Espresso

di Cassandra caligaria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Lui ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Lei ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Gli altri ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - L'imprevisto ***
Capitolo 5: *** Capitolo V - La collaborazione ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI - L'allarme ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII - Il magazzino (parte prima) ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII - Il magazzino (parte seconda) ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX - Le scoperte ***
Capitolo 10: *** Capitolo X - Gli appuntamenti ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI - La partenza ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII - Le feste ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII - La camera doppia ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV - Il futuro ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV - La scelta ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI - La fortuna ***
Capitolo 17: *** Extra I (pov Bella) - Edward ***
Capitolo 18: *** Extra II (pov Bella) - Troppo ***
Capitolo 19: *** Extra III (pov Bella) - Famiglia ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Lui ***


Buonasera a tutt*
Questa è un'idea nata tanti anni fa che in questi giorni sta vedendo la luce. Sarà una storia abbastanza leggera, ambientata ai giorni nostri, tutta scritta dal punto di vista di Edward (è l'anno di Midnight sun, glielo dovevo).
Pubblicherò una volta a settimana, il venerdì o il sabato.
Spero di avere la vostra compagnia in questa nuova avventura :)






«Merda, merda, merda!» imprecai, quando mi resi conto che le lancette della sveglia mi guardavano con aria di rimprovero segnando le otto. Ma perché non era suonata prima? Ero certo di aver attivato l’allarme ieri sera.
Mi sarei dovuto svegliare alle sette, fare una doccia, preparare una colazione sana e ingerirla, magari anche digerirla, vestirmi con cura e calma e uscire di casa in netto anticipo, per evitare di ritrovarmi imbottigliato nel traffico del mattino.
E, invece, «Merda! È tardissimo! Farò una figuraccia!» continuai, mentre tentavo di entrare nella doccia, lanciando il pigiama in un angolo del bagno, portandomi dietro anche lo spazzolino e il dentifricio, per velocizzare un po’ le pratiche igieniche. Multitasking, Cullen.
«Avrei dovuto fare anche la barba stamattina!» sbuffai davanti allo specchio mentre cercavo di domare i miei capelli con il gel.
Era il mio primo giorno di lavoro. Il primo giorno di un lavoro vero e serio, con un contratto reale, in cui avrei potuto mettere a frutto i miei studi, all’interno un’azienda ben piazzata sul mercato.
Indossai un jeans scuro, un paio di sneakers quasi nuove, una camicia azzurra e presi la prima giacca che mi capitò sotto tiro nell’armadio: una giacca di pelle color testa di moro, informale ma efficace.
Afferrai la borsa con il laptop e la misi in spalla. Chiusi la porta, pregando di non aver dimenticato nulla…
«Le chiavi! Porca putta-… Ah, no! Sono nella borsa del laptop.» Tirai un sospiro di sollievo, tastandole con le mani dall’esterno della borsa. Ero già tutto sudato.
Forse la giacca di pelle a settembre non era proprio una grande idea.
Sta’ calmo, Edward. Calmo. Respira. L’abito non fa il monaco… Sì, ma aiuta ad entrare in monastero! Porca miseria!
Il mio dialogo interiore continuò a tenermi compagnia e a riempirmi la testa di paranoie durante tutto il tragitto per raggiungere la ‘Volturi Spa’, un’azienda italiana che esportava caffè negli Stati Uniti. Non ero poi così in ritardo, era il primo giorno, sarebbero stati tolleranti. Cercai di convincermi di questo.
Parcheggiai non lontano dall’enorme edificio che ospitava la sede dell’azienda e che incuteva un leggero timore per la sua maestosità; ero certo che dopo aver firmato il contratto e aver ricevuto il tesserino da dipendente, avrei avuto un parcheggio riservato all’interno dell’edificio.
Ero così preso dalle mie fantasie e dalla contemplazione del palazzo, che mi resi conto troppo tardi di aver calpestato una… «Merda!» imprecai, alzando gli occhi al cielo. Non era possibile!
«Ehm, sì, direi che è la definizione più appropriata!» una voce femminile, vivace e divertita, a cui non ero ancora in grado di dare un volto, visto che stavo cercando di calcolare l’entità del danno, mi arrivò alle spalle.
«Non se la prenda troppo, dicono che porti fortuna!»
E, allora, solo allora, fui in grado di dare volto, profumo, capelli, gambe e sedere a quella voce.
«Dio…» sussurrai, alternando lo sguardo tra la bella ragazza, che mi era appena passata davanti e che camminava ancheggiando davanti ai miei occhi, e la mia scarpa quasi nuova, miseramente finita nella merda.
Ripulii il disastro sotto la suola alla meglio, sperando che fosse sufficiente – ero già in ritardo, ci mancava solo che lasciassi impronte dall’odore poco gradevole all’interno dell’edificio –, e mi avviai verso il cancello blu.
Dissi il mio nome al portiere, Jacob, così c’era scritto sul suo tesserino, che mi fece passare, indicandomi l’ascensore e dicendomi di salire al terzo piano.
Respirai profondamente in ascensore, cercando di darmi un tono e una calmata.


«Di qui, signor Cullen, le mostro la sua postazione», la responsabile dell’ufficio risorse umane mi precedette e uscì dalla porta del suo ufficio. Era molto gentile. Avevo già avuto modo di conoscerla durante le varie fasi della selezione, ma quando si è solo un candidato tra tanti non si hanno molte possibilità di apprezzare tutte le qualità del selezionatore.
Era una bella ragazza bionda sui trentacinque anni, molto sicura di sé ma estremamente dolce. La persona perfetta per il ruolo che ricopriva. Il suo nome era Rosalie Hale.
Dopo avermi mostrato il cubicolo che sarebbe diventata la mia postazione di lavoro, mi salutò e mi augurò una buona giornata.
Tirai fuori le mie cose e presi possesso della postazione.
«Ciao, io sono Jasper» si presentò il mio dirimpettaio.
«Edward, piacere», risposi, stringendogli la mano che mi porgeva.
«Hai già conosciuto mia sorella, vedo»
«La responsabile delle risorse umane?» domandai e mi resi conto mentre formulavo la domanda che si somigliavano davvero tanto.
«Sì, siamo gemelli» rispose, facendo spallucce.
«Vieni, ti mostro dove sono i distributori, la mensa e la sala ricreativa. Sono sicuro che Rosalie non ti abbia fatto fare il giro del piano».


Mi guardai intorno ammirando l’eleganza dell’ambiente quando ad un certo punto rividi la ragazza del parcheggio che parlava con Rosalie vicino all’ascensore.
«Lei lavora qui?» domandai a Jasper.
«Chi?»
La indicai con un dito e proprio in quell’istante i nostri sguardi si incrociarono.
«Oh, lei! È l’amministratrice dell’azienda» rispose Jasper divertito.
«Merda.»
«Non conosce altre parole?» mi domandò divertita lei. Ma quando si era avvicinata a noi?
«Mi scusi, io…» Iniziai a balbettare abbassando lo sguardo sulle mie scarpe.
Merda.
«Ha bisogno di qualcosa?», mi domandò gentile, cercando di risollevarmi dall’imbarazzo nel quale ero piombato.
Scossi il capo, incapace di guardarla negli occhi.
«Lei è il nuovo contabile, vero?»
«Sì.»
«Venga nel mio ufficio, Rosalie mi stava parlando proprio di lei.»




 

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Lei ***


La seguii verso l’ascensore, uno dei miei incubi sociali peggiori.
Condividere l’ascensore con altre persone era una delle situazioni che più mi metteva a disagio nella vita, in genere. Provavo sempre un forte imbarazzo quando dovevo prenderlo insieme a qualcuno che conoscevo poco o che non conoscevo affatto.
Mi capitava perfino con qualche inquilino del palazzo in cui abitavo e con cui ero solito scambiare qualche parola: se li incontravo fuori dall’ascensore andava tutto bene, mi comportavo nel rispetto delle norme sociali, ma dentro quell’abitacolo non sapevo cosa dire; cosa fare; dove guardare; come, dove, quando e se respirare.
Perché non esisteva un decalogo di regole di comportamento da tenere in ascensore?
E non ero il solo a provare quel disagio.
Spesso mi ritrovavo a condividere il viaggio con altri disagiati come me che adottavano strategie disastrose per superare l’imbarazzo di quei momenti, ma che in realtà non facevano altro che amplificarlo.
C’era chi batteva i piedi per terra trasmettendo un’ansia assurda, chi non faceva altro che guardare incessantemente i numeri dei piani che si illuminavano – sperando forse di velocizzare così il viaggio – e chi doveva dire per forza qualcosa.
Poi c’erano quelli che facevano le scale, per i quali provavo la massima stima, ma io ero troppo pigro.
Quindi, di solito, sopportavo quel supplizio in religioso silenzio, studiando ogni granello di polvere depositata negli angoli del vano e aspettando con trepidazione l'apertura delle porte.
Lei non apparteneva a nessuna di quelle categorie di persone.
Era totalmente a suo agio.
Respirava, parlava, osservava e si muoveva con assoluta naturalezza.
E, stranamente, forse complice il fatto che non cercasse deliberatamente di ignorarmi e che fosse assolutamente tranquilla, non provai alcun disagio e mi godetti i vantaggi di quel viaggio.
Approfittai del tempo che dovevamo trascorrere all’interno dell’abitacolo per studiare tutti i particolari che mi erano sfuggiti prima, nel parcheggio.
Senza giacca, da vicino e vista davanti, dovetti ricredermi su quello che avevo pensato qualche ora prima.
Non era bella.
Molto di più.
Era assolutamente affascinante ed era consapevole di esserlo.
Doveva avere all’incirca la mia età. Stranamente non indossava scarpe col tacco, ma delle sneakers e nonostante questo era poco più bassa di me. Quando spostai lo sguardo dai piedi a tutto il resto mi resi conto che era vestita in maniera piuttosto casual per il ruolo che ricopriva: semplici pantaloni neri aderenti e una blusa bianca che, sebbene avesse un taglio morbido e lo scollo a giro, camuffava molto poco il suo generoso decolté che si muoveva seguendo il ritmo cadenzato della sua respirazione.
Deglutii. Ottimo lavoro, madre natura.
Non indossava accessori particolari, solo un paio di semplicissimi orecchini punto luce in oro bianco, che notai quando si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e un sottile orologio in acciaio.
Non era molto truccata e non aveva bisogno di agghindarsi: era bella di suo e lo sapeva.
Aveva un viso magnetico: gli occhi azzurri, vispi e penetranti, il naso alla francese su cui faceva capolino qualche efelide, le labbra piene e rosse.
L’incarnato era pallido, leggermente rosato sulle guance.
I suoi capelli erano di media lunghezza, di un bel castano scuro, il colore del caffè. Erano lisci e folti, ma le punte che le si appoggiavano sulle spalle si incurvavano leggermente verso l’alto e all’indietro. Sembravano molto morbidi.
E aveva un profumo che mi solleticava i sensi. Era estremamente delicato, fresco e floreale, quasi innocente, ma non riuscivo a identificarne la fragranza.
 
 
Il suo ufficio era al sesto piano, l’ultimo dell’edificio, ed era interamente occupato da lei, non c’era nessun altro su quel piano, perfino la sua segretaria aveva la postazione al quinto.
Chiamarlo semplicemente ufficio era come definire il Vaticano una chiesa: riduttivo.
No, quello non era il suo ufficio, era il suo regno, progettato e studiato in ogni minimo particolare e non aveva alcuna intenzione di condividerlo con nessuno.
Ero affascinato dal modo in cui si muoveva sicura e padrona di sé, senza alcuna esitazione nei passi; dal modo in cui lo sguardo fiero accarezzava quelle pareti e quelle vetrate, dal modo in cui sembrava riempire quegli spazi con la sua presenza e il suo portamento elegante. Aveva trovato il suo posto nel mondo o forse aveva fatto di quel posto il suo mondo, e doveva essere proprio una bella sensazione a giudicare da quanto fosse piacevole osservarla.
Il perimetro del piano era per lo più occupato da vetrate, c’era moltissima luce, riflessa e amplificata dalla predominanza di colori chiari nel mobilio e nei complementi d’arredo. Il parquet era tirato a lucido e niente sembrava essere fuori posto, dai quadri agli scaffali pieni di libri, dagli schedari a cassetti all’enorme stampante che stava di fronte all’ascensore.
Le linee dell’arredamento erano semplici e moderne, molto eleganti, come del resto avevo già avuto modo di ammirare facendo il giro del mio piano. Sicuramente doveva aver scelto tutto lei.
Mi fermai vicino a una delle vetrate, si godeva una vista pazzesca di quell’angolo della città. Lei se ne accorse.
«Bello, vero?» non sapevo a cosa si stesse riferendo, se al suo regno o alla vista, ma sì, era senz’altro tutto molto bello.
Annuii sorridendole, non ero ancora sicuro di riuscire a parlare senza fare altre figuracce.
 
 
«Le piace il caffè, Edward? Posso offrirgliene uno?» mi domandò dopo avermi fatto accomodare su una delle due poltrone sistemate vicino a un tavolino in un angolo della sua stanza evidentemente adibito per concludere trattative.
Quando ci eravamo presentati?
Dovette leggere la domanda muta sul mio volto.
«Rosalie mi ha detto il suo nome, che oltretutto è scritto anche sul tesserino che indossa» puntualizzò indicandolo con lo sguardo.
Che idiota.
«Io sono Isabella, anche se mi chiamano tutti Bella e lo preferisco al mio nome intero», disse porgendomi la mano.
Lei ovviamente non indossava il tesserino come noi comuni dipendenti. Sapevano tutti chi fosse lei.
«Molto piacere» risposi sinceramente, stringendole la mano. Com’era vellutata e fresca la sua pelle.
«Se non le dispiace, potremmo darci del tu. Siamo abbastanza informali in azienda» fece un mezzo sorriso.
«Certamente» le risposi sorpreso.
«Allora, ti piace il caffè, Edward?»
«In realtà non molto, preferisco il tè», ammisi, grattandomi i capelli sulla nuca, «ma lo accetto volentieri, grazie.»
«Oh», fece un sorriso furbo.
Dovette cogliere il paradosso nella mia affermazione. Ero appena stato assunto da un’azienda che produceva e commerciava caffè e avevo ammesso candidamente che non mi piaceva.
«Immagino che sfrutterai poco lo sconto riservato ai dipendenti, allora» ridacchiò.
Sempre più punti a mio favore.
«Questo è un espresso», spiegò prima di azionare un rumoroso macinino e armeggiare vicino ad una strana ed enorme macchina per il caffè piena di leve, termometri e manometri che emetteva strani rumori e sbuffi: sembrava la cabina di comando di una locomotiva a vapore.
Tutto quel casino per una tazza di caffè?
«È molto diverso dal caffè americano. Credo che ti piacerà» disse sicura.
Quando l’affare infernale finì di sbuffare, sistemò sul tavolino un vassoio contenente due tazzine di espresso e si accomodò di fronte a me.
Mi corressi: tutto quel casino per una micro-tazza di caffè?
«Zucchero?»
«Sì, grazie.»
Lei non ne mise nel suo.
«Io lo bevo amaro» si giustificò.
«È decisamente diverso dal caffè americano», dissi toccandomi il mento, «è molto più intenso e… buono» dovetti ammettere.
Il casino aveva un senso: era buono sul serio.
«È la nostra miscela più pregiata», colsi una punta di orgoglio nella sua voce.
«Dovresti provarlo senza zucchero, così potresti percepirne tutte le note. Lo zucchero altera e copre le varie sfumature di sapore» mi suggerì.
Era proprio un’esperta, allora.
«Hai ragione, in effetti bevo il tè senza zucchero proprio per questo motivo» ammisi e mi sorrise soddisfatta.
Forse ce l’avrei fatta a convincerla che non ero un totale idiota fino alla fine di quella giornata.
«Ci tenevo a conoscerti, seguo sempre l’iter di selezione dei miei dipendenti e ci tengo ad accoglierli personalmente in azienda. Stavo per farti chiamare, quando ci siamo incontrati vicino alla sala ricreativa.»
Come non detto.
«Io… Ti devo delle scuse. Non volevo indicarti, spero di non esserti sembrato poco educato. Siccome ci eravamo già incontrati questa mattina, stavo chiedendo al mio collega se anche tu lavoravi qui» ammisi un po’ in imbarazzo.
«Come stanno le tue scarpe?» mi domandò divertita indicandole con lo sguardo.
«Oh, hanno avuto momenti migliori» risposi sorridendo. Mi sorrise anche lei di rimando e mi sentii un po’ più rilassato, non sembrava essersela presa.
Forse c’era una speranza.
«Se non ricordo male hai due lauree, non è vero? Una delle quali in storia antica. Mi aveva colpito molto questo particolare del tuo curriculum» proseguì, toccandosi il naso con l’indice sinistro.
Accidenti, che memoria!
«Ricordi bene. Ho preso la mia prima laurea in storia, ma faticavo a trovare un impiego decente. Così, mi sono iscritto alla facoltà di economia ed eccomi qui».
«È dura la vita per gli umanisti, purtroppo» disse pensierosa, continuando a picchiettarsi delicatamente la punta del naso.
«Sembri parlare per esperienza».
Da quando ero diventato così spigliato?
Sospirò e fece spallucce.
«Scusami, non volevo essere inopportuno e indiscreto» mi giustificai.
E il premio per la miglior prima impressione con il capo va a Edward: prima calpesti escrementi per terra, poi la indichi con un dito, infine ti impicci dei fatti suoi. Sicuramente ti premierà come impiegato dell’anno.
«Non lo sei stato, non ti preoccupare», disse scuotendo il capo.
Avrei voluto rassicurarla sulla mia proprietà di linguaggio, ma quel giorno, a quanto pareva, riuscivo a dire solo “merda” e “scusa”, quindi mi limitai a rivolgerle un timido e imbarazzato sorriso.
«Sono felice che ti sia unito al nostro team, spero ti troverai bene qui con noi» disse alzandosi dalla poltrona e porgendomi di nuovo la mano.
Era il segnale per congedarmi.








Grazie alle fanciulle che si sono fermate a lasciarmi una recensione per il primo capitolo, spero che vi piaccia anche questo!
Stamattina mentre revisionavo questo capitolo, mi è partita l'ispirazione per un'altra piccola storia e non potevo di certo ignorarla.
Se vi va di leggerla, la trovate qui Tre nodi e un desiderio
A sabato prossimo!

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Gli altri ***


Questo capitolo è dedicato al nostro vampiro preferito che oggi compie 119 anni... Auguri, Edward!







La prima settimana di lavoro era volata, letteralmente. Venerdì, poco prima di uscire, Jasper mi chiese di andare a bere qualcosa con lui in un pub irlandese non molto distante dall’ufficio di proprietà di un suo vecchio compagno di scuola. Accettai volentieri, mi trovavo molto bene con lui.


«Ciao, Sam!» Jasper salutò calorosamente il barman e proprietario del Ruadh pub.
«Guarda chi si vede! Jasper Hale e compari… nuovi! Ciao, io sono Sam» un ragazzo alto e magro dalla carnagione olivastra e dai folti capelli scuri mi porse la mano.
«Edward» gliela strinsi.
«Piacere di conoscerti. Cosa vi porto?»
«Birra?» mi domandò Jasper.
«Sì, va bene. Cosa ci consigli?» mi rivolsi a Sam.
«Vi faccio provare una rossa artigianale prodotta da un piccolo birrificio di Cape Cod» suggerì Sam.
Ci accomodammo a un tavolo e una ragazza con i capelli rossi – molto più rossi dei miei – ci portò una ciotola di salatini.
«Grazie, Leah» le disse Jasper. «Ma lavori ancora?» le domandò indicando con lo sguardo la sua pancia. Era incinta.
«Non vuole stare a casa» intervenne Sam, che ci stava portando le birre.
«La gravidanza non è una malattia. Sto bene, non vedo perché dovrei stare a casa» rispose a Jasper con un forte accento irlandese, ignorando completamente Sam che alzò gli occhi al cielo. Evidentemente era l’argomento di una discussione ricorrente.
Quando si allontanarono, Jasper mi spiegò che si erano conosciuti in Irlanda, dove Sam era andato subito dopo il diploma per seguire un corso per diventare barman e specializzarsi proprio sulle birre. Era stato amore a prima vista. Si erano sposati quasi subito una volta arrivati a Boston, per velocizzare le pratiche dell’acquisizione della cittadinanza di Leah. Il nome del pub, Ruadh, era un omaggio di Sam ai capelli rossi di sua moglie. Che gesto carino.
Mi confidò, inoltre, che ci avevano messo un po’ di anni per riuscire a concepire. Dopo il matrimonio erano stati impegnati nel mettere su il locale e quando finalmente l’attività era avviata e avevano iniziato a provarci, la gravidanza non arrivava. Leah aveva avuto due aborti negli ultimi cinque anni e per questo Sam era tanto apprensivo riguardo alla salute di sua moglie e del loro figlio non nato.


«Allora, come ti è sembrata questa prima settimana?» mi chiese Jasper mentre agguantava una manciata di salatini.
«Veloce», ammisi, «mi sembra un bell’ambiente. Si lavora bene.»
«È vero», annuì.
«È da molto che lavori per la Volturi?» gli domandai.
«Tre anni, prima lavoravo per un’azienda farmaceutica. Poi, mia sorella ha iniziato a lavorare per la Volturi e mi ha convinto a inviare una candidatura quando si sono aperte delle posizioni nel reparto contabilità. Si lavora molto bene, c’è armonia tra i colleghi e una solida organizzazione aziendale. Tutto quello che mancava nell’azienda in cui lavoravo prima. La paga era un po’ più alta ed erano previsti benefits che qui non esistono, ma i ritmi erano stremanti e non vivevo più. Crescendo cambiano le esigenze e si impara a dare la giusta importanza alle cose. Stavo rischiando di mettere in discussione una storia molto importante per via del lavoro e a quel punto ho capito che non ne valeva più la pena, non esistono solo i soldi» terminò convinto.
Assentii con un cenno della testa, pensieroso.


Capivo il suo punto di vista, così come comprendevo l’ansia di Sam per Leah e il bambino, e un po’ li invidiavo, perché a me non era mai successo di preoccuparmi così tanto per qualcuno, come Sam; o di cambiare lavoro e scendere a compromessi per salvare una storia, come Jasper.
Di solito le mie storie finivano proprio perché nessuno dei due riusciva a scendere a compromessi e col tempo mi ero convinto che se dovevo essere sempre io a dover rinunciare a una parte importante di me e della mia vita, quella storia non aveva senso di esistere. Non potevo stare con una persona che non rispettavo perché pretendeva che io cambiassi le mie abitudini o il mio carattere, o peggio, con una persona che non condividesse le mie scelte.
Avevo avuto diverse storie, ma non erano mai state storie molto importanti. Chissà perché finivo sempre per incontrare le donne sbagliate per me. Secondo mio fratello, dipendeva dal fatto che la mia iniziale timidezza e bonarietà veniva fraintesa e così finivo per attirare sempre la crocerossina di turno che pretendeva di controllare ogni aspetto della mia vita e finiva per opprimermi. Quando, però, si accorgeva che avevo un mio carattere e non poteva decidere lei per me, arrivavano i problemi.


Presi un sorso di birra, era davvero ottima. Avrei ringraziato Sam per il consiglio prima di andar via.
«Se l’azienda funziona così bene, credo che gran parte del merito sia della manager. Da quel poco che ho potuto vedere e paragonato alla mia breve precedente esperienza, ha una visione aziendale molto moderna e l’organizzazione del lavoro è pressoché perfetta. Poi è molto giovane, deve essere proprio in gamba per essere già così in alto» commentai in tono ammirato.
Jasper annuì.
«Sì, hai ragione. Bella è una persona eccezionale. Pensa che ha solo trentatré anni: si è ritrovata a gestire un’azienda prima dei trent’anni. È davvero in gamba» disse mentre continuava a mangiare i salatini.
«E, a dirla tutta, non avrei mai pensato che in un’azienda così grande e strutturata la manager volesse conoscere personalmente ogni impiegato» continuai ripensando a lei e mi stupii di quanto mi piacesse pensare a lei e decantare le sue lodi.
«Oh, ma non è che per caso ti piace?» mi chiese con sguardo allusivo. Al solito, la mia faccia tradiva le mie emozioni. Dannazione.
«N-no», balbettai, «sono solo affascinato da lei, la stimo come professionista» cercai di essere convincente, ma Jasper non mi sembrava molto convinto.
«Affascinato, eh?» mi chiese allusivo.
«Sì, perché è un reato? Provo molta ammirazione per lei, tutto qui».
Era la peggior arrampicata sugli specchi di tutta la mia vita.
«Va bene, chiamiamola “ammirazione” adesso. Non ci sarebbe comunque niente di male, eh: sarò fidanzato, ma non sono mica cieco» mi fece l’occhiolino. Scossi il capo, ormai era partito.
Continuammo a chiacchierare, sorseggiando le nostre birre.
«Che fai domani sera?» mi domandò a un certo punto.
«Domani viene mio fratello per un colloquio di lavoro, non so ancora cosa faremo di sera» risposi.
Emmett, mio fratello, era esattamente il mio opposto: sportivo fino al midollo, sempre con la risposta pronta e molto sicuro di sé. Faceva il personal trainer in una rinomata palestra, ma stava valutando la proposta di allenare la squadra di basket che aveva contribuito a portare alla gloria durante i suoi anni universitari: i Terriers.
«Beh, domani sera c’è la partita. Mangiamo insieme una pizza a casa mia e la guardiamo in tv. Ci saranno anche Alice, la mia ragazza che vive con me, e Rosalie. Se tu e tuo fratello volete unirvi a noi, siete i benvenuti. Anzi, vi prego di venire: almeno per una sera non sarò l’unico uomo!»
«Ti ringrazio per l’invito, ti faccio sapere.»
«Dove vive tuo fratello?»
«A Chicago, come i miei genitori.»
«Quanti anni ha?»
«Trentacinque, due in più di me. Tu, invece?»
«Trentaquattro».
Trascorsi una piacevole serata in compagnia di Jasper, scoprii che avevamo in comune la passione per i Red Sox e sentivo che saremmo diventati buoni amici, ma la mia mente non faceva che tornare alle sue parole e a Bella.


Non feci che pensare a lei per tutta la notte, girandomi e rigirandomi tra le lenzuola, cercando invano di concentrare la mia mente altrove e di addormentarmi.
Contai le pecore, ripassai l’alfabeto greco e quello ebraico, stavo per passare ai decimali del pi greco – di solito l’unica cosa che funzionava davvero per me – quando decisi di alzarmi dal letto.
Presi il pc e cercai il suo nome su Google. Non sapevo precisamente cosa cercassi né avevo idea di cosa mi aspettassi di trovare, volevo solo conoscere qualcosa in più su di lei.
Niente profili social, né Linkedin… eppure gestiva un’azienda. Spulciai per l’ennesima volta il sito aziendale: la nostra mission, la nostra vision, i nostri valori, chi siamo, dove siamo, bla bla bla… ma nulla su di lei, ovviamente. Nessuna azienda pubblicava il curriculum o la biografia dei propri manager sul sito aziendale, che idiota.
La curiosità mi stava uccidendo, avevo sempre avuto questa fissazione per i curriculum.
Che si trattasse dei miei professori all’università, di un medico a cui dovevo rivolgermi per un problema di salute o del mio datore di lavoro, dovevo sempre leggere i loro curriculum.
Era probabilmente colpa della mia formazione da storico: dovevo sempre conoscere il passato, i fatti, le esperienze e gli studi che avevano portato quelle persone al punto della loro vita in cui io li avrei incontrati. Mi aiutava a inquadrarli meglio e a capire i loro comportamenti.
Inoltre, inutile negarlo, io ero perdutamente affascinato da Bella. Oltre a una forte e innegabile attrazione fisica, desideravo conoscerla, volevo sapere tutto di lei.
Sentivo la frustrazione crescere dentro di me, quando all’improvviso il telefono squillò e mi riportò con i piedi per terra.
Avevo puntato la sveglia alle sei perché l’aereo di Emmett sarebbe atterrato alle otto.
Feci una doccia veloce e uscii di casa.


«Ciao, nano!» Emmett mi stritolò in un abbraccio soffocante.
«Non respiro, Emmett» dissi scherzando e dandogli una pacca sulla spalla.
«Allora, com’è andato il volo?» gli domandai mentre ci dirigevamo verso l’uscita dell’aeroporto.
«Benone, ho dormicchiato per tutto il tempo» rispose allegro come al solito.
«Tu, invece, hai una faccia! Che hai combinato stanotte?» mi diede una gomitata nelle costole. Quando eravamo piccoli, ero sempre pieno di lividi per colpa sua e crescendo le cose erano cambiate di poco.
«Niente» mugugnai, mentre mi massaggiavo il fianco dolente.
«Non ci credo! Hai proprio l’aria di uno che non ha chiuso occhio» continuò allusivo.
Mi arresi. «Ho dormito poco, ma non per quello che pensi tu. Il nuovo lavoro, la casa, tanti pensieri per la testa. In più avevo paura di non sentire la sveglia per venire a prenderti» e ho passato giusto qualche ora al PC cercando informazioni sul mio capo, aggiunsi nella mia testa.
«Mm… secondo me c’è di mezzo una donna. Non ci credo proprio che non hai dormito per paura di non sentire la sveglia. Per venire a prendere me, per giunta! Avrei potuto prendere un taxi, se non fossi arrivato in tempo, conosco l’indirizzo di casa tua».
«Grazie per essere venuto, Edward» lo scimmiottai.
«Grazie», mi disse, «ma non ti credo. Prima o poi sputerai il rospo» e si sedette sul sedile del passeggero.
Dopo aver fatto colazione, lo accompagnai all’università per il colloquio e ne approfittai per fare una passeggiata nel parco. A breve sarebbero iniziati gli allenamenti e i corsi universitari, il campus iniziava a riempirsi di studenti. Ricordavo con piacere e una punta di nostalgia la sensazione dell’inizio del nuovo anno accademico con tutte le speranze riposte e i buoni propositi che svanivano inesorabilmente dopo i primi mesi di lezione. Faceva tutto parte del gioco, in fondo. I programmi erano fatti per essere scombinati, o almeno per me era sempre stato così. Invece, recentemente, avevo conosciuto una donna che sembrava aver fatto della pianificazione un’arte.
Mi sedetti su una panchina all’ombra di un acero e chiusi gli occhi. La notte insonne iniziava a farsi sentire. Inevitabilmente ripensai alla conversazione avuta con mio fratello poche ore prima: Emmett era molto intuitivo e inoltre mi conosceva bene. Prima o poi gli avrei parlato di Bella, sarebbe stato impossibile tenerglielo nascosto, tanto più che con molta probabilità avremmo vissuto di nuovo nella stessa città.


«Allora, com’è andata?»
«Preparati: tra una settimana mi trasferisco», mi disse tutto allegro.
«Complimenti!» gli strinsi la mano e lui mi trascinò in un altro abbraccio soffocante.
«Mi daranno un alloggio qui nel campus per i primi mesi, in attesa di trovare un posto tutto mio».
«Lo sai che puoi venire a stare da me» gli dissi.
«No, Edward, ti ringrazio, ma abiti veramente dall’altra parte di Boston rispetto al campus e dovrei svegliarmi tre ore prima del dovuto per arrivare al lavoro in orario. Poi hai solo una camera da letto e non posso dormire sul divano per sempre. Ormai siamo due uomini adulti, abbiamo entrambi bisogno dei nostri spazi.» mi rassicurò, dandomi una pacca sulla spalla.
«Come vuoi, lo sai che la mia porta è sempre aperta» ed ero sincero, ma la pensavo esattamente come lui. Eravamo molto uniti, ma avevamo caratteri e abitudini troppo diverse, vivere insieme superati i trent’anni sarebbe stato complicato e imbarazzante. Senza considerare che il mio appartamento era un bilocale perfetto per una o al massimo due persone disposte a condividere lo stesso letto.
«Stasera si festeggia, ti porto a cena fuori. Ho voglia di mangiare aragoste da quando sono atterrato» disse sognante. Ecco una delle cose in cui ci somigliavamo tanto: quando parlavamo di buon cibo avevamo l’aria innamorata. Eravamo entrambi buongustai.
Mi ricordai di Jasper e del suo invito.
«Emm, stasera un mio collega ci ha invitati a casa sua per mangiare una pizza e guardare insieme la partita. Se ti va, possiamo unirci a loro, altrimenti andiamo a cena fuori noi due. Tutto quello che vuoi tu, oggi è il tuo gran giorno».
«Ma sì, dai, ce la mangiamo a pranzo l’aragosta e stasera stiamo col tuo collega. Mi fa piacere conoscere nuove persone, visto che mi trasferirò a breve».
«Bene, allora gli do subito conferma».


L’appartamento di Jasper non era molto distante dal mio, infatti decidemmo di andare a piedi, fuori si stava ancora bene. La fine dell’estate era il mio periodo preferito a Boston.
Ci aprì la porta una deliziosa ragazza con corti capelli castani e gli occhi nocciola molto vispi. Sembrava una bambolina di porcellana, tanto erano delicati i suoi lineamenti. Si presentò come Alice, la ragazza di Jasper. Era molto simpatica e cordiale, faceva l’arredatrice d’interni e dalla cura e dal gusto con cui erano stati riempiti e arredati tutti gli spazi della loro casa, dedussi che fosse anche molto brava.
«Rosalie?» domandai, notando che mancava all’appello.
«Sta arrivando. È passata a prendere le pizze» mi rispose Jasper.
«Ma come? Pensavo che ce le avrebbero consegnate a domicilio. Saremmo potuti andare noi» dissi dispiaciuto.
«Non ti preoccupare, Edward. Passa sempre a prenderle lei perché nel tragitto tra casa sua e qui c’è un’ottima pizzeria italiana che però non fa consegne a domicilio in questa zona. Gliel’ha consigliata Bella» mi strizzò un occhio. Maledetto.
«Chi è Bella?» chiese curioso Emmett.
«L’amministratrice della Volturi» risposi io, cercando di liquidarlo in fretta.
Per fortuna suonò il citofono, perché temevo che Emmett volesse approfondire l’argomento.
Entrò Rosalie con le pizze e notai subito che rimase colpita da mio fratello.
Emmett era una sorta di vichingo, non passava di certo inosservato e non solo per la sua notevole stazza. Oltre a un bel fisico allenato, aveva anche un bel viso, sempre illuminato dal sorriso. Aveva gli occhi azzurri di mio padre e i capelli biondo ramati, un po’ più chiari dei miei. Io, invece, avevo ereditato gli occhi verdi di mia madre e i suoi capelli castano ramati.
Trascorremmo una divertente serata, mio fratello legò subito con tutti, come sempre. Rimasi sorpreso dal fatto che entrambe le ragazze fossero estremamente tifose e appassionate di sport, era una bella novità. Ci demmo appuntamento per il fine settimana successivo, anche se avrei rivisto Jasper e Rosalie al lavoro lunedì.


«Simpatico Jasper, mi piace», disse Emmett mentre camminavamo per tornare a casa. Meno male che non avevo preso la macchina, avevamo bevuto entrambi decisamente troppo. Tra le birre offerte da Jasper e quelle che avevamo portato noi per festeggiare Emmett avevamo un po’ esagerato.
«Te l’avevo detto».
«Sua sorella è davvero bella» disse fra sé e sé.
«Credo sia single» gli dissi facendogli l’occhiolino.
«Sì, lo so, mi ha già dato il suo numero». Ecco uno dei tanti aspetti in cui eravamo due opposti. Io di solito ci mettevo settimane per farmi lasciare un numero di telefono, lui dopo pochi minuti di conoscenza aveva già fissato gli appuntamenti per tutta la settimana.
«Non ti smentisci mai» gli diedi una pacca sulla spalla.
«Lo so» mi rispose fiero.
«Allora, Edward, chi è questa Bella che ti toglie il sonno?» mi chiese senza mezzi termini.
«Come… come… come hai fatto a capire che è lei?» farfugliai incredulo.
«Beh, quando Jasper l’ha nominata hai fatto una faccia!»
«Non c’è proprio niente da dire, Emmett. È l’amministratrice dell’azienda in cui lavoro da una settimana.» cercai di enfatizzare le parole “una” e “settimana”.
«E quindi?», disse lui, «Io ho chiesto il numero di telefono a Rosalie stasera, dopo due ore che ci eravamo presentati. Tu pensi troppo, è questo il tuo problema. Ti piace questa ragazza?» mi domandò.
«È molto bella» ammisi.
«Come Rosalie?» mi chiese lui.
«No, è totalmente diversa. Per me è più bella di Rosalie, ma è una mera questione di gusti. È ironica, gentile e spiritosa. È intelligente e incredibilmente colta ed è molto in gamba, pensa che ha la mia età e già dirige un’azienda. È sicura di sé ed è autorevole, ma non autoritaria…»
«Quindi, ti piace e pure parecchio, mi sa» disse lui compiaciuto, interrompendo le mie lodi.
«E se anche fosse dovrei solo farmela passare.» piagnucolai affranto.
«E perché mai? Perché è il tuo capo?»
«Anche» risposi.
«Edward, rilassati e goditi la vita. Se una ragazza ti deve togliere il sonno, tanto vale che almeno la nottata sia producente e stia sveglia pure lei» scoppiò a ridere alla sua stessa battuta.
«Hai bevuto troppo» lo rimproverai.
«Non più di te» mi puntò l’indice contro.
«Ma è risaputo che io reggo l’alcol molto meglio di te».






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Questa è forse la quinta versione del capitolo... In realtà dovevano essere due, poi ho deciso di unirli, tagliando qualcosa, perché non mi piace tenere quei due lontani per troppo tempo. Spero vi piaccia anche questo capitolo, mi piacerebbe conoscere la vostra opinione.
Non vedo l'ora di farvi leggere il prosieguo!

In questo capitolo ho deciso anche di dare qualche gioia alla povera Leah, uno dei personaggi meno fortunati della saga. È stata quasi una sorta di redenzione personale per un personaggio a cui non avevo concesso un lieto fine in una one-shot scritta per un contest qualche anno fa. Se non l'avete letta e vi va di farlo, la trovate qui.

A sabato prossimo!


 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - L'imprevisto ***


Era passato più di un mese da quando Emmett si era trasferito a Boston, eravamo ormai a fine ottobre e presto sarebbe arrivato novembre con la sua pioggia incessante.
Trascorrevamo insieme quasi ogni fine settimana io, lui, Jasper e le ragazze. Ormai lui e Rosalie si frequentavano e avevano davvero una bella intesa. Erano uno spettacolo da vedere insieme, non solo perché erano entrambi oggettivamente molto belli, ma perché sembravano emanare una luce particolare quando si guardavano, o si sfioravano, o si punzecchiavano a vicenda.
Non avevo mai visto Emmett così preso e di ragazze ne aveva avute. Ero felice per lui.
Al lavoro le cose andavano molto bene e ogni volta che incontravo Bella il mio cuore perdeva un battito, mi sembrava quasi di essere tornato adolescente. Avevo notato che le rare volte in cui scendeva a mensa lo faceva piuttosto tardi, quando la maggior parte dei dipendenti aveva già terminato il pranzo. Sedeva al tavolo con Rosalie a volte, se dovevano discutere di qualche faccenda lavorativa, ma più spesso da sola, mentre leggeva qualcosa dal tablet. Arrivava per prima la mattina e andava via per ultima la sera. Spesso mi capitava di restare per mezz’ora, a volte anche un’ora, in più in ufficio per terminare alcune operazioni e in quelle occasioni ci capitava di uscire insieme.
Bella abitava non molto distante dalla sede dell’azienda e di solito veniva al lavoro a piedi. Me lo aveva confidato Rosalie, anche lei abitava da quelle parti.
Quel giorno, un mercoledì di fine ottobre, mi ero trattenuto più del solito. Sicuro di essere solo nella stanza, avevo deciso di mettere un po’ di musica. Dopo qualche minuto, però, qualcuno si schiarì la gola alle mie spalle e quando mi voltai vidi Bella che mi osservava con un certo interesse.
«Stai ancora lavorando? Non volevo disturbarti, ma se restiamo ancora qui, i guardiani inizieranno a lamentarsi perché non potranno tornare a casa» mi disse gentile.
«Scusami, no. Cioè, sì, sto lavorando, ma stacco subito» chiusi immediatamente Spotify, ero imbarazzatissimo. Mi aveva beccato a canticchiare mentre masticavo un bastoncino di liquirizia che per poco non le avevo sputato addosso per risponderle.
«Ti aspetto» disse mentre si allontanava dalla mia postazione.
Ma perché dovevo sempre fare figuracce con lei?


La trovai vicino all’ascensore, quando mi vide, mi sorrise.
«Scusami, non ascolto la musica di solito, è che ero da solo…»
«Edward, non devi giustificarti, non hai fatto niente di male. Anch’io ascolto la musica mentre lavoro, mi aiuta a concentrarmi meglio. Non ti preoccupare, lo so che stavi lavorando» mi disse rassicurante.
Le sorrisi ancora imbarazzato e pigiai il tasto per scendere al piano terra.



«Accidenti» imprecò.
Stava piovendo.
«Sono senza ombrello» era decisamente infastidita. Lei che era sempre perfetta e pronta di fronte agli imprevisti, si era fatta cogliere impreparata dalla pioggia. Sembrava il tipo di persona che controllava il meteo ogni giorno per scegliere i vestiti da indossare o per programmare quando fare il bucato.
«Ti do un passaggio a casa» le proposi.
«Oh, non ti preoccupare, posso chiamare un taxi o correre a prendere la metro. Se cammino a passo svelto, posso anche andare a piedi.»
«Non dirlo neanche per scherzo, ti accompagno io» replicai. «Sta diluviando, sei senza ombrello e non hai neanche una giacca con un cappuccio» le feci notare.
«Va bene», disse stupita dalla mia improvvisa sicurezza, «ti ringrazio».
«È un piacere» le sorrisi. Per fortuna, il parcheggio dei dipendenti era semicoperto, quindi non prendemmo troppa acqua. Le aprii la portiera e lei entrò in macchina.
Accesi il riscaldamento quando vidi che si stava sfregando le mani per riscaldarle e notai che stava tremando. La temperatura si era abbassata di colpo, succedeva sempre così in quel periodo. Al mattino sembrava ancora estate e poi la sera c’erano dieci gradi in meno. Indossava un trench blu decisamente troppo leggero per quella sera.
«Grazie» mi disse sincera. Aveva i capelli un po’ più scuri del solito per via della pioggia che li aveva bagnati e qualche ciocca le si era appiccicata al collo. Il vento le aveva scompigliato la sua chioma sempre perfetta e stava cercando di rimettere a posto, dal lato giusto della scriminatura, una ciocca volata dall’altra parte. Era più bella che mai. L’abitacolo era invaso dal suo profumo, sperai che non evaporasse troppo presto.
«Adesso inizia il periodo peggiore qui a Boston», sospirai, «detesto la pioggia».
«A chi lo dici» replicò.
«Avevi già vissuto qui?» mi chiese curiosa.
«Sì, ho studiato a…»
«Ad Harvard, giusto, che sciocca» mi interruppe. «Scusami, per un attimo me ne ero dimenticata» disse stanca, massaggiandosi la fronte. Doveva aver avuto una giornata molto impegnativa.
«Non ti preoccupare, non puoi mica ricordarti il curriculum di qualsiasi dipendente» la rassicurai.
«Di un dipendente qualsiasi, no», si morse il labbro inferiore, «ma di un plurilaureato assunto di recente, sì» mi sorrise.
Quindi, non ero un dipendente qualsiasi. Mi piacque fin troppo il modo con cui aveva giocato con le parole nella frase.
All’improvviso il mio stomaco brontolò. Succedeva sempre nei momenti meno opportuni.
Alzai mentalmente gli occhi al cielo.
Perché, Dio? Perché? Stavo andando così bene!
«Scusami» le dissi in imbarazzo, toccandomi lo stomaco con la mano, sperando di metterlo a tacere mentre lo comprimevo.
«E di cosa? È quasi ora di cena, avrai giustamente fame» mi disse con il suo solito tono gentile e rassicurante. Era così piacevole parlare con lei.
Annuii, ancora in imbarazzo, e lei riprese a parlare. «Mi fa molto piacere che ti sia unito a noi, Edward. Sei davvero molto valido e prendi sul serio tutti i compiti che ti vengono affidati. Spero che ti trovi bene in azienda».
«Grazie, io mi trovo davvero molto bene. Spero non ti dispiaccia se ogni tanto esco più tardi, ma non mi piace iniziare un’operazione e non portarla a termine.»
Ovviamente gli straordinari erano regolarmente pagati, ma non era per quello che restavo oltre l’orario. Forse all’inizio sì, lo avevo fatto per ritrovarmi qualcosa in più in busta paga, ma andando avanti ci avevo preso gusto. Mi piaceva restare da solo in ufficio e lavorare senza avere nessuno intorno. Iniziavo a capire come dovesse sentirsi lei nel suo regno vetrato al sesto piano.
E, soprattutto, mi piaceva uscire con lei la sera, solo noi due soli.
«Non mi dispiace per niente, ma spero che questi ritardi non influiscano sulla tua vita privata».
«Oh, no, affatto» risposi scuotendo la testa. La mia vita privata si riduceva alle uscite al pub di Sam con Jasper ed Emmett il venerdì sera, ma questo non glielo dissi.
Nel frattempo, eravamo arrivati sotto casa sua. Abitava in un bel quartiere residenziale, decisamente troppo vicino all’azienda. Mi sarebbe piaciuto trascorrere ancora un po’ di tempo insieme.
«Grazie mille per il passaggio» disse voltandosi verso e di me e la vidi un attimo, ma solo per un attimo, esitante sul da farsi. Poi con la sua solita compostezza ed eleganza, si infilò la borsa sotto al braccio, sganciò la cintura di sicurezza e fece per aprire lo sportello.
«Aspetta» la fermai, prendendole un braccio.
Si voltò e i nostri visi erano vicinissimi. Mi ero sporto verso di lei per cercare qualcosa dietro al suo sedile. «Ho un ombrello in macchina, ti accompagno almeno fino al portone».
Camminammo vicinissimi per cercare di restare entrambi coperti dall’ombrello e mi sembrò la cosa più bella che mi fosse capitata da un sacco di tempo sentire il suo corpo contro il mio e il suo profumo più intenso che mai invadermi le narici.
«Grazie ancora, Edward, sei stato molto gentile» mi disse sorridendo quando eravamo arrivati ormai davanti al portone. Mi sembrava che anche a lei avesse fatto piacere il tempo che avevamo trascorso insieme.
«Di nulla» le risposi sorridendo.
«A domani, allora, buona serata» disse, mentre infilava la chiave nella serratura del portone.
«A domani» le risposi sfiorandole un braccio mentre mi voltavo.



Il giorno successivo pioveva ancora a dirotto. Non vidi Bella per tutto il giorno, non scese neanche a pranzo, infatti Rosalie pranzò con me e Jasper.
«È in riunione da stamattina con l’Italia» mi confidò sottovoce, mentre Jasper si era allontanato per andare a prendere dell’acqua.
«Oh, beh, io…» mi grattai la nuca in imbarazzo. Rosalie aveva intuito, grazie anche alla bocca larga di mio fratello, che Bella mi piaceva.
«Ho visto che ti guardavi intorno alla sua ricerca» mi disse dolcemente. Le sorrisi.
«Ci saranno dei cambiamenti, vogliono ampliarsi perché gli affari vanno bene. La povera Bella è esausta in questi giorni, sta lavorando molto più del suo solito che è già normalmente troppo» disse dispiaciuta.
«Dovrebbe farsi aiutare» suggerii.
«Non è proprio il tipo, credimi».
«La conosci bene?» domandai curioso.
«Abbastanza, lavoriamo insieme da quattro anni, da quando hanno aperto la sede qui a Boston. Sono molto affezionata a lei e la ammiro molto per quello che fa e per come lo fa. Credimi, quest’azienda è una sorta di paradiso grazie a lei» mi disse con voce carica di ammirazione, confermando quello che avevo pensato fin dall’inizio.
«Mi piacerebbe, però, che lei mi considerasse una sua amica, una sua confidente, e non solo una valida e fidata collaboratrice; ma a quanto pare, non ha voglia di andare oltre un semplice rapporto lavorativo» disse mesta.
Il mio silenzio la esortò a continuare.
«Credo che abbia bisogno di avere qualcuno con cui sfogarsi ogni tanto, qualcuno con cui parlare per alleggerire la sua mente, qualcuno che la ascolti. Pretende sempre molto da sé stessa, è sempre impeccabile, ma non è normale che non si lasci mai andare, che non si mostri mai stanca o arrabbiata per qualcosa. Lavoriamo insieme da quattro anni e non l’ho mai sentita infastidita o preoccupata per qualcosa che non fosse il lavoro e anche in quei casi – rari – le sue reazioni sono state sempre molto misurate. Non lo dico da psicologa, non mi permetterei mai di analizzarla, lo dico da essere umano, semplicemente».
«Non ha un compagno?» domandai.
Scosse la testa. «Non mi parla mai della sua vita privata, ma non credo. Non so neanche se ha fratelli o sorelle o genitori. Non so niente di lei e della sua vita all’infuori di questa azienda. In quattro anni che lavoriamo insieme avrò provato a invitarla centinaia di volte a uscire insieme, ma ha sempre rifiutato» terminò triste.
Le accarezzai la mano che aveva sul tavolo per esprimerle la mia vicinanza. Mi sorrise dolcemente.
«Mi dispiace per lei, perché è una cara ragazza e le voglio bene. Inoltre, è davvero una bella persona, se solo si lasciasse andare un po’…» quando vide arrivare Jasper si bloccò. Le sorrisi e le mimai un grazie con le labbra.



Rimasi in ufficio fino a tardi anche quella sera, aspettando che scendesse, come aveva fatto il giorno prima, ma non lo fece, così decisi di salire io. La conversazione che avevo avuto con Rosalie a pranzo mi aveva riempito il cuore di tristezza e mi aveva messo una pulce nell’orecchio. Io l’avevo vista infastidita per la pioggia la sera prima e non aveva avuto remore a mostrarsi stanca con me in macchina.
Volevo vederla e così, spinto da una forza e da un’intraprendenza che non sapevo di avere, salii fino al sesto piano e bussai alla porta del suo ufficio, che di solito era sempre aperta.
Sentii il rumore delle ruote della sedia che si spostava dalla scrivania e il suo passo leggero che si avvicinava alla porta.
«Oh, Edward. Ciao» mi disse. Aveva l’aria esausta.
«Debussy», dissi infilando la testa nel suo ufficio, «hai gusti decisamente più raffinati dei miei» la feci sorridere. La sera precedente mi aveva colto in flagrante mentre ascoltavo e canticchiavo una vecchia canzone di Snoop Dogg.
«Hai bisogno di qualcosa?» mi domandò, premurosa come sempre. Ero ancora sulla porta.
«Volevo assicurarmi che stessi bene. È molto tardi, non ti ho vista a mensa durante la pausa pranzo e non ti ho vista arrivare stasera…»
«Oh», disse sorpresa, «grazie del pensiero, temo che farò molto tardi stasera. Tu vai pure, dopo le otto lo straordinario non viene conteggiato» mi disse.
«Non me ne importa niente dello straordinario, ho timbrato l’uscita alle sette e mezza. E ti ho aspettata per mezz’ora davanti all’uscita, mi sono preoccupato non vedendoti arrivare» le dissi serio, quasi arrabbiato.
Non rispose, ma notai un certo stupore nel suo sguardo. L’avevo zittita e non credo fosse una cosa a cui era abituata.
«Hai bisogno di aiuto? Posso restare, davvero» le dissi con un tono più dolce, facendomi strada nel suo ufficio.
Da quando ero così intraprendente?
«No, non ti preoccupare, ce la faccio da sola» disse risoluta, dirigendosi verso la scrivania.
«Non ho programmi per la serata. Dimmi cosa posso fare» mi offrii.
Sospirò, esausta.
«Hai mangiato qualcosa oggi?» domandai notando che si sentiva un odore di caffè più intenso del solito e che accanto alla sua macchina infernale per l’espresso c’erano almeno cinque tazzine sporche.
«Non ne ho avuto il tempo» rispose mentre avvicinava la sedia alla scrivania.
«Mi offrirei di prepararti un caffè, se solo fossi capace di usare quel marchingegno, ma direi che ne hai bevuti già abbastanza» le dissi con una punta di rimprovero nella voce.
Mugugnò qualcosa che non compresi, ma non accennò ad alzare lo sguardo dallo schermo del computer.
Prese da un cassetto della scrivania un flaconcino di aspirina e mise distrattamente un paio di compresse in mezzo bicchiere d’acqua che aveva lì accanto.
«Non puoi prenderle a stomaco vuoto» la ammonii.
«Non mi uccideranno, per una volta» rispose sempre senza guardarmi.
«Invece potrebbero».
Mio padre era un medico e se c’era una cosa che sapevo fin da bambino era che i farmaci come l’aspirina non andavano mai presi a digiuno.
«Bella» la chiamai serio. Alzò lo sguardo finalmente.
«Andiamo a mangiare qualcosa e poi potrai prendere l’aspirina. Se non vuoi uscire, vado a prenderti qualcosa in cucina, immagino che riuscirò a trovare…»
«Edward», mi interruppe, «ti ringrazio, davvero, ma non ce n’è bisogno. So badare a me stessa, va’ pure a casa».
«No», risposi cocciuto, «non ho intenzione di andarmene» e mi sedetti su una delle sedie poste di fronte a lei. Continuò ad ignorare la mia presenza.
«Bella» la chiamai a un certo punto.
«Cosa c’è?» mi rispose un po’ seccata.
«Ti sta uscendo del sangue dal naso, quell’aspirina non la prendi» e mentre parlavo mi ero già alzato ed ero andato accanto a lei.
Estrassi un fazzoletto dal pacchetto che avevo in tasca e le tamponai delicatamente il naso, tenendole chiusa la punta con il pollice e l’indice. Le misi l’altra mano dietro la nuca e la invitai gentilmente a reclinare il capo in avanti: mi ero accorto che istintivamente stava facendo esattamente l’opposto.
Le sorrisi. «Mio padre è un medico e da bambino mi succedeva spessissimo, soprattutto d’estate, di perdere del sangue dal naso» le spiegai dolcemente.
Non oppose nessuna resistenza alle mie cure, mi lasciò fare. Aveva chiuso gli occhi, doveva essere proprio stremata.
Dopo qualche minuto, controllai il fazzoletto: l’epistassi si era fermata. La feci alzare piano, aveva bisogno di andare in bagno per ripulirsi. Non insistetti per accompagnarla, anche se avrei voluto, avevo già invaso abbastanza i suoi spazi in una sola sera. Gettai il fazzoletto sporco nel cestino e mi cadde involontariamente lo sguardo sulla scrivania.
«Porti gli occhiali?» le chiesi curioso quando uscì dal bagno.
«Solo quando sto troppo tempo davanti al PC, sono lenti da riposo» mi spiegò.
«Mi dispiace per tutto questo», disse, «se vuoi andare a lavarti le mani, io ho finito» mi sorrise.
Neanche ci avevo pensato, avevo agito completamente d’istinto. Il sangue mi faceva impressione ed ero anche abbastanza schizzinoso, ma lavarmi le mani solo perché avevo tenuto in mano un fazzoletto sporco del suo sangue non era una cosa che avrei fatto, se non me lo avesse ricordato.
«Grazie», le dissi, mentre mi teneva aperta la porta del bagno.
«Grazie a te per la pronta assistenza».



«Sto cercando di rimediare a un disastro» annunciò quando uscii dal bagno.



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Nel weekend sarò piuttosto impegnata, quindi ho anticipato a oggi la pubblicazione.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, mi piacerebbe sentire anche le voci dei lettori silenziosi.
Buon fine settimana, a sabato prossimo!

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Capitolo 5
*** Capitolo V - La collaborazione ***


«Sto cercando di rimediare a un disastro» annunciò quando uscii dal bagno.
«Cos’è successo?» le domandai avvicinandomi alla scrivania.
«Conosci Jessica dell’assistenza clienti?»
«La bionda con quattro centimetri di ricrescita scura?» domandai.
Accidenti a Rosalie che notava certi particolari e a Jasper che li faceva diventare segni distintivi. E soprattutto accidenti a me che non avevo filtri!
«Già, proprio lei» rispose seccata.
«Non so come è riuscita a infettare il PC con un ransomware e abbiamo perso una parte consistente di dati importanti» vedevo la furia agitarsi nei suoi occhi cristallini.
«Cazzo» dissi senza pensarci e mi misi immediatamente una mano davanti alla bocca.
«Scusami, non volevo…»
«No, no, figurati, io ho detto di peggio quando l’ho scoperto».
Avrei proprio voluto sentirla.
«Adesso sto cercando di arginare i danni, ho bloccato i conti, cambiato le credenziali, sporto varie denunce. Ho passato tutto il pomeriggio con gli informatici. E per fortuna abbiamo dei sistemi di sicurezza avanzati per casi del genere, ma non ci voleva proprio adesso, a fine anno e con una nuova sede da aprire!» sbottò.
Non l’avevo mai vista così. Anzi, da quello che mi aveva confidato Rosalie, nessuno l’aveva mai vista così.
«Darò ordine alle risorse umane di non assumere più nessuno che abbia meno di venticinque anni e non me ne frega niente se non è “politicamente corretto”» disse mimando le virgolette con le dita e facendo una smorfia buffissima.
Era incazzata nera, era bellissima, e io mi stavo eccitando.
Ricadde esausta sulla sedia e si portò una mano sulla fronte, massaggiandosela al centro.
Mi avvicinai a lei e mi piegai sulle ginocchia appoggiando le mani su entrambi i braccioli della sedia per farla girare verso di me.
«Probabilmente il mal di testa è dovuto alla fame, l’aspirina non è la soluzione. Andiamo a mangiare qualcosa, posso darti una mano io a recuperare e riordinare tutto, più tardi» le proposi dolcemente.
Sospirò e aprì gli occhi più azzurri e più belli che mai. Sembrava penetrarmi l’anima con quello sguardo.
«Va bene, andiamo a vedere se c’è qualcosa di commestibile in cucina».
 
 
«Burger vegani» li ripose in frigo con aria disgustata. Ridacchiai.
«Sarà tutta la roba che mangia la mia segretaria» continuò.
«Ah, ortangela» dissi io e mi accorsi di aver fatto probabilmente un’altra figuraccia.
I filtri, Edward, i filtri! Dannazione!
«Come, prego?» mi chiese lei.
«Che figura… è tutta colpa di Jasper» borbottai imbarazzato.
Dovevo iniziare a frequentare altre persone.
La segretaria di Bella, Angela, era una gentile signora sui cinquant’anni, estremamente discreta e silenziosa, con un solo difetto.
«Avete dato un soprannome alla mia segretaria?» mi domandò fingendo di essersela presa, trattenendo a stento le risate.
«Non io, Jasper» puntualizzai. «È che mangia praticamente solo ortaggi e probabilmente esagera un po’ con l’uso di alcune spezie e di aglio e cipolla… Si sente, quando è nei paraggi» arricciai il naso e scoppiò a ridere.
«Siete tremendi» disse scuotendo il capo.
«Non ti nego che ci è voluto un po’ di tempo per abituarmici, e tutt’ora, ogni volta che entra nel mio ufficio, beh… devo trattenere un po’ il respiro», confessò, «ma è una valida segretaria, una lavoratrice molto precisa e affidabile» concluse.
«Spero di non aver fatto la figura dell’idiota, mi dispiacerebbe se pensassi che lo sono» mi guardai la punta delle scarpe.
Scosse il capo e mi sorrise.
«Ho anch’io un soprannome?» mi chiese a un tratto curiosa, infilando di nuovo la testa nel frigorifero.
«No!» risposi allarmato e forse urlai anche più del dovuto. Come poteva pensarlo?
«Meno male» replicò divertita dalla mia reazione.
«Cosa darei per una bella bistecca adesso» disse mentre rovistava tra le confezioni presenti nel frigorifero.
«Ti piace la carne?» le chiesi curioso.
«Mangio carne come pochi. Perché? Pensavi che fossi vegetariana, per caso?»
«No, non mi sembri il tipo, in effetti» fece un sorriso compiaciuto.
«Ti vanno delle uova? Credo siano l’unica cosa commestibile e non preconfezionata qui dentro».
«Certo, vanno benissimo. Lascia che ti aiuti» feci per prendere la confezione di uova dalle sue mani.
«Grazie, Edward, ma se non ti dispiace, preferirei cucinare io: ho proprio bisogno di muovermi e di svolgere un’attività pratica» mi sorrise.
Annuii sorridendole di rimando e la lasciai fare. La capivo, aveva bisogno di sfogare lo stress accumulato.
Certo, la parte meno nobile di me aveva in mente altri scenari per farla muovere e per scaricare lo stress svolgendo insieme un’attività pratica, molto pratica.
Dovevo darmi una calmata, altrimenti avrebbe notato sicuramente – attenta com’era – che i pantaloni iniziavano a starmi stretti. Mi allontanai con la scusa di andare a prendere un bicchiere di acqua in sala mensa.
Quando rientrai in cucina, la osservai incantato mentre si destreggiava con molta naturalezza tra quei fuochi e quelle padelle enormi. La mia ammirazione verso di lei crebbe ancora di più, se possibile. Sembrava essere al suo posto ovunque si trovasse e a suo agio di fronte a qualsiasi attività. Che bella sensazione doveva essere sentirsi sempre così, pensai. E che bella che era lei.
 
 
Preparò dei toast con uova strapazzate e bacon croccante. Sembravano deliziosi.
«Colazione per cena» commentai allegro. Mi guardò interrogativa.
«Hai preparato un piatto che di solito si mangia a colazione. Una volta a settimana mia madre ci concedeva di mangiare la colazione per cena, quando eravamo piccoli. Era il mio giorno della settimana preferito.»
Parlavo molto spesso della mia famiglia e della mia infanzia e quel giorno con lei ne avevo già parlato ben due volte.
«Dimenticavo che voi americani preferite la colazione salata» mi prese in giro.
«Voi americani?» la ripresi.
«Io sono americana solo di nascita, per il resto le mie abitudini, soprattutto quelle alimentari, sono per lo più italiane. Faccio sempre colazione con un dolce e un caffè espresso, non riesco proprio a buttar giù roba del genere di prima mattina» fece una smorfia indicando i toast davanti a noi.
«Sono buonissimi, comunque» le dissi mentre mandavo giù il terzo.
«Mi dispiace averti fatto fare tardi» era sinceramente dispiaciuta.
«A me neanche un po’» la rassicurai.
Dopo aver lavato e rimesso a posto piatti e pentole in cucina tornammo nel suo ufficio e ci rimanemmo fino all’una.
 

«Grazie davvero, non credo che ce l’avrei fatta senza di te» confessò mentre la porta dell’ascensore si richiudeva dietro di noi.
Ero sicuro che ce l’avrebbe fatta anche senza di me, ma fui lusingato dalle sue parole.
«È stato un piacere e se domani hai ancora bisogno di me per terminare il riordino, posso restare dopo il lavoro, senza problemi» le dissi.
Annuì e dovette costarle una certa fatica ammettere di aver avuto bisogno di aiuto.
«Troverò il modo di farti retribuire questo straordinario, domani ne parlerò con il commercialista».
«No, non voglio essere pagato per queste ore» mi sentii quasi offeso.
«Ma, Edward, hai lavorato quasi per il doppio delle tue ore oggi» protestò.
«Te l’ho detto, non l’ho fatto per i soldi. Mi fa piacere darti una mano» le dissi convinto e forse mi credette. O almeno lo sperai.
La accompagnai fino alla sua macchina, quel parcheggio al buio incuteva un certo timore. Mi ringraziò ancora e mi strinse la mano, mentre entrava in macchina.
Io ero felice, nonostante fosse passata l’una di notte e dopo poche ore mi sarei dovuto svegliare. Non vedevo l’ora di tornare di nuovo in ufficio e di lavorare con lei.
 
 
Mi svegliai prima ancora che suonasse la sveglia, evento che non succedeva quasi mai, specialmente dopo aver dormito solo quattro ore. Mi preparai con cura e andai al lavoro. Mentre guidavo, passai davanti al Ruadh.
Cavolo, pensai, è venerdì. Il venerdì sera io, Emmett e Jasper andavamo a bere una birra al Ruadh dopo il lavoro. Nessuno aveva mai saltato la nostra serata per soli uomini. Beh, quella sera l’avrei fatto io. Per nulla al mondo avrei rinunciato a un’altra serata da trascorrere da solo con Bella, anche se avremmo dovuto lavorare. Il problema era che dovevo trovare una scusa plausibile con quelle due comari.
Non gli dissi nulla fino al pranzo, poi presi coraggio e annunciai a Jasper che quella sera non mi sarei unito a loro perché dovevo terminare un’operazione ed ero stanco – effettivamente avevo delle occhiaie niente male, come mi fece notare lui stesso – e quindi me ne sarei andato dritto a casa dopo il lavoro. Non mi piaceva mentire, ma non volevo neanche che lui ed Emmett iniziassero a fare insinuazioni o a prendermi in giro o a fare battutine maliziose, come facevano sempre.
Timbrai alle sette e mezza e salii al sesto piano. La porta, stavolta, era aperta. Mi stava aspettando.
«Edward!» il suo viso si illuminò quando mi vide entrare. Indossava gli occhiali, le donavano molto, e aveva raccolto i capelli in uno chignon basso. Dio, quanto è bella, pensai.
«Buonasera», risposi allegro. «Porto doni» le comunicai sventolando un sacchetto pieno di snack.
«Lo sai che il mio stomaco a un certo punto brontola» mi giustificai.
Mi sorrise e notai che aveva già sistemato una sedia accanto alla sua.
Standole così vicino ebbi modo di studiare nel dettaglio tutte le sfumature dei suoi capelli, ogni millimetro del suo viso e mi inebriai, soprattutto, del suo profumo. Ormai ero completamente andato. E diventava sempre più difficile tenere a bada Emmett che cercava di propormi ogni settimana qualche sua collega. L’ultima, una texana di nome Jane, popolava ancora i miei incubi peggiori.


Mentre io mi occupavo del riordino dei dati e dell’archiviazione, buttai un occhio sullo schermo del suo PC e notai che stava lavorando a una presentazione.
«Forse quella frase la cambierei» intervenni.
Si voltò e spostò la tastiera del computer verso di me invitandomi a modificare quello che secondo me non andava.
«Hai ragione» mormorò «così va molto meglio». Le sorrisi.
«Ti dispiacerebbe dare un’occhiata anche a tutto il resto? Posso terminare io le tue operazioni» mi propose con una gentilezza tale che le avrei donato anche un rene se me l’avesse chiesto.
«Certo» risposi affabile.
«Sei un genio!» esclamò a un certo punto, toccandomi la mano che avevo sul mouse, quando le mostrai le modifiche che avevo apportato. Ebbi un brivido.
«Grazie mille per tutto» mi sorrise.
«È stato un piacere» le risposi ed era vero. Non mi ero mai appassionato tanto a un lavoro in vita mia.
 
 
Finimmo di lavorare alle dieci, aveva avvertito i custodi che ci stavano aspettando vicino al cancello.
Però non volevo ancora congedarmi da lei.
«Ti andrebbe di andare a mangiare qualcosa?» le proposi.
«Ti ringrazio, Edward, ma sono molto stanca e domani mattina devo prendere l’aereo molto presto».
Partiva? Al solito, lesse la domanda sul mio viso.
«Devo andare a New York, c’è una riunione del CdA in vista dell’apertura della nuova sede», mi spiegò, «la presentazione mi servirà domani» mi sorrise.
Adesso quadravano tutti i conti e il fatto che la sera prima fosse così nervosa per quello che era successo.
«Quanto tempo resterai?» mi resi conto che forse non erano affari miei, ma ormai glielo avevo chiesto.
«Sarò di nuovo qui lunedì mattina», mi rassicurò. «Apriremo la sede a gennaio del nuovo anno, quindi trascorrerò le vacanze di Natale a New York per coordinare tutta le varie fasi di pianificazione dell’avvio della nuova attività. In questo fine settimana ci occuperemo solo di buttare giù le basi iniziali e di sistemare alcune questioni con gli investitori» mi spiegò con estrema naturalezza.
Forse non le aveva dato fastidio la mia domanda.
«Bene, sono felice per te: New York è bellissima a Natale» dissi sognante.
«Non ci sono mai stata durante le feste, ma sì, suppongo abbia il suo fascino come tutte le grandi città nel periodo natalizio» rispose vaga.
«Allora, buon viaggio, salutami la Grande Mela e se capiti vicino a qualche punto vendita della catena Breads Bakery prova i loro rugelach: sono i migliori che abbia mai mangiato» le suggerii immaginando di gustare uno di quei deliziosi dolcetti.
Mancavo da troppo tempo da New York.
 
 
Il fine settimana fu estremamente lento. Era il primo novembre, pioveva a dirotto e le coppie volevano stare giustamente un po’ da sole, quindi mi ritrovai a trascorrere entrambe le giornate di sabato e di domenica facendo la spola tra il letto e il divano, guardando repliche di vecchie partite e documentari su documentari. Fu proprio durante una di quelle repliche e di un messaggio che era comparso sullo schermo della TV che mi venne voglia di scrivere un articolo. Presi il PC e iniziai a battere energicamente le dita sulla tastiera.
E per fortuna lo feci, altrimenti sarei impazzito in quei due giorni, visto che quando mi fermavo avevo un unico pensiero martellante: chissà cosa sta facendo Bella a New York.
 
 
Il lunedì mattina mi svegliai con un torcicollo tremendo: avevo dormito tutta la notte sul divano. Feci colazione e presi subito un’aspirina.
La mattinata trascorse lenta, a pranzo non vidi Bella e di pomeriggio si riaffacciò il mal di testa. Andai da Rosalie che aveva sicuramente qualche antidolorifico con sé – si sa che le ragazze sono sempre più fornite di noi – e infatti mi diede dell’ibuprofene.
Alle 18 sentii il telefono vibrare. Un messaggio da un numero che non avevo in rubrica.

"Potresti passare dal mio ufficio, prima di andare a casa? Bella."

«Chi è?» mi domandò curioso Jasper. «Hai un enorme sorriso da ebete stampato sulla faccia».
«Oh, niente… Mi hanno dato un buono Amazon da 300$» dissi la prima cosa che mi venne in mente.
«Non aprire il link! Guarda che quelli sono tentativi di fishing. Ti facevo più sveglio, Edward» mi rimproverò.

Avevo fatto la figura dell’idiota, ma di certo non potevo mica spiegargli tutto. Non ancora per lo meno. Che poi cosa c’era da spiegare?
 
 
Non arrivavano mai le sette quella sera. Jasper se ne andò alle sette e un quarto, non faceva mai neanche un minuto di straordinario, ma quella sera evidentemente aveva da fare. O forse il karma, come al solito, ce l’aveva con me.
Quando finalmente fui solo, mi precipitai al sesto piano.
«Bentornata» le dissi tutto sorridente entrando nel suo ufficio. Ero proprio felice di vederla. Il viaggio sembrava averle fatto bene, era più rilassata.
«Grazie, Edward, bentrovato» mi rispose di buonumore.
«Hai bisogno di qualcosa?» le domandai apprensivo. Di solito era lei che lo chiedeva a me.
Scosse il capo. «Ho qualcosa per te» e mi porse un pacchettino marrone con il logo rosso di Breads bakery in caratteri bianchi.
«Aprilo» mi suggerì.
Mi aveva portato i rugelach.
Lasciai il pacchetto sul tavolo e la abbracciai di slancio. All’inizio era rimasta paralizzata per la sorpresa dal mio gesto improvviso, ma dopo qualche secondo la sentii rilassarsi: le sue braccia si strinsero attorno ai miei fianchi e la sua testa trovò il suo posto nell’incavo del mio collo.
«Grazie» le sussurrai in un orecchio, respirando forte il suo buon profumo. Sarei rimasto così per sempre.
«Di nulla» mi rispose con la voce ovattata dal mio maglione.
Quando si staccò, troppo presto per i miei gusti, mi sorrise e io le sorrisi di rimando.
«Avevi ragione, sono ottimi».
«Te l’avevo detto. In quale punto vendita li hai presi?» le domandai curioso.
«Quello vicino a Central Park, nell'Upper West Side» mi rispose.
«Vicino al Lincoln Center» dissi e lei annuì.
«Ci sono stato anch’io, in realtà sono stato credo in tutti i loro punti vendita» confessai.
«Deve piacerti proprio tanto New York» disse sedendosi su una poltroncina e invitandomi a fare altrettanto con un gesto della mano.
«La adoro. Ho trascorso lì uno degli anni più belli della mia vita» mi persi per un momento nei ricordi.
«Boston magari è un po’ più vivibile, ma New York... New York è il mondo come dovrebbe essere. A te, invece, non sembra piacere molto» continuai.
«Non particolarmente» rispose enigmatica e capii che non aveva molta voglia di parlarne. Avevo imparato in quelle due serate trascorse insieme a interpretare i suoi silenzi, le sue espressioni, i suoi gesti e le sue parole.
«Com’è andato il weekend?» le domandai mentre aprivo il pacchetto e mangiavo uno di quei deliziosi dolcetti. Gliene offrii uno e lo prese di buon grado, non dovetti neanche insistere.
«Ci vorrebbe proprio un caffè per accompagnarli» propose mentre lo gustava e io lo accettai, anche se non ero abituato a berne la sera e magari non avrei chiuso occhio quella notte. Avrei accettato anche del cianuro in quel momento, probabilmente, se me lo avesse offerto.
Mi era mancata terribilmente.
Restammo a parlare per due ore del suo fine settimana in ufficio, mangiando tutti i rugelach che mi aveva portato. Mi raccontò tutto quello che avevano fatto e che avrebbero fatto, chiedendo anche il mio parere riguardo ad alcune scelte che non la convincevano. Uscimmo alle nove, solo perché il guardiano venne a chiamarci.
«Ci uccideranno uno di questi giorni» disse scherzando, mentre infilava il cappotto. E mi piacque più del dovuto quel plurale che aveva usato e la complicità che trapelava dal suo tono.
 
 
«Grazie ancora per i rugelach» le dissi mentre le aprivo la portiera dell’auto.
«Di nulla. Era solo un piccolo pensiero per ringraziarti di tutto l’aiuto che mi hai dato nei giorni scorsi» mi sorrise e mi accarezzò la mano che stava sulla portiera aperta.
«Non ci voleva niente, mi ha fatto davvero piacere darti una mano. Ma li ho apprezzati moltissimo, sappilo» dissi e lei ridacchiò.
«Te ne porterò di più a gennaio, allora, visto che ti piacciono tanto» mi promise.
Natale si avvicinava e con esso le vacanze. Di solito il pensiero delle vacanze, di tornare a Chicago dai miei genitori, mi rendeva euforico; quella sera mi rese triste, perché non avrei visto Bella per due settimane.
Quasi intuendo i miei pensieri, mi domandò a un certo punto: «Ci sarebbe la possibilità di portare con me un collaboratore da Boston per aiutarmi. Sarebbe solo per pochi giorni, dopo Capodanno. Tu saresti disponibile?»





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Buon sabato, a partire da oggi manca esattamente un mese all'uscita di Midnight sun. Non so voi, ma io sono euforica!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, è venuto fuori bello lunghetto, ma non mi andava di tagliarlo.
Cosa risponderà Edward alla proposta di Bella? Lo scoprirete sabato prossimo.
Buon fine settimana e grazie come sempre a chi mi segue. Un grazie particolare a rapunzel82 che non manca mai di farmi sapere la sua opinione. Grazie mille di cuore, è molto importante per me avere un riscontro.

 

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI - L'allarme ***


«Ci sarebbe la possibilità di portare con me un collaboratore da Boston per aiutarmi. Sarebbe solo per pochi giorni, dopo Capodanno. Tu saresti disponibile?»
«E me lo chiedi?» le domandai incredulo. «Certo che sì!» sorrise per il mio entusiasmo.
«Bene», commentò compiaciuta. Temeva davvero che potessi rifiutare un invito del genere?
«Ovviamente l’azienda pagherà tutto: viaggio, vitto e alloggio e ti sarà retribuita la trasferta» specificò pratica.
«Guarda che ci sarei venuto anche se avessi dovuto pagare io. Adoro New York» dissi gongolando.
E adoravo trascorrere del tempo con lei, aggiunsi nella mia mente.
«Allora, appena mi daranno conferma ti fornirò tutti i dettagli» fece per entrare in macchina quando si ricordò che doveva dirmi ancora qualcosa.
«Edward», mi chiamò, «scusami se ho spulciato il tuo fascicolo personale per prendere il tuo numero di telefono. Spero non ti abbia dato fastidio» disse facendosi timida a un tratto.
«Domani farò un reclamo alle risorse umane per violazione della privacy» risposi fingendomi serio.
Il suo volto diventò cianotico.
«Ehi, sto scherzando!» mi affrettai a dirle, toccandole una spalla.
«Anzi, se non ti dispiace, ho salvato il tuo in rubrica», le dissi cercando il suo sguardo. Sembrava essere tornata in sé, annuì e mi sorrise.
Che battuta idiota, Edward, mi rimproverai mentalmente.
 
 
La mattina seguente mi chiamò nel suo ufficio per informarmi che le avevano dato conferma dall’Italia: poteva portare con sé a New York un collaboratore da Boston.
Io quella notte non ci avevo dormito su per la gioia, ma il mattino aveva insidiato in me il tarlo del dubbio e dell’inadeguatezza, due vecchi amici che purtroppo conoscevo fin troppo bene.
«Ma sei proprio sicura di voler portare me? Insomma, sono l’ultimo arrivato, magari in azienda c’è qualcuno più adatto di me che può tornarti più utile lì…» dissi improvvisamente insicuro.
«Non vuoi venire?» mi chiese apprensiva.
«No! Certo che voglio venire, è che magari potrebbe farti più comodo qualcuno con più esperienza di me o con capacità migliori delle mie…» avevo paura di deluderla una volta lì, temevo di non essere all’altezza dei compiti che mi sarebbero stati assegnati.
«Edward, ti ho chiesto di venire con me perché sei l’unico con cui riesco a lavorare. Quindi, o vieni tu con me o vado da sola. E poi ti sottovaluti troppo, sei estremamente capace, credimi» e non ebbi la possibilità né la voglia di replicare. Ero lusingato dalle sue parole. Lei credeva in me più di quanto facessi io stesso.
«Va bene, allora, se ne sei sicura» le sorrisi.
«Più che sicura» rispose convinta.


Trascorremmo quella e altre sere insieme a lavorare. Stavo imparando moltissime cose grazie a lei, non solo lavorativamente, ma anche su di me. Stavo acquisendo una maggior consapevolezza delle mie capacità e di conseguenza stavo diventando anche più sicuro di me. Stavo ricominciando ad essere l’Edward di una volta che sembrava perso e lontano nel tempo.
Mi aveva fatto stilare alcuni report e avevo preparato alcune presentazioni per New York che aveva apprezzato particolarmente. Si era complimentata per la qualità del lavoro svolto e soprattutto per la mia notevole capacità di scrittura. In effetti, scrivere mi veniva naturale, anche se avevo smesso dopo il mio anno New York, quando era sfumata la possibilità di realizzare il mio sogno di lavorare nel giornalismo sportivo.
Glielo raccontai in una di quelle sere, visto che ormai aveva capito che amavo follemente quella città che mi aveva dato tanto e tolto altrettanto. Le raccontai del mio tirocinio trascorso in una redazione giornalistica sportiva, delle trasferte, di quanto mi appassionasse scrivere e raccontare quello che vedevo durante le partite e della cocente delusione quando mi dissero che non c’era posto per me lì, che ero bravo a scrivere ma non ero tagliato per fare il giornalista sportivo.
Mi ascoltò come non aveva mai fatto nessuno, sinceramente interessata, e mi suggerì di ricominciare a scrivere e magari di prendere contatto con qualche giornale online, perché, invece, secondo lei ero particolarmente dotato. Le confessai che avevo già scritto qualcosa, mi sembrò sinceramente felice della notizia e mi disse delle frasi così incoraggianti che quasi mi commossi.
 
 
Durante una sera di metà novembre mi informò che avrebbero prenotato a breve i voli e l’albergo. Le avevo già detto che avrei trascorso le vacanze di Natale dai miei genitori a Chicago, quindi sarei partito da lì e non da Boston il 2 gennaio.
«Avrei una richiesta, se è possibile».
Ci stavo pensando da tempo e non ero sicuro di poter chiedere tanto, ma allo stesso tempo non volevo pentirmi di non averlo fatto, così mi buttai.
«Ti serve una camera doppia» era un’affermazione, non una domanda. Ne era proprio convinta.
«No!» replicai quasi disgustato. Come poteva pensarlo?
«Ok, scusa» disse ridacchiando e alzando le mani in segno di resa.
«Se non chiedo troppo, vorrei partire prima di Capodanno. Se ci sono problemi, posso pagare io la differenza per le notti in più in albergo e per il volo che sarà sicuramente più costoso prima di fine anno».
«Vuoi passare il Capodanno a New York? Credevo volessi trascorrere le feste con la tua famiglia».
E adesso cosa le dicevo? Che trascorrere il Capodanno con due coppie non era proprio il Capodanno dei miei sogni? La verità era che volevo trascorrerlo con lei, ma non potevo mica dirglielo così su due piedi. Doveva essere una sorpresa. Una sorpresa che sognavo e progettavo da tempo.
Così annuii in risposta alla sua domanda, sembrava un desiderio abbastanza plausibile voler trascorrere il Capodanno a New York e, in effetti, ero euforico all’idea del viaggio per diversi motivi.
«Lo sai che adoro New York, specialmente nel periodo delle feste» risposi.
«Va bene, non credo ci saranno problemi. Nel caso dovessero fare storie, li minaccerò raccontandogli di tutti gli straordinari non retribuiti che hai fatto negli ultimi mesi» mi fece l’occhiolino.
«Grazie» le dissi sinceramente riconoscente.
«È il minimo che possiamo fare, per ripagarti di tutta la tua disponibilità» replicò convinta.
 
 
Il sabato seguente eravamo tutti a casa di Jasper per festeggiare il compleanno di Alice e per guardare la partita, ovviamente.
Avevo deciso che avrei comunicato a tutti quella sera che sarei andato a New York con Bella, ma qualcuno che conosceva le mie intenzioni, vedendo che non mi decidevo a parlare e la serata stava volgendo al termine, aveva deciso di scombinare i miei piani.
«Avete sentito che il mio fratellino se ne va a New York col capo a Capodanno?»
Emmett, ovviamente, lo aveva saputo in anteprima per ovvi motivi di organizzazione familiare.
Lo fulminai con lo sguardo.
«Cosa?» esclamarono quasi all’unisono Rosalie e Jasper.
Per lo meno era riuscito a tenere la bocca chiusa con la sua ragazza, non me lo aspettavo.
Io scossi il capo mentre Rosalie venne a sedersi sul bracciolo della mia poltrona pronta a farmi il terzo grado.
«Adesso mi racconti tutto» mi intimò incrociando le braccia sotto al petto.
Omettendo parecchi particolari, come le ore piccole, le cene improvvisate e il fatto che non me sembrava comportarsi in maniera molto più confidenziale che con gli altri dipendenti, raccontai loro della proposta di Bella di portarmi a New York.
Jasper era incredulo.
«Edward, ti rendi conto che per Bella dirti che sei l’unico con cui riesce a lavorare equivale a una dichiarazione d’amore?»
«Non dire sciocchezze, Jasper» replicai sprezzante. Non mi piaceva il modo in cui la considerava.
Alice gli diede uno scappellotto e mi sorrise.
Rosalie mi fece l’occhiolino e se ne andò sul balcone con la scusa di fumarsi una sigaretta. Alice stava per raggiungerla, ma la fermai. Avevo capito che voleva che fossi io a seguirla.
«Rose» la chiamai e si voltò verso di me.
«Cosa state combinando, Edward?» mi domandò senza girarci troppo intorno.
«Niente di che, davvero. Stiamo solo lavorando» ed era vero che ci limitavamo a lavorare, ma c’era qualcosa tra noi, era innegabile.
Io ero felice con lei e lei sembrava stare bene con me. Mi sembrava di conoscerla da una vita per quanto mi riuscisse facile essere me stesso con lei.
«Qualsiasi cosa stia nascendo tra di voi sono felice per te, davvero. E per lei» mi sorrise.
«Grazie» le dissi sincero.
«Non ci mettere troppo tempo a farti avanti, sono proprio curioso di conoscerla questa Bella che - per la cronaca -, secondo me, è stracotta di te» Emmett era arrivato alle mie spalle.
«Lo sai che abbiamo tempistiche e stili diversi» lo presi in giro.
«Sì, è vero, ma siamo pur sempre gli irresistibili fratelli Cullen: cadrà ai tuoi piedi, ne sono sicuro» mi disse mentre circondava la vita di Rosalie con le braccia.
«Ci chiamavano così al college», le spiegò, «quando il signorino si faceva qualche problema in meno rispetto ad ora e si buttava di più. Quand’è che ti ho perso, fratello? Da dopo New York sei diventato così insicuro su tutto» terminò dispiaciuto.
Sospirai. Emmett aveva cercato in tutti i modi di aiutarmi a risollevarmi dopo New York, ma non ci era riuscito.
«Siamo cresciuti, Emmett. Il college è stato una vita fa. Io e Bella lavoriamo insieme, è il mio capo, è ovvio che mi faccia degli scrupoli, no? E poi lei non è come le altre, non è una qualunque. Lei è importante per me» ammisi ad alta voce senza neanche rendermene conto.
«Neanche tu sei uno qualunque per lei, Edward» mi disse Rosalie. «Non è la prima volta che si sposta per lavoro e non ha mai chiesto a nessuno di seguirla, neanche alla sua segretaria o a me. E di sicuro in quattro anni di attività non ha mai fatto le ore piccole in ufficio lavorando con qualche dipendente».
«Possiamo?» Alice e Jasper arrivarono alle mie spalle.
«Ma certo, Alice, è casa vostra. Anzi, scusateci se ci siamo allontanati» le dissi.
«Nessun problema» Jasper mi diede una pacca sulla spalla.
«Non mi dite che state parlando di lavoro, però, vi prego» disse con tono supplichevole, mentre si accendeva una sigaretta.
Rosalie mi fece l’occhiolino.
«Fammi sentire un po’, Edward, state anche programmando la formazione dei team?» mi domandò curiosa, mentre si accoccolava tra le braccia di mio fratello. Jasper alzò gli occhi al cielo mormorando con la sigaretta tra le labbra «lo sapevo» e mi scappò una risatina.
«Sì, anche se per quello probabilmente saresti stata tu la scelta migliore» le sorrisi.
«È lei la migliore, vedrai. E poi, se ha scelto te, non ho dubbi che sia tu la persona più adatta» la ammirava sinceramente, come me e tutti gli altri d’altronde.
 
 
E lo vidi davvero che era lei la migliore, ma ormai ero convinto che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, anche in campi diversi, e sarebbe risultata sempre la migliore. Aveva la stoffa, la grinta, la tenacia e l’intelligenza giusta per adattarsi a qualsiasi situazione.
In quella settimana era in programma una riunione aziendale e per la prima volta, da quando lavoravo lì, la vidi all’opera nella sua veste ufficiale.
Tutte quelle parole che insegnavano nei corsi universitari e che sembravano vuote e astratte sui manuali, si erano perfettamente incarnate nella sua meravigliosa figura.
Public speaking, leadership, capacità manageriali, orientamento al risultato: le possedeva tutte.
Di solito durante le riunioni capitava di annoiarsi, o per lo meno era fisiologico che almeno un partecipante si annoiasse e si mettesse a guardare lo smartphone per non addormentarsi, invece lì eravamo tutti attenti e incantati, pendevamo dalle sue labbra.
Era assolutamente perfetta e non sembrava sforzarsi più di tanto per esserlo. Dietro quella naturalezza doveva esserci stato un gran lavoro e tanto sacrificio e sull’onda di questi pensieri la mia voglia di sapere tutto di lei crebbe ancora di più.
 
 
«A quanto pare, hanno bisogno di me prima del previsto. Hanno fissato una nuova riunione di tutto il consiglio di amministrazione prima della full immersion natalizia che, per inciso, inizierà il 15 dicembre per me» annunciò giovedì sera, una settimana prima del giorno del Ringraziamento.
Ma non potevano farla in video conferenza?
«Partirò mercoledì pomeriggio, quindi quella sera non potremo lavorare. Uscirò per la prima volta di qui alle 17, credo di non averlo mai fatto» confessò.
«Ma è il Ringraziamento» protestai.
«Lo so, proprio per questo ho fatto fissare la riunione in quel weekend. Non posso assentarmi da qui per troppo tempo e visto che c’è il ponte del Ringraziamento ne approfitto. Riuscirete a cavarvela con gli ordini del Black Friday, ne sono certa».
«Il Black Friday a New York, il sogno di ogni ragazza» la punzecchiai.
«Oh, certo, non desidero altro che fare file infinite davanti ai negozi o litigare per un paio di scarpe con orde di ragazzine assatanate, dopo essere stata chiusa tutto il giorno in una stanza a trattare con italiani, brasiliani e americani» replicò sarcastica.
«Scusami, non volevo farti arrabbiare» le dissi con voce colpevole.
«No, scusami tu, non volevo risponderti male. Davvero. È che mi stanno facendo impazzire» si prese la testa fra le mani.
«Non devi scusarti di nulla» le dissi accarezzandole una spalla e mi regalò uno di quei sorrisi per i quali avrei potuto fare qualsiasi cosa.
«Non vedo l’ora di tornare a New York, non smetterò mai di ringraziarti per avermi proposto di accompagnarti» le dissi grato.
«Sono io che devo ringraziare te. Sai già quando potresti partire?» mi domandò puntando i suoi occhi nei miei.
«Dopo il 25, qualsiasi data va bene.»
«Molto bene. Allora… non ti dispiacerebbe partire il 26?»
«Assolutamente no. C’è qualcosa che vorresti dirmi?» le chiesi vedendola combattuta.
«Non osavo chiedertelo, ma mi saresti di grande aiuto se potessi lavorare qualche giorno prima di Capodanno. Abbiamo dovuto riprogrammare le sessioni di lavoro e dobbiamo necessariamente sfruttare anche le ultime giornate di dicembre, subito dopo Natale. Ovviamente, sentiti libero di rifiutare, mi rendo conto che ti sto chiedendo molto.»
«Non devi farti remore a chiedere il mio aiuto, lo sai», la rassicurai. «Certo che posso lavorare. Anzi, se hai bisogno anche prima di Natale, per me non c’è nessun problema, posso partire quando vuoi». Mi sorrise.
«Non potrei mai chiederti tanto, già mi sento in colpa a sottrarti dalla tua famiglia prima del dovuto. Sicuro che a loro non dispiaccia che tu parta subito dopo Natale?»
Scossi il capo. «Ancora non lo sanno, ma tanto avranno la compagnia di Emmett e Rosalie. Sono tutto tuo» le feci l’occhiolino e mi sembrò di vedere un guizzo improvviso illuminarle lo sguardo.
 

 
Il giorno seguente, venerdì, iniziarono le promozioni per il black Friday e c’era il delirio in ogni reparto. Jasper, rassicurante come una nuvola nera in cielo la mattina di ferragosto, mi confidò che quello era solo un assaggio del delirio che precedeva il periodo natalizio.
Benissimo, a New York ci sarei arrivato morto.
Io non mi sentivo molto bene quel giorno, avevo un gran mal di testa e non vedevo l’ora di tornarmene a casa. Avevo lavorato tutta la notte a un altro articolo che avevo spedito alla redazione di un giornale sportivo locale. Per fortuna quella sera non ci saremmo neanche visti al Ruadh perché era chiuso: era nata Bree, la figlia di Leah e Sam. Jasper mi aveva mostrato una foto che gli aveva inviato Sam: era un fagottino dolcissimo tutto guance e capelli neri. Leah aveva avuto alcuni problemi durante l’ultimo mese di gravidanza e aveva smesso di lavorare, infatti non la vedevo da un po’. Sam appariva sempre più preoccupato ogni volta che lo incontravo.
Per fortuna, la bimba era nata forte e sana, nonostante avessero dovuto anticipare il parto per evitare complicazioni.
Avevano scelto il nome Bree che in gaelico irlandese significa “forza”, molto adatto per la piccola.
Entrambe le coppie sarebbero partite per il weekend. Alice e Jasper sarebbero andati dai genitori di lei nel Connecticut, perché avrebbero trascorso il Ringraziamento a Boston con i genitori di Jasper. Emmett e Rosalie, invece, avevano prenotato un weekend in un romantico b&b nel Vermont, approfittando proprio delle promozioni del black Friday che ormai venivano inviate quasi un mese prima della data fatidica.
I soliti regali strappa-mutande di mio fratello, come amavo definirli io, era ovvio che cadessero tutte ai suoi piedi. Anche se con Rosalie mi sembrava molto più coinvolto del solito: in genere la fuga romantica non la programmava mai prima dei sei mesi di frequentazione.
Io mi sarei goduto un bel weekend da single abbuffandomi di pizza e serie tv e magari avrei provato a scrivere qualcos’altro. Ormai mi era tornata l’ispirazione.
 
 
Erano quasi le sette. Mi avevano segnalato un problema dal magazzino, non riuscivano a trovare un documento di trasporto e l’ordine doveva necessariamente partire quella sera, così scesi a controllare. Non ero mai stato lì dentro.
Cercai l’operaio che mi aveva mandato a chiamare e controllammo tutto. Risolto il problema, mi ringraziò e si dileguò subito per affidare l’ordine al reparto spedizioni, altrimenti la partenza sarebbe slittata al lunedì mattina.
Io rimasi ancora per qualche istante per verificare anche gli altri DDT. C’era un tale disordine, era ovvio che si perdessero i documenti.
«Edward?» ormai sentivo la sua voce nella testa che mi scoppiava.
«Edward, sei qui?» dovevo farmi curare, percepivo anche il suo profumo.
«Edward!» urlò a pochi centimetri di distanza da me.
Me la ritrovai davanti. Allora non sentivo le voci in testa.
«Perché non mi rispondevi?» mi rimproverò.
«Oh, Bella, scusami, ero assorto nella lettura dei documenti. Che ci fai qui dentro?» le domandai a mia volta per non rispondere alla sua domanda.
Non ebbe il tempo di replicare perché entrambi fummo distratti dal rumore della porta che si chiudeva alle nostre spalle e dal segnale dell’allarme che si attivava.


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Buon sabato!

Il capitolo è ricco di avvenimenti, copre quasi un mese di eventi. Bambini che nascono, compleanni, viaggi e... allarmi che si attivano. Ovviamente, vi toccherà aspettare una settimana per scoprire cosa combineranno i nostri prodi eroi :D

Grazie mille a rapunzel82 e a LaurinskY per le loro splendide parole. Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento. Edward, ovviamente, ha accettato di andare a New York ^_^

C'è una frase in questo capitolo che ritornerà in futuro, in un capitolo molto importante. Ve lo rammenterò quando arriverà il momento, ma tanto sono sicura che ve ne ricorderete. Vediamo se qualcuno la individua già...

Buon fine settimana, a sabato prossimo!

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII - Il magazzino (parte prima) ***


Eravamo rimasti bloccati nel magazzino. Per tutto il weekend.
Avevamo lasciato i telefoni in ufficio, non c’era nessuna possibilità che qualcuno venisse ad aprire quella porta prima di lunedì mattina, quando si sarebbe aperta automaticamente, visto che per motivi di sicurezza c’era un timer impostato che ne permetteva l’apertura dall’interno e dall’esterno solo nelle ore lavorative.
«Tutta colpa di quell’idiota! Dovresti dire a Rosalie di selezionare meglio gli operai del magazzino» la rimproverai.
«Gli operai del magazzino sono selezionati da Ben, il capo settore. Rosalie gli fa solo firmare il contratto di assunzione e li licenzia all’occorrenza, sempre su segnalazione di Ben» mi spiegò con calma.
Mi stavo innervosendo.
«Allora forse dovresti sostituire Ben. Guarda che disordine che c’è qui!» ero isterico.
«Edward, calmati!» mi riprese.
Mi accasciai sul pavimento e mi presi la testa tra le mani. Avevo bisogno di un antidolorifico, la testa mi stava scoppiando.
Bella sospirò. «Beh, per lo meno c’è un bagno e abbiamo acqua a sufficienza. Poteva andarci peggio.»
«Non perdi proprio mai il controllo tu, eh?» dissi acido.
«Non ne vedrei l’utilità in una situazione del genere: se anche perdessi il controllo, non cambierebbe nulla, resteremmo comunque bloccati qui fino a lunedì. Tanto vale cercare pratiche soluzioni per arrivarci vivi.»
Scossi il capo incredulo. Era incredibile. Io ero sull’orlo di una crisi di nervi e lei cercava soluzioni pratiche per sopravvivere al weekend.
Si sedette accanto a me sul pavimento, incrociando le gambe. Mi voltai con la testa verso di lei, ma non era la mossa più giusta da fare: il mal di testa peggiorava con i movimenti. Riappoggiai la testa al muro cercando un po’ di sollievo e chiusi gli occhi cercando di non pensarci.
«Qualcosa non va?» aprii gli occhi e mi ritrovai i suoi occhi curiosi molto vicini ai miei.
«Ho un po’ di mal di testa» ammisi, toccandomi il collo rigido.
«Mi dispiace. Non credo ci sia qualcosa di utile nella cassetta del pronto soccorso, ma forse possiamo provare con un caffè amaro» propose.
«Davvero?» mormorai. Avrei preso qualsiasi cosa in quel momento pur di stare meglio.
«Sì, la caffeina è un blando analgesico. Non mi chiedere di spiegarti scientificamente questa cosa, perché non ne sarei in grado, ma posso assicurarti per esperienza che funziona».
«Mi fido», risposi, «ma come facciamo a procurarci il caffè? Non abbiamo soldi da inserire nel distributore» dissi indicando il distributore di bevande e snack che si trovava poco distante da noi. Avevo lasciato il portafoglio nella borsa da lavoro in ufficio e anche lei non aveva portato niente con sé.
«Beh, qui nel magazzino ci sono le macchine che vendiamo insieme al caffè in capsule. Ne apriamo una e la mettiamo in funzione». Aveva sempre una soluzione a tutto.
«Sei incredibile» le dissi sinceramente guardandola dritta negli occhi.
Per tutta risposta fece spallucce e si alzò in piedi, dirigendosi verso alcuni pacchi stipati su uno scaffale. Avrei voluto aiutarla, ma in quel momento, se mi fossi alzato e avessi sollevato le braccia per prendere la scatola dallo scaffale, probabilmente avrei vomitato.
E avevo già una discreta collezione di figurine di merda con lei, non mi sembrava il caso di aggiungerci anche il vomito.
Prese l’acqua dal boccione e riempì il contenitore della macchinetta, poi inserì la capsula nell’apposito vano e dopo aver collegato l’apparecchio alla corrente elettrica, magicamente mi preparò un caffè.
«Niente zucchero» ordinò mentre mi porgeva il bicchiere di plastica fumante.
Bevvi alcune sorsate di caffè. Non mi piacevano le bevande amare, ma se mi aveva prescritto di berlo senza zucchero doveva esserci un motivo.
«Non è come quello che fai tu» constatai facendo una smorfia.
«No, il caffè in capsule è diverso dall’espresso vero che preparo io. Ci tocca arrangiarci con quello che abbiamo. È davvero così cattivo?» mi chiese curiosa.
«Assaggia» le porsi il bicchiere spontaneamente. Solo dopo mi resi conto che eravamo praticamente due estranei e bere dallo stesso bicchiere è un gesto piuttosto intimo.
Sorseggiò il caffè pensierosa, aveva afferrato il bicchiere con la solita calma. Era impossibile capire cosa le passasse per la testa in quel momento.
«Hai ragione, è pessimo. Speriamo che almeno serva allo scopo» fece una smorfia di disgusto e mi restituì il bicchiere. Le nostre dita si sfiorarono.
Terminai di bere il caffè e chiusi gli occhi.
«Soffri di cervicale?» mi domandò.
«Sì, a volte mi capita di avere attacchi del genere.»
Si fece pensierosa e si alzò per prendere qualcosa dalla scatola della macchinetta appena messa in funzione. Formò una specie di salsicciotto con la carta da imballaggio con le bolle e me lo mise intorno al collo, a mo’ di collare.
«Dovrebbe aiutarti un po’a rilassare i muscoli» si giustificò.
«Grazie» le dissi sincero. Le presi una mano ancora sospesa vicino alla mia spalla e la portai istintivamente alle labbra. In tutta risposta mi sorrise e mi accarezzò delicatamente una guancia col dorso dell’altra mano.
Era così tranquilla, era così benefica la sua sola presenza che mi sentii pervadere da una strana sensazione di benessere e di pace.
 
 
Mi addormentai per un po’. Quando mi svegliai, non trovai Bella accanto a me. Il mal di testa era meno intenso e sentivo i muscoli del collo meno rigidi, aveva ragione: sia il caffè che il collare improvvisato avevano funzionato.
Guardai l’ora, erano le undici.
«Come ti senti? Sono andata un attimo in bagno, hai dormito per un paio d’ore.»
«Mi sento meglio, grazie. Il tuo rimedio ha decisamente funzionato».
«Ne sono felice».
«Scusami se ho dato di matto prima, ero nervoso perché non mi sentivo bene» confessai pentito della mia reazione isterica di qualche ora prima.
«Non ti preoccupare, l’importante è che stai meglio» rispose gentile.
Avevo bisogno anch’io di andare in bagno, mi alzai piano, controllando i movimenti del collo, e mi diressi verso la porta.
Mi sciacquai il viso, avvertivo ancora un leggero mal di testa quando muovevo il collo e soprattutto iniziavo a sentirmi nervoso. Era ora di dormire. Cosa avremmo fatto? Come avremmo trascorso la notte? Come e dove ci saremmo sistemati?
Ovviamente anche in questo caso, la soluzione l’aveva trovata lei.
La trovai già addormentata: si era rannicchiata per terra, su un fianco, doveva essere esausta e, probabilmente, a giudicare dalla posizione, doveva avere freddo.
Era rimasta sveglia a vegliare me che dormivo. Mi si strinse il cuore a vederla, sembrava così piccola e indifesa in quel momento, che avrei voluto stringerla in un abbraccio per riscaldarla almeno un po’ e per proteggerla da qualsiasi cosa. Ero ben consapevole del fatto che fosse una donna forte e indipendente, eppure avevo iniziato a scorgere in lei un lato fragile che accendeva in me un istinto di protezione che non credevo di possedere.
Tolsi le scarpe e mi benedii da solo per aver indossato una pesante felpa con la zip quella mattina. Sfilai la giacca e mi stesi su un fianco di fronte a lei sistemando la felpa aperta su di noi per coprire le spalle di entrambi. La strinsi piano in un abbraccio e fui inondato dal suo dolce respiro che aveva ancora qualche leggera nota di caffè.


Dormii stranamente bene, nonostante fosse la mia prima volta su un pavimento, senza cuscino e senza coperte.
Quando mi svegliai, mi resi conto di essere solo sul pavimento, la giacca ben sistemata su di me. Chissà dov’era andata. Mi misi seduto e feci delle leggere rotazioni con il collo e con le spalle, come mi aveva insegnato Emmett: avevo i muscoli ancora rigidi e l’attacco di emicrania era ancora troppo recente. Andai in bagno e mi sciacquai il viso. Guardandomi allo specchio, notai che avevo un leggero segno di rossetto su una tempia. L’immagine riflessa del mio viso mi restituì un’espressione gongolante e soddisfatta.
Quando uscii trovai Bella fresca e sorridente che mi attendeva con un bicchiere fumante in mano.
«Buongiorno, come ti senti?»
«Meglio, grazie» le risposi e mi avvicinai a lei.
«Ho una sorpresa, se non ricordo male è la tua bevanda preferita» disse porgendomi il bicchiere.
«Dove hai trovato del tè?» le domandai meravigliato.
«In Italia producono e vendono già da un po’ le capsule di altre bevande, qui da noi non sono ancora in vendita, ma ricordavo che ci avevano spedito dei kit assaggio per iniziare a testare sul mercato americano questi prodotti. Ci sono anche delle tisane, magari dopo ne proviamo qualcuna, abbiamo ancora tanto tempo da trascorrere qui.»
Scossi il capo incredulo, ormai era diventata un’abitudine. La ringraziai per il riguardo e rimasi piacevolmente sorpreso del fatto che si fosse ricordata quello che ci eravamo detti durante il nostro primo incontro.
«Ah! Le sorprese non sono finite col tè» aggiunse «ho trovato anche dei biscotti: di sicuro non moriremo di fame in questi due giorni» me li offrì trionfante e ne presi subito uno.
«Accidenti, che buoni!» dissi mentre ne divoravo uno.
«Fine pasticceria italiana», rispose divertita dal mio appetito, «dovrebbero esserci anche dei cioccolatini al caffè da qualche parte, dopo magari li cerchiamo».
Con la calma ritrovata, di buon umore grazie agli zuccheri che circolavano nel mio sangue e libero dal mal di testa che mi offuscava il cervello, trovai molte note positive in quell’assurda situazione: saremmo stati da soli per tutto il weekend.
Solo io e lei, senza nessun altro, senza lavoro da sbrigare, senza guardiani che ci intimavano di andar via, senza telefoni che squillavano, senza e-mail a cui rispondere.
Nessuna distrazione. Solo noi due. Il sogno di una vita che si realizzava in un magazzino.
«Allora, che programmi avevi per questo weekend?» le domandai.
«Nulla in particolare, mi sarei dedicata come ogni fine settimana al bucato e alle pulizie domestiche e probabilmente avrei trascorso le serate recuperando qualche serie tv su Netflix» mi rispose con estrema naturalezza, come al solito.
Quindi, niente fidanzati tra i piedi.
«E tu? Avevi programmi particolari per questo weekend?»
«No, niente di che. Avrei fatto più o meno anch’io le tue stesse cose. Questo fine settimana mio fratello e Rosalie hanno organizzato una fuga romantica, di solito trascorro con loro i weekend; oppure con Jasper e Alice, la sua ragazza, ma anche loro sono fuori per il fine settimana.»
«Per te niente appuntamenti romantici?» mi chiese curiosa.
Scossi il capo. «E per te?»
«No, per quanto sia affezionata alla mia lavatrice e adori l’asciugatrice come una divinità, non considero romantico trascorrere del tempo con loro».
«Il programma delicati ha un suo perché» ammiccai e la feci sorridere.
Mi ricordai all’improvviso che c’era una domanda in sospeso da ieri, una domanda a cui non aveva avuto tempo di rispondermi perché eravamo rimasti chiusi lì dentro.
«Perché sei venuta a cercarmi qui ieri pomeriggio? Dovevi dirmi qualcosa?»
«Oh», la vidi arrossire leggermente.
«Ti avevo inviato le carte d’imbarco via e-mail, ma non mi avevi risposto, così sono scesa al terzo piano per assicurarmi che le avessi ricevute. Erano usciti tutti, la tua postazione era vuota, ma la tua roba era ancora lì, così ho chiesto a uno dei guardiani se ti avesse visto e sono venuta a cercarti. Temevo ti fosse successo qualcosa» confessò.
«Eri preoccupata per me?» le chiesi improvvisamente felice.
Annuì.
«Ti saresti preoccupata per qualsiasi dipendente?» continuai, avvicinandomi sempre di più a lei.
«Non lo so, probabilmente sì… ma non credo che sarei stata felice di trascorrere il fine settimana chiusa nel magazzino con chiunque» ammise con estrema sincerità.
«Allora non sono l’unico contento di questa situazione» dissi gongolando, voltandomi verso di lei e avvicinandomi ancora di più al suo viso, al punto da sentire il suo respiro sulla mia pelle.
Scosse il capo sorridendo. Volevo baciarla e stavo quasi per farlo, ma avevo ancora il collo rigido e il fatto che mi fossi voltato con la testa verso di lei non aiutava di certo. Feci una smorfia di dolore quando avvertii una scossa e mi massaggiai il muscolo irrigidito, rimettendomi di nuovo con la testa diritta. Dannazione.
«Ti fa ancora male il collo?»
«È un po’ rigido» confessai.
«Voltati, vediamo se riesco a farti rilassare un po’».
Obbedii e le diedi le spalle. Lei si mise in ginocchio dietro di me e iniziò a massaggiarmi il collo prima delicatamente e poi premendo e strofinando con decisione nei punti più contratti.
«C’è qualcosa che non sai fare o in cui non sei brava?» le chiesi.
«Ho vissuto per molto tempo da sola, ho dovuto imparare a cavarmela in diverse situazioni. Ho imparato che più cose sai fare, più sei indipendente e a me piace essere indipendente» rispose con il suo solito tono fiero.
«Non l’avrei mai detto» dissi ironico. Sentii una risatina e mi beccai un buffetto sulla testa.
«Ahi», finsi di aver provato dolore, toccandomi la testa.
«Va meglio?» mi chiese dolcemente terminando il massaggio con una carezza.
«Molto meglio, grazie».
E fece una cosa che non mi aspettavo proprio. Mi diede un bacio sul collo, poco sotto l’attaccatura dei capelli, e appoggiò il mento sulla mia spalla. I nostri visi erano vicinissimi, sentivo il suo respiro caldo sulla pelle della guancia.
«Hai un neo qui, è stata la prima cosa che ho notato di te quando ti ho visto quella mattina nel parcheggio, mentre eri intento a pestare escrementi» disse toccando con un dito il neo che avevo sul collo.
Sorrisi ripensando al nostro primo incontro.
«Sai che stavo pensando di toglierlo perché ogni volta che vado dal barbiere devo ricordargli di stare attento?»
«Oh, no, non farlo» disse allarmata.
«Ti piace?» le domandai incuriosito.
«Lo trovo… sexy» ammise ed evitò il mio sguardo.
«Davvero?» la punzecchiai.
Annuì. Le baciai la punta del naso, era tenerissima.
«Lo terrò, allora» la rassicurai sfiorandole il naso con il mio.
Le sue labbra erano così vicine e invitanti e il suo profumo così intenso da stordirmi che non resistetti più. Al diavolo i miei piani romantici per New York, quelle labbra reclamavano le mie e anche i suoi occhi languidi sembravano desiderosi di un contatto.
Appoggiai le mie labbra sulle sue con estrema delicatezza e dopo una leggera pressione mi allontanai appena e aprii gli occhi per capire se potevo proseguire o se era infastidita. Mi scontrai e mi persi nei suoi occhi, le pupille nere erano dilatate e aveva stampato in faccia il sorriso più dolce e bello del mondo.
Le sorrisi anch’io, sfiorandole la punta del naso con il mio, godendomi ogni suo respiro.
Le presi il viso tra le mani, come se fosse stato il più prezioso dei tesori, le accarezzai le guance con i pollici e appoggiai la fronte sulla sua. Quando sentii le sue mani sul mio torace stringermi la felpa, non indugiai ulteriormente e la baciai.
Quello fu il miglior primo bacio della mia vita. Avevo immaginato mille volte nella mia testa come sarebbe stato baciare Bella, in mille scenari diversi, ma la mia fantasia non si avvicinava neanche lontanamente alla perfezione di quel contatto, alla morbidezza delle sue labbra, al sapore della sua bocca e al tocco della sua lingua.
Quando ci staccammo, ero senza fiato e il cuore mi batteva a mille.
«Wow» mormorai, appoggiando la fronte alla sua.
«Finalmente» sussurrò lei.
Sorrisi e la strinsi più forte a me.
«Scusami se ti ho fatto aspettare» sussurrai sulle sue labbra.
Mi accarezzò una guancia, i suoi occhi erano lucidi.
«Ne è valsa la pena» soffiò sulle mie labbra prima di baciarmi.
 
 

__________________

Buon sabato, fanciulle!
Devo confessarvi una cosa: questa scena del magazzino l'ho proprio sognata una notte e non vedevo l'ora di farvela leggere ^_^
Nel mio progetto iniziale non doveva esserci il bacio, era previsto un po' più in là, però poi è venuto da sé, mentre scrivevo il capitolo.
Spero che la lettura vi sia gradita.
Grazie mille alle nuove lettrici e a tutte le persone che seguono questa storia.
Buon fine settimana e a sabato prossimo!

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII - Il magazzino (parte seconda) ***


Eravamo seduti sul pavimento, io appoggiato alla parete e lei seduta davanti a me, stretta tra le mie braccia, con la testa appoggiata al mio petto. Era così facile stare con lei, così giusto tenerla tra le mie braccia e sentire il suo corpo contro il mio che mi sembrava tanto stupido essermi fatto tutti quei problemi inutili. Non mi era mai successa una cosa del genere: di solito, i primi approcci fisici erano sempre permeati da un velo di imbarazzo, i gesti erano esitanti e rispettavano una certa gradualità; invece con lei era tutto naturale e spontaneo, come se stessimo insieme da sempre. Prenderle la mano, abbracciarla, accarezzarla, annusare il suo profumo, baciarla: avevamo già un livello di intimità e di complicità che normalmente si raggiungeva dopo mesi, non dopo ore.
Le stavo raccontando come avrei trascorso il Ringraziamento, a casa mia con i miei genitori. Avevo come l’impressione che mi stesse sfuggendo qualcosa. Dovevo fare qualcosa quel sabato, ma onestamente, con tutti gli eventi che erano successi, mi sfuggiva di cosa si trattasse. Quando nominai mia madre, mi ricordai che mi era stato assegnato un compito importantissimo per quel sabato, che per motivi di forza maggiore non avrei potuto svolgere.
«Mia madre mi farà a pezzi» sentenziai.
«Perché?» mi chiese curiosa.
«Mi aveva ordinato di andare a comprare alcuni ingredienti essenziali per la sua cena del Ringraziamento al mercato biologico del sabato».
«Non puoi comprarli al supermercato?»
Scossi il capo. «Se ne accorgerebbe, è una specie di segugio. Ti prego, salvami, portami con te a New York» la implorai teatralmente, facendola ridere.
«Mi piacerebbe, sul serio, ma sono sicura che al mio ritorno ti ritroverò tutto intero» disse girandosi verso di me e appoggiando una mano sul mio petto. Che sensazione meravigliosa sentire le sue mani su di me. Stavo già fantasticando su quanto sarebbe stato ancora più intenso e meraviglioso sentire il suo tocco senza l’ingombro dei vestiti quando mi riportò con i piedi per terra con una domanda.
«Hai già detto ai tuoi che anticiperai la partenza?»
«No, lo farò durante la cena, così magari mia madre si intenerirà e sorvolerà sulla mancanza dei cavoli a tavola, concentrandosi sulla mancanza di suo figlio a Capodanno» ridacchiai e feci sorridere anche lei.
Dopo una breve pausa, presi coraggio e le feci una domanda.
«Ai tuoi non dispiace che non starai con loro né per il Ringraziamento né per Natale?» vidi il suo volto cambiare espressione.
Sapevo che non parlava mai della sua famiglia con nessuno, ma io volevo conoscere ogni aspetto di lei e della sua vita. Sperai di non essere andato troppo oltre in maniera precipitosa, immaginavo dovesse essere un tasto delicato se non addirittura dolente, se non ne parlava mai.
Dopo un momento di esitazione, mi rispose.
«Non trascorro mai le feste con loro» e liquidò la faccenda con un gesto della mano.
«Come mai?» continuai.
«È un po’ complicato e lungo da spiegare…» tentò di divagare.
«Il tempo non ci manca» la incoraggiai.
Prese un respiro profondo, vedevo la sua lotta interiore attraverso i suoi occhi.
«Mio padre vive a Seattle con sua moglie, non abbiamo mai avuto un gran rapporto. Mia madre non l’ho mai conosciuta» disse secca, indifferente, come se non la cosa non la riguardasse.
«Mi dispiace», dissi sinceramente, «quindi, tu sei cresciuta solo con tuo padre?» volevo che continuasse a parlare.
«In realtà, solo con la mia nonna paterna, la mia unica famiglia» la sua voce si era addolcita di nuovo.
«E lei è…»
«È venuta a mancare cinque anni fa» terminò triste.
«Mi dispiace molto» le accarezzai una mano.
Prese un altro profondo respiro, era evidentemente combattuta. Stava evitando il mio sguardo indagatore e temevo che quelle poche e lapidarie risposte sarebbero state tutto quello che avrei ottenuto, quando, invece, con mia grande sorpresa, riprese a parlare.
Si voltò leggermente verso di me, in modo da potermi guardare negli occhi.
«Vedi, Edward, io sono quello che si può definire un errore di gioventù: i miei genitori - se così si possono definire - erano al penultimo anno di liceo quando io sono nata, avevano solo diciassette anni. Avevano deciso di darmi in adozione, credo che mia madre volesse perfino abortire, ma forse si accorse di essere incinta quando ormai quella soluzione non era più attuabile» le strinsi forte la mano e lei ricambiò la mia stretta.
«Mio padre, però, spinto da mia nonna, non se la sentì di abbandonarmi in ospedale, così fui riconosciuta da lui e affidata a mia nonna, perché lui era ancora minorenne. Inoltre, non credo che gliene importasse molto di me, non ricordo di aver ricevuto mai un gesto di affetto da lui. Non penso mi odiasse – lo spero, almeno –, semplicemente gli ero indifferente. Ricordo a malapena la sua presenza nella mia vita, visto che appena ha potuto si è dileguato da Forks, lasciandoci sole» le accarezzai la schiena, non avrei mai immaginato che la Bella serena, forte e sicura di sé che conoscevo avesse un passato del genere.
«Terminata la scuola, mio padre si arruolò nell’esercito, non volle proseguire gli studi. Non so ancora se quella scelta è stata influenzata dalla mia presenza, francamente non mi interessa neanche più: in fondo, non ho chiesto io di nascere. Quando lui se n’è andato, io avevo solo un anno e da allora siamo state sempre solo io e mia nonna.
È stata tutto per me: madre, padre, nonna, sorella, amica. Le devo tutto quello che sono, devo a lei anche il mio nome. Mio padre non si è sforzato neanche di scegliere un nome per me. Era figlia di immigrati italiani, è grazie a lei se parlo fluentemente in italiano, se ho potuto studiare in Italia e se sono… qui» la abbracciai forte e le baciai la fronte.
Io ero un figlio che era stato fortemente desiderato e molto amato, non avevo la più pallida idea di cosa significasse vivere con la consapevolezza di non essere il frutto dell’amore, di cosa volesse dire crescere senza conoscere la propria madre, di cosa volesse dire considerarsi un errore. Lei non era un errore, era quanto di più giusto potesse esserci al mondo.
Possibile che questa giovane donna così forte, premurosa e gentile non fosse stata desiderata e amata dai suoi genitori? Avevo il cuore a pezzi.
«Tua nonna deve essere stata una donna straordinaria» sussurrai sulla sua testa.
«Lo era davvero» confermò con voce triste.
«Non hai mai cercato tua madre?» le domandai con un filo di voce. Non volevo causarle altro dolore, ma allo stesso tempo volevo che mi raccontasse tutto.
«L’ho cercata da sempre, da quando all’asilo facevamo i lavoretti per la Festa della Mamma e io non ne avevo una a cui regalarlo. Gli altri bambini mi prendevano in giro perché io regalavo quelle piccole creazioni a mia nonna, però “una festa della nonna non esisteva”, mi dicevano loro.
Non avevo neanche mai pronunciato la parola “mamma” prima dei tre anni. Non sapevo cosa o chi fosse una mamma. L’unica figura materna che ho conosciuto è sempre stata mia nonna.
L’ho cercata fin da bambina, ogni volta che mi sono specchiata, e non capivo perché i miei occhi non erano scuri come quelli di mia nonna e di mio padre. Per anni li ho odiati i miei occhi, perché non volevo avere niente di suo su di me. È buffo, sai, in genere il carattere scuro è dominante, nel mio caso la genetica mi ha giocato uno scherzetto niente male lasciandomi questi marchi indelebili» le sorrisi triste e le lasciai un bacio sul naso, proprio fra quegli occhi che tanto adoravo.
Quanto doveva aver sofferto, povera piccola, avevo il cuore a pezzi al solo pensiero.
Mi strinse forte la mano, quasi volesse aggrapparsi a me, e continuò il suo racconto.
«Ogni volta che provavo a chiedere di lei a mia nonna o a mio padre, nelle rare occasioni in cui veniva a trovarci, non mi rispondevano e finivamo per litigare. Avevano fatto sparire da casa tutte le tracce che potessero condurmi a lei: tutte le foto del liceo di mio padre, i suoi annuari scolastici, le lettere che sicuramente si erano scambiati. Non si erano inventati nessuna storia, non mi avevano detto che era morta perché in quel caso avrei voluto vedere la sua tomba, testarda com’ero. Semplicemente, avevano cancellato la sua presenza dalle nostre vite, era come se non fosse mai esistita.
Nella mia storia, però, mancava un tassello.
Sapevo che i miei nonni materni vivevano ancora a Forks, era sfuggita durante una lite questa informazione, ma non avevo idea di chi fossero, perché l’accordo era che io non dovessi mai sapere di loro o di lei. Non mi volevano, insomma, e io non capivo perché.
Ero molto benvoluta da tutti, mi sono sempre sentita accolta ovunque andassi, eppure mia madre e la sua famiglia non mi volevano. Non riuscivo proprio a capirlo, figuriamoci ad accettarlo. Ero solo una ragazzina, in fondo. Come potevo capire?» le si ruppe la voce e la strinsi forte a me. La cullai dolcemente finché non si calmò e le passai un fazzolettino di carta. Per fortuna ne avevo sempre un pacchetto in tasca. Dopo qualche secondo, riprese il suo racconto, senza allontanare la testa dal mio petto. Non potevo più guardarla negli occhi, probabilmente ci stavamo avvicinando alla parte più dolorosa della sua storia e voleva restare così, senza contatto visivo.
Le circondai la vita con le braccia e cercai la sua mano che subito si intrecciò alla mia, volevo che sentisse che io ero lì per lei.
«Un giorno durante l’ultimo anno di liceo finii in ospedale per un infortunio durante l’ora di ginnastica, mi fecero delle analisi e scoprirono che ero microcitemica. Una condizione che dovevo aver ereditato da lei, perché nessuno nella famiglia di mio padre lo era. Quel giorno ebbi una brutta discussione con mia nonna, mio padre ormai si era sposato e viveva a Seattle. Non provai neanche a telefonargli, tanto sapevo che non ne avrei ricavato nulla.
Quando tornai per togliere i punti, ne approfittai per chiedere informazioni all’archivista dell’ospedale. Anche se non era presente il suo nome sul mio certificato di nascita, dovevano per forza esserci notizie del parto. Mi rispose che erano informazioni riservate e non poteva in alcun modo rivelarmele.
Ovviamente non mi arresi. Litigai di nuovo con mia nonna quando tornai a casa e lei, forse sfinita, mi rivelò l’identità di mia madre: abitava a due isolati da casa nostra, lei e mio padre erano cresciuti insieme. Mia nonna e sua madre erano migliori amiche. Mio nonno, il padre di mio padre, è morto durante la guerra del Vietnam, quando mio padre era molto piccolo. Il padre della mia cosiddetta madre era stato come un padre per il mio, gli aveva insegnato a cacciare e a pescare, era il figlio maschio che non aveva avuto. Le loro famiglie trascorrevano insieme il 4 luglio e il Ringraziamento.
Ricordo che quando mia nonna mi raccontò tutto mi sembrava la trama della tipica storia adolescenziale da provincia americana: i due migliori amici d’infanzia che finiscono per innamorarsi con la complicazione della gravidanza indesiderata. Peccato che di solito nelle commedie c’era sempre il lieto fine; nel mio caso, il finale era stato quasi tragico. I due innamorati separati, le loro vite segnate da un evento imprevisto che non avevano saputo gestire, e mia nonna non parlava quasi più con i suoi vicini di casa che un tempo erano stati quasi una famiglia e tutto per colpa mia.
Tutte queste vite un tempo intrecciate erano rovinate per colpa mia. Io che dovevo essere il simbolo e la consacrazione dell’unione di due famiglie, sono stata il punto di rottura, la disgrazia».
«No-» mi mise una mano sulla bocca per fermarmi.
«So cosa stai per dire, ma avevo solo diciassette anni. Ora lo so che non era colpa mia, non è mai stata colpa mia» mi fece un mezzo sorriso e le accarezzai una guancia. Abbassò lo sguardo sulle nostre mani unite.
«Non l’hai mai vista?» le domandai.
«Una volta, quando ancora non sapevo chi fosse. Ero una ragazza scout, avevo all’incirca dieci anni. Avevo bussato alla porta di casa loro per vendere i biscotti. Mi aprì lei. Non ebbe nessuna strana reazione alla mia vista, ma si affrettò subito a chiudere la porta e non volle neanche comprare i biscotti. Mi è rimasta impressa per questo, perché è stata l’unica in tanti anni di onorata carriera da ragazza scout a non aver comprato i miei biscotti. Quando lo raccontai a mia nonna mi proibì categoricamente di andare a bussare di nuovo a quella porta. All’epoca non capii perché mi diede quell’ordine, ma non ebbi difficoltà a obbedirle: non aveva voluto comprare i miei biscotti, quindi non mi piaceva e non avevo intenzione di ritornare a bussare a quella porta. Anche se mia nonna non mi avesse proibito di farlo, non ci sarei comunque tornata» sorrisi al pensiero di Bella bambina con l’uniforme da ragazza scout che non accettava di non riuscire a concludere un affare. Doveva essere adorabile.
Le baciai la testa. «Ti ricordi com’era?» le domandai.
«Me la ricordo appena, ma non le somiglio molto, per fortuna. A parte gli occhi, sono la copia di mio padre e di mia nonna. Lei era bionda, mi sembra.
Solo molto più tardi venni a sapere che lei era emigrata in Canada qualche tempo dopo il nostro incontro ed era tornata a Forks raramente. Però, mi avevano vista sia lei che i suoi genitori, eppure non li aveva mai sfiorati il rimorso dell’abbandono, non avevano mai sentito il desiderio di conoscermi e di avermi nella loro vita» fece una pausa per bere un sorso d’acqua e le strinsi più forte la mano che non le avevo mai lasciato.
«Piansi tutte le mie lacrime il giorno in cui scoprii la sua identità e capii perché mia nonna si era ostinata tanto a mantenere il segreto: non voleva che io soffrissi.
Da quel giorno trascorsi davvero un brutto periodo, il peggiore della mia vita. Non uscii più di casa per paura di incontrarli, smisi perfino di andare a scuola: eravamo quasi a fine anno e avevo sempre avuto una media brillante, quindi la mia decisione non ebbe grosse ripercussioni. Mi presentai solo per fare gli esami finali che superai a pieni voti. Ero stata ammessa all’Università di Washington, ma Seattle era fin troppo vicina a Forks e non avevo più intenzione di studiare né di fare altro nella mia vita. Volevo solo sparire» vidi una lacrima scendere sulla sua guancia e la asciugai con il mio pollice che lasciai indugiare sul suo viso. Mi si spezzava il cuore a sentire quel racconto e vederla così piena di sofferenza, ma volevo che condividesse con me la sua storia e sentivo che aveva proprio bisogno di sfogarsi. Speravo che magari parlandone potesse alleggerirsi un po’ l’anima.
«Mia nonna non ce la faceva più a vedermi soffrire così tanto, sempre chiusa in casa e spenta, priva di qualsiasi interesse; così si giocò l’ultima carta che le era rimasta: mi propose di trasferirci in Italia. Era stanca di lavorare e di vivere a Forks. Mio padre non si faceva mai vedere, suo marito e i suoi genitori erano morti e i suoi migliori amici le avevano voltato le spalle da tempo. Io ero ormai l’unica famiglia che le era rimasta e lei, soltanto lei, era sempre stata la mia.
La notizia del trasferimento mi accese di entusiasmo, volevo allontanarmi il più possibile da lì, e così, una volta chiusa la sua attività e venduta la casa, ci trasferimmo a Volterra, dove viveva una sua cugina che ci ospitò per i primi tempi.
In Italia ebbi una sorta di rinascita: mi riaccesi di passione, ricominciai a coltivare i miei interessi e decisi di frequentare l’università.
Studiai a Pisa e a Firenze e durante gli anni universitari, per non pesare troppo economicamente su mia nonna, visto che mio padre non mi dava nulla, iniziai a lavorare per la Volturi.
Vendevo il caffè porta a porta, presi perfino la patente di guida in Italia. All’epoca, circa quindici anni fa, la Volturi era solo una piccola torrefazione locale e per farsi conoscere si affidava a giovani addetti alle vendite che cercavano potenziali clienti andando casa per casa. Ero molto brava, in breve tempo acquisii moltissimi clienti. Nello stesso tempo l’azienda diventò più grande e con l’avvento dell’e-commerce, la vendita a domicilio diminuì. Essere bilingue è stata la mia fortuna: quando decisero di aprire qui in America, mi proposero di diventare amministratrice della sede di Boston perché, oltre ad essere una fidata collaboratrice, ero cittadina americana, quindi l’iter sarebbe stato molto semplice. Inoltre, un anno prima di trasferirmi qui era venuta a mancare mia nonna, quindi non avevo più motivi per restare in Italia.»
La strinsi forte a me. Si accoccolò sul mio petto, con la testa nell’incavo del mio collo e io le baciai il capo.
Rimanemmo in silenzio per qualche istante, ascoltando i nostri respiri. Avevo bisogno di elaborare tutte quelle informazioni e d’altronde non avevamo bisogno di parole in quel momento: le stavo esprimendo tutta la mia vicinanza e tutto il mio conforto con il mio corpo e le mie mani. La tenevo stretta talmente forte a me che temevo di farle male, quasi avessi voluto prendere una parte del suo dolore per osmosi.
«Grazie per esserti aperta con me» le sussurrai in un orecchio.
«Non avevo mai raccontato a nessuno la mia storia» ammise timidamente, spostando la testa per cercare il mio sguardo.
«Sono felice e onorato che lo abbia fatto con me» le accarezzai una guancia con la mia leggermente ispida per via della barba e le lasciai un bacio all’angolo della bocca che si curvò in un timido sorriso.
Mi aveva mostrato il lato fragile che avevo scorto sotto la sua calma impeccabile, si era affidata a me come a nessun altro e forte di questa certezza mi sentii pervadere il petto da una sensazione di orgoglio che non avevo mai provato prima: era qualcosa di molto forte, nuovo, potente. Sapevo già da tempo che Bella era importante per me, ma non avevo idea della portata di quel sentimento fino a quel momento. Volevo proteggerla, non volevo che soffrisse, volevo solo che fosse felice e al sicuro, possibilmente tra le mie braccia.
«Non ti dirò che mi dispiace e che ho il cuore a pezzi perché, anche se è così, sarebbe banale e riduttivo e offensivo da parte mia e io non ho nessuna intenzione di mancarti di rispetto. Sono onorato del fatto che ti sia aperta con me e spero che lo farai sempre, ogni volta che ne avrai bisogno. Potrai contare sempre su di me, sempre» le dissi serio.
«Sei una persona meravigliosa, non so neanche da dove cominciare a elencare tutti i motivi per cui lo sei, ma lo sei e so che non hai di certo bisogno che sia io a dirtelo, lo sai benissimo quanto sei straordinaria, ma sono io che ho bisogno di dirtelo. Scusami per le ripetizioni, mi incarto sempre con le parole quando ci sei di mezzo tu» ammisi sorridendo e lei mi sorrise di rimando, un sorriso che le illuminò gli occhi e in quel momento ebbi la certezza che avrei fatto qualsiasi cosa pur di non far spegnere più quel sorriso.
«La vita non è quasi mai giusta con le persone buone, ma nonostante tutto tu hai sempre cercato il meglio da ogni situazione, ti sei sempre rialzata, hai lavorato sodo e hai avuto successo. Tu sei un vero miracolo. Credo di non aver mai conosciuto nessuno come te.
Sei bellissima, straordinariamente intelligente, spiritosa e ironica. Sei premurosa e gentile e hai una forza incredibile: sei empatica, dolce e autorevole allo stesso tempo. Chiunque sarebbe fortunato ad averti nella sua vita e provo rabbia e tristezza per chi non ti ha amata e non ti ha voluto nella sua vita: non hanno idea di cosa si sono persi. Io voglio far parte della tua vita e voglio avere te nella mia, sempre se tu lo vuoi…» stavo per aggiungere qualcos’altro ma la mia bocca fu coperta dalla sua e quando le misi una mano sul viso mi accorsi che le era scesa qualche lacrima. Risposi al suo bacio con la stessa intensità e lo stesso trasporto e mi resi conto che non era solo un forte istinto di protezione e una grande ammirazione quello che provavo per lei. Era un sentimento nuovo, maturo, forte e totalizzante, tinto di sfumature che non credevo possibili. Volevo averla al mio fianco. La sua sola presenza mi rendeva felice e quando ero con lei non mi sentivo mai fuori posto. Avrei fatto di tutto per lei e questa era una bella novità, non avevo mai provato qualcosa del genere. Non mi era mai importato così tanto di qualcuno da anteporlo a qualsiasi cosa.
«Credo di averti già dato una risposta» mi disse con ritrovato spirito che mal celava, però, l’emozione che vedevo nei suoi occhi. Le sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, scoprendo il punto luce che indossava sempre, sentivo il mio cuore battere così forte da rimbombarmi nelle orecchie
«Non sai quanto mi rendi felice» le dissi accarezzandole il viso. Mi sorrise e mi baciò una guancia. Poi appoggiò la testa sulla mia spalla e restammo così per qualche minuto.
«Sapevo istintivamente di potermi fidare di te, per questo te ne ho parlato. Sono diffidente per natura e per deformazione professionale, ma con te riesco ad essere solo me stessa. È facile lasciarmi andare con te. Di te mi fido ed è una bella e nuova sensazione per me».
«Non hai idea di quanto questo significhi per me» le presi una mano e la baciai le nocche.
«Non hai idea di quanto tu significhi per me» le dissi serio e vidi i suoi occhi illuminarsi.
«Anche tu sei molto importante per me, Edward. Non credevo che quel giorno, oltre a un validissimo collaboratore avrei trovato un…» si fermò per un attimo, incerta, e si morse il labbro inferiore.
«Abbiamo tempo per le definizioni, non c’è nessuna fretta», le sorrisi e mi abbassai sulla sua bocca, spinsi gentilmente con il pollice il suo labbro inferiore verso il basso, in modo da liberarlo dalla tortura dei suoi denti e le baciai quelle labbra deliziose.  
 
 
 
 
Nel pomeriggio mi fece fare un piccolo tour tra gli scaffali del magazzino, illustrandomi tutte le caratteristiche dei vari prodotti, soffermandosi in particolare sulle varie miscele di caffè. Io ero incantato, adoravo ascoltare il suono della sua voce e la passione per il suo lavoro che la accendeva e la illuminava di una luce particolare.
«Cosa c’è?» mi chiese a un certo punto. Evidentemente si era accorta che la guardavo incantato.
«Stavo pensando che sei bella» arrossì.
«E che mi piace ascoltarti parlare, si percepisce tutta la tua passione per quello che fai e – credimi – è una rarità» le dissi sincero.
«Tu non ami il tuo lavoro, Edward?» mi chiese premurosa.
«Il mio lavoro mi piace, anche se è merito più dell’ambiente e del mio capo che del lavoro in sé» ammiccai e la vidi sorridere lusingata.
«Diciamo che fare il contabile non era proprio il sogno della mia vita, ma ultimamente lo sto rivalutando».
«Avresti preferito fare lo storico?»
«Sì, ma non era molto producente come lavoro. Non avrei mai potuto fare l’insegnante e, a quanto pare, non ero tagliato per fare il giornalista, quindi, eccomi qui» feci spallucce.
«Mi dispiace» sussurrò sfiorandomi una mano.
«Tu hai sempre voluto fare questo lavoro? Cosa sognavi da bambina?» le chiesi curioso.
«Da bambina volevo fare la parrucchiera, anche se sono sempre stata un disastro ad acconciare i capelli. Mia nonna faceva la parrucchiera e trascorrevo molto tempo nel suo salone a osservare incantata le sue mani che lavoravano. Credo sia normale da bambini desiderare di riflesso fare il lavoro della mamma o nel mio caso della nonna. Spesso da ragazzina la aiutavo di pomeriggio, ma mi lasciava solo fare lo shampoo alle clienti, con spazzola e phon ero un disastro.»
«Non ci credo, sei brava in tutto» intervenni.
«Fidati, una volta ho rischiato di strappare tutti i capelli a una cliente» ridacchiò.
«Però, ho imparato a tagliarmi i capelli da sola, infatti non vado quasi mai dal parrucchiere» disse fiera.
«Davvero?» sgranai gli occhi.
«Te l’ho detto che mi piace essere indipendente» fece spallucce. Eccola la mia Bella.
Le sorrisi, lieto che avesse ritrovato un po’ di leggerezza. «E poi? Da ragazzina sapevi già che volevi diventare una giovane e brillante manager?» la esortai a continuare. Volevo sapere tutto di lei.
«All’università ho studiato letterature comparate, la letteratura era la materia che mi piaceva di più a scuola. Però, gli sbocchi lavorativi erano decisamente scoraggianti, sia in Italia che qui. Come te, non avrei mai potuto fare l’insegnante e la carriera per diventare interprete era così lunga e tortuosa che mi aveva scoraggiata in partenza. La mia vera passione l’ho scoperta quando ho iniziato a lavorare per la Volturi: è il caffè. Sono perfino diventata sommelier e ogni tanto mi chiamano a tenere dei corsi nelle varie accademie» disse fiera.
«Esistono i sommelier anche per il caffè?» domandai sbalordito.
«Certamente.»
«Quando in Italia mi hanno proposto di inserirmi a tutti gli effetti nell’organico dell’azienda, la mia laurea in letterature comparate non mi avrebbe permesso di fare carriera, figuriamoci di gestire una sede dell’azienda, così decisi di iscrivermi di nuovo all’università e conseguii una laurea in gestione d’impresa e management. Poi ho seguito qui al MIT altri corsi di formazione e mi sono specializzata come dirigente d'azienda, ma la cosa che mi appassiona di più di questo lavoro è proprio il caffè. Se non avessi avuto questa forte passione, non credo che ce l’avrei fatta a laurearmi. Ricordo ancora con un certo disgusto alcuni esami» fece una buffa smorfia che mi strappò un sorriso.
«Credo fossi così brava, quando ho iniziato a lavorare nelle vendite porta a porta, proprio perché trasmettevo questa grande passione per la bevanda che proponevo e riuscivo a convincere le persone a provarlo. Non erano solo chiacchiere finte finalizzate alla vendita, io lo provavo personalmente il caffè prima di venderlo, lo studiavo e poi ne decantavo le caratteristiche con i clienti.»
«Sei una creatura estremamente affascinante» le dissi completamente ammaliato, trascinandola verso di me e circondandole la vita con le braccia.
«Non è vero» arrossì.
«Invece sì» ribattei.
«È per questo che sei così brillante: tu sei in cima, ma sei partita dalla valle a scalare la montagna e il tuo successo è tutto merito tuo. Hai creato un ambiente lavorativo a dir poco perfetto ed è tutta opera tua. Ti ammiro così tanto» e lo pensavo davvero.
«Grazie» disse, affondando il viso nella mia felpa. Una cosa nuova che stavo scoprendo di lei era che i miei complimenti la facevano arrossire e mi piaceva da morire.
 
 
 
Non mi resi conto di quando e come ci addormentammo, ma non dovetti decidere quella sera quale posizione dovessi assumere.
Ancora prima di aprire gli occhi, mi accorsi che qualcuno mi stava stringendo una mano e sentivo dei capelli che mi solleticavano il mento.
Cercai di muovermi il meno possibile per non svegliarla: si era raggomitolata sul mio petto, forse perché aveva freddo. Era una sensazione così piacevole sentirla così vicina a me. Non potei fare a meno di annusarle il capo: aveva un odore buonissimo. Le diedi d’istinto un leggero bacio sperando che non se ne accorgesse. In realtà era già sveglia.
«Buongiorno», mormorò ancora con la voce impastata dal sonno.
«Buongiorno», le risposi respirando forte sui suoi capelli, cosa che ovviamente non le sfuggì.
«Hai un odore buonissimo» le confessai.
«Anche tu» mi rispose strofinando il naso sul mio petto.
«Davvero? Temevo di puzzare come un caprone dopo due giorni senza doccia» ammisi imbarazzato e la sentii ridere.
«No, affatto, hai davvero un buon odore. Sai di pulito e di talco, si sente ancora il profumo agrumato che indossi di solito misto all’odore del tuo bucato. Sai di Edward» ammise candidamente e io avrei voluto baciarla in risposta a quella confessione così semplice e così profonda allo stesso tempo, ma erano due giorni che non lavavamo i denti e ci eravamo appena svegliati.
Non volevo mica rovinare un così bel momento, specialmente quando ci mancava poco che mi elencasse le note di testa e di fondo del profumo che usavo.
Era sorprendente e io la adoravo letteralmente.
«Lo sai che sono molto schizzinosa in fatto di odori e ho decisamente un buon olfatto» sottolineò toccandosi la punta del naso. «Se avessi emanato un cattivo odore, fidati, non ti sarei stata così vicina. Avrei preferito patire il freddo» disse divertita stringendosi ancora di più a me.
«Mi fido, mi fido» le risposi arrendevole, accarezzandole la schiena. «Quale fragranza usi? È da quando ci siamo conosciuti che cerco di capire cos’è, senza riuscirci» affondai il naso nel suo collo e la sentii tremare.
«Mughetto», rispose, «è il mio unico vezzo. Non amo spendere cifre esagerate per scarpe o vestiti né truccarmi molto, ma ho un debole per i profumi. Questo arriva direttamente dalla Toscana, lo prepara un maestro profumiere fiorentino solo per me. È la mia fragranza, è solo mia, non è in vendita» disse e riconobbi una certa punta di orgoglio nel suo tono.
«È unica» commentai. «Proprio come te».



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Scusate per il ritardo, ma sono stata fuori in questi giorni per impegni familiari e non ho avuto la possibilità di rivedere il capitolo e di postarlo.
In compenso, è un po' più lungo del solito.
Ve lo aspettavate che il weekend in magazzino avrebbe preso questa piega? Vi aspettavate che Bella avesse un passato del genere? Attendo le vostre opinioni, sono curiosissima di leggerle.
Il prossimo capitolo arriverà sabato 8 agosto. Purtroppo in questo periodo il lavoro non mi sta lasciando molto tempo libero.
Nel frattempo, mi farebbe piacere se leggeste un extra di un'altra mia storia. Si può leggere anche senza conoscere tutta la storia: L'orologio
Spero stiate trascorrendo una buona estate, nonostante tutto quello che è successo e sta succedendo quest'anno.
A presto, un bacione!

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Capitolo 9
*** Capitolo IX - Le scoperte ***


Appena arrivai a casa mi fiondai nella doccia, feci velocemente colazione e uscii di casa molto prima del solito, sapevo che l’avrei trovata già in ufficio prima delle nove. Quello che non sapevo era che non ero pronto allo spettacolo che mi si presentò quando si aprì l’ascensore.
Bella era piegata in avanti di fronte alla stampante, col suo sedere in bella vista che sembrava solo reclamare le mie mani. Dovetti trattenermi, con tutte le mie forze.
Feci qualche passo verso di lei.
«Buongiorno, Edward, da quanto tempo» mi disse allegra mentre continuava tranquillamente sistemare il toner nel cassetto.
«Come fai a sapere che sono io?» domandai incredulo.
«Riconosco il rumore dei tuoi passi e il tuo profumo. E poi un po’ ci speravo che fossi tu» ammise candidamente, voltandosi verso di me e io mi sciolsi dentro quando incontrai il suo sorriso.
«Bella» mi avvicinai a lei che nel frattempo era tornata in posizione eretta e le sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Edward» mi sorrise.
Le presi il viso tra le mani e lei posò le sue mani sui miei fianchi.
«Voglio baciarti. Posso?» le domandai.
«Sì, ma non qui» mi prese per mano e mi portò nel suo ufficio, chiudendo la porta. E mi baciò lei.
Dovetti a malincuore staccarmi da lei dopo qualche minuto perché il suo telefono iniziò a squillare e il mio turno stava per iniziare.
«Ci vediamo a pranzo?» le chiesi, presagendo già che la mattinata sarebbe trascorsa molto lentamente.
«Ho una videochiamata alle 14 con l’Italia, non penso di scendere giù a mensa. Puoi pranzare con me qui, se vuoi, però».
Ovviamente, accettai il suo invito.
Alle 13 in punto ero nel suo ufficio, mangiammo un’insalata e trascorremmo il resto del tempo su una di quelle poltroncine - che scoprii essere estremamente scomode se ci si stava in due - a esplorarci le bocche a vicenda come due ragazzini. Non ero mai stato un grande amante dei baci né ero un tipo troppo affettuoso, ma con lei era tutto diverso. Avrei trascorso giornate intere attaccato alle sue labbra.
«Sto per rimettere il rossetto» era il terzo avvertimento di quel tipo nel giro di dieci minuti. Puntualmente, finivo per toglierglielo.
«Credo che dovresti darti una sistemata anche tu prima di scendere» mi disse, indicando i miei capelli arruffati e la mia camicia che sbucava fuori dal maglione. Mi diedi un’occhiata e poi guardai di nuovo lei e scoppiammo entrambi a ridere. Proprio come due ragazzini.
Le rubai un ultimo bacio prima di tornare in postazione. Ci saremmo visti all’uscita e non vedevo l’ora.
«Dove sei sparito a pranzo?» mi chiese Jasper, ridestandomi dai miei pensieri.
«Da Bella, dovevamo finire una cosa per New York» risposi vago.
«Certo che ti fa trottare parecchio ultimamente con questa storia di New York». Sapessi quanto, avrei voluto rispondergli, ma mi limitai ad annuire.
«C’è molto da fare» e lo liquidai così.
Loro sapevano che lavoravamo insieme la sera, per New York, appunto. Non sapevano ancora niente del magazzino, né di tutto il resto. Non avevamo ancora affrontato l’argomento “altri” e non avevamo neanche parlato di definizioni. Avevamo tempo, era ancora tutto così recente che quasi non mi sembrava vero. Ero elettrizzato, mi sentivo come un adolescente alle prime armi.
 
 
Nei due giorni che seguirono al nostro weekend nel magazzino passavo tutte le mattine a salutarla in ufficio e uscivamo dal lavoro insieme la sera, come facevamo anche prima del magazzino, con la differenza che ci salutavamo in maniera decisamente più calorosa e intima.
Sapevo che sarebbe uscita molto prima del solito il mercoledì per andare a prendere l’aereo, quindi non potevo approfittare del nostro abituale momento serale per salutarla. Decisi di approfittarne durante la pausa pranzo, erano tutti a mensa e lei, ovviamente, era nel suo ufficio.
«Permesso?»
Mi fece cenno con la mano di entrare, era al telefono. Parlava in italiano, quindi non capii né con chi stesse parlando né cosa stesse dicendo, ma dalla sua espressione dedussi che non fosse molto felice di quella conversazione.
«Scusami, era l’amministratore delegato da Volterra. Ci sarà anche lui a New York questo weekend» disse un po’ infastidita quando si liberò.
Avrei voluto sapere di più, ma non le chiesi nulla. Avevo imparato che si apriva lei, quando voleva e con chi voleva.
«Non ti preoccupare, scusami tu, se sono piombato qui senza preavviso» mi grattai la testa, un po’ in imbarazzo, «hai controllato la tua posta elettronica negli ultimi dieci minuti?»
«No, ero al telefono. Mi hai inviato qualcosa?»
«Controllala» le dissi semplicemente.
«Ok…» abbassò lo sguardo sul suo smartphone e vidi i suoi occhi riempirsi di meraviglia a un certo punto.
«Non dovevi» disse sorridendo. Le avevo regalato una simpatica guida animata di New York.
«Spero che ti aiuti a farti apprezzare New York. Per lo meno a iniziare, poi ci penserò io a fartela apprezzare a dovere» le dissi ammiccante.
«Grazie» mi disse e si avvicinò a me. Posò una mano sul mio braccio e si allungò sulle punte dei piedi per darmi un bacio.
«Prego» balbettai senza fiato. Era decisamente brava a baciare.
«Voglio venire a prenderti in aeroporto quando torni» le dissi serio «in realtà, vorrei anche accompagnarti oggi pomeriggio, ma c’è il delirio di sotto, se uscissi prima credo che mi ucciderebbero» alzai gli occhi al cielo e lei mi sorrise.
«Prenderò un taxi oggi pomeriggio, ho già prenotato la corsa. Però, lunedì mattina atterro alle sette» aveva tacitamente accettato.
«Perfetto, allora ci vediamo lunedì mattina. Mi mancherai» le sussurrai, abbracciandola.
«Anche tu mi mancherai. Sarà un lungo e noioso weekend» mormorò sul mio petto.
«Quello appena passato non ha rivali» bisbigliai e la sentii ridacchiare. «Non sai quanto vorrei venire con te» la strinsi più forte.
«Lo so, ma devi stare con la tua famiglia. Avremo tempo per noi».
Quanto mi piaceva quel pronome pronunciato da lei.
La baciai a lungo, respirando forte il suo profumo e imprimendo nella mia mente ogni dettaglio di quel momento. Mi sarebbe mancata da morire.
«A lunedì, allora. Felice Ringraziamento» sussurrò al mio orecchio facendomi tremare.
 
 
Appena uscii dall’ufficio, andai in aeroporto a prendere i miei genitori che sarebbero atterrati alle 20. Avrebbero dormito a casa mia, dal momento che Emmett non aveva ancora traslocato dal dormitorio del campus. La faccenda iniziava a puzzarmi, perché all’inizio mi aveva coinvolto nella ricerca dell’appartamento, poi da quando le cose con Rosalie erano diventate serie non mi aveva più chiesto di accompagnarlo né mi aveva parlato di qualche appartamento visto di recente. Pensavo andasse con Rosalie alla ricerca di un appartamento o forse stava temporeggiando perché aveva in mente qualcosa. Dopo tutto l’università gli aveva dato la disponibilità dell’alloggio per sei mesi e ne erano trascorsi appena tre.
 
 
«Il tacchino era buonissimo, signora» Rosalie si complimentò con mia madre.
«Ti ringrazio, cara, ma chiamami Esme, ti prego» disse affabile a Rosalie che le sorrise.
Poi si girò verso di me e continuò «In realtà, la cena poteva riuscire ancora meglio, se solo Edward mi avesse fatto trovare le patate e la verza per il colcannon. Ma a quanto pare aveva di meglio da fare sabato che andare al mercato per comprarmi gli ingredienti che gli avevo richiesto» mi fulminò con lo sguardo.
La cena del Ringraziamento per mia madre era sacra e quell’anno ci teneva ancora di più perché c’era anche Rosalie. Era una cuoca eccezionale, forse era per questo che io e mio fratello eravamo due buongustai, ci aveva abituato bene.
Per il Ringraziamento a casa nostra non mancava mai come contorno del tacchino il colcannon, un piatto tipico della cucina irlandese a base di patate e cavolo verza. Un omaggio alla patria d’origine dei genitori di mia madre e una tradizione tutta della nostra famiglia per il Ringraziamento.
«Però ti ho fatto trovare i mirtilli per la salsa e la zucca per la torta» replicai.
«Scusa, ma che hai avuto da fare sabato?», mi domandò Emmett. «Lo sai che non è Ringraziamento senza colcannon».
Che ruffiano. Neanche gli piaceva il colcannon. Emmett sapeva benissimo quello che era successo durante quel weekend. Glielo avevo raccontato lunedì sera al telefono. Rosalie, invece, due giorni prima mi aveva fatto notare che avevo una macchia di rossetto sul colletto della camicia e da lì mi aveva fatto confessare tutto. Quasi tutto.
«Ho lavorato» mentii.
«Edward, se devi fare tutti questi straordinari perché hai qualche difficoltà con le spese, lo sai che puoi sempre contare su di noi. Non farti problemi a chiedere, se hai bisogno» intervenne mio padre.
Rosalie si mise una mano davanti alla bocca per nascondere il suo sorriso furbo, a Emmett, invece, andò di traverso l’acqua. Allora Dio esisteva ogni tanto.
Però, mi toccava spiegare a mio padre che facevo gli straordinari gratis per stare con una ragazza, non di certo perché non riuscivo a sbarcare il lunario.
«Grazie, papà, ma non c’è alcun bisogno che vi preoccupiate per me. Sto lavorando di più perché a gennaio ci sarà l’apertura di una nuova sede dell’azienda e il mio capo mi ha chiesto di aiutarla. A tal proposito, non potrò restare a Chicago per Capodanno, perché andrò a New York».
I miei genitori mi fissarono increduli.
«Non starai con noi a Capodanno?» mi domandò mia madre dispiaciuta.
«Certo che no, starà con la sua ragazza» intervenne Emmett e lo fulminai con lo sguardo.
«Non capisco», intervenne mio padre, «devi andare a New York col tuo capo o devi stare con la tua ragazza? E da quando hai una ragazza?»
Aiuto. Le definizioni.
«La sua ragazza è il nostro capo» gli spiegò Rosalie. Le brillavano gli occhi.
«Edward, perché non ci hai detto niente? È una notizia meravigliosa!» mia madre si era ripresa ed era pronta per l’interrogatorio.
Emmett me l’avrebbe pagata.
«Perché stiamo insieme da pochissimo tempo» risposi. Per la precisione da meno di una settimana, aggiunsi nella mia mente.
«Quando ce la presenti? Perché oggi non è con noi? Non puoi chiamarla e dirle di venire?» ormai mia madre era partita.
«Calma, calma. Oggi è a New York, è partita ieri e tornerà qui lunedì mattina, quindi per ora non potrete conoscerla.»
«Non puoi farci almeno vedere una foto?» mi domandò mia madre con gli occhi a cuoricino.
«Mamma!», la ripresi. «La conoscerete quando sarà il momento opportuno».
«Tu l’hai conosciuta? Com’è?» mia madre si rivolse a mio fratello.
«Non ancora, in realtà. Sto aspettando con ansia il sacro momento» rispose con un guizzo di allegria negli occhi. Lo fulminai con lo sguardo. Lui sarebbe stato l’ultimo a conoscerla. Anzi, per punizione non gliel’avrei mai fatta conoscere.
«Edward, perché l’hai tenuta nascosta perfino a tuo fratello?» mi rimproverò mia madre.
«Io non tengo nascosto proprio nessuno. È successo tutto da poco e all’improvviso, non abbiamo avuto tempo per le presentazioni ufficiali e i convenevoli in famiglia» le risposi.
«Rosalie, cara, puoi dirci tu com’è questa ragazza? Da questo qui non ricaverò nulla» disse affranta.
Rosalie ridacchiò.
«È davvero una ragazza eccezionale, Edward è molto fortunato. Lo sono entrambi, in realtà, sono una splendida coppia» disse facendomi l’occhiolino.
«Grazie, Rosalie» le dissi commosso e vidi gli occhi di mia madre diventare lucidi.
Mio padre che fino a quel momento non aveva proferito parola, lasciando come sempre a mia madre tutto lo spazio che occupava nelle conversazioni, mi diede una pacca sulla spalla.
«Sono molto felice per te, Edward. Se questa ragazza ha scelto te, deve essere davvero speciale».
«Grazie, papà» gli risposi sinceramente commosso.
 
 
Il giorno seguente eravamo tutti a cena a casa Hale. I miei genitori e i genitori di Rosalie si sarebbero incontrati, non era stata una cosa pianificata, ma siccome i miei erano in città, i genitori di Rosalie e Jasper avevano insistito per conoscerli.
«Sbaglio o è la prima volta che fai una cosa del genere? Non mi pare di ricordare altre cene di presentazioni ufficiali tra genitori» mi rivolsi a mio fratello che era stranamente nervoso.
«Lasciamo stare. Io odio queste cose, però con Rosalie vanno molto bene le cose e non ho proprio potuto dirle di no. Poi c’è la mamma, mi avrebbe strozzato se avesse saputo che avevo rifiutato questo invito» ridacchiai. Mia madre ci teneva tutti in riga, anche adesso che eravamo adulti.
«Inoltre…»
«Inoltre?» incalzai.
«Sei il primo a saperlo. Non dire ancora niente a mamma e papà, non è ancora sicuro niente, potrebbe succedere di tutto in tre mesi. Abbiamo deciso di andare a vivere insieme, quando non potrò più stare al campus. Ne abbiamo parlato durante il nostro weekend in Vermont. Fra tre mesi mi trasferirò a casa sua, stiamo bene insieme e siamo abbastanza grandi per fare questo passo. Sarebbe stupido prendere un appartamento in affitto, dato che trascorro ogni weekend nel suo. Non è troppo presto, vero?» sorrisi di fronte alla sua insicurezza. Di solito ero io quello paranoico, non avevo mai visto mio fratello farsi prendere dal panico per una decisione.
«Emmett, sono davvero felice per te. Non accadrà nulla in questi tre mesi, ne sono sicuro e se sia presto oppure no lo sapete solo voi, non ci sono mica delle tempistiche standard» gli diedi una pacca sulla spalla e mi sorrise.
«Tu mi devi ancora raccontare tutti i dettagli del tuo weekend in gattabuia. E mi devi assolutamente presentare la tua ragazza. Rosalie la conosce, Jasper la conosce… possibile che tuo fratello debba essere l’ultimo?» si finse offeso.
«Jasper e Rosalie la conoscono da prima di me e non gli è stata presentata di certo come “la mia ragazza”. Non abbiamo ancora chiarito cosa siamo, in realtà» confessai, improvvisamente nervoso.
«E che c’è da chiarire? Vi piacete, state bene insieme, a detta di Rosalie si vede da lontano che c’è qualcosa di forte tra di voi. Credo che la definizione più appropriata per una situazione del genere sia “la tua ragazza”. Non ti fare inutili paranoie, Teddy. Certe cose sono semplici e basta, non le complicare inutilmente» mi ricambiò la pacca sulla spalla.
 
 
«Ehi» risposi al telefono, allontanandomi e uscendo sul balcone per avere un po’ di privacy. Eravamo tornati dalla cena a casa Hale ed ero in salotto con i miei genitori, mio fratello e Rosalie.
«Ti disturbo?» mi chiese premurosa.
«Tu non disturbi mai, lo sai» la vidi sorridere nella mia testa «è solo che ho la casa invasa da impiccioni e sono uscito sul balcone per risponderti».
«Ti chiamo dopo, allora».
«No!» risposi allarmato e sentii la sua splendida risata attraverso il telefono.
«Scommetto che sei uscito fuori senza indossare il giubbotto» mi conosceva già fin troppo bene.
«Non vedevo l’ora di sentire la tua voce» confessai e non sentendo alcuna risposta da parte sua aggiunsi «scommetto che stai arrossendo. Adoro vedere le tue guance arrossire, specialmente se so che sono io la causa» ammiccai.
«Stiamo diventando sempre più audaci, signor Cullen? Devo ricordarle forse che sono il suo capo?» mi disse spiritosa.
«Oh, no, me lo ricordo bene» stetti al gioco e la sentii ridacchiare.
«Come sono andate le tue giornate?»
«Sono state incredibilmente pesanti e lente. Per fortuna abbiamo solo altri due giorni, non vedo l’ora di tornare a Boston».
«Devo dedurre che la mia guida non ha funzionato molto bene».
«La tua guida è adorabile, è solo che ho avuto poco tempo per andare in giro per la città. Domenica pomeriggio spero di riuscire a vedere qualcosa, tempo permettendo. E il tuo weekend del Ringraziamento? Come sono andate le cene? Tua madre si è arrabbiata molto per i cavoli mancanti?»
«Molto bene. Mia madre se l’è presa, com’era prevedibile. Certo, se sapesse che in realtà i cavoli biologici li vendono anche al supermercato che ho sotto casa, mi farebbe davvero a pezzi. Sei l’unica a saperlo, mi raccomando: acqua in bocca» ridacchiai.
«E perché non glieli hai comprati?» mi chiese divertita.
«Hai idea di quanto sia infestante l’odore di quei cavoli? Avrei dovuto dare fuoco all’appartamento per liberarmene e probabilmente al tuo ritorno mi avresti trovato ancora puzzolente di verza e non ti saresti neanche avvicinata a me» la feci ridere di gusto.
«Per lo meno, ti faccio ridere» asserii.
«Tu mi fai molte cose, Edward. E tra queste, mi fai anche ridere» disse con estrema disinvoltura.
«Hai idea dell’effetto che hanno le tue parole su di me?»
«Posso immaginare» scossi la testa e sorrisi.
La sentii sbadigliare.
«Sei stanca» affermai.
«Un pochino» ammise.
«Vai a dormire, non voglio trattenerti».
«Sei più comodo tu di questi cuscini» mormorò e la sentii infilarsi tra le lenzuola. Mi sentii avvampare all’istante.
«Anch’io adoro farti arrossire» ghignò.
«Sei tremenda».
«Lo so» e mi sembrò di vederla fare spallucce.
«Buonanotte, Bella. Sogni d’oro».
«Buonanotte, Edward».
 
 
I miei genitori erano ripartiti il sabato mattina e la sera eravamo tutti da Jasper per la solita serata partita e pizza.
Ovviamente, l’argomento principale della serata ero io. Io e Bella per la precisione. Stavano cercando di estorcermi troppi dettagli che non avrei mai rivelato, neanche sotto tortura.
«Chi ha baciato chi?» mi chiese Rosalie senza girarci intorno.
«Io ho baciato lei» confessai, ricordando quel momento e pregustando tutti i baci che ci sarebbero stati da lunedì.
«Visto? Mi dovete dieci dollari a testa» intervenne Alice aprendo la mano.
Tutti e tre i presenti sbuffarono e misero mani ai portafogli.
«Fatemi capire: voi avete scommesso su me e Bella?» li vidi annuire colpevoli.
«E avete scommesso tutti contro di me tranne Alice?» fulminai con lo sguardo mio fratello, Jasper e Rosalie.
«Sembravi non deciderti mai» disse Emmett.
«Lei non è molto brava ad aspettare. Quando vuole qualcosa, se la prende» si giustificò Rosalie.
Questo lo so bene, pensai.
«Io ero sicura che avresti fatto tu la prima mossa. Ho come un sesto senso per queste cose. Inoltre, sei un vero gentiluomo, uno di quelli che non si trovano più tanto facilmente in giro, non avresti mai lasciato fare a lei la prima mossa» mi disse complice Alice.
«Grazie, Alice, meno male che ci sei tu» le feci l’occhiolino.
Avevo scoperto che quei disgraziati avevano scommesso non solo su chi si sarebbe fatto avanti per primo, ma anche sul quando. Alice aveva vinto entrambe le scommesse, tutti gli altri pensavano che sarebbe successo dopo New York, solo lei aveva avuto il coraggio di scommettere prima. Aveva racimolato una discreta somma ed era stata anche così carina da dividerla con me. Quando raccontai tutto a Bella si fece una grossa risata.
 
 
Lunedì mattina arrivai in aeroporto alle 6:45, parcheggiai e uscii fuori dalla macchina. La avvisai che l’avrei aspettata lì con un messaggio e mi godetti la fredda brezza del mattino.
«Non sapevo che sarebbe venuto a prendermi James Bond» disse squadrandomi dalla testa ai piedi. Mi aveva trovato appoggiato alla macchina con indosso gli occhiali da sole e in bocca un bastoncino di liquirizia.
Sollevai gli occhiali da sole, le sorrisi e la abbracciai forte.
«Mi sei mancato» ammise.
«Tu, invece, non mi sei mancata per niente» cercai di scherzare, ma il mio tono di voce mi tradì.
«Non sei convincente» mormorò vicino alle mie labbra.
«Sei stata sempre nei miei pensieri di giorno e nei miei sogni di notte» lasciai una mano sulla base della sua schiena, spingendola contro di me, mentre con l’altra toglievo dalla bocca il bastoncino di liquirizia. Mi inumidii le labbra e vidi che i suoi occhi avevano registrato ogni singolo movimento.
«Mi devi quindici dollari, Cullen» mi disse, mentre mi accarezzava il viso.
«E come mai, di grazia?»
«La scommessa: è vero che mi hai baciata tu per primo, ma se non ti avessi stuzzicato io…» la bloccai con la mia bocca. Non ce la facevo più ad aspettare.
«Te li do anche tutti e trenta» le dissi senza fiato e la sentii ridacchiare sul mio collo.
«Dove ti va di fare colazione?» le domandai prendendola per mano e afferrando il suo trolley con l’altra.
«A casa mia, se non ti dispiace. Vorrei lasciare la valigia e darmi una rinfrescata. Inoltre, ho preso delle ciambelle in aeroporto a New York. Avevo la vaga sensazione che avresti apprezzato».
Mi voltai verso di lei e mi abbassai sulle sue labbra per baciarla.
«Tu sì che sai come rendermi felice» e mi beai del suono della sua risata.
 
 
«Ho bisogno di qualche minuto per rinfrescarmi, tu mettiti comodo» mi disse mentre spariva nel corridoio.
L’appartamento di Bella era esattamente come lo avevo immaginato: grande, molto arioso e luminoso. Abitava in un attico che offriva una vista mozzafiato sullo skyline di Boston. Riconobbi il suo stile sobrio ed elegante nell’arredamento moderno e nei colori chiari dei mobili.
Mi avvicinai alla libreria e notai che c’era l’intera collezione dei romanzi di Agatha Christie.
Stavo ammirando la città che si svegliava accarezzata dai raggi del sole, quando sentii il suo profumo arrivarmi alle narici, le sue braccia mi circondarono la vita e le sue labbra si posarono leggere sul mio collo, proprio nel punto in cui c’era il mio neo. Lei adorava quel punto e io avevo scoperto che era uno dei miei punti più sensibili. Forse dipendeva da lei o forse ero davvero più sensibile lì, fatto sta che riusciva a eccitarmi anche solo sfiorandomi.
Posai le mie mani sulle sue e la feci girare verso di me.
Le accarezzai il naso con il mio e intrappolai il suo labbro superiore tra le mie labbra. Mi era mancata più di quanto pensassi.
«Facciamo colazione?» mi domandò mentre continuavo a depositarle piccoli baci su tutto il viso e sul collo, inebriandomi del suo profumo e beandomi della consistenza delicata della sua pelle.
A malincuore mi fermai e facemmo colazione.


Una volta arrivati in azienda, la accompagnai fino in ufficio e la salutai, ci saremmo visti alla fine del mio turno per lavorare insieme.
Ma non ce la facevo ad aspettare fino alla sera per vederla, così, durante la pausa pranzo, mi precipitai al sesto piano. Anche stavolta mi aspettava una sorpresa.
Stava pranzando sulla scrivania mentre guardava General hospital. Era così presa dalla soap opera che quando si accorse che ero lì per poco non le andò di traverso il boccone che stava masticando.
«Fammi capire: leggi Agatha Christie, ascolti musica classica e guardi General hospital?» cercai di trattenere le risate.
«Sì, perché? C’è qualche problema di incompatibilità?» mi domandò cercando di restare seria.
Dio, quanto la adoravo.
Mi piegai sulle ginocchia per arrivare all’altezza del suo viso.
«È per questo che non scendi a mensa tutti i giorni?»
Annuì.
«Ho bisogno di svuotare la mente dai pensieri, anche solo per qualche minuto» mi spiegò.
«Puoi sempre chiamare me» la stuzzicai e mi diede un buffetto sul braccio.
«Tu sei il pensiero più impegnativo di tutta la mia giornata» mi disse e non stava scherzando.
«Bella» la chiamai, accarezzandole un braccio.
«Sei sempre nei miei pensieri. Sempre. Non riesco proprio a cacciarti via dalla mia testa» sorrise.
«E questo è negativo? Ti fa stare male?» le domandai preoccupato.
Scosse il capo e mi sorrise. «Non sono abituata a non avere il controllo su di me, a non riuscire a gestire i miei pensieri. Non mi era mai successo di voler stare ogni minuto con una persona, di pensare a lui sempre da quando mi sveglio a quando mi addormento, di preoccuparmi per lui, di cercare continuamente il calore del suo corpo e il sapore delle sue labbra…» la baciai all’improvviso.
«Vale lo stesso per me», le dissi con voce affannosa.
«Non è solo una forte attrazione fisica quella che provo per te», le confessai, «è molto di più».
«Lo so», mi disse comprensiva, «è proprio per questo che sei la mia attività più impegnativa. Sarebbe stato tutto molto più semplice se fosse stata solo attrazione fisica» mi sorrise.
«Dobbiamo proprio lavorare stasera?» le domandai.
«In realtà ci è rimasto poco da fare, possiamo rimandare, se hai altri impegni. È che volevo stare un po’ con te…» confessò.
«Allora, ti andrebbe di uscire con me stasera?»


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Cosa risponderà Bella? Lo scoprirete il prossimo fine settimana.
Un bacione, a presto.

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo X - Gli appuntamenti ***


Le avevo proposto di uscire con me quella sera e aveva accettato. Ci tenevo a farle trascorrere una bella serata, ma non avevo idea di dove portarla. Con le ragazze che avevo frequentato durante gli anni universitari il problema non si era mai posto: intorno al campus c’erano diversi locali e poi il più delle volte non c’era neanche bisogno di corteggiarle troppo. Finivamo nella mia stanza o nella loro per non rivederci più dopo qualche tempo.
Da quando mi ero trasferito di nuovo a Boston, tre mesi prima, ero uscito un paio di volte con una collega di Emmett, ma la prima volta c’erano stati anche lui e Rosalie e la serata era trascorsa discretamente, la seconda volta non vedevo l’ora di tornarmene a casa. Era una delle persone più noiose e boriose che avessi mai incontrato.
Ero arrivato alla veneranda età di trentatré anni con uno scarno curriculum sentimentale: l’unica storia seria che avevo avuto era durata poco più di un anno ed era terminata ben tre anni fa a New York.
Un po’ era dipeso da me, dal fatto che non avessi tutta questa gran voglia o fretta di impegnarmi, volevo prima raggiungere una certa stabilità emotiva ed economica. Volevo vedere il mondo, godermi la vita, volevo conoscere il più possibile, senza avere vincoli o freni di qualsiasi tipo.
Un po’ era dipeso dal fatto che ero tremendamente sfortunato con le donne e finivo puntualmente per andarmi ad impelagare in situazioni che proprio non facevano per me.
Con Lauren, l’unica ragazza che avevo perfino presentato ai miei genitori – solo perché erano venuti a trovarmi a New York e lei era la mia vicina di casa, quindi era stato inevitabile farli conoscere –, ero stato bene, tutto sommato, almeno all’inizio della nostra storia. Eppure, neanche quel primo armonioso periodo che avevo vissuto con Lauren era minimamente paragonabile alla mia prima settimana con Bella e alle sensazioni che provavo solo pensando a lei. Nessuna delle ragazze che avevo avuto mi aveva mai fatto sentire come mi sentivo con lei, così… me stesso.
Con Bella mi sembrava addirittura di essere una versione migliorata di me stesso. Edward Cullen 2.0.
Forse dipendeva dal fatto che ero più maturo e indipendente – e ovviamente lo era anche lei rispetto a Lauren, erano due donne totalmente diverse – o forse semplicemente era lei che stavo aspettando da tutta una vita ed era arrivata proprio quando non la stavo cercando.
Il fatto che anche lei provasse per me lo stesso sentimento totalizzante che provavo io rendeva tutto ancora più perfetto.
Lei era perfetta per me.
Smisi di preoccuparmi troppo, non contava dove saremmo andati, l’importante era che saremmo stati insieme. Non si poteva neanche considerare un vero e proprio appuntamento romantico, visto che saremmo andati a cena subito dopo il lavoro, senza neanche passare da casa, ma non me ne importava. Volevo trascorrere del tempo con lei fuori di lì. Le occasioni galanti sarebbero arrivate.
Mi concentrai su quello che stavo facendo e il pomeriggio volò senza che me ne accorgessi.
 
 
Avevamo lasciato l’auto sotto casa sua e avevamo deciso di spostarci a piedi per andare a mangiare una pizza nella famosa pizzeria che aveva consigliato a Rosalie e che ormai ci forniva il nutrimento ogni sabato sera.
Fortunatamente era una mite serata e, dopo aver cenato, continuammo a passeggiare mano nella mano verso il lungo fiume.
«Questo è uno dei miei posti preferiti della città, sembra quasi di non essere a Boston» mi disse mentre eravamo su uno dei ponti ad ammirare un parco illuminato.
«Non ero mai stato da queste parti, è davvero un posto incantevole» concordai.
Sembrava quasi di stare in una piccola capitale europea in quel punto della città. Potevo capire perché le piacesse tanto.
«Ci vieni spesso?» le domandai.
«Quasi tutte le mattine. Mi piace vedere il sole fare capolino tra gli alberi e sorgere qui sul fiume. È un’immagine così pacifica e allo stesso tempo potente e rinvigorente, è quasi come bere un espresso» le sorrisi. Era una continua sorpresa scoprire quali fossero le sue abitudini; eppure, più la conoscevo, più la mia brama di conoscenza, anziché placarsi, diventava sempre più avida di sapere.
«Capisco cosa intendi» si voltò verso di me, dando le spalle al ponte e un punto interrogativo si disegnò sul suo viso.
«Quando ero a New York andavo spesso in un parchetto a vedere il sole sorgere. Non tutte le mattine, perché altrimenti sarei arrivato tardi in redazione, ma durante i weekend e nei giorni liberi, andavo lì molto presto al mattino a vedere il sole sorgere sulla città» mi sorrise.
«Mi piacerebbe vederlo, quando saremo lì… Se ti va di portarmici» annuii e le sorrisi di rimando.
Voleva conoscermi esattamente quanto io volevo conoscere lei. Questo mi rendeva felice in un modo che non riuscivo a spiegare neanche a me stesso.
La luce della luna illuminava i suoi capelli mostrandomi nuove sfumature che non avevo mai notato prima.
Chissà quali sfumature riflettevano al sole del mattino, pensai e mi ritrovai voglioso di vederla in quel parchetto al sorgere del sole. Magari sarebbe successo prima o poi.
La pelle del suo bel viso sembrava di porcellana e i suoi occhi mi sorridevano dolci. Era bellissima.
Le scostai una ciocca di capelli, in un gesto che era diventato quasi abituale, e la baciai. Le schiusi gentilmente le labbra e incontrai la sua lingua già pronta per giocare con la mia. Sentii le sue mani che si infilavano tra i miei capelli e le mie finirono possessive sulla base della sua schiena. Mi spinsi di più contro di lei, bloccandola fra me e la ringhiera del ponte, mettendo le mie mani tra la sua schiena e il metallo della ringhiera: non volevo che si facesse male.
Le sue mani si spostarono sul mio viso e il ritmo del bacio rallentò. Le mordicchiai la punta del naso delicatamente e la feci sorridere.
«Sei bellissima» sussurrai, stampandole un altro umido bacio sulle labbra gonfie per i miei baci. Erano una tentazione troppo irresistibile. Aveva le guance leggermente arrossate e gli occhi che brillavano, era davvero incantevole.
Mi sorrise in tutta risposta e poi mi prese per mano, conducendomi verso una panchina. Appoggiò il capo sulla mia spalla e io la abbracciai, cercando la sua mano che si strinse subito alla mia.
Non riuscivo ancora a smettere di stupirmi di quanto fosse naturale cercarci e trovarci fisicamente. Stavamo insieme da poco tempo, ma la nostra complicità sia fisica che emotiva era molto profonda.
«Ne indossi uno diverso ogni giorno della settimana» mormorò accarezzandomi il polso sinistro dove portavo il mio Swatch.
«Non ti sfugge niente» bisbigliai nel suo orecchio.
«Solo se sono veramente interessata» confessò e le baciai una guancia.
«Ne possiedo una discreta collezione: alcuni sono regali di quando ero ragazzino, altri li ho comprati negli anni, ma da quando sono qui indosso quasi sempre gli stessi cinque: uno per ogni giorno lavorativo. Lunedì blu, martedì verde, mercoledì rosso, giovedì nero, venerdì grigio. Nel weekend di solito non porto l’orologio perché sto per lo più a casa, ma se lo indosso, non è mai uno di questi cinque. Gli altri li uso a rotazione in estate, sono molto più colorati di questo» le spiegai esponendo il cinturino blu del modello vintage che indossavo quel giorno.
Ero fiero della mia collezione di Swatch e mi aveva fatto piacere che avesse notato che ne cambiavo uno ogni giorno. Ogni aspetto, piccolo o grande che fosse, che notava di me mi lusingava e mi faceva sentire davvero importante per lei.
«Ricordo bene il cinturino giallo che sbucava dal polsino della tua camicia il tredici settembre» disse allegra.
«Ricordi anche che giorno era il mio primo giorno di lavoro?» il mio tono era piacevolmente sorpreso.
«Era il giorno del mio compleanno. Il tuo arrivo ha decisamente migliorato la mia giornata» disse ridacchiando.
«Sei stato un regalo molto inaspettato, Edward» aggiunse poi seria.
«Inaspettato, ma altrettanto gradito, spero».
«Non sai quanto» e si voltò quel tanto che bastava per incontrare le mie labbra sempre impazienti di riunirsi alle sue.
 
 
Avevamo deciso di non uscire ancora allo scoperto sul lavoro, lei non voleva ancora esporsi e io avevo acconsentito. Comprendevo le sue ragioni: lei era il capo e io ero un dipendente, uno degli ultimi arrivati, tra l’altro. Dovevamo mantenere un profilo basso e non era poi così difficile: avevo sempre trascorso molto tempo nel suo ufficio anche prima, solo che adesso chiudevamo la porta per preservare la nostra intimità.
Non sapevo però quanto ce l’avrei fatta a tirare avanti senza fare qualche gaffe. Non ero bravo a mentire. Non ero capace di nascondere i miei sentimenti. La mia faccia era un libro aperto, infatti facevo schifo a poker. Inoltre, non volevo far finta di niente quando eravamo insieme. Era difficile non prenderle la mano o non scostarle una ciocca di capelli, non sfiorarla o non guardarla ammiccante.
Per un po’ di tempo, però, potevo farcela. Ce l’avrei messa tutta.
 
 
Un giorno avevano bussato alla porta del suo ufficio: era Rosalie, Bella la stava aspettando. Io ero seduto accanto a lei, dietro alla scrivania, e quando mi ero alzato per tornare al mio piano, l’avevo baciata per salutarla, un gesto estremamente spontaneo. Lei inizialmente aveva risposto al mio bacio, con altrettanta naturalezza, poi si era resa conto che nella stanza c’era Rosalie che ci stava guardando, ridendo silenziosamente sotto i baffi.
«Ops» avevo mormorato sicuramente rosso in viso per l’imbarazzo. Lei si era invece subito ricomposta. Ma come faceva?
Rosalie per fortuna sapeva di noi ed era stata così garbata da non proferire parola, mi aveva salutato mentre uscivo e si era subito seduta di fronte a Bella per discutere dei piani delle ferie.
Sapevo che Emmett mi avrebbe preso in giro a vita, già lo sentivo.
Quella sera, come tutte le sere di quella settimana, io e Bella avevamo cenato fuori e poi avevamo fatto una passeggiata nel parchetto vicino casa sua. Nessuno dei due aveva tirato fuori l’argomento durante la cena, così decisi di parlarne io.
«Mi dispiace per oggi, per fortuna era Rosalie e non qualcun altro». La sentii sospirare.
«È difficile ricordarsi che non stiamo insieme quando non siamo soli, però dobbiamo stare attenti…» non ascoltai il resto della frase.
«Noi stiamo insieme?» le domandai.
Era arrivato il momento delle definizioni? Ero pronto? Lei era pronta?
«Beh… direi di sì. A meno che tu non la pensi diversamente, mi sembra che sia la definizione più appropriata per la nostra situazione, visto che, anche se non l’abbiamo mai puntualizzato, abbiamo un rapporto esclusivo. Parlo per me, per lo meno. Oltre a non essere una fan del poliamore – sono al contrario una convinta sostenitrice della monogamia sociale –, non avrei proprio il tempo materiale per stare con un altro ragazzo, dal momento che trascorro tre quarti della mia giornata con te o comunque nello stesso edificio in cui ti trovi anche tu. Quindi, a meno che tu non sei ancora pronto per le definizioni, direi che stiamo insieme» concluse il suo eloquente discorso con un sorriso e non potei fare altro che baciarla con un tale impeto che la tenerezza che aveva sempre caratterizzato i nostri approcci era un lontano ricordo. La baciai come non avevo forse mai fatto fino ad allora.
Con il respiro spezzato, le dissi: «Io sono il fondatore della monogamia sociale» e la feci ridere.
«Stiamo insieme» dissi quasi più a me stesso che a lei, assaporando tutta la dolcezza e le promesse che quella semplice frase conteneva.
Mi sorrise e mi diede un bacio a fior di labbra.
«Credevo non fossi ancora pronta, non volevo accelerare troppo le cose, non volevo metterti pressioni addosso. Mi rendo conto che la nostra situazione è delicata e che devi già pensare a tante cose…» mi mise due dita sulle labbra per fermarmi.
«Mi dispiace averti fatto credere che non fossi ancora pronta, non volevo darti l’impressione sbagliata. Non voglio che dubiti dei miei sentimenti per te» in quel momento avevo sicuramente un sorriso da ebete stampato sulla faccia, ma non me ne poteva importare di meno.
«E tu non dubitare mai dei miei per te» annuì e mi sorrise.
«Ti giuro che d’ora in poi starò più attento che mai, anche davanti a Rosalie o Jasper che sanno di noi. Ovviamente Rosalie ha già spifferato tutto a mio fratello che ha iniziato a prendermi in giro per messaggi» scossi la testa. Emmett non sarebbe mai cresciuto.
«È stato molto carino da parte sua far finta di nulla, ma non avevo dubbi che si sarebbe comportata così: Rosalie è sempre impeccabile».
Restammo in silenzio per qualche momento, avevo una domanda che mi frullava nella testa da tempo, ma non sapevo se quello era il momento più adatto per fargliela. Stava andando tutto così bene quella sera, non volevo turbarla come l’ultima volta che le avevo fatto una domanda personale.
«Sento il rumore dei tuoi pensieri» ruppe lei il silenzio. Sorrisi e le baciai una tempia.
«Riesci proprio a leggermi come se fossi trasparente, eh?» bisbigliai sulla sua testa.
«Beh, proprio trasparente no, ma sto imparando a conoscerti» mi disse accarezzandomi una guancia.
«C’è una cosa che vorrei chiederti…»
«Dimmi pure» mi sorrise.
«Non voglio turbarti però, quindi non so se è il caso di farti questa domanda».
«Oh, mio Dio, adesso ho seriamente paura. Cosa vuoi sapere, Edward?»
«Rosalie mi ha confidato che le piacerebbe molto essere più di una collaboratrice, vorrebbe essere tua amica. Ci tiene molto a te, ti vuole bene ed è davvero una cara ragazza. Volevo solo sapere come mai non le permetti di conoscerti meglio, come mai non ti apri di più con lei».
«Tu che idea ti sei fatto?» mi domandò.
«Beh, all’inizio ho pensato che forse ti stava antipatica, anche se non mi sembra. Quando lavorate insieme, sembrate in sintonia. Poi ho pensato che magari preferisci tenere separato il lavoro dalla vita privata, però… Beh, mi sono dovuto ricredere visti gli ultimi avvenimenti…» mi strinse la mano.
«La tua seconda supposizione non è del tutto sbagliata, mi è stato insegnato fin da subito che la prima regola del successo è tenere separati lavoro e vita privata. Non è solo una mera questione di equilibrio tra le due sfere. Io non posso mai lasciarmi andare, perché se cado io, crolla tutto quello che ho costruito.
Hai idea di quanto sia stata dura farmi valere e farmi riconoscere dallo staff come autorità a ventinove anni? Io ero e sono il capo di persone che avevano il doppio dei miei anni in esperienza. Se non fossi stata sempre così ferrea e imparziale e distante, non mi avrebbero mai rispettata.
Se diventassi amica - o più che amica - di qualcuno e poi, per caso, questo qualcuno ricevesse una promozione, potrebbe essere visto come un favoritismo, anche se io non mi comporterei mai così. Stare così in alto richiede un certo grado di solitudine. Le persone ti si avvicinano e ti corteggiano solo perché sono convinte che adulandoti possano guadagnarci qualcosa. Tutte le persone lì dentro negli anni si sono avvicinate a me con queste intenzioni, tranne una.
Tu sei un’eccezione, sei stata un’eccezione fin dall’inizio. Tu sei stato il primo a preoccuparsi di me e per me in anni; mi sei stato vicino e mi hai aiutato perché volevi farlo, non perché speravi di ottenere qualcosa. Tu non ti sei fermato all’apparenza del mio ruolo, sei andato oltre; non hai mai pensato ai vantaggi che potessi ottenere avvinandoti a me. Tu hai cercato la persona dietro quel ruolo e sei riuscito a trovarla, nonostante fosse ben nascosta, testardo come sei» mi sorrise dolcemente e le baciai la punta del naso.
«È per questo che non vuoi che si sappia di noi?» annuì.
«Io non sarò mai un ostacolo alla tua carriera. Non permetterò mai che ti venga negata qualcosa solo perché stiamo insieme. Troverò un modo… troveremo un modo» si corresse e le sorrisi.
All’improvviso, era tutto più chiaro. Tutte le sue paure e le sue preoccupazioni, il suo atteggiamento distaccato, il fatto che non volesse il mio aiuto quella sera, salvo poi cedere di fronte alla mia cocciutaggine. Fino ad allora avevo solo potuto immaginare che dietro a tutta quella sicurezza così naturale, mai ostentata e sempre misurata, e dietro a tutto quel rispetto e quella riverenza che tutti le portavano, ci fosse stato un enorme lavoro, ma non avevo messo in conto che c’era stato un costo enorme da pagare da parte sua.
Chi sta in alto è solo.
Lei però adesso era un po’ meno sola, aveva me.
Questo mi rese orgoglioso e fiero, e sentii nel petto quel familiare senso di protezione che avevo imparato a riconoscere quando si trattava di lei.
L’avrei protetta da tutti, perfino da sé stessa, se fosse stato necessario.
Solo una cosa non mi era ancora chiara.
«Rosalie non è un avvoltoio, però, posso assicurartelo. Inoltre, è già all’apice della sua carriera, non penso tu possa promuoverla oltre il suo grado» puntualizzai e lei sospirò.
«Lo so che Rosalie non mi adulerebbe mai per poter ottenere qualcosa in cambio, so che non è quel genere di persona e ti assicuro che anche lei mi è molto cara».
«Allora?» la incoraggiai.
«Non ho mai avuto molta fortuna con le donne» mormorò.
«Che fai, mi rubi le battute adesso?» scherzai e la vidi sorridere.
«Sei ancora convinto di essere poco fortunato con le donne?» mi domandò voltandosi verso di me e guardandomi dritto negli occhi.
«Ultimamente mi sto ricredendo, sembra che il destino mi stia ripagando di tutta la sfortuna passata con gli interessi» risposi avvicinandomi alle sue labbra e sfiorandole con le mie. Mi sorrise soddisfatta.
«Se non vuoi parlarne, va bene, non voglio che ti senti obbligata a raccontarmi cose che magari non vuoi ancora condividere».
Mi accarezzò una guancia e mi sorrise grata per le mie parole.
«Voglio che tu mi conosca, Edward, e suppongo che raccontarti del mio passato faccia parte del processo. Poi sei dannatamente curioso quando si tratta di cose passate e riesci sempre a persuadermi e a farmi raccontare tutto. Ma questa è una delle tante cose che mi piacciono di più di te» ammise con naturalezza.
«Sono uno storico, tesoro, il passato esercita sempre un certo fascino su di me. Del tuo, poi, vorrei sapere davvero ogni cosa» replicai con altrettanta sincerità.
Prese un respiro e cercò la mia mano. Gliela strinsi forte. Quando faceva così, sapevo che c’era qualche ricordo doloroso in agguato.
«Quando ti ho raccontato del giorno in cui ho scoperto l’identità di mia madre, ti ho detto che da allora è iniziato un brutto periodo per me e che ho smesso anche di andare a scuola» annuii per confermarle che ricordavo ogni parola del suo racconto.
«Ho omesso da quel racconto un dettaglio. Non ho smesso di andare a scuola solo per via della storia di mia madre, non ci sono più voluta andare perché non volevo più incontrare due delle persone che mi hanno più ferita in tutta la mia vita. Quel giorno è stato anche il giorno in cui ho perso un po’ di fiducia negli esseri umani, nelle donne in particolare.
Avevo bisogno di conforto dopo aver litigato con mia nonna, ma evidentemente non lo meritavo. Ero andata dalla mia migliore amica, Emily, che consideravo una sorella e che conosceva tutti i miei tormenti da sempre. La trovai a letto con il mio ragazzo di quell’epoca, Paul, il mio errore di gioventù. Sapeva che le avrei perdonato tutto, tranne una cosa. Mi conosceva, eppure non si era fatta alcuno scrupolo a tradirmi in maniera così subdola e meschina. Seppi più tardi che andava avanti da tempo, ma io non mi ero mai accorta di niente. Essere traditi da chi amiamo e da chi ci fidiamo è qualcosa di terribile. Scoprirlo in un giorno già di per sé così buio non è stato semplice, per usare un eufemismo.
Mi avevano tradita entrambi, ma se da lui potevo aspettarmelo perché in fondo lo sapevo che era un tipo poco serio, da lei non me lo sarei mai aspettata. Non potevo perdonarla per quello che mi aveva fatto. Ricevere una pugnalata sarebbe stato meno doloroso. Da allora ho avuto grosse difficoltà ad avere delle amiche, a fidarmi di nuovo di altre donne. Ho sempre avuto paura che si potesse ripetere quello che era successo con Emily».
«Mi dispiace» mormorai sui suoi capelli.
«Non ti deluderò mai, te lo prometto. Mi odierei se lo facessi. Puoi credermi?» la guardai dritto negli occhi.
«Sì, certo che ti credo» ammise convinta.
«Bene» sorrisi compiaciuto e la baciai. La sua sicurezza e la sua totale fiducia nei miei confronti erano ancora più preziosi per me dopo il suo racconto.
«E dal momento che mi credi e ti fidi di me, mi permetti di darti un consiglio?» annuì.
«Non va bene restare così ancorati al passato e te lo dice uno storico» la feci sorridere.
«Lascialo andare, è passato. Lascialo andare» sussurrai sulle sue labbra.
«Non sono tutte uguali le persone e so che lo sai anche tu, perché altrimenti non avresti riposto la tua fiducia in me dopo quello che ti è successo» chiuse gli occhi per elaborare meglio le mie parole.
«Apriti con Rosalie, dalle una possibilità. Non lo dico solo perché sta con mio fratello e in qualche modo, prima o poi, farà parte anche della tua vita. Lo dico per te, perché sono convinto che hai bisogno di un’amica come lei. Ti meriti un’amica come lei. Siete entrambe merce rara e si vede che vi volete bene. Non negarti questa possibilità, non perdere l’occasione di avere una buona amica» il mio discorso aveva evidentemente toccato le corde giuste, perché aveva gli occhi lucidi. Le accarezzai una guancia dolcemente e le baciai teneramente le labbra.
«Darai una possibilità a Rosalie, allora?»
Sospirò.
«Ci penserò, te lo prometto» le sorrisi soddisfatto.
Solo più tardi, quando ero a casa a rigirarmi nel letto rivivendo alcuni momenti della serata prima di addormentarmi, mi resi conto che quando le avevo detto che Rosalie prima o poi avrebbe fatto parte della sua vita perché stava con mio fratello avevo implicitamente dato per scontato che lei avrebbe fatto parte della mia vita e della mia famiglia per sempre. All’improvviso immaginai tutta la mia vita con lei e mi ritrovai a coniugare verbi al futuro, come mai mi era capitato di fare.
Era quella la vita che volevo io? La risposta era assolutamente affermativa e non ero mai stato così sicuro di qualcosa in vita mia.
Ma era quella la vita che voleva lei?
Forse non aveva prestato particolare attenzione alla mia semplice frase e al suo profondo significato o forse era quello che voleva anche lei. Far parte della mia vita, Emmett e compagnia compresi.
O forse aveva ragione mio fratello, certe cose erano semplici e basta e io mi arrovellavo il cervello per niente.
D’altronde, me lo aveva dimostrato anche con le definizioni che quello cervellotico ero io, lei andava dritta alla sostanza delle cose.
 
 
Avevamo trascorso insieme tutte le sere fino al giovedì, per poi congedarci all’ora di andare a dormire. Era stata una settimana perfetta.
Il venerdì avevo la mia solita serata con Emmett e Jasper al Ruadh, avrei voluto tanto rimandarla per stare con lei, ma Bella era stata irremovibile e aveva insistito affinché andassi. Non voleva che perdessi le mie abitudini solo perché adesso c’era lei nella mia vita. Ci saremmo visti la sera successiva, il sabato, saremmo andati a cena fuori. Sarebbe stata la prima volta che saremmo usciti dalle nostre case anziché dal lavoro per uscire insieme e che ci saremmo preparati per la serata. Il momento delle serate galanti era finalmente arrivato.
 
 
Sam ci stava mostrando le ultime foto della piccola Bree, era davvero una bimbetta adorabile. Aveva assunto provvisoriamente un ragazzo per aiutarlo, visto che Leah stava a casa con la piccola, ma era evidentemente inesperto e il povero Sam doveva stargli dietro di continuo per evitare di perdere clienti e di dover rinnovare tutti i bicchieri del locale.
«Domani sera porti pure Bella a casa mia, giusto? Alice è impaziente di conoscerla» mi disse Jasper.
«Veramente domani sera passo… È il primo sabato sera che passiamo insieme, non te la prendere, Jazz, sarà per un’altra volta». Annuì comprensivo, facendomi l’occhiolino.
«Cavolo, se sei disposto a perderti l’ultima partita dei Celtics di questa stagione per stare con lei, mi devo preoccupare» ghignò Emmett.
Feci uno sguardo eloquente. Mi sarei perso tutto il campionato per stare con lei.
Forse proprio tutto il campionato no, ma qualche partita sì.
Chissà se era una tipa sportiva… sarebbe stato davvero davvero davvero perfetto!
«Dove la porti domani?» Emmett mi ridestò dalla mia immagine di Bella che guardava una partita di basket. No, non ce la vedevo, ma annotai mentalmente di ricordarmi di chiederglielo.
«Da Deuxave» la mia pronuncia di quel nome suonava strana perfino alle mie orecchie, ma non avevo la più pallida idea di come si pronunciasse correttamente. Sperai che il cibo fosse meno strano del nome del locale.
«Cucina francese… hai grandi aspettative per il dopo cena, devo dedurre» Emmett sollevò e abbassò le sopracciglia, come era solito fare quando voleva insinuare qualcosa di malizioso ed era sicuro che la sua supposizione fosse corretta.
«Vedremo» risposi serafico.
 
 
Bella era la ragazza perfetta per me e ne avevo conferma giorno per giorno. Era puntuale, le avevo detto che sarei passato a prenderla alle 19 e lei era già pronta. Un miracolo.
Avevo preso per lei una piccola composizione di nontiscordardimé, gelsomini e violette e avevo l’abitacolo dell’auto invaso dal delicato profumo dei fiori.
Quando uscì dal portone rimasi senza fiato. Indossava un abito a tubino nero, molto elegante e semplice, coperto da un soprabito beige. Era la prima volta che la vedevo senza pantaloni e le sue gambe erano proprio come le avevo immaginate, lunghe, toniche e perfette. Deglutii prima di avvicinarmi a lei.
«Sei un incanto» mormorai prima di salutarla con un bacio.
«Grazie, caro, anche tu sei molto elegante» mi afferrò i lembi del cappotto e mi sorrise.
Le diedi il mazzolino di fiori e mi baciò per ringraziarmi.
«Sono bellissimi e hai anche indovinato quali sono i miei fiori preferiti».
«Davvero?»
«I gelsomini» si piegò sul bouquet per annusarli e poi lesse il biglietto che avevo allegato alla composizione.
«Il colore dei nontiscordardimé mi ha fatto pensare ai tuoi occhi, del gelsomino adoro la fragranza, che mi ricorda un po’ la tua, e le violette sono un invito a pensare a me che umilmente ti faccio dono di questo piccolo bouquet» le accarezzai la mano che aveva posato sul mio viso. Poi la presi con gentilezza e la portai alle labbra.
«Ti penso sempre, lo sai» mormorò sollevandosi leggermente sulle punte dei piedi per darmi un bacio.
«Grazie» sussurrò sulle mie labbra.
 
 
La cena fu deliziosa, trascorremmo la maggior parte del tempo cercando di capire quale fosse la corretta pronuncia del nome del ristorante, fino a quando una cameriera ci spiegò che siccome il ristorante si trovava nell’intersezione di due strade, la pronuncia era “Doozahv”, anche se non era proprio corretta in francese. La guardammo entrambi delusi e ripensando alle nostre teorie, scoppiammo a ridere.
La riaccompagnai a casa e restammo per qualche minuto sul portone per salutarci. Ci saremmo visti l’indomani, ma era sempre terribilmente doloroso quando era lontana da me. Non osavo neanche pensare a come sarei sopravvissuto a dieci giorni di lontananza. La sua partenza per New York distava solo una settimana.
«Vuoi salire per un caffè?» mormorò a un certo punto. Accidenti se volevo salire.
Dopo il caffè eravamo finiti sul divano a continuare quello che avevamo iniziato davanti al portone, senza l’ingombro dei cappotti.
La desideravo da morire, come non avevo mai voluto nessuna in tutta la mia vita, e, stretti come eravamo, si accorse sicuramente anche lei di quanto la volevo. Eppure, volevo fare le cose per bene. Normalmente non mi sarei fatto problemi a portare a letto una ragazza al nostro primo appuntamento. Il sesso normalmente sanciva l’inizio o la fine delle mie avventure, ma non stavolta.
Stavolta non era un’avventura.
Bella meritava sicuramente di più. Io volevo di più per noi. Con lei doveva essere un proseguimento, un passo avanti nella nostra reciproca conoscenza, un evento importante e significativo nella nostra storia. E sarebbe stato grandioso, di questo ero assolutamente sicuro.
Pensare di andarci piano era una cosa, ordinarlo al mio corpo era tutt’altra storia. Sembravo un adolescente in preda agli ormoni e lei che rispondeva così bene e così pronta ai miei tocchi non mi aiutava per niente. Per non parlare delle reazioni del mio corpo quando era lei a toccarmi.
Con tutta la forza di volontà che avevo, rallentai il ritmo del bacio, permettendo a entrambi di normalizzare il respiro, e pian piano, mi staccai da lei, continuando a lasciarle baci roventi sul collo. Adoravo baciarla lì dove il suo profumo era più intenso e sapevo che era un suo punto sensibile, perché ogni volta reclinava la testa all’indietro permettendomi di avere ancora più spazio d’azione e sospirava. Adoravo sentirla sospirare.
«Credo sia ora di andare» emise un verso che non riuscii a interpretare, ma quando incontrai il suo sguardo, compresi che eravamo sulla stessa lunghezza d’onda.
La baciai ancora a lungo sulla porta e le augurai la buonanotte.
Erano sette mesi che non facevo sesso, dovevano darmi una medaglia per essermi riuscito a fermare.
Emmett mi avrebbe preso in giro a vita, altro che medaglia.


____________________

Gliela sto facendo sudare, povero Edward!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere cosa ne pensate.
Questo è l'orologio che ho immaginato al polso di Edward nel suo primo fantozziano giorno di lavoro ^_^






Come avrete notato tendo a scrivere capitoli lunghi e a postarli una volta a settimana. Se preferite magari leggere capitoli un po' meno lunghi, ma avere un doppio aggiornamento settimanale, ditemelo, così cerco di organizzarmi.
Non dovrei avere difficoltà a dividere i capitoli in due parti e a postarli due volte a settimana, anziché una. Fatemi sapere.
Alla prossima, un bacione!

 

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Capitolo 11
*** Capitolo XI - La partenza ***


Era quasi ora di uscire, ma Bella aveva ancora qualcosa da fare. Io ormai avevo preso l’abitudine di scrivere nel suo ufficio mentre la aspettavo, era incredibile come riuscissi a concentrarmi pur sapendo che lei era a pochi metri da me. Riuscivamo a lavorare tranquillamente stando nella stessa stanza, anzi, lavoravo addirittura meglio quando stavo con lei.
«I braccioli di queste poltroncine sono scomodi» mi lamentai.
«Non sono fatti per sostenere la schiena» mi canzonò lei. Effettivamente, la mia posizione non era quella che si assume abitualmente su una poltroncina, ma mi piaceva stare seduto in orizzontale, tra i due braccioli, con le gambe a penzoloni e il PC sul mio addome. Non era la posizione più salutare per la mia schiena, né per il mio computer che si surriscaldava sempre troppo, ma mi piaceva stare così.
«Potresti scrivere sulla mia scrivania, stando seduto di fronte a me» nel frattempo si era alzata ed era in piedi dietro di me, le sue mani sulle mie spalle, la mia testa contro il suo addome. Le presi una mano e la portai alle labbra.
«No, mi piace stare così, è l’angolazione perfetta per girare la testa e guardarti quando voglio. Se ti avessi sempre di fronte e a poca distanza mi distrarrei troppo e non riuscirei a tenere le mani sulla tastiera» le feci l’occhiolino.
«Ti verrà il torcicollo a furia di girarti» mi disse mentre disegnava dei piccoli cerchi con i pollici sul mio collo.
«Mm… la mia ragazza è bravissima a farmelo passare con i massaggi» le risposi suadente e lei si chinò su di me per sfiorarmi le labbra con un bacio sottosopra.
Chiusi il PC, lo sistemai tra lo schienale della poltrona e il mio fianco, e tirai Bella su di me, facendola sedere lì dove prima c’era il computer. Ridacchiò perché l’avevo colta di sorpresa e le avevo fatto perdere l’equilibrio. Era praticamente caduta a peso morto sul mio stomaco.
«Ti ho fatto male?» mi domandò apprensiva, ma ancora divertita, mentre si sistemava meglio su di me. Scossi il capo.
«Devo farti vedere una cosa» ripresi in mano in PC, lo adagiai sul suo grembo, e aprii la pagina che avevo ridotto a icona. Non stavo più nella pelle.
Feci scorrere il contenuto della pagina e, una volta arrivata alla fine, il suo volto si illuminò.
«Hanno pubblicato il tuo articolo?» era ovviamente una domanda retorica, ma la meraviglia e la gioia nella sua voce mi riempirono d’orgoglio. Ero felicissimo quella mattina, quando avevo ricevuto la notifica dalla redazione, ed era stata dura riuscire a resistere e non dirglielo subito.
Annuii felice.
«Lo sapevo che gli sarebbe piaciuto. Complimenti!» piena di entusiasmo si avventò sulle mie labbra. Dovetti ricordarmi che avevo ancora il PC in mano, altrimenti avrebbe fatto una brutta fine.
«Andiamo a cena a festeggiare? Hai finito?» le domandai.
«Sì, ho finito. Volevo chiederti se stasera ti va di cenare a casa mia… ho voglia di cucinare e di mangiare sano. Sempre se per te va bene che cucini io. Se preferisci festeggiare fuori, fa lo stesso» era sempre così gentile e garbata quando mi proponeva un cambio di programma, non mi imponeva mai niente ed era bello che la mia opinione contasse così tanto per lei.
Non credevo possibile di essere così fortunato ultimamente. Le cose stavano andando troppo bene, su tutti i fronti della mia vita. Avevo quasi paura di svegliarmi da un momento all’altro e scoprire che era tutto frutto della mia fervida fantasia. Ma no, per quanto fosse vivida la mia immaginazione, la donna che stava sul mio grembo era assolutamente reale ed era meglio di qualsiasi sogno avessi mai fatto.
«Certo che va bene, ho già avuto un assaggio delle tue abilità culinarie» sorridemmo entrambi al ricordo. Sembrava passato tanto tempo da quella prima sera che avevamo trascorso insieme nel suo ufficio e invece era trascorso poco più di un mese.
 
 
Siccome Bella era la donna più organizzata e precisa del mondo, aveva anche già preparato tutto quanto. Era bastato tirare fuori una teglia dal frigorifero e metterla in forno. Era il polpettone più buono che avessi mai mangiato, mi complimentai molte volte con lei. Era bravissima in tutto quello che faceva.
«E se avessi preferito andare a cena fuori, cosa ne avresti fatto di tutto questo ben di Dio?» in realtà sapevamo entrambi che non avrei mai rifiutato un suo invito, ma ero curioso.
«L’avrei diviso in porzioni e congelato» rispose con nonchalance.
Aveva sempre una soluzione pronta a tutto.
Trascorremmo il resto della serata a guardare un film e quella di cenare a casa sua divenne un’abitudine anche per le sere successive di quell’ultima settimana che avremmo trascorso insieme prima della sua partenza. L’inverno stava arrivando e le temperature si erano bruscamente abbassate rispetto alla settimana precedente: fare una passeggiata dopo cena era fuori questione, quindi trascorrevamo le serate a coccolarci sul suo divano guardando film o serie tv. Ultimamente guardavamo un sacco di produzioni italiane – con i sottotitoli in inglese per me, lei non ne aveva assolutamente bisogno – perché voleva riabituare il suo orecchio in vista dell’imminente partenza.
Ogni mattina mi svegliavo allegro perché sapevo già che avrei trascorso il resto della giornata con lei e subito dopo mi angosciavo perché più giorni passavano, più la sua partenza si avvicinava.
 
 
«Buongiorno, Emmett» risposi al telefono mentre sorseggiavo il mio tè. Era giovedì mattina.
«Ehi, Teddy, che fai di bello?» aveva la voce affannata, stava sicuramente correndo.
«Sto facendo colazione. Tu?»
«Sto facendo una corsetta. Senti un po’, sabato perché non organizziamo qualcosa tutti insieme anche se non c’è la partita? Jasper ha proposto di stare a casa sua, come al solito. Sai, vorrei conoscere la tua ragazza entro quest’anno…» sospirai. Emmett aveva ragione e io morivo dalla voglia di presentargliela.
«Emm, parte domenica, sabato sera preferirei non condividerla con nessuno. Senza offesa» ridacchiò.
«Allora venerdì? Andiamo tutti al Ruadh?» mi propose.
«Venerdì potrebbe andare bene, gliene parlo oggi. Però, magari facciamo qualcosa a casa mia o da Jasper, almeno stiamo più tranquilli».
Stavamo quasi sempre a casa di Alice e Jasper il sabato perché avevano l’appartamento più grande, la TV migliore e una collezione di giochi di trivia e quiz impressionante. Erano sempre molto accoglienti e gli piaceva avere gente in casa.
«Va bene, allora lo dici tu a Jasper dato che vi vedete tra un po’?»
«Tranquillo, ci penso io. Ti faccio sapere».
Neanche il tempo di appoggiare di nuovo il telefono sul tavolo, che vibrò tra le mie mani: era un messaggio di Jasper. Emmett lo aveva già chiamato, tipico di lui: quando si metteva in testa qualcosa, non era proprio capace di aspettare. Scossi il capo e aprii la tendina per leggere il messaggio.
 
Ho sentito Emmett, venerdì stiamo a casa mia. Abbiamo comprato da poco un’edizione speciale di Trivial pursuit e Wits End che aspettano di essere inaugurati. Alice ti saluta e mi raccomanda di dirti che non accettiamo un no come risposta. Ci vediamo dopo!
 

Sorrisi. Jasper era proprio un caro amico.

 

Signorsì, signore. Saluta tanto Alice. A più tardi!

 
 
Bella era già nel suo ufficio che mi aspettava. Ormai era diventata una routine consolidata: arrivavo prima per stare con lei anche solo per qualche minuto, prendevamo insieme un espresso – stavo imparando ad apprezzarlo – e iniziavamo la giornata con il giusto spirito.
«Preferisci la carne o il pesce per stasera?» mi chiese prima ancora di voltarsi per ricevere il mio bacio.
«Mm» dissi ancora contro le sue labbra «pesce. Stai ordinando la cena a domicilio?» ero stupito.
«No, la spesa» mi sorrise.
Ovviamente, cucinava lei a casa sua, non entrava neanche l’ombra del cibo d’asporto lì da lei. Mi aveva guardato inorridita quando una sera avevo proposto di ordinare la cena a domicilio.
«Ti aiuto io a cucinare stasera, sono bravo con il pesce» dissi fiero. Lo ero davvero perché mi piaceva un sacco.
«Va bene, allora cucini tu: ti cedo pentole e fornelli», ridacchiò.
«Quale onore» replicai e mi sorrise.
«Di cosa hai bisogno?» ci pensai per un attimo.
«Mm… Voglio prepararti il salmone alla Wellington: mi servono due filetti di salmone, spinaci, burro salato e pasta sfoglia» ricevetti uno sguardo di approvazione.
«Ti do i dati del mio conto per pagare» Bella ridusse gli occhi a due fessure.
«Non esiste proprio, hai pagato sempre tu la scorsa settimana» replicò.
«Ma che c’entra e poi non è vero: una sera sei riuscita a pagare tu a tradimento» le ricordai di quella sera che con la scusa di andare in bagno, era andata a pagare il conto. Mi liquidò con un gesto della mano.
«Edward, siamo due adulti in una relazione fortunatamente equilibrata e armoniosa, quindi, se permetti, siccome sono sempre stata a favore della parità dei diritti e dei doveri tra uomini e donne, a casa mia, la cena la pago io» concluse la sua filippica incollando le sue labbra alle mie, in modo da non lasciarmi la possibilità di replicare.
«Sei incredibilmente testarda» le mordicchiai il labbro inferiore e ricevetti un mugolio di apprezzamento.
«Da che pulpito» replicò con voce ansimante.
 
 
«Se hai bisogno di me, sono in lavanderia: devo assolutamente fare almeno un carico di lavatrice e asciugatrice e devo iniziare a mettere da parte i vestiti per New York» mi disse mentre mi indicava i pensili e i cassetti nei quali avrei trovato quello che mi serviva per cucinare, anche se ormai, sapevo già dove trovare quasi tutto.
Un velo di tristezza calò sul mio viso e lei se ne accorse.
«Ehi, sono solo dieci giorni» mi disse dolce accarezzandomi una guancia. Sospirai e mi godetti il tocco leggero della sua mano.
Avevamo vissuto quella settimana facendo finta che lei non dovesse partire: non ne parlavamo mai, neanche la nominavamo la sua partenza, anche se incombeva su di noi con la sua imminenza.
«Sono rimasti solo quattro giorni da trascorrere insieme» mormorai triste. Mi abbracciò e iniziò ad accarezzarmi la schiena.
«Per domani sera disdico, non esiste proprio che spreco una serata» Bella si staccò da me e mi guardò interrogativa.
«Oh, mi sono dimenticato di dirtelo stamattina. Emmett vuole conoscerti e Jasper ci ha invitato domani sera a casa sua per passare insieme la serata. Giocheremo a Trivial pursuit e probabilmente mangeremo la pizza di Alfredo. Avevano proposto di organizzare la serata per sabato, ma onestamente voglio stare da solo con te sabato, così gli ho detto che magari si poteva fare qualcosa domani sera, sempre che a te vada bene. Però, ci è rimasto così poco tempo prima che tu parta, che mi sembra uno spreco trascorrere una serata in compagnia» brontolai.
«Loro sono una parte importante di te e della tua vita, quindi… va bene, andiamo» assentì.
«Tu sei più importante» le dissi serio e lo pensavo davvero. Al diavolo il resto, io volevo stare con lei.
Mi sorrise e mi accarezzò il viso con una mano. Le presi l’altra mano e intrecciai le mie dita alle sue: mi meravigliavo sempre di come si incastrassero perfettamente.
«Sarebbe scortese rifiutare il loro invito e poi anch’io voglio conoscere tuo fratello» mi disse gentile. Mugugnai un verso abbastanza infantile di disapprovazione e la feci ridere.
«Allora, confermo per domani» mi arresi. Mi diede un bacio e si dileguò per andare a fare il bucato. Io mi dedicai alla preparazione della cena.
Sembravamo una coppia consolidata da tempo, con una divisione dei compiti e delle faccende. Mi piaceva questa repentina quotidianità che si era creata tra di noi e mi dispiaceva troppo doverla interrompere proprio sul nascere.
Dannato lavoro e dannata New York!
 
 
«Sappi che d’ora in avanti cucinerai molto più spesso tu: sei bravissimo! Era davvero delizioso, non avevo mai mangiato il salmone in crosta – in realtà non ci avevo neanche mai pensato di sostituire nel filetto alla Wellington la carne con il pesce. Complimenti, tesoro» si sporse in avanti per baciarmi.
«Grazie, se questi sono gli effetti delle mie prelibatezze, cucinerò sempre io» mormorai sulle sue labbra che si curvarono in un sorriso.


«Guardiamo un film italiano anche stasera?» ero già sul divano, in attesa di Bella che era andata a caricare l’asciugatrice.
«Brasiliano stasera» mi rispose mentre faceva partire il film.
Si sedette accanto a me e appoggiò la testa sul mio petto. Le baciai la testa e iniziai ad accarezzarle il fianco.
«Perché brasiliano? Non mi piacciono i film latino-americani» mi lamentai.
«Non lo guardiamo per la trama, ma per la lingua. Comunque, è una commedia, dovrebbe essere abbastanza gradevole» rispose e mise in pausa, sapeva già che avrei voluto più spiegazioni, infatti sollevò la testa e si mise in ginocchio sul divano di fronte a me.
«Sto cercando di imparare il portoghese, un po’ lo capisco, è facile per me visto che parlo già in italiano; ma devo cercare di apprenderne il più possibile e magari di riuscire anche a parlarlo un po’» mi spiegò.
«Per quale motivo?» le domandai sorpreso.
«Non mi fido dei nuovi fornitori. Non mi hanno fatto una buona impressione durante il nostro ultimo incontro e quando siamo in riunione, spesso parlano tra di loro in portoghese. È una cosa che fanno anche gli italiani, quando non vogliono far conoscere agli americani le loro reali intenzioni. Il problema è che ci sono io» fece un sorriso furbo che ricambiai.
«Durante una delle primissime riunioni a Volterra, prima di aprire qui a Boston, alcuni ex soci non sapevano che parlassi in italiano e stavano parlando tra di loro su come cercare di imbrogliare su un investimento. Avresti dovuto vedere la loro faccia quando gli ho risposto in perfetto italiano» sorrise, perdendosi nei ricordi.
«Sei incredibilmente brillante» le dissi con adorazione e azzerai la distanza tra la mia bocca e la sua.
 
 
«Magari stasera potrei uscire un po’ prima, così vado a casa a prepararmi e poi vengo a prenderti» le dissi mentre stavamo pranzando nel suo ufficio venerdì.
«No, passo a prenderti io. Jasper abita vicino casa tua, non ha senso che vieni tu a prendere me» rispose pratica.
«Ma…» cercai di obiettare.
«Edward, non siamo nel Medioevo: una ragazza può passare a prendere il suo ragazzo. E non sarai di certo meno uomo ai miei occhi per questo» mi rassicurò facendomi l’occhiolino.
«Una ragazza ha ragione» le risposi imitando il tono di Jaqen H'ghar. La mia citazione del Trono di spade la fece ridere.
«Come sempre» disse inclinando la testa verso di me per baciarmi una guancia.
Proprio in quell’istante bussarono alla porta ed entrò Rosalie che ci salutò e depositò un fascicolo sulla scrivania di Bella.
«Grazie, Rosalie. Hai per caso bisogno di un passaggio per stasera o ti sei già organizzata con Emmett?» sia io che Rosalie ci voltammo verso di lei increduli.
«Io… Mm… Noi ci vedremo direttamente da Jasper e Alice, Emmett finisce tardi gli allenamenti stasera, quindi io andrò con la mia auto e lui con la sua, perderebbe troppo tempo per venirmi a prendere a casa» farfugliò Rosalie ancora scossa dalla domanda di Bella.
Io nel frattempo le avevo preso la mano sulla scrivania, incurante del fatto che non fossimo soli. Rosalie sapeva di noi e Bella mi strinse la mano per rassicurarmi che le stava bene.
«Se vuoi, possiamo andare insieme con la mia auto. Passiamo a prendere le pizze da Alfredo, passiamo a prendere Edward e poi andiamo da tuo fratello» le propose gentile.
«Oh, certo, va bene. Però, al ritorno, io… c’è… Emmett» Rosalie era leggermente imbarazzata, perché Emmett andava a dormire a casa sua dopo. Soffocai una risatina e Bella mi diede un pizzicotto nel palmo della mano. La guardai truce e lei mi ignorò.
«Non preoccuparti per il ritorno, non è un problema per me tornare da sola. Passo a prenderti alle sette, va bene?» Rosalie annuì e ringraziò Bella.
Era felice, anche se ancora un po’ scossa e imbarazzata.
«Sono fiero di te, anche se mi hai fatto male» le sussurrai nell’orecchio, baciandole la porzione di pelle delicata tra il collo e l’orecchio che fu percorsa da un brivido.
«Davvero ti ho fatto male?» mi domandò accarezzando la parte che prima mi aveva pizzicato.
Scossi il capo e le diedi un bacio sulla fronte.
«Però, per quanto sia felice che tu abbia deciso di venire con Rosalie stasera, sono un po’ dispiaciuto».
«Per cosa?» mi domandò allarmata.
«Beh, volevo farti vedere casa mia, prima di andare da Jasper. Non ci sei ancora stata» le spiegai accarezzandole una guancia e mi regalò uno dei sorrisi più dolci del mondo.
«Posso passare dopo, quando ti riaccompagno, visto che Rosalie andrà via con tuo fratello» ci scambiammo un’occhiata furba e non potei fare altro che liberare la risata che prima avevo dovuto ingoiare ripensando all’imbarazzo della povera Rosalie.
 
 
«Prima di tutto formo le squadre» Emmett si sentiva sempre il capitano della situazione, anche quando non era in campo in divisa.
«Perché devi farlo tu?» gli domandai.
«Perché sono il più grande».
«Sempre il solito bullo» lo canzonai facendo ridere il resto della compagnia.
«Non possiamo continuare a giocare in coppie?» propose Alice.
«No, no, no. I secchioni li devo separare, non possono stare nella stessa squadra» ghignò guardando me e Bella.
«Ehi!» protestai offeso. Bella mi accarezzò un braccio e mi sussurrò «ha ragione».
La serata stava andando benissimo: avevamo giocato a Trivial pursuit e io Bella avevamo stravinto. Eravamo bravissimi, eravamo una squadra perfetta anche nei giochi. Io ero fortissimo in storia, geografia e sport e me la cavavo discretamente anche in scienze. Lei era una bomba. A parte la categoria hobby e sport – avevo scoperto che non era molto sportiva, ma potevamo lavorarci su – le sapeva davvero tutte.
Avevamo deciso di passare a Wit’s end, avremmo giocato sempre divisi in squadre per renderlo più divertente, ma a Emmett non piaceva evidentemente la divisione in coppie.
«Potremmo estrarre a sorte» propose Jasper.
«Oppure potremmo fare maschi contro femmine» intervenne Alice.
«Ottima idea» commentò Rosalie.
«Potremmo cambiare genere di gioco» disse Bella, attirando l’attenzione di Emmett.
«Cosa proponi?» le chiese con evidente interesse.
«Poker?» propose lei con l’aria di chi la sa lunga.
«Mi piaci, ragazza» disse Emmett facendole l’occhiolino.
Erano rimasti solo lui e Bella al tavolo. Lei era davvero bravissima, non avevo mai visto nessuno tenere testa a Emmett in quel modo. Rosalie era uscita per prima, seguita da Alice e da me. Jasper era stato l’ultimo a uscire dal gioco. Eravamo tutti sul balcone, perché la stavano tirando davvero per le lunghe. Credevo che non ce ne saremmo andati più via.
«Emmett ha trovato pane per i suoi denti stasera» sghignazzò Jasper. Emmett era in evidente difficoltà, Bella era proprio brava.
«Eh, già» risposi io, guardandola adorante. Ero così orgoglioso di essere l’uomo che aveva scelto.
«Edward, devo dirtelo: siete proprio belli insieme, sembra che vi parlate solo con lo sguardo eppure state insieme da così poco!» Alice mi accarezzò un braccio e le sorrisi per ringraziarla.
Era vero, avevamo una fortissima intesa. L’avevamo avuta da subito.
«Dovremmo rientrare, credo che Emmett stia per chiudere» disse Jasper che stava studiando con attenzione attraverso il vetro del balcone le espressioni dei due. Bella era indecifrabile, una vera e propria faccia da poker. Emmett era abbastanza bravo a non far trasparire nulla, ma lo conoscevamo e sapevamo riconoscere i piccoli segni sul suo viso che indicavano delle buone carte.
«Rose, ti avviso: se non vince, sarà insopportabile. Emmett odia perdere» sghignazzai e mi beccai un’occhiataccia di Rosalie.
Rientrammo giusto in tempo per assistere all’ultima abilissima mossa con la quale Bella vinse, lasciando Emmett sbalordito. Era convinto che avrebbe chiuso lui. Lo eravamo tutti.
«Non smetti mai di stupirmi» le sussurrai nell’orecchio e lei mi accarezzò una guancia, rivolgendomi un caloroso sorriso. Le piaceva vincere, si vedeva.
«Cavolo, è proprio un peccato che non sei con noi a Capodanno. Avremmo fatto grandi cose» le disse Emmett stringendole la mano per complimentarsi. Sembrava averla presa quasi sportivamente la sconfitta.
«Che fate a Capodanno, organizzate delle bische clandestine?» domandò allegra scatenando l’ilarità di Emmett.
«Tornei in famiglia. Nostro cugino Seth ha lavorato per un periodo in un casinò di Las Vegas, porta lui un set da gioco professionale che ha comprato lì. Dovresti vederlo, lo adoreresti» le disse pieno di entusiasmo. Bella aveva conquistato anche lui.
«Non mancherà occasione» replicò sorridendo e mettendogli una mano sul braccio.
«Ma dove hai imparato a giocare così?» le chiese Jasper.
«In Italia» rispose lei serafica e quando incrociò il mio sguardo, mi sorrise. Sapevo che mi avrebbe raccontato anche questa storia. Mi avvicinai a lei e le cinsi i fianchi con le braccia.
«Che dici, andiamo?» annuì.
Si era fatto decisamente tardi. Era arrivato il momento dei saluti. Alice abbracciò Bella come se fossero state amiche da una vita e le augurò di fare un buon viaggio e una buona permanenza a New York. Dopo un breve attimo di titubanza, perché era stata colta alla sprovvista, Bella ricambiò l’abbraccio.
«Grazie mille per la vostra ospitalità, è stata una piacevolissima serata» Bella strinse la mano a Jasper.
«È stato un piacere averti qui. Quando tornerete da New York, dovrai dare la rivincita a Emmett» entrambi scoppiarono a ridere. Emmett per fortuna non li aveva sentiti perché era già nelle scale.
Eravamo rimasti con Rosalie ed Emmett davanti al portone d’ingresso. Bella e Rosalie si abbracciarono, Rosalie era molto felice quella sera. Emmett stritolò Bella in un abbraccio, temevo l’avrebbe soffocata. Bella non era minuta, ma tra le braccia di Emmett sembrava piccolissima. Mio fratello era un colosso.
Le disse qualcosa nell’orecchio, lei gli rispose qualcosa che non riuscii a percepire, la vidi solo annuire e poi sorridergli.
«Buonanotte, ragazzi» li salutai agitando la mano.
«’notte, Teddy».
«Teddy?» Bella si voltò verso di me, trattenendo una risatina. Emmett rideva senza vergogna e aveva contagiato anche Rosalie. Lo fulminai con lo sguardo.
«Posso chiamarti anch’io così?» mi domandò Bella divertita.
«No», risposi perentorio, continuando a guardare di traverso mio fratello. Bella mi accarezzò una guancia e mi colse di sorpresa con un bacio. Eravamo ancora davanti a Rosalie ed Emmett, non pensavo si sarebbe lasciata andare così tanto. Non smetteva davvero mai di stupirmi. Poi mi prese per mano e andammo verso la sua auto.
«Lo sapevo che fino alla fine avrebbe detto qualcosa di imbarazzante» borbottai mentre agganciavo la cintura di sicurezza.
«Oh, Edward, non te la prendere. È un diminutivo così tenero» mi disse.
«Sì, per un bambino, forse».
«Ti chiamava così quando eravate bambini?» annuii.
«Aveva due anni quando sono nato e aveva qualche difficoltà a pronunciare il mio nome intero, così lui e i miei genitori hanno preso questa abitudine di chiamarmi Teddy, come l’orsetto che lui mi aveva regalato quando sono nato. I miei per fortuna hanno smesso quasi subito di chiamarmi così, lo fa solo lui quando siamo soli. Di solito» ero ancora nervoso.
Bella allungò una mano per accarezzare il dorso della mia che tenevo sul ginocchio.
«È bello che sia rimasto questo rapporto di affettuosa complicità tra di voi. Non ti arrabbiare, anche se ti ha chiamato così di proposito, lo ha fatto perché ti vuole bene e sapeva che era in una zona sicura con me e Rosalie presenti. Mi piace conoscere questi aspetti della tua vita prima di me» confessò, mentre parcheggiava davanti casa mia. Riusciva sempre a farmi vedere le cose nella giusta prospettiva. Sospirai e le sue parole mi calmarono come un balsamo.
Era davvero tardi e la strada stava iniziando a gelare, così la salutai e le ricordai di guidare con prudenza. Sarebbe venuta a pranzo a casa mia il giorno seguente, così le avrei finalmente mostrato il mio appartamento.
 
 
Era arrivata molto prima dell’ora di pranzo, per fortuna, così avremmo avuto più tempo da trascorrere insieme. Dopo averle mostrato il mio appartamento, la feci accomodare su uno degli sgabelli su cui facevo colazione in cucina. Mi piaceva oltre misura averla lì con me, nel mio ambiente.
«Ti va un caffè o preferisci qualcos’altro? Magari un tè, una tisana o addirittura cioccolata calda».
«Vedo che qualcuno ha iniziato a prenderci gusto adesso che ha una macchina per le capsule. Sapevo che prima o poi ti sarebbe servita» disse allegra indicando la macchina che avevamo usato durante il nostro weekend nel magazzino. Non potevamo di certo lasciarla lì, dopo averla usata non poteva essere venduta, e Bella aveva insistito affinché la prendessi io.
«Eh sì, lo sconto riservato ai dipendenti della mia azienda è vantaggioso» mormorai sporgendomi sul piano dell’isola per avvicinarmi al suo viso.
«Sapevo che prima o poi lo avresti apprezzato e ne avresti fatto buon uso» sussurrò e mi chinai per darle un bacio.
«Ti ho già detto che mi piace da morire come ti sta questa tonalità di verde?» mormorai mentre le baciavo il collo.
«Potresti averlo accennato» mugolò e ridacchiai.
«Ho notato che ultimamente indossi spesso questo colore» la stuzzicai.
«Mi ricorda il colore dei tuoi occhi» rispose lei con dolcezza e come al solito mi sciolsi dentro.
 
 
Aveva voluto che le mostrassi la mia collezione di Swatch. Ci sedemmo sul letto e le raccontai la storia di ogni singolo pezzo. Mi ascoltò piena di interesse e, quando terminai, si fermò ad accarezzare con delicatezza quello giallo che avevo indossato il mio primo giorno di lavoro e la vidi sorridere, persa nei suoi pensieri.
Poi andò a prendere un pacchetto nella sua borsa e me lo porse.
«Cos’è?» le domandai.
«Aprilo» rispose.
C’era dentro uno Swatch con un cinturino nero, la cassa verde e una tazzina fumante sul quadrante. Era bellissimo.
«Ho pensato che questo sicuramente mancava nella tua collezione, visto che il caffè non ti piace, però, magari, visto che piace a me, quando lo indosserai, penserai a me. Sono curiosa di sapere quale giorno della settimana gli assegnerai e in quale stagione lo indosserai. Io credo possa andare bene tutto l’anno, visto che è nero» mi disse sorridendo.
Lasciai l’orologio sul letto, insieme agli altri, le presi il viso tra le mani e la baciai con urgenza. Rispose al mio bacio e infilò le mani tra i miei capelli. Mi faceva impazzire quando li stringeva tra le mani.
«Lo indosserò tutto l’anno, tutti i giorni dell’anno, perché è come te e mi starà bene sempre. È bellissimo, grazie» sussurrai, tra un bacio e l’altro. Sentii le sue labbra curvarsi in un sorriso.
«Oh, no ti prego, non modificare la tua routine a causa mia: quando l’ho visto, ti ho pensato e volevo lasciarti qualcosa che mi rappresentasse in qualche modo, prima di partire» mi disse accarezzandomi il viso.
«Allora lo indosserò tutti i giorni in cui io e te saremo lontani e quando saremo di nuovo insieme, sarà l’orologio del sabato» affermai e la vidi annuire soddisfatta della mia decisione.
Lo indossai e poi guardai il certificato all’interno della confezione.
«1993… le collezioni degli anni ’90 sono le più belle. Ma come sei riuscita a trovarlo? È quasi impossibile recuperare pezzi nuovi di quegli anni» le domandai incredulo.
«Ho le mie risorse» mi sorrise enigmatica.
Presi quello giallo e glielo diedi.
«Voglio che lo porti con te» le dissi.
«No, non posso accettare, Edward. È troppo prezioso per te, come ogni pezzo di questa collezione» mi rispose gentile.
«Ho visto come lo guardavi prima» le accarezzai la mascella con l’indice e mi sorrise.
«So che significa qualcosa per te, voglio che lo prendi. Sicuramente non lo potrai indossare quando lavorerai, ma la sera o nelle giornate libere, sarà come avere un pezzo di me lì con te, in attesa che arrivi il pacchetto completo» le feci l’occhiolino e mi sorrise.
«Lo prendo in prestito, allora. Te lo restituirò quando arriverai a New York».
«Affare fatto» le strinsi la mano e poi la tirai verso di me per baciarla.
 
 
Accompagnarla in aeroporto il giorno seguente e vederla sparire oltre i tornelli fu triste e difficile. Cercai di farmi coraggio e di non pensare a quei dieci giorni solo come al periodo in cui saremmo stati lontani: solo un’altra settimana di lavoro, poi qualche giorno dai miei a Chicago e poi, finalmente, l'avrei raggiunta a New York.



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Annuncio in anteprima una sorpresa: ho iniziato a scrivere questa storia dal punto di vista di Bella. Per il momento, ho scritto il primo capitolo che copre i primi due di Espresso. Non ho ancora deciso se la pubblicherò come una storia a sé o se saranno soltanto degli extra di questa qui. Che ne dite? Suggerimenti?


L'orologio che Bella regala a Edward è questo qui:

























Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Alla prossima, un bacione!

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Capitolo 12
*** Capitolo XII - Le feste ***


«Avevi ragione: il delirio per il Black Friday non era niente rispetto a questo» mormorai esausto e Jasper annuì. Avevamo la stessa espressione distrutta, per fortuna era il 21 dicembre, l’ultimo giorno prima delle tanto sospirate vacanze natalizie. Ero riuscito a sopravvivere, totalmente sommerso dal lavoro, alla mia prima settimana lontano da Bella. La sentivo tutte le mattine prima di andare al lavoro e la sera facevamo una videochiamata su Skype, spesso mentre cenavamo.
Faceva male da morire stare lontani e non ci dicevamo tanto spesso quanto sentissimo la mancanza l’uno dell’altro; era dura stare separati e lo sapevamo entrambi, non avevamo bisogno di ripetercelo in continuazione. Quando ci sentivamo, cercavamo sempre di stare allegri e di parlare di altro; lo facevamo entrambi con la stessa intenzione: non peggiorare lo stato d’animo dell’altro.
Mi ero maledetto mille volte in quella settimana per aver acquistato dei biglietti non rimborsabili per Chicago – dannate promozioni a tradimento del black Friday – e i prezzi dei pochi posti rimasti da Boston a New York erano schizzati alle stelle. Certo, avrei potuto prendere l’autobus e raggiungerla, in fondo erano solo quattro ore. Il problema era che lei non voleva assolutamente che cambiassi i miei piani e che non andassi a Natale dai miei a Chicago per raggiungerla prima a New York.
Avevamo quasi litigato una sera per questo motivo e faceva già troppo male stare lontani, non c’era bisogno di aggiungere altro dolore. Inoltre, doversi chiarire a distanza, senza poter aver un contatto fisico, era davvero frustrante.
Avevo cercato altre soluzioni e l’avevo invitata per Natale dai miei, ma i voli da New York a Chicago per la Vigilia di Natale – perché fino al 23 doveva lavorare – erano già tutti pieni e anche i posti per il ritorno, il 26, quando sarei partito io, erano quasi tutti esauriti.
Eravamo destinati a trascorrere il Natale separati e mi faceva sentire il cuore a pezzi sapere che sarebbe stata da sola a New York il giorno di Natale.
Sapevo che non le importava granché delle feste, neanche a me importava molto a dirla tutta, ma quell’anno, con la sua presenza nella mia vita, Natale sembrava un giorno speciale e non mi piaceva l’idea di trascorrerlo separato da lei; ancora meno mi piaceva sapere che l’avrebbe trascorso da sola in una grande città.
Guardai l’ora e un sorriso spuntò sul mio viso alla vista dell’orologio che mi aveva regalato. Non lo toglievo mai, solo quando facevo la doccia. Lo indossavo anche quando dormivo.
Mancavano dieci minuti alle sei, non vedevo l’ora di staccare e andare a casa. Volevo vederla, anche se solo attraverso lo schermo del computer.


«Com’è andata oggi? Sembri esausto» mi disse dolce.
«È andata» le sorrisi.
«La tua valigia è pronta?»
«Quasi… devo solo sistemare il completo e la camicia per l’inaugurazione. Ah, e le scarpe!» me ne ricordai proprio in quel momento.
«Mi basta solo un completo, sì?» le domandai e annuì sorridendo.
«Per voi assistenti il dress code è richiesto solo per l’evento inaugurale. Per noi quasi tutti i giorni» sollevò gli occhi al cielo e la sua espressione mi fece tenerezza.
Non aveva imposto un dress code a Boston e capivo sempre di più le sue ragioni. Era uno dei tanti motivi per cui era così apprezzata tra i membri dello staff.
«Mi dispiace, tesoro» le dissi e fece spallucce con un mezzo sorriso sulle labbra.
Dio, quanto mi mancava baciarla.
La salutai dopo solo mezz’ora, perché avevo l’aereo per Chicago alle 22 e dovevo sistemare le ultime cose.
«Chiamami quando arrivi a casa» mi disse.
«Certo» la rassicurai sorridendole.
Fortunatamente i miei genitori abitavano in un bel quartiere poco distante dall’aeroporto: il mio aereo sarebbe atterrato a mezzanotte e sarei arrivato a casa poco dopo la mezzanotte, visto che a quell’ora il traffico era inesistente.


La cena della Vigilia di Natale era stata piacevole e dopo cena eravamo andati in chiesa per assistere al concerto degli alunni di mia madre, come ogni anno.
Avevo sentito molto più di quanto potessi immaginare la mancanza di Bella. Avrei voluto averla accanto a me quella sera e non solo quella sera. La volevo accanto a me per sempre.
La distanza aveva amplificato notevolmente i miei sentimenti per lei, anziché attenuarli. Era tutto così nuovo per me che ero sempre stato piuttosto disinteressato e distaccato per queste cose sentimentali. Pensavo di non essere tagliato per un rapporto serio e maturo e invece stare con lei e pensare al nostro futuro insieme era esattamente tutto quello che volevo.
Una volta tornati a casa, ci eravamo ritirati nelle nostre rispettive camere per la notte, ma io non riuscivo proprio ad addormentarmi.
Mi rigirai nel letto mille volte, finché, ormai prossimo all’esaurimento, non decisi di alzarmi per andare a farmi un tè: di solito mi rilassava.
Dalla finestra della cucina vidi che Rosalie stava fumando sotto il porticato, seduta sul dondolo, così la raggiunsi. Una sigaretta era meglio di un tè per rilassarmi.
«Ti serve l’amica, la psicologa o la collega?» mi domandò sorridendomi.
Chissà che faccia avevo.
«Quale delle tre mi offre una sigaretta?» le chiesi.
«L’amica» mi fece l’occhiolino e mi porse il pacchetto aperto. La ringraziai e accesi la sigaretta.
Avevo smesso di fumare da dieci anni – non che fossi mai stato un gran fumatore, avevo iniziato all’università perché il mio compagno di stanza fumava e una sera, prima di un esame, ero nervoso e mi offrì una sigaretta. Da allora avevo iniziato a fumare quando ero stressato o mi trovavo in compagnia, ma avevo smesso dopo pochi anni, perché non riuscivo più a correre come dovevo quando giocavo a baseball, mi mancava il fiato.
Da quando avevo smesso di fumare, avevo preso l’abitudine di masticare bastoncini di liquirizia. Quella sera, però, avevo proprio bisogno di una sigaretta.
I primi tiri dopo tanti anni erano strani, ma piacevoli. Restammo in silenzio per un po’ a goderci la calma che si respira solo in una serata invernale. Quando vidi arrivare mia madre, per poco non mi strozzai con il fumo che avevo in bocca. Nascosi la mano con cui reggevo la sigaretta dietro la mia gamba.
Rosalie offrì anche a lei una sigaretta e iniziò a fumare. Sembrava un gesto abituale, come se fosse un loro rito serale.
Non avevo mai visto mia madre fumare, sapevo che aveva smesso prima di sposarsi. Più o meno quando aveva smesso di farsi anche la permanente. Era sempre un argomento che suscitava ilarità durante i pranzi di famiglia, quando si sfogliavano i vecchi album di fotografie.
«Mamma» la salutai. Ero al buio e seminascosto da Rosalie, non si era neanche accorta della mia presenza, tanto era presa da quella sigaretta clandestina.
«Oh, Edward… Non dire a tuo padre che sto fumando» mi disse furtiva.
«E tu non dirlo a mia madre» le risposi imitando il suo tono e mostrandole la mano sinistra con la sigaretta tra le dita.
Mi sorrise, Rosalie ridacchiò e poi restammo in silenzio tutti e tre per qualche minuto, godendoci le nostre sigarette e guardando il cielo terso sopra di noi.
«Hai ricominciato a fumare, mamma?» le domandai a un certo punto.
«No, non ho ricominciato. Mi sono sempre concessa una sigaretta nei giorni di festa, anche se non ve ne siete mai accorti, perché sono brava a nascondermi con tua zia e conosco ottimi trucchi per camuffare l’odore. Queste sigarette di oggi non sono niente rispetto a quelle che fumavamo negli anni ’70 e ’80, per fortuna anche i profumi dell’epoca erano molto più intensi di quelli che si producono oggi per via dell’utilizzo di sostanze animali, quindi riuscivamo a coprire il forte odore di fumo prima di rincasare» ci spiegò e si perse per un attimo nei suoi ricordi di adolescente.
«E poi è piacevole stare un po’ da sola con Rosalie di sera a chiacchierare, mentre voi uomini dormite» mi lanciò un’occhiataccia scherzosa.
«Scusate, vi lascio subito sole» alzai le mani e spensi la sigaretta nel posacenere. Rosalie mi accarezzò un braccio e mi sorrise.
«E tu hai ricominciato, Edward? Sei di nuovo sotto stress? È per il lavoro?» mi domandò preoccupata.
Scossi il capo.
«No, mamma, erano dieci anni che non fumavo e non credo si ripeterà» la rassicurai.
«È per Bella» disse Rosalie. Non era una domanda. Annuii sospirando.
«Le cose non vanno bene tra di voi?» continuò mia madre allarmata.
«Le cose vanno benissimo tra di noi, è solo che mi manca. Mi manca terribilmente e sono preoccupato per lei. Vorrei che lei fosse qui con noi o che io fossi lì con lei. Sapere che starà da sola a New York il giorno di Natale mi uccide…» mormorai affranto.
Rosalie e mia madre si scambiarono un’occhiata e poi mia madre si alzò, mi venne vicino e mi diede un bacio sulla testa.
«Oh, Edward, non sai quanto sono felice» la guardai di traverso.
«Io sono triste e preoccupato e tu sei felice?» le domandai. Lei ridacchiò.
«Sono felice perché non ti vedevo così sereno da tanto tempo. Sei di nuovo tu e sono sicura che il merito è di questa ragazza» mi spiegò e poi si scambiò un’occhiata d’intesa con Rosalie.
Sentii un sorriso spontaneo aprirsi sul mio viso, come accadeva ogni volta che si parlava di lei e si tessevano le sue lodi.


La mattina di Natale normalmente dormivo fino a tardi. Quella mattina avevo particolarmente sonno, visto che mi ero addormentato molto tardi, ma qualcuno aveva deciso di scombinare i miei piani.
«Emmett» borbottai con la voce impastata dal sonno. Controllai l’ora sull’orologio: erano le sette e trenta. Ma che voleva da me a quell’ora?
«Teddy, ci si è fermata la macchina. Siamo usciti per fare colazione fuori stamattina, ma siamo rimasti a piedi. Non è che puoi venire a prenderci con la macchina di mamma?»
«Ma non puoi chiamare papà? Io vorrei dormire ancora un po’» piagnucolai.
«Dai, su, fatti una doccia, vestiti e vieni tu. Non voglio che papà sappia che la macchina ha qualche problema, lo sai che considera la Giulietta una specie di figlia».
Sospirai, era vero.
«Devo portare i cavi? Che problema pensi che abbia?» gli domandai mentre mi alzavo dal letto con una certa riluttanza.
«Sì, porta i cavi, sarà sicuramente la batteria. Avevo lasciato la radio accesa mentre facevamo colazione» alzai gli occhi al cielo.
«Sei un idiota, lo sai, sì?» gli dissi.
«Beh, dai, sbrigati, non fare sempre la paternale».
Alzai gli occhi al cielo.
«Dove siete?» gli domandai.
«Siamo da Jaffa Bagels sul lungofiume» rispose.
«Arrivo, ma sappi che lo faccio solo per Rosalie» lo sentii ridere e poi chiuse la conversazione.
Feci velocemente la doccia e indossai una tuta e le scarpe da ginnastica. Andai in garage e presi l’auto di mia madre. I miei dormivano ancora, beati loro!


Una volta arrivato lì, non c’era l’ombra di Emmett e Rosalie, né dell’auto di mio padre.
Parcheggiai, scesi dall’auto e iniziai a camminare nel parcheggio semi-deserto.
Ma chi cavolo andava a mangiare i bagels sul lungofiume alle sette della mattina di Natale? Solo a Emmett poteva venire in mente un’idea del genere.
Proprio mentre mi stavo dirigendo verso l’ingresso della galleria in cui si trovava il locale squillò il mio telefono.
«Oh, ma dove sei?» risposi stizzito. Avevo sonno.
«Proprio dietro di te».
Sgranai gli occhi. Non era la voce di Emmett.
Mi voltai e il mio sguardo incredulo la fece ridere mentre rimetteva nella tasca del piumino lo smartphone di mio fratello e allargava le braccia in un invito che non avrei mai potuto rifiutare. Dovetti strofinarmi gli occhi più volte prima di realizzare che era davvero lei, mentre le mie gambe, che si muovevano più velocemente del mio cervello, in tre falcate avevano annullato la distanza che ci separava.
La strinsi forte tra le mie braccia, affondando il viso nel suo collo.
«Amore mio» sussurrai, mentre respiravo forte il suo profumo e le lasciavo piccoli baci sul collo.
«Sei davvero qui? Non sto sognando? Non mi svegliare se sto ancora dormendo» dissi e la feci ridere.
«Sono qui» mi rispose lei sgusciando fuori dal mio abbraccio per guardarmi negli occhi.
«Mi dispiace per averti fatto svegliare presto, ma volevo farti una sorpresa» mi disse sorridendo, mentre mi accarezzava il viso.
Lei si scusava con me per avermi fatto svegliare alle sette e trenta, quando come minimo si era svegliata alle quattro per prendere il primo volo da New York. Scossi il capo e le sorrisi.
Le presi il viso tra le mani e premetti le mie labbra contro le sue: mi sentii finalmente bene, anche se il cuore mi martellava così forte nel petto che temevo potesse venirmi un infarto.
Non riuscivo a staccarmi dalle sue labbra, non volevo allontanarmi da lei per nessun motivo, ma Emmett e Rosalie ci avevano raggiunti e, per puro senso di civiltà, fummo costretti a interrompere il nostro bacio. La tenni stretta contro di me, con le braccia incrociate strette intorno alla sua vita, mentre lei chiacchierava amabilmente con Rosalie ed Emmett. Io ero ancora così frastornato da non riuscire a cogliere tutti i passaggi della loro conversazione.
«Grazie, Emmett» Bella restituì a mio fratello il suo telefono.
«È sempre un piacere» le rispose lui affabile.
«Noi andiamo a casa, devo riportare la macchina a papà. Voi fate con calma, ci vediamo dopo» Emmett mi fece l’occhiolino e Rosalie ci sorrise.
Bella si voltò di nuovo verso di me e mi diede un bacio.
«Non saranno buoni come quelli di New York, ma dici che possiamo dargli una chance? Tuo fratello mi ha assicurato che sono i migliori di Chicago e immagino che neanche tu abbia ancora fatto colazione» sussurrò allontanandosi da me e prendendomi per mano. La tirai di nuovo vicino a me per baciarla ancora e sentii le sue mani tra i miei capelli. Mi era mancata da morire.


Sebbene non ancora sazi di baci, entrammo nel bagel shop per fare colazione e mi raccontò che aveva deciso di raggiugermi per il giorno di Natale la sera in cui l’avevo invitata a casa dei miei e ci eravamo resi conto che era impossibile riuscire a trovare posto sui voli. Le era venuto in mente, quando avevamo chiuso, che sarebbe potuta partire la mattina di Natale: in effetti, quasi nessuno partiva proprio in quel giorno e c’erano ancora parecchi posti disponibili. Ci teneva, però, a farmi una sorpresa e con l’aiuto di Rosalie ed Emmett ci era riuscita.
«Io volevo raggiungervi direttamente a casa in taxi, ma tuo fratello è stato irremovibile ed è venuto a prendermi in aeroporto. Mi ha ricordato tanto qualcuno» mi disse facendomi l’occhiolino.
«Noi Cullen siamo cavalieri» le dissi prendendole la mano e portandola alle labbra con fare cavalleresco.
«Lo siete davvero» mi sorrise e si sporse in avanti per darmi un tenero bacio.
«In realtà, non volevo neanche presentarmi a casa tua e disturbare i tuoi genitori. La mia idea iniziale era quella di chiamarti una volta qui, pranzare insieme da qualche parte e poi ripartire subito dopo; ma tuo fratello mi ha detto che se vostra madre avesse scoperto una cosa del genere, vi avrebbe uccisi» ridacchiò.
«È vero. Conoscendo mia madre, se le avessimo fatto una cosa del genere, se la sarebbe presa a morte» ridacchiai anche io.
«Allora ti fermi fino a domani? Partiamo insieme?» le chiesi speranzoso.
«No, tesoro, riparto stasera. Non c’erano posti liberi per domani nel tuo stesso volo, come avevamo già visto, ce n’era ancora qualcuno sul volo precedente, ma non mi sembrava il caso di dormire a casa dei tuoi genitori subito dopo averli incontrati. Avrei potuto prendere una stanza in un hotel, ma anche in quel caso, credo che avrei urtato la sensibilità di più di un Cullen, così ho deciso di fare andata e ritorno nello stesso giorno» mi spiegò.
La mia dolce e sempre troppo scrupolosa e corretta Bella.
«Allora cambio il mio biglietto e parto con te stasera» le dissi deciso.
«No, Edward» mi mise due dita sulle labbra per fermare le proteste che sapeva sarebbero arrivate.
«Abbiamo resistito lontani per dieci giorni, possiamo farcela per un’altra mezza giornata. Godiamoci questo giorno insieme, trascorri un’altra mezza giornata di festa con la tua famiglia – Emmett mi ha raccontato della vostra abituale escursione della mattina di Santo Stefano – e poi avremo ben quindici giorni per noi da soli a New York» mi sorrise.
«Non mi piace vederti partire» mormorai.
«Lo so, amore, non piace neanche a me» mi accarezzò una guancia e le sorrisi.
Dopo colazione, passeggiammo per il lungofiume e le mostrai alcune delle vedute più spettacolari di Chicago, anche se lo spettacolo più bello era lei che camminava al mio fianco, con la sua mano intrecciata saldamente alla mia.


Quando arrivammo a casa era già quasi ora di pranzo: i miei genitori accolsero Bella con un affetto e un calore che quasi mi commosse.
Non avevo mai portato nessuna delle ragazze che avevo frequentato a casa mia neanche per un caffè, figuriamoci per il pranzo del giorno di Natale. C’era un tacito accordo che i miei genitori avevano fatto con me e con Emmett: eravamo stati sempre liberi di frequentare chiunque volessimo, non si erano mai intromessi nella nostra vita privata o nelle nostre scelte. Però, nel momento in cui avremmo portato in casa una ragazza, sarebbe stata una ragazza con cui avevamo intenzioni serie, non un’avventura passeggera.
Com’era prevedibile, i miei genitori rimasero affascinati da Bella e anche lei era molto presa da entrambi.
Mia madre probabilmente l’avrebbe adorata anche se non fosse stata così adorabile, perché era felice che avessi finalmente una persona così speciale nella mia vita, una persona per cui mi preoccupavo e che mi rendeva felice, una persona che mi aveva restituito una parte di me che credevo di aver perso.
Aveva portato una scatola di costosissimi cioccolatini svizzeri che aveva comprato da Teuscher al Rockefeller Center – perché non era cortese presentarsi a mani vuote a casa delle persone –, e si era scusata se non aveva potuto portare dei regali per Natale, ma non aveva potuto imbarcare nulla oltre al bagaglio a mano.
I miei l’avevano ringraziata, dicendole che si era disturbata fin troppo e che il regalo più bello che potesse fare loro era la sua presenza. Io l’avevo baciata davanti a loro, facendola arrossire. La adoravo.
Mia madre gongolava ogni volta che ci guardava.
Era il Natale più bello della mia vita.


Durante il pranzo, mia madre stava raccontando della sua mattinata trascorsa a casa di sua sorella Elisabeth.
«C’erano anche Claire e suo marito. Lo sapete che Claire è incinta?» aveva detto con un tono fin troppo allegro. Sperai che non avesse intenzione di lanciare qualche frecciatina. Intercettai lo sguardo di mio fratello che era seduto di fronte a me e vidi nei suoi occhi i miei stessi timori.
«Di già? Ma se si è sposata l’altro ieri» disse Emmett quasi inorridito.
«Si è sposata a ottobre e poi cosa dovevano aspettare?» replicò mia madre.
«Bah, si potevano godere un po’ di più i primi mesi da neosposi» continuò Emmett.
Mia madre lo liquidò con un gesto della mano.
«Neanche io e tuo padre abbiamo aspettato per avere dei figli» disse.
«E infatti siete stati puniti con Emmett per non aver aspettato» esclamai scatenando l’ilarità generale e beccandomi una linguaccia da mio fratello.
«Posso farle una domanda, Esme?» intervenne Bella, quando le risate si erano esaurite.
«Solo se mi dai del tu» rispose mia madre. Bella le sorrise.
«Sono solo curiosa di sapere come mai hai scelto per i tuoi figli dei nomi un po’ insoliti, anche se molto belli. Non ho mai conosciuto dei miei coetanei che si chiamassero Emmett o Edward. Spero non sia una domanda indiscreta» le disse gentile e mia madre le sorrise, scuotendo il capo.
Le presi la mano sotto al tavolo e lei me la strinse. Questa storia ero curioso di sentirla anch’io, non avevo mai pensato di chiedere a mia madre come mai mi chiamassi Edward e dubitavo che una curiosità del genere avesse mai sfiorato la mente di mio fratello. Bella era sempre sorprendente.
«Quando ci siamo sposati, abbiamo deciso che i nomi dei nostri figli avrebbero avuto tutti la stessa iniziale. Quando rimasi incinta, estraemmo a sorte e uscì la lettera E, la stessa iniziale del mio nome. Io volevo estrarne un’altra, perché non mi sembrava giusto nei confronti di mio marito, ma a Carlisle non importava» dedicò un caloroso sorriso a mio padre che era seduto a capotavola di fronte a lei.
«I nomi femminili con la E sono tutti stupendi, quelli maschili un po’ meno. Non avrei mai potuto chiamare uno dei miei figli Eric o Ethan e a Carlisle non piacevano i nomi biblici, come Elijah o Ezekiel. Avevamo pensato al nome Emma, se fosse stata una bambina, ma scoprimmo presto di aspettare un maschietto e così optammo per la variante maschile di Emma» le spiegò.
«E per Edward?» continuò Bella curiosa girandosi verso di me. Le accarezzai il dorso della mano con il pollice e le sorrisi.
«Stavo rileggendo Ragione e sentimento quando, circa un anno e mezzo dopo la nascita di Emmett, mi resi conto di essere di nuovo incinta. Edward deve il suo nome a uno dei protagonisti del romanzo» mia madre mi sorrise e Bella mi strinse la mano.
«Anche Emma era per Jane Austen?» le domandò Bella, quasi sicura di conoscere già la risposta.
Mia madre annuì sorridendo. Non aveva mai condiviso questa storia con noi.
Aveva una strana luce negli occhi mentre guardava Bella. Era rimasta davvero molto colpita da lei, ma non ero stupito per niente: Bella era brillante e chiunque la conosceva restava affascinato dalla sua personalità e dalla sua grazia.
«Non ce lo avevi mai detto» intervenne Emmett con tono quasi accusatorio.
«Voi non me lo avete mai chiesto» rispose mia madre, facendo l’occhiolino a Bella. Mi avvicinai di più a lei, le misi un braccio intorno alle spalle e le baciai una tempia. Si voltò verso di me e mi regalò un timido ma caloroso sorriso.
«Quindi, ho dovuto sopportare per trentatré anni di essere chiamato Teddy e nessuno ha mai pensato di dirmi che potevo prendere in giro Emmett perché il suo nome doveva essere Emma?» ghignai.
Bella ridacchiò, seguita da Rosalie. Emmett mi guardò malissimo.
«Se non fosse stato per te, non avrei mai avuto questa arma in mio potere. Ti sono debitore a vita» le dissi, facendole un mezzo inchino da seduto.
«Oh, andiamo, in fondo Teddy è un diminutivo di Edward ed è anche molto carino» intervenne mio padre.
«Ah sì, rispetto a Emma, Teddy è quasi un nome serio» sghignazzai mentre Emmett mi guardava di traverso.


Dopo pranzo ci spostammo in salotto per bere il caffè e per mangiare i deliziosi cioccolatini che aveva portato Bella. I tartufi erano paradisiaci.
Mia madre sparì a un certo punto per poi ritornare con una piccola confezione rettangolare da cui tirò fuori uno smartwatch.
«Mi aiutate per favore a metterlo in funzione? Vorrei iniziare a usarlo domani, durante la nostra escursione» ci spiegò.
Mia madre era la tipica persona che puntualmente il due gennaio si metteva a dieta e iniziava a fare attività fisica, salvo poi ripensarci dopo una settimana. Quest’anno aveva addirittura comprato l’armatura pesante.
Io e Emmett ci guardammo e scoppiammo a ridere. Rosalie tirò una gomitata nelle costole di Emmett per farlo smettere, Bella si limitò a guardarmi male.
Ci alzammo dai divani e scaricammo l’applicazione sul suo smartphone.
«Mamma, lo sai che con questo puoi anche misurarti la pressione e il battito cardiaco?»
Mio padre che stava chiacchierando con Bella e Rosalie si girò verso di noi e disse: «È impossibile che la misurazione sia precisa».
«E invece ti dico di sì» replicò Emmett.
«Facciamo una prova» tentai di mediare. Li convinsi. Mio padre andò nel suo studio a prendere lo sfigmomanometro, mentre Emmett mise subito in funzione lo smartwatch, allacciandolo al polso di mia madre che li guardava allibita. Non pensava di certo che avrebbe scatenato tutto quel casino con un semplice orologio.
«Dovremmo misurarla dallo stesso braccio per essere precisi» disse mio padre.
E così infilò il manicotto al braccio sinistro di mia madre che lo fulminò con lo sguardo, ma non proferì parola, perché c’erano le ragazze e non voleva fare una brutta figura; Emmett fece partire lo smartwatch nello stesso istante in cui mio padre iniziò a premere la pompetta. Io, intanto, ero stato incaricato di prenderle il polso dall’altro lato perché tutti e tre dallo stesso lato non ci entravamo per motivi di spazio fisico. Bella e Rosalie si godevano la scena dal divano, divertite.
«85/138 e 113 il battito» disse Emmett.
«80/140» dovette arrendersi mio padre.
«110 la frequenza. Sei un po’ agitata, mamma?» le domandai e mi guardò di traverso.
«Avete finito di giocare all’allegro chirurgo con me?» disse con una certa minacciosità nella voce spostando lo sguardo su tutti e tre.
Ci allontanammo immediatamente da lei. Le ragazze erano decisamente divertite e la raggiunsero in cucina, neanche le avesse chiamate. Quando se ne andarono, scoppiamo tutti e tre a ridere.


«Mi dispiace perdermi il concerto stasera» disse Bella a mia madre, mentre la salutava. Mia madre insegnava canto in due scuole e, da che avevo memoria, sia la sera del 24 che la sera del 25 c’era un concerto in qualche chiesa a cui dovevamo assistere.
«Dispiace anche a me, tesoro. Sono davvero tanto, tanto felice di averti finalmente potuto conoscere» le sorrise e la strinse in un affettuoso abbraccio che Bella ricambiò.
«Fa’ buon viaggio e abbi cura di te. Spero di rivederti presto» le baciò entrambe le guance e poi la lasciò libera di salutare mio padre.
«Grazie per essere venuta, Bella, questa giornata non sarebbe stata la stessa senza di te» mio padre le prese entrambe le mani e gliene baciò galantemente una.
La vidi arrossire e ridacchiai. Mi guardò di traverso sorridendo. Le baciai la testa e la abbracciai da dietro, mentre guardavamo i miei familiari uscire dalla porta.
Eravamo finalmente soli.


Le mostrai la casa, perché prima non c’era stato tempo di farlo.
«Questa è la mia stanza» le feci strada nella mia camera che era cambiata ben poco nel corso degli anni.
«Sei la prima e l’unica ragazza che abbia mai messo piede qui dentro» le bisbigliai nell’orecchio mentre guardava le foto che mi ritraevano da bambino appese su una bacheca.
«Ne sono onorata» mi rispose, voltandosi verso di me.
«Anche per me oggi è stata la prima volta che ho conosciuto i genitori di qualcuno che frequento, devo confessarti che ero un po’ agitata…» ammise arrossendo. Era così bella.
«I miei ti adoravano da prima ancora di conoscerti», le dissi, baciandole la fronte, «chiunque ti conosce, finisce per adorarti. Tu conquisti tutti, mia dolcissima e brillante fanciulla» scesi con la mia bocca sulle sue labbra e la trascinai sul letto insieme a me.
Non mi sembrava ancora vero che fosse tra le mie braccia, sul mio letto, nella mia stanza.
Continuai a depositarle piccoli baci su tutto il viso, finché non mi sdraiai di fronte a lei e restammo fermi a guardarci negli occhi, senza parlare per qualche minuto. Era un gesto molto intimo. Non avevamo bisogno di parole in quel momento, volevamo restare lì a guardarci, a sfiorarci, ad annusarci e a respirarci a vicenda perché in dieci giorni avevamo abbondantemente parlato, ma non eravamo potuti stare vicini fisicamente.
«Sai, c’è un'espressione brasiliana quasi intraducibile per questo gesto» mi disse, mentre faceva scorrere dolcemente le sue dita tra i miei capelli, «Cafuné. Credo sia la parola più bella del mondo, anche se suona un po’ male e in italiano mi ricorda una parola non tanto bella» fece una smorfia che le arricciò il naso e mi sorrise. Le baciai delicatamente la punta del naso e appoggiai la fronte alla sua.
Mi mise una mano sul collo e dalla manica sbucò fuori il mio Swatch giallo. Sorrisi e presi ad accarezzarle il polso.
«Non lo tolgo quasi mai» confessò.
«Neanche io» le dissi, mostrandole con orgoglio l’orologio che mi aveva regalato.
«I primi giorni non volevo indossarlo perché il retro della cassa aveva ancora il tuo profumo. Adesso, credo si sia mescolato un po’ al mio, perché lo sento molto più tenue. O forse l’ho annusato così tanto che ne sono assuefatta» ridacchiò, nascondendo la testa nell’incavo del mio collo.
Le baciai la testa e la strinsi ancora più forte a me. Sentivo ogni parte del suo corpo contro il mio.
«Posso sentire?» le domandai, la mia voce era più roca di quanto credessi.
Si sfilò in silenzio l’orologio dal polso e mi mise la cassa sotto al naso.
«Mi piace come si mescolano le nostre fragranze, sa di me e di te» mormorai annusando i nostri profumi che erano stati assorbiti dalla cassa dell’orologio e che avevano creato una fragranza che sapeva di entrambi.
«Piace anche a me» mi disse, sfiorandomi le labbra con le sue.


L’orario della sua partenza purtroppo arrivò fin troppo presto. La accompagnai in aeroporto e la baciai a lungo, l’aeroporto era semideserto, ma non me ne sarebbe importato comunque niente.
«Conterò i minuti che ci separano» mormorai appoggiando la mia fronte alla sua.
Mi diede un ultimo bacio e poi sparì di nuovo dietro quei maledetti tornelli.


Il mattino seguente io e la mia famiglia ci svegliammo di buon mattino per andare a fare l’escursione che facevamo ogni anno in un parco della città.
«Dai, su, aumentiamo il passo!» Emmett ovviamente faceva il coach anche quando era in vacanza.
Io e mio padre riuscivamo a stargli dietro, mia madre e Rosalie annaspavano a qualche metro di distanza.
«Io lo ammazzo» sentii mormorare mia madre a un certo punto, mentre Rosalie ridacchiava.
«Dai, dai! Quest’anno ti sei addirittura armata di smartwatch» la prese in giro mentre correva all’indietro rivolto verso nostra madre.
«Guarda dove metti i piedi, Emmett» lo rimproverò mio padre che rallentò un po’ l’andatura per camminare con mia madre e Rosalie. Io e Emmett, invece, iniziammo a correre.
«Sono fuori allenamento» mormorai senza fiato. Mi facevano male tutti i muscoli delle gambe.
«Dai, Teddy, ti devo rimettere in forma per Capodanno» mi fece l’occhiolino. Alzai gli occhi al cielo.
Immaginavo, anzi, speravo che lì da soli per quindici giorni avremmo approfondito il nostro rapporto. Per Capodanno avevo organizzato una cena romantica in un attico di Manhattan di proprietà di un mio vecchio amico newyorkese. Ci eravamo conosciuti in redazione e sapevo che possedeva un attico con una vista spettacolare sulla città. Non lo affittava mai per Capodanno, perché temeva che la gente su di giri in quella particolare sera dell’anno potesse rovinargli l’appartamento, però lo aveva fatto come favore personale a me, dal momento che saremmo stati solo io e Bella quella sera, niente dj o festini a base di alcol. Volevo mettere New York ai suoi piedi. Avrei messo tutto il mondo ai suoi piedi, se fosse stato in mio potere.
Ci fermammo per fare un po’ di stretching.
«Mi fanno male pure i muscoli che non credevo di avere» dissi, mentre allungavo le gambe su una panchina.
Emmett ridacchiò e mi aiutò a svolgere correttamente gli esercizi.
«Non ti ho ancora ringraziato per essere andato a prendere Bella ieri in aeroporto» gli misi una mano sulla spalla.
«Sono contento che sia venuta. Lo siamo tutti» mi disse sorridendo.


Emmett mi accompagnò in aeroporto, volevo prendere un taxi, ma ci teneva ad accompagnarmi lui. Rosalie era rimasta a casa perché aveva da fare con mia madre.
«Grazie, Emmett, ci vediamo l’anno prossimo» lo abbracciai.
«Tieni» mi porse una scatolina e sgranai gli occhi. Mi ero dimenticato di metterli in valigia.
«Fatene buon uso» mi fece l’occhiolino e io feci una risatina. Era proprio tipico di mio fratello regalarmi dei preservativi in aeroporto.
«Grazie, Emma, sei la sorella che tutti vorrebbero avere» lo presi in giro e mi scansai giusto in tempo per evitare un suo pugno.
«Grazie, Emmett» dissi poi serio «sei davvero il miglior fratello del mondo» lo abbracciai.
«Neanche io posso lamentarmi di te, poteva andarmi peggio» mi diede una pacca sulla spalla.


Le inviai un messaggio per avvisarla che ero salito a bordo e spensi il telefono. Cercai di rilassarmi in quelle due ore guardando un film sul tablet, ma mi distraevo di continuo pensando al fatto che di lì a poco l’avrei riabbracciata.
Recuperai il mio bagaglio e mi avviai verso l’uscita dell’aeroporto. Mi aveva avvisato che mi stava aspettando nella waiting area. Quando la individuai in mezzo alla folla del La Guardia sentii una strana calma pervadermi. Mi stava aspettando con un enorme sorriso sulla faccia e andava tutto bene.
La abbracciai forte, poi le presi il viso tra le mani e la baciai.
Sentii a un certo punto il manico del trolley sul mio sedere. Interruppi con riluttanza il bacio e la guardai interrogativo.
«Rischiavamo che ce lo portassero via, il bacio stava durando un po’ troppo secondo gli standard della tua guida» si giustificò ridacchiando e contagiando anche me.
«Andiamo?» mi domandò. Annuii e si allungò sulle punte per darmi un bacio leggero.
Le presi la mano e afferrai il mio trolley con l’altra. Il nostro uber ci stava aspettando e conosceva già l’indirizzo dell’albergo, perché era già passato a prendere Bella prima.
Ero così preso dalla contemplazione del suo viso che non mi resi subito conto che non eravamo più nel Queens. Sapevo che lei alloggiava lì, in un albergo non troppo distante dalla nuova sede della Volturi. Forse non aveva trovato posto nello stesso albergo per me? O forse non voleva creare fraintendimenti e quindi aveva deciso di dirottarmi a Brooklyn? All’improvviso, il panico si impossessò di me.


L’auto si fermò di fronte a un albergo a quattro stelle. Superammo la reception senza fermarci per il check in. Forse aveva già fatto tutto lei, visto che aveva i dati dei miei documenti. Continuammo a camminare in silenzio mano nella mano e anche il viaggio in ascensore fu stranamente silenzioso. Lei era tranquilla, mi guardava con una strana luce negli occhi, era quasi divertita. Io ero agitato, invece.
L’ascensore si fermò all’ultimo piano, c’era solo una porta su quel piano. Mi aveva preso un monolocale?
Tirò fuori dalla borsa la chiave magnetica e aprì la porta. La infilò nel vano per azionare le luci e chiuse la porta alle nostre spalle. Non era un semplice monolocale: era una suite, una bellissima e lussuosa suite con tanto soggiorno e terrazza con vista della città. Ero incredulo e ancora perplesso.
«Te l’avevo detto che ti serviva una camera doppia» sussurrò nel mio orecchio, baciandomi sul neo che avevo sul collo e che lei trovava sexy – come mi aveva confessato nel magazzino – e provocandomi un brivido lungo tutto il corpo.



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Cafuné è un'espressione portoghese che significa "passare dolcemente le dita tra i capelli della persona amata".
Visto che alla fine sono riuscita ad accorciare un pochino la distanza? Non potevo farli stare separati il giorno di Natale.
Vi ricordate che alla fine del sesto capitolo di questa storia vi avevo detto che c'era una frase che sarebbe ricomparsa più avanti?
È l'ultima frase che pronuncia Bella in questo capitolo. Chi se ne ricordava?
Questa è la parte della guida animata di New York a cui fa riferimento Bella:



 

NYC Basic Tips and Etiquette di Nathan W. Pyle
Qui ne trovate altre, se siete curiosi.



Spero che il capitolo vi sia piaciuto, attendo come sempre le vostre impressioni.
A presto, un bacione!

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII - La camera doppia ***


«Te l’avevo detto che ti serviva una camera doppia» sussurrò nel mio orecchio, baciandomi sul neo che trovava sexy – come mi aveva confessato nel magazzino – e provocandomi un brivido lungo tutto il corpo.
Mi voltai verso di lei e vidi nei suoi occhi lo stesso desiderio che bruciava nei miei.
Le presi il viso tra le mani e incollai le mie labbra alle sue febbrilmente. Non ce l’avrei fatta a fermarmi stavolta, volevo toccarla ovunque e volevo che lei mi toccasse ovunque e volevo unirmi a lei in ogni modo possibile. La desideravo troppo. Mi sarei fermato solo se me lo avesse chiesto lei, ma dubitavo che lo avrebbe fatto.
Rispose al mio bacio con foga, afferrandomi e tirandomi i capelli e stringendomi più forte a lei, come se avessi mai potuto andare altrove.
Era un bacio famelico, diverso da quello che ci eravamo scambiati in aeroporto.
Lei mi voleva, come io volevo lei.
Forte di questa convinzione, le tirai giù la zip del piumino e lei se lo sfilò, lasciandoselo cadere ai piedi. Armeggiai con la sua sciarpa, cercando di non strozzarla e la sentii ridere nella mia bocca quando mi arresi. Si staccò un attimo da me per toglierla agevolmente in poche mosse e mi guardò così intensamente che temetti che il cuore mi sarebbe scoppiato nel petto.
Tirò giù la zip del mio piumino e mi aiutò a sfilarlo, lentamente, senza mai staccare i suoi occhi dai miei. Con le mani e le braccia finalmente libere da ingombri le presi il viso tra le mani e la baciai di nuovo, poi feci scivolare una mano sulla base della sua schiena per stringerla più forte a me. I nostri bacini si scontrarono e quando sentì quanto la desideravo tremò fra le mie braccia.
Le sue mani veloci mi avevano già sfilato la cintura dai passanti dei pantaloni e mi stavano sollevando l’orlo del maglione. La allontanai un po’ da me solo per sbottonarmi i primi bottoni della camicia e quelli dei polsini, così riuscii a sfilare in un unico gesto maglia intima, camicia e maglione.
Sorrise della mia impazienza e si avvicinò al mio petto, lasciandomi un bacio dove il mio cuore batteva come un forsennato, mentre con le mani accarezzava il mio petto e il mio addome fino ad arrivare in basso per sbottonarmi la patta dei pantaloni.
«Tu sei ancora troppo vestita» mormorai mentre le tiravo giù i jeans e mi abbassavo per afferrare l’orlo del suo maglione. Sollevò le braccia per aiutarmi e rimase davanti a me in canottiera. Il suo petto si alzava e si abbassava più velocemente del solito. Ero ipnotizzato. Le sfilai anche la canottiera e quando vidi che indossava un reggiseno di pizzo verde scuro, quella tonalità che tanto adoravo su di lei, deglutii a vuoto. Avvicinai delicatamente un dito alla sua pelle, continuando a guardarla negli occhi, chiedendo un tacito permesso che mi accordò sorridendo. Accarezzai da sopra la stoffa il suo seno con venerazione, disegnandone il profilo, senza mai smettere di guardarla negli occhi. Le sorrisi e avvicinai il mio viso al suo petto. Tracciai con il naso delle piccole linee, beandomi della fragranza delicata che emanava la sua pelle. La consistenza della sua pelle era una delle cose che insieme al suo profumo più mi facevano impazzire: era morbida e setosa, delicata. Le lasciai leggeri baci umidi su ogni parte di pelle scoperta e sentii il suo respiro accelerare e le sue mani stringere i miei capelli. Le lasciai anch’io un bacio sul cuore, come aveva fatto lei con me poco prima, e poi mi riappropriai delle sue labbra.
Senza staccarci, inciampando nei vestiti e nelle scarpe che avevamo lasciato per terra, raggiungemmo il letto. Mi sedetti sul bordo trascinandola a cavalcioni su di me. Con un’unica mossa e con una sola mano le sganciai il reggiseno e notai il suo sguardo soddisfatto quando la aiutai a sfilarlo, riflesso del mio.
Ben fatto, Edward. Mi diedi mentalmente il cinque da solo. Era la prima volta che ci riuscivo in un’unica mossa pulita.
«Sei bellissima» mormorai con voce roca mentre guardavo ipnotizzato i seni più belli e perfetti che avessi mai visto. Pieni, sodi, morbidi. Li avevo sognati mille volte, dalla prima volta in cui avevo posato lo sguardo sulla sua figura, eppure mai avrei immaginato tanta perfezione.
La sentii ridacchiare, ma quando spostai lo sguardo sul suo viso vidi che nei suoi occhi non c’era traccia di divertimento.
«Sei bellissimo anche tu» sussurrò accarezzandomi dolcemente il viso, sostituendo poi le sue mani con le labbra.
Mi lasciò baci ovunque, sul viso e sul collo, mentre con le mani studiava il resto del mio corpo e io facevo lo stesso col suo.
Mi trascinai verso il capo del letto tenendola stretta a me. Mi sistemai su un fianco di fronte a lei, continuando a baciarla e a toccarla ovunque, dedicando particolari attenzioni al suo petto.
«Vorrei avere cento bocche e altrettante mani per poterti toccare e baciare ovunque nello stesso istante» sussurrai nel suo orecchio. Mi mordicchiò delicatamente la pelle del collo, mentre le sue mani avevano iniziato ad accarezzarmi il rigonfiamento ormai incontenibile nei miei boxer.
«Ah, ah» le presi gentilmente la mano e la portai alle labbra, baciandone il dorso.
«Prima le signore» le sorrisi e mi sorrise di rimando. Desideravo più di ogni altra cosa che lei mi toccasse e mi desse piacere, ma ancora di più volevo essere io a toccare lei e a darle piacere.
Non ero mai stato un amante troppo generoso, perché non ero mai stato con nessuna donna che avessi mai veramente amato. Non mi ero mai occupato troppo del benessere delle mie precedenti partner, facevo giusto il minimo sindacale per non far loro male, e poi andavo dritto al sodo. Pochi preliminari, baci quasi inesistenti. Mi preoccupavo per lo più di soddisfare il mio piacere, sicuro che ne provassero loro. Preferivo ricevere, più che dare.
Con Bella era tutta un’altra storia.
Volevo prendermi cura di lei, volevo imparare a conoscerla, volevo capire cosa le piaceva e farla godere. Volevo fondermi con la sua pelle, volevo diventare una cosa sola con lei, volevo vedere la sua espressione estasiata e godere della soddisfazione che il merito era stato il mio.
Il desiderio che avevo di lei era così potente che faceva quasi male.
Non era solo una normale risposta fisiologica al suo corpo nudo vicino al mio, era estremamente più complesso. Lei era bellissima e desiderabile, ma io non volevo solo il suo corpo.
Io volevo la sua anima, la sua mente, volevo essere il centro dei suoi pensieri e delle sue fantasie esattamente come lei era il centro dei miei. Volevo che desiderasse solo me per sempre, come io avrei desiderato solo lei fino alla fine dei miei giorni.


Le sussurrai mille volte che era la donna più bella che avessi mai visto mentre le sfilavo gli slip e iniziavo ad accarezzarla con l’indice delicatamente, avanti e indietro. La sentii tremare. Gemette quando infilai senza difficoltà un dito dentro di lei, mentre con il pollice disegnavo dei piccoli cerchi sul suo clitoride. Era già pronta, ma non volevo avere fretta. Io potevo aspettare, lei era la mia priorità.
Continuai a baciarla, mentre la sua mano sinistra mi stringeva il fianco e la destra era intrecciata alla mia sinistra, appoggiate sul cuscino sopra la sua testa. Con il medio e l’anulare dentro di lei continuai a stimolare delicatamente il piccolo rigonfiamento spugnoso che ero riuscito a individuare facendola quasi sobbalzare, mentre con il palmo della mano premevo e massaggiavo il suo clitoride.
Quando mi rendevo conto che aveva bisogno di prendere aria, allontanavo momentaneamente la mia bocca dalla sua e passavo a baciarle e succhiarle il collo o il seno o qualsiasi altra porzione di pelle riuscissi a raggiungere.
A un certo punto, le sue cosce si strinsero intorno alla mia mano e sentii i suoi muscoli irrigidirsi.
«Vuoi che mi fermi? Hai bisogno di andare in bagno?» le domandai premuroso, sapendo che probabilmente stava provando uno stimolo simile a quello che si prova quando si deve urinare.
Scosse il capo, con il respiro ansante. Le sorrisi e le baciai le labbra e le guance.
«Rilassati, amore. Lasciati andare, sono io» soffiai sulla sua guancia, accarezzando con le labbra la sua pelle arrossata. Era bellissima.
Le mie parole sortirono l’effetto desiderato. Sentii la morsa delle sue cosce allentarsi e i suoi muscoli rilassarsi sotto il mio tocco.
«Oh, Edward» disse con voce rotta.
Strinse ancora più forte il mio fianco con la mano e un liquido denso e caldo iniziò a scorrere oltre il mio polso destro, fino a metà dell’avambraccio. Non ero mai riuscito a regalare un orgasmo del genere fino ad allora e dalla sua espressione sorpresa, dedussi che non era successo mai neanche a lei.
Ero compiaciuto, ero felice, ero eccitato da morire. Donarle un tale piacere, scoprire quanto era ricettiva al mio tocco e vedere che effetto avevo sul suo corpo e sulla sua mente era stato estremamente appagante.
Continuai a massaggiarla ancora, rallentando il ritmo, con movimenti gentili e delicati, mentre le mie labbra non avevano alcuna intenzione di allontanarsi dalle sue. I suoi gemiti e i suoi sospiri erano musica per le mie orecchie. Non desideravo altro che le sue carezze e suoi baci e il suo respiro sulla mia pelle e nella mia bocca.


«Sai che avevi ragione: i nei possono essere sexy» mormorai affondando il viso tra i suoi seni e baciando la piccola macchia scura che aveva sul seno sinistro all’altezza del cuore. Sentii il suo battito accelerare e sorrisi compiaciuto.
Arrossì. «Te l’avevo detto» mormorò, cercando di mascherare la sua eccitazione con il suo solito tono da simpatica saccente.
Mi allungai per baciarla. «Sei bellissima quando arrossisci» e arrossì di nuovo.
Posai la testa sul suo petto e mi beai delle sue carezze, mentre il ritmo del suo cuore rimbombava nel mio orecchio. La sentii sospirare.
«Potrei restare così per sempre» le confessai.
Mi diede un bacio sulla testa.
«Credo di non essere mai stata così felice» mi sussurrò nell’orecchio.
Mi sollevai sulle braccia per non pesarle troppo e la baciai con trasporto, mentre il mio bacino sfregava sul suo. Sentii le sue mani che afferravano l’orlo dei miei boxer e li tiravano giù lungo le mie gambe, li lanciai da qualche parte con i piedi. Mi strizzò i glutei e gemette quando iniziai a muovermi avanti e indietro su di lei, replicando quello che avevo fatto con il mio indice prima. Era la sensazione più bella del mondo sentire ogni parte del suo corpo nudo contro il mio e lo sfregamento delle nostre parti intime era molto piacevole per entrambi, ma dovetti allontanarmi a malincuore dopo un po’ per andare a recuperare un preservativo. Non avrei retto ancora per molto in quelle condizioni.
Fece un verso contrariato quando mi staccai da lei. Ridacchiai.
Si era messa seduta sul bordo del letto. Sentivo il suo sguardo su di me, si stava proprio godendo lo spettacolo di me nudo che cercavo di recuperare in mezzo al caos dei nostri vestiti lasciati sul pavimento la scatolina di preservativi dalla tasca del mio piumino.
Quando mi trovai di fronte a lei in tutta la mia gloria, la vidi deglutire a vuoto, i suoi occhi bruciavano.
«Ricordami di ringraziare mio fratello che me li ha dati in aeroporto, altrimenti a quest’ora sarei dovuto scappare per strada a cercare qualche distributore automatico» le dissi mostrandole il motivo per cui mi ero alzato dal letto.
«E in queste condizioni, non credo che sarei riuscito a farmi entrare i pantaloni» terminai mentre mi sedevo al centro del letto di fronte a lei con le gambe divaricate.
«Giuro che domani lo ringrazierò io stessa» mormorò roca, voltandosi verso di me.
Le feci segno di avvicinarsi aprendo le mie braccia, dopo aver indossato il preservativo.
Mi sorrise e si avvicinò a me mettendosi sulle ginocchia. Le presi entrambe le mani mentre lei si sistemava su di me, le sue cosce sulle mie, il suo bacino contro il mio. Puntellai i miei piedi sul materasso dietro alla sua vita, mentre le sue gambe si strinsero sui miei fianchi. Le accarezzai delicatamente le cosce, poi la vita, le braccia e infine il viso prima di baciarla. L’urgenza iniziale aveva lasciato lo spazio alla tenerezza e alla dolcezza che avevano sempre caratterizzato il nostro rapporto. La desideravo dalla prima volta in cui avevo posato lo sguardo su di lei e avevo in mente migliaia di fantasie da soddisfare con lei – ed ero sicuro che le avremmo soddisfatte insieme, sia le mie che le sue fantasie – ma era la nostra prima volta e volevo godermi ogni istante, volevo guardarla negli occhi, volevo tenerla il più possibile vicina a me, volevo sentire i nostri respiri che si mescolavano e volevo amarla come meritava.
Bella non era un capriccio, era la donna della mia vita e lo sapevo da tempo, ma ne ebbi conferma quando i nostri corpi si incastrarono perfettamente, quando iniziammo a muoverci trovando insieme il ritmo, occhi negli occhi, pelle contro pelle.
La complicità che avevamo sempre avuto e i sentimenti che c’erano tra noi amplificavano tutte le sensazioni che stavamo provando in quel momento.
L’orgasmo ci travolse quasi simultaneamente e sentii una scarica travolgermi dalla testa ai piedi. Non avevo mai provato niente di così potente in tutta la mia vita.
Era questo quello che si provava quando si faceva l’amore con la donna che si amava?



Mi svegliai quando le prime luci dell’alba fecero capolino nella stanza. Bella era ancora profondamente addormentata, i capelli sparsi sul cuscino e la sua mano sul mio addome. Era bellissima. Le immagini della notte appena trascorsa si riaffacciarono nella mia mente, seguite da quelle di me e lei nella doccia. Le accarezzai delicatamente i capelli per non svegliarla e sorrisi. Dopo tutto quello che c’era stato tra noi, eravamo riusciti a lavarci insieme tranquillamente ridendo e scherzando – aveva riso un po’ meno lei quando le avevo fatto andare accidentalmente lo shampoo negli occhi – e sempre con lo stesso spirito leggero avevamo sistemato il caos dei nostri vestiti miseramente sparsi sul pavimento, prima di addormentarci stretti l'uno all'altra.
Alla faccia dei miei piani romantici per la nostra prima volta a Capodanno, pensai sorridendo. Bella riusciva sempre a scombinarmi tutto e la adoravo anche per questo.


«Ben svegliata», le sussurrai quando aprì gli occhi, «dormito bene?»
«Benissimo» mi rispose allegra, mentre si sistemava meglio su di me, rotolando su un fianco.
«Mm… Ben svegliato anche a te» mormorò sul mio collo, una punta di divertita malizia nella sua voce.
«Oh… scusa, è… la mattina» farfugliai imbarazzato per la mia erezione mattutina.
«È normale, Edward, non devi imbarazzarti. È segno che godi di ottima salute» mi prese il viso tra le mani e mi baciò. Sentire il suo bacino contro il mio non aiutava.
«Se mi dai un attimo, vado in bagno, così…» cercai di allontanarmi, ma fui interrotto di nuovo dalle sue labbra sulle mie.
«Edward», mi disse maliziosa mentre allargava le sue gambe posizionandole ai lati delle mie per bloccarle lì ferme sul letto, «lo sai che non mi piace sprecare una buona occasione».
Scossi il capo, sorridendo, e la baciai. Le mordicchiai delicatamente la punta della lingua e la sentii gemere di piacere.
«Riesci a resistere o devi proprio andare in bagno?» mi domandò premurosa, quando ci staccammo. Le sorrisi.
«Non ho bisogno di andare in bagno» la rassicurai stampandole un bacio sulle labbra.
Allungò un braccio sul comodino e afferrò un preservativo.
«Posso?» mi domandò gentile. Annuii e la lasciai fare. Era tutto dannatamente eccitante, Bella era delicata, ma sapeva dove toccarmi per mandarmi in visibilio. Era maliziosa, ma allo stesso tempo era gentile e premurosa, rispettosa dei miei bisogni. Era una combinazione perfetta e io ero pazzo di lei.
La baciai di nuovo, quando il suo viso fu di nuovo all’altezza del mio. Le misi una mano sul fianco e la feci sdraiare di fronte a me. Ancora una volta, volevo guardarla negli occhi. Mi sorrise e sollevò una gamba e la strinse sul mio fianco, mentre la penetravo e iniziavo a muovermi delicatamente dentro di lei. Senza smettere mai di guardarci negli occhi, decisi di ravvivare la mattinata e, all’improvviso, senza staccarci, la feci stendere sulla schiena, appoggiando gli avambracci ai lati della sua testa per non pesarle troppo. La colsi di sorpresa quando affondai di nuovo in lei e temetti di averle fatto male. Quando però sentii anche l’altra gamba sollevarsi e stringersi intorno alla mia vita, mi tranquillizzai. Mi misi in ginocchio di fronte a lei e con una mano sotto al suo ginocchio, la aiutai a sistemare prima la sua gamba sinistra e poi la destra sulle mie spalle.
«Dimmi se ti faccio male» sussurrai sulle sue labbra.
«Mm» si limitò a rispondere, con gli occhi chiusi, troppo presa a godersi le sensazioni che stavamo provando.
«È bello scoprire che in questi momenti sono io quello eloquente» mormorai nel suo orecchio e la feci ridere di gusto.



«Quindi, tu avevi prenotato questa stanza per noi due prima ancora che noi…» gesticolai indicando me e lei. Mi sorrise e mi baciò, accarezzandomi una guancia.
«Non sapevo ancora come o se si sarebbe evoluta la nostra situazione all’epoca. Avevo delle speranze ed era chiaro che stesse nascendo qualcosa tra di noi, temevo però che il contesto lavorativo fosse un freno per entrambi» annuii comprensivo.
«Ti serviva davvero un collaboratore per New York? Era da tempo che volevo chiedertelo. Non che mi lamenti, eh… È solo una curiosità, Rosalie mi ha confidato – quando ha scoperto che sarei venuto qui con te – che nei tuoi viaggi di lavoro non hai mai portato nessuno con te» sospirò e mi sorrise.
«Non ho mai portato nessuno con me nei miei viaggi di lavoro perché non ho mai trovato nessuno valido come te. Non ho neanche mai lavorato con nessuno a stretto contatto e per tanto tempo come ho fatto con te. Te l’ho detto, tu sei la mia eccezione, per diverse cose» mi accarezzò delicatamente una guancia e le sorrisi, stringendole forte il fianco.
«Sarei potuta venire da sola qui, come ho sempre fatto. Come hai potuto notare, il lavoro da fare era tanto e sei stato davvero essenziale. Devo ammettere, però, che non ti ho chiesto di venire qui con me solo perché avevo bisogno di un collaboratore o perché volevo in qualche modo ringraziarti per tutto il tuo aiuto. Non volevo venire qui con un collaboratore qualsiasi, volevo venire qui con te, perché speravo che magari lontano dal contesto lavorativo, sarebbe potuto succedere qualcosa tra di noi» mi spiegò e le sorrisi.
«Era quello che speravo anch’io» le confessai e mi sorrise di rimando.
«Avevo prenotato sia questa suite che una camera singola nell’albergo in cui ho alloggiato fino all’altro ieri. Se le cose tra noi fossero rimaste com’erano e non ci fosse stata alcuna evoluzione, come speravo, ovviamente tu avresti dormito nella singola nel Queens e io mi sarei goduta questa suite» scherzò, affondando il viso nel mio petto. La strinsi forte a me, ero senza parole.
«Adesso sono di nuovo io quella eloquente» sollevò la testa per guardarmi in viso con un sorriso compiaciuto sulle labbra. Ridacchiai.
«E io che ho trascorso metà del viaggio in taxi pensando che volessi farmi dormire qui da solo!» esclamai ridendo e contagiando anche lei.
«Avevi un’espressione a metà tra la rabbia e il terrore. Istintivamente avrei voluto spiegarti tutto subito e tranquillizzarti, ma volevo farti una sorpresa» mi spiegò gentile.
«Ci sei riuscita eccome» le dissi, avvicinando le mie labbra alle sue.
«Pensavi davvero che avrei voluto, no, anzi, che avrei potuto stare lontana da te?» mi domandò seria.
«No, non ho mai pensato che volessi starmi lontano per scelta tua, ma credevo fosse necessario per non dare nell’occhio… Immagino che anche qui dovremo mantenere un profilo basso e far finta di essere solo colleghi di lavoro» la rassicurai, accarezzandole il viso, e lei sospirò, abbandonandosi alle mie carezze.
«Sarà ancora più difficile dopo stanotte mantenere un profilo basso» un velo di preoccupazione calò sui suoi occhi. Tracciai il profilo delle sue labbra con il pollice e le diedi un bacio leggero. Poi la strinsi forte a me, affondando il viso nel suo collo.
«Ce la faremo anche qui» mormorai mentre le accarezzavo la schiena.
Proprio in quell’istante la sveglia suonò, interrompendo la nostra bolla e ricordandoci che la nostra prima giornata lavorativa insieme a New York stava per iniziare.



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Spero di essere riuscita a restare nei limiti del rating arancione, se pensate che non sia così, vi prego di avvisarmi. Ho letto e riletto mille volte il regolamento, ma francamente il confine tra rosso e arancione non mi è mai sembrato troppo chiaro e sono sempre in difficoltà quando devo scrivere capitoli del genere.
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e attendo come sempre i vostri commenti.
Ho inserito a un certo punto una frase tratta da Twilight, vediamo chi la trova (è facile da riconoscere XD).
Alla prossima, un bacione!

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV - Il futuro ***


«Allora, come funzionerà la parte logistica in questi giorni? Possiamo arrivare insieme o è meglio separarci durante il tragitto? Sanno che alloggiamo qui tutti e due?» le domandai, mentre terminavo di abbottonare la camicia. Non avevamo avuto tempo di discutere di questi futili ma essenziali dettagli la sera precedente…
«Dove alloggiamo non sono affari loro. Stiamo entrambi a Brooklyn e questo è quanto gli spetta sapere, se dovessero chiedere. Possiamo andare e tornare insieme senza problemi con la stessa auto, anche se probabilmente al ritorno penso che tu finirai quasi sempre prima di me e potrai andare via prima. Le vostre sessioni terminano alle 16; le nostre riunioni, invece, tendono a protrarsi un po’ oltre le 16, ma cercherò di liberarmi il prima possibile» mi fece l’occhiolino.
«Possiamo vederci qui o incontrarci dove preferisci tu, se ti va di restare un po’ in giro per la città da solo. Ovviamente scegli tu se prendere un taxi o un uber, tanto ti verrà rimborsato tutto» si avvicinò a me e mi lisciò il colletto della camicia, perfettamente stirato, indugiando con le mani sul mio petto. Inclinai la testa verso la sua per incontrare le sue labbra.
«Posso prendere la metro, non è molto distante» mormorai.
«Come vuoi, davvero, non crearti problemi» mi rassicurò e le sorrisi.
«Prenderò la metro, a Boston non la prendo quasi mai. Mi manca avere del tempo da dedicare a un buon libro mentre viaggio sui mezzi pubblici. Inoltre, possiedo già una metro card che ho ricaricato per entrambi. Se vuoi che io sia la tua guida di New York in questi giorni, si viaggia in metro, mia bella Bella» ammiccai, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Da quando avevo scoperto, grazie ai film che avevamo visto insieme, che in italiano il suo nome era un aggettivo, assai adatto per definirla, avevo iniziato a prenderci ancora più gusto a giocare con il suo nome.
«Hai pensato proprio a tutto» mi sorrise e le baciai la punta del naso.
«Ti aspetterò qui, dubito tu abbia voglia di girare per la città dopo su quelle» indicai con lo sguardo le scarpe che aveva lasciato vicino all’ingresso del bagno. Ridacchiò, annuendo.
«C’è qualcosa che ti preoccupa?» mi domandò accarezzando la piccola ruga che mi si formava sempre sulla fronte quando ero in pensiero. Mi conosceva fin troppo bene. Sospirai.
«Come devo comportarmi con te? Posso continuare a darti del tu come a Boston o devo essere più formale?» le chiesi e incontrai il più dolce dei sorrisi.
«Sono tutti più formali di me con i loro dipendenti nelle sedi che amministrano e New York non farà eccezione; ma conoscono tutti la mia politica gestionale e sanno benissimo che non amo i formalismi, quindi puoi continuare a comportarti con me e a rivolgerti a me come se fossimo a Boston» mi rassicurò.
Strinsi le braccia attorno alla sua vita e la baciai, cercando di fare il pieno per le sei successive ore in cui saremmo stati nello stesso edificio, ma non sempre insieme o comunque non insieme nel senso in cui lo intendevamo noi.
Conoscevo il programma di lavoro dettagliatamente e sapevo che avremmo lavorato quasi sempre insieme nella stessa stanza durante la mattina; nel pomeriggio io avrei dovuto formare i nuovi contabili, mentre lei sarebbe stata impegnata con gli altri soci.
Non saremmo stati separati per molto tempo, per fortuna, ad esclusione del giorno inaugurale, lunedì 30, durante il quale ci saremmo visti ben poco, ma avevo paura che anche un solo sguardo potesse tradirci.
 
 
La sede della Volturi di New York era molto più grande di quella di Boston, esattamente come mi aspettavo. Qualsiasi cosa a New York è più grande che nel resto del mondo. Non mi aspettavo però che risultasse così anonima. Non trasmetteva la stessa maestosità della sede di Boston, non spiccava in mezzo agli altri edifici che lo circondavano per eleganza e magnificenza. Eravamo in una zona del Queens prettamente industriale e quindi era facile confondersi, ma mi aspettavo qualcosa di più.
Bella si voltò verso di me, si era accorta che stavo analizzando la struttura. Eravamo ancora in macchina, avevano appena aperto il cancello per permettere alla nostra auto di entrare.
«Niente a che vedere con la nostra sede» disse con una punta di orgoglio nella voce, scuotendo il capo. Le sorrisi e le accarezzai la mano che era appoggiata sul sedile, accanto alla mia. Era l’ultimo breve contatto che potevamo concederci fino alla fine del lavoro.
 
 
Durante la pausa pranzo, prima di separarci, voleva mostrarmi la sede.
«Bella, dove vai?» le domandò Felix, l’amministratore delegato di Volterra. Era un uomo sulla quarantina, sapevo che Bella lo conosceva da molto tempo, da quando aveva iniziato a lavorare in Italia. Non mi aveva degnato neanche di uno sguardo, né mi aveva rivolto la parola. Non invidiavo per niente i suoi dipendenti.
«Voglio mostrare a Edward la sede» gli rispose, mentre si cambiava le scarpe. Ecco cosa c’era in quella seconda borsa che si era portata dietro. Mi ritrovai a sorridere, pensava sempre a tutto. Felix la guardò e ridacchiò.
«Ah, il segreto del tuo successo» disse sollevando le folte sopracciglia. Non sapevo se stesse alludendo al suo atteggiamento informale con noi dipendenti o a qualcos’altro.
«Scarpe comode. Dietro ogni grande donna di successo, c’è sempre un paio di sneakers. Tienilo a mente, Felix» rispose lei con una punta di divertimento nella voce, invitandomi a seguirla con un caloroso sorriso che ricambiai senza alcuna difficoltà. Avrei voluto prenderla per mano o almeno sfiorarla, ma ci seguì anche Felix e quindi dovetti trattenere tutto quello che avevo dentro.
Mi mostrò tutti i piani, compresi gli uffici, la mensa, la sala ricreativa e la palestra.
Avevano perfino la palestra. Quando l’avrebbe sentito Jasper, sarebbe morto d’invidia.
«Allora, che te ne pare?» mi domandò lei, quando tornammo ai piani in cui lavoravamo, prima di separarci.
«È davvero grandiosa, complimenti» dissi rivolgendomi a entrambi. Felix mi guardò o meglio mi squadrò, prima di dileguarsi in sala riunione, senza neanche salutarmi o ringraziarmi. Che antipatico.  
«Fortunati i dipendenti che potranno usufruire di tutti questi vantaggi, noi abbiamo solo un tavolo da ping-pong che ultimamente sto un po’ trascurando durante la pausa pranzo» ammiccai, quando fui sicuro che fossimo entrambi soli, e lei ridacchiò.
 
 
Quella sera la portai a Broadway, ero miracolosamente riuscito a comprare gli ultimi biglietti per il musical Moulin Rouge e poi restammo un po’ in giro in centro dopo aver cenato. Il giorno seguente era sabato e lavoravamo solo la mattina, per fortuna.
Quel maledetto Felix le stava sempre intorno e mi dava non poco fastidio. A Felix, quel giorno, si era aggiunto James. Non avevo capito ancora che ruolo avesse, glielo avrei chiesto quando saremmo rimasti soli. Sapevo solo che mi infastidiva come poche persone erano riuscite a fare nel corso della mia vita.
Alto, palestrato, biondo, occhi azzurri, sorriso beffardo e pelle abbronzata.
Come faceva ad essere abbronzato a dicembre?  
Ero tremendamente geloso. Non mi piaceva come guardava Bella, era troppo insistente. Presi un bastoncino di liquirizia dall’astuccio e iniziai a masticarlo in attesa che si liberasse.
La stavo aspettando vicino al cancello d’ingresso, loro tre erano nell’atrio vicino al portone d’uscita, parlavano ancora, quando qualcuno mi urtò una spalla.
«Ops, scusa» disse una ragazza con voce civettuola, indugiando un po’ troppo con la mano sul mio braccio.
La aiutai a rimettersi in equilibrio e tornai a guardai il mio smartphone, per evitare di avere la tentazione di voltarmi verso Bella.
«Tu sei di Boston, vero?» continuò. Annuii, continuando a ignorarla. Ma perché non andava via?
Mi concentrai sul bastoncino di liquirizia che avevo in bocca, trovando incredibilmente interessanti le previsioni meteo per il weekend. In effetti, mi interessavano davvero, dal momento che avevo intenzione di far vedere a Bella un sacco di posti. Sarebbe stato bel tempo, per fortuna.
«Beh, io vado, ci vediamo lunedì. Se ti fa piacere, una di queste sere possiamo vederci per bere qualcosa. Io lavorerò qui, in assistenza clienti. Sono…» non ascoltai neanche il suo nome, perché un profumo familiare mi arrivò alle narici e mi voltai automaticamente verso di lei.
«Andiamo?» mi domandò, lanciando uno sguardo di sufficienza alla povera malcapitata che ci stava malamente provando con me.
La seguii e neanche salutai la ragazza.
Fermammo un taxi che per fortuna aveva un pannello oscurato che separava il conducente dai passeggeri perché Bella mi saltò letteralmente addosso, togliendomi dalla bocca il bastoncino di liquirizia e incollando le sue labbra alle mie, possessiva.
Risposi al suo bacio con altrettanta foga. Arrivammo in un baleno in hotel e in un attimo eravamo in camera, le sue braccia strette intorno al mio collo, le mie intorno alla sua vita.
«Nessuno deve toccare ciò che è mio» mormorò, riprendendo possesso delle mie labbra.
Aveva visto tutto evidentemente.
Era gelosa.
Il piacere che provai fu immenso.
«Sei gelosa» le dissi, in tono affettuosamente canzonatorio, mentre le succhiavo il labbro inferiore.
«Terribilmente gelosa, è bene che tu lo sappia» disse decisa. Ridacchiai.
«Non so neanche spiegarti quanto mi fa piacere, ma sai che non hai motivo di essere gelosa. Per me ci sei solo tu, lo sai» le dissi, accarezzandole delicatamente il viso.
Mi sorrise.
«Lo so, però, mi ha dato fastidio lo stesso. Ti è caduta di proposito addosso» mormorò. Le sorrisi.
«E io allora cosa dovrei dire? Quel Felix ti sta sempre attorno. Per non parlare di quella specie di surfista che ti guarda come se volesse spogliarti. Dove l’avete trovato? Su un catalogo di modelli per costumi da bagno?» dissi alzando gli occhi al cielo. Ridacchiò.
«Edward, Felix non sarà mai interessato a me. Semmai, potrebbe essere interessato a te» fece uno sguardo furbo.
«Oh», rimasi a bocca aperta.
«Già, oh. Come vedi, io devo stare attenta anche agli uomini, non solo alle donne che ti ronzano attorno» disse sfiorando le mie labbra.
«E per quanto riguarda James, può sognare quanto vuole. Non è proprio il mio tipo» disse, mentre mi accarezzava i capelli sulla nuca.
«Surfista californiano abbronzato, belloccio e sicuro di sé non è il tuo tipo, buono a sapersi. Preferisci i visi pallidi del Midwest?» la canzonai.
«Decisamente» mi disse sorridendo. «E poi non è così bello, né così sicuro di sé, è solo presuntuoso».
«Qual è il suo ruolo in azienda? Dovremo godere ancora per molto della sua adorabile presenza?» le domandai sarcastico, sperando che non dovesse più stare così a contatto con lei.
«Fortunatamente andrà via lunedì. Lui lavora in proprio, è un head-hunter. Lo hanno chiamato per scovare i migliori manager sul mercato, dal momento che io ho rifiutato di ricoprire la posizione. Probabilmente mi guarda in quel modo, perché non è riuscito a trovare il mio curriculum online e perché non è riuscito a convincermi ad accettare il ruolo. Non riesce a capire come mai sia così ostinata a rimanere a Boston» mi spiegò.
Quindi, era un cacciatore di teste. E volevano Bella a New York?
«Ti avevano proposto di dirigere New York?» le domandai.
«Sì, ma ho caldamente rifiutato; anche se questo non li ha fermati dal perseverare» alzò gli occhi al cielo. Ecco perché l’avevo trovata spesso infastidita quando parlava al telefono con Felix.
«Posso chiederti come mai hai rifiutato?»
«Boston è la città che ho scelto io, adoro vivere lì, anche solo pensare di trasferirmi qui a New York sarebbe una follia. Sono amministratrice unica della sede, ho campo libero in diverse scelte aziendali e mi piace. Non potrei mai lasciare tutto quello che ho faticosamente messo su in questi anni, solo per aggiungere sul mio curriculum che ho diretto un’azienda newyorkese».
«Beh, certo, sarebbe un buon punto da aggiungere sul tuo curriculum. Qualsiasi cosa fatta a New York è più prestigiosa che altrove. Devo confessare che mi sono spesso chiesto come mai non avessi un profilo su Linkedin» continuai.
«Perché non sono alla ricerca di un lavoro. Sono felice a Boston, sono soddisfatta della mia vita, amo lavorare e vivere lì. Qui dovrei lavorare nel Queens e dovrei anche rispettare uno stupido dress code» disse con disgusto, alzando gli occhi al cielo e facendomi ridere.
«Quindi, io non c’entro niente in tutto questo?» le domandai, sollevato.
«Lo sai che non vorrei mai interferire, anche involontariamente, con le tue scelte» fui colpito dalla verità delle mie parole: non volevo che rinunciasse a qualcosa per causa mia, esattamente come lei non voleva essere un ostacolo alla mia carriera; eppure, allo stesso tempo, dentro di me desideravo che lei scegliesse me. Sempre e comunque me. Mi accarezzò una guancia.
«Mi avevano proposto di dirigere New York e avevo rifiutato prima ancora che tu inviassi il tuo curriculum» mi rassicurò. «Il tuo arrivo ha solo contribuito ad aumentare le ragioni per cui amo Boston» mi accarezzò una guancia.
 
 
Nel pomeriggio la portai a visitare il quartiere di Williamsburg. Era una tappa obbligata, le avevo promesso che le avrei fatto mangiare i migliori bagels di New York nel quartiere ebraico. Al tramonto andammo nel quartiere di Dumbo, era una vera fortuna che avesse prenotato un hotel a Brooklyn: quasi tutto quello che ci tenevo a farle vedere era lì.
Scattammo una foto del famoso ponte di C’era una volta in America, uno dei miei film preferiti.
Le mostrai la parte meno turistica di New York – musei e gallerie d’arte le aveva già viste quasi tutte da sola –, la parte di New York più autentica e che più amavo.
Mi seguì, mi ascoltò e mi osservò con adorazione. Era meraviglioso passeggiare con lei mano nella mano per quelle strade, condividere con lei i miei pensieri e le mie passioni, godere dei piccoli gesti d’affetto che potevamo concederci in pubblico.
Mi innamoravo di lei sempre di più.
Per quel sabato sera non avevo programmato niente in particolare, perché l’indomani ci saremmo dovuti svegliare molto presto, e siccome avevamo trascorso la maggior parte della giornata fino al pomeriggio inoltrato fuori, restammo nella nostra suite a fare l’amore su ogni superficie possibile, inaugurando anche la vasca idromassaggio, rimarcando con forza che io ero solo suo e che lei era solo mia e non poteva essere altrimenti. Eravamo perfetti insieme.
 
 
Ero ancora così profondamente addormentato che non mi accorsi subito che la mia sveglia stava suonando e che il corpo di Bella, comodamente adagiato tra le mie braccia, era scosso da una risatina.
«La marcia di topolino? Sul serio?» mi domandò ridendo nell’orecchio.
«Mm… è nella colonna sonora di uno dei miei film preferiti» mormorai, stringendola forte a me.
«Full Metal Jacket è un altro dei tuoi film preferiti?» mi domandò.
«Mm» non riuscivo ancora ad articolare suoni di senso compiuto.
«Devi svegliarti, amore, tra un po’ sorgerà il sole e mi hai promesso che mi avresti portato in quel parco…» iniziò a baciarmi il collo.
«Mm…» feci per avvicinarmi alle sue labbra, ma lei si alzò dal letto repentinamente, sfuggendo dalla presa delle mie braccia.
«In piedi, soldato. Ti aspetto nella doccia» disse suadente, lasciando cadere sul letto la camicia che avevo indossato il giorno prima, con la quale aveva dormito.
La raggiunsi in un lampo.
«Buongiorno», mormorò, squadrandomi dalla testa ai piedi.
«Voltati» le dissi, sorridendo.
«Mani sulle piastrelle» continuai e lei obbedì.
«Come siamo autoritari stamattina» la voce le si ruppe sul finire della frase, quando iniziai ad accarezzare e massaggiare la sua intimità con una mano e a torturare delicatamente i suoi capezzoli con l’altra. Si piegò automaticamente in avanti, divaricando leggermente le gambe, pronta ad accogliermi.
 
 
Le prime luci dell’alba stavano iniziando a colorare il cielo, quando raggiungemmo Battery park. Ci accomodammo su una panchina, fortunatamente la nebbia mattutina si stava diradando e davanti a noi, illuminata dalla tenue luce dei primi raggi del mattino, si ergeva fiera e maestosa la Statua della Libertà.
«Hai freddo?» le domandai preoccupato, stringendola più forte a me.
«No, sto bene. Edward, è meraviglioso» mi disse, senza staccare mai gli occhi dal panorama. Sorrisi.
«È un’immagine senza tempo. Ogni volta che venivo qui, mi ritrovavo a pensare a tutti gli immigrati europei – i nostri antenati – che arrivavano sulle navi dirette a Ellis Island. La fame, il freddo, l’umidità e le pessime condizioni di viaggio forse potevano essere in parte dimenticate quando si ritrovavano a guardare questo spettacolo. Chissà come doveva apparire ai loro occhi, non molto diversa da come appare ai nostri, probabilmente. Bella e maestosa. Potente e fiera.
Eppure, per loro forse era qualcosa di diverso: più che l’immagine della bellezza, era l’immagine della speranza.
Quando ero molto giù, specialmente verso la fine della mia avventura newyorkese, quando stava andando tutto male e non sapevo proprio come avrei fatto a rimettere a posto la mia vita, quando non sapevo cosa avrei fatto della mia vita, quando niente aveva più senso e il futuro era un tempo che non riuscivo più a coniugare nella mia mente, questo pensiero mi aiutava a farmi stare meglio.
Era come se non pensassi più alla mia vita come solo alla mia vita, la mera esistenza di un singolo uomo; ma alla mia vita come una tessera di un quadro più grande, di un percorso, un progetto iniziato molto tempo prima della mia nascita, magari su una di quelle navi e mi sentivo meglio. Le mie preoccupazioni si ridimensionavano, diventavano meno opprimenti, e quell’immagine riaccendeva in me una piccola speranza, sentivo che prima o poi le cose sarebbero andate bene anche per me, che anche la tessera della mia vita avrebbe trovato il suo posto, quello giusto, nel quadro della storia del mondo» mormorai.
Rimase in silenzio, ma la sentii armeggiare con i guanti e poi la sua mano calda si posò sul mio viso freddo per via del vento.
«È stupido, lo so, ma…» mi mise due dita sulle labbra.
«Non è affatto stupido» disse seria, sollevando la testa dalla mia spalla per guardarmi negli occhi. Una lacrima le aveva bagnato una guancia, la asciugai con un bacio.
«È molto simile a quello che penso io a Boston, quando vado nel parco, al mattino» mi sorrise.
«Posso chiederti oggi che effetto ti fa questo panorama? Senti le stesse cose?» mi chiese.
Nei suoi occhi c’era una dolcezza infinita e potevo giurare di vedere lo stesso amore che c’era nei miei quando la guardavo.
«Oggi sono felice perché lo sto ammirando qui con te. Oggi riesco ad apprezzarne tutta la bellezza e a trarne davvero tutta la forza, perché lo osservo a cuor leggero, perché nella mia vita c’è qualcosa di ancora più bello e più potente di questa immagine, qualcosa di reale; perché sento che la mia tessera ha trovato il suo posto» sussurrai vicino alle sue labbra.
 
 
«Prossima tappa?» mi domandò, quando entrammo in metro.
«Coney Island» le risposi, facendole un mezzo sorriso.
Mi guardò come se le avessi proposto di andare a fare un bagno nell’oceano, arricciando la punta del naso. Ridacchiai e le baciai la punta del naso, era irresistibile quando faceva così.
«Fidati di me» le feci l’occhiolino.
Passeggiammo per il lungomare e prendemmo un hot dog da Nathan's Famous. C’era pochissima gente. Adoravo Coney Island d’inverno, aveva un’aria così decadente, così tranquilla. Senza tempo.
«Visto? Ho organizzato un’esclusiva per te» sussurrai nel suo orecchio sinistro. Mi sorrise.
«Ha il suo fascino, effettivamente» ammise.
«Torneremo qui in estate, voglio mostrarti e portarti su tutte le attrazioni del parco» le promisi.
«Mi piace quando coniughi i verbi al futuro e… al plurale» mormorò. Le baciai dolcemente le labbra.
«Piace anche a me» indugiai ancora sulle sue labbra.
Lasciammo che la fredda brezza marina ci sferzasse il viso e restammo per un po’ in silenzio, seduti su una panchina, ad ammirare il tramonto sull’oceano. Eravamo entrambi sopraffatti dalla quiete e dalla magnificenza del paesaggio che ci circondava e dalle emozioni che stavamo provando entrambi. Era stata una giornata meravigliosa.
Non avevamo ancora apertamente dato voce ai nostri sentimenti, ma ci eravamo dimostrati chiaramente con fatti e parole quanto fossimo importanti l’uno per l’altra, quanto fossimo essenziali l’una per l’altro.  
«Ti era mai capitato?» le domandai, sollevando le nostre mani e osservando le nostre dita intrecciate. Capì subito a cosa stessi alludendo. Si voltò verso di me, appoggiando la fronte sul mio mento. Mi piegai leggermente in avanti per baciarle la testa. La sentii sospirare.
«No, mai. E a te?»
«Mai. Non credevo fosse possibile una cosa del genere, non pensavo esistesse una persona così adatta a me. Credevo fossero tutte storielle inventate dai romanzieri» ridacchiò.
«Trovo ancora così incredibile che siamo così compatibili su tutto, che abbiamo un’intesa perfetta sempre. È incredibile ed è bellissimo» confessai.
Sollevò la testa quel tanto che bastava per raggiungere le mie labbra.
«Edward, tu sei molto più di quanto osassi desiderare, molto più di quanto potessi anche solo immaginare. Ero felice e soddisfatta della mia vita prima di incontrarti, ero completa, non credevo che mi mancasse qualcosa. E invece… Hai sconvolto e migliorato la mia vita, l’hai arricchita e mi hai fatto scoprire una felicità nuova, mi hai fatto scoprire una nuova me, una me che non credevo possibile potesse esistere. Sei così tante cose, che non riesco a spiegarti a parole quello che sei per me ed è la prima volta nella mia vita che sono in seria difficoltà con le parole» ridacchiò.
«Bella, tu sei per me quello che io sono per te, non abbiamo bisogno di altre parole» mormorai, trovando per una volta io una rapida ed efficace soluzione verbale.
«Sì, è proprio così» mi sorrise.
 
 
«Sembri un generale che si prepara per andare in guerra» la presi affettuosamente in giro, mentre facevo il nodo alla cravatta e la guardavo incuriosito sistemare all’interno di un paio di scarpe dall’aspetto non molto comodo una serie di cuscinetti per prevenire le vesciche.
Alzò la testa, mi fulminò con lo sguardo e mi fece la linguaccia, nascondendo malamente un sorriso.
«Voi uomini siete così fortunati!» sospirò, alzando gli occhi al cielo. Ridacchiai e mi avvicinai a lei, chinandomi all’altezza del suo viso per baciarla. Tenne le labbra chiuse, fingendo di essersela presa, ma cedette presto alla mia insistenza, quando le mordicchiai leggermente prima la pelle sotto il labbro inferiore e poi il labbro stesso – uno dei suoi punti deboli –, e tracciai il profilo delle sue labbra con la punta della mia lingua. Mi restituì il bacio e ci ritrovammo entrambi ansimanti quando, per motivi di tempo, fummo costretti a fermarci lì.
«Avresti vinto qualsiasi guerra se le truppe nemiche ti avessero vista arrivare così sul campo di battaglia» mormorai, mentre riprendevo fiato, con la fronte appoggiata alla sua, e con le mie dita percorrevo il profilo del suo busto, fermandomi sui fianchi. Le sue labbra si curvarono in un sorriso.
«Devo dedurre che mi preferisci in abiti formali, il mio stile casual non ti piace?» mi domandò, sinceramente curiosa.
«Ti preferisco nuda» le risposi con altrettanta sincerità. Scosse la testa e ridacchiò.
«E io che faccio domande di cui conosco già le risposte» esclamò alzando gli occhi al cielo e scuotendo leggermente il capo con fare teatrale. Ridacchiai e le presi il mento tra il pollice e l’indice per costringerla a guardarmi negli occhi. Bella non era di certo il tipo di donna che aveva bisogno di rassicurazioni sul suo aspetto o sul suo stile, né il tipo di donna avrebbe cambiato stile per compiacermi – cosa che non avrei mai voluto, innanzitutto perché e a me il suo stile piaceva e poi perché non avrei mai e poi mai costretto lei a cambiare qualcosa per me – ma volevo farle sapere lo stesso che per me era perfetta così com’era.
«Adoro il tuo stile, ti dona ed esprime la tua personalità, ma è bello ogni tanto vederti in tiro. Per me sei sempre bellissima e perfetta, con o senza vestiti. Soprattutto senza. Sappi che penserò per tutto il giorno al momento in cui potrò finalmente toglierteli di dosso» soffiai sul suo collo e un brivido percorse la sua pelle.
«Posso dire lo stesso di te, guarda che figurino che sei» sussurrò, tirandomi per il nodo della cravatta e avvicinando la sua bocca alla mia.
 
 
Alle 10 si aprì la seduta plenaria. Tutti gli amministratori si presentarono e diedero il benvenuto al nuovo staff, compresa Bella, e in seguito toccò a noi assistenti illustrare i nostri programmi di formazione. Lei era stata perfetta e impeccabile, come sempre. Quando arrivò il mio turno, ero un po’ agitato, ma intercettai il suo sguardo in sala prima di iniziare a parlare e mi calmai all’istante. Parlare in pubblico non era proprio una delle cose che preferivo fare, ma andò per fortuna tutto liscio.
Come previsto, alle 16 io avevo finito la mia giornata, mentre lei era ancora in riunione. Presi la metro e tornai in hotel, ne avrei approfittato per definire gli ultimi dettagli della cena della sera seguente, la tanto sospirata vigilia di Capodanno, in attesa che lei tornasse.
Sarebbe stata una serata davvero speciale. Aprii di nuovo la mail che avevo ricevuto quella mattina, non mi sembrava ancora vero. Ero totalmente assorto nelle mie fantasie che non mi resi conto subito del rumore della porta che si chiudeva, né del rumore di qualcosa che veniva lanciato sul pavimento.
«Oh, Dio, sì» mormorò.
Scattai immediatamente in piedi.
Mi avvicinai all’ingresso e la trovai senza scarpe, a piedi nudi sul pavimento, l’estasi dipinta sul suo volto.
«Questo di solito te lo faccio dire io» la canzonai. Ridacchiò.
«Maledette scarpe, nonostante la mia attenta preparazione, mi hanno fatto malissimo» piagnucolò e la guardai con tenerezza. Mentre mi avvicinavo ancora di più a lei, la mia attenzione fu catturata da una macchia sul pavimento.
«Bella, stai sanguinando» le dissi allarmato.
«Maledizione, devono essersi rotte le vesciche» si lamentò e si trascinò verso il bagno, chiudendo la porta dietro di sé. La seguii e la osservai prendere dalla cassettina del pronto soccorso presente in bagno garze, cerotti e disinfettante.
Si sedette sul water e mise il piede sinistro sul ginocchio destro per studiare i danni. Non ci pensai due volte a inginocchiarmi di fronte a lei e a riempire di acqua calda il bidet.
«Che fai? Esci, non voglio che mi tu veda così» farfugliò.
«Lascia fare a me» mormorai, liberando il piede dalle sue mani e invitandola a immergerli entrambi nell’acqua calda.
«Edward…» sussurrò.
«Hai portato per caso con te una pomata antibiotica? Io ho dimenticato di metterla in valigia» alzai gli occhi al cielo. Meno male che almeno i vestiti li avevo messi tutti, avevo fatto quel bagaglio con la testa completamente tra le nuvole.
«Sì, è nel beauty case blu» le sorrisi e mi allontanai per andare a prendere quello che mi serviva.
«Quando hai preparato quel beauty case lo hai fatto pensando che saresti andata a lavorare in un fronte di guerra come infermiera?» ridacchiai, coinvolgendo anche lei. C’erano dentro pomate antibiotiche, pomate a base di cortisone, cerotti per le vesciche, cerotti medicati, garze, antidolorifici, antibiotici, antiacidi, fermenti lattici, colliri: un’intera farmacia in formato da viaggio.
«Non si sa mai cosa può succedere in viaggio. Inoltre, so bene che di solito le scarpe eleganti mi fanno venire le vesciche» mi spiegò.
«E tutti quei farmaci? Gli antidolorifici, ad esempio?» continuai.
«In parte per me, potrei averne bisogno tra una settimana circa. In parte per te, visto che spesso e volentieri hai mal di testa» mi sorrise. Premurosa, come sempre. Le diedi un bacio sulla testa e poi mi allontanai di nuovo per recuperare uno sgabello.
Presi un’asciugamani, mi sedetti di fronte a lei e la invitai a tirare fuori dall’acqua i piedi.
«Edward, faccio io, davvero… sono i miei piedi, li ho tenuti nelle scarpe e ci ho camminato per tutto il giorno, e perdono sangue e altri fluidi disgustosi e…» la baciai per interrompere le sue proteste.
«Lascia che mi prenda cura di te» le dissi e la sentii sospirare.
Le massaggiai i piedi e disinfettai con cura le vesciche aperte. Con molta attenzione tamponai le ferite con le garze per asciugarle e poi, dopo averci spalmato su una generosa dose di pomata, le fasciai con i cerotti. Sentii il suo sguardo su di me per tutto il tempo, quando sollevai il capo e le sorrisi notai che aveva gli occhi lucidi e le pupille dilatate.
«Grazie, dottor Cullen» mi disse, mentre si rimetteva in piedi, infilando le ciabatte che le avevo portato.
«Il dottor Cullen è mio padre, diciamo che io come assistente posso cavarmela, però» le sorrisi. Si allungò sulle punte per baciarmi.
«Sei molto più che un bravo assistente, Edward» mi disse e all’improvviso abbassò lo sguardò.
«Cosa c’è?» le domandai, mettendole due dita sotto al mento per farle alzare il viso. Non mi piaceva non riuscire a guardarla negli occhi.
«Dobbiamo parlare, Edward» mi disse, improvvisamente seria e distaccata.
«Di cosa?» cercai di contenere il panico nella mia voce.
«Del tuo futuro» prese un profondo respiro e sollevò lo sguardo. Era indecifrabile.
«La persona che era stata individuata da James per ricoprire il ruolo di responsabile del reparto contabilità ha ricevuto una proposta migliore e ha rifiutato all’ultimo la nostra. James sta lavorando per reclutare qualcun altro; ma io penso non sia necessario cercare troppo lontano e anche loro sarebbero d’accordo se fossi tu a ricoprire la posizione di responsabile» disse d’un fiato.
«Bella, cosa stai dicendo?» le domandai allarmato.
«Ti sto offrendo l’opportunità di fare un grande avanzamento di carriera» mi spiegò, formale.
«Ma sarebbe qui a New York!» protestai.
«Sì», rispose lei laconica.
Cosa le stava prendendo? Cosa le era successo?
«Perché?» le domandai, afferrandole le braccia e scuotendola. Non mi preoccupai di averle fatto male stavolta, ero sconvolto.
Dopo tutto quello che ci eravamo detti il giorno prima, dopo tutte le sottintese promesse di un futuro insieme, voleva spedirmi a New York?
Voleva stare lontana da me?
Non poteva, non glielo avrei permesso.
Ero stato così felice fino a un momento prima, non le avrei permesso di rovinare il nostro futuro.
Tutti questi pensieri allarmati, produssero come effetto una maggiore stretta sulle sue braccia. Quando incrociai il suo sguardo spaventato, però, allentai immediatamente la presa, lasciando comunque le mie mani sulle sue spalle. Non volevo farle male, era troppo preziosa per me.
«Perché tu ami New York» mi rispose calma, il suo sguardo dolce mi accarezzava il viso.
Scossi il capo.
«Amo te di più».

 
 

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Non mi linciate, lo so che vi lascio in sospeso con questo finale!
Fidatevi di me! Cosa ci sarà mai scritto nella mail che ha ricevuto Edward?
La sveglia di Edward è questa qui
Il ponte di C'era una volta in America è questo qui
Tutti i luoghi citati: Battery Park, i quartieri di Brooklyn, Williamsburg e Dumbo, il bagel shop e il famoso negozio di hot dog di Coney Island sono ovviamente reali.
Cercate qualche foto di Coney Island d'inverno, è davvero magica.


Spero che il capitolo vi sia piaciuto, vi aspetto la prossima settimana con il penultimo capitolo di Espresso.
Purtroppo, siamo in dirittura d'arrivo e non avete idea di quanto sia triste al solo pensiero di doverli lasciare andare, ma al momento il tempo che posso dedicare alla scrittura è davvero pochissimo e piuttosto che lasciarvi in sospeso per mesi prima di un aggiornamento, preferisco chiudere con dignità e poi magari riprenderla in mano con un seguito quando avrò più tempo.
Da lettrice so quanto è fastidioso dover aspettare tanto prima di leggere un nuovo capitolo, si finisce poi per abbandonare le storie, perché diventa estenuante l'attesa e io non voglio che mi abbandoniate.
Da autrice so che non mi piace lasciare le cose in sospeso, ma so anche che poi se sono troppo sotto pressione finisco per scrivere come se fossi sotto tortura e non potrei mai fare questo ad Espresso. Amo troppo questa storia.
Ovviamente ci saranno i pov Bella, come promesso. Anzi, vi chiedo di farmi sapere se c'è qualche momento in particolare della storia che vorreste leggere dal punto di vista di Bella. Fosse per me, se avessi tempo, scriverei Espresso tutta dal suo punto di vista, ma non credo di poterlo fare.
Quindi, fatemi sapere se avete particolari richieste o curiosità, magari coincideranno con i momenti che ho già deciso di scrivere dal suo punto di vista o magari sono momenti a cui non ho pensato e che potrebbero ispirarmi.


PS: ho iniziato a leggere Midnight sun e il mio unico martellante desiderio al momento è quello di leggere tutta la saga dal punto di vista di Edward :D


 
 

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Capitolo 15
*** Capitolo XV - La scelta ***


«Dobbiamo parlare, Edward» mi disse, improvvisamente seria e distaccata.
«Di cosa?» cercai di contenere il panico nella mia voce.
«Del tuo futuro» prese un profondo respiro e sollevò lo sguardo. Era indecifrabile.
«La persona che era stata individuata da James per ricoprire il ruolo di responsabile del reparto contabilità ha ricevuto una proposta migliore e ha rifiutato all’ultimo la nostra. James sta lavorando per reclutare qualcun altro; ma io penso non sia necessario cercare troppo lontano e anche loro sarebbero d’accordo se fossi tu a ricoprire la posizione di responsabile» disse d’un fiato.
«Bella, cosa stai dicendo?» le domandai allarmato.
«Ti sto offrendo l’opportunità di fare un grande avanzamento di carriera» mi spiegò, formale.
«Ma sarebbe qui a New York!» protestai.
«Sì», rispose lei laconica.
«Perché?» le domandai, afferrandole le braccia e scuotendola. Non mi preoccupai di averle fatto male stavolta, ero sconvolto.
«Perché tu ami New York» mi rispose calma, il suo sguardo dolce mi accarezzava il viso.
Scossi il capo.
«Amo te di più».
Per un breve istante fu trafitta dalla potente verità contenuta nelle mie parole e la sua facciata impeccabile vacillò, mostrandomi quanto in realtà le stesse costando farmi quella proposta, ma si ricompose quasi subito, ignorando la mia confessione.
«Edward, ti prego, riflettici e guarda la cosa con razionalità: è un’occasione unica. Per arrivare così in alto a Boston dovresti aspettare ancora qualche anno, come minimo» continuò con calma.
«Non ho ancora né l’esperienza giusta né le competenze per ricoprire quel ruolo, lo sai benissimo» replicai.
Scosse il capo, un mezzo sorriso le piegò le labbra, ma non modificò l’espressione del suo viso.
«Sveglio come sei, imparerai in fretta, non hai bisogno di acquisire chissà quali competenze per gestire un reparto. Inoltre, Alec resterà qui per un mese – era previsto che avrebbe affiancato e supervisionato il responsabile del reparto già da prima – quindi, avrai la sua notevole esperienza su cui poter contare. Imparerai tutto quello che ti serve conoscere lavorando con lui. E ovviamente, non dovrai preoccuparti di nulla, penseremo a tutto noi, avrai anche un alloggio pagato per i primi tempi. Ci rendiamo conto del poco preavviso» continuò calma, facendomi un mezzo sorriso verso la fine.
Quel plurale aziendale e quei dettagli formali in quel momento mi ferirono.
«Smettila di parlarmi come se tu fossi un’istituzione e io fossi solo un tuo dipendente. Sono il tuo uomo, accidenti! Dovrà pur significare qualcosa per te quello che ci siamo detti ieri, dovrò pur contare qualcosa per te» le dissi sprezzante, scuotendole le spalle. I suoi occhi mi rivelarono un altro cedimento.
«Edward, tutto quello che sto facendo, lo sto facendo per te. Mi hai detto tu stesso qualche giorno fa che non avresti mai voluto interferire con le mie scelte, non avresti mai voluto essere un ostacolo. Sai bene che sono mossa dagli stessi intenti. Ti prego, ragiona, è un’occasione che capita una sola volta nella vita» continuò.
Scossi il capo con decisione. Ricordavo quella conversazione e sapevo che i suoi intenti erano più che nobili e che stesse agendo mossa soltanto dalla sua incredibile generosità. Forse a parti invertite, io avrei fatto la stessa cosa, avrei anteposto il suo bene al mio. Mi sarei sacrificato, incoraggiandola a seguire la sua strada e mettendomi da parte per non essere d’intralcio, perché la amavo.
Ma come potevo considerare colei che amavo così tanto un ostacolo? Lei era il mio bene, la mia felicità. Non era ormai più che chiaro? Non lo vedeva anche lei?
«Sono altre le occasioni che capitano una volta sola nella vita, Bella. Tu sei un’occasione che capita una sola volta nella vita e non ho la minima intenzione di permetterti di rovinare quello che abbiamo. È troppo raro e prezioso e lo sappiamo entrambi. Non siamo due ragazzini, sappiamo quello che vogliamo e conosciamo abbastanza la vita da sapere quanto sia raro trovarsi così come è successo a noi» replicai, moderando il tono, ma mantenendolo deciso e determinato.
Avevo promesso a me stesso che l’avrei protetta da qualsiasi cosa, anche da sé stessa – se fosse stato necessario – ed ero intenzionato a mantenere fede alla mia parola.
«Edward, non ho intenzione di rinunciare a noi. Continueremo a vederci durante i fine settimana, Boston e New York non sono così distanti. Possiamo farcela. Sarà solo per qualche anno, quando avrai maturato la giusta esperienza, sarà più semplice farti rientrare a Boston per ricoprire la stessa posizione» mi disse gentile. Sgranai gli occhi.
«Qualche anno? Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Io non posso stare lontano da te per così tanto tempo. Non è una relazione a distanza l’idea di stare insieme che voglio per noi. Forse tu puoi riuscirci, forse i tuoi sentimenti nei miei confronti non sono così forti come i miei nei tuoi» il suo viso cambiò repentinamente espressione, si accigliò e poi vidi la rabbia infuocarle lo sguardo. I suoi occhi dello stesso colore del ghiaccio lanciavano saette.
L’avevo ferita, lo sapevo. Lo avevo fatto di proposito, perché era l’unico modo che avevo per farla cedere. Sapevo quanto ci tenesse a me e mi sentii un po’ in colpa ad averle inferto un colpo così basso, in un modo – a dirla tutta – anche un po’ infantile, ma era l’unico modo che avevo per scatenare in lei una reazione reale. Lei poteva essere brava quanto voleva a mascherare i suoi sentimenti e a mantenere la sua facciata calma, ma io la conoscevo ormai troppo bene.
Era furiosa e una piccola parte di me ne fu compiaciuta.
«Come osi!» sollevò un braccio, la mano stretta a pugno pronta a colpirmi sul petto. La fermai, prima che si facesse male, bloccandole i polsi. Avrei dovuto insegnarle come fare, se avesse voluto imparare. Con la mano chiusa in quel modo, si sarebbe potuta fratturare qualche dito.
«Allora, perché?» domandai con maggiore insistenza, stringendo le mie mani intorno ai suoi polsi e abbassandoli sui suoi fianchi. I miei occhi puntati nei suoi.
«Perché ti amo, testone! Ti amo e voglio che tu sia felice, voglio che tu sia soddisfatto e realizzato in ogni ambito della tua vita e che abbia tutte le possibilità che ti meriti. Ti amo e non voglio che un giorno mi guardi e pensi con rimpianto a quello a cui hai dovuto rinunciare per stare con me. Ti amo e vorrei che tu ti sentissi sempre allegro, entusiasta e leggero come ieri, che vivessi nella città che ami, nella città a cui evidentemente appartieni, visto che ne hai la possibilità concreta ora» la sua voce si ruppe verso la fine.
Lasciai andare i suoi polsi e la strinsi forte tra le mie braccia, soffocando i suoi gemiti con la mia bocca. Mi restituì il bacio quasi con la mia stessa impazienza e si aggrappò alle mie spalle con forza, come se avesse avuto paura di non riuscire a stare in piedi. La sostenni con maggiore decisione, non l’avrei mai lasciata cadere. Il mio cuore scoppiava di gioia nel petto. Sapevo dentro di me che mi amava, ma sentirlo attraverso la sua voce fu indescrivibile.
Dopo qualche istante, a malincuore, mi staccai dalle sue labbra per permetterle di calmarsi. Incastrò la sua testa nell’incavo del mio collo con estrema naturalezza, prendendo respiri profondi sulla mia camicia. Il mio cuore batteva all’impazzata e dovette sicuramente accorgersene, perché posò dolcemente una mano sul mio petto, quasi a volerlo calmare attraverso il suo tocco gentile. Mi concentrai sul ritmo del suo respiro che si andava man mano regolarizzando accarezzandole dolcemente la schiena e continuando a premere le mie labbra sulla sua testa.
Ero sollevato, ero euforico, ero felice. Ero un turbine di emozioni in quel momento.
«Io appartengo solo a te» riuscii a mormorare nel suo orecchio e poi attesi in silenzio, cullandola tra le mie braccia, fino a quando non mi resi conto che il suo respiro aveva ripreso una frequenza normale e che il suo corpo non era più scosso da tremori. Fu lei a rompere il silenzio.
«Perché devi rendermi tutto così difficile?» mormorò sul mio petto.
«Perché ti amo» le risposi con naturalezza. Che bella sensazione poter dare voce ai miei sentimenti.
Borbottò un sarcastico «E meno male!» che mi fece ridere. Stava tornando in sé.
«Bella, Bella, ma come devo fare con te?» cercai di mantenere un tono leggero, ma non era facile. Mi sentivo come un vulcano pronto a esplodere per quante emozioni mi si agitavano dentro.
Sollevò la testa per guardarmi negli occhi, un punto interrogativo si disegnò sul suo viso.
«Sei così brillante e perspicace, non ti è venuto in mente che magari ieri ero così euforico per il fatto che girassi per la città con te e non per la città in sé? Mi sembra di avertelo anche detto a un certo punto» le feci un mezzo sorriso e vidi la consapevolezza iniziare a prendere piede nel suo sguardo.
«E come puoi anche solo pensare che un giorno io possa guardarti e rimpiangere di aver perso qualcosa? L’unica cosa che potrei rimpiangere sarebbe perdere te e rinunciare al nostro futuro insieme, ma non ho nessuna intenzione di farlo. Non accetterò la tua proposta, perché non posso stare lontano da te» mormorai e chiuse gli occhi per un istante, sospirando.
«E poi molto probabilmente a breve avrò la possibilità di iniziare una nuova carriera. A Boston» aggiunsi con nonchalance.
«Cosa?» balbettò, sgranando gli occhi. Le sorrisi.
«Doveva essere una sorpresa, avrei voluto dirtelo domani sera, ma a quanto pare, per quanto mi sforzi, questa benedetta vigilia di Capodanno sembra destinata a rimanere senza sorprese. Sappi che questa è la terza volta che scombini i miei piani per domani sera, non so proprio come devo fare con te» la presi in giro, scuotendo il capo e sorridendo. Era ancora scossa.
«Che sorpresa? Edward, spiegati, per favore» mi supplicò. Le accarezzai una guancia con la punta del naso e le lasciai un bacio leggero all’angolo della bocca.
«Ho ricevuto un’e-mail stamattina, dalla redazione di un canale sportivo che ha sede a Boston. Non te ne avevo parlato, ma circa due mesi fa, quando tu eri qui a New York, durante il weekend successivo alle prime serate che abbiamo trascorso insieme nel tuo ufficio, avevo inviato un pezzo alla redazione di questo canale che trasmette vecchie partite. Ero particolarmente annoiato in quel lungo weekend di pioggia, in TV non c’era niente di interessante e tu eri già il centro dei miei pensieri, così per evitare di perdere completamente la testa, pensando costantemente a cosa stessi facendo qui a New York, avevo partecipato a un concorso che avevano indetto. Volevano che scrivessi un pezzo sulla storia del mio atleta preferito, una sorta di biografia. Hanno letteralmente adorato il mio pezzo e mi hanno chiesto di inviargli il mio curriculum e altri miei scritti. Quando hanno scoperto che sono laureato in storia, mi hanno proposto di unirmi a loro per una collaborazione – per il momento. Vogliono realizzare un programma biografico sui campioni dei Red Sox e hanno bisogno di autori motivati per la scrittura delle puntate, con una notevole passione per lo sport, competenze per la ricerca storica e buone capacità di scrittura. Cercano persone che siano disposte a guardare ore di vecchi filmati e vecchie partite e a cercare e leggere vecchi articoli. Hanno bisogno di qualcuno come me, insomma» le spiegai, la mia gioia era incontenibile.
Si mise le mani davanti alla bocca, i suoi occhi si riempirono di meraviglia.
«Stai dicendo sul serio?» mi domandò.
«Se non ci credi, ti faccio leggere la mail» le risposi, sorridendo.
«Ci pensi che sarò pagato per guardare vecchie partite, per leggere vecchi articoli, per curiosare nella vita dei campioni della mia squadra preferita e poi scrivere la loro biografia?» le domandai, meravigliandomi alle mie stesse parole.
In quel momento mi resi conto che quella poteva essere davvero la mia strada. Autore televisivo di programmi sportivi, e chi ci avrebbe mai pensato?
«È meraviglioso, Edward, sono così felice per te» esclamò, la gioia nei suoi occhi e nella sua voce eco della mia, ma avvertii anche qualcos’altro nelle sue parole. Sollievo. Le accarezzai una guancia.
«Ovviamente per ora si tratta solo di una collaborazione che potrebbe portare a un impiego più stabile, sarò un assistente degli autori, quindi per il momento ti pregherei di non licenziarmi, altrimenti non saprei proprio come pagare l’affitto e finirei in mezzo alla strada. Sai, gli articoli che scrivo non pagano ancora chissà quanto e la redazione mi pagherà in un’unica soluzione alla fine della scrittura del programma, anche se mi hanno assicurato che ci sono ottime possibilità che possano propormi un contratto più stabile e che possa diventare autore a tutti gli effetti. Mi serve ancora uno stipendio fisso, il cliché dello scrittore squattrinato e decadente non mi si addice proprio e un lavoretto part-time da Starbucks non potrei neanche prenderlo in considerazione, visto che non so fare il caffè» ridacchiai.
«Lo sai che non lo permetterei mai» mormorò, puntando i suoi occhi nei miei e accarezzandomi dolcemente il viso. Mi abbandonai al tocco delle sue dita delicate e sospirai.
«Mi rendo conto che rispetto alla tua proposta, questa offre meno certezze – considerando soprattutto che non sono più un ragazzino –, ma non è un’occasione che voglio sprecare. Magari resterò deluso di nuovo, magari sarà solo una parentesi che si concluderà con la scrittura del programma, magari sarò un assistente precario a vita, ma voglio provarci lo stesso. Mi rendo conto che magari da un uomo adulto ti saresti aspettata una decisione più pratica e ponderata, più votata al guadagno e dettata da ragioni più concrete. Spero di non deluder-» mi zittì con un bacio.
«Edward, ma come devo spiegartelo? Io voglio solo che tu sia felice. Non potresti mai, mai deludermi per aver scelto una strada che ti rende così felice e che ti si addice così tanto. Non sarai più un ragazzino, è vero, ma hai poco più di trent’anni. Hai tutto il diritto, anzi hai il dovere, di cambiare strada ogni volta che lo vorrai, finché non troverai la tua. Tu meriti di fare quello che ti piace, quello per cui sei portato, quello che sogni e sei ancora troppo giovane per scegliere una strada che non ti soddisfa, solo perché è la più sicura. Sei ancora così giovane che se dovesse andare male, dovrai continuare a provarci, finché non andrà bene.
Sei destinato a grandi cose, Edward. Sei un abile narratore e uno scrittore brillante. Sono sicura che arriverai molto in alto e potrai essere un mio collaboratore fino a quando e nella misura in cui tu lo vorrai. E se proprio questa avventura dovesse andare male – cosa di cui dubito fortemente –, la mia porta sarà sempre aperta per te, lo sai» mi disse dolce. La baciai, profondamente toccato dalle sue parole.
«Devo aver fatto davvero qualcosa di molto buono nella mia vita precedente per meritarti» mormorai. Mi sorrise, accarezzandomi uno zigomo.
«Grazie e non lo dico solo per le opportunità lavorative. Grazie perché senza di te non sarebbe stato possibile niente di tutto questo. Senza di te non avrei mai e poi mai ricominciato a scrivere, né avrei trovato il coraggio di buttarmi di nuovo» le dissi commosso.
«Non devi ringraziarmi, amore. Io non ho fatto niente, è tutto merito tuo, io ti ho solo incoraggiato un po’. Avevi solo bisogno di credere un po’ di più in te stesso» mi fece l’occhiolino.
«Se tu non mi avessi incoraggiato, se tu per prima non avessi creduto in me e nelle mie capacità, se non mi avessi dato fiducia proprio quando io non ne avevo più, se tu non avessi visto dentro di me più chiaramente di quanto io stesso abbia mai fatto, non avrei mai avuto questa possibilità. Tu sei la fonte di tutte le cose belle che mi stanno capitando ultimamente nella vita, e, tra queste, tu sei senza dubbio la più bella e la più preziosa» mormorai e tremò di fronte alla verità delle mie parole.
«E non è questo quello che fanno le persone innamorate? Migliorarsi e incoraggiarsi a vicenda? Sostenersi e darsi fiducia l’un l’altro? Esserci sempre per l’altro?» sussurrò.
Sorrisi, stringendo forte le mie braccia intorno ai suoi fianchi e appoggiando la mia fronte alla sua.
«Sono felice di sentirtelo dire, perché avrò bisogno più che mai del tuo sostegno, quando inizierò questa nuova avventura. Probabilmente sarò così insopportabile e ansioso verso la fine che ti pentirai di non aver accettato tu stessa di trasferirti a New York» ridacchiai.
«Allettante» mormorò, alzando gli occhi al cielo e sorridendo.
«Non vedo l’ora» aggiunse, poi, baciandomi la fossetta sul mento. Nel suo sguardo trasparente vedevo solo il suo amore infinito, eco del mio.
«Ti rendi conto che ci siamo detti “ti amo” per la prima volta durante una discussione?» le domandai, sfiorandole la punta del naso con la mia.
«Siamo noi, tesoro. Cosa ti aspettavi? Campane in festa e palloncini colorati? È già tanto che almeno siamo usciti dal bagno, visti i nostri precedenti» liberò una risata, contagiando anche me.
«Adesso mi permetti di dirtelo per bene, come meriti, e di toglierti finalmente questi deliziosi ma ingombranti abiti di dosso?» le domandai cercando di rimanere serio, ma verso la fine non riuscii a trattenermi dallo stuzzicarla.
Annuì, il sorriso che si aprì sul suo viso le illuminò finalmente gli occhi.
«Ti amo, Bella. Mi sembra comunque troppo poco per poter esprimere tutto quello che provo per te, ma non credo esistano ancora termini più appropriati» le sorrisi.
«Dovremmo proprio scrivere un reclamo alla redazione del Merriam-Webster, mancano ancora troppe parole nella lingua inglese» ridacchiò.
Aveva ritrovato la consueta leggerezza e la voglia di scherzare, ne fui felice.
«Ti amo, Edward» mi disse seria, guardandomi negli occhi «ti amo così tanto» sussurrò sulle mie labbra, mentre le sue mani scioglievano il nodo della mia cravatta.
 
 
«Mi dispiace averti rovinato i piani per domani sera» mormorò, continuando a disegnare dei piccoli cerchi sul mio petto con l’indice. Sembrava davvero dispiaciuta. Le sfiorai la punta del naso con un bacio.
«Ti amo anche per questo, perché mi sorprendi sempre e mi scombini tutti i piani. Prima o poi, riuscirò a sorprenderti io o comunque, ti prometto che non smetterò mai di provarci» le promisi. Mi sorrise.
«Hai detto che è la terza volta che riesco a rovinarti una sorpresa per domani sera. Questa era una, le altre quali erano?» mi domandò curiosa.
«Beh, avrei voluto baciarti per la prima volta qui a New York, ma sappiamo entrambi com’è andata» ridacchiò, annuendo.
«E la seconda?» mi domandò.
«Avrei voluto fare l’amore con te per la prima volta durante la notte di Capodanno, ma anche in questo caso, sappiamo com’è andata» la guardai ammiccante e strinsi la mia mano sul suo fianco nudo, mi sorrise.
«Sono proprio pessima» mormorò, ridacchiando.
«Oh sì, sei una ragazza terribile. Non hai proprio il senso del romanticismo» la presi in giro. Ridacchiò.
«Sei davvero dispiaciuto che ti abbia scombinato i piani?» mi domandò, accarezzandomi una guancia.
«Non potrei essere più felice che tu mi abbia scombinato i piani» mormorai, prima di darle un bacio.
«Cosa hai organizzato per domani sera?» mi domandò con un sorrisetto impertinente sulle labbra.
«Non te lo dirò, mia cara. Almeno questo può essere ancora una sorpresa» le risposi, scoccandole un sonoro bacio sulle labbra.
«Ti creerà dei problemi il fatto che io non abbia accettato la vostra proposta?» le domandai a un certo punto.
«No, James aveva già individuato un paio di possibili candidati per la posizione, anche se non li aveva ancora contattati. Volevamo prima chiedere a te. Alec si fermerà comunque qui per tutto il mese di gennaio, non credo avrà problemi a prolungare la sua permanenza, in caso di necessità, in attesa che James riesca a reclutare qualcuno. Almeno così Felix sarà soddisfatto, gli piace averla vinta» alzò gli occhi al cielo.
Alec si era occupato insieme a me della formazione dei contabili, era il braccio destro di Felix in Italia. Era un tipo di poche parole, ma era in gamba nel suo lavoro. Mi ero trovato bene con lui.
«Perché Felix sarà soddisfatto? Non mi avevi detto che eravate tutti d’accordo su di me?» le domandai.
«Io avevo proposto te come soluzione permanente, Felix invece voleva affidare l’incarico a un esterno e aveva proposto che rimanesse solo Alec a ricoprire la posizione in attesa di trovare qualcuno. Abbiamo messo entrambe le proposte ai voti e io e James abbiamo votato per te. Mi ha sorpreso, è più in gamba di quanto credessi» mormorò.
«O magari cercava solo di entrare nelle tue grazie votando per la tua proposta» borbottai.
Non mi piaceva quel James, ero geloso marcio di lui e il fatto che avesse trascorso altro tempo con Bella mi dava fastidio.
«Edward» mi chiamò, mettendomi entrambe le mani sul viso e ridestandomi dai miei pensieri che sicuramente si erano palesati attraverso la mia espressione corrucciata «per me ci sei solo tu, lo sai» mi disse, ripetendo le parole che avevo detto a lei qualche giorno prima, con un enorme e sollevato sorriso sul suo volto.
La baciai, felice come non mai.
«Lo so» le risposi, sorridendo a mia volta.
 
 
In serata telefonò a Felix, che, come previsto, fu felicissimo di averla avuta vinta. Non volle neanche sapere perché avevo rifiutato. Decisero di comune accordo di assegnare temporaneamente ad Alec la posizione, fino a quando James non avesse individuato qualcun altro. Felix avrebbe informato James e fui grato per questo. Almeno non doveva sentirlo né vederlo più lei.
«Oh, mi dispiace, ma quella sera ho già un impegno» mormorò, guardandomi.
«Il 5 sì, potrebbe andare bene. Certo, certo, come ai vecchi tempi» disse accondiscendente e alzò gli occhi al cielo. Soffocai una risata schiacciando la faccia sul cuscino.
«Ovviamente verrò a Volterra la prossima estate» mi sorrise.
«Va bene, glielo dirò appena lo sento. Buon Capodanno anche a te, ci vediamo giovedì» chiuse la chiamata e spense il telefono. Sorrisi, allargando le mie braccia per accoglierla.
«Cosa devi dirmi?» le domandai, mentre la stringevo forte.
«Non ci ho capito granché dagli spezzoni della conversazione, ma sento che a un certo punto sono stato tirato in ballo» sorrise e mi baciò una guancia.
«Hanno organizzato una cena per la fine dei lavori, prima che loro ripartano per l’Italia. E, conoscendoli, sarà una cena di gala» sbuffò. Ridacchiai e le baciai i capelli. Sapevo quanto detestava le occasioni in cui doveva vestirsi in un certo modo e indossare certe scarpe.
«Vogliono che ci sia anche tu, hanno apprezzato tutti molto il tuo lavoro. Alec ti ha riempito di elogi» mi disse, mentre mi accarezzava la mascella con il dorso della mano.
«Beh, grazie, puoi dirgli che ci sarò» le risposi «i tuoi piedi saranno guariti per il 5 gennaio e potrai indossare di nuovo quelle bellissime e comodissime scarpe» ridacchiai e mi beccai un’occhiataccia.
«Ricordami di buttare quelle scarpe domani quando usciamo» mormorò.
«Aspetta, tu però gli hai detto che non ci sarai quella sera. Che impegni hai?» mi fece un sorriso furbo.
«Avevano proposto di farla il 6, visto che loro partono il 7, ma né io né tu avremmo potuto partecipare quella sera, visto che andremo a vedere una partita dei New York Giants al MetLife Stadium. Spero vada bene per te, altrimenti dovrò andarci da sola» disse con misurata nonchalance. Sgranai gli occhi.
«Bella, cosa stai dicendo?» la gioia nella mia voce era palese. Mi sorrise.
«Come sai, non sono proprio un’esperta, quindi spero vivamente che i Giants ti piacciano almeno un po’. Te li ho sentiti nominare un paio di volte, ho letto l’articolo che hai scritto su di loro e…» incollai le mie labbra alle sue, interrompendo la sua frase.
«Mi stai dicendo che sei riuscita a trovare i biglietti per andare a vedere i Giants e che tu verrai con me?» le domandai incredulo.
«Sarebbe quello il piano» rispose serafica. Premetti con maggiore intensità le mie labbra sulle sue, che si schiusero immediatamente permettendo a entrambi di approfondire il bacio.
«Ripeto: devo aver fatto davvero qualcosa di molto buono nella mia vita precedente per meritarti» le dissi, quando ripresi fiato. Ridacchiò.
«Domani siamo liberi, non mi sembra vero» sospirai.
E per fortuna, avevo una cena da organizzare!
«Mi dici che cosa hai intenzione di fare domani sera?» mi domandò, una nota di preoccupazione nella sua voce.
«No», risposi con un sorriso beffardo sulle labbra.
«Posso sapere almeno dove dobbiamo andare? Come mi devo vestire? Staremo all’aperto o al chiuso? Sai, ho i piedi che sanguinano, letteralmente. Non avrai mica intenzione di farmi camminare molto, vero?» le sorrisi.
«No, amore, non dovrai camminare quasi per niente e non staremo all’aperto» la rassicurai.
«Grandioso, quindi niente crociera sull’Hudson, né Times Square, e direi neanche la maratona a Central Park. La maratona non mi sarebbe dispiaciuta in condizioni normali, ma con queste vesciche… Hai intenzione di portarmi all’Opera, per caso?» mi domandò speranzosa.
«Non domani sera» le risposi, sorridendo. Avevo preso i biglietti per Il barbiere di Siviglia di Rossini per una delle nostre ultime serate a New York. Sapevo quanto amava la musica classica e quanto apprezzava l’Opera.
«Non domani sera?» incalzò, i suoi occhi brillavano.
«Erano stati già tutti venduti i biglietti per domani sera, ma sono riuscito a trovarli per la sera del sette gennaio» le sorrisi.  
«Andremo al Met, davvero?» mi domandò. Annuii, sorridendole.
«Grazie» esclamò, sollevandosi sulle braccia e allungandosi per raggiungere le mie labbra.
 
 
Il mattino seguente mi svegliai alle 10 – avevamo fatto molto tardi la sera precedente – e cercai di prepararmi senza svegliare Bella, ancora profondamente addormentata. Avevo appena finito di fare colazione sul terrazzo, godendomi la vista spettacolare che offriva, quando sentii i suoi passi avvicinarsi. Mi voltai e la trovai imbronciata.
«Edward, perché non mi hai svegliata? Ho dormito troppo» brontolò, trascinandosi verso di me.
Ridacchiai e allargai le braccia invitandola ad accomodarsi sulle mie gambe.
«Dormivi così bene, per una volta puoi anche concederti qualche ora di sonno in più» la strinsi forte tra le mie braccia e la baciai dietro l’orecchio. Afferrai la coperta che avevamo lasciato sul divanetto la sera prima e la avvolsi intorno alle sue spalle: era ancora in pigiama e anche se non era una mattina particolarmente fredda – stranamente – non volevo rischiare che si ammalasse.
«Grazie» mi sorrise, accoccolandosi ancora di più sul mio petto.
«Perché sei già vestito? Da quanto tempo sei sveglio?» mormorò, puntandomi il dito contro la felpa.
«Da circa un’ora. Devo uscire tra un po’» risposi vago.
«Allora sarà meglio che mi sbrighi, anche se speravo di poter restare un po’ di più qui oggi. Ci sarà il caos lì fuori, il centro sarà già stato preso d’assalto dai turisti» alzò gli occhi al cielo e cercò di alzarsi, ma la fermai.
«Non puoi venire con me stamattina».
«Oh», esclamò delusa. Ridacchiai.
«Ho una serata da organizzare» le spiegai, sorridendo e toccandole la punta del naso con un dito.
«Non hai bisogno di aiuto? Non posso venire con te?» continuò. Era difficile dirle di no quando usava quel tono di voce e quando il desiderio di stare insieme ogni attimo era condiviso da entrambi, ma dovevo resistere alla tentazione.
«No, amore, non puoi venire con me. Ti ho detto che sarà una sorpresa» risposi serafico.
«Va bene», si arrese, «tanto avevo già in programma di visitare la Spa dell’hotel. Anche se speravo che potessimo fare qualche trattamento di coppia» mormorò maliziosa, appoggiando di nuovo la testa sul mio petto e abbracciandomi.
Sorrisi e la strinsi forte, posando un bacio sui suoi capelli.
«Puoi sempre prenotarli per un altro giorno» sussurrai malizioso nel suo orecchio. Le sollevai il mento e feci scorrere le mie labbra dall’orecchio lungo tutta la mascella, fino a che non raggiunsero e si unirono alle sue.
«Niente colazione salata stamattina?» mi domandò curiosa, sentendo il sapore del cioccolato e delle nocciole nella mia bocca.
«Avevo voglia di dolce stamattina e tu dormivi» mormorai con un finto tono accusatorio e infilai la mano sotto la maglia del suo pigiama, facendola scorrere con studiata lentezza prima dal fianco verso il basso e poi verso l’alto. Sussultò quando le sfiorai il seno con il pollice.
«Sei insaziabile» scosse il capo ridendo. La guardai ammiccante.
«Colpa tua» la punzecchiai e in quel momento il suo stomaco brontolò.
«È ora di fare colazione» ridacchiò.
Allungò il braccio sul tavolino per afferrare il sacchetto e, quando vide il logo di Breads Bakery, si voltò verso di me, sorridendo.
«Oh», mormorò meravigliata. Le baciai la fronte.
«Il tuo primo regalo» sussurrai, sorridendo.
«Il tuo primo abbraccio» replicò, accarezzandomi una guancia.
 
 
 
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Ve l'avevo detto di fidarvi!

Vi aspettavate che il contenuto della mail che Edward aveva ricevuto potesse essere così promettente? Una di voi ci era andata molto vicina.
Breads bakery è il forno in cui Bella aveva comprato i rugelach che aveva portato a Edward da New York esattamente il lunedì successivo al weekend durante il quale lui aveva scritto e spedito il pezzo per partecipare al concorso. Se non lo ricordate, è nel quinto capitolo.
Non è un caso che Edward abbia deciso di farsi portare la colazione da loro proprio nella mattina successiva al loro chiarimento.

 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, io ho letteralmente adorato scriverlo. Alla prossima settimana, un bacione!

 

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI - La fortuna ***


Tre brevi avvisi:

  • il capitolo è lungo il doppio del solito;

  • prima di leggerlo, ascoltate quest'aria;

  • ad un certo punto ci sarà da ascoltare un'altra canzone, cliccando sulla parola "canzone" nel testo si aprirà direttamente il collegamento su Youtube.
     



Arrivai a Manhattan giusto in tempo per la consegna di quello che avevo ordinato. Il mio amico Albert aveva lasciato le chiavi dell’appartamento al portiere insieme ai pass che ci sarebbero serviti per raggiungere in serata il palazzo. Il portiere mi consegnò anche il pacco che avevo fatto recapitare qualche giorno prima: un piccolo pensiero per ringraziare Albert per la sua cortesia e che Bella avrebbe apprezzato – se possibile – ancora di più di Albert.
L’attico era perfino più bello di come lo ricordavo e la vista che offriva era spettacolare. Ero felice che Albert non lo affittasse mai per quella sera – di solito lo usava lui stesso per festeggiare il Capodanno – ed ero profondamente grato che avesse fatto un’eccezione concedendolo a me e, per di più, per una cifra ben più che amichevole: mi aveva fatto pagare solo per il servizio di pulizia.
Era un vero peccato che fosse in Florida fino a fine gennaio, avrei tanto voluto farlo conoscere a Bella e mi dispiaceva che non fossimo riusciti a incontrarci prima della sua partenza, era da tanto tempo che non ci vedevamo. La prossima volta che saremmo tornati a New York, avremmo di sicuro organizzato qualcosa per rimediare.
Sorrisi al pensiero di quanto fosse diventato facile, elettrizzante e naturale fare progetti per il futuro.
Uscii nella veranda completamente vetrata e riscaldata che si affacciava direttamente su Times Square. Rimasi senza fiato ed era ancora pieno giorno.
Di sera, con le luci, sarebbe stato ancora più suggestivo.
Potevo vedere il fiume di gente che si era già riversata oltre le transenne, i varchi di accesso alla piazza con i controlli della security, la Drop Ball era stata già posizionata sull’asta e tutto sembrava così piccolo visto dall’alto.
Le terrazze sui tetti attorno a me erano tutte un brulicare di persone che stavano curando gli allestimenti delle loro feste per la grande serata. Noi non avremmo dovuto condividere la serata con altre persone su uno di quei tetti o sulla terrazza di un hotel di lusso né saremmo stati storditi dal vociare delle persone e dalla musica troppo alta. Avremmo avuto a disposizione tutti i benefici offerti da una ben più che confortevole abitazione – a differenza delle persone in piazza, per le quali provai per un attimo un po’ di empatia – e avremmo goduto perfino di una vista migliore.
Saremmo stati solo io, lei e Times Square letteralmente ai nostri piedi.
Ero al settimo cielo, Bella sarebbe rimasta senza parole.
Mi sentivo molto fortunato ultimamente, per diversi motivi, ed era una sensazione magnifica.
Rientrai in casa e per prima cosa andai in bagno a lasciare i nostri prodotti personali e il cambio di indumenti per il giorno successivo. Sicuramente Bella si sarebbe accorta che le mancava qualcosa nell’armadio e in bagno, attenta com’era, ma avrebbe capito e apprezzato la mia premura l’indomani.
Poi andai in cucina e avviai le prime preparazioni per la cena. La cucina era completamente attrezzata, c’erano strumenti che non avevo mai usato né visto in vita mia. Albert aveva un servizio catering di fiducia e in genere quando affittava l’attico, il servizio era compreso nel pacchetto; mi aveva chiesto se ne avessi bisogno, ma per la nostra serata ci tenevo a preparare io stesso la cena e a curare personalmente l’allestimento. Mi avrebbe dato fastidio avere davanti per tutta la sera uno chef e un cameriere o dover mangiare cibo precotto e versarlo dai contenitori ai piatti.
Inoltre, Bella era a New York da più tempo di me, da ormai due settimane, e se iniziavo a essere stanco io – che ero arrivato da cinque giorni – di mangiare sempre fuori o di ordinare pasti da consumare in hotel, lei doveva esserlo dieci volte di più. Sapevo quanto fosse attenta all’alimentazione e ci tenevo anche io. Mi piaceva mangiare bene e non mi dispiaceva cucinare.
Prima di uscire, installai la macchina per il caffè dopo averla lavata con cura e ne preparai un paio per testarla. Li versai nello scarico del lavello, ricordavo bene che i primi non erano proprio il massimo da bere. Infine, sistemai le candele e i fiori. Sembrava davvero tutto perfetto.


Tornai in hotel poco dopo le 17, Bella per fortuna non era ancora rientrata dal suo pomeriggio di benessere. Avrebbe sicuramente sospettato qualcosa se avesse annusato l’odore di cucina su di me e sui miei vestiti e io non volevo rivelarle alcun indizio. Mi spogliai e infilai i vestiti che avevo indossato nella lavatrice presente nel piccolo ripostiglio della suite, insieme all’asciugatrice.
Senza alcun dubbio la presenza di quei confort – piuttosto rari anche negli hotel di lusso – erano stati determinanti nella scelta dell’hotel. Bella era un’esperta viaggiatrice e non lasciava mai nulla al caso: quella suite aveva tutto quello che serviva per un lungo soggiorno come il nostro.
Accesi la TV ed entrai velocemente nella doccia. L’impianto di diffusione sonora era un altro dei confort che più adoravo. Era fantastico: c’era una cassa in ogni ambiente della suite – bagno compreso –, sarebbe stata dura ritornare a farsi la doccia a Boston ascoltando la musica diffusa direttamente dallo smartphone lasciato sul ripiano del mobiletto.
La TV era rimasta sintonizzata sull’ultimo canale che aveva scelto Bella quella mattina: una stazione radio che trasmetteva musica classica. Sorrisi e iniziai a insaponarmi, mentre tentavo di ricordare chi fosse l’autore del brano che stava andando in quel momento, senza grande successo.
Non ero un grande esperto di musica classica come lei, ma ne conoscevo abbastanza ed ero sicuro di averlo già sentito quel brano. Verso le note finali, mi venne l’illuminazione: l’avevo ascoltato durante i mondiali di calcio, era un inno nazionale.
Della Germania, forse? Possibile. L’avrei chiesto alla mia esperta, quando sarebbe rientrata.
Mentre spalmavo il gel da barba sul viso – avevo deciso di radermi sotto la doccia, visto che c’era uno specchio su una parete, così avrei ottimizzato i tempi – partì un pezzo che riconobbi subito. Era l’aria Non più andrai tratta da Le nozze di Figaro di Mozart.
Iniziai a fischiettarla, mentre passavo il rasoio sul mio viso.
Continuai a fischiettare il motivetto dell’aria anche quando era finita, alternando momenti in cui canticchiavo la strofa principale, che si ripeteva per tre volte, della quale conoscevo a memoria tutte le parole. Il mio accento italiano lasciava un po’ a desiderare, ma in quel momento non me ne curai, mi stavo divertendo troppo.
«Non più andrai, farfallone amoroso,
notte e giorno d'intorno girando;
delle belle turbando il riposo
Narcisetto, Adoncino d'amor».
Terminai la strofa quando uscii dalla doccia cercando l’accappatoio che avevo lasciato sullo sgabello. Ero così preso dalla mia gioiosa e giocosa esibizione, che non avevo badato molto all’improvviso silenzio intorno a me. E capii subito il motivo del silenzio, quando mi ritrovai di fronte a una Bella sorridente, divertita quanto me, con il mio accappatoio stretto tra le braccia incrociate sotto al petto, che aveva evidentemente interrotto la diffusione della musica in bagno per ascoltarmi.
Si avvicinò a me, porgendomi l’accappatoio.
«Non mi ero accorto di avere una spettatrice che assisteva alla mia piccola performance» mormorai, mentre lo indossavo e strofinavo velocemente i capelli con il cappuccio per togliere un po’ di acqua.
Mi chinai verso il suo viso e per salutarla con un bacio.
«Da quanto tempo stavi lì? Quanto hai ascoltato?» le domandai, mentre disegnavo piccoli cerchi sulle sue guance con i pollici.
«Dall’inizio dell’aria, che era già una delle mie preferite, ma grazie per averla resa ancora più memorabile» mi rispose, circondandomi la vita con le braccia e baciandomi sulla base del collo, rimasto scoperto dall’accappatoio.
«Potevi raggiungermi nella doccia e unirti a me» le dissi ammiccante.
«Avrei voluto farlo, ma poi ho pensato che ti saresti fermato e io mi sarei persa tutto lo spettacolo» alzò la testa e iniziò a scorrermi con la punta del naso e con le labbra tutto il collo fino al mento, dove lasciò un bacio, prima di percorrere la linea della mascella, fermandosi vicino al mio orecchio sinistro.
«Non sapevo fossi così bravo a fischiettare, non ti avevo mai sentito farlo prima d’ora» sussurrò e poi continuò a lasciarmi baci roventi su tutto il viso finché non raggiunse le mie labbra.
«Mi capita di farlo solo quando sono molto felice» mormorai con voce roca, mentre infilavo le mani sotto la sua maglia per accarezzarle la schiena. La sua pelle fu percorsa da un brivido.
«Non hai idea di quanto sia ancora più seducente e profonda la tua voce quando canti in italiano» sussurrò, strofinando delicatamente il naso e le labbra sulla mia guancia.
La reazione immediata del mio corpo la incoraggiò a stringersi ancora di più a me.
Morivo dalla voglia di spogliarla e di farla mia in quel preciso momento, ma ero combattuto: non potevamo uscire troppo tardi, perché ci sarebbe stata troppa calca in metro. D’altra parte, era difficile staccarsi da lei e interrompere l’atmosfera che si era creata.
«Lo so che non abbiamo tempo, ma non ho potuto resistere» ammise candidamente, allontanandosi dal mio viso e accarezzandomi una guancia con il dorso della mano.
«Come fai a sapere che non abbiamo tempo?» le domandai, sfiorandole il naso con il mio.
«Se avessimo avuto tempo sufficiente, a quest’ora i miei vestiti e metà della mia biancheria intima sarebbero già sul pavimento, insieme al tuo accappatoio. Hai a malapena infilato le mani sotto la mia maglia» soffocai la sua risatina con la mia bocca.
La baciai a fondo per qualche minuto, lasciando le mie mani libere di vagare sul suo corpo, sotto la maglia e nei pantaloni della tuta che indossava, mentre le sue mi stringevano i capelli ancora bagnati.
«Forse un po’ di tempo possiamo trovarlo» mormorai, scendendo con la bocca sul suo collo.
«Ah, sì?» sospirò.
Mi slacciò la cinta dell’accappatoio e mi aiutò a sfilarlo, sistemandolo sul pavimento tra i nostri piedi. Mi baciò di nuovo sulla bocca e poi sul collo, passando al petto e scendendo sempre più in basso fino a mettersi in ginocchio sull’accappatoio. Mi accarezzò più volte su e giù le fossette addominali prima con i pollici, poi con le mani aperte e infine alternando colpetti di labbra e lingua, provocandomi brividi lungo tutta la colonna, finché non raggiunse il punto in cui le due insenature terminavano dove lasciò un serie di baci. Proseguì il suo lento pellegrinaggio sulle mie cosce, accarezzandole con desiderio e riverenza, davanti e dietro, scendendo a solleticare l’incavo posteriore delle mie ginocchia, per poi risalire, ripercorrendo al contrario con le mani e con le labbra gambe, bacino, addome, petto, collo, mascella fino a raggiungere il mio orecchio.
«Faresti impallidire Adone in persona al tuo cospetto» sussurrò, mordicchiandomi il lobo dell’orecchio.
«Bella…» sospirai e, incapace di dire o di pensare altro, le presi il viso tra le mani e la baciai. Tentai di spogliarla, mentre le sue mani continuavano ad accarezzarmi scendendo sempre più in basso, lentamente. Un gemito mi morì nella gola, quando raggiunse la meta desiderata. Si staccò dalle mie labbra, mi sorrise e si mise di nuovo in ginocchio sull’accappatoio. Deglutii a vuoto, non più completamente padrone dei miei pensieri e delle reazioni del mio corpo.
Oh.
Iniziò a massaggiarmi lentamente, continuando a guardarmi negli occhi, senza trascurare nessuna parte. Era estremamente attenta e delicata, un’amante molto devota e assai generosa.
Quando iniziò ad alternare alle mani le labbra, la lingua e la bocca, usando le mani per accarezzarmi i testicoli con gentilezza o per strizzarmi i glutei o aggrapparsi alle mie cosce con possessività, mi sembrò quasi di sentire le orecchie che fischiavano e afferrai con una mano la porta della doccia, mentre l’altra rimase morbida sui suoi capelli.
Era la sensazione di piacere più potente che avessi mai provato in vita mia. Era obnubilante, capace di annullare tutti i miei sensi e di amplificarli nello stesso tempo.
Mi stava facendo letteralmente impazzire l’insieme di quello che mi stava facendo, guardarla mentre lo faceva e il suo sguardo che quando incrociava il mio era colmo di desiderio e d’amore per me.
Ero completamente in estasi, incapace di pensare, di parlare, di respirare, di vedere, di volere nient’altro che non fosse lei. Poteva fare di me qualsiasi cosa, ero suo come lei era mia. Quella sola certezza era in grado di mandarmi in visibilio. Mi sentivo davvero molto, molto fortunato.
«Bella» la chiamai, accarezzandole i capelli, quando mi resi conto di essere prossimo al culmine, cosa che ovviamente non le era sfuggita. Mi guardò con dolcezza per rassicurarmi e mi prese una mano. In un gesto di estrema tenerezza la portò, stretta alla sua, sulla mia coscia. Mi accompagnò fino alla fine, con gentilezza e premura. Con amore.
Ero ancora ansimante, ma in un guizzo di lucidità recuperata, riuscii a prenderle entrambe le mani, mentre si rimetteva in piedi, e a incollare la mia bocca alla sua per baciarla.
Quando si accorse che non volevo staccarmi da lei e che non avevo alcuna intenzione di fermarmi lì, rallentò lei il ritmo del bacio.
«Non voglio fare tardi per la nostra serata» mi disse gentile, con il respiro corto, prendendomi il viso tra le mani e accarezzandomi dolcemente. Sospirai, godendomi le sue carezze.
«E poi ho davvero bisogno di una doccia: mi hanno riempito di olio per massaggi dalla testa ai piedi, mi sento tutta unta e scivolosa. È un bene che non abbiamo tanto tempo, non credo che sarebbe molto divertente» disse con nonchalance.
«Finché non proviamo, non possiamo sapere» la guardai ammiccante.
«Lo scopriremo fra qualche giorno, quando saremo entrambi cosparsi di olio, dopo il massaggio di coppia che ho prenotato» mi sorrise maliziosa.
«Non vedo l’ora» soffiai sul suo collo, baciandole un margine di spalla scoperta.
Le sorrisi e la baciai un’ultima volta sulle labbra, prima di allontanarmi e di lasciarla spogliare per entrare in doccia.
Asciugai i capelli con l’asciugacapelli, applicai sul viso la lozione post-rasatura e il profumo dietro le orecchie e sui polsi, continuando a fischiettare e a canticchiare l’aria di Figaro.
La consapevolezza che lei mi stava ascoltando – sentivo qualche risatina soffocata di tanto in tanto coperta dal rumore dell’acqua che scorreva – mi incoraggiava ancora di più a continuare.
Ero particolarmente allegro e su di giri – e come poteva essere altrimenti – e quella melodia era così piacevole e orecchiabile che era difficile togliersela dalla testa.
Ma c’era anche un’altra cosa che non riuscivo proprio a togliermi dalla testa. Quasi stentai a riconoscere la mia espressione estatica riflessa nello specchio.
Volevo vedere la stessa espressione sul suo viso.
Lei mi amava e mi voleva. Come io amavo e volevo lei.
E io volevo lei in quel momento, come lei aveva voluto me poco prima.
Attesi che il fruscio dell’acqua si fermasse e, quando uscì dalla doccia e si avvolse nell’accappatoio tamponandosi i capelli con un’asciugamani, ricominciai a fischiettare e a canticchiare.
«Cherubino, alla vittoria
Alla gloria militar».
«Deduco che sei molto felice» mi sorrise allusivamente. Mi avvicinai a lei, continuando a fischiettare.
«Sono particolarmente felice. Ma sai, la felicità è ancora più bella quando è condivisa» le presi il viso tra le mani e mi avventai sulle sue labbra, già schiuse. Rispose al mio bacio, ma mise una mano sul mio petto per tentare di allontanarmi.
«Faremo tardi» mormorò, liberandosi per un istante, ma cedendo sotto il tocco delle mie carezze.
«Non importa» la rassicurai. Avevamo tutto il tempo del mondo.
Le sfiorai di nuovo la bocca con un bacio, scendendo poi sul collo, mentre lei continuava a strofinare il naso sulla mia guancia, lungo la mia mascella e sul mio collo.
Sapevo che il mix delle fragranze che avevo sulla pelle sortiva su di lei un effetto molto simile a quello che il suo profumo aveva su di me.
Slacciai la cinta dell’accappatoio e continuai la mia discesa. Accarezzai e baciai ogni centimetro della sua pelle calda e profumata, godendo dei suoi sospiri e delle sue mani tra i miei capelli. Un gemito le sfuggì quando applicai con la lingua un po’ più di pressione del solito su un capezzolo e il suo respiro divenne ansimante. Le baciai il neo che aveva sul seno che mi faceva letteralmente impazzire e risalii di nuovo sulla sua bocca, prima di inginocchiarmi di fronte a lei, sul mio accappatoio che era rimasto lì sul pavimento.
«Sei così bella» mormorai, prendendole una mano e baciandole la pelle sottile del polso. Mi accarezzò i capelli e mi sorrise, mentre la mia presa sui suoi fianchi si faceva più salda.
Le accarezzai i piedi, le caviglie, i polpacci e il suo respiro accelerò quando le sfiorai il morbido e sottile punto sensibile dietro le ginocchia, prima con le mani e poi con le labbra.
Salii con le mani sulle sue cosce e percorsi con tocchi leggeri delle labbra il suo addome, dall’ombelico in giù, godendo delle reazioni istintive del suo corpo. Mi fermai tra le sue cosce, la sua pelle lì era particolarmente sottile e delicata, quindi cercai di essere ancora più gentile e attento del solito.
Le sollevai con attenzione una gamba, afferrandola dietro al ginocchio per appoggiarla sulla mia spalla. Si aggrappò immediatamente con le mani sulle mie spalle e le sorrisi.
«Tieniti forte» alzò gli occhi al cielo, ansimante, ma un sorriso si disegnò sulle sue labbra e mi accarezzò dolcemente i capelli.
Mi applicai con estrema perizia e studiata dedizione, alternando dita, lingua e labbra, giocherellando a mio piacimento e godendomi i suoi sospiri, mentre continuavo ad accarezzare con l’altra mano la parte posteriore del ginocchio della gamba su cui era in equilibrio.
Era splendida, i capelli bagnati sulle spalle, più scuri che mai, le guance su cui faceva capolino quel delizioso rossore e gli occhi limpidi, azzurri come il cielo terso, che mi sorridevano ogni volta che la guardavo. Mi sentivo come un pellegrino in adorazione.
Quando raggiunse il culmine e urlò il mio nome, tirandomi i capelli, mi sentii soddisfatto e appagato quanto lei. La aiutai a spostare la gamba dalla mia spalla con attenzione e stavo per alzarmi in piedi, quando mi resi conto che le tremavano le ginocchia. Allora mi sedetti sullo sgabello portandola a sedere su di me, accogliendola tra le mie braccia. Appoggiò la testa sul mio petto e le accarezzai i capelli, mentre si riprendeva.
Sentii le sue mani sulle mie spalle, poi sollevò la testa, mi sorrise e mi baciò.
«Cherubino, alla vittoria» canticchiai sulla sua guancia, tentando di emulare l’intonazione che doveva avere il verso ripetuto per la seconda volta nella strofa, ma risultando in realtà involontariamente allusivo.
Il suo corpo fu scosso da una risatina. La abbracciai più forte e sorrisi anch’io.
«Solo tu potevi farmi ridere dopo… Oh, Dio. Tu…» sospirò e scosse il capo, sorridendo e stringendosi più forte a me.
«Non credo che riuscirò più ad ascoltare Mozart con la stessa innocenza di prima» mormorò, scuotendo il capo con fare teatrale, e scoppiammo entrambi a ridere.
«Ti amo» mormorai sulla sua guancia.
«Ti amo anch’io» mi sorrise, mettendomi una mano sul viso e voltandosi per incontrare il mio sguardo.


Dopo essermi vestito, decisi di telefonare a Emmett, mentre Bella finiva di prepararsi. Lo avevo sentito solo per messaggi in quei giorni.
«Ciao, straniero» mi rispose al terzo squillo.
«Ciao, Emmett. Come stai?»
«Io sto bene. Tu piuttosto? Come procede?»
«Alla grande» sospirai, sprofondando comodamente sul divano. Probabilmente anche Bella, nonostante il rumore dell’asciugacapelli in funzione, riuscì a sentire la risata di Emmett.
«Anche meno, Emmett» lo rimproverai, ma la frase mi uscì fuori più divertita che minacciosa.
«Te la stai proprio spassando» continuò, ridendo.
Non risposi.
«Dai, Teddy, non fare il permaloso pure a Capodanno. Sono contento di sentirti così… estatico».
«Estatico? La mamma ha comprato di nuovo la carta igienica con le parole del giorno?» gli domandai ridendo. Scoppiò a ridere ancora più forte.
Non aveva torto: l’aggettivo che aveva usato calzava a pennello per descrivere il mio stato d’animo in quel momento.
«Sei diventato pure più simpatico. Stai proprio facendo del gran sesso, eh? Bravo, bravo» disse compiaciuto.
Scossi la testa.
«Che fate stasera?» cambiai argomento anche se aveva ragione, più che ragione.
«Ceniamo a casa, vengono anche zia Elisabeth, zio Jimmy, Claire e Tom. Poi andiamo da Seth dopo la mezzanotte».
«Jill Cooper come sta? Come procede la settimana del fitness?» scoppiò a ridere.
«È in pausa fino al 2 gennaio, ma tanto si arrenderà presto» ridacchiò.
«Papà? Rosalie?»
«Papà si è chiuso tutto il giorno nel suo studio oggi, per il suo consueto scarto di fine anno. È proprio un accumulatore seriale, è un miracolo che noi due siamo venuti su normali» feci una risatina comprensiva. Mio padre era abbonato a diverse riviste scientifiche e, come ogni medico, riceveva campioni e gadget dalle varie case farmaceutiche che gli presentavano i nuovi prodotti sul mercato. Lui conservava qualsiasi cosa e a fine anno il suo studio diventava così pieno che gli ci voleva di solito almeno un giorno – se non due – per liberarsi di tutto quello che era superfluo.
«Rosalie sta aiutando la mamma in cucina. Stanno preparando il dannato colcannon» sbuffò.
«Uh, non ti invidio proprio!» storsi il naso.
«Piccolo bastardello fortunato, prima o poi toccherà pure a te» ridacchiai e in quel momento sentii il profumo di Bella invadermi le narici.
Le mimai con le labbra che era Emmett al telefono.
«Salutalo» sussurrò.
«Ti saluta Bella».
«Ricambia. Appena siamo tutti un po’ più liberi, dobbiamo fare una videochiamata» suggerì.
«Certamente. Buona serata e saluta tutti».
«Buona serata a voi» il suo tono era molto allusivo. Alzai gli occhi al cielo e chiusi la chiamata, volgendo la mia attenzione alla meravigliosa fanciulla che si era seduta accanto a me sul divano e che teneva distrattamente una mano sulla mia coscia, coperta dalla mia.
«Non gli hai ancora comunicato la bella novità?» mi domandò.
«Non ancora. Faremo una videochiamata uno di questi giorni, così lo scopriranno tutti insieme» lessi una compiaciuta approvazione nel suo sguardo.
«Mi aiuti con la lampo, per favore?» mi domandò, strizzandomi delicatamente la gamba.
Ci alzammo entrambi dal divano e le tirai su la lampo del vestito, indugiando con le mani sulle sue spalle.
Indossava un delizioso abito nero con le maniche a tre quarti che le arrivava al ginocchio. Lo scollo, il fondo della manica e il girovita erano impreziositi da una striscia di tessuto grigio leggermente glitterato. Il contrasto che creava con l’abito scuro era estremamente raffinato. La cinta in vita, pur restando morbida, metteva in risalto le sue forme, in maniera estremamente intrigante e delicata. Era molto elegante e raffinata, come sempre, assolutamente nel pieno del suo stile sobrio ma ricercato.
«Sei bellissima» mormorai sul suo collo, appoggiando il mento sulla sua spalla.
«Grazie, sei molto bello anche tu» sollevò e piegò un braccio per accarezzarmi sulla guancia.
«Spero sia adeguato alla serata che hai organizzato» disse con una nota di insicurezza nella voce. Le circondai la vita con le braccia, incrociandole sul suo grembo.
«È più che adeguato, è perfetto» le baciai il collo.
«Mi dispiace non poter indossare altre scarpe, ci ho provato, ma mi fanno ancora troppo male le vesciche» mormorò, guardandosi i piedi.
La strinsi ancora più forte.
«Vanno benissimo anche le scarpe, amore. Sei perfetta» le sfiorai la guancia con un bacio che si aprì in un sorriso.
«Pronta per andare?» le domandai, prendendole la mano. Annuì.
«Ci metteremo un po’ più del solito stasera e siamo già un po’ in ritardo» lanciai uno sguardo allusivo e divertito, mentre annodavo la sciarpa.
Mi sorrise complice, ma poi il suo sguardo cambiò.
«Che c’è?» le domandai, sollevandole il mento con un dito.
«Non siamo molto in ritardo, vero? Non vorrei averti scombinato di nuovo i piani» mormorò preoccupata e c’era una sincerità disarmante nel suo sguardo che quasi mi commosse: temeva di avermi involontariamente fatto un torto. La baciai teneramente sulle labbra.
«Siamo in perfetto orario e lo sai che puoi scombinarmi sempre i piani, ogni volta che vuoi» le sorrisi.


Prendere un taxi non era un’opzione praticabile quella sera ed ero lieto del fatto che avesse deciso di indossare un paio di scarpe non molto alte e dall’aspetto tutto sommato comodo, perché avremmo dovuto camminare un po’ per raggiungere il palazzo – Albert mi aveva consigliato di uscire dalla metro un paio di fermate prima di Times Square e di raggiungere il palazzo a piedi, possibilmente cercando di evitare le vie principali – e sapevo che i suoi poveri piedi erano ancora doloranti. Fortunatamente il portone d’ingresso del palazzo non si apriva direttamente su Times Square, altrimenti sarebbe stato un po’ più complicato riuscire ad entrare.
Non mi chiese niente per tutto il viaggio in metro, parlammo pochissimo perché c’era un sacco di gente e il vociare unito al rumore del treno in corsa era assordante. Anche quando uscimmo dalla metro, attraversammo per un breve tratto Bryant park e poi ci inoltrammo nel reticolo di strade parallele e perpendicolari alla Quarantaduesima, rimase quieta e silenziosa.
Sorrisi tra me e me, pensando che il suo stato d’animo doveva essere abbastanza simile al mio durante il viaggio in taxi di qualche giorno prima per raggiungere l’hotel, quando ero arrivato a New York.
Di tanto in tanto le stringevo più forte la mano con la mia – benché fossero coperte dai guanti – e, quando eravamo fermi ai semafori, le baciavo la testa o la tempia, cercando di rassicurarla in qualche modo. Non era da lei tutto quel silenzio e quell’aria circospetta.
Chissà dove pensava la stessi portando, ghignai dentro di me.
Oltrepassammo i controlli della sicurezza esibendo i pass e finalmente riuscimmo a raggiungere il palazzo poco dopo le 21. Strabuzzò gli occhi quando, una volta in ascensore, vide che eravamo diretti all’ultimo piano. Le sorrisi e le accarezzai una guancia con il dorso della mano che avevo liberato dal guanto.
Sembrò rilassarsi solo quando mi vide estrarre dalla tasca del piumino le chiavi per entrare nell’appartamento.
«Puoi aspettarmi solo un minuto qui fuori, per favore?»
Annuì e mi sorrise.
Accesi velocemente tutte le candele, lasciai il piumino nell’armadio vicino all’ingresso, aumentai la temperatura del termostato che avevo lasciato al minimo prima di uscire, feci partire la canzone che avevo scelto e aprii la porta.
Presi Bella per mano e le feci strada all’interno dell’appartamento, aiutandola a sfilare cappotto, sciarpa e guanti.
Ci fermammo di fronte alla vetrata nella terrazza panoramica. Era sbalordita, letteralmente. Avevo posizionato anche lì una serie di candele aromatizzate al gelsomino, il suo fiore preferito.
«Benvenuta all’ultima notte dell’anno più esclusiva di tutta New York» con un ampio gesto della mano accarezzai virtualmente la piazza gremita di gente ai nostri piedi, mentre con l’altra mano portai alle labbra la sua che era rimasta stretta nella mia per tutto il tempo.
«Oh, Edward» mormorò, coprendosi la bocca con la mano libera per cercare di contenere tutta la meraviglia che la stava travolgendo, come potevo ben vedere dai suoi occhi luminosi. Erano più belli che mai, brillavano più di tutte le luci che illuminavano la città intorno a noi.
Le concessi tutto il tempo di cui aveva bisogno per metabolizzare la sorpresa, limitandomi a lasciarle piccoli baci sulla mano e lungo il polso.
«Lo so che non è ancora mezzanotte, ma mi sembrava comunque appropriata per iniziare la serata» indicai con lo sguardo l’oggetto invisibile a cui mi stavo riferendo: la canzone che avevo scelto per il suo ingresso.
«È perfetta» sussurrò, le tremava la voce.
«È tutto perfetto. Tu sei perfetto» mi prese il viso tra le mani e mi baciò con ardore. Ricambiai il bacio e le circondai la vita con le braccia, stringendola forte a me.
«Temevi che ti avrei portata in qualche locale affollato, ammettilo» la presi in giro affettuosamente.
«Ho iniziato a temerlo solo quando abbiamo preso la metro e abbiamo iniziato ad avvicinarci a Times Square. Onestamente, pensavo che saremmo andati semplicemente fuori a cena, quindi non capivo proprio perché avessi voluto il pomeriggio tutto per te» mi sorrise.
«Dovevo preparare la cena e allestire tutto» le spiegai. Sgranò gli occhi.
«Sei venuto qui e hai cucinato per tutto il pomeriggio? Hai fatto tutto tu? Ma… Qui? Come? Tu… Stasera… Quanto?» farfugliò, mentre gesticolando indicava alternativamente l’appartamento e Times Square e poi me. Trattenni una risatina. Le misi due dita sulle labbra e le spiegai come ero riuscito a ottenere quell’attico tutto per noi, rassicurandola sul fatto che non era stato necessario vendere nessuno dei miei organi per ottenere quella privilegiata location in quella particolare serata.
Sembrò rilassarsi.
«Non volevo trascorrere la serata in un banale locale o in un ristorante e francamente saranno anche carine le feste sui tetti, ma sono troppo affollate e rumorose. Volevo stare da solo con te, organizzando una serata e una cena normale come tutte quelle che abbiamo condiviso a Boston prima che tu partissi, ma allo stesso tempo volevo che fosse una serata speciale e non volevo privarti dell’esperienza più suggestiva che offre questa città e che fa accorrere gente da tutto il mondo qui, in questa piazza, per l’ultima notte dell’anno» le spiegai indicando la Ball Drop illuminata.
Mi sorrise e mi accarezzò una guancia, mentre l’altra mano si adagiò delicatamente dietro al mio collo. Era molto emozionata e si prese qualche secondo prima di rispondermi, continuando a far scorrere le sue dita sul mio viso con gentilezza.
«Sono senza parole, dirti solo “grazie” mi sembra oltremodo riduttivo e banale per esprimere davvero tutto quello che sento. Questa è la sorpresa più bella, il pensiero più dolce e la serata più romantica di tutta la mia vita. Grazie» sussurrò, visibilmente commossa.


«Se vuoi toglierti le scarpe, ti ho portato le pantofole» le feci l’occhiolino.
«Proprio quando credevo che non avrei potuto amarti ancora di più» sospirò con aria sognante. Le sorrisi e le indicai con lo sguardo il punto in cui le avrebbe trovate.
«Se è minimamente vero che per arrivare al cuore di un uomo bisogna passare dal suo stomaco, per conquistare il cuore di una donna bisogna curarsi necessariamente del benessere dei suoi piedi» mi disse mentre si toglieva le scarpe. Scoppiai a ridere.
«Ah, davvero? Quindi, avrei anche potuto evitare di cucinare e ordinare la cena stasera? Bastava farti togliere le scarpe per conquistarti?» le domandai, fintamente offeso. Fece una risatina.
«Oh no, mio caro, lo sai che sono io un po’ esigente riguardo a certe cose» disse con aria innocente.
«Definirti solo un po’ esigente è un eufemismo, tesoro» le feci l’occhiolino. Si mise a ridere, mentre si avvicinava all’isola.
«Posso sicuramente affermare che tu, amore mio, hai indovinato la giusta sequenza per conquistarmi» mi abbracciò da dietro. Mi voltai quel tanto che bastava per raggiungere la sua testa e baciarle i capelli.
«E sarebbe?» mormorai, beandomi del suo profumo e della consistenza setosa della sua chioma.
«Mente, cuore, stomaco e piedi».
«Meno male» sospirai e la sentii sorridere contro la mia spalla.
Era rimasta dietro ai fornelli accanto a me mentre riscaldavo e ultimavo le preparazioni per la cena, passandomi quello che mi serviva all’occorrenza, ridacchiando per la mia goffaggine mentre armeggiavo con uno strano utensile per schiacciare le patate – che alla fine aveva usato lei per evitare che lo rompessi e che mi facessi male –, complimentandosi per le combinazioni di sapori che avevo scelto e stringendosi affettuosamente al mio braccio libero nei momenti di pausa.
«Mi era mancato stare con te così» mormorò, accarezzandomi la mano libera sul bancone.
«Anche a me» le tirai su il mento per avvicinarla al mio viso e la baciai.
Sapevo perfettamente a cosa si riferisse, anche a me era mancata da morire la piacevole routine che si era consolidata prestissimo tra di noi e che era stata interrotta dalla sua partenza.
Ero al settimo cielo per la nostra vacanza di lavoro newyorkese che ci aveva resi ancora più consapevoli di quanto fosse profondo il nostro legame, che ci aveva fatto scoprire totalmente innamorati e perfettamente complici in ogni aspetto della nostra relazione, assolutamente perfetti l’uno per l’altra; ma era bello riassaporare un po’ della tenerezza e dell’innocenza delle nostre prime serate insieme, quando avevamo ancora tutto da scoprire e la voglia di stare insieme era così forte e così tanta da farci dimenticare di qualsiasi cosa; quando, perfino dopo le giornate di lavoro più intense e più impegnative, restavamo stretti sul suo divano a bearci della gioia derivante dalla reciproca vicinanza.


«Siccome non abbiamo un dj e neanche lo avremmo voluto», annuì con così tanta enfasi che mi fece sorridere, «ho preparato una playlist per accompagnare la nostra cena» le spiegai, mentre mi avvicinavo al mio tablet che avevo collegato all’impianto di diffusione sonora.
Avevo scelto tutti i pezzi che avevano segnato in qualche modo la nostra storia, dagli albori, quando ancora non sapevamo quello che sarebbe successo.
«Solitamente verso la fine dell’anno si fa sempre un bilancio dell’anno appena trascorso…» cominciai.
«Non avrai intenzione di proiettarmi un grafico, spero» disse fingendosi allarmata.
«Non farmi ridere» la ammonii sorridendo. Alzò le mani e mi fece un cenno con lo sguardo per invitarmi a proseguire.
Mi schiarii la gola.
«A fine anno si fa sempre un riepilogo degli eventi più salienti che sono accaduti. Siccome tutti gli avvenimenti dell’anno che sta per finire che voglio ricordare sono legati a te, ho pensato che sarebbe stato carino ripercorrere questi ultimi mesi con la musica che li ha accompagnati» le spiegai.
«Molto romantico» commentò sorridendo.
«Aspetta di sentire la prima canzone» la avvisai con un ghigno stampato sulle labbra.
Quando partì Sensual Seduction di Snoop Dogg si mise una mano per coprire la bocca e tutto il suo corpo fu scosso da una risata. Ovviamente ricordava tutto anche lei.
«Quella sera è stata la prima volta in cui ti ho visto masticare un bastoncino di liquirizia» disse sorridendo, perdendosi nei ricordi, mentre prendevo posto a tavola accanto a lei.
«E?» la esortai a continuare.
«E avrei voluto esserci io al posto di quel bastoncino. È stato molto difficile resistere alla tentazione di togliertelo dalla bocca e baciarti» confessò, fissando le mie labbra.
Le sollevai il viso e la baciai, aprendole le labbra gentilmente e accarezzandole lentamente la punta della lingua con la mia. Eravamo ancora labbra contro labbra, quando partì il secondo pezzo.
«La Mer?» sgranò gli occhi.
«Ricordi?» le domandai, scendendo con le labbra sul suo collo.
«Come potrei dimenticare? È stata la prima sera in cui sei rimasto con me. La sera in cui hai iniziato ad abbattere tutte le mie difese e a distruggere, una per una, tutte le valide motivazioni che mi ero costruita per convincermi che non potevo farmi prendere troppo da te» mi aveva preso il viso tra le mani, i suoi occhi limpidissimi puntati nei miei. Le sorrisi.
«Probabilmente non ero ancora del tutto consapevole di quanto tu fossi importante per me, ma posso assicurarti che ero già pazzo di te all’epoca» le confessai, accarezzandole una gamba.
Iniziammo a mangiare accompagnati dalla sinfonia di Debussy, sfiorandoci continuamente con baci e carezze, rievocando i momenti più belli e quelli più divertenti di quella prima serata che avevamo trascorso insieme, aprendo completamente i nostri cuori l’uno all’altra e condividendo gli ultimi segreti che erano rimasti da raccontare.
Si susseguirono diversi brani tratti dalle colonne sonore delle serie tv e dei film che avevamo visto insieme, qualche canzone italiana e, nostro malgrado, anche un paio di canzoni brasiliane che scatenarono l’ilarità in entrambi. Arrivammo al dessert con una canzone che quasi la fece strozzare con l’acqua che stava sorseggiando in quel momento per quanto era trash.


«E questa da dove viene?» mi domandò indicando la macchina per il caffè. Non l’aveva ancora notata.
«Indovina un po’? Sono stato primo cliente della Volturi di New York, prima ancora della sua ufficiale apertura» risposi fiero. Scosse il capo sorridendo.
«Come sei riuscito ad averla?»
«Sapevo che Albert non aveva una qui e che tu hai bisogno della tua dose quotidiana di caffè espresso, così ho chiesto ad Alec se c’era un modo per acquistarne una. Si è messo in contatto con il reparto vendite e nel giro di un’ora l’aveva già fatta recapitare qui con un consistente e vario assortimento di capsule. Pensa che mi ha fatto pagare tutto a prezzo di costo, è stato davvero molto gentile. La lascerò qui ad Albert per ringraziarlo della sua enorme cortesia. Ultimamente mi sembra di ricevere aiuto, favori e fiducia da troppe persone senza che io abbia fatto nulla in cambio per meritarli» mormorai. Scosse il capo e mi prese il viso tra le mani.
«Edward, tu non ti rendi conto di quanto sia facile affezionarsi a te, di quanto con il tuo animo gentile e leggero entri nel cuore della gente, di quanto il tuo garbo e le tue buone maniere riescano ad ammorbidire e a conquistare anche il più burbero dei coordinatori» sorridemmo entrambi pensando ad Alec.
«Sei sempre così buono e disponibile con tutti, non neghi mai il tuo aiuto a nessuno. Se le persone sono gentili con te e ti porgono una mano, è perché nessuno lo merita più di te. Fidati» le sorrisi.
«Forse hai ragione» mormorai.
«No, non forse. Ho ragione» puntualizzò, avvicinandosi al mio viso per baciarmi.
«È che di solito queste mie “qualità”», tentai di mimare le virgolette, ma lei mi prese le mani guardandomi con aria di rimprovero per fermarmi, «mi hanno portato sempre più guai che benefici. Non ci sono abituato» mi sorrise comprensiva, accarezzandomi con i pollici i dorsi delle mani strette tra le sue.
«Lo so, ma prima o poi arriva il momento in cui le qualità vengono apprezzate dalle persone giuste» annuii, ricambiando il suo sorriso.
«Adesso, potrei avere un espresso? Inizio ad avvertire i primi sintomi dell’astinenza» ridacchiai.
«Arriva subito, madame» la invitai ad accomodarsi su uno sgabello vicino all’isola.
«Lo prendi anche tu?» mi domandò stupita, quando mi vede inserire la seconda capsula nel vano.
Feci spallucce.
«E se poi non riesci ad addormentarti?» mi domandò, sapendo che non ero abituato ad assumere caffeina di sera.
«Tanto meglio, non ho nessuna intenzione di dormire stanotte» la guardai ammiccante. Scosse il capo, evidentemente divertita.


Qualche minuto prima della mezzanotte ci trasferimmo sul divanetto nella terrazza. L’ambiente era riscaldato, ma preferii lo stesso prendere una coperta per avvolgerci.
Quando a mezzanotte la palla venne tirata giù e i coriandoli si sparsero per tutta Times Square, restammo tutti e due senza fiato e con gli occhi spalancati per la meraviglia.
Godersi lo spettacolo dall’alto era indubbiamente molto suggestivo.
«Felice anno nuovo, amore mio» le sussurrai nell’orecchio.
«Felice anno nuovo anche a te» mi rispose in un soffio prima di baciarmi.
«Sai che su quei coriandoli sono stampati i buoni propositi e desideri espressi dalle persone di tutto il mondo per il nuovo anno?»
«Davvero? Che cosa carina» commentò.
«Mi dispiace non averci pensato prima, avremmo potuto inserire anche i nostri, se mi fosse venuto in mente entro il 28 dicembre» mormorai. Mi accarezzò la mascella con il dorso della mano.
«Non importa» mi rassicurò gentile.
«Puoi esprimerlo adesso, il tuo o i tuoi desideri per il nuovo anno» sussurrai nel suo orecchio.
«Mm… no. A quanto pare si realizzano meglio i desideri che non esprimo» mi toccò una guancia con la mano. Catturai le sue labbra in un bacio che dichiarava apertamente cosa desiderassimo entrambi in quel momento e lasciava già presagire quale direzione avrebbe preso la serata – o meglio, la nottata – di lì a poco.
La presi per mano, conducendola nella camera da letto.
Le tirai giù la lampo del vestito lentamente, lasciando un bacio su ogni centimetro di pelle che scoprivo. La aiutai a sfilarlo via dalle gambe e lo adagiai con cura su una sedia. Si era sfilata i collant, nel frattempo, rimanendo con un’elegante sottoveste nera di seta che valorizzava ancora di più del vestito le belle linee del suo corpo e metteva in risalto la sua pelle chiara e delicata. Si avvicinò a me e sbottonò con voluta lentezza tutti i bottoni della mia camicia, guardandomi negli occhi. Poi passò ai pantaloni, li sbottonò e abbassò la zip; li sfilai e li sistemai sulla sedia, insieme alla camicia, ai calzini e alla maglietta intima.
Non avevamo nessuna fretta, sebbene fossimo entrambi desiderosi di stare insieme, avevamo intenzione di prendercela molto comoda.
La sera precedente era stata emotivamente molto impegnativa e fare l’amore era stato urgente, catartico, necessario.
Sentivamo il bisogno di stare vicini, di fonderci l’uno nell’altra, di stringerci per rassicurarci che fosse tutto reale, che saremmo rimasti insieme per davvero e che tutto sarebbe andato bene. Eravamo entrambi impazienti di unirci il prima possibile ed era stato intenso e magnifico, anche se un po’ frettoloso.
La serata appena trascorsa era stata a dir poco perfetta e il grado di consapevolezza che avevamo raggiunto ci permetteva di misurare le nostre azioni e di goderci le nostre reazioni.
Avevamo entrambi intenzione di procedere con calma, di continuare a corteggiarci, di assaporare lentamente la nostra felicità, di raggiungere gradualmente l’apice della serata.
Sollevai la sua deliziosa sottoveste e la sistemai con cura sulla sedia. Mi sorrise e la abbracciai, godendo come al solito dell’elettricità che scaturiva dai nostri corpi quasi del tutto nudi a contatto.
Sollevò la testa nello stesso momento in cui la mia si abbassava e si inclinava nella giusta angolazione per baciarla. Le sue mani finirono dietro al mio collo e si artigliarono tra i miei capelli, le mie si adagiarono alla base della sua schiena.
Ci spostammo sul letto, eliminando anche le ultime barriere che ci separavano. Non trascurai nessuna parte del suo corpo, dal viso al collo, dalle spalle alle braccia, dal seno all’addome, dall’inguine alle caviglie. Accarezzavo, baciavo e succhiavo delicatamente ogni centimetro di pelle che ormai conoscevo a memoria. Avrei potuto percorrere il suo corpo ad occhi chiusi. Il suo respiro ansimante ad ogni tocco e il mio nome sussurrato ogni volta che mi soffermavo sui suoi punti più sensibili non facevano altro che accrescere il mio desiderio.
«Edward», mormorò, «vieni qui». Mi tirò per il collo, facendomi capire che mi voleva accanto a sé.
Mi sistemai sul fianco accanto a lei, uno di fronte all’altra, occhi negli occhi, pelle contro pelle, uniti in un intreccio di gambe e braccia. Restammo fermi e in silenzio per qualche istante a goderci la sensazione dei nostri respiri sincronizzati e del calore dei nostri corpi. Era una sensazione bellissima stare insieme in quel modo in silenzio lasciando i nostri respiri e i nostri occhi a parlare. Erano momenti molto intimi, quasi più intimi di quello che avevamo fatto prima e che avremmo fatto dopo, e li adoravamo entrambi.
Le accarezzai dolcemente i capelli e mi sorrise prima di mettermi una mano dietro la nuca per avvicinarmi ancora di più al suo viso.
Per tutta la notte più magica dell’anno i miei gemiti furono nella sua bocca e i suoi nella mia.


Gli ultimi giorni a New York volarono in un baleno, le giornate al lavoro erano impegnative, le serate piene e le nottate sempre troppo brevi.
Felix e gli altri amministratori partirono il 7 gennaio, noi saremmo andati via il 10, perché Bella era impegnata fino al 9 in un workshop organizzato in occasione dell’inaugurazione dall’accademia del caffè presso la quale si era formata come sommelier e della quale ora era membro effettivo oltre che docente di alcuni corsi. Io ero libero, il mio lavoro era finito, e approfittai di quei giorni per girare per la città.
L’ultimo giorno del workshop passai a prenderla, avevano terminato le sessioni ed era rimasta solo lei insieme a uno dei fornitori. Le stava passando un piccolo sacchetto di juta che lei aprì e annusò. Un’espressione di pura estasi si dipinse sul suo volto.
Mi avvicinai a lei, quando il fornitore lasciò la sala.
«Cos’è che hai sniffato?» le domandai curioso.
«Chicchi di caffè. Una miscela speciale che porterò con me a Boston» mi rispose.
«È legale? Non vorrei passare per un narcotrafficante e rimanere bloccato dai controlli aeroportuali: tra i farmaci che imbarcherai e quel sacchetto» la presi in giro. Alzò gli occhi al cielo.
«È legalissimo» puntualizzò.
«Com’è andata la competizione? Hai vinto? È quella la nuova miscela che sarà messa in vendita per l’apertura di New York?»
Ogni volta che aprivano una nuova sede, veniva indetta una competizione per creare una nuova miscela ad hoc scelta tra quelle presentate dai membri dell’accademia. La miscela di Boston – quella che avevo avuto l’onore di assaggiare la mia prima mattina di lavoro – l’aveva creata Bella.
«No, questa volta ho preferito far parte della giuria, non ho presentato la mia miscela» rispose e non sembrava dispiaciuta.
«Come mai?» le domandai curioso. Sapevo quanto fosse competitiva e quanto amasse il caffè.
«Sapevo in partenza che la mia miscela non avrebbe avuto molte chance di vittoria e poi non mi andava proprio di condividerla».
Questo non era proprio da lei.
«Perché?»
«Le varietà di caffè che ho scelto per comporla sono estremamente pregiate e costose. Quando dobbiamo creare una nuova miscela da immettere sul mercato, ovviamente dobbiamo tenere conto anche dell’aspetto economico oltre che del gusto. Deve esserci sempre il giusto equilibrio tra la qualità e il prezzo. Questa faticherebbero a venderla anche le caffetterie più lussuose» mi spiegò agitando il sacchetto.
Se possibile, ero ancora più confuso di prima Era troppo sveglia ed esperta per non accorgersi che stava creando una miscela che sarebbe stata giudicata poco vantaggiosa per il mercato.
«E perché l’hai creata lo stesso se sapevi già che sarebbe costata così tanto?»
Fece spallucce.
«I capolavori non si spiegano, si realizzano e basta quando si è ispirati, senza badare ai costi».
«Perché hai detto che non volevi condividerla?»
«Perché è troppo personale» rispose semplicemente.
«Vuoi provarla?» mi domandò. Annuii, curioso di sapere che gusto avesse.
Prima di preparare i due espressi, mi fece annusare il contenuto del sacchetto. L’odore era molto intenso, ma gradevole, per quanto io fossi un umile profano.
Sorseggiai l’espresso insieme a lei. Era delizioso, mi sembrava assurdo che potesse esistere una miscela di caffè migliore. Era davvero un capolavoro.
«Cosa senti?» mi domandò dopo i primi sorsi.
«Cioccolato» annuì, soddisfatta.
«Sento anche altro, però, qualcosa di più dolce del puro cioccolato amaro» aggiunsi.
«Prendi un altro sorso, trattienilo per qualche secondo e poi concentrati sul retrogusto che ti rimane sulla parte finale della lingua» feci come mi aveva detto e sgranai gli occhi. Mi sorrise.
«Liquirizia» sussurrai meravigliato. Assentì, sorridendo.
Aveva unito in un’armonia perfetta i nostri sapori, lei il caffè, io la liquirizia e c’era anche il cioccolato che piaceva a entrambi.
Era in estrema sintesi il sapore dei nostri baci.


La mattina del nostro ultimo giorno a New York eravamo entrambi liberi, così decidemmo di fare un ultimo giro nei pressi dell’hotel prima di rientrare per liberare la suite e recuperare i bagagli per la partenza.
Eravamo seduti su una panchina a Fort Greene Park, Bella aveva la testa appoggiata sulla mia spalla, le nostre mani intrecciate.
Passò davanti a noi un ragazzo molto giovane, era poco più di un adolescente, fasciato in un completo che doveva farlo sembrare più adulto di quello che era in realtà. Camminava tutto trafelato, probabilmente era in ritardo per qualche appuntamento e aveva deciso di attraversare il parco per raggiungere prima la sua meta. Pestò accidentalmente degli escrementi e lo sentimmo imprecare. Sorrisi e sentii Bella tremare tra le mie braccia: stava ridendo anche lei.
«Avevi ragione» le dissi nell’orecchio.
«Potresti essere un po’ più specifico? Io ho sempre ragione» scherzò, ma nei suoi occhi rividi i miei stessi pensieri: il ricordo comune di una scena passata.
«Porta davvero fortuna pestarla».






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Questo non è un addio, è un arrivederci, perché non ho ancora finito con questi due.
Al momento devo fermarmi e spuntare la casella “completa” perché non posso dedicare tutto il tempo che vorrei alla scrittura e non riuscirei ad essere costante con gli aggiornamenti. Tornerò, non so ancora dirvi di preciso quando, ma tornerò. Ci saranno sicuramente i pov Bella prima del seguito.
Ho volutamente scritto un capitolo finale che è conclusivo eppure è aperto, non ho fatto fare salti temporali alla storia, li ho volutamente lasciati a New York, così magari quando tornerò potrò riprenderli da qui.
Prima di salutarvi, vorrei raccontarvi brevemente la storia di Espresso – sì, lo so cosa state pensando: “dopo venti pagine di capitolo, questa ci vuole ammorbare pure con la storia della storia” – ma ci tengo, quindi abbiate un altro po’ di pazienza e leggete queste note.
Durante il lockdown sono stata ri-catapultata dopo tanti, tanti anni di nuovo nell’universo di Twilight. Come è successo a molti di voi, ho riguardato i film trasmessi in tv e mi è ritornata la voglia di scrivere.
Non avevo ancora nessuna idea buona, però. Volevo scrivere qualcosa, ma non sapevo ancora cosa.
Un giorno di maggio, dopo l’allentamento delle misure di contenimento, mentre inscatolavo le mie cose per traslocare, mi sono ritrovata tra le mani una chiavetta usb vecchissima e piena di polvere dalla ridicola capacità di 1 Gb. Neanche mi ricordavo cosa ci fosse in quella chiavetta. Era così vecchia che quando l’ho inserita nella porta usb del pc non la leggeva. Mi stavo arrendendo al suo destino e stavo per buttarla via, quando, dopo averla inserita nell’ultima porta, si è illuminata una timida luce blu e ho sentito un ronzio provenire dal pc.
Dopo qualche minuto, sono riuscita a vedere quello che conteneva: la mia cartella delle fanfiction che avevo scritto e pubblicato qui anni e anni fa e un file word senza nome. La data dell’ultima modifica di quel file mi ha fatto rizzare i peli sulle braccia: 01/07/2012. L’ho aperto – miracolosamente – e c’era la prima parte di quello che poi è diventato il primo capitolo di Espresso.
Non ho cambiato una virgola perché era perfetto così com’era.
Stavo cercando una storia da scrivere e alla fine è stata lei che ha trovato me.
Non posso sapere come sarebbe andata se l’avessi scritta otto anni fa, ma posso sicuramente affermare che sono contenta di non aver buttato via quella chiavetta.
Non avevo una traccia, solo un breve prologo che aveva – perdonate la mia modestia – un gran potenziale. Scrivere Espresso è stato facile, divertente, naturale.
Quella che secondo i miei piani doveva essere una leggera avventura estiva è stato un viaggio meraviglioso che ha superato ogni mia aspettativa.
Grazie per averlo condiviso con me.

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Capitolo 17
*** Extra I (pov Bella) - Edward ***


La sveglia suonò alle sei come ogni mattina. L’ouverture de Le nozze di Figaro mi rammentò che era venerdì. La data lampeggiante sul display mi ricordò che quel giorno compivo gli anni.
Trentatré anni. Era venerdì tredici settembre.
Mi ritrovai a pensare al numero tredici e al trentatré.
Trentatré come gli anni di Cristo mi avrebbe detto mia nonna.
In Italia, a differenza dei paesi anglosassoni, il tredici era considerato un numero porta-fortuna.
A Cristo, però, il tredici non aveva portato molta fortuna.
Fortunatamente non ero mai stata molto superstiziosa e quei numeri erano solo numeri.
Mi rigirai nel letto, scacciando via dalla testa numeri, pensieri e cavalieri templari sul rogo di venerdì tredici.
Che fosse un giorno fortunato o sfortunato, io avrei tanto voluto continuare a dormire quel giorno, non vedere nessuno, restare a casa a poltrire. Avevo ancora sonno quella mattina: i crampi mestruali mi avevano svegliata nel bel mezzo della notte e avevo dovuto prendere un antidolorifico per riuscire a riaddormentarmi.
Proprio un buon compleanno, Bella.
Mi sentivo molto spossata, avrei tanto voluto restare nel letto. Avevo tante ferie arretrate, avrei potuto tranquillamente allungare il weekend. Non sarebbe stata la fine del mondo se mi fossi assentata per un giorno.
Sarebbe stata la mia fine, però, se mi fossi assentata per dei banali dolori mestruali. Io non ero debole né pigra, non restavo a casa per un piccolo malessere, non trovavo scuse di fronte alle difficoltà, non poltrivo a letto. Mai.
Lì dove altri vedevano delle difficoltà, io vedevo delle opportunità. Sempre. Era la chiave del mio successo. Era la mia stessa essenza.
Mi alzai e presi un respiro profondo, come ogni mattina, feci colazione con calma ascoltando online i concerti trasmessi da BBC radio 3: era il penultimo giorno dei Proms. La giornata era tutta dedicata a Beethoven, in quel momento stava iniziando il Fidelio.
Mi ripromisi di andare a Londra il prossimo anno per il mio compleanno per assistere ai concerti di persona. Scossi il capo e sorrisi sorniona per i miei stessi pensieri: a settembre non avevo mai preso le ferie e non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Troppo lavoro.
Da quanto tempo non festeggiavo un compleanno? Troppo, neanche me lo ricordavo.
Da quanto tempo non facevo qualcosa che desideravo fare per il solo gusto di farla nel giorno del mio compleanno? Anche in questo caso, la risposta era troppo.
Da quanto tempo non ricevevo un regalo per il mio compleanno? Troppo.
Sospirai. Non mi era mai importato granché dei miei compleanni. Forse da bambina, perché la nonna sapeva come renderlo un giorno speciale. Crescendo le cose erano cambiate e mi andava bene così. Io avevo voluto che andassero così.
Il giorno del mio compleanno era un giorno come un altro. Non c’era niente di speciale da celebrare.
Nessuno in ufficio conosceva la mia data di nascita, solo Rosalie, che per ovvi motivi legati alla sua posizione aveva accesso alla mia scheda personale.
Fortunatamente era sempre molto discreta e si limitava a farmi gli auguri quando eravamo da sole. La discrezione era una delle tante qualità per le quali l’avevo subito messa a capo del suo settore. Mi fidavo di lei, mi piaceva ed era una delle poche persone di cui tolleravo la presenza per più di un’ora. Dal momento che ci trovavamo spesso a collaborare, era un aspetto fondamentale che tollerassi la sua presenza a lungo.
Quasi tutti gli altri dopo dieci minuti diventavano orribilmente indigesti, specialmente quando era palese che mi stessero adulando per ottenere qualcosa.
 
 
Avevo già ricevuto i messaggi di auguri dai miei cugini in Italia e per fortuna a Seattle era ancora notte. Sperai che lui non se ne ricordasse, non avevo alcuna voglia di sentirlo.
Ogni volta che lo sentivo, i demoni del mio passato che avevo faticosamente messo a tacere si riaffacciavano nella mia mente.
Sapevo che la giornata sarebbe trascorsa senza grossi clamori, ma iniziavo già a sentire il sapore dolceamaro, quasi malinconico, che accompagnava sempre il giorno del mio compleanno. Lo scorrere del tempo mi rendeva sentimentale e quasi vulnerabile. Sorrisi sarcastica. Io ero tutto tranne che vulnerabile.
Avevo realizzato tanto, da sola, e ne andavo fiera. Ero giovane e di successo. Ero soddisfatta della mia vita, amavo quello che facevo, ero felice di essere la donna che ero diventata, ero orgogliosa di chi avevo scelto di essere.
Non mi era mai pesata la solitudine, anzi, mi piaceva. Amavo la mia compagnia e sopportavo poco quella altrui, forse perché non avevo mai incontrato persone così interessanti da ricercarne la compagnia: avevo degli standard molto alti nel lavoro, nella vita privata – se possibile – lo erano ancora di più.
L’unico giorno nell’arco dell’intero anno solare in cui la solitudine diventava un pensiero fastidioso era il giorno del mio compleanno. Anche se per me era un giorno come un altro, inconsciamente qualcosa dentro di me mi diceva che non era giusto che fosse così. Non era giusto che stessi da sola quel giorno. Ma ero brava a mettere a tacere queste voci interne; quindi, visto che era un giorno come tanti, tanto valeva iniziarlo come tale.
Indossai la tuta e le scarpe da ginnastica e andai a fare una passeggiata nel parco vicino casa. Era un’abitudine che avevo preso da quando mi ero trasferita a Boston, l’alba era il mio momento preferito della giornata e camminare aveva sempre avuto un effetto rilassante su di me: mi concentravo sul rumore dei miei passi e automaticamente i miei pensieri si allineavano allo stesso ritmo dei miei passi e un profondo senso di armonia mi pervadeva. Era la terapia migliore del mondo. Era un buon modo per iniziare la giornata.
Mi sedetti sulla panchina su cui di solito trascorrevo qualche minuto la mattina per ammirare il sole che faceva capolino tra gli alberi. Sempre la stessa immagine uguale nel tempo. Avrei potuto essere seduta lì nel 2019 come nel 1919 e avrei visto sempre il sole illuminare gli alberi e il fiume.
Era un pensiero potente, un’immagine piena di energia primordiale.
Mi concessi di restare qualche minuto in più del solito, non sarebbe stata la fine del mondo se per un giorno non fossi arrivata per prima in ufficio. Era il mio compleanno, diamine, potevo concedermi un po’ di lentezza.
Nonostante i buoni propositi, inevitabilmente il pensiero andò al lavoro e al programma della giornata. D’altronde, il mio lavoro era tutta la mia vita.
Quella mattina era previsto l’arrivo di un nuovo dipendente, il suo curriculum mi aveva parecchio incuriosita. Avevamo la stessa età, era nato il 20 giugno, solo qualche mese di differenza e avevamo anche un percorso accademico simile. Entrambi umanisti, dirottati poi nel campo economico. Manageriale, nel mio caso; finanziario, nel suo.
Aveva una laurea in storia e una in economia.
In realtà, prima ancora di leggere il suo curriculum, era stato il suo nome ad aver catturato la mia attenzione, Edward: un nome un po’ fuori moda, ma molto evocativo.
Non avevo mai conosciuto nessuno di nome Edward, nessuno dei miei compagni di scuola o dei ragazzi miei coetanei che avevo conosciuto si chiamava così.
Un nome da principe, osai pensare e mi ritrovai inconsciamente a sorridere.
Mi piaceva come suonava nella mia testa il suo nome.
C’era una certa armonia tra il suo nome, quasi antico, e la scelta del suo percorso di studi. Quasi come se avesse ricevuto un imprinting alla nascita e non avesse potuto fare altro che studiare il passato con un nome così evocativo di tempi passati. Le persone sottovalutavano troppo spesso il potere dei nomi. Era un potere quasi divino: dare un nome a una cosa o una persona significa farle esistere, restituire loro un volto. Chiamare le cose con il loro nome le rende reali.
Chissà com’era Edward lo storico. Chissà com’era il suo volto.
Mi ritrovai a passare in rassegna i pochi studenti di storia che avevo incontrato all’università e rabbrividii. Alcuni tendevano a confondersi con i fossili, altri avevano la spocchia tipica della peggiore categoria di studenti: quelli che erano convinti che la loro facoltà fosse superiore alle altre.
Sperai che il mio quasi dipendente non appartenesse a nessuna delle due categorie.
Provai a immaginare un tipetto gobbuto e minuto con gli occhiali spessi, con i capelli già quasi brizzolati e con un indosso un completo di fustagno marrone, poco incline alla socialità. Magari avrebbe avuto quell’aspetto, però sentivo che sarebbe stato un tipo interessante. Tra le esperienze figurava anche un tirocinio nella redazione di un giornale sportivo. Era un tipo poliedrico, aveva diversi interessi in campi apparentemente distanti tra loro, e io ero stranamente curiosa di incontrarlo.
Era venerdì 13, una data che a uno storico non sarebbe di certo passata inosservata.
Chissà se era un tipo scaramantico.
Mi sorpresi a sorridere al solo pensiero.
Il mio smartwatch vibrò per avvisarmi che stavo ferma da troppo tempo: erano le sette e trenta. Ero rimasta mezz’ora a fantasticare sul mio nuovo impiegato.
Sto proprio invecchiando, ghignai tra me e me.
Feci con calma la doccia e lo shampoo e scelsi con cura gli abiti che avrei indossato. Di fronte allo specchio passai in rassegna il mio corpo e feci il mio annuale inventario: ancora nessuna ruga, per fortuna, pochissimi sporadici capelli bianchi che si nascondevano benissimo nella mia folta chioma scura. Ero diventata un po’ più morbida da quando vivevo a Boston, colpa della pessima cucina della mensa aziendale e dei miei orari, ma per fortuna niente di eccessivo, ero aumentata solo di una taglia rispetto a quando avevo vent’anni. Cercavo di tenermi il più possibile attiva, infatti ero tonica e non c’erano cedimenti da nessuna parte. Mi piaceva avere delle curve più morbide, mi faceva sentire più donna e meno ragazza. Ero, se possibile, ancora più sicura di me. Mi ero sempre piaciuta, anche perché non mi ero mai fissata troppo sul mio aspetto fisico, neanche da adolescente. Era sempre stata la mia fortuna, la capacità di tralasciare i dettagli inutili e fuorvianti e di andare dritti alla sostanza delle cose. Un tratto poco femminile forse, ma assai efficace in tutti gli aspetti della vita. Se non avessi avuto la capacità di andare sempre dritta al sodo, probabilmente non sarei arrivata dov’ero.
Asciugai con cura i capelli e mi truccai; indossai il mio profumo e appuntai alle orecchie gli orecchini che portavo sempre.
Presi anche una giacca: la sera iniziava a rinfrescare.
Mi godetti più degli altri giorni il tragitto che percorrevo a piedi da casa al lavoro. Forse dovevo iniziare ad andare più tardi più spesso in ufficio, se l’effetto era così benefico.
Normalmente, se fossi arrivata anche solo leggermente in ritardo, mi sarei rovinata la giornata da sola. Quando pianificavo qualcosa, doveva essere quella, non potevano esserci cambiamenti.
 
 
Stavo attraversando il parcheggio del vicino McDonald’s quando vidi un ragazzo scendere dalla macchina palesemente agitato; era così nervoso che aveva fatto cadere perfino le chiavi per terra.
Ero ancora troppo lontana per udire le sue imprecazioni, ma le immaginai e sorrisi tra me e me.
Forse era in ritardo.
Raccolse le chiavi e iniziò a camminare tutto trafelato.
Sì, era decisamente in ritardo.
Provai un senso di profonda empatia nei suoi confronti: anch’io detestavo essere in ritardo, ma quel giorno no. Se fossi arrivata al solito orario mi sarei persa tutto quello spettacolo. Era goffo e ansioso, a giudicare da come si martoriava i capelli con la mano sinistra e da come la tracolla della borsa non trovava pace sulla sua spalla e scivolava di continuo – sicuramente la giacca di pelle che indossava non aiutava a tenerla su ferma.
Mi fece sorridere e provai un insolito senso di tenerezza nei suoi confronti.
Nel frattempo – complice il tempo che aveva perso per recuperare le chiavi – avevo accorciato un po’ la distanza che ci separava e potei notare, quando drizzò la testa e le spalle per guardarsi intorno, che era proprio un bel ragazzo. Davvero ben fatto.
Le gambe lunghe e muscolose, un gran bel fondoschiena, la schiena dritta, le spalle forti e ampie e il collo fiero e aggraziato. Aveva una bella postura elegante, molto piacevole da osservare.
Aveva i capelli castani che al sole riflettevano il colore del rame, la pelle del collo era chiara, quasi quanto la mia. Sembrava avere anche delle belle mani, le dita bianche e lunghe, tipiche di chi svolge lavori d’intelletto o d’ufficio e non manuali; sembravano delicate ma forti, da uomo.
Quando fui ancora più vicina a lui, notai che aveva un neo sul collo e trovai tremendamente sexy quel puntino scuro sulla sua pelle diafana e delicata del collo. All’improvviso, provai un’insolita curiosità verso quella figura sconosciuta. Volevo sapere di che colore erano i suoi occhi e com’era il suo viso. A giudicare dal complesso, ero sicura che non sarei rimasta delusa e che fosse sicuramente all’altezza di tutto il resto.
Un momento: stavo davvero facendo tutti quei pensieri su uno sconosciuto? Doveva essere sicuramente colpa del ciclo e degli ormoni in subbuglio. Guardare, però, non faceva mica male, quindi continuai a osservarlo mentre camminava a poca distanza davanti a me.
Stava guardando e si stava anche dirigendo verso la sede dell’azienda, sembrava… interessato?
Era completamente incantato dalla maestosità dell’edificio. La sede della Volturi faceva spesso questo effetto. Sorrisi tra me e me, fiera della mia creatura.
A un certo punto, finì con tutto il piede sinistro su una bella chiazza marrone che sembrava piuttosto recente. Evidentemente non si era accorto che quel parcheggio era praticamente una toilette per cani a cielo aperto.
Certo, quella lì sembrava averla lasciata un cavallo, ridacchiai.
Poverino, mi ritrovai a pensare sorridendo e poi quando gli passai accanto e lo sentii imprecare «Merda!» con il tono frustrato tipico di chi ha iniziato la giornata proprio con il piede sbagliato, trattenni a stento le risate.
Normalmente tiravo dritto di fronte a queste situazioni imbarazzanti, ma c’era qualcosa in lui che mi attirava come una calamita e non riuscii a trattenermi.
Era il mio compleanno, potevo concedermi di fare una battuta a uno sconosciuto.
«Ehm, sì, direi che è la definizione più appropriata!» esclamai mentre gli passavo accanto. Lui non aveva occhi che per le sue scarpe, non mi degnò di uno sguardo.
Di nuovo, un moto di inspiegabile tenerezza mi pervase.
Mi concessi il piacere di una seconda battuta. Ero in vena di spirito.
«Non se la prenda troppo, dicono che porti fortuna!»
Volevo forse rassicurarlo scherzandoci su? Dirgli che sarebbe andato tutto bene, nonostante l’inizio della sua giornata fosse stato letteralmente di merda?
Aveva ancora lo sguardo abbassato sulle sue scarpe, quindi non riuscii a vederlo in volto.
Peccato.
 
 
Una volta arrivata in ufficio, controllai subito la posta elettronica personale e poi quella aziendale. Sconti su sconti da parte dei vari siti di e-commerce sui quali abitualmente facevo acquisti. Gli auguri di Guido, il mio profumiere fiorentino, che mi inviava uno sconto per il mio prossimo acquisto. Senz’altro ne avrei approfittato. Gli auguri di Felix, l’amministratore delegato della sede di Volterra.
Squillò il telefono. Era Charlie. Sapeva che a quell’ora lavoravo, ma ovviamente non gliene importava nulla. Risposi al terzo squillo: via il dente, via il dolore.
«Charlie» risposi atona.
«Potresti anche chiamarmi papà».
«Hai perso quel privilegio tanto tempo fa» dissi fredda e lo sentii sospirare.
«Buon compleanno» era pugnalata detto da lui. Sapevo che odiava il giorno della mia nascita.
«Grazie» risposi con apparente nonchalance. Negli anni ero diventata brava a ignorare il dolore.
«Beh, allora, spero che tu passi una bella giornata. Fatti sentire ogni tanto o magari vedere» contai fino a dieci prima di rispondere.
Lui non mi aveva mai considerata non dico sua figlia, ma almeno un essere umano. Non si era mai interessato a me. Sua moglie non mi sopportava, tant’è che mi aveva telefonata forse mentre la signora stava ancora dormendo. E io mi sarei dovuta far sentire o peggio avrei dovuto fargli visita?
Mi aveva ignorata per anni. Mi aveva probabilmente odiata per anni. Dov’era quando doveva fare il padre?  Quando da bambina e poi da adolescente avevo bisogno di lui?
Quando ci eravamo trasferite in Italia era completamente sparito, lo sentiva solo la nonna che si ostinava a telefonargli. Era pur sempre suo figlio. Se l’era presa con lei perché non aveva ricevuto niente dalla vendita della casa di Forks, la nonna aveva speso tutto per garantirci una vita dignitosa in Italia e per pagare i miei studi, visto che lui non si era mai interessato a me. Fosse stato per lui, sarei morta di fame, probabilmente.
Sua madre era morta e lui non aveva avuto neanche l’occasione per dirle addio. Non sapevo se provare pena o disprezzo per lui.
Aveva ricominciato a farsi sentire quando ero tornata a Boston a dirigere la Volturi. Quando ero tornata in America ricca e potente. Troppo comodo. Parassiti del genere riuscivo ormai a riconoscerli a distanza, il fatto che uno di questi fosse mio padre era dovuto diventare solo un dettaglio irrilevante per il mio benessere. Faceva troppo male fermarsi a pensare certe cose e a rifletterci su. E io mi volevo troppo bene per farmi del male. Quando ero partita per l’Italia avevo scelto di ignorare tutto quello che era successo prima e quando ero ritornata in America ero una donna forte, molto diversa dalla ragazzina amareggiata e delusa dalla vita che era partita anni prima.
«Grazie» chiusi la chiamata senza neanche ascoltare la sua risposta.
Nonostante i buoni propositi, nonostante la mia notevole forza interiore, la rabbia mi pervase. Succedeva ogni volta che lo sentivo – e per fortuna capitava una, al massimo due volte all’anno.
Mi aveva rovinato la giornata. Lo sapevo. Era partita quasi bene quest’anno, ma puntualmente, quando lui chiamava, il mio umore diventava nero.
Avevo bisogno di un caffè, ma poi mi ricordai che avrei dovuto incontrare il nuovo dipendente, quindi decisi di aspettare. Strano che Rosalie non mi avesse ancora chiamata, erano le nove e trenta, doveva essere arrivato da un pezzo. Non mi piaceva essere in ritardo e ancor meno mi piacevano i ritardatari.
 
 
Rosalie mi avvisò tramite la linea interna che il nuovo dipendente era arrivato e si era sistemato. Era arrivato un po’ in ritardo, ma lei non gli aveva detto nulla a riguardo. Sospirai. Non gli avrei detto niente neanche io, in fondo, era il suo primo giorno, poteva capitare. Con lo stato d’animo in cui mi trovavo per colpa della telefonata di Charlie, probabilmente sarei stata meno gentile del dovuto e io non ero così. Non scaricavo mai sui miei dipendenti le mie frustrazioni. Misi da parte la rabbia e feci finta che quella telefonata non ci fosse mai stata: non potevo presentarmi al nuovo dipendente amareggiata. Non se lo meritava e io non volevo essere meno che perfetta con i miei dipendenti. Come sempre.
Mi era stato insegnato che i dipendenti erano come dei neonati agitati perché avvertivano l’ansia della mamma: ed era vero. Se io apparivo calma e sicura di me, di riflesso loro lavoravano bene, sereni. Ma se io mi mostravo tesa o preoccupata, era la fine. Potevo anche essere nervosa e agitata dentro di me, ma non dovevo mai far trasparire nulla. Potevo concedermi di preoccuparmi a casa, quando ero sola, non di certo davanti al mio staff.
Ero forte e sapevo indossare la mia migliore maschera di perfetta manager sicura di sé. Dopo un po’, a furia di far finta che tutto andava bene, le cose andavano bene davvero e della maschera non restava neanche l’ombra e tutto diventava naturale.
Fa’ finta finché non ce la fai. Era stato il mio mantra nei momenti più difficili e quella telefonata non era niente rispetto a quello che avevo dovuto affrontare.
 
 
Andai in bagno a controllare che l’espressione del mio viso non facesse trasparire nulla. Ero un po’ più pallida del solito quel giorno, colpa del sangue che stavo perdendo e della nottata passata quasi in bianco, ma per fortuna non avevo occhiaie evidenti. Ero impeccabile, come sempre.
Mi diressi verso l’ascensore per scendere al terzo piano per conoscere Edward. Era una mia abitudine. Nessun manager faceva quello che facevo io. Ci tenevo a conoscere ogni nuovo assunto e a scambiarci due parole il primo giorno di lavoro davanti a una tazzina di espresso: ero convinta che fosse importante far sentire i nuovi membri dello staff i benvenuti. Il tempo mi stava dando ragione, gli affari andavano benissimo e il livello di soddisfazione dello staff era alto.
Mi recai nell’ufficio di Rosalie che con estremo garbo e un timido sorriso mi fece gli auguri per il compleanno. La ringraziai, accantonando definitivamente la sgradevole telefonata che avevo avuto prima. Il primo impegno della mia giornata mi attendeva e io ero pronta.
 
 
«Oh, eccolo lì. Jasper gli sta facendo fare il giro del piano» Rosalie indicò inclinando il mento in avanti suo fratello e… non era possibile. Non poteva essere lui.
Edward era il ragazzo del parcheggio.
Alla faccia del bipede fossile vestito di fustagno che mi aspettavo di incontrare.
Per un attimo mi sentii quasi mancare, quando i suoi occhi verdi incrociarono i miei. Non avevo mai visto due occhi più belli e magnetici in tutta la mia vita. Aveva uno sguardo estremamente gentile e penetrante.
Spostai velocemente lo sguardo a tutto il suo viso per evitare di perdermi nei suoi occhi e notai che mi stava indicando.
Dannazione. Avevo ragione, più che ragione.
Il suo viso non solo era all’altezza di tutto il resto, ma elevava di parecchi punti il tutto. Era perfetto.
Sembrava rispettare i canoni matematici degli antichi greci e dei pittori del rinascimento.
Il rapporto aureo, la proporzione divina. Sembrava un dio greco.
Avevo di gran lunga sbagliato a definirlo solo un bel ragazzo.
Era l’uomo più attraente che avessi mai visto.
La mascella squadrata, le labbra dritte e sottili, e quell’accenno di barba rossiccia sulle guance… mi ero avvicinata a lui automaticamente, quasi spinta da una forza maggiore.
Stava parlando con Jasper, quando lo sentii dire per la seconda volta quel giorno nel giro di un’ora: «Merda».
Avrei voluto ridere in quel momento. Ma rimasi impeccabile come sempre e aggiunsi alla mia solita nonchalance un pizzico di ironia.
«Non conosce altre parole?» il mio tono era molto più allegro di quanto pensassi.
Non volevo prenderlo in giro e sperai che non l’avesse intesa in quel modo. Non c’era la minima ombra di sarcasmo nella mia voce, ero semplicemente divertita da tutta quella situazione.
C’era qualcosa in lui che mi spingeva ad agire con spontaneità, che tirava fuori il mio lato spiritoso e leggero.
Era dannatamente attraente eppure si comportava come se non se ne rendesse conto. Uno con quell’aspetto doveva guardare in alto, non in basso. Lui, invece, continuava a guardarsi le scarpe, stavolta, per l’imbarazzo.
Riconobbi la tenerezza provata prima nel parcheggio mista a qualcos’altro. Una sorta di strana vicinanza emotiva. Potevo sentirmi così vicina a un estraneo appena conosciuto?
Addolcii automaticamente il tono quando lo invitai a salire con me nel mio ufficio.
Emanava un profumo di bucato pulito che insieme alla fragranza agrumata che indossava e a quel viso perfetto erano una combinazione letale.
Era proprio gradevole stargli vicino.
Durante tutto il viaggio in ascensore sentii il suo sguardo su di me. Un paio di volte lo beccai intento a fissarmi il decolté. Non me la presi troppo: in fondo, io avevo squadrato per bene lui prima e neanche lo sapeva. Eravamo pari.
E, in fondo, dovetti ammettere che mi faceva piacere che mi guardasse così.
Camminando lungo il corridoio che conduceva al mio ufficio continuai a sentire il suo sguardo su di me: potevo immaginare cosa stesse pensando, sapevo che effetto faceva vedere il mio piano e osservare me nel mio ambiente.
 
 
Quando gli offrii il caffè, per poco non feci una gaffe e io non facevo mai scivoloni del genere, specialmente sul lavoro.
Lo avevo chiamato per nome e non ci eravamo ancora presentati. Fortunatamente ero abilissima a cavarmi d’impaccio e lui sembrò accettare come spiegazione la storia del tesserino. Era vero che lo indossava e che c’era il suo nome scritto lì sopra, ed era vero anche che Rosalie mi aveva detto il suo nome; ma non era per quello che lo avevo chiamato per nome.
Io l’avevo chiamato per nome perché il suo dannato nome antico ce l’avevo in testa da un paio d’ore e mi sembrava già di conoscerlo. Era una sensazione strana.
Quando gli strinsi la mano, quella bella mano calda, sentii un piacevole nodo nel basso ventre e non potevo di certo prendermela con i crampi mestruali.
Che cosa mi stava succedendo?
Approfittai della preparazione del caffè per disintossicarmi dall’effetto della sua presenza.
Non gli piaceva il caffè. Mi concessi il capriccio di fare un’altra battuta, ormai la giornata era partita piena di spirito. Era facile scherzare con lui e poi speravo di alleggerire un po’ la tensione che lo attanagliava palesemente.
E mi fece di nuovo tenerezza quando si scusò per avermi indicata poco prima. Era arrivato in ritardo il suo primo giorno di lavoro, con le scarpe nuove sporche di escrementi di cane e ovviamente non si aspettava che la ragazza che aveva incrociato in un parcheggio fosse il suo capo. Se prima avevo provato empatia nei suoi confronti, adesso dovevo coniare un nuovo termine per quello che sentivo, perché empatia non era affatto sufficiente.
Avvertii di nuovo quell’urgenza di volerlo rassicurare, come era successo nel parcheggio, e optai nuovamente per buttarla sullo spirito. Sembrava funzionare e poi ero stranamente in vena di battute scherzose con lui. Ero spontanea.
Se potevo risollevare in qualche modo la sua giornata – che dal suo punto di vista doveva apparire proprio di merda –, forse in qualche modo avrei risollevato anche la mia, che già grazie al suo arrivo trionfale era migliorata di parecchio.
Non ricordavo di aver vissuto un tredici settembre così spensierato da tempo.
La telefonata era ormai definitivamente archiviata nei ricordi da cancellare.
La breve conversazione fu una delle più piacevoli che avessi mai avuto in quell’ufficio. Era intelligente e interessante. Proprio come avevo immaginato. Non aveva cercato di gonfiare il suo curriculum o le sue esperienze, anzi. Era stato onesto e temevo si sottovalutasse anche un po’. Ero abituata ad avere a che fare con toni boriosi e saccenti duranti i colloqui conoscitivi, era la prima volta che mi capitava un neo impiegato così poco incline a esaltare le sue qualità e le sue esperienze.
Mi piaceva.
Mentre parlava, a un certo punto, si era toccato i capelli con la mano sinistra e dal polsino della camicia era sbucato il cinturino giallo dell’orologio. Mi fissai su quel particolare e pensai che dicesse molto della sua personalità, molto più di quanto avesse fatto lui stesso.
Il giallo è un colore allegro, appartiene alle anime gentili e leggere, alle persone che si sentono in armonia con sé stesse e che di riflesso trasmettono un senso di benessere a chi li circonda. Non avevo mai avuto difficoltà a relazionarmi con le persone, ma ricavare piacere da una conversazione di lavoro non era una cosa che capitava spesso. Non capitava quasi mai.
Inoltre, ci voleva una certa dose di coraggio per indossare al lavoro uno Swatch giallo, pensai sorridendo tra me e me.
 
 
Era curioso e aveva un modo di fare le domande senza porle direttamente decisamente pericoloso. Sapeva come farmi parlare. Nessuno era mai riuscito a estorcermi informazioni sul mio passato. Lui, appena arrivato, con una banale frase – assolutamente coerente nel contesto – stava per farmi cedere. Ed era la seconda volta quel giorno che rischiavo di sbilanciarmi troppo con lui. Stavo quasi per raccontargli il mio percorso accademico, ma mi fermai in tempo e lo congedai forse in maniera più distaccata di quanto avrei voluto. Ma lui era un mio dipendente e io ero il suo capo ed era assolutamente indispensabile mantenere una certa distanza.
Meno sanno di te, meno potere avranno su di te. Era una regola fondamentale nel mio lavoro.
 
 
Quella notte mi svegliai di nuovo di soprassalto. E non per colpa dei dolori mestruali.
Avevo sognato Edward. Io e lui in ascensore per la precisione. E le sue belle mani che mi facevano cose deliziose.
Scossi la testa. Non avevo mai fantasticato su un mio dipendente. Mai. Non vedevo mai i miei dipendenti come degli uomini, ma come degli esseri asessuati. Era un’altra fondamentale regola.
Eppure… se io non fossi stata la donna seria e impeccabile che ero e se non avessimo dovuto condividere due terzi del viaggio con altre persone, gli sarei saltata addosso in ascensore. Ed ero sicura che lui non mi avrebbe respinta.
Non mi sentivo così viva da tanto tempo. Non mi sentivo così attratta da un uomo da troppo tempo. E non ero mai stata così attratta da uno sconosciuto in tutta la mia vita.
Era sempre stato un mio sogno erotico farlo in ascensore e lui era decisamente sexy.
Ma io ero io, non eravamo soli e per giunta avevo anche il ciclo quel giorno.
Quasi non riconobbi i miei stessi pensieri. Era tutta colpa degli ormoni e di quei bellissimi e gentili occhi verdi e di quelle mani... Mi riscossi dalle mie fantasie.
Edward era un mio dipendente e quindi era off-limits.



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Come promesso, il primo dei pov di Bella. Copre i primi due capitoli di Espresso.
Fatemi sapere cosa ne pensate e a presto con il nuovo capitolo!
Un bacione

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Capitolo 18
*** Extra II (pov Bella) - Troppo ***



Buonasera e bentrovat*, spero stiate tutt* bene.
Come promesso, sono tornata. A questo extra ne seguirà un altro, non so dirvi con precisione quando lo pubblicherò.
Intanto, spero che vi piaccia questo che copre i capitoli IV e V di Espresso dal punto di vista di Bella.






«Hm» cercai di trattenere un lamento, mentre la pressione delle dita di Gloria aumentava sul mio collo rigido.
«Sei troppo tesa, tesoro, rilassati» mi esortò con gentilezza.
Aveva ragione: ero troppo tesa, troppo stanca, troppo nervosa, troppo agitata, troppo, troppo, troppo
Sospirai e cercai di rilassarmi, come mi aveva appena suggerito.
Tutto in quel weekend era stato troppo: troppo lungo, troppo freddo, troppo faticoso, troppo noioso. Ogni volta che mi trovavo a New York mi sembrava che tutto fosse eccessivo: troppo grande, troppo lontano, troppo popolata, l’estate era troppo calda, l’inverno troppo freddo, c’era sempre troppo traffico, troppa sporcizia, troppa confusione… Non mi sarei di certo rilassata, se avessi continuato a pensare ai difetti di New York. Chissà per quale motivo non avevo proprio alcuna voglia di accettare di trasferirmi lì e amministrare la nuova sede che già prima ancora di aprire sembrava troppo complicata da gestire.
Presi un respiro profondo e cercai di allontanare tutta la tensione che avevo accumulato in quei giorni, concentrandomi solo sulla pressione delle dita di Gloria sul mio collo e sul mio viso.
Era domenica pomeriggio, ero finalmente libera dagli impegni lavorativi e avevo deciso di concedermi alcuni trattamenti di bellezza nella Spa dell’hotel in cui alloggiavo.
«Posso portarti qualcosa da bere prima di iniziare il massaggio?» mi domandò.
«Immagino che un caffè sia fuori discussione» mi fece un mezzo sorriso.
«Abbiamo un’ottima tisana depurativa e drenante che si abbina benissimo con il massaggio che faremo» annuii e la ringraziai prima di vederla sparire oltre la porta.
 
 
Il primo sorso di quella tisana per poco non mi andò di traverso.
«Non ti piace? Sei per caso allergica alla menta o alla liquirizia? Perdonami, ho dimenticato di chiedertelo prima…» mi disse dispiaciuta.
«No, no, non sono allergica» mi affrettai a rassicurarla, mentre tentavo di far tornare il mio tono di voce normale, schiarendomi la gola.
Terminai in poche sorsate di bere la tisana – quasi mi ustionai per la fretta – e mi sdraiai sul lettino.
«Chiudi gli occhi e rilassati» mi suggerì, mentre iniziava a massaggiarmi le spalle.
Facile a dirsi, avrei voluto risponderle. Il retrogusto della liquirizia, che percepivo ancora in bocca, aveva portato la mia mente proprio dove non volevo che andasse e con gli occhi chiusi mi ritrovai a rivedere e rivivere immagini e fantasie recenti che sarebbe stato meglio dimenticare.
Si materializzò immediatamente nella mia mente Edward Cullen, croce e delizia delle mie giornate, che masticava un bastoncino di liquirizia.
Oh, Dio, quanto avrei voluto essere quel bastoncino…
Deglutii a vuoto e sentii un familiare calore pervadermi tutto il corpo, come succedeva ogni qual volta lo incontravo o semplicemente pensavo a lui.
Era troppo, troppo, troppo… perfetto.
Era bello, troppo bello.
Dentro e fuori.
La sua bellezza esteriore altro non era che lo specchio di un animo altrettanto gentile.
Era dolce, affabile ed emanava un’infinita bontà da quegli occhi così belli.
Era bello e buono, proprio come gli eroi della Grecia antica a cui tanto sembrava somigliare.
Aveva sempre un accenno di sorriso nascosto tra le labbra, un piccolo sorriso soddisfatto, come se stesse ripensando a una sua battuta personale ben riuscita – magari appena condivisa con qualche confidente –, che gli conferiva un’aria quasi enigmatica e decisamente attraente.
Mi attirava come non mi ero mai sentita attratta nella mia vita da un uomo; ma non potevo assolutamente neanche solo pensare a lui in quel senso. Lui era un mio dipendente.
Avevo cercato di evitarlo il più possibile, consapevole del fascino che esercitava su di me, ed ero grata del fatto che i miei impegni nell’ultimo mese fossero aumentati, costringendomi spesso a rimanere in ufficio durante la pausa pranzo.
Mi faceva stare male anche il solo pensare di dovermi sentire sollevata quando riuscivo ad evitarlo; mi sembrava di fargli un torto, sebbene fosse solo e unicamente per il suo bene.
Avevo sperato di trovare qualche falla nel suo rendimento lavorativo, per farlo apparire meno perfetto ai miei occhi, ma ovviamente si era rivelato impeccabile.
Era stato assunto da poco più di un mese e già era il contabile più produttivo del reparto intero. Era risultato il migliore del suo reparto già nella sua prima settimana di lavoro e in ogni report che mi era stato inviato continuava a essere in cima alla lista dei dipendenti più virtuosi.
Aveva una bassissima percentuale di errori, praticamente nulla; non si era mai assentato, neanche per un’ora, non aveva ancora chiesto ferie o permessi, sebbene li avesse già maturati, non aveva cattive abitudini improduttive a differenza di altri suoi colleghi di reparto.
Era serio, puntuale, preciso e solerte nel suo lavoro. Mi sembrava anche molto ben voluto e ben integrato con i colleghi.
Era il dipendente perfetto.
Ormai era più di un mese che cercavo disperatamente di trovargli dei difetti per farmi passare la pericolosa sbandata che avevo per lui, ma più mi concentravo su di lui e lo studiavo nei minimi dettagli per scorgere delle macchie in tutta quella perfezione, più scoprivo che mi attraeva qualsiasi aspetto che riuscivo a cogliere. Anche quelli che all'apparenza potevano sembrare dei difetti, ai miei occhi non apparivano tali e non facevano altro che accrescere il suo fascino: come la sua apparente timidezza, che scatenava in me una grande tenerezza; o come il suo modo di pronunciare certe parole, con il tipico accento dolce e delicato di Chicago, che sebbene controllato, emergeva di tanto in tanto. Avevo notato che allungava le vocali, la a in particolar modo, ma anziché infastidirmi, ne restavo ammaliata. Sarei potuta rimanere per ore ad ascoltarlo parlare di qualsiasi cosa: era un abile oratore, come avevo avuto modo di scoprire nelle ultime sere passate insieme nel mio ufficio.
Siccome non mi piaceva perdere il controllo di me e dei miei pensieri e ancor meno mi piaceva sentirmi una codarda, avevo deciso che non avrei più cercato di mettere in atto strategie per evitarlo. Cercargli dei difetti o cercare di evitarlo non stava funzionando, perché continuavo inevitabilmente a concentrarmi su di lui ed era proprio quello che non dovevo fare.
Io non dovevo pensare a lui.
Così, avevo deciso che questa attrazione così come mi era arrivata, mi sarebbe passata.
Come un raffreddore.
Ecco, la mia sbandata per Edward Cullen era come un raffreddore.
E come per il raffreddore non esistono rimedi efficaci e l’organismo guarisce spontaneamente dopo un po’ di tempo, così sarei guarita io dopo un ragionevole lasso di tempo.
Edward Cullen non avrebbe più sortito strani effetti su di me, non lo avrei permesso, dovevo imparare a conviverci, così come si convive con il raffreddore per qualche tempo, finché non passa.
E ci ero riuscita a disintossicarmi da lui.
Per qualche tempo.
Poi era precipitato tutto negli ultimi giorni e si sa che le ricadute sono sempre peggiori del primo contagio.


Non era la prima sera che uscivamo insieme dall’ufficio, dal momento che faceva spesso degli straordinari; ma era la prima volta che lo sentivo canticchiare.
Aveva anche una bella voce, accidenti.
Quando si era girato e lo avevo visto con quel bastoncino tra le labbra, tutto il mio grande piano strategico di considerarlo alla stregua di un raffreddore aveva iniziato a mostrare la sua pietosa inconsistenza. Da quel momento non avevo fatto altro che immaginare quanto sarebbe stato piacevole sentire le sue labbra sulle mie e sentire quel sapore di liquirizia nella sua bocca. Avrei voluto baciarlo, ma non potevo, così mi ero allontanata velocemente da lui e mi ero ricomposta.
La sua determinazione nel volermi accompagnare a casa, ribattendo con ostinazione al mio rifiuto, mi aveva colpito. Quella sera avevo scoperto un nuovo lato della sua personalità: era testardo e mi piaceva. Come mi piaceva il suo profumo. Un’altra cosa a cui non dovevo pensare, specialmente quando eravamo così vicini.
Il viaggio in macchina aveva dimostrato ancora una volta che quando eravamo da soli riusciva a farmi perdere il controllo sulle mie parole e sui miei pensieri: ero troppo sincera e spontanea con lui.
E, d’altronde, lui per me non era un dipendente qualsiasi.
L’elettricità che c’era tra di noi nell’abitacolo della sua auto era palpabile e temevo davvero che potesse succedere qualcosa. Forse volevo che succedesse qualcosa, quando si era sporto verso di me per recuperare l’ombrello dietro al sedile e i nostri visi si erano ritrovati così vicini.
Quella sera, a casa, mi resi conto che misto al sollievo per il fatto che non fosse successo niente si stava iniziando a fare strada dentro di me la delusione derivante da quel bacio mancato.
Forse lui non mi voleva e io avevo interpretato male i suoi segnali. La delusione bruciava, anche se razionalmente mi rendevo conto che non era un rifiuto vero e proprio, non c’erano i presupposti perché lo fosse, ma era comunque doloroso.
E questo era pericoloso.
Perché tra tutte le persone che potevo desiderare e avere, io volevo l’unico che non potevo e ‒ soprattutto ‒ non dovevo desiderare?
La sera seguente, quando si era fatto strada nel mio ufficio oltrepassandomi e dichiarando apertamente che era venuto a cercarmi perché era preoccupato per me, aveva iniziato a smantellare tutte le mie certezze.
Nessuno si preoccupava più per me da tanto tempo.
E poi mi aveva fatto quella domanda. La domanda più semplice del mondo.
«Hai mangiato?»
E avevo sentito qualcosa spezzarsi dentro di me.
Non feci che altro pensarci per tutta la notte e anche nei giorni a seguire.
Quando ero all’università in Italia, avevo seguito un corso di letteratura italiana e mi aveva colpito molto un aneddoto su Elsa Morante: negli ultimi anni della sua vita non faceva che chiedere a tutti i suoi amici quale fosse secondo loro la frase d’amore più vera, quella che esprime al massimo il sentimento.
Tutti dicevano grandi cose, lei rispondeva: «No. La frase d’amore, l’unica, è: hai mangiato?»



Ero sempre stata brava a controllarmi e a mostrarmi distaccata, ma lui era in grado di minare pericolosamente il mio autocontrollo, e – come avevo avuto modo di scoprire appena lo avevo conosciuto – con lui cadevano tutte le mie barriere.
Quella sera mi ero mostrata per quello che ero: stressata, stanca, arrabbiata per quello che era successo con Jessica. Con lui ero un essere umano. Ero io, Bella.
E mi piaceva essere me stessa con lui.
Mi piaceva parlare con lui e ascoltarlo parlare. Mi aveva raccontato qualcosa della sua infanzia e dentro di me si era creata l’immagine di questo bimbetto con i capelli rossicci e gli occhi verdi, con il sorriso dolce e la linea perfetta degli zigomi che ogni tanto si colorava di rosa sulla quale avrei tanto voluto far scorrere le mie dita.
Era troppo facile stare con lui.
Dopo quella sera avevo deciso che in fondo, forse, poteva diventare un collaboratore. Lavoravamo bene insieme e io non riuscivo a lavorare praticamente con nessuno. Lui era un’eccezione.
Potevamo essere amici, magari.
«Abbiamo finito, tesoro» la voce di Gloria mi ridestò e mi riportò con i piedi per terra, letteralmente.
«Grazie mille, Gloria. Ne avevo davvero bisogno» le sorrisi.
«Di nulla. Quando riparti?» mi domandò.
«Questa sera» le risposi mentre mi rivestivo.
«Hai ancora qualche ora da trascorrere in città, allora. Hai qualcosa in programma?»
«Mi hanno consigliato di provare i rugelach di Breads bakery» sorrisi tra me e me.
 
 
Non avevo mai fatto niente del genere per nessuno. Io pagavo i miei collaboratori per il loro lavoro con il denaro, non di certo in dolcetti. Sarebbe stato molto più corretto fargli retribuire lo straordinario, ne ero ben consapevole, ma non volevo offenderlo. Era stato molto chiaro a riguardo.
Ci tenevo, però, a ringraziarlo in qualche modo per il suo aiuto e l’espressione estasiata del suo viso, quando mi aveva parlato della bontà di quei dolcetti, mi aveva fatto presagire che avrebbe apprezzato il dono.
Quello che non avrei mai potuto prevedere era la sua reazione.
Mi aveva abbracciata e ci erano voluti pochi secondi per rendermi conto che ci stavo troppo bene tra le sue braccia.
Mi ero dovuta staccare da lui prima che fosse troppo tardi. Sentire il mio corpo contro il suo, le sue braccia avvolgermi e il calore del suo respiro nel mio orecchio era troppo… Non sarei riuscita a controllarmi, se fossi rimasta un secondo di più tra le sue braccia.
Ormai era chiaro che anche la teoria-strategia dell’amicizia, come quella del raffreddore, avevano fallito.
Era inutile continuare a mentire a me stessa: volevo stare con lui e avrei trovato un modo per ottenere quello che volevo.





Aspetto le vostre opinioni e alla prossima!
Un bacione

 

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Capitolo 19
*** Extra III (pov Bella) - Famiglia ***


Questo extra racconta dal punto di vista di Bella il capitolo XII della storia. Come tutti i pov Bella è molto introspettivo e poco dialogico, in particolare in questo capitolo non sono presenti dialoghi, ad eccezione di un breve flashback.
Nei miei progetti iniziali avrebbe dovuto essere molto più lungo e dettagliato, ma non sono riuscita a fare di meglio. Forse più in là riuscirò ad arricchirlo, per il momento spero vi faccia comunque piacere leggerlo come a me ha fatto piacere scriverlo.
È trascorso un anno dall'ultima volta che mi sono dedicata a questa storia e non volevo aspettare ancora per pubblicarlo.

Buona lettura e a presto.





L’aria fredda del mattino mi colse di sorpresa, scompigliandomi leggermente i capelli. Di tanto in tanto, muovevo le dita delle mani, avvolte nei guanti, mentre camminavo verso Central Park. Avevo dormito malissimo durante la notte, mi bruciavano gli occhi e avevo mal di testa. Nonostante ciò, mi ero svegliata prestissimo, come al solito, e avevo deciso di uscire dall’hotel per cercare di schiarirmi la mente facendo due passi.
Avevo avuto una discussione con Edward la sera precedente e le sue parole mi risuonavano ancora in testa. Erano diversi giorni che discutevamo sempre per lo stesso motivo: lui non voleva che io trascorressi il giorno di Natale da sola a New York e io non volevo che lui dovesse scegliere tra me e la sua famiglia, per non parlare del fatto che io non amavo particolarmente i giorni di festa, non contavano nulla per me e glielo avevo anche spiegato, più di una volta.
Eppure, lui continuava ad insistere e io continuavo a resistere: eravamo davanti a un’impasse.
Non riuscivamo a trovare un punto di incontro, eravamo entrambi stanchi, esasperati dalla lontananza e quella sera avevo quasi rischiato di scoppiare a piangere davanti alla videocamera del pc. Per fortuna ero riuscita a controllarmi ed ero crollata dopo.
 
«Non voglio che tu stia da sola il giorno di Natale».
«Edward, lo sai che per me non è un giorno particolarmente importante».
«Sì, lo so, ma è comunque un giorno di festa… potrei anticipare la partenza di un giorno e stare con te».
«No, non esiste. Non voglio che tu trascorra il Natale lontano dalla tua famiglia, non sarebbe giusto».
«Anche tu sei la mia famiglia».
 
Io non ero la famiglia di nessuno da tanto tempo e non avevo da moltissimo tempo nessuno nella mia vita che potessi considerare “famiglia”. Le sue parole così semplici, così sincere, così affettuose mi colpirono come una sferzata di vento gelido e mi trovarono impreparata. Impreparata alle lacrime che seguirono, impreparata a riconoscerne la potente verità, impreparata ad accettarne le conseguenze.
Avevo chiuso la videochiamata, liquidandolo di fretta perché sentivo gli occhi bruciare. Probabilmente se n’era accorto, ma aveva gentilmente assecondato il mio bisogno di stare da sola in quel momento.
Io non piangevo mai, io ero forte. Solo lui, nel giro di pochissimo tempo, era riuscito a sconvolgere la mia vita e le mie certezze. Era riuscito a farmi dubitare perfino di chi fossi, scoprendo punti vulnerabili che credevo di aver guarito e superato e aveva risvegliato in me desideri che credevo sarebbero rimasti sopiti per sempre. Mi aveva fatto scoprire lati di me che non credevo esistessero e che stranamente sembrava stessi cercando da tutta la vita. Vedevo le cose in maniera diversa, percepivo me stessa in maniera diversa da quando lui era entrato nella mia vita e mi sembrava tutto così surreale, a volte, eppure era tutto così naturale.
Ero sempre stata una persona molto tranquilla e molto controllata, tutta quella confusione e quello sconvolgimento emotivo mi destabilizzavano; eppure, quando ero con lui, riuscivo a conviverci senza fatica.


Stavo camminando senza una meta precisa in mente, quando raggiunsi lo Strawberry Fields Memorial. Non ci ero ancora mai stata, sapevo che era in genere molto affollato, ma quella mattina era ancora molto presto ed ero sola. Mi sedetti su una panchina, lasciando lo sguardo vagare libero di perdersi tra le tessere bianche e nere del mosaico di fronte a me, quando all’improvviso sentii il suono leggero di una chitarra e le parole di una canzone che non conoscevo catturarono la mia attenzione.
La verità di quelle parole mi scaldò il cuore e sentii di nuovo i miei occhi bruciare e calde lacrime scivolare sulle mie guance gelate. Restai su quella panchina ancora per un po’, lasciando che quella sensazione che mi era esplosa nel cuore raggiungesse ogni parte del mio corpo e della mia mente.

Ero innamorata.
Follemente innamorata.

Avevo cercato di razionalizzare, come ero abituata a fare da sempre, avevo cercato la logica in meccanismi che di certo non sono logici, avevo cercato di resistere a qualcosa a cui è impossibile resistere.
Non amavo le feste perché mi riportavano in una fase della mia vita poco felice, mi ricordavano quello che mi era sempre mancato, mi intristivano. Mi ricordavano lo sguardo triste di una madre costretta a mascherare la sua tristezza di fronte a sua nipote, ma con il cuore infranto per il posto vuoto a tavola che avrebbe dovuto occupare suo figlio. Mi ricordavano la madre che non avevo mai avuto e che avevo sempre cercato. Mi ricordavano i desideri che esprimevo ogni anno e che puntualmente non si avveravano.
Avevo accettato tutto quello che era stato, ero cresciuta, avevo superato certe ferite, avevo smesso di desiderare certe cose. Lo credevo almeno.
La verità era che avevo paura di lasciarmi andare troppo, avevo paura di trascorrere il Natale con lui perché sapevo che a Chicago avrei trovato tutto quel calore familiare che a me era sempre mancato e che pensavo di non meritare. Avevo paura di deludere Edward, di non essere all’altezza di trascorrere un giorno di festa normale con la sua famiglia, di non essere capace di amarlo come meritava.
Avevo paura perché inconsciamente pensavo di non essere degna di essere così importante per qualcuno come lo ero per lui.
Avevo paura che le mie insicurezze lo avrebbero spaventato e mi avrebbe abbandonata.
Scossi la testa, dandomi mentalmente una strigliata.
Ero anche consapevole del fatto – anche se non avevamo ancora dato voce ai nostri sentimenti – che non avrei mai potuto deluderlo, perché quando mi guardava vedevo nei suoi occhi la stessa adorazione e lo stesso amore che c’era nei miei quando guardavo lui.
Tirai fuori le mani dalle tasche per cercare lo smartphone nella borsa, quando dal polsino del guanto sbucò fuori il cinturino giallo del suo orologio e mi ritrovai a sorridere di gioia.
Chiamai Rosalie e concordai con lei ed Emmett i dettagli per fare a Edward una sorpresa per il giorno di Natale.
 

Il viaggio in macchina fu sereno e gioviale, Emmett ci deliziò cantando a squarciagola le canzoni di Natale che avevano ascoltato la sera precedente durante il concerto. Lo benedissi mentalmente, perché sentivo agitarsi dentro di me un turbine di emozioni e non credevo sarei stata in grado di conversare come al mio solito.
Quando poi lo vidi nel parcheggio, sentii la sua voce assonnata al telefono e finalmente mi ritrovai tra le sue braccia tutto andò al suo posto. Quelle due paroline sussurrate, quasi sospirate nel mio orecchio, per poco non mi fecero mettere a piangere.
 
 
Casa Cullen era esattamente come l’avevo immaginata: una bella villetta a schiera dai colori caldi e accoglienti, esattamente come i suoi proprietari. I genitori di Edward mi accolsero con un affetto che quasi mi commosse, tutta la tensione che aveva preceduto i giorni della partenza, tutte le paure, tutta l’ansia, svanirono nel momento in cui Esme Cullen, una bella signora sulla sessantina, mi guardò con quegli occhi verdi che tanto amavo e mi strinse in un abbraccio che mi fece sentire davvero a casa.
Compresi immediatamente che era lei il pilastro di quella famiglia così bella e unita: era una madre amorevole e una moglie devota, una donna straordinaria. Temetti, per un momento, qualche scomoda domanda sulla mia inesistente famiglia, ma fortunatamente nessuno chiese niente.
Mi sentii perfettamente a mio agio in ogni istante, tranne un po’ di imbarazzo di tanto in tanto quando Edward si lasciava andare a qualche coccola. Mi era mancato terribilmente e per quanto fossi felice e mi stessi divertendo con tutti i suoi familiari, fui grata del fatto che a un certo punto del pomeriggio ci lasciarono da soli per andare al concerto di Natale.
 
 
Mi persi nella contemplazione delle foto che lo ritraevano durante la sua crescita. Accarezzai la guancia al bambino sorridente dai capelli rossi che mi guardava nella foto con quegli occhi vispi e quando mi voltai e ritrovai lo stesso sorriso sul volto dell’uomo che mi guardava con la stessa innocenza di quando era bambino negli occhi, non potei fare a meno di pensare che probabilmente mi sarei innamorata di lui in qualsiasi momento della mia vita lo avessi incontrato.
 
 
Le risate, le battute e il calore che caratterizzarono l’atmosfera di quella normale giornata di festa cancellarono definitivamente ogni paura e ogni incertezza.
Edward aveva ragione: anche io ero la sua famiglia e finalmente ero in grado di ammettere a me stessa che desideravo esserlo.

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