dirle qualcosa. Ma, prima che lui potesse proferir parola, Annabeth lo baciò. Mentre si sorprendeva lei stessa della propria intraprendenza, Luke tentennò: seppur inizialmente non avesse risposto al bacio, dopo una manciata di secondi si vide costretto a cedere e le cinse la vita con le mani, avvicinando la ragazza a sé. Aveva sempre avuto paura, Luke, di un contatto così intimo con Annabeth: aveva mani grandi, lui, e temeva di non saperne dosare bene la forza. Un giorno, così pensava, avrebbe potuto romperla in un milione di frammenti schiacciandola sotto quella mappa di graffi e calli dovuti agli allenamenti.
Lei pensava che c’erano voluti due mondi possibili differenti, per capire che, se non si fosse fatta avanti lei, Luke non l’avrebbe mai fatto: che il suo grandioso eroe personale, bello e coraggioso come pochi, la temeva più di quanto non avesse mai fatto con un mostro e, forse, addirittura con Crono stesso. Puoi avere paura di qualcosa, o qualcuno, che dovresti tenere al sicuro?
Contavano ancora qualcosa, tutte quelle promesse che Luke aveva sistematicamente infranto, schierandosi con Crono? Per lei, contavano?
Forse contavano abbastanza per permetterle di stringerlo a sé come se le mancasse l’aria, come se fosse l’unico sollievo a quei battiti dolorosi che il cuore si costringeva a compiere, per mantenerla in vita. Doveva esistere un mondo possibile in cui avrebbe potuto salvare Luke, si disse, staccandosi da lui e guardandolo negli occhi.
«Sei ancora convinto che non dovrei venire con te?» domandò, senza riuscire a impedirsi di sorridergli.
«Io…» borbottò Luke, incerto. «Se tornassi indietro, Crono si prenderebbe il mio corpo».
«Troveremo un modo» sussurrò Annabeth, rassicurante. «Possiamo fargli scegliere qualcun altro. Fidati di me».
Era quello, il mondo in cui sarebbe riuscita a salvare la vita di Luke.
 
***
 
 La Principessa Andromeda era ormeggiata nella baia di S. Francisco, resa invisibile dalla Foschia. Nella luce pallida e opaca delle poche stelle visibili, la nave da crociera sembrava solamente più cupa e pericolosa, ma Annabeth non aveva più paura: il ricordo slavato di altri due mondi possibili si era saldato sulla sua pelle, come una corazza, fondendosi con il solo scopo di quell’ennesimo viaggio a ritroso nel tempo. Salvare Luke. Anche se quello non fosse stato il mondo possibile giusto, lei l’avrebbe reso tale, sarebbe riuscita a creare uno spazio in cui nascondersi, dagli Olimpi e da Crono, dove non avrebbero potuto ferirli.
Non ci sarebbe stata una spada che avrebbe attraversato il corpo inerme di Luke, nessun rumore di muscoli separati dalla lama, di sangue che s’appiccica sul pavimento, niente di tutto questo. Più Annabeth s’aggrappava alla mano di Luke, più ne era convinca: era quello, il loro mondo possibile, doveva essere quello. Se prima aveva avuto delle remore, una morale, che le avevano impedito di compiere scelte avventate, adesso, era come se si fosse spogliata di tutto questo, come se il suo obiettivo avesse obnubilato tutto il resto. Salvare Luke. Se lo ripeteva come una formula magica, aggrappandosi a quei brandelli di memoria che, lo sapeva, presto sarebbero svaniti. Non poteva più permettersi di dimenticare gli errori passati, doveva ripercorrere continuamente quegli altri mondi, altri sogni, altri scopi, per rafforzare le proprie motivazioni, per spingersi oltre il limite della propria moralità.
Erano finiti per sempre, i tempi dolciastri dell’infanzia, Annabeth era cresciuta in maniera rapida e dolorosa: facendo a frammenti, più o meno consapevolmente, il proprio stesso cuore. E, all’alba del suo terzo viaggio indietro nel tempo, era stanca, ma non rassegnata.
«Promettimi una cosa» mormorò Luke, quando ormai pochi passi li separavano dall’imbarcazione. «Se… se dovessero metterti in pericolo, scappa. Non preoccuparti per me, io me la cavo sempre, in qualche modo».
Se soltanto avesse potuto dirgli quanto si stava sbagliando, senza mettere in pericolo lo stesso svolgimento di quel futuro.
«Te lo prometto» mormorò. «Ma troveremo un modo, assisteremo alla nascita di un nuovo mondo. Insieme».
Questa volta, si disse Annabeth, Luke non avrebbe avuto bisogno di pregare nessun Dio. Sarebbero riusciti a sopravvivere da soli.
 
***
 
Sebbene sapesse perfettamente che era improbabile non incontrare nessuno, mentre Luke la guidava tra le cabine della principessa Andromeda, quando si ritrovarono davanti l’empusa Kelli, sobbalzò.
«Ma che carino» trillò il mostro, digrignando i denti. «Hai portato un’amica».
«Non ti avvicinare a lei, demone» le intimò Luke, secco. «Non sono cose che ti riguardano. Impara a stare al tuo posto».
«Ma io so perfettamente in che posto vorrei essere» rispose Kelli, sorridendo. Per un attimo, ad Annabeth apparve come una bellissima ragazza dai capelli ricci, sebbene sapesse che era solamente l’effetto della Foschia.
«Non pensarci nemmeno» rispose Luke, disgustato, prevedendo le intenzioni del mostro. «E sparisci dalla mia vista».
L’empusa sbuffò, ma non disse niente e, con un fruscio della gonna lunga, si avviò nella direzione opposta alla loro. Luke si voltò verso la porta della cabina, quasi come se anche soltanto la vista della schiena del mostro potesse disgustarlo, e aprì la porta. L’interno della stanza era ordinato e pulito, quasi come se Luke non fosse abituato a passarvi del tempo. Annabeth tentennò, prima di entrare.
«Non dirmi che…» bisbigliò. «Tu e quel mostro…».
Luke la guardò come se fosse impazzita e scosse il capo, turbato. «Certo che no» rispose. «Io… mi ero fatto ingannare dalla Foschia, ma è durato poco».
Annabeth non riuscì a trattenere la smorfia che le increspò il viso, ma non disse niente, lasciandolo ad ascoltare il suo silenzio. Luke le prese la mano, guidandola nelle viscere di quella camera, e chiudendosi la porta alle spalle.
«Ascoltami» sussurrò, accomodandosi su un pouf. «Io… ero molto arrabbiato con te, per questo ho accettato di uscire con quella cosa».
«Vuoi dire che è stata colpa mia, se sei uscito con un mostro?» chiese lei, tagliente. «Divertente».
«L’ultima volta che ci siamo visti» spiegò Luke. «Ti avrei portata con me già allora. Se solamente non fossi scappata con Percy».
«Non significa niente» rispose Annabeth. «Era ovvio che sarei andata con lui, io… odiarti era tutto quello che mi rimaneva di te».
«Adesso però sei con me» disse lui, con una dolcezza strana, come venisse da un altro futuro. «Noi… possiamo farcela».
Altre parole gli s’incagliarono tra le corde vocali: io non ti farò mai più paura, pensò. Quando aveva capito che, nonostante le lotte, i tradimenti e tutto quanto, alla fine, sarebbe stato morto o quasi, qualcosa in Luke s’era infranto. Un giorno si era guardato allo specchio, stanco e invecchiato, e s’era reso conto che, per un anno e più, era stato un mostro.
Quel giorno era stato quando, mesi prima, aveva incontrato Annabeth nel labirinto e lei l’aveva guardato come se faticasse a riconoscerlo. Quella volta, Luke aveva sperimentato la paura vera, nel rendersi conto in cosa s’era trasformato, che incubo si era insidiato tra le sue ossa, fondendole, costringendolo a mutare forma.
«Lo so» mormorò Annabeth, sedendosi sul letto. «Vedrai, troveremo un modo per essere di nuovo una famiglia».
 
***
 
Quella notte, Luke cadde nuovamente preda dei propri incubi: Annabeth se ne rese conto intorno alle tre di notte quando, svegliandosi improvvisamente, si rese conto che Luke sedeva sulla sponda del letto, con la testa tra le mani.
Il ragazzo non parve accorgersi che anche lei si era svegliata, ed era scosso da singhiozzi silenziosi, ma comunque in grado di ferire Annabeth al pari di una coltellata. La ragazza, incapace di dire qualcosa, si mise seduta e, sebbene si fosse progressivamente disabituata all’idea di qualunque contatto fisico con Luke, da quando aveva smesso di essere bambina, lo abbracciò.
Lui inizialmente sobbalzò, sorpreso, ma poi con una mano le sfiorò la sua, che gli cingeva le spalle.
«Scusami» mormorò. «Ti ho svegliata».
«Dovevi svegliarmi» rispose lei, piano. «Io… non posso mandare via i tuoi incubi, ma posso starti…vicino».
Quanti anni avevi quando hai imparato che i veri mostri sono gli incubi degli altri? Quando hai sperimentato che non esiste una paura peggiore di veder spaventata una persona che ami, quando hai temuto di non poter varcare quel portale invisibile tra la realtà e l’onirico, ponendo fine a una storia troppo dura, e crudele, per essere sognata?
«Adesso lo so» disse Luke, usando di nuovo quella dolcezza strana, che faceva a pugni con quell’esistenza nuova, e spettrale, che stavano vivendo. «Prima di questa sera, ti sognavo sempre nel Labirinto».
«Nel labirinto?» chiese Annabeth, perplessa. «Perché proprio lì?».
«Perché è stato quando è finita, quando ho capito…» Luke scosse il capo. «Che non saresti mai venuta con me, che ti avevo… persa, in un certo senso».
Ad Annabeth si spaccò in due il cuore: una metà gli avrebbe volentieri detto che, per quanto lei si fosse sforzata di apparire sdegnata dalle sue parole, sarebbe stata più che ben disposta a cedere tutto per seguirlo, per cercare quello che più bramava al mondo. Una famiglia. L’altra metà, che ricordava tutti i futuri finiti nel dimenticatoio, tremava.
«Ma saresti stata al sicuro, me lo sarei fatto bastare» concluse il ragazzo, voltandosi verso di lei. «Sarebbe bastato per perdonarmi».
«Nessuno deve perdonarti niente» rispose Annabeth. «Sei tu che dovresti perdonare qualcuno per tutto quello che hai passato».
Per tutto quello che abbiamo passato, avrebbe voluto dire: due fughe fallite, il miraggio dell’Alaska che non erano mai riusciti nemmeno a sfiorare, il rumore della spada di Ares che l’attraversava. Era lei, e Luke, a dover perdonare qualcuno.
Ma ne avrebbe mai avuta la forza, di dimenticare tutte quelle cose, di seguire il richiamo del dado bianco di Aion e vivere in quel nuovo futuro, senza ricordi?
«Promettimi una cosa» mormorò Luke, con lo sguardo basso. «Se prenderà il mio corpo, scappa. Dirai a tutti che ti ho rapita a casa tua, a S. Francisco, che sono quello cattivo, da combattere. Ma scappa».
«E lasciarti qui, da solo?» chiese lei, sgomentata. «Come potrei…».
Ma Luke le poggiò un dito sulle labbra, impedendole di finire la frase. «Non sarei più io» disse. «Tutto quello che hai conosciuto, di me, semplicemente non esisterà più. Promettilo».
«Troveremo un modo» rispose Annabeth, ma aveva le lacrime agli occhi. «Non comportarti come se fossi già morto».
«Prometti» sussurrò Luke, sfiorandole il viso. «Forse non sono ancora morto, ma… non ho molte possibilità di non esserlo di qui a breve. Ti prego. Promettimi che ti metterei al sicuro, tu… sei l’unica persona di cui mi sia mai importato per davvero».
«Va bene, te lo prometto» disse lei, guardando basso. «Sei contento, adesso?».
Per un momento pensò di essere riuscita a trattenere le lacrime ma, nel momento in cui Luke le sfiorò il viso, guardandosi la mano con orrore, comprese di aver fallito.
«Non dovrei nemmeno essere sorpreso» mormorò lui, asciugandole una lacrima con il dorso della mano. «Non è la prima volta che ti faccio piangere».
Lei non fece nemmeno in tempo a chiedergli come facesse a sapere di tutte quelle notti in cui, al sicuro nel proprio letto al Campo, si era addormentata con gli occhi arrossati. Di tutte le volte in cui si era nascosta dagli altri, da Percy, per non far vedere come si erano infrante, una volta dopo l’altra, tutte le sue speranze quando aveva capito che lui non sarebbe tornato indietro sui propri passi. Che era andato via, perduto, senza speranze. O, forse, con una speranza soltanto: che lei lo salvasse, anche da sé stesso.
«Potresti fare in modo che sia l’ultima» rispose lei, asciugandosi le tracce di pianto con la mano. «Dipende da te, sai».
Lui le sfiorò i capelli, in una carezza accennata, con una delicatezza che la sorprese. «Lo so» disse Luke, semplicemente. «Farò del mio meglio, nel tempo che mi resta, e questo te lo posso promettere».
«Avrai tutto il tempo del mondo» ribadì Annabeth, con forza. «Per avere una casa, essere una famiglia. Tutto quello che vorrai».
Lui sorrise dolcemente. «Certo» disse. «Hai ragione».
Ma, controluce, con la cicatrice che gli deformava il viso in un secondo e orribile ghigno, Luke non sembrava convinto dalle sue stesse parole.
 
***
 
Fortunatamente, Crono non aveva mai chiesto di vederla, sebbene Annabeth sapesse con un ragionevole grado di certezza che il signore dei Titani fosse a conoscenza della sua permanenza nella Principessa Andromeda. Ma, con il singolo passare delle ore, se non perfino dei minuti, Luke diventava più pallido, e nervoso.
Guardandolo in viso, era come se ogni secondo gli scavasse solchi che prima non c’erano mai stati, come se una lancetta invisibile gli corresse in fronte, inseguita dal Tempo.
Finché, un giorno che nessuno di loro avrebbe saputo collocare con certezza nel calendario, il tempo implose su sé stesso, ripiegandosi in un’istante soltanto, che aveva il sapore dolceamaro di qualcosa sul punto di terminare. Fu il giorno, no, l’istante, in cui Luke tornò nella propria cabina e, sulla fronte, aveva dipinto della tiepida rassegnazione.
Non disse niente, ma quel silenzio bastò per entrambi.
«Mi dispiace» disse infine Luke, sottovoce. «Non pensavo che… sarebbe finita così, nonostante tutto».
«Abbiamo fatto del nostro meglio» concesse Annabeth, conciliante. «Non… non so nemmeno come potremmo fare, adesso».
Quella stessa ammissione ebbe il potere di frantumarle il cuore in un sussurro, ferendola dall’interno. Dentro di sé, Annabeth sentì, ancora una volta, il proprio mondo che si scollava dai castelli in aria che vi aveva costruito sopra, sciogliendosi in quell’angoscia pastosa che le rendeva difficile persino vederci attraverso. Per una manciata di giorni, che adesso avevano la consistenza di coriandoli colorati in un mare di carta bianca, aveva creduto per davvero che fosse quello, in futuro in cui nessuno li avrebbe più potuti feriti.
Che forse, all’interno della sporcizia e del male, vi era un posto, per quanto piccolo e pericoloso, anche per loro. Se era quello, essere un mostro, il prezzo da pagare, lei avrebbe offerto tutto ciò che aveva, pur di non sentirsi più braccata dalle persone con cui aveva combattuto per anni, per non vivere nella paura di perdere Luke ancora una volta.
Aveva pensato che cambiare in maniera così radicale li avrebbe mantenuti al sicuro, se non dagli Dei almeno da Percy, e che non avrebbe mai più visto Luke accasciarsi su sé stesso, ferito da una spada talmente indegna di sfiorarlo. Non ci sarebbero stati gridi soffocati dal sinistro gorgoglio del sangue, lame che penetravano nella carne come se stessero tagliando burro, il triste rumore degli organi interni che venivano tagliati via dalla spada. Non più.
«Deve esserci un altro modo» mormorò, a sé stessa. «Deve esserci per forza, io…».
Luke le carezzò il capo. Sembrò quasi che quel gesto gli avesse prosciugato ogni energia, il sorriso tirato che aveva cercato di tener su si spense improvvisamente e, nella penombra di quella stanza, apparve solamente stanco ed improvvisamente invecchiato.
«Va bene così» le disse, piano. «Mi basta sapere che tu starai bene. Io… sono disposto a pagare per i miei errori e, se servirà, anche per quelli degli altri».
«Non parlare come se fosse già finita» rispose lei, con forza, ma aveva la voce sporca di pianto. «Noi… possiamo ancora trovare una soluzione, io non posso arrendermi così».
«A volte devi solamente lasciar perdere» commentò Luke, dolcemente. «Non puoi porre rimedio a una vita che è già tutta rotta».
Lei avrebbe voluto dirgli che poteva, che c’erano ancora così tante possibilità inesplorate, che avrebbe tentato in ogni mondo possibile, pur di trovare una soluzione. Ma le parole non uscivano: la consapevolezza che, per quanto avesse potuto tentare, non sarebbe mai riuscita a mettere insieme i frammenti del futuro che desideravano, si fece strada, annichilendola.
Il futuro è come una ragnatela: puoi tagliarne un filo, percorrerne un altro, cambiare strada. Ma qualunque percorso tu decida di imboccare ti porterà sempre, inevitabilmente, al centro.
«Certo che posso» rispose Annabeth, con una sicurezza che non provava. «Possiamo ancora andare via di qui».
Ma lui scosse il capo, disorientandola. «Comunque vada, che combatta per Crono o che scelga di tornare dagli Dei» disse. «È come se fossi già morto».
«Potrebbe cambiare idea» disse lei, aggrappandosi a ogni minima speranza che le rimanesse. «Andiamo via, non… non puoi semplicemente gettare la spugna, io non te lo permetto».
«Lo so, che continuerai ad avere speranza, nonostante tutto» rispose Luke, scrollando le spalle. «E ti sono grado anche solamente per aver voluto tentare, ma adesso…».
«Non dirlo nemmeno per scherzo» lo interruppe Annabeth, con un’occhiataccia velata di lacrime. «Io non ti lascerò qui, senza sapere cosa ti succederà».
«Non sarò più io, Annabeth. Mi butteranno fuori dal mio corpo e non saprò più chi ero, prima» disse lui, calmo. «E non saprò più chi sei tu, che sei stata l’unica scintilla che mi ha riscaldato quando non riuscivo nemmeno ad accendere un fuoco, che hai accettato di seguirmi anche quando non meritavo niente».
«Non puoi chiedermelo» ripeté lei, che ormai piangeva senza ritegno. «Io non ti lascio qui, da solo».
«Posso accettare di perdermi» rispose Luke, chinando il capo. «Di non sapere più chi sono, e perfino chi sei tu. Ma ferirti, senza sapere chi ho davanti?».
«Ti perdonerei» rispose Annabeth. «Cercherei un modo per farti tornare indietro e ti perdonerei, per tutto quello che potresti fare».
«Io avrei paura di me» disse lui, piano. «E non potrei mai perdonarmi, se ti facessi del male».
 
***
 
Quella sera, gli incubi fecero il resto.
Luke non si mosse minimamente, nel sonno, ma quando si voltò verso di lei, Annabeth si rese conto che era turbato pure mentre dormiva. Una linea di preoccupazione gli distorceva il viso come una seconda cicatrice.
Non avrebbe mai avuto il coraggio di domandarglielo, ma Annabeth conviveva con la certezza annichilente che stesse sognando di farle del male, di non essere più in sé, di aver perso ogni controllo. Lei non aveva chiuso occhio. Ogni volta che il sonno iniziava a danzarle lungo le palpebre, intravedeva un tiepido biancore, e il suono di un lancio di dadi.
Quel rumore le stava scavando il cervello, come una goccia d’acqua lungo un tubo arrugginito, sfinendola. Qualcosa, dentro di lei, le urlava basta, è finita, che altro puoi fare, ma Annabeth si rifiutava di ascoltarla.
Mai più, si era detta il giorno in cui aveva chiesto a Luke di portarla con sé. Mai più una spada conficcata nelle viscere, mai più braccati, mai più presi in giro dagli Dei, mai più sola, senza di lui, a rimpiangere tutti gli e se che avrebbe potuto compiere. Ma, mentre Luke mugolava qualcosa nel sonno, una certezza si era prepotentemente insinuata in lei: non esisteva, per davvero, una via di fuga, un mondo possibile dove avrebbe potuto salvarlo, dove sarebbero stati… una famiglia.
Ancora una volta, la più grave di tutti, gli Dei si erano presi gioco di lei, concedendole un tentativo che, sicuramente ne avevano la certezza, non sarebbe mai andato a buon fine. Chissà se Aion aveva riso, nel vederla vagare come un ragno sulla ragnatela, senza sapere bene dove andare e finendo, inevitabilmente, sempre alla medesima conclusione.
E lei si era fidata di Ermes, che l’aveva odiata per non aver salvato il suo figlio prediletto, di sua madre che, nonostante tutto, l’aveva appoggiata, forse persino di Aion. Posso smettere di tentare, pensò Annabeth, con una vena di tristezza, carezzando il capo biondo di Luke, abbandonato mollemente sul cuscino. Ma di voi mi fidavo.
 
***
 
Ogni ora era fatta d’oro. Da quando Annabeth aveva realizzato che presto Luke avrebbe smesso di essere il suo Luke, ogni secondo era diventato l’ultimo: si era riscoperta a guardarlo, anche quando lui dava segno di accorgersene, come se la sua memoria potesse semplicemente svuotarsi per contenere ogni suo singolo, inutile, respiro.
Forse, un giorno così vicino da essere quasi dolorosamente tangibile, non le sarebbe rimasto nient’altro. Un bel ricordo, Luke che guidava una macchina diretto in Alaska, pioggia che cadeva sui finestrini. Nient’altro.
Forse non sarebbe mai più tornata indietro, non avrebbe più scelto un’altra strada da percorrere, un filo da tagliare. Ma avrebbe fatto qualunque cosa in suo potere per ricordare le volte in cui ci aveva provato, con tutta sé stessa, a salvare Luke. Avrebbe ricordato i momenti belli, in cui avevano cantato una canzone alla radio, o in cui s’erano seduti accanto, sulla sponda del letto, a chiacchierare. E, con il tempo e un pizzico di pazienza, tutti questi ricordi avrebbero inglobato quelli brutti, facendoli sparire.
Le sarebbe rimasto un bel ricordo, di Luke Castellan, almeno questo glielo dovevano concedere. Non avrebbe più chiesto nient’altro, si sarebbe fatta andar bene il dover convivere con uno spettro per tutti i giorni che le rimanevano, a patto che le permettessero di ricordare Luke che canticchiava mentre guidava, che beveva troppo caffè la mattina, che lavava la propria maglietta nel lavabo di una stanza d’albergo. Non l’avrebbe detto a nessuno, che conservava quelle memorie, purché le permettessero di tenerle con sé.
«Annabeth» Luke le sfiorò il braccio, facendola voltare. Aveva gli occhi gonfi e cerchiati dalle occhiaie. «Ti ricordi della promessa che mi hai fatto?».
In quel momento, Annabeth avvertì distrattamente che il cuore le si stava spezzando, ma non come un vaso di coccio o ceramica. Era come se qualcuno gliel’avesse preso in mano e stesse lentamente separando la carne, stracciando il muscolo cardiaco: era sporco, doloroso e inutile, una separazione innaturale e forzata.
«Non adesso» rispose, piano. «Non… non è ancora mattina. Possiamo fare finta che non sia successo niente?».
Il sorriso che Luke le rivolse non fece altro che allargare la ferita, cospargerla di sale. «Lo vorrei tanto» ammise. «Ma preferirei saperti al sicuro».
«Vieni con me» mormorò Annabeth. «Possiamo andare via, possiamo trovare un posto dove… dove non riescano a ferirci».
«Erano solamente sogni» mormorò lui, stanco. «Non… non saremmo comunque riusciti a viaggiare in giro per il mondo, ci avrebbero trovati, in qualche modo».
Lei non ebbe il cuore di dirgli che aveva perfettamente ragione, che anche lei era stanca di sentirsi abbandonata e presa in giro dagli Dei, ma che dovevano tentare, che doveva esserci un mondo dove avrebbero potuto vedere l’Alaska. Ma lo sapeva anche lei, che i mondi possibili altri non erano che cerchi concentrici, che sfociavano inevitabilmente in un unico centro.
«A me va bene così, te lo giuro» disse Luke, dolcemente. «Ho… ho visto abbastanza per sapere che, prima o poi, dovrò pagare il prezzo per ciò che ho fatto».
«Ti faranno pagare un prezzo troppo alto» bisbigliò Annabeth, chinando il capo. «Non…il fatto che Crono ti abbia manipolato non sarà una giustificazione, per loro».
«Lo so. Sono disposto ad assumermene la responsabilità» disse, asciugandole distrattamente una lacrima con il dorso della mano. «A patto che tu sia in salvo».
«Non puoi volere questo per me» rispose lei, turbata. «Non puoi volermi pensare felice, senza di te, magari con dei bambini che nemmeno vorrò mai, perché…».
Perché non sarebbero i tuoi, pensò, ma non riuscì a dirglielo. Non riusciva più a intravederla, una vita che contemplasse il non cercarlo attraverso i mondi possibili, disperatamente.
«Certo che vorrei una cosa simile, per te» disse Luke, dolcemente. «Certo che ti vorrei felice, con una persona che ami, con dei bambini che ti somigliano. Con amore, una casa, la tua famiglia».
«Non sarebbe la mia famiglia, senza di te» rispose Annabeth, perentoria. «Non puoi chiedermi di lasciarti qui, come se per me non valessi niente».
«Che è quello che dirai, insieme al fatto che ti ho rapita e portata qui» mormorò lui. «Per quel che vale, mi rassegno a morire. Ma vorrei che tu vivessi, e costruissi una famiglia tua e…».
«Luke» lo interruppe lei, disperatamente. «Ti prego».
«E un giorno sarai felice, in un appartamento vicino a qualche monumento famoso, e avrai due o tre bambini, e almeno uno sarà biondo, con gli occhi grigi» proseguì Luke, sognante. «E penserai a me come una parentesi, un’occasione sprecata: ma per nessun motivo vorresti tornare indietro, perché sapresti che sarei felice di saperti felice».
«Non mi basta» disse Annabeth, con sicurezza. «Che senso ha, se non posso averti con me?».
«Ma mi avrai con te, ti aspetterò anche da morto, se lo vorrai» rispose lui. «E magari un giorno ti stancherai anche di pensarmi, ma mi andrà bene, tutte le cose belle finiscono, prima o poi».
Lei scosse il capo, una ciocca di capelli le si era incollata al viso sporco di lacrime.
«Troverai un posto dove non ti feriranno più» concluse Luke. «Ma, adesso, devi andar via. Io… ti prometto che ci rivedremo, in un’altra vita».
Annabeth sentì distintamente quel distacco, il suo forzarsi ad accettare che era finita, che non ci sarebbero state altre possibilità.
«Spero di averla davvero, un’altra vita» mormorò. «Perché la impiegherei a cercarti».
 
***
 
«Posso farti tornare indietro tutte le volte che vuoi» rispose Aion. «Ma guarda un attimo la mia scacchiera, e dimmi se ne sei ancora così convinta».
Annabeth guardò la scacchiera e, sulle caselle, si alternarono scene da due futuri distinti, di cui lei a malapena riconosceva l’esistenza.
«Hai capito, adesso?» domandò il Dio bambino. «Il futuro è come una ragnatela: puoi tagliarne un filo, percorrerne un altro, cambiare strada. Ma qualunque percorso tu decida di imboccare ti porterà sempre, inevitabilmente, al centro».
«Potrebbe farmi tornare indietro ancora una volta?» chiese Annabeth, la voce macchiata di pianto. «Non ne chiederò un’altra».
«Vedo che hai compreso» disse Aion, placidamente. «Qualcuno più potente di me e te ha deciso: non esiste un mondo possibile dove tu riesca a salvare Luke Castellan».
Lei chinò il capo, mentre il peso di quelle parole la investiva.
«Ma voglio farti un regalo» continuò il Dio. «Voglio permetterti di ricordare tutte le altre strade che hai intrapreso, i bei momenti che ti hanno regalato».
Una macchina, la radio accesa, Luke che canticchiava al tramonto.
«E, ora, fai quello che devi fare».
Il Dio lanciò i dadi sulla scacchiera. Sembrava che emettessero il suono del suo cuore che, chissà come quante volte prima di quel momento, si spezzava.

 
Ciao a tutti.
Vi scrivo in un momento in cui, un luogo dove la vita non riesca a ferirmi, lo vorrei anche io: spero questo capitolo vi sia piaciuto, a me ha letteralmente spezzato il cuore doverlo scrivere, ma rappresenta anche la degna conclusione di questa storia che ha accompagnato le mie notti di un mese intero. Questo capitolo è quello più importante, che finalmente dovrebbe dare un senso a questa storia. E, purtroppo, è anche l'ultimo.
Nei prossimi giorno metterò online l'epilogo, breve, di questa vicenda. Ma spero che, seppur breve, questa storia sia riuscita nel suo intento, che è fare compagnia a tutte quelle persone che, in questo momento, vogliono sentirsi meno sole e leggere qualcosa di piacevole (per quanto drammatico).
Un abbraccio virtuale a tutti coloro che hanno speso qualche minuto per leggermi.

Gaia

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Epilogo: La promessa ***


«Hai capito, adesso?» domandò il Dio bambino. «Il futuro è come una ragnatela: puoi tagliarne un filo, percorrerne un altro, cambiare strada. Ma qualunque percorso tu decida di imboccare ti porterà sempre, inevitabilmente, al centro».
«Potrebbe farmi tornare indietro ancora una volta?» chiese Annabeth, la voce macchiata di pianto. «Non ne chiederò un’altra».
«Vedo che hai compreso» disse Aion, placidamente. «Qualcuno più potente di me e te ha deciso: non esiste un mondo possibile dove tu riesca a salvare Luke Castellan».
Lei chinò il capo, mentre il peso di quelle parole la investiva.
«Ma voglio farti un regalo» continuò il Dio. «Voglio permetterti di ricordare tutte le altre strade che hai intrapreso, i bei momenti che ti hanno regalato».
Una macchina, la radio accesa, Luke che canticchiava al tramonto.
«E, ora, fai quello che devi fare».
Il Dio lanciò i dadi sulla scacchiera. Sembrava che emettessero il suono del suo cuore che, chissà quante volte prima, si spezzava.
 
 
Epilogo: La promessa

 
Lui sollevò la mano ustionata. Annabeth gli toccò la punta delle dita.
 «Mi…» Luke tossì e le sue labbra luccicarono di rosso. «Mi amavi?»
 Annabeth si asciugò le lacrime. «C’è stato un tempo in cui pensavo… be’,
pensavo…».
Mi guardò, come per metabolizzare lentamente il fatto che fossi
ancora lì. (…).
 «Eri come un fratello per me, Luke» mormorò. «Ma non ti amavo».
 Lui annuì, come se fosse solo una conferma. Trasalì per il dolore
(Lo scontro finale)

 
I will know when it's time to soar
And I will stand after every fall
So let me be wrong, let me be strong
Let me be everything even alone
(…)
Problably I'm broken and a little lonely today
But my eyes are skies and tonight I decided to rain
All of our thunders will be gone
As long as I'm chasing brand new dawns
(Gaia, New Dawns)
 
 
Il futuro era, nella sua testa, una mappa piena di cicatrici: c’erano dei ricordi che turbavano l’uniformità dell’epidermide, delle caselle che formavano un disegno che conosceva così bene da farla stare male. A volte erano bianche: Luke al tramonto che canticchiava un motivetto, la benedizione di Ermes, tutti quei sogni ancora puri e incontaminati, prima che lei si rendesse conto che ogni tentativo, anche quello più pericoloso e avventato, sarebbe stato inutile.
Altre volte, le caselle erano semplicemente nere, macchiate di consapevolezza e delusione. Era a quelle caselle che Annabeth aveva pensato, ricostruendo il proprio futuro per l’ennesima volta, compiendo tutte quelle scelte che, ormai tre vite fa, aveva scelto di rinnegare.
Era ancora sedicenne, guardandosi allo specchio, ma era stanca di quella stanchezza insensata e immortale che le ricordava, in un terribile monito, che le sue speranze s’erano già frantumate ancora prima di sbocciare. Nessun viaggio attraverso il tempo, quella volta, nessun folle tentativo di salvare Luke Castellan.
Qualcuno più potente di me e te ha deciso, aveva detto il Dio del tempo in divenire: l’ordine cosmico ne avrebbe risentito, se Luke fosse vissuto. E, quando lei l’avrebbe semplicemente lasciato scivolare via lui, di tutto quello che avevano vissuto, non avrebbe ricordato niente.
Che senso aveva avuto, sbagliare, cambiare strada e infine tornare indietro se, alla fine, l’unica che avrebbe ricordato sarebbe stata lei: e Luke, che sarebbe morto nella convinzione così sciocca e insensata che lei non l’avesse mai amato, avrebbe scelto la via della rinascita. E, così, non si sarebbero potuti ritrovare, lui sarebbe venuto meno a quella promessa che le aveva regalato, facendole dolere il cuore. Che l’avrebbe aspettata.
Le aveva promesso che si sarebbero rivisti in un’altra vita ma, adesso, anche quelle parole non contavano più niente. Sarebbe rimasta sola, in ogni sua vita futura, a cercare il fantasma di una persona che non l’avrebbe aspettata più.
Che senso potevano avere, le promesse, nell’aria che crepitava elettricità statica: ogni fibra, ogni nervo di Annabeth si rifiutava di elaborare che era finita. Non ci sarebbero stati sogni, avrebbe ripercorso fedelmente quel che ricordava della sua prima vita. E non avrebbe mai più chiesto di vedere il Dio bambino, Aion, per cercare di salvare Luke da una profezia che poteva essere riferita solamente a lui.
Lei avrebbe sacrificato Percy e chiunque altro il Fato le avesse richiesto, per far sì che quella profezia non dovesse riguardare Luke, decretandone la morte. Ma i suoi desideri non combaciavano con una realtà predeterminata.
Così sia, pensò. Una nuova famiglia, Percy, sia come hanno deciso che sarà. Ma io non dimenticherò la mia promessa, passerò tutte le mie altre vite a cercare di riportarti da me.
«Siamo una famiglia, Luke» mormorò, con una dolcezza malinconica che la stupì. «Hai promesso».
Lui la guardò, e il suo viso si distorse in una smorfia piena di consapevolezza. «Sì» mormorò, piano. «Ho promesso».
Lo disse con una tale intensità che Annabeth, per un momento soltanto, volle credere che Luke si riferisse a tutte le promesse che avevano pronunciato, nell’arco di tre vite. Che si sarebbero cercati, e trovati, ancora una volta.
«Annabeth» mormorò Luke, come se faticasse a scandire bene le parole. «Stai sanguinando…».
Lei ormai piangeva a dirotto, non riusciva a trattenersi, ogni secondo che passava era un attimo in meno che la separava da quel momento che, per anni, aveva popolato i suoi incubi.
«Il mio coltello» mormorò, incapace di sollevarlo da sola. Ma, al posto di chiedere aiuto a Percy, come avrebbe dovuto, lo fece scivolare fino ai piedi di Luke che lo guardò, addolorato.
Il figlio di Ermes prese l’arma, guardandola come se tutta la sua vita fosse racchiusa lì, all’interno della lama. Poi, scoprì il proprio punto debole e si colpì.
Annabeth sentì il dolore invaderla come se l’avesse pugnalata, mentre Luke gridava e scivolava sul pavimento. Lei si trascinò al suo fianco, singhiozzando.
«Sei stato un eroe» mormorò, così piano che si sentì solo lei. «Ti sei meritato l’Elisio».
Ma Luke la guardò e, sul fondo di quegli occhi azzurri che piano scoloravano nel grigio, vi lesse una profonda consapevolezza.
«No» mormorò il ragazzo, con un sorriso sporco di sangue. «Io… io ti ho fatto una promessa».
Lei singhiozzò, pensando di essere diventata matta, e gli sfiorò il volto con una mano. «Non…» sussurrò. «Non mi hai promesso niente».
Lui le sfiorò la mano con la propria, in un gesto che, per un attimo, fu capace di privarlo del respiro. «L’Alaska» sussurrò. «Un giorno ci andremo insieme, io…» tossì. «Io ti aspetterò per tutte le vite che vorrai».
«Non era questo che avrei voluto per te» mormorò Annabeth, carezzandogli il capo. «Avrei potuto continuare a tentare».
Luke scosse il capo, anche se gli costò un’enorme fatica. «No» mormorò. «Avremo altre occasioni, io… ti cercherò per tutte le mie altre vite».
«Ti prometto che ci troveremo, in qualche modo» rispose lei, asciugandosi le lacrime. «E ci andremo davvero, in Alaska, e in Europa e…».
«Va bene così, un giorno… ci rincontreremo, in qualche modo» sussurrò il ragazzo, piano.
Poi, accadde una cosa strana, perché Luke sillabò alcune parole, spiazzandola. Adesso devi fingere.
«Mi hai…» disse, a voce più alta. «Mi hai mai amato?».
Annabeth comprese, in quel momento, che quello era il punto in cui doveva ricongiungersi con il proprio presente. Sfiorò la mano di Luke, dolcemente, e scosse il capo.
«C’era un tempo in cui pensavo…» disse, incerta. «Eri come un fratello per me, Luke. Ma non ti amavo».
Lui sorrise un’ultima volta, mormorando una parola a voce così bassa che lei lo comprese solamente leggendo il labiale.
Grazie.
Annabeth chinò il capo, un fiume di lacrime le scavarono il viso: nell’orizzonte della sua mente, un Dio bambino sorrise, giocando ai dadi, e un tuono solitario si schiantò in una marina. Quella notte, avrebbe iniziato a piovere per sempre.


 
Siamo arrivati alla fine di questo percorso, che mi ha regalato un mese pieno di ricordi ed emozioni indescrivibili. Sono grata a chiunque abbia perso due minuti del proprio tempo per scrivermi i propri pensieri riguardo questa storia, mi fa sempre piacere leggervi.
Ovviamente segnalo che molte battute di quest'ultima scena sono riprese direttamente dal libro, ma penso sia abbastanza ovvio. Scusatemi, ho finito di scrivere ora e mi sto odiando con tutta me stessa.
Grazie a chiunque sia arrivato qui.

Gaia

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3916409