La Caduta Dell'Ombra

di Sinnheim
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Autodafè ***
Capitolo 2: *** Tiro numero tre ***
Capitolo 3: *** Abbandono ***
Capitolo 4: *** Guardare oltre ***
Capitolo 5: *** Braska ***
Capitolo 6: *** Con esso o sopra di esso ***
Capitolo 7: *** Zona D'addestramento (Parte 1) ***
Capitolo 8: *** Zona D'addestramento (Parte 2) ***
Capitolo 9: *** Molte sono le cose terribili ***
Capitolo 10: *** Ma di tutte la più terribile è l'uomo (Parte 1) ***
Capitolo 11: *** Ma di tutte la più terribile è l'uomo (Parte 2) ***
Capitolo 12: *** Rompere le righe (Parte 1) ***
Capitolo 13: *** Rompere le righe (Parte 2) ***
Capitolo 14: *** Colui che apre tutti gli occhi ***
Capitolo 15: *** Libertà ***
Capitolo 16: *** Amore Fraterno ***
Capitolo 17: *** Piana dei fulmini, Piana dei lampi (Parte 1) ***
Capitolo 18: *** Piana dei fulmini, Piana dei lampi (Parte 2) ***
Capitolo 19: *** ℵ. Carte del processo a Yevonna di Djose, eretica ***
Capitolo 20: *** Se l'attraversi non la scampi (Parte 1) ***
Capitolo 21: *** Se l'attraversi non la scampi (Parte 2) ***
Capitolo 22: *** La cosa giusta ***
Capitolo 23: *** Come combattere i giganti (Parte 1) ***
Capitolo 24: *** Come combattere i giganti (Parte 2) ***
Capitolo 25: *** Esempio di tracotanza punita ***
Capitolo 26: *** Lamento per la città perduta ***
Capitolo 27: *** La sposa di Djose (Parte 1) ***
Capitolo 28: *** La sposa di Djose (Parte 2) ***
Capitolo 29: *** ℶ. Carte del processo a Davon di Janne, sacerdote (Parte 1) ***
Capitolo 30: *** Qualcosa che non possiamo vedere ***
Capitolo 31: *** ℷ. Carte del processo a Davon di Janne, sacerdote (Parte 2) ***
Capitolo 32: *** Qualcosa che non vogliamo vedere ***
Capitolo 33: *** Ysuna Seu ***
Capitolo 34: *** Mangiachocobo ***
Capitolo 35: *** Lì sono i campi della speranza (Parte 1) ***
Capitolo 36: *** Lì sono i campi della speranza (Parte 2) ***
Capitolo 37: *** E benedirete le tenebre ***
Capitolo 38: *** Come benedirete la luce ***
Capitolo 39: *** Se Alan cadesse (Parte 1) ***
Capitolo 40: *** Se Alan cadesse (Parte 2) ***
Capitolo 41: *** Rimanere a galla (Parte 1) ***
Capitolo 42: *** Rimanere a galla (Parte 2) ***
Capitolo 43: *** Un desiderio ingenuo come il voler proteggere qualcuno (parte 1) ***
Capitolo 44: *** Un desiderio ingenuo come il voler proteggere qualcuno (parte 2) ***
Capitolo 45: *** Al Bhed Crawler (Parte 1) ***
Capitolo 46: *** Al Bhed Crawler (Parte 2) ***
Capitolo 47: *** L'ora incerta ***
Capitolo 48: *** Che Yevon ti abbia in gloria (Parte 1) ***
Capitolo 49: *** Che Yevon ti abbia in gloria (Parte 2) ***
Capitolo 50: *** Tu che sei sceso dal cielo ***
Capitolo 51: *** Quelle polveri (Parte 1) ***
Capitolo 52: *** Quelle polveri (Parte 2) ***
Capitolo 53: *** Quod consevi demetam ***
Capitolo 54: *** La morte del desiderio ***
Capitolo 55: *** Viva il re! ***
Capitolo 56: *** L'Alfa e l'Omega ***



Capitolo 1
*** Autodafè ***


CAPITOLO 1: AUTODAFE'

 

 

 

ἐπάμεροι τί δέ τις; τί δ' οὔ τις; σκιᾶς ὄναρ

ἄνθρωπος, αλλ' ὅταν αἴγλα διόσδοτος ἔλθη,

λαμπρόν φέγγος έπεστιν ανδρῶν καὶ μείλιχος αἰών

 

Esseri della durata d'un giorno. Che cosa siamo? Che cosa non siamo?

Sogno d'un'ombra l'uomo: ma quando un bagliore divino ci giunga,

fulgido risplende sugli uomini il lume e dolce è la vita.

(Pindaro, Pitica VIII, vv. 95-97)

 

 

Il sole passava il punto vernale e, transitando, trascinava le dita dell’inverno. Le cupole di S.Bevelle rifulgevano, quel giorno, dello splendore dell’oro.

Al centro della piazza c’era un’enorme fontana, con tutto intorno un fregio di smalto, da cui l’acqua cadeva come le dolci piogge di primavera.

I suoni della festa avevano soppiantato con prepotenza i chiacchiericci mondani dei lavoratori. Il battere dei tamburi e le grida divertite dei ragazzi erano diventati i soli rumori tollerati dalla gente, almeno per quella giornata.

Sopra un carro trainato da forze invisibili, un uomo vendeva mele caramellate. Alle sue spalle, un altro annunciava quanto bestiame era stato condotto alla festa, in modo che tutti potessero gioire del banchetto prima ancora di averlo visto.

Profumi dolci e speziati venivano intrappolati dai numerosi teli che proteggevano le bancarelle, rendendo le strade dei lunghi corridoi volti ad attirare l'attenzione – e gli stomaci – del popolo. La grande festa era una delle poche occasioni in cui cibi così raffinati potevano essere gustati anche dai palati più umili: tutti cercavano di procurarsene un boccone.

Gli adulti amavano dilettarsi con i numerosi giochi proposti in seno alle piazze. Spesso erano prove di abilità e precisione dove si cercava di centrare un palo con un cerchio di ferro, oppure di abbattere dei bersagli con delle palle di stoffa. I bambini venivano introdotti alla conoscenza di animali esotici e difficilmente avvicinabili, ma la gioia più grande scoppiava solo quando c'erano i chocobo, tanto che veniva permesso loro di salirci in groppa ed essere condotti per un tranquillo e breve tragitto.

Immersa nella folla, una giovane donna afferrò la veste della sorella, e il viso di quella, assieme a tanti altri, si volse verso il ponte adornato da veli.

Il Gran Maestro Mika, uomo saggio e venerabile per età, camminava a passo lento con la tiara sul capo. I pellegrini, frenetici, tentavano di sfiorarlo con le dita anche solo per un istante e sollevavano verso di lui i figli, in modo che li benedicesse.

Proprio quando Mika allungò le dita verso la fontana, e ne sfiorò l’acqua paziente, una moneta lanciata da qualcuno fece schizzare delle gocce sulla sua manica. Egli non se ne curò e alzò le mani al cielo.

 

Salve, regina della città

celata dalla notte,

in te canta il nostro cuore.

Rendiamo grazie a te,

Yunalesca,

Nel tuo giorno, a te

Che hai mondato la terra,

E molte volte,

molte volte ancora ripetiamo

Il tuo sacrificio.

E sempre ti siamo grati,

O cerchio sempiterno

Yevon,

Colui che apre tutti gli occhi,

Colui che ha molte menti

E che tutto, vedendo, comprende.

Ie yu i

No bo me no

Ren mi ri

Yo ju yo go

 

 

«Hasatekanae kutamae» mormorò un uomo inginocchiato nel buio, rischiarato solo dalla fiamma tremula di una candela. Prima che il cerchio della preghiera potesse ricominciare, sostenuto dal canto degli altri monaci, le sue labbra si fermarono.

Spostò il peso sulla gamba destra, dolorante e premuta contro il legno della panca, mentre alzava lo sguardo per incontrare quello di chi aveva appena varcato la soglia.

Una lama di luce si era insinuata nella cella e, tagliando l’imitazione di una notte perenne, era arrivata a ferire gli occhi del monaco.

Lontani, oltre al canto monotono del coro, provenivano i rumori della festa sacra. L’uomo, ancora in ginocchio, si rassettò la tunica di cotone grezzo.

Erano tre i confratelli che erano arrivati a prenderlo: uno di loro, un giovane dalla folta barba castana, fece un passo avanti. Indossava l’armatura di cuoio e seta dei Templari, decorata in vita da un laccio dorato.

«Sei sicuro, Auron?» domandò. Se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe risposto che la luce nei suoi occhi altro non era che la combinazione strana del lume della candela e del sole, ma il suo tono tradiva una preoccupazione affettuosa.

Auron annuì con un cenno del capo, così gli altri due monaci lo afferrarono per le braccia e lo tirarono in piedi, più per un gesto rituale che per offrirgli un effettivo appoggio.

Quando fu dinanzi all’amico, che non superava solo per altezza ma anche per imponenza, si limitò a fissarlo in silenzio.

«Non riesco a capirti» gli disse lui.

«Mi dispiace, Kinoc» rispose Auron, la voce arrochita dal lungo silenzio, «ma è proprio per questo che me ne vado».

I due monaci guerrieri che lo avevano fatto alzare estrassero le spade e lo scortarono verso l’uscita della stanza, come si confaceva al suo rango, anche se stava imboccando la strada per lasciare le fila dell’esercito di Yevon.

Kinoc gli porse il rosario tipico di Bevelle dai grani gialli e blu, pretendendo di restare indifferente alla totale assurdità del gesto del suo amico, ma non riuscì a distogliere lo sguardo dalla sua schiena mentre si allontanava, dai capelli raccolti con un nastro d’oro, come macchie d’inchiostro sulla tunica.

«Avresti potuto accettare la figlia di Landor in sposa» gli disse senza aspettare che si voltasse, in un disperato tentativo di farlo tornare sui suoi passi.

Auron si voltò. Inclinò il capo sulla spalla sinistra e socchiuse gli occhi, come per invitarlo a proseguire, ma non disse nulla.

«Non intendo mancarti di rispetto» ricominciò Kinoc, «ma le tue ragioni mi sono oscure. Non è necessario che il matrimonio venga consumato subito per essere ritenuto valido».

«Non è qualcosa di cui vorrei macchiarmi in ogni caso» replicò Auron, con lo stesso tono calmo ma autoritario che utilizzava per dare ordini. Kinoc si rendeva conto che la sua partita era persa in partenza.

«Spero che tu sia consapevole di ciò che stai rifiutando» replicò tuttavia, il tono che si induriva per rivaleggiare con quello del compagno d’armi.

Auron, inaspettatamente, tirò le labbra in un lieve sorriso.

«Ie yu i no bo me no» ripeteva il coro, invisibile nel luogo dove loro si trovavano.

«Non vergognarti di prendere il mio posto» disse a mezza voce, poi unì le mani in grembo e volse lo sguardo inflessibile verso i monaci che lo attendevano sull’attenti.

«Avanti» ingiunse, tenendo la testa alta, con dignità.

Wen Kinoc compì il saluto rituale, e dispose davanti a sé le braccia come se stesse stringendo in mano una sfera, ma Auron non si voltò mai più.

Wen Kinoc venne lasciato, assieme all’eco di quell’avanti, nello stesso modo in cui si lascia una cosa rotta. Rimase lì, nella medesima cella dove, da bambino, s’intrufolava per condividere il pane nero con l’amico e per intagliare con lui i cucchiai nel legno.

Presto la voce di Auron cominciò, nella sua testa, a parlargli di un onore che per lui non aveva alcun significato, e di quel gran rifiuto che, se richiesto, di nuovo avrebbe fatto.

Glielo avrebbe ripetuto ancora per anni, e per quei lunghi anni lui non avrebbe mai compreso.

Per Auron una consapevolezza tale bruciava più del fuoco: l'idea di non essere riuscito a spiegarsi con il suo migliore amico lo feriva nel profondo, ancor di più, forse, con coloro che lo avevano rispettato e ammirato.

Era così difficile comprendere le sue ragioni?

La testa di Auron diventò dolorante, troppe domande turbolente senza risposta si ammassavano nella sua mente, domande che, tra l'altro, non avrebbero dovuto aver senso di esistere.

I passi pesanti del monaco echeggiarono tra gli alti soffitti del tempio, decorato anch'esso a festa con veli colorati, fino a giungere a uno degli altari posti vicino alle vetrate, il più illuminato e il suo preferito.

Lo guardò con nostalgia e dolcezza – quante ore delle sue giornate aveva passato al suo cospetto! – ma anche la rabbia del doverlo abbandonare iniziò a serpeggiare nel suo animo: era un'ingiustizia imperdonabile.

Si inginocchiò a malincuore, stringendo nel pugno il suo rosario come per rivendicarne la proprietà perfino con gli spiriti, tanta era l'affezione verso il suo compagno di preghiere; l'ira lo stava divorando come fuoco di paglia, ma si rese conto che quel gesto così doloroso era anche la presa di posizione più severa che potesse applicare.

E gli andò bene così. Quella legge morale, così giusta e invalicabile, lo tranquillizzò, tanto che allentò la presa e fece scivolare il rosario dal palmo della sua mano alla fredda superficie dell'altare, rinvigorito da nuova determinazione.

Quando uscì dal tempio, abituato alla sua rassicurante oscurità, il cielo troppo blu della città, il rumore e le sfavillanti decorazioni lo colpirono con l’intensità di uno schiaffo, facendogli pulsare le tempie.

Attraverso lo schermo delle ciglia osservò il Gran Ponte e lo trovò gremito di folla. Uno stormo di colombe, lasciate libere da qualcuno, lo attraversò da parte a parte per poi svanire fra le nuvole. Le teste che si erano alzate ad ammirare lo spettacolo erano tanto fitte che Auron non sarebbe riuscito a vedere oltre nemmeno se si fosse alzato sulle punte dei piedi, come un bambino.

All’improvviso, qualcuno gli urtò la schiena. Lui si irrigidì per riflesso involontario e voltò lo sguardo, per trovarsi a sovrastare quello che era poco più che un ragazzino.

«Mi scusi» borbottò quello guardandosi le scarpe, poi fece per rituffarsi nella calca. Il monaco ne approfittò:

«Che cosa ci fa lì tutta quella gente?» gli chiese.

Il ragazzo si voltò verso di lui e sgranò gli occhi. L’attimo dopo riacquistò una timorosa compostezza e replicò:

«Alla Corte Suprema c’è il processo dell’Inquisizione!»

Detto questo, scivolò via come un’anguilla scivola giù dalla rete, forse per diffidenza nei confronti di quello strano uomo in tunica bianca, forse perché non voleva perdere nemmeno una parola dell’equa sentenza.

Auron, ancora infastidito dal sole, si premette le dita sulle palpebre e immaginò un’aula buia e gremita, senza sapere che quel luogo esisteva davvero.

Sotto una cupola nera, cesellata con arte per rappresentare il cielo stellato, stava un palco in legno dall’arcata stuccata in oro, sormontato dall’occhio di Yevon che tutto vede. Nonostante gli incensi fossero stati rimossi per evitare che togliessero il respiro a qualcuno dei numerosi astanti, l’odore residuo continuava a pizzicare le narici.

Il Grande Inquisitore sedeva su di un trono al centro del palco, tra due guardie Ronso dalla pelliccia rossa, armate di alabarde.

Quelle creature leonine, a quanto si diceva, erano entrate di recente tra i ranghi di Yevon, ma avevano scalato in fretta la gerarchia. Occupavano posti di prestigio come guardie delle autorità, anche grazie all’intercessione di qualche magnate dall’animo generoso. E, forse sperando in quell’evergetismo un po’ sospetto, i due squadravano tutti i presenti con fare insistente, alla ricerca di qualunque segno di pericolo per il loro protetto.

Nel frattempo gli occhi dell'uomo scandagliavano con ansia il pubblico, alla ricerca di volti conosciuti o di personalità eminenti di Bevelle. Al centro del suo labbro inferiore, in quel momento disteso nell’ombra di un sorriso, era evidente la traccia lasciata dal sigaro.

Amava ogni piega della veste nera e grigia che specificava la sua mansione all’interno del clero. Spesso, mentre parlava o mentre aspettava, le sue dita indugiavano sulla spilla di rubino che la teneva ben ferma sul petto, accarezzandola come il viso di un’amante.

Quando l’eretico che doveva essere sottoposto a processo fece il suo ingresso in aula, il Grande Inquisitore pose le mani in grembo e drizzò la schiena, in modo che non fosse evidente che la sua statura fisica era ben inferiore rispetto a quella del suo compito; riguardo alla statura morale, invece, i posteri avrebbero fornito la loro sentenza.

Notò che il volto dell’imputato era più pallido e smorto delle ultime volte che lo aveva visto: nonostante conoscesse a memoria i suoi lineamenti, sembrava esservi comparsa qualche ruga in più. Tuttavia, ciò non gli mosse un sentimento di pietà verso l’uomo: un senso di forte fastidio lo colpì come un mal di stomaco improvviso.

«I sacri uffici di questa corte altro non cercano che la verità assoluta, nel nome di Yevon. A coloro sotto processo: credete in Yevon e dite la verità».

L’uomo alzò gli occhi celesti, nei quali all’Inquisitore parve di leggere un astio sopito. Non disse una parola.

«L’imputato Braska è accusato di aver difeso l’eresia concernente l’uso di macchine nelle operazioni militari. È altresì accusato di aver contratto matrimonio con una donna Al Bhed e aver generato prole. Il terzo capo ascritto, svincolato dai precedenti, è l’aver favorito la diffusione della pestilenza ignorando la disposizione di isolamento. In seguito alla raccolta di prove da parte dell’Inquisizione, sotto disposizione del Gran Maestro Mika, è pronunciato colpevole».

Tutti i presenti, che avevano riempito le balconate, trattennero il respiro come se fossero loro a trovarsi al posto suo.

Braska, invece, mosse appena il capo, come se si aspettasse l’esito della sentenza. La sua apparente tranquillità non fece che accrescere il già accentuato fastidio dell’Inquisitore, che diventava sempre più impaziente di concludere il processo.

«Per ordine della Corte di Yevon, che abbandoni del tutto, né del resto in qualunque modo sostenga, insegni o difenda la sua tesi. Viene ora richiesta l’abiura dell’eresia davanti al qui presente Grande Inquisitore Alan».

«No» disse secco l’imputato. Pronunciò quella parola con voce quasi leggera, e sembrò quasi non pensarci.

Il pubblico sussultò come un’unica persona.

Il giudice digrignò leggermente i denti e fece un profondo respiro. Sotto le ampie maniche della veste strinse i pugni fino a sentire le unghie nella carne. Interdetto dalla risposta, si trovava ad affrontare una situazione di stallo che avrebbe messo in discussione il suo stesso ruolo all’interno del clero.

Approfittando del silenzio opprimente dell’uomo che aveva davanti, Braska si permise di parlare in propria difesa:

«Le accuse a me mosse sono frutto di errata interpretazione, vostro onore».

Alan fu costretto a mordersi l’interno della guancia per tenere a freno l’istinto di ribattere: era certo che quell’ultima parola avesse un tono denigratorio.

«Il matrimonio misto non è proibito dalle leggi di Bevelle. Inoltre, non presento sintomi di tisi da almeno due anni». Fece una pausa per prendere fiato, e con lui respirarono tutti i presenti. «Tramite un intenso percorso di preghiera e prendendomi carico della missione di Invocatore, chiedo alla corte di concendermi di espiare le mie colpe. Sono disposto, infine, ad accettare la scomunica».

Sentendo quella dichiarazione di intenti, l’Inquisitore parve rilassare il corpo irrigidito, sollevato dall’onere di trovare una soluzione a un problema così complesso. Se lo avesse condannato a morte, la sua dipartita sarebbe stata del tutto vana, ma adempiendo al compito degli Invocatori, e così morendo, avrebbe potuto portare un periodo di pace sull’isola.

Questo si sarebbe tradotto in una fama che avrebbe aleggiato su Spira almeno per anni e avrebbe sussurrato il nome di Braska, ma anche quello di Alan e, per riflesso, quello di tutta la famiglia. Era la soluzione perfetta.

La corte accettò senza riserve la proposta dell’imputato.

 

 

 

I veli scossi dal vento erano ipnotici da osservare, il loro movimento armonioso e imprevedibile calmava l'animo turbolento di Auron.

Il monaco passeggiò fino al centro del ponte addobbato senza nemmeno accorgersene: troppi erano i pensieri che lo tormentavano.

Si appoggiò di peso al parapetto e si mise a contemplare le decorazioni colorate che svolazzavano di qua e di là, in balia della brezza fresca.

Auron sentì una certa affinità con quella vista: anche lui era stato spinto a muoversi dalla volontà di qualcun'altro, con l'unica differenza che lui aveva scelto dove andare. Nessuno, però, avrebbe potuto dirgli se la sua decisione fosse giusta o sbagliata, solo la sua coscienza poteva.

Non c'erano alternative. Si ripeteva queste parole di tanto in tanto per calmare i nervi, quando la certezza iniziava a vacillare e i dubbi minavano le sue convinzioni.

Sospirò, stanco: indugiare per ore sugli stessi ragionamenti lo stava logorando, anche perché le risposte che si dava non lo convincevano mai del tutto.

Si voltò verso l'estremità destra del ponte, dove aveva visto riunirsi tutta quella gente per assistere al processo dell'Inquisizione. Distinse la figura di un uomo: era gracile, e l’umile veste grigia attirò il suo sguardo come il magnete che devia la bussola dal suo corso. Lo vedeva bene, o per la scarsa distanza, dato che gli si stava avvicinando, o perché la sua mente era concentrata nello scrutarlo.

Con lentezza, il suo sguardo viaggiò lungo il corpo dell’uomo, salì fino alle mani bianche e curate, troppo per essere quelle di chi arava la terra o tirava in secca le reti. Il suo portamento era signorile, la schiena dritta e il mento sollevato, ma la testa un po’ inclinata verso destra pareva in qualche modo domandare perdono. Nell’istante in cui gli occhi del monaco si posarono sul suo viso, lui passò sotto a una delle stoffe traslucide che addobbavano il ponte.

L’uomo, quasi percependo di essere guardato, si voltò verso Auron e le sue labbra sottili si incresparono in un sorriso. Le iridi chiare, seminascoste dal velo, puntavano dritto verso di lui.

Continuò ad avanzare: ad Auron parve che la folla si aprisse per farlo passare, ma non seppe dire se quella che gli veniva incontro fosse una luce dolce o, piuttosto, il tranquillo buio che aveva lasciato nelle celle del monastero.

Il viso asciutto e pallido dello sconosciuto era stranamente interessante agli occhi di Auron, nonostante il suo aspetto fosse abbastanza anonimo in mezzo alla folla. La sua sola presenza infondeva tranquillità.

«Ti vedo turbato, figliolo» disse il misterioso uomo con voce accomodante, tanto che Auron non seppe come interpretare quella confidenza.

«Cosa glielo fa pensare?»

«Sei l'unico volto triste in una festa gioiosa come questa» rispose sorridendo, ma il monaco non parve colpito.

«Ho i miei motivi, mio signore. Sono altresì stupito di vedere un uomo così allegro nonostante vesta di bianco come me».

«Non ho motivo di essere triste: penso di non aver fatto niente di male».

«Per avere qualcosa di cui pentirsi, molti non dovevano essere d'accordo».

L'uomo scoppiò a ridere di gusto, una piccola lacrima ribelle gli scivolò sulla guancia leggermente incavata.

«Beh, non piaccio molto all’Inquisizione».

Auron ebbe un sussulto al suono di quella parola, tanto temuta quanto rispettata: non era facile sfuggire alla sua morsa, probabilmente aveva evitato una severa punizione per camminare così spensierato tra le bancarelle della festa.

«Era lei l’uomo sotto processo, mio signore?»

«In carne e ossa… ancora per un po’» disse sghignazzando mentre scrutava con attenzione un braccialetto di giada, pezzo in vendita di uno dei tanti mercanti presenti sul ponte.

«Il clero deve amarla da morire...»

«Forse si può dire che mi ama come un fratello».

Rivolse un ultimo, enigmatico sorriso al monaco e alzò le spalle, poi pagò il gioiello e se ne andò per la sua strada, seguito dallo sguardo incuriosito di Auron.

Percorse a passo calmo il ponte e infine sparì, dietro allo stesso drappo che aveva nascosto il suo arrivo: lì, oltre quel velo, stavano le cose che Auron non sapeva.

 

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Capitolo 2
*** Tiro numero tre ***


CAPITOLO 2: TIRO NUMERO TRE

 

 

«Un altro numero per gli Zanarkand Abes! Oh, Klinna, questa sera sei un– Ecco che passa! La palla supera gli avversari dritta fino a Jecht!»

Gli spettatori sugli spalti, nel sentire il nome del loro idolo, cominciarono a strepitare e a sporgersi verso il campo da blitzball, cercando di vedere il meglio possibile all'interno del globo d'acqua.

«È veloce, è preciso, non ha nessuna debolezza» annunciò la roboante voce del cronista, «ed è bello come un dio!»

Le dita di Jecht si aprirono per afferrare la palla, ricevendo il passaggio alla perfezione. Con un colpo di reni, volteggiò attorno a un avversario, si smarcò e concesse un piccolo sorriso alle telecamere prima di tornare concentrato sulla partita.

«Con un record di presenze imbattuto e una media di due reti a partita! Per gli Zanarkand Duggles c'è poco da fare, signore e signori!»

Come era prevedibile, la linea di difesa si precipitò in direzione di Jecht con la chiara intenzione di ostacolarlo il più possibile. Erano consapevoli che, così facendo, l'ala opposta sarebbe rimasta scoperta, ma il campione a piede libero era troppo pericoloso, talmente tanto che lasciare la porta vuota sarebbe stato lo stesso.

Jecht sorrise. Aveva messo in scacco gli avversari ben prima che l'azione offensiva iniziasse: con espressione beffarda, approfittò della zona sguarnita e passò la palla con traiettoria perfetta al centrocampista, esattamente sul lato opposto al suo.

Smise addirittura di nuotare: il suo compagno di squadra aveva praticamente campo libero, era un gol assicurato.

Mentre aspettava la conclusione di quell'attacco magistrale, il suo sguardo vagò tra gli spalti, alla ricerca di volti a lui cari. Le luci di Zanarkand, smorzate dall'acqua, erano sempre uno spettacolo gradito per Jecht: tutta la città era lì per vederlo giocare, tutti erano dalla sua parte, persino le voci ovattate rimbombavano come onde d'urto all'interno della sfera d'acqua.

Diventava il centro del mondo durante le partite di blitzball, eppure non era mai abbastanza. C'era un vuoto che non riusciva a riempire. Una fame che lo consumava inarrestabile. Niente era davvero soddisfacente.

Vide di sfuggita sua moglie e suo figlio Tidus nei posti più bassi, quelli più vicini al campo di gioco. Li distingueva molto bene, urlavano il loro incoraggiamento, ma qualcosa non quadrava: il bambino sembrava forzato, mentre la donna dava l'impressione di aspettare che il tempo passasse.

Pensava che vedere i propri cari avrebbe potuto dargli nuova forza, ma così non fu. Sorrise amaro: puntualmente le sue aspettative venivano sempre smentite.

Il centrocampista segnò il gol con estrema facilità, mentre l'arbitro sanciva la fine della partita con gli Zanarkand Abes ben tre reti sopra gli avversari. Nonostante la vittoria fosse sempre un dolce calore nel suo petto, la gioia non lo accarezzava mai a lungo. Anzi, ogni volta durava sempre meno.

No, non era mai abbastanza. Mai.

La porta dello spogliatoio venne spalancata con un calcio, in barba a ogni regolamento comportamentale. L'euforia della vittoria era troppa, contava solo festeggiare e fare baldoria. Se lo erano meritato.

Jecht si asciugò sghignazzando e ripose con cura la sua divisa nel suo armadietto. Dallo stesso, tirò fuori abiti puliti molto eleganti: una camicia e dei pantaloni in raso neri, scarpe chiuse e non le solite calzature da spiaggia.

Si sentiva una divinità. Quella sera avrebbe festeggiato con la squadra fino ad annullarsi. Se lo era meritato, giusto?

Spronò i suoi compagni a cambiarsi in fretta, non vedeva l'ora di appoggiare le labbra su un bel bicchiere stracolmo. Vestito di tutto punto, urlò che li avrebbe aspettati al Blitz Shot e uscì spavaldo dallo spogliatoio, quando intravide suo figlio e sua moglie all'inizio del corridoio.

«Oh, cazzo...»

Fece un grosso respiro e sfoderò il sorriso più falso possibile, per poi andare incontro ai suoi famigliari. Tidus aveva il volto profondamente annoiato, stringeva la mano di Lauren che, invece, cercava di mantenersi il più neutrale possibile.

«Partita magnifica, tesoro! Sei sempre così agile! Vero, Tidus? Perché non dici qualcosa a papà?»

Il bambino castano puntò gli occhi a terra senza fiatare, Jecht non sapeva nemmeno cosa dirgli. Una parola, un incoraggiamento, qualunque cosa. Niente, dalla sua bocca non uscì niente. Lauren ingoiò l'ennesimo rospo e pretese di far finta di nulla.

«Stai... stai uscendo?» chiese titubante, la voce leggermente tremula.

«Ah, io... beh, sì. Vado con la squadra a festeggiare» rispose Jecht passandosi una mano tra i capelli scuri.

«Speravo che, almeno per stavolta, tu potessi festeggiare la vittoria con me e Tidus».

Lo stava implorando con occhi lucidi, lui lo notò chiaramente. Cosa poteva farci? Non sarebbe stato di alcuna compagnia, non avrebbe avuto nulla di cui parlare. Cos'era che piaceva a Tidus oltre al blitzball? Come minimo si sarebbe messo a piangere tutto il tempo.

Erano tutte balle, lo sapeva benissimo. Dolci illusioni mentali che lo cullavano nelle sue abitudini stantie, incapace di liberarsi dalle loro catene.

«Guarda, la prossima volta, ok? L'avevo promesso ai ragazzi, la prossima volta... ci sarò, davvero».

Donò una carezza incerta al volto deluso della donna, poi volse lo sguardo al figlioletto: avrebbe tanto voluto poter dargli un bacio, o qualcosa di simile, ma sicuramente lui non avrebbe gradito.

Altre, ennesime cazzate. Li salutò entrambi e si avviò verso l'uscita dello stadio di blitzball, camminando a grandi falcate verso il locale designato per fare baldoria.

Ebbe la tentazione di fermarsi e tornare indietro, ma venne raggiunto in fretta e furia dai suoi compagni che lo spinsero ad andare avanti.

Mentre si avvicinavano al Blitz Shot, sotto ai loro piedi si accesero dei neon: riproducevano i colori degli Zanarkand Abes. Dei lampi gialli, intervallati da altri di un blu profondo, fecero restringere le pupille dei giocatori.

Pulsando, quella luce cruda correva lungo il corridoio d'ingresso, poi si arrampicava sul muro come l'edera e cominciava a intrecciarsi, dando forma al simbolo della squadra vittoriosa.

Jecht si sfiorò il petto, lasciato in parte scoperto dalla camicia, e sorrise: si era fatto tatuare lo stesso segno. Era l'emblema vivente della grandezza degli Zanarkand Abes.

Quando Tancre aprì la porta, i bassi della musica, sino a quel momento solo soffusi, cominciarono a martellare con violenza.

Jecht aveva voglia. Di una donna, per lo più, ma avrebbe ripiegato volentieri sui liquori. Dopo la sesta, settima sorsata di quella che gli vendevano come "la nostra roba più forte" tutto il piacere diventava uguale, e gli faceva un gran ridere sbattere la sua bottiglia di vodka contro il bicchiere della vita. Quella stronza.

Un nugolo di applausi e grida eccitate li accolse all'interno del locale. Il tavolo attorno al quale erano ammassati i loro compagni di squadra si riusciva a individuare subito: due bandiere degli Abes, impalate, penzolavano sulle loro teste. Erano spiegazzate e macchiate di salsa.

Con coordinazione perfetta, i giocatori si alzarono in piedi alla vista di Jecht: piegarono i gomiti, portarono le mani davanti al petto, come se stessero reggendo una sfera, e poi si inchinarono.

«A Jecht!» sbraitò uno dei ragazzi, trascinando la sedia con un gran rumore e sporgendosi sul tavolo con un bicchiere pieno fino all'orlo. Un liquido ambrato strabordò e andò a macchiare il legno già umidiccio e appiccicoso.

Una donna lo prese per il fianco e gridò, accompagnata da palmi che battevano sulle cosce come tamburi scordati.

«Jecht! Jecht! Jecht!»

Nel caos generale, un cocktail piombò tra le dita del campione. Mentre lo scolava d'un fiato, sentì il rumoreggiare farsi più forte, più vivo, più simile al battito del suo cuore. L'alcol gli scaldò la gola e subito dopo svanì, come l'euforia dopo un gol.

Jecht sbatté il bicchiere vuoto sul tavolo e si esibì in un ostentato inchino, mentre qualcuno imitava la voce del cronista delle partite. La gente si fiondò su di lui, cercò di toccarlo, gli parò davanti altri drink.

Due ragazze ostinate arrivarono a sfiorarlo, sfuggendo con agilità alla presa di uomini che erano abituati a marcare. Gli occhi di Jecht, del colore della terra bruciata, sembravano quasi infuocati sotto le luci del locale. Si piantarono su quelli chiari di una biondina, che sorrise feroce e si passò una mano tra i capelli. Tutto il suo corpo ondeggiava a ritmo, e il movimento guidava lo sguardo fino ai fianchi. Lui la afferrò – la sua mano era abbastanza grande da coprire buona parte della sua vita – e la tenne a distanza di sicurezza da sé.

«Ma tu guarda, il grande Jecht» commentò lei, alzando le sopracciglia con malizia. Continuava a ballare, dopo avergli gettato le braccia al collo. Di fianco a loro, uno dei suoi compagni di squadra stava baciando appassionatamente una pupa mai vista prima, le cui cosce non parevano offrire nessuna resistenza.

«E tu non hai compagnia?» gli domandò la ragazza, schiudendo le labbra vellutate per mostrare una schiera di denti perfetti. Jecht prese uno dei bicchieri che gli erano stati offerti e, con gesto esperto, lo frappose tra le proprie labbra e quelle di lei. Incrociò per un istante lo sguardo di Tancre.

«Oh, io sono fuori dai giochi» rispose a malincuore, con un sorriso ammaliante. La sua mano lasciò i fianchi dell'improvvisata compagna e la fece scivolare con delicatezza verso le braccia del suo amico.

«Guarda che lui non è affatto male» la incitò, avvicinandosi ai due e alzando la voce per sovrastare la musica. Tancre non aspettò nemmeno un istante prima di avvinghiarsi a lei. «Posso garantirtelo».

La biondina rise e gettò all'indietro la testa, per poi regalargli un malizioso: «Ah sì? E su che basi?»

Jecht cinse le spalle di Tancre con un braccio e gli strofinò il naso sulla guancia con fare seducente, senza interrompere il contatto visivo con la ragazza. Sentì un tepore provenire dal volto dell'amico, poco distante dalle proprie labbra; stava solo giocando, ma era inebriante. Perché quella sensazione non svanisse, svuotò il bicchiere. L'alcol scorreva verso il suo stomaco, infondendolo del dolce torpore che cercava.

«Ringraziami, dopo» disse all'orecchio del compagno di squadra, e sgusciò verso il bancone.

Gridò alla barista di offrire un giro a tutti quelli che gli stavano attorno. Lei sorrise e cominciò a versare un liquido verde fosforescente nei bicchieri da shot. Quattro di essi erano destinati a lui. L'assenzio gli pizzicò la gola, rese il deglutire un eccitante fastidio.

Jecht gettò la testa all'indietro, beandosi sotto i fari pulsanti come un gatto che prende il sole. Quando inspirò, sentì finalmente la mente leggera: era nel suo ambiente, sott'acqua. Odiava quel mondo emerso del cazzo.

Non aveva intenzione di smettere di bere fino a quando quel posto non sarebbe svanito, assieme a quei quattro bambocci che si erano lasciati fregare da un pallone, credendo che si potesse vincere.

Il successo era come la masturbazione. A tutti piaceva, finché non si risvegliavano nel letto soli e sudati, senza potersi aggrappare a nulla che non fossero lenzuola sporche.

Quando riaprì gli occhi, lanciò un grido esaltato verso tutti quelli che gli stavano davanti. Loro gli risposero con foga, accalcando un urlo sull'altro in una gara disperata a chi lo raggiungeva per primo.

Jecht alzò un cocktail che non ricordava nemmeno di avere in mano, spostò il peso su una gamba e osservò con sguardo languido il lembo della camicia che si alzava e rivelava parte del suo addome. L'aria viziata del Blitz Shot era come una mano che lo accarezzava proprio in quel punto. Tutti lo stavano fissando, stavano adorando il suo corpo scultoreo, tempio di un dio deforme.

Appoggiò la testa sul petto di Tancre, contemplando quel mondo addormentato che ruotava veloce. Era steso di lato su un divano, mezzo rannicchiato, e stringeva tra le dita un calice di vino rosso. Formicolavano, come se fossero vive. Tanti piccoli insetti. Andavano verso la base del bicchiere e si fondevano nel vetro – che cosa curiosa!

Gli insetti sparivano dal piede del calice, come se venissero strappati via. Venivano trascinati verso il divano – che cosa curiosa!

Jecht voltò a fatica il capo verso i cuscini e aggrottò le sopracciglia. Sembrava esserci qualcosa che si mimetizzava sulla pelle rossa. Sì, una rana! Appena la vide, pensò subito a Tidus.

«Chissà se diventerà mai un campione come me, quello sfigatello» commentò la rana. Era piccola, rossa. Forse avrebbe dovuto notare subito che era rossa, proprio come il divano. Jecht, a distanza di qualche secondo, sobbalzò: lo aveva detto ad alta voce?

In modo istintivo strinse la prima cosa che gli capitava a tiro: il braccio di Tancre. Lui lo guardò e rise benevolo. La realtà vorticava, ma stava tornando realtà.

Anche il suo amico stava bevendo. Finché bevevano entrambi andava bene. L'importante era non trovarsi al bancone da soli con una bottiglia mezza vuota davanti.

«Ma dai, e la ragazza?» gli domandò a un tratto Jecht, notando che qualcuno mancava.

«Ah, sarà per la prossima volta» minimizzò lui, gustandosi un sorso del suo vino. Disse anche qualcos'altro, ma a Jecht le parole non arrivarono: era come se la voce del suo amico, nell'ebbrezza, gli stesse baciando il collo.

«Era carina» commentò, con tono stanco. La vedeva davanti a sé, i fianchi che si agitavano spasmodici, il viso coperto da un turbinio di braccia e capelli. La musica gli martellava in testa a ritmo con il pulsare delle sue tempie.

La ragazza alzò lo sguardo, e Jecht la riconobbe. Era Lauren. Muoveva il bacino contro il suo in una danza rovente e sempre più intensa, lo toccava, lo baciava.

Ah, i ponti, i ponti di Zanarkand!

Piegato sulla tazza, con le mani strette sul bordo di ceramica, Jecht svuotò il contenuto del suo stomaco. Il suo respiro era strozzato dai conati, le lacrime gli scorrevano libere sul volto. Qualcuno gli stava tenendo i capelli, mentre lo aiutava a non far ricadere la testa nel vomito. La sua fronte era calda, i sensi distaccati dal corpo.

Il pavimento freddo si fermò solo quando perse conoscenza, ormai a stento in grado di percepire il sapore rancido che gli invadeva la gola e l'odore pungente che gli penetrava nel naso.

Si risvegliò quando avvertì una luce bianca e violenta colpirgli le palpebre come se volesse spremergli gli occhi. Il dolore lancinante alla testa gli pervadeva tutto il corpo, e quando i sensi lo assistettero si accorse del retrogusto disgustoso che aveva in bocca: un misto di acido e carne cruda.

Jecht portò il gomito davanti al viso per cercare di schermarsi dai raggi del sole che entravano dalle imposte. Il suo stomaco gorgogliava, pronto a rigettare qualsiasi cosa avesse provato a proporgli. C'era un lieve sentore di vomito nell'aria, ma i vestiti che indossava – una delle tute da allenamento degli Zanarkand Abes – erano puliti. Un fatto era certo: non si trovava a casa propria.

Quando vide un paio di tornite gambe maschili che gli passavano a fianco venne assalito dal senso di colpa e si lasciò andare a una risata amara.

«Sarebbe stato meglio portarti a casa la ragazza, eh?» esordì con voce roca, cercando di sollevare le palpebre abbastanza da poter inquadrare Tancre.

«Non ti preoccupare» rispose lui, «può capitare».

Nulla nel suo tono faceva presagire che fosse arrabbiato, ma Jecht cercò disperatamente un appiglio, qualcosa che gli esprimesse disapprovazione.

«Era più figa di me» insistette, «e non ti avrebbe fatto dormire sul divano».

«Il mare è pieno di pesci» ribatté Tancre, allungandogli un bicchiere d'acqua mossa dal frizzare di una compressa. Jecht, sebbene la sua vena masochista che voleva un rimprovero non fosse stata accontentata, gliene fu piuttosto grato. Si tirò a sedere, ma il suo intestino non apprezzò il repentino cambio di posizione.

La sua tempra dovuta a lunga esperienza gli permise di vuotare in un sorso il bicchiere prima di fiondarsi in bagno e chiudersi a chiave.

«Non voglio buttarti fuori da casa mia» disse dopo qualche minuto Tancre, a fianco alla porta. Non sentiva alcun rumore e voleva accertarsi che Jecht stesse bene. «Ma tra un paio d'ore devo partire con la Laguna Shore».

Si sentì lo sciacquone che veniva tirato e l'acqua che cominciava a scorrere nel lavandino.

«E dove vai?» domandò la voce di Jecht, confusa.

«Non ti ricordi? Ne ho parlato ieri al Blitz Shot. Ah, in effetti era mentre tu stavi–» si interruppe di colpo.

Anche lo scroscio dell'acqua si interruppe di colpo.

«Cosa stavo facendo?» ribatté Jecht allarmato.

«No, niente di che... » provò a schermirsi Tancre, ma il suo amico insisteva.

«Non mi ricordo nulla, dimmi cosa stavo facendo».

Tancre sospirò, ricordando con un sorriso la notte precedente, e scosse la testa.

«Non stavi tradendo tua moglie, se è questo che ti preoccupa» commentò. Era difficile capire cosa passasse per la testa a Jecht, ma su alcune cose – a volte a causa di un delirio alcolico – era persino troppo chiaro.

Il campione degli Zanarkand Abes, più tranquillo, si lavò di nuovo la faccia e guardò lo specchio, oltre al quale un uomo sfinito lo stava fissando.

Se devo proprio farla, quella stronzata, è meglio che succeda mentre sono sobrio, considerò, senza provare nessuna compassione per la persona che vedeva davanti a sé.

Dalle parole di Tancre apprese che la Laguna Shore era una nave che metteva a disposizione delle tratte alternative per potersi allenare a blitzball in mare aperto, mettendo a dura prova sia il fisico sia la mente. Tutto ciò che l'atleta doveva fare era decidere quanto voleva rimanere fuori casa e poi salpava, in modo da potersi consacrare allo sport evitando la tediosa vita quotidiana.

Partire per trovare se stesso come uno degli eroi senza macchia delle leggende gli era parsa sin da subito una buona idea: magari la vastissima distesa salata senza fondo che lo attendeva lo avrebbe ripulito dal marciume che si portava dietro.

Preso dal brio, pensò che sarebbe stato l'ideale anche per perfezionare il suo Tiro Jecht Numero Tre, ormai leggendario, visto che la gamba destra era rimasta infortunata dagli intensi allenamenti. Per risolvere il problema, Jecht si era imposto di imparare la tecnica anche tirando di sinistro, così lo sforzo sarebbe stato equilibrato.

Nonostante i nobili intenti, ciò che lo faceva sentire davvero meglio era la consapevolezza che quella era la scusa perfetta per allontanarsi. Dalla famiglia, da Zanarkand, persino dal continente. Tutto ciò che voleva era rimanere solo, lui e il mare, probabilmente non si sarebbe nemmeno portato la palla da blitzball.

Che il sale mi purifichi.

Ringraziò di cuore il compagno di squadra, gli diede una pacca sulla spalla e gli augurò buon viaggio, preparando le sue cose per andarsene.

«Aspetta, Jecht! Non vorrai mica andarci anche tu? Con quella gamba? Un conto è il campo da gioco, un conto sono le correnti del mare aperto!»

«Beh, se ci riuscirò diventerò una leggenda eterna! E poi, vuoi forse dire che sei migliore di me?»

Fece a Tancre un occhiolino affettuoso e uscì dalla quella casa, alla volta della propria. Il suo passo impetuoso rallentò a poco a poco, come se volesse temporeggiare anche sulla decisione appena presa.

Jecht alzò le braccia e si stiracchiò, facendo lunghi e profondi respiri. Il sapore terribile che aveva in bocca si era attenuato ma non era ancora sparito: in qualche modo gli ricordava l'amara realtà.

Avrebbe recato l'ennesima delusione a Lauren, avrebbe perso nuovamente i piccoli progressi della crescita di suo figlio, e ciò era innegabile. Non sapeva se valesse la pena lasciare tutto alle spalle, ma era sicuramente ciò che desiderava. Almeno per un po', almeno per il tempo necessario. Cosa volesse, ancora non gli era chiaro.

Si concesse il lusso di prendersela comoda e arrivare alla sua abitazione dopo qualche ora, quasi indeciso se entrare o meno.

Non essere stupido, sono preoccupati per te.

Lauren sobbalzò quando vide il marito entrare: fu davvero lieta di vederlo in piedi sulle proprie gambe, nonostante avesse una pessima cera. Non doveva nemmeno chiedersi cosa fosse successo, ormai era la routine.

«Jecht, finalmente! Temevo di doverti ripescare al locale...»

«E non sarebbe la prima volta, vero? Ah... mi dispiace».

«Sì, sì... lo so. Almeno, dove sei stato? Stai bene?»

«Insomma, sì. Sono stato peggio. Ero da Tancre, mi ha recuperato lui» disse ridendo, ma Lauren non era altrettanto ilare.

«Jecht, per favore, non voglio vederti ridotto così ogni volta. Perché non riesci a fermarti? Tidus avrà solo pessimi ricordi di te».

Il campione iniziò a sentire un fastidioso senso di oppressione allo stomaco, stavolta non dovuto agli alcolici. Erano parole che facevano male, ma non la biasimò, anzi. L'unica risposta che la sua mente annebbiata elaborò fu il desiderio di fuga, tanto che intravide l'occasione perfetta proprio nelle parole doloranti della moglie.

«Hai proprio ragione: non posso continuare così, me lo dici da tanto tempo. Voglio fare qualcosa» disse accondiscendente. Lauren rimase a bocca aperta.

«D-dici sul serio? Stavolta è... vero?»

«Assolutamente tesoro, davvero... ho deciso di partire per un po' di tempo. Mi imbarcherò sulla Laguna Shore e mi allenerò in mare aperto, lontano dall'alcol e dal caos».

«Vuoi partire? Così lontano... non è pericoloso?» disse titubante.

«Non so dirlo, ma sono convinto mi serva davvero».

Lauren abbassò lo sguardo, poi girò la testa verso la cameretta di Tidus.

«Accetterò solo se mi prometti di provarci davvero. Non per me, Jecht, fallo per tuo figlio».

«M-ma certo, ovvio! Ora vado a fare i bagagli, ok?»

Cazzate, solo cazzate.

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Capitolo 3
*** Abbandono ***


CAPITOLO 3: ABBANDONO

 

 

Jecht non ricordava quando aveva visto per l’ultima volta il sole accarezzare le pagode di Zanarkand e l’acqua delle cascate intrappolare la luce.

Dal molo dove aspettava la Laguna Shore osservava il mattino sgargiante, in qualche modo meno pacchiano dell’illuminazione notturna. Quando pensava alla sua città, la vedeva come un faro nel buio, una stella artificiale che voleva rivaleggiare con quelle che splendevano sopra di lei.

Le partite di blitzball si svolgevano di sera, nello stadio automatizzato che lasciava sempre a bocca aperta i bambini. Subito dopo c’erano le feste, tanto che Zanarkand gli era sempre sembrata vivere in una notte eterna: forse, al sorgere del sole, sarebbe svanita come un sogno. Eppure le nuvole viaggiavano nel cielo limpido, i gabbiani gridavano e le luci oltre le finestre erano spente, le tende tirate.

Che cosa si poteva fare, di giorno, oltre a correre e allenarsi sulla spiaggia? Oltre a immergersi nella sfera d’acqua e stringere il pallone, focalizzandosi sul vincere la partita?

Jecht socchiuse gli occhi scuri e ascoltò le onde che si infrangevano sul molo, in uno dei rari momenti di pace che gli erano concessi. Davanti a sé vedeva le navi salpare per il mare caliginoso, svanendo dietro la curva dell’orizzonte. L’ebbrezza se n’era andata ed era tornata la sensazione di pesantezza che gli invadeva ogni giorno lo stomaco, alleviata solo dal canto delle acque.

Forse un giorno avrebbe potuto portare suo figlio sul molo: gli avrebbe indicato le vele che passavano e, anche se era stonato, gli avrebbe canticchiato quell’inno strano che risuonava ogni tanto durante le partite.

La Laguna Shore, interrompendo la sua contemplazione, arrivò finalmente all’attracco. I suoi motori facevano vibrare l’aria come il diaframma di una balena e il suo scafo lucido si preparava ad accogliere i viaggiatori.

Jecht sospirò e strinse il manico del borsone che aveva appoggiato alla spalla sinistra. Si voltò per l’ultima volta in direzione della fulgida Zanarkand che avrebbe lasciato per qualche giorno. Gli si strinse il cuore, come se per qualche motivo presentisse un addio.

Non piangere la città che perdi, disse all’improvviso una voce nella sua testa, chiediti piuttosto se sei stato degno di lei.

Jecht aggrottò le sopracciglia: gli sembrava che Tidus avesse parlato, o comunque un ragazzino della sua età. Alzò lo sguardo in direzione della nave e vide un bambino che, con aria assente, ne ammirava il profilo. Aveva la pelle scura come quella dei marinai, il suo volto era celato da un cappuccio viola e la sua vita cinta da numerosi ornamenti d’oro.

La visione durò soltanto un istante. Il campione degli Zanarkand Abes, immobile, si premette le dita sulle palpebre mentre veniva superato da altri viaggiatori. Gli era capitato di essere stato ubriaco per più di un giorno, e anche di avere qualche miraggio dovuto all’assenzio che dissolveva la sua lucidità, ma quella mattina era sicuro di essere tornato sobrio. Con un mal di testa che lo faceva impazzire e lo stomaco rivoltato, ma sobrio.

Scosse il capo e fece un gesto all'aria, attirando lo sguardo confuso degli altri passeggeri. Non era il momento di farsi colpire dai sintomi della sbornia, non se, da lì a poco, avrebbe dovuto affrontare il mare aperto.

In che casino mi sto ficcando…

Ormai era tardi per ripensarci: Jecht salì sulla nave con passi pesanti che echeggiavano sul metallo della scala, dirigendosi verso la prua. Il mezzo si stava riempiendo in fretta sia di semplici viaggiatori sia di atleti, quindi decise di aspettare all'aperto prima di scendere sotto coperta.

Lo lasciò interdetto il fatto che nessuno si avvicinasse per stringere la mano al grande campione: sentiva i bisbigli delle persone che lo avevano riconosciuto, qualcuno si chiedeva se fosse davvero lui.

I giocatori di blitzball lo guardavano da lontano con un misto di ammirazione e timore, sognando di emularlo e diventare famosi: loro non erano che l’ecatombe delle partite, gettata nella sfera d'acqua solo per far numero, semplici ostacoli da scansare per Jecht.

Non sapeva dire se il loro distacco gli facesse piacere o meno. In cuor suo sperava di ricevere qualche attenzione prima della grande impresa, ma era anche lieto di non essere infastidito proprio nel suo momento più intimo: la partenza.

La Laguna Shore si staccò placida dal molo, lenta e accomodante come una carezza, muovendo una leggera brezza che fece rabbrividire la pelle di Jecht. Non era abituato a saggiare la freschezza del mattino, tanto forte era in genere il sonno alcolico causato dalle sue serate sregolate.

Si sentì scosso più della superficie del mare e afferrò la barra di ferro che delimitava la prua come se ne valesse della sua vita. Troppe cose erano fuori posto e fuori dal suo controllo, oltre quell'orizzonte dominava un mistero che avrebbe potuto inghiottirlo.

Fino a quel momento era stato tutto semplice: svegliarsi, prendere qualcosa per la sbornia, subire le devastazioni intestinali causate dall'alcol e riprendersi in tempo per l'allenamento. Nel luogo ove stava andando, invece, non c'era niente di tutto questo, solo una profonda e terrificante incertezza.

Per chi lo stava facendo veramente? Per se stesso, per Lauren o per Tidus? O per nessuno? Un semplice gesto di autodistruzione finale per sentirsi giustificato a mollare?

La testa gli iniziò a girare, forse era l'unica sensazione familiare del momento.

Si accasciò sconsolato sul ferro umido, puntando gli occhi su Zanarkand che diventava sempre più lontana. La nausea aumentò, qualcosa non andava: si sentiva come sull'orlo della morte.

Diamine, Jecht, non puoi stare così male! Forse è meglio andare di sotto.

Fece per andarsene, ma non riusciva a staccarsi dalla brezza fin troppo fredda dell'alba, l'aria viziata degli ambienti chiusi della nave lo avrebbe soffocato.

Rimase immobile, braccato da qualcosa di invisibile di cui non comprendeva nemmeno la natura. Due giovani atleti passarono vicino a lui: al contrario del campione, loro non avevano nessun problema a scendere sotto coperta, infreddoliti.

«Ma è davvero lui?» chiese quello biondo all'amico, più minuto e dai capelli castani.

«Credo proprio di sì, quella bandana rossa è inconfondibile».

«Cosa ci fa qui? Non lo sa che è pericoloso fare l'allenamento speciale? Solo un pazzo lo farebbe nelle sue condizioni...»

«Un pazzo, o un suicida. Lo sanno tutti che l'infortunio alla gamba è stato brutto, forse il suo regno è finito».

Maledetti idioti, a prua i bisbigli si sentono benissimo.

Pensò che gli inetti rimanevano tali perché parlavano tanto ma non facevano nulla di concreto. Quei due incapaci erano semplici pedine e sempre lo sarebbero stati, li avrebbe schiacciati anche senza una gamba e un braccio.

Partorire quel pensiero, in qualche modo, lo fece sentire meno inetto a sua volta: lui stava cercando di cambiare. Non era forse abbastanza? Si era imbarcato. Lo stava facendo per davvero, anche se Tancre non aveva specificato per nulla quanto sarebbe stato pericoloso.

Un po' troppo pericoloso. Jecht sentì la pelle del collo umida, ma non era la salsedine. Rischiava sul serio di andare a sentir cantare i grilli, e non aveva ancora capito perché aveva deciso di farlo.

Morire per fuggire o, ancor meglio, rischiare di morire ed essere autorizzato a lasciarsi tutto alle spalle. Avrebbe potuto ripensarci e tornare indietro, magari aspettare qualche giorno in albergo e poi presentarsi a Lauren con il volto sconvolto di chi l'ha scampata per un soffio.

E poi lasciarla libera. Jecht non provò nemmeno a giustificarsi: era un marito deplorevole e lo sapeva, non era nemmeno sicuro di amarla, dopotutto. Lauren meritava di meglio. Sì. Jecht lo stava facendo per il suo bene, solo per lei, per salvarla dal comportamento tossico che non riusciva ad abbandonare.

Sarebbe stato molto semplice, se non fosse stato per Tidus. Si conoscevano a malapena, suo figlio aveva bisogno di un padre vero, di stabilità. Quanto avrebbe sofferto per la separazione dei suoi genitori? Lo avrebbe distrutto o ne sarebbe stato felice? Era giusto distruggere la famiglia e lasciare tutte le sue responsabilità?

Responsabilità. Jecht indugiò su quella parola per qualche minuto, realizzando una verità ovvia ma che, in cuor suo, non voleva dire ad alta voce per non doverla affrontare. Voleva davvero bene a Tidus e Lauren, ma non riusciva a vederli come amati famigliari, quanto come una missione di cui prendersi carico.

Lo aveva fatto quando la ragazza gli aveva rivelato di essere rimasta incinta. Non si era tirato indietro e l'aveva sposata: quando aveva preso suo figlio in braccio, per la prima volta nella sua vita, si era sentito commosso. Nonostante tutto, rimaneva comunque un dovere, e quel peso non riusciva a toglierselo di dosso.

I pensieri correvano veloci: di rado sentiva la mente cosí torbida da sobrio, era sempre l'alcol a riempire la testa fino a scoppiare. La decisione da prendere era cruciale, forse era proprio il bere la spinta in più che cercava per andare fino in fondo. Era fatta, era sicuro, fine della storia.

Una certa nausea gli invase lo stomaco: era arrivato il momento di mangiare qualcosa sotto coperta. Si girò e vide che era rimasto solo sulla prua: era talmente preso dai suoi ragionamenti deliranti che non si era accorto delle persone che se ne andavano dietro di lui, nemmeno dei due ragazzini che lo avevano dato per spacciato.

Le nubi si erano addensate con velocità tremenda, superiore a quella che avevano sopra la terraferma, come se – slacciate dai vincoli – fossero state attratte l’una dall’altra. Il cielo era cupo e i lampi lo tingevano di rame.

Invece di spaventarsi, per i propri pensieri di poco prima e per la tempesta che stava per travolgere la nave, Jecht si trovò con il viso rivolto verso l’alto, i rombi dei tuoni imitati dal ruggito dentro al suo petto.

Attorno a lui c’era solo acqua livida, senza punti d’appiglio per lo sguardo, specchio di una volta nera e infinita in cui qualcosa avesse inghiottito le stelle.

Sopra di lui passò l’urlo di un uccello, e tre volte la sua ombra dalle ampie ali girò sopra la nave. Jecht non ne aveva mai visto uno, ma aveva sentito le leggende dei pescatori. Condor lo chiamavano, e narravano che tra le piume portasse i resti delle anime che avevano lasciato il mondo fuggevole: quando con rumore si levava, taceva ogni cosa all’orizzonte.

Come seguendo i richiami di quella creatura, il mare a un tratto si gonfiò e cominciò a ruggire, la nave fu flagellata dall’improvvisa tempesta. S’inclinò, spinta dal vento che sembrava volerla accartocciare come un foglio gettato alle fiamme. Jecht venne sbalzato in aria, ma stringendo i denti serrò le mani attorno alla ringhiera. Non era ancora pronto: non sarebbe salito in quel momento sulle ali del Condor.

La pioggia, troppo forte per essere fermata dalle ciglia, gli entrava negli occhi e lo costringeva a socchiuderli. Voltò il viso all’indietro, in modo che le gocce gelide che lo frustavano non lo ferissero, e lo vide per la prima volta.

Era un gorgo che scendeva e schiumava, avvolgendosi su se stesso. Attraverso i flutti emergevano file di fanoni immensi, intervallate da orridi denti. Sotto, la bestia paurosamente assorbiva l’acqua e subito dopo la vomitava, per poi riassorbirla ancora.

Le urla di Jecht, mentre precipitava, furono soffocate dal vento e dalla pioggia che gli entrava in gola. In alto gridò il Condor, che pareva non sentire il peso della tempesta sulle proprie ali.

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Capitolo 4
*** Guardare oltre ***


CAPITOLO 4: GUARDARE OLTRE

 

 

 

«Avete sentito?»

C'era un chiacchiericcio irrequieto come un bambino, quel giorno. Braska se ne accorse mentre passeggiava per le strade di S. Bevelle, colorate anche senza i veli araldi della festa.

«Ieri notte han preso per la strada un ubriacone... uno anche abbastanza giovane».

«Ma era uno famoso? Urlava come un ossesso! "Io sono Jecht, Jecht il grande! Voi non sapete chi avete davanti!" E poi è svenuto... poveraccio».

«Ah, le strade sono sempre meno sicure».

A Braska piaceva, quale che fosse la sua destinazione, passare per le vie interne se era giorno di mercato. Profumavano di cuoio e di deliziose mele croccanti, anche se doveva ancora trovarne di buone quanto quelle che, da bambino, rubava dall'albero dei vicini.

«Buongiorno, don Braska» lo salutò una donna dietro a un banco che esponeva frutta e ortaggi. Il raccolto era stato abbondante, lo confermava il sorriso sincero sotto i suoi occhi stanchi.

«Buongiorno» salutò lui con educazione, e si sistemò una manica della tunica che aveva scelto quella mattina. Era complessa, composta da numerosi strati di stoffa sovrapposti che davano l'illusione di essere dei petali: alle occasioni formali, aveva sempre sostenuto, è importante presentarsi ben vestiti. Estrasse poi dal borsello una sporta di iuta e la porse alla donna.

«Mi dà un cavolo, per favore?» domandò. La venditrice annuì e lui, figurandosi il broncio della sua bambina di fronte alla brassicacea scoperta, fu svelto ad aggiungere: «E anche quel po' di fragole... quelle lì, se non le dispiace».

Nel frattempo prestava un orecchio al parlottare della folla: aveva preso l'abitudine di farlo da quando aveva scoperto che, alcune volte, si scoprivano delle cose interessanti – o divertenti, come ad esempio che il figlioletto pel di carota di Cara, quella del noleggio barche, non somigliava affatto al papà, e nessuno in famiglia aveva mai avuto i capelli di quel colore.

«Ma è vero che diceva di venire da Zanarkand?» udì alle proprie spalle, ma la risposta fu sovrastata dalle urla dell'arrotino.

«Mi dica, Korya» esordì, rivolgendosi alla donna che stava scegliendo il cavolo, «cos'è questa storia di cui parlano tutti?»

«Ah, cielo! Anima disgraziata, che Yevon lo scampi!» esclamò lei, e d'istinto interruppe la sua opera per portarsi una mano al petto, come colta da una vampa improvvisa. Poi abbassò la voce e continuò, con tono cospiratorio: «Un ammattito, poveretto, ieri se ne girava per le strade urlando. Era ubriaco, e si è messo a fare voci: "Dove sono? Dov'è la mia Zanarkand?". E gridava, ma tanto che metteva paura. Sono arrivate le guardie, lo hanno preso e portato in cella: secondo me l'abate voleva pure buttare via la chiave».

«Zanarkand?» domandò Braska, per accertarsi di aver capito bene.

«Sissignore. Ma se m'ascolta a me, che ne ho visti tanti di disgraziati, quello è stato vicino a Sin e si è preso le tossine».

Braska annuì pensoso e le allungò delle monete per gli ortaggi, invitandola con gentilezza a tenere il resto.

Si rimise in cammino, concentrandosi sul riportare sulla retta via la mente, che continuava a cercare di prendere il volo. Riuscì a non perdersi e a giungere al monastero dove vivevano e si addestravano i Templari di Yevon.

Chi aveva disegnato l'edificio aveva in mente, mentre tracciava i segni sul foglio, i cerchi armoniosi dei pianeti e le parabole su cui scivolavano le comete. I muri erano lisci e bianchi, austeri come la vita degli uomini che lo abitavano, eppure le forme delle finestre e delle porte, i trafori nelle ringhiere e la cupola azzurra infondevano un senso di armonia in chi guardava.

Due Templari che pattugliavano la zona, riconoscendolo, gli fecero la riverenza, poi si misero sull'attenti e presentarono le armi. Braska rivolse loro un cenno di saluto e infilò le mani nelle ampie maniche.

«Cosa la porta qui, mio signore?» chiese quello che impugnava l'alabarda.

«Niente di importante, sono solo venuto a trovare un amico. Almeno, lo spero!» rispose Braska abbozzando un sorriso.

«Se le aggrada, potremmo darle una mano. Di chi si tratta?»

Il secondo Templare si propose con una certa impazienza, cosa che non passò inosservata agli occhi del futuro Invocatore. Dovevano senza dubbio aver saputo del recente processo a suo carico, non li biasimava per essere sospettosi nei suoi riguardi. Tuttavia, Braska era calmo e sicuro delle sue intenzioni, non aveva niente da nascondere e niente da temere. Non ebbe remore nel spiegare loro chi stava cercando.

«Ne sarei lieto. Conoscete un uomo di nome Auron? Credo sia un monaco guerriero che opera in questo monastero».

I due si guardarono per un istante, poi quello armato di alabarda emise una flebile risata, annuendo con la testa. Braska arricciò il naso, non capendo se la sua reazione fosse dettata dallo scherno. La risposta era in realtà ovvia, e non gli piacque. Represse il suo disappunto e continuò a chiedere indicazioni.

«Ah, ottimo! Oggi Yevon mi assiste, fratelli. Sapreste dirmi dove trovarlo?»

«In questo momento? No, non sappiamo dirle dove si trovi, ora. Provi a chiedere nel monastero, qualcuno lo avrà visto» rispose l'altro, poi si allontanarono.

«Magari sta rifiutando altre donzelle!»

I due Templari ripresero la loro ronda tra le risate, lasciando Braska profondamente infastidito. Un singolo gesto di un uomo giusto avrebbe potuto essere più virtuoso della loro intera vita: il pensiero che quei giovani guerrieri non lo avessero ancora capito lo rattristava molto.

Sospirò rassegnato, per poi dirigersi a passo lento verso l'entrata dell'austero edificio. Sulla soglia dovette fermarsi per riprendere fiato: non era più abituato a certe scarpinate.

Che Yevon mi aiuti, in Pellegrinaggio sarò un peso morto se non mi rimetto in forze...

Entrò aprendo il portone con delicatezza e anche una certa fatica; fece qualche passo all'interno e porse i suoi omaggi alla divinità, così come gli era stato insegnato anni e anni prima.

L'arredamento era scarno e modesto, come si confaceva a un ordine monastico. Le stanze orientate a est erano l'appartamento dell'abate, mentre dal chiostro silenzioso si aprivano archi che portavano al refettorio, al capitolo e alle celle.

Braska si guardò intorno alla ricerca di Auron, o di qualcuno che potesse aiutarlo. Quel ragazzo imponente dai lunghi capelli neri non passava di certo inosservato, ma non gli sembrava di vederlo nei paraggi. Si avvicinò a un monaco completamente glabro e piuttosto anziano che aveva da poco terminato la sua preghiera: faceva fatica a rimettersi in piedi dopo aver passato molto tempo inginocchiato, così lo aiutò offrendogli un braccio.

«Buongiorno, fratello. Che Yevon guidi i tuoi passi» esordì Braska con un largo sorriso.

«Buongiorno a lei, Braska. Grazie per il sostegno, figliolo: Yevon ha a cuore chi aiuta un povero vecchio. Quale pensiero del dio la conduce qui?»

«Sto cercando un uomo di nome Auron. Sa dove si trova?»

«Oh... Auron. Posso permettermi di chiedere perché lo vuole sapere?»

L'anziano monaco sembrava molto a disagio nel parlare del suo confratello, come se si vergognasse. Per Braska non fu difficile intuire che il gran rifiuto del ragazzo veniva visto come un disonore indelebile, ma era proprio per quello che desiderava tanto incontrarlo. Auron era stato uno dei pochissimi a osare, proprio come aveva fatto lui durante il processo, non poteva rinunciarvi.

«Curiosità» rispose Braska sorridendo pacifico. L'anziano rimase interdetto.

«Figliolo, ma lo sa cosa ha fatto?»

Era difficile non esserne al corrente. Il governo della Chiesa di Yevon nutriva il popolo con il pane, il blitzball e i pettegolezzi, e Braska, dal canto suo, non disprezzava certo nessuno dei tre.

«Certo, fratello» rispose. «Sta di fatto, però, che non nutro nessun interesse nell'immischiarmi in certe faccende. Piuttosto, mi dica: Auron è un valido guerriero?»

«Assolutamente, il migliore di tutti noi. Ha una forza fuori dal comune, quel ragazzo...»

Dentro il suo cuore, Braska esultò entusiasta: era proprio quello che voleva sentire. Auron era un uomo forte e giusto, colui e, forse l'unico, che avrebbe mai potuto desiderare per il suo Pelligrinaggio.

«Molto bene, che gran fortuna! Quindi, potrebbe dirmi dove si trova, ora? Sempre se ne è a conoscenza, ovviamente».

La gentilezza era un'arma affilata e potente, Braska lo sapeva bene. La riluttanza dell'anziano monaco fu completamente annientata dai modi di fare lodevoli del futuro Invocatore. Non gli negò il suo aiuto.

«Ma certo, fratello. Se mi attende qui un momento, lo vado a chiamare affinché abbia un'udienza con lei».

Braska sospirò, stavolta sollevato. Osservò l'uomo allontanarsi con ritrovato vigore, poi si accomodò sulle scale in placida attesa.

Auron fu sorpreso dal confratello mentre, con schiena china sui suoi averi, li separava per grandezza e li preparava per essere riposti nel suo bagaglio, con una certa tristezza nell'animo. Sbuffava più del solito: sembrava non andare bene niente, in qualche modo le sue cose trovavano sempre il modo di uscire dalla sacca.

«Auron? È un buon momento? C'è una persona che vorrebbe avere udienza con te» disse l'anziano con tono imbarazzato.

Il giovane monaco si bloccò di colpo, drizzò la schiena e guardò con aria interrogativa il confratello: chi mai avrebbe voluto vederlo proprio in quel frangente?

«Sicuro che non voglia sputarmi in faccia o insultarmi? Ormai è solo questione di tempo prima che lo facciano alla luce del sole» rispose secco.

L'astro che aveva appena nominato si liberò dalle nuvole e lo accecò proprio mentre osservava nella direzione indicatagli dal confratello. Quando il bagliore si attenuò, vide un uomo seduto sulle scale che conducevano al tempio.

C'era qualcosa di familiare, eppure di estraneo, nella sua figura: era come vedere agghindato a festa un uomo che di solito indossava l'armatura. L'abito celava in parte le forme quasi emaciate del corpo, ma non c'era più nessun velo a impedire di vederlo bene in viso. Aveva i capelli castani, rasati corti come se fosse abituato a portare in genere qualche sorta di copricapo. Era troppo distante per distinguerne i lineamenti, ma Auron capì che stava sorridendo.

«Grazie per avermi avvertito, andrò subito a parlare con lui» disse il giovane congedandosi in fretta.

Attraversò la strada che li separava a grandi falcate: non ne capiva il motivo, ma si sentiva impaziente come se non aspettasse altro da tempo.

«Auron, giusto?» esordì l'uomo. Il giovane monaco sgranò gli occhi, riconoscendo colui che aveva visto, vestito di bianco, attraversare il ponte di Bevelle. Un'ondata di calore gli percorse il corpo e gli imporporò le guance, spingendolo a inchinarsi con riverenza. Quando si accorse di avere la bocca semiaperta, la serrò di colpo, rendendosi conto di dare un'immagine di sé poco consona.

«Sono Braska, sacerdote della chiesa di Yevon e tra poco, se il dio lo vorrà, Invocatore» si presentò. Dopo essere arrossito, Auron impallidì per la vergogna e si costrinse a guardarlo in volto: non riusciva a leggervi nulla se non una serenità serafica all'apparenza imperturbabile. I suoi occhi azzurri erano un po' socchiusi, in modo che le ciglia bloccassero la luce del sole, e di fianco al labbro inferiore aveva un piccolo neo.

«Le domando scusa per la mia mancanza di rispetto, l'altro giorno alla festa» disse, dato che restare lì imbambolato senza proferir parola non gli sembrava una buona idea. «Non avrei dovuto prendermi tutta quella confidenza».

Ad ogni modo, dubitava che fosse venuto a sgridarlo, e ancora non riusciva a capire perché quell'uomo avesse chiesto di lui. Se gli avesse rivolto una qualsiasi richiesta, tuttavia, avrebbe fatto il possibile per accontentarla.

Braska sorrise e strinse entrambe le mani su quella che somigliava in tutto e per tutto a una borsa della spesa.

«Non riesco a vederla in alcun modo come una mancanza di rispetto, Auron, dal momento che non ti avevo nemmeno detto il mio nome» gli rispose, sempre con quell'indecifrabile espressione accomodante. «Ascoltami, avrei un favore da chiederti».

«Un favore... a me, signore?» balbettò Auron, in chiara soggezione.

Braska annuì. Fece per proseguire, ma fu bloccato da un lieve colpo di tosse e si coprì la bocca con la mano destra. Auron notò che vi portava la fede.

«Quanti anni hai?» si informò.

«Venticinque».

«Hai famiglia?»

«No».

Il sacerdote annuì di nuovo, con una lentezza che tuttavia non dava spazio a nessuna esitazione. Poi gli fece cenno di sedersi su una delle panche di marmo sul perimetro del monastero. Auron obbedì, lievemente inquieto a causa di quella domanda che tardava ad arrivare.

Dei passeri, planando, si posarono sul selciato davanti a loro e cominciarono a becchettare per terra. Braska li osservò con tenerezza e storse le labbra, forse rimpiangendo di non avere con sé del pane.

«Ho intenzione di partire per il Pellegrinaggio» annunciò dopo qualche istante. Auron trattenne il respiro per impedire a un gemito sorpreso di uscirgli dalla gola. «A breve mi presenterò all'Intercessore di Bahamut e, se il mio cuore mi sosterrà, riceverò l'eone».

Fece una pausa studiata, durante la quale fissò le sue iridi chiare in quelle ambrate di Auron.

«Spero che la mia fede mi dia la forza per affrontare il viaggio» continuò, «ma a volte, contro i mostri che infestano la via, una benedizione può poco. Ho bisogno di un Guardiano».

Gli uccelli si alzarono in volo con un frullio di piccole ali.

«Temo che lei stia sbagliando persona» disse Auron, a mezza voce. «In questo monastero io non sono stato nemmeno il guardiano di me stesso».

I suoi occhi si persero in un ricordo che li accecava, come il sole sulle cupole e la gloria di Yevon nelle sue ore di preghiera. Erano scandite dal rintocco grave della pendola regalata a Kinoc per la sua prima avanzata di rango.

Toc...

Toc...

«Quindi rifiuti?» disse la voce di Braska. Ad Auron non fu necessario voltarsi per capire che ne era rimasto dispiaciuto. Immaginò il suo viso con un'espressione ferita e, come se lo conoscesse da anni, gli si strinse il cuore ad avergli inflitto un dispiacere.

«Sarebbe per me il massimo onore seguirla nel Pellegrinaggio» precisò Auron, «da sempre desidero consacrare la mia vita a proteggere un Invocatore e non posso che accettare la proposta di un'anima nobile. Ho solo il timore di non esserne all'altezza».

Il sacerdote, rincuorato dalla sua risposta, sorrise.

«L'abate non la pensa così» gli rivelò. «Quando gli ho chiesto chi fosse il migliore dei suoi combattenti, mi ha risposto con il tuo nome. E il valore di un uomo è di sicuro molto grande, se viene ricordato in sua assenza».

Auron rimase interdetto da quelle parole.

«Quando mi ha visto sul ponte, anche io stavo facendo ammenda per qualcosa» gli confidò. Per qualche motivo gli risultava facile parlargli, anche di sé, quando con chiunque altro si sarebbe chiuso dietro un muro di lame. «Ho rifiutato di sposare la figlia di un prelato, e non mi è stato concesso di diventare comandante in seconda. Ho deciso di rinunciare a qualsiasi carriera all'interno dei Templari».

«Capisco» rispose Braska. Gli occhi di Auron, inconsciamente, tornarono sul neo che aveva sotto la bocca. Lui li costrinse a distogliersi da quel punto, per non apparire inopportuno, e li fece vagare sulla sua tunica color terra bruciata e poi sul proprio cappotto, di un tono di rosso più acceso.

«Molte persone si sposano per convenienza» disse poi il sacerdote, e il giovane monaco non riuscì a capire se fosse una semplice constatazione, un ammonimento o chissà cos'altro. «Come mai hai rifiutato?»

Auron alzò gli occhi con determinazione.

«Quello che mi è stato chiesto non ha nessuna attinenza con i precetti di Yevon» rispose. «La ragazza ha quattordici anni. Mi hanno detto che non sarebbe stato necessario consumare il matrimonio prima che lei raggiungesse l'età da marito, ma allora io ne avrei avuti ventisette e lei sedici, di cui due convissuti forzatamente con me. Questo potrà farlo un altro uomo: io non ci riesco».

L'Invocatore annuì per l'ennesima volta, in modo più grave delle precedenti. In un'isola che a periodi veniva spazzata via da ciò che stava nel mare, era comune sposare fanciulle così giovani affinché mettessero al mondo numerosa prole.

«Braska, posso farle una domanda?»

«Io te ne ho fatte tante».

Il Templare si guardò più volte attorno, per accertarsi che non ci fosse nessuno a portata d'orecchio. Nel cortile del tempio camminavano solo, svogliate e lontane, le due guardie di ronda, ma lui abbassò comunque la voce.

«Se scoprisse che nel suo ordine è diffusa la prassi di vendere cariche, che cosa penserebbe?»

«Penserei» ribatté Braska, intrecciando le dita delle mani l'una con l'altra, «che quello che fanno non ha nessuna attinenza con i precetti di Yevon».

Il silenzio che seguì servì all'uno a soppesare quelle parole, all'altro a estrarre dal proprio borsello una pezza di stoffa nella quale era avvolto un carboncino.

«Anche io devo rivelarti cosa voleva da me l'Inquisizione, Auron, prima che tu accetti la mia proposta. Però capirai che è qualcosa di ancor più pericoloso di quello che mi hai detto tu e che qui non posso proprio parlare» si interruppe, rigirandosi il carboncino tra le mani affusolate. «Hai della carta con te? O qualcosa su cui scrivere?»

Per istinto, Auron si tastò la veste prima di dirgli di no.

Allora Braska aprì la sporta con gli ortaggi e, con pazienza, prese a tirare una foglia del cavolo. Quando, dopo qualche tentativo, quella si staccò, ci scrisse qualcosa con il carbone prima di porgerla ad Auron.

Infine si alzò e, mentre lui teneva la foglia con il suo indirizzo in grembo, gli posò una mano sulla spalla e fece sì che lo guardasse negli occhi.

«Non prendere decisioni affrettate» gli disse, con calma ieratica, e la sua voce suonò come l'ultimo fiato di vento prima di una bonaccia.

 

 

Auron vagava smarrito nella piccola Piazza dell'Alba, dov'erano accrocchiate le botteghe della città. Ci era arrivato per caso, quando aveva mancato una svolta a sinistra ed era andato dritto.

Le parole di Braska continuavano a rimbombargli nelle orecchie, soffuse e allo stesso limpide come la rugiada del mattino: proprio lui, dopo essere stato rifiutato dal suo stesso ordine, era stato scelto per ricevere l'onore immortale del Guardiano.

Così come Zaon era stato il sostegno di Yunalesca, avrebbe protetto l'Invocatore con tutte le sue forze, avrebbe consacrato a lui la propria anima e la propria spada, fino a quando Sin sarebbe stato distrutto.

Auron alzò lo sguardo e si trovò davanti la vetrina di un negozio che pareva vendere confetture e dolci. Gli parve un buon regalo: stava ormai camminando da più di mezz'ora, incerto su cosa comprare. Nessuno lo aveva mai invitato in un'abitazione privata, non conosceva il sacerdote e non sapeva cosa avrebbe potuto risultargli gradito e cosa, invece, lo avrebbe offeso. Aveva sentito dire in giro che lame e coltelli – nonostante un guerriero li ritenesse utili – erano un regalo di cattivo auspicio; invece, i fiori andavano bene soltanto per una signora.

Raramente Auron aveva messo piede fuori dal monastero per motivi di piacere, comunque legati a qualche ricorrenza religiosa. Non poteva certo presentarsi da Braska con gli stessi incensi che recava ai templi del dio.

Si fece coraggio e, con lo stesso impeto con cui scendeva in battaglia, spinse la piccola porta di legno. Una campanella dal suono cristallino appesa sopra lo stipite annunciò il suo ingresso.

A quel segnale, un'anziana minuta alzò verso di lui gli occhi scuri e vivaci. Le sue mani erano sospese in aria sopra un pacchetto che stava incartando con gran perizia.

«Buonasera» lo salutò con la voce resa stridula dall'età.

Auron maledisse la sorte per essere l'unico cliente: la presenza di qualcun altro gli avrebbe dato qualche minuto per formulare una richiesta di senso compiuto.

«Buonasera» mormorò, a voce troppo bassa per essere udito.

«Cosa desidera?» chiese la negoziante, e il giovane sentì il sangue defluire dal viso. Non era pronto per quella domanda.

«Un... dolce» azzardò, e si rese subito conto della stupidità della sua affermazione, dato che la donna era circondata da torte di ogni tipo.

Lei non perse la pazienza e gli rivolse un'espressione intenerita, forse prendendolo, dato l'atteggiamento impacciato, per un innamorato che non sapeva che regalo portare alla fidanzata.

«Un dolce di che genere?» lo incalzò. Lui si irrigidì ancora di più.

«Io non... non lo so» ammise, con imbarazzo.

Non ho mai mangiato dolci, si rese conto. Poi, però, gli sovvenne un dettaglio che forse avrebbe potuto essere utile.

«Mi piacciono le mandorle, se può aiutare... » aggiunse. Le aveva provate una volta o due.

L'anziana sorrise come se avesse avuto davanti uno scolaretto che ha appena balbettato la risposta esatta.

«Venga con me, le mostro che cos'ho sul retro».

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Capitolo 5
*** Braska ***


CAPITOLO 5: BRASKA

 

 

La bianca casa dal tetto a pagoda dell’Invocatore Braska era circondata da rovi di rose che si arrampicavano fin sopra il porticato. La primavera era troppo prematura perché fossero già in boccio, ma Auron, guardandoli, si rese conto che il voler essere circondato da fiori era un indizio su chi fosse quell’uomo, molto più rivelatore delle espressioni che gli aveva visto dipinte in volto.

Il giovane monaco non aveva ricevuto nessuna indicazione su come o quando presentarsi a casa di Braska. Tutto ciò che possedeva era una larga foglia di cavolo dove l’indirizzo era stato tracciato con un carboncino ormai sbavato, e un sacchetto contenente dei pasticcini alle mandorle.

Si chiese per l’ennesima volta se il pomeriggio inoltrato fosse un buon momento per andare a trovare qualcuno, poi deglutì per inghiottire la paura e si avvicinò al campanello.

Oltre alla ringhiera arricciata in ferro battuto, e oltre la siepe che nascondeva con discrezione alla vista il giardino, qualcosa si mosse attirato dal suono.

Auron, impacciato e curioso, spostò lo sguardo verso il basso e incontrò gli occhioni spalancati di una bambina, grandi come quelli di un cerbiatto che fissa il mondo al limitare del bosco. Nonostante il sole stesse declinando, e la luce aranciata mescolasse i colori, si riusciva a distinguere con chiarezza che le sue iridi erano una azzurra e una verde.

Forse, quindi, erano per lei le rose.

«Ciao» provò a dire Auron con un mezzo sorriso, sperando di non sembrare spaventoso. Non aveva mai avuto a che fare con dei bambini, negli ultimi anni.

La piccola sussultò e si nascose meglio che poteva all’interno degli arbusti. Non era scappata, e i suoi scompigliati capelli castani erano ben visibili, ma Auron fece finta di non accorgersene e guardò altrove.

Quando la porta della casa si aprì, la bimba schizzò verso la figura che stava uscendo.

«Papà, papà!» gridò. Braska si chinò su di lei con un’espressione dolce, poi le disse qualcosa con gli stessi modi cortesi che usava con gli adulti. Lei gli si avvicinò ancora di più, fino a sussurrargli qualcosa all’orecchio.

«Il signore è un amico di papà» le spiegò il sacerdote, rivolgendosi verso Auron. Gli fece cenno di entrare e di raggiungerli attraverso il vialetto di ciottoli bianchi.

Auron aprì il cancello e, quando lo richiuse dietro di sé, volse il viso per un istante al tramonto tiepido. Braska intanto aveva preso in braccio la sua bambina, che continuava a guardarlo con tanto d’occhi.

«Ciao» riprovò a salutare, ma lei si strinse con timidezza al petto del padre, abbassando la testa sulla sua tunica azzurra. Auron allora ci rinunciò e si rivolse all’Invocatore. «Buonasera, Braska, spero di non disturbarla».

«No» rispose lui, sereno. «Ti stavo aspettando. Yuna, sii educata, saluta Auron».

A quell’invito, la bambina cedette e mormorò un flebile ciao. L’uomo poi la posò a terra e la invitò a rientrare in casa: sembrava un po’ affaticato  per averla sollevata, ma cercò di dissimulare la sua smorfia con un sorriso.

«Questo è per lei» esordì Auron, porgendogli il sacchetto con la stessa prontezza di spirito di un ragazzino al primo appuntamento.

«Oh, non dovevi» commentò Braska, poi si mise ad allargare i manici del regalo, cercando di sbirciarne il contenuto. «Uff, non si vede niente» si lamentò, poi tornò ai suoi atteggiamenti abituali. «Coraggio, seguimi».

Auron passò per un piccolo ingresso, dove un piccolo arazzo colorato raffigurante un drago stilizzato – Bahamut, l’eone di Bevelle – sovrastava una cassapanca decorata da un vaso e da un centrino. Era tutto molto ordinato e preciso, a partire dalle scarpe allineate a fianco alla porta sino ad arrivare ai libri schierati sugli scaffali a muro. Oltre ai breviari, vi scorse titoli di raccolte di poesia o trattati di storia, anche su argomenti piuttosto specifici come le usanze degli Al Bhed.

Il giovane monaco si chiese se dovesse o meno ritenere insolita la presenza di libri che la chiesa aveva messo all’indice, poi fermò i propri pensieri: non sapeva fino a quanto fosse lecito guardarsi attorno in casa d’altri, né in quale stanza avrebbe dovuto dirigersi. Per sua fortuna, Braska intervenne indicando alla propria destra.

Era una sala tonda, confortevole e raccolta, al centro della quale stava un tavolo ovale a cui l’ospite lo invitò a sedersi mentre egli si dirigeva in cucina per aprire il suo regalo. Yuna gli trotterellava dietro, cercando di aggrapparsi alla sua veste. Di nuovo colto dal demone della curiosità, Auron allora si sporse verso la poltrona poco distante: era chiaro che qualcuno vi era rimasto seduto fino a poco tempo prima. Sopra al pouf c’era un libro, con posati accanto degli occhiali a mezzaluna. Data la scarsa distanza, erano facilmente distinguibili la copertina – un uomo e una donna seduti in riva al mare che si guardavano intensamente negli occhi – e il titolo: Libeccio d’amore a Luka. Auron decise che aveva curiosato abbastanza.

«Mi piacciono moltissimo i pasticcini alle mandorle!» lo richiamò una voce dalla cucina, mentre lui stava cercando di togliersi dalla mente quella copertina invereconda. «Dimmi, per caso bevi vino?»

«Io… sì» balbettò Auron confuso, «ma non...»

Non fece in tempo a finire la frase che Braska era già uscito dalla cucina con un vassoio in mano. Vi aveva posto i pasticcini, una brocca di vetro smerigliato con del vino dolce e due bicchieri allungati.

«Prego, unisciti a me» gli disse con cortesia, posandogli il bicchiere davanti agli occhi. Auron stava per aprire la bocca per replicare quando sentì qualcosa che picchiettava sulle sue ginocchia. Si voltò e vide la piccola Yuna che gli offriva un cestino con dei frutti rossi.

«Vuoi fragola?» gli domandò.

Il monaco, intenerito, sorrise e ne accettò una, osservato dalla bambina che aspettava un parere da parte sua.

«È davvero molto buona, grazie...»

Yuna saltellò via allegra, mentre Braska prese posto sulla poltrona scrutata poco prima dal monaco. Come se niente fosse, il padrone di casa prese il libro romantico e lo nascose sotto altri volumi, lasciando piuttosto basito Auron.

... Pensa forse che io non l'abbia visto?

L'invocatore mangiò di gusto un pasticcino e bevve un lungo sorso di vino, come se volesse darsi la spinta necessaria.

«Auron, il tuo regalo è davvero gradito» disse con le guance ancora piene.

Nonostante il galateo dell'Invocatore lasciasse molto a desiderare, il giovane monaco tirò un sospiro di sollievo nell’apprendere che aveva fatto la cosa giusta.

«Ne sono molto lieto, signore» rispose, schiarendosi la voce. Notando l'imbarazzo dell'ospite, Braska assunse una postura più composta.

«Tornando al discorso che abbiamo iniziato» esordì, unite le mani in grembo, «ho deciso di partire per il Pellegrinaggio, e mi serve un Guardiano. Uno molto abile, il più abile. Tu, Auron. E non escludo che potrei avere bisogno d’altri».

Il monaco rimase interdetto dalle sue parole: era insolito che un Invocatore si affiancasse a più di un Guardiano.

«Signore, posso chiedere il motivo di tale richiesta? Perché cercare una protezione tanto grande?»

Braska sospirò un poco intristito; ad Auron fu fin troppo chiaro che la questione era più delicata di quanto avesse sospettato.

«Purtroppo, mio buon amico, non sarà eccessiva nel mio caso. Dovrai combattere per due» disse amareggiato. «Sono stato malato di tisi pochi anni fa, la mia salute è molto cagionevole. Non ho affatto paura di combattere, ma la mia volontà non è sufficiente».

«Oh. Mi dispiace molto, signore...» rispose contrito, ma Braska non smise di sorridere.

«Capisci perché ho bisogno di te, Auron? Sei forse l'unico che può davvero aiutarmi nel mio Pellegrinaggio».

Lo aveva capito eccome, Auron. Per tutto il tempo prima del colloquio si era interrogato sulle vere intenzioni di Braska, quell'uomo che, di punto in bianco, aveva chiesto di lui in modo specifico.

Gli serviva il Guardiano migliore per il migliore dei propositi, la virtù dell'Invocatore era encomiabile. Per il giovane monaco, questo fu abbastanza per farlo sorridere appena, un piccolo cenno che nascondeva l'aspirazione di una vita.

«Sono onorato oltre ogni misura di essere stato scelto. Divenire suo Guardiano sarà la benedizione più grande, mio signore».

Braska strinse il pugno ed esultò a gran voce, spezzando quel momento idilliaco che Auron aveva sempre e solo potuto immaginare. Scosso da tale reazione, il giovane monaco si affrettò ad aggiungere una questione fondamentale da affrontare al più presto.

«A-aspetti, non può ancora essere ufficializzato! Sono andato via dal tempio, ma sono ancora un monaco di Bevelle. Devo sostenere la cerimonia di investitura per diventare Guardiano».

Yuna tornò di gran fretta nella sala circolare, per poi aggrapparsi alle gambe del padre.

«Ma certo, tutto quello che vuoi! Hai sentito, amore di papà? Vado a combattere il cattivissimo Sin!» disse Braska prendendo la figlia in braccio.

«Cattivo! Fatto male alla mamma!» urlò stridula la bambina, agitando le braccia.

«Le mie condoglianze» disse sommesso Auron. L'Invocatore fece un sorriso di cortesia.

«Grazie. L'attacco di due anni fa, ricordi? Sin se la portò via» rispose amaro, poi guardò la figlia con occhi luminosi, «ma noi la vendicheremo, giusto? Papà ucciderà quel brutto mostro!»

Yuna fece quello che ad Auron sembrò un grido di guerra: non vi era dubbio alcuno che fossero entrambi molto determinati. Pensò che la piccola aveva la stoffa del guerriero.

All’improvviso calò il silenzio e Braska si fece serio, come se avesse dimenticato qualcosa di molto importante.

«Sei consapevole che sono stato scomunicato per eresia?» domandò, fissando gli aloni di muffa, quasi invisibili, nell’angolo tra il muro e il soffitto.

Auron sospirò.

«Non ne conosco il motivo, ma ne sono al corrente» rispose.

«La madre di Yuna» spiegò Braska, «era un’Al Bhed».

Auron alzò lo sguardo sull’Invocatore, senza ombra di pietà negli occhi. Si morse le labbra per trattenere la risposta e guardò Yuna. Giocava da sola con una bambola bionda, senza prestare più attenzione agli adulti.

«Gli Al Bhed sono un popolo pagano» disse, «e mai mi accosterò alle loro tradizioni o ai loro pensieri. Ma se lei ha provato amore per una donna e ha voluto sposarla, e dal suo amore è nata una figlia, questo non mi sembra peccato. Sono qui in quanto semplice Guardiano; rimetto all’Inquisitore i giudizi sulla dottrina».

«È deciso, quindi. Prima di congedarci, Auron, avrei un'ultima richiesta» disse Braska, a cui era tornato il sorriso. Qualcosa gli diceva che non gli sarebbe piaciuto.

«Tutto ciò che desidera, signore».

«Hai sentito parlare dello squilibrato che hanno catturato? Farneticava a proposito di Zanarkand. Diceva di venire da lì, persino!»

Oh, no…

«Sì, signore. Le notizie corrono in fretta».

«Eccellente! Prima della tua investitura, domani, lo andremo a trovare».

«… Come, scusi? Perché?» esclamò, un tantino esasperato. Braska rise di gusto.

«Curiosità. Non capita tutti i giorni di incontrare qualcuno che vaneggia su Zanarkand, non trovi?»

 

 

Jecht non si aspettava certo, dopo una sua eventuale dipartita, di finire nell’aldilà in cui tutta Zanarkand credeva, in quel mare infinito e senza onde dove si naufragava con serenità. Mai aveva rivolto il pensiero a una morte oltre la quale ci fosse altro, tantomeno aveva mai pregato affinché i delfini, con leggerezza, conducessero la sua anima su lidi lontani.

Non era mai stato interessato a vivere la propria vita in funzione della promessa di averne, una volta trascesa l’esistenza terrena, una migliore. Credeva che una concezione come quella portasse ad abbandonare tanti soddisfacenti piaceri in favore di una speranza troppo incerta, troppo soggetta a brutte sorprese. Come quella che si era ritrovato davanti lui.

Il Purgatorio era davvero strano. Non che si aspettasse di finire in una dimensione mistica, bianca e avulsa dalla realtà dove avrebbe aspettato come si aspettava la metropolitana, ma la città dove era arrivato era davvero bizzarra. C’era gente che passeggiava esattamente come nel mondo reale, con le stesse facce dementi ma con vestiti più strani. E quando si era messo a bere, per la disperazione di essere finito in un aldilà che gli ricordava troppo il suo inferno quotidiano, lo avevano preso e sbattuto in guardiola.

La gente della città sarà anche stata fiera di quella sua cella elegante, in un palazzo dall’architettura molto in, ma questo non toglieva il fatto che, come tutte, puzzava di urina e di prodotti che avevano fallito a trattarla.

La sua notte trascorse in una bruma alcolica più fastidiosa delle solite. La mattina seguente, dopo aver esposto le dovute lamentele riguardo alla sua reclusione ed essersi sentito rispondere qualcosa relativo a una Chiesa, si rassegnò a sedersi sul letto rigido della cella con la testa tra le mani.

E se per scontare la mia pena dovessi starmene cinquant’anni qua dentro?

Jecht navigava nella sua disperazione da un paio di giorni ormai quando gli stramboidi che sorvegliavano la cella, all’improvviso, si misero in moto come api operaie all’arrivo della regina. Stavano accogliendo con inchini e salamelecchi qualcuno che era ancora al di fuori della sua visuale. Il campione di blitzball aggrottò le sopracciglia quando si accorse che i passi del nuovo arrivato si stavano dirigendo proprio verso la sua cella.

Le due rughe al centro della sua fronte diventarono profonde come solchi d’ascia quando vide davanti a sé, attraverso le sbarre, un uomo che lo guardava con curiosità e con un sorriso supponente.

Era vestito con una tunica a scaglie che aveva l’unico effetto di farlo sembrare una trota e in testa sfoggiava una specie di pennacchio dal gusto discutibile.

«E te chi saresti?» sbottò, non appena il tizio smise di squadrarlo come se stesse pensando di renderlo un’attrazione per il circo cittadino.

Lui inarcò le sopracciglia e si avvicinò, per quanto possibile, alla cella. Jecht si prese un istante per osservarlo: a parte l’abbigliamento insolito, non aveva l’aspetto di una creatura ultraterrena, quanto di un uomo più o meno della sua età, con solo qualche ruga in più e delle vistose occhiaie. Forse avrebbe dovuto provare a essere gentile: magari non sarebbe stata la persona adatta con cui discutere di moda, ma avrebbe potuto liberarlo.

«Tu sei colui che chiamano Jecht, l’uomo che viene da Zanarkand, vero?» replicò lo sconosciuto con un irritante tono melodioso, caratterizzato da un accento che lo faceva andare in crescendo verso la fine delle parole e da una scelta di vocaboli a dir poco obsoleta.

«E quindi?» replicò Jecht, mandando in malora le proprie fantasie di cortesia e accorgendosi di quanto roca e sgraziata apparisse la sua voce in confronto a quella dell’altro. Allora, pensò, si era sbagliato e lui era una sorta di angelo guida che lo avrebbe condotto attraverso l’espiazione del suo peccato.

Quelle elucubrazioni sull’aldilà vennero interrotte all’improvviso da altri passi, più concitati, che si avvicinavano alla guardiola. 

Un tipo con uno sgargiante cappotto rosso entrò in scena come il coprotagonista della brutta commedia cui era costretto ad assistere. Si mise di fianco al primo straniero variopinto, al confronto del quale sembrava un armadio a due ante.

Ma come fa a correre con quel palo in culo?, pensò.

Se non fosse stato quasi sicuramente morto – un piccolo dubbio lo aveva, dato che non gli veniva in mente quale divinità potesse possedere un così spiccato senso dell’umorismo – quella seconda apparizione lo avrebbe terrorizzato, dato che sembrava in grado di mandare al camposanto con un pugno.

«Bada a come parli, malnato» disse il nuovo personaggio. Lui doveva essere, dato anche il modo in cui si esprimeva, o un matto da legare oppure lo spirito severo che avrebbe deciso la punizione adeguata alla sua colpa. In entrambi i casi, era meglio non farlo arrabbiare.

L’uomo con la tunica a squame gli rivolse un cenno e lui si calmò, obbediente come un cagnolino. Poi, tranquillo, si rivolse di nuovo a Jecht.

«Chiedo perdono» gli disse. «Sono Braska, un Invocatore. Sono qui per riscattarti da questo luogo».

Il campione di blitzball fu percorso da un’ondata di gioia, ma presto tornò con i piedi per terra e si rese conto che doveva essere cauto.

«Sembra troppo bello» commentò, alzandosi in piedi e ostentando una posa sicura. «Dov’è il trucco?»

Braska rise e si portò la mano destra a coprire le labbra, come una principessa.

«Era facile da capire, vero? Presto partirò per un pellegrinaggio… verso Zanarkand» gli rivelò, dopo una pausa a effetto.

Il cuore di Jecht prese a martellargli nel petto. Casa. Non sapeva se credere alle parole di quello strano individuo, o se per Zanarkand intendesse il placido mare dell’Oltretomba, o se ancora stesse per risvegliarsi, sudato, nel letto di Tancre dopo un altro delirio da assenzio.

Eppure il nome della sua città gli aveva causato un brivido che lo aveva fatto sentire più vivo che mai.

«Sul… sul serio?» balbettò, incapace di qualsiasi cinismo: quella domanda gli era scivolata fuori dalle labbra come se possedesse volontà propria.

L’uomo unì i palmi delle mani e annuì, con aria un po’ assente, gli occhi fissi davanti a sé che sembravano guardare in tutt’altro luogo.

«Vorrei che ti unissi a noi» aggiunse, e si scostò dal viso il velo attaccato al copricapo. «Sarà un viaggio pericoloso. Ma se raggiungessimo Zanarkand, lì le mie preghiere verrebbero ascoltate, e tu forse riusciresti a tornare a casa. Che ne dici?»

«Mi sembra fantastico. Andiamo!» commentò Jecht, con una punta di ironia. Del resto, se voleva andarsene da lì non aveva molte alternative. Se si fossero rivelati due mitomani, cosa in realtà alquanto probabile, li avrebbe accompagnati sino alla loro prima tappa e poi si sarebbe dileguato rapido come il vento.

Il suo entusiasmo risultò forse sospetto a Braska, dato che inclinò la testa di lato e alzò un sopracciglio con aria eloquente.

«Così in fretta?» gli domandò.

«Farei di tutto per uscire da qui».

Lo sciroccato unì di nuovo i palmi delle mani davanti al viso, questa volta imitando un piccolo applauso come se fosse stato in un libro per bambini.

«Allora è deciso!» esultò.

Quello rosso, che non aveva spiccicato parola fino a quel momento, limitandosi solo a guardare Jecht con aria truce, a quelle parole si ridestò.

«Mi devo opporre» si intromise con aria decisa, sempre rigido come un militare sull’attenti. «Codesto ubriacone, un guardiano?»

A quelle parole, Jecht perse in modo definitivo le staffe.

«Vuoi venire qui a dirmelo?» sbottò, stanco di essere trattato in quel modo da un uomo di cui nemmeno sapeva il nome.

Fu Braska, questa volta, a intromettersi.

«Che importa?» intervenne, voltandosi verso il suo amico. «Nessuno crede davvero che io, un invocatore caduto in disgrazia per aver sposato un’Al Bhed, possa davvero sconfiggere Sin. Questo è ciò che dicono in giro: nessuno si aspetta un nostro successo».

Di nuovo, l’altro si acquietò nel sentire quelle le parole, come se per lui l’uomo con la strana tunica rappresentasse un guru spirituale o qualcosa di simile. Jecht, vincendo la sua iniziale repulsione per il ragazzo, cominciò a osservarlo meglio: sembrava molto giovane, non si sarebbe stupito se avesse avuto una decina di anni in meno di Braska. Nonostante il cipiglio severo e il fisico allenato, gli pareva avere delle reazioni impulsive che rimandavano a un’adolescenza conclusa non da molto.

«Braska, signore» provò a obiettare, ma si bloccò, completamente assoggettato, quando l’uomo gli rivolse un’altra risata.

«Mostriamo loro che si sbagliano» gli rispose. «Un invocatore scomunicato, un uomo di Zanarkand e un templare condannato al dimenticatoio per aver rifiutato la mano della figlia del prete. Che dolce ironia sarebbe se sconfiggessimo Sin!»

L’istinto di Jecht fu quello di aggrottare di nuovo le sopracciglia.

Ma con chi sta parlando? si chiese.

Poi contò fino a cinque e cercò di formulare una risposta meno sgarbata delle precedenti.

«La smetti di blaterare e mi tiri fuori da qui?»

Fallì.

 

 

Per quanto ci provasse, Auron non riusciva a staccare gli occhi di dosso allo squilibrato. Da quando lo avevano liberato dalla cella, grazie all’intercessione di Braska, non aveva fatto altro che guardarlo con astio e rabbia, sperando in qualche modo d’incenerirlo.

Come poteva essere una buona idea? Un ubriacone, che probabilmente non sapeva nemmeno combattere come Guardiano: una scelta del tutto controproducente. Forse, però, le vie di Yevon erano più chiare alla mente cristallina di Braska, e a lui in effetti non restava che obbedire.

Una volta fuori dal corridoio delle celle, furono in una delle sale principali del Palazzo di Giustizia. Jecht, incuriosito, si avvicinò a una delle piscine usate dagli inquisitori per gli interrogatori. Se avesse saputo qual era il suo proposito, di certo non si sarebbe sporto così tanto. Sembrava attratto dall’acqua, come se gli facesse tornare in mente qualcosa.

«Libero, finalmente!» esclamò, appoggiandosi alla ringhiera che dava sulla piscina. Presentava solo una stretta apertura, realizzata in modo che l’accusato non riuscisse in qualche modo a divincolarsi e a fuggire via.

Il monaco di guardia gli rivolse un’occhiata in tralice, ma lui continuò a stiracchiarsi e a guardarsi attorno come se niente fosse. Sembrava davvero qualcuno che veniva da Zanarkand, ignorante di tutto.

Auron soffermò ancora lo sguardo su di lui, riflettendo attentamente su come poterlo utilizzare in battaglia: era piuttosto muscoloso, soprattutto gli arti superiori e il torace erano più sviluppati dell'addome e delle gambe, più snelli e flessibili. Sembrava aver compiuto un allenamento che favorisse l’agilità piuttosto che la forza, come quello di uno sportivo. Quando giunse al viso – che era sporco e dalla barba sfatta – e si rese conto che Jecht stava ricambiando le sue attenzioni con un mezzo sorriso, il monaco fu alquanto rapido a guardare da un’altra parte.

Un atleta così preparato poteva tornare utile, in fin dei conti. Il vistoso tatuaggio nero che aveva in pieno petto, tuttavia, parlava chiaro di che tipo d'uomo aveva davanti, e quello poteva rappresentare un problema.

«Ora, Jecht… sono nelle tue mani fino a quando raggiungeremo Zanarkand» esordì Braska, riscuotendolo dai suoi pensieri.

«Va bene, va bene... » replicò la voce sfrontata e graffiante di Jecht. «Comunque, che cos’è un incrociatore

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Capitolo 6
*** Con esso o sopra di esso ***


CAPITOLO 6: CON ESSO O SOPRA DI ESSO

 

 

Il secondo aspetto che Auron notò di Jecht – subito dopo quel tatuaggio che ricordava vagamente un cuore e che gli copriva tutto il torace – fu l’odore acre che emanava. Gli riportava alla memoria quando, per completare il noviziato, aveva vissuto con la povera gente e aveva condotto le capre per l’erta. Disgustato, si mantenne a distanza il più possibile, mentre guardava con la coda dell’occhio Braska che, sorridendo, spiegava con pacatezza il proprio compito.

«E diverse città di Spira hanno il loro tempio» stava dicendo, «dove noi Invocatori preghiamo affinché ci sia concesso un Eone che combatta al nostro fianco. Sono creature grandi e temibili che ci daranno la forza per sconfiggere Sin».

Auron smise di ascoltare quella storia che aveva sentito così tante volte da parergli ormai scontata. Ogni cittadino di Spira percepiva la presenza di Sin talmente forte da aver imparato, ormai, a convivere con la propria ansia, relegandola a una brace coperta che ardeva in fondo allo stomaco. Ad alcuni, la bestia marina aveva sottratto ogni volontà di vita; altri invece, come lui, avevano reagito prima con un’ascetica indifferenza nei confronti della morte, e poi rivolgendole un’ironia laconica. Del resto, che male avrebbe potuto portare una battuta quando la vita sarebbe potuta svanire il giorno successivo?

«Ancora con questo Sin? Ho sentito il nome un sacco di volte dalle guardie, ma nessuno si è mai degnato di dirmi nulla. Cos'è che andate a combattere, esattamente?» esclamò esasperato Jecht.

Auron dovette trarre un respiro profondo per non rispondere al sedicente abitante di Zanarkand: far finta di non conoscere la causa principe della sofferenza di Spira era intollerabile.

«Accidenti, non sapere una cosa del genere in questo mondo è piuttosto importante! Certo, per uno che viene da Zanarkand dovrebbe essere normale essere all'oscuro di tutto» disse Braska, facendo l'occhiolino al monaco. «Sin è la punizione di Yevon per i nostri peccati. Una bestia marina come non ne esistono altre, talmente potente da distruggere villaggi e città come se nulla fosse».

Jecht inorridì, spiazzato. Abbassò lo sguardo come se stesse ripercorrendo dei ricordi, poi scosse la testa, portando la mano destra sui capelli scuri e decisamente sporchi.

«Ma in che razza posto vivete voialtri? Diavolo… come sperate di abbattere un mostro del genere? Mi sembra un suicidio bello e buono».

Braska scoppiò in un risolino imbarazzato, poi si grattò un sopracciglio.

«Infatti, Jecht. Fino ad ora nessuno è mai riuscito a sconfiggerlo del tutto, ma lo hanno messo a dormire per qualche anno. Questo periodo di pace lo chiamiamo Bonacciale».

«Fammi capire… voi andate a combattere un mostro invincibile rischiando la vita per qualche anno buono? È una follia!»

Auron iniziò a spazientirsi: come osava un pagano del genere metter bocca su qualcosa di così importante? Sul sacro compito degli Invocatori, per giunta! Lanciò uno sguardo furibondo a Jecht, ma il suo temperamento irruente fu fermato da un gesto della mano di Braska.

«Auron, mantieni il controllo. Lui non sa niente, abbi pazienza» disse calmo lui, ma il monaco non poté in alcun modo nascondere il fastidio.

«Bah, perché te la prendi tanto, monachello? Sto solo dicendo quello che penso, non ti sta bene?» sbiascicò quello con spacconeria, ma Auron decise di obbedire al suo Invocatore.

«Jecht, capisco che sei nuovo di qui, ma la nostra storia è tormentata da secoli, il Pellegrinaggio è tutto ciò che abbiamo. Siamo lieti di dare la vita per permettere a tutti di vivere tranquilli per un po'».

«Contenti voi, io voglio solo tornare a casa. Toglimi una curiosità: cosa avete fatto per far incazzare questo Yevon?»

«Fai tante domande per uno che vuole solo tornare a casa. Perché non tacere e partire, se è quel che vuoi?» disse cupo Auron. Jecht rise beffardo.

«Sono un uomo curioso, monachello. Voglio sapere perché buttate via la vostra esistenza. D'altronde, rischierò la vita per questo motivo».

Braska levò gli occhi al cielo e sospirò, paziente. Nessuno aveva detto che sarebbe stato facile, pensò Auron, ma se voleva finalmente mettere fine a quel teatrino, infierire non era la via corretta.

«Yevon» riprese a parlare l'Invocatore come se niente fosse, «ci ha puniti per l'uso sconsiderato che abbiamo fatto della tecnologia. Abbiamo invidiato il dio, e abbiamo osato paragonarci a lui. Le macchine nella nostra dottrina sono bandite, ma possono essere impiegate per scopi nobili come dare felicità agli altri. Un esempio sono gli stadi di blitzball».

Al suono della parola a lui tanto cara, Jecht parve resuscitare. Gli brillavano gli occhi di un amore sincero che Auron non si sarebbe mai aspettato da un tipo come lui.

«In questo postaccio giocate a blitzball? Io sono un campione! Gioco negli Zanarkand Abes! È incredibile…»

Braska fischiò stupito, Auron fece finta di nulla e puntò gli occhi nell'acqua limpida della piscina. Che Jecht fosse un atleta era del tutto plausibile viste le proporzioni del suo fisico, forse era solo un uomo molto confuso, pensò il monaco. Inoltre, quella sincera passione che balenò negli occhi di Jecht non poteva essere fraintesa.

Una guardia passò di lì, attirata dalle voci. Riconobbe Braska e gli fece la reverenza: mise le mani intorno a una sfera immaginaria e si inchinò. L'interruzione durò poco, ma Auron fu colpito dalla reazione di Jecht: rimase pietrificato sul posto fissando la scena appena avvenuta, come se ne fosse rimasto sconvolto per qualche motivo. Iniziò a farfugliare parole incomprensibili, Auron non potè ignorarlo.

«Tutto bene? Ti comporti da folle» chiese piatto il monaco, Jecht scosse la testa.

«Questo posto… è tutto reale, vero? Non sono morto...» sussurrò appena.

«Purtroppo no. Hai per caso una commozione cerebrale? Sei caduto da qualche parte?»

«Merda… merda. Mi sto ficcando in un casino più grande della Laguna Shore» sbraitò Jecht senza curarsi di niente e nessuno. Braska cercò di calmarlo.

«Credevi di essere morto? Devi aver subito un trauma molto forte, amico mio. Vedila cosí: reale o meno, il Pellegrinaggio è l'unico modo che hai per tornare a casa».

«Già… già, è vero».

Braska sorrise soddisfatto, poi fece avvicinare entrambi per parlare sottovoce.

«Bene! Ora che le cose sono risolte, ho una richiesta da farvi. Auron a breve avrà la sua cerimonia di investitura, mentre Jecht, beh… hai avuto giornate migliori, immagino. Che ne dite di andare insieme al fiume dietro Bevelle per farvi un bel bagno rinfrescante? Due guardiani puliti sono guardiani pronti a combattere!»

Auron inorridì come poche volte in vita sua, mentre Jecht si annusò le ascelle, facendo una smorfia.

«Mio signore, ciò andrebbe contro le pratiche dei monaci» disse Auron cercando di declinare, ma Braska non si arrese.

«Ma ora non sei più solo un monaco, Auron, sei il mio guardiano. Jecht non conosce nulla di Bevelle, non è saggio lasciarlo da solo. Inoltre, è un'ottima occasione per conoscervi!»

Jecht interruppe ogni obiezione mossa da Auron dirigendosi verso l'uscita delle prigioni.

«Puzzo da fare schifo, monachello. Non vorrai mica disobbedire, giusto? Datti una mossa o mi mangeranno i ratti».

Auron si mise una mano sulla fronte, disperato.

Magari ti mangiassero i ratti.

Superò di gran foga il compagno molesto, salutati entrambi da un entusiasta Braska che sorrideva lieto in lontananza. Si diressero a sud del tempio, dove i monaci usavano purificare il loro corpo con l'acqua gelida del fiume che scorreva placido fino al mare. Auron camminava a passo svelto, come a voler mettere più distanza possibile tra lui e Jecht, che arrancava poco distante.

«Cos'è tutta questa fretta? Vuoi squagliartela?» urlò irritato.

«Non si perde tempo su Spira. Muoviti».

L'atleta di blitzball la prese sul personale, tanto che raggiunse Auron con una piccola falcata e gli rimase appiccicato per tutto il tragitto, come un avversario da marcare stretto. La strada battuta, presto, divenne un semplice sentiero sterrato all'interno di una piccola porzione di bosco, non troppo fitto ma nemmeno facile da attraversare.

Il terreno divenne sempre più duro e aspro per i piedi nudi di Jecht, Auron rallentò il passo sentendo le sue lamentele di dolore.

«Quanto manca ancora?»

«Ci siamo quasi» rispose il monaco con un tono di voce un po’ stridulo, come se fosse molto nervoso.

Si accorse troppo tardi di quella nota stonata, ma Jecht parve non farci caso. Auron sentì il rumore del fiume ed ebbe un brivido: fare il bagno con altri non era approvato dalla dottrina, ma rispondeva agli ordini di Braska. Sperò che almeno sarebbe stata una cosa veloce ma, valutando il fetore di Jecht, ci sarebbe voluto un po'.

L'atleta accolse la meta con verso d'approvazione, probabilmente non ne poteva più di camminare.

«Scegli il punto che vuoi e lavati, possibilmente lontano da me» sentenziò Auron senza ammettere repliche. Dal canto suo, Jecht non desiderava altro che mettersi a mollo in acqua.

«Sissignore!»

Scelse un agglomerato di rocce non distante dalla zona di Auron, si sedette e si massaggiò i piedi doloranti, per poi spogliarsi con sollievo. Perfino i suoi vestiti olezzavano.

Jecht si slacciò l’ultimo bottone che reggeva la sua salopette – in quanto eroe degli Zanarkand Abes non poteva certo dismettere la loro divisa – e la ripose assieme all’intimo a fianco a sé. Si sedette con cautela sulla roccia che aveva scelto per spogliarsi e cominciò a osservare lo scorrere del fiume sotto di sé. Senza il sole che batteva, l’aria fresca gli pungeva la pelle e gli causava dei lievi brividi che gli percorrevano le braccia in modo quasi piacevole.

«Ehi, Auron. Ti chiami Auron, giusto?» chiamò, passandosi una mano sul mento. Il ragazzo gli aveva rivolto modi piuttosto bruschi, ma su di una cosa aveva ragione: avrebbe dovuto radersi almeno il viso. 

Colse con lo sguardo il giovane nell’atto di spogliarsi, proprio mentre la cintura che gli stringeva la vita scivolava a terra, liberata dai lacci. Lui la afferrò prima che toccasse il suolo e alzò gli occhi. Erano ambrati, di un colore caldo che contrastava con il gelo che sembrava albergare nella sua anima.

«Che c’è?» replicò, notando che Jecht non smetteva di fissarlo. Auron cercò di mantenere l’espressione più neutra di cui era capace, ma preferì guardare i suoi vestiti appoggiati alla roccia piuttosto che direttamente lui. Lo metteva a disagio il fatto che si fosse spogliato del tutto, e con tanta naturalezza, davanti a quello che per lui era poco più che uno sconosciuto, e sentiva la pressione di dover fare altrettanto. Nella sua Zanarkand solevano andare a passeggio nudi senza alcun senso del pudore?

Forse era davvero solo un giocatore di blitzball che aveva preso un forte colpo in testa: certe cose, con tutta probabilità, avvenivano spesso negli spogliatoi.

Dopo quella che gli parve un’eternità, Jecht gli rivolse una risata sommessa. Aveva fissato lo sguardo sul basso ventre di Auron, dove un coltello era appeso a una cintura, invisibile finché rimaneva sotto gli abiti. La sua elsa era decorata da fini intrecci geometrici, la lama era lunga abbastanza da penetrare sino al cuore.

«Usi la tecnica della mantide religiosa con le ragazze?» lo punzecchiò, fingendo un’espressione tra lo spaventato e l’intrigato. Auron non replicò alla provocazione e si sciolse i capelli, che ricaddero fino a sotto le scapole. Con un sospiro infastidito, si slacciò la cintura con il pugnale e la lasciò cadere a terra, rimanendo con il solo perizoma bianco.

«Sei più tranquillo, adesso?» replicò. Jecht non sembrava avere intenzione di entrare in acqua, nonostante tra i due fosse quello che ne aveva più bisogno. Stava seduto con le gambe larghe e le braccia appoggiate sulle ginocchia; studiava Auron con un’insistenza che lo stava mettendo a disagio.

Quando il monaco si decise a dargli le spalle ed entrare nel fiume, sentì l’acqua agitarsi e sciabordare. Si voltò di nuovo e vide Jecht che, con la testa reclinata all’indietro e un’espressione beata in volto, stava bagnando i capelli scarmigliati nelle onde che aveva creato. Il suo pomo d’Adamo era in rilievo sul collo liscio, aveva le labbra schiuse in un atteggiamento licenzioso e le palpebre abbassate.

Auron spostò lo sguardo verso i suoi fianchi, sollevato dal fatto che l’acqua gli arrivasse almeno alla cintola. Jecht aveva una scarsa resistenza al freddo, dato che i suoi addominali si erano contratti a causa della temperatura. Poi, strofinandosi con un panno, l’uomo di Zanarkand gli aveva voltato la schiena, incuriosito da qualcosa sulla riva e finalmente in silenzio. Delle gocce gli scendevano piano lungo l’incavo tra le scapole, rallentando laddove la pelle abbronzata era resa irregolare da sottili cicatrici. Aveva un fisico meno statuario di quello di Auron, avrebbe perso in una lotta corpo a corpo con lui, ma le sue spalle erano ampie e le braccia forti.

«Credo che il tuo amico – o maestro, o quel che è – voglia che facciamo conversazione» disse all’improvviso Jecht. Si voltò, e il monaco abbassò la testa verso la superficie del fiume: l’acqua continuava a mostrargli il riflesso del suo corpo nudo, le linee nere del tatuaggio che si specchiavano nelle increspature.

«Dimmi, ci sei mai stato a Zanarkand?» chiese, senza aspettarsi una grande partecipazione da parte del ragazzo.

Il campione di blitzball avrebbe preferito guardarlo in viso mentre gli parlava, ma aveva notato che Auron non si sentiva a suo agio e preferiva non infierire, se non altro in nome di un sereno futuro pellegrinaggio. Il suo atteggiamento gli sembrava insolito, ma del resto aveva sentito di uomini, in certi popoli, votati a una sorta di religioso pudore se non alla castità totale.

«No».

«Che peccato» continuò, per nulla scoraggiato dalla mancanza di una risposta articolata. Si lasciò scivolare all’indietro e diede qualche bracciata, sollevato dal trovarsi in acqua. «È un gran bel posto».

«Non capisco se mi hai preso per stupido o se credi davvero alle follie che dici» replicò Auron, con tono secco, e sembrò irrigidirsi ancora più che in precedenza. Qualsiasi ombra di un sorriso svanì dalle labbra di Jecht.

«Perché?» gli chiese, piuttosto interdetto.

Auron lo guardò negli occhi e gli rivolse una smorfia, arricciando le labbra e mostrando in parte i denti. Jecht non seppe dire se fosse dovuta a qualcosa che gli infastidiva i sensi o piuttosto i pensieri.

«Zanarkand è stata distrutta mille anni fa» sentenziò il monaco, senza nessuna emozione nella voce.

Jecht sgranò gli occhi, le sue pupille si restrinsero e qualsiasi altro pensiero svanì dalla sua mente, come spazzato via dal vento.

«C-cosa stai dicendo?» riuscì a balbettare.

«Ciò che è rimasto sono solo le rovine dove gli Invocatori giungono alla loro preghiera finale» continuò Auron. «Non esiste nessun abitante di Zanarkand, e vedi di non dire in giro che vieni da lì. Non sono Braska: non ho intenzione di riscattarti da un’altra cella».

«Senti, ragazzo» sbottò Jecht, avvicinandosi a lui di scatto. Si era abbassato nel fiume, in modo che solo la testa e le spalle non fossero immerse. «Ho capito che non ti piaccio, ma fino a due giorni fa ero a Zanarkand, e non vedo l’ora di tornarci. Forse ogni tanto bevo un po’ troppo, è vero, ma da lì a immaginarmi un’intera vita ne passa di acqua sotto i ponti, non trovi?»

Auron si allontanò, avvertendo una sorta di istinto predatorio nelle movenze sicure di Jecht e nel suo sguardo, come se fosse sul punto di aggredirlo o di imporsi con un contatto fisico.

«Allora la vedrai con i tuoi occhi quando ci arriveremo» replicò in tono secco. «Ora ti prego di voltarti. Voglio rivestirmi».

Jecht inarcò le sopracciglia e girò su se stesso con una piroetta. Udì dei movimenti nell’acqua, poi i passi di qualcuno che si addentrava nei cespugli. Sogghignò: il ragazzo era talmente terrorizzato dal fatto che avrebbe potuto girarsi e vederlo nudo che era andato addirittura a nascondersi.

«Bigotto» commentò, divertito, con un tono che giudicava troppo basso per poter essere sentito.

Passarono diversi secondi e altrettanti fruscii di vesti prima che a Jecht arrivasse una voce baritonale dalle frasche.

«Scostumato».

Jecht gettò di nuovo indietro la testa e si lasciò andare a una risata: Auron aveva strani modi di fare e qualcuno gli aveva dato false informazioni su Zanarkand, ma a suo modo era interessante.

 

 

 

Auron aveva dismesso le sue vesti da guerriero per entrare, per l’ultima volta, al monastero con il saio di cotone grezzo. Il rito di investitura prevedeva un digiuno sin dal mattino che lui aveva rispettato, ma aveva anche sentito il bisogno di ritirarsi in preghiera.

Il chiostro era come un grande mulino le cui pale, ininterrottamente, erano spinte a ruotare dai venti della meditazione. Anche nei tempi di guerra, quando tutti i Templari venivano chiamati a svolgere il loro dovere, era fatta disposizione che almeno uno di loro, sempre, rimanesse a cantare l’inno, per scacciare Sin da quel luogo sacro.

Auron si ritirò in una cappella buia destinata ai penitenti e si inginocchiò a terra, appoggiando i gomiti sull’altare e rivolgendo i palmi e lo sguardo verso il cielo. Solo un sottile strato di cenere lo separava dal pavimento.

«Ascoltami!» invocò. La fiamma delle candele, a quella parola, per un istante tremò, prima di ravvivarsi. «Yevon, se è vero che io ti ho servito giustamente, e che ho messo la mia spada al tuo servizio, ripagami proteggendomi e benedicendo il mio viaggio. Il tuo grande occhio veglia in eterno su tutta Spira; la mia vita invece non è altro che fumo. Ma sono valente tra gli uomini e temuto dai nemici: me temeranno, dio, se si avvicineranno a Braska, e se questo si confà al tuo pensiero, scaccia i mostri dalla strada con l’arco d’argento».

Per un istante, il suo respiro perse la propria regolarità, segno che quel pensiero insistente che lo tormentava era tornato a presentarsi, e fugarlo con ripetute parole sacre non bastava più.

Ricordava in modo vivido la schiena dell’uomo di Zanarkand e i punti in cui l’acqua la toccava; ricordava il suo viso rivolto verso l’alto, la curva delle sue labbra, mentre sembrava diventare parte del fiume.

Auron non aveva mai visto nessuno, al di fuori di sé, completamente nudo. Su Spira, per un monaco, l’intimità poteva accompagnarsi solo al matrimonio. Allora il marito avrebbe potuto guardare la moglie, e la moglie il marito, senza che la loro unione fosse peccato.

Jecht era un uomo, e la loro vicinanza accidentale non avrebbe dovuto turbare il suo animo, così di certo aveva pensato anche Braska. Eppure una curiosità difficile da trattenere gli aveva pervaso lo sguardo quando lo aveva osservato, lo aveva immaginato mentre combatteva tra la polvere alzata, aveva pensato a come le sue braccia avrebbero potuto trattenere il nemico. Aveva trasfigurato le gocce d’acqua che gli percorrevano la schiena in rivoli di sudore, il fiume in un campo di battaglia.

Aveva confrontato con minuzia il fisico di Jecht e il proprio, notato quali muscoli erano sviluppati in modo diverso e come le vene gli percorressero le mani, fino a quando non era stato spaventato dal pensiero che la sua attenzione potesse nascondere un che di morboso. Aveva cercato di distogliere lo sguardo, ma sempre esso tornava dove non doveva.

Auron si prostrò al suolo, desiderando ricevere una punizione dal dio: la sua anima non poteva essere limpida, se il suo sguardo era offuscato da un’invidia che non riusciva a spiegare.

«Se mai con i rami del ginepro ti adornai gli altari, togli dalla mia mente quell’uomo padrone di inganni, rimuovi l’odio per lui dal mio cuore. Fammi vivere in funzione di Braska e morire per il bene maggiore, e io ti offrirò libagioni e carni, le più pregiate dell’isola».

Non appena la sua preghiera terminò, la pesante porta di legno si aprì alle sue spalle concedendo l’entrata all’abate in persona.

Auron venne condotto in una stanza e lasciato di nuovo solo in modo che potesse cominciare a vestirsi. Con i gesti rituali che gli avevano insegnato, per prima cosa allacciò gli stivali, attorno alle caviglie, con fibbie d’argento; poi chiuse i pantaloni e infine strinse al braccio l’armilla d’argento che gli avevano donato. Una volta fatto questo, chiamò chi lo aiutasse a indossare l’armatura.

Wen Kinoc, che egli aveva richiesto in assistenza, gli si avvicinò guardandolo negli occhi. Era stato addestrato a non provare nessuna emozione per un’eventuale partenza di un confratello eppure, leggermente, gli tremavano le mani. Mosse le dita verso il petto liscio di Auron, senza parlare e senza sfiorargli la pelle gli allacciò la corazza di cuoio robusta.

Il Guardiano indossò per ultima la veste cremisi che gli arrivava ai polpacci; Kinoc gli legò in vita il corsaletto e sotto la clavicola sinistra lo spallaccio: quello, colpito da un raggio di sole, rifulse come una stella.

Gli sguardi dei due amici si incrociarono di nuovo, e le mani di Kinoc sembrarono indugiare per un istante sulle perle di legno che adornavano la veste di Auron. Non disse nulla. Il guerriero prese la spada, bella e pesante, tanto che nessun altro dei monaci riusciva a sollevarla senza fatica immensa. Stringendola nella destra, avanzò poi verso il capitolo.

La stanza era stata adornata con arazzi che raffiguravano l’Invocatrice Suprema Yunalesca e il suo Guardiano e marito, Zaon, l’una rivolta verso il Sole che s’immerge, l’altro verso il Sole che sorge. Presenziavano alla cerimonia Braska, l’abate e tutti i monaci; Jecht in mezzo a loro pareva fuori posto come una serpe sulla neve. 

Con timoroso silenzio respirava l’aria pesante d’incenso, e i suoi occhi erano fissi sull’uomo che stava entrando. Era insolito che qualcuno lo mettesse in soggezione, tanti erano stati i suoi avversari fuori e dentro la sfera d’acqua, ma i capelli di Auron erano stati legati in modo che gli ricadessero su di una spalla, e lì reggeva la lama radiante della giustizia.

La sua bellezza nobile e composta aveva il fascino della tempesta.

Braska gettò della polvere su uno dei bracieri e il fuoco, divampando, si tinse di blu.

«Tacete» comandò, «che il dio si sta per manifestare».

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Capitolo 7
*** Zona D'addestramento (Parte 1) ***


CAPITOLO 7: ZONA D'ADDESTRAMENTO (PARTE 1)

 

 

 

I passi di Auron salivano verso il lucernaio, accolti dalla cupola simile a tiara. Egli avanzava con la mano destra stretta sull’elsa, lo sguardo fisso davanti a sé.

I sacerdoti e le sacerdotesse di Yevon cantavano una melodia limpida come la propria fede, un inno fatto di poche sillabe ripetute a cui le campane a festa rispondevano in levare. Jecht non ascoltava più con le orecchie ma con l’anima: gli pareva di sentire l’acqua quieta del mare che si scioglieva sulla sabbia della riva.

Il Guardiano avanzò verso Braska, seduto su di un trono, con rituale lentezza. I finimenti della sua veste e i suoi pezzi d’armatura mandavano bagliori d’oro verso le pareti, rendendolo simile al sole che sorge dalle acque e trascina il carro glorioso del giorno.

Jecht non si mai trovato davanti a un eroe, e mai si era sentito spinto a inchinarsi con pietosa fronte davanti a un uomo. Il canto di quella gente, il profumo caldo dell’incenso e il riflesso della luce sui mosaici del tabernacolo lo spinsero ad abbandonare le proprie convinzioni e a osservare la scena dal di fuori; dall’alto, come se la stesse sorvolando.

L’inno non cessò quando Auron si fermò di fronte a Braska, facendosi cadere in ginocchio appoggiato alla spada, ma piuttosto si trasformò in una nenia più lieve.

Fu l’Invocatore a prendere la parola.

«Consci della tua prodezza e del tuo onore, sei stato eletto per pronunciare la sacra promessa» disse. «Sappi che per portare l’onore della promessa ogni Guardiano si affida a Yevon».

Jecht vide il profilo di Auron alzarsi con dignità. Anche in quella posizione, pareva un generale in procinto di decidere se giustiziare i prigionieri o se concedere loro la compassionevole grazia.

«Sì, accetto» rispose.

«Hai ben compreso lo scopo della promessa e cosa viene richiesto ai Guardiani?» pronunciò di nuovo la voce dolce e decisa di Braska. Sebbene fosse una formula liturgica, c’era qualcosa di personale in quella richiesta.

«Sì, accetto» si udì di nuovo.

L’Invocatore sorrise. Le sue spalle erano coperte da un velo che gli scendeva dal copricapo. All’improvviso, il suo abbigliamento non sembrava più avere un aspetto così assurdo.

«Aderisci all’osservanza del comportamento esemplare che ogni Guardiano deve avere?»

«Sì, accetto».

Jecht, pur essendosi ripreso dalla stanchezza, non era riuscito a capire molto di cosa fosse un Invocatore e cosa un Guardiano: aveva ricevuto troppe informazioni assieme. Si appigliò alla più familiare, sottile malia che l’atteggiamento stoico di Auron gli stava instillando.

«Dunque giura sulla tua spada e rendi omaggio a Yevon» domandò Braska.

Nella mente di Jecht, il ragazzo trasse un profondo respiro. Tenendo la spada ferma in verticale, portò poi la mano destra – coperta da un guanto – ad afferrare la lama. Solo allora il canto cessò.

«Io giuro su questa lama insanguinata, che macchierà senza sosta le mie mani e molte vite toglierà all’affetto della terra. Giuro che la mia mente non sarà mai offuscata dal desiderio, né saranno sottratte la grazia dai miei colpi e la giustizia dai miei occhi. Io condurrò a Yevon tutti coloro, nemici o alleati, che me lo chiederanno; ma non ucciderò chi, supplicando a terra, mi abbraccerà le ginocchia. Condannerò il tradimento e chi lo compie e combatterò perché nessuno debba più combattere. Io sono il campione della giustizia e del bene, contro l’ingiustizia e il male».

La sua voce profonda aveva fatto tremare l’aria del tempio così come qualche corda segreta del cuore di Jecht.

Venne recato a Braska un contenitore d’argento. Lui ne sollevò il coperchio e intinse due dita in una sostanza oleosa, per poi chinarsi su Auron e passarle sulla lama. Tracciò con sicurezza un percorso complicato del cui significato Jecht non era a conoscenza.

«Benedetta sia la tua spada» pronunciò, e i monaci attorno a lui cominciarono a intonare una seconda, più grave litania.

Uno di loro si avvicinò al Guardiano con un coltello d’osso. Lui depose la spada ai piedi di Braska e voltò le mani in modo da offrirgli entrambi i polsi.

Jecht trattenne il fiato quando il monaco, con un taglio netto, gli incise le vene. Senza un lamento, e senza opporre resistenza, Auron guardò il sangue che gli scorreva copioso sugli avambracci, fino a quando Braska non gli afferrò le dita. Allora la ferita sembrò cominciare piano a rimarginarsi.

Il sangue era gocciolato all’interno di una ciotola che Jecht in principio non aveva notato. Il monaco che officiava il rito si inginocchiò e si sedette sui talloni, poi la prese e vi intinse un pennello. Davanti a lui avevano steso un rotolo di pergamena.

«Ora il tuo giuramento è scritto» annunciò l’uomo, finendo di tracciare le ultime lettere. Auron era immobile come una statua.

Gli ornamenti della veste azzurra del monaco tintinnarono mentre si alzava. Si diresse verso il braciere dove ardeva il fuoco della divinità e vi gettò la pergamena. La fiamma fumò, cambiò colore e si innalzò; la preghiera dei presenti tornò ad avere quelle note che in qualche modo suonavano familiari a Jecht.

I e yu i no bo me no…

Il fuoco, senza preavviso, si spense. Il sacerdote estrasse un’ampolla contenente un liquido incolore e lo versò nelle ceneri, poi prese il bacile e si avvicinò ad Auron. Gli si inginocchiò accanto, gli prese il mento tra le mani e lo forzò a bere, accostandogli il contenitore alle labbra.

Jecht fu attraversato da un brivido di disgusto al solo immaginare che cosa stesse provando Auron, quale fosse il sapore che gli percorreva la gola. A quel pensiero sentiva il battito del cuore nella carotide e le dita colte da un formicolio insistente. Eppure, l’unica reazione del Guardiano fu quella di inclinare la testa verso l’alto e deglutire a fatica, le sopracciglia aggrottate nella prima espressione umana che Jecht gli vide assumere dall’inizio del rito.

«Sei stato eletto Guardiano dell’Invocatore Braska» decretò il monaco. «Il tuo corpo e i tuoi atti da ora sono sacri a Yevon. Che il dio ti guidi nel tuo pellegrinaggio a Zanarkand».

«Che egli ti guidi nel tuo pellegrinaggio a Zanarkand» rispose il coro.

 

 

 
Il mattino seguente, Braska osservava gli stormi di rondini nel cielo, oltre al vetro sottile della finestra. Teneva le dita intrecciate su una tazza di coccio; il profumo delicato ed erbaceo del the si diffondeva nella stanza come una brezza leggera.

La gioia aveva invaso il suo cuore quando Auron si era inginocchiato di fronte a lui e aveva pronunciato la promessa da Guardiano. Nonostante tutto, però, la vista del sangue che gli colava dai gomiti gli aveva fatto provare una sensazione di paura e disgusto. Era riuscito a tenere lo sguardo alto, ma si era sentito indebolire: troppe volte aveva sentito quel sapore in bocca e aveva visto quel colore sui cuscini.

Chiuse gli occhi, assorto in preghiera, e ricordò la visione che il dio gli aveva inviato mentre giaceva malato. Aveva sognato di fare la vendemmia di un’uva cremisi, proprio dello stesso colore di quel fluido che odiava, che continuava a stillare dai suoi polmoni. Un’aquila, alta, girava in cerchio sopra la sua testa, e per tre volte compieva l’orbita, poi gridava, e la riprendeva per tre volte ancora. Con l’animo infiammato dall’apparizione di quell’animale, Braska allora spremeva l’uva in un catino e poi lo svuotava in mare, tingendo le onde di sanguigno.

Quella era stata la chiamata, alla quale in numerose notti senza sonno si era aggiunta la voce ormai senza corpo di Emma. Poteva ormai fare solo due cose per lei: una era pregare che il vento dell’Oltremondo fosse lieve sulla sua pelle, e che la sua anima sostenesse l’estremo giudizio; l’altra era partire per sconfiggere Sin, portando il Bonacciale su Spira.

Glielo doveva. Quella donna lo aveva reso ciò che era e gli aveva donato Yuna, l’altro grande amore della sua vita.

«Papà!» sentì chiamare da una voce dolce e squillante. Aprì un occhio, ridestandosi dalla sua meditazione.

«Che c’è, amore?» domandò, dopo essersi alzato ed essersi diretto verso il soggiorno, un po’ preoccupato dall’assenza delle chiacchiere della sua bambina.

Yuna era alle prese con una sporta appoggiata su una sedia: era troppo pesante per lei e, per quanto si sforzasse, non riusciva nel modo più assoluto a sollevarla.

Braska ridacchiò e si portò la mano alla bocca quando una lieve tosse prese il sopravvento.

«A quello ci pensa papà, Yunie» la rassicurò. Non era ancora, per lei, giunto il tempo delle prove di forza. Si avvicinò e le mise tra le mani un rosario, i cui grani di legno erano stati decorati con arte e dipinti con colori brillanti. Blu per il mare, giallo per il sole, verde per la terra.

«Per chi è questo?» trillò Yuna, guardandolo dritto negli occhi celesti con i suoi, dissimili, in cui lui ogni giorno rivedeva Emma.

«Questo è per Auron» spiegò Braska in tono calmo, mentre si metteva sottobraccio la borsa.

«Signor Auron!» ripeté la bambina, e corse allegra fuori dalla porta, stringendo il rosario. Con una risata, immerse i piedi nel prato che le sembrava essersi pettinato con la riga in parte, come un galantuomo.

«Yunie, dammi la manina. Dobbiamo camminare un po'!»

«Dove andiamo?» chiese la bambina obbedendo allegra.

«Al monastero! Il signor Auron sta allenando un nostro amico, gli insegna a combattere» rispose lui, sorridendo.

«Anche io voglio!»

Braska scoppiò a ridere, per poi imboccare la strada montana che conduceva al luogo di culto dei monaci. Il campo ove si addestravano si trovava proprio dietro l'edificio: era un semplice cortile spoglio circondato da alberi, abbastanza ampio da permettere a maestro e allievi di condurre le loro sessioni di allenamento.

L'Invocatore si gustò ogni secondo passato a passeggio con la figlioletta, cercò di marchiare a fuoco nel suo cuore quelle immagini per non dimenticarle.

Non potevano di certo partire con un Jecht indifeso. Auron aveva solo due mesi per insegnargli perlomeno i rudimenti del combattimento. Solo due mesi, poi avrebbe dovuto lasciare tutto per, forse, mai più tornare.

Lo fai anche per Yuna, coraggio.

Avrebbe voluto far durare quella passeggiata di più, ma arrivarono a destinazione piuttosto agilmente. Braska si fermò sulla soglia per riprendere fiato senza mostrarsi troppo provato, per non far preoccupare la figlia. Ma era stanco, eccome. Strinse i denti infastidito da se stesso, da quel corpo difettoso che aveva imparato ad accettare, per poi entrare nel monastero e avviarsi verso le porte che conducevano al cortile.

Il sole investì entrambi con violenza: il terreno completamente spoglio non offriva nessuna ombra refrigerante, i raggi cadevano a picco sulle loro teste.

Braska si mise le mani intorno agli occhi per proteggersi, scrutando i dintorni alla ricerca di volti familiari. Auron e Jecht si trovavano ai limiti del campo, seduti a terra: il monaco stava spiegando qualcosa che l'Invocatore non riuscì a comprendere, mentre l'atleta di blitzball stava ascoltando annoiato ma attento.

Braska indicò i due uomini alla figlioletta, la quale corse entusiasta verso quel ragazzo che appariva così strano ai suoi occhi, totalmente diverso dal padre.

Auron e Jecht si voltarono e si alzarono in piedi, facendo persino la reverenza. L'Invocatore emise un fischio stupito, per poi applaudire soddisfatto.

«Hai insegnato a Jecht il nostro saluto? Fenomenale!» esclamò felicissimo, ma Auron assunse una strana espressione.

«A dir la verità, signore, lui la conosceva già...» rispose quello, interdetto.

«Te l'ho già detto, la usiamo anche a Zanarkand!»

Auron sospirò, ma Braska lasció correre con un gesto della mano.

«Beh, è una cosa in meno da imparare. Vi ho interrotto? Sono venuto con un nobile intento!»

L'Invocatore mise una mano sulla spalla della figlioletta, la quale porse con sgraziata cortesia il rosario ad Auron.

«Per te!» cinguettò la bambina. Il monaco rimase piacevolmente stupito.

«Ehm… io...» balbettò.

«Avanti, monachello! Non hai mai ricevuto un regalo?» lo punzecchiò Jecht. Auron lo guardò torvo.

«No, infatti. I miei voti non lo prevedono» rispose piatto.

«Mica vorrai deludere questa bella signorina, giusto?»

Yuna arrossì imbarazzata, poi si girò e abbracciò il padre, nascondendo il faccino paffuto nelle sue vesti. Auron guardò la bambina, poi Jecht, e dovette ammettere che aveva ragione.

«D'accordo. Accetto volentieri, sono molto grato» disse cercando di abbozzare un mezzo sorriso. Yuna lo guardò con l'occhio azzurro, gli mise in mano il rosario e scappò di nuovo dietro Braska.

Il monaco osservò l'oggetto, segretamente felice: i colori erano brillanti e vivaci, non come i grani scoloriti del vecchio cimelio, ormai usurato dal tempo, che aveva abbandonato su un altare.

«Vedo che ti piace! Sono davvero contento» disse orgoglioso Braska, poi si rivolse a Jecht. «Non credere che mi sia scordato di te, Guardiano. Queste sono per te».

Estrasse dalla borsa un sacchetto, controllò che fosse tutto in ordine e glielo porse, sfoggiando un largo sorriso.

Jecht sperò con tutto il cuore che fosse alcol ma, quando allargò i lembi del drappo di tessuto, vide che racchiudeva una decina di quelle che sembravano grosse biglie cristalline, di un blu molto chiaro.

«Sono… belle!» esclamò, per non sembrare scortese.

«Queste sono sfere in grado di registrare immagini e suoni. Puoi usarle durante il Pellegrinaggio per conservare dei nostri ricordi! Sono sicuro che la tua famiglia ne sarà affascinata, una volta che sarai tornato a Zanarkand».

Jecht trasalì, come se fosse rimasto in apnea per molto tempo. Rimase a bocca aperta sentendo parlare di coloro la cui presenza, a tratti, aveva persino dimenticato. Si grattò la testa imbarazzato e ringraziò a mezze parole l'Invocatore.

«Bene, ora vi lasciamo al vostro addestramento. Ci vediamo più tardi per un the, ok?» disse senza aspettare risposta, per poi allontanarsi con Yuna, mano nella mano.

«Siete proprio gente strana, voi...» mormorò Jecht.

Auron volse gli occhi al cielo, ripose con cura i doni nel punto in cui erano seduti e si diresse verso il centro del cortile, deserto. Fece un cenno a Jecht, il quale si avvicinò con espressione scocciata che nascondeva un velato senso di timore.

«Abbiamo poco tempo e tanto da fare, basta con la teoria. Andremo per gradi. Inizieremo con il combattimento corpo a corpo, poi passeremo all'arma bianca» disse autoritario. Non ammetteva repliche.

«Sembri il mio allenatore di blitzball...» sbuffò.

«Se sei bravo la metà di quanto ti lamenti, imparerai subito. Qual è il tuo arto dominante?»

«Eh, è un bel problema questo. Sarebbe la destra, ma ho avuto un brutto infortunio alla gamba e sto cercando di imparare ad essere anche mancino. Almeno, era quello che stavo facendo prima di finire qui» rispose con tono preoccupato. Auron annuí.

«Allora dovremo allenare l'ecletticità. Punteremo sulla tua agilità, le gambe saranno impiegate solo per il movimento, non per colpire. Considerato il tuo tono muscolare, lo stile di combattimento che ti si addice si basa sull’immobilizzare l'avversario con prese e leve articolari. Come danno da impatto userai dei pugni ben piazzati, non sei fatto per le tecniche basate sulla forza».

Auron dettò il tutto come se fossero i più ovvi tra gli argomenti, aspettandosi che Jecht cogliesse le sue parole senza sforzo. Ciò che non poteva sapere era che l'atleta non era una cima nel far sue le indicazioni: non era raro, infatti, che il suo allenatore dovesse spiegare più volte gli stessi schemi.

Convinto, quindi, che Jecht fosse pronto, afferrò la sua mano destra con scatto fulmineo, gli torse il braccio dietro la schiena e lo spinse in ginocchio, per poi gettarlo a terra applicando pressione sulla sua nuca con la mano libera.

Jecht si dimenava come un animale ferito, implorando il monaco di mollare quella stretta micidiale.

«Ma dico, sei impazzito? A malapena ho capito cosa hai detto!» biascicò rabbioso.

«Saresti morto fuori di qui. Concentrati, per Yevon! E tu saresti un campione? Come fai a vedere la palla con i riflessi annebbiati che ti ritrovi?»

Auron aveva colpito proprio dove faceva più male. Jecht strinse i denti, umiliato da quella verità scomoda che non poteva accettare. Come una fiamma che riprendeva vigore, il fuoco della competizione si riaccese nel petto dell'atleta.

«…d' accordo. Starò più attento».

Il monaco abbozzò un mezzo sorriso sentendo il tono rancoroso dell'allievo, sicuro che Jecht non potesse vederlo con la faccia che baciava la terra. Si alzò con agilità, lasciando la presa.

L'atleta rotolò su un fianco lamentandosi per il dolore e strinse il braccio leso con la mano sinistra meditando vendetta. Sperava di colpirlo almeno una volta.

Auron, mentre lo sovrastava, lo stava squadrando da capo a piedi. Ogni volta che arrivava agli addominali, però, il suo sguardo veniva sospinto nuovamente in alto. Di sicuro era imbarazzato perché lui, un monaco integerrimo, si trovava costretto ad allenarsi con un uomo così discinto da andare in giro a torso nudo. Ma almeno lui non si nascondeva dentro a quella stupida armatura di cuoio.

«In piedi, Jecht. Andiamo, non ti ho fatto così male» continuò a punzecchiarlo Auron.

Jecht si alzò pigramente, cercando di guadagnare tempo per riprendere fiato.

«Partiamo dalle basi. Ti insegnerò a tirare di pugno».

«Ha! Io so già tirare di pugno, monachello. Se vuoi ti faccio vedere» disse spavaldo alzando la guardia.

«Vediamo, campione».

Jecht iniziò a saltellare sui piedi, studiando l'avversario che rimaneva stoico nella sua posizione eretta, come una montagna, nonostante fosse più basso di lui di una manciata di centimetri. Pensò subito che Auron si stesse prendendo gioco di lui, così caricò un gancio destro che minacciava di colpirlo in pieno volto.

Veloce come un'ombra, il monaco avanzò di un passo e colse Jecht alla sprovvista, mettendosi di fianco alla spalla dell'atleta. Lo bloccò senza troppi sforzi e lo respinse con il solo impatto del suo torace. Jecht barcollò indietro fino a cadere a terra.

Quest'uomo è fatto di roccia! Mi sembra di essermi scontrato contro un muro.

«Come diavolo hai fatto?» esclamò frustrato. Auron non si mosse, impassibile.

«Hai commesso l'errore comune a tutti coloro che, con arroganza, affermano di saper sferrare un pugno. Hai caricato il colpo tirando indietro tutto il braccio, facendogli percorrere una traiettoria quasi curva. Intuire la direzione è estremamente semplice per un combattente esperto, mi hai detto tu come bloccarlo».

Jecht rimase, come accadeva molto di rado, senza parole. La rabbia e il desiderio di picchiarlo svanirono come la polvere mossa dal suo corpo al momento dell'impatto, era affascinato.

«Come avrei dovuto fare, allora?»

Auron lo invitò ad alzarsi e a riprendere la guardia, poi si mise accanto a lui e gli mostrò la tecnica.

«I tuoi colpi devono essere proiettili. Il movimento deve essere corto, dritto davanti a te. Saldo. Colpisci con tutto il corpo, non solo con il braccio. Vedi? È una piccola rotazione che fai con il busto e con l'ausilio delle gambe, per poi sferrare il pugno all'altezza della tua spalla. In questo modo il movimento non si può bloccare, inoltre imprimerai una forza maggiore».

Jecht ebbe l’astuta idea di provare a coglierlo di sorpresa mentre parlava. Lo aggredì con un balzo, con il risultato di venire gettato con violenza al suolo. Il monaco lo bloccò a terra con il proprio peso e gli portò, senza stringere, una mano alla gola.

«Morto» commentò.

Auron, senza nemmeno accorgersene, passò il pollice sulla gola morbida di Jecht e sentì il suo pomo d’Adamo scendere per la leggera pressione. Accolse con un brivido di terrore la sensazione di potere che lo pervase quando si rese conto che Jecht era a terra del tutto inerme, e lui avrebbe potuto spezzargli il collo con facilità. Eppure le sue labbra screpolate, anche in quella situazione, erano incurvate in un sorriso strafottente.

I loro sguardi si incrociarono, nel completo silenzio, e l’espressione sul viso di Jecht non accennò a scomparire. Auron tolse di scatto la mano dal suo collo, come se scottasse, e altrettanto velocemente sciolse la presa e tornò in piedi.

«Bene» annunciò, con una nota insolita nella voce altrimenti imperturbabile. Si fermò per prendere fiato, come per nascondere un respiro irregolare. «Facciamo una pausa».

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Capitolo 8
*** Zona D'addestramento (Parte 2) ***


CAPITOLO 7: ZONA D'ADDESTRAMENTO (PARTE 2)

 

 

«Ma come?» si lamentò Jecht, interdetto. Si alzò in piedi e cominciò a gesticolare, diretto alla schiena di Auron. «Ma se abbiamo appena iniziato!»

L’altro non rispose e, allontanandosi con passo deciso, dopo poco fu fuori dalla sua visuale. Jecht calciò la polvere slanciando la gamba destra, e i suoi legamenti tirarono come se si dovessero strappare da un momento all’altro. Male.

La sua mente, raffreddatasi dalla frenesia del combattimento – nel quale, per altro, non aveva fatto una bella figura – tornò su un dettaglio bizzarro. Le sue labbra furono attraversate da un ghigno e si portò una mano alla gola, massaggiandola con delicatezza. Era vero, non sapeva come funzionasse su Spira, ma alcuni gesti erano piuttosto universali, e gli sembrava che l’algido Auron stesse nascondendo qualcosa. Con un pizzico d’orgoglio, gli sembrò che quel certo qualcosa fosse più difficile da celare quando era in sua compagnia.

Certo, poteva essere anche innocente curiosità nei confronti di uno straniero, che portava a un naturale nervosismo, ma d’altro canto Jecht si riteneva ancora piuttosto prestante.

Detestava quando la gente si nascondeva dietro a un dito e cercava di non mostrare ciò che era. Ne aveva visti tanti, soprattutto nel mondo dello sport, comportarsi in quel modo.

Continuare a stuzzicare Auron, e per di più andare a toccare certi tasti, era come scherzare con il fuoco che gli somigliava tanto. Era pericoloso e forse non molto cavalleresco, ma lui non era mai stato una brava persona. Soprattutto, era per qualche motivo interessato a scoprire cosa ci fosse, metaforicamente, sotto la sua armatura e sotto ai numerosi strati di insegnamenti che suonavano come “Yevon proibisce questo”, “Yevon ripudia quest’altro”.

Con questi pensieri, Jecht andò a cercare Auron con l’intenzione di provare a parlargli mentre non lo stava picchiando. Non poteva essere andato tanto lontano, data la sua paura che Jecht se la desse a gambe e finisse in qualche bettola lurida a urlare che veniva da Zanarkand, per poi venire soverchiato nel corpo a corpo da uno dei numerosi, invincibili guerrieri assassini dell’isola.

Lo trovò dietro al monastero, appoggiato con le spalle al muro, che fumava una sigaretta. A quella visione, calzante al pari di quella di una principessa dalle lunghe trecce con in mano una zappa, fu costretto a ricacciare una risata in gola.

«Che fai, angelo delle nevi, fumi di nascosto?» lo richiamò. Auron sobbalzò come un ragazzino colto in flagrante e si voltò di scatto, pronto ad attaccare. «Non sei un po’ grandicello?»

Quando il monaco si rese conto che Jecht non costituiva un pericolo, si voltò verso l’orto illuminato dal sole che aveva davanti.

«Non sono affari tuoi» ribatté, con una sicurezza ostentata. Poi, con un movimento rapido e nervoso, scosse la cenere dalla sigaretta.

Il campione di blitzball, infastidito dal suo evitare il contatto visivo, gli si parò davanti e si ravviò i capelli leonini, leggermente imbrattati di polvere e sudore.

«Facciamo un gioco: io ti faccio delle domande e tu mi rispondi solo sì o no».

Auron non rispose.

«Gli Invocatori e i Guardiani sono figure pubbliche» continuò Jecht, imperterrito. «Se ti vedessero fumare, danneggerebbe la tua immagine di paladino del bene».

Pose l’accento su quell’ultima parola con fare provocatorio, ma non ottenne una vera e propria reazione.

«Sono sempre venuto qui dietro dove i monaci non passano» spiegò invece Auron. «Da quando ho cominciato… molto giovane».

Jecht non rispose, ma incrociò le braccia e inarcò le sopracciglia, come assorto in un qualche pensiero.

«Sei contento di aver ricevuto questa informazione?» continuò Auron con poca grazia.

«In realtà sì» replicò Jecht. «Sai, mi fa… piacere che tu abbia anche i tratti di noi mortali. La vostra “cerimonia di iniziazione”, o quel che è, mi ha abbastanza impressionato».

«Ah, sì?» chiese il monaco, facendo un tiro dalla sigaretta.

Jecht si morse il labbro inferiore: cominciava a innervosirsi. Con tutta l’esperienza che si era fatto nei locali e come capitano della squadra, in genere era per lui molto facile parlare con le persone, far sì che gli dessero confidenza. Auron, però, sembrava un muro di ferro, uno che liquidava con un “ah, sì?” e una scrollata di spalle l’essersi fatto incidere le vene con un coltello. Non sapeva se esserne infastidito o affascinato.

Si figurò una scena in cui si avvicinava al suo compagno e lo afferrava con premura per gli avambracci, in modo da controllare se le ferite si fossero rimarginate, ma finiva con la sua schiena che colpiva con violenza il selciato.

Quindi si limitò a sporgersi verso di lui inclinando il busto.

«Stanno bene, i tuoi polsi?»

Auron lo guardò con l’espressione vacua di chi non ha capito.

«I miei polsi?» ripeté, osservandoli. Jecht notò con stupore che solo un segno bianco e sottile li attraversava. «Ah, ho capito. Gli Invocatori si addestrano nella magia bianca così come noi Guardiani facciamo con le armi. Quando Braska mi ha curato, ha usato la sua energia vitale per guarirmi e non è rimasta che una piccola cicatrice: il rito simboleggia l’affidarsi del Guardiano al suo Invocatore, così tanto da essere disposto a versare il suo sangue per lui».

Jecht fischiò.

«Wow» commentò. «Certo che vi prendete parecchio sul serio. Ti piace proprio parlare di morte onorevole, dolore, sacrificio e roba del genere… non è che hai qualche feticismo strano?»

Auron aggrottò le sopracciglia e cominciò ad arricciarsi una ciocca di lunghi capelli sul dito.

«Che cosa significa?»

Il cuore di Jecht sprofondò fino allo stomaco.

«Ah, no... » balbettò, spaventato. «Niente… è una cosa che si dice a Zanarkand per fare una battuta...»

Il monaco, tuttavia, non diede segno di averlo ascoltato. Gettò a terra il mozzicone di sigaretta e gli voltò le spalle.

«Ho deciso che per oggi abbiamo finito» annunciò. «Vai pure a… bah, vai a fare quello che vuoi, basta che domani mattina tu riesca a reggerti in piedi».

A quell’esortazione, Jecht si riscosse e protestò.

«Ehi, amico, per chi m'hai preso?» sbottò, cominciando a seguirlo. «Io in genere mi alleno anche otto ore al giorno!»

«Fai gli addominali, se ci tieni» ribatté Auron. «Io adesso ho da fare».

«Ah, sì? Sentiamo, cosa avresti da fare di tanto urgente?»

«Pregare».

«Tu sì che sai come divertirti!»

 

 

Auron se ne andò che aveva ancora il fumo della sigaretta nelle narici. Entrò nel monastero per poi uscirne, con passi così pesanti da poter essere sentiti anche dall’esterno. Quell’uomo lo sfiancava in modo terribile: i suoi pensieri, i suoi punti di vista pagani che si premurava sempre di far conoscere agli altri, la sua arroganza. Se avesse chiuso gli occhi, avrebbe potuto giurare di vedere il suo ghigno beffardo nell’oscurità.

Era inutile prestargli attenzione o prendersela troppo, d’altronde cosa poteva sapere lui? Non che credesse fino in fondo che Jecht venisse da Zanarkand: forse era un semplice disgraziato che, entrato in contatto con Sin, era rimasto intossicato dal suo veleno che gli aveva causato una forte amnesia, facendogli dimenticare che era un abitante di Spira. Fatto certo era che non ricordava nulla, quindi quale fosse la verità poco importava. Jecht andava trattato come ciò che era: uno straniero, per l’appunto.

La faceva semplice, lui. Non faceva altro che seguire i principi di uno sbandato, prendendosi gioco di virtù per lui troppo pure da comprendere. Onore, sacrificio, rispetto verso il dio, tutte qualità che non gli sfioravano nemmeno la coscienza.

Auron si accorse di aver sbagliato strada: disturbato nel profondo per quanto detto con Jecht, era sceso dal monastero per poi dirigersi in centro città, come se le gambe si fossero mosse di volontà propria. Si mise una mano sul volto e scosse la testa, per poi tornare indietro e imboccare un sentiero sinuoso che conduceva verso il confine di Bevelle, a poca distanza dal mare.

Nonostante tutto, sto andando lì per lui, pensò confuso, la testa che gli pesava come un macigno.

No, non era per lui, si disse. Era per la buona riuscita del Pellegrinaggio. Auron alzò gli occhi al cielo limpido e inspirò aria salmastra, sollevato dall’aver trovato il bandolo della matassa: il Pellegrinaggio era la risposta. Durante il viaggio, Jecht avrebbe finalmente avuto l’occasione di comprendere i loro valori, forse sarebbe arrivato persino a rispettarli.

Il pensiero più ricorrente, tuttavia, non era quello a cui Auron si sforzava di credere: c’era una sensazione strana che gli permeava ancora le dita, una sorta di prurito che non accennava ad andarsene. Avere il suo collo nel palmo della mano ad un passo dalla morte era stato inebriante e terrificante, una sorta di elettricità che gli attraversava il sangue. Oppure una magia di qualche tipo.

Non aveva importanza, Auron non doveva più percepirla: era opprimente e annebbiava la sua mente. Per quanto fosse comunque apprezzabile che Jecht si fosse sforzato di instaurare un dialogo, per il bene della missione, non doveva più toccarlo e lasciare che il proprio animo ne venisse turbato.

Dopo lungo pensare, finalmente arrivò a destinazione: il tintinnio del martello sul ferro era udibile anche a distanza, mentre il vapore candido usciva senza sosta dal comignolo della fucina. Il fabbro usava l’acqua di mare per raffreddare l’acciaio incandescente, avere la spiaggia vicino accelerava di molto il suo lavoro.

Igor era ormai una presenza ricorrente nella vita di Auron: era stato lui a forgiare la sua stessa spada, compagna di mille battaglie. Non si era mai nemmeno scheggiata.

«Auron! Che piacere vederla qui! Per farsi una scarpinata del genere dal monastero, immagino le servano i miei servizi» disse l’uomo. Era ormai sulla cinquantina, pochi capelli radi gli incoronavano il capo grosso come quello di un gigante.

«Salve, Igor. Perspicace come sempre, amico mio» rispose il monaco, abbozzando un sorriso sincero.

 «Tra guerrieri c’è intesa! Molto bene, per chi devo forgiare il mio leggendario acciaio?»

«Un iniziato. Sarà il Guardiano dell’Invocatore Braska, come il sottoscritto» disse con sguardo fuggevole. Igor non indagò ulteriormente.

«Ah, quel povero diavolo! Immagino lei lo stia allenando, chissà se sopravviverà. Bene, bene… che arma vuole per il suo apprendista?»

«Una spada. La vorrei non troppo pesante, l’iniziato deve poterla brandire con una sola mano. Deve essere molto veloce» dettò sicuro.

«Un combattente agile, eh? Mi sembra un’ottima scelta, se me lo permette. Lei è già fortissimo, Auron, uno bello scattante ci vuole in squadra».

«Già… ci vuole proprio» rispose sbuffando, infastidito.

 

 

Auron era inginocchiato sulla terra nuda del campo d’addestramento, seduto sui talloni. Aveva le braccia rilassate lungo i fianchi e teneva tra le mani una piccola ciotola, capiente quanto un bicchierino da liquore.

«Cosa bevi, monachello?» gli aveva chiesto, facendoglisi più vicino.

Due piccoli solchi erano comparsi sulla fronte di Auron. Jecht si era reso conto che non sapeva nemmeno quanti anni avesse, solo che era molto giovane.

Quanti ne aveva in meno di lui? Cinque, o addirittura di più?

«È alcolico?» lo aveva incalzato ancora, dato che come al solito non gli era arrivata una risposta.

Cosa pensava lui quando aveva venticinque anni, prima di scoprire che Lauren era incinta? Al pallone, alle serate con gli amici, a quello sfogo d’un istinto ferale che trovava solo nell’alcol, nella finta guerra del blitzball e nel sesso. Di sicuro non aveva mai rivolto la mente al sacrificio, all’onore, al divino, ai cani che avrebbero predato il suo corpo se non avesse ricevuto degna sepoltura.

Era rabbrividito quando si era reso conto che, come le sue amanti gli accarezzavano la nuca, così sul collo di Auron scivolavano le mani della Morte, contando sotto le dita una a una le sue vertebre.

Il monaco aveva sollevato le palpebre e gli aveva rivolto un’occhiata che era insieme infastidita e stanca.

«Non ti riguarda» aveva risposto.

Jecht gli si era seduto vicino sulla terra del campo di addestramento. Era secca.

Quel ricordo scompariva, mescolandosi con un sogno confuso nel dormiveglia. Jecht giaceva scomposto sul letto, supino, con il lenzuolo attorcigliato attorno alle gambe, una mano posata su una coscia e un senso di caldo torpore in tutto il corpo.

Auron non si era ancora fatto vedere, quella mattina. Nessuno lo aveva strattonato per obbligarlo a scendere dal letto, nonostante già il giorno avesse frantumato le nuvole e la ghiandaia gridasse il suo canto sgraziato.

Nel monastero la vita iniziava all'alba, ma la mancata presenza del suo insegnante venne ben accolta dal fisico provato dell'atleta.

Si era svegliato confuso, ma riposato come non lo era da due mesi, ossia da quando aveva iniziato l'allenamento con Auron. Pensò di essersi proprio meritato un goccetto dopo aver faticato tanto, ma qualcosa gli impediva di agire secondo le sue voglie: non era mai stato sobrio per così tanto tempo, e l’idea di rovinare un traguardo sofferto gli faceva passare la voglia.

Decise allora che avrebbe trascorso quell’inaspettato giorno di pausa in spiaggia, per rendere onore alle proprie origini. Ormai conosceva bene Bevelle: non ebbe difficoltà a raggiungere il mare limpido di Spira, dalla parte opposta al monastero. Impiegò parecchi minuti, ma non erano niente in confronto all'aria salmastra che gli apparteneva, al sale dell'acqua di cui era composto. Si sentiva sale e sabbia.

Pensò di fare tante cose, ma alla fine non si dedicò ad altro che a guardare l'orizzonte, ricordando Zanarkand. Da lì a qualche giorno sarebbero partiti, pronti ad affrontare mostri terribili, banditi e chissà cos'altro, tutto per sconfiggere una bestia invincibile e averne in cambio qualche anno di pace. Non riusciva a togliersi dalla testa che fosse una follia, ma quella gente ci credeva davvero.

Braska non lo dava a vedere, ma era teso, Jecht ne era sicuro. Dietro a quel sorriso affabile e a quei modi gentili c'era una paura profonda, ma anche una determinazione rara. Quel giorno l'Invocatore avrebbe dovuto prendere il suo primo eone, Baha-qualcosa. Auron se n’era sempre lavato le mani, lasciando le spiegazioni a "momenti più opportuni". Il momento era senz'altro arrivato.

Non ricordava dove di preciso abitasse Braska, ma non ebbe molte difficoltà a trovarlo chiedendo indicazioni in giro. Pensò che la sua casa fosse molto graziosa, un po' come Braska stesso e la sua figlioletta. Un moto d'invidia gli attraversò lo stomaco: avrebbe tanto voluto avere un rapporto simile con Tidus, ma non ne era stato in grado.

Con un sospiro, bussò alla porta. Dall'altra parte sentì delle voci, Braska non era solo. Il suo ospite, di sicuro, non era Auron: il monaco aveva una voce roca e profonda, quella che aveva udito invece era molto simile a quella dell'Invocatore, leggermente più acuta.

Un nervoso Braska andò ad aprire, sfoderando un sorriso di cortesia: fece entrare Jecht con riluttanza, atteggiamento davvero anomalo per un uomo così gentile con il prossimo. Nel salottino rotondo, un individuo piuttosto minuto e vestito in modo ancor più ridicolo di Braska, squadrava ogni centimetro della stanza con morbosità. Il volto era asciutto e dai tratti pronunciati, somigliava molto a quello del padrone di casa.

Jecht provò antipatia istantanea: non gli piaceva il suo atteggiamento altezzoso. Come posò gli occhi sull'atleta, lo sconosciuto sorrise appena, unendo le mani come in preghiera.

«Parli del diavolo… una gran fortuna, Yevon mi ha risparmiato la fatica di andarlo a recuperare» disse quello con tono sofisticato. Jecht aggrottò le sopracciglia ben intenzionato a chiedergli di ripetere le parole che gli aveva rivolto, ma il volto teso di Braska lo spinse a demordere.

«Jecht, ti presento il Grande Inquisitore Alan» annunciò l'Invocatore senza emozioni.

Forse sarebbe più appropriato Piccolo Inquisitore Alan, pensò Jecht. Da un rapido calcolo, intese che, se si fosse alzato ergendosi in tutta la sua altezza, quel tale gli sarebbe arrivato sì e no al petto.

«Un nome altisonante» commentò, senza dare voce esplicita ai propri frizzanti pensieri.

«Hai ragione, e guadagnato con fatica. Sai cosa implica il mio titolo o di cosa mi occupo?»

Jecht scosse la testa e Alan scoppiò a ridere con fare inquietante.

«Allora è vero che non ricordi nulla!»

Gli occhi di Jecht, trascinati da un sordido presentimento, si posarono su un oggetto sul tavolino. Era d’ottone, e la sua forma a coppa sembrava dover accogliere al suo interno qualcosa che veniva poi nascosto da un alto coperchio cesellato, modellato in modo da imitare l’architettura di un tempio. Delle catene sottili servivano con tutta probabilità a reggerlo in mano, come una lanterna. Non sembrava però che le aperture fossero grandi abbastanza da lasciar filtrare la luce.

Dov’è Auron? pensò all’improvviso, spaventato. La presenza del ragazzo, come scudo dalle cose che lui non sapeva, lo avrebbe fatto sentire molto più sicuro. Si sarebbe parato tra lui e l’Inquisitore e lo avrebbe annichilito con qualche commento sardonico.

Braska, senza alcun preavviso, si diresse verso la porta. Unì, com’era sua abitudine, le mani in grembo prima di parlare.

«Andremo al tempio a pregare l’Intercessore, Jecht» annunciò. Sapeva che l’uomo di Zanarkand non poteva capirlo, ma sentiva appena di avere le energie per camminare. Colui che gliele stava togliendo lo precedette, uscendo prima di lui dalla porta. Braska non aveva nessuna volontà di andare apertamente contro la Chiesa, ma lo spettro scuro dell’Inquisizione controllava i suoi passi.

L’Invocatore soffermò lo sguardo sul suo viso, sui suoi occhi attraverso i quali non passava la luce. Era amara l’ironia che li voleva uno dalla parte del giusto e l’altro da quella del torto, senza però definire le fazioni.

C’è stato almeno un tempo in cui mi hai amato, Alan?

«Il tuo altro guardiano, quello ordinato dai Templari, dov’è?» gli domandò l’Alto Inquisitore.

C’erano domande a cui nemmeno la fede poteva dare risposta: quelle che riguardavano il cuore degli uomini.

«Ci sta aspettando al tempio» rispose Braska. Prese la strada che scendeva, su cui i fiori rossi cominciavano a sbocciare.

Mi hai amato, quando nostra madre ti chiedeva di prendermi per mano e attraversare il campo vasto di papaveri?

Alzò gli occhi verso l’alto, sperando di ricevere forza. Dietro l’altare, nel piccolo tempio di quartiere dove andava a pregare da ragazzino, c’era un dipinto raffigurante un raggio di sole che attraversava le nuvole: era così che aveva sempre immaginato Yevon.

Ma il cielo, quel giorno, era coperto, e una nube di storni si agitava, volgendo a destra e a sinistra come un animale imbizzarrito che si dimena per sfuggire al coltello che lo uccide. A bassa quota, proprio davanti a lui, due uccelli si erano staccati dallo stormo.

Volarono rapidi l’uno contro l’altro, e si scontrarono finché il più forte non dilaniò con il becco il collo del suo simile, che cadde a terra morto. Il presagio era chiaro: Braska avrebbe ucciso il suo stesso fratello.

Con il terrore nel cuore, strinse il bastone che voleva usare come catalizzatore del potere dell’eone e si voltò verso Alan. Lui camminava con portamento altero verso il tempio di Bevelle, rivolgeva talvolta rapidi sguardi a Jecht che lo seguiva senza osare rivolgergli la parola.

No, il futuro che il dio mi ha mostrato non è il mio, pensò Braska, io non potrei.

Ebbe la sensazione di essere privato dell'aria, ma non si fermò, né aveva intenzione di darlo a vedere. Se l'Inquisizione voleva osservarlo da vicino, avrebbe visto un uomo risoluto e forte nel fisico, anche se avesse dovuto fingere. La sua determinazione fu alimentata anche dal comportamento di Jecht, stranamente rispettoso: non poteva sprecare uno sforzo simile da parte dell'atleta.

I nervi dell'Invocatore erano provati: la presenza di suo fratello era già un arduo fardello da sopportare, e di lì a poco avrebbe dovuto sostenere una delle prove più dure. Tuttavia, lui poteva farlo. Braska ricordava bene l'estremo attaccamento alla vita sperimentato durante la malattia: era in grado di trascendere i suoi limiti.

Arrivarono al tempio più in fretta di quanto previsto, e Braska non era nemmeno affaticato. Forse la mano di Yevon lo aveva spinto fin lì per sua volontà, pensò. Auron li attendeva con la schiena appoggiata a una colonna e un braccio sul fodero in pelle nera di quella che sembrava un'arma.

Il monaco gettò uno sguardo truce verso Alan, intuendo subito tutto ciò che la sua presenza comportava. Li accolse con la tradizionale reverenza: Jecht si avvicinò a lui come guidato dall'istinto, o dall'abitudine. Era visibilmente sollevato di averlo lì. Notò che alla cintura portava un contenitore per l'alcol, forse un regalo di qualcuno.

«Hai detto il vero, Braska. Eccolo qui, infatti» disse Alan con una punta di sarcasmo.

«Non avevo motivo di mentire. I miei Guardiani sono molto devoti» rispose pacato Braska. Il fratello fece una smorfia infastidita.

«...bene. Mi pare tutto in ordine qui. Ti guarderò entrare nel tempio, poi tornerò ai miei doveri. I tuoi Guardiani sono qui, ho tutto ciò che mi serve».

L'Invocatore annuì, per poi avvicinare Auron e Jecht a portata d'orecchio. Mise una mano sulla spalla del monaco e una su quella dell'atleta, sorridendo come soleva fare per rassicurare.

«Mi aspetta una prova molto difficile, amici miei. Ci metterò un po', ma non temete: starò bene. Auron, sii gentile e istruisci Jecht su cosa sto andando a fare nel tempio, vuoi?»

Il monaco annuì, per poi rivolgere un leggero inchino al suo Invocatore.

«Che Yevon guidi i suoi passi» disse grave e sinceramente preoccupato. Jecht ebbe un brivido.

«Ehi, se è troppo pericoloso esci di lì, d'accordo?»

Braska accarezzò il viso di entrambi, poi spinse con forza il pesante portone del tempio, guardando nell’oscurità. L'ultima cosa che videro i due Guardiani fu la schiena dell'Invocatore che procedeva verso l'interno.

Auron sospirò e tornò al suo posto, con la schiena contro la colonna, mentre Jecht squadrava preoccupato la porta finemente decorata d'oro. Totalmente ignorato, Alan se ne andò come era venuto, portando con sé quell'aria opprimente che emanava.

Il monaco osservò Jecht: non si aspettava di vederlo così pensieroso nei confronti di Braska, e ne fu lieto.

«Dove sei stato?» chiese l'atleta.

Auron non rispose: si mise dritto scostandosi dal muro, per poi porgere il fodero nero.

«Aprilo, saggiala un po'».

Jecht fece come detto, scoprendo una spada di ottima fattura e dalla lama lucidissima. Non era avvezzo alle armi, ma intuì che fosse stata fatta appositamente per le sue esigenze. La trovò splendida e deglutì, sentendo il battito accelerato del cuore.

«Tu… tu l'hai fatta fare per me? È un regalo

«È necessario, non un regalo» disse secco, ma Jecht se lo fece bastare.

La maneggiò con fare inesperto: notò subito come l'arma fosse meno pesante di quanto apparisse. Ricordò le parole di Auron riguardo il suo modo di combattere, e gli sembrò perfettamente coerente.

«Mettila come vuoi, monachello, ma mi piace un sacco. Grazie» disse enfatizzando l'ultima parola. Auron fece un gesto con la mano per accettare la sua gratitudine, poi continuò. «Allora, mi spieghi cosa deve fare Braska? Da come ne avete parlato, non sembra molto sicuro».

Il monaco annuì: non avrebbe indorato la pillola.

«Nel tempio c’è una zona più interna, inaccessibile a noi guardiani. La chiamiamo naos, e può accedervi solo l’invocatore».

«Chiaro» replicò Jecht. Voleva chiedere perché non ci potesse entrare, ma si morse la lingua.

«Lì Braska rimarrà in preghiera, anche per giorni se necessario, fino a quando eventualmente l’Intercessore lo riterrà degno, e intreccerà la propria anima con la sua, donandogli l’eone».

«Cos’è l’Intercessore?» domandò Jecht.

«È una persona che si immolò in nome della propria fede a Yevon».

Jecht aggrottò le sopracciglia: in quella favola c’era qualcosa di macabro e strano che ancora non riusciva a cogliere.

Volse lo sguardo al cielo, dove le nubi si spostavano e lasciavano posto alle spettatrici stelle.

«Che cosa fa l’Inquisizione?»

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Capitolo 9
*** Molte sono le cose terribili ***


CAPITOLO 8: MOLTE SONO LE COSE TERRIBILI

 

 

Auron lo aveva guardato come si guarda qualcosa di cui si ha paura. I suoi occhi erano fermi in quelli di Jecht, ma fissavano qualcosa che si trovava oltre.

«L'Inquisizione controlla che ciò che facciamo vada bene per la Chiesa di Yevon» aveva poi spiegato, con naturalezza. «Se desideri scrivere un libro, ad esempio, o parlare in pubblico. Si occupa anche di debellare le eresie e interrogare i prigionieri più pericolosi per Bevelle. Braska non ha rispettato i dettami ed è stato scomunicato, quindi ora va controllato».

Si era ravviato dietro l'orecchio una ciocca di capelli sfuggita al nastro che li legava.

«Ma che stai dicendo?» aveva sbottato Jecht, senza nemmeno pensare prima di pronunciare quelle parole.

All'improvviso, aveva compreso molte cose.

Perché in quel posto in cui si danzava con le ombre fossero così timorati di un dio che non li salvava.

«Qui a Bevelle noi facciamo così» aveva replicato Auron, con durezza.

«Non va bene!» si era trovato a gridare Jecht.

Guardava il liquido nel bicchiere, senza ricordare se era la quarta, quinta o sesta volta che lo riempiva. Aveva un gusto di anice a cui non era abituato, che allo stesso tempo lo inebriava e gli faceva storcere il naso per l'eccessiva dolcezza.

«Non va bene per niente!»

Auron aveva piantato la propria spada per terra, poi aveva guardato quella che aveva fatto costruire per Jecht, forse vergognandosi per il regalo.

«Non sei tu a decidere cosa va bene e cosa meno».

Jecht gli aveva mostrato i denti in una smorfia feroce.

«No» aveva commentato, «lo fa l'Inquisizione».

Non andava bene, l'isola in cui era finito. Era di continuo funestata da un orrore che per lui era ancora invisibile, era stretta nel pugno di un uomo che riteneva di poter dettare la legge del dio.

La testa gli girava tanto che dovette sorreggersi al muro ruvido e sporco di una casa. Trascinava i piedi con un mezzo sorriso, quasi confortato dall'essere un miserabile, un uomo vero in mezzo alla laccatura di quella realtà.

«Jecht».

Quello su cui era andato a sbattere era qualcosa di duro. Con fatica non indifferente alzò gli occhi, dimodoché non guardassero più i propri piedi callosi ma il viso del nuovo arrivato.

«Oh, bel ragazzo...» replicò, con voce strascicata e lamentosa. Si lasciò cadere tra le braccia di Auron, appoggiando la testa nell'incavo caldo tra il suo collo e la sua spalla, sentendosi al sicuro. «Non sarai mica venuto a cercarmi?»

Auron cercò di scuoterselo di dosso, ma dopo qualche debole tentativo desistette, forse pensando che sarebbe finito a terra se non lo avesse trattenuto.

«Guardati. Domani dobbiamo partire» gli aveva risposto il ragazzo, senza pietà.

I suoi capelli avevano un odore esotico di spezia – zenzero, forse? – che pizzicava con dolcezza le narici di Jecht e lo spingeva a inspirare ancora. Si aggrappò al braccio di Auron, ne accarezzò con il pollice i muscoli.

«Appunto...» replicò, mettendo assieme le parole con fatica, «stavo... cercando compagnia. Eh, a proposito, Au- ragazzo... non è che c'hai qualche amica da presentarmi? O anche un amico, non è che c'ho gusti così difficili...»

Auron s'irrigidì all'istante.

«Per favore, lasciami il braccio» gli ordinò. Le mani di Jecht finirono sul suo petto, coperto dall'armatura di cuoio. Non se la toglieva nemmeno per andare in giro la sera?

«Che c'è? Ah, non ti preoccupare per te, monachello, mica miro così in alto» replicò con una risata roca, mentre gli sistemava i lembi della veste.

Il monaco lo afferrò in modo brutale per la cintura e lo spinse a camminare al suo fianco.

«Muoviti» gli intimò, con tono furioso e senza più nascondere il disgusto che provava per lui. In risposta, Jecht biascicò qualcosa di incomprensibile, che poteva sembrare in un'altra lingua.

Auron lo trascinò fino al monastero e si fermò davanti alla porta della cella che avevano destinato a Jecht. Lo lasciò e lui barcollò per poi aggrapparsi allo stipite.

«Apri» comandò.

Jecht gli si avvicinò con gli occhi socchiusi e un sorriso, senza dare segno di avere capito.

«Non sto scherzando» continuò Auron, storcendo il naso per l'odore di alcol – per giunta di infima qualità – che lo travolse. «Apri la porta».

Jecht gli gettò le braccia al collo e rimase immobile, appoggiandosi su di lui a peso morto. Auron strinse i denti e imprecò in silenzio. Lottando contro la nausea che provava, sollevò la parte di salopette che gli copriva le tasche posteriori e vi infilò una mano per cercare le chiavi, nel modo più meccanico possibile. Jecht mugugnò, raggiungendo con una mano la sua nuca e toccandogli i capelli, e Auron frenò l'impulso di colpirlo con uno schiaffo.

Seppur ostacolato dal corpo inerte e ingombrante di Jecht, riuscì ad aprire la porta. Poi, agevolato dal forse involontario abbraccio dell'atleta, lo sollevò in spalla e lo mise a letto.

Nel momento in cui la sua testa toccò il cuscino, l'uomo sembrò tornare parzialmente in sé. Si rese conto di trovarsi davanti Auron e lo fissò con gli occhi appannati.

«Vuoi venire a letto con me?» farfugliò, storcendo la bocca in un ghigno. Auron non lo ascoltò e si diresse in bagno, per prendere un catino di ferro di solito usato per lavarsi.

«Se ti piacciono certe cose... come quella che hai fatto mentre ci allenavamo insieme...» continuò a delirare il campione di blitzball, portandosi una mano al collo con fare seducente, «a me va anche bene, sai?»

Senza curarsi del rumore, Auron lasciò cadere al suolo il catino.

«Se devi vomitare, fallo qui» gli replicò, lapidario.

Jecht sembrò riscuotersi un'altra volta e riacquistare un barlume di senno. Pur nella penombra, il monaco lo vide impallidire nel rendersi conto di ciò che aveva detto.

«Auron...»

«Mi fai schifo».

Auron gli voltò le spalle e uscì dalla cella, allontanandosi con passi pesanti verso il cortile dove Braska lo stava aspettando, le mani giunte al petto con un atteggiamento premuroso.

«Sta bene?» gli domandò l'Invocatore in un sussurro.

«No» rispose lui, evitando il suo sguardo. «E nemmeno io».

Era la prima volta che si rivolgeva con tanta durezza a Braska. Se ne pentì subito dopo, ma non poteva riportare indietro il tempo.

«Che cosa è successo?» continuò con ansia il sacerdote.

Auron si voltò, aprì la bocca per parlare e subito la richiuse, in modo da poter addolcire ciò che aveva da dire.

«Sono contrario a partire con quell'uomo come Guardiano» dichiarò. «È ubriaco fradicio. Mi ha costretto ad andare a riprenderlo mentre vagava senza meta per la strada, e Yevon mi salvi se qualcuno mi ha visto in sua compagnia».

«Per favore, Auron, cerca di capire. È lontano da casa, e non sa se la sorte gli ha tolto il ritorno. Non dobbiamo giudicare un uomo da un suo momento di debolezza».

«Se lo ha fatto oggi, lo farà ancora» sentenziò Auron, senza pietà. Si interruppe e abbassò la voce, in modo da non turbare la quiete della notte. «E ancora e ancora, e potrà piangere e dire che non lo farà mai più, ma continuerà a ricaderci».

Braska lo guardò con quella che sembrava consapevolezza. Auron fu attraversato da un sentimento che non sapeva spiegare, come se due diverse anime stessero lottando nel suo corpo.

«Io mi fido di Jecht» disse l'Invocatore. «Mi dispiace recarti un dispiacere, ma allo stesso tempo ti prego di concedergli una possibilità».

Auron rimase in un limbo, incerto se aggiungere o meno l'ultimo dettaglio. Infine si morse il labbro inferiore e abbassò la testa.

«Sì, signore» mormorò.

Era rimasto sconvolto e disgustato quando aveva scoperto che Jecht aveva anche tendenze omosessuali. Era un uomo sposato, per di più, e con un figlio su cui non avrebbe neanche dovuto posare gli occhi, tanta era la vergogna della sua condizione.

Non era riuscito a dirlo a Braska.

E non riusciva a scacciare il pensiero, annidato nell'ombra della sua mente, di non averlo fatto perché, in fondo, aveva paura di sentire la risposta.

 

 

Quel giorno, il sentiero per il monastero sembrava lungo una vita intera. Braska accompagnava Yuna stringendole la manina, come se potesse scappare da un momento all'altro. Avrebbe tanto voluto che succedesse, così da poterla cercare ancora per qualche minuto.

Un paio di giornate atipiche di sole troppo intenso erano riuscite a bruciare alcuni steli teneri, che venivano schiacciati dai piedi dell'Invocatore così come gli uomini, inermi, venivano travolti dalle scaglie di Sin quando piovevano dal cielo. Sarebbero ricresciuti i fiori, e allo stesso modo sarebbero risorte le città dagli scheletri di legno.

Braska si accorse di star stringendo la mano della figlia con troppa forza, così la prese in braccio e la issò sulle spalle, facendola sorridere. Dopo pochi passi furono in vista del bianco edificio dei Templari.

L'uomo, con il respiro rotto, lasciò andare Yuna, in modo che corresse verso i monaci a cui l'avrebbe affidata nel periodo del suo Pellegrinaggio e – se il dio l'avesse voluto – anche oltre.

I passi svelti della bambina, però, subirono presto una deviazione.

«Jecht!» gridò, entusiasta, schiantandosi festosamente contro una delle gambe del campione di blitzball.

«Ciao, tigre» replicò subito lui, chinandosi per accarezzarle i capelli. I suoi, notò Braska, erano stati lavati di recente e non c'era nulla in lui che faceva pensare che avesse passato una brutta nottata.

«Weu, che cos'è una tigre?» trillò Yuna. Jecht la prese in braccio senza fatica, tanto che Braska invidiò la sua forza, e cominciò a narrare.

«È un animale ferocissimo» le sussurrò, storcendo la bocca e piegando le dita per imitare un artiglio. «Il suo mantello è a strisce: alcune sono nere come la notte e altre, si dice, sono cosparse di una sottilissima polvere d'oro. Almeno, questo vale per le tigri che vivono a Zanarkand».

La bimba spalancò gli occhi, estasiata.

«Ed è vero oro?»

«Certo, e pensa: un giorno mio padre stesso, quando era ragazzo, partì con una nave per andare a recuperare il manto più prezioso».

«E lo ha trovato?»

Lo sguardo di Jecht si perse, e rivide davanti a sé il padre seduto sulla poltrona, le gambe accavallate nel gessato grigio, intento a leggere un saggio stantio e fumare la pipa. Fingeva di non vedere Jecht, mentre lui voleva solo mostrargli di essere diventato bravo a palleggiare.

«Non lo so».

I ricordi divennero amari, così decise di fare quello che il genitore gli aveva sempre voluto negare. Durante il periodo di allenamento, Jecht aveva trovato una vecchia palla da blitzball nelle cantine del monastero, forse perduta da qualcuno o sequestrata a qualche giovane iniziato.

Jecht non aveva mai perso occasione di dare qualche calcio alla sfera, nonostante l'allenamento disumano a cui lo sottoponeva Auron, e lo stesso monaco non glielo proibiva.

«Vuoi vedere il tiro leggendario famoso in tutta Zanarkand? Così proverai a farlo mentre siamo via».

Yuna annuì entusiasta, scrutata dagli occhi attenti di Braska, così Jecht corse nel monastero per recuperare la palla, accuratamente nascosta sotto il suo letto. Saggiò per l'ultima volta il volume della sua più cara amica in quel mondo spregevole, per poi tornare dalla piccola con un gran sorriso sul volto.

Se solo io l'avessi fatto con Tidus...

«Osserva bene, tigrotta! Al nostro ritorno sarai una campionessa di blitzball!»

Jecht palleggiò con destrezza usando sia il piede destro che il sinistro, ma nel momento in cui mise il peso sull'arto mancino per caricare il tiro, quello speculare lo fulminò con un grande dolore bruciante. Perse l'equilibrio cadendo rovinosamente a terra: la palla rotolò via senza una meta precisa.

Braska scoppiò a ridere d'istinto, così come Yuna, poi lo aiutò a rimettersi in piedi. Più che della figuraccia, Jecht era molto preoccupato di perdere la preziosa compagna. Si guardò intorno alla sua ricerca, quando notò che era rotolata ai piedi di un arcigno Auron.

All'improvviso, tutto il suo buonumore svanì. Il viso di Auron era quello di una statua di marmo, inespressivo più del solito, e qualche nebuloso ricordo della notte precedente gli strizzò lo stomaco.

Il monaco non mosse un muscolo nemmeno quando Jecht, tenendo fissi gli occhi su di lui, si chinò per riprendere la palla. Il cuore cominciò a battergli nella gola e contro le tempie, affollate da immagini strane.

A parte la solita sensazione di ebbrezza, piacevole solo per poco, ricordava di essersi accasciato tra le braccia di Auron, poi più niente se non qualche memoria fugace di aver vomitato in un catino.

«Ciao...» accennò, vedendo che il suo compagno non gli rivolgeva la parola. Non ricevette risposta e fu attanagliato dal senso di colpa più forte che avesse mai provato in vita sua. Con vergogna, rivolse gli occhi alla bambina e poi a Braska.

Di certo anche l'Invocatore era venuto al corrente di qualsiasi cosa fosse successa, ma non aveva detto nulla perché aveva un animo gentile.

La sua mente, rapida, passò in rassegna tutte le cose sbagliate che avrebbe potuto dire ad Auron, e sperò con tutte le forze di non aver fatto proprio quello.

Pregò che Yevon, chiunque egli fosse, gli aprisse all'istante una voragine sotto ai piedi. Poi prese la palla e si girò di nuovo verso Yuna con un gran sorriso.

«Mi raccomando, tigre. Non dire a nessuno cosa hai visto, o mi prenderanno tutti in giro! Sono pur sempre un grande campione!» disse, mettendo le mani sui fianchi per darsi un tono. La bambina aveva le lacrime agli occhi per le grosse risate.

Auron osservò tutta la scena provando sentimenti contrastanti, come due cani che si combattevano: da un lato il disgusto per le inclinazioni del compagno, dall'altro il calore della sua gentilezza nei confronti della bambina, un atteggiamento di cui lui non si era dimostrato capace.

Scosse la testa per allontanare quel dualismo fastidioso, quando una voce familiare richiamò l'attenzione. Wen Kinoc gli fece cenno di avvicinarsi, invito accolto con particolare sollievo.

Il monaco seguì l'amico all'interno dell'edificio, fino a quando si fermarono in corrispondenza di un'ampia nicchia appartata, scavata nella parete bianca.

Kinoc non gli rivolse la parola per primo, troppo assorto nei suoi pensieri. Auron lo guardò e ricordò di quando gli aveva legato l'armatura il giorno dell'investitura a Guardiano.

«Grazie di tutto, Kinoc» esordì.

L'altro levò gli occhi su di lui, forse scacciando uno degli slanci sentimentali che da sempre si forzava a mantenere relegati nell'animo.

«So di non aver bisogno di dirtelo» replicò, in tono solenne, «ma proteggi bene Braska».

Il cuore di Auron accelerò, e il suo umore sanguigno minacciò di prendere controllo dei sensi. Era così che congedava il suo migliore amico?

«Lo farò» rispose, trattenendo parole di biasimo. Forse sarebbero state le ultime che Kinoc avrebbe sentito da lui: se non potevano essere di miele, non sarebbero nemmeno state di fiele. «Sarai impegnato anche tu. Ho sentito che ti hanno nominato comandante in seconda».

Lui sospirò e prese a tormentarsi il laccio d'oro che gli cingeva i fianchi, segno dell'onore che gli era stato di recente tributato. Aveva accettato in moglie la ragazza che sarebbe dovuta capitare a lui, oppure aveva adornato in qualche altro modo le case dei loro superiori piuttosto che quelle del dio?

«Sai che avresti dovuto essere promosso al posto mio» disse. «Sei sempre stato il migliore tra noi due, fino alla fine».

Auron gli mostrò un sorriso, dapprima forzato, che fu addolcito da un ricordo d'infanzia.

«Se dici così sembra che io stia andando a morire» lo rimproverò senza cattiveria. «Ci rivedremo».

«Sì» rispose semplicemente Kinoc, e dal suo tono Auron comprese che ci credeva davvero. L'istinto lo spinse a chiudere la distanza tra di loro e abbracciarlo, ma si fermò a metà del gesto, ricordando la sensazione disgustosa che la stretta di Jecht gli aveva lasciato sulla pelle la notte precedente.

«Bene, dunque...» continuò con incertezza, muovendo un passo verso la porta.

«Te ne vai di già?»

Il Guardiano annuì in silenzio, sapendo che così facendo avrebbe posto, tra sé e l'ordine dei Templari, un confine che non sarebbe più stato oltrepassato.

Ma Kinoc sorrise di nuovo.

«Mi racconterai di Zanarkand quando tornerai, non è vero?»

Auron assentì con un cenno e con un lieve mormorio.

«Addio».

 

 

Jecht non trovava pace. Dopo che Auron si era allontanato con quel suo amico, si era congedato da Braska e Yuna di gran fretta, affidando alla piccola il pallone. Si era poi rifugiato nella sua cella, attendendo l'ora di partire.

La morsa della vergogna, tuttavia, non lo aveva mai lasciato. Sicuramente aveva fatto qualcosa di deplorevole ad Auron mentre era ubriaco, ma non sapere cosa lo stava logorando. Si alzò di scatto dal suo letto sbuffando infastidito, per poi uscire a passo deciso verso... dove si trova Auron in quel momento?

Imprecò a bassa voce, per poi iniziare una disperata ricerca alla volta del monaco: controllò sia l'interno del tempio sia i dintorni più prossimi, quando poi lo intravide nel posticino semi-nascosto dove fumava.

Lo aveva trovato, ma si chiese come poterlo approcciare senza offenderlo ulteriormente. Decise di affidarsi all'istinto e non girare intorno alla questione.

«Dobbiamo parlare, Auron. O meglio, io voglio parlare, tu non dirai una parola come al solito» esordì senza nemmeno chiedere il permesso. Il monaco lo squadrò con astio.

«Mi... mi dispiace. Qualunque cosa io abbia fatto, mi dispiace davvero! Faccio sempre tante stupidaggini quando sono sbronzo, e...» farfugliò Jecht con occhi bassi, ma fu subito bloccato dalle parole rudi di Auron.

«Se ne sei consapevole, non dovevi ubriacarti fin da principio! A te non dispiace, Jecht. Cadrai di nuovo nel vizio, mettendo in pericolo Braska».

Per una delle poche volte in vita sua, Jecht non ebbe niente da obiettare.

«Sì, diavolo, sì... non posso mettervi nei casini mentre siamo in viaggio, giuro che non succederà ancora».

Auron scoppiò a ridere esasperato, come non aveva mai fatto, mentre soffiava il fumo fuori dalle narici. Era inquietante.

«Le promesse di un ubriacone! Così preziose, come posso non crederti! Oh, se solo fosse così semplice il problema».

L'iniziale e profonda vergogna fece spazio al fastidio: era di certo pronto ad affrontare i suoi rimproveri, ma non a essere umiliato.

«Non ricordo niente. Potresti almeno dirmi cosa ho fatto? Per favore» disse a denti stretti. Auron sembrava sul punto di sbottare.

«Non è cosa hai fatto, Jecht. È cosa sei».

«Cosa, Auron? Cosa sono?»

Il monaco si agitò, quasi avesse davanti la Morte in persona. L'atleta deglutì, disperato: il compagno era troppo sconvolto in volto, aveva fatto quello. Ne era sicuro.

«Un depravato! Sei sposato e hai un figlio, ma ti diletti nel cercare l'attenzione maschile» disse con voce secca. Jecht si mise una mano sul volto, non c'erano più dubbi: gli aveva fatto delle avance. A lui.

«Io... diavolo, diavolo, che stupido... Auron, te lo giuro, mi dispiace da morire. Immagino che per te sia un grosso disagio» provò a dire gentilmente, ma quello scosse la testa furibondo.

«Proprio non capisci? Non riguarda me, riguarda te! La tua condotta è aberrante, un peccato contro Yevon!»

Jecht rimase a bocca aperta, freddato. Fino a quel momento era stato convinto che il gesto in sé fosse stato la causa del conflitto, ma si rese conto che la situazione andava ben oltre. Auron era quel tipo di persona, non poteva sopportarlo.

«Come osi tu giudicare le mie preferenze! Hai deciso di ripudiarmi per qualcosa che non ti riguarda!» urlò rabbioso, ma Auron gli puntò un dito al petto con fare accusatorio. Lo guardava come si guarda uno scarafaggio.

«Oso perché lo dice il dio. E i tuoi atti sono blasfemi. Perché lo fai? La moglie che dici di avere esiste davvero?»

Jecht afferrò la mano del monaco e la scansò di lato con violenza, ergendosi in tutta la sua altezza per sovrastare quel muro.

«Sei molto interessato a curiosare nelle mie mutande. Vuoi saperne di più?»

Auron si irrigidì come un pezzo di legno congelato e Jecht gli rivolse una risata sprezzante.

«Non osare infangare il mio nome con queste insinuazioni disgustose».

«Altrimenti? A Zanarkand non ci sono le tue credenze bigotte, monachello. Non c'è il tuo caro Yevon che ci obbliga a incatenare i pensieri come le vergini che offrite in pasto alla balena. Fattene una ragione» disse facendo per andarsene, infastidito e offeso. «Ah, sì, la moglie ce l'ho davvero. Sono attratto da entrambi i sessi, ora uccidimi pure».

Jecht se ne andò via furente, lasciando Auron esasperato e solo. Il monaco colpì la colonna su cui era appoggiato con il lato della mano chiusa a pugno, generando un fragoroso tonfo. Guardò l'atleta che si fermò di colpo e girò il collo, forse per controllare cosa fosse successo, poi riprese il cammino.

Non lo avrebbe mai ammesso, ma apprezzava quel suo atteggiamento altruista: nonostante tutto, si era preoccupato. Auron si coprì il volto con le mani, alla ricerca di un autocontrollo che faticava a trovare.

Gli aveva fatto male come non aveva mai fatto, più dei colpi di spada e delle prese a terra. Non poteva lasciare le cose in quel modo: Braska ne sarebbe stato danneggiato.

Jecht aveva il passo lungo, doveva già essere a metà sentiero. Se lo immaginò sulla spiaggia, furioso, a tirar calci alle conchiglie. Dovette correre più di quanto pensasse per raggiungerlo ma, non appena lo intravide tra la rada vegetazione che costeggiava la strada, rallentò per riprendere fiato e assumere una postura naturale. Lo chiamò per nome e Jecht saltò sul posto.

«Che diavolo vuoi, monachello? Hai corso fin qui?» disse, sconvolto.

«Non ho corso, sono solo svelto» rispose Auron schiarendo la voce.

«Dalla cima del monte? Certo. Che vuoi ancora? Non sono in vena del tuo paternalismo».

«Non sono qui per farne. Mi rendo conto che il nostro astio potrebbe mettere Braska in pericolo, pertanto sono venuto a offrire una tregua» disse il monaco tutto d'un fiato.

«Una tregua? Hai appena detto che sono aberrante!» urlò Jecht in faccia al compagno, dal momento che erano soli.

«È il mio credo, Jecht. La mia dottrina. Non la rinnegherò, ma so di aver detto parole dure nei confronti di un ospite. Tuttavia, per un sereno Pellegrinaggio, e per non pesare sulle preoccupazioni di Braska, io tollererò ciò che sei. In tutti i sensi» spiegò l'altro, ponendo maggiore enfasi sulle ultime parole.

Jecht gli rivolse un'irritata smorfia sarcastica e un leggero inchino.

«Mi perdoni, monaco timorato di dio, se io sono io. Un io sbagliato, a quanto pare. Sono ben intenzionato a non causare guai con il bere, ma non mi piegherò mai al tuo moralismo ecclesiastico da quattro soldi. Non sei tu che tolleri me, sono io che sopporto te per tornare a casa».

Auron non rispose: era la prima volta che qualcuno lo contrastava con tanto ardore. Jecht allungò la mano, guardando ovunque tranne che il viso del compagno: era il massimo che poteva ottenere da uno come lui.

«Mi sta bene, monachello. Ci sopporteremo per non tirare le cuoia prima del previsto» disse a malincuore. Auron osservò il suo gesto di pace e lo accettò, stringendo con molto vigore la mano ed emettendo un flebile sospiro: non aveva molta scelta.

«Ubriacati un'altra volta e ti lascerò affogare nel fiume in cui dovrò ripulirti».

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Capitolo 10
*** Ma di tutte la più terribile è l'uomo (Parte 1) ***


CAPITOLO 9: MA DI TUTTE LA PIU' TERRIBILE E' L'UOMO (PARTE 1)

 

 

Il giorno nasceva, levandosi dal letto di rose dell’aurora. Mentre i tetti cominciavano a tingersi di vermiglio, e i cittadini ancora erano addormentati, tre uomini stavano per lasciare S. Bevelle, senza sapere se mai vi avrebbero fatto ritorno. La città, bonaria sotto le nuvole d’oro, sembrava promettere loro che li avrebbe di nuovo accolti; anche nel caso in cui la Chiesa di Yevon non lo avesse voluto.

Un capannello di persone si era radunato in piazza, nonostante il cielo fosse solo alle prime fiammelle. Con reverenza e curiosità tutti guardavano l’Invocatore e le sue ricche vesti, senza osare avvicinarsi.

Gli archi a sesto acuto del tempio, al centro della sua architettura colorata e complessa, guardavano i tre eroi con solennità immobile. Subito dietro, i fari della capitale salutavano con alti fasci di luce la notte che moriva, attendendo di chiudere gli occhi e riaprirli al suo ritorno.

Jecht tenne in alto la mano che reggeva la sfera per avere un buon campo di ripresa. Inquadrò Braska, che passava senza accorgersene, o forse senza curarsene, poi si spostò su un più vigile Auron. Il ragazzo, che come al solito teneva la manica sinistra della veste sfilata e penzolante, gli si avvicinò con aria poco amichevole.

«Cosa stai facendo?» gli chiese.

Jecht sospirò. Se Auron continuava ad aggrottare le sopracciglia in quel modo, avrebbe avuto due solchi d’aratro sulla fronte ben prima dei trenta. Il che sarebbe stato un gran peccato, da un punto di vista oggettivo, ma a quanto pareva era inevitabile, dato che Yevon gli comandava di essere così.

Guardandosi bene dall’esprimere i propri pensieri, l’uomo di Zanarkand scrollò le spalle, facendo traballare l’inquadratura.

«Avete detto che sarà un lungo viaggio» si schermì. «Vedremo un sacco di cose fighe, giusto? Così ho pensato di registrare tutto con queste. Per farlo vedere a mia moglie e mio figlio, sai».

Non aveva nemmeno avuto il coraggio di pronunciare i loro nomi. La sua mente viaggiò verso Tidus, ma riuscì solo a ricordarlo mentre piangeva. Per essere caduto, per aver perso la palla, perché gli era volato via l’aquilone dalle dita… frignava sempre. E Jecht odiava chi si lamentava, dato che dentro di sé non riusciva a fare altro.

Per una volta, fu grato alla voce sgarbata di Auron che lo riportò alla realtà.

«Non stiamo andando in crociera!» sbottò il monaco.

Jecht scelse di ignorarlo e di rivolgere la sfera verso un più cortese Braska, che non faceva altro che mostrargli il suo dolce sorriso. Gli venne quasi l’impulso di abbracciarlo, o almeno di allungare una mano verso di lui, ma si fermò ricordando quanto sembrava affilata la spada dell’altro Guardiano e quanto quel tipo fosse sacro e inviolabile come i naos dei templi. Si chiese fino a che punto potesse arrivare il rispetto di Auron senza diventare idolatria.

«Ehi, Braska» lo chiamò, riportandosi su lidi più sicuri. «Non dovrebbe essere un grande evento? Dov’è la gente che fa il tifo? Le ragazze che si disperano?»

L’Invocatore gli donò una breve risata a quell’ultima affermazione, ma le sue parole avevano un retrogusto amaro.

«È così. Ci sono troppi addii… le persone ci pensano due volte prima di partire».

Il viso del campione di blitzball si incupì di nuovo. Mentre si chiedeva cosa ci fosse dietro a quella frase, borbottò qualcosa che somigliava a un “se lo dici tu”. Cercava di immaginare cosa fosse quel Sin di cui si parlava tanto e quali altri macabri segreti nascondesse Spira, ma ogni volta che si girava scorgeva un angolo di paradiso.

«Beh, gli conviene essere molto più colorati quando torniamo» incalzò, saltellando a fianco a Braska sotto lo sguardo d’odio malcelato di Auron. «Una parata per Braska, Vittorioso su Sin!»

L’Invocatore rise di nuovo, e somigliava all’alba serena e bella.

«Andiamo» lo invitò, camminandogli accanto a passi misurati. «Presto farà giorno».

Quale che fosse la divinità che benedisse la loro partenza, i tre viaggiarono senza pericoli per gran parte della mattina. Con il passare delle ore, la brezza salmastra di Bevelle fece spazio a un'aria più pungente, dal forte sentore di terra. Si stavano facendo largo nell'entroterra più selvaggio, ricco di foreste e strade non battute.

Jecht si era ormai abituato ai tenui rumori di Spira, così pacati rispetto alla vivace Zanarkand, ma presto il silenzio si fece pesante e l'atleta avvertì un prurito da grattare via: si sentì in dovere di rompere il ghiaccio.

«Quindi, uhm… dov'è che stiamo andando?» disse con voce modulata, come per non dare fastidio.

«A Macalania, te l'ho già detto» rispose Auron piatto.

«Suvvia, non trattarmi da scemo. Usate dei nomi improponibili».

Braska scoppiò a ridere di gusto, per poi accusare qualche colpo di tosse. I due Guardiani gli rivolsero immediatamente le loro attenzioni, ma l'Invocatore li rassicurò con la mano.

«Ehi, Braska, dovremmo fare una pausa, che dici? Mi fanno male i piedi» disse Jecht, fingendo palesemente.

«Deve essere in forze per recuperare Shiva» concordò Auron, preoccupato.

«Giusto! Quella! La cosa… l'eone di Malacania».

«Macalania, mio buon amico. Ah, se insistete tanto...» replicò Braska, abbozzando un sorriso amaro.

La foresta era fitta, ma non ebbero molte difficoltà a trovare uno spiazzo adatto a riprendere fiato: un albero abbattuto, la base recisa da una profonda incisione, aveva fatto spazio nella vegetazione.

Auron fece sedere Braska sul tronco spezzato, ma sguainò la spada tenendola sempre a portata di mano. Jecht si guardò intorno, preoccupato: l'albero non era di certo caduto da solo.

«Mantenete la calma, ragazzi. Staremo qui per poco» provò a sdrammatizzare Braska, ma Auron strinse ancora di più l'elsa della sua arma.

«Monachello, mi metti l'ansia. Ti verrà un gran mal di stomaco se non ti rilassi un po'» disse Jecht ridacchiando. Auron allentò la presa e sbuffò.

Un rumore improvviso di fogliame fece sobbalzare Braska, il quale perse quasi l'equilibrio. Il monaco e l'atleta passarono subito alle armi, sfoggiando le lame in posizione di guardia.

Un mostro bipede, rotondo e dotato di sviluppati arti anteriori, era emerso dal fogliame attirato dai rumori. Jecht strizzò gli occhi per riuscire a vederlo meglio e notò che sulla sua schiena – o su quella che interpretava come tale – crescevano dei cristalli.

«Che diamine sono?» esclamò Jecht, ma i suoi due compagni sembravano più interessati al campo di battaglia. Braska stringeva il suo scettro con entrambe le mani, in posizione di difesa, e Auron aveva rinsaldato la presa sull’impugnatura della spada.

Il nuovo arrivato, ricoperto di un esoscheletro adamantino, era accompagnato da altre due creature che gli facevano da avanguardia, più piccole e simili a rettili: avevano una grossa cresta sul dorso e quattro forti zampe, che avrebbero potuto renderle veloci e letali. La lunga coda e la testa serpentina ondeggiavano per saggiare l'aria, alla ricerca di prede: dovevano per forza combatterli.

Jecht accelerò il respiro, intimorito da bestie che non aveva mai visto. La punta della sua spada tremò leggermente: notato il disagio, Auron gli si affiancò per dare sostegno.

«Jecht, mantieni la calma. Ricorda quello che ti ho insegnato: non è molto diverso dai manichini di paglia».

Lui guardò il compagno, poi i nemici, ma non si mosse: doveva prima valutare come agire. Le creature quadrupedi sembravano non avere particolare interesse nel proteggere il mostro più grande, così decise di puntare sulla sua velocità: corse verso destra attirando l'attenzione di una di loro, mentre Auron difendeva Braska dagli altri due.

Ingaggiato il primo avversario, Jecht avanzò di un passo cercando il fendente verticale, ma il nemico scartò di lato, allungando gli artigli verso le sue gambe. Il guerriero fece un balzo, mettendo distanza tra lui e la bestia: non aveva ancora confidenza con la portata della sua arma, quindi si affidò al più familiare pugno.

Afferrò con entrambe le mani l’elsa e infilzò la spada per terra, apprezzando di nuovo come fosse ben bilanciata. Con un’espressione confusa e quasi umana, la lucertola lo guardò fisso, bloccando a metà una ritirata dal colpo che si aspettava.

Nonostante fosse inaspettatamente leggera, l’arma di Jecht era alta quasi quanto lui. L’atleta la usò come perno per lanciarsi contro il nemico. Lo colpì con un pugno e lo sbalzò all’indietro, facendogli perdere l’equilibrio. Sfruttando lo slancio, tornò a stringere l’impugnatura della spada, e con un colpo di reni la calò come una ghigliottina sul corpo del mostro.

Quello, emesso un flebile lamento, scomparve rilasciando nell’aria una nuvola di piccole luci che salirono verso il cielo. Jecht si fermò un attimo a osservarle, con le sopracciglia aggrottate.

I mostri su Spira non contenevano né tessuti né sangue, ma il loro corpo era fatto di… quello? Era insolito, ma fu sollevato dal sapere che, nello strano mondo dove si era trovato, almeno la violenza era stata edulcorata, al punto che non esistevano i cadaveri, l’odore di putrefazione, i crani fracassati, i brandelli di carne strappati.

Lanciò uno sguardo confuso ad Auron, il quale mantenne la posizione: pareva incerto sul da farsi, ma Jecht sapeva che in realtà era troppo lento per colpire il secondo. La lucertola gli si avventò contro, ma lui parò il colpo con il braccio, le permise di mordere solo l’aria e poi la respinse.

«Auron, quello grosso sembra stupido, ma vi ha puntato! Devo uccidere il lucertolone per primo: attira la loro attenzione!»

Il monaco inarcò un sopracciglio, guardandolo come si guarda un bambino brandire una spada di legno, ma annuì e fece come richiesto. Avanzò minaccioso contro i mostri a spada levata e cercò di imporsi più che poteva, tanto da inimicarsi anche la seconda bestia quadrupede. Jecht colse l’occasione per correre dietro Auron e Braska, veloce come i tiri che l’atleta era solito calciare: per un istante gli sembrò di essere tornato nella sfera d’acqua, dove smarcava agilmente gli avversari e cercava punti puliti da cui provare il gol.

Non è poi così diverso, vero, Auron?

Il compagno d’armi osservò tutti i suoi movimenti con la coda dell’occhio e annuì: aveva capito cosa doveva fare. Puntò gli occhi nuovamente sui suoi avversari, li serrò e piantò i piedi ben a terra, diventando quella montagna insormontabile che Jecht non aveva mai nemmeno scalfito. Non sarebbero mai passati oltre la sua guardia: l’atleta lo sapeva bene, ma sapeva anche che non doveva permettergli di mettere a rischio la sua sicurezza così presto.

Si allargò verso sinistra e aggirò il rettile, come usava fare con la linea di difesa delle squadre avversarie, per poi muoversi a perdifiato alle sue spalle. Auron dovette distogliere lo sguardo un istante per individuare la posizione di Jecht: i suoi passi si sentivano appena.

L’atleta levò la spada sopra la sua testa e la calò con tutto il peso del suo corpo, fendendo in pieno il dorso della bestia. Quella urlò in modo straziante: la sua colonna vertebrale era stata recisa di netto. Tuttavia, la forza applicata non era stata sufficiente per ucciderla, così Jecht scattò di lato e le diede il colpo di grazia colpendo il collo ormai privo di difese. Di nuovo, il mostro sparì lasciando al suo posto aria e quelle strane lucciole, dalle quali non fu più distratto.

Era tornato. Il desiderio di vittoria, quell’avarizia che lo spingeva a cercare sempre un’altra rete, l’ennesima, anche se gli avversari erano ormai spacciati. Sorrise euforico e beffardo, sentì i muscoli serrarsi ancora più di prima: il colpo successivo sarebbe stato all’apice della sua forza.

Assaltò il mostro sopravvissuto e ne studiò la conformazione in un battito di ciglia: Auron era di certo un guerriero formidabile, ma lui aveva l’istinto della partita. Individuò uno spazio libero dai cristalli, tra la zampa anteriore destra e la schiena. Gliela avrebbe mozzata di sicuro: caricò l’ormai familiare fendente verticale insegnatogli dal compagno e lo schiantò nel punto designato.

Il contraccolpo fu devastante. I muscoli di Jecht furono attraversati dall’onda d’urto più potente mai assaggiata dalla sua carne: fu sbalzato via come un ramoscello secco, mentre la spada finì a terra conficcata nel terreno. Era un miracolo che non si fosse spezzata. L’atleta cadde rovinosamente al suolo, il suo corpo si rifiutava di muoversi. Provò ad alzarsi in ogni modo, ma stava ancora tremando.

Auron approfittò dell’ira cieca del mostro per scattare rapido, lo afferrò per la salopette e lo trascinò indietro, salvandolo dai movimenti rabbiosi della bestia cristallina. Il campione di blitzball si strinse entrambe le braccia con un lamento di dolore, ma Braska non poteva curarlo in quel momento: l’Invocatore chiuse gli occhi e cadde in profonda concentrazione, afferrando lo scettro con entrambe le mani. Il suo corpo fu pervaso da una soffusa luce biancastra e, come insetti attratti dal fuoco della lanterna, dei nastri della medesima natura emersero dalla bestia che stavano combattendo, per poi toccare Braska stesso.

Il sacerdote di Yevon annuì come se avesse capito qualcosa di fondamentale, mentre Auron lo guardava con impazienza: non capiva cosa stesse succedendo, ma il monaco doveva aver colto.

«Perforate la sua armatura, non reggerà!» disse Braska con voce alterata dallo sforzo.

Auron non se lo fece ripetere due volte. Si parò davanti ai suoi compagni impugnando saldamente la sua arma, uno spadone curvo di eccellente fattura. Mise la gamba sinistra in avanti e quella destra indietro, piegando le ginocchia e portando l’arma all’altezza della spalla, pronto a sferrare un affondo che, guardando il fisico di Auron, giurava di distruggere qualsiasi tipo di corazza.

Jecht se ne stava su un fianco, ma poté assistere a tutto con estrema chiarezza: la zampata furiosa del mostro, lo scatto fulmineo del compagno e il rumore secco dei cristalli in frantumi. Il nemico non aveva fatto in tempo a calare gli artigli che Auron aveva trapassato da parte a parte il cranio della creatura con una facilità disarmante.

Era il movimento più fluido ed elegante che Jecht avesse mai visto, di una bellezza impensabile.

Le luci danzarono attorno al viso liscio di Auron, gli sfiorarono le labbra sottili e il ponte del naso, come se volessero ringraziarlo con un bacio prima di volare via.

«Quelli si chiamano lunioli» spiegò la voce calma di Braska.

Jecht si riscosse all’improvviso e si accorse del dolore persistente che gli attraversava le braccia.

«Eh?» rispose. Non la più brillante delle sue uscite.

L’Invocatore, dando la colpa al danno che l’amico aveva subito in battaglia, si chinò su di lui con un sorriso e gli posò le mani all’altezza dei gomiti. Erano circondate da un debole alone di luce e il loro tocco sulla pelle era terapeutico.

«Lunioli» ripeté. «La materia che costituisce i mostri».

Jecht non ci aveva capito un’acca e aveva tante domande da fare, ma desistette quando incontrò lo sguardo duro di Auron.

Taci e rimettiti in cammino, gli disse la voce del monaco nella testa, con tono chiaro e stentoreo.

«Sei stato bravo» disse invece la sua controparte reale.

«Cosa?» domandò Jecht, scettico. Auron corrugò la fronte e si inginocchiò davanti a lui, osservando attentamente se le pupille del compagno fossero regolari.

«Hai ancora le vibrazioni nella testa? Il contraccolpo è stato violento» chiese piatto.

«No, sto bene… cos'è che hai detto?»

Auron sospirò, roteando gli occhi con fare scocciato.

«Ho detto che sei stato bravo».

«Non ho mai visto qualcuno muoversi così rapidamente!» osservò Braska ancora ansimante per lo sforzo.

«Ah… grazie. Ho avuto un bravo insegnante» rispose di getto Jecht, senza nemmeno pensare.

«Non ti montare la testa».

Il campione di blitzball si rassegnò a seguirli in silenzio e si guardò attorno. Osservò il bosco frinente che lo circondava, i raggi del sole che filtravano dalle foglie sino al suolo, tingendo di blu l’etere tiepido. Di una cosa doveva dare credito a Spira: era davvero bellissima. Non aveva mai nemmeno immaginato di poter vedere, né nel suo mondo né in un altro, cristalli brillanti incastonati sugli alberi o una strada di vetro e stelle che si snodava nell’aria, diretta chissà dove.

Un senso diffuso di meraviglia pervadeva tutte le cose, che fossero vive o di pietra. I lunioli, grandi lucciole, salivano verso l’alto, come attirati da qualcosa in quel luogo, trascinandosi dietro una scia di cometa.

Se mai un giorno l’amore fosse riuscito a colpirlo, fantasticò, sarebbe scappato lì. C’erano numerosi nascondigli, nei tronchi intricati degli alberi, che sembravano pronti ad accogliere una coppia, che si trattasse di scambiarsi carezze o di rimanere avvinti nell’atto d’amore.

Dinanzi al suo sguardo, perso nel vuoto dato che la mente era altrove, passò Auron. Pur riconoscendo che l’astinenza gli aveva posto davanti agli occhi un bizzarro polarizzatore, doveva ammettere – anche se lo avrebbe detto ad alta voce solo sotto tortura – che il profilo del ragazzo tra le luci dei lunioli assumeva una vaghezza affascinante.

Nonostante i suoi sensi fossero all’erta, per una volta la sua fronte era rilassata e Jecht si trovò, inerme, a percorrere con lo sguardo la linea della sua mascella sino al mento.

Immaginò che le sue guance, nonostante si radesse alla perfezione, fossero un po’ ruvide al tatto. Quando fantasticò di passarvi le dita, fu percorso da un brivido e si rese conto che la cosa avrebbe fatto ribrezzo, seppur per motivi ben diversi, a entrambi loro.

Scosse la testa per cercare di scacciare quelle immagini, ma poi si rese conto che la sua era solo un’innocente fantasia romantica. Al Grande Jecht piacevano un po’ di smancerie, nonostante la gente di solito non fosse nemmeno in grado di immaginarlo e rimanesse di stucco quando lo rivelava.

Nessuno aveva mai soddisfatto quelle sue velleità prima di arrivare al dunque, ma chi si accontenta gode e, del resto, godere non era mai stato male.

Era quindi comprensibile, date l’atmosfera in cui era immerso e la predisposizione del suo animo, che sognasse ad occhi aperti tali situazioni. Auron era una delle due persone che riusciva a rappresentare alla perfezione nella sua mente, e l’unica delle due che non era una sorta di santo, quindi era naturale che la scelta ricadesse su di lui.

Un tepore gli pervase il ventre, accarezzato dalla brezza lieve, mentre immaginava attaccate alle sue delle labbra che gli erano, e gli sarebbero rimaste, ignote. Il suo compagno aveva le spalle appoggiate al tronco di uno degli alberi, i capelli sciolti e il collo reclinato mentre finalmente si abbandonava a lui. Lontano, il chiacchiericcio della gente che non li poteva vedere e il canto di strani animali...

«… echt?».

Qualcosa gli toccò la spalla e lo fece sobbalzare. Jecht tornò al mondo come riavendosi da una lunga apnea, e la prima cosa che vide quando quell’inaspettata nebbia si alzò fu il viso accorato di Braska. Con l’aria di qualcuno che è stato attraversato da una scossa elettrica, Jecht mosse le dita intorpidite di una mano, accorgendosi che non le stava certo stringendo con passione sull’avambraccio di Auron.

«Ah… sì?» replicò, confuso. Braska si coprì le labbra con la mano destra.

«Stavi guardando nel vuoto e non rispondevi» gli fece notare l’Invocatore. «Temevo che stessi ancora soffrendo per il colpo che hai subito».

«È la botta in testa, la stessa per cui dice di venire da Zanarkand» fece notare la voce di Auron, che camminava davanti a loro. Nell’immaginazione di Jecht era stato senz’altro più gradevole, anche solo perché se ne stava zitto.

La strada per il lago dove erano diretti passava per grandi radici, larghe abbastanza da poter ospitare due uomini l’uno di fianco all’altro.

Ad un tratto, mentre camminava tra i suoni della natura, Jecht sentì una voce tremula alle proprie spalle.

«Lei è… un invocatore?»

Si voltò di scatto e un povero anziano, che si era aggrappato alle vesti di Braska per implorarlo, sussultò per lo spavento dovuto alla stazza dei due Guardiani.

«Fratello, non ti umiliare così. Sono invero un Invocatore, domanda e ti aiuterò» disse Braska con un largo sorriso.

«Che Yevon guidi i suoi passi con gloria verso Zanarkand, e che gli Intercessori le trasmettano tutta la forza di cui ha bisogno. Grandi cose ci sono in terra, grandi e temibili, e la forza degli eoni lo è fra tutte: chi avete davanti è solo un povero vecchio. Mia moglie, la mia adorata, è morta questa notte, e il dolore ha affranto la mia casa. Molto lutto ancora me ne verrebbe se ella, lasciato questo mondo, non trovasse chi la guidi nell’altro».

Braska annuì con dolcezza e posò una mano su quella dell’uomo, invitandolo a lasciargli la tunica.

«Posso officiare il Rito del Trapasso: mostrami la via per la tua casa».

L’uomo si profuse in numerosi ringraziamenti e, senza più una parola dopo averne usate tante per la richiesta, si incamminò per un percorso che conosceva bene.

Jecht invece, sorpreso dalla svolta negli eventi, rivolse un’occhiata interrogativa ad Auron, che rimanendo in silenzio confermò di non essere un accompagnatore efficiente quanto Braska.

Raggiunsero una piccola abitazione nel cuore del bosco, al centro di una modesta radura. Era circondata da una piccola staccionata il cui cancello cigolò quando venne mosso sui cardini.

Il suo interno era composto solo da due stanze: la piccola cucina, in cui quel giorno per la prima volta il tavolo era stato apparecchiato per una persona soltanto, e una camera da letto.

Braska prese da parte Jecht e Auron e, date anche le modeste dimensioni della casa, ordinò loro con garbo di montare la guardia fuori dalla porta.

L’anziana donna, con indosso il suo vestito migliore, era distesa sul letto con le mani giunte al petto. Una collana d’oro – forse l’unica che possedeva e che aveva stretto, un tempo, con le mani da bambina – le decorava il collo rugoso. Il volto era rilassato nella beatitudine della morte, offuscato da un velo traslucido appeso sopra al capezzale.

L’Invocatore si avvicinò alla finestra e la aprì, respirando il vento fresco che arrivava dal lago nella speranza di calmare i battiti del cuore: era la prima volta che compiva il Rito del Trapasso, nonostante fosse stato addestrato a danzare per la Morte, davanti a una platea vuota o sopra a sacchi che facevano le veci dei cadaveri.

Impugnò lo scettro con entrambe le mani, e la campanella attaccata all’asta tintinnò con purezza. Volse poi lo sguardo verso il vecchio: i suoi occhi velati erano lucidi per le lacrime, e nella fragilità completa si affidava a lui.

Braska si piegò nella riverenza, poi alzò un braccio davanti a sé.

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Capitolo 11
*** Ma di tutte la più terribile è l'uomo (Parte 2) ***


CAPITOLO 9: MA DI TUTTE LA PIU' TERRIBILE E' L'UOMO (PARTE 2)

 

 

L’aria nella radura era all’improvviso diventata immobile, il bosco silenzioso dopo lo zittirsi degli uccelli. Jecht teneva lo sguardo fisso sulla finestra: non sapeva cosa stesse facendo Braska, e la cosa gli incuteva nell’animo un disagio tetro e profondo. Aveva capito che stava officiando un funerale, ma non riusciva a immaginare cosa stesse avvenendo in quella stanza.

«I e yu i no bo me no...» sentì cantare dalla bella voce limpida dell’Invocatore. Auron, nel sentire la preghiera, chinò il capo in segno di rispetto a qualcosa di invisibile, mentre la luce che filtrava tra le foglie si trasformava, mutando con crudezza ultraterrena.

Atterrito, Jecht riportò lo sguardo verso la finestra aperta: i lunioli, gli stessi che erano comparsi alla morte dei mostri, si affrettavano per uscire, sovrapponendosi l’uno all’altro come tifosi troppo solerti a una partita di blitzball. Fece un passo indietro e le parole gli uscirono dalle labbra senza che lui potesse controllarle.

«Auron» chiamò, una nota di allarme nella voce. Le piccole luci erano salite verso l’alto e scomparse tra le foglie. «Auron».

Il suo compagno alzò gli occhi con un’espressione interdetta, forse confuso dal tono urgente che gli era stato rivolto. Lo guardò in viso, senza dire niente, aspettando che fosse Jecht a rivolgergli la parola.

«Che cosa sta facendo Braska?»

Lunioli, la materia che costituisce i mostri, aveva detto. L’eco di quella frase continuava a risuonargli in testa, ma qualcosa gli impediva di comprenderla sino in fondo.

«Il Rito del Trapasso» spiegò il monaco, con la consueta espressione infastidita. «L’anima di quella donna deve trovare la strada per l’Oltremondo».

«E puoi per caso spiegarmelo meglio?» replicò il campione di blitzball, ansioso e quasi aggressivo, senza nemmeno attendere che Auron finisse di parlare.

Lo sguardo del ragazzo si rivolse alle fronde.

«Quando qualcuno esala l’anima avendo ancora un legame con il mondo dei vivi, i lunioli di cui è formato il suo spirito possono prendere la forma di un mostro che, per invidia, preda chi vede ancora il sole». Il suo tono, se possibile, diventò ancora più grave nel continuare: «Quelli a cui il dio ha donato una volontà forte, o nei quali la vita ha instillato spirito di vendetta, talvolta mantengono l’aspetto che avevano da uomini. Noi li chiamiamo i Non-Trapassati, i morti che camminano. Gli Invocatori...»

Jecht sentì lo stomaco stringersi nella familiare stilettata di un conato. Il suo palato si fece caldo, la sua lingua immobile.

«Basta» riuscì a mormorare.

«Come?» replicò Auron, e gli rivolse un’espressione genuinamente sorpresa.

«Basta!» ripeté Jecht, con voce strozzata. «Smetti di parlare! Cazzo!»

La prima reazione del monaco fu quella di adirarsi per l’ordine che gli era stato rivolto, ma l’attimo seguente si accorse che le mani del suo compagno stavano tremando. Lui stesso le guardava con gli occhi sgranati e assenti.

Provò ad avvicinarsi con cautela a Jecht, chiamando il suo nome a bassa voce. Lui non rispose.

L’uomo che era stato così forte a Zanarkand, così fiero del proprio indomabile ardore, non vedeva più davanti a sé il bosco incantato, ma una stanza buia, un’innumerabile fila di candele spente.

Quando Auron, nella speranza di dargli conforto, gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle, lui trasalì e lo spinse via con l’impeto del cinghiale che carica colui che teme. Il monaco non perse l’equilibrio ma, per la sorpresa, indietreggiò quel tanto che bastava per permettere a Jecht di scivolare via e di correre nella selva. Era stata tanto brillante prima quanto ora lo opprimeva e gli toglieva il fiato.

Non più in grado di orientarsi, corse tra le foglie a terra e i nodi dei rami, fuggì dalla strada principale e, con il cuore in gola, si gettò tra la vegetazione. Era pronto a travolgere qualsiasi cosa nel suo cammino, a tagliarla in due con la spada, a strapparne le carni a mani nude, a inebriarsi dell’odore della violenza con la saliva sulle labbra e il respiro eccitato.

Nessun mostro gli si parò davanti, solo un silenzio vacuo che gli ricordava l’idea di aldilà che si era fatto negli anni. Anche quando era a Zanarkand sapeva che sarebbe morto, che i suoi passi non sarebbero stati eterni e che forse l’ebbrezza anestetica gli avrebbe risparmiato la consapevolezza. Sarebbe morto in un’isola che non gli apparteneva, dove non c’era chi lo amava e nemmeno chi fingeva.

Jecht si lanciò ad arma tratta contro un groviglio di rami, li colpì con violenza, si lacerò le braccia e si graffiò il viso.

Ma non riuscì a immaginare la sua terra, quella di cui anche solo il fumo desiderava vedere prima di andarsene. Non la trovava nel cuore, travolto da angosce che non avevano rimedio, poiché la paura la sovrastava. Anche lui, prima di finire chissà dove, si sarebbe trasformato in quelle luci spettrali? Sarebbe salito verso il cielo, allora, avrebbe baciato le labbra di Auron e se ne sarebbe andato, senza sapere se fosse destinato ad essere fatto bestia dall’odio. Senza sapere se mai davvero fosse stato umano.

C’era una radura, con al centro una pozza dell’acqua più limpida che un uomo avesse mai visto. Le radici intricate di un grande albero, che portava incastonato un cristallo dorato, erano identiche al loro riflesso.

Obbedendo a una natura primordiale, Jecht entrò carponi nell’acqua. Non era gelida come si sarebbe aspettato, ma piuttosto tiepida, quasi avesse dovuto far nascere la vita.  Chiuse gli occhi e tentò di far riprendere al proprio respiro un ritmo regolare, sentì i capelli sporchi e annodati bagnarsi e cominciare a galleggiare attorno al capo come aureola o corona.

Sognò di riaprire gli occhi e ritrovarsi a Zanarkand, nel letto con la donna che aveva preso per moglie, laddove poteva soddisfare il desiderio e poi ubriacarsi, senza che altri lo avvincessero in un sentimento incerto. Lauren lo aspettava e tesseva il filo dei suoi giorni attorno a Tidus, che piano cresceva.

Quando avrebbe aperto gli occhi, sarebbe tornato alla sua vita da campione di blitzball, sempre uguale a se stessa e luccicante come un trofeo.

Sollevò le palpebre e vide i lunioli che, senza far rumore, uscivano dal lago.

Pensò a Tidus che correva con la palla tra i piedi. Che cosa gli era rimasto, ormai, da potergli dire?

Se ti sei seduto a guardare questo messaggio, vuol dire che sei bloccato su Spira come me.

Suonava come la lettera di qualcuno che andava a morire. Jecht strinse tra le dita che ancora tremavano una delle sfere che gli aveva regalato Braska; la accese e le rivolse un sorriso impacciato, come se non fosse abituato a stare sotto ai riflettori.

Era una vita fa, si disse. I lacci che lo univano alla città che non dormiva, quelli a cui si aggrappava con tanta disperazione, si stavano inesorabilmente sciogliendo, facendolo precipitare nell’abisso.

«Ehi… se ti sei seduto a guardare questo messaggio, vuol dire che sei bloccato su Spira come me» ripeté ad alta voce. Si sentiva un demente. «Potrai non sapere quando tornerai a casa, ma farai meglio a non piangere! Anche se, in realtà, ti capirei».

Il battito del suo cuore si era calmato: gli era bastato pensare al figlio, alla vita che avrebbe potuto avere con lui. A quelle parole che lui non avrebbe mai sentito, e quindi avevano la libertà di suonare imbarazzanti.

«E sai cosa? C’è un momento in cui bisogna smettere di piangersi addosso e andare avanti. Andrà tutto bene. Ricorda, sei mio figlio. E… beh… ah, non fa niente. Non sono bravo in queste cose».

E se io decidessi di andare avanti, tu mi capiresti? si chiese. Rivide la moglie e il figlio, lontani, che lo salutavano dalla soglia di casa con i volti privi di qualsiasi espressione.

Rivide i giorni in cui le foglie rosse cadevano sulla sabbia del campo d’addestramento e Auron era con lui. Ricordò com’erano sia i suoi tocchi accidentali e lievi, sia le prese forti con cui lo spingeva a terra, rischiando di causargli agonie di altro tipo durante la notte.

Le parole che il ragazzo gli aveva rivolto lo avevano ferito come solo quelle di suo padre erano riuscite a fare sino a quel momento. Lo tormentava il costante desiderio di avvicinarsi a lui, di fargli vedere che non stava riflettendo con la propria ragione su ciò che aveva davanti, ma coi dubbi precetti di un clero corrotto. Auron avrebbe potuto capire un giorno, perché come gli eroi era bello e forte e di acuto ingegno. Ma era anche algido e distante, come le pendici di quel monte che si vedeva da Bevelle e che tutti in città, indicandolo col dito, chiamavano Gagazet.

O, forse, il Grande Jecht era solo un povero disperato che cercava una redenzione che non avrebbe raggiunto.

Sospirò e voltò la sfera in modo che non lo inquadrasse più.

«Ad ogni modo, credo in te. Fai il bravo. Addio».

 

 

«Dov’è Jecht?» era stata la prima frase che Braska aveva pronunciato, appena uscito dalla casa dell’anziano vedovo. Aveva appesa al braccio una sacca con del formaggio che l’uomo, nonostante i suoi ripetuti tentativi di rifiutare, aveva voluto donargli.

«È corso via. Non ho potuto seguirlo: deve esserci sempre un Guardiano con lei» rispose Auron, perplesso.

«Cosa è successo?»

Auron distolse lo sguardo, puntando gli occhi verso le frasche in cui il compagno era scomparso.

«Gli ho spiegato le leggi che governano la morte su Spira, si è irrigidito e mi ha spinto via, per poi caracollare in quella direzione» indicò col dito verso la sua destra. «Non ho compreso cosa lo ha turbato, ma è pericoloso avventurarsi nella foresta. Non era in sé».

Braska lo incitò a incamminarsi, visibilmente preoccupato. Il braccio di Auron era pronto a scattare verso la spada in ogni momento: Jecht non sarebbe stato in grado di difendersi in quelle condizioni, lo sapeva bene. Immaginò il compagno tremante, paralizzato dalla paura mentre veniva aggredito da chissà quale nemico.

Scosse la testa: doveva rimanere concentrato, ma quell'eventualità era tutt'altro che improbabile. Braska si stava forzando a tenere il passo rapido, ma la sofferenza comparve presto sul suo volto: strinse i denti, determinato a ritrovare il suo Guardiano.

I segni della fuga disperata di Jecht erano ben visibili: la vegetazione presentava lacerazioni e arbusti spezzati; alcuni di grandi dimensioni erano stati tagliati di netto con la spada.

Tale vista fece venire i brividi ad Auron, che iniziò a provare un certo peso sullo stomaco: Jecht doveva stare davvero male per avere un simile accanimento. Ancor di più, lo disturbava non sapere perché.

All’improvviso, un grido familiare mise in allerta i due uomini. Auron sguainò la spada e si gettò in corsa verso la fonte del suono, lasciando indietro il suo Invocatore che sarebbe stato più al sicuro.

Sbucò dalla boscaglia, trovandosi davanti la manifestazione del pensiero partorito poco prima: Jecht cercava di brandire la sua arma con scarsi risultati, tremando come una foglia e con in volto il terrore puro; davanti a lui, un mostro che lo superava di una spanna voleva farne il suo pasto.

Tre erano le teste, sul corpo forte simile a quello di una capra: la prima era di toro dalle grandi corna. La seconda invece aveva le sembianze di un felino, che vomitava vampe orrende dalle fauci, la terza quelle dell’aquila che vede lontano. Le braccia, bizzarre imitazione di arti umani, cercavano di afferrare Jecht per fare strazio delle sue carni coi terribili artigli, mentre la bestia frustava l’aria attorno a sé con il serpente che gli faceva le veci della coda.

Jecht girò la testa di scatto, guardando Auron come si guarda un fantasma: gli urlò di andarsene, ma il monaco assunse la sua posizione di guardia.

«Jecht, non fare l'idiota! Vieni via!»

Braska li raggiunse ansimando, e trasalì quando vide il mostro che stava attentando alla loro vita. Notando la scarsa reattività del compagno, pensò di correre ai ripari, per quanto possibile: accumulò energia con l'ausilio del suo scettro, per poi avvolgere Jecht in un velo perlaceo.

La chimera vomitò fiamme dalla testa leonina, cercando l'uomo di Zanarkand come bersaglio, ma la barriera magica di Braska assorbì le lingue brucianti al posto suo. La bestia voltò il capo massiccio e vide la sua preda illesa. Con occhi dardeggianti azzardò un assalto rabbioso, agitando le lunghe braccia dotate di artigli.

Braska doveva riprendere fiato, così Auron provò a mettersi in mezzo e resistere al brutale attacco, finendo lacerato sul braccio portato davanti al viso per difendersi. Nonostante il dolore intenso, l'addestramento del monaco gli permise di non allentare la presa sulla sua spada, fendendo a sua volta l'arto del mostro.

Jecht osservò la profonda ferita sanguinare copiosamente, il rosso vivido si era impresso nella sua mente come un marchio.

«Ragazzo…»

Auron non rispose né lo degnò di uno sguardo: caricò a spada sguainata la bestia, puntando a danneggiare la sua mobilità e i suoi sensi. Braska supportò il contrattacco lanciando le magie elementali di cui era a conoscenza, che andavano dalla fiamma al gelo. Le piccole fiamme venivano intercettate dalla testa felina, e lo stesso faceva l’aquila con i getti d’acqua, mentre il tuono e la grandine sembravano debilitarla. I lampi la colpirono agli occhi, sottraendole per diversi istanti il dono della vista e trasformando i suoi colpi in un turbinio confuso.

Incapace di reagire, Jecht non potè fare altro che osservare Auron, ferito ma forte come un eroe, abbattere quel mostro fendente dopo fendente, colpendo alla perfezione i tendini delle zampe caprine. Lo ridusse in ginocchio come un uomo che implora, per poi perforargli il ventre.

Jecht strinse i denti e preparò lo stomaco alla vista delle interiora molli che sarebbero fuoriuscite dal corpo martoriato ma, quando Auron sfilò la spada, la chimera si dissolse in una miriade di lunioli.

Altrettanto non fece la ferita del monaco: Braska gli si avvicinò, ma infondendogli la  propria energia riuscì solo a bloccare l’emorragia e a risanare la mobilità dell'arto. Il colpo era penetrato nella carne sino all’osso e, nonostante l'entità della ferita fosse stata ridimensionata, Braska fu costretto a bendare l’intero avambraccio di Auron.

Auron inchiodò sul posto Jecht con uno sguardo accusatorio che lo pervase di un amaro senso di colpa: se non fosse fuggito nel bosco come un invasato, gli avrebbe risparmiato quel dolore.

«Scusa» provò a dire il campione di blitzball, ma le sue parole si persero nel vento assieme alla sua speranza di redenzione.

«Vorrei che ti riposassi, Auron» disse la voce di Braska, di nuovo accorata. Forse l’entità della ferita superava le sue capacità curative, si disse Jecht, e inoltre forse non gli rivolgeva nemmeno uno sguardo perché, anche se in maniera meno evidente del Guardiano, era deluso dal suo comportamento che li aveva messi in pericolo.

«Sul sentiero per il Lago c’è una Casa del Viante di Rin» continuò l’Invocatore, poi sospirò notando un’ombra sul viso di Auron. «Che è un Al Bhed e che è un mio amico, quindi vorrei che ci fermassimo lì per la notte».

«Jecht non ha soldi con sé» fu la debole obiezione di Auron. A quelle parole, il campione di blitzball sbottò.

«Scusa, perché stai parlando di me come se fossi assente?»

L’altro lo fulminò con lo sguardo.

«Non mi sembra tu sia stato molto presente nelle ultime ore».

Jecht, ancora prima di pensare che si riferisse al suo mancato intervento in battaglia, rimase atterrito dall’irrazionale presentimento che fosse uno stregone e che con gli occhi d’ambra avesse notato i suoi pensieri poco casti quando guardava nel vuoto. Si riscosse dopo pochi istanti e si trovò infastidito dagli atteggiamenti di Auron.

«Ho io dei soldi» intervenne Braska, con le mani giunte tra loro, «non sono molti e dovranno durare per l’intero pellegrinaggio, ma basteranno».

Li guardò con tenerezza, nel tentativo di sedare gli animi e di colpire Auron nel suo punto debole.

«Va bene» si arrese il monaco, «come desidera. Ma il sole sta calando e ci sono più mostri, di notte».

«Se quella frase era un’informazione per me, sei pregato di guardarmi mentre lo dici».

Non ricevette nemmeno un fiato in risposta e decise che avrebbe lasciato perdere una volta per tutte. Avrebbe stroncato sul nascere qualsiasi altra insolita fantasia su quel ragazzino fatto di ghiaccio e osservazioni pungenti, fino alla fine dei suoi giorni. Altrimenti lo avrebbero mandato in manicomio, rinvigoriti dal fatto che farneticava di venire da una città che secondo loro era distrutta da mille anni, e dal fatto che urlava quando vedeva cadaveri dissolversi in disturbanti lucine.

E non era nemmeno sicuro che una struttura così avanzata, su Spira, non fosse stata proibita da Yevon o da chi ne faceva le veci.

La strada deviava in modo insolito per arrivare al Lago di Macalania. Gli alberi del bosco non solo si diradavano, ma anche cambiavano la loro conformazione, somigliando più a delle conifere che alle latifoglie che vivevano nelle zone temperate come Bevelle.

«Fa… fa un po’ freschino» commentò Jecht rivolto a Braska. In realtà il cambio di temperatura era stato davvero brusco, ma non voleva mostrarsi debole davanti ad Auron. Avrebbe senz’altro borbottato che non era una buona idea andarsene in giro seminudi e scalzi per Spira, anzi di sicuro lo stava facendo mentalmente mentre proseguiva il suo ostinato gioco del silenzio.

Il dolce Invocatore, i cui abiti erano di certo pensati per non fargli patire il freddo, gli rispose con un sorriso e una nuvoletta di vapore che fuoriusciva dalle labbra.

«È l’eone di Macalania che fa variare il tempo. Il suo nome è Shiva e il suo Intercessore proveniva dalle terre innevate del Gagazet» spiegò, poi rivolse verso il cielo uno sguardo carico di nostalgia. «Forse facendo così si sente a casa».

«Gli Intercessori sono così potenti da-» cominciò a chiedere Jecht, ma fu colpito sulla cima del capo da una stoffa pesante che gli era stata gettata addosso, inondando la sua visuale di un acceso tono cremisi.

«Ehi!» esclamò, scostandosi dal viso il cappotto di Auron. «Che modi!»

Il diretto interessato, però, lo aveva già superato e camminava a passo spedito, i muscoli delle spalle ben visibili dato che l’armatura gli copriva solo il torace. Braska, com’era sua abitudine, nascose una risata con la mano.

«Credo che sia preoccupato che tu prenda freddo» gli confidò a bassa voce, senza fare i conti con l’eccellente udito del monaco.

«Non voglio perdere tempo perché rischia di morire di polmonite» si sentì in dovere di precisare lui, senza voltarsi.

Jecht osservò l'indumento e ne saggiò il tessuto, ancora caldo. Spostava di continuo lo sguardo da Auron a Braska, finché non si arrese e lo indossò, sbuffando e cercando un modo per allacciare il corsaletto, ostacolato dalle enormi maniche. Quando si accorse che la vita di Auron era notevolmente più stretta della sua, lasciò perdere. Un sospiro di sollievo per il tepore uscì flebile dalla sua bocca, ma cercò di non darlo a vedere.

Pensò che avrebbe voluto provare a prendere un sorso dalla fiasca che Auron portava attaccata alla cintura del cappotto, assieme al rosario. Anche se si sarebbe detta un’accoppiata un po’ insolita, era sicuro che si trattasse di liquore, e anche piuttosto forte. Allungò la mano verso il tappo, ma fu colpito da una piccola scossa che gli fece agitare le dita. Lo interpretò come un segno divino e desistette.

«Stai stranamente bene vestito come un Templare» disse Braska con un risolino. Auron lo fulminò con gli occhi, ma non replicò.

«A Zanarkand» rispose Jecht marcando il nome della sua città, «uscivo la sera vestito di tutto punto, roba che voi stramboidi potete solo sognare. Giacche di raso, camicie aderenti, pantaloni a vita bassa. Non mi resisteva nessuno».

Auron alzò lo sguardo dalla vita di Jecht, rimirando il proprio cappotto addosso a quello spiacevole individuo.

«Siamo arrivati» bofonchiò, indicando un edificio dall’architettura tondeggiante e dai fregi complessi, che sembravano appartenere a una cultura diversa da quella degli Yevoniti.

La vallata tutt’attorno era ormai coperta di neve, e i piedi dei pellegrini – per l’irritazione di Auron, la scomodità di Braska e il dolore dello scalzo Jecht – affondavano in un manto candido.

Mentre ripensava al fatto che l’Intercessore fosse in grado di creare un ambiente ghiacciato a suo piacimento, Jecht tentò di decifrare l’insegna di quella che pareva una locanda. L’alfabeto era simile al suo, ma le parole sembravano tracciate da qualcuno che scriveva davvero male.

Un uomo biondo dalla pelle abbronzata spalancò la porta e invitò i tre ad entrare per scaldarsi, rivolgendo un sorriso ospitale a Braska. I viaggiatori, dal canto loro, non si fecero pregare, Jecht soprattutto: si lanciò su una sedia e si massaggiò i piedi per permettere al sangue di ricominciare a fluire.

«Mio amato amico Braska! Sono davvero felice di vedere te qui, tra neve e ghiaccio» disse allegro l’uomo. Poi si voltò verso i due Guardiani. «Benvenuti nella Casa del Viante di Rin!»

«Il piacere è mio, Rin. Purtroppo non sono qui in visita di cortesia, ma una solenne missione mi attende» rispose l'Invocatore, cordiale.

Auron se ne stava in disparte, facendo finta di nulla: si strofinava le braccia per farsi calore, stando ben attento a non toccare la ferita fasciata, ma non levò mai gli occhi dal padrone della locanda, sospettoso.

Jecht, dal canto suo, avrebbe voluto potersi concentrare sullo strano accento del loro ospite, che forse contraddistingueva un diverso popolo che viveva su Spira, magari gli Al Bhed di cui gli avevano tanto parlato, ma non riusciva a distogliere la mente dal fatto che fosse davvero in astinenza da molto. E dal fatto che Rin, gestore della Casa del Viante di Rin, se ne andasse in giro con addosso dei pantaloni attillati e una giacchetta completamente aperta per mostrare il fisico allenato, nonostante la temperatura. Sfoggiava inoltre un collare con davanti un anello di ferro.

Due erano le ipotesi rimaste: o stava cominciando ad avere le allucinazioni, o su Spira non avevano la minima idea di come vestirsi a seconda delle circostanze.

Braska volse lo sguardo sui compagni: era ignaro dei loro pensieri, ma la stanchezza era ben evidente sui loro volti, così diversi da quello disteso di Rin. Era desideroso di scambiare qualche parola sul suo Pellegrinaggio con il suo amico Al Bhed, ma avrebbe aspettato di essere solo con lui.

«Per oggi ci fermiamo qui. Siamo esausti, e il mio Guardiano è ferito». Alla parola “Guardiano”, Rin inarcò le sopracciglia e fece cenno di aver capito. «Hai delle stanze libere?»

Il gestore della locanda si sporse sul bancone, passandosi una mano sui capelli lisci trattenuti da un paio di occhialoni.

«Il tuo amico sta bene?» domandò, rivolgendo lo sguardo verso Jecht. «Sembra lui quello ferito...»

Sono ferito nei sentimenti, giovane dai vestiti poco adeguati, si ritrovò a pensare l’interessato, e ti conviene darmi le chiavi per una stanza singola e lontana da voi tre matti.

Come se avesse parlato ad alta voce, davanti a lui cadde una chiave attaccata a un grosso pezzo di legno. Lui ebbe l’istinto di allungare le braccia per afferrarla come se fosse l’ultima goccia d’acqua nel deserto.

«Jecht? Sei di nuovo con la testa altrove?» domandò Braska, preoccupato. L'atleta sobbalzò come spaventato, tanto che l'Invocatore scosse la testa. «Hai proprio bisogno di riposare, amico mio. Tieni, intanto vai e ambientati, ok? Io devo preparare Auron per essere medicato, starà con me stanotte».

Jecht accettò, poi si voltò e si morse il labbro. Possibile che anche quelle ultime parole potessero suonare come un doppio senso?

Rin borbottò qualcosa riguardo alla cena, ma lui evitò di ascoltarlo, focalizzato sull’arrivare alla propria stanza senza ulteriori pensieri scomodi. Quando si chiuse la porta alle spalle si concesse un lungo sospiro e si gettò prono sul letto, senza nemmeno guardarsi attorno.

Con fare languido, si voltò sulla schiena e tese le orecchie per percepire un qualche rumore proveniente dai corridoi. Gli rispose il silenzio totale.

Aveva deciso di mettere al bando le fantasie sul monaco imbronciato vestito di rosso, bollandolo come “impossibile” e “decisamente non per me”, quindi cominciò a rilassarsi e far vagare la mente su altri lidi.

La gente di Spira, oltre che bacchettona, era anche dotata di una notevole dose di innocenza. La cosa non gli dispiaceva, come non gli dispiaceva lo sguardo caldo e gentile di Rin nei suoi pensieri poco nobili mentre faceva scivolare una mano tra le cosce.

Il viso di Auron cercò di mischiarsi alle sue fantasie, ma lui lo ricacciò con prontezza nell’abisso da cui era venuto.

Bussarono alla porta, due colpi rapidi e leggeri, e lui alzò di scatto la testa dal cuscino, vergognandosi come un ladro.

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Capitolo 12
*** Rompere le righe (Parte 1) ***


CAPITOLO 10: ROMPERE LE RIGHE (PARTE 1)

 

 

A Jecht saltò il cuore in gola, e la mano che era in procinto di inoltrarsi in reconditi ultimamente poco esplorati ricadde a fianco a lui sul materasso.

«Sì?» rispose con voce strozzata, sbiancando al pensiero di potersi trovare di fronte Auron, dato che indossava ancora il suo cappotto.

«Sono Braska» disse l’innocente voce dell’Invocatore. Jecht si sentì sporco e non trovò niente di meglio da fare che schiarirsi la gola.

«A-avanti» balbettò, dopo aver controllato in modo spasmodico che i vestiti fossero in ordine.

Il sacerdote di Yevon entrò sfoderando un sorriso sincero, e si guardò intorno alla ricerca di un punto in cui accomodarsi. C'era una sedia sgangherata nell'angolo sinistro, vicino al modesto armadio in legno nero; essendo pensata solo per riposare, la piccola stanza non conteneva altro che il letto e il mobilio necessario per passare la notte.

Notando il leggero disagio di Braska, Jecht lo invitò a prendere posto accanto a lui, sul letto: per quanto imbarazzante, era meglio che sedersi per terra.

L’Invocatore si accomodò e raddrizzò la schiena, poi lo guardò con gli occhi azzurri e limpidi come se stesse aspettando che gli venisse rivolta la parola.

«… sì?» ripeté Jecht, interdetto.

Braska smise di giocherellare con il rosario che aveva al polso e intrecciò le dita delle mani. Il fatto che avesse tolto l’enorme copricapo lo rendeva un po’ più umano agli occhi del suo compagno.

«Volevo chiederti se va tutto bene» gli disse. «Negli ultimi giorni prima della partenza mi sei sembrato molto turbato».

Una sensazione che Jecht era riuscito fino a quel momento a sopire lo colpì allo stomaco come una mazza di ferro. Se con Auron la questione poteva essere finita con quella stretta di mano, con Braska non aveva mai accennato a nulla. Ma, sicuro come il sorgere del sole, era a conoscenza di tutto. Oppure sapeva solo della sbronza. Si immaginò Auron che parlava di tendenze omosessuali con Braska e scartò l'opzione immediatamente. Non poteva credere di doverlo fare di nuovo, anche se forse era meglio che fosse lui stesso a dirglielo.

«Sì, beh… mi sono ubriacato. Ero spaventato all'idea di partire» disse, puntando lo sguardo a terra. Perlomeno era una mezza verità.

«Non è un comportamento sano, ma credo tu lo sappia bene. Non sarò certo io a farti la predica: scommetto che Auron è stato più che sufficiente» rispose con un sorriso che non arrivava agli occhi. «C'è altro di cui vorresti parlarmi? Quella notte, Auron era molto… scosso. Non mi ha detto tutto, sai. Quel ragazzo ha l'innocenza di un bambino, da padre lo so bene» continuò poi, cercando di mettere a suo agio Jecht.

Una sfumatura di dolore colorò le parole dell'Invocatore: Jecht ne era ormai esperto, tante erano state le volte che l'aveva sentita nella voce delusa di Lauren.

«Senti, io non dico che tutti gli Yevoniti siano ciechi, perché sarei io a non avere il senno. Ma sono figlio di una cultura diversa dalla tua. A Zanarkand non si crede in nessuno Yevon, le persone vivono secondo la loro coscienza. Questo riesci a capirlo?» chiese, agitato come la prima volta.

«Certo. Va’ avanti, non ho intenzione di giudicare» rispose affabile Braska. Non era affatto come Auron, si rese conto Jecht: poteva dirlo.

«Ok, se proprio insisti…» farfugliò deglutendo sonoramente, «mentre ero ubriaco, ho fatto… apprezzamenti non richiesti ad Auron. Gli ho chiesto perdono non appena sono tornato in me, ma non l'ha presa per niente bene».

Braska annuì serio, ma non lo interruppe. Quell'atteggiamento fin troppo comprensivo mandò nel panico Jecht: non sapeva come interpretarlo.

«I-insomma, ero davvero dispiaciuto, non sono un cafone! Un tipo come Auron, poi… gli ho spiegato che non ho preferenze tra uomini e donne, che ero ubriaco e non sapevo cosa stavo facendo. Ha detto che sono aberrante, che ciò che sono lo disgusta e disgusta anche il vostro dio. Ha persino insinuato che io avessi mentito su mia moglie! Ce l'ho davvero la moglie, diavolo… è che non sono un gran marito».

Jecht raccontava con foga, senza nemmeno prendere fiato tra una parola e l'altra, tanta era la voglia di liberarsi la coscienza.

«Però, capisci il punto, Braska? Per me non è un problema! Per nessuno a Zanarkand è un problema! È un vostro limite, non mio» concluse portandosi una mano sulla bocca, forse per l’eccessivo zelo delle sue parole, e sospirando esausto.

Braska spinse con le mani sulle ginocchia e si alzò in piedi.

«Gli Al Bhed dicono che il dio non esiste» spiegò, «o che, anche qualora esistesse, non si curerebbe delle cose dei mortali. Io però ho visto gli Invocatori chiamare Ifrit dalle ruote di fuoco, ho sentito Yevon parlarmi e il miracolo ricucire i miei polmoni spezzati». Fece una pausa, come se il ricordo della malattia gli avesse tolto il respiro. «Tuttavia, egli non si è mai pronunciato su questa questione, e anche se l’Inquisizione l’ha fatto non sono d’accordo con tutte le sentenze di mio fratello. Auron è giovane e ha bisogno di una guida: le parole di Alan provengono da un pulpito più alto del mio».

Poi tacque, senza aspettare una risposta, si diresse verso la porta e fece per sfiorare la maniglia lucida.

«Come è caduta?» lo richiamò la voce di Jecht.

«Che cosa?»

«Zanarkand».

Braska fece un passo indietro e prese fiato, come se la risposta richiedesse un lungo racconto.

«Quasi mille anni fa, ci fu una guerra tra le due grandi città meccanizzate di Spira, Zanarkand e Bevelle. Migliaia di persone morirono al fronte, e la battaglia causò così tanto orrore che il sole invertì il suo corso e le stelle sanguinarono, facendo piovere una maledizione di morte e lacrime sull’isola».

Jecht, abbandonato qualsiasi bisogno terreno, lo ascoltava con attenzione, affondando talvolta le unghie nelle cinghie di cuoio che adornavano le maniche del cappotto di Auron.

«Bevelle stava per vincere la battaglia, e il re ordinò che Zanarkand fosse rasa al suolo. Ma un mostro atroce, in grado di seguire le rotte del cielo e quelle del mare, sorse dalle acque richiamato dal dio e la devastò prima ancora che Bevelle potesse muovere l’esercito. Aveva tre cerchi di spessi denti e un’orrenda tempesta annunciava il suo arrivo. Lo chiamarono Sin perché era l’incarnazione del peccato, e ancora dopo un millennio stiamo espiando la colpa dei padri».

Jecht impallidì. Ricordò il fragore delle onde, la nave che si piegava e il triplice giro di fauci della bestia che lo aveva portato sin lì. Tante erano le domande che spingevano per uscire dalle sue labbra che non riuscì a dar voce neanche a una di esse.

«Non so se sia possibile che Sin ti abbia trasportato qui, attraverso il tempo» continuò Braska, quasi leggendogli nella mente. «Ma io ti considero un dono del cielo, e credo che il destino abbia fatto incontrare le nostre strade».

L’Invocatore gli sorrise per l’ennesima volta e poi uscì dalla porta, lasciandolo con più dubbi di quanti ne avesse quando era entrato.

Jecht desiderava guardare le stelle, ma prima glielo avevano impedito le luci abbaglianti di Bevelle, più simili a quelle di Zanarkand di quanto egli stesso volesse ammettere. Poi, aveva creduto che il bosco gli avrebbe per sempre negato, col suo intrico di rami, la vista del cielo.

Quella notte, durante la quale i fili che lo ancoravano al mondo materiale sembravano volersi pian piano disgregare, nuvole dense avevano coperto il cielo. Attraverso una prigione d’ovatta, filtrava invitta solo la luce pallida e lieve della luna.

 

 

La mattina del giorno seguente, Braska aveva deciso di lasciar riposare i suoi Guardiani, poiché le ferite nel corpo di Auron erano pari a quelle nell’animo di Jecht.

I due uscirono dalle loro stanze, per caso, nello stesso momento: si scambiarono uno sguardo che aveva il colore dell’indifferenza, ma l’Invocatore continuò a sorridere, stringendo le mani sulla sua tazza di té caldo.

Rin, che stava condividendo quella bevanda con lui, notò Auron e Jecht che si avvicinavano.

«Ve ne andate di già?» domandò.

Braska rispose con un cenno del capo. Il monaco gli si era avvicinato, la schiena dritta come una colonna, come se dovesse anche in quel luogo proteggerlo da un pericolo invisibile.

«Io proseguo verso Piana dei Fulmini» lo informò il giovane Al Bhed, «forse allora puoi incontrarmi lì».

«Sì, anche noi ci dovremo passare» replicò l’altro, poi si rassettò la veste e si alzò, congedandosi.

Rin conosceva i linguaggi e i codici, anche quello dei residui che le foglie lasciavano sul fondo delle tazze, ma in quella di Braska non osò guardare.

L’Invocatore, con andatura tranquilla, si diresse verso l’uscita dove lo aspettava il suo Guardiano tatuato.

«Auron continua a non parlarti?» si premurò di domandare, posandogli una mano sulla spalla, quando fu certo che il loro amico non era a portata d’orecchio.

Jecht scoccò un’occhiata verso la porta della Casa del Viante, poi verso la sfera per le registrazioni che teneva tra le dita. A Braska si scaldò il cuore quando vide che il suo regalo era stato apprezzato.

«Mi ha detto solo “buongiorno” e mi ha guardato male quando gli ho ridato il cappotto. Sembrava che gli avessi appena ucciso il gatto».

Braska sospirò e diresse gli occhi al cielo.

«Proverò a dirgli qualcosa, magari mi ascolta» replicò.

«Senti, potresti filmare questa per me?» domandò Jecht all’improvviso, porgendogli la sfera. «Vorrei tenerla per ricordo».

Aveva una voce roca e graffiante, forte come la sua personalità. L’Invocatore prese l’oggetto con il desiderio di immortalarla per sempre.

«Non so se ne sono capace» disse, con sguardo dolce. «Ma proverò».

Uscirono dalla Casa del Viante; l’aria gelida di Macalania gli punse il naso e le guance mentre, traballante, alzava la sfera e cercava l’inquadratura migliore.

Jecht lo superò e si diresse verso un cartello che indicava la strada del lago.

«Auron, puoi stargli più vicino?» chiese Braska, cercando di rivolgere un tono gentile al suo buon Guardiano.

Lui replicò con un sonoro sospiro e obbedì, senza però smettere di dare le spalle alla telecamera. L’inquadratura venne alzata sul cartello sopra le teste dei due, che comunque erano troppo distanti l’uno dall’altro per sembrare amici.

«Bene» annunciò Braska, per non chiedere troppo ad Auron. «Così dovrebbe andare».

Fu Jecht a voltarsi verso il monaco, rivolgendogli un sorriso obliquo e incrociando le braccia al petto, com’era solito fare quando desiderava attirare l’attenzione. La sua pelle scura risaltava sullo sfondo bianco delle nevi, così come l’ampia veste scarlatta di Auron.

«Che c’è? Hai paura che morda?»

Auron non rispose alla provocazione se non arricciando il naso in una smorfia.

«Jecht…» commentò come avvertimento, ma l’altro si era già voltato verso la sfera.

«Braska!» esclamò, come colpito da un’idea improvvisa. «Dovresti filmarne anche tu una. Sarebbe un bel regalo per la piccola Yuna!»

L’Invocatore annuì e fece traballare l’inquadratura.

«Suppongo di sì» ammise, ma prima che potesse continuare Auron si frappose tra lui e il paesaggio, incurante di rovinare la registrazione.

«Scusi, Braska» intervenne, «ma non dovremmo perdere tempo così».

Esasperato, Jecht sbuffò e uscì dall'inquadratura.

«Amico, ma che fretta hai?» esclamò.

Auron sembrò infastidito in modo definitivo da quell’ultima osservazione, e con uno scatto si mise a seguirlo.

«Vieni qui che ti spiego che fretta ho» sbottò, e a Braska non rimase altro da fare che interrompere la registrazione.

«Auron...» chiamò, preoccupato dal dover sedare un’eventuale piccola rissa. I due, tuttavia, si stavano limitando a una gara di sguardi che Jecht non era intenzionato a perdere.

Sembrava che il loro piccolo colloquio della sera precedente avesse spinto Jecht, piuttosto che a rinunciare a essere accettato da Auron, nella direzione opposta. A Braska dispiaceva che i due si trovassero in quella situazione, avrebbe voluto fare qualcosa, ma sapeva che far cambiare idea al suo guardiano più giovane era arduo tanto quanto far invertire al Fluvilunio il suo corso.

Jecht stava immobile a braccia conserte e fissava gli occhi leggermente a mandorla del monaco con fare provocatorio. Il loro contatto visivo durò poco: Auron scosse la testa e fece con la mano un gesto che Jecht considerò un velato insulto, per poi incamminarsi verso est, oltre la Casa del Viante. L’uomo di Zanarkand sorrise beffardo, ma rimase stupito dal comportamento del compagno: credeva che fosse in grado di sostenere qualsiasi sguardo con la stessa facilità con cui portava le loro provviste sulla schiena.

«Dobbiamo seguirlo per forza, vero?» chiese a Braska. L’Invocatore portò la mano alla bocca, nascondendo una timida risata.

«Credo proprio di sì, amico mio».

«Ecco come ci ha mostrato quanta fretta aveva» rispose Jecht, divertito.

Nonostante tutto, il confronto con Braska gli aveva fatto bene in modi che non riusciva nemmeno a comprendere: il suo animo era più sereno, finalmente aveva un alleato. Un alleato vero, che non lo giudicava. Si accorse di sorridere più spesso, e ciò non passò inosservato all’attento compagno di viaggio, il quale sperò che potesse contagiare anche il brusco Auron.

Non erano passati che pochi minuti, ma il monaco aveva il passo svelto e i due dovettero stargli dietro, come il cane che rincorre la lepre.

«Monachello, vuoi rallentare? Siamo dietro di te!»

Auron arrestò la sua marcia.

«Vuoi che ti prenda per mano?» sbottò.

Jecht rivolse gli occhi al cielo e trattenne numerose risposte che aveva sulla punta della lingua.

«Poi non ti lamentare che sei stanco» ribatté invece, ma Auron non gli prestò troppa attenzione. Anzi aggrottò la fronte e guardò un punto distante da loro.

«Amici miei, sarò io ad essere stanco se non rallentate il passo!» rispose Braska con una risata.

Notò però che i due si erano fermati e stavano osservando nella stessa direzione.

«C’è qualcosa lì» fece notare Auron. Jecht si spinse sulla punta dei piedi come se quel gesto avesse potuto renderlo meno miope.

«Tipo?»

«Bandiere».

Braska si mise a fianco a loro e, senza dire nulla, estrasse dalla tunica un piccolo binocolo di madreperla. Ignorando le occhiate perplesse dei suoi guardiani, mosse la rotellina fin quando l’immagine non andò a fuoco.

Lo stomaco gli si strinse in una morsa dolorosa quando vide la bandiera dell’Inquisizione. Al centro, tracciata in oro su sfondo blu, spiccava una runa curva sopra la quale erano disposti tre cerchi in orizzontale e uno in cima, in modo da formare una croce. Il drappo rosso appeso all’asta, più piccolo, indicava la presenza del Grande Inquisitore.

I compagni lo videro sospirare molto a fondo, come per mantenere la calma davanti a un pericolo. Jecht, ancora inesperto delle vicende di Spira, lanciò uno sguardo preoccupato verso Auron, il quale, per una volta, ricambiò con altrettanto sentimento.

«Signore, va tutto bene?»

«Non… proprio. Laggiù c’è l’inquisizione» rispose con voce poco decisa.

Chi per un motivo e chi per un altro, i due Guardiani si irrigidirono con volti cupi.

«Che vogliono questi? Mica andremo da loro, vero?» chiese Jecht, allarmato.

Dei rumori pesanti provenienti dalla boscaglia fecero sobbalzare i presenti, che portarono le mani alle armi nel giro di un battito di ciglia.

«Alt! Non siamo ostili, abbassate le spade!» intimò una voce femminile molto autoritaria.

Dai cespugli emerse un’insegna, poi un chocobo catafratto con una bellissima e fine armatura: il becco e la testa erano protetti da un elmo decorato ai lati con ali metalliche. Le briglie, di cuoio lucidissimo, erano collegate a uno stemma posto davanti al petto dell’animale, subito sotto al collo, mentre le zampe erano avvolte da maglie su misura.

La giovane in sella, non appena riconobbe Braska come un Invocatore, gli rivolse un segno di saluto spingendo anche il chocobo a piegare il collo. Jecht, dalla quantità di mostrine sulla sua armatura, ebbe la sensazione che il gesto non fosse il più appropriato, e che sarebbero stati loro a dover chinare il capo davanti a lei.

«Sono Hanna, comandante della Cavalleria ausiliaria, primo squadrone» si presentò, come se avesse davanti dei superiori. Il sole rifulse sul suo petto d’acciaio ornato, sotto cui s’intuiva una pelle candida come la neve. «Siamo stati radunati sulle sponde del lago: sembra che Sin stia per rilasciare le scaglie».

«Sin è qui?» ribatté subito Braska, stringendo i denti. Jecht, spinto da un riflesso involontario, fece un passo indietro.

«Come fa un mostro del genere a essere ovunque su questa dannata terra?» commentò spaventato.

Hanna gli rivolse un’espressione interdetta, ma Auron intervenne subito in sua difesa:

«La prego di scusarlo, comandante. È sotto l’effetto delle tossine».

«Povero ragazzo, mi dispiace» disse con cortesia. «Vi consiglio di non procedere oltre, anche se siete in Pellegrinaggio. Finché il pericolo non sarà contenuto, questa zona è a rischio».

Braska fece un passo verso il comandante: per qualche istante i loro occhi, entrambi celesti, si incrociarono scambiandosi un composto rispetto. L’Invocatore strinse le labbra sottili e le mani sul bastone.

«Vorrei parlare con mio fratello» annunciò, indicando verso la tenda dell’Inquisitore con lo scettro. «Sono disposto a mettere a suo servizio il mio eone».

Hanna annuì, e una ciocca bionda le sfuggì dall’acconciatura, ricadendo sul viso da sotto la visiera dell’elmo. Docile, il chocobo si lasciò trascinare dalle redini verso il limitare della strada per non impedire il passaggio ai pellegrini.

Lo sguardo della giovane, perso in quello che sembrava un ricordo, li accompagnò fino a quando sparirono oltre la collina ghiacciata. Il suo chocobo, invece, emise un chiocciare curioso quando il guerriero vestito di rosso lo osservò, e poi tacque.

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Capitolo 13
*** Rompere le righe (Parte 2) ***


CAPITOLO 10: ROMPERE LE RIGHE (PARTE 2)

 

 

Alan accarezzava con lentezza la cartina del luogo che gli aveva fornito, immaginava di sentire, passandoci sopra, i rilievi sotto le unghie. Erano troppo lunghe, considerò, e c’era il rischio che agli occhi di qualcuno apparissero di fiera piuttosto che d’uomo, e di fiere su Spira ve n’era già una disgraziata abbondanza.

In una terra di peccatori come quella, l’apparenza era molto importante: distingueva il povero dal ricco, il pescatore dal sacerdote. Ogni pezzo del mosaico era al suo posto, proprio come la battaglia che il Grande Inquisitore si accingeva a condurre.

«Signore» disse un giovanotto dai capelli neri, interrompendo il suo flusso di coscienza. «Il comandante Hanna è tornata dalla ricognizione. Porta con lei l’Invocatore Braska e i suoi Guardiani: vogliono offrire i loro servigi».

Alan spostò la mano dalla cartina al suo mento glabro e inarcò le sopracciglia sottili, sinceramente stupito.

«Che piacevole coincidenza: mio fratello mi fa la grazia di concedere il suo eone per la causa. Falli entrare, quindi» rispose al soldato.

La donna in testa al gruppo si levò l’elmo in segno di rispetto e si inchinò davanti al Grande Inquisitore: i lunghi capelli biondi trattenuti da una treccia le finirono davanti al naso, ma non si scompose.

Dietro di lei, un sorridente Braska e due nervosi Guardiani fecero la loro comparsa all’interno della tenda, grande e dalle ricche decorazioni, come si confaceva a un uomo del suo rango. Una smorfia infastidita gli deformò la bocca: detestava la finta cortesia dei consanguinei.

«Grande Inquisitore, i nostri cammini si incrociano nuovamente» esordì Braska facendo la riverenza. Jecht e Auron, rigidi come il marmo, fecero altrettanto.

Pieghi il capo, caro fratello, ma sei sempre più in alto di me con lo spirito, si ritrovò a pensare Alan.

«Dici il vero, Braska. Yevon ci favorisce: il tuo eone sarà di grande aiuto alle truppe».

Jecht, intimorito dalla figura di Alan, e per questo rimasto in silenzio, si voltò verso Auron con l’espressione di chi vorrebbe chiedere delucidazioni. Fece per sussurrare qualcosa, quando il monaco gli afferrò il polso e spinse gli occhi fuori dalle orbite in un suggerimento molto chiaro.

«Ah, lo smemorato di Bevelle. Curioso che tu te lo sia portato dietro, Braska» lo punzecchiò l’Inquisitore. Jecht si pentì immediatamente anche solo di respirare.

«Voglio aiutarlo a tornare a casa, se è possibile. In pochi mesi è diventato un abile combattente» replicò l’Invocatore, sorridente.

«A casa? Interessante. Vedo, però, che l’ignoranza è rimasta tale se ha desiderio di fare domande. Che le faccia, quindi: Yevon ha misericordia di chi vuole sapere».

Auron lo guardò torvo, mentre Jecht si ritrovò senza voce.

«Ecco… uh. Mi chiedevo come si possa affrontare una simile bestia...» disse incerto.

Alan fece un cenno ad Hanna, la quale iniziò ad esporre il piano.

«Purtroppo, attaccare Sin direttamente non è possibile. Si muove nelle profondità delle acque, non abbiamo modo di avvicinarci» spiegò con schiettezza. «Il pericolo maggiore, tuttavia, è costituito dalle sue scaglie. Sono mostri che assumono forme dissimili tra loro, prodotte dal suo corpo in gran quantità: se dovessero abbandonare il lago indisturbate, potrebbero mietere molte vittime innocenti. Siamo qui per fermarle».

Jecht annuì perplesso, poi Braska invitò Auron ad avvicinarsi. Lui, riluttante, obbedì.

«Grande Inquisitore, posso mostrare a questo mio Guardiano la disposizione dell’esercito? In questo modo potrà aiutarmi senza causarvi intralcio».

«Auron» lo chiamò Alan, la voce simile al ringhio sommesso di un lupo. Era l’unico Guardiano che non aveva ancora ispezionato, sondandogli l’animo con lo sguardo attento e feroce o con quell’eloquenza che mirava alla sottomissione.

La sua veste si scostò, mostrando gli spessi tacchi scarlatti che battevano sul terreno, quando con un movimento armonioso gli prese il viso tra le dita d'una mano.

Da un lato Auron trattenne il respiro, imperturbabile come una statua di marmo, dall’altro Jecht, colpito da una scintilla che rischiava di tramutarsi in fiamma, fece per avanzare verso di lui. Venne trattenuto dalla presa gentile ma ferma di Braska sulla spalla.

«Qualcosa nel mio gesto ti disturba» notò Alan, senza ritrarre la mano. La sua voce senza la sfumatura di un’emozione suonava paurosa, perché troppo simile a come Auron si immaginava quella del dio. «Mi ricordo di te. Qualche mese fa, quando i Templari ti hanno ordinato Guardiano».

Fece una pausa per sorridere a labbra serrate, e una ruga sottile ma profonda gli si formò all’angolo della bocca. Auron strinse i denti: la mano dell’Inquisitore si stava stringendo sulla sua mascella come una morsa, le dita inanellate minacciavano di spezzargliela, ma lui non doveva mostrare esitazione.

«Ah, conosco quel rito» sospirò Alan, avvicinandosi a lui e inclinando la testa. Auron sentiva sul collo il suo fiato, tiepido e profumato dalla liquirizia che masticava per nascondere l’odore del tabacco. «Il tuo cuore è disturbato perché sto attraversando il recinto, e il tuo corpo è inviolabile. Cosa succede se un uomo tocca ciò che è destinato al dio?»

«Lasciam-» si lasciò sfuggire Auron, ma si morse le labbra per interrompersi, distogliendo lo sguardo dal viso dall’Inquisitore.

Alan ritrasse le dita dal suo viso proprio nel momento in cui Auron temette che stessero per cominciare a bruciarlo. Gli rivolse una breve risata, smorzata da un colpo di tosse roca, che coprì portandosi la mano destra davanti alle labbra.

«Non ho mai condiviso le idee perpetrate dai monaci come te, nonostante le vostre cerimonie siano affascinanti, come uno spettacolo a teatro» commentò. «Non esiste un corpo che non possa essere violato, o un tempio che non si possa profanare: la nostra sorte ci è già stata data dal dio, non lo capisci? Ha deciso la mia posizione, quella di mio fratello e la tua».

Alan aveva cominciato a camminare attorno alla mappa spiegata della zona, dove aveva disposto delle statuine che rappresentavano le truppe. Erano allineate in modo maniacale, equispaziate l’una all’altra. Gli occhi di Auron, attratti dal suo movimento, elegante e simile al gorgo che tutto inghiotte, si posarono prima sul turibolo appoggiato al tavolo, poi sull’esercito in miniatura, e si sgranarono per l’orrore.

«Che cosa pensi di fare...» mormorò il monaco con voce roca. Poi qualcosa dentro di lui si accese e lo fece scattare verso Alan.

«Che cosa pensi di fare!» gridò. Due uomini con le cappe nere dell’Inquisizione lo fermarono, trattenendolo con fermezza per le braccia, nonostante l’impeto del suo corpo minacciasse di trascinarli via. L’unica cosa che arrivò ad Alan fu uno sguardo letale come i dardi d'argento.

«Lasciatelo libero» ordinò lui, e i due obbedirono senza esitazione. «Colpiscimi» lo invitò, avvicinandosi con passi misurati e le braccia scostate dal corpo. «Se lo farai, significherà che Yevon non mi favorisce più e la sua volontà è mutata».

Auron, con il viso del Grande Inquisitore a meno di una spanna dal suo, strinse i pugni sulla stoffa del cappotto fino a far sbiancare le nocche. In tal modo riuscì a trattenere il desiderio di stringergli la gola fino a quando non avesse smesso di respirare.

«Lo sai» mormorò Alan, con un tono di voce così basso da non poter essere sentito dagli altri, «se nel loro destino è scritto che vivranno, il dio li salverà. E nemmeno l’ordine di un Inquisitore potrà impedirlo: la parola di Yevon è la mia, ma il viceversa non potrà mai valere. Continuare a combattere, oppure accettare una morte serena: questo è ciò che abbiamo sulla bilancia, ma su quale piatto cada il peso non siamo noi a deciderlo».

Un raggio di sole, attraversati i lembi della tenda, rifulse sul rubino che gli adornava il collo.

«Andiamo» tuonò Auron, voltandosi verso Braska e Jecht. Loro furono talmente intimoriti che il loro istinto fu quello di allontanarsi piuttosto che andare verso di lui.

Poi scoprì i denti come una belva e tornò sui suoi passi, dirigendosi di nuovo verso Alan. Jecht temette che stesse per aggredirlo una seconda volta, ma il monaco si fermò.

«Bada che, se le cose stanno come dici» scandì, «nemmeno la tua superiorità esiste». Poi si rivolse di nuovo a Braska e Jecht: «Se mi vogliono accompagnare, preferirei uscire da qui» disse, tenendo alto lo sguardo per qualche istante ancora.

Alan sembrò sul punto di dire qualcosa, ma si limitò ad accarezzare con la mano sinistra il turibolo d’ottone, come se costituisse il più grande tesoro.

Dopo qualche minuto, quando si furono allontanati, fu di nuovo Jecht ad avvertire il bisogno di spezzare il silenzio. Aveva visto Auron che, con fierezza, si opponeva ad Alan come la chiglia di una nave infrange le tempeste, e si era sentito pervaso da un’ammirazione che non aveva mai riservato a nessuno. Ma tanto era stato forte e fiero prima quanto in quel momento pareva svuotato di ogni energia, gli occhi fissi nel nulla e l’ombra di un’espressione sgomenta in volto.

«Perché hanno dato il comando delle truppe a tuo fratello?» domandò allora a Braska. «Lui non è l’Inquisitore?»

«Lo è» rispose subito l’altro, sistemandosi la tunica in modo da sedere più comodo sulla roccia che aveva scelto. «Ma combatté nell’ultima guerra dei Crociati contro Sin, quando aveva diciannove anni, e lì ricevette l’immortale gloria d’eroe. Avevano scavato una linea di confine sul Gagazet, sotto la terra congelata, e sparavano per impedire l’avanzata delle scaglie. Alan non era così osservante, allora, pensava davvero che le macchine avrebbero potuto determinare la loro vittoria».

Braska cercava di mantenere il distacco nel racconto, come se la cosa non lo riguardasse, ma Jecht non poté fare a meno di notare il dolore nel suo sguardo: doveva essere un ragazzino, al tempo, un ragazzino col fratello al fronte.

«Il loro plotone scomparve in una tempesta, una valanga impedì il passaggio dei rifornimenti e il generale ordinò la ritirata. Loro non potevano passare e rimasero bloccati al valico, poterono solo aspettare la primavera».

«Aspetta» lo interruppe Jecht, con le sopracciglia aggrottate. «Mi stai dicendo che è sopravvissuto per mesi in mezzo alla neve senza viveri?»

C’era qualcosa, in quel racconto, che lo inquietava profondamente, un tassello che non si incastrava con gli altri perché deforme. Riportò alla mente ciò che Auron gli aveva detto riguardo alla morte su Spira… o riguardo alla non-morte, a coloro che ancora camminavano.

L’Invocatore, senza la sua consueta aria serena, annuì.

«I soccorsi arrivarono dopo due mesi: di cento soldati che erano, solo quindici ne erano sopravvissuti, tra cui lui. Combatté a lungo contro il ricordo di ciò che gli era successo, e spesso le sue urla risuonavano, di notte, nella casa. Quando guarì dal male, si convinse che Yevon lo avesse prescelto e decise di diventare un Invocatore. L’Intercessore di Bevelle lo rifiutò, e fece carriera nell’Inquisizione».

«Un uomo che delira per il potere, e che non si farebbe scrupoli a eliminarla se non gli risultasse più utile» sentenziò all’improvviso Auron. Jecht trasalì: non si aspettava che anche lui stesse ascoltando. «Ecco il fratello che le ha restituito il Gagazet».

Braska giunse le mani, poi cominciò a passare tra le dita i grani del rosario che aveva al polso. Della neve scivolò dalle foglie di un albero, colpendo in silenzio il suolo.

«È così» ammise lui, «ma preferisco che mi abbia restituito un fratello tale piuttosto che non ridarmene nessuno».

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Capitolo 14
*** Colui che apre tutti gli occhi ***


CAPITOLO 11: COLUI CHE APRE TUTTI GLI OCCHI

 

 

«Dobbiamo proprio?» chiese Jecht, a disagio.

«Secondo te, possiamo rifiutare una richiesta simile? Non sei stupido, lo sai» rispose Auron, nervoso.

Jecht sospirò sconsolato. Non era passata che qualche ora dallo scontro verbale tra il monaco e il Grande Inquisitore, eppure quell’invito era arrivato come se non fosse successo nulla. Interazioni di quel tipo, fondate su bugie, non erano estranee all'atleta, ma proprio per quel motivo non riusciva a mantenere la calma: gli sembrò di essere tornato a Zanarkand.

«Non possiamo tirarci indietro, amici miei. Alan sa bene come gestire certe situazioni, non infierirà certo. In più, un bel pasto abbondante non ci farà male» disse Braska.

Poi frugò tra le pieghe della sua tunica e ne estrasse due sigari che, anche agli occhi poco esperti di Auron e Jecht, sembravano molto pregiati.

«Tenete» li invitò con un sorriso angelico. «Io non posso fumare, ma sono di sicuro molto buoni».

«Braska… dove li ha trovati?» chiese la sospettosa voce di Auron. La sua mano quasi si scontrò con quella di Jecht che era scattata sul sigaro come un’aquila sulla preda.

L'idea di godere di un banchetto aveva rincuorato l’atleta, ma non abbastanza: forse avrebbe potuto tornargli utile il supporto del tabacco. Il Grande Inquisitore aveva invitato lui e i suoi compagni a mangiare alla sua stessa tavola, in compagnia dei generali: non un'allegra brigata, abituato com'era alle serate alcoliche con i suoi compagni di squadra.

L’Invocatore non soddisfò la curiosità di Auron e si sedette su un piccolo sgabello pieghevole.

La tenda che usavano per riposare non era molto spaziosa, ma era abbastanza per tre persone. Dopo l'aspro diverbio, Auron aveva suggerito con particolare sentimento di sistemarsi ai limiti dell'accampamento, non troppo lontano dalla vegetazione. Spesso guardava la foresta con aria afflitta: il desiderio di fuggire tra le fronde era forte.

Tuttavia, non c'era rifugio che potesse accoglierli. Tutto ciò che potevano fare era spazzolarsi i capelli, pulire le vesti e pensare al cibo. Se per Braska e Jecht la prima attività non era difficoltosa, per Auron era questione di molti minuti.

Jecht ebbe l'improvvisa voglia di aiutarlo, ma non trovò il coraggio di fare una simile richiesta: si avvicinò, invece, per cercare il dialogo e soddisfare le sue domande.

«Ehi, ragazzo» esordì timidamente, dopo qualche secondo in cui era riuscito solo a tenere lo sguardo fisso sui suoi capelli neri come l’inchiostro.

«Cosa?»

«Potresti spiegarmi cosa hai visto sulla mappa?» disse sedendosi davanti a lui.

«Perché lo vuoi sapere?» chiese Auron infastidito.

«Perché voglio capire che succede. Tanto ne abbiamo di tempo, hai i capelli tutti annodati».

Il monaco osservò amareggiato la sua chioma sciolta sulla spalla, per poi sospirare e mettere da parte il pettine. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che Jecht non riuscí a cogliere: Braska si avvicinò interessato, porgendogli il sacchetto contenente i gil, le monete di rame di Spira.

Auron ringraziò, prese tre pezzi e li dispose uno accanto all'altro, tutti con la stessa faccia rivolta verso l'alto, la testa.

«Questa al centro è la fanteria. Hanno il compito di ingaggiare frontalmente le scaglie di Sin e attirarle in un solo punto. Queste ai lati rappresentano la cavalleria: hai visto il loro comandante qualche ora fa».

Jecht mise la mano destra sul mento e annuì, concentrato sui movimenti di Auron. Il monaco tirò indietro la moneta centrale, portando in avanti quelle laterali: le fece avvicinare, per poi girare la loro faccia sulla croce.

L'atleta sbattè le palpebre per qualche secondo, confuso sul significato che Auron aveva attribuito a quei gesti. Pensò attentamente alla reazione furiosa del compagno e, come colpito da un pugno nello stomaco, capì cosa quella strategia comportava.

Braska distolse lo sguardo, riponendo le monete nel sacchetto di tela che portava sempre con sé. Jecht si massaggiò gli occhi con due dita di una mano.

«Ragazzo… io avrei fatto lo stesso» disse con voce rauca.

Auron riprese il pettine e tornò al suo intricato lavoro, ma accennò appena un mezzo sorriso.

 

 

Il profumo invitante delle cibarie riempì il naso dei viaggiatori. Si resero conto di avere davvero fame, come se i pasti che erano soliti consumare non fossero mai abbastanza per sopravvivere.

La tenda del Grande Inquisitore era stata addobbata per l'occasione: dal tavolo centrale gli strumenti della strategia militare erano stati sgomberati per lasciare spazio a una raffinata tovaglia bianca, morbida come se l’avessero appena intessuta.

I generali, sprovvisti di armatura, erano radunati vicino all'entrata e discutevano dell'imminente battaglia. Tra loro, una meditabonda Hanna notò i tre viaggiatori e si avvicinò, presentando la riverenza. Lo stesso fecero i suoi compagni d'armi.

«Lei non discute di questioni militari, comandante?» chiese gentile Braska.

«No, mio signore. Non stasera» rispose lei con amarezza.

«Immagino voglia rilassarsi almeno per oggi».

Jecht colse immediatamente le parole di Braska: probabilmente, quella sarebbe stata l'ultima notte di Hanna.

Si guardò intorno: gli alti papaveri dell'esercito non erano molto più vecchi di lui, anzi, alcuni sembravano avere l'età di Auron. Immaginò per un istante il compagno al loro posto, trucidato sul campo di battaglia: gli mancò un battito che gli fece passare la fame.

«Mantieni la calma» sussurrò il monaco.

«È così evidente? Ah… non so come tu ci riesca».

«Non ci riesco, infatti. È solo che lo nascondo meglio» disse grave, per poi prendere posto al desco alla destra di Braska.

Fece segno a Jecht si sedersi accanto a lui: non se lo fece ripetere due volte. Era la prima volta che lui e il monaco mangiavano allo stesso tavolo, si trovò a pensare l'atleta.

Il Grande Inquisitore non si fece attendere: entrò nella tenda con fare teatrale, accompagnato dalle reverenze di tutti i presenti, per poi sedersi a capotavola come si confaceva al suo rango.

Braska lo accolse con un gran sorriso, ma il fratello non lo degnò di uno sguardo. L'Invocatore abbassò gli occhi sulle proprie ginocchia, sospirando: ciò non passò inosservato agli occhi dei due Guardiani, dai quali sembravano in procinto di divampare fuoco e fiamme.

Jecht si sporse verso Braska, ma si rese conto di non potergli parlare apertamente: l'Invocatore aveva ricevuto il posto d'onore alla destra del Grande Inquisitore, Alan avrebbe sentito tutto di certo. Come a voler rafforzare il concetto, Auron mise una mano sulla sua gamba e applicò pressione, come per fermare i suoi movimenti.

Almeno c'è da mangiare, si trovò a pensare l’atleta.

Alan fece un segno ad alcuni soldati semplici, sull'attenti e posizionati lungo il perimetro della tenda: sparirono nel giro di un secondo, per poi tornare con grosse marmitte piene di stufato.

I commensali furono serviti con celerità. Jecht guardò il suo piatto ricco di carne e gli venne un gran languore: la compagnia era pessima, ma il cibo era davvero invitante.

«Miei cari ospiti, assisteremo a un doloroso giorno. Tuttavia, questa sera accantoniamo i cupi pensieri e mangiamo in abbondanza» disse Alan a braccia aperte.

Un gran rumore di posate sostituì il chiacchiericcio, tutti troppo intenti a gustare quello squisito stufato. Jecht era solito mangiare carne a Zanarkand per via dei duri allenamenti, ma da come si gettavano sul cibo entusiasti, ciò non era lo stesso su Spira. Probabilmente era un alimento di lusso.

Nonostante il disagio fosse evidente, l'atleta volse lo sguardo attorno a sé: Auron e Braska mangiavano ostentando tranquillità, mentre Alan aveva qualcosa che lo distingueva dagli altri.

Mentre gli altri avevano un solo piatto, lui ne aveva allineati tre davanti a sé. Il primo era colmo di carne assieme a quelle che sembravano le ossa dell'animale, il secondo di verdure e il terzo di riso. Jecht aggrottò le sopracciglia: il Grande Inquisitore divorava ogni cosa in modo lento e metodico ma costante, come se non mangiasse da giorni interi ma volesse nasconderlo. Oppure come se volesse mostrare agli altri quant’era buono ciò che stavano assaggiando, quello che lui poteva avere finché avesse gradito.

C’era un rito in ciò che faceva: cominciando dal piatto più a sinistra, prendeva tre bocconi, poi due dal secondo e infine di nuovo tre, come se stesse costruendo, con numeri e gesti, una geometria sacra.

Il rimuginare di Jecht fu interrotto dal piede di Auron che colpì il suo con un piccolo tocco: anche il monaco aveva visto tutto, ma lui stava indugiando troppo con gli occhi. Il campione di blitzball, allora, prese un grosso pezzo di carne e lo mangiò di gusto, ignorando il resto.

Il tempo passò in fretta nel momento in cui decisero di pensare solo al cibo. La cena finì nel mormorio generale, accompagnata da complimenti per l'ottima cucina e per la magnanimità del Grande Inquisitore. Dopo gli ultimi convenevoli, si spostarono tutti verso l'esterno.

Le truppe erano radunate nell’ampio spiazzo dove erano state piantate le tende: migliaia di uomini e donne, chi in armatura chi con i propri abiti da civile, forse per mantenere l’illusione per un'ultima notte, erano schierati con lo sguardo rivolto verso un unico punto. Il Grande Inquisitore, attorniato dai generali armati, uscì dalla tenda a passo lento e solenne. Al fuoco delle torce, che gli lanciava bagliori sugli zigomi, rispondeva il rifulgere del rubino incastonato sul suo petto.

Alan si era fatto affiancare un’altra volta da Braska, in modo che i guerrieri ricevessero forza nel cuore nel vedere il potente Invocatore nella loro schiera. Jecht, non appena vide la selva di occhi che nella penombra lo fissavano, si sentì cogliere dall’ansia e strinse la manica di Auron.

«Vuoi andare dal loro lato?» gli domandò il monaco, senza voltare su di lui lo sguardo fisso sui soldati, ma anche senza traccia di disprezzo nella voce. Forse anche lui sentiva una pressione sul petto a trovarsi in quella posizione che, in fin dei conti, non gli apparteneva.

Jecht annuì e, senza lasciare il braccio di Auron, si nascose assieme a lui tra la folla. Quel contatto lo rassicurava, come un’ancora che lo tenesse saldo al fondale.

Alan avanzò, ben visibile non tanto per l’altezza quanto per i paramenti che lo distinguevano dagli altri. In mezzo all’esercito serpeggiava un mormorio sommesso e timoroso ma insistente, che subito cessò quando il Grande Inquisitore alzò il braccio destro, facendo con la mano un cenno per attirare l’attenzione.

«Se c’è qualcuno tra di voi, soldati, che non approva il mio comando, ora è libero di fare un passo avanti e andarsene» cominciò, con la voce profonda che scandiva bene ogni parola. «Ma confido nel Gran Maestro Mika, e sono certo che, mettendo me a capo dell’Inquisizione e l’Inquisizione a capo delle vostre truppe, egli ha creato un sodalizio di uomini virtuosissimi».

Non solo, all’interno del suo pubblico, nessuno si mosse o fiatò, ma anche parve che la natura – col vento tra le frasche e i pochi insetti che osavano avventurarsi sulle sponde ghiacciate – fosse rimasta immobile a osservare.

«Memori delle vostre lotte, e di quelle dei vostri padri prima di voi, abbiamo schierato l’esercito di fronte al nemico che viene dal mare. E sebbene la lotta contro Sin possa sembrarvi futile quanto lo scagliare una lancia tra le onde, dichiarando guerra all’Oceano, ricordate che contro la sua progenie potete vincere. Voi siete organizzati in schiere dove loro attaccano alla cieca; voi opponete corazze di metallo dove loro non hanno che pelle; voi avete il coraggio, la disciplina e la benedizione di Yevon, quindi combattete con superiorità.

Se morirete in questa battaglia, morirete per Spira; ma se tra voi c’è qualcuno che ha bisogno di rifugiarsi in un futuro incerto, ora è libero di fare un passo avanti e andarsene. Per quelli che rimarranno verrà la gloria, sia essa in vita o dopo la morte, nelle dorate distese dell’Oltremondo. Poiché i presagi sono tutti a nostro favore e al nostro fianco c’è un Invocatore, il sole di domani, allo zenit, illuminerà la nostra vittoria. E qualora ciò non succedesse, nessuno di noi proverà vergogna per la sconfitta.

Quale disonore infatti può colpire il figlio di una donna o di un uomo che ha combattuto per la sua gente? Quale giudizio umano – poiché nella mente del dio neppure l’Inquisizione può vedere con chiarezza – può condannare il sangue versato per proteggere la sua terra?

Io ho davanti voi, uomini di Bevelle, ho con me le vostre spade e l’eone potente dell’Invocatore, ho le braccia forti dei Guardiani che lo sosterranno e gli alti spiriti di tutti coloro che mi guardano. Crociati e cavalleria ausiliaria, sul vostro collo è calata la scure della scomunica: con la polvere nera l'avete ottenuta e con il bianco acciaio riscatterete il vostro nome. Così vuole Yevon che tutto vede e così la Corte Suprema sulla cui cattedra siedo.

Se c’è qualcuno tra di voi che non approva, ora è libero di fare un passo avanti e andarsene; chi rimane combatterà al mio fianco, e illustre sarà il suo nome su Spira».

Un’unica voce, di uomo e di donna assieme, si levò verso il cielo, i soldati rumoreggiarono e batterono le armi sugli scudi. Jecht si rese conto che sino a quel momento i suoi occhi erano stati fissi solo su Alan, la sua mente rivolta verso il discorso in modo da ascoltarlo con devozione completa.

Spostò lo sguardo verso Auron, e lo vide stringere i denti con tanta forza che gli parve di sentirli scricchiolare, nonostante il gran rumore.

«Ha parlato bene» ammise il monaco. L’Inquisitore davanti a loro sorrideva alla folla, i generali lo avevano attorniato ed erano pronti a difenderlo. Rappresentavano in quel momento, più che una vera guardia del corpo, uno sfoggio di potere che Auron non riusciva a sostenere.

Quando guardò verso il basso, rivide le armate in miniatura sulla mappa di Alan, immaginò la carta pian piano tingersi del cremisi del sangue versato.

«Vai ai corvi, Alan» mormorò, in modo che solo Jecht riuscisse a sentirlo.

 

 

Nonostante i suoi compagni di viaggio desiderassero la sua compagnia, e gli si fossero stretti attorno come cuccioli alla madre, Braska aveva sentito la necessità di andare a parlare con il fratello. Non sapeva quale fosse la speranza che gli risiedeva nel cuore, e nemmeno era certo che la parola fratello significasse ancora qualcosa per Alan, ma lo stesso costeggiò gli arbusti oltre all’accampamento, lasciandosi pungere la mano dalle spine.

Le fratte si scossero, rivelando la presenza di qualcuno. Alan era al limitare della zona illuminata dalle torce e, non appena si accorse della presenza del fratello, si ricompose e avanzò, come entrando in un cerchio sacro che lo proteggesse dalla notte.

Braska notò che non aveva più il copricapo da Grande Inquisitore e i suoi capelli, di cui si faceva vanto quand’era più giovane, erano intrecciati stretti sul capo in una bella acconciatura.

«Fratello» lo salutò Alan. Per schiarirsi la voce, portò il pugno chiuso davanti alle labbra e subito strinse tra i denti il bastoncino di liquirizia che aveva tra le dita. «Non parliamo così tanto da quando mamma faceva il pranzo della domenica».

Si era tolto anche i guanti e, sebbene a fatica, sulla sua mano destra si scorgevano calli e segni di morsi all’altezza delle nocche.

Braska socchiuse le labbra e fece per parlare, ma un gesto dell’Inquisitore lo fermò.

«Se ciò che hai nell’animo somiglia a ciò che mi ha detto il tuo Guardiano, sappi che posso ammirare la vostra virtù, ma non condividere il vostro pensiero» disse, senza distogliere da lui gli occhi che sembravano lucidi. «Anche Auron sa che vincerò la battaglia così».

Braska annuì.

«Fammi avanzare con la fanteria» gli domandò. «Mi rendo conto che quello sia il modo migliore per usare le truppe che hai, ma posso evocare Bahamut prima della carica».

Alan inarcò le sopracciglia e sporse in avanti il labbro inferiore, simulando un’espressione ammirata. Poi si pulì la bocca da una scheggia di legno con il dorso della mano.

«Come desideri. Sembra che tu riponga molta fiducia nei tuoi Guardiani. È strano, agli Invocatori Supremi ne è bastato sempre e solo uno: Yunalesca, Gandof, Ohalland e Yocun… ne hai anche uno preferito, come i genitori con i figlioletti?»

Braska non replicò alla provocazione.

«Il mio corpo non è resistente, ma il mio cuore è forte, tanto che voglio unirmi alla tua schiera. Valuta quello che ti dico».

Alan annuì e, con un movimento ondeggiante, calciò via un ciottolo che rimbalzò sul terreno ghiacciato.

«L’ho già fatto» gli disse, allontanandosi, «l’ho già fatto».

Braska sollevò lo sguardo: non se n’era nemmeno accorto ma, mentre parlavano, il fratello lo aveva condotto al centro dell’accampamento. D’istinto cercò la sua tenda e nella penombra vide Auron seduto davanti a un piccolo falò, e Jecht in piedi che gli si avvicinava. Un sorriso gli attraversò le labbra.

«Alan» chiamò. Il fratello si girò con un’espressione interdetta, che diventò di vera confusione quando Braska lo prese sottobraccio. L’Inquisitore si irrigidì: da molto tempo nessuno provava a stabilire un contatto di quel tipo con lui.

«Sì?» ribatté, cercando di mantenere un tono di voce neutro. Suo fratello aveva un viso dolce e accorato allo stesso tempo.

«Vorrei parlare ancora con te, per favore».

«Guarda un po’» esordì Jecht, indicando verso Braska che si era attaccato al braccio di Alan. «E pensare che a me mette i brividi, quel tipo».

Auron alzò lo sguardo verso di lui senza nessun commento. Si limitò a spegnere la sigaretta a terra, rigirandola, per poi estrarne una seconda dal pacchetto e premere sulla rotella dell’accendino. Il piccolo schiocco risuonò nella notte, ma la fiammella si spense subito, forse timorosa del confronto con il fuoco che le stava davanti.

«Non credi di star esagerando con quelle?» disse Jecht in tono preoccupato.

«Ognuno ha il suo vizio» rispose il monaco, accendendo la sigaretta. «Fumo quando sono nervoso».

«Dopo quella cena infernale, è comprensibile. Molto meglio fare a fette mostri».

Auron lo guardò in tralice e soffiò fuori il fumo dalle narici.

«Hai paura» disse, senza nemmeno provare a far assumere alla frase un tono interrogativo. Poi alzò il viso verso Jecht. La luce del fuoco giocava con le ombre sui suoi lineamenti decisi, sfiorandogli il profilo come le dita di una madre. Un color arancio acceso si rispecchiava nella sua pupilla, per poi mischiarsi con l’iride ambrata.

L’atleta riuscì a distogliere lo sguardo, che era rimasto ingabbiato tra le sue ciglia. Si sedette al suo fianco.

«Sì, ho paura. Non ho capito contro cosa combatteremo, ma domani sarà un massacro, e… insomma, non ho mai visto morire nessuno».

Auron annuì, sbuffando fumo come uno dei mostri elementali che abitavano Spira. La morte era sempre stata presente nella sua vita, ma nemmeno lui aveva mai combattuto al fronte.

«Tieni» gli disse, porgendogli la sua fiasca. Jecht lo guardò a occhi sgranati, e lui fu rapido a precisare: «Un sorso. Non di più».

L’atleta non se lo fece ripetere due volte e attaccò con impeto le labbra alla bottiglia. Il liquore, di cui non sentì alcun sapore oltre a quello bruciante dell’alcol, gli infiammò il ventre. Rapido come gli aveva promesso, Auron gli tolse la fiasca dalle mani.

«Sei un uomo di parola» gli disse Jecht, cercando di alleviare il peso che gravava sulle loro spalle.

L’altro piegò le labbra nel primo sorriso da quando si erano conosciuti e prese un sorso. Jecht rimase immobile, colpito da una freccia ancora prima che iniziasse la battaglia.

Auron alzò la mano destra, riluttante, come se fosse indeciso se andare fino in fondo o meno, ma si accorse di volerlo fare. La poggiò sulla spalla nuda di Jecht, cercando di offrire il suo goffo conforto. La sua pelle era caldissima, notò.

Per Jecht, invece, il mondo si era sospeso.

La mano di Auron stava scendendo piano verso l’incavo del suo gomito: il suo tocco era leggero, come se non fosse abituata a stringere la spada. Jecht socchiuse gli occhi e con un sospiro si lasciò stringere al suo petto, come per farsi tenere al caldo. Inspirò l’odore delle braci e quel profumo di spezie che continuava a tormentargli l’animo, riversandovi domande a cui non voleva pensare.

Il guerriero lo accarezzava piano sulla scapola, e lentamente le sue dita arrivarono a sfiorargli le clavicole, il collo e la linea della mascella. Jecht serrò gli occhi, con un brivido sottile sotto la pelle e la testa che girava. Il poco alcool che aveva bevuto non avrebbe mai potuto causargli un capogiro tanto insistente.

Con il petto oppresso dall’ansia, si abbandonò all’abbraccio dell’altro, lasciò che lo attirasse verso di sé, la mano che cercava di sollevargli il mento. Jecht combatté contro la nebbia dei suoi sensi, raggiunse le labbra di Auron a cui il liquore aveva dato sapore di miele. Le sfiorò con dolcezza prima di farsi avanti, timoroso che Auron non gradisse quel contatto e lo aggredisse come un lupo.

Il bacio che desiderava arrivò famelico e disperato. Auron lo strinse con la forza delle spire di un serpente; Jecht chiuse gli occhi e si abbandonò a lui. Le sue dita cercavano di stringere il più possibile i lembi del cappotto del monaco, come se fosse l’unica cosa in grado di trattenere la sua anima su Spira.

Non voleva, non voleva trasformarsi in un luniolo e volare via.

Jecht serrò i pugni ancora, trafitto dalla dolorosa passione, li strinse tanto da conficcare le unghie sui palmi vuoti.

Una flebile luce entrò attraverso la tenda quando l’ingresso venne scostato. Lui socchiuse gli occhi, coricato a terra nel buio. C’era Auron con lui, ma era – come lo era sempre stato – troppo lontano, irraggiungibile anche tendendo le braccia. Fantasie come quella in cui si era perso erano più dolorose dei sogni di cui poteva tacere al mattino.

Il monaco gli dava la schiena, e davanti al fuoco, prima di suggerirgli di dormire, non aveva fatto altro che posargli una mano sulla spalla. Aveva tentato di calmarlo da un’armata che cingeva d’assalto anche il suo stesso cuore, spezzandogli il respiro.

Jecht non avrebbe potuto sperare di avere di più nemmeno nell’ultima notte della sua vita.

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Capitolo 15
*** Libertà ***


CAPITOLO 12: LIBERTA’

 

 

Il muggito dei corni squarciò l’aria immobile così come il sole nascente tagliava le nubi. Il colore del cielo era una profezia di sangue venturo.

Auron spostò lo sguardo verso Jecht: il suo compagno di viaggio non aveva dormito, quella notte, lo aveva sentito dai suoi respiri irregolari che si intervallavano a faticosi sospiri. Lui stesso non era riuscito ad abbandonarsi al sonno: aveva meditato, sentendo lontana e irriconoscibile la voce di Yevon, cercando di cancellare la propria presenza dal mondo.

Ma al posto dello stato di grazia che aveva desiderato erano giunte le domande, i dubbi sulla virtù delle proprie azioni, il suo cercare il dio in luoghi dove forse non avrebbe dovuto nemmeno essere pronunciato il suo nome. Come poteva esserci una santa guerra o una santa distruzione? Non avrebbero dovuto piuttosto accettare la punizione di Yevon e piegarsi senza combattere al flagello che veniva dal mare? Esisteva, ne era sicuro, una santa morte.

Auron si posò sulle ginocchia la spada: era più pesante del solito. Attirato dal rumore di ornamenti di ferro che, mossi dal vento, tintinnavano l’uno contro l’altro, sollevò gli occhi verso le insegne. Le portavano due uomini con mantelli rossi, e su ognuna di esse spiccava il simbolo dell’Inquisizione, cosicché in ogni momento i soldati potessero sapere dov’era chi li guidava.

Alan incontrò e sostenne il suo sguardo. Al centro dei suoi uomini, circondato da quella stessa aura di sacralità che disprezzava, stava parlando con Braska. Poche posizioni oltre, un ragazzo di neanche diciott’anni stringeva uno scudo a torre troppo pesante per lui, la testa nascosta da un elmo troppo grande.

Auron guardò avanti, oltre la selva di lance, quando i corni squillarono una seconda volta: due segnali brevi e uno lungo annunciavano che il nemico stava arrivando.

La superficie del lago era increspata come se ribollisse di vita propria. I guerrieri giurarono di aver visto il dorso della balena fare capolino alla luce del sole, per poi immergersi di nuovo nelle profondità.

All'improvviso, l'acqua già mossa divenne un turbinio agitato dal quale si poteva udire un ronzio acutissimo. Dal lago, come da un nido di vespe, emersero centinaia di Scaglie di Sin.

Come gli insetti avevano le ali, ritte e forti sulla schiena scanalata, ma quattro zampe chitinose tenevano i loro corpi in equilibrio sul terreno ghiacciato. Le loro fauci orrende si aprivano in una morsa che prometteva l’aspra morte, non vedevano con occhi ma con scaglie attorno al capo.

«Ma che diavolo…» esclamò Jecht trattenendo un singulto.

Nel silenzio, si innalzò l’urlo fiero di un uomo: un soldato che reggeva il simbolo dell’occhio di Yevon piantato su un’asta corse contro il nemico a spada sguainata.  Immediatamente fu supportato dagli scudi degli altri. 

Auron si guardò intorno, spaesato nell’assistere con i propri occhi a una scena che aveva solo studiato nei libri.

Le Scaglie di Sin si scontrarono con i soldati come due cervi che s’incornano l’un l’altro. I fanti le respingevano con l’impatto terribile dei loro scudi, le rimandavano indietro e venivano a loro volta colpiti. Nella piana dove già erano scesi in migliaia, Auron vide strani arti frustare gli elmi e far tentennare i soldati, schizzi di sangue mischiarsi ai lunioli leggeri.

Un altro squillo, proveniente da un punto molto vicino a lui, li informò che i nemici avevano fatto breccia nelle fila. I soldati davanti a lui brulicavano; qualcuno di loro cadde come un fiore reciso, colpito al viso da spine e al ventre da sferze.

Auron distolse gli occhi quando vide la seconda fila avanzare come una mandria di elefanti, schiacciando coloro che erano a terra. Uno degli uomini che reggevano le insegne trafisse una Scaglia con l’estremità inferiore dell’asta, acuminata come una lancia.

«Proteggete l’Invocatore!» gridò.

Auron non aveva bisogno di sentirselo dire: aveva avuto paura, ma ora l’impeto della battaglia lo trascinava con forza. Il suo braccio sapeva cosa doveva fare, il suo animo per cosa doveva morire.

Il mare, quasi per ricordare la sua presenza, ruggì. Una creatura enorme, piegata su se stessa, attirava le Scaglie come la terra chiama a sé ciò che pesa. Le sue braccia si spalancarono, il corpo di scolopendra levò al cielo uno stridio orrendo che respinse i guerrieri della prima linea, gettandoli a terra dove vennero dilaniati dai mostri più piccoli.

Impugnato a due mani lo spadone, il monaco tagliò in due una Scaglia che gli era saltata addosso, e spanse i lunioli tutt’attorno. Il cuore nel petto gli batteva come un tamburo, tuttavia lo distrasse il modo in cui alcune delle luci non salissero verso il cielo, ma si dirigessero alle sue spalle.

Dimentico delle regole che governavano la battaglia, si voltò e vide Alan accanto al fratello: erano ancora illesi grazie alle loro guardie. L’Inquisitore stringeva nella mano destra la catena del turibolo, che stava assorbendo i lunioli. Con la sinistra, fece cenno di suonare l’avanzata solo per il proprio manipolo.

Si gettarono dritti tra le fauci delle Scaglie, verso il mostro che torreggiava come il Gagazet, e Auron d’un tratto si ricordò dove si trovava.

Si rese conto di non essere ben concentrato, dato che troppi erano i fronti a cui puntare la spada. Braska doveva essere la priorità assoluta della sua guardia, ma Jecht non aveva esperienza sufficiente per destreggiarsi tra le orde nemiche senza finire ucciso.

Schivò una Scaglia e ne mozzò le zampe, ma i suoi occhi non si posavano mai a lungo sul nemico che stava combattendo. Respinse col piatto della spada gli artigli di un nemico che aveva puntato Braska, anche se quest'ultimo si era preparato ad affrontarla con una barriera magica.

Il monaco iniziò a sentire la testa girare. Un grido soffocato lo fece voltare di scatto: Jecht aveva provato l'affondo trovando la carne resistente di un mostro, e lo aveva abbattuto con furia.

Tirò un sospiro di sollievo: se la stava cavando discretamente, pensò. La sua lucidità, tuttavia, aveva iniziato a vacillare: una Scaglia si impigliò nel lembo del suo cappotto con uno spuntone, trascinando con sé Auron sulla fredda terra intrisa di sangue. Il monaco lasciò la presa sulla spada, in modo tale da non ferirsi.

Le sue grida allarmarono Jecht, che assistette alla scena con la morte nel cuore. Si lanciò a capofitto verso il mostro, forte e con movimento rapido. Tuttavia, non era veloce abbastanza.

Braska strinse i denti e avvolse l'atleta con una magia che richiedeva molta fatica, donandogli la capacità di correre come il vento che soffia. Jecht raggiunse la Scaglia e spezzò di netto l'estremità che teneva ancorato l'indumento del monaco. La creatura fuggì via, attirata da prede più interessanti.

Auron lamentò dolore diffuso, ma non era in pericolo di vita. Jecht si voltò verso di lui, squadrandolo da capo a piedi per accertarsi delle sue condizioni.

«Stai bene?» gli gridò con voce accorata.

«S-sì, non preoccuparti!» rispose Auron, cercando di rimettersi in piedi. Le contusioni al torace lo fecero tossire.

Jecht si piazzò davanti a lui ergendosi in tutta la sua altezza: avrebbe respinto con impeto qualunque cosa si fosse avvicinata.

«Ci sei?» chiese col cuore in gola.

«Sì, non distrarti!»

«Coraggio, monachello».

Auron si vide soffocato dai corpi in movimento della fanteria: ognuno combatteva per la propria vita, cadere a terra significava morte certa. Lo avrebbero ucciso con la spada in mano, a protezione dei suoi compagni, e mai schiacciato al suolo come un insetto.

Jecht stava rischiando tantissimo in quella posizione, esposto a ogni tipo di attacco: lasciare Braska da solo andava contro ogni principio, ma vedere l'atleta così determinato fece stare meglio il monaco.

Se la può cavare, pensò.

Il duro addestramento tese la mano al giovane, come il maestro che guida l'allievo: Auron iniziò a praticare le tecniche di respirazione utili per abbattere il dolore, per poi stringere i denti e alzarsi ritto sulle gambe, non senza soffocare un lamento.

«Jecht, la mia spada!» urlò Auron per sovrastare il clamore della battaglia.

«È qui vicino! Andiamo!»

Il monaco appoggiò la mano sulla sua scapola e gli intimò di avanzare, posizionandosi quanto più vicino possibile alla sua schiena imperlata di sudore: se si fossero separati, le possibilità di sopravvivere sarebbero state minime.

Farsi largo in quel mare di lame era arduo, ma ancor di più lo era ignorare i soldati urlanti e il sangue viscoso a terra. Una spallata involontaria di un anonimo guerriero colpì Jecht, facendolo barcollare di lato: Auron lo afferrò per le spalle e lo rimise dritto, per poi incitarlo a continuare. Il monaco non poteva vederlo in volto, ma sentì una sua colorita imprecazione.

L'uomo di Zanarkand non aveva una chiara percezione della sua posizione sul campo di battaglia. Si guardava intorno di continuo e, allo stesso tempo, prestava attenzione alla terra che calpestava. Nonostante l'arma fosse in vista, recuperarla si rivelò eun'impresa non facile.

Jecht usò il piatto della sua spada per farsi largo, lasciando spazio sufficiente al compagno per piegare le gambe e afferrare l'elsa. Una gomitata colpì Auron in pieno sulla guancia, ma si impose di non vacillare.

Tornati entrambi all’erta, volsero gli occhi all’insegna sotto la quale si trovava Braska e si incamminarono: dovevano ricongiungersi alla guardia del loro Invocatore.

Braska aveva giunto le mani in preghiera: una flebile luce, che feriva gli occhi sotto il cielo livido, si dipartì da lui come i raggi dal cuore del sole.

Volse gli occhi verso il fratello, e non gli servì dire nulla. Il fumo dell’incenso li aveva già attorniati, aveva già preso forma di bestia e aveva fatto spalancare le bocche dei soldati vicini.

Alan diresse la creatura verso il nemico più grande, ignorando le Scaglie minori come orbettini in un nido di vipere.

Auron si vide immerso nella nebbia, sentì un ruggito tutto intorno a sé e un corpo che, mutando e crescendo con i lunioli che assorbiva, era ancora intangibile.

Diventò reale, una lince con due grandi zanne, quando affondò le zampe anteriori su due Scaglie, schiacciandole senza difficoltà. Ruggì diretta alla sua preda, e il mostro le rispose con un grido ferale.

Il felino gli fu addosso, le sue unghie che erano state di fumo cercarono di lacerargli la corazza. Riuscirono solo a tranciargli di netto un braccio, che cadde sopra le progenie di Sin, decimandone le fila.

La Scaglia maggiore, agitandosi come il cinghiale ferito che ancora resiste, fece addensare le nubi e chiamò una catena di fulmini. Mentre alcuni colpirono la lince, che vide pezzi del suo corpo andare in fumo e altri sgretolarsi in lunioli innumerevoli, altri invece si infransero sui soldati dalle armature di metallo.

La testa della Scaglia cominciò a muoversi frenetica, e un liquido verde fu rigettato sulla creatura di Alan. Lei ruggì, levando al cielo l’ultimo boato e affondando su carne tenera, per l’ultima volta, le zanne.

Un secondo verso le rispose, prima che il vento la portasse via. Auron non aveva mai udito nelle pianure di Spira un richiamo così potente, né Sin nel mare aveva mai urlato con tanta forza; le tigri d’oro di Zanarkand, che erano il più terribile degli animali, non avevano mai scosso tanto la terra.

Nonostante la vista offuscata dalla nebbia residua, i colori sgargianti dell'eone evocato da Braska spiccavano come gemme.

Il drago Bahamut si ergeva imponente sulle zampe posteriori, grande tre volte un uomo. Teneva gli arti superiori incrociati sul petto squamoso e gli occhi bianchi puntati sui nemici: sembrava che provasse sdegno per i piccoli esseri che lo circondavano.

Le Scaglie emisero dei versi acuti alla sua vista, forse spaventate dai colori minacciosi del drago. Il suo corpo era del colore della notte illuminata dal Fluvilunio di stelle, mentre i suoi artigli e il ventre scintillavano d'oro, così come il cerchio sacro che ruotava dietro la sua schiena.

Le ampie ali erano coperte da strati di piume, dalle sfumature che andavano dal rosso rubino al fucsia e poi di nuovo al rosso sanguigno; delle scaglie appuntite emergevano dalle loro estremità.

Jecht guardava la bestia con occhi strabuzzati. Nemmeno Auron aveva mai visto l'eone di Bevelle, nonostante le preghiere che cantava parlassero della sua forza. Toglieva il fiato: la sua sola presenza schiacciava il torace.

Braska aveva l'aria esausta, ma brillava anche di determinazione: puntò lo scettro verso le Scaglie e urlò qualcosa a Bahamut, che districò le zampe anteriori e ruggì con furia.

Le fauci dell'eone si spalancarano, e una luce bianchissima iniziò ad aumentare di intensità tra le sue zanne. Il drago tirò indietro il collo, come inghiottendo la sfera d’energia prima di vomitarla. Emise un raggio contro la Scaglia più grande, bruciandole il secondo braccio e lasciandole il segno dell’ustione sull’addome.

I soldati esultarono dopo il magnifico attacco del drago: li spinse a lottare con più foga e rinnovata forza d'animo.

Braska, piegato dallo sforzo, fu costretto a ritirare l’eone, affinché il legame non logorasse la sua anima e lo lasciasse immobile a terra. Il fumo dal turibolo di Alan si raddensò di nuovo, si trasformò in un giavellotto che fu scagliato con precisione tra le fauci del mostro. Quello urlò e si dibatté, come uno squalo trafitto dall’arpione ricurvo, ma infine crollò su se stesso e si dissolse, portato via dal vento come se non fosse mai esistito.

La pianura gelata sospirò, esalando al cielo il vapore caldo del sangue. Il silenzio durò solo un attimo: subito infatti il corno suonò di nuovo e l’Inquisitore ordinò la ritirata. I fanti si ritirarono prima che la seconda orda di Scaglie uscisse dal mare; le fila retrocedettero tutte e lasciarono spazio alla carica dei cavalieri, che chiusero l’esercito nemico ai lati.

Auron vide lampi gialli davanti agli occhi, sentì le zampe rinforzate dal ferro dei chocobo che, come tanti tamburi, scandivano il ritmo della corsa.

L’impatto tra le Scaglie, ormai più grandi e più resistenti, e le cavalcature da combattimento fu improvviso e – cosa che mai si sarebbe aspettato – avvenne senza troppo rumore.

Da lontano, li guardò scontrarsi nella pianura, vide che ognuno dei suoi che cadeva si portava dietro due nemici.

Accanto al lago, quando la nube di lunioli si fu dispersa, non rimasero altro che corpi distesi a terra con gli arti piegati in posizioni innaturali – uomini che nemmeno se legati dai fili di un miracolo si sarebbero rialzati – scagliati lontano dai loro chocobo.

Auron, dall’altura su cui si erano ritirati, contemplò il silenzio della strage subito dopo la tempesta, sentì sulla pelle il vento che sollevava solo, delicatamente, il lembo di un’insegna arrossata a terra. Si riempì le narici dell’odore del sangue e si volse verso Alan.

Sapevo che vi avrei assistito, ma non ero pronto a vederlo, pensò, osservando i suoi lineamenti che non venivano mossi da pietà o compassione, i suoi occhi celati in parte dal velo con cui terminava il copricapo che indossava.

Jecht, stravolto, fece un passo verso l’Inquisitore come per cercare il corpo a corpo. Auron scattò per fermarlo, ma le energie dell’atleta finirono prima che arrivasse al suo obiettivo. Si lasciò cadere debolmente e fu sostenuto dalle braccia del monaco.

Alan lo fissò per qualche istante e poi sorrise al fratello: il bagliore dei suoi denti rifulse sotto le labbra, bianco come la neve di Macalania.

«Mio amato Braska» esordì, con le braccia aperte. «Danzerai il Rito del Trapasso per celebrare la nostra vittoria?»

Auron aggrottò le sopracciglia: gli era parso di sentire una strana nota nella sua voce. La sua attenzione, però, si rivolse di nuovo a Jecht che sembrava volersi aggrappare a lui, lasciata a terra la spada.

L’Invocatore ricambiò il sorriso, mesto, gli occhi ancora sui cadaveri a terra. Poi li alzò su Alan.

«Li guiderò all’Oltremondo, ma tu riporta alle loro tende i soldati: è pericoloso farli stare qui quando Sin potrebbe tornare in qualsiasi momento».

L’Inquisitore si portò una mano al mento, prima di dare il segnale con un cenno distratto della mano. Un ragazzino biondo scattò sull’attenti e corse tra le fila, che presto presero a rompersi e rumoreggiare.

«Non sei contento?» domandò Alan al fratello. «L’attacco è stato contenuto: con la vita d’un pugno di eroi abbiamo sventato il male maggiore. Non è forse questo che fate anche tu e i tuoi Guardiani?»

Braska si era avviato verso le sponde del lago, ma si voltò indietro e rispose:

«Quindi credi che un solo giorno, in questo modo, abbia decretato il destino del mondo?»

 

 

Braska danzava sopra la terra arrossata dalla strage. Dopo il clamore, si muoveva in mezzo a un silenzio in cui lo stormire delle frasche era forte come un tuono.

Ogni passo era un brivido lungo la schiena, e più di una volta aveva dovuto sopprimere un conato: il sentore metallico del sangue in bocca era un incubo che non desiderava più vivere.

Tuttavia, quello era il suo dovere. Era suo dovere danzare con la morte, era suo dovere guidare quelle piccole luci verso la pace eterna.

Auron guardò i lunioli dipartirsi dal suolo, inginocchiato di fianco alla sua spada. Aveva smesso di pregare e fissava il campo di battaglia davanti a sé, stupendosi di come nessuno più respirasse nello stesso luogo dove prima aveva gridato.

Quando si accorse di stare battendo i denti, serrò la mascella. Una voce lo stava chiamando, ed era più vicina di quella di Yevon, più dolce, più disperata.

«Ehi, ragazzo...»

Auron voltò lo sguardo verso Jecht. Era seduto a gambe incrociate, al suo fianco. Anche lui guardava i lunioli, ma il suo viso aveva un’espressione smarrita. La sua mano, sollevata da terra, tremava leggermente.

L’uomo di Zanarkand sembrò sul punto di continuare la frase, ma si interruppe all’improvviso. Non riusciva a distogliere lo sguardo dai corpi a terra, dalla bellezza aliena dei movimenti di Braska.

Qualche mese prima, Auron avrebbe liquidato la debolezza di Jecht con un non ha fede abbastanza. Lui non credeva abbastanza, non pregava abbastanza, non somigliava abbastanza agli altri. Però tutti erano stati resi simili dalla guerra: erano distesi a terra, chi aveva gradi sull’uniforme era come chi non li aveva, chi aveva il viso dilaniato e la bocca digrignata era come chi era spirato senza una smorfia di dolore.

«Sono morti» osservò Jecht. Auron lo sapeva, ma fu come se quella rivelazione lo colpisse solo in quel momento.

Mentre pregavano assieme, Braska gli aveva spiegato ciò che aveva provato quando, piegato dalla malattia, si era trovato vicino all’Oltremondo. Aveva parlato con parole limpide quanto i suoi occhi, eppure Auron non era stato in grado di capirlo. Il respiro strozzato in gola di Jecht, il suo sguardo vacuo, il suo tremare come una foglia gli furono invece subito chiari.

Scusa, pensò, mentre gli si avvicinava, Braska sarebbe di certo migliore di me.

Con esitazione, gli posò una mano sulla schiena e lo attirò a sé. Jecht non si mosse, ancora scosso da tremiti, né diede segno di comprendere cosa stesse accadendo attorno a lui. Solo dopo qualche momento cercò di ricambiare la sua stretta, ma non riusciva ad alzare le braccia, affaticato dalla battaglia e dal panico.

Per la prima volta, Auron si intenerì vedendolo. Non si era mai paragonato ad altri, ma si vide al posto suo, terrorizzato, senza nemmeno le forze di maledire il dio che gli aveva impedito il ritorno e gli aveva tolto la casa e il figlio.

Lo strinse a sé come avrebbe fatto con una vedova e, dopo un attimo di tentennamento, gli prese le mani. Jecht intrecciò le dita alle sue come se stesse afferrando il capo di una corda che lo avrebbe salvato dal baratro. Le strinse con tutte le forze che aveva, incurante delle ferite alle mani, gli tenne immobile la destra vittoriosa, come per impedirle di fare altra strage.

«Ho capito perché lo fa» disse Jecht. La sua voce era debole, ma le sue parole erano frenate solo dalla fatica di aver combattuto.

«Che cosa?» domandò Auron, ma i suoi occhi, come se già sapesse la risposta, erano fissi su Braska che danzava, il bel corpo slanciato verso l’alto come quello dell’Invocatrice Yocun era ormai solo nelle statue.

Alcune anime se ne stavano ancora tenacemente aggrappate ai corpi, non volevano andarsene neppure se i loro padroni erano morti, erano caduti nella polvere e dormivano sotto il cielo bianco di Macalania.

«Ho capito perché vuole rischiare la vita per sconfiggere Sin».

 

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Capitolo 16
*** Amore Fraterno ***


CAPITOLO 13: AMORE FRATERNO

 

 

«Ehi, principe dei ghiacci» chiamò la voce roca di Jecht, seguita dallo strofinio del suo corpo sulle lenzuola.

Auron, steso sul letto vicino, gli dava le spalle. Si concesse, nel sentire quel nomignolo, un sorriso che l’altro non avrebbe visto.

«Sì?» replicò, con tono secco. Condividere la stanza con Jecht dopo una battaglia, quando avrebbe avuto bisogno di stare con se stesso, non era la migliore delle eventualità.

«No, niente, pensavo fossi morto. Non sentivo il solito vento freddo spirare nella mia direzione».

«Prova ad aprire la finestra».

Con un sospiro, Jecht si tirò a sedere sul materasso, incrociando le gambe. A Zanarkand avrebbe sofferto come un leone in gabbia se fosse stato costretto a rimanere in una stanza in cui poteva solo dormire, ma su Spira ringraziava la sorte che gli aveva concesso quella pausa.

Si sporse verso il vetro e vide le nubi infuocate e il fumo nero che saliva dalla terra.

«Ma che succede?» domandò.

Auron si voltò verso di lui e si mise anch’egli a sedere. I capelli scompigliati gli ricaddero sul petto e davanti al viso.

«Sono le pire» spiegò, scostandoseli dagli occhi. «Bruciano i caduti».

Jecht fu scosso da un brivido e fece una smorfia con la bocca. Auron fu tentato di dire qualcosa di gentile, ma la voce gli si bloccò in gola: tormentato dai ricordi del campo di battaglia, lo assalì l’imbarazzo. Decise di rimanere in silenzio a contemplare il fumo che veniva portato via dal vento.

L'umore dei Guardiani migliorò quando Braska varcò la soglia della loro stanza, portando con sé delle caramelle e un gran sorriso. Jecht osservò il sacchetto di dolcetti che stringeva nella mano destra e ridacchiò: in qualche modo, l'Invocatore riusciva sempre a ottenere oggetti che prima di certo non aveva.

«Vi trovo meglio, amici miei. Questi giorni di riposo erano proprio necessari» disse allegro, per poi allentare il laccio che teneva chiusa la tela. La porse prima ad Auron, che sospirò ma accettò il dono, poi a Jecht.

L'atleta non si fece pregare, ma nel momento in cui allungò il braccio un dolore fulminante lo costrinse a desistere. Braska lo osservò con aria preoccupata, poi prese una caramella e la avvicinò al suo volto: Jecht si lamentò sbuffando, ma aprì la bocca e gustò il dolce con aria beata.

«Ehi, Braska. Secondo te, tra quanto riuscirò a muovermi?» chiese facendo sciogliere la caramella sotto la lingua, punta dal sapore aspro e piacevole del limone.

«A essere sincero, speravo di vedere miglioramenti maggiori. A volte dimentico che non sei abituato» rispose gentilmente l’Invocatore.

«Siamo sicuri che non si sia inventato anche la storia del blitzball?» intervenne Auron, poi si voltò verso Jecht. «Non ti allenavi otto ore al giorno?»

«Senti, monachello, non sono abituato a fare sforzi del genere, capito? Vorrei vedere te a nuotare per tutta la durata di una partita».

«Non ci tengo».

«Certo che non ci tieni. Non hai il fisico da nuotatore» commentò Jecht, squadrando Auron da capo a piedi come se fosse la prima volta che lo vedeva. Le tuniche che i monaci di Macalania avevano dato loro gli lasciavano scoperte le spalle e parte dei polpacci: un abbigliamento forse un po’ troppo azzardato per lui.

«Credo che entro tre giorni, quattro al massimo, ti sarai perfettamente ristabilito» intervenne Braska, cercando di sedare gli animi.«Nel frattempo, potrò recarmi al tempio e ricevere l’eone».

«È vero che è a forma di bella donna?» intervenne Jecht, all’improvviso interessato.

Auron lo fulminò con lo sguardo, mentre Braska coprì una risata con la mano.

«Così dicono, amico mio».

Presto si congedò per ritirarsi in preghiera. Lasciò di nuovo i suoi due Guardiani soli nella stanza, immersi in un silenzio opprimente.

«Gli uomini di Spira reggono la spada con la stessa facilità con cui tu terresti una bacchetta» commentò Auron dopo qualche secondo.

«Scusa tanto, uomo di Spira» replicò Jecht, piccato. L’istinto lo portò a gesticolare ma le sue braccia non si muovevano. «Dato che sei così forte, vuoi imboccarmi tu la prossima volta? Hai sentito Braska, hai quattro giorni per farti avanti».

Il suo compagno di viaggio non lo degnò di una risposta, limitandosi a inarcare le sopracciglia con fare minaccioso. Lui cercò una posizione che gli risultasse meno dolorosa possibile e infine si risolse a rimanere a gambe incrociate, con le mani in grembo e la schiena appoggiata al muro.

«Senti, che cosa succede se un Non Trapassato si ritrova in mezzo a un Rito del Trapasso?» chiese all’improvviso.

Auron, confuso dal repentino cambio di argomento, impiegò qualche istante per comprendere la domanda.

«Scompare» gli rispose infine.

«Anche se il rito non è diretto a lui?»

Auron si prese di nuovo qualche secondo.

«Sì. Perché me lo chiedi?»

Jecht si guardò intorno con fare sospettoso, per poi abbassare la voce e sporgersi verso Auron.

«Quando Braska ha svolto il Rito del Trapasso, Alan è rimasto nelle retrovie a guardare. Eppure, glielo aveva chiesto lui. So che potrebbero esserci altre spiegazioni, ma...»

S’interruppe e Auron, interdetto, lo guardò con le sopracciglia aggrottate.

«Conosco la forza della gente di Spira» continuò l’atleta, «ma come può un uomo sopravvivere in alta montagna senza viveri per mesi? O la sua storia è diversa da come la raccontano, oppure non è vivo».

«Se fosse così, Braska lo avrebbe Trapassato: è nelle nostre credenze il rispetto per i morti».

Jecht si lasciò sfuggire un sospiro nervoso e si passò le dita sulle palpebre. Le lenzuola dove era avvolto Auron svanirono assieme al resto, per solo un istante. Riapparvero subito dopo in un lampo candido.

«Perché è suo fratello» ribatté. «E l’amore a volte ci impedisce di lasciar andare».

I suoi occhi si persero nel vuoto mentre ricordava lo sciabordare dell’acqua da cui Tidus raccoglieva il pallone; poi si spostarono sul viso del monaco. Il suo viso altero aveva una sfumatura, seppur impercettibile, di smarrimento. Era come se uno dei tasselli che costituivano il suo animo si fosse spostato.

Insisti, si disse Jecht.

Auron si alzò in piedi e camminò verso la finestra.

«Tutte le cose, su Spira, hanno un ordine» spiegò allo straniero. «Come l’animale più forte preda il più debole, o l’anemone cresce ai piedi degli alberi, così anche gli uomini sono soggetti alla legge della natura. I Maestri di Yevon, tra cui Alan, governano le città e le loro istituzioni, però devono sottostare alla legge divina e quindi accettare placidamente la morte. Così ha deciso Yevon, e chi gli è sacro gli obbedisce».

«E in principio tutto questo è molto logico» continuò Jecht. Le sue ciglia scure intrappolarono il raggio di sole penetrato dalla finestra, e un dolore sottile lo colpì alle tempie. «Ma sai, a Zanarkand avevamo un re, e poi avevamo dei templi dove la gente che ci credeva andava a pregare gli dei. I sacerdoti governavano i templi e il re la città».

Auron aggrottò di nuovo la fronte.

«Perché?»

Prima di rispondere, Jecht storse le labbra. Auron, a differenza di Braska, non aveva nemmeno il minimo sospetto che il clero potesse essere corrotto: era difficile per lui dubitare dell’istituzione che lo aveva cresciuto.

«Perché quando la gente ha potere su altra gente fa di tutto per mantenerlo. E più grande e più egemonico è questo potere, più chi lo detiene non vuole lasciarlo, mettendo da parte qualsiasi tipo di virtù. Questo vale anche per i Maestri di Yevon: è più bello dominare i vivi che essere un’ombra in un pugno d’ombre».

Il monaco lo guardò con un’espressione enigmatica, inclinando leggermente la testa di lato. Qualche mese prima sarebbe andato su tutte le furie nel sentire un attacco del genere alla Chiesa, eppure in quel momento c’era qualcosa che lo fermava.

«Perché mi stai parlando in questo modo?» chiese all'improvviso. Jecht rimase senza parole per qualche istante prima di rispondere.

«Prima di combattere, al banchetto di Alan hai capito quando era meglio tacere e quando distogliere lo sguardo. Hai guardato delle miniature su un tavolo e hai capito la strategia di una battaglia: tu sei intelligente».

Auron non rispose e puntò gli occhi verso il frammento di cielo visibile dalla finestra. Jecht scosse la testa e si sdraiò, senza provare delusione: si era spinto dove non sperava nemmeno, avrebbe ritentato in un secondo momento.

 

 

«La tua è una lunga strada, amato fratello».

I veli sul ponte, gonfiati dal vento come vele nella tempesta, venivano spinti contro Alan, abbracciavano il suo corpo e poi se ne discostavano di nuovo.

Davanti a loro era incagliata un’aeronave che non sarebbe mai più partita. Il ghiaccio, in parte annerito dai gas di scarico, la serrava nella sua fragile tagliola. La Chiesa di Yevon ne aveva arredato l’interno, l’aveva reso un luogo sacro ponendo nel naos la statua dell’Intercessore.

«Lunga e raggelante come il cuore di Shiva».

Braska lo guardò avanzare per la strada parallela alla sua. I veli erano tra loro, impedivano ad ognuno dei due di avere una visione chiara dell’altro, ma per qualche motivo gli sembravano rassicuranti. Strinse le labbra, calde e spaccate dal freddo di Macalania.

Quando un fiocco di neve spinto dalla tormenta lontana gli graffiò la guancia, l’Invocatore si accorse di stare osservando il tempio da più di quanto pensasse. Alan, percorso per intero il ponte, era già giunto alla porta.

L'esperienza avuta con l'eone Bahamut era stata più profonda di quanto Braska avesse fatto trasparire, e aveva lasciato un solco nella sua mente. Portò la mano destra sulla sua fronte e massaggiò con delicatezza: poteva giurare di sentirlo davvero, quel solco, sotto le dita.

Era stanco, forse troppo. Da un lato nel suo petto ardeva, come fiammella tiepida e costante, il desiderio di andare avanti a discapito dei limiti del proprio corpo, dall’altro sapeva che l’anima di un vivo, da sola, non può spostarsi di luogo in luogo.

Era per lui imprescindibile il fatto che i suoi polmoni non erano in grado di sostenere un ripetuto sforzo. Si voltò indietro, da dove era venuto: la ragione gli suggeriva di ascoltare le richieste dei suoi Guardiani e riposare qualche giorno in più, ma il pensiero del dovere lo spinse a fare un passo avanti.

La prossima volta, amici miei, si trovò a pensare, respirando a fondo l'aria gelida.

Far attendere il Grande Inquisitore poteva essere considerato un oltraggio, così Braska si affrettò e lo raggiunse.

Dalla sacca che portava con sé, Alan poi estrasse una pergamena di pregiata fattura e la spiegò con con cura.

«Questo documento afferma che tu, Braska, nel terzo mese dell'anno milleventisei, hai dato il tuo contributo per aiutare l'Inquisizione. La tua posizione ne beneficerà molto: ti consiglio di firmarla».

La richiesta di Alan sembrava più un ordine alle orecchie di Braska, ma l'Invocatore accettò di buon grado: lo interpretò come un gesto di affetto nei suoi riguardi. 

Una volta apposta la firma, il Grande Inquisitore mise da parte il documento e fece un cenno soddisfatto con la testa.

«Ti attende una dura prova, fratello. Va’, dunque: che l'Intercessore ti conceda il dono».

Alan rivolse a Braska la riverenza, con un sorriso che poteva sembrare canzonatorio dipinto sul volto. La porta del tempio si spalancò e, assieme a una ventata d’aria calda, ne uscì un individuo ammantato.

I suoi capelli, verdi come le fronde della quercia nodosa, erano intrecciati sul capo da cui salivano come radici aeree.

Al Maestro Jyscal, capo della tribù dei Guado, era comparsa una ruga in più da quando aveva costretto, con l’ordine di Alan ma con la propria voce, suo figlio mezzosangue all’esilio. Era lunga e profonda: partiva da sotto il sopracciglio sinistro, che pareva sempre inarcato con rabbia sul viso corrucciato, per arrivare sin quasi al mento dopo aver attraversato la palpebra spessa, innaturale per un umano.

Così come a Bevelle, in segno di lutto, i guerrieri si tagliavano i capelli, Jyscal non si era più tagliato le unghie. Avevano cominciato a crescere a dismisura dallo stesso giorno in cui il figlio era stato allontanato da Guadosalam – con editto immediato, si era premurata di aggiungere l’Inquisizione – e le sue dita avevano assunto un che di deforme e ferale.

In cambio di quel sacrificio, la chiesa di Yevon lo aveva nominato Maestro. Guardandolo negli occhi dalle palpebre cadenti, un animo smaliziato avrebbe potuto pensare che, in fondo, la gestione del tempio – assieme a una bella collana d’argento pieno – gli era valsa bene l’esilio di un figlio.

Alan gli rivolse un cenno del capo, che fu subito imitato da un inchino più profondo. I lunioli, usciti dal turibolo, si addensarono attorno alle sue mani, costruendo poco alla volta l’immagine di un giavellotto che diventava sempre più tangibile.

Jyscal fece un passo indietro, quasi temesse di essere trafitto dall’impeto di un’ira improvvisa.

«Sto accompagnando l’Invocatore al naos» spiegò invece l’Inquisitore con un sorriso.

Il pomo d’Adamo del Maestro si affossò per poi risalire come il sughero attaccato all’amo.

«Da questa parte, signore» lo invitò con pacatezza. Mentre Braska passava oltre rivolgendogli uno sguardo sereno, gli occhi di Alan invece non si staccarono da lui fino a quando la porta delle camere interne non si richiuse alle sue spalle.

Braska rimase immobile, contemplando quel luogo che così di rado poteva essere visto da occhi umani. La stanza era circolare, senza finestre o porte: una vera e propria tomba per l'Intercessore che la occupava. Un corpo imbalsamato, al centro, era custodito in una bara di vetro.

La dolce voce di una donna cantava incessante l’inno di Yevon.

Lo sguardo di Braska si soffermò per lunghi istanti sulla pelle dell’Intercessore, che immaginava essere stata un tempo bruna e profumata dagli unguenti. Ormai era fragile e grinzosa come cartapecora.

L'aria era viziata per la lunga chiusura, e Braska si sentì oppresso. Si immaginò di perdere le forze e cadere a terra, ma durò solo il tempo di un battito di ciglia: la benedizione di Shiva era necessaria per sconfiggere Sin.

Rinvigorito nello spirito, si inginocchiò al cospetto dell'Intercessore e trasse un profondo respiro: una forza impetuosa prese possesso del suo corpo, doveva sostenerla per superare la prova.

Alzò gli occhi verso il fratello, che lo aveva accompagnato nella Camera dell’Intercessore. Era appoggiato alla lancia, sul viso l’espressione di quando gli era permesso di sovrastare, per altezza o potere, qualcuno.

All’improvviso, Alan rinsaldò la presa sull’arma, la sollevò da terra e si avvicinò a Braska. Quando gli prese il mento tra le mani, l’Invocatore, impaurito, fissò lo sguardo sull’asta del giavellotto.

Alan intuì il suo pensiero e lo fece svanire, scomponendolo in lunioli che vennero attratti dal corpo al centro della sala.

«Jyscal Guado» commentò. «Un uomo così debole che preferisce il potere alla sua gente. Che cosa ne pensi?»

«Che hai fatto convertire tu il suo popolo» replicò l’Invocatore, con gli occhi sull’Intercessore. La schiena di Shiva era attraversata da due tagli disposti a croce. «Non puoi aspettarti che ti obbediscano».

«Mh» ribatté Alan, togliendo la mano dal viso del fratello e dirigendosi verso l’uscita. «Sto cominciando a dubitare della buona fede di alcuni Maestri. Yevon ha bisogno di uomini davvero devoti alla sua causa. Come te, ysuna».

Braska si allarmò.

«Da quando conosci l’Al Bhed?»

Alan si limitò a scrollare le spalle prima di uscire dalla stanza.

L'Invocatore era stato sorpreso da quella piccola scoperta, ma un compito ben più gravoso lo attendeva: sollevata la veste fino a sopra le ginocchia, assunse la posizione di preghiera davanti al simulacro.

«I e yu i no bo me no» sussurrò una donna al suo fianco. Gli occhi dell’Invocatore la videro avvicinarsi e salirono lungo il profilo delle sue gambe sottili.

Era una giovane di una bellezza tanto splendente da far perdere al Sole il suo primato. Alta e snella, i lunghissimi capelli intrecciati e adornati, morbida la curva dei fianchi. Non provava vergogna a mostrare il corpo che era tra i più perfetti e divini.

Braska non invidiava una bellezza simile, anzi la temeva: avrebbe potuto essere, come tutto ciò che di irraggiungibile si desidera, fonte di rovine e di guerre.

La donna posò una mano sulla fronte di Braska e sorrise. Lui sentì i pianeti, allineati sui loro circoli, osservarlo da dove nulla era corruttibile. Le sfere volgevano attorno a lui, il grande Giove molto sopra a Marte vendicatore. Braska chiuse gli occhi e percepì il distacco dal proprio corpo.

Le ginocchia smisero di fargli male e diventò lui stesso una sfera, in moto attorno alla bellissima donna immobile, pronto a mutare nell’elemento che lei avrebbe preferito.

L’Invocatore sentì il proprio essere diventare di ghiaccio, puro e trasparente, attraverso il quale l’occhio di Shiva poteva vedere e il suo canto diffondersi lontano.

L’eone fece qualche passo verso il centro della sala, guardò in alto dove l’orbita, ruotando con moto uniforme, la circondava. Sorrise di nuovo e schioccò le dita: il velo di ghiaccio si spezzò senza un suono e una pioggia di diamanti ricadde su di lei. Shiva abbassò lo sguardo ornato dalle lunghe ciglia e fissò un fiocco che, innocuo, si scioglieva sul suo seno.

Tornato in sé, Braska si trovò disteso a terra bocconi, con un dolore tanto forte al centro del petto da fargli desiderare di essere stato piuttosto trapassato dal giavellotto di Alan.

Aiutandosi con le braccia tremanti si tirò in piedi e, sebbene la sua vista fosse offuscata, si diresse verso la porta della Camera dell’Intercessore per uscirne. Riuscì a spingerla senza difficoltà dal momento che il fratello l’aveva lasciata socchiusa.

Una volta compiuto quell’ultimo sforzo, cadde in avanti.

Alan, che attendeva nella Camera della fede come avrebbero dovuto fare i Guardiani, vide la figura magra dell’Invocatore stagliarsi in cima alla gradinata. Quella ondeggiò leggermente, poi si fermò e precipitò verso il basso.

Alan corse a sorreggerlo, spingendo il proprio passo alla massima lunghezza possibile. Si slanciò verso di lui con le braccia in avanti, ma la caduta di Braska fu attutita molto prima.

Uno dei suoi Guardiani, l’uomo vestito di rosso, lo aveva preso tra le braccia e lo stava aiutando a fare gli ultimi gradini, in modo che non inciampasse.

Alan fu rapido a portare le mani fra le pieghe della veste e a scoccare un’occhiata di traverso ad Auron.

«Sta bene?» si premurò subito di chiedere il Guardiano. Braska annuì con un lieve sorriso, poi premette debolmente con i palmi sul suo petto e si distanziò da lui, in piedi sulle proprie gambe.

«Non dovreste lasciare l’Invocatore senza custodia» lo ammonì Alan. Auron si voltò e lo guardò come se avesse appena notato la sua presenza.

«Sì, hai… ha ragione» ammise il ragazzo, abbassando la testa.

«Non temere, fratello. Seguono solo il mio volere: avevano bisogno di riposare dopo la dura battaglia».

«Capisco» commentò l’Inquisitore, «due uomini obbedienti valgono come dieci. Dirigiti verso il tempio di Djose, oltre la Piana dei Lampi. Il prossimo eone si trova lì».

Detto questo, senza attendere risposta diede le spalle a Braska e Auron e si incamminò verso l’uscita del tempio.

L’Invocatore si appoggiò alla parete per riprendere fiato, e Auron lo guardò accorato, nel tentativo di scorgere dei lividi sulla poca pelle che aveva scoperta.

«Le ha fatto del male?»

Braska alzò lo sguardo, interdetto.

«Oh, no, prendere l’eone infonde...»

«Sto parlando di Alan».

Le parole di Jecht continuavano a risuonargli nelle orecchie. Non riusciva a scacciare il dubbio che il Grande Inquisitore fosse in effetti un Non Trapassato.

«Oh. No, lui sta solo...»

Braska guardò un punto imprecisato a media distanza, come se stesse vagando nella nebbia di un ricordo.

«Per favore, mi dica cosa sta succedendo. L’Inquisizione ci sta seguendo ovunque».

«Lui mi sta controllando» ammise Braska, con un’espressione stanca ma rassicurante. «Vuole che io giunga in possesso degli eoni, e nient’altro. Ma questo è anche quello che voglio io stesso, e ciò che desideri tu… non è vero?»

«Sì… signore».

 

 

Jecht strinse i denti per lo sforzo, ma a nulla valsero i suoi tentativi. Per quanto lo desiderasse ardentemente, le sue braccia a malapena rispondevano ai suoi comandi, strisciando a peso morto lungo i suoi fianchi.

Andiamo, le dita si muovono…

Il collo inarcato in avanti ricadde sul cuscino sconfitto, lasciando boccheggiante l'atleta di Zanarkand. Auron era rimasto insieme a lui per tutto il tempo, giorno e notte: ora che non c'era, voleva davvero godersi del tempo da solo.

La sua mente viaggiò per lidi intimi che, con dolore, rimasero solo tali.

Ah, sai cosa, si disse, guardando il grappolo d’uva troppo lontano, con questo fastidio mi manca l’ispirazione.

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Capitolo 17
*** Piana dei fulmini, Piana dei lampi (Parte 1) ***


CAPITOLO 14: PIANA DEI FULMINI, PIANA DEI LAMPI (PARTE 1)

 

 

Ci vollero un paio di giorni perché Jecht tornasse a vantarsi delle sue prodezze sportive e a commentare le rigide abitudini di Auron, entrambi segni inequivocabili del fatto che era guarito.

Braska aveva accolto con gioia la notizia: aveva mostrato un sorriso a trentadue denti – sicuramente dovuto anche alla recente migrazione di suo fratello verso terre più calde – e li aveva esortati a fare le valigie.

Auron si era quindi trovato ad aspettarlo seduto su un muretto, con tra i piedi il suo bagaglio e, con significato meno letterale, Jecht.

«La Piana dei Lampi» gli sentì dire, «collega la città di Guadosalam ai boschi di Macalania».

Auron rimase interdetto, con la sigaretta ferma a mezz’aria, e si voltò verso di lui. Aveva in mano un opuscolo e sembrava piuttosto assorto nella lettura.

Santo Yevon, dopo tutto quello che ha passato crede ancora di essere in vacanza? pensò.

«Dove hai trovato quella roba?» sbottò poi in direzione del suo compagno di viaggio.

«L’ho comprata» ribatté Jecht con una smorfia. «Alla Casa del Viante di Rin, mentre aspettavo che la principessa si lavasse e si pettinasse i capelli».

«Jecht...» tuonò Auron, ma il suddetto si era già accomodato sul muretto dal lato opposto al suo e aveva ricominciato a leggere a voce alta.

Il monaco riuscì a ridurre le informazioni sulla loro successiva destinazione a un brusio di sottofondo e a perdersi nei propri pensieri. Era molto infastidito da come Jecht prendesse il loro viaggio alla leggera, soprattutto dopo essere stato quello con i nervi meno saldi quando si era trattato di combattere le Scaglie di Sin.

«... per un viaggio sicuro, ci raccomandiamo di scegliere un tragitto il quanto più possibile vicino alle torri parafulmini...»

Si era pentito di aver ceduto ai propri istinti da cavaliere e di averlo stretto al petto mentre tremava. Quel momento gli aveva ricordato il contatto, del tutto indesiderato, che aveva avuto tempo prima con lui, quando gli era caduto tra le braccia ubriaco.

E quindi, con una sensazione viscida che gli pervadeva tutto il corpo, stava ripassando per l’ennesima volta il discorso che ne era conseguito.

«...ed è nota anche come Piana dei Lampi di Gandof» concluse Jecht, alzando gli occhi dal depliant. «Che cos’è Gandof?»

«Il Grande Invocatore Gandof» lo corresse in tono bonario Braska, comparendo alle sue spalle, «è colui che sconfisse la seconda reincarnazione di Sin, quasi quattrocento anni fa».

Jecht fischiò.

Per non risultare irrispettoso, Auron si forzò a distogliere lo sguardo dal viso sorridente dell’Invocatore. Si era riposato: le sue occhiaie non erano più segnate come qualche giorno prima e sembrava che Shiva gli avesse donato nuova forza.

«Vedo che ti stai informando sulla storia della nostra terra» continuò Braska.

«Sì, ma qui qualcuno non è d’accordo» ribatté subito Jecht, scoccando un'occhiata all’altro Guardiano che spegneva la sigaretta sotto la suola.

Braska gli si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio qualcosa a cui lui rispose annuendo con vigore. Auron ne sarebbe stato molto infastidito, se non fosse stato troppo impegnato a pensare che forse un’atmosfera più leggera, dimentica di ciò a cui avevano assistito, avrebbe giovato a Braska. Sembrava che egli desiderasse un viaggio sereno, in modo da alleviare le sofferenze che di certo gli dilaniavano l’animo e si affilavano le unghie sulle pareti di ogni tempio.

«Questa Piana dei Lampi sembra proprio un posto strano. Vi immaginate se ci capitasse uno che ha paura dei tuoni?» commentò Jecht, riuscendo a dipingere sul viso di Braska un’espressione divertita che suscitò in Auron una punta di gelosia. «Tu hai qualche fobia, monachello?»

«No» mentì lui. «Adesso ti prego di smettere di fare domande e incamminarti».

L’atleta gli rivolse un sospiro esasperato, ma gli obbedì.

«Braska, secondo te si ricorda come si fa a sorridere? Non ha mai fatto un sorriso da quando l’ho conosciuto».

Il suo cuore gli ricordò che era una piccola bugia, necessaria però a infastidire il monaco.

«Dai, Auron, uno solo!»

Auron continuò a camminare e non gli rispose. Braska si coprì la bocca con la mano destra, soffocando una lieve risata che, ne era sicuro, avrebbe infastidito il suo Guardiano. Per quanto amasse suo fratello, la sua presenza era un fardello impegnativo da sostenere, mentre Jecht era come lo zucchero nel the.

Auron però preferiva le bevande amare.

«Sono sicuro che sorride più di quanto pensi. Ogni uomo ha qualcosa che lo rende felice» rispose l'Invocatore, diplomatico.

Il monaco voltò gli occhi verso Braska, per poi puntarli all'orizzonte. Jecht si massaggiò le braccia e annuì, poco convinto.

«Già, già. Chissà se esiste “qualcosa che lo rende felice”, a parte tranciare mostri in più parti».

Non più interessato alla conversazione, Jecht si guardò attorno. Era vero ciò che gli aveva detto l’Invocatore: la neve e il ghiaccio erano creati dall’eone che sognava casa, e la campagna subito fuori da Macalania era gialla e verde, e gli steli secchi si piegavano sotto i loro piedi. Si trovò a desiderare di poter sognare Zanarkand per farla materializzare davanti agli occhi di tutti.

«Vedi questa?» gli domandò Braska, indicando a terra con un ampio gesto della mano. «Tra qualche ora sarà già tornata in piedi».

Un tuono brontolò lontano nell’aria che si era ormai fatta tiepida e Auron, in testa al gruppo, alzò il viso verso l’alto.

«Non promette bene» commentò Jecht, annusando l’aria come gli aveva insegnato suo padre. Sosteneva che l’odore della pioggia imminente fosse portato dal vento, ma Jecht non era mai riuscito a sentirlo. 

«Non preoccupatevi» minimizzò Braska, «sono solo i tuoni della Piana».

«Che si sentono così lontano?»

«Per una volta devo dirmi d’accordo con lui, signore» intervenne Auron. La manica sfilata del suo cappotto veniva spinta dal vento come un’altalena vuota.

«Proseguiamo ancora un po’: siamo appena partiti».

 

 

«Sì, ma cerca di tenerla giù!»

«Ci sto provando, monachello!» gridò Jecht, tentando di sovrastare lo scroscio dell’acqua. La stoffa cerata della tenda continuava a scivolargli dalle mani, su cui ormai non si distingueva l’acqua già presente da quella appena piovuta dal cielo.

Braska, con espressione affranta, cercava di dare il suo contributo come meglio poteva, ma le forti folate di vento lo costringevano a stringere a sé quanto avesse di più caro, come l'alto copricapo che minacciava di abbandonare la sua testa da un momento all'altro.

Un picchetto appena piantato nel terreno venne sradicato con facilità e sollevò l'intera struttura, costringendo Jecht a gettarsi per riprenderlo tra le mani.

«Santo cielo, ma hai mai piantato una tenda?»

Il rombo di un tuono coprì l’ultima parte della domanda di Auron.

«Che cosa?» gridò Jecht, con l’acqua che gli colava giù dalle ciglia e gli finiva negli occhi.

«Ti ho chiesto se hai mai piantato una tenda!»

Jecht si tuffò per la seconda volta sulla tela, cercando di fermare il suo inesorabile decollo.

«Non andavo in campeggio a Zanarkand! Ma non era meglio aspettare che finisse di pio- cazzo

Un fulmine era andato a schiantarsi su un albero a poca distanza da loro, spaccandone a metà il tronco sottile.

«Beh, non eravamo lì» osservò allegro Braska, senza tuttavia fare niente per aiutare.

Jecht, ancora in attesa che i battiti del suo cuore si calmassero, gattonò sulla tenda nel tentativo di far rimanere a terra quanta più superficie possibile. Quando alzò la testa, si andò a scontrare contro qualcosa di rigido.

Spostò di scatto il collo verso l’alto e si trovò a una minima distanza dal viso di Auron. Era accigliato, e delle gocce di pioggia gli si fermavano sulle labbra come perle di rugiada, immobili per un istante prima di scivolare giù dal mento.

Una nuvola si spostò dal sole in modo provvidenziale, e la luce bianca aumentò d’intensità facendo riscuotere Jecht.

«Nemmeno voi avete mai piantato una tenda, vero?» commentò, constatando che la pioggia si stava fermando e il vento era calato.

Auron non gli rispose e tornò a martellare il paletto, che finalmente rimaneva al suo posto. Braska strizzò le vesti impregnate d'acqua e gli rivolse un largo sorriso, senza però proferire verbo. Jecht aggrottò le sopracciglia e tornò ad occuparsi della tenda, scuotendo la testa e sentendosi – come tante altre volte da quando erano partiti – il figlio della serva.

L'impresa si rivelò complicata anche in assenza di vento, ma la minore difficoltà fu accolta con gioia: il riparo, perlomeno, si reggeva da solo.

L’arcobaleno divideva il cielo a metà, separando le nuvole nere che se ne andavano dalla sera rosa, tersa e tranquilla, che arrivava.

«Dovremmo accendere un fuoco, o ci ammaleremo» disse Jecht ancora gocciolante. Braska gli porse un asciugamano bianco su cui era ricamato uno stemma che l’atleta non riconosceva.

«Vado a prendere della legna, voi rimanete qui» rispose Auron, afferrando l’accetta e dirigendosi verso l’albero che era stato abbattuto dal temporale.

Quando tornò vide che i suoi due compagni avevano delimitato con delle pietre un’area circolare, adatta per un falò. Braska aveva teso una corda e vi aveva appeso la sua tunica e il copricapo, rimanendo con solo una veste bianca. Il monaco pregò che Jecht non si sentisse ispirato a imitarlo.

Accesero il fuoco tra i lamenti di Jecht che non apprezzava come l’opuscolo turistico sulla Piana dei Lampi, dato che null’altro era asciutto, fosse stato scelto come combustibile. Braska si adoperò con incantesimi per seccare la legna e tentò di offrire del formaggio all’atleta che, con occhi spenti, osservava il lento e inesorabile carbonizzarsi del suo depliant. 

Quella sarebbe stata la loro prima notte all’aperto e si trovarono a organizzarsi sui turni di guardia. Braska aveva bisogno di riposare per riprendersi dall’uso della magia, e gli altri due tirarono a sorte – entrambi senza particolari preferenze – su chi avrebbe vegliato per metà della notte e chi per l’altra metà.

Il primo turno toccò a Jecht. Fu lasciato a fianco al falò con indicazioni precise: quando le stelle della costellazione che avevano indicato come Casa della Regina avrebbero cominciato a sparire all’orizzonte, allora avrebbe dovuto svegliare Auron.

Il monaco, tuttavia, non riusciva a chiudere occhio. Il giaciglio non era scomodo, e dopo la tempesta da fuori entrava solo una brezza piacevole che faceva da contrappunto al respiro regolare di Braska. Auron si sentiva però costantemente in pericolo, esposto a qualsiasi avvenimento. Come se lo avessero costretto a distendersi a terra, nudo, in mezzo alla folla.

Notò che la sacca di Braska era a portata di mano. Sapeva che l'Invocatore amava leggere, e pensò che fosse una buona idea vedere di cosa trattassero i libri che aveva portato con sé. Avrebbe potuto prenderne uno alla cieca per leggerlo durante il suo turno di guardia, e poi restituirlo il mattino seguente. Senza far rumore, frugò nella sua borsa – gesto che lo stesso Braska lo aveva invitato a fare per qualsiasi evenienza – e sentì degli oggetti piccoli, cilindrici e solidi sotto le dita.

In quell’istante, un assiolo chiamò nella notte. Auron trasalì e la sua mano si paralizzò. Ritenendo che indugiare oltre sulla natura di quegli oggetti sarebbe stato un presagio funesto, spostò la sua attenzione sulla copertina rigida di un libro.

Lo sfilò dalla sacca senza nemmeno un fruscio. In quel momento, il vento sollevò i lembi dell’entrata della tenda e portò alle sue orecchie la melodia dolce e familiare del canto dell’Intercessore. Un uomo lo stava intonando, a bocca chiusa, senza preoccuparsi delle parole.

«No bo… m-mmh...» canticchiava Jecht, rimestando le braci con un sottile tubo di ferro e guardandole con occhi malinconici. La sua cassa toracica che vibrava lo distraeva dal terrore che aveva provato, opprimente e arcano, quando aveva notato che le stelle di Spira erano uguali a quelle che brillavano su Zanarkand, ma non erano proprio nella stessa posizione in cui le ricordava. Sembravano traslate in basso e verso destra, come se qualcuno avesse afferrato la volta nera e l’avesse trascinata.

«Mh mh mmh mmh...»

Quando udì un tenue rumore alle sue spalle, si interruppe di colpo. Aveva cominciato a cantare quella vecchia melodia senza nemmeno accorgersene e non aveva pensato che avrebbe potuto svegliare Auron o, cosa ancora peggiore, Braska.

Il monaco uscì con movimenti controllati, silenzioso come un predatore a caccia, e si sedette accanto a lui. Jecht assunse un'espressione colpevole e si grattò la barba.

«Scusa, ragazzo. Non volevo svegliarti» sussurrò con delicatezza, temendo l’arrivo di un commento brusco.

«Non riuscivo ad addormentarmi, non sei stato tu» rispose tranquillo Auron. «Braska dorme da tempo. Non ti ha sentito».

Jecht annuì, rincuorato.

«Come mai non riesci a riposare? Il tuo turno non è lontano».

Auron scrollò le spalle, godendo del calore del fuoco.

«La melodia che stavi intonando… era il canto dell'Intercessore» disse, il mento appoggiato sul ginocchio sollevato da terra.

«Sì… cioè, è anche quello. Viene cantata a Zanarkand, nelle partite…» rispose l'atleta, caricando di amarezza il nome della sua città. Auron fissava le fiamme senza parlare, ma poteva percepire l'angoscia del compagno.

«Ti manca Zanarkand?» chiese all'improvviso.

«Certo, ragazzo. È casa mia. Non so che idea ti sei fatto, ma voglio tornare da dove sono venuto. Sto viaggiando per questo!»

«Io non ho detto nulla».

Jecht fece un gesto con la mano e rimase in silenzio, mentre Auron volgeva lo sguardo dal fuoco al compagno.

«Tu non mi dirai mai niente di te, vero?» sfuggì all’atleta mentre gli occhi dell’altro inchiodavano i suoi. Se ne pentì immediatamente.

«Non c’è niente da sapere».

La mente di Jecht viaggiò di nuovo verso Zanarkand: si ritrovò in un locale, circondato dalla musica e dalla folla, mentre il suo bicchiere veniva riempito. Immaginò il sapore dolce dell’alcol che gli scorreva in gola e ricordò come gli risultava facile far sì che gli altri interagissero con lui. Lo avvicinavano, lo corteggiavano, cercavano il contatto fisico, obbedivano docili ai suoi gesti e alle sue parole.

Era riuscito a portarsi a casa diverse ragazze, quando ancora non era sposato, e a sedurre qualche uomo che si diceva ben sicuro della propria eterosessualità. Eppure, il carisma che lo contraddistingueva sembrava non sortire l’effetto sperato su Auron. Il ragazzo continuava a fare un passo verso di lui e due indietro, inconsapevole che la cosa lo rendesse agli occhi di Jecht ancora più desiderabile.

L’atleta si era già trovato troppe volte a seguire la linea nera dei capelli di Auron sulla sua schiena: a volte la divideva in due, dritta come il filo di un pendolo, altre invece disegnava una curva sinuosa che si sentiva tentato di afferrare. Già troppe volte la sua voce e il suo profumo lo avevano confuso. L’animo romantico di Jecht, però, andava di pari passo con il suo spirito di competizione che lo portava a odiare chiunque gli camminasse davanti, costringendolo a essere il secondo.

«Certo, certo. Sei l'uomo dei misteri» disse con voce rapida. «Senti… visto che non hai intenzione di chiacchierare, potresti farmi bere un goccio? Almeno mi addormento prima».

«No».

«E dai! Per cosa te la porti dietro se poi nessuno la beve?»

«Uso personale» tagliò corto Auron. «E abbassa la voce, o sveglierai Braska».

«Va bene, va bene…»

Jecht si alzò, intorpidito dalle lunghe ore passate seduto sulla terra umida. Era davvero un peccato non riuscire a fare una bevuta con Auron, dato che, per esperienza, sapeva che gli ubriachi hanno molte meno remore a parlare di sé. Per qualche motivo, però, non riusciva a immaginare il ragazzo sotto l’effetto dell’alcol.

Gli diede una veloce pacca sulla spalla, che Auron accolse con espressione neutra, e tornò all’interno della tenda.

Il monaco sospirò stanco davanti alle fiamme del falò. Non sapeva dire perché, ma i tentativi di Jecht di instaurare un dialogo erano più sfiancanti di un combattimento con la spada.

Rimase immerso nei propri pensieri, che lo tormentavano e lo disturbavano, per diversi minuti. Era come se, quando distoglieva lo sguardo dalle fiamme, le sue paure lo gettassero in un baratro nero dove la sua fede non lo sosteneva più come un tempo. Provò quella sensazione due, tre volte, prima di convincersi a cercare qualcosa da fare.

Nonostante il buio fitto, la luce del fuoco e del fiume di stelle nel cielo offriva una buona vista, abbastanza per leggere qualcosa. Gli tornò in mente il libro di Braska, che aveva dimenticato quando aveva udito Jecht cantare, e sospirò ancora.

Drizzò la schiena fissando per un istante la legna ardente, poi si alzò e si avvicinò con cautela all'entrata della tenda. Scostò un lembo senza far rumore, per poi sbirciare all'interno: Braska era completamente addormentato, mentre Jecht aveva il respiro irregolare, ma sembrava incosciente. Forse, pensò Auron, stava sognando o avendo un incubo.

Abbassò la testa, indeciso su cosa fare: poteva svegliarlo o lasciarlo con i suoi demoni. Quando sentì i suoi lamenti sommessi, decise che non era il caso di intromettersi.

Entrò con passo silenzioso e recuperò il libro dalla sacca, per poi girarsi e uscire di nuovo, non senza aver scoccato un'ultima occhiata a Jecht. Notò che la sua salopette era stata appallottolata con poco riguardo e gettata ai piedi del suo sacco a pelo.

Gli occhi di Auron si trovarono, senza che lui ne fosse consapevole, a posarsi sul profilo del suo corpo. Percorsero la china disegnata dalla coperta che copriva il suo bacino, senza riuscire a staccarsi dalle pieghe. Quando riuscì a muoverli, si bloccarono di nuovo sui vestiti a terra.

Il monaco deglutì a vuoto quando si trovò a immaginare sulla propria pelle la sensazione della stoffa, quella di cui lui non era riuscito a godere a causa della propria agitazione. Il respiro di Jecht era tornato regolare e, così senza difese, l’uomo di Zanarkand sembrava incapace di nuocere, di attentare alla sua fede con insinuazioni che volevano mettere in discussione anche la realtà.

Auron scosse con vigore la testa e strinse le mani sul libro che aveva recuperato. Sentì un fruscio alle proprie spalle, ma si trattenne dal guardarsi indietro di nuovo.

Uscì dalla tenda respirando a pieni polmoni, come a voler purificare l'aria, per poi sedersi nuovamente al cospetto del fuoco caldo e rassicurante.

Gli sembrò di aver corso. Si rilassò qualche istante prima di dare un'occhiata alla copertina del libro: il titolo recitava Letteratura e pensiero filosofico su Spira.

Interessato all'argomento, aprì le pagine facendo attenzione a non rovinarle.

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Capitolo 18
*** Piana dei fulmini, Piana dei lampi (Parte 2) ***


CAPITOLO 14: PIANA DEI FULMINI, PIANA DEI LAMPI (PARTE 2)

 

 

Il mattino successivo, Auron sembrava nervoso. Mentre proseguivano attraverso la campagna, si guardava ripetutamente attorno, come qualcuno che avesse nascosto un cadavere sotto al letto. Trasalì quando Jecht gli si avvicinò.

«Che succede, ragazzo?» esordì lui. Fece per posare con fare teatrale una mano sulla spalla del compagno, ma cambiò idea e sospese il gesto a metà, per poi terminarlo sulla corteccia di uno degli alberi che punteggiavano radi la pianura. «Dormito male?»

Auron voltò lo sguardo ansioso verso Braska, che osservava assorto un rigagnolo che scorreva a pochi passi di distanza da loro.

«No» replicò, laconico, e aggirò Jecht per continuare a camminare.

«Ehi!» chiamò l’atleta, ma l’altro non si voltò. Una preoccupazione irrazionale gli strinse lo stomaco, tagliente come una lama sottile e forte come un cavo d’acciaio. Temette di aver, senza accorgersene, fatto qualcosa di sgradito ad Auron o, ancora peggio, aver detto qualcosa di fraintendibile mentre dormiva. Nessuno gli aveva mai detto che parlava nel sonno, ma forse glielo avevano sempre tenuto nascosto, o forse era una conseguenza dello stress di trovarsi su Spira.

«Auron» disse di nuovo, odiando il proprio tono petulante come quello di una ragazzina. Gli si avvicinò, ma lui non diede segno di volersi voltare. «Senti, ho fatto qualcosa che non andava? Se è così dimmelo, perché non-».

«Non sei il centro del mondo, Jecht» lo stroncò la voce del monaco, che si era spostato di scatto per evitare di essere toccato. «Tantomeno del mio. Le mie reazioni non sono sempre dovute a qualcosa che fai tu».

Jecht si limitò a boccheggiare in cerca d’aria, con il gelo che gli si insinuava nel cuore. Capì di esserci cascato di nuovo, di averlo idealizzato e aver pensato a un’amicizia, una confidenza che non c’era. E gli capitava sempre così con gli uomini: tendevano a monopolizzare i suoi pensieri e a fargli immaginare situazioni che poi non si realizzavano. Per quello in genere, dopo lunghe epopee mentali che nella realtà duravano qualche settimana, li lasciava perdere. Con Auron però era costretto a viaggiare, e doveva vederlo ogni giorno.

Sei una condanna, pensò con disprezzo mentre stringeva i denti. Arrestò la sua marcia e incrociò le braccia. Ruotò il busto in varie direzioni, indeciso su cosa fare. Desiderò con forza di avere un pallone – oppure il muso perennemente accigliato del monaco – da calciare.

Auron non avvertì più il passo di Jecht e si voltò, non per preoccupazione, ma per capire cosa aveva interrotto il viaggio. Incrociò gli occhi stretti del compagno, che giuravano di incenerirlo con un semplice battito di ciglia.

«Ora cosa c'è?» chiese esasperato Auron.

Jecht, ancora una volta ripreso, decise che ne aveva avuto abbastanza.

«Dove non tagli con la spada lo fai con le parole, Auron?» replicò con tono calmo. «Anche con i tuoi alleati?»

«Non credo di aver bisogno di sentire una morale proprio da te».

«Allora sai cosa? Vai in malora».

Il campione di blitzball si voltò, gli diede le spalle e cominciò a camminare nella direzione opposta. Auron sospirò e volse gli occhi al cielo, ricordando com’era andata a finire l’ultima volta in cui Jecht si era allontanato per un motivo simile.

«Che succede?» lo raggiunse la voce di Braska. Nel vedere uno dei suoi Guardiani che si allontanava, si limitò a inarcare le sopracciglia. «… oh. Dove va?»

Auron gli si avvicinò, infervorato.

«Lui non capisce! Continua a fare come gli pare!»

L'Invocatore portò la mano sul mento, osservando a intervalli regolari prima il monaco, poi l'uomo di Zanarkand.

«Jecht non è una persona che lascia senza risposta le offese: difende i suoi pensieri con sentimento. Devi aver detto qualcosa che lo ha ferito» disse con amarezza.

«Signore, lui pensa che tutto ciò che dico sia finalizzato a ferirlo».

Braska distolse lo sguardo da lui per un istante, come a voler soppesare le parole.

«Amico mio… spesso lo fai, anche senza volerlo».

Nel sentire quella frase, Auron provò una sensazione dolorosa, come se un ago di ghiaccio si fosse infilato nel suo cuore. Si chiese per un istante se fosse la stessa cosa che era capitata a Jecht, ma rimase sulla propria posizione.

«Penso che Jecht si dia troppa importanza: non farò attenzione alle mie espressioni per i suoi capricci».

Braska sospirò, ma non allentò la presa sul suo Guardiano.

«Auron, non è mia intenzione giudicare i tuoi modi: queste sono solo le considerazioni di un compagno di viaggio. Perciò dico che, se Jecht fosse stato un uomo diverso, allora diverso sarebbe stato anche il tuo atteggiamento».

Come faceva spesso con l'atleta, Auron non rispose. Puntò gli occhi all'orizzonte dove Jecht si era diretto e si sentì come in apnea, sommerso dalle parole pronunciate dal suo Invocatore. Braska gli accarezzò la larga spalla e sorrise sereno, sicuro del buon cuore di Auron, severo, ma disposto a diventare più gentile.

«Riportiamolo indietro, vuoi? È pericoloso rimanere da soli qui».

Auron fece vagare lo sguardo sulla campagna assolata: lontane, erravano le ombre di mostri che non osavano uscire dal riparo offerto dagli alberi.

«Sì, signore».

Si incamminarono nella direzione che il loro compagno aveva preso con passo svelto, più di quanto immaginavano. Jecht aveva gambe lunghe e abituate alle grandi falcate, ed era arrabbiato: Auron temette di dover tornare fino a Macalania.

Lo intravidero poco distante, fuori dal sentiero. Era fermo sul posto con gli occhi puntati in basso; di tanto in tanto, calciava via qualche pietruzza scuotendo la testa.

Auron lo chiamò a gran voce, cogliendo di sorpresa il compagno che sussultò vistosamente.

«Cosa fai? Vuoi farmi fermare il cuore?» disse Jecht a denti stretti.

Braska infilò le mani nelle ampie maniche della tunica e guardò il monaco con fare rassicurante. Auron ispirò col naso, inespressivo: avrebbe fatto carte false per una sigaretta.

«Non stare qui da solo, Jecht. Ci sono pericoli ovunque» disse Auron schiarendosi la voce.

«E perché dovrebbe interessanti? L'hai detto tu: non mi è tutto dovuto» rispose l'atleta, piccato. Il ricordo del discorso di Auron era tornato alle sue orecchie.

«Jecht. Senti, non credo di aver usato le parole giuste prima. Volevo porgerti le mie scuse» replicò Auron senza emozioni.

L'atleta volse lo sguardo verso Braska e comprese.

«Vuoi, o devi

Jecht abbassò gli occhi e borbottò qualcosa, per poi tornare alla sua piccola attività di sfogo davanti a un interdetto Auron. Notando che l'approccio usato non attecchiva, Braska cercò di rendere l'atmosfera più serena.

«Vuoi rimanere qui per qualche momento, Jecht? Sono un po’ stanco, potrei riposare nelle vicinanze con Auron» disse l'Invocatore con la consueta calma.

«Sì, va bene».

Il monaco, senza rendersene conto, si trovò nel mezzo di un bivio. Il compagno era sicuro del fatto che Auron non si fosse pentito di aver pronunciato quelle parole taglienti, le ennesime, ma quella non era la verità.

Invece di seguire Braska, avanzò verso Jecht senza indugiare sui pensieri che affollavano la sua mente. Allungò il braccio destro e posò la mano sulla spalla del compagno, sentendo i muscoli contrarsi sotto la sua stretta.

«Le mie azioni mi appartengono, Jecht. Le mie scuse sono sincere, che tu ci creda o meno» disse Auron con voce incerta.

L'uomo di Zanarkand girò leggermente il busto e lo sfiorò con lo sguardo per qualche istante, poi annuì in silenzio.

«...d'accordo. Torna al fianco di Braska, vi raggiungerò tra poco».

Auron avrebbe voluto dire qualcosa in più, ma non sentì di averne le capacità: accolse la richiesta di Jecht e tornò indietro, lasciandolo solo.

L'uomo di Zanarkand lo guardò allontanarsi e si toccò la spalla nel punto in cui c'era la mano del monaco: pensò che, alla fin fine, quel gesto di interesse cortese era tutto ciò che desiderava da lui.

Dopo pochi minuti, e dopo essersi ripromesso di non cadere più nella trappola della sua immaginazione, raggiunse i compagni. Si rimisero in viaggio, accompagnati da un'atmosfera più leggera.

Nonostante la tregua, Jecht rimase silenzioso per l'intero tragitto. Stanco mentalmente e non in grado di sostenere altre discussioni, era sceso a patti con la sua indole e aveva deciso di rispondere solo se interpellato.

Braska, seppur consapevole del comportamento anomalo del Guardiano, non cambiò il proprio per mantenere tranquilli gli animi, cosa che Auron non riuscì a fare altrettanto bene. Per le sue orecchie era un sollievo non sentir sproloquiare Jecht, ma sapeva anche che non era da lui. Non seppe a quale voce dar retta finché non raggiunsero la meta.

Un fulmine attraversò il cielo, privandoli della vista per un istante prima che un nuovo paesaggio apparisse loro davanti agli occhi.

La Piana dei Lampi era uno spettacolo insolito. Auron, che non era mai andato oltre al lago di Macalania, non faceva che guardarsi attorno nella speranza di capire cosa causasse la perenne tempesta di quella zona. Alcune nubi erano all’altezza del suolo e formavano una densa nebbia che impediva di vedere lontano.

«Non mi dirai che anche in questa zona c’è un Intercessore che cambia il tempo» esordì Jecht con la sua voce graffiante, dando fiato alla domanda che Auron tratteneva sulla lingua.

Braska strinse la mano sullo scettro e annuì.

«Ixion, il signore del Fulmine, colui che tuona lontano» spiegò. «Il suo tempio è sulle rocce di Djose, ma il suo cuore ama questa piana e la protegge, infuocando le nuvole».

Rapito dal racconto, Jecht guardò verso l’alto: nel cielo livido, le scariche elettriche passavano da una nuvola all’altra fino a schiantarsi sulle torri di cui aveva letto sulla guida. Sulla terra battuta dalle saette non splendeva mai il sole e nulla, nemmeno l’arbusto più temerario, cresceva.

Auron si sentiva pervaso da un senso di mistero, paura e forza insieme scuotevano il suo animo all’arrivo dei tuoni. L’umidità gli attaccava i capelli alla fronte e al suo naso giungeva un odore che non aveva mai sentito, a metà tra quello del fuoco e quello della terra dopo un diluvio.

C’era qualcosa, in quel luogo, che gli suscitava un eccitante timore: era forse il terrore dell’ignoto, l’idea di non poter essere visto dai nemici, ma al contempo di poter essere attaccato su più fronti. La sua mente immaginava mostri elementali che parevano fiocchi di neve crepitanti. Prendevano forma dalla nebbia, come le creature che nascevano dall’incenso di Alan.

«Signore» colse l’occasione per chiamare. Braska si voltò con prontezza e gli rivolse il suo sorriso, in attesa che continuasse.

«In questa piana c’è una Casa del Viante, vero?»

«Oh, sì» replicò l’Invocatore. «Come mai me lo chiedi?»

«Credo che sarebbe una bella idea riposare lì». Anche se Rin è un Al Bhed, gli venne da pensare, ma si trattenne. Quel pensiero a cui era stato tanto abituato gli suonava all’improvviso strano. «Non sarebbe semplice piantare una tenda in un posto come questo».

I suoi occhi evitavano di guardare il viso di Braska.

«Sicuro» rispose l’Invocatore, intuendo che la sua richiesta avesse un secondo fine. Era logico che il suo Guardiano era turbato da quello, e sarebbe stato molto divertente il momento in cui avrebbe capito di cosa si trattava.

«Ehi, Auron» chiamò Jecht all’improvviso. Un fulmine si andò a schiantare contro una delle torri, accecandoli per un istante. Il monaco, memore del desiderio di Braska di vederli andare d’accordo, sospirò e si voltò verso di lui.

«Cosa c’è?» domandò.

Braska mostrò un sorriso tiepido: Auron avrebbe dovuto lavorare ancora un po’ sulle risposte, ma era un inizio.

Il campione di blitzball, che sembrava aver dimenticato la disposizione d’animo dell’altro nei suoi confronti, gli rivolse un’allegra smorfia di sfida che fu illuminata da un altro lampo.

«Secondo me se salti all’indietro questi fulmini non sono così difficili da schivare» gli disse. «Vuoi provare?»

Braska fece un debole tentativo di introdursi nella conversazione, ma la replica di Auron arrivò prima:

«No».

Jecht gli rivolse un gesto sprezzante.

«Allora vuoi vedere come un vero campione di blitz schiva i colpi degli avversari?»

«Secondo me potresti farti male...» intervenne Braska, la sua voce per metà coperta dal borbottio del cielo. Jecht non sembrava avergli prestato ascolto, dato che stava frugando tra i propri bagagli.

Ne estrasse una delle sue sfere e la porse ad Auron. Lui, interdetto, la strinse tra le dita e rivolse uno sguardo confuso al compagno.

«Immortalami per i posteri» gli spiegò Jecht. Premette i pollici su quelli di Auron, che coprivano il pulsante di registrazione, in modo da schiacciarlo.

«E inquadra anche Braska!» lo ammonì mentre si allontanava dalla torre parafulmini.

Auron sbuffò e alzò le braccia. Con sua sorpresa si trovò a constatare che mantenere l’inquadratura ferma non era affatto facile: tentava di riprendere sia Jecht sia Braska, ma il risultato era quello di ondeggiare dall’uno all’altro come un peschereccio in mezzo a una tempesta.

Chissà se Jecht sarebbe davvero riuscito a schivare i fulmini saltando all’indietro. Non voleva ammetterlo, ma il pensiero che qualcuno ci potesse riuscire lo incuriosiva. In effetti, il suo corpo era allenato, forse abituato a repentini cambi di direzione dato lo sport che praticava. Non aveva nemmeno l’ingombro dei vestiti dato che l’unica protezione che aveva accettato di portare era un guanto d’arme d’acciaio, comprato ancora a Macalania con i soldi di Braska.

«Ehi! Tienila ferma!» lo raggiunse la voce dell’atleta.

Auron tornò alla realtà e sospirò per l’ennesima volta.

«Perché lo sto facendo?» si lamentò, irritato.

Premette per errore il tasto per smettere di registrare. Quando se ne accorse, accese di nuovo la sfera e cercò di concentrarsi su un’inquadratura che mostrasse una sola persona.

Braska aveva lo sguardo rivolto verso Nord, gli occhi persi in chissà quali pensieri.

«Che cosa sta guardando?» gli domandò Auron, curioso.

L’Invocatore, al suono della sua voce, parve riscuotersi.

«Oh, stavo solo… pensando» replicò dolcemente. Socchiuse le labbra per aggiungere qualcosa, ma furono raggiunti dai lamenti di Jecht.

«Guarda che è importante!» gridava. «Non giocherellare! Mi rovini la ripresa!»

Il corpo di Auron reagì prima ancora che la sua mente potesse farlo e spostò l’inquadratura in modo che l’atleta non apparisse nemmeno in un angolo.

All’improvviso, si vide un lampo di luce più intenso degli altri, seguito subito da un forte tuono che coprì le urla di Jecht.

Auron spostò immediatamente lo sguardo e la sfera verso dove aveva visto precipitare la saetta. Jecht, colpito in pieno, era disteso a terra, ma si muoveva e si lamentava.

«Ahi...» esordì. Sembrava ferito più nell’orgoglio che nel fisico. L’aria attorno a lui sfrigolava ancora, quasi a vantarsi della propria vittoria.

Auron spinse una piccola leva che permetteva di ingrandire l’immagine ripresa, focalizzandosi bene sul grande campione steso prono a terra. Tra mugugni e imprecazioni stava cercando di rialzarsi in modo dignitoso.

«Stai bene?» si preoccupò Braska.

Auron stava cercando di trattenere le risate.

«Ecco una scena per i posteri!» commentò, guadagnandosi un’occhiata di traverso da Jecht.

«Sì, sì...»

La risata di Braska, argentina e sinceramente divertita, scosse la piana più di uno dei consueti tuoni e, salendo al cielo, dissolse le nubi nel cuore dei tre viaggiatori.

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Capitolo 19
*** ℵ. Carte del processo a Yevonna di Djose, eretica ***


ℵ. CARTE DEL PROCESSO A YEVONNA DI DJOSE, ERETICA

 

Mese IV, 1026
8 giorni dal solstizio d’estate

 

 

La ragazza aveva confessato dopo cinque tratti di corda.

Al quarto ancora stringeva i denti e si professava innocente, invocando la parola di Yevon contro la mia, ignara che avessero lo stesso suono.

Avevo fatto cenno all’uomo che, tra noi, portava vesti secolari. Lui le aveva alzato le braccia di nuovo con la carrucola e le aveva torte: le preghiere dell’imputata si erano trasformate in una nenia di sofferenza e pianto. Allora, avevo ordinato di allentare la corda.

Era caduta a terra a peso morto di fronte a me e io l’avevo afferrata per i capelli per forzarla a guardarmi. Vedendo una macchia paonazza espandersi sulla sua guancia e sul collo, senza volerlo avevo quasi rilasciato la presa. 

Non mi piaceva torturare le donne. 

Mi rigirai tra le mani l’esposto che le avevo fatto firmare, scacciando il ricordo assieme a quel pensiero di pietà. La giovane aveva denunciato una suora del monastero di Djose, assieme a un pugno di accolite, per eresia. Nel documento sottostante erano raccolte le dichiarazioni dei teste d’accusa ed elencati i capi di imputazione. 

Alzai lo sguardo, offuscato dal velo davanti ai miei occhi, e scorsi le guardie che si adoperavano, obbedendo all’ordine diramato di far entrare l’imputata. 

Il terzo costituto, così come il primo e il secondo, si sarebbe svolto nella sala maggiore del tempio di Djose, cosicché fosse permesso al popolo di assistervi. Quel giorno erano in centinaia, nel matroneo e lungo le navate.

Quell’ortodossia zelante mi commoveva. 

Non la vedevo più, come ai primi tempi, al pari di un oltraggio alla mia figura, che da giudice degradava a burattinaio: al contrario, sapevo che avrei dato loro qualcosa di cui parlare, una volta nelle strade dei loro paesi sperduti. Non avevano uno stadio per il blitzball, così dibattevano sui processi pubblici, tanto più se erano casi rari come quello di una sospetta eresia. 

L’Inquisizione forniva loro qualcosa di cui discutere e un esempio generalpreventivo, che mostrava come il fuoco arrivasse dove terminava l’innocenza.

«La Corte Suprema di Yevon apre l’udienza» pronunciai per l’ennesima volta. «I sacri uffici di questa corte altro non cercano che la verità assoluta, nel nome di Yevon. A coloro sotto processo: credete in Yevon e dite la verità».

Due dei miei uomini stavano spiegando all’imputata, per prassi, come si sarebbe svolto il processo. Io le indirizzai un’occhiata distratta prima di ritrovarmi a decidere cosa avrei mangiato quei giorni.

In primo luogo, a cena avrei scelto della carne: una sola coscia di pollo, in modo tale da non avere troppo a lungo quel sapore sulla lingua. Sarebbe stato tuttavia diverso se il macellaio avesse avuto l’agnello. In secondo luogo, come pranzo per il giorno seguente, sarebbero state appropriate due uova.

La mia mano destra fu scossa da un tremito lieve. Forse era impercettibile per gli altri, ma la bloccai stringendola in una nevrotica presa mancina. 

Alzato lo sguardo, mi accigliai nel vedere l’espressione di Kelk Ronso. Il labbro superiore, arricciato, scopriva un baluginio di zanne.

«Che cosa stai guardando?» gli domandai. Indirizzai gli occhi nella medesima direzione dei suoi, ma non notai niente di inconsueto.

«Quell’uomo» mi rispose lui, a bassa voce. Con un moto delle iridi, riuscì a indicarmi un sacerdote che sedeva in uno dei soppalchi. Aveva la testa rasata, l’abito talare senza alcun ornamento, nessun tratto saliente. 

Stavo per continuare a domandare quando lui aggiunse: «Molto strano si trovi qui».

Il sacerdote si sporse verso il suo vicino per dire qualcosa e io, di nuovo, non riuscii a cogliere la dissonanza per cui si angustiava Kelk Ronso. Spostai lo sguardo sull’imputata, che attendeva la requisitoria, ma non mi rivolsi ancora a lei.

«Perché?» sussurrai.

«È morto».

Sentii scattare qualcosa dentro di me e spinsi gli occhi fuori dalle orbite. Per quanto i guanti me lo consentissero, affondai le unghie di una mano sul dorso dell’altra, laddove la pelle era già più sensibile per le escoriazioni.

«Sei stata citata in giudizio» tuonai, alzandomi in piedi, «denunciata per sospetto di eresia concernente la dottrina. Il tribunale dell’Inquisizione ha raccolto le prove a favore dell’accusa. Yevonna, hai tu giurato di servire Yevon consacrandoti a vita monastica?»

«Sì» mi rispose una voce melodiosa, non toccata dall’età.

La guardai: i capelli intrecciati erano arrotolati sulle tempie, i suoi occhi osavano sostenere i miei. Solo il seno non più sodo e la lieve postura curva denunciavano che avesse oltrepassato il confine della decadenza umana. 

Aggirai la cattedra per avvicinarmi a lei. Durante la tortura aveva avuto le labbra cucite, solo dopo giorni si era detta disposta a confessare.

Ero sempre stato dispiaciuto dal fatto di non poter stabilire un contatto fisico con gli imputati durante i processi: in tal modo non potevo sentire la paura che pulsava nelle vene del loro collo, il desiderio atavico del corpo di scomporsi in lunioli per sfuggire alla mia presa.

Dopotutto ciò non poteva accadere, finché gli uomini erano carne e sangue. 

«Che cosa ti ha spinto a questa decisione?» continuai.

«L’estrema indigenza della mia famiglia» rispose l’eretica con quella che mi pareva sincerità. «E la fede in un futuro migliore per cui a Djose preghiamo la divinità».

«Sei stata accusata di aver sostenuto che il Rito del Trapasso dovrebbe essere officiato da tutti i sacerdoti e non solo dagli Invocatori. Riconosci questa eresia?»

«Sì».

Senza volerlo, i miei occhi si alzarono sul ministro di Yevon che Kelk Ronso mi aveva indicato. Morto. Un sospetto, dentro me, si stava incastrando su di un’altro come una sfera in un altare rituale.

«All’interno del monastero qualcuno ti ha insegnato o ispirato questa eresia?»

«No, Vostro Onore». 

Nel sentire quel titolo provai il fremito d’eccitazione che lo aveva sempre accompagnato: c’era qualcosa di lamentoso, supplichevole, nel modo in cui chiunque davanti a me pronunciava quelle due parole. 

«La dottrina di Yevon non prevede che la pratica del Rito del Trapasso venga insegnata a chi non è stato scelto da un Intercessore. Confessi di averla appresa e insegnata alle tue accolite?»

«Sì». 

«Chi ti ha istruito a compiere il rito?»

L’eretica non rispose. 

«Hai la possibilità di pentirti, firmare il documento di abiura e trascorrere il resto della vita in reclusione» la informai. Mi sembrò esitare per un istante. 

«Rifiuto il pentimento e l’abiura». 

Non provai nessuna emozione. Ricordai quando avevo sentito le stesse parole pronunciate dalle labbra di mio fratello, quando la mia sentenza era stata diversa.

«La seduta è chiusa. La condannata sia rilassata in persona».

L’eretica mi guardò negli occhi senza battere ciglio. Due guardie, avvicinatesi a lei, le impedirono i movimenti e la costrinsero ad abbassare la testa prima di portarla via; quella né pianse né gridò.

Hai mandato a morte anche lui, mi dissi, e rividi il viso di Braska che, in un tempo lontano, mi sorrideva. Sentii il fantasma del suo tocco sul braccio, all’improvviso mi sembrò che mi stritolasse come filo spinato. 

Mio fratello sarebbe salito sul Gagazet, si sarebbe sacrificato nel nome della nostra salvatrice Yunalesca dove io l'avevo fatto nel nome di nessuno.

Ma sarebbe stata estate, e al posto del sangue sparso sulla neve avrebbe visto papaveri rossi.

 

 

Non dovevo permettere alle mie elucubrazioni di prendere il sopravvento: Kelk Ronso aveva turbato la mia serenità come una complicata ridda di norme in contraddizione tra loro, ma un’illazione tanto delicata doveva essere verificata con cura. 

Un caso, per quanto raro, non era per forza di cose unico: del resto anche gli Eoni, creature sacre al dio, potevano essere invocati da più di un uomo. 

Il ministro indicatomi poteva per analogia essere uno di tanti, e ciò era intollerabile, oltre che sacrilego. Quel pensiero si faceva via via più pernicioso mentre consideravo l’eresia recentemente repressa: non sarebbe mai stata perdonata, ma d’un tratto mi fu palese la sua ragion d’essere.

L’onere della prova spetta a chi afferma.

Dopo che l'eretica fu portata via, mi piegai verso Kelk Ronso e lo invitai a raggiungermi dietro il tempio, lontano da orecchie in attesa di udire. Le sue parole potevano incorrere nell'errore o nel fraintendimento: imposi la calma ai miei pensieri fin quando non lo avrei ascoltato.

La folla si disperse in fretta, tuttavia i miei occhi a fatica si staccarono dal sospettato. Cercavo indizi sulla sua persona nel vano intento di cogliere qualche segnale, ma i Non Trapassati non mostravano alcun segno distintivo, dal momento che – seppur creature maledette – erano identici ai vivi. 

Dopo aver atteso qualche istante, andai per primo. La reverenza che mi offrivano coloro che mi strisciavano accanto era come una carezza con guanti di seta, ma la gente rallentava il mio passaggio e io dovevo risollevare il mio animo dal dubbio.

Il luogo dell'appuntamento era una sala dedicata all'istruzione dei giovani, lasciata vuota in occasione del processo. Kelk Ronso sapeva molto bene quale oltraggio fosse farmi attendere più del necessario: mi raggiunse dopo pochi minuti.

«Grande Inquisitore» esordì il felino, chinando il capo.

«Non vi è stata sorpresa sul tuo volto quando ti ho convocato. Non dopo ciò che mi hai confidato».

«Affatto, signore. Sono invece preoccupato: attendevo che l'eretica accettasse la sua giusta pena per portare alla sua attenzione la questione» rispose contrito.

«Spiegami, dunque. Muovi delle accuse importanti».

«Sì, signore. Quell'uomo è Davon e operava a Janne, un villaggio vicino a Djose,  in veste di ministro di Yevon. La sua fama divenne nota quando fu accusato di tenere per sé le offerte dei fedeli» raccontò con voce calma. «Fece scalpore la notizia della sua dipartita, avvenuta dopo che il suo cuore smise di battere all'improvviso».

Ascoltai tutto con profondo fastidio, ma non mi scomposi. Kelk Ronso era molto devoto: le sue parole, con mia grande pena, erano degne di essere ascoltate.

«Sei certo che Davon non sia più di questo mondo?» gli chiesi con freddezza.

«Se le notizie non sono state manipolate per qualche ragione, sì, signore. La sua vista mi ha stretto lo stomaco».

Portai la mano al mento e avvertii l'istinto di accendere uno dei miei sigari, ma mi limitai a sfregare il dito indice sulla pelle glabra. 

Spesso accadeva che i sottoposti non riuscissero a sostenere lo sguardo delle autorità al comando, ma Kelk Ronso sostenne il mio sguardo senza mostrare tentennamento: era davvero convinto di ciò che affermava. 

«Molto bene: indagherò di persona» dissi, nascondendo il mio disgusto. «Hai reso servizio alla Chiesa e al dio, questo non verrà dimenticato».

Kelk Ronso si inchinò al mio cospetto fin quasi a baciarmi la veste e si congedò, lasciandomi in quella sala a contemplare il vuoto. Con la mente ero già due passi avanti.

 

 

Una goccia di pioggia si schiantò sul cuoio del mio guanto, frantumandosi in lacrime più piccole. Ancorché fossi consapevole che non avrebbe certo impedito al rogo di ardere con violenza, storsi il naso quando considerai che l’acqua equivaleva a una maggior quantità di fumo. 

Attraversai la piazza del tempio di Djose sotto gli sguardi vigili delle guardie Ronso, schierate in due ranghi di quattro.

Il boia era un uomo grasso, sgraziato, un taglio gli aveva reciso parte del naso e un viso del genere poteva essere adatto solo alla reclusione o al braccio secolare. Mi avvicinai con discrezione a lui e a bassa voce dissi: «Fai sì che le fiamme siano alte».

Lui alzò lo sguardo, con obbedienza ma anche con una certa aspettativa che soddisfai mettendogli in mano qualche gil d’oro per sancire il tacito accordo. Il bruto fu rapido a intascare i soldi, poi voltò nuovamente gli occhi verso di me e sorrise, forse pensando che compiessi quel gesto per una sorta di ritrovata umanità.

Quando mi voltai, fu il mio turno di sorridere quasi con tenerezza. Qualunque uomo con il mio passato si sarebbe ridotto a qualsiasi azione pur di ridurre, piuttosto che la sofferenza degli altri, la sua propria.

I tamburi e le squille annunciarono l’arrivo del carro che portava la condannata, mentre la turba dei presenti gridava e si sporgeva tanto che le guardie erano costrette a respingerla indietro. Qualcuno sputò sulla veste bianca dell’eretica, altri invece si protesero per toccarla, ma ella non si scompose. Del resto, quella stessa tunica sarebbe stata lorda e nera molto presto.

«È innocente!»

«… rilascia la sua anima libera dal peccato sopra questa terra...»

«Yevon abbia pietà!»

Yevon la ha, pensai mentre spiegavo con rabbia il rotolo su cui era scritta la sentenza e già pensavo alle successive implicazioni della stessa. Io no.

La donna venne trascinata verso il patibolo da due militari. La vidi per qualche istante dibattersi come un salmone nella rete, ma involontariamente, perché poi subito si acquietò. 

La mente si rassegna alla morte prima del corpo, molto prima. Non è forse così?

«Yevonna di Djose» annunciai, dopo l’ultimo rintocco del tamburo. «Accusata di eresia, sei consegnata al tribunale di Yevon dopo essere stata condannata dal mio. Prego affinché la tua anima trovi pace e con me pregano tutti i presenti».

Il fuoco divampò sulla torcia del boia e la piazza cominciò a cantare la lenta litania funebre. Porsi a Kelk Ronso il rotolo con la sentenza e mi avvicinai al rogo per dare la benedizione a Yevonna, fattasi legare al palo con corde e catene senza opporre l’ultima resistenza.

Era in posizione di preghiera come la statua di un Intercessore, ma la sua voce era ancora di questo mondo quando mi chiamò con disprezzo.

«Inquisitore!» 

Al grido mi voltai. Pensai che mi volesse sputare, certa di non poter ottenere più da me condanna peggiore, ma continuò a parlare in modo che i più vicini potessero sentirla.

«Rifiuto di pentirmi e di venire condotta dalla preghiera di questa gente. Quando tu arriverai al mio stesso tribunale, saprai perché l’ho fatto!»

Il fuoco venne appiccato alla catasta di legna e l’eretica continuò a gridare, tanto forte che non mi sarei sorpreso di sentire, alla fine del discorso, la sua laringe lacerarsi.

«Il clero ormai è così avido che rifiuta di accettare la morte pur di mantenere il potere! Loro dovresti cacciare! Loro, non me!» 

La vidi annaspare, la gola chiusa dal fumo, sentii il suo respiro pesante che tentava di ingoiare quanta più aria possibile. Le sue ultime parole, forse, le sentii solo io.

«Anche io, che mi chiamo come colui che mi ha abbandonata, tornerò. Vi tormenterò finché avrete vita».

Il fuoco si alzò e la divorò che ancora gridava.

Mosso dal sospetto, mi risolsi a interrogare la prima monaca che avevo catturato, un’accolita della fu Yevonna, il giorno successivo.

Il mio passo tra le vie di Djose era svelto, più di quanto avrei voluto: non era mio costume non mascherare le mie emozioni. Le dichiarazioni della condannata erano state rivelatorie e amare allo stesso tempo. Era di tutta evidenza che Kelk Ronso mi aveva detto il vero, e le implicazioni che ciò comportava erano tra loro collegate in una perfetta catena di cause ed effetti.

Tuttavia, per quanto frustrante, non dovevo farmi travolgere. Mi recai al tempio incurante degli sguardi, per poi ordinare alle guardie di sigillare la porta fino a nuovo ordine: nessuno doveva muoversi se non sotto il mio sguardo.

Quando imboccai il corridoio che portava alle scale dei sotterranei, una folata di vento freddo mi portò alla mente sensazioni familiari e molto spiacevoli: la pelle iniziò a pizzicare, ma scesi i gradini con fretta di sapere. Non potevo tollerare la presenza della Non morte sotto la mia egida.

La prigioniera, quando mi vide, alzò lo sguardo senza un lamento. Arretrò fino al muro e quando vi posò la schiena la vidi sussultare per il dolore dovuto alle piaghe. Poi rivolse il volto alla parete per non incrociare il mio, velato. Con uno sbuffo di fumo, ordinai al carceriere di aprire la porta arrugginita.

Fu portata al mio cospetto di peso, e lei si gettò ai miei piedi baciandoli, implorando il dio che rappresentavo.

«Le ho detto tutto ciò che sapevo!» pianse, con voce soffocata. «Non mi faccia più del male, la scongiuro!»

Una voluta di fumo del mio sigaro le mozzò il respiro e lei, portata una mano alle costole molli, si piegò con dolore per tossire. Un rivolo di sangue le macchiò il labbro e cadde sulla punta della mia scarpa.

Forse il giorno successivo sarebbe stato meglio mangiare del formaggio, piuttosto che della carne, acciocché la mia alimentazione fosse più variata.

«In nome di Yevon, di’ la verità» le intimai, mentre la guardia la staccava dalle mie vesti. «A quale fine hai commesso la tua eresia? Rispondimi».

Per un attimo incrociai i suoi occhi e scorsi le sue pupille tremare, poi abbassò il capo fino a toccare il pavimento col naso. Il suo corpo era scosso, ma non un suono uscì dalla sua bocca.

«Il Grande Inquisitore ti ha fatto una domanda!» urlò il carceriere, colpendola al costato con un calcio. Il fiato della ragazza venne meno per qualche istante, ma non servirono altre persuasioni.

«Yevonna diceva che era necessario...» confessò, le parole che le si strozzavano in gola. «Che era...» si interruppe di nuovo. Il sangue versato dalla sua bocca mi ricordava quello, più sacro, di Braska. «Che era nostro dovere far cadere l'inganno...» 

«Quale inganno?»

«I Non Trapassati calpestano la nostra terra, signore».

Non appena pronunciò quest'ultima frase si coprì la testa con le braccia, temendo altri colpi sul capo. Anche volendo, non avrei potuto: nonostante il sospetto mi fosse noto, averne la conferma era un affronto al dio, alla Chiesa e alla mia persona.

«Riportatela al suo posto, e che le sia dato un tozzo di pane. Yevon ha pietà per chi aiuta la sua causa» ordinai al carceriere.

Ma io no. 

 

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Capitolo 20
*** Se l'attraversi non la scampi (Parte 1) ***


CAPITOLO 15: SE L’ATTRAVERSI NON LA SCAMPI (PARTE 1)

 

 

Un fulmine, sfuggito alla rete delle torri, si schiantò a terra con la forza di una lancia scagliata contro il centro del pianeta. Nonostante fosse al sicuro, Braska sobbalzò vistosamente nel sentire il boato che subito ne seguì. Poi unì le mani, intrecciando le dita all’altezza del petto, mentre un secondo tuono brontolava in lontananza.

«È stata una buona idea quella di fermarci alla Casa del Viante» commentò con un sorriso. L’odore caldo di erbe da tisana che gli arrivava al naso gli dava l’impressione di essere a casa.

Jecht guardò con aria di sfida il punto di terra bruciata su cui si era schiantata la saetta.

«Già» rifletté, stiracchiandosi con discrezione. «Pensi che il temporale cesserà?».

L’Invocatore passò le dita sui grani del rosario che teneva al polso. Spostò lo sguardo su Auron che, piuttosto distante da loro, stava aspettando con compostezza che qualcuno si mostrasse al bancone. 

«Tutte le tempeste devono avere una fine» rispose. 

Rin, risalito da sotto al bancone, non riuscì a trattenere un’espressione sorpresa quando si trovò davanti Auron, in persona e senza la presenza di Braska che mitigasse la sua freddezza. Poi gli rivolse il suo solito sorriso cordiale, un altro dettaglio che faceva sentire Braska a casa.

«Chiedo scusa» esordì il monaco. Piantò gli occhi azzurri in quelli verdi del locandiere, cercando di apparire meno aggressivo possibile. L’altro, intimorito, impiegò qualche istante per riuscire a distogliere lo sguardo e posarlo sul ripiano di legno. Auron vi aveva appoggiato un libro che stringeva in una presa nervosa: nel vederne la familiare copertina celeste, Rin fu costretto a reprimere un sorriso.

«Ho trovato questo volume e non riesco a leggerlo» continuò il Guardiano, omettendo di proposito dove l’avesse preso. «Sa dirmi se è scritto in lingua Al Bhed?»

«Certo» replicò Rin, raggiante come lo era sempre quando qualcuno si dimostrava interessato alla loro cultura. 

Porse la mano ad Auron e il giovane gli diede il libro, forzandosi a fermare i suoi sentimenti di diffidenza quando gli sfiorò per caso le dita. Gli Al Bhed erano un popolo per natura inferiore, dato il loro dover ricorrere alle macchine per avere una vita serena, e per giunta ancora pagano nonostante fosse stata loro rivelata la via di Yevon. Le loro donne avevano costumi dissoluti – la moglie di Braska, di certo, era qualcuno di cui s’era perduto lo stampo – e per non farsi capire parlavano un linguaggio in codice. Eppure proprio da quel linguaggio Auron era attirato in modo incomprensibile, così come lo era dalla strana città da cui veniva Jecht.

Sapere non sarebbe stato mai un peccato fino a quando avrebbe fatto un uso virtuoso delle proprie conoscenze. 

Rin esaminò il volume in modo teatrale: osservò il titolo, poi lo aprì su una pagina casuale e prese a sfogliarlo.

«Sì» disse col suo accento strano, «è Al Bhed».

«E può dirmi cosa c’è scritto?»

Auron sgranò gli occhi quando Rin, con un largo sorriso, scosse la testa. I suoi capelli biondi accompagnarono il movimento per poi ricadergli sul collo. 

«Questo è solo per chi è iniziato alla lingua Al Bhed» spiegò allegro, poi sparì di nuovo sotto al bancone per tornare con un piccolo tomo in mano. «Sono contento che hai chiesto. Ecco, prendi questo: ti aiuterà per tradurre».

«Per… tradurre?» ripeté Auron, incerto. Non aveva nessuna intenzione di imparare una lingua, ma solo di sapere cosa leggesse Braska nel tempo libero. 

«Sì, tradurre quello che è scritto» ripeté Rin. «Ci sono molti di questi sparsi su Spira, e ognuno ha una lettera sola di Al Bhed con a fianco la lettera di lingua Comune». 

Detto questo, gli aprì davanti agli occhi il dizionario, alla pagina in cui era stampata in lettere cubitali una Y, assieme a una freccia che indicava una A.

«Una volta che hai capito, è molto facile imparare».

«Ma... » ribatté Auron, «che cosa c’è scritto su tutte le altre pagine?»

«Sono esempi con quella lettera!»

Il monaco decise di accettare il regalo e più non domandare. 

«Auron è strano in questi giorni» commentò Jecht, guardandolo da lontano mentre armeggiava con il dizionario, ancora al bancone di fronte a un raggiante Rin.

«Mi sembra un bene che stia iniziando ad essere curioso di quello che ha attorno» rispose Braska, «non trovi?»

«… sì?»

Con lui non si era dimostrato molto curioso, rifletté Jecht, quanto piuttosto più intrattabile del solito. 

«Magari è grazie alla tua influenza» osservò l’Invocatore.

Jecht sapeva che aveva buone intenzioni, ma pensare alla compagnia di Auron gli faceva venire solo una gran voglia di bere per dimenticarselo. Lui e il desiderio di rivalsa che gli ispirava, offuscato dal bisogno più immediato di un contatto fisico con lui. 

Avrebbe chiesto a Rin qualcosa di forte, quella sera. Era sicuro che ne avesse e che, così come lui non era così schizzinoso da rifiutare degli alcolici Al Bhed solo per il nome, anche il locandiere non avesse voglia di fare tanto il moralista.

Quando Auron si riunì ai suoi compagni, attendendo ordini dall’Invocatore, Jecht non riuscì a guardarlo in viso, tanto era tormentato dai propri foschi pensieri. Passò distrattamente il dito indice sui libri offerti dal rifugio, per poi fermare la mano su una rigida copertina verde muschio. Sfilò dallo scaffale il volume e lesse il titolo: Leggende e curiosità della Piana dei Lampi.

«Trovato qualcosa di interessante?» chiese con genuina curiosità Braska, da sempre attratto dalle biblioteche. 

«Questo libro parla della Piana» rispose Jecht, sedendosi davanti a lui. «Magari c'è qualcosa che può tornarci utile. Siamo ancora lontani dalla prossima città».

Braska sorrise e giunse le mani. L'atleta ne fu lieto: aveva notato che lo faceva quando era molto soddisfatto.

«Ti interessi sempre di più alla nostra terra: è qualcosa che mi rende molto felice».

«Siete gente strana che abita un mondo strano. È interessante» rispose Jecht spostando gli occhi dal suo viso. L'Invocatore rise di gusto, annuendo concorde.

«Probabilmente penserei lo stesso della tua Zanarkand, amico mio».

«Ah… puoi dirlo forte».

Jecht scosse la testa, messo a disagio dal nome della sua città. Ricordi offuscati si mescolavano alle luci abbaglianti della metropoli, disturbando le immagini della tranquillità, anche se solo apparente, del paesaggio di Spira. 

Iniziò a sfogliare il libro con la fronte corrugata, come usava fare quando prestava attenzione e si concentrava. Molte delle pagine raccontavano delle torri parafulmine – a quanto pareva installate da un eroico Al Bhed, perito nell’impresa – e dell'eone Ixion, tutti argomenti che aveva appreso da Braska stesso. 

Andò avanti veloce, fino a scorgere l’immagine di una roccia molto particolare: era una lastra smussata e piantata a terra, come un monolito o una lapide. Vi era scolpita una creatura simile a una pianta, dalla forma che poteva ricordare in modo vago un uomo stilizzato.

«Cos'è?» chiese Jecht porgendo il libro a Braska.

«Oh! Queste sono pietre disseminate per tutta la Piana. Sono un gran mistero, sai» spiegò gentilmente. «Questi esseri si chiamano Kyactus. Sono molto rari e difficili da sconfiggere: nessuno riusciva a scacciarli da Spira, finché il Grande Invocatore Gandof non usò i suoi poteri per sigillarli in quelle lapidi. Ed è per questo che la Piana dei Lampi ha preso anche il suo nome».

Jecht quasi mise il naso tra le pagine per osservare al meglio il disegno abbozzato.

«E che succede se tocchi le pietre?» chiese, con gli occhi spalancati.

«Dicono che potresti incontrarne uno. C'è chi dice di averne trovati anche due insieme!»

«Possiamo vederle? Insomma, tanto ci dobbiamo passare, no?»

Braska portò la mano destra alla bocca e coprì un'altra risata sentita, poi annuì come un padre che concede un regalo al figlio. Jecht ringraziò con gratitudine e rimise il libro al suo posto, per poi voltarsi verso Auron.

«Ehi, Auron! Se hai finito, andiamo: voglio vedere i Kya… i cosi».

Il monaco sbuffò dal naso, infastidito in modo scenografico dall’atteggiamento di Jecht. Come sempre, però, piegò la sua volontà a quella di Braska: di certo lui sapeva cosa fosse bene, cosa facesse crescere la virtù nella loro anima durante il viaggio.

Quando uscirono dalla Casa del Viante, la pioggia promessa dal cielo livido aveva cominciato a cadere, ritmica e pacata.

«Ah, eccone una!» esclamò Jecht, dopo aver indicato un punto imprecisato all’orizzonte. Auron e Braska aguzzarono la vista e notarono un leggero bagliore azzurrino: la lapide sembrava segnalare la sua presenza, forse reagendo alla pioggia dato che il giorno precedente non l’avevano notata.

«Sai che anche se la tocchiamo non succederà nulla, vero?» intervenne Auron, nel tentativo di infrangere le sue speranze nel modo più brutale possibile. Continuava a esserci qualcosa che lo inquietava, in quella Piana dei Lampi, qualcosa per cui riteneva preferibile non fermarsi lì un giorno di più.

«Ma che male c’è se proviamo?» replicò il campione di blitzball, marciando di gran carriera verso la pietra mentre un fulmine si schiantava sulla torre sopra la sua testa. 

«Proviamo!» gli fece eco Braska, con un sorriso serafico. Auron, per l’ennesima volta, si rassegnò e li seguì.

La pietra era in effetti circondata da una luminescenza particolare, che sembrava avere origine dal piccolo disegno al centro: un Kyactus, scolpito rozzamente sulla superficie irregolare. 

Jecht – che non temeva neppure il dio, e pertanto non poteva spaventarsi davanti a un semplice ideogramma – sfiorò con le dita la lapide.

Gli rispose, alle sue spalle, la pioggia che accarezzava incessante la piana.

«Vedi? Niente» commentò Auron. «Sarà meglio muoverci».

«Aspetta!» lo interruppe Braska. Emozionato come un bambino, afferrò la manica del suo Guardiano e indicò verso la pietra: la luce sembrava più intensa.

Una figura evanescente che somigliava senz'altro a un Kyactus apparve davanti a loro senza emettere un suono: nonostante sembrasse fatto di fumo, Jecht ebbe la tentazione di allungare la mano e afferrarlo. 

Auron sguainò la spada in preparazione allo scontro, ma Braska gli fece cenno di attendere. Il piccolo essere si mosse in modo sconnesso come usavano fare quelli della sua specie, ma non li attaccò né ingaggiò battaglia: corse invece veloce intorno ai viaggiatori come a voler attirare l'attenzione.

«Ma… che fa?» disse Jecht, confuso.

Auron, intuito che non c'era pericolo, abbassò l'arma, ma non la ripose. Il Kyactus fantasma muoveva gli arti superiori avanti e indietro, puntando verso delle rocce ai lati del sentiero.

«Vuole che lo seguiamo, credo» rispose Braska.

«Signore, non dovremmo perdere tempo dietro queste sciocchezze» disse Auron con durezza, ma Jecht si era già incamminato.

«Non vorrai lasciare Jecht qui, vero?» cinguettò Braska e, senza nemmeno aspettare replica, cominciò a seguire il suo Guardiano.

Il monaco rimase interdetto e sospirò, ma non si oppose: non lo avrebbe mai ammesso, ma la curiosità aveva catturato anche lui. Il Kyactus, raggiunto il suo scopo, scattò con forza sui suoi corti arti inferiori, mettendo molti metri tra lui e i tre viaggiatori.

«Woa! Quanto corri, piccoletto!» esclamò Jecht con voce eccitata. 

Non si sarebbe mai fatto battere da una pianta animata: accelerò il passo, aumentando l’ampiezza delle sue falcate.

Auron rinunciò anche a stargli dietro: la velocità non era il suo punto forte e fumare non aveva un effetto benefico sulla sua resistenza. Preferì invece osservare con attenzione dove il compagno si stava dirigendo per poterlo raggiungere in seguito assieme a Braska. 

Jecht arrivò in una insenatura naturale tra le rocce, dove un Kyactus vivo e di carne stava agonizzando a terra, trapassato da una lancia. Il suo compagno fantasma, completato il compito, svanì nell'aria così come era apparso.

«Accidenti…» sussurrò Jecht grattandosi la barba.

Auron e Braska lo raggiunsero dopo pochi minuti e, avvistata la creatura, discussero sul da farsi.

«Povero piccolo… ti curo io!» esclamò l'Invocatore mosso da pietà, ma Jecht lo fermò.

«Aspetta! Nel libro c'era scritto che questi cosi sono pericolosi».

«E vorresti abbandonarlo in queste condizioni?» replicò Auron, lasciando Jecht molto sorpreso.

«E tu da quando ti preoccupi per i mostri che uccidi?»

«Quello non è pericoloso. Sta soffrendo» rispose Auron, senza aggiungere altro. Braska sorrise, ma impugnò comunque il suo scettro.

«Hai buon cuore, ma Jecht ha ragione. Auron, avvicinati con me. Non mostrare la lama della spada, ma la tua mano sia pronta a scattare». 

Il monaco annuì, si avvicinò a Jecht e gli posò una mano sulla spalla, invitandolo a farsi più indietro.

«Va bene, va bene… state attenti però, ok?» disse l'atleta con apprensione.

I due si mossero con cautela, attirando l'attenzione della creatura: sentendosi minacciata, quella scatto in piedi con un verso lamentoso e puntò gli arti superiori verso Braska.

«Calmo, piccolino… non vogliamo farti del male» sussurrò con dolcezza l’Invocatore, ma ottenne l'effetto contrario.

Aghi acuminati spuntarono dal Kyactus, minacciando di colpire a raffica. Braska innalzò una barriera magica per proteggersi dai dardi: il loro numero era molto basso e la loro potenza fu facilmente neutralizzata.

La creatura, una volta compresa la natura dei due umani, smise di muoversi, all’apparenza senza vita. Braska, con il fiato corto per lo sforzo compiuto, approfittò del momento e si avvicinò fino a toccarla.

Il corpo vegetale del Kyactus iniziò a emettere una debole luce, ma la lancia, penetrata in profondità, andava rimossa. Auron sovrastò la creatura per afferrare l'arma ed estrarla, ma non era sicuro di riuscirci senza aiuto.

Jecht accorse verso il monaco, posizionandosi vicino a lui e dietro Braska, per poi afferrare e stringere l’asta. Le loro mani entrarono in contatto, e Auron contò per tre volte: tirarono insieme come un sol uomo e il Kyactus fu liberato.

Mentre Braska chiudeva la ferita con la magia, Auron e Jecht studiarono l’arma. Somigliava più a un’alabarda, dato che sotto la punta erano presenti due lame simmetriche, dorate. Nel punto in cui cominciava l’asta erano legate delle piume disposte a ventaglio e colorate da una tintura blu.

«Non me ne intendo, ma mi pare pregiata» disse Jecht, valutando il peso dell'arma. Auron annuì, senza però distrarsi dal lavoro di Braska.

«I Kyactus sono creature difficili da colpire, così dicono. Quello che lo ha ferito doveva essere un guerriero abile» disse.

«Abile e ricco. Noi non abbiamo lame d'oro» rispose Jecht sarcastico, strappando un mezzo sorriso ad Auron.

«È molto bella» commentò Braska, volgendo gli occhi sulla lancia per poi riportarli subito sul piccolo Kyactus, che stava riprendendo vigore come una pianta assetata sotto un temporale.

«Che ce ne facciamo? La vendiamo?» domandò Jecht. «Io non sono in grado di usarla, e tu, Auron?»

«Non è il mio genere» rispose lui, scuotendo la testa. «Magari possiamo ricavarci qualcosa, ma se loro hanno qualche idea...»

Lo sguardo di Braska sulle ferite del Kyactus sembrava quasi assente mentre interveniva:

«A mio fratello piacerebbe». S’interruppe per sorridere, e Jecht desiderò con tutto se stesso che nella famiglia dell’Invocatore ci fosse un altro fratello a cui rivolgere quel pensiero così dolce. «Lui ha una buona mira».

«Non mi sembra che sia fatta per essere scagliata» provò a obiettare Auron, ma la voce dell’altro Guardiano arrivò prima.

«Non ho intenzione di mettere in mano ad Alan l’arma per compiere un fratricidio».

Braska diede un colpo di tosse che si trasformò in una risata amara e passò per l’ultima volta le dita sul corpo del mostro.

«Ecco fatto» annunciò.

La creatura rimase ferma ancora per qualche istante, poi iniziò a muovere gli arti uno alla volta, come a voler controllare le proprie condizioni. 

Nonostante fosse circondata dai tre viaggiatori, non si sentì più minacciata. Si alzò in piedi e rivolse il suo sguardo inespressivo verso Braska, poi si esibì in una danza sconnessa simile a quella effettuata dal suo compagno fantasma.

«Sembra contento» disse Jecht divertito. Braska regalò alla creatura un sorriso sincero, poi si tastò la veste.

«Ah, non ho niente da dargli. Del cibo, o una caramella…»

Il Kyactus assunse la consueta posizione della sua specie, come se fosse in procinto di correre, per poi puntare alla sua sinistra e agitare gli arti.

«Anche lui vuole portarci da qualche parte» disse Auron, curioso. Jecht osservò la lancia che aveva in pugno e si grattò la barba.

«Questa ce la portiamo dietro, quindi? È ingombrante».

«La porto io, non temere. Tu pensa a correre» rispose Auron, voltando lo sguardo verso il Kyactus, che aveva tutta l'intenzione di scattare da un momento all'altro.

Come a voler dar ragione al monaco, la creatura si mosse veloce e partì verso la destinazione seguente, inseguita rapidamente da Jecht, che non perdeva terreno.

«Speriamo non sia un altro Kyactus ferito, o non usciremo più dalla Piana» disse Braska con un sospiro.

 

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Capitolo 21
*** Se l'attraversi non la scampi (Parte 2) ***


CAPITOLO 15: SE L’ATTRAVERSI NON LA SCAMPI (PARTE 2)

 

 

Auron sorrise di nuovo e si mise in cammino con il suo Invocatore, seguendo le orme dell'atleta che, a quel punto, era chissà dove. 

Dopo qualche minuto, vicino a una torre parafulmini abbattuta, Jecht si sbracciava per farsi vedere dai compagni. Braska mise la mano davanti al viso, a farsi schermo dai bagliori accecanti dei tuoni, e valutò la distanza.

«È veloce come i fulmini di questa Piana. Era così anche durante l’allenamento?» chiese Braska con ammirazione. Auron rimase in silenzio per qualche istante, preso dai ricordi di quel periodo.

«Sì, anche se non la usava come cercavo di insegnare: invece di attaccare, cercava la fuga» rispose seccato. Braska annuì comprensivo, poi mise la mano sulla spalla del monaco e lo invitò a raggiungerlo.

«Sta cambiando, perlomeno. Non credi?»

Auron gli rivolse lo sguardo per un solo istante prima di puntarlo verso l'allegro straniero che li chiamava.

«Lei lo sapeva, vero? Come?» chiese Auron serio.

«Intuito. Impari a conoscere le persone se ti prodighi per aiutarle. Jecht non è poi così diverso dai tormentati a cui prestavo soccorso» rispose Braska sorridente.

Raggiunsero il compagno senza altri commenti: Auron aveva già molto da pensare.

«Il Kyactus ci ha portato a un tesoro!» esclamò Jecht entusiasta. «C'è un forziere sotto le macerie di questa torre. Vieni, monachello, aiutami!»

Afferrò il polso di Auron e lo trascinò verso il punto che la creatura aveva indicato prima di dileguarsi nella Piana. 

Attratto dal contenuto, lui non badò nemmeno ai modi di fare discutibili di Jecht. Posò la lancia a terra e iniziò a scavare tra i detriti con il compagno, fino a rinvenire un forziere fatto di legno e ferro. 

Braska si avvicinò con occhi brillanti e, quando lo aprirono, rimase meravigliato.

«È uno scettro degli Invocatori!» esclamò, felice come un bambino. 

Era un’arma singolare e bellissima. Nonostante fosse interamente realizzata in legno, l’asta era rossa come ferro incandescente: a seconda di come la colpivano i raggi del sole, emanava bagliori violacei o aranciati. Sulla sua cima sedeva una sfera schiacciata ai poli, decorata da archi neri, dipinti sul legno rosso, e intarsi d’oro.

Quando Braska strinse tra le mani lo scettro, si sentì travolgere dall’onda di un potere spirituale forte e calmo, più grande di quello che riusciva a canalizzare in precedenza. 

«Il Kyactus ci ha fatto un bel dono per ringraziarci» disse ai suoi Guardiani. 

Jecht sorrise, poi osservò la lancia ai piedi di Auron e pensò a una buona soluzione.

«Al posto dello scettro, mettiamoci quella. Potrebbe tornare utile a qualcuno in futuro» propose l'atleta al gruppo. Si aspettava un rifiuto, ma Auron concordò di buon grado.

«È un'ottima idea. Ci sarebbe stata d'intralcio fino alla prossima città» disse il monaco, e Braska annuì a sua volta.

Il guerriero prese con cura l'arma e la depositò nel forziere, senza danneggiare il legno con le lame, per poi richiuderlo.

«Dovremmo sotterrarlo sotto le macerie. Non è giusto che chi ci succederà trovi tutto il lavoro già fatto» disse Jecht scherzoso. Per tutta risposta, Auron lo spinse di lato facendolo sbilanciare, ma non nascose un ghigno divertito.

«È la prima volta che ti faccio ridere, ragazzo. Potrebbe perfino piovere ora!»

«Come mai sta già accadendo?» rispose il monaco sarcastico.

«Il cielo lo sapeva».

I due Guardiani si ricomposero e, di comune accordo, decisero di tornare tutti indietro alla Casa del Viante per recuperare le forze. L’incontro con il Kyactus era stato molto diverso da quanto si aspettavano e li aveva colti impreparati, drenando le forze di Braska. Ora, l’Invocatore aveva bisogno di riposo.

La Casa del Viante, in quella terra strana, appariva ormai a ognuno di loro come l’unico porto sicuro a cui tornare, l’unico inalterato anche se Sin, suscitando la furia del mare, avesse spazzato via ogni cosa al di fuori. 

 

 

Auron era stato disturbato da un pensiero fastidioso e insistente mentre guardava fuori dalla sua stanza. Le sue considerazioni sulla fiera bellezza di quel luogo dove i fulmini non cessavano mai di cadere erano state interrotte da un timore più materiale.

Aveva visto Jecht confabulare con Rin al bancone, e sapeva bene che non ci si poteva fidare di un Al Bhed. Poi, il sedicente abitante di Zanarkand era sparito per diversi minuti. Quando era tornato, di soppiatto, nella sua stanza, forse aveva pensato che nessuno lo stesse osservando.

Auron sospirò e afferrò la maniglia. Una stretta allo stomaco lo assalì assieme al pensiero di non essere pronto ad affrontare il Pellegrinaggio.

Di non essere abbastanza forte e di non credere abbastanza.

Eppure, stava andando a cercare la pericolosa compagnia di Jecht, non quella confortante di Braska. Andava verso le parole che gli piantavano in petto il seme del dubbio piuttosto che verso quelle che avrebbero potuto estirparlo.

È solo per accertarsi che non stia bevendo ancora, si disse, nulla più.

Senza neppure indossare l’armatura, si recò davanti alla porta di Jecht, quasi senza il pensiero a guidarlo. Quando la colpì col pugno, desiderò che loro tre avessero un codice segreto, una sorta di lessico delle bussate che annunciasse senza dubbio la presenza di un alleato: non voleva essere scambiato per qualcun altro.

La voce roca di Jecht che veniva dall’interno della camera, però, suonava sorpresa, segno che non aspettava visite.

«Sì?» diceva.

«Auron» si annunciò il monaco.

Non si udì nessuna risposta se non qualche rapido passo, poi la serratura che veniva sbloccata.

«Ragazzo?» commentò il campione di blitzball, interdetto, come a volersi accertare che fosse veramente lui.

Auron non indossava la solita corazza di cuoio, e lo sguardo di Jecht si posò con discrezione sul suo petto liscio, lasciato in parte scoperto dai lembi della veste. Poi si spostò sulle mani bianche, non nascoste dai guanti. Sembrava una sorta di visita informale, ma non aveva nessuna idea del perché avesse bussato alla sua porta. O meglio, qualcuna ne aveva, ma non erano che fantasie di improbabile realizzazione.

«Posso anche entrare?» domandò il monaco, bruscamente. Jecht si riscosse e con un piccolo inchino lo invitò nella stanza, per poi chiudere la porta. 

«A cosa devo questa visita?» domandò Jecht con il migliore dei suoi sorrisi seducenti. Auron si guardava attorno con circospezione, come se volesse cercare le ragnatele negli angoli del soffitto. «Vuoi che ti offra qualcosa da-»

Si interruppe di colpo, realizzando la verità, inchiodato sul posto da uno sguardo di Auron, che era infuocato ma non nel modo in cui avrebbe voluto lui.

«Dove l’hai nascosto?» gli domandò il monaco. 

«Questa è un’insinuazione molto scortese. Non-» la voce di Jecht gli morì in gola quando Auron gli si avvicinò a una minima distanza dal volto.

«Ubriacati con qualcosa che hai portato in camera e ti lascio qui» lo minacciò, arricciando il naso all’odore del liquore che impestava il fiato di Jecht. «Mi hai capito?»

«Sì, signore» replicò l’atleta. Poi sollevò all’altezza del petto la fiasca che Auron era solito portare in vita, e che aveva sottratto con dita svelte.

«Però da questa posso bere: non l’ho portata io».

Il monaco sbiancò, e il breve lasso di tempo in cui si chiese cosa fosse successo bastò all’altro a fuggire fuori dalla sua portata. Poi, Jecht si gettò sul letto e si sedette a gambe incrociate.

Il primo istinto di Auron fu quello di scagliarsi contro di lui, ma si trattenne e, infastidito, si limitò a scoccargli un’occhiata letale. Per tutta risposta, lui alzò la refurtiva come se gli stesse proponendo un brindisi. 

«Siediti con me» lo sfidò con un sorriso, «oppure me la scolo tutta».

Auron aggrottò le sopracciglia: aveva visto Jecht in condizioni ben peggiori, quando non riusciva nemmeno a reggersi in piedi a causa dell’alcol. Non gli sembrava ubriaco, e dubitava che avrebbe davvero messo in atto la sua minaccia. Tuttavia, con un sospiro, decise di stare al gioco.

Prese la sedia che si trovava in tutte le stanze delle Case del Viante di Rin e la trascinò accanto al letto; poi vi si sedette e si sistemò la veste sul petto, in modo da lasciare in vista meno pelle possibile.

«Ma dai, ma ti vergogni?» gli domandò Jecht, con una mezza risata. Auron si irrigidì e spostò il peso da una gamba all’altra, per poi accavallarle, alla ricerca di una posizione che lo facesse sentire a suo agio e alleviasse le strette allo stomaco. 

«No» ribatté, secco, posandosi le dita sulle clavicole. «Ridammi la fiasca, per favore».

Jecht lo fissò e bevve un piccolo sorso, per poi staccarsi dalla bottiglia con aria ammirata.

«Però» commentò. «Distillate questa roba, in monastero?» 

Auron gli rispose con un rapido cenno d’assenso e allungò la mano per riprendere ciò che gli apparteneva, accompagnato dall’eco lontana di un tuono. Jecht valutò la possibilità di continuare a giocare con lui e stringergli la mano, ma decise – col senno che gli era rimasto – di moderarsi.

Così ignorò il gesto del compagno di viaggio e si sedette di nuovo a gambe incrociate, con la fiasca in grembo.

«Sai, quando ero piccolo avevo paura dei tuoni» disse, un lampo che gli illuminava il volto e le mani attorno al collo della bottiglia. «Stupido, no?»

Auron si trovò a fissare le sue braccia, i muscoli in rilievo anche quando non stava compiendo alcuno sforzo. 

«Te hai paura di qualcosa?» domandò ancora Jecht. Auron spostò lo sguardo su di lui: perché voleva saperlo con tanta insistenza?

«Di nuovo?» replicò il monaco. «Perché continui a chiedermelo?» 

Jecht ridacchiò.

«Perché voglio una risposta».

«I Guardiani non hanno paura, Jecht» gli spiegò, «nemmeno della morte».

Dire ad alta voce quell’eroica bugia, forse, lo avrebbe aiutato a crederci. Assieme al brontolio della piana, arrivò alle sue orecchie una sommessa risata.

«Giusto» commentò Jecht. Auron sentì qualcosa spostarsi, quindi alzò gli occhi su di lui: si era sporto verso il comodino e vi aveva appoggiato la fiasca, come se all’improvviso avesse perso interesse nel bere e avesse trovato un nuovo passatempo. 

La nuova occupazione consisteva nel fissare Auron con uno sguardo stanco e un po’ assente. A causa della semioscurità in cui era immersa la stanza, le pupille gli si erano allargate e gli occhi avevano assunto una strana espressione rassicurante. 

«Mi ero quasi dimenticato che ti fai tagliare le vene senza un lamento» scherzò, abbassando la voce. Auron gli concesse un raro mezzo sorriso.

«Ti è davvero rimasto impresso» commentò. Jecht abbassò lo sguardo e annuì, poi lo riportò sul monaco.

Auron notò che, forse sentendosi alterato dal liquore, gli si era avvicinato. Lo percepiva dal profumo di sapone che gli era arrivato al naso: nonostante fosse contento che Jecht tenesse all’igiene personale, avrebbe preferito rimanere a distanza, considerato quello che sapeva di lui.

Rimase immobile, pensando a Braska e a quanto desiderasse vedere i suoi Guardiani andare d’accordo.

Lo stai facendo per lui, si ripeté, preso da un lieve sussulto quando Jecht gli sfiorò con le dita una ciocca di capelli sul petto, con un gesto del tutto naturale.

«Ma perché li tieni sempre legati? Che senso ha?» si lamentò. La sua chioma, invece, gli era ricaduta davanti al viso, donandogli quell’aria selvaggia che, da quando lo avevano recuperato a Bevelle, non l’aveva mai del tutto lasciato. 

Con estremo disappunto di Auron, Jecht cominciò a tirare il nastro dorato che gli legava i capelli. Il monaco sospirò ed esercitò la virtù della pazienza, imputando il comportamento dell’altro all’alcol.

«E dai, fammi vedere!»

Il giovane sbuffò mentre i suoi capelli, lunghi e neri come la notte, gli ricadevano sulle spalle. Tuttavia, alla sua destra vide la fiasca sul comodino, ormai dimenticata. 

E pensò che le cose stavano andando meglio.

Lo sguardo dei due compagni di viaggio si incrociò per caso. Jecht si lodò per essere riuscito, sino a quel momento in modo egregio, a resistere a ben due tentazioni. La prima era quella di attaccarsi alla bottiglia e bere fino a dimenticare il proprio nome, la seconda – e, con sua sorpresa, la più forte – quella di intrecciare le dita tra le ciocche scure del ragazzo. 

Gli occhi di Auron non lasciavano sfuggire alcuna emozione, eppure sembravano incapaci di staccarsi da quelli di Jecht: per lunghi secondi, scanditi dalla pioggia e dai tuoni, nessuno dei due parlò. 

Jecht, all’improvviso, si sbilanciò verso Auron e atterrò con il viso sulla sua spalla, accompagnato da una risata giocosa. Sentì i muscoli del monaco contrarsi, come se fosse pronto a scattare per combattere, e gli consegnò la fiasca mettendogliela tra le mani.

«Grazie» disse, la voce attutita dalla stoffa. Poi piazzò un bacio sulla spalla di Auron, coperta dal cappotto. 

Il ragazzo si irrigidì di nuovo, ma Jecht si era già allontanato da lui con disinvoltura ed era tornato a sedersi sul letto, distante. 

Auron pensò di averlo immaginato. Dopotutto, aveva sentito solo una leggera pressione: avrebbe potuto essere uno scherzo della sua mente o un atto involontario mal interpretato.

«Potresti diventare una persona quasi piacevole da frequentare, monachello, se ti applichi un po’ di più» commentò Jecht.

Il giovane Guardiano si alzò dalla sedia.

«Lo prenderò come un complimento» replicò, dirigendosi verso la porta e raccogliendosi di nuovo i capelli con il nastro. 

La coda gli ricadde sulla spalla, proprio dove ancora aleggiava il fantasma di un bacio.

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Capitolo 22
*** La cosa giusta ***


CAPITOLO 16: LA COSA GIUSTA

 

 

«Sapete» raccontò Braska, «c’è una leggenda antica secondo cui gli dei, guardando il cielo, hanno voluto imitare la sua perfezione nel mondo materiale. E così, prendendo come modello la scia di stelle che vedevano, hanno disegnato il Fluvilunio».

«Le persone non credono in Yevon? Non hai mai parlato di più dei» obiettò Jecht, mentre cercava di immaginare il fiume di cui l’Invocatore stava parlando. A destra e a sinistra del percorso in terra battuta non vedeva corsi d’acqua, solo alberi ravvicinati dai quali già due volte, quella mattina, erano usciti mostri che sembravano cani.

«Non è stato sempre così» spiegò lui. «Alcuni popoli, nonostante siano venuti in contatto con la via di Yevon, si sono mantenuti pagani. Come gli Al Bhed, ad esempio».

Jecht guardò la schiena ampia di Auron che apriva loro la strada.

«Che cosa ne pensi?» azzardò, sperando di ricevere una risposta ragionata e che, allo stesso tempo, il monaco li sentisse.

«Il dio è uno solo» replicò Braska, alzando le spalle con un sorriso. «Come lo si chiami o come lo si veneri non è mio compito giudicarlo».

«I dettami di Yevon non sono proprio questi, signore» lo redarguì Auron, mantenendo comunque un tono rispettoso. Jecht immaginava che fosse un avvertimento rivolto a lui, ed era felice che il Guardiano si sentisse toccato nel vivo. 

«Credi davvero che Yevon non riservi un posto nelle distese dorate dell’Oltremondo a tutti coloro che sono stati buoni?»

L’Oltremondo, pensò Braska, mentre la risposta del monaco si confondeva con lo stormire delle foglie. La Piana dei Lampi era connessa tramite una strada di polvere bianca direttamente a Guadosalam, ma lui non aveva voluto – nonostante lo avesse lungamente preso in considerazione – passare per la città dei Guado.

Da quanto aveva sentito, era stata agitata sin nelle radici dall’esilio del figlio di Jyscal. Le famiglie Guado più progressiste avevano valutato di cacciarlo da palazzo e coprire il suo ritratto con un drappo nero, ma alla fine avevano prevalso la diplomazia e gli interessi di un quieto vivere a fianco agli Yevoniti.

Nonostante la strada che aveva davanti fosse ancora lunga, o forse proprio per questo, l’animo di Braska era ancora sereno, non desiderava ancora vedere Emma.

Sapeva che, anche se fosse stata davanti ai suoi occhi, lei non avrebbe potuto parlare e che, anche se per tre volte si fosse gettato ai suoi piedi, tre volte sarebbe volata via e mai avrebbe percepito il calore di un tocco. 

«Io non so cosa sia l’Oltremondo, a Zanarkand non lo abbiamo» disse Jecht con curiosità. «L'avete citato altre volte, ma tutto ciò che ho capito è che è una sorta di vostro aldilà».

Sentite le sue parole, Auron si voltò a guardarlo: non era più sorpreso, poiché l'atleta si era mostrato più volte volenteroso di imparare. 

«Vorresti sapere cos'è?» 

«Sì, grazie. Se non ti dispiace» rispose Jecht con pensata gentilezza. Auron gli lanciò un'occhiata indagatrice, ma lo accontentò.

«Non mi dispiace» disse, schiarendosi la voce. «Nell'Oltremondo, come hai detto tu, ci sono le nostre case dei morti. Tutti coloro che accettano con animo sereno la dipartita, o vengono Trapassati da un Invocatore, vi giungono alla fine del loro viaggio. Lì non ci sono più distinzioni di ceto, e ognuno è un’ombra che vaga con le fattezze che aveva in vita».

Una foglia caduca, finendo ancora verde la sua breve vita, si staccò da un ramo. Auron la seguì con gli occhi, e la sua voce si fece più distante.

«Ma Yevon ha promesso che le anime virtuose finiranno in una vasta pianura serena, dove non conosceranno più il dolore ma solo l’alto grano e l’orzo fiorente, e saranno assieme alla nobile Yocun e a Zaon che per primo ha scacciato il male». 

Jecht guardò il profilo di Auron, su cui la luce arrivava trapuntata dalle foglie, e ricordò di quando, voltandosi alle proprie spalle, aveva visto i giorni che aveva vissuto come una fila di candele spente. Si domandò se Auron non vedesse la fiamma nemmeno su quelle che aveva davanti, tanto fissi erano i suoi occhi nella contemplazione della morte. 

«L’entrata dell’Oltremondo si trova a Guadosalam» continuò il monaco, senza spostare lo sguardo su di lui. 

«Aspetta… la sua entrata? È un posto reale?» chiese Jecht con sincero stupore.

«Sì. Chi vuole onorare i cari perduti si addentra fino alle porte dell'Oltremondo, dove le anime dei defunti entrano in comunione con i vivi».

«E ci parli? Li tocchi, persino?»

«Le anime non hanno un corpo, e se non fai un'offerta di sangue non possono parlare. Molti si accontentano di godere solo della presenza dei morti, e raccontano le vicende del proprio tempo, anche senza sperare in una risposta».

«Sembra confortante… è più difficile dimenticare qualcuno, finché al nome viene associato anche un volto» disse Jecht, con un mezzo sorriso. «E che succede se varchi i cancelli dell'Oltremondo?»

«Noi non lo facciamo. È un luogo sacro e caro al dio» rispose bruscamente Auron, come a voler terminare la conversazione prima che il rispondere gli diventasse difficile.

«Non ci passeremo» intervenne Braska e, per motivi diversi, li rassicurò entrambi. «Almeno non per questa volta, ma non so dire cosa avremo in animo quando torneremo».

«Ehi, Braska» disse l’atleta, «sai cosa penso? Quando avrai sconfitto Sin, dovresti proprio far visita a tua moglie, laggiù, per vedere il suo sorriso». 

Invidiava un tipo di amore del genere, che esisteva ancora in due mondi diversi che non potevano nemmeno toccarsi.

«Sì» rispose Braska, con un sorriso, «hai ragione».

La giornata trascorse tranquilla, la marcia fu favorita da un cielo coperto e da pochi incontri con creature aggressive lungo la strada.

Braska non voleva ancora chiamare a sé la potenza cristallina di Shiva, quindi si limitava a scagliare dardi incantati dalle retrovie, mentre Auron e Jecht, senza difficoltà, uccidevano i mostri a colpi di spada.

Nel luogo dove si accamparono si poteva sentire, negli attimi di quiete, la corrente di un grande fiume ancora coperto dagli alberi. Auron aveva giudicato più sicuro piantare la tenda al limitare del bosco, non troppo lontano dalla strada, piuttosto che sulle rive del Fluvilunio. Braska aveva annuito e Jecht si era adattato alla decisione, chiedendosi se il luogo, in quanto porto fluviale, fosse affollato da mercanti e da potenziali predoni, o piuttosto nelle acque abitasse qualche progenie di Sin che era meglio non incrociare. 

Quella sera, Braska si ritirò presto, come al suo solito, lasciando i suoi due Guardiani nel silenzio della loro conoscenza ancora non molto approfondita. Jecht rimestava le ceneri del fuoco con un’asta di ferro, Auron fissava le fiamme con sguardo assente. Oltre all’odore della resina bruciata, il vento gli portava alle narici il profumo di fiori che non conosceva.

«A volte mi sembra che i sentimenti siano più sinceri qui» esordì Jecht, sovrappensiero. «Non quelli di tutti, è vero, ma almeno persone come Braska… credono veramente in quello che fanno».

Auron rimase in silenzio, i suoi lineamenti immobili come quelli di una statua di pietra. 

«Certo, ogni tanto sarebbe bello avere un po’ di compagnia, invece di rimanere a parlare da solo» commentò stizzito Jecht, pugnalando un ciocco ardente che sfrigolò in risposta.

«Non capisco che cosa intendi» replicò Auron. 

«Non sei un tipo molto loquace, monachello. Spendi tutte le tue parole nelle preghiere dell'alba, dimenticando che ci siamo io e Braska qui con cui avere interessanti conversazioni». 

«E qual è il tuo contributo alla conversazione di oggi?»

«Te l’ho già detto». S’interruppe e guardò un punto indefinito di fronte a sé, poi soffiò l’aria fuori dalle narici e riprese: «Hai visto che faccia aveva Braska quando pensava a sua moglie? Sta facendo tutto questo per lei, e per Yuna, te lo dico io. Un po’ invidio i suoi sentimenti. A volte vorrei… riuscirci».

«Hai detto tante volte di essere sposato anche tu, o sbaglio?» intervenne il monaco, sedutosi di fronte al fuoco. Sembrava apprezzare il rimanere in quella posizione, a gambe incrociate, nel fresco della notte.

Jecht inarcò le sopracciglia. 

«Mi sono sposato troppo presto» considerò con amarezza.

«Quanti anni avevi?» chiese Auron. Jecht gli rivolse una smorfia sorpresa, stupefatto dall’improvviso miracolo di una domanda personale.

«Ventisei».

«Su Spira è tardi».

Jecht strinse i pugni all’improvviso, e dovette controllarsi per non alzare la voce.

«Sai solo parlare di quanto poco ci resta da vivere e di come la nostra esistenza sia vana?» sbottò. «Hai mai pensato di rilassarti un po’ e… non so, trovarti qualcuna?»

Auron aggrottò le sopracciglia. Sembrava cercare la concentrazione per capire le parole di Jecht.

«Ho rifiutato una proposta di matrimonio prima di partire come Guardiano».

L’atleta sospirò e volse lo sguardo al cielo. Non aveva mai sopportato la gente che faceva finta di non capire. All’improvviso, però, venne colpito dal terribile sospetto che potesse essere sincero.

«Scusa… Auron» continuò. Si pentì subito dopo di aver cominciato quel discorso, ma non poteva che andare avanti. «So che è una domanda un po’ strana, ma… come funziona, con i monaci di Yevon?»

Auron aggrottò di nuovo le sopracciglia, senza alcuna ostilità, ma solo con la confusione di chi non riesce a comprendere.

«Sì, intendo, voi come… non potete?»

Lo sguardo vuoto di Auron lo lasciò in forte imbarazzo.

«Nel senso, voi a parte il matrimonio e tutti quei discorsi là, non potete avere… compagnia?»

«Cosa significa?»

Jecht sentì il sangue defluire dal volto. In effetti Auron lo aveva apostrofato più volte come uomo di – come aveva detto? – costumi dissoluti, ma non pensava che la situazione fosse così drammatica. Del resto, però, era proprio da lui condannare ciò che non conosceva.

«Compagnia… sai, no, qualcuno da abbracciare mentre dormi» cercò di spiegare con delicatezza. Auron, tuttavia, sembrò non cogliere il senso e lo guardò inespressivo.

«Ragazzo, parlo di consumare un rapporto intimo con qualcuno».

«Ah» ribatté Auron. Poi guardò il fuoco e sembrò pensarci un attimo. «Yevon…»

«Immagino non voglia nemmeno questo, eh?»

L’altro Guardiano scrollò le spalle.

«Non deve essere negli interessi di un monaco» rispose. 

«Quindi sei vergin-» uscì dalle labbra di Jecht. L’atleta si fermò prima di finire la frase, realizzando che non fosse nell’etichetta nemmeno per uno come lui. Auron, tuttavia, non sembrava affatto turbato.

«Sì, perché?»

Lo stomaco di Jecht si strinse alla naturalezza di quella risposta.

«Perché da dove vengo io è… strano» commentò, con sincerità. «Cioè, capita, ma non che sia imposto da qualcun altro».

«Non avete monaci?»

«Non di questo tipo» replicò. «Ma, come fai a…» si interruppe, rendendosi conto che non fosse una curiosità lecita. Auron, di nuovo, non sembrò interessato all’argomento e non chiese oltre.

Direi che è un buon momento per togliermelo dalla testa, considerò Jecht. È questa la cosa giusta.

Un forte senso di non appartenenza lo colpì: avrebbe dovuto esserne abituato, eppure lo colse di sorpresa. Così come era fuori posto a Spira, non era mai stato, in fondo, di nessuno: non della sua squadra di blitzball, per cui levava tre volte il grido, non di sua moglie o del figlio o dei tanti volti senza nome nella sua memoria.

Solo alla città apparteneva, alla grande Zanarkand che non dorme, ma più il tempo passava più si convinceva che davvero di lei non erano rimaste che macerie addormentate sotto al mare.

Il sonno che avrebbe dovuto sopraggiungere non arrivò, così si alzò in piedi pronto ad andare, dove ancora non lo sapeva.

«Jecht, dovresti andare a dormire. Il tuo turno non è lontano» disse Auron con voce stanca.

«Hai ragione, ma stasera proprio non riesco. Vado a fare una passeggiata» rispose sconsolato. «Tranquillo, non mi allontano dal sentiero».

Auron gli rivolse uno sguardo sospettoso, ma lo lasciò andare senza aggiungere altro.

Jecht lanciò un'ultima occhiata alla tenda e immaginò il monaco coricato nella consueta posizione, sdraiato su di un fianco con la mano pronta a scattare verso le armi. 

Il mare di Spira aveva i denti, era nemico, e chi si nascondeva nell’entroterra a sua volta nascondeva insidie. Jecht si trovò a considerare che sia Braska sia Auron sarebbero inorriditi se avessero saputo con quante persone era andato a letto, e a quali pratiche si era dedicato. E lui a sua volta tremava pensando a uomini che si mutano in mostri, al potere torbido di Yevon che sembrava latore di così tanta luce. 

Considerò per la prima volta che nessuno dei due punti di vista era quello della ragione, nessuno quello del torto. Esisteva, però, la cosa giusta: sconfiggere la bestia che causava infiniti lutti. Anche se Spira non era la sua patria, dopo ciò che aveva visto non poteva sottrarsi.

Jecht si incamminò alla propria destra, costeggiando gli alberi. L'aria fresca della notte gli pizzicava la pelle, ma era una delle sensazioni che più amava: spesso in mare cercava le correnti più fredde per avvertire i brividi che provocavano.

Malinconico e turbato, non si rese conto della distanza percorsa: davanti a lui, appena fuori dal limitare del bosco, vide la corrente placida del Fluvilunio, le cui increspature brillavano di una luce aranciata riflessa. 

Un gruppo di uomini era seduto intorno a un falò non lontano dalla riva, godendo del lieve tepore che le poche fiamme irradiavano. Jecht si fermò e si guardò intorno con timore: non era proprio il caso di mettersi nei guai a quell'ora della notte e, per giunta, da solo.

Fece per tornare indietro con passi leggeri, quando un grido attirò la sua attenzione: uno di quegli individui lo aveva visto e si stava sbracciando, indicandogli il fuoco e facendo segno di sedersi con loro.

L'atleta lanciò di nuovo un'occhiata alle sue spalle, ma decise di accettare.

Hanno tutta l'aria di avere dell'alcol, pensò.

Jecht li salutò con la mano e sorrise affabile, ma si rese conto ben presto che i suoi modi accomodanti non sarebbero serviti: non erano ostili, anzi ridevano, scherzavano e parevano non avere pensieri. Uno di loro gli parlò, ma lui non riuscì a comprenderlo; riconobbe però un accento e un suono che aveva già sentito.

«Siete Al Bhed?» chiese, incuriosito.

«Al… Bhed…» rispose lo sconosciuto con tono confuso, poi chiamò un compagno poco distante e lo fece sedere accanto a Jecht.

«Ciao! Amico tu, vero?»

L'uomo di Zanarkand capì che quello, probabilmente, era l'unico che parlava la lingua comune.

«Sì, sono un amico… diciamo pure così» disse Jecht, insicuro. «Voi siete Al Bhed?»

«Non so… forse» rispose quello, annebbiato. Le sue pupille, invece di essere piene e nere, disegnavano una spirale che svaniva nel verde dell’iride. Erano come gli occhi di Rin, e anche i capelli biondi e lisci dell’uomo somigliavano a quelli del locandiere.

«Come forse? Siete mica ubriachi?»

Lo sconosciuto scoppiò a ridere, per poi far vagare lo sguardo sul fiume con aria assente, come se stesse cercando di ricordare il significato profondo di quella parola.

«Ubriachi, no… noi dimentichiamo».

Jecht tamburellò le dita sul ginocchio, pensando di essere capitato in un gruppo di matti. Valutò la possibilità di andar via, quando uno di loro gli portò una fiasca di ceramica bianca. 

Ah, gli ubriachi dicono sempre di non esserlo, gli sovvenne, e ricordò quando appoggiava la testa sulle ginocchia di Tancre, mentre tutto all'infuori di loro due girava.

«Oh, bene! Cos'è?» chiese, ricacciando in gola la nostalgia assieme alla saliva.

«Questo… questo dimentica» rispose lo sconosciuto. Più i minuti passavano, più Jecht aveva l'impressione che l'uomo stesse perdendo l'uso della parola.

«Vuoi dire che se bevo dimenticherò?»

«Sì, sì… tutto dimentica. Noi vogliamo dimenticare, ma non ricordo cosa».

Jecht pensò si trattasse di alcol particolarmente forte, così afferrò la fiasca e annusò il contenuto: non era pungente come quello che era abituato a bere, ma delicato, come l'aroma di un fiore, e più dolce del miele.

«Cosa c'è dentro?» chiese con voce incerta.

Le acque pazienti del Fluvilunio scorrevano davanti a loro, più placide dove il letto era largo, più rapide dove si restringeva. Sulla superficie galleggiavano foglie verdi, dischi quasi perfetti se non per una sbeccatura a lato, che custodivano i propri fiori. Ma come a ricordare che tutto, su Spira, fosse d’una bellezza ultraterrena, i lunioli risalivano dal fondale e volavano via, seguendo traiettorie irregolari.

Smettila, Jecht, ti prego, pensò, mentre ricordava come quelle luci avessero sfiorato il viso di Auron, notava come sarebbe stato bello rivederle al suo fianco.

«Loto. Tutto dimentica. Vuoi dimenticare?»

L'atleta strinse la fiasca con più forza di quanto pensasse, come per volerla strozzare nella sua mano. Aveva la possibilità di cancellare Zanarkand, sua moglie e suo figlio, e la paura di morire che lo accompagnava giorno dopo giorno in quella terra ostile. Forse avrebbe ancora viaggiato con Auron e Braska, ma non avrebbe più ricordato perché. 

Aveva qualche significato tornare in una patria che non c’era più e vederne le rovine? Sbriciolare la calce tra le dita e piangere come l’ultimo fantasma di una civiltà perduta? 

Lo tormentava, la cosa giusta, col suo nome importante. Il sogno d’oro di gloria eterna, l’essere il campione non più di uno stadio, ma di un popolo intero.

Portò le labbra all'apertura del contenitore, ma non si azzardò a capovolgerlo e bere. Si rese conto che stava facendo come sulla Laguna Shore: stava cercando un modo per arrendersi. 

Le parole di Auron, dette in tempi più sereni durante l'addestramento, gli tornarono in mente martellando come i postumi di una sbornia: devi avanzare, non cercare la fuga.

Con mano sudata restituì la fiasca allo sconosciuto, si congedò in fretta e tornò indietro con passi ampli, sicuro che la mente di chi si cibava del loto fosse troppo annebbiata per portare ordini al corpo. 

Tornò alla tenda col cuore in gola e desiderò che il liquore lo ricacciasse nel petto, ma Auron era ancora lì e il suo turno non era ancora finito. Il monaco alzò lo sguardo e lo vide sudato, con occhi sconvolti.

«Tutto bene?» chiese, allarmato.

«Sì… sì» mentì Jecht. «C'era un gruppo di uomini intorno a un falò, e… insomma, mi sono allontanato senza farmi notare. Sono un po' affannato».

«Sono pericolosi?»

«N-no, figurati. Stavano facendo festa vicino al fiume» rispose Jecht con un mezzo sorriso. «Vai pure a riposare, ragazzo. Qui ci penso io».

L'uomo di Zanarkand prese la propria spada e la mise a portata di mano per dar forza al suo invito. Seppur ancora indeciso, Auron accettò e si ritirò nella tenda. 

Jecht ascoltò ogni piccolo rumore provocato dal monaco con gambe tremolanti, un metodo che aveva sempre usato per scaricare l'ansia. Pensò che il desiderio soffocante di bere si sarebbe calmato col tempo, ma i suoi pensieri non facevano che rimbalzare e ripresentarsi senza fine. 

Aspettò quelle che gli sembrarono ore, poi, maledicendo se stesso, cedette.

Entrò silenzioso e trovò i compagni addormentati: guardò Braska per non più di un secondo, o il pensiero di causargli guai lo avrebbe fatto desistere.

Auron, come aveva immaginato, era nella sua solita posizione e il suo respiro era pesante e regolare, segno che non era più vigile. Avvicinò la mano alla fiasca che teneva vicino ma, all'improvviso, non si sentì più sicuro: pensò che avrebbe preferito accostargli le dita al viso, e le labbra alla bocca. Tuttavia, poiché quella possibilità gli era negata, tornò alla sua precedente intenzione.

Dopo questa non mi degnerà più di uno sguardo, pensò sofferente, ma a quel punto non riuscì più a fermarsi.

Portò la refurtiva vicino alle braci tiepide del suo falò, si sedette e stappò la fiasca, stavolta senza nessuna esitazione su cosa voleva farne.

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Capitolo 23
*** Come combattere i giganti (Parte 1) ***


CAPITOLO 17: COME COMBATTERE I GIGANTI (PARTE 1)

 

 

Il liquore che scendeva lungo la gola di Jecht era come l’acqua che, scrosciando, precipitava dalle cascate di Zanarkand. Il torpore che gli pervadeva le dita gli ricordava la sua città, piuttosto che fargliela dimenticare, ma era un ricordo distante e ammorbato di cui il cuore poteva tenere le redini. 

Jecht valutò lo stato delle cose scuotendo la fiasca di Auron – il moto di risacca ne colpì le pareti, e lui capì che era ancora piena per metà – e concentrandosi sul pizzicore, ancora non molto intenso, alla bocca dello stomaco. 

Steso sull’erba di fianco al falò, vide le scie circolari lasciate dalle stesse stelle di cui aveva avuto paura. Stava cominciando ad albeggiare, e lui prese un lungo sorso di liquore sotto l’atmosfera romantica delle nuvole: erano grigie, illuminate da un rosa soffuso. 

Che male può fare una passeggiata?, pensò, bevendo ancora. Capì che il liquido nella bottiglia era ormai al suo ultimo quarto, come la luna che aveva visto quella notte, ma non ricordava di aver bevuto così tanto. Si sentiva bene, anzi, come se i suoi occhi per la prima volta vedessero per davvero quanto era bella la terra di Spira, quanto dovesse essere difesa dal male. 

Era come se qualcuno avesse sollevato il velo dal suo viso, mentre gli altri ancora vagavano nella nebbia sacra dell’illusione.

Mosse qualche passo traballante in direzione del fiume, con l’intenzione però di percorrerlo dalla parte opposta rispetto a quella dove aveva trovato gli Al Bhed: i suoi sensi erano offuscati, ma ancora si rendeva conto che, in quelle condizioni, non avrebbe forse saputo rifiutare il loto.

A un tratto sembrò ripensarci e tornò verso il falò: estrasse la propria spada, che aveva piantato a terra. Temeva di trovare qualche mostro all’interno del bosco che gli girava attorno, nonostante non li avessero infastiditi durante tutta la notte. Ricordò con un sorriso di quando Auron gliela aveva regalata – l’aveva fatta forgiare proprio per lui, proprio per lui, se avesse potuto lo avrebbe raccontato a tutti i presenti al bar – e, colto da un capogiro, fu costretto a fermarsi.

Guardò a terra, la sua arma stretta nella destra e la fiasca sul lato sinistro, fino a quando l’erba non smise di vorticare e la strana sensazione nelle sue viscere non fu attenuata da un generoso sorso di liquore. Poi si sentì pronto ad avanzare, la spada appoggiata alla spalla come un vero guerriero.

Come uno di quelli per cui gli Yevoniti erigevano le statue, i Guardiani leggendari, Auron… come sarebbe stato bene Auron a fianco a loro, severo e solenne, a guardare dritto davanti a sé…

I lunioli salivano dal fiume, mandando bagliori sulla lama scura della sua spada, le frasche talvolta si muovevano e frusciavano. Non era che il vento, ma se un mostro fosse balzato allo scoperto, sarebbe stata l’occasione per Jecht di provare il suo valore. 

Ad un tratto, tra le foglie che si diradavano, l’atleta scorse una creatura, celata dal buio e dalla rada foschia che saliva dalla terra.

Non c’erano dubbi: era un gigante, lento ma letale. Jecht strinse il pugno sull’elsa e si immerse nella vegetazione con il minimo rumore possibile. Trattenne il respiro quando lo vide: era alto almeno tre volte lui, la sua pelle era grigia e spessa come quella di un pachiderma. La testa ricominciava a girargli, la vista era resa acquosa e indistinta dalla rugiada che gli bagnava le ciglia e le palpebre, ma lui era forte.

Lo avrebbe abbattuto, avrebbe mostrato a Braska e a tutta Spira che era degno del nome di Guardiano, e sarebbe stato forse stretto dalle braccia dell’eroe che desiderava… 

Il gigante sembrava non essersi accorto della sua presenza: era a mollo nel fiume – una massa enorme che spostava l’acqua in modo innaturale – e non emetteva un suono, ma di certo era pronto a scattare e  uccidere.

Jecht agile lo aggirò, scomparendo tra le foglie e poi ricomparendo al cospetto delle stelle. Cercava di ricordare, e la sua mente confusa sembrava non voler immaginare altro, come Auron posasse i piedi al suolo, come piegasse i gomiti per portare la lama davanti al corpo. La sua immaginazione stessa gli infiammò i sentimenti.

Fu dietro ai piedi del gigante, e solo allora si accorse che quello aveva anche una coda, che placidamente e inesorabilmente spazzava a destra e a sinistra. Scartò di lato, il cuore che batteva rapido e gli occhi per un istante limpidi.

Colpì il mostro, ma la lama riuscì a malapena a scalfire la sua pelle coriacea. Sentì nelle orecchie delle urla soffuse, che di sicuro non appartenevano alla bestia cui stava assestando un secondo fendente.

No, era Auron, che gli chiedeva di fermarsi, preoccupato come lo era stato altre volte dal fatto che potesse farsi male. 

Per un attimo, Jecht non vide più il suo avversario, né la luce dei lunioli che superava in intensità quella delle stelle. Sentiva solo la voce di Auron, in qualche modo brusca e accorata allo stesso tempo.

Dovrei arrendermi, dunque, solo perché il nemico è più grande di me?, gli rispose, affondando di nuovo la lama. Questa volta penetrò nella carne del mostro, donando all’atleta un fremito di eccitazione che gli percorse il braccio sino alla spalla.

Solo perché le radici del potere sono così profonde e marce, dovrei smettere di combattere?

Jecht, tenendosi al tronco di un albero, si piegò verso il terreno e vomitò più volte. Tentando di calmare i conati e il calore che sentiva nella gola, si appoggiò con la schiena nuda sulla corteccia. Respirava a fatica, e per un istante si sentì morire mentre alzava il viso verso il cielo e cercava, per maledire la sua sorte, parole che non conosceva. 

L’erba era morbida, bagnata dalla rugiada della notte che, alla fine, se ne stava andando.

 

 

«Alzati» ordinò Auron. Quando batté con il collo del piede il fianco di Jecht, gli parve di calciare un sacco di patate.

Il suo compagno di viaggio non si mosse.

«Alzati, disgraziato» gli intimò di nuovo, pur trattenendosi dal colpirlo, «oppure ti tiro su io da terra».

Jecht sentiva solo una voce distante e ovattata che a stento si faceva strada nel suo corpo dolorante. Aveva l’impressione che avrebbe smesso di respirare da un momento all’altro, eppure riuscì a trovare la forza di voltarsi supino. Il gorgoglio disperato del suo stomaco arrivò alle orecchie del monaco prima dei suoi lamenti: la luce gli feriva le palpebre, le tagliava nel tentativo di penetrargli negli occhi e arrivargli al cervello.

«In piedi» gli dissero, poi qualcuno di molto forte lo prese per le braccia e lo costrinse ad alzarsi. Lo stomaco dell’atleta reagì con uno spasmo a vuoto che gli riempì la bocca di un sapore acido.

«A-Auron…» riuscì a dire, la voce roca e l’alito pesante. «Mi sento parecchio male…»

«Starai anche peggio dopo» lo interruppe il monaco. «Cammina».

Jecht non intendeva cercare una scusa per lamentarsi, né un modo per infastidirlo, ma Auron sembrava arrabbiato quanto mai prima. Cercò di riportare alla mente cosa fosse successo dopo aver incontrato gli Al Bhed ed essersi messo a bere, ma vedeva solo il falò e la tenda. 

«Dov’è Braska?» domandò, guardandosi attorno con gli occhi socchiusi, dato che la luce continuava a mandargli fitte lancinanti alla testa. 

Il suo corpo ricordava qualcosa: il peso della spada, i fendenti rapidi, il vento sulla pelle mentre schivava.

Auron si bloccò, come pietrificato. Nel silenzio, Jecht alzò lo sguardo affranto su di lui e lo vide serrare la mascella.

«Dov’è Braska» ripeté il monaco, la sua voce ridotta a un ringhio sommesso. «Mi chiedi dov’è Braska».

Con un gesto teatrale, si passò la mano sul volto, come a voler asciugare il sudore.

Senza una connessione logica, quell’immagine ne riportò un’altra alla mente di Jecht.

«Il… Il gigante nel fiume…» mormorò, senza trovare il coraggio di alzare gli occhi su Auron. Vide invece delle chiazze di vomito molto vicine al luogo in cui era disteso poco prima e fu investito da un profondo senso di vergogna.

Il monaco lo prese per la salopette e lo trascinò verso il fiume, dove senza troppe cerimonie lo spogliò e lo gettò nella corrente.

Lo stomaco di Jecht, quando toccò l’acqua, fu colpito da una stilettata e diede il segnale di contrarsi a tutte le viscere.

«Che modi…» si lamentò lui debolmente, tenendo una mano sul fegato e guardando Auron con gli occhi socchiusi. La testa aveva cominciato a girargli, tanto che la sua vista era fuori fuoco, e fu costretto a cercare di regolarizzare il respiro. Non voleva vomitare di nuovo. Non voleva svenire e andare a fondo nel Fluvilunio.

«Non sei nella posizione per commentare» replicò Auron in un tono che non ammetteva repliche. «Sei sporco. Pulisciti. Anche i vestiti».

Jecht lo vide girare i tacchi e poi all’improvviso fermarsi, come se avesse ricordato qualcosa. Si voltò di nuovo verso di lui e poi si sedette sulla riva, in attesa che il compagno di viaggio finisse di lavarsi.

Il canto delle cicale che sconquassava il silenzio non faceva presagire nulla di buono.

Senza più dire nulla, Jecht cercò di obbedire al meglio delle sue possibilità, ma era difficile, col mondo che non voleva smettere di girare. 

Come era solito fare, iniziò a grattarsi la barba, ma non era sufficiente per renderla pulita. Si rese conto che avrebbe dovuto immergersi almeno fino al naso, ma il solo pensiero di un’apnea lo faceva sentire morto.

La respirazione continua era l'unica cosa che gli impediva di vomitare ancora, ma non aveva molta scelta viste le condizioni in cui versava: guardò il suo riflesso sulla superficie dell'acqua e chiuse la bocca, ma il suo corpo lo punì ancor prima di quanto immaginasse.

Lo stomaco era vuoto da tempo, ma le fitte erano più forti che mai. Jecht si portò la mano destra sull'addome e strinse i denti per ogni contrazione che prometteva di spezzarlo. Si piegò in avanti col busto, tanto da poter sfiorare il pelo dell'acqua con la fronte, scosso da tremori tanto violenti da rendergli le gambe di sabbia.

Riprendere fiato diventava sempre più difficile, e i suoi versi doloranti non facevano che irritare Auron. Dalla riva, il monaco non sembrava aspettare altro che un’occasione per mostrargli il proprio disprezzo.

«Hai scelto tu di farlo» osservò con la sua consueta brevità. 

Jecht piantò le mani sulle ginocchia e cercò di raddrizzare il busto, senza riuscirci.

«Mi dis-» rispose, prima di essere interrotto da una tosse acida che gli bruciò il torace. 

«Ti dispiace? Potevi non farlo».

«Non funziona proprio così» si ritrovò a borbottare Jecht, ben attento a non farsi sentire da Auron. Fissando la superficie limpida dell’acqua, sulla quale si potevano quasi contare le foglie degli alberi riflessi, si ricordò che il monaco sentiva molto bene, ma lo stesso non aveva dato voce a una risposta.

Non gli importava. Non gli interessava nemmeno, una risposta da parte di chi non capiva. 

Un fiore, largo e bianco e quasi sgretolato dal tempo, volteggiò per qualche lento istante prima di posarsi sul Fluvilunio.

«Dov'è Braska?»

«Sta pagando i tuoi danni».

Il fiore, come aveva fatto la Laguna Shore quando s’era piegata per i marosi al largo, fu spazzato via da un’onda: un nuovo conato di vomito, il peggiore, aveva costretto Jecht in ginocchio e l’aveva quasi fatto affondare. Auron, scattato in avanti, lo afferrò per un braccio e lo trascinò a riva, dove l'atleta si rannicchiò su un fianco.

Il monaco, per quanto adirato, iniziò a preoccuparsi per la sua incolumità: Jecht era sobrio da mesi, e il liquore del monastero non era affatto leggero. 

Decise quindi di coprirlo col suo cappotto, senza però risparmiargli una serie di imprecazioni, fatte a voce alta e con parole ben scandite, per poi sedersi accanto alla sua testa.

La voce di Jecht, dopo qualche minuto, ruppe il silenzio: «Sai…»

Con un urlo roco, un uccello si levò dal suo ramo piegato e schizzò verso le nuvole che sembravano fuggire. Dietro ai cespugli stavano passando delle persone, ma le loro parole erano indistinguibili per la distanza.

«Cosa c’è ancora?»

Auron aveva abbassato lo sguardo e Jecht osservò le sue ciglia lunghe, dritte e scure, che forse una donna avrebbe invidiato.

«Stavo pensando che non ero tanto più vecchio di te quando ho iniziato» soffiò dell’aria dal naso, come se lo trovasse divertente. «Compravo delle casse di birra scadente e le nascondevo nell’armadietto. Non vedevo l’ora che il mister ci mandasse tutti negli spogliatoi, io rimanevo là per ultimo e cominciavo a bere».

«Perché?» ribatté Auron. Il suo tono era secco, quasi di circostanza, ma almeno la domanda c’era.

«Lo trovavo divertente» replicò l’atleta. Fece una pausa e aggiunse: «Lo facevo nei periodi in cui ero stressato, mi faceva smettere di pensare. Poi per qualche mese non bevevo, e poi ricominciavo, e continuavo fino a che qualcosa – un dolore momentaneo, un’indigestione o roba simile – mi convinceva che il mio fegato stesse andando a farsi benedire». 

I loro sguardi si incrociarono: negli occhi di Auron, all’improvviso animati da una curiosità sincera, Jecht trovò la motivazione per proseguire. Non aveva più importanza il fatto che forse gli avrebbe suscitato pena nel cuore.

«Quando ho compiuto trent’anni ho preso a farlo veramente» sospirò. «Cominci a cercare quella sensazione sempre di più, ad andare a ogni festa che trovi per poi finire chiuso in bagno, e tutto attorno a te gira e te stai piangendo».

Il monaco fissò il vuoto e si spaventò, perché lo stava immaginando. Imbrigliò i pensieri e aggrottò le sopracciglia, come faceva quando voleva rimanere ancorato alla realtà. 

«Come mai a trent’anni?» domandò.

Jecht gli rivolse una risata amara, la stessa che si indirizzava a chi non capiva.

«Perché in campo cominciavano a scendere ragazzi che ne avevano diciannove, e loro erano ben più veloci di me. La loro vita era migliore di quella del rottame degli Zanarkand Abes che vedevano su ogni singolo cartellone a fianco alle partite del giorno. Loro erano arrivati, io me ne stavo andando, e mi sembrava che tutto quello che avevo ottenuto non valesse nulla. Mi sentivo diverso».

«Diverso…» ripeté Auron, a mezza voce.

«Sì, sai, perché sono mezzo frocio» lo rimbeccò Jecht.

«Non stavo pensando a questo». 

Sembrava sincero.

«Ma anche perché mi ero reso conto che non volevo veramente quella vita, ma ormai non potevo uscirne».

«Ti senti così anche qui?» lo interruppe Auron. Assorto, stava passando le dita di una mano sulla coscia, come se accarezzasse un animale immaginario.

«Come?»

«Diverso».

Jecht proruppe in un’altra delle sue risate senza felicità e rivolse gli occhi al cielo, dove le nuvole si erano fermate e si erano fatte più dense.

«Ragazzo, mi stai davvero chiedendo se in un posto pieno di gente strana, dove mi dicono che la mia città è stata distrutta mille anni fa, mentre per una religione su cui non so niente accompagno un uomo verso un destino sconosciuto, mi sento diverso?»

«Scusa».

Jecht rifletté per un istante su quanto suonasse strana, quella parola, fuori dalle labbra di Auron. 

«Non scusarti» concluse, «stai solo difendendo la tua Spira». Poi girò la testa, appoggiando la tempia a terra, e sospirò. «Sai, quella cosa dell’armadietto… non l’avevo mai detta a nessuno».

Nemmeno a Tancre, fu il pensiero a cui non diede voce.

Il monaco cercò la frase per rispondere a quella confidenza, ma non la trovò. Si risolse allora a guardare a lungo i capelli di Jecht, arricciati come piccoli serpenti. Avevano lasciato una traccia di bagnato sul suolo e la polvere vi si era attaccata, impiastrandoli, ma lui non pareva curarsene. All’improvviso, come se il suo corpo non aspettasse l’ordine della volontà, Auron si trovò a sollevargli la testa con una mano e ad appoggiarla sulle proprie ginocchia.

Jecht non si oppose al gesto, forse troppo debole per farlo. 

«Così si sporcano di nuovo» commentò il monaco, gli occhi fissi sulla corrente del fiume e la terra sotto le unghie. Si interruppe, poi si sentì in dovere di precisare: «I capelli».

Questa volta, ad Auron sembrò di sentire nella risata di Jecht un divertimento sincero. Nel profondo del cuore ne fu contento, tanto che si soffermò per un istante, con la scusa di districargli un nodo, a lasciargli una carezza.

«Grazie» gli rispose l’atleta. Voltò la testa verso la mano che Auron teneva sulla coscia e la baciò, desiderando di poter fare lo stesso con quella tra i suoi capelli. «E non preoccuparti: non dirò a nessuno che l’hai fatto».

Tornarono alla tenda poco dopo, l’animo dell’uno più quieto, quello dell’altro tormentato dalle domande. 

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Capitolo 24
*** Come combattere i giganti (Parte 2) ***


CAPITOLO 17: COME COMBATTERE I GIGANTI (PARTE 2)

 

 

Jecht, ancora riverso tra le braccia di Auron, con la testa appoggiata sulle sue gambe, aveva insistito per essere presente quando Braska avesse dovuto affrontare le ire del proprietario della bestia. Tuttavia, quando erano arrivati all’accampamento il suo corpo era ancora duramente provato e fu costretto a sdraiarsi sotto un albero nelle vicinanze.

Auron incrociò le braccia quando notò come il compagno si sforzasse di tenere alto il capo per guardare l'Invocatore, che si profondeva nelle sue più sincere scuse e offriva i propri poteri per curare l'animale.

Data anche la loro strana conversazione di poco prima, pensava che se Jecht si fosse visto con occhi che non erano i propri, forse si sarebbe reso conto dei propri errori.

Si avvicinò quindi al compagno con passo pesante, senza dichiarare le sue intenzioni.

«Ragazzo, che fai?» chiese Jecht con la bocca ancora impastata dalla terribile nottata.

Auron non rispose, ma si inginocchiò al suo fianco e rovistò nella borsa, per poi allontanarsi con una delle sfere in mano. La scrutò per qualche secondo come a volerne ricordare il funzionamento, poi la accese sotto gli occhi attoniti di Jecht che non aveva la forza di opporsi in alcun modo.

«Perchè mi stai riprendendo?» disse l'atleta, con voce stanca.

«Così non fai più niente di sconsiderato» rispose il monaco con tono di ammonizione. «Non riesco ancora a credere che tu abbia attaccato quello shoopuf. Braska ha dovuto pagare i danni di tasca propria».

Jecht annuì con la testa, portandosi la mano sulla fronte e inspirando a fondo nel tentativo di calmare lo stomaco in fiamme.

«Ti ho detto che mi dispiace...» rispose mortificato. «Non succederà mai più, lo prometto!»

Auron abbozzò un mezzo sorriso di scherno, del tutto disilluso sul valore della parola del compagno, che poche volte l’aveva mantenuta.

«Ah, una promessa? Te la dimenticherai domani».

Jecht abbassò lo sguardo senza dire nulla.

Braska, che aveva l'orecchio allenato alle chiacchiere del mercato, una volta pagato il proprietario dello shoopuf si avvicinò a Jecht. Si sporse verso i suoi due Guardiani e socchiuse gli occhi, assorto: quando parlò, sembrò rivolgersi alla sfera piuttosto che al monaco.

«Auron, per favore. Ha chiesto scusa. Sa che ha sbagliato».

Jecht, tuttavia, fece segno a Braska di fermarsi. Si alzò prima sui gomiti, poi sulle ginocchia e, con grande sofferenza, si rimise in piedi.

«E sia. L’unica cosa che berrò d’ora in poi sarà latte di shoopuf» dichiarò con fermezza.

«Ne sei sicuro?» chiese Braska, titubante.

«Stiamo viaggiando per sconfiggere Sin e salvare Spira, giusto? Se continuo a fare stupidaggini e mettermi in ridicolo…» Jecht si interruppe e guardò il Fluvilunio. I lunioli risalivano in superficie più raramente, di giorno. «Mia moglie e mio figlio non me lo perdoneranno mai».

In quella dichiarazione c'era una forza sincera che non si poteva ignorare.

«È registrato» commentò Auron, lasciandosi sfuggire un sorriso che sperava fosse interpretato come una smorfia.

Poi spense la sfera con una leggera pressione del dito e la restituì a Jecht. Braska sorrise lieto, infilando le mani nelle ampie maniche come usava fare quando era rilassato.

«Ora che tutto è sistemato, è tempo di attraversare il fiume» disse l'Invocatore con insolita allegria.

«Non proprio… hai dovuto sborsare parecchio» bofonchiò Jecht abbassando gli occhi. «Se avrò la possibilità di lavorare per farteli riavere, ti assicuro che lo farò».

«Mi sembra il minimo» replicò Auron con durezza.

«Apprezzo il gesto, Jecht. Vedrai che ci basteranno comunque per il viaggio» lo rassicurò Braska, «ora pensiamo a salire».

Jecht osservò lo shoopuf in attesa vicino al pontile: placido, metteva in moto le acque con la stessa coda che lui, nel suo delirio sentimentale, aveva scambiato per un’arma.

Era imponente, molto più dei mostri che avevano affrontato fino a quel momento. Le quattro zampe possenti e la schiena ampia gli permettevano di trasportare molto peso, mentre con quella proboscide arricciata avrebbe potuto respirare anche se fosse finito sul fondo del fiume.

Mica come me, pensò Jecht, e si sentì serrare la gola. 

«Capisco che non ci siano altri modi, ma è sicuro?» domandò all’improvviso, avvertendo di nuovo la nausea.

«Tu non ti sporgere e andrà tutto bene» rispose Auron, distratto dal baldacchino posto sulla bestia che ondeggiava.

Jecht ebbe l'impressione che il monaco non stesse parlando proprio a lui, ma non commentò e si mise al seguito di Braska, che si era già incamminato verso lo shoopuf con passo svelto.

Uno alla volta e con molta attenzione, i viaggiatori raggiunsero un'impalcatura, dotata di un braccio meccanico, a cui era appesa una piccola gabbia cosicché potessero salire in groppa alla creatura.

Ai comandi della struttura c'era un essere che Jecht non aveva mai visto durante la sua permanenza a Spira: era una creatura anfibia che si reggeva su due gambe, aveva la pelle blu, gli arti palmati e due grandi occhi gialli.

Nonostante i tratti bestiali, indossava una salopette verde e parlava la lingua Comune, anche se in modo molto strano.

«Benbebulli viashiatori. Shalite con attenshione!»

Jecht lo guardò, desideroso di rivolgergli tante domande, ma decise di aspettare per non sembrare maleducato.

Auron prese posto su uno dei divanetti imbottiti ai lati della gabbia e si strinse con forza le ginocchia, immobile come una statua. Braska e Jecht, invece, si accomodarono a fianco e di fronte a lui con fare rilassato. L'Invocatore, in particolare, sembrava impaziente di partire.

«Adoro gli shoopuf! Viaggiare sui fiumi è sempre emozionante: non sai mai cosa potresti vedere» disse Braska guardando in basso, seguito da Jecht che, curioso, si piegava in avanti tenendosi sulla balaustra.

«Non si sporgano, per favore» ripeté Auron spaventato.

L'istinto lo portò a curvarsi nella sua direzione per far sedere composto l’Invocatore, tuttavia, nel momento in cui avvertì la bestia oscillare, tornò nella sua posizione rigida con la velocità di un battito di ciglia.

«Monachello, sei troppo paranoico. Rilassati!» gli disse Jecht ridacchiando, ma Auron non sembrò ascoltare nemmeno una parola.

L'atleta lo osservò con attenzione, notando la mascella serrata e la fronte corrugata, come se fosse in procinto di combattere. Tuttavia, non c'era traccia di sicurezza sul suo volto come quando impugnava la spada, e i suoi sguardi fugaci al fiume lasciavano poco spazio al dubbio.

Jecht fu distratto da una di quelle creature anfibie che, a cavallo dello shoopuf, si assicurava che tutto fosse pronto per la traversata.

«Shignori, shi parte!»

Lo shoopuf emise un lungo verso con la proboscide per poi iniziare a camminare con lentezza nelle acque del fiume, facendo oscillare i viaggiatori come foglie al vento. 

«Braska, chi sono queste creature?» chiese Jecht a bassa voce per non farsi sentire dal nocchiere.

«Si chiamano Hypello. Sono una razza molto particolare, non trovi?» 

«Questi qui sarebbero dei giocatori di blitzball fenomenali!» esclamò l'atleta con sincero interesse. Braska ridacchiò divertito, ma scosse la testa.

«Hanno già provato a ingaggiarli in varie squadre, ma non hanno l'istinto della competizione. Sono un popolo molto tranquillo».

«Peccato, un centrocampista come loro sarebbe l'ideale».

«Sarebbe bello vederti giocare» disse Braska con un sospiro, facendo arrossire l'atleta.

«Ah, se capita, certo...»

Jecht distolse lo sguardo e lo puntò verso le acque limpide del fiume, emozionato come un bambino all'idea che i suoi compagni di viaggio potessero vederlo in partita, vedere chi era lui davvero.

La fantasia vagava libera nella sua mente: immaginò Auron sugli spalti stupito dalle sue abilità per la prima volta, mentre Braska si sbracciava in suo onore. 

Sorrise senza accorgersene e, nel frattempo, lo shoopuf aveva già fatto un buon tratto di fiume. Ridestatosi dalla sua fantasia, notò quelle che sembravano rovine sul fondo delle acque, non lontano da loro.

«Ehi, cosa sono quelle?» chiese indicando le macerie col dito.

Lo sguardo azzurro di Braska si perse nella corrente del Fluvilunio, come a voler cercare lì parole che sulla lingua non trovava. 

Fu Auron a rispondere al posto suo, le spalle un po’ meno rigide che in precedenza: «Un tempo, ancora prima della guerra, gli uomini impiegavano ogni mezzo a loro disposizione per costruire». 

Jecht si sporse per vedere meglio e distinse, con orrore, dei ponti crollati e delle cupole che gli ricordavano l’architettura di Zanarkand. Ma non poteva essere lei, ne era sicuro. Non era lì, non lo era mai stata.

«Allora decisero che l’acqua doveva essere come la terra, piantarono pali nel fango e sopra a essi disposero assi di legno così da formare un duplice ponte, una strada di chiodi su cui sorse la città».

Davanti agli occhi di Jecht si materializzò il luogo di cui il monaco stava raccontando: era grande, illuminata, brulicante di persone che affollavano la piazza e lo stadio. Poi lo shoopuf alzò un’onda e la visione si dissolse.

«Il ponte crollò per il peso e la città sprofondò nelle acque» sentenziò la voce di Auron.

Jecht deglutì a vuoto.

«Che disgrazia» commentò, ma appena si volse verso il monaco lo vide scuotere la testa.

«Non si tratta di una disgrazia» gli spiegò, sotto lo sguardo tranquillo di Braska. «È stata una punizione di Yevon per la loro tracotanza».

L’atleta aggrottò le sopracciglia nel tentativo di afferrare quel concetto, poi ricordò l’atteggiamento di Auron e Braska nei confronti del dio: ritenevano che vi fossero azioni contro natura che comportavano una continua punizione.

«Così la Chiesa spiega la nascita di Sin» intervenne l’Invocatore, rassettandosi la veste. «La punizione per la tracotanza; la nemesi di chi ha desiderato imbrigliare il mondo con le macchine».

«Come si chiamava la città?» domandò Jecht, senza un vero motivo.

Braska sembrò pensare per qualche istante.

«Non ricordo» disse infine, e la sua voce fu sostenuta da quella di Auron:

«Nessuno lo ricorda più».

Jecht li aveva davanti, eppure non vide altro che l’ombra, alla luce di un falò, di un Al Bhed gentile che beveva il loto. 

Rimasti in silenzio, furono presto in vista della riva. Auron rilassò ulteriormente le spalle e spinse lo sguardo, per la prima volta, nelle onde: il desiderio di vedere anche solo per un istante la città sommersa l’aveva spinto a superare il suo timore. 

Quella notte, la prima dopo tante, sognò.

 

 

Auron stava sprofondando verso il fondale, come la città di cui nessuno voleva ricordare il nome. Loro avevano preteso di dominare le forze della natura, di smentire il dio.

Costruirai sulla terra, non sull’acqua. 

 

La stessa acqua che gli stava entrando nel naso e nei polmoni, la stessa che lo soffocava mentre un masso, legato ai piedi, lo trascinava nell’ombra senza fine.

Guarda! Il peccato di chi
il Fluvilunio aggiogò con macchine
è passato nel sangue dei figli,
e nei figli dei figli
di questa terra disgraziata.

 

Auron non moriva, per quanto lo desiderasse: cercava di strappare via con le unghie la pelle del petto, ma non sentiva nemmeno il proprio tocco.

Ahimè, quanti mali
ci avrebbe risparmiato un re più pio,
 un figlio più devoto, una torre più bassa!

 

Posò i piedi al suolo e allo stesso tempo si sentì fluttuare. Era come se avesse imparato a respirare con delle branchie e il peso legato alle sue caviglie non gravasse più. 

Gli spettri della città sommersa lo circondavano come anziani in un consiglio. Gemevano per la loro sorte, ma non sembravano essergli ostili, anzi molti di loro – dai volti senza lineamenti – gli mostrarono la via per il tempio di Yevon.

Allora non mi avrebbero inghiottito
 e masticato le onde ostili;
allora fiorirebbe mia figlia
che lì prostrata si strappa i capelli. 

 

Auron spinse la porta di marmo incrostato e fece ingresso, a passi lenti, nella parte più interna del tempio.

Non era che una stanza buia: solo pochi raggi di luce filtravano dai fori sulle pareti e, dritti come giavellotti, colpivano le foglie d’oro sui lucernari vuoti. 

Allora la mia città vivrebbe,
alte come il volo d’airone
le sue guglie,
fertile come ventre di donna
la sua piazza.

 

C’era qualcun altro con lui, qualcuno i cui tacchi battevano il terreno a un ritmo misurato dal divino.

Silenzio. Esce il coro.

 

Gli occhi del monaco si sollevarono, seguirono la spirale meravigliosa disegnata dai tasselli sul pavimento fino ad arrivare ai piedi di Alan.

«Inginocchiati» ordinò il giudice, avanzando verso di lui, la veste nera che si scostava a ogni suo passo.

Auron obbedì, senza il coraggio di alzare gli occhi. Era a torso nudo e sentì il cuoio di una frusta premuta sulle spalle quando Alan gli girò attorno.

«Guardami» gli intimò di nuovo l’Inquisitore, e per rafforzare il concetto gli prese il viso con una mano e lo costrinse a sollevarlo. Aveva una forza insolita per un essere umano e un sorriso troppo crudele sulle labbra. 

«Perché sei in Pellegrinaggio?» gli domandò, e Auron si accorse con orrore che la voce armoniosa di Braska si stava sovrapponendo alla sua.

«Io…» provò a dire, ma uno schiaffo improvviso sulla guancia lo costrinse a voltare il capo. Auron, con gli occhi spalancati e la bocca socchiusa, fissò per terra. Un rivolo bianco, sfuggito alla vasca della fontana, rigava le piastrelle come una lacrima.

Non ci credeva abbastanza. La sua motivazione non era sufficiente e l’Inquisizione lo sapeva. 

Fu costretto a riportare la testa dritta e fu colpito da un secondo schiaffo, che risuonò nel silenzio sacro della stanza.

«A-Alan…» provò a dire, ma le parole gli morivano in gola. 

«Rispondimi» mormorò lui, stringendogli la presa sui capelli. «Perché?»

Auron guardò di nuovo dritto davanti a sé, dove la veste dell’Inquisitore si apriva e mostrava la cintura attorno ai suoi fianchi. La luce del sole alle sue spalle diventava più tenue, più calda: il giorno stava morendo, e i suoi pensieri non erano più puri.

«Ti penti della tua volontà di peccare?»

Sì, avrebbe voluto gridare Auron, ma non un suono gli uscì dalle labbra. Si limitò a fissare terrorizzato ciò che aveva di fronte, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, mentre le ginocchia sul pavimento liscio cominciavano a dolergli. 

Alan lasciò bruscamente la presa e il monaco ricadde in avanti, poi sentì i passi girare attorno a sé una seconda volta. Si chiuse nelle spalle e inarcò la schiena, aspettando la punizione che desiderava. 

Forse il dolore, superando la tempesta nella sua mente, lo avrebbe riportato alla realtà.

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Capitolo 25
*** Esempio di tracotanza punita ***


CAPITOLO 18: ESEMPIO DI TRACOTANZA PUNITA

 

 

Gli occhi di Auron erano scuri, eppure la luce cruda, tagliando ogni giorno le nuvole sulla strada per Djose, aveva cominciato a infastidirli. Il percorso che portava alla città non terminava, come aveva sperato, appena traversato il Fluvilunio, ma proseguiva in un bosco identico al precedente. 

Il monaco avrebbe proposto di affittare tre chocobo, se non fossero stati costretti a continuare il viaggio in ristrettezze economiche. La causa della loro bancarotta stava camminando di fianco a lui, gli occhi puntati sugli alberi come se ognuno fosse diverso dall’altro, e avesse dei dettagli che lui non aveva mai visto. 

L’atleta avanzava in modo più naturale del solito, con la spada al fianco, ma Auron non si era accorto del momento in cui aveva smesso di sembrare una recluta e aveva assunto il portamento di un guerriero. 

Forse, considerò, Jecht stava pensando a quella libertà di cui aveva tanto parlato, con gli occhi che brillavano come quando raccontava dei cocktail che preparavano a Zanarkand. Sembrava che quelle due pie illusioni riuscissero a infondergli il coraggio nell’animo.

Distolse lo sguardo, che aveva cominciato di nuovo a soffermarsi sul suo torace, seguendo le linee spigolose del tatuaggio. Quando lo puntò sulla strada vide, immersa nella luce, una carrozza nera che procedeva nella bruma. Sentì le ruote colpire qualche ciottolo lungo la via e vide il chocobo che la trainava muovere con precisione le zampe sopra un’immaginaria retta. 

«Lasciamola passare!» risuonò la voce di Braska, alzatasi nell’atmosfera immobile.

I tre si disposero in fila l’uno dietro l’altro per cedere il passo, come era successo molte altre volte. Tuttavia, proprio quando riuscirono a distinguere la pelle squamata dell’hypello che la conduceva, la carrozza ricevette l’ordine di rallentare.

Braska si morse il labbro inferiore e sollevò le sopracciglia con aria preoccupata, rendendosi conto che – come temeva – non si trattava di una comune carrozza a noleggio. 

L’ospite del veicolo spense con decisione un sigaro su uno degli assi che sostenevano la gabbia. Il cocchiere, affranto, osservò la cenere scivolare giù dal legno, ma per paura trattenne i lamenti e si limitò a scuotere la testa, mentre i drappi che si tiravano restituivano un vago bagliore metallico. 

I tre viaggiatori, Jecht compreso, chinarono la testa e il busto nella riverenza yevonita. 

«È bello vedervi in salute» esordì una voce che conoscevano bene. Quando alzarono lo sguardo videro Alan che, con un gesto, intimava l’alt alla carrozza. 

Jecht osservò il Grande Inquisitore distendere le gambe e saltare giù dal mezzo in una maniera che avrebbe ritenuto ridicola per qualsiasi altro uomo. Il modo in cui atterrò sui tacchi spessi, la polvere sollevata, la veste che tintinnando tornava al suo posto gli incussero però un timore che non riusciva a spiegare, reso ancor più forte dai suoi occhi celesti che si posarono su di lui e poi subito si distolsero. Se non fosse stato velato, forse avrebbe potuto soggiogare con lo sguardo. 

Anche Auron fu squadrato da capo a piedi, ma lui non mostrò il minimo segno di timore. 

Quando Alan parlò, tuttavia, si rivolse solo a Braska, come se coloro che lo accompagnavano non fossero degni di considerazione. 

«Sei diretto a Djose, immagino» disse. 

«Sì» rispose secco l’Invocatore, stringendo la destra sul bastone. 

«Djose…» ripeté l’altro, pensieroso, come se volesse cercare un secondo significato per la parola. All’apparenza sovrappensiero, cominciò a sfilarsi con minuziosa lentezza uno dei guanti. «Davvero?»

Braska rivolse al fratello una smorfia quasi impercettibile, avvertendo una sorta di tono canzonatorio nella sua domanda. 

«C’è stato qualche problema?» gli chiese.

«No» replicò l’Inquisitore. «Ma ultimamente mi chiedevo se foste forti abbastanza». 

Con queste parole lasciò cadere a terra il guanto, che atterrò sull’erba secca senza un suono. Braska strinse i denti e fece un passo avanti, ma Alan lo bloccò, un sopracciglio alzato e la luce grigia della campagna che illuminava il suo viso quasi senza colore. 

«Fermo» ordinò, poi la sua voce si addolcì. «Non è per te, ysuna, ma per uno dei due Guardiani. Non ho nessun dubbio sulla forza del tuo animo, e sarebbe un atto empio sfidare il fratello che, soffrendo al posto mio, ha espiato la mia colpa. Mi hai reso un esempio per tutta Spira». 

Jecht fece per avanzare, ma esitò, spaventato dal loro discorso che non riusciva a comprendere e dal velo di Alan da cui non riusciva a distogliere gli occhi.

Braska unì le mani in grembo e si allontanò con passi misurati. 

«Ti credevo più accorto, amato fratello» disse con composta reverenza. «È vero che la mia malattia è stata una punizione del dio, ma infrangere il divieto in genere comporta molto più dolore. Pensare che ciò che mi è successo basti a redimerti non è da te».

Alan gli rivolse un sorriso sbieco e annuì in silenzio, facendo girare l’anello che portava all’indice. Jecht approfittò del momento per ricacciare la paura in gola e scattare fino all’Inquisitore. Non era giunto nemmeno a metà strada quando Auron, senza una parola, lo spinse fuori dalla traiettoria e raggiunse il guanto. 

L’atleta sentì una rabbia bruciante farsi strada nel petto quando vide il compagno di viaggio piegarsi e restituirlo ad Alan, come se non lo considerasse in grado di sostenere quel combattimento. Come se si ponesse, in forza e in virtù, sempre un gradino sopra a lui. 

«Molto bene» commentò il Grande Inquisitore. Jecht rivolse lo sguardo verso Braska, che sembrava concentrato come davanti a un problema matematico di difficile risoluzione: persino a lui sfuggiva qualcosa. 

Alan portò Auron su una collina dove crescevano piccoli fiori bianchi di cui lui non conosceva il nome. Il monaco sentì gli steli piegarsi, perdendo lo scontro con le sue gambe, e vide gli insetti cercare la salvezza disegnando ponti nell’aria coi loro salti. 

«Che tipo di allenamento hai fatto?» 

Auron esitò, chiedendosi come quell’informazione avrebbe potuto essere utile all’Inquisitore. Inaspettatamente, gli giunse alle orecchie la voce di Braska: 

«Rispondigli, Auron» lo esortò.

«Mi sono addestrato coi monaci guerrieri di Bevelle» replicò allora il Guardiano, «con la spada a due mani e nel combattimento senz'armi».

Alan, di nuovo, annuì in silenzio.

«Bene» proferì dopo qualche secondo, mentre slacciava i paramenti che portava sulla schiena in modo che non lo ostacolassero nel duello. Braska fu rapido a sorreggerli affinché non cadessero, e in quel momento ad Auron parve di vedere i due fratelli che incrociavano lo sguardo. L’Invocatore aveva, dipinta nel fondo degli occhi, una preoccupazione mescolata a un sentimento indecifrabile. 

L’ultimo oggetto di cui l’Inquisitore si liberò fu l’incensiere, che non fu affidato alle cure di Braska ma piuttosto posato a terra, in un’area resa brulla forse dalla caduta di un fulmine. Cominciò a camminare in direzione all’apparenza casuale, ma a grandi passi, come se stesse misurando una distanza.

Il monaco osservò il fumo diventare più denso, come aveva fatto durante la battaglia di Macalania, immerso in un silenzio che sapeva sarebbe svanito a breve.

Invece di trasformarsi in una creatura, la nube cenerina divenne un giavellotto stretto tra le mani di Alan. 

Senza una parola, lui con la punta di ferro tracciò a terra un ampio cerchio, come l’orbita perfetta di un pianeta attorno al turibolo. 

«Queste sono le regole» esordì poi, mentre la veste nera gli si richiudeva sulle gambe. «Avrai vinto lo scontro se entrerai con entrambi i piedi nel cerchio, o se farai uscire me, con entrambi i piedi, fuori dal cerchio. Avrai perso se ti arrenderai. È consentito solo il combattimento corpo a corpo, con qualsiasi tipo di arma. È chiaro?»

Lo sta prendendo in giro? pensò stizzito Jecht, ancora impegnato a calmare il respiro dopo aver corso per raggiungere gli altri sulla collina. Alan, molto più basso di Auron e con un fisico nemmeno paragonabile al suo, sembrava un pigmeo con uno stecchino in procinto di affrontare un gigante. 

«Ehi, Braska, c’è sicuramente il trucco, non può mica…»

Un cenno della mano dell’Invocatore, che teneva lo sguardo incredulo sulla scena, lo fermò. Quasi in contemporanea arrivò la risposta di Auron:

«Sì, signore».

«Puoi cominciare» annunciò l’Inquisitore, e subito spostò la testa di lato per evitare un pugno. Sorrise, quasi intenerito.

Auron, sentendo placarsi l’impeto che lo aveva spinto ad aggredire, portò allora entrambe le mani sull’elsa della spada e assunse una posizione di guardia. 

Sembra troppo semplice, pensò, sentendo l’adrenalina che gli faceva tendere i muscoli, non devo sottovalutarlo.

Scambiò con Alan una serie di rapidi colpi, nel tentativo di avanzare di almeno un passo, ma la difesa del suo avversario sembrava non avere falle. Invece di tentare gli affondi con il giavellotto, si limitava a parare i fendenti di spada con la parte di legno dell’asta. 

Un colpo con il tempismo sbagliato costrinse Auron a retrocedere con un piede per ritrovare l’equilibrio. Il metallo delle loro armi stridette di nuovo nello scontro.

Devo provare a piegarlo, rifletté il monaco, gli occhi fissi sul giavellotto.

Una volta recuperata la posizione, spostò lo sguardo sulle mani dell’Inquisitore. Erano sottili, quasi scheletriche, e le braccia che scomparivano sotto le maniche non potevano nascondere una forza maggiore della sua. 

Levato un alto grido, si scagliò verso di lui. Alan, invece che limitarsi a parare, lo spinse all’indietro, in modo da allontanarlo dal cerchio.

Auron sollevò gli occhi dalla linea, riempì il petto d’aria e attaccò di nuovo, scaricando sulla spada tutto il peso del corpo. Fu come terminare una corsa contro un muro: chi guardava da fuori lo vide sbalzato via da una forza invisibile; lui capì solo di essere caduto sulla schiena, il colpo che ancora gli risuonava nelle braccia. 

Era forte.

Alan era molto forte.

Il monaco poté solo spostare gli occhi verso l’alto: la figura minuta dell’Inquisitore si stagliava contro le nuvole, protesa in un salto letale, le braccia in alto a stringere l’asta aguzza e le gambe piegate. Riuscì a rotolare di lato in tempo e la punta della lancia si infisse nella terra, tanto a fondo da farlo tremare per ciò che sarebbe potuto accadere al suo cranio. 

Spinse contro il terreno per rialzarsi, ma una fitta di dolore gli attraversò il braccio. L’Inquisitore gli aveva assestato un calcio sulla spalla, affondando il tacco nei legamenti. 

Un urlo trattenuto sfuggì dalle labbra di Auron, che subito le morse fin quasi a farle sanguinare. La spada gli era sfuggita dalle dita e i suoi occhi dardeggiarono verso Alan, che gli puntava contro il giavellotto.

«Alzati» lo esortò lui, soffiando fuori dal naso l’aria con un mezzo sorriso. 

«… fai?» fu la debole risposta che gli arrivò alle orecchie. Alan inarcò le sopracciglia sotto al velo e storse le labbra nell’imitazione di un sorriso, gesto che rese ben evidenti le rughe sottili ai lati della sua bocca. 

«Prego?»

«Come fai?» sbottò Auron alzando la testa da terra, sempre più determinato a continuare lo scontro. «Ti ho visto, all’accampamento, andare a vomitare quello che avevi mangiato. Sei la metà di me, ma non riesco nemmeno a spostarti. Sei costretto a rimanere velato, ma non fallisci neanche un colpo». 

Un refolo di vento gli mosse i capelli mentre lui, immobile, aspettava una risposta.

Alan finse di essere, seppur compostamente, sorpreso:

«Oh» commentò, «mi stavi osservando? L’ho sempre detto, io: mai fidarsi della gente che fuma».

«Non puoi essere forte» lo interruppe il monaco a denti stretti. «Come fai? Dimmelo! Sei un Non Trapassato?»

Il braccio armato del Grande Inquisitore, a quella domanda, si abbassò fino a puntare la lancia a terra anziché al petto dell’avversario.

«No» rispose lui.

«Non ti credo!»

Un forte colpo allo stomaco, che gli mozzò il respiro nonostante l’armatura, impedì ad Auron di continuare a gridare. 

«Rispetto!» gli intimò Alan, assestandogli un secondo colpo, molto meno deciso, con l’estremità dell’asta. La sua voce era divertita. 

«Signore» sbuffò Auron, e scostò il giavellotto per potersi rialzare. Una volta in piedi, strinse di nuovo le dita sull’impugnatura della spada. 

«Ti arrendi?» chiese Alan, indietreggiando senza dargli le spalle.

«No».

Jecht, costretto a limitarsi a osservare dalle retrovie, chiuse la bocca e strinse le labbra. Desiderava gridargli di smettere, ma all’ultimo si era trattenuto: non conosceva un uomo forte quanto Auron, sarebbe sicuramente riuscito a vincere il duello. 

Il suo giavellotto colpisce a media distanza, pensava intanto il ragazzo, intento a valutare le mosse di Alan che indietreggiava verso il cerchio per provocarlo. Se mi avvicino ho più possibilità di colpirlo, ma rischio che mi raggiunga coi calci.

La sua spalla gli ricordò con una fitta quanto fosse bene evitare quell’eventualità. Alan non aveva nemmeno usato la magia, non in modo evidente, almeno.

“È consentito solo il corpo a corpo”, aveva detto.

Mentre calava ancora la spada, e ancora la lancia dell’avversario deviava il colpo, e ancora il vento di quella zona selvaggia cercava di sollevare la terra secca, Auron si chiese se avrebbe dovuto credergli. 

La risposta fu sempre la stessa.

Nonostante la sua arma non fosse stata progettata per quello, cercò di rompere la guardia dell’Inquisitore con una stoccata di punta. Alan, per fermarla, fu costretto a ruotare la lancia e perdere la stabilità sul terreno. 

Auron vide l’apertura, strinse i denti e affondò di nuovo la spada. Per la prima volta incontrò una resistenza diversa da quella del legno. 

Quando alzò gli occhi, incontrò l’Inquisitore che, con un’espressione soddisfatta, si teneva il fianco sinistro. La sua veste nera era stata lacerata e la sua mano cominciava a tingersi di rosso. 

Le gambe forti del Guardiano ricevettero l’impulso di muoversi per oltrepassare il perimetro del cerchio, ma l’addome si piegò per la fatica, scosso da un respiro irregolare, e gocce tonde caddero dalla sua fronte fino a terra. 

È l’unica occasione che ho, si spronò Auron, mentre tutto attorno a lui pareva offuscarsi e rallentare. Non posso perderla.

Dopo un istante di indecisione, scattò verso il solco nel terreno, le suole che quasi scivolavano nella polvere. 

«Stolto» lo raggiunse una voce dal timbro caldo, che sembrava provenire da ogni parte. Poi, il mondo si frantumò. 

Con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati, Auron sentì una scossa attraverso tutti i nervi della parte sinistra del corpo. Mentre cadeva a terra, la punta del giavellotto si conficcava sempre più a fondo nel polpaccio. 

La veste di Alan gli sbarrava la strada come un’onda di tempesta, la vista gli era ormai diventata rossa come il sangue di cui sentiva il sapore in gola. Tuttavia, con sforzo degno d’eroe, scagliò la spada, quasi alla cieca, verso dove pensava giacesse il turibolo.

Quando sentì un tonfo, chiuse gli occhi e pregò che arrivasse il secondo. Non accadde.

«Una bella idea, te lo riconosco» udì invece. «Ma non sarebbe bastato a romperlo».

No, lo so, pensò Auron, mentre con lacrime di dolore si osservava la ferita dove la punta era ancora conficcata. Strinse i denti, rannicchiato, e provò a estrarla: con orrore – e un dolore sordo che gli percorse la gamba – si rese conto che il ferro si piegava e non lasciava la sua carne.

Il suo sguardo disperato si alzò su Alan: i lunioli l’avevano circondato e stavano formando tra le sue mani un’arma identica alla precedente. Per la prima volta, Auron provò il terrore della preda, sentì il cuore pompare il sangue più che poteva, come se si volesse gloriare dei suoi ultimi battiti.

Non gli restò che abbassare la testa e chiudersi su se stesso, ma la lancia oltrepassò con facilità la sua armatura di cuoio e gli trafisse il lombo. Il contraccolpo lo scosse e uno schizzo copioso di sangue tinse l’erba tra i suoi piedi. 

«Devi dichiarare la resa» lo informò il Grande Inquisitore, mentre lui navigava a vele ammainate nel dolore e non riusciva a distogliere gli occhi dalla chiazza rossa che si allargava a terra.

«No...» riuscì a dire lui, abbastanza forte da farsi udire nel silenzio. La sua voce era sofferente, il tono più acuto del normale. Provò a rialzarsi, ma subito cadde carponi.

«Capisco» osservò Alan, senza inflessioni che potessero tradire un sentimento di pietà. Con un gesto fece dissolvere i due giavellotti che lo trapassavano: essi si ridussero a semplici luci e presero a vagare nell’aria umida. 

Auron cadde riverso a terra.

«Braska» chiamò l’Inquisitore, senza aggiungere nessun epiteto affettuoso. «Cura le sue ferite». 

L’Invocatore, titubante, strinse lo scettro, poi deglutì e, consapevole del suo dovere, mosse i passi verso il fratello.

«Braska! Auron!» gridò Jecht, inorridito dalla follia che gli si palesava davanti. «Cosa state facendo? Fermatevi!» 

Le sue urla incontrarono solo la schiena voltata dell’Invocatore. Come se non fosse successo nulla, come se stesse aiutando qualcuno dopo un combattimento contro i mostri, lui si inginocchiò a fianco ad Auron.

«Basta! Combatto io al suo posto!» continuò a dire, senza rendersene conto.

«Stai andando contro la volontà del tuo compagno» intervenne Alan. «Ha detto lui di non volere la resa». 

«Auron» provò a supplicare ancora, «ti prego. Non puoi batterlo, smettila».

«Taci» lo raggiunse una voce, tanto tremenda da far dubitare che potesse provenire da un uomo ferito. «Non intendo macchiarmi di un disonore». 

Jecht subito tacque e Auron si rialzò, malfermo sulle gambe nonostante l’energia vitale di Braska scorresse nelle sue vene.

Non devo caricarlo, rifletté mentre ripercorreva ciò che era successo durante lo scontro. Rivide gli slanci a cui Alan si era affidato per colpire, il momento in cui si era mosso e lui gli aveva trapassato la gamba scagliando il giavellotto. Se avesse mirato alla schiena, lo avrebbe ucciso sul colpo.

I due avversari si avvicinarono ad armi tratte e cominciarono a studiarsi come predatori in competizione tra loro. 

Quella strana lancia sfrutta il movimento del nemico per colpire più forte, considerò ancora il monaco, e di conseguenza si avvicinò ad Alan e assunse una posizione ferma e stabile. Le sue deduzioni erano corrette: l’Inquisitore era in allerta, ma non aveva nessuna intenzione di attaccare per primo. 

Tuttavia, questo non spiegava l’intensità del colpo che lo aveva gettato a terra all’inizio del combattimento: allora non stava caricando.

«Sì, sei intelligente» commentò Alan, osservando i movimenti lenti di Auron, che avanzava verso di lui e verso il cerchio. L’altro rimase del tutto indifferente al complimento. «Sei anche riuscito a vederli?»

«Cosa?» sfuggì dalle labbra di Auron.

Alan proruppe in una risata trattenuta.

«Guarda meglio» disse, affondando il giavellotto all’improvviso.

Il Guardiano, senza farsi cogliere alla sprovvista, parò l’assalto con il piatto della spada. Riuscì a opporsi all’impeto e a indietreggiare di poco, ma resistere gli richiese uno sforzo non indifferente. 

Osservò poi l’aria attorno a dove era stato vibrato il colpo, ma non vide nulla. Forse avrebbe dovuto notare qualcosa nell’attimo precedente, ma era stato troppo impegnato a proteggersi.

«Di nuovo» disse, riportandosi in posizione di guardia con la spada davanti al corpo. Il suo istinto gli suggeriva qualcosa che andava decifrato. «Mi colpisca di nuovo, per favore».

Alan sorrise e impugnò l’arma con la destra.

«Volentieri» replicò, e lo attaccò con la stessa mossa che aveva usato poco prima. 

Auron, con i muscoli che gli dolevano per lo sforzo, fermò di nuovo la lancia e subì l’impatto. Aggrottò le sopracciglia, focalizzandosi su cosa succedesse istante per istante.

«Concentrati» lo spronò la voce dell’Inquisitore, subito prima di un terzo affondo. 

La spada gli cadde dalle mani, ma Auron non diede segno di curarsene: sapeva che l’avversario non intendeva dargli il colpo di grazia. 

«Li ho visti…» sussurrò. 

Nell’attimo in cui il metallo delle loro armi si era scontrato, dei lunioli quasi invisibili erano fuoriusciti dalla punta del giavellotto di Alan. 

«Rimani concentrato» ripeté Alan, le cui parole all’improvviso lo guidavano. «Ti farò parare un pugno».

Obbediente come una marionetta, Auron si fidò e portò avanti l’avambraccio destro. Il colpo annunciato arrivò davvero: le mani dell’Inquisitore sembravano avere la forza di tre uomini e il suono di uno schiocco risuonò nell’aria. La volontà di un monaco, però, era in grado di ignorare anche quel dolore. 

«C’è una zona del tuo corpo in cui li senti» continuò l’Inquisitore, lasciando che Auron fermasse con una presa della mano sinistra un secondo pugno. «Qual è?»

Il Guardiano respirò a fondo, poi chiuse gli occhi. Si trovo, similmente a quando meditava, immerso in un asciutto oceano di silenzio. Quando sollevò le palpebre, avvertì una tenue luce, un ultimo luniolo, che veniva mosso da una forza invisibile. 

«L’occhio destro».

Alan annuì.

«Anche se la loro anima se ne sta andando, gli abitanti di Spira desiderano ancora combattere» spiegò. «E danno origine alla magia. Gli incantesimi elementali non sono altro che lunioli addensati, ma non è necessario conoscere la loro origine per poterli padroneggiare. Tuttavia, le creature più sensibili all’Oltremondo, come i Guado, riescono a vedere oltre, in ciò che costituisce la magia. I loro tatuaggi, che partono dalla regione del corpo con cui percepiscono i lunioli, non sono altro che catalizzatori. Possiamo, noi come loro, vedere i lunioli perché sono affini alla nostra anima».

Auron, assorto, cominciò a chiudere un occhio e poi l’altro, senza però percepire più nessun cambiamento. Sussultò quando un giavellotto si materializzò, fluttuante, alla sua sinistra.

«Prendilo» gli ordinò l’Inquisitore. «Non voglio farti del male» aggiunse poi, vedendo che il ragazzo era reticente.

«Alan!» arrivò l’urlo di Jecht. «Perché lo stai addestrando?»

L’interessato lo ignorò, continuando a rivolgere le sue attenzioni ad Auron, la cui mano era sospesa a mezz’aria, ferma nell’atto di afferrare l’arma.

«Quella di Jecht non è una domanda stupida» disse però lui, senza completare il gesto. «Perché lo sta facendo?»

Le labbra sottili di Alan si tesero nell’ennesimo sorriso.

«Sei il Guardiano di mio fratello, no?» osservò. «Ti basta, come risposta?»

Auron arricciò il naso e strinse la lancia. 

«Sì».

«Noti qualche differenza tra quello e un normale giavellotto? Sapresti riconoscerli?»

«No» rispose il monaco. Mentirgli sarebbe stato solo controproducente.

A quella parola, l’oggetto perse di consistenza e si dissolse nell’aria, prima sotto forma di fumo e poi, una volta raggiunta una certa quota, come una di quelle luci tanto familiari agli abitanti dell’isola.

«Essere in grado di dare una consistenza ai lunioli, o addirittura di dare l’illusione di una creatura senziente, è fuori dalla tua portata» continuò il Grande Inquisitore, «ma puoi usarli per rendere più forti i tuoi colpi: concentrati sull’energia che senti e falla convergere nei tuoi colpi. I Guado la chiamano Shaggamàdhr. La Necropotenza».

«Necropotenza... » ripeté Auron a mezza voce. Alan gli rivolse uno sguardo divertito e poi guardò all’orizzonte, dove il sole stava declinando verso l’ora incerta.

«Gli impegni che mi aspettano sono noiosi» considerò, quasi parlando tra sé e sé, «tu invece mi stai intrattenendo. Cambio le regole dello scontro: affrontami a mani nude finché non riuscirai a infondere la magia nei tuoi attacchi».

Auron assunse una rigida posizione di guardia; Alan si limitò a voltare il collo a destra e a sinistra prima di aggiungere:

«Questa volta non accetto una resa».

 

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Capitolo 26
*** Lamento per la città perduta ***


CAPITOLO 19: LAMENTO PER LA CITTA’ PERDUTA

 

 

Quella giornata sembrava non voler più finire agli occhi di Jecht. Dapprima era stato preoccupato, poi sempre più annoiato mentre assisteva al compagno d'armi che si allenava con colui che considerava un nemico.

Auron incassava colpo dopo colpo senza un lamento – e senza nemmeno fare progressi concreti, o almeno ciò gli era sembrato. 

Non so niente di questa roba, si ripeteva di continuo, se ad Auron va bene così, deve avere qualche utilità.

Era il volere del monaco, ma vederlo ferito in continuazione lo faceva soffrire. Braska, seduto accanto a lui, teneva gli occhi fissi sul suo Guardiano apprezzando movimenti e azioni che Jecht non capiva, e quando non capiva perdeva interesse molto in fretta. Le smorfie di dolore di Auron, invece, erano molto chiare. 

Alan sorrideva soddisfatto per ogni goccia di sangue versata dal monaco che, fallito miseramente ogni tentativo di colpire il Grande Inquisitore, prese a concentrarsi solo sull'individuare i lunioli intorno a lui, rendendolo un bersaglio divertente da stuzzicare.

Quando il cielo diventò bruno e la fresca brezza della sera fece rabbrividire la pelle, dopo le ripetute richieste di Braska di finirla lì, Auron non era che un pezzo di carne maltrattato. A Jecht era capitato molte volte di versare nelle stesse condizioni dopo estenuanti sessioni di allenamento, ma quello andava oltre l'esperienza di una vita nella sfera d'acqua.

L'atleta poté finalmente frapporsi tra i duellanti e mettere il braccio armato del compagno dietro il suo collo, sollevandolo quanto bastava per condurlo via.

«Jecht, portalo alla tenda e aiutalo come puoi. Le ferite sono sanate, ma il suo vigore è stato del tutto consumato» disse Braska con un sorriso tirato. 

«E tu?» domandò cupo il Guardiano, che venne poi avvicinato da Alan con fare teatrale.

«Non temere, uomo di Zanarkand. Voglio solo parlare con mio fratello» disse enfatizzando l'ultima parola. «Mi sono divertito abbastanza per oggi. Il tuo compagno ha una tempra invidiabile, vero?»

Jecht incassò la provocazione, ma non replicò. Dopotutto aveva ragione, in più Auron era assente e privo di forze: non poteva indugiare.

«Ti aspettiamo, allora. A lui ci penso io».

Jecht serrò la presa sul corpo martoriato del giovane e lo incoraggiò a tenersi in piedi, ma il peso di Auron lo costringeva a fermarsi spesso.

«Sei un maledetto testardo» disse Jecht a bassa voce, sicuro che il monaco non avrebbe risposto. «Potevi fermarti prima e non ridurti così».

«...tu lo avresti fatto? Davanti a lui?» replicò l’altro a denti stretti, e Jecht sospirò infastidito.

«Rimani comunque un testardo. Hai almeno trovato ciò che cercavi in questo massacro?»

«Sì».

Jecht scosse la testa e lo tirò in piedi di nuovo, non senza fatica. Riuscirono a raggiungere la tenda, piantata all'ombra larga e scura di un albero.

«Ah, diavolo. E ora?» chiese l'atleta al compagno che non riusciva nemmeno a piegare il busto.

«Ce la faccio… non mi serve la balia» rispose Auron cercando di svincolarsi dalla presa, ma le sue gambe parevano non essere dello stesso avviso.

«Non ho potuto combattere, lasciami fare almeno questo». 

Il monaco rimase in silenzio e sbuffò aria dal naso, lasciandosi aiutare a piegarsi ed entrare nella tenda, cadendo al suolo come le decine di volte accadute ore prima. Auron si lasciò sfuggire la prima imprecazione della giornata e lamentò il dolore, libero dallo sguardo agghiacciante di Alan. 

Jecht controllò le sue condizioni in modo sommario, ma di una cosa era sicuro: si sarebbe preso cura di lui e avrebbe ripagato il debito di quando erano al fiume, perlomeno quello morale. Si inginocchiò al suo fianco, stando ben attento a non far nulla senza il suo permesso.

«Ehi, ragazzo» esordì schiarendo la voce, «so che non ti piacerà, ma hai sangue incrostato ovunque. Ti dovrei pulire con un panno umido, almeno intorno alle ferite, e dovrei lavare i tuoi vestiti».

Auron girò la testa e lo guardò con gli occhi ridotti a due fessure, poi sospirò impotente.

«Lo so» rispose in tono secco.

 

«Va bene, monachello. Cerco di fare in fretta, ok?»

Jecht cercò di mantenere un'espressione neutra per non risultare sgradevole al già infastidito Auron, e iniziò a liberarlo dalle cinghie del cappotto che tanto gli avevano dato noia per la strada innevata di Macalania.

Impiegò qualche minuto di attento studio prima di scoprire l'armatura di cuoio sotto di esso, imprecando a bassa voce per la difficoltà. Guardò per un istante il viso di Auron, e lo trovò voltato a fissare un punto vuoto della tenda. Sembrava un bambino indifeso, e si sentì a disagio.

«Devo sfilare il cappotto. Riesci a sollevare le braccia? Anche di poco» chiese Jecht, mantenendosi distaccato.

Il monaco fu costretto a raddrizzare il collo e guardarlo, ma cercò comunque di fare come diceva. I muscoli tesi gli bruciavano come fuoco vivo e non ne sosteneva il peso, così il suo compagno fu costretto a mettergli una mano tra le scapole e far leva, sfilando rapido il cappotto e gettandolo di lato.

L'armatura venne rimossa con più facilità e lo sguardo di Jecht cadde sul petto di Auron. Notò, forse soffermandosi troppo a lungo, che i peli che strappava con la cera stavano ricrescendo, così come i suoi, anche se non numerosi. 

Il monaco si irrigidì nel sentirsi osservato tanto da vicino, senza una protezione a celarlo agli occhi.

Che cos’ha da guardare?, si trovò a pensare con disprezzo. Non riusciva a capire se Jecht si fosse o meno accorto del fastidio che gli causava. Con tutti gli uomini che avrà visto…

Pensò agli spogliatoi degli atleti di blitzball e si chiese per l’ennesima volta come facessero a non sentirsi violati.

«Sei ridotto davvero male… non ho mai visto tanti lividi in un sol uomo» disse all’improvviso Jecht.

«...ah» rispose Auron, guardandosi l'avambraccio destro. «Sì, hai ragione».

Jecht preparò una bacinella d'acqua fresca con un panno pulito, ma indugiò qualche istante prima di iniziare a tamponare le ferite più profonde: doveva distrarre Auron, o l'imbarazzo lo avrebbe mangiato vivo.

«Quando l'hai accusato di essere un Non Trapassato mi sono visto con un piede nella fossa» disse, ridacchiando. Tutto ciò che ottenne fu uno sbuffo adirato, ma decise di non desistere.

«Auron, gli hai tenuto testa tutto il giorno! Non ho mai visto nessuno prendere così tanti colpi e restare in piedi» insistette, ma il monaco strinse con forza un lembo dei pantaloni.

 

«È stato un disonore imperdonabile».

«Conosce tecniche oscure per diventare forte. Ora che te le ha mostrate, la prossima volta lo sconfiggerai tu» rispose Jecht con sicurezza, lavando via il sangue rappreso dal costato dell’altro. Auron allentò la presa, ma il fuoco della sconfitta bruciava ancora.

«Al posto mio ti staresti lagnando, invece» disse, soffiando aria dal naso.

«Non me ne hai dato la possibilità» replicò Jecht piccato, tanto da attirare lo sguardo del compagno.

«Non avresti resistito tanto».

«Lo so, monachello: conosco i miei limiti. È per questo che dico che le tue abilità sono eccezionali, ed è per questo che non vedo nessun disonore in ciò che hai fatto».

Auron non rispose. 

«Da quando hai smesso di bere stai provando a fare il saggio» borbottò poi a bassa voce, causando una sonora risata nel compagno.

«Io la chiamo la mia fase filosofica» spiegò lui con un largo sorriso, poi strizzò il panno della bacinella e continuò il suo lavoro senza aggiungere altro. Dopo molti minuti, il silenzio fu rotto dal lamento di dolore di Auron per essersi girato verso Jecht.

«Quel cane mi ha distrutto, ma ho capito come fa» disse, con solo una punta di indecisione. «Per metterlo in pratica, avrò bisogno di un compagno di allenamento».

«Hai qui il tuo uomo. Devo solo farmi riempire di botte, no?» rispose Jecht allegro.

«Ci andrò piano».

«Ha parlato quello che quasi mi ha spezzato un braccio al monastero».

Auron fece una smorfia che Jecht non seppe interpretare, ma era sicuro che si divertisse un mondo a farlo cadere al suolo come un ramo spezzato.

I loro occhi si incontrarono per qualche secondo in cui nessuno dei due disse nulla.

«Cerca di dormire, ora. Mi ci vorrà un po' per lavare i tuoi vestiti» esordì poi l'atleta, passandosi il cappotto tra le mani. «Vuoi una coperta?»

«Sì, grazie» rispose Auron sospirando e, una volta al caldo, il torpore fece chiudere i suoi occhi.

Braska arrivò quando Jecht aveva appena scrostato l'ultimo rivolo di sangue rappreso dall'indumento, un lavoro più stancante di quanto pensasse.

«Sei un buon amico, Jecht» disse l'Invocatore con un largo sorriso. «Manca ancora qualche ora al tuo turno di guardia, perché non vai a riposarti? Per me è ancora presto per dormire».

Per quanto l’atleta avesse voluto declinare, e ribadire a Braska il suo impegno di proteggerlo, la stanchezza si fece sentire. Affidò il cappotto rosso a Braska e si ritirò nella tenda, accanto ad Auron che dormiva profondamente.

Non appena ebbe posato la testa sul suolo, che gli pareva comodo come un materasso di piume, subito il sonno lo colse, e – cosa che non gli accadeva da diverso tempo – un sogno lo sovrastò.

 

 

Dopo tante notti passate a giacere sulla terra dura di Spira, il materasso sotto la schiena di Jecht gli era di grande sollievo. Sul suo stomaco, però, gravava uno strano peso che non si poteva vedere; il suo corpo si muoveva lento nell’etere del sogno, come se incontrasse la resistenza dell’acqua.

«Tu dormi e ti scordi di me, Jecht» sussurrò la voce suadente della donna che conosceva meglio di tutte. 

Lui percepì una carezza amorevole sul viso, gli arrivò un profumo che, nella sua mente, invadeva tutta Zanarkand. 

E Zanarkand era la donna: la sentiva sopra di sé, con i capelli sciolti sulle spalle e il seno scoperto, la testa reclinata all’indietro mentre soffiava fuori dalle labbra il gemito per cui aveva interrotto le parole.

Le mani di Jecht, tremanti per la nostalgia, le strinsero le cosce, accompagnarono i movimenti con cui lei lo possedeva.

«Non ti ho dimenticato, Lauren…» rispose con voce roca, mentre un piacere familiare, calmo e malinconico, gli invadeva il ventre, gli irradiava il petto dove lei lo toccava. 

Lauren spinse con decisione il bacino e sorrise, i begli occhi azzurri coperti dalle ciocche ricadute e un sorriso fragile che le increspava le labbra. L’istante dopo era fiera come le tigri dal manto d’oro, e si piegava su Jecht per baciarlo.

Quelle che lui sentì, però, erano le labbra di un uomo, e maschile era anche la forza di chi lo sovrastava e lo stringeva. Socchiuse gli occhi per vedere un turbine di capelli neri, cedette a baci passionali e inesperti, lasciò che lui gli mordesse le labbra nei tentativi. 

«Auron… amore mio» gli sfuggì, mentre gli stringeva le dita e veniva percorso da un dolore che, ancora una volta, gli era familiare. 

A quelle parole, il monaco si fermò, ritardando di chissà quanto la soddisfazione che Jecht aspettava. 

«Belle parole» mormorò, accarezzandogli il viso, «per chi si è dimenticato di me mentre sogna, e solo quando è sveglio sembra pensarmi».

I suoi capelli lisci erano tanto lunghi che ricadevano sul petto di Jecht e parevano convergere nelle linee d’inchiostro.

Per la prima volta, non sembrava arrabbiato. Era triste, e nei suoi occhi d’ambra si specchiava la luce diffusa del talamo. 

«Non hai mai abbandonato i miei pensieri» rispose l’atleta, aprendo di più le gambe. «Ti prego…»

Di nuovo sentì il corpo della donna, la dolce sensazione che gli infondevano i suoi gesti e la sua voce, e il ragazzo era sparito come una nube di lunioli.

«Ti prego, Lauren, riportami a casa» disse in tono supplichevole, ma lei continuava a danzare lentamente su di lui, e non lo ascoltava. 

Jecht cercò di prendere l’iniziativa, di aumentare il passo, ma ricevette in cambio solo graffi sulla schiena. Si rese conto che gli piaceva, che se la sua vita fosse diventata tutta un dolce subire, allora forse avrebbe potuto accettarla. 

Con un sospiro, accarezzò il seno alla moglie e si perdette nei suoi gemiti, desiderando solo in modo disperato che continuasse ancora.

«Ancora…» implorò, e non riuscì nemmeno a sentirsi ridicolo, perché i suoi sensi erano annullati da Auron che lo possedeva con impeto. 

«Tu la ami?» gli domandò lui all’improvviso. La sua voce era ferma, come se anche in quel momento cercasse la verità. 

Jecht non rispose: mentre dalle sue labbra socchiuse usciva solo qualche flebile lamento, gettò all’indietro la testa. Il suo pomo d’Adamo sobbalzava, come tutto il corpo, e un senso d’estasi cominciava a pervaderlo davanti al viso di Auron non più imperturbato. Attraverso le ciglia, lo vide con gli occhi socchiusi, le labbra arricciate e i denti scoperti; sentì le sue mani che gli stringevano i fianchi per tenerlo fermo. 

Era come perso in una spirale d’oscurità, alla fine della quale non c’era il sollievo che cercava, ma l’abisso profondo di un mare dove non voleva sprofondare. Cercò con tutte le forze di non cedere al calore che sentiva.

Si trovò disteso su un fianco; accanto a lui c’era Lauren che sorrideva. Jecht la sfiorò tra le gambe con le dita e lei gli passò una mano sul ventre. 

Resisti, pensò lui, mentre nella sua mente cominciava a profilarsi l’immagine del mostro marino tremendo.

Resisti.

Quando vide Auron giacere con lui, però, non riuscì a fermarsi: fu attratto fatalmente dalle sue labbra, le assalì cercando di sfogare un desiderio che non voleva spegnersi. Il ragazzo ricambiava con foga i baci, lo stringeva al petto e lo toccava. 

«Auron…» gemette Jecht, sentendosi spingere su un fianco in modo da potersi concedere di nuovo a lui. 

Non riuscì più a trattenersi quando sentì le sue labbra sul collo, le sue mani e il suo corpo che gli davano piacere. 

Si trovò a cadere in quell’abisso che aveva temuto. 

Stava sprofondando verso il fondale, come quella città di cui Auron gli aveva parlato, quella di cui nessuno sembrava ricordare il nome, ma solo il destino.

«Diventa il mio amante» lo richiamò la voce del ragazzo, lontana come un’eco gridata dalla montagna. 

«Diventa il mio amante» gli fece contrappunto quella di Lauren, che si rivolgeva a lui come a un estraneo.

Forse, si rese conto, mentre lui era assente, lei aveva già detto quelle parole a uno sconosciuto. Aveva finalmente trovato il coraggio di dissacrare quel letto pesante per entrambi.

Ma cos’era ciò che stava facendo lui?

«Diventa il mio amante e ti porterò a Bevelle, e mi unirò a te in riva al mare di Spira, e sarà eterno il tuo nome col mio». 

«Diventa il mio amante: io sono l’unica in grado di riportarti a Zanarkand». 

Jecht posò i piedi al suolo e allo stesso tempo si sentì fluttuare. Il blitzball, a cui si era dedicato per tanti anni, aveva reso il suo corpo consapevole delle correnti, ma all’improvviso l’acqua scura delle profondità gli sembrava docile come quella di una piscina. 

 

Ah,

sconsiderato Yu Yevon!

Se giungessero dal cielo a portarmi

il destino di morte

io senza esitare l’accetterei,

io che annego nel buio!

 

«Chi c’è?» chiese Jecht a gran voce. Sembrava che qualcuno, al centro della grande notte che lo avvolgeva, si stesse lamentando. Era una sola persona e allo stesso tempo erano tanti, all’unisono, che piangevano con coordinazione perfetta.

 

Tanti giovani hai distrutto

davanti alle porte di Bevelle 

e alle torri di Zanarkand

e sulla cristallina Besaid 

infliggendo un lutto senza pari,

che non ha secondo sulla terra.

 

«Chi sei?» gridò di nuovo l’atleta, deciso. Quell’entità aveva appena nominato due luoghi che lui ben conosceva e la curiosità, nel suo animo, sempre superava il timore. 

Non udì una risposta immediata, ma delle luci familiari sfrecciarono davanti ai suoi occhi. Vide per un istante la sua città, che poi subito scomparve, poi apparve di nuovo: era davanti a lui, era solo la facciata di un edificio che non poteva toccare, ma era lì.

 

Ti sono stati dati per vedere, uomo,

due occhi, e per comprendere hai l’animo.

Ma colui che, ahimé, si accosta

a chi come me ha sofferto tanto,

subito ha paura di comprendere

quale sia il dio, quale la punizione

per cui sto sprofondando.

 

«Perché mi accusi? Ti ho solo fatto una domanda» replicò Jecht. «Abbi il coraggio di venire fuori, invece di mostrarmi qualcosa che mi è caro e che, a quanto pare, non rivedrò mai più».

Davanti ai suoi occhi comparve un luogo che conosceva bene: la piazza dello stadio, tonda come la valva di un mollusco e splendida come la luna. La nostalgia gli strinse il cuore, ma subito il suo sguardo incontrò una piccola figura. Sembrava un bambino, coperto da una lunga veste viola ornata ai fianchi da gioielli. Un cappuccio gli nascondeva quasi tutto il viso, fuorché le labbra che non si mossero quando parlò: 

«Ci puoi vedere, e ci potrai comprendere» disse. Alle sue spalle, degli spettri traslucidi, uomini e donne con abiti bianchi, erano disposti in tre righe da sette persone ciascuna. «Se apri il tuo cuore».

«Come faccio?»

«Immedesimati».

Jecht si avvicinò al gruppo di persone, tentò di condividere il loro dolore, pensò alla propria città ridotta a macerie, ma non riuscì a vedere che un sogno. 

«Ti prego, dimmi» cominciò, «chi ti ha fatto piangere così».

«No, non in questo modo… anche se ci sei quasi» rispose il ragazzino,

«immedesimati».

«Che cosa è stato di Zanarkand?» chiese allora Jecht,

cosa della mia città

dalle alte torri?

(La scena rappresenta la piazza principale di Zanarkand in piena notte: si vede lo stadio. JECHT è di fronte all’edificio, dai lati entra il CORO formato dagli abitanti della città) 

CORO             Colui che ha conosciuto i tempi del prospero bronzo,

cui il campo fiorente ha allegrato

la spiga bianca e forte, e lama d’argento ha falciato, 

di Zanarkand pari non vide;

 

sa pure cosa può la benevolenza del dio 

che dona a noi giorni sereni,

eppure ancor non sa che può meraviglie anche l’uomo

se qui non ha messo mai piede.

 

Vieni ai miei lidi, Yevon, col ferro e con l’arte dei morti,

costringimi al canto di lutto: 

Bevelle là sulla costa prepara le navi ocellate.

È tempo che io sia punito.

 

(Entra in scena il fantasma di YU YEVON che comincia a osservare la città)

YU YEVON    Vi chiamerò da oggi cittadini: troppo onore infatti avete ottenuto in questa guerra per essere ancora sudditi, e vi ritengo degni di camminare con me. Siete cittadini, dunque, a cui il vostro re chiede un ultimo sforzo. Alle quattro uscite della piazza troverete dei carri, grandi e robusti e trainati dal collo forte dei buoi: non dovete far altro che salire e verrete condotti. Io stesso, guidato dai sacerdoti e dai presagi degli uccelli in cielo, sono stato tratto in inganno e ho riposto troppa fiducia nella vittoria a Carthaba. Se è vero che gli dei abbattono il superbo, allora proteggeranno il prudente.

JECHT Ma chi è questo re? 

CORIFEO        Yu Yevon, che qui ha il suo trono. 

CORO             Ripensaci, un dio t’ha invasato!

Io ho sperato in te, signore del drappo scarlatto,

eppure così mi tradisci.

YU YEVON    Non siate sconsiderati: guardate il sole che tramonta sulla vostra città. Come potete venerare quello che ora splende e ora non splende più, ed è mobile e di determinata grandezza? Non è meglio forse addormentarsi e sognare un luogo che sarà sempre, immobile e certo come le stelle? Io sono potente, tanto da essere in grado di concedervelo. Cessate il vostro pianto e salite sui carri, non c’è ragione per le vostre lacrime. 

CORO             È oltre il tuo potere capire la mente del dio:

all’addormentarsi e sognare 

senza più una coscienza e in vincoli sopra una roccia

è meglio morire nel mare.

 

È città che non è il posto che stai vaneggiando. 

Per l’atrocità che ha compiuto

Si prepara Bevelle al cupo castigo del fato: 

per tredici generazioni

 

soffriranno, con atti orrendi costretti a esser bestie,

così sconteranno la colpa.

E si unirà alla madre il figlio, e farà strazio d’ossa

un altro nel campo di guerra. 

YU YEVON    Tutto questo riguarda Bevelle, non me. Che sprofondino tra i flutti le sue cupole d’oro, assieme ai vostri timori di una profezia che non capite! Salite sui carri e sarete resi sacri: immolati al vostro dio che risplende in alto, non dovrete più temere la fame, il freddo o le armi dei nemici. L’occhio divino distingue le azioni dell’uomo, e saggiamente le divide in due pile, voi siete fallibili. Salite, non costringetemi a condurvi al santuario in catene.

CORIFEO        Yu Yevon, ferma i carri. Potresti salvarti: non farlo.

Il dio t’ascolterà se immoli un bue e risparmi me. 

 

CORO             O infelice Speranza, o re dalla fronte tremenda,

o dolente città che è giunta all’estremo suo dì,

 

maledetto tre volte è chi oltrepassa il confine.

Tu vuoi un sogno che è chimera d’una virtù:

 

tu vuoi solo un fantasma che Zanarkand dica la gente,

luogo che esisterà soltanto finché sognerò.

 

È tardi ormai: è cessato l’«Iti, Iti!» dell’usignolo.

Al monte salirò e nell’ombra riposerò.

 

 

Jecht si svegliò di soprassalto quando qualcosa lo toccò. Con il battito del cuore che gli invadeva i timpani, fece viaggiare lo sguardo attorno a sé e incontrò, immerse in una lieve luce, le forme conosciute della tenda. 

«Ti senti bene?» gli domandò la gentile voce di Braska, che lo aveva svegliato per il turno di guardia. 

Con ancora negli occhi la visione che aveva avuto, Jecht annuì. Tentò di relegare l’ansia in un punto sperduto del suo ventre mentre rifletteva sulle domande che avrebbe rivolto al sacerdote una volta arrivato il giorno.

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Capitolo 27
*** La sposa di Djose (Parte 1) ***


CAPITOLO 20: LA SPOSA DI DJOSE (PARTE 1)

 

 

Jecht non riuscì a trovare niente che lo facesse sentire con i piedi per terra quella notte. Il suo corpo sembrava ancora galleggiare in acque sconosciute, e se chiudeva gli occhi la testa diventava pesante, come in una delle tante notti alcoliche passate. 

Fissò il fuoco preoccupato del suo stato di salute: mai un sogno lo aveva fatto sentire come ubriaco. Era davvero un sogno, dopotutto? Quella terra era pregna di magia di cui non aveva alcuna conoscenza; non gli sembrava così improbabile che qualcuno ne venisse influenzato. 

Nonostante fosse la sua teoria più valida, era anche quella che lo spaventava di più: se davvero era finito sotto il giogo di qualche incantesimo, doveva parlarne con Braska il più presto possibile. 

La mattina arrivò con una lentezza intollerabile, dopo ore che sembravano giornate intere, ma lui era riuscito a mantenersi calmo quel tanto che bastava per non trascinare Braska fuori dalla tenda in preda al panico.

Quando sentì dei rumori leggeri provenire dal loro piccolo rifugio, scattò in piedi teso verso l'Invocatore, che non aveva fatto in tempo nemmeno a mettersi il copricapo.

«E-ehi, Braska. Buongiorno» esordì agitando la mano.

«Buongiorno a te, amico mio. È stata una buona guardia?» chiese l’altro, sfoggiando il suo solito sorriso. Jecht osservò la tenda e si accorse che non c'era altro movimento.

«Sì, tutto bene… Auron ancora dorme?»

«Profondamente. Ho controllato le sue condizioni: guarirà del tutto molto presto» disse Braska, unendo le mani come a voler ringraziare il suo dio.

«Bene, bene…» rispose distratto Jecht, «senti, potresti venire un momento con me? Lontano dalla tenda».

Braska d’istinto aggrottò le sopracciglia, forse aspettandosi di nuovo qualche rivelazione che riguardava il suo Guardiano più giovane.

«Va bene, fa’ strada» rispose interdetto, ma non perse comunque il sorriso.

Jecht lo condusse pochi metri più avanti costeggiando gli alberi che delimitavano il sentiero, lontano abbastanza dalle orecchie di Auron e dai suoi giudizi affrettati.

«Da quanto ho potuto capire, da chi ti conosce, da Auron e da te stesso, tu hai esperienza di sogni collegati al tuo dio» esordì. Gli occhi di Braska, che vedevano lontano, sembrarono perdersi nella macchia verde per poi tornare al presente. 

«È vero».

«Quindi Yevon ti ha visitato in sogno?»

Braska annuì. 

«In sogno e quando vegliavo in meditazione nei templi».

«Ho bisogno che, dopo la questione di Zanarkand, tu mi creda un’altra volta» ribatté Jecht, scuotendo la testa. «So che potrà sembrare difficile, ma ti prego di ascoltarmi. Questa notte ho visto un uomo di nome Yevon – sono certo che si trattava di un uomo, non di un dio – condurre delle persone in catene su un monte, in modo da costringerle a sognare».

Si morse le labbra, desiderando ritrattare la sua precisazione e sperando che Braska non fosse sensibile alla blasfemia come lo sarebbe stato Auron. 

«Come sei sicuro del suo nome?» rispose l’Invocatore, senza alcuna inflessione nella voce.

«Mentre venivano incatenate, le persone attorno a lui intonavano un lamento. Sono state loro a dirmi il suo nome: Yu Yevon» ripeté, senza essere a conoscenza se quella sillaba aggiunta avesse qualche valore o meno. «Lo chiamavano re di Zanarkand».

Braska strinse le dita sul bastone e le labbra, assorto. Impiegò qualche attimo a rispondere:

«Spesso la nostra mente, nel sonno, sovrappone immagini che abbiamo, o riteniamo di aver, visto. Ciò che ti ha visitato potrebbe avere un significato, ma le scene che descrivi non sono avvenute e Yevon non è mai stato un mortale. Solo Yunalesca, sua figlia, lo è stata, ma ora veglia eterna su Zanarkand in attesa di noi Invocatori».

«Capisco» replicò Jecht, deluso. 

Non capiva. Per qualche motivo era sicuro che quegli avvenimenti fossero accaduti davvero, e che riguardassero la sua Zanarkand, non il cumulo di macerie che gli abitanti di Spira veneravano.

«Se Yevon lo vorrà» aggiunse Braska, «ti visiterà di nuovo in sogno, come ha fatto con me, e forse ti spiegherà che cosa significava ciò che hai visto. D’altronde, lui è in tutto quello che ci circonda e in ogni cosa che facciamo, e così come è tutto, allora è anche niente».

A quelle parole, Jecht sentì delle mani d’ombra che lo soffocavano con un pesante senso d’impotenza. Per cercare di liberarsene, fece qualche passo in avanti senza una vera e propria direzione. Infine si fermò e si voltò verso Braska. Un sole tenue rischiarava il suo volto pallido e si posava sulle sue labbra incurvate verso l’alto.

L’atleta si trovò per l’ennesimo istante a desiderare di avere la sua sicurezza, l’umiltà di credere che la Provvidenza, in quella terra distrutta, avesse fatto sino a quel momento il meglio che aveva potuto.

«Allora perché continua a far tornare Sin?» gli domandò. «Perché qualcuno che ama i mortali ha deciso una punizione eterna?»

All’interno della tenda, i lembi di stoffa scostati lasciavano solo una stretta via al mattino. Le parole di Jecht filtrarono all’interno assieme ai raggi di luce e colpirono Auron che meditava a capo chino.

Il monaco alzò la testa, ma la risposta di Braska era troppo lontana per essere sentita. Era sveglio solo da qualche minuto, ma aveva sentito il bisogno di stringere il rosario nella mano, come per purificare anche l'anima dopo aver curato il corpo.

Sentì la voce distante di Jecht e pensò che, almeno per quella volta, la preghiera mattutina non lo avrebbe disturbato. Si passò i grani tra le dita e convenne che, in effetti, l'atleta non se ne era mai lamentato per tutti quei mesi, anche quando la sua dedizione all'atto sacro lo portava a mormorare più forte di quanto avesse voluto.

Scosse la testa infastidito, accusando il dolore delle ferite. Prese un respiro profondo e tornò con il pollice al grano che avrebbe dovuto aprire la preghiera, ma, se le prime lodi furono guidate dalla confortante abitudine, le altre persero presto di interesse. 

Auron si sforzò di continuare, ma non coglieva il senso delle sue stesse parole, e ciò lo turbò più di quanto si aspettasse. Pronunciò le preghiere in modo marcato per poterne distinguere la forma, gocce tonde nel mare della sua mente, tuttavia il vociare di Jecht era ben più allettante da ascoltare.

Poco importava che vaneggiasse sulla sua città perduta, denigrasse le tradizioni dei padri o, nel silenzio completo della stanza accanto, tentasse di trattenere qualche raro gemito: la voce ruvida di Jecht racchiudeva sempre la gentile speranza di un mondo nuovo.

Questo attraeva Auron e lo spingeva a odiare. 

Non posso anteporre il suo pensiero a quello del dio, pensò, deluso da se stesso, questo è peccato.

I passi dei compagni si fecero sempre più vicini, e lui non era arrivato nemmeno a metà rosario, così lo rispose nella sua sacca sbuffando aria dal naso.

«Hai sentito?» chiese Jecht a Braska, raddrizzando il busto.

L'Invocatore sorrise, alleggerendo il cuore pesante del suo Guardiano che non aveva trovato risposte.

«Sei stato bravo con lui, te ne sei preso molta cura» disse a bassa voce. «Perché non vai a dagli un'occhiata? Io sistemo le mie cose».

Jecht annuì con ritrovato vigore e camminò veloce verso la tenda, per poi bloccarsi alla sua entrata, rimproverandosi da solo.

«Ehi, ragazzo» chiamò dall'esterno. La sua ombra si proiettò sulla tela, oscurando la luce. «Come ti senti?»

«Meglio» rispose l’altro con un sospiro.

«Posso entrare? Vorrei controllare le ferite». 

«Se proprio devi» disse Auron sdraiandosi controvoglia.

Jecht entrò in punta di piedi, ben consapevole che la sua presenza in quella situazione non era ben tollerata, ma ormai aveva imparato a non essere sgradevole per il compagno, almeno quando voleva.

Si sedette a gambe incrociate, strinse gli occhi per abituarsi alla poca luminosità, poi passò in rassegna le ferite più profonde. Tastò con delicatezza i lembi per sentire se erano ancora gonfi, causando piccole contrazioni muscolari al compagno.

«Hai le mani gelate» disse il monaco con un breve lamento. Sentì la pressione del pollice di Jecht sulla spalla nuda e fu colpito dal desidero che smettesse di toccarlo, ma non si mosse. 

Vi fu un ritardo nella risposta, qualcosa che Auron percepì come una voragine nel tempo in cui i loro sguardi si incrociarono. Le iridi di Jecht erano corone di sangue incrostato attorno alle pupille nere come la morte. 

«Mi dispiace, aspetta un attimo» replicò infine l’atleta, ignaro dei suoi pensieri, sfregandosi le mani per riscaldarle. «Meglio?»

Il contrasto tra quel gesto familiare e la feralità che aveva visto in lui poco prima atterrì Auron.

«Sì».

«Le ferite non sono sporche: sei a posto» disse Jecht con un mezzo sorriso. «Certo, non sono cambiate granché, ma se le manteniamo così andrà tutto bene».

I tocchi scesero con delicatezza sul costato del monaco. Jecht sembrava concentrato sulla sua opera, le sopracciglia leggermente aggrottate e le labbra strette. Lo sguardo di Auron percorse la linea del suo collo sino ad arrivare all'incavo dove si congiungeva alle spalle, poi tornò dritto di scatto. Le dita di Jecht gli erano arrivate all’altezza dei fianchi e i suoi muscoli si erano contratti senza che lui lo volesse.

«Oh, scusa» commentò l’atleta con un mezzo sorriso, «ho ancora le mani fredde?»

«Sì» mentì Auron.

Jecht gli rivolse un secondo sorriso di sfida, poi prese a rovistare tra i loro bagagli. Stese il suo cappotto rosso del compagno cercando di non fare pieghe, poi glielo mise vicino con cura insieme all'armatura.

«Non succede nulla se ci prendiamo un giorno di riposo. Me lo ha detto anche Braska» concluse Jecht, in procinto di uscire. «Solo se te la senti ripartiamo, se no restiamo qui. Vado a cacciare qualcosa, nel caso».

Auron osservò i suoi indumenti puliti, poi volse lo sguardo su Jecht che usciva dalla tenda. L'atleta scosse la testa e ridacchiò divertito quando sentì il monaco rivestirsi pochi minuti dopo.

 

 

Due corvi solitari spiccarono il volo da una distesa di spighe, immersi nella luce gialla del pomeriggio. I tre pellegrini proseguivano in silenzio sulla strada di ciottoli e polvere, facevano vagare senza meta gli occhi tra i campi lasciati a maggese. 

Con le ciglia abbassate, come un muro di scudi contro il sole, Jecht spinse lo sguardo davanti a sé: offuscati dal pulviscolo, erano comparsi i tetti scuri di quello che gli sembrava poco più che un villaggio. Man mano che si avvicinavano, quello sembrava fuggire verso la costa, quasi volesse immergersi come l’enorme schiena di una balena.

I corvi gridarono sopra le loro teste.

«Quella laggiù è Djose» esordì Braska, con la voce un po’ roca. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che aveva parlato?

«Me la immaginavo… diversa» confessò Jecht. Diede un’altra occhiata al villaggio e gli parve irreale, perso nel nulla di quelle distese.

«Perché?» intervenne Auron alle loro spalle. Il suo tono non era stato brusco, ma quasi distratto: Jecht si voltò e lo vide esaminare uno di quegli strani dizionari Al Bhed di cui parlava sempre con Rin. Quando i loro sguardi si incrociarono, Auron ripose il libro nella borsa, come se si trattasse di qualcosa di personale. 

«Perché sinora tutte le città con un tempio che ho visto erano grandi centri» replicò con tranquillità l’atleta, «e questa mi sembra tutto il contrario. Che cosa è successo?»

Auron scosse la testa.

«A Sin non piacciono le città che si espandono troppo» argomentò, «soprattutto quelle vicino alla costa. L’unico grande porto che abbiamo è nella città di Luka, che non ospita un tempio, e forse proprio per questo non ha ancora subito attacchi».

«Capisco» replicò mestamente Jecht. Aveva cominciato a prendere delle note mentali che riguardavano Spira, e vi aggiunse: “La balena è intelligente. Sa come combattere chi la vuole uccidere”. Sperava che quelle piccole informazioni a cui aggrapparsi avrebbero potuto salvarlo dalla pazzia, ma non sapeva dire se invece fossero proprio un suo primo segnale. 

I tre viaggiatori arrivarono a Djose accompagnati dal rumoroso rotolare delle ruote di un carro. A dispetto dei colori accesi dei fiori nei prati, e delle bandiere che penzolavano sopra le strade, ricordando una festa di paese da poco conclusa, trovarono un’atmosfera spettrale. 

Mentre proseguivano verso il centro, nessuno rivolse loro più di uno sguardo: un’accoglienza insolita, date le riverenze all’Invocatore a cui erano abituati. Qualcuno addirittura accelerò il passo e si trincerò dietro un portone. Qualcun altro scostò gli scuri delle finestre, per seguire i loro movimenti al sicuro di una casa da cui proveniva odore di bruciato. 

La piazza sembrava sospesa in una dimensione diversa da quella a cui erano abituati. Al centro v’era ancora un palco di legno su cui era impalato il drappo nero dell’Inquisizione. Qualcuno aveva provato a strapparlo in due senza riuscire ad arrivare fino in fondo, così i lembi penzolavano come pelle morta da una ferita.

Poco lontano, accanto a un palo che aveva ai piedi terra bruciata, si era radunato uno sparuto branco di persone. Un altro, poco lontano, lanciò sguardi in tralice al gruppo.

Un vociare sostenuto si fece strada nell’aria immobile, e divenne più forte quando i tre furono costretti a passare tra due ali di paesani.

All’improvviso, una donna gridò offese in una lingua sconosciuta, per poi sputare con disprezzo sulla veste di Braska. Qualcuno accanto a lei disse qualcosa, ma nessuno intervenne o indietreggiò quando Auron mise mano alla spada e fece per estrarla.

«Fermo» lo bloccò Braska con un cenno. Volse gli occhi per un istante verso la donna, poi si voltò e continuò a camminare, seguito da un brusio che non lo abbandonava.

Jecht socchiuse le labbra, ma vedendo Auron che non replicava chinò il capo e proseguì.

«Perché non risponde all’offesa?» chiese a bassa voce Auron. I paesani schierati per la strada sembravano non volerli aggredire, ma continuarono un ostinato gioco di sguardi anche quando loro si furono allontanati seguendo la strada per il tempio. 

«A volte si è amati, a volte si è odiati» replicò Braska, con ancora in mente il volto della donna che l’aveva insultato, le rughe che le attraversavano le guance come il delta di un fiume nella pianura. «Per alcuni sono un salvatore, per altri rimango il fratello del giudice Alan. È per questo che dobbiamo confidare nelle azioni degli uomini, Auron, e non nel loro nome».

Cadde un silenzio incerto, durante il quale Braska infilò le mani nelle maniche.

«Hai capito cosa è successo?» domandò al suo Guardiano più giovane. 

Auron fece appello alla sua volontà per evitare di voltarsi indietro.

«Sì».

Lo aveva fatto anche Jecht, intuì, notando le sue narici arricciate e la bocca inclinata in una smorfia obliqua. Nessuno di loro osò parlare. 

«Che cosa passa per la testa di quell’uomo?» domandò dopo qualche istante Jecht, che mal sopportava il vuoto. Gli pareva di avvertire ovunque la presenza dell’Inquisitore, fermo tra le loro anime come un cuneo nel legno. Sentiva il suo respiro tra le foglie e il suo comando nel moto delle nuvole in cielo.

«La giustizia qui funziona così» intervenne Auron. «Se chi è stato bruciato è stato condannato, c’è stato un motivo per la sentenza. Se poi essa fosse giusta o meno, noi non lo possiamo sapere».

«Ma ti sembra-»

Quelle parole, quasi urlate, erano uscite d’istinto dalla bocca di Jecht, senza che la sua mente le ponderasse. All’improvviso, però, si rese conto che non aveva voglia di finire la frase. Non che non avesse un pensiero a riguardo – anzi, forse ad avviso di qualcuno ne aveva anche troppi – ma non gli andava più di continuare la conversazione.

«Scusa» disse, interrompendosi. Auron continuò a camminare senza rivolgergli nemmeno un cenno.

Jecht non aveva voglia di riflettere, né di provocare il monaco, né di lanciarsi in opere da paladino. I resti che gli stavano davanti, tra i quali non si riusciva più a distinguere il legno dal cadavere carbonizzato, lo avevano gettato in una dolorosa inerzia. 

Immaginò lo sguardo di Alan, che solo con sforzo poteva dissociare dal velo, che vagava con tedio su quel triste paesaggio, e temette di poter avere, un giorno, occhi come i suoi.

Quello era un luogo da cui avrebbe voluto levare le tende in fretta, e non solo lui, a giudicare dai volti tesi dei compagni. Si impose di distogliere lo sguardo e farlo vagare oltre, alla ricerca del tempio. Almeno quello, pensò l'atleta, era un luogo tranquillo in cui sostare, ma non c'era nessun edificio nei dintorni degno di nota.

«Dove siamo diretti per l'esattezza? Qui ci sono solo capanne» chiese Jecht, innervosito da un paesano che aveva alzato il medio.

«Oltre la piazza c'è la base di un pendio roccioso. Il tempio è molto in alto, non si vede da qui» disse Braska, stavolta senza nessun sorriso ad accompagnare le sue spiegazioni.

Senza aggiungere altro, i pellegrini accelerarono il passo nello stesso momento come una persona sola, messi a dura prova dall'ostilità sempre più intraprendente dei cittadini.

«Signore, stanno diventando più insistenti» disse Auron muovendo le dita della mano armata per non stringere l'elsa della spada.

«Potrebbero attaccarci?» chiese Jecht preoccupato, ma Braska tirò dritto scuotendo la testa.

«Non arriveranno a tanto. Sanno bene cosa rischiano, anche se il dolore che patiscono è grande».

Tutto ciò che potevano fare era abbassare la testa e fare in fretta. Braska si trovò presto a corto di fiato, ma condusse i compagni su un sentiero sterrato e polveroso che si districava sul fianco del promontorio teso verso il mare. 

«Sembra… ripido. La strada è stretta e tutta in salita» disse Jecht preoccupato.

«Hai paura dell'altezza?» lo punzecchiò Auron, ma l'atleta non colse la provocazione.

«Dico solo che è un bel volo da lassù, e non credo proprio che verremmo soccorsi. Non ci sono nemmeno delle barriere».

Braska approfittò di quell'attimo per riprendere fiato, poi drizzò la schiena e pensò ad alta voce.

«Prendiamo Ixion e poi vedremo che fare». 

Auron e Jecht si misero in fila dietro al loro Invocatore, per poter reagire in tempo se fosse inciampato, iniziando una marcia faticosa come l'atleta non ne aveva mai provate.

Anche il monastero di Bevelle richiedeva una scalata considerevole, pensò Jecht, ma la strada era costeggiata da un verde che recava sollievo all'animo, mentre quel sentiero non era altro che roccia aguzza sotto i suoi piedi e polvere negli occhi.

Dopo molti minuti di camminata prudente, la cima del promontorio si presentò brulla tanto quanto il suolo del villaggio, ma era ben visibile il mare. I pellegrini fecero sostare i loro sguardi nel blu per qualche istante, poi Braska indicò un piccolo ponte che attraversava un fiumiciattolo.

«Superato quello ci siamo».

«Sembra non finire più, la strada» disse amareggiato Jecht, per poi seguire i compagni sulle assi di legno e ancora qualche passo in avanti, fino a una parete solida che segnava la fine del sentiero.

«Dov'è il tempio?» esclamò l'atleta confuso.

«Nascosto dalla magia, amico mio. Ora che sono qui, dovrebbe mostrarsi» disse Braska tra un sospiro e l'altro.

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Capitolo 28
*** La sposa di Djose (Parte 2) ***


CAPITOLO 20: LA SPOSA DI DJOSE (PARTE 2)

 

 

Lo sguardo dell’Invocatore percorse la parete verticale, poi si arrestò quando giunse a due uccelli. Volavano in cerchio: sembrava che uno stesse inseguendo l’altro, e dove il primo arrivava ormai il secondo era già passato, come il serpente che si morde la coda.

A un tratto, una scossa percorse la strada sotto i suoi piedi, e uno dei due uccelli si scagliò contro l’altro: il colpo forte del suo becco uccise il compagno e lo fece precipitare tra le pietre aguzze.

Quasi percependo un segnale, l’enorme roccia crepitò come se uno sciame di vespe premesse per uscire. Una scintilla blu schioccò vicino alla cima, e presto ne giunse una seconda che si tramutò in un lampo, bianco per l’enorme calore. 

Attraversò l’intera parete e, quando si schiantò al suolo con tanta violenza da far tremare la terra, la roccia si frantumò in schegge più piccole. Scagliate via, furono fermate da una forza invisibile, al loro centro, che sembrava derivare dall’elettricità stessa. 

In piedi davanti alla porta del tempio una figura, alta quanto due uomini e avvolta in strati di stracci, levò la testa al cielo: una luce livida illuminava il suo profilo dalle proporzioni errate, il naso aquilino e il mento sfuggente. Un alone aveva circondato il Sole. Era un cerchio perfetto come la ruota dietro la schiena del mostro, dalla quale quello non si poteva liberare. Le nuvole correvano come se volessero fuggire: sembrarono accelerare ancora quando la creatura, con voce di donna, innalzò un altissimo grido angosciante. 

Auron, Braska e Jecht estrassero le armi, in tempo per vedere il nemico piegare le braccia dai tendini esposti e trascinare faticosamente la ruota. Pochi istanti dopo, il peso sembrò non gravargli più e il suo passo si fece una carica rapida. 

Auron e Jecht si pararono subito davanti a Braska e il mostro si schiantò contro di loro, gettandoli a terra con un secondo urlo. Jecht riuscì a colpirlo con il taglio della spada mentre lui si voltava, ma gli inferse solo una ferita superficiale. 

Con una forza sovrumana, il nemico si spinse in aria e ricadde con la ruota a coprirgli il corpo. Jecht lo evitò all’ultimo istante e, con il cuore che gli martellava nel petto, si girò verso Braska. 

L’Invocatore aveva creato con il suo scettro delle sfere di energia che scagliò contro la bestia, strappandole un ulteriore grido quando le strinò il corpo sotto i vestiti a brandelli. Un forte odore di putrefazione arrivò alle narici dei tre guerrieri, come se avessero dato fuoco a un cadavere.

Dalla ruota si staccarono delle appendici, formate da quella che sembrava la carne del mostro: presto mutarono in dieci serpenti senza occhi che, con le fauci spalancate, scagliarono la loro furia cieca contro Braska. 

Auron si frappose tra il suo protetto e uno di essi, per tagliarlo in due con un colpo di spada. Quando vide i lunioli che si dipartivano dal corpo, concentrò tutta la propria energia verso l’occhio destro e riuscì a vederli brillare. 

Tese il braccio e li spinse via per farsi da scudo: l’energia sprigionata si andò a scontrare con una carica della ruota del nemico, e altri due serpenti perirono nell’impatto.

La creatura perse l’equilibrio e fu costretta a fermarsi per appoggiare a terra l’oggetto a cui era vincolata. Piegò le braccia scheletriche e inarcò la schiena, senza cessare le urla terribili.

«State indietro!» gridò Braska, tentando di sovrastarlo.

Una lancia di luce trapassò il petto del mostro, che prese a dibattersi tra stridi che un tempo erano stati umani. Jecht ne approfittò per aggirarlo e colpirlo con rapidi assalti che neutralizzarono i serpenti e gli infersero numerose ferite. 

Vomitando un sangue scuro, la creatura si fermò e Jecht le assestò ancora due fendenti, prima di sentirsi scaraventare via da un’onda di forza, accompagnata da un dolore lancinante ai timpani. 

Il cappuccio che copriva i lineamenti del loro nemico era ormai stato ridotto a brandelli, e il viso alzato verso quel sole con l’aureola somigliava a quello di una donna. I suoi occhi spenti erano rivolti verso il cielo, la bocca era socchiusa in un’espressione estatica, come se avesse riconosciuto qualcosa, lassù.

«Ixion» pronunciò, spingendo con fatica le braccia vincolate in modo da liberarle. «Ixion...»

Il suo corpo, con un moto lento, cominciò a venire sollevato dal vento, mentre si liberava piano dalla ruota: rimanevano solo dei tendini, allentati, a far sì che non si separassero l’una dall’altra.  

Ad allontanarla dall’umanità che la aveva fatta parlare giunse un urlo bestiale, di infinito dolore. 

Un lampo di luce accecò i tre guerrieri, Auron e Braska ancora illesi e Jecht che si reggeva il fianco con una mano, nel terrore di aver subito qualche danno alle costole. Quando il bagliore si diradò, la sagoma di un enorme cavallo si stagliava sopra di loro. La ruota si era incastonata sulla sua schiena e la donna lo cavalcava, tenendo il proprio corpo in equilibrio. 

L’animale sollevò gli zoccoli anteriori e una scintilla scoppiò sulla cima del suo corno: una catena di fulmini si scaricò al suolo, colpendo i tre guerrieri come pupazzi. 

Subito dopo, un’intensa folata di vento spazzò la terra e piegò i rami secchi degli alberi, gettando i più deboli nelle acque torbide del fiume e costringendo Auron, Braska e Jecht a indietreggiare.

L’atleta vide Auron resistere, infilzando la spada a terra e reggendosi in modo da perdere meno terreno possibile. Fu il più previdente, poiché lui e Braska si sentirono attratti verso il nemico, incapaci di reagire come relitti in una tempesta. Li tirava la stessa forza che aveva mantenuto le pietre in orbita attorno al tempio, ma di certo il loro volo non si sarebbe fermato. 

Auron chiuse gli occhi e soffiò l’aria fuori dalle narici, richiedendo ai suoi muscoli tutta la forza di cui erano capaci. Quando sentì l’effetto dell’incantesimo di Ixion affievolirsi, diresse lo sguardo verso il nemico.

Frammenti di pietra aguzzi, macerie del corrimano del ponte e alberi smembrati convergevano verso il mostro assieme ai suoi compagni. Per qualche istante rimasero sospesi, poi ripresero la loro folle corsa. 

Quando ebbe la certezza che la traiettoria era libera, il guerriero con un salto si scagliò in aria, poi si lanciò a spada tratta contro un grosso masso che viaggiava per la propria orbita. Quando lo aggirò, venne spinto con velocità ancora maggiore verso la bestia fino a sentire la lama che penetrava a fondo nella carne. 

Vide gli occhi spalancati della donna, la sua bocca congelata in un’espressione di terrore, e quando estrasse l’arma uno schizzo di sangue gli macchiò la veste, per poi condensarsi in gocce tonde che rimasero per qualche istante sospese in aria prima di ricadere. 

Il corpo della nemica collassò senza vita sul cavallo che, levato un alto nitrito, colpì con gli zoccoli Auron, colto in un momento in cui stava cercando con lo sguardo i suoi compagni.

Il Guardiano cadde a terra, privato del respiro e delle forze. Quando la sua vista, dopo qualche istante, tornò quasi limpida, scorse Braska disteso di fronte a sé. Aveva gli occhi socchiusi, ma tentò di rassicurare Auron con un sorriso che somigliava più a una smorfia di dolore.

«Sia lodato Yevon…» mormorò il monaco, vedendolo alzarsi in piedi e stringere le mani sullo scettro. 

L’Invocatore non si lasciò distrarre dai suoi amici a terra. Si concentrò sul presente, alzò la sua arma e, aggraziato, svolse i complicati gesti rituali che richiamavano un Eone. 

Sentì subito la temperatura abbassarsi, il movimento delle mani farsi più difficile, come in alta montagna, e i polmoni danneggiati inviare un lieve bruciore al corpo. Sorrise quando percepì la presenza della grande Shiva dietro di sé e il tocco delle sue dita gelide sulla spalla. Gli ricordavano l’immobilità divina.

«Vai» sussurrò, e mosse il bastone verso il nemico, un gesto accompagnato dal tintinnio di una campanella.

Ixion correva con tormento tra i fulmini che lui stesso generava, cercando di togliersi di dosso l'ingombrante ruota che aveva infissa sul dorso e il cadavere del mostro. Tuttavia, non appena percepì la presenza di un’entità simile a lui si fermò, pronto a caricare nella sua direzione.

Nonostante non brandisse armi, l'eone di Braska poteva combattere modellando il ghiaccio a suo piacimento. Accumulò tra le sue mani i venti del Gagazet, per poi proiettarli in un raggio che gelò le zampe della creatura, costringendola a giacere al suolo su un lato.

Non ancora sconfitto, Ixion evocò un fulmine dal suo corno e lo scagliò su Shiva, ma lei lo evitò con un movimento elegante del busto. 

Sorrise, sicura di sé, ma Braska era quasi al limite delle sue forze e lei ne risentiva. Agitò la mano destra e delle scaglie di ghiaccio comparvero dietro di lei, per poi abbattersi sul corpo già martoriato di Ixion. 

Il nitrito della creatura era forte quanto il rombo di un tuono, ma si dissolse nel momento in cui Ixion scomparve davanti agli occhi dell'Invocatore. Lasciò a terra solo i resti della ruota e della donna che avevano sconfitto.

Shiva si sistemò i lunghi capelli blu intrecciati e svanì nell'aria; Braska, ormai sfinito, si accasciò sul suo scettro.

Jecht e Auron avevano assistito al combattimento tra Eoni senza poter far nulla, ma rimasero stupiti per la potenza sprigionata nello scontro.

Il primo si tastò le costole con circospezione, valutò il sapore metallico che sentiva sulla lingua e poi decise che avrebbe potuto tirarsi in piedi senza troppa difficoltà. Si voltò verso Auron, cercando di reprimere il desiderio di tendergli una mano per aiutarlo, ma lo trovò già accanto a Braska. 

L’Invocatore, vinto dalla fatica, si era seduto a terra bisognoso d'aria. 

«Sto bene, Auron. Ho solo bisogno di riposare un momento».

Il monaco distolse lo sguardo da lui e, con le ciglia socchiuse, lo soffermò sul cadavere del nemico che avevano sconfitto.

Le forme nascoste dagli stracci erano quelle di una donna, ma per qualche motivo il suo corpo, che stava svanendo in lunioli, era cresciuto. 

Forse era una dei giganti che aveva visto Jecht, si ritrovò a pensare, e subito si chiese quando avesse sviluppato un senso dell’umorismo tanto crudo.

«...ata» disse una voce alle sue spalle. Auron sentì le tempie pulsare e aggrottò la fronte, poi si volse verso Jecht che aveva parlato.

«Cosa hai detto?»

«È bruciata» ripeté lui. Stava guardando il cadavere con aria assorta, le braccia a penzoloni e nemmeno uno dei sentimenti che in genere vomitava.

Il monaco riuscì all’ultimo istante, prima che il corpo svanisse, a collegare ciò che il suo compagno aveva detto a ciò che vedeva.

Furono accolti dai monaci di Djose con alti onori, e fu loro tributato un banchetto per aver ucciso il mostro che da giorni impediva l’entrata al tempio.


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Capitolo 29
*** ℶ. Carte del processo a Davon di Janne, sacerdote (Parte 1) ***


ℶ. Carte del processo a Davon di Janne, sacerdote (Parte 1)

 

 

Mese IV, 1026

23 giorni dal solstizio d’estate

 

 

Janne era un villaggio dalle dimensioni risibili, propaggine estrema di Djose. Anch’esso, come la città principale di quella sventurata zona, s’era quasi ridotto alle ceneri di se stesso.

Quando la mia carrozza entrò in paese, alcuni dei suoi abitanti si riversarono nella strada principale, forse per vedere quale miracolo della tecnica fosse giunto sino a lì.

Il tarchiato sacerdote del tempio uscì subito dalla porta: volse gli occhi al frontone, poi di nuovo verso il mezzo in un moto nevrotico.

I due uomini che mi accompagnavano, evidentemente impegnati in una competizione a chi mi servisse meglio, scesero e fecero per accerchiarlo.

«Non serve» li fermai. Per qualche istante contemplai il volto atterrito del sacerdote attraverso i drappi che mi celavano alla sua vista, poi li scostai.

«Sto cercando il giudice Michent» esordii. La risposta del prete dovette attendere un profondo inchino che mi fece sprecare diversi secondi. «Sa dirmi dove trovarlo?»

«Signor Inquisitore, sì, signore» balbettò quello, passandosi una mano sui folti baffi senza curarsi di nascondere il suo nervosismo. Non seppi dire se gliene mancasse il coraggio oppure se lo ritenesse un gesto di giusta devozione nei miei confronti. «Lo andrò a chiamare personalmente».

C’era una piccola macchia, sulla sua tunica all’altezza del petto, che egli continuava a tentare di nascondere facendo e disfacendo delle pieghe in modo spasmodico. 

Sentii l’eco dei suoi passi e quella della sua voce quando entrò nel tempio di Yevon spopolato dai fedeli. Dopo qualche minuto, il ticchettio sul pavimento raddoppiò. 

Sulla porta si palesò un ometto anonimo, poco più anziano di me. Tra i capelli brizzolati, che avevano cominciato a diradarsi, era rimasto qualche residuo di shampoo e gli occhi vitrei, dietro a spesse lenti appoggiate quasi sulla punta del naso, mi guardavano con aspettativa e insieme con timore. 

Non pensavo che qualcuno potesse portare le vesti di un dignitario dell’Inquisizione con così poca eleganza, con la spilla che ciondolava da un lato come la testa di un ubriaco. 

«Il Giudice Michent, signore» lo annunciò il querulo prete, come se il diretto interessato lo avesse delegato a parlare al posto suo. 

Prima che l’Inquisitore potesse esibirsi nel farsesco saluto rituale, gli porsi la mano affinché baciasse l’anello.

«La mia eterna fedeltà a lei» cantilenò quello, inchinatosi al mio cospetto, «al maestro Mika e alla Chiesa di Yevon. Sarò onorato di adempiere a qualunque sua richiesta».

«Lei è stato giudice istruttore nel processo al sacerdote corrotto Davon che si è svolto qui due anni fa» cominciai, prima ancora che lui si alzasse. «Non è così?»

Avvertii una scintilla di sorpresa attraversare i suoi occhi. In effetti si era trattata – anche se con certezza della cosa più interessante avvenuta a Janne nell’ultima decade – di una piccola questione, rapidamente risolta.

«Sì, signore» mi rispose.

«Ho bisogno di vedere i faldoni».

A quella frase, Michent atterrì temendo qualche irregolarità, e io dal mio canto non spiegai il motivo della mia richiesta, non essendone di certo obbligato. 

«Tutti i faldoni dei processi che si sono svolti qui sono conservati, con le debite etichette, all’interno del nostro naos» cominciò a spiegarmi, inquieto, come se cercasse con la mente qualche falla nel suo operato. «Tuttavia, per poterli consultare è necessaria un'autorizzazione scritta del tempio di Djose».

Aggrottai la fronte, mentre un refolo di vento secco mi portava alle orecchie grida festose di bambini. 

«Autorizzazione scritta?» domandai. Michent subito annuì.

«Conserviamo i moduli all’interno del tempio. Prego, mi segua».

Ordinato ai miei uomini di attendere, mossi qualche passo circospetto dietro a lui, poi mi voltai di nuovo verso la carrozza e infine mi risolsi ad andare.

Una volta avevo letto che l’uomo è paragonabile a un tempio: talvolta coloro che ne trascurano la facciata hanno impiegato le loro ricchezze per abbellire l'interno di tessere d’oro. Pertanto, cosa avrei dovuto pensare di chi mi ospitava quando mi trovai in un corridoio adornato da cavalli stilizzati – disegnati da un artista del calibro di mia nipote di sette anni – che mi guardavano con sguardo vacuo? 

«Ecco» annunciò Michent in tono monocorde, depositando un plico di fogli davanti ai miei occhi. La sedia, quando vi avevo posato il mio pur esiguo peso, aveva cominciato a miagolare di disperazione. A quel punto, pur di non guardare il mio interlocutore, mi rivolsi a una delle crepe nella vernice notando come segasse accuratamente in due il collo di un cavallo. 

«Quali moduli devo firmare?»

«Tutti».

Sentii un altro cigolio che mi parve provenire dalle vertebre della maldestra pittura rupestre, poi una porta che si chiudeva in lontananza.

Dopo avermi illustrato l’ordine in cui avrei dovuto compilare le carte, il Giudice Michent se ne andò con una riverenza impettita, lasciandomi solo con quello che ancora ritenevo un lavoro di pochi minuti.

Ma il tempo cominciò a scorrere lento e viscoso e, forse scioltosi per il caldo, prese a scivolarmi addosso come il sudore alla base del collo.

Grande Inquisitore, scrissi alla voce “impiego attuale”, e mi detersi con un fazzoletto mentre cercavo di ricordare da quanto decorresse la mia nomina. Ritenni a buon giudizio di togliermi il copricapo e il velo, che posai a fianco di un modulo giallastro dove una fila di numeri occhieggiava minacciosa.

Avrei dovuto compilare quelle righe con i codici identificativi dei faldoni che mi interessava consultare. Per agevolarmi il lavoro, Michent mi aveva consegnato un poco agile manuale, dove qualcuno con una grafia minuta si era divertito a scrivere informazioni in un ordine talmente minuzioso da riuscire a confondere chiunque.

Sospirai, incontrando un’altra volta gli occhi neri e vuoti del cavallo. Strinsi con rabbia la penna tra le labbra e cercai di figurarmi quale fosse il dio della burocrazia; chi, in quel luogo, fosse stato in grado di fermare addirittura me. 

Io, che non avevo pari sulla Terra.

Dopo altri cinque moduli arrivai a immaginarla come una dea:  capelli corti, orecchini pendenti e un sorriso zuccheroso, tendeva in un’immobilità eterna dei protocolli ai viandanti. Una volta apposta una firma in calce, si sarebbero aperte ai loro occhi le dorate distese dell’Archivio Pratiche. Non prima, però, dell’orribile scoperta: l’inchiostro era in realtà il loro stesso sangue.

La dea, spietata, timbrava le carte col fuoco come cosce di bovini.

Tornai alla realtà con un sussulto quando mi accorsi di aver lasciato cadere della cenere sul “Certificato di Autorizzazione 4.1”, e per qualche istante temetti l’irreparabile. Dopo essermi accertato che fosse rimasto illeso, ripresi a fantasticare e immaginai di arrotolare le carte per poi bruciarle in ordine di modulo come bastoncini d’incenso. Forse nel fumo avrei potuto leggere le date di scadenza giuste per ogni cosa.

Dopo qualche eterno minuto, qualcuno bussò alla porta che era stata lasciata socchiusa.

«Signor Giudice» mi richiamò la voce senz’anima di Michent. «Posso entrare?»

«Un attimo» borbottai con poca grazia. Mi coprii di nuovo gli occhi con il velo prima di concedergli di entrare e restituirgli i moduli compilati.

«L’ufficio del tempio deve apporre i timbri» mi informò poi, prima di fermarsi e fare una smorfia per l’odore del fumo. Si spinse gli occhiali sul ponte del naso, ma quelli subito ricaddero nella loro posizione precedente. «Poi le carte verranno inviate a Djose, che ci manderà il via libera per procedere».

«E quanto ci vorrà?» m’informai. Michent si strinse nelle spalle.

«Non siamo a Bevelle, Vostro Onore» mi rispose, di nuovo cantilenando come in una preghiera. «Non a Bevelle, nossignore».

 

 

M’accorsi che era giunta la seconda alba da quando ero arrivato a Janne quando il gracidio ostinato di una singola rana, in pianta stabile sotto la mia finestra, si tramutò di nuovo nel canto del gallo. 

Decisi, ben consapevole del fatto che non mi si addicesse un’inattività indolente in un luogo dove anche le capre faticavano ad arrampicarsi, di recarmi nelle sale interne del tempio in modo da sollecitare l’invio delle pratiche. 

In primo luogo ordinai ai due giovani che mi accompagnavano di sorvegliare la porta della mia stanza, di modo che nessuno vi si introducesse, e loro non nascosero una gratitudine sorpresa quando si sentirono concedere il cibo che quella mattina i monaci mi avevano portato.

Non avete di che lamentarvi, pensai, osservandoli con la coda dell’occhio mentre mi allontanavo, essere nell’Inquisizione vi fornisce alloggio e vitto, quest’ultimo a volte anche doppio. 

Il sottufficiale Shiga aveva detto che le rane non vivevano in alta montagna o che comunque, anche se lo facevano, non sarebbero mai sopravvissute all’inverno. Eppure c’era un gracidare continuo, di notte, sotto la trincea. Era un monocorde, noioso controcanto ai bombardamenti delle Scaglie di Sin che giungevano col mattino.

Un giorno trovammo Shiga che, inginocchiato a terra, stringeva la baionetta dalla parte della lama. Tra le mani scarnificate teneva il piccolo cadavere di un mostro, coperto dalla libagione di sangue. Sembrava una rana.

Shiga tremava e piangeva e continuava a pugnalarlo, e a pugnalarsi, con violenza. Gridava che nemmeno quello aveva carne, e più si tagliava più i lunioli – indifferenti – si dipartivano dal corpo della creatura. 

Avevamo già cominciato a pregare Yevon affinché la neve si sciogliesse presto e liberasse il passo ai rifornimenti quando il sottufficiale Shiga venne da me e mi chiese di sparargli in testa. C’era un nuovo gracidare, fievole, identico al primo.

So che a te non tremerà la mano, mi disse.

Non ebbi il coraggio di farlo.

Shiga morì qualche giorno dopo, con le vene incise dalla sua stessa baionetta e le braccia larghe, imprimendo a terra l’arco rosso della sua sofferenza. 

Quelli più intelligenti di noi si resero conto subito di come il sangue sulla neve avesse composto una frase. 

Io sarò ancora utile.

Nonostante il giorno avesse soffocato il richiamo della rana, il mio stomaco si contrasse e avvertii la familiare sensazione dell’acido che mi corrodeva le viscere. Per contrastarlo, estrassi un sigaro dalla scatola d’oro che portavo con me. 

Il rumore del tagliasigari nel piccolo corridoio del monastero richiamò l’attenzione di Michen che, con aria affannata ed espressione devota, mi si avvicinò. 

«Buongiorno, signor Giudice» mi salutò, con un lieve tremolio del mento squadrato.

«Buongiorno» ribattei, soffiando via il fumo. La sua paura era davvero dovuta alla mia mera presenza? E se fosse stato anche lui un Non Trapassato, parte del problema, parte della setticemia nel sangue della Chiesa? 

«Sto facendo una passeggiata» continuai, «fino al tempio». 

«È una giornata piacevole» borbottò lui, con la testa incassata nelle spalle come una vecchia tartaruga. Ripeté un paio di volte quella frase a se stesso, con tono e volume discendenti, quasi avesse voluto convincersene, prima di perdere ogni interesse e andarsene. 

Poco dopo scoprii che del naos del tempio di Janne non rimanevano che le pareti, tra le quali erano stati installati uffici dai muri di cartongesso. Un’immagine sacrilega, se solo non l’avesse voluta il Gran Maestro Mika per meglio amministrare un culto che, nel momento in cui lui era salito al soglio, non faceva che espandersi nell’isola. 

Mi presentai al primo sportello aperto che trovai e avanzai verso una donna minuta che stava seduta oltre a una vetrata.

«Buongiorno» esordii, senza particolare sentimento se non il desiderio di finire in fretta.

«Il numero, per favore» gracchiò lei, con una voce tanto fievole da risultare quasi coperta dal ticchettio della pendola sopra le nostre teste. Erano le dieci e venticinque.

Seguii con lo sguardo la direzione che il dito della donna indicava. Immersa tra le decorazioni, appartenute a un tempio di Janne ai suoi fasti, era stata installata una sorta di torretta. 

Trassi un profondo sospiro e considerai per un istante di farle notare che ero l’unica persona presente, oltre a lei, ma mi risolsi a fare come diceva per evitare sterili discussioni. Non appena ebbi staccato un piccolo tagliando azzurrognolo, sentii uno scampanellio.

«Trentasei» chiamò l’impiegata, stropicciandosi l’occhio destro. «Desidera?»

«Le pratiche che ho dato disposizione di inviare due giorni fa. Che fine hanno fatto?»

La donna cominciò a scartabellare tra dichiarazioni e delibere, facendo prendere il volo a qualche foglio sciolto che volteggiò lento nell’aria polverosa. 

«Lei è il signor…»

Per un istante fui colto dal desiderio bruciante di inalberarmi e far valere la dignità della mia posizione.

“Sono a capo dell’Inquisizione!” avrei gridato, ponendomi davanti a lei come uno dei protagonisti dei libri d’appendice che mio fratello leggeva in ospedale. “Perché non mi consegnate il faldone senza fiatare?”

«Alan» risposi, con un tono che giudicai quasi dimesso. La pausa fu riempita dai lenti rintocchi della pendola in un tempo che pareva dilatato. «Grande Inquisitore di Bevelle».

Lei mi guardò con curiosità da oltre il vetro. Io, attraverso il velo, riuscivo a vedere ogni cosa anche se offuscata, tuttavia mi ero sempre chiesto se e come gli altri riuscissero a scorgere i miei occhi.

«Certo, ecco qua, hm-hm» borbottò l’impiegata in modo incoerente. «Ancora un attimo, prego».

Mi sarei guardato allo specchio, uno di quei giorni. Forse, però, la visione sarebbe stata falsata, quindi sarebbe stato meglio chiedere a Kelk Ronso.

«Le carte non sono state spedite» sentenziò la donna all’improvviso.

Aggrottai le sopracciglia e sentii la rabbia che montava nello stomaco. 

«Non sono state spedite?» ripetei, scandendo bene le parole.

«Sì, adesso le dico subito… ecco, sì, il timbro di permesso. C’è il timbro, ma non la firma. Il timbro, ma non la firma» ripeté quell’ultima frase con tono lento, liturgico. 

«E, di grazia, cosa dovrei fare?» ribattei, dimentico per un istante d’essere al di sopra delle parti. 

«Dovremmo contattare Gatius, che si occupa di queste cose, il direttor Gatius. Tuttavia, il direttore è in trasferta. Partito ieri. Non le resta che presentarsi domani».

Strinsi il pugno fino a far affondare le unghie nella carne e le scoccai un’occhiata che, a giudicare dall’espressione che lei mi restituì, dovette intimorirla non poco. La giudicai una debole prova del fatto che i miei occhi si vedessero.

«Non ho tempo per tornare domani» la fulminai, alzando la voce. «Sono due giorni che aspetto nella topaia che chiamate monastero. Risolva immediatamente o farò rapporto al Maestro Mika».

Con l’espressione di chi vede la vita passare davanti ai propri occhi, inanellata pagina per pagina in un grande faldone, l’impiegata abbassò la testa.

«Sì, signore» disse, alla frenetica ricerca di qualcosa sulla scrivania. Trovò una videosfera e la accese. «Contatto subito l’ufficio di Gatius, signore».

Dopo qualche istante, la trasmissione si avviò e l’ologramma bluastro di un ometto calvo comparve davanti ai suoi occhi.

La donna gli spiegò con esasperata lentezza la situazione, e lui prese a scuotere ritmicamente la testa a destra e sinistra. Un brivido di morte mi percorse i tessuti.

«Gatius avrebbe dovuto apporre la firma…» si lagnava l’ometto in quella che ormai era diventata una nenia funebre. «Non ho idea se ho il permesso di mettere la data sul timbro al suo posto… e poi, quale data? In teoria, la data di consegna; però la data di consegna con timbro soltanto oppure di consegna reale, confermata dalla firma di autorità?»

«Ho capito» sentenziai, e mi sporsi verso la donna dietro al vetro. Lei sobbalzò e interruppe la comunicazione. «Mi dia i documenti. Mi reco io personalmente a Djose».

Con quell’ordine che in realtà era un obbedire, ricevetti il plico di fogli che avevo compilato.

«Signor Giudice…» mi raggiunse la voce flebile dell’impiegata. «Posso confidare che la mancanza del nostro ufficio non venga…»

Io, che avevo già girato i tacchi, mi voltai con rabbia.

«Sulla mia pietà, signora, io non farei mai affidamento».

Marciai quindi verso la porta da cui ero entrato, cercando di tenere a bada le fastidiose insinuazioni che, nella mia stessa testa, si affollavano nel tentativo di mettere in discussione la mia autorità. 

La mia autorità assoluta.

C’era un carretto, di fronte all’ingresso. Era blu e di legno, e trascinava un secchio e uno spazzolone per i pavimenti. Sembrava essere stato abbandonato, quindi avanzai con l’intenzione di scostarlo.

«Alt!» mi bloccò una voce, e una donna curva zoppicò aggressiva verso di me. Sembrava aver superato la mezza età, e i suoi abiti denunciavano un gradino sociale più basso dell’impegata con cui avevo avuto a che fare. 

Mi fermai, infastidito, e nel silenzio i paramenti sulla mia veste tintinnarono, come facevano sul campo di battaglia.

«Di qui non si passa!» berciò lei, senza indietreggiare. 

«Devo uscire».

«Allora faccia il giro ed esca dalla porta sul retro».

Il pensiero di stringerle le mani alla gola sino a soffocarla fu fermato solo dal disgusto che avrei provato nel sentire quel collo grasso e flaccido sotto le dita. 

Nel frattempo, lei si era avvicinata e mi scrutava, gli occhi porcini socchiusi e le sopracciglia incoronate da una lunga verruca. 

«Lei è dell’Inquisizione, eh, allora le sa le cose di legge» mi disse. La sua bocca pareva un taglio obliquo d’accetta sul viso. 

«Mi faccia passare» la intimai per l’ultima volta, senza dar segno d’averla ascoltata.

«Vede» replicò, «quando io sarò fuori da qui, le regole saranno quelle che dice lei. Però qua dentro – e solo qua dentro, badi bene – c’è una regola sola, che ho deciso io. Ed è che da questa porta non si passa, e lei che è Inquisitore farà il giro. E se si presenta Yevon in persona, allora farà il giro anche Yevon».

Ritenni, nonostante la decisione mi pesasse nell’animo, che la via più breve in quanto a tempo perduto fosse la deviazione che la donna mi suggeriva. M’immersi di nuovo tra i corridoi malamente decorati, tra gli stucchi scrostati del tempo. 

Le carte che avevo compilato mi tornavano alla mente in un turbine di “Luogo! Data!” e, per qualche sgradito minuto, valutai di tornare al monastero e di attendere che la spietata burocrazia facesse il suo corso. 

Io, che avevo sempre avuto potere, per la prima volta non potevo niente; nemmeno le litanie sciamaniche della Necropotenza sarebbero state in grado di scavare nel tempo e portarmi ciò che volevo. 

Valutai di rimanere nella mia stanza, in attesa come un suddito qualunque. Ma poi ripensai al calare della sera, alla creatura sotto la trincea che gracidava piano nel silenzio tra i colpi di mortaio.

«Ripartiamo per Djose» ordinai ai miei uomini quel pomeriggio.

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Capitolo 30
*** Qualcosa che non possiamo vedere ***


CAPITOLO 21: QUALCOSA CHE NON POSSIAMO VEDERE

 

 

I monaci del tempio di Djose devono aver passato giorni terribili, pensò Jecht quando vennero loro offerte delle celle per passare la notte. Le locande non avrebbero collaborato con facilità col sangue del sangue di Alan, e la possibilità di essere accoltellati nella schiena durante il sonno era tutt'altro che remota.

Braska accettò di buon grado, senza discutere: era duramente provato dalla battaglia appena trascorsa, e tornare in città ripercorrendo la strada tortuosa del promontorio era fuori discussione, almeno per le sue gambe.

Le celle erano singole e tutte uguali: all'interno non c'era altro che un letto, una sedia e un piccolo comodino, sul quale erano posati una ciotola con dell'acqua e un panno pulito.

Braska salutò i suoi Guardiani con un sorriso stanco, per poi ritirarsi appena conclusa la cena, mentre Auron si trattenne nella sala principale a pregare il dio su uno dei numerosi altari, come non faceva ormai da mesi.

Jecht lo osservò da lontano inginocchiarsi stringendo in mano il rosario, poi si diresse verso la sua cella per lavare via la polvere dal viso e dai capelli. Passò solo qualche minuto prima che sentisse dei passi pesanti dirigersi verso la stanza accanto alla sua, e gli sembrò molto strano.

Le sue cantilene sono più numerose di così, pensò Jecht preoccupato, ma sapeva che una sua intrusione avrebbe infastidito Auron.

L'atleta continuò a pulirsi la barba, ma il pensiero non lo abbandonava. Sospirò, conscio di ciò che lo aspettava, e uscì dalla stanza, per poi bussare con delicatezza alla porta della cella del compagno.

«Sì?» 

«Sono io. È tutto a posto?» chiese Jecht dall'altra parte.

Passò qualche istante di silenzio.

«Sto bene» rispose Auron.

«D'accordo...» disse Jecht, non aspettandosi nulla di diverso. «Controlla bene le ferite, ok?»

L'atleta fece qualche passo verso la sua cella, tanto era vicina a quelle dei compagni.

«Domani mattina guarda se ti è uscito l'ematoma sul fianco» disse Auron all'improvviso. Jecht si voltò verso la porta come se potesse vederlo nella sua stanza.

«Lo farò».

La notte fu più dolce di altre, e il versamento di sangue sul costato non apparve. Se anche Auron avesse avuto un sonno agitato, Jecht non sentì nulla: aveva dormito molto profondamente, ma non aveva sognato. Non si coricava sperando di averli, ma era qualcosa che voleva approfondire.

I tre si incontrarono all'entrata del tempio: Braska si presentò ai suoi Guardiani con volto rilassato, mentre Auron aveva delle occhiaie marcate che non passarono inosservate a Jecht.

«Hai riposato bene, Braska?» chiese l'atleta con un mezzo sorriso.

«Oh, sì! Non dormivamo su un letto morbido da un bel po'» rispose l'Invocatore. «È tempo per me di accogliere Ixion. Spero di non metterci molto».

«Andrai alla grande, non ti preoccupare» disse Jecht rassicurante.

«La aspettiamo qui, signore» continuò Auron con tono stanco.

Braska si congedò e si avviò verso la parte più interna del tempio, seguito dallo sguardo di Jecht che passeggiava senza meta sulla soglia. 

Come di consueto, il guerriero si recò all'aria aperta per fumare, lasciando l'atleta libero di poter osservare le statue e fare domande ai monaci sulla dottrina, abitudine che aveva preso fin da quando Braska aveva ottenuto Shiva.

Auron lo osservava dalla porta aperta per assicurarsi che Jecht non fosse blasfemo o inopportuno, ma l'atleta manteneva sempre un comportamento rispettoso. 

In principio, il monaco era convinto che il compagno volesse apprendere le antiche usanze per poi sminuirle, ma Jecht lo smentiva più spesso di quanto volesse ammettere. 

Indugiò su quei pensieri fino all'ultimo tiro di fumo, poi rientrò in tempo per vedere il compagno avvicinarsi con espressione pensierosa.

«Hai finito il tuo giro turistico?» lo punzecchiò Auron.

«Eh? Ah, sì» rispose Jecht distratto.

«Sembri insoddisfatto. Inizi a perdere interesse?»

«Ti piacerebbe. A dir la verità, mi stavo chiedendo una cosa».

Auron sospirò.

«Domanda, allora».

«Perché non possiamo entrare nel naos? C'è forse una magia che lo impedisce?»

«I Guardiani non seguono l'Invocatore all'interno del tempio perché è terreno sacro. Allo stesso modo in cui non oltrepassiamo una porta chiusa, non entriamo senza invito oltre il recinto del dio» spiegò Auron con sicurezza. «Solo chi è degno di passare oltre può pregare alla presenza dell'Eone».

«E il… recinto, chi decide che l’Invocatore può varcarlo?»

«Gli Intercessori, spirito di Yevon e sua manifestazione sulla Terra».

Una risata trattenuta e un rumore di tacchi sul pavimento distolsero all’improvviso i due dal loro discorso. 

«Gli Invocatori, i supplici e i condannati a morte» disse piano la voce ben nota di Alan, passato oltre senza nemmeno voltarsi. «Ecco le tre cose sacre». 

Non dovrebbe essere qui, pensò Auron, ma il suo corpo aveva reagito prima della sua mente alla presenza dell’Inquisitore e gli aveva rivolto il saluto.

Alan trasalì, come se un insetto lo avesse punto, e si voltò. Ignorato del tutto Auron, rivolse uno sguardo indecifrabile a Jecht e poi aggrottò la fronte, come se ci fosse qualcosa che non capiva. 

L’atleta rimase immobile e riuscì a superare indenne quell’esame: dopo pochi secondi, il Grande Inquisitore tornò a camminare nella precedente direzione. Si fermò di fronte a un grande Ronso vestito con abiti da sacerdote, al che Jecht ritenne preferibile distogliere lo sguardo.

«Perché è tornato qui?» domandò ad Auron che, forse senza accorgersene, gli si era avvicinato.

«Non credo abbia bisogno di un motivo per recarsi in un tempio» rispose il monaco, senza ostilità.

«In questo, forse sì. I cittadini di Djose hanno sputato a suo fratello, e sta andando in giro con una scorta. Credo che stia cercando qualcosa, e anche che sia qualcosa di importante, se ha tutta questa fretta».

Auron soffermò gli occhi su di lui per qualche istante. Sentì una strana pressione nel destro, sotto la retina, che poi subito svanì.

«Non è per forza qualcosa che ci riguarda» disse poi. Un pesante sospiro giunse alle sue orecchie e, per una delle prime volte nella sua vita, temette di aver detto qualcosa di sbagliato.

«Senti» esordì Jecht, e all’improvviso gli sembrò di essere solo, in quel grande atrio, con lui. «Io capisco che su quest’isola teniate molto in conto quell’uomo, che sia potente e una guida spirituale per molti, ma…»

I loro sguardi, continuava a notare Auron, s’incrociavano sempre più spesso. Forse stavano cominciando a diventare amici?

Forse stavano cominciando a importargli le parole di uno straniero?

«Continua» lo esortò.

«Ma io non penso che sia buono».

Auron trattenne il respiro per un secondo, poi soffiò l’aria fuori dalle narici. Quello che pensava Jecht, quello che gli animava il cuore, per qualche motivo era intrigante. Se avesse chiesto un parere a Braska, avrebbe ricevuto in risposta parole cristalline ma prevedibili. Jecht, invece, era una scoperta continua. 

Auron ricordava il tramonto di Bevelle e ricordava la chimera di rosa e oro. Il tabacco rubato nelle sue tasche e il carro trionfale che portava l’eroe. 

Ricordava le file di monaci bambini e l’odore dell’incenso quando lui s’era inchinato. 

«Accetta questa libagione, Yevon, e la numerosa ecatombe che rechiamo. I e yu i no bo me no».

La sua bella schiena scoperta e percorsa dalle gocce d’acqua, la pelle d’ambra chiara.

«Giuro di servire l’esercito luminoso di Yunalesca. Qui rinasco Inquisitore. Io sono protetto dal quarto cerchio; io mondo il mondo dal peccato».

Aveva una falena sulla spalla destra.

«Ci devo pensare» disse Auron. Quella frase riecheggiò per il tempio di Djose prima di essere spezzata dallo stridio della porta del naos. 

Braska rivolse ai suoi Guardiani un cenno con la mano dalla cima delle scale; a loro sembrava in salute e affatto provato.

«Signore, è successo qualcosa?» chiese Auron allarmato, ma Braska sorrise allegro.

«Va tutto bene, amici miei. Ixion ha già avuto modo di valutare il mio valore attraverso quel combattimento» spiegò. «Mi ha concesso la sua forza quasi subito, sia ringraziato Yevon. Potremmo ripartire anche ora».

«Ah, benissimo! Non mi dispiace lasciare questo posto» disse Jecht a bassa voce. «Che ne pensi, ragazzo? Per te va bene riprendere il viaggio?»

«Non abbiamo niente che ci lega qui» rispose Auron concorde. «Tuttavia, c'è una cosa che deve sapere, signore: il Grande Inquisitore è qui. Lo abbiamo incrociato giusto un attimo fa».

Braska congiunse le mani con espressione tesa: nemmeno lui si aspettava di vederlo proprio lì.

«Ah… dovremo rimandare la partenza, allora. Immagino stia cercando me: faccio fatica a credere che sia solo una coincidenza».

Auron e Jecht si lamentarono entrambi a modo loro, facendo comparire sul volto di Braska un sorriso sincero.

«Amici miei, vi prego di pazientare ancora un po'. Chiederò ai monaci del tempio se l'hanno visto, voi per favore aspettate qui».

I Guardiani annuirono e lo osservarono dileguarsi nel tempio, mentre Jecht scalpitava impaziente.

«Accidenti, non voglio stare ancora in questo posto a far nulla. Ti dispiace se faccio una passeggiata qui fuori?» chiese Jecht insofferente.

«Non causare guai» rispose Auron con pacatezza.

«Sarò di nuovo qui nel tempo di una sigaretta, lo sai».

Senza aggiungere altro, l'atleta si diresse a passo deciso verso il piccolo fiume attraversato dal ponte. Tutto ciò che desiderava era mettere i piedi nell'acqua e tirare il fiato, lontano da quel tempio polveroso.

Un brivido gli attraversò la schiena quando percorse la strada dove avevano combattuto: c'erano ancora i segni neri lasciati dalle saette di Ixion e dai colpi di quella donna che urlava straziata.

Scosse la testa e affrettò il passo, quando due uomini vestiti completamente di nero, provenienti dalla parte opposta, gli si avvicinarono. 

Jecht si ricordò degli insegnamenti di Auron e salutò i due individui con la riverenza, come era usanza su Spira. Tuttavia, quelli non risposero e, dopo averlo affiancato, senza dire una parola afferrarono Jecht per gli avambracci. 

«Ehi!» si lamentò lui, e il suo stomaco si affossò quando notò i paramenti sulle loro vesti. 

«Devi seguirci» gli intimò uno, stringendo la presa. L’atleta, che non aveva intenzione di ribellarsi, spostò lo sguardo verso l’alto. Quando il bagliore residuo del sole svanì dalle sue retine, si rese conto che lo stavano trascinando verso una grande carrozza, trainata da un chocobo. Era verniciata di nero e ricoperta da una patina opaca che faceva risaltare gli stucchi in oro.

«Che cosa è successo?» domandò Jecht. I due Inquisitori fecero per rispondere, ma furono interrotti da una voce che proveniva dall’interno del mezzo, oltre alle pesanti tende damascate che coprivano i finestrini. 

«Nulla. Voglio solo parlarti».

Jecht aggrottò le sopracciglia e, quando la morsa dei due uomini si allentò, incrociò le braccia. 

«Parlarmi, a me?» ribatté, infastidito dal dover dialogare con un fantasma. «Hai sbagliato persona: non ho niente da dirti». 

«Io sì» continuò Alan, in tono mellifluo. «Prego, entra».

Mentre la paura e la confusione combattevano nel suo animo, l’atleta scoccò un’ultima occhiata ai due che lo avevano prelevato e si issò sulla piattaforma della carrozza.

Non aveva idea di cosa potesse interessare a quell’uomo, ma sospettava che non fosse una buona idea disobbedire a un suo ordine.

Un intenso odore di fumo lo accolse non appena aprì lo sportello. Alan, immerso nella penombra artificiale, era seduto su un sedile imbottito in mezzo a una cortina che si stava diradando. La alimentò tirando una boccata dal sigaro e, quando fece cenno, un raggio di luce soffusa colpì il bicchiere che teneva in mano. Conteneva ancora un dito di un liquido ambrato che Jecht conosceva bene, anche se di una qualità a cui, immaginava, lui non si sarebbe mai accostato. 

«Chiudi la porta, per cortesia» gli disse l’Inquisitore, poi abbassò la voce. «È una conversazione privata». 

A quelle parole, d’istinto Jecht spostò gli occhi sul suo ospite, quasi certo di aver intravisto una lama brillare. L’unico bagliore che incontrò proveniva però dalla fila aguzza dei suoi denti, scoperti in un sorriso feroce. Uno era leggermente più lungo degli altri. 

Alan lo invitò a sedersi e si allungò con un gesto ostentato verso il posacenere di vetro al limitare del tavolino che aveva davanti. 

Non indossava le solite, ampie vesti sacerdotali, ma un completo nero stirato alla perfezione e – a giudicare dalle pince sui pantaloni e da come gli cadevano sui fianchi – realizzato su misura per lui.

C’erano tanti dettagli che stonavano in quella scena, e Jecht notò il principale quando provò a sollevare lo sguardo per incontrare quello dell’Inquisitore: non portava nessun copricapo e nessun velo. 

Lo aveva spesso immaginato rasato, o con i capelli molto corti come quelli del fratello, invece aveva un’ordinata acconciatura a trecce sottili che gli raggiungevano la base del capo. 

Quando arrivò agli occhi, non riuscì a sostenere il nervosismo e preferì guardare altrove.

«Ti piace indagare sulla storia della nostra isola, Jecht?» gli domandò Alan. 

Aveva accavallato le gambe, parte del corpo che lui molto di rado notava in un uomo, e la mano che teneva il sigaro era appoggiata su un ginocchio. 

Jecht sapeva bene che la retorica di vostronori come lui intendeva sempre porre due domande quando chi ascoltava ne sentiva una. 

«Non mi dispiace» ribatté, alternando lo sguardo tra le sue cosce e le sue dita. Sul dorso della mano, Alan aveva un livido ben distinguibile anche nella penombra, che ricordava in modo inquietante il morso di un essere umano.

«E tu hai trovato dei mostri lungo la strada, Inquisitore?» lo incalzò, con un coraggio folle di cui nemmeno lui conosceva la provenienza. Alzò gli occhi per incontrare il viso dall’espressione interrogativa di Alan e si limitò a indicarsi il dorso della mano con un mezzo sorriso. 

Lui esibì uno sguardo distratto, ma Jecht notò che scambiò la mano che teneva il sigaro con quella che teneva il bicchiere, in modo che il segno fosse meno visibile.

«Non fanno molta distinzione fra chi hanno davanti» rispose. Poi prese la bottiglia di vetro smerigliato che aveva di fronte e riempì un secondo bicchiere di liquore.

Jecht sentì le vene del collo pulsare e dovette stringere un pugno per controllarsi. Quando Alan gli porse il bicchiere, lui riuscì a rimanere immobile.

«Sono costretto a rifiutare» disse, con distacco. Appena finì la frase, la sua mente si affollò di formulazioni più cortesi che avrebbe potuto utilizzare, in modo che quell’uomo non lo prendesse come un affronto. «Non posso più bere, per… questioni di salute» precisò.

Alan accavallò di nuovo le gambe, spinse in fuori il labbro inferiore e scrollò le spalle, poi svuotò il bicchiere in un sorso. 

E tu, Inquisitore, sei sicuro di essere in salute? si ritrovò a pensare Jecht. Strizzò gli occhi per distinguere meglio, nella scarsa luce, il viso ossuto di Alan, incavato più di quello del fratello. 

Forse la Non-morte non fa bene allo stomaco. 

«Che cosa vuoi sapere?» gli chiese, sebbene il timore della risposta gli masticasse il cuore. 

«Sai» replicò Alan, osservando il bicchiere vuoto, «non ti avevo mai tenuto troppo in conto. Tuttavia, noi utilizzatori della Necropotenza siamo piuttosto… sensibili all’odore di esistenze che non sono la nostra».

«Parla più chiaramente» ribatté Jecht, che di odore sentiva solo quello pungente del tabacco. 

«Questa mattina, quando mi sei passato a fianco, ho notato che hai la sua traccia addosso» Alan alzò lo sguardo celeste e trafisse il suo interlocutore. «Il Coro degli Intercessori. Ti ha parlato?»

Jecht, che s’aspettava alcune domande, ma non quella, si trovò a far vagare gli occhi, nervoso, per tutta la carrozza. 

«Che cosa me ne viene se te lo dico?» domandò, in un impeto di spavalderia. 

Alan socchiuse le palpebre e gli rivolse una lenta risata, fredda e misurata. 

«Vuoi qualcosa in cambio?» lo canzonò. Jecht sobbalzò nel sentire la mano dell’Inquisitore che si posava sul suo avambraccio. Fu attraversato da brividi di terrore quando si rese conto che avrebbe potuto prendergli il viso tra le mani, come aveva fatto con Auron, e minacciarlo.

«Mio caro» continuò invece Alan, le dita ferme dove le aveva posate, «per me sarebbe molto semplice, dato che adesso ne ho la certezza, denunciarti per omosessualità e sbatterti in galera». Sorrise, forse provando una sorta di eccitazione nel vedere la paura sul volto di Jecht, e fece arrivare la mano fino alla base del suo collo prima di ritrarla. «E se le prove non dovessero bastare, posso ordinare di scavare fino all’osso nella tua vita, nel tuo passato, e sono sicuro che qualcosa troverò. Non è così?»

«Il Coro mi ha parlato» gli confessò Jecht, scottato dalle sue parole. «In sogno».

La mano sul mento che temeva arrivò, senza stringere: Alan lo costrinse quasi con delicatezza ad alzare la testa e l’atleta si trovò a un palmo da lui. Non riusciva, a causa del fumo, a respirare dal naso, ma tentare di prendere una boccata d’aria si sarebbe rivelata una scelta ancora peggiore.

«Oh, davvero?» mormorò l’Inquisitore, con voce profonda. «E che cosa ti ha detto?»

«Cantava un lamento per la città di Zanarkand» continuò l’altro. «Ho visto il loro re incatenare i sudditi a una rupe e costringerli a sognare».

Alan aggrottò le sopracciglia, in un’espressione che pareva sinceramente confusa, e socchiuse di nuovo gli occhi. Sembrava infastidito da un dettaglio che Jecht non riusciva a cogliere. 

«Sognare?» domandò.

«Così hanno detto».

«Sognare che cosa?»

«Non me lo hanno rivelato» mentì Jecht. Poi vide il Grande Inquisitore esitare, socchiudere le labbra per poi non emettere alcun suono, e infine lasciargli il viso.

«È tutto ciò che sai?»

«Sì».

Alan sembrò essere soddisfatto dall’interrogatorio e annuì, sovrappensiero. 

«Puoi andare» sentenziò, poi si interruppe. «Anzi, ti riporto io da mio fratello».

Così, Jecht scese dalla carrozza assieme all’Inquisitore. Provava un fastidio profondo, che si acuì quando guardò Alan, dall’alto al basso, e considerò che – nonostante la differenza di statura – nemmeno con la forza avrebbe mai potuto avere ragione di lui. Come se avesse sentito quel pensiero, Alan si voltò e gli rivolse un macabro sorriso.

«Ti ho riportato il Guardiano» esordì poi, quando furono in vista di Braska.

«Jecht…» lo chiamò Braska, interdetto. 

«Abbiamo solo parlato» lo interruppe il fratello, con un sorriso che doveva sembrare rassicurante, poi allungò una mano verso di lui in un gesto d’invito. «Ora posso chiedere qualche minuto del tuo tempo, Invocatore?»

Jecht, nervoso, si diresse verso Auron, che guardava la scena senza intervenire. Ogni secondo era un passo verso l’inevitabile. Alan glielo avrebbe detto, quindi perché non sganciare la bomba?

Mi ha chiesto di parlargli del Coro di Zanarkand, si immaginò di gridare, lo sta cercando. Mi ha minacciato.

Ma da un lato Auron era all’oscuro dei suoi sogni – e tale sarebbe dovuto rimanere – dall’altro lui stesso era soverchiato dal timore. 

«Sì» rispose Braska, lanciando una rapida occhiata a Jecht.

«Ti prego di seguirmi» continuò Alan, poi alzò gli occhi verso i suoi due Guardiani. «Da solo».

Obbediente come un servo che non vuole essere percosso, l’Invocatore giunse le mani in grembo e camminò verso il fratello. La sua testa china sembrava promettergli che lo avrebbe seguito ovunque.

Alan lo condusse fuori dai confini del piccolo villaggio, dove in un mare biondo di grano ondeggiava al vento. Non c’era nessuno attorno a loro, neanche un contadino che dissodava i campi; nel silenzio solo stormi neri si allontanavano verso il sole.

Braska strinse con una mano le dita dell’altra, affondò un poco le unghie sul dorso mentre il suo sguardo vagava tra i fiordalisi. 

«In questi mesi tu hai camminato» cominciò il fratello, anch’egli con gli occhi azzurri persi nella distesa di spighe. «Io ho scoperto alcune cose. Cose terribili di cui ormai sono quasi sicuro».

L’Invocatore non aveva mai avuto paura di Alan, nemmeno nel giorno ormai lontano in cui avrebbe dovuto condannarlo a morte. Sentiva che avrebbe sempre potuto contare sul suo amore, sulla sua pietà. 

Ma quel campo, dove s’innalzavano le grida dei corvi, era isolato e strano. 

Il Grande Inquisitore cominciò a passeggiare con lentezza misurata e a sfiorare con le dita le cime delle spighe.

«Che cosa hai scoperto?» chiese Braska a mezza voce.

«Ci sono dei Non Trapassati tra le fila di Yevon» sentenziò Alan, senza ulteriori preamboli. Sotto la sua mano c’era una spiga che, per altezza, spiccava sulle altre. «Morti impenitenti, convinti che io non riesca a individuarli».

Lo stelo della spiga si ruppe, e la sommità cominciò a ciondolare come il capo di un condannato a morte a cui l’ascia non avesse reciso l’ultimo nervo. 

«Sto per avere le carte di un processo interessante che riguarda un umile prete, ma ho il sospetto che il clero sia molto più corrotto e che la piaga abbia raggiunto i vertici». 

Mentre parlava, continuava a spezzare le spighe di grano più alte, in modo da portarle tutte allo stesso livello. 

«Credevo fosse giusto mettertene al corrente, amato fratello».

Alan strinse un’ultima volta il pugno e dei chicchi gli scivolarono giù dai guanti, poi rimirò in silenzio il suo operato.

Braska capì.

«Ti ringrazio» gli disse. «Starò all’erta».

 

 

Ci devo pensare, aveva detto.

Era davvero così, o era un modo per allontanarsi per qualche momento da Jecht, se non nello spazio almeno nella mente?

Perché, del resto, avrebbe dovuto pensare, quando i dettami del dio erano così chiari?

C’era una parola che sembrava mancare dalle azioni di Alan, di cui erano vuoti i suoi discorsi, ed era virtù

Virtù, la maestà dell’uomo.

Auron fece riposare lo sguardo sul viso di Jecht, che attendeva seduto a fianco a lui fuori dal tempio, spostò il ginocchio che gli pareva troppo vicino al suo.

Ricordò quando aveva assaltato lo Shoopuf convinto, nella mente annebbiata e nel cuore forse puro, che fosse la cosa giusta. Si rese conto che li accomunava la stessa cecità. 

Braska, che camminava nell’amore, sapeva che tutto aveva un fine più grande; gli occhi di Alan oltre il velo vedevano la legge ultima di Yevon. 

Jecht invece avanzava nel dolore e nella morte, destinato a non sapere, e per quale motivo questo non lo turbasse era ignoto ad Auron. Ogni cosa aveva senso su Spira, ogni vita trapassata attraversava la terra dei mortali per adempiere al disegno del dio.

«Siamo ciechi, io e te» disse ad alta voce, senza nemmeno voltarsi verso il compagno. Non voleva vedere il timore che l’incontro con l’Inquisitore aveva lasciato nel fondo dei suoi occhi. Non voleva nemmeno chiedere – ché la curiosità è peccato – cosa si fossero detti, dentro a quella carrozza, di tanto importante. 

«Ciechi?»

Dei piccoli animali, simili a roditori, annusavano con fare frenetico le sterpaglie davanti a loro. Qualcuno si avvicinò alla loro panca, cautamente, e Auron ricordò di quando i passeri becchettavano ai piedi di Braska, nella luce dolorosa del sole di Bevelle. 

Allora non conosceva la voce roca di Jecht, la sua mente non si soffermava, sperando di passare inosservata, sul suo corpo forte. Lo aveva immaginato, nei momenti in cui prendeva le sue decisioni avventate, senza capo sopra le spalle. Oppure quasi deforme, curvo su bottiglie che cercava di proteggere. Altre volte, invece, se l’era figurato nudo, con la sublime sofferenza di un martire inchiodata tra le sopracciglia.

Aveva ripensato a Wen Kinoc, al ticchettio del pendolo e a quella vecchia preghiera. La fiamma del tuo Amore, Yunalesca, arde sul mare. O eccellente figlia, s’innalzi anche la mia. Anche la mia, nel nome del dio.

«Sì».

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Capitolo 31
*** ℷ. Carte del processo a Davon di Janne, sacerdote (Parte 2) ***


ℷ. Carte del processo a Davon di Janne, sacerdote (Parte 2)

 

 

Mese IV, 1026

27 giorni dal solstizio d’estate

 

 

«Sì» disse il più giovane dei Guardiani di mio fratello quando gli passai a fianco. Guardai il suo viso, i suoi occhi rivolti altrove, e mi fu subito evidente che non intendeva rivolgere la parola a me, bensì era impegnato in una conversazione con l’altro. 

Jecht, nel vedermi, riuscì a dissimulare la paura nell’espressione del volto, tuttavia si tradì facendosi più vicino al compagno, in maniera che mi parve del tutto involontaria. 

«Auron» chiamai, passando le dita sulla cartella di documenti che tenevo in mano. Lui, che era seduto su una delle panche fuori dal tempio, alzò lo sguardo e sostenne il mio, nonostante mi paresse vagare in altri pensieri. 

«Se ne vada» tentò di minacciarmi. Forse l’amico gli aveva riferito la nostra conversazione e la sua coscienza non era pulita.

«Braska sta arrivando» lo informai, sorridendo. «Vuoi approfittare della sua assenza per prenderti la tua rivincita?»

«Il mio giuramento da Guardiano mi impedisce di attaccare all’interno di un recinto sacro».

Alzai le sopracciglia e gli rivolsi un secondo sorriso. 

«Sei piuttosto devoto» replicai, poi spostai lo sguardo su Jecht. «Ma il confine tra devozione e ottusità a volte è davvero sottile. Potrei cercare di ucciderlo».

Auron impugnò saldamente la spada con la destra e la portò davanti alle proprie gambe, in modo da fare da scudo a Jecht.

«Mi impedisce di attaccare» ripeté.

La risposta mi piacque. Pensai che la Necropotenza, con lui, sarebbe stata in buone mani. Così, mi congedai con un cenno del capo, rivolsi un’ultima occhiata a mio fratello ed entrai nel tempio. 

Qualcuno, forse l’Intercessore, cantava scandendo ogni sillaba, come se volesse far comprendere a dei profani la sua lingua antica. 

Quando fui solo, con la coda dell’occhio fuggii l’ostacolo del velo e controllai alle mie spalle. Erano lì, i ventuno spiriti del Coro, sempre con il viso pitturato di bianco; sempre immobili nelle loro fila, le labbra socchiuse come per iniziare a cantare lo stasimo della loro incomprensibile tragedia. Ma stavano in silenzio.

«Continui a non parlarmi?» domandai a mezza voce. Avevo già avuto la compassione della gente, un tempo, quando il trauma mi faceva parlare con persone che non c’erano; non avevo intenzione di ripetere l’esperienza anche con quelle che gli altri non potevano vedere. 

CORO             (Tace)

«È perché non ho intenzione di risponderti cantando in rima» domandai «o sai trovarmi una motivazione migliore?»

CORO             (Tace)

Sospirai, e annullai la sua presenza chiudendo gli occhi e tirando il velo fino al mento. Quando riaprii le palpebre, davanti a me c’erano solo i corridoi intricati del tempio di Djose e Kelk Ronso che mi attendeva accanto a una statua di Zaon. 

«Ha bisogno di qualcosa?» mi chiese lui, forse poiché mi aveva sentito parlare o mi aveva visto guardarmi attorno.

Scossi la testa.

«Stavo solo pensando».

Ero diventato abile a nascondere le vie della mia mente agli occhi altrui. Kelk non insistette oltre, ma avvertii il bisogno di rimandare gli impegni che richiedevano la mia attenzione. 

Mi congedai  dal mio sottoposto, invitandolo a incontrarci di nuovo dopo qualche ora e, così come ero arrivato, me ne andai in silenzio verso la cella che i monaci di Djose – pur odiandomi – mi avevano offerto.

La piccola sedia in legno scricchiolò quando mi sedetti di peso, abbandonandomi al malessere del corpo che non tollerava lo stomaco lasciato vuoto da giorni. 

Se le mie membra avessero provato lo sdegno che sentivo io nel dover soddisfare i miei bisogni in un posto come Djose, non avrebbero osato proferir suono alcuno.

Correva il ventisettesimo giorno dal solstizio estivo. Ricordai quando avevo posto la ventisettesima tacca sulla canna del fucile, ormai disilluso dalla Vecchia Menzogna e da ciò che aveva sempre rappresentato per Spira.

Avevamo ammassato fuori dalla trincea quelli di noi che erano morti di colera. Il freddo aveva cristallizzato le loro carni, rendendole inappetibili anche per i mostri del Gagazet. A volte il mio sguardo si soffermava sui loro cadaveri e cercava di distinguere i loro lineamenti; mi rallegravo quando mi dimenticavo di loro. 

Theo mi chiamò, riverso nel giaciglio che aveva ricavato dai suoi vestiti e dal suo telo. La stoffa era striata dal suo vomito misto a sangue, che aveva intriso anche la neve sotto di lui. 

Mi parlò di come i guerrieri Ronso, immersi nel fiume fino alle cosce, pescavano con le lance e con gli arpioni; e l’acqua dei fiumi sotto la superficie era liquida anche quando era tutto ghiacciato, sempre quattro gradi, l’acqua è sempre a quattro gradi. Alan, tu sei capace di colpire un nemico lontano alla testa, disse, un tale tiratore ci ha fornito la grazia di Yevon. Tu puoi sparare ai pesci quando verranno a galla. Verranno a galla, sì, lascia che io rompa il ghiaccio rompere il ghiaccio è l’ultima cosa che voglio fare l’ultima prima che il colera mi prosciughi.

Quel giorno, quindi, la mia urgenza sarebbe stata trovare del pesce fresco, dato che era ciò che avevo deciso di mangiare. Una creatura disgustosa dal sapore rancido, con la pelle viscida e fredda come quella di Theo, quella che avevo toccato quando lo avevo aiutato a rialzarsi e a liberarsi dai panni sporchi di urina. 

Immaginai esistesse un trasporto mercantile che commerciasse del pesce nelle polverose città del promontorio, ma l'aver indetto un'esecuzione pubblica non faceva di me un cliente ben accolto.

Se anche avessi mandato qualcuno, le probabilità che rifiutassero la transazione con un membro dell'Inquisizione erano alte, oltre a rischiare che adulterassero il cibo di proposito. 

Intrecciai le dita innervosito, sbuffando aria dal naso come a voler liberare il mio corpo dalla necessità di mangiare. Non c'era modo di soddisfare i miei bisogni, e ogni attimo passato a rifletterci era tempo inutile. 

Avevo ormai dato le istruzioni a Kelk: non potevo violare i miei stessi ordini, o la mia credibilità ne avrebbe risentito. Riposai sul letto il tempo necessario per calmare gli intensi bruciori allo stomaco che sovente mi accompagnavano: era impresa mai facile, ma ero diventato molto esperto.

La mia attenzione era ancora alterata, tuttavia non potevo fare altrimenti. Come ordinato, il mio sottoposto attendeva vicino alla stessa statua di poche ore prima.

«Signore» mi richiamò. Alzai lo sguardo su di lui e incontrai le sue pupille feline, strette e verticali, quasi coperte dalle foltissime sopracciglia.

Sperai che la razza dei Ronso non avesse un’anima sensibile alle fluttuazioni della ragione umana, che le sue orecchie mobili non potessero sentire ciò che non dicevo. 

«Mentre era assente» continuò invece, «i sacerdoti di questo tempio mi hanno mostrato qualcosa che potrebbe interessarle. È nelle Camere della Fede».

«Fammi strada» gli concessi, annuendo. Strinsi i denti e deglutii per cercare di liberarmi dallo spiacevole sapore che aveva la mia saliva, poi unii le mani in grembo in un modo che mi ricordava mio fratello.

Il tempio di Djose, con il quale le casse del Grande Maestro Mika erano state molto più generose che con quello di Janne, era nelle sue stanze più interne decorato da motivi che ricordavano l’elettricità, e da luci azzurre intrappolate in tubi trasparenti.

Raggiungemmo una piccola cappella, dove un fedele era chino a salmodiare una preghiera su quella che mi pareva una teca. Il suo cranio calvo e irregolare rifletteva in modo bizzarro le luci fredde della stanza.

«Non sapevo che aveste una reliquia qui» esordii. L’uomo sollevò il capo per rivolgere un cenno a Kelk e un altro, più profondo, a me. 

«Grande è il suo nome, Inquisitore» mi disse. «Anche per chi umilmente, come me, prova a percorrere la via di Ur. Guardi nella teca».

Feci come m’era stato detto e, coperto da un vetro limpido e adagiato su un cuscino scarlatto, vidi un lungo velo nero, più volte ripiegato su se stesso.

«Lo conosce?» mi chiese la voce di Kelk.

Io non riuscii a trattenere un sorriso quasi ammirato.

«Il velo di Adriàn» commentai. «L’ultima volta che ne ebbi notizia, lo custodivano i Guado… piuttosto gelosamente, a quanto mi sovviene».

«Ne hanno fatto dono al nostro tempio per essere accettati dalla Chiesa di Yevon» m’informò l’uomo. 

Con la coda dell’occhio, vidi un luniolo fuggire dalla gabbia del mio turibolo per volare verso la teca. Con certezza potevo affermare che si trattava del velo che il Duca Adriàn si era strappato dal volto. Il più venerato degli sciamani. L’eroe il cui ricordo era di molto antecedente a quello di Zanarkand, e si perdeva in miti d’isole remote, pervase da una magia molto più selvaggia della nostra.

Mi tolsi un guanto e avvicinai un dito al vetro: sentii una resistenza, come se l’oggetto stesso emanasse forza.

«Prega» dissi al fedele, che era tornato in ginocchio. Per un attimo mi compiacque il pensiero che stesse idolatrando me invece di quell’oggetto. «E quando la Necropotenza ti concederà il suo favore, copriti il viso. Ma medita anche sulla vicenda di Adriàn: a volte quello che fortifica il corpo può distruggere la mente».

E dietro a tutto, dietro al velo, c’era il Coro.

 

 

«Ci sono delle carte da firmare» mi informò Kelk Ronso quando raggiungemmo la stanza in cui avevano finalmente recato i faldoni del processo a Davon. Avevo dovuto attendere una mattinata in più poiché, per un motivo che non avevo ben compreso, dovevano venire spostati da Janne a Djose dove, coi documenti che avevo io, avrei potuto consultarli, senza peraltro uscire dai confini del tempio. 

Per un attimo mi balenò in mente l’idea di far comparire il giavellotto e puntarlo alla gola di Kelk. 

«Quali carte?» domandai, cercando di trattenermi. 

«Affari da poco» mi informò il Ronso con artefatta tranquillità. «Si tratta di concessioni di terreni acquistati da membri della Chiesa che devono essere approvati da lei».

Gli feci cenno di posarli sul tavolo, accanto ai faldoni che occhieggiavano con impazienza, e li firmai dopo una rapida scorsa. Trovai curioso che Kelk avesse comprato parte di un terreno montuoso, poco distante dalla piana della bonaccia. Se ben ricordavo, un tempo ospitava una miniera di rame.

Avrei potuto chiederne il motivo, se ne avessi avuto l’opportunità, e gli avrei anche chiesto se mi si vedessero gli occhi. 

Già immaginando il tedio che mi avrebbe provocato la lettura delle carte – e il linguaggio utilizzato, dal momento che erano state stilate da Michent – ritenni opportuno accendere un sigaro.

Vidi il fumo comporre archi e volte, la cattedra dell’Inquisitore, il reo e l’uomo che lo difendeva. I loro profili erano disegnati dalle volute bianche, i loro vestiti immagine impalpabile. 

Rimirando l’immagine ancora immobile, udii la voce monocorde di Michent. 

Ai Maestri di Yevon Jyscal Guado e Vigot Ronso io dico: salute perpetua! Forse che non omaggerete, nella Vostra immensa benevolenza, il mio corriere con fuoco e acqua per i molti cubiti che ha affrontato, latore di questa lettera?

Ecco: le mie parole sono veritiere ed io le scrivo mentre Yevon guida la mia mano, nella sua immensa sapienza perché nulla che sia viziato o non veritiero possa offendere i Vostri occhi.

L'anno milleventuno, a trenta giorni dall'equinozio d'autunno, presso questa Pieve, tenevasi giudizio a carico del prelato Davon e io personalmente lo condussi e lo portai a termine. Sette volte sette mi inchino alla Maestà di coloro che mi hanno qui inviato a ripristinare la violata giustizia. Se il mio padrone dice «Va'», io vado, se dice «giudica rettamente!», ecco: è cosa già fatta. Possano mille benedizioni di Yevon colmare di gioia e prosperità i reggitori a cui invio, tramite il mio corriere, il resoconto di questo processo, accompagnando la mia missiva con molti doni adeguati.

Sospirai, già infastidito dal tono servizievole che quell’uomo utilizzava, nello scritto in modo ancor più evidente che nel parlato. 

Le figure di fumo, al gesto della mia mano che scosse il sigaro, cominciarono ad animarsi nell’aria, impegnate in una discussione silente ma concitata. Michent teneva le spalle rigide mentre osservava l’imputato; il simbolo di Yevon dietro di lui faceva pensare che posasse per un ritratto.

Ordinavo che Davon mi fosse tradotto in catene, perché pubblicamente e agli occhi di tutti fosse evidente che s’istruiva un serio giudizio. Bandivo per le vie che quanti potessero partecipassero e che idonei testimoni fossero prodotti poco innanzi. L'imputato mi veniva portato nelle vesti del prigioniero e subitamente questi invocava la clemenza della Corte istruenda. Mi facevo portare lo scranno e i paramenti: ecco, miei Signori, ero così pronto ad amministrare rettamente la giustizia e a rendere omaggio al Culto.

Dicevo così al malvagio: "Non ti sei forse tu arricchito illecitamente, appropriandoti del denaro dei tuoi superiori?"

A quelle parole non riuscii a trattenere un sorriso: aveva una maniera piuttosto pomposa per parlare di qualcuno che aveva rubato quattro monete al tempio; a tanto, quindi, costringeva l’essere relegati in un villaggio ai limiti di ciò che Yevon ignorava.

Intrecciai le dita e vi appoggiai il mento, ben attento a non perdere il momento saliente della conversazione. La voce di Michent ormai mi intratteneva come un canto di nobili gesta.

Egli, in primo luogo, negava. Ordinavo dunque che fosse letto, per intero, il libello che Voi stessi avete veduto, nel quale si portavano a mia conoscenza i numerosi episodi di ruberie e di concussione che il reo aveva posti in essere. Allorché richiesto, mi rifiutavo di renderne noto l'autore. Sempre più la certezza di quelle accuse rendeva tetro il viso del delinquente.

La mia magnanimità non voleva però che la fase istruttoria si concludesse prima di aver udito idonea difesa. Eleggevo dunque Orac perché parlasse a difesa del ribaldo.

Menava seco due uomini che dicevano «Ben possiamo dimostrare che Davon è innocente di quanto accusato».

Giudicavo allora opportuno che questi parlassero.

Diceva il primo che non era vero che Davon aveva adoperato il denaro della Curia per curare i suoi interessi, ma che l'avesse opportunamente e sicuramente investito, perché le opere buone potessero essere accresciute e benedette dalla grazia del profitto. Ordinavo allora che questi fosse sottoposto al fuoco, per suggellare la veridicità della testimonianza. Rifiutandosi questi, dichiaravo le sue parole mendaci e inutilizzabili.

Diceva il secondo che bene aveva parlato il primo.

Interruppi la lettura e l’immagine si congelò davanti a me. Tutti i volti dipinti nel fumo si sfuocarono, fuorché quello di Davon a cui era rivolta la mia concentrazione. Nulla lo distingueva dal pretucolo che avevo visto al processo di Djose. 

La Non morte non lasciava nessun segno visibile sul corpo. E lui, che era un uomo di cui la Terra – fuori dalla sua città natale – non aveva mai sentito parlare, ben poteva costruirsi una nuova identità, rifiutando il rito del Trapasso. 

«Mantenuto su questo mondo dalla brama di denaro» conclusi. Feci per agitare la mano e dissolvere il fumo, e con esso la memoria di quel processo; tuttavia, mi fermai all’ultimo istante, considerando che le righe seguenti avrebbero forse potuto essermi utili nel pensare a come procedere.

Ora, miei Padroni, la mia conoscenza della Legge non può minimamente aspirare alla vostra divina sapienza, ma mi pareva di ricordare che, negli Scritti Millenari, il giureconsulto Anticretico il Vecchio avesse detto: "Non negherai valore al fatto affermato da taluno, sol perché uguale a testimonianza da altri riferita e successivamente reputata mendace od infondata".

Ecco che, benignamente, mi disponevo ad ascoltare di buon cuore le parole di questo secondo uomo. Tuttavia, il mio vicario mi rendeva noto che questi presentava un neo di forma anomala sotto il naso. Tale maleficio denunciava, e lo credo davvero, una malvagità insita, come se lo stesso Cielo avesse attribuito uno stigma perpetuo alla favella di quel miserabile individuo. In considerazione di questo verdetto naturale, escludevo l'utilizzabilità di questa testimonianza.

Passai il pollice sul piccolo neo che avevo sul mento. 

Chiudevo allora la fase istruttoria, aprendo senza indulgenza la fase del dibattimento. Poiché non era assistito da nessun dottore della legge e l'uomo previamente da me eletto si era nel frattempo reso irreperibile, ho provveduto a formulare la mia requisitoria in modo limpido e cristallino, avendo la giusta pietà del reo inerme. Appellandomi ai poteri che mi avete conferito, ho così affermato: e cioè che ben lui fosse autore dei fatti contestati nel libello. Lasciavo che si discolpasse verbalmente e di fronte al popolo ivi radunato, come vuole la Legge, e disposi che le sue dichiarazioni fossero messe per iscritto.

Ecco, allora, che pronunciai la mia sentenza. Davon doveva essere scomunicato.

Tutto questo stabilivo, condannandolo altresì a rifondere per intero tutto l'ammontare dell'ingiusto profitto, da liquidarsi in altra sede ad opera del Vicario contabile.

Fermai gli occhi dallo scorrere ulteriormente le righe. 

Se era stata pronunciata una scomunica, pensai, di certo ne era stata lasciata traccia negli archivi dell’Inquisizione di Bevelle, ai quali potevo accedere in ogni momento e senza compilare moduli di sorta. 

Avrei potuto impugnarla con facilità e usarla come capo d’accusa: Davon mi pareva un amante della vita mondana, sarebbe stato senz’altro presente al torneo di blitzball di Luka. 

Avrei potuto portarlo in tribunale e invitare mio fratello a danzare il Rito del Trapasso per me. 

Con grande mia gioia il suo bel passo, le sue braccia protese verso il cielo, la curva della sua schiena, l’onda armonica del suo scettro avrebbero dissolto le menzogne di quel non vivo. Le sue e, ne ero certo, quelle di metà della Chiesa. 

Avrebbero anche dissipato la mia rabbia, i lunioli che sarebbero saliti al cielo?

Se il mio signore, il Grande Inquisitore, ritiene che bene io abbia amministrato la Sua giustizia e che mi sia attenuto alla Legge, ecco, io gli dico: molti altri compiti il suo servitore è pronto a portare a termine per Lui. La sua magnificenza non ha confini, la sua grandezza brilla come le stelle del cielo. Vittoria nelle gare e alloro nelle diatribe auguro al suo genio!

Affermo che tutto ciò è veritiero e ben scritto e accompagnato da opportuni doni. 

Si divertiva, il giudice, a pronunciare quella sua sentenza.

Nella mia visione ormai immota, era ancora seduto sul suo scranno, appollaiato come un falco che osservasse la preda appena catturata; solo una cosa lo distingueva da un animale.

Guardava Davon dibattersi, cercare con gli ultimi aliti di vita una fuga, dopo aver perso la scommessa della vita. 

Ma nel farlo, Michent sorrideva, e la crudeltà è prerogativa dell’uomo.

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Capitolo 32
*** Qualcosa che non vogliamo vedere ***


CAPITOLO 22: QUALCOSA CHE NON VOGLIAMO VEDERE

 

 

Auron si svegliò nel cuore della notte con la bocca riarsa e un formicolio che gli percorreva il braccio sinistro, come se vi avesse dormito sopra. Fissò per qualche istante il soffitto sopra di sé, nel buio, poi si risolse ad accendere il lume sul comodino e appoggiare i piedi sul pavimento freddo. 

Con tutta probabilità, pensò, se avesse trovato la forza di aprire gli scuri, la luce del mattino avrebbe inondato la stanza. Ma non ne aveva la voglia, né il tempo, dato che lo aspettavano di sotto. 

Ai piedi della scala che portava dalla sua camera alla sala da pranzo, la tavola era già imbandita: sentiva il tintinnio delle posate sui piatti e immaginò i commensali che alzavano la testa quando mosse i primi passi sul legno scricchiolante dei gradini.

Jecht, seduto a uno dei quattro lati del tavolo, era impegnato in una discussione con i suoi genitori. La madre, i capelli biondi stretti in uno chignon austero, con gesti nervosi tagliava della carne nel piatto mentre parlava:

«... la stagione più buona. Quelle rosse le ho fatte arrampicare sul ferro del cancello».

Il padre di Jecht sbuffò fumo dalla pipa e sbirciò l’arrosto nel vassoio, poi le fette nel suo piatto, quasi volesse accertarsi che fossero la stessa cosa.

«Caffè e succo di sedano, caffè e succo di sedano: sono i fertilizzanti migliori per le rose, altroché quegli intrugli che vendono nei negozi. Mamma me lo diceva sempre. Povera donna».

«Povera donna» le fecero eco il marito e il figlio in tono liturgico, solenne.

Auron tentò di prendere posto nel modo più silenzioso possibile, nel tentativo di non interrompere il discorso che tutti stavano seguendo con tanto trasporto, ma la sedia strusciò rumorosamente contro il pavimento. 

Solo Jecht sollevò lo sguardo, poi lo riportò sulla madre.

«Sapete del cespuglio di frassino di Rosemary, quella della casa all’angolo?»

Il marito la incitò a gran voce a continuare; Jecht invece batté un palmo sul tavolo, ma non disse nulla.

«È cresciuto in silenzio, e ha preso fuoco solo due volte: una a inizio primavera, l’altra dopo il solstizio d’estate. Nonostante tutti dicessero che non sarebbero cresciute, ha fatto le spine, e anche tante. L’altroieri, Rosemary mi ha chiamato per fare la raccolta, ma temo ci servirà un altro tino – lo abbiamo, caro, un altro tino? – altrimenti non riusciremo a portarle in casa prima dell’inverno».

«Lo abbiamo, un altro tino?» ripeterono in coro Jecht e suo padre.

Dopo un istante di silenzio, i tre si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere: Jecht e il padre in modo sguaiato, la madre coprendosi la bocca con la mano destra. Poi tossicchiò, tentando di ricomporsi.

«Per le petunie ho usato le cesoie».

Auron, non comprendendo quell’affermazione, non intervenne. Si limitò ad avvicinarsi al vassoio e a tagliare cinque fette di arrosto. Le prime due, magre e sottili, si staccarono con facilità. Con le seguenti, però, notò che la carne si faceva più dura, fibrosa.

Alzò gli occhi verso Jecht, terrorizzato.

«Hai provato a piantarle all’inizio dell’autunno?» domandò lui alla madre, ignorandolo.

Lei annuì e spostò le gambe di lato: i tacchi sbatterono l’uno contro l’altro sotto l’ampio vestito nero. Poi prese con entrambe le mani una fetta d’arrosto e vi si avventò in modo ferale, strappando la carne con i denti. 

Auron sentì l’impulso di fuggire, ma le sue gambe erano pesanti e lo tenevano ancorato alla sedia. Tentò in tutti i modi di non guardare nel piatto, eppure il suo sguardo veniva calamitato lì.

«Le cesoie» disse la famiglia in coro.

Lo stomaco di Auron si strinse in una morsa dolorosa e acida.

Si svegliò di scatto, con il respiro affannato e il battito del cuore accelerato. Appoggiò una mano sul cuscino e fu sollevato dall’avere sotto le dita i propri capelli: una sensazione reale, che gli faceva sperare di non essersi di nuovo svegliato in un incubo dentro un altro incubo.

Yevon grandissimo, proteggi la mia notte; guidami per le strade dei giusti, coloro che non sono in errore.

In quelle sere, nemmeno pregare sortiva più effetto.

Ho peccato e sono caduto dalla Tua grazia, dio di Zanarkand, ho voluto nel corpo mortale avvicinarmi a Te.

Auron si tirò a sedere a gambe incrociate sul letto, fece gemere le vecchie molle del materasso e ricadere i capelli sulla schiena nuda. L’aria immobile della notte di Djose gli portava alle narici odore d’incensi bruciati da tempo. 

Nemmeno meditare sortiva più effetto, in quelle sere. Riusciva a regolarizzare il respiro, ma il lento contare non lo calmava più, né la parola ripetuta nel profondo della sua mente.

Il monaco si alzò e si diresse verso le finestre, scostò gli scuri e vide la falce di luna a est, ancora all’inizio del suo arco. La notte era appena cominciata, eppure sapeva che non sarebbe riuscito a dormire, almeno non a breve. 

Prese il cappotto e lo infilò, tralasciando di indossare l’armatura, allacciò senza troppa cura la cintura da cui pendeva la sua fiasca di liquore. 

Le cesoie, pensò mentre frugava nella bisaccia.

Invece del pacchetto di sigarette che cercava, le sue dita incontrarono un oggetto che non riconobbe dalla forma. Lo portò alla luce della luna e si rese conto che si trattava del sigaro che Braska gli aveva regalato qualche mese prima. 

«Io non posso fumare, ma sono sicuro che è molto buono». Aveva detto così, o qualcosa di simile. Auron non era mai stato bravo a ricordare le parole degli altri: per quanto si sforzasse, c’era sempre nel loro significato qualcosa che gli sfuggiva.

Si è notato, forse quella volta o un’altra ancora, forse lui o Jecht lo hanno notato.

Fu facile per Auron eludere la scarsa sorveglianza dei monaci di Djose: trovò un posto isolato, un’altura da cui si vedeva il mare, e si sedette sull’erba tra i richiami dei grilli e dei gufi.

A Jecht sarebbe piaciuto quel luogo. Romantico, l’avrebbe definito. Lui invece era solo intento a tagliare il sigaro con il suo coltello, respirando a pieni polmoni e immaginando già il fumo tra le narici.

Gli avvenimenti di quell’ultimo periodo gli tornavano alla mente in un ordine che gli pareva sparso: i luoghi che aveva visto, i canti che aveva sentito. I lunioli che salivano al cielo dal Fluvilunio. La Necropotenza con cui avrebbe potuto attirarli a sé.

Chissà se è vero, considerò, fissando la brace del sigaro che ardeva. Dicono che il Giudice Alan non possa avere figli.

Prese dalla sua fiasca un sorso di liquore, che ben si abbinava con il sapore del tabacco. 

Pensò ai suoi due compagni. Avrebbe avuto il coraggio di vedere la fine, quando sarebbero arrivati a Zanarkand?

È di Braska che mi preoccupo, si disse, deglutendo un altro sorso e spingendo lo sguardo verso l’acqua, fino al riflesso della luna tra le onde nere. Di Jecht non m’importa. 

Come soggiogato dal moto regolare delle increspature, Auron iniziò a contemplare con fare insistente un punto qualsiasi nella distesa salmastra, pur non trovandoci niente di interessante.

Il mare gli ricordava Jecht per logica associazione, ma non era solo il blitzball che lo legava a quell'elemento: il compagno provava un sincero amore per l’oceano, quasi volesse un giorno immergersi e non tornare più sulla terraferma. 

Bevve un altro sorso di liquore, più prolungato di quello precedente, e immaginò la sua schiena dritta emergere tra le onde, mentre lui fendeva l'acqua a grandi bracciate. Auron si portò una mano al viso e scosse la testa, come a voler mandare via la confusione che l'alcol stava causando.

Come ha fatto a non prendersi mai un raffreddore, quando ha solo la pelle a scaldarlo? pensò avvertendo il calore del liquore nel petto. Che indecenza verso il pudore, verso Yevon stesso! Indurre chi lo osserva a pensare certe cose!

Tirò una boccata di fumo dal sigaro e lasciò che fluisse via dalla sua gola con delicatezza. Nella coltre bianca che si era formata, la sua mente tornò nuovamente sul costato ferito di Jecht: poteva contarne le fasce muscolari a occhio.

Quel disgraziato si farà ammazzare se non si decide a indossare un'armatura. Vuole combattere i mostri flettendo gli addominali?

Il mondo sembrò vorticare per qualche istante, costringendolo a posare una mano a terra e reggersi il busto. Decise che ne aveva avuto abbastanza delle volgarità di Jecht, e che il giorno dopo gli avrebbe comprato qualcosa da indossare pagando di tasca sua. 

I morti devono avere un aspetto decoroso, pensò fissando la fiasca, la testa che si faceva sempre più pesante. Morirà, o tornerà a Bevelle. Deve presentarsi bene, che venga Trapassato o meno.

Si piegò col busto in avanti, tormentato dallo stomaco in fiamme: sperò intensamente di non dover assistere alla sua dipartita, l'ennesima.

Se anche la confusione gli rendeva difficoltoso ragionare, la sua coscienza era ancora disturbata dai pensieri, cupi e pesanti, che non volevano lasciarlo libero. Decise che ne aveva avuto abbastanza anche di quelli: voleva cancellare tutto solo per qualche ora.

Si impose l'obiettivo di superare la metà della fiasca, sorso dopo sorso, mentre la luna orbitava nel cielo con costanza. Quando ci riuscì, a malapena aveva percezione del suo corpo, e aveva ancora voglia di bere.

«Ragazzo?»

Jecht fu sorpreso dal vedere Auron sveglio a quell’ora, seduto senza un motivo a guardare il mare. Lo fu ancora di più quando vide la sua posa scomposta, con la testa che ciondolava, e ancora quando nel sentire la sua voce non si voltò per aggredirlo a parole. Quell’ultimo dettaglio lo preoccupò non poco. 

Era ancora sveglio quando aveva sentito la porta della cella di Auron aprirsi e i passi pesanti del monaco allontanarsi. Il sonno lo aveva abbandonato del tutto quando, passato diverso tempo, non era rientrato, spingendo l'atleta a cercarlo.

«Ehi» ripeté, percorrendo il più in fretta possibile la distanza che li separava, «è successo qualcosa?»

In principio, Auron non alzò la testa. Jecht era l’ultima persona con cui avrebbe voluto parlare. Sarebbe stato addirittura meglio farsi trovare da Braska, in quelle condizioni, e affrontare il disonore. Poi, sentendosi perforare dal suo sguardo insistente, alzò gli occhi verso di lui e deglutì nel tentativo di calmare il bruciore del suo stomaco. Quello, in risposta, gorgogliò con rabbia.

«Vai via» disse Auron.

«Addirittura» commentò l’atleta, poi si accucciò al suo fianco. Ignorò il mozzicone di sigaro e raccolse invece la fiasca di liquore, quasi vuota, che Auron non ricordava nemmeno di aver rovesciato. Gliela posò a fianco alle gambe con gentilezza. «Secondo me hai bevuto troppo e adesso non riesci ad alzarti».

Auron gli rivolse uno sguardo colmo d’odio, non potendo immaginare che in realtà – date le condizioni in cui versava – Jecht l’avrebbe vista come la minaccia di un cucciolo. La vergogna che provava superava anche il senso di colpa per essersi ubriacato.

L’altra volta, l’unica, in cui era successo, il priore non lo aveva scoperto. Si era fatto strada a tentoni verso la sua cella, aveva vomitato per buona parte della notte e si era svegliato con dei chiodi che gli perforavano gli occhi. Ma nessuno lo aveva visto. 

«Ho capito» sospirò Jecht. Gli si sedette a fianco e posò gli avambracci sulle ginocchia; poi alzò lo sguardo verso le stelle senza dire nulla. 

Auron si ritrovò ad afferrare un lembo della fascia che l’altro portava a mo’ di cintura, senza rendersi conto del gesto. Strinse le dita, analizzando con cura la consistenza della stoffa, poi la tirò verso di sé.

«Devi vomitare?» gli domandò l’atleta. Auron scosse la testa con decisione, cosa che lo costrinse ad aggrottare le sopracciglia per contrastare le vertigini. Lasciò andare la fascia e afferrò un polso a Jecht, in modo da non farlo alzare, e fece tutto con lo sguardo basso. 

Jecht mosse l’altra mano per accarezzare quella del compagno di viaggio, ma cambiò idea e si fermò prima di stabilire un contatto. 

«Non vado via» lo rassicurò. «Voglio riportarti nella tua stanza, ma se non hai voglia di camminare aspetto». 

«Come fai?» domandò Auron a mezza voce.

«A fare cosa?» replicò Jecht. Si aspettava una delle solite considerazioni pungenti, ma quando guardò il volto del monaco notò che era molto triste. Non lo aveva mai visto così. «Ehi, ragazzo. Che cosa sta succedendo?»

Si sentiva di fronte al punto di rottura di qualcuno che per troppo tempo aveva nascosto le sue emozioni. Auron passò dal tenergli il polso al tenergli la mano: Jecht fu colpito da una fastidiosa scarica che minacciava di distrarlo, ma mantenne il controllo. 

Te questa cosa da sobrio non la faresti neanche morto, pensò, poi portò la sua mano in grembo e gli tolse il guanto che portava per impugnare la spada. E hai proprio la faccia di uno che non si ricorderà niente, domani mattina. 

Le dita di Auron si intrecciarono subito alle sue, molto più fredde. Jecht lo guardò con un leggero imbarazzo, ma non fece tempo a parlare.

«Voglio tornare a Bevelle» disse il monaco, poi deglutì per reprimere un singhiozzo dovuto all’alcol. «Voglio tornare a casa».

«Ehi, bello» sussurrò l’altro, in tono apprensivo, «lascia andare. Guarda quello che hai davanti».

Il mare, misterioso e infinito, e poi le innumerevoli stelle del cielo che avrebbero guidato il loro cammino. Jecht sentì di nuovo l’impulso di accarezzare i capelli al ragazzo, che continuava a stargli più vicino di quanto non fossero abituati, ma si trattenne. 

«Lo so che non è facile fare l’eroe» gli disse, con un sorriso. La mascella di Auron, stretta nel tentativo di controllare qualche impulso, gli sembrava così forte… «Ma tu non sei uno che ha paura dei mostri». 

Il ragazzo lo ascoltava in silenzio: gli occhi, quasi solo pupille, parevano persi nel nulla. 

«Non abbiamo visto solo cose belle, lo so, ma la terra per cui combatti è meravigliosa. E sono sicuro che Braska vuole questo da te. Vuole che tu veda, che tu capisca… che tu sia parte dell’avventura».

Jecht sentì il monaco sciogliere la presa sulle sue dita, e se ne dispiacque, nonostante con tutta probabilità significasse che aveva riacquistato un barlume di lucidità. Poi, però, gli afferrò di nuovo la cintura. Jecht fu percorso da un moto di tenerezza che non si sarebbe aspettato di provare.

«Allora davvero non sai… niente» disse a fatica Auron.

«Su cosa?» 

Il ragazzo lo tirò di nuovo verso di sé.

«Nessuno… è mai tornato».

«Noi tre ce la faremo» lo rassicurò Jecht, trattenendosi dallo stabilire un contatto che non avrebbe fatto bene a nessuno dei due.

«Noi tre…» ripeté il monaco con un filo di voce.

«Sai, quando siamo arrivati al Fluvilunio, non facevo che pensare alla mia casa galleggiante chiedendomi quando ci sarei tornato. Poi ho visto le farfalle e l’erba che cresceva ai margini della strada… in quel momento, per la prima volta, mi sono chiesto se davvero volevo tornarci». 

«Ci riuscirò anch’io?» gli domandò Auron, dopo qualche secondo. Gli appoggiò, con un certo abbandono, la testa sulla spalla. Aveva paura.

«Dipende tutto da te».

Calò di nuovo il silenzio. Passò qualche istante prima che Jecht sentisse qualcosa di tiepido sfiorargli il collo. Quando si rese conto di cosa stava succedendo, s’irrigidì. 

«Ragazzo…» provò a chiamare. La sua mente, offuscata dalla sorpresa e dal piacere che i baci di Auron gli stavano infondendo, non riuscì a rendere quel richiamo abbastanza deciso. 

Da troppo tempo non provava una sensazione del genere. Il battito del suo cuore accelerò, e si accorse con fastidio che i brividi erano così forti perché si trattava proprio di Auron. Fino a quel momento non lo aveva ritenuto davvero possibile.

Lo aveva sempre osservato da lontano e relegato a una fantasia.

Consapevole che sarebbe stato meglio fermarlo, Jecht tuttavia cedette e reclinò il collo all’indietro, in modo che Auron potesse continuare a baciarlo. 

Il primo contatto era stato rapido, come se il ragazzo stesse tastando il terreno, i successivi sempre più decisi.

Quando Jecht sentì le sue labbra salire verso la mascella, però, riuscì a tornare con i piedi per terra e si schiarì rumorosamente la voce. Scosse via il desiderio dalla pelle, troppo calda a contatto con la brezza di terra, e spostò il viso da quello di Auron. Se anche le loro labbra si toccarono, fu per sbaglio, e non ci avrebbe più pensato.

«È meglio tornare al monastero. Braska si starà preoccupando» mentì, ritenendolo l’unico modo per far tornare Auron in sé. A quel nome, il ragazzo si riscosse per un istante, poi il suo sguardo tornò, annebbiato, sulla bocca di Jecht.

Dannazione, si trovò a pensare l’atleta. Adesso cosa faccio?

Aveva la sgradevole sensazione che qualsiasi sua azione che si avvicinasse ad Auron, anche la più piccola, sarebbe stata moralmente orribile. Si lasciò baciare sulla guancia e si trovò, con la lucidità di un guerriero in battaglia, a vagliare diverse opzioni.

Pensò a Zanarkand, a Lauren che aspettava e tesseva il sudario dei giorni. 

Ricordò le tante sere in cui lui stesso si era trovato in quelle condizioni, a come Tancre aveva gestito le situazioni – anche più imbarazzanti di quella – che gli raccontava al mattino. 

Auron era ubriaco, non stupido: avrebbe presto capito che stava temporeggiando. Jecht si rese conto con dolore che forse, dato anche il suo comportamento, il ragazzo non aveva mai baciato nessuno. 

Posò la fronte sulla spalla del monaco e sospirò. Aveva l’odore del tabacco addosso, lo stesso che aveva sentito nella carrozza di Alan, e quello troppo noto del liquore, ma il profumo di spezie rimaneva e rischiava di dargli alla testa un’altra volta. 

Una delle tante, ma le circostanze non erano mai state così critiche.

«Ehi…»  gli sussurrò. Gli passò un dito sulle labbra con tenerezza, ma senza riuscire a mascherare una certa urgenza. Auron sembrò comunque soddisfatto del contatto. «Qui potrebbero vederci».

Lo sguardo di Auron era ambiguo e distante. Lui stesso si allontanò da Jecht, come assorto in difficile pensiero, e infine annuì. 

L’uomo di Zanarkand gli afferrò una mano con decisione, nel tentativo di guidarlo.

«Alzati, Auron» gli disse. «Se devi nascondere un segreto, questa notte, lascia che lo condivida con te».

Il silenzio di quel luogo in cui brillavano le stelle avrebbe suggellato un patto che non poteva esistere.

Il giovane si affidò completamente a lui, si tirò in piedi con fatica e si lasciò condurre verso il tempio di Djose. Barcollava, incerto come un pulcino che si getterà dalla rupe, ma non spiccherà il volo.

Tra un sospiro e l’altro, Jecht riuscì a portarlo nella sua stanza, senza troppi ostacoli, e a farlo distendere a letto. 

Dimentico del desiderio che lo aveva infiammato fino a poco prima, Auron posò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi. 

Scusami, pensò Jecht, accarezzandogli una guancia con tenerezza, non avevo altri modi per farlo.

Poi si sedette su di una sedia accanto al capezzale del monaco, preoccupato che potesse sentirsi male durante la notte e intenzionato a vegliare su di lui. Si premette le dita sulle palpebre, nella vana speranza di cancellare il ricordo di ciò che era successo.

Aveva compiuto azioni discutibili, fino ad allora, ma non aveva mai tradito nessuno. Mai come in quel momento aveva sentito di doversi nascondere. Da Lauren, da Auron.

Da un mondo con Sin ma senza amore. 

Cosa avrebbe dovuto fare? Avrebbe dovuto spiegare al monaco cosa era successo, consapevole che non l'avrebbe accettato, o sarebbe stato meglio tacerlo per sempre?

Tidus lo guardava dalla riva del mare, stringeva tra le piccole dita una palla da blitzball e sorrideva.

Papà, io ti odio!

Il bambino incappucciato non fece che stringere i pugni e abbassare la testa, minuscolo nelle sue vesti viola come il temporale.

CORIFEO        Ti odio.

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Capitolo 33
*** Ysuna Seu ***


CAPITOLO 23: YSUNA SEU

 

 

«Che cosa ci fai qui?» lo raggiunse l'impietosa voce di Auron, rotta da un'insolita nota di debolezza.

Jecht socchiuse gli occhi al bagliore del mattino, che lo trovò rannicchiato su una sedia di legno. Si sentì come se quella notte scomoda gli avesse scombinato la disposizione delle ossa e anche quella dei pensieri, quando alzò lo sguardo sul ragazzo.

Non poteva che invidiare chi, anche dopo una notte del genere, manteneva la bellezza algida e inviolata dei pianeti. La bocca di Auron era incurvata nella sua consueta espressione ostile, i capelli ricadevano sciolti su una spalla.

L'unico indizio di ciò che aveva trascorso era chiuso nella gabbia delle ciglia, strette per non far passare la luce.

«Che cosa ci faccio qui?» esordì Jecht, animato da una rabbia improvvisa e certo di poter, per una volta, avere la meglio. «Chi pensi che ti abbia riportato in camera stanotte?»

Auron mascherò la propria confusione con un'occhiata crudele. Sarebbe stata sufficiente quella come invito a uscire, dalla sua porta e dalla sua vita, ma Jecht non voleva desistere. Non ora che…

«Di certo non te l'ho chiesto io».

Jecht fece per alzarsi, poi cambiò idea e strisciò i piedi nella polvere. Per un istante gli balenò in mente la follia di raccontargli, con dovizia di particolari, cosa era successo la notte precedente, dato che non lo ricordava o fingeva di non farlo.

Ma a cosa servirebbe?

«La sai una cosa?» gli domandò, guardandolo dritto negli occhi. «Hai bevuto troppo e non sarò di certo io a farti la predica. Non mi aspettavo nemmeno che il sole sorgesse su un "grazie, Jecht" o un "oh, Jecht, raccontami che cosa è successo". Non l'ho fatto per avere la tua gratitudine, ma perché era la cosa giusta. Ho solo sperato per un attimo che non mi avresti trattato come fai di solito».

Il suo monologo cadde nel silenzio. Jecht si alzò e si diresse verso la porta, soffocando qualsiasi emozione, ma all'ultimo istante cedette.

«La prossima volta, lascerò che tu svenga e che un Ochu ti mangi».

Il corridoio del piccolo monastero di Djose era silenzioso, come al solito: solo una preghiera distante si innalzava verso le nuvole del nuovo giorno. La voce di Auron la sovrastò senza difficoltà, e lo spinse a voltarsi.

«Sì, ma io non so in che altro modo trattarti».

Lo stomaco di Jecht si strinse in una furia cieca e le sue gambe lo spinsero ad allontanarsi il prima possibile da lui e dalle sue provocazioni.

Solo quel pomeriggio capì che il monaco non aveva detto altro che la verità.

Avevano attraversato la nuova Via Djose, ricostruita di recente dopo un attacco di Sin. Con gesti ormai meccanici uccidevano i mostri e lasciavano che Braska, ostinatamente devoto, danzasse per ognuno di loro il Rito del Trapasso.

Jecht non faceva altro che scacciare, lanciandosi contro ai nemici, gli immaginari contatti delle mani di Auron sui suoi fianchi, in procinto di scendere altrove. Lottava per distruggere i ricordi dei suoi baci sul collo.

Non so in che altro modo trattarti.

La voce del ragazzo riecheggiava nelle sue orecchie, bassa, come se stesse confidando un segreto. Jecht affondò la spada su un nemico e vide i lunioli accarezzare la lama. Sentì dire a Braska qualcosa a proposito dei mostri, che erano più del solito, ma quando Auron gli rispose la sua mente ricominciò a vagare.

Immaginò il suo tono, di solito fermo, mentre gli confessava di provare desideri carnali. Gli stessi che facevano formicolare il sangue sotto la pelle di Jecht.

«Jecht, attento!»

Il polso dell'atleta fu spinto all'improvviso indietro, come se si fosse scontrato con qualcosa di molto duro, lui recuperò l'equilibrio e scattò fuori dalla portata di un attacco.

«Te l'ho già spiegato» lo rimproverò Auron, entrando nel combattimento al posto suo. «Non sei in grado di scalfire i mostri coriacei! Stammi a sentire, qualche volta!»

Lo spallaccio di Auron riflesse, con un caldo tono dorato, la luce che filtrava dalle nuvole.

No, nessuno dei due sapeva come trattare l'altro. Le azioni del giovane Guardiano non erano mai chiare, e Jecht doveva ancora capire appieno cos'era successo la notte precedente.

Che cos'era, quella che aveva dominato il ragazzo? Paura, confusione, voglia di sfogare degli istinti che erano stati repressi da troppo tempo? Desiderio di capire cosa si provava, nella consapevolezza che sarebbe potuto morire senza saperne nulla?

Jecht non poteva concedergli niente, non poteva tornare a Zanarkand, tra le fredde braccia di Lauren, con un fardello simile. Avrebbe agito secondo virtù.

La sua era di certo, come del resto quella del compagno, un'infatuazione passeggera dovuta al fatto che le loro anime si stavano avvicinando.

Un monaco di Yevon e uno straniero con dei vuoti di memoria erano senz'altro una coppia male assortita, ma anche tutto ciò che l'isola aveva da offrire. Avrebbero compiuto la loro missione, avrebbero salvato Braska e il mondo, e poi non si sarebbero più rivisti.

Poco importava che l'Auron nella sua mente, in una posizione piuttosto lasciva che non aveva nemmeno faticato a immaginare, gli stesse ripetendo quelle due parole. "Ti amo".

Sei il solito megalomane, Jecht.

Erano molte, le vie del suo ingegno, ma ancora non riusciva a trovare un filo a quei pensieri vergognosi. Era dominato solo da una lussuria insensata, assieme alla consapevolezza di essere un pessimo padre, un marito che non voleva essere tale. Una persona senza alcun coraggio, che sentiva l'impulso di bere fino a svenire, come ai vecchi tempi che tanto gli mancavano.

La Via Djose sfociava in un luogo strano, dove la costa diventava sempre più frastagliata. Il tempo, gli agenti atmosferici e gli attacchi di Sin – "tutte le forze della Natura", come aveva detto Braska – avevano modellato le rocce, facendo loro assumere bizzarre forme a fungo, sostenute da colonne sottili. Via Micorocciosa, la chiamavano infatti gli abitanti di Spira, e non riuscivano a trattenere un sorriso forse dovuto ai ricordi di quando erano bambini.

Jecht strinse le mani sull'elsa della spada, concentrato su eventuali pericoli lungo la via. Non si sarebbe fatto più cogliere impreparato, e avrebbe sorriso e difeso i compagni, prestato un orecchio agli aneddoti di Braska.

Fino al giorno della vittoria. Fino a Zanarkand.

Sentì le ciglia pesanti quando il suo sguardo si spostò dalle scogliere frastagliate al delicato profilo dell'Invocatore. Braska aveva la fronte distesa, e con le labbra incurvate sorrideva dal suo mondo ieratico, nel quale devotamente pregava cinque volte al giorno.

Non posso essere triste, si disse l'atleta, scacciando la malinconia. Io sono il grande Jecht, ho il dovere di tenere alto il loro morale.

«Sì, c'è una Casa del Viante di Rin» stava dicendo Braska, in risposta a una domanda di Auron. Per qualche motivo, il monaco negli ultimi giorni si era dimostrato molto interessato a quell'Al Bhed.

Ironico, si disse Jecht, ricordando il momento in cui avevano varcato la porta di Rin per la prima volta. Forse, uno dei prossimi giorni, il Sole tramonterà a est, e Auron si innamorerà di un uomo.

Ma quel giorno il Sole era sorto a est e stava tramontando a ovest.

I tre pellegrini si accamparono in una radura poco lontana dalla strada, piantarono la tenda e accesero il fuoco come innumerevoli altre volte. Tuttavia, immagini di momenti passati continuavano a tormentare la mente di Jecht.

Ricordò quando avevano tentato di fissare i picchetti nella Piana dei Lampi, ma la tempesta picchiettava sulle loro mani e continuava a sradicarli.

Tra un pensiero e l'altro, la sensazione dei baci di Auron sul collo, imperterrita, continuava a tornare. I suoi denti affondavano nel legame tra lui e Lauren, cercando con forza di reciderlo.

Non gli restò che sedersi a terra, accanto al fuoco, con un sospiro scenico per il quale nessuno gli chiese spiegazioni.

Presto, gli occhi dei tre iniziarono a farsi pesanti, e le chiacchiere spensierate si spensero a poco a poco, lasciando un silenzio che invitava al sonno.

Braska toccò la stoffa della tenda, indeciso se scostarne i lembi o meno. L'ultima stella dello Scudo saliva tra le chiome degli alberi dalle molte forme, ma i suoi occhi tornarono sui due Guardiani, intenti a godersi il calore del falò e a recuperare le forze.

Auron era tormentato da giorni, glielo si leggeva in volto con estrema facilità, mentre Jecht si sforzava di essere gradito a entrambi, cosa che non aveva mai fatto con così tanta enfasi.

L'Invocatore scosse la testa e tornò indietro. Si rese conto di aver trascurato l'animo dei suoi Guardiani per molto tempo, troppo impegnato nel costringere alla resa il dolore del corpo che faticava a tenere il passo. Aveva però notato che Auron e Jecht si rivolgevano la parola più volentieri: era sua ferma intenzione favorire quel rapporto appena nato.

«Tutto bene, signore?» chiese Auron, seduto più lontano dalla tenda.

«Sì, certo» rispose Braska sorridendo. «Stasera mi sento in forze. Voglio trattenermi ancora un po'».

Jecht fischiò allegro e gli fece segno di mettersi accanto a lui, molto vicino alla fiamma.

L'Invocatore, ostacolato dalla veste, si sedette lentamente, come se stesse entrando in acqua. Il crepitio del fuoco che gli illuminava gli occhi azzurri coprì l'insistente frusciare dei suoi tanti strati di stoffa.

«Non eravamo insieme a quest'ora da un bel po'!» esclamò Jecht, con sincera felicità. «Ha tutta l'atmosfera di un campeggio, con storie da raccontare intorno al fuoco».

Braska annuì e aggiunse altra legna da ardere.

«Mi sembra un'ottima idea!»

Jecht lo guardò con espressione colpita, mentre Auron si accese una sigaretta.

«Aspetta... davvero?» chiese l'atleta, drizzando il busto.

«Certo! Io adoro le storie» disse Braska con aria beata, e alzò l'indice per sottolineare il concetto. «Se volete inizio io, ma voglio sapere anche le vostre».

Auron sbuffò fumo dalle narici senza rispondere, Jecht, invece, sembrò avere un'illuminazione e annuì con vigore.

«Forte! Facciamo che ognuno rivela un suo segreto» propose l'atleta fingendo un'innocenza che non gli apparteneva.

«Come le ragazzine?» lo punzecchiò Auron con calma glaciale, Braska invece accettò di buon grado.

«Mi piace, va bene! Allora... beh» iniziò l'Invocatore grattandosi la guancia glabra col dito, «senz'altro, il mio segreto più grande è che... ho un tatuaggio».

I due Guardiani ebbero reazioni opposte a quella confidenza: uno spalancò la bocca in una fragorosa risata, mentre l'altro scosse la testa.

«Cazzate!» esclamò Jecht.

«Ho una fenice fiammeggiante sull'anca sinistra» disse Braska quasi offeso.

«Ehi, ragazzo» Jecht chiamò Auron, «se chiedo a un Invocatore di mostrarmi un tatuaggio, è considerata blasfemia?»

Il monaco borbottò qualcosa e mosse la mano in aria, ormai annientato dall'assurda piega che stava prendendo quella serata e forse, pensò Jecht, imbarazzato dall'immagine di Braska che si alzava la veste come una ragazza che entra nel fiume.

«Quando ero poco più di un bambino, desideravo ardentemente conquistare il mio posto tra gli adulti» raccontò l'Invocatore con nostalgia. «Studiavo, ma volevo anche darmi da fare con qualche lavoretto. Quando presi il primo stipendio, andai dritto a farmelo di nascosto dai miei genitori. Per Yevon, mio padre mi avrebbe ucciso!»

Auron ridacchiò immaginando la scenetta e Jecht diede a Braska una pacca affettuosa sulla spalla.

«Non ti facevo un ribelle» gli disse, soddisfatto.

«Ero una testa calda, devo ammetterlo. E voi? Confidatevi col vostro Invocatore» domandò con occhi grandi e dolci.

Jecht sospirò malinconico e fissò il fuoco, poi si fece avanti.

«Ah, io... diamine, io amo il rosa. Quel rosa luminosissimo che fa male agli occhi».

«Non sei un po' troppo cresciuto per queste cose?» disse Auron con un mezzo sorriso ironico.

«Ridi pure, monachello, ma è un colore audace e delicato allo stesso tempo. Ho cercato per anni di far cambiare i colori della mia squadra, gli Zanarkand Abes, ma mi hanno sempre bocciato. Rosa e nero sono un accostamento niente male!»

«Certo è... particolare. È molto da te il voler lasciare la tua impronta» disse Braska ridendo sommessamente.

Era così che avrebbe voluto continuare il loro viaggio. Tra le loro voci che si alzavano in un'armonia che nessuno si sarebbe aspettato. Tra le risate.

«Scommetto che Auron non dirà nulla» disse Jecht, cercando di provocare il compagno. «Se avrà l'ardore di raccontarci qualcosa, vi confiderò la mia più grande paura».

Il monaco lo guardò con interesse, valutando con attenzione se cedere alla curiosità senza rimetterci. Tirò del fumo dalla sigaretta e fece cadere la cenere a terra con apparente indifferenza.

«Quando ero piccolo, dei templari vennero al monastero. Il capitano cavalcava un chocobo molto grande, e me ne fu affidata la cura» esordì con calma. «Quando lo portai nelle stalle gli tolsi la bardatura e gli spazzolai le penne. Quello saltellava felice intorno a me, sfregando il collo sulle mie mani».

«Voleva essere coccolato?» chiese Jecht incuriosito.

«Non lo avresti mai detto con l'armatura indosso e un capitano severo sulla groppa. Giocai con lui per ore» concluse con un mezzo sorriso.

«Quindi... ami i chocobo» disse Braska con calore.

«S-sì... li adoro. Sono animali intelligenti e gentili».

«E così, il monaco ha un cuore» commentò Jecht incrociando le braccia.

«Mantieni la tua parola» lo rimbeccò Auron, e Jecht fece spallucce.

«Le coccinelle rosse mi terrorizzano».

«...le coccinelle?» ripeté il monaco con enfasi. «Hai combattuto bestie grandi più di te. Come fa un insettino a spaventarti?»

Jecht scosse la testa, incapace di dare una risposta razionale. Braska si lasciò andare a una risata più vigorosa, inarcando il collo e puntando gli occhi al cielo, non senza che qualche lacrima glieli pizzicasse.

È proprio ora di andare a dormire, pensò l'Invocatore con lo sguardo alle stelle.

Salutò i suoi Guardiani e si ritirò nella tenda, ma la mente non era ancora sazia di quella bella atmosfera che si era creata. Anche se era coricato sotto le morbide coperte, le risate dei suoi compagni gli impedivano di addormentarsi.

Auron lo raggiunse dopo qualche minuto, sospirò stanco e si tolse l'armatura. Braska fece finta di dormire per non allarmarlo: almeno il monaco avrebbe riposato, quella notte.

Cercò di calmare la mente, come usava fare quando meditava, ma ciò non faceva altro che scatenare immagini, del presente appena trascorso e del passato. Di uno forse più felice.

Rimase in tale stato per lungo tempo fino ad essere colto da un sonno leggero, un dormiveglia che non lo fece sentire riposato per nulla.

Anche se confuso, si rese conto che era passato del tempo, forse delle ore. Auron dormiva profondamente, e Braska ne aveva abbastanza: uscì con passo silenzioso dalla tenda e incrociò lo sguardo cupo di Jecht.

«Va tutto bene?» domandò l'atleta sorpreso.

«Non riesco a dormire. Mi sono divertito troppo, prima» rispose con dolcezza. «Ascolta: non credo proprio che riuscirò a chiudere occhio. Per stavolta, la guardia la faccio io».

Jecht si avvicinò per non alzare la voce, anche se Auron, in qualche modo, trovava sempre il modo di svegliarsi quando arrivava il suo turno.

«Sei sicuro?»

«Resterei sveglio comunque. Tanto vale che tu ti riposi, amico mio» concluse l'Invocatore, donandogli una carezza sulla spalla.

Jecht annuì e gli rivolse un mezzo sorriso, poi lasciò il compagno con i suoi pensieri.

Braska rimase da solo al cospetto del mare, con gli occhi fissi sui resti del falò, dove ancora non si erano spente le braci coperte. Si tolse il copricapo e intrecciò le dita sotto al velo, stringendolo.

Il ricordo delle espressioni sgomente di Jecht e Auron alla sua rivelazione tintinnò come la risata di un bambino nel suo cuore. Ricordava con precisione il viso del suo amico che stava facendo pratica come tatuatore. Un ragazzo non di buona famiglia, che i suoi genitori gli avevano sconsigliato di frequentare.

Un ragazzo con cui si prendeva le sue piccole rivalse e trasgrediva alle piccole regole che gli imponeva il mondo.

Quel giorno d'autunno, il suo amico aveva accettato di tatuargli una fenice con le ali spiegate, proprio sopra a quel punto dove la pubertà stava lottando con l'infanzia, trasformandola e trascinandola nell'oblio con le sue infallibili lusinghe. A Braska piaceva l'idea di un tatuaggio, perché avrebbe potuto smettere di essere il ragazzino dal respiro che fischiava e assomigliare finalmente a quel fratello la cui grazia faceva tremare le pietre.

Solo dopo anni avrebbe capito che la falena sulla spalla di Alan non era solo una decorazione, e avrebbe guardato in altro modo l'aranceto di casa sotto i cui occhi tondi lui se n'era andato.

In posa scomposta sul letto, con la pancia tirata in dentro e le gambe alzate, Braska rimirava le fiamme che gli decoravano l'anca. Le aveva accarezzate delicatamente, le dita sporche della crema che gli avevano dato per prendersi cura del tatuaggio, subito dopo aver indugiato sulle ossa aguzze del bacino.

Chissà se saranno così anche quando crescerò…

La porta della camera si era aperta di colpo. Braska aveva sussultato e si era tirato a sedere, cercando nel mentre – con poco successo – di coprire la sua nudità con il lenzuolo.

Il cuore che gli era saltato in gola aveva calmato in parte i suoi battiti quando era stato raggiunto dalle risate del fratello, invece che dalla voce sgomenta della madre o del padre.

«Ma che stai facendo?» aveva esordito Alan, divertito da quello spettacolo.

«Perché non bussi prima di entrare?» lo aveva redarguito Braska, arrossendo con violenza. Aveva pregato con tutte le sue forze che Alan non avesse notato il tatuaggio, che non avesse capito che lo copiava. La voce che gli usciva dalle labbra era sgraziata, non più da bambino e non ancora da adulto.

Alan si era guardato attorno, in cerca di qualcosa, poi gli aveva rivolto un sorriso alzando solo un angolo della bocca. Lo faceva d'abitudine, ma quel giorno a Braska i suoi occhi parevano diversi. Sembravano portare la sofferenza di tutti i popoli di Spira, quando la punta della sua lancia ne portava la forza.

«Guarda che l'ho visto, sai?» aveva commentato il fratello, senza smettere di ridere. «Dai, mostrami».

Braska, con una buffa espressione corrucciata, si era tirato su il lenzuolo fino all'ombelico.

«Però tu non lo dici a papà!» si era lamentato.

Alan aveva roteato gli occhi al cielo nel sentire quel tono infantile, fingendosi scocciato.

«Giurin giurello» aveva detto.

«E neanche a mamma!»

Di nuovo quell'espressione spenta aveva attraversato gli occhi di Alan.

«Lo porterò nella tomba» aveva promesso.

Che succede?, avrebbe voluto chiedergli Braska, perché sei così?

Invece aveva scostato il lenzuolo, con vergogna, e aveva scoperto il tatuaggio. L'insensatezza di ciò che aveva fatto, e avrebbe portato per sempre addosso, lo aveva colpito all'improvviso allo stomaco.

Gli veniva da piangere, anche se non riusciva a capirne la causa.

La risata di Alan era scoppiata nella stanza, forte e decisa.

«L'uccello di fuoco!»

«Smettila!»

Quando Braska, ancora seduto, aveva tentato di assalirlo per lottare come facevano da bambini, suo fratello aveva usato la solita mossa con cui lo bloccava e si poneva alle sue spalle.

Poi, però, si era fermato e lo aveva stretto al petto: Braska non ricordava un'altra volta in cui lo aveva fatto. Un leggero odore di fumo aleggiava attorno a lui, e Braska sentiva lo sterno molto caldo rispetto alle sue dita.

Alan gli aveva lasciato un bacio delicatissimo sui capelli corti.

«Ti voglio bene».

Quando Braska aveva sentito in mano le perle del komboloi, il bruciore nella sua gola era diventato ancora più forte, invincibile anche se deglutiva. Aveva avuto la visione, chiara, della loro madre che piangeva piegata su un bracciolo della poltrona. Del padre che la consolava.

Le dita di Braska, scorrendo sui grani del rosario, cercavano di fermare il loro tremore. Come quelle degli anziani di Bevelle che, davanti alle loro scacchiere nella piazza del mercato, stringevano quel simbolo, ci giocherellavano, come se non sapessero cosa significava.

«La spedizione durerà poco». Komboloi.

«Tu non andare».

«Tornerò subito a casa». Il segno che la tua famiglia ti ama.

Braska aveva cercato nel muro bianco e spoglio il disegno divino di cui parlavano gli uomini al tempio, ma non ne intravedeva le linee. Forse era troppo giovane per avvicinarsi al volere insondabile di Yevon. Per capire che Alan avrebbe pensato al martirio quando si sarebbe allontanato lungo la strada degli aranci, che si piegano sotto il peso dei frutti quando gli altri alberi si spogliano della vita.

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Capitolo 34
*** Mangiachocobo ***


CAPITOLO 24: MANGIACHOCOBO

 

 

«Ehi, venite qui! È fantastico!»

Jecht era corso verso la scogliera come un bambino, con gli occhi fissi sul mare. Alla fine della Via Micorocciosa le nubi si erano diradate e avevano lasciato spazio al sereno. Per Jecht era stato come entrare in un altro mondo.

«Si dice che le persone nate in estate siano vitali e attratte dai colori caldi» commentò Braska, rivolgendo ad Auron un sorriso a occhi socchiusi. «Ehi, Jecht! Che giorno sei nato?»

L’atleta si voltò, immerso in un sole che faceva risaltare il verde del prato e il blu del mare in un modo che ad Auron sembrava quasi violento. 

«Il ventunesimo dal solstizio d’estate!» gridò Jecht, poi tornò a immergere lo sguardo tra le onde, a farlo vagare tra le rovine di città che non c’erano più. Come se si fosse ricordato di qualcosa, poi, si voltò e rivolse un largo sorriso di scherno ad Auron.

«E secondo te quanti anni ho, monachello? Dai, prova a indovinare!» gli domandò, avvicinandosi. Il richiamo dei gabbiani, che avevano sostituito i corvi in quel tratto sul mare, dava l’impressione di trovarsi al sicuro.

«No».

«E dai! Dimmi un numero!»

«Non mi interessa».

È stato il suo compleanno mentre viaggiavamo e non ce l’ha detto, fu l’unica cosa che gli venne in mente. Scosse la testa e allontanò quel pensiero strano. Che senso aveva? Se l’avesse saputo, gli avrebbe forse fatto un regalo?

«Trenta!» esclamò Braska con espressione gioiosa, stringendo i pugni sul suo scettro.

«Oh, sei veramente gentile, Invocatore!»

Mentre le loro risate si perdevano nel cielo, Auron si rese conto che avrebbe solo dovuto ringraziare Yevon per la bella giornata, come aveva fatto Braska. Il sacerdote gli rivolgeva la sua gratitudine anche quando il tempo non era affatto favorevole, e sapeva che avrebbe dovuto farsi strada nella tempesta.

Perché al suo cuore, allora, non venivano più le parole per la preghiera? Non c’era dubbio: Yevon aveva dissipato le nubi e portato il sereno. 

Lo sguardo del monaco si perse nelle praterie della Via Mi'ihen, un panorama molto diverso da quello delle lande polverose che avevano dovuto percorrere. Ispirato dall'esempio di Braska, Auron trasse un profondo respiro, nonostante non riuscisse a trovare la tranquillità tra quei prati in contrasto con il dolore portato da Sin.

Jecht e Braska ripresero la marcia al fianco del compagno, ma non smisero di parlare animatamente. 

«Questa zona è abitata da molti esemplari di chocobo» stava spiegando l'Invocatore al Guardiano più anziano. «Le praterie sono ideali per gli allevamenti».

Quanti anni aveva, Jecht? Auron si trovò a contare nella mente gli strani passi di una differenza d’età che li separava, per poi scuotere la testa.

«Quindi ci sono molte fattorie! Potremmo farci un giro» propose l’atleta entusiasta. «Almeno il monaco ci regalerà un sorriso».

Auron, che dei loro discorsi aveva ascoltato poco o nulla, muoveva gli occhi cercando con attenzione qualcosa che non vedeva.

«Ragazzo, c'è qualcosa che non va? Non hai declinato la mia proposta» chiese Jecht con un mezzo sorriso, ma il compagno lo ignorò.

«I chocobo...» sussurrò Auron preoccupato.

«Sì, i chocobo. Stavamo parlando proprio di questo» rispose Braska con gentilezza.

«Non ne abbiamo visto nemmeno uno».

L'Invocatore si grattò il mento e annuì lentamente.

«È molto strano, hai ragione».

Continuarono il viaggio tenendo gli occhi ben aperti, ma degli animali piumati non s’udiva nemmeno il verso. Quando il sole fu alto nel cielo, in lontananza apparvero tre figure. Cavalcavano dei chocobo, e Jecht riconobbe le loro armature.

«Non sono della cavalleria ausiliaria? Quelli che il giudice...» disse, con una strana reticenza, che apparteneva forse alla sfera della morte o forse al suo giudizio su Alan.

Auron e Braska annuirono portandosi sul lato della strada per farli passare, ma quelli si fermarono non appena furono abbastanza vicini.

«Salute a voi, pellegrini. Che Yevon guidi i vostri passi» disse la donna in testa al gruppo, con profonda riverenza. 

«Salute a voi, capitano Hanna. Cosa vi porta qui?» chiese Braska con la consueta gentilezza.

Il chocobo che la giovane montava si muoveva irrequieto, impedendole di parlare rivolta ai tre viaggiatori: dovette tirare le briglie con vigore per riportare all'ordine l'animale.

«La prego di perdonarmi per la mancanza di rispetto, Invocatore Braska. Questo esemplare deve ancora essere addestrato» disse Hanna, contrita. «Dopo le dure perdite subite dal mio manipolo, abbiamo dovuto procurarci nuove cavalcature. Tuttavia, gli allevamenti presenti sul territorio non sono sufficienti, così stiamo cercando chocobo selvatici».

«Non abbiamo incrociato nemmeno un esemplare sul nostro cammino» disse Auron scrutando la donna e facendosi schermo dal sole con le ciglia. Jecht l’avrebbe trovata bella, pensò. La pelle liscia, le braccia candide sotto l’armatura, i capelli biondi. Un giorno gli aveva detto che anche sua moglie, quella che aveva lasciato a Zanarkand, era bionda. 

Il vento della via Mi’ihen sollevò i suoi capelli neri, legati stretti sulla nuca.

«Mi duole dirlo, ma vi abbiamo approcciato per questo motivo» stava continuando Hanna. «Cerchiamo aiuto».

«Domandate pure, capitano» disse Braska, con la consueta espressione dolce in viso.

«Un mostro che i fattori chiamano Mangiachocobo si aggira per le praterie. Non biasimiamo una creatura che si procaccia il cibo, ma questa bestia non ha freni. Ha già divorato due branchi!»

«Dannazione, deve essere bello grosso...» commentò Jecht, per poi essere fulminato dagli occhi di Auron.

«Non importa quanto grande sia: dobbiamo fermarlo. Se la cavalleria ausiliaria rimarrà fuori servizio, a rimetterci sarà Spira».

«Va bene, va bene. Immagino che nessuno sia contento della mancanza dei pennuti» rispose Jecht con un mezzo sorriso indirizzato ad Auron. 

«Possono indicarci una zona in particolare? Magari l'ultimo avvistamento» chiese il monaco ad Hanna.

«L'ultima fattoria attaccata si trova nei pressi della scogliera, verso est» concluse la donna, riportando un ciuffo di capelli dietro l'orecchio.

«Allora ci avviamo. Rimanete al sicuro e proteggete i chocobo che avete» disse Braska congedandosi, salutato dalla riverenza dei tre cavalieri.

«Auron?» chiamò all’improvviso la voce armoniosa di Hanna. Il monaco si voltò. I suoi due compagni, invece, non la sentirono e continuarono sui propri passi, ma lui si fermò a guardarla in silenzio. 

Dalla sella del suo chocobo, col sole che le illuminava i capelli e le armi, sembrava un idolo di guerra. 

«Ho assistito al suo giuramento da Guardiano, mesi fa, a Bevelle» disse. Auron non replicò, interdetto dall’ammirazione nella sua voce. «Se non avesse già accettato un compito sopra ogni altro, sarei stata onorata di averla tra i Cavalieri di Chocobo. In nome della stima che mi anima, vorrei chiederle un parere».

«Se posso aiutare lo farò, signora».

Hanna tirò le redini della sua cavalcatura e si rivolse verso il sole, ancora alto nel cielo del pomeriggio. La sua armatura rifulse di nuovo, brillante come una stella, ma il suo sguardo non sembrava altrettanto ardente.

«Ho commesso un errore ad affidare il comando del mio manipolo all’Inquisitore» cominciò, guardando verso l’orizzonte.

«Si sarebbero comportati diversamente, se al loro comando ci fosse stata lei?»

Hanna, sorpresa, si voltò verso il giovane e aggrottò le sopracciglia. 

«Forse…» provò a obiettare, ma subito si interruppe.

«Mi rendo conto, comandante, che si senta responsabile della morte dei suoi uomini, ma non ho visto ribellioni. Non ho visto nessuno tirare le redini e indietreggiare, o sottrarsi alla carica». Auron abbassò lo sguardo, assorto, e scosse la testa. «Non si stavano sacrificando per Alan. Lo stavano facendo per Spira. E per lei. Anche io darei la mia vita per Braska: non c’è differenza».

Hanna si morse il labbro e soppesò per qualche istante le sue parole. 

«Mi hanno riferito della presenza di una strana grotta sulla Via Micorocciosa» gli rivelò poi. «Alcuni viaggiatori dicono di aver avuto delle visioni, passandoci accanto. Il mio dovere sarebbe andare a controllare, ma da un lato so che la forza di noi Cavalieri è nel numero, dall’altro temo ulteriori perdite».

«Certo» replicò Auron, con gli occhi fissi nei suoi. «Ma credo che, se andasse da sola, la fiducia dei suoi soldati non farebbe che crescere, e apprezzerebbero la sua volontà di proteggerli. Non so cosa ci sia in quella grotta, comandante, ma lei è il primo tra i Cavalieri».

Hanna annuì e gli rivolse il saluto yevonita, chinando la testa. Quando la rialzò, nel suo sguardo era tornata la determinazione.

 

 

 

I viaggiatori seguirono le imprecise indicazioni fornite dal capitano, ma ben presto si resero conto di non poter vagare nelle praterie con così poco a disposizione.

«Est… dove?» chiese Jecht incrociando le braccia.

«Non potevamo dire di no, dopotutto...» rispose Braska perplesso. Puntò lo sguardo verso dove, ogni giorno, vedeva l’aurora figlia del mattino e il sorgere del sole.

«Potremmo… attirare l'attenzione?» propose l'atleta, insicuro della sua stessa idea.

«Vuoi forse metterti a correre e urlare nel mezzo del nulla? È una perdita di tempo» commentò Auron sbuffando, ma non c'era molta scelta.

Jecht si grattò la barba meditabondo, e guardò di sfuggita i due compagni che scrutavano i dintorni; poi frugò nella sua sacca e ne estrasse una sfera.

«Che fai?» chiese Braska incuriosito.

«Era parecchio tempo che non facevo qualche registrazione. Se proprio devo fare il buffone, che sia ricordato per i posteri! Ce lo guarderemo intorno al fuoco la prossima volta» rispose Jecht affidando il dispositivo nelle mani di Auron. «Forza, ragazzo. Inquadra bene, ok?»

Senza aspettare la ovvia obiezione del monaco, l'atleta iniziò a inveire ad alta voce contro il mostro sconosciuto, maledicendo la creatura e tutta la sua stirpe.

«Sei… un volgare barbaro» sussurrò indignato Auron, per poi premere il tasto d'accensione sulla sfera.

Braska, dal canto suo, si accorse di star ridendo per le imprecazioni del compagno e cercò di darsi un contegno davanti alla telecamera.

«Un mostro gigante che attacca i chocobo...» disse, con voce impostata ad arte. «Proprio un gran brutto affare».

«Allora? Che cosa sta aspettando? Ehi, vieni fuori e combatti!» urlò a pieni polmoni Jecht, irritando ancora di più il già infastidito Auron.

«Te lo avevo detto che era una perdita di tempo».

«Dai! È la cosa giusta da fare! Tutti si affidano a noi. E poi, è un buon allenamento» rispose Jecht dandosi un tono eroico.

Braska annuì e si lasciò sfuggire una piccola risata. Come ormai accadeva spesso, le ragioni di Auron non trovavano appoggio nel suo Invocatore.

«Sì, suppongo di sì» rispose il monaco per troncare la discussione.

«Bene, allora...» 

Braska non riuscì a terminare la frase che il feroce ruggito di una bestia vicina fece accapponare la pelle dei pellegrini. Auron portò le mani alla spada in un battito di ciglia e fece cadere la sfera a terra.

«Eccolo lì!» gridó Jecht levando l'arma davanti a sé. «Auron! Prendiamolo!»

«Sì!» 

Come se avesse accolto la sfida di Jecht, il Mangiachocobo si stagliò sulla loro via, latrando in modo orribile. La sua bocca era grande come un uomo, ed era divisa in due mascelle e due lingue, sicché doppiamente morto sarebbe stato chi venisse preso. Sulla sua unica mandibola c’era un naso schiacciato di cane, e lui di continuo lo digrignava e mostrava i denti. Negli occhi gialli, senza pupille, dimorava il vuoto della morte.

«Dietro di me!» comandò Auron, stringendo la spada con entrambe le mani. Teneva gli occhi fissi sui lunghi arti anteriori del mostro, dai quali si aspettava una tenaglia: sapeva bene che non avrebbero dovuto sottovalutarlo solo perché più piccolo di altri nemici che avevano affrontato. 

«Glorioso Auron» lo richiamò Jecht alle sue spalle, in tono canzonatorio. «Grande vanto di Bevelle». 

Usava i modi di Spira per provocarlo, il monaco ne era sicuro, ma tutto ciò che riusciva a pensare era che lo avesse, di nuovo, chiamato per nome. 

«Io vedo un altro modo per sconfiggere quel mostro, senza dover ricorrere alla forza bruta».

Auron parò un colpo della bestia e percepì l’aria scuotersi, segno che Braska stava chiamando a sé un Eone. Sentì la schiena di Jecht contro la sua, l’armatura che il compagno portava al braccio premere contro i suoi vestiti, e si ricordò che non indossava altro per proteggere il busto. 

«La vedi, quella scogliera?» gli domandò l’atleta.

«È abbastanza grande» replicò lui, sperando di allontanare con il sarcasmo i pensieri che riguardavano il corpo di Jecht, allo stesso modo in cui le loro spade stavano respingendo i colpi del nemico.

«L’esoscheletro che ha sembra piuttosto pesante» osservò Jecht, prima che le sue parole fossero coperte dai nitriti di Ixion. In effetti, notò Auron, un’armatura d’ossa copriva le spalle del Mangiachocobo.

«Se lo spingiamo, possiamo farlo cadere: se finisce in acqua non riuscirà più a riemergere». 

Il mostro tentò di afferrare i due guerrieri con un morso, ma loro con un rapido giro su se stessi lo elusero e si diressero l’uno dalla parte opposta all’altro. Con un ruggito, la bestia si avventò contro Jecht e riuscì a ferirgli un braccio prima di essere colpita. Assieme al suo taglio di spada, arrivò anche una fiammata che sembrava provenire da qualcuno in movimento.

«Braska, signore!» chiamò Auron. L’Invocatore, con le gambe strette sulla groppa di Ixion e gli ornamenti che si agitavano al vento, concluse la manovra e si preparò a colpire con una seconda magia del fuoco. 

«Lo colpisca frontalmente!» lo esortò Auron. Braska, con un cenno del capo, fece nascere ulteriori scintille tra le dita e scagliò una palla di fuoco contro il nemico.

Con uno stridio, il Mangiachocobo cadde esponendo il ventre, le zampe che si dibattevano nel disperato tentativo di fare da scudo.

«Funziona!» gridò l’atleta, ignorando il sangue sulla propria spalla. «Continuate a colpirlo!»

«Siamo nelle tue mani, Jecht!» lo spronò Braska, preparandosi a lanciare un terzo incantesimo. 

Quando il mostro riuscì a rimettersi in piedi e ruggì nel tentativo di spaventarli, Auron fu rapido a raggiungerlo e a cominciare con lui una lotta corpo a corpo. Il Mangiachocobo, nonostante avesse perso la sua posizione, si piantò sulle zampe e riuscì a spingere via il monaco. 

Rapido come in una partita di blitzball, Jecht prese il suo posto, convinto di poter assestare la spinta finale. 

Punto, pensò con un sorriso feroce, mentre alzava la spada.

La sua rincorsa, tuttavia, si infranse sulla pelle coriacea del nemico. 

Frastornato dall’impatto, si ritrovò in ginocchio a terra e non gli restò che usare la propria spada come appoggio. 

Auron aprì la bocca per redarguirlo, ma poi i suoi occhi si soffermarono sulla schiena di Jecht. Era solcata dalle cicatrici, curva come in una posizione di preghiera che non gli avrebbe mai visto assumere in altre occasioni.

Il Mangiachocobo fu di nuovo scagliato sulla schiena da una fiammata. Il nemico era debole, quasi inerme ai loro attacchi, e questo attenuò i sensi di colpa di Auron mentre indugiava con soddisfazione sul capo chino di Jecht. 

Quella posizione di sottomissione, in cui Auron non riusciva a vedergli il viso ma solo i capelli spettinati, era insolita per lui. Avrebbe voluto avvicinarsi, e forse toccarlo.

Una ferita aperta sul petto del mostro, da cui fuoriuscivano dei lunioli, lo riportò al presente. Scattò in avanti e, concentrandosi più che poteva su quelle piccole luci, le convogliò sulla lama. 

Gli sembrò di udire qualche lieve sussurro, una voce che non apparteneva a nessuno dei suoi due compagni, mentre affondava la spada nel corpo del Mangiachocobo, per poi spingerlo ancora indietro.

Senza più la terra sotto la sua schiena, il mostro cadde dal dirupo. Ancora a cavallo di Ixion, Braska sentì il rumore delle sue ossa che si frantumavano sugli scogli, poi quello del suo corpo che finiva in acqua.

«Abbiamo vinto!» annunciò, con gli occhi fissi sui lunioli che salivano al cielo.

«Chissà chi era in vita» pensò Jecht. Gli altri due si voltarono verso di lui, e lo trovarono che premeva una mano, imbrattata di sangue, sul braccio ferito. 

«Che avete da guardarmi così?» continuò. «Non lo avete detto voi che tutti i mostri che uccidiamo erano persone? Questo era uno a cui i chocobo avevano fatto qualche torto».

«Noi non uccidiamo, Jecht» lo corresse Auron, con tono infastidito.

Nel frattempo, Braska aveva congedato la sua invocazione e si era avvicinato all’atleta con delle bende. Gliele aveva strette attorno alla ferita, con decisione e un’espressione conciliante.

«È la promessa del Guardiano» disse, quando ebbe finito la fasciatura.

«I nemici che ci attaccano stanno chiedendo la nostra pietà» continuò il monaco. «Sconfiggendoli non facciamo altro che inviare a Yevon la loro anima. Li riportiamo sulla via da cui hanno deviato». 

«Molto cavalleresco» commentò Jecht, alzando gli occhi per incontrare quelli di Auron. Lui vi notò di nuovo quella sfumatura rossa, come se il fuoco che si era acceso in lui durante la battaglia non avesse intenzione di spegnersi. 

Quando l’atleta di Zanarkand gli rivolse il suo sorriso feroce, Auron sentì il sangue scorrere nelle vene, verso il basso, in modo quasi doloroso. 

I due si stavano ancora fissando, studiandosi come due cervi rivali, quando l’Invocatore parlò:

«Andiamo ad avvisare Hanna che il pericolo è passato».

«Sì» commentò Jecht, rivolgendo all’altro Guardiano un ultimo sguardo ammiccante. «Sì, andiamo».

 

 

 

Nonostante Braska gli avesse medicato il braccio, Jecht se lo massaggiava più spesso di quanto avesse voluto. Accusava un dolore sopportabile, ma che non doveva esserci, quasi dentro le ossa. 

Si aspettava la solita predica di Auron da un momento all'altro, parole familiari come una filastrocca infantile che potevano essere riassunte con: "indossa un'armatura, bestia".

Jecht sorrise appena pensando a quella scena buffa ma, più la sua mente vi indugiava, più si rendeva conto che qualcosa non andava: non solo quell'ammonizione non arrivava, ma Auron non era più nemmeno al loro fianco.

Allora si guardò intorno: Braska era alla sua sinistra, mentre il monaco camminava indietro di molti passi, atteggiamento che non gli aveva mai visto assumere. 

Preoccupato dal suo stato di salute, Jecht si voltò a guardarlo senza, tuttavia, sembrare insistente.

«Ragazzo, va tutto bene?»

Auron si pulì il cappotto con le mani, per poi stenderne le pieghe con movimenti poco decisi dei palmi.

«Sì, non ti preoccupare. Sono solo stanco» rispose, grattandosi la gamba destra come se l'avesse punto un insetto.

Gli occhi di Jecht seguirono istintivamente la mano di Auron, per poi staccarsi con forza dalla sua figura e fissarsi sulla strada che avevano davanti. L'atleta si chiese se si fosse girato in modo troppo brusco, se Auron avesse colto qualcosa.

L'atleta si grattò la barba e sospirò, quasi dimenticando di essere in compagnia di altre persone.

«Jecht, stai bene?» chiese Braska preoccupato.

«Ah, sì. Mi fa male la ferita» rispose lui con una mezza verità.

«Vi vedo entrambi provati, amici miei. La Casa del Viante non è molto lontana» disse l'Invocatore, guardando verso Auron.

«Allora non facciamo altre deviazioni. Ehi, ragazzo» lo chiamò Jecht senza voltarsi, «noi andiamo a prendere le camere, tu vuoi raggiungerci con calma?»

Auron sgranò gli occhi, non visto, e ringraziò la sorte per quella opportunità inaspettata.

«Sì, va bene. Arriverò il prima possibile».

«Non ti affaticare, Auron. Ci vediamo dopo» disse Braska affiancando Jecht, non senza uno sforzo nel tenere il passo. 

Quando furono lontani, il monaco si fermò per qualche istante respirando a fondo, mettendo più distanza che poteva con i compagni. Aspettò il tempo di una sigaretta, per poi rimettersi in marcia e raggiungere la Casa del Viante.

«Grazie molte per avere salvato i chocobo!» li accolse la voce calda di Rin. Era al bancone del suo ostello, con la sua solita giacca gialla e un sorriso stampato in volto. Le notizie viaggiavano davvero velocemente, se erano dirette a lui. 

Quando si furono avvicinati, l’Al Bhed ammiccò rivolto ad Auron e gli porse un dizionario assieme alla chiave di una stanza. Il monaco lo ringraziò con distacco, preoccupato di contare quanti fossero i mazzi di chiavi. 

«Siete interessati a prendere chocobo domani? Per dimostrare la gratitudine, offro io la prima volta». 

Uno, due, tre, osservò Auron. Ognuno aveva la sua stanza. Quando arrivò con lo sguardo sulle mani di Jecht, lo distolse nel modo più rapido possibile. 

«Ti ringraziamo, Rin» disse la voce di Braska, che gli parve attutita come se si trovassero sott’acqua.

«Parlate con la ragazza dei chocobo se volete uno». 

Dopo aver salito le scale, i tre si congedarono con parole rapide, e Auron entrò nella propria stanza senza guardarsi indietro. Non pensò a pregare, né a lavarsi o  pettinarsi, e nemmeno a controllare il filo della sua spada, ma solo a mantenere il respiro regolare mentre osservava, oltre la finestra, l’ombra che cadeva sui prati.  

Non gli erano nuove le notti in cui il sonno non lo coglieva. Ancora sveglio dopo ore, disteso supino sul letto, Auron chiuse gli occhi e ascoltò i rumori che provenivano da fuori. Immaginò l’erba che oscillava al vento sotto al cielo stellato, accompagnata dal mormorio dei grilli. La Via Mi’ihen, punteggiata dalle rovine, sembrava infinita. Sembrava infinito il tratto di costa alta e frastagliata che correva ai bordi delle strade e finiva per disegnare la schiena di Jecht.

La sensazione che lo aveva pervaso qualche ora prima, un insieme di eccitazione e disagio nel vedere la sua pelle nuda, stava tornando. Quella reazione che aveva bollato come strascico dell’adrenalina provata in battaglia cominciava a tormentarlo di nuovo, questa volta con il desiderio di toccare Jecht. Sentire i punti dove le cicatrici lo segnavano e la leggera curva dei suoi fianchi. 

Auron sgranò gli occhi e fissò il soffitto della camera. Perché la sua mente indugiava in quel pensiero senza significato? Sotto la mano che, senza accorgersene, aveva posato sul ventre, sentiva un calore innaturale e il respiro che stava cominciando a farsi irregolare. Ricordava che anche il corpo di Jecht era caldo. Il giorno in cui si erano ritrovati nella Piana dei Lampi e...

Sospirò e cercò di liberarsi da quelle immagini, di pensare a qualcos’altro. 

A qualsiasi altra cosa.

Ma gli veniva in mente solo il tatuaggio che decorava la pelle di Jecht in modo troppo vistoso. Bastava solo quello per renderlo offensivo ai suoi occhi: si chiedeva spesso se lo avesse fatto solo come sfida al pudore. Immaginò di sfiorarlo con le dita, e di passarci prima le labbra e poi la lingua. A quell’ultimo pensiero fu colpito da una scossa e la sua mano scattò verso il basso.

Auron si spaventò e la ritrasse, ma nel farlo sfiorò con le dita i boxer che usava per dormire. Gli aveva consigliato Jecht di comprarli, sostenendo che fossero più comodi. Forse prevedeva anche che lo avrebbe fatto.

Lo odiava. Non riusciva a reprimere la rabbia che lo pervadeva mentre immaginava di gettarlo a terra in una lotta. Sentiva il respiro di Jecht sul collo, vedeva distintamente la sua schiena che si inarcava, sotto di lui. 

Auron gettò all’indietro la testa e riportò la mano tra le gambe, chiuse gli occhi per non vedere la propria nudità e si chiese se anche Jecht lo faceva. Se pensava agli uomini mentre lo faceva, che era il peccato peggiore tra quelli a cui si stava abbandonando. 

Sentì il proprio respiro diventare pesante e il desiderio invadergli il ventre, spingendolo a continuare i movimenti.

La carne è debole al peccato, e ogni peccato va a formare Sin, pensò, serrando le palpebre con forza e girandosi su un fianco. Ogni peccato va a formare Sin. Yevon, ti prego, perdonami.

Incapace di fermarsi, si morse le labbra e tentò di concentrarsi sul dolore che provava. Nonostante lo desiderasse, sapeva che nessuno sarebbe entrato, lo avrebbe visto in quel momento e mortificato per la sua indecenza. Doveva infliggersi da solo la sua punizione, ma non aveva altro che le proprie mani per farlo.

Gli sfuggì un gemito di dolore quando affondò con forza il dito medio, fino alla nocca, dentro di sé. Si fermò per un istante, ansante e ancora in preda all’eccitazione, sapendo di doverlo fare di nuovo.

Si domandò quando aveva cominciato a degenerare in quel modo, quando era passato dal giurare in nome di Braska al farsi del male in quel letto, da solo. Con l’immagine di Jecht che continuava a baciarlo con ardore, come un tarlo nella mente.

Yevon mi ha posto davanti a questa prova, si disse, ma poi si accorse che ciò che lo infiammava non era il dio. 

Senza rendersene conto, aveva cominciato a darsi piacere in entrambi i modi mentre immaginava di baciare le clavicole di Jecht, di risalire lungo il suo collo fino ad arrivare alle labbra. Si ripeté che era meno indecoroso immaginare che fossero le sue mani a toccarlo, poi sentì una stretta allo stomaco per la vergogna di quel pensiero. Si era perso in una spirale di desiderio che rischiava di inghiottirlo vivo.

Io non solo sono venuto meno ai miei voti, ma anche ho commesso con le mie stesse mani un sacrilegio.

Non c’era un significato più alto, in quel piacere, né uno scopo. Non c’era il dio, lì: quella era solo la dimensione dell’uomo.

«Non trattenerti più, ragazzo» gli sussurrava la voce roca di Jecht nella sua mente; Auron in preda all’estasi gli obbediva, lasciandosi guidare. 

L’orgasmo gli infranse il corpo mentre immaginava Jecht su di sé, ancora vestito, i loro bacini a contatto e quel sorriso sul suo volto. Quello che indicava che aveva vinto lui la battaglia.

Solo in quel momento i pensieri di Auron si annullarono: lui si rese conto di essere rannicchiato in posizione fetale sul letto di una qualsiasi Casa del Viante. Con una mano sporca e umida in modo disgustoso, assieme al dolore che si meritava e che era riuscito a infliggersi.

Perché l’ho fatto? si domandò, stringendo le gambe e poi il pugno, perché si era sentito come trafitto da mille aghi. Ti prego, dimmi perché l’ho fatto.

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Capitolo 35
*** Lì sono i campi della speranza (Parte 1) ***


CAPITOLO 25: Lì SONO I CAMPI DELLA SPERANZA (PARTE 1)

 

 

I lunioli in quell’abisso nero, dopo averla circondata, si erano trasformati nelle foglie e nella luce del sole che le attraversava, nei rami di cristallo di Macalania, che non potevano essere scossi. 

Guardò dritta davanti a sé, persa nel ricordo del vento che combatteva coi suoi capelli, rendendola più bella, e di quella prateria che arrivava fino all’orizzonte…

 

Estate 1013

 

«Anche se siamo bambini, come faremo a nasconderci in un posto così?»

La piccola Hanna si fermò per valutare con attenzione quelle parole. Aggrottò le sopracciglia, infastidita dal sole che inondava la Piana della Bonaccia. 

Non c’era una casa, nell’immensa arena dove Gandof aveva annientato Sin; non un albero dalla chioma ampia né un’altura, quasi come se in quel luogo nulla volesse esistere per una sorta di teologico rispetto.

Loro erano solo una banda di orfani fuggiti da Kilika, troppo giovani per sapere quale fosse la ragione per cui la loro terra soffriva. Conoscevano solo il proprio dolore, ignorato dagli altri, e il modo in cui ci si rannicchiava nelle stive delle navi per non essere visti. 

Erano partiti in cinque, ma era quintuplicato il loro numero nel tempo. Avevano attraversato città e villaggi e portato la parola di uno stato di natura in cui loro, i dimenticati di Spira, non potevano far altro che unirsi per sopravvivere. La loro forza era il branco. 

«Vengono adottati gli orfani dei ricchi, quelli che sorridono guardando gli adulti» diceva sempre Hanna. «Che abbiamo da sorridere noi bastardi, figli di pescatori, meticci?»

Col tempo, i reietti di cui parlava – e tra cui lei stessa si annoverava – avevano visto in lei il loro capo. Hanna aveva imparato a svolgere senza versare una lacrima i suoi compiti, anche i più difficili. Come quando aveva dovuto decidere l’ordalia delle pietre per Jakob, che aveva fatto del male a Sydia. 

Mesi dopo, arrivato il momento che il bambino di Sydia nascesse, aveva chiamato le ragazze più grandi e, tra pianti e mani sporche di sangue, aveva imparato a far partorire una donna. 

Non avevano più bisogno di quegli adulti che ormai cominciavano ad aver paura di loro.

«Non siamo più bambini, Ediet» considerò Hanna, le mani premute sul proprio seno. Non sapeva come contare il tempo, ma ormai quasi nessuno di loro perdeva più i denti, anzi uno li stava mettendo. Le ragazze come lei avevano un ciclo cruento che sembrava quasi coincidere con quello della Luna. 

Un uomo bardato in lunghe vesti color porpora fu costretto a passare loro accanto, sostenendosi a un bastone ornato. Lo accompagnava un soldato in armatura, che lanciò un’occhiata di disprezzo e sottile timore alla torma di adolescenti che aveva di fronte. 

Hanna sostenne il suo sguardo e scoprì i denti, come una lupa che protegge i propri cuccioli. 

I due uomini presto distolsero la loro attenzione da lei, che con un vittorioso sbuffo d’aria si soffiò via una ciocca dal viso. Si sentì forte e selvaggia, in sintonia con quel paesaggio che giorno dopo giorno attraversavano, e che spingeva le loro vite in un’unica direzione. 

«Mevyn!» si alzò la voce di un ragazzo alla sua sinistra, in un richiamo d’allarme.

Mevyn. La prima a chiamarla così era stata anche la prima Guado a decidere di viaggiare con loro. Era la parola, aveva detto, che i suoi padri usavano per onorare i comandanti. Hanna dapprima la aveva rifiutata, non sentendosi all’altezza di portare quel nome che apparteneva ad anziani dalla pelle di corteccia che governavano saggiamente il loro popolo da case scavate nei tronchi, fumando tabacco al miele dalle loro pipe. 

Ma era stato il suo, di popolo, infine a imporglielo. 

«Mevyn» ripeté il ragazzo, indicando l'orizzonte, dove una foresta brumosa si confondeva con la linea del cielo. Delle macchie chiare apparivano e scomparivano, si avvicinavano l’una all’altra e poi si separavano. «C’è qualcosa, laggiù».

Hanna socchiuse gli occhi per rendere la sua vista più nitida, si scostò dalla fronte una ciocca scompigliata da un vento che portava l’odore della pioggia. 

«Avanti!» decretò, dopo qualche istante di esitazione. Immaginava un bosco, una radura e un fiume: un luogo che, conquistato, avrebbe potuto essere per loro una sicurezza. Avrebbero combattuto senza remore qualche mostro per ottenere quel premio.

Qualcuno, nelle ultime fila, ripeté il suo ordine. Solo allora l’esercito in miniatura dei ragazzini marciò all’unisono verso il punto che stavano osservando, stringendo tra le dita le armi che avevano costruito o rubato, sciamando nelle botteghe dei villaggi che attraversavano come una vendetta di locuste. 

«Sono chocobo!»

«Chocobo!»

La parola rimbalzò più volte sulle loro labbra, poi raggiunse Hanna e si arrestò. Da quella distanza ormai potevano vedere distintamente le piume di quei grossi pennuti, che si aprivano a ventaglio per formare la coda. 

Il mevyn non sapeva quale fosse la loro percezione dei dintorni, se si fossero resi conto che loro erano lì a puntarli. Non aveva mai avuto a che fare con quegli animali, anche se spesso nelle vie delle città aveva sentito dire che erano docili. 

Con un gesto, ordinò ai suoi di distendersi tra l’erba alta, consapevole che era l’unico modo per nascondere i loro piccoli corpi nella Piana della Bonaccia. 

Lei stessa giacque sul fianco e si mise ad ascoltare il tremore della terra su cui battevano le zampe dei chocobo. Credeva fossero più dei due che avevano visto, forse una colonia. 

«Jesen» sussurrò, con gli occhi fissi su un insetto oblungo, dal dorso rosso punteggiato di nero, che passeggiava senza pensieri su uno stelo. 

Il ragazzo che aveva chiamato sussultò, poi si rivolse a lei con la sua voce che stava mutando in quella di un adulto. 

«Sì, mevyn?»

«Che cosa proponi di fare?» gli domandò, consapevole che Jesen non solo era quello che al momento le era più vicino, ma anche una tra le menti più svelte. 

Il ragazzo si concesse un istante per pensare, forse temendo di deluderla. Il borbottio lieve e ritmico del suolo continuava a risuonare nelle loro orecchie. 

«Forse hanno delle uova» rispose poi, «con cui potremmo nutrirci: siamo veloci e armati, non dovrebbe essere difficile rubarle».

Hanna aggrottò le sopracciglia, ponderando la decisione: del cibo era certo necessario, ma si sarebbe trattata di una soluzione provvisoria. Posò la guancia a terra e ricordò i chocobo che aveva visto correre nella sala motori della nave che l’aveva portata da Kilika alla terraferma.

«Oppure potremmo cercare un contatto con loro». Si interruppe, notando lo sguardo interdetto di Jesen, poi ricominciò: «Quello di cui abbiamo bisogno è un luogo dove stare. Se impariamo a convivere con loro, forse potremmo costruirlo».

Forse quella era la loro occasione.

«E che cosa mangeremo?» sibilò l’altro. «Erba ghisal, per tutta la vita?» 

Hanna tacque. 

«Non ci hanno ancora notato» bisbigliò, dirigendo lo sguardo verso i chocobo. «Vai dagli altri e mettilo ai voti. Non dire chi ha proposto cosa».  

Jesen non ribatté e, come un giovane soldato, strisciò sui gomiti verso i suoi compagni, attento a non uscire dall’abbraccio dell’erba. 

L’esito della votazione fu sorprendente. La metà esatta si affidò a una decisione, e l’altra alla seconda. Quando Jesen, in gran segreto, lo riferì all’orecchio di Hanna, lei sgranò gli occhi. 

Quel giorno si rese conto del significato del nome che le avevano dato, di cosa voleva dire il fumo del tabacco guado al miele. 

Il voto del mevyn avrebbe deciso. 

Hanna prestò di nuovo l’orecchio al terreno antico, l’anima a quella più grande di Spira, che batteva in tutti loro, gli occhi al suo popolo. Incontrò quelli di Sydia, che stringeva suo figlio al petto appiattito sull’erba.

Avrebbero mosso il primo passo, fieri, verso qualcosa di diverso dalla distruzione.

 

 

«Per cortesia, apra la porta!»

Una voce maschile, accompagnata dal rumore di un palmo che batteva contro il legno, risvegliò Auron dal suo sonno tormentato. Per un istante, intorpidito e ancora dolorante, temette che si trattasse dell’Inquisizione venuta al corrente di ciò che aveva fatto, di quell’azione il cui ricordo gli sporcava ancora le dita. 

«Siamo dei Cavalieri chocobo» continuò però la voce, disperata. Ad Auron si strinse lo stomaco prima ancora che l’uomo glielo dicesse. «Si tratta di Hanna!»

Il Guardiano, senza preoccuparsi di essere pressoché nudo, aprì la porta per trovarsi di fronte ai due uomini che aveva visto con il capitano il pomeriggio precedente.

«Che cosa è successo?»

«Hanna, signore» ripeté uno, mentre l’altro si profondeva in una cantilena di scuse. Auron gli fece cenno di tacere. 

«Si è diretta da sola verso la Via Micorocciosa al calar del sole» continuò il primo. «Non è ancora tornata. L’abbiamo vista parlare con lei, e forse può sapere qualcosa».

Nelle orecchie di Auron rimbombò la sua stessa voce.

«Ma credo che, se andasse da sola, la fiducia dei suoi soldati non farebbe che crescere, e apprezzerebbero la sua volontà di proteggerli. Non so cosa ci sia in quella grotta, comandante, ma lei è il primo tra i Cavalieri».

«Cazzo» imprecò tra i denti. Questo gli valse un’occhiata terrorizzata da parte dei due Cavalieri, forse sorpresi dal vedere un Guardiano, una figura sacra, in quelle condizioni.

«Andate a sellare un chocobo» ordinò in tono autoritario, mentre frugava in cerca dell’armatura e dei vestiti. «Fate presto».

Si lanciò nella notte senza dire una parola, le staffe strette sui fianchi del chocobo e nella mente il pensiero atroce di averla mandata incontro alla morte, tanto insistente da sovrastare il dolore che provava nel cavalcare.

Hanna, resisti, pensò, gettandosi tra le ombre informi che le rocce della Via Micorocciosa gettavano sotto i raggi della luna. Il vento gli frustava i capelli ancora sciolti, portando alle sue orecchie gli ululati lugubri dei mostri. 

Resisti.

Sapeva che trovare una grotta in particolare nel mezzo di quell’enorme scogliera frastagliata sarebbe stata un’impresa ardua, ma lo guidava la rabbia. Spazzava via a colpi di spada i nemici, usava i lunioli provenienti dai loro corpi come dardi, in modo da uccidere qualunque creatura ostacolasse il suo galoppo.

Si affidò a una magia tanto potente da spezzargli il respiro e stringergli come una tenaglia le tempie, ma continuò a proseguire finché non si rese conto che sarebbe stato inutile viaggiare senza una meta. 

I lunioli, però, sembravano dirigersi verso un punto particolare prima di dissiparsi nell’aria.

Con il cuore che gli martellava nel petto, spronò il chocobo che levò un grido verso il cielo. 

La direzione presa dalle piccole sfere luminose era un'informazione preziosa, ma ancora troppo vaga per poter essere di un concreto aiuto. 

Con la spada levata in alto, Auron pensò allora di andare a caccia di mostri di proposito, abbattendone il più possibile per osservare il moto dei lunioli e seguirne la traccia.

Una spaccatura a qualche centinaio di passi sembrava farsi largo nella roccia in profondità, come descritto da Hanna stessa: in altre circostanze, Auron avrebbe continuato a esplorare per avere la certezza assoluta, ma l'istinto, o forse il senso di colpa, lo indirizzava dritto verso le viscere della terra.

Il monaco smontò dalla sella e si avviò con passi misurati, la spada stretta in pugno.

L'interno della grotta era di un buio quasi assoluto, tanto che gli risultava impossibile orientarsi. Se gli occhi non potevano aiutarlo, però, le orecchie gli dissero che, in profondità, qualcosa sbatteva contro le pareti rocciose. 

«Hanna!»

L’oscurità gli restituì di nuovo il ritmo convulso di quei battiti, simili a quelli che sentiva in gola.

Che stia procedendo a tentoni per uscire?, pensò Auron allarmato, ma non poteva correre alla cieca in direzione dei suoni. 

«Capitano Hanna! Sei qui? Riesci a sentirmi?» urlò il monaco nella speranza di ricevere una risposta umana.

Il trambusto di sottofondo si fece più rumoroso, e il silenzio fu squarciato da un urlo acuto. Auron strinse i denti. 

L’ambiente circostante era popolato da lunioli, cosa insolita vista l'assenza apparente di creature. Le anime dei morti. Forse quello era un luogo che era stato particolarmente caro a qualcuno.

Auron soppesò ogni passo con attenzione per non inciampare, usando la punta dell'arma come guida nel buio, come se potesse tagliarlo col filo della spada. 

Le piccole sfere luminose diventavano più numerose man mano che avanzava. Nella sua mente si fece strada l'idea di accumularle con la Necropotenza e costruirsi una fonte di luce che lo seguisse.

Resisti.

Auron chiuse gli occhi: sotto il sinistro percepì la luminosità residua. Sentì le luci dei morti spiraleggiare come serpenti che si mordono la coda e infine, sorpreso, vi vide quello che sembrava un ricordo.

 

Autunno 1016

 

Lihent non era alla sua prima missione di civilizzazione; Farin invece non solo aveva da poco aperto gli occhi sulla verità di Yevon, ma anche di rado era uscito dal suo villaggio. Lo avevano affiancato a un Templare esperto, un vero caposaldo per coloro che difendevano il tempio nascosto di Remiem.

Quindi poteva non temere per il viaggio e aprire il suo animo ai canti degli uccelli nella Piana, fissare sulla terra scavata dai tassi gli occhi dello stesso colore. 

Il chocobo di Lihent si agitò inquieto e zirlò in direzione degli stendardi che sventolavano a breve distanza da loro, forse percependo la presenza dei suoi simili.

Farin aveva sentito molto parlare dei pagani da cui erano stati inviati, e sperava con tutto il cuore che sarebbero riusciti a mostrare loro la via, poiché erano forti e indomiti. 

Si raccontava che il loro comandante, il mevyn dell’oceano d’oro, fosse un guerriero brillante e invincibile. Il suo popolo nomade, nel giro di pochi anni, aveva conquistato la distesa piatta e infinita che avevano davanti. Quando entravano in un villaggio, portavano la guerra da cui sapevano sarebbero usciti vincitori.

Non di rado però il popolo sconfitto consegnava le armi e si univa a loro. Era un sodalizio di uomini liberi, non di schiavi. Erano genti ancora ignoranti, ma che conoscevano l’onore e il rapporto con la terra e con i chocobo che addestravano.

Quella comunione antica da cui gli yevoniti stavano deviando era ciò che più affascinava Farin.

«Chi siete?» li richiamò una voce. Apparteneva a un uomo enorme, reso ancora più imponente dalla pelliccia che indossava. L’aspetto mansueto del suo chocobo faceva da contraltare a un viso segnato dal sole e dalla battaglia, sopra il quale aveva calcato un elmo di fattura molto semplice. Legato alle sue spalle c’era un vecchio fucile ad avancarica.

«Se portate guerra, andatevene. Oggi è giorno sacro».

Lihent spronò con delicatezza la sua cavalcatura e avanzò con entrambe le mani alzate. 

«Siamo Lihent e Farin, Templari di Yevon».

«E che cosa volete?»

«Un contatto con il vostro popolo» intervenne a sorpresa Farin, che non aveva distolto per un istante gli occhi dall’abbigliamento dell’uomo. Lihent si voltò verso di lui, ma poi riportò subito l’attenzione sul guerriero che li squadrava diffidente. 

«Abbiamo portato dei doni» aggiunse, «le spezie di Macalania, carne essiccata. E uno scettro di bronzo per il vostro comandante».

Il guerriero scoccò una rapida occhiata al panno rosso che Lihent porgeva. 

«Sono affari del mevyn se parlarvi o meno» aggiunse, dopo qualche secondo. «Se volete...»

«Va bene, Her Ket» intervenne all’improvviso una voce alle sue spalle. «Ho sentito parlare degli yevoniti, lasciali passare».

Era la voce di una donna molto giovane – questo fu ciò che rimase impresso nella mente di Farin, prima ancora di vederla – ed era dolce e autoritaria allo stesso tempo.

Quando alzò gli occhi, il ragazzo fu colpito da una folgore bionda, un bagliore improvviso che altrettanto rapidamente svanì, lasciandolo al cospetto di una creatura meravigliosa.

Nonostante fosse solo un’adolescente, la sua figura dritta in groppa al chocobo emanava l’aura di composto potere che lui immaginava attorno alle regine del passato. 

Farin, smarrito da qualche parte tra la piega severa delle sue labbra e la luce dei suoi occhi, che per un istante gli parvero mostrare curiosità nei suoi confronti, sentì a malapena le parole del guerriero:

«Sì, mevyn».

«Siete i benvenuti nell’oceano d’oro. Io sono Hanna» disse la ragazza, dopo aver accettato i doni ospitali che Lihent le aveva recato. Poi tirò le redini e spinse il chocobo verso le tende, sempre sorvegliata dal guerriero truce che li aveva accolti. 

«Seguitemi» li invitò. «Berrete nella mia tenda».

Obbedienti, Lihent e Farin sfilarono davanti a lei. Lo sguardo di Hanna fu di nuovo acceso dalla curiosità quando il più giovane le passò davanti.

«È uno scettro molto bello» commentò, rigirandosi tra le mani il bastone di bronzo. «È il più bello che ho mai visto. Da dove viene?»

Farin si guardò attorno con aria smarrita. Gli ci volle più di qualche secondo per capire che Hanna stava parlando rivolta a lui, tuttavia lei rimase ad aspettarlo con un sorriso paziente.

«Sì» rispose il ragazzo, in modo sconnesso. «Viene da Macalania. Siamo… sono felice che le piaccia, mia signora».

Hanna sorrise di nuovo. I loro chocobo erano ormai vicini e si stavano studiando, proprio come i due cavalieri.

«Parli strano» gli disse lei, divertita.

Nella tenda di pelli di Hanna, Lihent e Farin bevvero vino speziato e sopportarono gli sguardi curiosi di un gruppo di generali venuto ad assistere alla novità.

Il mevyn si dimostrò ospitale e cordiale, divise con loro il suo stesso pane e descrisse le pianure in cui aveva cavalcato, i mostri che aveva incontrato e i popoli che si erano uniti al suo. 

Mostrò loro i gioielli che le donne incinte creavano, un amuleto per la buona salute del loro bambino, e Farin non poté che immaginarli adornare il suo petto candido.

Tuttavia, Hanna non si separò mai dalle sue armi, un fucile con la baionetta e una pistola che teneva in grembo, forse orgogliosa dei decori sul calcio. 

«Ho sentito parlare dei vostri guerrieri» disse a un tratto, prendendo con due dita una polpetta di carne. Si interruppe e tirò le labbra in una smorfia. «Vorrei combattere contro di loro».

«Temo che questo non sia possibile, mevyn» intervenne Farin. «Almeno non per ora. Però posso mostrarle dei libri che narrano la nostra storia. La lotta contro Sin, gli eroi che abbiamo».

Quando nominò il mostro marino, vide un’ombra nera passare rapida nelle iridi della ragazza, come un ricordo che aveva cercato di reprimere affidandosi alla libertà, al vento e ai prati verdi.

«Libri?» ripeté però lei, in tono interrogativo. Nell’aria riscaldata dal fuoco e profumata dal cardamomo, prese un’altra polpetta e la portò alla bocca.

Per un istante Farin si vergognò del proprio intervento, ma poi vide di nuovo la curiosità nel viso di Hanna. La sua espressione lo spinse a frugare nella borsa per poi estrarne un tomo. Il mevyn osservò ogni sua mossa a occhi sgranati, attenta a non perdere il filo di un discorso silenzioso.

Immerso nel vociare degli uomini che li circondavano, Farin sfogliò rapidamente le pagine davanti a lei, quasi per mostrarle come si usasse quell’oggetto, e poi glielo porse.

Hanna lo esaminò, senza perdere il sorriso nemmeno quando una ruga sottilissima le si formò sulla fronte per segnare la sua concentrazione.

«È bello» concluse, dopo averlo rigirato tra le mani più volte. «A volte lo ho visto, anche altrove. Vorrei capire come funziona». 

Il giovane Templare capì che Hanna non sapeva leggere, che il suo intero popolo non ne sentiva il bisogno.

«Posso… insegnarle» le disse, con tutto il coraggio di cui era capace. Il sorriso sul volto della ragazza si allargò, e lui temette di cominciare a sollevarsi e venire assunto in cielo prima ancora di poter parlare di nuovo con lei. 

«Sì. Vieni domani a cavalcare con me. Puoi raccontarmi e io posso insegnarti qualcosa in cambio».

Farin abbassò il capo, per dimostrarle gratitudine ma anche per nascondere il rossore che si era impadronito delle sue guance.

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Capitolo 36
*** Lì sono i campi della speranza (Parte 2) ***


CAPITOLO 25: Lì SONO I CAMPI DELLA SPERANZA (PARTE 2)

 

 

«Ti prego, apri!»

Jecht batteva con forza il palmo aperto sulla porta di Braska. Non appena si era reso conto che Auron era andato via e non tornava, si era vestito velocemente come nelle notti della sua giovinezza in cui consumava rapporti fugaci, senza significato.

Fa’ che non l’abbiano preso. Fa’ che non fossero loro, pensò, senza smettere di bussare.

Trasse un respiro profondo e fece scivolare il palmo sul legno lucido. Non aveva idea del perché l’Inquisizione avrebbe dovuto arrestare Auron e non lui, ma era sicuro che se fossero arrivati il suo compagno li avrebbe seguiti senza un lamento, a capo chino e con solo una smorfia in viso. E infatti lui non lo aveva sentito chiamare aiuto.

«Braska...» implorò a mezza voce, cercando di impedire all’ansia di aggredirgli le viscere.

Quando alzò il braccio, vide la porta aprirsi e il compagno apparire, incorniciato dagli stipiti e immerso nel ticchettio leggero di un orologio.

«Auron… vero?» chiese l'Invocatore, stanco. Poi abbassò la testa e la scosse, come se si stesse incolpando di qualcosa. «Avevo sentito dei rumori. Sarei dovuto uscire a controllare».

Non è colpa tua, stava per dirgli Jecht. Poi si ricordò di tutte le volte in cui era stato lui a scomparire nel nulla. Anche la sua assenza lo aveva fatto sentire in quel modo?

«Come lo ritroviamo?» chiese, mordendosi l’interno della guancia. «Non ho davvero idea di cosa fare. Io… sono io che avrei dovuto seguirlo».

Braska diresse gli occhi verso le pareti del corridoio, decorate con un motivo a linee curve che veniva illuminato dalla luce aranciata delle lampade. Sul suo viso apparve un inaspettato sorriso.

«Lascia che ti dica una cosa, Jecht» replicò. «Se ti metterai a cercarlo anche solo con metà della cura e dell’apprensione con cui Auron ha sempre cercato te, allora lo troveremo molto prima dell’alba».

Dalle labbra dell’atleta, che era rimasto impietrito con lo sguardo fisso davanti a sé, uscì un involontario gemito di sorpresa.

Poi tornò in sé, strinse i pugni e indicò le scale con un cenno del capo. 

«Andiamo».

Mentre scendevano in silenzio, controllarono se ci fosse qualcuno ancora sveglio a cui chiedere informazioni; tuttavia, Rin sembrava essere andato a dormire, come tutti i suoi ospiti.

«Gli uomini di tuo fratello…» chiese Jecht in un sussurro, guardandosi attorno nella hall deserta, «potrebbero essere stati loro?»

Braska fece schioccare la lingua.

«È andato a Luka» mormorò, per poi stringere le mani sullo scettro. «Tra dieci giorni c’è il torneo di Blitzball annuale, a cui presenziano tutti i vertici di Yevon. Credimi se ti dico che Alan ha cose più importanti di noi a cui pensare». 

Uscirono dalla Casa del Viante e si immersero nell’umidità della notte. Braska lanciò un’ultima occhiata verso l’edificio, per verificare che gli scuri di tutte le stanze fossero chiusi, poi impugnò lo scettro con entrambe le mani e mormorò una preghiera.

Una luce elettrica lo avvolse, formò due sfere concentriche e infine svanì. Lui diresse l’arma verso un portale scoppiettante che si era aperto nel centro del cielo, e la punta dell’asta fu collegata da un fulmine sottile a qualcosa che si trovava oltre. 

Di Ixion Jecht vide prima il corno dorato, poi gli zoccoli e le froge che soffiavano fumo. 

La creatura agitò la criniera e guardò il suo Invocatore, in attesa di indicazioni. Jecht  a sua volta fissò lo sguardo su Ixion e un brivido gli percorse la schiena. Ricordava la sua forza, luminosa come i lampi che spaccano il cielo. Lo scontro che avevano avuto era ancora vivido nella sua mente, e temette di prendere la scossa se lo avesse toccato.

Chinò il capo con rispetto davanti al grande animale, e quando sentì di averne il permesso salì in groppa dietro a Braska. Nel tentativo di tranquillizzarsi, respirò a fondo e strinse la presa sui fianchi dell’amico, sottili sotto la larga tunica. Poi alzò gli occhi sulle scogliere.

Ixion partì, e presto acquistò una velocità che le altre creature non potevano raggiungere. Il passaggio del chocobo di Auron non era molto evidente nel buio della notte, ma Braska e Jecht notarono un insolito flusso di lunioli che si muoveva ordinato sotto la luna dal volto di perla.

L'Eone seguì quel sentiero invisibile come mosso dall'istinto e, in qualche modo, Jecht sentiva che fosse la strada giusta: era un evento troppo particolare per non avere significato.

Ixion nitrì, e al suo grido fece eco quello più modesto del chocobo di Auron, spaventato dal rumore assordante che aveva riempito la prateria.

Braska fece fermare la creatura lontana dal chocobo, per non farlo scappare, poi accese attorno a sé delle piccole luci e avanzò senza timore.

Jecht socchiuse gli occhi e, quando fu abituato al bagliore, gli parve di vedere tra le fronde una massa nebulosa, confusa, dalla quale talvolta si staccavano figure umane che indicavano un punto nella parete di roccia.

L’atleta afferrò il braccio di Braska, estrasse la spada e avanzò davanti a lui nell’erba che frusciava. Ridotta la distanza, gli furono sempre più evidenti le sagome bianche di quelle persone: allungando le mani verso l’ingresso di una caverna, emettevano dei lugubri lamenti a cui rispondeva lo stridio dei lunioli.

Non riesce a entrare, pensò Jecht, stringendo i denti. 

Lanciò un ultimo sguardo verso l’Invocatore, che sembrava non vedere, e poi avanzò verso i fantasmi, il cui gemito era diventato un canto sincrono.

CORO             Astro del primo cielo, o luna d’argento che guardi,
occhio della notte divina:

tra quelli che lassù il sotto governa e sostiene
la più dolce sei per i màrtiri.

Ma non a me che affondo nel mio soffocante dolore
offri la corona dei raggi:

mio figlio vedo là. Almeno a lui porgi la luce.

(JECHT avanza voltandosi di tanto in tanto. Attorno a lui il mondo è immobile, come se potessero agire solo lui stesso e il CORO)

JECHT A chi dici figlio?

CORO             A te, creatura del mio sogno.

JECHT Perché piangi?

CORO             Perché non posso entrare. 

JECHT E cosa c’è dentro?

CORO             Nulla!

JECHT E allora…

CORO             Solo un uomo che odia.
E nulla è l’odio dei mortali.

CORIFEO        (Avanza) Lascia parlare me. È dentro questa grotta un uomo
che in vita si chiamava Shuyin

e a Zanarkand ha addotto infiniti lutti, anche quando
il fato gli è sceso sugli occhi.

Ora rimane lì, e solo ricorda e detesta.

CORO             È nulla l’odio dei mortali.

CORIFEO        Il suo scudo è più forte di tutte le stelle del cielo,
tale che non posso passare,

ma tu che non sei me, e insieme lo sei, puoi entrare.
Raccogli le forze, mio eroe:

la luna è piena e alta, e quindi consacrata al dio. 

CORO             È nulla l’odio dei mortali.

CORIFEO        Portamelo, espierà con una corona sul capo
la sua ira, una bella corona intrecciata di viole. 

JECHT Che cosa ci guadagno se te lo porto?

CORO             Sognare mi affatica. Ah, figlio mio, io sono stanco
di cantare una città persa. 

Verrà il giorno in cui tu – anche tu – vorrai nella morte
terminare il lungo tuo strazio.

In cambio ti prometto: darò forza all’Invocatore –
potere tremendo ha il mio canto –

E anche libererò, morendo, chi per la Città
sta ardendo nel suo stesso fuoco.

CORIFEO        (Si volta verso il CORO) Sì, se non c’è altro modo.

JECHT Ti accontenterai dunque del sangue di un sacrificio? Ti dedicherai solo a Braska?

CORO             Ti offro due vite per una.

JECHT È vero, ma se tu te ne vai, e Sin davvero ritorna dopo che l’abbiamo ucciso, depriverai per sempre questa terra della speranza. 

CORO             Ma molte risorse hanno gli uomini.

JECHT Hanno le macchine, per cui il loro stesso dio – il vostro re – li ha puniti. Hanno l’intelligenza, la tracotanza, una mente dalle molte forme. È vero, io non condivido i riti cruenti di Spira: per me sarebbe meglio che tu te ne andassi, e col tuo ultimo atto sostenessi Braska, gli facessi raggiungere il Bonacciale. Però non posso io, uno straniero, decidere la sorte della loro isola. 

CORO             Se rifiuti, anche tu attendi chi termini il ciclo.
Così fanno su questa terra:

sperano nel mio sogno, che io faccia nascere il veltro
che cacci il peccato dal mondo.

Jecht rimase immobile davanti all’ingresso della grotta, nelle orecchie ancora l’ultima eco del coro che era svanito. Chiuse gli occhi, nel tentativo di valutare le due opzioni che il suo interlocutore gli aveva offerto.  

Prima, pensò, cercando di decifrare le strofe del canto, posso portare questo Shuyin al limitare della grotta, dove hanno intenzione di sgozzarlo in nome di chissà quale dio antico. 

Vedeva se stesso trascinare un uomo dai lineamenti indefiniti, che tentava di divincolarsi e implorava per avere salva la vita. 

Se lo farò, hanno detto che concederanno tutti i loro poteri a Braska. Avrebbe più possibilità di sopravvivere quando… 

Aprì gli occhi, e vide Braska che, ostacolato dalla tunica, si faceva strada tra i cespugli. Sembrava non essere successo nulla, per lui.

Quando arriveremo a Zanarkand. 

«È da questa parte» annunciò l’Invocatore, con gli occhi illuminati dal riflesso verdazzurro che proveniva dalla grotta. Abbassò la voce. «Lo sento». 

Seconda. Dei piccoli rami secchi scricchiolavano sotto i piedi di Jecht. Posso evitare di compiere un sacrificio umano e di condannare qualcuno di cui non conosco la colpa. Allora il Coro non sarà soddisfatto e continuerà a sognare la sua città caduta, finché un giorno non darà origine a un eroe che arriverà su Spira e metterà fine al ciclo infinito di Sin. 

La notte era violacea, e il luogo dove erano diretti era oscuro. 

Ma questa opzione richiede di avere fede - e io non ne ho. Fede, o fiducia in quella schiera di spettri. 

Jecht trasse un respiro profondo e, con un cenno della testa, invitò Braska a entrare assieme a lui. Avanzarono cauti: l’Invocatore manteneva salda la mano sulla spalla del suo Guardiano per non perdersi nell’oscurità.

Dal fondo della grotta provenivano i rumori di quello che sembrava un combattimento: lamenti e colpi che si levavano nell'aria fermarono per pochi istanti la loro avanzata.

Jecht si irrigidì, stringendo d'istinto l'elsa della spada, mentre Braska si avvicinò di più alla schiena del compagno.

In lontananza, un leggero bagliore attirò la loro attenzione e sembrò, in qualche modo, calmare un poco i battiti spaventati dei loro cuori. 

Jecht fece un cenno verso la fonte luminosa e spronò Braska ad accelerare il passo.

«Non farti distrarre dalla luce, Jecht. Rimani concentrato come se non ci fosse».

L'atleta annuì e rallentò nuovamente, avanzando fino a immergersi nella piccola aura con tutto il corpo. 

Entrambi si sentirono al sicuro, ma i colpi si erano fatti sempre più forti e, fiduciosi di essere ormai vicini al loro compagno, iniziarono a cercare nei dintorni con lo sguardo. 

Indistinta per la distanza e il buio, una figura avvolta in un ampio cappotto si avventò contro un’altra, più piccola, cercando di bloccarla in una presa a mani nude.

«Auron!»

La voce cristallina di Braska si infranse nel vuoto, spezzata dal rumore sordo della lama di Hanna contro l’armatura di Auron. Lui, sbalzato indietro come un manichino, recuperò l’equilibrio sulle gambe, le braccia ancora a penzoloni.

Dalle labbra di Jecht sfuggì un respiro rumorosamente mozzato quando il suo compagno alzò il volto: i lunioli rivelarono il suo naso incrostato di sangue, mentre la sua spada giaceva a qualche passo da lui, abbandonata.

L’atleta spostò lo sguardo su Braska per un istante, ma poi lo riportò sulla scena a cui era incatenato. 

Hanna, come se non fosse consapevole di avere un’arma, strinse il pugno sinistro e lo diresse verso la guancia di Auron. Lo colpì. Poi infierì di nuovo su di lui con un montante.

«Auron! Che cosa stai facendo?» provò a gridare Jecht. Gli occhi d’ambra del suo amico saettarono verso di lui, poi tornarono sulla donna feroce che continuava a picchiarlo senza che lui reagisse.

«Ho pagato per la mia colpa!» mormorò il Guardiano, rivolto ad Hanna. Poi alzò la voce. «Ho pagato! Adesso falla tornare com’era!»

Il Capitano dei chocobo si fermò con un pugno sospeso a mezz’aria e socchiuse la bocca, lasciando cadere la mascella. Aveva un’espressione di forzato stupore sul viso cereo. 

«Come… era…» ripeté, in tono assente. «Come… era».

I suoi occhi spiritati, azzurri come il cielo che sempre era sereno sulla Piana, fissavano il guerriero di fronte a lei. 

 

 

Autunno 1016

 

Il sole splendeva sulla Piana della Bonaccia e l’erba scintillava e davanti a lei Farin montava il suo chocobo. Il sorriso che gli animava le labbra rendeva ancora più belli i suoi lineamenti dolci. 

Hanna drizzò la schiena sulla propria cavalcatura, offrendo alla sua vista, tutta intera e senza sfumature, la figura dignitosa di un mevyn.

«Perché ieri, nella tenda, continuavi a guardare le mie armi?» gli chiese, con una curiosità gentile. 

Farin sembrò riscuotersi nello stesso momento in cui il vento gli scompigliò i capelli castani. Si sforzò di non perdersi nei grandi occhi rotondi della ragazza mentre rispondeva:

«Le armi da fuoco sono proibite dai dogmi di Yevon». 

«Dog… mi» ripeté Hanna lentamente, come per indagare sul significato di quella parola. Scosse la testa, come per allontanare il pensiero. «Perché? La polvere nera è forte».

Lo sguardo di Farin si perdé all’orizzonte lontano. 

«Tanto tempo fa, più o meno mille anni, ci fu una grande guerra tra due città. Ne hai mai sentito parlare?»

Hanna annuì, accompagnata dal tintinnio delle briglie che stringeva in mano e dal fischio del vento.

«I loro…» continuò Farin, «i loro mevyn combattevano usando le macchine, e fecero adirare il dio con le loro azioni. Egli inviò Sin per punirci, e ancora stiamo espiando la colpa».

«Quindi voi» replicò Hanna, «credete che stiamo, oggi, pagando una colpa di mille anni fa?»

Un iaguaro, bellissimo, passò correndo in lontananza, con i lunghi baffi che si agitavano al vento e le strisce sul mantello che si confondevano per la distanza. 

«Non è che lo crediamo, è così. Pensa a Sin». 

Hanna fece voltare con delicatezza il chocobo, in modo da potersi trovare dritta di fronte al ragazzo.

«Non conosco Yevon» dichiarò, con fermezza, «ma il mio cuore e il mio popolo sono decisi nella lotta contro Sin. Siamo in attesa di qualcuno che ci possa infiammare».

Farin fu in grado di farlo. Le insegnò a leggere le scritture di Yevon, le mostrò la cultura. Donò medicine a quelli che, nel suo campo, ne avevano bisogno. 

E Hanna lo ringraziò nell’unico modo che conosceva per ringraziare un uomo.

 

 

«Farin…» singhiozzò il Capitano dei chocobo, mentre la spada le cadeva dalle dita.

Farin era davanti a lei, che la guardava e la giudicava. La odiava per averlo tradito e la ripudiava. In ogni sua mossa Hanna vedeva la giusta punizione, eppure le sue mani, come legate a un filo invisibile, continuavano a colpirlo e a macchiarsi le nocche del suo sangue. 

Farin, pensò, mentre il dolore le dilaniava un’altra volta l’addome e la ragione svaniva di fronte al velo rosso che le era sceso sugli occhi. 

Provò a chiamarlo, ma dalle labbra le uscì solo un lamento di bestia. 

Mentre la ragazza gridava, tra i lunioli che la circondavano si delineò la figura di un uomo. Delle braccia la cinsero, come per cercare invano di calmarla. 

«Non la toccare!» gridò Auron, senza temerlo. Tentò di dirigere verso di sé i lunioli che lo componevano, di strapparli via, ma lo sforzo eccessivo lo costrinse a chiudere gli occhi.

Nel buio forzato delle sue palpebre, sentì la risata lenta e misurata dell’uomo.  

«Shuyin!» gridò la voce di Jecht alle sue spalle. 

Auron aprì gli occhi e incontrò il viso di quello che era poco più che un ragazzo, con le sopracciglia bionde inarcate per la sorpresa e le labbra semiaperte. Subito dopo, la sua espressione si contorse in un sorriso. 

«Vegnagun» commentò il giovane, lasciando Hanna e muovendo qualche passo verso le pareti della grotta. Il luogo sembrò trarre un lungo, rauco respiro. 

«Chi sei?» replicò Jecht, che non conosceva il significato di quella parola. Socchiuse gli occhi nel tentativo di vederlo meglio, ma scorse solo un riflesso di capelli chiari e un’uniforme che gli ricordava in modo inquietante una divisa da blitzball.

«Al Coro non sta più bene la mia punizione?» continuò Shuyin, senza dare segno di averlo ascoltato. «So che gli piace avere il privilegio della sofferenza, ma questo è il luogo del mio dolore. Mio e di Lenne. Mi piacerebbe smettere di pensare a quel momento, ma i lunioli mi costringono a riviverlo ogni giorno».

Le pareti della grotta emisero un secondo rantolo, contraendosi e rilassandosi come se fossero fatte di carne.

Auron, approfittando della distrazione dell’avversario, si scagliò contro di lui a spada tratta, ma Shuyin si limitò a stringere il pugno e fare il gesto di tirare qualcosa a sé.

Il corpo di Hanna, muovendosi senza volontà, si frappose tra i due. Il fendente del Guardiano fu fermato dalla sua armatura, ma l’impatto fu tale da scaraventarla al suolo. La ragazza fece forza sulle braccia per rialzarsi, mentre dalle sue labbra usciva un gorgoglio ferale assieme al sangue che sputava al suolo. 

«Liberala!» urlò Auron, poco prima che lei gli si avventasse addosso con un urlo. Con sforzo non indifferente le bloccò le mani in alto, prendendola per i polsi. Lei ringhiò e sputò prima di cominciare a scalciare 

«Liberarla?» commentò Shuyin, mentre lui fissava gli occhi spenti del Capitano. «Quindi non hai capito? Ti sono stati dati gli occhi per vedere, e tu non hai ancora compreso?»

Hanna afferrò la spada di Auron, tagliandosi i palmi. Sembrava sorda a ogni richiamo, tanto da non riconoscere più nemmeno il proprio nome. Strattonò l’arma verso di sé, costringendo il monaco a una prova di forza per rimanere in piedi. 

«Stai zitto» replicò Auron, con voce alta e autoritaria. Riuscì a spingere via Hanna, che rovinò di nuovo nella polvere lasciando una scia di sangue, tuttavia il suo respiro tradì la fatica. «Ti ho detto di lasciarla libera».

Il suono del metallo che raschiava la roccia gli fece capire che Hanna aveva recuperato la sua arma. 

La bella guerriera guardò davanti a sé, non più in grado di ricordare e non più in grado di capire. Sentiva solo, nel petto, il battito d’oro dell’orda che investiva la Piana e il canto di gola levato verso il cielo. 

Quando nacque loro figlia la chiamarono Lucil, poiché era il nome del sole che splende sulle armi dei vincitori.

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Capitolo 37
*** E benedirete le tenebre ***


CAPITOLO 26: E BENEDIRETE LE TENEBRE

 

 

 

Primavera 1020

 

 

«Lucil!» la richiamò la madre dall’interno della tenda. 

La piccola alzò le narici per fiutare l’odore del latte caldo e mosse dei rapidi passi verso la sua origine. La singola cavigliera che portava – la seconda l'avrebbe ricevuta quando sarebbe divenuta donna – tintinnò allegramente seguendo il suo ritmo. 

Era importante, le dicevano, rispettare il battito delle cose che avevano vita. Come bisognava ascoltare il chiocciare lento dei chocobo, così il latte nel paiolo era da mescolare con i movimenti ampi che le mostrava sua madre.

Hanna teneva una mano sul grembo e, attraverso le labbra socchiuse, mormorava la canzone che le avevano insegnato quando era ragazzina e, nella stiva della nave, doveva calmare gli altri fuggiaschi. 

In armonia con la sua voce, i secchi movimenti del coltello del padre intagliavano una ciotola, spargendo piccole scaglie di legno tutt'intorno. Il suo volto bonario e giovane era nascosto da una nebbia di tabacco al miele, dalla quale sfuggiva di tanto in tanto la litania ritmica di una preghiera.

Yevon ormai li proteggeva. La vita nomade era dura e non priva di pericoli. C'erano bestie da cui proteggersi, bestie da cacciare e bestie da domare: ogni giorno il coraggio e la forza del popolo venivano messi alla prova. Più di una volta, Farin si era chiesto se fosse adatto.

Non sapeva ammaestrare i chocobo e non era un guerriero, ma trovava il suo posto nella comunità riconoscendo e raccogliendo erbe profumate e medicinali nella grande Piana, o pescando sulle rive dei fiumi.

Tramandare le sue abilità alla figlia era per lui motivo di felicità: Lucil sarebbe diventata un grande mevyn come sua madre, ma quelle nozioni l'avrebbero accompagnata per tutta la vita, anche quando per lui si sarebbero aperti i cancelli ogivali dell’Oltremondo.

Farin passava ore a far giocare la piccola con le varie erbe: gliele faceva annusare e stringere nella mano paffuta, le insegnava il loro nome e a cosa servissero. 

Sotto lo sguardo attento di Hanna, Lucil tentava di afferrare i pesci che il padre tirava fuori dall'acqua, immersa fino a metà polpaccio nel fiume.

«Ti dispiace se la porto al fiume invece di insegnarle a combattere?» chiese un giorno Farin all’amata.

«Corre tutto il giorno dietro alla tua canna da pesca, sta diventando veloce. Sa riconoscere erbe che possono curare le sue ferite: sarà forte e intelligente anche per merito tuo».

Hanna posò una mano sulla nuca della figlia e le scompigliò i capelli, per poi spingerla con delicatezza verso il campo dove giocava un pulcino di chocobo. Lucil, il sole che splende, si gettò a rincorrerlo con una risata.

«Sin ha attaccato un avamposto dei Crociati sulla Via Djose» disse il mevyn, con gli occhi fissi sulla scena che aveva di fronte. 

«Chi te l’ha detto?» replicò Farin, allarmato. «Avevo avvisato di non…»

«Sono il mevyn» lo interruppe Hanna, poi si portò una mano al ventre. «Sono incinta, Farin, non malata». 

«In ogni caso, vorrei che tu stessi lontana dal campo di battaglia».

Hanna spostò su di lui gli occhi truccati, e Farin si accorse che erano stanchi. Forse stava avendo qualche difficoltà a dormire.

«La neve alle pendici del Gagazet si sta sciogliendo,» gli disse lei. «Ti prego: fammi condurre i miei uomini dove abbiamo sepolto i fucili. Sono forti, se si uniranno alle schiere dei Crociati di Mi’ihen riusciranno a respingere l’assalto».

Il giovane si morse il labbro. Era vero, le armi da fuoco avrebbero potuto salvarli, ma non osava nemmeno pensare a quel sacrilegio che avrebbe portato solo nuova sofferenza a Spira.

Il dolore della loro terra era come una spirale che si avvolgeva su se stessa, larga in principio e infine molto stretta, fino a convergere nella gola del mostro marino.

«Anche se non credi ancora nel nostro espiare le colpe di mille anni fa, non ti dovresti unire a loro. I Crociati sono stati scomunicati dalla Chiesa e non godono più della protezione di Yevon».

Hanna strinse l’ultimo nodo della treccia, poi la legò e se la gettò alle spalle, in modo che potesse tornare a dialogare col vento.

«Chi l’ha deciso?» 

«Cosa?»

«Scomunica».

«Ah… la Chiesa di Yevon,» ripeté Farin, interdetto. Poi si piegò nella reverenza, come se, dalle spaccature tra i sassi e dalle cime degli alberi, un inquietante occhio semprevigile lo stesse osservando. «Loro conoscono la volontà del dio».

«Sì, ma che uomo l’ha deciso?» chiese Hanna, con gli occhi di nuovo sulla Piana della Bonaccia dove innumerevoli volte aveva condotto l’orda. «Voglio sapere il nome».

Lui aggrottò le sopracciglia e tentò di richiamare a sé un ricordo. Nonostante ancora il popolo di Hanna fosse diffidente con lui, uno straniero di cui aveva solo in parte abbracciato il credo, Farin era riuscito a conoscerne i costumi. Sapeva allora che quando un guerriero chiedeva il nome di un altro lo faceva perché desiderava sfidarlo ad armi pari. 

Non poteva negarle la risposta perché, nonostante Hanna fosse la madre amorevole di sua figlia e portasse un altro bambino in grembo, quella richiesta proveniva dal mevyn dell’oceano d’oro.

«Il Maestro di Yevon a capo dell’Inquisizione» replicò. «Credo che abbiano eletto Alan».

«Alan,» ripeté la ragazza in tono neutro, intrecciando le dita delle mani in grembo. «È forte?»

«Sì».

«Desidero inviargli una lettera. Dirgli che il mevyn della Piana della Bonaccia vuole sfidarlo a duello per valutare la sua forza. Se vincerà, o se si dimostrerà degno, mi unirò al suo esercito».

«Però lui…» si oppose debolmente Farin, «non conosce il tuo popolo, o che cosa significhi mevyn».

Hanna alzò il mento e socchiuse le ciglia per difendere gli occhi dal sole.

«Vorrà dire che lo conoscerà».

 

 

«Hanna al Maestro Inquisitore Alan,» dettò il mevyn, seduta a terra di fronte al tavolo. Quando spostò il peso da una gamba all’altra, i dischi di metallo che le adornavano la veste tintinnarono l’uno contro l’altro. «Salute».

Farin terminò di tracciare l’ultima lettera e intinse il calamo nell’inchiostro. Aveva insegnato ad Hanna a leggere e scrivere, ma lei aveva preferito affidarsi a lui poiché non si sentiva ancora in grado di comporre senza errori una lettera dal tono ufficiale. 

Nonostante riponesse l’estrema fiducia in lei, e non desiderasse influire nelle sue decisioni, Farin tuttavia riteneva che un aiuto in campo diplomatico avrebbe potuto risultarle utile, soprattutto perché gli uomini a cui intendeva rivolgersi avevano usanze molto diverse dalle sue. 

Dubitava, però, che avrebbe mai ricevuto una risposta.

«Ti- le scrivo in nome di mevyn. Come posso dire?»

«Generale».

«Non mi piace».

«Comandante».

«Le scrivo in nome di comandante del popolo che dà a se stesso il nome di oceano d’oro. Siamo stanziati nella Piana della Bonaccia. Anni fa abbiamo ricevuto i vostri uomini e li abbiamo accolti tra noi con cibo e doni ospitali. Siamo stati istruiti sulla via di Yevon e l’abbiamo abbracciata,» fece una pausa. «Io stessa ho sposato un Templare, che può garantire le mie parole».

«Nonostante quasi tutti quelli sotto il mio comando siano stati rifiutati, un giorno lontano, da Spira, non ignoriamo che Sin costituisca un pericolo comune, e soprattutto non possiamo non desiderare un’alleanza con chi per primo lo combatte, pur utilizzando armi diverse. È per questo motivo che voglio incontrarla, non prima che sia trascorso da oggi l’ottavo mese, e sfidarla a duello per–»

«Forse è meglio scrivere in modo diverso questa parte,» intervenne Farin.

«Come mai?»

Lui rifletté per un istante, passando il dito su una delle venature del legno del tavolo. 

«Vedi, tu stai parlando con qualcuno che non conosce le usanze del tuo popolo, quindi…»

«Quindi devo trattarlo come uno stupido?»

A Farin sfuggì un sorriso, custodito da una provvidenziale penombra. 

«Non come uno stupido,» commentò, «ma come un bambino». 

Hanna sospirò, forse persa in un ricordo del proprio passato e immersa in un sole che le riscaldava le guance.

«È per questo motivo che desidero incontrarla,» si corresse poi, «una volta trascorso da oggi l’ottavo mese…»

… e se è vero che troverò un capo virtuoso e forte, come i suoi soldati raccontano, sarò pronta a prestare ogni mio mezzo, ogni mia arma e ogni mio uomo alla causa di Yevon, il cui occhio ci sorveglia e ci guida. 

Confidando in una sua risposta,

D. V dall’equinozio di primavera 1020.

Farin rilesse per l’ultima volta la lettera, prima di arrotolarla su un bastoncino di legno e consegnarla a una donna che con il suo chocobo la portasse ai legati dell’Inquisitore. Come il suo amore non poteva far sì che Hanna fosse al riparo dal male, così le sue azioni non potevano darle la certezza che la lettera ricevesse risposta, ma solo che venisse consegnata.

 

 

Consegnato alla caverna un grido schiumoso, Hanna si scagliò con rabbia contro Auron, la lama della spada che fremeva nell’attesa della violenza. 

Il monaco trasse un profondo respiro e piantò i piedi a terra, assumendo quella posa tanto ammirata da Jecht che, all'apparenza, non poteva essere sbilanciata.

Lo schianto della lama di Hanna su quella di Auron fu inaspettato: il monaco era preparato a ricevere un colpo caricato con tutto il peso del corpo, ma non si aspettava una simile potenza da una guerriera più agile che forte, abituata ai combattimenti a cavallo dei chocobo.

Jecht strinse il braccio di Braska d'istinto, come per proteggerlo dal reboare delle pareti rocciose.

Nonostante fosse mossa da una furia innaturale, Hanna fu costretta a recuperare l'equilibrio dopo essersi sbilanciata tanto, permettendo ad Auron di accusare il colpo e rilassare le braccia per qualche istante.

Vedendo il nemico ancora in piedi, la guerriera si lasciò andare al desiderio di sangue e decise che lo avrebbe piegato con la forza bruta, usando la spada più come un martello che come un'arma da taglio.

Calò vigorosi colpi a braccia levate, con forza crescente, spingendo Auron a piegare le gambe e subire tutto senza cedere. Il monaco strinse i denti, mentre la sua presa sull’arma veniva diluita dal sudore dei palmi.

Non voleva ferirla, ma doveva almeno bloccare i suoi movimenti e renderla inoffensiva. Hanna dovette indietreggiare, vinta dalla fatica; la pupilla immobile e le sue azioni illogiche facevano intendere che non fosse in sé, ma Auron non lo voleva capire.

Il monaco mosse un passo rapido nella sua direzione e la spinse a terra con una spallata, per poi bloccarle la mano armata con lo stivale nella speranza di separarla dalla sua spada. 

Hanna urlava e si dimenava come un demone, con la bava alla bocca e occhi spiritati. Il suo corpo iniziò a brillare di una luce tenue e la sua figura sembrò come dividersi; temendo per la sua sicurezza, Auron si tirò indietro e la lasciò libera. 

Offesa da un tale affronto, la guerriera recuperò la spada e la brandì a una mano, ma ogni fendente aveva la forza di due uomini, e Auron notò che la lama copriva un'ampiezza inusuale per quel tipo di arma.

Le sue ipotesi vennero confermate quando, parando un colpo frontale, sentì di essere stato colpito alla mano.

Jecht, che osservava in disparte, giurò di aver visto una seconda Hanna più eterea che calava i fendenti assieme al corpo originale, solo per pochi istanti.  

«Vengo ad aiutarti!» disse l'atleta, mettendo mano alla spada, ma Auron lo fulminò con lo sguardo.

«Non osare!» urlò con rabbia. «Sta’ al tuo posto e proteggi Braska!»

Jecht fece per ribattere, ma l'Invocatore lo tenne stretto a sé.

«Non distrarre Auron,» intimò Braska al suo Guardiano più anziano, non con la consueta gentilezza, ma per la prima volta come un ordine. 

Auron si rimise in guardia e scosse la testa: le possibilità di scoprire il fianco erano aumentate, ma doveva puntare comunque a bloccarla senza farle del male.

La familiare pressione dietro l'occhio destro divenne un leggero prurito quando Auron usò la Necropotenza per creare piccole sfere di lunioli intorno alla propria figura, pronte a colpire come proiettili al suo comando.

Anche se Hanna era stravolta dalla fatica, assalì nuovamente Auron con fare scomposto, come un animale impazzito. Fu respinta dalla Necropotenza del monaco e sbatté contro una parete della grotta, causando una piccola crepa.

Auron capì, e lanciò le sue sfere di lunioli contro la roccia dietro Hanna, che stava ancora riprendendo i sensi dopo il forte urto subito. La piccola frana che si creò la investì senza però sotterrarla, bloccandola a terra e impedendole di usare ancora il suo incantesimo. 

«Capitano Hanna,» disse il ragazzo, allontanandosi da lei e rimanendo in guardia, «le chiedo di arrendersi». 

Come un animale trafitto da una freccia getta indietro il capo e leva le sue grida, lasciando che il dolore conduca la sua fiera ultima corsa, così la donna urlò, con le ginocchia a terra e la spada in mano. Nonostante la sua ferita al fianco sanguinasse copiosamente, si gettò contro il nemico. 

Tra i gemiti, colpì per tre volte Auron, la cui spada non riusciva a sostenere l’ultimo affondo. 

La lama gli scalfì la corazza sul pettorale sinistro, e la violenza dell'attacco incise comunque la sua pelle, portando Hanna alla portata di un calcio che la spinse indietro.

Resasi conto della scarsa efficacia del suo assalto, lei non diresse più i colpi al torace. Senza il senno negli occhi, puntò a colpirgli il braccio non armato, costringendo Auron a piegarsi sulla gamba per reggere i colpi feroci.

Resistette il più possibile, ma infine le lame gli lacerarono il braccio sinistro, disegnando una scia umida sul cappotto. 

Il monaco indietreggiò deformando la bocca in una brutta smorfia, ma Hanna si slanciò ancora per mordergli l'avambraccio come un animale rabbioso, intenzionata a strapparglielo con tutte le sue forze. 

Auron urlò, lasciò cadere la spada e le afferrò i lunghi capelli, una volta mossi dal vento della prateria, e li tirò con violenza fino a strapparne qualche ciocca, costringendola a ritirarsi in fretta reggendosi la testa con le mani. 

Il monaco recuperò la spada prima ancora del fiato, muovendo già un passo verso di lei come aveva fatto mille volte in addestramento, ma si costrinse a fermare l'istinto di attaccarla.

«Le chiedo di arrendersi!» tuonò Auron ancora una volta, pregando che il capitano rimanesse intimorito.

Ogni parola pronunciata dal monaco aveva il suono di un nemico diverso alle orecchie di Hanna, accendendo nuovamente il fuoco della follia che la stava divorando. 

Si fece guidare dalla scia di sangue che Auron si lasciava dietro e assalì l'arto ferito, ma il monaco si fece trovare preparato e la contrastò senza conseguenze: bloccò l'ultimo colpo, il più forte, e mantenne il contatto della sua spada con la lama dell'avversaria, più piccola e meno robusta, incline a essere spezzata.

Hanna caricò il peso dell’intero corpo sulla propria arma per spingere via Auron, avvicinando pericolosamente il volto a quello del giovane. 

Senza preavviso e con la bava alla bocca, il capitano schiantò la sua fronte su quella del monaco che tirò indietro la testa. Le spade scivolarono l’una sull'altra e quella di Hanna si infilzò sullo sterno di Auron.

Una gran quantità di sangue iniziò a scorrere sul petto del ragazzo che, per contrastare la pressione della donna, si vide costretto ad afferrare la lama con la mano sinistra e spingerla via, tagliandosi il palmo in profondità.

Hanna si allontanò al limite delle sue forze, si fermò fissando un punto non ben definito e non si mosse, dando ad Auron il tempo utile per fasciarsi la mano al meglio delle sue possibilità.

I piedi del mevyn si staccarono dal suolo della caverna per farla volare contro Auron, accompagnata dalla forza di un’orda irreale che saltava con lei. 

Non vi fu nessun ostacolo tra lei e la spada del nemico.

 

 

Come non esiste custode d’un tesoro che non abbia, per quanto inflessibile, desiderato almeno una volta le ricchezze che protegge, così non c’è comandante, per quanto virtuoso, che non abbia tra i suoi chi gli rema contro.

Il messo cui era stata consegnata la lettera, con un’azione che a Bevelle sarebbe stata alquanto severamente punita, aveva appena finito di leggerla ad alta voce nella tenda di Her Ket. 

Lui si rigirò al dito l’anello di rame su cui si specchiava il baluginio del fuoco. Liberò la collana dai propri capelli, che vi si erano attorcigliati; gli arrivavano alle spalle, ma erano stati lunghi fino alle scapole prima che gli morisse il secondo figlio. 

«Non avremo beneficio dalle sue azioni. Sono dettate dalla follia per uno straniero!» esclamò, rivolto alle fiamme. Il piccolo clan che aveva alle spalle, formato da membri della sua famiglia e da altri che avevano rifiutato l’alleanza di Hanna con gli Yevoniti, sembrava una schiera di spettri dalle vesti di cotone grezzo. «Ma lo faccia, e regni su di un popolo stuprato!»

«Hai paura di combatterla, Her Ket?» lo raggiunse la voce stridente di suo fratello Naziki. L’attimo dopo lui uscì dall’ombra, assieme al suono di perle di legno che sbattevano l’una sull'altra. Lui non s’era rasato, per la morte del nipote.

«No!» berciò Her Ket, «e presta fede a queste mie parole: prima che il sole, domani, arrivi al suo punto più alto, io sarò il mevyn dell’oceano d’oro, e lei non sarà niente». 

Mantenne la sua promessa.

Il giorno seguente si diresse verso il fiume che a serpentina tagliava la Piana, nel punto dove sapeva che Farin conduceva la figlia. Quando lo vide, lo indicò con atteggiamento imperioso all’uomo che aveva di fianco.

«Vedi,» gli disse, con gli occhi fissi sui simboli di Yevon che adornavano il petto di Farin, «come conserva i costumi di quelli che vogliono sottometterci?»

I due spronarono i chocobo con un grido ribelle e circondarono uomo e bimba, indifferenti alle loro urla. Nell’istante in cui estrasse la spada, con l’intenzione di calarla su di lei, Her Ket vide che i suoi occhi erano identici a quelli del figlio compianto.

«Fermatevi!» li implorò Farin, e tre volte levò – nel vedere rapita la sua bambina – alte grida che non potevano essere udite. 

Her Ket premette il viso di Lucil sul petto, in modo da soffocare i suoi lamenti. Suo padre riuscì a divincolarsi dalla presa dell’uomo che l’aveva assalito e si gettò a terra in ginocchio di fronte alla sua cavalcatura. 

«Prendi me,» pianse, «fammi ciò che vuoi, ma lasciala andare!»

Il chocobo enorme di Her Ket spostò una zampa e fece tremare l’aria di fianco al supplice. 

«Alzati,» gli intimò. «Siete miei ostaggi entrambi». 

Farin sollevò entrambe le mani, mostrandogli i palmi vuoti, e si alzò con esasperante lentezza. Era cosciente di non potere nulla contro la sua forza.

«Her Ket,» gli disse, cercando il contatto visivo, «prendi me. Abbi pietà della ragazzina: è ancora lontana dal menarca, lasciala vivere. E, se non  vuoi restituirla alla madre, permettimi di consegnarla ai Templari perché la portino in salvo».

«Sia,» gli concesse l’altro, «ma che non metta mai più piede nella Piana della Bonaccia». 

Gli uomini che presero in custodia Lucil, che non voleva più parlare, non avevano intenzione di farla tornare in quel mondo senza civiltà. La avvolsero in un mantello di lana e la condussero verso una carovana che recava le insegne di Yevon. Colui che le posò con fare paterno una mano sulla testa e la spinse a camminare era stato un commilitone di Farin.

E, nonostante il giovane avesse gli occhi lividi dal pianto, non poté perdonargli mai l’aver mescolato il proprio seme e la propria anima a quelli di un’infedele. 

La sera calò sui richiami disperati di Hanna, sul silenzio attonito od omertoso di tutti coloro che la circondavano, e il sole, compiuto il circolo, sorse su un’alba di sangue.

Di fronte alla sua tenda, la picca che proiettava un’ombra lunga terminava con la testa mozzata dell’uomo il cui nome portava inciso in mezzo agli occhi. 

Il suo viso, come quello di una statua di marmo, fissava davanti a sé con immobilità irreale; la sua mascella penzolante lasciava scoperto l’arco dei denti. 

«Farin! Farin!» gridò il mevyn, e gli uccelli nel cielo compresero il suo pianto. «Lucil! Mia figlia!»

Lucil non c’era. Le strade non risuonavano della sua cavigliera.

Hanna cadde in ginocchio nella polvere, con la gola strappata, e strinse le mani attorno al palo, consumata da una sofferenza indicibile. 

«Mia figlia!» gridò ancora, e il suo gemito diventò un lamento di gola, primordiale e vuoto di ogni sentimento che non fosse dolore. 

Sentì una pugnalata al ventre, vide una luce bianca che le tagliava gli occhi, che si trasformava in rosso, in sangue tra le sue mani mentre lei continuava a urlare e le donne accorrevano in suo soccorso. 

Con un'ultima fitta a dilaniarle le interiora, il mevyn cadde a terra, riversa nella pozza di un dolore che non poteva essere né compreso né vendicato. 

Un’altra vita era già finita quando la sua tempia toccò terra. 

Le azioni di Her Ket portarono una guerra interna all’Oceano d’Oro. Tuttavia, pur combattendo e gridando, Hanna non ritrovò Lucil, né le recarono sollievo l’uccidere di persona il suo nemico e il radere al suolo col fuoco la sua casa. 

Le rimasero un cuore che non sentiva più nemmeno il vento secco d’inverno e, sul tavolo di quella che un tempo era stata la casa della sua famiglia, una lettera con il sigillo di un Maestro di Yevon, lasciata lì da un messo che non voleva aprire la porta del suo dolore.

Noi Alto Inquisitore Alan, Maestro di Yevon ad Hanna. Salute. 

Scriviamo questa lettera l’undicesima ora del giorno trentacinquesimo dall’equinozio di primavera e la consegneremo personalmente domani al primo corriere che ci si presenterà. 

Accogliamo con gioia la proposta di un'alleanza da parte di un popolo che più nei racconti che varcano i confini assieme ai Templari che in effettivi contatti diplomatici abbiamo conosciuto.

Se pertanto, come affermato, siete privi di intenzioni ostili recatevi allora ad uno degli accampamenti dei Templari di Spira alzando bandiera bianca; essi obbediranno all’ordine da noi diramato di non attaccarvi, e potrete essere accettati tra le nostre fila. 

Rinuncerete in questo modo non al vostro comandante, bensì a qualsiasi mezzo non ortodosso per combattere Sin, compreso l’impiego di macchine. 

Se questo vi è in animo, venite.

D. XXXVI dall’equinozio di primavera 1020, Bevelle. 

Quelle parole, pronunciate da una voce immaginaria in una tenda desolata, in qualche modo scivolarono nel vuoto all’interno dell’animo di Hanna come l’oro fuso nelle else dei pugnali. 

Il mevyn, che non aveva ancora imparato a leggere con scioltezza e mai più avrebbe potuto farlo, arrivò nel tempo a conoscere le righe della lettera a memoria. Nonostante non conoscesse gli espedienti retorici e il modo con cui a Bevelle si ornavano le carte, riusciva a distinguere il tono distaccato di Alan, che di certo cercava alleanze per il suo esercito e non amicizie personali. Eppure, qualcosa nella promessa, nella speranza di incontrare l’eroe del Gagazet e nel dolore che ogni notte l’assaliva, strisciandole sin sotto le unghie, fecero sì che spingesse le sue carovane sempre più verso il limite della piana.

Il terzo mese portò il canto degli uccelli lontani: Hanna continuò a cavalcare nel grande verde, seguendo il suo ultimo frammento di cuore. Il grido che innalzava per condurre il suo popolo era ormai un segreto chiamare, e alla sua dolce querela rispondeva, consapevole, il cielo. 

 

Queste immagini i lunioli le stavano facendo navigare nelle iridi: Hanna tornò in sé nell’ultimo istante, quello che le fece spalancare gli occhi e mescolò il nero delle sue pupille all’ombra delle ciglia. 

La spada che Auron le aveva spinto nel seno superò l’ultima resistenza del cuoio e le recise, con la punta, i capelli d’oro. 

Al centro dell’armatura bianca del mevyn era raffigurato il sole, tondo e perfetto e incoronato dalle stelle: l’acciaio, spezzando la purezza dell’etere, fece sì che l’armonia svanisse.

Allora, al posto di chi un tempo aveva guidato i chocobo nella vasta pianura, impalata sulla spada apparve quella donna vestita di rosso che guida gli Invocatori a Zanarkand.

Eppure sembrava bella la morte che aveva il suo viso. 

Hanna di questa metamorfosi non si preoccupava: non vedeva più la grotta, né il sangue di cui aveva intriso il petto, ma solo un prato coperto di ciclamini, le cascate che lo bagnavano e le colonne che sostenevano il cielo. 

Si vide, sola, camminare in quel luogo senza corone o scettri. Davanti a lei, lontani, innumerevoli fiori rosa sbocciavano tra i rami di un albero.

Un’unica lacrima le sfuggì dalla gabbia delle ciglia e le scivolò lungo la guancia. Lei cadde a terra, ma il suo spirito avanzò verso l’albero, le fece tendere la mano in un ultimo gesto.

«Allora è così,» disse piano, mentre Auron con pietà le reggeva il volto, «ho davvero venduto il mio popolo per un bacio». 

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Capitolo 38
*** Come benedirete la luce ***


CAPITOLO 27: COME BENEDIRETE LA LUCE

 

 

 

«Hanna!»

Gocce di sangue le scivolarono tra le dita e caddero al suolo, tonde come le mele sugli alberi d’autunno. Non aveva mai pensato, nemmeno quando i duri artigli delle Scaglie di Sin le avevano sfiorato il viso e quasi strappato l’elmo, che la morte potesse sapere di tabacco e di cannella. L’aveva sempre immaginata come un manto nero che scendeva sugli eserciti; a volte – ma solo seguendo un proprio imperscrutabile giudizio – più pietosa con i bambini o con le donne. Non aveva mai pensato che l’Oltremondo fosse luminoso come il luogo che aveva davanti agli occhi. 

Era reale o era solo la sua immaginazione?

Quel posto aveva una straordinaria somiglianza con la pianura su cui, senza dimenticare il rispetto per le creature che da sempre la abitavano, un tempo aveva governato. E dal cielo, su cui si specchiava la sua figura dritta in sella, il dio le rimandava l’eco di una canzone lontana:

 

Per quale confine mi condurrà
Il mio vago desiderio d’amore?
O Dio, o mia terra, o mio signore,
Che il mio sguardo mai non vedrà, à, à.

 

 

Estate 1026

 

Hanna fischiò stringendo due dita tra le labbra. Il chocobo le rispose con un alto trillo e disegnò fra l’erba bruciata un’ampia curva che finì dove si trovava lei. 

Il mevyn si passò sulla fronte il dorso di una mano per asciugare il sudore sotto la celata dell’elmo. Poi avvolse nel cuoio ciò che le era rimasto di più caro: lo scettro di bronzo, attorno a cui era arrotolata la lettera di Alan.

“Se questo vi è in animo, venite.”

La donna ripose i propri averi in una borsa attaccata alla sella del chocobo, da cui poi estrasse della carne secca e un drappo bianco, da legare a un’asta per segnalare in un universale linguaggio muto le proprie intenzioni. Aveva cavalcato a lungo seguendo le vie non battute della Piana, il Popolo dell’Oceano d’Oro affidato in sua assenza a generali che mai l'avrebbero tradita. 

Così, masticando la sua stecca di carne essiccata, Hanna pensava, distaccata dall’antico rimpianto, a come quel luogo avesse ospitato le risate di Farin e i colpi di mortaio; i passi tintinnanti di Lucil e quelli ferali degli Hoga. 

Era proprio della natura uno stato di guerra. 

Con gli anni, le donne e gli uomini dell’Orda avevano prestato servizio tra le schiere dei Crociati, pur mantenendo la propria autonomia in qualità di cavalleria ausiliaria, e con le nere bocche da fuoco avevano respinto gli attacchi delle Scaglie di Sin che provenivano talvolta dal lago di Macalania, talvolta dal mare.

Avevano stretto amicizia con il popolo degli Al Bhed, parimenti considerato ai margini della società, che forniva loro le munizioni e la polvere da sparo. 

Ma per Bevelle rimanevano paria. 

Hanna strinse le ciglia e ingoiò l’ultimo boccone. Prima di salire in sella al chocobo, ringraziò il dio per averle inviato una situazione favorevole: l’esercito della capitale, sotto il comando del Maestro Alan, si stava schierando lungo le sponde del lago di Macalania. 

Profondamente era inciso il nome di Farin tra le sue sopracciglia, ma Hanna nutriva per Alan, che pure non aveva mai visto, una devozione che non vacillava. Spesso aveva riflettuto sui canti delle sue gesta che gli yevoniti le avevano tramandato, e legato a doppio filo alla sua bellezza fisica una virtù morale.

La notte in cui aveva deciso di partire, Yevon le aveva inviato in sogno le verdi praterie che ogni giorno attraversava. Nulla si muoveva tra gli steli d'erba accarezzati dal vento e il silenzio era assoluto nella brezza che, di tanto in tanto, le scompigliava i capelli dorati. 

Sopra la sua testa, simbolo dell’ultimo sogno, il nibbio nero con le ali bianche seguiva la curva stanca del sole, e il suo volo piegava a est, verso l’intrico freddo dei rami di Macalania.

Una volta aperti gli occhi, il mevyn aveva ritenuto quella scena un segno: la sua terra le chiedeva di proteggerla, o almeno quella era la causa a cui aveva deciso d’essere devota. Chiedersi se fossero fallibili i segni del dio, o se lo potesse essere la loro interpretazione, era mestiere del filosofo e non del guerriero.

L’accampamento degli yevoniti si estendeva lungo tutto il limitare della Piana della Bonaccia, sterminata e vuota, tanto che Sin avrebbe potuto sdraiarcisi in tutta la sua lunghezza e subire così un attacco al fianco.

Hanna immaginò quella scena con un mezzo sorriso, sognando di assalire la bestia che giaceva e di essere colei che avrebbe sferrato il colpo di grazia, dopo una carica accompagnata da grida di gola.

Il Maestro Alan avrebbe comandato l'attacco da dietro le truppe, con la determinazione che solo chi eseguiva la volontà di un dio poteva possedere.

Le bandiere accanto alle tende erano diverse per le forme e per i simboli che recavano, tuttavia l’occhio di Yevon – lo stesso che aveva visto riprodotto nei libri di Farin – era presente su quasi tutte, in un ostinato dominio. 

«Sono Hanna,» si ripeté, «comandante dell’Oceano d’Oro, parte della cavalleria ausiliaria ai Crociati, ottavo plotone». Le sue labbra, in un moto muto, ripercorsero quelle parole che non avevano significato per lei.

Un carro che portava provviste la oltrepassò: le ruote malferme sull’asse barcollarono vistosamente prima di rimettersi in carreggiata. Passò all’altezza di una tenda contraddistinta da un drappo nero su cui spiccava un simbolo dorato a due bracci, ma nemmeno lì si fermò.

D’un tratto, un uomo levò la voce e agitò la mano per far segno al carrettiere di deviare. Hanna strizzò gli occhi nel tentativo di distinguere i suoi lineamenti. Fu invano: il pulviscolo nell’aria rendeva il suo viso sbiadito come in una vecchia fotografia.

La donna si trovò a deglutire con fatica, mentre il battito del cuore le rallentava: colui che aveva richiamato l’attenzione del carrettiere le pareva troppo giovane, vestito con abiti troppo semplici per essere lui. Sepolto come una conchiglia nella sabbia delle ragioni che l’avevano spinta fin lì, c’era il desiderio di vedere la persona dietro la lettera che conosceva ormai a memoria, guardarla negli occhi e niente di più.

Per sei anni, lenti e aridi come la Piana in estate, Hanna si era limitata a vivere una vita da Non Trapassata, guidata solo dai doveri di mevyn: dopo aver sperimentato l’amore per un uomo, quello verso la sua gente, pur grande, non riusciva a riempire il vuoto. Giorno dopo giorno, prima con leggerezza e poi con una certa colpevole consapevolezza, si era passata la lettera di risposta di Alan tra le dita, aveva chinato il capo e aveva pregato come facevano gli stranieri, con un piede pronto a partire e l'altro piantato a terra.

«Identificati,» soggiunse, urgente, la voce di un soldato. Hanna, con grazia, spronò il chocobo affinché si voltasse e ne fece tintinnare i paramenti. 

«Sono Hanna,» disse al ragazzo che si trovò davanti, le cui sopracciglia si confondevano con la linea regolare dell’elmo, «comandante dell’Oceano d’Oro, parte della cavalleria ausiliaria ai Crociati, ottavo plotone».

Inaspettatamente, lui le rivolse la reverenza di Yevon, che lei ricambiò con una rigidità inesperta. 

«Mi è giunta la notizia della vostra scomunica,» ribatté il giovane, lanciando uno sguardo fugace alla tenda nera. «Mi dispiace».

Hanna, interdetta, aggrottò la fronte. Si domandò se le sue parole avessero un che di dissidente; tentò di immaginare la voce con cui Alan aveva pronunciato la sua sentenza, e se nei suoi discorsi inserisse le pause dove lo facevano anche gli altri oratori di Bevelle. Nonostante la differenza di rango, lui aveva teso la mano verso di lei con una semplice lettera. 

«Vorrei avere udienza presso il Maestro Alan» disse schiarendosi la voce, diventata improvvisamente roca.  «Devo fare rapporto».

Il giovane soldato schioccò la lingua e scosse la testa, abbozzando un mezzo sorriso di scherno che, in altre circostanze, Hanna avrebbe cancellato con la sola forza dello sguardo.

«Non è che posso scomodare il comandante per chiunque,» rispose il ragazzo incrociando le braccia.

«Ho risposto all'invito del Maestro a presentarmi personalmente» insistette, piccata, «io e il mio popolo abbiamo viaggiato a lungo per giungere qui».

Il soldato allungò il collo per osservare i dintorni, per poi allargare le braccia con arroganza.

«E questo popolo dove sarebbe?»

«Al sicuro, nella Piana della Bonaccia».

«Hai delle prove per dimostrarlo?»

«Pensavo che il giudice fosse quello lì dentro,» replicò Hanna, facendo cenno alla tenda con il drappo nero. 

Solo poi fece come le era stato richiesto: con sin troppa cura, prelevò la lettera di Alan dalla borsa in pelle e la porse al soldato con ansia, preoccupata che la potesse rovinare. 

Il giovane la lesse in fretta, alzando le sopracciglia e guardando Hanna più volte.

«Va bene. Vado a chiamare il comandante, ma non puoi entrare finché non sarai autorizzata dal Grande Inquisitore. Puoi lasciare il chocobo anche qui».

Senza aggiungere altro, il soldato girò i tacchi e si allontanò sbuffando, mentre Hanna scambiò uno sguardo con la propria cavalcatura. Trasse un profondo respiro e ripose la lettera come avrebbe fatto con la sua spada, per poi accompagnare l'animale poco lontano in modo da poterlo tenere sott'occhio.

Il suo cuore diventò come il tamburo che guidava la carica. Poteva sentirne le vibrazioni fin nelle costole: poche volte nel corso della sua vita si era sentita così indifesa.

Una figura vestita di nero si diresse verso di lei: spiccava in mezzo alle tende bianche, e un velo gli celava la fronte e gli occhi, rendendolo simile a un fantasma. Hanna, per accertarsi che non si trattasse solo di uno degli idoli belli che il sole proiettava tra le cose, diresse lo sguardo ai lembi della sua veste, cercando di vedere le scarpe. 

Al suo cospetto, invece della riverenza rituale che Farin le aveva insegnato, la donna si inginocchiò, chinando il capo come non aveva mai fatto con nessuno e puntando gli occhi indegni al suolo. Lui sembrò non reagire in alcun modo.

«Sono Alan, Grande Inquisitore e comandante dell'esercito di Yevon».

La sua voce ruvida incendiò il sangue di Hanna, che ora più che mai era determinata a continuare il percorso che aveva intrapreso.

«Sono Hanna, comandante dell’Oceano d’Oro, parte della cavalleria ausiliaria ai Crociati, ottavo plotone,» ripetè nuovamente a memoria.

«Così mi è stato riferito. Come mi è stato detto che sei venuta qui su mio invito. Puoi alzarti,» disse con un cenno della mano che lei non riuscì a vedere, «ma apprezzo il tuo gesto. La devozione a una causa comune è ciò che davvero lega i popoli».

La donna si alzò in fretta. Frugò nella borsa, questa volta con più foga, e gli consegnò la missiva ormai stropicciata. A causa del velo nero che gli copriva il viso, Hanna non poteva cogliere eventuali guizzi del suo sguardo, e questo aumentò l'ansia che già le stava logorando il fegato.

«Sì, mi ricordo queste parole: il mio lavoro, del resto, richiede che abbia una buona memoria. Ti prego di seguirmi».

Hanna annuì, respirando a fondo a ogni passo e riprendendo le redini della propria coscienza.

«Perdonami se ho fatto qualcosa di offensivo per un uomo del tuo rango,» disse il mevyn con fare ansioso, «non sono molto istruita sui modi di fare della vostra gente».

Aggiunse apposta quell’ultimo particolare, non vero, perché Farin l’aveva istruita. Le aveva insegnato, sia nello scrivere che nel parlare, a usare le forme di cortesia. 

Alan alzò il mento verso di lei, inclinò lievemente il capo. Un animale di cui Hanna non riconosceva il verso muoveva i suoi richiami tra i rami di Macalania. 

Ciò che il mevyn aveva fatto possedeva un significato molto chiaro, che stava a lui cogliere nella foresta delle parole. 

Non a lei, bensì a te, Inquisitore, la cui grazia arriva più in alto dell’ultimo cerchio, io potrò anche piegarmi, ma l’Orda no. 

I lunioli che uscivano dal suo stesso corpo, volandole davanti agli occhi, mandarono dei bagliori bianchi che la accecarono e la strapparono dal suo sogno. 

Mosso da compassione, Auron le estrasse la spada dal ventre che già aveva sofferto. Vedeva, davanti a sé, scorrere le immagini della vita di quella donna: come tutto, su Spira, nemmeno quella grotta aveva pietà degli uomini, nemmeno quando stavano cadendo nella morte. 

«Siamo noi il tuo popolo, Hanna,» le disse, sperando che lei potesse sentirlo. «E tu non ci hai tradito». 

«Non preoccuparti,» esordì Alan, tirando le labbra nel guizzo di un sorriso. Rivolse lo sguardo verso di lei, offuscato dalla cortina del dio oltre la quale non si poteva vedere con chiarezza. «Voglio solo farti qualche domanda. Per quale motivo hai voluto incontrarmi dopo tutti questi anni?»

Hanna si fermò. Diresse lo sguardo verso le chiome degli alberi, costellate di fiori, che ondeggiavano sotto al vento del sud. 

Alan, che un tempo aveva imbracciato il fucile e che ora guidava le schiere di coloro che lo proibivano, guardava un orizzonte lontano. 

La voce di quell’uomo era il sicuro pilastro della fede di molti. Il suo corpo era divino e il suo gesto era sacro, ma pur se l’amore l’avesse accecata, Hanna non si sarebbe dimenticata chi era lei.

«Volevo vedere se sei l’uomo di cui tutti parlano,» disse, con tono in qualche modo devoto e sprezzante assieme.

Lei era quella che aveva insegnato a far partorire alle ragazze nella pianura immensa. Il battito indomito del suo piede era il battito di Spira. 

Alan spinse in fuori il labbro inferiore, segnato da una tacca più scura quasi nel centro esatto.

«Parlano di me?» domandò, con un tono sibillino. «E cosa dicono?»

Non aveva intenzione di smettere di camminare. Hanna era in piedi, immobile, con le braccia lungo i fianchi, ma lui non dava segno di voler sottostare alla sua decisione. Comandante e comandante, si accorse Hanna, amante e amato. Gli Yevoniti non combattevano le loro guerre solo sul campo. 

«Alcuni che sei un eroe senza pari, in grado di piegare le anime al tuo volere». 

Erano giunti sotto l’ombra larga di un albero. I fiori rosa che nascevano dalla corteccia proiettavano i loro arabeschi di luce sul viso di Alan. Hanna lo superò, guardò il largo tronco nella speranza che le desse forza, poi gli si mise di fronte per impedirgli di avanzare.

«Altri invece dicono che, quando nessuno ti vede, ti infili le dita in gola per vomitare. E io, prima di unirmi alle tue fila, sono qui a chiederti quale delle due».

Era stata brutale, indelicata, come avrebbe voluto la sua Piana e come non avrebbe voluto Farin. Alan, fermo nella sua bellezza glaciale, alzò appena il capo nello stesso istante in cui un alito di vento gli mosse il velo.

Nessuno dei due disse una parola per svariati secondi, finché il Grande Inquisitore non mosse qualche passo verso Hanna. Le prese il mento tra due dita con fermezza e la spinse a guardarlo. Lei non si era nemmeno accorta di aver abbassato lo sguardo. 

«Tu che cosa vedi?» le domandò.

Le lasciò il viso, sfiorandola per un istante con una dolcezza estranea ai mortali, poi davanti ai suoi occhi increduli portò le mani alla tiara e la tolse assieme al velo. 

Le costole di Hanna, all’altezza del cuore, le inviarono un fastidio acuto. Il pudore la spinse a distogliere di nuovo gli occhi da lui, ma il coraggio le permise di obbedirgli. 

Era come se lui fosse nudo davanti a lei, e lei stesse guardando, con tracotanza, dritto in un divino segreto che avrebbe dovuto rimanere tale. 

Sulle iridi d’indaco di Alan, ora che nulla le celava se non le ciglia scure, si allargavano macchie irregolari d’ambra. Sul suo collo sottile si attorcigliava la serpentina di un laccio d’oro, che scompariva da un lato sotto la talare e dall’altro alla base della nuca, nascosta dalle treccine strette con cui acconciava i capelli.

La sua espressione non tradiva nemmeno il più superficiale dei pensieri. Non lo facevano le sopracciglia, inarcate nella sapienza immota di una statua, né la ruga verticale sulla sua fronte né quelle, meno marcate, ai lati delle labbra.

L’Inquisitore prese di nuovo il viso di Hanna tra il pollice e l’indice, poi spostò la mano sulla sua guancia, arrivò fino alla linea forte della sua mascella. 

Lui la baciò sulle labbra mentre i petali rosa si staccavano dai rami e l’albero nodoso osservava. Hanna, invece, chiuse gli occhi con amore devoto. Si sarebbe lasciata condurre sul campo di battaglia, avrebbe colpito in suo nome, anche se sentiva che in parole come le sue dormiva d’un sonno leggero l’inganno. 

Alan la baciò con il bacio di bellezza e di guerra, e la sua bocca aveva il sapore di tutto ciò che lui era.

Eroe e fantasma, traditore e santo.

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Capitolo 39
*** Se Alan cadesse (Parte 1) ***


CAPITOLO 28: SE ALAN CADESSE (PARTE 1)

 

 

 

La folla nell’anfiteatro trattenne il respiro. Al cross del centrocampista, si agitò come un’onda di corpi e di voci innalzate in un’unica vocale.

«Il colpo di testa di Rena trova il portiere inerme!» gridò la cronista. «I Luka Goers si aggiudicano il 2-2! Sarà anche un’amichevole, ma che partita, signori!»

L’arbitro fischiò la fine del primo tempo proprio mentre Rena, ancora carica d’adrenalina dopo aver segnato, stava sciogliendo i muscoli delle gambe davanti alla porta. Era al centro della lente di un binocolo, tonda come la sfera d’acqua nel mezzo dello stadio di Luka. Il campo si restrinse, inquadrò il bracciale a forma di aspide che le ornava l'avambraccio, per poi abbandonare la sua figura.

«Sai a cosa stavo pensando, Kelk?»

Nell’intervallo tra primo e secondo tempo la cronista andava a riposare la gola e gli altoparlanti diffondevano quella musica festosa e sincopata, tipica della zona di Macalania, che aveva quasi coperto l’ultima parola.

Kelk Ronso, ritto nella sua posizione di guardia che non aveva abbandonato nemmeno sul palchetto riservato alle autorità, si volse verso Alan. Lo vide lasciare quasi con negligenza che un binocolo di argento e madreperla gli cadesse sulla veste, all’altezza delle ginocchia. Dopo un piccolo rimbalzo, le pieghe della stoffa lo fermarono. 

«No, Maestro».

Alan appoggiò un gomito al bracciolo della sedia che gli avevano destinato. Con il mento sul pugno, rivolse al campo di gioco un’occhiata che sembrava essere, per vie che non potevano essere comprese dalla ragione, annoiata e insieme interessata. 

«Secondo me dovremmo…» il giudice s’interruppe per un istante e disegnò forme casuali nell’aria con le dita, come se stesse cercando le parole adatte. «Come dire, svecchiarci un pochino».

Kelk gli rivolse uno sguardo interrogativo da sotto le palpebre socchiuse. Era la prima volta che si recava a Luka, e anche la prima in cui assisteva a degli incontri di blitzball. Nonostante la sua gente avesse una propria squadra di recente formazione, i Ronso Fangs, era per la maggior parte ancora devota a proteggere la cima sacra del Gagazet. 

Quando aveva seguito Alan, Kelk non si sarebbe mai aspettato che un anfiteatro di marmo liscio fosse in grado di recare svago a una marea così eterogenea di persone. 

Eppure lì tutti, Grande Inquisitore compreso, sembravano avere occhi solo per quel pallone bitorzoluto, con un entusiasmo che, in qualche modo, gli pareva poco ortodosso.

«Ma sì,» replicò Alan, con un’insolita familiarità nella voce profonda, «è che chiamarci ancora Inquisizione è antiquato, ormai. Poco al passo coi tempi. Che ne dici di Ministero degli affari civili

Poi riprese in mano il binocolo e lo puntò verso gli spalti, regolando la messa a fuoco con la rotella. Era concentrato altrove quando Kelk replicò, e viaggiava tra le teste degli spettatori, eppure riuscì perfettamente a immaginare la sua espressione interdetta, la testa leonina che per un istante sobbalzava all’indietro.

«Ministero…» stava dicendo il Ronso. 

Alan annuì.

«Degli affari civili».

L’uomo che cercava si era seduto in un punto affollato, ma le luci dello stadio si riflettevano sul suo cranio rasato come a volerlo rendere il protagonista del dramma. Presentarsi a una partita di blitzball di portata nazionale avrebbe potuto sembrare una mossa poco acuta, ma era anche vero che, per Spira, un uomo chiamato Davon di Janne non esisteva più. Era morto in un piccolo villaggio alle porte di Djose a dì 26 ottobre 1024. Il suo volto era sconosciuto, la sua nuova vita da Non Trapassato agiata e serena, e lui non doveva più preoccuparsi di niente.

A parte del cerchio perfetto attraverso il quale il Giudice Alan stava prendendo la sua mira.

«Ministero degli affari civili,» ripeté ancora Kelk.

«Sì».

«È un’ottima idea, Vostro Onore».

Quando Kelk spostò gli occhi di nuovo dal campo dove i giocatori stavano nuotando in cerchio, vide Alan tendergli il suo binocolo da teatro. 

«Prego,» lo incoraggiò l’Inquisitore con un sorriso, per poi indicare un punto imprecisato davanti a sé, «guarda un po’ lì».

Kelk obbedì all’ordine, si chinò sul sedile del Grande Inquisitore e si portò il binocolo, minuscolo per lui, agli occhi. Lo strinse tra le sopracciglia cespugliose aggrottate e tentò di dirigere lo sguardo verso il punto che gli veniva mostrato. 

«È lui?» gli chiese Alan.

«Chi?»

«Il terzo uomo a sinistra a partire dalla mascotte. Lo riconosci?»

Il Ronso spostò ancora la rotella, sperando in una messa a fuoco migliore, ma ottenne l’effetto contrario.

«Somiglia molto a Davon, signore,» riuscì a decretare dopo qualche istante. Poi si bloccò, come perseguitato dall’evanescente fantasma di una coscienza. «Ma non possiamo essere sicuri che sia lui».

Alan inarcò le sopracciglia scure sotto al velo e socchiuse le labbra. 

«Ho mai sbagliato persona?» gli domandò, con una forzata espressione interrogativa.

«No, signore, però…»

L’Inquisitore scosse lentamente la testa, in un ulteriore tentativo di dissipare i dubbi di Kelk. Gli sarebbe bastato impartire un ordine secco, ma un tale comportamento tirannico non era nella natura di un Maestro di Yevon.

«Se non è lui, che male c’è?» replicò, in tono mellifluo. «Una volta accertata la sua innocenza, lo rilasciamo. Aspettate che la partita finisca e poi fermatelo».

Fece a un altro dei suoi uomini cenno di avvicinarsi, per poi sussurrargli qualcosa all’orecchio. 

«Signore, mi permetta di obiettare un’altra volta,» intervenne il Ronso. 

Alan si voltò di nuovo verso di lui, con un’espressione quasi identica alla precedente se non per un rapido guizzo verso l’alto degli occhi, che tradì un certo spazientirsi.

«Che cosa c’è?»

Kelk si passò la grande zampa sull’armilla che portava al braccio, su cui era inciso il simbolo dell’Inquisizione. Un marchio che avrebbe portato per sempre. 

«Non siamo a Bevelle. Qui a Luka la nostra autorità è…»

Talora messa in questione, stava per dire, ma si bloccò. L’ultima cosa che voleva era che Alan si irritasse in un posto dove gli avevano proibito di fumare.

L’Inquisitore strinse le labbra e si lisciò le pieghe della veste nera. Che cosa aveva ancora di spiacevole quella città azzurra, oltre a una conformazione urbana di cui non si riuscivano a distinguere il cardo e il decumano?

«È…?» lo incalzò, dato che Kelk non continuava.

«Qui la nostra autorità viene vista, da alcuni, come in conflitto con quella della polizia».

Sul viso di Alan guizzò un sorriso rapido, quasi nervoso. 

«Ah, sì,» commentò, intrecciando le dita sulle ginocchia. «Luka, la città secolarizzata». Il fischio che decretava l’inizio del secondo tempo fece da intermezzo alle sue parole, e lui ne approfittò per sorridere di nuovo. «Prendetelo».

«Signore,» disse ancora il Ronso, in un estremo tentativo di farlo ragionare. La musica e il vociare di quella bolgia stavano aumentando di volume: gli era rimasto poco tempo. «Se noi registrassimo l'accaduto con una sfera… e inoltrassimo una denuncia formale…»

Alan sgranò gli occhi.

«Kelk,» replicò, «tu non hai idea di cosa comporti il compilare un qualcosa di formale, in quest’isola». La sua voce, che era diventata quasi quella di un uomo sulla difensiva, tornò all’usuale tono freddo. «Sono sicuro che questo fatto rimarrà interno alla Corte di Yevon».  

Così da un lato egli disse, e rimasto in silenzio lasciò scorrere la partita fino al proprio termine. Dall’altro lato, Davon si agitava sulla sedia, pronto a defilarsi velocemente al fischio dell'arbitro. Di tanto in tanto gettava con timore un’occhiata verso dove aveva intuito la presenza degli inquisitori. Tuttavia, tentava di calmarsi affidandosi al pensiero d’essere solo uno dei tanti spettatori, al quale per nessun motivo la genia di Michent avrebbe dovuto interessarsi. 

Si concesse un grido di esultanza quando in alto sul tabellone comparve il punteggio definitivo, e la partita fu conclusa. Poi si alzò e si unì al resto della massa che stava defluendo dallo stadio.

Diventò poco più di un puntino, piccolo in mezzo alle persone che sembravano un fiume d’armenti; piccolo rispetto alla mano sottile del Grande Inquisitore che si alzò per fare un cenno. 

Un giovane nerovestito chinò il busto e prestò l'orecchio alle indicazioni del suo superiore. Poi spostò lo sguardo sui due altissimi Ronso che montavano la guardia e li fece avvicinare a sé.

«Occhi su quello. Non perdiamolo di vista».

Uno dei due guerrieri, dal pelo rossiccio, individuò il bersaglio e fece cenno al suo compagno d'armi con il pelo candido.

La folla era lenta a disperdersi, e non era conveniente né discreto prelevare il Non Trapassato quando non aveva nemmeno raggiunto le scale. I due Ronso rimasero immobili come da ordini, nonostante il ghigno infastidito di quello bianco gli scoprisse un canino appuntito.

Il giovane inquisitore si guardò intorno e si rese conto di avere poca scelta: seguito dai Ronso, percorse l'uscita riservata alla Chiesa e scese dagli spalti, per poi posizionarsi a lato della porta che avrebbe dovuto attraversare il bersaglio. 

Da ciò che aveva potuto vedere, era probabile che il Non Trapassato li avesse osservati allontanarsi, ma se voleva lasciare lo stadio doveva per forza passare di lì, sospettoso o meno.

I tre, allenati a quell'attività, osservarono con attenzione ogni volto che incrociavano, dai più sorridenti per la vittoria della loro squadra ai più amareggiati per la sconfitta. 

L'unica espressione preoccupata nella folla fu quella dell'uomo calvo, quando notò che qualcuno camminava al suo fianco.

«Una bella partita, vero?»

«Dice a me, signore?» replicò Davon, voltandosi con un’alzata di sopracciglia. Era stato colto alla sprovvista, ma aveva dissimulato per tutta la vita e in quell’occasione non sarebbe stato da meno. Solo i pugni che stringevano i lembi della veste tradivano il suo nervosismo. 

Il ragazzo che aveva davanti si sistemò sul naso gli occhiali e scoprì in un sorriso gli incisivi distanziati e leggermente asimmetrici, per poi continuare in tono accomodante:

«Cosa ne pensa? Secondo lei l’arbitro aveva ragione sull’ultimo fallo?» 

Davon si passò distrattamente una mano sulla testa calva e lanciò un rapido sguardo alle uscite. Le persone erano talmente tante che non solo non si vedevano le porte, ma anche le ringhiere decorate erano nascoste da un nugolo di teste. 

Lui spinse all’infuori il labbro inferiore e lo fece vibrare con uno sbuffo che accompagnò le sue spalle che si alzavano.

«Il centrocampista dei Luka Goers ha strattonato la divisa del difensore,» osservò.

«Alcuni uomini si sentono fuori dalla giustizia,» lo interruppe il giovane, «specialmente quando sono nel loro ambiente». 

Davon, nel cui campo visivo erano entrati due Ronso armati, fu rapido a nascondere il nervosismo e replicare: 

«Forse è nella natura dell’uomo resistere a un’autorità che viene dall’esterno».

Il giovane torse la bocca, tirò su col naso e raddrizzò di nuovo gli occhiali. In quel momento, Davon sentì una forza che lo tratteneva senza che nessuno lo toccasse: prima che potesse capire se provenisse dal ragazzo o dai Ronso, oppure da una quarta persona, fu raggiunto da una voce.

«Non agitarti, voglio solo farti qualche domanda».

Nel momento in cui una mano lo toccò tra le scapole, la sensazione che legava i muscoli di Davon svanì. Tracce di fumo salirono nell’aria e al proprio fianco vide un uomo della cui statura avrebbe forse sorriso, se non avesse saputo di chi si trattava.

«Prego, seguimi,» gli disse il nuovo arrivato senza interrompere il contatto fisico. Aveva un sorriso che non raggiungeva gli occhi, gelidi e alteri sotto un velo traslucido.

«Oh,» commentò Davon, gli occhi tondi che si dirigevano di nuovo verso i cancelli. La folla sembrava essersi volatilizzata e gli sarebbe bastato uno scatto per raggiungere la libertà. Se solo fosse stato giovane... «Maestro Alan. Vedo che la Chiesa ha mandato i pezzi da novanta».

Nonostante Davon cercasse di tenerlo dritto davanti a sé mentre continuavano a camminare, dopo poco inevitabilmente il suo sguardo scattò verso il giudice: vide il suo sorriso allargarsi e assumere una certa sfumatura sardonica.

«Non tenerti così tanto in considerazione. È un’idea mia».

 

 

«Guardate che roba!» esclamò Jecht quasi urlando, indicando davanti a sé col dito.

Luka non fu pienamente visibile finché la nave non entrò nel piccolo golfo scavato nell’entroterra. La città sembrava stretta nell’abbraccio di Spira e nascosta ai pericoli del mare.

Alla luce del mattino, le tinte brillantissime delle abitazioni fecero sobbalzare Jecht che, abituato ormai ai colori monotoni di quella terra, tornò con la mente al caos di Zanarkand. Tuttavia, era stato il monumentale stadio di Blitzball, posizionato proprio davanti al porto, a farlo entrare in uno stato di pura adorazione.

«Sapevo che ti sarebbe piaciuto. Qui si gioca un grande Blitzball,» commentò l’Invocatore sorridente.

«È grosso quanto quello di Zanarkand! Lì dentro sì che devi tirare il fiato, eh!»

Auron, che non aveva aperto bocca per tutto il viaggio, si limitò a lanciare una fugace occhiata e annuire. L’atleta, ormai stanco di quella tenebra che attanagliava il compagno, decise di mordersi la lingua ancora una volta.

«Uno a cui non importa nulla non si sarebbe fatto fustigare così tanto prima di gettare la spugna,» aveva detto a Braska in confidenza, ma Auron rimaneva gelido nella sua apparente indifferenza.

Attraccarono a uno dei vari moli che costellavano la strada per lo stadio, circondati da una quantità di persone che non avevano mai visto durante il loro pellegrinaggio fatto di ostelli, notti in tenda e piccole città.

«Sei già stato qui? È sempre così affollato?» chiese Jecht, alzatosi sulle punte dei piedi per guardare più in là.

«Non ho mai avuto questa fortuna. Credo che debbano disputare il torneo annuale: vengono da ogni dove per tifare le proprie squadre,» rispose Braska unendo le mani. «Comunque, non mi sembra complicato orientarsi. Davanti a noi si apre una strada molto grande: ci porterà in centro».

Jecht annuì, poi si girò a guardare il magnifico stadio dietro di loro con occhi luminosi.

«Sentite…» esordì l’atleta, indicando l’edificio, «si potrebbe guardare qualche partita?»

Auron fece per rispondere, ma Jecht lo anticipò portando le mani in avanti.

«Lo so, lo so! Non siamo qui per perdere tempo. Però… dai! Avete poche cose divertenti su questa Spira, quando ci ricapita!»

Il monaco si strinse nelle spalle, abituato ai repentini cambi di programma proposti dal compagno.

«Tanto, alla fine, facciamo sempre quello che vuoi tu,» troncò Auron senza nemmeno ribattere.

«Jecht ha ragione, amico mio. Un po’ di svago ci farà bene! Anche il vostro Invocatore vuole divertirsi, ogni tanto,» disse Braska con un sorriso, per Auron, fin troppo enfatico.

«Se ne sente il bisogno, signore…» rispose il monaco senza aggiungere altro.

Si avviarono lentamente verso la piazza centrale, facendosi spazio nella calca che affollava la strada. La città si diramava come un fiume con i suoi affluenti: dalla grande via principale partivano strade che diventavano sempre più piccole a man mano che ci si addentrava nel centro urbano, fino a perdersi al suo interno.

Palloni aerostatici e mongolfiere dai colori accesi decoravano il cielo, mentre striscioni e addobbi a festa riempivano la piazza e tutti i suoi negozi, rendendo difficile orientarsi. L’unico punto di riferimento riconoscibile era l’obelisco centrale che spiccava in altezza.

«Con un’atmosfera del genere, viene voglia di prendersi un gelato,» disse Jecht sedendosi su una panchina. Braska, giudicò l’atleta guardandolo in faccia, non aspettava altro.

«Mi hai letto nel pensiero. Auron, che gusto ti piace?»

«No».

Ulteriori aggiunte a quel rifiuto furono coperte alle urla di un giovane dai corti capelli castani e dal fisico slanciato, che pareva stesse importunando i turisti. Jecht lo fissò infastidito, per poi notare che c’erano molte altre persone che, in modo meno molesto, stavano cercando di attirare l’attenzione delle persone.

«Che succede?» chiese l’atleta a Braska.

«Oh, sono reclutatori di Blitzball».

«Lo fate in mezzo alla strada? Senza nemmeno un colloquio? Siete gente proprio strana,» commentò Jecht con disappunto.

«Non so come funziona nella tua Zanarkand, ma non si tratta solo di trovare giocatori. Spesso cercano persone disposte ad aiutare negli allenamenti, oppure nuovi operai che si occupino dello stadio».

«Quel tipetto lì mi pare non stia cercando niente di tutto questo,» replicò il Guardiano ammiccando verso il ragazzo urlante.

Come se lo avesse chiamato, quello corse verso di loro, per poi fermarsi proprio davanti all’atleta, con occhi sgranati e un gran fiatone.

«Scusami! Perdona l'insolenza, ma ti ho visto da lontano e hai proprio il fisico di un giocatore di Blitzball!» disse esausto.

«Infatti lo sono, ragazzo» rispose gonfio d’orgoglio, guadagnandosi un’occhiata in tralice da Auron. «O meglio, lo ero. Sono in… in pensione».

«Non importa, signore!» gridò ancora il giovane. «Rappresento i Besaid Aurochs, e siamo nei guai fino al collo! Un mio compagno di squadra non può gareggiare, e non abbiamo una riserva! Saresti disposto a sostituirlo solo per oggi? Ovviamente sarai ben pagato!»

Jecht trattenne il fiato nel sentire parlare di soldi: era un’ottima occasione per pagare il suo debito, ma rimase indeciso su cosa fare. Di sicuro Auron non glielo avrebbe permesso, in più non giocava da tanto di quel tempo che non sapeva nemmeno dire quanto.

«Mi cogli impreparato, ragazzo. Sono molto impegnato,» balbettò l’atleta, cercando con gli occhi Braska, che a sua volta guardò Auron. Sentendosi osservato, il monaco girò le spalle e fissò un drappo cremisi.

«Non sono tua madre. Se a Braska va bene, fa’ quello che ti pare» disse seccato il Guardiano più giovane.

Jecht fu tentato di accettare immediatamente, ma all’improvviso si bloccò e il suo entusiasmo si spense.

«Ci devo pensare un attimo. Sei sempre qui nei paraggi, giusto?» chiese abbassando la testa.

«Sì, signore! Fammi sapere il prima possibile, te ne prego!»

Il ragazzo si gettò nuovamente in mezzo alla calca nella sua folle ricerca, mentre Jecht si piegò su se stesso, come se si sentisse male.

«Un bel gelato freddo ti schiarirà le idee,» disse Braska posando una mano sulla sua spalla, per poi allontanarsi velocemente verso l’agognata preda.

Auron si girò a osservare il compagno diventato pallido, confuso dall’atteggiamento di quello che, ai suoi occhi, era uno spaccone che godeva nel mettersi in mostra.

«Il grande Jecht non è poi così grande?» commentò Auron. Jecht lo guardò torvo, sbuffò e scosse la testa.

«Non è quello. Io ero il grande Jecht. Ora non lo so più,» rispose amaro.

«Ti ho conosciuto che blateravi di quanto tu fossi eccezionale, ci hai tediato per l’intero viaggio. Perfino Braska non vede l’ora di vederti giocare da quando ti abbiamo liberato. Ora cosa c’è?»

Jecht, d’istinto, si massaggiò la gamba destra, come a voler rispondere alla domanda.

«Prima di venire qui, mi stavo riprendendo da un infortunio. Era già tanto se, alla mia età, sostenevo il ritmo. Con una gamba messa così, dubito di essere ancora appena decente come giocatore».

«Combatti mostri più grossi di te, sei stato persino al fronte e marciamo da settimane tra una città e l’altra. Perchè dovrebbe preoccuparti?» chiese Auron quasi infastidito.

«È il terrore di ogni atleta, ragazzo. Nei primi giorni di viaggio ci pensava Braska ad alleviare il dolore, visto che non ero abituato a camminare tanto. Certo, fisicamente sono ben allenato, ma per la maggior parte del tempo brandisco una spada con le braccia. Capisci cosa intendo?»

Jecht si accorse di star parlando delle sue debolezze a briglia sciolta, senza più pensare a cosa avrebbe potuto pensare Auron. Se da una parte ne era lieto, dall’altra era molto spaventato del suo giudizio.

«Concentrare lo sforzo sulle gambe potrebbe farti molto male, e nella sfera d’acqua non c’è Braska ad aiutarti,» rispose deciso il monaco.

«Se mi faccio male, vi rallenterei ancora…» disse Jecht in un sussurro.

Auron respirò a fondo, annuendo con un leggero movimento della testa. Restò in silenzio per qualche minuto, osservando il compagno che veniva pian piano strangolato dalla sua paura. Decise che almeno quello poteva risolverlo. 

«Tu cosa vuoi, Jecht?» chiese il monaco all’improvviso.

«Voglio giocare, ovviamente».

«Fallo, allora. Avete detto che bisogna divertirsi, ogni tanto».

«Ma…» disse Jecht provando a replicare, ma Auron si congedò con un gesto della mano.

L’atleta si alzò in piedi e iniziò a camminare in direzione del giovane, per poi tornare indietro e raggiungere Auron. Era tentato di abbracciarlo, ma con tutta probabilità lui lo avrebbe scansato o, peggio, gli avrebbe assestato un pugno sul naso. Si limitò a toccargli la spalla per farlo girare.

«Ehi, ragazzo. Visto che mi butto in questa cosa, mi faresti un favore?»

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Capitolo 40
*** Se Alan cadesse (Parte 2) ***


CAPITOLO  28: SE ALAN CADESSE (PARTE 2)

 

 

 

Auron si sentiva a disagio nel tenere la sfera alzata per registrare tutta la partita, senza potersi godere appieno la competizione. Gli sembrava una cosa stupida. Visto il prestigio, quel torneo doveva essere perlomeno visto con i propri occhi, senza preoccuparsi tanto delle registrazioni.

Nonostante tutto, tra un sospiro e l'altro, esaudì la richiesta di Jecht. I loro rapporti non erano stati sempre buoni, ma l'amore e la passione che aveva visto sul suo volto quando aveva posato gli occhi sullo stadio erano travolgenti. Rifiutarsi di aiutarlo gli avrebbe fatto davvero male, e non se la sentiva proprio di avere un tale peso sulla coscienza.

L'arbitro sancì con ampi movimenti delle braccia la fine della partita e, con una leggera pressione dell'indice, il monaco interruppe la registrazione, avviandosi verso l'uscita.

Il Blitzball non lo entusiasmava molto, ma da lì a poco avrebbe visto Jecht giocare per la prima volta, e si sentì stranamente coinvolto. Dopo tutto quel vantarsi di essere un campione, Auron non poteva farsi sfuggire l'occasione di smascherare le sue spacconerie: forse era anche bravo, ma il guerriero voleva vedere quanto bravo.

Una volta fuori lo stadio, un caotico labirinto di spalti e scale, si prese qualche istante per orientarsi e capire dove andare. 

La zona urbana, ricca di locali e decorazioni, era nettamente distinta da quella portuale, ma Luka era una città molto dispersiva e la folla lo distraeva parecchio.

Si erano dati appuntamento al molo dove avevano attraccato, ma il porto era pressoché tutto uguale: un mare di assi di legno pieno di turisti, casse, merci e marinai. Per sua fortuna, il colorato abbigliamento di Braska spiccava nel mucchio, ma non vedeva Jecht con lui.

«Auron! Siamo qui!» disse l'Invocatore agitando il braccio con un largo sorriso.

Il monaco si avvicinò e, senza farsi notare, mise la mano destra nella tasca che conteneva la sfera.

«Dov'è il campione? Panico da prestazione? Proprio ora che tocca a lui,» commentò Auron con sottile perfidia. Braska scoppiò a ridere.

«Veramente è lì dietro,» rispose, indicando una piccola colonna di casse di cibo. «Sta facendo riscaldamento».

«Oh? Nascosto?» disse il monaco attivando la sfera nella tasca e avvicinandosi di soppiatto.

Il suo tentativo di coglierlo in fallo fallì miseramente quando Jecht spuntò fuori all'improvviso e corse verso di lui, impaziente.

«Eccoti qui! Ero convinto che mi avessi piantato in asso,» disse l'atleta agitato.

Auron sospirò infastidito, dimenticandosi anche di avere la sfera accesa.

«Pensavi male».

«Hai ripreso l'ultima partita?» insistette Jecht.

«Sì. Ma non ho capito perché me lo stai facendo fare. Non hai detto che giocate a Blitzball nella tua Zanarkand?» disse facendo il verso al compagno.

«Certo! Non sei uno sportivo, eh?»

«Magari vuole allenarsi,» commentò Braska allegro, ma Jecht incrociò le braccia e sbuffò.

«Non ho bisogno di allenamento. Sono il grande Jecht,» rispose gonfiando il petto. «È per mio figlio».

Braska smorzò il suo sorriso per un istante: il suo pensiero corse veloce verso Yuna, e non poté fare a meno di provare una malinconia che si insinuò nel suo cuore come una spina.

«Tuo figlio gioca a Blitzball?» chiese l'Invocatore intenerito.

Auron avvertì un leggero brivido dietro la schiena: Jecht non parlava mai della sua famiglia, e vederlo così accorato per il figlio era una cosa nuova che non sapeva come elaborare.

«Sì, e vuole un sacco battere suo padre. Una volta gli ho detto di lasciar perdere e non mi ha parlato per un mese,» raccontò l'atleta, ridacchiando. «Mi chiedo cosa stia facendo ora. Spero sia cresciuto e abbia messo su qualche muscolo».

Il campione abbassò gli occhi a terra, provando un disagio familiare che non lo coglieva da tanto tempo. Tirò su col naso e si schiarì la gola rauca, per poi notare la sfera accesa nella mano di Auron.

«Ehi, che fai! Smetti di registrare!»

Il monaco lo guardò interrogativo, poi abbassò gli occhi sulla piccola macchina e ricordò cosa ne stava facendo. La spense senza aggiungere altro e la ripose in tasca, osservato da Jecht che preferì non argomentare oltre. 

«Credo sia meglio andare. Ti devi abituare alla sfera d'acqua,» disse Braska per spezzare la tensione.

«Sì! Te ne intendi abbastanza per essere un Invocatore,» rispose Jecht con una risata.

Si incamminarono di nuovo in mezzo alla folla, stavolta con più disinvoltura sulla direzione da prendere. L'atleta, di tanto in tanto, tirava grossi sospiri nervosi sciogliendosi i muscoli delle braccia, mentre Braska cercava di calmarlo accarezzandogli le spalle con mano aperta.

«Sai, Braska, a Zanarkand avevo dei massaggiatori personali che mi preparavano alla partita,» disse Jecht godendo del calore di quel contatto. «Nessuno di loro aveva mani morbide come le tue».

L'Invocatore sfoderò un sorriso soddisfatto, per poi guardare Auron con la coda dell'occhio: come di consueto sembrava distratto, forse stava di nuovo vagando tra i suoi pensieri pesanti come macigni, o forse, in cuor suo, stava sperando che Jecht giocasse bene.

Il suo tempo su Spira correva veloce ogni giorno di più fin dalla loro partenza, Braska poteva sentirlo chiaramente: voleva e doveva essere un rifugio tranquillo per i suoi Guardiani, prendersi cura di loro come aveva fatto con Yuna, almeno finché avrebbe potuto. 

«Io e Auron faremo un gran tifo,» concluse l'Invocatore dando un'ultima pacca sulla schiena di Jecht.

Arrivati all'entrata, l'atleta fissò per qualche secondo l'immenso stadio, simbolo di ciò che aveva occupato gran parte della sua vita. Fece schioccare le vertebre del collo e si avviò verso gli spogliatoi, mentre i suoi compagni iniziarono la scalata degli spalti alla ricerca dei posti migliori.

«È eccitante, vero?» domandò Braska al suo Guardiano più giovane.

Auron non rispose subito, ma non poteva negare di sentire un brio solleticargli la pelle, come quando era in procinto di combattere.

«Non pensavo che lo avremmo visto giocare per davvero,» rispose con voce più gentile del solito.

«Già… nemmeno io».

Non ci volle molto prima di vedere i giocatori farsi largo nella sfera, seguiti dalla forte voce della telecronaca che descriveva le formazioni delle squadre. 

Auron individuò subito il compagno, messo di punta tra gli attaccanti: la sua pelle abbronzata brillava di luce propria nell'acqua, come se appartenesse a quel mondo con tutto il suo essere.

Notò che si tratteneva dallo scattare come di solito vedeva fare per anticipare la palla, sicuramente per via della gamba.

«Preoccupato, Auron? Ti ha senz'altro parlato dell'infortunio,» chiese Braska nella speranza di farlo aprire con lui. 

Preso dall'azione, il monaco pesò poco le parole e si sciolse di più, messo a suo agio dall'Invocatore. Si domandò solo per un istante perché la gente su Spira parlasse del blitzball come se fosse un affare di stato, e perché quando vinceva la loro squadra era tutto un “noi abbiamo vinto”.

«Non più di altre volte. Alla fine, è un combattimento come un altro per lui,» rispose assorto, fissando quella sagoma scura che smarcava gli avversari con l'agilità di un hypello. «Si muove solo quando è sicuro di colpire, e quando lo fa è veloce e preciso».

«Ci avresti mai scommesso che dicesse la verità? È davvero bravo» commentò Braska coprendo una risata con la mano.

«Nemmeno un gil bucato. Lo è… lo è davvero».

Jecht esercitava una pressione selvaggia sulla difesa dell'altra squadra: nonostante si muovesse poco, il suo posizionamento esperto gli permetteva di essere una minaccia in qualsiasi situazione, mettendo in seria difficoltà la difesa solo con la sua presenza in campo.

Dopo qualche minuto di braccio di ferro, lo stile di gioco di Jecht ebbe la meglio. Dopo un passaggio rapido dell'ala sinistra, l'atleta ruotò il busto ed evitò un assalto diretto molto inesperto, trovandosi da solo davanti al portiere. 

L'incertezza che Auron aveva visto nel compagno poco prima fu completamente spazzata via nel momento in cui Jecht prese la mira: una smorfia di dolore gli fece digrignare i denti, ma diventò presto un sorriso euforico quando il tiro gli riuscì in pieno, sfrecciando potente all'estremo sinistro della porta.

Impossibile da parare. Braska, attonito dall'azione magistrale appena vista, saltò in piedi esultando, seguito dall'intera curva dello stadio, mentre Auron si lasciò andare a parole di apprezzamento che nessuno era in grado di sentire.

Jecht, che aveva individuato la posizione dei compagni appena entrato in acqua, si avvicinò verso di loro e sfoderò uno dei sorrisi più sinceri da quando era naufragato in quella terra inospitale, alzando il braccio in segno di vittoria.

L'atleta regalò agli spettatori altri due gol prima che l'arbitro sancisse la fine dell'incontro. Braska e Auron si avviarono verso le uscite con tutti gli altri, e non fecero altro che ascoltare parole entusiaste da parte dei tifosi, che mai avevano visto qualcuno giocare in quel modo, muovendo un certo orgoglio nel petto dei compagni di Jecht.

Lo aspettarono all'entrata per molti minuti, ma del campione nessuna traccia.

«Ho paura che la gamba gli faccia male,» disse l'Invocatore preoccupato.

«Vuole andare a vedere? Finché rimane con almeno uno di noi due, non ho obiezioni».

«Sì, preferisco andare. Nel frattempo, puoi vedere altre partite!» 

Vedere Jecht giocare era stato più piacevole di quanto Auron avesse mai pensato, ma ne aveva abbastanza di blitzball per quella giornata.

«No, vado a prendere qualcosa da bere. Si prenda cura di quello spaccone,» concluse, con una smorfia che Braska interpretò come un sorriso.

Il monaco si accese una sigaretta e si diresse verso la piazza centrale, ricca di negozi e locali di ogni tipo, fin troppi per i suoi gusti. Per una vita era stato abituato ad un’esistenza quieta e semplice, con scelte semplici, mentre tutta quella varietà lo disorientava e gli faceva male alla testa. 

Dopo qualche giro a vuoto, Auron sbuffò e spense la sigaretta, ormai giunta al suo termine come quella giornata e la sua pazienza, sul bordo di un cestino. Lasciò cadere il mozzicone al suo interno, con gli occhi fissi su dei palloncini gialli, blu e rossi legati a un carretto che pubblicizzava qualche evento. Sembrava un altro mondo rispetto al territorio libero e crudele che avevano visto a Djose. 

Davanti a lui, all’entrata di due diversi edifici, svettavano due scritte arricciate, poco distanti l’una dall’altra. Una recitava “café” e prometteva un locale circolare, ampio e dalle grandi vetrate. Un buon luogo per sedersi e ascoltare la pioggia. 

L’altro, invece, era un bar dalla porta rettangolare, attraverso la quale passava un tappeto rosso che avrebbe condotto i clienti per un corridoio lungo e stretto. 

Il Guardiano si diresse verso il bar. Mentre attraversava il corridoio, fu raggiunto dalle note soffuse di una musica d’ambiente, dall’odore della carne arrostita e da un insolito, ma non spiacevole, chiacchiericcio allegro. 

Quando vide l’ambiente allargarsi, fare spazio al bancone oltre al quale una ragazza e un ragazzo stavano spillando della birra, immaginò Braska che sorridendo porgeva uno spiedino di maiale a sua figlia. Gli si strinse il cuore. 

Si sedette con l’ennesimo dei suoi sospiri. Si ricordò di quando Wen Kinoc lo prendeva in giro perché, dopo gli allenamenti, si sedeva sempre in quel modo e sospirava sempre in quel modo mentre passava la cote sulla spada. 

«Ciao!» lo salutò la voce allegra di una giovane. Un menù di carta plastificata, pulito e senza neanche una piega, entrò nel suo campo visivo. «Benvenuto!»

Auron alzò lo sguardo. Incontrò una ragazza sorridente dai capelli tinti di blu, legati in una coda alta in cima alla testa. Portava abiti da lavoro: pantaloni neri e una camicetta bianca dalla stoffa arricciata, con un corsetto sbottonato sul seno abbondante. Doveva avere più o meno la sua età, ma non c’era nessun solco profondo sulla sua fronte. Auron la giudicò immediatamente come qualcuno che non aveva sofferto.

«Ciao,» disse in tono incerto, afferrando il menù con la mano destra. Fingeva di essere tranquillo, ma in realtà quella situazione lo stava mettendo a dura prova, lo spingeva a far perdere gli occhi sulle lettere nere dell’elenco dei vini. 

Da quanto tempo non incontrava una persona come lei?

«Sei un monaco?» gli chiese candidamente la ragazza. Auron alzò gli occhi, sorpreso, e lei mostrò un sorriso timido. «Ti chiedo scusa,» disse, «non se ne vedono così tanti, qui in giro. Qualche ora fa è passato addirittura un Maestro di Yevon, e mi chiedevo se fossi con lui». 

Auron la interpretò come l’innocente curiosità per qualcosa di esotico e scosse la testa.

«No, non sono con lui,» replicò. «Sto accompagnando un Invocatore nel suo Pellegrinaggio».

La cameriera si portò le mani al petto con un leggero singhiozzo di sorpresa. Jecht l’avrebbe senza dubbio corteggiata, meschino com’era. 

«Oh, chiedo scusa per la mia insolenza,» la donna accennò un goffo inchino yevonita, poi raddrizzò la schiena e lo guardò con ammirazione. «Sono onorata di avere un Guardiano nel mio locale».

«Senti,» le disse Auron, con cortesia, «sapresti consigliarmi qualche vino del luogo?»

«Certo,» rispose la ragazza, indicandogli dei nomi sulla carta. «Abbiamo tutti questi qui. Quale vuoi?»

«Portami quello che ti piace di più».

La cameriera annuì con un piccolo inchino. In quel momento una voce, maschile ma molto acuta, risuonò per il locale. Proveniva da una porta chiusa dietro il bancone, cosa che fece aggrottare le sopracciglia ad Auron. Perché chiudere in quel modo una dispensa?

«Céciiiile!»

La ragazza roteò gli occhi al cielo e sbuffò l’aria fuori dal naso, pur con un mezzo sorriso.

«Torno subito con il tuo vino,» disse ad Auron, poi guardò di nuovo il soffitto. «Prima devo andare a vedere che cos’ha. Ah, uomini! Avrei dovuto sposarmi, quando ero più giovane».

Auron accennò una risata comprensiva.

Anche io, Cécile, pensò. Anche io. 

Il calmo sciabordare delle onde tornò a invadere i sensi di Auron quando uscì dal bar con il dolce sapore del vino ancora in bocca. Si sentì pervadere da un senso di quotidianità, di pace, che in tutti gli altri luoghi gli era stato assolutamente precluso. 

«Ehi!» lo richiamò una voce roca che ormai conosceva bene. «Ecco dov’eri!»

Auron si voltò. I capelli di Jecht erano scompigliati da un vento che trascinava con sé l’odore del sale. I suoi occhi d’ambra scura erano accesi dall’impeto vivo che giocare a blitzball aveva riacceso in lui. Auron pregò Yevon che lo distogliesse dalla tentazione, ma l’aria era calda e ferma e il corpo di Jecht bello tra tutti quelli che passeggiavano per Luka. Le persone lo guardavano.

«Com’è quel bar?» tentò di informarsi lui, con quel tono superficiale che Auron detestava.

«Pensi davvero che te lo dirò?»

«E dai!» replicò Jecht, portando le mani dietro al capo e inarcando la schiena. I muscoli delle sue braccia si tesero. «Che male può farmi?»

«…»

Jecht si rassegnò a molte cose, compreso il fatto che Auron non avrebbe smesso di camminare. Scosse la testa e lo seguì. 

«Va bene, bel ragazzo, scusa,» tentò di replicare. Auron lo fulminò con lo sguardo. «Certo che ti arrabbi proprio con niente, tu». 

Auron si rese conto che, senza volerlo, i loro passi si erano diretti di nuovo verso lo stadio di Luka. Le porte, davanti ai quali i lampioni si erano accesi, non erano spalancate come durante i tornei di blitzball, ma nemmeno chiuse.  

«È l’Inquisitore di Bevelle,» stava borbottando qualcuno nella folla. Una donna, impegnata in un’altra conversazione, si lasciò andare a un risolino acuto che coprì il resto della frase. Auron la maledisse, mordendosi il labbro inferiore, e tese le orecchie nuovamente. «… non è come le guardie di Luka… mette a morte la gente davvero».

Auron si immobilizzò. Spinse lo sguardo verso l’alto, percorse le architetture a pagoda dello stadio fino alla cupola di vetro, su cui divampava la fiamma che aveva visto Jecht disputare la partita. Si chiese se fosse davvero lo stesso luogo.

Si chiese se stessero vivendo una follia collettiva, sotto il sole di quell’estate.

«Quindi quando non lo usano per il blitzball, ci fanno i processi,» commentò Jecht, senza celare in alcun modo il suo sarcasmo. «Comodo».

«Non lo sapevo,» si schermì subito Auron, senza nemmeno pensare a quelle parole. 

Jecht gli scoccò uno sguardo stranamente serio da sotto le ciglia scure. Subito dopo arrivò lo strale dorato delle sue parole:

«Sembra che ci siano molte cose che non sapevi».

Auron, il Guardiano inflessibile, rimase pietrificato come se quella frase fosse stata il respiro di un Molboro. Deglutì, senza essere in grado di rendersi conto di ciò che gli stava intorno. Il suo cervello correva, destinato a deragliare, verso una direzione ben precisa. Esisteva una sola spiegazione: Jecht lo aveva capito. Sapeva che non era più puro, si era accorto di quello che… 

«Jecht,» disse a fatica, «posso farti una domanda?»

… di quello che provava… 

L’atleta alzò il mento e gli rivolse un’occhiata in tralice.

«Che c’è, monachello? Ti è caduto il palo dal culo e vuoi che ti aiuti a ritrovarlo?»

«Non essere volgare».

Braska lo sapeva e taceva, così come taceva ciò che sarebbe successo a Zanarkand, proteggendolo con il velo sacro del silenzio. Jecht lo sapeva e lo avrebbe tormentato fino a farlo impazzire, fino a quando non sarebbe stato in ginocchio davanti a lui sulla pietra chiara.

Sarebbe venuto a saperlo colui che puniva, la cui figura immaginava dritta nella bellezza di chi è vuoto di peccati.

«Perché ci stai ancora seguendo? Braska è un eretico. Avresti potuto valicare il Gagazet oltre Macalania e andare a vedere coi tuoi occhi cosa è successo a Zanarkand. Avresti potuto rimanere qui e unirti a una squadra. Ricostruirti una vita, se quella di prima ti stava tanto stretta».

«Avverto del moralismo,» lo rimbeccò Jecht. Le luci dello stadio illuminavano sul suo viso delle occhiaie che Auron non ricordava così marcate. Diede la colpa all’angolazione dei fari. «Ti dispiace così tanto che vi stia aiutando?»

«Non ho detto questo,» rispose il Guardiano. Portò una mano al viso e premette le dita agli angoli degli occhi. Non erano solo quelli a fargli male, ma tutto il corpo; sintomo di una mente che non capiva. «E ti prego, non dirmi che lo fai perché è la cosa giusta».

Immaginò Alan sotto la cupola dello stadio, buia tanto quanto era stata accecante nel bagliore di quel pomeriggio, sulla sua superficie le stesse stelle che adornavano i drappi di cui si circondava a Bevelle.

Se Alan fosse caduto, cosa ne sarebbe stato di tutta Spira?

Jecht preferì tacere. Rimase in silenzio a lungo, finché entrambi non sentirono l’interrogativo che si dissolveva tra le grida dei gabbiani.

«Posso fartela io, una domanda?»

Il cielo di Luka stava arrossendo per il tramonto, allo stesso modo in cui aveva fatto quello di Macalania con le pire dei soldati. Non c’era fumo a salire verso le nubi bianche e rade, solo la brezza sottile di una città di mare.

«Credi davvero nel dio?»

Per un solo istante, Auron valutò di riservargli lo stesso silenzio che lui aveva ricevuto. Fu solo dopo che si rese conto che non era quella la risposta.

«Sì,» rispose bruscamente. «Certo. Perché mi chiedi una cosa del genere?»

Jecht mosse il collo a destra e a sinistra, massaggiandolo alla base.

«Perché nella mia vita mondana ho conosciuto tante persone. Anche religiose. E un uomo di fede,» quelle tre parole avevano lo stesso suono di cristallo del nome di Braska, «non si fa domande sul disegno divino».

«Questo lo dici tu,» sbottò Auron. 

Di Jecht lo raggiunse solo la voce, mentre il cuore gli accelerava, timoroso di una vita che proseguiva nella menzogna e nella negazione.

«Può essere».

Yevon non lo aveva più assistito da quando, quel giorno, aveva indugiato in certi pensieri. Non aveva più rischiarato la sua mente durante la meditazione, non aveva più guidato la sua spada in battaglia.

Era davvero così, o era solo una sua impressione?

Auron si accorse di aver chiuso gli occhi solo quando li riaprì, e i colori chiassosi di Luka gli trafissero le iridi, pur smorzati dalla sera.

Una folla di curiosi sempre più numerosa si era raccolta davanti allo stadio. Tuttavia, c’era qualcosa che mancava.

«… Jecht?»

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Capitolo 41
*** Rimanere a galla (Parte 1) ***


CAPITOLO 29: RIMANERE A GALLA (PARTE 1)

 

 

 

Ieyui nobomeno.

Il canto basso dei preti di Yevon, pesante come i passi di uno Shoopuf sulla terra, scandiva l’avanzare dei prigionieri tradotti in catene.

Renmiri yojuyogo. 

Da quella terra, però, si alzava. Saliva verso la cupola chiusa dello stadio, nell’aria soffocante per gli incensi; nel buio assoluto dove i lucernari erano le uniche stelle. 

«Sai o immagini per quale motivo sei davanti a questo tribunale?»

Quando l’ultima parola, quella a lui più cara, morì sulle labbra del Grande Inquisitore e continuò ad aleggiare, fantasma tra le pareti echeggianti, il tintinnio delle catene s’arrestò. Una ragazza dai capelli chiari e gli occhi color smeraldo, nelle cui pupille si attorcigliava la spirale Al Bhed, diresse lo sguardo verso il palco da cui lui la accusava. Tacque. 

Un uomo che indossava abiti da sacerdote coperti da un mantello nero si avvicinò a lei con un tomo in mano.

«Confermi di essere Amahy,» continuò Alan, «figlia di Byumu, di anni ventisei?» fece una pausa, poi soggiunse con malcelato disprezzo: «Di razza Al Bhed?»

«Sì,» disse la ragazza, curandosi di non distogliere lo sguardo dall’Inquisitore se non quando l’altro uomo fu vicinissimo a lei. Solo allora guardò l’oggetto che aveva in mano.

«Riconosci questo libro?»

«Sì».

«Di cosa si tratta?»

La ragazza tentò di muovere i polsi indolenziti, ma erano tenuti ben fermi dalle catene. Ingoiò la propria saliva e tornò a fronteggiarlo.

«È uno dei Tre Libri, Inquisitore. È il testo sacro del Viaggio in una traduzione dal dialetto spirano antico a quello medio e moderno».

«Di chi è la traduzione?»

«È mia».

Alan annuì con lentezza solenne. Poi, con un gesto della mano, ordinò al sacerdote di aprire il libro dove era stata infilata una striscia di cuoio.

«E questa traduzione è stata autorizzata dalla Chiesa di Yevon?»

«Sì».

«Il libro è accessibile da tutti nella biblioteca pubblica?»

«Sì».

«Quindi hai studiato la lingua antica di Spira,» osservò Alan. «Ammirevole. Perché lo hai fatto?»

«Ha delle somiglianze con l’alfabeto Al Bhed, sign- Maestro. Sono interessata alle notizie storiche contenute nei Tre Libri. Cerco eventi astronomici da poter collegare a una data».

Il sacerdote mise il libro davanti agli occhi della giovane. Il testo, diviso in tre colonne, spiegava e schematizzava un’eclissi di Sole, mostrando le orbite e il cono d’ombra. Lei aggrottò le sopracciglia di riflesso.

«Potresti leggere la pagina a destra?» le domandò Alan. «Oh, slegatela, per l’amor del Cielo».

L’uomo con il mantello nero le sciolse le catene e lei, finalmente, si portò le mani davanti al viso. Tentò di massaggiarsi i polsi, ma le dita non rispondevano ai suoi comandi a causa dello scarso afflusso di sangue. Erano bianche e le facevano male. La sensazione si acuì quando il sacerdote le forzò il volume tra le mani.

Lei tentò di afferrarlo, ma non aveva la forza sufficiente a tenerlo sollevato senza tremare. Allora, l’uomo le coprì le dita con le proprie, in modo che il libro rimanesse fermo. La ragazza gli scoccò uno sguardo feroce che lo costrinse a lasciare la presa e sostenere il tomo per il dorso.

«Quando il cielo sarà nero e…»

«…E le stelle appariranno a mezzogiorno, e sgomento sarà tra gli animali,» la interruppe Alan, recitando a memoria. «Sì, certo. Non quello. Leggi lo scolio. È la tua grafia?»

«Sì».

L’espressione dell’Al Bhed diventò ancora più interdetta, ma non poteva fare altro che obbedire. Il palco era alto, e dell’Inquisitore vedeva solo la veste scura e i paramenti.

«L’interporsi della Luna tra la Terra e il Sole…» cominciò, dato che lui taceva e non forniva spiegazioni. «Nell’orbita dell’uno o, equivalentamente, dell’altra…»

«O equivalentemente dell’altra,» ripeté Alan, tirando la pelle dei guanti sulle dita. «Si afferma quindi che una visione con il Sole al centro dell’Universo è uguale ad una con la Terra al centro. Quest’ultima proposizione va contro i dettami di Yevon che sia io che, suppongo, tu conosciamo bene, e questo rende il tuo testo sospetto d’eresia».

Lo stadio, adibito a tribunale, era grande e silenzioso.

«Tale opinione, Maestro Inquisitore,» ribatté la ragazza, con voce decisa, «è assolutamente da condannarsi qualora la si assuma nella fisica delle cose. Tuttavia, essendo quel testo legato alla matematica, che lavora per supposizioni, sarebbe stata una mia mancanza non precisare che un’ipotesi è uguale all’altra».

Se i suoi occhi avessero potuto spingersi così lontano, avrebbe visto le sopracciglia di Alan inarcarsi e le sue labbra arricciarsi appena. 

Jecht, in silenzio, si inoltrava tra i curiosi che stavano assistendo al processo. Rabbrividì nel notare che si trattava con tutta probabilità degli stessi che, quella mattina, tifavano per una squadra o per l’altra al torneo. Strinse la lettera in una mano e si costrinse a non guardare le loro facce.

Uno spettacolo equivale l’altro, eh?

«C’è un altro punto, nel testo. Continua da dove avevi interrotto».

«Gli a-» la bocca le si seccò e la voce le mancò per un attimo, ma la ragazza raccolse tutto il coraggio di cui era capace. «Gli animali, anche in questo Yevon si manifesta ed è».

«Ed è,» replicò l’Inquisitore, in tono molto lento. «Καί γίγνεται».

«Cosa?»

«In spirano medio, qui e in altri luoghi, hai scritto che il dio γίγνεται, se la memoria non mi tradisce».

«Sì, Maestro».

«E perché hai usato questo termine in particolare per denotare l’esistenza? Ne esistono altri».

La ragazza inclinò il capo.

«Con tutto il rispetto, signore, il suo mi sembra un argomento sofistico».

«Potrebbe essere».

«E sono stata convocata qui per parlare di eresie o di sinonimi?»

Alan accolse quella sfida con un sorriso.

«Caso vuole,» le fece notare, «che proprio quel termine abbia in sé la radice del cambiamento. Quindi significa che il dio è in quanto diviene, è passibile di mutamento nell’essenza, e questo presuppone un tempo in cui non era un dio. Sembra accostarsi molto bene all’eresia di Teyno, che afferma proprio questo».

La ragazza strinse le labbra e le dita, affondando le unghie sottili nella copertina di pelle del libro.

«Sappiamo che il dio ἐστί,» infierì Alan, «cioè che è solamente in quanto è, non certo γίγνεται, poiché non diviene. Tuttavia le frequenze con cui queste parole ricorrono nella tua traduzione sono in notevole squilibrio l’una con l’altra».

«Non conoscevo la differenza tra questi due termini,» provò a difendersi lei. Era ormai senza forze. «E mi parevano dire la stessa cosa».

«Richiedo il tuo pentimento e l’abiura,» concluse Alan, ignorando un'obiezione tanto inverosimile. «Il libro venga posto all’Indice».

Il resto della frase si perse, per Jecht, nell’aria densa e irrespirabile e nel gesto del sacerdote che accettava la sua missiva con l’ordine di consegnarla al Grande Inquisitore.

Non voleva stare in quel posto un attimo di più. Non voleva assistere a cosa sarebbe successo a quella ragazza, né immaginare che al suo posto avrebbe potuto esserci lui, per un minimo sbaglio.

Non voleva più sentire sulla schiena il peso di quello stadio usurpato, delle tenebre portate dove avrebbe dovuto esserci luce, in un’eclissi che sarebbe durata una vita intera.

 

 

 

Il mattino seguente, nonostante avessero la possibilità di dormire più a lungo del solito, i tre viaggiatori si svegliarono comunque di buon'ora, spinti dall'abitudine imposta dal viaggio.

Jecht era davvero desideroso di riposarsi in comodità, ma il tentativo fallì e si alzò infastidito dal suo piccolo giaciglio, per poi raggiungere i compagni sul molo.

«La nave non sarà ancora pronta per un po'. Ora cosa facciamo tutto il giorno?» chiese, stizzito.

«Ieri, quando ti ho raggiunto negli spogliatoi, i giocatori mi hanno chiesto di benedire tutti loro e il campo da gioco,» disse Braska sorridendo, «visto che a Luka non ci sono templi, sono rare le visite degli Invocatori. Non potevo proprio rifiutare!»

Jecht sbuffò, ma annuì comprensivo.

«Tu, Auron? Hai qualcosa da fare in cui io possa darti una mano?» chiese l'atleta anche al suo compagno.

Il monaco pensò assorto per qualche istante, come se effettivamente avesse qualcosa in mente, ma preferì rimanere in silenzio e scuotere la testa. Jecht non si aspettava una risposta diversa, come accadeva normalmente con il giovane Guardiano.

«Facciamo che ti accompagnamo allo stadio e ti aspettiamo? Che ne pensi, Braska?»

L'Invocatore unì le mani in segno di gratitudine e sorrise dolcemente a entrambi.

«Quando avrò finito, andremo a prendere un gelato. Stavolta non accetto un rifiuto,» rispose rivolgendosi ad Auron, che alzò le spalle rassegnato.

Si incamminarono allora verso lo stadio. Distava pochi metri dai moli dove attraccavano le navi; il mare era calmo e di un blu intenso che invogliava Jecht a lasciare tutto e tuffarsi, nuotando senza meta tra le acque salate.

Il monaco notò lo sguardo del compagno che rincorreva le onde e, mosso da una scarica di paura, troncò i suoi pensieri sul nascere.

«Non ci provare nemmeno. Se ti succedesse qualcosa, io di certo non verrò a salvarti,» disse Auron con voce più alta di quanto avrebbe voluto.

«Che fai, leggi la mente ora?» replicò Jecht colto sul vivo, poi sfoderò un sorriso sarcastico e incrociò le braccia. «Non mi dirai che sei preoccupato per me, vero?»

L'atleta era a conoscenza del problema di Auron col nuoto, ma di tanto in tanto punzecchiarlo nel modo giusto non gli dispiaceva affatto.

«Puoi anche raggiungere Besaid a bracciate, per quanto mi riguarda. Tutto ciò che non devi fare è ostacolare il Pellegrinaggio,» rispose l’altro, bruscamente.

«Sei una cantilena ripetitiva, ragazzo. Proprio come le tue preghiere».

Braska rise a quell'ultima frecciata, poi diede una pacca affettuosa sulle spalle di entrambi e li salutò, per entrare di nuovo nel grande stadio brulicante di persone.

Jecht andò a sedersi sul ciglio laterale del pontile con le gambe penzoloni, desideroso di toccare l'acqua anche solo con la punta dei piedi.

«Luce di giorno e tenebra di notte quel posto, eh?» si trovò a dire.

«Come?»

«Niente».

Auron osservò con una certa attenzione il movimento delle gambe di Jecht, come se potesse imparare qualcosa dalla vista, ma ben presto si rese conto che non avrebbe mai funzionato se non gliel'avesse chiesto. 

Fu sul punto di aprire bocca più volte, ma altrettanti furono i morsi sulla lingua, così iniziò a passeggiare avanti e indietro in attesa di Braska.

Non passò molto tempo prima che un uomo vestito di nero avvicinasse i due Guardiani per parlare con loro: il monaco drizzò la schiena per sembrare più imponente, mentre l'atleta scattò in piedi e incrociò le braccia.

«Siete al seguito dell'Invocatore Braska, giusto?» chiese il giovane, un ragazzo dai capelli castani.

Jecht e Auron, uniti dall'astio che provavano per l'Inquisizione e chi vi stava al vertice, si scambiarono un'occhiata fulminea, e l'atleta capì che era meglio lasciare la questione in mano al compagno.

«È corretto. Siamo i suoi Guardiani. Desidera qualcosa?» chiese Auron educatamente.

«Il Grande Inquisitore Alan desidera incontrare Braska. Sapete dove posso trovarlo per riferirgli l'invito?»

Entrambi si esibirono in un’impercettibile smorfia nervosa, stanchi di vedere il loro Invocatore convocato di continuo senza possibilità di rifiuto. Auron sbuffò aria dal naso, poi indicò lo stadio.

«Sta benedicendo i giocatori. Lo troverà negli spogliatoi, probabilmente».

Il ragazzo ringraziò con cortesia e si avviò all'interno, lasciando dietro di sé due Guardiani molto nervosi e preoccupati. 

Braska non si aspettava quella visita, che lo lasciò perplesso e anche un po' ansioso. Ogni volta che suo fratello lo convocava non era mai per piacere, anzi, doveva aspettarsi qualsiasi genere di problema da affrontare.

Come aveva sentito dire da qualcuno durante il suo viaggio, le cattive notizie vestono di nero, e quel ragazzo dell'Inquisizione che lo stava scortando ne era la prova diretta. Braska sospirò, stanco, ma non oppose obiezioni.

«Dove si trova il mio amato fratello?» chiese l'Invocatore con voce di miele.

«Alloggiamo in un albergo nel centro città. Cammineremo per un po'».

L'Invocatore seguì il ragazzo in silenzio per tutto il tragitto, tra le strade rumorose e colorate di Luka, arrovellandosi in cerca di qualche azione sgradita che avrebbe potuto aver commesso. Per un momento si ritrovò bambino, al cospetto dei suoi genitori, in attesa della punizione per le sue marachelle giovanili.

L'albergo spiccava rispetto agli altri edifici, sia per le dimensioni che per la sorveglianza. Due altissimi Ronso dal pelo scuro montavano la guardia all'entrata.  

Il ragazzo fece cenno a Braska di aspettarlo lì, mentre lui entrava di fretta all'interno, seguito dagli occhi felini dei Ronso. Dopo pochi minuti, Alan uscì dalla porta per accogliere Braska, che prontamente eseguì la riverenza.

«Ti trovo bene, fratello,» esordì l'Invocatore con un largo sorriso.

«E io trovo bene te. I tuoi Guardiani stanno facendo un buon lavoro nel mantenerti in salute».

Alan mise mano ai sigari per prenderne uno, ma lasciò subito la presa ricordandosi che il fumo avrebbe infastidito i deboli polmoni di Braska.

«A proposito dei tuoi Guardiani,» continuò, arricciando il labbro superiore in un sorriso, «avrei qualche domanda da fare. Ti dispiacerebbe seguirmi?»

«Hanno fatto qualcosa di male?» chiese subito Braska, terrorizzato.

«No, niente del genere. Vieni con me».

Alan fece cenno ai suoi sottoposti di mantenere le loro posizioni e si incamminò verso una strada laterale, che si districava nella città a partire da quella centrale, più caotica e affollata. 

Notando il vicolo modesto, Braska iniziò a chiedersi se fosse il caso di preoccuparsi seriamente per la propria incolumità, ma in qualche modo si fidava ancora di suo fratello.

Alan controllò i dintorni per qualche istante, poi si rilassò a sua volta.

«Mh, non un posto in cui passerei di notte,» commentò con una smorfia, «ma è adatto per non essere ascoltati. Ho qui una lettera dell'uomo di Zanarkand: spero di poterne discuterne con te».

«Una lettera?» ripeté Braska, sinceramente stupito.

«Dalla tua espressione vedo che non ne eri al corrente. No, non gli ho estorto niente, se è questo che ti preoccupa. Riguarda una terza persona, se così si può dire».

L’Invocatore lo guardò e si tormentò il labbro inferiore con i denti, ma scelse di non dire nulla.

«Devo darti prima un’informazione. Riguarda i fatti avvenuti sul Gagazet vent’anni fa. Tu sei intelligente, Braska, ormai hai capito cosa mi è successo. Non preoccuparti, non ci tengo a chiederti come ti fa sentire».

«Ti prego, Alan, vai avanti».

L'Inquisitore annuì con un mezzo sorriso e portò la mano alla veste, quando dei passi risuonarono alle loro spalle.

«Fermo! Non muoverti!» gli gridò una voce dal marcato accento Al Bhed. Alan si blocco e fece per girarsi, ma la pressione di un oggetto ben conosciuto sulla schiena lo fece desistere. 

Da dove diamine sono passati?

«Hai un fucile d’assalto,» commentò, alzando lentamente le mani al livello delle spalle. «Dalla canna direi che è un Dirtyu AX, calibro 5,56.  Li fanno a Bikanel. Sai che non ti conviene provare a spararmi, vero?»

Due luci azzurre erano comparse all’altezza delle scapole dell’Inquisitore, e avevano cominciato a scendere lentamente, come lava che cola, formando una croce.

Dal cielo. Erano decisamente arrivati in aeronave, e si erano calati su Luka con delle funi.

Un secondo uomo, che stringeva un coltello, si gettò su Braska. Lui alzò le mani d'istinto, spaventato a morte.

«Tu, Invocatore! Non provare a fare l'eroe, o faccio saltare la testa a questo qui,» disse quello dietro ad Alan. 

«Ok, ok! Per favore, farò quel che dite,» disse Braska quasi supplicando. Il fratello lo fulminò con lo sguardo e inarcò le sopracciglia, ma lui, nel panico, parve non notarlo.

L’Al Bhed afferrò l’Invocatore per il braccio e gli legò le mani dietro la schiena.

«Per la Repubblica!» gridò il suo compagno con il fucile. Alan si preparò a deviare le pallottole con la Necropotenza e a trafiggergli il petto, ma fu sorpreso dalla nebbia che si alzava da un fumogeno. 

Fu costretto a chiudere gli occhi e coprirsi il naso, piegandosi su se stesso quando non sentì più la canna dell’arma contro la schiena. 

Trattenne il fiato e cominciò a correre verso la strada principale, dove aveva visto dirigersi delle sagome nere, pregando che la sua mente reggesse e non gli facesse rivivere di nuovo quei momenti.

Aveva un sapore dolciastro in fondo alla bocca. Sì, quella carne era dolciastra.

L’imboccatura del vicolo, nella nebbia, risplendeva come una reliquia santa. L’Inquisitore raggiunse l’arteria principale della città e si precipitò verso la piazza. 

In quel momento, risuonarono delle forti grida.

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Capitolo 42
*** Rimanere a galla (Parte 2) ***


CAPITOLO 29: RIMANERE A GALLA (PARTE 2)

 

 

 

I cittadini di Luka avevano cominciato a correre in direzioni casuali, come animali spaventati dall’arrivo di un predatore. Alan assunse la posizione di guardia e strinse la mano sulla lancia ancora prima di vedere la macchina Al Bhed che si profilava all’orizzonte.

Un carro armato con una larga bocca da fuoco, trascinato da cingoli che sembravano provenire da un’antica tecnologia, proteggeva i rapitori di Braska. Quando il riflesso del sole gli colpì gli occhi, l’Inquisitore si accorse che una seconda macchina, più piccola, stava volando attorno al veicolo.

«Yhteysu, bnacdu!» gridò la voce di un uomo. Alan, correndo incontro al nemico, notò una testa bionda che abbassava lo sportello della cabina di guida.

«Lywwu!» 

Accompagnata da un tuono e poi da uno sfrigolio, una lancia d’energia si schiantò contro la barriera antimagia che circondava il carro armato.

Alan strinse i denti e creò altre cinque lance con i lunioli del suo turibolo, per poi circondarvi il proprio corpo. Il vento era abbastanza forte da sollevare il suo abito talare e agitare il velo davanti ai suoi occhi.

Una delle cinque armi si diresse di nuovo verso il veicolo, schiantandosi contro la barriera com’era successo poco prima, le altre quattro colpirono la piccola macchina che gli orbitava attorno, in una raffica stretta.

«Ohi!» esclamò l’uomo calvo alla guida. Lo stecchino che stava masticando gli cadde dalla bocca e rimbalzò sulla cloche. «Quanti dannazione di colpi ha?»

Il veicolo fu scosso da un altro attacco, accompagnato da un flash di luce. La barriera aveva ceduto definitivamente, e lui non poteva fare fuoco su una piazza.

«Cid!» 

Il pilota si voltò e vide Braska che si agitava in un debole tentativo di liberare le braccia che gli avevano legato dietro la schiena. L’uomo che l’aveva rapito serrò la presa, rendendogli impossibile ribellarsi. 

«Non so cosa vogliate da me, ma vi conviene ritirarvi. Se ingaggiate in combattimento mio fratello rischiate di perdere!»

Cid inspirò l’aria tra i denti e si passò una mano sulla testa, sopra al tatuaggio che recitava quella parola importante. Amore.

C’era un’altra parola importante. Fratello. Ed Emma non avrebbe potuto mai più dirla.

Lei, quel ricordo lontano, il suo sorriso sbilenco e i libri che teneva tra le braccia.

Sbalzato all’indietro da un altro colpo, Cid tornò alla realtà e strinse le mani sulla cloche, sentendo il sudore colare dai palmi e venire assorbito dai guanti di cuoio.

«Questo è un cazzo di tiratore scelto!» sbraitò, poi si voltò di nuovo verso Braska. «Che pensi che voglia da te? Salvarti! Sono questi che ti vogliono ammazzare!»

Lo farei anche io, volentieri, ma Yuna si ritroverebbe senza padre. Si trattenne dal dirlo, dato che non gli suonava molto cortese.

«Vansu!» urlò, in direzione del suo compagno che stava per aprire lo sportello, con l’intenzione di lanciare una seconda macchina volante che ripristinasse lo scudo. Lui si fermò sul posto e Cid proseguì, in linguaggio comune: «Quello ti spappola la testa! Sfondiamo avanti!»

Smetti di sparare, fratello.

«Lucy?!»

Senza dare a nessuno il tempo di ribattere, Cid accelerò sulla larga strada azzurra che conduceva al molo, puntando dritto contro Alan. 

L’Inquisitore si accorse da un secondo baluginio del sole, accompagnato dalle grida terrorizzate di chi riteneva di non essere abbastanza lontano, che il carro armato aveva cominciato a muoversi e copriva rapidamente la distanza che li separava. 

Sgranò gli occhi sotto al velo e interruppe a metà un gesto d’invocazione, incerto se tentare un altro attacco oppure ritirarsi.

Quando vide i cingoli abbattere i paletti stradali, il suo istinto di fuggire ebbe la meglio. Diede le spalle alla macchina e si gettò verso una strada laterale che si trovava a diversi passi di distanza, ostacolato dalle vesti. 

Si gettò nel vicolo giusto in tempo. Mentre, appoggiato a un muro, cercava di calmare il respiro e i colpi di tosse, si vide passare davanti la parete di metallo grezzo del carro armato. 

«Alla prossima, Inquisitore!» lo salutò la voce allegra di un uomo, distorta da un megafono. 

Alan si precipitò all’imboccatura della via per assistere alla mossa seguente di quel pazzo. La macchina imboccò una strada che conduceva a una pista d’atterraggio per velivoli, e infine scomparve nella pancia luccicante di un’aeronave.

Sulla via di Luka calò il silenzio più totale. Alan rimase immobile mentre l'aeronave decollava, con le labbra socchiuse e le braccia abbandonate lungo i fianchi.

Era sicuro che ci fossero pene molto severe per un crimine del genere.

Doveva solo valutare tutte le aggravanti del caso.

 

 

 

«Mi viene sempre un nodo alla gola ogni volta che quell'uomo lo chiama a sé. Saranno anche fratelli, ma sembrano un padrone con il suo animale domestico,» disse Jecht, dando voce ai suoi pensieri con gli occhi che cercavano il mare.

«Mi sembrava irrispettoso farglielo presente, ma mi fa piacere sapere che non sono l'unico a pensarlo,» rispose Auron, per poi rivolgergli una rapida occhiata.

«Già. Beh, ora che facciamo?» chiese Jecht, grattandosi la barba.

Senza aggiungere nulla, i due si guardarono attorno spaesati, provando un certo disagio a rimanere soli l’uno con l’altro senza aver ricevuto nessun ordine.

Nelle lunghe sessioni di preghiera in cui Braska chiedeva la concessione di un Eone, Jecht trovava interessante studiare gli usi e costumi della popolazione locale, mentre Auron si occupava della sua sfera spirituale, meditando e recitando i suoi canti al dio.

A Luka non c'erano templi né una cultura distinta da assimilare, data la quantità di persone di tutte le etnie che andavano e venivano dal porto, lasciando di sé una flebile impronta dopo l’altra nella terra soffice. Piuttosto, c'erano bar in cui era meglio non andasse e il grande stadio di blitzball alle loro spalle.

«Potremmo tornare alla nave e riposare,» propose l'atleta con tono non proprio entusiasta.

«Tu sei stanco?» 

«A dir la verità, no».

Auron annuì pensieroso, incerto se porgli o meno quella domanda. Avvertì il bisogno di accendersi una sigaretta e calmarsi con i fumi del tabacco, ma non ottenne l'effetto sperato.

«Senti…» farfugliò il monaco a voce bassa.

«Uh? Dimmi pure,» rispose Jecht, incrociando le braccia come era solito fare.

«Osservando i tuoi movimenti in acqua, mi sono reso conto che sarebbe conveniente se li imparassi anche io. Anche solo salvarmi la vita dall'annegamento sarebbe sufficiente».

Jecht ammutolì per qualche istante, nel tentativo di far tacere le mille voci che gli stavano urlando nella mente come i mercanti nella piazza colorata di Bevelle. Sbatté le palpebre velocemente, per poi rinsavire e annuire con eccessivo entusiasmo.

«Come no! Certo, non hai proprio il fisico da nuotatore, ma come hai detto tu, è sufficiente rimanere a galla!» disse Jecht con un largo sorriso.

Auron soffiò fumo dalle narici nascondendo un sospiro nel mezzo, ancora indeciso se apprezzare quell'opportunità o rimpiangere di averla anche solo pensata.

«Al tempio ero io che insegnavo a te. Vediamo come te la cavi,» concluse il monaco, spegnendo la sigaretta sotto la suola dello stivale.

Iniziò a dirigersi verso il porto, ma Jecht lo fermò stringendogli piano il braccio.

«Non c'è bisogno di andare fin laggiù, ragazzo. Sul retro dello stadio ci sono le piscine di riscaldamento, e scommetto che a quest'ora non c'è nessuno».

Auron alzò le spalle e si incamminò con il compagno verso l'immensa struttura, chiedendosi se fosse il caso di andare fino in fondo alla faccenda. 

Cambiava idea dopo ogni passo, immaginava discorsi da fare nel caso avesse declinato la sua stessa proposta, ma alla fine rimase in silenzio e, nel giro di qualche decina di minuti, si trovò nelle piscine interrate in marmo bianco, riscaldate e deserte.

Jecht era ancora incerto sulla volontà di Auron: dubitava fortemente che ricordasse qualcosa della notte passata da ubriaco e, per quanto quella situazione gli andasse molto a genio, non si fece prendere dalle solite fantasie che si costruiva in contesti simili. Doveva agire nel modo più diplomatico possibile.

«Bene, eccoci qui. Pronti a tuffarci,» disse l'atleta ridacchiando davanti alla vasca. Spostò lo sguardo verso l’altro Guardiano e lo osservò da sotto le ciglia. «Io sono già in costume, quindi, come dire…»

Auron sbuffò infastidito e cominciò a slacciarsi l’armatura, con finta noncuranza di chi aveva accanto.

«Sono un monaco, non un idiota. Non ho intenzione di nuotare vestito,» replicò con freddezza.

«Hai ragione, scusami».

Sulla coscia di Auron, che in quel momento veniva scoperta dai pantaloni, era legato il coltello su cui Jecht aveva già posato gli occhi, con curiosità, la prima volta in cui gli era capitato di vederlo senza vestiti. Ebbe una fugace immagine del fodero di cuoio appoggiato ai muscoli del suo inguine, prima di voltarsi a osservare l'acqua trasparente, in attesa che la svestizione finisse. Si rese conto ben presto che, dopotutto, non era stata una grande idea accettare: come minimo, Auron lo avrebbe ammazzato se solo avesse sospettato uno sguardo con un certo interesse.

«Forza, maestro, insegnami a non morire annegato».

«Ehi, sei stato tu a chiedermelo» replicò Jecht piccato, senza distogliere gli occhi dal riflesso che aveva parlato.

Il corpo del monaco era sempre fonte di preoccupazione per lui: se da una parte vi ammirava l’armonia e la solidità di una statua, dall'altra gli incuteva un timore che solo le percosse ricevute in allenamento potevano testimoniare.

Inoltre, avrebbe preferito che indossasse un costume invece di un semplice perizoma – per motivi tecnici – ma se lo fece andare bene comunque.

Entrarono nella piscina dalla parte più bassa, dove l'acqua arrivava alle caviglie, e prima di andare nella zona profonda Jecht fermò Auron e lo invitò a guardarlo in volto con un gesto della mano.

«Allora, ragazzo. C'è una cosa molto importante che devi sapere prima di iniziare,» disse, schiarendosi la voce. «È essenziale rimanere calmi in acqua. È la paura che ti tira giù, chiaro?»

Poi indicò davanti a loro, dove iniziava la discesa.

«Tieni bene a mente che non corri nessun pericolo. Io sarò sempre qui e non ti lascerò».

Auron fece per rivolgergli un commento pungente, ma quando i suoi occhi, avanzando, incontrarono un punto della vasca di cui non vedeva il fondo, quelle parole non gli sembrarono più tanto esagerate e ne fu grato.

Si inoltrarono fino all'ultimo punto in cui potevano toccare con i piedi. Jecht ordinò ad Auron di porsi di fronte a lui, mettere le mani sulle sue spalle e usarlo come appoggio per non affondare. Poi lo condusse a fare un altro passo avanti, verso il vuoto e verso l’ultima cosa – sì, l’ultima, da quella notte nella Piana dei Lampi – che gli faceva paura. 

Il monaco strinse la presa con forza improvvisa; Jecht si limitò a soffrire in silenzio e a portargli a sua volta le mani sulle spalle per cercare di rassicurarlo. Auron drizzò il busto con l'istinto di ritrarre le braccia, ma l’acqua impediva i suoi movimenti. Se non voleva affogare doveva rimanere appeso.

«Tranquillo, ragazzo,» gli disse l’atleta, in un sussurro tanto intimo quanto non necessario, non essendoci nessun altro al di fuori di loro. 

Auron gli rivolse una smorfia infastidita e abbassò lo sguardo, rendendosi conto che il suo respiro era accelerato e che la sua pelle talvolta sfiorava quella di Jecht, sempre calda nonostante fossero immersi in acqua.

«Molto bene. La prima lezione è rimanere a galla. Vedi come faccio io? Devi calciare l'acqua sotto di te e restare alto».

Auron annuì e iniziò a fare come detto, tentando di concentrarsi solo sul movimento e non sulla vergogna che cominciava a insinuarsi nel suo stomaco. Era come trovarsi sull’orlo di un vuoto denso, e quell’uomo era l’unico a poterlo portare in salvo.

«Sei troppo rigido, ragazzo. Più sciolto, muovi tutto il corpo».

La presa sulle spalle di Jecht si fece più stretta, segno che il monaco stava trovando molta difficoltà a compiere il più basilare dei movimenti. 

Lo sguardo dell’atleta, come una nuvola che copre il sole, passò sulle braccia tese di Auron, dove i peli si erano leggermente drizzati. Poi seguì la curva leggera del collo, spezzata dalle clavicole e dal pomo d’Adamo, e finì a riposare tra le sue ciglia scure.

«Ok, ok, facciamo una pausa,» disse lui con un sorriso.

Si voltò con un’eleganza che Auron sentiva di essere molto lontano dal raggiungere e, trascinandolo per l’avambraccio, lo portò di nuovo nel punto della vasca di cui poteva sentire il fondo.

«Va meglio nell’acqua bassa?» gli domandò Jecht, e nel mentre lui si accorse di non stare più dimenando le gambe.

Con una seconda virata, l’atleta si diresse di nuovo verso il centro della piscina, come se quell’abisso nello specifico, più attraente di altri, lo chiamasse a sé usando un nome antico. I suoi capelli bagnati e spettinati gli ricadevano sulle spalle, alcune ciocche si insinuavano in mezzo alle sue scapole. Per un attimo parve davvero venire dalla Zanarkand di mille anni prima, dove si confondeva il confine tra cielo e mare; dove risuonava ancora la voce dei figli di un dio del fiume.

«Smettila di metterti in mostra!» sbottò il monaco, infastidito da quell’immagine, mentre si tormentava una ciocca della lunga coda.

Per tutta risposta, Jecht si voltò con naturalezza con il petto verso l’alto. Sembrava non avere nemmeno una preoccupazione. 

Le luci artificiali illuminarono la sua pelle, rendendo ben visibile il tatuaggio. 

«L’acqua dà un senso di pace, no?»

«Sarebbe meglio se collaborasse un po’».

«Coraggio! Guarda che non è facile alla tua età. Da piccoli si impara subito,» disse Jecht cercando di rincuorarlo, ma Auron si infervorò ancora di più. «Proviamo qualcos'altro?»

«Che cosa?» chiese il monaco a denti stretti.

«Devi avere anche le braccia libere, così sarà più facile».

Aiutato dall'acqua, Jecht non ebbe molte difficoltà a sorreggere il compagno tenendolo stretto per la vita, e a riportarlo dove la vasca era più profonda. Auron sobbalzò e fu tentato di intimargli di smetterla, di dirgli che probabilmente aveva accettato solo per poter allungare le mani, ma si rese conto di essere più stabile.

Jecht gli teneva i pollici sui fianchi, e le altre dita sostenevano la sua presa forte. Auron sentì una stilettata percorrergli il corpo e fermarsi al ventre. 

Come quella volta in cui aveva immaginato le sue mani che lo accarezzavano gettandolo nella disperazione. La sua voce che gli sussurrava di arrendersi. 

«Spingi sotto con le gambe e tieni le braccia larghe. Muovile insieme per tenere la testa alta, fuori dall'acqua».

Nonostante le indicazioni di Jecht fossero precise, l'esecuzione di Auron lasciava molto a desiderare: sembrava un pesce che si dimenava nella rete. 

«Meglio, meglio,» commentò comunque l’atleta, «qualche minuto fa eri felice quanto una tigre nell’oceano».

«Ero solo concentrato».

Jecht scoppiò a ridere, lasciandosi cadere all’indietro. Auron si chiese per l’ennesima volta come facesse a non affondare.

«Mi guardavi come se mi volessi uccidere!»

Affondare

Quella parola ricordò al corpo di Auron che si trovava in pericolo, dato che la sua mente era stata distratta dalle parole e dai tocchi di Jecht. Si sentì cadere, e ne ebbe abbastanza: si lanciò in avanti afferrando le spalle di Jecht, esausto, e gli intimò di tornare dove si toccava. Sentì l'atleta irrigidirsi per quel gesto improvviso.

Jecht sospirò deluso, ma obbedì. Cinse il torace del compagno con un braccio e lo spinse indietro insieme a sé, per poi essere scostato in malo modo appena Auron riuscì a mettere piede sul pavimento ruvido della piscina.

«È una perdita di tempo!» sbottò il monaco, arrivando ad avere l’acqua alla vita. Non mosse più un passo.

«No, sei tu che vai in escandescenza quando qualcosa non ti riesce subito,» lo provocò Jecht, incrociando le braccia.

«Ah sì? Forse sei tu che sei un pessimo insegnante».

«O forse sei tu che sei rigido come un blocco di marmo,» continuò l'atleta senza che il suo sorriso si spegnesse.

Prima ancora di finire la frase, si avvicinò ad Auron, e gli occhi gli guizzarono verso il suo ventre. Era stato solo per un istante, ma il monaco l’aveva visto. Oppure l’aveva immaginato?

«Che cosa intendi?» ribatté, stringendo i denti e dilatando le narici. Quando si rese conto che la domanda era fraintendibile, sentì una morsa allo stomaco e il cuore gli accelerò nel petto. Era troppo tardi per fuggire.

«Non lo so,» rispose Jecht, con le sopracciglia alzate e le braccia conserte stranamente tese, tanto da mettere in rilievo i muscoli delle spalle. «Tu cosa intendi?»

«Che sei un pessimo insegnante,» gli ripeté Auron, incapace di formulare un pensiero che superasse il ronzio d’eccitazione nelle sue orecchie.

L’uomo di Zanarkand rise. Con un verso di scherno, si abbassò nell’acqua fino alle spalle.

«O forse non vuoi ammettere che in certe cose sono più bravo di te!» disse,  poi scattò all’improvviso verso Auron, riemergendo nel tentativo di spingerlo e fargli perdere l’equilibrio.

Auron, pur avendo ammirato la sua attitudine spensierata, non aveva voglia di giocare.

Mentre Jecht alzava le braccia, lui fu più rapido ad afferrarlo per i polsi e a costringerlo ad abbassarle. Vide l’addome di Jecht contrarsi e poi piegarsi in un arco dolce, sempre più vicino al suo corpo. Lanciò uno sguardo agli occhi scuri del suo compagno, poi lo spostò sulle sue labbra socchiuse e poi di nuovo sui suoi occhi.

«Ad esempio?» trovò la forza di chiedergli, nonostante la vista di Jecht immobilizzato nella sua presa lo facesse sentire onnipotente e debole, e lui fosse il giogo e insieme il bue che sottostava a quel ferro rovente.

In modo totalmente sconsiderato, Jecht sorrise, scoprendo la fila regolare dei denti.

«Devi dirmelo tu a cosa stai pensando,» commentò, a mezza voce.

Auron gli tirò le braccia verso il basso e gli strinse più forte i polsi, quasi sorprendendosi del fatto che non tremassero. Sentì le sue ossa tonde sotto le dita, gli schiacciò le vene estorcendogli un leggero gemito di dolore.

Si rese conto che erano arrivati al limite estremo della piscina, e che Jecht non avrebbe potuto indietreggiare ulteriormente senza uscire dalla vasca. Auron lo vide abbassare le palpebre e spingere in avanti il bacino. I capelli bagnati gli ricadevano sul viso, coprendo in parte l’occhiata ardente di sfida che gli rivolse quando i loro corpi si sfiorarono.

Il monaco fu percorso dall’insensato impulso di prolungare quel contatto. Cercò di attirare Jecht a sé, così che comprendesse cosa aveva causato, ma lui oppose resistenza e continuò a fissarlo con quel ghigno di superiorità che avrebbe dovuto sparire per sempre.

Auron gli si avvicinò al viso e sentì l’aria uscire dalle sue narici e colpirgli la pelle. Mosse la testa verso l’alto e per un istante gli sfiorò le labbra. Erano sottili, morbide e frementi per un desiderio taciuto. Erano a una distanza tale che Auron sentiva i loro respiri mischiarsi, accelerare e poi cercare di riprendere un ritmo regolare. 

Jecht aveva inclinato il capo e socchiuso la bocca, in modo da permettergli di fare quell’ultimo passo. L’altro Guardiano non osava, perso in una paura che andava oltre a ciò che poteva comprendere. Gli sfiorò di nuovo le labbra, lentamente languendo nella perdita di tutte le sue forze. Allentò la presa sui suoi polsi, pur sapendo che era un arrendersi.

«Jecht! L’Invocatore!»

Auron scattò all’indietro, come percorso da una scossa elettrica, e l’atleta si voltò di scatto, usando il muro per spingersi verso il centro della piscina. Un giovane con la divisa dei Besaid Aurochs, lo stesso che aveva reclutato Jecht nella squadra, era entrato ansante nella sala delle piscine, chiamando a gran voce.

Dannazione, pensò Auron, piombato nella realtà a denti stretti. Ci ha visto?

Il ragazzo, tuttavia, sembrava essere molto preoccupato e per nulla interessato alla questione. Farfugliava frasi confuse, in mezzo alle quali c’era il nome di Braska.

Con prontezza, Jecht uscì dall’acqua e gli si mise di fronte, appoggiandogli le mani sulle spalle nel tentativo di calmarlo.

«Che succede, figliolo?»

«A–» tentò di dire lui, ma la bocca gli si seccò. «Mi m-manda un uomo che si chiama…» chiuse gli occhi e li strizzò, provando a ricordare. «S-si chiama… Alan! L’… l’Invocatore Braska è stato rapito!»

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Capitolo 43
*** Un desiderio ingenuo come il voler proteggere qualcuno (parte 1) ***


CAPITOLO 30: UN DESIDERIO INGENUO COME IL VOLER PROTEGGERE QUALCUNO (PARTE1)

 

 

 

Amore.

Il motivo per cui si muoveva l’animo degli uomini e la parola tatuata sulla tempia rasata di Cid. Era percorsa da una vena che si gonfiava allo stringersi dei suoi denti sullo stecchino che aveva in bocca. Guidava in piedi, di fronte a una grande vetrata che gli lasciava una vista aperta sul cielo.

Amore.

«Te lo chiedo un’altra volta: che cosa stai facendo?» domandò Braska, senza distogliere l’attenzione da quel termine, mentre si massaggiava i polsi liberi dalle corde. «Perché sei volato qui?»

Le narici di Cid si dilatarono. Braska, che fissava il suo grande profilo stagliarsi contro le nubi, lo vide strizzare gli occhi verdi.

«Per fare quello che non fanno sulla terra,» rispose l’Al Bhed. La sua voce era roca, come se non parlasse la lingua comune da molto tempo. Vibrava come il pavimento della nave e aveva il suono ruvido della sabbia che fischia tra le rovine nel deserto. «Fermare questa cosa dell'Invocatore. Ma non per te. Per impedirti di lasciare un’orfana».

Quella era la prima frase che Cid gli rivolgeva da quando Emma era stata uccisa. Era una sentenza ruvida e decisa, come lui.

Più volte in quegli anni Braska aveva sentito la presenza silenziosa dello spirito di sua moglie quando doveva prendere una decisione importante, quando abbracciava sua figlia oppure quando comprava il pane. Aveva parlato con la sua foto incorniciata, ma mai fino a quel momento l’aveva sentita così forte, trasparente, all’interno di una stanza.

«Io…» si ritrovò a mormorare, sapendo di non dovergli spiegazioni. Per qualche motivo, sapeva che era da un po’ che il cognato lo stava sorvegliando. «Io voglio solo… un mondo in cui Yuna non soffrirà».

In quell’istante, una nuvola passò davanti al sole, adombrando la schiena di Cid che si curvava, la sua testa che ciondolava a destra e a sinistra in un gesto sconsolato.

«Proprio non capisci…» replicò lui a denti stretti, senza voltare lo sguardo verso Braska. Lo stecchino di legno si ruppe con uno schiocco secco. «Uny du vylleu lybena. Faccio capire».

Con un cenno, ordinò a una ragazza dai capelli tinti d’arancio, che osservava la mappa di volo nella postazione accanto, di prendere il timone. Quando lei obbedì, Cid si allontanò verso il ponte, per poi tornare con un ragazzino a fianco e una bambina aggrappata al braccio. Erano entrambi vestiti con casacca e pantaloni di pelle, della stessa foggia di quelli degli adulti sulla nave. Erano biondissimi, tratto di certo ereditato dalla madre dato che i peli ispidi della barba di Cid erano scuri.

«Guarda. È mia figlia,» annunciò, posando una mano sulla testa della piccola che fissava Braska, muta, con occhi di cerbiatto. I suoi capelli erano raccolti sulla cima della testa in quello che sembrava il ciuffo di un ananas. «Rikku».

Non sapeva che Cid avesse avuto un’altra bambina, e pareva avere già quattro o cinque anni. Forse avrebbe dovuto cercarlo. Avrebbe dovuto essergli vicino, per provare a riannodare i fili di quello strappo che la morte di Emma aveva lasciato in entrambi. Si sentì come se fosse riuscito a essere compassionevole con tutti tranne che con lui, che aveva l’amore inciso sulla pelle.

«Perché hai portato anche i tuoi figli?»

«È ora che vedano con i loro occhi cosa facciamo,» rispose l'Al Bhed, accarezzando la testa di Rikku.

«Rischiare la vita con questi folli piani?» domandò Braska, alzando la voce più di quanto avrebbe voluto.

«No, lukhydu: rischiare la vita per salvarla a te e a tutti quelli come te!»

«Hai quasi ucciso mio fratello».

«Ha! Il giorno in cui qualcuno riuscirà ad ammazzarlo, lo porterò in trionfo a Bikanel!» replicò Cid, in un tono velenoso che fece stringere lo stomaco di Braska. 

Quando l’Invocatore guardò verso il basso, notò che il figlio di Cid lo stava guardando con gli occhi sgranati, e le spirali nelle sue pupille parevano quasi ruotare in modo lento e ipnotico. L’ultima volta che lo aveva visto era in fasce; ormai aveva dieci anni o poco meno.

«Weu, voi Invocatori morite sempre, ma non cambia mai niente! Sin torna sempre!» disse balbettando un poco nella lingua di Spira, ma con dura fermezza. Probabilmente stava ripetendo qualcosa che aveva sentito dal padre. Qualcosa di ateo e disperato. 

Braska sospirò, ma non poté non essere intenerito da quelle parole che sapevano, dopotutto, di innocenza. Lui aveva visto la sofferenza di Spira e il sangue che permeava la sua terra. Avrebbe volentieri dato la sua vita per un Bonacciale di qualche anno.

«Preferisco che i bambini crescano sereni piuttosto che farli vivere nella paura costante di Sin,» replicò Braska, alzando lo sguardo verso Cid. Un fuoco di determinazione gli percorreva le vene. «E credimi, mio fratello è capace di mandarvi tutti a morte. Perché non vuoi capirlo?»

La bambina sobbalzò e trattenne il respiro, allargando i lucidi occhi verdi.

«Bybà, davvero l'uomo cattivo ci ucciderà?» chiese, sull'orlo del pianto.

«Deve solo provarci!» replicò Cid, con gli occhi che saettavano verso Braska. «Non spaventare Rikku con queste cazzate!»

«Cid! Yevon non è il vostro dio, ma l’Inquisizione è potente a parole e a fatti. Non permetterò che tu metta a rischio la vita dei miei nipoti».

La voce cordiale e soave di Braska aveva lasciato il posto a una più profonda e ruvida, che sovrastava il ronzio dell’aeronave. Gli sembrava aliena. Gli sembrava che a parlare fosse Alan.

Rikku si spaventò ancora di più sentendo quel discorso, pur non potendolo comprendere fino in fondo. Scoppiò in lacrime e nascose il volto dietro la gamba del padre. Cid lanciò un verso infastidito verso Braska, poi disse al figlioletto di consolare la sorellina.

«Francamente, mio caro cognato,» commentò il capo degli Al Bhed, volgendo lo sguardo al cielo che solcavano come se fosse il mare, «mi ci pulisco il culo con l’Inquisizione». Si voltò verso Braska, e nel vedere la sua espressione trattenne malamente una risata. «Oh, chiedo scusa, principessa. Che cosa può farmi? Mandarmi nella bocca del pesce?»

«Ucciderti,» replicò Braska, lapidario.

«Siete tutti così, voi uomini di Spira. Uccidine uno e il suo impero crollerà. Ma uccidi un Al Bhed e al deserto mancherà un ingranaggio; e la natura vendica sempre ciò che ha perso. A differenza della società». 

Braska lo fissò dritto negli occhi. Pensò al giorno in cui Emma non era tornata dal mare, a come nessuno se non lui aveva pianto la sua perdita; pensò al giorno in cui Alan, invece, a casa c’era tornato. Erano ben altre dalla morte le cose di cui si vendicava la loro società. 

Ma non era troppo tardi per cambiarla. 

Quasi intimorito dall’orgoglio di Cid, spostò lo sguardo verso suo figlio, che stava tenendo un braccio attorno alle spalle della sorellina.

«Si calma se le canto una canzone» disse il fratello maggiore non molto entusiasta.

Allora, per favore, canta. Canta come faceva Emma al solstizio d’inverno, mentre io danzavo con la fiamma tremula. Canta per Bikanel e per la tua gente, che mai ha lasciato un sepolcro illacrimato.

 

 

 

La gravità della situazione non tollerava perdite di tempo né imbarazzo: aiutato da Jecht che gli allacciava l'armatura, Auron si rivestì in fretta nonostante fosse ancora fradicio, proprio come il compagno. 

L’atleta scosse la testa incredulo e corse sui marmi colorati verso l’uscita dello stadio, seguito dal monaco che era meno scattante di lui.

«Chi mai vorrebbe rapire un Invocatore?» chiese, rallentando il passo.

«Io davvero non lo so, ma la pagheranno cara,» rispose Auron a denti stretti.

Il dedalo di scale e corridoi che portavano agli spalti confuse il Guardiano più giovane: non ricordava più esattamente dove andare e, pur di fare in fretta, si lasciò afferrare il polso destro da Jecht per essere guidato verso l'uscita.

I loro occhi non avevano fatto in tempo ad abituarsi alla forte luce che la loro avanzata fu bloccata da un fiume di persone che correvano in tutte le direzioni. 

«Ehi! Ehi, fermi!» provò a gridare Jecht. La gente, terrorizzata, passava oltre senza guardarlo, quasi come se lui fosse un’illusione.

Come se fosse un sogno.

«Rapiscono Braska e scoppia un caos del genere?» continuò lui, a voce alta per farsi sentire almeno dal compagno.

Auron rimase in silenzio ad osservare, lo sguardo che non sapeva dove posarsi. Strinse gli occhi per focalizzare meglio lo sguardo: nella folla notò degli uomini in nero. Le loro tuniche erano in netto contrasto con l’azzurro sfavillante delle case, che faceva a gara con il cielo e il mare; con il bianco delle strade che aspirava a rifulgere come il sole.

«Ci sono i sottoposti di Alan in giro,» disse, indicando avanti. 

«Sempre loro a far danni,» commentò Jecht, nervoso.

Non sapendo dove andare, i Guardiani si diressero verso il centro città gremito di persone che, in un modo o nell'altro, cercavano di sfuggire alla guardia cittadina. Molte venivano solo fermate, altre perquisite o arrestate, mentre gli uomini di Alan interrogavano chiunque senza sosta in cerca di informazioni utili.

Chi aveva un negozio o un locale era in piedi davanti alla porta, come se volesse dimostrare di non nascondere dei cospiratori. Colto da un’intuizione improvvisa, il monaco riuscì a individuare il viale che conduceva al bar dove aveva bevuto il giorno prima. 

Fu lui ad afferrare per il polso Jecht, e a trascinarlo in quella direzione. 

«Vieni». 

Quella ragazza… forse lei sa… 

Due gabbiani, spaventati, presero il volo strillando. Fece loro eco il grido fiero di una donna, e una chioma di capelli scuri frustò l’aria che sapeva di cenere, strinata da un pugno potenziato con Firaga.

«Cécile!»

Auron, nel vederla respingere un uomo davanti al suo locale, aveva provato a chiamarla, ma il brusio era troppo forte. La donna caricò la guardia e, dopo averla atterrata, le assestò una scarica di pugni in pieno volto. Venne sollevata di peso da un secondo soldato, mentre scalpitava e cercava di liberarsi non per scappare, ma per picchiare anche il nuovo arrivato.

I suoi occhi celesti si voltarono verso Auron. Erano limpidi e fieri, come se lo spirito del mevyn che un tempo aveva comandato nelle pianure lontane si fosse reincarnato proprio in lei.

Il monaco pensò a quel giorno in cui aveva consigliato ad Hanna di andare da sola nella grotta in cui aveva perso la vita. Non avrebbe ripetuto lo stesso errore. Non ne avrebbe lasciata morire un’altra.

L'uomo cingeva l'addome di Cécile per allontanarla, ma così facendo le lasciò le braccia libere: a lei tanto bastò per ribaltare la situazione. Usò gli avambracci per premere sui gomiti dell'aggressore e fare leva verso il basso. Si liberò della presa con facilità impressionante, poi si mise in posizione di guardia. Incollerito, l'uomo tentò di afferrarle i capelli in virtù della differenza d'altezza, ma Cécile si spostò di lato e gli bloccò il polso, per tirarlo a terra con uno strattone ben piazzato e torcere il suo braccio dietro la schiena, lasciandolo del tutto inerme.

L'uomo le intimò di lasciarlo andare, lei per tutta risposta si alzò in piedi e lo calciò sul costato.

«Fermatevi! Per Yevon, fermatevi!»

Che fosse per timore o perché lo aveva riconosciuto, Cécile oppose una scarsa resistenza quando vide la veste rossa di Auron, che si era interposto tra lei e la guardia, e lasciò che un suo gesto la spostasse indietro.

«Che cazzo fai, troietta?» gridò l’uomo, alzandosi a fatica. Un suo commilitone lo richiamò, ordinandogli di proseguire con la ronda, proprio mentre Cécile sputava nella sua direzione, tenuta dal braccio di Auron.

«Ferma, ferma…» tentò di calmarla il Guardiano, posandole entrambe le mani sulle spalle e guardandola, pur con una certa soggezione, negli occhi stravolti. «È andato via».

Il petto di Cécile, che si alzava e si abbassava con una frenesia feroce, gradualmente rallentò il suo moto. Una goccia di sudore le scivolò lungo la fronte, e la sua mascella serrata si rilassò un poco.

Il monaco schiuse di nuovo le labbra per parlarle, ma lei eluse la sua presa e si mise davanti a lui, dritta come una lottatrice in un’arena. Quando un baluginio di metallo le illuminò il pugno abbassato, Auron arretrò verso Jecht con le mani alzate, per mostrarle che loro non erano un pericolo.

«Cécile. Che cosa sta succedendo qui?»

La ragazza si guardò attorno e allargò le narici, sbuffando fuori l’aria. Poi guardò dritto negli occhi ambrati di Auron, ignorando il secondo Guardiano.

«Il Maestro di Yevon che è arrivato in città. Ha cominciato a mandare in giro i suoi in modo che arrestassero tutti i sospetti di eresia».

Il monaco fu colpito al petto da una stilettata in grado di ignorare qualsiasi armatura. 

«L’Invocatore… è suo fratello,» tentò di spiegarle Auron lui, trovandosi all’improvviso a gesticolare in modo quasi ridicolo, «è stato rapito, e credo che stia–»

«Sì, bella scusa,» sibilò la giovane, avvicinandosi al suo viso con entrambe le braccia tese lungo i fianchi, i pugni serrati e lo sguardo che schizzava verso le vie di Luka. «Bella scusa per perquisirmi il locale!»

«Tu sei…» cominciò a dire Auron, ma si interruppe di colpo. Il problema non era il bar.

Aveva perso un’altra occasione per intervenire prima. Non era stato in grado, di nuovo, di salvare qualcuno.

«Ah, uomini! Avrei dovuto sposarmi, quando ero più giovane». 

Si ricordò di come Cécile rideva, i denti bianchi scoperti dalle labbra truccate. Di come i suoi occhi si dirigevano, furtivamente, verso la porta chiusa dietro il bancone.

«Ti prego,» le domandò, deglutendo delle parole di pentimento che sarebbero risultate del tutto fuori luogo. «Sai dove è andato?»

«Non mi ha fatto il piacere di presentarsi di persona,» ribatté lei, poi avanzò a passi lenti, ancheggianti, come se camminasse tra le fiamme. La sua divisa da cameriera sporca di polvere creava uno strano contrasto con il suo incedere da regina. «Adesso ti chiedo di spostarti».

Scusami, Cécile.

Qualcosa dentro di lui gli gridava che non poteva lasciarla andare. Gli yevoniti l’avrebbero catturata e condotta a un processo da cui forse non sarebbe uscita viva. Eppure, qualcos’altro fece sì che le sue gambe si muovessero per farle spazio. 

«Sei ancora in tempo per fermarti. Non so cosa ti muove, ma non ce la farai da sola».

Jecht lo fissò interdetto; la ragazza si diresse verso la folla e l’aria attorno a lei fu percorsa da rapide scintille. Poi si voltò, per rivolgere al Guardiano un’ultima occhiata.

«Quel Maestro,» gli disse, scandendo bene e con disprezzo ogni parola, «si è preso qualcuno che mi piace. Prova a pensare che cosa muoverebbe te».

Gli occhi di Jecht catturarono uno sguardo rapido di Auron mentre quelle parole morivano nell’aria limpida.

«Non possiamo fermarci, ragazzo».

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Capitolo 44
*** Un desiderio ingenuo come il voler proteggere qualcuno (parte 2) ***


CAPITOLO 30: UN DESIDERIO INGENUO COME IL VOLER PROTEGGERE QUALCUNO (PARTE 2)

 

 

Auron annuì. Non avendo altra scelta, i due si guardarono intorno, individuando uno dei tanti uomini in nero che tartassavano i cittadini. Dopotutto, non avevano niente da temere da parte loro, e trovare Alan era la priorità. Auron avvicinò con cautela un prete di Yevon, per poi presentarsi con la riverenza. 

«Siamo i Guardiani dell'Invocatore Braska. Abbiamo saputo che il Grande Inquisitore lo sta cercando, proprio come stiamo facendo noi. Dobbiamo raggiungere il Maestro il prima possibile».

Il sacerdote gli rivolse un sorriso enigmatico, in cui Auron riuscì solo a leggere un certo sollievo.

«Sia ringraziato Yevon. Stavano cercando anche voi,» disse, asciugandosi la fronte con la mano. «Il Grande Inquisitore dovrebbe trovarsi nei pressi dello stadio, ma non saprei dirvi dove con esattezza. Fate in fretta».

Tornarono quindi indietro, facendosi spazio tra la calca e cercando di non perdersi di vista.

Il sacerdote non aveva dato indicazioni certe, così Jecht indicò ad Auron una catasta di merci in uno dei moli. Con l'aiuto del compagno, riuscì a scalarla per guardare intorno da un punto sopraelevato. Sorvolò con la mente, come uno di quei Condor che preannunciavano la morte in mare, le strade della città. Ma non era tanto in alto quanto un uccello, e dalla cassa su cui s’era appollaiato vedeva solo a una maggiore distanza rispetto ad Auron che era rimasto a terra.

Affondò i denti sul labbro inferiore, in un punto che aveva già morso e che gli restituì in cambio un leggero sapore ferroso. Sperò con tutto sé che Alan non si fosse tolto i paramenti o che fosse accompagnato da qualche guardia Ronso, altrimenti sarebbe stato impossibile individuarlo tra la folla. 

Lo vide, con i suoi abiti appariscenti sollevati dal vento, che guardava verso il teatro come se stesse ammirando la tela più importante di un’esposizione. Sembrava che la sua contemplazione avrebbe potuto in ogni momento trasformarsi in violenza. 

«Auron!» gridò. «L’ho trovato!»

I due Guardiani corsero per le vie fino a percorrere un ponte sull’acqua, diretti verso un edificio dalla forma allungata che somigliava in un certo qual modo a un’aeronave. L’architetto, forse affascinato dalle macchine volanti degli Al Bhed, aveva fatto sì che la struttura principale, un tronco di cono rovesciato su cui si aprivano dei piccoli archi, fosse racchiusa da una seconda, in pietra liscia, che si allungava verso la città in una curva leggera. Era una forma diversa dal semicerchio che decorava le spalle di Alan, e quella discrepanza nell’estetica sembrava sottolineare la differenza di pensiero tra Luka e Bevelle. 

Auron, senza volerlo, rallentava progressivamente nell’avvicinarsi a quel luogo, come se fosse stato immerso fino al polpaccio in un liquido viscoso. Guardò Jecht, e notò che sembrava essere nella stessa condizione. Guardò di nuovo Alan, che dava loro la schiena, e vide che sopra al gomito aveva un tatuaggio che non ricordava. Un semplice glifo nero, il simbolo di Behemot e della luce.

Io sono la luce del mondo.

«Alan!» ebbe il coraggio di chiamare la voce di Jecht, mentre lui era ancora perso nel timore e nel ricordo del giorno in cui il fratello di Braska aveva preso il suo trono.

L’Inquisitore, che stringeva il giavellotto nella mano sinistra, si voltò di scatto nel sentir pronunciare il proprio nome in maniera tanto autoritaria. Quando vide i due, il suo sguardo non si addolcì, ma la presa sull’asta si fece meno ferma.

«Ah,» commentò, accompagnando quel monosillabo con un’alzata di sopracciglia. «Alla buon’ora».

Auron si mise sull’attenti e cominciò un goffo tentativo di giustificare la propria mancanza, tormentato dall’immagine confusa di ciò che era successo solo qualche minuto prima:

«Signore-»

«Ritira i tuoi uomini! Così non otterrai niente!» 

Auron, spiazzato dal tono che Jecht aveva usato con il Grande Inquisitore, sbiancò. Incapace di comprendere il motivo di quella familiarità, quando fino a poco tempo prima Jecht era terrorizzato da Alan, fece un passo indietro. Il vento salmastro di Luka fece ondeggiare i fili di perline che aveva legati al corpetto. Si sentì come se non conoscesse la persona che stava per… 

«Jecht,» lo richiamò, «mi rendo conto che siamo in una situazione critica, ma non…»

Alan alzò una mano all’altezza del volto e storse le labbra in un sorriso. 

«No, no, lascialo parlare,» replicò, con l’intonazione cantilenata e serafica che usava quando interrogava qualcuno, sicuro della propria incrollabile superiorità. «Ho sempre concesso il diritto di difendersi. E, in ogni caso, far perlustrare la città a tappeto non servirà a nulla, ora che vi ho trovato».

«Sembrava che non cercassi solo noi,» rispose Jecht. «Ti conviene non insistere, Maestro Inquisitore, la folla è più difficile da imbrigliare del mare».

Auron avrebbe voluto avere quel suo coraggio sconsiderato, ma davanti ai paramenti di Alan, sotto l’occhio spalancato di Yevon, si sentiva solo in grado di piegare il collo come un bue sotto l’aratro. 

«Sembra che invece voi abbiate mancato al vostro dovere. Che cos’è il tuo, un consiglio da amico?»

«Da alleato. Pensavo che avessi accettato».

Auron avrebbe voluto sfoderare la spada, puntargliela contro e intimargli di liberare il compagno di Cécile. Poi, però, rivide la luce che c’era nei suoi occhi mentre si gettava tra le strade. Allora pensò che forse davvero il tumulto degli uomini era forte come le onde nell’oceano.

«Un re, eh?» Il Guardiano si riscosse dai propri pensieri e tornò a guardare Alan, incuriosito da quel cambio improvviso di discorso; lo trovò che di nuovo aveva dato loro le spalle e si rivolgeva allo stadio.

«Cosa?» replicò subito Jecht.

«Pretendi davvero che ti creda se mi scrivi che Yevon era un re, e che i miei altari sono vuoti, solo perché l’hai messo su carta?»

«È quello che mi hai domandato quel giorno. Cosa mi ha detto il Coro».

I cerchi di metallo che adornavano la veste di Alan tintinnarono quando lui mosse qualche passo solenne in avanti. Resse il giavellotto in orizzontale all’altezza delle cosce, con entrambe le mani, e la sua figura all’improvviso sembrò identica a quella di Braska, in procinto di danzare il Rito del Trapasso.

«Quel giorno mi hai detto che non avevi niente da dichiarare,» commentò l’Inquisitore, quasi parlando a se stesso, «e ora hai cambiato all’improvviso idea».

«Un… un re?» cercò di intervenire Auron, la voce che tremava e un’orrida sensazione che gli percorreva la carne.

La sua domanda cadde nel vuoto.

«Pensi che ti abbia mentito? Bruciami, allora».

Alan, senza quasi muovere il capo, diresse la coda dell’occhio verso Jecht. Le sue iridi azzurre lampeggiarono dietro al velo.

«Se vuoi dimostrare che sono un eretico,» continuò a dire l’uomo di Zanarkand, «costruisci una pira in piazza e bruciami, come hai fatto con quella donna».

Solo in quel momento, Alan si voltò, apparentemente infastidito:

«Per cortesia, non esprimerti su questioni che non–»

Auron cercò con gli occhi quelli di Jecht. 

Fidati di me, gli aveva detto mentre combattevano; fidati di me mentre piantavano i pali per le tende. E ora il suo sguardo muto gli stava ripetendo quelle tre parole. 

«Non l’ho detto subito perché provo per te la stessa paura che tu hai per il Coro,» ammise il Guardiano maggiore per età. «Tu conosci le lingue antiche e le leggi delle città, così da poter governare gli uomini, ma i tuoi modi sono quelli delle bestie».

Con un gesto inaspettato, Jecht piegò una gamba e si inginocchiò davanti allo stesso uomo che aveva appena chiamato bestia. Auron, con gli occhi sgranati, arricciò le labbra e scoprì i denti in un’espressione di pura sorpresa. Jecht non teneva il capo chino: il suo busto percorso dalle cicatrici era dritto, lo sguardo ardente puntato sull’Inquisitore.

«Ho soddisfatto il desiderio di conoscenza per cui soffrivi,» concluse, «perciò, ti prego, smetti di mordere il mondo. Metti da parte l’astio che provi e per ora unisciti a noi, se hai in cuore di salvare tuo fratello».

Il monaco serrò gli occhi, in attesa del colpo che facesse vibrare l’aria. Non arrivò.

«Va bene,» risuonò solamente sotto le sue palpebre.

Era così che Jecht aveva dovuto sentirsi quando aveva aperto gli occhi su Spira, senza capire.

Il profilo di Alan era dipinto sull’acqua limpida di una delle piscine che circondavano il teatro.

«Gli Al Bhed hanno rapito Braska e hanno cercato di travolgermi con un veicolo. Li ho visti decollare con un’aeronave da quel molo laggiù».

«Anche conoscendo la direzione, come possiamo raggiungerli?» domandò il monaco, osservando le increspature sulla superficie che distorcevano la figura dell’Inquisitore.

«Perché non mi stai guardando?»

«Mi scusi, signore. Come li raggiungiamo?»

Sembrava che Alan conoscesse ogni peccato di ogni uomo che camminava sulla terra. Guardarlo era come fissare il sole, nonostante la vista fosse offuscata dal velo, e gli occhi di Auron non erano come quelli di un’aquila. Si chiese di nuovo come Jecht avesse trovato il coraggio di rivolgersi a lui con tanto orgoglio nella voce.

«Abbi fede, Templare,» rispose Alan, una volta che fu certo che entrambi lo stessero osservando senza sotterfugi. Cominciò, con la mano che non reggeva l’arma, a far dondolare dolcemente il turibolo, e a farne uscire fumo d’incenso che si mescolava a una grande quantità di lunioli. 

Il contorto fantasma di un dragone avvolse nelle sue spire il teatro, senza un suono. Le sue quattro zampe erano simili a quelle di un enorme uccello, ma aveva artigli da leone. Sul suo corpo scarlatto, su cui s’innestavano due ali flaccide, cresceva del pelo simile al manto erboso che copriva l’immensa Piana della Bonaccia. 

Auron fece due passi indietro, e per la paura impiegò qualche istante a ricordare che era solo un’illusione. 

La creatura protese la testa, appesantita dalle corna ricurve, verso l’uomo che lo aveva evocato. 

Jecht fissò con occhi sgranati l’Inquisitore, che allungò le dita per accarezzargli il muso, grande da solo quanto un uomo. Si voltò verso Auron e lo sentì spingere una parola fuori dalle labbra socchiuse: 

«Evrae…»

 

 

 

1009, mese VII. XX giorni dall’equinozio d’autunno.

«Evrae…»

Erano passati trentadue anni da quando la stella nuova era comparsa sopra Bevelle, per la precisione trentadue anni e un giorno. Gli uomini avevano tremato quando il cielo perfetto s’era corrotto, e un sospetto eretico aveva serpeggiato nei loro animi. Quella macchia inspiegabile era rimasta per poco più di un anno, bianca, sopra la terra. Poi era svanita dalla tela della notte, silenziosa come quando era arrivata.

Era tornato Evrae, l’enorme serpente alato che si diceva fosse composto dai lunioli dei guerrieri di Bevelle caduti nella guerra contro Zanarkand. 

I preti di Yevon lo avevano salutato alzando al cielo, di nuovo incorrotto, i loro scettri e i loro canti:

Gioite al ritorno della nostra forza
che mille anni fa avevamo oltraggiato.

La guerra sembrava a tutti lontana, assieme alla tracotante mostruosità chiamata Vegnagun; l’arma per cui il re di Bevelle aveva condannato la sua stirpe mortale. La macchina per cui Evrae aveva disprezzato la sua stessa patria.

Per gli abitanti di Bevelle, lontani dalla costa flagellata da Sin, ormai ogni combattimento era distante come la stella nuova. Era così per il ragazzino orfano che aveva indossato sopra i suoi abiti  un mantello rosso e, per imitare i Templari, era corso sul Gran Ponte stringendo l’asta della sua lanterna di carta come una spada. 

Solo per Alan non era così: lui solamente era equidistante dal giorno in cui aveva ricevuto dai fantasmi la sua sentenza e da quello in cui sarebbe stato lui a tormentare chi osava spiegare la corruzione delle sfere celesti.

Seduto sul pavimento della cella in cui si era fatto confinare dai Templari fino a quando quel dolore non sarebbe passato e la Necropotenza si sarebbe fatta imbrigliare, fissava il suo stesso sangue a terra. Il tatuaggio di falena sulla scapola gli inviava un dolore pulsante, come se un masso lo stesse schiacciando a poco a poco. 

All’improvviso, ringhiò come una belva e, con un colpo di reni, tentò di scattare in avanti, per sbranare un nemico che solo lui vedeva. Tornò in sè solo un istante dopo, quando le catene che gli stingevano i polsi tintinnarono. Sentì una goccia di sudore attraversargli la tempia e vide, davanti a sé, dei lunioli fuggire da piccole torri di sangue rappreso, simili a quelle che i bambini erigevano sulla riva, facendosi scivolare la sabbia bagnata tra le dita.

Alan desiderava abbandonare l’umanità da cui il Coro lo aveva bandito; eppure aveva paura di compiere un atto tanto sacrilego. Dal suo petto, piagato dall’ acuta sofferenza, uscì una cantilena cupa. Aveva imparato che solo variando di poco la tonalità delle preghiere poteva ottenere qualcosa che risultava estraneo, inquietante all’orecchio degli uomini.

Nel frattempo, Auron sul ponte correva e sognava, seguito dalla coda della lanterna a dragone, che si agitava nel vento. La sua preghiera cristallina saliva al cielo, quasi in grado da sola di spazzare via le nubi. Ignorante ancora delle mani giunte di Alan nella notte eterna.

In questa città fiorirò come il lentisco,

Io compatisco il tuo sguardo ferale.

Donami la forza delle tue spire,

Per pietà, trasformami in bestia.

O lucente guardiano della città,
o Evrae suscitatempeste.

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Capitolo 45
*** Al Bhed Crawler (Parte 1) ***


CAPITOLO 31: AL BHED CRAWLER (PARTE 1)

 

 

 

Il cuore di Jecht gli martellava furioso nel petto, mentre lui cercava di aggrapparsi con tutte le forze a qualcosa che non poteva nemmeno essere definito solido.

La creatura di fumo evocata da Alan aveva la forma di un drago, come ne vedeva spesso tatuati sulle braccia dei giovani giocatori. Il corpo serpentino della bestia sferzava l'aria, prendendo quota un battito d'ali alla volta, sempre più in alto, finché la città che avevano lasciato non diventò piccola e insignificante.

La sensazione di poter cadere da un momento all'altro era terrificante. Il dorso del drago era coperto in tutta la sua lunghezza da un pelo folto e irto, ma la sua natura eterea rendeva incerta qualsiasi presa.

Alan non dava alcun segno di disagio a cavallo della sua evocazione: si teneva aggrappato senza apparente fatica, attento a scrutare il cielo in cerca della nave che aveva rapito suo fratello e ferito il suo orgoglio.

Auron aveva un'espressione profondamente concentrata e fissava un punto indefinito davanti al proprio naso. L'aria produceva un fischio intenso nelle orecchie di Jecht, e gli impediva di parlare. Tuttavia, anche senza chiedere come stesse, intuì che stava applicando qualche tecnica da monaco per mantenere la calma. Vedendo le sue labbra serrate, Jecht provò comunque a parlare per scaricare la paura.

«Ragazzo! Ce la fai?» riuscì a dirgli, avvicinandosi alle sue orecchie.

«Il cielo non è il dominio dell'uomo,» rispose il monaco stringendo la presa.

«Sono totalmente d'accordo!»

La nave ancora non si vedeva, e i nervi di Jecht iniziavano a cedere ogni secondo di più. Non era poi così diverso dall'immergersi nelle acque profonde dell'oceano: cambiava solo la direzione.

Cercò di focalizzarsi su quell'idea distorta per calmarsi, ma non appena i suoi occhi si spinsero verso l'orizzonte senza fine, si rese conto che paragonare pochi metri sott'acqua all'immensità del cielo era una follia, come era follia ciò che stavano facendo per amore di Braska.

Il drago fumoso levò un ruggito, inarcando ancora il corpo per darsi una spinta maggiore, come se avesse individuato la preda.

Prima un punto apparentemente irraggiungibile, la nave Al Bhed aumentava le sue dimensioni; nell’animo dei due guardiani il sollievo e la paura si mischiavano in una danza perpetua.

Aveva forme spigolose e colori anonimi, un profilo simile a quello delle macchine che Jecht aveva visto nei libri illustrati. Un alone grigiastro forse causato dall’ossidazione velava il metallo, nascondendo tonalità più chiare e vivaci.

Nell’analizzare la forma complicata dell'aeronave, Jecht fu assalito dall'angoscia, poiché non riusciva a individuare un punto per atterrare. 

La parte centrale si estendeva in verticale, su vari piani, come un palazzo volante che si allargava alla base per ospitare la plancia.

Il ponte era ammaccato qua e là, forse reduce da altre incursioni. A prua creava uno spiazzo sufficiente per essere attraversato dagli uomini dell'equipaggio, mentre a poppa proteggeva le fiancate della gigantesca ruota meccanica che fungeva da motore per l'intera struttura.

Alan sollevò la mano, come a voler spronare la propria creatura infondendole nuova energia. A Jecht e Auron sembrava di stare viaggiando da ore: i muscoli delle loro braccia iniziarono a bruciare in modo insopportabile, e il respiro non risaliva nei loro polmoni, ma la nave era finalmente a portata.

Con un ultimo impeto, il drago affiancò il mezzo e lo superò in velocità, afferrando con le zampe anteriori il muso del veivolo e spingendosi sul ponte.

«Oooh, bel trucchetto! Che paura!» commentò una voce distorta da un megafono. Alan scese dal dorso di Evrae con il giavellotto stretto nella mano destra, ricordandosi di averne sentita una simile prima di venire quasi travolto dal veicolo Al Bhed nelle strade di Luka. Subito dopo, percepì un mutamento nell’aria che li circondava: la creatura stava perdendo di consistenza, Auron e Jecht cercavano invano degli appigli nel suo corpo che si sfaldava in lunioli.

Quando il giudice appoggiò un tacco sul ponte dell’aeronave, trapassò il collo ormai incorporeo di Evrae. I suoi occhi scattarono verso l’alto e colsero di nuovo un bagliore sotto il sole indefesso del sud di Spira. 

«Arriva».

I due Guardiani si schierarono ai suoi lati, e solo un istante dopo una saracinesca terminò di aprirsi con un rumore metallico.  Una macchina da battaglia su cingoli, con una grande bocca da fuoco, fu lanciata a folle velocità dalla rampa, fino a staccarsi dal suolo e volare rasoterra per qualche metro, accompagnata da un urlo di giubilo. Atterrò davanti ai tre, per essere raggiunta da un altro piccolo costrutto di forma sferica, che le orbitava attorno.

Auron e Jecht si fecero più vicini all’Inquisitore, ma a pochi passi di distanza da lui si immobilizzarono, vinti da un terrore che la loro ragione impiegò qualche secondo a contrastare. Entrambi diressero gli occhi verso il carro armato e si resero conto che forse anche il pilota era caduto vittima di quell’effetto, dato che esitava a fare la prima mossa. 

«Non provate a lanciare incantesimi finché quella sonda è attiva,» consigliò Alan, negli attimi che gli erano concessi, «siamo sotto un campo antimagia». 

«Signore–» cominciò a dire Auron. Fu interrotto dal rumore di una raffica di colpi, e il sangue gli defluì dal volto quando vide con la coda dell’occhio che erano diretti verso Jecht.

Si lanciò sull’amico e lo gettò a terra, facendogli scudo con il proprio corpo. Qualcosa nella sua anima si risvegliò, gli serpeggiò nelle viscere e lo avvolse, facendo sì che i proiettili non penetrassero nella sua armatura, ma gli tempestassero solo le costole. 

Con in bocca il sapore del sangue e l’occhio destro annebbiato, rimase a fissare Jecht. Lui lo guardava di rimando, con le labbra socchiuse e un’espressione altrettanto vacua dipinta in volto. Entrambi ansimavano. Auron si riscosse nel sentire una seconda salva, e scattò in piedi.

Poco davanti a lui, Alan aveva deviato i colpi con la stessa tecnica, ma con una sicurezza molto maggiore. Il suo giavellotto, scagliato contro la macchina volante, la trafisse prima di scomporsi in lunioli e tornare tra le sue dita.

Auron si voltò di nuovo verso Jecht, e lo vide nudo e debole, incapace di usare la Necropotenza per cui lui aveva stretto un patto con Alan. E quindi inutile anche se forse, in fin dei conti, con l’anima ancora immacolata.

L’occhio gli bruciava, era come se qualcosa avesse cominciato a premere sulla sclera. C’era anche qualcosa che gli premeva alla base del collo, e gli impediva di deglutire.

«Va’ a cercare Braska,» intimò con fermezza al compagno. «Qui bastiamo noi due».

«Ma…»

«È un ordine! Va’!»

Jecht, in piedi nell’aria livida per le cannonate, gli lanciò uno sguardo prima di stringere la presa sullo spadone e correre verso la coperta. 

Vide, sul ponte, Auron e Alan schiena contro schiena, intenti a cercare un’apertura per abbattere la sonda. Pregò, nonostante non sapesse a chi rivolgersi, che quello non sarebbe stato l’ultimo ricordo del suo amico.

La lancia trafisse di nuovo la macchina volante, che perse quota e la riprese a fatica; Alan valutò che con un altro colpo sarebbe riuscito ad abbatterla. Allora avrebbe potuto scagliare Ultima contro il carro armato, nella speranza di bruciarlo. Percorse con la mente tutti gli scenari possibili, ma un sussulto delle spalle di Auron contro le proprie lo interruppe. Sentì il Guardiano piegarsi, come se fosse colto da conati di vomito, e l’odore del sangue salire alle narici.

Smise di mirare e interpose un braccio tra sé e il giovane, scambiando i posti e intercettando al suo posto gli spari in prima linea. Strinse i denti come se dovesse spezzare l’osso di una preda, mosse la mano e riuscì a ridirigere i proiettili contro il carro armato. I colpi esplosero, danneggiando la lamiera vicino ai cingoli.

«…occhi».

Auron ingoiò la propria bile, e con una mano ancora premuta sul fianco si avvicinò ad Alan, intuendo che quelle parole fossero rivolte a lui. Una forza premeva e gli muoveva le viscere, voleva spaccargli il cranio per uscire.

«Devi coprirti gli occhi,» ripeté l’Inquisitore, avvicinandosi a lui, lo sguardo sempre diretto sul loro nemico. Il pilota della macchina aveva smesso di far fuoco, per ricaricare o per valutare i danni che aveva subito. «Hai qualcosa per farlo?»

D’istinto, Auron si portò entrambe le mani al viso, poi di scatto le staccò quando le sentì bagnate di sangue. Con il respiro accelerato, si rese conto che erano pulite.

«N-no…» mormorò.

Alan imprecò sottovoce, notando un meccanismo che ruotava sul cannone. Non avevano molto tempo. Dopo essersi passato le mani sulla veste, cercando freneticamente qualcosa che non aveva, si mise di fronte ad Auron e staccò il velo dai ganci che lo tenevano attaccato alla tiara.

Le pupille del giovane Guardiano si restrinsero per la sorpresa, e i suoi occhi si sgranarono, quando si trovò davanti il viso di Alan senza nessuna pia ombra a nasconderlo. 

L’Inquisitore lo forzò ad alzare il mento e gli legò il velo, come una benda, dietro la nuca. Auron, smarrito, non oppose nessuna resistenza, nemmeno quando Alan gli si avvicinò ancora di più per sussurrare il suo ordine:

«Vedi di non perderlo».

Senza attendere la risposta, voltò gli occhi nudi verso il ponte, li spinse al cielo azzurro contro cui si stagliava quella macchina blasfema degli Al Bhed.

Lo dico per te.

Centinaia di mani pallide, ora che nulla gli impediva di vederle, si protendevano in silenzio verso di lui. Corpi seminudi, presa una forma umana dalle nuvole, lo osservavano dai buchi delle loro maschere e nascondevano i suoi bersagli in una muta nebbia di lacrime. Alcuni si coprivano il petto con tuniche bianche, altri si stringevano ai vicini in pose contorte.

CORO             (Tace.)

Alan si morse le labbra e tentò di individuare di nuovo il bagliore nel cielo che segnalava il passaggio della sonda. Sentì il cannone fare fuoco e percepì, alle proprie spalle, i lunioli che venivano raccolti da Auron per alzare un ennesimo scudo. 

La schiera opaca che gli si stagliava davanti gli rendeva impossibile capire dove mirare. Solo uno di quei fantasmi era diverso dagli altri, un ragazzino vestito di viola con un cappuccio calato sul volto.

Il giavellotto lasciò le dita di Alan e attraversò il cielo. Lui rimase fermo, con un piede davanti all’altro e il braccio teso davanti a sé. Qualcosa lo spinse ad abbassare il capo.

CORIFEO       

Auron, attraverso il velo grigio, vide la piccola macchina volante rovinare a terra, poco distante da loro. Con una rapidità aliena, Alan si scagliò in quel punto e cominciò a strappare via circuiti e parti metalliche a mani nude, come se volesse squartarla. Un attacco della bocca da fuoco lo colpì di striscio a un polpaccio, e Auron si gettò su di lui per proteggerlo.

La furia con cui infieriva sulla sonda, come se non capisse che non era fatta di carne, era inumana. Il Guardiano riuscì a vincere il terrore, e a rendersi conto che davanti a lui non c’era un mostro, solo guardando il sangue che macchiava i suoi pantaloni sotto la tunica.

«Signore…» provò a chiamare, chino su di lui, la disperazione che gli stringeva il petto. Alan alzò gli occhi azzurri e lo fissò con lo sguardo stupefatto di un bambino. I suoi lineamenti riacquistarono la loro armonia e la ruga d’espressione a fianco alla bocca si fece meno marcata.

Il monaco dovette trattenere l’impulso di gettare la spada e fuggire.

«Oh…» osservò il giudice, appoggiando a terra la macchina rotta e alzandosi in piedi. Gli strati di vestiti che indossava scivolarono al loro posto e lui puntò il carro armato, come se avesse ricominciato a distinguere la sua forma. «Sei rimasto da solo».

 

 

 

Il sole scintillava oltre il vetro del ponte di comando e si rifletteva sulla lama di una spada. Rikku fece una cosa per cui l’avrebbero di sicuro sgridata: appoggiò i polpastrelli sull’ampia finestra. Aprì le dita come a voler raggiungere il ragazzo che stava combattendo, e trattenne il respiro. Lui indossava un cappotto dello stesso rosso dei mantelli degli eroi, aveva i capelli lunghi raccolti in una coda. Con entrambe le mani, calò la lama sul Crawler e spezzò parte dei cingoli. 

La luce di un incantesimo alle sue spalle superò anche quella del giorno, e avvolto da quell’aura continuò a combattere.

La bambina sussultò, gli occhi sgranati per la meraviglia e la bocca socchiusa. Con foga, si avvicinò ancora di più al vetro, addossandoci anche il naso. Si spinse in punta dei piedi e alzò il mento, nel tentativo di vedere la faccia del ragazzo.

L’avrebbe ricordata per sempre, e un giorno anche lei sarebbe diventata così forte!

«Rikku!» gridò una voce, interrompendo la sua contemplazione. La giovane Al Bhed si voltò di scatto, con le sopracciglia aggrottate e il naso arricciato. Vide il signore che gli avevano presentato come suo zio, coperto da una buffa tunica a scaglie. Doveva essere per quel suo strano modo di vestire che non glielo avevano mai presentato prima. 

Lui le posò una mano sulla testa e fece per dire qualcosa – sicuramente che non doveva guardare – ma si zittì quando un altro uomo strano irruppe nella stanza.

Jecht, ansimante, era arrivato sul ponte di comando. Si guardava attorno in modo frenetico, gli occhi spalancati come a voler raccogliere quante più immagini possibile. 

Non era stata la prima volta che si era sentito inutile sul campo di battaglia. Erano tornate le sensazioni di un tempo passato, quando non aveva la forza di brandire la spada, o di opporsi alle arti marziali di Auron sul polveroso terreno del tempio.

Aveva pensato, o sperato, di non dover più provare quel disagio, ma il fuoco che sentiva nel petto bruciava e lo feriva. 

Non si spense nemmeno quando si trovò davanti a Braska tenuto sotto tiro da due Al Bhed. Un terzo, senza armi ma con degli abiti decorati che facevano pensare che fosse il capo, se ne stava in piedi a qualche passo dal timone. 

«Liberate il mio Invocatore!» intimò Jecht a denti stretti.

Una bambina bionda gli fece la linguaccia. Interdetto, il Guardiano abbassò lo sguardo su di lei, appena in tempo per vederla prima che venisse trascinata via da un altro ragazzino.

«Le regole di Bikanel impongono di dire il proprio nome prima di sfidare un uomo a duello,» annunciò l’uomo, mordendo lo stecchino che teneva tra i denti e passandosi una mano sulla testa rasata. Vi si soffermò un attimo, come se avesse trovato qualcosa, poi assunse una posa da combattimento. «Sono Cid, capo Al Bhed, capitano di questa nave».

A quelle parole, due suoi compagni che si occupavano dei comandi si piazzarono al fianco del loro capitano, facendo sprofondare Braska in un mare di paura.

«Fermo!» intervenne, con un debole tentativo di frapporsi tra lui e Jecht che fu subito bloccato. «Rischi che i tuoi figli–».

«Non so chi è Bikanel,» replicò l’atleta. «Sono Jecht di– di Bevelle. Sono il Guardiano di quest’uomo: qualunque siano le tue intenzioni, lascialo andare».

Cid proruppe in una risata reboante. Poi urlò qualcosa in Al Bhed ad uno dei suoi sottoposti, impossibile da comprendere per Jecht: quello arretrò, afferrò le mani dei due bambini e li portò fuori dalla sala di comando, lontano dal pericolo.

L'atleta valutò di attaccare, ora che erano disarmati, ma le lezioni di Auron gli avevano insegnato che, alcune volte, l'arma più potente era il corpo stesso, e l'uomo al fianco del capitano, alto e massiccio quanto lui, avrebbe potuto esserne una sgradita prova.

Cid ordinò al compagno qualcosa, ma Braska si mise in mezzo, bianco in volto.

«No! Non vi attaccate, vi prego! Non userò magia alcuna, né farò altro, o ci ammazzeremo a vicenda!»

Jecht capì di trovarsi in una posizione di stallo, ma finché nessuno sarebbe andato da Auron, a lui andava bene.

Cid guardò oltre il vetro con occhi furtivi, assistendo con aria stralunata a come il Grande Inquisitore aveva sventrato il congegno antimagia. 

L’uomo che aveva portato via i bambini tornò e percorse il ponte di comando con passo marziale. Stringeva tra le mani un grosso martello da guerra, la cui testa era ornata da lettere Al Bhed incise nel metallo. Aveva un congegno innestato sull’asta, forse finalizzato ad aumentare la potenza dei colpi.

Il capitano spezzò lo stuzzicadenti in un sorriso vittorioso e afferrò la sua arma, pronto a dar battaglia.

«Braska,» disse Cid con voce rauca, «quando avrò finito con lui, ti conviene rimanere qui».

Jecht serrò le braccia e piantò i piedi a terra, imitando Auron quando diventava quella fortezza impossibile da espugnare. Giudicandolo dalla sua arma, Cid non sembrava avere qualche tecnica particolare, se non menare colpi devastanti a piena forza. 

L’atleta rimase interdetto quando vide Cid caricare verso di lui con l’asta del martello in orizzontale, come un fante che respinge un nemico a colpi di scudo. Fu costretto a indietreggiare. Evitò la prima martellata verticale schivando di lato, ma andò a sbattere contro alcuni sedili. L'impatto sul metallo rimbombò nella sua cassa toracica e lui imprecò a denti stretti: in campo aperto, quei colpi così lenti non sarebbero stati un pericolo.

L’assalto aveva lasciato Cid scoperto, ma Jecht non voleva ucciderlo. Col piatto della sua spada, spinse il capitano della nave verso una parete. Riuscì ad assestargli un calcio laterale al ginocchio, nel tentativo di sbilanciarlo, ma presto si rese conto che era come cercare di spegnere un incendio con un fiammifero. 

Cid, stabile nella sua posizione, spinse di nuovo via Jecht con l’asta del martello, mettendolo a portata di un altro colpo. 

Il capitano fece leva sulla gamba sinistra, e mise tutto il peso del suo corpo in un colpo obliquo non molto preciso, permettendo a Jecht di pararlo con la spada senza rischiare.

L'impatto fu comunque eccezionale, e sconvolse i suoi muscoli delle braccia fino a farli bruciare come fuoco vivo. L'atleta emise un gemito di dolore e fu costretto a tenere bassa la spada per qualche istante, mentre d’istinto indietreggiava verso la parete opposta della nave.

L'uomo che aveva portato l'arma a Cid corse dietro a Jecht per impedirgli di allontanarsi. Afferrò le spalle del Guardiano e lo spinse in avanti, verso il martello che lo stava distruggendo colpo dopo colpo. 

«Jecht, fermati! Lascia fare ad Auron e Alan,» disse Braska stringendosi nelle maniche.

L'atleta, ansimante e madido di sudore, scosse la testa e alzò la guardia, digrignando i denti e cercando di cacciare via il dolore che ricorreva come il mare sulla riva.

«Devo fare il mio dovere. Proteggere te, e aiutare loro,» rispose Jecht senza staccare gli occhi dell'avversario.

Cid drizzò la schiena per riprendere controllo sul suo baricentro, il martello stretto in entrambe le mani.

«Sarà facendo il tuo dovere che fallirai. Una magra consolazione per te, ma non posso tornare indietro,» disse Cid sicuro di sé.

Jecht notò che il respiro del capitano era molto irregolare: Auron gli aveva spiegato che i guerrieri che brandivano armi molto pesanti dovevano imparare particolari tecniche di respirazione per non soccombere alla fatica. 

Era vero che avrebbe potuto sconfiggere Jecht con pochi colpi, ma era anche vero che si sarebbe stancato molto in fretta.

L'atleta decise di puntare tutto su quella tattica, pur essendo consapevole che sarebbe stata un'impresa titanica. 

Cid guardò fuori per un istante: strinse la presa sull'asta del martello, determinato a finire il combattimento in fretta. 

Jecht iniziò a girargli intorno per impedirgli di scegliere una traiettoria e caricare, consapevole che il tempo di ripresa di Cid era abbastanza lungo per via dell'arma pesante. 

Il capitano avanzò verso l'avversario per incutere timore e indurlo a fermarsi, ma l'atleta era ben allenato e non cascò nelle provocazioni.

Cid sbuffò infastidito: Jecht aveva ormai capito il suo gioco, ma non poteva perdere ancora tempo mentre il Grande Inquisitore era lì fuori a combattere.

Persa la pazienza, il capitano alzò l’arma e fece per attaccare, spingendo l'atleta ad allontanarsi. Quando Jecht si sentì fuori portata, Cid abbassò il martello all'improvviso e lo caricò tenendo l'asta orizzontale, in modo tale da bloccarlo sul posto.

L'atleta fermò la corsa del capitano usando la lama della sua spada, che impattò proprio al centro dell’asta: Cid iniziò a spingere verso la parete, costringendo l'avversario a una prova che non poteva vincere.

Piegato dalla forza dell’Al Bhed, Jecht non poté in nessun modo evitare il calcio frontale sull'addome che lo spinse via, mettendolo alla mercé del colpo successivo.

Tutto ciò che l'atleta poteva fare era parare la martellata con la spada, ma, all'improvviso, Cid girò i tacchi e corse verso la porta che dava sul ponte.

«No, fermo! Sono io il tuo avversario!» urlò Jecht cercando di raggiungerlo.

Il capitano fu di certo più rapido, ma anche Braska si interpose tra lui e il suo Guardiano, in modo da ostacolargli la corsa.

«Jecht, basta! Sei stato eccellente, ma ora lascia che se ne occupi mio fratello!» disse l'Invocatore, quasi in una supplica.

L'atleta lo guardò indeciso, spostando gli occhi da lui ad Alan per qualche istante, per poi poggiarsi sulla sua spada e riprendere fiato.

«Io spero solo di aver dato più tempo ad Auron…» rispose Jecht a denti stretti.

«Lo hai fatto, credimi. Il tuo aiuto è stato prezioso,» disse Braska accarezzandogli la schiena.

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Capitolo 46
*** Al Bhed Crawler (Parte 2) ***


CAPITOLO 31: AL BHED CRAWLER (PARTE 2)

 

 

 

Alan, con le palpebre socchiuse e la fronte aggrottata nel tentativo di allontanare la sua visione, osservò Auron che spezzava i cingoli del veicolo Al Bhed a colpi di spada, sentì l’odore di carburante portato dal vento.

Una volta, in una galleria d’arte di Bevelle, aveva visto il dipinto di una donna annegata che affiorava dalla superficie di un fiume. Il velo che indossava era incollato ai suoi lineamenti; allo stesso modo il vento spingeva il suo contro quelli di Auron. La Necropotenza continuava a sostenerlo in quella battaglia incruenta: il suo era stato un mero atto di pietà. 

La mano destra dell’Inquisitore reagì ancora prima del suo intelletto, stringendosi sul giavellotto quando vide la sagoma di un uomo uscire dalla cabina e correre sul ponte verso di lui, come uno Scoor in un branco alla carica.

Alan alzò il giavellotto per colpire, ma ancor prima che terminasse il gesto – ancor prima che il Coro si frapponesse tra lui e il bersaglio – la figura schiacciò qualcosa tra i palmi delle mani. 

Auron, che stava tentando di arrampicarsi sul carro, perse l’equilibrio e rovinò a terra. 

L’Inquisitore stesso, assordato da un rumore che sembrava venire dall’interno delle sue orecchie, guardò in basso e vide i propri piedi che si spostavano, per cercare di mantenere l’equilibrio. Alzò gli occhi, con un’espressione attonita in volto, e fu scaraventato a terra da qualcuno di molto più forte di lui.

«Chi–» provò a dire, ma la sua voce fu uccisa da un pugno alla mascella che gli fece sbattere la nuca contro il ponte.  

Ripresosi, Auron si trovò davanti un uomo calvo, in abiti di cuoio, che teneva Alan sotto di sé come un animale in lotta per il comando. Gli aveva appoggiato un ginocchio sullo stomaco e stava caricando il colpo di un martello a reazione. Rune incise sul metallo brillavano di giallo e arancione contro il cielo terso.

Prima che la sua mente riuscisse a disporre in una linea ciò che era successo, Auron lo vide calare l’arma. Sentì il colpo che spezzò le gambe di Alan, piegandole a un angolo impossibile come quelle di un manichino di legno. Vide la testa del martello spinta all’indietro, dopo essersi sporcata di rosso, nell’aria che riverberava di un canto di guerra muto.

Perché… si trovò a pensare, l’odore di sangue che gli saliva alle narici e le ginocchia percorse dal fantasma di un dolore, perché non si è protetto con la Necropotenza? Aveva tutto il tempo… 

L’Inquisitore non aveva urlato. Cid gli rivolse una smorfia delirante, le labbra tirate verso l’alto, i denti scoperti e le braccia che ancora gli vibravano per la forza con cui gli aveva rotto le ossa. Alan non aveva dato a vedere la sua sofferenza, ma dal modo scomposto in cui la parte inferiore del suo corpo giaceva a terra era evidente che non l'avrebbe più mossa. 

La tiara era a qualche spanna dalla sua testa, volata via per la violenza dei colpi. Anche in quel momento, lui aveva il mento sollevato e un’espressione di sufficienza dipinta negli occhi socchiusi.

«Animale!» tuonò l’Al Bhed, preparandosi ad assestargli un altro colpo. «Questo è per il mio popolo che hai mandato in esilio!»

Prima che l’attacco potesse concludersi, un incantesimo scaturì dalle mani di Alan. Nello spazio di un cono, dritto davanti a lui, il vuoto sembrò inghiottire la luce. Il suo nemico fu scagliato all’indietro.

«Barbaro ignorante».

Alan si tirò in piedi, come se fosse attaccato a dei fili e un marionettista lo stesse rimettendo nella posizione che più gli si addiceva. I lunioli gli volteggiavano attorno alle ginocchia, oltrepassando la barriera dei suoi abiti strappati. 

Auron sgranò gli occhi e fece un passo indietro. Si scontrò con qualcun altro, l’Al Bhed che fino a poco prima stava guidando il carro armato, e incespicò su di lui.

Sta… sta manipolando il suo stesso sangue… 

Senza bisogno di muovere le gambe, l’Inquisitore si diresse verso Cid, ancora seduto a terra. Nel momento in cui alzò il braccio, delle mani evanescenti apparvero alle sue spalle, come se avessero sfondato un portale. Alcune gli si aggrapparono alla veste, altre ai fianchi, altre ancora provavano a toccarlo ma non ci riuscivano. Entrambi i suoi occhi furono coperti dalle dita bianche di un bambino che fluttuava dietro di lui. Il suo viso era oscurato da un cappuccio e reclinato sulla spalla di Alan; dalle sue labbra socchiuse non usciva alcun suono.

«L’esilio,» riprese l’Inquisitore, «bilancia della patria e dell’anima… se tu le valuti allo stesso modo allora affida la seconda a me».

«Alan! Fermo!»

A quel grido, il giudice si immobilizzò e inclinò il capo. La sua armatura spettrale si mosse con lui, e i decori sulla sua veste ondeggiarono al vento. 

«Mh?»

«Non voglio che lo uccidi!»

Braska gli diede quell’ordine aggrappandosi a tutta la fede che gli era rimasta. Sapeva che, seppur cieco, avrebbe riconosciuto la sua voce.

Sperava che le avrebbe dato ascolto.

Il medio e l’anulare del bambino si separarono, e l’Invocatore intravide l’iride celeste del fratello che si dirigeva verso di lui.

Lentamente, come confuso da quella richiesta, Alan si passò la mano destra sul mento, asciugando con il guanto il sangue che colava.

«Gli uomini pii,» cominciò a dire. Le sue parole erano scandite come il battito di un tamburo, ma il suo tono pareva interdetto, «non hanno mai deciso le sorti di una guerra».

«Yunalesca lo ha fatto, in nome di Yevon. Per lo stesso nome, ti prego di fermarti».

La figura sottile di Braska, il suo corpo avvolto dalla tunica e il suo atteggiamento mite assunsero una certa solennità composta. Sembrava che lui solo, per predestinazione, potesse guardare il fratello negli occhi. 

Senza mostrare alcun timore, l’Invocatore avanzò verso Alan e indicò Cid, ancora a terra, con un dito.

«Fa’ che sia portato in città,» aggiunse, «e sottoponilo a processo con le leggi di Bevelle. Qualsiasi cosa sia ciò che hai evocato, e che ti sta ferendo, congedalo. Non abbiamo bisogno di altri sacrifici».

Il giudice, arricciando il labbro superiore, scoprì i denti e rimase in silenzio.

«Non lo ha evocato lui,» intervenne Jecht, facendo anch’egli un passo avanti. Auron guardò entrambi con profonda meraviglia, offuscata dalla vergogna di essere l’unico a non aver mostrato un tale coraggio. Incurante delle ferite sulla schiena e del vento che le sferzava, l’atleta continuò a muovere voce: «Coro, nessuno dei due prevarrà sull’altro se agisci così. Tu stesso hai detto di non volergli parlare: se hai qualcosa da mostrare, fallo con me».

Concluse la sua breve orazione allargando le braccia, come se volesse mostrare il tatuaggio sul petto. I fantasmi che avevano attorniato Alan, guidati dal bambino incappucciato, scivolarono verso di lui come un ruscello tra le pietre. 

Jecht serrò gli occhi mentre percepiva una forza sconosciuta che gli toccava le viscere. Barcollò, abbagliato dalla luce, e appoggiò le piante dei piedi su quella che, dalla consistenza, gli pareva neve. 

Attese che la morsa del freddo gli aggredisse la carne, ma non avvertì alcuna sensazione. Abbassò lo sguardo, confuso, e incontrò un manto candido. 

Quando lo rialzò, vide le spalle ampie di un uomo. La sua chioma era acconciata in una grande treccia, avvolta sul capo, su cui era posata una corona d’oro. La tempesta di neve rendeva difficile vedere lontano, tuttavia Jecht distinse una seconda figura, una donna, che si avvicinava a lui e gli stringeva il braccio, come a dargli conforto. Era molto più giovane di lui. Aveva ricevuto in sorte una bellezza altera, terribile, e dei capelli talmente chiari da sembrare bianchi che le arrivavano pressoché alla vita.

La foggia dei loro abiti, i loro colori, ricordavano quelli che Jecht aveva visto su Spira, tuttavia le insegne infisse sul suolo ghiacciato mostravano il ben riconoscibile stemma di Zanarkand. Lo stesso che, in una vita precedente o forse futura, aveva sventolato sulle bandiere degli Abes.

Un lampo di luce e la scena svanì. Le pupille di Jecht, dopo pochi istanti, si abituarono come il cuore che, dopo aver battuto a vuoto per uno spavento, pian piano torna al suo ritmo. 

Accasciato a terra c’era il bambino vestito di viola, ma al cappuccio s’era sostituita una corona intrecciata di fiori. Si copriva il viso, nascondendolo nell’incavo dei gomiti. 

Il secondo lampo illuminò la lama d'un coltello.

Terrorizzato, Jecht mosse un passo indietro. Non aveva mai distolto lo sguardo da ciò che stava accadendo, eppure qualcosa era cambiato. La neve era striata di una grande quantità di sangue. La corona di fiori posava sul capo di un giovane rannicchiato. A Jecht pareva di avere già visto il profilo spigoloso delle sue scapole. Attorno a lui c’erano sempre le stesse montagne.

Il Coro, con vesti e maschere tanto bianche da confondersi nella neve, si era disposto in modo da circondarlo.?

CORO             A costui, uomo orrendo, non s’avvicini nessun vivo:
Non vede e non può più capire.
Cos’è a me con lui? Infranse le leggi del dio:
Non più noi dobbiamo punirlo.

JECHT             Dov’è quello che ti sta a capo?

CORO             È morto. Non hai visto? Il mondo ha assistito, intero,

Al suo sacrificio di spine.

JECHT Quando ti ho incontrato per la prima volta, credevo che fossi solo qui ad osservare. Non vi ho dato peso, poiché tante sono le cose nuove che ho visto su Spira, e tante ancora – a capire ciò è bendisposto l’animo dell’uomo – sono quelle che dovrò incontrare.

Il mio animo però non capisce quello che mi hai mostrato, né perché con l’ostinazione del serpente tormenti quel giudice.

CORO             La tua mente sarà disposta ad accoglierlo un giorno,
Se mai varcherai il tempio estremo.
Quando s’immola un figlio allora si sa della morte.

JECHT Quel bambino in porpora era tuo figlio?

CORO             Lui, e te, e Zanarkand tutta.
Ma seme dell’ombra è quell’uomo,
Contaminato d’altrui sangue.
In torbido esilio languisca.

«Jecht!»

La voce di Braska era come una mano che si allungava dalla superficie, mentre lui sprofondava verso gli abissi del mare.

«Jecht!»

Si trovò disteso su una superficie morbida, all’interno di un’aeronave che declinava dolcemente verso la pista d’atterraggio.

Come tutti gli esuli, lui voleva tornare a casa.

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Capitolo 47
*** L'ora incerta ***


CAPITOLO 32: L’ORA INCERTA

 

 

Jecht baciava con la fame di un leone e con la passione di chi è stato troppo vicino alla morte. Auron strinse le dita sui suoi capelli e lo sbatté con poco riguardo contro il muro, in un angolo della sua stanza. L’atleta aveva provato a cominciare con delicatezza, ma si era scontrato contro un’altra voglia a cui si era adeguato molto presto. 

Auron si scostò appena dalle sue labbra, solo per sentirlo ansimare, poi ricominciò a dedicarsi a lui. La barba di Jecht gli pungeva il viso e sentiva un sapore fiero e nuovo sulla lingua.

C’era qualche secondo che mancava ai suoi ricordi, tra il momento in cui si erano chiusi la porta alle spalle, già avvinghiati l’uno all’altro, e quello in cui si erano ritrovati così, ma era sepolto tra i battiti di tamburo del suo cuore, ucciso da un desiderio che divorava il tempo.

Non ricordava chi dei due avesse iniziato. Sapeva solo che il terrore che aveva provato nel vederlo quasi morire sotto i colpi del nemico si era trasformato in qualcosa di ben diverso.

Il peccato era davvero suadente quanto dicevano. Auron avrebbe voluto che quegli istanti confusi e affannati durassero per sempre, in modo da poter contare l’eternità sulla bocca di Jecht.

Lui schiuse le labbra e gli si concesse con abbandono, le mani che stringevano le sue spalle e il bacino che tentava spasmodicamente di muoversi. Quando Auron gli si spinse contro con decisione, lui si lasciò sfuggire un verso simile ai lamenti che innalzava quando veniva colpito in battaglia. Il monaco sentì un fuoco attraversargli le vene e fermarsi all’inguine, avvertì il desiderio sempre più urgente di continuare a baciarlo.

Si avventò sulle labbra di Jecht e gli parve di sentirlo sussurrare il suo nome tra i respiri irregolari. Gli prese il viso tra le mani e osservò i suoi occhi lucidi socchiusi, il petto che si alzava e si abbassava e la sua bocca che, quando non era coperta da quella di Auron, cercava di respirare tutta l’aria a cui aveva accesso. 

Davvero l’eccitazione lo rendeva così disperato?

L’uomo che aveva pianto Zanarkand gli sembrava ridotto a una creatura senza ragione e senza nome, mentre sentiva il battito della sua giugulare sotto le dita e sotto le labbra. Gli baciò il collo, come se lui stesso gli avesse indicato dove colpire, e lo sentì aggrapparsi al suo cappotto mentre insisteva sull’incavo della spalla. Lo prese per la nuca e osservò il suo profilo nella semioscurità, gli percorse con le labbra la curva del pomo d’Adamo e lo sentì sussultare e gemere piano. Jecht era debole tra le sue braccia, come se un veleno lo stesse lentamente consumando. 

«Adesso non dici più niente?» gli chiese Auron tra i denti, spingendolo contro la parete e risalendo lungo il collo, verso la sua bocca. Ricevette in cambio solo i lamenti languidi di qualcuno che brucia. 

Il monaco lo fece voltare in modo da avere la sua schiena appoggiata al petto. Lo strinse tra le braccia e lo baciò ancora, scacciando il pensiero della morte, dei loro corpi pasto di cani e d’uccelli. Sentiva la mente dissolversi, sconfitta dalla passività con cui Jecht accettava le sue attenzioni. Quasi come se, così facendo, potesse vincere lui. 

Auron gli passò una mano sul fianco, lungo la cicatrice che qualche battaglia gli aveva lasciato. I muscoli dell’atleta si contrassero al suo tocco. Sotto la pelle di Jecht, illuminata dalla lama di luce che filtrava dagli scuri, si era incarnato quello spirito terribile che spezzava le briglie dei sacerdoti. Era nel suo corpo, reclinato dolcemente tra le braccia dell’amante, quella stessa forza che era capace di ingoiare il sole del mattino. 

La decisione nei gesti del monaco diminuì a poco a poco, mentre le sue dita accarezzavano Jecht e scivolavano sotto la sua salopette all’altezza della cintura, tracciando la cresta dell’osso del bacino. 

Sentì il sorriso di scherno di Jecht.

Non aveva mai toccato in quel modo un corpo che non fosse il proprio. Quelle poche volte in cui non era riuscito a resistere ai suoi bisogni, era stato trattenuto da un timore che aveva reso fugace il piacere, e lo aveva poi indotto a pregare perché il dio perdonasse i suoi peccati. 

Auron fece scorrere la mano libera sulla coscia dell’amico e la strinse, attirandolo a sé in modo da annullare la distanza tra loro. 

Notò che Jecht aveva cominciato ad accarezzarsi tra le gambe, sopra i vestiti, e lo bloccò stringendogli con fermezza il polso.

«Scusa…» mormorò l’atleta, piegando il capo per appoggiarlo sulla spalla di Auron, «I–»

Le parole gli morirono in gola, e i suoi occhi si sgranarono nella penombra, quando sentì la mano del monaco guidare la sua sotto la cintura. Con la sinistra, slacciò con foga il bottone dei pantaloni in modo che le dita di Auron potessero passare, e quando lo fecero strinse i denti per trattenere un gemito. 

«…male?» domandò Auron con voce roca, dato che l’eccitazione gli rendeva difficile parlare.

Jecht scosse la testa e riprese a baciarlo, guidando la sua mano in un movimento deciso. Sentirono dei passi e delle voci provenire dal corridoio oltre la porta, e Auron, senza smettere di toccarlo, lo strinse a sé ancora più forte, come se volesse impedirgli di fuggire.

Il monaco scostò i capelli dal collo di Jecht e vi appoggiò di nuovo le labbra, in modo da poterlo sentire ansimare. In nessuna delle sue fantasie era riuscito a immaginare un suono tanto seducente, né il modo in cui le sue sopracciglia si inarcavano sulla fronte e i suoi occhi lo imploravano.

Qualcosa, un desiderio disgustoso, stava spingendo l’attenzione di Auron verso il basso, dove non avrebbe dovuto guardare. Si soffermò lì dov’era la sua mano solo per un istante, poi tornò a guardare il viso di Jecht.

L’uomo di Zanarkand tra le sue braccia continuava a subire, e i suoi sospiri a confondersi nella notte, mescolandosi a quelli lievi del vento sulle bandiere. 

Ad un tratto il suo corpo ebbe uno spasmo, e Auron sentì che finalmente i suoi ansiti si trasformavano in gemiti trattenuti. 

«Guardami,» gli ordinò, cercando di ignorare la punta della freccia che gli premeva sul cuore, sotto la pelle. 

Jecht reclinò il capo sulla sua spalla e lo fissò con gli occhi ardenti, mormorando qualcosa che suonava come il suo nome. Non si sforzò di mantenere un’espressione composta mentre la mano di Auron lo portava oltre il limite dei suoi sensi. 

Nel guardarlo a sua volta, al monaco sfuggì un verso gutturale, simile a quello che precede il ruggito dei Ramashut lungo la via martoriata per Djose. Si avventò sulle labbra di Jecht, che trovò già schiuse, e lo baciò senza pudore. Poi, come se si fosse reso conto del demone che lo stava possedendo, si staccò da lui in modo brusco, chiudendo a pugno la mano che aveva peccato. 

Jecht lo fissò con lo sguardo ancora confuso dalle sensazioni che aveva provato, come se facesse fatica a mettere a fuoco lui e non il muro alle sue spalle. Il suo respiro, tuttavia, si regolarizzò presto, e lui tornò alla realtà in tempo per vedere Auron dargli le spalle. Sentì l’acqua scorrere nel piccolo bagno che aveva nella stanza che gli era stata concessa sulla nave, poi vide la schiena di Auron piegarsi sull’asciugamano.

Le sue mani si appoggiarono alla parete, come se volesse accertarsi che ciò che lo circondava fosse reale. Guardò verso il basso. Forse avrebbe dovuto rivestirsi.

Forse lo sguardo disgustato che Auron gli lanciò, con le narici dilatate e le labbra piegate, mentre lo squadrava da capo a piedi, aveva una sua ragione.

Quando chiamò il suo nome, lo fece in una stanza vuota in cui lui non si era nemmeno richiuso i pantaloni.

 

 

Braska amava particolarmente la sfumatura di colori che assumeva il sole al tramonto: le tonalità di rosso e arancione si mischiavano tra loro come la fiamma del falò che spesso accendevano lungo la via del Pellegrinaggio, ricordandogli come era caldo e vivo il colore appena tatuato della sua fenice.

Non mancava poi molto al giorno in cui non avrebbe più goduto di quella vista: cercò di imprimere nella sua mente ogni dettaglio di ciò che vedeva, così da averne memoria anche nell’Oltremondo. Reggere le redini dei pensieri era tuttavia difficile e, per quanto si sforzasse, non riusciva a non cedere alla forza del cavallo che lo tirava verso la malinconia.

Mentre il suo sguardo si perdeva nelle tranquille onde del mare, Cid invece veniva portato in catene verso il Palazzo di Giustizia. Braska poteva vedere la scena nella sua immaginazione come se fosse lì presente: la schiena dritta dell’Al Bhed, il suo volto impassibile e la camminata decisa di chi non provava alcuna paura.

Il pensiero che il cognato volesse riaprire i contatti con lui gli fece venire la nausea per fin troppi motivi, e in quel momento Cid era nelle mani di Alan, a cui aveva spezzato le gambe solo a livello figurato. Sarebbe stato difficile farlo scagionare, pur facendo leva sui vaghi sentimenti del giudice, ma Braska ci avrebbe almeno provato. 

Non sperava di farlo liberare, non ci sarebbe mai riuscito. Forse poteva parlare in difesa dei bambini, e così provare a rendergli la pena più leggera. Avrebbe potuto provare a risollevarlo, come aveva fatto con Jecht. 

Come era suo compito fare per quell’isola bellissima e insieme desolata.

Braska sospirò forte e prese il suo rosario in mano. Porsi domande a cui non poteva dare risposta lo stava innervosendo: le preghiere al dio, ascoltate o meno, erano familiari e accoglienti, in netto contrasto con la voce rauca di Alan che avrebbe pronunciato la sentenza.

La sua litania fu interrotta da passi pesanti che pestavano il legno della nave come uva durante la vendemmia. Preoccupato, Braska sporse la testa dalla porta, incontrando un Auron che sembrava volesse caricare un nemico da un momento all’altro.

«Auron, va tutto bene?» chiese preoccupato.

Il monaco sobbalzò quando sentì la voce del suo Invocatore: si allontanò ancora di qualche passo dalla sua camera, annuì senza rispondere e filò via, marciando sostenuto chissà dove. 

Braska provò a chiamarlo nuovamente, ma infine decise di non porsi più domande per quel giorno e lasciare tutto fluire. Di punto in bianco, sentì una certa intolleranza generale farsi largo nei suoi pensieri, segno che il suo corpo era ormai arrivato al limite: terminò le preghiere e si coricò a letto, sperando che il giorno successivo avrebbe portato buone notizie.

Il mattino seguente, nonostante non avesse riportato ferite durante lo scontro, Braska non riusciva proprio ad alzarsi dal suo giaciglio: i muscoli irrigiditi lo teneva incollato al materasso come se ne valesse della sua vita. Una volta, quando era piccolo, suo fratello gli aveva detto che certe voglie o sensazioni strane erano strettamente legate a delle mancanze che il corpo soffriva.

L’Invocatore pensò subito che lo zucchero di una caramella lo avrebbe fatto sentire meglio, che fosse solo provato da ciò che aveva vissuto, ma ben presto realizzò che la sofferenza che sentiva era mentale. Era arrivato a un punto in cui era davvero stanco: stanco di vedere le persone a cui teneva darsi battaglia e stanco di vedere la propria missione ostacolata.

Su Spira non si facevano molti complimenti quando si trattava di mandare a morte qualcuno, ma, in qualche modo, la sua di morte era affare di molti con molte opinioni al seguito. Sorrise amaro, pensando a quanto macabra fosse quella considerazione: Auron avrebbe concordato, incline a quel tipo di umorismo, ma Jecht, estraneo in quella terra, ne sarebbe rimasto turbato.

Si girò su un fianco, appuntandosi di non fare battute del genere davanti al suo Guardiano più anziano. Da quando erano tornati dalla missione, l’atleta in particolare, sembrava essere logorato dall’ansia, come se potesse morire da un momento all’altro, proprio come era successo sulla nave. 

Il pensiero che Jecht fosse così spaventato gli provocava sofferenza. Si ripromise di andarci a parlare il prima possibile.

Sospirò esausto e si tirò a sedere, puntando gli occhi verso l’orizzonte e la città, dove quel giorno non aveva voglia di andare. Il peso che sentiva sullo stomaco non era passato nemmeno quando aveva posato i piedi a terra, al sicuro, e anzi aumentò quando i suoi pensieri si focalizzarono su Cid, prossimo al processo.

Decise che una caramella non gli avrebbe fatto male in ogni caso. Mentre gustava la dolcezza della fragola, Braska si vestì pigramente, come se volesse evitare di uscire da quella stanza a tutti i costi.

Il familiare passo pesante di Auron si fermò davanti la sua porta, per poi bussare con delicatezza.

«Sta bene, signore? A quest’ora è già in piedi,» chiese il monaco preoccupato.

«Sì, mio caro amico. Sono solo un po’ nervoso,» rispose Braska tirando un sorriso che il compagno non poteva vedere.

«Io e Jecht la aspettiamo sul ponte.»

Auron non aggiunse altro: sapeva cosa stava passando il suo Invocatore, e si rese conto di non essergli stato abbastanza di conforto in quei giorni. 

Quando Braska arrivò sul largo ponte della nave, notò che i suoi Guardiani fissavano un punto sul molo con aria preoccupata.

Due uomini dell’Inquisizione, armati e preparati al combattimento, stavano scortando i figli di Cid. I bambini avevano lo sguardo basso e non proferivano parola, nemmeno Rikku che, data la giovanissima età, non era dotata dello stesso autocontrollo del fratello.

I loro occhi, sui volti pallidi, sembravano gonfi di lacrime e spenti.

«Prego, fateli venire da me,» disse Braska in un sussurro.

Spinti senza violenza sulla schiena dalle mani dell’uomo che li scortava, Rikku e Fratello avanzarono verso Braska. Quando alzarono le pupille a spirale per fissarlo, lui ci vide uno strano sguardo di speranza e accusa insieme. Non li toccò, ma si mise tra loro e l’uomo mandato da Alan, spostandosi dalla linea immaginaria che i suoi Guardiani, uno a destra e uno a sinistra, avevano formato. Auron e Jecht si lanciarono uno sguardo indecifrabile.

Rikku, per attirare l’attenzione, si schiarì la voce come ad imitare un’adulta. 

Mostrò a Braska una lettera spiegazzata, su cui erano evidenti i segni delle sue dita, e non disse nulla nemmeno quando lui la prese e se la mise davanti al viso.

Estrasse dalla veste un paio di occhiali dalla montatura sottile e cominciò a leggere la missiva, con le sopracciglia inarcate.

Le cerimonie per l’apertura del torneo dei giorni prossimi venturi ritarderanno il processo.

Dal momento che hai preso così a cuore le sorti del padre, ho ritenuto di affidare a te questi due bambini, fino a quando la sentenza non sarà definitiva.

Il più grande mi ha dato un pugno in faccia.

«Certo…» mormorò l’Invocatore, quasi a se stesso. Si tolse gli occhiali e ripiegò la lettera, poi ripose entrambi in una tasca della tunica. «Me ne occuperò io».

L’apertura ufficiale della stagione di Blitzball era un evento a cui tutti i cittadini di Spira, almeno una volta nella vita, desideravano partecipare. La cerimonia si svolgeva ogni anno in presenza di tutti i Maestri di Yevon. Durante quell’edizione, tuttavia, sarebbe stato presente il Gran Maestro Mika in persona, dal momento che ricorrevano quarant’anni dalla sua elezione.

La città di Luka si sarebbe dedicata interamente a un giorno che avrebbe dovuto essere perfetto.

Voci dicevano che il Giudice Alan si fosse mostrato particolarmente insofferente a quella ricorrenza. Tuttavia, voci dicevano che il Giudice Alan fosse avverso a qualsiasi tipo di avvenimento in cui era costretto a sfilare davanti a un pubblico, e le lamentele di un Maestro su tre cadevano con facilità nel vuoto.

Uno dei due uomini in nero, che sulla spalla destra della tunica aveva dei decori dorati, lanciò un’ultima occhiata ai bambini, poi spostò lo sguardo verso l’Invocatore e i suoi Guardiani.

«Il Maestro Alan manda anche a comunicare che ha deciso chi lo vestirà per la cerimonia,» disse, con tono impostato. «Ho il compito di condurlo da lui».

Braska smise di far scorrere tra le dita le perle del rosario che aveva al polso e fece un passo avanti. Tuttavia, il secondo uomo si era diretto verso Auron e gli stava porgendo un astuccio scuro con quella che pareva una certa deferenza.

L’Invocatore guardò verso Jecht, che sembrava essersi congelato sul posto. Quando il Guardiano notò che Braska stava guardando verso di lui, strabuzzò gli occhi. 

Il monaco non era meno interdetto ma, senza dire nulla, accettò l’astuccio e l’aprì. Al suo interno, adagiato su un velluto cremisi, c’era un paio di occhiali. Avevano lenti ovali, piccole e scure, che gli avrebbero coperto gli occhi senza nascondere il viso. La montatura argentata mandò un bagliore nella stanza, presto oscurato dal coperchio che si richiudeva.

Auron alzò gli occhi su quelli chiari dell’uomo che gli stava davanti.

«Capisco».

 

 

«Non capisco! Che il sangue della mia famiglia si sia mischiato con quello di questa razza di ostinati… io non posso ancora crederlo!»

La voce di Alan tuonò tra i muri alti del Palazzo di Giustizia, coprendo il suono dei suoi tacchi sul pavimento e quello, ancor più flebile, della sua veste che frusciava. 

«Signore,» esordì Kelk Ronso, facendo un passo in avanti verso la cella dove era rinchiuso Cid. Erano lontani dai fasti del salone principale, dai marmi rossi e dalle statue degli Invocatori del passato che abbassavano gli occhi sulla scalinata, dolci archi sopra le loro teste.

Il giudice, tornato sui suoi passi, si era fermato davanti all’Al Bhed oltre le sbarre e aveva preso a fissarlo.

«Per l’ultima volta,» riprese. Poi serrò gli occhi e abbassò il tono di voce. «Per l’ultima volta, prima di interrogarti in tribunale. Ci sei tu dietro i moti degli Al Bhed di questi ultimi giorni?»

«Per l’ultima volta, prete,» ribatté Cid, sporgendosi verso di lui come se volesse vedere oltre il velo, «non ho intenzione di metterti in mano nessun’arma per accusarmi. Risponderò quando sarà il momento».

«Mio fratello ha interceduto per una stirpe di barbari!» sbottò Alan con un gesto stizzito delle mani, dopo avergli voltato definitivamente le spalle.

«Signore,» ripeté Kelk, con più decisione. Il giudice diede qualche colpo di tosse e gli rivolse l’attenzione; lui si sentì autorizzato a proseguire: «Le hanno condotto l’uomo di cui ha chiesto».

Alan soffiò via l’aria dal naso e si massaggiò le tempie, come se volesse riprendere  il controllo della situazione e scacciare l’immagine di Cid dalla mente. Interrogare Davon gli aveva dato molta più soddisfazione, emozioni non paragonabili gli avevano riempito il cuore mentre lo sentiva vacillare  sotto i colpi delle sue domande.

«Sì,» rispose. «Fallo entrare».

«Il protocollo numero 14 per le funzioni al di fuori dei templi cittadini prevede che…»

Alan fermò le parole di Kelk alzando la mano destra, aperta, di fronte a lui.

«Va bene, ho capito».

«Permette una domanda, Maestro Alan?» chiese Kelk. «Non mi è chiaro un punto della questione».

«Prego, vai avanti».

«Non riesco a capire perché ha scartato l’idea di scegliere l’Invocatore per la cerimonia e ha preferito quell’uomo». Il muso di Kelk si arricciò e le sue zanne si strinsero, come se fosse sul punto di ringhiare. «Si è fatto ripudiare dal suo ordine monastico andando contro ai precetti. Non potrebbe essere considerata… eretica, come scelta?»

Alan gli rivolse uno sguardo ostentatamente ammirato, poi scrollò le spalle e rise. Per qualche motivo inconscio, quando Kelk vide i suoi denti capì che erano più pericolosi di quelli di un Ronso, e avvertì l’istinto di indietreggiare.

«È un’osservazione molto interessante, mio caro Kelk, tuttavia…» il giudice inarcò le sopracciglia e scosse la testa, senza smettere di sorridere. «Decido io che cosa è eretico».

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Capitolo 48
*** Che Yevon ti abbia in gloria (Parte 1) ***


CAPITOLO 33: CHE YEVON TI ABBIA IN GLORIA (PARTE 1)

 

 

 

Auron, dopo essere stato spogliato delle sue armi, fu portato in una camera privata del Palazzo di Giustizia, adiacente a una cappella, poiché così prevedevano i riti. Un Templare gli aprì la porta, e lui fu soggiogato dall’occhio di Yevon dipinto sul muro rossastro.

Direttamente sotto la pupilla, uno specchio rettangolare gli restituiva l’immagine di Alan, seduto su una sedia di legno ornato, che gli dava le spalle. Indossava solo un paio di pantaloni scuri e un rosario nero gli cingeva il collo, ricadendo sul petto nudo. Alzò il capo velato, senza voltarsi, e Auron costrinse il proprio sguardo a non soffermarsi sul suo corpo. Osservò la sua scorta mostrargli la spada che lui stesso aveva consegnato, gesto a cui il giudice rispose con un cenno della mano. 

La tensione era insopportabile. Anche senza guardarlo, forse Alan avrebbe capito tutto. Forse già sapeva, ed era quello il motivo per cui lo aveva convocato.

Auron eseguì il saluto yevonita in segno di rispetto, poi si forzò a muovere qualche passo all’interno della stanza, ma fu fermato dalla voce autoritaria dell’Inquisitore.

«All’inguine».

Auron si immobilizzò. 

«S-scusi?» mormorò, con lo sguardo che tornava sulle sue spalle, indagando le pieghe del velo nero, più lungo di quello che indossava di solito. Era sempre stato così magro, anche il giorno in cui lo aveva sconfitto più e più volte sulla strada per Djose?

«Hai un pugnale legato all’altezza dell’inguine, sotto i vestiti,» continuò il giudice, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Sempre senza voltarsi, alzò una mano come a voler afferrare qualcosa. Auron non ricordava di averlo mai visto senza guanti. Avrebbe notato i vistosi anelli che portava, tre per ogni mano: d’argento la destra e d’oro la sinistra. «Vuoi darmelo tu, così evitiamo l’imbarazzo di farti perquisire?»

Auron deglutì a fatica, con il cuore che accelerava i battiti, come a volergli ordinare di combattere o fuggire. 

«…sì». Slegò il pugnale, poi si avvicinò alle spalle di Alan e glielo porse. Le sue dita si strinsero immediatamente sul fodero. «Non… non intendevo nasconderlo, signore. Sono sincero, avevo dimenticato che fosse lì. Come ha fatto a capirlo?»

Alan avvicinò a sé un posacenere in vetro lavorato e rise in modo quasi bonario.

«So qual è l’equipaggiamento dei Templari. Il pugnale pensato per suicidarvi, in modo da evitare il disonore di una morte con dolore…» Lo specchio rimandò l’immagine del giudice che abbassava lo sguardo per osservare l’arma. Poi l’appoggiò al tavolo, la lama allineata con il bordo. «C’è anche stato chi l’ha usato in modo più saggio».

«Non era mia intenzione, signore». 

«Ti credo, ti credo. Orbene,» Alan fece leva con entrambe le braccia sullo schienale della sedia e rivolse finalmente il viso ad Auron. «Ti hanno informato sul rito che devi svolgere?»

Il monaco abbassò il capo con umiltà.

«Sì, signore,» rispose. «Si usava anche al mio monastero a Bevelle, per prepararci alle cerimonie ufficiali. Quando sono stato investito del ruolo di Guardiano di suo fratello… Wen Kinoc ha effettuato il rito per me».

Alan si tolse con cura il velo che era costretto a portare e lo appoggiò sul tavolo di fronte a sé. Poi estrasse un sigaro da una scatola d’argento e, prima di accenderlo, lo prese tra indice e medio e lo osservò rigirandolo, come a volerlo ispezionare.

«Ah, Kinoc. Il comandante in seconda dei Templari».

Auron si irrigidì. A disagio, si ritrovò a fissare il volto di Alan, che si era girato nuovamente verso lo specchio. Osservò senza ostacoli il naso dritto dell’uomo e le sue ciglia scure, forse truccate con qualche polvere per infondere ancora più inquietudine a chi cercasse di guardarlo negli occhi celesti. Il suo aspetto aveva qualcosa di ipnotico, molto diverso dalla dolcezza composta dei lineamenti di Braska. Nonostante fosse esile, non c’era nulla in lui che suggerisse qualche tipo di debolezza.

La mente di Auron, quasi per proteggerlo, disegnò l’immagine di Kinoc, si rivide a pregare con lui al monastero di Bevelle.

«Ha notizie su di lui?» domandò.

Nella stanza si alzò uno sbuffo di fumo e si udì il rumore dell’accendino del giudice che si richiudeva, soffocando la fiamma.

«Sì,» replicò, con voce ovattata dal sigaro che teneva  tra le labbra. «Pare che stia avendo una brillante carriera nell’esercito. E che stia perdendo i capelli». Alan si girò per mettersi di profilo allo specchio, e alzò il mento com’era solito fare. Si portò una mano alla tempia, dove i capelli intrecciati strettamente stavano cominciando a ingrigire, e inarcò le sopracciglia. Nel vedere le sue espressioni abituali senza il consueto schermo d’incertezza, Auron si sentiva tutt’altro che a suo agio. «Li sto perdendo anch’io?» 

«Non mi sembra».

«È un po’ giovane per perdere i capelli,» continuò l’Inquisitore. «Ah, e si sposerà a breve».  Poi, notando che Auron si era irrigidito, spinse il labbro inferiore in avanti e aggiunse: «La cosa ti disturba?»

«Francamente, signore, mi risulta difficile credere che lei non sappia il motivo per cui sono uscito dall’ordine».

Alan prese un’altra boccata dal sigaro, e il monaco vide che la sua mano destra era incisa da graffi e lividi semicircolari. Sulle nocche aveva delle sbucciature che stavano guarendo.

«Sembra che io e te siamo entrambi poco adatti al matrimonio,» osservò, «chi per un motivo e chi per un altro. A tal proposito, ti è piaciuto il regalo che ti ho fatto recapitare?»

«Molto».

Alan sorrise e chinò il capo, come a dire “è cosa da niente”. Poi accavallò le gambe, batté il sigaro sul posacenere e tornò a guardarsi allo specchio.

«Sapevi che alcuni dei sacerdoti chiedono delle belle ragazze per officiare questo rito? Ad esempio Kryon, hai presente?»

Auron si guardò attorno. La stanza non conteneva nessun effetto personale di Alan se non l’incensiere che portava sempre con sé. Riportò gli occhi sull’Inquisitore, e di nuovo fu attratto dalla curva del suo collo, nel punto dove si univa alle spalle. Perché continuava a guardare un uomo del genere? Era una conseguenza di ciò che aveva fatto?

«No».

«È l’uomo che ti ha accompagnato qui». Dalla pila di documenti che aveva davanti, Alan estrasse un taccuino rosso. Presa una matita, vi annotò qualcosa con aria pensierosa. «E anche Gerit, mi è parso».

Il respiro di Auron si interruppe; lui seguì l’istinto di indietreggiare di un passo, verso la porta, ma fu subito raggiunto dalla risata contenuta del giudice. Alan si voltò e gli mostrò le due pagine del taccuino, su cui non aveva scritto nulla.

«Sto scherzando. Avevi una faccia divertente,» commentò. Poi, mentre Auron si mordeva il labbro inferiore per evitare che tremasse, Alan si alzò. Gli si mise di fronte, e il Guardiano si preparò per resistere alla stretta delle sue dita, quella che aveva subìto e temuto. 

Invece, la mano di Alan gli prese il braccio, poco sopra il gomito. Il monaco sgranò gli occhi. Si ricordava di aver ricevuto un gesto simile, a Bevelle, da uno dei suoi maestri.

«Seguimi».

Auron rimase immobile come una statua mentre Alan, con il capo scoperto e le mani unite in grembo, si dirigeva verso la porta. Si riscosse all’improvviso quando si accorse che l’Inquisitore lo aveva superato, rendendosi conto che si stava dirigendo verso un corridoio la cui architettura imitava quella di alcuni templi.

Gli archi, che si aprivano verso l’esterno, lasciavano filtrare i raggi del sole in modo da creare un gioco di luci e ombre che ricordava i merletti dell’isola di Kilika.

La camminata del giudice era solenne, allo stesso modo di ogni suo gesto. Come nel giorno lontano in cui Auron aveva assistito alla sua investitura, sulla sua scapola destra spiccava il tatuaggio di una falena, che batteva le ali ora nel buio e ora alla luce. Pochi uomini potevano portare quel simbolo di sfortuna sulla pelle senza temerlo. 

E molti anni prima Auron aveva sostenuto la sua vista, ma l’aveva fatto con uno sguardo inconsapevole di cosa la nudità potesse significare.

«Hai qualche peccato da confessare prima che ti permetta di avvicinarti a me?»

La gola del monaco si chiuse, tutti i suoi muscoli si irrigidirono e il respiro perse di regolarità. Lui pregò che Alan non lo notasse, ma il giudice piegò da un lato la testa. Anche se a fatica, si intuiva sotto la sua pelle la forma della spina dorsale.

«Capisco la reazione,» disse, senza voltarsi. «Te lo sto chiedendo in qualità di sacerdote, non di Inquisitore: è piuttosto empio eseguire un rito con delle riserve nel cuore. Braska ti avrà fatto confessare spesso, immagino».

«Sì,» mentì Auron. Poteva solo ringraziare Yevon che Alan gli stesse rivolgendo le spalle, eppure tutto in lui gli dava la sensazione che già sapesse. Che già avesse deciso la sua sentenza, e che capisse che cosa significavano gli occhi del monaco sul tatuaggio sopra il suo gomito.

«Quindi?» lo incalzò l’Inquisitore. «C’è qualcosa nel tuo animo che non ti fa sentire puro agli occhi di Yevon?»

«Il suo lavoro però, signore, non è quello di perdonare».

Alan raddrizzò la schiena, e il suo passo perse la rigorosità militare che aveva avuto fino a quel momento. Non visto dall’uomo che gli stava alle spalle, sorrise ammirato dalla prontezza di quella risposta.

«Preferisco parlare direttamente al dio…» continuò Auron, «finché egli mi ascolterà».

«Come desideri. Posso farti una domanda?»

«Sì».

«Che idea ti sei fatto di me?»

I gabbiani gli fecero eco, e Auron sospirò. Vedeva la fine del corridoio, ma sapeva che non era tanto vicina da permettergli di eludere la domanda, così abbassò lo sguardo sui propri piedi che calpestavano il marmo bianco, e rispose: 

«Non ne ho una generale, solo intuizioni che dipendono dalla situazione. Ad esempio, penso che se si fosse trovato nella mia stessa posizione, anche lei si sarebbe rifiutato di parlare».

«Davvero?»

Auron alzò lo sguardo e fissò i cerchi d’oro che stringevano le treccine di Alan.

«Ne sono sicuro».

«Quindi pensi che abbia qualcosa da nascondere?»

«Penso che se lei si trovasse davanti al suo stesso tribunale, sarebbe l’unico in tutta Spira in grado di non dire niente».

Alan rise e si voltò, fermandosi di fianco alla porta che conduceva alla stanza successiva. I suoi occhi chiari guardarono in su, verso il viso di Auron, e le labbra gli scoprirono i denti in una smorfia allegra, profondamente diversa dall’espressione severa che mostrava di solito, e per questo inquietante. Uno dei suoi canini brillò nella penombra. Forse avrebbe potuto adirarsi da un momento all’altro e trafiggerlo con una lancia estratta dal nulla.

Non devo guardare quel neo, pensò Auron. Non devo guardargli la bocca. Non devo distrarmi e compiere qualche azione che possa essere fraintesa. Devo rimanere calmo… pensare che anche lui teme… qualcosa, come ha detto Je-

«È un modo curioso per rivolgermi un’offesa e un complimento insieme,» replicò l’Inquisitore, «bravo. Non ho una battuta pronta, ragazzo».

Il rosario che terminava con l’occhio del dio faceva due giri attorno al suo collo e gli adornava il petto liscio. A quanti era stato concesso di vederlo in quel modo? Lo faceva perché lo riteneva una sorta di discepolo, o perché voleva sapere se rivolgesse attenzioni torbide agli uomini?

Per Yevon, non mi chiami così!

 

 

Quando Auron aveva detto agli uomini dell'Inquisizione che aveva bisogno di qualche minuto prima di partire, Jecht aveva intuito subito che non si sentiva sereno nei confronti del compito che gli era stato affidato. Non lo era mai, quando si trattava del Grande Inquisitore.

Il monaco si era rigirato gli occhiali da sole tra le dita con fare nervoso, tanto che Jecht poteva vedere le vene del suo collo tendersi. Dopo un respiro a pieni polmoni, il Guardiano più giovane aveva salutato i suoi compagni e si era incamminato con gli uomini in nero verso il luogo designato da Alan.

Rimasto solo con Braska e i bambini, ancora chiusi nel loro mutismo, Jecht si avvicinò al suo Invocatore per chiedere delucidazioni, anche se temeva tremendamente la risposta che gli avrebbe dato.

«Piccoli, che ne dite se andiamo nella mia cabina e vi riposate un po'? Ho anche le caramelle!» disse Braska, con un dolce sorriso.

Fratello e Rikku annuirono senza controbattere, ma Jecht lo fermò con la mano.

«Un momento, Braska. Vorrei chiederti una cosa veloce, prima. Dopo sarai occupato».

«Certo, dimmi pure,» rispose lui, infilando le mani nelle ampie maniche della tunica.

«Cosa deve fare Auron di preciso? Non mi avete mai parlato di questo rito».

«Sai, è un grande onore vestire il Grande Inquisitore per la cerimonia d'apertura,» rispose Braska tranquillo.

«Vestire? Tutto qui? Non deve fare altro?»

Jecht incrociò le braccia: toccare Alan non era di certo il sogno nascosto di Auron, e forse era proprio quel gesto forzato a renderlo nervoso. Il compagno era sempre stato allergico al contatto umano.

«Beh, ovviamente prima deve confessarsi. Riti sacri come questo lo richiedono. Non credo che Auron avrà problemi».

Braska coprì una risata cristallina con la mano, come era solito fare, per poi avviarsi con i nipoti sottocoperta.

Per la prima volta in vita sua, Jecht si sentì affogare. Si diresse verso il bordo del ponte e afferrò la sbarra di ferro con forza, guardando giù nell'acqua limpida il suo riflesso terrificato.

Auron avrebbe mentito? Doveva, o avrebbe rischiato la vita. Per colpa sua. Jecht si trovò a respirare a bocca aperta, con il cuore che martellava nelle orecchie.

Troppo spesso si dimenticava che posto fosse Spira, così lontana dalla sua Zanarkand, dove i peccati commessi rimanevano nelle quattro mura di una camera da letto, lontano dal giudizio altrui.

Gli uomini di Yevon controllavano lo stile di vita di quella povera gente, e doveva accettarlo. Ma Auron la sera prima era stato famelico e furioso, e Jecht aveva desiderato a lungo il suo tocco.

Se c'era qualcuno che avrebbe dovuto confessarsi, quello era lui. Non aveva fatto altro che provocare, domandare e dare fastidio, attizzando quella fiamma che Auron cercava di tenere sopita a tutti i costi per evitare la dannazione. Lo aveva fatto pur sapendo che, a casa sua, aveva una famiglia che lo aspettava.

L'atleta si passò una mano tra i capelli spettinati: aveva la fronte sudata, le guance bollenti. Forse una nuotata era la soluzione ideale, ma il suo corpo si rifiutò di muoversi.

Il figlio di Cid somigliava vagamente a Tidus: avevano entrambi i capelli biondi, ma Jecht faceva fatica a ricordare la sfumatura di quelli di suo figlio. In effetti, aveva fatto presto a dimenticare tutti, inghiottiti dai capelli di seta nera di Auron.

Un traditore e un provocatore pervertito. Avrebbe fatto qualche differenza se, davanti ad Alan e in difesa del compagno, si fosse accusato in quel modo?

Era di nuovo una zattera alla deriva, preda degli eventi, com’era diventato quando era a Zanarkand. Forse esisteva un destino, steso come un tappeto ai piedi di ogni uomo, e il suo era quello. Strinse i pugni e i denti, sul punto di bestemmiare ad alta voce, ma si bloccò appena in tempo quando sentì i passi di Braska dietro di sé.

«I bambini sono crollati subito. Chissà quanto dolore hanno dovuto sopportare,» disse l'Invocatore, sospirando.

Jecht si stropicciò gli occhi e cercò di tornare in sé, calmando il respiro come poteva.

«Essere prigionieri non dev'essere simpatico per nessuno,» commentò con voce rauca.

Braska annuì, poi appoggiò la mano sulla spalla del suo Guardiano e avvertì i suoi muscoli marmorei tesi sotto la pelle.

«Vedrai che andrà tutto bene. Lo so che Alan non ti piace,» disse l'Invocatore centrando il punto.

Jecht si rabbuiò per un istante, scosso dal brivido che il nome del Grande Inquisitore gli provocava.

«Sì, hai ragione. Cosa facciamo ora?»

«Se per te va bene, voglio stare ancora un po' con i miei nipoti. Ho chiesto a delle suore di tenerli d'occhio mentre siamo via: più tardi andiamo alla cerimonia di apertura del torneo,» disse Braska sorridendo.

Jecht annuì, ma sentiva il cuore venire stritolato: l'idea di dover attendere ore prima di accertarsi delle condizioni di Auron lo faceva impazzire.

Valutò di ritirarsi nella sua cabina e riposare, ma la brezza leggera sul ponte della nave era l'unica cosa che gli permetteva di respirare a pieno. 

Mentre Braska tornava sottocoperta, Jecht pensò di fare qualcosa che desse perlomeno l'illusione di essere costruttivo: recuperata la spada dal suo alloggio, iniziò ad allenarsi nei movimenti fondamentali che Auron gli aveva insegnato.

Se il suo cuore doveva proprio martellare in quel modo selvaggio, almeno lo avrebbe fatto per pompare sangue nei muscoli e farlo diventare più forte.

Come sperava accadesse, il tempo passò più in fretta di quanto si sarebbe aspettato. Tuttavia, più il momento della verità si avvicinava, più la sua ansia cresceva, e con lei la voglia bruciante di sparire, come era solito fare nella sua Zanarkand.

Ma c’era anche un secondo desiderio che lo annichiliva, e gli faceva sentire le labbra di Auron sulle proprie, prima insicure e poi decise a dominarlo; il forte corpo di quell’uomo premuto contro il suo, il momento prima ardente come il fuoco e quello dopo freddo come la morte.

Forse era proprio questo che voleva fare con Auron. Sedurlo e poi sparire. Vecchie tendenze che non volevano andarsene. 

Un asciugamano venne lanciato nella sua direzione; distratto com'era, Jecht non si era accorto di Braska che si era avvicinato, pronto a partire. Anche se stava fissando un punto qualunque nel mare, l’atleta lo prese comunque al volo.

«Hai proprio i riflessi pronti,» commentò l’Invocatore, con quella sua risata che faceva pensare che non esistesse nessun problema al mondo.

«Ah, non è niente. Anni di Blitzball».

«Ne hai dato prova in partita! Vogliamo andare?»

«Metto a posto la spada e arrivo,» rispose Jecht, prima di dirigersi sottocoperta.

«Metti a posto anche i tuoi capelli, amico mio. Hai sudato parecchio,» disse Braska, ridacchiando.

Jecht gli rivolse un sorriso tirato e annuì con la testa, per poi sparire nella nave. Mentre si asciugava il viso e si pettinava, pensò che bisognasse farsi belli prima di rischiare la vita. Si guardò, oltre il piccolo specchio della sua cabina e oltre la nebbia lieve dei suoi pensieri.

Non era la prima volta che faceva quella considerazione.

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Capitolo 49
*** Che Yevon ti abbia in gloria (Parte 2) ***


CAPITOLO 33: CHE YEVON TI ABBIA IN GLORIA (PARTE 2)

 

 

Auron non aveva mai svolto un vero e proprio rituale della vestizione. Certo, lo aveva ricevuto da parte di Wen Kinoc, e gliene erano stati insegnati i gesti al monastero, quando era solo un ragazzino, ma quel ragazzino non avrebbe mai immaginato che un giorno avrebbe fatto indossare l’armatura a un Maestro di Yevon. 

Se avesse incrociato un solo laccio nel modo sbagliato, tutta Luka lo avrebbe notato; tutti, guardando la schiena magra dell’Inquisitore, dritta sotto il sole del pomeriggio, avrebbero saputo che era stato lui il responsabile di quell’errore. 

Alan, di nuovo trasfigurato nell’uomo potente e severo di cui aveva abbandonato per un istante i panni, si mise in piedi di fronte a uno specchio che mostrava tutta la sua figura. Alzò il mento e guardò di sottecchi il proprio riflesso. Anche Auron fu spinto a farlo, e dopo aver contato qualche perla del rosario percorse lentamente le clavicole dell’uomo che gli era a fianco, dritte come lo era stata la sua fede… una volta.

«Non ho tutto il giorno, Auron,» lo richiamò l’Inquisitore, rimarcando il suo nome, non appena vide che stava esitando di fronte al manichino che indossava la sua armatura da cerimonia. Spense il sigaro in un posacenere e lo appoggiò su di un tavolino con le gambe inarcate.

Auron non aveva mai visto un vestito di una fattura simile su tutta Spira, né le vesti liturgiche di nessun Maestro o Inquisitore di Yevon potevano ricordare quella foggia o quei colori.

Il Guardiano, senza parlare, rivolse un inchino alla presenza invisibile che sempre li osservava, poi prese con deferenza il torso dell'armatura e lo staccò dal manichino.

Era composto da un corsetto in cuoio, che avrebbe dovuto essere stretto con dei lacci sulla schiena, su cui si innestavano parti in un materiale simile al bronzo, della cui leggerezza Auron si sorprese. Sia il collare che, formando un’ellisse quasi completa, saliva dal petto fino alle spalle, sia i due profili di metallo innestati sul retro sembravano infatti non avere peso. Erano incisi con parole in spirano antico di cui il Guardiano non conosceva il significato, e reggevano un semicerchio dietro alle spalle, simile a quelli che adornavano di solito le vesti del giudice, ma decorato con un motivo a petali.

In cima, in modo da fluttuare sopra la testa dell’Inquisitore come un’aureola, era stato sospeso tramite qualche incantesimo un cerchio di metallo pieni, dipinto con fasce che curvavano per convergere verso il centro. 

Cucite al cuoio, invece, c’erano due lunghe fasce di stoffa azzurra, damascata. Avrebbero dovuto essere strette all’altezza dell’ombelico tramite un cerchio d’argento, sul cui esiguo diametro l’attenzione di Auron si soffermò per un istante. Erano decorate da un motivo a rombi, in cui ogni angolo era stato marcato con un cerchio bianco, in modo da ricordare in qualche modo un nastro intrecciato. 

Con lentezza rituale, si avvicinò all’Inquisitore e gli fece indossare il corsetto di cuoio. Mentre tentava di posizionarlo in modo tale da poterlo allacciare, gli sfiorò senza volerlo la pelle d’ambra con i mignoli, e si ritrasse di scatto come se si fosse avvicinato troppo al fuoco. Si risolse a stringergli prima il cerchio attorno ai fianchi, sollevato di non essere costretto a toccarlo in quel punto, e ben determinato a non alzare lo sguardo sullo specchio. Avrebbe visto come l’armatura era disegnata per lasciargli scoperto il ventre, quasi a suggerire che quella creatura di Yevon, in quanto sacra e perfetta, non doveva coprirsi con vergogna, a differenza sua. Avrebbe immaginato qualcosa nel trovarsi dietro di lui con le mani sopra al suo bacino, avrebbe colto nei suoi occhi la condanna che l’avrebbe strappato dal silenzio beato dell’Oltremondo. 

Per sempre. 

Se invece non avesse alzato gli occhi, avrebbe potuto consolarsi con l'ignoranza, fino a quando Yevon non l’avesse chiamato a sé, per dare un giudizio non diverso da quello del suo ministro. 

«Maestro Alan,» esordì Auron, e lui stesso si spaventò nel sentire la propria voce rompere il silenzio inquieto della stanza. «Ho bisogno di farle una domanda». Fece una pausa in cui terminò di allacciare il corpetto. «Perché il mio cuore non abbia riserve nello svolgere il rito, e il mio animo sia puro».

«Sei libero di domandare».

«Quello che ha fatto sinora, in nome del dio… Come fa a vivere sapendo di aver mandato tutte quelle persone a morte?»

Auron avrebbe dovuto prendere le armille dal tavolo e farle indossare ad Alan, in modo che il loro motivo a petali richiamasse quello dell’arco di bronzo. Avrebbe dovuto allacciare vesti di cuoio e stringere cerchi di metallo, ma scelse di rimanere immobile fino a quando quella risposta non sarebbe arrivata. 

Alan abbassò il capo e sorrise. 

«Si tratta del corso della giustizia, Auron, di cui io sono solo un mero esecutore. Per quanto riguarda i sacrifici umani, mi pare che non si usino in onore di Yevon… non più, almeno».

Non più. Che cosa intende con quel non più?

«Quello che intendi davvero chiedermi è perché ti ho portato qui,» riprese Alan, prima che il Guardiano potesse fiatare. Afferrò alla cieca la sua mano destra e la trascinò lungo il proprio corpo, facendosi sfiorare deliberatamente. Arrivò al collo, e posizionò la mano di Auron sotto al pomo d’Adamo. Il giovane, terrorizzato, sentì una forza che lo spingeva ad afferrargli la gola, e non riuscì a disobbedire a quell’istinto. Il suo corpo si irrigidì, mentre alle sue narici arrivava l’odore d’incenso che aleggiava attorno a quell’uomo.

«Vuoi uccidermi, Auron?» domandò l’Inquisitore in un basso sussurro. Inclinò all’indietro la testa, come se desiderasse abbandonarsi alla sua presa. Auron sentì il battito del cuore nella sua giugulare, sotto le dita. Proprio come era successo con Jecht. Vide il suo ventre piatto, nudo, a portata di un semplice pugnale. «In nome di quella donna… come si chiamava?»

«Hanna,» rispose il Guardiano tra i denti, e quel nome aveva il suono di un pianto antico e del grido che dominava la pianura. 

Riuscì a concentrarsi, a svuotare la mente e a lasciare il collo di Alan, sfuggendo al suo controllo.

«Una morte sulla coscienza,» sentenziò, «una sola, per me è abbastanza».

«E se ti dicessi che uccidi una bestia?»

Il Guardiano non replicò. Prese le armille quasi con disprezzo e le fece indossare al giudice, che seguiva ogni suo movimento con le iridi chiare, forse compiacendosi del suo imbarazzo.

Per evitare il suo sguardo, Auron spostò il proprio sulle mani di Alan. Il suo animo fu attraversato da un presentimento confuso e inquietante quando notò che i segni dei morsi sul dorso erano più marcati da un lato, così come le linee rosse che li inframezzavano. Come se il responsabile avesse uno dei denti disposto in modo particolare, che affondava diversamente dagli altri. Proprio come Alan.

Quelli non erano i morsi di qualcuno che aveva torturato, ma per qualche motivo se li era inferti da solo.

Scappa.

Auron ricorse a tutto il coraggio che aveva per scacciare quel pensiero. Si sentì quasi nauseato quando fu costretto a stringergli attorno alle cosce degli ornamenti di bronzo, che interrompevano la linea morbida dei suoi pantaloni. Si sentì a disagio nel doversi abbassare al cospetto di un uomo del genere, il cui unico compagno era il terrore.

«C’è qualcosa che non va?» domandò l’Inquisitore. «Questo abito non mi dona?»

Unì le mani in grembo e raddrizzò la schiena con una grazia inarrivabile. Auron sentì sotto il palmo il ricordo del battito della sua gola, ma riuscì a non reagire alla provocazione mentre si alzava in piedi.

«Voglio saperlo. Qual è il motivo di tutto questo teatrino della cerimonia?» si tirò dietro all’orecchio una ciocca di capelli sfuggita al nastro, attento a evitare di guardare nello specchio. «Che cosa vuole ottenere da me?»

«Quello che vogliono ottenere tutti i teatrini di Yevon, mio caro,» rispose Alan con un sorriso selvaggio. «Informazioni. O meglio, questa volta si tratta di un’opinione».

«Vada avanti».

L’Inquisitore abbassò lo sguardo sul proprio petto e prese il rosario con entrambe le mani. Si fece scorrere le perle davanti agli occhi come se le stesse contando, o forse stesse ponderando il momento migliore per continuare.

«Il tuo amico, Jecht». Sentire quel nome dalle labbra di Alan causò nel monaco un sussulto di terrore. Soprattutto dopo ciò che era successo. «Quello che dice di venire da Zanarkand… ci credi?»

Auron deglutì. Le sue orecchie si tesero, come se dovesse prepararsi ad affrontare un pericolo, ma non percepirono nessun suono.

«È stato esposto alle tossine di Sin… signore».

Alan inarcò le sopracciglia e annuì in modo teatrale.

«Ah, giusto, le tossine. Le tossine di Sin». Lasciò andare il rosario, che gli ricadde sul petto scoperto, poi lentamente ripeté: «Ci credi?»

«Zanarkand è stata distrutta mille anni fa,» rispose subito il Guardiano. «Così dicono le Scritture e così mostrano le rovine. Nessuno può venire da lì. Solo…» si bloccò all’improvviso, serrò gli occhi e soffiò l’aria fuori dal naso. «No. Non sono sotto uno dei suoi interrogatori. Perché me lo sta chiedendo?»

Alan gettò la testa indietro, e i fermagli d’oro che stringevano le sue treccine accompagnarono quel movimento. 

«Uuuh, ultimamente siete tutti così inclini all’insubordinazione… È quasi eccitante».

Auron distolse lo sguardo dal suo collo piegato, inerme, e dal suo pomo d’Adamo. Riuscì a fuggire dai lacci di quella bellezza estranea alle cose del mondo.

«Le ho fatto una domanda. Risponda, e se la ritengo una buona causa le dirò quello che so».

Alan guardò nello specchio, come se potesse vedere qualcosa che per gli altri non c’era.

«Sto cercando delle persone,» spiegò, e si interruppe per abbandonarsi a una risata lieve, amara. «Le sto cercando da vent’anni. Ho girato l’isola in lungo e in largo, ma sembrano non essere da nessuna parte».

Auron serrò la mascella e le labbra.

«Crede che Jecht sia una di queste persone?»

Il giudice sollevò una mano, le dita mollemente piegate, in modo da fermarlo. Fece qualche passo verso il tavolino e prese una bottiglia di vetro lavorato contenente un liquore del colore dell’ambra. Se ne versò un bicchiere, che poi sollevò all’altezza degli occhi.

«Credo,» mosse un passo verso Auron, con l’indice della sinistra alzato, e i suoi tacchi batterono sul pavimento, «che potrebbero venire dallo stesso luogo, se la sua Zanarkand esiste. E se tu sei disposto a dirmi cosa pensi, potresti aiutarmi in questa… questione personale».

Il fatto che avesse preso a camminare in giro per la stanza, e che continuasse a rimarcare quell’ultimo concetto non stava per nulla rassicurando Auron.

«Io… per Yevon, per che motivo dovrei dirglielo, e non pensare che sia un modo per estorcermi qualche confessione e mandarmi al rogo?»

Alan si voltò verso di lui e spalancò le braccia con aria incredula.

«Ma ci sono modi più semplici per bruciarti!»

Auron spostò lo sguardo dal liquore che oscillava nel bicchiere al suo viso. Lo disgustò quanto i suoi occhi somigliassero a quelli di Braska.

«Va bene,» concluse, con voce ferma. «Va bene. Sappia che non lo sto facendo per gratitudine, ma perché ho la sensazione che su quest’isola ci sia qualcosa di peggiore di lei, Alan. Che sia il motivo per cui vomita, e per cui continua a seguirci da quando siamo partiti da Bevelle: non sta tenendo d’occhio suo fratello. Sta cacciando qualcuno. Ma sappia che se sta mentendo, e questo qualcuno si rivelerà essere Jecht, non mi riserverò di usare alcuna pietà». 

Dopo quel monologo, il giudice svuotò in un sorso il bicchiere e tornò a sedersi con un movimento piuttosto elegante.

«Sono ottime supposizioni, Auron. Per caso vuoi entrare nell’Inquisizione? Saresti un buon acquisto».

«No».

Alan si schiarì la voce e fece un cenno indecifrabile con la mano. Solo dopo qualche secondo, Auron notò che il velo traslucido che completava il suo vestito da cerimonia era rimasto su un appendiabiti, e si avvicinò a lui per farglielo indossare.

«C’è una cosa,» confessò, «che mi ha sempre colpito dei racconti di Jecht». Chiuse con un fermaglio d’oro un lato del velo di Alan. «Il saluto che rivolgiamo a Yevon, lui diceva di conoscerlo già. Afferma anche che veniva usato in cerimonie legate al blitzball, così come quello che è il nostro Inno. Ora, dal momento che non si tratta di questioni legate così strettamente a Yevon, mi chiedo se non fossero tradizioni precedenti. Se non sia avvenuta una sorta di…»

«Sincretismo, sì,» ribatté il giudice, pensoso, giocherellando con il secondo fermaglio. Ad Auron parve di sentire l’odore d’incenso intensificarsi, e colse l’occasione per allontanarsi da lui. «Però, se di questo si tratta, dobbiamo ammettere che il tuo amico provenga davvero da una civiltà precedente alla nostra, e che Sin lo abbia portato qui».

«Certo, signore, è strano… ma non ho altre idee per il momento, finché–»

L’improvviso fruscio del velo interruppe a metà la sua frase. Il giudice stava fissando lo specchio con gli occhi azzurri sgranati, e il fermaglio gli era ricaduto sul petto.

«Apofáinei kài…» mormorò, con un’espressione alienata e le dita bloccate a mezz’aria, «gìgnetai. Kài gìgnetai».

Si voltò di scatto verso Auron, con le labbra ancora schiuse, che si muovevano a ritmo di quelle parole. Lui arretrò davanti alla sua figura esile, vedendo la sua mano che si stringeva allo schienale della sedia.

Aveva sentito dei suoni simili in qualche preghiera, ma non aveva idea di cosa significassero. Come non aveva idea di come avrebbe potuto fermarlo se l’avesse aggredito.

«Signore…» provò a dire nella speranza che sentire la sua voce avesse in qualche modo potuto farlo esitare. 

Il giudice smise di stringere la sedia.

«Oh, nulla,» lo liquidò, «mi è tornata in mente una questione».

 

 

Una volta che ebbe raggiunto Braska, Jecht si incamminò con lui verso lo stadio di Luka, passando per la piazza. La presenza di tutti e tre i Maestri di Yevon – e del Gran Maestro in persona – per l’apertura di un torneo aveva fatto intuire a Jecht che il Blitzball era qualcosa di molto importante su quell’isola. Forse l’unica distrazione che restava.

Rimase stupito dalle decorazioni della città: Luka era già colorata e caotica nei giorni che non erano nemmeno di mercato, sarebbe stato difficile fare di più. Eppure, davanti agli striscioni sgargianti, alle aeronavi che sorvolavano il cielo e ai veli mossi dal vento, Jecht per la prima volta sentì di potersi perdere in un giorno di festa, come faceva a Zanarkand.

Era il suo destino, o dovere, ad averlo portato lì. Si vide passeggiare per quelle strade con Lauren e Tidus, in un mondo dove Auron era solo un monaco qualsiasi e Braska un amorevole padre di famiglia.

Eppure quell'incendio che il compagno aveva appiccato nel suo ventre non accennava a estinguersi. Il fatto che la loro vita fosse costantemente a rischio non faceva che peggiorare le cose.

Auron era stato provocato per molto tempo, era vero, ma lo aveva stretto tra le sue braccia come uno degli stupidi manichini che usava per allenarsi, senza nemmeno dargli la possibilità di rendergli il favore. Lasciandolo con quel bisogno che gli pugnalava al fianco.

Jecht scosse la testa e chiuse gli occhi per qualche istante: tornare indietro avrebbe fatto felice la sua famiglia, avrebbe salvato Auron e avrebbe permesso a Braska di adempiere al suo dovere.

Tuttavia, a tali puri intenti si mischiava l'immagine di Auron sotto di lui, con i capelli sciolti e i polsi bloccati contro il materasso, che provava la stessa condanna che era stato così intrepido nell’infliggere. Sarebbe tornato a Zanarkand soddisfatto, perlomeno.

«Sei molto silenzioso, Jecht. Pensavo che vivere la città in festa ti avrebbe fatto piacere,» disse Braska preoccupato.

Jecht, come se fosse stato svegliato nel suo letto, abbozzò un sorriso finto e drizzò la schiena.

«Ah, non è niente! Ogni tanto mi piace riflettere,» rispose l'atleta alzando la voce. Dopotutto, era una mezza verità.

L'Invocatore annuì, poi afferrò il braccio del suo Guardiano con fare affettuoso: Jecht avrebbe amato portare suo padre in giro per Zanarkand in quel modo.

«Ehi, Braska. Se urlo a squarciagola qualcosa come fate largo all'Invocatore, secondo te ci fanno stare in prima fila?»

«Sicuro. Quasi quasi…» 

Jecht rise sguaiatamente, lasciando andare un po' della tensione che lo stava divorando. Degli uomini in nero pattugliavano il centro della piazza, lasciando che il popolo si radunasse tutto intorno. Stendardi dell'Inquisizione sventolavano ai quattro punti cardinali, contrastando con i colori accesi dei veli che adornavano gli edifici.

La piccola finestra di serenità che l'atleta aveva ritrovato si infranse subito: se in quella piazza non avesse incontrato Auron, il suo cuore si sarebbe fermato.

Jecht si asciugò la fronte. Braska allungava il collo per vedere meglio i dintorni, pronto ad avviarsi con la folla verso il molo, ma anche per individuare Auron.

Quando le alte guardie Ronso si misero sull'attenti e iniziarono a marciare alla testa della folla, l'atleta trattenne il respiro. 

«Aspettiamo che la gente defluisca un po', così Auron può individuarci meglio,» propose Braska, ancora aggrappato al braccio del suo Guardiano.

Jecht si augurò con tutto il cuore che il compagno fosse davvero lì e non in qualche cella a marcire. Dopo qualche minuto, il familiare cappotto rosso del monaco spiccò tra i colori pastello degli abiti dei cittadini di Luka, alzando la mano in segno di saluto.

Braska lo abbracciò con tenerezza: il monaco, invece di rimanere rigido come suo solito, lo accolse volentieri.

«Sarai molto stanco, amico mio. È stata una giornata molto lunga,» disse l'Invocatore dandogli una pacca sulla spalla.

«L'ha ben detto, signore,» rispose Auron sospirando.

«Jecht era molto preoccupato per te».

Auron rivolse lo sguardo verso l'atleta: aveva un aspetto cupo, i muscoli del viso contratti. Annuì.

«Comprensibile,» commentò, distogliendo lo sguardo solo per un istante. «Sto bene, Jecht».

«Seguiamo la folla: la nave del Gran Maestro Mika è in arrivo al porto. Sarà un bello spettacolo!» disse Braska allegro. L'Invocatore prese sottobraccio i suoi Guardiani e li condusse attraverso la strada larga, dove decorazioni brillanti ondeggiavano al vento, dando l'impressione che la terra respirasse.

 

 

«Questo torneo è sponsorizzato da Yevon!» tuonò la voce dell’annunciatore. «E quest’anno celebriamo i quarant’anni dall’insediamento del Maestro Mika!»

Navi con vele colorate stavano attraccando al porto. I tifosi ora dell’una ora dell’altra squadra gridavano per incitare i loro giocatori favoriti, mentre l’annunciatore sciorinava una lista di nomi che Auron non stava ascoltando con lo stesso interesse di Jecht. Guardò il compagno con reticenza, osservò le sue iridi brune che fissavano davanti a sé, poi spostò l’attenzione su Braska.

«I Kilika Beasts! La squadra in cui giocava il Grande Invocatore Ohalland! Un gran nome da portare avanti– Molo 4!»

Auron vide Braska abbassare il binocolo in madreperla con cui stava osservando i giocatori, attratto da qualcuno che lo chiamava. L’Invocatore si voltò, fece un gran sorriso e si sporse a baciare sulle guance una coppia i cui nomi Auron non riuscì a cogliere.

«…uo fratello sarà particolarmente contrariato!» sentì però dire all’uomo, che stava battendo con forza una mano sulla spalla di Braska, mentre la moglie ridacchiava.

«Perché?»

«Ma quelli… ma quelli sono loro! Oh, questa squadra sì che ha un gran coraggio! I Besaid Aurochs, signori! Non superano il primo girone da tredici anni, un record imbattuto!»

Auron maledisse le urla dell’annunciatore e il boato della folla, ma per sua fortuna Braska e i suoi interlocutori erano abbastanza vicini, ed erano stati anche loro costretti ad alzare la voce. 

«È svenuto davanti a migliaia di persone che lo guardavano,» spiegò la donna, in tono chioccio. «E l’hanno portato in un’infermeria. Già non era un mistero che non volesse essere qui… Ah, non vorrei essere nei panni dei poveretti che se lo troveranno davanti quando si riprende!»

Braska mostrò un’espressione contrita prima di mormorare qualcosa che doveva suonare come un «lavora troppo». Auron, invece, fu colto dalla stessa sensazione che lo aveva attraversato quando aveva visto Cid spezzare le gambe di Alan. Controllò di avere il pugnale sotto i vestiti.

«Il molo numero 2!» gridò qualcuno, festante. Presto innumerevoli altre voci cominciarono a ripetere quella frase, e innalzarono grida tanto forti che spaventarono gli uccelli.

«Ehi!» sbottò Jecht, spinto addosso ad Auron dalla folla. Si alzò di nuovo sulle punte dei piedi, con le sopracciglia aggrottate. «Che succede al molo 2?»

«Il Maestro Mika,» replicò l’altro Guardiano, senza nemmeno guardarlo, come se gli costasse fatica rivolgergli la parola.

Jecht esplose.

«Senti, Auron,» sbottò. Voleva avvicinarsi a lui e fronteggiarlo, ma in mezzo a tutta quella gente… gli mancavano le forze. «Se sei stato tu a…»

«Venite!» lo interruppe la voce gioiosa di Braska. Li prese di nuovo entrambi a braccetto, e si spostò assieme alla folla, al ritmo dei tamburi, verso dove una nave più grande delle altre stava ammainando le vele rosse. 

Jecht guardò il suo profilo alla luce del giorno, il velo leggero sulle sue spalle e quel sorriso che non avrebbe mai voluto veder svanire. 

No. Che cosa abbiamo fatto…

Un Maestro di Yevon – uno di coloro che Jecht aveva imparato a riconoscere come Guado – scese dalla nave e salì in modo solenne su di una passerella sopraelevata, aprendo la strada a un altro uomo, scortato dai Ronso. Basso, dalle spalle incurvate. Aveva un’aria anonima, ammantata da una sottile apparenza di saggezza che, dritta come filo a piombo, gli cadeva lungo la papalina nera e oro, le rughe profonde e i fili bianchi della barba. 

Era quello, il Grande Maestro Mika? Quello, l’uomo la cui parola guidava gli animi di tutta Spira, colui per il quale i guerrieri morivano? Suo era il nome gridato nei campi di battaglia e sussurrato nei segreti delle cospirazioni? L’incedere, a tratti zoppicante, di quel vecchio nella veste preziosamente ornata lo confondeva. 

Quello era il sacerdote le cui gesta avevano fatto tremare la terra? Egli il motivo per cui forse, un giorno, l’ultima ciocca dei capelli di Auron sarebbe sfuggita dalle sue dita per sempre?

Mentre ancora Jecht guardava, il Guado rivolse agli astanti il saluto yevonita. Sceso dal molo, si profuse in profondo inchino davanti alla nave, in quello che sembrava un ringraziamento per un viaggio senza pericoli. Lo accompagnarono dei solenni colpi di tamburo, poi tutto tacque.

«Popolo di Spira!» gracchiò la voce del Grande Maestro Mika, diffusa dagli altoparlanti. Nessuno osò muovere un fiato. «E generosi cittadini di Luka, ai quali tutti per l’eccellente ospitalità vanno il mio ringraziamento e la mia benedizione».

Con estrema lentezza, Mika allargò le braccia e portò una gamba indietro. I tamburi ricominciarono a suonare, sottolineando ogni sua azione mentre eseguiva il saluto. 

«Vi benedico tre volte, uomini coraggiosi di Spira, che siete nati per sostenere le prove ardue della nostra isola. L’amore che provo per voi è l’amore che prova il dio. È l’amore che provano i nostri invocatori, spinti all’estremo sacrificio. Ma ora ordino che, in questa settimana, sia lecito volgersi al profano senza che il nostro cuore ne risenta. Che la città di Luka, porto di speranza su cui possa splendere sempre il giorno, rifulga della nostra luce e della nostra fratellanza».

L’aria fu percorsa da un tremito strano, e qualcosa parve colpire il legno della passerella. Solo gli occhi di due Ronso se ne accorsero.

«Do ufficialmente inizio al torneo annuale di Blitzball, e che–»

Un altro tremito, e Mika si zittì. Il vento smise di soffiare e le bandiere si afflosciarono sulle loro aste. 

La folla, trattenendo il fiato, guardò attonita il Grande Maestro che sgranava le palpebre, con le labbra ancora separate per proseguire il suo discorso, senza più voce. Mosse un passo in avanti e cadde prono a terra con gli occhi sbarrati. Una pozza di sangue si allargava sotto la sua testa.

Bagnò il suo copricapo, i suoi capelli candidi e il vestito della festa, prima di gocciolare in silenzio giù dal palco, verso il ventre del mare.

Poi si levò il primo grido.

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Capitolo 50
*** Tu che sei sceso dal cielo ***


CAPITOLO 34: TU CHE SEI SCESO DAL CIELO

 

 

Era come se la morte fosse scesa in picchiata, silenziosa e inarrestabile. Lo sparo era stato inghiottito dal riverbero dei microfoni e dal mormorio della folla. Tutti avevano trattenuto il respiro nel vedere l'uomo più importante di Spira cadere esanime a terra.

Il silenzio, tuttavia, era durato pochi istanti. Urla di terrore avevano attraversato il cielo come tuoni estivi, seguite da richieste di aiuto e preghiere a Yevon. 

Braska, confuso da ciò che stava accadendo, si vide addosso i suoi Guardiani, scattati all'unisono. Jecht, che lo superava in altezza di molti centimetri, lo strinse a sé tenendogli la testa bassa, mentre Auron si occupava di proteggergli la schiena facendogli scudo col suo corpo.

Schiacciato dai due guerrieri, che non accennavano a rompere la formazione, l’Invocatore sentì lo sterno di Jecht sotto la guancia. Auron si lasciò sfuggire un verso infastidito quando fu colpito dalla gomitata di un uomo che stava cercando di scappare.

«Dobbiamo spostarci, questi ci travolgono!» urlò Jecht al compagno.

Auron annuì, strinse la presa su entrambi e si impegnò a camminare di lato insieme all'atleta, muovendosi verso un punto meno affollato. Jecht si pentiva ogni istante di più di essere scalzo, ma a denti stretti sopportò il dolore dei pestoni dei passanti. 

Rimanere sui lati esterni della strada prometteva un po’ di respiro, tuttavia lasciava più esposti al cecchino che, in apparenza, sembrava essersi dileguato. 

«Lasciatemi, non volevano sparare a me!» protestò l'Invocatore, convincendo Jecht ad allentare la presa, ma non a rinunciarvi.

Alle urla della gente si aggiunse il rumore acuto delle sirene provenienti dalle strade interne. La gente fu fatta scostare dalle guardie, in modo che le ambulanze potessero avere libera la via. La più grande si diresse verso il molo, e chi la guidava era apparentemente incurante di travolgere qualcuno o qualcosa nella sua corsa. 

Braska osservava i dintorni dalle braccia di Jecht, alla ricerca di qualcosa che non riusciva a scorgere. Scosse la testa, agitato.

«Lo so che vi sembrerà una follia in questo momento, ma… voglio vedere mio fratello,» disse, guardando l'atleta negli occhi.

«Adesso? Proprio ora?» domandò Jecht nervoso.

«Cosa deve fare da lui?» intervenne Auron, nella voce una nota di preoccupazione che mal celava quella di fastidio.

Come il suo corpo era schiacciato tra quelli dei suoi Guardiani, così anche il suo animo fu assediato da due fronti. Uno era quello dell’opinione degli altri, che nulla desideravano più che vedere chi innalzava le pire perire tra le sue stesse fiamme; l’altro era quello del suo pio sentire. 

«Qualcuno ha attentato alla vita del Gran Maestro Mika! Non capite quanto sia grave?» gridò Braska, e subito dopo s’accorse che aveva urlato ai suoi Guardiani per la prima volta.

Prima che potesse rendersi conto del suono della propria voce, un frastuono improvviso lo spaventò. Tutti e tre si abbassarono per istinto: delle decorazioni sostenute da impalcature di metallo erano crollate poco lontano da loro, probabilmente urtate dalla gente in fuga. Auron tirò il fiato e drizzò la schiena.

«È terribile, signore. Tuttavia, la nostra priorità è proteggere lei,» rispose con fermezza.

«E se volessero attentare alla vita degli altri Maestri? Alan… è mio fratello!»

E lui lo ripeteva in testa come un mantra. “È mio fratello, è mio fratello”, e se quelle parole avessero un giorno smesso di spiraleggiare nella sua testa, allora avrebbe aperto gli occhi e, nella luce cruda del giorno, sarebbe impazzito dal dolore. 

Jecht cercò sulla lingua parole che non arrivarono: dissuadere Braska era senz'altro la cosa più giusta da fare per la sua sicurezza, ma impedire a un uomo di svolgere i suoi doveri sacri gli sembrava troppo.

L'atleta guardò Auron, sperando di trovare una soluzione nei suoi occhi scuri che sembravano sapere sempre tutto. Il monaco gli restituì lo sguardo, annuendo debolmente.

«Non sappiamo nemmeno dove si trova…» disse Jecht, provandoci un ultima volta.

«È in un’infermeria. È svenuto prima della cerimonia».

Auron scosse la testa, pensieroso. Ogni aspetto che riguardava quell'uomo gli pareva ambiguo, dopo aver ascoltato ciò che aveva da dire durante il rito della vestizione, dopo che i suoi pensieri contorti s’erano snodati raggiungendo angoli oscuri sotto i mobili. Conosciuto ciò che la Necropotenza era in grado di donare a un uomo, Auron era sicuro che sarebbe stato possibile usarla per contrastare un semplice malore. 

Se questo era il caso, com’era possibile che Alan non ci avesse pensato? Perché aveva lasciato che Cid gli spezzasse le gambe, sull’aeronave? Se c’era qualcuno che tendeva a guardare a un disegno più grande, quello era un Maestro di Yevon; per loro, il caso non dettava nemmeno i sogni o i voli degli uccelli. 

«Quindi, può darsi che non sappia cosa sta succedendo qui. O, se lo sa, non può intervenire direttamente,» puntualizzò il monaco. 

«A maggior ragione, dobbiamo andare! Amici miei, preferirei che la mia voce non muovesse un ordine,» disse Braska determinato.

Mentre Mika veniva portato via da un uomo con una barella, circondato da uno stuolo di guardie, alcuni uomini in armatura leggera provavano a ristabilire l'ordine. Lo strepitio delle sirene risuonava tutt’attorno al molo, poco efficace nel calmare l'agitazione. 

Jecht, all’improvviso, lasciò andare Braska dalle sue braccia, schierandosi tacitamente al suo fianco.

Gli uomini armati della città iniziarono a far defluire in modo ordinato le persone, mentre gli infermieri prestavano le cure di primo soccorso sul posto. Tra di loro, alcuni inquisitori raccoglievano informazioni sull'accaduto.

«Ecco gli occhi e orecchie di Alan,» disse Jecht, ammiccando nella loro direzione.

Braska afferrò le braccia dei Guardiani e li trascinò verso uno dei tanti uomini in nero in servizio.

«E-ehm, ehi! Scusami!» disse Braska cercando di attirare l'attenzione. L'Invocatore si rese conto di essere meno educato del solito, ma il tempo stringeva e l'agitazione si faceva prepotente.

«Seguite le guardie e andrà tutto bene,» disse quello senza nemmeno guardarli.

«Sono il fratello del Grande Inquisitore Alan, l’Invocatore Braska. Sai dove si trova ora?»

L'uomo si girò di scatto verso Braska, scrutandolo attentamente. La sua fama nell'Inquisizione era ormai cosa nota, ma non poteva fermarsi lì per molto.

«Sono informazioni riservate,» rispose quello senza perifrasi.

Fece per andarsene, quando Braska lo fermò con una mano sulla spalla.

«Ti imploro, in nome di Yevon! Temo per la vita di mio fratello! Un Invocatore al suo fianco non può che essere una sicurezza in più».

La logica di Braska era valida, e l'uomo lo sapeva bene. Ci pensò per qualche istante, si guardò intorno arricciando il labbro superiore e sospirò incerto.

«Sentite, vi porto io. Basta che non diate nell'occhio e non facciate domande».

Braska si inchinò riconoscente più volte, poi fece cenno a Jecht e Auron di seguirlo. I Guardiani lo marcavano stretto sui lati per proteggerlo da ogni eventualità, mentre l'uomo di Alan li conduceva verso strade laterali interdette al pubblico, bloccate da transenne fin da prima della cerimonia.

Come promesso, non fecero domande. Camminarono con passo svelto per un lasso di tempo che non seppero ben definire, fino ad arrivare a delle costruzioni anonime. L'uomo indicò una porta e si congedò velocemente, lasciando a Braska l'autorizzazione per entrare.

Non appena mise piede nell’edificio in cui era stata allestita l’infermeria - una vecchia polveriera, a giudicare dalla struttura - Braska fu investito dall’odore di disinfettante e da uno sciame di infermiere preoccupate. I loro occhi si diressero verso di lui e si sgranarono, ma nessuna, pur riconoscendolo, ebbe il coraggio di fermarlo. 

La folla si aprì in due ali al suo passaggio, ma ben presto capì che non era per lui che si erano scostati. Alan stava camminando a passo deciso verso la porta, e immerso nel suono acuto delle sirene allontanava bruscamente chiunque cercasse di avvicinarsi a lui. Uomini e donne con l’ansia dipinta in volto parevano sul punto di aggrapparsi alla sua veste, ai paramenti decorati con un motivo a petali e alle lunghe code del suo abito, ma lui pareva essere protetto da uno schermo impenetrabile.

«Deve riposarsi!»

«Si fermi! È pericoloso!»

«Fratello!»

La voce di Braska era riuscita a sovrastare quelle di tutti gli altri, e a farlo fermare. Alan alzò la testa e se lo trovò di fronte, con i suoi innocenti occhi azzurri spalancati e i suoi due uomini a proteggerlo. Con un gesto della mano, usò i suoi poteri per bloccare l’avanzata di un infermiere che stava tentando di avvicinarlo.

«Cosa… cosa ci fai qui?» mormorò, senza sapere se Braska lo avrebbe sentito in mezzo a quel frastuono.

«Alan,» replicò subito l’Invocatore, e gli prese entrambe le mani. Un’altra sirena.

Lo stelo di una spiga più alta delle altre si ruppe. La sommità cominciò a ciondolare. 

Braska si riscosse da quel ricordo improvviso, fece di scatto un piccolo passo indietro e la sua presa si serrò attorno alle mani del fratello. «Io…»

«Mi fa molto piacere assistere a questo quadretto famigliare,» lo interruppe una voce profonda. Il brusio generale, complice anche il fatto che l’avanzata di Alan si era arrestata, si stava acquietando. Rimanevano solo i rumori dalla strada, e gli ordini urlati.

Auron e Jecht si voltarono con prontezza, le mani sulle armi. Non le estrassero quando videro che a parlare era stato il secondo in comando di Alan, Kelk, anch’egli accorso in infermeria. 

«Tuttavia, giudice, le ricordo che si è appena consumato un attentato e che lei si trova in pericolo immediato,» continuò il Ronso.

Alan, che ancora stava guardando in viso Braska, alzò il capo verso di lui, e lo fulminò con uno sguardo che aveva un che di farsesco, data la differenza di altezza tra i due. 

«Non permetterti di rivolgerti a me in questo modo,» sibilò. Alzò il braccio destro, avvolto dalla catena che reggeva il turibolo. Mosse un passo avanti, e dei lunioli cominciarono a fuoriuscire assieme al fumo. 

«Non è una buona idea,» replicò Kelk, con tono minaccioso, «a meno che non voglia anticipare l’elezione del prossimo Maestro Inquisitore». 

Alan lo ignorò e proseguì, ma Braska si mise sulla sua strada e gli si gettò ai piedi, abbracciandogli le ginocchia. 

«Non uscire,» lo implorò solamente, chiudendosi come un uovo nella sua tunica a scaglie. 

Alan, con un vistoso sospiro, si premette le dita e il velo sugli occhi. Li riaprì, e rivolse al fratello uno sguardo quasi di sufficienza. «In piedi. Lancia Protect e Shell sulla porta,» gli ordinò, abbassando la sua arma. «Aiutami a barricarci dentro».

Braska si alzò, con lo sguardo sull’entrata, e l’Inquisitore avanzò verso i due Guardiani.

«Auron,» chiamò, «ho bisogno della tua abilità di creare scudi». Camminò ancora, arrivando davanti a Jecht e poi passando oltre, dopo avergli lanciato un’occhiata di sottecchi. «E tu…» commentò, «tu fai quello che vuoi. Non ho nemmeno idea del perché tu sia ancora qui».

 

 

Il muro a cui era appoggiata la sua tempia era fatto di mattoni grezzi, verniciati senza stucco. C’era spazio, sul giaciglio dove Alan era seduto a schiena dritta, tuttavia Braska aveva scelto volontariamente di sedersi a terra. Si era rannicchiato contro la parete, l’unica di quella stanza improvvisata a non essere fatta di legno. Si era avvolto nella tunica come un bambino, e non sapeva quanto questo fosse rappresentativo dei suoi sentimenti verso il fratello, quanto fosse dovuto all’aver visto gli occhi del Gran Maestro sbarrati davanti all’ultimo orrore. Aveva pensato innumerevoli volte alla morte, l’aveva avuta vicina, distesa sul letto, come suo fratello prima della festa per il solstizio, nei giorni in cui erano ragazzini. Gli era parsa naturale, a volte quasi dolce. Non l’aveva mai terrorizzato a tal punto.

«Che cosa stavi per dirmi quel giorno?»

Alan, richiamato da quella voce, si voltò appena. Il suo profilo austero, col mento sempre rivolto verso l’alto, fu illuminato dalla luce azzurra di uno schermo che si accendeva davanti ai loro occhi. 

«… sospeso a causa del gravissimo attentato che si è verificato poche ore fa,» stava dicendo una donna con i capelli rossi e l’aria ansiosa, sullo sfondo di uno studio televisivo allestito alla bell’e meglio. «Non si conosce ancora nessun dettaglio sull’uomo che ha sparato, né sulle condizioni di salute del Maestro Mika».

«Quale giorno?» replicò Alan, dopo essersi voltato verso il fratello. Era come se il suo abito da cerimonia, la sua figura, con il lieve moto dondolante delle gambe, avessero inghiottito la voce dell’annunciatrice.

«… credi che vivrà?»

Le spalle scoperte di Alan furono scosse da una risata troppo leggera per un re. 

«Mi dispiace ridurre tutto il tuo romanticismo a processi e tribunali, fratello, tuttavia… credo che il dio saprà come giudicare l'operato di un suo servo».

Predestinazione.

«A volte mi chiedo come giudicherebbe il mio».

Quel presagio lontano in cui uccelli dello stesso nido s’erano uccisi.

Alan espirò dal naso, in una risata trattenuta. Il velo davanti al suo viso ondeggiò, poi ricadde e infine si sollevò ancora, condotto per le sottili vie dell’aria da un sospiro. 

«Che c’è?»

La figura dell’annunciatrice era diventata piccola sullo schermo dominato da un’inquadratura fissa della piazza. Alcune guardie stavano facendo defluire le persone, in file ordinate come quelle delle formiche, dalle quali tuttavia alcuni tentavano di staccarsi, trascinati dall’ansia.

A quella domanda, Alan si voltò di nuovo verso il fratello. La sua guancia magra, sulla quale la ricrescita della barba si notava appena, fu illuminata dalla luce blu dello schermo. Negli occhi dello stesso colore, il giudice aveva dipinta una sorpresa quasi ingenua. Nessuno si rivolgeva mai a lui con familiarità. 

«Nulla,» replicò, con il consueto tono secco e preciso.

«Non abbiamo mai l’occasione di parlare,» rispose Braska, replicando la sua espressione sul volto con meno spigoli. «E ora che dobbiamo affrontare un dolore condiviso, ti prego, solleva il mio animo dicendomi cosa pensi».

Alan scosse la testa.

«A meno che tu non voglia parlare di teologia proprio ora… oh, no,» replicò. «Rimani puro, fratello, e fa’ che la tua fede sia inalterata. Non voglio che qualcosa corroda il marmo delle tue statue, un giorno».

«Forse che la tua non lo è più?»

Braska fissò lo sguardo sul fratello, sull’uomo che aveva tanto desiderato imitare in gioventù, ma non vide le sue labbra muoversi. Invece, Alan inclinò il capo e alzò il mento, concentrato sulle parole trasmesse dalla sfera.

«Voglio chiederti una cosa, Braska». 

L’Invocatore si chiuse d’istinto nelle spalle. Le lettere del suo nome, pronunciate in quel modo, avevano un suono estraneo. Sentiva che Alan era l’unico che poteva sapere se qualcuno all’interno della Chiesa di Yevon le avrebbe rivolto contro il suo stesso esercito. Eppure, per qualche motivo, taceva.

«Che cosa c’è,» continuò il giudice, notando la sua reticenza. Tossì, poi riprese a dire: «Non desideravi sapere a cosa stavo pensando?»

Gli occhi di Braska lo seguirono mentre si alzava dal giaciglio e, senza nessuna incertezza nel passo, camminava fino a trovarsi al suo fianco.

Nella mente dell’Invocatore, le treccine che gli tenevano legati i capelli si sciolsero, lasciando che le ciocche nere del ragazzo che ricordava gli sfiorassero le spalle. Lo immaginò seduto a terra accanto a sé, a torso nudo e con i pantaloni fino a sopra il ginocchio, le gambe magre incrociate. Il sorriso di un giovane soldato, obliquo e un po’ sfrontato, gli riposava sulle labbra mentre stringeva le perle di legno di un rosario.

«Ce l’hai ancora, quell’assurdo tatuaggio?»

Queste erano le parole che Braska avrebbe voluto sentire dalla voce della Falena di Yevon; queste, invece del motivo per cui ardono, alte, le pire.

«Certo,» avrebbe risposto Braska, dopo aver gonfiato i polmoni senza nemmeno un fischio. Solo le campanelle legate al suo scettro gli avrebbero fatto da controcanto. «Non posso mica cancellarlo».

«Come faccio a saperlo?» avrebbe aggiunto suo fratello. «Magari lo hai coperto con un altro».

La voce di Alan arrivò a strapparlo dal sogno scintillante a cui si aggrappava come se fosse una parete di roccia liscia: «Che aspetto ha l’Intercessore di Bevelle?»

Braska si era risvegliato con le unghie spezzate. 

«Cosa? Non-» replicò, interdetto, per subito bloccarsi. Deglutì con dolore. «Non posso rivelare ciò che è nascosto nel naos. Io… ah-»

La sua frase terminò in un sospiro soffocato quando fu investito dall’odore d’incenso, per poi sentire una punta che si posava sul suo collo. Alan aveva fatto apparire una lancia, e con delicatezza la stava facendo scorrere sulla sua pelle, accarezzandogli la guancia come se stesse giocando. 

«Ho profanato luoghi molto più sacri di un tempio, fratello mio». 

Gli occhi dell’Inquisitore, sotto le palpebre socchiuse, squadrarono Braska, e lo videro stringere i pugni e i denti.

«Non lo farai,» decretò l’Invocatore. 

Alan spinse in fuori il labbro inferiore e alzò le sopracciglia.

«Perché?»

In risposta, Braska alzò il collo e, spingendo a terra, raddrizzò la schiena in modo che la punta della lancia arrivasse sopra al suo pomo d’Adamo, a contatto con la pelle. Le sue iridi chiare, inclinate, lo fissarono senza timore.

«Perché lo farei prima io».

Quelle parole fecero sì che Alan sorridesse e spostasse l’arma.

«Buona risposta,» sentenziò, offrendo al fratello una mano a cui lui si aggrappò per alzarsi. «Non dettata dalla paura, né da qualche sentimento di riverenza per coloro che hanno camminato prima… o coloro che camminano con noi. Tu… forse tu puoi farcela, Braska. Puoi arrivare a Zanarkand».

 

 

Di solito, Jecht non si faceva toccare dalle critiche altrui: gonfiava il petto e drizzava la schiena, guardando chi aveva davanti con aria sprezzante, sicuro di quanto valesse. Tuttavia, Alan non faceva che attizzare il fuoco del dubbio in lui, trattandolo come forse avrebbe trattato un servo.

Aveva osservato in silenzio il Grande Inquisitore impartire ordini, come nel giorno della battaglia contro la Scaglia di Sin. Imponeva di dare sempre di più, fino a consumare chi aveva intorno. Mentre Auron e Braska alzavano le difese, le parole di Alan gli ronzavano in testa come mosche nel barattolo, ma decise che non gli avrebbe dato ragione.

In quel posto si erano già organizzati per proteggere Alan; i tre viaggiatori invece erano comparse inaspettate per cui non era preparato niente. Quando i fratelli si ritirarono per riposare, Auron preferì rimanere di guardia davanti alla loro porta per un po’, allungando lo sguardo di tanto in tanto, solo per calmare l’ansia quanto bastava per farlo stare sereno.

A Jecht, invece, il pensiero di rimanere fermo faceva venire la nausea. Quel posto era senz’altro fatiscente, e il fatto di aver dovuto allestire tutto in fretta e furia lo aveva reso più un magazzino che un’infermeria. Si rimboccò le mani e mise ordine insieme agli altri, rivolgendo la parola a una giovane che aveva preso in simpatia.

«Ascolta,» disse l’atleta, facendo cenno verso Auron. «Lo vedi quel bestione lì? Ha bisogno di riposare anche lui, possibilmente non in mezzo al corridoio».

«C’è una stanza libera, ma è un disastro all’interno. Come tutte le altre, purtroppo».

«Ah, va bene! Finito qui, vado a sgomberarla. Nemmeno io ho voglia di dormire in corridoio».

L’atleta fece l’occhiolino alla donna, tornando con la mente a Zanarkand solo per un momento, a quando amava far arrossire chi aveva davanti. Auron lo osservò andare avanti e indietro per più di un’ora, indeciso se lasciare la postazione e aiutarlo, oppure lasciarlo fare e vederlo ruzzolare a terra più di una volta.

«Che fai?» chiese Auron in tono di scherno.

«Ci preparo un angolino per dormire,» rispose Jecht allungando la schiena.

«Non ho intenzione di dormire con te».

Quando Jecht portò via le ultime cianfrusaglie, indicò al compagno una porta adiacente e si fermò a riprendere fiato, indugiando nel corridoio invece di entrare.

«Allora c’è quella. Che è da liberare, e io non lo farò».

«Va bene».

Preso un profondo respiro, Jecht lo stava osservando in cerca di qualcosa che non vedeva.

«Senti… hai bisogno di qualcosa?»

Auron aggrottò la fronte.

«In che senso?» domandò.

«Nel senso… se hai bisogno che io faccia qualcosa».

Il monaco rimase in silenzio per qualche istante. Conosceva nel profondo il disagio di Jecht, e non gliene fece una colpa.

Soffiò aria dal naso, scocciato: avrebbe voluto meditare in silenzio, come soleva fare per liberare la mente dopo aver usato la Necropotenza, ma non se la sentiva di lasciare Jecht divorato dall'insicurezza. Decise allora di assecondarlo.

«Se proprio vuoi, dovrei controllare il filo della spada,» tagliò corto Auron. «Dopo la mia, sistema anche la tua».

«Sissignore,» rispose Jecht con un mezzo sorriso. «Comunque, se vuoi puoi vedere la mia stanza».

Quando il monaco entrò, si rese conto che il compagno aveva fatto molto più di quanto necessario per passare una notte: negli angoli erano ancora presenti scarti di metallo e pezzi di armi, ma c’era spazio sufficiente per avere un minimo di comodità nel muoversi.

Jecht gli indicò una bacinella piena d’acqua su uno sgabello vicino alla finestra e un’altra sedia vuota dalla parte opposta del giaciglio.

«Metti il cappotto e l’armatura lì, così puoi rinfrescarti».

Auron lo guardò infastidito, ma non si lamentò di ciò che aveva preparato.

«Non sei il mio servo, Jecht,» commentò il monaco avvicinandosi alla bacinella.

«Lasciami fare almeno questo per te».

L’atleta prese in carico la spada del compagno e la osservò bene alla luce, notando che serviva un’affilatura molto precisa. Prese la cote dalla loro borsa di viaggio, si sedette per terra e iniziò a lavorare, osservato con attenzione da Auron.

Il Guardiano più giovane valutò i suoi movimenti per qualche minuto, ritenendo che fossero adatti al suo tipo di spada. Immerse le mani nell’acqua gelida della bacinella e si lavò il viso, strofinandosi con più vigore l’occhio destro che pizzicava a causa della Necropotenza. Quando si girò di nuovo, si aspettava di trovare Jecht intento a guardarlo, invece l’atleta era totalmente preso dal suo compito e aveva un’espressione molto seria e concentrata.

Mosso forse da compassione, Auron provò a sollevare l’animo del compagno come meglio poteva.

«Non serviva fare tutto questo. Non devi dimostrare nulla».

Jecht sbuffò, abbozzando un sorriso tirato.

«Io devo sempre dimostrare qualcosa».

Auron fece per ribattere, quando l’atleta posò la cote e l’arma a terra e lo guardò con espressione cupa.

«Io non creo mostruosità dal fumo. Non lancio palle di fuoco e non uso i miei occhi per fare degli scudi,» disse incrociando le braccia. «Di una cosa, però, sono certo. Se il nemico passerà da quella porta, io brandirò la spada in vostra protezione».

Il monaco sostenne lo sguardo infuocato del compagno, quasi volesse sfidarlo.

«Tu credi che Alan non farebbe lo stesso? Pensi che sia questo ciò che ti eleva su un piano migliore di ciò che lui pensa?»

«Alan brandisce la spada solo per sé stesso».

 

 

Non era la prima volta che Braska alloggiava in luoghi scomodi, ma quello spazio spoglio che chiamavano camera aveva una finestra opaca, che non lasciava vedere quasi nulla di quello che c'era fuori. Aveva l'impressione di respirare aria sporca, quella sensazione terrificante di quando aveva l'acqua nei polmoni e ogni giorno poteva essere l'ultimo.

Si tolse l'ingombrante copricapo, ma il senso d'oppressione non si calmò: perfino la fine stoffa del velo intorno al collo era diventata intollerabile. Aprì un poco i vetri, ficcando il naso nella fessura e inspirando a fondo. Aveva timore di osare un tantino di più, ma nei paraggi non sembrava esserci confusione: presa la sedia messa a disposizione dagli infermieri, Braska si sedette accanto alla finestra, per godere degli ultimi raggi della sera e guardare i dintorni.

Non era il momento di farsi prendere dal panico, ma gli eventi stavano peggiorando a velocità notevole, e Braska iniziò a temere per la riuscita del suo Pellegrinaggio.

L'uomo più importante di Spira, la parola di Yevon in terra, era forse stato assassinato per motivi che faceva fatica a immaginare: a quel punto, poteva accadere di tutto.

I suoi pensieri si fecero tanti e confusi: raramente si era vista una tragedia di tale portata, un evento così eccezionale da esigere soluzioni eccezionali. Braska ne era convinto: avrebbe risolto quella e altre terribili questioni sconfiggendo Sin, che incarnava i peccati di tutti gli uomini, anche quelli di colui che aveva attentato alla vita di Mika, anche quelli di suo fratello.

Braska indugiò nel suo disagio per un tempo che non seppe quantificare, guardando distrattamente fuori dalla finestra senza focalizzarsi su nulla. Ciò che all’inizio pensava fosse un riflesso dei raggi del sole sui vetri rimase impresso contro il cielo, come in una fotografia. Una luce arancione, calda.

Una fiamma che si alzava nella piazza della città. Ne seguì un’altra, nel quartiere dei mercanti. Su una via secondaria che conduceva al porto, una molotov passò attraverso un vetro già sfondato.

«Ban te xiy!»

Gli Al Bhed erano tanti, come i granelli della sabbia nel deserto. Allo stesso modo erano stati agitati dal vento, s’erano alzati e il fumo saliva alle spalle di quella che si era resa conto di essere una moltitudine.

La donna che aveva urlato, alzando il pugno chiuso, non era che una tra la folla. Il suo grido incitava a rompere, a bruciare, a distruggere tutto ciò che aveva costituito un anello nella loro catena. 

Non si sarebbero salvate le case dei politici, non sarebbero rimasti in piedi i templi. 

Accanto agli Al Bhed c’era qualche Spirano, che urlava ancora più forte, che con cuore coraggioso si scagliava di petto contro le guardie che arrivavano. Erano lavoratori che volevano rovesciare chi li governava, uomini delusi. Quelli che un tempo erano stati fratelli nella città libera di Luka, piegando il capo alla Chiesa si erano arricchiti. E avevano sputato su tutto ciò in cui credevano.

Così urla in lingue diverse, con vocali diverse, comunicavano tra loro nel lessico universale della rivoluzione. La marea non si fermò contro le poche guardie che erano rimaste, i fuochi non si spensero quando cominciarono a estinguersi le prime vite. 

Diversi gruppi di rivoltosi che si erano sparsi tra le vie cominciarono a confluire nella stessa strada. Le pupille a spirale degli Al Bhed si diressero verso un singolo obiettivo. Il carcere era uno degli edifici più antichi della città, protetto da qualche soldato e da spesse mura. Tutte cose che potevano essere abbattute. 

Gli Yevoniti erano convinti che, uccidendo Sin, avrebbero eliminato ogni male dal mondo, e si sarebbero salvati.

Ma non loro. Loro si sarebbero salvati solo liberando Cid. 

E per il loro dolore che non poteva essere compreso, tutta Luka avrebbe bruciato.

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Capitolo 51
*** Quelle polveri (Parte 1) ***


CAPITOLO 35: QUELLE POLVERI (PARTE 1)

 

 

Quando aveva visto la prima luce sulla strada – rotonda e arancione – Alan aveva pensato che si trattasse del riflesso di una di quelle lanterne lasciate volare per festeggiare l’inizio del torneo. Aveva strizzato gli occhi senza l’intenzione di metterla a fuoco, perso in un vecchio pensiero.

Solo dopo qualche minuto si era reso conto che le luci non facevano che aumentare. Segno probante che era stato qualcun altro a mettere a fuoco qualcosa. 

Rimase immobile a osservare l’incendio, a chiedersi in un tempo dilatato perché nessuna sirena stesse suonando, perché nessuno avesse varcato la sua porta socchiusa per dirgli che cosa stava accadendo.

Quando la voce di un uomo lo richiamò con un secco «signore», lui si voltò con la prontezza di una tigre. Incontrò lo sguardo di un giovane Templare, il suo elmo calato fino alle sopracciglia, e la mano che, in uno scatto involontario, si era stretta attorno al turibolo si rilassò sul metallo.

Si rivolse di nuovo alla finestra e fece qualche passo in avanti. Nel cielo arrossato si distinguevano alte colonne di fumo.

«Che cos’è quell’incendio?»

«Gli Al Bhed, Maestro Inquisitore».

«Gli Al Bhed vanno a fuoco?»

«No, signore». Il Templare abbassò il capo. «Stanno marciando verso le carceri, in migliaia, bruciando tutto ciò che trovano sul loro cammino. Il Maestro Vigot Ronso ha ordinato di reprimere la rivolta, ma temiamo che possano essere riusciti a–»

«No!»

Alan artigliò con entrambe le mani il velo sul proprio petto, e continuò a fissare la città con gli occhi sgranati. Quei demoni non avrebbero liberato Cid, che era rinchiuso nel Palazzo di Giustizia, ma solo lasciato fuggire l’unico prigioniero di cui gli importava. Davon. Prima che lui lo potesse portare a processo. 

«C-chiedo perdono,» lo raggiunse la voce del giovane, sempre più insicura. Lui aveva fatto un passo indietro, e si trovava quasi con le spalle al muro. «Sono stato mandato qui per aggiornarla sullo stato di salute del Maestro Mika».

Alan raddrizzò la schiena, come se fosse stato appena legato a un bastone, e incrociò le braccia al petto.

«Lo stato di salute del Maestro Mika,» ripeté, inespressivo. Per quanto Vigot potesse reprimere la rivolta nel sangue in modo efficiente e rapido, lui doveva andare a presidiare il Palazzo di Giustizia. Subito. 

«Sì».

«A quest’ora».

«S-sì, giudice».

«Prego, allora».

L'espressione del Templare si rilassò, quasi come se il dio gli avesse appena infuso, dopo profonda preghiera, la forza per affrontare le avversità. 

«Yevon ci ha benedetti con un miracolo,» disse, il sorriso che si allargava sul suo volto. «Il Grande Maestro non ha ripreso conoscenza, ma… è fuori pericolo. Non annunceremo nulla al popolo fino a quando non si sarà svegliato».

Alan smise di giocherellare con uno dei fermagli d'argento nei suoi capelli e gli rivolse un'espressione talmente radiosa da risultare inquietante, sotto il velo spettrale che gli sfocava il viso. 

«Innalziamo lodi a Yevon!» esclamò, poi fece una pausa in cui appoggiò le mani in grembo e assunse una posa più composta. «Dal momento che il dio ci ha concesso questa favorevole disposizione di eventi, ho bisogno che tu dirami un ordine per mio conto. Ah, ma prima… Il mio secondo in comando dov'è?»

«Kelk Ronso ha obbedito all'ordine del Maestro Vigot, in quanto appartenenti alla stessa tribù, e si è recato ad occuparsi della rivolta».

«Ah,» intervenne Alan, qualche istante prima che il giovane potesse terminare la frase. «L'ordine di un capo Ronso su qualcuno della sua gente dunque viene gerarchicamente prima del mio. Vedi? Ogni giorno imparo qualcosa che non so. Si potrebbe dire che si è sempre in divenire».

Senza capire, il suo sottoposto fece un cenno con il capo. Poi tenne il collo chinato, come se dovesse sostenere un peso.

«In quanto a te…» Alan, con uno dei passi lunghi che era solito muovere mentre pensava, appoggiò il tacco sul pavimento. Il giovane davanti a lui trasalì, come se il giudice gli avesse calpestato la prima vertebra. «Dirama il mio ordine. Ora».

«S-signore… io rispondo a–»

Uno sguardo di Alan da dietro il velo fece abbassare subito quello del giovane, che aveva appena trovato il coraggio di riportarlo sui paramenti che decoravano il petto del giudice. Si bloccò e si schiarì la voce.

«Sì, signore,» concluse, a pugni stretti. «Volevo solo far presente che dovrei rispondere alle direttive del Maestro Vigot Ronso, e un suo ordine contrastante risulterebbe in un…»

«Siano convocate immediatamente queste persone,» lo interruppe Alan, la freddezza delle sue parole in contrasto con la linea dolce delle labbra. «Domani alle dieci, al campo di cura di Yevon».

Gli occhi del giovane caddero sul primo nome dell'elenco. Vide che era quello del fratello di Alan e non osò spingersi oltre, poiché né nel segreto del dio intendeva inoltrarsi né nella violenza di quell'uomo. 

Dopo essere scattato sull'attenti, e dopo avergli rivolto il saluto Yevonita, il soldato si congedò da Alan e prese la porta. 

Una sensazione di gelo gli morse la nuca, per poi diffondersi in tutto il suo corpo, quando sentì i passi rapidi del giudice alle sue spalle; il suo braccio che teneva la porta; la sua ombra che lo raggiungeva e infine lo superava.

Rimase immobile, incapace anche di respirare finché, con lo svolazzare nero delle sue vesti, Alan non sparì nel corridoio della polveriera. 

 

 

Jecht sbadigliò in modo scomposto, per poi allungare le gambe e stiracchiarsi la schiena. La nottata passata sul pavimento rigido si faceva sentire con fitte di dolore, ma non se ne lamentò troppo: aveva avuto dei postumi molto peggiori.

Si toccò le braccia scosse da brividi di freddo, rendendosi conto che si era tolto la coperta nel sonno, o che qualcuno se l'era presa tutta per sé. 

Abbozzò un sorriso mentre si grattava la guancia, vicino all'angolo della bocca. La medesima che, quella notte, divorava le labbra di Auron, e il ricordo stesso era fuoco.

Per quanto fosse uno che volentieri soccombeva alle fiamme, in genere non era mai lui quello che gettava la fiaccola sulla paglia, nemmeno quando vedeva la possibilità di passare la notte con qualcuno. La sua strategia si basava sull’avvicinarsi e poi allontanarsi, e sul mostrarsi sicuro. Allora bastava una parola, un contatto fisico più allusivo di altri, e si trovava in un letto che non era il suo.

La notte precedente, era successo lo stesso con il monaco. Il solo associare il suo viso a un ordine religioso, a un’astinenza presunta e santificata nei templi, gli insinuava nel cuore una colpa disgustosa. Jecht voltò il capo in direzione di Auron che gli rivolgeva la schiena nuda, e si soffermò con lo sguardo sui suoi capelli arruffati. Lo vide solo, davanti alla cornice di legno di uno specchio, che li pettinava con una spazzola e contava i fili grigi. 

«Non ho intenzione di dormire con te».

La risolutezza di Auron aveva vacillato non appena si era messo a bere dalla fiasca che portava al fianco. E nonostante Jecht avesse insinuato che avrebbero potuto bere assieme, Auron si era rifiutato: il sapore di liquore che tanto gli mancava avrebbe potuto sentirlo solo sulle sue labbra. 

Nonostante l’alcol lo annebbiasse, Auron era riuscito a eludere più di un tentativo di Jecht di strappargli di mano la bottiglia, e non s’era fatto spingere contro il muro. Si era seduto, per dissimulare la stanchezza, a gambe incrociate sul giaciglio di Jecht.

«Ooh, perché non me ne dai un po’?» si era lamentato l’atleta, avvicinandosi a lui a gattoni. « Potremmo fare di nuovo uno di quei giochi sul dire la verità,» aveva alzato gli occhi su quelli del ragazzo, notando che già lo stava fissando, e abbassato la voce, «e magari scoprire perché sono ancora qui».

Il modo stesso in cui aveva pronunciato quella frase, con un tono roco e seducente che imitava quello dell’Inquisitore, lo aveva eccitato, assieme all’odore lieve di tabacco che aleggiava attorno ad Auron. 

«Ti piace essere umiliato, Jecht?»

Nel sentire quell’osservazione, l’atleta aveva inarcato le sopracciglia con un sorriso ammirato, e aveva smesso di avvicinarsi al compagno.

«Dipende da chi ho davanti,» aveva risposto. «Anche se, in effetti… se fossi forte quanto te, e mi fossi trovato da solo con il giudice, avrei provato a sbatterlo contro il muro e spiegargli chi comanda».

«Mi sembra pericoloso,» aveva obiettato Auron.

«Oh, sì, lo è. Che c’è, sei geloso? Vorresti fartelo tu?»

«Farmelo?»

Jecht era finito a un palmo di distanza dal viso di Auron, e le loro labbra si sfioravano. 

«Non stiamo giocando a dire la verità?» aveva mormorato l’atleta, seduto con le gambe attorno al bacino di Auron. «Quanto sono frequenti da queste parti le fantasie sull’Inquisizione?»

«…Abbastanza».

Jecht era scoppiato a ridere. Invasato da qualche spirito che lo spingeva a quel gioco, aveva descritto nel dettaglio ad Auron, mormorandogli all’orecchio, tutto quello che avrebbe fatto ad Alan se solo ne avesse avuto la possibilità. 

Gli avvenimenti successivi, il modo in cui Auron si era avventato sulla sua bocca, gli avevano fatto capire che si trattava di un desiderio condiviso. 

Mentre Jecht ricordava, la colpa lasciò spazio a una forte sensazione di disagio: si era trovato nella medesima situazione innumerevoli volte, prima del matrimonio, davanti a lui file di schiene nude di donne e uomini di cui non ricordava il viso. Si era trovato a far vagare lo sguardo su quella della moglie, bianca e curva come l’onda sulla battigia, senza che nessun sentimento gli scaldasse il cuore.

Tutti i baci dati non avevano sapore né volto: erano solo un mezzo per eccitarsi e consumare, quasi alla stregua delle bestie. 

Quelli di Auron, invece, li ricordava tutti, marchiati a fuoco nella mente: il leggero retrogusto di sigaretta, il calore del suo tocco, perfino come lo faceva. Aveva voglia di allungare la mano per accarezzargli i capelli, ma il disgusto di sé lo paralizzava.

Rifletté a lungo sulle proprie sensazioni, indeciso se muovere la mano o meno. Il volto di Lauren sbiadiva giorno dopo giorno, e Jecht comprendeva quanto il loro rapporto fosse ormai morto.

Eppure voleva tornare a casa, e mentre a gambe incrociate cercava di imitare le preghiere dei suoi compagni, più volte il suo voto profano era stato quello di tornare migliore. Di essere un buon padre per Tidus. Per farlo, non poteva più mentire a Lauren, ormai era chiaro.

Quella nuova consapevolezza gli sciolse un peso sullo stomaco, permettendogli di rilassarsi: la strada era lì, davanti a lui, e non doveva far altro che seguirla.

Decise di non dare fastidio ad Auron e si alzò lentamente, massaggiandosi l'osso sacro dolorante. Non sapeva che ora fosse, ma nel corridoio sentiva già movimento e chiacchiericcio, così si diresse verso la bacinella d'acqua che avevano a disposizione per lavarsi il viso.

«Dove vai?»

La voce roca di Auron sorprese l'atleta facendolo irrigidire per lo spavento, fino a far cascare qualche goccia per terra.

«Dove vuoi che vada, ragazzo?» rispose Jecht senza girarsi.

Auron bofonchiò qualcosa portandosi le dita agli occhi, forse infastiditi dalla luce che filtrava dalle finestre opache.

«Che ore sono? Ho dormito troppo,» disse Auron scattando in piedi con fare nervoso.

Jecht, che normalmente avrebbe fatto battute sulla notte appena passata, preferì non fare menzione dell'accaduto e di percorrere la via diplomatica per non fare irritare il compagno più del necessario. Gli cedette il posto alla bacinella e la indicò con un cenno della mano, invitandolo a rinfrescarsi.

«Non so che ore siano, ma non è la fine del mondo se, ogni tanto, dormi un po' di più. Eri molto stanco,» disse Jecht, guardando ovunque tranne che verso il torso nudo del compagno.

«Sciocchezze».

L'uomo di Zanarkand scosse la testa e raccolse le poche cose che avevano lasciato in giro, mettendo la coperta al suo posto e l'armatura leggera del monaco vicino al suo cappotto. Auron non lo perse di vista nemmeno un attimo, cosa che mise Jecht piuttosto a disagio.

«Che… che c'è?» chiese l'atleta incrociando le braccia.

Il monaco si girò verso l'acqua fresca e si lavò con cura il viso, non tanto per la pulizia, quanto più per non incrociare il suo sguardo. Forse aveva timore di parlare di ciò che avevano fatto.

«Auron, va tutto bene. Sei in tempo per recitare le tue preghiere, anzi, secondo me non siamo molto lontani dall'alba».

Il monaco fissò il suo riflesso nell'acqua per qualche istante, accorgendosi di star stringendo la bacinella con più forza del dovuto, come a voler confermare che ciò che lo preoccupava non erano le laudi. Allentò la presa e riprese a respirare con più regolarità, ora che il timore di venire provocato non lo attendeva in agguato dietro qualche battuta infelice del compagno.

«Probabilmente hai ragione».

«Io vado a vedere se hanno bisogno di qualcosa in corridoio, magari Braska è già all'opera. Tu finisci qui con calma».

Auron abbozzò un mezzo sorriso.

«Non starai esagerando con tutta questa premura per il prossimo? Ieri hai lavorato parecchio,» lo punzecchiò il monaco.

«Per quanto riguarda la tua prima osservazione, sarà la vecchiaia,» rispose Jecht con una risata. «E per la seconda, invece, diciamo che mi sento bene abbastanza per poterlo fare».

Quelle strane sensazioni che l’essere con Auron gli causava lo facevano dondolare tra l’euforia e l’ansia come l’altalena di una fanciulla. Ora lo spingevano a desiderare di coprirsi il capo di cenere e ora lo facevano sentire in grado di salire su quel monte che da Luka non si vedeva, e a cui tutti a Bevelle – indicandolo col dito – davano il nome di Gagazet.

 

 

Perché quando fossimo saliti sul Gagazet, con gli occhi fermi sul nostro sacrificio, potessimo dire, guardate! Qui Yevon dio diventa.

Il dito di Alan si fermò su quella riga della traduzione. Ricordò le strade attraverso cui si era fatto portare con urgenza estrema. Risuonavano di grida lontane e avevano l'odore dei roghi.

Così come un capitano affonda con la sua nave, aveva detto, se la rivolta raderà al suolo il palazzo di giustizia ci troverà me. I funzionari che lo circondavano erano stati veloci a obbedire come cani. Anzi, era più remissivo l'uomo: il giorno in cui anche gli animali si sarebbero piegati in quel modo al suo volere, allora avrebbe potuto dire di essere davvero quello che Yevon aveva scelto. 

Perché Yevon è il dio che è, anche se le frasi  che aveva davanti, nella traduzione dei testi che aveva condannato, avevano sempre più senso ai suoi occhi; avevano senso loro sul monte. 

E poiché sono diventato dio, ecco i modi per distogliervi dal male. Ecco come placarmi per scongiurare l'eterno ritorno di Sin. 

Un presentimento lo punse alla base della gola. Lo fece tossire e lo spinse a ruotare lo sguardo tutt'intorno all'archivio spoglio delle prove che aveva raccolto. Voltò pagina: il testo si interrompeva. La ragazza non aveva avuto tempo. 

«Guardia!» 

Un Templare decorato, che dai lineamenti del volto sembrava originario di Luka, fece capolino attraverso la porta socchiusa. A un cenno del giudice, entrò nell'archivio e gli rivolse il saluto, pur continuando a guardarlo con l'occhio vigile di un veterano.

«Qualche giorno fa ho ordinato di imprigionare una ragazza Al Bhed per eresia. Portami da lei». Nonostante in piena notte quell’ufficio fosse deserto, Alan parlava a bassa voce, e nel mentre raccoglieva in fretta dei rotoli.

L’uomo lo squadrò da capo a piedi, poi fece risalire lo sguardo, come se desiderasse vederlo in faccia.

«Come desidera, signore,» replicò. «Però, se vuole una donna, posso consigliarle…»

«Non voglio una donna». La sedia di legno verniciato strisciò sul pavimento quando Alan si alzò in piedi. «Voglio lei. Mostrami dov’è la cella».

Il Templare, con un sorriso affilato, alzò entrambe le mani in una farsesca richiesta di pietà, poi condusse l’Inquisitore giù dalle scale e attraverso le segrete.

I loro tacchi battevano nel silenzio: nessun condannato aveva il coraggio – o la forza – di protendere una mano verso di loro, di cercare di sfondare le sbarre. Tuttavia, in una delle celle in fondo al corridoio, dove l’odore di muschio lasciava posto a quello acre del vomito, un uomo incessantemente mugolava un lamento, e nel suo delirio di vocali sembrava essere racchiusa la preghiera a un dio ignoto.

Il Templare fece vagare lo sguardo tra le celle, veloce come una rondine che solca il cielo primaverile. Nel suo cervello era impressa la mappa di quel luogo, stampata a fuoco per bruciare i nervi della compassione. Gli stessi i cui moti Alan aveva sepolto sotto ai fiori di sangue nella neve.

Si fermarono prima dell’uomo che gemeva, e con un clangore di chiavi il Templare aprì una cella identica a tutte le altre. 

«Hai visite,» annunciò. L’oscurità inghiottiva senza risputare, ma alla luce della fiaccola Alan riuscì a distinguere la figura di una donna bionda che, seduta a terra con le spalle contro il muro, si ritraeva e si copriva il petto. La guardia si fermò a pochi passi da lei. 

Quello stronzo del giudice Alan, sembrò sul punto di dire, ma rimase in silenzio.

Forse confusa dall’immobilità attorno a lei, la ragazza alzò la testa. Vide il Templare appendere la sua fiaccola al muro, per poi consegnare le chiavi a qualcuno alle sue spalle e allontanarsi.

«Buon divertimento,» disse. 

Amahy riconobbe l’uomo prima ancora che muovesse voce. Il modo in cui stava in piedi, lo scintillio macabro del cerchio d’argento che gli cingeva il capo, anche nella penombra le fecero capire che era lui quello per cui non s’era lasciata morire. Quello per cui doveva trasformarsi da serva a belva feroce, per cui doveva tramutare le lacrime di dolore in sguardi di fuoco. Lui era quello per cui aveva ancora i denti, in modo da potersi staccare la lingua a morsi davanti ai suoi occhi. 

«Inquisitore,» disse a fatica, il respiro che fischiava tra una parola e l’altra. Il rumore delle catene attorno alle sue caviglie tradì un fallito tentativo di alzarsi in piedi. «A cosa devo il piacere? Mentre i miei ti bruciano le carceri, tu ti interessi all’astronomia?»

Nel secondo tentativo di alzarsi, affondò le unghie nel muro alle sue spalle e le usò per fare leva. Le sue labbra spaccate, alla luce tremula della fiamma, si contorsero in una smorfia di dolore. Strinse i denti, travolta da una rabbia repentina, quando Alan la prese per il fianco. 

«Alla filologia, mia cara».

La ragazza trasalì e tentò in ogni modo che poteva, con le braccia e le gambe incatenate, di allontanarsi da lui. Trattenne il respiro per evitare che quel suo odore di cenere invadesse il rassicurante tanfo della prigione, e respirò solo quando si accorse che, dopo averla aiutata a mettersi in piedi, il giudice aveva mosso qualche passo indietro. 

Nonostante le sue gambe sottili fossero sul punto di tremare, rimase ferma davanti a lui, lo sguardo in linea esatta col suo. Lei, però, non aveva mai avuto il bisogno di tenere il mento sollevato in quel modo. 

«Alla filologia,» ripeté, divertita, e si appoggiò al muro per spingere il petto in avanti. Sperò che il suo fiato lo disgustasse poiché, legata, poteva disporre solo di quello, tuttavia Alan non mosse un sopracciglio. 

«Stavo esaminando le carte del tuo caso e voglio muoverti una richiesta». Così dicendo, estrasse dalla veste due piccoli rotoli, racchiusi in custodie di cuoio. Lo sguardo della giovane seguì il luccichio prezioso dei suoi anelli. «Riguarda la tua traduzione dei testi sacri».

Amahy scoppiò a ridere, schizzando volontariamente della saliva addosso all’Inquisitore. 

«Una richiesta?» ribatté. «Senti la mia: perché non ti infili quei rotoli nel culo?»

Sul viso di Alan si abbatté un’ombra di lesa autorità, che lui ricacciò sotto al velo con un sorriso obliquo, marcato da rughe sottili attorno alle labbra. 

«Comprensibile,» commentò. Poi cominciò a esaminare le chiavi e, sotto lo sguardo attonito della giovane, le prese i polsi e li liberò. Il suo istinto fu di stringerli tra le dita e massaggiarli, ma riuscì a trattenersi e rimase immobile, senza abbassare lo sguardo. 

«Vattene. O prendimi e torturami, se devi. Nessuno mi ha aiutato. Erano solo idee mie». 

A quelle parole, Alan annuì e sospirò. Era come se ci fosse un non detto nei risvolti delle sue parole, qualcosa in grado di tormentare nel profondo anche una persona come lui.

Senza dare le spalle ad Amahy, il giudice aprì la porta della cella e poi si avvicinò di nuovo a lei. 

«Non dirò che ho conosciuto di persona quello che ti ho fatto soffrire – altre cose, molte e terribili le conosco, ma non questa –» cominciò a dire in tono quasi dimesso. Con un gesto inaspettato, si chinò e le abbracciò le ginocchia, appoggiandovi il capo, poi diresse gli occhi verso di lei. «Ma tu sai cosa significa questo gesto, perché lo hai studiato, e sai che di più non posso fare per essere ascoltato».

Il respiro si bloccò nella gola della ragazza. Era come essere chiusa in gabbia con una tigre, mentre quella, frapposta tra lei e la libertà, con un gesto tenero le chiedeva una carezza. Ascoltare la richiesta di chi dava solo ordini era come passare le labbra su un fiore d’aconito.

«Perché mi stai supplicando?» domandò con voce roca.

«Voglio parlare con te. Io… voglio che tu continui la tua traduzione».

Il formicolio nelle dita significava forse che il suo cuore, a quella frase, si era fermato?

«Scopriti il viso,» ebbe il coraggio di dire lei, mentre sperava che ricominciasse a battere, «e guardami mentre mi spieghi il perché».

Alan le obbedì, e le sue iridi chiare si tinsero del colore di una fiamma che proiettava sul suo viso affilato ombre troppo tenui per farlo sembrare minaccioso. Cosa temeva, quella ragazza? Che potesse usare la Necropotenza contro di lei, quando sarebbe bastata la sua mano a strangolare una prigioniera denutrita?

Ad ogni modo, prenderla a schiaffi o strozzarla non sarebbe stato utile alla loro collaborazione.

«Recenti mie letture dei testi sacri di Yevon mi hanno portato a tesi interessanti sia per me che per te,» prese a spiegarle lentamente, dopo essersi alzato, «non voglio parlartene qui: seguimi».

Mentre lui si dirigeva verso la porta, Amahy arricciò il naso e si grattò i capelli sporchi. 

«Sapendo che dovrei appoggiarmi a te per fare le scale,» lo bloccò, «in poche parole mi stai chiedendo se mi fa più schifo questa cella o l’idea di toccarti».

Alan si voltò verso di lei e inarcò le sopracciglia.

«Spero che tu non sia testarda quanto il capo della tua gente».

«Beh, per ora le due cose sono pari,» ribatté lei, premendo la schiena contro il muro e passandosi una mano sul ventre. Qualcuno le aveva strappato il corpetto. «Ma che il mio nome sia associato al tuo è qualcosa che mi fa preferire questo muschio».

«Ti sto offrendo la libertà».

Prima ancora che potesse finire quella frase, Alan vide i denti regolari della ragazza brillare alla luce della torcia. 

«Dimmi una cosa. È vero che hanno sparato al Grande Maestro Mika?»

«Sì».

«E quindi tu, se non lo eri già prima, a questo punto sei l’uomo più pericoloso di Spira, e quello più in pericolo di tutti,» osservò acutamente la giovane, «ma se io accetto la tua offerta e continuo la traduzione, e a te t’ammazzano, dove vado a finire?»

Alan strinse un pugno, innervosito. Trattare con un Al Bhed era come cercare di catturare il vento.

«Io ho fatto la mia proposta, signorina». S’interruppe e, con le braccia larghe, si guardò attorno con enfasi. «Valuta tu che cosa ti conviene».

Lei sospirò e, traendo vantaggio dalla posa che Alan aveva assunto, si spinse verso di lui e si aggrappò al suo braccio per sorreggersi; tre volte maledisse la debolezza delle proprie ginocchia che la stava costringendo a quel gesto indesiderato. 

«Beh, giudice, tu almeno non sai da piscio».

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Capitolo 52
*** Quelle polveri (Parte 2) ***


CAPITOLO 35: QUELLE POLVERI (PARTE 2)

 

 

Jecht era stato ricoverato più di una volta nel grande ospedale di Zanarkand: per una sbronza peggiore delle altre, o la solita malandata gamba che diventava spesso il bersaglio preferito dei difensori. 

Il dolore è dolore, pensava l'atleta, ma nonostante il posto in cui si trovava fosse fatiscente e avesse solo il minimo indispensabile per ospitare dei feriti, gli abitanti di Spira tendevano a lamentarsi poco e sopportare con fiera dignità. 

Nelle sue brevi e lunghe degenze, servito come un re in quanto campione di blitzball, non faceva che lagnarsi per qualunque cosa con fare sgraziato e arrogante. 

Jecht guardò se stesso nel passato e rabbrividì: non si aspettava di certo di naufragare in un altro mondo e vivere una follia dopo l'altra, ma si trovò contento di essere cambiato così tanto, di aver trovato quell'umiltà che faceva finta di cercare a Zanarkand.

A Spira la morte era di casa, e sicuramente era un'insegnante eccellente per imparare a comportarsi.

Lo sapeva bene Braska che, nonostante il novero dei suoi lutti, si era immolato al macabro altare di quel mondo per regalare qualche anno sereno al popolo e a sua figlia dalla minaccia di Sin. 

Sembrava danzare tra un ferito e l'altro per fornire le sue magie di cura, alleviando il dolore e salvando vite. Jecht sorrise: non aveva mai incontrato nessuno che gli infondesse una tale calma con la sua sola presenza.

L'Invocatore scorse l'atleta verso la fine del corridoio e lo salutò con la sua consueta dolcezza, ma Jecht notò subito il volto teso del compagno e lo raggiunse per fornire supporto.

«Non ti fermi mai tu, vero?» disse Jecht, accarezzandogli la spalla.

Braska si prese qualche istante per drizzare la schiena, provato dallo stare molte ore al capezzale dei feriti.

«Eppure sembra non essere mai abbastanza,» rispose l'Invocatore con tono amaro.

«Sei troppo duro con te stesso. Auron ti rimproverebbe se ti sentisse dire queste cose,» disse Jecht, incrociando le braccia.

Braska abbozzò un sorriso tirato, e si grattò la testa con fare agitato.

«Hai ragione, amico mio. Immagino che Auron ci raggiunga tra poco».

L'atleta annuì, ma non poteva fare a meno di notare l'atteggiamento schivo dell'Invocatore che, per qualche ragione, continuava a voltarsi verso l'entrata.

«Braska, va tutto bene? Che succede?»

Lui sospirò, premendosi gli occhi con le dita per alleviare il mal di testa che lo tormentava dalla notte precedente.

«Hai visto le luci stanotte?»

Jecht fece finta di pensarci per non far trapelare la scintilla di eccitazione nel ricordare i baci di fuoco del monaco.

«Non mi pare, ero molto stanco».

«In città, dei rivoltosi stanno appiccando le fiamme ovunque. Dicono siano stati gli Al Bhed,» spiegò Braska con un filo di voce.

Jecht comprese tutto senza bisogno di ulteriori chiarimenti: un popolo orgoglioso come il loro doveva avere indietro il capo per cui si erano tanto battuti.

«Alan si sarà precipitato da Cid, immagino,» disse Jecht grattandosi la barba.

Braska annuì, asciugandosi la fronte imperlata di sudore con un fazzoletto.

«Sono preoccupato per mio fratello e per il popolo di mia moglie. Temo possa succedere l'irreparabile».

Quando una figura si palesò alla porta d'entrata, Braska drizzò subito la schiena nella speranza di vedere Alan, speranza che fu subito soppressa nel vedere Kelk Ronso avvicinarsi a loro con aria enigmatica.

«Signori, buongiorno».

Braska e Jecht gli rivolsero il saluto yevonita, a cui il felino rispose con freddo distacco.

«Parlavamo degli ultimi avvenimenti. Non ci aspettavamo una sua visita, signore,» disse Braska tradendo tensione nella voce.

«Immagino che attendesse il Grande Inquisitore,» rispose Kelk unendo le mani.

«Sono molto in pena…» 

«Comprensibile. È una fortuna che il nostro Maestro abbia un fratello così amorevole e disponibile,» commentò Kelk scoprendo i canini in un ghigno. «Sono qui per suo ordine. L'Invocatore Braska e i suoi Guardiani sono convocati alle dieci al campo di cura».

Jecht, trasportato dai suoi stessi pensieri, si azzardò a parlare forse troppo liberamente:

«Siamo ovviamente onorati della sua presenza, ma bastava una guardia per mandarci a chiamare, signore».

Kelk arricciò il naso infastidito, sbuffando aria dal naso, poi si portò le mani dietro la schiena.

«Sono stato convocato anch’io, in effetti. Mi sfugge il motivo, ma se il Grande Inquisitore ci vuole tutti al suo fianco, la situazione non dev'essere facile».

Braska posò una mano sulla spalla di Jecht come per volerlo rassicurare, stringendo invece con forza per fargli capire di tacere.

«Ha ragione, Maestro. Ci prepariamo a partire, allora,» disse Braska congedandosi dal Ronso che, a passi lenti, lasciò la struttura.

Una volta che Kelk fu fuori portata, Jecht roteò gli occhi stizzito, mentre Braska cercava di calmare il respiro.

«E ti pareva…» commentò l'atleta scuotendo la testa.

«Sono abbastanza sicuro che nessun Invocatore abbia mai avuto un Pellegrinaggio tanto movimentato,» disse Braska sospirando.

Jecht si lasciò andare ad una risata, scorgendo Auron in lontananza che si sistemava il nastro che stringeva la sua lunga coda di capelli.

«E non è ancora finita. Dobbiamo dirlo al monachello,» disse.

Braska si coprì il volto con le mani, impreparato nello spirito ad affrontare una giornata del genere.

 

 

«Leggi».

Amahy raddrizzò la schiena e le sue scapole si avvicinarono l’una all’altra, lasciate scoperte dall’abito di fattura spirana che Alan le aveva recuperato da qualche parte, in modo che potesse riassumere – nonostante i lividi sul viso e sulle braccia – un aspetto decente. La luce del primo mattino filtrava nello studio dove era stata portata, e illuminava le pergamene in lingua antica così come gli occhi dell’Inquisitore, la parte più importante e venerabile del suo corpo, che lui aveva lasciato scoperti per mantenere i termini del patto.

«A-po- cho-ré… saien,» disse la ragazza, con pronuncia incerta, mentre seguiva col dito la riga delle lettere. La stanchezza e la pressione nell’ avere le attenzioni di quell’uomo dirette su di lei la rendevano titubante anche sulla sua stessa scrittura.

Era disgustata da lui, dal modo in cui torceva le labbra e dai simboli che portava; spaventata dalla sua voce e dalla totale assenza di qualcosa di umano nei suoi modi. Avrebbe dovuto usare tutte le forze che le erano rimaste per infilargli il calamo nell’occhio, e in questo modo privare gli Yevoniti del loro feticcio, vendicare i suoi fratelli che quel bastardo aveva mandato al rogo. Alan, però, non l’aveva toccata né ne aveva mostrata l’intenzione, e lei sperava che continuasse a non farlo, perché c’era qualcosa di affascinante e inaspettato negli argomenti di cui le parlava.

Non conosceva a fondo la teologia di Yevon, né sapeva a quali regole dovessero sottostare i sacerdoti, ma le pareva che in qualche modo il discorso di Alan potesse andare contro l’ortodossia. Ciò significava che presto qualcun altro avrebbe messo in atto la sua fantasticheria di strappargli gli occhi, senza che dovesse essere lei a sporcarsi le mani. Oppure, quello era un uomo a cui tutto era concesso. Forse, alla fine di tutto, l’avrebbe bruciata.

Forse avrebbe dovuto stare zitta, ma la curiosità è la maledizione di un astronomo.

«Apò-?» ripeté lui. A quella replica, Amahy spinse lo sguardo verso la porta, perché più in là non poteva farlo fuggire. A metà strada, incontrò la mano dell’uomo che segnava qualcosa su un foglio. «C’è scritto apò- nel tuo?»

Lei riportò gli occhi verdi sui documenti davanti a sé, come a volersene accertare, poi confermò:

«Sì. E nel tuo?»

«Perì-».

La giovane aggrottò le sopracciglia.

«Perché? Sono due cose diverse. La mia traduzione dovrebbe essere giusta».

«Non ho ragione di dubitare dell’accuratezza della tua traduzione. Se così fosse, non l’avrei messa all’indice».

A quell’osservazione, Amahy trovò il coraggio di guardare Alan e gli rivolse un mezzo sorriso.

«Sei un uomo molto razionale».

L’Inquisitore, senza perdere la sua aria di distaccata superiorità,  ricambiò l’espressione divertita, poi tornò ai propri appunti.

«Penso piuttosto che i due testi di base siano diversi. Tu hai tradotto partendo da questi rotoli? Non li hai confrontati con altri?»

«Sì, non ne ho altri. Solo questi». 

«Dove li hai trovati?»

La ragazza rimase per un istante in silenzio, valutò se quell’informazione avrebbe potuto mettere nei guai qualcun altro oltre a lei, che ormai aveva chinato volontariamente il capo sotto il giogo. Sapere prima di morire; anche se non lo si può diffondere, sapere.

«Al largo, oltre la Piana della Bonaccia, c’è un luogo nascosto che si chiama Rovine di Omega. Sai chi era lui?»

«Omega? So quello che dice la Chiesa. Un monaco eretico condannato a morte più di seicento anni fa per essere andato contro i precetti di Yevon. Tutto il suo ordine fu giustiziato, e il suo tempio raso al suolo. Poco specifico, me ne rendo conto. C’è altro?»

«Hai dei dubbi su quello che dice la Chiesa?»

«Tu dimmi quello che sai».

«So che si faceva chiamare Omega perché sosteneva che, dal momento che tutte le cose divengono, ognuna deve avere una fine. Nessuno di noi si è mai inoltrato troppo nelle rovine, perché si dice che il suo spirito le abiti ancora… ma in una delle stanze hanno trovato i rotoli, e ho pensato che, se erano lì, devono avere almeno ottocento anni, e allora sono buoni da tradurre perché non sono stati copiati tante volte».

Alan accavallò le gambe e giunse le mani in grembo, con l’atteggiamento di un ascoltatore attento.

«Che è un’idea ragionevole,» commentò, dopo aver raddrizzato la schiena. 

Osservando le sue spalle nude, non sembrava che fosse molto forte; ma d’altronde sembra anche che il Sole giri attorno alla Terra.

«E quel discorso del verbo per cui mi hai condannato, chiamandola eresia di Teyno… io non la conoscevo, ho solo pensato che, dato quello che diceva Omega, la traduzione più corretta era diventare».

Il Maestro Inquisitore prese una scatola d’argento e la aprì. Strinse tra due dita un sigaro, poi sembrò cambiare idea e lo rimise a posto.

«Dovrei fumare di meno,» spiegò, senza tuttavia chiudere la scatola. La ragazza accompagnò quelle parole con un cenno accondiscendente del capo. «Hai trovato scritto da qualche parte il motivo della condanna di Omega?»

«No. E se non ce l’hai tu, che sei l'Inquisitore, non so dove cercare. Anche perché nei rotoli mancano tutti i libri che avete sulle eresie».

«Davvero?»

Il tono della voce di Alan, assieme al rumore del tagliasigari – segno che non riteneva fosse l’occasione adatta per fumare di meno – avevano tradito la sua totale sorpresa. Amahy lo guardò, ricordò la sua figura lontana che si stagliava contro l’alto seggio del tribunale, e si trovò disorientata dal vederlo all’oscuro di qualcosa. Solo un istante dopo, tuttavia, la sua espressione si fece determinata.

«Sì,» rispose. «Può essere che siano andati persi, oppure che loro non ce li avessero».

Circondato dalla sua nube di fumo, Alan si concesse un’espressione perplessa, tanto che per un istante la ragazza ebbe la pericolosa impressione che potesse aver dimenticato quali erano i loro ruoli.

«Così…» rifletté lui ad alta voce, «per quelli dovrei seguire un’altra tradizione dei testi».

Lei non dissentì. Calò il silenzio. Fuori dal Palazzo di Giustizia, anche se lentamente, la città stava cominciando ad animarsi, e delle voci a mischiarsi al richiamo dei gabbiani. Per qualche minuto crebbero e si confusero, aumentarono e svanirono per poi tornare ancora, senza che nessuno dei due, immersi ognuno nelle proprie considerazioni, proferisse verbo.

Quando la voce della ragazza risuonò nella stanza, parve quasi aliena:

«Però posso dirti una cosa che ho pensato? È solo una mia idea».

Alan scosse la chioma rossa del sigaro, che bruciava piano, contro un posacenere. 

«Prego».

«Se ottocento anni fa non avevano nulla che parlava di eresie, forse…» la lingua dell’Al Bhed inciampò, in modo quasi provvidenziale, poiché le permise di riprendere il filo dei suoi pensieri, «aspetta. Forse è meglio che non lo dica a uno come te, cosa penso».

L’Inquisitore soffiò del fumo dal naso e gettò gli occhi al cielo.

«Signorina…»

«Ma tu vuoi andare contro i tuoi?» lo interruppe la ragazza.

A quell’insinuazione, Alan strinse le labbra.

«Io… sono, per dir così, interessato a questo argomento a livello filosofico, di puro pensiero. Vai avanti».

«Va bene. Bisogna ricontrollare, però non mi sembra che nei vostri libri sacri, al di fuori di quello che le indica una per una, siano mai menzionate delle eresie. E nemmeno – bisogna controllare – ricorre la parola “ortodossia”».

«E quindi?»

«E quindi, Grande Inquisitore, tu definiresti un’opinione giusta se non ce n’è una sbagliata? Se ne esiste una, è una e basta».

Per la prima volta da quando era stata portata in quel luogo, Alan le si avvicinò, protendendosi verso di lei.

«Quindi sei portata a pensare che, siccome definendo l’una si ha anche l’altra, prima di Omega non esistevano eresie?»

Lei, quasi imitando il modo di fare della persona che aveva davanti, rimase dritta e impassibile.

«E non esistevano neanche i precetti,» aggiunse, «quelli per cui ora tu dici che va bene εἰμί, e invece γίγνομαι non va bene. Ma questo lo sto solo–»

Questa volta fu Alan a interromperla:

«E quindi la parola di Yevon non è di Yevon, ma di chi l’ha fatto… diventare dio».

Dei fedeli, sotto la finestra, stavano innalzando un canto arcano, accompagnato da uno scampanio allegro. Avendolo sentito, Alan sollevò il mento, guardò verso il muro come a cercarvi una risposta. 

Senza dire nulla, si alzò in piedi e si diresse verso la porta, senza dare segno di voler rimettere in catene la sua prigioniera. Quando passò di fianco alla sua sedia, le posò una mano sulla testa. Amahy sentì i suoi anelli che le premevano contro la tempia, la presa delle dita che si stringeva, anche se non tanto da farle male, prima di rilasciarla. L’indice dell’Inquisitore le sfiorò in modo meccanico la guancia, e lei, con gli occhi sgranati, non osò nemmeno respirare. Ringraziò qualsiasi dio potesse amarla tanto da far sì che nulla le avesse stretto la gola. 

Rimasta sola, si accorse che stava tremando, le sue braccia ebbero uno spasmo per il terrore e le gambe non risposero al suo ordine di muoversi. 

La folla, per la strada, cantava e pregava Yunalesca, la loro Signora, e lei era l’unica a poter sospettare che non sarebbe stato Sin quello per cui, presto, avrebbero suonato un’altra campana.

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Capitolo 53
*** Quod consevi demetam ***


CAPITOLO 36: QUOD CONSEVI DEMETAM

 

 

«Oltre a voi tre, il priore Kael e sorella Ariod…»

Braska camminava in modo nervoso verso il luogo dove Alan li aveva convocati, precedendo sia Kelk, che gli stava parlando, sia i propri Guardiani. Il ritmico tintinnare della campanella sul suo scettro accompagnava ogni passo.

«Che cos’hanno in comune queste persone?» domandò al Ronso, con urgenza estrema.

Lui scosse la testa e diresse lo sguardo verso l’edificio che stava loro davanti. Tutti coloro che passavano, distratti dai colori caotici di Luka, erano portati a ignorare quel luogo marroncino e anonimo.

«Nulla. Ho riflettuto più volte sulla lista, ma a parte essere quasi tutti funzionari di Yevon non hanno niente a che fare l’uno con l’altro. Certo, si trovano in città in questo momento, e possono essere convocati. Tuttavia, non ho idea della ragione che stia muovendo Alan».

«Quasi tutti?» ripeté Braska con tono stranito.

«Ho visto nell’elenco il nome di una guardia. Non mi sarebbe saltato all’occhio se non fosse l’uomo che stava vegliando su Alan dopo che lui è svenuto durante la cerimonia di apertura». 

«E perché convocarci proprio qui?» aggiunse l’Invocatore. Alzò la testa e osservò con apprensione il campo di cura. A quanto sapeva, un tempo lì venivano condotti coloro che deliravano a causa delle tossine di Sin. Nonostante quello che suggeriva il nome, non esisteva una vera e propria cura per il veleno. Quindi, i poveretti venivano ammassati dentro a delle celle, e lì urlando attendevano l’ora fatale. Era molto facile che anche le guardie, in breve tempo, perdessero il senno.

Una situazione del genere, anche quando il potere della Chiesa su Luka si era indebolito, aveva richiesto gli sforzi politici congiunti di tutti i partiti della città per essere cambiata.

Braska non era fiero di come gli yevoniti avevano gestito quei malati. E forse non lo era nemmeno Alan, data la buona disposizione del suo animo per i folli e per le bestie.

La presenza di così tanti spiriti, anche a diversi anni da che la casa di cura era stata dismessa, richiedeva periodiche disinfestazioni dai mostri.

Braska guardò verso i suoi Guardiani. Per Jecht – e forse anche per Auron – quello era solo un edificio disabitato come tanti. Si sentì depositario di un’altra verità terribile oltre a quella che strisciava dentro alla sua ombra sin da quando avevano lasciato Bevelle.

Il vento mosse ancora la campanella sullo scettro, e riuscì a sollevare d’un poco la sua pesante veste.

«Che cosa può aver trovato di tanto importante qui dentro?» rifletté ad alta voce, fermo di fronte al simbolo scrostato di Yevon sul frontone. Qualcuno aveva provato a danneggiarlo con della vernice nera, ma dei diligenti funzionari l’avevano grattata via quasi tutta.

Solo nel momento in cui Braska si voltò indietro notò che aveva distanziato i suoi Guardiani di parecchi passi, sia perché perso nei suoi pensieri, sia per fuggire dalle sigarette del monaco.

Auron aveva iniziato a fumarne una dopo l'altra in preda al nervosismo, creando un alone pesante che i polmoni dell'Invocatore non tolleravano molto.

Quando Jecht, in infermeria, gli aveva spiegato la situazione, Braska si sarebbe aspettato una reazione molto meno pacata di quanto poi era effettivamente avvenuto. Forse la strana calma di Jecht era riuscita ad avere qualche influenza su di lui. 

Braska sorrise appena, sollevato dal fatto che Jecht avesse imparato a parlare col Guardiano più giovane senza finire per litigarci, e per qualche istante fissò un punto imprecisato a terra in attesa che i due li raggiungessero. 

Agli occhi dei più si trattava di piccolezze trascurabili, ma per lui erano lucciole in una notte di luna nuova, essenziali per non sprofondare nello sconforto che avrebbe trovato dall'altra parte della porta.

Kelk Ronso, d'altro canto, era fastidiosamente impassibile, in apparenza freddo come i venti di Shiva. Forse era ormai abituato ai modi di fare di Alan, e l’Invocatore non si sarebbe affatto sorpreso se, in quel preciso momento, avesse provato più fastidio che timore. 

«Siamo pronti ad entrare?» chiese Kelk, portando le mani dietro la schiena dritta.

«Preferiremmo evitare,» rispose Jecht senza pesare le parole.

«Sei un Guardiano pavido, o un uomo di pace. Entrambe qualità strane per il tuo ruolo».

Auron, impassibile, spense l'ultima sigaretta sotto la suola dello stivale, mentre Jecht si maledì per aver parlato e guardò altrove.

«Vorrei solo che le cose fossero più semplici, signore. Il nostro Pellegrinaggio è molto turbolento, come può vedere…» spiegò Braska con un sottotono di rassegnazione.

Kelk scoprì i denti in quello che sembrava un sorriso amaro, poi si fece da parte per permettere ad Auron di aprire la porta.

Il vecchio legno scricchiolò in modo sinistro, attirando lo sguardo di decine di uomini di Yevon che attendevano nella sala quadrata, priva di qualsivoglia decorazione sulle pareti. Immerso nella polvere, si levava un brusio generato dalle loro voci sovrapposte.

Si levarono molti sospiri quando videro chi aveva varcato la porta, e molti di loro si voltarono nuovamente e scossero la testa, delusi.

«Pensavano che Alan si sarebbe fatto vedere dalla porta d'ingresso?» mugugnò Auron.

«A giudicare dalle loro facce, stanno aspettando da un bel po',» ipotizzò Jecht a braccia incrociate.

Braska si irrigidì quando constatò con i suoi occhi che Jecht poteva avere ragione: non solo un ritardo sarebbe stato fuori discussione per un uomo di massimo rango come suo fratello, ma anche tutta la situazione in cui si trovavano risultava essere anomala.

Il gruppo si mise in disparte in un angolo dietro a tutti, seguito poi da Kelk che, pur avendo allungato il collo, non aveva visto la fonte da cui era partito tutto. Il Ronso non disse nulla e puntò le iridi verticali verso il fondo della sala, dove una porta chiusa conduceva nelle viscere dell'edificio.

Dopo molti minuti di attesa, nessuno si era ancora palesato e gli astanti iniziarono a lamentarsi gli uni con gli altri, ponendosi domande a cui non sapevano dare risposta. 

«Ma… che succede?» sussurrò Jecht a Braska.

l'Invocatore scosse la testa, si portò le dita al mento e aggrottò le sopracciglia.

«Rimani vigile, Jecht,» disse Auron, rigido in piedi come uno di quei pali che, sulla Via Micorocciosa, usavano per segnalare la strada.

In un casuale istante di silenzio, si sentì uno scatto metallico. Un uomo dagli occhi tondi, che calzava un elmo a cervelliera decorato da simboli sacri, alzò lo sguardo verso la scalinata che aveva di fronte e portò la mano destra all’elsa della spada. La sinistra si alzò per fare cenno di tacere a quello che aveva accanto. Arrivata a metà strada, ebbe uno spasmo.

Quando il suo vicino lo guardò in volto, notò che aveva un buco circolare in mezzo agli occhi. Provò a urlare, ma si trovò un proiettile in bocca.

Solo quando il sangue della seconda vittima schizzò in faccia alla prima i presenti si resero conto di cosa stava accadendo e cominciarono a gridare.

Intrappolato tra un’imprecazione di Jecht e il braccio di Auron che gli stringeva la vita, in modo da poterlo trascinare al sicuro, Braska alzò gli occhi verso la scala. Con il cuore in gola, non prima che un impatto seguisse un terzo sparo, cercò di lanciare Protect

Un piccolo costrutto di fattura Al Bhed, che fluttuava sopra la sua testa, annullò il suo incantesimo. Braska strinse i denti e percepì l’intero percorso di una goccia di sudore che gli scendeva dalla tempia fino alla mascella. 

Perché–

«Troia, fatti vedere!» gridò Jecht alle sue spalle. «Hai paura?»

Prima che quella frase potesse giungere a termine, l’Invocatore vide un uomo magro scendere le scale con passo sicuro. Portava un lungo abito talare rosso con una mantella senza alcun simbolo o ricamo. Era aperto sul petto, quasi come se volesse invitare i suoi nemici a colpirlo lì, dove c’erano solo delle cinghie uguali a quelle che gli decoravano le cosce e i polpacci sopra i pantaloni stretti. Stringeva una pistola in ogni mano. 

Mentre camminava, colpì con precisione prima un sacerdote alla sua destra e poi, alla nuca, due donne che tentavano di raggiungere la porta. Tuttavia, il suo sguardo sembrava puntare sempre dritto davanti a lui.

Una nube di lunioli, che vorticava come una tempesta, lo raggiunse e lo superò, riversandosi sugli astanti assieme ai proiettili. Buona parte di loro, per la paura, si immobilizzarono come statue. Qualcuno si portò le mani alla gola nel tentativo di non soffocare.

Braska non credeva davvero, ora che lo vedeva direttamente negli occhi, che quello fosse suo fratello. 

«Voi avete paura di me,» disse, una volta raggiunti i piedi della scala. La sua voce, accompagnata da un tintinnio metallico mentre ricaricava le armi, risuonava nell’intera sala. «Sono da solo».

Kelk ruggì e, a quattro zampe, si scagliò contro Alan. La nube di lunioli prese la forma di un leone e si interpose come un muro tra i due. Kelk fu scagliato contro una parete e ricadde sul fianco, poi l’evocazione si scompose in piccole luci e svanì nell’aria.

Alan, con il mento alto, smise di sparare e seguì con lo sguardo un luniolo che saliva. Braska, che non aveva potuto fare altro che coprirsi il viso con le mani e pregare, sbirciò oltre alle maniche della propria veste. Si rese conto che lui, Auron e Jecht erano gli unici a essere rimasti in piedi. E forse anche Kelk lo sarebbe stato, se solo non avesse avuto l’idea sconsiderata di attaccarlo mentre era protetto. 

L’Inquisitore attraversò con aria pensierosa la stanza. Urtò con un piede il cadavere della guardia, la sua prima vittima, che spandeva sangue sul pavimento polveroso allo stesso modo in cui una coppa troppo piena sparge il vino. Inarcò le sopracciglia con sufficienza e continuò a camminare, a passo lento, verso Braska e i suoi compagni.

«Fermo!» urlò Auron, reggendo la spada sguainata con entrambe le mani. «Metti via quelle armi!»

Alan forzò un’espressione sorpresa. Inclinò il collo sottile in modo elegante, con le labbra socchiuse, come a voler fare cenno al congegno antimagia che volava attorno alle loro teste. Poi, però, scostò la veste e infilò le pistole nella loro fondina.

«Mio amato Braska,» disse, mentre avanzava incurante dell’avvertimento di Auron. «Danzerai il Rito del Trapasso per me?»

L’Invocatore indietreggiò verso la porta chiusa. 

«No…» mormorò, con gli occhi sgranati e lo scettro davanti al corpo, come se avesse in qualche modo potuto proteggerlo dal fratello.

«No!» gli fece eco un’altra voce. «Lascia che pulisca lui questo macello!»

Tutti e tre si voltarono verso Jecht. Lui, dritto in piedi, strinse il pugno sulla spada fino a far sbiancare le nocche. 

«Auron, Braska…» proseguì con la voce cupa e il capo abbassato, «non avete notato? Queste persone, a parte la guardia… non hanno vero sangue dentro di sé».

Quasi a voler sottolineare quelle parole, da una delle chiazze rosse sul pavimento si levò un singolo luniolo.

Alan, quasi ammirato, dopo aver passato un dito su una macchia che aveva sulla veste gli rivolse un largo sorriso a bocca chiusa. Kelk, a terra, si mosse, ma non riuscì ad alzarsi.

«Non mi aspettavo che fosse lo straniero il primo ad accorgersene».

«Per la guardia che scusa hai?» lo interruppe Jecht. La luce strana di quel posto faceva risaltare le parti metalliche dell’abito di Alan, e invece gettava un’ombra rassegnata sotto i suoi occhi. «Lo accuserai di un crimine che io non capisco?»

«Ho compiuto un errore di valutazione».

«Non credo,» ribatté l’altro, poi scoprì i denti, «mio caro».

Alan getto all’indietro il capo e soffiò l’aria fuori dalle narici, ma prima che potesse dire qualcosa l’uomo di Zanarkand parlò di nuovo:

«E immagino che la tua morale non accetti l’esistenza di qualcuno che continua a vivere come Non Trapassato dopo la morte… dopo tutto quello che hai fatto tu per sopravvivere. Non è vero?»

«Sei il primo che non mi chiede che sapore ha la carne umana». Alan si protese verso di lui e, con un sorriso, scosse piano la testa. «Davvero notevole».

«Combattiamo fino alla porta!» gridò Jecht. Spostò lo sguardo verso i compagni, e non riuscì a distinguere le emozioni sul loro viso. «Vediamo cosa ha da dire di lui la Chiesa di Yevon!»

«Oh, la Chiesa ha avuto tanto da dire, nella sua esistenza… Ne ha pronunciate, di encicliche sull’umanità e su cosa significhi essere umani…  quella schiera di preti morti ha la risposta, non è così?»

L'Inquisitore cominciò a camminare senza una meta precisa, e mentre parlava alternava lo sguardo tra i tre che aveva davanti e i cadaveri che aveva disseminato al suolo.

«Sono venuti a implorarmi di portare la legge, dopo che hanno reso la mia parola inascoltata e il mio seme sterile. E tu, Jecht, dopo tutto quello che hai visto vuoi davvero seguire loro? Vuoi davvero seguire il Coro? Questa terra avrà il mio vomito e il mio sangue prima di avere la mia scomunica. Mi avrà nel fuoco prima di avermi in ginocchio! Mi avrà bestia che non riconosce il nome del dio. 

«Su… Jecht, Auron… fratello. Distinguete gli uomini dagli spettri. Datemi la luce della vostra speranza, e posso essere la falena che ci gira attorno. Tutto quello che voglio è una semplice danza… Ah, ma andate pure, se è ciò che vi dice il vostro animo, e se vedete il Coro ditegli che io sono l'animale che lui mi ha reso».

Le parole di Alan saettarono nella stanza come i morsi di un serpente. 

Jecht strinse l'elsa della spada d'istinto nel sentire nominare il Coro. Non gli sarebbe dispiaciuto nemmeno calare la lama sul Grande Inquisitore, ma era consapevole che quella fosse una battaglia persa in partenza.

Guardandosi intorno, notò che Auron non brandiva più la sua arma, mentre Braska stringeva lo scettro con presa incerta e un'espressione tirata in viso. L'atleta sospirò infastidito, ma non poté fare altro che seguire l'esempio dei suoi compagni.

A qualche passo di distanza, Kelk si trascinava nel tentativo di rimettersi in piedi, ma Braska aveva occhi solo per il massacro che aveva intorno. Una forte nausea gli attanagliò lo stomaco, poiché lo atterriva ciò che era in grado di fare colui che chiamava fratello.

La maggior parte dei corpi era prona sul pavimento, freddata mentre scappava dalla furia metodica di Alan. Solo alcuni, forse le prime vittime prese alla sprovvista, erano spirati sulle loro schiene e mostravano chiaramente il volto. Su uno di questi si posò lo sguardo di Braska, cercando conforto nell’espressione sorpresa di chi è morto in un battito d’ala di falena. 

«Braska, cosa facciamo? Non vorrai mica assecondare le sue richieste,» chiese Jecht a denti stretti. Auron scosse la testa.

«Questo è ciò che fanno gli Invocatori, e questa è la nostra dottrina: i morti vanno Trapassati,» rispose il monaco come in una litania imparata a memoria.

Jecht fece per controbattere, ma Braska lo fermò con un gesto della mano. Serrò la presa sul suo scettro e si avvicinò al Grande Inquisitore con occhi ridotti a fessure, senza nemmeno tentare di nascondere la sua espressione di profondissimo disgusto.

«Alan, fratello. Non andare fino in fondo, ti imploro. Fermati ora, e cerchiamo un altro modo,» disse l'Invocatore con voce alterata.

Il Grande Inquisitore alzò un sopracciglio, quasi infastidito dalla temeraria diplomazia di Braska che ostentava anche quando in collera.

«Ebbene? Cosa proponi di fare?» 

Braska fece per dire qualcosa, ma il fratello maggiore lo interruppe allargando le braccia, mettendo in tensione le cinghie di cuoio che gli stringevano il petto nudo.

«Lo stai vedendo con i tuoi occhi, qui e ora. Erano uomini di Yevon, eppure lo bestemmiavano ogni giorno con la loro stessa esistenza. Pensi forse che non ne esistano altri nelle mura dei nostri templi? Pensi forse che esista qualcuno al di fuori di me che possa prendersi carico del problema?»

Braska si trovò a stringere i denti e ad abbassare lo sguardo senza nemmeno accorgersene. Non aveva risposte per nessuno dei quesiti mossi da suo fratello, ma non poteva comunque accettare il massacro sconsiderato come soluzione. Dove Braska si aspettava perlomeno le obiezioni di Jecht, non sentì altro che eloquente silenzio.

«Quindi, ysuna. Danzerai per me?» chiese Alan. Nonostante la carezza che lasciò sulla guancia del fratello, il suo tono era  meno morbido di quello che aveva utilizzato in precedenza.

Braska annuì con rigida amarezza. Si mosse verso il centro della stanza, facendo attenzione a dove metteva i piedi ed evitando accuratamente di non incrociare gli occhi spenti di coloro che stava per guidare nell'Oltremondo.

Trovò un punto abbastanza libero per poter cominciare la danza, ma appena prima di raggiungerlo sentì di aver calpestato qualcosa: sentì il rumore di piccole ossa che si rompevano, forse quelle di un dito. Alzò il piede di scatto e soppresse con forza un conato di vomito.

Nonostante il respiro difficoltoso, Braska si mise comunque in posizione, pronto a iniziare il Rito del Trapasso. Chiuse gli occhi, tornando con la mente all'immagine del suo maestro che gli mostrava i passi da eseguire, con una tale grazia da far commuovere le pietre. Ricordò il modo in cui i nastri colorati attaccati alla veste si muovevano insieme alle braccia e alle gambe.

Nel cuore dell'Invocatore, solo una simile bellezza poteva proteggerlo dalla vista dell'orrore su cui stava danzando.

Assieme ai lunioli che, salendo dai corpi dei morti, si dirigevano verso il soffitto, il suo scettro disegnò un arco nell’aria. La mano di Braska, come uno scafo che aveva ondeggiato nella tempesta per poi riprendere la propria rotta, stringeva l’asta senza incertezza.

 

 

«Sono terribilmente addolorato dal dovervi annunciare che questa mattina il nostro Grande Maestro Mika ci ha lasciato».

Alan, con le mani giunte al petto e gli occhi scoperti, guardava dritto davanti a sé, dove una Sfera collegata al grande schermo dello stadio di Luka registrava ogni immagine e parola. 

Da un lato della telecamera, una piazza intera era scossa dai singhiozzi; dall’altro, Auron e Jecht strinsero i pugni e i denti. Non era loro concesso muovere un passo e porre fine a quell’annuncio.

Alan aveva ancora una macchia di sangue sulla tonaca.

Braska passò qualche minuto a regolare il respiro, come il suo maestro gli aveva insegnato: doveva essere simile al ritmo della danza, in modo tale da mantenere l'armonia. 

Avanzò con passi leggeri a braccia aperte e lo scettro stretto nella mano destra, come a voler invitare le anime a radunarsi nel suo abbraccio. Sentì su di sé gli occhi dei suoi Guardiani, anche se non poteva vederne chiaramente il volto; in più occasioni Jecht aveva espresso la sua ammirazione per la bellezza dei suoi passi, seppur in risposta a tristi eventi. Allo stesso modo, pur senza dirlo ad alta voce, lo ammirava Auron.

I primi movimenti del suo corpo furono lenti e aggraziati. Poi rese più veloce il ritmo e prese a disegnare con lo scettro ampi cerchi, quasi volesse portare il nome della sua terra nella danza. 

I lunioli iniziarono ad accumularsi intorno a Braska obbedienti, non più agitati dal desiderio di voler restare, ma tranquillizzati dai movimenti pieni di una grazia che indicava loro la via verso la pace eterna.

«Le mie preghiere si uniscono a quelle di tutto il popolo di Spira nell’accompagnare il Maestro Mika verso l’Oltremondo».

Nemmeno Kelk, che era riuscito a rialzarsi, reagiva. Forse era debilitato dalle ferite, o forse troppo scosso dalle scene che, una dopo l’altra, gli si erano scagliate contro in poco tempo come uno sciame di vespe.

I corpi a terra ormai – quasi tutti – si stavano dissolvendo per tornare il nulla che erano. Braska, con le ciglia umide socchiuse, alzò un braccio e fece un mezzo giro su se stesso. Una preghiera mormorata da Alan, più antica ancora delle sillabe sincopate dell’inno a Yevon, sconfiggeva il silenzio.

«Epenènexai to thèion, epenènexai lampròn tòn naòn». (1)

Braska si voltò alla propria destra e ripeté, identici, i movimenti del rituale. Un luniolo gli accarezzò il viso, come a voler portare via le gocce di sudore che lo stavano percorrendo. L’Invocatore riuscì a distogliere lo sguardo da suo fratello che, con il capo abbassato, pregava in ginocchio, ma non la mente dalle sue parole.

«Epenènexai tòn thrònon». (2)

Il luogo, il vecchio ricovero per gli avvelenati, taceva.

Auron poteva solo pregare che l’Inquisitore si fermasse, che il suo animo fosse colpito da un'improvvisa codardia e non osasse muovere quel passo. Era costretto a stare immobile in piedi alle sue spalle, come la guardia di un tempio.

«Coloro che hanno commesso questo atto atroce,» continuò Alan, «sperano ora che la Chiesa di Yevon collassi dopo che ne è crollata la colonna; che, ucciso il comandante, rivolga la carica verso il suo stesso accampamento. Non succederà». Unì le mani in grembo e raddrizzò la schiena. «Poiché le mie armate hanno il favore del dio».

Costretto a stare immobile. Azione che lo spingeva a domandarsi quanto effettivamente fosse partecipe, o complice, di ciò che stava avvenendo. Lanciò un’occhiata a Braska e non riuscì a indovinare i suoi pensieri; poi una a Jecht e vide lo specchio di se stesso.

Ciò che provava per lui gli dilaniava le viscere.

«E loro avranno in me chi li inseguirà sino alle soglie della notte».

Le anime erano ormai pronte per il loro ultimo viaggio. Braska afferrò lo scettro con entrambe le mani e lo portò sopra il capo, muovendo tutto il corpo come la foglia che ondeggia al vento. La grazia aveva lasciato spazio a un ritmo più primordiale, in cui i passi si facevano più decisi e il cuore batteva più forte.

I movimenti delle sue braccia si fecero più ampi, e permisero allo scettro di creare più spazio per i lunioli, che seguivano un qualche flusso astrale. In una spirale sempre più densa, danzavano insieme all'Invocatore come se con l’ultimo barlume di vitalità desiderassero ricordare la loro esistenza terrena. 

Quando Braska, tirando il fiato per combattere la fatica, si fermò immobile a braccia aperte, i corpi degli sventurati che avevano trovato la morte per mano di suo fratello erano ormai scomparsi, e molte delle anime che li animavano avevano trovato la via verso l'Oltremondo, anche se alcune erano restie ad andarsene.

Jecht notò che non tutti i lunioli si stavano disperdendo. Alcuni si attiravano l’un l’altro, creando una zona di maggiore densità. Nel vedere che lì al centro stavano prendendo forma figure umane traslucide, disposte in una schiera ordinata, mosse un passo indietro.

Il ragazzino vestito di viola, ormai perfettamente distinguibile, allungò una mano verso di lui. Aveva il cappuccio calato, ma Jecht percepiva che lo stava guardando.

Alan alzò il viso e diresse gli occhi verso di loro, senza interrompere la sua preghiera.

«O polyònyme pankratès Hỳebon polỳmeti, hemetéran diaskèdason àgnoian eòn…» (3)

Per riflesso involontario, le dita di Jecht si strinsero sull’elsa della sua spada.

CORO             La madre ama suo figlio pur se ritornato dal fronte
di guerra che tutto divora
non porta più il suo scudo; se fuggendo l’ha abbandonato
senza segni accanto a un cespuglio.

E come quello tu, figliolo, sarai perdonato,
se là nella grotta romita
allora ti fallì la mano che aveva la spada,
se guardi che cosa hai davanti.

E se ancora ti è umano il cuore nel petto, fa’ in modo
che quest’animale perisca,
che più esso non parli, ch’affoghi nel suo stesso sangue
cercando di chiedere aiuto.

 Se non lo fai - ahimè - un fato di lutto e di pianto,
la corda di ferro di un male
sottile avvolgerà il cielo di Spira, e allora
lì il Sole bacerà la luna

una volta allo zenit; e si schiuderanno le pietre
in una genìa di serpenti,
e la dolce Eco - ecco - verrà prima del nostro verbo.
Il dio ha prescritto questi mali.

Jecht si morse il labbro e si forzò a rimanere immobile, a non muovere un passo nonostante sentisse che tutti gli occhi del Coro, sotto le maschere, erano puntati verso di lui. Avrebbero potuto guardare direttamente l’uomo che stavano maledicendo, quello che odiavano talmente da essere giunti, tutti assieme, in quel posto.

Eppure non lo facevano. Lo disdegnavano, come un cane randagio al bordo della strada. 

Come se non fosse alla loro altezza, Jecht stava cominciando a capire il perché.

«Coro!» gridò, «questa “tracotanza” di cui parli… ah, dannazione-!»

JECHT             Questa “tracotanza” di cui parli… può anche essere invertita, non è vero?

Alan si voltò verso di lui.

«In questo periodo luttuoso e difficile, la Provvidenza ha fatto sì che io mi trovassi di fronte a voi. Per evitare un pericoloso vuoto di potere, ha fatto sì che io potessi mettere le intere mie forze al servizio di Spira e di Yevon, tre volte lodato sia il suo nome. La morte del venerabile Yo Mika non spezzerà il nostro animo, ma lo spronerà a combattere». 

Il fanciullo vestito di viola sollevò il mento. La luce livida della stanza conferì una sfumatura ancora più spettrale alla sua pelle scura. 

CORIFEO        Se ancora non vuoi farlo, raggiungi la cima del monte,
del mio monte, che più non voglio sentirlo appropriarsi

del mio santo dolore, dell’ecatombe di quel giorno.
Allora vieni, e sii veloce, che Spira ormai muore.

Una fitta di dolore all’occhio destro, come se qualcuno vi avesse infilato un ago, trafisse Auron mentre stava assistendo alla scena. Il mondo diventò buio per un solo istante, poi riapparve il blu scrostato dei muri. Alan era la Terra al centro di tutto. 

«Io sono il nuovo Grande Maestro di Yevon».

Un secondo bagliore colpì la canna di una pistola. L’acciaio lucido rifulse tra le parole del bambino, si trasformò in oro nella decorazione a rilievo che percorreva l’arma, una firma di chi l’aveva forgiata assieme al quarto di cerchio che terminava sulla tacca posteriore di mira. 

Nel silenzio che era calato risuonò il rumore metallico del selettore. 

Alan puntò la pistola, e di nuovo non fu degnato d’uno sguardo. 

Dopo che ebbe premuto il grilletto, il proiettile trapassò la testa del ragazzino, e sotto il cappuccio i suoi occhi lampeggiarono come due lunioli prima di spegnersi. Il suo piccolo corpo cadde in ginocchio, prima di crollare inerte al suolo tra i lamenti dei fantasmi.

Lo schizzo di sangue nero che colava sulla parete aveva già cominciato a sbiadire.

«…È koinòn aèi nòmon en dìke hymnòimen». (4)

 

 

 

1: Tu hai portato (con/per te) la divinità, tu hai portato (con/per te) il tempio sontuoso.

 

2: Tu hai portato (con/per te) il trono.

 

3: O sotto molti nomi onnipotente Yevon dalle molte menti, dissipa la nostra ignoranza e consentici…

 

4: …Di cantare per sempre, nella giustizia, la Legge universale.

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Capitolo 54
*** La morte del desiderio ***


CAPITOLO 37: LA MORTE DEL DESIDERIO

 

 

Da quando la sfera per la registrazione era stata spenta, non s’era sentito neanche un suono nella stanza. Il pulviscolo atmosferico fluttuava abbondante, indisturbato. Le anime che da tempo avrebbero dovuto lasciare Spira se n’erano andate. 

Solo nella mente di Auron, Braska e Jecht stava risuonando l’eco della voce altezzosa di Alan. Come se volessero dare il permesso al tempo di ricominciare a scorrere, i tacchi dell’Inquisitore batterono sul pavimento sporco al ritmo dei suoi passi. 

Senza degnare di uno sguardo gli altri, si diresse verso Kelk. Braska si frappose tra lui e il Ronso ferito, sostenendo in silenzio lo sguardo del fratello. Fuori dall’edificio cominciò a farsi strada un vociare caotico, inframezzato dal ruggito delle bocche da fuoco. Le armi proibite. 

«Scortaci fuori».

A quell’ordine, che non era provenuto dalle labbra di Braska, Alan si voltò. Perso l’interesse per Kelk, prese a camminare verso Jecht, con le braccia larghe e la bocca contorta in un sorriso. La veste rossa accompagnava i movimenti del suo corpo e si agitava come un’onda di sangue.

«Andate,» replicò, con voce più acuta del solito. «Non vi sto tenendo prigionieri». 

Jecht strinse i denti, gli occhi fissi sulle pistole che Alan aveva ai fianchi. 

«No. Non ti libererai anche di noi stamattina».

«Jecht–»

L’uomo di Zanarkand fermò con un cenno della mano Auron e riprese a parlare: «Non abbiamo fermato il tuo colpo di Stato. Avremmo potuto dare le nostre vite, immolarci perché tu non prendessi il potere, e la folla lì fuori lo sa. Ci devi la tua protezione per uscire da qui».

«Immolarvi per la sacra causa della Chiesa!» ripeté Alan. Le sue parole vennero sottolineate da una salva di colpi di fucile. «Sono sicuro che l’avreste fatto».

«Questo la folla non lo sa,» replicò Jecht. Poi spostò lo sguardo su Braska che, a capo chino, stava curando le ferite di Kelk Ronso. Alan non avrebbe mai potuto causare la morte di suo fratello. Non avrebbe mai permesso che i ribelli di Luka lo linciassero. 

«La Chiesa,» continuò l’Inquisitore, «è obbligata a riconoscermi come Grande Maestro, ora. Altrimenti sarebbe equivalente all’ammettere di avere Non Trapassati tra i ranghi». 

Jecht serrò i denti. Alan aveva ragione. 

«Manderanno degli uomini: non è il caso che io esca senza scorta».

«E fino a quel momento cosa facciamo?» intervenne Auron, senza tentare di mascherare il disgusto nella voce. «Se la folla scoprirà dove siamo, sfonderà le porte di questo posto come ha fatto con le prigioni».

Alan fece qualche passo verso di lui e gli si fermò di fronte.

«Allora alzate le barriere: a noi non resta che aspettare qualche… oh». Si interruppe all’improvviso, quasi avesse visto una luce negli occhi di Auron. Posò una mano sulla sua guancia, con sorpresa all’apparenza autentica, e il monaco si irrigidì. «Questo è… possibile che tu sia già pronto?»

«La smetta di toccarmi,» gli intimò Auron.

Alan obbedì con un ghigno. «L’iniziazione alla Necropotenza… dal tuo sguardo pare che tu possa già ottenere un potere più… personale rispetto ai trucchetti che già conosci. Potresti essere una di quelle anime predisposte di cui si parla nei libri dei Guado».

«Se si riferisce al rito per cui devo uccidere il mio maestro,» lo provocò Auron, «sono più che pronto».

Alan gettò all’indietro la testa e il lampo bianco del suo sorriso sfolgorò nella stanza.

«Purtroppo per te non si tratta di questo, mio caro,» replicò. «I Guado… hanno sempre avuto un’idea più misterica dei riti d’iniziazione».

«Misterica?»

L’Inquisitore annuì e gli fece cenno di seguirlo. Auron scoccò uno sguardo a Braska, come a chiedergli il permesso, e lo trovò impassibile come una statua.

«Ma sì, Auron, vai,» rispose al posto suo Jecht. Si era seduto a terra in modo scomposto e assisteva alla scena con sguardo vivido. «Possiamo solo stare qua a guardarci negli occhi mentre aspettiamo, e gli occhi di quello là non si vedono. Se uno di noi può trarre vantaggio dalla sua compagnia, ben venga».

Alan gli rivolse un sorriso che riconosceva la sua esistenza al mondo, poi posò una mano sul braccio di Auron. Il monaco rabbrividì, riconoscendo che quel tocco era nefasto e disgustoso. Il tocco di un uomo devoto alla sola violenza. 

Si chiese se la Necropotenza avrebbe trasformato anche lui in quel modo.

«Ora ti condurrò in un punto silenzioso dove ti chiuderai in meditazione, dopo aver ingerito queste erbe,» cominciò a spiegargli, mentre gli porgeva un sacchetto.

Auron lo afferrò. Sembrava contenere una polvere.

«Cosa mi assicura che lei non voglia avvelenarmi?» chiese.

«Il fatto che io non sia così stupido da ammazzare l’allievo che ho istruito per mesi».

Le labbra di Auron, spinte verso l’alto, si arricciarono in un sarcasmo che tentava di vincere il timore. 

«Ha altre indicazioni?»

Gli occhi del monaco scivolarono sulla veste talare di Alan. Troppo forte per essere sconfitto. Avrebbe davvero potuto avere una qualche possibilità contro di lui, se avesse completato l’iniziazione? Sarebbe stata sufficiente? Oppure avrebbe solo frantumato la sua anima?

Si ricordò di quello che aveva fatto con Jecht e si rese conto che la sua anima, in ogni caso, non sarebbe stata più gradita a Yevon. 

«Cerca di mantenere la consapevolezza che si tratta di un’illusione,» gli consigliò Alan. «E tieni a mente che il tuo animo, per essere iniziato, deve superare la sua più grande paura». Si interruppe e si osservò le dita sottili, coperte dai guanti. «Piuttosto cliché, me ne rendo conto. Non l’ho decisa io, l’iniziazione alla Necropotenza. Sono sicuro che avrei pensato a qualcosa di molto più interessante».

«Non ne dubito».

«Oh, potrebbe essere ancora più banale. Potresti scoprire che la tua più grande paura è il cattivo della storia che ti minaccia mentre morde una mela. Quello sì che sarebbe già visto».

Auron lo ignorò. 

«E dopo questa iniziazione, mi assicura che non avrò più nessun legame con lei?» ci tenne a sincerarsi.

«Sarai libero». Alan alzò le spalle. «Considera che l’ho detto a pochi».

«Il mio nome non sarà mai associato al suo?»

«In nessun modo». L’Inquisitore si interruppe per un istante, poi con espressione divertita aggiunse: «Vedila così, Auron: dopo questo rito, potrai senza remore provare a sottoporti a quello in cui uccidi il tuo maestro».

Il Guardiano strinse i denti. Alan era l’unico pilastro che impediva che le ossa della Chiesa, marce di Non-morte, si sgretolassero.

«Volentieri,» rispose.

 

 

Auron si era aspettato che la miscela d’erbe lo accompagnasse a vedere l’Oltremondo, che i lunioli cantassero la nenia consolatoria della Necropotenza, per portare il suo animo a intuire parte di una verità troppo grande per lui.

Invece si trovava in una stanza dalle pareti rosse, intima, quasi deludente. Il giudice Alan era appoggiato coi gomiti su uno scrittoio, gli occhi che guardavano fuori dalla piccola finestra, socchiusi per la luce. Auron seguì la curva della sua schiena seminuda, priva di quei paramenti ingombranti che lo facevano sembrare una statua, fino ad arrivare alla falena sulla scapola. In quella posizione, con addosso gli abiti da cerimonia che Auron stesso gli aveva fatto indossare – di cui era arrivato a conoscere ogni laccio e ogni occhiello – sembrava banalmente umano, tanto quanto una pianta carnivora somiglia a un riparo per l’insetto che vi si posa.

Un riparo, o qualcosa di cui nutrirsi.

«Sai…» cominciò a dire l’Inquisitore, senza voltarsi. La sua mano sinistra sganciò il velo dal cerchio di bronzo che gli cingeva il capo, mentre la destra reggeva una mela, che lui stava guardando come se fosse sul punto di interrogare. «A cosa sto pensando, mio caro?»

Il Templare deglutì e sentì un gambo di rosa premere contro la laringe. Abbassò lo sguardo a terra, dove il velo che Alan si era tolto veniva trascinato da un vento d’Oltremondo. 

«No…» disse a fatica. Come avrebbe dovuto chiamarlo? Maestro Inquisitore? Grande Maestro? «Mio signore».

Il rumore dei suoi denti che mordevano la mela risuonò troppo forte nella stanza. Gli arti di Auron si paralizzarono dal terrore quando dei lunioli, generati dall’etere stesso, presero a volteggiare davanti a lui.

La voce bassa di Alan arrivò prima che la sua immagine comparisse alla distanza di un palmo dal giovane.

«La tracotanza…» mormorò, «è un peccato interessante. Forse è proprio ciò che definisce l’uomo. Cosa ne pensi?»

Auron provò a parlare, ma le dita fredde dell’Inquisitore gli stavano stringendo il mento e le sue labbra erano attaccate alla buccia lucida della mela. Bastò una lieve pressione sulle guance a far recepire ad Auron l’ordine di aprire la bocca. Quando lui tentò di mordere il frutto, quello si trasformò in cenere sulla sua lingua, e un soffio caldo gli sfiorò le labbra.

No.

Il giovane sgranò gli occhi. Al limite del suo campo visivo, oltre al volto di Alan, piccoli fiori rosa venivano mossi dal vento. 

No. Fermati.

Alan gli accarezzò il collo, passò il dito sul suo pomo d’Adamo e poi sotto il mento, lentamente, seguendo la stessa traccia che portò i suoi occhi celesti a fissare quelli ambrati di Auron. 

Non voglio morire!

Il ricordo di Hanna, che a quel bacio esiziale si era abbandonata, la voglia di conoscere il sapore delle sue labbra, il terrore divino con cui i lineamenti di Alan soggiogavano i mortali…

Nel momento in cui Alan appoggiò la bocca sulla sua, per trasmettergli assieme al sapore di tabacco la decisione del fato, il corpo di Auron si abbandonò, trascinato da corde d’oro verso colui che desiderava, ma non poteva, toccare. Si era chiesto più volte, morbosamente, che cosa avesse provato Hanna all’ombra di quell’albero, e lo sorprese scoprire che Alan baciava con la lingua. 

Invece di ritrarsi, Auron prese l’Inquisitore per i fianchi. Il contatto della mano su cui non indossava il guanto con la sua pelle nuda gli provocò pensieri di un tipo che solo un Maestro di Yevon poteva suscitare. Il sapore delle erbe che aveva assunto tornò prepotentemente sul suo palato, a rafforzare il desiderio di possedere l’arbitro delle vite dei cittadini di Spira. L’uomo con il potere di mandarli tutti al rogo. 

L’ansia confusa nel suo petto si trasformò in un rimescolarsi di lava che doveva calmare. Gli strinse le natiche e spinse la lingua oltre i suoi denti, eccitato nel sentire quanto fosse magro e debole rispetto a lui. Il modo fiero in cui Alan reagì poteva essere solo la dichiarazione di sfida di un uomo che l’aveva addestrato per noia, che l’aveva risparmiato per ostentare bontà d’animo, che aveva osservato tutto il suo cammino considerandolo solo un accessorio di Braska.

Le parole che Auron aveva intenzione di dirgli mentre gli tirava i capelli e lo costringeva a stare fermo erano indecenti. Ma, per poterle pronunciare, avrebbe dovuto smettere di baciarlo e dargliela vinta. Quando Alan cercò di spezzare il contatto, lui gli morse le labbra e lo costrinse a tornare al suo posto, per venire travolto da una passione violenta. La stessa che Yevon aveva maledetto scagliando saette contro coloro che gli disobbedivano. 

Quanto avrebbe voluto che quegli stessi fulmini attraversassero il ventre dell’Inquisitore, sottomesso al suo. Quanto avrebbe voluto sentirlo pregare per una pietà che non avrebbe ricevuto, mentre lui frantumava il sacro confine della differenza d’età e dei voti di purezza.

«Ti piacciono gli uomini, Auron?»

Il ragazzo ricordò ciò che aveva fatto con Jecht e spinse Alan contro il muro, bloccandolo con il proprio corpo. Gli passò le mani sull’addome, sul bordo dell’armatura di cuoio, poi si staccò di poco dalle sue labbra bagnate di saliva.

«Se lo toglie lei, quel completino, o devo spogliarla io?»

Una domanda di cui non aspettò la risposta prima di riprendere a baciarlo. Gli girava la testa. Sentì il sorriso di scherno di Alan, le perle del suo rosario premute contro la gola, e fece scivolare le dita dalla sua spina dorsale fin sotto la cintura per toccarlo ancora.

«Spogliami. Direi che sai come fare». Il giudice approfittò di un istante in cui Auron stava riprendendo fiato per iniziare un bacio di cui poteva tenere le redini. «E sai anche cosa fare a me… oh, Auron,» sussurrò con gli occhi socchiusi, mentre il ragazzo gli passava la lingua sul collo e tentava di slacciargli alla cieca il corpetto. La sua voce, da languida e sensuale, tornò fredda all’improvviso. 

Tornò reale.

«È me che vuoi, o quello che rappresento?»

Il monaco ignorò il presentimento che gli era nato nel petto, lo prese per la nuca e lo costrinse a guardarlo. 

«Glielo dico dopo,» replicò, la voce soffocata dalle loro labbra che si incontravano di nuovo. Tuttavia, Alan riuscì a scostarsi e a interromperlo, interponendo una mano tra i loro visi.

«Troppo facile così, mio caro».

Auron annaspò e spalancò gli occhi. Era disteso a letto, e il sudore gli bagnava i capelli e il retro del collo. Strinse i denti nel tentativo di controllare il proprio corpo, legato da briglie più forti di quelle dell'ebbrezza, ma non riusciva nemmeno a calmare il moto del petto che s'alzava e s'abbassava. Poteva solo voltare il capo, inerme. 

Cercò di non sprofondare ancora. 

Sentì le gambe di Alan che si stringevano alla sua vita, forse col desiderio di ucciderlo, e cercò di nuovo la sua lingua dopo averlo spinto a distendersi di lato. Imprecò tra i denti e riuscì a sciogliere l'ultimo laccio della sua armatura di cuoio. Lo vide giacere a torso nudo a fianco a sé, senza nemmeno una cicatrice sulla pelle ambrata, come se anche la morte, nei momenti in cui combatteva, lo considerasse troppo sacrilego per essere toccato. Delle lanterne appese sopra il letto diffondevano una luce morbida, a cui si mescolavano le ombre sulla sua schiena.

Auron lo prese per i fianchi e lo portò senza alcuno sforzo a cavalcioni sul proprio bacino. Dopo aver considerato brevemente la possibilità di prenderlo da dietro, decise che voleva guardarlo negli occhi, nonostante si dispiacesse di non poter vedere i suoi tatuaggi mentre si univa a lui. Con quel pensiero, le sue mani sfiorarono le scapole di Alan, per poi stringerlo con più vigore.

Resistigli. 

Con un sorriso di superiorità, il giudice gli prese i polsi e li bloccò sul materasso, come a volergli mostrare che, per quanto potesse addestrarsi, non avrebbe mai raggiunto il suo livello. Quando tentò di muovere le braccia, Auron si accorse con orrore che non riusciva a farlo. Qualcosa di strisciante e sgradevole gli aveva bloccato i polsi alla testiera del letto.

Chiuse gli occhi e il buio venne bruciato dall’immagine di un laccio d’oro.

Li riaprì, e notò che l’Inquisitore era sopra di lui. Si accorse di aver stretto i pugni, nell’impossibilità di afferrargli le cosce sottili. Osservò il modo in cui la schiena di Alan si inarcò e le sue labbra si schiusero nel venire penetrato.

«Ah, Auron…» 

È solo la sua ombra. Resistigli.

Con un gemito mal trattenuto, il monaco spinse il bacino con violenza in avanti, e vide gli addominali di Alan contrarsi.

«Stia zitto,» gli intimò. Il suo corpo, la sua voce, erano così seducenti che Auron dovette fare appiglio a tutta la sua forza di volontà per non cominciare a scalpitare come un animale. Togliergli il respiro lo avrebbe fatto tacere. 

«Oh, sì, Auron, continua a darmi del lei…»

Non ce la faccio… ti prego.

Avrebbe dovuto implorarlo, umiliarsi e chiedergli di concedersi. Umiliarsi, ancora e ancora. Quando pensava di essere lui a possederlo.

«Silenzio».

«Non hai altro da dirmi?» rispose Alan con una risata lieve, mentre si muoveva lentamente. Con gli occhi socchiusi, passò le dita sul petto nudo di Auron. «Se vuoi ti dico qualcosa io…»

Si interruppe per spingersi ancora contro il monaco e, senza un lamento, si morse le labbra. Solo il fruscio che proveniva dal pavimento riuscì a distrarre Auron dal modo in cui il pomo d’Adamo scendeva sul suo collo piegato all’indietro. Staccò gli occhi da lui e, nel baluginio delle lanterne, scorse dei serpenti dalle scaglie d’oro strisciare a terra.

«A–»

«Ssh,» lo bloccò Alan, l’indice posato sul suo labbro inferiore. La luce spettrale nei suoi occhi chiari stava diventando più intensa, fredda in accecante contrasto con quella che pervadeva la stanza. Cominciava a diventare un lume di follia. L’Inquisitore spinse il dito oltre i denti di Auron e lui non oppose resistenza, nemmeno quando lo sentì spostarsi sul suo inguine e ricominciare a muoversi con il ritmo della sua tortura. Non riuscì a staccare gli occhi dalle ossa sporgenti del suo bacino, dall’ombelico che si spostava quando Alan con un gemito trattenuto reagiva alle stilettate di piacere. 

Non riusciva a non desiderarlo. Non riusciva a riemergere dalla densa foschia che i riti avevano causato nella sua mente. Uno di quei serpenti stava salendo sul letto, senza che lui potesse fare niente. Auron si irrigidì quando lo sentì strisciare sulle lenzuola, terrorizzato dall’idea di sentirselo addosso. Ma salì sulla coscia di Alan e poi scomparve, confondendosi con la sua pelle liscia, trasformandosi in un tatuaggio sul suo ventre. Evrae che apriva le ali e le fauci in un momento eterno.

Auron non riusciva a smettere di volerlo, e ogni dettaglio che compariva in più in quel suo delirio confuso era un veleno che uccideva il suo spirito, per farlo diventare tutt’uno con quello di lui.

Il rosario di Alan, con l’immagine sacra dell’occhio di Yevon, gli ricadde sul viso, le mani dell’uomo si appoggiarono sulle sue spalle.

«Devi fare una cosa per me, figlio di Bevelle,» gli sussurrò in tono suadente.

No.

«S-signore…»

“Fammi cavalcare più forte”. Dimmelo. Ti prego. Ti prego, Yevon…

Le parole che uscirono dalla gola dell’Inquisitore non erano nemmeno alterate da ciò che stava accadendo. Sembrava che gli stesse parlando da un capo all’altro di un tavolo, mentre dei servitori portavano via i resti della sua ultima feral cena.

«Uccidi i preti,» gli ordinò. Come se quel pensiero lo avesse eccitato, si spinse contro ad Auron e si abbandonò finalmente a un gemito. «Eradica il Coro dal suo monte… ah, lasciami portare la legge delle bestie in questo mondo d’incubo».

No!

Auron chiuse gli occhi, con i sensi annebbiati dal piacere e la mente che stava per cedere, come un bue dal collo curvo che viene condotto all’altare dopo essersi visto ornare le corna.

«Vendicami, figlio».

 

 

«Tua figlia… è molto che non riceve tue notizie, vero?»

Braska aprì gli occhi celesti. Batté un paio di volte le palpebre, stranito dal non vedere Auron di fianco a sé. Forse avrebbe dovuto imparare a proteggersi da solo.

«Che t’importa?»

«Puoi lasciare una lettera a me, se vuoi». La luce della mattina illuminava Alan in modo crudo. L’ombra era cortissima sotto i suoi piedi, tanto da far credere che fosse anche lui un fantasma. «La farò recapitare a Bevelle».

Fu interrotto da un rumore poco distante. Auron, dopo qualche minuto di intensa meditazione, era crollato in avanti, ripiegandosi su se stesso come un foglio di carta gettato nel fuoco. Cominciò ad ansimare.

La sua laringe fischiava, i suoi respiri spezzati si rincorrevano l’un l’altro in un modo che a lui era dolorosamente familiare. L’uomo che lui stesso aveva richiesto come Guardiano in virtù del suo animo integerrimo non riusciva più a trovare un equilibrio. Non riusciva più a stare in piedi.

Jecht corse verso di lui e si chinò per recargli conforto.

La Necropotenza gli aveva frantumato le membra. Ma di certo non uno come lui, non uno disposto a sottoporsi a cosa sarebbe successo a Zanarkand, poteva rimproverarlo per la mortificazione del corpo.

«Perché all’improvviso ti interessi di mia figlia?»

È perché sto andando a? No, non poteva essere solo perché stava andando a.

Kelk Ronso, con lo sguardo fisso davanti a sé, camminò verso di loro. Reggeva degli abiti neri che aveva trovato chissà dove. “Se volete uscire assieme a me”, aveva detto Alan, “fate finta di essere tre dei miei e confondetevi tra la folla. Non posso promettervi una protezione, ma una volta arrivati al molo nessuno vi noterà più”. 

Avevano accettato senza sentire l’opinione di Auron, ma il ragazzo era ancora tra le braccia di Jecht, che tentava di calmare il suo attacco di panico. C’era troppo poco tempo. 

Si cambiarono senza vergogna nel vedere l’uno il corpo dell’altro. Auron, stordito dalle erbe e impaurito per la visione, li assecondò docilmente. Quando Braska li vide vestiti in quel modo, con lunghe tuniche senza ornamenti che li coprivano fino ai piedi, si sentì strappato via dalla realtà. Vide sotto alle palpebre il sangue versato dal Coro. Condivise il respiro spezzato di Auron. 

Quando fu il momento di separarsi, Braska prese l’avambraccio di Alan in modo solenne. C’erano il sangue e il respiro spezzato, e c’erano i due uccelli che si uccidevano nel presagio di quel giorno arido. 

«Grazie,» disse l’Invocatore, con il mento alzato. Si chiese se ringraziava un fratello o un assassino. Sospese il giudizio.

Avrebbe spedito lui la lettera per Yuna.

«“Grazie” mi sembra una parola un po’ forte, ysuna».

Braska si avvicinò ancora di più ad Alan. Posò una mano sopra le sue scapole e lo attirò a sé. Una volta che sentì il suo corpo contro il proprio, un presentimento di sciagura lo spinse a stringerlo più forte. Alan ricambiò l’abbraccio, e l’Invocatore sentì scorrere nelle sue vene il sangue di una bestia. Aveva addosso l’odore del tabacco e del metallo.

«Puoi ancora salvarti, ultima luce,» gli disse piano. Lo rivide nella mattina in cui era partito per il fronte, e aveva alzato la lancia verso il cielo. Perché non capiva che quella guerra non era più sua? «Ti prego, non cedere all’oscurità».


Jecht sentiva un profondissimo disagio nell'indossare la tunica che aveva tanto detestato per tutto quel tempo: era sempre stato dell'idea che tanti uomini che condividevano la stessa divisa e lo stesso ideale fossero potenzialmente pericolosi. Il campo da gioco, d'altronde, non era altro che un piccolo campo di battaglia in cui non moriva nessuno, ma in cui si combatteva ugualmente, con le stesse dinamiche. 

Lui stesso e molti dei suoi compagni non erano stinchi di santo, e ne era pienamente consapevole: bastava scambiare il pallone con un'arma e sarebbe stata la solita, vecchia storia. 

Luka si era come spenta dopo l'annuncio di Alan, sia nello spirito che nella pratica: la maggior parte degli addobbi a portata di mano erano stati rimossi, in modo che rimanessero solo quelli più ingombranti sui muri degli edifici. Non c'era più niente da festeggiare, nulla di cui essere lieti, non dopo la dipartita della grande speranza di Spira.

Mentre Auron appariva ancora più minaccioso vestito in quel modo, poiché il nero gli metteva in risalto le ampie spalle, Braska invece sembrava l'ombra di se stesso in senso quasi letterale: i colori vivaci della sua tunica, in qualche modo, confortavano l'umore dell'Invocatore, permettendogli di mantenere pensieri limpidi, ma quella coltre di pece annullava le sue forme e schiacciava lo spirito.

Perlomeno, Auron ne apprezzava il lato strategico: nascondersi nelle ombre della città sarebbe stato molto semplice, inoltre nessuno avrebbe importunato gli uomini dell'Inquisizione.

«Aspettare la notte è stato molto saggio,» disse Jecht per rincuorare Braska, che non aveva più detto una parola dopo aver preso commiato dal fratello.

«Orientarsi è diventato più difficile,» commentò Auron strizzando gli occhi nel buio.

Braska si rinvigorì un poco nel sentire la voce incerta del suo Guardiano, che ancora subiva gli effetti del rito: si avvicinò a lui e gli accarezzò la schiena con fare dolce. Non a caso, Jecht camminava di poco dietro il monaco per controllare i suoi movimenti.

«Hai ancora la nausea, ragazzo?» chiese l'atleta a bassa voce.

«Sto bene. Anzi, starò meglio quando avremo raggiunto il porto».

«Se non sbaglio, questa via laterale dovrebbe portare alla strada principale,» disse Braska con un filo di voce.

«E da lì, sempre dritti fino ai moli. Ah, almeno vedrò lo stadio per l'ultima volta,» commentò Jecht, per poi sospirare.

Auron sbuffò aria dal naso, infastidito, per poi riempire i polmoni ed espirare, nel tentativo di calmare il mal di testa lancinante che lo affliggeva.

«Pensi sempre a quel pallone,» disse, in tono burbero.

Jecht aggrottò le sopracciglia, ma non se la sentì di rimproverare un compagno che, sostanzialmente, aveva i postumi di una sbornia.

«Stiamo scappando nel buio come topi, come se tutto questo fosse colpa nostra, e presto quel bellissimo stadio verrà deturpato e tolto dal suo ruolo. Pensare alle proprie passioni aiuta, sai?» disse l'atleta piccato. «Dovresti provare anche tu, Auron. Hai altre passioni oltre allo smembrare mostri e farti allucinare da Alan?» 

Braska coprì una risata spontanea con la manica, mentre il monaco imprecò a bassa voce e liquidò la domanda con un gesto della mano. 

La strada principale risultava essere poco più illuminata delle viuzze che si diramavano nelle viscere di Luka, ma ciò era sufficiente per far lamentare Auron dolore alle tempie pulsanti. In giro non c'era quasi nessuno, e quei pochi che avevano ostentato un grande coraggio nel rimanere in strada dopo i fatti appena accaduti, avevano ritenuto opportuno sparire non appena i tre pellegrini erano comparsi a vista.

«Funziona,» commentò Jecht con disgusto. «Braska, tieni il capo basso. Auron, cerca di camminare dritto».

«Che fai, mi controlli?» disse Auron infastidito.

«Nelle tue condizioni? Certo che sì. Se proprio dobbiamo fare questa schifezza, facciamola bene».

Braska accolse il consiglio saggio di Jecht e tolse la mano dalla schiena del suo Guardiano più giovane, il quale trasse un profondo respiro e prese a camminare con fare deciso e decisamente minaccioso. 

Così come apparivano, le poche persone in strada sparivano nelle case e nei vicoletti come topi sorpresi dalle luci delle torce, rendendo la città quasi spettrale: se Jecht avesse detto ad alta voce di preferire la Piana dei Lampi a quel posto, i suoi compagni gli avrebbero dato piena ragione.

Braska si torturava le maniche, il capo basso non per celare la sua identità, ma perché pesante di pensieri e dubbi, turbolenti come la tempesta.

«Se incontriamo altri uomini di Alan, che facciamo? Suppongo che stiano prendendo ordini, ma potrebbero pattugliare i moli,» chiese Braska preoccupato, quasi distratto dalla sua stessa voce.

Auron non capì bene il timore del suo Invocatore, e si girò a guardare Jecht con un occhio mezzo chiuso dal dolore. L'atleta si grattò la barba prima di rispondere.

«Non facciamo niente, Braska. Siamo anche noi uomini di Alan, almeno finché rimaniamo qui».

l'Invocatore drizzò la testa come se si fosse destato da un sogno, tornando concentrato sul loro obiettivo e sui movimenti da compiere da lì in poi.

«Me ne sono completamente dimenticato, scusatemi. Sono più le volte che scappiamo da loro, ormai mi sono abituato,» disse Braska massaggiandosi le guance con fare stanco.

«Se io non avessi la testa in fiamme a ricordarmi costantemente cosa è successo, sarei caduto nello stesso tranello, signore,» lo rassicurò Auron.

I tre camminarono in silenzio, costeggiando la strada grande sulla destra, guidati solo dal riflesso della luna sul mare alla fine del percorso. Il grande stadio di Blitzball li osservò arrivare ai moli e controllare i dintorni con molta attenzione prima di incamminarsi sulle assi di legno. 

Molte delle navi che erano presenti quella stessa mattina se ne erano andate, probabilmente trasportando i numerosi turisti che avevano pensato di levare le tende dopo l’accaduto. Solo i piccoli pescherecci dei residenti di Luka erano rimasti attraccati. Ospitavano pochi pescatori, intenti a mettere in sicurezza i loro averi prima di rifugiarsi nelle loro case.

Jecht posò gli occhi su un giovane che, assieme a un uomo anziano che forse avrebbe potuto essere suo padre, stava sistemando la rete sul ponte. Fece cenno ai suoi compagni di rimanere in disparte e si avvicinò alla nave con le mani dietro la schiena e un largo sorriso.

«Buonasera! Faticate anche a quest'ora?» domandò, con fare amichevole.

I due drizzarono la schiena prima di rivolgere lo sguardo verso l'atleta, e il vecchio in particolare non era molto in vena di sorrisi.

Il figlio, un ragazzo dalle braccia possenti, mostrò un temperamento irruente e poco incline alle chiacchiere.

«Vi serve qualcosa?» disse quello con tono scocciato. 

«A dir la verità sì! Stiamo cercando un passaggio,» rispose Jecht sorridendo in modo cortese.

«Un passaggio a quest'ora? Eh! Non saprei, giovanotto. Chi siete, innanzitutto?» chiese il vecchio sedendosi accanto alla rete.

«Noi tre siamo uomini di chiesa».  

«Ah! Siete dei preti, quindi?» chiese il vecchio interessato.

«Sí, è così! Vedete, il nostro fratello laggiù non gode di buona salute. Non può viaggiare fino a Kilika in quelle condizioni».

«Kilika? Per andarci serve il traghetto. Partono di mattina, non di certo a quest'ora,» rispose il ragazzo con fare aggressivo.

Jecht si grattò la barba e annuì, per poi dare un'occhiata ai suoi compagni, dietro di lui.

«Non abbiamo un posto in cui andare per passare la notte. Siamo venuti qui per unirci ai nostri fratelli in preghiera, ma ora che il Grande Maestro ci ha lasciati, la città è diventata cupa e sospettosa degli stranieri,» disse l'atleta fingendo tristezza. «Sareste così gentili da aiutare dei poveri tre uomini di chiesa? Non chiediamo molto, possiamo dormire anche sulla barca. Yevon premia coloro che sono generosi».

Il ragazzo fece per controbattere, ma il vecchio gli afferrò il braccio e gli intimò di restare in silenzio. Auron, che osservava tutto da debita distanza, rimase molto colpito dall'astuzia di Jecht: la gentilezza è un'arma molto sottovalutata, ma il compagno aveva saputo usarla puntando anche sulla fede.

«Figlio, suvvia! Non si nega l'aiuto a chi ne ha bisogno. Non c'è pericolo: dove vuoi che vadano con la nostra barca?»

Il ragazzo sospirò e acconsentì, non senza aver rifilato un'occhiata di fuoco a Jecht.

I tre pellegrini ringraziarono ed eseguirono il saluto yevonita, mentre i due si congedarono in fretta, sparendo nel buio della notte diretti verso la loro casa.

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Capitolo 55
*** Viva il re! ***


CAPITOLO 38: VIVA IL RE!

 

 

 

La superficie calma del mare rifletteva le luci di Luka in modo ipnotico, sfumando il confine tra acqua e cielo e dando l’impressione di venire inghiottiti dal mondo.

Jecht amava profondamente le sensazioni che una tale vista gli scatenava sottopelle: le sue azioni, la sua stessa persona erano insignificanti dinanzi a quel vuoto che tutto avvolgeva, e questo gli donava un sollievo che non avrebbe saputo nemmeno spiegare. Aveva aspettato che Braska e Auron si coricassero, per poi uscire sul ponte del peschereccio per godersi lo spettacolo.

Certe sensazioni le provava solo di notte. L’atleta respirò a pieni polmoni l’aria salmastra per calmare l’ansia accumulata e stiracchiò le gambe. Si sentiva stanco, molto stanco. Accusò il bruciore dei muscoli e, dopo tanto tempo, si chiese perché darsi pena in tal modo.

Lui era uno straniero in quella terra, e il fatto che il giudice Alan – uomo odioso, certo, ma pur sempre fuori dalla sua vita – si fosse proclamato capo dei capi non avrebbe dovuto angosciarlo. Una volta tornato alla sua Zanarkand, tutto quel dolore e tutte quelle ingiustizie sarebbero spariti per sempre.

Eppure, stava imparando a conoscere e a voler bene a quella Spira che uccideva, al suo popolo così spaventato dalla distruzione perpetrata dalla balena e dal fuoco delle pire di Alan, e a quell’anima pia di Braska che voleva portare un po' di serenità. Soprattutto, stava imparando come legarsi a quel giovane monaco che si faceva del male, maledicendosi ogni giorno per qualcosa che non aveva potuto scegliere; che nessuno di loro aveva potuto scegliere.

Avrebbe dovuto immischiarsi così tanto nelle loro faccende? Ormai ne era immerso fino alle caviglie, impossibile tornare indietro. Dopotutto, poco importava come sarebbe finita quella storia: in un modo o nell’altro, strappato da Zanarkand o riaccolto tra le sue braccia, avrebbe comunque sofferto, per la sua città perduta o per le persone che avrebbe lasciato da quella parte del mondo.

Il desiderio di bere un bicchierino si fece preponderante nella sua mente: non c’era modo migliore dell’alcool per annegare i pensieri, anche perché i passi pesanti di Auron che saliva verso il ponte erano il preludio di qualche discussione che Jecht non era affatto sicuro di poter sostenere. 

Il monaco, una volta all’aria aperta, si guardò intorno con gli occhi socchiusi e l'espressione di chi ne aveva avuto abbastanza per quel giorno.

«Che diavolo fai qui fuori?» disse Auron a denti stretti.

Jecht si sistemò in modo più composto sul legno sporco di quella bagnarola, cercando anche di sorridere, ma il compagno sembrava davvero infastidito.

«Avevo bisogno di prendere un po’ d’aria. Mi cercavi?»

«Non avrei avuto bisogno di farlo se tu fossi tornato per tempo! Ti ho sentito uscire, ma non rientravi più,» rispose acido il giovane Guardiano. «Se tu fossi caduto in acqua, ti avrei lasciato lì a mollo! Che stai facendo? Fissi il mare come una donzella pensierosa?»

Jecht rimase pietrificato da tanta aggressività. Era stata senz’altro una giornata faticosa, e quella specie di rito che aveva eseguito lo aveva scosso nel profondo, ma ciò non giustificava lo scherno gratuito. L’atleta lo guardò torvo prima di rispondere.

«Sai benissimo quanto io ami il mare, Auron. E sai benissimo anche che nuoto agilmente. Che ti prende?» disse, cercando di mantenere un tono meno irritato possibile.

Il monaco si diresse verso il compagno, cercando una sigaretta da accendere nel pacchetto che aveva esaurito ore prima.

«Mi prende che tu te ne vai sempre a zonzo senza avvertire nessuno. Hai dimenticato che la città è in fermento? Ci sono persone che non si farebbero problemi a ucciderci».

«No, non l’ho dimenticato. Sei venuto qui come una furia solo per questo?»

Auron portò d’istinto il medio e l’indice alla bocca, seguendo un binario immaginario dettato unicamente dalla sua cattiva abitudine, ma quando si rese conto di non avere la sigaretta tra le labbra preferì grattarsi il mento indispettito.

«Torna giù con me,» si limitò a intimargli.

Jecht si alzò in piedi ma, contrariamente a quanto ordinato, restò piantato al suo posto e incrociò le braccia, mostrando il solito sorrisetto beffardo che faceva tanto infuriare il compagno.

«Se lo chiedi a me, tu senti la mia mancanza e mi vuoi vicino,» disse, sprezzante del pericolo.

«Fottiti».

Auron si avvicinò aggressivo verso il compagno che alzò le braccia in segno di resa, lo afferrò dietro la nuca e lo attirò a sé, in un bacio famelico che prometteva di divorare Jecht se solo si fosse opposto. L'atleta non ebbe niente da obiettare, rispondendo alla richiesta di Auron con altrettanta foga. 

Non sentire la pelle calda di Jecht sotto le dita diede una strana sensazione al monaco, come se quella leggera tunica nera che entrambi indossavano fosse un muro tra lui e l’amante. Per un breve momento, si fece largo nella sua mente l’idea allettante di strappargliela di dosso, e i baci di fuoco dell'atleta non facevano che invogliarlo sempre di più, ma l’immagine improvvisa della visione rituale di quella mattina lo fece desistere. 

Auron, in cuor suo, sperava che con Jecht sarebbe stato diverso rispetto alla delirante passione che lo aveva colto con l’illusione che Alan aveva creato del proprio stesso corpo: non un’unione carnale animalesca, ma un piacere intenso e gentile che non lo terrorizzasse.

Jecht, dal canto suo, ogni volta faceva fatica a realizzare di aver raggiunto quel ragazzo così severo e infelice, di potergli donare un po' di quell’amore che quelli sui pulpiti predicavano tanto, ma che gli impedivano di esprimere.

Quando Auron si staccò dalle sue labbra per riprendere fiato, Jecht lo riavvicinò a sé per lasciargli altri due baci delicatissimi sul lato della bocca, accarezzargli il volto e sorridere. 

«Ti va se rimaniamo qui ancora un po’? Chissà quando ci ricapita di stare così tranquilli,» disse, prendendo una mano di Auron tra le sue.

Il monaco distolse gli occhi dai suoi; soffiò l’aria fuori dal naso e si guardò intorno: quando si rese conto che loro erano le uniche anime presenti nel porto, accettò di buon grado. Si fece guidare da Jecht verso il bordo del ponte, dove si sedettero l’uno accanto all'altro ad ascoltare le onde del mare che andavano e venivano.

L’atleta allungò il braccio per stringere il compagno a sé, ma Auron lo fermò con un gesto: si portò le mani ai capelli, cercando il nastro d’oro che li teneva legati, lo sciolse e si massaggiò lo scalpo tenuto in tensione per tutta la giornata.

Jecht rimase in religioso silenzio: non gli capitava spesso di ammirare quel piccolo gesto così intimo, che tuttavia nascondeva una bellezza divina che solo lui coglieva. Quando Auron notò che il compagno aveva abbassato lo sguardo sorridendo, sentì un calore nel petto che gli concesse di esprimersi senza provare vergogna.

«Non permetto a nessuno di toccarmi i capelli, ma vorrei che tu lo facessi. Ora come ora, ho bisogno di rilassarmi».

«Già, si vede eh,» rispose Jecht con tono scherzoso. «Quando hai finito le sigarette?»

«Poco dopo il rituale. Ero nervoso».

«Oh».

Senza dire altro, il monaco si fece stringere dall’abbraccio di Jecht e appoggiò la testa sulla sua spalla. Rimasero in silenzio per qualche minuto, godendosi il calore dei propri corpi e i gesti affettuosi che si scambiavano, almeno per quella volta, senza pensare ad altro: le carezze di Jecht tra i capelli di seta del compagno, e i baci dolci di Auron tra collo e spalla dell’atleta.

«Ci credi che domani lasciamo questo posto? Mi ero quasi dimenticato che siamo in Pellegrinaggio,» disse Jecht sorridendo appena.

«Hai ragione. Siamo rimasti invischiati nelle trame di Alan per troppo tempo,» rispose Auron dopo aver respirato a fondo per calmare l'ansia.

Jecht lasciò un bacio delicato sulla testa del monaco, sperando che quel piccolo gesto d’amore rendesse i suoi pensieri meno amari.

«Più andiamo avanti, più si avvicina il momento in cui Braska dovrà lasciarci…» disse l’atleta in un sussurro.

Auron rimase in silenzio e si strinse al compagno.

«Non c'è proprio modo di salvarlo?» stava dicendo lui, quasi a se stesso. «Cosa deve fare, esattamente?»

Il monaco scosse la testa, più amareggiato di quanto volesse dare a vedere.

«Le scritture dicono che l’Invocatore deve donare la propria vita, ma nessuno sa come, poiché tutto avviene nel ventre del più sacro tra i templi. Nessuno è mai tornato indietro per raccontarlo».

«Nessuno? E i Guardiani?» chiese Jecht sconvolto.

«Nemmeno loro sono mai tornati».

«E tu hai accettato di diventare un Guardiano pur sapendo questa cosa?»

«Sì. È un grande onore proteggere un Invocatore nel suo sacro compito».

Jecht si irrigidì nell'apprendere l’ennesima crudele punizione per gli uomini che volevano fare un po' di bene nel mondo. Auron, che aveva l’orecchio appoggiato sulla spalla del compagno, sentì i suoi battiti sussultare e si girò appena per vederlo in volto.

«Perché hai paura proprio ora? Avevi già accettato la fine di Braska,» chiese il monaco con durezza.

«È stato tremendo, infatti. Ma non voglio perdere anche te,» rispose Jecht con voce preoccupata.

«Sono pronto a fare il mio dovere, in ogni caso».

Jecht scosse la testa, cercando soluzioni che non poteva trovare seduto su un peschereccio in mezzo al mare.

«Stavolta i Guardiani sono due. Forse cambierà qualcosa, forse si potrà…»

Auron si mise seduto composto staccandosi dal compagno, drizzando la schiena e rilassando le spalle intorpidite.

«Può darsi, o forse no. La nostra meta sono le rovine di Zanarkand. Cosa faresti se tutti quanti fossimo nel torto sul posto da cui vieni, e quella fosse la tua unica occasione per tornare a casa? Rinunceresti alla tua terra per salvare noi?»

Jecht abbassò lo sguardo, stropicciandosi le dita delle mani in preda all'agitazione e al terrore di trovarsi davanti uno scenario del genere.

«Nel torto…» ripeté, scuotendo la testa. «Che cosa sarebbe, che un’isola intera si è sognata che Zanarkand è caduta? Oh, no, è molto probabile che sia stato io a sognare… ad ogni modo, ho fatto la mia scelta tempo fa, mentre eravamo in viaggio,» confessò.

«Davvero?» chiese Auron stupito. Jecht annuì.

«Se mai tornerò indietro, lascerò mia moglie. Non sono un buon marito, e lei merita di essere felice,» iniziò Jecht, quasi tremante, «mio figlio mi conosce appena, e ho la netta impressione che mi odi». Fece una pausa, al termine della quale aggiunse:  «Giustamente. Se tornerò, mi impegnerò ad essere un buon padre, ma anche se non lo facessi, per lui non cambia niente: non c’ero prima, non ci sarò dopo».

Il monaco gli indirizzò uno sguardo truce, mosso da un fervore che faceva fatica a trattenere.

«Stai dicendo che tornare a Zanarkand o meno non cambierà le cose. Cambieranno solo per te». 

Scosse la testa, profondamente infastidito dalle parole del compagno che parlava dell'argomento con tanta leggerezza, come se la sua vita passata non avesse avuto valore.

«Stai solo cercando scuse, come al solito. È tuo dovere tornare a Zanarkand. E invece commenti il mio di dovere, proteggere Braska. Quella di cui parli da mesi a vuoto è la tua terra, e per il tuo cumulo di rovine hai delle responsabilità da affrontare,» disse il monaco a denti stretti. «Dici che non cambierebbe niente? Come puoi saperlo?»

«Non sono scuse! Penso sia la cosa migliore da fare!» replicò piccato Jecht. «E tanto a casa non ci torno, perché,» si lanciò in un’indispettita imitazione della voce di Auron, «non esiste più da mille anni».

Si alzò e diede le spalle all’altro Guardiano, cercando di non pensare a come, per di più, lo avesse usato per ricevere qualche bacio e carezza che lo confortasse nella notte fredda.

«Vuoi lasciare tua moglie per il suo bene, o per il tuo?» lo raggiunse però la voce del monaco. «Che ti odi o meno, hai un figlio da crescere, o almeno così dici. Non puoi trattarlo come un servo di cui ti sei stufato, così come non puoi abbandonare la patria per una causa che non è tua. E mai lo sarà».

L’atleta si mise le mani sul volto, e trasse un profondo respiro per tenere insieme i pezzi della sua convinzione. Aveva finalmente trovato un po' di pace in quelle considerazioni su cui aveva riflettuto così a lungo: non avrebbe permesso che Auron le distruggesse.

«Sentiamo, allora, che dovrei fare?» sbottò. Quando vide Auron, forse non abituato a sentirsi rispondere in quel modo, fermarsi e sgranare gli occhi d’ambra, decise di rincarare la dose: «Oh, forse potrei ragionare meglio se non avessi uno che mi infila la lingua in bocca appena può, non ti pare?»

Auron strinse i denti e si alzò di scatto, rapito dalla stessa furia che gli consentiva di affrontare con coraggio quelli tra i mostri che erano temibilissimi.

«Come osi?» 

Jecht incrociò le braccia, pronto a colpire il punto più doloroso del compagno: era un colpo basso e ne era consapevole, ma il monaco aveva già colpito il suo.

«Oso eccome! Ti sei eretto a paladino della morale, quando tu fai lo stesso! Ti piace mettermi le mani addosso quando non ce la fai più a trattenerti, vero?»

Il monaco sembrava sul punto di caricarlo a testa bassa, ma rimase talmente spiazzato da quella verità scomoda che non riuscì a formulare una frase di senso compiuto, nemmeno nei pensieri. 

Jecht, pur resosi conto di ciò che aveva fatto, non ne aveva avuto comunque abbastanza.

«Dici che scappo dalle mie responsabilità, giusto? Beh, caro mio, tu scappi da te stesso da una vita! E fidati, sono un grande esperto della materia».

L’atleta camminò indispettito verso la sottocoperta, accompagnato dallo sguardo inferocito del compagno domato con redini violente.

«Pensa se qualcuno ti amasse, Auron. Renderesti la vita infernale a quel povero disgraziato,» continuò Jecht senza nemmeno voltarsi.

Mentre si immergeva nell'oscurità, il piacere che l’atleta aveva provato nel farsi un po' di giustizia, lasciò subito il posto all’amarezza del dubbio che, alla fine, non era cambiato niente; che forse era rimasto il solito, vecchio bastardo di sempre.

 

 

Lo stadio di Blitzball, che avrebbe potuto risultare l’ennesima congerie multiculturale di Luka, o l’ennesimo sforzo di affermare una stolida modernità che altro non era che un opporsi a tutto, aveva invece preservato una sua armonia. Aveva finito per costituire un guscio quasi confortante per Alan, ritrovatosi a legiferare in terra straniera. Ognuno dei cinque bracci bianchi che, a raggiera, si dipartivano dall’emisfera centrale ospitava un braciere che ardeva di un colore diverso. Viola il potassio, blu il rame, verde lo zinco, giallo il sodio e bianco l’antimonio. Erano gli stessi colori delle sfere dei templi, e avevano instillato in Alan un sentimento di tranquillizzante familiarità.

Meno rincuorante era invece stato il momento in cui dei pescatori erano entrati a testimoniare in aula con i sandali sporchi di fango, o quello in cui un’Al Bhed aveva chiesto alle guardie del tempio dove potesse sistemare le galline.

Era questo il risultato del miscuglio di due culture: un popolo che ignorava le lettere sia dell’uno sia dell’altro.

«Cid di Bikanel, figlio di Endyu,» cominciò a dire l’Inquisitore, dopo aver sciorinato a memoria la richiesta di giustizia al dio, piuttosto sicuro che non avesse significato per nessuno in quella stanza. «È qui perché imputato dei seguenti capi d’accusa, per cui la Corte ha deliberato adeguata punizione…»

Guardò di sottecchi il capo degli Al Bhed: era ammanettato, ma non provò a muovere un muscolo. Solo le sue labbra si arricciarono nell’accenno di una smorfia. Di fianco a lui, un uomo del suo popolo, i capelli biondi tagliati a spazzola e una smorfia arcigna perennemente scolpita sul viso, attendeva di essere giudicato. Era stata trovata in suo possesso un’arma compatibile con quella che aveva sparato al Grande Maestro Mika. 

Il lungo processo stava scorrendo verso la sentenza, e Alan si cruciava soprattutto per non essere stato in grado di ascrivere a Cid anche quel capo d’imputazione, l’unico che, in quel luogo, gli avrebbe permesso di decretare una condanna a morte per alto tradimento. Suonava molto bene, tanto che era davvero un peccato non poter pronunciare una sentenza così soddisfacente e piena, tuttavia confidava nel favore del libro di legge, anche se lì la giustizia non funzionava come nella splendente Bevelle.

«Lei,» Alan tossì e fu costretto a interrompersi e schiarirsi la voce. Approfittando della pausa, si guardò attorno prima di riprendere: «Lei, pilotando una macchina munita di armi proibite dalla legislazione di questa città, ha raso al suolo parti di strada e provocato ingenti danni collaterali a cose e persone, atti che rientrano nel capo d’accusa di strage. La Corte, constatata l’assenza di vittime, condanna l’imputato a quindici anni e tre mesi di reclusione». 

L’uomo accanto all’Inquisitore voltò rumorosamente la pagina del registro su cui stava redigendo l’atto e, quando sentì il peso di uno sguardo su di sé, ricominciò ad annotare le parole che venivano pronunciate. 

Alan distolse gli occhi da lui e li spostò verso le gradinate gremite, costruite in pietra grigia ornata da triangoli rovesciati, in smalto color cobalto. Accanto all’ingresso posto più in alto, vide la figura di Kelk Ronso che, dritto in piedi, reggeva un’alabarda con la destra. Pensò al momento in cui lo aveva attaccato, e immaginò i suoi grossi denti che affondavano nella carne. 

Avrebbe dovuto trovare un modo per liberarsi di lui. 

«Dopodiché, lo stesso giorno ha compiuto sequestro di persona ai danni dell’Invocatore Braska, ponendolo in condizioni di immediato pericolo di vita. La Corte condanna l’imputato a quindici anni e tre mesi di reclusione». 

Alan ricordò quel rapimento. Se la deplorevole stupidità di Cid e dei suoi non lo avesse fatto infuriare, avrebbe sorriso della loro ingenuità. Volevano sconfiggere con le macchine una Chiesa che avrebbe voltato le sue contro di loro. Un’istituzione meno antica di quello che essa stessa credeva, che poteva cedere solo se minata dai suoi stessi sacerdoti. O dalla traduzione di un verbo. 

«Ha infine attentato per due volte alla vita del Maestro di Yevon Alan, di cui la seconda previa premeditazione e con deliberata volontà di tortura aggiunta all’omicidio».

Non certo il martello di Cid avrebbe potuto far crollare le fondamenta di Yevon.

Alan raddrizzò la schiena e, sotto il velo, socchiuse gli occhi e abbassò la fronte in atteggiamento pietoso di fronte alla divinità, come gli avevano insegnato i suoi maestri nei cantilenanti inni a Yunalesca. 

«Trovato l’imputato colpevole anche di questi ultimi due reati, e considerate le perniciose aggravanti,» concluse, «la Corte condanna l’imputato a una pena complessiva di due ergastoli, trent’anni e tre mesi di reclusione. Può andare».

Non guardò nemmeno Cid che veniva portato via in silenzio, né l’uomo che ai piedi del suo palco redigeva l’atto. Si concentrò sull’imputato seguente, e dovette leggere il suo nome dal registro per ricordarlo. 

«Yusiet, figlio di Nup,» principiò. L’imputato alzò su di lui uno sguardo fiero, che subito si smorzò quando vide il proiettile di grosso calibro che il giudice teneva in verticale tra pollice e indice. «Riconosci questo?»

«Lywwu! Perché riconoscete la sua autorità? Non vedete–»

«Obiezione respinta. Si limiti a rispondere alle domande del giudice».

Alan, scostando la veste rossa che rallentava i suoi movimenti, si alzò dal suo scranno e scese dal palco per avanzare verso l’uomo che stava interrogando. 

«Ah, avrei dovuto aspettarmelo,» replicò. Come se fosse costretto a sorreggere un masso con le spalle, l’Al Bhed chinò il busto. Nel tentativo di resistere a quella forza fuori dal proprio controllo, strabuzzò gli occhi e scoprì le gengive rosse e i denti. 

Alan stava guardando il proiettile con aria preoccupata, il corpo sottile atteggiato in una posa quasi leziosa.

«Un tiratore così poco esperto da non conoscere nemmeno la propria arma,» commentò. Sollevò le sopracciglia in modo da formare delle rughe accorate sulla fronte, poi scosse la testa e fece schioccare la lingua. «Un attentato imprudente. Non si spara così. Dietro le trincee sul Gagazet, pur sotto le tempeste di neve… Io non avrei mai mancato il primo colpo, da quella distanza».

 

 

«Da dietro una porta non possiamo fare niente!» ripeté il Maestro degli Affari Militari Vigot Ronso, affondando le unghie sulla sedia di legno della Sala del Concilio. Alla dichiarazione di Alan, che si era proclamato Gran Maestro pur essendo al corrente che Mika era sopravvissuto, era stato necessario riunire in gran fretta i vertici di Yevon, all’interno di un palazzo che era solito ospitare i governanti locali di Luka. Erano rimasti in due, sotto gli occhi socchiusi di Yo Mika. «Mandate tutti gli uomini che abbiamo a fare irruzione al processo!»

«Vigot…» lo interruppe la voce strascicata del Maestro Jyscal Guado, che presiedeva ai riti dei templi. «È grande, non da sottovalutare, il consenso tra la gente…» Alzò in modo flemmatico un dito dall’unghia appuntita. «Questo, un colpo di Stato».

Il Ronso digrignò i denti e, accortosi di aver spinto in avanti il petto, tornò composto sulla sedia. 

«I miei Templari sono ben più delle sue guardie personali: è una situazione che possiamo risolvere con la forza, prima che sfugga dal nostro controllo. Gran Maestro, mi dia–»

«Rischiamo di fare un martire».

Vigot e Jyscal si voltarono verso la porta, l’uno di scatto e l’altro con una sorta di calma antica. Wen Kinoc, il secondo in comando dei Templari, entrò nel Concilio con passo marziale, per fermarsi accanto al tavolo ovale. I suoi piedi erano coperti da una tunica che dava l’impressione che fluttuasse, e le luci della stanza si riflettevano sul suo cranio rasato. Tormentò i lembi tintinnanti del paramento indaco che portava al collo e fece per dire qualcosa, quando Mika lo precedette:

«Se venisse assassinato nel suo tribunale, da uomini della Chiesa di Yevon, perderemmo un consenso già vacillante,» confermò. La voce che usciva dalla sua vecchia gola era ruvida ma strenua. 

«Intelligente ha scelto la città di Luka,» gli fece da contrappunto Jyscal, annuendo con apparente ammirazione per quello che doveva essere suo nemico. «Prendiamo nave… e ritiriamoci a Bevelle».

«Rischieremmo di non ottenere altro che la risposta violenta della gente». Il Grande Maestro fece una pausa e inarcò le sopracciglia cespugliose. «Quando verrà il momento, avrò cura di ricevere a colloquio personalmente il Maestro Inquisitore Alan, in modo tale da discutere la sua… ostinata posizione sulla dottrina del Trapasso».

Con veemenza, Vigot Ronso spinse davanti a sé una pietra nera e levigata, tra quelle che usavano per votare.   

«Che sia ucciso quell’uomo!» decretò. Ma, contro la sua, tre pietre bianche vennero spinte lungo il tavolo. 

«No, non ucciso…» ribatté Yo Mika. «Ma scomunicato. Immediatamente».  

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Capitolo 56
*** L'Alfa e l'Omega ***


CAPITOLO 39: L’ALFA E L’OMEGA

 

 

Nonostante la notte promettesse temperature gradevoli, Jecht era tormentato da brividi gelidi che gli impedivano il sonno. Raggomitolato sotto la sua coperta, strinse i denti esausto e venne a capo del fatto che no, quel freddo non veniva dal mare, ma lo aveva dentro.

Si chiese se, malauguratamente, non avesse contratto qualche malattia, ma non aveva per niente voglia di svegliare il povero Braska, che aveva un disperato bisogno di ogni ora di riposo disponibile. 

Luka dal grande stadio, il giudice Alan, tutta quella dannata faccenda in cui erano rimasti invischiati, lo avevano consumato senza pietà e senza poterci fare nulla. E poi, quasi più di tutto, c’era Auron.

Jecht drizzò la schiena a pezzi, cercando di assecondare il movimento placido della barca che, normalmente, lo avrebbe rilassato fino a farlo addormentare, ma non quella notte: come accadeva spesso, il mare era specchio dell’anima di Jecht, e come le onde si muovevano senza sosta, così facevano i suoi pensieri.

Ormai era abituato a litigare con Auron, ma quella volta era diverso: desiderava davvero tanto avere la sua approvazione, almeno per una volta, almeno per quella volta in cui si sentiva sicuro di fare la cosa giusta. 

Nonostante tutto, ne era ancora convinto. Che ne sapeva Auron, giovane monaco che non aveva mai conosciuto la vita coniugale, di come funzionavano quelle cose? Soprattutto di come funzionava la sua, di situazione? Tuttavia, rassicurarsi in quel modo non era sufficiente per allentare il nodo allo stomaco che non lo aveva mai abbandonato, nemmeno quando si trovava nella sua Zanarkand.

Quel nodo allo stomaco era un monito, un parassita che gli ricordava costantemente che c’era qualcosa che non andava, che c’era sempre qualcosa di cui preoccuparsi e pentirsi, che non andava mai bene niente.

Si era infuriato così tanto sul ponte poche ore prima, giurando a se stesso che non avrebbe permesso ad Auron di distruggere l’equilibrio che aveva costruito con tanta fatica, da non rendersi conto che lui lo aveva già fatto.

Jecht strinse la coperta tra le mani, cercando di respirare a fondo per non farsi prendere dal panico. Si era troppo abituato alle cose impossibili, pensò, come quando Auron gli aveva stretto le mani sul campo di battaglia, o quando lo aveva baciato per la prima volta: ottenere la sua approvazione e realizzare il suo sogno romantico era la più grande delle assurdità a cui puntava, quella che gli serviva di più, ma aveva confidato troppo nella fortuna.

L’atleta voltò la testa, cercando nel buio pesto il monaco che, come aveva immaginato, si era coricato il più lontano possibile da lui. Serrò la mascella, pensando che non era giusto che solo lui si tormentasse nel cuore della notte per colpa sua. Niente di ciò che stava vivendo era giusto, e sperò con tutto il cuore che anche Auron vivesse un po' della sua agonia.

Resosi conto che, probabilmente, era in preda a qualche delirio dovuto alla stanchezza, cercò di applicare le tecniche di respirazione che aveva imparato per calmare i nervi e fare apnee più lunghe in partita, cosa che gli riuscì solo in parte. 

Richiuse gli occhi pregando di dormire ma, delirio o meno, doveva prendere atto di un dolore concreto che lo aveva raggiunto: dopo molto tempo che non accadeva, Jecht si sentì di nuovo solo e perso in un mare che non lo riconosceva e non lo voleva.

La notte passò con una lentezza insopportabile, e la preghiera mossa da Jecht non fu esaudita. Inchiodato in uno stato di dormiveglia costante, la sua mente fu pervasa da sogni lucidi strani e inquietanti, dove era incerto se fosse cosciente o meno. 

Più esausto della sera prima, vedendo la luce del sole filtrare dalle finestrelle sporche di quella bagnarola, Jecht rinunciò definitivamente all’idea di riposarsi e decise di alzarsi. 

Si avvicinò a Braska e lo svegliò con carezze gentili, mentre Auron lo chiamò con voce volutamente sgraziata. Quando vide la faccia devastata del monaco, probabilmente reduce anche lui dalla notte insonne, si sentì un poco più allegro.

L’Invocatore sbadigliò sonoramente e si mise in piedi a fatica, non abituato a risvegliarsi accompagnato dalle onde del mare. Jecht si offrì come appoggio, e gli diede una pacca sulla spalla amichevole.

«Se troveremo l’occasione, ci riposiamo sul traghetto, che ne dici?» propose l’atleta abbozzando un sorriso stanco.

«Ah, ci puoi giurare…»

Auron non disse una parola e si preparò in fretta, uscendo dalla sottocoperta molti minuti prima dei compagni per fumare una sigaretta che non c’era. Quando furono tutti e tre sul molo, sotto la luce del sole, Jecht sentì l’istinto bruciante di tuffarsi e farsi una sana nuotata, ma il traghetto era già in vista.

Braska usava lo scettro per aiutarsi a tenersi dritto, cosa che non sfuggì agli occhi del monaco.

«Signore, tutto bene?»

L’Invocatore si portò la mano libera alla schiena e si stiracchiò, facendosi sfuggire una smorfia di dolore.

«Quella barchetta non è proprio adatta per dormirci dentro,» rispose, cercando di sdrammatizzare. «D’altronde, o quella o la strada, giusto?»

Auron annuì sospirando, poi iniziò ad incamminarsi senza fretta, accusando a sua volta la fatica. Jecht fece lo stesso, ma avvertì qualcosa di strano: si guardò intorno volgendo lo sguardo al porto, al mare, alla città, respirando il profumo di salsedine e portandosi dentro l’ormai familiare ansia che gli mordeva la bocca dello stomaco, con in lontananza il suono acuto del traghetto che annunciava il suo arrivo.

Si fermò qualche istante per capire cosa stesse succedendo, ed era come se si fosse fermato il mondo.

«Jecht? Tutto bene?» chiese Braska preoccupato.

L’atleta fece per dire qualcosa, ma non fece altro che rimanere a bocca aperta, indeciso su come esprimersi. Auron si girò a guardarlo infastidito, pronto a sorbirsi l’ennesima lagna.

«Ho già visto questa scena,» disse l’atleta, confuso. «Ti è mai capitato, Braska?»

«Qualche volta. È una sensazione davvero strana, sì. Cosa hai ricordato?»

«Come sono finito qui, su Spira».

Il monaco non si aspettava una risposta del genere proprio in quel momento e, incuriosito, si avvicinò ai compagni per ascoltare meglio.

«È praticamente lo stesso, identico scenario: io, sul molo di Zanarkand in una calda mattina qualunque, aspettando la nave,» disse Jecht con un filo di voce.

Rimase in silenzio per qualche secondo, ragionando su come, evidentemente, passare la notte a rimuginare sulla sua città, la sua famiglia e le sue intenzioni, avessero scatenato dei ricordi che aveva sopito da tempo.

«E dove volevi andare?» chiese Braska sinceramente curioso.

«Volevo sottopormi ad un allenamento intensivo in mare aperto. Stavo perdendo colpi in partita, e… beh, mentre viaggiavamo, la nave è stata affondata».

«Affondata? Da cosa? Se ti trovavi a Zanarkand, o così dici,» replicò Auron con scetticismo.

Jecht abbassò lo sguardo, cercando di recuperare le memorie di quel tragico evento, anche se era abbastanza certo della risposta.

«Se non avete mai sentito parlare di mostri marini che affondano le navi, direi proprio che è stato Sin».

Braska cercò Auron con gli occhi, e il giovane Guardiano gli restituì lo sguardo, ma fu lo stesso Jecht a dare voce ai loro pensieri.

«Sì, lo so. Come può Sin aver attaccato in un posto che nemmeno esiste? Non sono così sciocco da pretendere che mi crediate, non dopo tutto ciò che ho appreso qui». L’atleta incrociò le braccia, mascherando il disagio che la sua stessa affermazione gli aveva causato. «Il mio traghetto era due volte più grande di questo. Solo la maledetta balena può averlo affondato, sogno o meno».

Braska e Auron rimasero in silenzio, ma la genuina curiosità dell’Invocatore gli fece dimenticare presto il dubbio sulla veridicità delle sue parole.

«E dopo? Come sei arrivato qui?»

Jecht scosse la testa e fece spallucce.

«Il primo ricordo che ho è il mio risveglio nella prigione dove mi avete recuperato».

«Dopotutto, forse hai subito le tossine di Sin per davvero…» commentò Braska.

«Chissà. Sia come sia, vedere la nave che si avvicina mi mette ansia».

Come se non aspettasse altro, Auron sogghignò compiaciuto e si voltò verso il mezzo di trasporto.

«Se ti spaventa, puoi sempre rimanere qui e lasciarci andare».

Braska aggrottò le sopracciglia e sbuffò molto infastidito, ma stavolta notò che Jecht non l’aveva presa alla leggera come aveva imparato a fare con Auron.

L’atleta aveva infatti serrato i muscoli della mandibola e stretto gli occhi, sembrava pronto a caricare un mostro. Complici le poche ore di sonno e la ferita ancora aperta della sera prima, Jecht era arrivato ormai al limite della sua pazienza: era stanco, davvero stanco.

«Auron, girati e guardami,» disse Jecht con voce dura e ferma.

Braska, preoccupato che i due si fossero azzuffati proprio all’arrivo del traghetto, cercò di calmare il Guardiano più anziano, ma stavolta si vide messo da parte con ben poca gentilezza.

«Hai forse deciso di farti del male?» rispose il monaco con un sorriso beffardo sul volto.

«Non ho intenzione di venire alle mani con te, dannato idiota. È ora di darci un taglio, una volta per tutte».

L'atleta si avvicinò minaccioso, ma rimase comunque a distanza di sicurezza per non provocare una risposta aggressiva nell’altro. Squadrò il monaco da capo a piedi sfruttando la sua statura, incutendo un certo disagio nel compagno, che dovette per forza alzare gli occhi su di lui.

«Che vuoi?» chiese Auron senza arretrare di un millimetro.

«Le mie decisioni mi appartengono, ragazzo. Tutte quante. Quelle orribili del passato, e quelle dolorose del presente. Tu c’eri quando dicevo a mia moglie di amarla sapendo di mentire? O quando inventavo scuse per non stare con mio figlio, terrorizzato dall’idea che mi guardasse dritto negli occhi e mi dicesse che mi odiava? Tu c’eri, Auron? Hai mai vissuto queste cose?»

Jecht scandí bene parola per parola, enfatizzando soprattutto le ultime due domande retoriche. Sentiva il suo petto alzarsi e abbassarsi velocemente, ma non poteva permettersi di mostrare debolezze. 

Il monaco, dal canto suo, non mostrò mai le sue. Continuò a reggere il suo sguardo furente senza tentennare, ma l’istinto di abbassare il capo c’era, ed era forte: sentire Jecht ammettere ad alta voce il male che aveva fatto, era qualcosa di grande impatto. 

Per tutto il viaggio era stato vago sulla faccenda, dicendo che non era un buon marito e un buon padre, ma Auron era sempre stato convinto che fosse solo una mossa da vigliacchi per liberarsi delle proprie responsabilità; visto il soggetto poi, ne era praticamente certo.

«Se ci tieni tanto alle tue decisioni, perché me le hai rivelate?» 

«Quando non ti atteggi a monaco che segue rigidamente i precetti senza farsi domande, o a guerriero pronto a sacrificare la propria vita senza darle valore, sei solo un ragazzo un po’ burbero con cui mi sento bene e con cui mi confido».

Braska rimase profondamente colpito da quelle parole. Non riusciva a dar voce ai suoi pensieri, ma ben presto si rese conto che non poteva farlo. Si portò una mano al volto, iniziando a capire cosa stava avvenendo tra i due.

L’istinto alla fine prevalse: Auron serrò la mascella e abbassò il capo, conscio di aver tirato troppo la corda con il compagno. Fece per andarsene, ma Jecht lo chiamò di nuovo.

«Non ho finito,» disse l'atleta, indicando Braska. «Sai benissimo perché lui ha bisogno di entrambi. Se la presenza di due Guardiani può in qualche modo salvare Braska e te dalla morte, allora vi seguirò in capo a questo mondo del cazzo. Sono stato chiaro?»

Un moto di disperazione si fece largo nell'animo di Braska, che a stento trattenne un singhiozzo. Che lui dovesse morire era fatto noto fin dall’inizio: l’Invocatore aveva dovuto scendere a patti con se stesso e accettare il suo destino con non poche difficoltà, in quella cella claustrofobica in cui lo avevano rinchiuso per essere processato da suo fratello, sangue del suo sangue.

Il pensiero che presto avrebbe lasciato quella terra lo faceva ancora tremare, di tanto in tanto, quando non era visto dai compagni, ma riusciva sempre a ritrovare la serenità. Perfino Jecht aveva accettato la sentenza che pendeva sulla sua testa.

Tuttavia, in quel momento, Braska comprese che Jecht era venuto a conoscenza delle sorti del Guardiano, cosa fino a quel momento taciuta. Erano state formulate numerose teorie nel corso degli anni: Guardiani che non sopravvivevano al viaggio di ritorno; che, dopo la missione, si ritiravano a vita contemplativa; addirittura, c’era chi pensava che i Guardiani fossero coinvolti nel processo che portava l’Invocatore alla morte.

Auron era ben consapevole di cosa lo aspettasse, ma non Jecht. Lui voleva solo tornare a casa, nella sua strana Zanarkand, ma ora le cose erano drammaticamente cambiate: aveva imparato ad amare coloro che si sarebbero immolati e, nonostante le rivelazioni che aveva avuto, non aveva rinunciato e aveva perseverato per loro, consapevole del rischio di perdere tutto.

Perdere la sua casa e i suoi affetti, perdere un caro amico, perdere un giovane amore.

Braska chiuse gli occhi per accusare il duro colpo che stava ricevendo, per poi riaprirli a fatica e vedere Jecht e Auron che ancora si sfidavano con lo sguardo, ma il monaco aveva chiaramente rilassato l’espressione del volto.

Il pensiero di Jecht completamente solo al mondo lo faceva impazzire. L’Invocatore fece un profondo respiro, e si appuntò mentalmente di prenderlo da parte per parlargli: se davvero, davvero, Jecht si fosse trovato davanti alla scelta tra loro e Zanarkand, doveva tornare a casa, o lui non avrebbe mai potuto morire serenamente.

Quando Auron si voltò per recarsi al traghetto, Jecht mise le mani sui fianchi e respirò a pieni polmoni, soddisfatto di se stesso ma anche duramente provato. L’atleta si girò verso Braska con un gran sorriso, che si spense lentamente nel vedere il volto cupo del compagno.

«Prima o poi te lo avrei detto che lo sapevo, sai. Me lo ha detto Auron ieri sera,» tentò di giustificarsi.

Braska scosse la testa e fece un gesto con la mano, tranquillizzandolo.

«Avrei dovuto dirtelo io tempo fa. Temevo non avresti accettato di venire».

«Volevo tornare a casa, Braska. Sarei venuto in ogni caso».

L’Invocatore annuì, per poi raggiungere il compagno e avviarsi insieme verso il traghetto. Non si erano affatto accorti del capannello di persone che si era formato nell'attesa, così raggiunsero Auron e si misero in fila.

La nave, un battello che a una vela rettangolare abbinava una ruota caratteristica dei mezzi che si muovevano a vapore, aspettava placidamente i suoi ospiti sul molo.

I tre compagni di viaggio rimasero composti ad aspettare il proprio turno di imbarco, ognuno con gli occhi che vagavano sui membri dell’equipaggio, accomunati da una divisa scura sul cui bavero spiccava un rosario di perle bianche. Ognuno portato da quell’uniformità a pensare che egli non poteva essere più diverso dagli altri due; per vestiti, per colore della pelle, per animo.

La stanchezza aveva iniziato a colpirli, ma per loro fortuna riuscirono a salire in fretta e si presero dei posti a sedere sul ponte, dove Braska si accasciò quasi immediatamente. Cullati dal vento e dalle onde, i tre si assopirono senza possibilità d'appello, ridestandosi solo quando erano ormai lontani dalla costa e il sole era alto nel cielo.

Mentre Braska sonnecchiava ancora, Jecht ritenne opportuno camminare un po', nel tentativo di svegliarsi del tutto, mentre Auron socchiuse appena un occhio, incerto se riposare ancora o meno.

Infine, infastidito dalla luce, si arrese e, spingendo con entrambe le mani sulle cosce, si alzò in piedi e prese a fissare il mare. Presto tuttavia fu colto dall’inquietudine di non vedere la fine di quella distesa e preferì riportare gli occhi su Jecht che passeggiava avanti e indietro. Qualcuno gli gettava sguardi distratti, per poi tornare alle proprie occupazioni. 

Ad un tratto, il monaco notò che tutt'attorno a lui il mondo s’era fatto più buio. Alzò gli occhi al cielo, del tutto sgombro da nubi, e vide che sopra la sua testa s’era addensato uno stormo di volatili. Uno di loro, staccatosi dai suoi simili, si abbassò di quota e parve puntare verso di loro.

«Vieni,» una voce distorta proveniva dalla creatura che si era posata sulla battagliola. «Vieni».

Gli pareva di aver già visto creature come quelle, a Luka, e di aver sentito il nome Condor nelle preghiere dei marinai che lasciavano i loro ex voto a Bevelle. Era un volatile di dimensioni considerevoli, dal piumaggio bianco e azzurrino. Era avvinghiato con le zampe curve al parapetto, e nonostante Auron avesse sentito provenire dalla sua direzione un verso simile in modo inquietante a una parola umana, il suo lungo becco uncinato non s’era aperto. La sua coda, troppo corta rispetto al corpo per potergli fornire un qualche ausilio nel volo, sembrava lo scheletro atrofico di una spina dorsale. 

«Vattene, uccellaccio».

«Vieni».

Il Condor aprì le ali, reclinò all’indietro la testa e consegnò un grido sgraziato al cielo prima di alzarsi in volo. Le nuvole gravide di pioggia avevano coperto ogni lembo d’azzurro, e nel sentire il rimbombo di un tuono Auron alzò gli occhi.

L’aria tremò del ruggito della fine.

Prima ancora che la sua mente potesse reagire, il monaco mosse un passo all’indietro sul ponte, come un animale di fronte a un’eclissi. Un corpo enorme aveva coperto il Sole, un enorme ventre ricoperto da scaglie chiare che grondavano acqua salmastra. Era impossibile abbracciare per intero con lo sguardo la bestia.

«Sin!»

A quel grido, Auron portò di riflesso la mano sull’elsa. Di nuovo il suo corpo aveva reagito prima che l’intelletto potesse arrivare a sussurrargli che era inutile combattere. Che sarebbe stato meglio partire pochi attimi prima sulle ali del Condor.

Un dolore lancinante gli attraversò l’occhio destro, come se qualcuno l’avesse trapassato con un pugnale. Il monaco serrò i pugni e i denti nel tentativo di resistere, incassò la testa nelle spalle e le portò in avanti come un toro.

Le persone sulla nave gridavano e lui era costretto a rimanere immobile, schiacciato dalla forza che promanava dal corpo di Sin. Era composto da lunioli, come tutti i mostri che aveva combattuto sino a quel momento. Ma in nessuno di loro aveva mai percepito un’energia tale. Era qualcosa che si possiede solo quando si è in tanti

Davanti ai suoi occhi, ormai persi in un delirio vuoto, era apparsa una stanza dalle pareti color amaranto. Le finestre, strette e poste troppo in alto, non riuscivano a rendere l’ambiente meno soffocante. Auron osservò la schiena scoperta dell’uomo di cui era nolente discepolo, decorata da un paramento che si usava nel tempio di Macalania: una fascia terminante con due dischi di bronzo. Il suo sguardo si soffermò sulla falena sulla sua scapola, per poi percorrere la linea della spina dorsale. 

«Lei l’ha mai visto, Richter?»

Alan si voltò appena.

«Cosa?»

«Sin». 

Le spalle di Alan furono scosse dalla risata inspiegabile, troppo acuta, che gli uscì dalla bocca. Auron gli guardò i canini: ricordava che uno fosse storto, ma erano sempre stati così appuntiti?

«Alla fine hai capito che non sono io».

Il monaco aggrottò le sopracciglia, confuso. Non ebbe tempo di ribattere, o di domandare, perché un cumulo di falene brune coprì Alan, come attratto dal suo sangue. Lo consumarono, rendendolo null’altro che una voce.

«Non sono io la fine del mondo».

Sin scosse la superficie del mare con il mugghio tremendo dei suoi polmoni. Scaglie vive caddero sulla nave, alcune schiantandosi fatalmente contro la superficie del ponte, altre scagliandosi, guidate da un istinto assassino, contro l’equipaggio della nave.

Auron fu accecato dall’ira d’essere costretto a rimanere immobile e dalla luce dei lunioli emanati da Sin, che lo soverchiavano. Strinse con forza la mano guantata, nel tentativo di tornare a una realtà che non riusciva a raggiungere, ma che ricordava. Lo reclamava, eppure lui non capiva più dove fosse il cielo e dove la terra.

Distinse, immersa nel bianco della sua visione, la figura di una donna che camminava verso di lui. Dapprima fu solo un fantasma, ma poi si ammantò di una veste di seta trasparente, e furono distinguibili i suoi fianchi, le cosce tenere, i gioielli che le adornavano le bianche braccia, i capelli. Auron piantò a terra la spada e si inchinò: Yevon gli aveva inviato l’immagine di Yunalesca, sua Figlia, affinché resistesse dinanzi a Sin. Yevon lo amava ancora, pur se lui aveva tradito la propria virtù.

Yunalesca, di fronte alla sua professione di devozione, sorrise. È l’amore, sembrò dire, null’altro che l’amore, ciò che può infiammare le tenebre. È quello che provò Zaon quando visse e morì per me.

È l’amore, Padre.

 

*

 

Ixion scagliò un fulmine verticale contro il mare. Sin urlò, ferito, e si rintanò nei suoi abissi. Qualche scintilla azzurra crepitò sulla superficie dell’acqua prima di estinguersi.

Auron tornò con rabbia al mondo, e nel momento in cui la sua spada tagliò a metà una Scaglia, la nave ondeggiò paurosamente, come se all’improvviso fosse diventata leggera quanto una foglia portata da un torrente.

Al monaco saltò il cuore in gola. Si chiese dove fossero Braska e Jecht mentre nell’aria si levava una sirena, ma non poté fare altro che correre verso l’ennesimo nemico e ucciderlo con un singolo fendente.

«…amo perso il controllo d- nave,» gracchiò un altoparlante in mezzo alle urla e allo scroscio dell’acqua. «Sgo- te- er l’attracco d’emergenza».

Una Scaglia di Sin lanciò al cielo un ruggito tanto acuto da suonare quasi ridicolo.

«Ripeto: sgombrare il ponte per l’attracco d’emergenza!»

 

*

 

Sotto le nuvole livide, la sabbia assumeva un colore verdastro che la faceva sembrare travestita da erba. Un deserto travestito da pianura. Affondate tra le dune, rovine di un tempo che nessuno ricordava più offrivano un raro rifugio agli animali e agli uomini che procedevano sotto al sole. Avrebbero continuato a correre da un’oasi all’altra fino a quando il deserto non li avrebbe chiamati a sé, la loro acqua si sarebbe tramutata nella nebbia che faceva perdere i viaggiatori di notte, le loro ossa in cibo per i vermi delle sabbie. Così, com'era sempre stato, il cerchio dell’isola di Bikanel sarebbe tornato su se stesso. Gli spiriti degli uomini, quando sarebbe venuto il momento, si sarebbero staccati dall’anima di Sanubia e avrebbero ricominciato a esistere.

Eppure, quell’anima che permeava tutto stava guardando con curiosità verso la nave che aveva appena effettuato un attracco di fortuna sulla spiaggia all’estremità meridionale dell’isola. Con le grosse zampe da felino disegnate dalle nuvole, e gli occhi che erano lampi, forse si stava chiedendo cosa ne avrebbe dovuto fare di quelli che erano sbarcati, ingranaggi aggiuntivi nella sua macchina già perfetta. Avrebbe dovuto accoglierli, o restituirli al mare da cui erano venuti?

Jecht guardava il sole stagliarsi sopra le dune, i piedi appoggiati su una sabbia dura che gli scottava le piante, benché fosse abituato a girare scalzo e ormai avesse sviluppato una certa resistenza. Dava le spalle alla spiaggia su cui la nave aveva effettuato con successo un attracco di fortuna, con ancora nelle orecchie le urla dei passeggeri e dell’equipaggio che tentavano di resistere all’assalto di Sin, aggrappandosi ai parapetti con tanta forza da spezzarsi le unghie fino all’osso. Alcuni non ce l’avevano fatta.

Lui sì, a riprova che i bastardi sono duri a morire, ed era diventato un naufrago per la seconda volta.

«Jecht!»

Il richiamo di Braska lo fece voltare e correre subito verso la nave: dal tono allarmato, doveva essere successo qualcosa di molto urgente.

«Signor Invocatore», stava dicendo qualcuno, «la prego, lo aiuti!»

Attorno al timone si era radunato un capannello di persone, attraverso cui Jecht dovette farsi strada a spallate. Riconobbe all’istante Braska grazie al suo copricapo: era chino su un uomo, di cui riusciva solo a distinguere l’uniforme. Numerose macchie di sangue la coprivano all’altezza del petto.

«Cazzo».

«È il capitano,» gli spiegò Braska, con un tono non toccato dalle emozioni. Voltò con una manovra esperta il ferito, strappandogli un gemito di dolore, e lo appoggiò con la schiena contro la struttura che reggeva il timone. La vernice bianca mandò uno scintillio al sole caldo del deserto, e quello si lamentò ancora, gli occhi ridotti a due fessure, prima di muovere di poco la testa.

La sua spalla sinistra era stata trapassata da parte a parte da una rigida squama color sabbia, che pareva affilata e dura quanto una pietra. Una parte di Sin. Delle escrescenze bianche la punteggiavano qua e là, e granelli di sale si erano rappresi in mezzo al sangue del malcapitato.

«Devo estrarla,» dichiarò Braska. Jecht, che cominciava a sentire la bocca riarsa, arricciò le labbra, ma si fece avanti per mettersi a disposizione dell’Invocatore. «Aiutami a tenerlo fermo».

L’atleta obbedì e si chinò per sorreggere il capitano. Temeva che si sarebbe agitato un bel po’ quando il dolce Braska gli avrebbe scavato la carne con una daga. 

«Ehi,» lo richiamò, cercando di mantenere un tono tranquillo. I suoi lineamenti eano stravolti dal dolore. «Andrà tutto bene, ok? Sono un Guardiano dell’Invocatore».

L’uomo strinse i denti per soffocare un grido e Braska si affrettò a slacciargli i bottoni della giacca.

«Dov’è Auron?» gli chiese Jecht, allarmato.

«È andato a prendere quello che mi serve».

Braska chiese a Jecht di tenere dritto il capitano quanto più possibile, manovra non facile e per lui dolorosa, mentre gli sfilava di dosso ogni indumento dalla cinta in su, così da avere una visione completa della ferita.

L’Invocatore analizzò con cura ogni dettaglio, dal colore del sangue, alla profondità raggiunta dalla scaglia, alla capacità di movimento dell’arto: l’uomo ferito non riusciva a stringere il pugno, ma perlomeno muoveva le dita della mano e non aveva riportato danni a organi vitali.

Indaffarato nelle sue valutazioni, non si accorse di Auron che, nel frattempo, era tornato con un kit di pronto soccorso piuttosto scarno, dotato solo di bende, unguenti disinfettanti e qualche utensile per suture, insufficienti a chiudere una ferita simile. Il monaco attese nuovi ordini, mentre Braska arricciava le labbra, frustrato. 

«Mi serve qualche minuto per pensare».

Jecht invitava il capitano a respirare a fondo per rendere il dolore sopportabile e non farsi prendere dal panico, mentre Braska rifletteva velocemente sulla strategia più sicura da attuare. Con poche frecce al suo arco, non aveva molta scelta.

«Ok, ascoltatemi bene. La procedura è rischiosa, ma non possiamo fare altrimenti,» esordì l’Invocatore. «Dobbiamo essere veloci e precisi, o il capitano rischia di morire dissanguato. E non è l’unico problema».

«Che Yevon mi aiuti…» disse l’uomo con le lacrime agli occhi.

«Che tipo di problema?» chiese Auron, rimanendo concentrato.

«Queste bende andrebbero messe in acqua bollente, ma non abbiamo tempo. Anche se riusciamo a chiudere il taglio e a evitare che perda troppo sangue, c'è il rischio che la ferita si infetti. Avrei bisogno di alcune erbe medicinali, ma siamo nel deserto».

«Nel deserto ci sono gli Al Bhed…» disse il capitano con un filo di voce.

Jecht guardò Braska che annuì serio, mentre Auron non sembrava molto entusiasta della piega che stava prendendo la situazione.

«Sono la nostra unica speranza. Non sarà una passeggiata trovarli, ma abbiamo proprio bisogno di aiuto,» commentò l’Invocatore con un sospiro.

«Allora è deciso. Ora, però, concentriamoci qui,» disse Jecht guardando negli occhi il ferito. «Sei pronto? Coraggio, amico: Braska è il migliore che ci sia».

Il capitano annuì tremando come una foglia, mentre Braska trasse un lungo e profondo respiro prima di iniziare a dirigere i suoi Guardiani.

«Jecht, prendi tutte le garze che puoi e preparati a tamponare la ferita con tutta la pressione del tuo corpo. Se non fosse sufficiente, usa anche i suoi vestiti».

L’atleta obbedì, nervoso per il compito che gli era stato affidato.

«Auron, tu estrarrai la scaglia. Devi avere le mani fermissime, più che puoi, e tirare in verticale senza muoverti. Te la senti?»

Il monaco annuì, mettendosi in posizione davanti alla scaglia. Per questa prima operazione, Braska si mise di lato per tenere fermo il povero uomo, che nel frattempo stava recitando alcune preghiere al dio.

«Vai, Auron. Lento e costante».

Il giovane Guardiano obbedì, saggiando dapprima la resistenza della scaglia, per poi iniziare a rimuoverla. Le urla del capitano strinsero il cuore di Jecht che, tuttavia, non poteva permettersi di distrarsi: doveva tenere sotto controllo la ferita, tamponando qua e là durante l’estrazione. Una volta rimossa la scaglia, il sangue iniziò a scorrere copioso.

Braska fece distendere velocemente l’uomo sulla schiena e Jecht fece come ordinato: usò il suo peso per fare pressione e tamponare quanto più poteva, mentre Braska usava la sua magia in modo attento. 

Auron, rimasto da parte, si occupò di tenere sotto controllo lo stato di coscienza del capitano che, divenuto pallido, faceva fatica a tenere gli occhi aperti. 

Braska respirava a fondo per mantenere saldi i nervi: non poteva permettersi di essere precipitoso, anche se l’uomo stava perdendo man mano perdendo le forze, o non avrebbe chiuso la ferita in modo adeguato, e sarebbe morto comunque.

Dopo molti minuti di tensione, l’Invocatore portò a termine l’operazione: Auron confermò che l’uomo respirava ed era rimasto vigile, seppur esausto.

Jecht guardò sotto le sue mani lordate di sangue, e notò che la ferita era quasi del tutto chiusa, anche se sarebbe rimasta la cicatrice. Tirò un sospiro di sollievo, e si prodigò a pulire un minimo il torace del capitano con ciò che era rimasto. 

Braska si sedette a terra tirando il fiato, esausto, ma molto soddisfatto del risultato ottenuto. Chiamò alcuni uomini rimasti a guardare e li istruì sul da farsi, ordinando loro di trovare delle coperte e tenere il capitano al caldo, e di muoverlo solo dopo qualche ora. 

Auron diede una pacca affettuosa sulla spalla del suo Invocatore, che gli sorrise di rimando, per poi dirigersi verso Jecht, sporco di sangue fino ai gomiti. Gli porse la giacca lacerata del capitano per pulirsi, gesto inaspettato da parte dell’atleta.

«Grazie, ragazzo. Servirebbe un tuffo in mare per lavare via tutto,» disse Jecht ironizzando.

«Braska deve riposare prima di partire. Se vuoi, puoi farlo,» rispose Auron ammiccando verso l’Invocatore. «Sei stato bravo».

Jecht sorrise compiaciuto, e accolse l’invito del compagno: scese a terra accompagnato dai complimenti dei superstiti, per poi mettere i piedi in mare e tirare un sospiro di piacere. Si rese conto di star accusando il caldo, così si immerse nelle acque basse e iniziò a lavarsi.

La visione del sangue che fluiva via e colorava tutto di rosso lo inquietò più di quanto avrebbe voluto: gli ricordava le vite perse durante l’attacco di Sin, le loro urla, il terrore nel suo cuore. Fece una smorfia disgustata al suo stesso riflesso: non avrebbe permesso alla maledetta balena di farlo sentire a disagio nel suo mare.

Jecht si prese alcuni attimi di pace, per poi ricongiungersi ai compagni e incamminarsi nel deserto, benedetti dalle preghiere dei naufraghi che invocavano la protezione del dio.

Dopo pochi minuti di viaggio, Braska si tolse il copricapo e Auron il cappotto, mentre Jecht accusava il dolore del caldo bruciante sulle piante dei piedi. 

«Magari è la volta buona che ti procuri delle scarpe,» disse Auron con un ghigno.

L’atleta sbuffò, non volendogli dare la soddisfazione di soffrire davanti a lui, ma quando stava per replicare notò delle lamiere bruciate disseminate qua e là tra le dune. 

«Ci stiamo avvicinando alla Fortezza Base degli Al Bhed,» disse Braska battendo lo scettro sul metallo. «Questi sono loro scarti».

«Scarti?» ripeté Auron in tono interrogativo.

Braska fece vagare gli occhi per le dune prima di rispondergli:

«Scarti, frammenti di una civiltà precedente…» Il corpo verde di un Kyactus scomparve dietro un cumulo di sabbia. «A volte nemmeno loro li distinguono più. Essasuna lusa ih Bedohl, si dice qui. “Immemore come un Bedohl”».

Senza rallentare la marcia, Auron fissò lo sguardo nello stesso punto in cui quello di Braska stava cercando mostri.

«E la ritengono una cosa positiva?» domandò.

«Non l’ho mai capito».

«Quindi in giro ci sono macchine vere e proprie?» 

La domanda di Jecht interruppe le loro filosofie con un timore più terreno.

«Non lo escluderei, per questo dobbiamo fare molta attenzione,» rispose l’Invocatore asciugandosi la fronte.

«Tua moglie era Al Bhed, giusto? Ne sai molto sulle loro abitudini,» commentò Jecht senza riflettere troppo.

Braska sorrise amaro al ricordo di Emma, che al contempo gli scaldava il cuore. Puntò gli occhi tra le dune, aspettandosi da un momento all'altro l’arrivo di un mezzo cingolato; Emma, sorridente e raggiante quanto quel sole intenso, si sbracciava per salutare lui, venuto fin laggiù per intercedere presso il suo popolo. Sul suo polso destro spiccava la bandana rossa che lui le aveva regalato.

La parola di Yevon era una parola di pace.

Vedendo l’Invocatore perso nei suoi pensieri, Jecht rivolse la sua curiosità ad Auron.

«Perchè odiate tanto le loro macchine? Non me lo avete mai spiegato».

Auron, provato dal caldo intenso, dovette inumidirsi le labbra prima di rispondere.

«Nella dottrina, le macchine sono affronti a Yevon, vanno contro la natura. Solo il dio può creare,» disse il monaco boccheggiando.

«Immaginavo,» rispose Jecht con ironia.

Seguendo i mucchi di lamiere che si facevano sempre più alti, dopo tempo indefinito arrivarono ad un avamposto estraneo. Jecht lo osservò con la curiosità che lo contraddistingueva: inviava bagliori metallici sotto il sole e la sua forma rastremata in cima, che poi continuava in un più largo cono capovolto, gli ricordava quella delle trottole con cui giocava da bambino.

Un ronzio artificiale, assieme al suono di Braska che si schiariva la gola, lo sottrassero ai ricordi.

«Sono l’Invocatore Braska,» disse, portando vicino alle labbra un apparecchio di metallo scuro. «Richiedo l’accesso alla Base».

Infastidito dalla sabbia, Auron socchiuse le ciglia e fissò l’uomo che stava proteggendo. Gli sembrava sempre più un estraneo, e si sorprese dal vederlo usare una macchina proibita, nonostante la sua fede in Yevon fosse grande. Eppure, esistevano amori che andavano oltre, come quello che lui aveva avuto per sua moglie.

Braska attese qualche secondo, e quando non ricevette risposta alcuna infilò una mano nella borsa che portava al fianco. Strinse forte il pugno proprio sopra alla copertina di My nucy tamma cyppea. La rosa delle sabbie.

«Mi ricevete? Richiedo l’accesso alla Base. Mi servono medicine per un ferito». 

Il ronzio grave di una sirena risuonò tra le dune, coprendo il fischio del vento che agitava la sabbia. L’imponente trottola che stava di fronte a loro vibrò, trasmettendo il suo moto a tutta l’aria attorno, e alla sabbia. Jecht e Auron indietreggiarono, Braska rimase immobile e alzò la testa.

La Base si aprì come un insolito frutto. Dieci bracci d’acciaio, ognuno dei quali spingeva una pesante torre dello stesso materiale, si separarono dal corpo centrale. Le ruote nere che sormontavano le torri cominciarono a girare per portare verso l’esterno un peso piuttosto oneroso. 

Anche se si trovavano ad almeno quaranta passi d’altezza, i tre riuscirono bene a distinguere dieci bocche da fuoco che puntavano verso il deserto. 

«Che fate?» ribatté l’Invocatore a denti stretti. Si avvicinò la radiolina alla bocca e strinse l’altra mano attorno allo scettro. Sopra la sua testa, a opera di Auron dei lunioli si erano addensati per formare uno scudo che li copriva tutti e tre. «Non mi riconoscete? Non sono un nemico!»

La radiolina di Braska emise un gracchiare che presto si trasformò nella voce di una donna.

<Certo che ti ho riconosciuto,> disse, <è proprio per quello che ho armato i cannoni>.

Dal corpo metallico della fortezza si staccò un undicesimo braccio, che terminava con un grosso martello. Mosso da un pistone, quello cominciò a battere ritmicamente la terra. 

Nel sentire la sabbia vibrare sotto i suoi piedi, Braska tentennò. I suoi Guardiani gli lanciarono uno sguardo preoccupato mentre lui provava a dire:

«Samira, sei tu?»

<Braska!> quel nome fu quasi mangiato dal rumore del martello che batteva la terra. Qualcosa in lontananza, tra le dune, sembrava alzare più sabbia rispetto al vento. Pareva smuoverla da sotto.

All’interno della sala dei comandi principale della Fortezza Base, una donna bionda sorrise. Le luci artificiali le coloravano d’arancione il viso e, quando il suo sorriso si allargò fino a diventare feroce, gli anelli d’argento che le abbellivano i canini mandarono un brillio nella stanza.

<...Che cazzo di accoglienza pensavi che ti riservassi?>

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