ἐπάμεροι
τί δέ τις; τί
δ' οὔ τις;
σκιᾶς
ὄναρ
ἄνθρωπος,
αλλ' ὅταν
αἴγλα
διόσδοτος
ἔλθη,
λαμπρόν
φέγγος
έπεστιν
ανδρῶν
καὶ
μείλιχος
αἰών
Esseri della
durata d'un giorno.
Che cosa siamo? Che cosa non siamo?
Sogno
d'un'ombra l'uomo: ma quando
un bagliore divino ci giunga,
fulgido
risplende sugli uomini il
lume e dolce è la vita.
(Pindaro,
Pitica VIII, vv. 95-97)
Il sole
passava il punto vernale e, transitando, trascinava le dita
dell’inverno. Le
cupole di S.Bevelle rifulgevano, quel giorno, dello splendore
dell’oro.
Al centro
della piazza c’era un’enorme fontana, con tutto
intorno un fregio di smalto, da
cui l’acqua cadeva come le dolci piogge di primavera.
I suoni
della festa avevano soppiantato con prepotenza i chiacchiericci mondani
dei
lavoratori. Il battere dei tamburi e le grida divertite dei ragazzi
erano
diventati i soli rumori tollerati dalla gente, almeno per quella
giornata.
Sopra un
carro trainato da forze invisibili, un uomo vendeva mele caramellate.
Alle sue
spalle, un altro annunciava quanto bestiame era stato condotto alla
festa, in
modo che tutti potessero gioire del banchetto prima ancora di averlo
visto.
Profumi
dolci e speziati venivano intrappolati dai numerosi teli che
proteggevano le
bancarelle, rendendo le strade dei lunghi corridoi volti ad attirare
l'attenzione – e gli stomaci – del popolo. La
grande festa era una delle poche
occasioni in cui cibi così raffinati potevano essere gustati
anche dai palati
più umili: tutti cercavano di procurarsene un boccone.
Gli adulti
amavano dilettarsi con i numerosi giochi proposti in seno alle piazze.
Spesso
erano prove di abilità e precisione dove si cercava di
centrare un palo con un
cerchio di ferro, oppure di abbattere dei bersagli con delle palle di
stoffa. I
bambini venivano introdotti alla conoscenza di animali esotici e
difficilmente
avvicinabili, ma la gioia più grande scoppiava solo quando
c'erano i chocobo,
tanto che veniva permesso loro di salirci in groppa ed essere condotti
per un
tranquillo e breve tragitto.
Immersa
nella folla, una giovane donna afferrò la veste della
sorella, e il viso di
quella, assieme a tanti altri, si volse verso il ponte adornato da veli.
Il Gran
Maestro Mika, uomo saggio e venerabile per età, camminava a
passo lento con la
tiara sul capo. I pellegrini, frenetici, tentavano di sfiorarlo con le
dita
anche solo per un istante e sollevavano verso di lui i figli, in modo
che li
benedicesse.
Proprio
quando Mika allungò le dita verso la fontana, e ne
sfiorò l’acqua paziente, una
moneta lanciata da qualcuno fece schizzare delle gocce sulla sua
manica. Egli
non se ne curò e alzò le mani al cielo.
Salve, regina
della
città
celata dalla
notte,
in te canta il
nostro
cuore.
Rendiamo
grazie a te,
Yunalesca,
Nel tuo
giorno, a te
Che hai
mondato la terra,
E molte volte,
molte volte
ancora
ripetiamo
Il tuo
sacrificio.
E sempre ti
siamo
grati,
O cerchio
sempiterno
Yevon,
Colui che apre
tutti
gli occhi,
Colui che ha
molte
menti
E che tutto,
vedendo,
comprende.
Ie yu i
No bo me no
Ren mi ri
Yo ju yo go
«Hasatekanae
kutamae» mormorò un uomo inginocchiato nel buio,
rischiarato solo dalla fiamma
tremula di una candela. Prima che il cerchio della preghiera potesse
ricominciare, sostenuto dal canto degli altri monaci, le sue labbra si
fermarono.
Spostò
il
peso sulla gamba destra, dolorante e premuta contro il legno della
panca,
mentre alzava lo sguardo per incontrare quello di chi aveva appena
varcato la
soglia.
Una lama
di luce si era insinuata nella cella e, tagliando
l’imitazione di una notte
perenne, era arrivata a ferire gli occhi del monaco.
Lontani,
oltre al canto monotono del coro, provenivano i rumori della festa
sacra.
L’uomo, ancora in ginocchio, si rassettò la tunica
di cotone grezzo.
Erano tre
i confratelli che erano arrivati a prenderlo: uno di loro, un giovane
dalla
folta barba castana, fece un passo avanti. Indossava
l’armatura di cuoio e seta
dei Templari, decorata in vita da un laccio dorato.
«Sei
sicuro, Auron?» domandò. Se qualcuno glielo avesse
chiesto, avrebbe risposto
che la luce nei suoi occhi altro non era che la combinazione strana del
lume
della candela e del sole, ma il suo tono tradiva una preoccupazione
affettuosa.
Auron
annuì con un cenno del capo, così gli altri due
monaci lo afferrarono per le
braccia e lo tirarono in piedi, più per un gesto rituale che
per offrirgli un
effettivo appoggio.
Quando fu
dinanzi all’amico, che non superava solo per altezza ma anche
per imponenza, si
limitò a fissarlo in silenzio.
«Non
riesco a capirti» gli disse lui.
«Mi
dispiace, Kinoc» rispose Auron, la voce arrochita dal lungo
silenzio, «ma è
proprio per questo che me ne vado».
I due
monaci guerrieri che lo avevano fatto alzare estrassero le spade e lo
scortarono verso l’uscita della stanza, come si confaceva al
suo rango, anche
se stava imboccando la strada per lasciare le fila
dell’esercito di Yevon.
Kinoc gli
porse il rosario tipico di Bevelle dai grani gialli e blu, pretendendo
di
restare indifferente alla totale assurdità del gesto del suo
amico, ma non
riuscì a distogliere lo sguardo dalla sua schiena mentre si
allontanava, dai
capelli raccolti con un nastro d’oro, come macchie
d’inchiostro sulla tunica.
«Avresti
potuto accettare la figlia di Landor in sposa» gli disse
senza aspettare che si
voltasse, in un disperato tentativo di farlo tornare sui suoi passi.
Auron si
voltò. Inclinò il capo sulla spalla sinistra e
socchiuse gli occhi, come per
invitarlo a proseguire, ma non disse nulla.
«Non
intendo mancarti di rispetto» ricominciò Kinoc,
«ma le tue ragioni mi sono
oscure. Non è necessario che il matrimonio venga consumato
subito per essere
ritenuto valido».
«Non
è
qualcosa di cui vorrei macchiarmi in ogni caso»
replicò Auron, con lo stesso
tono calmo ma autoritario che utilizzava per dare ordini. Kinoc si
rendeva
conto che la sua partita era persa in partenza.
«Spero
che
tu sia consapevole di ciò che stai rifiutando»
replicò tuttavia, il tono che si
induriva per rivaleggiare con quello del compagno d’armi.
Auron,
inaspettatamente, tirò le labbra in un lieve sorriso.
«Ie
yu i
no bo me no» ripeteva il coro, invisibile nel luogo dove loro
si trovavano.
«Non
vergognarti di prendere il mio posto» disse a mezza voce, poi
unì le mani in
grembo e volse lo sguardo inflessibile verso i monaci che lo
attendevano
sull’attenti.
«Avanti»
ingiunse, tenendo la testa alta, con dignità.
Wen Kinoc
compì il saluto rituale, e dispose davanti a sé
le braccia come se stesse
stringendo in mano una sfera, ma Auron non si voltò mai
più.
Wen Kinoc
venne lasciato, assieme all’eco di quell’avanti,
nello stesso modo in cui si
lascia una cosa rotta. Rimase lì, nella medesima cella dove,
da bambino,
s’intrufolava per condividere il pane nero con
l’amico e per intagliare con lui
i cucchiai nel legno.
Presto la
voce di Auron cominciò, nella sua testa, a parlargli di un
onore che per lui
non aveva alcun significato, e di quel gran rifiuto che, se richiesto,
di nuovo
avrebbe fatto.
Glielo
avrebbe ripetuto ancora per anni, e per quei lunghi anni lui non
avrebbe mai
compreso.
Per Auron
una consapevolezza tale bruciava più del fuoco: l'idea di
non essere riuscito a
spiegarsi con il suo migliore amico lo feriva nel profondo, ancor di
più,
forse, con coloro che lo avevano rispettato e ammirato.
Era
così
difficile comprendere le sue ragioni?
La testa
di Auron diventò dolorante, troppe domande turbolente senza
risposta si
ammassavano nella sua mente, domande che, tra l'altro, non avrebbero
dovuto
aver senso di esistere.
I passi
pesanti del monaco echeggiarono tra gli alti soffitti del tempio,
decorato
anch'esso a festa con veli colorati, fino a giungere a uno degli altari
posti
vicino alle vetrate, il più illuminato e il suo preferito.
Lo
guardò
con nostalgia e dolcezza – quante ore delle sue giornate
aveva passato al suo
cospetto! – ma anche la rabbia del doverlo abbandonare
iniziò a serpeggiare nel
suo animo: era un'ingiustizia imperdonabile.
Si
inginocchiò a malincuore, stringendo nel pugno il suo
rosario come per
rivendicarne la proprietà perfino con gli spiriti, tanta era
l'affezione verso
il suo compagno di preghiere; l'ira lo stava divorando come fuoco di
paglia, ma
si rese conto che quel gesto così doloroso era anche la
presa di posizione più
severa che potesse applicare.
E gli
andò
bene così. Quella legge morale, così giusta e
invalicabile, lo tranquillizzò,
tanto che allentò la presa e fece scivolare il rosario dal
palmo della sua mano
alla fredda superficie dell'altare, rinvigorito da nuova determinazione.
Quando
uscì dal tempio, abituato alla sua rassicurante
oscurità, il cielo troppo blu
della città, il rumore e le sfavillanti decorazioni lo
colpirono con
l’intensità di uno schiaffo, facendogli pulsare le
tempie.
Attraverso
lo schermo delle ciglia osservò il Gran Ponte e lo
trovò gremito di folla. Uno
stormo di colombe, lasciate libere da qualcuno, lo
attraversò da parte a parte
per poi svanire fra le nuvole. Le teste che si erano alzate ad ammirare
lo
spettacolo erano tanto fitte che Auron non sarebbe riuscito a vedere
oltre
nemmeno se si fosse alzato sulle punte dei piedi, come un bambino.
All’improvviso,
qualcuno gli urtò la schiena. Lui si irrigidì per
riflesso involontario e voltò
lo sguardo, per trovarsi a sovrastare quello che era poco
più che un ragazzino.
«Mi
scusi»
borbottò quello guardandosi le scarpe, poi fece per
rituffarsi nella calca. Il
monaco ne approfittò:
«Che
cosa
ci fa lì tutta quella gente?» gli chiese.
Il ragazzo
si voltò verso di lui e sgranò gli occhi.
L’attimo dopo riacquistò una timorosa
compostezza e replicò:
«Alla
Corte Suprema c’è il processo
dell’Inquisizione!»
Detto
questo, scivolò via come un’anguilla scivola
giù dalla rete, forse per
diffidenza nei confronti di quello strano uomo in tunica bianca, forse
perché
non voleva perdere nemmeno una parola dell’equa sentenza.
Auron,
ancora infastidito dal sole, si premette le dita sulle palpebre e
immaginò
un’aula buia e gremita, senza sapere che quel luogo esisteva
davvero.
Sotto una
cupola nera, cesellata con arte per rappresentare il cielo stellato,
stava un
palco in legno dall’arcata stuccata in oro, sormontato
dall’occhio di Yevon che
tutto vede. Nonostante gli incensi fossero stati rimossi per evitare
che
togliessero il respiro a qualcuno dei numerosi astanti,
l’odore residuo
continuava a pizzicare le narici.
Il Grande
Inquisitore sedeva su di un trono al centro del palco, tra due guardie
Ronso
dalla pelliccia rossa, armate di alabarde.
Quelle
creature leonine, a quanto si diceva, erano entrate di recente tra i
ranghi di
Yevon, ma avevano scalato in fretta la gerarchia. Occupavano posti di
prestigio
come guardie delle autorità, anche grazie
all’intercessione di qualche magnate
dall’animo generoso. E, forse sperando in
quell’evergetismo un po’ sospetto, i
due squadravano tutti i presenti con fare insistente, alla ricerca di
qualunque
segno di pericolo per il loro protetto.
Nel
frattempo gli occhi dell'uomo scandagliavano con ansia il pubblico,
alla
ricerca di volti conosciuti o di personalità eminenti di
Bevelle. Al centro del
suo labbro inferiore, in quel momento disteso nell’ombra di
un sorriso, era
evidente la traccia lasciata dal sigaro.
Amava ogni
piega della veste nera e grigia che specificava la sua mansione
all’interno del
clero. Spesso, mentre parlava o mentre aspettava, le sue dita
indugiavano sulla
spilla di rubino che la teneva ben ferma sul petto, accarezzandola come
il viso
di un’amante.
Quando
l’eretico che doveva essere sottoposto a processo fece il suo
ingresso in aula,
il Grande Inquisitore pose le mani in grembo e drizzò la
schiena, in modo che
non fosse evidente che la sua statura fisica era ben inferiore rispetto
a
quella del suo compito; riguardo alla statura morale, invece, i posteri
avrebbero fornito la loro sentenza.
Notò
che
il volto dell’imputato era più pallido e smorto
delle ultime volte che lo aveva
visto: nonostante conoscesse a memoria i suoi lineamenti, sembrava
esservi
comparsa qualche ruga in più. Tuttavia, ciò non
gli mosse un sentimento di
pietà verso l’uomo: un senso di forte fastidio lo
colpì come un mal di stomaco
improvviso.
«I
sacri
uffici di questa corte altro non cercano che la verità
assoluta, nel nome di
Yevon. A coloro sotto processo: credete in Yevon e dite la
verità».
L’uomo
alzò gli occhi celesti, nei quali all’Inquisitore
parve di leggere un astio
sopito. Non disse una parola.
«L’imputato
Braska è accusato di aver difeso l’eresia
concernente l’uso di macchine nelle
operazioni militari. È altresì accusato di aver
contratto matrimonio con una
donna Al Bhed e aver generato prole. Il terzo capo ascritto, svincolato
dai
precedenti, è l’aver favorito la diffusione della
pestilenza ignorando la
disposizione di isolamento. In seguito alla raccolta di prove da parte
dell’Inquisizione, sotto disposizione del Gran Maestro Mika,
è pronunciato
colpevole».
Tutti i
presenti, che avevano riempito le balconate, trattennero il respiro
come se
fossero loro a trovarsi al posto suo.
Braska,
invece, mosse appena il capo, come se si aspettasse l’esito
della sentenza. La
sua apparente tranquillità non fece che accrescere il
già accentuato fastidio
dell’Inquisitore, che diventava sempre più
impaziente di concludere il
processo.
«Per
ordine della Corte di Yevon, che abbandoni del tutto, né del
resto in qualunque
modo sostenga, insegni o difenda la sua tesi. Viene ora richiesta
l’abiura
dell’eresia davanti al qui presente Grande Inquisitore
Alan».
«No»
disse
secco l’imputato. Pronunciò quella parola con voce
quasi leggera, e sembrò
quasi non pensarci.
Il
pubblico sussultò come un’unica persona.
Il giudice
digrignò leggermente i denti e fece un profondo respiro.
Sotto le ampie maniche
della veste strinse i pugni fino a sentire le unghie nella carne.
Interdetto
dalla risposta, si trovava ad affrontare una situazione di stallo che
avrebbe
messo in discussione il suo stesso ruolo all’interno del
clero.
Approfittando
del silenzio opprimente dell’uomo che aveva davanti, Braska
si permise di
parlare in propria difesa:
«Le
accuse
a me mosse sono frutto di errata interpretazione, vostro
onore».
Alan fu
costretto a mordersi l’interno della guancia per tenere a
freno l’istinto di
ribattere: era certo che quell’ultima parola avesse un tono
denigratorio.
«Il
matrimonio misto non è proibito dalle leggi di Bevelle.
Inoltre, non presento
sintomi di tisi da almeno due anni». Fece una pausa per
prendere fiato, e con
lui respirarono tutti i presenti. «Tramite un intenso
percorso di preghiera e
prendendomi carico della missione di Invocatore, chiedo alla corte di
concendermi di espiare le mie colpe. Sono disposto, infine, ad
accettare la
scomunica».
Sentendo
quella dichiarazione di intenti, l’Inquisitore parve
rilassare il corpo
irrigidito, sollevato dall’onere di trovare una soluzione a
un problema così
complesso. Se lo avesse condannato a morte, la sua dipartita sarebbe
stata del
tutto vana, ma adempiendo al compito degli Invocatori, e
così morendo, avrebbe
potuto portare un periodo di pace sull’isola.
Questo si
sarebbe tradotto in una fama che avrebbe aleggiato su Spira almeno per
anni e
avrebbe sussurrato il nome di Braska, ma anche quello di Alan e, per
riflesso,
quello di tutta la famiglia. Era la soluzione perfetta.
La corte
accettò senza riserve la proposta dell’imputato.
I veli
scossi dal vento erano ipnotici da osservare, il loro movimento
armonioso e
imprevedibile calmava l'animo turbolento di Auron.
Il monaco
passeggiò fino al centro del ponte addobbato senza nemmeno
accorgersene: troppi
erano i pensieri che lo tormentavano.
Si
appoggiò di peso al parapetto e si mise a contemplare le
decorazioni colorate
che svolazzavano di qua e di là, in balia della brezza
fresca.
Auron
sentì una certa affinità con quella vista: anche
lui era stato spinto a
muoversi dalla volontà di qualcun'altro, con l'unica
differenza che lui aveva
scelto dove andare. Nessuno, però, avrebbe potuto dirgli se
la sua decisione
fosse giusta o sbagliata, solo la sua coscienza poteva.
Non
c'erano alternative. Si ripeteva queste parole di tanto in tanto per
calmare i
nervi, quando la certezza iniziava a vacillare e i dubbi minavano le
sue
convinzioni.
Sospirò,
stanco: indugiare per ore sugli stessi ragionamenti lo stava logorando,
anche
perché le risposte che si dava non lo convincevano mai del
tutto.
Si
voltò
verso l'estremità destra del ponte, dove aveva visto
riunirsi tutta quella
gente per assistere al processo dell'Inquisizione. Distinse la figura
di un
uomo: era gracile, e l’umile veste grigia attirò
il suo sguardo come il magnete
che devia la bussola dal suo corso. Lo vedeva bene, o per la scarsa
distanza,
dato che gli si stava avvicinando, o perché la sua mente era
concentrata nello
scrutarlo.
Con
lentezza, il suo sguardo viaggiò lungo il corpo
dell’uomo, salì fino alle mani
bianche e curate, troppo per essere quelle di chi arava la terra o
tirava in
secca le reti. Il suo portamento era signorile, la schiena dritta e il
mento
sollevato, ma la testa un po’ inclinata verso destra pareva
in qualche modo
domandare perdono. Nell’istante in cui gli occhi del monaco
si posarono sul suo
viso, lui passò sotto a una delle stoffe traslucide che
addobbavano il ponte.
L’uomo,
quasi percependo di essere guardato, si voltò verso Auron e
le sue labbra
sottili si incresparono in un sorriso. Le iridi chiare, seminascoste
dal velo,
puntavano dritto verso di lui.
Continuò
ad avanzare: ad Auron parve che la folla si aprisse per farlo passare,
ma non
seppe dire se quella che gli veniva incontro fosse una luce dolce o,
piuttosto,
il tranquillo buio che aveva lasciato nelle celle del monastero.
Il viso
asciutto e pallido dello sconosciuto era stranamente interessante agli
occhi di
Auron, nonostante il suo aspetto fosse abbastanza anonimo in mezzo alla
folla.
La sua sola presenza infondeva tranquillità.
«Ti
vedo
turbato, figliolo» disse il misterioso uomo con voce
accomodante, tanto che
Auron non seppe come interpretare quella confidenza.
«Cosa
glielo fa pensare?»
«Sei
l'unico volto triste in una festa gioiosa come questa»
rispose sorridendo, ma
il monaco non parve colpito.
«Ho
i miei
motivi, mio signore. Sono altresì stupito di vedere un uomo
così allegro
nonostante vesta di bianco come me».
«Non
ho
motivo di essere triste: penso di non aver fatto niente di
male».
«Per
avere
qualcosa di cui pentirsi, molti non dovevano essere
d'accordo».
L'uomo
scoppiò a ridere di gusto, una piccola lacrima ribelle gli
scivolò sulla
guancia leggermente incavata.
«Beh,
non
piaccio molto all’Inquisizione».
Auron ebbe
un sussulto al suono di quella parola, tanto temuta quanto rispettata:
non era
facile sfuggire alla sua morsa, probabilmente aveva evitato una severa
punizione per camminare così spensierato tra le bancarelle
della festa.
«Era
lei
l’uomo sotto processo, mio signore?»
«In
carne
e ossa… ancora per un po’» disse
sghignazzando mentre scrutava con attenzione
un braccialetto di giada, pezzo in vendita di uno dei tanti mercanti
presenti
sul ponte.
«Il
clero
deve amarla da morire...»
«Forse
si
può dire che mi ama come un fratello».
Rivolse un
ultimo, enigmatico sorriso al monaco e alzò le spalle, poi
pagò il gioiello e
se ne andò per la sua strada, seguito dallo sguardo
incuriosito di Auron.
Percorse
a
passo calmo il ponte e infine sparì, dietro allo stesso
drappo che aveva
nascosto il suo arrivo: lì, oltre quel velo, stavano le cose
che Auron non
sapeva.