La Caduta Dell'Ombra di Sinnheim (/viewuser.php?uid=132828)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Autodafè ***
Capitolo 2: *** Tiro numero tre ***
Capitolo 3: *** Abbandono ***
Capitolo 4: *** Guardare oltre ***
Capitolo 5: *** Braska ***
Capitolo 6: *** Con esso o sopra di esso ***
Capitolo 7: *** Zona D'addestramento (Parte 1) ***
Capitolo 8: *** Zona D'addestramento (Parte 2) ***
Capitolo 9: *** Molte sono le cose terribili ***
Capitolo 10: *** Ma di tutte la più terribile è l'uomo (Parte 1) ***
Capitolo 11: *** Ma di tutte la più terribile è l'uomo (Parte 2) ***
Capitolo 12: *** Rompere le righe (Parte 1) ***
Capitolo 13: *** Rompere le righe (Parte 2) ***
Capitolo 14: *** Colui che apre tutti gli occhi ***
Capitolo 15: *** Libertà ***
Capitolo 16: *** Amore Fraterno ***
Capitolo 17: *** Piana dei fulmini, Piana dei lampi (Parte 1) ***
Capitolo 18: *** Piana dei fulmini, Piana dei lampi (Parte 2) ***
Capitolo 19: *** ℵ. Carte del processo a Yevonna di Djose, eretica ***
Capitolo 20: *** Se l'attraversi non la scampi (Parte 1) ***
Capitolo 21: *** Se l'attraversi non la scampi (Parte 2) ***
Capitolo 22: *** La cosa giusta ***
Capitolo 23: *** Come combattere i giganti (Parte 1) ***
Capitolo 24: *** Come combattere i giganti (Parte 2) ***
Capitolo 25: *** Esempio di tracotanza punita ***
Capitolo 26: *** Lamento per la città perduta ***
Capitolo 27: *** La sposa di Djose (Parte 1) ***
Capitolo 28: *** La sposa di Djose (Parte 2) ***
Capitolo 29: *** ℶ. Carte del processo a Davon di Janne, sacerdote (Parte 1) ***
Capitolo 30: *** Qualcosa che non possiamo vedere ***
Capitolo 31: *** ℷ. Carte del processo a Davon di Janne, sacerdote (Parte 2) ***
Capitolo 32: *** Qualcosa che non vogliamo vedere ***
Capitolo 33: *** Ysuna Seu ***
Capitolo 34: *** Mangiachocobo ***
Capitolo 35: *** Lì sono i campi della speranza (Parte 1) ***
Capitolo 36: *** Lì sono i campi della speranza (Parte 2) ***
Capitolo 37: *** E benedirete le tenebre ***
Capitolo 38: *** Come benedirete la luce ***
Capitolo 39: *** Se Alan cadesse (Parte 1) ***
Capitolo 40: *** Se Alan cadesse (Parte 2) ***
Capitolo 41: *** Rimanere a galla (Parte 1) ***
Capitolo 42: *** Rimanere a galla (Parte 2) ***
Capitolo 43: *** Un desiderio ingenuo come il voler proteggere qualcuno (parte 1) ***
Capitolo 44: *** Un desiderio ingenuo come il voler proteggere qualcuno (parte 2) ***
Capitolo 45: *** Al Bhed Crawler (Parte 1) ***
Capitolo 46: *** Al Bhed Crawler (Parte 2) ***
Capitolo 47: *** L'ora incerta ***
Capitolo 48: *** Che Yevon ti abbia in gloria (Parte 1) ***
Capitolo 49: *** Che Yevon ti abbia in gloria (Parte 2) ***
Capitolo 50: *** Tu che sei sceso dal cielo ***
Capitolo 51: *** Quelle polveri (Parte 1) ***
Capitolo 52: *** Quelle polveri (Parte 2) ***
Capitolo 53: *** Quod consevi demetam ***
Capitolo 54: *** La morte del desiderio ***
Capitolo 55: *** Viva il re! ***
Capitolo 56: *** L'Alfa e l'Omega ***
Capitolo 1 *** Autodafè ***
CAPITOLO 1:
AUTODAFE'
ἐπάμεροι
τί δέ τις; τί
δ' οὔ τις;
σκιᾶς
ὄναρ
ἄνθρωπος,
αλλ' ὅταν
αἴγλα
διόσδοτος
ἔλθη,
λαμπρόν
φέγγος
έπεστιν
ανδρῶν
καὶ
μείλιχος
αἰών
Esseri della
durata d'un giorno.
Che cosa siamo? Che cosa non siamo?
Sogno
d'un'ombra l'uomo: ma quando
un bagliore divino ci giunga,
fulgido
risplende sugli uomini il
lume e dolce è la vita.
(Pindaro,
Pitica VIII, vv. 95-97)
Il sole
passava il punto vernale e, transitando, trascinava le dita
dell’inverno. Le
cupole di S.Bevelle rifulgevano, quel giorno, dello splendore
dell’oro.
Al centro
della piazza c’era un’enorme fontana, con tutto
intorno un fregio di smalto, da
cui l’acqua cadeva come le dolci piogge di primavera.
I suoni
della festa avevano soppiantato con prepotenza i chiacchiericci mondani
dei
lavoratori. Il battere dei tamburi e le grida divertite dei ragazzi
erano
diventati i soli rumori tollerati dalla gente, almeno per quella
giornata.
Sopra un
carro trainato da forze invisibili, un uomo vendeva mele caramellate.
Alle sue
spalle, un altro annunciava quanto bestiame era stato condotto alla
festa, in
modo che tutti potessero gioire del banchetto prima ancora di averlo
visto.
Profumi
dolci e speziati venivano intrappolati dai numerosi teli che
proteggevano le
bancarelle, rendendo le strade dei lunghi corridoi volti ad attirare
l'attenzione – e gli stomaci – del popolo. La
grande festa era una delle poche
occasioni in cui cibi così raffinati potevano essere gustati
anche dai palati
più umili: tutti cercavano di procurarsene un boccone.
Gli adulti
amavano dilettarsi con i numerosi giochi proposti in seno alle piazze.
Spesso
erano prove di abilità e precisione dove si cercava di
centrare un palo con un
cerchio di ferro, oppure di abbattere dei bersagli con delle palle di
stoffa. I
bambini venivano introdotti alla conoscenza di animali esotici e
difficilmente
avvicinabili, ma la gioia più grande scoppiava solo quando
c'erano i chocobo,
tanto che veniva permesso loro di salirci in groppa ed essere condotti
per un
tranquillo e breve tragitto.
Immersa
nella folla, una giovane donna afferrò la veste della
sorella, e il viso di
quella, assieme a tanti altri, si volse verso il ponte adornato da veli.
Il Gran
Maestro Mika, uomo saggio e venerabile per età, camminava a
passo lento con la
tiara sul capo. I pellegrini, frenetici, tentavano di sfiorarlo con le
dita
anche solo per un istante e sollevavano verso di lui i figli, in modo
che li
benedicesse.
Proprio
quando Mika allungò le dita verso la fontana, e ne
sfiorò l’acqua paziente, una
moneta lanciata da qualcuno fece schizzare delle gocce sulla sua
manica. Egli
non se ne curò e alzò le mani al cielo.
Salve, regina
della
città
celata dalla
notte,
in te canta il
nostro
cuore.
Rendiamo
grazie a te,
Yunalesca,
Nel tuo
giorno, a te
Che hai
mondato la terra,
E molte volte,
molte volte
ancora
ripetiamo
Il tuo
sacrificio.
E sempre ti
siamo
grati,
O cerchio
sempiterno
Yevon,
Colui che apre
tutti
gli occhi,
Colui che ha
molte
menti
E che tutto,
vedendo,
comprende.
Ie yu i
No bo me no
Ren mi ri
Yo ju yo go
«Hasatekanae
kutamae» mormorò un uomo inginocchiato nel buio,
rischiarato solo dalla fiamma
tremula di una candela. Prima che il cerchio della preghiera potesse
ricominciare, sostenuto dal canto degli altri monaci, le sue labbra si
fermarono.
Spostò
il
peso sulla gamba destra, dolorante e premuta contro il legno della
panca,
mentre alzava lo sguardo per incontrare quello di chi aveva appena
varcato la
soglia.
Una lama
di luce si era insinuata nella cella e, tagliando
l’imitazione di una notte
perenne, era arrivata a ferire gli occhi del monaco.
Lontani,
oltre al canto monotono del coro, provenivano i rumori della festa
sacra.
L’uomo, ancora in ginocchio, si rassettò la tunica
di cotone grezzo.
Erano tre
i confratelli che erano arrivati a prenderlo: uno di loro, un giovane
dalla
folta barba castana, fece un passo avanti. Indossava
l’armatura di cuoio e seta
dei Templari, decorata in vita da un laccio dorato.
«Sei
sicuro, Auron?» domandò. Se qualcuno glielo avesse
chiesto, avrebbe risposto
che la luce nei suoi occhi altro non era che la combinazione strana del
lume
della candela e del sole, ma il suo tono tradiva una preoccupazione
affettuosa.
Auron
annuì con un cenno del capo, così gli altri due
monaci lo afferrarono per le
braccia e lo tirarono in piedi, più per un gesto rituale che
per offrirgli un
effettivo appoggio.
Quando fu
dinanzi all’amico, che non superava solo per altezza ma anche
per imponenza, si
limitò a fissarlo in silenzio.
«Non
riesco a capirti» gli disse lui.
«Mi
dispiace, Kinoc» rispose Auron, la voce arrochita dal lungo
silenzio, «ma è
proprio per questo che me ne vado».
I due
monaci guerrieri che lo avevano fatto alzare estrassero le spade e lo
scortarono verso l’uscita della stanza, come si confaceva al
suo rango, anche
se stava imboccando la strada per lasciare le fila
dell’esercito di Yevon.
Kinoc gli
porse il rosario tipico di Bevelle dai grani gialli e blu, pretendendo
di
restare indifferente alla totale assurdità del gesto del suo
amico, ma non
riuscì a distogliere lo sguardo dalla sua schiena mentre si
allontanava, dai
capelli raccolti con un nastro d’oro, come macchie
d’inchiostro sulla tunica.
«Avresti
potuto accettare la figlia di Landor in sposa» gli disse
senza aspettare che si
voltasse, in un disperato tentativo di farlo tornare sui suoi passi.
Auron si
voltò. Inclinò il capo sulla spalla sinistra e
socchiuse gli occhi, come per
invitarlo a proseguire, ma non disse nulla.
«Non
intendo mancarti di rispetto» ricominciò Kinoc,
«ma le tue ragioni mi sono
oscure. Non è necessario che il matrimonio venga consumato
subito per essere
ritenuto valido».
«Non
è
qualcosa di cui vorrei macchiarmi in ogni caso»
replicò Auron, con lo stesso
tono calmo ma autoritario che utilizzava per dare ordini. Kinoc si
rendeva
conto che la sua partita era persa in partenza.
«Spero
che
tu sia consapevole di ciò che stai rifiutando»
replicò tuttavia, il tono che si
induriva per rivaleggiare con quello del compagno d’armi.
Auron,
inaspettatamente, tirò le labbra in un lieve sorriso.
«Ie
yu i
no bo me no» ripeteva il coro, invisibile nel luogo dove loro
si trovavano.
«Non
vergognarti di prendere il mio posto» disse a mezza voce, poi
unì le mani in
grembo e volse lo sguardo inflessibile verso i monaci che lo
attendevano
sull’attenti.
«Avanti»
ingiunse, tenendo la testa alta, con dignità.
Wen Kinoc
compì il saluto rituale, e dispose davanti a sé
le braccia come se stesse
stringendo in mano una sfera, ma Auron non si voltò mai
più.
Wen Kinoc
venne lasciato, assieme all’eco di quell’avanti,
nello stesso modo in cui si
lascia una cosa rotta. Rimase lì, nella medesima cella dove,
da bambino,
s’intrufolava per condividere il pane nero con
l’amico e per intagliare con lui
i cucchiai nel legno.
Presto la
voce di Auron cominciò, nella sua testa, a parlargli di un
onore che per lui
non aveva alcun significato, e di quel gran rifiuto che, se richiesto,
di nuovo
avrebbe fatto.
Glielo
avrebbe ripetuto ancora per anni, e per quei lunghi anni lui non
avrebbe mai
compreso.
Per Auron
una consapevolezza tale bruciava più del fuoco: l'idea di
non essere riuscito a
spiegarsi con il suo migliore amico lo feriva nel profondo, ancor di
più,
forse, con coloro che lo avevano rispettato e ammirato.
Era
così
difficile comprendere le sue ragioni?
La testa
di Auron diventò dolorante, troppe domande turbolente senza
risposta si
ammassavano nella sua mente, domande che, tra l'altro, non avrebbero
dovuto
aver senso di esistere.
I passi
pesanti del monaco echeggiarono tra gli alti soffitti del tempio,
decorato
anch'esso a festa con veli colorati, fino a giungere a uno degli altari
posti
vicino alle vetrate, il più illuminato e il suo preferito.
Lo
guardò
con nostalgia e dolcezza – quante ore delle sue giornate
aveva passato al suo
cospetto! – ma anche la rabbia del doverlo abbandonare
iniziò a serpeggiare nel
suo animo: era un'ingiustizia imperdonabile.
Si
inginocchiò a malincuore, stringendo nel pugno il suo
rosario come per
rivendicarne la proprietà perfino con gli spiriti, tanta era
l'affezione verso
il suo compagno di preghiere; l'ira lo stava divorando come fuoco di
paglia, ma
si rese conto che quel gesto così doloroso era anche la
presa di posizione più
severa che potesse applicare.
E gli
andò
bene così. Quella legge morale, così giusta e
invalicabile, lo tranquillizzò,
tanto che allentò la presa e fece scivolare il rosario dal
palmo della sua mano
alla fredda superficie dell'altare, rinvigorito da nuova determinazione.
Quando
uscì dal tempio, abituato alla sua rassicurante
oscurità, il cielo troppo blu
della città, il rumore e le sfavillanti decorazioni lo
colpirono con
l’intensità di uno schiaffo, facendogli pulsare le
tempie.
Attraverso
lo schermo delle ciglia osservò il Gran Ponte e lo
trovò gremito di folla. Uno
stormo di colombe, lasciate libere da qualcuno, lo
attraversò da parte a parte
per poi svanire fra le nuvole. Le teste che si erano alzate ad ammirare
lo
spettacolo erano tanto fitte che Auron non sarebbe riuscito a vedere
oltre
nemmeno se si fosse alzato sulle punte dei piedi, come un bambino.
All’improvviso,
qualcuno gli urtò la schiena. Lui si irrigidì per
riflesso involontario e voltò
lo sguardo, per trovarsi a sovrastare quello che era poco
più che un ragazzino.
«Mi
scusi»
borbottò quello guardandosi le scarpe, poi fece per
rituffarsi nella calca. Il
monaco ne approfittò:
«Che
cosa
ci fa lì tutta quella gente?» gli chiese.
Il ragazzo
si voltò verso di lui e sgranò gli occhi.
L’attimo dopo riacquistò una timorosa
compostezza e replicò:
«Alla
Corte Suprema c’è il processo
dell’Inquisizione!»
Detto
questo, scivolò via come un’anguilla scivola
giù dalla rete, forse per
diffidenza nei confronti di quello strano uomo in tunica bianca, forse
perché
non voleva perdere nemmeno una parola dell’equa sentenza.
Auron,
ancora infastidito dal sole, si premette le dita sulle palpebre e
immaginò
un’aula buia e gremita, senza sapere che quel luogo esisteva
davvero.
Sotto una
cupola nera, cesellata con arte per rappresentare il cielo stellato,
stava un
palco in legno dall’arcata stuccata in oro, sormontato
dall’occhio di Yevon che
tutto vede. Nonostante gli incensi fossero stati rimossi per evitare
che
togliessero il respiro a qualcuno dei numerosi astanti,
l’odore residuo
continuava a pizzicare le narici.
Il Grande
Inquisitore sedeva su di un trono al centro del palco, tra due guardie
Ronso
dalla pelliccia rossa, armate di alabarde.
Quelle
creature leonine, a quanto si diceva, erano entrate di recente tra i
ranghi di
Yevon, ma avevano scalato in fretta la gerarchia. Occupavano posti di
prestigio
come guardie delle autorità, anche grazie
all’intercessione di qualche magnate
dall’animo generoso. E, forse sperando in
quell’evergetismo un po’ sospetto, i
due squadravano tutti i presenti con fare insistente, alla ricerca di
qualunque
segno di pericolo per il loro protetto.
Nel
frattempo gli occhi dell'uomo scandagliavano con ansia il pubblico,
alla
ricerca di volti conosciuti o di personalità eminenti di
Bevelle. Al centro del
suo labbro inferiore, in quel momento disteso nell’ombra di
un sorriso, era
evidente la traccia lasciata dal sigaro.
Amava ogni
piega della veste nera e grigia che specificava la sua mansione
all’interno del
clero. Spesso, mentre parlava o mentre aspettava, le sue dita
indugiavano sulla
spilla di rubino che la teneva ben ferma sul petto, accarezzandola come
il viso
di un’amante.
Quando
l’eretico che doveva essere sottoposto a processo fece il suo
ingresso in aula,
il Grande Inquisitore pose le mani in grembo e drizzò la
schiena, in modo che
non fosse evidente che la sua statura fisica era ben inferiore rispetto
a
quella del suo compito; riguardo alla statura morale, invece, i posteri
avrebbero fornito la loro sentenza.
Notò
che
il volto dell’imputato era più pallido e smorto
delle ultime volte che lo aveva
visto: nonostante conoscesse a memoria i suoi lineamenti, sembrava
esservi
comparsa qualche ruga in più. Tuttavia, ciò non
gli mosse un sentimento di
pietà verso l’uomo: un senso di forte fastidio lo
colpì come un mal di stomaco
improvviso.
«I
sacri
uffici di questa corte altro non cercano che la verità
assoluta, nel nome di
Yevon. A coloro sotto processo: credete in Yevon e dite la
verità».
L’uomo
alzò gli occhi celesti, nei quali all’Inquisitore
parve di leggere un astio
sopito. Non disse una parola.
«L’imputato
Braska è accusato di aver difeso l’eresia
concernente l’uso di macchine nelle
operazioni militari. È altresì accusato di aver
contratto matrimonio con una
donna Al Bhed e aver generato prole. Il terzo capo ascritto, svincolato
dai
precedenti, è l’aver favorito la diffusione della
pestilenza ignorando la
disposizione di isolamento. In seguito alla raccolta di prove da parte
dell’Inquisizione, sotto disposizione del Gran Maestro Mika,
è pronunciato
colpevole».
Tutti i
presenti, che avevano riempito le balconate, trattennero il respiro
come se
fossero loro a trovarsi al posto suo.
Braska,
invece, mosse appena il capo, come se si aspettasse l’esito
della sentenza. La
sua apparente tranquillità non fece che accrescere il
già accentuato fastidio
dell’Inquisitore, che diventava sempre più
impaziente di concludere il
processo.
«Per
ordine della Corte di Yevon, che abbandoni del tutto, né del
resto in qualunque
modo sostenga, insegni o difenda la sua tesi. Viene ora richiesta
l’abiura
dell’eresia davanti al qui presente Grande Inquisitore
Alan».
«No»
disse
secco l’imputato. Pronunciò quella parola con voce
quasi leggera, e sembrò
quasi non pensarci.
Il
pubblico sussultò come un’unica persona.
Il giudice
digrignò leggermente i denti e fece un profondo respiro.
Sotto le ampie maniche
della veste strinse i pugni fino a sentire le unghie nella carne.
Interdetto
dalla risposta, si trovava ad affrontare una situazione di stallo che
avrebbe
messo in discussione il suo stesso ruolo all’interno del
clero.
Approfittando
del silenzio opprimente dell’uomo che aveva davanti, Braska
si permise di
parlare in propria difesa:
«Le
accuse
a me mosse sono frutto di errata interpretazione, vostro
onore».
Alan fu
costretto a mordersi l’interno della guancia per tenere a
freno l’istinto di
ribattere: era certo che quell’ultima parola avesse un tono
denigratorio.
«Il
matrimonio misto non è proibito dalle leggi di Bevelle.
Inoltre, non presento
sintomi di tisi da almeno due anni». Fece una pausa per
prendere fiato, e con
lui respirarono tutti i presenti. «Tramite un intenso
percorso di preghiera e
prendendomi carico della missione di Invocatore, chiedo alla corte di
concendermi di espiare le mie colpe. Sono disposto, infine, ad
accettare la
scomunica».
Sentendo
quella dichiarazione di intenti, l’Inquisitore parve
rilassare il corpo
irrigidito, sollevato dall’onere di trovare una soluzione a
un problema così
complesso. Se lo avesse condannato a morte, la sua dipartita sarebbe
stata del
tutto vana, ma adempiendo al compito degli Invocatori, e
così morendo, avrebbe
potuto portare un periodo di pace sull’isola.
Questo si
sarebbe tradotto in una fama che avrebbe aleggiato su Spira almeno per
anni e
avrebbe sussurrato il nome di Braska, ma anche quello di Alan e, per
riflesso,
quello di tutta la famiglia. Era la soluzione perfetta.
La corte
accettò senza riserve la proposta dell’imputato.
I veli
scossi dal vento erano ipnotici da osservare, il loro movimento
armonioso e
imprevedibile calmava l'animo turbolento di Auron.
Il monaco
passeggiò fino al centro del ponte addobbato senza nemmeno
accorgersene: troppi
erano i pensieri che lo tormentavano.
Si
appoggiò di peso al parapetto e si mise a contemplare le
decorazioni colorate
che svolazzavano di qua e di là, in balia della brezza
fresca.
Auron
sentì una certa affinità con quella vista: anche
lui era stato spinto a
muoversi dalla volontà di qualcun'altro, con l'unica
differenza che lui aveva
scelto dove andare. Nessuno, però, avrebbe potuto dirgli se
la sua decisione
fosse giusta o sbagliata, solo la sua coscienza poteva.
Non
c'erano alternative. Si ripeteva queste parole di tanto in tanto per
calmare i
nervi, quando la certezza iniziava a vacillare e i dubbi minavano le
sue
convinzioni.
Sospirò,
stanco: indugiare per ore sugli stessi ragionamenti lo stava logorando,
anche
perché le risposte che si dava non lo convincevano mai del
tutto.
Si
voltò
verso l'estremità destra del ponte, dove aveva visto
riunirsi tutta quella
gente per assistere al processo dell'Inquisizione. Distinse la figura
di un
uomo: era gracile, e l’umile veste grigia attirò
il suo sguardo come il magnete
che devia la bussola dal suo corso. Lo vedeva bene, o per la scarsa
distanza,
dato che gli si stava avvicinando, o perché la sua mente era
concentrata nello
scrutarlo.
Con
lentezza, il suo sguardo viaggiò lungo il corpo
dell’uomo, salì fino alle mani
bianche e curate, troppo per essere quelle di chi arava la terra o
tirava in
secca le reti. Il suo portamento era signorile, la schiena dritta e il
mento
sollevato, ma la testa un po’ inclinata verso destra pareva
in qualche modo
domandare perdono. Nell’istante in cui gli occhi del monaco
si posarono sul suo
viso, lui passò sotto a una delle stoffe traslucide che
addobbavano il ponte.
L’uomo,
quasi percependo di essere guardato, si voltò verso Auron e
le sue labbra
sottili si incresparono in un sorriso. Le iridi chiare, seminascoste
dal velo,
puntavano dritto verso di lui.
Continuò
ad avanzare: ad Auron parve che la folla si aprisse per farlo passare,
ma non
seppe dire se quella che gli veniva incontro fosse una luce dolce o,
piuttosto,
il tranquillo buio che aveva lasciato nelle celle del monastero.
Il viso
asciutto e pallido dello sconosciuto era stranamente interessante agli
occhi di
Auron, nonostante il suo aspetto fosse abbastanza anonimo in mezzo alla
folla.
La sua sola presenza infondeva tranquillità.
«Ti
vedo
turbato, figliolo» disse il misterioso uomo con voce
accomodante, tanto che
Auron non seppe come interpretare quella confidenza.
«Cosa
glielo fa pensare?»
«Sei
l'unico volto triste in una festa gioiosa come questa»
rispose sorridendo, ma
il monaco non parve colpito.
«Ho
i miei
motivi, mio signore. Sono altresì stupito di vedere un uomo
così allegro
nonostante vesta di bianco come me».
«Non
ho
motivo di essere triste: penso di non aver fatto niente di
male».
«Per
avere
qualcosa di cui pentirsi, molti non dovevano essere
d'accordo».
L'uomo
scoppiò a ridere di gusto, una piccola lacrima ribelle gli
scivolò sulla
guancia leggermente incavata.
«Beh,
non
piaccio molto all’Inquisizione».
Auron ebbe
un sussulto al suono di quella parola, tanto temuta quanto rispettata:
non era
facile sfuggire alla sua morsa, probabilmente aveva evitato una severa
punizione per camminare così spensierato tra le bancarelle
della festa.
«Era
lei
l’uomo sotto processo, mio signore?»
«In
carne
e ossa… ancora per un po’» disse
sghignazzando mentre scrutava con attenzione
un braccialetto di giada, pezzo in vendita di uno dei tanti mercanti
presenti
sul ponte.
«Il
clero
deve amarla da morire...»
«Forse
si
può dire che mi ama come un fratello».
Rivolse un
ultimo, enigmatico sorriso al monaco e alzò le spalle, poi
pagò il gioiello e
se ne andò per la sua strada, seguito dallo sguardo
incuriosito di Auron.
Percorse
a
passo calmo il ponte e infine sparì, dietro allo stesso
drappo che aveva
nascosto il suo arrivo: lì, oltre quel velo, stavano le cose
che Auron non
sapeva.
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Capitolo 2 *** Tiro numero tre ***
CAPITOLO 2:
TIRO NUMERO TRE
«Un
altro
numero per gli Zanarkand Abes! Oh, Klinna, questa sera sei
un– Ecco che passa!
La palla supera gli avversari dritta fino a Jecht!»
Gli
spettatori sugli spalti, nel sentire il nome del loro idolo,
cominciarono a
strepitare e a sporgersi verso il campo da blitzball, cercando di
vedere il
meglio possibile all'interno del globo d'acqua.
«È
veloce,
è preciso, non ha nessuna debolezza»
annunciò la roboante voce del cronista,
«ed è bello come un dio!»
Le dita di
Jecht si aprirono per afferrare la palla, ricevendo il passaggio alla
perfezione. Con un colpo di reni, volteggiò attorno a un
avversario, si smarcò
e concesse un piccolo sorriso alle telecamere prima di tornare
concentrato
sulla partita.
«Con
un
record di presenze imbattuto e una media di due reti a partita! Per gli
Zanarkand Duggles c'è poco da fare, signore e
signori!»
Come era
prevedibile, la linea di difesa si precipitò in direzione di
Jecht con la
chiara intenzione di ostacolarlo il più possibile. Erano
consapevoli che, così
facendo, l'ala opposta sarebbe rimasta scoperta, ma il campione a piede
libero
era troppo pericoloso, talmente tanto che lasciare la porta vuota
sarebbe stato
lo stesso.
Jecht
sorrise. Aveva messo in scacco gli avversari ben prima che l'azione
offensiva
iniziasse: con espressione beffarda, approfittò della zona
sguarnita e passò la
palla con traiettoria perfetta al centrocampista, esattamente sul lato
opposto
al suo.
Smise
addirittura di nuotare: il suo compagno di squadra aveva praticamente
campo
libero, era un gol assicurato.
Mentre
aspettava la conclusione di quell'attacco magistrale, il suo sguardo
vagò tra
gli spalti, alla ricerca di volti a lui cari. Le luci di Zanarkand,
smorzate
dall'acqua, erano sempre uno spettacolo gradito per Jecht: tutta la
città era
lì per vederlo giocare, tutti erano dalla sua parte, persino
le voci ovattate
rimbombavano come onde d'urto all'interno della sfera d'acqua.
Diventava
il centro del mondo durante le partite di blitzball, eppure non era mai
abbastanza. C'era un vuoto che non riusciva a riempire. Una fame che lo
consumava inarrestabile. Niente era davvero soddisfacente.
Vide di
sfuggita sua moglie e suo figlio Tidus nei posti più bassi,
quelli più vicini
al campo di gioco. Li distingueva molto bene, urlavano il loro
incoraggiamento,
ma qualcosa non quadrava: il bambino sembrava forzato, mentre la donna
dava
l'impressione di aspettare che il tempo passasse.
Pensava
che vedere i propri cari avrebbe potuto dargli nuova forza, ma
così non fu.
Sorrise amaro: puntualmente le sue aspettative venivano sempre smentite.
Il
centrocampista segnò il gol con estrema facilità,
mentre l'arbitro sanciva la
fine della partita con gli Zanarkand Abes ben tre reti sopra gli
avversari.
Nonostante la vittoria fosse sempre un dolce calore nel suo petto, la
gioia non
lo accarezzava mai a lungo. Anzi, ogni volta durava sempre meno.
No, non
era mai abbastanza. Mai.
La porta
dello spogliatoio venne spalancata con un calcio, in barba a ogni
regolamento
comportamentale. L'euforia della vittoria era troppa, contava solo
festeggiare
e fare baldoria. Se lo erano meritato.
Jecht si
asciugò sghignazzando e ripose con cura la sua divisa nel
suo armadietto. Dallo
stesso, tirò fuori abiti puliti molto eleganti: una camicia
e dei pantaloni in
raso neri, scarpe chiuse e non le solite calzature da spiaggia.
Si sentiva
una divinità. Quella sera avrebbe festeggiato con la squadra
fino ad
annullarsi. Se lo era meritato, giusto?
Spronò
i
suoi compagni a cambiarsi in fretta, non vedeva l'ora di appoggiare le
labbra
su un bel bicchiere stracolmo. Vestito di tutto punto, urlò
che li avrebbe
aspettati al Blitz Shot e uscì spavaldo dallo spogliatoio,
quando intravide suo
figlio e sua moglie all'inizio del corridoio.
«Oh,
cazzo...»
Fece un
grosso respiro e sfoderò il sorriso più falso
possibile, per poi andare
incontro ai suoi famigliari. Tidus aveva il volto profondamente
annoiato,
stringeva la mano di Lauren che, invece, cercava di mantenersi il
più neutrale
possibile.
«Partita
magnifica, tesoro! Sei sempre così agile! Vero, Tidus?
Perché non dici qualcosa
a papà?»
Il bambino
castano puntò gli occhi a terra senza fiatare, Jecht non
sapeva nemmeno cosa
dirgli. Una parola, un incoraggiamento, qualunque cosa. Niente, dalla
sua bocca
non uscì niente. Lauren ingoiò l'ennesimo rospo e
pretese di far finta di
nulla.
«Stai...
stai uscendo?» chiese titubante, la voce leggermente tremula.
«Ah,
io...
beh, sì. Vado con la squadra a festeggiare»
rispose Jecht passandosi una mano
tra i capelli scuri.
«Speravo
che, almeno per stavolta, tu potessi festeggiare la vittoria con me e
Tidus».
Lo stava
implorando con occhi lucidi, lui lo notò chiaramente. Cosa
poteva farci? Non
sarebbe stato di alcuna compagnia, non avrebbe avuto nulla di cui
parlare.
Cos'era che piaceva a Tidus oltre al blitzball? Come minimo si sarebbe
messo a
piangere tutto il tempo.
Erano
tutte balle, lo sapeva benissimo. Dolci illusioni mentali che lo
cullavano
nelle sue abitudini stantie, incapace di liberarsi dalle loro catene.
«Guarda,
la prossima volta, ok? L'avevo promesso ai ragazzi, la prossima
volta... ci
sarò, davvero».
Donò
una
carezza incerta al volto deluso della donna, poi volse lo sguardo al
figlioletto: avrebbe tanto voluto poter dargli un bacio, o qualcosa di
simile,
ma sicuramente lui non avrebbe gradito.
Altre,
ennesime cazzate. Li salutò entrambi e si avviò
verso l'uscita dello stadio di
blitzball, camminando a grandi falcate verso il locale designato per
fare baldoria.
Ebbe la
tentazione di fermarsi e tornare indietro, ma venne raggiunto in fretta
e furia
dai suoi compagni che lo spinsero ad andare avanti.
Mentre si
avvicinavano al Blitz Shot, sotto ai loro piedi si accesero dei neon:
riproducevano i colori degli Zanarkand Abes. Dei lampi gialli,
intervallati da
altri di un blu profondo, fecero restringere le pupille dei giocatori.
Pulsando,
quella luce cruda correva lungo il corridoio d'ingresso, poi si
arrampicava sul
muro come l'edera e cominciava a intrecciarsi, dando forma al simbolo
della
squadra vittoriosa.
Jecht si
sfiorò il petto, lasciato in parte scoperto dalla camicia, e
sorrise: si era
fatto tatuare lo stesso segno. Era l'emblema vivente della grandezza
degli
Zanarkand Abes.
Quando
Tancre aprì la porta, i bassi della musica, sino a quel
momento solo soffusi,
cominciarono a martellare con violenza.
Jecht
aveva voglia. Di una donna, per lo più, ma avrebbe ripiegato
volentieri sui
liquori. Dopo la sesta, settima sorsata di quella che gli vendevano
come
"la nostra roba più forte" tutto il piacere diventava
uguale, e gli
faceva un gran ridere sbattere la sua bottiglia di vodka contro il
bicchiere
della vita. Quella stronza.
Un nugolo
di applausi e grida eccitate li accolse all'interno del locale. Il
tavolo
attorno al quale erano ammassati i loro compagni di squadra si riusciva
a
individuare subito: due bandiere degli Abes, impalate, penzolavano
sulle loro
teste. Erano spiegazzate e macchiate di salsa.
Con
coordinazione perfetta, i giocatori si alzarono in piedi alla vista di
Jecht:
piegarono i gomiti, portarono le mani davanti al petto, come se
stessero
reggendo una sfera, e poi si inchinarono.
«A
Jecht!»
sbraitò uno dei ragazzi, trascinando la sedia con un gran
rumore e sporgendosi
sul tavolo con un bicchiere pieno fino all'orlo. Un liquido ambrato
strabordò e
andò a macchiare il legno già umidiccio e
appiccicoso.
Una donna
lo prese per il fianco e gridò, accompagnata da palmi che
battevano sulle cosce
come tamburi scordati.
«Jecht!
Jecht! Jecht!»
Nel caos
generale, un cocktail piombò tra le dita del campione.
Mentre lo scolava d'un
fiato, sentì il rumoreggiare farsi più forte,
più vivo, più simile al battito
del suo cuore. L'alcol gli scaldò la gola e subito dopo
svanì, come l'euforia
dopo un gol.
Jecht
sbatté il bicchiere vuoto sul tavolo e si esibì
in un ostentato inchino, mentre
qualcuno imitava la voce del cronista delle partite. La gente si
fiondò su di
lui, cercò di toccarlo, gli parò davanti altri
drink.
Due
ragazze ostinate arrivarono a sfiorarlo, sfuggendo con
agilità alla presa di
uomini che erano abituati a marcare. Gli occhi di Jecht, del colore
della terra
bruciata, sembravano quasi infuocati sotto le luci del locale. Si
piantarono su
quelli chiari di una biondina, che sorrise feroce e si passò
una mano tra i
capelli. Tutto il suo corpo ondeggiava a ritmo, e il movimento guidava
lo
sguardo fino ai fianchi. Lui la afferrò – la sua
mano era abbastanza grande da
coprire buona parte della sua vita – e la tenne a distanza di
sicurezza da sé.
«Ma
tu
guarda, il grande Jecht» commentò lei, alzando le
sopracciglia con malizia.
Continuava a ballare, dopo avergli gettato le braccia al collo. Di
fianco a loro,
uno dei suoi compagni di squadra stava baciando appassionatamente una
pupa mai
vista prima, le cui cosce non parevano offrire nessuna resistenza.
«E
tu non
hai compagnia?» gli domandò la ragazza, schiudendo
le labbra vellutate per
mostrare una schiera di denti perfetti. Jecht prese uno dei bicchieri
che gli
erano stati offerti e, con gesto esperto, lo frappose tra le proprie
labbra e
quelle di lei. Incrociò per un istante lo sguardo di Tancre.
«Oh,
io
sono fuori dai giochi» rispose a malincuore, con un sorriso
ammaliante. La sua
mano lasciò i fianchi dell'improvvisata compagna e la fece
scivolare con
delicatezza verso le braccia del suo amico.
«Guarda
che lui non è affatto male» la incitò,
avvicinandosi ai due e alzando la voce
per sovrastare la musica. Tancre non aspettò nemmeno un
istante prima di
avvinghiarsi a lei. «Posso garantirtelo».
La
biondina rise e gettò all'indietro la testa, per poi
regalargli un malizioso:
«Ah sì? E su che basi?»
Jecht
cinse le spalle di Tancre con un braccio e gli strofinò il
naso sulla guancia
con fare seducente, senza interrompere il contatto visivo con la
ragazza. Sentì
un tepore provenire dal volto dell'amico, poco distante dalle proprie
labbra;
stava solo giocando, ma era inebriante. Perché quella
sensazione non svanisse,
svuotò il bicchiere. L'alcol scorreva verso il suo stomaco,
infondendolo del
dolce torpore che cercava.
«Ringraziami,
dopo» disse all'orecchio del compagno di squadra, e
sgusciò verso il bancone.
Gridò
alla
barista di offrire un giro a tutti quelli che gli stavano attorno. Lei
sorrise
e cominciò a versare un liquido verde fosforescente nei
bicchieri da shot.
Quattro di essi erano destinati a lui. L'assenzio gli
pizzicò la gola, rese il
deglutire un eccitante fastidio.
Jecht
gettò la testa all'indietro, beandosi sotto i fari pulsanti
come un gatto che
prende il sole. Quando inspirò, sentì finalmente
la mente leggera: era nel suo
ambiente, sott'acqua. Odiava quel mondo emerso del cazzo.
Non aveva
intenzione di smettere di bere fino a quando quel posto non sarebbe
svanito,
assieme a quei quattro bambocci che si erano lasciati fregare da un
pallone,
credendo che si potesse vincere.
Il
successo era come la masturbazione. A tutti piaceva, finché
non si
risvegliavano nel letto soli e sudati, senza potersi aggrappare a nulla
che non
fossero lenzuola sporche.
Quando
riaprì gli occhi, lanciò un grido esaltato verso
tutti quelli che gli stavano
davanti. Loro gli risposero con foga, accalcando un urlo sull'altro in
una gara
disperata a chi lo raggiungeva per primo.
Jecht
alzò
un cocktail che non ricordava nemmeno di avere in mano,
spostò il peso su una
gamba e osservò con sguardo languido il lembo della camicia
che si alzava e
rivelava parte del suo addome. L'aria viziata del Blitz Shot era come
una mano
che lo accarezzava proprio in quel punto. Tutti lo stavano fissando,
stavano
adorando il suo corpo scultoreo, tempio di un dio deforme.
Appoggiò
la testa sul petto di Tancre, contemplando quel mondo addormentato che
ruotava
veloce. Era steso di lato su un divano, mezzo rannicchiato, e stringeva
tra le
dita un calice di vino rosso. Formicolavano, come se fossero vive.
Tanti
piccoli insetti. Andavano verso la base del bicchiere e si fondevano
nel vetro
– che cosa curiosa!
Gli
insetti sparivano dal piede del calice, come se venissero strappati
via.
Venivano trascinati verso il divano – che cosa curiosa!
Jecht
voltò a fatica il capo verso i cuscini e aggrottò
le sopracciglia. Sembrava
esserci qualcosa che si mimetizzava sulla pelle rossa. Sì,
una rana! Appena la
vide, pensò subito a Tidus.
«Chissà
se
diventerà mai un campione come me, quello
sfigatello» commentò la rana. Era
piccola, rossa. Forse avrebbe dovuto notare subito che era rossa,
proprio come
il divano. Jecht, a distanza di qualche secondo, sobbalzò:
lo aveva detto ad
alta voce?
In modo
istintivo strinse la prima cosa che gli capitava a tiro: il braccio di
Tancre.
Lui lo guardò e rise benevolo. La realtà
vorticava, ma stava tornando realtà.
Anche il
suo amico stava bevendo. Finché bevevano entrambi andava
bene. L'importante era
non trovarsi al bancone da soli con una bottiglia mezza vuota davanti.
«Ma
dai, e
la ragazza?» gli domandò a un tratto Jecht,
notando che qualcuno mancava.
«Ah,
sarà
per la prossima volta» minimizzò lui, gustandosi
un sorso del suo vino. Disse
anche qualcos'altro, ma a Jecht le parole non arrivarono: era come se
la voce
del suo amico, nell'ebbrezza, gli stesse baciando il collo.
«Era
carina» commentò, con tono stanco. La vedeva
davanti a sé, i fianchi che si
agitavano spasmodici, il viso coperto da un turbinio di braccia e
capelli. La
musica gli martellava in testa a ritmo con il pulsare delle sue tempie.
La ragazza
alzò lo sguardo, e Jecht la riconobbe. Era Lauren. Muoveva
il bacino contro il
suo in una danza rovente e sempre più intensa, lo toccava,
lo baciava.
Ah, i
ponti, i ponti di Zanarkand!
Piegato
sulla tazza, con le mani strette sul bordo di ceramica, Jecht
svuotò il
contenuto del suo stomaco. Il suo respiro era strozzato dai conati, le
lacrime
gli scorrevano libere sul volto. Qualcuno gli stava tenendo i capelli,
mentre
lo aiutava a non far ricadere la testa nel vomito. La sua fronte era
calda, i
sensi distaccati dal corpo.
Il
pavimento freddo si fermò solo quando perse conoscenza,
ormai a stento in grado
di percepire il sapore rancido che gli invadeva la gola e l'odore
pungente che
gli penetrava nel naso.
Si
risvegliò quando avvertì una luce bianca e
violenta colpirgli le palpebre come
se volesse spremergli gli occhi. Il dolore lancinante alla testa gli
pervadeva
tutto il corpo, e quando i sensi lo assistettero si accorse del
retrogusto
disgustoso che aveva in bocca: un misto di acido e carne cruda.
Jecht
portò il gomito davanti al viso per cercare di schermarsi
dai raggi del sole
che entravano dalle imposte. Il suo stomaco gorgogliava, pronto a
rigettare
qualsiasi cosa avesse provato a proporgli. C'era un lieve sentore di
vomito
nell'aria, ma i vestiti che indossava – una delle tute da
allenamento degli
Zanarkand Abes – erano puliti. Un fatto era certo: non si
trovava a casa
propria.
Quando
vide un paio di tornite gambe maschili che gli passavano a fianco venne
assalito dal senso di colpa e si lasciò andare a una risata
amara.
«Sarebbe
stato meglio portarti a casa la ragazza, eh?»
esordì con voce roca, cercando di
sollevare le palpebre abbastanza da poter inquadrare Tancre.
«Non
ti
preoccupare» rispose lui, «può
capitare».
Nulla nel
suo tono faceva presagire che fosse arrabbiato, ma Jecht
cercò disperatamente
un appiglio, qualcosa che gli esprimesse disapprovazione.
«Era
più
figa di me» insistette, «e non ti avrebbe fatto
dormire sul divano».
«Il
mare è
pieno di pesci» ribatté Tancre, allungandogli un
bicchiere d'acqua mossa dal
frizzare di una compressa. Jecht, sebbene la sua vena masochista che
voleva un
rimprovero non fosse stata accontentata, gliene fu piuttosto grato. Si
tirò a
sedere, ma il suo intestino non apprezzò il repentino cambio
di posizione.
La sua
tempra dovuta a lunga esperienza gli permise di vuotare in un sorso il
bicchiere prima di fiondarsi in bagno e chiudersi a chiave.
«Non
voglio buttarti fuori da casa mia» disse dopo qualche minuto
Tancre, a fianco alla
porta. Non sentiva alcun rumore e voleva accertarsi che Jecht stesse
bene. «Ma
tra un paio d'ore devo partire con la Laguna Shore».
Si
sentì
lo sciacquone che veniva tirato e l'acqua che cominciava a scorrere nel
lavandino.
«E
dove
vai?» domandò la voce di Jecht, confusa.
«Non
ti
ricordi? Ne ho parlato ieri al Blitz Shot. Ah, in effetti era mentre tu
stavi–»
si interruppe di colpo.
Anche lo
scroscio dell'acqua si interruppe di colpo.
«Cosa
stavo facendo?» ribatté Jecht allarmato.
«No,
niente di che... » provò a schermirsi Tancre, ma
il suo amico insisteva.
«Non
mi
ricordo nulla, dimmi cosa stavo facendo».
Tancre
sospirò, ricordando con un sorriso la notte precedente, e
scosse la testa.
«Non
stavi
tradendo tua moglie, se è questo che ti preoccupa»
commentò. Era difficile
capire cosa passasse per la testa a Jecht, ma su alcune cose
– a volte a causa
di un delirio alcolico – era persino troppo chiaro.
Il
campione degli Zanarkand Abes, più tranquillo, si
lavò di nuovo la faccia e
guardò lo specchio, oltre al quale un uomo sfinito lo stava
fissando.
Se devo
proprio farla, quella
stronzata, è meglio che succeda mentre sono sobrio,
considerò, senza provare nessuna
compassione per la persona che vedeva davanti a sé.
Dalle
parole di Tancre apprese che la Laguna Shore era una nave che metteva a
disposizione delle tratte alternative per potersi allenare a blitzball
in mare
aperto, mettendo a dura prova sia il fisico sia la mente. Tutto
ciò che l'atleta
doveva fare era decidere quanto voleva rimanere fuori casa e poi
salpava, in
modo da potersi consacrare allo sport evitando la tediosa vita
quotidiana.
Partire
per trovare se stesso come uno degli eroi senza macchia delle leggende
gli era
parsa sin da subito una buona idea: magari la vastissima distesa salata
senza
fondo che lo attendeva lo avrebbe ripulito dal marciume che si portava
dietro.
Preso dal
brio, pensò che sarebbe stato l'ideale anche per
perfezionare il suo Tiro Jecht
Numero Tre, ormai leggendario, visto che la gamba destra era rimasta
infortunata dagli intensi allenamenti. Per risolvere il problema, Jecht
si era
imposto di imparare la tecnica anche tirando di sinistro,
così lo sforzo
sarebbe stato equilibrato.
Nonostante
i nobili intenti, ciò che lo faceva sentire davvero meglio
era la
consapevolezza che quella era la scusa perfetta per allontanarsi. Dalla
famiglia, da Zanarkand, persino dal continente. Tutto ciò
che voleva era
rimanere solo, lui e il mare, probabilmente non si sarebbe nemmeno
portato la
palla da blitzball.
Che il sale mi
purifichi.
Ringraziò
di cuore il compagno di squadra, gli diede una pacca sulla spalla e gli
augurò
buon viaggio, preparando le sue cose per andarsene.
«Aspetta,
Jecht! Non vorrai mica andarci anche tu? Con quella gamba? Un conto
è il campo
da gioco, un conto sono le correnti del mare aperto!»
«Beh,
se
ci riuscirò diventerò una leggenda eterna! E poi,
vuoi forse dire che sei
migliore di me?»
Fece a
Tancre un occhiolino affettuoso e uscì dalla quella casa,
alla volta della
propria. Il suo passo impetuoso rallentò a poco a poco, come
se volesse
temporeggiare anche sulla decisione appena presa.
Jecht
alzò
le braccia e si stiracchiò, facendo lunghi e profondi
respiri. Il sapore
terribile che aveva in bocca si era attenuato ma non era ancora
sparito: in
qualche modo gli ricordava l'amara realtà.
Avrebbe
recato l'ennesima delusione a Lauren, avrebbe perso nuovamente i
piccoli
progressi della crescita di suo figlio, e ciò era
innegabile. Non sapeva se
valesse la pena lasciare tutto alle spalle, ma era sicuramente
ciò che
desiderava. Almeno per un po', almeno per il tempo necessario. Cosa
volesse,
ancora non gli era chiaro.
Si
concesse il lusso di prendersela comoda e arrivare alla sua abitazione
dopo
qualche ora, quasi indeciso se entrare o meno.
Non essere
stupido, sono
preoccupati per te.
Lauren
sobbalzò quando vide il marito entrare: fu davvero lieta di
vederlo in piedi
sulle proprie gambe, nonostante avesse una pessima cera. Non doveva
nemmeno
chiedersi cosa fosse successo, ormai era la routine.
«Jecht,
finalmente! Temevo di doverti ripescare al locale...»
«E
non
sarebbe la prima volta, vero? Ah... mi dispiace».
«Sì,
sì...
lo so. Almeno, dove sei stato? Stai bene?»
«Insomma,
sì. Sono stato peggio. Ero da Tancre, mi ha recuperato
lui» disse ridendo, ma
Lauren non era altrettanto ilare.
«Jecht,
per favore, non voglio vederti ridotto così ogni volta.
Perché non riesci a
fermarti? Tidus avrà solo pessimi ricordi di te».
Il
campione iniziò a sentire un fastidioso senso di oppressione
allo stomaco,
stavolta non dovuto agli alcolici. Erano parole che facevano male, ma
non la
biasimò, anzi. L'unica risposta che la sua mente annebbiata
elaborò fu il
desiderio di fuga, tanto che intravide l'occasione perfetta proprio
nelle parole
doloranti della moglie.
«Hai
proprio ragione: non posso continuare così, me lo dici da
tanto tempo. Voglio
fare qualcosa» disse accondiscendente. Lauren rimase a bocca
aperta.
«D-dici
sul serio? Stavolta è... vero?»
«Assolutamente
tesoro, davvero... ho deciso di partire per un po' di tempo. Mi
imbarcherò
sulla Laguna Shore e mi allenerò in mare aperto, lontano
dall'alcol e dal
caos».
«Vuoi
partire? Così lontano... non è
pericoloso?» disse titubante.
«Non
so
dirlo, ma sono convinto mi serva davvero».
Lauren
abbassò lo sguardo, poi girò la testa verso la
cameretta di Tidus.
«Accetterò
solo se mi prometti di provarci davvero. Non per me, Jecht, fallo per
tuo
figlio».
«M-ma
certo, ovvio! Ora vado a fare i bagagli, ok?»
Cazzate,
solo cazzate.
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Capitolo 3 *** Abbandono ***
CAPITOLO 3:
ABBANDONO
Jecht non
ricordava quando aveva visto per l’ultima volta il sole
accarezzare le pagode
di Zanarkand e l’acqua delle cascate intrappolare la luce.
Dal molo
dove aspettava la Laguna Shore osservava il mattino sgargiante, in
qualche modo
meno pacchiano dell’illuminazione notturna. Quando pensava
alla sua città, la
vedeva come un faro nel buio, una stella artificiale che voleva
rivaleggiare
con quelle che splendevano sopra di lei.
Le partite
di blitzball si svolgevano di sera, nello stadio automatizzato che
lasciava
sempre a bocca aperta i bambini. Subito dopo c’erano le
feste, tanto che
Zanarkand gli era sempre sembrata vivere in una notte eterna: forse, al
sorgere
del sole, sarebbe svanita come un sogno. Eppure le nuvole viaggiavano
nel cielo
limpido, i gabbiani gridavano e le luci oltre le finestre erano spente,
le
tende tirate.
Che cosa
si poteva fare, di giorno, oltre a correre e allenarsi sulla spiaggia?
Oltre a
immergersi nella sfera d’acqua e stringere il pallone,
focalizzandosi sul
vincere la partita?
Jecht
socchiuse gli occhi scuri e ascoltò le onde che si
infrangevano sul molo, in
uno dei rari momenti di pace che gli erano concessi. Davanti a
sé vedeva le
navi salpare per il mare caliginoso, svanendo dietro la curva
dell’orizzonte.
L’ebbrezza se n’era andata ed era tornata la
sensazione di pesantezza che gli
invadeva ogni giorno lo stomaco, alleviata solo dal canto delle acque.
Forse un
giorno avrebbe potuto portare suo figlio sul molo: gli avrebbe indicato
le vele
che passavano e, anche se era stonato, gli avrebbe canticchiato
quell’inno
strano che risuonava ogni tanto durante le partite.
La Laguna
Shore, interrompendo la sua contemplazione, arrivò
finalmente all’attracco. I
suoi motori facevano vibrare l’aria come il diaframma di una
balena e il suo
scafo lucido si preparava ad accogliere i viaggiatori.
Jecht
sospirò e strinse il manico del borsone che aveva appoggiato
alla spalla
sinistra. Si voltò per l’ultima volta in direzione
della fulgida Zanarkand che
avrebbe lasciato per qualche giorno. Gli si strinse il cuore, come se
per
qualche motivo presentisse un addio.
Non piangere
la città che perdi, disse
all’improvviso una voce nella
sua testa, chiediti piuttosto se sei
stato degno di lei.
Jecht
aggrottò le sopracciglia: gli sembrava che Tidus avesse
parlato, o comunque un
ragazzino della sua età. Alzò lo sguardo in
direzione della nave e vide un
bambino che, con aria assente, ne ammirava il profilo. Aveva la pelle
scura
come quella dei marinai, il suo volto era celato da un cappuccio viola
e la sua
vita cinta da numerosi ornamenti d’oro.
La visione
durò soltanto un istante. Il campione degli Zanarkand Abes,
immobile, si
premette le dita sulle palpebre mentre veniva superato da altri
viaggiatori.
Gli era capitato di essere stato ubriaco per più di un
giorno, e anche di avere
qualche miraggio dovuto all’assenzio che dissolveva la sua
lucidità, ma quella
mattina era sicuro di essere tornato sobrio. Con un mal di testa che lo
faceva
impazzire e lo stomaco rivoltato, ma sobrio.
Scosse il
capo e fece un gesto all'aria, attirando lo sguardo confuso degli altri
passeggeri. Non era il momento di farsi colpire dai sintomi della
sbornia, non
se, da lì a poco, avrebbe dovuto affrontare il mare aperto.
In che casino
mi sto ficcando…
Ormai era
tardi per ripensarci: Jecht salì sulla nave con passi
pesanti che echeggiavano
sul metallo della scala, dirigendosi verso la prua. Il mezzo si stava
riempiendo in fretta sia di semplici viaggiatori sia di atleti, quindi
decise
di aspettare all'aperto prima di scendere sotto coperta.
Lo
lasciò
interdetto il fatto che nessuno si avvicinasse per stringere la mano al
grande
campione: sentiva i bisbigli delle persone che lo avevano riconosciuto,
qualcuno si chiedeva se fosse davvero lui.
I
giocatori di blitzball lo guardavano da lontano con un misto di
ammirazione e
timore, sognando di emularlo e diventare famosi: loro non erano che
l’ecatombe
delle partite, gettata nella sfera d'acqua solo per far numero,
semplici
ostacoli da scansare per Jecht.
Non sapeva
dire se il loro distacco gli facesse piacere o meno. In cuor suo
sperava di
ricevere qualche attenzione prima della grande impresa, ma era anche
lieto di
non essere infastidito proprio nel suo momento più intimo:
la partenza.
La Laguna
Shore si staccò placida dal molo, lenta e accomodante come
una carezza,
muovendo una leggera brezza che fece rabbrividire la pelle di Jecht.
Non era
abituato a saggiare la freschezza del mattino, tanto forte era in
genere il
sonno alcolico causato dalle sue serate sregolate.
Si
sentì
scosso più della superficie del mare e afferrò la
barra di ferro che delimitava
la prua come se ne valesse della sua vita. Troppe cose erano fuori
posto e
fuori dal suo controllo, oltre quell'orizzonte dominava un mistero che
avrebbe
potuto inghiottirlo.
Fino a
quel momento era stato tutto semplice: svegliarsi, prendere qualcosa
per la
sbornia, subire le devastazioni intestinali causate dall'alcol e
riprendersi in
tempo per l'allenamento. Nel luogo ove stava andando, invece, non c'era
niente
di tutto questo, solo una profonda e terrificante incertezza.
Per chi lo
stava facendo veramente? Per se stesso, per Lauren o per Tidus? O per
nessuno?
Un semplice gesto di autodistruzione finale per sentirsi giustificato a
mollare?
La testa
gli iniziò a girare, forse era l'unica sensazione familiare
del momento.
Si
accasciò sconsolato sul ferro umido, puntando gli occhi su
Zanarkand che
diventava sempre più lontana. La nausea aumentò,
qualcosa non andava: si
sentiva come sull'orlo della morte.
Diamine,
Jecht, non puoi stare così
male! Forse è meglio andare di sotto.
Fece per
andarsene, ma non riusciva a staccarsi dalla brezza fin troppo fredda
dell'alba, l'aria viziata degli ambienti chiusi della nave lo avrebbe
soffocato.
Rimase
immobile, braccato da qualcosa di invisibile di cui non comprendeva
nemmeno la
natura. Due giovani atleti passarono vicino a lui: al contrario del
campione,
loro non avevano nessun problema a scendere sotto coperta, infreddoliti.
«Ma
è
davvero lui?» chiese quello biondo all'amico, più
minuto e dai capelli castani.
«Credo
proprio di sì, quella bandana rossa è
inconfondibile».
«Cosa
ci
fa qui? Non lo sa che è pericoloso fare l'allenamento
speciale? Solo un pazzo
lo farebbe nelle sue condizioni...»
«Un
pazzo,
o un suicida. Lo sanno tutti che l'infortunio alla gamba è
stato brutto, forse
il suo regno è finito».
Maledetti
idioti, a prua i bisbigli
si sentono benissimo.
Pensò
che
gli inetti rimanevano tali perché parlavano tanto ma non
facevano nulla di
concreto. Quei due incapaci erano semplici pedine e sempre lo sarebbero
stati,
li avrebbe schiacciati anche senza una gamba e un braccio.
Partorire
quel pensiero, in qualche modo, lo fece sentire meno inetto a sua
volta: lui
stava cercando di cambiare. Non era forse abbastanza? Si era imbarcato.
Lo
stava facendo per davvero, anche se Tancre non aveva specificato per
nulla quanto sarebbe stato
pericoloso.
Un po' troppo pericoloso. Jecht sentì
la pelle
del collo umida, ma non era la salsedine. Rischiava sul serio di andare
a
sentir cantare i grilli, e non aveva ancora capito perché
aveva deciso di
farlo.
Morire per
fuggire o, ancor meglio, rischiare di morire ed essere autorizzato a
lasciarsi
tutto alle spalle. Avrebbe potuto ripensarci e tornare indietro, magari
aspettare qualche giorno in albergo e poi presentarsi a Lauren con il
volto
sconvolto di chi l'ha scampata per un soffio.
E poi
lasciarla libera. Jecht non provò nemmeno a giustificarsi:
era un marito
deplorevole e lo sapeva, non era nemmeno sicuro di amarla, dopotutto.
Lauren
meritava di meglio. Sì. Jecht lo stava facendo per il suo
bene, solo per lei,
per salvarla dal comportamento tossico che non riusciva ad abbandonare.
Sarebbe
stato molto semplice, se non fosse stato per Tidus. Si conoscevano a
malapena,
suo figlio aveva bisogno di un padre vero, di stabilità.
Quanto avrebbe
sofferto per la separazione dei suoi genitori? Lo avrebbe distrutto o
ne
sarebbe stato felice? Era giusto distruggere la famiglia e lasciare
tutte le
sue responsabilità?
Responsabilità. Jecht
indugiò su quella parola
per qualche minuto, realizzando una verità ovvia ma che, in
cuor suo, non
voleva dire ad alta voce per non doverla affrontare. Voleva davvero
bene a
Tidus e Lauren, ma non riusciva a vederli come amati famigliari, quanto
come
una missione di cui prendersi carico.
Lo aveva
fatto quando la ragazza gli aveva rivelato di essere rimasta incinta.
Non si
era tirato indietro e l'aveva sposata: quando aveva preso suo figlio in
braccio, per la prima volta nella sua vita, si era sentito commosso.
Nonostante
tutto, rimaneva comunque un dovere, e quel peso non riusciva a
toglierselo di
dosso.
I pensieri
correvano veloci: di rado sentiva la mente cosí torbida da
sobrio, era sempre
l'alcol a riempire la testa fino a scoppiare. La decisione da prendere
era
cruciale, forse era proprio il bere la spinta in più che
cercava per andare
fino in fondo. Era fatta, era sicuro, fine della storia.
Una certa
nausea gli invase lo stomaco: era arrivato il momento di mangiare
qualcosa
sotto coperta. Si girò e vide che era rimasto solo sulla
prua: era talmente
preso dai suoi ragionamenti deliranti che non si era accorto delle
persone che
se ne andavano dietro di lui, nemmeno dei due ragazzini che lo avevano
dato per
spacciato.
Le nubi si
erano addensate con velocità tremenda, superiore a quella
che avevano sopra la
terraferma, come se – slacciate dai vincoli –
fossero state attratte l’una
dall’altra. Il cielo era cupo e i lampi lo tingevano di rame.
Invece di
spaventarsi, per i propri pensieri di poco prima e per la tempesta che
stava
per travolgere la nave, Jecht si trovò con il viso rivolto
verso l’alto, i
rombi dei tuoni imitati dal ruggito dentro al suo petto.
Attorno a
lui c’era solo acqua livida, senza punti d’appiglio
per lo sguardo, specchio di
una volta nera e infinita in cui qualcosa avesse inghiottito le stelle.
Sopra di
lui passò l’urlo di un uccello, e tre volte la sua
ombra dalle ampie ali girò
sopra la nave. Jecht non ne aveva mai visto uno, ma aveva sentito le
leggende
dei pescatori. Condor lo
chiamavano,
e narravano che tra le piume portasse i resti delle anime che avevano
lasciato
il mondo fuggevole: quando con rumore si levava, taceva ogni cosa
all’orizzonte.
Come
seguendo i richiami di quella creatura, il mare a un tratto si
gonfiò e
cominciò a ruggire, la nave fu flagellata
dall’improvvisa tempesta. S’inclinò,
spinta dal vento che sembrava volerla accartocciare come un foglio
gettato alle
fiamme. Jecht venne sbalzato in aria, ma stringendo i denti
serrò le mani
attorno alla ringhiera. Non era ancora pronto: non sarebbe salito in
quel
momento sulle ali del Condor.
La
pioggia, troppo forte per essere fermata dalle ciglia, gli entrava
negli occhi
e lo costringeva a socchiuderli. Voltò il viso
all’indietro, in modo che le
gocce gelide che lo frustavano non lo ferissero, e lo vide per la prima
volta.
Era un
gorgo che scendeva e schiumava, avvolgendosi su se stesso. Attraverso i
flutti
emergevano file di fanoni immensi, intervallate da orridi denti. Sotto,
la
bestia paurosamente assorbiva l’acqua e subito dopo la
vomitava, per poi
riassorbirla ancora.
Le
urla di
Jecht, mentre precipitava, furono soffocate dal vento e dalla pioggia
che gli
entrava in gola. In alto gridò il Condor, che pareva non
sentire il peso della
tempesta sulle proprie ali.
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Capitolo 4 *** Guardare oltre ***
CAPITOLO 4:
GUARDARE OLTRE
«Avete
sentito?»
C'era un
chiacchiericcio irrequieto come un bambino, quel giorno. Braska se ne
accorse
mentre passeggiava per le strade di S. Bevelle, colorate anche senza i
veli
araldi della festa.
«Ieri
notte han preso per la strada un ubriacone... uno anche abbastanza
giovane».
«Ma
era
uno famoso? Urlava come un ossesso! "Io sono Jecht, Jecht il grande!
Voi
non sapete chi avete davanti!" E poi è svenuto...
poveraccio».
«Ah,
le
strade sono sempre meno sicure».
A Braska
piaceva, quale che fosse la sua destinazione, passare per le vie
interne se era
giorno di mercato. Profumavano di cuoio e di deliziose mele croccanti,
anche se
doveva ancora trovarne di buone quanto quelle che, da bambino, rubava
dall'albero
dei vicini.
«Buongiorno,
don Braska» lo salutò una donna dietro a un banco
che esponeva frutta e
ortaggi. Il raccolto era stato abbondante, lo confermava il sorriso
sincero
sotto i suoi occhi stanchi.
«Buongiorno»
salutò lui con educazione, e si sistemò una
manica della tunica che aveva
scelto quella mattina. Era complessa, composta da numerosi strati di
stoffa
sovrapposti che davano l'illusione di essere dei petali: alle occasioni
formali, aveva sempre sostenuto, è importante presentarsi
ben vestiti. Estrasse
poi dal borsello una sporta di iuta e la porse alla donna.
«Mi
dà un
cavolo, per favore?» domandò. La venditrice
annuì e lui, figurandosi il broncio
della sua bambina di fronte alla brassicacea scoperta, fu svelto ad
aggiungere:
«E anche quel po' di fragole... quelle lì, se non
le dispiace».
Nel
frattempo prestava un orecchio al parlottare della folla: aveva preso
l'abitudine di farlo da quando aveva scoperto che, alcune volte, si
scoprivano
delle cose interessanti – o divertenti, come ad esempio che
il figlioletto pel
di carota di Cara, quella del noleggio barche, non somigliava affatto
al papà,
e nessuno in famiglia aveva mai avuto i capelli di quel colore.
«Ma
è vero
che diceva di venire da Zanarkand?» udì alle
proprie spalle, ma la risposta fu
sovrastata dalle urla dell'arrotino.
«Mi
dica,
Korya» esordì, rivolgendosi alla donna che stava
scegliendo il cavolo, «cos'è
questa storia di cui parlano tutti?»
«Ah,
cielo! Anima disgraziata, che Yevon lo scampi!»
esclamò lei, e d'istinto
interruppe la sua opera per portarsi una mano al petto, come colta da
una vampa
improvvisa. Poi abbassò la voce e continuò, con
tono cospiratorio: «Un
ammattito, poveretto, ieri se ne girava per le strade urlando. Era
ubriaco, e
si è messo a fare voci: "Dove sono? Dov'è la mia
Zanarkand?". E
gridava, ma tanto che metteva paura. Sono arrivate le guardie, lo hanno
preso e
portato in cella: secondo me l'abate voleva pure buttare via la
chiave».
«Zanarkand?»
domandò Braska, per accertarsi di aver capito bene.
«Sissignore.
Ma se m'ascolta a me, che ne ho visti tanti di disgraziati, quello
è stato
vicino a Sin e si è preso le tossine».
Braska
annuì pensoso e le allungò delle monete per gli
ortaggi, invitandola con
gentilezza a tenere il resto.
Si rimise
in cammino, concentrandosi sul riportare sulla retta via la mente, che
continuava a cercare di prendere il volo. Riuscì a non
perdersi e a giungere al
monastero dove vivevano e si addestravano i Templari di Yevon.
Chi aveva
disegnato l'edificio aveva in mente, mentre tracciava i segni sul
foglio, i
cerchi armoniosi dei pianeti e le parabole su cui scivolavano le
comete. I muri
erano lisci e bianchi, austeri come la vita degli uomini che lo
abitavano,
eppure le forme delle finestre e delle porte, i trafori nelle ringhiere
e la
cupola azzurra infondevano un senso di armonia in chi guardava.
Due
Templari che pattugliavano la zona, riconoscendolo, gli fecero la
riverenza,
poi si misero sull'attenti e presentarono le armi. Braska rivolse loro
un cenno
di saluto e infilò le mani nelle ampie maniche.
«Cosa
la
porta qui, mio signore?» chiese quello che impugnava
l'alabarda.
«Niente
di
importante, sono solo venuto a trovare un amico. Almeno, lo
spero!» rispose
Braska abbozzando un sorriso.
«Se
le
aggrada, potremmo darle una mano. Di chi si tratta?»
Il secondo
Templare si propose con una certa impazienza, cosa che non
passò inosservata
agli occhi del futuro Invocatore. Dovevano senza dubbio aver saputo del
recente
processo a suo carico, non li biasimava per essere sospettosi nei suoi
riguardi. Tuttavia, Braska era calmo e sicuro delle sue intenzioni, non
aveva
niente da nascondere e niente da temere. Non ebbe remore nel spiegare
loro chi
stava cercando.
«Ne
sarei
lieto. Conoscete un uomo di nome Auron? Credo sia un monaco guerriero
che opera
in questo monastero».
I due si
guardarono per un istante, poi quello armato di alabarda emise una
flebile
risata, annuendo con la testa. Braska arricciò il naso, non
capendo se la sua
reazione fosse dettata dallo scherno. La risposta era in
realtà ovvia, e non
gli piacque. Represse il suo disappunto e continuò a
chiedere indicazioni.
«Ah,
ottimo! Oggi Yevon mi assiste, fratelli. Sapreste dirmi dove
trovarlo?»
«In
questo
momento? No, non sappiamo dirle dove si trovi, ora. Provi a chiedere
nel
monastero, qualcuno lo avrà visto» rispose
l'altro, poi si allontanarono.
«Magari
sta rifiutando altre donzelle!»
I due
Templari ripresero la loro ronda tra le risate, lasciando Braska
profondamente
infastidito. Un singolo gesto di un uomo giusto avrebbe potuto essere
più virtuoso
della loro intera vita: il pensiero che quei giovani guerrieri non lo
avessero
ancora capito lo rattristava molto.
Sospirò
rassegnato, per poi dirigersi a passo lento verso l'entrata
dell'austero
edificio. Sulla soglia dovette fermarsi per riprendere fiato: non era
più
abituato a certe scarpinate.
Che Yevon
mi aiuti, in Pellegrinaggio sarò un peso morto se non mi
rimetto in forze...
Entrò
aprendo il portone con delicatezza e anche una certa fatica; fece
qualche passo
all'interno e porse i suoi omaggi alla divinità,
così come gli era stato
insegnato anni e anni prima.
L'arredamento
era scarno e modesto, come si confaceva a un ordine monastico. Le
stanze
orientate a est erano l'appartamento dell'abate, mentre dal chiostro
silenzioso
si aprivano archi che portavano al refettorio, al capitolo e alle celle.
Braska si
guardò intorno alla ricerca di Auron, o di qualcuno che
potesse aiutarlo. Quel
ragazzo imponente dai lunghi capelli neri non passava di certo
inosservato, ma
non gli sembrava di vederlo nei paraggi. Si avvicinò a un
monaco completamente
glabro e piuttosto anziano che aveva da poco terminato la sua
preghiera: faceva
fatica a rimettersi in piedi dopo aver passato molto tempo
inginocchiato, così
lo aiutò offrendogli un braccio.
«Buongiorno,
fratello. Che Yevon guidi i tuoi passi» esordì
Braska con un largo sorriso.
«Buongiorno
a lei, Braska. Grazie per il sostegno, figliolo: Yevon ha a cuore chi
aiuta un
povero vecchio. Quale pensiero del dio la conduce qui?»
«Sto
cercando un uomo di nome Auron. Sa dove si trova?»
«Oh...
Auron. Posso permettermi di chiedere perché lo vuole
sapere?»
L'anziano
monaco sembrava molto a disagio nel parlare del suo confratello, come
se si
vergognasse. Per Braska non fu difficile intuire che il gran rifiuto
del
ragazzo veniva visto come un disonore indelebile, ma era proprio per
quello che
desiderava tanto incontrarlo. Auron era stato uno dei pochissimi a
osare,
proprio come aveva fatto lui durante il processo, non poteva
rinunciarvi.
«Curiosità»
rispose Braska sorridendo pacifico. L'anziano rimase interdetto.
«Figliolo,
ma lo sa cosa ha fatto?»
Era
difficile non esserne al corrente. Il governo della Chiesa di Yevon
nutriva il
popolo con il pane, il blitzball e i pettegolezzi, e Braska, dal canto
suo, non
disprezzava certo nessuno dei tre.
«Certo,
fratello» rispose. «Sta di fatto, però,
che non nutro nessun interesse
nell'immischiarmi in certe faccende. Piuttosto, mi dica: Auron
è un valido
guerriero?»
«Assolutamente,
il migliore di tutti noi. Ha una forza fuori dal comune, quel
ragazzo...»
Dentro il
suo cuore, Braska esultò entusiasta: era proprio quello che
voleva sentire.
Auron era un uomo forte e giusto, colui e, forse l'unico, che avrebbe
mai
potuto desiderare per il suo Pelligrinaggio.
«Molto
bene, che gran fortuna! Quindi, potrebbe dirmi dove si trova, ora?
Sempre se ne
è a conoscenza, ovviamente».
La
gentilezza era un'arma affilata e potente, Braska lo sapeva bene. La
riluttanza
dell'anziano monaco fu completamente annientata dai modi di fare
lodevoli del
futuro Invocatore. Non gli negò il suo aiuto.
«Ma
certo,
fratello. Se mi attende qui un momento, lo vado a chiamare
affinché abbia
un'udienza con lei».
Braska
sospirò, stavolta sollevato. Osservò l'uomo
allontanarsi con ritrovato vigore,
poi si accomodò sulle scale in placida attesa.
Auron fu
sorpreso dal confratello mentre, con schiena china sui suoi averi, li
separava
per grandezza e li preparava per essere riposti nel suo bagaglio, con
una certa
tristezza nell'animo. Sbuffava più del solito: sembrava non
andare bene niente,
in qualche modo le sue cose trovavano sempre il modo di uscire dalla
sacca.
«Auron?
È
un buon momento? C'è una persona che vorrebbe avere udienza
con te» disse
l'anziano con tono imbarazzato.
Il giovane
monaco si bloccò di colpo, drizzò la schiena e
guardò con aria interrogativa il
confratello: chi mai avrebbe voluto vederlo proprio in quel frangente?
«Sicuro
che non voglia sputarmi in faccia o insultarmi? Ormai è solo
questione di tempo
prima che lo facciano alla luce del sole» rispose secco.
L'astro
che aveva appena nominato si liberò dalle nuvole e lo
accecò proprio mentre
osservava nella direzione indicatagli dal confratello. Quando il
bagliore si
attenuò, vide un uomo seduto sulle scale che conducevano al
tempio.
C'era
qualcosa di familiare, eppure di estraneo, nella sua figura: era come
vedere
agghindato a festa un uomo che di solito indossava l'armatura. L'abito
celava
in parte le forme quasi emaciate del corpo, ma non c'era più
nessun velo a
impedire di vederlo bene in viso. Aveva i capelli castani, rasati corti
come se
fosse abituato a portare in genere qualche sorta di copricapo. Era
troppo
distante per distinguerne i lineamenti, ma Auron capì che
stava sorridendo.
«Grazie
per avermi avvertito, andrò subito a parlare con
lui» disse il giovane
congedandosi in fretta.
Attraversò
la strada che li separava a grandi falcate: non ne capiva il motivo, ma
si
sentiva impaziente come se non aspettasse altro da tempo.
«Auron,
giusto?» esordì l'uomo. Il giovane monaco
sgranò gli occhi, riconoscendo colui
che aveva visto, vestito di bianco, attraversare il ponte di Bevelle.
Un'ondata
di calore gli percorse il corpo e gli imporporò le guance,
spingendolo a
inchinarsi con riverenza. Quando si accorse di avere la bocca
semiaperta, la
serrò di colpo, rendendosi conto di dare un'immagine di
sé poco consona.
«Sono
Braska, sacerdote della chiesa di Yevon e tra poco, se il dio lo
vorrà,
Invocatore» si presentò. Dopo essere arrossito,
Auron impallidì per la vergogna
e si costrinse a guardarlo in volto: non riusciva a leggervi nulla se
non una
serenità serafica all'apparenza imperturbabile. I suoi occhi
azzurri erano un
po' socchiusi, in modo che le ciglia bloccassero la luce del sole, e di
fianco
al labbro inferiore aveva un piccolo neo.
«Le
domando scusa per la mia mancanza di rispetto, l'altro giorno alla
festa»
disse, dato che restare lì imbambolato senza proferir parola
non gli sembrava
una buona idea. «Non avrei dovuto prendermi tutta quella
confidenza».
Ad ogni
modo, dubitava che fosse venuto a sgridarlo, e ancora non riusciva a
capire
perché quell'uomo avesse chiesto di lui. Se gli avesse
rivolto una qualsiasi
richiesta, tuttavia, avrebbe fatto il possibile per accontentarla.
Braska
sorrise e strinse entrambe le mani su quella che somigliava in tutto e
per
tutto a una borsa della spesa.
«Non
riesco a vederla in alcun modo come una mancanza di rispetto, Auron,
dal
momento che non ti avevo nemmeno detto il mio nome» gli
rispose, sempre con
quell'indecifrabile espressione accomodante. «Ascoltami,
avrei un favore da
chiederti».
«Un
favore... a me, signore?» balbettò Auron, in
chiara soggezione.
Braska
annuì. Fece per proseguire, ma fu bloccato da un lieve colpo
di tosse e si
coprì la bocca con la mano destra. Auron notò che
vi portava la fede.
«Quanti
anni hai?» si informò.
«Venticinque».
«Hai
famiglia?»
«No».
Il
sacerdote annuì di nuovo, con una lentezza che tuttavia non
dava spazio a
nessuna esitazione. Poi gli fece cenno di sedersi su una delle panche
di marmo
sul perimetro del monastero. Auron obbedì, lievemente
inquieto a causa di
quella domanda che tardava ad arrivare.
Dei
passeri, planando, si posarono sul selciato davanti a loro e
cominciarono a
becchettare per terra. Braska li osservò con tenerezza e
storse le labbra,
forse rimpiangendo di non avere con sé del pane.
«Ho
intenzione di partire per il Pellegrinaggio»
annunciò dopo qualche istante.
Auron trattenne il respiro per impedire a un gemito sorpreso di
uscirgli dalla
gola. «A breve mi presenterò all'Intercessore di
Bahamut e, se il mio cuore mi
sosterrà, riceverò l'eone».
Fece una
pausa studiata, durante la quale fissò le sue iridi chiare
in quelle ambrate di
Auron.
«Spero
che
la mia fede mi dia la forza per affrontare il viaggio»
continuò, «ma a volte,
contro i mostri che infestano la via, una benedizione può
poco. Ho bisogno di
un Guardiano».
Gli
uccelli si alzarono in volo con un frullio di piccole ali.
«Temo
che
lei stia sbagliando persona» disse Auron, a mezza voce.
«In questo monastero io
non sono stato nemmeno il guardiano di me stesso».
I suoi
occhi si persero in un ricordo che li accecava, come il sole sulle
cupole e la
gloria di Yevon nelle sue ore di preghiera. Erano scandite dal rintocco
grave
della pendola regalata a Kinoc per la sua prima avanzata di rango.
Toc...
Toc...
«Quindi
rifiuti?» disse la voce di Braska. Ad Auron non fu necessario
voltarsi per
capire che ne era rimasto dispiaciuto. Immaginò il suo viso
con un'espressione
ferita e, come se lo conoscesse da anni, gli si strinse il cuore ad
avergli
inflitto un dispiacere.
«Sarebbe
per me il massimo onore seguirla nel Pellegrinaggio»
precisò Auron, «da sempre
desidero consacrare la mia vita a proteggere un Invocatore e non posso
che
accettare la proposta di un'anima nobile. Ho solo il timore di non
esserne
all'altezza».
Il
sacerdote, rincuorato dalla sua risposta, sorrise.
«L'abate
non la pensa così» gli rivelò.
«Quando gli ho chiesto chi fosse il migliore dei
suoi combattenti, mi ha risposto con il tuo nome. E il valore di un
uomo è di
sicuro molto grande, se viene ricordato in sua assenza».
Auron
rimase interdetto da quelle parole.
«Quando
mi
ha visto sul ponte, anche io stavo facendo ammenda per
qualcosa» gli confidò.
Per qualche motivo gli risultava facile parlargli, anche di
sé, quando con
chiunque altro si sarebbe chiuso dietro un muro di lame. «Ho
rifiutato di
sposare la figlia di un prelato, e non mi è stato concesso
di diventare
comandante in seconda. Ho deciso di rinunciare a qualsiasi carriera
all'interno
dei Templari».
«Capisco»
rispose Braska. Gli occhi di Auron, inconsciamente, tornarono sul neo
che aveva
sotto la bocca. Lui li costrinse a distogliersi da quel punto, per non
apparire
inopportuno, e li fece vagare sulla sua tunica color terra bruciata e
poi sul
proprio cappotto, di un tono di rosso più acceso.
«Molte
persone si sposano per convenienza» disse poi il sacerdote, e
il giovane monaco
non riuscì a capire se fosse una semplice constatazione, un
ammonimento o
chissà cos'altro. «Come mai hai
rifiutato?»
Auron
alzò
gli occhi con determinazione.
«Quello
che mi è stato chiesto non ha nessuna attinenza con i
precetti di Yevon»
rispose. «La ragazza ha quattordici anni. Mi hanno detto che
non sarebbe stato
necessario consumare il matrimonio prima che lei raggiungesse
l'età da marito,
ma allora io ne avrei avuti ventisette e lei sedici, di cui due
convissuti
forzatamente con me. Questo potrà farlo un altro uomo: io
non ci riesco».
L'Invocatore
annuì per l'ennesima volta, in modo più grave
delle precedenti. In un'isola che
a periodi veniva spazzata via da ciò che stava nel mare, era
comune sposare
fanciulle così giovani affinché mettessero al
mondo numerosa prole.
«Braska,
posso farle una domanda?»
«Io
te ne
ho fatte tante».
Il
Templare si guardò più volte attorno, per
accertarsi che non ci fosse nessuno a
portata d'orecchio. Nel cortile del tempio camminavano solo, svogliate
e
lontane, le due guardie di ronda, ma lui abbassò comunque la
voce.
«Se
scoprisse che nel suo ordine è diffusa la prassi di vendere
cariche, che cosa
penserebbe?»
«Penserei»
ribatté Braska, intrecciando le dita delle mani l'una con
l'altra, «che quello
che fanno non ha nessuna attinenza con i precetti di Yevon».
Il
silenzio che seguì servì all'uno a soppesare
quelle parole, all'altro a
estrarre dal proprio borsello una pezza di stoffa nella quale era
avvolto un
carboncino.
«Anche
io
devo rivelarti cosa voleva da me l'Inquisizione, Auron, prima che tu
accetti la
mia proposta. Però capirai che è qualcosa di
ancor più pericoloso di quello che
mi hai detto tu e che qui non posso proprio parlare» si
interruppe, rigirandosi
il carboncino tra le mani affusolate. «Hai della carta con
te? O qualcosa su
cui scrivere?»
Per
istinto, Auron si tastò la veste prima di dirgli di no.
Allora
Braska aprì la sporta con gli ortaggi e, con pazienza, prese
a tirare una
foglia del cavolo. Quando, dopo qualche tentativo, quella si
staccò, ci scrisse
qualcosa con il carbone prima di porgerla ad Auron.
Infine si
alzò e, mentre lui teneva la foglia con il suo indirizzo in
grembo, gli posò
una mano sulla spalla e fece sì che lo guardasse negli occhi.
«Non
prendere decisioni affrettate» gli disse, con calma ieratica,
e la sua voce
suonò come l'ultimo fiato di vento prima di una bonaccia.
Auron
vagava smarrito nella piccola Piazza dell'Alba, dov'erano accrocchiate
le
botteghe della città. Ci era arrivato per caso, quando aveva
mancato una svolta
a sinistra ed era andato dritto.
Le parole
di Braska continuavano a rimbombargli nelle orecchie, soffuse e allo
stesso
limpide come la rugiada del mattino: proprio lui, dopo essere stato
rifiutato
dal suo stesso ordine, era stato scelto per ricevere l'onore immortale
del
Guardiano.
Così
come
Zaon era stato il sostegno di Yunalesca, avrebbe protetto l'Invocatore
con
tutte le sue forze, avrebbe consacrato a lui la propria anima e la
propria
spada, fino a quando Sin sarebbe stato distrutto.
Auron
alzò
lo sguardo e si trovò davanti la vetrina di un negozio che
pareva vendere
confetture e dolci. Gli parve un buon regalo: stava ormai camminando da
più di
mezz'ora, incerto su cosa comprare. Nessuno lo aveva mai invitato in
un'abitazione privata, non conosceva il sacerdote e non sapeva cosa
avrebbe
potuto risultargli gradito e cosa, invece, lo avrebbe offeso. Aveva
sentito
dire in giro che lame e coltelli – nonostante un guerriero li
ritenesse utili –
erano un regalo di cattivo auspicio; invece, i fiori andavano bene
soltanto per
una signora.
Raramente
Auron aveva messo piede fuori dal monastero per motivi di piacere,
comunque
legati a qualche ricorrenza religiosa. Non poteva certo presentarsi da
Braska
con gli stessi incensi che recava ai templi del dio.
Si fece
coraggio e, con lo stesso impeto con cui scendeva in battaglia, spinse
la
piccola porta di legno. Una campanella dal suono cristallino appesa
sopra lo
stipite annunciò il suo ingresso.
A quel
segnale, un'anziana minuta alzò verso di lui gli occhi scuri
e vivaci. Le sue
mani erano sospese in aria sopra un pacchetto che stava incartando con
gran
perizia.
«Buonasera»
lo salutò con la voce resa stridula dall'età.
Auron
maledisse la sorte per essere l'unico cliente: la presenza di qualcun
altro gli
avrebbe dato qualche minuto per formulare una richiesta di senso
compiuto.
«Buonasera»
mormorò, a voce troppo bassa per essere udito.
«Cosa
desidera?» chiese la negoziante, e il giovane
sentì il sangue defluire dal
viso. Non era pronto per quella domanda.
«Un...
dolce» azzardò, e si rese subito conto della
stupidità della sua affermazione,
dato che la donna era circondata da torte di ogni tipo.
Lei non
perse la pazienza e gli rivolse un'espressione intenerita, forse
prendendolo,
dato l'atteggiamento impacciato, per un innamorato che non sapeva che
regalo
portare alla fidanzata.
«Un
dolce
di che genere?» lo incalzò. Lui si
irrigidì ancora di più.
«Io
non...
non lo so» ammise, con imbarazzo.
Non ho mai
mangiato dolci, si rese conto. Poi, però, gli sovvenne un
dettaglio che forse
avrebbe potuto essere utile.
«Mi
piacciono le mandorle, se può aiutare... »
aggiunse. Le aveva provate una volta
o due.
L'anziana
sorrise come se avesse avuto davanti uno scolaretto che ha appena
balbettato la
risposta esatta.
«Venga
con
me, le mostro che cos'ho sul retro».
|
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Capitolo 5 *** Braska ***
CAPITOLO 5:
BRASKA
La bianca
casa dal tetto a pagoda dell’Invocatore Braska era circondata
da rovi di rose
che si arrampicavano fin sopra il porticato. La primavera era troppo
prematura
perché fossero già in boccio, ma Auron,
guardandoli, si rese conto che il voler
essere circondato da fiori era un indizio su chi fosse
quell’uomo, molto più
rivelatore delle espressioni che gli aveva visto dipinte in volto.
Il giovane
monaco non aveva ricevuto nessuna indicazione su come o quando
presentarsi a
casa di Braska. Tutto ciò che possedeva era una larga foglia
di cavolo dove
l’indirizzo era stato tracciato con un carboncino ormai
sbavato, e un sacchetto
contenente dei pasticcini alle mandorle.
Si chiese
per l’ennesima volta se il pomeriggio inoltrato fosse un buon
momento per
andare a trovare qualcuno, poi deglutì per inghiottire la
paura e si avvicinò
al campanello.
Oltre alla
ringhiera arricciata in ferro battuto, e oltre la siepe che nascondeva
con
discrezione alla vista il giardino, qualcosa si mosse attirato dal
suono.
Auron,
impacciato e curioso, spostò lo sguardo verso il basso e
incontrò gli occhioni
spalancati di una bambina, grandi come quelli di un cerbiatto che fissa
il
mondo al limitare del bosco. Nonostante il sole stesse declinando, e la
luce
aranciata mescolasse i colori, si riusciva a distinguere con chiarezza
che le
sue iridi erano una azzurra e una verde.
Forse,
quindi, erano per lei le rose.
«Ciao»
provò a dire Auron con un mezzo sorriso, sperando di non
sembrare spaventoso.
Non aveva mai avuto a che fare con dei bambini, negli ultimi anni.
La piccola
sussultò e si nascose meglio che poteva
all’interno degli arbusti. Non era
scappata, e i suoi scompigliati capelli castani erano ben visibili, ma
Auron
fece finta di non accorgersene e guardò altrove.
Quando la
porta della casa si aprì, la bimba schizzò verso
la figura che stava uscendo.
«Papà,
papà!» gridò. Braska si
chinò su di lei con un’espressione dolce, poi le
disse
qualcosa con gli stessi modi cortesi che usava con gli adulti. Lei gli
si
avvicinò ancora di più, fino a sussurrargli
qualcosa all’orecchio.
«Il
signore è un amico di papà» le
spiegò il sacerdote, rivolgendosi verso Auron.
Gli fece cenno di entrare e di raggiungerli attraverso il vialetto di
ciottoli
bianchi.
Auron
aprì
il cancello e, quando lo richiuse dietro di sé, volse il
viso per un istante al
tramonto tiepido. Braska intanto aveva preso in braccio la sua bambina,
che
continuava a guardarlo con tanto d’occhi.
«Ciao»
riprovò a salutare, ma lei si strinse con timidezza al petto
del padre,
abbassando la testa sulla sua tunica azzurra. Auron allora ci
rinunciò e si
rivolse all’Invocatore. «Buonasera, Braska, spero
di non disturbarla».
«No»
rispose lui, sereno. «Ti stavo aspettando. Yuna, sii educata,
saluta Auron».
A
quell’invito, la bambina cedette e mormorò un
flebile ciao. L’uomo poi la posò
a terra e la invitò a rientrare in casa: sembrava un
po’ affaticato per
averla sollevata, ma cercò di dissimulare
la sua smorfia con un sorriso.
«Questo
è
per lei» esordì Auron, porgendogli il sacchetto
con la stessa prontezza di
spirito di un ragazzino al primo appuntamento.
«Oh,
non
dovevi» commentò Braska, poi si mise ad allargare
i manici del regalo, cercando
di sbirciarne il contenuto. «Uff, non si vede
niente» si lamentò, poi tornò ai
suoi atteggiamenti abituali. «Coraggio, seguimi».
Auron
passò per un piccolo ingresso, dove un piccolo arazzo
colorato raffigurante un
drago stilizzato – Bahamut, l’eone di Bevelle
– sovrastava una cassapanca
decorata da un vaso e da un centrino. Era tutto molto ordinato e
preciso, a
partire dalle scarpe allineate a fianco alla porta sino ad arrivare ai
libri
schierati sugli scaffali a muro. Oltre ai breviari, vi scorse titoli di
raccolte di poesia o trattati di storia, anche su argomenti piuttosto
specifici
come le usanze degli Al Bhed.
Il giovane
monaco si chiese se dovesse o meno ritenere insolita la presenza di
libri che
la chiesa aveva messo all’indice, poi fermò i
propri pensieri: non sapeva fino
a quanto fosse lecito guardarsi attorno in casa d’altri,
né in quale stanza
avrebbe dovuto dirigersi. Per sua fortuna, Braska intervenne indicando
alla
propria destra.
Era una
sala tonda, confortevole e raccolta, al centro della quale stava un
tavolo
ovale a cui l’ospite lo invitò a sedersi mentre
egli si dirigeva in cucina per
aprire il suo regalo. Yuna gli trotterellava dietro, cercando di
aggrapparsi
alla sua veste. Di nuovo colto dal demone della curiosità,
Auron allora si
sporse verso la poltrona poco distante: era chiaro che qualcuno vi era
rimasto
seduto fino a poco tempo prima. Sopra al pouf c’era un libro,
con posati
accanto degli occhiali a mezzaluna. Data la scarsa distanza, erano
facilmente
distinguibili la copertina – un uomo e una donna seduti in
riva al mare che si
guardavano intensamente negli occhi – e il titolo: Libeccio
d’amore a Luka.
Auron decise che aveva curiosato abbastanza.
«Mi
piacciono moltissimo i pasticcini alle mandorle!» lo
richiamò una voce dalla
cucina, mentre lui stava cercando di togliersi dalla mente quella
copertina
invereconda. «Dimmi, per caso bevi vino?»
«Io…
sì»
balbettò Auron confuso, «ma non...»
Non fece
in tempo a finire la frase che Braska era già uscito dalla
cucina con un
vassoio in mano. Vi aveva posto i pasticcini, una brocca di vetro
smerigliato
con del vino dolce e due bicchieri allungati.
«Prego,
unisciti a me» gli disse con cortesia, posandogli il
bicchiere davanti agli
occhi. Auron stava per aprire la bocca per replicare quando
sentì qualcosa che
picchiettava sulle sue ginocchia. Si voltò e vide la piccola
Yuna che gli
offriva un cestino con dei frutti rossi.
«Vuoi
fragola?» gli domandò.
Il monaco,
intenerito, sorrise e ne accettò una, osservato dalla
bambina che aspettava un
parere da parte sua.
«È
davvero
molto buona, grazie...»
Yuna
saltellò via allegra, mentre Braska prese posto sulla
poltrona scrutata poco
prima dal monaco. Come se niente fosse, il padrone di casa prese il
libro
romantico e lo nascose sotto altri volumi, lasciando piuttosto basito
Auron.
... Pensa
forse che io non l'abbia
visto?
L'invocatore
mangiò di gusto un pasticcino e bevve un lungo sorso di
vino, come se volesse
darsi la spinta necessaria.
«Auron,
il
tuo regalo è davvero gradito» disse con le guance
ancora piene.
Nonostante
il galateo dell'Invocatore lasciasse molto a desiderare, il giovane
monaco tirò
un sospiro di sollievo nell’apprendere che aveva fatto la
cosa giusta.
«Ne
sono
molto lieto, signore» rispose, schiarendosi la voce. Notando
l'imbarazzo
dell'ospite, Braska assunse una postura più composta.
«Tornando
al discorso che abbiamo iniziato» esordì, unite le
mani in grembo, «ho deciso
di partire per il Pellegrinaggio, e mi serve un Guardiano. Uno molto
abile, il
più abile. Tu, Auron. E non escludo che potrei avere bisogno
d’altri».
Il monaco
rimase interdetto dalle sue parole: era insolito che un Invocatore si
affiancasse a più di un Guardiano.
«Signore,
posso chiedere il motivo di tale richiesta? Perché cercare
una protezione tanto
grande?»
Braska
sospirò un poco intristito; ad Auron fu fin troppo chiaro
che la questione era
più delicata di quanto avesse sospettato.
«Purtroppo,
mio buon amico, non sarà eccessiva nel mio caso. Dovrai
combattere per due»
disse amareggiato. «Sono stato malato di tisi pochi anni fa,
la mia salute è
molto cagionevole. Non ho affatto paura di combattere, ma la mia
volontà non è
sufficiente».
«Oh.
Mi
dispiace molto, signore...» rispose contrito, ma Braska non
smise di sorridere.
«Capisci
perché ho bisogno di te, Auron? Sei forse l'unico che
può davvero aiutarmi nel
mio Pellegrinaggio».
Lo aveva
capito eccome, Auron. Per tutto il tempo prima del colloquio si era
interrogato
sulle vere intenzioni di Braska, quell'uomo che, di punto in bianco,
aveva
chiesto di lui in modo specifico.
Gli
serviva il Guardiano migliore per il migliore dei propositi, la
virtù
dell'Invocatore era encomiabile. Per il giovane monaco, questo fu
abbastanza
per farlo sorridere appena, un piccolo cenno che nascondeva
l'aspirazione di
una vita.
«Sono
onorato oltre ogni misura di essere stato scelto. Divenire suo
Guardiano sarà
la benedizione più grande, mio signore».
Braska
strinse il pugno ed esultò a gran voce, spezzando quel
momento idilliaco che
Auron aveva sempre e solo potuto immaginare. Scosso da tale reazione,
il
giovane monaco si affrettò ad aggiungere una questione
fondamentale da
affrontare al più presto.
«A-aspetti,
non può ancora essere ufficializzato! Sono andato via dal
tempio, ma sono
ancora un monaco di Bevelle. Devo sostenere la cerimonia di investitura
per
diventare Guardiano».
Yuna
tornò
di gran fretta nella sala circolare, per poi aggrapparsi alle gambe del
padre.
«Ma
certo,
tutto quello che vuoi! Hai sentito, amore di papà? Vado a
combattere il
cattivissimo Sin!» disse Braska prendendo la figlia in
braccio.
«Cattivo!
Fatto male alla mamma!» urlò stridula la bambina,
agitando le braccia.
«Le
mie
condoglianze» disse sommesso Auron. L'Invocatore fece un
sorriso di cortesia.
«Grazie.
L'attacco di due anni fa, ricordi? Sin se la portò
via» rispose amaro, poi
guardò la figlia con occhi luminosi, «ma noi la
vendicheremo, giusto? Papà
ucciderà quel brutto mostro!»
Yuna fece
quello che ad Auron sembrò un grido di guerra: non vi era
dubbio alcuno che
fossero entrambi molto determinati. Pensò che la piccola
aveva la stoffa del
guerriero.
All’improvviso
calò il silenzio e Braska si fece serio, come se avesse
dimenticato qualcosa di
molto importante.
«Sei
consapevole che sono stato scomunicato per eresia?»
domandò, fissando gli aloni
di muffa, quasi invisibili, nell’angolo tra il muro e il
soffitto.
Auron
sospirò.
«Non
ne
conosco il motivo, ma ne sono al corrente» rispose.
«La
madre
di Yuna» spiegò Braska, «era
un’Al Bhed».
Auron
alzò
lo sguardo sull’Invocatore, senza ombra di pietà
negli occhi. Si morse le
labbra per trattenere la risposta e guardò Yuna. Giocava da
sola con una
bambola bionda, senza prestare più attenzione agli adulti.
«Gli
Al
Bhed sono un popolo pagano» disse, «e mai mi
accosterò alle loro tradizioni o
ai loro pensieri. Ma se lei ha provato amore per una donna e ha voluto
sposarla, e dal suo amore è nata una figlia, questo non mi
sembra peccato. Sono
qui in quanto semplice Guardiano; rimetto all’Inquisitore i
giudizi sulla
dottrina».
«È
deciso,
quindi. Prima di congedarci, Auron, avrei un'ultima
richiesta» disse Braska, a
cui era tornato il sorriso. Qualcosa gli diceva che non gli sarebbe
piaciuto.
«Tutto
ciò
che desidera, signore».
«Hai
sentito parlare dello squilibrato che hanno catturato? Farneticava a
proposito
di Zanarkand. Diceva di venire da lì, persino!»
Oh,
no…
«Sì,
signore. Le notizie corrono in fretta».
«Eccellente!
Prima della tua investitura, domani, lo andremo a trovare».
«…
Come,
scusi? Perché?» esclamò, un tantino
esasperato. Braska rise di gusto.
«Curiosità.
Non capita tutti i giorni di incontrare qualcuno che vaneggia su
Zanarkand, non
trovi?»
Jecht non
si aspettava certo, dopo una sua eventuale dipartita, di finire
nell’aldilà in
cui tutta Zanarkand credeva, in quel mare infinito e senza onde dove si
naufragava con serenità. Mai aveva rivolto il pensiero a una
morte oltre la
quale ci fosse altro, tantomeno aveva mai pregato affinché i
delfini, con
leggerezza, conducessero la sua anima su lidi lontani.
Non era
mai stato interessato a vivere la propria vita in funzione della
promessa di
averne, una volta trascesa l’esistenza terrena, una migliore.
Credeva che una
concezione come quella portasse ad abbandonare tanti soddisfacenti
piaceri in
favore di una speranza troppo incerta, troppo soggetta a brutte
sorprese. Come
quella che si era ritrovato davanti lui.
Il
Purgatorio era davvero strano. Non che si aspettasse di finire in una
dimensione mistica, bianca e avulsa dalla realtà dove
avrebbe aspettato come si
aspettava la metropolitana, ma la città dove era arrivato
era davvero bizzarra.
C’era gente che passeggiava esattamente come nel mondo reale,
con le stesse
facce dementi ma con vestiti più strani. E quando si era
messo a bere, per la
disperazione di essere finito in un aldilà che gli ricordava
troppo il suo
inferno quotidiano, lo avevano preso e sbattuto in guardiola.
La gente
della città sarà anche stata fiera di quella sua
cella elegante, in un palazzo
dall’architettura molto in, ma questo non toglieva il fatto
che, come tutte,
puzzava di urina e di prodotti che avevano fallito a trattarla.
La sua
notte trascorse in una bruma alcolica più fastidiosa delle
solite. La mattina
seguente, dopo aver esposto le dovute lamentele riguardo alla sua
reclusione ed
essersi sentito rispondere qualcosa relativo a una Chiesa, si
rassegnò a
sedersi sul letto rigido della cella con la testa tra le mani.
E se per
scontare la mia pena
dovessi starmene cinquant’anni qua dentro?
Jecht
navigava nella sua disperazione da un paio di giorni ormai quando gli
stramboidi che sorvegliavano la cella, all’improvviso, si
misero in moto come
api operaie all’arrivo della regina. Stavano accogliendo con
inchini e
salamelecchi qualcuno che era ancora al di fuori della sua visuale. Il
campione
di blitzball aggrottò le sopracciglia quando si accorse che
i passi del nuovo
arrivato si stavano dirigendo proprio verso la sua cella.
Le due rughe
al centro della sua fronte diventarono profonde come solchi
d’ascia quando vide
davanti a sé, attraverso le sbarre, un uomo che lo guardava
con curiosità e con
un sorriso supponente.
Era
vestito con una tunica a scaglie che aveva l’unico effetto di
farlo sembrare
una trota e in testa sfoggiava una specie di pennacchio dal gusto
discutibile.
«E
te chi
saresti?» sbottò, non appena il tizio smise di
squadrarlo come se stesse
pensando di renderlo un’attrazione per il circo cittadino.
Lui
inarcò
le sopracciglia e si avvicinò, per quanto possibile, alla
cella. Jecht si prese
un istante per osservarlo: a parte l’abbigliamento insolito,
non aveva
l’aspetto di una creatura ultraterrena, quanto di un uomo
più o meno della sua
età, con solo qualche ruga in più e delle vistose
occhiaie. Forse avrebbe
dovuto provare a essere gentile: magari non sarebbe stata la persona
adatta con
cui discutere di moda, ma avrebbe potuto liberarlo.
«Tu
sei
colui che chiamano Jecht, l’uomo che viene da Zanarkand,
vero?» replicò lo sconosciuto
con un irritante tono melodioso, caratterizzato da un accento che lo
faceva
andare in crescendo verso la fine delle parole e da una scelta di
vocaboli a
dir poco obsoleta.
«E
quindi?» replicò Jecht, mandando in malora le
proprie fantasie di cortesia e
accorgendosi di quanto roca e sgraziata apparisse la sua voce in
confronto a
quella dell’altro. Allora, pensò, si era sbagliato
e lui era una sorta di
angelo guida che lo avrebbe condotto attraverso l’espiazione
del suo peccato.
Quelle
elucubrazioni sull’aldilà vennero interrotte
all’improvviso da altri passi, più
concitati, che si avvicinavano alla guardiola.
Un tipo
con uno sgargiante cappotto rosso entrò in scena come il
coprotagonista della
brutta commedia cui era costretto ad assistere. Si mise di fianco al
primo
straniero variopinto, al confronto del quale sembrava un armadio a due
ante.
Ma come fa a
correre con quel palo
in culo?,
pensò.
Se non
fosse stato quasi sicuramente morto
–
un piccolo dubbio lo aveva, dato che non gli veniva in mente quale
divinità
potesse possedere un così spiccato senso
dell’umorismo – quella seconda
apparizione lo avrebbe terrorizzato, dato che sembrava in grado di
mandare al
camposanto con un pugno.
«Bada
a
come parli, malnato» disse il nuovo personaggio. Lui doveva
essere, dato anche
il modo in cui si esprimeva, o un matto da legare oppure lo spirito
severo che
avrebbe deciso la punizione adeguata alla sua colpa. In entrambi i
casi, era
meglio non farlo arrabbiare.
L’uomo
con
la tunica a squame gli rivolse un cenno e lui si calmò,
obbediente come un
cagnolino. Poi, tranquillo, si rivolse di nuovo a Jecht.
«Chiedo
perdono» gli disse. «Sono Braska, un Invocatore.
Sono qui per riscattarti da
questo luogo».
Il
campione di blitzball fu percorso da un’ondata di gioia, ma
presto tornò con i
piedi per terra e si rese conto che doveva essere cauto.
«Sembra
troppo bello» commentò, alzandosi in piedi e
ostentando una posa sicura. «Dov’è
il trucco?»
Braska
rise e si portò la mano destra a coprire le labbra, come una
principessa.
«Era
facile da capire, vero? Presto partirò per un
pellegrinaggio… verso Zanarkand»
gli rivelò, dopo una pausa a effetto.
Il cuore
di Jecht prese a martellargli nel petto. Casa. Non sapeva se credere
alle
parole di quello strano individuo, o se per Zanarkand intendesse il
placido
mare dell’Oltretomba, o se ancora stesse per risvegliarsi,
sudato, nel letto di
Tancre dopo un altro delirio da assenzio.
Eppure il
nome della sua città gli aveva causato un brivido che lo
aveva fatto sentire
più vivo che mai.
«Sul…
sul
serio?» balbettò, incapace di qualsiasi cinismo:
quella domanda gli era
scivolata fuori dalle labbra come se possedesse volontà
propria.
L’uomo
unì
i palmi delle mani e annuì, con aria un po’
assente, gli occhi fissi davanti a
sé che sembravano guardare in tutt’altro luogo.
«Vorrei
che ti unissi a noi» aggiunse, e si scostò dal
viso il velo attaccato al
copricapo. «Sarà un viaggio pericoloso. Ma se
raggiungessimo Zanarkand, lì le
mie preghiere verrebbero ascoltate, e tu forse riusciresti a tornare a
casa.
Che ne dici?»
«Mi
sembra
fantastico. Andiamo!» commentò Jecht, con una
punta di ironia. Del resto, se
voleva andarsene da lì non aveva molte alternative. Se si
fossero rivelati due
mitomani, cosa in realtà alquanto probabile, li avrebbe
accompagnati sino alla
loro prima tappa e poi si sarebbe dileguato rapido come il vento.
Il suo
entusiasmo risultò forse sospetto a Braska, dato che
inclinò la testa di lato e
alzò un sopracciglio con aria eloquente.
«Così
in
fretta?» gli domandò.
«Farei
di
tutto per uscire da qui».
Lo
sciroccato unì di nuovo i palmi delle mani davanti al viso,
questa volta
imitando un piccolo applauso come se fosse stato in un libro per
bambini.
«Allora
è
deciso!» esultò.
Quello
rosso, che non aveva spiccicato parola fino a quel momento, limitandosi
solo a
guardare Jecht con aria truce, a quelle parole si ridestò.
«Mi
devo
opporre» si intromise con aria decisa, sempre rigido come un
militare
sull’attenti. «Codesto ubriacone, un
guardiano?»
A quelle
parole, Jecht perse in modo definitivo le staffe.
«Vuoi
venire qui a dirmelo?» sbottò, stanco di essere
trattato in quel modo da un
uomo di cui nemmeno sapeva il nome.
Fu Braska,
questa volta, a intromettersi.
«Che
importa?» intervenne, voltandosi verso il suo amico.
«Nessuno crede davvero che
io, un invocatore caduto in disgrazia per aver sposato un’Al
Bhed, possa
davvero sconfiggere Sin. Questo è ciò che dicono
in giro: nessuno si aspetta un
nostro successo».
Di nuovo,
l’altro si acquietò nel sentire quelle le parole,
come se per lui l’uomo con la
strana tunica rappresentasse un guru spirituale o qualcosa di simile.
Jecht,
vincendo la sua iniziale repulsione per il ragazzo, cominciò
a osservarlo
meglio: sembrava molto giovane, non si sarebbe stupito se avesse avuto
una
decina di anni in meno di Braska. Nonostante il cipiglio severo e il
fisico
allenato, gli pareva avere delle reazioni impulsive che rimandavano a
un’adolescenza conclusa non da molto.
«Braska,
signore»
provò a obiettare, ma si bloccò, completamente
assoggettato, quando l’uomo gli
rivolse un’altra risata.
«Mostriamo
loro che si sbagliano» gli rispose. «Un invocatore
scomunicato, un uomo di
Zanarkand e un templare condannato al dimenticatoio per aver rifiutato
la mano
della figlia del prete. Che dolce ironia sarebbe se sconfiggessimo
Sin!»
L’istinto
di Jecht fu quello di aggrottare di nuovo le sopracciglia.
Ma con chi
sta parlando? si chiese.
Poi
contò
fino a cinque e cercò di formulare una risposta meno
sgarbata delle precedenti.
«La
smetti
di blaterare e mi tiri fuori da qui?»
Fallì.
Per quanto
ci provasse, Auron non riusciva a staccare gli occhi di dosso allo
squilibrato.
Da quando lo avevano liberato dalla cella, grazie
all’intercessione di Braska,
non aveva fatto altro che guardarlo con astio e rabbia, sperando in
qualche
modo d’incenerirlo.
Come
poteva essere una buona idea? Un ubriacone, che probabilmente non
sapeva
nemmeno combattere come Guardiano: una scelta del tutto
controproducente. Forse,
però, le vie di Yevon erano più chiare alla mente
cristallina di Braska, e a
lui in effetti non restava che obbedire.
Una volta
fuori dal corridoio delle celle, furono in una delle sale principali
del
Palazzo di Giustizia. Jecht, incuriosito, si avvicinò a una
delle piscine usate
dagli inquisitori per gli interrogatori. Se avesse saputo qual era il
suo
proposito, di certo non si sarebbe sporto così tanto.
Sembrava attratto
dall’acqua, come se gli facesse tornare in mente qualcosa.
«Libero,
finalmente!» esclamò, appoggiandosi alla ringhiera
che dava sulla piscina.
Presentava solo una stretta apertura, realizzata in modo che
l’accusato non
riuscisse in qualche modo a divincolarsi e a fuggire via.
Il monaco
di guardia gli rivolse un’occhiata in tralice, ma lui
continuò a stiracchiarsi
e a guardarsi attorno come se niente fosse. Sembrava davvero qualcuno
che
veniva da Zanarkand, ignorante di tutto.
Auron
soffermò ancora lo sguardo su di lui, riflettendo
attentamente su come poterlo
utilizzare in battaglia: era piuttosto muscoloso, soprattutto gli arti
superiori e il torace erano più sviluppati dell'addome e
delle gambe, più snelli
e flessibili. Sembrava aver compiuto un allenamento che favorisse
l’agilità
piuttosto che la forza, come quello di uno sportivo. Quando giunse al
viso –
che era sporco e dalla barba sfatta – e si rese conto che
Jecht stava
ricambiando le sue attenzioni con un mezzo sorriso, il monaco fu
alquanto
rapido a guardare da un’altra parte.
Un atleta
così preparato poteva tornare utile, in fin dei conti. Il
vistoso tatuaggio
nero che aveva in pieno petto, tuttavia, parlava chiaro di che tipo
d'uomo
aveva davanti, e quello poteva rappresentare un problema.
«Ora,
Jecht… sono nelle tue mani fino a quando raggiungeremo
Zanarkand» esordì
Braska, riscuotendolo dai suoi pensieri.
«Va
bene,
va bene... » replicò la voce sfrontata e
graffiante di Jecht. «Comunque, che
cos’è un incrociatore?»
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Capitolo 6 *** Con esso o sopra di esso ***
CAPITOLO 6:
CON ESSO O SOPRA DI ESSO
Il secondo
aspetto che Auron notò di Jecht – subito dopo quel
tatuaggio che ricordava
vagamente un cuore e che gli copriva tutto il torace – fu
l’odore acre che
emanava. Gli riportava alla memoria quando, per completare il
noviziato, aveva
vissuto con la povera gente e aveva condotto le capre per
l’erta. Disgustato,
si mantenne a distanza il più possibile, mentre guardava con
la coda
dell’occhio Braska che, sorridendo, spiegava con pacatezza il
proprio compito.
«E
diverse
città di Spira hanno il loro tempio» stava
dicendo, «dove noi Invocatori
preghiamo affinché ci sia concesso un Eone che combatta al
nostro fianco. Sono
creature grandi e temibili che ci daranno la forza per sconfiggere
Sin».
Auron
smise di ascoltare quella storia che aveva sentito così
tante volte da parergli
ormai scontata. Ogni cittadino di Spira percepiva la presenza di Sin
talmente
forte da aver imparato, ormai, a convivere con la propria ansia,
relegandola a
una brace coperta che ardeva in fondo allo stomaco. Ad alcuni, la
bestia marina
aveva sottratto ogni volontà di vita; altri invece, come
lui, avevano reagito
prima con un’ascetica indifferenza nei confronti della morte,
e poi
rivolgendole un’ironia laconica. Del resto, che male avrebbe
potuto portare una
battuta quando la vita sarebbe potuta svanire il giorno successivo?
«Ancora
con questo Sin? Ho sentito il nome un sacco di volte dalle guardie, ma
nessuno
si è mai degnato di dirmi nulla. Cos'è che andate
a combattere, esattamente?»
esclamò esasperato Jecht.
Auron
dovette trarre un respiro profondo per non rispondere al sedicente
abitante di
Zanarkand: far finta di non conoscere la causa principe della
sofferenza di
Spira era intollerabile.
«Accidenti,
non sapere una cosa del genere in questo mondo è piuttosto
importante! Certo,
per uno che viene da Zanarkand dovrebbe essere normale essere
all'oscuro di
tutto» disse Braska, facendo l'occhiolino al monaco.
«Sin è la punizione di
Yevon per i nostri peccati. Una bestia marina come non ne esistono
altre,
talmente potente da distruggere villaggi e città come se
nulla fosse».
Jecht
inorridì, spiazzato. Abbassò lo sguardo come se
stesse ripercorrendo dei
ricordi, poi scosse la testa, portando la mano destra sui capelli scuri
e
decisamente sporchi.
«Ma
in che
razza posto vivete voialtri? Diavolo… come sperate di
abbattere un mostro del
genere? Mi sembra un suicidio bello e buono».
Braska
scoppiò in un risolino imbarazzato, poi si grattò
un sopracciglio.
«Infatti,
Jecht. Fino ad ora nessuno è mai riuscito a sconfiggerlo del
tutto, ma lo hanno
messo a dormire per qualche anno. Questo periodo di pace lo chiamiamo
Bonacciale».
«Fammi
capire… voi andate a combattere un mostro invincibile
rischiando la vita per
qualche anno buono? È una follia!»
Auron
iniziò
a spazientirsi: come osava un pagano del genere metter bocca su
qualcosa di
così importante? Sul sacro compito degli Invocatori, per
giunta! Lanciò uno
sguardo furibondo a Jecht, ma il suo temperamento irruente fu fermato
da un
gesto della mano di Braska.
«Auron,
mantieni il controllo. Lui non sa niente, abbi pazienza»
disse calmo lui, ma il
monaco non poté in alcun modo nascondere il fastidio.
«Bah,
perché te la prendi tanto, monachello? Sto solo dicendo
quello che penso, non
ti sta bene?» sbiascicò quello con spacconeria, ma
Auron decise di obbedire al
suo Invocatore.
«Jecht,
capisco che sei nuovo di qui, ma la nostra storia è
tormentata da secoli, il
Pellegrinaggio è tutto ciò che abbiamo. Siamo
lieti di dare la vita per
permettere a tutti di vivere tranquilli per un po'».
«Contenti
voi, io voglio solo tornare a casa. Toglimi una curiosità:
cosa avete fatto per
far incazzare questo Yevon?»
«Fai
tante
domande per uno che vuole solo tornare a
casa. Perché non tacere e partire, se è
quel che vuoi?» disse cupo Auron.
Jecht rise beffardo.
«Sono
un
uomo curioso, monachello. Voglio sapere perché buttate via
la vostra esistenza.
D'altronde, rischierò la vita per questo motivo».
Braska
levò gli occhi al cielo e sospirò, paziente.
Nessuno aveva detto che sarebbe
stato facile, pensò Auron, ma se voleva finalmente mettere
fine a quel
teatrino, infierire non era la via corretta.
«Yevon»
riprese a parlare l'Invocatore come se niente fosse, «ci ha
puniti per l'uso
sconsiderato che abbiamo fatto della tecnologia. Abbiamo invidiato il
dio, e
abbiamo osato paragonarci a lui. Le macchine nella nostra dottrina sono
bandite, ma possono essere impiegate per scopi nobili come dare
felicità agli
altri. Un esempio sono gli stadi di blitzball».
Al suono
della parola a lui tanto cara, Jecht parve resuscitare. Gli brillavano
gli
occhi di un amore sincero che Auron non si sarebbe mai aspettato da un
tipo
come lui.
«In
questo
postaccio giocate a blitzball? Io sono un campione! Gioco negli
Zanarkand Abes!
È incredibile…»
Braska
fischiò stupito, Auron fece finta di nulla e
puntò gli occhi nell'acqua limpida
della piscina. Che Jecht fosse un atleta era del tutto plausibile viste
le
proporzioni del suo fisico, forse era solo un uomo molto confuso,
pensò il
monaco. Inoltre, quella sincera passione che balenò negli
occhi di Jecht non
poteva essere fraintesa.
Una
guardia passò di lì, attirata dalle voci.
Riconobbe Braska e gli fece la
reverenza: mise le mani intorno a una sfera immaginaria e si
inchinò.
L'interruzione durò poco, ma Auron fu colpito dalla reazione
di Jecht: rimase
pietrificato sul posto fissando la scena appena avvenuta, come se ne
fosse
rimasto sconvolto per qualche motivo. Iniziò a farfugliare
parole
incomprensibili, Auron non potè ignorarlo.
«Tutto
bene? Ti comporti da folle» chiese piatto il monaco, Jecht
scosse la testa.
«Questo
posto… è tutto reale, vero? Non sono
morto...» sussurrò appena.
«Purtroppo no. Hai per caso una
commozione cerebrale? Sei caduto da qualche parte?»
«Merda…
merda. Mi sto ficcando in un casino più grande della Laguna
Shore» sbraitò
Jecht senza curarsi di niente e nessuno. Braska cercò di
calmarlo.
«Credevi
di essere morto? Devi aver subito un trauma molto forte, amico mio.
Vedila
cosí: reale o meno, il Pellegrinaggio è l'unico
modo che hai per tornare a
casa».
«Già…
già,
è vero».
Braska
sorrise soddisfatto, poi fece avvicinare entrambi per parlare sottovoce.
«Bene!
Ora
che le cose sono risolte, ho una richiesta da farvi. Auron a breve
avrà la sua
cerimonia di investitura, mentre Jecht, beh… hai avuto
giornate migliori,
immagino. Che ne dite di andare insieme al fiume dietro Bevelle per
farvi un
bel bagno rinfrescante? Due guardiani puliti sono guardiani pronti a
combattere!»
Auron
inorridì come poche volte in vita sua, mentre Jecht si
annusò le ascelle,
facendo una smorfia.
«Mio
signore, ciò andrebbe contro le pratiche dei
monaci» disse Auron cercando di
declinare, ma Braska non si arrese.
«Ma
ora
non sei più solo un monaco, Auron, sei il mio guardiano.
Jecht non conosce
nulla di Bevelle, non è saggio lasciarlo da solo. Inoltre,
è un'ottima
occasione per conoscervi!»
Jecht
interruppe ogni obiezione mossa da Auron dirigendosi verso l'uscita
delle
prigioni.
«Puzzo
da
fare schifo, monachello. Non vorrai mica disobbedire, giusto? Datti una
mossa o
mi mangeranno i ratti».
Auron si
mise una mano sulla fronte, disperato.
Magari ti
mangiassero i ratti.
Superò
di
gran foga il compagno molesto, salutati entrambi da un entusiasta
Braska che
sorrideva lieto in lontananza. Si diressero a sud del tempio, dove i
monaci
usavano purificare il loro corpo con l'acqua gelida del fiume che
scorreva
placido fino al mare. Auron camminava a passo svelto, come a voler
mettere più
distanza possibile tra lui e Jecht, che arrancava poco distante.
«Cos'è
tutta questa fretta? Vuoi squagliartela?» urlò
irritato.
«Non
si
perde tempo su Spira. Muoviti».
L'atleta
di blitzball la prese sul personale, tanto che raggiunse Auron con una
piccola
falcata e gli rimase appiccicato per tutto il tragitto, come un
avversario da
marcare stretto. La strada battuta, presto, divenne un semplice
sentiero
sterrato all'interno di una piccola porzione di bosco, non troppo fitto
ma
nemmeno facile da attraversare.
Il terreno
divenne sempre più duro e aspro per i piedi nudi di Jecht,
Auron rallentò il
passo sentendo le sue lamentele di dolore.
«Quanto
manca ancora?»
«Ci
siamo
quasi» rispose il monaco con un tono di voce un po’
stridulo, come se fosse
molto nervoso.
Si accorse
troppo tardi di quella nota stonata, ma Jecht parve non farci caso.
Auron sentì
il rumore del fiume ed ebbe un brivido: fare il bagno con altri non era
approvato dalla dottrina, ma rispondeva agli ordini di Braska.
Sperò che almeno
sarebbe stata una cosa veloce ma, valutando il fetore di Jecht, ci
sarebbe
voluto un po'.
L'atleta
accolse la meta con verso d'approvazione, probabilmente non ne poteva
più di
camminare.
«Scegli
il
punto che vuoi e lavati, possibilmente lontano da me»
sentenziò Auron senza
ammettere repliche. Dal canto suo, Jecht non desiderava altro che
mettersi a
mollo in acqua.
«Sissignore!»
Scelse un
agglomerato di rocce non distante dalla zona di Auron, si sedette e si
massaggiò i piedi doloranti, per poi spogliarsi con
sollievo. Perfino i suoi
vestiti olezzavano.
Jecht si
slacciò l’ultimo bottone che reggeva la sua
salopette – in quanto eroe degli
Zanarkand Abes non poteva certo dismettere la loro divisa – e
la ripose assieme
all’intimo a fianco a sé. Si sedette con cautela
sulla roccia che aveva scelto
per spogliarsi e cominciò a osservare lo scorrere del fiume
sotto di sé. Senza
il sole che batteva, l’aria fresca gli pungeva la pelle e gli
causava dei lievi
brividi che gli percorrevano le braccia in modo quasi piacevole.
«Ehi,
Auron. Ti chiami Auron, giusto?» chiamò,
passandosi una mano sul mento. Il
ragazzo gli aveva rivolto modi piuttosto bruschi, ma su di una cosa
aveva
ragione: avrebbe dovuto radersi almeno il viso.
Colse con
lo sguardo il giovane nell’atto di spogliarsi, proprio mentre
la cintura che
gli stringeva la vita scivolava a terra, liberata dai lacci. Lui la
afferrò
prima che toccasse il suolo e alzò gli occhi. Erano ambrati,
di un colore caldo
che contrastava con il gelo che sembrava albergare nella sua anima.
«Che
c’è?»
replicò, notando che Jecht non smetteva di fissarlo. Auron
cercò di mantenere
l’espressione più neutra di cui era capace, ma
preferì guardare i suoi vestiti
appoggiati alla roccia piuttosto che direttamente lui. Lo metteva a
disagio il
fatto che si fosse spogliato del tutto, e con tanta naturalezza,
davanti a
quello che per lui era poco più che uno sconosciuto, e
sentiva la pressione di
dover fare altrettanto. Nella sua Zanarkand solevano andare a passeggio
nudi
senza alcun senso del pudore?
Forse era
davvero solo un giocatore di blitzball che aveva preso un forte colpo
in testa:
certe cose, con tutta probabilità, avvenivano spesso negli
spogliatoi.
Dopo
quella che gli parve un’eternità, Jecht gli
rivolse una risata sommessa. Aveva
fissato lo sguardo sul basso ventre di Auron, dove un coltello era
appeso a una
cintura, invisibile finché rimaneva sotto gli abiti. La sua
elsa era decorata
da fini intrecci geometrici, la lama era lunga abbastanza da penetrare
sino al
cuore.
«Usi
la
tecnica della mantide religiosa con le ragazze?» lo
punzecchiò, fingendo
un’espressione tra lo spaventato e l’intrigato.
Auron non replicò alla
provocazione e si sciolse i capelli, che ricaddero fino a sotto le
scapole. Con
un sospiro infastidito, si slacciò la cintura con il pugnale
e la lasciò cadere
a terra, rimanendo con il solo perizoma bianco.
«Sei
più
tranquillo, adesso?» replicò. Jecht non sembrava
avere intenzione di entrare in
acqua, nonostante tra i due fosse quello che ne aveva più
bisogno. Stava seduto
con le gambe larghe e le braccia appoggiate sulle ginocchia; studiava
Auron con
un’insistenza che lo stava mettendo a disagio.
Quando il
monaco si decise a dargli le spalle ed entrare nel fiume,
sentì l’acqua
agitarsi e sciabordare. Si voltò di nuovo e vide Jecht che,
con la testa
reclinata all’indietro e un’espressione beata in
volto, stava bagnando i
capelli scarmigliati nelle onde che aveva creato. Il suo pomo
d’Adamo era in
rilievo sul collo liscio, aveva le labbra schiuse in un atteggiamento
licenzioso e le palpebre abbassate.
Auron
spostò lo sguardo verso i suoi fianchi, sollevato dal fatto
che l’acqua gli
arrivasse almeno alla cintola. Jecht aveva una scarsa resistenza al
freddo,
dato che i suoi addominali si erano contratti a causa della
temperatura. Poi,
strofinandosi con un panno, l’uomo di Zanarkand gli aveva
voltato la schiena,
incuriosito da qualcosa sulla riva e finalmente in silenzio. Delle
gocce gli
scendevano piano lungo l’incavo tra le scapole, rallentando
laddove la pelle
abbronzata era resa irregolare da sottili cicatrici. Aveva un fisico
meno
statuario di quello di Auron, avrebbe perso in una lotta corpo a corpo
con lui,
ma le sue spalle erano ampie e le braccia forti.
«Credo
che
il tuo amico – o maestro, o quel che è –
voglia che facciamo conversazione»
disse all’improvviso Jecht. Si voltò, e il monaco
abbassò la testa verso la
superficie del fiume: l’acqua continuava a mostrargli il
riflesso del suo corpo
nudo, le linee nere del tatuaggio che si specchiavano nelle
increspature.
«Dimmi,
ci
sei mai stato a Zanarkand?» chiese, senza aspettarsi una
grande partecipazione
da parte del ragazzo.
Il
campione di blitzball avrebbe preferito guardarlo in viso mentre gli
parlava,
ma aveva notato che Auron non si sentiva a suo agio e preferiva non
infierire,
se non altro in nome di un sereno futuro pellegrinaggio. Il suo
atteggiamento
gli sembrava insolito, ma del resto aveva sentito di uomini, in certi
popoli,
votati a una sorta di religioso pudore se non alla castità
totale.
«No».
«Che
peccato» continuò, per nulla scoraggiato dalla
mancanza di una risposta
articolata. Si lasciò scivolare all’indietro e
diede qualche bracciata,
sollevato dal trovarsi in acqua. «È un gran bel
posto».
«Non
capisco se mi hai preso per stupido o se credi davvero alle follie che
dici»
replicò Auron, con tono secco, e sembrò
irrigidirsi ancora più che in
precedenza. Qualsiasi ombra di un sorriso svanì dalle labbra
di Jecht.
«Perché?»
gli chiese, piuttosto interdetto.
Auron lo
guardò negli occhi e gli rivolse una smorfia, arricciando le
labbra e mostrando
in parte i denti. Jecht non seppe dire se fosse dovuta a qualcosa che
gli
infastidiva i sensi o piuttosto i pensieri.
«Zanarkand
è stata distrutta mille anni fa»
sentenziò il monaco, senza nessuna emozione
nella voce.
Jecht
sgranò gli occhi, le sue pupille si restrinsero e qualsiasi
altro pensiero
svanì dalla sua mente, come spazzato via dal vento.
«C-cosa
stai dicendo?» riuscì a balbettare.
«Ciò
che è
rimasto sono solo le rovine dove gli Invocatori giungono alla loro
preghiera
finale» continuò Auron. «Non esiste
nessun abitante di Zanarkand, e vedi di non
dire in giro che vieni da lì. Non sono Braska: non ho
intenzione di riscattarti
da un’altra cella».
«Senti,
ragazzo» sbottò Jecht, avvicinandosi a lui di
scatto. Si era abbassato nel
fiume, in modo che solo la testa e le spalle non fossero immerse.
«Ho capito
che non ti piaccio, ma fino a due giorni fa ero a Zanarkand, e non vedo
l’ora
di tornarci. Forse ogni tanto bevo un po’ troppo,
è vero, ma da lì a
immaginarmi un’intera vita ne passa di acqua sotto i ponti,
non trovi?»
Auron si
allontanò, avvertendo una sorta di istinto predatorio nelle
movenze sicure di
Jecht e nel suo sguardo, come se fosse sul punto di aggredirlo o di
imporsi con
un contatto fisico.
«Allora
la
vedrai con i tuoi occhi quando ci arriveremo»
replicò in tono secco. «Ora ti
prego di voltarti. Voglio rivestirmi».
Jecht
inarcò le sopracciglia e girò su se stesso con
una piroetta. Udì dei movimenti
nell’acqua, poi i passi di qualcuno che si addentrava nei
cespugli. Sogghignò:
il ragazzo era talmente terrorizzato dal fatto che avrebbe potuto
girarsi e
vederlo nudo che era andato addirittura a nascondersi.
«Bigotto»
commentò, divertito, con un tono che giudicava troppo basso
per poter essere
sentito.
Passarono
diversi secondi e altrettanti fruscii di vesti prima che a Jecht
arrivasse una
voce baritonale dalle frasche.
«Scostumato».
Jecht
gettò di nuovo indietro la testa e si lasciò
andare a una risata: Auron aveva
strani modi di fare e qualcuno gli aveva dato false informazioni su
Zanarkand,
ma a suo modo era interessante.
Auron
aveva dismesso le sue vesti da guerriero per entrare, per
l’ultima volta, al
monastero con il saio di cotone grezzo. Il rito di investitura
prevedeva un
digiuno sin dal mattino che lui aveva rispettato, ma aveva anche
sentito il
bisogno di ritirarsi in preghiera.
Il
chiostro era come un grande mulino le cui pale, ininterrottamente,
erano spinte
a ruotare dai venti della meditazione. Anche nei tempi di guerra,
quando tutti
i Templari venivano chiamati a svolgere il loro dovere, era fatta
disposizione che
almeno uno di loro, sempre, rimanesse a cantare l’inno, per
scacciare Sin da
quel luogo sacro.
Auron si
ritirò in una cappella buia destinata ai penitenti e si
inginocchiò a terra,
appoggiando i gomiti sull’altare e rivolgendo i palmi e lo
sguardo verso il
cielo. Solo un sottile strato di cenere lo separava dal pavimento.
«Ascoltami!»
invocò. La fiamma delle candele, a quella parola, per un
istante tremò, prima
di ravvivarsi. «Yevon, se è vero che io ti ho
servito giustamente, e che ho
messo la mia spada al tuo servizio, ripagami proteggendomi e
benedicendo il mio
viaggio. Il tuo grande occhio veglia in eterno su tutta Spira; la mia
vita
invece non è altro che fumo. Ma sono valente tra gli uomini
e temuto dai
nemici: me temeranno, dio, se si avvicineranno a Braska, e se questo si
confà
al tuo pensiero, scaccia i mostri dalla strada con l’arco
d’argento».
Per un
istante, il suo respiro perse la propria regolarità, segno
che quel pensiero
insistente che lo tormentava era tornato a presentarsi, e fugarlo con
ripetute
parole sacre non bastava più.
Ricordava
in modo vivido la schiena dell’uomo di Zanarkand e i punti in
cui l’acqua la
toccava; ricordava il suo viso rivolto verso l’alto, la curva
delle sue labbra,
mentre sembrava diventare parte del fiume.
Auron non
aveva mai visto nessuno, al di fuori di sé, completamente
nudo. Su Spira, per
un monaco, l’intimità poteva accompagnarsi solo al
matrimonio. Allora il marito
avrebbe potuto guardare la moglie, e la moglie il marito, senza che la
loro
unione fosse peccato.
Jecht era
un uomo, e la loro vicinanza accidentale non avrebbe dovuto turbare il
suo
animo, così di certo aveva pensato anche Braska. Eppure una
curiosità difficile
da trattenere gli aveva pervaso lo sguardo quando lo aveva osservato,
lo aveva
immaginato mentre combatteva tra la polvere alzata, aveva pensato a
come le sue
braccia avrebbero potuto trattenere il nemico. Aveva trasfigurato le
gocce
d’acqua che gli percorrevano la schiena in rivoli di sudore,
il fiume in un
campo di battaglia.
Aveva
confrontato con minuzia il fisico di Jecht e il proprio, notato quali
muscoli
erano sviluppati in modo diverso e come le vene gli percorressero le
mani, fino
a quando non era stato spaventato dal pensiero che la sua attenzione
potesse
nascondere un che di morboso. Aveva cercato di distogliere lo sguardo,
ma
sempre esso tornava dove non doveva.
Auron si
prostrò al suolo, desiderando ricevere una punizione dal
dio: la sua anima non
poteva essere limpida, se il suo sguardo era offuscato da
un’invidia che non
riusciva a spiegare.
«Se
mai
con i rami del ginepro ti adornai gli altari, togli dalla mia mente
quell’uomo
padrone di inganni, rimuovi l’odio per lui dal mio cuore.
Fammi vivere in
funzione di Braska e morire per il bene maggiore, e io ti
offrirò libagioni e
carni, le più pregiate dell’isola».
Non appena
la sua preghiera terminò, la pesante porta di legno si
aprì alle sue spalle
concedendo l’entrata all’abate in persona.
Auron
venne condotto in una stanza e lasciato di nuovo solo in modo che
potesse
cominciare a vestirsi. Con i gesti rituali che gli avevano insegnato,
per prima
cosa allacciò gli stivali, attorno alle caviglie, con fibbie
d’argento; poi
chiuse i pantaloni e infine strinse al braccio l’armilla
d’argento che gli
avevano donato. Una volta fatto questo, chiamò chi lo
aiutasse a indossare
l’armatura.
Wen Kinoc,
che egli aveva richiesto in assistenza, gli si avvicinò
guardandolo negli
occhi. Era stato addestrato a non provare nessuna emozione per
un’eventuale
partenza di un confratello eppure, leggermente, gli tremavano le mani.
Mosse le
dita verso il petto liscio di Auron, senza parlare e senza sfiorargli
la pelle
gli allacciò la corazza di cuoio robusta.
Il
Guardiano indossò per ultima la veste cremisi che gli
arrivava ai polpacci;
Kinoc gli legò in vita il corsaletto e sotto la clavicola
sinistra lo
spallaccio: quello, colpito da un raggio di sole, rifulse come una
stella.
Gli
sguardi dei due amici si incrociarono di nuovo, e le mani di Kinoc
sembrarono
indugiare per un istante sulle perle di legno che adornavano la veste
di Auron.
Non disse nulla. Il guerriero prese la spada, bella e pesante, tanto
che nessun
altro dei monaci riusciva a sollevarla senza fatica immensa.
Stringendola nella
destra, avanzò poi verso il capitolo.
La stanza
era stata adornata con arazzi che raffiguravano l’Invocatrice
Suprema Yunalesca
e il suo Guardiano e marito, Zaon, l’una rivolta verso il
Sole che s’immerge,
l’altro verso il Sole che sorge. Presenziavano alla cerimonia
Braska, l’abate e
tutti i monaci; Jecht in mezzo a loro pareva fuori posto come una serpe
sulla
neve.
Con
timoroso silenzio respirava l’aria pesante
d’incenso, e i suoi occhi erano
fissi sull’uomo che stava entrando. Era insolito che qualcuno
lo mettesse in
soggezione, tanti erano stati i suoi avversari fuori e dentro la sfera
d’acqua,
ma i capelli di Auron erano stati legati in modo che gli ricadessero su
di una
spalla, e lì reggeva la lama radiante della giustizia.
La sua
bellezza nobile e composta aveva il fascino della tempesta.
Braska
gettò della polvere su uno dei bracieri e il fuoco,
divampando, si tinse di
blu.
«Tacete»
comandò, «che il dio si sta per
manifestare».
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Capitolo 7 *** Zona D'addestramento (Parte 1) ***
CAPITOLO 7:
ZONA D'ADDESTRAMENTO (PARTE 1)
I passi di
Auron salivano verso il lucernaio, accolti dalla cupola simile a tiara.
Egli
avanzava con la mano destra stretta sull’elsa, lo sguardo
fisso davanti a sé.
I
sacerdoti e le sacerdotesse di Yevon cantavano una melodia limpida come
la
propria fede, un inno fatto di poche sillabe ripetute a cui le campane
a festa
rispondevano in levare. Jecht non ascoltava più con le
orecchie ma con l’anima:
gli pareva di sentire l’acqua quieta del mare che si
scioglieva sulla sabbia
della riva.
Il
Guardiano avanzò verso Braska, seduto su di un trono, con
rituale lentezza. I
finimenti della sua veste e i suoi pezzi d’armatura mandavano
bagliori d’oro
verso le pareti, rendendolo simile al sole che sorge dalle acque e
trascina il
carro glorioso del giorno.
Jecht non
si mai trovato davanti a un eroe, e mai si era sentito spinto a
inchinarsi con
pietosa fronte davanti a un uomo. Il canto di quella gente, il profumo
caldo
dell’incenso e il riflesso della luce sui mosaici del
tabernacolo lo spinsero
ad abbandonare le proprie convinzioni e a osservare la scena dal di
fuori;
dall’alto, come se la stesse sorvolando.
L’inno
non
cessò quando Auron si fermò di fronte a Braska,
facendosi cadere in ginocchio
appoggiato alla spada, ma piuttosto si trasformò in una
nenia più lieve.
Fu
l’Invocatore a prendere la parola.
«Consci
della tua prodezza e del tuo onore, sei stato eletto per pronunciare la
sacra
promessa» disse. «Sappi che per portare
l’onore della promessa ogni Guardiano
si affida a Yevon».
Jecht vide
il profilo di Auron alzarsi con dignità. Anche in quella
posizione, pareva un
generale in procinto di decidere se giustiziare i prigionieri o se
concedere
loro la compassionevole grazia.
«Sì,
accetto» rispose.
«Hai
ben
compreso lo scopo della promessa e cosa viene richiesto ai
Guardiani?»
pronunciò di nuovo la voce dolce e decisa di Braska. Sebbene
fosse una formula
liturgica, c’era qualcosa di personale in quella richiesta.
«Sì,
accetto» si udì di nuovo.
L’Invocatore
sorrise. Le sue spalle erano coperte da un velo che gli scendeva dal
copricapo.
All’improvviso, il suo abbigliamento non sembrava
più avere un aspetto così
assurdo.
«Aderisci
all’osservanza del comportamento esemplare che ogni Guardiano
deve avere?»
«Sì,
accetto».
Jecht, pur
essendosi ripreso dalla stanchezza, non era riuscito a capire molto di
cosa
fosse un Invocatore e cosa un Guardiano: aveva ricevuto troppe
informazioni
assieme. Si appigliò alla più familiare, sottile
malia che l’atteggiamento
stoico di Auron gli stava instillando.
«Dunque
giura sulla tua spada e rendi omaggio a Yevon»
domandò Braska.
Nella
mente di Jecht, il ragazzo trasse un profondo respiro. Tenendo la spada
ferma
in verticale, portò poi la mano destra – coperta
da un guanto – ad afferrare la
lama. Solo allora il canto cessò.
«Io
giuro
su questa lama insanguinata, che macchierà senza sosta le
mie mani e molte vite
toglierà all’affetto della terra. Giuro che la mia
mente non sarà mai offuscata
dal desiderio, né saranno sottratte la grazia dai miei colpi
e la giustizia dai
miei occhi. Io condurrò a Yevon tutti coloro, nemici o
alleati, che me lo
chiederanno; ma non ucciderò chi, supplicando a terra, mi
abbraccerà le
ginocchia. Condannerò il tradimento e chi lo compie e
combatterò perché nessuno
debba più combattere. Io sono il campione della giustizia e
del bene, contro
l’ingiustizia e il male».
La sua
voce profonda aveva fatto tremare l’aria del tempio
così come qualche corda
segreta del cuore di Jecht.
Venne recato
a Braska un contenitore d’argento. Lui ne sollevò
il coperchio e intinse due
dita in una sostanza oleosa, per poi chinarsi su Auron e passarle sulla
lama.
Tracciò con sicurezza un percorso complicato del cui
significato Jecht non era
a conoscenza.
«Benedetta
sia la tua spada» pronunciò, e i monaci attorno a
lui cominciarono a intonare
una seconda, più grave litania.
Uno di
loro si avvicinò al Guardiano con un coltello
d’osso. Lui depose la spada ai
piedi di Braska e voltò le mani in modo da offrirgli
entrambi i polsi.
Jecht
trattenne il fiato quando il monaco, con un taglio netto, gli incise le
vene.
Senza un lamento, e senza opporre resistenza, Auron guardò
il sangue che gli
scorreva copioso sugli avambracci, fino a quando Braska non gli
afferrò le dita.
Allora la ferita sembrò cominciare piano a rimarginarsi.
Il sangue
era gocciolato all’interno di una ciotola che Jecht in
principio non aveva
notato. Il monaco che officiava il rito si inginocchiò e si
sedette sui
talloni, poi la prese e vi intinse un pennello. Davanti a lui avevano
steso un
rotolo di pergamena.
«Ora
il
tuo giuramento è scritto» annunciò
l’uomo, finendo di tracciare le ultime
lettere. Auron era immobile come una statua.
Gli
ornamenti della veste azzurra del monaco tintinnarono mentre si alzava.
Si
diresse verso il braciere dove ardeva il fuoco della
divinità e vi gettò la
pergamena. La fiamma fumò, cambiò colore e si
innalzò; la preghiera dei
presenti tornò ad avere quelle note che in qualche modo
suonavano familiari a
Jecht.
I e yu i no bo
me no…
Il fuoco,
senza preavviso, si spense. Il sacerdote estrasse un’ampolla
contenente un
liquido incolore e lo versò nelle ceneri, poi prese il
bacile e si avvicinò ad
Auron. Gli si inginocchiò accanto, gli prese il mento tra le
mani e lo forzò a bere,
accostandogli il contenitore alle labbra.
Jecht fu
attraversato da un brivido di disgusto al solo immaginare che cosa
stesse
provando Auron, quale fosse il sapore che gli percorreva la gola. A
quel
pensiero sentiva il battito del cuore nella carotide e le dita colte da
un
formicolio insistente. Eppure, l’unica reazione del Guardiano
fu quella di
inclinare la testa verso l’alto e deglutire a fatica, le
sopracciglia
aggrottate nella prima espressione umana che Jecht gli vide assumere
dall’inizio del rito.
«Sei
stato
eletto Guardiano dell’Invocatore Braska»
decretò il monaco. «Il tuo corpo e i
tuoi atti da ora sono sacri a Yevon. Che il dio ti guidi nel tuo
pellegrinaggio
a Zanarkand».
«Che
egli
ti guidi nel tuo pellegrinaggio a Zanarkand» rispose il coro.
Il mattino
seguente, Braska osservava gli stormi di rondini nel cielo, oltre al
vetro
sottile della finestra. Teneva le dita intrecciate su una tazza di
coccio; il
profumo delicato ed erbaceo del the si diffondeva nella stanza come una
brezza
leggera.
La gioia
aveva invaso il suo cuore quando Auron si era inginocchiato di fronte a
lui e
aveva pronunciato la promessa da Guardiano. Nonostante tutto,
però, la vista
del sangue che gli colava dai gomiti gli aveva fatto provare una
sensazione di
paura e disgusto. Era riuscito a tenere lo sguardo alto, ma si era
sentito
indebolire: troppe volte aveva sentito quel sapore in bocca e aveva
visto quel colore
sui cuscini.
Chiuse gli
occhi, assorto in preghiera, e ricordò la visione che il dio
gli aveva inviato
mentre giaceva malato. Aveva sognato di fare la vendemmia di
un’uva cremisi,
proprio dello stesso colore di quel fluido che odiava, che continuava a
stillare dai suoi polmoni. Un’aquila, alta, girava in cerchio
sopra la sua
testa, e per tre volte compieva l’orbita, poi gridava, e la
riprendeva per tre
volte ancora. Con l’animo infiammato
dall’apparizione di quell’animale, Braska
allora spremeva l’uva in un catino e poi lo svuotava in mare,
tingendo le onde
di sanguigno.
Quella era
stata la chiamata, alla quale in numerose notti senza sonno si era
aggiunta la
voce ormai senza corpo di Emma. Poteva ormai fare solo due cose per
lei: una
era pregare che il vento dell’Oltremondo fosse lieve sulla
sua pelle, e che la
sua anima sostenesse l’estremo giudizio; l’altra
era partire per sconfiggere
Sin, portando il Bonacciale su Spira.
Glielo
doveva. Quella donna lo aveva reso ciò che era e gli aveva
donato Yuna, l’altro
grande amore della sua vita.
«Papà!»
sentì chiamare da una voce dolce e squillante.
Aprì un occhio, ridestandosi
dalla sua meditazione.
«Che
c’è,
amore?» domandò, dopo essersi alzato ed essersi
diretto verso il soggiorno, un
po’ preoccupato dall’assenza delle chiacchiere
della sua bambina.
Yuna era
alle prese con una sporta appoggiata su una sedia: era troppo pesante
per lei
e, per quanto si sforzasse, non riusciva nel modo più
assoluto a sollevarla.
Braska
ridacchiò e si portò la mano alla bocca quando
una lieve tosse prese il
sopravvento.
«A
quello
ci pensa papà, Yunie» la rassicurò. Non
era ancora, per lei, giunto il tempo
delle prove di forza. Si avvicinò e le mise tra le mani un
rosario, i cui grani
di legno erano stati decorati con arte e dipinti con colori brillanti.
Blu per
il mare, giallo per il sole, verde per la terra.
«Per
chi è
questo?» trillò Yuna, guardandolo dritto negli
occhi celesti con i suoi,
dissimili, in cui lui ogni giorno rivedeva Emma.
«Questo
è
per Auron» spiegò Braska in tono calmo, mentre si
metteva sottobraccio la
borsa.
«Signor
Auron!» ripeté la bambina, e corse allegra fuori
dalla porta, stringendo il
rosario. Con una risata, immerse i piedi nel prato che le sembrava
essersi
pettinato con la riga in parte, come un galantuomo.
«Yunie,
dammi la manina. Dobbiamo camminare un po'!»
«Dove
andiamo?»
chiese la bambina obbedendo allegra.
«Al
monastero! Il signor Auron sta allenando un nostro amico, gli insegna a
combattere» rispose lui, sorridendo.
«Anche
io
voglio!»
Braska
scoppiò a ridere, per poi imboccare la strada montana che
conduceva al luogo di
culto dei monaci. Il campo ove si addestravano si trovava proprio
dietro
l'edificio: era un semplice cortile spoglio circondato da alberi,
abbastanza
ampio da permettere a maestro e allievi di condurre le loro sessioni di
allenamento.
L'Invocatore
si gustò ogni secondo passato a passeggio con la
figlioletta, cercò di
marchiare a fuoco nel suo cuore quelle immagini per non dimenticarle.
Non
potevano di certo partire con un Jecht indifeso. Auron aveva solo due
mesi per
insegnargli perlomeno i rudimenti del combattimento. Solo due mesi, poi
avrebbe
dovuto lasciare tutto per, forse, mai più tornare.
Lo fai anche
per Yuna, coraggio.
Avrebbe
voluto far durare quella passeggiata di più, ma arrivarono a
destinazione
piuttosto agilmente. Braska si fermò sulla soglia per
riprendere fiato senza
mostrarsi troppo provato, per non far preoccupare la figlia. Ma era
stanco,
eccome. Strinse i denti infastidito da se stesso, da quel corpo
difettoso che
aveva imparato ad accettare, per poi entrare nel monastero e avviarsi
verso le
porte che conducevano al cortile.
Il sole
investì entrambi con violenza: il terreno completamente
spoglio non offriva
nessuna ombra refrigerante, i raggi cadevano a picco sulle loro teste.
Braska si
mise le mani intorno agli occhi per proteggersi, scrutando i dintorni
alla
ricerca di volti familiari. Auron e Jecht si trovavano ai limiti del
campo,
seduti a terra: il monaco stava spiegando qualcosa che l'Invocatore non
riuscì
a comprendere, mentre l'atleta di blitzball stava ascoltando annoiato
ma
attento.
Braska
indicò i due uomini alla figlioletta, la quale corse
entusiasta verso quel
ragazzo che appariva così strano ai suoi occhi, totalmente
diverso dal padre.
Auron e
Jecht si voltarono e si alzarono in piedi, facendo persino la
reverenza. L'Invocatore
emise un fischio stupito, per poi applaudire soddisfatto.
«Hai
insegnato a Jecht il nostro saluto? Fenomenale!»
esclamò felicissimo, ma Auron
assunse una strana espressione.
«A
dir la
verità, signore, lui la conosceva
già...» rispose quello, interdetto.
«Te
l'ho
già detto, la usiamo anche a Zanarkand!»
Auron
sospirò, ma Braska lasció correre con un gesto
della mano.
«Beh,
è
una cosa in meno da imparare. Vi ho interrotto? Sono venuto con un
nobile
intento!»
L'Invocatore
mise una mano sulla spalla della figlioletta, la quale porse con
sgraziata
cortesia il rosario ad Auron.
«Per
te!»
cinguettò la bambina. Il monaco rimase piacevolmente stupito.
«Ehm…
io...» balbettò.
«Avanti,
monachello! Non hai mai ricevuto un regalo?» lo
punzecchiò Jecht. Auron lo
guardò torvo.
«No,
infatti. I miei voti non lo prevedono» rispose piatto.
«Mica
vorrai deludere questa bella signorina, giusto?»
Yuna
arrossì imbarazzata, poi si girò e
abbracciò il padre, nascondendo il faccino
paffuto nelle sue vesti. Auron guardò la bambina, poi Jecht,
e dovette
ammettere che aveva ragione.
«D'accordo.
Accetto volentieri, sono molto grato» disse cercando di
abbozzare un mezzo
sorriso. Yuna lo guardò con l'occhio azzurro, gli mise in
mano il rosario e
scappò di nuovo dietro Braska.
Il monaco
osservò l'oggetto, segretamente felice: i colori erano
brillanti e vivaci, non
come i grani scoloriti del vecchio cimelio, ormai usurato dal tempo,
che aveva
abbandonato su un altare.
«Vedo
che
ti piace! Sono davvero contento» disse orgoglioso Braska, poi
si rivolse a
Jecht. «Non credere che mi sia scordato di te, Guardiano.
Queste sono per te».
Estrasse
dalla borsa un sacchetto, controllò che fosse tutto in
ordine e glielo porse,
sfoggiando un largo sorriso.
Jecht
sperò con tutto il cuore che fosse alcol ma, quando
allargò i lembi del drappo
di tessuto, vide che racchiudeva una decina di quelle che sembravano
grosse
biglie cristalline, di un blu molto chiaro.
«Sono…
belle!»
esclamò, per non sembrare scortese.
«Queste
sono sfere in grado di registrare immagini e suoni. Puoi usarle durante
il
Pellegrinaggio per conservare dei nostri ricordi! Sono sicuro che la
tua
famiglia ne sarà affascinata, una volta che sarai tornato a
Zanarkand».
Jecht
trasalì, come se fosse rimasto in apnea per molto tempo.
Rimase a bocca aperta
sentendo parlare di coloro la cui presenza, a tratti, aveva persino
dimenticato. Si grattò la testa imbarazzato e
ringraziò a mezze parole
l'Invocatore.
«Bene,
ora
vi lasciamo al vostro addestramento. Ci vediamo più tardi
per un the, ok?»
disse senza aspettare risposta, per poi allontanarsi con Yuna, mano
nella mano.
«Siete
proprio gente strana, voi...» mormorò Jecht.
Auron
volse gli occhi al cielo, ripose con cura i doni nel punto in cui erano
seduti
e si diresse verso il centro del cortile, deserto. Fece un cenno a
Jecht, il
quale si avvicinò con espressione scocciata che nascondeva
un velato senso di
timore.
«Abbiamo
poco tempo e tanto da fare, basta con la teoria. Andremo per gradi.
Inizieremo
con il combattimento corpo a corpo, poi passeremo all'arma
bianca» disse
autoritario. Non ammetteva repliche.
«Sembri
il
mio allenatore di blitzball...» sbuffò.
«Se
sei
bravo la metà di quanto ti lamenti, imparerai subito. Qual
è il tuo arto
dominante?»
«Eh,
è un
bel problema questo. Sarebbe la destra, ma ho avuto un brutto
infortunio alla
gamba e sto cercando di imparare ad essere anche mancino. Almeno, era
quello
che stavo facendo prima di finire qui» rispose con tono
preoccupato. Auron
annuí.
«Allora
dovremo allenare l'ecletticità. Punteremo sulla tua
agilità, le gambe saranno
impiegate solo per il movimento, non per colpire. Considerato il tuo
tono
muscolare, lo stile di combattimento che ti si addice si basa
sull’immobilizzare
l'avversario con prese e leve articolari. Come danno da impatto userai
dei
pugni ben piazzati, non sei fatto per le tecniche basate sulla
forza».
Auron
dettò il tutto come se fossero i più ovvi tra gli
argomenti, aspettandosi che
Jecht cogliesse le sue parole senza sforzo. Ciò che non
poteva sapere era che
l'atleta non era una cima nel far sue le indicazioni: non era raro,
infatti,
che il suo allenatore dovesse spiegare più volte gli stessi
schemi.
Convinto,
quindi, che Jecht fosse pronto, afferrò la sua mano destra
con scatto fulmineo,
gli torse il braccio dietro la schiena e lo spinse in ginocchio, per
poi
gettarlo a terra applicando pressione sulla sua nuca con la mano libera.
Jecht si
dimenava come un animale ferito, implorando il monaco di mollare quella
stretta
micidiale.
«Ma
dico,
sei impazzito? A malapena ho capito cosa hai detto!»
biascicò rabbioso.
«Saresti
morto fuori di qui. Concentrati, per Yevon! E tu saresti un campione?
Come fai
a vedere la palla con i riflessi annebbiati che ti ritrovi?»
Auron
aveva colpito proprio dove faceva più male. Jecht strinse i
denti, umiliato da
quella verità scomoda che non poteva accettare. Come una
fiamma che riprendeva
vigore, il fuoco della competizione si riaccese nel petto dell'atleta.
«…d'
accordo. Starò più attento».
Il monaco
abbozzò un mezzo sorriso sentendo il tono rancoroso
dell'allievo, sicuro che
Jecht non potesse vederlo con la faccia che baciava la terra. Si
alzò con
agilità, lasciando la presa.
L'atleta
rotolò su un fianco lamentandosi per il dolore e strinse il
braccio leso con la
mano sinistra meditando vendetta. Sperava di colpirlo almeno una volta.
Auron,
mentre lo sovrastava, lo stava squadrando da capo a piedi. Ogni volta
che
arrivava agli addominali, però, il suo sguardo veniva
sospinto nuovamente in
alto. Di sicuro era imbarazzato perché lui, un monaco
integerrimo, si trovava
costretto ad allenarsi con un uomo così discinto
da andare in giro a torso nudo. Ma almeno lui non si nascondeva dentro
a quella
stupida armatura di cuoio.
«In
piedi,
Jecht. Andiamo, non ti ho fatto così male»
continuò a punzecchiarlo Auron.
Jecht si
alzò pigramente, cercando di guadagnare tempo per riprendere
fiato.
«Partiamo
dalle basi. Ti insegnerò a tirare di pugno».
«Ha!
Io so
già tirare di pugno,
monachello. Se
vuoi ti faccio vedere» disse spavaldo alzando la guardia.
«Vediamo,
campione».
Jecht
iniziò a saltellare sui piedi, studiando l'avversario che
rimaneva stoico nella
sua posizione eretta, come una montagna, nonostante fosse
più basso di lui di
una manciata di centimetri. Pensò subito che Auron si stesse
prendendo gioco di
lui, così caricò un gancio destro che minacciava
di colpirlo in pieno volto.
Veloce
come un'ombra, il monaco avanzò di un passo e colse Jecht
alla sprovvista,
mettendosi di fianco alla spalla dell'atleta. Lo bloccò
senza troppi sforzi e
lo respinse con il solo impatto del suo torace. Jecht
barcollò indietro fino a
cadere a terra.
Quest'uomo
è fatto di roccia! Mi
sembra di essermi scontrato contro un muro.
«Come
diavolo hai fatto?» esclamò frustrato. Auron non
si mosse, impassibile.
«Hai
commesso l'errore comune a tutti coloro che, con arroganza, affermano
di saper
sferrare un pugno. Hai caricato il colpo tirando indietro tutto il
braccio, facendogli
percorrere una traiettoria quasi curva. Intuire la direzione
è estremamente
semplice per un combattente esperto, mi hai detto tu come
bloccarlo».
Jecht
rimase, come accadeva molto di rado, senza parole. La rabbia e il
desiderio di
picchiarlo svanirono come la polvere mossa dal suo corpo al momento
dell'impatto, era affascinato.
«Come
avrei dovuto fare, allora?»
Auron lo
invitò ad alzarsi e a riprendere la guardia, poi si mise
accanto a lui e gli
mostrò la tecnica.
«I
tuoi
colpi devono essere proiettili. Il movimento deve essere corto, dritto
davanti
a te. Saldo. Colpisci con tutto il corpo, non solo con il braccio.
Vedi? È una
piccola rotazione che fai con il busto e con l'ausilio delle gambe, per
poi
sferrare il pugno all'altezza della tua spalla. In questo modo il
movimento non
si può bloccare, inoltre imprimerai una forza
maggiore».
Jecht ebbe
l’astuta idea di provare a coglierlo di sorpresa mentre
parlava. Lo aggredì con
un balzo, con il risultato di venire gettato con violenza al suolo. Il
monaco
lo bloccò a terra con il proprio peso e gli
portò, senza stringere, una mano
alla gola.
«Morto»
commentò.
Auron,
senza nemmeno accorgersene, passò il pollice sulla gola
morbida di Jecht e
sentì il suo pomo d’Adamo scendere per la leggera
pressione. Accolse con un
brivido di terrore la sensazione di potere che lo pervase quando si
rese conto
che Jecht era a terra del tutto inerme, e lui avrebbe potuto spezzargli
il
collo con facilità. Eppure le sue labbra screpolate, anche
in quella
situazione, erano incurvate in un sorriso strafottente.
I loro
sguardi si incrociarono, nel completo silenzio, e
l’espressione sul viso di
Jecht non accennò a scomparire. Auron tolse di scatto la
mano dal suo collo,
come se scottasse, e altrettanto velocemente sciolse la presa e
tornò in piedi.
«Bene»
annunciò, con una nota insolita nella voce altrimenti
imperturbabile. Si fermò
per prendere fiato, come per nascondere un respiro irregolare.
«Facciamo una
pausa».
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Capitolo 8 *** Zona D'addestramento (Parte 2) ***
CAPITOLO 7:
ZONA D'ADDESTRAMENTO (PARTE 2)
«Ma
come?»
si lamentò Jecht, interdetto. Si alzò in piedi e
cominciò a gesticolare,
diretto alla schiena di Auron. «Ma se abbiamo appena
iniziato!»
L’altro
non rispose e, allontanandosi con passo deciso, dopo poco fu fuori
dalla sua
visuale. Jecht calciò la polvere slanciando la gamba destra,
e i suoi legamenti
tirarono come se si dovessero strappare da un momento
all’altro. Male.
La sua
mente, raffreddatasi dalla frenesia del combattimento – nel
quale, per altro,
non aveva fatto una bella figura – tornò su un
dettaglio bizzarro. Le sue
labbra furono attraversate da un ghigno e si portò una mano
alla gola,
massaggiandola con delicatezza. Era vero, non sapeva come funzionasse
su Spira,
ma alcuni gesti erano piuttosto universali, e gli sembrava che
l’algido Auron
stesse nascondendo qualcosa. Con un
pizzico d’orgoglio, gli sembrò che quel certo
qualcosa fosse più difficile da
celare quando era in sua compagnia.
Certo,
poteva essere anche innocente curiosità nei confronti di uno
straniero, che
portava a un naturale nervosismo, ma d’altro canto Jecht si
riteneva ancora
piuttosto prestante.
Detestava
quando la gente si nascondeva dietro a un dito e cercava di non
mostrare ciò
che era. Ne aveva visti tanti, soprattutto nel mondo dello sport,
comportarsi
in quel modo.
Continuare
a stuzzicare Auron, e per di più andare a toccare certi
tasti, era come
scherzare con il fuoco che gli somigliava tanto. Era pericoloso e forse
non
molto cavalleresco, ma lui non era mai stato una brava persona.
Soprattutto,
era per qualche motivo interessato a scoprire cosa ci fosse,
metaforicamente,
sotto la sua armatura e sotto ai numerosi strati di insegnamenti che
suonavano
come “Yevon proibisce questo”, “Yevon
ripudia quest’altro”.
Con questi
pensieri, Jecht andò a cercare Auron con
l’intenzione di provare a parlargli
mentre non lo stava picchiando. Non poteva essere andato tanto lontano,
data la
sua paura che Jecht se la desse a gambe e finisse in qualche bettola
lurida a
urlare che veniva da Zanarkand, per poi venire soverchiato nel corpo a
corpo da
uno dei numerosi, invincibili guerrieri assassini dell’isola.
Lo
trovò
dietro al monastero, appoggiato con le spalle al muro, che fumava una
sigaretta. A quella visione, calzante al pari di quella di una
principessa
dalle lunghe trecce con in mano una zappa, fu costretto a ricacciare
una risata
in gola.
«Che
fai,
angelo delle nevi, fumi di nascosto?» lo richiamò.
Auron sobbalzò come un ragazzino
colto in flagrante e si voltò di scatto, pronto ad
attaccare. «Non sei un po’
grandicello?»
Quando il
monaco si rese conto che Jecht non costituiva un pericolo, si
voltò verso
l’orto illuminato dal sole che aveva davanti.
«Non
sono
affari tuoi» ribatté, con una sicurezza ostentata.
Poi, con un movimento rapido
e nervoso, scosse la cenere dalla sigaretta.
Il
campione di blitzball, infastidito dal suo evitare il contatto visivo,
gli si
parò davanti e si ravviò i capelli leonini,
leggermente imbrattati di polvere e
sudore.
«Facciamo
un gioco: io ti faccio delle domande e tu mi rispondi solo
sì o no».
Auron non
rispose.
«Gli
Invocatori e i Guardiani sono figure pubbliche»
continuò Jecht, imperterrito.
«Se ti vedessero fumare, danneggerebbe la tua immagine di
paladino del bene».
Pose
l’accento su quell’ultima parola con fare
provocatorio, ma non ottenne una vera
e propria reazione.
«Sono
sempre venuto qui dietro dove i monaci non passano»
spiegò invece Auron. «Da
quando ho cominciato… molto giovane».
Jecht non
rispose, ma incrociò le braccia e inarcò le
sopracciglia, come assorto in un
qualche pensiero.
«Sei
contento di aver ricevuto questa informazione?»
continuò Auron con poca grazia.
«In
realtà
sì» replicò Jecht. «Sai, mi
fa… piacere che tu abbia anche i tratti di noi
mortali. La vostra “cerimonia di iniziazione”, o
quel che è, mi ha abbastanza
impressionato».
«Ah,
sì?»
chiese il monaco, facendo un tiro dalla sigaretta.
Jecht si
morse il labbro inferiore: cominciava a innervosirsi. Con tutta
l’esperienza
che si era fatto nei locali e come capitano della squadra, in genere
era per
lui molto facile parlare con le persone, far sì che gli
dessero confidenza.
Auron, però, sembrava un muro di ferro, uno che liquidava
con un “ah, sì?” e
una scrollata di spalle l’essersi fatto incidere le vene con
un coltello. Non
sapeva se esserne infastidito o affascinato.
Si
figurò
una scena in cui si avvicinava al suo compagno e lo afferrava con
premura per
gli avambracci, in modo da controllare se le ferite si fossero
rimarginate, ma
finiva con la sua schiena che colpiva con violenza il selciato.
Quindi si
limitò a sporgersi verso di lui inclinando il busto.
«Stanno
bene, i tuoi polsi?»
Auron lo
guardò con l’espressione vacua di chi non ha
capito.
«I
miei
polsi?» ripeté, osservandoli. Jecht
notò con stupore che solo un segno bianco e
sottile li attraversava. «Ah, ho capito. Gli Invocatori si
addestrano nella
magia bianca così come noi Guardiani facciamo con le armi.
Quando Braska mi ha
curato, ha usato la sua energia vitale per guarirmi e non è
rimasta che una
piccola cicatrice: il rito simboleggia l’affidarsi del
Guardiano al suo
Invocatore, così tanto da essere disposto a versare il suo
sangue per lui».
Jecht
fischiò.
«Wow»
commentò. «Certo che vi prendete parecchio sul
serio. Ti piace proprio parlare
di morte onorevole, dolore, sacrificio e roba del genere…
non è che hai qualche
feticismo strano?»
Auron
aggrottò le sopracciglia e cominciò ad
arricciarsi una ciocca di lunghi capelli
sul dito.
«Che
cosa
significa?»
Il cuore
di Jecht sprofondò fino allo stomaco.
«Ah,
no...
» balbettò, spaventato.
«Niente… è una cosa che si dice a
Zanarkand per fare
una battuta...»
Il monaco,
tuttavia, non diede segno di averlo ascoltato. Gettò a terra
il mozzicone di
sigaretta e gli voltò le spalle.
«Ho
deciso
che per oggi abbiamo finito» annunciò.
«Vai pure a… bah, vai a fare quello che
vuoi, basta che domani mattina tu riesca a reggerti in piedi».
A
quell’esortazione, Jecht si riscosse e protestò.
«Ehi,
amico, per chi m'hai preso?» sbottò, cominciando a
seguirlo. «Io in genere mi
alleno anche otto ore al giorno!»
«Fai
gli
addominali, se ci tieni» ribatté Auron.
«Io adesso ho da fare».
«Ah,
sì?
Sentiamo, cosa avresti da fare di tanto urgente?»
«Pregare».
«Tu
sì che
sai come divertirti!»
Auron se
ne andò che aveva ancora il fumo della sigaretta nelle
narici. Entrò nel
monastero per poi uscirne, con passi così pesanti da poter
essere sentiti anche
dall’esterno. Quell’uomo lo sfiancava in modo
terribile: i suoi pensieri, i
suoi punti di vista pagani che si premurava sempre di far conoscere
agli altri,
la sua arroganza. Se avesse chiuso gli occhi, avrebbe potuto giurare di
vedere
il suo ghigno beffardo nell’oscurità.
Era
inutile prestargli attenzione o prendersela troppo,
d’altronde cosa poteva
sapere lui? Non che credesse fino in fondo che Jecht venisse da
Zanarkand:
forse era un semplice disgraziato che, entrato in contatto con Sin, era
rimasto
intossicato dal suo veleno che gli aveva causato una forte amnesia,
facendogli
dimenticare che era un abitante di Spira. Fatto certo era che non
ricordava
nulla, quindi quale fosse la verità poco importava. Jecht
andava trattato come
ciò che era: uno straniero, per l’appunto.
La faceva
semplice, lui. Non faceva altro che seguire i principi di uno sbandato,
prendendosi gioco di virtù per lui troppo pure da
comprendere. Onore,
sacrificio, rispetto verso il dio, tutte qualità che non gli
sfioravano nemmeno
la coscienza.
Auron si
accorse di aver sbagliato strada: disturbato nel profondo per quanto
detto con
Jecht, era sceso dal monastero per poi dirigersi in centro
città, come se le
gambe si fossero mosse di volontà propria. Si mise una mano
sul volto e scosse
la testa, per poi tornare indietro e imboccare un sentiero sinuoso che
conduceva verso il confine di Bevelle, a poca distanza dal mare.
Nonostante
tutto, sto andando lì
per lui,
pensò
confuso, la testa che gli pesava come un macigno.
No, non
era per lui, si disse. Era per la buona riuscita del Pellegrinaggio.
Auron alzò
gli occhi al cielo limpido e inspirò aria salmastra,
sollevato dall’aver
trovato il bandolo della matassa: il Pellegrinaggio era la risposta.
Durante il
viaggio, Jecht avrebbe finalmente avuto l’occasione di
comprendere i loro
valori, forse sarebbe arrivato persino a rispettarli.
Il pensiero
più ricorrente, tuttavia, non era quello a cui Auron si
sforzava di credere:
c’era una sensazione strana che gli permeava ancora le dita,
una sorta di
prurito che non accennava ad andarsene. Avere il suo collo nel palmo
della mano
ad un passo dalla morte era stato inebriante e terrificante, una sorta
di
elettricità che gli attraversava il sangue. Oppure una magia
di qualche tipo.
Non aveva
importanza, Auron non doveva più percepirla: era opprimente
e annebbiava la sua
mente. Per quanto fosse comunque apprezzabile che Jecht si fosse
sforzato di
instaurare un dialogo, per il bene della missione, non doveva
più toccarlo e
lasciare che il proprio animo ne venisse turbato.
Dopo lungo
pensare, finalmente arrivò a destinazione: il tintinnio del
martello sul ferro
era udibile anche a distanza, mentre il vapore candido usciva senza
sosta dal
comignolo della fucina. Il fabbro usava l’acqua di mare per
raffreddare
l’acciaio incandescente, avere la spiaggia vicino accelerava
di molto il suo
lavoro.
Igor era
ormai una presenza ricorrente nella vita di Auron: era stato lui a
forgiare la
sua stessa spada, compagna di mille battaglie. Non si era mai nemmeno
scheggiata.
«Auron!
Che piacere vederla qui! Per farsi una scarpinata del genere dal
monastero,
immagino le servano i miei servizi» disse l’uomo.
Era ormai sulla cinquantina,
pochi capelli radi gli incoronavano il capo grosso come quello di un
gigante.
«Salve,
Igor. Perspicace come sempre, amico mio» rispose il monaco,
abbozzando un
sorriso sincero.
«Tra guerrieri
c’è intesa! Molto bene, per chi
devo forgiare il mio leggendario acciaio?»
«Un
iniziato. Sarà il Guardiano dell’Invocatore
Braska, come il sottoscritto» disse
con sguardo fuggevole. Igor non indagò ulteriormente.
«Ah,
quel
povero diavolo! Immagino lei lo stia allenando, chissà se
sopravviverà. Bene,
bene… che arma vuole per il suo apprendista?»
«Una
spada. La vorrei non troppo pesante, l’iniziato deve poterla
brandire con una
sola mano. Deve essere molto veloce» dettò sicuro.
«Un
combattente agile, eh? Mi sembra un’ottima scelta, se me lo
permette. Lei è già
fortissimo, Auron, uno bello scattante ci vuole in squadra».
«Già…
ci
vuole proprio» rispose sbuffando, infastidito.
Auron era
inginocchiato sulla terra
nuda del campo d’addestramento, seduto sui talloni. Aveva le
braccia rilassate
lungo i fianchi e teneva tra le mani una piccola ciotola, capiente
quanto un
bicchierino da liquore.
«Cosa
bevi, monachello?» gli aveva
chiesto, facendoglisi più vicino.
Due piccoli
solchi erano comparsi
sulla fronte di Auron. Jecht si era reso conto che non sapeva nemmeno
quanti
anni avesse, solo che era molto giovane.
Quanti ne
aveva in meno di lui?
Cinque, o addirittura di più?
«È
alcolico?» lo aveva incalzato
ancora, dato che come al solito non gli era arrivata una risposta.
Cosa pensava
lui quando aveva
venticinque anni, prima di scoprire che Lauren era incinta? Al pallone,
alle
serate con gli amici, a quello sfogo d’un istinto ferale che
trovava solo
nell’alcol, nella finta guerra del blitzball e nel sesso. Di
sicuro non aveva
mai rivolto la mente al sacrificio, all’onore, al divino, ai
cani che avrebbero
predato il suo corpo se non avesse ricevuto degna sepoltura.
Era
rabbrividito quando si era reso
conto che, come le sue amanti gli accarezzavano la nuca,
così sul collo di
Auron scivolavano le mani della Morte, contando sotto le dita una a una
le sue
vertebre.
Il monaco
aveva sollevato le
palpebre e gli aveva rivolto un’occhiata che era insieme
infastidita e stanca.
«Non
ti riguarda» aveva risposto.
Jecht gli si
era seduto vicino
sulla terra del campo di addestramento. Era secca.
Quel
ricordo scompariva, mescolandosi con un sogno confuso nel dormiveglia.
Jecht
giaceva scomposto sul letto, supino, con il lenzuolo attorcigliato
attorno alle
gambe, una mano posata su una coscia e un senso di caldo torpore in
tutto il
corpo.
Auron non
si era ancora fatto vedere, quella mattina. Nessuno lo aveva
strattonato per
obbligarlo a scendere dal letto, nonostante già il giorno
avesse frantumato le
nuvole e la ghiandaia gridasse il suo canto sgraziato.
Nel
monastero la vita iniziava all'alba, ma la mancata presenza del suo
insegnante
venne ben accolta dal fisico provato dell'atleta.
Si era
svegliato confuso, ma riposato come non lo era da due mesi, ossia da
quando
aveva iniziato l'allenamento con Auron. Pensò di essersi
proprio meritato un
goccetto dopo aver faticato tanto, ma qualcosa gli impediva di agire
secondo le
sue voglie: non era mai stato sobrio per così tanto tempo, e
l’idea di rovinare
un traguardo sofferto gli faceva passare la voglia.
Decise
allora che avrebbe trascorso quell’inaspettato giorno di
pausa in spiaggia, per
rendere onore alle proprie origini. Ormai conosceva bene Bevelle: non
ebbe difficoltà
a raggiungere il mare limpido di Spira, dalla parte opposta al
monastero.
Impiegò parecchi minuti, ma non erano niente in confronto
all'aria salmastra
che gli apparteneva, al sale dell'acqua di cui era composto. Si sentiva
sale e
sabbia.
Pensò
di fare
tante cose, ma alla fine non si dedicò ad altro che a
guardare l'orizzonte,
ricordando Zanarkand. Da lì a qualche giorno sarebbero
partiti, pronti ad
affrontare mostri terribili, banditi e chissà cos'altro,
tutto per sconfiggere
una bestia invincibile e averne in cambio qualche anno di pace. Non
riusciva a
togliersi dalla testa che fosse una follia, ma quella gente ci credeva
davvero.
Braska non
lo dava a vedere, ma era teso, Jecht ne era sicuro. Dietro a quel
sorriso
affabile e a quei modi gentili c'era una paura profonda, ma anche una
determinazione rara. Quel giorno l'Invocatore avrebbe dovuto prendere
il suo
primo eone, Baha-qualcosa. Auron se n’era sempre lavato le
mani, lasciando le
spiegazioni a "momenti più opportuni". Il momento era
senz'altro arrivato.
Non
ricordava dove di preciso abitasse Braska, ma non ebbe molte
difficoltà a
trovarlo chiedendo indicazioni in giro. Pensò che la sua
casa fosse molto
graziosa, un po' come Braska stesso e la sua figlioletta. Un moto
d'invidia gli
attraversò lo stomaco: avrebbe tanto voluto avere un
rapporto simile con Tidus,
ma non ne era stato in grado.
Con un
sospiro, bussò alla porta. Dall'altra parte sentì
delle voci, Braska non era
solo. Il suo ospite, di sicuro, non era Auron: il monaco aveva una voce
roca e
profonda, quella che aveva udito invece era molto simile a quella
dell'Invocatore, leggermente più acuta.
Un nervoso
Braska andò ad aprire, sfoderando un sorriso di cortesia:
fece entrare Jecht
con riluttanza, atteggiamento davvero anomalo per un uomo
così gentile con il
prossimo. Nel salottino rotondo, un individuo piuttosto minuto e
vestito in
modo ancor più ridicolo di Braska, squadrava ogni centimetro
della stanza con
morbosità. Il volto era asciutto e dai tratti pronunciati,
somigliava molto a
quello del padrone di casa.
Jecht
provò antipatia istantanea: non gli piaceva il suo
atteggiamento altezzoso.
Come posò gli occhi sull'atleta, lo sconosciuto sorrise
appena, unendo le mani
come in preghiera.
«Parli
del
diavolo… una gran fortuna, Yevon mi ha risparmiato la fatica
di andarlo a
recuperare» disse quello con tono sofisticato. Jecht
aggrottò le sopracciglia
ben intenzionato a chiedergli di ripetere le parole che gli aveva
rivolto, ma
il volto teso di Braska lo spinse a demordere.
«Jecht,
ti
presento il Grande Inquisitore Alan» annunciò
l'Invocatore senza emozioni.
Forse sarebbe
più appropriato
Piccolo Inquisitore Alan,
pensò Jecht. Da un rapido calcolo, intese che, se si fosse
alzato ergendosi in
tutta la sua altezza, quel tale gli sarebbe arrivato sì e no
al petto.
«Un
nome altisonante»
commentò, senza dare voce
esplicita ai propri frizzanti pensieri.
«Hai
ragione, e guadagnato con fatica. Sai cosa implica il mio titolo o di
cosa mi
occupo?»
Jecht
scosse la testa e Alan scoppiò a ridere con fare inquietante.
«Allora
è
vero che non ricordi nulla!»
Gli occhi
di Jecht, trascinati da un sordido presentimento, si posarono su un
oggetto sul
tavolino. Era d’ottone, e la sua forma a coppa sembrava dover
accogliere al suo
interno qualcosa che veniva poi nascosto da un alto coperchio
cesellato,
modellato in modo da imitare l’architettura di un tempio.
Delle catene sottili
servivano con tutta probabilità a reggerlo in mano, come una
lanterna. Non
sembrava però che le aperture fossero grandi abbastanza da
lasciar filtrare la
luce.
Dov’è
Auron?
pensò all’improvviso, spaventato.
La presenza del ragazzo, come scudo dalle cose che lui non sapeva, lo
avrebbe
fatto sentire molto più sicuro. Si sarebbe parato tra lui e
l’Inquisitore e lo
avrebbe annichilito con qualche commento sardonico.
Braska,
senza alcun preavviso, si diresse verso la porta. Unì,
com’era sua abitudine,
le mani in grembo prima di parlare.
«Andremo
al tempio a pregare l’Intercessore, Jecht»
annunciò. Sapeva che l’uomo di
Zanarkand non poteva capirlo, ma sentiva appena di avere le energie per
camminare. Colui che gliele stava togliendo lo precedette, uscendo
prima di lui
dalla porta. Braska non aveva nessuna volontà di andare
apertamente contro la
Chiesa, ma lo spettro scuro dell’Inquisizione controllava i
suoi passi.
L’Invocatore
soffermò lo sguardo sul suo viso, sui suoi occhi attraverso
i quali non passava
la luce. Era amara l’ironia che li voleva uno dalla parte del
giusto e l’altro
da quella del torto, senza però definire le fazioni.
C’è
stato almeno un tempo in cui mi
hai amato, Alan?
«Il
tuo
altro guardiano, quello ordinato dai Templari,
dov’è?» gli domandò
l’Alto
Inquisitore.
C’erano
domande a cui nemmeno la fede poteva dare risposta: quelle che
riguardavano il
cuore degli uomini.
«Ci
sta
aspettando al tempio» rispose Braska. Prese la strada che
scendeva, su cui i
fiori rossi cominciavano a sbocciare.
Mi hai amato,
quando nostra madre
ti chiedeva di prendermi per mano e attraversare il campo vasto di
papaveri?
Alzò
gli
occhi verso l’alto, sperando di ricevere forza. Dietro
l’altare, nel piccolo
tempio di quartiere dove andava a pregare da ragazzino, c’era
un dipinto
raffigurante un raggio di sole che attraversava le nuvole: era
così che aveva
sempre immaginato Yevon.
Ma il
cielo, quel giorno, era coperto, e una nube di storni si agitava,
volgendo a
destra e a sinistra come un animale imbizzarrito che si dimena per
sfuggire al
coltello che lo uccide. A bassa quota, proprio davanti a lui, due
uccelli si
erano staccati dallo stormo.
Volarono
rapidi l’uno contro l’altro, e si scontrarono
finché il più forte non dilaniò
con il becco il collo del suo simile, che cadde a terra morto. Il
presagio era
chiaro: Braska avrebbe ucciso il suo stesso fratello.
Con il
terrore nel cuore, strinse il bastone che voleva usare come
catalizzatore del
potere dell’eone e si voltò verso Alan. Lui
camminava con portamento altero
verso il tempio di Bevelle, rivolgeva talvolta rapidi sguardi a Jecht
che lo
seguiva senza osare rivolgergli la parola.
No, il futuro
che il dio mi ha
mostrato non è il mio,
pensò Braska, io non potrei.
Ebbe la
sensazione di essere privato dell'aria, ma non si fermò,
né aveva intenzione di
darlo a vedere. Se l'Inquisizione voleva osservarlo da vicino, avrebbe
visto un
uomo risoluto e forte nel fisico, anche se avesse dovuto fingere. La
sua
determinazione fu alimentata anche dal comportamento di Jecht,
stranamente
rispettoso: non poteva sprecare uno sforzo simile da parte dell'atleta.
I nervi
dell'Invocatore erano provati: la presenza di suo fratello era
già un arduo
fardello da sopportare, e di lì a poco avrebbe dovuto
sostenere una delle prove
più dure. Tuttavia, lui poteva farlo. Braska ricordava bene
l'estremo
attaccamento alla vita sperimentato durante la malattia: era in grado
di
trascendere i suoi limiti.
Arrivarono
al tempio più in fretta di quanto previsto, e Braska non era
nemmeno
affaticato. Forse la mano di Yevon lo aveva spinto fin lì
per sua volontà,
pensò. Auron li attendeva con la schiena appoggiata a una
colonna e un braccio
sul fodero in pelle nera di quella che sembrava un'arma.
Il monaco
gettò uno sguardo truce verso Alan, intuendo subito tutto
ciò che la sua
presenza comportava. Li accolse con la tradizionale reverenza: Jecht si
avvicinò a lui come guidato dall'istinto, o dall'abitudine.
Era visibilmente sollevato
di averlo lì. Notò che alla cintura portava un
contenitore per l'alcol, forse
un regalo di qualcuno.
«Hai
detto
il vero, Braska. Eccolo qui, infatti» disse Alan con una
punta di sarcasmo.
«Non
avevo
motivo di mentire. I miei Guardiani sono molto devoti»
rispose pacato Braska.
Il fratello fece una smorfia infastidita.
«...bene.
Mi pare tutto in ordine qui. Ti guarderò entrare nel tempio,
poi tornerò ai
miei doveri. I tuoi Guardiani sono qui, ho tutto ciò che mi
serve».
L'Invocatore
annuì, per poi avvicinare Auron e Jecht a portata
d'orecchio. Mise una mano
sulla spalla del monaco e una su quella dell'atleta, sorridendo come
soleva
fare per rassicurare.
«Mi
aspetta una prova molto difficile, amici miei. Ci metterò un
po', ma non
temete: starò bene. Auron, sii gentile e istruisci Jecht su
cosa sto andando a
fare nel tempio, vuoi?»
Il monaco
annuì, per poi rivolgere un leggero inchino al suo
Invocatore.
«Che
Yevon
guidi i suoi passi» disse grave e sinceramente preoccupato.
Jecht ebbe un
brivido.
«Ehi,
se è
troppo pericoloso esci di lì, d'accordo?»
Braska
accarezzò il viso di entrambi, poi spinse con forza il
pesante portone del
tempio, guardando nell’oscurità. L'ultima cosa che
videro i due Guardiani fu la
schiena dell'Invocatore che procedeva verso l'interno.
Auron
sospirò e tornò al suo posto, con la schiena
contro la colonna, mentre Jecht
squadrava preoccupato la porta finemente decorata d'oro. Totalmente
ignorato,
Alan se ne andò come era venuto, portando con sé
quell'aria opprimente che
emanava.
Il monaco
osservò Jecht: non si aspettava di vederlo così
pensieroso nei confronti di
Braska, e ne fu lieto.
«Dove
sei
stato?» chiese l'atleta.
Auron non
rispose: si mise dritto scostandosi dal muro, per poi porgere il fodero
nero.
«Aprilo,
saggiala un po'».
Jecht fece
come detto, scoprendo una spada di ottima fattura e dalla lama
lucidissima. Non
era avvezzo alle armi, ma intuì che fosse stata fatta
appositamente per le sue
esigenze. La trovò splendida e deglutì, sentendo
il battito accelerato del
cuore.
«Tu…
tu
l'hai fatta fare per me? È un regalo?»
«È
necessario, non un regalo» disse secco, ma Jecht se lo fece
bastare.
La
maneggiò con fare inesperto: notò subito come
l'arma fosse meno pesante di
quanto apparisse. Ricordò le parole di Auron riguardo il suo
modo di
combattere, e gli sembrò perfettamente coerente.
«Mettila
come vuoi, monachello, ma mi piace un sacco. Grazie»
disse enfatizzando l'ultima parola. Auron fece un gesto con
la mano per accettare la sua gratitudine, poi continuò.
«Allora, mi spieghi
cosa deve fare Braska? Da come ne avete parlato, non sembra molto
sicuro».
Il monaco
annuì: non avrebbe indorato la pillola.
«Nel
tempio c’è una zona più interna,
inaccessibile a noi guardiani. La chiamiamo
naos, e può accedervi solo l’invocatore».
«Chiaro»
replicò Jecht. Voleva chiedere perché non ci
potesse entrare, ma si morse la
lingua.
«Lì
Braska
rimarrà in preghiera, anche per giorni se necessario, fino a
quando
eventualmente l’Intercessore lo riterrà degno, e
intreccerà la propria anima
con la sua, donandogli l’eone».
«Cos’è
l’Intercessore?» domandò Jecht.
«È
una
persona che si immolò in nome della propria fede a
Yevon».
Jecht
aggrottò le sopracciglia: in quella favola c’era
qualcosa di macabro e strano
che ancora non riusciva a cogliere.
Volse lo
sguardo al cielo, dove le nubi si spostavano e lasciavano posto alle
spettatrici stelle.
«Che
cosa
fa l’Inquisizione?»
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Capitolo 9 *** Molte sono le cose terribili ***
CAPITOLO 8:
MOLTE SONO LE COSE TERRIBILI
Auron lo aveva
guardato come si
guarda qualcosa di cui si ha paura. I suoi occhi erano fermi in quelli
di
Jecht, ma fissavano qualcosa che si trovava oltre.
«L'Inquisizione
controlla che ciò
che facciamo vada bene per la Chiesa di Yevon» aveva poi
spiegato, con
naturalezza. «Se desideri scrivere un libro, ad esempio, o
parlare in pubblico.
Si occupa anche di debellare le eresie e interrogare i prigionieri
più pericolosi
per Bevelle. Braska non ha rispettato i dettami ed è stato
scomunicato, quindi
ora va controllato».
Si era
ravviato dietro l'orecchio
una ciocca di capelli sfuggita al nastro che li legava.
«Ma
che stai dicendo?» aveva
sbottato Jecht, senza nemmeno pensare prima di pronunciare quelle
parole.
All'improvviso,
aveva compreso
molte cose.
Perché
in quel posto in cui si
danzava con le ombre fossero così timorati di un dio che non
li salvava.
«Qui
a Bevelle noi facciamo così»
aveva replicato Auron, con durezza.
«Non
va bene!» si era trovato a
gridare Jecht.
Guardava
il liquido nel bicchiere, senza ricordare se era la quarta, quinta o
sesta
volta che lo riempiva. Aveva un gusto di anice a cui non era abituato,
che allo
stesso tempo lo inebriava e gli faceva storcere il naso per l'eccessiva
dolcezza.
«Non
va bene per niente!»
Auron aveva
piantato la propria
spada per terra, poi aveva guardato quella che aveva fatto costruire
per Jecht,
forse vergognandosi per il regalo.
«Non
sei tu a decidere cosa va bene
e cosa meno».
Jecht gli
aveva mostrato i denti in
una smorfia feroce.
«No»
aveva commentato, «lo fa
l'Inquisizione».
Non andava
bene, l'isola in cui era finito. Era di continuo funestata da un orrore
che per
lui era ancora invisibile, era stretta nel pugno di un uomo che
riteneva di
poter dettare la legge del dio.
La testa
gli girava tanto che dovette sorreggersi al muro ruvido e sporco di una
casa.
Trascinava i piedi con un mezzo sorriso, quasi confortato dall'essere
un
miserabile, un uomo vero in mezzo alla laccatura di quella
realtà.
«Jecht».
Quello su
cui era andato a sbattere era qualcosa di duro. Con fatica non
indifferente
alzò gli occhi, dimodoché non guardassero
più i propri piedi callosi ma il viso
del nuovo arrivato.
«Oh,
bel
ragazzo...» replicò, con voce strascicata e
lamentosa. Si lasciò cadere tra le
braccia di Auron, appoggiando la testa nell'incavo caldo tra il suo
collo e la
sua spalla, sentendosi al sicuro. «Non sarai mica venuto a
cercarmi?»
Auron
cercò di scuoterselo di dosso, ma dopo qualche debole
tentativo desistette,
forse pensando che sarebbe finito a terra se non lo avesse trattenuto.
«Guardati.
Domani dobbiamo partire» gli aveva risposto il ragazzo, senza
pietà.
I suoi
capelli avevano un odore esotico di spezia – zenzero, forse?
– che pizzicava
con dolcezza le narici di Jecht e lo spingeva a inspirare ancora. Si
aggrappò
al braccio di Auron, ne accarezzò con il pollice i muscoli.
«Appunto...»
replicò, mettendo assieme le parole con fatica,
«stavo... cercando compagnia.
Eh, a proposito, Au- ragazzo... non
è
che c'hai qualche amica da presentarmi? O anche un amico, non
è che c'ho gusti
così difficili...»
Auron
s'irrigidì all'istante.
«Per
favore, lasciami il braccio» gli ordinò. Le mani
di Jecht finirono sul suo
petto, coperto dall'armatura di cuoio. Non se la toglieva nemmeno per
andare in
giro la sera?
«Che
c'è?
Ah, non ti preoccupare per te, monachello, mica miro così in
alto» replicò con
una risata roca, mentre gli sistemava i lembi della veste.
Il monaco
lo afferrò in modo brutale per la cintura e lo spinse a
camminare al suo
fianco.
«Muoviti»
gli intimò, con tono furioso e senza più
nascondere il disgusto che provava per
lui. In risposta, Jecht biascicò qualcosa di
incomprensibile, che poteva
sembrare in un'altra lingua.
Auron lo
trascinò fino al monastero e si fermò davanti
alla porta della cella che
avevano destinato a Jecht. Lo lasciò e lui
barcollò per poi aggrapparsi allo
stipite.
«Apri»
comandò.
Jecht gli
si avvicinò con gli occhi socchiusi e un sorriso, senza dare
segno di avere
capito.
«Non
sto
scherzando» continuò Auron, storcendo il naso per
l'odore di alcol – per giunta
di infima qualità – che lo travolse.
«Apri la porta».
Jecht gli
gettò le braccia al collo e rimase immobile, appoggiandosi
su di lui a peso
morto. Auron strinse i denti e imprecò in silenzio. Lottando
contro la nausea
che provava, sollevò la parte di salopette che gli copriva
le tasche posteriori
e vi infilò una mano per cercare le chiavi, nel modo
più meccanico possibile.
Jecht mugugnò, raggiungendo con una mano la sua nuca e
toccandogli i capelli, e
Auron frenò l'impulso di colpirlo con uno schiaffo.
Seppur
ostacolato dal corpo inerte e ingombrante di Jecht, riuscì
ad aprire la porta.
Poi, agevolato dal forse involontario abbraccio dell'atleta, lo
sollevò in
spalla e lo mise a letto.
Nel
momento in cui la sua testa toccò il cuscino, l'uomo
sembrò tornare
parzialmente in sé. Si rese conto di trovarsi davanti Auron
e lo fissò con gli
occhi appannati.
«Vuoi
venire a letto con me?» farfugliò, storcendo la
bocca in un ghigno. Auron non
lo ascoltò e si diresse in bagno, per prendere un catino di
ferro di solito
usato per lavarsi.
«Se
ti
piacciono certe cose... come quella
che hai fatto mentre ci allenavamo insieme...»
continuò a delirare il campione
di blitzball, portandosi una mano al collo con fare seducente,
«a me va anche
bene, sai?»
Senza
curarsi del rumore, Auron lasciò cadere al suolo il catino.
«Se
devi
vomitare, fallo qui» gli replicò, lapidario.
Jecht
sembrò riscuotersi un'altra volta e riacquistare un barlume
di senno. Pur nella
penombra, il monaco lo vide impallidire nel rendersi conto di
ciò che aveva
detto.
«Auron...»
«Mi
fai
schifo».
Auron gli
voltò le spalle e uscì dalla cella,
allontanandosi con passi pesanti verso il
cortile dove Braska lo stava aspettando, le mani giunte al petto con un
atteggiamento premuroso.
«Sta
bene?» gli domandò l'Invocatore in un sussurro.
«No»
rispose lui, evitando il suo sguardo. «E nemmeno
io».
Era la
prima volta che si rivolgeva con tanta durezza a Braska. Se ne
pentì subito
dopo, ma non poteva riportare indietro il tempo.
«Che
cosa
è successo?» continuò con ansia il
sacerdote.
Auron si
voltò, aprì la bocca per parlare e subito la
richiuse, in modo da poter
addolcire ciò che aveva da dire.
«Sono
contrario a partire con quell'uomo come Guardiano»
dichiarò. «È ubriaco
fradicio. Mi ha costretto ad andare a riprenderlo mentre vagava senza
meta per
la strada, e Yevon mi salvi se qualcuno mi ha visto in sua
compagnia».
«Per
favore, Auron, cerca di capire. È lontano da casa, e non sa
se la sorte gli ha
tolto il ritorno. Non dobbiamo giudicare un uomo da un suo momento di
debolezza».
«Se
lo ha
fatto oggi, lo farà ancora» sentenziò
Auron, senza pietà. Si interruppe e
abbassò la voce, in modo da non turbare la quiete della
notte. «E ancora e
ancora, e potrà piangere e dire che non lo farà
mai più, ma continuerà a
ricaderci».
Braska lo
guardò con quella che sembrava consapevolezza. Auron fu
attraversato da un
sentimento che non sapeva spiegare, come se due diverse anime stessero
lottando
nel suo corpo.
«Io
mi
fido di Jecht» disse l'Invocatore. «Mi dispiace
recarti un dispiacere, ma allo
stesso tempo ti prego di concedergli una
possibilità».
Auron
rimase in un limbo, incerto se aggiungere o meno l'ultimo dettaglio.
Infine si
morse il labbro inferiore e abbassò la testa.
«Sì,
signore» mormorò.
Era
rimasto sconvolto e disgustato quando aveva scoperto che Jecht aveva
anche
tendenze omosessuali. Era un uomo sposato, per di più, e con
un figlio su cui
non avrebbe neanche dovuto posare gli occhi, tanta era la vergogna
della sua
condizione.
Non era
riuscito a dirlo a Braska.
E non
riusciva a scacciare il pensiero, annidato nell'ombra della sua mente,
di non
averlo fatto perché, in fondo, aveva paura di sentire la
risposta.
Quel
giorno, il sentiero per il monastero sembrava lungo una vita intera.
Braska
accompagnava Yuna stringendole la manina, come se potesse scappare da
un
momento all'altro. Avrebbe tanto voluto che succedesse, così
da poterla cercare
ancora per qualche minuto.
Un paio di
giornate atipiche di sole troppo intenso erano riuscite a bruciare
alcuni steli
teneri, che venivano schiacciati dai piedi dell'Invocatore
così come gli
uomini, inermi, venivano travolti dalle scaglie di Sin quando piovevano
dal
cielo. Sarebbero ricresciuti i fiori, e allo stesso modo sarebbero
risorte le
città dagli scheletri di legno.
Braska si
accorse di star stringendo la mano della figlia con troppa forza,
così la prese
in braccio e la issò sulle spalle, facendola sorridere. Dopo
pochi passi furono
in vista del bianco edificio dei Templari.
L'uomo,
con il respiro rotto, lasciò andare Yuna, in modo che
corresse verso i monaci a
cui l'avrebbe affidata nel periodo del suo Pellegrinaggio e –
se il dio
l'avesse voluto – anche oltre.
I passi
svelti della bambina, però, subirono presto una deviazione.
«Jecht!»
gridò, entusiasta, schiantandosi festosamente contro una
delle gambe del
campione di blitzball.
«Ciao,
tigre» replicò subito lui, chinandosi per
accarezzarle i capelli. I suoi, notò
Braska, erano stati lavati di recente e non c'era nulla in lui che
faceva
pensare che avesse passato una brutta nottata.
«Weu, che cos'è una
tigre?» trillò Yuna.
Jecht la prese in braccio senza fatica, tanto che Braska
invidiò la sua forza,
e cominciò a narrare.
«È
un
animale ferocissimo» le sussurrò, storcendo la
bocca e piegando le dita per
imitare un artiglio. «Il suo mantello è a strisce:
alcune sono nere come la
notte e altre, si dice, sono cosparse di una sottilissima polvere
d'oro.
Almeno, questo vale per le tigri che vivono a Zanarkand».
La bimba
spalancò gli occhi, estasiata.
«Ed
è vero
oro?»
«Certo,
e
pensa: un giorno mio padre stesso, quando era ragazzo, partì
con una nave per
andare a recuperare il manto più prezioso».
«E
lo ha
trovato?»
Lo sguardo
di Jecht si perse, e rivide davanti a sé il padre seduto
sulla poltrona, le
gambe accavallate nel gessato grigio, intento a leggere un saggio
stantio e
fumare la pipa. Fingeva di non vedere Jecht, mentre lui voleva solo
mostrargli
di essere diventato bravo a palleggiare.
«Non
lo
so».
I ricordi
divennero amari, così decise di fare quello che il genitore
gli aveva sempre
voluto negare. Durante il periodo di allenamento, Jecht aveva trovato
una
vecchia palla da blitzball nelle cantine del monastero, forse perduta
da qualcuno
o sequestrata a qualche giovane iniziato.
Jecht non
aveva mai perso occasione di dare qualche calcio alla sfera, nonostante
l'allenamento disumano a cui lo sottoponeva Auron, e lo stesso monaco
non
glielo proibiva.
«Vuoi
vedere il tiro leggendario famoso in tutta Zanarkand? Così
proverai a farlo
mentre siamo via».
Yuna
annuì
entusiasta, scrutata dagli occhi attenti di Braska, così
Jecht corse nel
monastero per recuperare la palla, accuratamente nascosta sotto il suo
letto.
Saggiò per l'ultima volta il volume della sua più
cara amica in quel mondo
spregevole, per poi tornare dalla piccola con un gran sorriso sul volto.
Se solo io
l'avessi fatto con
Tidus...
«Osserva
bene, tigrotta! Al nostro ritorno sarai una campionessa di
blitzball!»
Jecht
palleggiò con destrezza usando sia il piede destro che il
sinistro, ma nel
momento in cui mise il peso sull'arto mancino per caricare il tiro,
quello
speculare lo fulminò con un grande dolore bruciante. Perse
l'equilibrio cadendo
rovinosamente a terra: la palla rotolò via senza una meta
precisa.
Braska
scoppiò a ridere d'istinto, così come Yuna, poi
lo aiutò a rimettersi in piedi.
Più che della figuraccia, Jecht era molto preoccupato di
perdere la preziosa
compagna. Si guardò intorno alla sua ricerca, quando
notò che era rotolata ai
piedi di un arcigno Auron.
All'improvviso,
tutto il suo buonumore svanì. Il viso di Auron era quello di
una statua di
marmo, inespressivo più del solito, e qualche nebuloso
ricordo della notte
precedente gli strizzò lo stomaco.
Il monaco non
mosse un muscolo nemmeno quando Jecht, tenendo fissi gli occhi su di
lui, si
chinò per riprendere la palla. Il cuore cominciò
a battergli nella gola e
contro le tempie, affollate da immagini strane.
A parte la
solita sensazione di ebbrezza, piacevole solo per poco, ricordava di
essersi
accasciato tra le braccia di Auron, poi più niente se non
qualche memoria
fugace di aver vomitato in un catino.
«Ciao...»
accennò, vedendo che il suo compagno non gli rivolgeva la
parola. Non ricevette
risposta e fu attanagliato dal senso di colpa più forte che
avesse mai provato
in vita sua. Con vergogna, rivolse gli occhi alla bambina e poi a
Braska.
Di certo
anche l'Invocatore era venuto al corrente di qualsiasi cosa fosse
successa, ma
non aveva detto nulla perché aveva un animo gentile.
La sua
mente, rapida, passò in rassegna tutte le cose sbagliate che
avrebbe potuto
dire ad Auron, e sperò con tutte le forze di non aver fatto proprio quello.
Pregò
che
Yevon, chiunque egli fosse, gli aprisse all'istante una voragine sotto
ai
piedi. Poi prese la palla e si girò di nuovo verso Yuna con
un gran sorriso.
«Mi
raccomando, tigre. Non dire a nessuno cosa hai visto, o mi prenderanno
tutti in
giro! Sono pur sempre un grande campione!» disse, mettendo le
mani sui fianchi
per darsi un tono. La bambina aveva le lacrime agli occhi per le grosse
risate.
Auron
osservò tutta la scena provando sentimenti contrastanti,
come due cani che si
combattevano: da un lato il disgusto per le inclinazioni del compagno,
dall'altro il calore della sua gentilezza nei confronti della bambina,
un
atteggiamento di cui lui non si era dimostrato capace.
Scosse la
testa per allontanare quel dualismo fastidioso, quando una voce
familiare
richiamò l'attenzione. Wen Kinoc gli fece cenno di
avvicinarsi, invito accolto
con particolare sollievo.
Il monaco
seguì l'amico all'interno dell'edificio, fino a quando si
fermarono in
corrispondenza di un'ampia nicchia appartata, scavata nella parete
bianca.
Kinoc non
gli rivolse la parola per primo, troppo assorto nei suoi pensieri.
Auron lo
guardò e ricordò di quando gli aveva legato
l'armatura il giorno dell'investitura
a Guardiano.
«Grazie
di
tutto, Kinoc» esordì.
L'altro
levò gli occhi su di lui, forse scacciando uno degli slanci
sentimentali che da
sempre si forzava a mantenere relegati nell'animo.
«So
di non
aver bisogno di dirtelo» replicò, in tono solenne,
«ma proteggi bene Braska».
Il cuore
di Auron accelerò, e il suo umore sanguigno
minacciò di prendere controllo dei
sensi. Era così che congedava il suo migliore amico?
«Lo
farò»
rispose, trattenendo parole di biasimo. Forse sarebbero state le ultime
che
Kinoc avrebbe sentito da lui: se non potevano essere di miele, non
sarebbero
nemmeno state di fiele. «Sarai impegnato anche tu. Ho sentito
che ti hanno
nominato comandante in seconda».
Lui
sospirò e prese a tormentarsi il laccio d'oro che gli
cingeva i fianchi, segno
dell'onore che gli era stato di recente tributato. Aveva accettato in
moglie la
ragazza che sarebbe dovuta capitare a lui, oppure aveva adornato in
qualche
altro modo le case dei loro superiori piuttosto che quelle del dio?
«Sai
che
avresti dovuto essere promosso al posto mio» disse.
«Sei sempre stato il
migliore tra noi due, fino alla fine».
Auron gli
mostrò un sorriso, dapprima forzato, che fu addolcito da un
ricordo d'infanzia.
«Se
dici
così sembra che io stia andando a morire» lo
rimproverò senza cattiveria. «Ci
rivedremo».
«Sì»
rispose semplicemente Kinoc, e dal suo tono Auron comprese che ci
credeva
davvero. L'istinto lo spinse a chiudere la distanza tra di loro e
abbracciarlo,
ma si fermò a metà del gesto, ricordando la
sensazione disgustosa che la
stretta di Jecht gli aveva lasciato sulla pelle la notte precedente.
«Bene,
dunque...» continuò con incertezza, muovendo un
passo verso la porta.
«Te
ne vai
di già?»
Il
Guardiano annuì in silenzio, sapendo che così
facendo avrebbe posto, tra sé e
l'ordine dei Templari, un confine che non sarebbe più stato
oltrepassato.
Ma Kinoc
sorrise di nuovo.
«Mi
racconterai di Zanarkand quando tornerai, non è
vero?»
Auron
assentì con un cenno e con un lieve mormorio.
«Addio».
Jecht non
trovava pace. Dopo che Auron si era allontanato con quel suo amico, si
era
congedato da Braska e Yuna di gran fretta, affidando alla piccola il
pallone.
Si era poi rifugiato nella sua cella, attendendo l'ora di partire.
La morsa
della vergogna, tuttavia, non lo aveva mai lasciato. Sicuramente aveva
fatto
qualcosa di deplorevole ad Auron mentre era ubriaco, ma non sapere cosa
lo
stava logorando. Si alzò di scatto dal suo letto sbuffando
infastidito, per poi
uscire a passo deciso verso... dove si trova Auron in quel momento?
Imprecò
a
bassa voce, per poi iniziare una disperata ricerca alla volta del
monaco:
controllò sia l'interno del tempio sia i dintorni
più prossimi, quando poi lo
intravide nel posticino semi-nascosto dove fumava.
Lo aveva
trovato, ma si chiese come poterlo approcciare senza offenderlo
ulteriormente.
Decise di affidarsi all'istinto e non girare intorno alla questione.
«Dobbiamo
parlare, Auron. O meglio, io voglio parlare, tu non dirai una parola
come al
solito» esordì senza nemmeno chiedere il permesso.
Il monaco lo squadrò con
astio.
«Mi...
mi
dispiace. Qualunque cosa io abbia fatto, mi dispiace davvero! Faccio
sempre
tante stupidaggini quando sono sbronzo, e...»
farfugliò Jecht con occhi bassi,
ma fu subito bloccato dalle parole rudi di Auron.
«Se
ne sei
consapevole, non dovevi ubriacarti fin da principio! A te non dispiace,
Jecht.
Cadrai di nuovo nel vizio, mettendo in pericolo Braska».
Per una
delle poche volte in vita sua, Jecht non ebbe niente da obiettare.
«Sì,
diavolo, sì... non posso mettervi nei casini mentre siamo in
viaggio, giuro che
non succederà ancora».
Auron
scoppiò a ridere esasperato, come non aveva mai fatto,
mentre soffiava il fumo
fuori dalle narici. Era inquietante.
«Le
promesse di un ubriacone! Così preziose, come posso non
crederti! Oh, se solo
fosse così semplice il problema».
L'iniziale
e profonda vergogna fece spazio al fastidio: era di certo pronto ad
affrontare
i suoi rimproveri, ma non a essere umiliato.
«Non
ricordo niente. Potresti almeno dirmi cosa ho fatto? Per
favore» disse a denti stretti. Auron sembrava sul
punto di
sbottare.
«Non
è
cosa hai fatto, Jecht. È cosa sei».
«Cosa,
Auron? Cosa sono?»
Il monaco
si agitò, quasi avesse davanti la Morte in persona. L'atleta
deglutì, disperato:
il compagno era troppo sconvolto in volto, aveva fatto quello. Ne era
sicuro.
«Un
depravato! Sei sposato e hai un figlio, ma ti diletti nel cercare
l'attenzione
maschile» disse con voce secca. Jecht si mise una mano sul
volto, non c'erano
più dubbi: gli aveva fatto delle avance.
A lui.
«Io...
diavolo, diavolo, che stupido... Auron, te lo giuro, mi dispiace da
morire.
Immagino che per te sia un grosso disagio» provò a
dire gentilmente, ma quello
scosse la testa furibondo.
«Proprio
non capisci? Non riguarda me, riguarda te! La tua condotta è
aberrante, un
peccato contro Yevon!»
Jecht
rimase a bocca aperta, freddato. Fino a quel momento era stato convinto
che il
gesto in sé fosse stato la causa del conflitto, ma si rese
conto che la
situazione andava ben oltre. Auron era quel tipo di persona, non poteva
sopportarlo.
«Come
osi tu giudicare le mie preferenze!
Hai
deciso di ripudiarmi per qualcosa che non ti riguarda!»
urlò rabbioso, ma Auron
gli puntò un dito al petto con fare accusatorio. Lo guardava
come si guarda uno
scarafaggio.
«Oso
perché lo dice il dio. E i tuoi atti sono blasfemi.
Perché lo fai? La moglie
che dici di avere esiste davvero?»
Jecht
afferrò la mano del monaco e la scansò di lato
con violenza, ergendosi in tutta
la sua altezza per sovrastare quel muro.
«Sei
molto
interessato a curiosare nelle mie mutande. Vuoi saperne di
più?»
Auron si
irrigidì come un pezzo di legno congelato e Jecht gli
rivolse una risata
sprezzante.
«Non
osare
infangare il mio nome con queste insinuazioni disgustose».
«Altrimenti?
A Zanarkand non ci sono le tue credenze bigotte, monachello. Non
c'è il tuo
caro Yevon che ci obbliga a incatenare i pensieri come le vergini che
offrite
in pasto alla balena. Fattene una ragione» disse facendo per
andarsene,
infastidito e offeso. «Ah, sì, la moglie ce l'ho
davvero. Sono attratto da
entrambi i sessi, ora uccidimi pure».
Jecht se
ne andò via furente, lasciando Auron esasperato e solo. Il
monaco colpì la
colonna su cui era appoggiato con il lato della mano chiusa a pugno,
generando
un fragoroso tonfo. Guardò l'atleta che si fermò
di colpo e girò il collo,
forse per controllare cosa fosse successo, poi riprese il cammino.
Non lo
avrebbe mai ammesso, ma apprezzava quel suo atteggiamento altruista:
nonostante
tutto, si era preoccupato. Auron si coprì il volto con le
mani, alla ricerca di
un autocontrollo che faticava a trovare.
Gli aveva
fatto male come non aveva mai fatto, più dei colpi di spada
e delle prese a
terra. Non poteva lasciare le cose in quel modo: Braska ne sarebbe
stato danneggiato.
Jecht
aveva il passo lungo, doveva già essere a metà
sentiero. Se lo immaginò sulla
spiaggia, furioso, a tirar calci alle conchiglie. Dovette correre
più di quanto
pensasse per raggiungerlo ma, non appena lo intravide tra la rada
vegetazione
che costeggiava la strada, rallentò per riprendere fiato e
assumere una postura
naturale. Lo chiamò per nome e Jecht saltò sul
posto.
«Che
diavolo vuoi, monachello? Hai corso fin qui?» disse,
sconvolto.
«Non
ho
corso, sono solo svelto» rispose Auron schiarendo la voce.
«Dalla
cima del monte? Certo. Che vuoi ancora? Non sono in vena del tuo
paternalismo».
«Non
sono
qui per farne. Mi rendo conto che il nostro astio potrebbe mettere
Braska in
pericolo, pertanto sono venuto a offrire una tregua» disse il
monaco tutto d'un
fiato.
«Una
tregua? Hai appena detto che sono
aberrante!» urlò Jecht in faccia al compagno, dal
momento che erano soli.
«È
il mio
credo, Jecht. La mia dottrina. Non la rinnegherò, ma so di
aver detto parole
dure nei confronti di un ospite. Tuttavia, per un sereno
Pellegrinaggio, e per
non pesare sulle preoccupazioni di Braska, io tollererò
ciò che sei. In tutti i
sensi» spiegò l'altro, ponendo maggiore enfasi
sulle ultime parole.
Jecht gli
rivolse un'irritata smorfia sarcastica e un leggero inchino.
«Mi
perdoni, monaco timorato di dio, se io sono io. Un io sbagliato, a
quanto pare.
Sono ben intenzionato a non causare guai con il bere, ma non mi
piegherò mai al
tuo moralismo ecclesiastico da
quattro soldi. Non sei tu che tolleri me, sono io che sopporto te per
tornare a
casa».
Auron non
rispose: era la prima volta che qualcuno lo contrastava con tanto
ardore. Jecht
allungò la mano, guardando ovunque tranne che il viso del
compagno: era il
massimo che poteva ottenere da uno come lui.
«Mi
sta
bene, monachello. Ci sopporteremo per non tirare le cuoia prima del
previsto»
disse a malincuore. Auron osservò il suo gesto di pace e lo
accettò, stringendo
con molto vigore la mano ed emettendo un flebile sospiro: non aveva
molta
scelta.
«Ubriacati
un'altra volta e ti lascerò affogare nel fiume in cui
dovrò ripulirti».
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Capitolo 10 *** Ma di tutte la più terribile è l'uomo (Parte 1) ***
CAPITOLO 9: MA
DI TUTTE LA PIU' TERRIBILE E' L'UOMO (PARTE 1)
Il giorno
nasceva, levandosi dal letto di rose dell’aurora. Mentre i
tetti cominciavano a
tingersi di vermiglio, e i cittadini ancora erano addormentati, tre
uomini
stavano per lasciare S. Bevelle, senza sapere se mai vi avrebbero fatto
ritorno. La città, bonaria sotto le nuvole d’oro,
sembrava promettere loro che
li avrebbe di nuovo accolti; anche nel caso in cui la Chiesa di Yevon
non lo
avesse voluto.
Un
capannello di persone si era radunato in piazza, nonostante il cielo
fosse solo
alle prime fiammelle. Con reverenza e curiosità tutti
guardavano l’Invocatore e
le sue ricche vesti, senza osare avvicinarsi.
Gli archi
a sesto acuto del tempio, al centro della sua architettura colorata e
complessa,
guardavano i tre eroi con solennità immobile. Subito dietro,
i fari della
capitale salutavano con alti fasci di luce la notte che moriva,
attendendo di
chiudere gli occhi e riaprirli al suo ritorno.
Jecht
tenne in alto la mano che reggeva la sfera per avere un buon campo di
ripresa.
Inquadrò Braska, che passava senza accorgersene, o forse
senza curarsene, poi
si spostò su un più vigile Auron. Il ragazzo, che
come al solito teneva la
manica sinistra della veste sfilata e penzolante, gli si
avvicinò con aria poco
amichevole.
«Cosa
stai
facendo?» gli chiese.
Jecht
sospirò. Se Auron continuava ad aggrottare le sopracciglia
in quel modo,
avrebbe avuto due solchi d’aratro sulla fronte ben prima dei
trenta. Il che
sarebbe stato un gran peccato, da un punto di vista oggettivo, ma a
quanto
pareva era inevitabile, dato che Yevon gli comandava
di essere così.
Guardandosi
bene dall’esprimere i propri pensieri, l’uomo di
Zanarkand scrollò le spalle,
facendo traballare l’inquadratura.
«Avete
detto che sarà un lungo viaggio» si
schermì. «Vedremo un sacco di cose fighe,
giusto? Così ho pensato di registrare tutto con queste. Per
farlo vedere a mia
moglie e mio figlio, sai».
Non aveva
nemmeno avuto il coraggio di pronunciare i loro nomi. La sua mente
viaggiò
verso Tidus, ma riuscì solo a ricordarlo mentre piangeva.
Per essere caduto,
per aver perso la palla, perché gli era volato via
l’aquilone dalle dita…
frignava sempre. E Jecht odiava chi si lamentava, dato che dentro di
sé non
riusciva a fare altro.
Per una
volta, fu grato alla voce sgarbata di Auron che lo riportò
alla realtà.
«Non
stiamo andando in crociera!» sbottò il monaco.
Jecht
scelse di ignorarlo e di rivolgere la sfera verso un più
cortese Braska, che
non faceva altro che mostrargli il suo dolce sorriso. Gli venne quasi
l’impulso
di abbracciarlo, o almeno di allungare una mano verso di lui, ma si
fermò
ricordando quanto sembrava affilata la spada dell’altro
Guardiano e quanto quel
tipo fosse sacro e inviolabile come i naos dei templi. Si chiese fino a
che
punto potesse arrivare il rispetto di Auron senza diventare idolatria.
«Ehi,
Braska» lo chiamò, riportandosi su lidi
più sicuri. «Non dovrebbe essere un
grande evento? Dov’è la gente che fa il tifo? Le
ragazze che si disperano?»
L’Invocatore
gli donò una breve risata a quell’ultima
affermazione, ma le sue parole avevano
un retrogusto amaro.
«È
così.
Ci sono troppi addii… le persone ci pensano due volte prima
di partire».
Il viso
del campione di blitzball si incupì di nuovo. Mentre si
chiedeva cosa ci fosse
dietro a quella frase, borbottò qualcosa che somigliava a un
“se lo dici tu”.
Cercava di immaginare cosa fosse quel Sin di cui si parlava tanto e
quali altri
macabri segreti nascondesse Spira, ma ogni volta che si girava scorgeva
un
angolo di paradiso.
«Beh,
gli
conviene essere molto più colorati quando
torniamo» incalzò, saltellando a
fianco a Braska sotto lo sguardo d’odio malcelato di Auron.
«Una parata per
Braska, Vittorioso su Sin!»
L’Invocatore
rise di nuovo, e somigliava all’alba serena e bella.
«Andiamo»
lo invitò, camminandogli accanto a passi misurati.
«Presto farà giorno».
Quale che
fosse la divinità che benedisse la loro partenza, i tre
viaggiarono senza
pericoli per gran parte della mattina. Con il passare delle ore, la
brezza
salmastra di Bevelle fece spazio a un'aria più pungente, dal
forte sentore di
terra. Si stavano facendo largo nell'entroterra più
selvaggio, ricco di foreste
e strade non battute.
Jecht si
era ormai abituato ai tenui rumori di Spira, così pacati
rispetto alla vivace
Zanarkand, ma presto il silenzio si fece pesante e l'atleta
avvertì un prurito
da grattare via: si sentì in dovere di rompere il ghiaccio.
«Quindi,
uhm… dov'è che stiamo andando?» disse
con voce modulata, come per non dare
fastidio.
«A
Macalania, te l'ho già detto» rispose Auron piatto.
«Suvvia,
non trattarmi da scemo. Usate dei nomi improponibili».
Braska
scoppiò a ridere di gusto, per poi accusare qualche colpo di
tosse. I due
Guardiani gli rivolsero immediatamente le loro attenzioni, ma
l'Invocatore li
rassicurò con la mano.
«Ehi,
Braska, dovremmo fare una pausa, che dici? Mi fanno male i
piedi» disse Jecht,
fingendo palesemente.
«Deve
essere in forze per recuperare Shiva» concordò
Auron, preoccupato.
«Giusto!
Quella! La cosa… l'eone
di
Malacania».
«Macalania,
mio buon amico. Ah, se insistete tanto...» replicò
Braska, abbozzando un
sorriso amaro.
La foresta
era fitta, ma non ebbero molte difficoltà a trovare uno
spiazzo adatto a
riprendere fiato: un albero abbattuto, la base recisa da una profonda
incisione, aveva fatto spazio nella vegetazione.
Auron fece
sedere Braska sul tronco spezzato, ma sguainò la spada
tenendola sempre a
portata di mano. Jecht si guardò intorno, preoccupato:
l'albero non era di
certo caduto da solo.
«Mantenete
la calma, ragazzi. Staremo qui per poco» provò a
sdrammatizzare Braska, ma
Auron strinse ancora di più l'elsa della sua arma.
«Monachello,
mi metti l'ansia. Ti verrà un gran mal di stomaco se non ti
rilassi un po'»
disse Jecht ridacchiando. Auron allentò la presa e
sbuffò.
Un rumore
improvviso di fogliame fece sobbalzare Braska, il quale perse quasi
l'equilibrio. Il monaco e l'atleta passarono subito alle armi,
sfoggiando le
lame in posizione di guardia.
Un mostro
bipede, rotondo e dotato di sviluppati arti anteriori, era emerso dal
fogliame
attirato dai rumori. Jecht strizzò gli occhi per riuscire a
vederlo meglio e
notò che sulla sua schiena – o su quella che
interpretava come tale –
crescevano dei cristalli.
«Che
diamine sono?» esclamò Jecht, ma i suoi due
compagni sembravano più interessati
al campo di battaglia. Braska stringeva il suo scettro con entrambe le
mani, in
posizione di difesa, e Auron aveva rinsaldato la presa
sull’impugnatura della
spada.
Il nuovo
arrivato, ricoperto di un esoscheletro adamantino, era accompagnato da
altre
due creature che gli facevano da avanguardia, più piccole e
simili a rettili:
avevano una grossa cresta sul dorso e quattro forti zampe, che
avrebbero potuto
renderle veloci e letali. La lunga coda e la testa serpentina
ondeggiavano per
saggiare l'aria, alla ricerca di prede: dovevano per forza combatterli.
Jecht
accelerò il respiro, intimorito da bestie che non aveva mai
visto. La punta
della sua spada tremò leggermente: notato il disagio, Auron
gli si affiancò per
dare sostegno.
«Jecht,
mantieni la calma. Ricorda quello che ti ho insegnato: non è
molto diverso dai
manichini di paglia».
Lui
guardò
il compagno, poi i nemici, ma non si mosse: doveva prima valutare come
agire.
Le creature quadrupedi sembravano non avere particolare interesse nel
proteggere
il mostro più grande, così decise di puntare
sulla sua velocità: corse verso
destra attirando l'attenzione di una di loro, mentre Auron difendeva
Braska
dagli altri due.
Ingaggiato
il primo avversario, Jecht avanzò di un passo cercando il
fendente verticale,
ma il nemico scartò di lato, allungando gli artigli verso le
sue gambe. Il
guerriero fece un balzo, mettendo distanza tra lui e la bestia: non
aveva
ancora confidenza con la portata della sua arma, quindi si
affidò al più
familiare pugno.
Afferrò
con entrambe le mani l’elsa e infilzò la spada per
terra, apprezzando di nuovo
come fosse ben bilanciata. Con un’espressione confusa e quasi
umana, la lucertola lo
guardò fisso,
bloccando a metà una ritirata dal colpo che si aspettava.
Nonostante
fosse inaspettatamente leggera, l’arma di Jecht era alta
quasi quanto lui.
L’atleta la usò come perno per lanciarsi contro il
nemico. Lo colpì con un
pugno e lo sbalzò all’indietro, facendogli perdere
l’equilibrio. Sfruttando lo
slancio, tornò a stringere l’impugnatura della
spada, e con un colpo di reni la
calò come una ghigliottina sul corpo del mostro.
Quello,
emesso un flebile lamento, scomparve rilasciando nell’aria
una nuvola di
piccole luci che salirono verso il cielo. Jecht si fermò un
attimo a
osservarle, con le sopracciglia aggrottate.
I mostri
su Spira non contenevano né tessuti né sangue, ma
il loro corpo era fatto di… quello?
Era insolito, ma fu sollevato
dal sapere che, nello strano mondo dove si era trovato, almeno la
violenza era
stata edulcorata, al punto che non esistevano i cadaveri,
l’odore di
putrefazione, i crani fracassati, i brandelli di carne strappati.
Lanciò
uno
sguardo confuso ad Auron, il quale mantenne la posizione: pareva
incerto sul da
farsi, ma Jecht sapeva che in realtà era troppo lento per
colpire il secondo.
La lucertola gli si avventò contro, ma lui parò
il colpo con il braccio, le
permise di mordere solo l’aria e poi la respinse.
«Auron,
quello grosso sembra stupido, ma vi ha puntato! Devo uccidere il
lucertolone
per primo: attira la loro attenzione!»
Il monaco
inarcò un sopracciglio, guardandolo come si guarda un
bambino brandire una
spada di legno, ma annuì e fece come richiesto.
Avanzò minaccioso contro i
mostri a spada levata e cercò di imporsi più che
poteva, tanto da inimicarsi
anche la seconda bestia quadrupede. Jecht colse l’occasione
per correre dietro
Auron e Braska, veloce come i tiri che l’atleta era solito
calciare: per un
istante gli sembrò di essere tornato nella sfera
d’acqua, dove smarcava
agilmente gli avversari e cercava punti puliti da cui provare il gol.
Non
è poi così diverso, vero,
Auron?
Il
compagno d’armi osservò tutti i suoi movimenti con
la coda dell’occhio e annuì:
aveva capito cosa doveva fare. Puntò gli occhi nuovamente
sui suoi avversari,
li serrò e piantò i piedi ben a terra, diventando
quella montagna
insormontabile che Jecht non aveva mai nemmeno scalfito. Non sarebbero
mai
passati oltre la sua guardia: l’atleta lo sapeva bene, ma
sapeva anche che non
doveva permettergli di mettere a rischio la sua sicurezza
così presto.
Si
allargò
verso sinistra e aggirò il rettile, come usava fare con la
linea di difesa
delle squadre avversarie, per poi muoversi a perdifiato alle sue
spalle. Auron
dovette distogliere lo sguardo un istante per individuare la posizione
di
Jecht: i suoi passi si sentivano appena.
L’atleta
levò la spada sopra la sua testa e la calò con
tutto il peso del suo corpo,
fendendo in pieno il dorso della bestia. Quella urlò in modo
straziante: la sua
colonna vertebrale era stata recisa di netto. Tuttavia, la forza
applicata non
era stata sufficiente per ucciderla, così Jecht
scattò di lato e le diede il
colpo di grazia colpendo il collo ormai privo di difese. Di nuovo, il
mostro
sparì lasciando al suo posto aria e quelle strane lucciole,
dalle quali non fu
più distratto.
Era
tornato. Il desiderio di vittoria, quell’avarizia che lo
spingeva a cercare
sempre un’altra rete, l’ennesima, anche se gli
avversari erano ormai spacciati.
Sorrise euforico e beffardo, sentì i muscoli serrarsi ancora
più di prima: il
colpo successivo sarebbe stato all’apice della sua forza.
Assaltò
il
mostro sopravvissuto e ne studiò la conformazione in un
battito di ciglia:
Auron era di certo un guerriero formidabile, ma lui aveva
l’istinto della
partita. Individuò uno spazio libero dai cristalli, tra la
zampa anteriore
destra e la schiena. Gliela avrebbe mozzata di sicuro:
caricò l’ormai familiare
fendente verticale insegnatogli dal compagno e lo schiantò
nel punto designato.
Il
contraccolpo fu devastante. I muscoli di Jecht furono attraversati
dall’onda
d’urto più potente mai assaggiata dalla sua carne:
fu sbalzato via come un
ramoscello secco, mentre la spada finì a terra conficcata
nel terreno. Era un
miracolo che non si fosse spezzata. L’atleta cadde
rovinosamente al suolo, il
suo corpo si rifiutava di muoversi. Provò ad alzarsi in ogni
modo, ma stava
ancora tremando.
Auron
approfittò dell’ira cieca del mostro per scattare
rapido, lo afferrò per la
salopette e lo trascinò indietro, salvandolo dai movimenti
rabbiosi della bestia
cristallina. Il campione di blitzball si strinse entrambe le braccia
con un
lamento di dolore, ma Braska non poteva curarlo in quel momento:
l’Invocatore
chiuse gli occhi e cadde in profonda concentrazione, afferrando lo
scettro con
entrambe le mani. Il suo corpo fu pervaso da una soffusa luce
biancastra e,
come insetti attratti dal fuoco della lanterna, dei nastri della
medesima
natura emersero dalla bestia che stavano combattendo, per poi toccare
Braska
stesso.
Il
sacerdote di Yevon annuì come se avesse capito qualcosa di
fondamentale, mentre
Auron lo guardava con impazienza: non capiva cosa stesse succedendo, ma
il
monaco doveva aver colto.
«Perforate
la sua armatura, non reggerà!» disse Braska con
voce alterata dallo sforzo.
Auron non
se lo fece ripetere due volte. Si parò davanti ai suoi
compagni impugnando
saldamente la sua arma, uno spadone curvo di eccellente fattura. Mise
la gamba
sinistra in avanti e quella destra indietro, piegando le ginocchia e
portando
l’arma all’altezza della spalla, pronto a sferrare
un affondo che, guardando il
fisico di Auron, giurava di distruggere qualsiasi tipo di corazza.
Jecht se
ne stava su un fianco, ma poté assistere a tutto con estrema
chiarezza: la
zampata furiosa del mostro, lo scatto fulmineo del compagno e il rumore
secco
dei cristalli in frantumi. Il nemico non aveva fatto in tempo a calare
gli
artigli che Auron aveva trapassato da parte a parte il cranio della
creatura
con una facilità disarmante.
Era il
movimento più fluido ed elegante che Jecht avesse mai visto,
di una bellezza
impensabile.
Le luci
danzarono attorno al viso liscio di Auron, gli sfiorarono le labbra
sottili e
il ponte del naso, come se volessero ringraziarlo con un bacio prima di
volare
via.
«Quelli
si
chiamano lunioli» spiegò la voce calma di Braska.
Jecht si
riscosse all’improvviso e si accorse del dolore persistente
che gli
attraversava le braccia.
«Eh?»
rispose. Non la più brillante delle sue uscite.
L’Invocatore,
dando la colpa al danno che l’amico aveva subito in
battaglia, si chinò su di
lui con un sorriso e gli posò le mani all’altezza
dei gomiti. Erano circondate
da un debole alone di luce e il loro tocco sulla pelle era terapeutico.
«Lunioli»
ripeté. «La materia che costituisce i
mostri».
Jecht non
ci aveva capito un’acca e aveva tante domande da fare, ma
desistette quando
incontrò lo sguardo duro di Auron.
Taci e
rimettiti in cammino, gli disse la
voce del monaco
nella testa, con tono chiaro e stentoreo.
«Sei
stato
bravo» disse invece la sua controparte reale.
«Cosa?»
domandò Jecht, scettico. Auron corrugò la fronte
e si inginocchiò davanti a
lui, osservando attentamente se le pupille del compagno fossero
regolari.
«Hai
ancora le vibrazioni nella testa? Il contraccolpo è stato
violento» chiese
piatto.
«No,
sto
bene… cos'è che hai detto?»
Auron
sospirò, roteando gli occhi con fare scocciato.
«Ho
detto
che sei stato bravo».
«Non
ho
mai visto qualcuno muoversi così rapidamente!»
osservò Braska ancora ansimante
per lo sforzo.
«Ah…
grazie. Ho avuto un bravo insegnante» rispose di getto Jecht,
senza nemmeno
pensare.
«Non
ti
montare la testa».
Il
campione di blitzball si rassegnò a seguirli in silenzio e
si guardò attorno.
Osservò il bosco frinente che lo circondava, i raggi del
sole che filtravano
dalle foglie sino al suolo, tingendo di blu l’etere tiepido.
Di una cosa doveva
dare credito a Spira: era davvero bellissima. Non aveva mai nemmeno
immaginato
di poter vedere, né nel suo mondo né in un altro,
cristalli brillanti
incastonati sugli alberi o una strada di vetro e stelle che si snodava
nell’aria, diretta chissà dove.
Un senso
diffuso di meraviglia pervadeva tutte le cose, che fossero vive o di
pietra. I
lunioli, grandi lucciole, salivano verso l’alto, come
attirati da qualcosa in
quel luogo, trascinandosi dietro una scia di cometa.
Se mai un
giorno l’amore fosse riuscito a colpirlo,
fantasticò, sarebbe scappato lì.
C’erano numerosi nascondigli, nei tronchi intricati degli
alberi, che
sembravano pronti ad accogliere una coppia, che si trattasse di
scambiarsi
carezze o di rimanere avvinti nell’atto d’amore.
Dinanzi al
suo sguardo, perso nel vuoto dato che la mente era altrove,
passò Auron. Pur
riconoscendo che l’astinenza gli aveva posto davanti agli
occhi un bizzarro
polarizzatore, doveva ammettere – anche se lo avrebbe detto
ad alta voce solo sotto tortura
– che il profilo del
ragazzo tra le luci dei lunioli assumeva una vaghezza affascinante.
Nonostante
i suoi sensi fossero all’erta, per una volta la sua fronte
era rilassata e
Jecht si trovò, inerme, a percorrere con lo sguardo la linea
della sua mascella
sino al mento.
Immaginò
che le sue guance, nonostante si radesse alla perfezione, fossero un
po’ ruvide
al tatto. Quando fantasticò di passarvi le dita, fu percorso
da un brivido e si
rese conto che la cosa avrebbe fatto ribrezzo, seppur per motivi ben
diversi, a
entrambi loro.
Scosse la
testa per cercare di scacciare quelle immagini, ma poi si rese conto
che la sua
era solo un’innocente fantasia romantica. Al Grande Jecht
piacevano un po’ di
smancerie, nonostante la gente di solito non fosse nemmeno in grado di
immaginarlo
e rimanesse di stucco quando lo rivelava.
Nessuno
aveva mai soddisfatto quelle sue velleità prima di arrivare
al dunque, ma chi
si accontenta gode e, del resto, godere non era mai stato male.
Era quindi
comprensibile, date l’atmosfera in cui era immerso e la
predisposizione del suo
animo, che sognasse ad occhi aperti tali situazioni. Auron era una
delle due
persone che riusciva a rappresentare alla perfezione nella sua mente, e
l’unica
delle due che non era una sorta di santo, quindi era naturale che la
scelta
ricadesse su di lui.
Un tepore
gli pervase il ventre, accarezzato dalla brezza lieve, mentre
immaginava
attaccate alle sue delle labbra che gli erano, e gli sarebbero rimaste,
ignote.
Il suo compagno aveva le spalle appoggiate al tronco di uno degli
alberi, i
capelli sciolti e il collo reclinato mentre finalmente si abbandonava a
lui.
Lontano, il chiacchiericcio della gente che non li poteva vedere e il
canto di
strani animali...
«…
echt?».
Qualcosa
gli toccò la spalla e lo fece sobbalzare. Jecht
tornò al mondo come riavendosi
da una lunga apnea, e la prima cosa che vide quando
quell’inaspettata nebbia si
alzò fu il viso accorato di Braska. Con l’aria di
qualcuno che è stato
attraversato da una scossa elettrica, Jecht mosse le dita intorpidite
di una
mano, accorgendosi che non le stava certo stringendo con passione
sull’avambraccio di Auron.
«Ah…
sì?»
replicò, confuso. Braska si coprì le labbra con
la mano destra.
«Stavi
guardando nel vuoto e non rispondevi» gli fece notare
l’Invocatore. «Temevo che
stessi ancora soffrendo per il colpo che hai subito».
«È
la
botta in testa, la stessa per cui dice di venire da
Zanarkand» fece notare la
voce di Auron, che camminava davanti a loro.
Nell’immaginazione di Jecht era
stato senz’altro più gradevole, anche solo
perché se ne stava zitto.
La strada
per il lago dove erano diretti passava per grandi radici, larghe
abbastanza da
poter ospitare due uomini l’uno di fianco
all’altro.
Ad un
tratto, mentre camminava tra i suoni della natura, Jecht
sentì una voce tremula
alle proprie spalle.
«Lei
è… un
invocatore?»
Si
voltò
di scatto e un povero anziano, che si era aggrappato alle vesti di
Braska per
implorarlo, sussultò per lo spavento dovuto alla stazza dei
due Guardiani.
«Fratello,
non ti umiliare così. Sono invero un Invocatore, domanda e
ti aiuterò» disse
Braska con un largo sorriso.
«Che
Yevon
guidi i suoi passi con gloria verso Zanarkand, e che gli Intercessori
le
trasmettano tutta la forza di cui ha bisogno. Grandi cose ci sono in
terra,
grandi e temibili, e la forza degli eoni lo è fra tutte: chi
avete davanti è
solo un povero vecchio. Mia moglie, la mia adorata, è morta
questa notte, e il
dolore ha affranto la mia casa. Molto lutto ancora me ne verrebbe se
ella,
lasciato questo mondo, non trovasse chi la guidi
nell’altro».
Braska
annuì con dolcezza e posò una mano su quella
dell’uomo, invitandolo a
lasciargli la tunica.
«Posso
officiare il Rito del Trapasso: mostrami la via per la tua
casa».
L’uomo
si
profuse in numerosi ringraziamenti e, senza più una parola
dopo averne usate
tante per la richiesta, si incamminò per un percorso che
conosceva bene.
Jecht
invece, sorpreso dalla svolta negli eventi, rivolse
un’occhiata interrogativa
ad Auron, che rimanendo in silenzio confermò di non essere
un accompagnatore
efficiente quanto Braska.
Raggiunsero
una piccola abitazione nel cuore del bosco, al centro di una modesta
radura.
Era circondata da una piccola staccionata il cui cancello
cigolò quando venne
mosso sui cardini.
Il suo
interno era composto solo da due stanze: la piccola cucina, in cui quel
giorno
per la prima volta il tavolo era stato apparecchiato per una persona
soltanto,
e una camera da letto.
Braska
prese da parte Jecht e Auron e, date anche le modeste dimensioni della
casa,
ordinò loro con garbo di montare la guardia fuori dalla
porta.
L’anziana
donna, con indosso il suo vestito migliore, era distesa sul letto con
le mani
giunte al petto. Una collana d’oro – forse
l’unica che possedeva e che aveva
stretto, un tempo, con le mani da bambina – le decorava il
collo rugoso. Il
volto era rilassato nella beatitudine della morte, offuscato da un velo
traslucido appeso sopra al capezzale.
L’Invocatore
si avvicinò alla finestra e la aprì, respirando
il vento fresco che arrivava
dal lago nella speranza di calmare i battiti del cuore: era la prima
volta che
compiva il Rito del Trapasso, nonostante fosse stato addestrato a
danzare per
la Morte, davanti a una platea vuota o sopra a sacchi che facevano le
veci dei
cadaveri.
Impugnò
lo
scettro con entrambe le mani, e la campanella attaccata
all’asta tintinnò con
purezza. Volse poi lo sguardo verso il vecchio: i suoi occhi velati
erano
lucidi per le lacrime, e nella fragilità completa si
affidava a lui.
Braska
si
piegò nella riverenza, poi alzò un braccio
davanti a sé.
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Capitolo 11 *** Ma di tutte la più terribile è l'uomo (Parte 2) ***
CAPITOLO 9: MA
DI TUTTE LA PIU' TERRIBILE E' L'UOMO (PARTE 2)
L’aria
nella radura era all’improvviso diventata immobile, il bosco
silenzioso dopo lo
zittirsi degli uccelli. Jecht teneva lo sguardo fisso sulla finestra:
non
sapeva cosa stesse facendo Braska, e la cosa gli incuteva
nell’animo un disagio
tetro e profondo. Aveva capito che stava officiando un funerale, ma non
riusciva a immaginare cosa stesse avvenendo in quella stanza.
«I e yu i no bo me no...»
sentì cantare
dalla bella voce limpida dell’Invocatore. Auron, nel sentire
la preghiera,
chinò il capo in segno di rispetto a qualcosa di invisibile,
mentre la luce che
filtrava tra le foglie si trasformava, mutando con crudezza
ultraterrena.
Atterrito,
Jecht riportò lo sguardo verso la finestra aperta: i
lunioli, gli stessi che
erano comparsi alla morte dei mostri, si affrettavano per uscire,
sovrapponendosi l’uno all’altro come tifosi troppo
solerti a una partita di
blitzball. Fece un passo indietro e le parole gli uscirono dalle labbra
senza che
lui potesse controllarle.
«Auron»
chiamò, una nota di allarme nella voce. Le piccole luci
erano salite verso
l’alto e scomparse tra le foglie. «Auron».
Il
suo compagno alzò gli occhi con un’espressione
interdetta, forse confuso dal
tono urgente che gli era stato rivolto. Lo guardò in viso,
senza dire niente,
aspettando che fosse Jecht a rivolgergli la parola.
«Che
cosa sta facendo Braska?»
Lunioli, la
materia
che costituisce i mostri,
aveva detto. L’eco di quella frase continuava a risuonargli
in testa, ma
qualcosa gli impediva di comprenderla sino in fondo.
«Il
Rito del Trapasso» spiegò il monaco, con la
consueta espressione infastidita.
«L’anima di quella donna deve trovare la strada per
l’Oltremondo».
«E
puoi per caso spiegarmelo meglio?» replicò il
campione di blitzball, ansioso e
quasi aggressivo, senza nemmeno attendere che Auron finisse di parlare.
Lo
sguardo del ragazzo si rivolse alle fronde.
«Quando
qualcuno esala l’anima avendo ancora un legame con il mondo
dei vivi, i lunioli
di cui è formato il suo spirito possono prendere la forma di
un mostro che, per
invidia, preda chi vede ancora il sole». Il suo tono, se
possibile, diventò
ancora più grave nel continuare: «Quelli a cui il
dio ha donato una volontà
forte, o nei quali la vita ha instillato spirito di vendetta, talvolta
mantengono l’aspetto che avevano da uomini. Noi li chiamiamo
i Non-Trapassati,
i morti che camminano. Gli Invocatori...»
Jecht
sentì lo stomaco stringersi nella familiare stilettata di un
conato. Il suo
palato si fece caldo, la sua lingua immobile.
«Basta»
riuscì a mormorare.
«Come?»
replicò Auron, e gli rivolse un’espressione
genuinamente sorpresa.
«Basta!»
ripeté Jecht, con voce strozzata. «Smetti di
parlare! Cazzo!»
La
prima reazione del monaco fu quella di adirarsi per l’ordine
che gli era stato
rivolto, ma l’attimo seguente si accorse che le mani del suo
compagno stavano
tremando. Lui stesso le guardava con gli occhi sgranati e assenti.
Provò
ad avvicinarsi con cautela a Jecht, chiamando il suo nome a bassa voce.
Lui non
rispose.
L’uomo
che era stato così forte a Zanarkand, così fiero
del proprio indomabile ardore,
non vedeva più davanti a sé il bosco incantato,
ma una stanza buia,
un’innumerabile fila di candele spente.
Quando
Auron, nella speranza di dargli conforto, gli appoggiò
entrambe le mani sulle
spalle, lui trasalì e lo spinse via con l’impeto
del cinghiale che carica colui
che teme. Il monaco non perse l’equilibrio ma, per la
sorpresa, indietreggiò
quel tanto che bastava per permettere a Jecht di scivolare via e di
correre
nella selva. Era stata tanto brillante prima quanto ora lo opprimeva e
gli
toglieva il fiato.
Non
più in grado di orientarsi, corse tra le foglie a terra e i
nodi dei rami,
fuggì dalla strada principale e, con il cuore in gola, si
gettò tra la vegetazione.
Era pronto a travolgere qualsiasi cosa nel suo cammino, a tagliarla in
due con
la spada, a strapparne le carni a mani nude, a inebriarsi
dell’odore della
violenza con la saliva sulle labbra e il respiro eccitato.
Nessun
mostro gli si parò davanti, solo un silenzio vacuo che gli
ricordava l’idea di
aldilà che si era fatto negli anni. Anche quando era a
Zanarkand sapeva che
sarebbe morto, che i suoi passi non sarebbero stati eterni e che forse
l’ebbrezza anestetica gli avrebbe risparmiato la
consapevolezza. Sarebbe morto
in un’isola che non gli apparteneva, dove non c’era
chi lo amava e nemmeno chi
fingeva.
Jecht
si lanciò ad arma tratta contro un groviglio di rami, li
colpì con violenza, si
lacerò le braccia e si graffiò il viso.
Ma
non riuscì a immaginare la sua terra, quella di cui anche
solo il fumo
desiderava vedere prima di andarsene. Non la trovava nel cuore,
travolto da
angosce che non avevano rimedio, poiché la paura la
sovrastava. Anche lui,
prima di finire chissà dove, si sarebbe trasformato in
quelle luci spettrali?
Sarebbe salito verso il cielo, allora, avrebbe baciato le labbra di
Auron e se
ne sarebbe andato, senza sapere se fosse destinato ad essere fatto
bestia
dall’odio. Senza sapere se mai davvero fosse stato umano.
C’era
una radura, con al centro una pozza dell’acqua più
limpida che un uomo avesse
mai visto. Le radici intricate di un grande albero, che portava
incastonato un
cristallo dorato, erano identiche al loro riflesso.
Obbedendo
a una natura primordiale, Jecht entrò carponi
nell’acqua. Non era gelida come
si sarebbe aspettato, ma piuttosto tiepida, quasi avesse dovuto far
nascere la
vita. Chiuse gli
occhi e tentò di far
riprendere al proprio respiro un ritmo regolare, sentì i
capelli sporchi e
annodati bagnarsi e cominciare a galleggiare attorno al capo come
aureola o
corona.
Sognò
di riaprire gli occhi e ritrovarsi a Zanarkand, nel letto con la donna
che
aveva preso per moglie, laddove poteva soddisfare il desiderio e poi
ubriacarsi, senza che altri lo avvincessero in un sentimento incerto.
Lauren lo
aspettava e tesseva il filo dei suoi giorni attorno a Tidus, che piano
cresceva.
Quando
avrebbe aperto gli occhi, sarebbe tornato alla sua vita da campione di
blitzball, sempre uguale a se stessa e luccicante come un trofeo.
Sollevò
le palpebre e vide i lunioli che, senza far rumore, uscivano dal lago.
Pensò
a Tidus che correva con la palla tra i piedi. Che cosa gli era rimasto,
ormai,
da potergli dire?
Se ti sei
seduto a
guardare questo messaggio, vuol dire che sei bloccato su Spira come me.
Suonava
come la lettera di qualcuno che andava a morire. Jecht strinse tra le
dita che
ancora tremavano una delle sfere che gli aveva regalato Braska; la
accese e le
rivolse un sorriso impacciato, come se non fosse abituato a stare sotto
ai
riflettori.
Era una vita fa, si disse. I
lacci che lo univano
alla città che non dormiva, quelli a cui si aggrappava con
tanta disperazione,
si stavano inesorabilmente sciogliendo, facendolo precipitare
nell’abisso.
«Ehi…
se ti sei seduto a guardare questo messaggio, vuol dire che sei
bloccato su
Spira come me» ripeté ad alta voce. Si sentiva un
demente. «Potrai non sapere
quando tornerai a casa, ma farai meglio a non piangere! Anche se, in
realtà, ti
capirei».
Il
battito del suo cuore si era calmato: gli era bastato pensare al
figlio, alla
vita che avrebbe potuto avere con lui. A quelle parole che lui non
avrebbe mai
sentito, e quindi avevano la libertà di suonare imbarazzanti.
«E
sai cosa? C’è un momento in cui bisogna smettere
di piangersi addosso e andare
avanti. Andrà tutto bene. Ricorda, sei mio figlio.
E… beh… ah, non fa niente.
Non sono bravo in queste cose».
E se io
decidessi di
andare avanti, tu mi capiresti?
si chiese. Rivide la moglie e il figlio, lontani, che lo salutavano
dalla soglia
di casa con i volti privi di qualsiasi espressione.
Rivide
i giorni in cui le foglie rosse cadevano sulla sabbia del campo
d’addestramento
e Auron era con lui. Ricordò com’erano sia i suoi
tocchi accidentali e lievi,
sia le prese forti con cui lo spingeva a terra, rischiando di causargli
agonie
di altro tipo durante la notte.
Le
parole che il ragazzo gli aveva rivolto lo avevano ferito come solo
quelle di
suo padre erano riuscite a fare sino a quel momento. Lo tormentava il
costante
desiderio di avvicinarsi a lui, di fargli vedere che non stava
riflettendo con
la propria ragione su ciò che aveva davanti, ma coi dubbi
precetti di un clero
corrotto. Auron avrebbe potuto capire un giorno, perché come
gli eroi era bello
e forte e di acuto ingegno. Ma era anche algido e distante, come le
pendici di
quel monte che si vedeva da Bevelle e che tutti in città,
indicandolo col dito,
chiamavano Gagazet.
O,
forse, il Grande Jecht era solo un povero disperato che cercava una
redenzione
che non avrebbe raggiunto.
Sospirò
e voltò la sfera in modo che non lo inquadrasse
più.
«Ad
ogni modo, credo in te. Fai il bravo. Addio».
«Dov’è
Jecht?» era stata la prima frase che Braska aveva
pronunciato, appena uscito
dalla casa dell’anziano vedovo. Aveva appesa al braccio una
sacca con del
formaggio che l’uomo, nonostante i suoi ripetuti tentativi di
rifiutare, aveva
voluto donargli.
«È
corso via. Non ho potuto seguirlo: deve esserci sempre un Guardiano con
lei»
rispose Auron, perplesso.
«Cosa
è successo?»
Auron
distolse lo sguardo, puntando gli occhi verso le frasche in cui il
compagno era
scomparso.
«Gli
ho spiegato le leggi che governano la morte su Spira, si è
irrigidito e mi ha
spinto via, per poi caracollare in quella direzione»
indicò col dito verso la
sua destra. «Non ho compreso cosa lo ha turbato, ma
è pericoloso avventurarsi
nella foresta. Non era in sé».
Braska
lo incitò a incamminarsi, visibilmente preoccupato. Il
braccio di Auron era
pronto a scattare verso la spada in ogni momento: Jecht non sarebbe
stato in
grado di difendersi in quelle condizioni, lo sapeva bene.
Immaginò il compagno
tremante, paralizzato dalla paura mentre veniva aggredito da
chissà quale
nemico.
Scosse
la testa: doveva rimanere concentrato, ma quell'eventualità
era tutt'altro che
improbabile. Braska si stava forzando a tenere il passo rapido, ma la
sofferenza comparve presto sul suo volto: strinse i denti, determinato
a
ritrovare il suo Guardiano.
I
segni della fuga disperata di Jecht erano ben visibili: la vegetazione
presentava lacerazioni e arbusti spezzati; alcuni di grandi dimensioni
erano
stati tagliati di netto con la spada.
Tale
vista fece venire i brividi ad Auron, che iniziò a provare
un certo peso sullo
stomaco: Jecht doveva stare davvero male per avere un simile
accanimento. Ancor
di più, lo disturbava non sapere perché.
All’improvviso,
un grido familiare mise in allerta i due uomini. Auron
sguainò la spada e si
gettò in corsa verso la fonte del suono, lasciando indietro
il suo Invocatore
che sarebbe stato più al sicuro.
Sbucò
dalla boscaglia, trovandosi davanti la manifestazione del pensiero
partorito
poco prima: Jecht cercava di brandire la sua arma con scarsi risultati,
tremando come una foglia e con in volto il terrore puro; davanti a lui,
un
mostro che lo superava di una spanna voleva farne il suo pasto.
Tre
erano le teste, sul corpo forte simile a quello di una capra: la prima
era di
toro dalle grandi corna. La seconda invece aveva le sembianze di un
felino, che
vomitava vampe orrende dalle fauci, la terza quelle
dell’aquila che vede
lontano. Le braccia, bizzarre imitazione di arti umani, cercavano di
afferrare
Jecht per fare strazio delle sue carni coi terribili artigli, mentre la
bestia
frustava l’aria attorno a sé con il serpente che
gli faceva le veci della coda.
Jecht
girò la testa di scatto, guardando Auron come si guarda un
fantasma: gli urlò
di andarsene, ma il monaco assunse la sua posizione di guardia.
«Jecht,
non fare l'idiota! Vieni via!»
Braska
li raggiunse ansimando, e trasalì quando vide il mostro che
stava attentando
alla loro vita. Notando la scarsa reattività del compagno,
pensò di correre ai
ripari, per quanto possibile: accumulò energia con l'ausilio
del suo scettro,
per poi avvolgere Jecht in un velo perlaceo.
La
chimera vomitò fiamme dalla testa leonina, cercando l'uomo
di Zanarkand come
bersaglio, ma la barriera magica di Braska assorbì le lingue
brucianti al posto
suo. La bestia voltò il capo massiccio e vide la sua preda
illesa. Con occhi
dardeggianti azzardò un assalto rabbioso, agitando le lunghe
braccia dotate di
artigli.
Braska
doveva riprendere fiato, così Auron provò a
mettersi in mezzo e resistere al
brutale attacco, finendo lacerato sul braccio portato davanti al viso
per
difendersi. Nonostante il dolore intenso, l'addestramento del monaco
gli
permise di non allentare la presa sulla sua spada, fendendo a sua volta
l'arto
del mostro.
Jecht
osservò la profonda ferita sanguinare copiosamente, il rosso
vivido si era
impresso nella sua mente come un marchio.
«Ragazzo…»
Auron
non rispose né lo degnò di uno sguardo:
caricò a spada sguainata la bestia,
puntando a danneggiare la sua mobilità e i suoi sensi.
Braska supportò il
contrattacco lanciando le magie elementali di cui era a conoscenza, che
andavano dalla fiamma al gelo. Le piccole fiamme venivano intercettate
dalla
testa felina, e lo stesso faceva l’aquila con i getti
d’acqua, mentre il tuono
e la grandine sembravano debilitarla. I lampi la colpirono agli occhi,
sottraendole per diversi istanti il dono della vista e trasformando i
suoi
colpi in un turbinio confuso.
Incapace
di reagire, Jecht non potè fare altro che osservare Auron,
ferito ma forte come
un eroe, abbattere quel mostro fendente dopo fendente, colpendo alla
perfezione
i tendini delle zampe caprine. Lo ridusse in ginocchio come un uomo che
implora, per poi perforargli il ventre.
Jecht
strinse i denti e preparò lo stomaco alla vista delle
interiora molli che
sarebbero fuoriuscite dal corpo martoriato ma, quando Auron
sfilò la spada, la
chimera si dissolse in una miriade di lunioli.
Altrettanto
non fece la ferita del monaco: Braska gli si avvicinò, ma
infondendogli la propria
energia riuscì solo a bloccare
l’emorragia e a risanare la mobilità dell'arto. Il
colpo era penetrato nella
carne sino all’osso e, nonostante l'entità della
ferita fosse stata
ridimensionata, Braska fu costretto a bendare l’intero
avambraccio di Auron.
Auron
inchiodò sul posto Jecht con uno sguardo accusatorio che lo
pervase di un amaro
senso di colpa: se non fosse fuggito nel bosco come un invasato, gli
avrebbe risparmiato
quel dolore.
«Scusa»
provò a dire il campione di blitzball, ma le sue parole si
persero nel vento
assieme alla sua speranza di redenzione.
«Vorrei
che ti riposassi, Auron» disse la voce di Braska, di nuovo
accorata. Forse
l’entità della ferita superava le sue
capacità curative, si disse Jecht, e
inoltre forse non gli rivolgeva nemmeno uno sguardo perché,
anche se in maniera
meno evidente del Guardiano, era deluso dal suo comportamento che li
aveva
messi in pericolo.
«Sul
sentiero per il Lago c’è una Casa del Viante di
Rin» continuò l’Invocatore, poi
sospirò notando un’ombra sul viso di Auron.
«Che è un Al Bhed e che è un mio
amico, quindi vorrei che ci fermassimo lì per la
notte».
«Jecht
non ha soldi con sé» fu la debole obiezione di
Auron. A quelle parole, il
campione di blitzball sbottò.
«Scusa,
perché stai parlando di me come se fossi assente?»
L’altro
lo fulminò con lo sguardo.
«Non
mi sembra tu sia stato molto presente nelle
ultime ore».
Jecht,
ancora prima di pensare che si riferisse al suo mancato intervento in
battaglia, rimase atterrito dall’irrazionale presentimento
che fosse uno
stregone e che con gli occhi d’ambra avesse notato i suoi
pensieri poco casti
quando guardava nel vuoto. Si riscosse dopo pochi istanti e si
trovò
infastidito dagli atteggiamenti di Auron.
«Ho
io dei soldi» intervenne Braska, con le mani giunte tra loro,
«non sono molti e
dovranno durare per l’intero pellegrinaggio, ma
basteranno».
Li
guardò con tenerezza, nel tentativo di sedare gli animi e di
colpire Auron nel suo
punto debole.
«Va
bene» si arrese il monaco, «come desidera. Ma il
sole sta calando e ci sono più
mostri, di notte».
«Se
quella frase era un’informazione per me, sei pregato di
guardarmi mentre lo
dici».
Non
ricevette nemmeno un fiato in risposta e decise che avrebbe lasciato
perdere
una volta per tutte. Avrebbe stroncato sul nascere qualsiasi altra
insolita
fantasia su quel ragazzino fatto di ghiaccio e osservazioni pungenti,
fino alla
fine dei suoi giorni. Altrimenti lo avrebbero mandato in manicomio,
rinvigoriti
dal fatto che farneticava di venire da una città che secondo
loro era distrutta da mille anni, e
dal fatto che
urlava quando vedeva cadaveri dissolversi in disturbanti lucine.
E
non era nemmeno sicuro che una struttura così avanzata, su
Spira, non fosse
stata proibita da Yevon o da chi ne faceva le veci.
La
strada deviava in modo insolito per arrivare al Lago di Macalania. Gli
alberi
del bosco non solo si diradavano, ma anche cambiavano la loro
conformazione,
somigliando più a delle conifere che alle latifoglie che
vivevano nelle zone
temperate come Bevelle.
«Fa…
fa un po’ freschino» commentò Jecht
rivolto a Braska. In realtà il cambio di
temperatura era stato davvero brusco, ma non voleva mostrarsi debole
davanti ad
Auron. Avrebbe senz’altro borbottato che non era una buona
idea andarsene in
giro seminudi e scalzi per Spira, anzi di sicuro lo stava facendo
mentalmente
mentre proseguiva il suo ostinato gioco del silenzio.
Il
dolce Invocatore, i cui abiti erano di certo pensati per non fargli
patire il
freddo, gli rispose con un sorriso e una nuvoletta di vapore che
fuoriusciva
dalle labbra.
«È
l’eone di Macalania che fa variare il tempo. Il suo nome
è Shiva e il suo
Intercessore proveniva dalle terre innevate del Gagazet»
spiegò, poi rivolse
verso il cielo uno sguardo carico di nostalgia. «Forse
facendo così si sente a
casa».
«Gli
Intercessori sono così potenti da-»
cominciò a chiedere Jecht, ma fu colpito
sulla cima del capo da una stoffa pesante che gli era stata gettata
addosso,
inondando la sua visuale di un acceso tono cremisi.
«Ehi!»
esclamò, scostandosi dal viso il cappotto di Auron.
«Che modi!»
Il
diretto interessato, però, lo aveva già superato
e camminava a passo spedito, i
muscoli delle spalle ben visibili dato che l’armatura gli
copriva solo il
torace. Braska, com’era sua abitudine, nascose una risata con
la mano.
«Credo
che sia preoccupato che tu prenda freddo» gli
confidò a bassa voce, senza fare
i conti con l’eccellente udito del monaco.
«Non
voglio perdere tempo perché rischia di morire di
polmonite» si sentì in dovere
di precisare lui, senza voltarsi.
Jecht
osservò l'indumento e ne saggiò il tessuto,
ancora caldo. Spostava di continuo
lo sguardo da Auron a Braska, finché non si arrese e lo
indossò, sbuffando e
cercando un modo per allacciare il corsaletto, ostacolato dalle enormi
maniche.
Quando si accorse che la vita di Auron era notevolmente più
stretta della sua,
lasciò perdere. Un sospiro di sollievo per il tepore
uscì flebile dalla sua
bocca, ma cercò di non darlo a vedere.
Pensò
che avrebbe voluto provare a prendere un sorso dalla fiasca che Auron
portava
attaccata alla cintura del cappotto, assieme al rosario. Anche se si
sarebbe
detta un’accoppiata un po’ insolita, era sicuro che
si trattasse di liquore, e anche
piuttosto forte.
Allungò la mano verso il tappo, ma fu colpito da una piccola
scossa che gli
fece agitare le dita. Lo interpretò come un segno divino e
desistette.
«Stai
stranamente bene vestito come un Templare» disse Braska con
un risolino. Auron
lo fulminò con gli occhi, ma non replicò.
«A
Zanarkand» rispose Jecht
marcando il
nome della sua città, «uscivo la sera vestito di
tutto punto, roba che voi
stramboidi potete solo sognare. Giacche di raso, camicie aderenti,
pantaloni a
vita bassa. Non mi resisteva nessuno».
Auron
alzò lo sguardo dalla vita di Jecht, rimirando il proprio
cappotto addosso a
quello spiacevole individuo.
«Siamo
arrivati» bofonchiò, indicando un edificio
dall’architettura tondeggiante e dai
fregi complessi, che sembravano appartenere a una cultura diversa da
quella
degli Yevoniti.
La
vallata tutt’attorno era ormai coperta di neve, e i piedi dei
pellegrini – per
l’irritazione di Auron, la scomodità di Braska e
il dolore dello scalzo Jecht –
affondavano in un manto candido.
Mentre
ripensava al fatto che l’Intercessore fosse in grado di
creare un ambiente
ghiacciato a suo piacimento, Jecht tentò di decifrare
l’insegna di quella che
pareva una locanda. L’alfabeto era simile al suo, ma le
parole sembravano
tracciate da qualcuno che scriveva davvero
male.
Un
uomo biondo dalla pelle abbronzata spalancò la porta e
invitò i tre ad entrare
per scaldarsi, rivolgendo un sorriso ospitale a Braska. I viaggiatori,
dal
canto loro, non si fecero pregare, Jecht soprattutto: si
lanciò su una sedia e
si massaggiò i piedi per permettere al sangue di
ricominciare a fluire.
«Mio
amato amico Braska! Sono davvero felice di vedere te qui, tra neve e
ghiaccio»
disse allegro l’uomo. Poi si voltò verso i due
Guardiani. «Benvenuti nella Casa
del Viante di Rin!»
«Il
piacere è mio, Rin. Purtroppo non sono qui in visita di
cortesia, ma una
solenne missione mi attende» rispose l'Invocatore, cordiale.
Auron
se ne stava in disparte, facendo finta di nulla: si strofinava le
braccia per
farsi calore, stando ben attento a non toccare la ferita fasciata, ma
non levò
mai gli occhi dal padrone della locanda, sospettoso.
Jecht,
dal canto suo, avrebbe voluto potersi concentrare sullo strano accento
del loro
ospite, che forse contraddistingueva un diverso popolo che viveva su
Spira,
magari gli Al Bhed di cui gli avevano tanto parlato, ma non riusciva a
distogliere la mente dal fatto che fosse davvero
in astinenza da molto. E dal fatto che Rin, gestore della Casa del
Viante di Rin,
se ne andasse in giro con addosso dei pantaloni attillati e una
giacchetta
completamente aperta per mostrare il fisico allenato, nonostante la
temperatura. Sfoggiava inoltre un collare con davanti un anello di
ferro.
Due
erano le ipotesi rimaste: o stava cominciando ad avere le
allucinazioni, o su
Spira non avevano la minima idea di come vestirsi a seconda delle
circostanze.
Braska
volse lo sguardo sui compagni: era ignaro dei loro pensieri, ma la
stanchezza
era ben evidente sui loro volti, così diversi da quello
disteso di Rin. Era
desideroso di scambiare qualche parola sul suo Pellegrinaggio con il
suo amico
Al Bhed, ma avrebbe aspettato di essere solo con lui.
«Per
oggi ci fermiamo qui. Siamo esausti, e il mio Guardiano è
ferito». Alla parola
“Guardiano”, Rin inarcò le sopracciglia
e fece cenno di aver capito. «Hai delle
stanze libere?»
Il
gestore della locanda si sporse sul bancone, passandosi una mano sui
capelli
lisci trattenuti da un paio di occhialoni.
«Il
tuo amico sta bene?» domandò, rivolgendo lo
sguardo verso Jecht. «Sembra lui
quello ferito...»
Sono ferito
nei
sentimenti, giovane dai vestiti poco adeguati, si
ritrovò a pensare l’interessato,
e ti conviene darmi le chiavi per una
stanza singola e lontana da voi tre matti.
Come
se avesse parlato ad alta voce, davanti a lui cadde una chiave
attaccata a un
grosso pezzo di legno. Lui ebbe l’istinto di allungare le
braccia per
afferrarla come se fosse l’ultima goccia d’acqua
nel deserto.
«Jecht?
Sei di nuovo con la testa altrove?» domandò
Braska, preoccupato. L'atleta
sobbalzò come spaventato, tanto che l'Invocatore scosse la
testa. «Hai proprio
bisogno di riposare, amico mio. Tieni, intanto vai e ambientati, ok? Io
devo
preparare Auron per essere medicato, starà con me
stanotte».
Jecht
accettò, poi si voltò e si morse il labbro.
Possibile che anche quelle ultime
parole potessero suonare come un doppio senso?
Rin
borbottò qualcosa riguardo alla cena, ma lui
evitò di ascoltarlo, focalizzato
sull’arrivare alla propria stanza senza ulteriori pensieri
scomodi. Quando si
chiuse la porta alle spalle si concesse un lungo sospiro e si
gettò prono sul
letto, senza nemmeno guardarsi attorno.
Con
fare languido, si voltò sulla schiena e tese le orecchie per
percepire un
qualche rumore proveniente dai corridoi. Gli rispose il silenzio totale.
Aveva
deciso di mettere al bando le fantasie sul monaco imbronciato vestito
di rosso,
bollandolo come “impossibile” e
“decisamente non per me”, quindi
cominciò a
rilassarsi e far vagare la mente su altri lidi.
La
gente di Spira, oltre che bacchettona, era anche dotata di una notevole
dose di
innocenza. La cosa non gli dispiaceva, come non gli dispiaceva lo
sguardo caldo
e gentile di Rin nei suoi pensieri poco nobili mentre faceva scivolare
una mano
tra le cosce.
Il
viso di Auron cercò di mischiarsi alle sue fantasie, ma lui
lo ricacciò con
prontezza nell’abisso da cui era venuto.
Bussarono
alla porta, due colpi rapidi e leggeri, e lui alzò di scatto
la testa dal
cuscino, vergognandosi come un ladro.
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Capitolo 12 *** Rompere le righe (Parte 1) ***
CAPITOLO 10:
ROMPERE LE RIGHE (PARTE 1)
A Jecht
saltò il cuore in gola, e la mano che era in procinto di
inoltrarsi in
reconditi ultimamente poco esplorati ricadde a fianco a lui sul
materasso.
«Sì?»
rispose con voce strozzata, sbiancando al pensiero di potersi trovare
di fronte
Auron, dato che indossava ancora il suo cappotto.
«Sono
Braska» disse l’innocente voce
dell’Invocatore. Jecht si sentì sporco e non
trovò niente di meglio da fare che schiarirsi la gola.
«A-avanti»
balbettò, dopo aver controllato in modo spasmodico che i
vestiti fossero in
ordine.
Il
sacerdote di Yevon entrò sfoderando un sorriso sincero, e si
guardò intorno
alla ricerca di un punto in cui accomodarsi. C'era una sedia
sgangherata
nell'angolo sinistro, vicino al modesto armadio in legno nero; essendo
pensata
solo per riposare, la piccola stanza non conteneva altro che il letto e
il
mobilio necessario per passare la notte.
Notando il
leggero disagio di Braska, Jecht lo invitò a prendere posto
accanto a lui, sul
letto: per quanto imbarazzante, era meglio che sedersi per terra.
L’Invocatore
si accomodò e raddrizzò la schiena, poi lo
guardò con gli occhi azzurri e
limpidi come se stesse aspettando che gli venisse rivolta la parola.
«…
sì?»
ripeté Jecht, interdetto.
Braska
smise di giocherellare con il rosario che aveva al polso e
intrecciò le dita
delle mani. Il fatto che avesse tolto l’enorme copricapo lo
rendeva un po’ più
umano agli occhi del suo compagno.
«Volevo
chiederti se va tutto bene» gli disse. «Negli
ultimi giorni prima della
partenza mi sei sembrato molto turbato».
Una
sensazione che Jecht era riuscito fino a quel momento a sopire lo
colpì allo
stomaco come una mazza di ferro. Se con Auron la questione poteva
essere finita
con quella stretta di mano, con Braska non aveva mai accennato a nulla.
Ma,
sicuro come il sorgere del sole, era a conoscenza di tutto. Oppure
sapeva solo
della sbronza. Si immaginò Auron che parlava di tendenze omosessuali con Braska e
scartò l'opzione immediatamente.
Non poteva credere di doverlo fare di nuovo, anche se forse era meglio
che
fosse lui stesso a dirglielo.
«Sì,
beh…
mi sono ubriacato. Ero spaventato all'idea di partire» disse,
puntando lo
sguardo a terra. Perlomeno era una mezza verità.
«Non
è un
comportamento sano, ma credo tu lo sappia bene. Non sarò
certo io a farti la
predica: scommetto che Auron è stato più che
sufficiente» rispose con un
sorriso che non arrivava agli occhi. «C'è altro di
cui vorresti parlarmi?
Quella notte, Auron era molto… scosso. Non mi ha detto
tutto, sai. Quel ragazzo
ha l'innocenza di un bambino, da padre lo so bene»
continuò poi, cercando di
mettere a suo agio Jecht.
Una
sfumatura di dolore colorò le parole dell'Invocatore: Jecht
ne era ormai
esperto, tante erano state le volte che l'aveva sentita nella voce
delusa di
Lauren.
«Senti,
io
non dico che tutti gli Yevoniti siano ciechi, perché sarei
io a non avere il
senno. Ma sono figlio di una cultura diversa dalla tua. A Zanarkand non
si
crede in nessuno Yevon, le persone vivono secondo la loro coscienza.
Questo
riesci a capirlo?» chiese, agitato come la prima volta.
«Certo.
Va’ avanti, non ho intenzione di giudicare» rispose
affabile Braska. Non era
affatto come Auron, si rese conto Jecht: poteva dirlo.
«Ok,
se
proprio insisti…» farfugliò deglutendo
sonoramente, «mentre ero ubriaco, ho
fatto… apprezzamenti non richiesti ad Auron. Gli ho chiesto
perdono non appena
sono tornato in me, ma non l'ha presa per niente bene».
Braska
annuì serio, ma non lo interruppe. Quell'atteggiamento fin
troppo comprensivo
mandò nel panico Jecht: non sapeva come interpretarlo.
«I-insomma,
ero davvero dispiaciuto, non sono un cafone! Un tipo come Auron,
poi… gli ho
spiegato che non ho preferenze tra uomini e donne, che ero ubriaco e
non sapevo
cosa stavo facendo. Ha detto che sono aberrante, che ciò che
sono lo disgusta e
disgusta anche il vostro dio. Ha persino insinuato che io avessi
mentito su mia
moglie! Ce l'ho davvero la moglie, diavolo… è che
non sono un gran marito».
Jecht
raccontava
con foga, senza nemmeno prendere fiato tra una parola e l'altra, tanta
era la
voglia di liberarsi la coscienza.
«Però,
capisci il punto, Braska? Per me non è un problema! Per
nessuno a Zanarkand è
un problema! È un vostro limite, non mio» concluse
portandosi una mano sulla
bocca, forse per l’eccessivo zelo delle sue parole, e
sospirando esausto.
Braska
spinse con le mani sulle ginocchia e si alzò in piedi.
«Gli
Al
Bhed dicono che il dio non esiste» spiegò,
«o che, anche qualora esistesse, non
si curerebbe delle cose dei mortali. Io però ho visto gli
Invocatori chiamare
Ifrit dalle ruote di fuoco, ho sentito Yevon parlarmi e il miracolo
ricucire i
miei polmoni spezzati». Fece una pausa, come se il ricordo
della malattia gli
avesse tolto il respiro. «Tuttavia, egli non si è
mai pronunciato su questa
questione, e anche se l’Inquisizione l’ha fatto non
sono d’accordo con tutte le
sentenze di mio fratello. Auron è giovane e ha bisogno di
una guida: le parole
di Alan provengono da un pulpito più alto del mio».
Poi
tacque, senza aspettare una risposta, si diresse verso la porta e fece
per
sfiorare la maniglia lucida.
«Come
è
caduta?» lo richiamò la voce di Jecht.
«Che
cosa?»
«Zanarkand».
Braska
fece un passo indietro e prese fiato, come se la risposta richiedesse
un lungo
racconto.
«Quasi
mille anni fa, ci fu una guerra tra le due grandi città
meccanizzate di Spira,
Zanarkand e Bevelle. Migliaia di persone morirono al fronte, e la
battaglia
causò così tanto orrore che il sole
invertì il suo corso e le stelle sanguinarono,
facendo piovere una maledizione di morte e lacrime
sull’isola».
Jecht,
abbandonato qualsiasi bisogno terreno, lo ascoltava con attenzione,
affondando
talvolta le unghie nelle cinghie di cuoio che adornavano le maniche del
cappotto di Auron.
«Bevelle
stava per vincere la battaglia, e il re ordinò che Zanarkand
fosse rasa al
suolo. Ma un mostro atroce, in grado di seguire le rotte del cielo e
quelle del
mare, sorse dalle acque richiamato dal dio e la devastò
prima ancora che
Bevelle potesse muovere l’esercito. Aveva tre cerchi di
spessi denti e
un’orrenda tempesta annunciava il suo arrivo. Lo chiamarono
Sin perché era
l’incarnazione del peccato, e ancora dopo un millennio stiamo
espiando la colpa
dei padri».
Jecht
impallidì. Ricordò il fragore delle onde, la nave
che si piegava e il triplice
giro di fauci della bestia che lo aveva portato sin lì.
Tante erano le domande
che spingevano per uscire dalle sue labbra che non riuscì a
dar voce neanche a
una di esse.
«Non
so se
sia possibile che Sin ti abbia trasportato qui, attraverso il
tempo» continuò
Braska, quasi leggendogli nella mente. «Ma io ti considero un
dono del cielo, e
credo che il destino abbia fatto incontrare le nostre strade».
L’Invocatore
gli sorrise per l’ennesima volta e poi uscì dalla
porta, lasciandolo con più
dubbi di quanti ne avesse quando era entrato.
Jecht
desiderava guardare le stelle, ma prima glielo avevano impedito le luci
abbaglianti di Bevelle, più simili a quelle di Zanarkand di
quanto egli stesso
volesse ammettere. Poi, aveva creduto che il bosco gli avrebbe per
sempre
negato, col suo intrico di rami, la vista del cielo.
Quella
notte, durante la quale i fili che lo ancoravano al mondo materiale
sembravano
volersi pian piano disgregare, nuvole dense avevano coperto il cielo.
Attraverso una prigione d’ovatta, filtrava invitta solo la
luce pallida e lieve
della luna.
La mattina
del giorno seguente, Braska aveva deciso di lasciar riposare i suoi
Guardiani,
poiché le ferite nel corpo di Auron erano pari a quelle
nell’animo di Jecht.
I due
uscirono dalle loro stanze, per caso, nello stesso momento: si
scambiarono uno
sguardo che aveva il colore dell’indifferenza, ma
l’Invocatore continuò a
sorridere, stringendo le mani sulla sua tazza di té caldo.
Rin, che
stava condividendo quella bevanda con lui, notò Auron e
Jecht che si
avvicinavano.
«Ve
ne
andate di già?» domandò.
Braska
rispose con un cenno del capo. Il monaco gli si era avvicinato, la
schiena
dritta come una colonna, come se dovesse anche in quel luogo
proteggerlo da un
pericolo invisibile.
«Io
proseguo verso Piana dei Fulmini» lo informò il
giovane Al Bhed, «forse allora
puoi incontrarmi lì».
«Sì,
anche
noi ci dovremo passare» replicò l’altro,
poi si rassettò la veste e si alzò,
congedandosi.
Rin
conosceva i linguaggi e i codici, anche quello dei residui che le
foglie
lasciavano sul fondo delle tazze, ma in quella di Braska non
osò guardare.
L’Invocatore,
con andatura tranquilla, si diresse verso l’uscita dove lo
aspettava il suo
Guardiano tatuato.
«Auron
continua a non parlarti?» si premurò di domandare,
posandogli una mano sulla
spalla, quando fu certo che il loro amico non era a portata
d’orecchio.
Jecht
scoccò un’occhiata verso la porta della Casa del
Viante, poi verso la sfera per
le registrazioni che teneva tra le dita. A Braska si scaldò
il cuore quando
vide che il suo regalo era stato apprezzato.
«Mi
ha
detto solo “buongiorno” e mi ha guardato male
quando gli ho ridato il cappotto.
Sembrava che gli avessi appena ucciso il gatto».
Braska
sospirò e diresse gli occhi al cielo.
«Proverò
a
dirgli qualcosa, magari mi ascolta» replicò.
«Senti,
potresti filmare questa per me?» domandò Jecht
all’improvviso, porgendogli la
sfera. «Vorrei tenerla per ricordo».
Aveva una
voce roca e graffiante, forte come la sua personalità.
L’Invocatore prese
l’oggetto con il desiderio di immortalarla per sempre.
«Non
so se
ne sono capace» disse, con sguardo dolce. «Ma
proverò».
Uscirono
dalla Casa del Viante; l’aria gelida di Macalania gli punse
il naso e le guance
mentre, traballante, alzava la sfera e cercava l’inquadratura
migliore.
Jecht lo
superò e si diresse verso un cartello che indicava la strada
del lago.
«Auron,
puoi stargli più vicino?» chiese Braska, cercando
di rivolgere un tono gentile
al suo buon Guardiano.
Lui
replicò con un sonoro sospiro e obbedì, senza
però smettere di dare le spalle
alla telecamera. L’inquadratura venne alzata sul cartello
sopra le teste dei
due, che comunque erano troppo distanti l’uno
dall’altro per sembrare amici.
«Bene»
annunciò Braska, per non chiedere troppo ad Auron.
«Così dovrebbe andare».
Fu Jecht a
voltarsi verso il monaco, rivolgendogli un sorriso obliquo e
incrociando le
braccia al petto, com’era solito fare quando desiderava
attirare l’attenzione.
La sua pelle scura risaltava sullo sfondo bianco delle nevi,
così come l’ampia
veste scarlatta di Auron.
«Che
c’è?
Hai paura che morda?»
Auron non
rispose alla provocazione se non arricciando il naso in una smorfia.
«Jecht…»
commentò come avvertimento, ma l’altro si era
già voltato verso la sfera.
«Braska!»
esclamò, come colpito da un’idea improvvisa.
«Dovresti filmarne anche tu una.
Sarebbe un bel regalo per la piccola Yuna!»
L’Invocatore
annuì e fece traballare l’inquadratura.
«Suppongo
di sì» ammise, ma prima che potesse continuare
Auron si frappose tra lui e il
paesaggio, incurante di rovinare la registrazione.
«Scusi,
Braska» intervenne, «ma non dovremmo perdere tempo
così».
Esasperato,
Jecht sbuffò e uscì dall'inquadratura.
«Amico,
ma
che fretta hai?» esclamò.
Auron
sembrò infastidito in modo definitivo da
quell’ultima osservazione, e con uno
scatto si mise a seguirlo.
«Vieni
qui
che ti spiego che fretta ho» sbottò, e a Braska
non rimase altro da fare che
interrompere la registrazione.
«Auron...»
chiamò, preoccupato dal dover sedare un’eventuale
piccola rissa. I due,
tuttavia, si stavano limitando a una gara di sguardi che Jecht non era
intenzionato a perdere.
Sembrava
che il loro piccolo colloquio della sera precedente avesse spinto
Jecht,
piuttosto che a rinunciare a essere accettato da Auron, nella direzione
opposta. A Braska dispiaceva che i due si trovassero in quella
situazione,
avrebbe voluto fare qualcosa, ma sapeva che far cambiare idea al suo
guardiano
più giovane era arduo tanto quanto far invertire al
Fluvilunio il suo corso.
Jecht
stava immobile a braccia conserte e fissava gli occhi leggermente a
mandorla
del monaco con fare provocatorio. Il loro contatto visivo
durò poco: Auron
scosse la testa e fece con la mano un gesto che Jecht
considerò un velato
insulto, per poi incamminarsi verso est, oltre la Casa del Viante.
L’uomo di
Zanarkand sorrise beffardo, ma rimase stupito dal comportamento del
compagno:
credeva che fosse in grado di sostenere qualsiasi sguardo con la stessa
facilità con cui portava le loro provviste sulla schiena.
«Dobbiamo
seguirlo per forza, vero?» chiese a Braska.
L’Invocatore portò la mano alla
bocca, nascondendo una timida risata.
«Credo
proprio di sì, amico mio».
«Ecco
come
ci ha mostrato quanta fretta aveva» rispose Jecht, divertito.
Nonostante
tutto, il confronto con Braska gli aveva fatto bene in modi che non
riusciva
nemmeno a comprendere: il suo animo era più sereno,
finalmente aveva un
alleato. Un alleato vero, che non lo giudicava. Si accorse di sorridere
più
spesso, e ciò non passò inosservato
all’attento compagno di viaggio, il quale
sperò che potesse contagiare anche il brusco Auron.
Non erano
passati che pochi minuti, ma il monaco aveva il passo svelto e i due
dovettero
stargli dietro, come il cane che rincorre la lepre.
«Monachello,
vuoi rallentare? Siamo dietro di te!»
Auron
arrestò la sua marcia.
«Vuoi
che
ti prenda per mano?» sbottò.
Jecht
rivolse gli occhi al cielo e trattenne numerose risposte che aveva
sulla punta
della lingua.
«Poi
non
ti lamentare che sei stanco» ribatté invece, ma
Auron non gli prestò troppa
attenzione. Anzi aggrottò la fronte e guardò un
punto distante da loro.
«Amici
miei, sarò io ad essere stanco se non rallentate il
passo!» rispose Braska con
una risata.
Notò
però
che i due si erano fermati e stavano osservando nella stessa direzione.
«C’è
qualcosa lì» fece notare Auron. Jecht si spinse
sulla punta dei piedi come se
quel gesto avesse potuto renderlo meno miope.
«Tipo?»
«Bandiere».
Braska si
mise a fianco a loro e, senza dire nulla, estrasse dalla tunica un
piccolo
binocolo di madreperla. Ignorando le occhiate perplesse dei suoi
guardiani,
mosse la rotellina fin quando l’immagine non andò
a fuoco.
Lo stomaco
gli si strinse in una morsa dolorosa quando vide la bandiera
dell’Inquisizione.
Al centro, tracciata in oro su sfondo blu, spiccava una runa curva
sopra la
quale erano disposti tre cerchi in orizzontale e uno in cima, in modo
da
formare una croce. Il drappo rosso appeso all’asta,
più piccolo, indicava la
presenza del Grande Inquisitore.
I compagni
lo videro sospirare molto a fondo, come per mantenere la calma davanti
a un
pericolo. Jecht, ancora inesperto delle vicende di Spira,
lanciò uno sguardo
preoccupato verso Auron, il quale, per una volta, ricambiò
con altrettanto
sentimento.
«Signore,
va tutto bene?»
«Non…
proprio. Laggiù c’è
l’inquisizione» rispose con voce poco decisa.
Chi per un
motivo e chi per un altro, i due Guardiani si irrigidirono con volti
cupi.
«Che
vogliono questi? Mica andremo da loro, vero?» chiese Jecht,
allarmato.
Dei rumori
pesanti provenienti dalla boscaglia fecero sobbalzare i presenti, che
portarono
le mani alle armi nel giro di un battito di ciglia.
«Alt!
Non
siamo ostili, abbassate le spade!» intimò una voce
femminile molto autoritaria.
Dai
cespugli emerse un’insegna, poi un chocobo catafratto con una
bellissima e fine
armatura: il becco e la testa erano protetti da un elmo decorato ai
lati con
ali metalliche. Le briglie, di cuoio lucidissimo, erano collegate a uno
stemma
posto davanti al petto dell’animale, subito sotto al collo,
mentre le zampe
erano avvolte da maglie su misura.
La giovane
in sella, non appena riconobbe Braska come un Invocatore, gli rivolse
un segno
di saluto spingendo anche il chocobo a piegare il collo. Jecht, dalla
quantità
di mostrine sulla sua armatura, ebbe la sensazione che il gesto non
fosse il
più appropriato, e che sarebbero stati loro a dover chinare
il capo davanti a
lei.
«Sono
Hanna, comandante della Cavalleria ausiliaria, primo
squadrone» si presentò,
come se avesse davanti dei superiori. Il sole rifulse sul suo petto
d’acciaio
ornato, sotto cui s’intuiva una pelle candida come la neve.
«Siamo stati
radunati sulle sponde del lago: sembra che Sin stia per rilasciare le
scaglie».
«Sin
è
qui?» ribatté subito Braska, stringendo i denti.
Jecht, spinto da un riflesso
involontario, fece un passo indietro.
«Come
fa
un mostro del genere a essere ovunque su questa dannata
terra?» commentò
spaventato.
Hanna gli
rivolse un’espressione interdetta, ma Auron intervenne subito
in sua difesa:
«La
prego
di scusarlo, comandante. È sotto l’effetto delle
tossine».
«Povero
ragazzo, mi dispiace» disse con cortesia. «Vi
consiglio di non procedere oltre,
anche se siete in Pellegrinaggio. Finché il pericolo non
sarà contenuto, questa
zona è a rischio».
Braska
fece un passo verso il comandante: per qualche istante i loro occhi,
entrambi
celesti, si incrociarono scambiandosi un composto rispetto.
L’Invocatore
strinse le labbra sottili e le mani sul bastone.
«Vorrei
parlare con mio fratello» annunciò, indicando
verso la tenda dell’Inquisitore
con lo scettro. «Sono disposto a mettere a suo servizio il
mio eone».
Hanna
annuì, e una ciocca bionda le sfuggì
dall’acconciatura, ricadendo sul viso da
sotto la visiera dell’elmo. Docile, il chocobo si
lasciò trascinare dalle
redini verso il limitare della strada per non impedire il passaggio ai
pellegrini.
Lo
sguardo
della giovane, perso in quello che sembrava un ricordo, li
accompagnò fino a
quando sparirono oltre la collina ghiacciata. Il suo chocobo, invece,
emise un
chiocciare curioso quando il guerriero vestito di rosso lo
osservò, e poi
tacque.
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Capitolo 13 *** Rompere le righe (Parte 2) ***
CAPITOLO 10:
ROMPERE LE RIGHE (PARTE 2)
Alan
accarezzava con lentezza la cartina del luogo che gli aveva fornito,
immaginava
di sentire, passandoci sopra, i rilievi sotto le unghie. Erano troppo
lunghe,
considerò, e c’era il rischio che agli occhi di
qualcuno apparissero di fiera
piuttosto che d’uomo, e di fiere su Spira ve n’era
già una disgraziata
abbondanza.
In una
terra di peccatori come quella, l’apparenza era molto
importante: distingueva
il povero dal ricco, il pescatore dal sacerdote. Ogni pezzo del mosaico
era al
suo posto, proprio come la battaglia che il Grande Inquisitore si
accingeva a
condurre.
«Signore»
disse un giovanotto dai capelli neri, interrompendo il suo flusso di
coscienza.
«Il comandante Hanna è tornata dalla ricognizione.
Porta con lei l’Invocatore
Braska e i suoi Guardiani: vogliono offrire i loro servigi».
Alan
spostò la mano dalla cartina al suo mento glabro e
inarcò le sopracciglia
sottili, sinceramente stupito.
«Che
piacevole coincidenza: mio fratello mi fa la grazia di concedere il suo
eone
per la causa. Falli entrare, quindi» rispose al soldato.
La donna
in testa al gruppo si levò l’elmo in segno di
rispetto e si inchinò davanti al
Grande Inquisitore: i lunghi capelli biondi trattenuti da una treccia
le
finirono davanti al naso, ma non si scompose.
Dietro di
lei, un sorridente Braska e due nervosi Guardiani fecero la loro
comparsa
all’interno della tenda, grande e dalle ricche decorazioni,
come si confaceva a
un uomo del suo rango. Una smorfia infastidita gli deformò
la bocca: detestava
la finta cortesia dei consanguinei.
«Grande
Inquisitore, i nostri cammini si incrociano nuovamente»
esordì Braska facendo
la riverenza. Jecht e Auron, rigidi come il marmo, fecero altrettanto.
Pieghi il
capo, caro fratello, ma
sei sempre più in alto di me con lo spirito, si
ritrovò a pensare Alan.
«Dici
il
vero, Braska. Yevon ci favorisce: il tuo eone sarà di grande
aiuto alle
truppe».
Jecht,
intimorito dalla figura di Alan, e per questo rimasto in silenzio, si
voltò
verso Auron con l’espressione di chi vorrebbe chiedere
delucidazioni. Fece per
sussurrare qualcosa, quando il monaco gli afferrò il polso e
spinse gli occhi
fuori dalle orbite in un suggerimento molto chiaro.
«Ah,
lo
smemorato di Bevelle. Curioso che tu te lo sia portato dietro,
Braska» lo
punzecchiò l’Inquisitore. Jecht si
pentì immediatamente anche solo di
respirare.
«Voglio
aiutarlo a tornare a casa, se è possibile. In pochi mesi
è diventato un abile
combattente» replicò l’Invocatore,
sorridente.
«A casa? Interessante. Vedo,
però, che
l’ignoranza è rimasta tale se ha desiderio di fare
domande. Che le faccia,
quindi: Yevon ha misericordia di chi vuole sapere».
Auron lo
guardò torvo, mentre Jecht si ritrovò senza voce.
«Ecco…
uh.
Mi chiedevo come si possa affrontare una simile bestia...»
disse incerto.
Alan fece
un cenno ad Hanna, la quale iniziò ad esporre il piano.
«Purtroppo,
attaccare Sin direttamente non è possibile. Si muove nelle
profondità delle
acque, non abbiamo modo di avvicinarci» spiegò con
schiettezza. «Il pericolo
maggiore, tuttavia, è costituito dalle sue scaglie. Sono
mostri che assumono
forme dissimili tra loro, prodotte dal suo corpo in gran
quantità: se dovessero
abbandonare il lago indisturbate, potrebbero mietere molte vittime
innocenti.
Siamo qui per fermarle».
Jecht
annuì perplesso, poi Braska invitò Auron ad
avvicinarsi. Lui, riluttante,
obbedì.
«Grande
Inquisitore, posso mostrare a questo mio Guardiano la disposizione
dell’esercito? In questo modo potrà aiutarmi senza
causarvi intralcio».
«Auron»
lo
chiamò Alan, la voce simile al ringhio sommesso di un lupo.
Era l’unico
Guardiano che non aveva ancora ispezionato, sondandogli
l’animo con lo sguardo
attento e feroce o con quell’eloquenza che mirava alla
sottomissione.
La sua
veste si scostò, mostrando gli spessi tacchi scarlatti che
battevano sul
terreno, quando con un movimento armonioso gli prese il viso tra le
dita d'una
mano.
Da un lato
Auron trattenne il respiro, imperturbabile come una statua di marmo,
dall’altro
Jecht, colpito da una scintilla che rischiava di tramutarsi in fiamma,
fece per
avanzare verso di lui. Venne trattenuto dalla presa gentile ma ferma di
Braska
sulla spalla.
«Qualcosa
nel mio gesto ti disturba» notò Alan, senza
ritrarre la mano. La sua voce senza
la sfumatura di un’emozione suonava paurosa,
perché troppo simile a come Auron
si immaginava quella del dio. «Mi ricordo di te. Qualche mese
fa, quando i
Templari ti hanno ordinato Guardiano».
Fece una
pausa per sorridere a labbra serrate, e una ruga sottile ma profonda
gli si
formò all’angolo della bocca. Auron strinse i
denti: la mano dell’Inquisitore
si stava stringendo sulla sua mascella come una morsa, le dita
inanellate
minacciavano di spezzargliela, ma lui non doveva mostrare esitazione.
«Ah,
conosco quel rito» sospirò Alan, avvicinandosi a
lui e inclinando la testa.
Auron sentiva sul collo il suo fiato, tiepido e profumato dalla
liquirizia che
masticava per nascondere l’odore del tabacco. «Il
tuo cuore è disturbato perché
sto attraversando il recinto, e il tuo corpo è inviolabile.
Cosa succede se un
uomo tocca ciò che è destinato al dio?»
«Lasciam-»
si lasciò sfuggire Auron, ma si morse le labbra per
interrompersi, distogliendo
lo sguardo dal viso dall’Inquisitore.
Alan
ritrasse le dita dal suo viso proprio nel momento in cui Auron temette
che
stessero per cominciare a bruciarlo. Gli rivolse una breve risata,
smorzata da
un colpo di tosse roca, che coprì portandosi la mano destra
davanti alle
labbra.
«Non
ho
mai condiviso le idee perpetrate dai monaci come te, nonostante le
vostre
cerimonie siano affascinanti, come uno spettacolo a teatro»
commentò. «Non
esiste un corpo che non possa essere violato, o un tempio che non si
possa
profanare: la nostra sorte ci è già stata data
dal dio, non lo capisci? Ha
deciso la mia posizione, quella di mio fratello e la tua».
Alan aveva
cominciato a camminare attorno alla mappa spiegata della zona, dove
aveva
disposto delle statuine che rappresentavano le truppe. Erano allineate
in modo
maniacale, equispaziate l’una all’altra. Gli occhi
di Auron, attratti dal suo
movimento, elegante e simile al gorgo che tutto inghiotte, si posarono
prima
sul turibolo appoggiato al tavolo, poi sull’esercito in
miniatura, e si
sgranarono per l’orrore.
«Che
cosa
pensi di fare...» mormorò il monaco con voce roca.
Poi qualcosa dentro di lui
si accese e lo fece scattare verso Alan.
«Che
cosa
pensi di fare!» gridò. Due uomini con le cappe
nere dell’Inquisizione lo
fermarono, trattenendolo con fermezza per le braccia, nonostante
l’impeto del
suo corpo minacciasse di trascinarli via. L’unica cosa che
arrivò ad Alan fu
uno sguardo letale come i dardi d'argento.
«Lasciatelo
libero» ordinò lui, e i due obbedirono senza
esitazione. «Colpiscimi» lo
invitò, avvicinandosi con passi misurati e le braccia
scostate dal corpo. «Se
lo farai, significherà che Yevon non mi favorisce
più e la sua volontà è
mutata».
Auron, con
il viso del Grande Inquisitore a meno di una spanna dal suo, strinse i
pugni
sulla stoffa del cappotto fino a far sbiancare le nocche. In tal modo
riuscì a
trattenere il desiderio di stringergli la gola fino a quando non avesse
smesso
di respirare.
«Lo
sai»
mormorò Alan, con un tono di voce così basso da
non poter essere sentito dagli
altri, «se nel loro destino è scritto che
vivranno, il dio li salverà. E nemmeno
l’ordine di un Inquisitore potrà impedirlo: la
parola di Yevon è la mia, ma il
viceversa non potrà mai valere. Continuare a combattere,
oppure accettare una
morte serena: questo è ciò che abbiamo sulla
bilancia, ma su quale piatto cada
il peso non siamo noi a deciderlo».
Un raggio
di sole, attraversati i lembi della tenda, rifulse sul rubino che gli
adornava
il collo.
«Andiamo»
tuonò Auron, voltandosi verso Braska e Jecht. Loro furono
talmente intimoriti
che il loro istinto fu quello di allontanarsi piuttosto che andare
verso di
lui.
Poi
scoprì
i denti come una belva e tornò sui suoi passi, dirigendosi
di nuovo verso Alan.
Jecht temette che stesse per aggredirlo una seconda volta, ma il monaco
si
fermò.
«Bada
che,
se le cose stanno come dici» scandì,
«nemmeno la tua superiorità esiste». Poi
si rivolse di nuovo a Braska e Jecht: «Se mi vogliono
accompagnare, preferirei
uscire da qui» disse, tenendo alto lo sguardo per qualche
istante ancora.
Alan
sembrò sul punto di dire qualcosa, ma si limitò
ad accarezzare con la mano
sinistra il turibolo d’ottone, come se costituisse il
più grande tesoro.
Dopo
qualche minuto, quando si furono allontanati, fu di nuovo Jecht ad
avvertire il
bisogno di spezzare il silenzio. Aveva visto Auron che, con fierezza,
si opponeva
ad Alan come la chiglia di una nave infrange le tempeste, e si era
sentito
pervaso da un’ammirazione che non aveva mai riservato a
nessuno. Ma tanto era
stato forte e fiero prima quanto in quel momento pareva svuotato di
ogni
energia, gli occhi fissi nel nulla e l’ombra di
un’espressione sgomenta in
volto.
«Perché
hanno dato il comando delle truppe a tuo fratello?»
domandò allora a Braska.
«Lui non è l’Inquisitore?»
«Lo
è»
rispose subito l’altro, sistemandosi la tunica in modo da
sedere più comodo
sulla roccia che aveva scelto. «Ma combatté
nell’ultima guerra dei Crociati
contro Sin, quando aveva diciannove anni, e lì ricevette
l’immortale gloria
d’eroe. Avevano scavato una linea di confine sul Gagazet,
sotto la terra
congelata, e sparavano per impedire l’avanzata delle scaglie.
Alan non era così
osservante, allora, pensava davvero che le macchine avrebbero potuto
determinare la loro vittoria».
Braska
cercava di mantenere il distacco nel racconto, come se la cosa non lo
riguardasse, ma Jecht non poté fare a meno di notare il
dolore nel suo sguardo:
doveva essere un ragazzino, al tempo, un ragazzino col fratello al
fronte.
«Il
loro
plotone scomparve in una tempesta, una valanga impedì il
passaggio dei
rifornimenti e il generale ordinò la ritirata. Loro non
potevano passare e
rimasero bloccati al valico, poterono solo aspettare la
primavera».
«Aspetta»
lo interruppe Jecht, con le sopracciglia aggrottate. «Mi stai
dicendo che è
sopravvissuto per mesi in mezzo alla neve senza viveri?»
C’era
qualcosa, in quel racconto, che lo inquietava profondamente, un
tassello che
non si incastrava con gli altri perché deforme.
Riportò alla mente ciò che
Auron gli aveva detto riguardo alla morte su Spira… o
riguardo alla non-morte,
a coloro che ancora camminavano.
L’Invocatore,
senza la sua consueta aria serena, annuì.
«I
soccorsi arrivarono dopo due mesi: di cento soldati che erano, solo
quindici ne
erano sopravvissuti, tra cui lui. Combatté a lungo contro il
ricordo di ciò che
gli era successo, e spesso le sue urla risuonavano, di notte, nella
casa.
Quando guarì dal male, si convinse che Yevon lo avesse
prescelto e decise di
diventare un Invocatore. L’Intercessore di Bevelle lo
rifiutò, e fece carriera
nell’Inquisizione».
«Un
uomo
che delira per il potere, e che non si farebbe scrupoli a eliminarla se
non gli
risultasse più utile» sentenziò
all’improvviso Auron. Jecht trasalì: non si
aspettava che anche lui stesse ascoltando. «Ecco il fratello
che le ha
restituito il Gagazet».
Braska
giunse le mani, poi cominciò a passare tra le dita i grani
del rosario che
aveva al polso. Della neve scivolò dalle foglie di un
albero, colpendo in
silenzio il suolo.
«È
così»
ammise lui, «ma preferisco che mi abbia restituito un
fratello tale piuttosto
che non ridarmene nessuno».
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Capitolo 14 *** Colui che apre tutti gli occhi ***
CAPITOLO 11:
COLUI CHE APRE TUTTI
GLI OCCHI
«Dobbiamo
proprio?» chiese Jecht, a disagio.
«Secondo
te, possiamo rifiutare una richiesta simile? Non sei stupido, lo
sai» rispose
Auron, nervoso.
Jecht
sospirò sconsolato. Non era passata che qualche ora dallo
scontro verbale tra
il monaco e il Grande Inquisitore, eppure quell’invito era
arrivato come se non
fosse successo nulla. Interazioni di quel tipo, fondate su bugie, non
erano
estranee all'atleta, ma proprio per quel motivo non riusciva a
mantenere la
calma: gli sembrò di essere tornato a Zanarkand.
«Non
possiamo tirarci indietro, amici miei. Alan sa bene come gestire certe
situazioni, non infierirà certo. In più, un bel
pasto abbondante non ci farà
male» disse Braska.
Poi
frugò
tra le pieghe della sua tunica e ne estrasse due sigari che, anche agli
occhi
poco esperti di Auron e Jecht, sembravano molto pregiati.
«Tenete»
li invitò con un sorriso angelico. «Io non posso
fumare, ma sono di sicuro molto
buoni».
«Braska…
dove li ha trovati?» chiese la sospettosa voce di Auron. La
sua mano quasi si
scontrò con quella di Jecht che era scattata sul sigaro come
un’aquila sulla
preda.
L'idea di
godere di un banchetto aveva rincuorato l’atleta, ma non
abbastanza: forse
avrebbe potuto tornargli utile il supporto del tabacco. Il Grande
Inquisitore
aveva invitato lui e i suoi compagni a mangiare alla sua stessa tavola,
in
compagnia dei generali: non un'allegra brigata, abituato com'era alle
serate
alcoliche con i suoi compagni di squadra.
L’Invocatore
non soddisfò la curiosità di Auron e si sedette
su un piccolo sgabello
pieghevole.
La tenda
che usavano per riposare non era molto spaziosa, ma era abbastanza per
tre
persone. Dopo l'aspro diverbio, Auron aveva suggerito con particolare
sentimento di sistemarsi ai limiti dell'accampamento, non troppo
lontano dalla
vegetazione. Spesso guardava la foresta con aria afflitta: il desiderio
di
fuggire tra le fronde era forte.
Tuttavia,
non c'era rifugio che potesse accoglierli. Tutto ciò che
potevano fare era
spazzolarsi i capelli, pulire le vesti e pensare al cibo. Se per Braska
e Jecht
la prima attività non era difficoltosa, per Auron era
questione di molti
minuti.
Jecht ebbe
l'improvvisa voglia di aiutarlo, ma non trovò il coraggio di
fare una simile
richiesta: si avvicinò, invece, per cercare il dialogo e
soddisfare le sue
domande.
«Ehi,
ragazzo» esordì timidamente, dopo qualche secondo
in cui era riuscito solo a
tenere lo sguardo fisso sui suoi capelli neri come
l’inchiostro.
«Cosa?»
«Potresti
spiegarmi cosa hai visto sulla mappa?» disse sedendosi
davanti a lui.
«Perché
lo
vuoi sapere?» chiese Auron infastidito.
«Perché
voglio capire che succede. Tanto ne abbiamo di tempo, hai i capelli
tutti
annodati».
Il monaco
osservò amareggiato la sua chioma sciolta sulla spalla, per
poi sospirare e
mettere da parte il pettine. Si guardò intorno alla ricerca
di qualcosa che
Jecht non riuscí a cogliere: Braska si avvicinò
interessato, porgendogli il
sacchetto contenente i gil, le monete di rame di Spira.
Auron
ringraziò, prese tre pezzi e li dispose uno accanto
all'altro, tutti con la
stessa faccia rivolta verso l'alto, la testa.
«Questa
al
centro è la fanteria. Hanno il compito di ingaggiare
frontalmente le scaglie di
Sin e attirarle in un solo punto. Queste ai lati rappresentano la
cavalleria:
hai visto il loro comandante qualche ora fa».
Jecht mise
la mano destra sul mento e annuì, concentrato sui movimenti
di Auron. Il monaco
tirò indietro la moneta centrale, portando in avanti quelle
laterali: le fece
avvicinare, per poi girare la loro faccia sulla croce.
L'atleta
sbattè le palpebre per qualche secondo, confuso sul
significato che Auron aveva
attribuito a quei gesti. Pensò attentamente alla reazione
furiosa del compagno
e, come colpito da un pugno nello stomaco, capì cosa quella
strategia
comportava.
Braska
distolse lo sguardo, riponendo le monete nel sacchetto di tela che
portava
sempre con sé. Jecht si massaggiò gli occhi con
due dita di una mano.
«Ragazzo…
io avrei fatto lo stesso» disse con voce rauca.
Auron
riprese il pettine e tornò al suo intricato lavoro, ma
accennò appena un mezzo
sorriso.
Il profumo
invitante delle cibarie riempì il naso dei viaggiatori. Si
resero conto di
avere davvero fame, come se i pasti
che erano soliti consumare non fossero mai abbastanza per sopravvivere.
La tenda
del Grande Inquisitore era stata addobbata per l'occasione: dal tavolo
centrale
gli strumenti della strategia militare erano stati sgomberati per
lasciare
spazio a una raffinata tovaglia bianca, morbida come se
l’avessero appena
intessuta.
I
generali, sprovvisti di armatura, erano radunati vicino all'entrata e
discutevano dell'imminente battaglia. Tra loro, una meditabonda Hanna
notò i
tre viaggiatori e si avvicinò, presentando la riverenza. Lo
stesso fecero i
suoi compagni d'armi.
«Lei
non
discute di questioni militari, comandante?» chiese gentile
Braska.
«No,
mio
signore. Non stasera» rispose lei con amarezza.
«Immagino
voglia rilassarsi almeno per oggi».
Jecht
colse immediatamente le parole di Braska: probabilmente, quella sarebbe
stata
l'ultima notte di Hanna.
Si
guardò
intorno: gli alti papaveri dell'esercito non erano molto più
vecchi di lui,
anzi, alcuni sembravano avere l'età di Auron.
Immaginò per un istante il
compagno al loro posto, trucidato sul campo di battaglia: gli
mancò un battito
che gli fece passare la fame.
«Mantieni
la calma» sussurrò il monaco.
«È
così
evidente? Ah… non so come tu ci riesca».
«Non
ci
riesco, infatti. È solo che lo nascondo meglio»
disse grave, per poi prendere
posto al desco alla destra di Braska.
Fece segno
a Jecht si sedersi accanto a lui: non se lo fece ripetere due volte.
Era la
prima volta che lui e il monaco mangiavano allo stesso tavolo, si
trovò a
pensare l'atleta.
Il Grande
Inquisitore non si fece attendere: entrò nella tenda con
fare teatrale,
accompagnato dalle reverenze di tutti i presenti, per poi sedersi a
capotavola
come si confaceva al suo rango.
Braska lo
accolse con un gran sorriso, ma il fratello non lo degnò di
uno sguardo.
L'Invocatore abbassò gli occhi sulle proprie ginocchia,
sospirando: ciò non
passò inosservato agli occhi dei due Guardiani, dai quali
sembravano in
procinto di divampare fuoco e fiamme.
Jecht si
sporse verso Braska, ma si rese conto di non potergli parlare
apertamente:
l'Invocatore aveva ricevuto il posto d'onore alla destra del Grande
Inquisitore,
Alan avrebbe sentito tutto di certo. Come a voler rafforzare il
concetto, Auron
mise una mano sulla sua gamba e applicò pressione, come per
fermare i suoi
movimenti.
Almeno
c'è da mangiare, si
trovò a pensare l’atleta.
Alan fece
un segno ad alcuni soldati semplici, sull'attenti e posizionati lungo
il
perimetro della tenda: sparirono nel giro di un secondo, per poi
tornare con
grosse marmitte piene di stufato.
I
commensali furono serviti con celerità. Jecht
guardò il suo piatto ricco di
carne e gli venne un gran languore: la compagnia era pessima, ma il
cibo era
davvero invitante.
«Miei
cari
ospiti, assisteremo a un doloroso giorno. Tuttavia, questa sera
accantoniamo i
cupi pensieri e mangiamo in abbondanza» disse Alan a braccia
aperte.
Un gran
rumore di posate sostituì il chiacchiericcio, tutti troppo
intenti a gustare
quello squisito stufato. Jecht era solito mangiare carne a Zanarkand
per via
dei duri allenamenti, ma da come si gettavano sul cibo entusiasti,
ciò non era
lo stesso su Spira. Probabilmente era un alimento di lusso.
Nonostante
il disagio fosse evidente, l'atleta volse lo sguardo attorno a
sé: Auron e
Braska mangiavano ostentando tranquillità, mentre Alan aveva
qualcosa che lo
distingueva dagli altri.
Mentre gli
altri avevano un solo piatto, lui ne aveva allineati tre davanti a
sé. Il primo
era colmo di carne assieme a quelle che sembravano le ossa
dell'animale, il
secondo di verdure e il terzo di riso. Jecht aggrottò le
sopracciglia: il
Grande Inquisitore divorava ogni cosa in modo lento e metodico ma
costante,
come se non mangiasse da giorni interi ma volesse nasconderlo. Oppure
come se
volesse mostrare agli altri quant’era buono ciò
che stavano assaggiando, quello
che lui poteva avere finché avesse gradito.
C’era
un
rito in ciò che faceva: cominciando dal piatto
più a sinistra, prendeva tre
bocconi, poi due dal secondo e infine di nuovo tre, come se stesse
costruendo,
con numeri e gesti, una geometria sacra.
Il
rimuginare di Jecht fu interrotto dal piede di Auron che
colpì il suo con un
piccolo tocco: anche il monaco aveva visto tutto, ma lui stava
indugiando
troppo con gli occhi. Il campione di blitzball, allora, prese un grosso
pezzo
di carne e lo mangiò di gusto, ignorando il resto.
Il tempo
passò in fretta nel momento in cui decisero di pensare solo
al cibo. La cena
finì nel mormorio generale, accompagnata da complimenti per
l'ottima cucina e
per la magnanimità del Grande Inquisitore. Dopo gli ultimi
convenevoli, si
spostarono tutti verso l'esterno.
Le truppe
erano radunate nell’ampio spiazzo dove erano state piantate
le tende: migliaia
di uomini e donne, chi in armatura chi con i propri abiti da civile,
forse per
mantenere l’illusione per un'ultima notte, erano schierati
con lo sguardo
rivolto verso un unico punto. Il Grande Inquisitore, attorniato dai
generali
armati, uscì dalla tenda a passo lento e solenne. Al fuoco
delle torce, che gli
lanciava bagliori sugli zigomi, rispondeva il rifulgere del rubino
incastonato
sul suo petto.
Alan si
era fatto affiancare un’altra volta da Braska, in modo che i
guerrieri
ricevessero forza nel cuore nel vedere il potente Invocatore nella loro
schiera. Jecht, non appena vide la selva di occhi che nella penombra lo
fissavano, si sentì cogliere dall’ansia e strinse
la manica di Auron.
«Vuoi
andare dal loro lato?» gli domandò il monaco,
senza voltare su di lui lo
sguardo fisso sui soldati, ma anche senza traccia di disprezzo nella
voce.
Forse anche lui sentiva una pressione sul petto a trovarsi in quella
posizione
che, in fin dei conti, non gli apparteneva.
Jecht
annuì e, senza lasciare il braccio di Auron, si nascose
assieme a lui tra la
folla. Quel contatto lo rassicurava, come un’ancora che lo
tenesse saldo al
fondale.
Alan
avanzò, ben visibile non tanto per l’altezza
quanto per i paramenti che lo distinguevano
dagli altri. In mezzo all’esercito serpeggiava un mormorio
sommesso e timoroso
ma insistente, che subito cessò quando il Grande Inquisitore
alzò il braccio
destro, facendo con la mano un cenno per attirare
l’attenzione.
«Se
c’è
qualcuno tra di voi, soldati, che non approva il mio comando, ora
è libero di
fare un passo avanti e andarsene» cominciò, con la
voce profonda che scandiva
bene ogni parola. «Ma confido nel Gran Maestro Mika, e sono
certo che, mettendo
me a capo dell’Inquisizione e l’Inquisizione a capo
delle vostre truppe, egli
ha creato un sodalizio di uomini virtuosissimi».
Non solo,
all’interno del suo pubblico, nessuno si mosse o
fiatò, ma anche parve che la
natura – col vento tra le frasche e i pochi insetti che
osavano avventurarsi
sulle sponde ghiacciate – fosse rimasta immobile a osservare.
«Memori
delle vostre lotte, e di quelle dei vostri padri prima di voi, abbiamo
schierato l’esercito di fronte al nemico che viene dal mare.
E sebbene la lotta
contro Sin possa sembrarvi futile quanto lo scagliare una lancia tra le
onde,
dichiarando guerra all’Oceano, ricordate che contro la sua
progenie potete
vincere. Voi siete organizzati in schiere dove loro attaccano alla
cieca; voi
opponete corazze di metallo dove loro non hanno che pelle; voi avete il
coraggio, la disciplina e la benedizione di Yevon, quindi combattete
con
superiorità.
Se
morirete in questa battaglia, morirete per Spira; ma se tra voi
c’è qualcuno
che ha bisogno di rifugiarsi in un futuro incerto, ora è
libero di fare un passo
avanti e andarsene. Per quelli che rimarranno verrà la
gloria, sia essa in vita
o dopo la morte, nelle dorate distese dell’Oltremondo.
Poiché i presagi sono
tutti a nostro favore e al nostro fianco c’è un
Invocatore, il sole di domani,
allo zenit, illuminerà la nostra vittoria. E qualora
ciò non succedesse,
nessuno di noi proverà vergogna per la sconfitta.
Quale
disonore infatti può colpire il figlio di una donna o di un
uomo che ha
combattuto per la sua gente? Quale giudizio umano –
poiché nella mente del dio
neppure l’Inquisizione può vedere con chiarezza
– può condannare il sangue
versato per proteggere la sua terra?
Io ho
davanti voi, uomini di Bevelle, ho con me le vostre spade e
l’eone potente
dell’Invocatore, ho le braccia forti dei Guardiani che lo
sosterranno e gli
alti spiriti di tutti coloro che mi guardano. Crociati e cavalleria
ausiliaria,
sul vostro collo è calata la scure della scomunica: con la
polvere nera l'avete
ottenuta e con il bianco acciaio riscatterete il vostro nome.
Così vuole Yevon
che tutto vede e così la Corte Suprema sulla cui cattedra
siedo.
Se
c’è
qualcuno tra di voi che non approva, ora è libero di fare un
passo avanti e
andarsene; chi rimane combatterà al mio fianco, e illustre
sarà il suo nome su
Spira».
Un’unica
voce, di uomo e di donna assieme, si levò verso il cielo, i
soldati
rumoreggiarono e batterono le armi sugli scudi. Jecht si rese conto che
sino a
quel momento i suoi occhi erano stati fissi solo su Alan, la sua mente
rivolta
verso il discorso in modo da ascoltarlo con devozione completa.
Spostò
lo
sguardo verso Auron, e lo vide stringere i denti con tanta forza che
gli parve
di sentirli scricchiolare, nonostante il gran rumore.
«Ha
parlato bene» ammise il monaco. L’Inquisitore
davanti a loro sorrideva alla
folla, i generali lo avevano attorniato ed erano pronti a difenderlo.
Rappresentavano in quel momento, più che una vera guardia
del corpo, uno
sfoggio di potere che Auron non riusciva a sostenere.
Quando
guardò verso il basso, rivide le armate in miniatura sulla
mappa di Alan,
immaginò la carta pian piano tingersi del cremisi del sangue
versato.
«Vai
ai
corvi, Alan» mormorò, in modo che solo Jecht
riuscisse a sentirlo.
Nonostante
i suoi compagni di viaggio desiderassero la sua compagnia, e gli si
fossero
stretti attorno come cuccioli alla madre, Braska aveva sentito la
necessità di
andare a parlare con il fratello. Non sapeva quale fosse la speranza
che gli
risiedeva nel cuore, e nemmeno era certo che la parola fratello
significasse ancora qualcosa per Alan, ma lo stesso
costeggiò gli arbusti oltre all’accampamento,
lasciandosi pungere la mano dalle
spine.
Le fratte
si scossero, rivelando la presenza di qualcuno. Alan era al limitare
della zona
illuminata dalle torce e, non appena si accorse della presenza del
fratello, si
ricompose e avanzò, come entrando in un cerchio sacro che lo
proteggesse dalla
notte.
Braska
notò
che non aveva più il copricapo da Grande Inquisitore e i
suoi capelli, di cui
si faceva vanto quand’era più giovane, erano
intrecciati stretti sul capo in
una bella acconciatura.
«Fratello»
lo salutò Alan. Per schiarirsi la voce, portò il
pugno chiuso davanti alle
labbra e subito strinse tra i denti il bastoncino di liquirizia che
aveva tra
le dita. «Non parliamo così tanto da quando mamma
faceva il pranzo della
domenica».
Si era
tolto anche i guanti e, sebbene a fatica, sulla sua mano destra si
scorgevano
calli e segni di morsi all’altezza delle nocche.
Braska
socchiuse le labbra e fece per parlare, ma un gesto
dell’Inquisitore lo fermò.
«Se
ciò
che hai nell’animo somiglia a ciò che mi ha detto
il tuo Guardiano, sappi che
posso ammirare la vostra virtù, ma non condividere il vostro
pensiero» disse,
senza distogliere da lui gli occhi che sembravano lucidi.
«Anche Auron sa che
vincerò la battaglia così».
Braska
annuì.
«Fammi
avanzare con la fanteria» gli domandò.
«Mi rendo conto che quello sia il modo
migliore per usare le truppe che hai, ma posso evocare Bahamut prima
della
carica».
Alan
inarcò le sopracciglia e sporse in avanti il labbro
inferiore, simulando
un’espressione ammirata. Poi si pulì la bocca da
una scheggia di legno con il
dorso della mano.
«Come
desideri. Sembra che tu riponga molta fiducia nei tuoi Guardiani.
È strano,
agli Invocatori Supremi ne è bastato sempre e solo uno:
Yunalesca, Gandof,
Ohalland e Yocun… ne hai anche uno preferito, come i
genitori con i
figlioletti?»
Braska non
replicò alla provocazione.
«Il
mio
corpo non è resistente, ma il mio cuore è forte,
tanto che voglio unirmi alla
tua schiera. Valuta quello che ti dico».
Alan
annuì
e, con un movimento ondeggiante, calciò via un ciottolo che
rimbalzò sul
terreno ghiacciato.
«L’ho
già
fatto» gli disse, allontanandosi, «l’ho
già fatto».
Braska
sollevò lo sguardo: non se n’era nemmeno accorto
ma, mentre parlavano, il
fratello lo aveva condotto al centro dell’accampamento.
D’istinto cercò la sua
tenda e nella penombra vide Auron seduto davanti a un piccolo
falò, e Jecht in
piedi che gli si avvicinava. Un sorriso gli attraversò le
labbra.
«Alan»
chiamò. Il fratello si girò con
un’espressione interdetta, che diventò di vera
confusione quando Braska lo prese sottobraccio. L’Inquisitore
si irrigidì: da
molto tempo nessuno provava a stabilire un contatto di quel tipo con
lui.
«Sì?»
ribatté, cercando di mantenere un tono di voce neutro. Suo
fratello aveva un
viso dolce e accorato allo stesso tempo.
«Vorrei
parlare ancora con te, per favore».
«Guarda
un
po’» esordì Jecht, indicando verso
Braska che si era attaccato al braccio di
Alan. «E pensare che a me mette i brividi, quel
tipo».
Auron
alzò
lo sguardo verso di lui senza nessun commento. Si limitò a
spegnere la
sigaretta a terra, rigirandola, per poi estrarne una seconda dal
pacchetto e
premere sulla rotella dell’accendino. Il piccolo schiocco
risuonò nella notte,
ma la fiammella si spense subito, forse timorosa del confronto con il
fuoco che
le stava davanti.
«Non
credi
di star esagerando con quelle?» disse Jecht in tono
preoccupato.
«Ognuno
ha
il suo vizio» rispose il monaco, accendendo la sigaretta.
«Fumo quando sono
nervoso».
«Dopo
quella cena infernale, è comprensibile. Molto meglio fare a
fette mostri».
Auron lo
guardò in tralice e soffiò fuori il fumo dalle
narici.
«Hai
paura» disse, senza nemmeno provare a far assumere alla frase
un tono
interrogativo. Poi alzò il viso verso Jecht. La luce del
fuoco giocava con le
ombre sui suoi lineamenti decisi, sfiorandogli il profilo come le dita
di una
madre. Un color arancio acceso si rispecchiava nella sua pupilla, per
poi
mischiarsi con l’iride ambrata.
L’atleta
riuscì a distogliere lo sguardo, che era rimasto ingabbiato
tra le sue ciglia.
Si sedette al suo fianco.
«Sì,
ho
paura. Non ho capito contro cosa combatteremo, ma domani
sarà un massacro, e…
insomma, non ho mai visto morire nessuno».
Auron
annuì, sbuffando fumo come uno dei mostri elementali che
abitavano Spira. La
morte era sempre stata presente nella sua vita, ma nemmeno lui aveva
mai
combattuto al fronte.
«Tieni»
gli disse, porgendogli la sua fiasca. Jecht lo guardò a
occhi sgranati, e lui
fu rapido a precisare: «Un sorso. Non di
più».
L’atleta
non se lo fece ripetere due volte e attaccò con impeto le
labbra alla
bottiglia. Il liquore, di cui non sentì alcun sapore oltre a
quello bruciante
dell’alcol, gli infiammò il ventre. Rapido come
gli aveva promesso, Auron gli
tolse la fiasca dalle mani.
«Sei
un
uomo di parola» gli disse Jecht, cercando di alleviare il
peso che gravava
sulle loro spalle.
L’altro
piegò le labbra nel primo sorriso da quando si erano
conosciuti e prese un
sorso. Jecht rimase immobile, colpito da una freccia ancora prima che
iniziasse
la battaglia.
Auron
alzò
la mano destra, riluttante, come se fosse indeciso se andare fino in
fondo o
meno, ma si accorse di volerlo fare. La poggiò sulla spalla
nuda di Jecht,
cercando di offrire il suo goffo conforto. La sua pelle era caldissima,
notò.
Per Jecht,
invece, il mondo si era sospeso.
La mano di
Auron stava scendendo piano verso l’incavo del suo gomito: il
suo tocco era
leggero, come se non fosse abituata a stringere la spada. Jecht
socchiuse gli
occhi e con un sospiro si lasciò stringere al suo petto,
come per farsi tenere
al caldo. Inspirò l’odore delle braci e quel
profumo di spezie che continuava a
tormentargli l’animo, riversandovi domande a cui non voleva
pensare.
Il
guerriero lo accarezzava piano sulla scapola, e lentamente le sue dita
arrivarono a sfiorargli le clavicole, il collo e la linea della
mascella. Jecht
serrò gli occhi, con un brivido sottile sotto la pelle e la
testa che girava.
Il poco alcool che aveva bevuto non avrebbe mai potuto causargli un
capogiro
tanto insistente.
Con il
petto oppresso dall’ansia, si abbandonò
all’abbraccio dell’altro, lasciò che lo
attirasse verso di sé, la mano che cercava di sollevargli il
mento. Jecht
combatté contro la nebbia dei suoi sensi, raggiunse le
labbra di Auron a cui il
liquore aveva dato sapore di miele. Le sfiorò con dolcezza
prima di farsi
avanti, timoroso che Auron non gradisse quel contatto e lo aggredisse
come un
lupo.
Il bacio
che desiderava arrivò famelico e disperato. Auron lo strinse
con la forza delle
spire di un serpente; Jecht chiuse gli occhi e si abbandonò
a lui. Le sue dita
cercavano di stringere il più possibile i lembi del cappotto
del monaco, come
se fosse l’unica cosa in grado di trattenere la sua anima su
Spira.
Non
voleva, non voleva trasformarsi in un luniolo e volare via.
Jecht
serrò i pugni ancora, trafitto dalla dolorosa passione, li
strinse tanto da
conficcare le unghie sui palmi vuoti.
Una
flebile luce entrò attraverso la tenda quando
l’ingresso venne scostato. Lui
socchiuse gli occhi, coricato a terra nel buio. C’era Auron
con lui, ma era –
come lo era sempre stato – troppo lontano, irraggiungibile
anche tendendo le
braccia. Fantasie come quella in cui si era perso erano più
dolorose dei sogni
di cui poteva tacere al mattino.
Il monaco
gli dava la schiena, e davanti al fuoco, prima di suggerirgli di
dormire, non aveva
fatto altro che posargli una mano sulla spalla. Aveva tentato di
calmarlo da
un’armata che cingeva d’assalto anche il suo stesso
cuore, spezzandogli il
respiro.
Jecht
non
avrebbe potuto sperare di avere di più nemmeno
nell’ultima notte della sua
vita.
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Capitolo 15 *** Libertà ***
CAPITOLO 12:
LIBERTA’
Il muggito
dei corni squarciò l’aria immobile così
come il sole nascente tagliava le nubi.
Il colore del cielo era una profezia di sangue venturo.
Auron
spostò lo sguardo verso Jecht: il suo compagno di viaggio
non aveva dormito,
quella notte, lo aveva sentito dai suoi respiri irregolari che si
intervallavano a faticosi sospiri. Lui stesso non era riuscito ad
abbandonarsi
al sonno: aveva meditato, sentendo lontana e irriconoscibile la voce di
Yevon,
cercando di cancellare la propria presenza dal mondo.
Ma al
posto dello stato di grazia che aveva desiderato erano giunte le
domande, i
dubbi sulla virtù delle proprie azioni, il suo cercare il
dio in luoghi dove
forse non avrebbe dovuto nemmeno essere pronunciato il suo nome. Come
poteva
esserci una santa guerra o una santa distruzione? Non avrebbero dovuto
piuttosto accettare la punizione di Yevon e piegarsi senza combattere
al
flagello che veniva dal mare? Esisteva, ne era sicuro, una santa morte.
Auron si
posò sulle ginocchia la spada: era più pesante
del solito. Attirato dal rumore
di ornamenti di ferro che, mossi dal vento, tintinnavano
l’uno contro l’altro,
sollevò gli occhi verso le insegne. Le portavano due uomini
con mantelli rossi,
e su ognuna di esse spiccava il simbolo dell’Inquisizione,
cosicché in ogni
momento i soldati potessero sapere dov’era chi li guidava.
Alan
incontrò e sostenne il suo sguardo. Al centro dei suoi
uomini, circondato da quella
stessa aura di sacralità che disprezzava, stava parlando con
Braska. Poche
posizioni oltre, un ragazzo di neanche diciott’anni stringeva
uno scudo a torre
troppo pesante per lui, la testa nascosta da un elmo troppo grande.
Auron
guardò avanti, oltre la selva di lance, quando i corni
squillarono una seconda
volta: due segnali brevi e uno lungo annunciavano che il nemico stava
arrivando.
La
superficie del lago era increspata come se ribollisse di vita propria.
I
guerrieri giurarono di aver visto il dorso della balena fare capolino
alla luce
del sole, per poi immergersi di nuovo nelle profondità.
All'improvviso,
l'acqua già mossa divenne un turbinio agitato dal quale si
poteva udire un
ronzio acutissimo. Dal lago, come da un nido di vespe, emersero
centinaia di
Scaglie di Sin.
Come gli
insetti avevano le ali, ritte e forti sulla schiena scanalata, ma
quattro zampe
chitinose tenevano i loro corpi in equilibrio sul terreno ghiacciato.
Le loro
fauci orrende si aprivano in una morsa che prometteva l’aspra
morte, non
vedevano con occhi ma con scaglie attorno al capo.
«Ma
che
diavolo…» esclamò Jecht trattenendo un
singulto.
Nel
silenzio, si innalzò l’urlo fiero di un uomo: un
soldato che reggeva il simbolo
dell’occhio di Yevon piantato su un’asta corse
contro il nemico a spada
sguainata. Immediatamente
fu supportato
dagli scudi degli altri.
Auron si
guardò intorno, spaesato nell’assistere con i
propri occhi a una scena che
aveva solo studiato nei libri.
Le Scaglie
di Sin si scontrarono con i soldati come due cervi che
s’incornano l’un
l’altro. I fanti le respingevano con l’impatto
terribile dei loro scudi, le
rimandavano indietro e venivano a loro volta colpiti. Nella piana dove
già
erano scesi in migliaia, Auron vide strani arti frustare gli elmi e far
tentennare
i soldati, schizzi di sangue mischiarsi ai lunioli leggeri.
Un altro
squillo, proveniente da un punto molto vicino a lui, li
informò che i nemici
avevano fatto breccia nelle fila. I soldati davanti a lui brulicavano;
qualcuno
di loro cadde come un fiore reciso, colpito al viso da spine e al
ventre da
sferze.
Auron
distolse gli occhi quando vide la seconda fila avanzare come una
mandria di
elefanti, schiacciando coloro che erano a terra. Uno degli uomini che
reggevano
le insegne trafisse una Scaglia con l’estremità
inferiore dell’asta, acuminata
come una lancia.
«Proteggete
l’Invocatore!» gridò.
Auron non
aveva bisogno di sentirselo dire: aveva avuto paura, ma ora
l’impeto della
battaglia lo trascinava con forza. Il suo braccio sapeva cosa doveva
fare, il
suo animo per cosa doveva morire.
Il mare,
quasi per ricordare la sua presenza, ruggì. Una creatura
enorme, piegata su se
stessa, attirava le Scaglie come la terra chiama a sé
ciò che pesa. Le sue
braccia si spalancarono, il corpo di scolopendra levò al
cielo uno stridio
orrendo che respinse i guerrieri della prima linea, gettandoli a terra
dove
vennero dilaniati dai mostri più piccoli.
Impugnato
a due mani lo spadone, il monaco tagliò in due una Scaglia
che gli era saltata
addosso, e spanse i lunioli tutt’attorno. Il cuore nel petto
gli batteva come
un tamburo, tuttavia lo distrasse il modo in cui alcune delle luci non
salissero verso il cielo, ma si dirigessero alle sue spalle.
Dimentico
delle regole che governavano la battaglia, si voltò e vide
Alan accanto al
fratello: erano ancora illesi grazie alle loro guardie.
L’Inquisitore stringeva
nella mano destra la catena del turibolo, che stava assorbendo i
lunioli. Con
la sinistra, fece cenno di suonare l’avanzata solo per il
proprio manipolo.
Si gettarono
dritti tra le fauci delle Scaglie, verso il mostro che torreggiava come
il
Gagazet, e Auron d’un tratto si ricordò dove si
trovava.
Si rese
conto di non essere ben concentrato, dato che troppi erano i fronti a
cui
puntare la spada. Braska doveva essere la priorità assoluta
della sua guardia,
ma Jecht non aveva esperienza sufficiente per destreggiarsi tra le orde
nemiche
senza finire ucciso.
Schivò
una
Scaglia e ne mozzò le zampe, ma i suoi occhi non si posavano
mai a lungo sul
nemico che stava combattendo. Respinse col piatto della spada gli
artigli di un
nemico che aveva puntato Braska, anche se quest'ultimo si era preparato
ad
affrontarla con una barriera magica.
Il monaco
iniziò a sentire la testa girare. Un grido soffocato lo fece
voltare di scatto:
Jecht aveva provato l'affondo trovando la carne resistente di un
mostro, e lo
aveva abbattuto con furia.
Tirò
un
sospiro di sollievo: se la stava cavando discretamente,
pensò. La sua lucidità,
tuttavia, aveva iniziato a vacillare: una Scaglia si
impigliò nel lembo del suo
cappotto con uno spuntone, trascinando con sé Auron sulla
fredda terra intrisa
di sangue. Il monaco lasciò la presa sulla spada, in modo
tale da non ferirsi.
Le sue
grida allarmarono Jecht, che assistette alla scena con la morte nel
cuore. Si
lanciò a capofitto verso il mostro, forte e con movimento
rapido. Tuttavia, non
era veloce abbastanza.
Braska
strinse i denti e avvolse l'atleta con una magia che richiedeva molta
fatica,
donandogli la capacità di correre come il vento che soffia.
Jecht raggiunse la
Scaglia e spezzò di netto l'estremità che teneva
ancorato l'indumento del
monaco. La creatura fuggì via, attirata da prede
più interessanti.
Auron
lamentò dolore diffuso, ma non era in pericolo di vita.
Jecht si voltò verso di
lui, squadrandolo da capo a piedi per accertarsi delle sue condizioni.
«Stai
bene?» gli gridò con voce accorata.
«S-sì,
non
preoccuparti!» rispose Auron, cercando di rimettersi in
piedi. Le contusioni al
torace lo fecero tossire.
Jecht si
piazzò davanti a lui ergendosi in tutta la sua altezza:
avrebbe respinto con
impeto qualunque cosa si fosse avvicinata.
«Ci
sei?»
chiese col cuore in gola.
«Sì,
non
distrarti!»
«Coraggio,
monachello».
Auron si
vide soffocato dai corpi in movimento della fanteria: ognuno combatteva
per la
propria vita, cadere a terra significava morte certa. Lo avrebbero
ucciso con
la spada in mano, a protezione dei suoi compagni, e mai schiacciato al
suolo
come un insetto.
Jecht
stava rischiando tantissimo in quella posizione, esposto a ogni tipo di
attacco: lasciare Braska da solo andava contro ogni principio, ma
vedere
l'atleta così determinato fece stare meglio il monaco.
Se la
può cavare,
pensò.
Il duro
addestramento tese la mano al giovane, come il maestro che guida
l'allievo:
Auron iniziò a praticare le tecniche di respirazione utili
per abbattere il
dolore, per poi stringere i denti e alzarsi ritto sulle gambe, non
senza
soffocare un lamento.
«Jecht,
la
mia spada!» urlò Auron per sovrastare il clamore
della battaglia.
«È
qui
vicino! Andiamo!»
Il monaco
appoggiò la mano sulla sua scapola e gli intimò
di avanzare, posizionandosi
quanto più vicino possibile alla sua schiena imperlata di
sudore: se si fossero
separati, le possibilità di sopravvivere sarebbero state
minime.
Farsi
largo in quel mare di lame era arduo, ma ancor di più lo era
ignorare i soldati
urlanti e il sangue viscoso a terra. Una spallata involontaria di un
anonimo
guerriero colpì Jecht, facendolo barcollare di lato: Auron
lo afferrò per le
spalle e lo rimise dritto, per poi incitarlo a continuare. Il monaco
non poteva
vederlo in volto, ma sentì una sua colorita imprecazione.
L'uomo di
Zanarkand non aveva una chiara percezione della sua posizione sul campo
di
battaglia. Si guardava intorno di continuo e, allo stesso tempo,
prestava
attenzione alla terra che calpestava. Nonostante l'arma fosse in vista,
recuperarla si rivelò eun'impresa non facile.
Jecht
usò
il piatto della sua spada per farsi largo, lasciando spazio sufficiente
al
compagno per piegare le gambe e afferrare l'elsa. Una gomitata
colpì Auron in
pieno sulla guancia, ma si impose di non vacillare.
Tornati
entrambi all’erta, volsero gli occhi all’insegna
sotto la quale si trovava
Braska e si incamminarono: dovevano ricongiungersi alla guardia del
loro
Invocatore.
Braska
aveva giunto le mani in preghiera: una flebile luce, che feriva gli
occhi sotto
il cielo livido, si dipartì da lui come i raggi dal cuore
del sole.
Volse gli
occhi verso il fratello, e non gli servì dire nulla. Il fumo
dell’incenso li
aveva già attorniati, aveva già preso forma di
bestia e aveva fatto spalancare
le bocche dei soldati vicini.
Alan
diresse la creatura verso il nemico più grande, ignorando le
Scaglie minori
come orbettini in un nido di vipere.
Auron si
vide immerso nella nebbia, sentì un ruggito tutto intorno a
sé e un corpo che,
mutando e crescendo con i lunioli che assorbiva, era ancora intangibile.
Diventò
reale, una lince con due grandi zanne, quando affondò le
zampe anteriori su due
Scaglie, schiacciandole senza difficoltà. Ruggì
diretta alla sua preda, e il
mostro le rispose con un grido ferale.
Il felino
gli fu addosso, le sue unghie che erano state di fumo cercarono di
lacerargli
la corazza. Riuscirono solo a tranciargli di netto un braccio, che
cadde sopra
le progenie di Sin, decimandone le fila.
La Scaglia
maggiore, agitandosi come il cinghiale ferito che ancora resiste, fece
addensare le nubi e chiamò una catena di fulmini. Mentre
alcuni colpirono la
lince, che vide pezzi del suo corpo andare in fumo e altri sgretolarsi
in
lunioli innumerevoli, altri invece si infransero sui soldati dalle
armature di
metallo.
La testa
della Scaglia cominciò a muoversi frenetica, e un liquido
verde fu rigettato
sulla creatura di Alan. Lei ruggì, levando al cielo
l’ultimo boato e affondando
su carne tenera, per l’ultima volta, le zanne.
Un secondo
verso le rispose, prima che il vento la portasse via. Auron non aveva
mai udito
nelle pianure di Spira un richiamo così potente,
né Sin nel mare aveva mai
urlato con tanta forza; le tigri d’oro di Zanarkand, che
erano il più terribile
degli animali, non avevano mai scosso tanto la terra.
Nonostante
la vista offuscata dalla nebbia residua, i colori sgargianti dell'eone
evocato
da Braska spiccavano come gemme.
Il drago
Bahamut si ergeva imponente sulle zampe posteriori, grande tre volte un
uomo.
Teneva gli arti superiori incrociati sul petto squamoso e gli occhi
bianchi
puntati sui nemici: sembrava che provasse sdegno per i piccoli esseri
che lo
circondavano.
Le Scaglie
emisero dei versi acuti alla sua vista, forse spaventate dai colori
minacciosi
del drago. Il suo corpo era del colore della notte illuminata dal
Fluvilunio di
stelle, mentre i suoi artigli e il ventre scintillavano d'oro,
così come il
cerchio sacro che ruotava dietro la sua schiena.
Le ampie
ali erano coperte da strati di piume, dalle sfumature che andavano dal
rosso
rubino al fucsia e poi di nuovo al rosso sanguigno; delle scaglie
appuntite
emergevano dalle loro estremità.
Jecht
guardava la bestia con occhi strabuzzati. Nemmeno Auron aveva mai visto
l'eone
di Bevelle, nonostante le preghiere che cantava parlassero della sua
forza.
Toglieva il fiato: la sua sola presenza schiacciava il torace.
Braska
aveva l'aria esausta, ma brillava anche di determinazione:
puntò lo scettro
verso le Scaglie e urlò qualcosa a Bahamut, che
districò le zampe anteriori e
ruggì con furia.
Le fauci
dell'eone si spalancarano, e una luce bianchissima iniziò ad
aumentare di
intensità tra le sue zanne. Il drago tirò
indietro il collo, come inghiottendo
la sfera d’energia prima di vomitarla. Emise un raggio contro
la Scaglia più
grande, bruciandole il secondo braccio e lasciandole il segno
dell’ustione
sull’addome.
I soldati
esultarono dopo il magnifico attacco del drago: li spinse a lottare con
più
foga e rinnovata forza d'animo.
Braska,
piegato dallo sforzo, fu costretto a ritirare l’eone,
affinché il legame non
logorasse la sua anima e lo lasciasse immobile a terra. Il fumo dal
turibolo di
Alan si raddensò di nuovo, si trasformò in un
giavellotto che fu scagliato con
precisione tra le fauci del mostro. Quello urlò e si
dibatté, come uno squalo
trafitto dall’arpione ricurvo, ma infine crollò su
se stesso e si dissolse, portato
via dal vento come se non fosse mai esistito.
La pianura
gelata sospirò, esalando al cielo il vapore caldo del
sangue. Il silenzio durò
solo un attimo: subito infatti il corno suonò di nuovo e
l’Inquisitore ordinò
la ritirata. I fanti si ritirarono prima che la seconda orda di Scaglie
uscisse
dal mare; le fila retrocedettero tutte e lasciarono spazio alla carica
dei
cavalieri, che chiusero l’esercito nemico ai lati.
Auron vide
lampi gialli davanti agli occhi, sentì le zampe rinforzate
dal ferro dei chocobo
che, come tanti tamburi, scandivano il ritmo della corsa.
L’impatto
tra le Scaglie, ormai più grandi e più
resistenti, e le cavalcature da
combattimento fu improvviso e – cosa che mai si sarebbe
aspettato – avvenne
senza troppo rumore.
Da
lontano, li guardò scontrarsi nella pianura, vide che ognuno
dei suoi che
cadeva si portava dietro due nemici.
Accanto al
lago, quando la nube di lunioli si fu dispersa, non rimasero altro che
corpi
distesi a terra con gli arti piegati in posizioni innaturali
– uomini che
nemmeno se legati dai fili di un miracolo si sarebbero rialzati
– scagliati
lontano dai loro chocobo.
Auron,
dall’altura su cui si erano ritirati, contemplò il
silenzio della strage subito
dopo la tempesta, sentì sulla pelle il vento che sollevava
solo, delicatamente,
il lembo di un’insegna arrossata a terra. Si
riempì le narici dell’odore del
sangue e si volse verso Alan.
Sapevo che vi
avrei assistito, ma
non ero pronto a vederlo,
pensò, osservando i suoi lineamenti che non venivano mossi
da pietà o
compassione, i suoi occhi celati in parte dal velo con cui terminava il
copricapo che indossava.
Jecht,
stravolto,
fece un passo verso l’Inquisitore come per cercare il corpo a
corpo. Auron
scattò per fermarlo, ma le energie dell’atleta
finirono prima che arrivasse al
suo obiettivo. Si lasciò cadere debolmente e fu sostenuto
dalle braccia del
monaco.
Alan lo
fissò per qualche istante e poi sorrise al fratello: il
bagliore dei suoi denti
rifulse sotto le labbra, bianco come la neve di Macalania.
«Mio
amato
Braska» esordì, con le braccia aperte.
«Danzerai il Rito del Trapasso per
celebrare la nostra vittoria?»
Auron
aggrottò le sopracciglia: gli era parso di sentire una
strana nota nella sua
voce. La sua attenzione, però, si rivolse di nuovo a Jecht
che sembrava volersi
aggrappare a lui, lasciata a terra la spada.
L’Invocatore
ricambiò il sorriso, mesto, gli occhi ancora sui cadaveri a
terra. Poi li alzò
su Alan.
«Li
guiderò all’Oltremondo, ma tu riporta alle loro
tende i soldati: è pericoloso
farli stare qui quando Sin potrebbe tornare in qualsiasi
momento».
L’Inquisitore
si portò una mano al mento, prima di dare il segnale con un
cenno distratto
della mano. Un ragazzino biondo scattò
sull’attenti e corse tra le fila, che
presto presero a rompersi e rumoreggiare.
«Non
sei
contento?» domandò Alan al fratello.
«L’attacco è stato contenuto: con la
vita
d’un pugno di eroi abbiamo sventato il male maggiore. Non
è forse questo che
fate anche tu e i tuoi Guardiani?»
Braska si
era avviato verso le sponde del lago, ma si voltò indietro e
rispose:
«Quindi
credi che un solo giorno, in questo modo, abbia decretato il destino
del
mondo?»
Braska
danzava sopra la terra arrossata dalla strage. Dopo il clamore, si
muoveva in
mezzo a un silenzio in cui lo stormire delle frasche era forte come un
tuono.
Ogni passo
era un brivido lungo la schiena, e più di una volta aveva
dovuto sopprimere un
conato: il sentore metallico del sangue in bocca era un incubo che non
desiderava più vivere.
Tuttavia,
quello era il suo dovere. Era suo dovere danzare con la morte, era suo
dovere
guidare quelle piccole luci verso la pace eterna.
Auron
guardò i lunioli dipartirsi dal suolo, inginocchiato di
fianco alla sua spada.
Aveva smesso di pregare e fissava il campo di battaglia davanti a
sé,
stupendosi di come nessuno più respirasse nello stesso luogo
dove prima aveva
gridato.
Quando si
accorse di stare battendo i denti, serrò la mascella. Una
voce lo stava
chiamando, ed era più vicina di quella di Yevon,
più dolce, più disperata.
«Ehi,
ragazzo...»
Auron
voltò lo sguardo verso Jecht. Era seduto a gambe incrociate,
al suo fianco.
Anche lui guardava i lunioli, ma il suo viso aveva
un’espressione smarrita. La
sua mano, sollevata da terra, tremava leggermente.
L’uomo
di
Zanarkand sembrò sul punto di continuare la frase, ma si
interruppe
all’improvviso. Non riusciva a distogliere lo sguardo dai
corpi a terra, dalla
bellezza aliena dei movimenti di Braska.
Qualche
mese prima, Auron avrebbe liquidato la debolezza di Jecht con un non ha fede abbastanza. Lui non credeva
abbastanza, non pregava abbastanza, non somigliava abbastanza agli
altri. Però
tutti erano stati resi simili dalla guerra: erano distesi a terra, chi
aveva
gradi sull’uniforme era come chi non li aveva, chi aveva il
viso dilaniato e la
bocca digrignata era come chi era spirato senza una smorfia di dolore.
«Sono
morti» osservò Jecht. Auron lo sapeva, ma fu come
se quella rivelazione lo
colpisse solo in quel momento.
Mentre
pregavano assieme, Braska gli aveva spiegato ciò che aveva
provato quando,
piegato dalla malattia, si era trovato vicino all’Oltremondo.
Aveva parlato con
parole limpide quanto i suoi occhi, eppure Auron non era stato in grado
di
capirlo. Il respiro strozzato in gola di Jecht, il suo sguardo vacuo,
il suo
tremare come una foglia gli furono invece subito chiari.
Scusa,
pensò, mentre gli si avvicinava,
Braska sarebbe di certo migliore di me.
Con
esitazione, gli posò una mano sulla schiena e lo
attirò a sé. Jecht non si
mosse, ancora scosso da tremiti, né diede segno di
comprendere cosa stesse
accadendo attorno a lui. Solo dopo qualche momento cercò di
ricambiare la sua
stretta, ma non riusciva ad alzare le braccia, affaticato dalla
battaglia e dal
panico.
Per la
prima volta, Auron si intenerì vedendolo. Non si era mai
paragonato ad altri,
ma si vide al posto suo, terrorizzato, senza nemmeno le forze di
maledire il
dio che gli aveva impedito il ritorno e gli aveva tolto la casa e il
figlio.
Lo strinse
a sé come avrebbe fatto con una vedova e, dopo un attimo di
tentennamento, gli
prese le mani. Jecht intrecciò le dita alle sue come se
stesse afferrando il
capo di una corda che lo avrebbe salvato dal baratro. Le strinse con
tutte le
forze che aveva, incurante delle ferite alle mani, gli tenne immobile
la destra
vittoriosa, come per impedirle di fare altra strage.
«Ho
capito
perché lo fa» disse Jecht. La sua voce era debole,
ma le sue parole erano
frenate solo dalla fatica di aver combattuto.
«Che
cosa?» domandò Auron, ma i suoi occhi, come se
già sapesse la risposta, erano
fissi su Braska che danzava, il bel corpo slanciato verso
l’alto come quello
dell’Invocatrice Yocun era ormai solo nelle statue.
Alcune
anime se ne stavano ancora tenacemente aggrappate ai corpi, non
volevano
andarsene neppure se i loro padroni erano morti, erano caduti nella
polvere e
dormivano sotto il cielo bianco di Macalania.
«Ho
capito
perché vuole rischiare la vita per sconfiggere
Sin».
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Capitolo 16 *** Amore Fraterno ***
CAPITOLO
13: AMORE FRATERNO
«Ehi,
principe dei ghiacci» chiamò la voce roca di
Jecht, seguita dallo strofinio del
suo corpo sulle lenzuola.
Auron,
steso sul letto vicino, gli dava le spalle. Si concesse, nel sentire
quel
nomignolo, un sorriso che l’altro non avrebbe visto.
«Sì?»
replicò, con tono secco. Condividere la stanza con Jecht
dopo una battaglia,
quando avrebbe avuto bisogno di stare con se stesso, non era la
migliore delle
eventualità.
«No,
niente, pensavo fossi morto. Non sentivo il solito vento freddo spirare
nella
mia direzione».
«Prova
ad
aprire la finestra».
Con un
sospiro, Jecht si tirò a sedere sul materasso, incrociando
le gambe. A
Zanarkand avrebbe sofferto come un leone in gabbia se fosse stato
costretto a
rimanere in una stanza in cui poteva solo dormire, ma su Spira
ringraziava la
sorte che gli aveva concesso quella pausa.
Si sporse
verso il vetro e vide le nubi infuocate e il fumo nero che saliva dalla
terra.
«Ma
che
succede?» domandò.
Auron si
voltò verso di lui e si mise anch’egli a sedere. I
capelli scompigliati gli
ricaddero sul petto e davanti al viso.
«Sono
le
pire» spiegò, scostandoseli dagli occhi.
«Bruciano i caduti».
Jecht fu
scosso da un brivido e fece una smorfia con la bocca. Auron fu tentato
di dire
qualcosa di gentile, ma la voce gli si bloccò in gola:
tormentato dai ricordi
del campo di battaglia, lo assalì l’imbarazzo.
Decise di rimanere in silenzio a
contemplare il fumo che veniva portato via dal vento.
L'umore
dei Guardiani migliorò quando Braska varcò la
soglia della loro stanza,
portando con sé delle caramelle e un gran sorriso. Jecht
osservò il sacchetto
di dolcetti che stringeva nella mano destra e ridacchiò: in
qualche modo,
l'Invocatore riusciva sempre a ottenere oggetti che prima di certo non
aveva.
«Vi
trovo
meglio, amici miei. Questi giorni di riposo erano proprio
necessari» disse
allegro, per poi allentare il laccio che teneva chiusa la tela. La
porse prima
ad Auron, che sospirò ma accettò il dono, poi a
Jecht.
L'atleta
non si fece pregare, ma nel momento in cui allungò il
braccio un dolore
fulminante lo costrinse a desistere. Braska lo osservò con
aria preoccupata,
poi prese una caramella e la avvicinò al suo volto: Jecht si
lamentò sbuffando,
ma aprì la bocca e gustò il dolce con aria beata.
«Ehi,
Braska.
Secondo te, tra quanto riuscirò a muovermi?»
chiese facendo sciogliere la
caramella sotto la lingua, punta dal sapore aspro e piacevole del
limone.
«A
essere
sincero, speravo di vedere miglioramenti maggiori. A volte dimentico
che non
sei abituato» rispose gentilmente l’Invocatore.
«Siamo
sicuri che non si sia inventato anche la storia del
blitzball?» intervenne
Auron, poi si voltò verso Jecht. «Non ti allenavi
otto ore al giorno?»
«Senti,
monachello, non sono abituato a fare sforzi del genere, capito? Vorrei
vedere
te a nuotare per tutta la durata di una partita».
«Non
ci
tengo».
«Certo
che
non ci tieni. Non hai il fisico da nuotatore»
commentò Jecht, squadrando Auron
da capo a piedi come se fosse la prima volta che lo vedeva. Le tuniche
che i
monaci di Macalania avevano dato loro gli lasciavano scoperte le spalle
e parte
dei polpacci: un abbigliamento forse un po’ troppo azzardato
per lui.
«Credo
che
entro tre giorni, quattro al massimo, ti sarai perfettamente
ristabilito»
intervenne Braska, cercando di sedare gli animi.«Nel
frattempo, potrò recarmi
al tempio e ricevere l’eone».
«È
vero
che è a forma di bella donna?» intervenne Jecht,
all’improvviso interessato.
Auron lo
fulminò con lo sguardo, mentre Braska coprì una
risata con la mano.
«Così
dicono, amico mio».
Presto si
congedò per ritirarsi in preghiera. Lasciò di
nuovo i suoi due Guardiani soli
nella stanza, immersi in un silenzio opprimente.
«Gli
uomini di Spira reggono la spada con la stessa facilità con
cui tu terresti una
bacchetta» commentò Auron dopo qualche secondo.
«Scusa
tanto, uomo di Spira»
replicò Jecht,
piccato. L’istinto lo portò a gesticolare ma le
sue braccia non si muovevano. «Dato
che sei così forte, vuoi imboccarmi tu la prossima volta?
Hai sentito Braska,
hai quattro giorni per farti avanti».
Il suo
compagno di viaggio non lo degnò di una risposta,
limitandosi a inarcare le
sopracciglia con fare minaccioso. Lui cercò una posizione
che gli risultasse
meno dolorosa possibile e infine si risolse a rimanere a gambe
incrociate, con
le mani in grembo e la schiena appoggiata al muro.
«Senti,
che cosa succede se un Non Trapassato si ritrova in mezzo a un Rito del
Trapasso?» chiese all’improvviso.
Auron,
confuso dal repentino cambio di argomento, impiegò qualche
istante per
comprendere la domanda.
«Scompare»
gli rispose infine.
«Anche
se
il rito non è diretto a lui?»
Auron si
prese di nuovo qualche secondo.
«Sì.
Perché me lo chiedi?»
Jecht si
guardò intorno con fare sospettoso, per poi abbassare la
voce e sporgersi verso
Auron.
«Quando
Braska ha svolto il Rito del Trapasso, Alan è rimasto nelle
retrovie a
guardare. Eppure, glielo aveva chiesto lui. So che potrebbero esserci
altre
spiegazioni, ma...»
S’interruppe
e Auron, interdetto, lo guardò con le sopracciglia
aggrottate.
«Conosco
la forza della gente di Spira» continuò
l’atleta, «ma come può un uomo
sopravvivere in alta montagna senza viveri per mesi? O la sua storia
è diversa
da come la raccontano, oppure non è vivo».
«Se
fosse
così, Braska lo avrebbe Trapassato: è nelle
nostre credenze il rispetto per i
morti».
Jecht si
lasciò sfuggire un sospiro nervoso e si passò le
dita sulle palpebre. Le
lenzuola dove era avvolto Auron svanirono assieme al resto, per solo un
istante. Riapparvero subito dopo in un lampo candido.
«Perché
è
suo fratello» ribatté. «E
l’amore a volte ci impedisce di lasciar andare».
I suoi
occhi si persero nel vuoto mentre ricordava lo sciabordare
dell’acqua da cui Tidus
raccoglieva il pallone; poi si spostarono sul viso del monaco. Il suo
viso
altero aveva una sfumatura, seppur impercettibile, di smarrimento. Era
come se
uno dei tasselli che costituivano il suo animo si fosse spostato.
Insisti, si disse
Jecht.
Auron si
alzò in piedi e camminò verso la finestra.
«Tutte
le
cose, su Spira, hanno un ordine» spiegò allo
straniero. «Come l’animale più
forte preda il più debole, o l’anemone cresce ai
piedi degli alberi, così anche
gli uomini sono soggetti alla legge della natura. I Maestri di Yevon,
tra cui
Alan, governano le città e le loro istituzioni,
però devono sottostare alla
legge divina e quindi accettare placidamente la morte. Così
ha deciso Yevon, e
chi gli è sacro gli obbedisce».
«E
in
principio tutto questo è molto logico»
continuò Jecht. Le sue ciglia scure
intrappolarono il raggio di sole penetrato dalla finestra, e un dolore
sottile
lo colpì alle tempie. «Ma sai, a Zanarkand avevamo
un re, e poi avevamo dei
templi dove la gente che ci credeva andava a pregare gli dei. I
sacerdoti
governavano i templi e il re la città».
Auron
aggrottò di nuovo la fronte.
«Perché?»
Prima di
rispondere, Jecht storse le labbra. Auron, a differenza di Braska, non
aveva
nemmeno il minimo sospetto che il clero potesse essere corrotto: era
difficile
per lui dubitare dell’istituzione che lo aveva cresciuto.
«Perché
quando la gente ha potere su altra gente fa di tutto per mantenerlo. E
più
grande e più egemonico è questo potere,
più chi lo detiene non vuole lasciarlo,
mettendo da parte qualsiasi tipo di virtù. Questo vale anche
per i Maestri di
Yevon: è più bello dominare i vivi che essere
un’ombra in un pugno d’ombre».
Il monaco
lo guardò con un’espressione enigmatica,
inclinando leggermente la testa di
lato. Qualche mese prima sarebbe andato su tutte le furie nel sentire
un
attacco del genere alla Chiesa, eppure in quel momento c’era
qualcosa che lo
fermava.
«Perché
mi
stai parlando in questo modo?» chiese all'improvviso. Jecht
rimase senza parole
per qualche istante prima di rispondere.
«Prima
di
combattere, al banchetto di Alan hai capito quando era meglio tacere e
quando
distogliere lo sguardo. Hai guardato delle miniature su un tavolo e hai
capito
la strategia di una battaglia: tu sei intelligente».
Auron non
rispose e puntò gli occhi verso il frammento di cielo
visibile dalla finestra.
Jecht scosse la testa e si sdraiò, senza provare delusione:
si era spinto dove
non sperava nemmeno, avrebbe ritentato in un secondo momento.
«La
tua è
una lunga strada, amato fratello».
I veli sul
ponte, gonfiati dal vento come vele nella tempesta, venivano spinti
contro
Alan, abbracciavano il suo corpo e poi se ne discostavano di nuovo.
Davanti a
loro era incagliata un’aeronave che non sarebbe mai
più partita. Il ghiaccio,
in parte annerito dai gas di scarico, la serrava nella sua fragile
tagliola. La
Chiesa di Yevon ne aveva arredato l’interno,
l’aveva reso un luogo sacro
ponendo nel naos la statua dell’Intercessore.
«Lunga
e
raggelante come il cuore di Shiva».
Braska lo
guardò avanzare per la strada parallela alla sua. I veli
erano tra loro,
impedivano ad ognuno dei due di avere una visione chiara
dell’altro, ma per
qualche motivo gli sembravano rassicuranti. Strinse le labbra, calde e
spaccate
dal freddo di Macalania.
Quando un
fiocco di neve spinto dalla tormenta lontana gli graffiò la
guancia,
l’Invocatore si accorse di stare osservando il tempio da
più di quanto
pensasse. Alan, percorso per intero il ponte, era già giunto
alla porta.
L'esperienza
avuta con l'eone Bahamut era stata più profonda di quanto
Braska avesse fatto
trasparire, e aveva lasciato un solco nella sua mente. Portò
la mano destra
sulla sua fronte e massaggiò con delicatezza: poteva giurare
di sentirlo
davvero, quel solco, sotto le dita.
Era
stanco, forse troppo. Da un lato nel suo petto ardeva, come fiammella
tiepida e
costante, il desiderio di andare avanti a discapito dei limiti del
proprio
corpo, dall’altro sapeva che l’anima di un vivo, da
sola, non può spostarsi di
luogo in luogo.
Era per
lui imprescindibile il fatto che i suoi polmoni non erano in grado di
sostenere
un ripetuto sforzo. Si voltò indietro, da dove era venuto:
la ragione gli
suggeriva di ascoltare le richieste dei suoi Guardiani e riposare
qualche
giorno in più, ma il pensiero del dovere lo spinse a fare un
passo avanti.
La
prossima volta, amici miei, si trovò a pensare, respirando a
fondo l'aria
gelida.
Far
attendere il Grande Inquisitore poteva essere considerato un oltraggio,
così
Braska si affrettò e lo raggiunse.
Dalla
sacca che portava con sé, Alan poi estrasse una pergamena di
pregiata fattura e
la spiegò con con cura.
«Questo
documento afferma che tu, Braska, nel terzo mese dell'anno
milleventisei, hai
dato il tuo contributo per aiutare l'Inquisizione. La tua posizione ne
beneficerà molto: ti consiglio di firmarla».
La
richiesta di Alan sembrava più un ordine alle orecchie di
Braska, ma
l'Invocatore accettò di buon grado: lo interpretò
come un gesto di affetto nei
suoi riguardi.
Una volta
apposta la firma, il Grande Inquisitore mise da parte il documento e
fece un
cenno soddisfatto con la testa.
«Ti
attende una dura prova, fratello. Va’, dunque: che
l'Intercessore ti conceda il
dono».
Alan
rivolse a Braska la riverenza, con un sorriso che poteva sembrare
canzonatorio
dipinto sul volto. La porta del tempio si spalancò e,
assieme a una ventata
d’aria calda, ne uscì un individuo ammantato.
I suoi
capelli, verdi come le fronde della quercia nodosa, erano intrecciati
sul capo
da cui salivano come radici aeree.
Al Maestro
Jyscal, capo della tribù dei Guado, era comparsa una ruga in
più da quando
aveva costretto, con l’ordine di Alan ma con la propria voce,
suo figlio
mezzosangue all’esilio. Era lunga e profonda: partiva da
sotto il sopracciglio
sinistro, che pareva sempre inarcato con rabbia sul viso corrucciato,
per
arrivare sin quasi al mento dopo aver attraversato la palpebra spessa,
innaturale per un umano.
Così
come
a Bevelle, in segno di lutto, i guerrieri si tagliavano i capelli,
Jyscal non
si era più tagliato le unghie. Avevano cominciato a crescere
a dismisura dallo
stesso giorno in cui il figlio era stato allontanato da Guadosalam
– con editto
immediato, si era premurata di aggiungere l’Inquisizione
– e le sue dita
avevano assunto un che di deforme e ferale.
In cambio
di quel sacrificio, la chiesa di Yevon lo aveva nominato Maestro.
Guardandolo
negli occhi dalle palpebre cadenti, un animo smaliziato avrebbe potuto
pensare
che, in fondo, la gestione del tempio – assieme a una bella
collana d’argento
pieno – gli era valsa bene l’esilio di un figlio.
Alan gli
rivolse un cenno del capo, che fu subito imitato da un inchino
più profondo. I
lunioli, usciti dal turibolo, si addensarono attorno alle sue mani,
costruendo
poco alla volta l’immagine di un giavellotto che diventava
sempre più
tangibile.
Jyscal
fece un passo indietro, quasi temesse di essere trafitto
dall’impeto di un’ira
improvvisa.
«Sto
accompagnando l’Invocatore al naos»
spiegò invece l’Inquisitore con un sorriso.
Il pomo
d’Adamo del Maestro si affossò per poi risalire
come il sughero attaccato
all’amo.
«Da
questa
parte, signore» lo invitò con pacatezza. Mentre
Braska passava oltre
rivolgendogli uno sguardo sereno, gli occhi di Alan invece non si
staccarono da
lui fino a quando la porta delle camere interne non si richiuse alle
sue
spalle.
Braska
rimase immobile, contemplando quel luogo che così di rado
poteva essere visto
da occhi umani. La stanza era circolare, senza finestre o porte: una
vera e
propria tomba per l'Intercessore che la occupava. Un corpo imbalsamato,
al
centro, era custodito in una bara di vetro.
La dolce
voce di una donna cantava incessante l’inno di Yevon.
Lo sguardo
di Braska si soffermò per lunghi istanti sulla pelle
dell’Intercessore, che
immaginava essere stata un tempo bruna e profumata dagli unguenti.
Ormai era
fragile e grinzosa come cartapecora.
L'aria era
viziata per la lunga chiusura, e Braska si sentì oppresso.
Si immaginò di
perdere le forze e cadere a terra, ma durò solo il tempo di
un battito di
ciglia: la benedizione di Shiva era necessaria per sconfiggere Sin.
Rinvigorito
nello spirito, si inginocchiò al cospetto dell'Intercessore
e trasse un
profondo respiro: una forza impetuosa prese possesso del suo corpo,
doveva
sostenerla per superare la prova.
Alzò
gli
occhi verso il fratello, che lo aveva accompagnato nella Camera
dell’Intercessore. Era appoggiato alla lancia, sul viso
l’espressione di quando
gli era permesso di sovrastare, per altezza o potere, qualcuno.
All’improvviso,
Alan rinsaldò la presa sull’arma, la
sollevò da terra e si avvicinò a Braska.
Quando gli prese il mento tra le mani, l’Invocatore,
impaurito, fissò lo sguardo
sull’asta del giavellotto.
Alan
intuì
il suo pensiero e lo fece svanire, scomponendolo in lunioli che vennero
attratti dal corpo al centro della sala.
«Jyscal
Guado» commentò. «Un uomo
così debole che preferisce il potere alla sua gente.
Che cosa ne pensi?»
«Che
hai
fatto convertire tu il suo popolo» replicò
l’Invocatore, con gli occhi
sull’Intercessore. La schiena di Shiva era attraversata da
due tagli disposti a
croce. «Non puoi aspettarti che ti obbediscano».
«Mh»
ribatté Alan, togliendo la mano dal viso del fratello e
dirigendosi verso
l’uscita. «Sto cominciando a dubitare della buona
fede di alcuni Maestri. Yevon
ha bisogno di uomini davvero devoti alla sua causa. Come te, ysuna».
Braska si
allarmò.
«Da
quando
conosci l’Al Bhed?»
Alan si
limitò a scrollare le spalle prima di uscire dalla stanza.
L'Invocatore
era stato sorpreso da quella piccola scoperta, ma un compito ben
più gravoso lo
attendeva: sollevata la veste fino a sopra le ginocchia, assunse la
posizione
di preghiera davanti al simulacro.
«I e yu i no bo me no»
sussurrò una donna
al suo fianco. Gli occhi dell’Invocatore la videro
avvicinarsi e salirono lungo
il profilo delle sue gambe sottili.
Era una
giovane di una bellezza tanto splendente da far perdere al Sole il suo
primato.
Alta e snella, i lunghissimi capelli intrecciati e adornati, morbida la
curva
dei fianchi. Non provava vergogna a mostrare il corpo che era tra i
più
perfetti e divini.
Braska non
invidiava una bellezza simile, anzi la temeva: avrebbe potuto essere,
come
tutto ciò che di irraggiungibile si desidera, fonte di
rovine e di guerre.
La donna
posò una mano sulla fronte di Braska e sorrise. Lui
sentì i pianeti, allineati
sui loro circoli, osservarlo da dove nulla era corruttibile. Le sfere
volgevano
attorno a lui, il grande Giove molto sopra a Marte vendicatore. Braska
chiuse
gli occhi e percepì il distacco dal proprio corpo.
Le
ginocchia smisero di fargli male e diventò lui stesso una
sfera, in moto
attorno alla bellissima donna immobile, pronto a mutare
nell’elemento che lei
avrebbe preferito.
L’Invocatore
sentì il proprio essere diventare di ghiaccio, puro e
trasparente, attraverso
il quale l’occhio di Shiva poteva vedere e il suo canto
diffondersi lontano.
L’eone
fece qualche passo verso il centro della sala, guardò in
alto dove l’orbita,
ruotando con moto uniforme, la circondava. Sorrise di nuovo e
schioccò le dita:
il velo di ghiaccio si spezzò senza un suono e una pioggia
di diamanti ricadde
su di lei. Shiva abbassò lo sguardo ornato dalle lunghe
ciglia e fissò un
fiocco che, innocuo, si scioglieva sul suo seno.
Tornato in
sé, Braska si trovò disteso a terra bocconi, con
un dolore tanto forte al
centro del petto da fargli desiderare di essere stato piuttosto
trapassato dal
giavellotto di Alan.
Aiutandosi
con le braccia tremanti si tirò in piedi e, sebbene la sua
vista fosse
offuscata, si diresse verso la porta della Camera
dell’Intercessore per
uscirne. Riuscì a spingerla senza difficoltà dal
momento che il fratello
l’aveva lasciata socchiusa.
Una volta
compiuto quell’ultimo sforzo, cadde in avanti.
Alan, che
attendeva nella Camera della fede come avrebbero dovuto fare i
Guardiani, vide
la figura magra dell’Invocatore stagliarsi in cima alla
gradinata. Quella
ondeggiò leggermente, poi si fermò e
precipitò verso il basso.
Alan corse
a sorreggerlo, spingendo il proprio passo alla massima lunghezza
possibile. Si
slanciò verso di lui con le braccia in avanti, ma la caduta
di Braska fu
attutita molto prima.
Uno dei
suoi Guardiani, l’uomo vestito di rosso, lo aveva preso tra
le braccia e lo
stava aiutando a fare gli ultimi gradini, in modo che non inciampasse.
Alan fu
rapido a portare le mani fra le pieghe della veste e a scoccare
un’occhiata di
traverso ad Auron.
«Sta
bene?» si premurò subito di chiedere il Guardiano.
Braska annuì con un lieve
sorriso, poi premette debolmente con i palmi sul suo petto e si
distanziò da
lui, in piedi sulle proprie gambe.
«Non
dovreste lasciare l’Invocatore senza custodia» lo
ammonì Alan. Auron si voltò e
lo guardò come se avesse appena notato la sua presenza.
«Sì,
hai… ha
ragione» ammise il ragazzo,
abbassando la testa.
«Non
temere, fratello. Seguono solo il mio volere: avevano bisogno di
riposare dopo
la dura battaglia».
«Capisco»
commentò l’Inquisitore, «due uomini
obbedienti valgono come dieci. Dirigiti
verso il tempio di Djose, oltre la Piana dei Lampi. Il prossimo eone si
trova
lì».
Detto
questo, senza attendere risposta diede le spalle a Braska e Auron e si
incamminò verso l’uscita del tempio.
L’Invocatore
si appoggiò alla parete per riprendere fiato, e Auron lo
guardò accorato, nel
tentativo di scorgere dei lividi sulla poca pelle che aveva scoperta.
«Le
ha
fatto del male?»
Braska
alzò lo sguardo, interdetto.
«Oh,
no,
prendere l’eone infonde...»
«Sto
parlando di Alan».
Le parole
di Jecht continuavano a risuonargli nelle orecchie. Non riusciva a
scacciare il
dubbio che il Grande Inquisitore fosse in effetti un Non Trapassato.
«Oh.
No,
lui sta solo...»
Braska
guardò un punto imprecisato a media distanza, come se stesse
vagando nella
nebbia di un ricordo.
«Per
favore, mi dica cosa sta succedendo. L’Inquisizione ci sta
seguendo ovunque».
«Lui
mi
sta controllando» ammise Braska, con un’espressione
stanca ma rassicurante.
«Vuole che io giunga in possesso degli eoni, e
nient’altro. Ma questo è anche
quello che voglio io stesso, e ciò che desideri
tu… non è vero?»
«Sì…
signore».
Jecht
strinse i denti per lo sforzo, ma a nulla valsero i suoi tentativi. Per
quanto
lo desiderasse ardentemente, le sue braccia a malapena rispondevano ai
suoi
comandi, strisciando a peso morto lungo i suoi fianchi.
Andiamo, le
dita si muovono…
Il collo
inarcato in avanti ricadde sul cuscino sconfitto, lasciando
boccheggiante
l'atleta di Zanarkand. Auron era rimasto insieme a lui per tutto il
tempo,
giorno e notte: ora che non c'era, voleva davvero godersi del tempo da
solo.
La sua
mente viaggiò per lidi intimi che, con dolore, rimasero solo
tali.
Ah, sai cosa,
si disse, guardando il grappolo
d’uva troppo lontano, con
questo fastidio
mi manca l’ispirazione.
|
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Capitolo 17 *** Piana dei fulmini, Piana dei lampi (Parte 1) ***
CAPITOLO 14:
PIANA DEI FULMINI,
PIANA DEI LAMPI (PARTE 1)
Ci vollero
un paio di giorni perché Jecht tornasse a vantarsi delle sue
prodezze sportive
e a commentare le rigide abitudini di Auron, entrambi segni
inequivocabili del
fatto che era guarito.
Braska
aveva accolto con gioia la notizia: aveva mostrato un sorriso a
trentadue denti
– sicuramente dovuto anche alla recente migrazione di suo
fratello verso terre
più calde – e li aveva esortati a fare le valigie.
Auron si
era quindi trovato ad aspettarlo seduto su un muretto, con tra i piedi
il suo
bagaglio e, con significato meno letterale, Jecht.
«La
Piana
dei Lampi» gli sentì dire, «collega la
città di Guadosalam ai boschi di
Macalania».
Auron
rimase interdetto, con la sigaretta ferma a mezz’aria, e si
voltò verso di lui.
Aveva in mano un opuscolo e sembrava piuttosto assorto nella lettura.
Santo Yevon,
dopo tutto quello che
ha passato crede ancora di essere in vacanza?
pensò.
«Dove
hai
trovato quella roba?» sbottò poi in direzione del
suo compagno di viaggio.
«L’ho
comprata»
ribatté Jecht con una smorfia.
«Alla Casa del Viante di Rin, mentre aspettavo che la
principessa si lavasse e
si pettinasse i capelli».
«Jecht...»
tuonò Auron, ma il suddetto si era già accomodato
sul muretto dal lato opposto
al suo e aveva ricominciato a leggere a voce alta.
Il monaco
riuscì a ridurre le informazioni sulla loro successiva
destinazione a un brusio
di sottofondo e a perdersi nei propri pensieri. Era molto infastidito
da come
Jecht prendesse il loro viaggio alla leggera, soprattutto dopo essere
stato
quello con i nervi meno saldi quando si era trattato di combattere le
Scaglie
di Sin.
«...
per
un viaggio sicuro, ci raccomandiamo di scegliere un tragitto il quanto
più
possibile vicino alle torri parafulmini...»
Si era
pentito di aver ceduto ai propri istinti da cavaliere e di averlo
stretto al
petto mentre tremava. Quel momento gli aveva ricordato il contatto, del
tutto
indesiderato, che aveva avuto tempo prima con lui, quando gli era
caduto tra le
braccia ubriaco.
E quindi,
con una sensazione viscida che gli pervadeva tutto il corpo, stava
ripassando
per l’ennesima volta il discorso che ne era conseguito.
«...ed
è
nota anche come Piana dei Lampi di Gandof» concluse Jecht,
alzando gli occhi
dal depliant. «Che cos’è
Gandof?»
«Il
Grande
Invocatore Gandof» lo corresse in tono bonario Braska,
comparendo alle sue
spalle, «è colui che sconfisse la seconda
reincarnazione di Sin, quasi
quattrocento anni fa».
Jecht
fischiò.
Per non
risultare irrispettoso, Auron si forzò a distogliere lo
sguardo dal viso
sorridente dell’Invocatore. Si era riposato: le sue occhiaie
non erano più
segnate come qualche giorno prima e sembrava che Shiva gli avesse
donato nuova
forza.
«Vedo
che
ti stai informando sulla storia della nostra terra»
continuò Braska.
«Sì,
ma
qui qualcuno non è d’accordo»
ribatté subito Jecht, scoccando un'occhiata
all’altro Guardiano che spegneva la sigaretta sotto la suola.
Braska gli
si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio
qualcosa a cui lui rispose annuendo con
vigore. Auron ne sarebbe stato molto infastidito, se non fosse stato
troppo
impegnato a pensare che forse un’atmosfera più
leggera, dimentica di ciò a cui
avevano assistito, avrebbe giovato a Braska. Sembrava che egli
desiderasse un
viaggio sereno, in modo da alleviare le sofferenze che di certo gli
dilaniavano
l’animo e si affilavano le unghie sulle pareti di ogni tempio.
«Questa
Piana dei Lampi sembra proprio un posto strano. Vi immaginate se ci
capitasse
uno che ha paura dei tuoni?» commentò Jecht,
riuscendo a dipingere sul viso di
Braska un’espressione divertita che suscitò in
Auron una punta di gelosia. «Tu
hai qualche fobia, monachello?»
«No»
mentì
lui. «Adesso ti prego di smettere di fare domande e
incamminarti».
L’atleta
gli rivolse un sospiro esasperato, ma gli obbedì.
«Braska,
secondo te si ricorda come si fa a sorridere? Non ha mai fatto un
sorriso da
quando l’ho conosciuto».
Il suo
cuore gli ricordò che era una piccola bugia, necessaria
però a infastidire il
monaco.
«Dai,
Auron, uno solo!»
Auron
continuò a camminare e non gli rispose. Braska si
coprì la bocca con la mano
destra, soffocando una lieve risata che, ne era sicuro, avrebbe
infastidito il
suo Guardiano. Per quanto amasse suo fratello, la sua presenza era un
fardello
impegnativo da sostenere, mentre Jecht era come lo zucchero nel the.
Auron
però
preferiva le bevande amare.
«Sono
sicuro che sorride più di quanto pensi. Ogni uomo ha
qualcosa che lo rende
felice» rispose l'Invocatore, diplomatico.
Il monaco
voltò gli occhi verso Braska, per poi puntarli
all'orizzonte. Jecht si
massaggiò le braccia e annuì, poco convinto.
«Già,
già.
Chissà se esiste “qualcosa che lo rende
felice”, a parte tranciare mostri in
più parti».
Non
più
interessato alla conversazione, Jecht si guardò attorno. Era
vero ciò che gli
aveva detto l’Invocatore: la neve e il ghiaccio erano creati
dall’eone che
sognava casa, e la campagna subito fuori da Macalania era gialla e
verde, e gli
steli secchi si piegavano sotto i loro piedi. Si trovò a
desiderare di poter
sognare Zanarkand per farla materializzare davanti agli occhi di tutti.
«Vedi
questa?» gli domandò Braska, indicando a terra con
un ampio gesto della mano.
«Tra qualche ora sarà già tornata in
piedi».
Un tuono
brontolò lontano nell’aria che si era ormai fatta
tiepida e Auron, in testa al
gruppo, alzò il viso verso l’alto.
«Non
promette bene» commentò Jecht, annusando
l’aria come gli aveva insegnato suo
padre. Sosteneva che l’odore della pioggia imminente fosse
portato dal vento,
ma Jecht non era mai riuscito a sentirlo.
«Non
preoccupatevi» minimizzò Braska, «sono
solo i tuoni della Piana».
«Che
si
sentono così lontano?»
«Per
una
volta devo dirmi d’accordo con lui, signore»
intervenne Auron. La manica
sfilata del suo cappotto veniva spinta dal vento come
un’altalena vuota.
«Proseguiamo
ancora un po’: siamo appena partiti».
«Sì,
ma
cerca di tenerla giù!»
«Ci
sto
provando, monachello!» gridò Jecht, tentando di
sovrastare lo scroscio
dell’acqua. La stoffa cerata della tenda continuava a
scivolargli dalle mani,
su cui ormai non si distingueva l’acqua già
presente da quella appena piovuta
dal cielo.
Braska, con
espressione affranta, cercava di dare il suo contributo come meglio
poteva, ma
le forti folate di vento lo costringevano a stringere a sé
quanto avesse di più
caro, come l'alto copricapo che minacciava di abbandonare la sua testa
da un
momento all'altro.
Un
picchetto appena piantato nel terreno venne sradicato con
facilità e sollevò
l'intera struttura, costringendo Jecht a gettarsi per riprenderlo tra
le mani.
«Santo
cielo, ma hai mai piantato una tenda?»
Il rombo
di un tuono coprì l’ultima parte della domanda di
Auron.
«Che
cosa?» gridò Jecht, con l’acqua che gli
colava giù dalle ciglia e gli finiva
negli occhi.
«Ti
ho
chiesto se hai mai piantato una tenda!»
Jecht si
tuffò per la seconda volta sulla tela, cercando di fermare
il suo inesorabile
decollo.
«Non
andavo in campeggio a Zanarkand! Ma non era meglio aspettare che
finisse di
pio- cazzo!»
Un fulmine
era andato a schiantarsi su un albero a poca distanza da loro,
spaccandone a
metà il tronco sottile.
«Beh,
non
eravamo lì» osservò allegro Braska,
senza tuttavia fare niente per aiutare.
Jecht,
ancora in attesa che i battiti del suo cuore si calmassero,
gattonò sulla tenda
nel tentativo di far rimanere a terra quanta più superficie
possibile. Quando
alzò la testa, si andò a scontrare contro
qualcosa di rigido.
Spostò
di
scatto il collo verso l’alto e si trovò a una
minima distanza dal viso di
Auron. Era accigliato, e delle gocce di pioggia gli si fermavano sulle
labbra
come perle di rugiada, immobili per un istante prima di scivolare
giù dal
mento.
Una nuvola
si spostò dal sole in modo provvidenziale, e la luce bianca
aumentò d’intensità
facendo riscuotere Jecht.
«Nemmeno
voi avete mai piantato una tenda, vero?» commentò,
constatando che la pioggia
si stava fermando e il vento era calato.
Auron non
gli rispose e tornò a martellare il paletto, che finalmente
rimaneva al suo
posto. Braska strizzò le vesti impregnate d'acqua e gli
rivolse un largo
sorriso, senza però proferire verbo. Jecht
aggrottò le sopracciglia e tornò ad
occuparsi della tenda, scuotendo la testa e sentendosi – come
tante altre volte
da quando erano partiti – il figlio della serva.
L'impresa
si rivelò complicata anche in assenza di vento, ma la minore
difficoltà fu
accolta con gioia: il riparo, perlomeno, si reggeva da solo.
L’arcobaleno
divideva il cielo a metà, separando le nuvole nere che se ne
andavano dalla
sera rosa, tersa e tranquilla, che arrivava.
«Dovremmo
accendere un fuoco, o ci ammaleremo» disse Jecht ancora
gocciolante. Braska gli
porse un asciugamano bianco su cui era ricamato uno stemma che
l’atleta non
riconosceva.
«Vado
a
prendere della legna, voi rimanete qui» rispose Auron,
afferrando l’accetta e
dirigendosi verso l’albero che era stato abbattuto dal
temporale.
Quando
tornò vide che i suoi due compagni avevano delimitato con
delle pietre un’area
circolare, adatta per un falò. Braska aveva teso una corda e
vi aveva appeso la
sua tunica e il copricapo, rimanendo con solo una veste bianca. Il
monaco pregò
che Jecht non si sentisse ispirato a imitarlo.
Accesero
il fuoco tra i lamenti di Jecht che non apprezzava come
l’opuscolo turistico
sulla Piana dei Lampi, dato che null’altro era asciutto,
fosse stato scelto
come combustibile. Braska si adoperò con incantesimi per
seccare la legna e
tentò di offrire del formaggio all’atleta che, con
occhi spenti, osservava il
lento e inesorabile carbonizzarsi del suo depliant.
Quella
sarebbe stata la loro prima notte all’aperto e si trovarono a
organizzarsi sui
turni di guardia. Braska aveva bisogno di riposare per riprendersi
dall’uso
della magia, e gli altri due tirarono a sorte – entrambi
senza particolari
preferenze – su chi avrebbe vegliato per metà
della notte e chi per l’altra
metà.
Il primo
turno toccò a Jecht. Fu lasciato a fianco al falò
con indicazioni precise:
quando le stelle della costellazione che avevano indicato come Casa
della
Regina avrebbero cominciato a sparire all’orizzonte, allora
avrebbe dovuto
svegliare Auron.
Il monaco,
tuttavia, non riusciva a chiudere occhio. Il giaciglio non era scomodo,
e dopo
la tempesta da fuori entrava solo una brezza piacevole che faceva da
contrappunto al respiro regolare di Braska. Auron si sentiva
però costantemente
in pericolo, esposto a qualsiasi avvenimento. Come se lo avessero
costretto a
distendersi a terra, nudo, in mezzo alla folla.
Notò
che
la sacca di Braska era a portata di mano. Sapeva che l'Invocatore amava
leggere, e pensò che fosse una buona idea vedere di cosa
trattassero i libri
che aveva portato con sé. Avrebbe potuto prenderne uno alla
cieca per leggerlo
durante il suo turno di guardia, e poi restituirlo il mattino seguente.
Senza
far rumore, frugò nella sua borsa – gesto che lo
stesso Braska lo aveva
invitato a fare per qualsiasi evenienza – e sentì
degli oggetti piccoli,
cilindrici e solidi sotto le dita.
In
quell’istante, un assiolo chiamò nella notte.
Auron trasalì e la sua mano si
paralizzò. Ritenendo che indugiare oltre sulla natura di
quegli oggetti sarebbe
stato un presagio funesto, spostò la sua attenzione sulla
copertina rigida di
un libro.
Lo
sfilò
dalla sacca senza nemmeno un fruscio. In quel momento, il vento
sollevò i lembi
dell’entrata della tenda e portò alle sue orecchie
la melodia dolce e familiare
del canto dell’Intercessore. Un uomo lo stava intonando, a
bocca chiusa, senza
preoccuparsi delle parole.
«No bo… m-mmh...»
canticchiava Jecht,
rimestando le braci con un sottile tubo di ferro e guardandole con
occhi
malinconici. La sua cassa toracica che vibrava lo distraeva dal terrore
che
aveva provato, opprimente e arcano, quando aveva notato che le stelle
di Spira
erano uguali a quelle che brillavano su Zanarkand, ma non erano proprio
nella
stessa posizione in cui le ricordava. Sembravano traslate in basso e
verso
destra, come se qualcuno avesse afferrato la volta nera e
l’avesse trascinata.
«Mh mh mmh mmh...»
Quando
udì
un tenue rumore alle sue spalle, si interruppe di colpo. Aveva
cominciato a
cantare quella vecchia melodia senza nemmeno accorgersene e non aveva
pensato
che avrebbe potuto svegliare Auron o, cosa ancora peggiore, Braska.
Il monaco
uscì con movimenti controllati, silenzioso come un predatore
a caccia, e si
sedette accanto a lui. Jecht assunse un'espressione colpevole e si
grattò la
barba.
«Scusa,
ragazzo. Non volevo svegliarti» sussurrò con
delicatezza, temendo l’arrivo di
un commento brusco.
«Non
riuscivo ad addormentarmi, non sei stato tu» rispose
tranquillo Auron. «Braska
dorme da tempo. Non ti ha sentito».
Jecht
annuì, rincuorato.
«Come
mai
non riesci a riposare? Il tuo turno non è lontano».
Auron
scrollò le spalle, godendo del calore del fuoco.
«La
melodia che stavi intonando… era il canto
dell'Intercessore» disse, il mento
appoggiato sul ginocchio sollevato da terra.
«Sì…
cioè,
è anche quello. Viene
cantata a
Zanarkand, nelle partite…» rispose l'atleta,
caricando di amarezza il nome
della sua città. Auron fissava le fiamme senza parlare, ma
poteva percepire
l'angoscia del compagno.
«Ti
manca
Zanarkand?» chiese all'improvviso.
«Certo,
ragazzo. È casa mia. Non so che idea ti sei fatto, ma voglio
tornare da dove
sono venuto. Sto viaggiando per questo!»
«Io
non ho
detto nulla».
Jecht fece
un gesto con la mano e rimase in silenzio, mentre Auron volgeva lo
sguardo dal
fuoco al compagno.
«Tu
non mi
dirai mai niente di te, vero?» sfuggì
all’atleta mentre gli occhi dell’altro
inchiodavano i suoi. Se ne pentì immediatamente.
«Non
c’è
niente da sapere».
La mente
di Jecht viaggiò di nuovo verso Zanarkand: si
ritrovò in un locale, circondato
dalla musica e dalla folla, mentre il suo bicchiere veniva riempito.
Immaginò
il sapore dolce dell’alcol che gli scorreva in gola e
ricordò come gli
risultava facile far sì che gli altri interagissero con lui.
Lo avvicinavano,
lo corteggiavano, cercavano il contatto fisico, obbedivano docili ai
suoi gesti
e alle sue parole.
Era
riuscito a portarsi a casa diverse ragazze, quando ancora non era
sposato, e a
sedurre qualche uomo che si diceva ben sicuro della propria
eterosessualità.
Eppure, il carisma che lo contraddistingueva sembrava non sortire
l’effetto sperato
su Auron. Il ragazzo continuava a fare un passo verso di lui e due
indietro,
inconsapevole che la cosa lo rendesse agli occhi di Jecht ancora
più
desiderabile.
L’atleta
si era già trovato troppe volte a seguire la linea nera dei
capelli di Auron sulla
sua schiena: a volte la divideva in due, dritta come il filo di un
pendolo,
altre invece disegnava una curva sinuosa che si sentiva tentato di
afferrare.
Già troppe volte la sua voce e il suo profumo lo avevano
confuso. L’animo
romantico di Jecht, però, andava di pari passo con il suo
spirito di
competizione che lo portava a odiare chiunque gli camminasse davanti,
costringendolo a essere il secondo.
«Certo,
certo. Sei l'uomo dei misteri» disse con voce rapida.
«Senti… visto che non hai
intenzione di chiacchierare, potresti farmi bere un goccio? Almeno mi
addormento prima».
«No».
«E
dai!
Per cosa te la porti dietro se poi nessuno la beve?»
«Uso
personale» tagliò corto Auron. «E
abbassa la voce, o sveglierai Braska».
«Va
bene,
va bene…»
Jecht si
alzò, intorpidito dalle lunghe ore passate seduto sulla
terra umida. Era
davvero un peccato non riuscire a fare una bevuta con Auron, dato che,
per
esperienza, sapeva che gli ubriachi hanno molte meno remore a parlare
di sé.
Per qualche motivo, però, non riusciva a immaginare il
ragazzo sotto l’effetto
dell’alcol.
Gli diede
una veloce pacca sulla spalla, che Auron accolse con espressione
neutra, e
tornò all’interno della tenda.
Il monaco
sospirò stanco davanti alle fiamme del falò. Non
sapeva dire perché, ma i
tentativi di Jecht di instaurare un dialogo erano più
sfiancanti di un
combattimento con la spada.
Rimase
immerso nei propri pensieri, che lo tormentavano e lo disturbavano, per
diversi
minuti. Era come se, quando distoglieva lo sguardo dalle fiamme, le sue
paure
lo gettassero in un baratro nero dove la sua fede non lo sosteneva
più come un
tempo. Provò quella sensazione due, tre volte, prima di
convincersi a cercare
qualcosa da fare.
Nonostante
il buio fitto, la luce del fuoco e del fiume di stelle nel cielo
offriva una
buona vista, abbastanza per leggere qualcosa. Gli tornò in
mente il libro di
Braska, che aveva dimenticato quando aveva udito Jecht cantare, e
sospirò
ancora.
Drizzò
la
schiena fissando per un istante la legna ardente, poi si
alzò e si avvicinò con
cautela all'entrata della tenda. Scostò un lembo senza far
rumore, per poi
sbirciare all'interno: Braska era completamente addormentato, mentre
Jecht
aveva il respiro irregolare, ma sembrava incosciente. Forse,
pensò Auron, stava
sognando o avendo un incubo.
Abbassò
la
testa, indeciso su cosa fare: poteva svegliarlo o lasciarlo con i suoi
demoni.
Quando sentì i suoi lamenti sommessi, decise che non era il
caso di
intromettersi.
Entrò
con
passo silenzioso e recuperò il libro dalla sacca, per poi
girarsi e uscire di
nuovo, non senza aver scoccato un'ultima occhiata a Jecht.
Notò che la sua
salopette era stata appallottolata con poco riguardo e gettata ai piedi
del suo
sacco a pelo.
Gli occhi
di Auron si trovarono, senza che lui ne fosse consapevole, a posarsi
sul
profilo del suo corpo. Percorsero la china disegnata dalla coperta che
copriva
il suo bacino, senza riuscire a staccarsi dalle pieghe. Quando
riuscì a
muoverli, si bloccarono di nuovo sui vestiti a terra.
Il monaco
deglutì a vuoto quando si trovò a immaginare
sulla propria pelle la sensazione
della stoffa, quella di cui lui non era riuscito a godere a causa della
propria
agitazione. Il respiro di Jecht era tornato regolare e, così
senza difese,
l’uomo di Zanarkand sembrava incapace di nuocere, di
attentare alla sua fede
con insinuazioni che volevano mettere in discussione anche la
realtà.
Auron
scosse con vigore la testa e strinse le mani sul libro che aveva
recuperato.
Sentì un fruscio alle proprie spalle, ma si trattenne dal
guardarsi indietro di
nuovo.
Uscì
dalla
tenda respirando a pieni polmoni, come a voler purificare l'aria, per
poi
sedersi nuovamente al cospetto del fuoco caldo e rassicurante.
Gli
sembrò
di aver corso. Si rilassò qualche istante prima di dare
un'occhiata alla
copertina del libro: il titolo recitava Letteratura
e pensiero filosofico su Spira.
Interessato
all'argomento, aprì le pagine facendo attenzione a non
rovinarle.
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Capitolo 18 *** Piana dei fulmini, Piana dei lampi (Parte 2) ***
CAPITOLO 14:
PIANA DEI FULMINI,
PIANA DEI LAMPI (PARTE 2)
Il mattino
successivo, Auron sembrava nervoso. Mentre proseguivano attraverso la
campagna,
si guardava ripetutamente attorno, come qualcuno che avesse nascosto un
cadavere sotto al letto. Trasalì quando Jecht gli si
avvicinò.
«Che
succede, ragazzo?» esordì lui. Fece per posare con
fare teatrale una mano sulla
spalla del compagno, ma cambiò idea e sospese il gesto a
metà, per poi
terminarlo sulla corteccia di uno degli alberi che punteggiavano radi
la
pianura. «Dormito male?»
Auron
voltò lo sguardo ansioso verso Braska, che osservava assorto
un rigagnolo che
scorreva a pochi passi di distanza da loro.
«No»
replicò, laconico, e aggirò Jecht per continuare
a camminare.
«Ehi!»
chiamò l’atleta, ma l’altro non si
voltò. Una preoccupazione irrazionale gli
strinse lo stomaco, tagliente come una lama sottile e forte come un
cavo
d’acciaio. Temette di aver, senza accorgersene, fatto
qualcosa di sgradito ad
Auron o, ancora peggio, aver detto qualcosa di fraintendibile mentre
dormiva.
Nessuno gli aveva mai detto che parlava nel sonno, ma forse glielo
avevano
sempre tenuto nascosto, o forse era una conseguenza dello stress di
trovarsi su
Spira.
«Auron»
disse di nuovo, odiando il proprio tono petulante come quello di una
ragazzina.
Gli si avvicinò, ma lui non diede segno di volersi voltare.
«Senti, ho fatto
qualcosa che non andava? Se è così dimmelo,
perché non-».
«Non
sei
il centro del mondo, Jecht» lo stroncò la voce del
monaco, che si era spostato
di scatto per evitare di essere toccato. «Tantomeno del mio.
Le mie reazioni
non sono sempre dovute a qualcosa che fai tu».
Jecht si
limitò a boccheggiare in cerca d’aria, con il gelo
che gli si insinuava nel
cuore. Capì di esserci cascato di nuovo, di averlo
idealizzato e aver pensato a
un’amicizia, una confidenza che non c’era. E gli
capitava sempre così con gli
uomini: tendevano a monopolizzare i suoi pensieri e a fargli immaginare
situazioni che poi non si realizzavano. Per quello in genere, dopo
lunghe
epopee mentali che nella realtà duravano qualche settimana,
li lasciava perdere.
Con Auron però era costretto a viaggiare, e doveva vederlo
ogni giorno.
Sei una
condanna,
pensò con disprezzo mentre
stringeva i denti. Arrestò la sua marcia e
incrociò le braccia. Ruotò il busto
in varie direzioni, indeciso su cosa fare. Desiderò con
forza di avere un
pallone – oppure il muso perennemente accigliato del monaco
– da calciare.
Auron non
avvertì più il passo di Jecht e si
voltò, non per preoccupazione, ma per capire
cosa aveva interrotto il viaggio. Incrociò gli occhi stretti
del compagno, che
giuravano di incenerirlo con un semplice battito di ciglia.
«Ora
cosa
c'è?» chiese esasperato Auron.
Jecht,
ancora una volta ripreso, decise che ne aveva avuto abbastanza.
«Dove
non
tagli con la spada lo fai con le parole, Auron?»
replicò con tono calmo. «Anche
con i tuoi alleati?»
«Non
credo
di aver bisogno di sentire una morale proprio da te».
«Allora
sai cosa? Vai in malora».
Il
campione di blitzball si voltò, gli diede le spalle e
cominciò a camminare
nella direzione opposta. Auron sospirò e volse gli occhi al
cielo, ricordando
com’era andata a finire l’ultima volta in cui Jecht
si era allontanato per un
motivo simile.
«Che
succede?»
lo raggiunse la voce di Braska. Nel vedere uno dei suoi Guardiani che
si
allontanava, si limitò a inarcare le sopracciglia.
«… oh. Dove va?»
Auron gli
si avvicinò, infervorato.
«Lui
non
capisce! Continua a fare come gli pare!»
L'Invocatore
portò la mano sul mento, osservando a intervalli regolari
prima il monaco, poi
l'uomo di Zanarkand.
«Jecht
non
è una persona che lascia senza risposta le offese: difende i
suoi pensieri con
sentimento. Devi aver detto qualcosa che lo ha ferito» disse
con amarezza.
«Signore,
lui pensa che tutto ciò che dico sia finalizzato a
ferirlo».
Braska
distolse lo sguardo da lui per un istante, come a voler soppesare le
parole.
«Amico
mio… spesso lo fai, anche senza volerlo».
Nel
sentire quella frase, Auron provò una sensazione dolorosa,
come se un ago di
ghiaccio si fosse infilato nel suo cuore. Si chiese per un istante se
fosse la
stessa cosa che era capitata a Jecht, ma rimase sulla propria posizione.
«Penso
che
Jecht si dia troppa importanza: non farò attenzione alle mie
espressioni per i
suoi capricci».
Braska
sospirò, ma non allentò la presa sul suo
Guardiano.
«Auron,
non è mia intenzione giudicare i tuoi modi: queste sono solo
le considerazioni
di un compagno di viaggio. Perciò dico che, se Jecht fosse
stato un uomo diverso,
allora diverso sarebbe stato anche il tuo atteggiamento».
Come
faceva spesso con l'atleta, Auron non rispose. Puntò gli
occhi all'orizzonte
dove Jecht si era diretto e si sentì come in apnea, sommerso
dalle parole
pronunciate dal suo Invocatore. Braska gli accarezzò la
larga spalla e sorrise
sereno, sicuro del buon cuore di Auron, severo, ma disposto a diventare
più
gentile.
«Riportiamolo
indietro, vuoi? È pericoloso rimanere da soli qui».
Auron fece
vagare lo sguardo sulla campagna assolata: lontane, erravano le ombre
di mostri
che non osavano uscire dal riparo offerto dagli alberi.
«Sì,
signore».
Si
incamminarono nella direzione che il loro compagno aveva preso con
passo
svelto, più di quanto immaginavano. Jecht aveva gambe lunghe
e abituate alle grandi
falcate, ed era arrabbiato: Auron temette di dover tornare fino a
Macalania.
Lo
intravidero poco distante, fuori dal sentiero. Era fermo sul posto con
gli
occhi puntati in basso; di tanto in tanto, calciava via qualche
pietruzza
scuotendo la testa.
Auron lo
chiamò a gran voce, cogliendo di sorpresa il compagno che
sussultò
vistosamente.
«Cosa
fai?
Vuoi farmi fermare il cuore?» disse Jecht a denti stretti.
Braska
infilò le mani nelle ampie maniche della tunica e
guardò il monaco con fare
rassicurante. Auron ispirò col naso, inespressivo: avrebbe
fatto carte false
per una sigaretta.
«Non
stare
qui da solo, Jecht. Ci sono pericoli ovunque» disse Auron
schiarendosi la voce.
«E
perché
dovrebbe interessanti? L'hai detto tu: non mi è tutto
dovuto» rispose l'atleta,
piccato. Il ricordo del discorso di Auron era tornato alle sue orecchie.
«Jecht.
Senti, non credo di aver usato le parole giuste prima. Volevo porgerti
le mie
scuse» replicò Auron senza emozioni.
L'atleta
volse lo sguardo verso Braska e comprese.
«Vuoi,
o devi?»
Jecht
abbassò gli occhi e borbottò qualcosa, per poi
tornare alla sua piccola
attività di sfogo davanti a un interdetto Auron. Notando che
l'approccio usato
non attecchiva, Braska cercò di rendere l'atmosfera
più serena.
«Vuoi
rimanere qui per qualche momento, Jecht? Sono un po’ stanco,
potrei riposare
nelle vicinanze con Auron» disse l'Invocatore con la consueta
calma.
«Sì,
va
bene».
Il monaco,
senza rendersene conto, si trovò nel mezzo di un bivio. Il
compagno era sicuro
del fatto che Auron non si fosse pentito di aver pronunciato quelle
parole
taglienti, le ennesime, ma quella non era la verità.
Invece di
seguire Braska, avanzò verso Jecht senza indugiare sui
pensieri che affollavano
la sua mente. Allungò il braccio destro e posò la
mano sulla spalla del
compagno, sentendo i muscoli contrarsi sotto la sua stretta.
«Le
mie
azioni mi appartengono, Jecht. Le mie scuse sono sincere, che tu ci
creda o
meno» disse Auron con voce incerta.
L'uomo di
Zanarkand girò leggermente il busto e lo sfiorò
con lo sguardo per qualche
istante, poi annuì in silenzio.
«...d'accordo.
Torna al fianco di Braska, vi raggiungerò tra
poco».
Auron
avrebbe voluto dire qualcosa in più, ma non sentì
di averne le capacità:
accolse la richiesta di Jecht e tornò indietro, lasciandolo
solo.
L'uomo di
Zanarkand lo guardò allontanarsi e si toccò la
spalla nel punto in cui c'era la
mano del monaco: pensò che, alla fin fine, quel gesto di
interesse cortese era
tutto ciò che desiderava da lui.
Dopo pochi
minuti, e dopo essersi ripromesso di non cadere più nella
trappola della sua
immaginazione, raggiunse i compagni. Si rimisero in viaggio,
accompagnati da
un'atmosfera più leggera.
Nonostante
la tregua, Jecht rimase silenzioso per l'intero tragitto. Stanco
mentalmente e
non in grado di sostenere altre discussioni, era sceso a patti con la
sua
indole e aveva deciso di rispondere solo se interpellato.
Braska,
seppur consapevole del comportamento anomalo del Guardiano, non
cambiò il
proprio per mantenere tranquilli gli animi, cosa che Auron non
riuscì a fare
altrettanto bene. Per le sue orecchie era un sollievo non sentir
sproloquiare
Jecht, ma sapeva anche che non era da lui. Non seppe a quale voce dar
retta
finché non raggiunsero la meta.
Un fulmine
attraversò il cielo, privandoli della vista per un istante
prima che un nuovo
paesaggio apparisse loro davanti agli occhi.
La Piana
dei Lampi era uno spettacolo insolito. Auron, che non era mai andato
oltre al
lago di Macalania, non faceva che guardarsi attorno nella speranza di
capire
cosa causasse la perenne tempesta di quella zona. Alcune nubi erano
all’altezza
del suolo e formavano una densa nebbia che impediva di vedere lontano.
«Non
mi
dirai che anche in questa zona c’è un Intercessore
che cambia il tempo» esordì
Jecht con la sua voce graffiante, dando fiato alla domanda che Auron
tratteneva
sulla lingua.
Braska
strinse la mano sullo scettro e annuì.
«Ixion,
il
signore del Fulmine, colui che tuona lontano»
spiegò. «Il suo tempio è sulle
rocce di Djose, ma il suo cuore ama questa piana e la protegge,
infuocando le
nuvole».
Rapito dal
racconto, Jecht guardò verso l’alto: nel cielo
livido, le scariche elettriche
passavano da una nuvola all’altra fino a schiantarsi sulle
torri di cui aveva
letto sulla guida. Sulla terra battuta dalle saette non splendeva mai
il sole e
nulla, nemmeno l’arbusto più temerario, cresceva.
Auron si
sentiva pervaso da un senso di mistero, paura e forza insieme
scuotevano il suo
animo all’arrivo dei tuoni. L’umidità
gli attaccava i capelli alla fronte e al
suo naso giungeva un odore che non aveva mai sentito, a metà
tra quello del
fuoco e quello della terra dopo un diluvio.
C’era
qualcosa, in quel luogo, che gli suscitava un eccitante timore: era
forse il
terrore dell’ignoto, l’idea di non poter essere
visto dai nemici, ma al
contempo di poter essere attaccato su più fronti. La sua
mente immaginava
mostri elementali che parevano fiocchi di neve crepitanti. Prendevano
forma
dalla nebbia, come le creature che nascevano dall’incenso di
Alan.
«Signore»
colse l’occasione per chiamare. Braska si voltò
con prontezza e gli rivolse il
suo sorriso, in attesa che continuasse.
«In
questa
piana c’è una Casa del Viante, vero?»
«Oh,
sì»
replicò l’Invocatore. «Come mai me lo
chiedi?»
«Credo
che
sarebbe una bella idea riposare lì». Anche se Rin
è un Al Bhed, gli venne da
pensare, ma si trattenne. Quel pensiero a cui era stato tanto abituato
gli
suonava all’improvviso strano. «Non sarebbe
semplice piantare una tenda in un
posto come questo».
I suoi
occhi evitavano di guardare il viso di Braska.
«Sicuro»
rispose l’Invocatore, intuendo che la sua richiesta avesse un
secondo fine. Era
logico che il suo Guardiano era turbato da quello,
e sarebbe stato molto divertente il momento in cui avrebbe capito di
cosa si
trattava.
«Ehi,
Auron» chiamò Jecht all’improvviso. Un
fulmine si andò a schiantare contro una
delle torri, accecandoli per un istante. Il monaco, memore del
desiderio di
Braska di vederli andare d’accordo, sospirò e si
voltò verso di lui.
«Cosa
c’è?» domandò.
Braska
mostrò un sorriso tiepido: Auron avrebbe dovuto lavorare
ancora un po’ sulle
risposte, ma era un inizio.
Il
campione di blitzball, che sembrava aver dimenticato la disposizione
d’animo
dell’altro nei suoi confronti, gli rivolse
un’allegra smorfia di sfida che fu
illuminata da un altro lampo.
«Secondo
me se salti all’indietro questi fulmini non sono
così difficili da schivare»
gli disse. «Vuoi provare?»
Braska
fece un debole tentativo di introdursi nella conversazione, ma la
replica di
Auron arrivò prima:
«No».
Jecht gli
rivolse un gesto sprezzante.
«Allora
vuoi vedere come un vero campione di blitz schiva i colpi degli
avversari?»
«Secondo
me potresti farti male...» intervenne Braska, la sua voce per
metà coperta dal
borbottio del cielo. Jecht non sembrava avergli prestato ascolto, dato
che
stava frugando tra i propri bagagli.
Ne
estrasse una delle sue sfere e la porse ad Auron. Lui, interdetto, la
strinse
tra le dita e rivolse uno sguardo confuso al compagno.
«Immortalami
per i posteri» gli spiegò Jecht. Premette i
pollici su quelli di Auron, che
coprivano il pulsante di registrazione, in modo da schiacciarlo.
«E
inquadra anche Braska!» lo ammonì mentre si
allontanava dalla torre
parafulmini.
Auron
sbuffò e alzò le braccia. Con sua sorpresa si
trovò a constatare che mantenere
l’inquadratura ferma non era affatto facile: tentava di
riprendere sia Jecht
sia Braska, ma il risultato era quello di ondeggiare dall’uno
all’altro come un
peschereccio in mezzo a una tempesta.
Chissà
se
Jecht sarebbe davvero riuscito a schivare i fulmini saltando
all’indietro. Non
voleva ammetterlo, ma il pensiero che qualcuno ci potesse riuscire lo
incuriosiva. In effetti, il suo corpo era allenato, forse abituato a
repentini
cambi di direzione dato lo sport che praticava. Non aveva nemmeno
l’ingombro
dei vestiti dato che l’unica protezione che aveva accettato
di portare era un
guanto d’arme d’acciaio, comprato ancora a
Macalania con i soldi di Braska.
«Ehi!
Tienila ferma!» lo raggiunse la voce dell’atleta.
Auron
tornò alla realtà e sospirò per
l’ennesima volta.
«Perché
lo
sto facendo?» si lamentò, irritato.
Premette
per errore il tasto per smettere di registrare. Quando se ne accorse,
accese di
nuovo la sfera e cercò di concentrarsi su
un’inquadratura che mostrasse una
sola persona.
Braska
aveva lo sguardo rivolto verso Nord, gli occhi persi in
chissà quali pensieri.
«Che
cosa
sta guardando?» gli domandò Auron, curioso.
L’Invocatore,
al suono della sua voce, parve riscuotersi.
«Oh,
stavo
solo… pensando» replicò dolcemente.
Socchiuse le labbra per aggiungere
qualcosa, ma furono raggiunti dai lamenti di Jecht.
«Guarda
che è importante!» gridava. «Non
giocherellare! Mi rovini la ripresa!»
Il corpo
di Auron reagì prima ancora che la sua mente potesse farlo e
spostò
l’inquadratura in modo che l’atleta non apparisse
nemmeno in un angolo.
All’improvviso,
si vide un lampo di luce più intenso degli altri, seguito
subito da un forte
tuono che coprì le urla di Jecht.
Auron
spostò immediatamente lo sguardo e la sfera verso dove aveva
visto precipitare
la saetta. Jecht, colpito in pieno, era disteso a terra, ma si muoveva
e si
lamentava.
«Ahi...»
esordì. Sembrava ferito più
nell’orgoglio che nel fisico. L’aria attorno a lui
sfrigolava ancora, quasi a vantarsi della propria vittoria.
Auron
spinse una piccola leva che permetteva di ingrandire
l’immagine ripresa,
focalizzandosi bene sul grande campione steso prono a terra. Tra
mugugni e
imprecazioni stava cercando di rialzarsi in modo dignitoso.
«Stai
bene?» si preoccupò Braska.
Auron
stava cercando di trattenere le risate.
«Ecco
una
scena per i posteri!» commentò, guadagnandosi
un’occhiata di traverso da Jecht.
«Sì,
sì...»
La
risata
di Braska, argentina e sinceramente divertita, scosse la piana
più di uno dei
consueti tuoni e, salendo al cielo, dissolse le nubi nel cuore dei tre
viaggiatori.
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Capitolo 19 *** ℵ. Carte del processo a Yevonna di Djose, eretica ***
ℵ. CARTE
DEL PROCESSO A YEVONNA
DI DJOSE, ERETICA
Mese IV, 1026
8 giorni dal solstizio d’estate
La ragazza
aveva confessato dopo cinque tratti di corda.
Al quarto
ancora stringeva i denti e si professava innocente, invocando la parola
di
Yevon contro la mia, ignara che avessero lo stesso suono.
Avevo
fatto cenno all’uomo che, tra noi, portava vesti secolari.
Lui le aveva alzato
le braccia di nuovo con la carrucola e le aveva torte: le preghiere
dell’imputata si erano trasformate in una nenia di sofferenza
e pianto. Allora,
avevo ordinato di allentare la corda.
Era caduta
a terra a peso morto di fronte a me e io l’avevo afferrata
per i capelli per
forzarla a guardarmi. Vedendo una macchia paonazza espandersi sulla sua
guancia
e sul collo, senza volerlo avevo quasi rilasciato la presa.
Non mi
piaceva torturare le donne.
Mi rigirai
tra le mani l’esposto che le avevo fatto firmare, scacciando
il ricordo assieme
a quel pensiero di pietà. La giovane aveva denunciato una
suora del monastero
di Djose, assieme a un pugno di accolite, per eresia. Nel documento
sottostante
erano raccolte le dichiarazioni dei teste d’accusa ed
elencati i capi di
imputazione.
Alzai lo
sguardo, offuscato dal velo davanti ai miei occhi, e scorsi le guardie
che si
adoperavano, obbedendo all’ordine diramato di far entrare
l’imputata.
Il terzo
costituto, così come il primo e il secondo, si sarebbe
svolto nella sala
maggiore del tempio di Djose, cosicché fosse permesso al
popolo di assistervi.
Quel giorno erano in centinaia, nel matroneo e lungo le navate.
Quell’ortodossia
zelante mi commoveva.
Non la
vedevo più, come ai primi tempi, al pari di un oltraggio
alla mia figura, che
da giudice degradava a burattinaio: al contrario, sapevo che avrei dato
loro
qualcosa di cui parlare, una volta nelle strade dei loro paesi
sperduti. Non
avevano uno stadio per il blitzball, così dibattevano sui
processi pubblici,
tanto più se erano casi rari come quello di una sospetta
eresia.
L’Inquisizione
forniva loro qualcosa di cui discutere e un esempio generalpreventivo,
che
mostrava come il fuoco arrivasse dove terminava l’innocenza.
«La
Corte
Suprema di Yevon apre l’udienza» pronunciai per
l’ennesima volta. «I sacri
uffici di questa corte altro non cercano che la verità
assoluta, nel nome di
Yevon. A coloro sotto processo: credete in Yevon e dite la
verità».
Due dei
miei uomini stavano spiegando all’imputata, per prassi, come
si sarebbe svolto
il processo. Io le indirizzai un’occhiata distratta prima di
ritrovarmi a
decidere cosa avrei mangiato quei giorni.
In primo
luogo, a cena avrei scelto della carne: una sola coscia di pollo, in
modo tale
da non avere troppo a lungo quel sapore sulla lingua. Sarebbe stato
tuttavia
diverso se il macellaio avesse avuto l’agnello. In secondo
luogo, come pranzo
per il giorno seguente, sarebbero state appropriate due uova.
La mia
mano destra fu scossa da un tremito lieve. Forse era impercettibile per
gli
altri, ma la bloccai stringendola in una nevrotica presa
mancina.
Alzato lo
sguardo, mi accigliai nel vedere l’espressione di Kelk Ronso.
Il labbro
superiore, arricciato, scopriva un baluginio di zanne.
«Che
cosa
stai guardando?» gli domandai. Indirizzai gli occhi nella
medesima direzione
dei suoi, ma non notai niente di inconsueto.
«Quell’uomo»
mi rispose lui, a bassa voce. Con un moto delle iridi,
riuscì a indicarmi un
sacerdote che sedeva in uno dei soppalchi. Aveva la testa rasata,
l’abito
talare senza alcun ornamento, nessun tratto saliente.
Stavo per
continuare a domandare quando lui aggiunse: «Molto strano si
trovi qui».
Il
sacerdote si sporse verso il suo vicino per dire qualcosa e io, di
nuovo, non
riuscii a cogliere la dissonanza per cui si angustiava Kelk Ronso.
Spostai lo
sguardo sull’imputata, che attendeva la requisitoria, ma non
mi rivolsi ancora
a lei.
«Perché?»
sussurrai.
«È
morto».
Sentii
scattare qualcosa dentro di me e spinsi gli occhi fuori dalle orbite.
Per
quanto i guanti me lo consentissero, affondai le unghie di una mano sul
dorso
dell’altra, laddove la pelle era già
più sensibile per le escoriazioni.
«Sei
stata
citata in giudizio» tuonai, alzandomi in piedi,
«denunciata per sospetto di
eresia concernente la dottrina. Il tribunale
dell’Inquisizione ha raccolto le
prove a favore dell’accusa. Yevonna, hai tu giurato di
servire Yevon
consacrandoti a vita monastica?»
«Sì»
mi
rispose una voce melodiosa, non toccata dall’età.
La
guardai: i capelli intrecciati erano arrotolati sulle tempie, i suoi
occhi
osavano sostenere i miei. Solo il seno non più sodo e la
lieve postura curva
denunciavano che avesse oltrepassato il confine della decadenza
umana.
Aggirai la
cattedra per avvicinarmi a lei. Durante la tortura aveva avuto le
labbra
cucite, solo dopo giorni si era detta disposta a confessare.
Ero sempre
stato dispiaciuto dal fatto di non poter stabilire un contatto fisico
con gli
imputati durante i processi: in tal modo non potevo sentire la paura
che
pulsava nelle vene del loro collo, il desiderio atavico del corpo di
scomporsi
in lunioli per sfuggire alla mia presa.
Dopotutto
ciò non poteva accadere, finché gli uomini erano
carne e sangue.
«Che
cosa
ti ha spinto a questa decisione?» continuai.
«L’estrema
indigenza della mia famiglia» rispose l’eretica con
quella che mi pareva
sincerità. «E la fede in un futuro migliore per
cui a Djose preghiamo la
divinità».
«Sei
stata
accusata di aver sostenuto che il Rito del Trapasso dovrebbe essere
officiato
da tutti i sacerdoti e non solo dagli Invocatori. Riconosci questa
eresia?»
«Sì».
Senza
volerlo, i miei occhi si alzarono sul ministro di Yevon che Kelk Ronso
mi aveva
indicato. Morto. Un sospetto, dentro me, si stava
incastrando su di
un’altro come una sfera in un altare rituale.
«All’interno
del monastero qualcuno ti ha insegnato o ispirato questa
eresia?»
«No,
Vostro Onore».
Nel
sentire quel titolo provai il fremito d’eccitazione che lo
aveva sempre
accompagnato: c’era qualcosa di lamentoso, supplichevole, nel
modo in cui
chiunque davanti a me pronunciava quelle due parole.
«La
dottrina di Yevon non prevede che la pratica del Rito del Trapasso
venga
insegnata a chi non è stato scelto da un Intercessore.
Confessi di averla
appresa e insegnata alle tue accolite?»
«Sì».
«Chi
ti ha
istruito a compiere il rito?»
L’eretica
non rispose.
«Hai
la
possibilità di pentirti, firmare il documento di abiura e
trascorrere il resto
della vita in reclusione» la informai. Mi sembrò
esitare per un istante.
«Rifiuto
il pentimento e l’abiura».
Non provai
nessuna emozione. Ricordai quando avevo sentito le stesse parole
pronunciate
dalle labbra di mio fratello, quando la mia sentenza era stata diversa.
«La
seduta
è chiusa. La condannata sia rilassata in persona».
L’eretica
mi guardò negli occhi senza battere ciglio. Due guardie,
avvicinatesi a lei, le
impedirono i movimenti e la costrinsero ad abbassare la testa prima di
portarla
via; quella né pianse né gridò.
Hai
mandato a morte anche lui, mi
dissi, e rividi il viso di Braska che, in un tempo lontano, mi
sorrideva.
Sentii il fantasma del suo tocco sul braccio, all’improvviso
mi sembrò che mi
stritolasse come filo spinato.
Mio
fratello sarebbe salito sul Gagazet, si sarebbe sacrificato nel nome
della
nostra salvatrice Yunalesca dove io l'avevo fatto nel nome di nessuno.
Ma sarebbe
stata estate, e al posto del sangue sparso sulla neve avrebbe visto
papaveri
rossi.
Non dovevo
permettere alle mie elucubrazioni di prendere il sopravvento: Kelk
Ronso aveva
turbato la mia serenità come una complicata ridda di norme
in contraddizione
tra loro, ma un’illazione tanto delicata doveva essere
verificata con
cura.
Un caso,
per quanto raro, non era per forza di cose unico: del resto anche gli
Eoni,
creature sacre al dio, potevano essere invocati da più di un
uomo.
Il
ministro indicatomi poteva per analogia essere uno di tanti, e
ciò era
intollerabile, oltre che sacrilego. Quel pensiero si faceva via via
più
pernicioso mentre consideravo l’eresia recentemente repressa:
non sarebbe mai
stata perdonata, ma d’un tratto mi fu palese la sua ragion
d’essere.
L’onere
della prova spetta a chi afferma.
Dopo che
l'eretica fu portata via, mi piegai verso Kelk Ronso e lo invitai a
raggiungermi dietro il tempio, lontano da orecchie in attesa di udire.
Le sue
parole potevano incorrere nell'errore o nel fraintendimento: imposi la
calma ai
miei pensieri fin quando non lo avrei ascoltato.
La folla
si disperse in fretta, tuttavia i miei occhi a fatica si staccarono dal
sospettato. Cercavo indizi sulla sua persona nel vano intento di
cogliere
qualche segnale, ma i Non Trapassati non mostravano alcun segno
distintivo, dal
momento che – seppur creature maledette – erano
identici ai vivi.
Dopo aver
atteso qualche istante, andai per primo. La reverenza che mi offrivano
coloro
che mi strisciavano accanto era come una carezza con guanti di seta, ma
la
gente rallentava il mio passaggio e io dovevo risollevare il mio animo
dal
dubbio.
Il luogo
dell'appuntamento era una sala dedicata all'istruzione dei giovani,
lasciata
vuota in occasione del processo. Kelk Ronso sapeva molto bene quale
oltraggio
fosse farmi attendere più del necessario: mi raggiunse dopo
pochi minuti.
«Grande
Inquisitore» esordì il felino, chinando il capo.
«Non
vi è
stata sorpresa sul tuo volto quando ti ho convocato. Non dopo
ciò che mi hai
confidato».
«Affatto,
signore. Sono invece preoccupato: attendevo che l'eretica accettasse la
sua
giusta pena per portare alla sua attenzione la questione»
rispose contrito.
«Spiegami,
dunque. Muovi delle accuse importanti».
«Sì,
signore. Quell'uomo è Davon e operava a Janne, un villaggio
vicino a
Djose, in veste di ministro di Yevon. La sua fama divenne
nota quando fu
accusato di tenere per sé le offerte dei fedeli»
raccontò con voce calma. «Fece
scalpore la notizia della sua dipartita, avvenuta dopo che il suo cuore
smise
di battere all'improvviso».
Ascoltai
tutto con profondo fastidio, ma non mi scomposi. Kelk Ronso era molto
devoto:
le sue parole, con mia grande pena, erano degne di essere ascoltate.
«Sei
certo
che Davon non sia più di questo mondo?» gli chiesi
con freddezza.
«Se
le
notizie non sono state manipolate per qualche ragione, sì,
signore. La sua
vista mi ha stretto lo stomaco».
Portai la
mano al mento e avvertii l'istinto di accendere uno dei miei sigari, ma
mi
limitai a sfregare il dito indice sulla pelle glabra.
Spesso
accadeva che i sottoposti non riuscissero a sostenere lo sguardo delle
autorità
al comando, ma Kelk Ronso sostenne il mio sguardo senza mostrare
tentennamento:
era davvero convinto di ciò che affermava.
«Molto
bene: indagherò di persona» dissi, nascondendo il
mio disgusto. «Hai reso
servizio alla Chiesa e al dio, questo non verrà
dimenticato».
Kelk Ronso
si inchinò al mio cospetto fin quasi a baciarmi la veste e
si congedò,
lasciandomi in quella sala a contemplare il vuoto. Con la mente ero
già due
passi avanti.
Una goccia
di pioggia si schiantò sul cuoio del mio guanto,
frantumandosi in lacrime più
piccole. Ancorché fossi consapevole che non avrebbe certo
impedito al rogo di
ardere con violenza, storsi il naso quando considerai che
l’acqua equivaleva a
una maggior quantità di fumo.
Attraversai
la piazza del tempio di Djose sotto gli sguardi vigili delle guardie
Ronso,
schierate in due ranghi di quattro.
Il boia
era un uomo grasso, sgraziato, un taglio gli aveva reciso parte del
naso e un
viso del genere poteva essere adatto solo alla reclusione o al braccio
secolare. Mi avvicinai con discrezione a lui e a bassa voce dissi:
«Fai sì che
le fiamme siano alte».
Lui
alzò
lo sguardo, con obbedienza ma anche con una certa aspettativa che
soddisfai
mettendogli in mano qualche gil d’oro per sancire il tacito
accordo. Il bruto
fu rapido a intascare i soldi, poi voltò nuovamente gli
occhi verso di me e
sorrise, forse pensando che compiessi quel gesto per una sorta di
ritrovata
umanità.
Quando mi
voltai, fu il mio turno di sorridere quasi con tenerezza. Qualunque
uomo con il
mio passato si sarebbe ridotto a qualsiasi azione pur di ridurre,
piuttosto che
la sofferenza degli altri, la sua propria.
I tamburi
e le squille annunciarono l’arrivo del carro che portava la
condannata, mentre
la turba dei presenti gridava e si sporgeva tanto che le guardie erano
costrette a respingerla indietro. Qualcuno sputò sulla veste
bianca
dell’eretica, altri invece si protesero per toccarla, ma ella
non si scompose.
Del resto, quella stessa tunica sarebbe stata lorda e nera molto presto.
«È
innocente!»
«…
rilascia la sua anima libera dal peccato sopra questa
terra...»
«Yevon
abbia pietà!»
Yevon
la ha, pensai
mentre spiegavo con rabbia il rotolo su cui era scritta la sentenza e
già
pensavo alle successive implicazioni della stessa. Io no.
La donna
venne trascinata verso il patibolo da due militari. La vidi per qualche
istante
dibattersi come un salmone nella rete, ma involontariamente,
perché poi subito
si acquietò.
La
mente si rassegna alla morte prima del corpo, molto prima. Non
è forse così?
«Yevonna
di Djose» annunciai, dopo l’ultimo rintocco del
tamburo. «Accusata di eresia,
sei consegnata al tribunale di Yevon dopo essere stata condannata dal
mio.
Prego affinché la tua anima trovi pace e con me pregano
tutti i presenti».
Il fuoco
divampò sulla torcia del boia e la piazza
cominciò a cantare la lenta litania
funebre. Porsi a Kelk Ronso il rotolo con la sentenza e mi avvicinai al
rogo
per dare la benedizione a Yevonna, fattasi legare al palo con corde e
catene
senza opporre l’ultima resistenza.
Era in
posizione di preghiera come la statua di un Intercessore, ma la sua
voce era
ancora di questo mondo quando mi chiamò con disprezzo.
«Inquisitore!»
Al grido
mi voltai. Pensai che mi volesse sputare, certa di non poter ottenere
più da me
condanna peggiore, ma continuò a parlare in modo che i
più vicini potessero
sentirla.
«Rifiuto
di pentirmi e di venire condotta dalla preghiera di questa gente.
Quando tu
arriverai al mio stesso tribunale, saprai perché
l’ho fatto!»
Il fuoco
venne appiccato alla catasta di legna e l’eretica
continuò a gridare, tanto
forte che non mi sarei sorpreso di sentire, alla fine del discorso, la
sua
laringe lacerarsi.
«Il
clero
ormai è così avido che rifiuta di accettare la
morte pur di mantenere il
potere! Loro dovresti cacciare! Loro, non me!»
La vidi
annaspare, la gola chiusa dal fumo, sentii il suo respiro pesante che
tentava
di ingoiare quanta più aria possibile. Le sue ultime parole,
forse, le sentii
solo io.
«Anche
io,
che mi chiamo come colui che mi ha abbandonata, tornerò. Vi
tormenterò finché
avrete vita».
Il fuoco
si alzò e la divorò che ancora gridava.
Mosso dal
sospetto, mi risolsi a interrogare la prima monaca che avevo catturato,
un’accolita
della fu Yevonna, il giorno successivo.
Il mio
passo tra le vie di Djose era svelto, più di quanto avrei
voluto: non era mio
costume non mascherare le mie emozioni. Le dichiarazioni della
condannata erano
state rivelatorie e amare allo stesso tempo. Era di tutta evidenza che
Kelk
Ronso mi aveva detto il vero, e le implicazioni che ciò
comportava erano tra
loro collegate in una perfetta catena di cause ed effetti.
Tuttavia,
per quanto frustrante, non dovevo farmi travolgere. Mi recai al tempio
incurante
degli sguardi, per poi ordinare alle guardie di sigillare la porta fino
a nuovo
ordine: nessuno doveva muoversi se non sotto il mio sguardo.
Quando
imboccai il corridoio che portava alle scale dei sotterranei, una
folata di
vento freddo mi portò alla mente sensazioni familiari e
molto spiacevoli: la
pelle iniziò a pizzicare, ma scesi i gradini con fretta di
sapere. Non potevo
tollerare la presenza della Non morte sotto la mia egida.
La
prigioniera, quando mi vide, alzò lo sguardo senza un
lamento. Arretrò fino al
muro e quando vi posò la schiena la vidi sussultare per il
dolore dovuto alle
piaghe. Poi rivolse il volto alla parete per non incrociare il mio,
velato. Con
uno sbuffo di fumo, ordinai al carceriere di aprire la porta
arrugginita.
Fu portata
al mio cospetto di peso, e lei si gettò ai miei piedi
baciandoli, implorando il
dio che rappresentavo.
«Le
ho
detto tutto ciò che sapevo!» pianse, con voce
soffocata. «Non mi faccia più del
male, la scongiuro!»
Una voluta
di fumo del mio sigaro le mozzò il respiro e lei, portata
una mano alle costole
molli, si piegò con dolore per tossire. Un rivolo di sangue
le macchiò il
labbro e cadde sulla punta della mia scarpa.
Forse il
giorno successivo sarebbe stato meglio mangiare del formaggio,
piuttosto che
della carne, acciocché la mia alimentazione fosse
più variata.
«In
nome
di Yevon, di’ la verità» le intimai,
mentre la guardia la staccava dalle mie
vesti. «A quale fine hai commesso la tua eresia?
Rispondimi».
Per un
attimo incrociai i suoi occhi e scorsi le sue pupille tremare, poi
abbassò il
capo fino a toccare il pavimento col naso. Il suo corpo era scosso, ma
non un
suono uscì dalla sua bocca.
«Il
Grande
Inquisitore ti ha fatto una domanda!» urlò il
carceriere, colpendola al costato
con un calcio. Il fiato della ragazza venne meno per qualche istante,
ma non
servirono altre persuasioni.
«Yevonna
diceva che era necessario...» confessò, le parole
che le si strozzavano in
gola. «Che era...» si interruppe di nuovo. Il
sangue versato dalla sua bocca mi
ricordava quello, più sacro, di Braska. «Che era
nostro dovere far cadere
l'inganno...»
«Quale
inganno?»
«I
Non
Trapassati calpestano la nostra terra, signore».
Non appena
pronunciò quest'ultima frase si coprì la testa
con le braccia, temendo altri
colpi sul capo. Anche volendo, non avrei potuto: nonostante il sospetto
mi
fosse noto, averne la conferma era un affronto al dio, alla Chiesa e
alla mia
persona.
«Riportatela
al suo posto, e che le sia dato un tozzo di pane. Yevon ha
pietà per chi aiuta
la sua causa» ordinai al carceriere.
Ma
io
no.
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Capitolo 20 *** Se l'attraversi non la scampi (Parte 1) ***
CAPITOLO 15:
SE L’ATTRAVERSI NON LA
SCAMPI (PARTE 1)
Un
fulmine, sfuggito alla rete delle torri, si schiantò a terra
con la forza di
una lancia scagliata contro il centro del pianeta. Nonostante fosse al
sicuro,
Braska sobbalzò vistosamente nel sentire il boato che subito
ne seguì. Poi unì
le mani, intrecciando le dita all’altezza del petto, mentre
un secondo tuono
brontolava in lontananza.
«È
stata
una buona idea quella di fermarci alla Casa del Viante»
commentò con un
sorriso. L’odore caldo di erbe da tisana che gli arrivava al
naso gli dava
l’impressione di essere a casa.
Jecht
guardò con aria di sfida il punto di terra bruciata su cui
si era schiantata la
saetta.
«Già»
rifletté, stiracchiandosi con discrezione. «Pensi
che il temporale cesserà?».
L’Invocatore
passò le dita sui grani del rosario che teneva al polso.
Spostò lo sguardo su
Auron che, piuttosto distante da loro, stava aspettando con compostezza
che
qualcuno si mostrasse al bancone.
«Tutte
le
tempeste devono avere una fine» rispose.
Rin,
risalito da sotto al bancone, non riuscì a trattenere
un’espressione sorpresa
quando si trovò davanti Auron, in persona e senza la
presenza di Braska che
mitigasse la sua freddezza. Poi gli rivolse il suo solito sorriso
cordiale, un
altro dettaglio che faceva sentire Braska a casa.
«Chiedo
scusa» esordì il monaco. Piantò gli
occhi azzurri in quelli verdi del
locandiere, cercando di apparire meno aggressivo possibile.
L’altro,
intimorito, impiegò qualche istante per riuscire a
distogliere lo sguardo e
posarlo sul ripiano di legno. Auron vi aveva appoggiato un libro che
stringeva
in una presa nervosa: nel vederne la familiare copertina celeste, Rin
fu
costretto a reprimere un sorriso.
«Ho
trovato questo volume e non riesco a leggerlo»
continuò il Guardiano, omettendo
di proposito dove l’avesse preso. «Sa dirmi se
è scritto in lingua Al Bhed?»
«Certo»
replicò Rin, raggiante come lo era sempre quando qualcuno si
dimostrava
interessato alla loro cultura.
Porse la
mano ad Auron e il giovane gli diede il libro, forzandosi a fermare i
suoi
sentimenti di diffidenza quando gli sfiorò per caso le dita.
Gli Al Bhed erano
un popolo per natura inferiore, dato il loro dover ricorrere alle
macchine per
avere una vita serena, e per giunta ancora pagano nonostante fosse
stata loro
rivelata la via di Yevon. Le loro donne avevano costumi dissoluti
– la moglie
di Braska, di certo, era qualcuno di cui s’era perduto lo
stampo – e per non
farsi capire parlavano un linguaggio in codice. Eppure proprio da quel
linguaggio Auron era attirato in modo incomprensibile, così
come lo era dalla
strana città da cui veniva Jecht.
Sapere non
sarebbe stato mai un peccato fino a quando avrebbe fatto un uso
virtuoso delle
proprie conoscenze.
Rin
esaminò il volume in modo teatrale: osservò il
titolo, poi lo aprì su una
pagina casuale e prese a sfogliarlo.
«Sì»
disse
col suo accento strano, «è Al Bhed».
«E
può
dirmi cosa c’è scritto?»
Auron
sgranò gli occhi quando Rin, con un largo sorriso, scosse la
testa. I suoi
capelli biondi accompagnarono il movimento per poi ricadergli sul
collo.
«Questo
è
solo per chi è iniziato alla lingua Al Bhed»
spiegò allegro, poi sparì di nuovo
sotto al bancone per tornare con un piccolo tomo in mano.
«Sono contento che
hai chiesto. Ecco, prendi questo: ti aiuterà per
tradurre».
«Per…
tradurre?» ripeté Auron, incerto. Non aveva
nessuna intenzione di imparare una
lingua, ma solo di sapere cosa leggesse Braska nel tempo
libero.
«Sì,
tradurre quello che è scritto» ripeté
Rin. «Ci sono molti di questi sparsi su
Spira, e ognuno ha una lettera sola di Al Bhed con a fianco la lettera
di
lingua Comune».
Detto
questo, gli aprì davanti agli occhi il dizionario, alla
pagina in cui era
stampata in lettere cubitali una Y, assieme a una freccia che indicava
una A.
«Una
volta
che hai capito, è molto facile imparare».
«Ma...
»
ribatté Auron, «che cosa c’è
scritto su tutte le altre pagine?»
«Sono
esempi con quella lettera!»
Il monaco
decise di accettare il regalo e più non domandare.
«Auron
è
strano in questi giorni» commentò Jecht,
guardandolo da lontano mentre armeggiava
con il dizionario, ancora al bancone di fronte a un raggiante Rin.
«Mi
sembra
un bene che stia iniziando ad essere curioso di quello che ha
attorno» rispose
Braska, «non trovi?»
«…
sì?»
Con lui
non si era dimostrato molto curioso,
rifletté Jecht, quanto piuttosto
più intrattabile del solito.
«Magari
è
grazie alla tua influenza» osservò
l’Invocatore.
Jecht
sapeva che aveva buone intenzioni, ma pensare alla compagnia di
Auron
gli faceva venire solo una gran voglia di bere per dimenticarselo. Lui
e il desiderio
di rivalsa che gli ispirava, offuscato dal bisogno più
immediato di un contatto
fisico con lui.
Avrebbe
chiesto a Rin qualcosa di forte, quella sera. Era sicuro che ne avesse
e che,
così come lui non era così schizzinoso da
rifiutare degli alcolici Al Bhed solo
per il nome, anche il locandiere non avesse voglia di fare tanto il
moralista.
Quando
Auron si riunì ai suoi compagni, attendendo ordini
dall’Invocatore, Jecht non
riuscì a guardarlo in viso, tanto era tormentato dai propri
foschi pensieri. Passò
distrattamente il dito indice sui libri offerti dal rifugio, per poi
fermare la
mano su una rigida copertina verde muschio. Sfilò dallo
scaffale il volume e
lesse il titolo: Leggende e curiosità della Piana
dei Lampi.
«Trovato
qualcosa di interessante?» chiese con genuina
curiosità Braska, da sempre
attratto dalle biblioteche.
«Questo
libro parla della Piana» rispose Jecht, sedendosi davanti a
lui. «Magari c'è
qualcosa che può tornarci utile. Siamo ancora lontani dalla
prossima città».
Braska
sorrise e giunse le mani. L'atleta ne fu lieto: aveva notato che lo
faceva
quando era molto soddisfatto.
«Ti
interessi sempre di più alla nostra terra: è
qualcosa che mi rende molto
felice».
«Siete
gente strana che abita un mondo strano. È
interessante» rispose Jecht spostando
gli occhi dal suo viso. L'Invocatore rise di gusto, annuendo concorde.
«Probabilmente
penserei lo stesso della tua Zanarkand, amico mio».
«Ah…
puoi
dirlo forte».
Jecht
scosse la testa, messo a disagio dal nome della sua città.
Ricordi offuscati si
mescolavano alle luci abbaglianti della metropoli, disturbando le
immagini
della tranquillità, anche se solo apparente, del paesaggio
di Spira.
Iniziò
a
sfogliare il libro con la fronte corrugata, come usava fare quando
prestava
attenzione e si concentrava. Molte delle pagine raccontavano delle
torri
parafulmine – a quanto pareva installate da un eroico Al
Bhed, perito
nell’impresa – e dell'eone Ixion, tutti argomenti
che aveva appreso da Braska
stesso.
Andò
avanti veloce, fino a scorgere l’immagine di una roccia molto
particolare: era
una lastra smussata e piantata a terra, come un monolito o una lapide.
Vi era
scolpita una creatura simile a una pianta, dalla forma che poteva
ricordare in
modo vago un uomo stilizzato.
«Cos'è?»
chiese Jecht porgendo il libro a Braska.
«Oh!
Queste sono pietre disseminate per tutta la Piana. Sono un gran
mistero, sai»
spiegò gentilmente. «Questi esseri si chiamano
Kyactus. Sono molto rari e
difficili da sconfiggere: nessuno riusciva a scacciarli da Spira,
finché il
Grande Invocatore Gandof non usò i suoi poteri per
sigillarli in quelle lapidi.
Ed è per questo che la Piana dei Lampi ha preso anche il suo
nome».
Jecht quasi
mise il naso tra le pagine per osservare al meglio il disegno abbozzato.
«E
che
succede se tocchi le pietre?» chiese, con gli occhi
spalancati.
«Dicono
che potresti incontrarne uno. C'è chi dice di averne trovati
anche due
insieme!»
«Possiamo
vederle? Insomma, tanto ci dobbiamo passare, no?»
Braska
portò la mano destra alla bocca e coprì un'altra
risata sentita, poi annuì come
un padre che concede un regalo al figlio. Jecht ringraziò
con gratitudine e
rimise il libro al suo posto, per poi voltarsi verso Auron.
«Ehi,
Auron! Se hai finito, andiamo: voglio vedere i Kya… i cosi».
Il monaco
sbuffò dal naso, infastidito in modo scenografico
dall’atteggiamento di Jecht.
Come sempre, però, piegò la sua
volontà a quella di Braska: di certo lui sapeva
cosa fosse bene, cosa facesse crescere la virtù nella loro
anima durante il
viaggio.
Quando
uscirono dalla Casa del Viante, la pioggia promessa dal cielo livido
aveva
cominciato a cadere, ritmica e pacata.
«Ah,
eccone una!» esclamò Jecht, dopo aver indicato un
punto imprecisato
all’orizzonte. Auron e Braska aguzzarono la vista e notarono
un leggero
bagliore azzurrino: la lapide sembrava segnalare la sua presenza, forse
reagendo alla pioggia dato che il giorno precedente non
l’avevano notata.
«Sai
che
anche se la tocchiamo non succederà nulla, vero?»
intervenne Auron, nel
tentativo di infrangere le sue speranze nel modo più brutale
possibile.
Continuava a esserci qualcosa che lo inquietava, in quella Piana dei
Lampi,
qualcosa per cui riteneva preferibile non fermarsi lì un
giorno di più.
«Ma
che
male c’è se proviamo?»
replicò il campione di blitzball, marciando di gran
carriera verso la pietra mentre un fulmine si schiantava sulla torre
sopra la
sua testa.
«Proviamo!»
gli fece eco Braska, con un sorriso serafico. Auron, per
l’ennesima volta, si
rassegnò e li seguì.
La pietra
era in effetti circondata da una luminescenza particolare, che sembrava
avere
origine dal piccolo disegno al centro: un Kyactus, scolpito rozzamente
sulla
superficie irregolare.
Jecht
–
che non temeva neppure il dio, e pertanto non poteva spaventarsi
davanti a un
semplice ideogramma – sfiorò con le dita la lapide.
Gli
rispose, alle sue spalle, la pioggia che accarezzava incessante la
piana.
«Vedi?
Niente» commentò Auron. «Sarà
meglio muoverci».
«Aspetta!»
lo interruppe Braska. Emozionato come un bambino, afferrò la
manica del suo
Guardiano e indicò verso la pietra: la luce sembrava
più intensa.
Una figura
evanescente che somigliava senz'altro a un Kyactus apparve davanti a
loro senza
emettere un suono: nonostante sembrasse fatto di fumo, Jecht ebbe la
tentazione
di allungare la mano e afferrarlo.
Auron
sguainò la spada in preparazione allo scontro, ma Braska gli
fece cenno di
attendere. Il piccolo essere si mosse in modo sconnesso come usavano
fare
quelli della sua specie, ma non li attaccò né
ingaggiò battaglia: corse invece
veloce intorno ai viaggiatori come a voler attirare l'attenzione.
«Ma…
che
fa?» disse Jecht, confuso.
Auron,
intuito che non c'era pericolo, abbassò l'arma, ma non la
ripose. Il Kyactus
fantasma muoveva gli arti superiori avanti e indietro, puntando verso
delle
rocce ai lati del sentiero.
«Vuole
che
lo seguiamo, credo» rispose Braska.
«Signore,
non dovremmo perdere tempo dietro queste sciocchezze» disse
Auron con durezza,
ma Jecht si era già incamminato.
«Non
vorrai lasciare Jecht qui, vero?» cinguettò Braska
e, senza nemmeno aspettare
replica, cominciò a seguire il suo Guardiano.
Il monaco
rimase interdetto e sospirò, ma non si oppose: non lo
avrebbe mai ammesso, ma
la curiosità aveva catturato anche lui. Il Kyactus,
raggiunto il suo scopo,
scattò con forza sui suoi corti arti inferiori, mettendo
molti metri tra lui e
i tre viaggiatori.
«Woa!
Quanto corri, piccoletto!» esclamò Jecht con voce
eccitata.
Non si
sarebbe mai fatto battere da una pianta animata: accelerò il
passo, aumentando
l’ampiezza delle sue falcate.
Auron
rinunciò anche a stargli dietro: la velocità non
era il suo punto forte e
fumare non aveva un effetto benefico sulla sua resistenza.
Preferì invece
osservare con attenzione dove il compagno si stava dirigendo per
poterlo
raggiungere in seguito assieme a Braska.
Jecht
arrivò in una insenatura naturale tra le rocce, dove un
Kyactus vivo e di carne
stava agonizzando a terra, trapassato da una lancia. Il suo compagno
fantasma,
completato il compito, svanì nell'aria così come
era apparso.
«Accidenti…»
sussurrò Jecht grattandosi la barba.
Auron e
Braska lo raggiunsero dopo pochi minuti e, avvistata la creatura,
discussero
sul da farsi.
«Povero
piccolo… ti curo io!» esclamò
l'Invocatore mosso da pietà, ma Jecht lo fermò.
«Aspetta!
Nel libro c'era scritto che questi cosi sono pericolosi».
«E
vorresti abbandonarlo in queste condizioni?»
replicò Auron, lasciando Jecht
molto sorpreso.
«E
tu da
quando ti preoccupi per i mostri che uccidi?»
«Quello
non è pericoloso. Sta soffrendo» rispose Auron,
senza aggiungere altro. Braska
sorrise, ma impugnò comunque il suo scettro.
«Hai
buon
cuore, ma Jecht ha ragione. Auron, avvicinati con me. Non mostrare la
lama
della spada, ma la tua mano sia pronta a scattare».
Il monaco
annuì, si avvicinò a Jecht e gli posò
una mano sulla spalla, invitandolo a
farsi più indietro.
«Va
bene,
va bene… state attenti però, ok?» disse
l'atleta con apprensione.
I due si
mossero con cautela, attirando l'attenzione della creatura: sentendosi
minacciata, quella scatto in piedi con un verso lamentoso e
puntò gli arti
superiori verso Braska.
«Calmo,
piccolino… non vogliamo farti del male»
sussurrò con dolcezza l’Invocatore, ma
ottenne l'effetto contrario.
Aghi
acuminati spuntarono dal Kyactus, minacciando di colpire a raffica.
Braska
innalzò una barriera magica per proteggersi dai dardi: il
loro numero era molto
basso e la loro potenza fu facilmente neutralizzata.
La
creatura, una volta compresa la natura dei due umani, smise di
muoversi,
all’apparenza senza vita. Braska, con il fiato corto per lo
sforzo compiuto,
approfittò del momento e si avvicinò fino a
toccarla.
Il corpo
vegetale del Kyactus iniziò a emettere una debole luce, ma
la lancia, penetrata
in profondità, andava rimossa. Auron sovrastò la
creatura per afferrare l'arma
ed estrarla, ma non era sicuro di riuscirci senza aiuto.
Jecht
accorse verso il monaco, posizionandosi vicino a lui e dietro Braska,
per poi
afferrare e stringere l’asta. Le loro mani entrarono in
contatto, e Auron contò
per tre volte: tirarono insieme come un sol uomo e il Kyactus fu
liberato.
Mentre
Braska chiudeva la ferita con la magia, Auron e Jecht studiarono
l’arma.
Somigliava più a un’alabarda, dato che sotto la
punta erano presenti due lame
simmetriche, dorate. Nel punto in cui cominciava l’asta erano
legate delle
piume disposte a ventaglio e colorate da una tintura blu.
«Non
me ne
intendo, ma mi pare pregiata» disse Jecht, valutando il peso
dell'arma. Auron
annuì, senza però distrarsi dal lavoro di Braska.
«I
Kyactus
sono creature difficili da colpire, così dicono. Quello che
lo ha ferito doveva
essere un guerriero abile» disse.
«Abile
e
ricco. Noi non abbiamo lame d'oro» rispose Jecht sarcastico,
strappando un
mezzo sorriso ad Auron.
«È
molto
bella» commentò Braska, volgendo gli occhi sulla
lancia per poi riportarli
subito sul piccolo Kyactus, che stava riprendendo vigore come una
pianta
assetata sotto un temporale.
«Che
ce ne
facciamo? La vendiamo?» domandò Jecht.
«Io non sono in grado di usarla, e tu,
Auron?»
«Non
è il
mio genere» rispose lui, scuotendo la testa.
«Magari possiamo ricavarci
qualcosa, ma se loro hanno qualche idea...»
Lo sguardo
di Braska sulle ferite del Kyactus sembrava quasi assente mentre
interveniva:
«A
mio
fratello piacerebbe». S’interruppe per sorridere, e
Jecht desiderò con tutto se
stesso che nella famiglia dell’Invocatore ci fosse un altro
fratello a
cui rivolgere quel pensiero così dolce. «Lui ha
una buona mira».
«Non
mi
sembra che sia fatta per essere scagliata» provò a
obiettare Auron, ma la voce
dell’altro Guardiano arrivò prima.
«Non
ho
intenzione di mettere in mano ad Alan l’arma per compiere un
fratricidio».
Braska
diede un colpo di tosse che si trasformò in una risata amara
e passò per
l’ultima volta le dita sul corpo del mostro.
«Ecco
fatto» annunciò.
La
creatura rimase ferma ancora per qualche istante, poi iniziò
a muovere gli arti
uno alla volta, come a voler controllare le proprie
condizioni.
Nonostante
fosse circondata dai tre viaggiatori, non si sentì
più minacciata. Si alzò in
piedi e rivolse il suo sguardo inespressivo verso Braska, poi si
esibì in una
danza sconnessa simile a quella effettuata dal suo compagno fantasma.
«Sembra
contento» disse Jecht divertito. Braska regalò
alla creatura un sorriso
sincero, poi si tastò la veste.
«Ah,
non
ho niente da dargli. Del cibo, o una caramella…»
Il Kyactus
assunse la consueta posizione della sua specie, come se fosse in
procinto di
correre, per poi puntare alla sua sinistra e agitare gli arti.
«Anche
lui
vuole portarci da qualche parte» disse Auron, curioso. Jecht
osservò la lancia
che aveva in pugno e si grattò la barba.
«Questa
ce
la portiamo dietro, quindi? È ingombrante».
«La
porto
io, non temere. Tu pensa a correre» rispose Auron, voltando
lo sguardo verso il
Kyactus, che aveva tutta l'intenzione di scattare da un momento
all'altro.
Come a
voler dar ragione al monaco, la creatura si mosse veloce e
partì verso la
destinazione seguente, inseguita rapidamente da Jecht, che non perdeva
terreno.
«Speriamo
non sia un altro Kyactus ferito, o non usciremo più dalla
Piana» disse Braska
con un sospiro.
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Capitolo 21 *** Se l'attraversi non la scampi (Parte 2) ***
CAPITOLO 15:
SE L’ATTRAVERSI NON LA
SCAMPI (PARTE 2)
Auron
sorrise di nuovo e si mise in cammino con il suo Invocatore, seguendo
le orme
dell'atleta che, a quel punto, era chissà dove.
Dopo
qualche minuto, vicino a una torre parafulmini abbattuta, Jecht si
sbracciava
per farsi vedere dai compagni. Braska mise la mano davanti al viso, a
farsi
schermo dai bagliori accecanti dei tuoni, e valutò la
distanza.
«È
veloce
come i fulmini di questa Piana. Era così anche durante
l’allenamento?» chiese
Braska con ammirazione. Auron rimase in silenzio per qualche istante,
preso dai
ricordi di quel periodo.
«Sì,
anche
se non la usava come cercavo di insegnare: invece di attaccare, cercava
la
fuga» rispose seccato. Braska annuì comprensivo,
poi mise la mano sulla spalla
del monaco e lo invitò a raggiungerlo.
«Sta
cambiando, perlomeno. Non credi?»
Auron gli
rivolse lo sguardo per un solo istante prima di puntarlo verso
l'allegro
straniero che li chiamava.
«Lei
lo
sapeva, vero? Come?» chiese Auron serio.
«Intuito.
Impari a conoscere le persone se ti prodighi per aiutarle. Jecht non
è poi così
diverso dai tormentati a cui prestavo soccorso» rispose
Braska sorridente.
Raggiunsero
il compagno senza altri commenti: Auron aveva già molto da
pensare.
«Il
Kyactus ci ha portato a un tesoro!» esclamò Jecht
entusiasta. «C'è un forziere
sotto le macerie di questa torre. Vieni, monachello, aiutami!»
Afferrò
il
polso di Auron e lo trascinò verso il punto che la creatura
aveva indicato
prima di dileguarsi nella Piana.
Attratto
dal contenuto, lui non badò nemmeno ai modi di fare
discutibili di Jecht. Posò
la lancia a terra e iniziò a scavare tra i detriti con il
compagno, fino a
rinvenire un forziere fatto di legno e ferro.
Braska si
avvicinò con occhi brillanti e, quando lo aprirono, rimase
meravigliato.
«È
uno
scettro degli Invocatori!» esclamò, felice come un
bambino.
Era
un’arma singolare e bellissima. Nonostante fosse interamente
realizzata in
legno, l’asta era rossa come ferro incandescente: a seconda
di come la
colpivano i raggi del sole, emanava bagliori violacei o aranciati.
Sulla sua
cima sedeva una sfera schiacciata ai poli, decorata da archi neri,
dipinti sul
legno rosso, e intarsi d’oro.
Quando
Braska strinse tra le mani lo scettro, si sentì travolgere
dall’onda di un
potere spirituale forte e calmo, più grande di quello che
riusciva a
canalizzare in precedenza.
«Il
Kyactus ci ha fatto un bel dono per ringraziarci» disse ai
suoi
Guardiani.
Jecht
sorrise, poi osservò la lancia ai piedi di Auron e
pensò a una buona soluzione.
«Al
posto
dello scettro, mettiamoci quella. Potrebbe tornare utile a qualcuno in
futuro»
propose l'atleta al gruppo. Si aspettava un rifiuto, ma Auron
concordò di buon
grado.
«È
un'ottima
idea. Ci sarebbe stata d'intralcio fino alla prossima
città» disse il monaco, e
Braska annuì a sua volta.
Il
guerriero prese con cura l'arma e la depositò nel forziere,
senza danneggiare
il legno con le lame, per poi richiuderlo.
«Dovremmo
sotterrarlo sotto le macerie. Non è giusto che chi ci
succederà trovi tutto il
lavoro già fatto» disse Jecht scherzoso. Per tutta
risposta, Auron lo spinse di
lato facendolo sbilanciare, ma non nascose un ghigno divertito.
«È
la
prima volta che ti faccio ridere, ragazzo. Potrebbe perfino piovere
ora!»
«Come
mai
sta già accadendo?» rispose il monaco sarcastico.
«Il
cielo
lo sapeva».
I due
Guardiani si ricomposero e, di comune accordo, decisero di tornare
tutti
indietro alla Casa del Viante per recuperare le forze.
L’incontro con il
Kyactus era stato molto diverso da quanto si aspettavano e li aveva
colti
impreparati, drenando le forze di Braska. Ora, l’Invocatore
aveva bisogno di
riposo.
La Casa
del Viante, in quella terra strana, appariva ormai a ognuno di loro
come
l’unico porto sicuro a cui tornare, l’unico
inalterato anche se Sin, suscitando
la furia del mare, avesse spazzato via ogni cosa al di fuori.
Auron era
stato disturbato da un pensiero fastidioso e insistente mentre guardava
fuori
dalla sua stanza. Le sue considerazioni sulla fiera bellezza di quel
luogo dove
i fulmini non cessavano mai di cadere erano state interrotte da un
timore più
materiale.
Aveva
visto Jecht confabulare con Rin al bancone, e sapeva bene che non ci si
poteva
fidare di un Al Bhed. Poi, il sedicente abitante di Zanarkand era
sparito per
diversi minuti. Quando era tornato, di soppiatto, nella sua stanza,
forse aveva
pensato che nessuno lo stesse osservando.
Auron
sospirò e afferrò la maniglia. Una stretta allo
stomaco lo assalì assieme al
pensiero di non essere pronto ad affrontare il Pellegrinaggio.
Di non
essere abbastanza forte e di non credere abbastanza.
Eppure,
stava andando a cercare la pericolosa compagnia di Jecht, non quella
confortante di Braska. Andava verso le parole che gli piantavano in
petto il
seme del dubbio piuttosto che verso quelle che avrebbero potuto
estirparlo.
È
solo
per accertarsi che non stia bevendo ancora, si disse, nulla
più.
Senza
neppure indossare l’armatura, si recò davanti alla
porta di Jecht, quasi senza
il pensiero a guidarlo. Quando la colpì col pugno,
desiderò che loro tre
avessero un codice segreto, una sorta di lessico delle bussate che
annunciasse
senza dubbio la presenza di un alleato: non voleva essere scambiato per
qualcun
altro.
La voce
roca di Jecht che veniva dall’interno della camera,
però, suonava sorpresa,
segno che non aspettava visite.
«Sì?»
diceva.
«Auron»
si
annunciò il monaco.
Non si
udì
nessuna risposta se non qualche rapido passo, poi la serratura che
veniva
sbloccata.
«Ragazzo?»
commentò il campione di blitzball, interdetto, come a
volersi accertare che
fosse veramente lui.
Auron non
indossava la solita corazza di cuoio, e lo sguardo di Jecht si
posò con
discrezione sul suo petto liscio, lasciato in parte scoperto dai lembi
della
veste. Poi si spostò sulle mani bianche, non nascoste dai
guanti. Sembrava una
sorta di visita informale, ma non aveva nessuna idea del
perché avesse bussato
alla sua porta. O meglio, qualcuna ne aveva, ma non erano che fantasie
di
improbabile realizzazione.
«Posso
anche entrare?» domandò il monaco, bruscamente.
Jecht si riscosse e con un
piccolo inchino lo invitò nella stanza, per poi chiudere la
porta.
«A
cosa
devo questa visita?» domandò Jecht con il migliore
dei suoi sorrisi seducenti.
Auron si guardava attorno con circospezione, come se volesse cercare le
ragnatele negli angoli del soffitto. «Vuoi che ti offra
qualcosa da-»
Si
interruppe di colpo, realizzando la verità, inchiodato sul
posto da uno sguardo
di Auron, che era infuocato ma non nel modo in cui avrebbe voluto lui.
«Dove
l’hai nascosto?» gli domandò il
monaco.
«Questa
è
un’insinuazione molto scortese. Non-» la voce di
Jecht gli morì in gola quando
Auron gli si avvicinò a una minima distanza dal volto.
«Ubriacati
con qualcosa che hai portato in camera e ti lascio qui» lo
minacciò,
arricciando il naso all’odore del liquore che impestava il
fiato di Jecht. «Mi
hai capito?»
«Sì,
signore» replicò l’atleta. Poi
sollevò all’altezza del petto la fiasca che
Auron era solito portare in vita, e che aveva sottratto con dita svelte.
«Però
da
questa posso bere: non l’ho portata io».
Il monaco
sbiancò, e il breve lasso di tempo in cui si chiese cosa
fosse successo bastò
all’altro a fuggire fuori dalla sua portata. Poi, Jecht si
gettò sul letto e si
sedette a gambe incrociate.
Il primo
istinto di Auron fu quello di scagliarsi contro di lui, ma si trattenne
e,
infastidito, si limitò a scoccargli un’occhiata
letale. Per tutta risposta, lui
alzò la refurtiva come se gli stesse proponendo un
brindisi.
«Siediti
con me» lo sfidò con un sorriso, «oppure
me la scolo tutta».
Auron
aggrottò le sopracciglia: aveva visto Jecht in condizioni
ben peggiori, quando
non riusciva nemmeno a reggersi in piedi a causa dell’alcol.
Non gli sembrava
ubriaco, e dubitava che avrebbe davvero messo in atto la sua minaccia.
Tuttavia, con un sospiro, decise di stare al gioco.
Prese la
sedia che si trovava in tutte le stanze delle Case del Viante di Rin e
la
trascinò accanto al letto; poi vi si sedette e si
sistemò la veste sul petto,
in modo da lasciare in vista meno pelle possibile.
«Ma
dai,
ma ti vergogni?» gli domandò Jecht, con una mezza
risata. Auron si irrigidì e
spostò il peso da una gamba all’altra, per poi
accavallarle, alla ricerca di
una posizione che lo facesse sentire a suo agio e alleviasse le strette
allo
stomaco.
«No»
ribatté, secco, posandosi le dita sulle clavicole.
«Ridammi la fiasca, per
favore».
Jecht lo
fissò e bevve un piccolo sorso, per poi staccarsi dalla
bottiglia con aria
ammirata.
«Però»
commentò. «Distillate questa roba, in
monastero?»
Auron gli
rispose con un rapido cenno d’assenso e allungò la
mano per riprendere ciò che
gli apparteneva, accompagnato dall’eco lontana di un tuono.
Jecht valutò la
possibilità di continuare a giocare con lui e stringergli la
mano, ma decise –
col senno che gli era rimasto – di moderarsi.
Così
ignorò il gesto del compagno di viaggio e si sedette di
nuovo a gambe
incrociate, con la fiasca in grembo.
«Sai,
quando ero piccolo avevo paura dei tuoni» disse, un lampo che
gli illuminava il
volto e le mani attorno al collo della bottiglia. «Stupido,
no?»
Auron si
trovò a fissare le sue braccia, i muscoli in rilievo anche
quando non stava
compiendo alcuno sforzo.
«Te
hai
paura di qualcosa?» domandò ancora Jecht. Auron
spostò lo sguardo su di lui:
perché voleva saperlo con tanta insistenza?
«Di
nuovo?» replicò il monaco.
«Perché continui a
chiedermelo?»
Jecht
ridacchiò.
«Perché
voglio una risposta».
«I
Guardiani non hanno paura, Jecht» gli spiegò,
«nemmeno della morte».
Dire ad
alta voce quell’eroica bugia, forse, lo avrebbe aiutato a
crederci. Assieme al
brontolio della piana, arrivò alle sue orecchie una sommessa
risata.
«Giusto»
commentò Jecht. Auron sentì qualcosa spostarsi,
quindi alzò gli occhi su di
lui: si era sporto verso il comodino e vi aveva appoggiato la fiasca,
come se
all’improvviso avesse perso interesse nel bere e avesse
trovato un nuovo
passatempo.
La nuova
occupazione consisteva nel fissare Auron con uno sguardo stanco e un
po’
assente. A causa della semioscurità in cui era immersa la
stanza, le pupille
gli si erano allargate e gli occhi avevano assunto una strana
espressione
rassicurante.
«Mi
ero
quasi dimenticato che ti fai tagliare le vene senza un
lamento» scherzò,
abbassando la voce. Auron gli concesse un raro mezzo sorriso.
«Ti
è
davvero rimasto impresso» commentò. Jecht
abbassò lo sguardo e annuì, poi lo
riportò sul monaco.
Auron
notò
che, forse sentendosi alterato dal liquore, gli si era avvicinato. Lo
percepiva
dal profumo di sapone che gli era arrivato al naso: nonostante fosse
contento
che Jecht tenesse all’igiene personale, avrebbe preferito
rimanere a distanza,
considerato quello che sapeva di lui.
Rimase
immobile, pensando a Braska e a quanto desiderasse vedere i suoi
Guardiani
andare d’accordo.
Lo stai
facendo per lui,
si ripeté, preso da un lieve sussulto quando Jecht gli
sfiorò con le dita una
ciocca di capelli sul petto, con un gesto del tutto naturale.
«Ma
perché
li tieni sempre legati? Che senso ha?» si lamentò.
La sua chioma, invece, gli
era ricaduta davanti al viso, donandogli quell’aria selvaggia
che, da quando lo
avevano recuperato a Bevelle, non l’aveva mai del tutto
lasciato.
Con
estremo disappunto di Auron, Jecht cominciò a tirare il
nastro dorato che gli
legava i capelli. Il monaco sospirò ed esercitò
la virtù della pazienza,
imputando il comportamento dell’altro all’alcol.
«E
dai,
fammi vedere!»
Il giovane
sbuffò mentre i suoi capelli, lunghi e neri come la notte,
gli ricadevano sulle
spalle. Tuttavia, alla sua destra vide la fiasca sul comodino, ormai
dimenticata.
E
pensò
che le cose stavano andando meglio.
Lo sguardo
dei due compagni di viaggio si incrociò per caso. Jecht si
lodò per essere
riuscito, sino a quel momento in modo egregio, a resistere a ben due
tentazioni. La prima era quella di attaccarsi alla bottiglia e bere
fino a
dimenticare il proprio nome, la seconda – e, con sua
sorpresa, la più forte –
quella di intrecciare le dita tra le ciocche scure del
ragazzo.
Gli occhi
di Auron non lasciavano sfuggire alcuna emozione, eppure sembravano
incapaci di
staccarsi da quelli di Jecht: per lunghi secondi, scanditi dalla
pioggia e dai
tuoni, nessuno dei due parlò.
Jecht,
all’improvviso, si sbilanciò verso Auron e
atterrò con il viso sulla sua
spalla, accompagnato da una risata giocosa. Sentì i muscoli
del monaco
contrarsi, come se fosse pronto a scattare per combattere, e gli
consegnò la
fiasca mettendogliela tra le mani.
«Grazie»
disse, la voce attutita dalla stoffa. Poi piazzò un bacio
sulla spalla di
Auron, coperta dal cappotto.
Il ragazzo
si irrigidì di nuovo, ma Jecht si era già
allontanato da lui con
disinvoltura ed era tornato a sedersi sul letto,
distante.
Auron
pensò di averlo immaginato. Dopotutto, aveva sentito solo
una leggera
pressione: avrebbe potuto essere uno scherzo della sua mente o un atto
involontario mal interpretato.
«Potresti
diventare una persona quasi piacevole da frequentare, monachello, se ti
applichi un po’ di più»
commentò Jecht.
Il giovane
Guardiano si alzò dalla sedia.
«Lo
prenderò come un complimento» replicò,
dirigendosi verso la porta e
raccogliendosi di nuovo i capelli con il nastro.
La
coda
gli ricadde sulla spalla, proprio dove ancora aleggiava il fantasma di
un
bacio.
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Capitolo 22 *** La cosa giusta ***
CAPITOLO 16:
LA COSA GIUSTA
«Sapete»
raccontò Braska, «c’è una
leggenda antica secondo cui gli dei, guardando il
cielo, hanno voluto imitare la sua perfezione nel mondo materiale. E
così,
prendendo come modello la scia di stelle che vedevano, hanno disegnato
il
Fluvilunio».
«Le
persone non credono in Yevon? Non hai mai parlato di più
dei» obiettò Jecht,
mentre cercava di immaginare il fiume di cui l’Invocatore
stava parlando. A
destra e a sinistra del percorso in terra battuta non vedeva corsi
d’acqua,
solo alberi ravvicinati dai quali già due volte, quella
mattina, erano usciti
mostri che sembravano cani.
«Non
è
stato sempre così» spiegò lui.
«Alcuni popoli, nonostante siano venuti in
contatto con la via di Yevon, si sono mantenuti pagani. Come gli Al
Bhed, ad
esempio».
Jecht
guardò la schiena ampia di Auron che apriva loro la strada.
«Che
cosa
ne pensi?» azzardò, sperando di ricevere una
risposta ragionata e che, allo
stesso tempo, il monaco li sentisse.
«Il
dio è
uno solo» replicò Braska, alzando le spalle con un
sorriso. «Come lo si chiami
o come lo si veneri non è mio compito giudicarlo».
«I
dettami
di Yevon non sono proprio questi, signore» lo
redarguì Auron, mantenendo
comunque un tono rispettoso. Jecht immaginava che fosse un avvertimento
rivolto
a lui, ed era felice che il Guardiano si sentisse toccato nel
vivo.
«Credi
davvero che Yevon non riservi un posto nelle distese dorate
dell’Oltremondo a
tutti coloro che sono stati buoni?»
L’Oltremondo,
pensò Braska, mentre la risposta
del monaco si confondeva con lo stormire delle foglie. La Piana dei
Lampi era
connessa tramite una strada di polvere bianca direttamente a
Guadosalam, ma lui
non aveva voluto – nonostante lo avesse lungamente preso in
considerazione –
passare per la città dei Guado.
Da quanto
aveva sentito, era stata agitata sin nelle radici dall’esilio
del figlio di
Jyscal. Le famiglie Guado più progressiste avevano valutato
di cacciarlo da
palazzo e coprire il suo ritratto con un drappo nero, ma alla fine
avevano
prevalso la diplomazia e gli interessi di un quieto vivere a fianco
agli
Yevoniti.
Nonostante
la strada che aveva davanti fosse ancora lunga, o forse proprio per
questo,
l’animo di Braska era ancora sereno, non desiderava ancora
vedere Emma.
Sapeva
che, anche se fosse stata davanti ai suoi occhi, lei non avrebbe potuto
parlare
e che, anche se per tre volte si fosse gettato ai suoi piedi, tre volte
sarebbe
volata via e mai avrebbe percepito il calore di un tocco.
«Io
non so
cosa sia l’Oltremondo, a Zanarkand non lo abbiamo»
disse Jecht con curiosità.
«L'avete citato altre volte, ma tutto ciò che ho
capito è che è una sorta di
vostro aldilà».
Sentite le
sue parole, Auron si voltò a guardarlo: non era
più sorpreso, poiché l'atleta
si era mostrato più volte volenteroso di imparare.
«Vorresti
sapere cos'è?»
«Sì,
grazie. Se non ti dispiace» rispose Jecht con pensata
gentilezza. Auron gli
lanciò un'occhiata indagatrice, ma lo accontentò.
«Non
mi
dispiace» disse, schiarendosi la voce.
«Nell'Oltremondo, come hai detto tu, ci
sono le nostre case dei morti. Tutti coloro che accettano con animo
sereno la
dipartita, o vengono Trapassati da un Invocatore, vi giungono alla fine
del
loro viaggio. Lì non ci sono più distinzioni di
ceto, e ognuno è un’ombra che
vaga con le fattezze che aveva in vita».
Una foglia
caduca, finendo ancora verde la sua breve vita, si staccò da
un ramo. Auron la
seguì con gli occhi, e la sua voce si fece più
distante.
«Ma
Yevon
ha promesso che le anime virtuose finiranno in una vasta pianura
serena, dove
non conosceranno più il dolore ma solo l’alto
grano e l’orzo fiorente, e
saranno assieme alla nobile Yocun e a Zaon che per primo ha scacciato
il
male».
Jecht
guardò il profilo di Auron, su cui la luce arrivava
trapuntata dalle foglie, e
ricordò di quando, voltandosi alle proprie spalle, aveva
visto i giorni che
aveva vissuto come una fila di candele spente. Si domandò se
Auron non vedesse
la fiamma nemmeno su quelle che aveva davanti, tanto fissi erano i suoi
occhi
nella contemplazione della morte.
«L’entrata
dell’Oltremondo si trova a Guadosalam»
continuò il monaco, senza spostare lo
sguardo su di lui.
«Aspetta…
la sua entrata? È un posto
reale?» chiese Jecht con sincero stupore.
«Sì.
Chi
vuole onorare i cari perduti si addentra fino alle porte
dell'Oltremondo, dove
le anime dei defunti entrano in comunione con i vivi».
«E
ci
parli? Li tocchi, persino?»
«Le
anime
non hanno un corpo, e se non fai un'offerta di sangue non possono
parlare.
Molti si accontentano di godere solo della presenza dei morti, e
raccontano le
vicende del proprio tempo, anche senza sperare in una
risposta».
«Sembra
confortante… è più difficile
dimenticare qualcuno, finché al nome viene
associato anche un volto» disse Jecht, con un mezzo sorriso.
«E che succede se
varchi i cancelli dell'Oltremondo?»
«Noi
non
lo facciamo. È un luogo sacro e caro al dio»
rispose bruscamente Auron, come a
voler terminare la conversazione prima che il rispondere gli diventasse
difficile.
«Non
ci
passeremo» intervenne Braska e, per motivi diversi, li
rassicurò entrambi. «Almeno
non per questa volta, ma non so dire cosa avremo in animo quando
torneremo».
«Ehi,
Braska» disse l’atleta, «sai cosa penso?
Quando avrai sconfitto Sin, dovresti
proprio far visita a tua moglie, laggiù, per vedere il suo
sorriso».
Invidiava
un tipo di amore del genere, che esisteva ancora in due mondi diversi
che non
potevano nemmeno toccarsi.
«Sì»
rispose Braska, con un sorriso, «hai ragione».
La
giornata trascorse tranquilla, la marcia fu favorita da un cielo
coperto e da
pochi incontri con creature aggressive lungo la strada.
Braska non
voleva ancora chiamare a sé la potenza cristallina di Shiva,
quindi si limitava
a scagliare dardi incantati dalle retrovie, mentre Auron e Jecht, senza
difficoltà, uccidevano i mostri a colpi di spada.
Nel luogo
dove si accamparono si poteva sentire, negli attimi di quiete, la
corrente di
un grande fiume ancora coperto dagli alberi. Auron aveva giudicato
più sicuro
piantare la tenda al limitare del bosco, non troppo lontano dalla
strada,
piuttosto che sulle rive del Fluvilunio. Braska aveva annuito e Jecht
si era
adattato alla decisione, chiedendosi se il luogo, in quanto porto
fluviale,
fosse affollato da mercanti e da potenziali predoni, o piuttosto nelle
acque
abitasse qualche progenie di Sin che era meglio non
incrociare.
Quella
sera, Braska si ritirò presto, come al suo solito, lasciando
i suoi due
Guardiani nel silenzio della loro conoscenza ancora non molto
approfondita.
Jecht rimestava le ceneri del fuoco con un’asta di ferro,
Auron fissava le
fiamme con sguardo assente. Oltre all’odore della resina
bruciata, il vento gli
portava alle narici il profumo di fiori che non conosceva.
«A
volte
mi sembra che i sentimenti siano più sinceri qui»
esordì Jecht, sovrappensiero.
«Non quelli di tutti, è vero, ma almeno persone
come Braska… credono veramente
in quello che fanno».
Auron
rimase in silenzio, i suoi lineamenti immobili come quelli di una
statua di
pietra.
«Certo,
ogni tanto sarebbe bello avere un po’ di compagnia, invece di
rimanere a
parlare da solo» commentò stizzito Jecht,
pugnalando un ciocco ardente che
sfrigolò in risposta.
«Non
capisco che cosa intendi» replicò Auron.
«Non
sei
un tipo molto loquace, monachello. Spendi tutte le tue parole nelle
preghiere
dell'alba, dimenticando che ci siamo io e Braska qui con cui avere
interessanti
conversazioni».
«E
qual è
il tuo contributo alla conversazione di oggi?»
«Te
l’ho
già detto». S’interruppe e
guardò un punto indefinito di fronte a sé, poi
soffiò l’aria fuori dalle narici e riprese:
«Hai visto che faccia aveva Braska
quando pensava a sua moglie? Sta facendo tutto questo per lei, e per
Yuna, te
lo dico io. Un po’ invidio i suoi sentimenti. A volte
vorrei… riuscirci».
«Hai
detto
tante volte di essere sposato anche tu, o sbaglio?»
intervenne il monaco,
sedutosi di fronte al fuoco. Sembrava apprezzare il rimanere in quella
posizione, a gambe incrociate, nel fresco della notte.
Jecht
inarcò le sopracciglia.
«Mi
sono
sposato troppo presto» considerò con amarezza.
«Quanti
anni avevi?» chiese Auron. Jecht gli rivolse una smorfia
sorpresa, stupefatto
dall’improvviso miracolo di una domanda personale.
«Ventisei».
«Su
Spira
è tardi».
Jecht
strinse i pugni all’improvviso, e dovette controllarsi per
non alzare la voce.
«Sai
solo
parlare di quanto poco ci resta da vivere e di come la nostra esistenza
sia
vana?» sbottò. «Hai mai pensato di
rilassarti un po’ e… non so, trovarti
qualcuna?»
Auron
aggrottò le sopracciglia. Sembrava cercare la concentrazione
per capire le
parole di Jecht.
«Ho
rifiutato una proposta di matrimonio prima di partire come
Guardiano».
L’atleta
sospirò e volse lo sguardo al cielo. Non aveva mai
sopportato la gente che
faceva finta di non capire. All’improvviso, però,
venne colpito dal terribile
sospetto che potesse essere sincero.
«Scusa…
Auron» continuò. Si pentì subito dopo
di aver cominciato quel discorso, ma non
poteva che andare avanti. «So che è una domanda un
po’ strana, ma… come
funziona, con i monaci di Yevon?»
Auron
aggrottò di nuovo le sopracciglia, senza alcuna
ostilità, ma solo con la
confusione di chi non riesce a comprendere.
«Sì,
intendo, voi come… non potete?»
Lo sguardo
vuoto di Auron lo lasciò in forte imbarazzo.
«Nel
senso, voi a parte il matrimonio e tutti quei discorsi là,
non potete avere…
compagnia?»
«Cosa
significa?»
Jecht
sentì il sangue defluire dal volto. In effetti Auron lo
aveva apostrofato più
volte come uomo di – come aveva detto? – costumi
dissoluti, ma non
pensava che la situazione fosse così drammatica.
Del resto, però, era
proprio da lui condannare ciò che non conosceva.
«Compagnia…
sai, no, qualcuno da abbracciare mentre dormi»
cercò di spiegare con
delicatezza. Auron, tuttavia, sembrò non cogliere il senso e
lo guardò
inespressivo.
«Ragazzo,
parlo di consumare un rapporto intimo con qualcuno».
«Ah»
ribatté Auron. Poi guardò il fuoco e
sembrò pensarci un attimo.
«Yevon…»
«Immagino
non voglia nemmeno questo, eh?»
L’altro
Guardiano scrollò le spalle.
«Non
deve
essere negli interessi di un monaco» rispose.
«Quindi
sei vergin-» uscì dalle labbra di Jecht.
L’atleta si fermò prima di finire la
frase, realizzando che non fosse nell’etichetta nemmeno per
uno come lui.
Auron, tuttavia, non sembrava affatto turbato.
«Sì,
perché?»
Lo stomaco
di Jecht si strinse alla naturalezza di quella risposta.
«Perché
da
dove vengo io è… strano»
commentò, con sincerità.
«Cioè, capita, ma non che sia
imposto da qualcun altro».
«Non
avete
monaci?»
«Non
di
questo tipo» replicò. «Ma, come fai
a…» si interruppe, rendendosi conto che non
fosse una curiosità lecita. Auron, di nuovo, non
sembrò interessato
all’argomento e non chiese oltre.
Direi
che è un buon momento per togliermelo dalla testa, considerò
Jecht. È questa la
cosa giusta.
Un forte
senso di non appartenenza lo colpì: avrebbe dovuto esserne
abituato, eppure lo
colse di sorpresa. Così come era fuori posto a Spira, non
era mai stato, in
fondo, di nessuno: non della sua squadra di blitzball, per cui levava
tre volte
il grido, non di sua moglie o del figlio o dei tanti volti senza nome
nella sua
memoria.
Solo alla
città apparteneva, alla grande Zanarkand che non dorme, ma
più il tempo passava
più si convinceva che davvero di lei non erano rimaste che
macerie addormentate
sotto al mare.
Il sonno
che avrebbe dovuto sopraggiungere non arrivò,
così si alzò in piedi pronto ad
andare, dove ancora non lo sapeva.
«Jecht,
dovresti andare a dormire. Il tuo turno non è
lontano» disse Auron con voce
stanca.
«Hai
ragione, ma stasera proprio non riesco. Vado a fare una
passeggiata» rispose
sconsolato. «Tranquillo, non mi allontano dal
sentiero».
Auron gli
rivolse uno sguardo sospettoso, ma lo lasciò andare senza
aggiungere altro.
Jecht
lanciò un'ultima occhiata alla tenda e immaginò
il monaco coricato nella
consueta posizione, sdraiato su di un fianco con la mano pronta a
scattare
verso le armi.
Il mare di
Spira aveva i denti, era nemico, e chi si nascondeva
nell’entroterra a sua
volta nascondeva insidie. Jecht si trovò a considerare che
sia Braska sia Auron
sarebbero inorriditi se avessero saputo con quante persone era andato a
letto,
e a quali pratiche si era dedicato. E lui a sua volta tremava pensando
a uomini
che si mutano in mostri, al potere torbido di Yevon che sembrava latore
di così
tanta luce.
Considerò
per la prima volta che nessuno dei due punti di vista era quello della
ragione,
nessuno quello del torto. Esisteva, però, la cosa
giusta: sconfiggere la
bestia che causava infiniti lutti. Anche se Spira non era la sua
patria, dopo
ciò che aveva visto non poteva sottrarsi.
Jecht si
incamminò alla propria destra, costeggiando gli alberi.
L'aria fresca della
notte gli pizzicava la pelle, ma era una delle sensazioni che
più amava: spesso
in mare cercava le correnti più fredde per avvertire i
brividi che provocavano.
Malinconico
e turbato, non si rese conto della distanza percorsa: davanti a lui,
appena
fuori dal limitare del bosco, vide la corrente placida del Fluvilunio,
le cui
increspature brillavano di una luce aranciata riflessa.
Un gruppo
di uomini era seduto intorno a un falò non lontano dalla
riva, godendo del
lieve tepore che le poche fiamme irradiavano. Jecht si fermò
e si guardò
intorno con timore: non era proprio il caso di mettersi nei guai a
quell'ora
della notte e, per giunta, da solo.
Fece per
tornare indietro con passi leggeri, quando un grido attirò
la sua attenzione:
uno di quegli individui lo aveva visto e si stava sbracciando,
indicandogli il
fuoco e facendo segno di sedersi con loro.
L'atleta
lanciò di nuovo un'occhiata alle sue spalle, ma decise di
accettare.
Hanno
tutta l'aria di avere dell'alcol,
pensò.
Jecht li
salutò con la mano e sorrise affabile, ma si rese conto ben
presto che i suoi
modi accomodanti non sarebbero serviti: non erano ostili, anzi
ridevano,
scherzavano e parevano non avere pensieri. Uno di loro gli
parlò, ma lui non
riuscì a comprenderlo; riconobbe però un accento
e un suono che aveva già
sentito.
«Siete
Al
Bhed?» chiese, incuriosito.
«Al…
Bhed…» rispose lo sconosciuto con tono confuso,
poi chiamò un compagno poco
distante e lo fece sedere accanto a Jecht.
«Ciao!
Amico tu, vero?»
L'uomo di
Zanarkand capì che quello, probabilmente, era l'unico che
parlava la lingua
comune.
«Sì,
sono
un amico… diciamo pure così» disse
Jecht, insicuro. «Voi siete Al Bhed?»
«Non
so…
forse» rispose quello, annebbiato. Le sue pupille, invece di
essere piene e nere,
disegnavano una spirale che svaniva nel verde dell’iride.
Erano come gli occhi
di Rin, e anche i capelli biondi e lisci dell’uomo
somigliavano a quelli del
locandiere.
«Come
forse?
Siete mica ubriachi?»
Lo
sconosciuto scoppiò a ridere, per poi far vagare lo sguardo
sul fiume con aria
assente, come se stesse cercando di ricordare il significato profondo
di quella
parola.
«Ubriachi,
no… noi dimentichiamo».
Jecht
tamburellò le dita sul ginocchio, pensando di essere
capitato in un gruppo di
matti. Valutò la possibilità di andar via, quando
uno di loro gli portò una
fiasca di ceramica bianca.
Ah, gli
ubriachi dicono sempre di non esserlo,
gli sovvenne, e ricordò quando appoggiava la testa sulle
ginocchia di Tancre,
mentre tutto all'infuori di loro due girava.
«Oh,
bene!
Cos'è?» chiese, ricacciando in gola la nostalgia
assieme alla saliva.
«Questo…
questo dimentica» rispose lo sconosciuto. Più i
minuti passavano, più Jecht
aveva l'impressione che l'uomo stesse perdendo l'uso della parola.
«Vuoi
dire
che se bevo dimenticherò?»
«Sì,
sì…
tutto dimentica. Noi vogliamo dimenticare, ma non ricordo
cosa».
Jecht
pensò si trattasse di alcol particolarmente forte,
così afferrò la fiasca e
annusò il contenuto: non era pungente come quello che era
abituato a bere, ma
delicato, come l'aroma di un fiore, e più dolce del miele.
«Cosa
c'è
dentro?» chiese con voce incerta.
Le acque
pazienti del Fluvilunio scorrevano davanti a loro, più
placide dove il letto
era largo, più rapide dove si restringeva. Sulla superficie
galleggiavano
foglie verdi, dischi quasi perfetti se non per una sbeccatura a lato,
che
custodivano i propri fiori. Ma come a ricordare che tutto, su Spira,
fosse
d’una bellezza ultraterrena, i lunioli risalivano dal fondale
e volavano via,
seguendo traiettorie irregolari.
Smettila,
Jecht, ti prego, pensò,
mentre ricordava come quelle luci avessero sfiorato il viso di Auron,
notava
come sarebbe stato bello rivederle al suo fianco.
«Loto.
Tutto dimentica. Vuoi dimenticare?»
L'atleta
strinse la fiasca con più forza di quanto pensasse, come per
volerla strozzare
nella sua mano. Aveva la possibilità di cancellare
Zanarkand, sua moglie e suo
figlio, e la paura di morire che lo accompagnava giorno dopo giorno in
quella
terra ostile. Forse avrebbe ancora viaggiato con Auron e Braska, ma non
avrebbe
più ricordato perché.
Aveva
qualche significato tornare in una patria che non c’era
più e vederne le
rovine? Sbriciolare la calce tra le dita e piangere come
l’ultimo fantasma di
una civiltà perduta?
Lo
tormentava, la cosa giusta, col suo nome
importante. Il sogno d’oro di
gloria eterna, l’essere il campione non più di uno
stadio, ma di un popolo
intero.
Portò
le
labbra all'apertura del contenitore, ma non si azzardò a
capovolgerlo e bere.
Si rese conto che stava facendo come sulla Laguna Shore:
stava cercando
un modo per arrendersi.
Le parole
di Auron, dette in tempi più sereni durante l'addestramento,
gli tornarono in
mente martellando come i postumi di una sbornia: devi
avanzare, non cercare
la fuga.
Con mano
sudata restituì la fiasca allo sconosciuto, si
congedò in fretta e tornò
indietro con passi ampli, sicuro che la mente di chi si cibava del loto
fosse
troppo annebbiata per portare ordini al corpo.
Tornò
alla
tenda col cuore in gola e desiderò che il liquore lo
ricacciasse nel petto, ma
Auron era ancora lì e il suo turno non era ancora finito. Il
monaco alzò lo
sguardo e lo vide sudato, con occhi sconvolti.
«Tutto
bene?» chiese, allarmato.
«Sì…
sì»
mentì Jecht. «C'era un gruppo di uomini intorno a
un falò, e… insomma, mi sono
allontanato senza farmi notare. Sono un po' affannato».
«Sono
pericolosi?»
«N-no,
figurati. Stavano facendo festa vicino al fiume» rispose
Jecht con un mezzo
sorriso. «Vai pure a riposare, ragazzo. Qui ci penso
io».
L'uomo di
Zanarkand prese la propria spada e la mise a portata di mano per dar
forza al
suo invito. Seppur ancora indeciso, Auron accettò e si
ritirò nella
tenda.
Jecht
ascoltò ogni piccolo rumore provocato dal monaco con gambe
tremolanti, un metodo
che aveva sempre usato per scaricare l'ansia. Pensò che il
desiderio soffocante
di bere si sarebbe calmato col tempo, ma i suoi pensieri non facevano
che
rimbalzare e ripresentarsi senza fine.
Aspettò
quelle che gli sembrarono ore, poi, maledicendo se stesso, cedette.
Entrò
silenzioso e trovò i compagni addormentati:
guardò Braska per non più di un
secondo, o il pensiero di causargli guai lo avrebbe fatto desistere.
Auron,
come aveva immaginato, era nella sua solita posizione e il suo respiro
era
pesante e regolare, segno che non era più vigile.
Avvicinò la mano alla fiasca
che teneva vicino ma, all'improvviso, non si sentì
più sicuro: pensò che
avrebbe preferito accostargli le dita al viso, e le labbra alla bocca.
Tuttavia, poiché quella possibilità gli era
negata, tornò alla sua precedente
intenzione.
Dopo
questa non mi degnerà più di uno sguardo,
pensò sofferente, ma a quel punto non riuscì
più a
fermarsi.
Portò
la
refurtiva vicino alle braci tiepide del suo falò, si sedette
e stappò la
fiasca, stavolta senza nessuna esitazione su cosa voleva farne.
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Capitolo 23 *** Come combattere i giganti (Parte 1) ***
CAPITOLO 17:
COME COMBATTERE I
GIGANTI (PARTE 1)
Il liquore
che scendeva lungo la gola di Jecht era come l’acqua che,
scrosciando,
precipitava dalle cascate di Zanarkand. Il torpore che gli pervadeva le
dita
gli ricordava la sua città, piuttosto che fargliela
dimenticare, ma era un
ricordo distante e ammorbato di cui il cuore poteva tenere le
redini.
Jecht
valutò lo stato delle cose scuotendo la fiasca di Auron
– il moto di risacca ne
colpì le pareti, e lui capì che era ancora piena
per metà – e concentrandosi
sul pizzicore, ancora non molto intenso, alla bocca dello
stomaco.
Steso
sull’erba di fianco al falò, vide le scie
circolari lasciate dalle stesse
stelle di cui aveva avuto paura. Stava cominciando ad albeggiare, e lui
prese
un lungo sorso di liquore sotto l’atmosfera romantica delle
nuvole: erano
grigie, illuminate da un rosa soffuso.
Che
male può fare una passeggiata?, pensò,
bevendo ancora. Capì che il liquido nella bottiglia era
ormai al suo ultimo
quarto, come la luna che aveva visto quella notte, ma non ricordava di
aver
bevuto così tanto. Si sentiva bene, anzi, come se i suoi
occhi per la prima
volta vedessero per davvero quanto era bella la terra di Spira, quanto
dovesse
essere difesa dal male.
Era come
se qualcuno avesse sollevato il velo dal suo viso, mentre gli altri
ancora
vagavano nella nebbia sacra dell’illusione.
Mosse
qualche passo traballante in direzione del fiume, con
l’intenzione però di
percorrerlo dalla parte opposta rispetto a quella dove aveva trovato
gli Al
Bhed: i suoi sensi erano offuscati, ma ancora si rendeva conto che, in
quelle
condizioni, non avrebbe forse saputo rifiutare il loto.
A un
tratto sembrò ripensarci e tornò verso il
falò: estrasse la propria spada, che
aveva piantato a terra. Temeva di trovare qualche mostro
all’interno del bosco
che gli girava attorno, nonostante non li avessero infastiditi durante
tutta la
notte. Ricordò con un sorriso di quando Auron gliela aveva
regalata – l’aveva
fatta forgiare proprio per lui, proprio per lui, se
avesse potuto lo avrebbe
raccontato a tutti i presenti al bar – e, colto da un
capogiro, fu costretto a
fermarsi.
Guardò
a
terra, la sua arma stretta nella destra e la fiasca sul lato sinistro,
fino a
quando l’erba non smise di vorticare e la strana sensazione
nelle sue viscere
non fu attenuata da un generoso sorso di liquore. Poi si
sentì pronto ad
avanzare, la spada appoggiata alla spalla come un vero guerriero.
Come uno
di quelli per cui gli Yevoniti erigevano le statue, i Guardiani
leggendari,
Auron… come sarebbe stato bene Auron a fianco a loro, severo
e solenne, a
guardare dritto davanti a sé…
I lunioli
salivano dal fiume, mandando bagliori sulla lama scura della sua spada,
le
frasche talvolta si muovevano e frusciavano. Non era che il vento, ma
se un
mostro fosse balzato allo scoperto, sarebbe stata l’occasione
per Jecht di
provare il suo valore.
Ad un
tratto, tra le foglie che si diradavano, l’atleta scorse una
creatura, celata
dal buio e dalla rada foschia che saliva dalla terra.
Non
c’erano dubbi: era un gigante, lento ma letale. Jecht strinse
il pugno
sull’elsa e si immerse nella vegetazione con il minimo rumore
possibile.
Trattenne il respiro quando lo vide: era alto almeno tre volte lui, la
sua
pelle era grigia e spessa come quella di un pachiderma. La testa
ricominciava a
girargli, la vista era resa acquosa e indistinta dalla rugiada che gli
bagnava
le ciglia e le palpebre, ma lui era forte.
Lo avrebbe
abbattuto, avrebbe mostrato a Braska e a tutta Spira che era degno del
nome di
Guardiano, e sarebbe stato forse stretto dalle braccia
dell’eroe che
desiderava…
Il gigante
sembrava non essersi accorto della sua presenza: era a mollo nel fiume
– una
massa enorme che spostava l’acqua in modo innaturale
– e non emetteva un suono,
ma di certo era pronto a scattare e uccidere.
Jecht
agile lo aggirò, scomparendo tra le foglie e poi
ricomparendo al cospetto delle
stelle. Cercava di ricordare, e la sua mente confusa sembrava non voler
immaginare altro, come Auron posasse i piedi al suolo, come piegasse i
gomiti
per portare la lama davanti al corpo. La sua immaginazione stessa gli
infiammò
i sentimenti.
Fu dietro
ai piedi del gigante, e solo allora si accorse che quello aveva anche
una coda,
che placidamente e inesorabilmente spazzava a destra e a sinistra.
Scartò di
lato, il cuore che batteva rapido e gli occhi per un istante limpidi.
Colpì
il
mostro, ma la lama riuscì a malapena a scalfire la sua pelle
coriacea. Sentì
nelle orecchie delle urla soffuse, che di sicuro non appartenevano alla
bestia
cui stava assestando un secondo fendente.
No, era
Auron, che gli chiedeva di fermarsi, preoccupato come lo era stato
altre volte
dal fatto che potesse farsi male.
Per un
attimo, Jecht non vide più il suo avversario, né
la luce dei lunioli che
superava in intensità quella delle stelle. Sentiva solo la
voce di Auron, in
qualche modo brusca e accorata allo stesso tempo.
Dovrei
arrendermi, dunque, solo perché il nemico è
più grande di me?, gli rispose,
affondando di nuovo la
lama. Questa volta penetrò nella carne del mostro, donando
all’atleta un
fremito di eccitazione che gli percorse il braccio sino alla spalla.
Solo
perché le radici del potere sono così profonde e
marce, dovrei smettere di
combattere?
Jecht,
tenendosi al tronco di un albero, si piegò verso il terreno
e vomitò più volte.
Tentando di calmare i conati e il calore che sentiva nella gola, si
appoggiò
con la schiena nuda sulla corteccia. Respirava a fatica, e per un
istante si
sentì morire mentre alzava il viso verso il cielo e cercava,
per maledire la
sua sorte, parole che non conosceva.
L’erba
era
morbida, bagnata dalla rugiada della notte che, alla fine, se ne stava
andando.
«Alzati»
ordinò Auron. Quando batté con il collo del piede
il fianco di Jecht, gli parve
di calciare un sacco di patate.
Il suo
compagno di viaggio non si mosse.
«Alzati,
disgraziato» gli intimò di nuovo, pur
trattenendosi dal colpirlo, «oppure ti
tiro su io da terra».
Jecht
sentiva solo una voce distante e ovattata che a stento si faceva strada
nel suo
corpo dolorante. Aveva l’impressione che avrebbe smesso di
respirare da un
momento all’altro, eppure riuscì a trovare la
forza di voltarsi supino. Il
gorgoglio disperato del suo stomaco arrivò alle orecchie del
monaco prima dei
suoi lamenti: la luce gli feriva le palpebre, le tagliava nel tentativo
di penetrargli
negli occhi e arrivargli al cervello.
«In
piedi»
gli dissero, poi qualcuno di molto forte lo prese per le braccia e lo
costrinse
ad alzarsi. Lo stomaco dell’atleta reagì con uno
spasmo a vuoto che gli riempì
la bocca di un sapore acido.
«A-Auron…»
riuscì a dire, la voce roca e l’alito pesante.
«Mi sento parecchio male…»
«Starai
anche peggio dopo» lo interruppe il monaco.
«Cammina».
Jecht non
intendeva cercare una scusa per lamentarsi, né un modo per
infastidirlo, ma
Auron sembrava arrabbiato quanto mai prima. Cercò di
riportare alla mente cosa
fosse successo dopo aver incontrato gli Al Bhed ed essersi messo a
bere, ma
vedeva solo il falò e la tenda.
«Dov’è
Braska?» domandò, guardandosi attorno con gli
occhi socchiusi, dato che la luce
continuava a mandargli fitte lancinanti alla testa.
Il suo
corpo ricordava qualcosa: il peso della spada, i fendenti rapidi, il
vento
sulla pelle mentre schivava.
Auron si
bloccò, come pietrificato. Nel silenzio, Jecht
alzò lo sguardo affranto su di
lui e lo vide serrare la mascella.
«Dov’è
Braska» ripeté il monaco, la sua voce ridotta a un
ringhio sommesso. «Mi chiedi
dov’è Braska».
Con un
gesto teatrale, si passò la mano sul volto, come a voler
asciugare il sudore.
Senza una
connessione logica, quell’immagine ne riportò
un’altra alla mente di Jecht.
«Il…
Il
gigante nel fiume…» mormorò, senza
trovare il coraggio di alzare gli occhi su
Auron. Vide invece delle chiazze di vomito molto vicine al luogo in cui
era
disteso poco prima e fu investito da un profondo senso di vergogna.
Il monaco
lo prese per la salopette e lo trascinò verso il fiume, dove
senza troppe
cerimonie lo spogliò e lo gettò nella corrente.
Lo stomaco
di Jecht, quando toccò l’acqua, fu colpito da una
stilettata e diede il segnale
di contrarsi a tutte le viscere.
«Che
modi…» si lamentò lui debolmente,
tenendo una mano sul fegato e guardando Auron
con gli occhi socchiusi. La testa aveva cominciato a girargli, tanto
che la sua
vista era fuori fuoco, e fu costretto a cercare di regolarizzare il
respiro.
Non voleva vomitare di nuovo. Non voleva svenire e andare a fondo nel
Fluvilunio.
«Non
sei
nella posizione per commentare» replicò Auron in
un tono che non ammetteva
repliche. «Sei sporco. Pulisciti. Anche i vestiti».
Jecht lo
vide girare i tacchi e poi all’improvviso fermarsi, come se
avesse ricordato
qualcosa. Si voltò di nuovo verso di lui e poi si sedette
sulla riva, in attesa
che il compagno di viaggio finisse di lavarsi.
Il canto
delle cicale che sconquassava il silenzio non faceva presagire nulla di
buono.
Senza
più
dire nulla, Jecht cercò di obbedire al meglio delle sue
possibilità, ma era
difficile, col mondo che non voleva smettere di girare.
Come era
solito fare, iniziò a grattarsi la barba, ma non era
sufficiente per renderla
pulita. Si rese conto che avrebbe dovuto immergersi almeno fino al
naso, ma il
solo pensiero di un’apnea lo faceva sentire morto.
La
respirazione continua era l'unica cosa che gli impediva di vomitare
ancora, ma
non aveva molta scelta viste le condizioni in cui versava:
guardò il suo
riflesso sulla superficie dell'acqua e chiuse la bocca, ma il suo corpo
lo punì
ancor prima di quanto immaginasse.
Lo stomaco
era vuoto da tempo, ma le fitte erano più forti che mai.
Jecht si portò la mano
destra sull'addome e strinse i denti per ogni contrazione che
prometteva di
spezzarlo. Si piegò in avanti col busto, tanto da poter
sfiorare il pelo
dell'acqua con la fronte, scosso da tremori tanto violenti da rendergli
le
gambe di sabbia.
Riprendere
fiato diventava sempre più difficile, e i suoi versi
doloranti non facevano che
irritare Auron. Dalla riva, il monaco non sembrava aspettare altro che
un’occasione per mostrargli il proprio disprezzo.
«Hai
scelto tu di farlo» osservò con la sua consueta
brevità.
Jecht
piantò le mani sulle ginocchia e cercò di
raddrizzare il busto, senza
riuscirci.
«Mi
dis-»
rispose, prima di essere interrotto da una tosse acida che gli
bruciò il
torace.
«Ti
dispiace? Potevi non farlo».
«Non
funziona proprio così» si ritrovò a
borbottare Jecht, ben attento a non farsi
sentire da Auron. Fissando la superficie limpida dell’acqua,
sulla quale si
potevano quasi contare le foglie degli alberi riflessi, si
ricordò che il
monaco sentiva molto bene, ma lo stesso non aveva dato voce a una
risposta.
Non gli
importava. Non gli interessava nemmeno, una risposta da parte di chi
non
capiva.
Un fiore,
largo e bianco e quasi sgretolato dal tempo, volteggiò per
qualche lento
istante prima di posarsi sul Fluvilunio.
«Dov'è
Braska?»
«Sta
pagando i tuoi danni».
Il fiore,
come aveva fatto la Laguna Shore quando s’era piegata per i
marosi al largo, fu
spazzato via da un’onda: un nuovo conato di vomito, il
peggiore, aveva
costretto Jecht in ginocchio e l’aveva quasi fatto affondare.
Auron, scattato
in avanti, lo afferrò per un braccio e lo
trascinò a riva, dove l'atleta si
rannicchiò su un fianco.
Il monaco,
per quanto adirato, iniziò a preoccuparsi per la sua
incolumità: Jecht era
sobrio da mesi, e il liquore del monastero non era affatto
leggero.
Decise
quindi di coprirlo col suo cappotto, senza però
risparmiargli una serie di
imprecazioni, fatte a voce alta e con parole ben scandite, per poi
sedersi
accanto alla sua testa.
La voce di
Jecht, dopo qualche minuto, ruppe il silenzio:
«Sai…»
Con un
urlo roco, un uccello si levò dal suo ramo piegato e
schizzò verso le nuvole
che sembravano fuggire. Dietro ai cespugli stavano passando delle
persone, ma
le loro parole erano indistinguibili per la distanza.
«Cosa
c’è
ancora?»
Auron
aveva abbassato lo sguardo e Jecht osservò le sue ciglia
lunghe, dritte e
scure, che forse una donna avrebbe invidiato.
«Stavo
pensando che non ero tanto più vecchio di te quando ho
iniziato» soffiò
dell’aria dal naso, come se lo trovasse divertente.
«Compravo delle casse di
birra scadente e le nascondevo nell’armadietto. Non vedevo
l’ora che il mister
ci mandasse tutti negli spogliatoi, io rimanevo là per
ultimo e cominciavo a
bere».
«Perché?»
ribatté Auron. Il suo tono era secco, quasi di circostanza,
ma almeno la
domanda c’era.
«Lo
trovavo divertente» replicò l’atleta.
Fece una pausa e aggiunse: «Lo facevo nei
periodi in cui ero stressato, mi faceva smettere di pensare. Poi per
qualche
mese non bevevo, e poi ricominciavo, e continuavo fino a che qualcosa
– un
dolore momentaneo, un’indigestione o roba simile –
mi convinceva che il mio
fegato stesse andando a farsi benedire».
I loro
sguardi si incrociarono: negli occhi di Auron, all’improvviso
animati da una
curiosità sincera, Jecht trovò la motivazione per
proseguire. Non aveva più
importanza il fatto che forse gli avrebbe suscitato pena nel cuore.
«Quando
ho
compiuto trent’anni ho preso a farlo veramente»
sospirò. «Cominci a
cercare quella sensazione sempre di più, ad andare a ogni
festa che trovi per
poi finire chiuso in bagno, e tutto attorno a te gira e te stai
piangendo».
Il monaco
fissò il vuoto e si spaventò, perché
lo stava immaginando. Imbrigliò i pensieri
e aggrottò le sopracciglia, come faceva quando voleva
rimanere ancorato alla
realtà.
«Come
mai
a trent’anni?» domandò.
Jecht gli
rivolse una risata amara, la stessa che si indirizzava a chi non capiva.
«Perché
in
campo cominciavano a scendere ragazzi che ne avevano diciannove, e loro
erano
ben più veloci di me. La loro vita era migliore di quella
del rottame degli Zanarkand
Abes che vedevano su ogni singolo cartellone a fianco alle
partite del
giorno. Loro erano arrivati, io me ne stavo andando, e mi sembrava che
tutto
quello che avevo ottenuto non valesse nulla. Mi sentivo
diverso».
«Diverso…»
ripeté Auron, a mezza voce.
«Sì,
sai,
perché sono mezzo frocio» lo rimbeccò
Jecht.
«Non
stavo
pensando a questo».
Sembrava
sincero.
«Ma
anche
perché mi ero reso conto che non volevo veramente quella
vita, ma ormai non
potevo uscirne».
«Ti
senti
così anche qui?» lo interruppe Auron. Assorto,
stava passando le dita di una
mano sulla coscia, come se accarezzasse un animale immaginario.
«Come?»
«Diverso».
Jecht
proruppe in un’altra delle sue risate senza
felicità e rivolse gli occhi al
cielo, dove le nuvole si erano fermate e si erano fatte più
dense.
«Ragazzo,
mi stai davvero chiedendo se in un posto pieno di gente strana, dove mi
dicono
che la mia città è stata distrutta mille anni fa,
mentre per una religione su
cui non so niente accompagno un uomo verso un destino sconosciuto, mi
sento
diverso?»
«Scusa».
Jecht
rifletté per un istante su quanto suonasse strana, quella
parola, fuori dalle
labbra di Auron.
«Non
scusarti» concluse, «stai solo difendendo la tua
Spira». Poi girò la testa,
appoggiando la tempia a terra, e sospirò. «Sai,
quella cosa dell’armadietto…
non l’avevo mai detta a nessuno».
Nemmeno
a Tancre, fu il
pensiero a cui non diede voce.
Il monaco
cercò la frase per rispondere a quella confidenza, ma non la
trovò. Si risolse
allora a guardare a lungo i capelli di Jecht, arricciati come piccoli
serpenti.
Avevano lasciato una traccia di bagnato sul suolo e la polvere vi si
era
attaccata, impiastrandoli, ma lui non pareva curarsene.
All’improvviso, come se
il suo corpo non aspettasse l’ordine della
volontà, Auron si trovò a
sollevargli la testa con una mano e ad appoggiarla sulle proprie
ginocchia.
Jecht non
si oppose al gesto, forse troppo debole per farlo.
«Così
si
sporcano di nuovo» commentò il monaco, gli occhi
fissi sulla corrente del fiume
e la terra sotto le unghie. Si interruppe, poi si sentì in
dovere di precisare:
«I capelli».
Questa
volta, ad Auron sembrò di sentire nella risata di Jecht un
divertimento
sincero. Nel profondo del cuore ne fu contento, tanto che si
soffermò per un
istante, con la scusa di districargli un nodo, a lasciargli una carezza.
«Grazie»
gli rispose l’atleta. Voltò la testa verso la mano
che Auron teneva sulla
coscia e la baciò, desiderando di poter fare lo stesso con
quella tra i suoi
capelli. «E non preoccuparti: non dirò a nessuno
che l’hai fatto».
Tornarono
alla tenda poco dopo, l’animo dell’uno
più quieto, quello dell’altro tormentato
dalle domande.
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Capitolo 24 *** Come combattere i giganti (Parte 2) ***
CAPITOLO 17:
COME COMBATTERE I
GIGANTI (PARTE 2)
Jecht,
ancora riverso tra le braccia di Auron, con la testa appoggiata sulle
sue
gambe, aveva insistito per essere presente quando Braska avesse dovuto
affrontare le ire del proprietario della bestia. Tuttavia, quando erano
arrivati all’accampamento il suo corpo era ancora duramente
provato e fu
costretto a sdraiarsi sotto un albero nelle vicinanze.
Auron
incrociò le braccia quando notò come il compagno
si sforzasse di tenere alto il
capo per guardare l'Invocatore, che si profondeva nelle sue
più sincere scuse e
offriva i propri poteri per curare l'animale.
Data anche
la loro strana conversazione di poco prima, pensava che se Jecht si
fosse visto
con occhi che non erano i propri, forse si sarebbe reso conto dei
propri
errori.
Si
avvicinò quindi al compagno con passo pesante, senza
dichiarare le sue
intenzioni.
«Ragazzo,
che fai?» chiese Jecht con la bocca ancora impastata dalla
terribile nottata.
Auron non
rispose, ma si inginocchiò al suo fianco e
rovistò nella borsa, per poi
allontanarsi con una delle sfere in mano. La scrutò per
qualche secondo come a
volerne ricordare il funzionamento, poi la accese sotto gli occhi
attoniti di
Jecht che non aveva la forza di opporsi in alcun modo.
«Perchè
mi
stai riprendendo?» disse l'atleta, con voce stanca.
«Così
non
fai più niente di sconsiderato» rispose il monaco
con tono di ammonizione. «Non
riesco ancora a credere che tu abbia attaccato quello shoopuf. Braska
ha dovuto
pagare i danni di tasca propria».
Jecht
annuì con la testa, portandosi la mano sulla fronte e
inspirando a fondo nel
tentativo di calmare lo stomaco in fiamme.
«Ti
ho
detto che mi dispiace...» rispose mortificato. «Non
succederà mai più, lo
prometto!»
Auron
abbozzò un mezzo sorriso di scherno, del tutto disilluso sul
valore della
parola del compagno, che poche volte l’aveva mantenuta.
«Ah,
una
promessa? Te la dimenticherai domani».
Jecht
abbassò lo sguardo senza dire nulla.
Braska,
che aveva l'orecchio allenato alle chiacchiere del mercato, una volta
pagato il
proprietario dello shoopuf si avvicinò a Jecht. Si sporse
verso i suoi due
Guardiani e socchiuse gli occhi, assorto: quando parlò,
sembrò rivolgersi alla
sfera piuttosto che al monaco.
«Auron,
per favore. Ha chiesto scusa. Sa che ha sbagliato».
Jecht,
tuttavia, fece segno a Braska di fermarsi. Si alzò prima sui
gomiti, poi sulle
ginocchia e, con grande sofferenza, si rimise in piedi.
«E
sia.
L’unica cosa che berrò d’ora in poi
sarà latte di shoopuf» dichiarò con
fermezza.
«Ne
sei
sicuro?» chiese Braska, titubante.
«Stiamo
viaggiando per sconfiggere Sin e salvare Spira, giusto? Se continuo a
fare
stupidaggini e mettermi in ridicolo…» Jecht si
interruppe e guardò il
Fluvilunio. I lunioli risalivano in superficie più
raramente, di giorno. «Mia
moglie e mio figlio non me lo perdoneranno mai».
In quella
dichiarazione c'era una forza sincera che non si poteva ignorare.
«È
registrato» commentò Auron, lasciandosi sfuggire
un sorriso che sperava fosse
interpretato come una smorfia.
Poi spense
la sfera con una leggera pressione del dito e la restituì a
Jecht. Braska
sorrise lieto, infilando le mani nelle ampie maniche come usava fare
quando era
rilassato.
«Ora
che
tutto è sistemato, è tempo di attraversare il
fiume» disse l'Invocatore con
insolita allegria.
«Non
proprio… hai dovuto sborsare parecchio»
bofonchiò Jecht abbassando gli occhi.
«Se avrò la possibilità di lavorare per
farteli riavere, ti assicuro che lo
farò».
«Mi
sembra
il minimo» replicò Auron con durezza.
«Apprezzo
il gesto, Jecht. Vedrai che ci basteranno comunque per il
viaggio» lo rassicurò
Braska, «ora pensiamo a salire».
Jecht
osservò lo shoopuf in attesa vicino al pontile: placido,
metteva in moto le
acque con la stessa coda che lui, nel suo delirio sentimentale, aveva
scambiato
per un’arma.
Era
imponente, molto più dei mostri che avevano affrontato fino
a quel momento. Le
quattro zampe possenti e la schiena ampia gli permettevano di
trasportare molto
peso, mentre con quella proboscide arricciata avrebbe potuto respirare
anche se
fosse finito sul fondo del fiume.
Mica
come me,
pensò
Jecht, e si sentì serrare la gola.
«Capisco
che non ci siano altri modi, ma è sicuro?»
domandò all’improvviso, avvertendo
di nuovo la nausea.
«Tu
non ti
sporgere e andrà tutto bene» rispose Auron,
distratto dal baldacchino posto
sulla bestia che ondeggiava.
Jecht ebbe
l'impressione che il monaco non stesse parlando proprio a lui, ma non
commentò
e si mise al seguito di Braska, che si era già incamminato
verso lo shoopuf con
passo svelto.
Uno alla
volta e con molta attenzione, i viaggiatori raggiunsero un'impalcatura,
dotata
di un braccio meccanico, a cui era appesa una piccola gabbia
cosicché potessero
salire in groppa alla creatura.
Ai comandi
della struttura c'era un essere che Jecht non aveva mai visto durante
la sua
permanenza a Spira: era una creatura anfibia che si reggeva su due
gambe, aveva
la pelle blu, gli arti palmati e due grandi occhi gialli.
Nonostante
i tratti bestiali, indossava una salopette verde e parlava la lingua
Comune,
anche se in modo molto strano.
«Benbebulli
viashiatori. Shalite con attenshione!»
Jecht lo
guardò, desideroso di rivolgergli tante domande, ma decise
di aspettare per non
sembrare maleducato.
Auron
prese posto su uno dei divanetti imbottiti ai lati della gabbia e si
strinse
con forza le ginocchia, immobile come una statua. Braska e Jecht,
invece, si
accomodarono a fianco e di fronte a lui con fare rilassato.
L'Invocatore, in
particolare, sembrava impaziente di partire.
«Adoro
gli
shoopuf! Viaggiare sui fiumi è sempre emozionante: non sai
mai cosa potresti
vedere» disse Braska guardando in basso, seguito da Jecht
che, curioso, si
piegava in avanti tenendosi sulla balaustra.
«Non
si
sporgano, per favore» ripeté Auron spaventato.
L'istinto
lo portò a curvarsi nella sua direzione per far sedere
composto l’Invocatore,
tuttavia, nel momento in cui avvertì la bestia oscillare,
tornò nella sua posizione
rigida con la velocità di un battito di ciglia.
«Monachello,
sei troppo paranoico. Rilassati!» gli disse Jecht
ridacchiando, ma Auron non
sembrò ascoltare nemmeno una parola.
L'atleta
lo osservò con attenzione, notando la mascella serrata e la
fronte corrugata,
come se fosse in procinto di combattere. Tuttavia, non c'era traccia di
sicurezza sul suo volto come quando impugnava la spada, e i suoi
sguardi fugaci
al fiume lasciavano poco spazio al dubbio.
Jecht fu
distratto da una di quelle creature anfibie che, a cavallo dello
shoopuf, si
assicurava che tutto fosse pronto per la traversata.
«Shignori,
shi parte!»
Lo shoopuf
emise un lungo verso con la proboscide per poi iniziare a camminare con
lentezza nelle acque del fiume, facendo oscillare i viaggiatori come
foglie al
vento.
«Braska,
chi sono queste creature?» chiese Jecht a bassa voce per non
farsi sentire dal
nocchiere.
«Si
chiamano Hypello. Sono una razza molto particolare, non
trovi?»
«Questi
qui sarebbero dei giocatori di blitzball fenomenali!»
esclamò l'atleta con
sincero interesse. Braska ridacchiò divertito, ma scosse la
testa.
«Hanno
già
provato a ingaggiarli in varie squadre, ma non hanno l'istinto della
competizione. Sono un popolo molto tranquillo».
«Peccato,
un centrocampista come loro sarebbe l'ideale».
«Sarebbe
bello vederti giocare» disse Braska con un sospiro, facendo
arrossire l'atleta.
«Ah,
se
capita, certo...»
Jecht
distolse lo sguardo e lo puntò verso le acque limpide del
fiume, emozionato
come un bambino all'idea che i suoi compagni di viaggio potessero
vederlo in
partita, vedere chi era lui davvero.
La
fantasia vagava libera nella sua mente: immaginò Auron sugli
spalti stupito
dalle sue abilità per la prima volta, mentre Braska si
sbracciava in suo
onore.
Sorrise
senza accorgersene e, nel frattempo, lo shoopuf aveva già
fatto un buon tratto
di fiume. Ridestatosi dalla sua fantasia, notò quelle che
sembravano rovine sul
fondo delle acque, non lontano da loro.
«Ehi,
cosa
sono quelle?» chiese indicando le macerie col dito.
Lo sguardo
azzurro di Braska si perse nella corrente del Fluvilunio, come a voler
cercare
lì parole che sulla lingua non trovava.
Fu Auron a
rispondere al posto suo, le spalle un po’ meno rigide che in
precedenza: «Un
tempo, ancora prima della guerra, gli uomini impiegavano ogni mezzo a
loro
disposizione per costruire».
Jecht si
sporse per vedere meglio e distinse, con orrore, dei ponti crollati e
delle
cupole che gli ricordavano l’architettura di Zanarkand. Ma
non poteva essere
lei, ne era sicuro. Non era lì, non lo era mai stata.
«Allora
decisero che l’acqua doveva essere come la terra, piantarono
pali nel fango e
sopra a essi disposero assi di legno così da formare un
duplice ponte, una
strada di chiodi su cui sorse la città».
Davanti
agli occhi di Jecht si materializzò il luogo di cui il
monaco stava
raccontando: era grande, illuminata, brulicante di persone che
affollavano la
piazza e lo stadio. Poi lo shoopuf alzò un’onda e
la visione si dissolse.
«Il
ponte
crollò per il peso e la città
sprofondò nelle acque» sentenziò la
voce di
Auron.
Jecht
deglutì a vuoto.
«Che
disgrazia» commentò, ma appena si volse verso il
monaco lo vide scuotere la
testa.
«Non
si
tratta di una disgrazia» gli spiegò, sotto lo
sguardo tranquillo di Braska. «È
stata una punizione di Yevon per la loro tracotanza».
L’atleta
aggrottò le sopracciglia nel tentativo di afferrare quel
concetto, poi ricordò
l’atteggiamento di Auron e Braska nei confronti del dio:
ritenevano che vi
fossero azioni contro natura che comportavano una continua punizione.
«Così
la
Chiesa spiega la nascita di Sin» intervenne
l’Invocatore, rassettandosi la
veste. «La punizione per la tracotanza; la nemesi di chi ha
desiderato
imbrigliare il mondo con le macchine».
«Come
si
chiamava la città?» domandò Jecht,
senza un vero motivo.
Braska
sembrò pensare per qualche istante.
«Non
ricordo» disse infine, e la sua voce fu sostenuta da quella
di Auron:
«Nessuno
lo ricorda più».
Jecht li
aveva davanti, eppure non vide altro che l’ombra, alla luce
di un falò, di un
Al Bhed gentile che beveva il loto.
Rimasti in
silenzio, furono presto in vista della riva. Auron rilassò
ulteriormente le
spalle e spinse lo sguardo, per la prima volta, nelle onde: il
desiderio di
vedere anche solo per un istante la città sommersa
l’aveva spinto a superare il
suo timore.
Quella
notte, la prima dopo tante, sognò.
Auron
stava sprofondando verso il fondale, come la città di cui
nessuno voleva
ricordare il nome. Loro avevano preteso di dominare le forze della
natura, di
smentire il dio.
Costruirai
sulla terra, non sull’acqua.
La
stessa acqua che gli stava entrando nel naso e nei polmoni, la stessa
che lo
soffocava mentre un masso, legato ai piedi, lo trascinava
nell’ombra senza
fine.
Guarda! Il
peccato di chi
il Fluvilunio aggiogò con macchine
è passato nel sangue dei figli,
e nei figli dei figli
di questa terra disgraziata.
Auron
non moriva, per quanto lo desiderasse: cercava di strappare via con le
unghie
la pelle del petto, ma non sentiva nemmeno il proprio tocco.
Ahimè,
quanti mali
ci avrebbe risparmiato un re più pio,
un figlio
più devoto, una torre più
bassa!
Posò
i
piedi al suolo e allo stesso tempo si sentì fluttuare. Era
come se avesse
imparato a respirare con delle branchie e il peso legato alle sue
caviglie non
gravasse più.
Gli
spettri della città sommersa lo circondavano come anziani in
un consiglio.
Gemevano per la loro sorte, ma non sembravano essergli ostili, anzi
molti di
loro – dai volti senza lineamenti – gli mostrarono
la via per il tempio di Yevon.
Allora non mi
avrebbero inghiottito
e masticato le onde
ostili;
allora fiorirebbe mia figlia
che lì prostrata si strappa i capelli.
Auron
spinse la porta di marmo incrostato e fece ingresso, a passi lenti,
nella parte
più interna del tempio.
Non era
che una stanza buia: solo pochi raggi di luce filtravano dai fori sulle
pareti
e, dritti come giavellotti, colpivano le foglie d’oro sui
lucernari
vuoti.
Allora la mia
città vivrebbe,
alte come il volo d’airone
le sue guglie,
fertile come ventre di donna
la sua piazza.
C’era
qualcun altro con lui, qualcuno i cui tacchi battevano il terreno a un
ritmo
misurato dal divino.
Silenzio. Esce
il coro.
Gli
occhi del monaco si sollevarono, seguirono la spirale meravigliosa
disegnata
dai tasselli sul pavimento fino ad arrivare ai piedi di Alan.
«Inginocchiati»
ordinò il giudice, avanzando verso di lui, la veste nera che
si scostava a ogni
suo passo.
Auron
obbedì, senza il coraggio di alzare gli occhi. Era a torso
nudo e sentì il
cuoio di una frusta premuta sulle spalle quando Alan gli
girò attorno.
«Guardami»
gli intimò di nuovo l’Inquisitore, e per
rafforzare il concetto gli prese il
viso con una mano e lo costrinse a sollevarlo. Aveva una forza insolita
per un
essere umano e un sorriso troppo crudele sulle labbra.
«Perché
sei in Pellegrinaggio?» gli domandò, e Auron si
accorse con orrore che la voce
armoniosa di Braska si stava sovrapponendo alla sua.
«Io…»
provò a dire, ma uno schiaffo improvviso sulla guancia lo
costrinse a voltare
il capo. Auron, con gli occhi spalancati e la bocca socchiusa,
fissò per terra.
Un rivolo bianco, sfuggito alla vasca della fontana, rigava le
piastrelle come
una lacrima.
Non ci
credeva abbastanza. La sua motivazione non era sufficiente e
l’Inquisizione lo
sapeva.
Fu
costretto a riportare la testa dritta e fu colpito da un secondo
schiaffo, che
risuonò nel silenzio sacro della stanza.
«A-Alan…»
provò a dire, ma le parole gli morivano in gola.
«Rispondimi»
mormorò lui, stringendogli la presa sui capelli.
«Perché?»
Auron
guardò di nuovo dritto davanti a sé, dove la
veste dell’Inquisitore si apriva e
mostrava la cintura attorno ai suoi fianchi. La luce del sole alle sue
spalle
diventava più tenue, più calda: il giorno stava
morendo, e i suoi pensieri non
erano più puri.
«Ti
penti della tua volontà di peccare?»
Sì,
avrebbe
voluto gridare Auron, ma non un suono gli uscì dalle labbra.
Si limitò a
fissare terrorizzato ciò che aveva di fronte, con le braccia
abbandonate lungo
i fianchi, mentre le ginocchia sul pavimento liscio cominciavano a
dolergli.
Alan
lasciò bruscamente la presa e il monaco ricadde in avanti,
poi sentì i passi
girare attorno a sé una seconda volta. Si chiuse nelle
spalle e inarcò la
schiena, aspettando la punizione che desiderava.
Forse
il dolore, superando la tempesta nella sua mente, lo avrebbe riportato
alla
realtà.
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Capitolo 25 *** Esempio di tracotanza punita ***
CAPITOLO 18:
ESEMPIO DI TRACOTANZA
PUNITA
Gli occhi
di Auron erano scuri, eppure la luce cruda, tagliando ogni giorno le
nuvole
sulla strada per Djose, aveva cominciato a infastidirli. Il percorso
che
portava alla città non terminava, come aveva sperato, appena
traversato il
Fluvilunio, ma proseguiva in un bosco identico al precedente.
Il monaco
avrebbe proposto di affittare tre chocobo, se non fossero stati
costretti a
continuare il viaggio in ristrettezze economiche. La causa della loro
bancarotta stava camminando di fianco a lui, gli occhi puntati sugli
alberi
come se ognuno fosse diverso dall’altro, e avesse dei
dettagli che lui non
aveva mai visto.
L’atleta
avanzava in modo più naturale del solito, con la spada al
fianco, ma Auron non
si era accorto del momento in cui aveva smesso di sembrare una recluta
e aveva
assunto il portamento di un guerriero.
Forse,
considerò, Jecht stava pensando a quella libertà
di cui aveva tanto parlato,
con gli occhi che brillavano come quando raccontava dei cocktail che
preparavano a Zanarkand. Sembrava che quelle due pie illusioni
riuscissero a
infondergli il coraggio nell’animo.
Distolse
lo sguardo, che aveva cominciato di nuovo a soffermarsi sul suo torace,
seguendo le linee spigolose del tatuaggio. Quando lo puntò
sulla strada vide,
immersa nella luce, una carrozza nera che procedeva nella bruma.
Sentì le ruote
colpire qualche ciottolo lungo la via e vide il chocobo che la trainava
muovere
con precisione le zampe sopra un’immaginaria retta.
«Lasciamola
passare!» risuonò la voce di Braska, alzatasi
nell’atmosfera immobile.
I tre si
disposero in fila l’uno dietro l’altro per cedere
il passo, come era successo
molte altre volte. Tuttavia, proprio quando riuscirono a distinguere la
pelle
squamata dell’hypello che la conduceva, la carrozza ricevette
l’ordine di
rallentare.
Braska si
morse il labbro inferiore e sollevò le sopracciglia con aria
preoccupata,
rendendosi conto che – come temeva – non si
trattava di una comune carrozza a
noleggio.
L’ospite
del veicolo spense con decisione un sigaro su uno degli assi che
sostenevano la
gabbia. Il cocchiere, affranto, osservò la cenere scivolare
giù dal legno, ma
per paura trattenne i lamenti e si limitò a scuotere la
testa, mentre i drappi
che si tiravano restituivano un vago bagliore metallico.
I tre
viaggiatori, Jecht compreso, chinarono la testa e il busto nella
riverenza
yevonita.
«È
bello
vedervi in salute» esordì una voce che conoscevano
bene. Quando alzarono lo
sguardo videro Alan che, con un gesto, intimava l’alt alla
carrozza.
Jecht
osservò il Grande Inquisitore distendere le gambe e saltare
giù dal mezzo in
una maniera che avrebbe ritenuto ridicola per qualsiasi altro uomo. Il
modo in
cui atterrò sui tacchi spessi, la polvere sollevata, la
veste che tintinnando
tornava al suo posto gli incussero però un timore che non
riusciva a spiegare,
reso ancor più forte dai suoi occhi celesti che si posarono
su di lui e poi
subito si distolsero. Se non fosse stato velato, forse avrebbe potuto
soggiogare con lo sguardo.
Anche
Auron fu squadrato da capo a piedi, ma lui non mostrò il
minimo segno di
timore.
Quando
Alan parlò, tuttavia, si rivolse solo a Braska, come se
coloro che lo
accompagnavano non fossero degni di considerazione.
«Sei
diretto a Djose, immagino» disse.
«Sì»
rispose secco l’Invocatore, stringendo la destra sul
bastone.
«Djose…»
ripeté l’altro, pensieroso, come se volesse
cercare un secondo significato per
la parola. All’apparenza sovrappensiero, cominciò
a sfilarsi con minuziosa
lentezza uno dei guanti. «Davvero?»
Braska
rivolse al fratello una smorfia quasi impercettibile, avvertendo una
sorta di
tono canzonatorio nella sua domanda.
«C’è
stato
qualche problema?» gli chiese.
«No»
replicò l’Inquisitore. «Ma ultimamente
mi chiedevo se foste forti
abbastanza».
Con queste
parole lasciò cadere a terra il guanto, che
atterrò sull’erba secca senza un
suono. Braska strinse i denti e fece un passo avanti, ma Alan lo
bloccò, un
sopracciglio alzato e la luce grigia della campagna che illuminava il
suo viso
quasi senza colore.
«Fermo»
ordinò, poi la sua voce si addolcì.
«Non è per te, ysuna, ma per
uno dei
due Guardiani. Non ho nessun dubbio sulla forza del tuo animo, e
sarebbe un
atto empio sfidare il fratello che, soffrendo al posto mio, ha espiato
la mia
colpa. Mi hai reso un esempio per tutta Spira».
Jecht fece
per avanzare, ma esitò, spaventato dal loro discorso che non
riusciva a
comprendere e dal velo di Alan da cui non riusciva a distogliere gli
occhi.
Braska
unì
le mani in grembo e si allontanò con passi
misurati.
«Ti
credevo più accorto, amato fratello» disse con
composta reverenza. «È vero che
la mia malattia è stata una punizione del dio, ma infrangere
il divieto in
genere comporta molto più dolore. Pensare che ciò
che mi è successo basti a
redimerti non è da te».
Alan gli
rivolse un sorriso sbieco e annuì in silenzio, facendo
girare l’anello che
portava all’indice. Jecht approfittò del momento
per ricacciare la paura in
gola e scattare fino all’Inquisitore. Non era giunto nemmeno
a metà strada
quando Auron, senza una parola, lo spinse fuori dalla traiettoria e
raggiunse
il guanto.
L’atleta
sentì una rabbia bruciante farsi strada nel petto quando
vide il compagno di
viaggio piegarsi e restituirlo ad Alan, come se non lo considerasse in
grado di
sostenere quel combattimento. Come se si ponesse, in forza e in
virtù, sempre
un gradino sopra a lui.
«Molto
bene» commentò il Grande Inquisitore. Jecht
rivolse lo sguardo verso Braska,
che sembrava concentrato come davanti a un problema matematico di
difficile
risoluzione: persino a lui sfuggiva qualcosa.
Alan
portò
Auron su una collina dove crescevano piccoli fiori bianchi di cui lui
non
conosceva il nome. Il monaco sentì gli steli piegarsi,
perdendo lo scontro con
le sue gambe, e vide gli insetti cercare la salvezza disegnando ponti
nell’aria
coi loro salti.
«Che
tipo
di allenamento hai fatto?»
Auron
esitò, chiedendosi come quell’informazione avrebbe
potuto essere utile
all’Inquisitore. Inaspettatamente, gli giunse alle orecchie
la voce di
Braska:
«Rispondigli,
Auron» lo esortò.
«Mi
sono
addestrato coi monaci guerrieri di Bevelle»
replicò allora il Guardiano, «con
la spada a due mani e nel combattimento senz'armi».
Alan, di
nuovo, annuì in silenzio.
«Bene»
proferì dopo qualche secondo, mentre slacciava i paramenti
che portava sulla
schiena in modo che non lo ostacolassero nel duello. Braska fu rapido a
sorreggerli affinché non cadessero, e in quel momento ad
Auron parve di vedere
i due fratelli che incrociavano lo sguardo. L’Invocatore
aveva, dipinta nel
fondo degli occhi, una preoccupazione mescolata a un sentimento
indecifrabile.
L’ultimo
oggetto di cui l’Inquisitore si liberò fu
l’incensiere, che non fu affidato
alle cure di Braska ma piuttosto posato a terra, in un’area
resa brulla forse
dalla caduta di un fulmine. Cominciò a camminare in
direzione all’apparenza
casuale, ma a grandi passi, come se stesse misurando una distanza.
Il monaco
osservò il fumo diventare più denso, come aveva
fatto durante la battaglia di
Macalania, immerso in un silenzio che sapeva sarebbe svanito a breve.
Invece di
trasformarsi in una creatura, la nube cenerina divenne un giavellotto
stretto
tra le mani di Alan.
Senza una
parola, lui con la punta di ferro tracciò a terra un ampio
cerchio, come
l’orbita perfetta di un pianeta attorno al turibolo.
«Queste
sono le regole» esordì poi, mentre la veste nera
gli si richiudeva sulle gambe.
«Avrai vinto lo scontro se entrerai con entrambi i piedi nel
cerchio, o se
farai uscire me, con entrambi i piedi, fuori dal cerchio. Avrai perso
se ti
arrenderai. È consentito solo il combattimento corpo a
corpo, con qualsiasi
tipo di arma. È chiaro?»
Lo sta
prendendo in giro? pensò
stizzito Jecht, ancora impegnato a calmare il respiro dopo aver corso
per
raggiungere gli altri sulla collina. Alan, molto più basso
di Auron e con un
fisico nemmeno paragonabile al suo, sembrava un pigmeo con uno
stecchino in
procinto di affrontare un gigante.
«Ehi,
Braska, c’è sicuramente il trucco, non
può mica…»
Un cenno
della mano dell’Invocatore, che teneva lo sguardo incredulo
sulla scena, lo
fermò. Quasi in contemporanea arrivò la risposta
di Auron:
«Sì,
signore».
«Puoi
cominciare» annunciò l’Inquisitore, e
subito spostò la testa di lato per
evitare un pugno. Sorrise, quasi intenerito.
Auron,
sentendo placarsi l’impeto che lo aveva spinto ad aggredire,
portò allora
entrambe le mani sull’elsa della spada e assunse una
posizione di
guardia.
Sembra
troppo semplice, pensò,
sentendo l’adrenalina che gli faceva tendere i muscoli, non
devo
sottovalutarlo.
Scambiò
con Alan una serie di rapidi colpi, nel tentativo di avanzare di almeno
un
passo, ma la difesa del suo avversario sembrava non avere falle. Invece
di
tentare gli affondi con il giavellotto, si limitava a parare i fendenti
di
spada con la parte di legno dell’asta.
Un colpo
con il tempismo sbagliato costrinse Auron a retrocedere con un piede
per
ritrovare l’equilibrio. Il metallo delle loro armi stridette
di nuovo nello
scontro.
Devo
provare a piegarlo, rifletté
il monaco, gli occhi fissi sul giavellotto.
Una volta
recuperata la posizione, spostò lo sguardo sulle mani
dell’Inquisitore. Erano
sottili, quasi scheletriche, e le braccia che scomparivano sotto le
maniche non
potevano nascondere una forza maggiore della sua.
Levato un
alto grido, si scagliò verso di lui. Alan, invece che
limitarsi a parare, lo
spinse all’indietro, in modo da allontanarlo dal cerchio.
Auron
sollevò gli occhi dalla linea, riempì il petto
d’aria e attaccò di nuovo,
scaricando sulla spada tutto il peso del corpo. Fu come terminare una
corsa
contro un muro: chi guardava da fuori lo vide sbalzato via da una forza
invisibile; lui capì solo di essere caduto sulla schiena, il
colpo che ancora
gli risuonava nelle braccia.
Era forte.
Alan era molto
forte.
Il monaco
poté solo spostare gli occhi verso l’alto: la
figura minuta dell’Inquisitore si
stagliava contro le nuvole, protesa in un salto letale, le braccia in
alto a
stringere l’asta aguzza e le gambe piegate. Riuscì
a rotolare di lato in tempo
e la punta della lancia si infisse nella terra, tanto a fondo da farlo
tremare
per ciò che sarebbe potuto accadere al suo cranio.
Spinse
contro il terreno per rialzarsi, ma una fitta di dolore gli
attraversò il
braccio. L’Inquisitore gli aveva assestato un calcio sulla
spalla, affondando
il tacco nei legamenti.
Un urlo
trattenuto sfuggì dalle labbra di Auron, che subito le morse
fin quasi a farle
sanguinare. La spada gli era sfuggita dalle dita e i suoi occhi
dardeggiarono
verso Alan, che gli puntava contro il giavellotto.
«Alzati»
lo esortò lui, soffiando fuori dal naso l’aria con
un mezzo sorriso.
«…
fai?»
fu la debole risposta che gli arrivò alle orecchie. Alan
inarcò le sopracciglia
sotto al velo e storse le labbra nell’imitazione di un
sorriso, gesto che rese
ben evidenti le rughe sottili ai lati della sua bocca.
«Prego?»
«Come
fai?» sbottò Auron alzando la testa da terra,
sempre più determinato a
continuare lo scontro. «Ti ho visto,
all’accampamento, andare a vomitare quello
che avevi mangiato. Sei la metà di me, ma non riesco nemmeno
a spostarti. Sei
costretto a rimanere velato, ma non fallisci neanche un
colpo».
Un refolo
di vento gli mosse i capelli mentre lui, immobile, aspettava una
risposta.
Alan finse
di essere, seppur compostamente, sorpreso:
«Oh»
commentò, «mi stavi osservando? L’ho
sempre detto, io: mai fidarsi della gente
che fuma».
«Non
puoi
essere forte» lo interruppe il monaco a denti stretti.
«Come fai? Dimmelo! Sei
un Non Trapassato?»
Il braccio
armato del Grande Inquisitore, a quella domanda, si abbassò
fino a puntare la
lancia a terra anziché al petto dell’avversario.
«No»
rispose lui.
«Non
ti
credo!»
Un forte
colpo allo stomaco, che gli mozzò il respiro nonostante
l’armatura, impedì ad
Auron di continuare a gridare.
«Rispetto!»
gli intimò Alan, assestandogli un secondo colpo, molto meno
deciso, con
l’estremità dell’asta. La sua voce era
divertita.
«Signore»
sbuffò Auron, e scostò il giavellotto per potersi
rialzare. Una volta in piedi,
strinse di nuovo le dita sull’impugnatura della
spada.
«Ti
arrendi?» chiese Alan, indietreggiando senza dargli le spalle.
«No».
Jecht,
costretto a limitarsi a osservare dalle retrovie, chiuse la bocca e
strinse le
labbra. Desiderava gridargli di smettere, ma all’ultimo si
era trattenuto: non
conosceva un uomo forte quanto Auron, sarebbe sicuramente riuscito a
vincere il
duello.
Il suo
giavellotto colpisce a media distanza, pensava
intanto il ragazzo, intento a valutare le
mosse di Alan che indietreggiava verso il cerchio per provocarlo. Se
mi
avvicino ho più possibilità di colpirlo, ma
rischio che mi raggiunga coi calci.
La sua
spalla gli ricordò con una fitta quanto fosse bene evitare
quell’eventualità.
Alan non aveva nemmeno usato la magia, non in modo evidente, almeno.
“È
consentito solo il corpo a corpo”, aveva detto.
Mentre
calava ancora la spada, e ancora la lancia dell’avversario
deviava il colpo, e
ancora il vento di quella zona selvaggia cercava di sollevare la terra
secca,
Auron si chiese se avrebbe dovuto credergli.
La
risposta fu sempre la stessa.
Nonostante
la sua arma non fosse stata progettata per quello, cercò di
rompere la guardia
dell’Inquisitore con una stoccata di punta. Alan, per
fermarla, fu costretto a
ruotare la lancia e perdere la stabilità sul
terreno.
Auron vide
l’apertura, strinse i denti e affondò di nuovo la
spada. Per la prima volta
incontrò una resistenza diversa da quella del
legno.
Quando
alzò gli occhi, incontrò l’Inquisitore
che, con un’espressione soddisfatta, si
teneva il fianco sinistro. La sua veste nera era stata lacerata e la
sua mano
cominciava a tingersi di rosso.
Le gambe
forti del Guardiano ricevettero l’impulso di muoversi per
oltrepassare il
perimetro del cerchio, ma l’addome si piegò per la
fatica, scosso da un respiro
irregolare, e gocce tonde caddero dalla sua fronte fino a
terra.
È
l’unica occasione che ho,
si spronò Auron, mentre tutto attorno a lui pareva
offuscarsi e rallentare. Non
posso perderla.
Dopo un
istante di indecisione, scattò verso il solco nel terreno,
le suole che quasi
scivolavano nella polvere.
«Stolto»
lo raggiunse una voce dal timbro caldo, che sembrava provenire da ogni
parte.
Poi, il mondo si frantumò.
Con la
bocca socchiusa e gli occhi spalancati, Auron sentì una
scossa attraverso tutti
i nervi della parte sinistra del corpo. Mentre cadeva a terra, la punta
del
giavellotto si conficcava sempre più a fondo nel
polpaccio.
La veste
di Alan gli sbarrava la strada come un’onda di tempesta, la
vista gli era ormai
diventata rossa come il sangue di cui sentiva il sapore in gola.
Tuttavia, con
sforzo degno d’eroe, scagliò la spada, quasi alla
cieca, verso dove pensava
giacesse il turibolo.
Quando
sentì un tonfo, chiuse gli occhi e pregò che
arrivasse il secondo. Non accadde.
«Una
bella
idea, te lo riconosco» udì invece. «Ma
non sarebbe bastato a romperlo».
No, lo
so,
pensò Auron,
mentre con lacrime di dolore si osservava la ferita dove la punta era
ancora
conficcata. Strinse i denti, rannicchiato, e provò a
estrarla: con orrore – e
un dolore sordo che gli percorse la gamba – si rese conto che
il ferro si
piegava e non lasciava la sua carne.
Il suo
sguardo disperato si alzò su Alan: i lunioli
l’avevano circondato e stavano
formando tra le sue mani un’arma identica alla precedente.
Per la prima volta,
Auron provò il terrore della preda, sentì il
cuore pompare il sangue più che
poteva, come se si volesse gloriare dei suoi ultimi battiti.
Non gli
restò che abbassare la testa e chiudersi su se stesso, ma la
lancia oltrepassò
con facilità la sua armatura di cuoio e gli trafisse il
lombo. Il contraccolpo
lo scosse e uno schizzo copioso di sangue tinse l’erba tra i
suoi piedi.
«Devi
dichiarare la resa» lo informò il Grande
Inquisitore, mentre lui navigava a
vele ammainate nel dolore e non riusciva a distogliere gli occhi dalla
chiazza
rossa che si allargava a terra.
«No...»
riuscì a dire lui, abbastanza forte da farsi udire nel
silenzio. La sua voce
era sofferente, il tono più acuto del normale.
Provò a rialzarsi, ma subito
cadde carponi.
«Capisco»
osservò Alan, senza inflessioni che potessero tradire un
sentimento di pietà.
Con un gesto fece dissolvere i due giavellotti che lo trapassavano:
essi si
ridussero a semplici luci e presero a vagare nell’aria
umida.
Auron
cadde riverso a terra.
«Braska»
chiamò l’Inquisitore, senza aggiungere nessun
epiteto affettuoso. «Cura le sue
ferite».
L’Invocatore,
titubante, strinse lo scettro, poi deglutì e, consapevole
del suo dovere, mosse
i passi verso il fratello.
«Braska!
Auron!» gridò Jecht, inorridito dalla follia che
gli si palesava davanti. «Cosa
state facendo? Fermatevi!»
Le sue
urla incontrarono solo la schiena voltata dell’Invocatore.
Come se non fosse
successo nulla, come se stesse aiutando qualcuno dopo un combattimento
contro i
mostri, lui si inginocchiò a fianco ad Auron.
«Basta!
Combatto io al suo posto!» continuò a dire, senza
rendersene conto.
«Stai
andando contro la volontà del tuo compagno»
intervenne Alan. «Ha detto lui di
non volere la resa».
«Auron»
provò a supplicare ancora, «ti prego. Non puoi
batterlo, smettila».
«Taci»
lo
raggiunse una voce, tanto tremenda da far dubitare che potesse
provenire da un
uomo ferito. «Non intendo macchiarmi di un
disonore».
Jecht subito
tacque e Auron si rialzò, malfermo sulle gambe nonostante
l’energia vitale di
Braska scorresse nelle sue vene.
Non
devo caricarlo, rifletté
mentre ripercorreva ciò che era successo durante lo scontro.
Rivide gli slanci
a cui Alan si era affidato per colpire, il momento in cui si era mosso
e lui
gli aveva trapassato la gamba scagliando il giavellotto. Se avesse
mirato alla
schiena, lo avrebbe ucciso sul colpo.
I due
avversari si avvicinarono ad armi tratte e cominciarono a studiarsi
come
predatori in competizione tra loro.
Quella
strana lancia sfrutta il movimento del nemico per colpire
più forte, considerò
ancora il monaco, e di
conseguenza si avvicinò ad Alan e assunse una posizione
ferma e stabile. Le sue
deduzioni erano corrette: l’Inquisitore era in allerta, ma
non aveva nessuna
intenzione di attaccare per primo.
Tuttavia,
questo non spiegava l’intensità del colpo che lo
aveva gettato a terra
all’inizio del combattimento: allora non stava caricando.
«Sì,
sei
intelligente» commentò Alan, osservando i
movimenti lenti di Auron, che
avanzava verso di lui e verso il cerchio. L’altro rimase del
tutto indifferente
al complimento. «Sei anche riuscito a vederli?»
«Cosa?»
sfuggì dalle labbra di Auron.
Alan
proruppe in una risata trattenuta.
«Guarda
meglio» disse, affondando il giavellotto
all’improvviso.
Il
Guardiano, senza farsi cogliere alla sprovvista, parò
l’assalto con il piatto
della spada. Riuscì a opporsi all’impeto e a
indietreggiare di poco, ma
resistere gli richiese uno sforzo non indifferente.
Osservò
poi l’aria attorno a dove era stato vibrato il colpo, ma non
vide nulla. Forse
avrebbe dovuto notare qualcosa nell’attimo precedente, ma era
stato troppo
impegnato a proteggersi.
«Di
nuovo»
disse, riportandosi in posizione di guardia con la spada davanti al
corpo. Il
suo istinto gli suggeriva qualcosa che andava decifrato. «Mi
colpisca di nuovo,
per favore».
Alan
sorrise e impugnò l’arma con la destra.
«Volentieri»
replicò, e lo attaccò con la stessa mossa che
aveva usato poco prima.
Auron, con
i muscoli che gli dolevano per lo sforzo, fermò di nuovo la
lancia e subì
l’impatto. Aggrottò le sopracciglia,
focalizzandosi su cosa succedesse istante
per istante.
«Concentrati»
lo spronò la voce dell’Inquisitore, subito prima
di un terzo affondo.
La spada
gli cadde dalle mani, ma Auron non diede segno di curarsene: sapeva che
l’avversario non intendeva dargli il colpo di
grazia.
«Li
ho
visti…» sussurrò.
Nell’attimo
in cui il metallo delle loro armi si era scontrato, dei lunioli quasi
invisibili erano fuoriusciti dalla punta del giavellotto di
Alan.
«Rimani
concentrato» ripeté Alan, le cui parole
all’improvviso lo guidavano. «Ti farò
parare un pugno».
Obbediente
come una marionetta, Auron si fidò e portò avanti
l’avambraccio destro. Il
colpo annunciato arrivò davvero: le mani
dell’Inquisitore sembravano avere la
forza di tre uomini e il suono di uno schiocco risuonò
nell’aria. La volontà di
un monaco, però, era in grado di ignorare anche quel
dolore.
«C’è
una
zona del tuo corpo in cui li senti» continuò
l’Inquisitore, lasciando che Auron
fermasse con una presa della mano sinistra un secondo pugno.
«Qual è?»
Il
Guardiano respirò a fondo, poi chiuse gli occhi. Si trovo,
similmente a quando
meditava, immerso in un asciutto oceano di silenzio. Quando
sollevò le
palpebre, avvertì una tenue luce, un ultimo luniolo, che
veniva mosso da una
forza invisibile.
«L’occhio
destro».
Alan
annuì.
«Anche
se
la loro anima se ne sta andando, gli abitanti di Spira desiderano
ancora
combattere» spiegò. «E danno origine
alla magia. Gli incantesimi elementali non
sono altro che lunioli addensati, ma non è necessario
conoscere la loro origine
per poterli padroneggiare. Tuttavia, le creature più
sensibili all’Oltremondo,
come i Guado, riescono a vedere oltre, in ciò che costituisce
la magia.
I loro tatuaggi, che partono dalla regione del corpo con cui
percepiscono i
lunioli, non sono altro che catalizzatori. Possiamo, noi come loro,
vedere i
lunioli perché sono affini alla nostra anima».
Auron,
assorto, cominciò a chiudere un occhio e poi
l’altro, senza però percepire più
nessun cambiamento. Sussultò quando un giavellotto si
materializzò, fluttuante,
alla sua sinistra.
«Prendilo»
gli ordinò l’Inquisitore. «Non voglio
farti del male» aggiunse poi, vedendo che
il ragazzo era reticente.
«Alan!»
arrivò l’urlo di Jecht.
«Perché lo stai addestrando?»
L’interessato
lo ignorò, continuando a rivolgere le sue attenzioni ad
Auron, la cui mano era
sospesa a mezz’aria, ferma nell’atto di afferrare
l’arma.
«Quella
di
Jecht non è una domanda stupida» disse
però lui, senza completare il gesto.
«Perché lo sta facendo?»
Le labbra
sottili di Alan si tesero nell’ennesimo sorriso.
«Sei
il
Guardiano di mio fratello, no?» osservò.
«Ti basta, come risposta?»
Auron
arricciò il naso e strinse la lancia.
«Sì».
«Noti
qualche differenza tra quello e un normale giavellotto? Sapresti
riconoscerli?»
«No»
rispose il monaco. Mentirgli sarebbe stato solo controproducente.
A quella
parola, l’oggetto perse di consistenza e si dissolse
nell’aria, prima sotto
forma di fumo e poi, una volta raggiunta una certa quota, come una di
quelle
luci tanto familiari agli abitanti dell’isola.
«Essere
in
grado di dare una consistenza ai lunioli, o addirittura di dare
l’illusione di
una creatura senziente, è fuori dalla tua portata»
continuò il Grande
Inquisitore, «ma puoi usarli per rendere più forti
i tuoi colpi: concentrati
sull’energia che senti e falla convergere nei tuoi colpi. I
Guado la chiamano
Shaggamàdhr. La Necropotenza».
«Necropotenza...
» ripeté Auron a mezza voce. Alan gli rivolse uno
sguardo divertito e poi
guardò all’orizzonte, dove il sole stava
declinando verso l’ora incerta.
«Gli
impegni che mi aspettano sono noiosi» considerò,
quasi parlando tra sé e sé,
«tu invece mi stai intrattenendo. Cambio le regole dello
scontro: affrontami a
mani nude finché non riuscirai a infondere la magia nei tuoi
attacchi».
Auron
assunse una rigida posizione di guardia; Alan si limitò a
voltare il collo a
destra e a sinistra prima di aggiungere:
«Questa
volta non accetto una resa».
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Capitolo 26 *** Lamento per la città perduta ***
CAPITOLO 19:
LAMENTO PER LA CITTA’
PERDUTA
Quella
giornata sembrava non voler più finire agli occhi di Jecht.
Dapprima era stato
preoccupato, poi sempre più annoiato mentre assisteva al
compagno d'armi che si
allenava con colui che considerava un nemico.
Auron
incassava colpo dopo colpo senza un lamento – e senza nemmeno
fare progressi
concreti, o almeno ciò gli era sembrato.
Non so
niente di questa roba, si
ripeteva di continuo, se ad Auron va bene così,
deve avere qualche utilità.
Era il
volere del monaco, ma vederlo ferito in continuazione lo faceva
soffrire.
Braska, seduto accanto a lui, teneva gli occhi fissi sul suo Guardiano
apprezzando movimenti e azioni che Jecht non capiva, e quando non
capiva
perdeva interesse molto in fretta. Le smorfie di dolore di Auron,
invece, erano
molto chiare.
Alan
sorrideva soddisfatto per ogni goccia di sangue versata dal monaco che,
fallito
miseramente ogni tentativo di colpire il Grande Inquisitore, prese a
concentrarsi solo sull'individuare i lunioli intorno a lui, rendendolo
un
bersaglio divertente da stuzzicare.
Quando il
cielo diventò bruno e la fresca brezza della sera fece
rabbrividire la pelle,
dopo le ripetute richieste di Braska di finirla lì, Auron
non era che un pezzo
di carne maltrattato. A Jecht era capitato molte volte di versare nelle
stesse
condizioni dopo estenuanti sessioni di allenamento, ma quello
andava
oltre l'esperienza di una vita nella sfera d'acqua.
L'atleta
poté finalmente frapporsi tra i duellanti e mettere il
braccio armato del
compagno dietro il suo collo, sollevandolo quanto bastava per condurlo
via.
«Jecht,
portalo alla tenda e aiutalo come puoi. Le ferite sono sanate, ma il
suo vigore
è stato del tutto consumato» disse Braska con un
sorriso tirato.
«E
tu?»
domandò cupo il Guardiano, che venne poi avvicinato da Alan
con fare teatrale.
«Non
temere, uomo di Zanarkand. Voglio solo parlare con mio
fratello» disse
enfatizzando l'ultima parola. «Mi sono divertito abbastanza
per oggi. Il tuo
compagno ha una tempra invidiabile, vero?»
Jecht
incassò la provocazione, ma non replicò.
Dopotutto aveva ragione, in più Auron
era assente e privo di forze: non poteva indugiare.
«Ti
aspettiamo, allora. A lui ci penso io».
Jecht
serrò la presa sul corpo martoriato del giovane e lo
incoraggiò a tenersi in
piedi, ma il peso di Auron lo costringeva a fermarsi spesso.
«Sei
un
maledetto testardo» disse Jecht a bassa voce, sicuro che il
monaco non avrebbe
risposto. «Potevi fermarti prima e non ridurti
così».
«...tu
lo
avresti fatto? Davanti a lui?»
replicò l’altro a denti stretti, e Jecht
sospirò infastidito.
«Rimani
comunque un testardo. Hai almeno trovato ciò che cercavi in
questo massacro?»
«Sì».
Jecht
scosse la testa e lo tirò in piedi di nuovo, non senza
fatica. Riuscirono a
raggiungere la tenda, piantata all'ombra larga e scura di un albero.
«Ah,
diavolo. E ora?» chiese l'atleta al compagno che non riusciva
nemmeno a piegare
il busto.
«Ce
la
faccio… non mi serve la balia» rispose Auron
cercando di svincolarsi dalla
presa, ma le sue gambe parevano non essere dello stesso avviso.
«Non
ho
potuto combattere, lasciami fare almeno questo».
Il monaco
rimase in silenzio e sbuffò aria dal naso, lasciandosi
aiutare a piegarsi ed
entrare nella tenda, cadendo al suolo come le decine di volte accadute
ore
prima. Auron si lasciò sfuggire la prima imprecazione della
giornata e lamentò
il dolore, libero dallo sguardo agghiacciante di Alan.
Jecht
controllò le sue condizioni in modo sommario, ma di una cosa
era sicuro: si
sarebbe preso cura di lui e avrebbe ripagato il debito di quando erano
al fiume,
perlomeno quello morale. Si inginocchiò al suo fianco,
stando ben attento a non
far nulla senza il suo permesso.
«Ehi,
ragazzo» esordì schiarendo la voce, «so
che non ti piacerà, ma hai sangue
incrostato ovunque. Ti dovrei pulire con un panno umido, almeno intorno
alle
ferite, e dovrei lavare i tuoi vestiti».
Auron
girò
la testa e lo guardò con gli occhi ridotti a due fessure,
poi sospirò
impotente.
«Lo
so»
rispose in tono secco.
«Va
bene,
monachello. Cerco di fare in fretta, ok?»
Jecht
cercò di mantenere un'espressione neutra per non risultare
sgradevole al già
infastidito Auron, e iniziò a liberarlo dalle cinghie del
cappotto che tanto
gli avevano dato noia per la strada innevata di Macalania.
Impiegò
qualche minuto di attento studio prima di scoprire l'armatura di cuoio
sotto di
esso, imprecando a bassa voce per la difficoltà.
Guardò per un istante il viso
di Auron, e lo trovò voltato a fissare un punto vuoto della
tenda. Sembrava un
bambino indifeso, e si sentì a disagio.
«Devo
sfilare il cappotto. Riesci a sollevare le braccia? Anche di
poco» chiese
Jecht, mantenendosi distaccato.
Il monaco
fu costretto a raddrizzare il collo e guardarlo, ma cercò
comunque di fare come
diceva. I muscoli tesi gli bruciavano come fuoco vivo e non ne
sosteneva il peso,
così il suo compagno fu costretto a mettergli una mano tra
le scapole e far
leva, sfilando rapido il cappotto e gettandolo di lato.
L'armatura
venne rimossa con più facilità e lo sguardo di
Jecht cadde sul petto di Auron.
Notò, forse soffermandosi troppo a lungo, che i peli che
strappava con la cera
stavano ricrescendo, così come i suoi, anche se non
numerosi.
Il monaco
si irrigidì nel sentirsi osservato tanto da vicino, senza
una protezione a
celarlo agli occhi.
Che
cos’ha da guardare?,
si trovò a pensare con disprezzo. Non riusciva a capire se
Jecht si fosse o
meno accorto del fastidio che gli causava. Con tutti gli
uomini che avrà
visto…
Pensò
agli
spogliatoi degli atleti di blitzball e si chiese per
l’ennesima volta come
facessero a non sentirsi violati.
«Sei
ridotto davvero male… non ho mai visto tanti lividi in un
sol uomo» disse
all’improvviso Jecht.
«...ah»
rispose Auron, guardandosi l'avambraccio destro.
«Sì, hai ragione».
Jecht
preparò una bacinella d'acqua fresca con un panno pulito, ma
indugiò qualche
istante prima di iniziare a tamponare le ferite più
profonde: doveva distrarre
Auron, o l'imbarazzo lo avrebbe mangiato vivo.
«Quando
l'hai accusato di essere un Non Trapassato mi sono visto con un piede
nella
fossa» disse, ridacchiando. Tutto ciò che ottenne
fu uno sbuffo adirato, ma
decise di non desistere.
«Auron,
gli hai tenuto testa tutto il giorno! Non ho mai visto nessuno prendere
così
tanti colpi e restare in piedi» insistette, ma il monaco
strinse con forza un
lembo dei pantaloni.
«È
stato
un disonore imperdonabile».
«Conosce
tecniche oscure per diventare forte. Ora che te le ha mostrate, la
prossima
volta lo sconfiggerai tu» rispose Jecht con sicurezza,
lavando via il sangue
rappreso dal costato dell’altro. Auron allentò la
presa, ma il fuoco della
sconfitta bruciava ancora.
«Al
posto
mio ti staresti lagnando, invece» disse, soffiando aria dal
naso.
«Non
me ne
hai dato la possibilità» replicò Jecht
piccato, tanto da attirare lo sguardo
del compagno.
«Non
avresti resistito tanto».
«Lo
so,
monachello: conosco i miei limiti. È per questo che dico che
le tue abilità
sono eccezionali, ed è per questo che non vedo nessun
disonore in ciò che hai
fatto».
Auron non
rispose.
«Da
quando
hai smesso di bere stai provando a fare il saggio»
borbottò poi a bassa voce,
causando una sonora risata nel compagno.
«Io
la
chiamo la mia fase filosofica»
spiegò lui con un largo sorriso, poi
strizzò il panno della bacinella e continuò il
suo lavoro senza aggiungere
altro. Dopo molti minuti, il silenzio fu rotto dal lamento di dolore di
Auron
per essersi girato verso Jecht.
«Quel
cane
mi ha distrutto, ma ho capito come fa» disse, con solo una
punta di
indecisione. «Per metterlo in pratica, avrò
bisogno di un compagno di
allenamento».
«Hai
qui
il tuo uomo. Devo solo farmi riempire di botte, no?» rispose
Jecht allegro.
«Ci
andrò
piano».
«Ha
parlato quello che quasi mi ha spezzato un braccio al
monastero».
Auron fece
una smorfia che Jecht non seppe interpretare, ma era sicuro che si
divertisse
un mondo a farlo cadere al suolo come un ramo spezzato.
I loro
occhi si incontrarono per qualche secondo in cui nessuno dei due disse
nulla.
«Cerca
di
dormire, ora. Mi ci vorrà un po' per lavare i tuoi
vestiti» esordì poi
l'atleta, passandosi il cappotto tra le mani. «Vuoi una
coperta?»
«Sì,
grazie» rispose Auron sospirando e, una volta al caldo, il
torpore fece
chiudere i suoi occhi.
Braska
arrivò quando Jecht aveva appena scrostato l'ultimo rivolo
di sangue rappreso
dall'indumento, un lavoro più stancante di quanto pensasse.
«Sei
un
buon amico, Jecht» disse l'Invocatore con un largo sorriso.
«Manca ancora
qualche ora al tuo turno di guardia, perché non vai a
riposarti? Per me è
ancora presto per dormire».
Per quanto
l’atleta avesse voluto declinare, e ribadire a Braska il suo
impegno di
proteggerlo, la stanchezza si fece sentire. Affidò il
cappotto rosso a Braska e
si ritirò nella tenda, accanto ad Auron che dormiva
profondamente.
Non appena
ebbe posato la testa sul suolo, che gli pareva comodo come un materasso
di
piume, subito il sonno lo colse, e – cosa che non gli
accadeva da diverso tempo
– un sogno lo sovrastò.
Dopo
tante notti passate a giacere sulla terra dura di Spira, il materasso
sotto la
schiena di Jecht gli era di grande sollievo. Sul suo stomaco,
però, gravava uno
strano peso che non si poteva vedere; il suo corpo si muoveva lento
nell’etere
del sogno, come se incontrasse la resistenza dell’acqua.
«Tu
dormi e ti scordi di me, Jecht» sussurrò la voce
suadente della donna che
conosceva meglio di tutte.
Lui
percepì una carezza amorevole sul viso, gli
arrivò un profumo che, nella sua
mente, invadeva tutta Zanarkand.
E
Zanarkand era la donna: la sentiva sopra di sé, con i
capelli sciolti sulle
spalle e il seno scoperto, la testa reclinata all’indietro
mentre soffiava
fuori dalle labbra il gemito per cui aveva interrotto le parole.
Le mani
di Jecht, tremanti per la nostalgia, le strinsero le cosce,
accompagnarono i
movimenti con cui lei lo possedeva.
«Non
ti
ho dimenticato, Lauren…» rispose con voce roca,
mentre un piacere familiare,
calmo e malinconico, gli invadeva il ventre, gli irradiava il petto
dove lei lo
toccava.
Lauren
spinse con decisione il bacino e sorrise, i begli occhi azzurri coperti
dalle
ciocche ricadute e un sorriso fragile che le increspava le labbra.
L’istante
dopo era fiera come le tigri dal manto d’oro, e si piegava su
Jecht per
baciarlo.
Quelle
che lui sentì, però, erano le labbra di un uomo,
e maschile era anche la forza
di chi lo sovrastava e lo stringeva. Socchiuse gli occhi per vedere un
turbine
di capelli neri, cedette a baci passionali e inesperti,
lasciò che lui gli
mordesse le labbra nei tentativi.
«Auron…
amore mio» gli sfuggì, mentre gli stringeva le
dita e veniva percorso da un
dolore che, ancora una volta, gli era familiare.
A
quelle parole, il monaco si fermò, ritardando di
chissà quanto la soddisfazione
che Jecht aspettava.
«Belle
parole» mormorò, accarezzandogli il viso,
«per chi si è dimenticato di me
mentre sogna, e solo quando è sveglio sembra
pensarmi».
I suoi
capelli lisci erano tanto lunghi che ricadevano sul petto di Jecht e
parevano
convergere nelle linee d’inchiostro.
Per la
prima volta, non sembrava arrabbiato. Era triste, e nei suoi occhi
d’ambra si
specchiava la luce diffusa del talamo.
«Non
hai mai abbandonato i miei pensieri» rispose
l’atleta, aprendo di più le gambe.
«Ti prego…»
Di
nuovo sentì il corpo della donna, la dolce sensazione che
gli infondevano i
suoi gesti e la sua voce, e il ragazzo era sparito come una nube di
lunioli.
«Ti
prego, Lauren, riportami a casa» disse in tono supplichevole,
ma lei continuava
a danzare lentamente su di lui, e non lo ascoltava.
Jecht
cercò di prendere l’iniziativa, di aumentare il
passo, ma ricevette in cambio
solo graffi sulla schiena. Si rese conto che gli piaceva, che se la sua
vita
fosse diventata tutta un dolce subire, allora forse avrebbe potuto
accettarla.
Con un
sospiro, accarezzò il seno alla moglie e si perdette nei
suoi gemiti,
desiderando solo in modo disperato che continuasse ancora.
«Ancora…»
implorò, e non riuscì nemmeno a sentirsi
ridicolo, perché i suoi sensi erano
annullati da Auron che lo possedeva con impeto.
«Tu
la
ami?» gli domandò lui all’improvviso. La
sua voce era ferma, come se anche in
quel momento cercasse la verità.
Jecht
non rispose: mentre dalle sue labbra socchiuse usciva solo qualche
flebile
lamento, gettò all’indietro la testa. Il suo pomo
d’Adamo sobbalzava, come
tutto il corpo, e un senso d’estasi cominciava a pervaderlo
davanti al viso di
Auron non più imperturbato. Attraverso le ciglia, lo vide
con gli occhi
socchiusi, le labbra arricciate e i denti scoperti; sentì le
sue mani che gli
stringevano i fianchi per tenerlo fermo.
Era
come perso in una spirale d’oscurità, alla fine
della quale non c’era il
sollievo che cercava, ma l’abisso profondo di un mare dove
non voleva
sprofondare. Cercò con tutte le forze di non cedere al
calore che sentiva.
Si
trovò disteso su un fianco; accanto a lui c’era
Lauren che sorrideva. Jecht la
sfiorò tra le gambe con le dita e lei gli passò
una mano sul ventre.
Resisti,
pensò lui, mentre nella sua mente cominciava a profilarsi
l’immagine del mostro
marino tremendo.
Resisti.
Quando
vide Auron giacere con lui, però, non riuscì a
fermarsi: fu attratto fatalmente
dalle sue labbra, le assalì cercando di sfogare un desiderio
che non voleva
spegnersi. Il ragazzo ricambiava con foga i baci, lo stringeva al petto
e lo
toccava.
«Auron…»
gemette Jecht, sentendosi spingere su un fianco in modo da potersi
concedere di
nuovo a lui.
Non
riuscì più a trattenersi quando sentì
le sue labbra sul collo, le sue mani e il
suo corpo che gli davano piacere.
Si
trovò a cadere in quell’abisso che aveva
temuto.
Stava
sprofondando verso il fondale, come quella città di cui
Auron gli aveva
parlato, quella di cui nessuno sembrava ricordare il nome, ma solo il
destino.
«Diventa
il mio amante» lo richiamò la voce del ragazzo,
lontana come un’eco gridata
dalla montagna.
«Diventa
il mio amante» gli fece contrappunto quella di Lauren, che si
rivolgeva a lui
come a un estraneo.
Forse,
si rese conto, mentre lui era assente, lei aveva già detto
quelle parole a uno
sconosciuto. Aveva finalmente trovato il coraggio di dissacrare quel
letto
pesante per entrambi.
Ma
cos’era ciò che stava facendo lui?
«Diventa
il mio amante e ti porterò a Bevelle, e mi unirò
a te in riva al mare di Spira,
e sarà eterno il tuo nome col mio».
«Diventa
il mio amante: io sono l’unica in grado di riportarti a
Zanarkand».
Jecht
posò i piedi al suolo e allo stesso tempo si
sentì fluttuare. Il blitzball, a
cui si era dedicato per tanti anni, aveva reso il suo corpo consapevole
delle
correnti, ma all’improvviso l’acqua scura delle
profondità gli sembrava docile
come quella di una piscina.
Ah,
sconsiderato
Yu Yevon!
Se
giungessero dal cielo a portarmi
il destino
di morte
io senza
esitare l’accetterei,
io che
annego nel buio!
«Chi
c’è?»
chiese Jecht a gran voce. Sembrava che qualcuno, al centro della grande
notte
che lo avvolgeva, si stesse lamentando. Era una sola persona e allo
stesso
tempo erano tanti, all’unisono, che piangevano con
coordinazione perfetta.
Tanti
giovani hai distrutto
davanti
alle porte di Bevelle
e alle
torri di Zanarkand
e sulla
cristallina Besaid
infliggendo
un lutto senza pari,
che non ha
secondo sulla terra.
«Chi
sei?» gridò di nuovo l’atleta, deciso.
Quell’entità aveva appena nominato due
luoghi che lui ben conosceva e la curiosità, nel suo animo,
sempre superava il
timore.
Non
udì
una risposta immediata, ma delle luci familiari sfrecciarono davanti ai
suoi
occhi. Vide per un istante la sua città, che poi subito
scomparve, poi apparve
di nuovo: era davanti a lui, era solo la facciata di un edificio che
non poteva
toccare, ma era lì.
Ti sono
stati dati per vedere, uomo,
due occhi,
e per comprendere hai l’animo.
Ma colui
che, ahimé, si accosta
a chi come
me ha sofferto tanto,
subito ha
paura di comprendere
quale sia
il dio, quale la punizione
per cui
sto sprofondando.
«Perché
mi accusi? Ti ho solo fatto una domanda» replicò
Jecht. «Abbi il coraggio di
venire fuori, invece di mostrarmi qualcosa che mi è caro e
che, a quanto pare,
non rivedrò mai più».
Davanti
ai suoi occhi comparve un luogo che conosceva bene: la piazza dello
stadio,
tonda come la valva di un mollusco e splendida come la luna. La
nostalgia gli
strinse il cuore, ma subito il suo sguardo incontrò una
piccola figura.
Sembrava un bambino, coperto da una lunga veste viola ornata ai fianchi
da
gioielli. Un cappuccio gli nascondeva quasi tutto il viso,
fuorché le labbra
che non si mossero quando parlò:
«Ci
puoi vedere, e ci potrai comprendere» disse. Alle sue spalle,
degli spettri
traslucidi, uomini e donne con abiti bianchi, erano disposti in tre
righe da
sette persone ciascuna. «Se apri il tuo cuore».
«Come
faccio?»
«Immedesimati».
Jecht
si avvicinò al gruppo di persone, tentò di
condividere il loro dolore, pensò
alla propria città ridotta a macerie, ma non
riuscì a vedere che un
sogno.
«Ti
prego, dimmi» cominciò, «chi ti ha fatto
piangere così».
«No,
non in questo modo… anche se ci sei quasi» rispose
il ragazzino,
«immedesimati».
«Che
cosa
è stato di Zanarkand?» chiese allora
Jecht,
cosa della
mia città
dalle alte
torri?
(La
scena rappresenta la piazza principale di Zanarkand in piena notte: si
vede lo
stadio. JECHT è di fronte all’edificio, dai lati
entra il CORO formato dagli
abitanti della città)
CORO
Colui che ha conosciuto i tempi del
prospero bronzo,
cui il
campo fiorente ha allegrato
la spiga
bianca e forte, e lama d’argento ha falciato,
di
Zanarkand pari non vide;
sa pure
cosa può la benevolenza del dio
che dona a
noi giorni sereni,
eppure
ancor non sa che può meraviglie anche l’uomo
se qui non
ha messo mai piede.
Vieni ai
miei lidi, Yevon, col ferro e con l’arte dei morti,
costringimi
al canto di lutto:
Bevelle
là
sulla costa prepara le navi ocellate.
È
tempo
che io sia punito.
(Entra
in scena il fantasma di YU YEVON che comincia a osservare la
città)
YU YEVON Vi
chiamerò da oggi cittadini: troppo onore
infatti avete ottenuto in questa guerra per essere ancora sudditi, e vi
ritengo
degni di camminare con me. Siete cittadini, dunque, a cui il vostro re
chiede
un ultimo sforzo. Alle quattro uscite della piazza troverete dei carri,
grandi
e robusti e trainati dal collo forte dei buoi: non dovete far altro che
salire
e verrete condotti. Io stesso, guidato dai sacerdoti e dai presagi
degli
uccelli in cielo, sono stato tratto in inganno e ho riposto troppa
fiducia nella
vittoria a Carthaba. Se è vero che gli dei abbattono il
superbo, allora
proteggeranno il prudente.
JECHT Ma chi è questo
re?
CORIFEO
Yu Yevon, che qui ha il suo trono.
CORO
Ripensaci, un dio t’ha invasato!
Io ho
sperato in te, signore del drappo scarlatto,
eppure
così mi tradisci.
YU YEVON Non
siate sconsiderati: guardate il sole che
tramonta sulla vostra città. Come potete venerare quello che
ora splende e ora
non splende più, ed è mobile e di determinata
grandezza? Non è meglio forse
addormentarsi e sognare un luogo che sarà sempre, immobile e
certo come le
stelle? Io sono potente, tanto da essere in grado di concedervelo.
Cessate il
vostro pianto e salite sui carri, non c’è ragione
per le vostre lacrime.
CORO
È oltre il tuo potere capire la
mente del dio:
all’addormentarsi
e sognare
senza
più
una coscienza e in vincoli sopra una roccia
è
meglio
morire nel mare.
È
città
che non è il posto che stai vaneggiando.
Per
l’atrocità che ha compiuto
Si prepara
Bevelle al cupo castigo del fato:
per tredici
generazioni
soffriranno,
con atti orrendi costretti a esser bestie,
così
sconteranno la colpa.
E si
unirà
alla madre il figlio, e farà strazio d’ossa
un altro
nel campo di guerra.
YU YEVON Tutto
questo riguarda Bevelle, non me. Che
sprofondino tra i flutti le sue cupole d’oro, assieme ai
vostri timori di una
profezia che non capite! Salite sui carri e sarete resi sacri: immolati
al
vostro dio che risplende in alto, non dovrete più temere la
fame, il freddo o
le armi dei nemici. L’occhio divino distingue le azioni
dell’uomo, e
saggiamente le divide in due pile, voi siete fallibili. Salite, non
costringetemi a condurvi al santuario in catene.
CORIFEO
Yu Yevon, ferma i carri. Potresti
salvarti: non farlo.
Il dio
t’ascolterà se immoli un bue e risparmi
me.
CORO
O infelice Speranza, o re dalla
fronte tremenda,
o dolente
città che è giunta all’estremo suo
dì,
maledetto
tre volte è chi oltrepassa il confine.
Tu vuoi un
sogno che è chimera d’una virtù:
tu vuoi
solo un fantasma che Zanarkand dica la gente,
luogo che
esisterà soltanto finché sognerò.
È
tardi
ormai: è cessato l’«Iti, Iti!»
dell’usignolo.
Al monte
salirò e nell’ombra riposerò.
Jecht si
svegliò di soprassalto quando qualcosa lo toccò.
Con il battito del cuore che
gli invadeva i timpani, fece viaggiare lo sguardo attorno a
sé e incontrò,
immerse in una lieve luce, le forme conosciute della tenda.
«Ti
senti
bene?» gli domandò la gentile voce di Braska, che
lo aveva svegliato per il
turno di guardia.
Con
ancora
negli occhi la visione che aveva avuto, Jecht annuì.
Tentò di relegare l’ansia
in un punto sperduto del suo ventre mentre rifletteva sulle domande che
avrebbe
rivolto al sacerdote una volta arrivato il giorno.
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Capitolo 27 *** La sposa di Djose (Parte 1) ***
CAPITOLO 20:
LA SPOSA DI DJOSE
(PARTE 1)
Jecht non
riuscì a trovare niente che lo facesse sentire con i piedi
per terra quella
notte. Il suo corpo sembrava ancora galleggiare in acque sconosciute, e
se
chiudeva gli occhi la testa diventava pesante, come in una delle tante
notti
alcoliche passate.
Fissò
il
fuoco preoccupato del suo stato di salute: mai un sogno lo aveva fatto
sentire
come ubriaco. Era davvero un sogno, dopotutto? Quella terra era pregna
di magia
di cui non aveva alcuna conoscenza; non gli sembrava così
improbabile che
qualcuno ne venisse influenzato.
Nonostante
fosse la sua teoria più valida, era anche quella che lo
spaventava di più: se
davvero era finito sotto il giogo di qualche incantesimo, doveva
parlarne con
Braska il più presto possibile.
La mattina
arrivò con una lentezza intollerabile, dopo ore che
sembravano giornate intere,
ma lui era riuscito a mantenersi calmo quel tanto che bastava per non
trascinare Braska fuori dalla tenda in preda al panico.
Quando
sentì dei rumori leggeri provenire dal loro piccolo rifugio,
scattò in piedi
teso verso l'Invocatore, che non aveva fatto in tempo nemmeno a
mettersi il
copricapo.
«E-ehi,
Braska. Buongiorno» esordì agitando la mano.
«Buongiorno
a te, amico mio. È stata una buona guardia?»
chiese l’altro, sfoggiando il suo
solito sorriso. Jecht osservò la tenda e si accorse che non
c'era altro
movimento.
«Sì,
tutto
bene… Auron ancora dorme?»
«Profondamente.
Ho controllato le sue condizioni: guarirà del tutto molto
presto» disse Braska,
unendo le mani come a voler ringraziare il suo dio.
«Bene,
bene…» rispose distratto Jecht, «senti,
potresti venire un momento con me?
Lontano dalla tenda».
Braska
d’istinto
aggrottò le sopracciglia, forse aspettandosi di nuovo
qualche rivelazione che
riguardava il suo Guardiano più giovane.
«Va
bene,
fa’ strada» rispose interdetto, ma non perse
comunque il sorriso.
Jecht lo
condusse pochi metri più avanti costeggiando gli alberi che
delimitavano il
sentiero, lontano abbastanza dalle orecchie di Auron e dai suoi giudizi
affrettati.
«Da
quanto
ho potuto capire, da chi ti conosce, da Auron e da te stesso, tu hai
esperienza
di sogni collegati al tuo dio» esordì. Gli occhi
di Braska, che vedevano
lontano, sembrarono perdersi nella macchia verde per poi tornare al
presente.
«È
vero».
«Quindi
Yevon ti ha visitato in sogno?»
Braska
annuì.
«In
sogno
e quando vegliavo in meditazione nei templi».
«Ho
bisogno che, dopo la questione di Zanarkand, tu mi creda
un’altra volta»
ribatté Jecht, scuotendo la testa. «So che
potrà sembrare difficile, ma ti
prego di ascoltarmi. Questa notte ho visto un uomo di nome Yevon
– sono certo
che si trattava di un uomo, non di un dio – condurre delle
persone in catene su
un monte, in modo da costringerle a sognare».
Si morse
le labbra, desiderando ritrattare la sua precisazione e sperando che
Braska non
fosse sensibile alla blasfemia come lo sarebbe stato Auron.
«Come
sei
sicuro del suo nome?» rispose l’Invocatore, senza
alcuna inflessione nella
voce.
«Mentre
venivano incatenate, le persone attorno a lui intonavano un lamento.
Sono state
loro a dirmi il suo nome: Yu Yevon» ripeté, senza
essere a conoscenza se quella
sillaba aggiunta avesse qualche valore o meno. «Lo chiamavano
re di Zanarkand».
Braska
strinse le dita sul bastone e le labbra, assorto. Impiegò
qualche attimo a
rispondere:
«Spesso
la
nostra mente, nel sonno, sovrappone immagini che abbiamo, o riteniamo
di aver,
visto. Ciò che ti ha visitato potrebbe avere un significato,
ma le scene che
descrivi non sono avvenute e Yevon non è mai stato un
mortale. Solo Yunalesca,
sua figlia, lo è stata, ma ora veglia eterna su Zanarkand in
attesa di noi
Invocatori».
«Capisco»
replicò Jecht, deluso.
Non
capiva. Per qualche motivo era sicuro che quegli avvenimenti fossero
accaduti
davvero, e che riguardassero la sua Zanarkand, non
il cumulo di macerie
che gli abitanti di Spira veneravano.
«Se
Yevon
lo vorrà» aggiunse Braska, «ti
visiterà di nuovo in sogno, come ha fatto con
me, e forse ti spiegherà che cosa significava ciò
che hai visto. D’altronde,
lui è in tutto quello che ci circonda e in ogni cosa che
facciamo, e così come
è tutto, allora è anche niente».
A quelle
parole, Jecht sentì delle mani d’ombra che lo
soffocavano con un pesante senso
d’impotenza. Per cercare di liberarsene, fece qualche passo
in avanti senza una
vera e propria direzione. Infine si fermò e si
voltò verso Braska. Un sole
tenue rischiarava il suo volto pallido e si posava sulle sue labbra
incurvate
verso l’alto.
L’atleta
si trovò per l’ennesimo istante a desiderare di
avere la sua sicurezza,
l’umiltà di credere che la Provvidenza, in quella
terra distrutta, avesse fatto
sino a quel momento il meglio che aveva potuto.
«Allora
perché continua a far tornare Sin?» gli
domandò. «Perché qualcuno che ama i
mortali ha deciso una punizione eterna?»
All’interno
della tenda, i lembi di stoffa scostati lasciavano solo una stretta via
al
mattino. Le parole di Jecht filtrarono all’interno assieme ai
raggi di luce e
colpirono Auron che meditava a capo chino.
Il monaco
alzò la testa, ma la risposta di Braska era troppo lontana
per essere sentita.
Era sveglio solo da qualche minuto, ma aveva sentito il bisogno di
stringere il
rosario nella mano, come per purificare anche l'anima dopo aver curato
il
corpo.
Sentì
la
voce distante di Jecht e pensò che, almeno per quella volta,
la preghiera
mattutina non lo avrebbe disturbato. Si passò i grani tra le
dita e convenne
che, in effetti, l'atleta non se ne era mai lamentato per tutti quei
mesi,
anche quando la sua dedizione all'atto sacro lo portava a mormorare
più forte
di quanto avesse voluto.
Scosse la
testa infastidito, accusando il dolore delle ferite. Prese un respiro
profondo
e tornò con il pollice al grano che avrebbe dovuto aprire la
preghiera, ma, se
le prime lodi furono guidate dalla confortante abitudine, le altre
persero
presto di interesse.
Auron si
sforzò di continuare, ma non coglieva il senso delle sue
stesse parole, e ciò
lo turbò più di quanto si aspettasse.
Pronunciò le preghiere in modo marcato
per poterne distinguere la forma, gocce tonde nel mare della sua mente,
tuttavia il vociare di Jecht era ben più allettante da
ascoltare.
Poco
importava che vaneggiasse sulla sua città perduta,
denigrasse le tradizioni dei
padri o, nel silenzio completo della stanza accanto, tentasse di
trattenere
qualche raro gemito: la voce ruvida di Jecht racchiudeva sempre la
gentile
speranza di un mondo nuovo.
Questo
attraeva Auron e lo spingeva a odiare.
Non
posso anteporre il suo pensiero a quello del dio, pensò,
deluso da se stesso, questo
è peccato.
I passi
dei compagni si fecero sempre più vicini, e lui non era
arrivato nemmeno a metà
rosario, così lo rispose nella sua sacca sbuffando aria dal
naso.
«Hai
sentito?» chiese Jecht a Braska, raddrizzando il busto.
L'Invocatore
sorrise, alleggerendo il cuore pesante del suo Guardiano che non aveva
trovato
risposte.
«Sei
stato
bravo con lui, te ne sei preso molta cura» disse a bassa
voce. «Perché non vai
a dagli un'occhiata? Io sistemo le mie cose».
Jecht
annuì con ritrovato vigore e camminò veloce verso
la tenda, per poi bloccarsi
alla sua entrata, rimproverandosi da solo.
«Ehi,
ragazzo» chiamò dall'esterno. La sua ombra si
proiettò sulla tela, oscurando la
luce. «Come ti senti?»
«Meglio»
rispose l’altro con un sospiro.
«Posso
entrare? Vorrei controllare le ferite».
«Se
proprio devi» disse Auron sdraiandosi controvoglia.
Jecht
entrò in punta di piedi, ben consapevole che la sua presenza
in quella
situazione non era ben tollerata, ma ormai aveva imparato a non essere
sgradevole per il compagno, almeno quando voleva.
Si sedette
a gambe incrociate, strinse gli occhi per abituarsi alla poca
luminosità, poi
passò in rassegna le ferite più profonde.
Tastò con delicatezza i lembi per
sentire se erano ancora gonfi, causando piccole contrazioni muscolari
al
compagno.
«Hai
le
mani gelate» disse il monaco con un breve lamento.
Sentì la pressione del
pollice di Jecht sulla spalla nuda e fu colpito dal desidero che
smettesse di
toccarlo, ma non si mosse.
Vi fu un
ritardo nella risposta, qualcosa che Auron percepì come una
voragine nel tempo
in cui i loro sguardi si incrociarono. Le iridi di Jecht erano corone
di sangue
incrostato attorno alle pupille nere come la morte.
«Mi
dispiace, aspetta un attimo» replicò infine
l’atleta, ignaro dei suoi pensieri,
sfregandosi le mani per riscaldarle. «Meglio?»
Il
contrasto tra quel gesto familiare e la feralità che aveva
visto in lui poco
prima atterrì Auron.
«Sì».
«Le
ferite
non sono sporche: sei a posto» disse Jecht con un mezzo
sorriso. «Certo, non
sono cambiate granché, ma se le manteniamo così
andrà tutto bene».
I tocchi
scesero con delicatezza sul costato del monaco. Jecht sembrava
concentrato
sulla sua opera, le sopracciglia leggermente aggrottate e le labbra
strette. Lo
sguardo di Auron percorse la linea del suo collo sino ad arrivare
all'incavo
dove si congiungeva alle spalle, poi tornò dritto di scatto.
Le dita di Jecht
gli erano arrivate all’altezza dei fianchi e i suoi muscoli
si erano contratti
senza che lui lo volesse.
«Oh,
scusa» commentò l’atleta con un mezzo
sorriso, «ho ancora le mani fredde?»
«Sì»
mentì
Auron.
Jecht gli
rivolse un secondo sorriso di sfida, poi prese a rovistare tra i loro
bagagli.
Stese il suo cappotto rosso del compagno cercando di non fare pieghe,
poi
glielo mise vicino con cura insieme all'armatura.
«Non
succede nulla se ci prendiamo un giorno di riposo. Me lo ha detto anche
Braska»
concluse Jecht, in procinto di uscire. «Solo se te la senti
ripartiamo, se no
restiamo qui. Vado a cacciare qualcosa, nel caso».
Auron
osservò i suoi indumenti puliti, poi volse lo sguardo su
Jecht che usciva dalla
tenda. L'atleta scosse la testa e ridacchiò divertito quando
sentì il monaco
rivestirsi pochi minuti dopo.
Due corvi
solitari spiccarono il volo da una distesa di spighe, immersi nella
luce gialla
del pomeriggio. I tre pellegrini proseguivano in silenzio sulla strada
di
ciottoli e polvere, facevano vagare senza meta gli occhi tra i campi
lasciati a
maggese.
Con le
ciglia abbassate, come un muro di scudi contro il sole, Jecht spinse lo
sguardo
davanti a sé: offuscati dal pulviscolo, erano comparsi i
tetti scuri di quello
che gli sembrava poco più che un villaggio. Man mano che si
avvicinavano,
quello sembrava fuggire verso la costa, quasi volesse immergersi come
l’enorme
schiena di una balena.
I corvi
gridarono sopra le loro teste.
«Quella
laggiù è Djose» esordì
Braska, con la voce un po’ roca. Era passato così
tanto
tempo dall’ultima volta che aveva parlato?
«Me
la
immaginavo… diversa» confessò Jecht.
Diede un’altra occhiata al villaggio e gli
parve irreale, perso nel nulla di quelle distese.
«Perché?»
intervenne Auron alle loro spalle. Il suo tono non era stato brusco, ma
quasi
distratto: Jecht si voltò e lo vide esaminare uno di quegli
strani dizionari Al
Bhed di cui parlava sempre con Rin. Quando i loro sguardi si
incrociarono,
Auron ripose il libro nella borsa, come se si trattasse di qualcosa di
personale.
«Perché
sinora tutte le città con un tempio che ho visto erano
grandi centri» replicò
con tranquillità l’atleta, «e questa mi
sembra tutto il contrario. Che cosa è
successo?»
Auron
scosse la testa.
«A
Sin non
piacciono le città che si espandono troppo»
argomentò, «soprattutto quelle
vicino alla costa. L’unico grande porto che abbiamo
è nella città di Luka, che
non ospita un tempio, e forse proprio per questo non ha ancora subito
attacchi».
«Capisco»
replicò mestamente Jecht. Aveva cominciato a prendere delle
note mentali che
riguardavano Spira, e vi aggiunse: “La balena è
intelligente. Sa come
combattere chi la vuole uccidere”. Sperava che quelle piccole
informazioni a
cui aggrapparsi avrebbero potuto salvarlo dalla pazzia, ma non sapeva
dire se
invece fossero proprio un suo primo segnale.
I tre
viaggiatori arrivarono a Djose accompagnati dal rumoroso rotolare delle
ruote
di un carro. A dispetto dei colori accesi dei fiori nei prati, e delle
bandiere
che penzolavano sopra le strade, ricordando una festa di paese da poco
conclusa, trovarono un’atmosfera spettrale.
Mentre
proseguivano verso il centro, nessuno rivolse loro più di
uno sguardo:
un’accoglienza insolita, date le riverenze
all’Invocatore a cui erano abituati.
Qualcuno addirittura accelerò il passo e si
trincerò dietro un portone. Qualcun
altro scostò gli scuri delle finestre, per seguire i loro
movimenti al sicuro
di una casa da cui proveniva odore di bruciato.
La piazza
sembrava sospesa in una dimensione diversa da quella a cui erano
abituati. Al
centro v’era ancora un palco di legno su cui era impalato il
drappo nero
dell’Inquisizione. Qualcuno aveva provato a strapparlo in due
senza riuscire ad
arrivare fino in fondo, così i lembi penzolavano come pelle
morta da una
ferita.
Poco
lontano, accanto a un palo che aveva ai piedi terra bruciata, si era
radunato
uno sparuto branco di persone. Un altro, poco lontano,
lanciò sguardi in
tralice al gruppo.
Un vociare
sostenuto si fece strada nell’aria immobile, e divenne
più forte quando i tre
furono costretti a passare tra due ali di paesani.
All’improvviso,
una donna gridò offese in una lingua sconosciuta, per poi
sputare con disprezzo
sulla veste di Braska. Qualcuno accanto a lei disse qualcosa, ma
nessuno
intervenne o indietreggiò quando Auron mise mano alla spada
e fece per
estrarla.
«Fermo»
lo
bloccò Braska con un cenno. Volse gli occhi per un istante
verso la donna, poi
si voltò e continuò a camminare, seguito da un
brusio che non lo abbandonava.
Jecht
socchiuse le labbra, ma vedendo Auron che non replicava
chinò il capo e
proseguì.
«Perché
non risponde all’offesa?» chiese a bassa voce
Auron. I paesani schierati per la
strada sembravano non volerli aggredire, ma continuarono un ostinato
gioco di
sguardi anche quando loro si furono allontanati seguendo la strada per
il
tempio.
«A
volte
si è amati, a volte si è odiati»
replicò Braska, con ancora in mente il volto
della donna che l’aveva insultato, le rughe che le
attraversavano le guance come
il delta di un fiume nella pianura. «Per alcuni sono un
salvatore, per altri
rimango il fratello del giudice Alan. È per questo che
dobbiamo confidare nelle
azioni degli uomini, Auron, e non nel loro nome».
Cadde un
silenzio incerto, durante il quale Braska infilò le mani
nelle maniche.
«Hai
capito cosa è successo?» domandò al suo
Guardiano più giovane.
Auron fece
appello alla sua volontà per evitare di voltarsi indietro.
«Sì».
Lo aveva
fatto anche Jecht, intuì, notando le sue narici arricciate e
la bocca inclinata
in una smorfia obliqua. Nessuno di loro osò
parlare.
«Che
cosa
passa per la testa di quell’uomo?»
domandò dopo qualche istante Jecht, che mal
sopportava il vuoto. Gli pareva di avvertire ovunque la presenza
dell’Inquisitore, fermo tra le loro anime come un cuneo nel
legno. Sentiva il
suo respiro tra le foglie e il suo comando nel moto delle nuvole in
cielo.
«La
giustizia qui funziona così» intervenne Auron.
«Se chi è stato bruciato è stato
condannato, c’è stato un motivo per la sentenza.
Se poi essa fosse giusta o
meno, noi non lo possiamo sapere».
«Ma
ti
sembra-»
Quelle
parole, quasi urlate, erano uscite d’istinto dalla bocca di
Jecht, senza che la
sua mente le ponderasse. All’improvviso, però, si
rese conto che non aveva
voglia di finire la frase. Non che non avesse un pensiero a riguardo
– anzi,
forse ad avviso di qualcuno ne aveva anche troppi –
ma non gli andava
più di continuare la conversazione.
«Scusa»
disse, interrompendosi. Auron continuò a camminare senza
rivolgergli nemmeno un
cenno.
Jecht non
aveva voglia di riflettere, né di provocare il monaco,
né di lanciarsi in opere
da paladino. I resti che gli stavano davanti, tra i quali non si
riusciva più a
distinguere il legno dal cadavere carbonizzato, lo avevano gettato in
una
dolorosa inerzia.
Immaginò
lo sguardo di Alan, che solo con sforzo poteva dissociare dal velo, che
vagava
con tedio su quel triste paesaggio, e temette di poter avere, un
giorno, occhi
come i suoi.
Quello era
un luogo da cui avrebbe voluto levare le tende in fretta, e non solo
lui, a
giudicare dai volti tesi dei compagni. Si impose di distogliere lo
sguardo e
farlo vagare oltre, alla ricerca del tempio. Almeno quello,
pensò l'atleta, era
un luogo tranquillo in cui sostare, ma non c'era nessun edificio nei
dintorni
degno di nota.
«Dove
siamo diretti per l'esattezza? Qui ci sono solo capanne»
chiese Jecht,
innervosito da un paesano che aveva alzato il medio.
«Oltre
la
piazza c'è la base di un pendio roccioso. Il tempio
è molto in alto, non si
vede da qui» disse Braska, stavolta senza nessun sorriso ad
accompagnare le sue
spiegazioni.
Senza
aggiungere altro, i pellegrini accelerarono il passo nello stesso
momento come
una persona sola, messi a dura prova dall'ostilità sempre
più intraprendente
dei cittadini.
«Signore,
stanno diventando più insistenti» disse Auron
muovendo le dita della mano
armata per non stringere l'elsa della spada.
«Potrebbero
attaccarci?» chiese Jecht preoccupato, ma Braska
tirò dritto scuotendo la
testa.
«Non
arriveranno a tanto. Sanno bene cosa rischiano, anche se il dolore che
patiscono è grande».
Tutto
ciò
che potevano fare era abbassare la testa e fare in fretta. Braska si
trovò
presto a corto di fiato, ma condusse i compagni su un sentiero sterrato
e
polveroso che si districava sul fianco del promontorio teso verso il
mare.
«Sembra…
ripido. La strada è stretta e tutta in salita»
disse Jecht preoccupato.
«Hai
paura
dell'altezza?» lo punzecchiò Auron, ma l'atleta
non colse la provocazione.
«Dico
solo
che è un bel volo da lassù, e non credo proprio
che verremmo soccorsi. Non ci
sono nemmeno delle barriere».
Braska
approfittò di quell'attimo per riprendere fiato, poi
drizzò la schiena e pensò
ad alta voce.
«Prendiamo
Ixion e poi vedremo che fare».
Auron e
Jecht si misero in fila dietro al loro Invocatore, per poter reagire in
tempo
se fosse inciampato, iniziando una marcia faticosa come l'atleta non ne
aveva
mai provate.
Anche il
monastero di Bevelle richiedeva una scalata considerevole,
pensò Jecht, ma la
strada era costeggiata da un verde che recava sollievo all'animo,
mentre quel
sentiero non era altro che roccia aguzza sotto i suoi piedi e polvere
negli
occhi.
Dopo molti
minuti di camminata prudente, la cima del promontorio si
presentò brulla tanto
quanto il suolo del villaggio, ma era ben visibile il mare. I
pellegrini fecero
sostare i loro sguardi nel blu per qualche istante, poi Braska
indicò un
piccolo ponte che attraversava un fiumiciattolo.
«Superato
quello ci siamo».
«Sembra
non finire più, la strada» disse amareggiato
Jecht, per poi seguire i compagni
sulle assi di legno e ancora qualche passo in avanti, fino a una parete
solida
che segnava la fine del sentiero.
«Dov'è
il
tempio?» esclamò l'atleta confuso.
«Nascosto
dalla magia, amico mio. Ora che sono qui, dovrebbe mostrarsi»
disse Braska tra
un sospiro e l'altro.
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Capitolo 28 *** La sposa di Djose (Parte 2) ***
CAPITOLO 20:
LA SPOSA DI DJOSE
(PARTE 2)
Lo sguardo
dell’Invocatore percorse la parete verticale, poi si
arrestò quando giunse a
due uccelli. Volavano in cerchio: sembrava che uno stesse inseguendo
l’altro, e
dove il primo arrivava ormai il secondo era già passato,
come il serpente che
si morde la coda.
A un tratto,
una scossa percorse la strada sotto i suoi piedi, e uno dei due uccelli
si
scagliò contro l’altro: il colpo forte del suo
becco uccise il compagno e lo
fece precipitare tra le pietre aguzze.
Quasi
percependo un segnale, l’enorme roccia crepitò
come se uno sciame di vespe
premesse per uscire. Una scintilla blu schioccò vicino alla
cima, e presto ne
giunse una seconda che si tramutò in un lampo, bianco per
l’enorme
calore.
Attraversò
l’intera parete e, quando si schiantò al suolo con
tanta violenza da far
tremare la terra, la roccia si frantumò in schegge
più piccole. Scagliate via,
furono fermate da una forza invisibile, al loro centro, che sembrava
derivare
dall’elettricità stessa.
In piedi
davanti alla porta del tempio una figura, alta quanto due uomini e
avvolta in
strati di stracci, levò la testa al cielo: una luce livida
illuminava il suo
profilo dalle proporzioni errate, il naso aquilino e il mento
sfuggente. Un
alone aveva circondato il Sole. Era un cerchio perfetto come la ruota
dietro la
schiena del mostro, dalla quale quello non si poteva liberare. Le
nuvole
correvano come se volessero fuggire: sembrarono accelerare ancora
quando la
creatura, con voce di donna, innalzò un altissimo grido
angosciante.
Auron,
Braska e Jecht estrassero le armi, in tempo per vedere il nemico
piegare le
braccia dai tendini esposti e trascinare faticosamente la ruota. Pochi
istanti
dopo, il peso sembrò non gravargli più e il suo
passo si fece una carica
rapida.
Auron e
Jecht si pararono subito davanti a Braska e il mostro si
schiantò contro di
loro, gettandoli a terra con un secondo urlo. Jecht riuscì a
colpirlo con il
taglio della spada mentre lui si voltava, ma gli inferse solo una
ferita
superficiale.
Con una
forza sovrumana, il nemico si spinse in aria e ricadde con la ruota a
coprirgli
il corpo. Jecht lo evitò all’ultimo istante e, con
il cuore che gli martellava
nel petto, si girò verso Braska.
L’Invocatore
aveva creato con il suo scettro delle sfere di energia che
scagliò contro la
bestia, strappandole un ulteriore grido quando le strinò il
corpo sotto i
vestiti a brandelli. Un forte odore di putrefazione arrivò
alle narici dei tre
guerrieri, come se avessero dato fuoco a un cadavere.
Dalla
ruota si staccarono delle appendici, formate da quella che sembrava la
carne
del mostro: presto mutarono in dieci serpenti senza occhi che, con le
fauci
spalancate, scagliarono la loro furia cieca contro Braska.
Auron si
frappose tra il suo protetto e uno di essi, per tagliarlo in due con un
colpo
di spada. Quando vide i lunioli che si dipartivano dal corpo,
concentrò tutta
la propria energia verso l’occhio destro e riuscì
a vederli brillare.
Tese il
braccio e li spinse via per farsi da scudo: l’energia
sprigionata si andò a
scontrare con una carica della ruota del nemico, e altri due serpenti
perirono
nell’impatto.
La
creatura perse l’equilibrio e fu costretta a fermarsi per
appoggiare a terra
l’oggetto a cui era vincolata. Piegò le braccia
scheletriche e inarcò la
schiena, senza cessare le urla terribili.
«State
indietro!» gridò Braska, tentando di sovrastarlo.
Una lancia
di luce trapassò il petto del mostro, che prese a dibattersi
tra stridi che un
tempo erano stati umani. Jecht ne approfittò per aggirarlo e
colpirlo con
rapidi assalti che neutralizzarono i serpenti e gli infersero numerose
ferite.
Vomitando
un sangue scuro, la creatura si fermò e Jecht le
assestò ancora due fendenti,
prima di sentirsi scaraventare via da un’onda di forza,
accompagnata da un
dolore lancinante ai timpani.
Il cappuccio
che copriva i lineamenti del loro nemico era ormai stato ridotto a
brandelli, e
il viso alzato verso quel sole con l’aureola somigliava a
quello di una donna.
I suoi occhi spenti erano rivolti verso il cielo, la bocca era
socchiusa in
un’espressione estatica, come se avesse riconosciuto
qualcosa, lassù.
«Ixion»
pronunciò, spingendo con fatica le braccia vincolate in modo
da liberarle. «Ixion...»
Il suo
corpo, con un moto lento, cominciò a venire sollevato dal
vento, mentre si
liberava piano dalla ruota: rimanevano solo dei tendini, allentati, a
far sì
che non si separassero l’una
dall’altra.
Ad
allontanarla dall’umanità che la aveva fatta
parlare giunse un urlo bestiale,
di infinito dolore.
Un lampo
di luce accecò i tre guerrieri, Auron e Braska ancora illesi
e Jecht che si
reggeva il fianco con una mano, nel terrore di aver subito qualche
danno alle
costole. Quando il bagliore si diradò, la sagoma di un
enorme cavallo si
stagliava sopra di loro. La ruota si era incastonata sulla sua schiena
e la donna
lo cavalcava, tenendo il proprio corpo in equilibrio.
L’animale
sollevò gli zoccoli anteriori e una scintilla
scoppiò sulla cima del suo corno:
una catena di fulmini si scaricò al suolo, colpendo i tre
guerrieri come
pupazzi.
Subito
dopo, un’intensa folata di vento spazzò la terra e
piegò i rami secchi degli
alberi, gettando i più deboli nelle acque torbide del fiume
e costringendo
Auron, Braska e Jecht a indietreggiare.
L’atleta
vide Auron resistere, infilzando la spada a terra e reggendosi in modo
da
perdere meno terreno possibile. Fu il più previdente,
poiché lui e Braska si
sentirono attratti verso il nemico, incapaci di reagire come relitti in
una
tempesta. Li tirava la stessa forza che aveva mantenuto le pietre in
orbita
attorno al tempio, ma di certo il loro volo non si sarebbe
fermato.
Auron
chiuse gli occhi e soffiò l’aria fuori dalle
narici, richiedendo ai suoi
muscoli tutta la forza di cui erano capaci. Quando sentì
l’effetto
dell’incantesimo di Ixion affievolirsi, diresse lo sguardo
verso il nemico.
Frammenti
di pietra aguzzi, macerie del corrimano del ponte e alberi smembrati
convergevano verso il mostro assieme ai suoi compagni. Per qualche
istante
rimasero sospesi, poi ripresero la loro folle corsa.
Quando
ebbe la certezza che la traiettoria era libera, il guerriero con un
salto si
scagliò in aria, poi si lanciò a spada tratta
contro un grosso masso che
viaggiava per la propria orbita. Quando lo aggirò, venne
spinto con velocità
ancora maggiore verso la bestia fino a sentire la lama che penetrava a
fondo
nella carne.
Vide gli
occhi spalancati della donna, la sua bocca congelata in
un’espressione di
terrore, e quando estrasse l’arma uno schizzo di sangue gli
macchiò la veste,
per poi condensarsi in gocce tonde che rimasero per qualche istante
sospese in
aria prima di ricadere.
Il corpo
della nemica collassò senza vita sul cavallo che, levato un
alto nitrito, colpì
con gli zoccoli Auron, colto in un momento in cui stava cercando con lo
sguardo
i suoi compagni.
Il
Guardiano cadde a terra, privato del respiro e delle forze. Quando la
sua
vista, dopo qualche istante, tornò quasi limpida, scorse
Braska disteso di
fronte a sé. Aveva gli occhi socchiusi, ma tentò
di rassicurare Auron con un
sorriso che somigliava più a una smorfia di dolore.
«Sia
lodato Yevon…» mormorò il monaco,
vedendolo alzarsi in piedi e stringere le
mani sullo scettro.
L’Invocatore
non si lasciò distrarre dai suoi amici a terra. Si
concentrò sul presente, alzò
la sua arma e, aggraziato, svolse i complicati gesti rituali che
richiamavano
un Eone.
Sentì
subito la temperatura abbassarsi, il movimento delle mani farsi
più difficile,
come in alta montagna, e i polmoni danneggiati inviare un lieve
bruciore al
corpo. Sorrise quando percepì la presenza della grande Shiva
dietro di sé e il
tocco delle sue dita gelide sulla spalla. Gli ricordavano
l’immobilità divina.
«Vai»
sussurrò, e mosse il bastone verso il nemico, un gesto
accompagnato dal
tintinnio di una campanella.
Ixion
correva con tormento tra i fulmini che lui stesso generava, cercando di
togliersi di dosso l'ingombrante ruota che aveva infissa sul dorso e il
cadavere del mostro. Tuttavia, non appena percepì la
presenza di un’entità
simile a lui si fermò, pronto a caricare nella sua direzione.
Nonostante
non brandisse armi, l'eone di Braska poteva combattere modellando il
ghiaccio a
suo piacimento. Accumulò tra le sue mani i venti del
Gagazet, per poi
proiettarli in un raggio che gelò le zampe della creatura,
costringendola a
giacere al suolo su un lato.
Non ancora
sconfitto, Ixion evocò un fulmine dal suo corno e lo
scagliò su Shiva, ma lei
lo evitò con un movimento elegante del busto.
Sorrise,
sicura di sé, ma Braska era quasi al limite delle sue forze
e lei ne risentiva.
Agitò la mano destra e delle scaglie di ghiaccio comparvero
dietro di lei, per
poi abbattersi sul corpo già martoriato di Ixion.
Il nitrito
della creatura era forte quanto il rombo di un tuono, ma si dissolse
nel
momento in cui Ixion scomparve davanti agli occhi dell'Invocatore.
Lasciò a
terra solo i resti della ruota e della donna che avevano sconfitto.
Shiva si
sistemò i lunghi capelli blu intrecciati e svanì
nell'aria; Braska, ormai
sfinito, si accasciò sul suo scettro.
Jecht e
Auron avevano assistito al combattimento tra Eoni senza poter far
nulla, ma
rimasero stupiti per la potenza sprigionata nello scontro.
Il primo
si tastò le costole con circospezione, valutò il
sapore metallico che sentiva
sulla lingua e poi decise che avrebbe potuto tirarsi in piedi senza
troppa
difficoltà. Si voltò verso Auron, cercando di
reprimere il desiderio di
tendergli una mano per aiutarlo, ma lo trovò già
accanto a Braska.
L’Invocatore,
vinto dalla fatica, si era seduto a terra bisognoso d'aria.
«Sto
bene,
Auron. Ho solo bisogno di riposare un momento».
Il monaco
distolse lo sguardo da lui e, con le ciglia socchiuse, lo
soffermò sul cadavere
del nemico che avevano sconfitto.
Le forme
nascoste dagli stracci erano quelle di una donna, ma per qualche motivo
il suo
corpo, che stava svanendo in lunioli, era cresciuto.
Forse
era una dei giganti che aveva visto Jecht, si
ritrovò a pensare, e subito si chiese quando
avesse sviluppato un senso dell’umorismo tanto crudo.
«...ata»
disse una voce alle sue spalle. Auron sentì le tempie
pulsare e aggrottò la
fronte, poi si volse verso Jecht che aveva parlato.
«Cosa
hai
detto?»
«È
bruciata» ripeté lui. Stava guardando il cadavere
con aria assorta, le braccia
a penzoloni e nemmeno uno dei sentimenti che in genere vomitava.
Il monaco
riuscì all’ultimo istante, prima che il corpo
svanisse, a collegare ciò che il
suo compagno aveva detto a ciò che vedeva.
Furono
accolti dai monaci di Djose con alti onori, e fu loro tributato un
banchetto
per aver ucciso il mostro che da giorni impediva l’entrata al
tempio.
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Capitolo 29 *** ℶ. Carte del processo a Davon di Janne, sacerdote (Parte 1) ***
ℶ. Carte del
processo a Davon di
Janne, sacerdote (Parte 1)
Mese IV, 1026
23 giorni dal
solstizio d’estate
Janne era
un villaggio dalle dimensioni risibili, propaggine estrema di Djose.
Anch’esso,
come la città principale di quella sventurata zona,
s’era quasi ridotto alle
ceneri di se stesso.
Quando la
mia carrozza entrò in paese, alcuni dei suoi abitanti si
riversarono nella
strada principale, forse per vedere quale miracolo della tecnica fosse
giunto
sino a lì.
Il
tarchiato sacerdote del tempio uscì subito dalla porta:
volse gli occhi al
frontone, poi di nuovo verso il mezzo in un moto nevrotico.
I due
uomini che mi accompagnavano, evidentemente impegnati in una
competizione a chi
mi servisse meglio, scesero e fecero per accerchiarlo.
«Non
serve» li fermai. Per qualche istante contemplai il volto
atterrito del
sacerdote attraverso i drappi che mi celavano alla sua vista, poi li
scostai.
«Sto
cercando il giudice Michent» esordii. La risposta del prete
dovette attendere
un profondo inchino che mi fece sprecare diversi secondi. «Sa
dirmi dove
trovarlo?»
«Signor
Inquisitore, sì, signore» balbettò
quello, passandosi una mano sui folti baffi
senza curarsi di nascondere il suo nervosismo. Non seppi dire se gliene
mancasse il coraggio oppure se lo ritenesse un gesto di giusta
devozione nei
miei confronti. «Lo andrò a chiamare
personalmente».
C’era
una
piccola macchia, sulla sua tunica all’altezza del petto, che
egli continuava a
tentare di nascondere facendo e disfacendo delle pieghe in modo
spasmodico.
Sentii
l’eco dei suoi passi e quella della sua voce quando
entrò nel tempio di Yevon
spopolato dai fedeli. Dopo qualche minuto, il ticchettio sul pavimento
raddoppiò.
Sulla
porta si palesò un ometto anonimo, poco più
anziano di me. Tra i capelli brizzolati,
che avevano cominciato a diradarsi, era rimasto qualche residuo di
shampoo e
gli occhi vitrei, dietro a spesse lenti appoggiate quasi sulla punta
del naso,
mi guardavano con aspettativa e insieme con timore.
Non
pensavo che qualcuno potesse portare le vesti di un dignitario
dell’Inquisizione con così poca eleganza, con la
spilla che ciondolava da un
lato come la testa di un ubriaco.
«Il
Giudice Michent, signore» lo annunciò il querulo
prete, come se il diretto
interessato lo avesse delegato a parlare al posto suo.
Prima che
l’Inquisitore potesse esibirsi nel farsesco saluto rituale,
gli porsi la mano
affinché baciasse l’anello.
«La
mia
eterna fedeltà a lei» cantilenò quello,
inchinatosi al mio cospetto, «al
maestro Mika e alla Chiesa di Yevon. Sarò onorato di
adempiere a qualunque sua
richiesta».
«Lei
è
stato giudice istruttore nel processo al sacerdote corrotto Davon che
si è
svolto qui due anni fa» cominciai, prima ancora che lui si
alzasse. «Non è
così?»
Avvertii
una scintilla di sorpresa attraversare i suoi occhi. In effetti si era
trattata
– anche se con certezza della cosa più
interessante avvenuta a Janne
nell’ultima decade – di una piccola questione,
rapidamente risolta.
«Sì,
signore» mi rispose.
«Ho
bisogno di vedere i faldoni».
A quella
frase,
Michent atterrì temendo qualche irregolarità, e
io dal mio canto non spiegai il
motivo della mia richiesta, non essendone di certo obbligato.
«Tutti
i
faldoni dei processi che si sono svolti qui sono conservati, con le
debite
etichette, all’interno del nostro naos»
cominciò a spiegarmi, inquieto, come se
cercasse con la mente qualche falla nel suo operato.
«Tuttavia, per poterli
consultare è necessaria un'autorizzazione scritta del tempio
di Djose».
Aggrottai
la fronte, mentre un refolo di vento secco mi portava alle orecchie
grida
festose di bambini.
«Autorizzazione
scritta?» domandai. Michent subito annuì.
«Conserviamo
i moduli all’interno del tempio. Prego, mi segua».
Ordinato
ai miei uomini di attendere, mossi qualche passo circospetto dietro a
lui, poi
mi voltai di nuovo verso la carrozza e infine mi risolsi ad andare.
Una volta
avevo letto che l’uomo è paragonabile a un tempio:
talvolta coloro che ne
trascurano la facciata hanno impiegato le loro ricchezze per abbellire
l'interno di tessere d’oro. Pertanto, cosa avrei dovuto
pensare di chi mi
ospitava quando mi trovai in un corridoio adornato da cavalli
stilizzati –
disegnati da un artista del calibro di mia nipote di sette anni
– che mi
guardavano con sguardo vacuo?
«Ecco»
annunciò Michent in tono monocorde, depositando un plico di
fogli davanti ai
miei occhi. La sedia, quando vi avevo posato il mio pur esiguo peso,
aveva
cominciato a miagolare di disperazione. A quel punto, pur di non
guardare il
mio interlocutore, mi rivolsi a una delle crepe nella vernice notando
come
segasse accuratamente in due il collo di un cavallo.
«Quali
moduli devo firmare?»
«Tutti».
Sentii un
altro cigolio che mi parve provenire dalle vertebre della maldestra
pittura
rupestre, poi una porta che si chiudeva in lontananza.
Dopo
avermi illustrato l’ordine in cui avrei dovuto compilare le
carte, il Giudice
Michent se ne andò con una riverenza impettita, lasciandomi
solo con quello che
ancora ritenevo un lavoro di pochi minuti.
Ma il
tempo cominciò a scorrere lento e viscoso e, forse scioltosi
per il caldo,
prese a scivolarmi addosso come il sudore alla base del collo.
Grande
Inquisitore,
scrissi alla voce “impiego attuale”, e mi detersi
con un fazzoletto mentre
cercavo di ricordare da quanto decorresse la mia nomina. Ritenni a buon
giudizio di togliermi il copricapo e il velo, che posai a fianco di un
modulo
giallastro dove una fila di numeri occhieggiava minacciosa.
Avrei
dovuto compilare quelle righe con i codici identificativi dei faldoni
che mi
interessava consultare. Per agevolarmi il lavoro, Michent mi aveva
consegnato
un poco agile manuale, dove qualcuno con una grafia minuta si era
divertito a
scrivere informazioni in un ordine talmente minuzioso da riuscire a
confondere
chiunque.
Sospirai,
incontrando un’altra volta gli occhi neri e vuoti del
cavallo. Strinsi con
rabbia la penna tra le labbra e cercai di figurarmi quale fosse il dio
della
burocrazia; chi, in quel luogo, fosse stato in grado di fermare
addirittura
me.
Io, che
non avevo pari sulla Terra.
Dopo altri
cinque moduli arrivai a immaginarla come una dea: capelli
corti,
orecchini pendenti e un sorriso zuccheroso, tendeva in
un’immobilità eterna dei
protocolli ai viandanti. Una volta apposta una firma in calce, si
sarebbero
aperte ai loro occhi le dorate distese dell’Archivio
Pratiche. Non prima, però,
dell’orribile scoperta: l’inchiostro era in
realtà il loro stesso sangue.
La dea,
spietata, timbrava le carte col fuoco come cosce di bovini.
Tornai
alla realtà con un sussulto quando mi accorsi di aver
lasciato cadere della
cenere sul “Certificato di Autorizzazione 4.1”, e
per qualche istante temetti
l’irreparabile. Dopo essermi accertato che fosse rimasto
illeso, ripresi a
fantasticare e immaginai di arrotolare le carte per poi bruciarle in
ordine di
modulo come bastoncini d’incenso. Forse nel fumo avrei potuto
leggere le date
di scadenza giuste per ogni cosa.
Dopo
qualche eterno minuto, qualcuno bussò alla porta che era
stata lasciata
socchiusa.
«Signor
Giudice» mi richiamò la voce senz’anima
di Michent. «Posso entrare?»
«Un
attimo» borbottai con poca grazia. Mi coprii di nuovo gli
occhi con il velo
prima di concedergli di entrare e restituirgli i moduli compilati.
«L’ufficio
del tempio deve apporre i timbri» mi informò poi,
prima di fermarsi e fare una
smorfia per l’odore del fumo. Si spinse gli occhiali sul
ponte del naso, ma
quelli subito ricaddero nella loro posizione precedente. «Poi
le carte verranno
inviate a Djose, che ci manderà il via libera per
procedere».
«E
quanto
ci vorrà?» m’informai. Michent si
strinse nelle spalle.
«Non
siamo
a Bevelle, Vostro Onore» mi rispose, di nuovo cantilenando
come in una
preghiera. «Non a Bevelle, nossignore».
M’accorsi
che era giunta la seconda alba da quando ero arrivato a Janne quando il
gracidio ostinato di una singola rana, in pianta stabile sotto la mia
finestra,
si tramutò di nuovo nel canto del gallo.
Decisi,
ben consapevole del fatto che non mi si addicesse
un’inattività indolente in un
luogo dove anche le capre faticavano ad arrampicarsi, di recarmi nelle
sale
interne del tempio in modo da sollecitare l’invio delle
pratiche.
In primo
luogo ordinai ai due giovani che mi accompagnavano di sorvegliare la
porta
della mia stanza, di modo che nessuno vi si introducesse, e loro non
nascosero
una gratitudine sorpresa quando si sentirono concedere il cibo che
quella
mattina i monaci mi avevano portato.
Non
avete di che lamentarvi,
pensai, osservandoli con la coda dell’occhio mentre mi
allontanavo, essere
nell’Inquisizione vi fornisce alloggio e vitto,
quest’ultimo a volte anche
doppio.
Il
sottufficiale Shiga aveva detto che le rane non vivevano in alta
montagna o che
comunque, anche se lo facevano, non sarebbero mai sopravvissute
all’inverno.
Eppure c’era un gracidare continuo, di notte, sotto la
trincea. Era un
monocorde, noioso controcanto ai bombardamenti delle Scaglie di Sin che
giungevano col mattino.
Un giorno
trovammo Shiga che, inginocchiato a terra, stringeva la baionetta dalla
parte
della lama. Tra le mani scarnificate teneva il piccolo cadavere di un
mostro,
coperto dalla libagione di sangue. Sembrava una rana.
Shiga
tremava e piangeva e continuava a pugnalarlo, e a pugnalarsi, con
violenza.
Gridava che nemmeno quello aveva carne, e più si tagliava
più i lunioli –
indifferenti – si dipartivano dal corpo della
creatura.
Avevamo
già cominciato a pregare Yevon affinché la neve
si sciogliesse presto e
liberasse il passo ai rifornimenti quando il sottufficiale Shiga venne
da me e
mi chiese di sparargli in testa. C’era un nuovo gracidare,
fievole, identico al
primo.
So che
a te non tremerà la mano, mi
disse.
Non ebbi
il coraggio di farlo.
Shiga
morì
qualche giorno dopo, con le vene incise dalla sua stessa baionetta e le
braccia
larghe, imprimendo a terra l’arco rosso della sua
sofferenza.
Quelli
più
intelligenti di noi si resero conto subito di come il sangue sulla neve
avesse
composto una frase.
Io
sarò
ancora utile.
Nonostante
il giorno avesse soffocato il richiamo della rana, il mio stomaco si
contrasse
e avvertii la familiare sensazione dell’acido che mi
corrodeva le viscere. Per
contrastarlo, estrassi un sigaro dalla scatola d’oro che
portavo con me.
Il rumore
del tagliasigari nel piccolo corridoio del monastero
richiamò l’attenzione di
Michen che, con aria affannata ed espressione devota, mi si
avvicinò.
«Buongiorno,
signor Giudice» mi salutò, con un lieve tremolio
del mento squadrato.
«Buongiorno»
ribattei, soffiando via il fumo. La sua paura era davvero dovuta alla
mia mera
presenza? E se fosse stato anche lui un Non Trapassato, parte del
problema,
parte della setticemia nel sangue della Chiesa?
«Sto
facendo una passeggiata» continuai, «fino al
tempio».
«È
una
giornata piacevole» borbottò lui, con la testa
incassata nelle spalle come una
vecchia tartaruga. Ripeté un paio di volte quella frase a se
stesso, con tono e
volume discendenti, quasi avesse voluto convincersene, prima di perdere
ogni
interesse e andarsene.
Poco dopo
scoprii che del naos del tempio di Janne non rimanevano che le pareti,
tra le
quali erano stati installati uffici dai muri di cartongesso.
Un’immagine
sacrilega, se solo non l’avesse voluta il Gran Maestro Mika
per meglio
amministrare un culto che, nel momento in cui lui era salito al soglio,
non
faceva che espandersi nell’isola.
Mi
presentai al primo sportello aperto che trovai e avanzai verso una
donna minuta
che stava seduta oltre a una vetrata.
«Buongiorno»
esordii, senza particolare sentimento se non il desiderio di finire in
fretta.
«Il
numero, per favore» gracchiò lei, con una voce
tanto fievole da risultare quasi
coperta dal ticchettio della pendola sopra le nostre teste. Erano le
dieci e
venticinque.
Seguii con
lo sguardo la direzione che il dito della donna indicava. Immersa tra
le
decorazioni, appartenute a un tempio di Janne ai suoi fasti, era stata
installata una sorta di torretta.
Trassi un
profondo sospiro e considerai per un istante di farle notare che ero
l’unica
persona presente, oltre a lei, ma mi risolsi a fare come diceva per
evitare
sterili discussioni. Non appena ebbi staccato un piccolo tagliando
azzurrognolo, sentii uno scampanellio.
«Trentasei»
chiamò l’impiegata, stropicciandosi
l’occhio destro. «Desidera?»
«Le
pratiche che ho dato disposizione di inviare due giorni fa. Che fine
hanno
fatto?»
La donna
cominciò a scartabellare tra dichiarazioni e delibere,
facendo prendere il volo
a qualche foglio sciolto che volteggiò lento
nell’aria polverosa.
«Lei
è il
signor…»
Per un
istante fui colto dal desiderio bruciante di inalberarmi e far valere
la
dignità della mia posizione.
“Sono
a
capo dell’Inquisizione!” avrei gridato, ponendomi
davanti a lei come uno dei
protagonisti dei libri d’appendice che mio fratello leggeva
in ospedale.
“Perché non mi consegnate il faldone senza
fiatare?”
«Alan»
risposi, con un tono che giudicai quasi dimesso. La pausa fu riempita
dai lenti
rintocchi della pendola in un tempo che pareva dilatato.
«Grande Inquisitore di
Bevelle».
Lei mi
guardò con curiosità da oltre il vetro. Io,
attraverso il velo, riuscivo a
vedere ogni cosa anche se offuscata, tuttavia mi ero sempre chiesto se
e come
gli altri riuscissero a scorgere i miei occhi.
«Certo,
ecco qua, hm-hm» borbottò l’impiegata in
modo incoerente. «Ancora un attimo,
prego».
Mi sarei
guardato allo specchio, uno di quei giorni. Forse, però, la
visione sarebbe
stata falsata, quindi sarebbe stato meglio chiedere a Kelk Ronso.
«Le
carte
non sono state spedite» sentenziò la donna
all’improvviso.
Aggrottai
le sopracciglia e sentii la rabbia che montava nello stomaco.
«Non
sono
state spedite?» ripetei, scandendo bene le parole.
«Sì,
adesso le dico subito… ecco, sì, il timbro di
permesso. C’è il timbro, ma non
la firma. Il timbro, ma non la firma» ripeté
quell’ultima frase con tono lento,
liturgico.
«E,
di
grazia, cosa dovrei fare?» ribattei, dimentico per un istante
d’essere al di
sopra delle parti.
«Dovremmo
contattare Gatius, che si occupa di queste cose, il direttor Gatius.
Tuttavia,
il direttore è in trasferta. Partito ieri. Non le resta che
presentarsi
domani».
Strinsi il
pugno fino a far affondare le unghie nella carne e le scoccai
un’occhiata che,
a giudicare dall’espressione che lei mi restituì,
dovette intimorirla non poco.
La giudicai una debole prova del fatto che i miei occhi si vedessero.
«Non
ho
tempo per tornare domani» la fulminai, alzando la voce.
«Sono due giorni che
aspetto nella topaia che chiamate monastero. Risolva immediatamente o
farò
rapporto al Maestro Mika».
Con
l’espressione di chi vede la vita passare davanti ai propri
occhi, inanellata
pagina per pagina in un grande faldone, l’impiegata
abbassò la testa.
«Sì,
signore» disse, alla frenetica ricerca di qualcosa sulla
scrivania. Trovò una
videosfera e la accese. «Contatto subito l’ufficio
di Gatius, signore».
Dopo
qualche istante, la trasmissione si avviò e
l’ologramma bluastro di un ometto
calvo comparve davanti ai suoi occhi.
La donna
gli spiegò con esasperata lentezza la situazione, e lui
prese a scuotere
ritmicamente la testa a destra e sinistra. Un brivido di morte mi
percorse i
tessuti.
«Gatius
avrebbe dovuto apporre la firma…» si lagnava
l’ometto in quella che ormai era
diventata una nenia funebre. «Non ho idea se ho il permesso
di mettere la data
sul timbro al suo posto… e poi, quale data? In teoria, la
data di consegna;
però la data di consegna con timbro soltanto oppure di
consegna reale,
confermata dalla firma di autorità?»
«Ho
capito» sentenziai, e mi sporsi verso la donna dietro al
vetro. Lei sobbalzò e
interruppe la comunicazione. «Mi dia i documenti. Mi reco io
personalmente a
Djose».
Con
quell’ordine che in realtà era un obbedire,
ricevetti il plico di fogli che avevo
compilato.
«Signor
Giudice…» mi raggiunse la voce flebile
dell’impiegata. «Posso confidare che la
mancanza del nostro ufficio non venga…»
Io, che
avevo già girato i tacchi, mi voltai con rabbia.
«Sulla
mia
pietà, signora, io non farei mai
affidamento».
Marciai
quindi verso la porta da cui ero entrato, cercando di tenere a bada le
fastidiose insinuazioni che, nella mia stessa testa, si affollavano nel
tentativo di mettere in discussione la mia
autorità.
La mia
autorità assoluta.
C’era
un
carretto, di fronte all’ingresso. Era blu e di legno, e
trascinava un secchio e
uno spazzolone per i pavimenti. Sembrava essere stato abbandonato,
quindi
avanzai con l’intenzione di scostarlo.
«Alt!»
mi
bloccò una voce, e una donna curva zoppicò
aggressiva verso di me. Sembrava
aver superato la mezza età, e i suoi abiti denunciavano un
gradino sociale più
basso dell’impegata con cui avevo avuto a che fare.
Mi fermai,
infastidito, e nel silenzio i paramenti sulla mia veste tintinnarono,
come
facevano sul campo di battaglia.
«Di
qui
non si passa!» berciò lei, senza
indietreggiare.
«Devo
uscire».
«Allora
faccia il giro ed esca dalla porta sul retro».
Il
pensiero di stringerle le mani alla gola sino a soffocarla fu fermato
solo dal
disgusto che avrei provato nel sentire quel collo grasso e flaccido
sotto le
dita.
Nel
frattempo, lei si era avvicinata e mi scrutava, gli occhi porcini
socchiusi e
le sopracciglia incoronate da una lunga verruca.
«Lei
è
dell’Inquisizione, eh, allora le sa le cose di
legge» mi disse. La sua bocca pareva
un taglio obliquo d’accetta sul viso.
«Mi
faccia
passare» la intimai per l’ultima volta, senza dar
segno d’averla ascoltata.
«Vede»
replicò, «quando io sarò fuori da qui,
le regole saranno quelle che dice lei.
Però qua dentro – e solo qua dentro, badi bene
– c’è una regola sola, che ho
deciso io. Ed è che da questa porta non si passa, e lei che
è Inquisitore farà
il giro. E se si presenta Yevon in persona, allora farà il
giro anche Yevon».
Ritenni,
nonostante la decisione mi pesasse nell’animo, che la via
più breve in quanto a
tempo perduto fosse la deviazione che la donna mi suggeriva.
M’immersi di nuovo
tra i corridoi malamente decorati, tra gli stucchi scrostati del
tempo.
Le carte
che avevo compilato mi tornavano alla mente in un turbine di
“Luogo! Data!” e,
per qualche sgradito minuto, valutai di tornare al monastero e di
attendere che
la spietata burocrazia facesse il suo corso.
Io, che
avevo sempre avuto potere, per la prima volta non potevo niente;
nemmeno le
litanie sciamaniche della Necropotenza sarebbero state in grado di
scavare nel
tempo e portarmi ciò che volevo.
Valutai di
rimanere nella mia stanza, in attesa come un suddito qualunque. Ma poi
ripensai
al calare della sera, alla creatura sotto la trincea che gracidava
piano nel
silenzio tra i colpi di mortaio.
«Ripartiamo
per Djose» ordinai ai miei uomini quel pomeriggio.
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Capitolo 30 *** Qualcosa che non possiamo vedere ***
CAPITOLO 21:
QUALCOSA CHE NON
POSSIAMO VEDERE
I
monaci del tempio di Djose devono aver passato giorni terribili,
pensò Jecht quando vennero loro
offerte delle celle per passare la notte. Le locande non avrebbero
collaborato
con facilità col sangue del sangue di Alan, e la
possibilità di essere
accoltellati nella schiena durante il sonno era tutt'altro che remota.
Braska
accettò di buon grado, senza discutere: era duramente
provato dalla battaglia
appena trascorsa, e tornare in città ripercorrendo la strada
tortuosa del
promontorio era fuori discussione, almeno per le sue gambe.
Le celle
erano singole e tutte uguali: all'interno non c'era altro che un letto,
una
sedia e un piccolo comodino, sul quale erano posati una ciotola con
dell'acqua
e un panno pulito.
Braska
salutò i suoi Guardiani con un sorriso stanco, per poi
ritirarsi appena
conclusa la cena, mentre Auron si trattenne nella sala principale a
pregare il
dio su uno dei numerosi altari, come non faceva ormai da mesi.
Jecht lo
osservò da lontano inginocchiarsi stringendo in mano il
rosario, poi si diresse
verso la sua cella per lavare via la polvere dal viso e dai capelli.
Passò solo
qualche minuto prima che sentisse dei passi pesanti dirigersi verso la
stanza
accanto alla sua, e gli sembrò molto strano.
Le sue
cantilene sono più numerose di così,
pensò Jecht preoccupato, ma sapeva che una sua intrusione
avrebbe infastidito
Auron.
L'atleta
continuò a pulirsi la barba, ma il pensiero non lo
abbandonava. Sospirò,
conscio di ciò che lo aspettava, e uscì dalla
stanza, per poi bussare con
delicatezza alla porta della cella del compagno.
«Sì?»
«Sono
io.
È tutto a posto?» chiese Jecht dall'altra parte.
Passò
qualche istante di silenzio.
«Sto
bene»
rispose Auron.
«D'accordo...»
disse Jecht, non aspettandosi nulla di diverso. «Controlla
bene le ferite, ok?»
L'atleta
fece qualche passo verso la sua cella, tanto era vicina a quelle dei
compagni.
«Domani
mattina guarda se ti è uscito l'ematoma sul
fianco» disse Auron all'improvviso.
Jecht si voltò verso la porta come se potesse vederlo nella
sua stanza.
«Lo
farò».
La notte
fu più dolce di altre, e il versamento di sangue sul costato
non apparve. Se
anche Auron avesse avuto un sonno agitato, Jecht non sentì
nulla: aveva dormito
molto profondamente, ma non aveva sognato. Non si coricava sperando di
averli,
ma era qualcosa che voleva approfondire.
I tre si
incontrarono all'entrata del tempio: Braska si presentò ai
suoi Guardiani con
volto rilassato, mentre Auron aveva delle occhiaie marcate che non
passarono
inosservate a Jecht.
«Hai
riposato bene, Braska?» chiese l'atleta con un mezzo sorriso.
«Oh,
sì!
Non dormivamo su un letto morbido da un bel po'» rispose
l'Invocatore. «È tempo
per me di accogliere Ixion. Spero di non metterci molto».
«Andrai
alla grande, non ti preoccupare» disse Jecht rassicurante.
«La
aspettiamo qui, signore» continuò Auron con tono
stanco.
Braska si
congedò e si avviò verso la parte più
interna del tempio, seguito dallo sguardo
di Jecht che passeggiava senza meta sulla soglia.
Come di
consueto, il guerriero si recò all'aria aperta per fumare,
lasciando l'atleta
libero di poter osservare le statue e fare domande ai monaci sulla
dottrina,
abitudine che aveva preso fin da quando Braska aveva ottenuto Shiva.
Auron lo
osservava dalla porta aperta per assicurarsi che Jecht non fosse
blasfemo o
inopportuno, ma l'atleta manteneva sempre un comportamento
rispettoso.
In
principio, il monaco era convinto che il compagno volesse apprendere le
antiche
usanze per poi sminuirle, ma Jecht lo smentiva più spesso di
quanto volesse
ammettere.
Indugiò
su
quei pensieri fino all'ultimo tiro di fumo, poi rientrò in
tempo per vedere il
compagno avvicinarsi con espressione pensierosa.
«Hai
finito il tuo giro turistico?» lo punzecchiò Auron.
«Eh?
Ah,
sì» rispose Jecht distratto.
«Sembri
insoddisfatto. Inizi a perdere interesse?»
«Ti
piacerebbe. A dir la verità, mi stavo chiedendo una
cosa».
Auron
sospirò.
«Domanda,
allora».
«Perché
non possiamo entrare nel naos? C'è forse una magia che lo
impedisce?»
«I
Guardiani non seguono l'Invocatore all'interno del tempio
perché è terreno sacro.
Allo stesso modo in cui non oltrepassiamo una porta chiusa, non
entriamo senza
invito oltre il recinto del dio» spiegò Auron con
sicurezza. «Solo chi è degno
di passare oltre può pregare alla
presenza dell'Eone».
«E
il…
recinto, chi decide che l’Invocatore può
varcarlo?»
«Gli
Intercessori, spirito di Yevon e sua manifestazione sulla
Terra».
Una risata
trattenuta e un rumore di tacchi sul pavimento distolsero
all’improvviso i due
dal loro discorso.
«Gli
Invocatori, i supplici e i condannati a morte» disse piano la
voce ben nota di
Alan, passato oltre senza nemmeno voltarsi. «Ecco le tre cose
sacre».
Non
dovrebbe essere qui, pensò
Auron, ma il suo corpo aveva reagito prima della sua mente alla
presenza
dell’Inquisitore e gli aveva rivolto il saluto.
Alan
trasalì, come se un insetto lo avesse punto, e si
voltò. Ignorato del tutto
Auron, rivolse uno sguardo indecifrabile a Jecht e poi
aggrottò la fronte, come
se ci fosse qualcosa che non capiva.
L’atleta
rimase immobile e riuscì a superare indenne
quell’esame: dopo pochi secondi, il
Grande Inquisitore tornò a camminare nella precedente
direzione. Si fermò di
fronte a un grande Ronso vestito con abiti da sacerdote, al che Jecht
ritenne
preferibile distogliere lo sguardo.
«Perché
è
tornato qui?» domandò ad Auron che, forse senza
accorgersene, gli si era
avvicinato.
«Non
credo
abbia bisogno di un motivo per recarsi in un tempio» rispose
il monaco, senza
ostilità.
«In
questo, forse sì. I cittadini di Djose hanno sputato a suo
fratello, e sta
andando in giro con una scorta. Credo che stia cercando qualcosa, e
anche che
sia qualcosa di importante, se ha tutta questa fretta».
Auron
soffermò gli occhi su di lui per qualche istante.
Sentì una strana pressione
nel destro, sotto la retina, che poi subito svanì.
«Non
è per
forza qualcosa che ci riguarda» disse poi. Un pesante sospiro
giunse alle sue
orecchie e, per una delle prime volte nella sua vita, temette di aver
detto
qualcosa di sbagliato.
«Senti»
esordì Jecht, e all’improvviso gli
sembrò di essere solo, in quel grande atrio,
con lui. «Io capisco che su quest’isola teniate
molto in conto quell’uomo, che
sia potente e una guida spirituale per molti, ma…»
I loro
sguardi, continuava a notare Auron, s’incrociavano sempre
più spesso. Forse
stavano cominciando a diventare amici?
Forse
stavano cominciando a importargli le parole di uno straniero?
«Continua»
lo esortò.
«Ma
io non
penso che sia buono».
Auron
trattenne il respiro per un secondo, poi soffiò
l’aria fuori dalle narici.
Quello che pensava Jecht, quello che gli animava il cuore, per qualche
motivo
era intrigante. Se avesse chiesto un parere a Braska, avrebbe ricevuto
in
risposta parole cristalline ma prevedibili. Jecht, invece, era una
scoperta
continua.
Auron
ricordava il tramonto di Bevelle e ricordava la chimera di rosa e oro.
Il
tabacco rubato nelle sue tasche e il carro trionfale che portava
l’eroe.
Ricordava
le file di monaci bambini e l’odore dell’incenso
quando lui s’era
inchinato.
«Accetta
questa libagione, Yevon, e la numerosa ecatombe che rechiamo. I e yu i
no bo me
no».
La sua
bella schiena scoperta e percorsa dalle gocce d’acqua, la
pelle d’ambra chiara.
«Giuro
di servire l’esercito luminoso di Yunalesca. Qui rinasco
Inquisitore. Io sono
protetto dal quarto cerchio; io mondo il mondo dal peccato».
Aveva una
falena sulla spalla destra.
«Ci
devo
pensare» disse Auron. Quella frase riecheggiò per
il tempio di Djose prima di
essere spezzata dallo stridio della porta del naos.
Braska
rivolse ai suoi Guardiani un cenno con la mano dalla cima delle scale;
a loro
sembrava in salute e affatto provato.
«Signore,
è successo qualcosa?» chiese Auron allarmato, ma
Braska sorrise allegro.
«Va
tutto
bene, amici miei. Ixion ha già avuto modo di valutare il mio
valore attraverso
quel combattimento» spiegò. «Mi ha
concesso la sua forza quasi subito, sia
ringraziato Yevon. Potremmo ripartire anche ora».
«Ah,
benissimo! Non mi dispiace lasciare questo posto» disse Jecht
a bassa voce.
«Che ne pensi, ragazzo? Per te va bene riprendere il
viaggio?»
«Non
abbiamo niente che ci lega qui» rispose Auron concorde.
«Tuttavia, c'è una cosa
che deve sapere, signore: il Grande Inquisitore è qui. Lo
abbiamo incrociato
giusto un attimo fa».
Braska
congiunse le mani con espressione tesa: nemmeno lui si aspettava di
vederlo
proprio lì.
«Ah…
dovremo rimandare la partenza, allora. Immagino stia cercando me:
faccio fatica
a credere che sia solo una coincidenza».
Auron e
Jecht si lamentarono entrambi a modo loro, facendo comparire sul volto
di
Braska un sorriso sincero.
«Amici
miei, vi prego di pazientare ancora un po'. Chiederò ai
monaci del tempio se
l'hanno visto, voi per favore aspettate qui».
I
Guardiani annuirono e lo osservarono dileguarsi nel tempio, mentre
Jecht
scalpitava impaziente.
«Accidenti,
non voglio stare ancora in questo posto a far nulla. Ti dispiace se
faccio una
passeggiata qui fuori?» chiese Jecht insofferente.
«Non
causare guai» rispose Auron con pacatezza.
«Sarò
di
nuovo qui nel tempo di una sigaretta, lo sai».
Senza
aggiungere altro, l'atleta si diresse a passo deciso verso il piccolo
fiume
attraversato dal ponte. Tutto ciò che desiderava era mettere
i piedi nell'acqua
e tirare il fiato, lontano da quel tempio polveroso.
Un brivido
gli attraversò la schiena quando percorse la strada dove
avevano combattuto:
c'erano ancora i segni neri lasciati dalle saette di Ixion e dai colpi
di
quella donna che urlava straziata.
Scosse la
testa e affrettò il passo, quando due uomini vestiti
completamente di nero,
provenienti dalla parte opposta, gli si avvicinarono.
Jecht si
ricordò degli insegnamenti di Auron e salutò i
due individui con la riverenza,
come era usanza su Spira. Tuttavia, quelli non risposero e, dopo averlo
affiancato, senza dire una parola afferrarono Jecht per gli
avambracci.
«Ehi!»
si
lamentò lui, e il suo stomaco si affossò quando
notò i paramenti sulle loro
vesti.
«Devi
seguirci» gli intimò uno, stringendo la presa.
L’atleta, che non aveva intenzione
di ribellarsi, spostò lo sguardo verso l’alto.
Quando il bagliore residuo del
sole svanì dalle sue retine, si rese conto che lo stavano
trascinando verso una
grande carrozza, trainata da un chocobo. Era verniciata di nero e
ricoperta da
una patina opaca che faceva risaltare gli stucchi in oro.
«Che
cosa
è successo?» domandò Jecht. I due
Inquisitori fecero per rispondere, ma furono
interrotti da una voce che proveniva dall’interno del mezzo,
oltre alle pesanti
tende damascate che coprivano i finestrini.
«Nulla.
Voglio solo parlarti».
Jecht
aggrottò le sopracciglia e, quando la morsa dei due uomini
si allentò, incrociò
le braccia.
«Parlarmi,
a me?» ribatté, infastidito dal dover dialogare
con un fantasma. «Hai sbagliato
persona: non ho niente da dirti».
«Io
sì»
continuò Alan, in tono mellifluo. «Prego,
entra».
Mentre la
paura e la confusione combattevano nel suo animo, l’atleta
scoccò un’ultima
occhiata ai due che lo avevano prelevato e si
issò sulla piattaforma
della carrozza.
Non aveva
idea di cosa potesse interessare a quell’uomo, ma sospettava
che non fosse una
buona idea disobbedire a un suo ordine.
Un intenso
odore di fumo lo accolse non appena aprì lo sportello. Alan,
immerso nella
penombra artificiale, era seduto su un sedile imbottito in mezzo a una
cortina
che si stava diradando. La alimentò tirando una boccata dal
sigaro e, quando
fece cenno, un raggio di luce soffusa colpì il bicchiere che
teneva in mano.
Conteneva ancora un dito di un liquido ambrato che Jecht conosceva
bene, anche
se di una qualità a cui, immaginava, lui non si sarebbe mai
accostato.
«Chiudi
la
porta, per cortesia» gli disse l’Inquisitore, poi
abbassò la voce. «È una
conversazione privata».
A quelle
parole, d’istinto Jecht spostò gli occhi sul suo
ospite, quasi certo di aver
intravisto una lama brillare. L’unico bagliore che
incontrò proveniva però
dalla fila aguzza dei suoi denti, scoperti in un sorriso feroce. Uno
era
leggermente più lungo degli altri.
Alan lo
invitò a sedersi e si allungò con un gesto
ostentato verso il posacenere di
vetro al limitare del tavolino che aveva davanti.
Non
indossava le solite, ampie vesti sacerdotali, ma un completo nero
stirato alla
perfezione e – a giudicare dalle pince sui
pantaloni e da come gli
cadevano sui fianchi – realizzato su misura per lui.
C’erano
tanti dettagli che stonavano in quella scena, e Jecht notò
il principale quando
provò a sollevare lo sguardo per incontrare quello
dell’Inquisitore: non
portava nessun copricapo e nessun velo.
Lo aveva
spesso immaginato rasato, o con i capelli molto corti come quelli del
fratello,
invece aveva un’ordinata acconciatura a trecce sottili che
gli raggiungevano la
base del capo.
Quando
arrivò agli occhi, non riuscì a sostenere il
nervosismo e preferì guardare
altrove.
«Ti
piace
indagare sulla storia della nostra isola, Jecht?» gli
domandò Alan.
Aveva
accavallato le gambe, parte del corpo che lui molto di rado notava in
un uomo,
e la mano che teneva il sigaro era appoggiata su un ginocchio.
Jecht
sapeva bene che la retorica di vostronori come lui
intendeva sempre
porre due domande quando chi ascoltava ne sentiva una.
«Non
mi
dispiace» ribatté, alternando lo sguardo tra le
sue cosce e le sue dita. Sul
dorso della mano, Alan aveva un livido ben distinguibile anche nella
penombra,
che ricordava in modo inquietante il morso di un essere umano.
«E
tu hai
trovato dei mostri lungo la strada, Inquisitore?» lo
incalzò, con un coraggio
folle di cui nemmeno lui conosceva la provenienza. Alzò gli
occhi per
incontrare il viso dall’espressione interrogativa di Alan e
si limitò a
indicarsi il dorso della mano con un mezzo sorriso.
Lui
esibì
uno sguardo distratto, ma Jecht notò che scambiò
la mano che teneva il sigaro
con quella che teneva il bicchiere, in modo che il segno fosse meno
visibile.
«Non
fanno
molta distinzione fra chi hanno davanti» rispose. Poi prese
la bottiglia di
vetro smerigliato che aveva di fronte e riempì un secondo
bicchiere di liquore.
Jecht
sentì le vene del collo pulsare e dovette stringere un pugno
per controllarsi.
Quando Alan gli porse il bicchiere, lui riuscì a rimanere
immobile.
«Sono
costretto a rifiutare» disse, con distacco. Appena
finì la frase, la sua mente
si affollò di formulazioni più cortesi che
avrebbe potuto utilizzare, in modo
che quell’uomo non lo prendesse come un affronto.
«Non posso più bere, per…
questioni di salute» precisò.
Alan
accavallò di nuovo le gambe, spinse in fuori il labbro
inferiore e scrollò le
spalle, poi svuotò il bicchiere in un sorso.
E tu,
Inquisitore, sei sicuro di essere in salute? si
ritrovò a pensare Jecht. Strizzò gli occhi per
distinguere meglio, nella scarsa luce, il viso ossuto di Alan, incavato
più di
quello del fratello.
Forse
la Non-morte non fa bene allo stomaco.
«Che
cosa
vuoi sapere?» gli chiese, sebbene il timore della risposta
gli masticasse il
cuore.
«Sai»
replicò Alan, osservando il bicchiere vuoto, «non
ti avevo mai tenuto troppo in
conto. Tuttavia, noi utilizzatori della Necropotenza siamo
piuttosto… sensibili
all’odore di esistenze che non sono la nostra».
«Parla
più
chiaramente» ribatté Jecht, che di odore sentiva
solo quello pungente del
tabacco.
«Questa
mattina, quando mi sei passato a fianco, ho notato che hai la sua
traccia
addosso» Alan alzò lo sguardo celeste e trafisse
il suo interlocutore. «Il Coro
degli Intercessori. Ti ha parlato?»
Jecht, che
s’aspettava alcune domande, ma non quella, si
trovò a far vagare gli occhi,
nervoso, per tutta la carrozza.
«Che
cosa
me ne viene se te lo dico?» domandò, in un impeto
di spavalderia.
Alan
socchiuse le palpebre e gli rivolse una lenta risata, fredda e
misurata.
«Vuoi
qualcosa in cambio?» lo canzonò. Jecht
sobbalzò nel sentire la mano dell’Inquisitore
che si posava sul suo avambraccio. Fu attraversato da brividi di
terrore quando
si rese conto che avrebbe potuto prendergli il viso tra le mani, come
aveva
fatto con Auron, e minacciarlo.
«Mio
caro»
continuò invece Alan, le dita ferme dove le aveva posate,
«per me sarebbe molto
semplice, dato che adesso ne ho la certezza, denunciarti per
omosessualità e
sbatterti in galera». Sorrise, forse provando una sorta di
eccitazione nel
vedere la paura sul volto di Jecht, e fece arrivare la mano fino alla
base del
suo collo prima di ritrarla. «E se le prove non dovessero
bastare, posso
ordinare di scavare fino all’osso nella tua vita, nel tuo
passato, e sono
sicuro che qualcosa troverò. Non è
così?»
«Il
Coro
mi ha parlato» gli confessò Jecht, scottato dalle
sue parole. «In sogno».
La mano
sul mento che temeva arrivò, senza stringere: Alan lo
costrinse quasi con
delicatezza ad alzare la testa e l’atleta si trovò
a un palmo da lui. Non
riusciva, a causa del fumo, a respirare dal naso, ma tentare di
prendere una
boccata d’aria si sarebbe rivelata una scelta ancora peggiore.
«Oh,
davvero?» mormorò l’Inquisitore, con
voce profonda. «E che cosa ti ha detto?»
«Cantava
un lamento per la città di Zanarkand»
continuò l’altro. «Ho visto il loro re
incatenare i sudditi a una rupe e costringerli a sognare».
Alan
aggrottò le sopracciglia, in un’espressione che
pareva sinceramente confusa, e
socchiuse di nuovo gli occhi. Sembrava infastidito da un dettaglio che
Jecht
non riusciva a cogliere.
«Sognare?»
domandò.
«Così
hanno detto».
«Sognare
che cosa?»
«Non
me lo
hanno rivelato» mentì Jecht. Poi vide il Grande
Inquisitore esitare,
socchiudere le labbra per poi non emettere alcun suono, e infine
lasciargli il
viso.
«È
tutto
ciò che sai?»
«Sì».
Alan
sembrò essere soddisfatto dall’interrogatorio e
annuì, sovrappensiero.
«Puoi
andare» sentenziò, poi si interruppe.
«Anzi, ti riporto io da mio fratello».
Così,
Jecht scese dalla carrozza assieme all’Inquisitore. Provava
un fastidio
profondo, che si acuì quando guardò Alan,
dall’alto al basso, e considerò che –
nonostante la differenza di statura – nemmeno con la forza
avrebbe mai potuto
avere ragione di lui. Come se avesse sentito quel pensiero, Alan si
voltò e gli
rivolse un macabro sorriso.
«Ti
ho
riportato il Guardiano» esordì poi, quando furono
in vista di Braska.
«Jecht…»
lo chiamò Braska, interdetto.
«Abbiamo
solo parlato» lo interruppe il fratello, con un sorriso che
doveva sembrare
rassicurante, poi allungò una mano verso di lui in un gesto
d’invito. «Ora
posso chiedere qualche minuto del tuo tempo, Invocatore?»
Jecht,
nervoso, si diresse verso Auron, che guardava la scena senza
intervenire. Ogni
secondo era un passo verso l’inevitabile. Alan glielo avrebbe
detto, quindi
perché non sganciare la bomba?
Mi ha
chiesto di parlargli del Coro di Zanarkand, si
immaginò di gridare, lo sta cercando. Mi ha
minacciato.
Ma da un
lato Auron era all’oscuro dei suoi sogni – e tale
sarebbe dovuto rimanere –
dall’altro lui stesso era soverchiato dal timore.
«Sì»
rispose Braska, lanciando una rapida occhiata a Jecht.
«Ti
prego
di seguirmi» continuò Alan, poi alzò
gli occhi verso i suoi due Guardiani. «Da
solo».
Obbediente
come un servo che non vuole essere percosso, l’Invocatore
giunse le mani in
grembo e camminò verso il fratello. La sua testa china
sembrava promettergli
che lo avrebbe seguito ovunque.
Alan lo
condusse fuori dai confini del piccolo villaggio, dove in un mare
biondo di
grano ondeggiava al vento. Non c’era nessuno attorno a loro,
neanche un
contadino che dissodava i campi; nel silenzio solo stormi neri si
allontanavano
verso il sole.
Braska
strinse con una mano le dita dell’altra, affondò
un poco le unghie sul dorso
mentre il suo sguardo vagava tra i fiordalisi.
«In
questi
mesi tu hai camminato» cominciò il fratello,
anch’egli con gli occhi azzurri
persi nella distesa di spighe. «Io ho scoperto alcune cose.
Cose terribili di
cui ormai sono quasi sicuro».
L’Invocatore
non aveva mai avuto paura di Alan, nemmeno nel giorno ormai lontano in
cui
avrebbe dovuto condannarlo a morte. Sentiva che avrebbe sempre potuto
contare
sul suo amore, sulla sua pietà.
Ma quel
campo, dove s’innalzavano le grida dei corvi, era isolato e
strano.
Il Grande
Inquisitore cominciò a passeggiare con lentezza misurata e a
sfiorare con le
dita le cime delle spighe.
«Che
cosa
hai scoperto?» chiese Braska a mezza voce.
«Ci
sono
dei Non Trapassati tra le fila di Yevon» sentenziò
Alan, senza ulteriori
preamboli. Sotto la sua mano c’era una spiga che, per
altezza, spiccava sulle
altre. «Morti impenitenti, convinti che io non riesca a
individuarli».
Lo stelo
della spiga si ruppe, e la sommità cominciò a
ciondolare come il capo di un
condannato a morte a cui l’ascia non avesse reciso
l’ultimo nervo.
«Sto
per
avere le carte di un processo interessante che riguarda un umile prete,
ma ho
il sospetto che il clero sia molto più corrotto e che la
piaga abbia raggiunto
i vertici».
Mentre
parlava, continuava a spezzare le spighe di grano più alte,
in modo da portarle
tutte allo stesso livello.
«Credevo
fosse giusto mettertene al corrente, amato fratello».
Alan
strinse un’ultima volta il pugno e dei chicchi gli
scivolarono giù dai guanti,
poi rimirò in silenzio il suo operato.
Braska
capì.
«Ti
ringrazio» gli disse. «Starò
all’erta».
Ci devo
pensare, aveva
detto.
Era
davvero così, o era un modo per allontanarsi per qualche
momento da Jecht, se
non nello spazio almeno nella mente?
Perché,
del resto, avrebbe dovuto pensare, quando i dettami
del dio erano così
chiari?
C’era
una
parola che sembrava mancare dalle azioni di Alan, di cui erano vuoti i
suoi
discorsi, ed era virtù.
Virtù,
la
maestà dell’uomo.
Auron fece
riposare lo sguardo sul viso di Jecht, che attendeva seduto a fianco a
lui
fuori dal tempio, spostò il ginocchio che gli pareva troppo
vicino al suo.
Ricordò
quando aveva assaltato lo Shoopuf convinto, nella mente annebbiata e
nel cuore
forse puro, che fosse la cosa giusta. Si rese conto che li accomunava
la stessa
cecità.
Braska,
che camminava nell’amore, sapeva che tutto aveva un fine
più grande; gli occhi
di Alan oltre il velo vedevano la legge ultima di Yevon.
Jecht
invece avanzava nel dolore e nella morte, destinato a non sapere, e per
quale
motivo questo non lo turbasse era ignoto ad Auron. Ogni cosa aveva
senso su
Spira, ogni vita trapassata attraversava la terra dei mortali per
adempiere al
disegno del dio.
«Siamo
ciechi, io e te» disse ad alta voce, senza nemmeno voltarsi
verso il compagno.
Non voleva vedere il timore che l’incontro con
l’Inquisitore aveva lasciato nel
fondo dei suoi occhi. Non voleva nemmeno chiedere – ché
la curiosità è
peccato – cosa si fossero detti, dentro a quella
carrozza, di tanto
importante.
«Ciechi?»
Dei piccoli
animali, simili a roditori, annusavano con fare frenetico le sterpaglie
davanti
a loro. Qualcuno si avvicinò alla loro panca, cautamente, e
Auron ricordò di
quando i passeri becchettavano ai piedi di Braska, nella luce dolorosa
del sole
di Bevelle.
Allora non
conosceva la voce roca di Jecht, la sua mente non si soffermava,
sperando di
passare inosservata, sul suo corpo forte. Lo aveva immaginato, nei
momenti in
cui prendeva le sue decisioni avventate, senza capo sopra le spalle.
Oppure
quasi deforme, curvo su bottiglie che cercava di proteggere. Altre
volte,
invece, se l’era figurato nudo, con la sublime sofferenza di
un martire
inchiodata tra le sopracciglia.
Aveva
ripensato a Wen Kinoc, al ticchettio del pendolo e a quella vecchia
preghiera. La
fiamma del tuo Amore, Yunalesca, arde sul mare. O eccellente figlia,
s’innalzi
anche la mia. Anche la mia, nel nome del dio.
«Sì».
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Capitolo 31 *** ℷ. Carte del processo a Davon di Janne, sacerdote (Parte 2) ***
ℷ. Carte del
processo a Davon di
Janne, sacerdote (Parte 2)
Mese IV, 1026
27 giorni dal
solstizio d’estate
«Sì»
disse
il più giovane dei Guardiani di mio fratello quando gli
passai a fianco.
Guardai il suo viso, i suoi occhi rivolti altrove, e mi fu subito
evidente che
non intendeva rivolgere la parola a me, bensì era impegnato
in una
conversazione con l’altro.
Jecht, nel
vedermi, riuscì a dissimulare la paura
nell’espressione del volto, tuttavia si
tradì facendosi più vicino al compagno, in
maniera che mi parve del tutto
involontaria.
«Auron»
chiamai, passando le dita sulla cartella di documenti che tenevo in
mano. Lui,
che era seduto su una delle panche fuori dal tempio, alzò lo
sguardo e sostenne
il mio, nonostante mi paresse vagare in altri pensieri.
«Se
ne
vada» tentò di minacciarmi. Forse
l’amico gli aveva riferito la nostra
conversazione e la sua coscienza non era pulita.
«Braska
sta arrivando» lo informai, sorridendo. «Vuoi
approfittare della sua assenza
per prenderti la tua rivincita?»
«Il
mio
giuramento da Guardiano mi impedisce di attaccare all’interno
di un recinto
sacro».
Alzai le
sopracciglia e gli rivolsi un secondo sorriso.
«Sei
piuttosto devoto» replicai, poi spostai lo sguardo su Jecht.
«Ma il confine tra
devozione e ottusità a volte è davvero sottile.
Potrei cercare di ucciderlo».
Auron
impugnò saldamente la spada con la destra e la
portò davanti alle proprie
gambe, in modo da fare da scudo a Jecht.
«Mi
impedisce di attaccare» ripeté.
La
risposta mi piacque. Pensai che la Necropotenza, con lui, sarebbe stata
in
buone mani. Così, mi congedai con un cenno del capo, rivolsi
un’ultima occhiata
a mio fratello ed entrai nel tempio.
Qualcuno,
forse l’Intercessore, cantava scandendo ogni sillaba, come se
volesse far
comprendere a dei profani la sua lingua antica.
Quando fui
solo, con la coda dell’occhio fuggii l’ostacolo del
velo e controllai alle mie
spalle. Erano lì, i ventuno spiriti del Coro, sempre con il
viso pitturato di
bianco; sempre immobili nelle loro fila, le labbra socchiuse come per
iniziare
a cantare lo stasimo della loro incomprensibile tragedia. Ma stavano in
silenzio.
«Continui
a non parlarmi?» domandai a mezza voce. Avevo già
avuto la compassione della
gente, un tempo, quando il trauma mi faceva parlare con persone che non
c’erano; non avevo intenzione di ripetere
l’esperienza anche con quelle che gli
altri non potevano vedere.
CORO
(Tace)
«È
perché
non ho intenzione di risponderti cantando in rima» domandai
«o sai trovarmi una
motivazione migliore?»
CORO
(Tace)
Sospirai,
e annullai la sua presenza chiudendo gli occhi e tirando il velo fino
al mento.
Quando riaprii le palpebre, davanti a me c’erano solo i
corridoi intricati del
tempio di Djose e Kelk Ronso che mi attendeva accanto a una statua di
Zaon.
«Ha
bisogno di qualcosa?» mi chiese lui, forse poiché
mi aveva sentito parlare o mi
aveva visto guardarmi attorno.
Scossi la
testa.
«Stavo
solo pensando».
Ero
diventato abile a nascondere le vie della mia mente agli occhi altrui.
Kelk non
insistette oltre, ma avvertii il bisogno di rimandare gli impegni che
richiedevano la mia attenzione.
Mi
congedai dal mio sottoposto, invitandolo a incontrarci di
nuovo dopo
qualche ora e, così come ero arrivato, me ne andai in
silenzio verso la cella
che i monaci di Djose – pur odiandomi – mi avevano
offerto.
La piccola
sedia in legno scricchiolò quando mi sedetti di peso,
abbandonandomi al
malessere del corpo che non tollerava lo stomaco lasciato vuoto da
giorni.
Se le mie
membra avessero provato lo sdegno che sentivo io nel dover soddisfare i
miei
bisogni in un posto come Djose, non avrebbero osato proferir suono
alcuno.
Correva il
ventisettesimo giorno dal solstizio estivo. Ricordai quando avevo posto
la
ventisettesima tacca sulla canna del fucile, ormai disilluso dalla Vecchia
Menzogna e da ciò che aveva sempre rappresentato
per Spira.
Avevamo
ammassato fuori dalla trincea quelli di noi che erano morti di colera.
Il freddo
aveva cristallizzato le loro carni, rendendole inappetibili anche per i
mostri
del Gagazet. A volte il mio sguardo si soffermava sui loro cadaveri e
cercava
di distinguere i loro lineamenti; mi rallegravo quando mi dimenticavo
di
loro.
Theo mi
chiamò, riverso nel giaciglio che aveva ricavato dai suoi
vestiti e dal suo
telo. La stoffa era striata dal suo vomito misto a sangue, che aveva
intriso
anche la neve sotto di lui.
Mi
parlò
di come i guerrieri Ronso, immersi nel fiume fino alle cosce, pescavano
con le
lance e con gli arpioni; e l’acqua dei fiumi sotto la
superficie era liquida
anche quando era tutto ghiacciato, sempre quattro gradi,
l’acqua è sempre a
quattro gradi. Alan, tu sei capace di colpire un nemico lontano alla
testa,
disse, un tale tiratore ci ha fornito la grazia di Yevon. Tu puoi
sparare ai
pesci quando verranno a galla. Verranno a galla, sì, lascia
che io rompa il
ghiaccio rompere il ghiaccio è l’ultima cosa che
voglio fare l’ultima prima che
il colera mi prosciughi.
Quel
giorno, quindi, la mia urgenza sarebbe stata trovare del pesce fresco,
dato che
era ciò che avevo deciso di mangiare. Una creatura
disgustosa dal sapore
rancido, con la pelle viscida e fredda come quella di Theo, quella che
avevo
toccato quando lo avevo aiutato a rialzarsi e a liberarsi dai panni
sporchi di
urina.
Immaginai
esistesse un trasporto mercantile che commerciasse del pesce nelle
polverose
città del promontorio, ma l'aver indetto un'esecuzione
pubblica non faceva di
me un cliente ben accolto.
Se anche
avessi mandato qualcuno, le probabilità che rifiutassero la
transazione con un
membro dell'Inquisizione erano alte, oltre a rischiare che
adulterassero il
cibo di proposito.
Intrecciai
le dita innervosito, sbuffando aria dal naso come a voler liberare il
mio corpo
dalla necessità di mangiare. Non c'era modo di soddisfare i
miei bisogni,
e ogni attimo passato a rifletterci era tempo inutile.
Avevo
ormai dato le istruzioni a Kelk: non potevo violare i miei stessi
ordini, o la
mia credibilità ne avrebbe risentito. Riposai sul letto il
tempo necessario per
calmare gli intensi bruciori allo stomaco che sovente mi
accompagnavano: era
impresa mai facile, ma ero diventato molto esperto.
La mia
attenzione era ancora alterata, tuttavia non potevo fare altrimenti.
Come ordinato,
il mio sottoposto attendeva vicino alla stessa statua di poche ore
prima.
«Signore»
mi richiamò. Alzai lo sguardo su di lui e incontrai le sue
pupille feline,
strette e verticali, quasi coperte dalle foltissime sopracciglia.
Sperai che
la razza dei Ronso non avesse un’anima sensibile alle
fluttuazioni della
ragione umana, che le sue orecchie mobili non potessero sentire
ciò che non
dicevo.
«Mentre
era assente» continuò invece, «i
sacerdoti di questo tempio mi hanno mostrato
qualcosa che potrebbe interessarle. È nelle Camere della
Fede».
«Fammi
strada» gli concessi, annuendo. Strinsi i denti e deglutii
per cercare di
liberarmi dallo spiacevole sapore che aveva la mia saliva, poi unii le
mani in
grembo in un modo che mi ricordava mio fratello.
Il tempio
di Djose, con il quale le casse del Grande Maestro Mika erano state
molto più
generose che con quello di Janne, era nelle sue stanze più
interne decorato da
motivi che ricordavano l’elettricità, e da luci
azzurre intrappolate in tubi
trasparenti.
Raggiungemmo
una piccola cappella, dove un fedele era chino a salmodiare una
preghiera su
quella che mi pareva una teca. Il suo cranio calvo e irregolare
rifletteva in
modo bizzarro le luci fredde della stanza.
«Non
sapevo che aveste una reliquia qui» esordii. L’uomo
sollevò il capo per
rivolgere un cenno a Kelk e un altro, più profondo, a
me.
«Grande
è
il suo nome, Inquisitore» mi disse. «Anche per chi
umilmente, come me, prova a
percorrere la via di Ur. Guardi nella teca».
Feci come
m’era stato detto e, coperto da un vetro limpido e adagiato
su un cuscino
scarlatto, vidi un lungo velo nero, più volte ripiegato su
se stesso.
«Lo
conosce?» mi chiese la voce di Kelk.
Io non
riuscii a trattenere un sorriso quasi ammirato.
«Il
velo
di Adriàn» commentai.
«L’ultima volta che ne ebbi notizia, lo custodivano
i
Guado… piuttosto gelosamente, a quanto
mi sovviene».
«Ne
hanno
fatto dono al nostro tempio per essere accettati dalla Chiesa di
Yevon»
m’informò l’uomo.
Con la
coda dell’occhio, vidi un luniolo fuggire dalla gabbia del
mio turibolo per
volare verso la teca. Con certezza potevo affermare che si trattava del
velo
che il Duca Adriàn si era strappato dal volto. Il
più venerato degli sciamani.
L’eroe il cui ricordo era di molto antecedente a quello di
Zanarkand, e si
perdeva in miti d’isole remote, pervase da una magia molto
più selvaggia della
nostra.
Mi tolsi
un guanto e avvicinai un dito al vetro: sentii una resistenza, come se
l’oggetto stesso emanasse forza.
«Prega»
dissi al fedele, che era tornato in ginocchio. Per un attimo mi
compiacque il
pensiero che stesse idolatrando me invece di quell’oggetto.
«E quando la
Necropotenza ti concederà il suo favore, copriti il viso. Ma
medita anche sulla
vicenda di Adriàn: a volte quello che fortifica il corpo
può distruggere la
mente».
E dietro a
tutto, dietro al velo, c’era il Coro.
«Ci
sono
delle carte da firmare» mi informò Kelk Ronso
quando raggiungemmo la stanza in
cui avevano finalmente recato i faldoni del processo a Davon. Avevo
dovuto
attendere una mattinata in più poiché, per un
motivo che non avevo ben
compreso, dovevano venire spostati da Janne a Djose dove, coi documenti
che
avevo io, avrei potuto consultarli, senza peraltro uscire dai confini
del
tempio.
Per un
attimo mi balenò in mente l’idea di far comparire
il giavellotto e puntarlo
alla gola di Kelk.
«Quali
carte?» domandai, cercando di trattenermi.
«Affari
da
poco» mi informò il Ronso con artefatta
tranquillità. «Si tratta di concessioni
di terreni acquistati da membri della Chiesa che devono essere
approvati da
lei».
Gli feci
cenno di posarli sul tavolo, accanto ai faldoni che occhieggiavano con
impazienza,
e li firmai dopo una rapida scorsa. Trovai curioso che Kelk avesse
comprato
parte di un terreno montuoso, poco distante dalla piana della bonaccia.
Se ben
ricordavo, un tempo ospitava una miniera di rame.
Avrei
potuto chiederne il motivo, se ne avessi avuto
l’opportunità, e gli avrei anche
chiesto se mi si vedessero gli occhi.
Già
immaginando il tedio che mi avrebbe provocato la lettura delle carte
– e il
linguaggio utilizzato, dal momento che erano state stilate da Michent
– ritenni
opportuno accendere un sigaro.
Vidi il
fumo comporre archi e volte, la cattedra dell’Inquisitore, il
reo e l’uomo che
lo difendeva. I loro profili erano disegnati dalle volute bianche, i
loro
vestiti immagine impalpabile.
Rimirando
l’immagine ancora immobile, udii la voce monocorde di
Michent.
Ai
Maestri di Yevon Jyscal Guado e Vigot Ronso io dico: salute perpetua!
Forse che
non omaggerete, nella Vostra immensa benevolenza, il mio corriere con
fuoco e
acqua per i molti cubiti che ha affrontato, latore di questa lettera?
Ecco:
le mie parole sono veritiere ed io le scrivo mentre Yevon guida la mia
mano,
nella sua immensa sapienza perché nulla che sia viziato o
non veritiero possa
offendere i Vostri occhi.
L'anno
milleventuno, a trenta giorni dall'equinozio d'autunno, presso questa
Pieve,
tenevasi giudizio a carico del prelato Davon e io personalmente lo
condussi e
lo portai a termine. Sette volte sette mi inchino alla
Maestà di coloro che mi
hanno qui inviato a ripristinare la violata giustizia. Se il mio
padrone dice
«Va'», io vado, se dice «giudica
rettamente!», ecco: è cosa già fatta.
Possano
mille benedizioni di Yevon colmare di gioia e prosperità i
reggitori a cui
invio, tramite il mio corriere, il resoconto di questo processo,
accompagnando
la mia missiva con molti doni adeguati.
Sospirai,
già infastidito dal tono servizievole che
quell’uomo utilizzava, nello scritto
in modo ancor più evidente che nel parlato.
Le figure
di fumo, al gesto della mia mano che scosse il sigaro, cominciarono ad
animarsi
nell’aria, impegnate in una discussione silente ma concitata.
Michent teneva le
spalle rigide mentre osservava l’imputato; il simbolo di
Yevon dietro di lui
faceva pensare che posasse per un ritratto.
Ordinavo
che Davon mi fosse tradotto in catene, perché pubblicamente
e agli occhi di
tutti fosse evidente che s’istruiva un serio giudizio.
Bandivo per le vie che
quanti potessero partecipassero e che idonei testimoni fossero prodotti
poco
innanzi. L'imputato mi veniva portato nelle vesti del prigioniero e
subitamente
questi invocava la clemenza della Corte istruenda. Mi facevo portare lo
scranno
e i paramenti: ecco, miei Signori, ero così pronto ad
amministrare rettamente
la giustizia e a rendere omaggio al Culto.
Dicevo
così al malvagio: "Non ti sei forse tu arricchito
illecitamente,
appropriandoti del denaro dei tuoi superiori?"
A quelle
parole non riuscii a trattenere un sorriso: aveva una maniera piuttosto
pomposa
per parlare di qualcuno che aveva rubato quattro monete al tempio; a
tanto, quindi,
costringeva l’essere relegati in un villaggio ai limiti di
ciò che Yevon
ignorava.
Intrecciai
le dita e vi appoggiai il mento, ben attento a non perdere il momento
saliente
della conversazione. La voce di Michent ormai mi intratteneva come un
canto di
nobili gesta.
Egli,
in primo luogo, negava. Ordinavo dunque che fosse letto, per intero, il
libello
che Voi stessi avete veduto, nel quale si portavano a mia conoscenza i
numerosi
episodi di ruberie e di concussione che il reo aveva posti in essere.
Allorché
richiesto, mi rifiutavo di renderne noto l'autore. Sempre
più la certezza di
quelle accuse rendeva tetro il viso del delinquente.
La mia
magnanimità non voleva però che la fase
istruttoria si concludesse prima di
aver udito idonea difesa. Eleggevo dunque Orac perché
parlasse a difesa del
ribaldo.
Menava
seco due uomini che dicevano «Ben possiamo dimostrare che
Davon è innocente di
quanto accusato».
Giudicavo
allora opportuno che questi parlassero.
Diceva
il primo che non era vero che Davon aveva adoperato il denaro della
Curia per
curare i suoi interessi, ma che l'avesse opportunamente e sicuramente
investito, perché le opere buone potessero essere
accresciute e benedette dalla
grazia del profitto. Ordinavo allora che questi fosse sottoposto al
fuoco, per
suggellare la veridicità della testimonianza. Rifiutandosi
questi, dichiaravo
le sue parole mendaci e inutilizzabili.
Diceva
il secondo che bene aveva parlato il primo.
Interruppi
la lettura e l’immagine si congelò davanti a me.
Tutti i volti dipinti nel fumo
si sfuocarono, fuorché quello di Davon a cui era rivolta la
mia concentrazione.
Nulla lo distingueva dal pretucolo che avevo visto al processo di
Djose.
La Non
morte non lasciava nessun segno visibile sul corpo. E lui, che era un
uomo di
cui la Terra – fuori dalla sua città natale
– non aveva mai sentito parlare,
ben poteva costruirsi una nuova identità, rifiutando il rito
del
Trapasso.
«Mantenuto
su questo mondo dalla brama di denaro» conclusi. Feci per
agitare la mano e
dissolvere il fumo, e con esso la memoria di quel processo; tuttavia,
mi fermai
all’ultimo istante, considerando che le righe seguenti
avrebbero forse potuto
essermi utili nel pensare a come procedere.
Ora,
miei Padroni, la mia conoscenza della Legge non può
minimamente aspirare alla
vostra divina sapienza, ma mi pareva di ricordare che, negli Scritti
Millenari,
il giureconsulto Anticretico il Vecchio avesse detto: "Non negherai
valore
al fatto affermato da taluno, sol perché uguale a
testimonianza da altri
riferita e successivamente reputata mendace od infondata".
Ecco
che, benignamente, mi disponevo ad ascoltare di buon cuore le parole di
questo
secondo uomo. Tuttavia, il mio vicario mi rendeva noto che questi
presentava un
neo di forma anomala sotto il naso. Tale maleficio denunciava, e lo
credo
davvero, una malvagità insita, come se lo stesso Cielo
avesse attribuito uno
stigma perpetuo alla favella di quel miserabile individuo. In
considerazione di
questo verdetto naturale, escludevo l'utilizzabilità di
questa testimonianza.
Passai il
pollice sul piccolo neo che avevo sul mento.
Chiudevo
allora la fase istruttoria, aprendo senza indulgenza la fase del
dibattimento.
Poiché non era assistito da nessun dottore della legge e
l'uomo previamente da
me eletto si era nel frattempo reso irreperibile, ho provveduto a
formulare la
mia requisitoria in modo limpido e cristallino, avendo la giusta
pietà del reo
inerme. Appellandomi ai poteri che mi avete conferito, ho
così affermato: e
cioè che ben lui fosse autore dei fatti contestati nel
libello. Lasciavo che si
discolpasse verbalmente e di fronte al popolo ivi radunato, come vuole
la
Legge, e disposi che le sue dichiarazioni fossero messe per iscritto.
Ecco,
allora, che pronunciai la mia sentenza. Davon doveva essere scomunicato.
Tutto
questo stabilivo, condannandolo altresì a rifondere per
intero tutto
l'ammontare dell'ingiusto profitto, da liquidarsi in altra sede ad
opera del
Vicario contabile.
Fermai gli
occhi dallo scorrere ulteriormente le righe.
Se era
stata pronunciata una scomunica, pensai, di certo ne era stata lasciata
traccia
negli archivi dell’Inquisizione di Bevelle, ai quali potevo
accedere in ogni
momento e senza compilare moduli di sorta.
Avrei
potuto impugnarla con facilità e usarla come capo
d’accusa: Davon mi pareva un
amante della vita mondana, sarebbe stato senz’altro presente
al torneo di
blitzball di Luka.
Avrei
potuto portarlo in tribunale e invitare mio
fratello a danzare il Rito
del Trapasso per me.
Con grande
mia gioia il suo bel passo, le sue braccia protese verso il cielo, la
curva
della sua schiena, l’onda armonica del suo scettro avrebbero
dissolto le
menzogne di quel non vivo. Le sue e, ne ero certo, quelle di
metà della
Chiesa.
Avrebbero
anche dissipato la mia rabbia, i lunioli che sarebbero saliti al cielo?
Se il
mio signore, il Grande Inquisitore, ritiene che bene io abbia
amministrato la
Sua giustizia e che mi sia attenuto alla Legge, ecco, io gli dico:
molti altri
compiti il suo servitore è pronto a portare a termine per
Lui. La sua
magnificenza non ha confini, la sua grandezza brilla come le stelle del
cielo.
Vittoria nelle gare e alloro nelle diatribe auguro al suo genio!
Affermo
che tutto ciò è veritiero e ben scritto e
accompagnato da opportuni doni.
Si
divertiva, il giudice, a pronunciare quella sua sentenza.
Nella mia
visione ormai immota, era ancora seduto sul suo scranno, appollaiato
come un
falco che osservasse la preda appena catturata; solo una cosa lo
distingueva da
un animale.
Guardava
Davon dibattersi, cercare con gli ultimi aliti di vita una fuga, dopo
aver
perso la scommessa della vita.
Ma
nel
farlo, Michent sorrideva, e la crudeltà è
prerogativa dell’uomo.
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Capitolo 32 *** Qualcosa che non vogliamo vedere ***
CAPITOLO 22:
QUALCOSA CHE NON
VOGLIAMO VEDERE
Auron si
svegliò nel cuore della notte con la bocca riarsa e un
formicolio che gli
percorreva il braccio sinistro, come se vi avesse dormito sopra.
Fissò per
qualche istante il soffitto sopra di sé, nel buio, poi si
risolse ad accendere
il lume sul comodino e appoggiare i piedi sul pavimento
freddo.
Con tutta
probabilità, pensò, se avesse trovato la forza di
aprire gli scuri, la luce del
mattino avrebbe inondato la stanza. Ma non ne aveva la voglia,
né il tempo,
dato che lo aspettavano di sotto.
Ai piedi
della scala che portava dalla sua camera alla sala da pranzo, la tavola
era già
imbandita: sentiva il tintinnio delle posate sui piatti e
immaginò i commensali
che alzavano la testa quando mosse i primi passi sul legno
scricchiolante dei
gradini.
Jecht,
seduto a uno dei quattro lati del tavolo, era impegnato in una
discussione con
i suoi genitori. La madre, i capelli biondi stretti in uno chignon
austero, con
gesti nervosi tagliava della carne nel piatto mentre parlava:
«...
la
stagione più buona. Quelle rosse le ho fatte arrampicare sul
ferro del
cancello».
Il padre
di Jecht sbuffò fumo dalla pipa e sbirciò
l’arrosto nel vassoio, poi le fette
nel suo piatto, quasi volesse accertarsi che fossero la stessa cosa.
«Caffè
e
succo di sedano, caffè e succo di sedano: sono i
fertilizzanti migliori per le
rose, altroché quegli intrugli che vendono nei negozi. Mamma
me lo diceva
sempre. Povera donna».
«Povera
donna» le fecero eco il marito e il figlio in tono liturgico,
solenne.
Auron
tentò di prendere posto nel modo più silenzioso
possibile, nel tentativo di non
interrompere il discorso che tutti stavano seguendo con tanto
trasporto, ma la
sedia strusciò rumorosamente contro il pavimento.
Solo Jecht
sollevò lo sguardo, poi lo riportò sulla madre.
«Sapete
del cespuglio di frassino di Rosemary, quella della casa
all’angolo?»
Il marito
la incitò a gran voce a continuare; Jecht invece
batté un palmo sul tavolo, ma
non disse nulla.
«È
cresciuto in silenzio, e ha preso fuoco solo due volte: una a inizio
primavera,
l’altra dopo il solstizio d’estate. Nonostante
tutti dicessero che non
sarebbero cresciute, ha fatto le spine, e anche tante.
L’altroieri, Rosemary mi
ha chiamato per fare la raccolta, ma temo ci servirà un
altro tino – lo
abbiamo, caro, un altro tino? – altrimenti non riusciremo a
portarle in casa
prima dell’inverno».
«Lo
abbiamo, un altro tino?» ripeterono in coro Jecht e suo padre.
Dopo un
istante di silenzio, i tre si guardarono negli occhi e scoppiarono a
ridere:
Jecht e il padre in modo sguaiato, la madre coprendosi la bocca con la
mano
destra. Poi tossicchiò, tentando di ricomporsi.
«Per
le
petunie ho usato le cesoie».
Auron, non
comprendendo quell’affermazione, non intervenne. Si
limitò ad avvicinarsi al
vassoio e a tagliare cinque fette di arrosto. Le prime due, magre e
sottili, si
staccarono con facilità. Con le seguenti, però,
notò che la carne si faceva più
dura, fibrosa.
Alzò
gli
occhi verso Jecht, terrorizzato.
«Hai
provato a piantarle all’inizio
dell’autunno?» domandò lui alla madre,
ignorandolo.
Lei
annuì
e spostò le gambe di lato: i tacchi sbatterono
l’uno contro l’altro sotto
l’ampio vestito nero. Poi prese con entrambe le mani una
fetta d’arrosto e vi
si avventò in modo ferale, strappando la carne con i
denti.
Auron
sentì l’impulso di fuggire, ma le sue gambe erano
pesanti e lo tenevano
ancorato alla sedia. Tentò in tutti i modi di non guardare
nel piatto, eppure
il suo sguardo veniva calamitato lì.
«Le
cesoie» disse la famiglia in coro.
Lo stomaco
di Auron si strinse in una morsa dolorosa e acida.
Si
svegliò
di scatto, con il respiro affannato e il battito del cuore accelerato.
Appoggiò
una mano sul cuscino e fu sollevato dall’avere sotto le dita
i propri capelli:
una sensazione reale, che gli faceva sperare di non essersi di nuovo
svegliato
in un incubo dentro un altro incubo.
Yevon
grandissimo, proteggi la mia notte; guidami per le strade dei giusti,
coloro
che non sono in errore.
In quelle
sere, nemmeno pregare sortiva più effetto.
Ho
peccato e sono caduto dalla Tua grazia, dio di Zanarkand, ho voluto nel
corpo
mortale avvicinarmi a Te.
Auron si
tirò a sedere a gambe incrociate sul letto, fece gemere le
vecchie molle del
materasso e ricadere i capelli sulla schiena nuda. L’aria
immobile della notte
di Djose gli portava alle narici odore d’incensi bruciati da
tempo.
Nemmeno
meditare sortiva più effetto, in quelle sere. Riusciva a
regolarizzare il
respiro, ma il lento contare non lo calmava più,
né la parola ripetuta nel
profondo della sua mente.
Il monaco
si alzò e si diresse verso le finestre, scostò
gli scuri e vide la falce di
luna a est, ancora all’inizio del suo arco. La notte era
appena cominciata,
eppure sapeva che non sarebbe riuscito a dormire, almeno non a
breve.
Prese il
cappotto e lo infilò, tralasciando di indossare
l’armatura, allacciò senza
troppa cura la cintura da cui pendeva la sua fiasca di
liquore.
Le
cesoie,
pensò
mentre frugava nella bisaccia.
Invece del
pacchetto di sigarette che cercava, le sue dita incontrarono un oggetto
che non
riconobbe dalla forma. Lo portò alla luce della luna e si
rese conto che si
trattava del sigaro che Braska gli aveva regalato qualche mese
prima.
«Io
non
posso fumare, ma sono sicuro che è molto buono». Aveva detto
così, o qualcosa di
simile. Auron non era mai stato bravo a ricordare le parole degli
altri: per
quanto si sforzasse, c’era sempre nel loro significato
qualcosa che gli
sfuggiva.
Si
è
notato, forse quella volta o un’altra ancora, forse lui o
Jecht lo hanno
notato.
Fu facile
per Auron eludere la scarsa sorveglianza dei monaci di Djose:
trovò un posto
isolato, un’altura da cui si vedeva il mare, e si sedette
sull’erba tra i
richiami dei grilli e dei gufi.
A Jecht
sarebbe piaciuto quel luogo. Romantico, l’avrebbe
definito. Lui invece
era solo intento a tagliare il sigaro con il suo coltello, respirando a
pieni
polmoni e immaginando già il fumo tra le narici.
Gli
avvenimenti di quell’ultimo periodo gli tornavano alla mente
in un ordine che
gli pareva sparso: i luoghi che aveva visto, i canti che aveva sentito.
I
lunioli che salivano al cielo dal Fluvilunio. La Necropotenza con cui
avrebbe
potuto attirarli a sé.
Chissà
se è vero, considerò,
fissando la brace del sigaro che ardeva. Dicono che il
Giudice Alan non
possa avere figli.
Prese
dalla sua fiasca un sorso di liquore, che ben si abbinava con il sapore
del
tabacco.
Pensò
ai
suoi due compagni. Avrebbe avuto il coraggio di vedere la fine, quando
sarebbero arrivati a Zanarkand?
È
di
Braska che mi preoccupo, si
disse, deglutendo un altro sorso e spingendo lo sguardo verso
l’acqua, fino al
riflesso della luna tra le onde nere. Di Jecht non
m’importa.
Come
soggiogato dal moto regolare delle increspature, Auron
iniziò a contemplare con
fare insistente un punto qualsiasi nella distesa salmastra, pur non
trovandoci
niente di interessante.
Il mare
gli ricordava Jecht per logica associazione, ma non era solo il
blitzball che
lo legava a quell'elemento: il compagno provava un sincero amore per
l’oceano,
quasi volesse un giorno immergersi e non tornare più sulla
terraferma.
Bevve un
altro sorso di liquore, più prolungato di quello precedente,
e immaginò la sua
schiena dritta emergere tra le onde, mentre lui fendeva l'acqua a
grandi
bracciate. Auron si portò una mano al viso e scosse la
testa, come a voler mandare
via la confusione che l'alcol stava causando.
Come ha
fatto a non prendersi mai un raffreddore, quando ha solo la pelle a
scaldarlo? pensò
avvertendo il calore del
liquore nel petto. Che indecenza verso il pudore, verso Yevon
stesso!
Indurre chi lo osserva a pensare certe cose!
Tirò
una
boccata di fumo dal sigaro e lasciò che fluisse via dalla
sua gola con
delicatezza. Nella coltre bianca che si era formata, la sua mente
tornò
nuovamente sul costato ferito di Jecht: poteva contarne le fasce
muscolari a
occhio.
Quel
disgraziato si farà ammazzare se non si decide a indossare
un'armatura. Vuole
combattere i mostri flettendo gli addominali?
Il mondo
sembrò vorticare per qualche istante, costringendolo a
posare una mano a terra
e reggersi il busto. Decise che ne aveva avuto abbastanza delle
volgarità di
Jecht, e che il giorno dopo gli avrebbe comprato qualcosa da indossare
pagando
di tasca sua.
I morti
devono avere un aspetto decoroso, pensò
fissando la fiasca, la testa che si faceva sempre più
pesante. Morirà, o
tornerà a Bevelle. Deve presentarsi bene, che venga
Trapassato o meno.
Si
piegò
col busto in avanti, tormentato dallo stomaco in fiamme:
sperò intensamente di
non dover assistere alla sua dipartita, l'ennesima.
Se anche
la confusione gli rendeva difficoltoso ragionare, la sua coscienza era
ancora
disturbata dai pensieri, cupi e pesanti, che non volevano lasciarlo
libero.
Decise che ne aveva avuto abbastanza anche di quelli: voleva cancellare
tutto
solo per qualche ora.
Si impose
l'obiettivo di superare la metà della fiasca, sorso dopo
sorso, mentre la luna
orbitava nel cielo con costanza. Quando ci riuscì, a
malapena aveva percezione
del suo corpo, e aveva ancora voglia di bere.
«Ragazzo?»
Jecht fu
sorpreso dal vedere Auron sveglio a quell’ora, seduto senza
un motivo a
guardare il mare. Lo fu ancora di più quando vide la sua
posa scomposta, con la
testa che ciondolava, e ancora quando nel sentire la sua voce non si
voltò per
aggredirlo a parole. Quell’ultimo dettaglio lo
preoccupò non poco.
Era ancora
sveglio quando aveva sentito la porta della cella di Auron aprirsi e i
passi
pesanti del monaco allontanarsi. Il sonno lo aveva abbandonato del
tutto
quando, passato diverso tempo, non era rientrato, spingendo l'atleta a
cercarlo.
«Ehi»
ripeté, percorrendo il più in fretta possibile la
distanza che li separava, «è
successo qualcosa?»
In
principio, Auron non alzò la testa. Jecht era
l’ultima persona con cui avrebbe
voluto parlare. Sarebbe stato addirittura meglio farsi trovare da
Braska, in
quelle condizioni, e affrontare il disonore. Poi, sentendosi perforare
dal suo
sguardo insistente, alzò gli occhi verso di lui e
deglutì nel tentativo di
calmare il bruciore del suo stomaco. Quello, in risposta,
gorgogliò con rabbia.
«Vai
via»
disse Auron.
«Addirittura»
commentò l’atleta, poi si accucciò al
suo fianco. Ignorò il mozzicone di sigaro
e raccolse invece la fiasca di liquore, quasi vuota, che Auron non
ricordava
nemmeno di aver rovesciato. Gliela posò a fianco alle gambe
con gentilezza.
«Secondo me hai bevuto troppo e adesso non riesci ad
alzarti».
Auron gli
rivolse uno sguardo colmo d’odio, non potendo immaginare che
in realtà – date
le condizioni in cui versava – Jecht l’avrebbe
vista come la minaccia di un
cucciolo. La vergogna che provava superava anche il senso di colpa per
essersi
ubriacato.
L’altra
volta, l’unica, in cui era successo, il priore non lo aveva
scoperto. Si era
fatto strada a tentoni verso la sua cella, aveva vomitato per buona
parte della
notte e si era svegliato con dei chiodi che gli perforavano gli occhi.
Ma
nessuno lo aveva visto.
«Ho
capito» sospirò Jecht. Gli si sedette a fianco e
posò gli avambracci sulle
ginocchia; poi alzò lo sguardo verso le stelle senza dire
nulla.
Auron si
ritrovò ad afferrare un lembo della fascia che
l’altro portava a mo’ di
cintura, senza rendersi conto del gesto. Strinse le dita, analizzando
con cura
la consistenza della stoffa, poi la tirò verso di
sé.
«Devi
vomitare?» gli domandò l’atleta. Auron
scosse la testa con decisione, cosa che
lo costrinse ad aggrottare le sopracciglia per contrastare le
vertigini. Lasciò
andare la fascia e afferrò un polso a Jecht, in modo da non
farlo alzare, e
fece tutto con lo sguardo basso.
Jecht
mosse l’altra mano per accarezzare quella del compagno di
viaggio, ma cambiò
idea e si fermò prima di stabilire un contatto.
«Non
vado
via» lo rassicurò. «Voglio riportarti
nella tua stanza, ma se non hai voglia di
camminare aspetto».
«Come
fai?» domandò Auron a mezza voce.
«A
fare
cosa?» replicò Jecht. Si aspettava una delle
solite considerazioni pungenti, ma
quando guardò il volto del monaco notò che era
molto triste. Non lo aveva mai
visto così. «Ehi, ragazzo. Che cosa sta
succedendo?»
Si sentiva
di fronte al punto di rottura di qualcuno che per troppo tempo aveva
nascosto
le sue emozioni. Auron passò dal tenergli il polso al
tenergli la mano: Jecht
fu colpito da una fastidiosa scarica che minacciava di distrarlo, ma
mantenne
il controllo.
Te
questa cosa da sobrio non la faresti neanche morto, pensò,
poi portò la sua mano in
grembo e gli tolse il guanto che portava per impugnare la spada. E
hai
proprio la faccia di uno che non si ricorderà niente, domani
mattina.
Le dita di
Auron si intrecciarono subito alle sue, molto più fredde.
Jecht lo guardò con
un leggero imbarazzo, ma non fece tempo a parlare.
«Voglio
tornare a Bevelle» disse il monaco, poi deglutì
per reprimere un singhiozzo
dovuto all’alcol. «Voglio tornare a casa».
«Ehi,
bello» sussurrò l’altro, in tono
apprensivo, «lascia andare. Guarda quello che
hai davanti».
Il mare,
misterioso e infinito, e poi le innumerevoli stelle del cielo che
avrebbero
guidato il loro cammino. Jecht sentì di nuovo
l’impulso di accarezzare i
capelli al ragazzo, che continuava a stargli più vicino di
quanto non fossero
abituati, ma si trattenne.
«Lo
so che
non è facile fare l’eroe» gli disse, con
un sorriso. La mascella di Auron,
stretta nel tentativo di controllare qualche impulso, gli sembrava
così forte…
«Ma tu non sei uno che ha paura dei
mostri».
Il ragazzo
lo ascoltava in silenzio: gli occhi, quasi solo pupille, parevano persi
nel
nulla.
«Non
abbiamo visto solo cose belle, lo so, ma la terra per cui combatti
è
meravigliosa. E sono sicuro che Braska vuole questo da te. Vuole che tu
veda,
che tu capisca… che tu sia parte
dell’avventura».
Jecht
sentì il monaco sciogliere la presa sulle sue dita, e se ne
dispiacque,
nonostante con tutta probabilità significasse che aveva
riacquistato un barlume
di lucidità. Poi, però, gli afferrò di
nuovo la cintura. Jecht fu percorso da
un moto di tenerezza che non si sarebbe aspettato di provare.
«Allora
davvero non sai… niente» disse a fatica Auron.
«Su
cosa?»
Il ragazzo
lo tirò di nuovo verso di sé.
«Nessuno…
è mai tornato».
«Noi
tre
ce la faremo» lo rassicurò Jecht, trattenendosi
dallo stabilire un contatto che
non avrebbe fatto bene a nessuno dei due.
«Noi
tre…» ripeté il monaco con un
filo di voce.
«Sai,
quando siamo arrivati al Fluvilunio, non facevo che pensare alla mia
casa
galleggiante chiedendomi quando ci sarei tornato. Poi ho visto le
farfalle e
l’erba che cresceva ai margini della strada… in
quel momento, per la prima
volta, mi sono chiesto se davvero volevo
tornarci».
«Ci
riuscirò anch’io?» gli
domandò Auron, dopo qualche secondo. Gli
appoggiò, con
un certo abbandono, la testa sulla spalla. Aveva paura.
«Dipende
tutto da te».
Calò
di
nuovo il silenzio. Passò qualche istante prima che Jecht
sentisse qualcosa di
tiepido sfiorargli il collo. Quando si rese conto di cosa stava
succedendo,
s’irrigidì.
«Ragazzo…»
provò a chiamare. La sua mente, offuscata dalla sorpresa e
dal piacere che i
baci di Auron gli stavano infondendo, non riuscì a rendere
quel richiamo
abbastanza deciso.
Da troppo
tempo non provava una sensazione del genere. Il battito del suo cuore
accelerò,
e si accorse con fastidio che i brividi erano così forti
perché si trattava proprio
di Auron. Fino a quel momento non lo aveva ritenuto davvero
possibile.
Lo aveva
sempre osservato da lontano e relegato a una fantasia.
Consapevole
che sarebbe stato meglio fermarlo, Jecht tuttavia cedette e
reclinò il collo
all’indietro, in modo che Auron potesse continuare a
baciarlo.
Il primo
contatto era stato rapido, come se il ragazzo stesse tastando il
terreno, i
successivi sempre più decisi.
Quando
Jecht sentì le sue labbra salire verso la mascella,
però, riuscì a tornare con
i piedi per terra e si schiarì rumorosamente la voce. Scosse
via il desiderio
dalla pelle, troppo calda a contatto con la brezza di terra, e
spostò il viso
da quello di Auron. Se anche le loro labbra si toccarono, fu per
sbaglio, e non
ci avrebbe più pensato.
«È
meglio
tornare al monastero. Braska si starà
preoccupando» mentì, ritenendolo l’unico
modo per far tornare Auron in sé. A quel nome, il ragazzo si
riscosse per un
istante, poi il suo sguardo tornò, annebbiato, sulla bocca
di Jecht.
Dannazione,
si
trovò a pensare
l’atleta. Adesso cosa faccio?
Aveva la
sgradevole sensazione che qualsiasi sua azione che si avvicinasse ad
Auron,
anche la più piccola, sarebbe stata moralmente orribile. Si
lasciò baciare
sulla guancia e si trovò, con la lucidità di un
guerriero in battaglia, a
vagliare diverse opzioni.
Pensò
a
Zanarkand, a Lauren che aspettava e tesseva il sudario dei
giorni.
Ricordò
le
tante sere in cui lui stesso si era trovato in quelle condizioni, a
come Tancre
aveva gestito le situazioni – anche più
imbarazzanti di quella – che gli
raccontava al mattino.
Auron era
ubriaco, non stupido: avrebbe presto capito che stava temporeggiando.
Jecht si
rese conto con dolore che forse, dato anche il suo comportamento, il
ragazzo
non aveva mai baciato nessuno.
Posò
la
fronte sulla spalla del monaco e sospirò. Aveva
l’odore del tabacco addosso, lo
stesso che aveva sentito nella carrozza di Alan, e quello troppo noto
del
liquore, ma il profumo di spezie rimaneva e rischiava di dargli alla
testa
un’altra volta.
Una delle
tante, ma le circostanze non erano mai state così critiche.
«Ehi…»
gli sussurrò. Gli passò un dito sulle labbra con
tenerezza, ma senza riuscire a
mascherare una certa urgenza. Auron sembrò comunque
soddisfatto del contatto.
«Qui potrebbero vederci».
Lo sguardo
di Auron era ambiguo e distante. Lui stesso si allontanò da
Jecht, come assorto
in difficile pensiero, e infine annuì.
L’uomo
di
Zanarkand gli afferrò una mano con decisione, nel tentativo
di guidarlo.
«Alzati,
Auron» gli disse. «Se devi nascondere un segreto,
questa notte, lascia che lo
condivida con te».
Il silenzio
di quel luogo in cui brillavano le stelle avrebbe suggellato un patto
che non
poteva esistere.
Il giovane
si affidò completamente a lui, si tirò in piedi
con fatica e si lasciò condurre
verso il tempio di Djose. Barcollava, incerto come un pulcino che si
getterà
dalla rupe, ma non spiccherà il volo.
Tra un
sospiro e l’altro, Jecht riuscì a portarlo nella
sua stanza, senza troppi
ostacoli, e a farlo distendere a letto.
Dimentico
del desiderio che lo aveva infiammato fino a poco prima, Auron
posò la testa
sul cuscino e chiuse gli occhi.
Scusami,
pensò Jecht, accarezzandogli una
guancia con tenerezza, non avevo altri modi per farlo.
Poi si
sedette su di una sedia accanto al capezzale del monaco, preoccupato
che
potesse sentirsi male durante la notte e intenzionato a vegliare su di
lui. Si
premette le dita sulle palpebre, nella vana speranza di cancellare il
ricordo
di ciò che era successo.
Aveva
compiuto azioni discutibili, fino ad allora, ma non aveva mai tradito
nessuno.
Mai come in quel momento aveva sentito di doversi nascondere. Da
Lauren, da
Auron.
Da un
mondo con Sin ma senza amore.
Cosa
avrebbe dovuto fare? Avrebbe dovuto spiegare al monaco cosa era
successo,
consapevole che non l'avrebbe accettato, o sarebbe stato meglio tacerlo
per
sempre?
Tidus lo
guardava dalla riva del mare, stringeva tra le piccole dita una palla
da
blitzball e sorrideva.
Papà,
io ti odio!
Il bambino
incappucciato non fece che stringere i pugni e abbassare la testa,
minuscolo
nelle sue vesti viola come il temporale.
CORIFEO
Ti odio.
|
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Capitolo 33 *** Ysuna Seu ***
CAPITOLO 23:
YSUNA SEU
«Che
cosa
ci fai qui?» lo raggiunse l'impietosa voce di Auron, rotta da
un'insolita nota
di debolezza.
Jecht
socchiuse gli occhi al bagliore del mattino, che lo trovò
rannicchiato su una
sedia di legno. Si sentì come se quella notte scomoda gli
avesse scombinato la
disposizione delle ossa e anche quella dei pensieri, quando
alzò lo sguardo sul
ragazzo.
Non poteva
che invidiare chi, anche dopo una notte del genere, manteneva la
bellezza
algida e inviolata dei pianeti. La bocca di Auron era incurvata nella
sua consueta
espressione ostile, i capelli ricadevano sciolti su una spalla.
L'unico
indizio di ciò che aveva trascorso era chiuso nella gabbia
delle ciglia,
strette per non far passare la luce.
«Che
cosa
ci faccio qui?» esordì Jecht, animato da una
rabbia improvvisa e certo di
poter, per una volta, avere la meglio. «Chi pensi che ti
abbia riportato in
camera stanotte?»
Auron
mascherò la propria confusione con un'occhiata crudele.
Sarebbe stata
sufficiente quella come invito a uscire, dalla sua porta e dalla sua
vita, ma
Jecht non voleva desistere. Non ora che…
«Di
certo
non te l'ho chiesto io».
Jecht fece
per alzarsi, poi cambiò idea e strisciò i piedi
nella polvere. Per un istante
gli balenò in mente la follia di raccontargli, con dovizia
di particolari, cosa
era successo la notte precedente, dato che non lo ricordava o fingeva
di non
farlo.
Ma a
cosa servirebbe?
«La
sai
una cosa?» gli domandò, guardandolo dritto negli
occhi. «Hai bevuto troppo e
non sarò di certo io a farti la predica. Non mi aspettavo
nemmeno che il sole
sorgesse su un "grazie, Jecht" o un "oh, Jecht, raccontami che
cosa è successo". Non l'ho fatto per avere la tua
gratitudine, ma perché
era la cosa giusta. Ho solo sperato per un attimo che non mi avresti
trattato
come fai di solito».
Il suo
monologo
cadde nel silenzio. Jecht si alzò e si diresse verso la
porta, soffocando
qualsiasi emozione, ma all'ultimo istante cedette.
«La
prossima volta, lascerò che tu svenga e che un Ochu ti
mangi».
Il
corridoio del piccolo monastero di Djose era silenzioso, come al
solito: solo
una preghiera distante si innalzava verso le nuvole del nuovo giorno.
La voce
di Auron la sovrastò senza difficoltà, e lo
spinse a voltarsi.
«Sì,
ma io
non so in che altro modo trattarti».
Lo stomaco
di Jecht si strinse in una furia cieca e le sue gambe lo spinsero ad
allontanarsi il prima possibile da lui e dalle sue provocazioni.
Solo quel
pomeriggio capì che il monaco non aveva detto altro che la
verità.
Avevano
attraversato la nuova Via Djose, ricostruita di recente dopo un attacco
di Sin.
Con gesti ormai meccanici uccidevano i mostri e lasciavano che Braska,
ostinatamente devoto, danzasse per ognuno di loro il Rito del Trapasso.
Jecht non
faceva altro che scacciare, lanciandosi contro ai nemici, gli
immaginari
contatti delle mani di Auron sui suoi fianchi, in procinto di scendere
altrove.
Lottava per distruggere i ricordi dei suoi baci sul collo.
Non so
in che altro modo trattarti.
La voce
del ragazzo riecheggiava nelle sue orecchie, bassa, come se stesse
confidando
un segreto. Jecht affondò la spada su un nemico e vide i
lunioli accarezzare la
lama. Sentì dire a Braska qualcosa a proposito dei mostri,
che erano più del
solito, ma quando Auron gli rispose la sua mente ricominciò
a vagare.
Immaginò
il suo tono, di solito fermo, mentre gli confessava di provare desideri
carnali. Gli stessi che facevano formicolare il sangue sotto la pelle
di Jecht.
«Jecht,
attento!»
Il polso
dell'atleta fu spinto all'improvviso indietro, come se si fosse
scontrato con
qualcosa di molto duro, lui recuperò l'equilibrio e
scattò fuori dalla portata
di un attacco.
«Te
l'ho
già spiegato» lo rimproverò Auron,
entrando nel combattimento al posto suo.
«Non sei in grado di scalfire i mostri coriacei! Stammi a
sentire, qualche
volta!»
Lo
spallaccio di Auron riflesse, con un caldo tono dorato, la luce che
filtrava
dalle nuvole.
No,
nessuno dei due sapeva come trattare l'altro. Le azioni del giovane
Guardiano
non erano mai chiare, e Jecht doveva ancora capire appieno cos'era
successo la
notte precedente.
Che
cos'era, quella che aveva dominato il ragazzo? Paura, confusione,
voglia di
sfogare degli istinti che erano stati repressi da troppo tempo?
Desiderio di
capire cosa si provava, nella consapevolezza che sarebbe potuto morire
senza
saperne nulla?
Jecht non
poteva concedergli niente, non poteva tornare a Zanarkand, tra le
fredde
braccia di Lauren, con un fardello simile. Avrebbe agito secondo
virtù.
La sua era
di certo, come del resto quella del compagno, un'infatuazione
passeggera dovuta
al fatto che le loro anime si stavano avvicinando.
Un monaco
di Yevon e uno straniero con dei vuoti di memoria erano senz'altro una
coppia
male assortita, ma anche tutto ciò che l'isola aveva da
offrire. Avrebbero
compiuto la loro missione, avrebbero salvato Braska e il mondo, e poi
non si
sarebbero più rivisti.
Poco
importava che l'Auron nella sua mente, in una posizione piuttosto
lasciva che
non aveva nemmeno faticato a immaginare, gli stesse ripetendo quelle
due
parole. "Ti amo".
Sei il
solito megalomane, Jecht.
Erano
molte, le vie del suo ingegno, ma ancora non riusciva a trovare un filo
a quei
pensieri vergognosi. Era dominato solo da una lussuria insensata,
assieme alla
consapevolezza di essere un pessimo padre, un marito che non voleva
essere
tale. Una persona senza alcun coraggio, che sentiva l'impulso di bere
fino a
svenire, come ai vecchi tempi che tanto gli mancavano.
La Via
Djose sfociava in un luogo strano, dove la costa diventava sempre
più
frastagliata. Il tempo, gli agenti atmosferici e gli attacchi di Sin
–
"tutte le forze della Natura", come aveva detto Braska –
avevano
modellato le rocce, facendo loro assumere bizzarre forme a fungo,
sostenute da
colonne sottili. Via Micorocciosa, la chiamavano infatti gli abitanti
di Spira,
e non riuscivano a trattenere un sorriso forse dovuto ai ricordi di
quando
erano bambini.
Jecht
strinse le mani sull'elsa della spada, concentrato su eventuali
pericoli lungo
la via. Non si sarebbe fatto più cogliere impreparato, e
avrebbe sorriso e
difeso i compagni, prestato un orecchio agli aneddoti di Braska.
Fino al
giorno della vittoria. Fino a Zanarkand.
Sentì
le
ciglia pesanti quando il suo sguardo si spostò dalle
scogliere frastagliate al
delicato profilo dell'Invocatore. Braska aveva la fronte distesa, e con
le
labbra incurvate sorrideva dal suo mondo ieratico, nel quale
devotamente
pregava cinque volte al giorno.
Non
posso essere triste,
si disse l'atleta, scacciando la malinconia. Io sono il
grande Jecht, ho il
dovere di tenere alto il loro morale.
«Sì,
c'è
una Casa del Viante di Rin» stava dicendo Braska, in risposta
a una domanda di
Auron. Per qualche motivo, il monaco negli ultimi giorni si era
dimostrato
molto interessato a quell'Al Bhed.
Ironico, si disse
Jecht, ricordando il
momento in cui avevano varcato la porta di Rin per la prima volta. Forse,
uno dei prossimi giorni, il Sole tramonterà a est, e Auron
si innamorerà di un
uomo.
Ma quel
giorno il Sole era sorto a est e stava tramontando a ovest.
I tre
pellegrini si accamparono in una radura poco lontana dalla strada,
piantarono
la tenda e accesero il fuoco come innumerevoli altre volte. Tuttavia,
immagini
di momenti passati continuavano a tormentare la mente di Jecht.
Ricordò
quando avevano tentato di fissare i picchetti nella Piana dei Lampi, ma
la
tempesta picchiettava sulle loro mani e continuava a sradicarli.
Tra un
pensiero e l'altro, la sensazione dei baci di Auron sul collo,
imperterrita,
continuava a tornare. I suoi denti affondavano nel legame tra lui e
Lauren,
cercando con forza di reciderlo.
Non gli
restò che sedersi a terra, accanto al fuoco, con un sospiro
scenico per il
quale nessuno gli chiese spiegazioni.
Presto,
gli occhi dei tre iniziarono a farsi pesanti, e le chiacchiere
spensierate si
spensero a poco a poco, lasciando un silenzio che invitava al sonno.
Braska
toccò la stoffa della tenda, indeciso se scostarne i lembi o
meno. L'ultima
stella dello Scudo saliva tra le chiome degli alberi dalle molte forme,
ma i
suoi occhi tornarono sui due Guardiani, intenti a godersi il calore del
falò e
a recuperare le forze.
Auron era
tormentato da giorni, glielo si leggeva in volto con estrema
facilità, mentre
Jecht si sforzava di essere gradito a entrambi, cosa che non aveva mai
fatto
con così tanta enfasi.
L'Invocatore
scosse la testa e tornò indietro. Si rese conto di aver
trascurato l'animo dei
suoi Guardiani per molto tempo, troppo impegnato nel costringere alla
resa il
dolore del corpo che faticava a tenere il passo. Aveva però
notato che Auron e
Jecht si rivolgevano la parola più volentieri: era sua ferma
intenzione
favorire quel rapporto appena nato.
«Tutto
bene, signore?» chiese Auron, seduto più lontano
dalla tenda.
«Sì,
certo» rispose Braska sorridendo. «Stasera mi sento
in forze. Voglio
trattenermi ancora un po'».
Jecht
fischiò allegro e gli fece segno di mettersi accanto a lui,
molto vicino alla
fiamma.
L'Invocatore,
ostacolato dalla veste, si sedette lentamente, come se stesse entrando
in
acqua. Il crepitio del fuoco che gli illuminava gli occhi azzurri
coprì
l'insistente frusciare dei suoi tanti strati di stoffa.
«Non
eravamo insieme a quest'ora da un bel po'!»
esclamò Jecht, con sincera
felicità. «Ha tutta l'atmosfera di un campeggio,
con storie da raccontare
intorno al fuoco».
Braska
annuì e aggiunse altra legna da ardere.
«Mi
sembra
un'ottima idea!»
Jecht lo
guardò con espressione colpita, mentre Auron si accese una
sigaretta.
«Aspetta...
davvero?» chiese l'atleta, drizzando il busto.
«Certo!
Io
adoro le storie» disse Braska con aria beata, e
alzò l'indice per sottolineare
il concetto. «Se volete inizio io, ma voglio sapere anche le
vostre».
Auron
sbuffò fumo dalle narici senza rispondere, Jecht, invece,
sembrò avere
un'illuminazione e annuì con vigore.
«Forte!
Facciamo che ognuno rivela un suo segreto» propose l'atleta
fingendo
un'innocenza che non gli apparteneva.
«Come
le
ragazzine?» lo punzecchiò Auron con calma
glaciale, Braska invece accettò di
buon grado.
«Mi
piace,
va bene! Allora... beh» iniziò l'Invocatore
grattandosi la guancia glabra col
dito, «senz'altro, il mio segreto più grande
è che... ho un tatuaggio».
I due
Guardiani ebbero reazioni opposte a quella confidenza: uno
spalancò la bocca in
una fragorosa risata, mentre l'altro scosse la testa.
«Cazzate!»
esclamò Jecht.
«Ho
una
fenice fiammeggiante sull'anca sinistra» disse Braska quasi
offeso.
«Ehi,
ragazzo» Jecht chiamò Auron, «se chiedo
a un Invocatore di mostrarmi un
tatuaggio, è considerata blasfemia?»
Il monaco
borbottò qualcosa e mosse la mano in aria, ormai annientato
dall'assurda piega
che stava prendendo quella serata e forse, pensò Jecht,
imbarazzato
dall'immagine di Braska che si alzava la veste come una ragazza che
entra nel
fiume.
«Quando
ero poco più di un bambino, desideravo ardentemente
conquistare il mio posto
tra gli adulti» raccontò l'Invocatore con
nostalgia. «Studiavo, ma volevo anche
darmi da fare con qualche lavoretto. Quando presi il primo stipendio,
andai
dritto a farmelo di nascosto dai miei genitori. Per Yevon, mio padre mi
avrebbe
ucciso!»
Auron
ridacchiò immaginando la scenetta e Jecht diede a Braska una
pacca affettuosa
sulla spalla.
«Non
ti
facevo un ribelle» gli disse, soddisfatto.
«Ero
una
testa calda, devo ammetterlo. E voi? Confidatevi col vostro
Invocatore» domandò
con occhi grandi e dolci.
Jecht
sospirò malinconico e fissò il fuoco, poi si fece
avanti.
«Ah,
io...
diamine, io amo il rosa. Quel rosa luminosissimo che fa male agli
occhi».
«Non
sei
un po' troppo cresciuto per queste cose?» disse Auron con un
mezzo sorriso
ironico.
«Ridi
pure, monachello, ma è un colore audace e delicato allo
stesso tempo. Ho
cercato per anni di far cambiare i colori della mia squadra, gli
Zanarkand
Abes, ma mi hanno sempre bocciato. Rosa e nero sono un accostamento
niente
male!»
«Certo
è... particolare. È molto da te il voler lasciare
la tua impronta» disse Braska
ridendo sommessamente.
Era
così
che avrebbe voluto continuare il loro viaggio. Tra le loro voci che si
alzavano
in un'armonia che nessuno si sarebbe aspettato. Tra le risate.
«Scommetto
che Auron non dirà nulla» disse Jecht, cercando di
provocare il compagno. «Se
avrà l'ardore di raccontarci qualcosa, vi
confiderò la mia più grande paura».
Il monaco
lo guardò con interesse, valutando con attenzione se cedere
alla curiosità
senza rimetterci. Tirò del fumo dalla sigaretta e fece
cadere la cenere a terra
con apparente indifferenza.
«Quando
ero piccolo, dei templari vennero al monastero. Il capitano cavalcava
un
chocobo molto grande, e me ne fu affidata la cura»
esordì con calma. «Quando lo
portai nelle stalle gli tolsi la bardatura e gli spazzolai le penne.
Quello
saltellava felice intorno a me, sfregando il collo sulle mie
mani».
«Voleva
essere coccolato?» chiese Jecht incuriosito.
«Non
lo
avresti mai detto con l'armatura indosso e un capitano severo sulla
groppa.
Giocai con lui per ore» concluse con un mezzo sorriso.
«Quindi...
ami i chocobo» disse Braska con calore.
«S-sì...
li adoro. Sono animali intelligenti e gentili».
«E
così,
il monaco ha un cuore» commentò Jecht incrociando
le braccia.
«Mantieni
la tua parola» lo rimbeccò Auron, e Jecht fece
spallucce.
«Le
coccinelle rosse mi terrorizzano».
«...le
coccinelle?» ripeté il monaco con enfasi.
«Hai combattuto bestie grandi più di
te. Come fa un insettino a spaventarti?»
Jecht
scosse la testa, incapace di dare una risposta razionale. Braska si
lasciò
andare a una risata più vigorosa, inarcando il collo e
puntando gli occhi al
cielo, non senza che qualche lacrima glieli pizzicasse.
È
proprio ora di andare a dormire, pensò
l'Invocatore con lo sguardo alle stelle.
Salutò
i
suoi Guardiani e si ritirò nella tenda, ma la mente non era
ancora sazia di
quella bella atmosfera che si era creata. Anche se era coricato sotto
le
morbide coperte, le risate dei suoi compagni gli impedivano di
addormentarsi.
Auron lo
raggiunse dopo qualche minuto, sospirò stanco e si tolse
l'armatura. Braska
fece finta di dormire per non allarmarlo: almeno il monaco avrebbe
riposato,
quella notte.
Cercò
di
calmare la mente, come usava fare quando meditava, ma ciò
non faceva altro che
scatenare immagini, del presente appena trascorso e del passato. Di uno
forse
più felice.
Rimase in
tale stato per lungo tempo fino ad essere colto da un sonno leggero, un
dormiveglia che non lo fece sentire riposato per nulla.
Anche se
confuso, si rese conto che era passato del tempo, forse delle ore.
Auron
dormiva profondamente, e Braska ne aveva abbastanza: uscì
con passo silenzioso
dalla tenda e incrociò lo sguardo cupo di Jecht.
«Va
tutto
bene?» domandò l'atleta sorpreso.
«Non
riesco a dormire. Mi sono divertito troppo, prima» rispose
con dolcezza.
«Ascolta: non credo proprio che riuscirò a
chiudere occhio. Per stavolta, la
guardia la faccio io».
Jecht si
avvicinò per non alzare la voce, anche se Auron, in qualche
modo, trovava
sempre il modo di svegliarsi quando arrivava il suo turno.
«Sei
sicuro?»
«Resterei
sveglio comunque. Tanto vale che tu ti riposi, amico mio»
concluse
l'Invocatore, donandogli una carezza sulla spalla.
Jecht
annuì e gli rivolse un mezzo sorriso, poi lasciò
il compagno con i suoi
pensieri.
Braska
rimase da solo al cospetto del mare, con gli occhi fissi sui resti del
falò,
dove ancora non si erano spente le braci coperte. Si tolse il copricapo
e
intrecciò le dita sotto al velo, stringendolo.
Il ricordo
delle espressioni sgomente di Jecht e Auron alla sua rivelazione
tintinnò come
la risata di un bambino nel suo cuore. Ricordava con precisione il viso
del suo
amico che stava facendo pratica come tatuatore. Un ragazzo non di buona
famiglia, che i suoi genitori gli avevano sconsigliato di frequentare.
Un ragazzo
con cui si prendeva le sue piccole rivalse e trasgrediva alle piccole
regole
che gli imponeva il mondo.
Quel
giorno d'autunno, il suo amico aveva accettato di tatuargli una fenice
con le
ali spiegate, proprio sopra a quel punto dove la pubertà
stava lottando con
l'infanzia, trasformandola e trascinandola nell'oblio con le sue
infallibili
lusinghe. A Braska piaceva l'idea di un tatuaggio, perché
avrebbe potuto
smettere di essere il ragazzino dal respiro che fischiava e
assomigliare
finalmente a quel fratello la cui grazia faceva tremare le pietre.
Solo dopo
anni avrebbe capito che la falena sulla spalla di Alan non era solo una
decorazione, e avrebbe guardato in altro modo l'aranceto di casa sotto
i cui
occhi tondi lui se n'era andato.
In posa
scomposta sul letto, con la pancia tirata in dentro e le gambe alzate,
Braska
rimirava le fiamme che gli decoravano l'anca. Le aveva accarezzate
delicatamente, le dita sporche della crema che gli avevano dato per
prendersi
cura del tatuaggio, subito dopo aver indugiato sulle ossa aguzze del
bacino.
Chissà
se saranno così anche quando crescerò…
La porta
della camera si era aperta di colpo. Braska aveva sussultato e si era
tirato a
sedere, cercando nel mentre – con poco successo –
di coprire la sua nudità con
il lenzuolo.
Il cuore
che gli era saltato in gola aveva calmato in parte i suoi battiti
quando era
stato raggiunto dalle risate del fratello, invece che dalla voce
sgomenta della
madre o del padre.
«Ma
che
stai facendo?» aveva esordito Alan, divertito da quello
spettacolo.
«Perché
non bussi prima di entrare?» lo aveva redarguito Braska,
arrossendo con
violenza. Aveva pregato con tutte le sue forze che Alan non avesse
notato il
tatuaggio, che non avesse capito che lo copiava. La
voce che gli usciva
dalle labbra era sgraziata, non più da bambino e non ancora
da adulto.
Alan si
era guardato attorno, in cerca di qualcosa, poi gli aveva rivolto un
sorriso
alzando solo un angolo della bocca. Lo faceva d'abitudine, ma quel
giorno a
Braska i suoi occhi parevano diversi. Sembravano portare la sofferenza
di tutti
i popoli di Spira, quando la punta della sua lancia ne portava la forza.
«Guarda
che l'ho visto, sai?» aveva commentato il fratello, senza
smettere di ridere.
«Dai, mostrami».
Braska,
con una buffa espressione corrucciata, si era tirato su il lenzuolo
fino
all'ombelico.
«Però
tu
non lo dici a papà!» si era lamentato.
Alan aveva
roteato gli occhi al cielo nel sentire quel tono infantile, fingendosi
scocciato.
«Giurin
giurello» aveva detto.
«E
neanche
a mamma!»
Di nuovo
quell'espressione spenta aveva attraversato gli occhi di Alan.
«Lo
porterò nella tomba» aveva promesso.
Che succede?,
avrebbe voluto
chiedergli Braska, perché sei così?
Invece
aveva scostato il lenzuolo, con vergogna, e aveva scoperto il
tatuaggio.
L'insensatezza di ciò che aveva fatto, e avrebbe portato per
sempre addosso, lo
aveva colpito all'improvviso allo stomaco.
Gli veniva
da piangere, anche se non riusciva a capirne la causa.
La risata
di Alan era scoppiata nella stanza, forte e decisa.
«L'uccello
di fuoco!»
«Smettila!»
Quando
Braska, ancora seduto, aveva tentato di assalirlo per lottare come
facevano da
bambini, suo fratello aveva usato la solita mossa con cui lo bloccava e
si
poneva alle sue spalle.
Poi,
però,
si era fermato e lo aveva stretto al petto: Braska non ricordava
un'altra volta
in cui lo aveva fatto. Un leggero odore di fumo aleggiava attorno a
lui, e
Braska sentiva lo sterno molto caldo rispetto alle sue dita.
Alan gli
aveva lasciato un bacio delicatissimo sui capelli corti.
«Ti
voglio
bene».
Quando
Braska aveva sentito in mano le perle del komboloi, il
bruciore nella
sua gola era diventato ancora più forte, invincibile anche
se deglutiva. Aveva
avuto la visione, chiara, della loro madre che piangeva piegata su un
bracciolo
della poltrona. Del padre che la consolava.
Le dita di
Braska, scorrendo sui grani del rosario, cercavano di fermare il loro
tremore.
Come quelle degli anziani di Bevelle che, davanti alle loro scacchiere
nella
piazza del mercato, stringevano quel simbolo, ci giocherellavano, come
se non
sapessero cosa significava.
«La
spedizione durerà poco». Komboloi.
«Tu
non
andare».
«Tornerò
subito a casa». Il segno che la tua famiglia ti ama.
Braska
aveva cercato nel muro bianco e spoglio il disegno divino di cui
parlavano gli
uomini al tempio, ma non ne intravedeva le linee. Forse era troppo
giovane per
avvicinarsi al volere insondabile di Yevon. Per capire che Alan avrebbe
pensato
al martirio quando si sarebbe allontanato lungo la strada degli aranci,
che si
piegano sotto il peso dei frutti quando gli altri alberi si spogliano
della
vita.
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Capitolo 34 *** Mangiachocobo ***
CAPITOLO 24:
MANGIACHOCOBO
«Ehi,
venite qui! È fantastico!»
Jecht era
corso verso la scogliera come un bambino, con gli occhi fissi sul mare.
Alla
fine della Via Micorocciosa le nubi si erano diradate e avevano
lasciato spazio
al sereno. Per Jecht era stato come entrare in un altro mondo.
«Si
dice
che le persone nate in estate siano vitali e attratte dai colori
caldi»
commentò Braska, rivolgendo ad Auron un sorriso a occhi
socchiusi. «Ehi, Jecht!
Che giorno sei nato?»
L’atleta
si voltò, immerso in un sole che faceva risaltare il verde
del prato e il blu
del mare in un modo che ad Auron sembrava quasi violento.
«Il
ventunesimo dal solstizio d’estate!»
gridò Jecht, poi tornò a immergere lo
sguardo tra le onde, a farlo vagare tra le rovine di città
che non c’erano più.
Come se si fosse ricordato di qualcosa, poi, si voltò e
rivolse un largo
sorriso di scherno ad Auron.
«E
secondo
te quanti anni ho, monachello? Dai, prova a indovinare!» gli
domandò,
avvicinandosi. Il richiamo dei gabbiani, che avevano sostituito i corvi
in quel
tratto sul mare, dava l’impressione di trovarsi al sicuro.
«No».
«E
dai!
Dimmi un numero!»
«Non
mi
interessa».
È
stato
il suo compleanno mentre viaggiavamo e non ce l’ha detto, fu
l’unica cosa che gli venne in
mente. Scosse la testa e allontanò quel pensiero strano. Che
senso aveva? Se
l’avesse saputo, gli avrebbe forse fatto un regalo?
«Trenta!»
esclamò Braska con espressione gioiosa, stringendo i pugni
sul suo scettro.
«Oh,
sei
veramente gentile, Invocatore!»
Mentre le
loro risate si perdevano nel cielo, Auron si rese conto che avrebbe
solo dovuto
ringraziare Yevon per la bella giornata, come aveva fatto Braska. Il
sacerdote
gli rivolgeva la sua gratitudine anche quando il tempo non era affatto
favorevole, e sapeva che avrebbe dovuto farsi strada nella tempesta.
Perché
al
suo cuore, allora, non venivano più le parole per la
preghiera? Non c’era
dubbio: Yevon aveva dissipato le nubi e portato il sereno.
Lo sguardo
del monaco si perse nelle praterie della Via Mi'ihen, un panorama molto
diverso
da quello delle lande polverose che avevano dovuto percorrere. Ispirato
dall'esempio di Braska, Auron trasse un profondo respiro, nonostante
non
riuscisse a trovare la tranquillità tra quei prati in
contrasto con il dolore
portato da Sin.
Jecht e
Braska ripresero la marcia al fianco del compagno, ma non smisero di
parlare
animatamente.
«Questa
zona è abitata da molti esemplari di chocobo»
stava spiegando l'Invocatore al
Guardiano più anziano. «Le praterie sono ideali
per gli allevamenti».
Quanti
anni aveva, Jecht? Auron si trovò a contare nella mente gli
strani passi di una
differenza d’età che li separava, per poi scuotere
la testa.
«Quindi
ci
sono molte fattorie! Potremmo farci un giro» propose
l’atleta entusiasta.
«Almeno il monaco ci regalerà un
sorriso».
Auron, che
dei loro discorsi aveva ascoltato poco o nulla, muoveva gli occhi
cercando con
attenzione qualcosa che non vedeva.
«Ragazzo,
c'è qualcosa che non va? Non hai declinato la mia
proposta» chiese Jecht con un
mezzo sorriso, ma il compagno lo ignorò.
«I
chocobo...» sussurrò Auron preoccupato.
«Sì,
i
chocobo. Stavamo parlando proprio di questo» rispose Braska
con gentilezza.
«Non
ne
abbiamo visto nemmeno uno».
L'Invocatore
si grattò il mento e annuì lentamente.
«È
molto
strano, hai ragione».
Continuarono
il viaggio tenendo gli occhi ben aperti, ma degli animali piumati non
s’udiva
nemmeno il verso. Quando il sole fu alto nel cielo, in lontananza
apparvero tre
figure. Cavalcavano dei chocobo, e Jecht riconobbe le loro armature.
«Non
sono
della cavalleria ausiliaria? Quelli che il giudice...» disse,
con una strana
reticenza, che apparteneva forse alla sfera della morte o forse al suo
giudizio
su Alan.
Auron e
Braska annuirono portandosi sul lato della strada per farli passare, ma
quelli
si fermarono non appena furono abbastanza vicini.
«Salute
a
voi, pellegrini. Che Yevon guidi i vostri passi» disse la
donna in testa al
gruppo, con profonda riverenza.
«Salute
a
voi, capitano Hanna. Cosa vi porta qui?» chiese Braska con la
consueta gentilezza.
Il chocobo
che la giovane montava si muoveva irrequieto, impedendole di parlare
rivolta ai
tre viaggiatori: dovette tirare le briglie con vigore per riportare
all'ordine
l'animale.
«La
prego
di perdonarmi per la mancanza di rispetto, Invocatore Braska. Questo
esemplare
deve ancora essere addestrato» disse Hanna, contrita.
«Dopo le dure perdite
subite dal mio manipolo, abbiamo dovuto procurarci nuove cavalcature.
Tuttavia,
gli allevamenti presenti sul territorio non sono sufficienti,
così stiamo cercando
chocobo selvatici».
«Non
abbiamo incrociato nemmeno un esemplare sul nostro cammino»
disse Auron
scrutando la donna e facendosi schermo dal sole con le ciglia. Jecht
l’avrebbe
trovata bella, pensò. La pelle liscia, le braccia candide
sotto l’armatura, i
capelli biondi. Un giorno gli aveva detto che anche sua moglie, quella
che
aveva lasciato a Zanarkand, era bionda.
Il vento
della via Mi’ihen sollevò i suoi capelli neri,
legati stretti sulla nuca.
«Mi
duole
dirlo, ma vi abbiamo approcciato per questo motivo» stava
continuando Hanna.
«Cerchiamo aiuto».
«Domandate
pure, capitano» disse Braska, con la consueta espressione
dolce in viso.
«Un
mostro
che i fattori chiamano Mangiachocobo si aggira per le praterie. Non
biasimiamo
una creatura che si procaccia il cibo, ma questa bestia non ha freni.
Ha già
divorato due branchi!»
«Dannazione,
deve essere bello grosso...» commentò Jecht, per
poi essere fulminato dagli
occhi di Auron.
«Non
importa quanto grande sia: dobbiamo fermarlo. Se la cavalleria
ausiliaria rimarrà
fuori servizio, a rimetterci sarà Spira».
«Va
bene,
va bene. Immagino che nessuno sia contento della mancanza dei
pennuti» rispose
Jecht con un mezzo sorriso indirizzato ad Auron.
«Possono
indicarci una zona in particolare? Magari l'ultimo
avvistamento» chiese il
monaco ad Hanna.
«L'ultima
fattoria attaccata si trova nei pressi della scogliera, verso
est» concluse la
donna, riportando un ciuffo di capelli dietro l'orecchio.
«Allora
ci
avviamo. Rimanete al sicuro e proteggete i chocobo che avete»
disse Braska
congedandosi, salutato dalla riverenza dei tre cavalieri.
«Auron?»
chiamò all’improvviso la voce armoniosa di Hanna.
Il monaco si voltò. I suoi
due compagni, invece, non la sentirono e continuarono sui propri passi,
ma lui
si fermò a guardarla in silenzio.
Dalla
sella del suo chocobo, col sole che le illuminava i capelli e le armi,
sembrava
un idolo di guerra.
«Ho
assistito al suo giuramento da Guardiano, mesi fa, a Bevelle»
disse. Auron non
replicò, interdetto dall’ammirazione nella sua
voce. «Se non avesse già
accettato un compito sopra ogni altro, sarei stata onorata di averla
tra i
Cavalieri di Chocobo. In nome della stima che mi anima, vorrei
chiederle un
parere».
«Se
posso
aiutare lo farò, signora».
Hanna
tirò
le redini della sua cavalcatura e si rivolse verso il sole, ancora alto
nel
cielo del pomeriggio. La sua armatura rifulse di nuovo, brillante come
una
stella, ma il suo sguardo non sembrava altrettanto ardente.
«Ho
commesso un errore ad affidare il comando del mio manipolo
all’Inquisitore»
cominciò, guardando verso l’orizzonte.
«Si
sarebbero comportati diversamente, se al loro comando ci fosse stata
lei?»
Hanna,
sorpresa, si voltò verso il giovane e aggrottò le
sopracciglia.
«Forse…»
provò a obiettare, ma subito si interruppe.
«Mi
rendo
conto, comandante, che si senta responsabile della morte dei suoi
uomini, ma
non ho visto ribellioni. Non ho visto nessuno tirare le redini e
indietreggiare, o sottrarsi alla carica». Auron
abbassò lo sguardo, assorto, e
scosse la testa. «Non si stavano sacrificando per Alan. Lo
stavano facendo per
Spira. E per lei. Anche io darei la mia vita per Braska: non
c’è differenza».
Hanna si
morse il labbro e soppesò per qualche istante le sue
parole.
«Mi
hanno
riferito della presenza di una strana grotta sulla Via
Micorocciosa» gli rivelò
poi. «Alcuni viaggiatori dicono di aver avuto delle visioni,
passandoci
accanto. Il mio dovere sarebbe andare a controllare, ma da un lato so
che la
forza di noi Cavalieri è nel numero, dall’altro
temo ulteriori perdite».
«Certo»
replicò Auron, con gli occhi fissi nei suoi. «Ma
credo che, se andasse da sola,
la fiducia dei suoi soldati non farebbe che crescere, e apprezzerebbero
la sua
volontà di proteggerli. Non so cosa ci sia in quella grotta,
comandante, ma lei
è il primo tra i Cavalieri».
Hanna
annuì e gli rivolse il saluto yevonita, chinando la testa.
Quando la rialzò,
nel suo sguardo era tornata la determinazione.
I
viaggiatori seguirono le imprecise indicazioni fornite dal capitano, ma
ben
presto si resero conto di non poter vagare nelle praterie con
così poco a
disposizione.
«Est…
dove?» chiese Jecht incrociando le braccia.
«Non
potevamo dire di no, dopotutto...» rispose Braska perplesso.
Puntò lo sguardo
verso dove, ogni giorno, vedeva l’aurora figlia del mattino e
il sorgere del
sole.
«Potremmo…
attirare l'attenzione?» propose l'atleta, insicuro della sua
stessa idea.
«Vuoi
forse metterti a correre e urlare nel mezzo del nulla? È una
perdita di tempo»
commentò Auron sbuffando, ma non c'era molta scelta.
Jecht si
grattò la barba meditabondo, e guardò di sfuggita
i due compagni che scrutavano
i dintorni; poi frugò nella sua sacca e ne estrasse una
sfera.
«Che
fai?»
chiese Braska incuriosito.
«Era
parecchio tempo che non facevo qualche registrazione. Se proprio devo
fare il
buffone, che sia ricordato per i posteri! Ce lo guarderemo intorno al
fuoco la
prossima volta» rispose Jecht affidando il dispositivo nelle
mani di Auron.
«Forza, ragazzo. Inquadra bene, ok?»
Senza
aspettare la ovvia obiezione del monaco, l'atleta iniziò a
inveire ad alta voce
contro il mostro sconosciuto, maledicendo la creatura e tutta la sua
stirpe.
«Sei…
un
volgare barbaro» sussurrò indignato Auron, per poi
premere il tasto
d'accensione sulla sfera.
Braska,
dal canto suo, si accorse di star ridendo per le imprecazioni del
compagno e
cercò di darsi un contegno davanti alla telecamera.
«Un
mostro
gigante che attacca i chocobo...» disse, con voce impostata
ad arte. «Proprio
un gran brutto affare».
«Allora?
Che cosa sta aspettando? Ehi, vieni fuori e combatti!»
urlò a pieni polmoni
Jecht, irritando ancora di più il già infastidito
Auron.
«Te
lo
avevo detto che era una perdita di tempo».
«Dai!
È la
cosa giusta da fare! Tutti si affidano a noi. E poi, è un
buon allenamento»
rispose Jecht dandosi un tono eroico.
Braska
annuì e si lasciò sfuggire una piccola risata.
Come ormai accadeva spesso, le
ragioni di Auron non trovavano appoggio nel suo Invocatore.
«Sì,
suppongo di sì» rispose il monaco per troncare la
discussione.
«Bene,
allora...»
Braska non
riuscì a terminare la frase che il feroce ruggito di una
bestia vicina fece
accapponare la pelle dei pellegrini. Auron portò le mani
alla spada in un
battito di ciglia e fece cadere la sfera a terra.
«Eccolo
lì!» gridó Jecht levando l'arma davanti
a sé. «Auron! Prendiamolo!»
«Sì!»
Come se
avesse accolto la sfida di Jecht, il Mangiachocobo si
stagliò sulla loro via,
latrando in modo orribile. La sua bocca era grande come un uomo, ed era
divisa
in due mascelle e due lingue, sicché doppiamente morto
sarebbe stato chi
venisse preso. Sulla sua unica mandibola c’era un naso
schiacciato di cane, e
lui di continuo lo digrignava e mostrava i denti. Negli occhi gialli,
senza
pupille, dimorava il vuoto della morte.
«Dietro
di
me!» comandò Auron, stringendo la spada con
entrambe le mani. Teneva gli occhi
fissi sui lunghi arti anteriori del mostro, dai quali si aspettava una
tenaglia: sapeva bene che non avrebbero dovuto sottovalutarlo solo
perché più
piccolo di altri nemici che avevano affrontato.
«Glorioso
Auron»
lo richiamò Jecht alle sue spalle, in tono canzonatorio.
«Grande vanto di
Bevelle».
Usava i
modi di Spira per provocarlo, il monaco ne era sicuro, ma tutto
ciò che
riusciva a pensare era che lo avesse, di nuovo,
chiamato per nome.
«Io
vedo
un altro modo per sconfiggere quel mostro, senza dover ricorrere alla
forza
bruta».
Auron
parò
un colpo della bestia e percepì l’aria scuotersi,
segno che Braska stava
chiamando a sé un Eone. Sentì la schiena di Jecht
contro la sua, l’armatura che
il compagno portava al braccio premere contro i suoi vestiti, e si
ricordò che
non indossava altro per proteggere il busto.
«La
vedi,
quella scogliera?» gli domandò l’atleta.
«È
abbastanza grande» replicò lui, sperando di
allontanare con il sarcasmo i
pensieri che riguardavano il corpo di Jecht, allo stesso modo in cui le
loro
spade stavano respingendo i colpi del nemico.
«L’esoscheletro
che ha sembra piuttosto pesante» osservò Jecht,
prima che le sue parole fossero
coperte dai nitriti di Ixion. In effetti, notò Auron,
un’armatura d’ossa
copriva le spalle del Mangiachocobo.
«Se
lo
spingiamo, possiamo farlo cadere: se finisce in acqua non
riuscirà più a
riemergere».
Il mostro
tentò di afferrare i due guerrieri con un morso, ma loro con
un rapido giro su
se stessi lo elusero e si diressero l’uno dalla parte opposta
all’altro. Con un
ruggito, la bestia si avventò contro Jecht e
riuscì a ferirgli un braccio prima
di essere colpita. Assieme al suo taglio di spada, arrivò
anche una fiammata
che sembrava provenire da qualcuno in movimento.
«Braska,
signore!» chiamò Auron. L’Invocatore,
con le gambe strette sulla groppa di
Ixion e gli ornamenti che si agitavano al vento, concluse la manovra e
si
preparò a colpire con una seconda magia del fuoco.
«Lo
colpisca frontalmente!» lo esortò Auron. Braska,
con un cenno del capo, fece
nascere ulteriori scintille tra le dita e scagliò una palla
di fuoco contro il
nemico.
Con uno
stridio, il Mangiachocobo cadde esponendo il ventre, le zampe che si
dibattevano nel disperato tentativo di fare da scudo.
«Funziona!»
gridò l’atleta, ignorando il sangue sulla propria
spalla. «Continuate a
colpirlo!»
«Siamo
nelle tue mani, Jecht!» lo spronò Braska,
preparandosi a lanciare un terzo
incantesimo.
Quando il
mostro riuscì a rimettersi in piedi e ruggì nel
tentativo di spaventarli, Auron
fu rapido a raggiungerlo e a cominciare con lui una lotta corpo a
corpo. Il
Mangiachocobo, nonostante avesse perso la sua posizione, si
piantò sulle zampe
e riuscì a spingere via il monaco.
Rapido
come in una partita di blitzball, Jecht prese il suo posto, convinto di
poter
assestare la spinta finale.
Punto,
pensò con un sorriso feroce,
mentre alzava la spada.
La sua
rincorsa, tuttavia, si infranse sulla pelle coriacea del
nemico.
Frastornato
dall’impatto, si ritrovò in ginocchio a terra e
non gli restò che usare la
propria spada come appoggio.
Auron
aprì
la bocca per redarguirlo, ma poi i suoi occhi si soffermarono sulla
schiena di
Jecht. Era solcata dalle cicatrici, curva come in una posizione di
preghiera
che non gli avrebbe mai visto assumere in altre occasioni.
Il
Mangiachocobo fu di nuovo scagliato sulla schiena da una fiammata. Il
nemico
era debole, quasi inerme ai loro attacchi, e questo attenuò
i sensi di colpa di
Auron mentre indugiava con soddisfazione sul capo chino di
Jecht.
Quella
posizione di sottomissione, in cui Auron non riusciva a vedergli il
viso ma
solo i capelli spettinati, era insolita per lui. Avrebbe voluto
avvicinarsi, e
forse toccarlo.
Una ferita
aperta sul petto del mostro, da cui fuoriuscivano dei lunioli, lo
riportò al
presente. Scattò in avanti e, concentrandosi più
che poteva su quelle piccole
luci, le convogliò sulla lama.
Gli
sembrò
di udire qualche lieve sussurro, una voce che non apparteneva a nessuno
dei
suoi due compagni, mentre affondava la spada nel corpo del
Mangiachocobo, per
poi spingerlo ancora indietro.
Senza
più
la terra sotto la sua schiena, il mostro cadde dal dirupo. Ancora a
cavallo di
Ixion, Braska sentì il rumore delle sue ossa che si
frantumavano sugli scogli,
poi quello del suo corpo che finiva in acqua.
«Abbiamo
vinto!» annunciò, con gli occhi fissi sui lunioli
che salivano al cielo.
«Chissà
chi era in vita» pensò Jecht. Gli altri due si
voltarono verso di lui, e lo
trovarono che premeva una mano, imbrattata di sangue, sul braccio
ferito.
«Che
avete
da guardarmi così?» continuò.
«Non lo avete detto voi che tutti i mostri che
uccidiamo erano persone? Questo era uno a cui i chocobo avevano fatto
qualche
torto».
«Noi
non uccidiamo,
Jecht» lo corresse Auron, con tono infastidito.
Nel
frattempo, Braska aveva congedato la sua invocazione e si era
avvicinato
all’atleta con delle bende. Gliele aveva strette attorno alla
ferita, con decisione
e un’espressione conciliante.
«È
la
promessa del Guardiano» disse, quando ebbe finito la
fasciatura.
«I
nemici
che ci attaccano stanno chiedendo la nostra pietà»
continuò il monaco.
«Sconfiggendoli non facciamo altro che inviare a Yevon la
loro anima. Li
riportiamo sulla via da cui hanno deviato».
«Molto
cavalleresco» commentò Jecht, alzando gli occhi
per incontrare quelli di Auron.
Lui vi notò di nuovo quella sfumatura rossa, come se il
fuoco che si era acceso
in lui durante la battaglia non avesse intenzione di
spegnersi.
Quando
l’atleta di Zanarkand gli rivolse il suo sorriso feroce,
Auron sentì il sangue
scorrere nelle vene, verso il basso, in modo quasi doloroso.
I due si
stavano ancora fissando, studiandosi come due cervi rivali, quando
l’Invocatore
parlò:
«Andiamo
ad avvisare Hanna che il pericolo è passato».
«Sì»
commentò Jecht, rivolgendo all’altro Guardiano un
ultimo sguardo ammiccante.
«Sì, andiamo».
Nonostante
Braska gli avesse medicato il braccio, Jecht se lo massaggiava
più spesso di
quanto avesse voluto. Accusava un dolore sopportabile, ma che non
doveva
esserci, quasi dentro le ossa.
Si
aspettava la solita predica di Auron da un momento all'altro, parole
familiari
come una filastrocca infantile che potevano essere riassunte con:
"indossa
un'armatura, bestia".
Jecht
sorrise appena pensando a quella scena buffa ma, più la sua
mente vi indugiava,
più si rendeva conto che qualcosa non andava: non solo
quell'ammonizione non
arrivava, ma Auron non era più nemmeno al loro fianco.
Allora si
guardò intorno: Braska era alla sua sinistra, mentre il
monaco camminava
indietro di molti passi, atteggiamento che non gli aveva mai visto
assumere.
Preoccupato
dal suo stato di salute, Jecht si voltò a guardarlo senza,
tuttavia, sembrare
insistente.
«Ragazzo,
va tutto bene?»
Auron si
pulì il cappotto con le mani, per poi stenderne le pieghe
con movimenti poco
decisi dei palmi.
«Sì,
non
ti preoccupare. Sono solo stanco» rispose, grattandosi la
gamba destra come se
l'avesse punto un insetto.
Gli occhi
di Jecht seguirono istintivamente la mano di Auron, per poi staccarsi
con forza
dalla sua figura e fissarsi sulla strada che avevano davanti. L'atleta
si
chiese se si fosse girato in modo troppo brusco, se Auron avesse colto
qualcosa.
L'atleta
si grattò la barba e sospirò, quasi dimenticando
di essere in compagnia di
altre persone.
«Jecht,
stai bene?» chiese Braska preoccupato.
«Ah,
sì.
Mi fa male la ferita» rispose lui con una mezza
verità.
«Vi
vedo
entrambi provati, amici miei. La Casa del Viante non è molto
lontana» disse
l'Invocatore, guardando verso Auron.
«Allora
non facciamo altre deviazioni. Ehi, ragazzo» lo
chiamò Jecht senza voltarsi,
«noi andiamo a prendere le camere, tu vuoi raggiungerci con
calma?»
Auron
sgranò gli occhi, non visto, e ringraziò la sorte
per quella opportunità
inaspettata.
«Sì,
va
bene. Arriverò il prima possibile».
«Non
ti
affaticare, Auron. Ci vediamo dopo» disse Braska affiancando
Jecht, non senza
uno sforzo nel tenere il passo.
Quando
furono lontani, il monaco si fermò per qualche istante
respirando a fondo,
mettendo più distanza che poteva con i compagni.
Aspettò il tempo di una
sigaretta, per poi rimettersi in marcia e raggiungere la Casa del
Viante.
«Grazie
molte per avere salvato i chocobo!» li accolse la voce calda
di Rin. Era al
bancone del suo ostello, con la sua solita giacca gialla e un sorriso
stampato
in volto. Le notizie viaggiavano davvero velocemente, se erano dirette
a
lui.
Quando si
furono avvicinati, l’Al Bhed ammiccò rivolto ad
Auron e gli porse un dizionario
assieme alla chiave di una stanza. Il monaco lo ringraziò
con distacco,
preoccupato di contare quanti fossero i mazzi di chiavi.
«Siete
interessati a prendere chocobo domani? Per dimostrare la gratitudine,
offro io
la prima volta».
Uno,
due, tre, osservò
Auron. Ognuno aveva la sua stanza. Quando arrivò con lo
sguardo sulle mani di
Jecht, lo distolse nel modo più rapido possibile.
«Ti
ringraziamo, Rin» disse la voce di Braska, che gli parve
attutita come se si
trovassero sott’acqua.
«Parlate
con la ragazza dei chocobo se volete uno».
Dopo aver
salito le scale, i tre si congedarono con parole rapide, e Auron
entrò nella
propria stanza senza guardarsi indietro. Non pensò a
pregare, né a lavarsi
o pettinarsi, e nemmeno a controllare il filo della sua
spada, ma solo a
mantenere il respiro regolare mentre osservava, oltre la finestra,
l’ombra che
cadeva sui prati.
Non gli
erano nuove le notti in cui il sonno non lo coglieva. Ancora sveglio
dopo ore,
disteso supino sul letto, Auron chiuse gli occhi e ascoltò i
rumori che
provenivano da fuori. Immaginò l’erba che
oscillava al vento sotto al cielo
stellato, accompagnata dal mormorio dei grilli. La Via
Mi’ihen, punteggiata
dalle rovine, sembrava infinita. Sembrava infinito il tratto di costa
alta e
frastagliata che correva ai bordi delle strade e finiva per disegnare
la
schiena di Jecht.
La
sensazione che lo aveva pervaso qualche ora prima, un insieme di
eccitazione e
disagio nel vedere la sua pelle nuda, stava tornando. Quella reazione
che aveva
bollato come strascico dell’adrenalina provata in battaglia
cominciava a
tormentarlo di nuovo, questa volta con il desiderio di toccare Jecht.
Sentire i
punti dove le cicatrici lo segnavano e la leggera curva dei suoi
fianchi.
Auron
sgranò gli occhi e fissò il soffitto della
camera. Perché la sua mente
indugiava in quel pensiero senza significato? Sotto la mano che, senza
accorgersene, aveva posato sul ventre, sentiva un calore innaturale e
il
respiro che stava cominciando a farsi irregolare. Ricordava che anche
il corpo
di Jecht era caldo. Il giorno in cui si erano ritrovati nella Piana dei
Lampi e...
Sospirò
e
cercò di liberarsi da quelle immagini, di pensare a
qualcos’altro.
A
qualsiasi altra cosa.
Ma gli
veniva in mente solo il tatuaggio che decorava la pelle di Jecht in
modo troppo
vistoso. Bastava solo quello per renderlo offensivo ai suoi occhi: si
chiedeva
spesso se lo avesse fatto solo come sfida al pudore.
Immaginò di sfiorarlo con
le dita, e di passarci prima le labbra e poi la lingua. A
quell’ultimo pensiero
fu colpito da una scossa e la sua mano scattò verso il basso.
Auron si
spaventò e la ritrasse, ma nel farlo sfiorò con
le dita i boxer che usava per
dormire. Gli aveva consigliato Jecht di comprarli, sostenendo che
fossero più
comodi. Forse prevedeva anche che lo avrebbe fatto.
Lo odiava.
Non riusciva a reprimere la rabbia che lo pervadeva mentre immaginava
di
gettarlo a terra in una lotta. Sentiva il respiro di Jecht sul collo,
vedeva
distintamente la sua schiena che si inarcava, sotto di lui.
Auron
gettò all’indietro la testa e riportò
la mano tra le gambe, chiuse gli occhi
per non vedere la propria nudità e si chiese se anche Jecht
lo faceva. Se
pensava agli uomini mentre lo faceva, che era il peccato peggiore tra
quelli a
cui si stava abbandonando.
Sentì
il
proprio respiro diventare pesante e il desiderio invadergli il ventre,
spingendolo
a continuare i movimenti.
La
carne è debole al peccato, e ogni peccato va a formare Sin,
pensò, serrando le palpebre con
forza e girandosi su un fianco. Ogni peccato va a formare
Sin. Yevon, ti
prego, perdonami.
Incapace
di fermarsi, si morse le labbra e tentò di concentrarsi sul
dolore che provava.
Nonostante lo desiderasse, sapeva che nessuno sarebbe entrato, lo
avrebbe visto
in quel momento e mortificato per la sua indecenza. Doveva infliggersi
da solo
la sua punizione, ma non aveva altro che le proprie mani per farlo.
Gli
sfuggì
un gemito di dolore quando affondò con forza il dito medio,
fino alla nocca,
dentro di sé. Si fermò per un istante, ansante e
ancora in preda
all’eccitazione, sapendo di doverlo fare di nuovo.
Si
domandò
quando aveva cominciato a degenerare in quel modo, quando era passato
dal
giurare in nome di Braska al farsi del male in quel letto, da solo. Con
l’immagine di Jecht che continuava a baciarlo con ardore,
come un tarlo nella
mente.
Yevon mi
ha posto davanti a questa prova,
si disse, ma poi si accorse che ciò che lo infiammava non
era il dio.
Senza
rendersene conto, aveva cominciato a darsi piacere in entrambi i modi
mentre
immaginava di baciare le clavicole di Jecht, di risalire lungo il suo
collo
fino ad arrivare alle labbra. Si ripeté che era meno
indecoroso immaginare che
fossero le sue mani a toccarlo, poi sentì una stretta allo
stomaco per la
vergogna di quel pensiero. Si era perso in una spirale di desiderio che
rischiava di inghiottirlo vivo.
Io non
solo sono venuto meno ai miei voti, ma anche ho commesso con le mie
stesse mani
un sacrilegio.
Non
c’era
un significato più alto, in quel piacere, né uno
scopo. Non c’era il dio, lì:
quella era solo la dimensione dell’uomo.
«Non
trattenerti più, ragazzo» gli
sussurrava la voce roca di Jecht nella sua mente; Auron in preda
all’estasi gli
obbediva, lasciandosi guidare.
L’orgasmo
gli infranse il corpo mentre immaginava Jecht su di sé,
ancora vestito, i loro
bacini a contatto e quel sorriso sul suo volto.
Quello che indicava che
aveva vinto lui la battaglia.
Solo in
quel momento i pensieri di Auron si annullarono: lui si rese conto di
essere
rannicchiato in posizione fetale sul letto di una qualsiasi Casa del
Viante.
Con una mano sporca e umida in modo disgustoso, assieme al dolore che
si
meritava e che era riuscito a infliggersi.
Perché
l’ho fatto? si
domandò, stringendo le gambe e poi il pugno,
perché si era sentito come
trafitto da mille aghi. Ti prego, dimmi perché
l’ho fatto.
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Capitolo 35 *** Lì sono i campi della speranza (Parte 1) ***
CAPITOLO 25:
Lì SONO I CAMPI DELLA
SPERANZA (PARTE 1)
I lunioli
in quell’abisso nero, dopo averla circondata, si erano
trasformati nelle foglie
e nella luce del sole che le attraversava, nei rami di cristallo di
Macalania,
che non potevano essere scossi.
Guardò
dritta davanti a sé, persa nel ricordo del vento che
combatteva coi suoi
capelli, rendendola più bella, e di quella prateria
che arrivava fino
all’orizzonte…
Estate 1013
«Anche
se siamo bambini, come faremo a nasconderci in un posto
così?»
La
piccola Hanna si fermò per valutare con attenzione quelle
parole. Aggrottò le
sopracciglia, infastidita dal sole che inondava la Piana della
Bonaccia.
Non
c’era una casa, nell’immensa arena dove Gandof
aveva annientato Sin; non un
albero dalla chioma ampia né un’altura, quasi come
se in quel luogo nulla
volesse esistere per una sorta di teologico rispetto.
Loro
erano solo una banda di orfani fuggiti da Kilika, troppo giovani per
sapere
quale fosse la ragione per cui la loro terra soffriva. Conoscevano solo
il
proprio dolore, ignorato dagli altri, e il modo in cui ci si
rannicchiava nelle
stive delle navi per non essere visti.
Erano
partiti in cinque, ma era quintuplicato il loro numero nel tempo.
Avevano
attraversato città e villaggi e portato la parola di uno
stato di natura in cui
loro, i dimenticati di Spira, non potevano far altro che unirsi per
sopravvivere. La loro forza era il branco.
«Vengono
adottati gli orfani dei ricchi, quelli che sorridono guardando gli
adulti»
diceva sempre Hanna. «Che abbiamo da sorridere noi bastardi,
figli di
pescatori, meticci?»
Col
tempo, i reietti di cui parlava – e tra cui lei stessa si
annoverava – avevano
visto in lei il loro capo. Hanna aveva imparato a svolgere senza
versare una
lacrima i suoi compiti, anche i più difficili. Come quando
aveva dovuto
decidere l’ordalia delle pietre per Jakob, che aveva fatto del male
a Sydia.
Mesi
dopo, arrivato il momento che il bambino di Sydia nascesse, aveva
chiamato le
ragazze più grandi e, tra pianti e mani sporche di sangue,
aveva imparato a far
partorire una donna.
Non
avevano più bisogno di quegli adulti che ormai cominciavano
ad aver paura di
loro.
«Non
siamo più bambini, Ediet» considerò
Hanna, le mani premute sul proprio seno.
Non sapeva come contare il tempo, ma ormai quasi nessuno di loro
perdeva più i
denti, anzi uno li stava mettendo. Le ragazze come lei avevano un ciclo
cruento
che sembrava quasi coincidere con quello della Luna.
Un uomo
bardato in lunghe vesti color porpora fu costretto a passare loro
accanto,
sostenendosi a un bastone ornato. Lo accompagnava un soldato in
armatura, che
lanciò un’occhiata di disprezzo e sottile timore
alla torma di adolescenti che
aveva di fronte.
Hanna
sostenne il suo sguardo e scoprì i denti, come una lupa che
protegge i propri
cuccioli.
I due
uomini presto distolsero la loro attenzione da lei, che con un
vittorioso
sbuffo d’aria si soffiò via una ciocca dal viso.
Si sentì forte e selvaggia, in
sintonia con quel paesaggio che giorno dopo giorno attraversavano, e
che
spingeva le loro vite in un’unica direzione.
«Mevyn!»
si alzò la voce di un ragazzo alla sua sinistra, in un
richiamo d’allarme.
Mevyn. La
prima a chiamarla così era stata anche la prima Guado a
decidere di viaggiare
con loro. Era la parola, aveva detto, che i suoi padri usavano per
onorare i
comandanti. Hanna dapprima la aveva rifiutata, non sentendosi
all’altezza di
portare quel nome che apparteneva ad anziani dalla pelle di corteccia
che governavano
saggiamente il loro popolo da case scavate nei tronchi, fumando tabacco
al
miele dalle loro pipe.
Ma era
stato il suo, di popolo, infine a imporglielo.
«Mevyn»
ripeté il ragazzo, indicando l'orizzonte, dove una foresta
brumosa si
confondeva con la linea del cielo. Delle macchie chiare apparivano e
scomparivano, si avvicinavano l’una all’altra e poi
si separavano. «C’è
qualcosa, laggiù».
Hanna
socchiuse gli occhi per rendere la sua vista più nitida, si
scostò dalla fronte
una ciocca scompigliata da un vento che portava l’odore della
pioggia.
«Avanti!»
decretò, dopo qualche istante di esitazione. Immaginava un
bosco, una radura e
un fiume: un luogo che, conquistato, avrebbe potuto essere per loro una
sicurezza. Avrebbero combattuto senza remore qualche mostro per
ottenere quel
premio.
Qualcuno,
nelle ultime fila, ripeté il suo ordine. Solo allora
l’esercito in miniatura
dei ragazzini marciò all’unisono verso il punto
che stavano osservando,
stringendo tra le dita le armi che avevano costruito o rubato,
sciamando nelle
botteghe dei villaggi che attraversavano come una vendetta di
locuste.
«Sono
chocobo!»
«Chocobo!»
La
parola rimbalzò più volte sulle loro labbra, poi
raggiunse Hanna e si arrestò.
Da quella distanza ormai potevano vedere distintamente le piume di quei
grossi
pennuti, che si aprivano a ventaglio per formare la coda.
Il
mevyn non sapeva quale fosse la loro percezione dei dintorni, se si
fossero
resi conto che loro erano lì a puntarli. Non aveva mai avuto
a che fare con
quegli animali, anche se spesso nelle vie delle città aveva
sentito dire che
erano docili.
Con un
gesto, ordinò ai suoi di distendersi tra l’erba
alta, consapevole che era
l’unico modo per nascondere i loro piccoli corpi nella Piana
della
Bonaccia.
Lei
stessa giacque sul fianco e si mise ad ascoltare il tremore della terra
su cui
battevano le zampe dei chocobo. Credeva fossero più dei due
che avevano visto,
forse una colonia.
«Jesen»
sussurrò, con gli occhi fissi su un insetto oblungo, dal
dorso rosso
punteggiato di nero, che passeggiava senza pensieri su uno
stelo.
Il
ragazzo che aveva chiamato sussultò, poi si rivolse a lei
con la sua voce che
stava mutando in quella di un adulto.
«Sì,
mevyn?»
«Che
cosa proponi di fare?» gli domandò, consapevole
che Jesen non solo era quello
che al momento le era più vicino, ma anche una tra le menti
più svelte.
Il
ragazzo si concesse un istante per pensare, forse temendo di deluderla.
Il borbottio
lieve e ritmico del suolo continuava a risuonare nelle loro
orecchie.
«Forse
hanno delle uova» rispose poi, «con cui potremmo
nutrirci: siamo veloci e
armati, non dovrebbe essere difficile rubarle».
Hanna
aggrottò le sopracciglia, ponderando la decisione: del cibo
era certo
necessario, ma si sarebbe trattata di una soluzione provvisoria.
Posò la
guancia a terra e ricordò i chocobo che aveva visto correre
nella sala motori
della nave che l’aveva portata da Kilika alla terraferma.
«Oppure
potremmo cercare un contatto con loro». Si interruppe,
notando lo sguardo
interdetto di Jesen, poi ricominciò: «Quello di
cui abbiamo bisogno è un luogo
dove stare. Se impariamo a convivere con loro, forse potremmo
costruirlo».
Forse
quella era la loro occasione.
«E
che
cosa mangeremo?» sibilò l’altro.
«Erba ghisal, per tutta la vita?»
Hanna
tacque.
«Non
ci
hanno ancora notato» bisbigliò, dirigendo lo
sguardo verso i chocobo. «Vai
dagli altri e mettilo ai voti. Non dire chi ha proposto
cosa».
Jesen
non ribatté e, come un giovane soldato, strisciò
sui gomiti verso i suoi
compagni, attento a non uscire dall’abbraccio
dell’erba.
L’esito
della votazione fu sorprendente. La metà esatta si
affidò a una decisione, e
l’altra alla seconda. Quando Jesen, in gran segreto, lo
riferì all’orecchio di
Hanna, lei sgranò gli occhi.
Quel
giorno si rese conto del significato del nome che le avevano dato, di
cosa
voleva dire il fumo del tabacco guado al miele.
Il voto
del mevyn avrebbe deciso.
Hanna
prestò di nuovo l’orecchio al terreno antico,
l’anima a quella più grande di
Spira, che batteva in tutti loro, gli occhi al suo popolo.
Incontrò quelli di
Sydia, che stringeva suo figlio al petto appiattito sull’erba.
Avrebbero
mosso il primo passo, fieri, verso qualcosa di diverso dalla
distruzione.
«Per
cortesia, apra la porta!»
Una voce
maschile, accompagnata dal rumore di un palmo che batteva
contro il legno, risvegliò Auron dal suo sonno tormentato.
Per un istante,
intorpidito e ancora dolorante, temette che si trattasse
dell’Inquisizione
venuta al corrente di ciò che aveva fatto, di
quell’azione il cui ricordo gli
sporcava ancora le dita.
«Siamo
dei Cavalieri chocobo» continuò però la
voce, disperata. Ad
Auron si strinse lo stomaco prima ancora che l’uomo glielo
dicesse. «Si
tratta di Hanna!»
Il Guardiano,
senza preoccuparsi di essere pressoché nudo, aprì
la
porta per trovarsi di fronte ai due uomini che aveva visto con il
capitano il
pomeriggio precedente.
«Che
cosa è successo?»
«Hanna,
signore» ripeté uno, mentre l’altro si
profondeva in una
cantilena di scuse. Auron gli fece cenno di tacere.
«Si
è diretta da sola verso la Via Micorocciosa al calar del
sole»
continuò il primo. «Non è ancora
tornata. L’abbiamo vista parlare con lei, e
forse può sapere qualcosa».
Nelle orecchie
di Auron rimbombò la sua stessa voce.
«Ma
credo che, se andasse da sola, la fiducia dei suoi soldati non farebbe
che
crescere, e apprezzerebbero la sua volontà di proteggerli.
Non so cosa ci sia
in quella grotta, comandante, ma lei è il primo tra i
Cavalieri».
«Cazzo»
imprecò tra i denti. Questo gli valse un’occhiata
terrorizzata
da parte dei due Cavalieri, forse sorpresi dal vedere un Guardiano, una
figura
sacra, in quelle condizioni.
«Andate
a sellare un chocobo» ordinò in tono autoritario,
mentre
frugava in cerca dell’armatura e dei vestiti. «Fate
presto».
Si
lanciò nella notte senza dire una parola, le staffe strette
sui
fianchi del chocobo e nella mente il pensiero atroce di averla mandata
incontro
alla morte, tanto insistente da sovrastare il dolore che provava nel
cavalcare.
Hanna,
resisti,
pensò, gettandosi tra le ombre informi che le rocce della
Via
Micorocciosa gettavano sotto i raggi della luna. Il vento gli frustava
i
capelli ancora sciolti, portando alle sue orecchie gli ululati lugubri
dei
mostri.
Resisti.
Sapeva che
trovare una grotta in particolare nel mezzo di quell’enorme
scogliera frastagliata sarebbe stata un’impresa ardua, ma lo
guidava la rabbia.
Spazzava via a colpi di spada i nemici, usava i lunioli provenienti dai
loro
corpi come dardi, in modo da uccidere qualunque creatura ostacolasse il
suo
galoppo.
Si
affidò a una magia tanto potente da spezzargli il respiro e
stringergli come una tenaglia le tempie, ma continuò a
proseguire finché non si
rese conto che sarebbe stato inutile viaggiare senza una meta.
I lunioli,
però, sembravano dirigersi verso un punto particolare prima
di dissiparsi nell’aria.
Con il cuore
che gli martellava nel petto, spronò il chocobo che
levò
un grido verso il cielo.
La direzione
presa dalle piccole sfere luminose era un'informazione
preziosa, ma ancora troppo vaga per poter essere di un concreto
aiuto.
Con la spada
levata in alto, Auron pensò allora di andare a caccia di
mostri di proposito, abbattendone il più possibile per
osservare il moto dei
lunioli e seguirne la traccia.
Una spaccatura
a qualche centinaio di passi sembrava farsi largo nella
roccia in profondità, come descritto da Hanna stessa: in
altre circostanze,
Auron avrebbe continuato a esplorare per avere la certezza assoluta, ma
l'istinto, o forse il senso di colpa, lo indirizzava dritto verso le
viscere
della terra.
Il monaco
smontò dalla sella e si avviò con passi misurati,
la spada
stretta in pugno.
L'interno
della grotta era di un buio quasi assoluto, tanto che gli
risultava impossibile orientarsi. Se gli occhi non potevano aiutarlo,
però, le
orecchie gli dissero che, in profondità, qualcosa sbatteva
contro le pareti
rocciose.
«Hanna!»
L’oscurità
gli restituì di nuovo il ritmo convulso di quei battiti,
simili a quelli che sentiva in gola.
Che
stia procedendo a tentoni per uscire?,
pensò Auron allarmato, ma non poteva correre alla
cieca in direzione dei suoni.
«Capitano
Hanna! Sei qui? Riesci a sentirmi?» urlò il monaco
nella
speranza di ricevere una risposta umana.
Il trambusto
di sottofondo si fece più rumoroso, e il silenzio fu
squarciato da un urlo acuto. Auron strinse i denti.
L’ambiente
circostante era popolato da lunioli, cosa insolita vista
l'assenza apparente di creature. Le anime dei morti.
Forse quello era un
luogo che era stato particolarmente caro a qualcuno.
Auron
soppesò ogni passo con attenzione per non inciampare, usando
la
punta dell'arma come guida nel buio, come se potesse tagliarlo col filo
della
spada.
Le piccole
sfere luminose diventavano più numerose man mano che
avanzava.
Nella sua mente si fece strada l'idea di accumularle con la
Necropotenza e
costruirsi una fonte di luce che lo seguisse.
Resisti.
Auron chiuse
gli occhi: sotto il sinistro percepì la
luminosità
residua. Sentì le luci dei morti spiraleggiare come serpenti
che si mordono la
coda e infine, sorpreso, vi vide quello che sembrava un ricordo.
Autunno 1016
Lihent
non era alla sua prima missione di civilizzazione; Farin invece non
solo aveva
da poco aperto gli occhi sulla verità di Yevon, ma anche di
rado era uscito dal
suo villaggio. Lo avevano affiancato a un Templare esperto, un vero
caposaldo
per coloro che difendevano il tempio nascosto di Remiem.
Quindi
poteva non temere per il viaggio e aprire il suo animo ai canti degli
uccelli
nella Piana, fissare sulla terra scavata dai tassi gli occhi dello
stesso
colore.
Il
chocobo di Lihent si agitò inquieto e zirlò in
direzione degli stendardi che
sventolavano a breve distanza da loro, forse percependo la presenza dei
suoi
simili.
Farin
aveva sentito molto parlare dei pagani da cui erano stati inviati, e
sperava
con tutto il cuore che sarebbero riusciti a mostrare loro la via,
poiché erano
forti e indomiti.
Si
raccontava che il loro comandante, il mevyn dell’oceano
d’oro, fosse un
guerriero brillante e invincibile. Il suo popolo nomade, nel giro di
pochi
anni, aveva conquistato la distesa piatta e infinita che avevano
davanti.
Quando entravano in un villaggio, portavano la guerra da cui sapevano
sarebbero
usciti vincitori.
Non di
rado però il popolo sconfitto consegnava le armi e si univa
a loro. Era un
sodalizio di uomini liberi, non di schiavi. Erano genti ancora
ignoranti, ma
che conoscevano l’onore e il rapporto con la terra e con i
chocobo che
addestravano.
Quella
comunione antica da cui gli yevoniti stavano deviando era
ciò che più
affascinava Farin.
«Chi
siete?» li richiamò una voce. Apparteneva a un
uomo enorme, reso ancora più
imponente dalla pelliccia che indossava. L’aspetto mansueto
del suo chocobo
faceva da contraltare a un viso segnato dal sole e dalla battaglia,
sopra il
quale aveva calcato un elmo di fattura molto semplice. Legato alle sue
spalle
c’era un vecchio fucile ad avancarica.
«Se
portate guerra, andatevene. Oggi è giorno sacro».
Lihent
spronò con delicatezza la sua cavalcatura e
avanzò con entrambe le mani
alzate.
«Siamo
Lihent e Farin, Templari di Yevon».
«E
che
cosa volete?»
«Un
contatto con il vostro popolo» intervenne a sorpresa Farin,
che non aveva
distolto per un istante gli occhi dall’abbigliamento
dell’uomo. Lihent si voltò
verso di lui, ma poi riportò subito l’attenzione
sul guerriero che li squadrava
diffidente.
«Abbiamo
portato dei doni» aggiunse, «le spezie di
Macalania, carne essiccata. E uno
scettro di bronzo per il vostro comandante».
Il
guerriero scoccò una rapida occhiata al panno rosso che
Lihent porgeva.
«Sono
affari del mevyn se parlarvi o meno» aggiunse, dopo qualche
secondo. «Se
volete...»
«Va
bene, Her Ket» intervenne all’improvviso una voce
alle sue spalle. «Ho sentito
parlare degli yevoniti, lasciali passare».
Era la
voce di una donna molto giovane – questo fu ciò
che rimase impresso nella mente
di Farin, prima ancora di vederla – ed era dolce e
autoritaria allo stesso
tempo.
Quando
alzò gli occhi, il ragazzo fu colpito da una folgore bionda,
un bagliore
improvviso che altrettanto rapidamente svanì, lasciandolo al
cospetto di una
creatura meravigliosa.
Nonostante
fosse solo un’adolescente, la sua figura dritta in groppa al
chocobo emanava
l’aura di composto potere che lui immaginava attorno alle
regine del passato.
Farin,
smarrito da qualche parte tra la piega severa delle sue labbra e la
luce dei
suoi occhi, che per un istante gli parvero mostrare
curiosità nei suoi
confronti, sentì a malapena le parole del guerriero:
«Sì,
mevyn».
«Siete
i benvenuti nell’oceano d’oro. Io sono
Hanna» disse la ragazza, dopo aver
accettato i doni ospitali che Lihent le aveva recato. Poi
tirò le redini e
spinse il chocobo verso le tende, sempre sorvegliata dal guerriero
truce che li
aveva accolti.
«Seguitemi»
li invitò. «Berrete nella mia tenda».
Obbedienti,
Lihent e Farin sfilarono davanti a lei. Lo sguardo di Hanna fu di nuovo
acceso
dalla curiosità quando il più giovane le
passò davanti.
«È
uno
scettro molto bello» commentò, rigirandosi tra le
mani il bastone di bronzo. «È
il più bello che ho mai visto. Da dove viene?»
Farin
si guardò attorno con aria smarrita. Gli ci volle
più di qualche secondo per
capire che Hanna stava parlando rivolta a lui, tuttavia lei rimase ad
aspettarlo con un sorriso paziente.
«Sì»
rispose il ragazzo, in modo sconnesso. «Viene da Macalania.
Siamo… sono felice
che le piaccia, mia signora».
Hanna
sorrise di nuovo. I loro chocobo erano ormai vicini e si stavano
studiando,
proprio come i due cavalieri.
«Parli
strano» gli disse lei, divertita.
Nella
tenda di pelli di Hanna, Lihent e Farin bevvero vino speziato e
sopportarono
gli sguardi curiosi di un gruppo di generali venuto ad assistere alla
novità.
Il
mevyn si dimostrò ospitale e cordiale, divise con loro il
suo stesso pane e
descrisse le pianure in cui aveva cavalcato, i mostri che aveva
incontrato e i
popoli che si erano uniti al suo.
Mostrò
loro i gioielli che le donne incinte creavano, un amuleto per la buona
salute
del loro bambino, e Farin non poté che immaginarli adornare
il suo petto
candido.
Tuttavia,
Hanna non si separò mai dalle sue armi, un fucile con la
baionetta e una
pistola che teneva in grembo, forse orgogliosa dei decori sul
calcio.
«Ho
sentito parlare dei vostri guerrieri» disse a un tratto,
prendendo con due dita
una polpetta di carne. Si interruppe e tirò le labbra in una
smorfia. «Vorrei
combattere contro di loro».
«Temo
che questo non sia possibile, mevyn» intervenne Farin.
«Almeno non per ora.
Però posso mostrarle dei libri che narrano la nostra storia.
La lotta contro
Sin, gli eroi che abbiamo».
Quando
nominò il mostro marino, vide un’ombra nera
passare rapida nelle iridi della
ragazza, come un ricordo che aveva cercato di reprimere affidandosi
alla
libertà, al vento e ai prati verdi.
«Libri?»
ripeté però lei, in tono interrogativo.
Nell’aria riscaldata dal fuoco e
profumata dal cardamomo, prese un’altra polpetta e la
portò alla bocca.
Per un
istante Farin si vergognò del proprio intervento, ma poi
vide di nuovo la
curiosità nel viso di Hanna. La sua espressione lo spinse a
frugare nella borsa
per poi estrarne un tomo. Il mevyn osservò ogni sua mossa a
occhi sgranati,
attenta a non perdere il filo di un discorso silenzioso.
Immerso
nel vociare degli uomini che li circondavano, Farin sfogliò
rapidamente le
pagine davanti a lei, quasi per mostrarle come si usasse
quell’oggetto, e poi
glielo porse.
Hanna
lo esaminò, senza perdere il sorriso nemmeno quando una ruga
sottilissima le si
formò sulla fronte per segnare la sua concentrazione.
«È
bello» concluse, dopo averlo rigirato tra le mani
più volte. «A volte lo ho
visto, anche altrove. Vorrei capire come funziona».
Il
giovane Templare capì che Hanna non sapeva leggere, che il
suo intero popolo
non ne sentiva il bisogno.
«Posso…
insegnarle» le disse, con tutto il coraggio di cui era
capace. Il sorriso sul
volto della ragazza si allargò, e lui temette di cominciare
a sollevarsi e
venire assunto in cielo prima ancora di poter parlare di nuovo con
lei.
«Sì.
Vieni domani a cavalcare con me. Puoi raccontarmi e io posso insegnarti
qualcosa in cambio».
Farin
abbassò il capo, per dimostrarle gratitudine ma anche per
nascondere il rossore
che si era impadronito delle sue guance.
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Capitolo 36 *** Lì sono i campi della speranza (Parte 2) ***
CAPITOLO 25:
Lì SONO I CAMPI DELLA
SPERANZA (PARTE 2)
«Ti
prego,
apri!»
Jecht
batteva con forza il palmo aperto sulla porta di Braska. Non appena si
era reso
conto che Auron era andato via e non tornava, si
era vestito velocemente
come nelle notti della sua giovinezza in cui consumava rapporti fugaci,
senza
significato.
Fa’
che
non l’abbiano preso. Fa’ che non fossero loro,
pensò, senza smettere di bussare.
Trasse un
respiro profondo e fece scivolare il palmo sul legno lucido. Non aveva
idea del
perché l’Inquisizione avrebbe dovuto arrestare
Auron e non lui, ma era sicuro
che se fossero arrivati il suo compagno li avrebbe seguiti senza un
lamento, a
capo chino e con solo una smorfia in viso. E infatti lui non lo aveva
sentito
chiamare aiuto.
«Braska...»
implorò a mezza voce, cercando di impedire
all’ansia di aggredirgli le viscere.
Quando
alzò il braccio, vide la porta aprirsi e il compagno
apparire, incorniciato
dagli stipiti e immerso nel ticchettio leggero di un orologio.
«Auron…
vero?» chiese l'Invocatore, stanco. Poi abbassò la
testa e la scosse, come se
si stesse incolpando di qualcosa. «Avevo sentito dei rumori.
Sarei dovuto
uscire a controllare».
Non
è
colpa tua, stava
per dirgli Jecht. Poi si ricordò di tutte le volte in cui
era stato lui a
scomparire nel nulla. Anche la sua assenza lo aveva fatto sentire in
quel modo?
«Come
lo
ritroviamo?» chiese, mordendosi l’interno della
guancia. «Non ho davvero idea
di cosa fare. Io… sono io che avrei dovuto
seguirlo».
Braska
diresse gli occhi verso le pareti del corridoio, decorate con un motivo
a linee
curve che veniva illuminato dalla luce aranciata delle lampade. Sul suo
viso
apparve un inaspettato sorriso.
«Lascia
che ti dica una cosa, Jecht» replicò.
«Se ti metterai a cercarlo anche solo con
metà della cura e dell’apprensione con cui Auron
ha sempre cercato te, allora
lo troveremo molto prima dell’alba».
Dalle
labbra dell’atleta, che era rimasto impietrito con lo sguardo
fisso davanti a
sé, uscì un involontario gemito di sorpresa.
Poi
tornò
in sé, strinse i pugni e indicò le scale con un
cenno del capo.
«Andiamo».
Mentre
scendevano in silenzio, controllarono se ci fosse qualcuno ancora
sveglio a cui
chiedere informazioni; tuttavia, Rin sembrava essere andato a dormire,
come
tutti i suoi ospiti.
«Gli
uomini di tuo fratello…» chiese Jecht in un
sussurro, guardandosi attorno nella
hall deserta, «potrebbero essere stati loro?»
Braska
fece schioccare la lingua.
«È
andato
a Luka» mormorò, per poi stringere le mani sullo
scettro. «Tra dieci giorni c’è
il torneo di Blitzball annuale, a cui presenziano tutti i vertici di
Yevon.
Credimi se ti dico che Alan ha cose più importanti di noi a
cui pensare».
Uscirono
dalla Casa del Viante e si immersero nell’umidità
della notte. Braska lanciò
un’ultima occhiata verso l’edificio, per verificare
che gli scuri di tutte le
stanze fossero chiusi, poi impugnò lo scettro con entrambe
le mani e mormorò
una preghiera.
Una luce
elettrica lo avvolse, formò due sfere concentriche e infine
svanì. Lui diresse
l’arma verso un portale scoppiettante che si era aperto nel
centro del cielo, e
la punta dell’asta fu collegata da un fulmine sottile a
qualcosa che si trovava
oltre.
Di Ixion
Jecht vide prima il corno dorato, poi gli zoccoli e le froge che
soffiavano
fumo.
La
creatura agitò la criniera e guardò il suo
Invocatore, in attesa di
indicazioni. Jecht a sua volta fissò lo sguardo su
Ixion e un brivido gli
percorse la schiena. Ricordava la sua forza, luminosa come i lampi che
spaccano
il cielo. Lo scontro che avevano avuto era ancora vivido nella sua
mente, e
temette di prendere la scossa se lo avesse toccato.
Chinò
il
capo con rispetto davanti al grande animale, e quando sentì
di averne il
permesso salì in groppa dietro a Braska. Nel tentativo di
tranquillizzarsi,
respirò a fondo e strinse la presa sui fianchi
dell’amico, sottili sotto la
larga tunica. Poi alzò gli occhi sulle scogliere.
Ixion
partì, e presto acquistò una velocità
che le altre creature non potevano
raggiungere. Il passaggio del chocobo di Auron non era molto evidente
nel buio
della notte, ma Braska e Jecht notarono un insolito flusso di lunioli
che si
muoveva ordinato sotto la luna dal volto di perla.
L'Eone
seguì quel sentiero invisibile come mosso dall'istinto e, in
qualche modo,
Jecht sentiva che fosse la strada giusta: era un evento troppo
particolare per
non avere significato.
Ixion
nitrì, e al suo grido fece eco quello più modesto
del chocobo di Auron,
spaventato dal rumore assordante che aveva riempito la prateria.
Braska
fece fermare la creatura lontana dal chocobo, per non farlo scappare,
poi
accese attorno a sé delle piccole luci e avanzò
senza timore.
Jecht
socchiuse gli occhi e, quando fu abituato al bagliore, gli parve di
vedere tra
le fronde una massa nebulosa, confusa, dalla quale talvolta si
staccavano
figure umane che indicavano un punto nella parete di roccia.
L’atleta
afferrò il braccio di Braska, estrasse la spada e
avanzò davanti a lui
nell’erba che frusciava. Ridotta la distanza, gli furono
sempre più evidenti le
sagome bianche di quelle persone: allungando le mani verso
l’ingresso di una
caverna, emettevano dei lugubri lamenti a cui rispondeva lo stridio dei
lunioli.
Non
riesce a entrare,
pensò Jecht, stringendo i denti.
Lanciò
un
ultimo sguardo verso l’Invocatore, che sembrava non vedere, e
poi avanzò verso
i fantasmi, il cui gemito era diventato un canto sincrono.
CORO
Astro del primo cielo, o luna
d’argento che guardi,
occhio della notte divina:
tra quelli
che lassù il sotto governa e sostiene
la più dolce sei per i màrtiri.
Ma non a
me che affondo nel mio soffocante dolore
offri la corona dei raggi:
mio figlio
vedo là. Almeno a lui porgi la luce.
(JECHT
avanza voltandosi di tanto in tanto. Attorno a lui il mondo
è immobile, come se
potessero agire solo lui stesso e il CORO)
JECHT A chi dici figlio?
CORO
A te, creatura del mio sogno.
JECHT Perché piangi?
CORO
Perché non posso entrare.
JECHT E cosa c’è
dentro?
CORO
Nulla!
JECHT E allora…
CORO
Solo un uomo che odia.
E nulla è l’odio dei mortali.
CORIFEO
(Avanza) Lascia parlare me.
È
dentro questa grotta un uomo
che in vita si chiamava Shuyin
e a
Zanarkand ha addotto infiniti lutti, anche quando
il fato gli è sceso sugli occhi.
Ora rimane
lì, e solo ricorda e detesta.
CORO
È nulla l’odio dei mortali.
CORIFEO
Il suo scudo è più forte di tutte le
stelle del cielo,
tale che non posso passare,
ma tu che
non sei me, e insieme lo sei, puoi entrare.
Raccogli le forze, mio eroe:
la luna
è
piena e alta, e quindi consacrata al dio.
CORO
È nulla l’odio dei mortali.
CORIFEO
Portamelo, espierà con una corona sul
capo
la sua ira, una bella corona intrecciata di viole.
JECHT Che cosa ci guadagno se te lo porto?
CORO
Sognare mi affatica. Ah, figlio
mio, io sono stanco
di cantare una città persa.
Verrà
il
giorno in cui tu – anche tu – vorrai nella morte
terminare il lungo tuo strazio.
In cambio
ti prometto: darò forza all’Invocatore –
potere tremendo ha il mio canto –
E anche
libererò, morendo, chi per la Città
sta ardendo nel suo stesso fuoco.
CORIFEO
(Si volta verso il CORO) Sì,
se
non c’è altro modo.
JECHT Ti accontenterai dunque del sangue
di un
sacrificio? Ti dedicherai solo a Braska?
CORO
Ti offro due vite per una.
JECHT È vero, ma se tu te ne
vai, e Sin davvero
ritorna dopo che l’abbiamo ucciso, depriverai per sempre
questa terra della
speranza.
CORO
Ma molte risorse hanno gli uomini.
JECHT Hanno le macchine, per cui il loro
stesso dio –
il vostro re – li ha puniti. Hanno l’intelligenza,
la tracotanza, una mente
dalle molte forme. È vero, io non condivido i riti cruenti
di Spira: per me
sarebbe meglio che tu te ne andassi, e col tuo ultimo atto sostenessi
Braska,
gli facessi raggiungere il Bonacciale. Però non posso io,
uno straniero,
decidere la sorte della loro isola.
CORO
Se rifiuti, anche tu attendi chi
termini il ciclo.
Così fanno su questa terra:
sperano
nel mio sogno, che io faccia nascere il veltro
che cacci il peccato dal mondo.
Jecht
rimase immobile davanti all’ingresso della grotta, nelle
orecchie ancora
l’ultima eco del coro che era svanito. Chiuse gli occhi, nel
tentativo di
valutare le due opzioni che il suo interlocutore gli aveva
offerto.
Prima,
pensò, cercando di decifrare le
strofe del canto, posso portare questo Shuyin al limitare
della grotta, dove
hanno intenzione di sgozzarlo in nome di chissà quale dio
antico.
Vedeva se
stesso trascinare un uomo dai lineamenti indefiniti, che tentava di
divincolarsi e implorava per avere salva la vita.
Se lo
farò, hanno detto che concederanno tutti i loro poteri a
Braska. Avrebbe più
possibilità di sopravvivere quando…
Aprì
gli
occhi, e vide Braska che, ostacolato dalla tunica, si faceva strada tra
i
cespugli. Sembrava non essere successo nulla, per lui.
Quando
arriveremo a Zanarkand.
«È
da
questa parte» annunciò l’Invocatore, con
gli occhi illuminati dal riflesso
verdazzurro che proveniva dalla grotta. Abbassò la voce.
«Lo sento».
Seconda. Dei piccoli
rami secchi
scricchiolavano sotto i piedi di Jecht. Posso evitare di
compiere un
sacrificio umano e di condannare qualcuno di cui non conosco la colpa.
Allora
il Coro non sarà soddisfatto e continuerà a
sognare la sua città caduta, finché
un giorno non darà origine a un eroe che arriverà
su Spira e metterà fine al
ciclo infinito di Sin.
La notte
era violacea, e il luogo dove erano diretti era oscuro.
Ma
questa opzione richiede di avere fede - e io non ne ho. Fede, o fiducia
in
quella schiera di spettri.
Jecht
trasse un respiro profondo e, con un cenno della testa,
invitò Braska a entrare
assieme a lui. Avanzarono cauti: l’Invocatore manteneva salda
la mano sulla
spalla del suo Guardiano per non perdersi
nell’oscurità.
Dal fondo
della grotta provenivano i rumori di quello che sembrava un
combattimento:
lamenti e colpi che si levavano nell'aria fermarono per pochi istanti
la loro
avanzata.
Jecht si
irrigidì, stringendo d'istinto l'elsa della spada, mentre
Braska si avvicinò di
più alla schiena del compagno.
In
lontananza, un leggero bagliore attirò la loro attenzione e
sembrò, in qualche
modo, calmare un poco i battiti spaventati dei loro cuori.
Jecht fece
un cenno verso la fonte luminosa e spronò Braska ad
accelerare il passo.
«Non
farti
distrarre dalla luce, Jecht. Rimani concentrato come se non ci
fosse».
L'atleta
annuì e rallentò nuovamente, avanzando fino a
immergersi nella piccola aura con
tutto il corpo.
Entrambi
si sentirono al sicuro, ma i colpi si erano fatti sempre più
forti e, fiduciosi
di essere ormai vicini al loro compagno, iniziarono a cercare nei
dintorni con
lo sguardo.
Indistinta
per la distanza e il buio, una figura avvolta in un ampio cappotto si
avventò
contro un’altra, più piccola, cercando di
bloccarla in una presa a mani nude.
«Auron!»
La voce
cristallina di Braska si infranse nel vuoto, spezzata dal rumore sordo
della
lama di Hanna contro l’armatura di Auron. Lui, sbalzato
indietro come un
manichino, recuperò l’equilibrio sulle gambe, le
braccia ancora a penzoloni.
Dalle
labbra di Jecht sfuggì un respiro rumorosamente mozzato
quando il suo compagno
alzò il volto: i lunioli rivelarono il suo naso incrostato
di sangue, mentre la
sua spada giaceva a qualche passo da lui, abbandonata.
L’atleta
spostò lo sguardo su Braska per un istante, ma poi lo
riportò sulla scena a cui
era incatenato.
Hanna,
come se non fosse consapevole di avere un’arma, strinse il
pugno sinistro e lo
diresse verso la guancia di Auron. Lo colpì. Poi
infierì di nuovo su di lui con
un montante.
«Auron!
Che cosa stai facendo?» provò a gridare Jecht. Gli
occhi d’ambra del suo amico
saettarono verso di lui, poi tornarono sulla donna feroce che
continuava a
picchiarlo senza che lui reagisse.
«Ho
pagato
per la mia colpa!» mormorò il Guardiano, rivolto
ad Hanna. Poi alzò la voce.
«Ho pagato! Adesso falla tornare com’era!»
Il
Capitano dei chocobo si fermò con un pugno sospeso a
mezz’aria e socchiuse la
bocca, lasciando cadere la mascella. Aveva un’espressione di
forzato stupore
sul viso cereo.
«Come…
era…» ripeté, in tono assente.
«Come… era».
I suoi
occhi spiritati, azzurri come il cielo che sempre era sereno sulla
Piana,
fissavano il guerriero di fronte a lei.
Autunno 1016
Il sole
splendeva sulla Piana della Bonaccia e l’erba scintillava e
davanti a lei Farin
montava il suo chocobo. Il sorriso che gli animava le labbra rendeva
ancora più
belli i suoi lineamenti dolci.
Hanna
drizzò la schiena sulla propria cavalcatura, offrendo alla
sua vista, tutta
intera e senza sfumature, la figura dignitosa di un mevyn.
«Perché
ieri, nella tenda, continuavi a guardare le mie armi?» gli
chiese, con una
curiosità gentile.
Farin
sembrò riscuotersi nello stesso momento in cui il vento gli
scompigliò i
capelli castani. Si sforzò di non perdersi nei grandi occhi
rotondi della
ragazza mentre rispondeva:
«Le
armi da fuoco sono proibite dai dogmi di Yevon».
«Dog…
mi» ripeté Hanna lentamente, come per indagare sul
significato di quella
parola. Scosse la testa, come per allontanare il pensiero.
«Perché? La polvere
nera è forte».
Lo
sguardo di Farin si perdé all’orizzonte
lontano.
«Tanto
tempo fa, più o meno mille anni, ci fu una grande guerra tra
due città. Ne hai
mai sentito parlare?»
Hanna
annuì, accompagnata dal tintinnio delle briglie che
stringeva in mano e dal
fischio del vento.
«I
loro…» continuò Farin, «i
loro mevyn
combattevano usando le macchine, e fecero adirare il dio con le loro
azioni.
Egli inviò Sin per punirci, e ancora stiamo espiando la
colpa».
«Quindi
voi» replicò Hanna, «credete che stiamo,
oggi, pagando una colpa di mille anni
fa?»
Un
iaguaro, bellissimo, passò correndo in lontananza, con i
lunghi baffi che si
agitavano al vento e le strisce sul mantello che si confondevano per la
distanza.
«Non
è
che lo crediamo, è così. Pensa a
Sin».
Hanna
fece voltare con delicatezza il chocobo, in modo da potersi trovare
dritta di
fronte al ragazzo.
«Non
conosco Yevon» dichiarò, con fermezza,
«ma il mio cuore e il mio popolo sono
decisi nella lotta contro Sin. Siamo in attesa di qualcuno che ci possa
infiammare».
Farin
fu in grado di farlo. Le insegnò a leggere le scritture di
Yevon, le mostrò la
cultura. Donò medicine a quelli che, nel suo campo, ne
avevano bisogno.
E Hanna
lo ringraziò nell’unico modo che conosceva per
ringraziare un uomo.
«Farin…»
singhiozzò il Capitano dei chocobo, mentre la spada le
cadeva dalle dita.
Farin era
davanti a lei, che la guardava e la giudicava. La odiava per averlo
tradito e
la ripudiava. In ogni sua mossa Hanna vedeva la giusta punizione,
eppure le sue
mani, come legate a un filo invisibile, continuavano a colpirlo e a
macchiarsi
le nocche del suo sangue.
Farin,
pensò, mentre il dolore le
dilaniava un’altra volta l’addome e la ragione
svaniva di fronte al velo rosso
che le era sceso sugli occhi.
Provò
a
chiamarlo, ma dalle labbra le uscì solo un lamento di
bestia.
Mentre la
ragazza gridava, tra i lunioli che la circondavano si
delineò la figura di un
uomo. Delle braccia la cinsero, come per cercare invano di
calmarla.
«Non
la
toccare!» gridò Auron, senza temerlo.
Tentò di dirigere verso di sé i lunioli
che lo componevano, di strapparli via, ma lo sforzo eccessivo lo
costrinse a
chiudere gli occhi.
Nel buio
forzato delle sue palpebre, sentì la risata lenta e misurata
dell’uomo.
«Shuyin!»
gridò la voce di Jecht alle sue spalle.
Auron
aprì
gli occhi e incontrò il viso di quello che era poco
più che un ragazzo, con le
sopracciglia bionde inarcate per la sorpresa e le labbra semiaperte.
Subito
dopo, la sua espressione si contorse in un sorriso.
«Vegnagun»
commentò il giovane, lasciando Hanna e muovendo qualche
passo verso le pareti
della grotta. Il luogo sembrò trarre un lungo, rauco
respiro.
«Chi
sei?»
replicò Jecht, che non conosceva il significato di quella
parola. Socchiuse gli
occhi nel tentativo di vederlo meglio, ma scorse solo un riflesso di
capelli
chiari e un’uniforme che gli ricordava in modo inquietante
una divisa da
blitzball.
«Al
Coro
non sta più bene la mia punizione?»
continuò Shuyin, senza dare segno di averlo
ascoltato. «So che gli piace avere il privilegio della
sofferenza, ma questo è
il luogo del mio dolore. Mio e di Lenne. Mi piacerebbe smettere di
pensare a
quel momento, ma i lunioli mi costringono a riviverlo ogni
giorno».
Le pareti
della grotta emisero un secondo rantolo, contraendosi e rilassandosi
come se
fossero fatte di carne.
Auron,
approfittando della distrazione dell’avversario, si
scagliò contro di lui a
spada tratta, ma Shuyin si limitò a stringere il pugno e
fare il gesto di
tirare qualcosa a sé.
Il corpo
di Hanna, muovendosi senza volontà, si frappose tra i due.
Il fendente del
Guardiano fu fermato dalla sua armatura, ma l’impatto fu tale
da scaraventarla
al suolo. La ragazza fece forza sulle braccia per rialzarsi, mentre
dalle sue
labbra usciva un gorgoglio ferale assieme al sangue che sputava al
suolo.
«Liberala!»
urlò Auron, poco prima che lei gli si avventasse addosso con
un urlo. Con
sforzo non indifferente le bloccò le mani in alto,
prendendola per i polsi. Lei
ringhiò e sputò prima di cominciare a
scalciare
«Liberarla?»
commentò Shuyin, mentre lui fissava gli occhi spenti del
Capitano. «Quindi non
hai capito? Ti sono stati dati gli occhi per vedere, e tu non hai
ancora
compreso?»
Hanna
afferrò la spada di Auron, tagliandosi i palmi. Sembrava
sorda a ogni richiamo,
tanto da non riconoscere più nemmeno il proprio nome.
Strattonò l’arma verso di
sé, costringendo il monaco a una prova di forza per rimanere
in piedi.
«Stai
zitto» replicò Auron, con voce alta e autoritaria.
Riuscì a spingere via Hanna,
che rovinò di nuovo nella polvere lasciando una scia di
sangue, tuttavia il suo
respiro tradì la fatica. «Ti ho detto di lasciarla
libera».
Il suono
del metallo che raschiava la roccia gli fece capire che Hanna aveva
recuperato
la sua arma.
La bella
guerriera guardò davanti a sé, non più
in grado di ricordare e non più in grado
di capire. Sentiva solo, nel petto, il battito d’oro
dell’orda che investiva la
Piana e il canto di gola levato verso il cielo.
Quando
nacque loro figlia la chiamarono Lucil, poiché era il nome
del sole che splende
sulle armi dei vincitori.
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Capitolo 37 *** E benedirete le tenebre ***
CAPITOLO 26: E
BENEDIRETE LE
TENEBRE
Primavera 1020
«Lucil!»
la richiamò la madre dall’interno della
tenda.
La
piccola alzò le narici per fiutare l’odore del
latte caldo e mosse dei rapidi
passi verso la sua origine. La singola cavigliera che portava
– la seconda
l'avrebbe ricevuta quando sarebbe divenuta donna –
tintinnò allegramente
seguendo il suo ritmo.
Era
importante, le dicevano, rispettare il battito delle cose che avevano
vita.
Come bisognava ascoltare il chiocciare lento dei chocobo,
così il latte nel
paiolo era da mescolare con i movimenti ampi che le mostrava sua madre.
Hanna
teneva una mano sul grembo e, attraverso le labbra socchiuse, mormorava
la
canzone che le avevano insegnato quando era ragazzina e, nella stiva
della
nave, doveva calmare gli altri fuggiaschi.
In
armonia con la sua voce, i secchi movimenti del coltello del padre
intagliavano
una ciotola, spargendo piccole scaglie di legno tutt'intorno. Il suo
volto
bonario e giovane era nascosto da una nebbia di tabacco al miele, dalla
quale
sfuggiva di tanto in tanto la litania ritmica di una preghiera.
Yevon
ormai li proteggeva. La vita nomade era dura e non priva di pericoli.
C'erano
bestie da cui proteggersi, bestie da cacciare e bestie da domare: ogni
giorno
il coraggio e la forza del popolo venivano messi alla prova.
Più di una volta,
Farin si era chiesto se fosse adatto.
Non
sapeva ammaestrare i chocobo e non era un guerriero, ma trovava il suo
posto
nella comunità riconoscendo e raccogliendo erbe profumate e
medicinali nella
grande Piana, o pescando sulle rive dei fiumi.
Tramandare
le sue abilità alla figlia era per lui motivo di
felicità: Lucil sarebbe
diventata un grande mevyn come sua madre, ma quelle nozioni l'avrebbero
accompagnata per tutta la vita, anche quando per lui si sarebbero
aperti i
cancelli ogivali dell’Oltremondo.
Farin
passava ore a far giocare la piccola con le varie erbe: gliele faceva
annusare
e stringere nella mano paffuta, le insegnava il loro nome e a cosa
servissero.
Sotto
lo sguardo attento di Hanna, Lucil tentava di afferrare i pesci che il
padre
tirava fuori dall'acqua, immersa fino a metà polpaccio nel
fiume.
«Ti
dispiace se la porto al fiume invece di insegnarle a
combattere?» chiese un
giorno Farin all’amata.
«Corre
tutto il giorno dietro alla tua canna da pesca, sta diventando veloce.
Sa
riconoscere erbe che possono curare le sue ferite: sarà
forte e intelligente
anche per merito tuo».
Hanna
posò una mano sulla nuca della figlia e le
scompigliò i capelli, per poi
spingerla con delicatezza verso il campo dove giocava un pulcino di
chocobo.
Lucil, il sole che splende, si gettò a rincorrerlo con una
risata.
«Sin
ha
attaccato un avamposto dei Crociati sulla Via Djose» disse il
mevyn, con gli
occhi fissi sulla scena che aveva di fronte.
«Chi
te
l’ha detto?» replicò Farin, allarmato.
«Avevo avvisato di non…»
«Sono
il mevyn» lo interruppe Hanna, poi si portò una
mano al ventre. «Sono incinta,
Farin, non malata».
«In
ogni caso, vorrei che tu stessi lontana dal campo di
battaglia».
Hanna
spostò su di lui gli occhi truccati, e Farin si accorse che
erano stanchi.
Forse stava avendo qualche difficoltà a dormire.
«La
neve
alle pendici del Gagazet si sta sciogliendo,» gli disse lei.
«Ti prego: fammi
condurre i miei uomini dove abbiamo sepolto i fucili. Sono forti, se si
uniranno alle schiere dei Crociati di Mi’ihen riusciranno a
respingere
l’assalto».
Il
giovane si morse il labbro. Era vero, le armi da fuoco avrebbero potuto
salvarli, ma non osava nemmeno pensare a quel sacrilegio che avrebbe
portato
solo nuova sofferenza a Spira.
Il
dolore della loro terra era come una spirale che si avvolgeva su se
stessa,
larga in principio e infine molto stretta, fino a convergere nella gola
del
mostro marino.
«Anche
se non credi ancora nel nostro espiare le colpe di mille anni fa, non
ti
dovresti unire a loro. I Crociati sono stati scomunicati dalla Chiesa e
non
godono più della protezione di Yevon».
Hanna
strinse l’ultimo nodo della treccia, poi la legò e
se la gettò alle spalle, in
modo che potesse tornare a dialogare col vento.
«Chi
l’ha deciso?»
«Cosa?»
«Scomunica».
«Ah…
la
Chiesa di Yevon,» ripeté Farin, interdetto. Poi si
piegò nella reverenza, come
se, dalle spaccature tra i sassi e dalle cime degli alberi, un
inquietante
occhio semprevigile
lo stesse osservando. «Loro conoscono la volontà
del dio».
«Sì,
ma
che uomo l’ha deciso?» chiese Hanna, con gli occhi
di nuovo sulla Piana della
Bonaccia dove innumerevoli volte aveva condotto l’orda.
«Voglio sapere il
nome».
Lui
aggrottò le sopracciglia e tentò di richiamare a
sé un ricordo. Nonostante
ancora il popolo di Hanna fosse diffidente con lui, uno straniero di
cui aveva
solo in parte abbracciato il credo, Farin era riuscito a conoscerne i
costumi.
Sapeva allora che quando un guerriero chiedeva il nome di un altro lo
faceva
perché desiderava sfidarlo ad armi pari.
Non poteva
negarle la risposta perché, nonostante Hanna fosse la madre
amorevole di sua
figlia e portasse un altro bambino in grembo, quella richiesta
proveniva dal
mevyn dell’oceano d’oro.
«Il
Maestro di Yevon a capo dell’Inquisizione»
replicò. «Credo che abbiano eletto
Alan».
«Alan,»
ripeté la ragazza in tono neutro, intrecciando le dita delle
mani in grembo. «È
forte?»
«Sì».
«Desidero
inviargli una lettera. Dirgli che il mevyn della Piana della Bonaccia
vuole
sfidarlo a duello per valutare la sua forza. Se vincerà, o
se si dimostrerà
degno, mi unirò al suo esercito».
«Però
lui…» si oppose debolmente Farin, «non
conosce il tuo popolo, o che cosa
significhi mevyn».
Hanna
alzò il mento e socchiuse le ciglia per difendere gli occhi
dal sole.
«Vorrà
dire che lo conoscerà».
«Hanna
al Maestro Inquisitore Alan,» dettò il mevyn,
seduta a terra di fronte al
tavolo. Quando spostò il peso da una gamba
all’altra, i dischi di metallo che
le adornavano la veste tintinnarono l’uno contro
l’altro. «Salute».
Farin
terminò di tracciare l’ultima lettera e intinse il
calamo nell’inchiostro.
Aveva insegnato ad Hanna a leggere e scrivere, ma lei aveva preferito
affidarsi
a lui poiché non si sentiva ancora in grado di comporre
senza errori una
lettera dal tono ufficiale.
Nonostante
riponesse l’estrema fiducia in lei, e non desiderasse
influire nelle sue
decisioni, Farin tuttavia riteneva che un aiuto in campo diplomatico
avrebbe
potuto risultarle utile, soprattutto perché gli uomini a cui
intendeva
rivolgersi avevano usanze molto diverse dalle sue.
Dubitava,
però, che avrebbe mai ricevuto una risposta.
«Ti-
le
scrivo in nome di mevyn.
Come posso dire?»
«Generale».
«Non
mi
piace».
«Comandante».
«Le
scrivo in nome di comandante del popolo che dà a se stesso
il nome di oceano
d’oro. Siamo stanziati
nella Piana della Bonaccia. Anni fa abbiamo ricevuto i vostri uomini e
li
abbiamo accolti tra noi con cibo e doni ospitali. Siamo stati istruiti
sulla
via di Yevon e l’abbiamo abbracciata,» fece una
pausa. «Io stessa ho sposato un
Templare, che può garantire le mie parole».
«Nonostante quasi
tutti quelli sotto il mio
comando siano stati rifiutati, un giorno lontano, da Spira, non
ignoriamo che
Sin costituisca un pericolo comune, e soprattutto non possiamo non
desiderare
un’alleanza con chi per primo lo combatte, pur utilizzando
armi diverse. È per
questo motivo che voglio incontrarla, non prima che sia trascorso da
oggi
l’ottavo mese, e sfidarla a duello per–»
«Forse
è meglio scrivere in modo diverso questa parte,»
intervenne Farin.
«Come
mai?»
Lui
rifletté per un istante, passando il dito su una delle
venature del legno del
tavolo.
«Vedi,
tu stai parlando con qualcuno che non conosce le usanze del tuo popolo,
quindi…»
«Quindi
devo trattarlo come uno stupido?»
A Farin
sfuggì un sorriso, custodito da una provvidenziale
penombra.
«Non
come uno stupido,» commentò, «ma come un
bambino».
Hanna
sospirò, forse persa in un ricordo del proprio passato e
immersa in un sole che
le riscaldava le guance.
«È
per
questo motivo che desidero incontrarla,» si corresse poi,
«una volta trascorso
da oggi l’ottavo mese…»
… e
se è
vero che troverò un capo virtuoso e forte, come i suoi
soldati raccontano, sarò
pronta a prestare ogni mio mezzo, ogni mia arma e ogni mio uomo alla
causa di
Yevon, il cui occhio ci sorveglia e ci guida.
Confidando
in una sua risposta,
D. V
dall’equinozio di primavera 1020.
Farin
rilesse per l’ultima volta la lettera, prima di arrotolarla
su un bastoncino di
legno e consegnarla a una donna che con il suo chocobo la portasse ai
legati
dell’Inquisitore. Come il suo amore non poteva far
sì che Hanna fosse al riparo
dal male, così le sue azioni non potevano darle la certezza
che la lettera
ricevesse risposta, ma solo che venisse consegnata.
Consegnato
alla caverna un grido schiumoso, Hanna si scagliò con rabbia
contro Auron, la
lama della spada che fremeva nell’attesa della
violenza.
Il monaco
trasse un profondo respiro e piantò i piedi a terra,
assumendo quella posa
tanto ammirata da Jecht che, all'apparenza, non poteva essere
sbilanciata.
Lo
schianto della lama di Hanna su quella di Auron fu inaspettato: il
monaco era
preparato a ricevere un colpo caricato con tutto il peso del corpo, ma
non si
aspettava una simile potenza da una guerriera più agile che
forte, abituata ai
combattimenti a cavallo dei chocobo.
Jecht
strinse il braccio di Braska d'istinto, come per proteggerlo dal
reboare delle
pareti rocciose.
Nonostante
fosse mossa da una furia innaturale, Hanna fu costretta a recuperare
l'equilibrio dopo essersi sbilanciata tanto, permettendo ad Auron di
accusare
il colpo e rilassare le braccia per qualche istante.
Vedendo il
nemico ancora in piedi, la guerriera si lasciò andare al
desiderio di sangue e
decise che lo avrebbe piegato con la forza bruta, usando la spada
più come un
martello che come un'arma da taglio.
Calò
vigorosi colpi a braccia levate, con forza crescente, spingendo Auron a
piegare
le gambe e subire tutto senza cedere. Il monaco strinse i denti, mentre
la sua
presa sull’arma veniva diluita dal sudore dei palmi.
Non voleva
ferirla, ma doveva almeno bloccare i suoi movimenti e renderla
inoffensiva.
Hanna dovette indietreggiare, vinta dalla fatica; la pupilla immobile e
le sue
azioni illogiche facevano intendere che non fosse in sé, ma
Auron non lo voleva
capire.
Il monaco
mosse un passo rapido nella sua direzione e la spinse a terra con una
spallata,
per poi bloccarle la mano armata con lo stivale nella speranza di
separarla
dalla sua spada.
Hanna
urlava e si dimenava come un demone, con la bava alla bocca e occhi
spiritati.
Il suo corpo iniziò a brillare di una luce tenue e la sua
figura sembrò come
dividersi; temendo per la sua sicurezza, Auron si tirò
indietro e la lasciò
libera.
Offesa da
un tale affronto, la guerriera recuperò la spada e la
brandì a una mano, ma
ogni fendente aveva la forza di due uomini, e Auron notò che
la lama copriva
un'ampiezza inusuale per quel tipo di arma.
Le sue
ipotesi vennero confermate quando, parando un colpo frontale,
sentì di essere
stato colpito alla mano.
Jecht, che
osservava in disparte, giurò di aver visto una seconda Hanna
più eterea che
calava i fendenti assieme al corpo originale, solo per pochi
istanti.
«Vengo
ad
aiutarti!» disse l'atleta, mettendo mano alla spada, ma Auron
lo fulminò con lo
sguardo.
«Non
osare!» urlò con rabbia. «Sta’
al tuo posto e proteggi Braska!»
Jecht fece
per ribattere, ma l'Invocatore lo tenne stretto a sé.
«Non
distrarre Auron,» intimò Braska al suo Guardiano
più anziano, non con la
consueta gentilezza, ma per la prima volta come un ordine.
Auron si
rimise in guardia e scosse la testa: le possibilità di
scoprire il fianco erano
aumentate, ma doveva puntare comunque a bloccarla senza farle del male.
La
familiare pressione dietro l'occhio destro divenne un leggero prurito
quando
Auron usò la Necropotenza per creare piccole sfere di
lunioli intorno alla
propria figura, pronte a colpire come proiettili al suo comando.
Anche se
Hanna era stravolta dalla fatica, assalì nuovamente Auron
con fare scomposto,
come un animale impazzito. Fu respinta dalla Necropotenza del monaco e
sbatté
contro una parete della grotta, causando una piccola crepa.
Auron
capì, e lanciò le sue sfere di lunioli contro la
roccia dietro Hanna, che stava
ancora riprendendo i sensi dopo il forte urto subito. La piccola frana
che si
creò la investì senza però
sotterrarla, bloccandola a terra e impedendole di
usare ancora il suo incantesimo.
«Capitano
Hanna,» disse il ragazzo, allontanandosi da lei e rimanendo
in guardia, «le
chiedo di arrendersi».
Come un
animale trafitto da una freccia getta indietro il capo e leva le sue
grida,
lasciando che il dolore conduca la sua fiera ultima corsa,
così la donna urlò,
con le ginocchia a terra e la spada in mano. Nonostante la sua ferita
al fianco
sanguinasse copiosamente, si gettò contro il
nemico.
Tra i
gemiti, colpì per tre volte Auron, la cui spada non riusciva
a sostenere
l’ultimo affondo.
La lama
gli scalfì la corazza sul pettorale sinistro, e la violenza
dell'attacco incise
comunque la sua pelle, portando Hanna alla portata di un calcio che la
spinse
indietro.
Resasi
conto della scarsa efficacia del suo assalto, lei non diresse
più i colpi al
torace. Senza il senno negli occhi, puntò a colpirgli il
braccio non armato,
costringendo Auron a piegarsi sulla gamba per reggere i colpi feroci.
Resistette
il più possibile, ma infine le lame gli lacerarono il
braccio sinistro,
disegnando una scia umida sul cappotto.
Il monaco
indietreggiò deformando la bocca in una brutta smorfia, ma
Hanna si slanciò
ancora per mordergli l'avambraccio come un animale rabbioso,
intenzionata a
strapparglielo con tutte le sue forze.
Auron
urlò, lasciò cadere la spada e le
afferrò i lunghi capelli, una volta mossi dal
vento della prateria, e li tirò con violenza fino a
strapparne qualche ciocca,
costringendola a ritirarsi in fretta reggendosi la testa con le
mani.
Il monaco
recuperò la spada prima ancora del fiato, muovendo
già un passo verso di lei
come aveva fatto mille volte in addestramento, ma si costrinse a
fermare
l'istinto di attaccarla.
«Le
chiedo
di arrendersi!» tuonò Auron ancora una volta,
pregando che il capitano
rimanesse intimorito.
Ogni
parola pronunciata dal monaco aveva il suono di un nemico diverso alle
orecchie
di Hanna, accendendo nuovamente il fuoco della follia che la stava
divorando.
Si fece
guidare
dalla scia di sangue che Auron si lasciava dietro e assalì
l'arto ferito, ma il
monaco si fece trovare preparato e la contrastò senza
conseguenze: bloccò
l'ultimo colpo, il più forte, e mantenne il contatto della
sua spada con la
lama dell'avversaria, più piccola e meno robusta, incline a
essere spezzata.
Hanna
caricò il peso dell’intero corpo sulla propria
arma per spingere via Auron,
avvicinando pericolosamente il volto a quello del giovane.
Senza
preavviso e con la bava alla bocca, il capitano schiantò la
sua fronte su
quella del monaco che tirò indietro la testa. Le spade
scivolarono l’una
sull'altra e quella di Hanna si infilzò sullo sterno di
Auron.
Una gran
quantità di sangue iniziò a scorrere sul petto
del ragazzo che, per contrastare
la pressione della donna, si vide costretto ad afferrare la lama con la
mano
sinistra e spingerla via, tagliandosi il palmo in profondità.
Hanna si
allontanò al limite delle sue forze, si fermò
fissando un punto non ben
definito e non si mosse, dando ad Auron il tempo utile per fasciarsi la
mano al
meglio delle sue possibilità.
I piedi
del mevyn si staccarono dal suolo della caverna per farla volare contro
Auron,
accompagnata dalla forza di un’orda irreale che saltava con
lei.
Non vi fu
nessun ostacolo tra lei e la spada del nemico.
Come
non esiste custode d’un tesoro che non abbia, per quanto
inflessibile,
desiderato almeno una volta le ricchezze che protegge, così
non c’è comandante,
per quanto virtuoso, che non abbia tra i suoi chi gli rema contro.
Il
messo cui era stata consegnata la lettera, con un’azione che
a Bevelle sarebbe
stata alquanto severamente punita, aveva appena finito di leggerla ad
alta voce
nella tenda di Her Ket.
Lui si
rigirò al dito l’anello di rame su cui si
specchiava il baluginio del fuoco.
Liberò la collana dai propri capelli, che vi si erano
attorcigliati; gli
arrivavano alle spalle, ma erano stati lunghi fino alle scapole prima
che gli
morisse il secondo figlio.
«Non
avremo beneficio dalle sue azioni. Sono dettate dalla follia per uno
straniero!» esclamò, rivolto alle fiamme. Il
piccolo clan che aveva alle
spalle, formato da membri della sua famiglia e da altri che avevano
rifiutato
l’alleanza di Hanna con gli Yevoniti, sembrava una schiera di
spettri dalle
vesti di cotone grezzo. «Ma lo faccia, e regni su di un
popolo stuprato!»
«Hai
paura di combatterla, Her Ket?» lo raggiunse la voce
stridente di suo fratello
Naziki. L’attimo dopo lui uscì
dall’ombra, assieme al suono di perle di legno
che sbattevano l’una sull'altra. Lui non s’era
rasato, per la morte del nipote.
«No!»
berciò Her Ket, «e presta fede a queste mie
parole: prima che il sole, domani,
arrivi al suo punto più alto, io sarò il mevyn
dell’oceano d’oro, e lei non
sarà niente».
Mantenne
la sua promessa.
Il
giorno seguente si diresse verso il fiume che a serpentina tagliava la
Piana,
nel punto dove sapeva che Farin conduceva la figlia. Quando lo vide, lo
indicò
con atteggiamento imperioso all’uomo che aveva di fianco.
«Vedi,»
gli disse, con gli occhi fissi sui simboli di Yevon che adornavano il
petto di
Farin, «come conserva i costumi di quelli che vogliono
sottometterci?»
I due
spronarono i chocobo con un grido ribelle e circondarono uomo e bimba,
indifferenti alle loro urla. Nell’istante in cui estrasse la
spada, con
l’intenzione di calarla su di lei, Her Ket vide che i suoi
occhi erano identici
a quelli del figlio compianto.
«Fermatevi!»
li implorò Farin, e tre volte levò –
nel vedere rapita la sua bambina – alte
grida che non potevano essere udite.
Her Ket
premette il viso di Lucil sul petto, in modo da soffocare i suoi
lamenti. Suo
padre riuscì a divincolarsi dalla presa dell’uomo
che l’aveva assalito e si
gettò a terra in ginocchio di fronte alla sua
cavalcatura.
«Prendi
me,» pianse, «fammi ciò che vuoi, ma
lasciala andare!»
Il
chocobo enorme di Her Ket spostò una zampa e fece tremare
l’aria di fianco al
supplice.
«Alzati,»
gli intimò. «Siete miei ostaggi
entrambi».
Farin
sollevò entrambe le mani, mostrandogli i palmi vuoti, e si
alzò con esasperante
lentezza. Era cosciente di non potere nulla contro la sua forza.
«Her
Ket,» gli disse, cercando il contatto visivo,
«prendi me. Abbi pietà della
ragazzina: è ancora lontana dal menarca, lasciala vivere. E,
se non vuoi
restituirla alla madre, permettimi di consegnarla ai Templari
perché la portino
in salvo».
«Sia,»
gli concesse l’altro, «ma che non metta mai
più piede nella Piana della
Bonaccia».
Gli
uomini che presero in custodia Lucil, che non voleva più
parlare, non avevano
intenzione di farla tornare in quel mondo senza civiltà. La
avvolsero in un
mantello di lana e la condussero verso una carovana che recava le
insegne di
Yevon. Colui che le posò con fare paterno una mano sulla
testa e la spinse a
camminare era stato un commilitone di Farin.
E,
nonostante il giovane avesse gli occhi lividi dal pianto, non
poté perdonargli
mai l’aver mescolato il proprio seme e la propria anima a
quelli di
un’infedele.
La sera
calò sui richiami disperati di Hanna, sul silenzio attonito
od omertoso di
tutti coloro che la circondavano, e il sole, compiuto il circolo, sorse
su
un’alba di sangue.
Di
fronte alla sua tenda, la picca che proiettava un’ombra lunga
terminava con la
testa mozzata dell’uomo il cui nome portava inciso in mezzo
agli occhi.
Il suo
viso, come quello di una statua di marmo, fissava davanti a
sé con immobilità
irreale; la sua mascella penzolante lasciava scoperto l’arco
dei denti.
«Farin!
Farin!» gridò il mevyn, e gli uccelli nel cielo
compresero il suo pianto.
«Lucil! Mia figlia!»
Lucil
non c’era. Le strade non risuonavano della sua cavigliera.
Hanna
cadde in ginocchio nella polvere, con la gola strappata, e strinse le
mani
attorno al palo, consumata da una sofferenza indicibile.
«Mia
figlia!» gridò ancora, e il suo gemito
diventò un lamento di gola, primordiale
e vuoto di ogni sentimento che non fosse dolore.
Sentì
una pugnalata al ventre, vide una luce bianca che le tagliava gli
occhi, che si
trasformava in rosso, in sangue tra le sue mani mentre lei continuava a
urlare
e le donne accorrevano in suo soccorso.
Con
un'ultima fitta a dilaniarle le interiora, il mevyn cadde a terra,
riversa
nella pozza di un dolore che non poteva essere né compreso
né vendicato.
Un’altra
vita era già finita quando la sua tempia toccò
terra.
Le
azioni di Her Ket portarono una guerra interna all’Oceano
d’Oro. Tuttavia, pur
combattendo e gridando, Hanna non ritrovò Lucil,
né le recarono sollievo l’uccidere
di persona il suo nemico e il radere al suolo col fuoco la sua
casa.
Le
rimasero un cuore che non sentiva più nemmeno il vento secco
d’inverno e, sul
tavolo di quella che un tempo era stata la casa della sua famiglia, una
lettera
con il sigillo di un Maestro di Yevon, lasciata lì da un
messo che non voleva
aprire la porta del suo dolore.
Noi Alto
Inquisitore Alan, Maestro di Yevon ad Hanna. Salute.
Scriviamo
questa lettera l’undicesima ora del giorno trentacinquesimo
dall’equinozio di
primavera e la consegneremo personalmente domani al primo corriere che
ci si
presenterà.
Accogliamo
con gioia la proposta di un'alleanza da parte di un popolo che
più nei racconti
che varcano i confini assieme ai Templari che in effettivi contatti
diplomatici
abbiamo conosciuto.
Se
pertanto, come affermato, siete privi di intenzioni ostili recatevi
allora ad
uno degli accampamenti dei Templari di Spira alzando bandiera bianca;
essi
obbediranno all’ordine da noi diramato di non attaccarvi, e
potrete essere
accettati tra le nostre fila.
Rinuncerete
in questo modo non al vostro comandante, bensì a qualsiasi
mezzo non ortodosso
per combattere Sin, compreso l’impiego di macchine.
Se questo
vi è in animo, venite.
D. XXXVI
dall’equinozio di primavera 1020, Bevelle.
Quelle
parole, pronunciate da una voce immaginaria in una tenda desolata, in
qualche
modo scivolarono nel vuoto all’interno dell’animo
di Hanna come l’oro fuso
nelle else dei pugnali.
Il
mevyn, che non aveva ancora imparato a leggere con scioltezza e mai
più avrebbe
potuto farlo, arrivò nel tempo a conoscere le righe della
lettera a memoria.
Nonostante non conoscesse gli espedienti retorici e il modo con cui a
Bevelle
si ornavano le carte, riusciva a distinguere il tono distaccato di
Alan, che di
certo cercava alleanze per il suo esercito e non amicizie personali.
Eppure,
qualcosa nella promessa, nella speranza di incontrare l’eroe
del Gagazet e nel
dolore che ogni notte l’assaliva, strisciandole sin sotto le
unghie, fecero sì
che spingesse le sue carovane sempre più verso il limite
della piana.
Il
terzo mese portò il canto degli uccelli lontani: Hanna
continuò a cavalcare nel
grande verde, seguendo il suo ultimo frammento di cuore. Il grido che
innalzava
per condurre il suo popolo era ormai un segreto chiamare, e alla sua
dolce
querela rispondeva, consapevole, il cielo.
Queste
immagini i lunioli le stavano facendo navigare nelle iridi: Hanna
tornò in sé
nell’ultimo istante, quello che le fece spalancare gli occhi
e mescolò il nero
delle sue pupille all’ombra delle ciglia.
La spada
che Auron le aveva spinto nel seno superò l’ultima
resistenza del cuoio e le
recise, con la punta, i capelli d’oro.
Al centro
dell’armatura bianca del mevyn era raffigurato il sole, tondo
e perfetto e
incoronato dalle stelle: l’acciaio, spezzando la purezza
dell’etere, fece sì
che l’armonia svanisse.
Allora, al
posto di chi un tempo aveva guidato i chocobo nella vasta pianura,
impalata
sulla spada apparve quella donna vestita di rosso che guida gli
Invocatori a
Zanarkand.
Eppure
sembrava bella la morte che aveva il suo viso.
Hanna di
questa metamorfosi non si preoccupava: non vedeva più la
grotta, né il sangue
di cui aveva intriso il petto, ma solo un prato coperto di ciclamini,
le
cascate che lo bagnavano e le colonne che sostenevano il
cielo.
Si vide,
sola, camminare in quel luogo senza corone o scettri. Davanti a lei,
lontani,
innumerevoli fiori rosa sbocciavano tra i rami di un albero.
Un’unica
lacrima le sfuggì dalla gabbia delle ciglia e le
scivolò lungo la guancia. Lei
cadde a terra, ma il suo spirito avanzò verso
l’albero, le fece tendere la mano
in un ultimo gesto.
«Allora
è
così,» disse piano, mentre Auron con
pietà le reggeva il volto, «ho davvero
venduto il mio popolo per un bacio».
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Capitolo 38 *** Come benedirete la luce ***
CAPITOLO 27:
COME BENEDIRETE LA
LUCE
«Hanna!»
Gocce di
sangue le scivolarono tra le dita e caddero al suolo, tonde come le
mele sugli
alberi d’autunno. Non aveva mai pensato, nemmeno quando i
duri artigli delle
Scaglie di Sin le avevano sfiorato il viso e quasi strappato
l’elmo, che la
morte potesse sapere di tabacco e di cannella. L’aveva sempre
immaginata come
un manto nero che scendeva sugli eserciti; a volte – ma solo
seguendo un
proprio imperscrutabile giudizio – più pietosa con
i bambini o con le donne.
Non aveva mai pensato che l’Oltremondo fosse luminoso come il
luogo che aveva
davanti agli occhi.
Era reale
o era solo la sua immaginazione?
Quel posto
aveva una straordinaria somiglianza con la pianura su cui, senza
dimenticare il
rispetto per le creature che da sempre la abitavano, un tempo aveva
governato.
E dal cielo, su cui si specchiava la sua figura dritta in sella, il dio
le
rimandava l’eco di una canzone lontana:
Per quale
confine mi condurrà
Il mio vago desiderio d’amore?
O Dio, o mia terra, o mio signore,
Che il mio sguardo mai non vedrà, à, à.
Estate 1026
Hanna
fischiò stringendo due dita tra le labbra. Il chocobo le
rispose con un alto
trillo e disegnò fra l’erba bruciata
un’ampia curva che finì dove si trovava
lei.
Il
mevyn si passò sulla fronte il dorso di una mano per
asciugare il sudore sotto
la celata dell’elmo. Poi avvolse nel cuoio ciò che
le era rimasto di più caro:
lo scettro di bronzo, attorno a cui era arrotolata la lettera di Alan.
“Se
questo
vi è in animo, venite.”
La
donna ripose i propri averi in una borsa attaccata alla sella del
chocobo, da
cui poi estrasse della carne secca e un drappo bianco, da legare a
un’asta per
segnalare in un universale linguaggio muto le proprie intenzioni. Aveva
cavalcato a lungo seguendo le vie non battute della Piana, il Popolo
dell’Oceano d’Oro affidato in sua assenza a
generali che mai l'avrebbero
tradita.
Così,
masticando la sua stecca di carne essiccata, Hanna pensava, distaccata
dall’antico rimpianto, a come quel luogo avesse ospitato le
risate di Farin e i
colpi di mortaio; i passi tintinnanti di Lucil e quelli ferali degli
Hoga.
Era
proprio della natura uno stato di guerra.
Con gli
anni, le donne e gli uomini dell’Orda avevano prestato
servizio tra le schiere
dei Crociati, pur mantenendo la propria autonomia in qualità
di cavalleria
ausiliaria, e con le nere bocche da fuoco avevano respinto gli attacchi
delle
Scaglie di Sin che provenivano talvolta dal lago di Macalania, talvolta
dal
mare.
Avevano
stretto amicizia con il popolo degli Al Bhed, parimenti considerato ai
margini
della società, che forniva loro le munizioni e la polvere da
sparo.
Ma per
Bevelle rimanevano paria.
Hanna
strinse le ciglia e ingoiò l’ultimo boccone. Prima
di salire in sella al
chocobo, ringraziò il dio per averle inviato una situazione
favorevole:
l’esercito della capitale, sotto il comando del Maestro Alan,
si stava
schierando lungo le sponde del lago di Macalania.
Profondamente
era inciso il nome di Farin tra le sue sopracciglia, ma Hanna nutriva
per Alan,
che pure non aveva mai visto, una devozione che non vacillava. Spesso
aveva
riflettuto sui canti delle sue gesta che gli yevoniti le avevano
tramandato, e
legato a doppio filo alla sua bellezza fisica una virtù
morale.
La
notte in cui aveva deciso di partire, Yevon le aveva inviato in sogno
le verdi
praterie che ogni giorno attraversava. Nulla si muoveva tra gli steli
d'erba
accarezzati dal vento e il silenzio era assoluto nella brezza che, di
tanto in
tanto, le scompigliava i capelli dorati.
Sopra
la sua testa, simbolo dell’ultimo sogno, il nibbio nero con
le ali bianche
seguiva la curva stanca del sole, e il suo volo piegava a est, verso
l’intrico
freddo dei rami di Macalania.
Una
volta aperti gli occhi, il mevyn aveva ritenuto quella scena un segno:
la sua
terra le chiedeva di proteggerla, o almeno quella era la causa a cui
aveva
deciso d’essere devota. Chiedersi se fossero fallibili i
segni del dio, o se lo
potesse essere la loro interpretazione, era mestiere del filosofo e non
del
guerriero.
L’accampamento
degli yevoniti si estendeva lungo tutto il limitare della Piana della
Bonaccia,
sterminata e vuota, tanto che Sin avrebbe potuto sdraiarcisi in tutta
la sua
lunghezza e subire così un attacco al fianco.
Hanna
immaginò quella scena con un mezzo sorriso, sognando di
assalire la bestia che
giaceva e di essere colei che avrebbe sferrato il colpo di grazia, dopo
una
carica accompagnata da grida di gola.
Il
Maestro Alan avrebbe comandato l'attacco da dietro le truppe, con la
determinazione che solo chi eseguiva la volontà di un dio
poteva possedere.
Le
bandiere accanto alle tende erano diverse per le forme e per i simboli
che
recavano, tuttavia l’occhio di Yevon – lo stesso
che aveva visto riprodotto nei
libri di Farin – era presente su quasi tutte, in un ostinato
dominio.
«Sono
Hanna,» si ripeté, «comandante
dell’Oceano d’Oro, parte della cavalleria
ausiliaria ai Crociati, ottavo plotone». Le sue labbra, in un
moto muto,
ripercorsero quelle parole che non avevano significato per lei.
Un
carro che portava provviste la oltrepassò: le ruote malferme
sull’asse
barcollarono vistosamente prima di rimettersi in carreggiata.
Passò all’altezza
di una tenda contraddistinta da un drappo nero su cui spiccava un
simbolo
dorato a due bracci, ma nemmeno lì si fermò.
D’un
tratto, un uomo levò la voce e agitò la mano per
far segno al carrettiere di
deviare. Hanna strizzò gli occhi nel tentativo di
distinguere i suoi
lineamenti. Fu invano: il pulviscolo nell’aria rendeva il suo
viso sbiadito
come in una vecchia fotografia.
La
donna si trovò a deglutire con fatica, mentre il battito del
cuore le
rallentava: colui che aveva richiamato l’attenzione del
carrettiere le pareva
troppo giovane, vestito con abiti troppo semplici per essere lui.
Sepolto come una conchiglia
nella sabbia delle ragioni che l’avevano spinta fin
lì, c’era il desiderio di
vedere la persona dietro la lettera che conosceva ormai a memoria,
guardarla
negli occhi e niente di più.
Per sei
anni, lenti e aridi come la Piana in estate, Hanna si era limitata a
vivere una
vita da Non Trapassata, guidata solo dai doveri di mevyn: dopo aver
sperimentato l’amore per un uomo, quello verso la sua gente,
pur grande, non
riusciva a riempire il vuoto. Giorno dopo giorno, prima con leggerezza
e poi
con una certa colpevole consapevolezza, si era passata la lettera di
risposta di
Alan tra le dita, aveva chinato il capo e aveva pregato come facevano
gli
stranieri, con un piede pronto a partire e l'altro piantato a terra.
«Identificati,»
soggiunse, urgente, la voce di un soldato. Hanna, con grazia,
spronò il chocobo
affinché si voltasse e ne fece tintinnare i
paramenti.
«Sono
Hanna,» disse al ragazzo che si trovò davanti, le
cui sopracciglia si
confondevano con la linea regolare dell’elmo,
«comandante dell’Oceano d’Oro,
parte della cavalleria ausiliaria ai Crociati, ottavo
plotone».
Inaspettatamente,
lui le rivolse la reverenza di Yevon, che lei ricambiò con
una rigidità
inesperta.
«Mi
è
giunta la notizia della vostra scomunica,» ribatté
il giovane, lanciando uno
sguardo fugace alla tenda nera. «Mi dispiace».
Hanna,
interdetta, aggrottò la fronte. Si domandò se le
sue parole avessero un che di
dissidente; tentò di immaginare la voce con cui Alan aveva
pronunciato la sua
sentenza, e se nei suoi discorsi inserisse le pause dove lo facevano
anche gli
altri oratori di Bevelle. Nonostante la differenza di rango, lui aveva
teso la
mano verso di lei con una semplice lettera.
«Vorrei
avere udienza presso il Maestro Alan» disse schiarendosi la
voce, diventata
improvvisamente roca. «Devo fare
rapporto».
Il
giovane soldato schioccò la lingua e scosse la testa,
abbozzando un mezzo
sorriso di scherno che, in altre circostanze, Hanna avrebbe cancellato
con la
sola forza dello sguardo.
«Non
è
che posso scomodare il comandante per chiunque,» rispose il
ragazzo incrociando
le braccia.
«Ho
risposto all'invito del Maestro a presentarmi personalmente»
insistette,
piccata, «io e il mio popolo abbiamo viaggiato a lungo per
giungere qui».
Il
soldato allungò il collo per osservare i dintorni, per poi
allargare le braccia
con arroganza.
«E
questo popolo dove sarebbe?»
«Al
sicuro, nella Piana della Bonaccia».
«Hai
delle prove per dimostrarlo?»
«Pensavo
che il giudice fosse quello lì dentro,»
replicò Hanna, facendo cenno alla tenda
con il drappo nero.
Solo
poi fece come le era stato richiesto: con sin troppa cura,
prelevò la lettera
di Alan dalla borsa in pelle e la porse al soldato con ansia,
preoccupata che
la potesse rovinare.
Il
giovane la lesse in fretta, alzando le sopracciglia e guardando Hanna
più
volte.
«Va
bene. Vado a chiamare il comandante, ma non puoi entrare
finché non sarai
autorizzata dal Grande Inquisitore. Puoi lasciare il chocobo anche
qui».
Senza
aggiungere altro, il soldato girò i tacchi e si
allontanò sbuffando, mentre
Hanna scambiò uno sguardo con la propria cavalcatura. Trasse
un profondo
respiro e ripose la lettera come avrebbe fatto con la sua spada, per
poi
accompagnare l'animale poco lontano in modo da poterlo tenere
sott'occhio.
Il suo
cuore diventò come il tamburo che guidava la carica. Poteva
sentirne le vibrazioni
fin nelle costole: poche volte nel corso della sua vita si era sentita
così
indifesa.
Una
figura vestita di nero si diresse verso di lei: spiccava in mezzo alle
tende
bianche, e un velo gli celava la fronte e gli occhi, rendendolo simile
a un
fantasma. Hanna, per accertarsi che non si trattasse solo di uno degli
idoli
belli che il sole proiettava tra le cose, diresse lo sguardo ai lembi
della sua
veste, cercando di vedere le scarpe.
Al suo
cospetto, invece della riverenza rituale che Farin le aveva insegnato,
la donna
si inginocchiò, chinando il capo come non aveva mai fatto
con nessuno e
puntando gli occhi indegni al suolo. Lui sembrò non reagire
in alcun modo.
«Sono
Alan, Grande Inquisitore e comandante dell'esercito di Yevon».
La sua
voce ruvida incendiò il sangue di Hanna, che ora
più che mai era determinata a
continuare il percorso che aveva intrapreso.
«Sono
Hanna, comandante dell’Oceano d’Oro, parte della
cavalleria ausiliaria ai
Crociati, ottavo plotone,» ripetè nuovamente a
memoria.
«Così
mi è stato riferito. Come mi è stato detto che
sei venuta qui su mio invito.
Puoi alzarti,» disse con un cenno della mano che lei non
riuscì a vedere, «ma
apprezzo il tuo gesto. La devozione a una causa comune è
ciò che davvero lega i
popoli».
La donna
si alzò in fretta. Frugò nella borsa, questa
volta con più foga, e gli consegnò
la missiva ormai stropicciata. A causa del velo nero che gli copriva il
viso,
Hanna non poteva cogliere eventuali guizzi del suo sguardo, e questo
aumentò
l'ansia che già le stava logorando il fegato.
«Sì,
mi
ricordo queste parole: il mio lavoro, del resto, richiede che abbia una
buona
memoria. Ti prego di seguirmi».
Hanna
annuì, respirando a fondo a ogni passo e riprendendo le
redini della propria
coscienza.
«Perdonami
se ho fatto qualcosa di offensivo per un uomo del tuo rango,»
disse il mevyn
con fare ansioso, «non sono molto istruita sui modi di fare
della vostra
gente».
Aggiunse
apposta quell’ultimo particolare, non vero, perché
Farin l’aveva istruita. Le
aveva insegnato, sia nello scrivere che nel parlare, a usare le forme
di
cortesia.
Alan
alzò il mento verso di lei, inclinò lievemente il
capo. Un animale di cui Hanna
non riconosceva il verso muoveva i suoi richiami tra i rami di
Macalania.
Ciò
che
il mevyn aveva fatto possedeva un significato molto chiaro, che stava a
lui
cogliere nella foresta delle parole.
Non a lei,
bensì a te, Inquisitore,
la cui grazia arriva più in alto dell’ultimo
cerchio, io potrò anche piegarmi,
ma l’Orda no.
I lunioli
che uscivano dal suo stesso corpo, volandole davanti agli occhi,
mandarono dei
bagliori bianchi che la accecarono e la strapparono dal suo
sogno.
Mosso da
compassione, Auron le estrasse la spada dal ventre che già
aveva sofferto.
Vedeva, davanti a sé, scorrere le immagini della vita di
quella donna: come
tutto, su Spira, nemmeno quella grotta aveva pietà degli
uomini, nemmeno quando
stavano cadendo nella morte.
«Siamo
noi
il tuo popolo, Hanna,» le disse, sperando che lei potesse
sentirlo. «E tu non
ci hai tradito».
«Non
preoccuparti,» esordì Alan, tirando le labbra nel
guizzo di un sorriso. Rivolse
lo sguardo verso di lei, offuscato dalla cortina del dio oltre la quale
non si
poteva vedere con chiarezza. «Voglio solo farti qualche
domanda. Per quale
motivo hai voluto incontrarmi dopo tutti questi anni?»
Hanna
si fermò. Diresse lo sguardo verso le chiome degli alberi,
costellate di fiori,
che ondeggiavano sotto al vento del sud.
Alan,
che un tempo aveva imbracciato il fucile e che ora guidava le schiere
di coloro
che lo proibivano, guardava un orizzonte lontano.
La voce
di quell’uomo era il sicuro pilastro della fede di molti. Il
suo corpo era
divino e il suo gesto era sacro, ma pur se l’amore
l’avesse accecata, Hanna non
si sarebbe dimenticata chi era lei.
«Volevo
vedere se sei l’uomo di cui tutti parlano,» disse,
con tono in qualche modo
devoto e sprezzante assieme.
Lei era
quella che aveva insegnato a far partorire alle ragazze nella pianura
immensa.
Il battito indomito del suo piede era il battito di Spira.
Alan
spinse in fuori il labbro inferiore, segnato da una tacca
più scura quasi nel
centro esatto.
«Parlano
di me?» domandò, con un tono sibillino.
«E cosa dicono?»
Non
aveva intenzione di smettere di camminare. Hanna era in piedi,
immobile, con le
braccia lungo i fianchi, ma lui non dava segno di voler sottostare alla
sua
decisione. Comandante e comandante, si accorse Hanna, amante e amato.
Gli
Yevoniti non combattevano le loro guerre solo sul campo.
«Alcuni
che sei un eroe senza pari, in grado di piegare le anime al tuo
volere».
Erano
giunti sotto l’ombra larga di un albero. I fiori rosa che
nascevano dalla
corteccia proiettavano i loro arabeschi di luce sul viso di Alan. Hanna
lo
superò, guardò il largo tronco nella speranza che
le desse forza, poi gli si
mise di fronte per impedirgli di avanzare.
«Altri
invece dicono che, quando nessuno ti vede, ti infili le dita in gola
per
vomitare. E io, prima di unirmi alle tue fila, sono qui a chiederti
quale delle
due».
Era
stata brutale, indelicata, come avrebbe voluto la sua Piana e come non
avrebbe
voluto Farin. Alan, fermo nella sua bellezza glaciale, alzò
appena il capo
nello stesso istante in cui un alito di vento gli mosse il velo.
Nessuno
dei due disse una parola per svariati secondi, finché il
Grande Inquisitore non
mosse qualche passo verso Hanna. Le prese il mento tra due dita con
fermezza e
la spinse a guardarlo. Lei non si era nemmeno accorta di aver abbassato
lo
sguardo.
«Tu
che
cosa vedi?» le domandò.
Le
lasciò il viso, sfiorandola per un istante con una dolcezza
estranea ai
mortali, poi davanti ai suoi occhi increduli portò le mani
alla tiara e la
tolse assieme al velo.
Le
costole di Hanna, all’altezza del cuore, le inviarono un
fastidio acuto. Il
pudore la spinse a distogliere di nuovo gli occhi da lui, ma il
coraggio le
permise di obbedirgli.
Era
come se lui fosse nudo davanti a lei, e lei stesse guardando, con
tracotanza,
dritto in un divino segreto che avrebbe dovuto rimanere tale.
Sulle
iridi d’indaco di Alan, ora che nulla le celava se non le
ciglia scure, si
allargavano macchie irregolari d’ambra. Sul suo collo sottile
si attorcigliava
la serpentina di un laccio d’oro, che scompariva da un lato
sotto la talare e
dall’altro alla base della nuca, nascosta dalle treccine
strette con cui
acconciava i capelli.
La sua
espressione non tradiva nemmeno il più superficiale dei
pensieri. Non lo
facevano le sopracciglia, inarcate nella sapienza immota di una statua,
né la
ruga verticale sulla sua fronte né quelle, meno marcate, ai
lati delle labbra.
L’Inquisitore
prese di nuovo il viso di Hanna tra il pollice e l’indice,
poi spostò la mano
sulla sua guancia, arrivò fino alla linea forte della sua
mascella.
Lui la
baciò sulle labbra mentre i petali rosa si staccavano dai
rami e l’albero
nodoso osservava. Hanna, invece, chiuse gli occhi con amore devoto. Si
sarebbe
lasciata condurre sul campo di battaglia, avrebbe colpito in suo nome,
anche se
sentiva che in parole come le sue dormiva d’un sonno leggero
l’inganno.
Alan la
baciò con il bacio di bellezza e di guerra, e la sua bocca
aveva il sapore di
tutto ciò che lui era.
Eroe e
fantasma, traditore e santo.
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Capitolo 39 *** Se Alan cadesse (Parte 1) ***
CAPITOLO 28:
SE ALAN CADESSE (PARTE
1)
La folla
nell’anfiteatro trattenne il respiro. Al cross del
centrocampista, si agitò
come un’onda di corpi e di voci innalzate in
un’unica vocale.
«Il
colpo
di testa di Rena trova il portiere inerme!» gridò
la cronista. «I Luka Goers si
aggiudicano il 2-2! Sarà anche un’amichevole, ma
che partita, signori!»
L’arbitro
fischiò la fine del primo tempo proprio mentre Rena, ancora
carica d’adrenalina
dopo aver segnato, stava sciogliendo i muscoli delle gambe davanti alla
porta.
Era al centro della lente di un binocolo, tonda come la sfera
d’acqua nel mezzo
dello stadio di Luka. Il campo si restrinse, inquadrò il
bracciale a forma di
aspide che le ornava l'avambraccio, per poi abbandonare la sua figura.
«Sai
a
cosa stavo pensando, Kelk?»
Nell’intervallo
tra primo e secondo tempo la cronista andava a riposare la gola e gli
altoparlanti diffondevano quella musica festosa e sincopata, tipica
della zona
di Macalania, che aveva quasi coperto l’ultima parola.
Kelk
Ronso, ritto nella sua posizione di guardia che non aveva abbandonato
nemmeno
sul palchetto riservato alle autorità, si volse verso Alan.
Lo vide lasciare
quasi con negligenza che un binocolo di argento e madreperla gli
cadesse sulla
veste, all’altezza delle ginocchia. Dopo un piccolo rimbalzo,
le pieghe della
stoffa lo fermarono.
«No,
Maestro».
Alan
appoggiò un gomito al bracciolo della sedia che gli avevano
destinato. Con il
mento sul pugno, rivolse al campo di gioco un’occhiata che
sembrava essere, per
vie che non potevano essere comprese dalla ragione, annoiata e insieme
interessata.
«Secondo
me dovremmo…» il giudice s’interruppe
per un istante e disegnò forme casuali
nell’aria con le dita, come se stesse cercando le parole
adatte. «Come dire, svecchiarci
un pochino».
Kelk gli
rivolse uno sguardo interrogativo da sotto le palpebre socchiuse. Era
la prima
volta che si recava a Luka, e anche la prima in cui assisteva a degli
incontri
di blitzball. Nonostante la sua gente avesse una propria squadra di
recente
formazione, i Ronso Fangs, era per la maggior parte ancora devota a
proteggere
la cima sacra del Gagazet.
Quando
aveva seguito Alan, Kelk non si sarebbe mai aspettato che un anfiteatro
di
marmo liscio fosse in grado di recare svago a una marea così
eterogenea di
persone.
Eppure
lì
tutti, Grande Inquisitore compreso, sembravano avere occhi solo per
quel
pallone bitorzoluto, con un entusiasmo che, in qualche modo, gli pareva
poco
ortodosso.
«Ma
sì,»
replicò Alan, con un’insolita
familiarità nella voce profonda, «è che
chiamarci
ancora Inquisizione è antiquato, ormai. Poco al passo coi
tempi. Che ne dici di
Ministero degli affari civili?»
Poi
riprese in mano il binocolo e lo puntò verso gli spalti,
regolando la messa a
fuoco con la rotella. Era concentrato altrove quando Kelk
replicò, e viaggiava
tra le teste degli spettatori, eppure riuscì perfettamente a
immaginare la sua
espressione interdetta, la testa leonina che per un istante sobbalzava
all’indietro.
«Ministero…»
stava dicendo il Ronso.
Alan
annuì.
«Degli
affari
civili».
L’uomo
che
cercava si era seduto in un punto affollato, ma le luci dello stadio si
riflettevano sul suo cranio rasato come a volerlo rendere il
protagonista del
dramma. Presentarsi a una partita di blitzball di portata nazionale
avrebbe
potuto sembrare una mossa poco acuta, ma era anche vero che, per Spira,
un uomo
chiamato Davon di Janne non esisteva più. Era morto in un
piccolo villaggio
alle porte di Djose a dì 26 ottobre 1024. Il suo volto era
sconosciuto, la sua
nuova vita da Non Trapassato agiata e serena, e lui non doveva
più preoccuparsi
di niente.
A parte
del cerchio perfetto attraverso il quale il Giudice Alan stava
prendendo la sua
mira.
«Ministero
degli affari civili,» ripeté ancora Kelk.
«Sì».
«È
un’ottima idea, Vostro Onore».
Quando
Kelk spostò gli occhi di nuovo dal campo dove i giocatori
stavano nuotando in
cerchio, vide Alan tendergli il suo binocolo da teatro.
«Prego,»
lo incoraggiò l’Inquisitore con un sorriso, per
poi indicare un punto
imprecisato davanti a sé, «guarda un po’
lì».
Kelk
obbedì all’ordine, si chinò sul sedile
del Grande Inquisitore e si portò il
binocolo, minuscolo per lui, agli occhi. Lo strinse tra le sopracciglia
cespugliose aggrottate e tentò di dirigere lo sguardo verso
il punto che gli
veniva mostrato.
«È
lui?»
gli chiese Alan.
«Chi?»
«Il
terzo
uomo a sinistra a partire dalla mascotte. Lo riconosci?»
Il Ronso
spostò ancora la rotella, sperando in una messa a fuoco
migliore, ma ottenne
l’effetto contrario.
«Somiglia
molto a Davon, signore,» riuscì a decretare dopo
qualche istante. Poi si
bloccò, come perseguitato dall’evanescente
fantasma di una coscienza. «Ma non
possiamo essere sicuri che sia lui».
Alan
inarcò le sopracciglia scure sotto al velo e socchiuse le
labbra.
«Ho
mai
sbagliato persona?» gli domandò, con una forzata
espressione interrogativa.
«No,
signore, però…»
L’Inquisitore
scosse lentamente la testa, in un ulteriore tentativo di dissipare i
dubbi di
Kelk. Gli sarebbe bastato impartire un ordine secco, ma un tale
comportamento
tirannico non era nella natura di un Maestro di Yevon.
«Se
non è
lui, che male c’è?» replicò,
in tono mellifluo. «Una volta accertata la sua
innocenza, lo rilasciamo. Aspettate che la partita finisca e poi
fermatelo».
Fece a un
altro dei suoi uomini cenno di avvicinarsi, per poi sussurrargli
qualcosa
all’orecchio.
«Signore,
mi permetta di obiettare un’altra volta,»
intervenne il Ronso.
Alan si
voltò di nuovo verso di lui, con un’espressione
quasi identica alla precedente
se non per un rapido guizzo verso l’alto degli occhi, che
tradì un certo
spazientirsi.
«Che
cosa
c’è?»
Kelk si
passò la grande zampa sull’armilla che portava al
braccio, su cui era inciso il
simbolo dell’Inquisizione. Un marchio che avrebbe portato per
sempre.
«Non
siamo
a Bevelle. Qui a Luka la nostra autorità
è…»
Talora
messa in questione,
stava per dire, ma si bloccò. L’ultima cosa che
voleva era che Alan si
irritasse in un posto dove gli avevano proibito di fumare.
L’Inquisitore
strinse le labbra e si lisciò le pieghe della veste nera.
Che cosa aveva ancora
di spiacevole quella città azzurra, oltre a una
conformazione urbana di cui non
si riuscivano a distinguere il cardo e il decumano?
«È…?»
lo
incalzò, dato che Kelk non continuava.
«Qui
la
nostra autorità viene vista, da alcuni, come in conflitto
con quella della
polizia».
Sul viso
di Alan guizzò un sorriso rapido, quasi nervoso.
«Ah,
sì,»
commentò, intrecciando le dita sulle ginocchia. «Luka,
la città
secolarizzata». Il fischio che decretava
l’inizio del secondo tempo fece da
intermezzo alle sue parole, e lui ne approfittò per
sorridere di nuovo.
«Prendetelo».
«Signore,»
disse ancora il Ronso, in un estremo tentativo di farlo ragionare. La
musica e
il vociare di quella bolgia stavano aumentando di volume: gli era
rimasto poco
tempo. «Se noi registrassimo l'accaduto con una
sfera… e inoltrassimo una
denuncia formale…»
Alan
sgranò gli occhi.
«Kelk,»
replicò, «tu non hai idea di
cosa comporti il compilare un qualcosa di
formale, in quest’isola». La sua voce, che era
diventata quasi quella di un
uomo sulla difensiva, tornò all’usuale tono
freddo. «Sono sicuro che questo
fatto rimarrà interno alla Corte di
Yevon».
Così
da un
lato egli disse, e rimasto in silenzio lasciò scorrere la
partita fino al
proprio termine. Dall’altro lato, Davon si agitava sulla
sedia, pronto a
defilarsi velocemente al fischio dell'arbitro. Di tanto in tanto
gettava con
timore un’occhiata verso dove aveva intuito la presenza degli
inquisitori.
Tuttavia, tentava di calmarsi affidandosi al pensiero
d’essere solo uno dei
tanti spettatori, al quale per nessun motivo la genia di Michent
avrebbe dovuto
interessarsi.
Si
concesse un grido di esultanza quando in alto sul tabellone comparve il
punteggio definitivo, e la partita fu conclusa. Poi si alzò
e si unì al resto
della massa che stava defluendo dallo stadio.
Diventò
poco più di un puntino, piccolo in mezzo alle persone che
sembravano un fiume
d’armenti; piccolo rispetto alla mano sottile del Grande
Inquisitore che si
alzò per fare un cenno.
Un giovane
nerovestito chinò il busto e prestò l'orecchio
alle indicazioni del suo
superiore. Poi spostò lo sguardo sui due altissimi Ronso che
montavano la
guardia e li fece avvicinare a sé.
«Occhi
su
quello. Non perdiamolo di vista».
Uno dei
due guerrieri, dal pelo rossiccio, individuò il bersaglio e
fece cenno al suo
compagno d'armi con il pelo candido.
La folla
era lenta a disperdersi, e non era conveniente né discreto
prelevare il Non
Trapassato quando non aveva nemmeno raggiunto le scale. I due Ronso
rimasero
immobili come da ordini, nonostante il ghigno infastidito di quello
bianco gli
scoprisse un canino appuntito.
Il giovane
inquisitore si guardò intorno e si rese conto di avere poca
scelta: seguito dai
Ronso, percorse l'uscita riservata alla Chiesa e scese dagli spalti,
per poi
posizionarsi a lato della porta che avrebbe dovuto attraversare il
bersaglio.
Da
ciò che
aveva potuto vedere, era probabile che il Non Trapassato li avesse
osservati
allontanarsi, ma se voleva lasciare lo stadio doveva per forza
passare
di lì, sospettoso o meno.
I tre,
allenati a quell'attività, osservarono con attenzione ogni
volto che
incrociavano, dai più sorridenti per la vittoria della loro
squadra ai più
amareggiati per la sconfitta.
L'unica
espressione preoccupata nella folla fu quella dell'uomo calvo, quando
notò che
qualcuno camminava al suo fianco.
«Una
bella
partita, vero?»
«Dice
a
me, signore?» replicò Davon, voltandosi con
un’alzata di sopracciglia. Era
stato colto alla sprovvista, ma aveva dissimulato per tutta la vita e
in
quell’occasione non sarebbe stato da meno. Solo i pugni che
stringevano i lembi
della veste tradivano il suo nervosismo.
Il ragazzo
che aveva davanti si sistemò sul naso gli occhiali e
scoprì in un sorriso gli
incisivi distanziati e leggermente asimmetrici, per poi continuare in
tono
accomodante:
«Cosa
ne
pensa? Secondo lei l’arbitro aveva ragione
sull’ultimo fallo?»
Davon si
passò distrattamente una mano sulla testa calva e
lanciò un rapido sguardo alle
uscite. Le persone erano talmente tante che non solo non si vedevano le
porte,
ma anche le ringhiere decorate erano nascoste da un nugolo di
teste.
Lui spinse
all’infuori il labbro inferiore e lo fece vibrare con uno
sbuffo che accompagnò
le sue spalle che si alzavano.
«Il
centrocampista dei Luka Goers ha strattonato la divisa del
difensore,» osservò.
«Alcuni
uomini si sentono fuori dalla giustizia,» lo interruppe il
giovane,
«specialmente quando sono nel loro ambiente».
Davon, nel
cui campo visivo erano entrati due Ronso armati, fu rapido a nascondere
il
nervosismo e replicare:
«Forse
è
nella natura dell’uomo resistere a
un’autorità che viene
dall’esterno».
Il giovane
torse la bocca, tirò su col naso e raddrizzò di
nuovo gli occhiali. In quel
momento, Davon sentì una forza che lo tratteneva senza che
nessuno lo toccasse:
prima che potesse capire se provenisse dal ragazzo o dai Ronso, oppure
da una
quarta persona, fu raggiunto da una voce.
«Non
agitarti, voglio solo farti qualche domanda».
Nel
momento in cui una mano lo toccò tra le scapole, la
sensazione che legava i
muscoli di Davon svanì. Tracce di fumo salirono
nell’aria e al proprio fianco
vide un uomo della cui statura avrebbe forse sorriso, se non avesse
saputo di
chi si trattava.
«Prego,
seguimi,» gli disse il nuovo arrivato senza interrompere il
contatto fisico.
Aveva un sorriso che non raggiungeva gli occhi, gelidi e alteri sotto
un velo
traslucido.
«Oh,»
commentò Davon, gli occhi tondi che si dirigevano di nuovo
verso i cancelli. La
folla sembrava essersi volatilizzata e gli sarebbe bastato uno scatto
per
raggiungere la libertà. Se solo fosse stato giovane...
«Maestro Alan. Vedo che
la Chiesa ha mandato i pezzi da novanta».
Nonostante
Davon cercasse di tenerlo dritto davanti a sé mentre
continuavano a camminare,
dopo poco inevitabilmente il suo sguardo scattò verso il
giudice: vide il suo
sorriso allargarsi e assumere una certa sfumatura sardonica.
«Non
tenerti così tanto in considerazione. È
un’idea mia».
«Guardate
che roba!» esclamò Jecht quasi
urlando, indicando davanti a sé col dito.
Luka non
fu pienamente visibile finché la nave non entrò
nel piccolo golfo scavato
nell’entroterra. La città sembrava stretta
nell’abbraccio di Spira e nascosta
ai pericoli del mare.
Alla luce
del mattino, le tinte brillantissime delle abitazioni fecero sobbalzare
Jecht
che, abituato ormai ai colori monotoni di quella terra,
tornò con la mente al
caos di Zanarkand. Tuttavia, era stato il monumentale stadio di
Blitzball,
posizionato proprio davanti al porto, a farlo entrare in uno stato di
pura
adorazione.
«Sapevo
che ti sarebbe piaciuto. Qui si gioca un grande Blitzball,»
commentò
l’Invocatore sorridente.
«È
grosso
quanto quello di Zanarkand! Lì dentro sì che devi
tirare il fiato, eh!»
Auron, che
non aveva aperto bocca per tutto il viaggio, si limitò a
lanciare una fugace
occhiata e annuire. L’atleta, ormai stanco di quella tenebra
che attanagliava
il compagno, decise di mordersi la lingua ancora una volta.
«Uno
a
cui non importa nulla non si sarebbe fatto fustigare così
tanto prima di
gettare la spugna,»
aveva detto a Braska in confidenza, ma Auron rimaneva gelido nella sua
apparente indifferenza.
Attraccarono
a uno dei vari moli che costellavano la strada per lo stadio,
circondati da una
quantità di persone che non avevano mai visto durante il
loro pellegrinaggio
fatto di ostelli, notti in tenda e piccole città.
«Sei
già
stato qui? È sempre così affollato?»
chiese Jecht, alzatosi sulle punte dei
piedi per guardare più in là.
«Non
ho
mai avuto questa fortuna. Credo che debbano disputare il torneo
annuale:
vengono da ogni dove per tifare le proprie squadre,» rispose
Braska unendo le
mani. «Comunque, non mi sembra complicato orientarsi. Davanti
a noi si apre una
strada molto grande: ci porterà in centro».
Jecht
annuì, poi si girò a guardare il magnifico stadio
dietro di loro con occhi
luminosi.
«Sentite…»
esordì l’atleta, indicando l’edificio,
«si potrebbe guardare qualche partita?»
Auron fece
per rispondere, ma Jecht lo anticipò portando le mani in
avanti.
«Lo
so, lo
so! Non siamo qui per perdere tempo. Però… dai!
Avete poche cose divertenti su
questa Spira, quando ci ricapita!»
Il monaco
si strinse nelle spalle, abituato ai repentini cambi di programma
proposti dal
compagno.
«Tanto,
alla fine, facciamo sempre quello che vuoi tu,»
troncò Auron senza nemmeno
ribattere.
«Jecht
ha
ragione, amico mio. Un po’ di svago ci farà bene!
Anche il vostro Invocatore vuole
divertirsi, ogni tanto,» disse Braska con un sorriso, per
Auron, fin troppo
enfatico.
«Se
ne
sente il bisogno, signore…» rispose il monaco
senza aggiungere altro.
Si
avviarono lentamente verso la piazza centrale, facendosi spazio nella
calca che
affollava la strada. La città si diramava come un fiume con
i suoi affluenti:
dalla grande via principale partivano strade che diventavano sempre
più piccole
a man mano che ci si addentrava nel centro urbano, fino a perdersi al
suo
interno.
Palloni
aerostatici e mongolfiere dai colori accesi decoravano il cielo, mentre
striscioni e addobbi a festa riempivano la piazza e tutti i suoi
negozi,
rendendo difficile orientarsi. L’unico punto di riferimento
riconoscibile era
l’obelisco centrale che spiccava in altezza.
«Con
un’atmosfera del genere, viene voglia di prendersi un
gelato,» disse Jecht
sedendosi su una panchina. Braska, giudicò
l’atleta guardandolo in faccia, non
aspettava altro.
«Mi
hai
letto nel pensiero. Auron, che gusto ti piace?»
«No».
Ulteriori
aggiunte a quel rifiuto furono coperte alle urla di un giovane dai
corti
capelli castani e dal fisico slanciato, che pareva stesse importunando
i
turisti. Jecht lo fissò infastidito, per poi notare che
c’erano molte altre
persone che, in modo meno molesto, stavano cercando di attirare
l’attenzione
delle persone.
«Che
succede?» chiese l’atleta a Braska.
«Oh,
sono
reclutatori di Blitzball».
«Lo
fate
in mezzo alla strada? Senza nemmeno un colloquio? Siete gente proprio
strana,»
commentò Jecht con disappunto.
«Non
so come
funziona nella tua Zanarkand, ma non si tratta solo di trovare
giocatori.
Spesso cercano persone disposte ad aiutare negli allenamenti, oppure
nuovi
operai che si occupino dello stadio».
«Quel
tipetto lì mi pare non stia cercando niente di tutto
questo,» replicò il
Guardiano ammiccando verso il ragazzo urlante.
Come se lo
avesse chiamato, quello corse verso di loro, per poi fermarsi proprio
davanti
all’atleta, con occhi sgranati e un gran fiatone.
«Scusami!
Perdona l'insolenza, ma ti ho visto da lontano e hai proprio il fisico
di un
giocatore di Blitzball!» disse esausto.
«Infatti
lo sono, ragazzo» rispose gonfio d’orgoglio,
guadagnandosi un’occhiata in
tralice da Auron. «O meglio, lo ero. Sono in… in
pensione».
«Non
importa, signore!» gridò ancora il giovane.
«Rappresento i Besaid Aurochs, e
siamo nei guai fino al collo! Un mio compagno di squadra non
può gareggiare, e
non abbiamo una riserva! Saresti disposto a sostituirlo solo per oggi?
Ovviamente sarai ben pagato!»
Jecht
trattenne il fiato nel sentire parlare di soldi: era
un’ottima occasione per
pagare il suo debito, ma rimase indeciso su cosa fare. Di sicuro Auron
non
glielo avrebbe permesso, in più non giocava da tanto di quel
tempo che non
sapeva nemmeno dire quanto.
«Mi
cogli
impreparato, ragazzo. Sono molto impegnato,»
balbettò l’atleta, cercando con
gli occhi Braska, che a sua volta guardò Auron. Sentendosi
osservato, il monaco
girò le spalle e fissò un drappo cremisi.
«Non
sono
tua madre. Se a Braska va bene, fa’ quello che ti
pare» disse seccato il
Guardiano più giovane.
Jecht fu
tentato di accettare immediatamente, ma all’improvviso si
bloccò e il suo
entusiasmo si spense.
«Ci
devo
pensare un attimo. Sei sempre qui nei paraggi, giusto?»
chiese abbassando la
testa.
«Sì,
signore! Fammi sapere il prima possibile, te ne prego!»
Il ragazzo
si gettò nuovamente in mezzo alla calca nella sua folle
ricerca, mentre Jecht
si piegò su se stesso, come se si sentisse male.
«Un
bel
gelato freddo ti schiarirà le idee,» disse Braska
posando una mano sulla sua
spalla, per poi allontanarsi velocemente verso l’agognata
preda.
Auron si
girò a osservare il compagno diventato pallido, confuso
dall’atteggiamento di
quello che, ai suoi occhi, era uno spaccone che godeva nel mettersi in
mostra.
«Il
grande
Jecht non è poi così grande?»
commentò Auron. Jecht lo guardò torvo,
sbuffò e
scosse la testa.
«Non
è
quello. Io ero il grande Jecht. Ora non lo so
più,» rispose amaro.
«Ti
ho
conosciuto che blateravi di quanto tu fossi eccezionale, ci hai tediato
per
l’intero viaggio. Perfino Braska non vede l’ora di
vederti giocare da quando ti
abbiamo liberato. Ora cosa c’è?»
Jecht,
d’istinto, si massaggiò la gamba destra, come a
voler rispondere alla domanda.
«Prima
di
venire qui, mi stavo riprendendo da un infortunio. Era già
tanto se, alla mia
età, sostenevo il ritmo. Con una gamba messa
così, dubito di essere ancora
appena decente come giocatore».
«Combatti
mostri più grossi di te, sei stato persino al fronte e
marciamo da settimane
tra una città e l’altra. Perchè
dovrebbe preoccuparti?» chiese Auron quasi
infastidito.
«È
il
terrore di ogni atleta, ragazzo. Nei primi giorni di viaggio ci pensava
Braska
ad alleviare il dolore, visto che non ero abituato a camminare tanto.
Certo,
fisicamente sono ben allenato, ma per la maggior parte del tempo
brandisco una
spada con le braccia. Capisci cosa intendo?»
Jecht si
accorse di star parlando delle sue debolezze a briglia sciolta, senza
più
pensare a cosa avrebbe potuto pensare Auron. Se da una parte ne era
lieto,
dall’altra era molto spaventato del suo giudizio.
«Concentrare
lo sforzo sulle gambe potrebbe farti molto male, e nella sfera
d’acqua non c’è
Braska ad aiutarti,» rispose deciso il monaco.
«Se
mi
faccio male, vi rallenterei ancora…» disse Jecht
in un sussurro.
Auron
respirò a fondo, annuendo con un leggero movimento della
testa. Restò in
silenzio per qualche minuto, osservando il compagno che veniva pian
piano
strangolato dalla sua paura. Decise che almeno quello
poteva
risolverlo.
«Tu
cosa
vuoi, Jecht?» chiese il monaco all’improvviso.
«Voglio
giocare, ovviamente».
«Fallo,
allora. Avete detto che bisogna divertirsi, ogni tanto».
«Ma…»
disse Jecht provando a replicare, ma Auron si congedò con un
gesto della mano.
L’atleta
si alzò in piedi e iniziò a camminare in
direzione del giovane, per poi tornare
indietro e raggiungere Auron. Era tentato di abbracciarlo, ma con tutta
probabilità lui lo avrebbe scansato o, peggio, gli avrebbe
assestato un pugno
sul naso. Si limitò a toccargli la spalla per farlo girare.
«Ehi,
ragazzo. Visto che mi butto in questa cosa, mi faresti un
favore?»
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Capitolo 40 *** Se Alan cadesse (Parte 2) ***
CAPITOLO 28: SE ALAN CADESSE (PARTE
2)
Auron si
sentiva a disagio nel tenere la sfera alzata per registrare tutta la
partita,
senza potersi godere appieno la competizione. Gli sembrava una cosa
stupida.
Visto il prestigio, quel torneo doveva essere perlomeno visto con i
propri
occhi, senza preoccuparsi tanto delle registrazioni.
Nonostante
tutto, tra un sospiro e l'altro, esaudì la richiesta di
Jecht. I loro rapporti
non erano stati sempre buoni, ma l'amore e la passione che aveva visto
sul suo
volto quando aveva posato gli occhi sullo stadio erano travolgenti.
Rifiutarsi
di aiutarlo gli avrebbe fatto davvero male, e non se la sentiva proprio
di
avere un tale peso sulla coscienza.
L'arbitro
sancì con ampi movimenti delle braccia la fine della partita
e, con una leggera
pressione dell'indice, il monaco interruppe la registrazione,
avviandosi verso
l'uscita.
Il
Blitzball non lo entusiasmava molto, ma da lì a poco avrebbe
visto Jecht
giocare per la prima volta, e si sentì stranamente
coinvolto. Dopo tutto quel
vantarsi di essere un campione, Auron non poteva farsi sfuggire
l'occasione di
smascherare le sue spacconerie: forse era anche bravo, ma il guerriero
voleva
vedere quanto bravo.
Una volta
fuori lo stadio, un caotico labirinto di spalti e scale, si prese
qualche
istante per orientarsi e capire dove andare.
La zona
urbana, ricca di locali e decorazioni, era nettamente distinta da
quella
portuale, ma Luka era una città molto dispersiva e la folla
lo distraeva
parecchio.
Si erano
dati appuntamento al molo dove avevano attraccato, ma il porto era
pressoché
tutto uguale: un mare di assi di legno pieno di turisti, casse, merci e
marinai. Per sua fortuna, il colorato abbigliamento di Braska spiccava
nel
mucchio, ma non vedeva Jecht con lui.
«Auron!
Siamo qui!» disse l'Invocatore agitando il braccio con un
largo sorriso.
Il monaco
si avvicinò e, senza farsi notare, mise la mano destra nella
tasca che
conteneva la sfera.
«Dov'è
il
campione? Panico da prestazione? Proprio ora che tocca a
lui,» commentò Auron
con sottile perfidia. Braska scoppiò a ridere.
«Veramente
è lì dietro,» rispose, indicando una
piccola colonna di casse di cibo. «Sta
facendo riscaldamento».
«Oh?
Nascosto?» disse il monaco attivando la sfera nella tasca e
avvicinandosi di
soppiatto.
Il suo
tentativo di coglierlo in fallo fallì miseramente quando
Jecht spuntò fuori
all'improvviso e corse verso di lui, impaziente.
«Eccoti
qui! Ero convinto che mi avessi piantato in asso,» disse
l'atleta agitato.
Auron
sospirò infastidito, dimenticandosi anche di avere la sfera
accesa.
«Pensavi
male».
«Hai
ripreso
l'ultima partita?» insistette Jecht.
«Sì.
Ma
non ho capito perché me lo stai facendo fare. Non hai detto
che giocate a
Blitzball nella tua Zanarkand?» disse facendo il verso al
compagno.
«Certo!
Non sei uno sportivo, eh?»
«Magari
vuole allenarsi,» commentò Braska allegro, ma
Jecht incrociò le braccia e
sbuffò.
«Non
ho
bisogno di allenamento. Sono il grande Jecht,» rispose
gonfiando il petto. «È
per mio figlio».
Braska
smorzò il suo sorriso per un istante: il suo pensiero corse
veloce verso Yuna,
e non poté fare a meno di provare una malinconia che si
insinuò nel suo cuore
come una spina.
«Tuo
figlio gioca a Blitzball?» chiese l'Invocatore intenerito.
Auron
avvertì un leggero brivido dietro la schiena: Jecht non
parlava mai della sua
famiglia, e vederlo così accorato per il figlio era una cosa
nuova che non
sapeva come elaborare.
«Sì,
e
vuole un sacco battere suo padre. Una volta gli ho detto di lasciar
perdere e
non mi ha parlato per un mese,» raccontò l'atleta,
ridacchiando. «Mi chiedo
cosa stia facendo ora. Spero sia cresciuto e abbia messo su qualche
muscolo».
Il
campione abbassò gli occhi a terra, provando un disagio
familiare che non lo
coglieva da tanto tempo. Tirò su col naso e si
schiarì la gola rauca, per poi
notare la sfera accesa nella mano di Auron.
«Ehi,
che
fai! Smetti di registrare!»
Il monaco
lo guardò interrogativo, poi abbassò gli occhi
sulla piccola macchina e ricordò
cosa ne stava facendo. La spense senza aggiungere altro e la ripose in
tasca,
osservato da Jecht che preferì non argomentare
oltre.
«Credo
sia
meglio andare. Ti devi abituare alla sfera d'acqua,» disse
Braska per spezzare
la tensione.
«Sì!
Te ne
intendi abbastanza per essere un Invocatore,» rispose Jecht
con una risata.
Si
incamminarono di nuovo in mezzo alla folla, stavolta con più
disinvoltura sulla
direzione da prendere. L'atleta, di tanto in tanto, tirava grossi
sospiri
nervosi sciogliendosi i muscoli delle braccia, mentre Braska cercava di
calmarlo accarezzandogli le spalle con mano aperta.
«Sai,
Braska, a Zanarkand avevo dei massaggiatori personali che mi
preparavano alla
partita,» disse Jecht godendo del calore di quel contatto.
«Nessuno di loro
aveva mani morbide come le tue».
L'Invocatore
sfoderò un sorriso soddisfatto, per poi guardare Auron con
la coda dell'occhio:
come di consueto sembrava distratto, forse stava di nuovo vagando tra i
suoi
pensieri pesanti come macigni, o forse, in cuor suo, stava sperando che
Jecht
giocasse bene.
Il suo
tempo su Spira correva veloce ogni giorno di più fin dalla
loro partenza,
Braska poteva sentirlo chiaramente: voleva e doveva essere un rifugio
tranquillo per i suoi Guardiani, prendersi cura di loro come aveva
fatto con
Yuna, almeno finché avrebbe potuto.
«Io
e
Auron faremo un gran tifo,» concluse l'Invocatore dando
un'ultima pacca sulla
schiena di Jecht.
Arrivati
all'entrata, l'atleta fissò per qualche secondo l'immenso
stadio, simbolo di
ciò che aveva occupato gran parte della sua vita. Fece
schioccare le vertebre
del collo e si avviò verso gli spogliatoi, mentre i suoi
compagni iniziarono la
scalata degli spalti alla ricerca dei posti migliori.
«È
eccitante, vero?» domandò Braska al suo Guardiano
più giovane.
Auron non
rispose subito, ma non poteva negare di sentire un brio solleticargli
la pelle,
come quando era in procinto di combattere.
«Non
pensavo che lo avremmo visto giocare per davvero,» rispose
con voce più gentile
del solito.
«Già…
nemmeno io».
Non ci
volle molto prima di vedere i giocatori farsi largo nella sfera,
seguiti dalla
forte voce della telecronaca che descriveva le formazioni delle
squadre.
Auron
individuò subito il compagno, messo di punta tra gli
attaccanti: la sua pelle
abbronzata brillava di luce propria nell'acqua, come se appartenesse a
quel
mondo con tutto il suo essere.
Notò
che
si tratteneva dallo scattare come di solito vedeva fare per anticipare
la
palla, sicuramente per via della gamba.
«Preoccupato,
Auron? Ti ha senz'altro parlato dell'infortunio,» chiese
Braska nella speranza
di farlo aprire con lui.
Preso
dall'azione, il monaco pesò poco le parole e si sciolse di
più, messo a suo
agio dall'Invocatore. Si domandò solo per un istante
perché la gente su Spira
parlasse del blitzball come se fosse un affare di stato, e
perché quando
vinceva la loro squadra era tutto un “noi abbiamo
vinto”.
«Non
più
di altre volte. Alla fine, è un combattimento come un altro
per lui,» rispose
assorto, fissando quella sagoma scura che smarcava gli avversari con
l'agilità
di un hypello. «Si muove solo quando è sicuro di
colpire, e quando lo fa è
veloce e preciso».
«Ci
avresti mai scommesso che dicesse la verità? È
davvero bravo» commentò Braska
coprendo una risata con la mano.
«Nemmeno
un gil bucato. Lo è… lo è
davvero».
Jecht
esercitava una pressione selvaggia sulla difesa dell'altra squadra:
nonostante
si muovesse poco, il suo posizionamento esperto gli permetteva di
essere una
minaccia in qualsiasi situazione, mettendo in seria
difficoltà la difesa solo
con la sua presenza in campo.
Dopo
qualche minuto di braccio di ferro, lo stile di gioco di Jecht ebbe la
meglio.
Dopo un passaggio rapido dell'ala sinistra, l'atleta ruotò
il busto ed evitò un
assalto diretto molto inesperto, trovandosi da solo davanti al
portiere.
L'incertezza
che Auron aveva visto nel compagno poco prima fu completamente spazzata
via nel
momento in cui Jecht prese la mira: una smorfia di dolore gli fece
digrignare i
denti, ma diventò presto un sorriso euforico quando il tiro
gli riuscì in
pieno, sfrecciando potente all'estremo sinistro della porta.
Impossibile
da parare. Braska, attonito dall'azione magistrale appena vista,
saltò in piedi
esultando, seguito dall'intera curva dello stadio, mentre Auron si
lasciò
andare a parole di apprezzamento che nessuno era in grado di sentire.
Jecht, che
aveva individuato la posizione dei compagni appena entrato in acqua, si
avvicinò verso di loro e sfoderò uno dei sorrisi
più sinceri da quando era
naufragato in quella terra inospitale, alzando il braccio in segno di
vittoria.
L'atleta
regalò agli spettatori altri due gol prima che l'arbitro
sancisse la fine
dell'incontro. Braska e Auron si avviarono verso le uscite con tutti
gli altri,
e non fecero altro che ascoltare parole entusiaste da parte dei tifosi,
che mai
avevano visto qualcuno giocare in quel modo, muovendo un certo orgoglio
nel
petto dei compagni di Jecht.
Lo
aspettarono all'entrata per molti minuti, ma del campione nessuna
traccia.
«Ho
paura
che la gamba gli faccia male,» disse l'Invocatore preoccupato.
«Vuole
andare a vedere? Finché rimane con almeno uno di noi due,
non ho obiezioni».
«Sì,
preferisco andare. Nel frattempo, puoi vedere altre
partite!»
Vedere
Jecht giocare era stato più piacevole di quanto Auron avesse
mai pensato, ma ne
aveva abbastanza di blitzball per quella giornata.
«No,
vado
a prendere qualcosa da bere. Si prenda cura di quello
spaccone,» concluse, con
una smorfia che Braska interpretò come un sorriso.
Il monaco
si accese una sigaretta e si diresse verso la piazza centrale, ricca di
negozi
e locali di ogni tipo, fin troppi per i suoi gusti. Per una vita era
stato abituato
ad un’esistenza quieta e semplice, con scelte semplici,
mentre tutta quella
varietà lo disorientava e gli faceva male alla
testa.
Dopo
qualche giro a vuoto, Auron sbuffò e spense la sigaretta,
ormai giunta al suo
termine come quella giornata e la sua pazienza, sul bordo di un
cestino. Lasciò
cadere il mozzicone al suo interno, con gli occhi fissi su dei
palloncini
gialli, blu e rossi legati a un carretto che pubblicizzava qualche
evento.
Sembrava un altro mondo rispetto al territorio libero e crudele che
avevano
visto a Djose.
Davanti a
lui, all’entrata di due diversi edifici, svettavano due
scritte arricciate,
poco distanti l’una dall’altra. Una recitava
“café” e prometteva un locale
circolare, ampio e dalle grandi vetrate. Un buon luogo per sedersi e
ascoltare
la pioggia.
L’altro,
invece, era un bar dalla porta rettangolare, attraverso la quale
passava un
tappeto rosso che avrebbe condotto i clienti per un corridoio lungo e
stretto.
Il
Guardiano si diresse verso il bar. Mentre attraversava il corridoio, fu
raggiunto dalle note soffuse di una musica d’ambiente,
dall’odore della carne
arrostita e da un insolito, ma non spiacevole, chiacchiericcio
allegro.
Quando
vide l’ambiente allargarsi, fare spazio al bancone oltre al
quale una ragazza e
un ragazzo stavano spillando della birra, immaginò Braska
che sorridendo
porgeva uno spiedino di maiale a sua figlia. Gli si strinse il
cuore.
Si sedette
con l’ennesimo dei suoi sospiri. Si ricordò di
quando Wen Kinoc lo prendeva in
giro perché, dopo gli allenamenti, si sedeva sempre in quel
modo e sospirava
sempre in quel modo mentre passava la cote sulla spada.
«Ciao!»
lo
salutò la voce allegra di una giovane. Un menù di
carta plastificata, pulito e
senza neanche una piega, entrò nel suo campo visivo.
«Benvenuto!»
Auron
alzò
lo sguardo. Incontrò una ragazza sorridente dai capelli
tinti di blu, legati in
una coda alta in cima alla testa. Portava abiti da lavoro: pantaloni
neri e una
camicetta bianca dalla stoffa arricciata, con un corsetto sbottonato
sul seno
abbondante. Doveva avere più o meno la sua età,
ma non c’era nessun solco
profondo sulla sua fronte. Auron la giudicò immediatamente
come qualcuno che
non aveva sofferto.
«Ciao,»
disse in tono incerto, afferrando il menù con la mano
destra. Fingeva di essere
tranquillo, ma in realtà quella situazione lo stava mettendo
a dura prova, lo
spingeva a far perdere gli occhi sulle lettere nere
dell’elenco dei vini.
Da quanto
tempo non incontrava una persona come lei?
«Sei
un
monaco?» gli chiese candidamente la ragazza. Auron
alzò gli occhi, sorpreso, e
lei mostrò un sorriso timido. «Ti chiedo
scusa,» disse, «non se ne vedono così
tanti, qui in giro. Qualche ora fa è passato addirittura un
Maestro di Yevon, e
mi chiedevo se fossi con lui».
Auron la
interpretò come l’innocente curiosità
per qualcosa di esotico e scosse la
testa.
«No,
non
sono con lui,» replicò. «Sto
accompagnando un Invocatore nel suo
Pellegrinaggio».
La
cameriera si portò le mani al petto con un leggero
singhiozzo di sorpresa.
Jecht l’avrebbe senza dubbio corteggiata, meschino
com’era.
«Oh,
chiedo scusa per la mia insolenza,» la donna
accennò un goffo inchino yevonita,
poi raddrizzò la schiena e lo guardò con
ammirazione. «Sono onorata di avere un
Guardiano nel mio locale».
«Senti,»
le disse Auron, con cortesia, «sapresti consigliarmi qualche
vino del luogo?»
«Certo,»
rispose la ragazza, indicandogli dei nomi sulla carta.
«Abbiamo tutti questi
qui. Quale vuoi?»
«Portami
quello che ti piace di più».
La
cameriera annuì con un piccolo inchino. In quel momento una
voce, maschile ma
molto acuta, risuonò per il locale. Proveniva da una porta
chiusa dietro il
bancone, cosa che fece aggrottare le sopracciglia ad Auron.
Perché chiudere in
quel modo una dispensa?
«Céciiiile!»
La ragazza
roteò gli occhi al cielo e sbuffò
l’aria fuori dal naso, pur con un mezzo
sorriso.
«Torno
subito con il tuo vino,» disse ad Auron, poi
guardò di nuovo il soffitto.
«Prima devo andare a vedere che cos’ha. Ah, uomini!
Avrei dovuto sposarmi,
quando ero più giovane».
Auron
accennò una risata comprensiva.
Anche
io, Cécile, pensò.
Anche io.
Il calmo
sciabordare delle onde tornò a invadere i sensi di Auron
quando uscì dal bar
con il dolce sapore del vino ancora in bocca. Si sentì
pervadere da un senso di
quotidianità, di pace, che in tutti gli altri luoghi gli era
stato
assolutamente precluso.
«Ehi!»
lo
richiamò una voce roca che ormai conosceva bene.
«Ecco dov’eri!»
Auron si
voltò. I capelli di Jecht erano scompigliati da un vento che
trascinava con sé
l’odore del sale. I suoi occhi d’ambra scura erano
accesi dall’impeto vivo che
giocare a blitzball aveva riacceso in lui. Auron pregò Yevon
che lo
distogliesse dalla tentazione, ma l’aria era calda e ferma e
il corpo di Jecht
bello tra tutti quelli che passeggiavano per Luka. Le persone lo
guardavano.
«Com’è
quel bar?» tentò di informarsi lui, con quel tono
superficiale che Auron
detestava.
«Pensi
davvero che te lo dirò?»
«E
dai!»
replicò Jecht, portando le mani dietro al capo e inarcando
la schiena. I
muscoli delle sue braccia si tesero. «Che male può
farmi?»
«…»
Jecht si
rassegnò a molte cose, compreso il fatto che Auron non
avrebbe smesso di
camminare. Scosse la testa e lo seguì.
«Va
bene,
bel ragazzo, scusa,» tentò di
replicare. Auron lo fulminò con lo
sguardo. «Certo che ti arrabbi proprio con niente,
tu».
Auron si
rese conto che, senza volerlo, i loro passi si erano diretti di nuovo
verso lo
stadio di Luka. Le porte, davanti ai quali i lampioni si erano accesi,
non
erano spalancate come durante i tornei di blitzball, ma nemmeno
chiuse.
«È
l’Inquisitore di Bevelle,» stava borbottando
qualcuno nella folla. Una donna,
impegnata in un’altra conversazione, si lasciò
andare a un risolino acuto che
coprì il resto della frase. Auron la maledisse, mordendosi
il labbro inferiore,
e tese le orecchie nuovamente. «… non è
come le guardie di Luka… mette a morte
la gente davvero».
Auron si
immobilizzò. Spinse lo sguardo verso l’alto,
percorse le architetture a pagoda
dello stadio fino alla cupola di vetro, su cui divampava la fiamma che
aveva
visto Jecht disputare la partita. Si chiese se fosse davvero lo stesso
luogo.
Si chiese
se stessero vivendo una follia collettiva, sotto il sole di
quell’estate.
«Quindi
quando non lo usano per il blitzball, ci fanno i processi,»
commentò Jecht,
senza celare in alcun modo il suo sarcasmo.
«Comodo».
«Non
lo
sapevo,» si schermì subito Auron, senza nemmeno
pensare a quelle parole.
Jecht gli
scoccò uno sguardo stranamente serio da sotto le ciglia
scure. Subito dopo
arrivò lo strale dorato delle sue parole:
«Sembra
che ci siano molte cose che non sapevi».
Auron, il
Guardiano inflessibile, rimase pietrificato come se quella frase fosse
stata il
respiro di un Molboro. Deglutì, senza essere in grado di
rendersi conto di ciò
che gli stava intorno. Il suo cervello correva, destinato a deragliare,
verso
una direzione ben precisa. Esisteva una sola spiegazione: Jecht lo
aveva
capito. Sapeva che non era più puro, si era accorto di
quello che…
«Jecht,»
disse a fatica, «posso farti una domanda?»
…
di
quello che provava…
L’atleta
alzò il mento e gli rivolse un’occhiata in tralice.
«Che
c’è,
monachello? Ti è caduto il palo dal culo e vuoi che ti aiuti
a ritrovarlo?»
«Non
essere volgare».
Braska lo
sapeva e taceva, così come taceva ciò che sarebbe
successo a Zanarkand,
proteggendolo con il velo sacro del silenzio. Jecht lo sapeva e lo
avrebbe
tormentato fino a farlo impazzire, fino a quando non sarebbe stato in
ginocchio
davanti a lui sulla pietra chiara.
Sarebbe
venuto a saperlo colui che puniva, la cui figura immaginava dritta
nella
bellezza di chi è vuoto di peccati.
«Perché
ci
stai ancora seguendo? Braska è un eretico. Avresti potuto
valicare il Gagazet
oltre Macalania e andare a vedere coi tuoi occhi cosa è
successo a Zanarkand.
Avresti potuto rimanere qui e unirti a una squadra. Ricostruirti una
vita, se
quella di prima ti stava tanto stretta».
«Avverto
del moralismo,» lo rimbeccò Jecht. Le luci dello
stadio illuminavano sul suo
viso delle occhiaie che Auron non ricordava così marcate.
Diede la colpa
all’angolazione dei fari. «Ti dispiace
così tanto che vi stia aiutando?»
«Non
ho
detto questo,» rispose il Guardiano. Portò una
mano al viso e premette le dita
agli angoli degli occhi. Non erano solo quelli a fargli male, ma tutto
il
corpo; sintomo di una mente che non capiva. «E ti prego, non
dirmi che lo fai
perché è la cosa giusta».
Immaginò
Alan sotto la cupola dello stadio, buia tanto quanto era stata
accecante nel
bagliore di quel pomeriggio, sulla sua superficie le stesse stelle che
adornavano i drappi di cui si circondava a Bevelle.
Se Alan
fosse caduto, cosa ne sarebbe stato di tutta Spira?
Jecht
preferì tacere. Rimase in silenzio a lungo,
finché entrambi non sentirono
l’interrogativo che si dissolveva tra le grida dei gabbiani.
«Posso
fartela io, una domanda?»
Il cielo
di Luka stava arrossendo per il tramonto, allo stesso modo in cui aveva
fatto
quello di Macalania con le pire dei soldati. Non c’era fumo a
salire verso le
nubi bianche e rade, solo la brezza sottile di una città di
mare.
«Credi
davvero nel dio?»
Per un
solo istante, Auron valutò di riservargli lo stesso silenzio
che lui aveva
ricevuto. Fu solo dopo che si rese conto che non era quella la risposta.
«Sì,»
rispose bruscamente. «Certo. Perché mi chiedi una
cosa del genere?»
Jecht
mosse il collo a destra e a sinistra, massaggiandolo alla base.
«Perché
nella mia vita mondana ho conosciuto tante persone.
Anche religiose. E
un uomo di fede,» quelle tre parole avevano lo stesso suono
di cristallo del
nome di Braska, «non si fa domande sul disegno
divino».
«Questo
lo
dici tu,» sbottò Auron.
Di Jecht
lo raggiunse solo la voce, mentre il cuore gli accelerava, timoroso di
una vita
che proseguiva nella menzogna e nella negazione.
«Può
essere».
Yevon non
lo aveva più assistito da quando, quel giorno, aveva
indugiato in certi
pensieri. Non aveva più rischiarato la sua mente durante la
meditazione, non
aveva più guidato la sua spada in battaglia.
Era
davvero così, o era solo una sua impressione?
Auron si
accorse di aver chiuso gli occhi solo quando li riaprì, e i
colori chiassosi di
Luka gli trafissero le iridi, pur smorzati dalla sera.
Una folla
di curiosi sempre più numerosa si era raccolta davanti allo
stadio. Tuttavia,
c’era qualcosa che mancava.
«…
Jecht?»
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Capitolo 41 *** Rimanere a galla (Parte 1) ***
CAPITOLO 29:
RIMANERE A GALLA
(PARTE 1)
Ieyui
nobomeno.
Il canto
basso dei preti di Yevon, pesante come i passi di uno Shoopuf sulla
terra,
scandiva l’avanzare dei prigionieri tradotti in catene.
Renmiri
yojuyogo.
Da quella
terra, però, si alzava. Saliva verso la cupola chiusa dello
stadio, nell’aria
soffocante per gli incensi; nel buio assoluto dove i lucernari erano le
uniche
stelle.
«Sai
o
immagini per quale motivo sei davanti a questo tribunale?»
Quando
l’ultima parola, quella a lui più cara,
morì sulle labbra del Grande
Inquisitore e continuò ad aleggiare, fantasma tra le pareti
echeggianti, il
tintinnio delle catene s’arrestò. Una ragazza dai
capelli chiari e gli occhi
color smeraldo, nelle cui pupille si attorcigliava la spirale Al Bhed,
diresse
lo sguardo verso il palco da cui lui la accusava. Tacque.
Un uomo
che indossava abiti da sacerdote coperti da un mantello nero si
avvicinò a lei
con un tomo in mano.
«Confermi
di essere Amahy,» continuò Alan, «figlia
di Byumu, di anni ventisei?» fece una
pausa, poi soggiunse con malcelato disprezzo: «Di razza Al
Bhed?»
«Sì,»
disse la ragazza, curandosi di non distogliere lo sguardo
dall’Inquisitore se
non quando l’altro uomo fu vicinissimo a lei. Solo allora
guardò l’oggetto che
aveva in mano.
«Riconosci
questo libro?»
«Sì».
«Di
cosa
si tratta?»
La ragazza
tentò di muovere i polsi indolenziti, ma erano tenuti ben
fermi dalle catene.
Ingoiò la propria saliva e tornò a fronteggiarlo.
«È
uno dei
Tre Libri, Inquisitore. È il testo sacro del Viaggio in una
traduzione dal
dialetto spirano antico a quello medio e moderno».
«Di
chi è
la traduzione?»
«È
mia».
Alan
annuì
con lentezza solenne. Poi, con un gesto della mano, ordinò
al sacerdote di
aprire il libro dove era stata infilata una striscia di cuoio.
«E
questa
traduzione è stata autorizzata dalla Chiesa di
Yevon?»
«Sì».
«Il
libro
è accessibile da tutti nella biblioteca pubblica?»
«Sì».
«Quindi
hai studiato la lingua antica di Spira,» osservò
Alan. «Ammirevole. Perché lo
hai fatto?»
«Ha
delle
somiglianze con l’alfabeto Al Bhed, sign- Maestro. Sono
interessata alle
notizie storiche contenute nei Tre Libri. Cerco eventi astronomici da
poter
collegare a una data».
Il
sacerdote mise il libro davanti agli occhi della giovane. Il testo,
diviso in
tre colonne, spiegava e schematizzava un’eclissi di Sole,
mostrando le orbite e
il cono d’ombra. Lei aggrottò le sopracciglia di
riflesso.
«Potresti
leggere la pagina a destra?» le domandò Alan.
«Oh, slegatela, per l’amor del
Cielo».
L’uomo
con
il mantello nero le sciolse le catene e lei, finalmente, si
portò le mani
davanti al viso. Tentò di massaggiarsi i polsi, ma le dita
non rispondevano ai
suoi comandi a causa dello scarso afflusso di sangue. Erano bianche e
le
facevano male. La sensazione si acuì quando il sacerdote le
forzò il volume tra
le mani.
Lei
tentò
di afferrarlo, ma non aveva la forza sufficiente a tenerlo sollevato
senza
tremare. Allora, l’uomo le coprì le dita con le
proprie, in modo che il libro
rimanesse fermo. La ragazza gli scoccò uno sguardo feroce
che lo costrinse a
lasciare la presa e sostenere il tomo per il dorso.
«Quando
il cielo sarà nero e…»
«…E
le
stelle appariranno a mezzogiorno, e sgomento sarà tra gli
animali,» la
interruppe Alan, recitando a memoria. «Sì, certo.
Non quello. Leggi lo scolio.
È la tua grafia?»
«Sì».
L’espressione
dell’Al Bhed diventò ancora più
interdetta, ma non poteva fare altro che
obbedire. Il palco era alto, e dell’Inquisitore vedeva solo
la veste scura e i
paramenti.
«L’interporsi
della Luna tra la Terra e il Sole…»
cominciò, dato che lui taceva e non
forniva spiegazioni. «Nell’orbita
dell’uno o, equivalentamente,
dell’altra…»
«O
equivalentemente dell’altra,» ripeté
Alan, tirando la pelle dei guanti sulle
dita. «Si afferma quindi che una visione con il Sole al
centro dell’Universo è
uguale ad una con la Terra al centro. Quest’ultima
proposizione va contro i
dettami di Yevon che sia io che, suppongo, tu conosciamo bene, e questo
rende
il tuo testo sospetto d’eresia».
Lo stadio,
adibito a tribunale, era grande e silenzioso.
«Tale
opinione, Maestro Inquisitore,» ribatté la
ragazza, con voce decisa, «è
assolutamente da condannarsi qualora la si assuma nella fisica delle
cose.
Tuttavia, essendo quel testo legato alla matematica, che lavora per
supposizioni,
sarebbe stata una mia mancanza non precisare che un’ipotesi
è uguale
all’altra».
Se i suoi
occhi avessero potuto spingersi così lontano, avrebbe visto
le sopracciglia di
Alan inarcarsi e le sue labbra arricciarsi appena.
Jecht, in
silenzio, si inoltrava tra i curiosi che stavano assistendo al
processo.
Rabbrividì nel notare che si trattava con tutta
probabilità degli stessi che,
quella mattina, tifavano per una squadra o per l’altra al
torneo. Strinse la
lettera in una mano e si costrinse a non guardare le loro facce.
Uno
spettacolo equivale l’altro, eh?
«C’è
un
altro punto, nel testo. Continua da dove avevi interrotto».
«Gli
a-»
la bocca le si seccò e la voce le mancò per un
attimo, ma la ragazza raccolse
tutto il coraggio di cui era capace. «Gli animali,
anche in questo Yevon si
manifesta ed è».
«Ed è,»
replicò l’Inquisitore, in tono molto lento.
«Καί
γίγνεται».
«Cosa?»
«In
spirano medio, qui e in altri luoghi, hai scritto che il dio γίγνεται,
se la memoria non mi tradisce».
«Sì,
Maestro».
«E
perché
hai usato questo termine in particolare per denotare
l’esistenza? Ne esistono
altri».
La ragazza
inclinò il capo.
«Con
tutto
il rispetto, signore, il suo mi sembra un argomento
sofistico».
«Potrebbe
essere».
«E
sono
stata convocata qui per parlare di eresie o di sinonimi?»
Alan
accolse quella sfida con un sorriso.
«Caso
vuole,» le fece notare, «che proprio quel termine
abbia in sé la radice del
cambiamento. Quindi significa che il dio è in
quanto diviene, è
passibile di mutamento nell’essenza, e questo presuppone un
tempo in cui non
era un dio. Sembra accostarsi molto bene all’eresia di Teyno,
che afferma
proprio questo».
La ragazza
strinse le labbra e le dita, affondando le unghie sottili nella
copertina di
pelle del libro.
«Sappiamo
che il dio ἐστί,» infierì Alan,
«cioè che è
solamente in quanto è,
non certo
γίγνεται,
poiché non diviene. Tuttavia le frequenze con cui queste
parole ricorrono nella tua traduzione sono in notevole squilibrio
l’una con
l’altra».
«Non
conoscevo la differenza tra questi due termini,»
provò a difendersi lei. Era
ormai senza forze. «E mi parevano dire la stessa
cosa».
«Richiedo
il tuo pentimento e l’abiura,» concluse Alan,
ignorando un'obiezione tanto
inverosimile. «Il libro venga posto
all’Indice».
Il resto
della frase si perse, per Jecht, nell’aria densa e
irrespirabile e nel gesto
del sacerdote che accettava la sua missiva con l’ordine di
consegnarla al
Grande Inquisitore.
Non voleva
stare in quel posto un attimo di più. Non voleva assistere a
cosa sarebbe
successo a quella ragazza, né immaginare che al suo posto
avrebbe potuto
esserci lui, per un minimo sbaglio.
Non voleva
più sentire sulla schiena il peso di quello stadio usurpato,
delle tenebre
portate dove avrebbe dovuto esserci luce, in un’eclissi che
sarebbe durata una
vita intera.
Il mattino
seguente, nonostante avessero la possibilità di dormire
più a lungo del solito,
i tre viaggiatori si svegliarono comunque di buon'ora, spinti
dall'abitudine
imposta dal viaggio.
Jecht era
davvero desideroso di riposarsi in comodità, ma il tentativo
fallì e si alzò
infastidito dal suo piccolo giaciglio, per poi raggiungere i compagni
sul molo.
«La
nave
non sarà ancora pronta per un po'. Ora cosa facciamo tutto
il giorno?» chiese,
stizzito.
«Ieri,
quando ti ho raggiunto negli spogliatoi, i giocatori mi hanno chiesto
di
benedire tutti loro e il campo da gioco,» disse Braska
sorridendo, «visto che a
Luka non ci sono templi, sono rare le visite degli Invocatori. Non
potevo
proprio rifiutare!»
Jecht
sbuffò, ma annuì comprensivo.
«Tu,
Auron? Hai qualcosa da fare in cui io possa darti una mano?»
chiese l'atleta
anche al suo compagno.
Il monaco
pensò assorto per qualche istante, come se effettivamente
avesse qualcosa in
mente, ma preferì rimanere in silenzio e scuotere la testa.
Jecht non si
aspettava una risposta diversa, come accadeva normalmente con il
giovane
Guardiano.
«Facciamo
che ti accompagnamo allo stadio e ti aspettiamo? Che ne pensi,
Braska?»
L'Invocatore
unì le mani in segno di gratitudine e sorrise dolcemente a
entrambi.
«Quando
avrò finito, andremo a prendere un gelato. Stavolta non
accetto un rifiuto,»
rispose rivolgendosi ad Auron, che alzò le spalle rassegnato.
Si
incamminarono allora verso lo stadio. Distava pochi metri dai moli dove
attraccavano le navi; il mare era calmo e di un blu intenso che
invogliava
Jecht a lasciare tutto e tuffarsi, nuotando senza meta tra le acque
salate.
Il monaco
notò lo sguardo del compagno che rincorreva le onde e, mosso
da una scarica di
paura, troncò i suoi pensieri sul nascere.
«Non
ci
provare nemmeno. Se ti succedesse qualcosa, io di certo non
verrò a salvarti,»
disse Auron con voce più alta di quanto avrebbe voluto.
«Che
fai,
leggi la mente ora?» replicò Jecht colto sul vivo,
poi sfoderò un sorriso
sarcastico e incrociò le braccia. «Non mi dirai
che sei preoccupato per me,
vero?»
L'atleta
era a conoscenza del problema di Auron col nuoto, ma di tanto in tanto
punzecchiarlo nel modo giusto non gli dispiaceva affatto.
«Puoi
anche raggiungere Besaid a bracciate, per quanto mi riguarda. Tutto
ciò che non
devi fare è ostacolare il Pellegrinaggio,» rispose
l’altro, bruscamente.
«Sei
una
cantilena ripetitiva, ragazzo. Proprio come le tue preghiere».
Braska
rise a quell'ultima frecciata, poi diede una pacca affettuosa sulle
spalle di
entrambi e li salutò, per entrare di nuovo nel grande stadio
brulicante di
persone.
Jecht
andò
a sedersi sul ciglio laterale del pontile con le gambe penzoloni,
desideroso di
toccare l'acqua anche solo con la punta dei piedi.
«Luce
di
giorno e tenebra di notte quel posto, eh?» si
trovò a dire.
«Come?»
«Niente».
Auron
osservò con una certa attenzione il movimento delle gambe di
Jecht, come se
potesse imparare qualcosa dalla vista, ma ben presto si rese conto che
non
avrebbe mai funzionato se non gliel'avesse chiesto.
Fu sul
punto di aprire bocca più volte, ma altrettanti furono i
morsi sulla lingua,
così iniziò a passeggiare avanti e indietro in
attesa di Braska.
Non
passò
molto tempo prima che un uomo vestito di nero avvicinasse i due
Guardiani per
parlare con loro: il monaco drizzò la schiena per sembrare
più imponente,
mentre l'atleta scattò in piedi e incrociò le
braccia.
«Siete
al
seguito dell'Invocatore Braska, giusto?» chiese il giovane,
un ragazzo dai
capelli castani.
Jecht e
Auron, uniti dall'astio che provavano per l'Inquisizione e chi vi stava
al
vertice, si scambiarono un'occhiata fulminea, e l'atleta
capì che era meglio
lasciare la questione in mano al compagno.
«È
corretto. Siamo i suoi Guardiani. Desidera qualcosa?» chiese
Auron
educatamente.
«Il
Grande
Inquisitore Alan desidera incontrare Braska. Sapete dove posso trovarlo
per
riferirgli l'invito?»
Entrambi
si esibirono in un’impercettibile smorfia nervosa, stanchi di
vedere il loro
Invocatore convocato di continuo senza possibilità di
rifiuto. Auron sbuffò
aria dal naso, poi indicò lo stadio.
«Sta
benedicendo
i giocatori. Lo troverà negli spogliatoi,
probabilmente».
Il ragazzo
ringraziò con cortesia e si avviò all'interno,
lasciando dietro di sé due
Guardiani molto nervosi e preoccupati.
Braska non
si aspettava quella visita, che lo lasciò perplesso e anche
un po' ansioso.
Ogni volta che suo fratello lo convocava non era mai per piacere, anzi,
doveva
aspettarsi qualsiasi genere di problema da affrontare.
Come aveva
sentito dire da qualcuno durante il suo viaggio, le cattive notizie
vestono di
nero, e quel ragazzo dell'Inquisizione che lo stava scortando ne era la
prova
diretta. Braska sospirò, stanco, ma non oppose obiezioni.
«Dove
si
trova il mio amato fratello?» chiese l'Invocatore con voce di
miele.
«Alloggiamo
in un albergo nel centro città. Cammineremo per un
po'».
L'Invocatore
seguì il ragazzo in silenzio per tutto il tragitto, tra le
strade rumorose e
colorate di Luka, arrovellandosi in cerca di qualche azione sgradita
che
avrebbe potuto aver commesso. Per un momento si ritrovò
bambino, al cospetto
dei suoi genitori, in attesa della punizione per le sue marachelle
giovanili.
L'albergo
spiccava rispetto agli altri edifici, sia per le dimensioni che per la
sorveglianza. Due altissimi Ronso dal pelo scuro montavano la guardia
all'entrata.
Il ragazzo
fece cenno a Braska di aspettarlo lì, mentre lui entrava di
fretta all'interno,
seguito dagli occhi felini dei Ronso. Dopo pochi minuti, Alan
uscì dalla porta
per accogliere Braska, che prontamente eseguì la riverenza.
«Ti
trovo
bene, fratello,» esordì l'Invocatore con un largo
sorriso.
«E
io
trovo bene te. I tuoi Guardiani stanno facendo un buon lavoro nel
mantenerti in
salute».
Alan mise
mano ai sigari per prenderne uno, ma lasciò subito la presa
ricordandosi che il
fumo avrebbe infastidito i deboli polmoni di Braska.
«A
proposito
dei tuoi Guardiani,» continuò, arricciando il
labbro superiore in un sorriso,
«avrei qualche domanda da fare. Ti dispiacerebbe
seguirmi?»
«Hanno
fatto qualcosa di male?» chiese subito Braska, terrorizzato.
«No,
niente del genere. Vieni con me».
Alan fece
cenno ai suoi sottoposti di mantenere le loro posizioni e si
incamminò verso
una strada laterale, che si districava nella città a partire
da quella
centrale, più caotica e affollata.
Notando il
vicolo modesto, Braska iniziò a chiedersi se fosse il caso
di preoccuparsi
seriamente per la propria incolumità, ma in qualche modo si
fidava ancora di
suo fratello.
Alan
controllò i dintorni per qualche istante, poi si
rilassò a sua volta.
«Mh,
non
un posto in cui passerei di notte,» commentò con
una smorfia, «ma è adatto per
non essere ascoltati. Ho qui una lettera dell'uomo di Zanarkand: spero
di
poterne discuterne con te».
«Una
lettera?» ripeté Braska, sinceramente stupito.
«Dalla
tua
espressione vedo che non ne eri al corrente. No, non gli ho estorto
niente, se
è questo che ti preoccupa. Riguarda una terza persona, se
così si può dire».
L’Invocatore
lo guardò e si tormentò il labbro inferiore con i
denti, ma scelse di non dire
nulla.
«Devo
darti prima un’informazione. Riguarda i fatti avvenuti sul
Gagazet vent’anni
fa. Tu sei intelligente, Braska, ormai hai capito cosa mi è
successo. Non
preoccuparti, non ci tengo a chiederti come ti fa sentire».
«Ti
prego,
Alan, vai avanti».
L'Inquisitore
annuì con un mezzo sorriso e portò la mano alla
veste, quando dei passi
risuonarono alle loro spalle.
«Fermo!
Non muoverti!» gli gridò una voce dal marcato
accento Al Bhed. Alan si blocco e
fece per girarsi, ma la pressione di un oggetto ben conosciuto sulla
schiena lo
fece desistere.
Da dove
diamine sono passati?
«Hai
un
fucile d’assalto,» commentò, alzando
lentamente le mani al livello delle
spalle. «Dalla canna direi che è un Dirtyu AX,
calibro 5,56. Li fanno a
Bikanel. Sai che non ti conviene provare a spararmi, vero?»
Due luci
azzurre erano comparse all’altezza delle scapole
dell’Inquisitore, e avevano
cominciato a scendere lentamente, come lava che cola, formando una
croce.
Dal
cielo. Erano
decisamente arrivati in aeronave, e si erano calati su Luka con delle
funi.
Un secondo
uomo, che stringeva un coltello, si gettò su Braska. Lui
alzò le mani
d'istinto, spaventato a morte.
«Tu,
Invocatore! Non provare a fare l'eroe, o faccio saltare la testa a
questo qui,»
disse quello dietro ad Alan.
«Ok,
ok!
Per favore, farò quel che dite,» disse Braska
quasi supplicando. Il fratello lo
fulminò con lo sguardo e inarcò le sopracciglia,
ma lui, nel panico, parve non
notarlo.
L’Al
Bhed
afferrò l’Invocatore per il braccio e gli
legò le mani dietro la schiena.
«Per
la
Repubblica!» gridò il suo compagno con il fucile.
Alan si preparò a deviare le
pallottole con la Necropotenza e a trafiggergli il petto, ma fu
sorpreso dalla
nebbia che si alzava da un fumogeno.
Fu
costretto a chiudere gli occhi e coprirsi il naso, piegandosi su se
stesso
quando non sentì più la canna dell’arma
contro la schiena.
Trattenne
il fiato e cominciò a correre verso la strada principale,
dove aveva visto
dirigersi delle sagome nere, pregando che la sua mente reggesse e non
gli
facesse rivivere di nuovo quei momenti.
Aveva un
sapore dolciastro in fondo alla bocca. Sì, quella carne era
dolciastra.
L’imboccatura
del vicolo, nella nebbia, risplendeva come una reliquia santa.
L’Inquisitore
raggiunse l’arteria principale della città e si
precipitò verso la
piazza.
In
quel
momento, risuonarono delle forti grida.
|
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Capitolo 42 *** Rimanere a galla (Parte 2) ***
CAPITOLO 29:
RIMANERE A GALLA
(PARTE 2)
I
cittadini di Luka avevano cominciato a correre in direzioni casuali,
come
animali spaventati dall’arrivo di un predatore. Alan assunse
la posizione di
guardia e strinse la mano sulla lancia ancora prima di vedere la
macchina Al
Bhed che si profilava all’orizzonte.
Un carro
armato con una larga bocca da fuoco, trascinato da cingoli che
sembravano
provenire da un’antica tecnologia, proteggeva i rapitori di
Braska. Quando il
riflesso del sole gli colpì gli occhi,
l’Inquisitore si accorse che una seconda
macchina, più piccola, stava volando attorno al veicolo.
«Yhteysu,
bnacdu!» gridò la voce di un uomo. Alan,
correndo incontro al nemico, notò
una testa bionda che abbassava lo sportello della cabina di guida.
«Lywwu!»
Accompagnata
da un tuono e poi da uno sfrigolio, una lancia d’energia si
schiantò contro la
barriera antimagia che circondava il carro armato.
Alan
strinse i denti e creò altre cinque lance con i lunioli del
suo turibolo, per
poi circondarvi il proprio corpo. Il vento era abbastanza forte da
sollevare il
suo abito talare e agitare il velo davanti ai suoi occhi.
Una delle
cinque armi si diresse di nuovo verso il veicolo, schiantandosi contro
la
barriera com’era successo poco prima, le altre quattro
colpirono la piccola
macchina che gli orbitava attorno, in una raffica stretta.
«Ohi!»
esclamò l’uomo calvo alla guida. Lo stecchino che
stava masticando gli cadde
dalla bocca e rimbalzò sulla cloche. «Quanti
dannazione di colpi ha?»
Il veicolo
fu scosso da un altro attacco, accompagnato da un flash di luce. La
barriera
aveva ceduto definitivamente, e lui non poteva fare fuoco su una piazza.
«Cid!»
Il pilota
si voltò e vide Braska che si agitava in un debole tentativo
di liberare le
braccia che gli avevano legato dietro la schiena. L’uomo che
l’aveva rapito
serrò la presa, rendendogli impossibile ribellarsi.
«Non
so
cosa vogliate da me, ma vi conviene ritirarvi. Se ingaggiate in
combattimento
mio fratello rischiate di perdere!»
Cid
inspirò l’aria tra i denti e si passò
una mano sulla testa, sopra al tatuaggio
che recitava quella parola importante. Amore.
C’era
un’altra parola importante. Fratello. Ed
Emma non avrebbe potuto mai più
dirla.
Lei, quel
ricordo lontano, il suo sorriso sbilenco e i libri che teneva tra le
braccia.
Sbalzato
all’indietro da un altro colpo, Cid tornò alla
realtà e strinse le mani sulla
cloche, sentendo il sudore colare dai palmi e venire assorbito dai
guanti di
cuoio.
«Questo
è
un cazzo di tiratore scelto!» sbraitò, poi si
voltò di nuovo verso Braska. «Che
pensi che voglia da te? Salvarti! Sono questi che ti vogliono
ammazzare!»
Lo
farei anche io, volentieri, ma Yuna si ritroverebbe senza padre. Si trattenne
dal dirlo, dato che
non gli suonava molto cortese.
«Vansu!»
urlò, in direzione del suo compagno che stava per aprire lo
sportello, con
l’intenzione di lanciare una seconda macchina volante che
ripristinasse lo
scudo. Lui si fermò sul posto e Cid proseguì, in
linguaggio comune: «Quello ti
spappola la testa! Sfondiamo avanti!»
Smetti
di sparare, fratello.
«Lucy?!»
Senza dare
a nessuno il tempo di ribattere, Cid accelerò sulla larga
strada azzurra che
conduceva al molo, puntando dritto contro Alan.
L’Inquisitore
si accorse da un secondo baluginio del sole, accompagnato dalle grida
terrorizzate di chi riteneva di non essere abbastanza lontano, che il
carro
armato aveva cominciato a muoversi e copriva rapidamente la distanza
che li
separava.
Sgranò
gli
occhi sotto al velo e interruppe a metà un gesto
d’invocazione, incerto se
tentare un altro attacco oppure ritirarsi.
Quando
vide i cingoli abbattere i paletti stradali, il suo istinto di fuggire
ebbe la
meglio. Diede le spalle alla macchina e si gettò verso una
strada laterale che
si trovava a diversi passi di distanza, ostacolato dalle
vesti.
Si
gettò
nel vicolo giusto in tempo. Mentre, appoggiato a un muro, cercava di
calmare il
respiro e i colpi di tosse, si vide passare davanti la parete di
metallo grezzo
del carro armato.
«Alla
prossima, Inquisitore!» lo salutò la voce allegra
di un uomo, distorta da un
megafono.
Alan si
precipitò all’imboccatura della via per assistere
alla mossa seguente di quel
pazzo. La macchina imboccò una strada che conduceva a una
pista d’atterraggio
per velivoli, e infine scomparve nella pancia luccicante di
un’aeronave.
Sulla via
di Luka calò il silenzio più totale. Alan rimase
immobile mentre l'aeronave
decollava, con le labbra socchiuse e le braccia abbandonate lungo i
fianchi.
Era sicuro
che ci fossero pene molto severe per un crimine del genere.
Doveva
solo valutare tutte le aggravanti del caso.
«Mi
viene
sempre un nodo alla gola ogni volta che quell'uomo lo chiama a
sé. Saranno
anche fratelli, ma sembrano un padrone con il suo animale
domestico,» disse
Jecht, dando voce ai suoi pensieri con gli occhi che cercavano il mare.
«Mi
sembrava irrispettoso farglielo presente, ma mi fa piacere sapere che
non sono
l'unico a pensarlo,» rispose Auron, per poi rivolgergli una
rapida occhiata.
«Già.
Beh,
ora che facciamo?» chiese Jecht, grattandosi la barba.
Senza
aggiungere nulla, i due si guardarono attorno spaesati, provando un
certo
disagio a rimanere soli l’uno con l’altro senza
aver ricevuto nessun ordine.
Nelle
lunghe sessioni di preghiera in cui Braska chiedeva la concessione di
un Eone,
Jecht trovava interessante studiare gli usi e costumi della popolazione
locale,
mentre Auron si occupava della sua sfera spirituale, meditando e
recitando i
suoi canti al dio.
A Luka non
c'erano templi né una cultura distinta da assimilare, data
la quantità di
persone di tutte le etnie che andavano e venivano dal porto, lasciando
di sé
una flebile impronta dopo l’altra nella terra soffice.
Piuttosto, c'erano bar
in cui era meglio non andasse e il grande stadio di blitzball alle loro
spalle.
«Potremmo
tornare alla nave e riposare,» propose l'atleta con tono non
proprio
entusiasta.
«Tu
sei
stanco?»
«A
dir la
verità, no».
Auron
annuì pensieroso, incerto se porgli o meno quella domanda.
Avvertì il bisogno
di accendersi una sigaretta e calmarsi con i fumi del tabacco, ma non
ottenne
l'effetto sperato.
«Senti…»
farfugliò il monaco a voce bassa.
«Uh?
Dimmi
pure,» rispose Jecht, incrociando le braccia come era solito
fare.
«Osservando
i tuoi movimenti in acqua, mi sono reso conto che sarebbe conveniente
se li
imparassi anche io. Anche solo salvarmi la vita dall'annegamento
sarebbe
sufficiente».
Jecht
ammutolì per qualche istante, nel tentativo di far tacere le
mille voci che gli
stavano urlando nella mente come i mercanti nella piazza colorata di
Bevelle.
Sbatté le palpebre velocemente, per poi rinsavire e annuire
con eccessivo
entusiasmo.
«Come
no!
Certo, non hai proprio il fisico da nuotatore, ma come hai detto tu,
è
sufficiente rimanere a galla!» disse Jecht con un largo
sorriso.
Auron
soffiò fumo dalle narici nascondendo un sospiro nel mezzo,
ancora indeciso se
apprezzare quell'opportunità o rimpiangere di averla anche
solo pensata.
«Al
tempio
ero io che insegnavo a te. Vediamo come te la cavi,» concluse
il monaco,
spegnendo la sigaretta sotto la suola dello stivale.
Iniziò
a
dirigersi verso il porto, ma Jecht lo fermò stringendogli
piano il braccio.
«Non
c'è
bisogno di andare fin laggiù, ragazzo. Sul retro dello
stadio ci sono le
piscine di riscaldamento, e scommetto che a quest'ora non
c'è nessuno».
Auron
alzò
le spalle e si incamminò con il compagno verso l'immensa
struttura, chiedendosi
se fosse il caso di andare fino in fondo alla faccenda.
Cambiava
idea dopo ogni passo, immaginava discorsi da fare nel caso avesse
declinato la
sua stessa proposta, ma alla fine rimase in silenzio e, nel giro di
qualche
decina di minuti, si trovò nelle piscine interrate in marmo
bianco, riscaldate
e deserte.
Jecht era
ancora incerto sulla volontà di Auron: dubitava fortemente
che ricordasse
qualcosa della notte passata da ubriaco e, per quanto quella situazione
gli
andasse molto a genio, non si fece prendere dalle solite fantasie che
si
costruiva in contesti simili. Doveva agire nel modo più
diplomatico possibile.
«Bene,
eccoci qui. Pronti a tuffarci,» disse l'atleta ridacchiando
davanti alla vasca.
Spostò lo sguardo verso l’altro Guardiano e lo
osservò da sotto le ciglia. «Io
sono già in costume, quindi, come dire…»
Auron
sbuffò infastidito e cominciò a slacciarsi
l’armatura, con finta noncuranza di
chi aveva accanto.
«Sono
un
monaco, non un idiota. Non ho intenzione di nuotare vestito,»
replicò con
freddezza.
«Hai
ragione, scusami».
Sulla
coscia di Auron, che in quel momento veniva scoperta dai pantaloni, era
legato
il coltello su cui Jecht aveva già posato gli occhi, con
curiosità, la prima
volta in cui gli era capitato di vederlo senza vestiti. Ebbe una fugace
immagine del fodero di cuoio appoggiato ai muscoli del suo inguine,
prima di
voltarsi a osservare l'acqua trasparente, in attesa che la svestizione
finisse.
Si rese conto ben presto che, dopotutto, non era stata una grande idea
accettare: come minimo, Auron lo avrebbe ammazzato se solo avesse
sospettato uno
sguardo con un certo interesse.
«Forza,
maestro,
insegnami a non morire annegato».
«Ehi,
sei
stato tu a chiedermelo» replicò Jecht piccato,
senza distogliere gli occhi dal
riflesso che aveva parlato.
Il corpo
del monaco era sempre fonte di preoccupazione per lui: se da una parte
vi
ammirava l’armonia e la solidità di una statua,
dall'altra gli incuteva un
timore che solo le percosse ricevute in allenamento potevano
testimoniare.
Inoltre,
avrebbe preferito che indossasse un costume invece
di un semplice perizoma
– per motivi tecnici – ma se
lo fece andare bene comunque.
Entrarono
nella piscina dalla parte più bassa, dove l'acqua arrivava
alle caviglie, e
prima di andare nella zona profonda Jecht fermò Auron e lo
invitò a guardarlo
in volto con un gesto della mano.
«Allora,
ragazzo. C'è una cosa molto importante che devi sapere prima
di iniziare,»
disse, schiarendosi la voce. «È essenziale
rimanere calmi in acqua. È la paura
che ti tira giù, chiaro?»
Poi
indicò
davanti a loro, dove iniziava la discesa.
«Tieni
bene a mente che non corri nessun pericolo. Io sarò sempre
qui e non ti
lascerò».
Auron fece
per rivolgergli un commento pungente, ma quando i suoi occhi,
avanzando,
incontrarono un punto della vasca di cui non vedeva il fondo, quelle
parole non
gli sembrarono più tanto esagerate e ne fu grato.
Si
inoltrarono fino all'ultimo punto in cui potevano toccare con i piedi.
Jecht
ordinò ad Auron di porsi di fronte a lui, mettere le mani
sulle sue spalle e
usarlo come appoggio per non affondare. Poi lo condusse a fare un altro
passo
avanti, verso il vuoto e verso l’ultima cosa – sì,
l’ultima, da quella notte
nella Piana dei Lampi – che gli faceva
paura.
Il monaco
strinse la presa con forza improvvisa; Jecht si limitò a
soffrire in silenzio e
a portargli a sua volta le mani sulle spalle per cercare di
rassicurarlo. Auron
drizzò il busto con l'istinto di ritrarre le braccia, ma
l’acqua impediva i
suoi movimenti. Se non voleva affogare doveva rimanere appeso.
«Tranquillo,
ragazzo,» gli disse l’atleta, in un sussurro tanto
intimo quanto non
necessario, non essendoci nessun altro al di fuori di loro.
Auron gli
rivolse una smorfia infastidita e abbassò lo sguardo,
rendendosi conto che il
suo respiro era accelerato e che la sua pelle talvolta sfiorava quella
di
Jecht, sempre calda nonostante fossero immersi in acqua.
«Molto
bene. La prima lezione è rimanere a galla. Vedi come faccio
io? Devi calciare
l'acqua sotto di te e restare alto».
Auron
annuì e iniziò a fare come detto, tentando di
concentrarsi solo sul movimento e
non sulla vergogna che cominciava a insinuarsi nel suo stomaco. Era
come
trovarsi sull’orlo di un vuoto denso, e quell’uomo
era l’unico a poterlo
portare in salvo.
«Sei
troppo rigido, ragazzo. Più sciolto, muovi tutto il
corpo».
La presa
sulle spalle di Jecht si fece più stretta, segno che il
monaco stava trovando
molta difficoltà a compiere il più basilare dei
movimenti.
Lo sguardo
dell’atleta, come una nuvola che copre il sole,
passò sulle braccia tese di
Auron, dove i peli si erano leggermente drizzati. Poi seguì
la curva leggera
del collo, spezzata dalle clavicole e dal pomo d’Adamo, e
finì a riposare tra
le sue ciglia scure.
«Ok,
ok,
facciamo una pausa,» disse lui con un sorriso.
Si
voltò
con un’eleganza che Auron sentiva di essere molto lontano dal
raggiungere e,
trascinandolo per l’avambraccio, lo portò di nuovo
nel punto della vasca di cui
poteva sentire il fondo.
«Va
meglio
nell’acqua bassa?» gli domandò Jecht, e
nel mentre lui si accorse di non stare
più dimenando le gambe.
Con una
seconda virata, l’atleta si diresse di nuovo verso il centro
della piscina,
come se quell’abisso nello specifico, più
attraente di altri, lo chiamasse a sé
usando un nome antico. I suoi capelli bagnati e spettinati gli
ricadevano sulle
spalle, alcune ciocche si insinuavano in mezzo alle sue scapole. Per un
attimo
parve davvero venire dalla Zanarkand di mille anni prima, dove si
confondeva il
confine tra cielo e mare; dove risuonava ancora la voce dei figli di un
dio del
fiume.
«Smettila
di metterti in mostra!» sbottò il monaco,
infastidito da quell’immagine, mentre
si tormentava una ciocca della lunga coda.
Per tutta
risposta, Jecht si voltò con naturalezza con il petto verso
l’alto. Sembrava
non avere nemmeno una preoccupazione.
Le luci
artificiali illuminarono la sua pelle, rendendo ben visibile il
tatuaggio.
«L’acqua
dà un senso di pace, no?»
«Sarebbe
meglio se collaborasse un po’».
«Coraggio!
Guarda che non è facile alla tua età. Da piccoli
si impara subito,» disse Jecht
cercando di rincuorarlo, ma Auron si infervorò ancora di
più. «Proviamo
qualcos'altro?»
«Che
cosa?» chiese il monaco a denti stretti.
«Devi
avere anche le braccia libere, così sarà
più facile».
Aiutato
dall'acqua, Jecht non ebbe molte difficoltà a sorreggere il
compagno tenendolo
stretto per la vita, e a riportarlo dove la vasca era più
profonda. Auron
sobbalzò e fu tentato di intimargli di smetterla, di dirgli
che probabilmente
aveva accettato solo per poter allungare le mani, ma si rese conto di
essere più
stabile.
Jecht gli
teneva i pollici sui fianchi, e le altre dita sostenevano la sua presa
forte.
Auron sentì una stilettata percorrergli il corpo e fermarsi
al ventre.
Come
quella volta in cui aveva immaginato le sue mani che lo accarezzavano
gettandolo nella disperazione. La sua voce che gli sussurrava di
arrendersi.
«Spingi
sotto con le gambe e tieni le braccia larghe. Muovile insieme per
tenere la
testa alta, fuori dall'acqua».
Nonostante
le indicazioni di Jecht fossero precise, l'esecuzione di Auron lasciava
molto a
desiderare: sembrava un pesce che si dimenava nella rete.
«Meglio,
meglio,» commentò comunque l’atleta,
«qualche minuto fa eri felice quanto una
tigre nell’oceano».
«Ero
solo
concentrato».
Jecht
scoppiò a ridere, lasciandosi cadere all’indietro.
Auron si chiese per
l’ennesima volta come facesse a non affondare.
«Mi
guardavi come se mi volessi uccidere!»
Affondare.
Quella
parola ricordò al corpo di Auron che si trovava in pericolo,
dato che la sua
mente era stata distratta dalle parole e dai tocchi di Jecht. Si
sentì cadere,
e ne ebbe abbastanza: si lanciò in avanti afferrando le
spalle di Jecht,
esausto, e gli intimò di tornare dove si toccava.
Sentì l'atleta irrigidirsi
per quel gesto improvviso.
Jecht
sospirò deluso, ma obbedì. Cinse il torace del
compagno con un braccio e lo
spinse indietro insieme a sé, per poi essere scostato in
malo modo appena Auron
riuscì a mettere piede sul pavimento ruvido della piscina.
«È
una
perdita di tempo!» sbottò il monaco, arrivando ad
avere l’acqua alla vita. Non
mosse più un passo.
«No,
sei
tu che vai in escandescenza quando qualcosa non ti riesce
subito,» lo provocò
Jecht, incrociando le braccia.
«Ah
sì?
Forse sei tu che sei un pessimo insegnante».
«O
forse
sei tu che sei rigido come un blocco di marmo,»
continuò l'atleta senza che il
suo sorriso si spegnesse.
Prima
ancora di finire la frase, si avvicinò ad Auron, e gli occhi
gli guizzarono
verso il suo ventre. Era stato solo per un istante, ma il monaco
l’aveva visto.
Oppure l’aveva immaginato?
«Che
cosa intendi?»
ribatté, stringendo i denti e dilatando le narici. Quando si
rese conto che la
domanda era fraintendibile, sentì una morsa allo stomaco e
il cuore gli
accelerò nel petto. Era troppo tardi per fuggire.
«Non
lo
so,» rispose Jecht, con le sopracciglia alzate e le braccia
conserte
stranamente tese, tanto da mettere in rilievo i muscoli delle spalle.
«Tu cosa
intendi?»
«Che
sei
un pessimo insegnante,» gli ripeté Auron, incapace
di formulare un pensiero che
superasse il ronzio d’eccitazione nelle sue orecchie.
L’uomo
di Zanarkand rise. Con un verso di scherno, si
abbassò nell’acqua fino alle
spalle.
«O
forse
non vuoi ammettere che in certe cose sono più bravo di
te!» disse, poi
scattò all’improvviso verso Auron, riemergendo nel
tentativo di spingerlo e
fargli perdere l’equilibrio.
Auron, pur
avendo ammirato la sua attitudine spensierata, non aveva voglia di
giocare.
Mentre
Jecht alzava le braccia, lui fu più rapido ad afferrarlo per
i polsi e a
costringerlo ad abbassarle. Vide l’addome di Jecht contrarsi
e poi piegarsi in
un arco dolce, sempre più vicino al suo corpo.
Lanciò uno sguardo agli occhi
scuri del suo compagno, poi lo spostò sulle sue labbra
socchiuse e poi di nuovo
sui suoi occhi.
«Ad
esempio?» trovò la forza di chiedergli, nonostante
la vista di Jecht
immobilizzato nella sua presa lo facesse sentire onnipotente e debole,
e lui
fosse il giogo e insieme il bue che sottostava a quel ferro rovente.
In modo
totalmente sconsiderato, Jecht sorrise, scoprendo la fila regolare dei
denti.
«Devi
dirmelo tu a cosa stai pensando,» commentò, a
mezza voce.
Auron gli
tirò le braccia verso il basso e gli strinse più
forte i polsi, quasi
sorprendendosi del fatto che non tremassero. Sentì le sue
ossa tonde sotto le
dita, gli schiacciò le vene estorcendogli un leggero gemito
di dolore.
Si rese
conto che erano arrivati al limite estremo della piscina, e che Jecht
non
avrebbe potuto indietreggiare ulteriormente senza uscire dalla vasca.
Auron lo
vide abbassare le palpebre e spingere in avanti il bacino. I capelli
bagnati
gli ricadevano sul viso, coprendo in parte l’occhiata ardente
di sfida che gli
rivolse quando i loro corpi si sfiorarono.
Il monaco
fu percorso dall’insensato impulso di prolungare quel
contatto. Cercò di
attirare Jecht a sé, così che comprendesse cosa
aveva causato, ma lui oppose
resistenza e continuò a fissarlo con quel ghigno di
superiorità che avrebbe
dovuto sparire per sempre.
Auron gli
si avvicinò al viso e sentì l’aria
uscire dalle sue narici e colpirgli la
pelle. Mosse la testa verso l’alto e per un istante gli
sfiorò le labbra. Erano
sottili, morbide e frementi per un desiderio taciuto. Erano a una
distanza tale
che Auron sentiva i loro respiri mischiarsi, accelerare e poi cercare
di
riprendere un ritmo regolare.
Jecht
aveva inclinato il capo e socchiuso la bocca, in modo da permettergli
di fare
quell’ultimo passo. L’altro Guardiano non osava,
perso in una paura che andava
oltre a ciò che poteva comprendere. Gli sfiorò di
nuovo le labbra, lentamente
languendo nella perdita di tutte le sue forze. Allentò la
presa sui suoi polsi,
pur sapendo che era un arrendersi.
«Jecht!
L’Invocatore!»
Auron
scattò all’indietro, come percorso da una scossa
elettrica, e l’atleta si voltò
di scatto, usando il muro per spingersi verso il centro della piscina.
Un
giovane con la divisa dei Besaid Aurochs, lo stesso che aveva reclutato
Jecht
nella squadra, era entrato ansante nella sala delle piscine, chiamando
a gran
voce.
Dannazione,
pensò
Auron,
piombato nella realtà a denti stretti. Ci ha visto?
Il
ragazzo, tuttavia, sembrava essere molto preoccupato e per nulla
interessato
alla questione. Farfugliava frasi confuse, in mezzo alle quali
c’era il nome di
Braska.
Con
prontezza, Jecht uscì dall’acqua e gli si mise di
fronte, appoggiandogli le
mani sulle spalle nel tentativo di calmarlo.
«Che
succede, figliolo?»
«A–»
tentò
di dire lui, ma la bocca gli si seccò. «Mi m-manda
un uomo che si chiama…»
chiuse gli occhi e li strizzò, provando a ricordare.
«S-si chiama… Alan! L’…
l’Invocatore Braska è stato rapito!»
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Capitolo 43 *** Un desiderio ingenuo come il voler proteggere qualcuno (parte 1) ***
CAPITOLO 30:
UN DESIDERIO INGENUO
COME IL VOLER PROTEGGERE QUALCUNO (PARTE1)
Amore.
Il motivo
per cui si muoveva l’animo degli uomini e la parola tatuata
sulla tempia rasata
di Cid. Era percorsa da una vena che si gonfiava allo stringersi dei
suoi denti
sullo stecchino che aveva in bocca. Guidava in piedi, di fronte a una
grande
vetrata che gli lasciava una vista aperta sul cielo.
Amore.
«Te
lo
chiedo un’altra volta: che cosa stai facendo?»
domandò Braska, senza
distogliere l’attenzione da quel termine, mentre si
massaggiava i polsi liberi
dalle corde. «Perché sei volato qui?»
Le narici
di Cid si dilatarono. Braska, che fissava il suo grande profilo
stagliarsi
contro le nubi, lo vide strizzare gli occhi verdi.
«Per
fare
quello che non fanno sulla terra,» rispose l’Al
Bhed. La sua voce era roca,
come se non parlasse la lingua comune da molto tempo. Vibrava come il
pavimento
della nave e aveva il suono ruvido della sabbia che fischia tra le
rovine nel
deserto. «Fermare questa cosa dell'Invocatore. Ma non per te.
Per impedirti di
lasciare un’orfana».
Quella era
la prima frase che Cid gli rivolgeva da quando Emma era stata uccisa.
Era una
sentenza ruvida e decisa, come lui.
Più
volte
in quegli anni Braska aveva sentito la presenza silenziosa dello
spirito di sua
moglie quando doveva prendere una decisione importante, quando
abbracciava sua
figlia oppure quando comprava il pane. Aveva parlato con la sua foto
incorniciata, ma mai fino a quel momento l’aveva sentita
così forte,
trasparente, all’interno di una stanza.
«Io…»
si
ritrovò a mormorare, sapendo di non dovergli spiegazioni.
Per qualche motivo,
sapeva che era da un po’ che il cognato lo stava
sorvegliando. «Io voglio solo…
un mondo in cui Yuna non soffrirà».
In
quell’istante, una nuvola passò davanti al sole,
adombrando la schiena di Cid
che si curvava, la sua testa che ciondolava a destra e a sinistra in un
gesto
sconsolato.
«Proprio
non capisci…» replicò lui a denti
stretti, senza voltare lo sguardo verso
Braska. Lo stecchino di legno si ruppe con uno schiocco secco.
«Uny du
vylleu lybena. Faccio capire».
Con un
cenno, ordinò a una ragazza dai capelli tinti
d’arancio, che osservava la mappa
di volo nella postazione accanto, di prendere il timone. Quando lei
obbedì, Cid
si allontanò verso il ponte, per poi tornare con un
ragazzino a fianco e una
bambina aggrappata al braccio. Erano entrambi
vestiti con casacca e
pantaloni di pelle, della stessa foggia di quelli degli adulti sulla
nave.
Erano biondissimi, tratto di certo ereditato dalla madre dato che i
peli ispidi
della barba di Cid erano scuri.
«Guarda.
È
mia figlia,» annunciò, posando una mano sulla
testa della piccola che fissava
Braska, muta, con occhi di cerbiatto. I suoi capelli erano raccolti
sulla cima
della testa in quello che sembrava il ciuffo di un ananas.
«Rikku».
Non sapeva
che Cid avesse avuto un’altra bambina, e pareva avere
già quattro o cinque
anni. Forse avrebbe dovuto cercarlo. Avrebbe dovuto essergli vicino,
per
provare a riannodare i fili di quello strappo che la morte di Emma
aveva
lasciato in entrambi. Si sentì come se fosse riuscito a
essere compassionevole
con tutti tranne che con lui, che aveva l’amore inciso sulla
pelle.
«Perché
hai portato anche i tuoi figli?»
«È
ora che
vedano con i loro occhi cosa facciamo,» rispose l'Al Bhed,
accarezzando la
testa di Rikku.
«Rischiare
la vita con questi folli piani?» domandò Braska,
alzando la voce più di quanto
avrebbe voluto.
«No,
lukhydu: rischiare la vita per salvarla a te e a tutti quelli
come te!»
«Hai
quasi
ucciso mio fratello».
«Ha!
Il
giorno in cui qualcuno riuscirà ad ammazzarlo, lo
porterò in trionfo a
Bikanel!» replicò Cid, in un tono velenoso che
fece stringere lo stomaco di
Braska.
Quando
l’Invocatore guardò verso il basso,
notò che il figlio di Cid lo stava
guardando con gli occhi sgranati, e le spirali nelle sue pupille
parevano quasi
ruotare in modo lento e ipnotico. L’ultima volta che lo aveva
visto era in
fasce; ormai aveva dieci anni o poco meno.
«Weu,
voi
Invocatori morite sempre, ma non cambia mai niente! Sin torna
sempre!» disse
balbettando un poco nella lingua di Spira, ma con dura fermezza.
Probabilmente
stava ripetendo qualcosa che aveva sentito dal padre. Qualcosa di ateo
e
disperato.
Braska
sospirò, ma non poté non essere intenerito da
quelle parole che sapevano,
dopotutto, di innocenza. Lui aveva visto la sofferenza di Spira e il
sangue che
permeava la sua terra. Avrebbe volentieri dato la sua vita per un
Bonacciale di
qualche anno.
«Preferisco
che i bambini crescano sereni piuttosto che farli vivere nella paura
costante
di Sin,» replicò Braska, alzando lo sguardo verso
Cid. Un fuoco di
determinazione gli percorreva le vene. «E credimi, mio
fratello è capace di
mandarvi tutti a morte. Perché non vuoi capirlo?»
La bambina
sobbalzò e trattenne il respiro, allargando i lucidi occhi
verdi.
«Bybà,
davvero l'uomo cattivo ci ucciderà?» chiese,
sull'orlo del pianto.
«Deve
solo
provarci!» replicò Cid, con gli occhi che
saettavano verso Braska. «Non
spaventare Rikku con queste cazzate!»
«Cid!
Yevon non è il vostro dio, ma l’Inquisizione
è potente a parole e a fatti. Non
permetterò che tu metta a rischio la vita dei miei
nipoti».
La voce
cordiale e soave di Braska aveva lasciato il posto a una più
profonda e ruvida,
che sovrastava il ronzio dell’aeronave. Gli sembrava aliena.
Gli sembrava che a
parlare fosse Alan.
Rikku si
spaventò ancora di più sentendo quel discorso,
pur non potendolo comprendere
fino in fondo. Scoppiò in lacrime e nascose il volto dietro
la gamba del padre.
Cid lanciò un verso infastidito verso Braska, poi disse al
figlioletto di
consolare la sorellina.
«Francamente,
mio caro cognato,» commentò il capo degli Al Bhed,
volgendo lo sguardo al cielo
che solcavano come se fosse il mare, «mi ci pulisco il culo
con
l’Inquisizione». Si voltò verso Braska,
e nel vedere la sua espressione
trattenne malamente una risata. «Oh, chiedo scusa,
principessa. Che cosa può
farmi? Mandarmi nella bocca del pesce?»
«Ucciderti,»
replicò Braska, lapidario.
«Siete
tutti così, voi uomini di Spira. Uccidine uno e il suo
impero crollerà. Ma
uccidi un Al Bhed e al deserto mancherà un ingranaggio; e la
natura vendica
sempre ciò che ha perso. A differenza della
società».
Braska lo
fissò dritto negli occhi. Pensò al giorno in cui
Emma non era tornata dal mare,
a come nessuno se non lui aveva pianto la sua perdita; pensò
al giorno in cui
Alan, invece, a casa c’era tornato. Erano ben altre dalla
morte le cose di cui
si vendicava la loro società.
Ma non era
troppo tardi per cambiarla.
Quasi
intimorito dall’orgoglio di Cid, spostò lo sguardo
verso suo figlio, che stava
tenendo un braccio attorno alle spalle della sorellina.
«Si
calma
se le canto una canzone» disse il fratello maggiore non molto
entusiasta.
Allora,
per favore, canta. Canta come faceva Emma al solstizio
d’inverno, mentre io
danzavo con la fiamma tremula. Canta per Bikanel e per la tua gente,
che mai ha
lasciato un sepolcro illacrimato.
La
gravità
della situazione non tollerava perdite di tempo né
imbarazzo: aiutato da Jecht
che gli allacciava l'armatura, Auron si rivestì in fretta
nonostante fosse
ancora fradicio, proprio come il compagno.
L’atleta
scosse la testa incredulo e corse sui marmi colorati verso
l’uscita dello
stadio, seguito dal monaco che era meno scattante di lui.
«Chi
mai
vorrebbe rapire un Invocatore?» chiese, rallentando il passo.
«Io
davvero non lo so, ma la pagheranno cara,» rispose Auron a
denti stretti.
Il dedalo
di scale e corridoi che portavano agli spalti confuse il Guardiano
più giovane:
non ricordava più esattamente dove andare e, pur di fare in
fretta, si lasciò
afferrare il polso destro da Jecht per essere guidato verso l'uscita.
I loro
occhi non avevano fatto in tempo ad abituarsi alla forte luce che la
loro
avanzata fu bloccata da un fiume di persone che correvano in tutte le
direzioni.
«Ehi!
Ehi,
fermi!» provò a gridare Jecht. La gente,
terrorizzata, passava oltre senza
guardarlo, quasi come se lui fosse un’illusione.
Come se
fosse un sogno.
«Rapiscono
Braska e scoppia un caos del genere?» continuò
lui, a voce alta per farsi
sentire almeno dal compagno.
Auron
rimase in silenzio ad osservare, lo sguardo che non sapeva dove
posarsi.
Strinse gli occhi per focalizzare meglio lo sguardo: nella folla
notò degli
uomini in nero. Le loro tuniche erano in netto contrasto con
l’azzurro
sfavillante delle case, che faceva a gara con il cielo e il mare; con
il bianco
delle strade che aspirava a rifulgere come il sole.
«Ci
sono i
sottoposti di Alan in giro,» disse, indicando
avanti.
«Sempre
loro a far danni,» commentò Jecht, nervoso.
Non
sapendo dove andare, i Guardiani si diressero verso il centro
città gremito di
persone che, in un modo o nell'altro, cercavano di sfuggire alla
guardia
cittadina. Molte venivano solo fermate, altre perquisite o arrestate,
mentre
gli uomini di Alan interrogavano chiunque senza sosta in cerca di
informazioni
utili.
Chi aveva
un negozio o un locale era in piedi davanti alla porta, come se volesse
dimostrare di non nascondere dei cospiratori. Colto da
un’intuizione
improvvisa, il monaco riuscì a individuare il viale che
conduceva al bar dove
aveva bevuto il giorno prima.
Fu lui ad
afferrare per il polso Jecht, e a trascinarlo in quella
direzione.
«Vieni».
Quella
ragazza… forse lei sa…
Due
gabbiani, spaventati, presero il volo strillando. Fece loro eco il
grido fiero
di una donna, e una chioma di capelli scuri frustò
l’aria che sapeva di cenere,
strinata da un pugno potenziato con Firaga.
«Cécile!»
Auron, nel
vederla respingere un uomo davanti al suo locale, aveva provato a
chiamarla, ma
il brusio era troppo forte. La donna caricò la guardia e,
dopo averla
atterrata, le assestò una scarica di pugni in pieno volto.
Venne sollevata di
peso da un secondo soldato, mentre scalpitava e cercava di liberarsi
non per
scappare, ma per picchiare anche il nuovo arrivato.
I suoi
occhi celesti si voltarono verso Auron. Erano limpidi e fieri, come se
lo
spirito del mevyn che un tempo aveva comandato nelle pianure lontane si
fosse
reincarnato proprio in lei.
Il monaco
pensò a quel giorno in cui aveva consigliato ad Hanna di
andare da sola nella
grotta in cui aveva perso la vita. Non avrebbe ripetuto lo stesso
errore. Non
ne avrebbe lasciata morire un’altra.
L'uomo
cingeva l'addome di Cécile per allontanarla, ma
così facendo le lasciò le
braccia libere: a lei tanto bastò per ribaltare la
situazione. Usò gli
avambracci per premere sui gomiti dell'aggressore e fare leva verso il
basso. Si
liberò della presa con facilità impressionante,
poi si mise in posizione di
guardia. Incollerito, l'uomo tentò di afferrarle i capelli
in virtù della
differenza d'altezza, ma Cécile si spostò di lato
e gli bloccò il polso, per
tirarlo a terra con uno strattone ben piazzato e torcere il suo braccio
dietro
la schiena, lasciandolo del tutto inerme.
L'uomo le
intimò di lasciarlo andare, lei per tutta risposta si
alzò in piedi e lo calciò
sul costato.
«Fermatevi!
Per Yevon, fermatevi!»
Che fosse
per timore o perché lo aveva riconosciuto, Cécile
oppose una scarsa resistenza
quando vide la veste rossa di Auron, che si era interposto tra lei e la
guardia, e lasciò che un suo gesto la spostasse indietro.
«Che
cazzo
fai, troietta?» gridò l’uomo, alzandosi
a fatica. Un suo commilitone lo
richiamò, ordinandogli di proseguire con la ronda, proprio
mentre Cécile
sputava nella sua direzione, tenuta dal braccio di Auron.
«Ferma,
ferma…» tentò di calmarla il Guardiano,
posandole entrambe le mani sulle spalle
e guardandola, pur con una certa soggezione, negli occhi stravolti.
«È andato
via».
Il petto
di Cécile, che si alzava e si abbassava con una frenesia
feroce, gradualmente
rallentò il suo moto. Una goccia di sudore le
scivolò lungo la fronte, e la sua
mascella serrata si rilassò un poco.
Il monaco
schiuse di nuovo le labbra per parlarle, ma lei eluse la sua presa e si
mise
davanti a lui, dritta come una lottatrice in un’arena. Quando
un baluginio di
metallo le illuminò il pugno abbassato, Auron
arretrò verso Jecht con le mani
alzate, per mostrarle che loro non erano un pericolo.
«Cécile.
Che cosa sta succedendo qui?»
La ragazza
si guardò attorno e allargò le narici, sbuffando
fuori l’aria. Poi guardò
dritto negli occhi ambrati di Auron, ignorando il secondo Guardiano.
«Il
Maestro
di Yevon che è arrivato in città. Ha cominciato a
mandare in giro i suoi in
modo che arrestassero tutti i sospetti di eresia».
Il monaco
fu colpito al petto da una stilettata in grado di ignorare qualsiasi
armatura.
«L’Invocatore…
è suo fratello,» tentò di spiegarle
Auron lui, trovandosi all’improvviso a
gesticolare in modo quasi ridicolo, «è stato
rapito, e credo che stia–»
«Sì,
bella
scusa,» sibilò la giovane, avvicinandosi al suo
viso con entrambe le braccia
tese lungo i fianchi, i pugni serrati e lo sguardo che schizzava verso
le vie
di Luka. «Bella scusa per perquisirmi il locale!»
«Tu
sei…»
cominciò a dire Auron, ma si interruppe di colpo. Il
problema non era il bar.
Aveva
perso un’altra occasione per intervenire prima. Non era stato
in grado, di
nuovo, di salvare qualcuno.
«Ah,
uomini! Avrei dovuto sposarmi,
quando ero più giovane».
Si
ricordò
di come Cécile rideva, i denti bianchi scoperti dalle labbra
truccate. Di come
i suoi occhi si dirigevano, furtivamente, verso la porta chiusa dietro
il
bancone.
«Ti
prego,» le domandò, deglutendo delle parole di
pentimento che sarebbero
risultate del tutto fuori luogo. «Sai dove è
andato?»
«Non
mi ha
fatto il piacere di presentarsi di persona,»
ribatté lei, poi avanzò a passi
lenti, ancheggianti, come se camminasse tra le fiamme. La sua divisa da
cameriera sporca di polvere creava uno strano contrasto con il suo
incedere da
regina. «Adesso ti chiedo di spostarti».
Scusami,
Cécile.
Qualcosa
dentro di lui gli gridava che non poteva lasciarla andare. Gli yevoniti
l’avrebbero catturata e condotta a un processo da cui forse
non sarebbe uscita
viva. Eppure, qualcos’altro fece sì che le sue
gambe si muovessero per farle
spazio.
«Sei
ancora in tempo per fermarti. Non so cosa ti muove, ma non ce la farai
da
sola».
Jecht lo
fissò interdetto; la ragazza si diresse verso la folla e
l’aria attorno a lei
fu percorsa da rapide scintille. Poi si voltò, per rivolgere
al Guardiano
un’ultima occhiata.
«Quel
Maestro,» gli disse, scandendo bene e con disprezzo ogni
parola, «si è preso
qualcuno che mi piace. Prova a pensare che cosa muoverebbe
te».
Gli occhi
di Jecht catturarono uno sguardo rapido di Auron mentre quelle parole
morivano
nell’aria limpida.
«Non
possiamo fermarci, ragazzo».
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Capitolo 44 *** Un desiderio ingenuo come il voler proteggere qualcuno (parte 2) ***
CAPITOLO 30:
UN DESIDERIO INGENUO
COME IL VOLER PROTEGGERE QUALCUNO (PARTE 2)
Auron
annuì. Non avendo altra scelta, i due si guardarono intorno,
individuando uno
dei tanti uomini in nero che tartassavano i cittadini. Dopotutto, non
avevano
niente da temere da parte loro, e trovare Alan era la
priorità. Auron avvicinò
con cautela un prete di Yevon, per poi presentarsi con la
riverenza.
«Siamo
i
Guardiani dell'Invocatore Braska. Abbiamo saputo che il Grande
Inquisitore lo
sta cercando, proprio come stiamo facendo noi. Dobbiamo raggiungere il
Maestro
il prima possibile».
Il
sacerdote gli rivolse un sorriso enigmatico, in cui Auron
riuscì solo a leggere
un certo sollievo.
«Sia
ringraziato Yevon. Stavano cercando anche voi,» disse,
asciugandosi la fronte
con la mano. «Il Grande Inquisitore dovrebbe trovarsi nei
pressi dello stadio,
ma non saprei dirvi dove con esattezza. Fate in fretta».
Tornarono
quindi indietro, facendosi spazio tra la calca e cercando di non
perdersi di
vista.
Il
sacerdote non aveva dato indicazioni certe, così Jecht
indicò ad Auron una
catasta di merci in uno dei moli. Con l'aiuto del compagno,
riuscì a scalarla
per guardare intorno da un punto sopraelevato. Sorvolò con
la mente, come uno
di quei Condor che preannunciavano la morte in mare, le strade della
città. Ma
non era tanto in alto quanto un uccello, e dalla cassa su cui
s’era appollaiato
vedeva solo a una maggiore distanza rispetto ad Auron che era rimasto a
terra.
Affondò
i
denti sul labbro inferiore, in un punto che aveva già morso
e che gli restituì
in cambio un leggero sapore ferroso. Sperò con tutto
sé che Alan non si fosse
tolto i paramenti o che fosse accompagnato da qualche guardia Ronso,
altrimenti
sarebbe stato impossibile individuarlo tra la folla.
Lo vide,
con i suoi abiti appariscenti sollevati dal vento, che guardava verso
il teatro
come se stesse ammirando la tela più importante di
un’esposizione. Sembrava che
la sua contemplazione avrebbe potuto in ogni momento trasformarsi in
violenza.
«Auron!»
gridò. «L’ho trovato!»
I due
Guardiani corsero per le vie fino a percorrere un ponte
sull’acqua, diretti
verso un edificio dalla forma allungata che somigliava in un certo qual
modo a
un’aeronave. L’architetto, forse affascinato dalle
macchine volanti degli Al
Bhed, aveva fatto sì che la struttura principale, un tronco
di cono rovesciato
su cui si aprivano dei piccoli archi, fosse racchiusa da una seconda,
in pietra
liscia, che si allungava verso la città in una curva
leggera. Era una forma
diversa dal semicerchio che decorava le spalle di Alan, e quella
discrepanza
nell’estetica sembrava sottolineare la differenza di pensiero
tra Luka e
Bevelle.
Auron,
senza volerlo, rallentava progressivamente nell’avvicinarsi a
quel luogo, come
se fosse stato immerso fino al polpaccio in un liquido viscoso.
Guardò Jecht, e
notò che sembrava essere nella stessa condizione.
Guardò di nuovo Alan, che
dava loro la schiena, e vide che sopra al gomito aveva un tatuaggio che
non
ricordava. Un semplice glifo nero, il simbolo di Behemot e della luce.
Io sono
la luce del mondo.
«Alan!»
ebbe il coraggio di chiamare la voce di Jecht, mentre lui era ancora
perso nel
timore e nel ricordo del giorno in cui il fratello di Braska aveva
preso il suo
trono.
L’Inquisitore,
che stringeva il giavellotto nella mano sinistra, si voltò
di scatto nel sentir
pronunciare il proprio nome in maniera tanto autoritaria. Quando vide i
due, il
suo sguardo non si addolcì, ma la presa sull’asta
si fece meno ferma.
«Ah,»
commentò, accompagnando quel monosillabo con
un’alzata di sopracciglia. «Alla
buon’ora».
Auron si
mise sull’attenti e cominciò un goffo tentativo di
giustificare la propria
mancanza, tormentato dall’immagine confusa di ciò
che era successo solo qualche
minuto prima:
«Signore-»
«Ritira
i
tuoi uomini! Così non otterrai niente!»
Auron,
spiazzato dal tono che Jecht aveva usato con il Grande Inquisitore,
sbiancò.
Incapace di comprendere il motivo di quella familiarità,
quando fino a poco
tempo prima Jecht era terrorizzato da Alan, fece un passo indietro. Il
vento
salmastro di Luka fece ondeggiare i fili di perline che aveva legati al
corpetto. Si sentì come se non conoscesse la persona che
stava per…
«Jecht,»
lo richiamò, «mi rendo conto che siamo in una
situazione critica, ma non…»
Alan
alzò
una mano all’altezza del volto e storse le labbra in un
sorriso.
«No,
no,
lascialo parlare,» replicò, con
l’intonazione cantilenata e serafica che usava
quando interrogava qualcuno, sicuro della propria incrollabile
superiorità. «Ho
sempre concesso il diritto di difendersi. E, in ogni caso, far
perlustrare la
città a tappeto non servirà a nulla, ora che vi
ho trovato».
«Sembrava
che non cercassi solo noi,» rispose Jecht. «Ti
conviene non insistere, Maestro
Inquisitore, la folla è più difficile da
imbrigliare del mare».
Auron
avrebbe voluto avere quel suo coraggio sconsiderato, ma davanti ai
paramenti di
Alan, sotto l’occhio spalancato di Yevon, si sentiva solo in
grado di piegare
il collo come un bue sotto l’aratro.
«Sembra
che invece voi abbiate mancato al vostro dovere. Che
cos’è il tuo, un consiglio
da amico?»
«Da alleato.
Pensavo che avessi accettato».
Auron
avrebbe voluto sfoderare la spada, puntargliela contro e intimargli di
liberare
il compagno di Cécile. Poi, però, rivide la luce
che c’era nei suoi occhi
mentre si gettava tra le strade. Allora pensò che forse
davvero il tumulto
degli uomini era forte come le onde nell’oceano.
«Un
re,
eh?» Il Guardiano si riscosse dai propri pensieri e
tornò a guardare Alan,
incuriosito da quel cambio improvviso di discorso; lo trovò
che di nuovo aveva
dato loro le spalle e si rivolgeva allo stadio.
«Cosa?»
replicò subito Jecht.
«Pretendi
davvero che ti creda se mi scrivi che Yevon era un re, e che i miei
altari sono
vuoti, solo perché l’hai messo su carta?»
«È
quello
che mi hai domandato quel giorno. Cosa mi ha detto il Coro».
I cerchi
di metallo che adornavano la veste di Alan tintinnarono quando lui
mosse
qualche passo solenne in avanti. Resse il giavellotto in orizzontale
all’altezza delle cosce, con entrambe le mani, e la sua
figura all’improvviso
sembrò identica a quella di Braska, in procinto di danzare
il Rito del
Trapasso.
«Quel
giorno mi hai detto che non avevi niente da dichiarare,»
commentò
l’Inquisitore, quasi parlando a se stesso, «e ora
hai cambiato all’improvviso
idea».
«Un…
un re?»
cercò di intervenire Auron, la voce che tremava e
un’orrida sensazione che gli
percorreva la carne.
La sua
domanda cadde nel vuoto.
«Pensi
che
ti abbia mentito? Bruciami, allora».
Alan,
senza quasi muovere il capo, diresse la coda dell’occhio
verso Jecht. Le sue
iridi azzurre lampeggiarono dietro al velo.
«Se
vuoi
dimostrare che sono un eretico,» continuò a dire
l’uomo di Zanarkand, «costruisci
una pira in piazza e bruciami, come hai fatto con quella
donna».
Solo in
quel momento, Alan si voltò, apparentemente infastidito:
«Per
cortesia, non esprimerti su questioni che non–»
Auron
cercò con gli occhi quelli di Jecht.
Fidati
di me, gli aveva
detto mentre combattevano; fidati di me mentre
piantavano i pali per le
tende. E ora il suo sguardo muto gli stava ripetendo quelle tre
parole.
«Non
l’ho
detto subito perché provo per te la stessa paura che tu hai
per il Coro,»
ammise il Guardiano maggiore per età. «Tu conosci
le lingue antiche e le leggi
delle città, così da poter governare gli uomini,
ma i tuoi modi sono quelli
delle bestie».
Con un
gesto inaspettato, Jecht piegò una gamba e si
inginocchiò davanti allo stesso
uomo che aveva appena chiamato bestia. Auron, con gli occhi sgranati,
arricciò
le labbra e scoprì i denti in un’espressione di
pura sorpresa. Jecht non teneva
il capo chino: il suo busto percorso dalle cicatrici era dritto, lo
sguardo
ardente puntato sull’Inquisitore.
«Ho
soddisfatto
il desiderio di conoscenza per cui soffrivi,» concluse,
«perciò, ti prego,
smetti di mordere il mondo. Metti da parte l’astio che provi
e per ora unisciti
a noi, se hai in cuore di salvare tuo fratello».
Il monaco
serrò gli occhi, in attesa del colpo che facesse vibrare
l’aria. Non arrivò.
«Va
bene,»
risuonò solamente sotto le sue palpebre.
Era
così
che Jecht aveva dovuto sentirsi quando aveva aperto gli occhi su Spira,
senza
capire.
Il profilo
di Alan era dipinto sull’acqua limpida di una delle piscine
che circondavano il
teatro.
«Gli
Al
Bhed hanno rapito Braska e hanno cercato di travolgermi con un veicolo.
Li ho
visti decollare con un’aeronave da quel molo
laggiù».
«Anche
conoscendo la direzione, come possiamo raggiungerli?»
domandò il monaco, osservando
le increspature sulla superficie che distorcevano la figura
dell’Inquisitore.
«Perché
non mi stai guardando?»
«Mi
scusi,
signore. Come li raggiungiamo?»
Sembrava
che Alan conoscesse ogni peccato di ogni uomo che camminava sulla
terra.
Guardarlo era come fissare il sole, nonostante la vista fosse offuscata
dal
velo, e gli occhi di Auron non erano come quelli di
un’aquila. Si chiese di
nuovo come Jecht avesse trovato il coraggio di rivolgersi a lui con
tanto
orgoglio nella voce.
«Abbi
fede, Templare,» rispose Alan, una volta che fu certo che
entrambi lo stessero
osservando senza sotterfugi. Cominciò, con la mano che non
reggeva l’arma, a
far dondolare dolcemente il turibolo, e a farne uscire fumo
d’incenso che si
mescolava a una grande quantità di lunioli.
Il
contorto fantasma di un dragone avvolse nelle sue spire il teatro,
senza un
suono. Le sue quattro zampe erano simili a quelle di un enorme uccello,
ma aveva
artigli da leone. Sul suo corpo scarlatto, su cui
s’innestavano due ali
flaccide, cresceva del pelo simile al manto erboso che copriva
l’immensa Piana
della Bonaccia.
Auron fece
due passi indietro, e per la paura impiegò qualche istante a
ricordare che era
solo un’illusione.
La
creatura protese la testa, appesantita dalle corna ricurve, verso
l’uomo che lo
aveva evocato.
Jecht
fissò con occhi sgranati l’Inquisitore, che
allungò le dita per accarezzargli
il muso, grande da solo quanto un uomo. Si voltò verso Auron
e lo sentì
spingere una parola fuori dalle labbra socchiuse:
«Evrae…»
1009,
mese VII. XX giorni dall’equinozio d’autunno.
«Evrae…»
Erano
passati trentadue anni da quando la stella nuova era comparsa sopra
Bevelle, per la precisione trentadue anni e un giorno. Gli uomini
avevano
tremato quando il cielo perfetto s’era corrotto, e un
sospetto eretico aveva
serpeggiato nei loro animi. Quella macchia inspiegabile era rimasta per
poco
più di un anno, bianca, sopra la terra. Poi era svanita
dalla tela della notte,
silenziosa come quando era arrivata.
Era
tornato Evrae, l’enorme serpente alato che si diceva fosse
composto dai
lunioli dei guerrieri di Bevelle caduti nella guerra contro
Zanarkand.
I
preti di Yevon lo avevano salutato alzando al cielo, di nuovo
incorrotto,
i loro scettri e i loro canti:
Gioite
al ritorno della nostra forza
che mille anni fa avevamo oltraggiato.
La
guerra sembrava a tutti lontana, assieme alla tracotante
mostruosità
chiamata Vegnagun; l’arma per cui il re di Bevelle aveva
condannato la sua
stirpe mortale. La macchina per cui Evrae aveva disprezzato la sua
stessa
patria.
Per
gli abitanti di Bevelle, lontani dalla costa flagellata da Sin, ormai
ogni combattimento era distante come la stella nuova. Era
così per il ragazzino
orfano che aveva indossato sopra i suoi abiti un mantello
rosso e, per
imitare i Templari, era corso sul Gran Ponte stringendo
l’asta della sua lanterna
di carta come una spada.
Solo
per Alan non era così: lui solamente era equidistante dal
giorno in
cui aveva ricevuto dai fantasmi la sua sentenza e da quello in cui
sarebbe
stato lui a tormentare chi osava spiegare la corruzione delle sfere
celesti.
Seduto
sul pavimento della cella in cui si era fatto confinare dai Templari
fino a quando quel dolore non sarebbe passato e la Necropotenza si
sarebbe
fatta imbrigliare, fissava il suo stesso sangue a terra. Il tatuaggio
di falena
sulla scapola gli inviava un dolore pulsante, come se un masso lo
stesse
schiacciando a poco a poco.
All’improvviso,
ringhiò come una belva e, con un colpo di reni,
tentò di
scattare in avanti, per sbranare un nemico che solo lui vedeva.
Tornò in sè
solo un istante dopo, quando le catene che gli stingevano i polsi
tintinnarono.
Sentì una goccia di sudore attraversargli la tempia e vide,
davanti a sé, dei
lunioli fuggire da piccole torri di sangue rappreso, simili a quelle
che i
bambini erigevano sulla riva, facendosi scivolare la sabbia bagnata tra
le
dita.
Alan
desiderava abbandonare l’umanità da cui il Coro lo
aveva bandito;
eppure aveva paura di compiere un atto tanto sacrilego. Dal suo petto,
piagato
dall’ acuta sofferenza, uscì una cantilena cupa.
Aveva imparato che solo variando
di poco la tonalità delle preghiere poteva ottenere qualcosa
che risultava
estraneo, inquietante all’orecchio degli uomini.
Nel
frattempo, Auron sul ponte correva e sognava, seguito dalla coda della
lanterna a dragone, che si agitava nel vento. La sua preghiera
cristallina
saliva al cielo, quasi in grado da sola di spazzare via le nubi.
Ignorante
ancora delle mani giunte di Alan nella notte eterna.
In
questa città fiorirò come il lentisco,
Io
compatisco il tuo sguardo ferale.
Donami
la forza delle
tue spire,
Per
pietà, trasformami in bestia.
O
lucente guardiano della città,
o Evrae suscitatempeste.
|
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Capitolo 45 *** Al Bhed Crawler (Parte 1) ***
CAPITOLO 31:
AL BHED CRAWLER (PARTE
1)
Il cuore
di Jecht gli martellava furioso nel petto, mentre lui cercava di
aggrapparsi
con tutte le forze a qualcosa che non poteva nemmeno essere definito
solido.
La
creatura di fumo evocata da Alan aveva la forma di un drago, come ne
vedeva
spesso tatuati sulle braccia dei giovani giocatori. Il corpo serpentino
della
bestia sferzava l'aria, prendendo quota un battito d'ali alla volta,
sempre più
in alto, finché la città che avevano lasciato non
diventò piccola e
insignificante.
La
sensazione di poter cadere da un momento all'altro era terrificante. Il
dorso
del drago era coperto in tutta la sua lunghezza da un pelo folto e
irto, ma la
sua natura eterea rendeva incerta qualsiasi presa.
Alan non
dava alcun segno di disagio a cavallo della sua evocazione: si teneva
aggrappato senza apparente fatica, attento a scrutare il cielo in cerca
della
nave che aveva rapito suo fratello e ferito il suo orgoglio.
Auron aveva
un'espressione profondamente concentrata e fissava un punto indefinito
davanti
al proprio naso. L'aria produceva un fischio intenso nelle orecchie di
Jecht, e
gli impediva di parlare. Tuttavia, anche senza chiedere come stesse,
intuì che
stava applicando qualche tecnica da monaco per mantenere la calma.
Vedendo le
sue labbra serrate, Jecht provò comunque a parlare per
scaricare la paura.
«Ragazzo!
Ce la fai?» riuscì a dirgli, avvicinandosi alle
sue orecchie.
«Il
cielo
non è il dominio dell'uomo,» rispose il monaco
stringendo la presa.
«Sono
totalmente d'accordo!»
La nave
ancora non si vedeva, e i nervi di Jecht iniziavano a cedere ogni
secondo di
più. Non era poi così diverso dall'immergersi
nelle acque profonde dell'oceano:
cambiava solo la direzione.
Cercò
di
focalizzarsi su quell'idea distorta per calmarsi, ma non appena i suoi
occhi si
spinsero verso l'orizzonte senza fine, si rese conto che paragonare
pochi metri
sott'acqua all'immensità del cielo era una follia, come era
follia ciò che
stavano facendo per amore di Braska.
Il drago
fumoso levò un ruggito, inarcando ancora il corpo per darsi
una spinta
maggiore, come se avesse individuato la preda.
Prima un
punto apparentemente irraggiungibile, la nave Al Bhed aumentava le sue
dimensioni; nell’animo dei due guardiani il sollievo e la
paura si mischiavano
in una danza perpetua.
Aveva
forme spigolose e colori anonimi, un profilo simile a quello delle
macchine che
Jecht aveva visto nei libri illustrati. Un alone grigiastro forse
causato
dall’ossidazione velava il metallo, nascondendo
tonalità più chiare e vivaci.
Nell’analizzare
la forma complicata dell'aeronave, Jecht fu assalito dall'angoscia,
poiché non
riusciva a individuare un punto per atterrare.
La parte
centrale si estendeva in verticale, su vari piani, come un palazzo
volante che
si allargava alla base per ospitare la plancia.
Il ponte
era ammaccato qua e là, forse reduce da altre incursioni. A
prua creava uno
spiazzo sufficiente per essere attraversato dagli uomini
dell'equipaggio,
mentre a poppa proteggeva le fiancate della gigantesca ruota meccanica
che
fungeva da motore per l'intera struttura.
Alan
sollevò la mano, come a voler spronare la propria creatura
infondendole nuova
energia. A Jecht e Auron sembrava di stare viaggiando da ore: i muscoli
delle
loro braccia iniziarono a bruciare in modo insopportabile, e il respiro
non
risaliva nei loro polmoni, ma la nave era finalmente a portata.
Con un
ultimo impeto, il drago affiancò il mezzo e lo
superò in velocità, afferrando
con le zampe anteriori il muso del veivolo e spingendosi sul ponte.
«Oooh,
bel
trucchetto! Che paura!» commentò una voce distorta
da un megafono. Alan scese
dal dorso di Evrae con il giavellotto stretto nella mano destra,
ricordandosi
di averne sentita una simile prima di venire quasi travolto dal veicolo
Al Bhed
nelle strade di Luka. Subito dopo, percepì un mutamento
nell’aria che li
circondava: la creatura stava perdendo di consistenza, Auron e Jecht
cercavano
invano degli appigli nel suo corpo che si sfaldava in lunioli.
Quando il
giudice appoggiò un tacco sul ponte dell’aeronave,
trapassò il collo ormai
incorporeo di Evrae. I suoi occhi scattarono verso l’alto e
colsero di nuovo un
bagliore sotto il sole indefesso del sud di Spira.
«Arriva».
I due
Guardiani si schierarono ai suoi lati, e solo un istante dopo una
saracinesca
terminò di aprirsi con un rumore metallico. Una
macchina da battaglia su
cingoli, con una grande bocca da fuoco, fu lanciata a folle
velocità dalla
rampa, fino a staccarsi dal suolo e volare rasoterra per qualche metro,
accompagnata da un urlo di giubilo. Atterrò davanti ai tre,
per essere
raggiunta da un altro piccolo costrutto di forma sferica, che le
orbitava
attorno.
Auron e
Jecht si fecero più vicini all’Inquisitore, ma a
pochi passi di distanza da lui
si immobilizzarono, vinti da un terrore che la loro ragione
impiegò qualche
secondo a contrastare. Entrambi diressero gli occhi verso il carro
armato e si
resero conto che forse anche il pilota era caduto vittima di
quell’effetto,
dato che esitava a fare la prima mossa.
«Non
provate a lanciare incantesimi finché quella sonda
è attiva,» consigliò Alan,
negli attimi che gli erano concessi, «siamo sotto un campo
antimagia».
«Signore–»
cominciò a dire Auron. Fu interrotto dal rumore di una
raffica di colpi, e il
sangue gli defluì dal volto quando vide con la coda
dell’occhio che erano
diretti verso Jecht.
Si
lanciò
sull’amico e lo gettò a terra, facendogli scudo
con il proprio corpo. Qualcosa
nella sua anima si risvegliò, gli serpeggiò nelle
viscere e lo avvolse, facendo
sì che i proiettili non penetrassero nella sua armatura, ma
gli tempestassero
solo le costole.
Con in
bocca il sapore del sangue e l’occhio destro annebbiato,
rimase a fissare
Jecht. Lui lo guardava di rimando, con le labbra socchiuse e
un’espressione
altrettanto vacua dipinta in volto. Entrambi ansimavano. Auron si
riscosse nel
sentire una seconda salva, e scattò in piedi.
Poco
davanti a lui, Alan aveva deviato i colpi con la stessa tecnica, ma con
una
sicurezza molto maggiore. Il suo giavellotto, scagliato contro la
macchina
volante, la trafisse prima di scomporsi in lunioli e tornare tra le sue
dita.
Auron si
voltò di nuovo verso Jecht, e lo vide nudo e debole,
incapace di usare la
Necropotenza per cui lui aveva stretto un patto con Alan. E quindi
inutile
anche se forse, in fin dei conti, con l’anima ancora
immacolata.
L’occhio
gli bruciava, era come se qualcosa avesse cominciato a premere sulla
sclera.
C’era anche qualcosa che gli premeva alla base del collo, e
gli impediva di
deglutire.
«Va’
a
cercare Braska,» intimò con fermezza al compagno.
«Qui bastiamo noi due».
«Ma…»
«È
un
ordine! Va’!»
Jecht, in
piedi nell’aria livida per le cannonate, gli
lanciò uno sguardo prima di
stringere la presa sullo spadone e correre verso la coperta.
Vide, sul
ponte, Auron e Alan schiena contro schiena, intenti a cercare
un’apertura per
abbattere la sonda. Pregò, nonostante non sapesse a chi
rivolgersi, che quello
non sarebbe stato l’ultimo ricordo del suo amico.
La lancia
trafisse di nuovo la macchina volante, che perse quota e la riprese a
fatica;
Alan valutò che con un altro colpo sarebbe riuscito ad
abbatterla. Allora
avrebbe potuto scagliare Ultima contro il carro
armato, nella speranza
di bruciarlo. Percorse con la mente tutti gli scenari possibili, ma un
sussulto
delle spalle di Auron contro le proprie lo interruppe. Sentì
il Guardiano
piegarsi, come se fosse colto da conati di vomito, e l’odore
del sangue salire
alle narici.
Smise di
mirare e interpose un braccio tra sé e il giovane,
scambiando i posti e
intercettando al suo posto gli spari in prima linea. Strinse i denti
come se
dovesse spezzare l’osso di una preda, mosse la mano e
riuscì a ridirigere i
proiettili contro il carro armato. I colpi esplosero, danneggiando la
lamiera
vicino ai cingoli.
«…occhi».
Auron
ingoiò la propria bile, e con una mano ancora premuta sul
fianco si avvicinò ad
Alan, intuendo che quelle parole fossero rivolte a lui. Una forza
premeva e gli
muoveva le viscere, voleva spaccargli il cranio per uscire.
«Devi
coprirti gli occhi,» ripeté
l’Inquisitore, avvicinandosi a lui, lo sguardo
sempre diretto sul loro nemico. Il pilota della macchina aveva smesso
di far
fuoco, per ricaricare o per valutare i danni che aveva subito.
«Hai qualcosa
per farlo?»
D’istinto,
Auron si portò entrambe le mani al viso, poi di scatto le
staccò quando le
sentì bagnate di sangue. Con il respiro accelerato, si rese
conto che erano
pulite.
«N-no…»
mormorò.
Alan
imprecò sottovoce, notando un meccanismo che ruotava sul
cannone. Non avevano
molto tempo. Dopo essersi passato le mani sulla veste, cercando
freneticamente
qualcosa che non aveva, si mise di fronte ad Auron e staccò
il velo dai ganci
che lo tenevano attaccato alla tiara.
Le pupille
del giovane Guardiano si restrinsero per la sorpresa, e i suoi occhi si
sgranarono, quando si trovò davanti il viso di Alan senza
nessuna pia ombra a
nasconderlo.
L’Inquisitore
lo forzò ad alzare il mento e gli legò il velo,
come una benda, dietro la nuca.
Auron, smarrito, non oppose nessuna resistenza, nemmeno quando Alan gli
si
avvicinò ancora di più per sussurrare il suo
ordine:
«Vedi
di
non perderlo».
Senza
attendere la risposta, voltò gli occhi nudi verso il ponte,
li spinse al cielo
azzurro contro cui si stagliava quella macchina blasfema degli Al Bhed.
Lo dico
per te.
Centinaia
di mani pallide, ora che nulla gli impediva di vederle, si protendevano
in
silenzio verso di lui. Corpi seminudi, presa una forma umana dalle
nuvole, lo
osservavano dai buchi delle loro maschere e nascondevano i suoi
bersagli in una
muta nebbia di lacrime. Alcuni si coprivano il petto con tuniche
bianche, altri
si stringevano ai vicini in pose contorte.
CORO
(Tace.)
Alan si
morse le labbra e tentò di individuare di nuovo il bagliore
nel cielo che
segnalava il passaggio della sonda. Sentì il cannone fare
fuoco e percepì, alle
proprie spalle, i lunioli che venivano raccolti da Auron per alzare un
ennesimo
scudo.
La schiera
opaca che gli si stagliava davanti gli rendeva impossibile capire dove
mirare.
Solo uno di quei fantasmi era diverso dagli altri, un ragazzino vestito
di
viola con un cappuccio calato sul volto.
Il
giavellotto lasciò le dita di Alan e attraversò
il cielo. Lui rimase fermo, con
un piede davanti all’altro e il braccio teso davanti a
sé. Qualcosa lo spinse
ad abbassare il capo.
CORIFEO
…
Auron,
attraverso il velo grigio, vide la piccola macchina volante rovinare a
terra,
poco distante da loro. Con una rapidità aliena, Alan si
scagliò in quel punto e
cominciò a strappare via circuiti e parti metalliche a mani
nude, come se
volesse squartarla. Un attacco della bocca da fuoco lo colpì
di striscio a un polpaccio,
e Auron si gettò su di lui per proteggerlo.
La furia
con cui infieriva sulla sonda, come se non capisse che non era fatta di
carne,
era inumana. Il Guardiano riuscì a vincere il terrore, e a
rendersi conto che
davanti a lui non c’era un mostro, solo guardando il sangue
che macchiava i
suoi pantaloni sotto la tunica.
«Signore…»
provò a chiamare, chino su di lui, la disperazione che gli
stringeva il petto.
Alan alzò gli occhi azzurri e lo fissò con lo
sguardo stupefatto di un bambino.
I suoi lineamenti riacquistarono la loro armonia e la ruga
d’espressione a
fianco alla bocca si fece meno marcata.
Il monaco
dovette trattenere l’impulso di gettare la spada e fuggire.
«Oh…»
osservò il giudice, appoggiando a terra la macchina rotta e
alzandosi in piedi.
Gli strati di vestiti che indossava scivolarono al loro posto e lui
puntò il
carro armato, come se avesse ricominciato a distinguere la sua forma.
«Sei
rimasto da solo».
Il sole
scintillava oltre il vetro del ponte di comando e si rifletteva sulla
lama di
una spada. Rikku fece una cosa per cui l’avrebbero di sicuro
sgridata: appoggiò
i polpastrelli sull’ampia finestra. Aprì le dita
come a voler raggiungere il
ragazzo che stava combattendo, e trattenne il respiro. Lui indossava un
cappotto dello stesso rosso dei mantelli degli eroi, aveva i capelli
lunghi
raccolti in una coda. Con entrambe le mani, calò la lama sul
Crawler e spezzò
parte dei cingoli.
La luce di
un incantesimo alle sue spalle superò anche quella del
giorno, e avvolto da
quell’aura continuò a combattere.
La bambina
sussultò, gli occhi sgranati per la meraviglia e la bocca
socchiusa. Con foga,
si avvicinò ancora di più al vetro, addossandoci
anche il naso. Si spinse in
punta dei piedi e alzò il mento, nel tentativo di vedere la
faccia del ragazzo.
L’avrebbe
ricordata per sempre, e un giorno anche lei sarebbe diventata
così forte!
«Rikku!»
gridò una voce, interrompendo la sua contemplazione. La
giovane Al Bhed si
voltò di scatto, con le sopracciglia aggrottate e il naso
arricciato. Vide il
signore che gli avevano presentato come suo zio, coperto da una buffa
tunica a
scaglie. Doveva essere per quel suo strano modo di vestire che non
glielo
avevano mai presentato prima.
Lui le
posò una mano sulla testa e fece per dire qualcosa
– sicuramente che non
doveva guardare – ma si zittì quando un
altro uomo strano irruppe nella
stanza.
Jecht,
ansimante, era arrivato sul ponte di comando. Si guardava attorno in
modo
frenetico, gli occhi spalancati come a voler raccogliere quante
più immagini
possibile.
Non era
stata la prima volta che si era sentito inutile sul campo di battaglia.
Erano
tornate le sensazioni di un tempo passato, quando non aveva la forza di
brandire la spada, o di opporsi alle arti marziali di Auron sul
polveroso
terreno del tempio.
Aveva pensato,
o sperato, di non dover più provare quel disagio, ma il
fuoco che sentiva nel
petto bruciava e lo feriva.
Non si
spense nemmeno quando si trovò davanti a Braska tenuto sotto
tiro da due Al
Bhed. Un terzo, senza armi ma con degli abiti decorati che facevano
pensare che
fosse il capo, se ne stava in piedi a qualche passo dal
timone.
«Liberate
il mio Invocatore!» intimò Jecht a denti stretti.
Una
bambina bionda gli fece la linguaccia. Interdetto, il Guardiano
abbassò lo
sguardo su di lei, appena in tempo per vederla prima che venisse
trascinata via
da un altro ragazzino.
«Le
regole
di Bikanel impongono di dire il proprio nome prima di sfidare un uomo a
duello,» annunciò l’uomo, mordendo lo
stecchino che teneva tra i denti e
passandosi una mano sulla testa rasata. Vi si soffermò un
attimo, come se
avesse trovato qualcosa, poi assunse una posa da combattimento.
«Sono Cid, capo
Al Bhed, capitano di questa nave».
A quelle
parole, due suoi compagni che si occupavano dei comandi si piazzarono
al fianco
del loro capitano, facendo sprofondare Braska in un mare di paura.
«Fermo!»
intervenne, con un debole tentativo di frapporsi tra lui e Jecht che fu
subito
bloccato. «Rischi che i tuoi figli–».
«Non
so
chi è Bikanel,» replicò
l’atleta. «Sono Jecht di– di Bevelle.
Sono il Guardiano
di quest’uomo: qualunque siano le tue intenzioni, lascialo
andare».
Cid
proruppe in una risata reboante. Poi urlò qualcosa in Al
Bhed ad uno dei suoi
sottoposti, impossibile da comprendere per Jecht: quello
arretrò, afferrò le
mani dei due bambini e li portò fuori dalla sala di comando,
lontano dal
pericolo.
L'atleta
valutò di attaccare, ora che erano disarmati, ma le lezioni
di Auron gli
avevano insegnato che, alcune volte, l'arma più potente era
il corpo stesso, e
l'uomo al fianco del capitano, alto e massiccio quanto lui, avrebbe
potuto
esserne una sgradita prova.
Cid
ordinò
al compagno qualcosa, ma Braska si mise in mezzo, bianco in volto.
«No!
Non
vi attaccate, vi prego! Non userò magia alcuna,
né farò altro, o ci ammazzeremo
a vicenda!»
Jecht
capì
di trovarsi in una posizione di stallo, ma finché nessuno
sarebbe andato da
Auron, a lui andava bene.
Cid
guardò
oltre il vetro con occhi furtivi, assistendo con aria stralunata a come
il
Grande Inquisitore aveva sventrato il congegno antimagia.
L’uomo
che
aveva portato via i bambini tornò e percorse il ponte di
comando con passo
marziale. Stringeva tra le mani un grosso martello da guerra, la cui
testa era
ornata da lettere Al Bhed incise nel metallo. Aveva un congegno
innestato
sull’asta, forse finalizzato ad aumentare la potenza dei
colpi.
Il
capitano spezzò lo stuzzicadenti in un sorriso vittorioso e
afferrò la sua
arma, pronto a dar battaglia.
«Braska,»
disse Cid con voce rauca, «quando avrò finito con
lui, ti conviene rimanere
qui».
Jecht
serrò le braccia e piantò i piedi a terra,
imitando Auron quando diventava quella
fortezza impossibile da espugnare. Giudicandolo dalla sua arma, Cid non
sembrava avere qualche tecnica particolare, se non menare colpi
devastanti a
piena forza.
L’atleta
rimase interdetto quando vide Cid caricare verso di lui con
l’asta del martello
in orizzontale, come un fante che respinge un nemico a colpi di scudo.
Fu
costretto a indietreggiare. Evitò la prima martellata
verticale schivando di
lato, ma andò a sbattere contro alcuni sedili. L'impatto sul
metallo rimbombò
nella sua cassa toracica e lui imprecò a denti stretti: in
campo aperto, quei
colpi così lenti non sarebbero stati un pericolo.
L’assalto
aveva lasciato Cid scoperto, ma Jecht non voleva ucciderlo. Col piatto
della
sua spada, spinse il capitano della nave verso una parete.
Riuscì ad
assestargli un calcio laterale al ginocchio, nel tentativo di
sbilanciarlo, ma
presto si rese conto che era come cercare di spegnere un incendio con
un
fiammifero.
Cid,
stabile nella sua posizione, spinse di nuovo via Jecht con
l’asta del martello,
mettendolo a portata di un altro colpo.
Il
capitano fece leva sulla gamba sinistra, e mise tutto il peso del suo
corpo in
un colpo obliquo non molto preciso, permettendo a Jecht di pararlo con
la spada
senza rischiare.
L'impatto
fu comunque eccezionale, e sconvolse i suoi muscoli delle braccia fino
a farli
bruciare come fuoco vivo. L'atleta emise un gemito di dolore e fu
costretto a
tenere bassa la spada per qualche istante, mentre d’istinto
indietreggiava
verso la parete opposta della nave.
L'uomo che
aveva portato l'arma a Cid corse dietro a Jecht per impedirgli di
allontanarsi.
Afferrò le spalle del Guardiano e lo spinse in avanti, verso
il martello che lo
stava distruggendo colpo dopo colpo.
«Jecht,
fermati! Lascia fare ad Auron e Alan,» disse Braska
stringendosi nelle maniche.
L'atleta,
ansimante e madido di sudore, scosse la testa e alzò la
guardia, digrignando i
denti e cercando di cacciare via il dolore che ricorreva come il mare
sulla
riva.
«Devo
fare
il mio dovere. Proteggere te, e aiutare loro,» rispose Jecht
senza staccare gli
occhi dell'avversario.
Cid
drizzò
la schiena per riprendere controllo sul suo baricentro, il martello
stretto in
entrambe le mani.
«Sarà
facendo il tuo dovere che fallirai. Una magra consolazione per te, ma
non posso
tornare indietro,» disse Cid sicuro di sé.
Jecht
notò
che il respiro del capitano era molto irregolare: Auron gli aveva
spiegato che
i guerrieri che brandivano armi molto pesanti dovevano imparare
particolari
tecniche di respirazione per non soccombere alla fatica.
Era vero
che avrebbe potuto sconfiggere Jecht con pochi colpi, ma era anche vero
che si
sarebbe stancato molto in fretta.
L'atleta
decise di puntare tutto su quella tattica, pur essendo consapevole che
sarebbe
stata un'impresa titanica.
Cid
guardò
fuori per un istante: strinse la presa sull'asta del martello,
determinato a
finire il combattimento in fretta.
Jecht
iniziò a girargli intorno per impedirgli di scegliere una
traiettoria e
caricare, consapevole che il tempo di ripresa di Cid era abbastanza
lungo per
via dell'arma pesante.
Il
capitano avanzò verso l'avversario per incutere timore e
indurlo a fermarsi, ma
l'atleta era ben allenato e non cascò nelle provocazioni.
Cid
sbuffò
infastidito: Jecht aveva ormai capito il suo gioco, ma non poteva
perdere ancora
tempo mentre il Grande Inquisitore era lì fuori a combattere.
Persa la
pazienza, il capitano alzò l’arma e fece per
attaccare, spingendo l'atleta ad
allontanarsi. Quando Jecht si sentì fuori portata, Cid
abbassò il martello
all'improvviso e lo caricò tenendo l'asta orizzontale, in
modo tale da
bloccarlo sul posto.
L'atleta
fermò la corsa del capitano usando la lama della sua spada,
che impattò proprio
al centro dell’asta: Cid iniziò a spingere verso
la parete, costringendo
l'avversario a una prova che non poteva vincere.
Piegato
dalla forza dell’Al Bhed, Jecht non poté in nessun
modo evitare il calcio
frontale sull'addome che lo spinse via, mettendolo alla
mercé del colpo
successivo.
Tutto
ciò
che l'atleta poteva fare era parare la martellata con la spada, ma,
all'improvviso, Cid girò i tacchi e corse verso la porta che
dava sul ponte.
«No,
fermo! Sono io il tuo avversario!» urlò Jecht
cercando di raggiungerlo.
Il
capitano fu di certo più rapido, ma anche Braska si
interpose tra lui e il suo
Guardiano, in modo da ostacolargli la corsa.
«Jecht,
basta! Sei stato eccellente, ma ora lascia che se ne occupi mio
fratello!»
disse l'Invocatore, quasi in una supplica.
L'atleta
lo guardò indeciso, spostando gli occhi da lui ad Alan per
qualche istante, per
poi poggiarsi sulla sua spada e riprendere fiato.
«Io
spero
solo di aver dato più tempo ad Auron…»
rispose Jecht a denti stretti.
«Lo
hai
fatto, credimi. Il tuo aiuto è stato prezioso,»
disse Braska accarezzandogli la
schiena.
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Capitolo 46 *** Al Bhed Crawler (Parte 2) ***
CAPITOLO 31:
AL BHED CRAWLER (PARTE
2)
Alan, con
le palpebre socchiuse e la fronte aggrottata nel tentativo di
allontanare la
sua visione, osservò Auron che spezzava i cingoli del
veicolo Al Bhed a colpi
di spada, sentì l’odore di carburante portato dal
vento.
Una volta,
in una galleria d’arte di Bevelle, aveva visto il dipinto di
una donna annegata
che affiorava dalla superficie di un fiume. Il velo che indossava era
incollato
ai suoi lineamenti; allo stesso modo il vento spingeva il suo contro
quelli di
Auron. La Necropotenza continuava a sostenerlo in quella battaglia
incruenta:
il suo era stato un mero atto di pietà.
La mano
destra dell’Inquisitore reagì ancora prima del suo
intelletto, stringendosi sul
giavellotto quando vide la sagoma di un uomo uscire dalla cabina e
correre sul
ponte verso di lui, come uno Scoor in un branco alla carica.
Alan
alzò
il giavellotto per colpire, ma ancor prima che terminasse il gesto
– ancor
prima che il Coro si frapponesse tra lui e il bersaglio – la
figura schiacciò
qualcosa tra i palmi delle mani.
Auron, che
stava tentando di arrampicarsi sul carro, perse l’equilibrio
e rovinò a
terra.
L’Inquisitore
stesso, assordato da un rumore che sembrava venire
dall’interno delle sue
orecchie, guardò in basso e vide i propri piedi che si
spostavano, per cercare
di mantenere l’equilibrio. Alzò gli occhi, con
un’espressione attonita in
volto, e fu scaraventato a terra da qualcuno di molto più
forte di lui.
«Chi–»
provò a dire, ma la sua voce fu uccisa da un pugno alla
mascella che gli fece
sbattere la nuca contro il ponte.
Ripresosi,
Auron si trovò davanti un uomo calvo, in abiti di cuoio, che
teneva Alan sotto
di sé come un animale in lotta per il comando. Gli aveva
appoggiato un
ginocchio sullo stomaco e stava caricando il colpo di un martello a
reazione.
Rune incise sul metallo brillavano di giallo e arancione contro il
cielo terso.
Prima che
la sua mente riuscisse a disporre in una linea ciò che era
successo, Auron lo
vide calare l’arma. Sentì il colpo che
spezzò le gambe di Alan, piegandole a un
angolo impossibile come quelle di un manichino di legno. Vide la testa
del
martello spinta all’indietro, dopo essersi sporcata di rosso,
nell’aria che
riverberava di un canto di guerra muto.
Perché…
si
trovò a
pensare, l’odore di sangue che gli saliva alle narici e le
ginocchia percorse
dal fantasma di un dolore, perché non si
è protetto con la Necropotenza?
Aveva tutto il tempo…
L’Inquisitore
non aveva urlato. Cid gli rivolse una smorfia delirante, le labbra
tirate verso
l’alto, i denti scoperti e le braccia che ancora gli
vibravano per la forza con
cui gli aveva rotto le ossa. Alan non aveva dato a vedere la sua
sofferenza, ma
dal modo scomposto in cui la parte inferiore del suo corpo giaceva a
terra era
evidente che non l'avrebbe più mossa.
La tiara
era a qualche spanna dalla sua testa, volata via per la violenza dei
colpi.
Anche in quel momento, lui aveva il mento sollevato e
un’espressione di
sufficienza dipinta negli occhi socchiusi.
«Animale!»
tuonò l’Al Bhed, preparandosi ad assestargli un
altro colpo. «Questo è per il
mio popolo che hai mandato in esilio!»
Prima che
l’attacco potesse concludersi, un incantesimo
scaturì dalle mani di Alan. Nello
spazio di un cono, dritto davanti a lui, il vuoto sembrò
inghiottire la luce.
Il suo nemico fu scagliato all’indietro.
«Barbaro
ignorante».
Alan si
tirò in piedi, come se fosse attaccato a dei fili e un
marionettista lo stesse
rimettendo nella posizione che più gli si addiceva. I
lunioli gli volteggiavano
attorno alle ginocchia, oltrepassando la barriera dei suoi abiti
strappati.
Auron
sgranò gli occhi e fece un passo indietro. Si
scontrò con qualcun altro, l’Al
Bhed che fino a poco prima stava guidando il carro armato, e
incespicò su di
lui.
Sta…
sta manipolando il suo stesso sangue…
Senza
bisogno di muovere le gambe, l’Inquisitore si diresse verso
Cid, ancora seduto
a terra. Nel momento in cui alzò il braccio, delle mani
evanescenti apparvero
alle sue spalle, come se avessero sfondato un portale. Alcune gli si
aggrapparono alla veste, altre ai fianchi, altre ancora provavano a
toccarlo ma
non ci riuscivano. Entrambi i suoi occhi furono coperti dalle dita
bianche di
un bambino che fluttuava dietro di lui. Il suo viso era oscurato da un
cappuccio e reclinato sulla spalla di Alan; dalle sue labbra socchiuse
non
usciva alcun suono.
«L’esilio,»
riprese l’Inquisitore, «bilancia della patria e
dell’anima… se tu le valuti
allo stesso modo allora affida la seconda a me».
«Alan!
Fermo!»
A quel
grido, il giudice si immobilizzò e inclinò il
capo. La sua armatura spettrale
si mosse con lui, e i decori sulla sua veste ondeggiarono al
vento.
«Mh?»
«Non
voglio che lo uccidi!»
Braska gli
diede quell’ordine aggrappandosi a tutta la fede che gli era
rimasta. Sapeva
che, seppur cieco, avrebbe riconosciuto la sua voce.
Sperava
che le avrebbe dato ascolto.
Il medio e
l’anulare del bambino si separarono, e l’Invocatore
intravide l’iride celeste
del fratello che si dirigeva verso di lui.
Lentamente,
come confuso da quella richiesta, Alan si passò la mano
destra sul mento,
asciugando con il guanto il sangue che colava.
«Gli
uomini pii,» cominciò a dire. Le sue parole erano
scandite come il battito di
un tamburo, ma il suo tono pareva interdetto, «non hanno mai
deciso le sorti di
una guerra».
«Yunalesca
lo ha fatto, in nome di Yevon. Per lo stesso nome, ti prego di
fermarti».
La figura
sottile di Braska, il suo corpo avvolto dalla tunica e il suo
atteggiamento
mite assunsero una certa solennità composta. Sembrava che
lui solo, per
predestinazione, potesse guardare il fratello negli occhi.
Senza
mostrare alcun timore, l’Invocatore avanzò verso
Alan e indicò Cid, ancora a
terra, con un dito.
«Fa’
che
sia portato in città,» aggiunse, «e
sottoponilo a processo con le leggi di
Bevelle. Qualsiasi cosa sia ciò che hai evocato, e che ti
sta ferendo,
congedalo. Non abbiamo bisogno di altri sacrifici».
Il
giudice, arricciando il labbro superiore, scoprì i denti e
rimase in silenzio.
«Non
lo ha
evocato lui,» intervenne Jecht, facendo anch’egli
un passo avanti. Auron guardò
entrambi con profonda meraviglia, offuscata dalla vergogna di essere
l’unico a
non aver mostrato un tale coraggio. Incurante delle ferite sulla
schiena e del
vento che le sferzava, l’atleta continuò a muovere
voce: «Coro, nessuno dei due
prevarrà sull’altro se agisci così. Tu
stesso hai detto di non volergli
parlare: se hai qualcosa da mostrare, fallo con me».
Concluse
la sua breve orazione allargando le braccia, come se volesse mostrare
il
tatuaggio sul petto. I fantasmi che avevano attorniato Alan, guidati
dal
bambino incappucciato, scivolarono verso di lui come un ruscello tra le
pietre.
Jecht
serrò gli occhi mentre percepiva una forza sconosciuta che
gli toccava le
viscere. Barcollò, abbagliato dalla luce, e
appoggiò le piante dei piedi su
quella che, dalla consistenza, gli pareva neve.
Attese che
la morsa del freddo gli aggredisse la carne, ma non avvertì
alcuna sensazione.
Abbassò lo sguardo, confuso, e incontrò un manto
candido.
Quando lo
rialzò, vide le spalle ampie di un uomo. La sua chioma era
acconciata in una
grande treccia, avvolta sul capo, su cui era posata una corona
d’oro. La
tempesta di neve rendeva difficile vedere lontano, tuttavia Jecht
distinse una
seconda figura, una donna, che si avvicinava a lui e gli stringeva il
braccio,
come a dargli conforto. Era molto più giovane di lui. Aveva
ricevuto in sorte
una bellezza altera, terribile, e dei capelli talmente chiari da
sembrare
bianchi che le arrivavano pressoché alla vita.
La foggia
dei loro abiti, i loro colori, ricordavano quelli che Jecht aveva visto
su
Spira, tuttavia le insegne infisse sul suolo ghiacciato mostravano il
ben
riconoscibile stemma di Zanarkand. Lo stesso che, in una vita
precedente o
forse futura, aveva sventolato sulle bandiere degli Abes.
Un lampo
di luce e la scena svanì. Le pupille di Jecht, dopo pochi
istanti, si
abituarono come il cuore che, dopo aver battuto a vuoto per uno
spavento, pian
piano torna al suo ritmo.
Accasciato
a terra c’era il bambino vestito di viola, ma al cappuccio
s’era sostituita una
corona intrecciata di fiori. Si copriva il viso, nascondendolo
nell’incavo dei
gomiti.
Il secondo
lampo illuminò la lama d'un coltello.
Terrorizzato,
Jecht mosse un passo indietro. Non aveva mai distolto lo sguardo da
ciò che
stava accadendo, eppure qualcosa era cambiato. La neve era striata di
una
grande quantità di sangue. La corona di fiori posava sul
capo di un giovane
rannicchiato. A Jecht pareva di avere già visto il profilo
spigoloso delle sue
scapole. Attorno a lui c’erano sempre le stesse montagne.
Il Coro,
con vesti e maschere tanto bianche da confondersi nella neve, si era
disposto
in modo da circondarlo.?
CORO
A costui, uomo orrendo, non
s’avvicini nessun vivo:
Non vede e non può più capire.
Cos’è a me con lui? Infranse le leggi del dio:
Non più noi dobbiamo punirlo.
JECHT
Dov’è quello che ti sta a capo?
CORO
È morto. Non hai visto? Il mondo ha
assistito, intero,
Al suo
sacrificio di spine.
JECHT Quando ti ho incontrato per la prima
volta,
credevo che fossi solo qui ad osservare. Non vi ho dato peso,
poiché tante sono
le cose nuove che ho visto su Spira, e tante ancora – a
capire ciò è
bendisposto l’animo dell’uomo – sono
quelle che dovrò incontrare.
Il mio
animo però non capisce quello che mi hai mostrato,
né perché con l’ostinazione
del serpente tormenti quel giudice.
CORO
La tua mente sarà disposta ad
accoglierlo un giorno,
Se mai varcherai il tempio estremo.
Quando s’immola un figlio allora si sa della morte.
JECHT Quel bambino in porpora era tuo
figlio?
CORO
Lui, e te, e Zanarkand tutta.
Ma seme dell’ombra è quell’uomo,
Contaminato d’altrui sangue.
In torbido esilio languisca.
«Jecht!»
La voce di
Braska era come una mano che si allungava dalla superficie, mentre lui
sprofondava verso gli abissi del mare.
«Jecht!»
Si
trovò
disteso su una superficie morbida, all’interno di
un’aeronave che declinava
dolcemente verso la pista d’atterraggio.
Come
tutti
gli esuli, lui voleva tornare a casa.
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Capitolo 47 *** L'ora incerta ***
CAPITOLO 32:
L’ORA INCERTA
Jecht
baciava con la fame di un leone e con la passione di chi è
stato troppo vicino
alla morte. Auron strinse le dita sui suoi capelli e lo
sbatté con poco riguardo
contro il muro, in un angolo della sua stanza. L’atleta aveva
provato a
cominciare con delicatezza, ma si era scontrato contro
un’altra voglia a cui si
era adeguato molto presto.
Auron si
scostò appena dalle sue labbra, solo per sentirlo ansimare,
poi ricominciò a
dedicarsi a lui. La barba di Jecht gli pungeva il viso e sentiva un
sapore
fiero e nuovo sulla lingua.
C’era
qualche secondo che mancava ai suoi ricordi, tra il momento in cui si
erano
chiusi la porta alle spalle, già avvinghiati l’uno
all’altro, e quello in cui
si erano ritrovati così, ma era sepolto tra i battiti di
tamburo del suo cuore,
ucciso da un desiderio che divorava il tempo.
Non
ricordava chi dei due avesse iniziato. Sapeva solo che il terrore che
aveva
provato nel vederlo quasi morire sotto i colpi del nemico si era
trasformato in
qualcosa di ben diverso.
Il peccato
era davvero suadente quanto dicevano. Auron avrebbe voluto che quegli
istanti
confusi e affannati durassero per sempre, in modo da poter contare
l’eternità
sulla bocca di Jecht.
Lui
schiuse le labbra e gli si concesse con abbandono, le mani che
stringevano le
sue spalle e il bacino che tentava spasmodicamente di muoversi. Quando
Auron
gli si spinse contro con decisione, lui si lasciò sfuggire
un verso simile ai
lamenti che innalzava quando veniva colpito in battaglia. Il monaco
sentì un
fuoco attraversargli le vene e fermarsi all’inguine,
avvertì il desiderio
sempre più urgente di continuare a baciarlo.
Si
avventò
sulle labbra di Jecht e gli parve di sentirlo sussurrare il suo nome
tra i
respiri irregolari. Gli prese il viso tra le mani e osservò
i suoi occhi lucidi
socchiusi, il petto che si alzava e si abbassava e la sua bocca che,
quando non
era coperta da quella di Auron, cercava di respirare tutta
l’aria a cui aveva
accesso.
Davvero
l’eccitazione lo rendeva così disperato?
L’uomo
che
aveva pianto Zanarkand gli sembrava ridotto a una creatura senza
ragione e
senza nome, mentre sentiva il battito della sua giugulare sotto le dita
e sotto
le labbra. Gli baciò il collo, come se lui stesso gli avesse
indicato dove
colpire, e lo sentì aggrapparsi al suo cappotto mentre
insisteva sull’incavo
della spalla. Lo prese per la nuca e osservò il suo profilo
nella semioscurità,
gli percorse con le labbra la curva del pomo d’Adamo e lo
sentì sussultare e
gemere piano. Jecht era debole tra le sue braccia, come se un veleno lo
stesse
lentamente consumando.
«Adesso
non dici più niente?» gli chiese Auron tra i
denti, spingendolo contro la
parete e risalendo lungo il collo, verso la sua bocca. Ricevette in
cambio solo
i lamenti languidi di qualcuno che brucia.
Il monaco
lo fece voltare in modo da avere la sua schiena appoggiata al petto. Lo
strinse
tra le braccia e lo baciò ancora, scacciando il pensiero
della morte, dei loro
corpi pasto di cani e d’uccelli. Sentiva la mente
dissolversi, sconfitta dalla
passività con cui Jecht accettava le sue attenzioni. Quasi
come se, così
facendo, potesse vincere lui.
Auron gli
passò una mano sul fianco, lungo la cicatrice che qualche
battaglia gli aveva lasciato.
I muscoli dell’atleta si contrassero al suo tocco. Sotto la
pelle di Jecht,
illuminata dalla lama di luce che filtrava dagli scuri, si era
incarnato quello
spirito terribile che spezzava le briglie dei sacerdoti. Era nel suo
corpo,
reclinato dolcemente tra le braccia dell’amante, quella
stessa forza che era
capace di ingoiare il sole del mattino.
La
decisione nei gesti del monaco diminuì a poco a poco, mentre
le sue dita
accarezzavano Jecht e scivolavano sotto la sua salopette
all’altezza della
cintura, tracciando la cresta dell’osso del bacino.
Sentì
il
sorriso di scherno di Jecht.
Non aveva
mai toccato in quel modo un corpo che non fosse il proprio. Quelle
poche volte
in cui non era riuscito a resistere ai suoi bisogni, era stato
trattenuto da un
timore che aveva reso fugace il piacere, e lo aveva poi indotto a
pregare
perché il dio perdonasse i suoi peccati.
Auron fece
scorrere la mano libera sulla coscia dell’amico e la strinse,
attirandolo a sé
in modo da annullare la distanza tra loro.
Notò
che
Jecht aveva cominciato ad accarezzarsi tra le gambe, sopra i vestiti, e
lo
bloccò stringendogli con fermezza il polso.
«Scusa…»
mormorò l’atleta, piegando il capo per appoggiarlo
sulla spalla di Auron, «I–»
Le parole
gli morirono in gola, e i suoi occhi si sgranarono nella penombra,
quando sentì
la mano del monaco guidare la sua sotto la cintura. Con la sinistra,
slacciò
con foga il bottone dei pantaloni in modo che le dita di Auron
potessero
passare, e quando lo fecero strinse i denti per trattenere un
gemito.
«…male?»
domandò Auron con voce roca, dato che
l’eccitazione gli rendeva difficile
parlare.
Jecht
scosse la testa e riprese a baciarlo, guidando la sua mano in un
movimento
deciso. Sentirono dei passi e delle voci provenire dal corridoio oltre
la
porta, e Auron, senza smettere di toccarlo, lo strinse a sé
ancora più forte,
come se volesse impedirgli di fuggire.
Il monaco
scostò i capelli dal collo di Jecht e vi appoggiò
di nuovo le labbra, in modo
da poterlo sentire ansimare. In nessuna delle sue fantasie era riuscito
a
immaginare un suono tanto seducente, né il modo in cui le
sue sopracciglia si inarcavano
sulla fronte e i suoi occhi lo imploravano.
Qualcosa,
un desiderio disgustoso, stava spingendo l’attenzione di
Auron verso il basso,
dove non avrebbe dovuto guardare. Si soffermò lì
dov’era la sua mano solo per
un istante, poi tornò a guardare il viso di Jecht.
L’uomo
di
Zanarkand tra le sue braccia continuava a subire, e i suoi sospiri a
confondersi nella notte, mescolandosi a quelli lievi del vento sulle
bandiere.
Ad un
tratto il suo corpo ebbe uno spasmo, e Auron sentì che
finalmente i suoi ansiti
si trasformavano in gemiti trattenuti.
«Guardami,»
gli ordinò, cercando di ignorare la punta della freccia che
gli premeva sul
cuore, sotto la pelle.
Jecht
reclinò il capo sulla sua spalla e lo fissò con
gli occhi ardenti, mormorando
qualcosa che suonava come il suo nome. Non si sforzò di
mantenere
un’espressione composta mentre la mano di Auron lo portava
oltre il limite dei
suoi sensi.
Nel
guardarlo a sua volta, al monaco sfuggì un verso gutturale,
simile a quello che
precede il ruggito dei Ramashut lungo la via martoriata per Djose. Si
avventò
sulle labbra di Jecht, che trovò già schiuse, e
lo baciò senza pudore. Poi,
come se si fosse reso conto del demone che lo stava possedendo, si
staccò da
lui in modo brusco, chiudendo a pugno la mano che aveva
peccato.
Jecht lo
fissò con lo sguardo ancora confuso dalle sensazioni che
aveva provato, come se
facesse fatica a mettere a fuoco lui e non il muro alle sue spalle. Il
suo
respiro, tuttavia, si regolarizzò presto, e lui
tornò alla realtà in tempo per vedere
Auron dargli le spalle. Sentì l’acqua scorrere nel
piccolo bagno che aveva
nella stanza che gli era stata concessa sulla nave, poi vide la schiena
di
Auron piegarsi sull’asciugamano.
Le sue
mani si appoggiarono alla parete, come se volesse accertarsi che
ciò che lo
circondava fosse reale. Guardò verso il basso. Forse avrebbe
dovuto rivestirsi.
Forse lo
sguardo disgustato che Auron gli lanciò, con le narici
dilatate e le labbra
piegate, mentre lo squadrava da capo a piedi, aveva una sua ragione.
Quando
chiamò il suo nome, lo fece in una stanza vuota in cui lui
non si era nemmeno
richiuso i pantaloni.
Braska
amava particolarmente la sfumatura di colori che assumeva il sole al
tramonto:
le tonalità di rosso e arancione si mischiavano tra loro
come la fiamma del
falò che spesso accendevano lungo la via del Pellegrinaggio,
ricordandogli come
era caldo e vivo il colore appena tatuato della sua fenice.
Non
mancava poi molto al giorno in cui non avrebbe più goduto di
quella vista:
cercò di imprimere nella sua mente ogni dettaglio di
ciò che vedeva, così da
averne memoria anche nell’Oltremondo. Reggere le redini dei
pensieri era
tuttavia difficile e, per quanto si sforzasse, non riusciva a non
cedere alla
forza del cavallo che lo tirava verso la malinconia.
Mentre il
suo sguardo si perdeva nelle tranquille onde del mare, Cid invece
veniva
portato in catene verso il Palazzo di Giustizia. Braska poteva vedere
la scena
nella sua immaginazione come se fosse lì presente: la
schiena dritta dell’Al
Bhed, il suo volto impassibile e la camminata decisa di chi non provava
alcuna
paura.
Il
pensiero che il cognato volesse riaprire i contatti con lui gli fece
venire la
nausea per fin troppi motivi, e in quel momento Cid era nelle mani di
Alan, a
cui aveva spezzato le gambe solo a livello figurato. Sarebbe stato
difficile
farlo scagionare, pur facendo leva sui vaghi sentimenti del giudice, ma
Braska
ci avrebbe almeno provato.
Non
sperava di farlo liberare, non ci sarebbe mai riuscito. Forse poteva
parlare in
difesa dei bambini, e così provare a rendergli la pena
più leggera. Avrebbe
potuto provare a risollevarlo, come aveva fatto con Jecht.
Come era
suo compito fare per quell’isola bellissima e insieme
desolata.
Braska
sospirò forte e prese il suo rosario in mano. Porsi domande
a cui non poteva
dare risposta lo stava innervosendo: le preghiere al dio, ascoltate o
meno,
erano familiari e accoglienti, in netto contrasto con la voce rauca di
Alan che
avrebbe pronunciato la sentenza.
La sua
litania fu interrotta da passi pesanti che pestavano il legno della
nave come
uva durante la vendemmia. Preoccupato, Braska sporse la testa dalla
porta,
incontrando un Auron che sembrava volesse caricare un nemico da un
momento
all’altro.
«Auron,
va
tutto bene?» chiese preoccupato.
Il monaco
sobbalzò quando sentì la voce del suo Invocatore:
si allontanò ancora di
qualche passo dalla sua camera, annuì senza rispondere e
filò via, marciando
sostenuto chissà dove.
Braska
provò a chiamarlo nuovamente, ma infine decise di non porsi
più domande per quel
giorno e lasciare tutto fluire. Di punto in bianco, sentì
una certa
intolleranza generale farsi largo nei suoi pensieri, segno che il suo
corpo era
ormai arrivato al limite: terminò le preghiere e si
coricò a letto, sperando
che il giorno successivo avrebbe portato buone notizie.
Il mattino
seguente, nonostante non avesse riportato ferite durante lo scontro,
Braska non
riusciva proprio ad alzarsi dal suo giaciglio: i muscoli irrigiditi lo
teneva
incollato al materasso come se ne valesse della sua vita. Una volta,
quando era
piccolo, suo fratello gli aveva detto che certe voglie o sensazioni
strane
erano strettamente legate a delle mancanze che il corpo soffriva.
L’Invocatore
pensò subito che lo zucchero di una caramella lo avrebbe
fatto sentire meglio,
che fosse solo provato da ciò che aveva vissuto, ma ben
presto realizzò che la
sofferenza che sentiva era mentale. Era arrivato a un punto in cui era
davvero
stanco: stanco di vedere le persone a cui teneva darsi battaglia e
stanco di
vedere la propria missione ostacolata.
Su Spira
non si facevano molti complimenti quando si trattava di mandare a morte
qualcuno, ma, in qualche modo, la sua di morte era affare di molti con
molte
opinioni al seguito. Sorrise amaro, pensando a quanto macabra fosse
quella
considerazione: Auron avrebbe concordato, incline a quel tipo di
umorismo, ma
Jecht, estraneo in quella terra, ne sarebbe rimasto turbato.
Si
girò su
un fianco, appuntandosi di non fare battute del genere davanti al suo
Guardiano
più anziano. Da quando erano tornati dalla missione,
l’atleta in particolare,
sembrava essere logorato dall’ansia, come se potesse morire
da un momento
all’altro, proprio come era successo sulla nave.
Il
pensiero che Jecht fosse così spaventato gli provocava
sofferenza. Si ripromise
di andarci a parlare il prima possibile.
Sospirò
esausto e si tirò a sedere, puntando gli occhi verso
l’orizzonte e la città,
dove quel giorno non aveva voglia di andare. Il peso che sentiva sullo
stomaco
non era passato nemmeno quando aveva posato i piedi a terra, al sicuro,
e anzi
aumentò quando i suoi pensieri si focalizzarono su Cid,
prossimo al processo.
Decise che
una caramella non gli avrebbe fatto male in ogni caso. Mentre gustava
la
dolcezza della fragola, Braska si vestì pigramente, come se
volesse evitare di
uscire da quella stanza a tutti i costi.
Il
familiare passo pesante di Auron si fermò davanti la sua
porta, per poi bussare
con delicatezza.
«Sta
bene,
signore? A quest’ora è già in
piedi,» chiese il monaco preoccupato.
«Sì,
mio
caro amico. Sono solo un po’ nervoso,» rispose
Braska tirando un sorriso che il
compagno non poteva vedere.
«Io
e
Jecht la aspettiamo sul ponte.»
Auron non
aggiunse altro: sapeva cosa stava passando il suo Invocatore, e si rese
conto
di non essergli stato abbastanza di conforto in quei giorni.
Quando
Braska arrivò sul largo ponte della nave, notò
che i suoi Guardiani fissavano
un punto sul molo con aria preoccupata.
Due uomini
dell’Inquisizione, armati e preparati al combattimento,
stavano scortando i
figli di Cid. I bambini avevano lo sguardo basso e non proferivano
parola,
nemmeno Rikku che, data la giovanissima età, non era dotata
dello stesso
autocontrollo del fratello.
I loro occhi,
sui volti pallidi, sembravano gonfi di lacrime e spenti.
«Prego,
fateli venire da me,» disse Braska in un sussurro.
Spinti
senza violenza sulla schiena dalle mani dell’uomo che li
scortava, Rikku e
Fratello avanzarono verso Braska. Quando alzarono le pupille a spirale
per
fissarlo, lui ci vide uno strano sguardo di speranza e accusa insieme.
Non li
toccò, ma si mise tra loro e l’uomo mandato da
Alan, spostandosi dalla linea
immaginaria che i suoi Guardiani, uno a destra e uno a sinistra,
avevano formato.
Auron e Jecht si lanciarono uno sguardo indecifrabile.
Rikku, per
attirare l’attenzione, si schiarì la voce come ad
imitare un’adulta.
Mostrò
a
Braska una lettera spiegazzata, su cui erano evidenti i segni delle sue
dita, e
non disse nulla nemmeno quando lui la prese e se la mise davanti al
viso.
Estrasse
dalla veste un paio di occhiali dalla montatura sottile e
cominciò a leggere la
missiva, con le sopracciglia inarcate.
Le
cerimonie per l’apertura del torneo dei giorni prossimi
venturi ritarderanno il
processo.
Dal
momento che hai preso così a cuore le sorti del padre, ho
ritenuto di affidare
a te questi due bambini, fino a quando la sentenza non sarà
definitiva.
Il
più
grande mi ha dato un pugno in faccia.
«Certo…»
mormorò l’Invocatore, quasi a se stesso. Si tolse
gli occhiali e ripiegò la
lettera, poi ripose entrambi in una tasca della tunica. «Me
ne occuperò io».
L’apertura
ufficiale della stagione di Blitzball era un evento a cui tutti i
cittadini di
Spira, almeno una volta nella vita, desideravano partecipare. La
cerimonia si
svolgeva ogni anno in presenza di tutti i Maestri di Yevon. Durante
quell’edizione, tuttavia, sarebbe stato presente il Gran
Maestro Mika in
persona, dal momento che ricorrevano quarant’anni dalla sua
elezione.
La
città
di Luka si sarebbe dedicata interamente a un giorno che avrebbe dovuto
essere
perfetto.
Voci
dicevano che il Giudice Alan si fosse mostrato particolarmente
insofferente a
quella ricorrenza. Tuttavia, voci dicevano che il Giudice Alan fosse
avverso a
qualsiasi tipo di avvenimento in cui era costretto a sfilare davanti a
un
pubblico, e le lamentele di un Maestro su tre cadevano con
facilità nel vuoto.
Uno dei
due uomini in nero, che sulla spalla destra della tunica aveva dei
decori
dorati, lanciò un’ultima occhiata ai bambini, poi
spostò lo sguardo verso
l’Invocatore e i suoi Guardiani.
«Il
Maestro Alan manda anche a comunicare che ha deciso chi lo
vestirà per la
cerimonia,» disse, con tono impostato. «Ho il
compito di condurlo da lui».
Braska
smise di far scorrere tra le dita le perle del rosario che aveva al
polso e
fece un passo avanti. Tuttavia, il secondo uomo si era diretto verso
Auron e
gli stava porgendo un astuccio scuro con quella che pareva una certa
deferenza.
L’Invocatore
guardò verso Jecht, che sembrava essersi congelato sul
posto. Quando il
Guardiano notò che Braska stava guardando verso di lui,
strabuzzò gli
occhi.
Il monaco
non era meno interdetto ma, senza dire nulla, accettò
l’astuccio e l’aprì. Al
suo interno, adagiato su un velluto cremisi, c’era un paio di
occhiali. Avevano
lenti ovali, piccole e scure, che gli avrebbero coperto gli occhi senza
nascondere il viso. La montatura argentata mandò un bagliore
nella stanza,
presto oscurato dal coperchio che si richiudeva.
Auron
alzò
gli occhi su quelli chiari dell’uomo che gli stava davanti.
«Capisco».
«Non
capisco! Che il sangue della mia famiglia si sia mischiato con quello
di questa
razza di ostinati… io non posso ancora crederlo!»
La voce di
Alan tuonò tra i muri alti del Palazzo di Giustizia,
coprendo il suono dei suoi
tacchi sul pavimento e quello, ancor più flebile, della sua
veste che
frusciava.
«Signore,»
esordì Kelk Ronso, facendo un passo in avanti verso la cella
dove era rinchiuso
Cid. Erano lontani dai fasti del salone principale, dai marmi rossi e
dalle
statue degli Invocatori del passato che abbassavano gli occhi sulla
scalinata,
dolci archi sopra le loro teste.
Il
giudice, tornato sui suoi passi, si era fermato davanti
all’Al Bhed oltre le
sbarre e aveva preso a fissarlo.
«Per
l’ultima volta,» riprese. Poi serrò gli
occhi e abbassò il tono di voce. «Per
l’ultima volta, prima di interrogarti in tribunale. Ci sei tu
dietro i moti
degli Al Bhed di questi ultimi giorni?»
«Per
l’ultima volta, prete,»
ribatté Cid, sporgendosi verso di lui come se
volesse vedere oltre il velo, «non ho intenzione di metterti
in mano
nessun’arma per accusarmi. Risponderò quando
sarà il momento».
«Mio
fratello ha interceduto per una stirpe di barbari!»
sbottò Alan con un gesto
stizzito delle mani, dopo avergli voltato definitivamente le spalle.
«Signore,»
ripeté Kelk, con più decisione. Il giudice diede
qualche colpo di tosse e gli
rivolse l’attenzione; lui si sentì autorizzato a
proseguire: «Le hanno condotto
l’uomo di cui ha chiesto».
Alan
soffiò via l’aria dal naso e si
massaggiò le tempie, come se volesse
riprendere il controllo della situazione e scacciare
l’immagine di Cid
dalla mente. Interrogare Davon gli aveva dato molta più
soddisfazione, emozioni
non paragonabili gli avevano riempito il cuore mentre lo sentiva
vacillare sotto i colpi delle sue domande.
«Sì,»
rispose. «Fallo entrare».
«Il
protocollo numero 14 per le funzioni al di fuori dei templi cittadini
prevede
che…»
Alan
fermò
le parole di Kelk alzando la mano destra, aperta, di fronte a lui.
«Va
bene,
ho capito».
«Permette
una domanda, Maestro Alan?» chiese Kelk. «Non mi
è chiaro un punto della
questione».
«Prego,
vai avanti».
«Non
riesco a capire perché ha scartato l’idea di
scegliere l’Invocatore per la
cerimonia e ha preferito quell’uomo». Il muso di
Kelk si arricciò e le sue
zanne si strinsero, come se fosse sul punto di ringhiare. «Si
è fatto ripudiare
dal suo ordine monastico andando contro ai precetti. Non potrebbe
essere
considerata… eretica, come
scelta?»
Alan gli
rivolse uno sguardo ostentatamente ammirato, poi scrollò le
spalle e rise. Per
qualche motivo inconscio, quando Kelk vide i suoi denti capì
che erano più
pericolosi di quelli di un Ronso, e avvertì
l’istinto di indietreggiare.
«È
un’osservazione molto interessante, mio caro Kelk,
tuttavia…» il giudice inarcò
le sopracciglia e scosse la testa, senza smettere di sorridere.
«Decido io che
cosa è eretico».
|
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Capitolo 48 *** Che Yevon ti abbia in gloria (Parte 1) ***
CAPITOLO 33:
CHE YEVON TI ABBIA IN
GLORIA (PARTE 1)
Auron,
dopo essere stato spogliato delle sue armi, fu portato in una camera
privata
del Palazzo di Giustizia, adiacente a una cappella, poiché
così prevedevano i
riti. Un Templare gli aprì la porta, e lui fu soggiogato
dall’occhio di Yevon
dipinto sul muro rossastro.
Direttamente
sotto la pupilla, uno specchio rettangolare gli restituiva
l’immagine di Alan,
seduto su una sedia di legno ornato, che gli dava le spalle. Indossava
solo un
paio di pantaloni scuri e un rosario nero gli cingeva il collo,
ricadendo sul
petto nudo. Alzò il capo velato, senza voltarsi, e Auron
costrinse il proprio
sguardo a non soffermarsi sul suo corpo. Osservò la sua
scorta mostrargli la
spada che lui stesso aveva consegnato, gesto a cui il giudice rispose
con un
cenno della mano.
La
tensione era insopportabile. Anche senza guardarlo, forse Alan avrebbe
capito
tutto. Forse già sapeva, ed era quello il motivo per cui lo
aveva convocato.
Auron
eseguì il saluto yevonita in segno di rispetto, poi si
forzò a muovere qualche
passo all’interno della stanza, ma fu fermato dalla voce
autoritaria
dell’Inquisitore.
«All’inguine».
Auron si
immobilizzò.
«S-scusi?»
mormorò, con lo sguardo che tornava sulle sue spalle,
indagando le pieghe del
velo nero, più lungo di quello che indossava di solito. Era
sempre stato così
magro, anche il giorno in cui lo aveva sconfitto più e
più volte sulla strada
per Djose?
«Hai
un
pugnale legato all’altezza dell’inguine, sotto i
vestiti,» continuò il giudice,
interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Sempre senza voltarsi,
alzò una mano
come a voler afferrare qualcosa. Auron non ricordava di averlo mai
visto senza
guanti. Avrebbe notato i vistosi anelli che portava, tre per ogni mano:
d’argento la destra e d’oro la sinistra.
«Vuoi darmelo tu, così evitiamo
l’imbarazzo di farti perquisire?»
Auron
deglutì a fatica, con il cuore che accelerava i battiti,
come a volergli
ordinare di combattere o fuggire.
«…sì».
Slegò il pugnale, poi si avvicinò alle spalle di
Alan e glielo porse. Le sue dita
si strinsero immediatamente sul fodero. «Non… non
intendevo nasconderlo,
signore. Sono sincero, avevo dimenticato che fosse lì. Come
ha fatto a
capirlo?»
Alan
avvicinò a sé un posacenere in vetro lavorato e
rise in modo quasi bonario.
«So
qual è
l’equipaggiamento dei Templari. Il pugnale pensato per
suicidarvi, in modo da
evitare il disonore di una morte con dolore…» Lo
specchio rimandò l’immagine
del giudice che abbassava lo sguardo per osservare l’arma.
Poi l’appoggiò al
tavolo, la lama allineata con il bordo.
«C’è anche stato chi l’ha
usato in modo
più saggio».
«Non
era
mia intenzione, signore».
«Ti
credo,
ti credo. Orbene,» Alan fece leva con entrambe le braccia
sullo schienale della
sedia e rivolse finalmente il viso ad Auron. «Ti hanno
informato sul rito che
devi svolgere?»
Il monaco
abbassò il capo con umiltà.
«Sì,
signore,» rispose. «Si usava anche al mio monastero
a Bevelle, per prepararci
alle cerimonie ufficiali. Quando sono stato investito del ruolo di
Guardiano di
suo fratello… Wen Kinoc ha effettuato il rito per
me».
Alan si
tolse con cura il velo che era costretto a portare e lo
appoggiò sul tavolo di
fronte a sé. Poi estrasse un sigaro da una scatola
d’argento e, prima di
accenderlo, lo prese tra indice e medio e lo osservò
rigirandolo, come a
volerlo ispezionare.
«Ah,
Kinoc. Il comandante in seconda dei Templari».
Auron si
irrigidì. A disagio, si ritrovò a fissare il
volto di Alan, che si era girato
nuovamente verso lo specchio. Osservò senza ostacoli il naso
dritto dell’uomo e
le sue ciglia scure, forse truccate con qualche polvere per infondere
ancora
più inquietudine a chi cercasse di guardarlo negli occhi
celesti. Il suo
aspetto aveva qualcosa di ipnotico, molto diverso dalla dolcezza
composta dei
lineamenti di Braska. Nonostante fosse esile, non c’era nulla
in lui che
suggerisse qualche tipo di debolezza.
La mente
di Auron, quasi per proteggerlo, disegnò
l’immagine di Kinoc, si rivide a
pregare con lui al monastero di Bevelle.
«Ha
notizie su di lui?» domandò.
Nella
stanza si alzò uno sbuffo di fumo e si udì il
rumore dell’accendino del giudice
che si richiudeva, soffocando la fiamma.
«Sì,»
replicò, con voce ovattata dal sigaro che teneva
tra le labbra. «Pare che
stia avendo una brillante carriera nell’esercito. E che stia
perdendo i capelli».
Alan si girò per mettersi di profilo allo specchio, e
alzò il mento com’era
solito fare. Si portò una mano alla tempia, dove i capelli
intrecciati
strettamente stavano cominciando a ingrigire, e inarcò le
sopracciglia. Nel
vedere le sue espressioni abituali senza il consueto schermo
d’incertezza,
Auron si sentiva tutt’altro che a suo agio. «Li sto
perdendo anch’io?»
«Non
mi
sembra».
«È
un po’
giovane per perdere i capelli,» continuò
l’Inquisitore. «Ah, e si sposerà a
breve». Poi, notando che Auron si era irrigidito,
spinse il labbro
inferiore in avanti e aggiunse: «La cosa ti
disturba?»
«Francamente,
signore, mi risulta difficile credere che lei non sappia il motivo per
cui sono
uscito dall’ordine».
Alan prese
un’altra boccata dal sigaro, e il monaco vide che la sua mano
destra era incisa
da graffi e lividi semicircolari. Sulle nocche aveva delle sbucciature
che
stavano guarendo.
«Sembra
che io e te siamo entrambi poco adatti al matrimonio,»
osservò, «chi per un
motivo e chi per un altro. A tal proposito, ti è piaciuto il
regalo che ti ho
fatto recapitare?»
«Molto».
Alan
sorrise e chinò il capo, come a dire “è
cosa da niente”. Poi accavallò le
gambe, batté il sigaro sul posacenere e tornò a
guardarsi allo specchio.
«Sapevi
che alcuni dei sacerdoti chiedono delle belle ragazze per officiare
questo
rito? Ad esempio Kryon, hai presente?»
Auron si
guardò attorno. La stanza non conteneva nessun effetto
personale di Alan se non
l’incensiere che portava sempre con sé.
Riportò gli occhi sull’Inquisitore, e
di nuovo fu attratto dalla curva del suo collo, nel punto dove si univa
alle
spalle. Perché continuava a guardare un uomo del genere? Era
una conseguenza di
ciò che aveva fatto?
«No».
«È
l’uomo
che ti ha accompagnato qui». Dalla pila di documenti che
aveva davanti, Alan
estrasse un taccuino rosso. Presa una matita, vi annotò
qualcosa con aria
pensierosa. «E anche Gerit, mi è parso».
Il respiro
di Auron si interruppe; lui seguì l’istinto di
indietreggiare di un passo,
verso la porta, ma fu subito raggiunto dalla risata contenuta del
giudice. Alan
si voltò e gli mostrò le due pagine del taccuino,
su cui non aveva scritto
nulla.
«Sto
scherzando. Avevi una faccia divertente,»
commentò. Poi, mentre Auron si
mordeva il labbro inferiore per evitare che tremasse, Alan si
alzò. Gli si mise
di fronte, e il Guardiano si preparò per resistere alla
stretta delle sue dita,
quella che aveva subìto e temuto.
Invece, la
mano di Alan gli prese il braccio, poco sopra il gomito. Il monaco
sgranò gli
occhi. Si ricordava di aver ricevuto un gesto simile, a Bevelle, da uno
dei
suoi maestri.
«Seguimi».
Auron
rimase immobile come una statua mentre Alan, con il capo scoperto e le
mani
unite in grembo, si dirigeva verso la porta. Si riscosse
all’improvviso quando
si accorse che l’Inquisitore lo aveva superato, rendendosi
conto che si stava
dirigendo verso un corridoio la cui architettura imitava quella di
alcuni
templi.
Gli archi,
che si aprivano verso l’esterno, lasciavano filtrare i raggi
del sole in modo
da creare un gioco di luci e ombre che ricordava i merletti
dell’isola di
Kilika.
La
camminata del giudice era solenne, allo stesso modo di ogni suo gesto.
Come nel
giorno lontano in cui Auron aveva assistito alla sua investitura, sulla
sua
scapola destra spiccava il tatuaggio di una falena, che batteva le ali
ora nel
buio e ora alla luce. Pochi uomini potevano portare quel simbolo di
sfortuna
sulla pelle senza temerlo.
E molti
anni prima Auron aveva sostenuto la sua vista, ma l’aveva
fatto con uno sguardo
inconsapevole di cosa la nudità potesse significare.
«Hai
qualche peccato da confessare prima che ti permetta di avvicinarti a
me?»
La gola
del monaco si chiuse, tutti i suoi muscoli si irrigidirono e il respiro
perse
di regolarità. Lui pregò che Alan non lo notasse,
ma il giudice piegò da un
lato la testa. Anche se a fatica, si intuiva sotto la sua pelle la
forma della
spina dorsale.
«Capisco
la reazione,» disse, senza voltarsi. «Te lo sto
chiedendo in qualità di
sacerdote, non di Inquisitore: è piuttosto empio eseguire un
rito con delle
riserve nel cuore. Braska ti avrà fatto confessare spesso,
immagino».
«Sì,»
mentì Auron. Poteva solo ringraziare Yevon che Alan gli
stesse rivolgendo le
spalle, eppure tutto in lui gli dava la sensazione che già
sapesse. Che già
avesse deciso la sua sentenza, e che capisse che cosa significavano gli
occhi
del monaco sul tatuaggio sopra il suo gomito.
«Quindi?»
lo incalzò l’Inquisitore.
«C’è qualcosa nel tuo animo che non ti
fa sentire
puro agli occhi di Yevon?»
«Il
suo lavoro
però, signore, non è quello di
perdonare».
Alan
raddrizzò la schiena, e il suo passo perse la
rigorosità militare che aveva
avuto fino a quel momento. Non visto dall’uomo che gli stava
alle spalle,
sorrise ammirato dalla prontezza di quella risposta.
«Preferisco
parlare direttamente al dio…» continuò
Auron, «finché egli mi
ascolterà».
«Come
desideri. Posso farti una domanda?»
«Sì».
«Che
idea
ti sei fatto di me?»
I gabbiani
gli fecero eco, e Auron sospirò. Vedeva la fine del
corridoio, ma sapeva che
non era tanto vicina da permettergli di eludere la domanda,
così abbassò lo
sguardo sui propri piedi che calpestavano il marmo bianco, e
rispose:
«Non
ne ho
una generale, solo intuizioni che dipendono dalla situazione. Ad
esempio, penso
che se si fosse trovato nella mia stessa posizione, anche lei si
sarebbe
rifiutato di parlare».
«Davvero?»
Auron
alzò
lo sguardo e fissò i cerchi d’oro che stringevano
le treccine di Alan.
«Ne
sono
sicuro».
«Quindi
pensi che abbia qualcosa da nascondere?»
«Penso
che
se lei si trovasse davanti al suo stesso tribunale, sarebbe
l’unico in tutta
Spira in grado di non dire niente».
Alan rise
e si voltò, fermandosi di fianco alla porta che conduceva
alla stanza
successiva. I suoi occhi chiari guardarono in su, verso il viso di
Auron, e le
labbra gli scoprirono i denti in una smorfia allegra, profondamente
diversa
dall’espressione severa che mostrava di solito, e per questo
inquietante. Uno
dei suoi canini brillò nella penombra. Forse avrebbe potuto
adirarsi da un
momento all’altro e trafiggerlo con una lancia estratta dal
nulla.
Non
devo guardare quel neo, pensò
Auron. Non devo guardargli la bocca. Non devo distrarmi e
compiere qualche
azione che possa essere fraintesa. Devo rimanere calmo…
pensare che anche lui
teme… qualcosa, come ha detto Je-
«È
un modo
curioso per rivolgermi un’offesa e un complimento
insieme,» replicò
l’Inquisitore, «bravo. Non ho una battuta pronta, ragazzo».
Il rosario
che terminava con l’occhio del dio faceva due giri attorno al
suo collo e gli
adornava il petto liscio. A quanti era stato concesso di vederlo in
quel modo?
Lo faceva perché lo riteneva una sorta di discepolo, o
perché voleva sapere se
rivolgesse attenzioni torbide agli uomini?
Per
Yevon, non mi chiami così!
Quando
Auron aveva detto agli uomini dell'Inquisizione che aveva bisogno di
qualche
minuto prima di partire, Jecht aveva intuito subito che non si sentiva
sereno
nei confronti del compito che gli era stato affidato. Non lo era mai,
quando si
trattava del Grande Inquisitore.
Il monaco
si era rigirato gli occhiali da sole tra le dita con fare nervoso,
tanto che
Jecht poteva vedere le vene del suo collo tendersi. Dopo un respiro a
pieni
polmoni, il Guardiano più giovane aveva salutato i suoi
compagni e si era
incamminato con gli uomini in nero verso il luogo designato da Alan.
Rimasto
solo con Braska e i bambini, ancora chiusi nel loro mutismo, Jecht si
avvicinò
al suo Invocatore per chiedere delucidazioni, anche se temeva
tremendamente la
risposta che gli avrebbe dato.
«Piccoli,
che ne dite se andiamo nella mia cabina e vi riposate un po'? Ho anche
le
caramelle!» disse Braska, con un dolce sorriso.
Fratello e
Rikku annuirono senza controbattere, ma Jecht lo fermò con
la mano.
«Un
momento, Braska. Vorrei chiederti una cosa veloce, prima. Dopo sarai
occupato».
«Certo,
dimmi pure,» rispose lui, infilando le mani nelle ampie
maniche della tunica.
«Cosa
deve
fare Auron di preciso? Non mi avete mai parlato di questo
rito».
«Sai,
è un
grande onore vestire il Grande Inquisitore per la cerimonia
d'apertura,»
rispose Braska tranquillo.
«Vestire?
Tutto qui? Non deve fare altro?»
Jecht
incrociò le braccia: toccare Alan non era di certo il sogno
nascosto di Auron,
e forse era proprio quel gesto forzato a renderlo nervoso. Il compagno
era
sempre stato allergico al contatto umano.
«Beh,
ovviamente prima deve confessarsi. Riti sacri come questo lo
richiedono. Non
credo che Auron avrà problemi».
Braska
coprì una risata cristallina con la mano, come era solito
fare, per poi
avviarsi con i nipoti sottocoperta.
Per la
prima volta in vita sua, Jecht si sentì affogare. Si diresse
verso il bordo del
ponte e afferrò la sbarra di ferro con forza, guardando
giù nell'acqua limpida
il suo riflesso terrificato.
Auron
avrebbe mentito? Doveva, o avrebbe rischiato la vita. Per colpa sua.
Jecht si
trovò a respirare a bocca aperta, con il cuore che
martellava nelle orecchie.
Troppo
spesso si dimenticava che posto fosse Spira, così lontana
dalla sua Zanarkand,
dove i peccati commessi rimanevano nelle quattro mura di una camera da
letto,
lontano dal giudizio altrui.
Gli uomini
di Yevon controllavano lo stile di vita di quella povera gente, e
doveva
accettarlo. Ma Auron la sera prima era stato famelico e furioso, e
Jecht aveva
desiderato a lungo il suo tocco.
Se c'era
qualcuno che avrebbe dovuto confessarsi, quello era lui. Non aveva
fatto altro
che provocare, domandare e dare fastidio, attizzando quella fiamma che
Auron
cercava di tenere sopita a tutti i costi per evitare la dannazione. Lo
aveva
fatto pur sapendo che, a casa sua, aveva una famiglia che lo aspettava.
L'atleta
si passò una mano tra i capelli spettinati: aveva la fronte
sudata, le guance
bollenti. Forse una nuotata era la soluzione ideale, ma il suo corpo si
rifiutò
di muoversi.
Il figlio
di Cid somigliava vagamente a Tidus: avevano entrambi i capelli biondi,
ma
Jecht faceva fatica a ricordare la sfumatura di quelli di suo figlio.
In
effetti, aveva fatto presto a dimenticare tutti, inghiottiti dai
capelli di
seta nera di Auron.
Un
traditore e un provocatore pervertito. Avrebbe fatto qualche differenza
se,
davanti ad Alan e in difesa del compagno, si fosse accusato in quel
modo?
Era di
nuovo una zattera alla deriva, preda degli eventi, com’era
diventato quando era
a Zanarkand. Forse esisteva un destino, steso come un tappeto ai piedi
di ogni
uomo, e il suo era quello. Strinse i pugni e i denti, sul punto di
bestemmiare
ad alta voce, ma si bloccò appena in tempo quando
sentì i passi di Braska
dietro di sé.
«I
bambini
sono crollati subito. Chissà quanto dolore hanno dovuto
sopportare,» disse
l'Invocatore, sospirando.
Jecht si
stropicciò gli occhi e cercò di tornare in
sé, calmando il respiro come poteva.
«Essere
prigionieri non dev'essere simpatico per nessuno,»
commentò con voce rauca.
Braska
annuì, poi appoggiò la mano sulla spalla del suo
Guardiano e avvertì i suoi
muscoli marmorei tesi sotto la pelle.
«Vedrai
che andrà tutto bene. Lo so che Alan non ti
piace,» disse l'Invocatore
centrando il punto.
Jecht si
rabbuiò per un istante, scosso dal brivido che il nome del
Grande Inquisitore
gli provocava.
«Sì,
hai
ragione. Cosa facciamo ora?»
«Se
per te
va bene, voglio stare ancora un po' con i miei nipoti. Ho chiesto a
delle suore
di tenerli d'occhio mentre siamo via: più tardi andiamo alla
cerimonia di
apertura del torneo,» disse Braska sorridendo.
Jecht
annuì, ma sentiva il cuore venire stritolato: l'idea di
dover attendere ore
prima di accertarsi delle condizioni di Auron lo faceva impazzire.
Valutò
di
ritirarsi nella sua cabina e riposare, ma la brezza leggera sul ponte
della
nave era l'unica cosa che gli permetteva di respirare a pieno.
Mentre
Braska tornava sottocoperta, Jecht pensò di fare qualcosa
che desse perlomeno
l'illusione di essere costruttivo: recuperata la spada dal suo
alloggio, iniziò
ad allenarsi nei movimenti fondamentali che Auron gli aveva insegnato.
Se il suo
cuore doveva proprio martellare in quel modo selvaggio, almeno lo
avrebbe fatto
per pompare sangue nei muscoli e farlo diventare più forte.
Come
sperava accadesse, il tempo passò più in fretta
di quanto si sarebbe aspettato.
Tuttavia, più il momento della verità si
avvicinava, più la sua ansia cresceva,
e con lei la voglia bruciante di sparire, come era solito fare nella
sua Zanarkand.
Ma
c’era
anche un secondo desiderio che lo annichiliva, e gli faceva sentire le
labbra
di Auron sulle proprie, prima insicure e poi decise a dominarlo; il
forte corpo
di quell’uomo premuto contro il suo, il momento prima ardente
come il fuoco e
quello dopo freddo come la morte.
Forse era
proprio questo che voleva fare con Auron. Sedurlo e poi sparire.
Vecchie
tendenze che non volevano andarsene.
Un
asciugamano venne lanciato nella sua direzione; distratto com'era,
Jecht non si
era accorto di Braska che si era avvicinato, pronto a partire. Anche se
stava
fissando un punto qualunque nel mare, l’atleta lo prese
comunque al volo.
«Hai
proprio i riflessi pronti,» commentò
l’Invocatore, con quella sua risata che
faceva pensare che non esistesse nessun problema al mondo.
«Ah,
non è
niente. Anni di Blitzball».
«Ne
hai
dato prova in partita! Vogliamo andare?»
«Metto
a
posto la spada e arrivo,» rispose Jecht, prima di dirigersi
sottocoperta.
«Metti
a
posto anche i tuoi capelli, amico mio. Hai sudato parecchio,»
disse Braska,
ridacchiando.
Jecht gli
rivolse un sorriso tirato e annuì con la testa, per poi
sparire nella nave.
Mentre si asciugava il viso e si pettinava, pensò che
bisognasse farsi belli
prima di rischiare la vita. Si guardò, oltre il piccolo
specchio della sua
cabina e oltre la nebbia lieve dei suoi pensieri.
Non
era la
prima volta che faceva quella considerazione.
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Capitolo 49 *** Che Yevon ti abbia in gloria (Parte 2) ***
CAPITOLO 33:
CHE YEVON TI ABBIA IN
GLORIA (PARTE 2)
Auron non
aveva mai svolto un vero e proprio rituale della vestizione. Certo, lo
aveva
ricevuto da parte di Wen Kinoc, e gliene erano stati insegnati i gesti
al
monastero, quando era solo un ragazzino, ma quel ragazzino non avrebbe
mai
immaginato che un giorno avrebbe fatto indossare l’armatura a
un Maestro di
Yevon.
Se avesse
incrociato un solo laccio nel modo sbagliato, tutta Luka lo avrebbe
notato;
tutti, guardando la schiena magra dell’Inquisitore, dritta
sotto il sole del
pomeriggio, avrebbero saputo che era stato lui il responsabile di
quell’errore.
Alan, di
nuovo trasfigurato nell’uomo potente e severo di cui aveva
abbandonato per un
istante i panni, si mise in piedi di fronte a uno specchio che mostrava
tutta
la sua figura. Alzò il mento e guardò di
sottecchi il proprio riflesso. Anche
Auron fu spinto a farlo, e dopo aver contato qualche perla del rosario
percorse
lentamente le clavicole dell’uomo che gli era a fianco,
dritte come lo era
stata la sua fede… una volta.
«Non
ho
tutto il giorno, Auron,» lo
richiamò l’Inquisitore, rimarcando il suo
nome, non appena vide che stava esitando di fronte al manichino che
indossava
la sua armatura da cerimonia. Spense il sigaro in un posacenere e lo
appoggiò
su di un tavolino con le gambe inarcate.
Auron non
aveva mai visto un vestito di una fattura simile su tutta Spira,
né le vesti
liturgiche di nessun Maestro o Inquisitore di Yevon potevano ricordare
quella
foggia o quei colori.
Il
Guardiano, senza parlare, rivolse un inchino alla presenza invisibile
che sempre
li osservava, poi prese con deferenza il torso dell'armatura e lo
staccò dal
manichino.
Era
composto da un corsetto in cuoio, che avrebbe dovuto essere stretto con
dei
lacci sulla schiena, su cui si innestavano parti in un materiale simile
al
bronzo, della cui leggerezza Auron si sorprese. Sia il collare che,
formando
un’ellisse quasi completa, saliva dal petto fino alle spalle,
sia i due profili
di metallo innestati sul retro sembravano infatti non avere peso. Erano
incisi
con parole in spirano antico di cui il Guardiano non conosceva il
significato,
e reggevano un semicerchio dietro alle spalle, simile a quelli che
adornavano
di solito le vesti del giudice, ma decorato con un motivo a petali.
In cima,
in modo da fluttuare sopra la testa dell’Inquisitore come
un’aureola, era stato
sospeso tramite qualche incantesimo un cerchio di metallo pieni,
dipinto con
fasce che curvavano per convergere verso il centro.
Cucite al
cuoio, invece, c’erano due lunghe fasce di stoffa azzurra,
damascata. Avrebbero
dovuto essere strette all’altezza dell’ombelico
tramite un cerchio d’argento,
sul cui esiguo diametro l’attenzione di Auron si
soffermò per un istante. Erano
decorate da un motivo a rombi, in cui ogni angolo era stato marcato con
un
cerchio bianco, in modo da ricordare in qualche modo un nastro
intrecciato.
Con
lentezza rituale, si avvicinò all’Inquisitore e
gli fece indossare il corsetto
di cuoio. Mentre tentava di posizionarlo in modo tale da poterlo
allacciare,
gli sfiorò senza volerlo la pelle d’ambra con i
mignoli, e si ritrasse di
scatto come se si fosse avvicinato troppo al fuoco. Si risolse a
stringergli
prima il cerchio attorno ai fianchi, sollevato di non essere costretto
a
toccarlo in quel punto, e ben determinato a non alzare lo sguardo sullo
specchio. Avrebbe visto come l’armatura era disegnata per
lasciargli scoperto
il ventre, quasi a suggerire che quella creatura di Yevon, in quanto
sacra e
perfetta, non doveva coprirsi con vergogna, a differenza sua. Avrebbe
immaginato qualcosa nel trovarsi dietro di lui con le mani sopra al suo
bacino,
avrebbe colto nei suoi occhi la condanna che l’avrebbe
strappato dal silenzio
beato dell’Oltremondo.
Per
sempre.
Se invece
non avesse alzato gli occhi, avrebbe potuto consolarsi con l'ignoranza,
fino a
quando Yevon non l’avesse chiamato a sé, per dare
un giudizio non diverso da
quello del suo ministro.
«Maestro
Alan,» esordì Auron, e lui stesso si
spaventò nel sentire la propria voce
rompere il silenzio inquieto della stanza. «Ho bisogno di
farle una domanda».
Fece una pausa in cui terminò di allacciare il corpetto.
«Perché il mio cuore
non abbia riserve nello svolgere il rito, e il mio animo sia
puro».
«Sei
libero di domandare».
«Quello
che ha fatto sinora, in nome del dio… Come fa a vivere
sapendo di aver mandato
tutte quelle persone a morte?»
Auron
avrebbe dovuto prendere le armille dal tavolo e farle indossare ad
Alan, in
modo che il loro motivo a petali richiamasse quello dell’arco
di bronzo.
Avrebbe dovuto allacciare vesti di cuoio e stringere cerchi di metallo,
ma
scelse di rimanere immobile fino a quando quella risposta non sarebbe
arrivata.
Alan
abbassò il capo e sorrise.
«Si
tratta
del corso della giustizia, Auron, di cui io sono solo un mero
esecutore. Per
quanto riguarda i sacrifici umani, mi pare che non si usino in onore di
Yevon…
non più, almeno».
Non
più. Che cosa intende con quel non più?
«Quello
che intendi davvero chiedermi è perché ti ho
portato qui,» riprese Alan, prima
che il Guardiano potesse fiatare. Afferrò alla cieca la sua
mano destra e la trascinò
lungo il proprio corpo, facendosi sfiorare deliberatamente.
Arrivò al collo, e
posizionò la mano di Auron sotto al pomo d’Adamo.
Il giovane, terrorizzato,
sentì una forza che lo spingeva ad afferrargli la gola, e
non riuscì a
disobbedire a quell’istinto. Il suo corpo si
irrigidì, mentre alle sue narici
arrivava l’odore d’incenso che aleggiava attorno a
quell’uomo.
«Vuoi
uccidermi, Auron?» domandò l’Inquisitore
in un basso sussurro. Inclinò
all’indietro la testa, come se desiderasse abbandonarsi alla
sua presa. Auron
sentì il battito del cuore nella sua giugulare, sotto le
dita. Proprio come era
successo con Jecht. Vide il suo ventre piatto, nudo, a portata di un
semplice
pugnale. «In nome di quella donna… come si
chiamava?»
«Hanna,»
rispose il Guardiano tra i denti, e quel nome aveva il suono di un
pianto
antico e del grido che dominava la pianura.
Riuscì
a
concentrarsi, a svuotare la mente e a lasciare il collo di Alan,
sfuggendo al
suo controllo.
«Una
morte
sulla coscienza,» sentenziò, «una sola,
per me è abbastanza».
«E
se ti
dicessi che uccidi una bestia?»
Il
Guardiano non replicò. Prese le armille quasi con disprezzo
e le fece indossare
al giudice, che seguiva ogni suo movimento con le iridi chiare, forse
compiacendosi del suo imbarazzo.
Per evitare
il suo sguardo, Auron spostò il proprio sulle mani di Alan.
Il suo animo fu
attraversato da un presentimento confuso e inquietante quando
notò che i segni
dei morsi sul dorso erano più marcati da un lato,
così come le linee rosse che
li inframezzavano. Come se il responsabile avesse uno dei denti
disposto in
modo particolare, che affondava diversamente dagli altri. Proprio come
Alan.
Quelli non
erano i morsi di qualcuno che aveva torturato, ma per qualche motivo se
li era
inferti da solo.
Scappa.
Auron
ricorse a tutto il coraggio che aveva per scacciare quel pensiero. Si
sentì
quasi nauseato quando fu costretto a stringergli attorno alle cosce
degli
ornamenti di bronzo, che interrompevano la linea morbida dei suoi
pantaloni. Si
sentì a disagio nel doversi abbassare al cospetto di un uomo
del genere, il cui
unico compagno era il terrore.
«C’è
qualcosa che non va?» domandò
l’Inquisitore. «Questo abito non mi dona?»
Unì
le
mani in grembo e raddrizzò la schiena con una grazia
inarrivabile. Auron sentì
sotto il palmo il ricordo del battito della sua gola, ma
riuscì a non reagire
alla provocazione mentre si alzava in piedi.
«Voglio
saperlo. Qual è il motivo di tutto questo teatrino della
cerimonia?» si tirò
dietro all’orecchio una ciocca di capelli sfuggita al nastro,
attento a evitare
di guardare nello specchio. «Che cosa vuole ottenere da
me?»
«Quello
che vogliono ottenere tutti i teatrini di Yevon,
mio caro,» rispose Alan
con un sorriso selvaggio. «Informazioni. O meglio, questa
volta si tratta di
un’opinione».
«Vada
avanti».
L’Inquisitore
abbassò lo sguardo sul proprio petto e prese il rosario con
entrambe le mani.
Si fece scorrere le perle davanti agli occhi come se le stesse
contando, o
forse stesse ponderando il momento migliore per continuare.
«Il
tuo
amico, Jecht». Sentire quel nome dalle labbra di Alan
causò nel monaco un
sussulto di terrore. Soprattutto dopo ciò che era successo.
«Quello che dice di
venire da Zanarkand… ci credi?»
Auron
deglutì. Le sue orecchie si tesero, come se dovesse
prepararsi ad affrontare un
pericolo, ma non percepirono nessun suono.
«È
stato
esposto alle tossine di Sin… signore».
Alan
inarcò le sopracciglia e annuì in modo teatrale.
«Ah,
giusto, le tossine. Le tossine di Sin». Lasciò
andare il rosario, che gli
ricadde sul petto scoperto, poi lentamente ripeté:
«Ci credi?»
«Zanarkand
è stata distrutta mille anni fa,» rispose subito
il Guardiano. «Così dicono le
Scritture e così mostrano le rovine. Nessuno può
venire da lì. Solo…» si
bloccò
all’improvviso, serrò gli occhi e
soffiò l’aria fuori dal naso. «No. Non
sono
sotto uno dei suoi interrogatori. Perché me lo sta
chiedendo?»
Alan
gettò
la testa indietro, e i fermagli d’oro che stringevano le sue
treccine
accompagnarono quel movimento.
«Uuuh,
ultimamente siete tutti così inclini
all’insubordinazione… È quasi
eccitante».
Auron
distolse lo sguardo dal suo collo piegato, inerme, e dal suo pomo
d’Adamo.
Riuscì a fuggire dai lacci di quella bellezza estranea alle
cose del mondo.
«Le
ho
fatto una domanda. Risponda, e se la ritengo una buona causa le
dirò quello che
so».
Alan
guardò nello specchio, come se potesse vedere qualcosa che
per gli altri non
c’era.
«Sto
cercando delle persone,» spiegò, e si interruppe
per abbandonarsi a una risata
lieve, amara. «Le sto cercando da vent’anni. Ho
girato l’isola in lungo e in
largo, ma sembrano non essere da nessuna parte».
Auron
serrò la mascella e le labbra.
«Crede
che
Jecht sia una di queste persone?»
Il giudice
sollevò una mano, le dita mollemente piegate, in modo da
fermarlo. Fece qualche
passo verso il tavolino e prese una bottiglia di vetro lavorato
contenente un
liquore del colore dell’ambra. Se ne versò un
bicchiere, che poi sollevò
all’altezza degli occhi.
«Credo,»
mosse un passo verso Auron, con l’indice della sinistra
alzato, e i suoi tacchi
batterono sul pavimento, «che potrebbero venire dallo stesso
luogo, se la sua
Zanarkand esiste. E se tu sei disposto a dirmi cosa pensi,
potresti
aiutarmi in questa… questione personale».
Il fatto
che avesse preso a camminare in giro per la stanza, e che continuasse a
rimarcare quell’ultimo concetto non stava per nulla
rassicurando Auron.
«Io…
per
Yevon, per che motivo dovrei dirglielo, e non pensare che sia un modo
per
estorcermi qualche confessione e mandarmi al rogo?»
Alan si
voltò verso di lui e spalancò le braccia con aria
incredula.
«Ma
ci
sono modi più semplici per bruciarti!»
Auron
spostò lo sguardo dal liquore che oscillava nel bicchiere al
suo viso. Lo
disgustò quanto i suoi occhi somigliassero a quelli di
Braska.
«Va
bene,»
concluse, con voce ferma. «Va bene. Sappia che non lo sto
facendo per
gratitudine, ma perché ho la sensazione che su
quest’isola ci sia qualcosa di
peggiore di lei, Alan. Che sia il motivo per cui vomita, e per cui
continua a
seguirci da quando siamo partiti da Bevelle: non sta tenendo
d’occhio suo
fratello. Sta cacciando qualcuno. Ma sappia che se sta mentendo, e
questo
qualcuno si rivelerà essere Jecht, non mi
riserverò di usare alcuna
pietà».
Dopo quel
monologo, il giudice svuotò in un sorso il bicchiere e
tornò a sedersi con un
movimento piuttosto elegante.
«Sono
ottime supposizioni, Auron. Per caso vuoi entrare
nell’Inquisizione? Saresti un
buon acquisto».
«No».
Alan si
schiarì la voce e fece un cenno indecifrabile con la mano.
Solo dopo qualche
secondo, Auron notò che il velo traslucido che completava il
suo vestito da
cerimonia era rimasto su un appendiabiti, e si avvicinò a
lui per farglielo
indossare.
«C’è
una
cosa,» confessò, «che mi ha sempre
colpito dei racconti di Jecht». Chiuse con
un fermaglio d’oro un lato del velo di Alan. «Il
saluto che rivolgiamo a Yevon,
lui diceva di conoscerlo già. Afferma anche che veniva usato
in cerimonie
legate al blitzball, così come quello che è il
nostro Inno. Ora, dal momento
che non si tratta di questioni legate così strettamente a
Yevon, mi chiedo se
non fossero tradizioni precedenti. Se non sia avvenuta una sorta
di…»
«Sincretismo,
sì,» ribatté il giudice, pensoso,
giocherellando con il secondo fermaglio. Ad
Auron parve di sentire l’odore d’incenso
intensificarsi, e colse l’occasione
per allontanarsi da lui. «Però, se di questo si
tratta, dobbiamo ammettere che
il tuo amico provenga davvero da una civiltà precedente alla
nostra, e che Sin
lo abbia portato qui».
«Certo,
signore, è strano… ma non ho altre idee per il
momento, finché–»
L’improvviso
fruscio del velo interruppe a metà la sua frase. Il giudice
stava fissando lo
specchio con gli occhi azzurri sgranati, e il fermaglio gli era
ricaduto sul
petto.
«Apofáinei
kài…»
mormorò, con un’espressione alienata e le dita
bloccate a
mezz’aria, «gìgnetai.
Kài gìgnetai».
Si
voltò
di scatto verso Auron, con le labbra ancora schiuse, che si muovevano a
ritmo
di quelle parole. Lui arretrò davanti alla sua figura esile,
vedendo la sua
mano che si stringeva allo schienale della sedia.
Aveva
sentito dei suoni simili in qualche preghiera, ma non aveva idea di
cosa
significassero. Come non aveva idea di come avrebbe potuto fermarlo se
l’avesse
aggredito.
«Signore…»
provò a dire nella speranza che sentire la sua voce avesse
in qualche modo
potuto farlo esitare.
Il giudice
smise di stringere la sedia.
«Oh,
nulla,» lo liquidò, «mi è
tornata in mente una questione».
Una volta
che ebbe raggiunto Braska, Jecht si incamminò con lui verso
lo stadio di Luka,
passando per la piazza. La presenza di tutti e tre i Maestri di Yevon
– e del
Gran Maestro in persona – per l’apertura di un
torneo aveva fatto intuire a
Jecht che il Blitzball era qualcosa di molto importante su
quell’isola. Forse
l’unica distrazione che restava.
Rimase
stupito dalle decorazioni della città: Luka era
già colorata e caotica nei
giorni che non erano nemmeno di mercato, sarebbe stato difficile fare
di più.
Eppure, davanti agli striscioni sgargianti, alle aeronavi che
sorvolavano il
cielo e ai veli mossi dal vento, Jecht per la prima volta
sentì di potersi
perdere in un giorno di festa, come faceva a Zanarkand.
Era il suo
destino, o dovere, ad averlo portato lì. Si vide passeggiare
per quelle strade
con Lauren e Tidus, in un mondo dove Auron era solo un monaco qualsiasi
e
Braska un amorevole padre di famiglia.
Eppure
quell'incendio che il compagno aveva appiccato nel suo ventre non
accennava a
estinguersi. Il fatto che la loro vita fosse costantemente a rischio
non faceva
che peggiorare le cose.
Auron era
stato provocato per molto tempo, era vero, ma lo aveva stretto tra le
sue
braccia come uno degli stupidi manichini che usava per allenarsi, senza
nemmeno
dargli la possibilità di rendergli il favore. Lasciandolo
con quel bisogno che
gli pugnalava al fianco.
Jecht
scosse la testa e chiuse gli occhi per qualche istante: tornare
indietro
avrebbe fatto felice la sua famiglia, avrebbe salvato Auron e avrebbe
permesso
a Braska di adempiere al suo dovere.
Tuttavia,
a tali puri intenti si mischiava l'immagine di Auron sotto di lui, con
i
capelli sciolti e i polsi bloccati contro il materasso, che provava la
stessa
condanna che era stato così intrepido
nell’infliggere. Sarebbe tornato a
Zanarkand soddisfatto, perlomeno.
«Sei
molto
silenzioso, Jecht. Pensavo che vivere la città in festa ti
avrebbe fatto
piacere,» disse Braska preoccupato.
Jecht,
come se fosse stato svegliato nel suo letto, abbozzò un
sorriso finto e drizzò
la schiena.
«Ah,
non è
niente! Ogni tanto mi piace riflettere,» rispose l'atleta
alzando la voce.
Dopotutto, era una mezza verità.
L'Invocatore
annuì, poi afferrò il braccio del suo Guardiano
con fare affettuoso: Jecht
avrebbe amato portare suo padre in giro per Zanarkand in quel modo.
«Ehi,
Braska. Se urlo a squarciagola qualcosa come fate largo
all'Invocatore,
secondo te ci fanno stare in prima fila?»
«Sicuro.
Quasi quasi…»
Jecht rise
sguaiatamente, lasciando andare un po' della tensione che lo stava
divorando.
Degli uomini in nero pattugliavano il centro della piazza, lasciando
che il
popolo si radunasse tutto intorno. Stendardi dell'Inquisizione
sventolavano ai
quattro punti cardinali, contrastando con i colori accesi dei veli che
adornavano gli edifici.
La piccola
finestra di serenità che l'atleta aveva ritrovato si
infranse subito: se in
quella piazza non avesse incontrato Auron, il suo cuore si sarebbe
fermato.
Jecht si
asciugò la fronte. Braska allungava il collo per vedere
meglio i dintorni,
pronto ad avviarsi con la folla verso il molo, ma anche per individuare
Auron.
Quando le
alte guardie Ronso si misero sull'attenti e iniziarono a marciare alla
testa
della folla, l'atleta trattenne il respiro.
«Aspettiamo
che la gente defluisca un po', così Auron può
individuarci meglio,» propose
Braska, ancora aggrappato al braccio del suo Guardiano.
Jecht si
augurò con tutto il cuore che il compagno fosse davvero
lì e non in qualche
cella a marcire. Dopo qualche minuto, il familiare cappotto rosso del
monaco
spiccò tra i colori pastello degli abiti dei cittadini di
Luka, alzando la mano
in segno di saluto.
Braska lo
abbracciò con tenerezza: il monaco, invece di rimanere
rigido come suo solito,
lo accolse volentieri.
«Sarai
molto stanco, amico mio. È stata una giornata molto
lunga,» disse l'Invocatore
dandogli una pacca sulla spalla.
«L'ha
ben
detto, signore,» rispose Auron sospirando.
«Jecht
era
molto preoccupato per te».
Auron
rivolse lo sguardo verso l'atleta: aveva un aspetto cupo, i muscoli del
viso
contratti. Annuì.
«Comprensibile,»
commentò, distogliendo lo sguardo solo per un istante.
«Sto bene, Jecht».
«Seguiamo
la folla: la nave del Gran Maestro Mika è in arrivo al
porto. Sarà un bello
spettacolo!» disse Braska allegro. L'Invocatore prese
sottobraccio i suoi
Guardiani e li condusse attraverso la strada larga, dove decorazioni
brillanti
ondeggiavano al vento, dando l'impressione che la terra respirasse.
«Questo
torneo è sponsorizzato da Yevon!» tuonò
la voce dell’annunciatore. «E
quest’anno celebriamo i quarant’anni
dall’insediamento del Maestro Mika!»
Navi con
vele colorate stavano attraccando al porto. I tifosi ora
dell’una ora
dell’altra squadra gridavano per incitare i loro giocatori
favoriti, mentre
l’annunciatore sciorinava una lista di nomi che Auron non
stava ascoltando con
lo stesso interesse di Jecht. Guardò il compagno con
reticenza, osservò le sue iridi
brune che fissavano davanti a sé, poi spostò
l’attenzione su Braska.
«I
Kilika
Beasts! La squadra in cui giocava il Grande Invocatore Ohalland! Un
gran nome
da portare avanti– Molo 4!»
Auron vide
Braska abbassare il binocolo in madreperla con cui stava osservando i
giocatori, attratto da qualcuno che lo chiamava. L’Invocatore
si voltò, fece un
gran sorriso e si sporse a baciare sulle guance una coppia i cui nomi
Auron non
riuscì a cogliere.
«…uo
fratello sarà particolarmente contrariato!»
sentì però dire all’uomo, che stava
battendo con forza una mano sulla spalla di Braska, mentre la moglie
ridacchiava.
«Perché?»
«Ma
quelli… ma quelli sono loro! Oh, questa squadra
sì che ha un gran coraggio! I
Besaid Aurochs, signori! Non superano il primo girone da tredici anni,
un
record imbattuto!»
Auron
maledisse le urla dell’annunciatore e il boato della folla,
ma per sua fortuna
Braska e i suoi interlocutori erano abbastanza vicini, ed erano stati
anche
loro costretti ad alzare la voce.
«È
svenuto
davanti a migliaia di persone che lo guardavano,»
spiegò la donna, in tono
chioccio. «E l’hanno portato in
un’infermeria. Già non era un mistero che non
volesse essere qui… Ah, non vorrei essere nei panni dei
poveretti che se lo
troveranno davanti quando si riprende!»
Braska
mostrò un’espressione contrita prima di mormorare
qualcosa che doveva suonare
come un «lavora troppo». Auron, invece, fu colto
dalla stessa sensazione che lo
aveva attraversato quando aveva visto Cid spezzare le gambe di Alan.
Controllò
di avere il pugnale sotto i vestiti.
«Il
molo
numero 2!» gridò qualcuno, festante. Presto
innumerevoli altre voci
cominciarono a ripetere quella frase, e innalzarono grida tanto forti
che
spaventarono gli uccelli.
«Ehi!»
sbottò Jecht, spinto addosso ad Auron dalla folla. Si
alzò di nuovo sulle punte
dei piedi, con le sopracciglia aggrottate. «Che succede al
molo 2?»
«Il
Maestro Mika,» replicò l’altro
Guardiano, senza nemmeno guardarlo, come se gli
costasse fatica rivolgergli la parola.
Jecht
esplose.
«Senti,
Auron,» sbottò. Voleva avvicinarsi a lui e
fronteggiarlo, ma in mezzo a tutta
quella gente… gli mancavano le forze. «Se sei
stato tu a…»
«Venite!»
lo interruppe la voce gioiosa di Braska. Li prese di nuovo entrambi a
braccetto, e si spostò assieme alla folla, al ritmo dei
tamburi, verso dove una
nave più grande delle altre stava ammainando le vele
rosse.
Jecht
guardò il suo profilo alla luce del giorno, il velo leggero
sulle sue spalle e
quel sorriso che non avrebbe mai voluto veder svanire.
No. Che
cosa abbiamo fatto…
Un Maestro
di Yevon – uno di coloro che Jecht aveva imparato a
riconoscere come Guado –
scese dalla nave e salì in modo solenne su di una passerella
sopraelevata,
aprendo la strada a un altro uomo, scortato dai Ronso. Basso, dalle
spalle
incurvate. Aveva un’aria anonima, ammantata da una sottile
apparenza di
saggezza che, dritta come filo a piombo, gli cadeva lungo la papalina
nera e
oro, le rughe profonde e i fili bianchi della barba.
Era
quello, il Grande Maestro Mika? Quello, l’uomo la cui parola
guidava gli animi
di tutta Spira, colui per il quale i guerrieri morivano? Suo era il
nome
gridato nei campi di battaglia e sussurrato nei segreti delle
cospirazioni?
L’incedere, a tratti zoppicante, di quel vecchio nella veste
preziosamente
ornata lo confondeva.
Quello era
il sacerdote le cui gesta avevano fatto tremare la terra? Egli il
motivo per
cui forse, un giorno, l’ultima ciocca dei capelli di Auron
sarebbe sfuggita
dalle sue dita per sempre?
Mentre
ancora Jecht guardava, il Guado rivolse agli astanti il saluto
yevonita. Sceso
dal molo, si profuse in profondo inchino davanti alla nave, in quello
che
sembrava un ringraziamento per un viaggio senza pericoli. Lo
accompagnarono dei
solenni colpi di tamburo, poi tutto tacque.
«Popolo
di
Spira!» gracchiò la voce del Grande Maestro Mika,
diffusa dagli altoparlanti.
Nessuno osò muovere un fiato. «E generosi
cittadini di Luka, ai quali tutti per
l’eccellente ospitalità vanno il mio
ringraziamento e la mia benedizione».
Con
estrema lentezza, Mika allargò le braccia e portò
una gamba indietro. I tamburi
ricominciarono a suonare, sottolineando ogni sua azione mentre eseguiva
il
saluto.
«Vi
benedico tre volte, uomini coraggiosi di Spira, che siete nati per
sostenere le
prove ardue della nostra isola. L’amore che provo per voi
è l’amore che prova
il dio. È l’amore che provano i nostri invocatori,
spinti all’estremo
sacrificio. Ma ora ordino che, in questa settimana, sia lecito volgersi
al
profano senza che il nostro cuore ne risenta. Che la città
di Luka, porto di
speranza su cui possa splendere sempre il giorno, rifulga della nostra
luce e
della nostra fratellanza».
L’aria
fu
percorsa da un tremito strano, e qualcosa parve colpire il legno della
passerella. Solo gli occhi di due Ronso se ne accorsero.
«Do
ufficialmente inizio al torneo annuale di Blitzball, e
che–»
Un altro
tremito, e Mika si zittì. Il vento smise di soffiare e le
bandiere si
afflosciarono sulle loro aste.
La folla,
trattenendo il fiato, guardò attonita il Grande Maestro che
sgranava le
palpebre, con le labbra ancora separate per proseguire il suo discorso,
senza
più voce. Mosse un passo in avanti e cadde prono a terra con
gli occhi
sbarrati. Una pozza di sangue si allargava sotto la sua testa.
Bagnò
il
suo copricapo, i suoi capelli candidi e il vestito della festa, prima
di
gocciolare in silenzio giù dal palco, verso il ventre del
mare.
Poi
si
levò il primo grido.
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Capitolo 50 *** Tu che sei sceso dal cielo ***
CAPITOLO 34:
TU CHE SEI SCESO DAL
CIELO
Era come
se la morte fosse scesa in picchiata, silenziosa e inarrestabile. Lo
sparo era
stato inghiottito dal riverbero dei microfoni e dal mormorio della
folla. Tutti
avevano trattenuto il respiro nel vedere l'uomo più
importante di Spira cadere
esanime a terra.
Il
silenzio, tuttavia, era durato pochi istanti. Urla di terrore avevano
attraversato il cielo come tuoni estivi, seguite da richieste di aiuto
e
preghiere a Yevon.
Braska,
confuso da ciò che stava accadendo, si vide addosso i suoi
Guardiani, scattati
all'unisono. Jecht, che lo superava in altezza di molti centimetri, lo
strinse
a sé tenendogli la testa bassa, mentre Auron si occupava di
proteggergli la
schiena facendogli scudo col suo corpo.
Schiacciato
dai due guerrieri, che non accennavano a rompere la formazione,
l’Invocatore
sentì lo sterno di Jecht sotto la guancia. Auron si
lasciò sfuggire un verso
infastidito quando fu colpito dalla gomitata di un uomo che stava
cercando di
scappare.
«Dobbiamo
spostarci, questi ci travolgono!» urlò Jecht al
compagno.
Auron
annuì, strinse la presa su entrambi e si impegnò
a camminare di lato insieme
all'atleta, muovendosi verso un punto meno affollato. Jecht si pentiva
ogni
istante di più di essere scalzo, ma a denti stretti
sopportò il dolore dei
pestoni dei passanti.
Rimanere
sui lati esterni della strada prometteva un po’ di respiro,
tuttavia lasciava
più esposti al cecchino che, in apparenza, sembrava essersi
dileguato.
«Lasciatemi,
non volevano sparare a me!» protestò l'Invocatore,
convincendo Jecht ad
allentare la presa, ma non a rinunciarvi.
Alle urla
della gente si aggiunse il rumore acuto delle sirene provenienti dalle
strade
interne. La gente fu fatta scostare dalle guardie, in modo che le
ambulanze
potessero avere libera la via. La più grande si diresse
verso il molo, e chi la
guidava era apparentemente incurante di travolgere qualcuno o qualcosa
nella
sua corsa.
Braska
osservava i dintorni dalle braccia di Jecht, alla ricerca di qualcosa
che non
riusciva a scorgere. Scosse la testa, agitato.
«Lo
so che
vi sembrerà una follia in questo momento, ma…
voglio vedere mio fratello,»
disse, guardando l'atleta negli occhi.
«Adesso?
Proprio ora?» domandò Jecht nervoso.
«Cosa
deve
fare da lui?» intervenne Auron, nella voce una nota di
preoccupazione che mal
celava quella di fastidio.
Come il
suo corpo era schiacciato tra quelli dei suoi Guardiani,
così anche il suo
animo fu assediato da due fronti. Uno era quello
dell’opinione degli altri, che
nulla desideravano più che vedere chi innalzava le pire
perire tra le sue
stesse fiamme; l’altro era quello del suo pio
sentire.
«Qualcuno
ha attentato alla vita del Gran Maestro Mika! Non capite quanto sia
grave?»
gridò Braska, e subito dopo s’accorse che aveva
urlato ai suoi Guardiani per la
prima volta.
Prima che
potesse rendersi conto del suono della propria voce, un frastuono
improvviso lo
spaventò. Tutti e tre si abbassarono per istinto: delle
decorazioni sostenute
da impalcature di metallo erano crollate poco lontano da loro,
probabilmente
urtate dalla gente in fuga. Auron tirò il fiato e
drizzò la schiena.
«È
terribile, signore. Tuttavia, la nostra priorità
è proteggere lei,» rispose con
fermezza.
«E
se
volessero attentare alla vita degli altri Maestri? Alan…
è mio fratello!»
E lui lo
ripeteva in testa come un mantra. “È mio fratello,
è mio fratello”, e se quelle
parole avessero un giorno smesso di spiraleggiare nella sua testa,
allora
avrebbe aperto gli occhi e, nella luce cruda del giorno, sarebbe
impazzito dal
dolore.
Jecht
cercò sulla lingua parole che non arrivarono: dissuadere
Braska era senz'altro
la cosa più giusta da fare per la sua sicurezza, ma impedire
a un uomo di
svolgere i suoi doveri sacri gli sembrava troppo.
L'atleta
guardò Auron, sperando di trovare una soluzione nei suoi
occhi scuri che
sembravano sapere sempre tutto. Il monaco gli restituì lo
sguardo, annuendo
debolmente.
«Non
sappiamo nemmeno dove si trova…» disse Jecht,
provandoci un ultima volta.
«È
in
un’infermeria. È svenuto prima della
cerimonia».
Auron
scosse la testa, pensieroso. Ogni aspetto che riguardava quell'uomo gli
pareva
ambiguo, dopo aver ascoltato ciò che aveva da dire durante
il rito della
vestizione, dopo che i suoi pensieri contorti s’erano snodati
raggiungendo
angoli oscuri sotto i mobili. Conosciuto ciò che la
Necropotenza era in grado
di donare a un uomo, Auron era sicuro che sarebbe stato possibile
usarla per
contrastare un semplice malore.
Se questo
era il caso, com’era possibile che Alan non ci avesse
pensato? Perché aveva
lasciato che Cid gli spezzasse le gambe, sull’aeronave? Se
c’era qualcuno che
tendeva a guardare a un disegno più grande, quello era un
Maestro di Yevon; per
loro, il caso non dettava nemmeno i sogni o i voli degli
uccelli.
«Quindi,
può darsi che non sappia cosa sta succedendo qui. O, se lo
sa, non può
intervenire direttamente,» puntualizzò il
monaco.
«A
maggior
ragione, dobbiamo andare! Amici miei, preferirei che la mia voce non
muovesse
un ordine,» disse Braska determinato.
Mentre
Mika veniva portato via da un uomo con una barella, circondato da uno
stuolo di
guardie, alcuni uomini in armatura leggera provavano a ristabilire
l'ordine. Lo
strepitio delle sirene risuonava tutt’attorno al molo, poco
efficace nel
calmare l'agitazione.
Jecht,
all’improvviso, lasciò andare Braska dalle sue
braccia, schierandosi
tacitamente al suo fianco.
Gli uomini
armati della città iniziarono a far defluire in modo
ordinato le persone,
mentre gli infermieri prestavano le cure di primo soccorso sul posto.
Tra di
loro, alcuni inquisitori raccoglievano informazioni sull'accaduto.
«Ecco
gli
occhi e orecchie di Alan,» disse Jecht, ammiccando nella loro
direzione.
Braska
afferrò le braccia dei Guardiani e li trascinò
verso uno dei tanti uomini in
nero in servizio.
«E-ehm,
ehi! Scusami!» disse Braska cercando di attirare
l'attenzione. L'Invocatore si
rese conto di essere meno educato del solito, ma il tempo stringeva e
l'agitazione si faceva prepotente.
«Seguite
le guardie e andrà tutto bene,» disse quello senza
nemmeno guardarli.
«Sono
il
fratello del Grande Inquisitore Alan, l’Invocatore Braska.
Sai dove si trova
ora?»
L'uomo si
girò di scatto verso Braska, scrutandolo attentamente. La
sua fama
nell'Inquisizione era ormai cosa nota, ma non poteva fermarsi
lì per molto.
«Sono
informazioni riservate,» rispose quello senza perifrasi.
Fece per
andarsene, quando Braska lo fermò con una mano sulla spalla.
«Ti
imploro, in nome di Yevon! Temo per la vita di mio fratello! Un
Invocatore al
suo fianco non può che essere una sicurezza in
più».
La logica
di Braska era valida, e l'uomo lo sapeva bene. Ci pensò per
qualche istante, si
guardò intorno arricciando il labbro superiore e
sospirò incerto.
«Sentite,
vi porto io. Basta che non diate nell'occhio e non facciate
domande».
Braska si
inchinò riconoscente più volte, poi fece cenno a
Jecht e Auron di seguirlo. I
Guardiani lo marcavano stretto sui lati per proteggerlo da ogni
eventualità,
mentre l'uomo di Alan li conduceva verso strade laterali interdette al
pubblico, bloccate da transenne fin da prima della cerimonia.
Come
promesso, non fecero domande. Camminarono con passo svelto per un lasso
di
tempo che non seppero ben definire, fino ad arrivare a delle
costruzioni
anonime. L'uomo indicò una porta e si congedò
velocemente, lasciando a Braska
l'autorizzazione per entrare.
Non appena
mise piede nell’edificio in cui era stata allestita
l’infermeria - una vecchia
polveriera, a giudicare dalla struttura - Braska fu investito
dall’odore di
disinfettante e da uno sciame di infermiere preoccupate. I loro occhi
si
diressero verso di lui e si sgranarono, ma nessuna, pur riconoscendolo,
ebbe il
coraggio di fermarlo.
La folla
si aprì in due ali al suo passaggio, ma ben presto
capì che non era per lui che
si erano scostati. Alan stava camminando a passo deciso verso la porta,
e
immerso nel suono acuto delle sirene allontanava bruscamente chiunque
cercasse
di avvicinarsi a lui. Uomini e donne con l’ansia dipinta in
volto parevano sul
punto di aggrapparsi alla sua veste, ai paramenti decorati con un
motivo a
petali e alle lunghe code del suo abito, ma lui pareva essere protetto
da uno
schermo impenetrabile.
«Deve
riposarsi!»
«Si
fermi!
È pericoloso!»
«Fratello!»
La voce di
Braska era riuscita a sovrastare quelle di tutti gli altri, e a farlo
fermare.
Alan alzò la testa e se lo trovò di fronte, con i
suoi innocenti occhi azzurri
spalancati e i suoi due uomini a proteggerlo. Con un gesto della mano,
usò i
suoi poteri per bloccare l’avanzata di un infermiere che
stava tentando di
avvicinarlo.
«Cosa…
cosa ci fai qui?» mormorò, senza sapere se Braska
lo avrebbe sentito in mezzo a
quel frastuono.
«Alan,»
replicò subito l’Invocatore, e gli prese entrambe
le mani. Un’altra sirena.
Lo
stelo di una spiga più alta delle altre si ruppe. La
sommità cominciò a
ciondolare.
Braska si
riscosse da quel ricordo improvviso, fece di scatto un piccolo passo
indietro e
la sua presa si serrò attorno alle mani del fratello.
«Io…»
«Mi
fa
molto piacere assistere a questo quadretto famigliare,» lo
interruppe una voce
profonda. Il brusio generale, complice anche il fatto che
l’avanzata di Alan si
era arrestata, si stava acquietando. Rimanevano solo i rumori dalla
strada, e
gli ordini urlati.
Auron e
Jecht si voltarono con prontezza, le mani sulle armi. Non le estrassero
quando
videro che a parlare era stato il secondo in comando di Alan, Kelk,
anch’egli
accorso in infermeria.
«Tuttavia,
giudice, le ricordo che si è appena consumato un attentato e
che lei si trova
in pericolo immediato,» continuò il Ronso.
Alan, che
ancora stava guardando in viso Braska, alzò il capo verso di
lui, e lo fulminò
con uno sguardo che aveva un che di farsesco, data la differenza di
altezza tra
i due.
«Non
permetterti di rivolgerti a me in questo modo,»
sibilò. Alzò il braccio destro,
avvolto dalla catena che reggeva il turibolo. Mosse un passo avanti, e
dei
lunioli cominciarono a fuoriuscire assieme al fumo.
«Non
è una
buona idea,» replicò Kelk, con tono minaccioso,
«a meno che non voglia
anticipare l’elezione del prossimo Maestro
Inquisitore».
Alan lo
ignorò e proseguì, ma Braska si mise sulla sua
strada e gli si gettò ai piedi,
abbracciandogli le ginocchia.
«Non
uscire,» lo implorò solamente, chiudendosi come un
uovo nella sua tunica a
scaglie.
Alan, con
un vistoso sospiro, si premette le dita e il velo sugli occhi. Li
riaprì, e
rivolse al fratello uno sguardo quasi di sufficienza. «In
piedi. Lancia Protect
e Shell sulla porta,» gli
ordinò, abbassando la sua arma. «Aiutami a
barricarci dentro».
Braska si
alzò, con lo sguardo sull’entrata, e
l’Inquisitore avanzò verso i due
Guardiani.
«Auron,»
chiamò, «ho bisogno della tua abilità
di creare scudi». Camminò ancora,
arrivando davanti a Jecht e poi passando oltre, dopo avergli lanciato
un’occhiata di sottecchi. «E
tu…» commentò, «tu fai quello
che vuoi. Non ho
nemmeno idea del perché tu sia ancora qui».
Il muro a
cui era appoggiata la sua tempia era fatto di mattoni grezzi,
verniciati senza
stucco. C’era spazio, sul giaciglio dove Alan era seduto a
schiena dritta,
tuttavia Braska aveva scelto volontariamente di sedersi a terra. Si era
rannicchiato contro la parete, l’unica di quella stanza
improvvisata a non
essere fatta di legno. Si era avvolto nella tunica come un bambino, e
non
sapeva quanto questo fosse rappresentativo dei suoi sentimenti verso il
fratello, quanto fosse dovuto all’aver visto gli occhi del
Gran Maestro
sbarrati davanti all’ultimo orrore. Aveva pensato
innumerevoli volte alla
morte, l’aveva avuta vicina, distesa sul letto, come suo
fratello prima della
festa per il solstizio, nei giorni in cui erano ragazzini. Gli era
parsa
naturale, a volte quasi dolce. Non l’aveva mai terrorizzato a
tal punto.
«Che
cosa
stavi per dirmi quel giorno?»
Alan,
richiamato da quella voce, si voltò appena. Il suo profilo
austero, col mento
sempre rivolto verso l’alto, fu illuminato dalla luce azzurra
di uno schermo
che si accendeva davanti ai loro occhi.
«…
sospeso
a causa del gravissimo attentato che si è verificato poche
ore fa,» stava
dicendo una donna con i capelli rossi e l’aria ansiosa, sullo
sfondo di uno
studio televisivo allestito alla bell’e meglio.
«Non si conosce ancora nessun
dettaglio sull’uomo che ha sparato, né sulle
condizioni di salute del Maestro
Mika».
«Quale
giorno?» replicò Alan, dopo essersi voltato verso
il fratello. Era come se il
suo abito da cerimonia, la sua figura, con il lieve moto dondolante
delle
gambe, avessero inghiottito la voce dell’annunciatrice.
«…
credi
che vivrà?»
Le spalle
scoperte di Alan furono scosse da una risata troppo leggera per un
re.
«Mi
dispiace ridurre tutto il tuo romanticismo a processi e tribunali,
fratello,
tuttavia… credo che il dio saprà come giudicare
l'operato di un suo servo».
Predestinazione.
«A
volte
mi chiedo come giudicherebbe il mio».
Quel
presagio lontano in cui uccelli dello stesso nido s’erano
uccisi.
Alan
espirò dal naso, in una risata trattenuta. Il velo davanti
al suo viso
ondeggiò, poi ricadde e infine si sollevò ancora,
condotto per le sottili vie
dell’aria da un sospiro.
«Che
c’è?»
La figura
dell’annunciatrice era diventata piccola sullo schermo
dominato da
un’inquadratura fissa della piazza. Alcune guardie stavano
facendo defluire le
persone, in file ordinate come quelle delle formiche, dalle quali
tuttavia
alcuni tentavano di staccarsi, trascinati dall’ansia.
A quella
domanda, Alan si voltò di nuovo verso il fratello. La sua
guancia magra, sulla
quale la ricrescita della barba si notava appena, fu illuminata dalla
luce blu
dello schermo. Negli occhi dello stesso colore, il giudice aveva
dipinta una
sorpresa quasi ingenua. Nessuno si rivolgeva mai a lui con
familiarità.
«Nulla,»
replicò, con il consueto tono secco e preciso.
«Non
abbiamo mai l’occasione di parlare,» rispose
Braska, replicando la sua
espressione sul volto con meno spigoli. «E ora che dobbiamo
affrontare un
dolore condiviso, ti prego, solleva il mio animo dicendomi cosa
pensi».
Alan
scosse la testa.
«A
meno
che tu non voglia parlare di teologia proprio ora… oh,
no,» replicò. «Rimani
puro, fratello, e fa’ che la tua fede sia inalterata. Non
voglio che qualcosa
corroda il marmo delle tue statue, un giorno».
«Forse
che
la tua non lo è più?»
Braska
fissò lo sguardo sul fratello, sull’uomo che aveva
tanto desiderato imitare in
gioventù, ma non vide le sue labbra muoversi. Invece, Alan
inclinò il capo e
alzò il mento, concentrato sulle parole trasmesse dalla
sfera.
«Voglio
chiederti una cosa, Braska».
L’Invocatore
si chiuse d’istinto nelle spalle. Le lettere del suo nome,
pronunciate in quel
modo, avevano un suono estraneo. Sentiva che Alan era l’unico
che poteva sapere
se qualcuno all’interno della Chiesa di Yevon le avrebbe
rivolto contro il suo
stesso esercito. Eppure, per qualche motivo, taceva.
«Che
cosa
c’è,» continuò il giudice,
notando la sua reticenza. Tossì, poi riprese a dire:
«Non desideravi sapere a cosa stavo pensando?»
Gli occhi
di Braska lo seguirono mentre si alzava dal giaciglio e, senza nessuna
incertezza nel passo, camminava fino a trovarsi al suo fianco.
Nella mente
dell’Invocatore, le treccine che gli tenevano legati i
capelli si sciolsero,
lasciando che le ciocche nere del ragazzo che ricordava gli sfiorassero
le
spalle. Lo immaginò seduto a terra accanto a sé,
a torso nudo e con i pantaloni
fino a sopra il ginocchio, le gambe magre incrociate. Il sorriso di un
giovane
soldato, obliquo e un po’ sfrontato, gli riposava sulle
labbra mentre stringeva
le perle di legno di un rosario.
«Ce
l’hai
ancora, quell’assurdo tatuaggio?»
Queste
erano le parole che Braska avrebbe voluto sentire dalla voce della
Falena di
Yevon; queste, invece del motivo per cui ardono, alte, le pire.
«Certo,»
avrebbe risposto Braska, dopo aver gonfiato i polmoni senza nemmeno un
fischio.
Solo le campanelle legate al suo scettro gli avrebbero fatto da
controcanto.
«Non posso mica cancellarlo».
«Come
faccio a saperlo?» avrebbe aggiunto suo fratello.
«Magari lo hai coperto con un
altro».
La voce di
Alan arrivò a strapparlo dal sogno scintillante a cui si
aggrappava come se
fosse una parete di roccia liscia: «Che aspetto ha
l’Intercessore di Bevelle?»
Braska si
era risvegliato con le unghie spezzate.
«Cosa?
Non-» replicò, interdetto, per subito bloccarsi.
Deglutì con dolore. «Non posso
rivelare ciò che è nascosto nel naos.
Io… ah-»
La sua
frase terminò in un sospiro soffocato quando fu investito
dall’odore d’incenso,
per poi sentire una punta che si posava sul suo collo. Alan aveva fatto
apparire
una lancia, e con delicatezza la stava facendo scorrere sulla sua
pelle,
accarezzandogli la guancia come se stesse giocando.
«Ho
profanato luoghi molto più sacri di un tempio, fratello
mio».
Gli occhi
dell’Inquisitore, sotto le palpebre socchiuse, squadrarono
Braska, e lo videro
stringere i pugni e i denti.
«Non
lo
farai,» decretò l’Invocatore.
Alan
spinse in fuori il labbro inferiore e alzò le sopracciglia.
«Perché?»
In
risposta, Braska alzò il collo e, spingendo a terra,
raddrizzò la schiena in
modo che la punta della lancia arrivasse sopra al suo pomo
d’Adamo, a contatto
con la pelle. Le sue iridi chiare, inclinate, lo fissarono senza timore.
«Perché
lo
farei prima io».
Quelle
parole fecero sì che Alan sorridesse e spostasse
l’arma.
«Buona
risposta,» sentenziò, offrendo al fratello una
mano a cui lui si aggrappò per
alzarsi. «Non dettata dalla paura, né da qualche
sentimento di riverenza per
coloro che hanno camminato prima… o coloro che camminano con
noi. Tu… forse tu
puoi farcela, Braska. Puoi arrivare a Zanarkand».
Di solito,
Jecht non si faceva toccare dalle critiche altrui: gonfiava il petto e
drizzava
la schiena, guardando chi aveva davanti con aria sprezzante, sicuro di
quanto
valesse. Tuttavia, Alan non faceva che attizzare il fuoco del dubbio in
lui,
trattandolo come forse avrebbe trattato un servo.
Aveva
osservato in silenzio il Grande Inquisitore impartire ordini, come nel
giorno
della battaglia contro la Scaglia di Sin. Imponeva di dare sempre di
più, fino
a consumare chi aveva intorno. Mentre Auron e Braska alzavano le
difese, le
parole di Alan gli ronzavano in testa come mosche nel barattolo, ma
decise che
non gli avrebbe dato ragione.
In quel
posto si erano già organizzati per proteggere Alan; i tre
viaggiatori invece
erano comparse inaspettate per cui non era preparato niente. Quando i
fratelli
si ritirarono per riposare, Auron preferì rimanere di
guardia davanti alla loro
porta per un po’, allungando lo sguardo di tanto in tanto,
solo per calmare
l’ansia quanto bastava per farlo stare sereno.
A Jecht,
invece, il pensiero di rimanere fermo faceva venire la nausea. Quel
posto era
senz’altro fatiscente, e il fatto di aver dovuto allestire
tutto in fretta e
furia lo aveva reso più un magazzino che
un’infermeria. Si rimboccò le mani e
mise ordine insieme agli altri, rivolgendo la parola a una giovane che
aveva
preso in simpatia.
«Ascolta,»
disse l’atleta, facendo cenno verso Auron. «Lo vedi
quel bestione lì? Ha
bisogno di riposare anche lui, possibilmente non in mezzo al
corridoio».
«C’è
una
stanza libera, ma è un disastro all’interno. Come
tutte le altre, purtroppo».
«Ah,
va
bene! Finito qui, vado a sgomberarla. Nemmeno io ho voglia di dormire
in
corridoio».
L’atleta
fece l’occhiolino alla donna, tornando con la mente a
Zanarkand solo per un
momento, a quando amava far arrossire chi aveva davanti. Auron lo
osservò
andare avanti e indietro per più di un’ora,
indeciso se lasciare la postazione
e aiutarlo, oppure lasciarlo fare e vederlo ruzzolare a terra
più di una volta.
«Che
fai?»
chiese Auron in tono di scherno.
«Ci
preparo un angolino per dormire,» rispose Jecht allungando la
schiena.
«Non
ho
intenzione di dormire con te».
Quando
Jecht portò via le ultime cianfrusaglie, indicò
al compagno una porta adiacente
e si fermò a riprendere fiato, indugiando nel corridoio
invece di entrare.
«Allora
c’è quella. Che è da liberare, e io non
lo farò».
«Va
bene».
Preso un
profondo respiro, Jecht lo stava osservando in cerca di qualcosa che
non
vedeva.
«Senti…
hai bisogno di qualcosa?»
Auron
aggrottò la fronte.
«In
che
senso?» domandò.
«Nel
senso… se hai bisogno che io faccia qualcosa».
Il monaco
rimase in silenzio per qualche istante. Conosceva nel profondo il
disagio di
Jecht, e non gliene fece una colpa.
Soffiò
aria dal naso, scocciato: avrebbe voluto meditare in silenzio, come
soleva fare
per liberare la mente dopo aver usato la Necropotenza, ma non se la
sentiva di
lasciare Jecht divorato dall'insicurezza. Decise allora di assecondarlo.
«Se
proprio vuoi, dovrei controllare il filo della spada,»
tagliò corto Auron.
«Dopo la mia, sistema anche la tua».
«Sissignore,»
rispose Jecht con un mezzo sorriso. «Comunque, se vuoi puoi
vedere la mia stanza».
Quando il
monaco entrò, si rese conto che il compagno aveva fatto
molto più di quanto
necessario per passare una notte: negli angoli erano ancora presenti
scarti di
metallo e pezzi di armi, ma c’era spazio sufficiente per
avere un minimo di
comodità nel muoversi.
Jecht gli
indicò una bacinella piena d’acqua su uno sgabello
vicino alla finestra e
un’altra sedia vuota dalla parte opposta del giaciglio.
«Metti
il
cappotto e l’armatura lì, così puoi
rinfrescarti».
Auron lo
guardò infastidito, ma non si lamentò di
ciò che aveva preparato.
«Non
sei
il mio servo, Jecht,» commentò il monaco
avvicinandosi alla bacinella.
«Lasciami
fare almeno questo per te».
L’atleta
prese in carico la spada del compagno e la osservò bene alla
luce, notando che
serviva un’affilatura molto precisa. Prese la cote dalla loro
borsa di viaggio,
si sedette per terra e iniziò a lavorare, osservato con
attenzione da Auron.
Il
Guardiano più giovane valutò i suoi movimenti per
qualche minuto, ritenendo che
fossero adatti al suo tipo di spada. Immerse le mani
nell’acqua gelida della
bacinella e si lavò il viso, strofinandosi con
più vigore l’occhio destro che
pizzicava a causa della Necropotenza. Quando si girò di
nuovo, si aspettava di
trovare Jecht intento a guardarlo, invece l’atleta era
totalmente preso dal suo
compito e aveva un’espressione molto seria e concentrata.
Mosso
forse da compassione, Auron provò a sollevare
l’animo del compagno come meglio
poteva.
«Non
serviva fare tutto questo. Non devi dimostrare nulla».
Jecht
sbuffò, abbozzando un sorriso tirato.
«Io
devo
sempre dimostrare qualcosa».
Auron fece
per ribattere, quando l’atleta posò la cote e
l’arma a terra e lo guardò con
espressione cupa.
«Io
non
creo mostruosità dal fumo. Non lancio palle di fuoco e non
uso i miei occhi per
fare degli scudi,» disse incrociando le braccia.
«Di una cosa, però, sono
certo. Se il nemico passerà da quella porta, io
brandirò la spada in vostra
protezione».
Il monaco
sostenne lo sguardo infuocato del compagno, quasi volesse sfidarlo.
«Tu
credi
che Alan non farebbe lo stesso? Pensi che sia questo ciò che
ti eleva su un
piano migliore di ciò che lui pensa?»
«Alan
brandisce la spada solo per sé stesso».
Non era la
prima volta che Braska alloggiava in luoghi scomodi, ma quello spazio
spoglio
che chiamavano camera aveva una finestra opaca, che non lasciava vedere
quasi
nulla di quello che c'era fuori. Aveva l'impressione di respirare aria
sporca,
quella sensazione terrificante di quando aveva l'acqua nei polmoni e
ogni
giorno poteva essere l'ultimo.
Si tolse
l'ingombrante copricapo, ma il senso d'oppressione non si
calmò: perfino la
fine stoffa del velo intorno al collo era diventata intollerabile.
Aprì un poco
i vetri, ficcando il naso nella fessura e inspirando a fondo. Aveva
timore di
osare un tantino di più, ma nei paraggi non sembrava esserci
confusione: presa
la sedia messa a disposizione dagli infermieri, Braska si sedette
accanto alla
finestra, per godere degli ultimi raggi della sera e guardare i
dintorni.
Non era il
momento di farsi prendere dal panico, ma gli eventi stavano peggiorando
a
velocità notevole, e Braska iniziò a temere per
la riuscita del suo
Pellegrinaggio.
L'uomo
più
importante di Spira, la parola di Yevon in terra, era forse stato
assassinato
per motivi che faceva fatica a immaginare: a quel punto, poteva
accadere di
tutto.
I suoi
pensieri si fecero tanti e confusi: raramente si era vista una tragedia
di tale
portata, un evento così eccezionale da esigere soluzioni
eccezionali. Braska ne
era convinto: avrebbe risolto quella e altre terribili questioni
sconfiggendo
Sin, che incarnava i peccati di tutti gli uomini, anche quelli di colui
che
aveva attentato alla vita di Mika, anche quelli di suo fratello.
Braska
indugiò nel suo disagio per un tempo che non seppe
quantificare, guardando
distrattamente fuori dalla finestra senza focalizzarsi su nulla.
Ciò che
all’inizio pensava fosse un riflesso dei raggi del sole sui
vetri rimase
impresso contro il cielo, come in una fotografia. Una luce arancione,
calda.
Una fiamma
che si alzava nella piazza della città. Ne seguì
un’altra, nel quartiere dei
mercanti. Su una via secondaria che conduceva al porto, una molotov
passò
attraverso un vetro già sfondato.
«Ban
te
xiy!»
Gli Al
Bhed erano tanti, come i granelli della sabbia nel deserto. Allo stesso
modo
erano stati agitati dal vento, s’erano alzati e il fumo
saliva alle spalle di
quella che si era resa conto di essere una moltitudine.
La donna
che aveva urlato, alzando il pugno chiuso, non era che una tra la
folla. Il suo
grido incitava a rompere, a bruciare, a distruggere tutto
ciò che aveva
costituito un anello nella loro catena.
Non si
sarebbero salvate le case dei politici, non sarebbero rimasti in piedi
i
templi.
Accanto
agli Al Bhed c’era qualche Spirano, che urlava ancora
più forte, che con cuore
coraggioso si scagliava di petto contro le guardie che arrivavano.
Erano
lavoratori che volevano rovesciare chi li governava, uomini delusi.
Quelli che un
tempo erano stati fratelli nella città libera di Luka,
piegando il capo alla
Chiesa si erano arricchiti. E avevano sputato su tutto ciò
in cui credevano.
Così
urla
in lingue diverse, con vocali diverse, comunicavano tra loro nel
lessico
universale della rivoluzione. La marea non si fermò contro
le poche guardie che
erano rimaste, i fuochi non si spensero quando cominciarono a
estinguersi le
prime vite.
Diversi
gruppi di rivoltosi che si erano sparsi tra le vie cominciarono a
confluire
nella stessa strada. Le pupille a spirale degli Al Bhed si diressero
verso un
singolo obiettivo. Il carcere era uno degli edifici più
antichi della città,
protetto da qualche soldato e da spesse mura. Tutte cose che potevano
essere
abbattute.
Gli
Yevoniti erano convinti che, uccidendo Sin, avrebbero eliminato ogni
male dal
mondo, e si sarebbero salvati.
Ma non
loro. Loro si sarebbero salvati solo liberando Cid.
E
per il
loro dolore che non poteva essere compreso, tutta Luka avrebbe bruciato.
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Capitolo 51 *** Quelle polveri (Parte 1) ***
CAPITOLO 35:
QUELLE POLVERI (PARTE
1)
Quando
aveva visto la prima luce sulla strada – rotonda e arancione
– Alan aveva
pensato che si trattasse del riflesso di una di quelle lanterne
lasciate volare
per festeggiare l’inizio del torneo. Aveva strizzato gli
occhi senza l’intenzione
di metterla a fuoco, perso in un vecchio pensiero.
Solo dopo
qualche minuto si era reso conto che le luci non facevano che
aumentare. Segno
probante che era stato qualcun altro a mettere a fuoco
qualcosa.
Rimase
immobile a osservare l’incendio, a chiedersi in un tempo
dilatato perché
nessuna sirena stesse suonando, perché nessuno avesse
varcato la sua porta
socchiusa per dirgli che cosa stava accadendo.
Quando la
voce di un uomo lo richiamò con un secco
«signore», lui si voltò con la
prontezza di una tigre. Incontrò lo sguardo di un giovane
Templare, il suo elmo
calato fino alle sopracciglia, e la mano che, in uno scatto
involontario, si
era stretta attorno al turibolo si rilassò sul metallo.
Si rivolse
di nuovo alla finestra e fece qualche passo in avanti. Nel cielo
arrossato si
distinguevano alte colonne di fumo.
«Che
cos’è
quell’incendio?»
«Gli
Al
Bhed, Maestro Inquisitore».
«Gli
Al
Bhed vanno a fuoco?»
«No,
signore». Il Templare abbassò il capo.
«Stanno marciando verso le carceri, in
migliaia, bruciando tutto ciò che trovano sul loro cammino.
Il Maestro Vigot
Ronso ha ordinato di reprimere la rivolta, ma temiamo che possano
essere
riusciti a–»
«No!»
Alan
artigliò con entrambe le mani il velo sul proprio petto, e
continuò a fissare
la città con gli occhi sgranati. Quei demoni non avrebbero
liberato Cid, che
era rinchiuso nel Palazzo di Giustizia, ma solo lasciato fuggire
l’unico
prigioniero di cui gli importava. Davon. Prima che
lui lo potesse
portare a processo.
«C-chiedo
perdono,» lo raggiunse la voce del giovane, sempre
più insicura. Lui aveva
fatto un passo indietro, e si trovava quasi con le spalle al muro.
«Sono stato
mandato qui per aggiornarla sullo stato di salute del Maestro
Mika».
Alan
raddrizzò la schiena, come se fosse stato appena legato a un
bastone, e
incrociò le braccia al petto.
«Lo
stato
di salute del Maestro Mika,» ripeté, inespressivo.
Per quanto Vigot potesse
reprimere la rivolta nel sangue in modo efficiente e rapido, lui doveva
andare
a presidiare il Palazzo di Giustizia. Subito.
«Sì».
«A
quest’ora».
«S-sì,
giudice».
«Prego,
allora».
L'espressione
del Templare si rilassò, quasi come se il dio gli avesse
appena infuso, dopo
profonda preghiera, la forza per affrontare le
avversità.
«Yevon
ci
ha benedetti con un miracolo,» disse, il sorriso che si
allargava sul suo
volto. «Il Grande Maestro non ha ripreso conoscenza,
ma… è fuori pericolo. Non
annunceremo nulla al popolo fino a quando non si sarà
svegliato».
Alan smise
di giocherellare con uno dei fermagli d'argento nei suoi capelli e gli
rivolse
un'espressione talmente radiosa da risultare inquietante, sotto il velo
spettrale che gli sfocava il viso.
«Innalziamo
lodi a Yevon!» esclamò, poi fece una pausa in cui
appoggiò le mani in grembo e
assunse una posa più composta. «Dal momento che il
dio ci ha concesso questa
favorevole disposizione di eventi, ho bisogno che tu dirami un ordine
per mio
conto. Ah, ma prima… Il mio secondo in comando
dov'è?»
«Kelk
Ronso ha obbedito all'ordine del Maestro Vigot, in quanto appartenenti
alla stessa
tribù, e si è recato ad occuparsi della
rivolta».
«Ah,»
intervenne Alan, qualche istante prima che il giovane potesse terminare
la
frase. «L'ordine di un capo Ronso su qualcuno della sua gente
dunque viene
gerarchicamente prima del mio. Vedi? Ogni giorno imparo qualcosa che
non so. Si
potrebbe dire che si è sempre in divenire».
Senza
capire, il suo sottoposto fece un cenno con il capo. Poi tenne il collo
chinato, come se dovesse sostenere un peso.
«In
quanto
a te…» Alan, con uno dei passi lunghi che era
solito muovere mentre pensava,
appoggiò il tacco sul pavimento. Il giovane davanti a lui
trasalì, come se il
giudice gli avesse calpestato la prima vertebra. «Dirama il
mio ordine. Ora».
«S-signore…
io rispondo a–»
Uno
sguardo di Alan da dietro il velo fece abbassare subito quello del
giovane, che
aveva appena trovato il coraggio di riportarlo sui paramenti che
decoravano il
petto del giudice. Si bloccò e si schiarì la voce.
«Sì,
signore,» concluse, a pugni stretti. «Volevo solo
far presente che dovrei
rispondere alle direttive del Maestro Vigot Ronso, e un suo ordine
contrastante
risulterebbe in un…»
«Siano
convocate immediatamente queste persone,» lo interruppe Alan,
la freddezza
delle sue parole in contrasto con la linea dolce delle labbra.
«Domani alle
dieci, al campo di cura di Yevon».
Gli occhi
del giovane caddero sul primo nome dell'elenco. Vide che era quello del
fratello di Alan e non osò spingersi oltre,
poiché né nel segreto del dio
intendeva inoltrarsi né nella violenza di
quell'uomo.
Dopo
essere scattato sull'attenti, e dopo avergli rivolto il saluto
Yevonita, il
soldato si congedò da Alan e prese la porta.
Una
sensazione di gelo gli morse la nuca, per poi diffondersi in tutto il
suo
corpo, quando sentì i passi rapidi del giudice alle sue
spalle; il suo braccio
che teneva la porta; la sua ombra che lo raggiungeva e infine lo
superava.
Rimase
immobile, incapace anche di respirare finché, con lo
svolazzare nero delle sue
vesti, Alan non sparì nel corridoio della
polveriera.
Jecht
sbadigliò in modo scomposto, per poi allungare le gambe e
stiracchiarsi la
schiena. La nottata passata sul pavimento rigido si faceva sentire con
fitte di
dolore, ma non se ne lamentò troppo: aveva avuto dei postumi
molto peggiori.
Si
toccò
le braccia scosse da brividi di freddo, rendendosi conto che si era
tolto la
coperta nel sonno, o che qualcuno se l'era presa tutta per
sé.
Abbozzò
un
sorriso mentre si grattava la guancia, vicino all'angolo della bocca.
La
medesima che, quella notte, divorava le labbra di Auron, e il ricordo
stesso
era fuoco.
Per quanto
fosse uno che volentieri soccombeva alle fiamme, in genere non era mai
lui
quello che gettava la fiaccola sulla paglia, nemmeno quando vedeva la
possibilità di passare la notte con qualcuno. La sua
strategia si basava
sull’avvicinarsi e poi allontanarsi, e sul mostrarsi sicuro.
Allora bastava una
parola, un contatto fisico più allusivo di altri, e si
trovava in un letto che
non era il suo.
La notte
precedente, era successo lo stesso con il monaco. Il solo associare il
suo viso
a un ordine religioso, a un’astinenza presunta e santificata
nei templi, gli
insinuava nel cuore una colpa disgustosa. Jecht voltò il
capo in direzione di
Auron che gli rivolgeva la schiena nuda, e si soffermò con
lo sguardo sui suoi
capelli arruffati. Lo vide solo, davanti alla cornice di legno di uno
specchio,
che li pettinava con una spazzola e contava i fili grigi.
«Non
ho
intenzione di dormire con te».
La
risolutezza di Auron aveva vacillato non appena si era messo a bere
dalla
fiasca che portava al fianco. E nonostante Jecht avesse insinuato che
avrebbero
potuto bere assieme, Auron si era rifiutato: il sapore di liquore che
tanto gli
mancava avrebbe potuto sentirlo solo sulle sue labbra.
Nonostante
l’alcol lo annebbiasse, Auron era riuscito a eludere
più di un tentativo di
Jecht di strappargli di mano la bottiglia, e non s’era fatto
spingere contro il
muro. Si era seduto, per dissimulare la stanchezza, a gambe incrociate
sul
giaciglio di Jecht.
«Ooh,
perché
non me ne dai un po’?» si era lamentato
l’atleta, avvicinandosi a lui a
gattoni. « Potremmo fare di nuovo uno di quei giochi sul dire
la verità,» aveva
alzato gli occhi su quelli del ragazzo, notando che già lo
stava fissando, e
abbassato la voce, «e magari scoprire perché
sono ancora qui».
Il modo
stesso in cui aveva pronunciato quella frase, con un tono roco e
seducente che
imitava quello dell’Inquisitore, lo aveva eccitato, assieme
all’odore lieve di
tabacco che aleggiava attorno ad Auron.
«Ti
piace
essere umiliato, Jecht?»
Nel
sentire quell’osservazione, l’atleta aveva inarcato
le sopracciglia con un
sorriso ammirato, e aveva smesso di avvicinarsi al compagno.
«Dipende
da chi ho davanti,» aveva risposto. «Anche se, in
effetti… se fossi forte
quanto te, e mi fossi trovato da solo con il giudice, avrei provato a
sbatterlo
contro il muro e spiegargli chi comanda».
«Mi
sembra
pericoloso,» aveva obiettato Auron.
«Oh,
sì,
lo è. Che c’è, sei geloso? Vorresti
fartelo tu?»
«Farmelo?»
Jecht era
finito a un palmo di distanza dal viso di Auron, e le loro labbra si
sfioravano.
«Non
stiamo giocando a dire la verità?» aveva mormorato
l’atleta, seduto con le
gambe attorno al bacino di Auron. «Quanto sono frequenti da
queste parti le
fantasie sull’Inquisizione?»
«…Abbastanza».
Jecht era
scoppiato a ridere. Invasato da qualche spirito che lo spingeva a quel
gioco,
aveva descritto nel dettaglio ad Auron, mormorandogli
all’orecchio, tutto
quello che avrebbe fatto ad Alan se solo ne avesse avuto la
possibilità.
Gli
avvenimenti successivi, il modo in cui Auron si era avventato sulla sua
bocca,
gli avevano fatto capire che si trattava di un desiderio
condiviso.
Mentre
Jecht ricordava, la colpa lasciò spazio a una forte
sensazione di disagio: si
era trovato nella medesima situazione innumerevoli volte, prima del
matrimonio,
davanti a lui file di schiene nude di donne e uomini di cui non
ricordava il
viso. Si era trovato a far vagare lo sguardo su quella della moglie,
bianca e
curva come l’onda sulla battigia, senza che nessun sentimento
gli scaldasse il
cuore.
Tutti i
baci dati non avevano sapore né volto: erano solo un mezzo
per eccitarsi e
consumare, quasi alla stregua delle bestie.
Quelli di
Auron, invece, li ricordava tutti, marchiati a fuoco nella mente: il
leggero
retrogusto di sigaretta, il calore del suo tocco, perfino come lo
faceva. Aveva
voglia di allungare la mano per accarezzargli i capelli, ma il disgusto
di sé
lo paralizzava.
Rifletté
a
lungo sulle proprie sensazioni, indeciso se muovere la mano o meno. Il
volto di
Lauren sbiadiva giorno dopo giorno, e Jecht comprendeva quanto il loro
rapporto
fosse ormai morto.
Eppure
voleva tornare a casa, e mentre a gambe incrociate cercava di imitare
le
preghiere dei suoi compagni, più volte il suo voto profano
era stato quello di
tornare migliore. Di essere un buon padre per Tidus. Per farlo, non
poteva più
mentire a Lauren, ormai era chiaro.
Quella
nuova consapevolezza gli sciolse un peso sullo stomaco, permettendogli
di
rilassarsi: la strada era lì, davanti a lui, e non doveva
far altro che
seguirla.
Decise di
non dare fastidio ad Auron e si alzò lentamente,
massaggiandosi l'osso sacro
dolorante. Non sapeva che ora fosse, ma nel corridoio sentiva
già movimento e
chiacchiericcio, così si diresse verso la bacinella d'acqua
che avevano a
disposizione per lavarsi il viso.
«Dove
vai?»
La voce
roca di Auron sorprese l'atleta facendolo irrigidire per lo spavento,
fino a
far cascare qualche goccia per terra.
«Dove
vuoi
che vada, ragazzo?» rispose Jecht senza girarsi.
Auron
bofonchiò qualcosa portandosi le dita agli occhi, forse
infastiditi dalla luce
che filtrava dalle finestre opache.
«Che
ore
sono? Ho dormito troppo,» disse Auron scattando in piedi con
fare nervoso.
Jecht, che
normalmente avrebbe fatto battute sulla notte appena passata,
preferì non fare
menzione dell'accaduto e di percorrere la via diplomatica per non fare
irritare
il compagno più del necessario. Gli cedette il posto alla
bacinella e la indicò
con un cenno della mano, invitandolo a rinfrescarsi.
«Non
so
che ore siano, ma non è la fine del mondo se, ogni tanto,
dormi un po' di più.
Eri molto stanco,» disse Jecht, guardando ovunque tranne che
verso il torso
nudo del compagno.
«Sciocchezze».
L'uomo di
Zanarkand scosse la testa e raccolse le poche cose che avevano lasciato
in
giro, mettendo la coperta al suo posto e l'armatura leggera del monaco
vicino
al suo cappotto. Auron non lo perse di vista nemmeno un attimo, cosa
che mise
Jecht piuttosto a disagio.
«Che…
che
c'è?» chiese l'atleta incrociando le braccia.
Il monaco
si girò verso l'acqua fresca e si lavò con cura
il viso, non tanto per la
pulizia, quanto più per non incrociare il suo sguardo. Forse
aveva timore di
parlare di ciò che avevano fatto.
«Auron,
va
tutto bene. Sei in tempo per recitare le tue preghiere, anzi, secondo
me non
siamo molto lontani dall'alba».
Il monaco
fissò il suo riflesso nell'acqua per qualche istante,
accorgendosi di star
stringendo la bacinella con più forza del dovuto, come a
voler confermare che
ciò che lo preoccupava non erano le laudi.
Allentò la presa e riprese a
respirare con più regolarità, ora che il timore
di venire provocato non lo
attendeva in agguato dietro qualche battuta infelice del compagno.
«Probabilmente
hai ragione».
«Io
vado a
vedere se hanno bisogno di qualcosa in corridoio, magari Braska
è già
all'opera. Tu finisci qui con calma».
Auron
abbozzò un mezzo sorriso.
«Non
starai esagerando con tutta questa premura per il prossimo? Ieri hai
lavorato
parecchio,» lo punzecchiò il monaco.
«Per
quanto riguarda la tua prima osservazione, sarà la
vecchiaia,» rispose Jecht
con una risata. «E per la seconda, invece, diciamo che mi
sento bene abbastanza
per poterlo fare».
Quelle
strane sensazioni che l’essere con Auron gli causava lo
facevano dondolare tra
l’euforia e l’ansia come l’altalena di
una fanciulla. Ora lo spingevano a
desiderare di coprirsi il capo di cenere e ora lo facevano sentire in
grado di
salire su quel monte che da Luka non si vedeva, e a cui tutti a Bevelle
–
indicandolo col dito – davano il nome di Gagazet.
Perché
quando fossimo saliti sul Gagazet, con gli occhi fermi sul nostro
sacrificio,
potessimo dire, guardate! Qui Yevon dio diventa.
Il dito di
Alan si fermò su quella riga della traduzione.
Ricordò le strade attraverso cui
si era fatto portare con urgenza estrema. Risuonavano di grida lontane
e
avevano l'odore dei roghi.
Così
come
un capitano affonda con la sua nave, aveva detto, se la rivolta
raderà al suolo
il palazzo di giustizia ci troverà me. I funzionari che lo
circondavano erano
stati veloci a obbedire come cani. Anzi, era più remissivo
l'uomo: il giorno in
cui anche gli animali si sarebbero piegati in quel modo al suo volere,
allora
avrebbe potuto dire di essere davvero quello che Yevon aveva
scelto.
Perché
Yevon è il dio che è, anche
se le frasi che aveva davanti, nella traduzione dei testi che
aveva
condannato, avevano sempre più senso ai suoi occhi; avevano
senso loro
sul monte.
E
poiché sono
diventato dio, ecco i modi per distogliervi dal male. Ecco
come placarmi per
scongiurare l'eterno ritorno di Sin.
Un
presentimento lo punse alla base della gola. Lo fece tossire e lo
spinse a
ruotare lo sguardo tutt'intorno all'archivio spoglio delle prove che
aveva
raccolto. Voltò pagina: il testo si interrompeva. La ragazza
non aveva avuto
tempo.
«Guardia!»
Un
Templare decorato, che dai lineamenti del volto sembrava originario di
Luka,
fece capolino attraverso la porta socchiusa. A un cenno del giudice,
entrò nell'archivio
e gli rivolse il saluto, pur continuando a guardarlo con l'occhio
vigile di un
veterano.
«Qualche
giorno fa ho ordinato di imprigionare una ragazza Al Bhed per eresia.
Portami
da lei». Nonostante in piena notte quell’ufficio
fosse deserto, Alan parlava a
bassa voce, e nel mentre raccoglieva in fretta dei rotoli.
L’uomo
lo
squadrò da capo a piedi, poi fece risalire lo sguardo, come
se desiderasse
vederlo in faccia.
«Come
desidera, signore,» replicò.
«Però, se vuole una donna, posso
consigliarle…»
«Non
voglio una donna». La sedia di legno verniciato
strisciò sul pavimento quando
Alan si alzò in piedi. «Voglio lei.
Mostrami dov’è la cella».
Il
Templare, con un sorriso affilato, alzò entrambe le mani in
una farsesca
richiesta di pietà, poi condusse l’Inquisitore
giù dalle scale e attraverso le
segrete.
I loro
tacchi battevano nel silenzio: nessun condannato aveva il coraggio
– o la forza
– di protendere una mano verso di loro, di cercare di
sfondare le sbarre.
Tuttavia, in una delle celle in fondo al corridoio, dove
l’odore di muschio
lasciava posto a quello acre del vomito, un uomo incessantemente
mugolava un
lamento, e nel suo delirio di vocali sembrava essere racchiusa la
preghiera a
un dio ignoto.
Il
Templare fece vagare lo sguardo tra le celle, veloce come una rondine
che solca
il cielo primaverile. Nel suo cervello era impressa la mappa di quel
luogo,
stampata a fuoco per bruciare i nervi della compassione. Gli stessi i
cui moti
Alan aveva sepolto sotto ai fiori di sangue nella neve.
Si
fermarono prima dell’uomo che gemeva, e con un clangore di
chiavi il Templare
aprì una cella identica a tutte le altre.
«Hai
visite,» annunciò. L’oscurità
inghiottiva senza risputare, ma alla luce della
fiaccola Alan riuscì a distinguere la figura di una donna
bionda che, seduta a
terra con le spalle contro il muro, si ritraeva e si copriva il petto.
La
guardia si fermò a pochi passi da lei.
Quello
stronzo del giudice Alan, sembrò
sul punto di dire, ma rimase in silenzio.
Forse
confusa dall’immobilità attorno a lei, la ragazza
alzò la testa. Vide il
Templare appendere la sua fiaccola al muro, per poi consegnare le
chiavi a
qualcuno alle sue spalle e allontanarsi.
«Buon
divertimento,» disse.
Amahy
riconobbe l’uomo prima ancora che muovesse voce. Il modo in
cui stava in piedi,
lo scintillio macabro del cerchio d’argento che gli cingeva
il capo, anche
nella penombra le fecero capire che era lui quello per cui non
s’era lasciata
morire. Quello per cui doveva trasformarsi da serva a belva feroce, per
cui
doveva tramutare le lacrime di dolore in sguardi di fuoco. Lui era
quello per
cui aveva ancora i denti, in modo da potersi staccare la lingua a morsi
davanti
ai suoi occhi.
«Inquisitore,»
disse a fatica, il respiro che fischiava tra una parola e
l’altra. Il rumore
delle catene attorno alle sue caviglie tradì un fallito
tentativo di alzarsi in
piedi. «A cosa devo il piacere? Mentre i miei ti bruciano le
carceri, tu ti
interessi all’astronomia?»
Nel
secondo tentativo di alzarsi, affondò le unghie nel muro
alle sue spalle e le
usò per fare leva. Le sue labbra spaccate, alla luce tremula
della fiamma, si
contorsero in una smorfia di dolore. Strinse i denti, travolta da una
rabbia
repentina, quando Alan la prese per il fianco.
«Alla
filologia, mia cara».
La ragazza
trasalì e tentò in ogni modo che poteva, con le
braccia e le gambe incatenate,
di allontanarsi da lui. Trattenne il respiro per evitare che quel suo
odore di
cenere invadesse il rassicurante tanfo della prigione, e
respirò solo quando si
accorse che, dopo averla aiutata a mettersi in piedi, il giudice aveva
mosso
qualche passo indietro.
Nonostante
le sue gambe sottili fossero sul punto di tremare, rimase ferma davanti
a lui,
lo sguardo in linea esatta col suo. Lei, però, non aveva mai
avuto il bisogno
di tenere il mento sollevato in quel modo.
«Alla
filologia,» ripeté, divertita, e si
appoggiò al muro per spingere il petto in
avanti. Sperò che il suo fiato lo disgustasse
poiché, legata, poteva disporre
solo di quello, tuttavia Alan non mosse un sopracciglio.
«Stavo
esaminando le carte del tuo caso e voglio muoverti una
richiesta». Così
dicendo, estrasse dalla veste due piccoli rotoli, racchiusi in custodie
di
cuoio. Lo sguardo della giovane seguì il luccichio prezioso
dei suoi anelli.
«Riguarda la tua traduzione dei testi sacri».
Amahy
scoppiò a ridere, schizzando volontariamente della saliva
addosso
all’Inquisitore.
«Una
richiesta?» ribatté. «Senti la mia:
perché non ti infili quei rotoli nel culo?»
Sul viso
di Alan si abbatté un’ombra di lesa
autorità, che lui ricacciò sotto al velo
con un sorriso obliquo, marcato da rughe sottili attorno alle
labbra.
«Comprensibile,»
commentò. Poi cominciò a esaminare le chiavi e,
sotto lo sguardo attonito della
giovane, le prese i polsi e li liberò. Il suo istinto fu di
stringerli tra le
dita e massaggiarli, ma riuscì a trattenersi e rimase
immobile, senza abbassare
lo sguardo.
«Vattene.
O prendimi e torturami, se devi. Nessuno mi ha aiutato. Erano solo idee
mie».
A quelle
parole, Alan annuì e sospirò. Era come se ci
fosse un non detto nei risvolti
delle sue parole, qualcosa in grado di tormentare nel profondo anche
una
persona come lui.
Senza dare
le spalle ad Amahy, il giudice aprì la porta della cella e
poi si avvicinò di
nuovo a lei.
«Non
dirò
che ho conosciuto di persona quello che ti ho fatto soffrire
– altre cose,
molte e terribili le conosco, ma non questa –»
cominciò a dire in tono quasi
dimesso. Con un gesto inaspettato, si chinò e le
abbracciò le ginocchia,
appoggiandovi il capo, poi diresse gli occhi verso di lei.
«Ma tu sai cosa
significa questo gesto, perché lo hai studiato, e sai che di
più non posso fare
per essere ascoltato».
Il respiro
si bloccò nella gola della ragazza. Era come essere chiusa
in gabbia con una
tigre, mentre quella, frapposta tra lei e la libertà, con un
gesto tenero le
chiedeva una carezza. Ascoltare la richiesta di chi dava solo ordini
era come
passare le labbra su un fiore d’aconito.
«Perché
mi
stai supplicando?» domandò con voce roca.
«Voglio
parlare con te. Io… voglio che tu continui la tua
traduzione».
Il
formicolio nelle dita significava forse che il suo cuore, a quella
frase, si
era fermato?
«Scopriti
il viso,» ebbe il coraggio di dire lei, mentre sperava che
ricominciasse a
battere, «e guardami mentre mi spieghi il
perché».
Alan le
obbedì, e le sue iridi chiare si tinsero del colore di una
fiamma che
proiettava sul suo viso affilato ombre troppo tenui per farlo sembrare
minaccioso. Cosa temeva, quella ragazza? Che potesse usare la
Necropotenza
contro di lei, quando sarebbe bastata la sua mano a strangolare una
prigioniera
denutrita?
Ad ogni
modo, prenderla a schiaffi o strozzarla non sarebbe stato utile alla
loro
collaborazione.
«Recenti
mie letture dei testi sacri di Yevon mi hanno portato a tesi
interessanti sia
per me che per te,» prese a spiegarle lentamente, dopo
essersi alzato, «non
voglio parlartene qui: seguimi».
Mentre lui
si dirigeva verso la porta, Amahy arricciò il naso e si
grattò i capelli
sporchi.
«Sapendo
che dovrei appoggiarmi a te per fare le scale,» lo
bloccò, «in poche parole mi
stai chiedendo se mi fa più schifo questa cella o
l’idea di toccarti».
Alan si
voltò verso di lei e inarcò le sopracciglia.
«Spero
che
tu non sia testarda quanto il capo della tua gente».
«Beh,
per
ora le due cose sono pari,» ribatté lei, premendo
la schiena contro il muro e
passandosi una mano sul ventre. Qualcuno le aveva strappato il
corpetto. «Ma
che il mio nome sia associato al tuo è qualcosa che mi fa
preferire questo
muschio».
«Ti
sto
offrendo la libertà».
Prima
ancora che potesse finire quella frase, Alan vide i denti regolari
della
ragazza brillare alla luce della torcia.
«Dimmi
una
cosa. È vero che hanno sparato al Grande Maestro
Mika?»
«Sì».
«E
quindi
tu, se non lo eri già prima, a questo punto sei
l’uomo più pericoloso di Spira,
e quello più in pericolo di tutti,»
osservò acutamente la giovane, «ma se io
accetto la tua offerta e continuo la traduzione, e a te
t’ammazzano, dove vado
a finire?»
Alan
strinse un pugno, innervosito. Trattare con un Al Bhed era come cercare
di
catturare il vento.
«Io
ho
fatto la mia proposta, signorina». S’interruppe e,
con le braccia larghe, si
guardò attorno con enfasi. «Valuta tu che cosa ti
conviene».
Lei
sospirò e, traendo vantaggio dalla posa che Alan aveva
assunto, si spinse verso
di lui e si aggrappò al suo braccio per sorreggersi; tre
volte maledisse la
debolezza delle proprie ginocchia che la stava costringendo a quel
gesto
indesiderato.
«Beh,
giudice, tu almeno non sai da piscio».
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Capitolo 52 *** Quelle polveri (Parte 2) ***
CAPITOLO 35:
QUELLE POLVERI (PARTE
2)
Jecht era
stato ricoverato più di una volta nel grande ospedale di
Zanarkand: per una
sbronza peggiore delle altre, o la solita malandata gamba che diventava
spesso
il bersaglio preferito dei difensori.
Il dolore
è dolore, pensava l'atleta, ma nonostante il posto in cui si
trovava fosse
fatiscente e avesse solo il minimo indispensabile per ospitare dei
feriti, gli
abitanti di Spira tendevano a lamentarsi poco e sopportare con fiera
dignità.
Nelle sue
brevi e lunghe degenze, servito come un re in quanto campione di
blitzball, non
faceva che lagnarsi per qualunque cosa con fare sgraziato e
arrogante.
Jecht
guardò se stesso nel passato e rabbrividì: non si
aspettava di certo di
naufragare in un altro mondo e vivere una follia dopo l'altra, ma si
trovò
contento di essere cambiato così tanto, di aver trovato
quell'umiltà che faceva
finta di cercare a Zanarkand.
A Spira la
morte era di casa, e sicuramente era un'insegnante eccellente per
imparare a
comportarsi.
Lo sapeva
bene Braska che, nonostante il novero dei suoi lutti, si era immolato
al
macabro altare di quel mondo per regalare qualche anno sereno al popolo
e a sua
figlia dalla minaccia di Sin.
Sembrava
danzare tra un ferito e l'altro per fornire le sue magie di cura,
alleviando il
dolore e salvando vite. Jecht sorrise: non aveva mai incontrato nessuno
che gli
infondesse una tale calma con la sua sola presenza.
L'Invocatore
scorse l'atleta verso la fine del corridoio e lo salutò con
la sua consueta
dolcezza, ma Jecht notò subito il volto teso del compagno e
lo raggiunse per
fornire supporto.
«Non
ti
fermi mai tu, vero?» disse Jecht, accarezzandogli la spalla.
Braska si
prese qualche istante per drizzare la schiena, provato dallo stare
molte ore al
capezzale dei feriti.
«Eppure
sembra non essere mai abbastanza,» rispose l'Invocatore con
tono amaro.
«Sei
troppo duro con te stesso. Auron ti rimproverebbe se ti sentisse dire
queste
cose,» disse Jecht, incrociando le braccia.
Braska
abbozzò un sorriso tirato, e si grattò la testa
con fare agitato.
«Hai
ragione, amico mio. Immagino che Auron ci raggiunga tra poco».
L'atleta
annuì, ma non poteva fare a meno di notare l'atteggiamento
schivo
dell'Invocatore che, per qualche ragione, continuava a voltarsi verso
l'entrata.
«Braska,
va tutto bene? Che succede?»
Lui
sospirò, premendosi gli occhi con le dita per alleviare il
mal di testa che lo
tormentava dalla notte precedente.
«Hai
visto
le luci stanotte?»
Jecht fece
finta di pensarci per non far trapelare la scintilla di eccitazione nel
ricordare i baci di fuoco del monaco.
«Non
mi
pare, ero molto stanco».
«In
città,
dei rivoltosi stanno appiccando le fiamme ovunque. Dicono siano stati
gli Al
Bhed,» spiegò Braska con un filo di voce.
Jecht
comprese tutto senza bisogno di ulteriori chiarimenti: un popolo
orgoglioso
come il loro doveva avere indietro il capo per cui si erano tanto
battuti.
«Alan
si
sarà precipitato da Cid, immagino,» disse Jecht
grattandosi la barba.
Braska
annuì, asciugandosi la fronte imperlata di sudore con un
fazzoletto.
«Sono
preoccupato per mio fratello e per il popolo di mia moglie. Temo possa
succedere l'irreparabile».
Quando una
figura si palesò alla porta d'entrata, Braska
drizzò subito la schiena nella
speranza di vedere Alan, speranza che fu subito soppressa nel vedere
Kelk Ronso
avvicinarsi a loro con aria enigmatica.
«Signori,
buongiorno».
Braska e
Jecht gli rivolsero il saluto yevonita, a cui il felino rispose con
freddo
distacco.
«Parlavamo
degli ultimi avvenimenti. Non ci aspettavamo una sua visita,
signore,» disse
Braska tradendo tensione nella voce.
«Immagino
che attendesse il Grande Inquisitore,» rispose Kelk unendo le
mani.
«Sono
molto in pena…»
«Comprensibile.
È una fortuna che il nostro Maestro abbia un fratello
così amorevole e
disponibile,» commentò Kelk scoprendo i canini in
un ghigno. «Sono qui per suo
ordine. L'Invocatore Braska e i suoi Guardiani sono convocati alle
dieci al
campo di cura».
Jecht,
trasportato dai suoi stessi pensieri, si azzardò a parlare
forse troppo
liberamente:
«Siamo
ovviamente onorati della sua presenza, ma bastava una guardia per
mandarci a
chiamare, signore».
Kelk
arricciò il naso infastidito, sbuffando aria dal naso, poi
si portò le mani
dietro la schiena.
«Sono
stato convocato anch’io, in effetti. Mi sfugge il motivo, ma
se il Grande
Inquisitore ci vuole tutti al suo fianco, la situazione non dev'essere
facile».
Braska
posò una mano sulla spalla di Jecht come per volerlo
rassicurare, stringendo invece
con forza per fargli capire di tacere.
«Ha
ragione, Maestro. Ci prepariamo a partire, allora,» disse
Braska congedandosi
dal Ronso che, a passi lenti, lasciò la struttura.
Una volta
che Kelk fu fuori portata, Jecht roteò gli occhi stizzito,
mentre Braska
cercava di calmare il respiro.
«E
ti
pareva…» commentò l'atleta scuotendo la
testa.
«Sono
abbastanza sicuro che nessun Invocatore abbia mai avuto un
Pellegrinaggio tanto
movimentato,» disse Braska sospirando.
Jecht si
lasciò andare ad una risata, scorgendo Auron in lontananza
che si sistemava il
nastro che stringeva la sua lunga coda di capelli.
«E
non è
ancora finita. Dobbiamo dirlo al monachello,» disse.
Braska si
coprì il volto con le mani, impreparato nello spirito ad
affrontare una
giornata del genere.
«Leggi».
Amahy
raddrizzò la schiena e le sue scapole si avvicinarono
l’una all’altra, lasciate
scoperte dall’abito di fattura spirana che Alan le aveva
recuperato da qualche
parte, in modo che potesse riassumere – nonostante i lividi
sul viso e sulle
braccia – un aspetto decente. La luce del primo mattino
filtrava nello studio
dove era stata portata, e illuminava le pergamene in lingua antica
così come
gli occhi dell’Inquisitore, la parte più
importante e venerabile del suo corpo,
che lui aveva lasciato scoperti per mantenere i termini del patto.
«A-po-
cho-ré… saien,» disse la
ragazza, con pronuncia incerta, mentre seguiva col
dito la riga delle lettere. La stanchezza e la pressione
nell’ avere le
attenzioni di quell’uomo dirette su di lei la rendevano
titubante anche sulla
sua stessa scrittura.
Era
disgustata da lui, dal modo in cui torceva le labbra e dai simboli che
portava;
spaventata dalla sua voce e dalla totale assenza di qualcosa di umano
nei suoi
modi. Avrebbe dovuto usare tutte le forze che le erano rimaste per
infilargli
il calamo nell’occhio, e in questo modo privare gli Yevoniti
del loro feticcio,
vendicare i suoi fratelli che quel bastardo aveva mandato al rogo.
Alan, però,
non l’aveva toccata né ne aveva mostrata
l’intenzione, e lei sperava che
continuasse a non farlo, perché c’era qualcosa di
affascinante e inaspettato
negli argomenti di cui le parlava.
Non
conosceva a fondo la teologia di Yevon, né sapeva a quali
regole dovessero
sottostare i sacerdoti, ma le pareva che in qualche modo il discorso di
Alan
potesse andare contro l’ortodossia. Ciò
significava che presto qualcun altro
avrebbe messo in atto la sua fantasticheria di strappargli gli occhi,
senza che
dovesse essere lei a sporcarsi le mani. Oppure, quello era un uomo a
cui tutto
era concesso. Forse, alla fine di tutto, l’avrebbe bruciata.
Forse
avrebbe dovuto stare zitta, ma la curiosità è la
maledizione di un astronomo.
«Apò-?»
ripeté lui. A quella replica, Amahy spinse lo sguardo verso
la porta, perché
più in là non poteva farlo fuggire. A
metà strada, incontrò la mano dell’uomo
che segnava qualcosa su un foglio. «C’è
scritto apò- nel tuo?»
Lei
riportò gli occhi verdi sui documenti davanti a
sé, come a volersene accertare,
poi confermò:
«Sì.
E nel
tuo?»
«Perì-».
La giovane
aggrottò le sopracciglia.
«Perché?
Sono due cose diverse. La mia traduzione dovrebbe essere
giusta».
«Non
ho
ragione di dubitare dell’accuratezza della tua traduzione. Se
così fosse, non
l’avrei messa all’indice».
A
quell’osservazione, Amahy trovò il coraggio di
guardare Alan e gli rivolse un
mezzo sorriso.
«Sei
un
uomo molto razionale».
L’Inquisitore,
senza perdere la sua aria di distaccata
superiorità, ricambiò
l’espressione divertita, poi tornò ai propri
appunti.
«Penso
piuttosto che i due testi di base siano diversi. Tu hai tradotto
partendo da
questi rotoli? Non li hai confrontati con altri?»
«Sì,
non
ne ho altri. Solo questi».
«Dove
li
hai trovati?»
La ragazza
rimase per un istante in silenzio, valutò se
quell’informazione avrebbe potuto
mettere nei guai qualcun altro oltre a lei, che ormai aveva chinato
volontariamente il capo sotto il giogo. Sapere prima di morire; anche
se non lo
si può diffondere, sapere.
«Al
largo,
oltre la Piana della Bonaccia, c’è un luogo
nascosto che si chiama Rovine di
Omega. Sai chi era lui?»
«Omega?
So
quello che dice la Chiesa. Un monaco eretico condannato a morte
più di seicento
anni fa per essere andato contro i precetti di Yevon. Tutto il suo
ordine fu
giustiziato, e il suo tempio raso al suolo. Poco specifico, me ne rendo
conto.
C’è altro?»
«Hai
dei
dubbi su quello che dice la Chiesa?»
«Tu
dimmi
quello che sai».
«So
che si
faceva chiamare Omega perché sosteneva che, dal momento che
tutte le cose
divengono, ognuna deve avere una fine. Nessuno di noi si è
mai inoltrato troppo
nelle rovine, perché si dice che il suo spirito le abiti
ancora… ma in una
delle stanze hanno trovato i rotoli, e ho pensato che, se erano
lì, devono
avere almeno ottocento anni, e allora sono buoni da tradurre
perché non sono
stati copiati tante volte».
Alan
accavallò le gambe e giunse le mani in grembo, con
l’atteggiamento di un
ascoltatore attento.
«Che
è
un’idea ragionevole,» commentò, dopo
aver raddrizzato la schiena.
Osservando
le sue spalle nude, non sembrava che fosse molto forte; ma
d’altronde sembra
anche che il Sole giri attorno alla Terra.
«E
quel
discorso del verbo per cui mi hai condannato, chiamandola eresia
di Teyno…
io non la conoscevo, ho solo pensato che, dato quello che diceva Omega,
la
traduzione più corretta era diventare».
Il Maestro
Inquisitore prese una scatola d’argento e la aprì.
Strinse tra due dita un
sigaro, poi sembrò cambiare idea e lo rimise a posto.
«Dovrei
fumare di meno,» spiegò, senza tuttavia chiudere
la scatola. La ragazza
accompagnò quelle parole con un cenno accondiscendente del
capo. «Hai trovato
scritto da qualche parte il motivo della condanna di Omega?»
«No.
E se
non ce l’hai tu, che sei l'Inquisitore, non so dove cercare.
Anche perché nei
rotoli mancano tutti i libri che avete sulle eresie».
«Davvero?»
Il tono
della voce di Alan, assieme al rumore del tagliasigari –
segno che non riteneva
fosse l’occasione adatta per fumare di meno –
avevano tradito la sua totale
sorpresa. Amahy lo guardò, ricordò la sua figura
lontana che si stagliava
contro l’alto seggio del tribunale, e si trovò
disorientata dal vederlo
all’oscuro di qualcosa. Solo un istante dopo, tuttavia, la
sua espressione si
fece determinata.
«Sì,»
rispose. «Può essere che siano andati persi,
oppure che loro non ce li
avessero».
Circondato
dalla sua nube di fumo, Alan si concesse un’espressione
perplessa, tanto che
per un istante la ragazza ebbe la pericolosa impressione che potesse
aver
dimenticato quali erano i loro ruoli.
«Così…»
rifletté lui ad alta voce, «per quelli dovrei
seguire un’altra tradizione dei
testi».
Lei non
dissentì. Calò il silenzio. Fuori dal Palazzo di
Giustizia, anche se lentamente,
la città stava cominciando ad animarsi, e delle voci a
mischiarsi al richiamo
dei gabbiani. Per qualche minuto crebbero e si confusero, aumentarono e
svanirono per poi tornare ancora, senza che nessuno dei due, immersi
ognuno
nelle proprie considerazioni, proferisse verbo.
Quando la
voce della ragazza risuonò nella stanza, parve quasi aliena:
«Però
posso dirti una cosa che ho pensato? È solo una mia
idea».
Alan
scosse la chioma rossa del sigaro, che bruciava piano, contro un
posacenere.
«Prego».
«Se
ottocento anni fa non avevano nulla che parlava di eresie,
forse…» la lingua
dell’Al Bhed inciampò, in modo quasi
provvidenziale, poiché le permise di
riprendere il filo dei suoi pensieri, «aspetta. Forse
è meglio che non lo dica
a uno come te, cosa penso».
L’Inquisitore
soffiò del fumo dal naso e gettò gli occhi al
cielo.
«Signorina…»
«Ma
tu
vuoi andare contro i tuoi?» lo interruppe la ragazza.
A
quell’insinuazione, Alan strinse le labbra.
«Io…
sono,
per dir così, interessato a questo argomento a livello
filosofico, di puro
pensiero. Vai avanti».
«Va
bene.
Bisogna ricontrollare, però non mi sembra che nei vostri
libri sacri, al di
fuori di quello che le indica una per una, siano mai menzionate delle
eresie. E
nemmeno – bisogna controllare – ricorre la parola
“ortodossia”».
«E
quindi?»
«E
quindi,
Grande Inquisitore, tu definiresti un’opinione giusta se non
ce n’è una
sbagliata? Se ne esiste una, è una e basta».
Per la
prima volta da quando era stata portata in quel luogo, Alan le si
avvicinò,
protendendosi verso di lei.
«Quindi
sei portata a pensare che, siccome definendo l’una si ha
anche l’altra, prima
di Omega non esistevano eresie?»
Lei, quasi
imitando il modo di fare della persona che aveva davanti, rimase dritta
e
impassibile.
«E
non
esistevano neanche i precetti,» aggiunse, «quelli
per cui ora tu dici che va
bene εἰμί, e invece
γίγνομαι
non va bene. Ma questo lo sto solo–»
Questa
volta fu Alan a interromperla:
«E
quindi
la parola di Yevon non è di Yevon, ma di chi l’ha
fatto… diventare dio».
Dei fedeli,
sotto la finestra, stavano innalzando un canto arcano, accompagnato da
uno
scampanio allegro. Avendolo sentito, Alan sollevò il mento,
guardò verso il
muro come a cercarvi una risposta.
Senza dire
nulla, si alzò in piedi e si diresse verso la porta, senza
dare segno di voler
rimettere in catene la sua prigioniera. Quando passò di
fianco alla sua sedia,
le posò una mano sulla testa. Amahy sentì i suoi
anelli che le premevano contro
la tempia, la presa delle dita che si stringeva, anche se non tanto da
farle
male, prima di rilasciarla. L’indice
dell’Inquisitore le sfiorò in modo
meccanico la guancia, e lei, con gli occhi sgranati, non osò
nemmeno respirare.
Ringraziò qualsiasi dio potesse amarla tanto da far
sì che nulla le avesse
stretto la gola.
Rimasta
sola, si accorse che stava tremando, le sue braccia ebbero uno spasmo
per il
terrore e le gambe non risposero al suo ordine di muoversi.
La
folla,
per la strada, cantava e pregava Yunalesca, la loro Signora, e lei era
l’unica
a poter sospettare che non sarebbe stato Sin quello per cui, presto,
avrebbero
suonato un’altra campana.
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Capitolo 53 *** Quod consevi demetam ***
CAPITOLO 36:
QUOD CONSEVI DEMETAM
«Oltre
a
voi tre, il priore Kael e sorella Ariod…»
Braska
camminava in modo nervoso verso il luogo dove Alan li aveva convocati,
precedendo sia Kelk, che gli stava parlando, sia i propri Guardiani. Il
ritmico
tintinnare della campanella sul suo scettro accompagnava ogni passo.
«Che
cos’hanno in comune queste persone?»
domandò al Ronso, con urgenza estrema.
Lui scosse
la testa e diresse lo sguardo verso l’edificio che stava loro
davanti. Tutti
coloro che passavano, distratti dai colori caotici di Luka, erano
portati a ignorare
quel luogo marroncino e anonimo.
«Nulla.
Ho
riflettuto più volte sulla lista, ma a parte essere quasi
tutti funzionari di
Yevon non hanno niente a che fare l’uno con
l’altro. Certo, si trovano in città
in questo momento, e possono essere convocati. Tuttavia, non ho idea
della
ragione che stia muovendo Alan».
«Quasi
tutti?» ripeté Braska con tono stranito.
«Ho
visto
nell’elenco il nome di una guardia. Non mi sarebbe saltato
all’occhio se non
fosse l’uomo che stava vegliando su Alan dopo che lui
è svenuto durante la
cerimonia di apertura».
«E
perché
convocarci proprio qui?» aggiunse l’Invocatore.
Alzò la testa e osservò con
apprensione il campo di cura. A quanto sapeva, un tempo lì
venivano condotti
coloro che deliravano a causa delle tossine di Sin. Nonostante quello
che
suggeriva il nome, non esisteva una vera e propria cura per il veleno.
Quindi,
i poveretti venivano ammassati dentro a delle celle, e lì
urlando attendevano
l’ora fatale. Era molto facile che anche le guardie, in breve
tempo, perdessero
il senno.
Una
situazione del genere, anche quando il potere della Chiesa su Luka si
era
indebolito, aveva richiesto gli sforzi politici congiunti di tutti i
partiti
della città per essere cambiata.
Braska non
era fiero di come gli yevoniti avevano gestito quei malati. E forse non
lo era
nemmeno Alan, data la buona disposizione del suo animo per i folli e
per le
bestie.
La
presenza di così tanti spiriti, anche a diversi anni da che
la casa di cura era
stata dismessa, richiedeva periodiche disinfestazioni dai mostri.
Braska
guardò verso i suoi Guardiani. Per Jecht – e forse
anche per Auron – quello era
solo un edificio disabitato come tanti. Si sentì depositario
di un’altra verità
terribile oltre a quella che strisciava dentro alla sua ombra sin da
quando avevano
lasciato Bevelle.
Il vento
mosse ancora la campanella sullo scettro, e riuscì a
sollevare d’un poco la sua
pesante veste.
«Che
cosa
può aver trovato di tanto importante qui dentro?»
rifletté ad alta voce, fermo
di fronte al simbolo scrostato di Yevon sul frontone. Qualcuno aveva
provato a
danneggiarlo con della vernice nera, ma dei diligenti funzionari
l’avevano
grattata via quasi tutta.
Solo nel
momento in cui Braska si voltò indietro notò che
aveva distanziato i suoi
Guardiani di parecchi passi, sia perché perso nei suoi
pensieri, sia per
fuggire dalle sigarette del monaco.
Auron
aveva iniziato a fumarne una dopo l'altra in preda al nervosismo,
creando un
alone pesante che i polmoni dell'Invocatore non tolleravano molto.
Quando
Jecht, in infermeria, gli aveva spiegato la situazione, Braska si
sarebbe
aspettato una reazione molto meno pacata di quanto poi era
effettivamente
avvenuto. Forse la strana calma di Jecht era riuscita ad avere qualche
influenza su di lui.
Braska
sorrise appena, sollevato dal fatto che Jecht avesse imparato a parlare
col
Guardiano più giovane senza finire per litigarci, e per
qualche istante fissò
un punto imprecisato a terra in attesa che i due li
raggiungessero.
Agli occhi
dei più si trattava di piccolezze trascurabili, ma per lui
erano lucciole in
una notte di luna nuova, essenziali per non sprofondare nello sconforto
che
avrebbe trovato dall'altra parte della porta.
Kelk
Ronso, d'altro canto, era fastidiosamente impassibile, in apparenza
freddo come
i venti di Shiva. Forse era ormai abituato ai modi di fare di Alan, e
l’Invocatore non si sarebbe affatto sorpreso se, in quel
preciso momento,
avesse provato più fastidio che timore.
«Siamo
pronti ad entrare?» chiese Kelk, portando le mani dietro la
schiena dritta.
«Preferiremmo
evitare,» rispose Jecht senza pesare le parole.
«Sei
un
Guardiano pavido, o un uomo di pace. Entrambe qualità strane
per il tuo ruolo».
Auron,
impassibile, spense l'ultima sigaretta sotto la suola dello stivale,
mentre
Jecht si maledì per aver parlato e guardò altrove.
«Vorrei
solo che le cose fossero più semplici, signore. Il nostro
Pellegrinaggio è
molto turbolento, come può vedere…»
spiegò Braska con un sottotono di
rassegnazione.
Kelk
scoprì i denti in quello che sembrava un sorriso amaro, poi
si fece da parte
per permettere ad Auron di aprire la porta.
Il vecchio
legno scricchiolò in modo sinistro, attirando lo sguardo di
decine di uomini di
Yevon che attendevano nella sala quadrata, priva di qualsivoglia
decorazione
sulle pareti. Immerso nella polvere, si levava un brusio generato dalle
loro
voci sovrapposte.
Si
levarono molti sospiri quando videro chi aveva varcato la porta, e
molti di
loro si voltarono nuovamente e scossero la testa, delusi.
«Pensavano
che Alan si sarebbe fatto vedere dalla porta d'ingresso?»
mugugnò Auron.
«A
giudicare dalle loro facce, stanno aspettando da un bel po',»
ipotizzò Jecht a
braccia incrociate.
Braska si
irrigidì quando constatò con i suoi occhi che
Jecht poteva avere ragione: non
solo un ritardo sarebbe stato fuori discussione per un uomo di massimo
rango
come suo fratello, ma anche tutta la situazione in cui si trovavano
risultava
essere anomala.
Il gruppo
si mise in disparte in un angolo dietro a tutti, seguito poi da Kelk
che, pur avendo
allungato il collo, non aveva visto la fonte da cui era partito tutto.
Il Ronso
non disse nulla e puntò le iridi verticali verso il fondo
della sala, dove una
porta chiusa conduceva nelle viscere dell'edificio.
Dopo molti
minuti di attesa, nessuno si era ancora palesato e gli astanti
iniziarono a
lamentarsi gli uni con gli altri, ponendosi domande a cui non sapevano
dare
risposta.
«Ma…
che
succede?» sussurrò Jecht a Braska.
l'Invocatore
scosse la testa, si portò le dita al mento e
aggrottò le sopracciglia.
«Rimani
vigile, Jecht,» disse Auron, rigido in piedi come uno di quei
pali che, sulla
Via Micorocciosa, usavano per segnalare la strada.
In un
casuale istante di silenzio, si sentì uno scatto metallico.
Un uomo dagli occhi
tondi, che calzava un elmo a cervelliera decorato da simboli sacri,
alzò lo
sguardo verso la scalinata che aveva di fronte e portò la
mano destra all’elsa
della spada. La sinistra si alzò per fare cenno di tacere a
quello che aveva
accanto. Arrivata a metà strada, ebbe uno spasmo.
Quando il
suo vicino lo guardò in volto, notò che aveva un
buco circolare in mezzo agli
occhi. Provò a urlare, ma si trovò un proiettile
in bocca.
Solo
quando il sangue della seconda vittima schizzò in faccia
alla prima i presenti
si resero conto di cosa stava accadendo e cominciarono a gridare.
Intrappolato
tra un’imprecazione di Jecht e il braccio di Auron che gli
stringeva la vita,
in modo da poterlo trascinare al sicuro, Braska alzò gli
occhi verso la scala.
Con il cuore in gola, non prima che un impatto seguisse un terzo sparo,
cercò
di lanciare Protect.
Un piccolo
costrutto di fattura Al Bhed, che fluttuava sopra la sua testa,
annullò il suo
incantesimo. Braska strinse i denti e percepì
l’intero percorso di una goccia
di sudore che gli scendeva dalla tempia fino alla mascella.
Perché–
«Troia,
fatti vedere!» gridò Jecht alle sue spalle.
«Hai paura?»
Prima che
quella frase potesse giungere a termine, l’Invocatore vide un
uomo magro
scendere le scale con passo sicuro. Portava un lungo abito talare rosso
con una
mantella senza alcun simbolo o ricamo. Era aperto sul petto, quasi come
se
volesse invitare i suoi nemici a colpirlo lì, dove
c’erano solo delle cinghie
uguali a quelle che gli decoravano le cosce e i polpacci sopra i
pantaloni
stretti. Stringeva una pistola in ogni mano.
Mentre
camminava, colpì con precisione prima un sacerdote alla sua
destra e poi, alla
nuca, due donne che tentavano di raggiungere la porta. Tuttavia, il suo
sguardo
sembrava puntare sempre dritto davanti a lui.
Una nube
di lunioli, che vorticava come una tempesta, lo raggiunse e lo
superò,
riversandosi sugli astanti assieme ai proiettili. Buona parte di loro,
per la
paura, si immobilizzarono come statue. Qualcuno si portò le
mani alla gola nel
tentativo di non soffocare.
Braska non
credeva davvero, ora che lo vedeva direttamente negli occhi, che quello
fosse
suo fratello.
«Voi
avete
paura di me,» disse, una volta raggiunti i piedi della scala.
La sua voce,
accompagnata da un tintinnio metallico mentre ricaricava le armi,
risuonava
nell’intera sala. «Sono da solo».
Kelk
ruggì
e, a quattro zampe, si scagliò contro Alan. La nube di
lunioli prese la forma
di un leone e si interpose come un muro tra i due. Kelk fu scagliato
contro una
parete e ricadde sul fianco, poi l’evocazione si scompose in
piccole luci e
svanì nell’aria.
Alan, con
il mento alto, smise di sparare e seguì con lo sguardo un
luniolo che saliva.
Braska, che non aveva potuto fare altro che coprirsi il viso con le
mani e
pregare, sbirciò oltre alle maniche della propria veste. Si
rese conto che lui,
Auron e Jecht erano gli unici a essere rimasti in piedi. E forse anche
Kelk lo
sarebbe stato, se solo non avesse avuto l’idea sconsiderata
di attaccarlo
mentre era protetto.
L’Inquisitore
attraversò con aria pensierosa la stanza. Urtò
con un piede il cadavere della
guardia, la sua prima vittima, che spandeva sangue sul pavimento
polveroso allo
stesso modo in cui una coppa troppo piena sparge il vino.
Inarcò le
sopracciglia con sufficienza e continuò a camminare, a passo
lento, verso
Braska e i suoi compagni.
«Fermo!»
urlò Auron, reggendo la spada sguainata con entrambe le
mani. «Metti via quelle
armi!»
Alan
forzò
un’espressione sorpresa. Inclinò il collo sottile
in modo elegante, con le
labbra socchiuse, come a voler fare cenno al congegno antimagia che
volava
attorno alle loro teste. Poi, però, scostò la
veste e infilò le pistole nella
loro fondina.
«Mio
amato
Braska,» disse, mentre avanzava incurante
dell’avvertimento di Auron. «Danzerai
il Rito del Trapasso per me?»
L’Invocatore
indietreggiò verso la porta chiusa.
«No…»
mormorò, con gli occhi sgranati e lo scettro davanti al
corpo, come se avesse
in qualche modo potuto proteggerlo dal fratello.
«No!»
gli
fece eco un’altra voce. «Lascia che pulisca lui
questo macello!»
Tutti e
tre si voltarono verso Jecht. Lui, dritto in piedi, strinse il pugno
sulla
spada fino a far sbiancare le nocche.
«Auron,
Braska…» proseguì con la voce cupa e il
capo abbassato, «non avete notato?
Queste persone, a parte la guardia… non hanno vero sangue
dentro di sé».
Quasi a
voler sottolineare quelle parole, da una delle chiazze rosse sul
pavimento si
levò un singolo luniolo.
Alan,
quasi ammirato, dopo aver passato un dito su una macchia che aveva
sulla veste
gli rivolse un largo sorriso a bocca chiusa. Kelk, a terra, si mosse,
ma non
riuscì ad alzarsi.
«Non
mi
aspettavo che fosse lo straniero il primo ad accorgersene».
«Per
la
guardia che scusa hai?» lo interruppe Jecht. La luce strana
di quel posto
faceva risaltare le parti metalliche dell’abito di Alan, e
invece gettava
un’ombra rassegnata sotto i suoi occhi. «Lo
accuserai di un crimine che io non
capisco?»
«Ho
compiuto un errore di valutazione».
«Non
credo,» ribatté l’altro, poi
scoprì i denti, «mio caro».
Alan getto
all’indietro il capo e soffiò l’aria
fuori dalle narici, ma prima che potesse
dire qualcosa l’uomo di Zanarkand parlò di nuovo:
«E
immagino che la tua morale non accetti l’esistenza di
qualcuno che continua a
vivere come Non Trapassato dopo la morte… dopo tutto quello
che hai fatto tu
per sopravvivere. Non è vero?»
«Sei
il
primo che non mi chiede che sapore ha la carne umana». Alan
si protese verso di
lui e, con un sorriso, scosse piano la testa. «Davvero
notevole».
«Combattiamo
fino alla porta!» gridò Jecht. Spostò
lo sguardo verso i compagni, e non riuscì
a distinguere le emozioni sul loro viso. «Vediamo cosa ha da
dire di lui la
Chiesa di Yevon!»
«Oh,
la
Chiesa ha avuto tanto da dire, nella sua esistenza… Ne ha
pronunciate, di
encicliche sull’umanità e su cosa significhi
essere umani… quella
schiera di preti morti ha la risposta, non è
così?»
L'Inquisitore
cominciò a camminare senza una meta precisa, e mentre
parlava alternava lo
sguardo tra i tre che aveva davanti e i cadaveri che aveva disseminato
al
suolo.
«Sono
venuti a implorarmi di portare la legge, dopo che hanno reso la mia
parola
inascoltata e il mio seme sterile. E tu, Jecht, dopo tutto quello che
hai visto
vuoi davvero seguire loro? Vuoi davvero seguire il Coro? Questa terra
avrà il
mio vomito e il mio sangue prima di avere la mia scomunica. Mi
avrà nel fuoco
prima di avermi in ginocchio! Mi avrà bestia che non
riconosce il nome del
dio.
«Su…
Jecht, Auron… fratello. Distinguete gli
uomini dagli spettri. Datemi la
luce della vostra speranza, e posso essere la falena che ci gira
attorno. Tutto
quello che voglio è una semplice danza… Ah, ma
andate pure, se è ciò che vi dice
il vostro animo, e se vedete il Coro ditegli che io sono l'animale che
lui mi
ha reso».
Le parole
di Alan saettarono nella stanza come i morsi di un serpente.
Jecht
strinse l'elsa della spada d'istinto nel sentire nominare il Coro. Non
gli
sarebbe dispiaciuto nemmeno calare la lama sul Grande Inquisitore, ma
era
consapevole che quella fosse una battaglia persa in partenza.
Guardandosi
intorno, notò che Auron non brandiva più la sua
arma, mentre Braska stringeva
lo scettro con presa incerta e un'espressione tirata in viso. L'atleta
sospirò
infastidito, ma non poté fare altro che seguire l'esempio
dei suoi compagni.
A qualche
passo di distanza, Kelk si trascinava nel tentativo di rimettersi in
piedi, ma
Braska aveva occhi solo per il massacro che aveva intorno. Una forte
nausea gli
attanagliò lo stomaco, poiché lo atterriva
ciò che era in grado di fare colui
che chiamava fratello.
La maggior
parte dei corpi era prona sul pavimento, freddata mentre scappava dalla
furia
metodica di Alan. Solo alcuni, forse le prime vittime prese alla
sprovvista,
erano spirati sulle loro schiene e mostravano chiaramente il volto. Su
uno di
questi si posò lo sguardo di Braska, cercando conforto
nell’espressione
sorpresa di chi è morto in un battito d’ala di
falena.
«Braska,
cosa facciamo? Non vorrai mica assecondare le sue richieste,»
chiese Jecht a
denti stretti. Auron scosse la testa.
«Questo
è
ciò che fanno gli Invocatori, e questa è la
nostra dottrina: i morti vanno
Trapassati,» rispose il monaco come in una litania imparata a
memoria.
Jecht fece
per controbattere, ma Braska lo fermò con un gesto della
mano. Serrò la presa
sul suo scettro e si avvicinò al Grande Inquisitore con
occhi ridotti a
fessure, senza nemmeno tentare di nascondere la sua espressione di
profondissimo disgusto.
«Alan,
fratello. Non andare fino in fondo, ti imploro. Fermati ora, e
cerchiamo un
altro modo,» disse l'Invocatore con voce alterata.
Il Grande
Inquisitore alzò un sopracciglio, quasi infastidito dalla
temeraria diplomazia
di Braska che ostentava anche quando in collera.
«Ebbene?
Cosa proponi di fare?»
Braska
fece per dire qualcosa, ma il fratello maggiore lo interruppe
allargando le braccia,
mettendo in tensione le cinghie di cuoio che gli stringevano il petto
nudo.
«Lo
stai
vedendo con i tuoi occhi, qui e ora. Erano uomini di Yevon, eppure lo
bestemmiavano ogni giorno con la loro stessa esistenza. Pensi forse che
non ne
esistano altri nelle mura dei nostri templi? Pensi forse che esista
qualcuno al
di fuori di me che possa prendersi carico del problema?»
Braska si
trovò a stringere i denti e ad abbassare lo sguardo senza
nemmeno accorgersene.
Non aveva risposte per nessuno dei quesiti mossi da suo fratello, ma
non poteva
comunque accettare il massacro sconsiderato come soluzione. Dove Braska
si
aspettava perlomeno le obiezioni di Jecht, non sentì altro
che eloquente
silenzio.
«Quindi,
ysuna.
Danzerai per me?» chiese Alan. Nonostante la carezza che
lasciò sulla guancia
del fratello, il suo tono era meno morbido di quello che
aveva utilizzato
in precedenza.
Braska
annuì con rigida amarezza. Si mosse verso il centro della
stanza, facendo
attenzione a dove metteva i piedi ed evitando accuratamente di non
incrociare
gli occhi spenti di coloro che stava per guidare nell'Oltremondo.
Trovò
un
punto abbastanza libero per poter cominciare la danza, ma appena prima
di
raggiungerlo sentì di aver calpestato qualcosa:
sentì il rumore di piccole ossa
che si rompevano, forse quelle di un dito. Alzò il piede di
scatto e soppresse
con forza un conato di vomito.
Nonostante
il respiro difficoltoso, Braska si mise comunque in posizione, pronto a
iniziare il Rito del Trapasso. Chiuse gli occhi, tornando con la mente
all'immagine del suo maestro che gli mostrava i passi da eseguire, con
una tale
grazia da far commuovere le pietre. Ricordò il modo in cui i
nastri colorati
attaccati alla veste si muovevano insieme alle braccia e alle gambe.
Nel cuore
dell'Invocatore, solo una simile bellezza poteva proteggerlo dalla
vista
dell'orrore su cui stava danzando.
Assieme ai
lunioli che, salendo dai corpi dei morti, si dirigevano verso il
soffitto, il
suo scettro disegnò un arco nell’aria. La mano di
Braska, come uno scafo che
aveva ondeggiato nella tempesta per poi riprendere la propria rotta,
stringeva
l’asta senza incertezza.
«Sono
terribilmente addolorato dal dovervi annunciare che questa mattina il
nostro
Grande Maestro Mika ci ha lasciato».
Alan, con
le mani giunte al petto e gli occhi scoperti, guardava dritto davanti a
sé,
dove una Sfera collegata al grande schermo dello stadio di Luka
registrava ogni
immagine e parola.
Da un lato
della telecamera, una piazza intera era scossa dai singhiozzi;
dall’altro,
Auron e Jecht strinsero i pugni e i denti. Non era loro concesso
muovere un
passo e porre fine a quell’annuncio.
Alan aveva
ancora una macchia di sangue sulla tonaca.
Braska
passò qualche minuto a regolare il respiro, come il suo
maestro gli aveva
insegnato: doveva essere simile al ritmo della danza, in modo tale da
mantenere
l'armonia.
Avanzò
con passi leggeri a braccia aperte e lo scettro stretto nella mano
destra, come
a voler invitare le anime a radunarsi nel suo abbraccio.
Sentì su di sé gli
occhi dei suoi Guardiani, anche se non poteva vederne chiaramente il
volto; in
più occasioni Jecht aveva espresso la sua ammirazione per la
bellezza dei suoi
passi, seppur in risposta a tristi eventi. Allo stesso modo, pur senza
dirlo ad
alta voce, lo ammirava Auron.
I primi
movimenti del suo corpo furono lenti e aggraziati. Poi rese
più veloce il ritmo
e prese a disegnare con lo scettro ampi cerchi, quasi volesse portare
il nome
della sua terra nella danza.
I
lunioli iniziarono ad accumularsi intorno a Braska obbedienti, non
più agitati
dal desiderio di voler restare, ma tranquillizzati dai movimenti pieni
di una
grazia che indicava loro la via verso la pace eterna.
«Le
mie
preghiere si uniscono a quelle di tutto il popolo di Spira
nell’accompagnare il
Maestro Mika verso l’Oltremondo».
Nemmeno
Kelk, che era riuscito a rialzarsi, reagiva. Forse era debilitato dalle
ferite,
o forse troppo scosso dalle scene che, una dopo l’altra, gli
si erano scagliate
contro in poco tempo come uno sciame di vespe.
I corpi
a terra ormai – quasi tutti – si stavano
dissolvendo per tornare il nulla che
erano. Braska, con le ciglia umide socchiuse, alzò un
braccio e fece un mezzo
giro su se stesso. Una preghiera mormorata da Alan, più
antica ancora delle
sillabe sincopate dell’inno a Yevon, sconfiggeva il silenzio.
«Epenènexai
to thèion, epenènexai
lampròn tòn naòn». (1)
Braska
si voltò alla propria destra e ripeté, identici,
i movimenti del rituale. Un
luniolo gli accarezzò il viso, come a voler portare via le
gocce di sudore che
lo stavano percorrendo. L’Invocatore riuscì a
distogliere lo sguardo da suo
fratello che, con il capo abbassato, pregava in ginocchio, ma non la
mente
dalle sue parole.
«Epenènexai
tòn thrònon». (2)
Il
luogo, il vecchio ricovero per gli avvelenati, taceva.
Auron
poteva solo pregare che l’Inquisitore si fermasse, che il suo
animo fosse
colpito da un'improvvisa codardia e non osasse muovere quel passo. Era
costretto a stare immobile in piedi alle sue spalle, come la guardia di
un
tempio.
«Coloro
che hanno commesso questo atto atroce,» continuò
Alan, «sperano ora che la
Chiesa di Yevon collassi dopo che ne è crollata la colonna;
che, ucciso il
comandante, rivolga la carica verso il suo stesso accampamento. Non
succederà».
Unì le mani in grembo e raddrizzò la schiena.
«Poiché le mie armate hanno il
favore del dio».
Costretto
a stare immobile. Azione che lo spingeva a domandarsi quanto
effettivamente
fosse partecipe, o complice, di ciò che stava avvenendo.
Lanciò un’occhiata a
Braska e non riuscì a indovinare i suoi pensieri; poi una a
Jecht e vide lo
specchio di se stesso.
Ciò
che
provava per lui gli dilaniava le viscere.
«E
loro
avranno in me chi li inseguirà sino alle soglie della
notte».
Le
anime erano ormai pronte per il loro ultimo viaggio. Braska
afferrò lo scettro
con entrambe le mani e lo portò sopra il capo, muovendo
tutto il corpo come la
foglia che ondeggia al vento. La grazia aveva lasciato spazio a un
ritmo più
primordiale, in cui i passi si facevano più decisi e il
cuore batteva più
forte.
I
movimenti delle sue braccia si fecero più ampi, e permisero
allo scettro di
creare più spazio per i lunioli, che seguivano un qualche
flusso astrale. In
una spirale sempre più densa, danzavano insieme
all'Invocatore come se con
l’ultimo barlume di vitalità desiderassero
ricordare la loro esistenza
terrena.
Quando
Braska, tirando il fiato per combattere la fatica, si fermò
immobile a braccia
aperte, i corpi degli sventurati che avevano trovato la morte per mano
di suo
fratello erano ormai scomparsi, e molte delle anime che li animavano
avevano
trovato la via verso l'Oltremondo, anche se alcune erano restie ad
andarsene.
Jecht
notò che non tutti i lunioli si stavano disperdendo. Alcuni
si attiravano l’un
l’altro, creando una zona di maggiore densità. Nel
vedere che lì al centro
stavano prendendo forma figure umane traslucide, disposte in una
schiera
ordinata, mosse un passo indietro.
Il
ragazzino vestito di viola, ormai perfettamente distinguibile,
allungò una mano
verso di lui. Aveva il cappuccio calato, ma Jecht percepiva che lo
stava
guardando.
Alan
alzò il viso e diresse gli occhi verso di loro, senza
interrompere la sua
preghiera.
«O
polyònyme pankratès Hỳebon polỳmeti,
hemetéran diaskèdason àgnoian
eòn…» (3)
Per
riflesso involontario, le dita di Jecht si strinsero
sull’elsa della sua spada.
CORO
La madre ama suo figlio pur se
ritornato dal fronte
di guerra che tutto divora
non porta più il suo scudo; se fuggendo l’ha
abbandonato
senza segni accanto a un cespuglio.
E come
quello tu, figliolo, sarai perdonato,
se là nella grotta romita
allora ti fallì la mano che aveva la spada,
se guardi che cosa hai davanti.
E se
ancora ti è umano il cuore nel petto, fa’ in modo
che quest’animale perisca,
che più esso non parli, ch’affoghi nel suo stesso
sangue
cercando di chiedere aiuto.
Se
non lo fai - ahimè - un fato di lutto e di pianto,
la corda di ferro di un male
sottile avvolgerà il cielo di Spira, e allora
lì il Sole bacerà la luna
una
volta allo zenit; e si schiuderanno le pietre
in una genìa di serpenti,
e la dolce Eco - ecco - verrà prima del nostro verbo.
Il dio ha prescritto questi mali.
Jecht
si morse il labbro e si forzò a rimanere immobile, a non
muovere un passo
nonostante sentisse che tutti gli occhi del Coro, sotto le maschere,
erano
puntati verso di lui. Avrebbero potuto guardare direttamente
l’uomo che stavano
maledicendo, quello che odiavano talmente da essere giunti, tutti
assieme, in
quel posto.
Eppure
non lo facevano. Lo disdegnavano, come un cane randagio al bordo della
strada.
Come se
non fosse alla
loro altezza, Jecht stava cominciando a capire il
perché.
«Coro!»
gridò, «questa “tracotanza” di
cui parli… ah, dannazione-!»
JECHT
Questa “tracotanza” di cui
parli…
può anche essere invertita, non è vero?
Alan si
voltò verso di lui.
«In
questo
periodo luttuoso e difficile, la Provvidenza ha fatto sì che
io mi trovassi di
fronte a voi. Per evitare un pericoloso vuoto di potere, ha fatto
sì che io
potessi mettere le intere mie forze al servizio di Spira e di Yevon,
tre volte
lodato sia il suo nome. La morte del venerabile Yo Mika non
spezzerà il nostro
animo, ma lo spronerà a combattere».
Il
fanciullo vestito di viola sollevò il mento. La luce livida
della stanza
conferì una sfumatura ancora più spettrale alla
sua pelle scura.
CORIFEO
Se ancora non vuoi farlo, raggiungi la
cima del monte,
del mio monte, che più non voglio sentirlo appropriarsi
del mio
santo dolore, dell’ecatombe di quel giorno.
Allora vieni, e sii veloce, che Spira ormai muore.
Una fitta
di dolore all’occhio destro, come se qualcuno vi avesse
infilato un ago,
trafisse Auron mentre stava assistendo alla scena. Il mondo
diventò buio per un
solo istante, poi riapparve il blu scrostato dei muri. Alan era la
Terra al
centro di tutto.
«Io
sono
il nuovo Grande Maestro di Yevon».
Un
secondo bagliore colpì la canna di una pistola.
L’acciaio lucido rifulse tra le
parole del bambino, si trasformò in oro nella decorazione a
rilievo che
percorreva l’arma, una firma di chi l’aveva
forgiata assieme al quarto di
cerchio che terminava sulla tacca posteriore di mira.
Nel silenzio
che era calato risuonò il rumore metallico del
selettore.
Alan
puntò la pistola, e di nuovo non fu degnato d’uno
sguardo.
Dopo
che ebbe premuto il grilletto, il proiettile trapassò la
testa del ragazzino, e
sotto il cappuccio i suoi occhi lampeggiarono come due lunioli prima di
spegnersi. Il suo piccolo corpo cadde in ginocchio, prima di crollare
inerte al
suolo tra i lamenti dei fantasmi.
Lo
schizzo di sangue nero che colava sulla parete aveva già
cominciato a sbiadire.
«…È
koinòn aèi nòmon en dìke
hymnòimen». (4)
1: Tu hai
portato (con/per te) la divinità, tu hai portato (con/per
te) il tempio
sontuoso.
2: Tu hai
portato (con/per te) il trono.
3: O sotto
molti nomi onnipotente Yevon dalle molte menti, dissipa la nostra
ignoranza e
consentici…
4:
…Di
cantare per sempre, nella giustizia, la Legge universale.
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Capitolo 54 *** La morte del desiderio ***
CAPITOLO 37:
LA MORTE DEL DESIDERIO
Da quando
la sfera per la registrazione era stata spenta, non s’era
sentito neanche un
suono nella stanza. Il pulviscolo atmosferico fluttuava abbondante,
indisturbato. Le anime che da tempo avrebbero dovuto lasciare Spira se
n’erano
andate.
Solo nella
mente di Auron, Braska e Jecht stava risuonando l’eco della
voce altezzosa di
Alan. Come se volessero dare il permesso al tempo di ricominciare a
scorrere, i
tacchi dell’Inquisitore batterono sul pavimento sporco al
ritmo dei suoi
passi.
Senza degnare
di uno sguardo gli altri, si diresse verso Kelk. Braska si frappose tra
lui e
il Ronso ferito, sostenendo in silenzio lo sguardo del fratello. Fuori
dall’edificio cominciò a farsi strada un vociare
caotico, inframezzato dal
ruggito delle bocche da fuoco. Le armi proibite.
«Scortaci
fuori».
A
quell’ordine, che non era provenuto dalle labbra di Braska,
Alan si voltò.
Perso l’interesse per Kelk, prese a camminare verso Jecht,
con le braccia
larghe e la bocca contorta in un sorriso. La veste rossa accompagnava i
movimenti del suo corpo e si agitava come un’onda di sangue.
«Andate,»
replicò, con voce più acuta del solito.
«Non vi sto tenendo prigionieri».
Jecht
strinse i denti, gli occhi fissi sulle pistole che Alan aveva ai
fianchi.
«No.
Non
ti libererai anche di noi stamattina».
«Jecht–»
L’uomo
di
Zanarkand fermò con un cenno della mano Auron e riprese a
parlare: «Non abbiamo
fermato il tuo colpo di Stato. Avremmo potuto dare le nostre vite,
immolarci
perché tu non prendessi il potere, e la folla lì
fuori lo sa. Ci devi la tua
protezione per uscire da qui».
«Immolarvi
per la sacra causa della Chiesa!» ripeté Alan. Le
sue parole vennero
sottolineate da una salva di colpi di fucile. «Sono sicuro
che l’avreste
fatto».
«Questo
la
folla non lo sa,» replicò Jecht. Poi
spostò lo sguardo su Braska che, a capo
chino, stava curando le ferite di Kelk Ronso. Alan non avrebbe mai
potuto
causare la morte di suo fratello. Non avrebbe mai permesso che i
ribelli di
Luka lo linciassero.
«La
Chiesa,» continuò l’Inquisitore,
«è obbligata a riconoscermi come Grande
Maestro, ora. Altrimenti sarebbe equivalente all’ammettere di
avere Non
Trapassati tra i ranghi».
Jecht
serrò i denti. Alan aveva ragione.
«Manderanno
degli uomini: non è il caso che io esca senza
scorta».
«E
fino a
quel momento cosa facciamo?» intervenne Auron, senza tentare
di mascherare il
disgusto nella voce. «Se la folla scoprirà dove
siamo, sfonderà le porte di
questo posto come ha fatto con le prigioni».
Alan fece
qualche passo verso di lui e gli si fermò di fronte.
«Allora
alzate le barriere: a noi non resta che aspettare qualche…
oh». Si interruppe
all’improvviso, quasi avesse visto una luce negli occhi di
Auron. Posò una mano
sulla sua guancia, con sorpresa all’apparenza autentica, e il
monaco si irrigidì.
«Questo è… possibile che tu sia
già pronto?»
«La
smetta
di toccarmi,» gli intimò Auron.
Alan
obbedì con un ghigno. «L’iniziazione
alla Necropotenza… dal tuo sguardo pare
che tu possa già ottenere un potere
più… personale rispetto ai
trucchetti che già conosci. Potresti essere una di quelle
anime predisposte di
cui si parla nei libri dei Guado».
«Se
si
riferisce al rito per cui devo uccidere il mio maestro,» lo
provocò Auron,
«sono più che pronto».
Alan
gettò
all’indietro la testa e il lampo bianco del suo sorriso
sfolgorò nella stanza.
«Purtroppo
per te non si tratta di questo, mio caro,»
replicò. «I Guado… hanno sempre
avuto un’idea più misterica dei
riti d’iniziazione».
«Misterica?»
L’Inquisitore
annuì e gli fece cenno di seguirlo. Auron scoccò
uno sguardo a Braska, come a
chiedergli il permesso, e lo trovò impassibile come una
statua.
«Ma
sì,
Auron, vai,» rispose al posto suo Jecht. Si era seduto a
terra in modo
scomposto e assisteva alla scena con sguardo vivido.
«Possiamo solo stare qua a
guardarci negli occhi mentre aspettiamo, e gli occhi di quello
là non si
vedono. Se uno di noi può trarre vantaggio dalla sua
compagnia, ben venga».
Alan gli
rivolse un sorriso che riconosceva la sua esistenza al mondo, poi
posò una mano
sul braccio di Auron. Il monaco rabbrividì, riconoscendo che
quel tocco era
nefasto e disgustoso. Il tocco di un uomo devoto alla sola
violenza.
Si chiese
se la Necropotenza avrebbe trasformato anche lui in quel modo.
«Ora
ti
condurrò in un punto silenzioso dove ti chiuderai in
meditazione, dopo aver
ingerito queste erbe,» cominciò a spiegargli,
mentre gli porgeva un sacchetto.
Auron lo
afferrò. Sembrava contenere una polvere.
«Cosa
mi
assicura che lei non voglia avvelenarmi?» chiese.
«Il
fatto
che io non sia così stupido da ammazzare l’allievo
che ho istruito per mesi».
Le labbra
di Auron, spinte verso l’alto, si arricciarono in un sarcasmo
che tentava di
vincere il timore.
«Ha
altre
indicazioni?»
Gli occhi
del monaco scivolarono sulla veste talare di Alan. Troppo
forte per essere
sconfitto. Avrebbe davvero potuto avere una qualche
possibilità contro di
lui, se avesse completato l’iniziazione? Sarebbe stata
sufficiente? Oppure
avrebbe solo frantumato la sua anima?
Si
ricordò
di quello che aveva fatto con Jecht e si rese conto che la sua anima,
in ogni
caso, non sarebbe stata più gradita a Yevon.
«Cerca
di
mantenere la consapevolezza che si tratta di
un’illusione,» gli consigliò Alan.
«E tieni a mente che il tuo animo, per essere iniziato, deve
superare la sua
più grande paura». Si interruppe e si
osservò le dita sottili, coperte dai
guanti. «Piuttosto cliché, me
ne rendo conto. Non l’ho decisa io,
l’iniziazione alla Necropotenza. Sono sicuro che avrei
pensato a qualcosa di
molto più interessante».
«Non
ne
dubito».
«Oh,
potrebbe essere ancora più banale. Potresti scoprire che la
tua più grande
paura è il cattivo della storia che ti minaccia mentre morde
una mela. Quello
sì che sarebbe già visto».
Auron lo
ignorò.
«E
dopo questa
iniziazione, mi assicura che non avrò più nessun
legame con lei?» ci tenne a
sincerarsi.
«Sarai
libero». Alan alzò le spalle. «Considera
che l’ho detto a pochi».
«Il
mio
nome non sarà mai associato al suo?»
«In
nessun
modo». L’Inquisitore si interruppe per un istante,
poi con espressione
divertita aggiunse: «Vedila così, Auron: dopo
questo rito, potrai senza remore
provare a sottoporti a quello in cui uccidi il tuo maestro».
Il
Guardiano strinse i denti. Alan era l’unico pilastro che
impediva che le ossa
della Chiesa, marce di Non-morte, si sgretolassero.
«Volentieri,»
rispose.
Auron si
era aspettato che la miscela d’erbe lo accompagnasse a vedere
l’Oltremondo, che
i lunioli cantassero la nenia consolatoria della Necropotenza, per
portare il
suo animo a intuire parte di una verità troppo grande per
lui.
Invece si
trovava in una stanza dalle pareti rosse, intima, quasi deludente. Il
giudice
Alan era appoggiato coi gomiti su uno scrittoio, gli occhi che
guardavano fuori
dalla piccola finestra, socchiusi per la luce. Auron seguì
la curva della sua
schiena seminuda, priva di quei paramenti ingombranti che lo facevano
sembrare
una statua, fino ad arrivare alla falena sulla scapola. In quella
posizione,
con addosso gli abiti da cerimonia che Auron stesso gli aveva fatto
indossare –
di cui era arrivato a conoscere ogni laccio e ogni occhiello
– sembrava
banalmente umano, tanto quanto una pianta carnivora somiglia a un
riparo per
l’insetto che vi si posa.
Un riparo,
o qualcosa di cui nutrirsi.
«Sai…»
cominciò a dire l’Inquisitore, senza voltarsi. La
sua mano sinistra sganciò il
velo dal cerchio di bronzo che gli cingeva il capo, mentre la destra
reggeva
una mela, che lui stava guardando come se fosse sul punto di
interrogare. «A
cosa sto pensando, mio caro?»
Il
Templare deglutì e sentì un gambo di rosa premere
contro la laringe. Abbassò lo
sguardo a terra, dove il velo che Alan si era tolto veniva trascinato
da un
vento d’Oltremondo.
«No…»
disse a fatica. Come avrebbe dovuto chiamarlo? Maestro
Inquisitore? Grande
Maestro? «Mio signore».
Il rumore
dei suoi denti che mordevano la mela risuonò troppo forte
nella stanza. Gli
arti di Auron si paralizzarono dal terrore quando dei lunioli, generati
dall’etere stesso, presero a volteggiare davanti a lui.
La voce
bassa di Alan arrivò prima che la sua immagine comparisse
alla distanza di un
palmo dal giovane.
«La
tracotanza…» mormorò,
«è un peccato interessante. Forse è
proprio ciò che
definisce l’uomo. Cosa ne pensi?»
Auron
provò a parlare, ma le dita fredde
dell’Inquisitore gli stavano stringendo il
mento e le sue labbra erano attaccate alla buccia lucida della mela.
Bastò una
lieve pressione sulle guance a far recepire ad Auron l’ordine
di aprire la
bocca. Quando lui tentò di mordere il frutto, quello si
trasformò in cenere
sulla sua lingua, e un soffio caldo gli sfiorò le labbra.
No.
Il giovane
sgranò gli occhi. Al limite del suo campo visivo, oltre al
volto di Alan,
piccoli fiori rosa venivano mossi dal vento.
No. Fermati.
Alan gli
accarezzò il collo, passò il dito sul suo pomo
d’Adamo e poi sotto il mento,
lentamente, seguendo la stessa traccia che portò i suoi
occhi celesti a fissare
quelli ambrati di Auron.
Non
voglio morire!
Il ricordo
di Hanna, che a quel bacio esiziale si era abbandonata, la voglia di
conoscere
il sapore delle sue labbra, il terrore divino con cui i lineamenti di
Alan
soggiogavano i mortali…
Nel
momento in cui Alan appoggiò la bocca sulla sua, per
trasmettergli assieme al
sapore di tabacco la decisione del fato, il corpo di Auron si
abbandonò,
trascinato da corde d’oro verso colui che desiderava, ma non
poteva, toccare.
Si era chiesto più volte, morbosamente, che cosa avesse
provato Hanna all’ombra
di quell’albero, e lo sorprese scoprire che Alan baciava con
la lingua.
Invece di
ritrarsi, Auron prese l’Inquisitore per i fianchi. Il
contatto della mano su
cui non indossava il guanto con la sua pelle nuda gli
provocò pensieri di un
tipo che solo un Maestro di Yevon poteva suscitare. Il sapore delle
erbe che
aveva assunto tornò prepotentemente sul suo palato, a
rafforzare il desiderio
di possedere l’arbitro delle vite dei cittadini di Spira.
L’uomo con il potere
di mandarli tutti al rogo.
L’ansia
confusa nel suo petto si trasformò in un rimescolarsi di
lava che doveva
calmare. Gli strinse le natiche e spinse la lingua oltre i suoi denti,
eccitato
nel sentire quanto fosse magro e debole rispetto a lui. Il modo fiero
in cui
Alan reagì poteva essere solo la dichiarazione di sfida di
un uomo che l’aveva
addestrato per noia, che l’aveva risparmiato per ostentare
bontà d’animo, che
aveva osservato tutto il suo cammino considerandolo solo un accessorio
di
Braska.
Le parole
che Auron aveva intenzione di dirgli mentre gli tirava i capelli e lo
costringeva a stare fermo erano indecenti. Ma, per poterle pronunciare,
avrebbe
dovuto smettere di baciarlo e dargliela vinta. Quando Alan
cercò di spezzare il
contatto, lui gli morse le labbra e lo costrinse a tornare al suo
posto, per
venire travolto da una passione violenta. La stessa che Yevon aveva
maledetto
scagliando saette contro coloro che gli disobbedivano.
Quanto
avrebbe voluto che quegli stessi fulmini attraversassero il ventre
dell’Inquisitore, sottomesso al suo. Quanto avrebbe voluto
sentirlo pregare per
una pietà che non avrebbe ricevuto, mentre lui frantumava il
sacro confine
della differenza d’età e dei voti di purezza.
«Ti
piacciono gli uomini, Auron?»
Il ragazzo
ricordò ciò che aveva fatto con Jecht e spinse
Alan contro il muro, bloccandolo
con il proprio corpo. Gli passò le mani
sull’addome, sul bordo dell’armatura di
cuoio, poi si staccò di poco dalle sue labbra bagnate di
saliva.
«Se
lo
toglie lei, quel completino, o devo spogliarla io?»
Una
domanda di cui non aspettò la risposta prima di riprendere a
baciarlo. Gli
girava la testa. Sentì il sorriso di scherno di Alan, le
perle del suo rosario
premute contro la gola, e fece scivolare le dita dalla sua spina
dorsale fin
sotto la cintura per toccarlo ancora.
«Spogliami.
Direi che sai come fare». Il giudice approfittò di
un istante in cui Auron
stava riprendendo fiato per iniziare un bacio di cui poteva tenere le
redini.
«E sai anche cosa fare a me… oh, Auron,»
sussurrò con gli occhi socchiusi,
mentre il ragazzo gli passava la lingua sul collo e tentava di
slacciargli alla
cieca il corpetto. La sua voce, da languida e sensuale,
tornò fredda
all’improvviso.
Tornò
reale.
«È
me che
vuoi, o quello che rappresento?»
Il monaco
ignorò il presentimento che gli era nato nel petto, lo prese
per la nuca e lo
costrinse a guardarlo.
«Glielo
dico dopo,» replicò, la voce soffocata dalle loro
labbra che si incontravano di
nuovo. Tuttavia, Alan riuscì a scostarsi e a interromperlo,
interponendo una
mano tra i loro visi.
«Troppo
facile così, mio caro».
Auron
annaspò e spalancò gli occhi. Era disteso a
letto, e il sudore gli bagnava i
capelli e il retro del collo. Strinse i denti nel tentativo di
controllare il
proprio corpo, legato da briglie più forti di quelle
dell'ebbrezza, ma non
riusciva nemmeno a calmare il moto del petto che s'alzava e
s'abbassava. Poteva
solo voltare il capo, inerme.
Cercò
di
non sprofondare ancora.
Sentì
le
gambe di Alan che si stringevano alla sua vita, forse col desiderio di
ucciderlo, e cercò di nuovo la sua lingua dopo averlo spinto
a distendersi di
lato. Imprecò tra i denti e riuscì a sciogliere
l'ultimo laccio della sua
armatura di cuoio. Lo vide giacere a torso nudo a fianco a
sé, senza nemmeno
una cicatrice sulla pelle ambrata, come se anche la morte, nei momenti
in cui
combatteva, lo considerasse troppo sacrilego per essere toccato. Delle
lanterne
appese sopra il letto diffondevano una luce morbida, a cui si
mescolavano le
ombre sulla sua schiena.
Auron lo
prese per i fianchi e lo portò senza alcuno sforzo a
cavalcioni sul proprio
bacino. Dopo aver considerato brevemente la possibilità di
prenderlo da dietro,
decise che voleva guardarlo negli occhi, nonostante si dispiacesse di
non poter
vedere i suoi tatuaggi mentre si univa a lui. Con quel pensiero, le sue
mani
sfiorarono le scapole di Alan, per poi stringerlo con più
vigore.
Resistigli.
Con un
sorriso di superiorità, il giudice gli prese i polsi e li
bloccò sul materasso,
come a volergli mostrare che, per quanto potesse addestrarsi, non
avrebbe mai
raggiunto il suo livello. Quando tentò di muovere le
braccia, Auron si accorse
con orrore che non riusciva a farlo. Qualcosa di strisciante e
sgradevole gli
aveva bloccato i polsi alla testiera del letto.
Chiuse gli
occhi e il buio venne bruciato dall’immagine di un laccio
d’oro.
Li
riaprì,
e notò che l’Inquisitore era sopra di lui. Si
accorse di aver stretto i pugni,
nell’impossibilità di afferrargli le cosce
sottili. Osservò il modo in cui la
schiena di Alan si inarcò e le sue labbra si schiusero nel
venire penetrato.
«Ah,
Auron…»
È
solo
la sua ombra. Resistigli.
Con un
gemito mal trattenuto, il monaco spinse il bacino con violenza in
avanti, e
vide gli addominali di Alan contrarsi.
«Stia
zitto,» gli intimò. Il suo corpo, la sua voce,
erano così seducenti che Auron
dovette fare appiglio a tutta la sua forza di volontà per
non cominciare a
scalpitare come un animale. Togliergli il respiro lo avrebbe fatto
tacere.
«Oh,
sì,
Auron, continua a darmi del lei…»
Non ce
la faccio… ti prego.
Avrebbe
dovuto implorarlo, umiliarsi e chiedergli di concedersi. Umiliarsi,
ancora e
ancora. Quando pensava di essere lui a possederlo.
«Silenzio».
«Non
hai
altro da dirmi?» rispose Alan con una risata lieve, mentre si
muoveva
lentamente. Con gli occhi socchiusi, passò le dita sul petto
nudo di Auron. «Se
vuoi ti dico qualcosa io…»
Si interruppe
per spingersi ancora contro il monaco e, senza un lamento, si morse le
labbra.
Solo il fruscio che proveniva dal pavimento riuscì a
distrarre Auron dal modo
in cui il pomo d’Adamo scendeva sul suo collo piegato
all’indietro. Staccò gli
occhi da lui e, nel baluginio delle lanterne, scorse dei serpenti dalle
scaglie
d’oro strisciare a terra.
«A–»
«Ssh,»
lo
bloccò Alan, l’indice posato sul suo labbro
inferiore. La luce spettrale nei
suoi occhi chiari stava diventando più intensa, fredda in
accecante contrasto
con quella che pervadeva la stanza. Cominciava a diventare un lume di
follia.
L’Inquisitore spinse il dito oltre i denti di Auron e lui non
oppose
resistenza, nemmeno quando lo sentì spostarsi sul suo
inguine e ricominciare a
muoversi con il ritmo della sua tortura. Non riuscì a
staccare gli occhi dalle
ossa sporgenti del suo bacino, dall’ombelico che si spostava
quando Alan con un
gemito trattenuto reagiva alle stilettate di piacere.
Non
riusciva a non desiderarlo. Non riusciva a riemergere dalla densa
foschia che i
riti avevano causato nella sua mente. Uno di quei serpenti stava
salendo sul
letto, senza che lui potesse fare niente. Auron si irrigidì
quando lo sentì
strisciare sulle lenzuola, terrorizzato dall’idea di
sentirselo addosso. Ma
salì sulla coscia di Alan e poi scomparve, confondendosi con
la sua pelle
liscia, trasformandosi in un tatuaggio sul suo ventre. Evrae che apriva
le ali
e le fauci in un momento eterno.
Auron non
riusciva a smettere di volerlo, e ogni dettaglio che compariva in
più in quel
suo delirio confuso era un veleno che uccideva il suo spirito, per
farlo
diventare tutt’uno con quello di lui.
Il rosario
di Alan, con l’immagine sacra dell’occhio di Yevon,
gli ricadde sul viso, le
mani dell’uomo si appoggiarono sulle sue spalle.
«Devi
fare
una cosa per me, figlio di Bevelle,» gli sussurrò
in tono suadente.
No.
«S-signore…»
“Fammi
cavalcare più forte”. Dimmelo. Ti prego. Ti prego,
Yevon…
Le parole
che uscirono dalla gola dell’Inquisitore non erano nemmeno
alterate da ciò che
stava accadendo. Sembrava che gli stesse parlando da un capo
all’altro di un
tavolo, mentre dei servitori portavano via i resti della sua ultima
feral cena.
«Uccidi
i
preti,» gli ordinò. Come se quel pensiero lo
avesse eccitato, si spinse contro
ad Auron e si abbandonò finalmente a un gemito.
«Eradica il Coro dal suo monte…
ah, lasciami portare la legge delle bestie in questo mondo
d’incubo».
No!
Auron
chiuse gli occhi, con i sensi annebbiati dal piacere e la mente che
stava per
cedere, come un bue dal collo curvo che viene condotto
all’altare dopo essersi
visto ornare le corna.
«Vendicami,
figlio».
«Tua
figlia… è molto che non riceve tue notizie,
vero?»
Braska
aprì gli occhi celesti. Batté un paio di volte le
palpebre, stranito dal non
vedere Auron di fianco a sé. Forse avrebbe dovuto imparare a
proteggersi da
solo.
«Che
t’importa?»
«Puoi
lasciare una lettera a me, se vuoi». La luce della mattina
illuminava Alan in
modo crudo. L’ombra era cortissima sotto i suoi piedi, tanto
da far credere che
fosse anche lui un fantasma. «La farò recapitare a
Bevelle».
Fu
interrotto da un rumore poco distante. Auron, dopo qualche minuto di
intensa
meditazione, era crollato in avanti, ripiegandosi su se stesso come un
foglio
di carta gettato nel fuoco. Cominciò ad ansimare.
La sua
laringe fischiava, i suoi respiri spezzati si rincorrevano
l’un l’altro in un
modo che a lui era dolorosamente familiare. L’uomo che lui
stesso aveva
richiesto come Guardiano in virtù del suo animo integerrimo
non riusciva più a
trovare un equilibrio. Non riusciva più a stare in piedi.
Jecht
corse verso di lui e si chinò per recargli conforto.
La
Necropotenza gli aveva frantumato le membra. Ma di certo non uno come
lui, non
uno disposto a sottoporsi a cosa sarebbe successo a Zanarkand, poteva
rimproverarlo per la mortificazione del corpo.
«Perché
all’improvviso ti interessi di mia figlia?»
È
perché sto andando a? No,
non poteva essere solo perché stava andando a.
Kelk
Ronso, con lo sguardo fisso davanti a sé, camminò
verso di loro. Reggeva degli
abiti neri che aveva trovato chissà dove. “Se
volete uscire assieme a me”,
aveva detto Alan, “fate finta di essere tre dei miei e
confondetevi tra la
folla. Non posso promettervi una protezione, ma una volta arrivati al
molo
nessuno vi noterà più”.
Avevano
accettato senza sentire l’opinione di Auron, ma il ragazzo
era ancora tra le
braccia di Jecht, che tentava di calmare il suo attacco di panico.
C’era troppo
poco tempo.
Si
cambiarono senza vergogna nel vedere l’uno il corpo
dell’altro. Auron, stordito
dalle erbe e impaurito per la visione, li assecondò
docilmente. Quando Braska
li vide vestiti in quel modo, con lunghe tuniche senza ornamenti che li
coprivano fino ai piedi, si sentì strappato via dalla
realtà. Vide sotto alle
palpebre il sangue versato dal Coro. Condivise il respiro spezzato di
Auron.
Quando fu
il momento di separarsi, Braska prese l’avambraccio di Alan
in modo solenne.
C’erano il sangue e il respiro spezzato, e c’erano
i due uccelli che si
uccidevano nel presagio di quel giorno arido.
«Grazie,»
disse l’Invocatore, con il mento alzato. Si chiese se
ringraziava un fratello o
un assassino. Sospese il giudizio.
Avrebbe
spedito lui la lettera per Yuna.
«“Grazie”
mi sembra una parola un po’ forte, ysuna».
Braska si
avvicinò ancora di più ad Alan. Posò
una mano sopra le sue scapole e lo attirò
a sé. Una volta che sentì il suo corpo contro il
proprio, un presentimento di
sciagura lo spinse a stringerlo più forte. Alan
ricambiò l’abbraccio, e
l’Invocatore sentì scorrere nelle sue vene il
sangue di una bestia. Aveva
addosso l’odore del tabacco e del metallo.
«Puoi
ancora salvarti, ultima luce,» gli disse piano. Lo rivide
nella mattina in cui
era partito per il fronte, e aveva alzato la lancia verso il cielo.
Perché non
capiva che quella guerra non era più sua? «Ti
prego, non cedere all’oscurità».
Jecht
sentiva un profondissimo disagio nell'indossare la tunica che aveva
tanto
detestato per tutto quel tempo: era sempre stato dell'idea che tanti
uomini che
condividevano la stessa divisa e lo stesso ideale fossero
potenzialmente
pericolosi. Il campo da gioco, d'altronde, non era altro che un piccolo
campo
di battaglia in cui non moriva nessuno, ma in cui si combatteva
ugualmente, con
le stesse dinamiche.
Lui stesso
e molti dei suoi compagni non erano stinchi di santo, e ne era
pienamente
consapevole: bastava scambiare il pallone con un'arma e sarebbe stata
la
solita, vecchia storia.
Luka si
era come spenta dopo l'annuncio di Alan, sia nello spirito che nella
pratica:
la maggior parte degli addobbi a portata di mano erano stati rimossi,
in modo
che rimanessero solo quelli più ingombranti sui muri degli
edifici. Non c'era
più niente da festeggiare, nulla di cui essere lieti, non
dopo la dipartita
della grande speranza di Spira.
Mentre
Auron appariva ancora più minaccioso vestito in quel modo,
poiché il nero gli
metteva in risalto le ampie spalle, Braska invece sembrava l'ombra di
se stesso
in senso quasi letterale: i colori vivaci della sua tunica, in qualche
modo,
confortavano l'umore dell'Invocatore, permettendogli di mantenere
pensieri
limpidi, ma quella coltre di pece annullava le sue forme e schiacciava
lo
spirito.
Perlomeno,
Auron ne apprezzava il lato strategico: nascondersi nelle ombre della
città
sarebbe stato molto semplice, inoltre nessuno avrebbe importunato gli
uomini
dell'Inquisizione.
«Aspettare
la notte è stato molto saggio,» disse Jecht per
rincuorare Braska, che non
aveva più detto una parola dopo aver preso commiato dal
fratello.
«Orientarsi
è diventato più difficile,»
commentò Auron strizzando gli occhi nel buio.
Braska si
rinvigorì un poco nel sentire la voce incerta del suo
Guardiano, che ancora
subiva gli effetti del rito: si avvicinò a lui e gli
accarezzò la schiena con
fare dolce. Non a caso, Jecht camminava di poco dietro il monaco per
controllare i suoi movimenti.
«Hai
ancora la nausea, ragazzo?» chiese l'atleta a bassa voce.
«Sto
bene.
Anzi, starò meglio quando avremo raggiunto il
porto».
«Se
non
sbaglio, questa via laterale dovrebbe portare alla strada
principale,» disse
Braska con un filo di voce.
«E
da lì,
sempre dritti fino ai moli. Ah, almeno vedrò lo stadio per
l'ultima volta,»
commentò Jecht, per poi sospirare.
Auron
sbuffò aria dal naso, infastidito, per poi riempire i
polmoni ed espirare, nel
tentativo di calmare il mal di testa lancinante che lo affliggeva.
«Pensi
sempre a quel pallone,» disse, in tono burbero.
Jecht
aggrottò le sopracciglia, ma non se la sentì di
rimproverare un compagno che,
sostanzialmente, aveva i postumi di una sbornia.
«Stiamo
scappando nel buio come topi, come se tutto questo fosse colpa nostra,
e presto
quel bellissimo stadio verrà deturpato e tolto dal suo
ruolo. Pensare alle
proprie passioni aiuta, sai?» disse l'atleta piccato.
«Dovresti provare anche
tu, Auron. Hai altre passioni oltre allo smembrare mostri e farti
allucinare da
Alan?»
Braska
coprì una risata spontanea con la manica, mentre il monaco
imprecò a bassa voce
e liquidò la domanda con un gesto della mano.
La strada
principale risultava essere poco più illuminata delle viuzze
che si diramavano
nelle viscere di Luka, ma ciò era sufficiente per far
lamentare Auron dolore
alle tempie pulsanti. In giro non c'era quasi nessuno, e quei pochi che
avevano
ostentato un grande coraggio nel rimanere in strada dopo i fatti appena
accaduti, avevano ritenuto opportuno sparire non appena i tre
pellegrini erano
comparsi a vista.
«Funziona,»
commentò Jecht con disgusto. «Braska, tieni il
capo basso. Auron, cerca di
camminare dritto».
«Che
fai,
mi controlli?» disse Auron infastidito.
«Nelle
tue
condizioni? Certo che sì. Se proprio dobbiamo fare questa
schifezza, facciamola
bene».
Braska
accolse il consiglio saggio di Jecht e tolse la mano dalla schiena del
suo
Guardiano più giovane, il quale trasse un profondo respiro e
prese a camminare
con fare deciso e decisamente minaccioso.
Così
come
apparivano, le poche persone in strada sparivano nelle case e nei
vicoletti
come topi sorpresi dalle luci delle torce, rendendo la città
quasi spettrale:
se Jecht avesse detto ad alta voce di preferire la Piana dei Lampi a
quel
posto, i suoi compagni gli avrebbero dato piena ragione.
Braska si
torturava le maniche, il capo basso non per celare la sua
identità, ma perché
pesante di pensieri e dubbi, turbolenti come la tempesta.
«Se
incontriamo altri uomini di Alan, che facciamo? Suppongo che stiano
prendendo
ordini, ma potrebbero pattugliare i moli,» chiese Braska
preoccupato, quasi
distratto dalla sua stessa voce.
Auron non
capì bene il timore del suo Invocatore, e si girò
a guardare Jecht con un
occhio mezzo chiuso dal dolore. L'atleta si grattò la barba
prima di
rispondere.
«Non
facciamo niente, Braska. Siamo anche noi uomini di Alan, almeno
finché
rimaniamo qui».
l'Invocatore
drizzò la testa come se si fosse destato da un sogno,
tornando concentrato sul
loro obiettivo e sui movimenti da compiere da lì in poi.
«Me
ne
sono completamente dimenticato, scusatemi. Sono più le volte
che scappiamo da
loro, ormai mi sono abituato,» disse Braska massaggiandosi le
guance con fare
stanco.
«Se
io non
avessi la testa in fiamme a ricordarmi costantemente cosa è
successo, sarei
caduto nello stesso tranello, signore,» lo
rassicurò Auron.
I tre
camminarono in silenzio, costeggiando la strada grande sulla destra,
guidati
solo dal riflesso della luna sul mare alla fine del percorso. Il grande
stadio
di Blitzball li osservò arrivare ai moli e controllare i
dintorni con molta
attenzione prima di incamminarsi sulle assi di legno.
Molte
delle navi che erano presenti quella stessa mattina se ne erano andate,
probabilmente trasportando i numerosi turisti che avevano pensato di
levare le
tende dopo l’accaduto. Solo i piccoli pescherecci dei
residenti di Luka erano
rimasti attraccati. Ospitavano pochi pescatori, intenti a mettere in
sicurezza
i loro averi prima di rifugiarsi nelle loro case.
Jecht
posò
gli occhi su un giovane che, assieme a un uomo anziano che forse
avrebbe potuto
essere suo padre, stava sistemando la rete sul ponte. Fece cenno ai
suoi
compagni di rimanere in disparte e si avvicinò alla nave con
le mani dietro la
schiena e un largo sorriso.
«Buonasera!
Faticate anche a quest'ora?» domandò, con fare
amichevole.
I due
drizzarono la schiena prima di rivolgere lo sguardo verso l'atleta, e
il
vecchio in particolare non era molto in vena di sorrisi.
Il figlio,
un ragazzo dalle braccia possenti, mostrò un temperamento
irruente e poco
incline alle chiacchiere.
«Vi
serve
qualcosa?» disse quello con tono scocciato.
«A
dir la
verità sì! Stiamo cercando un
passaggio,» rispose Jecht sorridendo in modo
cortese.
«Un
passaggio a quest'ora? Eh! Non saprei, giovanotto. Chi siete,
innanzitutto?»
chiese il vecchio sedendosi accanto alla rete.
«Noi
tre
siamo uomini di chiesa».
«Ah!
Siete
dei preti, quindi?» chiese il vecchio interessato.
«Sí,
è
così! Vedete, il nostro fratello laggiù non gode
di buona salute. Non può
viaggiare fino a Kilika in quelle condizioni».
«Kilika?
Per andarci serve il traghetto. Partono di mattina, non di certo a
quest'ora,»
rispose il ragazzo con fare aggressivo.
Jecht si
grattò la barba e annuì, per poi dare un'occhiata
ai suoi compagni, dietro di
lui.
«Non
abbiamo un posto in cui andare per passare la notte. Siamo venuti qui
per
unirci ai nostri fratelli in preghiera, ma ora che il Grande Maestro ci
ha
lasciati, la città è diventata cupa e sospettosa
degli stranieri,» disse
l'atleta fingendo tristezza. «Sareste così gentili
da aiutare dei poveri tre
uomini di chiesa? Non chiediamo molto, possiamo dormire anche sulla
barca.
Yevon premia coloro che sono generosi».
Il ragazzo
fece per controbattere, ma il vecchio gli afferrò il braccio
e gli intimò di
restare in silenzio. Auron, che osservava tutto da debita distanza,
rimase
molto colpito dall'astuzia di Jecht: la gentilezza è un'arma
molto
sottovalutata, ma il compagno aveva saputo usarla puntando anche sulla
fede.
«Figlio,
suvvia! Non si nega l'aiuto a chi ne ha bisogno. Non c'è
pericolo: dove vuoi
che vadano con la nostra barca?»
Il ragazzo
sospirò e acconsentì, non senza aver rifilato
un'occhiata di fuoco a Jecht.
I
tre
pellegrini ringraziarono ed eseguirono il saluto yevonita, mentre i due
si
congedarono in fretta, sparendo nel buio della notte diretti verso la
loro
casa.
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Capitolo 55 *** Viva il re! ***
CAPITOLO 38:
VIVA IL RE!
La
superficie calma del mare rifletteva le luci di Luka in modo ipnotico,
sfumando
il confine tra acqua e cielo e dando l’impressione di venire
inghiottiti dal
mondo.
Jecht
amava profondamente le sensazioni che una tale vista gli scatenava
sottopelle:
le sue azioni, la sua stessa persona erano insignificanti dinanzi a
quel vuoto
che tutto avvolgeva, e questo gli donava un sollievo che non avrebbe
saputo
nemmeno spiegare. Aveva aspettato che Braska e Auron si coricassero,
per poi
uscire sul ponte del peschereccio per godersi lo spettacolo.
Certe
sensazioni le provava solo di notte. L’atleta
respirò a pieni polmoni l’aria
salmastra per calmare l’ansia accumulata e
stiracchiò le gambe. Si sentiva
stanco, molto stanco. Accusò il bruciore dei muscoli e, dopo
tanto tempo, si
chiese perché darsi pena in tal modo.
Lui era
uno straniero in quella terra, e il fatto che il giudice Alan
– uomo odioso,
certo, ma pur sempre fuori dalla sua vita – si fosse
proclamato capo dei capi
non avrebbe dovuto angosciarlo. Una volta tornato alla sua Zanarkand,
tutto
quel dolore e tutte quelle ingiustizie sarebbero spariti per sempre.
Eppure,
stava imparando a conoscere e a voler bene a quella Spira che uccideva,
al suo
popolo così spaventato dalla distruzione perpetrata dalla
balena e dal fuoco
delle pire di Alan, e a quell’anima pia di Braska che voleva
portare un po' di
serenità. Soprattutto, stava imparando come legarsi a quel
giovane monaco che si
faceva del male, maledicendosi ogni giorno per qualcosa che non aveva
potuto
scegliere; che nessuno di loro aveva potuto scegliere.
Avrebbe
dovuto immischiarsi così tanto nelle loro faccende? Ormai ne
era immerso fino
alle caviglie, impossibile tornare indietro. Dopotutto, poco importava
come
sarebbe finita quella storia: in un modo o nell’altro,
strappato da Zanarkand o
riaccolto tra le sue braccia, avrebbe comunque sofferto, per la sua
città
perduta o per le persone che avrebbe lasciato da quella parte del mondo.
Il
desiderio di bere un bicchierino si fece preponderante nella sua mente:
non
c’era modo migliore dell’alcool per annegare i
pensieri, anche perché i passi
pesanti di Auron che saliva verso il ponte erano il preludio di qualche
discussione che Jecht non era affatto sicuro di poter
sostenere.
Il monaco,
una volta all’aria aperta, si guardò intorno con
gli occhi socchiusi e
l'espressione di chi ne aveva avuto abbastanza per quel giorno.
«Che
diavolo fai qui fuori?» disse Auron a denti stretti.
Jecht si
sistemò in modo più composto sul legno sporco di
quella bagnarola, cercando
anche di sorridere, ma il compagno sembrava davvero infastidito.
«Avevo
bisogno di prendere un po’ d’aria. Mi
cercavi?»
«Non
avrei
avuto bisogno di farlo se tu fossi tornato per tempo! Ti ho sentito
uscire, ma
non rientravi più,» rispose acido il giovane
Guardiano. «Se tu fossi caduto in
acqua, ti avrei lasciato lì a mollo! Che stai facendo? Fissi
il mare come una
donzella pensierosa?»
Jecht
rimase pietrificato da tanta aggressività. Era stata
senz’altro una giornata
faticosa, e quella specie di rito che aveva eseguito lo aveva scosso
nel
profondo, ma ciò non giustificava lo scherno gratuito.
L’atleta lo guardò torvo
prima di rispondere.
«Sai
benissimo quanto io ami il mare, Auron. E sai benissimo anche che nuoto
agilmente. Che ti prende?» disse, cercando di mantenere un
tono meno irritato
possibile.
Il monaco
si diresse verso il compagno, cercando una sigaretta da accendere nel
pacchetto
che aveva esaurito ore prima.
«Mi
prende
che tu te ne vai sempre a zonzo senza avvertire nessuno. Hai
dimenticato che la
città è in fermento? Ci sono persone che non si
farebbero problemi a
ucciderci».
«No,
non
l’ho dimenticato. Sei venuto qui come una furia solo per
questo?»
Auron
portò d’istinto il medio e l’indice alla
bocca, seguendo un binario immaginario
dettato unicamente dalla sua cattiva abitudine, ma quando si rese conto
di non
avere la sigaretta tra le labbra preferì grattarsi il mento
indispettito.
«Torna
giù
con me,» si limitò a intimargli.
Jecht si
alzò in piedi ma, contrariamente a quanto ordinato,
restò piantato al suo posto
e incrociò le braccia, mostrando il solito sorrisetto
beffardo che faceva tanto
infuriare il compagno.
«Se
lo
chiedi a me, tu senti la mia mancanza e mi vuoi vicino,»
disse, sprezzante del
pericolo.
«Fottiti».
Auron si
avvicinò aggressivo verso il compagno che alzò le
braccia in segno di resa, lo
afferrò dietro la nuca e lo attirò a
sé, in un bacio famelico che prometteva di
divorare Jecht se solo si fosse opposto. L'atleta non ebbe niente da
obiettare,
rispondendo alla richiesta di Auron con altrettanta foga.
Non
sentire la pelle calda di Jecht sotto le dita diede una strana
sensazione al
monaco, come se quella leggera tunica nera che entrambi indossavano
fosse un
muro tra lui e l’amante. Per un breve momento, si fece largo
nella sua mente
l’idea allettante di strappargliela di dosso, e i baci di
fuoco dell'atleta non
facevano che invogliarlo sempre di più, ma
l’immagine improvvisa della visione
rituale di quella mattina lo fece desistere.
Auron, in
cuor suo, sperava che con Jecht sarebbe stato diverso rispetto alla
delirante
passione che lo aveva colto con l’illusione che Alan aveva
creato del proprio
stesso corpo: non un’unione carnale animalesca, ma un piacere
intenso e gentile
che non lo terrorizzasse.
Jecht, dal
canto suo, ogni volta faceva fatica a realizzare di aver raggiunto quel
ragazzo
così severo e infelice, di potergli donare un po' di
quell’amore che quelli sui
pulpiti predicavano tanto, ma che gli impedivano di esprimere.
Quando
Auron si staccò dalle sue labbra per riprendere fiato, Jecht
lo riavvicinò a sé
per lasciargli altri due baci delicatissimi sul lato della bocca,
accarezzargli
il volto e sorridere.
«Ti
va se
rimaniamo qui ancora un po’? Chissà quando ci
ricapita di stare così
tranquilli,» disse, prendendo una mano di Auron tra le sue.
Il monaco
distolse gli occhi dai suoi; soffiò l’aria fuori
dal naso e si guardò intorno:
quando si rese conto che loro erano le uniche anime presenti nel porto,
accettò
di buon grado. Si fece guidare da Jecht verso il bordo del ponte, dove
si
sedettero l’uno accanto all'altro ad ascoltare le onde del
mare che andavano e
venivano.
L’atleta
allungò il braccio per stringere il compagno a
sé, ma Auron lo fermò con un
gesto: si portò le mani ai capelli, cercando il nastro
d’oro che li teneva
legati, lo sciolse e si massaggiò lo scalpo tenuto in
tensione per tutta la
giornata.
Jecht
rimase in religioso silenzio: non gli capitava spesso di ammirare quel
piccolo
gesto così intimo, che tuttavia nascondeva una bellezza
divina che solo lui
coglieva. Quando Auron notò che il compagno aveva abbassato
lo sguardo sorridendo,
sentì un calore nel petto che gli concesse di esprimersi
senza provare
vergogna.
«Non
permetto a nessuno di toccarmi i capelli, ma vorrei che tu lo facessi.
Ora come
ora, ho bisogno di rilassarmi».
«Già,
si
vede eh,» rispose Jecht con tono scherzoso. «Quando
hai finito le sigarette?»
«Poco
dopo
il rituale. Ero nervoso».
«Oh».
Senza dire
altro, il monaco si fece stringere dall’abbraccio di Jecht e
appoggiò la testa
sulla sua spalla. Rimasero in silenzio per qualche minuto, godendosi il
calore
dei propri corpi e i gesti affettuosi che si scambiavano, almeno per
quella
volta, senza pensare ad altro: le carezze di Jecht tra i capelli di
seta del
compagno, e i baci dolci di Auron tra collo e spalla
dell’atleta.
«Ci
credi
che domani lasciamo questo posto? Mi ero quasi dimenticato che siamo in
Pellegrinaggio,» disse Jecht sorridendo appena.
«Hai
ragione. Siamo rimasti invischiati nelle trame di Alan per troppo
tempo,»
rispose Auron dopo aver respirato a fondo per calmare l'ansia.
Jecht
lasciò un bacio delicato sulla testa del monaco, sperando
che quel piccolo
gesto d’amore rendesse i suoi pensieri meno amari.
«Più
andiamo avanti, più si avvicina il momento in cui Braska
dovrà lasciarci…»
disse l’atleta in un sussurro.
Auron
rimase in silenzio e si strinse al compagno.
«Non
c'è
proprio modo di salvarlo?» stava dicendo lui, quasi a se
stesso. «Cosa deve
fare, esattamente?»
Il monaco
scosse la testa, più amareggiato di quanto volesse dare a
vedere.
«Le
scritture dicono che l’Invocatore deve donare la propria
vita, ma nessuno sa
come, poiché tutto avviene nel ventre del più
sacro tra i templi. Nessuno è mai
tornato indietro per raccontarlo».
«Nessuno?
E i Guardiani?» chiese Jecht sconvolto.
«Nemmeno
loro sono mai tornati».
«E
tu hai
accettato di diventare un Guardiano pur sapendo questa cosa?»
«Sì.
È un
grande onore proteggere un Invocatore nel suo sacro compito».
Jecht si
irrigidì nell'apprendere l’ennesima crudele
punizione per gli uomini che
volevano fare un po' di bene nel mondo. Auron, che aveva
l’orecchio appoggiato
sulla spalla del compagno, sentì i suoi battiti sussultare e
si girò appena per
vederlo in volto.
«Perché
hai paura proprio ora? Avevi già accettato la fine di
Braska,» chiese il monaco
con durezza.
«È
stato
tremendo, infatti. Ma non voglio perdere anche te,» rispose
Jecht con voce
preoccupata.
«Sono
pronto a fare il mio dovere, in ogni caso».
Jecht
scosse la testa, cercando soluzioni che non poteva trovare seduto su un
peschereccio in mezzo al mare.
«Stavolta
i Guardiani sono due. Forse cambierà qualcosa, forse si
potrà…»
Auron si
mise seduto composto staccandosi dal compagno, drizzando la schiena e
rilassando le spalle intorpidite.
«Può
darsi, o forse no. La nostra meta sono le rovine di Zanarkand. Cosa
faresti se
tutti quanti fossimo nel torto sul posto da cui vieni, e quella fosse
la tua
unica occasione per tornare a casa? Rinunceresti alla tua terra per
salvare
noi?»
Jecht
abbassò lo sguardo, stropicciandosi le dita delle mani in
preda all'agitazione
e al terrore di trovarsi davanti uno scenario del genere.
«Nel
torto…» ripeté, scuotendo la testa.
«Che cosa sarebbe, che un’isola intera si
è
sognata che Zanarkand è caduta? Oh, no, è molto
probabile che sia stato io a
sognare… ad ogni modo, ho fatto la mia scelta tempo fa,
mentre eravamo in
viaggio,» confessò.
«Davvero?»
chiese Auron stupito. Jecht annuì.
«Se
mai
tornerò indietro, lascerò mia moglie. Non sono un
buon marito, e lei merita di
essere felice,» iniziò Jecht, quasi tremante,
«mio figlio mi conosce appena, e
ho la netta impressione che mi odi». Fece una pausa, al
termine della quale
aggiunse: «Giustamente. Se tornerò, mi
impegnerò ad essere un buon padre,
ma anche se non lo facessi, per lui non cambia niente: non
c’ero prima, non ci
sarò dopo».
Il monaco
gli indirizzò uno sguardo truce, mosso da un fervore che
faceva fatica a
trattenere.
«Stai
dicendo che tornare a Zanarkand o meno non cambierà le cose.
Cambieranno solo
per te».
Scosse la
testa, profondamente infastidito dalle parole del compagno che parlava
dell'argomento con tanta leggerezza, come se la sua vita passata non
avesse
avuto valore.
«Stai
solo
cercando scuse, come al solito. È tuo dovere tornare a
Zanarkand. E invece
commenti il mio di dovere, proteggere Braska. Quella di cui parli da
mesi a
vuoto è la tua terra, e per il tuo
cumulo di rovine hai delle
responsabilità da affrontare,» disse il monaco a
denti stretti. «Dici che non
cambierebbe niente? Come puoi saperlo?»
«Non
sono
scuse! Penso sia la cosa migliore da fare!»
replicò piccato Jecht. «E tanto a
casa non ci torno, perché,» si lanciò
in un’indispettita imitazione della voce
di Auron, «non esiste più da mille anni».
Si
alzò e
diede le spalle all’altro Guardiano, cercando di non pensare
a come, per di
più, lo avesse usato per ricevere qualche bacio e carezza
che lo confortasse
nella notte fredda.
«Vuoi
lasciare tua moglie per il suo bene, o per il tuo?» lo
raggiunse però la voce
del monaco. «Che ti odi o meno, hai un figlio da crescere, o
almeno così dici.
Non puoi trattarlo come un servo di cui ti sei stufato, così
come non puoi
abbandonare la patria per una causa che non è tua. E mai lo
sarà».
L’atleta
si mise le mani sul volto, e trasse un profondo respiro per tenere
insieme i
pezzi della sua convinzione. Aveva finalmente trovato un po' di pace in
quelle
considerazioni su cui aveva riflettuto così a lungo: non
avrebbe permesso che
Auron le distruggesse.
«Sentiamo,
allora, che dovrei fare?» sbottò. Quando vide
Auron, forse non abituato a
sentirsi rispondere in quel modo, fermarsi e sgranare gli occhi
d’ambra, decise
di rincarare la dose: «Oh, forse potrei ragionare meglio se
non avessi uno che
mi infila la lingua in bocca appena può, non ti
pare?»
Auron
strinse i denti e si alzò di scatto, rapito dalla stessa
furia che gli
consentiva di affrontare con coraggio quelli tra i mostri che erano
temibilissimi.
«Come
osi?»
Jecht
incrociò le braccia, pronto a colpire il punto
più doloroso del compagno: era
un colpo basso e ne era consapevole, ma il monaco aveva già
colpito il suo.
«Oso
eccome! Ti sei eretto a paladino della morale, quando tu fai lo stesso!
Ti
piace mettermi le mani addosso quando non ce la fai più a
trattenerti, vero?»
Il monaco
sembrava sul punto di caricarlo a testa bassa, ma rimase talmente
spiazzato da
quella verità scomoda che non riuscì a formulare
una frase di senso compiuto,
nemmeno nei pensieri.
Jecht, pur
resosi conto di ciò che aveva fatto, non ne aveva avuto
comunque abbastanza.
«Dici
che
scappo dalle mie responsabilità, giusto? Beh, caro mio, tu
scappi da te stesso
da una vita! E fidati, sono un grande esperto della materia».
L’atleta
camminò indispettito verso la sottocoperta, accompagnato
dallo sguardo
inferocito del compagno domato con redini violente.
«Pensa
se
qualcuno ti amasse, Auron. Renderesti la vita infernale a quel povero
disgraziato,» continuò Jecht senza nemmeno
voltarsi.
Mentre si
immergeva nell'oscurità, il piacere che l’atleta
aveva provato nel farsi un po'
di giustizia, lasciò subito il posto all’amarezza
del dubbio che, alla fine,
non era cambiato niente; che forse era rimasto il solito, vecchio
bastardo di
sempre.
Lo stadio
di Blitzball, che avrebbe potuto risultare l’ennesima
congerie multiculturale
di Luka, o l’ennesimo sforzo di affermare una stolida
modernità che altro non
era che un opporsi a tutto, aveva invece preservato una sua armonia.
Aveva
finito per costituire un guscio quasi confortante per Alan, ritrovatosi
a
legiferare in terra straniera. Ognuno dei cinque bracci bianchi che, a
raggiera, si dipartivano dall’emisfera centrale ospitava un
braciere che ardeva
di un colore diverso. Viola il potassio, blu il rame, verde lo zinco,
giallo il
sodio e bianco l’antimonio. Erano gli stessi colori delle
sfere dei templi, e
avevano instillato in Alan un sentimento di tranquillizzante
familiarità.
Meno
rincuorante era invece stato il momento in cui dei pescatori erano
entrati a
testimoniare in aula con i sandali sporchi di fango, o quello in cui
un’Al Bhed
aveva chiesto alle guardie del tempio dove potesse sistemare le galline.
Era questo
il risultato del miscuglio di due culture: un popolo che ignorava le
lettere
sia dell’uno sia dell’altro.
«Cid
di
Bikanel, figlio di Endyu,» cominciò a dire
l’Inquisitore, dopo aver sciorinato
a memoria la richiesta di giustizia al dio, piuttosto sicuro che non
avesse
significato per nessuno in quella stanza. «È qui
perché imputato dei seguenti
capi d’accusa, per cui la Corte ha deliberato adeguata
punizione…»
Guardò
di
sottecchi il capo degli Al Bhed: era ammanettato, ma non
provò a muovere un
muscolo. Solo le sue labbra si arricciarono nell’accenno di
una smorfia. Di
fianco a lui, un uomo del suo popolo, i capelli biondi tagliati a
spazzola e
una smorfia arcigna perennemente scolpita sul viso, attendeva di essere
giudicato. Era stata trovata in suo possesso un’arma
compatibile con quella che
aveva sparato al Grande Maestro Mika.
Il lungo
processo stava scorrendo verso la sentenza, e Alan si cruciava
soprattutto per
non essere stato in grado di ascrivere a Cid anche quel capo
d’imputazione,
l’unico che, in quel luogo, gli avrebbe permesso di decretare
una condanna a
morte per alto tradimento. Suonava molto bene, tanto che era
davvero un
peccato non poter pronunciare una sentenza così
soddisfacente e piena, tuttavia
confidava nel favore del libro di legge, anche se lì la
giustizia non
funzionava come nella splendente Bevelle.
«Lei,»
Alan tossì e fu costretto a interrompersi e schiarirsi la
voce. Approfittando
della pausa, si guardò attorno prima di riprendere:
«Lei, pilotando una
macchina munita di armi proibite dalla legislazione di questa
città, ha raso al
suolo parti di strada e provocato ingenti danni collaterali a cose e
persone,
atti che rientrano nel capo d’accusa di strage. La Corte,
constatata l’assenza
di vittime, condanna l’imputato a quindici anni e tre mesi di
reclusione».
L’uomo
accanto all’Inquisitore voltò rumorosamente la
pagina del registro su cui stava
redigendo l’atto e, quando sentì il peso di uno
sguardo su di sé, ricominciò ad
annotare le parole che venivano pronunciate.
Alan
distolse gli occhi da lui e li spostò verso le gradinate
gremite, costruite in
pietra grigia ornata da triangoli rovesciati, in smalto color cobalto.
Accanto
all’ingresso posto più in alto, vide la figura di
Kelk Ronso che, dritto in
piedi, reggeva un’alabarda con la destra. Pensò al
momento in cui lo aveva
attaccato, e immaginò i suoi grossi denti che affondavano
nella carne.
Avrebbe
dovuto trovare un modo per liberarsi di lui.
«Dopodiché,
lo stesso giorno ha compiuto sequestro di persona ai danni
dell’Invocatore
Braska, ponendolo in condizioni di immediato pericolo di vita. La Corte
condanna l’imputato a quindici anni e tre mesi di
reclusione».
Alan
ricordò quel rapimento. Se la deplorevole
stupidità di Cid e dei suoi non lo
avesse fatto infuriare, avrebbe sorriso della loro
ingenuità. Volevano
sconfiggere con le macchine una Chiesa che avrebbe voltato le sue
contro di
loro. Un’istituzione meno antica di quello che essa stessa
credeva, che poteva
cedere solo se minata dai suoi stessi sacerdoti. O dalla traduzione di
un
verbo.
«Ha
infine
attentato per due volte alla vita del Maestro di Yevon Alan, di cui la
seconda
previa premeditazione e con deliberata volontà di tortura
aggiunta
all’omicidio».
Non certo
il martello di Cid avrebbe potuto far crollare le fondamenta di Yevon.
Alan
raddrizzò la schiena e, sotto il velo, socchiuse gli occhi e
abbassò la fronte
in atteggiamento pietoso di fronte alla divinità, come gli
avevano insegnato i
suoi maestri nei cantilenanti inni a Yunalesca.
«Trovato
l’imputato colpevole anche di questi ultimi due reati, e
considerate le
perniciose aggravanti,» concluse, «la Corte
condanna l’imputato a una pena
complessiva di due ergastoli, trent’anni e tre mesi di
reclusione. Può andare».
Non
guardò
nemmeno Cid che veniva portato via in silenzio, né
l’uomo che ai piedi del suo
palco redigeva l’atto. Si concentrò
sull’imputato seguente, e dovette leggere
il suo nome dal registro per ricordarlo.
«Yusiet,
figlio di Nup,» principiò. L’imputato
alzò su di lui uno sguardo fiero, che
subito si smorzò quando vide il proiettile di grosso calibro
che il giudice
teneva in verticale tra pollice e indice. «Riconosci
questo?»
«Lywwu!
Perché riconoscete la sua autorità? Non
vedete–»
«Obiezione
respinta. Si limiti a rispondere alle domande del giudice».
Alan,
scostando la veste rossa che rallentava i suoi movimenti, si
alzò dal suo
scranno e scese dal palco per avanzare verso l’uomo che stava
interrogando.
«Ah,
avrei
dovuto aspettarmelo,» replicò. Come se fosse
costretto a sorreggere un masso
con le spalle, l’Al Bhed chinò il busto. Nel
tentativo di resistere a quella
forza fuori dal proprio controllo, strabuzzò gli occhi e
scoprì le gengive
rosse e i denti.
Alan stava
guardando il proiettile con aria preoccupata, il corpo sottile
atteggiato in
una posa quasi leziosa.
«Un
tiratore così poco esperto da non conoscere nemmeno la
propria arma,» commentò.
Sollevò le sopracciglia in modo da formare delle rughe
accorate sulla fronte,
poi scosse la testa e fece schioccare la lingua. «Un
attentato imprudente. Non
si spara così. Dietro le trincee sul Gagazet, pur sotto le
tempeste di neve… Io
non avrei mai mancato il primo colpo, da quella distanza».
«Da
dietro
una porta non possiamo fare niente!» ripeté il
Maestro degli Affari Militari
Vigot Ronso, affondando le unghie sulla sedia di legno della Sala del
Concilio.
Alla dichiarazione di Alan, che si era proclamato Gran Maestro pur
essendo al
corrente che Mika era sopravvissuto, era stato necessario riunire in
gran
fretta i vertici di Yevon, all’interno di un palazzo che era
solito ospitare i
governanti locali di Luka. Erano rimasti in due, sotto gli occhi
socchiusi di
Yo Mika. «Mandate tutti gli uomini che abbiamo a fare
irruzione al processo!»
«Vigot…»
lo interruppe la voce strascicata del Maestro Jyscal Guado, che
presiedeva ai
riti dei templi. «È grande, non da sottovalutare,
il consenso tra la gente…»
Alzò in modo flemmatico un dito dall’unghia
appuntita. «Questo, un colpo di
Stato».
Il Ronso
digrignò i denti e, accortosi di aver spinto in avanti il
petto, tornò composto
sulla sedia.
«I
miei
Templari sono ben più delle sue guardie personali:
è una situazione che
possiamo risolvere con la forza, prima che sfugga dal nostro controllo.
Gran
Maestro, mi dia–»
«Rischiamo
di fare un martire».
Vigot e
Jyscal si voltarono verso la porta, l’uno di scatto e
l’altro con una sorta di
calma antica. Wen Kinoc, il secondo in comando dei Templari,
entrò nel Concilio
con passo marziale, per fermarsi accanto al tavolo ovale. I suoi piedi
erano
coperti da una tunica che dava l’impressione che fluttuasse,
e le luci della
stanza si riflettevano sul suo cranio rasato. Tormentò i
lembi tintinnanti del
paramento indaco che portava al collo e fece per dire qualcosa, quando
Mika lo
precedette:
«Se
venisse assassinato nel suo tribunale, da uomini della Chiesa di Yevon,
perderemmo un consenso già vacillante,»
confermò. La voce che usciva dalla sua
vecchia gola era ruvida ma strenua.
«Intelligente
ha scelto la città di Luka,» gli fece da
contrappunto Jyscal, annuendo con
apparente ammirazione per quello che doveva essere suo nemico.
«Prendiamo nave…
e ritiriamoci a Bevelle».
«Rischieremmo
di non ottenere altro che la risposta violenta della gente».
Il Grande Maestro
fece una pausa e inarcò le sopracciglia cespugliose.
«Quando verrà il momento,
avrò cura di ricevere a colloquio personalmente il Maestro
Inquisitore Alan, in
modo tale da discutere la sua… ostinata posizione sulla
dottrina del
Trapasso».
Con
veemenza, Vigot Ronso spinse davanti a sé una pietra nera e
levigata, tra
quelle che usavano per votare.
«Che
sia
ucciso quell’uomo!» decretò. Ma, contro
la sua, tre pietre bianche vennero
spinte lungo il tavolo.
«No,
non
ucciso…» ribatté Yo Mika. «Ma
scomunicato. Immediatamente».
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Capitolo 56 *** L'Alfa e l'Omega ***
CAPITOLO 39:
L’ALFA E L’OMEGA
Nonostante
la notte promettesse temperature gradevoli, Jecht era tormentato da
brividi
gelidi che gli impedivano il sonno. Raggomitolato sotto la sua coperta,
strinse
i denti esausto e venne a capo del fatto che no, quel freddo non veniva
dal
mare, ma lo aveva dentro.
Si chiese
se, malauguratamente, non avesse contratto qualche malattia, ma non
aveva per
niente voglia di svegliare il povero Braska, che aveva un disperato
bisogno di
ogni ora di riposo disponibile.
Luka dal
grande stadio, il giudice Alan, tutta quella dannata faccenda in cui
erano
rimasti invischiati, lo avevano consumato senza pietà e
senza poterci fare
nulla. E poi, quasi più di tutto, c’era Auron.
Jecht
drizzò la schiena a pezzi, cercando di assecondare il
movimento placido della
barca che, normalmente, lo avrebbe rilassato fino a farlo addormentare,
ma non
quella notte: come accadeva spesso, il mare era specchio
dell’anima di Jecht, e
come le onde si muovevano senza sosta, così facevano i suoi
pensieri.
Ormai era
abituato a litigare con Auron, ma quella volta era diverso: desiderava
davvero
tanto avere la sua approvazione, almeno per una volta, almeno per
quella volta
in cui si sentiva sicuro di fare la cosa giusta.
Nonostante
tutto, ne era ancora convinto. Che ne sapeva Auron, giovane monaco che
non
aveva mai conosciuto la vita coniugale, di come funzionavano quelle
cose?
Soprattutto di come funzionava la sua, di situazione? Tuttavia,
rassicurarsi in
quel modo non era sufficiente per allentare il nodo allo stomaco che
non lo
aveva mai abbandonato, nemmeno quando si trovava nella sua Zanarkand.
Quel nodo
allo stomaco era un monito, un parassita che gli ricordava
costantemente che
c’era qualcosa che non andava, che c’era sempre
qualcosa di cui preoccuparsi e
pentirsi, che non andava mai bene niente.
Si era
infuriato così tanto sul ponte poche ore prima, giurando a
se stesso che non
avrebbe permesso ad Auron di distruggere l’equilibrio che
aveva costruito con
tanta fatica, da non rendersi conto che lui lo aveva già
fatto.
Jecht
strinse la coperta tra le mani, cercando di respirare a fondo per non
farsi
prendere dal panico. Si era troppo abituato alle cose impossibili,
pensò, come
quando Auron gli aveva stretto le mani sul campo di battaglia, o quando
lo
aveva baciato per la prima volta: ottenere la sua approvazione e
realizzare il
suo sogno romantico era la più grande delle
assurdità a cui puntava, quella che
gli serviva di più, ma aveva confidato troppo nella fortuna.
L’atleta
voltò la testa, cercando nel buio pesto il monaco che, come
aveva immaginato,
si era coricato il più lontano possibile da lui.
Serrò la mascella, pensando
che non era giusto che solo lui si tormentasse nel cuore della notte
per colpa
sua. Niente di ciò che stava vivendo era giusto, e
sperò con tutto il cuore che
anche Auron vivesse un po' della sua agonia.
Resosi
conto che, probabilmente, era in preda a qualche delirio dovuto alla
stanchezza, cercò di applicare le tecniche di respirazione
che aveva imparato
per calmare i nervi e fare apnee più lunghe in partita, cosa
che gli riuscì
solo in parte.
Richiuse
gli occhi pregando di dormire ma, delirio o meno, doveva prendere atto
di un
dolore concreto che lo aveva raggiunto: dopo molto tempo che non
accadeva,
Jecht si sentì di nuovo solo e perso in un mare che non lo
riconosceva e non lo
voleva.
La notte
passò con una lentezza insopportabile, e la preghiera mossa
da Jecht non fu
esaudita. Inchiodato in uno stato di dormiveglia costante, la sua mente
fu
pervasa da sogni lucidi strani e inquietanti, dove era incerto se fosse
cosciente
o meno.
Più
esausto della sera prima, vedendo la luce del sole filtrare dalle
finestrelle
sporche di quella bagnarola, Jecht rinunciò definitivamente
all’idea di
riposarsi e decise di alzarsi.
Si
avvicinò a Braska e lo svegliò con carezze
gentili, mentre Auron lo chiamò con
voce volutamente sgraziata. Quando vide la faccia devastata del monaco,
probabilmente reduce anche lui dalla notte insonne, si sentì
un poco più
allegro.
L’Invocatore
sbadigliò sonoramente e si mise in piedi a fatica, non
abituato a risvegliarsi
accompagnato dalle onde del mare. Jecht si offrì come
appoggio, e gli diede una
pacca sulla spalla amichevole.
«Se
troveremo l’occasione, ci riposiamo sul traghetto, che ne
dici?» propose
l’atleta abbozzando un sorriso stanco.
«Ah,
ci
puoi giurare…»
Auron non
disse una parola e si preparò in fretta, uscendo dalla
sottocoperta molti
minuti prima dei compagni per fumare una sigaretta che non
c’era. Quando furono
tutti e tre sul molo, sotto la luce del sole, Jecht sentì
l’istinto bruciante
di tuffarsi e farsi una sana nuotata, ma il traghetto era
già in vista.
Braska
usava lo scettro per aiutarsi a tenersi dritto, cosa che non
sfuggì agli occhi
del monaco.
«Signore,
tutto bene?»
L’Invocatore
si portò la mano libera alla schiena e si
stiracchiò, facendosi sfuggire una
smorfia di dolore.
«Quella
barchetta non è proprio adatta per dormirci
dentro,» rispose, cercando di
sdrammatizzare. «D’altronde, o quella o la strada,
giusto?»
Auron
annuì sospirando, poi iniziò ad incamminarsi
senza fretta, accusando a sua
volta la fatica. Jecht fece lo stesso, ma avvertì qualcosa
di strano: si guardò
intorno volgendo lo sguardo al porto, al mare, alla città,
respirando il
profumo di salsedine e portandosi dentro l’ormai familiare
ansia che gli
mordeva la bocca dello stomaco, con in lontananza il suono acuto del
traghetto
che annunciava il suo arrivo.
Si
fermò
qualche istante per capire cosa stesse succedendo, ed era come se si
fosse
fermato il mondo.
«Jecht?
Tutto bene?» chiese Braska preoccupato.
L’atleta
fece per dire qualcosa, ma non fece altro che rimanere a bocca aperta,
indeciso
su come esprimersi. Auron si girò a guardarlo infastidito,
pronto a sorbirsi
l’ennesima lagna.
«Ho
già
visto questa scena,» disse l’atleta, confuso.
«Ti è mai capitato, Braska?»
«Qualche
volta. È una sensazione davvero strana, sì. Cosa
hai ricordato?»
«Come
sono
finito qui, su Spira».
Il monaco
non si aspettava una risposta del genere proprio in quel momento e,
incuriosito, si avvicinò ai compagni per ascoltare meglio.
«È
praticamente lo stesso, identico scenario: io, sul molo di Zanarkand in
una
calda mattina qualunque, aspettando la nave,» disse Jecht con
un filo di voce.
Rimase in
silenzio per qualche secondo, ragionando su come, evidentemente,
passare la
notte a rimuginare sulla sua città, la sua famiglia e le sue
intenzioni,
avessero scatenato dei ricordi che aveva sopito da tempo.
«E
dove
volevi andare?» chiese Braska sinceramente curioso.
«Volevo
sottopormi ad un allenamento intensivo in mare aperto. Stavo perdendo
colpi in
partita, e… beh, mentre viaggiavamo, la nave è
stata affondata».
«Affondata?
Da cosa? Se ti trovavi a Zanarkand, o così dici,»
replicò Auron con
scetticismo.
Jecht
abbassò lo sguardo, cercando di recuperare le memorie di
quel tragico evento,
anche se era abbastanza certo della risposta.
«Se
non
avete mai sentito parlare di mostri marini che affondano le navi, direi
proprio
che è stato Sin».
Braska
cercò Auron con gli occhi, e il giovane Guardiano gli
restituì lo sguardo, ma
fu lo stesso Jecht a dare voce ai loro pensieri.
«Sì,
lo
so. Come può Sin aver attaccato in un posto che nemmeno
esiste? Non sono così
sciocco da pretendere che mi crediate, non dopo tutto ciò
che ho appreso qui».
L’atleta incrociò le braccia, mascherando il
disagio che la sua stessa
affermazione gli aveva causato. «Il mio traghetto era due
volte più grande di
questo. Solo la maledetta balena può averlo affondato, sogno
o meno».
Braska e
Auron rimasero in silenzio, ma la genuina curiosità
dell’Invocatore gli fece
dimenticare presto il dubbio sulla veridicità delle sue
parole.
«E
dopo?
Come sei arrivato qui?»
Jecht
scosse la testa e fece spallucce.
«Il
primo
ricordo che ho è il mio risveglio nella prigione dove mi
avete recuperato».
«Dopotutto,
forse hai subito le tossine di Sin per davvero…»
commentò Braska.
«Chissà.
Sia come sia, vedere la nave che si avvicina mi mette ansia».
Come se
non aspettasse altro, Auron sogghignò compiaciuto e si
voltò verso il mezzo di
trasporto.
«Se
ti
spaventa, puoi sempre rimanere qui e lasciarci andare».
Braska
aggrottò le sopracciglia e sbuffò molto
infastidito, ma stavolta notò che Jecht
non l’aveva presa alla leggera come aveva imparato a fare con
Auron.
L’atleta
aveva infatti serrato i muscoli della mandibola e stretto gli occhi,
sembrava
pronto a caricare un mostro. Complici le poche ore di sonno e la ferita
ancora
aperta della sera prima, Jecht era arrivato ormai al limite della sua
pazienza:
era stanco, davvero stanco.
«Auron,
girati e guardami,» disse Jecht con voce dura e ferma.
Braska,
preoccupato che i due si fossero azzuffati proprio all’arrivo
del traghetto,
cercò di calmare il Guardiano più anziano, ma
stavolta si vide messo da parte
con ben poca gentilezza.
«Hai
forse
deciso di farti del male?» rispose il monaco con un sorriso
beffardo sul volto.
«Non
ho
intenzione di venire alle mani con te, dannato idiota. È ora
di darci un
taglio, una volta per tutte».
L'atleta
si avvicinò minaccioso, ma rimase comunque a distanza di
sicurezza per non
provocare una risposta aggressiva nell’altro.
Squadrò il monaco da capo a piedi
sfruttando la sua statura, incutendo un certo disagio nel compagno, che
dovette
per forza alzare gli occhi su di lui.
«Che
vuoi?» chiese Auron senza arretrare di un millimetro.
«Le
mie
decisioni mi appartengono, ragazzo. Tutte quante.
Quelle orribili del
passato, e quelle dolorose del presente. Tu c’eri quando
dicevo a mia moglie di
amarla sapendo di mentire? O quando inventavo scuse per non stare con
mio
figlio, terrorizzato dall’idea che mi guardasse dritto negli
occhi e mi dicesse
che mi odiava? Tu c’eri, Auron? Hai mai vissuto queste
cose?»
Jecht
scandí bene parola per parola, enfatizzando soprattutto le
ultime due domande
retoriche. Sentiva il suo petto alzarsi e abbassarsi velocemente, ma
non poteva
permettersi di mostrare debolezze.
Il monaco,
dal canto suo, non mostrò mai le sue. Continuò a
reggere il suo sguardo furente
senza tentennare, ma l’istinto di abbassare il capo
c’era, ed era forte:
sentire Jecht ammettere ad alta voce il male che aveva fatto, era
qualcosa di
grande impatto.
Per tutto
il viaggio era stato vago sulla faccenda, dicendo che non era un buon
marito e
un buon padre, ma Auron era sempre stato convinto che fosse solo una
mossa da
vigliacchi per liberarsi delle proprie responsabilità; visto
il soggetto poi,
ne era praticamente certo.
«Se
ci
tieni tanto alle tue decisioni, perché me le hai
rivelate?»
«Quando
non ti atteggi a monaco che segue rigidamente i precetti senza farsi
domande, o
a guerriero pronto a sacrificare la propria vita senza darle valore,
sei solo
un ragazzo un po’ burbero con cui mi sento bene e con cui mi
confido».
Braska
rimase profondamente colpito da quelle parole. Non riusciva a dar voce
ai suoi
pensieri, ma ben presto si rese conto che non poteva farlo. Si
portò una mano
al volto, iniziando a capire cosa stava avvenendo tra i due.
L’istinto
alla fine prevalse: Auron serrò la mascella e
abbassò il capo, conscio di aver
tirato troppo la corda con il compagno. Fece per andarsene, ma Jecht lo
chiamò
di nuovo.
«Non
ho
finito,» disse l'atleta, indicando Braska. «Sai
benissimo perché lui ha bisogno
di entrambi. Se la presenza di due Guardiani può in qualche
modo salvare Braska
e te dalla morte, allora vi seguirò in
capo a questo mondo del cazzo.
Sono stato chiaro?»
Un moto di
disperazione si fece largo nell'animo di Braska, che a stento trattenne
un
singhiozzo. Che lui dovesse morire era fatto noto fin
dall’inizio: l’Invocatore
aveva dovuto scendere a patti con se stesso e accettare il suo destino
con non
poche difficoltà, in quella cella claustrofobica in cui lo
avevano rinchiuso
per essere processato da suo fratello, sangue del suo sangue.
Il
pensiero che presto avrebbe lasciato quella terra lo faceva ancora
tremare, di
tanto in tanto, quando non era visto dai compagni, ma riusciva sempre a
ritrovare la serenità. Perfino Jecht aveva accettato la
sentenza che pendeva
sulla sua testa.
Tuttavia,
in quel momento, Braska comprese che Jecht era venuto a conoscenza
delle sorti
del Guardiano, cosa fino a quel momento taciuta. Erano state formulate
numerose
teorie nel corso degli anni: Guardiani che non sopravvivevano al
viaggio di
ritorno; che, dopo la missione, si ritiravano a vita contemplativa;
addirittura, c’era chi pensava che i Guardiani fossero
coinvolti nel processo
che portava l’Invocatore alla morte.
Auron era
ben consapevole di cosa lo aspettasse, ma non Jecht. Lui voleva solo
tornare a
casa, nella sua strana Zanarkand, ma ora le cose erano drammaticamente
cambiate: aveva imparato ad amare coloro che si sarebbero immolati e,
nonostante le rivelazioni che aveva avuto, non aveva rinunciato e aveva
perseverato per loro, consapevole del rischio di perdere tutto.
Perdere la
sua casa e i suoi affetti, perdere un caro amico, perdere un giovane
amore.
Braska
chiuse gli occhi per accusare il duro colpo che stava ricevendo, per
poi
riaprirli a fatica e vedere Jecht e Auron che ancora si sfidavano con
lo
sguardo, ma il monaco aveva chiaramente rilassato
l’espressione del volto.
Il
pensiero di Jecht completamente solo al mondo lo faceva impazzire.
L’Invocatore
fece un profondo respiro, e si appuntò mentalmente di
prenderlo da parte per
parlargli: se davvero, davvero, Jecht si fosse trovato davanti alla
scelta tra
loro e Zanarkand, doveva tornare a casa, o lui non
avrebbe mai potuto
morire serenamente.
Quando
Auron si voltò per recarsi al traghetto, Jecht mise le mani
sui fianchi e
respirò a pieni polmoni, soddisfatto di se stesso ma anche
duramente provato.
L’atleta si girò verso Braska con un gran sorriso,
che si spense lentamente nel
vedere il volto cupo del compagno.
«Prima
o
poi te lo avrei detto che lo sapevo, sai. Me lo ha detto Auron ieri
sera,»
tentò di giustificarsi.
Braska
scosse la testa e fece un gesto con la mano, tranquillizzandolo.
«Avrei
dovuto dirtelo io tempo fa. Temevo non avresti accettato di
venire».
«Volevo
tornare a casa, Braska. Sarei venuto in ogni caso».
L’Invocatore
annuì, per poi raggiungere il compagno e avviarsi insieme
verso il traghetto.
Non si erano affatto accorti del capannello di persone che si era
formato
nell'attesa, così raggiunsero Auron e si misero in fila.
La nave,
un battello che a una vela rettangolare abbinava una ruota
caratteristica dei
mezzi che si muovevano a vapore, aspettava placidamente i suoi ospiti
sul molo.
I tre
compagni di viaggio rimasero composti ad aspettare il proprio turno di
imbarco,
ognuno con gli occhi che vagavano sui membri dell’equipaggio,
accomunati da una
divisa scura sul cui bavero spiccava un rosario di perle bianche.
Ognuno
portato da quell’uniformità a pensare che egli non
poteva essere più diverso
dagli altri due; per vestiti, per colore della pelle, per animo.
La
stanchezza aveva iniziato a colpirli, ma per loro fortuna riuscirono a
salire
in fretta e si presero dei posti a sedere sul ponte, dove Braska si
accasciò
quasi immediatamente. Cullati dal vento e dalle onde, i tre si
assopirono senza
possibilità d'appello, ridestandosi solo quando erano ormai
lontani dalla costa
e il sole era alto nel cielo.
Mentre
Braska sonnecchiava ancora, Jecht ritenne opportuno camminare un po',
nel
tentativo di svegliarsi del tutto, mentre Auron socchiuse appena un
occhio,
incerto se riposare ancora o meno.
Infine,
infastidito dalla luce, si arrese e, spingendo con entrambe le mani
sulle
cosce, si alzò in piedi e prese a fissare il mare. Presto
tuttavia fu colto
dall’inquietudine di non vedere la fine di quella distesa e
preferì riportare
gli occhi su Jecht che passeggiava avanti e indietro. Qualcuno gli
gettava
sguardi distratti, per poi tornare alle proprie occupazioni.
Ad un
tratto, il monaco notò che tutt'attorno a lui il mondo
s’era fatto più buio.
Alzò gli occhi al cielo, del tutto sgombro da nubi, e vide
che sopra la sua
testa s’era addensato uno stormo di volatili. Uno di loro,
staccatosi dai suoi
simili, si abbassò di quota e parve puntare verso di loro.
«Vieni,»
una voce distorta proveniva dalla creatura che si era posata sulla
battagliola.
«Vieni».
Gli pareva
di aver già visto creature come quelle, a Luka, e di aver
sentito il nome Condor
nelle preghiere dei marinai che lasciavano i loro ex
voto a Bevelle.
Era un volatile di dimensioni considerevoli, dal piumaggio bianco e
azzurrino.
Era avvinghiato con le zampe curve al parapetto, e nonostante Auron
avesse
sentito provenire dalla sua direzione un verso simile in modo
inquietante a una
parola umana, il suo lungo becco uncinato non s’era aperto.
La sua coda, troppo
corta rispetto al corpo per potergli fornire un qualche ausilio nel
volo,
sembrava lo scheletro atrofico di una spina dorsale.
«Vattene,
uccellaccio».
«Vieni».
Il Condor
aprì le ali, reclinò all’indietro la
testa e consegnò un grido sgraziato al
cielo prima di alzarsi in volo. Le nuvole gravide di pioggia avevano
coperto
ogni lembo d’azzurro, e nel sentire il rimbombo di un tuono
Auron alzò gli
occhi.
L’aria
tremò del ruggito della fine.
Prima
ancora che la sua mente potesse reagire, il monaco mosse un passo
all’indietro
sul ponte, come un animale di fronte a un’eclissi. Un corpo
enorme aveva
coperto il Sole, un enorme ventre ricoperto da scaglie chiare che
grondavano
acqua salmastra. Era impossibile abbracciare per intero con lo sguardo
la
bestia.
«Sin!»
A quel
grido, Auron portò di riflesso la mano sull’elsa.
Di nuovo il suo corpo aveva
reagito prima che l’intelletto potesse arrivare a
sussurrargli che era inutile
combattere. Che sarebbe stato meglio partire pochi attimi prima sulle
ali del
Condor.
Un dolore
lancinante gli attraversò l’occhio destro, come se
qualcuno l’avesse trapassato
con un pugnale. Il monaco serrò i pugni e i denti nel
tentativo di resistere,
incassò la testa nelle spalle e le portò in
avanti come un toro.
Le persone
sulla nave gridavano e lui era costretto a rimanere immobile,
schiacciato dalla
forza che promanava dal corpo di Sin. Era composto da lunioli, come
tutti i
mostri che aveva combattuto sino a quel momento. Ma in nessuno di loro
aveva
mai percepito un’energia tale. Era qualcosa che si possiede
solo quando si è in
tanti.
Davanti ai
suoi occhi, ormai persi in un delirio vuoto, era apparsa una stanza
dalle
pareti color amaranto. Le finestre, strette e poste troppo in alto, non
riuscivano a rendere l’ambiente meno soffocante. Auron
osservò la schiena
scoperta dell’uomo di cui era nolente discepolo, decorata da
un paramento che
si usava nel tempio di Macalania: una fascia terminante con due dischi
di
bronzo. Il suo sguardo si soffermò sulla falena sulla sua
scapola, per poi
percorrere la linea della spina dorsale.
«Lei
l’ha
mai visto, Richter?»
Alan si
voltò appena.
«Cosa?»
«Sin».
Le spalle
di Alan furono scosse dalla risata inspiegabile, troppo acuta, che gli
uscì
dalla bocca. Auron gli guardò i canini: ricordava che uno
fosse storto, ma
erano sempre stati così appuntiti?
«Alla
fine
hai capito che non sono io».
Il monaco
aggrottò le sopracciglia, confuso. Non ebbe tempo di
ribattere, o di domandare,
perché un cumulo di falene brune coprì Alan, come
attratto dal suo sangue. Lo
consumarono, rendendolo null’altro che una voce.
«Non
sono io la fine del mondo».
Sin scosse
la superficie del mare con il mugghio tremendo dei suoi polmoni.
Scaglie vive
caddero sulla nave, alcune schiantandosi fatalmente contro la
superficie del
ponte, altre scagliandosi, guidate da un istinto assassino, contro
l’equipaggio
della nave.
Auron fu
accecato dall’ira d’essere costretto a rimanere
immobile e dalla luce dei
lunioli emanati da Sin, che lo soverchiavano. Strinse con forza la mano
guantata, nel tentativo di tornare a una realtà che non
riusciva a raggiungere,
ma che ricordava. Lo reclamava, eppure lui non capiva più
dove fosse il cielo e
dove la terra.
Distinse,
immersa nel bianco della sua visione, la figura di una donna che
camminava
verso di lui. Dapprima fu solo un fantasma, ma poi si
ammantò di una veste di
seta trasparente, e furono distinguibili i suoi fianchi, le cosce
tenere, i
gioielli che le adornavano le bianche braccia, i capelli. Auron
piantò a terra
la spada e si inchinò: Yevon gli aveva inviato
l’immagine di Yunalesca, sua Figlia,
affinché resistesse dinanzi a Sin. Yevon lo amava ancora,
pur se lui aveva
tradito la propria virtù.
Yunalesca,
di fronte alla sua professione di devozione, sorrise. È
l’amore, sembrò
dire, null’altro che l’amore,
ciò che può infiammare le tenebre. È
quello
che provò Zaon quando visse e morì per me.
È
l’amore, Padre.
*
Ixion
scagliò un fulmine verticale contro il mare. Sin
urlò, ferito, e si rintanò nei
suoi abissi. Qualche scintilla azzurra crepitò sulla
superficie dell’acqua
prima di estinguersi.
Auron
tornò con rabbia al mondo, e nel momento in cui la sua spada
tagliò a metà una
Scaglia, la nave ondeggiò paurosamente, come se
all’improvviso fosse diventata
leggera quanto una foglia portata da un torrente.
Al monaco
saltò il cuore in gola. Si chiese dove fossero Braska e
Jecht mentre nell’aria
si levava una sirena, ma non poté fare altro che correre
verso l’ennesimo
nemico e ucciderlo con un singolo fendente.
«…amo
perso il controllo d- nave,» gracchiò un
altoparlante in mezzo alle urla e
allo scroscio dell’acqua. «Sgo- te- er
l’attracco d’emergenza».
Una
Scaglia di Sin lanciò al cielo un ruggito tanto acuto da
suonare quasi
ridicolo.
«Ripeto:
sgombrare il ponte per l’attracco d’emergenza!»
*
Sotto le
nuvole livide, la sabbia assumeva un colore verdastro che la faceva
sembrare
travestita da erba. Un deserto travestito da pianura. Affondate tra le
dune,
rovine di un tempo che nessuno ricordava più offrivano un
raro rifugio agli
animali e agli uomini che procedevano sotto al sole. Avrebbero
continuato a
correre da un’oasi all’altra fino a quando il
deserto non li avrebbe chiamati a
sé, la loro acqua si sarebbe tramutata nella nebbia che
faceva perdere i
viaggiatori di notte, le loro ossa in cibo per i vermi delle sabbie.
Così,
com'era sempre stato, il cerchio dell’isola di Bikanel
sarebbe tornato su se
stesso. Gli spiriti degli uomini, quando sarebbe venuto il momento, si
sarebbero staccati dall’anima di Sanubia e avrebbero
ricominciato a esistere.
Eppure,
quell’anima che permeava tutto stava guardando con
curiosità verso la nave che
aveva appena effettuato un attracco di fortuna sulla spiaggia
all’estremità
meridionale dell’isola. Con le grosse zampe da felino
disegnate dalle nuvole, e
gli occhi che erano lampi, forse si stava chiedendo cosa ne avrebbe
dovuto fare
di quelli che erano sbarcati, ingranaggi aggiuntivi nella sua macchina
già
perfetta. Avrebbe dovuto accoglierli, o restituirli al mare da cui
erano
venuti?
Jecht
guardava il sole stagliarsi sopra le dune, i piedi appoggiati su una
sabbia
dura che gli scottava le piante, benché fosse abituato a
girare scalzo e ormai
avesse sviluppato una certa resistenza. Dava le spalle alla spiaggia su
cui la
nave aveva effettuato con successo un attracco di fortuna, con ancora
nelle
orecchie le urla dei passeggeri e dell’equipaggio che
tentavano di resistere
all’assalto di Sin, aggrappandosi ai parapetti con tanta
forza da spezzarsi le
unghie fino all’osso. Alcuni non ce l’avevano fatta.
Lui
sì, a
riprova che i bastardi sono duri a morire, ed era diventato un naufrago
per la
seconda volta.
«Jecht!»
Il
richiamo di Braska lo fece voltare e correre subito verso la nave: dal
tono
allarmato, doveva essere successo qualcosa di molto urgente.
«Signor
Invocatore», stava dicendo qualcuno, «la prego, lo
aiuti!»
Attorno al
timone si era radunato un capannello di persone, attraverso cui Jecht
dovette
farsi strada a spallate. Riconobbe all’istante Braska grazie
al suo copricapo:
era chino su un uomo, di cui riusciva solo a distinguere
l’uniforme. Numerose
macchie di sangue la coprivano all’altezza del petto.
«Cazzo».
«È
il
capitano,» gli spiegò Braska, con un tono non
toccato dalle emozioni. Voltò con
una manovra esperta il ferito, strappandogli un gemito di dolore, e lo
appoggiò
con la schiena contro la struttura che reggeva il timone. La vernice
bianca
mandò uno scintillio al sole caldo del deserto, e quello si
lamentò ancora, gli
occhi ridotti a due fessure, prima di muovere di poco la testa.
La sua
spalla sinistra era stata trapassata da parte a parte da una rigida
squama
color sabbia, che pareva affilata e dura quanto una pietra. Una parte
di Sin.
Delle escrescenze bianche la punteggiavano qua e là, e
granelli di sale si
erano rappresi in mezzo al sangue del malcapitato.
«Devo
estrarla,» dichiarò Braska. Jecht, che cominciava
a sentire la bocca riarsa,
arricciò le labbra, ma si fece avanti per mettersi a
disposizione
dell’Invocatore. «Aiutami a tenerlo
fermo».
L’atleta
obbedì e si chinò per sorreggere il capitano.
Temeva che si sarebbe agitato un
bel po’ quando il dolce Braska gli avrebbe scavato la carne
con una daga.
«Ehi,»
lo
richiamò, cercando di mantenere un tono tranquillo. I suoi
lineamenti eano
stravolti dal dolore. «Andrà tutto bene, ok? Sono
un Guardiano
dell’Invocatore».
L’uomo
strinse i denti per soffocare un grido e Braska si affrettò
a slacciargli i
bottoni della giacca.
«Dov’è
Auron?» gli chiese Jecht, allarmato.
«È
andato
a prendere quello che mi serve».
Braska
chiese a Jecht di tenere dritto il capitano quanto più
possibile, manovra non
facile e per lui dolorosa, mentre gli sfilava di dosso ogni indumento
dalla
cinta in su, così da avere una visione completa della ferita.
L’Invocatore
analizzò con cura ogni dettaglio, dal colore del sangue,
alla profondità
raggiunta dalla scaglia, alla capacità di movimento
dell’arto: l’uomo ferito
non riusciva a stringere il pugno, ma perlomeno muoveva le dita della
mano e
non aveva riportato danni a organi vitali.
Indaffarato
nelle sue valutazioni, non si accorse di Auron che, nel frattempo, era
tornato
con un kit di pronto soccorso piuttosto scarno, dotato solo di bende,
unguenti
disinfettanti e qualche utensile per suture, insufficienti a chiudere
una
ferita simile. Il monaco attese nuovi ordini, mentre Braska arricciava
le
labbra, frustrato.
«Mi
serve
qualche minuto per pensare».
Jecht
invitava il capitano a respirare a fondo per rendere il dolore
sopportabile e
non farsi prendere dal panico, mentre Braska rifletteva velocemente
sulla
strategia più sicura da attuare. Con poche frecce al suo
arco, non aveva molta
scelta.
«Ok,
ascoltatemi bene. La procedura è rischiosa, ma non possiamo
fare altrimenti,»
esordì l’Invocatore. «Dobbiamo essere
veloci e precisi, o il capitano rischia
di morire dissanguato. E non è l’unico
problema».
«Che
Yevon
mi aiuti…» disse l’uomo con le lacrime
agli occhi.
«Che
tipo
di problema?» chiese Auron, rimanendo concentrato.
«Queste
bende andrebbero messe in acqua bollente, ma non abbiamo tempo. Anche
se
riusciamo a chiudere il taglio e a evitare che perda troppo sangue,
c'è il
rischio che la ferita si infetti. Avrei bisogno di alcune erbe
medicinali, ma
siamo nel deserto».
«Nel
deserto ci sono gli Al Bhed…» disse il capitano
con un filo di voce.
Jecht
guardò Braska che annuì serio, mentre Auron non
sembrava molto entusiasta della
piega che stava prendendo la situazione.
«Sono
la
nostra unica speranza. Non sarà una passeggiata trovarli, ma
abbiamo proprio
bisogno di aiuto,» commentò l’Invocatore
con un sospiro.
«Allora
è
deciso. Ora, però, concentriamoci qui,» disse
Jecht guardando negli occhi il
ferito. «Sei pronto? Coraggio, amico: Braska è il
migliore che ci sia».
Il
capitano annuì tremando come una foglia, mentre Braska
trasse un lungo e
profondo respiro prima di iniziare a dirigere i suoi Guardiani.
«Jecht,
prendi tutte le garze che puoi e preparati a tamponare la ferita con
tutta la
pressione del tuo corpo. Se non fosse sufficiente, usa anche i suoi
vestiti».
L’atleta
obbedì, nervoso per il compito che gli era stato affidato.
«Auron,
tu
estrarrai la scaglia. Devi avere le mani fermissime, più che
puoi, e tirare in
verticale senza muoverti. Te la senti?»
Il monaco
annuì, mettendosi in posizione davanti alla scaglia. Per
questa prima
operazione, Braska si mise di lato per tenere fermo il povero uomo, che
nel
frattempo stava recitando alcune preghiere al dio.
«Vai,
Auron. Lento e costante».
Il giovane
Guardiano obbedì, saggiando dapprima la resistenza della
scaglia, per poi
iniziare a rimuoverla. Le urla del capitano strinsero il cuore di Jecht
che,
tuttavia, non poteva permettersi di distrarsi: doveva tenere sotto
controllo la
ferita, tamponando qua e là durante l’estrazione.
Una volta rimossa la scaglia,
il sangue iniziò a scorrere copioso.
Braska
fece distendere velocemente l’uomo sulla schiena e Jecht fece
come ordinato:
usò il suo peso per fare pressione e tamponare quanto
più poteva, mentre Braska
usava la sua magia in modo attento.
Auron,
rimasto da parte, si occupò di tenere sotto controllo lo
stato di coscienza del
capitano che, divenuto pallido, faceva fatica a tenere gli occhi
aperti.
Braska
respirava a fondo per mantenere saldi i nervi: non poteva permettersi
di essere
precipitoso, anche se l’uomo stava perdendo man mano perdendo
le forze, o non
avrebbe chiuso la ferita in modo adeguato, e sarebbe morto comunque.
Dopo molti
minuti di tensione, l’Invocatore portò a termine
l’operazione: Auron confermò
che l’uomo respirava ed era rimasto vigile, seppur esausto.
Jecht
guardò sotto le sue mani lordate di sangue, e
notò che la ferita era quasi del
tutto chiusa, anche se sarebbe rimasta la cicatrice. Tirò un
sospiro di
sollievo, e si prodigò a pulire un minimo il torace del
capitano con ciò che
era rimasto.
Braska si
sedette a terra tirando il fiato, esausto, ma molto soddisfatto del
risultato
ottenuto. Chiamò alcuni uomini rimasti a guardare e li
istruì sul da farsi,
ordinando loro di trovare delle coperte e tenere il capitano al caldo,
e di
muoverlo solo dopo qualche ora.
Auron
diede una pacca affettuosa sulla spalla del suo Invocatore, che gli
sorrise di
rimando, per poi dirigersi verso Jecht, sporco di sangue fino ai
gomiti. Gli
porse la giacca lacerata del capitano per pulirsi, gesto inaspettato da
parte
dell’atleta.
«Grazie,
ragazzo. Servirebbe un tuffo in mare per lavare via tutto,»
disse Jecht ironizzando.
«Braska
deve riposare prima di partire. Se vuoi, puoi farlo,» rispose
Auron ammiccando
verso l’Invocatore. «Sei stato bravo».
Jecht
sorrise compiaciuto, e accolse l’invito del compagno: scese a
terra
accompagnato dai complimenti dei superstiti, per poi mettere i piedi in
mare e
tirare un sospiro di piacere. Si rese conto di star accusando il caldo,
così si
immerse nelle acque basse e iniziò a lavarsi.
La visione
del sangue che fluiva via e colorava tutto di rosso lo
inquietò più di quanto
avrebbe voluto: gli ricordava le vite perse durante l’attacco
di Sin, le loro
urla, il terrore nel suo cuore. Fece una smorfia disgustata al suo
stesso
riflesso: non avrebbe permesso alla maledetta balena di farlo sentire a
disagio
nel suo mare.
Jecht si
prese alcuni attimi di pace, per poi ricongiungersi ai compagni e
incamminarsi
nel deserto, benedetti dalle preghiere dei naufraghi che invocavano la
protezione del dio.
Dopo pochi
minuti di viaggio, Braska si tolse il copricapo e Auron il cappotto,
mentre
Jecht accusava il dolore del caldo bruciante sulle piante dei
piedi.
«Magari
è
la volta buona che ti procuri delle scarpe,» disse Auron con
un ghigno.
L’atleta
sbuffò, non volendogli dare la soddisfazione di soffrire
davanti a lui, ma
quando stava per replicare notò delle lamiere bruciate
disseminate qua e là tra
le dune.
«Ci
stiamo
avvicinando alla Fortezza Base degli Al Bhed,» disse Braska
battendo lo scettro
sul metallo. «Questi sono loro scarti».
«Scarti?»
ripeté Auron in tono interrogativo.
Braska
fece vagare gli occhi per le dune prima di rispondergli:
«Scarti,
frammenti di una civiltà precedente…»
Il corpo verde di un Kyactus scomparve
dietro un cumulo di sabbia. «A volte nemmeno loro li
distinguono più. Essasuna
lusa ih Bedohl, si dice qui.
“Immemore come un Bedohl”».
Senza
rallentare la marcia, Auron fissò lo sguardo nello stesso
punto in cui quello
di Braska stava cercando mostri.
«E
la
ritengono una cosa positiva?» domandò.
«Non
l’ho
mai capito».
«Quindi
in
giro ci sono macchine vere e proprie?»
La domanda
di Jecht interruppe le loro filosofie con un timore più
terreno.
«Non
lo
escluderei, per questo dobbiamo fare molta attenzione,»
rispose l’Invocatore
asciugandosi la fronte.
«Tua
moglie era Al Bhed, giusto? Ne sai molto sulle loro
abitudini,» commentò Jecht
senza riflettere troppo.
Braska
sorrise amaro al ricordo di Emma, che al contempo gli scaldava il
cuore. Puntò
gli occhi tra le dune, aspettandosi da un momento all'altro
l’arrivo di un
mezzo cingolato; Emma, sorridente e raggiante quanto quel sole intenso,
si
sbracciava per salutare lui, venuto fin laggiù per
intercedere presso il suo
popolo. Sul suo polso destro spiccava la bandana rossa che lui le aveva
regalato.
La parola
di Yevon era una parola di pace.
Vedendo
l’Invocatore perso nei suoi pensieri, Jecht rivolse la sua
curiosità ad Auron.
«Perchè
odiate tanto le loro macchine? Non me lo avete mai spiegato».
Auron,
provato dal caldo intenso, dovette inumidirsi le labbra prima di
rispondere.
«Nella
dottrina, le macchine sono affronti a Yevon, vanno contro la natura.
Solo il
dio può creare,» disse il monaco boccheggiando.
«Immaginavo,»
rispose Jecht con ironia.
Seguendo i
mucchi di lamiere che si facevano sempre più alti, dopo
tempo indefinito
arrivarono ad un avamposto estraneo. Jecht lo osservò con la
curiosità che lo
contraddistingueva: inviava bagliori metallici sotto il sole e la sua
forma
rastremata in cima, che poi continuava in un più largo cono
capovolto, gli
ricordava quella delle trottole con cui giocava da bambino.
Un ronzio
artificiale, assieme al suono di Braska che si schiariva la gola, lo
sottrassero ai ricordi.
«Sono
l’Invocatore Braska,» disse, portando vicino alle
labbra un apparecchio di
metallo scuro. «Richiedo l’accesso alla
Base».
Infastidito
dalla sabbia, Auron socchiuse le ciglia e fissò
l’uomo che stava proteggendo.
Gli sembrava sempre più un estraneo, e si sorprese dal
vederlo usare una
macchina proibita, nonostante la sua fede in Yevon fosse grande.
Eppure,
esistevano amori che andavano oltre, come quello che lui aveva avuto
per sua
moglie.
Braska
attese qualche secondo, e quando non ricevette risposta alcuna
infilò una mano
nella borsa che portava al fianco. Strinse forte il pugno proprio sopra
alla
copertina di My nucy tamma cyppea. La
rosa delle sabbie.
«Mi
ricevete? Richiedo l’accesso alla Base. Mi servono medicine
per un
ferito».
Il ronzio
grave di una sirena risuonò tra le dune, coprendo il fischio
del vento che
agitava la sabbia. L’imponente trottola che stava di fronte a
loro vibrò,
trasmettendo il suo moto a tutta l’aria attorno, e alla
sabbia. Jecht e Auron
indietreggiarono, Braska rimase immobile e alzò la testa.
La Base si
aprì come un insolito frutto. Dieci bracci
d’acciaio, ognuno dei quali spingeva
una pesante torre dello stesso materiale, si separarono dal corpo
centrale. Le
ruote nere che sormontavano le torri cominciarono a girare per portare
verso
l’esterno un peso piuttosto oneroso.
Anche se
si trovavano ad almeno quaranta passi d’altezza, i tre
riuscirono bene a
distinguere dieci bocche da fuoco che puntavano verso il
deserto.
«Che
fate?» ribatté l’Invocatore a denti
stretti. Si avvicinò la radiolina alla
bocca e strinse l’altra mano attorno allo scettro. Sopra la
sua testa, a opera
di Auron dei lunioli si erano addensati per formare uno scudo che li
copriva
tutti e tre. «Non mi riconoscete? Non sono un
nemico!»
La
radiolina di Braska emise un gracchiare che presto si
trasformò nella voce di
una donna.
<Certo
che ti ho riconosciuto,> disse, <è
proprio per quello che ho
armato i cannoni>.
Dal corpo
metallico della fortezza si staccò un undicesimo braccio,
che terminava con un
grosso martello. Mosso da un pistone, quello cominciò a
battere ritmicamente la
terra.
Nel
sentire la sabbia vibrare sotto i suoi piedi, Braska
tentennò. I suoi Guardiani
gli lanciarono uno sguardo preoccupato mentre lui provava a dire:
«Samira,
sei tu?»
<Braska!>
quel nome fu quasi mangiato dal rumore del martello che batteva la
terra.
Qualcosa in lontananza, tra le dune, sembrava alzare più
sabbia rispetto al vento.
Pareva smuoverla da sotto.
All’interno della sala dei comandi
principale della Fortezza Base, una donna bionda sorrise. Le luci
artificiali
le coloravano d’arancione il viso e, quando il suo sorriso si
allargò fino a
diventare feroce, gli anelli d’argento che le abbellivano i
canini mandarono un
brillio nella stanza.
<...Che
cazzo di accoglienza pensavi che ti riservassi?>
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