The feathers on the wings of time

di Moriko_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nascita | Morisaki's side ***
Capitolo 2: *** Nascita | Aoi's side ***
Capitolo 3: *** Legami fraterni - Tre anni | Morisaki's side ***
Capitolo 4: *** Legami fraterni - Tre anni | Aoi's side ***
Capitolo 5: *** Germogli - Sei anni | Morisaki's side ***
Capitolo 6: *** Germogli - Sei anni | Aoi's side ***
Capitolo 7: *** Contatto - Nove anni | Morisaki's side ***
Capitolo 8: *** Contatto - Nove anni | Aoi's side ***
Capitolo 9: *** Sguardo sul mondo - Dodici anni | Morisaki's side ***
Capitolo 10: *** Sguardo sul mondo - Dodici anni | Aoi's side ***
Capitolo 11: *** Spiccare il volo - Quindici anni | Morisaki's side ***
Capitolo 12: *** Spiccare il volo - Quindici anni | Aoi's side ***
Capitolo 13: *** Famiglia - Diciotto anni | Morisaki's side ***
Capitolo 14: *** Famiglia - Diciotto anni | Aoi's side ***
Capitolo 15: *** Epilogo | Aoi and Morisaki's side ***



Capitolo 1
*** Nascita | Morisaki's side ***


Fanfiction

Sommario. 
Due compleanni, due persone, un'unica data: 12 Marzo.
Lo straordinario cammino della vita dai primi passi alla maturità, verso più grandi ed importanti traguardi.

[Il titolo dell'intera opera - "The feathers on the wings of time" - è ispirato a una citazione di Jean Paul, scrittore e pedagogista tedesco: "I compleanni sono piume sulle ampie ali del tempo."]

 

 

abVgWXG

Nascita.

{Morisaki's side}

 

 

BGM: Nexus - Life

 

 

 

[12 Marzo. Nankatsu, prefettura di Shizuoka.]

 

Sotto il cielo limpido di una fresca giornata di inizio primavera, risuonarono nell’aria le allegre urla di due bambini che stavano giocando a rincorrersi nel cortile della loro casa. La loro dimora, situata in un quartiere periferico della cittadina di Nankatsu, nel cuore della prefettura di Shizuoka, era una di quelle che si potevano definire le classiche villette di campagna: spaziosa e confortevole, su due piani e con un cortile che affiancava il basso muricciolo che cingeva l’abitazione, per loro era come una reggia dove poter scatenarsi in totale libertà.

«Vieni, fratellino!»

Il maggiore dei due bambini, Ken'ichi, si mosse da un punto all’altro del cortile come un’anguilla, riuscendo a sfuggire all’ultimo secondo a suo fratello Takaji, più piccolo di lui di un anno. Dall’alto dei suoi tre anni si stava divertendo a prenderlo in giro, lasciando che lo raggiungesse senza muoversi per poi ripartire solo quando il piccolo stava per sfiorarlo.

«Ahahah, non mi prenderai mai!» gridò contento, mentre con un balzo si allontanava di nuovo da Takaji che iniziò nuovamente a protestare.

«Nooooo!»

Poco lontano un giovanotto sulla trentina stava osservando felice il gioco dei due fratelli: seduto sulle scale d’ingresso con le ginocchia piegate e il mento appoggiato sui palmi delle mani, Noboru ebbe la premura di avere gli occhi sempre puntati su di loro. Non li mollava nemmeno quando, di tanto in tanto, prendeva in mano il suo cellulare e con un veloce sguardo controllava la presenza di qualche nuova notifica sullo schermo.

Niente. Ancora nessuna notizia...

Il giovane diede un sospiro e ripose il cellulare nel taschino della sua giacca. Erano trascorse diverse ore da quando suo fratello Hideki gli aveva affidato le sue piccole pesti, per correre alla volta dell’ospedale con sua moglie Izumi: la donna, incinta del loro terzo figlio, aveva rotto le acque nelle prime ore del mattino, per cui aveva avuto giusto il tempo per avvisarlo e dargli le chiavi di casa, prima di correre a tutta velocità verso l’ospedale municipale della città. Per uno strano caso del destino - o forse era più fortuna - quel giorno Noboru non era di turno al centro commerciale S-Pulse Dream Plaza[1] della vicina Shizuoka. In altre circostanze avrebbe preferito restare nella sua piccola casa di Shizuoka e riposarsi un po’, dato che il giorno dopo doveva svegliarsi presto per la sua quotidiana routine presso il Shimizu Soccer Shop; ma per Hideki era sempre ben disposto a farsi in quattro per aiutarlo. D’altronde, così ne avrebbe approfittato anche per vedere i suoi due nipotini, che erano decisamente cresciuti dall’ultima volta che li aveva incontrati.

Circa un mese.

Un bel lasso di tempo, complice anche la distanza che li separava ogni giorno: a causa del suo lavoro Noboru si era trasferito proprio a Shizuoka, e spesso era difficile incontrarsi con Hideki e la sua famiglia nella cittadina di Nankatsu, dato che entrambi avevano orari di lavoro e anche giorni liberi differenti. I due fratelli si sentivano tutte le sere per telefono, ma per Noboru vedere i suoi adorati nipotini proprio lì, davanti ai suoi occhi, era decisamente un’altra cosa.

Quell’oasi di pace, così lontana dalla frenesia del centro e del luogo dove stava trascorrendo la sua vita, lo rasserenava: se un giorno avesse avuto la possibilità di avvicinarsi a loro, alle sue adorate pesti, forse non ci avrebbe pensato due volte a lasciare la vita che stava conducendo fino a quel momento.

Nel bel mezzo di questi pensieri i due piccoli gli si avvicinarono: il più grandicello di loro gli porse le mani intrecciate, i suoi occhi che gli brillarono di una fierezza mai vista prima.

«Cosa c’è, Ken'ichi?» chiese Noboru, allungando lo sguardo.

«Guarda, zietto: una farfalla!»

Ken'ichi aprì leggermente i palmi delle mani, e mostrò allo zio l’insetto che era imprigionato. Incuriosito Noboru avvicinò il volto: vide una farfalla che sbatteva le ali senza mai fermarsi, nel disperato tentativo di liberarsi da quella strana prigione di carne nella quale si trovava.

«Hai visto?» esclamò entusiasta suo nipote. «Ho fatto proprio come mi hai detto! Piano piano! Vedi? Si muove ancora!»

«Che bravo!»

Noboru arruffò i capelli del piccolo, e solo allora Ken'ichi si decise a liberare la farfalla.

Intanto, mentre zio e nipote si erano incantati a guardare il volo leggero e spensierato dell’insetto che stava festeggiando la sua libertà dopo minuti di agonia, Takaji ne approfittò per avvicinarsi al fratello e, con uno scatto, afferrò divertito la sua maglietta.

«Preso!»

Ken'ichi sobbalzò. Troppo tardi: distratto da quella farfalla che aveva trovato nel cortile della loro casa e felice di mostrargliela allo zio, non si era accorto che Takaji stava continuando ad inseguirlo, riuscendo così a toccarlo... finalmente.

«Oh, no!»

«Evviva!» esclamò il piccino: alzò le braccia al cielo e festeggiò la sua vittoria con piccoli saltelli qua e là.

In quel momento il cellulare di Noboru vibrò. L’uomo lo prese di nuovo, e non appena vide sullo schermo il nome di suo fratello non esitò ad alzarsi in piedi e rispondergli subito dopo. «Pronto? Ah... aaaaah! Arriviamo subito!»

Noboru ripose il cellulare al suo posto, mentre le sue labbra si curvarono in un sorriso soddisfatto.

«Chi è, zietto?» chiese Ken'ichi.

Noboru gli sorrise teneramente. Prese in braccio Takaji, che ancora rideva per l'impresa riuscita, e con un cenno invitò l’altro a seguirlo.

«Bambini, andiamo: ha appena telefonato papà!»

 

 

 

Il sole era ormai alto in cielo: era appena passato mezzogiorno e c’era molto traffico sulla strada che portava alla zona ospedaliera della cittadina. Alla guida di un City SUV Volkswagen di color turchese scuro, Noboru attendeva con un po’ di impazienza di liberarsi dalla coda nella quale era capitato: quella strada, una delle principali arterie della cittadina, era sempre piena di automobili e camion per via di molte persone che si muovevano nell’ora di pranzo.

Tamburellando il volante, Noboru diede una fugace occhiata allo specchietto retrovisore per vedere come stessero i due nipotini: Takaji si era addormentato, mentre Ken'ichi era intento a giocare con un peluche a forma di squalo.

«Raaaw... raaaw!» ripeteva il piccolo di tanto in tanto, mentre muoveva nell’aria il pupazzo.

Nel vederlo giocare in quel modo, con così tanta innocenza, sulle labbra dello zio si delineò un dolce sorriso. A lui piaceva quell’atmosfera familiare, così tranquilla come ricca di energie positive: gli ricordava i tempi ormai lontani nei quali anche lui e Hideki erano piccoli, proprio come Ken'ichi e Takaji. Un anno di differenza separava i due fratelli Morisaki, così come i due bambini che ora erano seduti in quell’auto.

Noboru provò una sensazione di nostalgia che riscaldò il suo cuore. Gli tornarono alla mente quei primi momenti trascorsi insieme a suo fratello, nonostante fossero trascorsi diversi anni: i due erano inseparabili, come ora lo erano i suoi nipotini, giocando e divertendosi insieme.

E ora Hideki è diventato papà... per la terza volta! Come vola il tempo!

A differenza del fratello lui non aveva avuto la fortuna di avere figli, e per questo motivo Noboru considerava i suoi nipotini come se fosse stato lui il loro papà. Con la nascita di Ken'ichi, lui promise a se stesso di voler bene a quel bambino e a tutti quelli che ne sarebbero seguiti, e di aiutare suo fratello e sua moglie a crescerli quando poteva: in realtà non si era mai considerato la persona più adatta a farlo ma tre anni prima, nel tenere in braccio quel piccolo frugoletto, nel profondo del suo cuore aveva sentito di fare la cosa giusta. Non voleva deludere nessuno: il vestire il ruolo dello zio sarebbe stata la sua principale missione per il resto della sua vita.

Noboru si sistemò gli occhiali da sole, che nel frattempo gli erano scivolati leggermente dal naso, e vide nello specchietto Ken'ichi che aveva smesso di giocare e che ora lo stava osservando con i suoi grandi occhi castani, specchio limpido di quelli della sua mamma.

«Zietto!»

«Dimmi.»

«Metti Hamigaki Jaws

«Agli ordini, piccolino!»

Noboru accese la radio e inserì al suo interno il CD che Hideki gli aveva dato. Vi era l’imbarazzo della scelta, con una lunga lista di canzoni per bambini, ma lo zio sapeva quali fossero le preferite dei suoi nipotini: Hamigaki Jaws e Baby Shark. Tra i due piccoli, in particolar modo Ken'ichi sembrava essere quello talmente innamorato degli squali, al punto dal volere qualsiasi cosa a tema, dai libri ai peluche, e di certo la musica non faceva un’eccezione.

Quando nell’aria si udirono le prime note di Hamigaki Jaws, gli occhi di Ken'ichi si illuminarono per la gioia: il bambino, che ormai conosceva a memoria quella canzone, la seguì cercando di ripetere le parole che stava ascoltando e iniziando a muoversi a ritmo della musica. «Shark!» urlò ad un tratto, lanciando in aria il suo amato pupazzo che gli finì prima in testa e poi cadde sul tappetino dell’automobile.

«Il mio squalo...» iniziò a piagnucolare Ken'ichi, osservando il gioco che non poteva recuperare, almeno non in quel momento. «Zietto, lo squalo... lo squalo è caduto a terra...»

«Non preoccuparti,» disse Noboru, rassicurandolo. «Siamo quasi arrivati: lo zio te lo prende non appena ci fermiamo!»

Dopo un momento di esitazione il piccolo alzò la testa e continuò a canticchiare, distratto ancora una volta dalla canzone successiva che ora si sentiva all’interno del SUV sul quale stavano viaggiando.

Intanto Noboru era riuscito a superare quella coda e così riprese a guidare spedito nel traffico cittadino. Non vedeva l’ora di rivedere suo fratello, sua moglie e, soprattutto, l’ultimo arrivato della famiglia: iniziò a fantasticare sull’aspetto del neonato, se assomigliasse di più a Hideki o Izumi... oppure se fosse stata la sua fotocopia, anche se ciò che davvero gli importava in quel momento era il vederlo in perfetta salute.

«Dimmi, Ken'ichi: secondo te, come sarà il fratellino?» chiese a suo nipote, abbassando leggermente il volume della canzone.

«Urm...» Il bambino guardò lo zio piuttosto pensoso e restò in silenzio; poi, ad un tratto, fu lui a rivolgergli un’altra domanda: «Zietto, è come il bambolotto che abbiamo a casa?»

«È molto più bello di un bambolotto,» rispose Noboru con orgoglio: anche se non aveva ancora visto il neonato, nel vedere i due nipotini era certo che anche il terzo sarebbe stato meraviglioso come loro. «Certo che è più bello: assomiglierà a te e Takaji! Pensa che non sarà fermo come un bambolotto: si muoverà, proprio come te e Takaji!»

«Come Takaji?»

«Certo! Ma è ancora più piccolo di Takaji... avrà bisogno di mangiare e di crescere un po’, prima che potrà giocare con voi.»

«E sa parlare?»

«Sì! Tu e Takaji dovete fare i bravi e insegnargli tutto... così presto sarete in tre a giocare!»

Ken'ichi annuì, e sempre con aria pensierosa domandò: «E come si chiama?»

«Beh, non lo so! Lo sapremo solo quando arriviamo da mamma e papà!»

«Zietto! Ho un'idea: lo chiamerò Same![2]»

Noboru sobbalzò. «Sei sempre il solito! Non puoi chiamarlo squalo; e se al fratellino non piacciono gli squali?»

«Devono piacergli, come a me e Takaji... per forza, è il nostro fratellino!»

Lo zio sbarrò gli occhi, ma poi rise tra sé e sé di fronte al grande interesse del suo Ken'ichi per gli squali, che lo sorprendeva sempre più anche nelle piccole cose quotidiane. Con la vista dell’ospedale che ora si delineava di fronte a lui, Noboru si divertì ad immaginare il futuro del maggiore dei suoi nipotini, sommerso nelle profondità del mare e che si divertiva ad entrare in diretto contatto con pesci diversi tra loro.

Chissà, forse da grande potrebbe diventare un veterinario... oppure lavorare in un parco acquatico... o forse gli passerà la mania degli squali e farà tutt’altro. I bambini sono così imprevedibili!

 

Dopo aver parcheggiato il City SUV nell’ampio parcheggio dell’ospedale, Noboru scese insieme a Ken'ichi. Takaji stava ancora riposando, per cui il giovane prese dal cofano il passeggino e porre là il piccolo; poi diede la mano a Ken'ichi e tutti insieme entrarono nel reparto di maternità.

Trovata la stanza dove si trovava sua cognata, il giovane zio fu sorpreso nel trovarla chiusa. Guardò l’orologio che aveva al polso, confrontando l’orario con quello scritto sulla bacheca delle informazioni. No... non siamo fuori orario. Forse è appena entrato il medico... e mio fratello? Sarà dentro?

Noboru stava per rivolgersi a suo nipote, invitandolo a sedersi nel corridoio insieme a lui in attesa di saperne di più, ma all'improvviso si sentì qualcosa che aveva colpito la sua testa con leggerezza, quasi in modo affettuoso. Nel voltarsi, il giovane vide suo fratello che stava reggendo in mano una lattina di tè fresco.

«Ciao, Noboru!»

«Hideki!» esclamò l’altro, e si slanciò verso il fratello: gli gettò le braccia intorno al collo e lo strinse forte a sé. Contemporaneamente anche Ken'ichi corse da suo padre, abbracciando con entusiasmo la sua gamba.

«Ciao, papà!»

«Ohi ohi!» disse Hideki, cercando di non perdere l’equilibrio in quel doppio abbraccio. Prese in braccio Ken'ichi, e gli diede un bacio sulla fronte. «Ciao, piccoletto! Ti sei divertito con lo zio?»

«Sì!» rispose il bambino, mostrando il pupazzo a forma di squalo che nel frattempo era riuscito a recuperare dall'automobile quando erano scesi dal SUV. «Vedi, vedi? Ho portato lo squalo, raaw! Così anche al fratellino piacerà!»

Il padre sorrise, e diede una pacca sulla spalla di Noboru. «Allora, campione! Sei pronto a conoscere il nuovo arrivato?»

«E me lo chiedi: non vedo l’ora! Però...»

Noboru si portò una mano dietro la nuca e diede un profondo sbadiglio, voltando le spalle e facendo spallucce. «Quanto vorrei essere sul divano di casa mia e non qui... che sonno!»

Hideki guardò suo fratello con un certo sbigottimento e non capiva il perché di quell’improvviso cambiamento: fino a cinque secondi prima suo fratello sembrava così entusiasta di essere lì con lui, per festeggiare insieme alla sua famiglia il lieto evento...

Per sua fortuna, Noboru si voltò e scoppiò subito a ridere. «Scherzetto! Ma certo che sì: questo e altro per i miei nipotini! Anzi: non vedo l'ora di conoscere anche il nuovo arrivato, chissà se sarà così birbante come questi due!»

In tutta risposta e quasi senza dargli il tempo di finire la frase, Ken'ichi non ci pensò due volte a lanciare il peluche che aveva in mano sulla testa dello zio. «Non è vero: sei tu il birbante! Sei tu!» ripeté il piccolo, tra una risata e un’altra.

«Eddai, Ken'ichi!» disse Noboru con un tono lamentoso ma colmo di divertimento. Alzò le mani e proseguì con un furbo sorriso: «Lo zio stava solo scherzando! Tu e Takaji siete due angioletti, gli angioletti dello zio!»

Hideki cercò di trattenere le risate di fronte al gesto del figlio e poi quello del fratello; poi posò a terra il suo piccolino, prese il peluche e glielo restituì, accarezzandogli la testa. «Però, Ken'ichi... mi raccomando: quando andiamo dalla mamma puoi portare questo pupazzetto, ma non lo devi più lanciare. Qui devi fare il bravo: ricordati che non sei a casa.»

«Sì, papà!»

Noboru sorrise, poi rivolse lo sguardo verso il piccolo Takaji che ancora dormiva nel passeggino. «Lui non vuole saperne di svegliarsi, vero?»

«Tranquillo,» rispose Hideki. «Non appena sentirà la voce della mamma, vedrai che aprirà subito gli occhi. Non sembra, ma è un bel furbacchione!»

«Papà, papà!» disse Ken'ichi, afferrando il pantalone di suo padre. «Andiamo? Andiamo dalla mamma e il fratellino?»

«Certo, non appena uscirà il dottore!»

«Il dottore? Il signore con il camice bianco?»

«Sì, ricordi? Quello del gioco che hai a casa... vedi?» disse Hideki, prendendolo per mano e indicandogli la porta dove si trovavano sua madre e suo fratello. «Ora la porta è chiusa e non possiamo entrare; solo quando uscirà questo signore dal camice bianco possiamo andare dalla mamma!»

«Uuuuh...» Ken'ichi mise il broncio e, lasciata bruscamente la mano del padre, incrociò le braccia. «Uffa! Io volevo vedere Same...»

«Same?»

Il papà spalancò gli occhi e guardò Noboru, pensando che fosse una delle sue trovate: quando era con i suoi figli, il fratello a volte riempiva le loro teste di frasi e parole apparentemente senza senso, che poi i piccini ripetevano anche quando lui era tornato a casa, come se fosse stato un codice segreto che solo loro tre riuscivano a decifrare.

Noboru si avvicinò al fratello e gli mise una mano sulla spalla, aiutandolo così a fugare ogni dubbio. «Non farci caso. Si è messo in testa di chiamare così il fratellino... e comunque ha deciso tutto lui: questa volta non c’entro niente!»

«È vero, papà!» aggiunse Ken'ichi con allegria. «Lo zietto non era molto felice!»

Hideki guardò il figlioletto, che in quel momento era tornato a giocare con lo squalo subito dopo aver detto quelle parole, e sorrise rassegnato. «È sempre il solito!»

 

 

In attesa che il dottore uscisse dalla stanza dove si trovava Izumi, Hideki e Noboru si accomodarono nel corridoio e discussero del più e del meno, mentre Ken'ichi continuò a giocare con il suo squalo coinvolgendo di tanto in tanto padre e zio. Nonostante fosse così assorto nel suo gioco, fu proprio il piccolo a notare per primo la presenza di un giovane uomo che indossava un camice bianco di fronte alla porta, ora aperta, che il suo papà gli aveva indicato.

«Papà! Il dottore!»

Al richiamo del figlioletto Hideki si alzò e andò dal medico per parlare con lui sullo stato di salute di sua moglie e del neonato. Non appena la conversazione ebbe termine, tornò dal fratello e disse: «Possiamo entrare!»

Subito Ken'ichi raggiunse il padre e gli afferrò la mano, seguito da Noboru che spingeva il passeggino di Takaji.

I quattro così entrarono nella stanza, illuminata dai raggi del sole che trapelavano attraverso le tende. Al suo interno vi erano due letti posti l’uno di fronte all'altro: il primo era vuoto perché la ragazza che lo occupava si trovava in sala parto, mentre sull'altro vi era una giovane donna che teneva in braccio un piccolo neonato. La donna portava sul volto i segni della fatica del parto, ma l’espressione che stava rivolgendo a suo figlio non lasciava adito a ulteriori dubbi: era serena, come le onde del mare dopo una tremenda tempesta notturna.

Non appena vide i suoi familiari fare ingresso in quella stanza, Izumi li accolse con un silenzioso sorriso. Per Hideki, il vedere ogni volta sua moglie in quel letto era un miscuglio di belle sensazioni: nonostante ciò che le era accaduto chiaramente visibile tra le prime rughe del suo volto, la sua dolce indole non era stata minimamente scalfita, e il bambino che cullava tra le sue braccia era meraviglioso come gli altri due figli.

Anche Noboru si commosse: si trattenne dall’urlare per la felicità che stava attraversando ogni angolo del suo corpo, ma non riuscì ad evitare che le lacrime iniziassero a scendere dai suoi occhi, diventati lucidi nel vedere Izumi e il neonato.

Invece Ken'ichi, contrariamente a quanto era solito fare, si nascose prontamente dietro la gamba del padre, non appena incontrò lo sguardo della mamma che voleva salutarlo. La presenza tra le braccia di sua madre, le stesse che fino al giorno prima lo avevano accarezzato e coccolato, di quel terzo bambino ancora più piccolo di lui e di Takaji, gli aveva provocato un sentimento di profonda timidezza.

«Su,» lo esortò Hideki, accompagnando suo figlio presso Izumi. «Non vuoi vedere il fratellino?»

Il piccino affondò il volto nelle pieghe del pantalone di suo padre, senza lasciare la presa. «Papà...»

«Dimmi,» sussurrò Hideki, inginocchiandosi di fronte a lui e prendendogli la mano con dolcezza.

«E se... e se il fratellino ha paura degli squali? Mi vuole bene?»

«Certo che ti vuole bene,» rispose la donna con tenerezza, anticipando la risposta del marito. «Questo piccoletto non vede l’ora di conoscerti, è da un bel po’ che è sveglio!»

Hideki e Ken'ichi le si avvicinarono ulteriormente; Izumi prese la mano del figlio e lo esortò a giocare con il neonato.

«Ken'ichi, ti presento Yuzo

Gli occhi del fanciullo erano ora focalizzati sul fagottino che la mamma aveva in braccio. Il piccolino iniziò ad agitare le gambe in quel momento e Ken'ichi, anche se non poteva ancora sapere che i neonati fossero in grado di vedere solo luci e ombre, interpretò quel movimento come un tentativo di interazione, confermata dal fatto che il suo sguardo si fosse soffermato proprio su di lui.

«Ciao!» disse il fratello maggiore e con delicatezza lasciò la mano della mamma per prendere quella del fratello, così piccola e delicata rispetto alla sua e quella dei genitori: senza che se ne accorgesse la sua timidezza svanì in un attimo.

Nello stesso istante Takaji aprì gli occhi, svegliandosi lentamente dal sonno nel quale era caduto. Voltò la testolina a destra e a sinistra, cercando di capire in che razza di posto fosse capitato: non appena si accorse della madre la chiamò, porgendo disperatamente le braccia verso di lei. «Mamma, mamma!»

Noboru lo prese con sé e lo portò vicino al letto. «Et voilà: ecco qui, tutti insieme!»

Non appena Takaji vide il neonato in braccio alla mamma, spinto da grande curiosità chiese allo zio: «Quello... è il fratellino?»

«Sì!» rispose Noboru, con un tono di voce profondo e fiero. «Si chiama Yu–»

«Che bello!» esclamò il piccolo pieno di felicità, sporgendosi in avanti per cercare di afferrare il fagottino. «Voglio prenderlo, voglio prenderlo!»

«E... ehi! Aspetta un attimo, Takaji: così mi fai cadere!»

A causa di quell’improvvisa spinta ci mancò poco che zio e nipote finissero sul letto.

Hideki e Izumi risero di gusto. Entrambi pensarono che da quel giorno la loro vita sarebbe stata ancora più movimentata del solito: i loro tre figli, nati a pochi anni di distanza l'uno dall'altro, avrebbero portato ancora più gioia e allegria nella loro casa.

 

 

Note dell'autore:

[1] S-Pulse Dream Plaza. È un centro commerciale situato a due passi dal porto di Shizuoka; tra i negozi del centro, il luogo dove lavora Noboru è il ​Shimizu Soccer Shop, un negozio di prodotti e articoli sportivi.

[2] “​Same” (サメ o 鮫) è il nome giapponese degli squali, e si legge alla giapponese: “same”.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

(Che sarà un po' lungo, almeno per questa volta...)

Ciao a tutti. Lo so... vi aspettavate un'ennesima fanfiction su Yuzo, invece avete appena letto una storia ricca di OC che nemmeno conoscete. Ebbene: sappiate che è fatto apposta.

Questo che avete appena letto, infatti, è solo il primo di una lunga serie di capitoli - una quindicina - che, partendo dalle origini, farà un lungo viaggio nella storia di due personaggi che adoro molto: Yuzo Morisaki Shingo Aoi

L'idea per questa storia è arrivata proprio nel mese di marzo, quando ho scoperto che Yuzo era nato lo stesso giorno di Shingo ed io, un po' dispiaciuta del fatto che avevo scritto una fanfiction per Yuzo e non per Shingo (che a me è sempre piaciuto come personaggio, fin dai tempi in cui eravamo abituati a chiamarlo Rob Denton ;P), ho pensato che sarebbe stato bello mettere in cantiere una storia ambientata nel giorno del loro compleanno. O, come presto vedrete, nel corso dei vari compleanni che vivranno man mano che cresceranno...

Yuzo e Shingo hanno due personalità apparentemente un po' diverse tra loro, ma sono accomunati dalla stessa passione per il calcio. Loro inizieranno a conoscersi meglio solo quando entrambi approderanno in Nazionale (sì, è vero: in realtà si incontrano molto prima, alle medie, però vi ricordate che quasi nessuno ha riconosciuto il povero Shingo durante il World Youth? Probabilmente anche lo stesso Yuzo non si ricordava più di lui XD), dopo anni di esperienze diverse ma che li hanno portati sulla vetta proprio grazie all'impegno che hanno messo nel diventare dei bravi calciatori.

Questa storia nasce, dunque, per descrivere un duplice percorso di vita - che poi diventerà anche un percorso calcistico - che parte dalla nascita di questi che allo stato attuale della mia storia sono ancora due fagottini, per poi arrivare al "traguardo" (per modo di dire, in realtà è anche un "inizio") costituito dall'approdo di entrambi nella Nazionale giapponese. La storia, però, per via di cose si intersecherà con le vite degli altri membri della loro famiglia; ragion per cui ciò che avete letto e che seguirà sarà una sorta di What if proprio perché Takahashi non ci ha lasciato molti elementi a tal proposito. Se almeno Shingo ha avuto la "benedizione" di avere una famiglia nella serie - dei genitori e una sorella - di Yuzo non si sa nulla. Niente di niente, nemmeno come sono d'aspetto; però proprio ciò ha permesso di divertirmi ad immaginare le loro vite (per Yuzo ho creato un intero mondo, per Shingo sono partita dalle poche basi che il manga ci ha fornito) e anche le loro rispettive famiglie. Da loro è scaturito un intero racconto di situazioni, scenari, spaccati di vita quotidiana, ma anche sentimenti e pensieri delle persone che li hanno sempre circondati con grande affetto e che - e di ciò ne sono certa - li hanno aiutati a diventare quelle straordinarie persone che sono oggi.

Nel caso specifico di oggi, per Yuzo ho immaginato l'esistenza di altri due fratelli maggiori. Il motivo è dovuto al suo nome「有三」nel quale c'è la presenza del kanji 「三」che indica il numero "tre": è lo stesso kanji di cui è composto il nome di un altro portiere presente nella serie di CT, Genzo「源三」- infatti, forse non a caso, lui è il terzogenito della famiglia. Da quando ho iniziato ad indagare sui kanji per i nomi delle persone, complice un breve post in giapponese sui Wakabayashi e che metteva in campo l'ipotesi che anche Yuzo fosse il terzogenito della sua famiglia, mi è venuto più semplice immaginare che Yuzo non fosse figlio unico. Beh: per fortuna questo fandom è già abituato a questa bella ipotesi, perciò forse non vi sto dicendo nulla di nuovo! ;P

E, a proposito della famiglia che compare qui, di seguito vi lascio un breve elenco dei personaggi comparsi qui. Una sorta di piccola "appendice" a ciò che avete letto, perché dovete sapere che i loro nomi e anche i loro ruoli non sono stati scelti a caso, bensì hanno un preciso significato:

 

- Ken'ichi 「研一」 è il primo figlio di Hideki e Izumi. Fin dalla tenera età è affascinato dal mondo marino, in particolare dagli squali. Il suo nome è una combinazione dei kanji 「研」(studio) e「一」("uno", essendo il primogenito di casa Morisaki).
- Takaji 「鷹二」 è il secondogenito. Rispetto al fratello maggiore è molto più vivace ed è affascinato dalla natura - in particolare, il suo animale preferito è il lupo. Il suo nome è una combinazione dei kanji 「鷹」(falco) e「二」("due", essendo il secondo di casa Morisaki).
- Hideki 「秀樹」 è il padre dei tre bambini che compaiono in questa storia. Ha un anno in più rispetto a Noboru e, come lui, è originario di Nankatsu. Il suo nome significa "alberi ad alto fusto", in combinazione con il suo cognome「森崎」Morisaki, che racchiude in sé il kanji di "foresta".
- Izumi 「泉」 è la moglie di Hideki e madre dei tre bambini che compaiono in questa storia. Il suo nome significa "fonte/sorgente" - l’ho scelto per affiancarlo al suo cognome da sposata.
- Noboru 「翔」 è il fratello minore di Hideki. Da diversi anni vive a Shizuoka per via del lavoro del quale ho fatto accenno in questa prima parte, ed è un grande appassionato di calcio. Il suo nome significa "che sorge/si innalza".

 

Su questa prima parte in generale, qualche precisazione che non ho inserito nelle note dell'autore.

- Le immagini che precedono il testo sono state create con Canva, uno strumento di progettazione grafica presente sia come sito online che come app. Perciò, anche le singole immagini che sono state scelte per rappresentare il cuore delle varie parti sono state inserite attraverso questo strumento, dunque sono di dominio pubblico - in realtà esistono anche quelle a pagamento che non puoi inserire a meno che... non le paghi, appunto, per cui ho preferito scegliere ciò che sono riuscita a trovare gratuitamente.

- Per ciascuna delle varie parti ho inserito una traccia sonora prima del testo. Possiamo definirla "BGM" perché è una musica di sottofondo a tutti gli effetti: le musiche che ho scelto sono le stesse che mi hanno accompagnato lungo la stesura delle varie parti, e che ho trovato adatte per ciò che stavo narrando. Se vi va, buttateci un occhio... anzi, un orecchio! ;D

- Come tutti i lettori di CT ben sanno, Nankatsu è una cittadina posta nelle vicinanze del monte Fuji; io - un po' per complicare la vita ad alcuni dei miei personaggi, perché pensate che l'abbia fatto? XD - l'ho immaginata un po' distante da Shizuoka. Per chi è del Piemonte - e chi non lo è può vederlo su Google Maps senza problemi - avete presente la distanza Torino-Moncalieri, ad esempio? Ecco, uguale: circa una ventina di minuti in auto. Anche per questo motivo non indifferente, la storia è stata inserita tra le What if.

Nella visione generale della storia questo elemento non è stato messo a caso, anzi: già in questa prima parte della storia è stato sottolineato come la distanza non abbia mai danneggiato i legami familiari - in questo caso tra Noboru e i suoi nipoti/suo fratello - ma, anzi, si può continuare a coltivarli e a rafforzarli. (Lo scrivo per esperienza diretta, con pezzi di famiglia sparsi in ogni angolo d'Italia. :'))

- Come avete già visto, in questa storia viene data voce anche ai bambini. Finora ho pubblicato storie nelle quali parlavano bambini dai cinque anni in su, dunque con un linguaggio già abbastanza comprensibile; è ovvio che quando ci riferiamo a bambini di età decisamente inferiore - in questo caso di due e tre anni - il loro parlato non è ancora ben scandito. Per evitare, però, che gran parte del discorso diretto da parte dei più piccoli fosse costituito da parole in corsivo (per esempio "fatellino" al posto di "fratellino") ho preferito lasciare tutte le parole così come le conosciamo noi adulti, optando per frasi il più possibile semplici e tipiche dei bambini.

"Hamigaki Jaws" - che il piccolo Ken'ichi adora alla follia - è una popolare canzone per bambini in Giappone, insieme alla celeberrima hit mondiale "Baby Shark" (della quale esiste una versione giapponese qui). Il testo è molto semplice: parla di squali che si lavano i denti. Tutto qui, LOL!

- L'Ospedale municipale di Nankatsu esiste per davvero nella serie di CT - nel capitolo 15 del World Youth viene ricoverato Mikami. Supponendo che Nankatsu sia una cittadina abbastanza grande per avere un ospedale (ha ben cinque scuole elementari, per cui...) ho pensato che all'interno di esso esistesse anche un reparto di maternità.

- Un veloce appunto sulla "villetta" dei Morisaki che compare all'inizio della storia: si tratta della classica abitazione che ciascuno di noi avrà visto negli anime o nei manga, con un primo piano, uno spazio dove parcheggiare l'automobile e un piccolo cortile che - nel loro caso - quasi gira intorno all'abitazione. Forse un giorno di questi riuscirò a disegnarla e mostrarvela, così da farvi avere l'idea che ho nella mente ;)

 

A conclusione di questa lunga parte di delucidazioni, da parte mia è doveroso fare qualche ringraziamento. Come sicuramente avrete già notato, la grafica di questa storia è cambiata rispetto a quelle precedenti, e su questo ringrazio Melanto che mi ha dato qualche dritta per impostarla nel modo che vedete. Dire che il tutto è partito da una semplice domanda sul come si impostasse il rientro della prima riga su questo sito... e alla fine sono arrivata ad utilizzare un intero programma sul quale non avevo mai messo mano e così a personalizzare le pubblicazioni ancora di più, LOL!

Un'altra persona che ci tengo a ringraziare fin da subito è stellaskia. Non è più presente su EFP come autrice, però è stata colei che mi ha so-supportato fin dai germogli di questa storia: l'ha vista nascere nella sua prima versione, l'ha rivista quando ci ho messo mano per una seconda volta dopo i suoi consigli e ora potrà vederla finalmente pubblicata dopo mesi e mesi di lavoro.

E, riallacciandomi a quest'ultimo punto, un ringraziamento speciale va a tutti voi che siete giunti fino a qui e siete curiosi di proseguire nella lettura. Ho deciso di mostrarvi questa storia solo ora che la stesura globale è quasi giunta al termine, in modo tale da riuscire a dare una costante con le varie pubblicazioni e non lasciarvi in sospeso tra una parte e un'altra: per ora è previsto un aggiornamento a settimana - forse ci sarà una pausa nel mese di ottobre, lasciando spazio alle storie del Writober (se parteciperò o meno, questo è ancora da vedere) ma potrò dirvelo con certezza solo la prossima settimana. Questa è una storia sulla quale ho davvero buttato sudore e lacrime, che mi ha portato a maturare sullo stile insieme con i protagonisti... e se alla fine del suo percorso riuscirà ad essere apprezzata anche solo da una persona, beh: potrò dire che avrà fatto il suo lavoro. Perché questa non è solo una storia su alcuni personaggi che mi piacciono: nel corso della stesura è presto diventata una storia nella quale ci ho messo tutta me stessa, ponendomi come obiettivo anche solo un briciolo di miglioramento, non solo nello stile ma anche nella creazione di scenari e personaggi per essere il più possibile credibili agli occhi dei lettori.

Infine vi invito a seguirmi sulla pagina Facebook dove - a parte qualche scemenza - ho in progetto di pubblicare anche curiosità, aggiornamenti e informazioni varie su questa storia. Però non posso dirvi quando di preciso: in fondo, siamo ancora agli inizi... ;P

Ci vediamo al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 2
*** Nascita | Aoi's side ***


Fanfiction
ph7wotV

Nascita.

{Aoi's side}

 

 

BGM: Hiroyuki Sawano - Licht

 

 

 

[12 Marzo, un anno dopo. Nakahara, prefettura di Gifu.] *

 

«Quando torna a casa mamma?»

Una bambina dai capelli neri, raccolti in un piccolo codino che penzolava in un lato della sua testa, si era avvicinata alla sua amata nonna, porgendole l’orsacchiotto di peluche con il quale stava giocando. Il colore dei suoi capelli contrastava con il vestitino color panna che indossava, così come la sua espressione che, solitamente allegra e spensierata, in quel momento sembrava essere molto triste.

«Presto, Yukiko,» rispose la donna con i capelli ormai bianchi e il volto segnato da alcune profonde rughe. Dopo aver rivolto un sorriso rincuorante a sua nipote, Atsuko prese tra le mani l’orsacchiotto e inscenò un dialogo con lui. «E tu cosa ne pensi, Riku? La mamma tornerà presto a casa?»

Una terza voce, simile a quella della nonna ma di gran lunga più acuta, rispose alla domanda della vegliarda. «Andrà tutto bene! Riku non vede l’ora di giocare con il fratellino!»

«Hai visto? Anche Riku dice che la mamma tornerà presto!» proseguì lei, e con un sorriso tornò a guardare la piccola Yukiko.

Atsuko amava molto trascorrere le giornate in compagnia della sua adorata nipotina, giocando spesso con lei e portandola spesso in giro per il borgo. Il territorio di Nakahara, situato ai confini di Gifu - la capitale della prefettura -, era immerso nel verde delle montagne, costellato da casette sparse dal tetto in paglia e circondato da distese di campi di riso; una stradina portava presso il belvedere situato nel cuore di una foresta poco distante, dal quale si poteva ammirare la valle nella quale era situato l’agglomerato degli antichi villaggi. Nelle belle giornate soleggiate Atsuko e Yukiko passeggiavano per le vie lastricate in pietra, tra le risaie e le piccole case in legno, fino a giungere al ruscello che attraversava la zona dove abitavano: là, immerse nella natura, si divertivano a lanciare ciottoli piatti nell’acqua facendoli rimbalzare il più possibile, o a riconoscere il canto degli uccelli che popolavano quella zona ricca di verde. In quei momenti l’anziana cercava di trasmettere alla nipote il suo grande affetto per quel territorio dove il tempo sembrava essersi fermato a cent’anni prima nella speranza che, crescendo, di giorno in giorno anche la piccola amasse quel posto tanto quanto lei.

Ma la parte della giornata che Atsuko preferiva di più del rapporto con sua nipote era il gioco con Riku, il suo orsacchiotto preferito. Quando non potevano uscire di casa entrambe si recavano nella stanza della piccola, ed era proprio lì che la donna si dilettava a farlo parlare grazie alle sue capacità ventriloque, sotto gli occhi di Yukiko che si divertiva molto ad ascoltarlo. Ad Atsuko quel gioco ricordava sempre il suo passato, di quando era piccola come ora lo era sua nipote e in braccio a sua madre si incantava ad ascoltare la voce di quell’orsacchiotto, e di tutte le volte dove, ormai adulta, con l’ausilio di altri pupazzi aveva coinvolto i suoi concittadini nelle calde notti d’estate, durante il gran festival di danza e musica che animava le vie del borgo. Riku era sempre stato il suo compagno di viaggio, che nel silenzio della sua dimora l’aveva aiutata ad esercitarsi sempre più nell’arte del ventriloquo e diventando, anno dopo anno, sempre più brava a non muovere le labbra e così a creare un perfetto dialogo a due, come se quell’orsacchiotto avesse avuto vita propria.

Anche in quel giorno così speciale Atsuko decise di provare a strappare un sorriso a sua nipote con l’aiuto di Riku, agitando una delle zampe dell’orsacchiotto e con esso accarezzando il volto della fanciulla. In risposta a quel gesto di affetto la piccola Yukiko afferrò la zampa e ne schiacciò mogiamente i cuscinetti.

«Cosa c’è, Riku?» chiese Atsuko all’orsacchiotto, che non tardò a rispondere.

«Perché Yukiko è triste, nonna?»

«Perché le manca la mamma, Riku...»

«Ma non voglio vederla triste!»

«Ma a me manca così tanto!» interruppe la bambina, quasi sul punto di scoppiare a piangere. «Quando torna a casa, nonna?»

Di nuovo quella domanda. Era già la quarta volta che la bambina lo chiedeva. In una situazione del genere era normale: quel giorno Yumi, la mamma di Yukiko, era andata all’ospedale di Gifu per affrontare il suo secondo parto e, prima di accompagnarla con l’automobile, suo marito Susumu aveva subito affidato la bambina e la loro casa all’anziana donna.

Atsuko arruffò i capelli alla piccola e le sussurrò con dolcezza: «La mamma ci metterà un po’ di tempo, ma vedrai che tornerà presto...»

«Ma io sono stufa!» esclamò Yukiko, incrociando le braccia. «Quando nasce il fratellino?»

Atsuko si sorprese sempre più per quelle domande insistenti, ma legittime dal punto di vista della piccola. Erano trascorse circa tre ore da quando sua figlia Yumi era partita alla volta dell'ospedale; anche nel caso in cui tutto stesse procedendo per il meglio, ci sarebbe stato ancora da attendere. Ma come avrebbe fatto a fare in modo che sua nipote capisse?

La donna fece spallucce e si rivolse di nuovo all’orsacchiotto che aveva in mano. «Tu cosa dici, Riku? Secondo te quando nascerà il fratellino?»

«Vediamo... forse dopo pranzo! Devi avere pazienza, Yukiko!»

«Uffa!» sbuffò la piccola e subito afferrò il grembiule che sua nonna indossava, scuotendolo ripetutamente. «Ma sono stufa di aspettare! Dai, nonna: andiamo!»

«E dove?»

«Da mamma! Andiamo da mamma!»

Atsuko non potè trattenere un tenero sorriso di fronte all’innocenza della nipotina. Lasciò l’orsacchiotto su una piccola sedia e prese in braccio Yukiko. Nonostante la sua età e il fatto che la piccola, di soli quattro anni, iniziasse ad essere pesante, lei riusciva sempre a prenderla senza molti problemi e conseguenze sul suo fisico che iniziava ad essere segnato dagli anni; inoltre le faceva sempre piacere compiere quel gesto affettuoso, e in quei momenti non pensava più a tutti gli acciacchi della sua vecchiaia.

«Va bene. Aspettiamo papà e andiamo...»

Proprio in quel momento squillò il telefono di casa. La nonna posò la nipotina vicino alla sedia dove si trovava Riku; poi si avvicinò al telefono e alzò la cornetta.

«Pronto?»

Qualche secondo dopo Atsuko spalancò gli occhi per la sorpresa.

«Eeeeeh, di già?! Santissimi numi, che velocità: i bambini di oggi non si lasciano attendere!»

 

 

«Mi raccomando, Yukiko: fai la brava quando entriamo all’ospedale, ok? Anche la mamma ha bisogno di riposo.»

La bambina annuì, mentre si lasciò sistemare il fiocchetto con il quale la nonna stava legando i suoi capelli. Poi Atsuko diede uno sguardo fugace all’orsacchiotto che stava silenziosamente osservando la scena dalla sedia dove prima era stato riposto, inscenando con lui un altro dialogo. «Hai visto, Riku?» esclamò con un sorriso raggiante. «Tra poco andiamo a trovare il fratellino!»

«Non vedo l’ora! Nonna, sai come si chiama?»

«Urm... non lo so, Riku.»

Con grande entusiasmo Yukiko alzò la mano e la agitò nell’aria. «Io! Io lo so! Si chiama “fratellino”!»

La nonna accarezzò la testolina di sua nipote senza smettere di sorridere. «Questo è certo: è pur sempre tuo fratello! Bene, ora siamo pronte!»

Atsuko prese per mano la bambina e la portò di fronte allo specchio. La donna indossava un tradizionale kimono di seta rosa, con motivi di peonie bianche; la piccola, invece, aveva indosso un grazioso vestitino lilla chiaro, con una mantellina di lana dal motivo di fiori di ciliegio, e una fascia rosa che le cingeva la vita.

«Siete bellissime! Al fratellino piacerà!»

«Hai ragione, Riku!» disse la nonna, appoggiando le mani sulle spalle della nipotina. «Però Yukiko è la più bella!»

«Anche tu, nonna!» La bambina sorrideva e continuava a fissare lo specchio, ammirando gli abiti che aveva indosso. «È proprio bello questo vestitino! Ti piace, nonna?»

«Sì, molto!»

Ad un tratto le due udirono il suono quasi incessante di un clacson provenire fuori dalla finestra. Subito si affacciarono alla finestra col davanzale che dava sul piccolo piazzale antistante all’abitazione, ma ormai non c’era più nessuno: infatti, qualche secondo dopo, dalla porta d’ingresso fece capolino un uomo sulla trentina, dai capelli corti e con gli occhiali, che subito si appoggiò allo stipite e cercò di asciugarsi il sudore della fronte con un fazzoletto di stoffa che aveva in tasca.

«Caspita... che giornata!»

«Papà!» Yukiko si gettò sulle sue ginocchia, facendolo barcollare all’indietro e cadendo di sedere a terra.

Nonostante la botta Susumu, il padre della piccola, cercò di nascondere il più possibile la smorfia di dolore e con un sorriso ricambiò l’abbraccio di sua figlia. «Ti sei divertita con la nonna?»

«Sì!» rispose lei con allegria. «Ora possiamo vedere la mamma e il fratellino? Ti prego, ti prego!»

«Anche Riku, anche Riku!»

«Sì, anche Riku!» aggiunse la nonna, iniziando anche lei a sorridere di fronte allo sguardo stanco di Susumu che, nel frattempo, si rialzò e scrollò la polvere dal pantalone.

«... per favore, almeno voi due mi fate prendere un attimo fiato?» chiese l’uomo, lanciandosi sulla poltrona a sacco e reclinando il capo contro il cuscinetto. «Datemi cinque minuti, vi prego...»

Ma sua figlia non stette ad ascoltarlo: entusiasta di poter riabbracciare presto la sua adorata mamma, si avvicinò a lui e lo prese per il braccio. «Dai, papà! Andiamo!»

«Ti prego, Yukiko... non fare come tuo fratello!»

«Perché?» chiese la piccola con occhi colmi di curiosità. «Cosa ha fatto?»

«Cosa ha fatto, piccolina?» mormorò Susumu, osservando sua figlia con uno sguardo sempre più stanco e iniziando a fissare il soffitto. «È nato subito, ecco! A momenti non ci faceva arrivare nemmeno all’ospedale: non so perché, ma aveva fretta di nascere!»

A quella notizia la bambina fece i salti di gioia. «Che bello! Così la mamma torna subito a casa!»

«Sì, ma...»

«Yukiko, ora lascia riposare tuo padre,» interruppe Atsuko, avvicinandosi a sua nipote e chinandosi su di lei. «Intanto mettiamo in ordine la stanza, così la mamma sarà contenta quando la vedrà! E poi andiamo da lei e dal fratellino, ok?»

La bambina sorrise, lasciando il braccio del padre e correndo dall’altra parte della stanza, decisa a rimettere a posto i suoi giochi nel cestino di vimini che era all’angolo.

«Sì!»

 

 

 

I tre arrivarono all’ospedale municipale di Gifu. La capitale della prefettura era una grande città in tutto e per tutto, che richiamava Nakahara con i suoi templi e quelle poche antiche case in legno che erano sopravvissute all’espansione e alla modernizzazione della città. Sul resto Gifu era così diversa da quel paesino satellite: una città vasta, frutto dell’unione di diversi agglomerati urbani e con la presenza di strutture all’avanguardia, una “piccola Tokyo” - come la definivano gli abitanti delle città e dei paesi limitrofi.

L’ingresso dell’ospedale municipale dove era stata ricoverata Yumi, la moglie di Susumu, era attraversato da un continuo viavai di persone: medici e infermieri che avevano terminato o erano in procinto di iniziare il loro turno di lavoro, parenti che accompagnavano i loro cari in via di guarigione per una piacevole passeggiata nella zona verde dell’ospedale, intere famiglie che, per un lieto o doloroso evento, erano giunte di corsa in quel luogo.

Attraversando un lungo viale alberato Atsuko e Susumu, tenendo per mano Yukiko, giunsero all’ingresso del plesso dedicato ai reparti di maternità. Lì la piccola vide un andirivieni di giovani mamme al seguito di bambini di minore età o più grandicelli di lei, e genitori entusiasti che stavano tornando a casa con i loro figli. Da lontano Yukiko riuscì ad udire pianti di neonati, e quel suono la riempì di entusiasmo: era sempre più impaziente di vedere il suo fratellino per la prima volta.

«Dunque... vediamo un po’...»

Susumu osservò attentamente le indicazioni che si trovavano all’ingresso del reparto dopodiché, seguito da figlia e nonna, entrò nella struttura. Dopo aver chiesto informazioni alla reception giunse di fronte alla stanza dove si trovava sua moglie, ma in quel momento era chiusa, così chiese informazioni ad una coppia che era seduta nel corridoio.

«È appena entrato il medico per le visite di controllo,» rispose il ragazzo della coppia, dando una veloce occhiata allo schermo del suo cellulare per controllare l’orario. «Ma non ci vorrà molto, è questione di minuti.»

«Grazie mille!»

Intanto Yukiko lasciò la mano del padre e si avvicinò alla finestra: cercò in tutti i modi di affacciarsi per vedere il panorama ma non ci riuscì, così chiese aiuto a sua nonna che subito la sollevò.

Susumu, invece, si sedette poco distante da quei due ragazzi che si trovavano insieme a loro in quel corridoio, e sorrise nel vederli felici: dal loro dialogo allegro, aveva capito che la sorella di lei aveva appena partorito due gemelli, che il parto era stato lungo e difficile ma che, alla fine, tutto si era risolto per il meglio. Nei confronti di persone che non conosceva, Susumu era un tipo di poche parole: non interveniva quasi mai nei discorsi degli altri, stando però attento ad ascoltare tutto ciò che si dicevano tra loro. Storie di vita vissuta, esperienze appena affrontate: ovunque andava, il padre di Yukiko partecipava silenziosamente ai sentimenti degli altri, gioendo o rattristandosi con loro nelle profondità della sua mente.

«Pensa che mentre mia sorella era ancora in travaglio c’è stato un parto velocissimo!» disse con euforia la ragazza di quella coppia che era seduta vicino a Susumu. «Nemmeno un paio d’ore, ed ecco qui il pupo! Anche mia sorella si è sorpresa non appena l’ha saputo dai medici: quando mi ha raccontato di ciò che aveva sentito nel corridoio è scoppiata a ridere... di certo quel bambino è stato un fenomeno!»

Susumu diventò paonazzo in volto. Senza farsi notare da loro si voltò dalla parte opposta, facendo finta di essere interessato al quadro di ginestre che era appeso insieme agli altri sulla parete del corridoio. È mio figlio il fenomeno! pensò stupefatto, con gli occhi spalancati e una mano tra i capelli con velato imbarazzo.

Tuttavia, subito dopo fece scivolare sulle gambe il braccio che aveva inavvertitamente alzato per portarsi la mano sulla testa e, al pensiero che dopotutto il peggio fosse passato e che sia sua moglie che suo figlio stessero bene, gli venne da sorridere commosso.

In effetti, un parto del genere non è una cosa da tutti i giorni... siamo stati molto fortunati!

 

All’improvviso la porta della stanza dove si trovava Yumi si spalancò, e il medico fece cenno ai presenti di entrarvi. Entrò prima la coppia, seguita da Susumu insieme alla piccola Yukiko e Atsuko.

All’interno vi erano quattro letti, tre dei quali erano occupati dalle donne che avevano già partorito. Quello di Yumi era uno dei due vicini alla finestra, dalla quale si poteva scorgere parte della città e, sullo sfondo, l’imponente catena delle Alpi giapponesi le cui cime erano ancora ricoperte di neve; al di sotto di quelle montagne si intravedevano i paeselli ai confini di Gifu che riempivano la valle come delle piccole tessere di mosaico. Anche la stessa Nakahara era laggiù, con la vicina foresta che la faceva quasi da cornice.

Su quel letto Yumi stava cullando suo figlio che in quel momento dormiva profondamente. Nonostante fosse stremata per il parto, era così emozionata per ciò che le era accaduto: in quel momento non desiderava altro se non che il tempo si fermasse, fissandosi in quell’istante dove lei si sentiva leggera e pervasa da un dolce tepore da farla sorridere senza fine. Poi alzò lo sguardo e, in un battito di ciglia, il mondo intorno a lei riprese vita.

Di fronte a lei vi erano suo marito, sua madre e la piccola Yukiko che, non appena la vide, lasciò la mano della nonna e corse subito da lei. «Mamma!» la chiamò, finalmente felice di rivederla.

«Ciao, piccolina!» rispose Yumi, rivolgendo a sua figlia un affettuoso sorriso.

Yukiko restò ferma ad osservare la mamma e il fagottino che aveva in braccio. «Sei bellissima, mamma! E anche il fratellino è bellissimo!»

Anche se sapeva di essere ancora stremata per il parto, a Yumi fece piacere sentirsi dire quelle parole dalla sua bambina. In quel momento, la piacevole sensazione di tepore che aveva provato poco prima si era allargata anche verso la sua bambina, avvolgendo entrambe come il calore del sole nella tarda primavera. «Proprio come te: sei proprio bella con quel vestitino!»

Yukiko rise e tornò dalla nonna per prendere il suo orsacchiotto e mostrarglielo. «Guarda, mamma: c’è anche Riku! Anche lui voleva vedere il fratellino!»

«Ciao mamma! Congratulazioni!»

«Mamma...» sussurrò Yumi, incrociando lo sguardo di sua madre. Gli occhi divennero lucidi: sapeva molto bene che quell’ultima frase proveniva dal cuore della sua adorata madre e non solo da quello di stoffa di un morbido pupazzo a forma di orso; il tono di quel “Congratulazioni!” era al colmo della commozione, nonostante la voce ferma il più possibile per cercare di contenerla.

Yumi sorrise a sua madre, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. «Grazie mille!»

«Sono felice che il parto sia andato tutto bene,» rispose Atsuko, sedendosi al suo fianco. «Anche se... non mi aspettavo che ti sbrigassi subito! Questa volta ci hai colto di sorpresa: tuo marito è arrivato a casa stravolto!»

«Ahahah, posso immaginare!»

Yumi si ricordò di quella scena. Il parto non era andato esattamente come previsto: per la sua precedente esperienza con Yukiko, la giovane aveva pensato che anche questa volta ci avrebbe impiegato molto prima dell’arrivo del suo secondogenito. Giunta all’ospedale con suo marito, l’inaspettata sorpresa: il piccolo era riuscito a nascere nel giro di poco tempo, in circa un paio d’ore: un record che li aveva colti di sorpresa, abituati entrambi a parti normali nelle loro rispettive famiglie. Per loro fortuna era andato tutto bene, nonostante la nascita fosse stata così veloce e quasi inaspettata.

Quando avevano riportato Yumi nella stanza, Susumu aveva deciso di restare al suo fianco per godersi il momento: proprio su quel letto, sotto i raggi del sole che li illuminavano e alle loro spalle lo sfondo del territorio di Gifu, i due avevano rinnovato la loro promessa di essere dei buoni genitori mentre osservavano il nuovo arrivato della loro famiglia. Niente era più importante di loro tre, tutto il resto non contava: né il chiacchiericcio che si sentiva di sottofondo, né il tempo che continuava a scorrere. Solo quando il medico aveva fatto ingresso in quella stanza per la visita di controllo, Susumu aveva subito guardato l’orologio e fuggito via, afferrando al contempo il cellulare che aveva riposto nel taschino della sua giacca: era evidente che egli si era dimenticato di avvisare sua suocera e la loro bambina, e di fronte al suo atteggiamento Yumi aveva cercato di trattenere le candide risate che stavano sgorgando dal suo cuore.

Di fronte a quel ricordo, la donna fece cenno a suo marito di avvicinarsi e gli porse il neonato. «Hai visto? Ha ragione Yukiko: è molto bello...»

Susumu tese le braccia per prenderlo e si sedette a bordo del letto, accanto a sua moglie. Aveva un po’ di timore nel tenere in braccio quel fagottino: sembrava così piccolo e fragile, e aveva paura di fargli del male in qualche modo. Nonostante fosse abituato con Yukiko, sentì come se la storia si stesse ripetendo, allora come quattro anni prima: cullare un neonato non era la stessa cosa di cullare una bambina ormai cresciuta, sebbene anche lei fosse ancora piccina.

«Ciao, piccolino...» disse Susumu stringendolo a sé, per poi aggiungere con un sorriso commosso verso sua moglie: «È una sensazione bellissima...»

«Già,» rispose Yumi. Le era sfuggita una lacrima, che brillava come una perla nelle profondità del mare. «Sai, avevo promesso di non piangere... e invece mi sono commossa di nuovo. Avevano ragione le altre mamme: ogni parto è sempre un pianto!»

Susumu le accarezzò dolcemente la guancia, asciugando quella lacrima che stava rigando il suo volto.

«Ehi, piccioncini! A proposito: come si chiama il pupetto?»

«Eh?»

I due genitori furono colti alla sprovvista dalla domanda di Riku - o, per meglio dire, da quella di Atsuko. Nei giorni precedenti al parto Susumu e Yumi avevano iniziato a pensare a un nome per il nascituro, ma non erano riusciti a trovarne uno che potesse convincerli del tutto; tuttavia il parto era avvenuto in modo così veloce, che i due non avevano ancora avuto il tempo per fermarsi e riflettere... o, per meglio dire, avevano avuto un po’ di tempo, ma presi dal momento non ci avevano più pensato. Grazie alla loro tradizione avrebbero avuto ancora qualche giorno in più prima della decisione definitiva, nell’occasione dell’Oschichiya[1], però non se la sentivano di uscire dall’ospedale senza prima decidere un nome.

La coppia si guardò negli occhi, piuttosto indecisa sul cosa rispondere. Susumu e Yumi si fissarono negli occhi e iniziarono a balbettare, ma senza dire nulla di sensato.

«Te l’ho già detto, Riku!» interruppe Yukiko, rivolgendo all'orsacchiotto un cipiglio di disappunto. «Si chiama “fratellino”! Vero, mamma?»

«Beh...» disse Yumi. «Sì, è il tuo fratellino, ma...»

«Dovremmo dargli un nome, sai?» aggiunse Susumu, guardando la piccola. «Come tu ti chiami Yukiko, anche lui ha un nome...»

«E allora come si chiama, papà?»

«Ecco...» Il giovane padre diede uno sguardo fugace a sua moglie in cerca di un segnale che potesse aiutarlo ma, nel vedere anche lei con uno sguardo piuttosto dubbioso, alla fine sorrise imbarazzato e fu costretto ad ammettere la verità. «... beh: non lo sappiamo ancora!»

«Va bene, lo decide Riku!»

La bambina appoggiò l’orsacchiotto sull’altra sedia che si trovava vicino al letto, al fianco di sua nonna, e gli domandò con allegria: «Che nome ti piace, Riku? Dai, scegliamo insieme il nome per il fratellino!»

«E... ecco...»

Atsuko fu colta di sorpresa. Ora l’attenzione di tutti era rivolta a Riku... o, per meglio dire, a lei che per prima aveva avuto la curiosità di chiedere quale fosse il nome del piccino. In un certo senso, avvertì la sensazione di essersi scavata la fossa con le proprie mani.

«Allora, cara nonna...» sussurrò Yumi, rivolgendo uno sguardo di sfida nei confronti di sua madre, «hai qualche idea? Facciamo un gioco: la prima tra te e Yukiko che trova un nome adatto a questo piccolino vince un bel premio!»

«Evviva!» Yukiko esultò di felicità, iniziando anche lei a pensare un bel nome per il suo fratellino.

Nel frattempo Susumu tornò a guardare suo figlio che aveva ancora in braccio e, come se fosse caduto in trance, iniziò a mormorare il suo cognome alla ricerca di qualche suggerimento che lo avrebbe aiutato a sciogliere quell’arcano.

«Aoi... Aoi...»

L’unica che si accorse di quello strano balbettio fu Yumi che, piuttosto incuriosita, si domandò perché suo marito stesse ripetendo quella parola senza alcun senso apparente.

Poi, colpito da un’improvvisa rivelazione, Susumu spalancò gli occhi per lo stupore. Come un lampo, dalle sue labbra uscì a gran voce una parola diversa da quella che stava mormorando fino a qualche secondo prima.

«... Shingo!»

«Cosa?!»

Tutti lo osservarono in silenzio, senza chiedergli nulla. Accortosi del fatto che il resto della sua famiglia avesse gli occhi puntati su di lui, Susumu si voltò verso di loro e iniziò a farfugliare: «Cioè... in realtà... non lo so! È che all'improvviso ho pensato che questo bimbetto è arrivato in modo veloce... proprio quando sei per strada e trovi il semaforo verde!»

«I semafori?» chiese Yumi, corrugando la fronte, ma subito dopo capì il senso delle parole di suo marito. «Aspetta un attimo: hai detto “Shingo”? “Aoi Shingo”? Il traffico... la luce verde...»

«Il semaforo?» sussurrò la bambina, alzando sul suo papà i suoi occhi neri. «Cosa c’entra con il fratellino? Anche lui è arrivato qui con l’auto, proprio come noi?»

La giovane madre scoppiò a ridere candidamente. «Ma no, Yukiko! Solo i grandi possono guidare le auto!»

«Ma papà ha detto “semaforo verde”!» disse la piccola, tornando dalla mamma con sguardo interrogativo. «Ha detto proprio “semaforo verde”!»

«È vero!» aggiunse Riku. «Il fratellino è arrivato subito, come un’auto che non si ferma di fronte al semaforo verde!»

«Ricordi, Yukiko?» sussurrò la nonna, prendendo la piccola in braccio. «Quando siamo di fronte al semaforo, il colore rosso ti dice di fermarti ma il verde no. Tuo fratello è arrivato dalla mamma come un’auto a tutta velocità, per questo papà vuole chiamarlo Shingo. Come il nostro amico ao-shingō, il semaforo verde! Ti piace il verde, vero Yukiko?»

La piccola annuì. «Mi piace il verde... e sono felice che il fratellino è arrivato subito dalla mamma! Così presto torniamo tutti a casa!»

Poi Yukiko chiese alla nonna se potesse portarla dal padre, e l’anziana la accontentò. La bambina allungò le braccia verso di lui, chiedendogli: «Posso prendere il fratellino, papà?»

«Aspetta un attimo, ti aiuto...»

Susumu si alzò e mise il piccolo tra le braccia di Yukiko, aiutandola a sorreggerlo.

«Come è piccolo!» esclamò lei. «Sembra un bambolotto!»

Il papà sorrise. «Anche tu eri così piccola, ricordi? Piccola piccola, proprio così...»

«Ma poi diventa grande come me?»

«Certo! Così potrai giocare presto con lui!»

«Domani?»

«Beh... domani ancora no: deve mangiare tanto, prima che diventa grande come te... e tu devi fare la brava e aiutarci, così crescerà subito subito!»

«Va bene!»

In quel momento il neonato strizzò le palpebre e aprì lentamente gli occhi, fermando lo sguardo sulla sorellina. Anche se non poteva ancora distinguere bene ciò che lo circondava, era come se la voce della piccola fosse stata l'unica ad aver catturato la sua attenzione.

«Guarda, papà! Il fratellino mi sta guardando!» esclamò Yukiko con entusiasmo.

«Su, parlaci!»

«Mi ascolta?»

«Sì!» disse Susumu, e ancora una volta incoraggiò sua figlia. «Il fratellino vuole ascoltarti: puoi dirgli quello che vuoi!»

Per un attimo la bambina restò in silenzio, indecisa sul cosa comunicargli; poi, subito dopo, il dubbio lasciò spazio all’entusiasmo di poter interagire con il piccolino. «Ciao! Io mi chiamo Yukiko, e sono la tua sorellina! Sai che sei proprio bello? Molto bello!»

Il neonato aprì leggermente le labbra, come se anche lui avesse voluto dire qualcosa. Poi iniziò ad agitare le gambe, mentre una piccola smorfia - che sembrava essere un piccolo sorriso - si formò sul suo volto, e Yukiko rise divertita.

«Papà, papà! Hai visto? Il fratellino è felice!»

Susumu la guardò con occhi pieni di amore. «È ovvio: sei la sua sorellina, è felice di stare con te!»

Di fronte a quella scena, Yumi e Atsuko sorrisero. Quest'ultima incrociò le braccia con soddisfazione e commentò: «Però devo ammettere che tuo marito ha avuto una bella idea... Shingo, eh? Non sarebbe niente male come nome! Di certo, per come è nato, non sembra essere qualcuno che si ferma facilmente, eheheh...»

Yumi annuì. «Anche a me piace molto come nome... però hai visto, mamma? A Yukiko non importa del suo nome; per lei l'importante è giocare con il suo fratellino!»

Atsuko guardò sua figlia, e le prese la mano.

«Sai... in fondo la mia nipotina ha ragione. Ciò che conta è che stiano bene e che vadano d'accordo! Solo così, il chiamarsi per nome sarà ancora più bello!»

 

 

Note dell'autore:

* (Per questo riferimento a "Nakahara" si rimanda all'angolo che segue dopo le note, dove ci sarà una spiegazione dettagliata.)

[1] L’Oschichiya è una cerimonia tipicamente giapponese che avviene sette giorni dopo la nascita del bambino e durante la quale si annuncia il suo nome pubblicamente. Secondo la tradizione, è il padre a scrivere il nome del nascituro nel meimeisho, il "certificato del nome" che poi viene esposto in casa alla presenza di parenti e amici.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Rieccoci qui, con il secondo appuntamento di The feathers on the wings of time! Come già preannunciato, questa seconda parte inizia a raccontare la storia di Shingo... del quale, dal punto di vista familiare, è stato più fortunato!

Nel World Youth, infatti, in più punti vediamo la sua famiglia composta da un padre, una madre, una sorella e uno zio che abita in Italia. Quest'ultimo viene solo citato (nel primo capitolo), mentre la prima immagine che abbiamo degli altri si trova nel capitolo 5: di loro non sappiamo molto, a dire il vero, ma bisogna ammettere che già il vederli nel manga è tanto, almeno per me che adoro le storie a tema familiare!

Per questo motivo, partendo già da un briciolo di base in partenza, il mio compito è stato quello di impegnarmi a caratterizzarli ancora di più... e ora ve li presento nella seconda "appendice" dei nomi. Anche in questo caso la scelta dei nomi e dei futuri ruoli che vedrete più avanti non sono stati scelti a caso, ma hanno un preciso significato:

 

- Atsuko 「篤子」 è la nonna di Yukiko e Shingo, madre di Yumi e suocera di Susumu. È un’eccellente ventriloqua - una dei pochi al mondo a parlare senza muovere alcun muscolo del viso - e attraverso l’orsacchiotto Riku riesce ad intrattenere i suoi nipotini. Il suo nome significa "bambina gentile", che rispecchia perfettamente il suo carattere.
- Yumi 「弓」 è la mamma di Yukiko e Shingo, moglie di Susumu e unica figlia di Atsuko. Il suo nome significa “arco”, labile riferimento ad uno degli oggetti in legno che producono gli artigiani di Nakahara.
- Susumu 「進」 è il padre di Yukiko e Shingo. Il suo nome significa "avanzare, procedere" - dato che è instancabile e non smette quasi mai di dedicarsi al lavoro che svolge - e che poi vedrete.
- Yukiko 「由希子」 l’unico nome ufficialmente rivelato della famiglia di Shingo nel capitolo 54 - è la prima figlia di Susumu e Yumi. Dolce e gentile, è molto affezionata all'orsacchiotto Riku, con il quale adora chiacchierare in presenza della nonna. Il suo nome significa "bambina preziosa".
- Riku 「陸」 è l'orsacchiotto di Yukiko, dono della nonna. In origine era un regalo che la mamma di Atsuko aveva creato appositamente per lei, affidandole poi il compito di regalarlo a sua volta alla sua discendenza. Il suo nome significa "territorio", dato che è destinato a rimanere a Nakahara nella famiglia Aoi.

 

Su questa seconda parte in generale, qualche precisazione che non ho inserito nelle note dell'autore.

- La prima, quella più importante e sottolineata dall'asterisco iniziale nel riferimento temporale iniziale, riguarda la cittadina di Nakahara. Nella serie di CT esiste la squadra di calcio delle medie Nakahara della prefettura di Gifu che compare per la prima volta nel flashback del capitolo 1 del World Youth, e che è la squadra di calcio nella quale gioca Shingo. Sempre nel World Youth, nel capitolo 44 viene chiesto a Shingo del suo eventuale ritorno a Gifu, per cui si deduce che il giovane abita in quella città (o comunque nel suo territorio): Gifu è una città dove si fondono tradizione e modernità, famosa per l'artigianato - elemento che, vi anticipo, tornerà nel corso di questa storia quindi occhio! ;) La prefettura di Gifu è inoltre ricca di paesi e villaggi dai centri storici tradizionali come Takayama, dalle strette stradine e dalle abitazioni in legno e paglia.

Perché ho fatto tutta questa premessa, elencando elementi provenienti dal manga al fianco quelli reali? Per via di un'ipotesi che si è fatta strada quando ho riletto le parti con Shingo riguardo proprio la sua famiglia - e che spero di svelarvi man mano che la storia andrà avanti - per cui alla fine ho deciso di creare la cittadina di Nakahara che, sebbene si trovi poco distante da Gifu, è allo stesso tempo lontana dalla frenesia del grande centro urbano: ho pensato che così sarebbe stato più semplice gestire la storia che avevo pensato per Shingo rispetto al catapultarlo in una realtà simile a quella dinamica della città di Nankatsu.

Anche per questo elemento non indifferente, la storia è stata inserita tra le What if.

- Un parto è considerato veloce al di sotto delle quattro ore di travaglio (potete trovare qui una delle tante fonti). Come avete letto, la storia del parto di Shingo, seppur un po' "strana", serve anche a sottolineare la scelta del suo nome da parte del padre.

- Proprio a proposito del nome di Shingo - forse qui per molti di voi non dirò nulla di nuovo - rappresenta un gioco di parole con il suo cognome: ao (青) è il nome che indica il colore blu o verde, e ao-shingō (青信号) vuol dire "luci blu/verdi" riferito proprio alle luci del traffico in Giappone. Infatti più volte Shingo si diverte a citare tale gioco di parole, proprio quando sottolinea il fatto che nessuno può fermarlo quando inizia a correre sul campo da calcio - tra parentesi, a proposito di giochi di parole con le luci del traffico, in CT abbiamo un altro personaggio che si chiama ​Akai Tomeya che è un eccellente difensore che riesce a non far avanzare gli avversari. A questo punto mi aspetto che in futuro Takahashi introdurrà anche un personaggio che richiama il colore giallo dei semafori in Giappone, giusto per completezza XDD

Tornando a Shingo, è evidente che l'autore nel dargli quel nome non ha pensato al modo in cui è nato, ma proprio per la sua capacità di farsi strada tra gli avversari senza troppi problemi. Nella mia storia, ovviamente Susumu non è un veggente e per questo penserà a quel nome proprio per il modo in cui il suo secondogenito è arrivato rispetto a Yukiko: di corsa, come un'automobile di fronte al semaforo verde!

- Per la serie "Le curiosità inutili della Moriko": se siete curiosi del vestitino di Yukiko, ho pensato a una cosa del genere. Qui non c'è la mantellina di lana, ma per il resto a me è piaciuto molto immaginandolo su di lei. È molto grazioso, non trovate?

 

A conclusione di questa seconda parte di delucidazioni ringrazio tutti coloro che hanno iniziato a seguire questa storia, sia silenziosamente che con le loro recensioni. La parte sulle rispettive nascite, che sono servite anche da introduzione a buona parte dei personaggi che si muoveranno in questa storia - protagonisti compresi - si sono concluse, per cui vi annuncio che dal prossimo capitolo gli ingranaggi della storia iniziano a muoversi. Per quanto nelle vesti di frugoletti Yuzo e Shingo siano carinissimi, non possiamo lasciarli per sempre in quello stato... per cui presto li vedrete già "in azione"!

Come preannunciato la scorsa settimana, gli aggiornamenti di questa storia subiranno una pausa di circa un mese, in concomitanza con l'inizio del Writober al quale proverò a partecipare: per questo motivo ho pensato di sospendere quest'opera per non farla sovrapporre con le ff dedicate invece all'evento di ottobre (i cui aggiornamenti saranno giorno per giorno... gasp!) ma sappiate che non ho intenzione di perderla di vista. In fondo siamo ancora all'inizio: voi non siete curiosi di vedere dove andrò a parare, nel bene o nel male? ;D

Dunque, ai lettori di questa storia: ci vediamo tra un mese. Invece a quelli che seguono anche le altre: ci vediamo domani, LOL!

Al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 3
*** Legami fraterni - Tre anni | Morisaki's side ***


Fanfiction
Nn6Ap51

Legami fraterni.

{Tre anni | Morisaki's side}

 

 

BGM: Simply Three - Rain

 

 

 

[12 Marzo. Nankatsu, prefettura di Shizuoka.]

 

Nelle strade della piccola città di Nankatsu i fiori dei ciliegi iniziavano a sbocciare in una soffice fioritura dal color bianco e rosa. Quell’anno la primavera sembrava essere arrivata in anticipo: un leggero vento riscaldava ogni cosa con il suo tepore, e le poche nuvole bianche nella volta del cielo non sembravano essere foriere di giornate di intensa pioggia.

A Noboru piaceva molto quell’atmosfera primaverile nella sua cittadina natale: gli metteva addosso la stessa serenità che aveva da bambino quando passeggiava con suo fratello proprio sotto quegli alberi di ciliegio, e una carica sempre più crescente che gli serviva per la mansione che svolgeva ogni giorno: il lavorare presso un punto vendita, in un centro commerciale, in un luogo aperto sette giorni su sette con un solo giorno di riposo che capitava in giorni casuali, soprattutto nel periodo autunnale e invernale era sempre più pesante e difficile da sopportare. Egli amava il lavoro presso lo Shimizu Soccer Shop: era una sorta di costola di ciò che aveva fatto nei primi tempi quando era fresco di università e vari corsi di abilitazione, e quello era anche un modo per supportare la squadra che tanto amava, la Shimizu S-Pulse; a volte ciò che faceva non era così eccitante come poteva sembrare ai tanti visitatori che ogni giorno affollavano il centro commerciale. Si trattava comunque di un negozio, di un luogo chiuso tra quattro mura e pieno di persone che a volte potevano essere anche maleducate e invadenti; per fortuna ve ne erano poche di quel tipo, ma per lui era difficile mantenere tutti i giorni un volto colmo di gioia e cortesia.

Per questo motivo, il recarsi a Nankatsu in occasione del compleanno del suo terzo nipote era rigenerante, come un’improvvisa fresca brezza estiva in una giornata rovente. L’annuncio della primavera, attraverso quei boccioli rosa che picchiettavano i rami degli alberi, lo rendeva felice di essere ancora vivo e in salute, per gustarsi ancora una volta quel meraviglioso spettacolo della natura.

Noboru parcheggiò la macchina nei pressi di uno degli asili presenti nella città. Come era avvenuto tre anni prima, anche quella volta non era di turno al centro commerciale, per cui si era offerto di dare una mano a Izumi e alla sua famiglia: del resto quello era un giorno speciale, e poteva approfittarne per stare di più con i suoi tre nipotini. Così, di comune accordo con Hideki, Noboru si era incaricato di accompagnare e di andare a prendere all’asilo Ken'ichi e Takaji, per permettere alla loro mamma di badare a Yuzo.

Per il maggiore dei piccoli di famiglia, quelli sarebbero stati gli ultimi giorni di asilo prima delle vacanze primaverili: avendo compiuto sei anni da poco, a breve avrebbe iniziato le scuole elementari. Viceversa, al secondo mancavano ancora dodici mesi per concludere quel breve ciclo di tre anni che aveva sancito il suo ingresso nella comunità, perciò dei due fratelli era quello più spensierato: essendo ancora piccolo, Takaji non aveva ancora il pensiero della scuola ed era felice di poter giocare ancora con i suoi amichetti alla fine delle vacanze. E, se dopo qualche settimana Ken'ichi sarebbe andato alle elementari, a colmare la sua assenza ci sarebbe stato il loro fratellino minore, Yuzo; di certo, in questo modo Takaji non avrebbe risentito molto della mancanza del maggiore nel suo ultimo anno di asilo.

Come vola il tempo... pensò Noboru.

I suoi nipotini stavano crescendo in fretta. Da una parte gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo, ai tempi ormai lontani nei quali lui e suo fratello Hideki avevano intrapreso lo stesso percorso; dall’altra, gli sembrava fosse trascorso poco tempo dalla nascita del suo primo nipote, quasi come se fosse stato il giorno prima di essere lì, all’ingresso di quell’asilo. Noboru si ricordava ancora distintamente del momento in cui aveva tenuto in braccio Ken'ichi, e lo stesso era per gli altri due bambini: di ciascuno di loro si ricordava ogni singolo dettaglio, del fatto che appena nati sembravano essere così piccoli e indifesi, e che mesi dopo erano già pronti a saltargli addosso e a giocare con lui.

Quel giorno, erano trascorsi tre anni esatti dalla nascita di Yuzo e anche con il suo terzo nipote Noboru stava avendo lo stesso, identico pensiero. Quel bimbetto stava crescendo, forte e sano, e non soltanto in altezza: giorno dopo giorno, mese dopo mese imparava sempre di più, giocando con i suoi genitori e anche con Ken'ichi e Takaji quando non erano all’asilo.

I tre fratelli erano molto legati tra loro e, anche se a volte non andavano d’accordo, si volevano bene. Se Ken'ichi era quello più tranquillo dei tre, gli altri due lo battevano in fatto di vivacità, in modo particolare Takaji che con il suo carattere elettrico cercava sempre di essere al centro dell'attenzione di tutti, arrivando spesso ad importunare gli altri due fratelli anche quando volevano restare in disparte. Ma per quanto Takaji e Yuzo avessero sconvolto i pacifici equilibri della loro famiglia, ben presto per loro il fratello maggiore era diventato un punto di riferimento: i due bambini erano quasi diventati la sua ombra, seguendolo dappertutto e stando attenti a tutto ciò che diceva o faceva. D’altro canto lo stesso Ken'ichi, che nei primi due anni di vita quasi arrivava a litigare con il mezzano perché era stato il primo a sottrarre parte delle attenzioni che i suoi genitori gli davano, divenne sempre più felice nel vedere prima Takaji e poi anche Yuzo che lo osservavano sempre con un sorriso e che erano ben disposti a stare con lui.

Nei ricordi di Noboru era ben vivo il giorno in cui i tre fratelli avevano iniziato a interagire tra loro, tutti insieme. Egli era in cucina, intento a preparare la merenda per i bambini seguendo le istruzioni che la loro mamma aveva lasciato in un biglietto sul frigorifero, e ad un tratto aveva sentito Ken'ichi chiamarlo a squarciagola: pensando che i suoi due marmocchi avessero combinato un’altra delle loro marachelle, Noboru si era subito precipitato nel soggiorno per vedere cosa fosse successo. Nulla di ciò che temeva, tutt’altro: Takaji era di fronte al passeggino dove lo zio aveva lasciato il piccolo Yuzo che dormiva, e che ora stava ridendo di gusto per le buffe smorfie che il fratello maggiore gli stava rivolgendo.

«Guarda, zietto!» aveva detto Ken'ichi con grande entusiasmo, prendendo lo zio per il braccio e trascinandolo verso il passeggino. «Ride! Il fratellino ride!»

«Certo,» aveva risposto Noboru, «è perché vi vuole bene!»

Da allora erano trascorsi circa due anni, e la situazione non era affatto cambiata. I tre bambini erano diventati quasi inseparabili, giocando sempre insieme quando erano tutti a casa... così come stava per accadere quel giorno.

Di fronte a quei dolci ricordi, con un sorriso Noboru scese dall’automobile e indossò il marsupio che aveva riposto sul sedile.

E ora... andiamo dalle mie piccole pesti!

 

 

 

Sulla cima di quella montagna Izumi si stava asciugando la fronte grondante di sudore. Nonostante fosse abituata a percorrere tutta la scalinata in pietra che portava fino in cima, immersa in una fitta foresta, giunta a destinazione le mancava sempre il fiato: ciò accadeva per due motivi, oltre la fatica.

Il primo era il panorama che si poteva ammirare da lassù. Ogni giorno tutti erano abituati a percorrere quella strada per arrivare al cosiddetto “belvedere”, un’ampia piazzetta posta circa a metà percorso e dalla quale era visibile la valle dove si trovava la cittadina di Nankatsu. Da lì, tuttavia, in pochi proseguivano ogni giorno il resto del cammino che collegava il belvedere alla cima della montagna: un sentiero non molto curato e circondato dalla vegetazione della foresta sempre più fitta, quasi incolta. Chi lo faceva era spinto principalmente per una ragione: quella della necessità.

Alla fine di quel percorso impervio vi era un santuario. In uno spazio che sembrava quasi incontaminato, il cui ingresso era dominato da un torii di colore rosso fuoco, si erigeva il jinja dedicato agli yama-no-kami, le sacre divinità della montagna. Prima di percorrere l’ultima scalinata in pietra che portava al jinja, dalla zona del torii si apriva un panorama ancora più spettacolare del belvedere amato dagli abitanti della cittadina: da lì non solo era visibile la valle di Nankatsu, ma anche gli altri territori limitrofi fino ad arrivare - non molto distante da lì - alla montagna sacra per eccellenza dell'intero Giappone, il monte Fuji.

Tutto ciò si collegava al secondo motivo per il quale a Izumi stava mancando il fiato: le emozioni suscitate dalla bellezza di ciò che la stava circondando. Rispetto al belvedere quel paesaggio era davvero mozzafiato, degno delle stampe dell’ukiyo-e[1] con il suo stile elegante e vivace, e ogni volta Izumi si fermava ad osservarlo, prima di riprendere il cammino.

Quel giorno, però, la donna non riuscì a fermarsi per più di un minuto: dopo aver osservato insieme a lei il panorama, il suo terzogenito corse lungo la scalinata in pietra che portava a destinazione. Izumi aveva lasciato inavvertitamente la sua mano, e suo figlio ne aveva subito approfittato per allontanarsi da lei a passo svelto: come qualsiasi bambino, Yuzo non vedeva l’ora di correre liberamente, sempre più in alto, quasi a voler toccare il cielo con un dito in cima a quella montagna.

«A... aspetta, non allontanarti senza di me!» esclamò lei. Ma ormai era troppo tardi: il piccolo era svanito dietro l'ultimo gradino di quella scalinata, lungo il sandō che portava all’haiden.

E ora chi lo sente mio suocero? - aggiunse la donna in pensiero, iniziando anche lei a percorrere quell’antica scalinata.

 

«Zio Hotaka, mi prendi in braccio? Non ci arrivo, non ci arrivo!»

Alla fine di quel percorso, Izumi trovò suo figlio che stava saltellando allegramente verso un ramo più alto di un sakaki[2]: al suo fianco vi era un giovanotto all’incirca dell’età di suo marito, con indosso un bianco saifuku e un’azzurra hakama[3]. Dai capelli neri che gli arrivavano sulle spalle, Hotaka stava sorridendo nel guardare suo nipote che si era intestardito a voler raggiungere quel ramo così alto per lui.

«Dai, Yuzo,» gli disse il giovane con gentilezza, chinandosi verso il bambino e prendendo tra le dita uno dei rami che sporgevano dalla parte bassa dell’incrocio dei tronchi. «Non ti piacerebbe giocare con questi amichetti? Sono così bassi perché aspettano i piccolini come te: si sentiranno soli...»

«No! Voglio quello!» Suo nipote mise il broncio e incrociò le braccia al petto. «E io non sono piccolo, sono grande!»

Hotaka non si lasciò rabbuiare di fronte all’atteggiamento testardo del bambino, anzi: il giovane uomo stava mostrando uno sguardo ancora più sereno di prima, piuttosto amorevole, come se Yuzo fosse stato suo figlio. E in un certo senso era proprio così: quel bambino era figlio di suo cugino Hideki, era sangue del suo sangue.

E testardo come tutti: deve essere un marchio di famiglia!

«Hai ragione,» rispose Hotaka con dolcezza. «Dato che oggi è il tuo compleanno, significa che sei diventato più grande... perciò, puoi giocare con i rami più alti!»

Così il giovane si decise ad accontentare il desiderio del piccolo: lo prese in braccio e lo issò sulle sue spalle. Per un attimo a Yuzo piacque trovarsi a quell’altezza insolitamente elevata, alla quale arrivava solo quando erano suo padre e lo zio Noboru a prenderlo in braccio; ma subito il piccolo si accorse che in quel modo non sarebbe comunque riuscito ad afferrare il ramo del sakaki che tanto desiderava, così provò a slanciarsi verso la pianta allungando di nuovo le sue braccia. «Ma io voglio quel ramo!» iniziò a protestare.

Hotaka rise. «Sei stato tu a dire che sei grande, giusto? E i grandi come me e la mamma arrivano proprio a questa altezza...»

Per qualche secondo il piccolo restò in silenzio. Constatò che ciò che aveva detto lo zio era vero: in quel momento sembrava essere alto come il suo papà, se non di più; tuttavia, anche così non sarebbe mai riuscito a sfiorare la pianta del sakaki, in alcun modo.

«Zio... io voglio scendere. Voglio quel ramo!» tornò ad esclamare Yuzo, slanciandosi con impeto verso la pianta; se la presa dello zio non fosse stata salda, probabilmente sarebbe caduto a terra.

«D’accordo, d’accordo...»

Hotaka lo prese in braccio e lo avvicinò al ramo che il nipotino aveva adocchiato con lo sguardo. Vide gli occhi del piccolo brillare di felicità mista a stupore, mentre iniziava a sfiorare con insolita dolcezza le punte delle foglie di quel ramo. «Così va bene, Yuzo?»

«Sì!» rispose il piccolo con grande gioia.

Nel frattempo Izumi stava osservando quella scena di serenità familiare, e all’inizio non osò avvicinarsi. Si limitò a sorridere, vedendo come suo figlio fosse così felice in quel luogo: amava molto la natura, e ogni volta che visitavano quel jinja lui non perdeva l’occasione per gironzolare allegro all’esterno del santuario e arrivare fino all’ingresso dell’haiden, la sala di culto.

Da generazioni quel jinja dedicato agli yama-no-kami, le divinità della montagna, era curato e portato avanti dalla famiglia Morisaki. Correva la voce che a fondarlo fosse stato proprio un loro antenato, per scongiurare una grave catastrofe naturale che incombeva nella valle dove ora sorgeva la cittadina di Nankatsu e che proveniva proprio da quella montagna; da quel giorno non c’erano più stati pericoli di tale calibro, e quel santuario era diventato il simbolo del beneplacito degli dei che vi dimoravano e che avrebbero garantito protezione e sicurezza nella zona che era dominata da esso.

In quel territorio sacro che si estendeva di fronte a Izumi, lungo il sandō che era circondato da due file di bassi sakaki come quello con il quale il piccolo Yuzo stava giocando, si stava avvicinando un signore sulla soglia della vecchiaia, con le braccia incrociate e nascoste tra le maniche del kariginu violaceo, l’abito tipico dei sacerdoti shintoisti. Prima di giungere presso di lei, anche quel vegliardo si soffermò ad osservare la scena che si stava svolgendo tra Hotaka e Yuzo; sorrise divertito, per poi riprendere il suo percorso. «Vedo che tuo figlio è sempre pieno di energie, cara Izumi...»

«Sadao-sama...»

Prima di trovarsi faccia a faccia, la donna rivolse un inchino di rispetto nei confronti del vegliardo. Sadao, il fratello di suo suocero, era il kannushi[4] di quel santuario: a dispetto della parentela Izumi gli portava sempre un profondo rispetto ogni volta che lo incontrava. Per lei Sadao era pur sempre un sacerdote, il sacro custode di un santuario; nonostante la situazione nei santuari fosse cambiata al punto che i kannushi erano diventati solo dei cerimonieri, liberandosi da quel lato sacro che in origine li caratterizzavano, Izumi continuava sempre a considerarli come tramite tra le divinità e gli esseri umani, e per questo degni di rispetto.

«Alza il capo,» disse il vegliardo che subito si portò una mano tra i capelli, rompendo la seria atmosfera che si stava creando tra loro. «Così mi metti in imbarazzo: non sto facendo nulla di speciale!»

Le guance di Izumi si colorarono di un leggero color rosaceo e fece come l’altro le aveva richiesto. Non c’era contraddizione in quell’ordine, appunto: per lei era necessario eseguire tutto ciò che un kannushi chiedeva, anche se in modo amichevole. Izumi non riusciva proprio ad essere informale con Sadao: anche se da anni era entrato a far parte della sua famiglia, per lei quel kannushi continuava ad avere quel “qualcosa in più” che lo contraddistingueva dagli altri esseri umani, con quella caratteristica trascendentale che lo rendeva così diverso dalla norma.

«Vi chiedo scusa,» sussurrò la donna con un leggero sorriso. «Lo sapete: è difficile abituarsi a non seguire le regole... mi trovo pur sempre in un santuario, dopotutto.»

«Non devi essere così rigida con te stessa, cara Izumi,» sentenziò Sadao con sguardo sereno. «A lungo andare, l’essere rigidi chiude l’uomo in una gabbia dalla quale è difficile uscirne.»

I due si incamminarono lungo il sandō, verso Hotaka e Yuzo. La prima cosa che subito notò Izumi fu il fatto che suo figlio si fosse addormentato tra le braccia del giovane, che nel frattempo stava cantando quella che, dalle parole, sembrava essere una canzone religiosa: un inno per la benedizione di una foresta, per l’augurio di una crescita prosperosa e duratura.

«A quanto pare mio figlio si sta preparando bene per diventare il prossimo kannushi...» commentò il vegliardo con sguardo di ammirazione verso Hotaka che subito gli sorrise.

«Più che altro adoro questa canzone, padre.»

Nel vedere il piccolo così calmo e tranquillo, Izumi trattenne le risate. «Sei un tesoro, Hotaka. Non so come tu faccia, ma sei uno dei pochi che riesce “a quietare questa piccola furia della natura”!»

«Proprio come nella canzone che stavo cantando,» rispose il giovane. «A quanto pare funziona non solo con i piccoli spiriti maligni che disturbano il riposo delle divinità, ma anche con i bambini. Se non riuscirò a passare l’esame di gon-negi[5], quasi quasi faccio domanda in un asilo... e questo piccoletto potrà garantire per me!»

Hotaka guardò per un istante il volto di Yuzo che dormiva placidamente, poi cercò in quello di Izumi un cenno di approvazione per le ultime parole che aveva detto. La donna scosse la testa e sorrise: sapeva molto bene che quel suo cugino acquisito avrebbe superato a pieni voti quell’esame, e che un giorno - che sembrava ancora essere così lontano - sarebbe diventato un impeccabile kannushi di quel santuario.

«Ascolta,» sussurrò Izumi. «Se davvero ti fa così piacere occuparti dei più piccoli, posso portarti qui Yuzo quando non riesco ad addormentarlo. Ti assicuro che nelle ultime settimane è diventato davvero difficile fare una cosa del genere: è quasi un’impresa titanica!» Poi si rivolse a Sadao, e continuò: «Shigeru-sama e gli altri sono qui?»

Il vegliardo annuì e iniziò a guardarsi intorno, indicando il tempio che si trovava a pochi passi da loro. «Mio fratello si sta occupando della cura dell’haiden, mentre Michi e mia moglie... oh! Eccoli là!»

Proprio in quel momento, tre persone stavano uscendo dal grande edificio che era appena stato nominato dal kannushi. C’era un signore vestito con un kariginu, all’incirca dell’età di Sadao, che stava reggendo in mano un bastone che utilizzava per salire e scendere i tre scalini dell’ingresso principale dell’haiden; l’uomo era seguito da due donne sue coetanee che stavano conversando. Non appena tutti e tre notarono gli altri presenti in quell’area, li raggiunsero in fretta e salutarono Izumi.

«Lo sapete: per me è un onore salire questa montagna per incontrarvi,» disse la donna con ossequioso e devoto rispetto. Era naturale: di fronte a lei vi erano Shigeru e Ayaka, i genitori di suo marito Hideki, e Michi che era la moglie del kannushi; tutti e tre avevano deciso di trascorrere il resto della loro vita dedicandola pienamente alla cura del jinja di famiglia, insegnando ogni giorno a Hotaka tutto ciò che sapevano sulla vita all’interno di un santuario shintoista.

Per questo motivo Izumi non potè trattenersi dal chinare il capo anche nei loro confronti, al punto che Sadao si portò una mano sul volto e iniziò a ridere sommessamente. «Addirittura tale atteggiamento con i tuoi suoceri... cara Izumi, non cambierai mai!»

Dopo aver fulminato suo fratello con uno sguardo di rimprovero, Shigeru si avvicinò a sua nuora e le appoggiò una mano sulla spalla in segno di solidarietà. «Alza il capo... e ignoralo, per favore. Da una parte ha ragione, ma se non siamo noi i primi a seguire le regole, come potremo ingraziarci le divinità?»

Senza smettere di sorridere, Sadao si portò le mani dietro la schiena e alzò gli occhi verso le fronde degli alti alberi secolari della foresta nella quale era immerso il santuario. «Quanto siete rigidi, voi due... quando imparerete a godervi la vita senza queste frivole preoccupazioni?»

 

 

 

«Zietto!»

Dai sedili posteriori dell’auto dove erano seduti, Ken'ichi e Takaji avevano urlato in coro per richiamare l’attenzione dello zio, interrompendo all’improvviso il loro gioco con i peluche che si trovavano al loro fianco e che Noboru stesso aveva portato per farli distrarre durante il tragitto.

«Ditemi tutto!» disse lo zio, rivolgendo un rapido sguardo nello specchietto retrovisore prima di guardare di nuovo la strada.

«Oggi resti a casa?» chiese il maggiore dei piccoli.

«Ma certo! Giocheremo insieme per tutto il giorno!»

«Evviva!»

Entusiasti per la grande notizia, i due bambini si rifugiarono di nuovo nel loro mondo dei giochi. Il tempo che trascorrevano con lo zio Noboru non era molto, e spesso chiedevano ai loro genitori perché non vivessero tutti insieme, sotto lo stesso tetto: erano molto affezionati a lui e ogni volta che si sentivano per telefono gli dicevano sempre che a loro mancava molto - e la cosa era reciproca. Quando stavano con Noboru, i due bambini si sentivano più liberi di fare ciò che volevano: lo facevano anche con i loro genitori, che non ponevano molti freni al loro entusiasmo, però il momento del gioco era tutta un’altra cosa se al loro fianco c’era quello zio che adoravano alla follia, proprio come stava accadendo in quel momento.

Con grande euforia Takaji lanciò verso il fratello il piccolo squalo di stoffa che aveva in mano, quasi con l’intenzione di colpire il volto dell’altro, ma per fortuna Ken'ichi riuscì a prenderlo in tempo: il mezzano aveva inavvertitamente sbagliato la direzione del tiro, e quel giocattolo stava per finire sui tappetini dell’automobile.

«Ti ho detto che non devi lanciarlo così!» borbottò il maggiore, incrociando le braccia. «Altrimenti non te lo do più!»

Takaji ridacchiò di gusto e indicò il fratello. «Sei buffo quando ti arrabbi!»

«Cosa?»

«Sei buffo, sei buffo!» Il mezzano scoppiò a ridere, lanciandogli un altro pupazzo a forma di cammello. «Dai, giochiamo! Ora sei tu il lupo!»

Ken'ichi guardò il peluche che aveva in mano, e subito si rivolse all’altro con esitazione. «Come faccio il lupo? Questo è un cammello!»

«Eddai, fai finta!» rispose Takaji. «Eddai!»

Il maggiore restò un attimo in silenzio, pensando che in effetti non poteva averla vinta lui. In un certo senso Takaji aveva ragione: nell’automobile dello zio non c’era un pupazzo a forma di lupo, per cui si dovette accontentare... o quasi. Ken'ichi amava il mare e gli animali che lo popolavano, invece era Takaji quello che amava alla follia lupi e orsi: era come se in quel momento si fossero scambiati le parti che li spettavano. «Ma non voglio essere il lupo!» rispose, e subito rilanciò il cammello verso il mezzano, agitando lo squalo che aveva nell’altra mano. «Voglio essere lo squalo, raaw!»

«Uffa!» Takaji mise il broncio e stette per insistere, ma poi afferrò il cammello che gli era caduto in mezzo alle gambe. In fondo, quella di suo fratello non era una proposta così sconveniente: doveva impersonare quello che era il suo animale preferito, per cui non era niente male. Con grande vivacità esclamò: «Va bene... allora io sono il lupo! Waoon!»

«Ma che dici! Non puoi fare il lupo se io sono uno squalo: i lupi non vivono negli oceani!»

«Eddai! Waoon!»

«Hihiin!»

I bambini si girarono sorpresi verso lo zio, essendo stati colti di sorpresa da quello strano verso acuto che aveva interrotto la loro nascente discussione.

«Zietto... ti senti male?» chiese Takaji.

«Affatto!» rispose Noboru, iniziando a ridere. «Sto benissimo!»

Ken'ichi e Takaji si guardarono silenziosamente negli occhi; poi fu il maggiore, ancora incredulo per la risposta dello zio, a prendere subito la parola. «E... e perché hai fatto quel verso?»

La risposta di Noboru non tardò ad arrivare: «Perché voglio partecipare anch’io al gioco degli animali! Posso, piccoletti?»

Takaji strabuzzò gli occhi. «Ma io non ho capito che animale sei...»

«Nemmeno io zietto,» aggiunse Ken'ichi. «Hai fatto l’animale che sta male?»

Lo zio si portò una mano dietro la testa, un po’ sorpreso per ciò che aveva sentito. «Dai, provate ad indovinare che animale è! Hihiin!»

«Io lo so, io lo so!» rispose Takaji alzando la mano. «La sirena della polizia!»

«Ma no!»

I due bambini scoppiarono a ridere mentre Noboru, un po’ sconsolato per la sua pessima “performance” del cavallo, fermò mestamente l’automobile nel piccolo parcheggio della casa di suo fratello. L’uomo fece crollare la testa sul volante, quasi sul punto di esplodere per l’imbarazzo: come al solito non era riuscito a spuntarla sui due nipotini, molto furbi e arguti al punto di riuscire a trovare sempre a rispondere a tono.

«Siamo arrivati!» esclamò il giovane zio e, scendendo dal mezzo, mormorò tra sé e sé: «Guarda un po’ che tipi! La sirena della polizia... incredibile!»

 

 

«Mamma, mamma!»

Non appena vide la madre che era intenta ad innaffiare le piante del cortile, Takaji corse ad abbracciarla, subito seguito da Ken'ichi. Izumi era tornata da circa un’oretta, percorrendo la scalinata in pietra con Yuzo in braccio che ancora dormiva: per fortuna il jinja non era molto distante dal quartiere in cui abitavano e aveva lasciato il passeggino nella postazione del belvedere, ma si sentiva stremata per il percorso che aveva intrapreso per andare a trovare i suoi parenti proprio in occasione del compleanno del suo terzogenito; dopo aver messo a letto Yuzo, quell’ora di pausa le era servita per rigenerare le sue energie in attesa della seconda ondata di vivacità e allegria rappresentata dagli altri suoi figli.

«Ecco qui!» esclamò Noboru. «Li ho riportati a destinazione, capo: sani e salvi!» Poi lanciò le chiavi dell’auto alla donna, che subito le afferrò.

Izumi diede un leggero sbuffo, mentre sulle sue labbra si delineò un sorriso beffardo rivolto al cognato. «Ecco da chi ha preso Takaji nel lanciare le cose. Tale zio, tale nipote!»

«E tale mamma, dato che è peperino proprio come te!»

«Ne sei sicuro?» sussurrò la donna, con una smorfia divertita. «Non è ai tuoi livelli di testardaggine perché lui si lascia convincere più facilmente, ma quando si mette in testa una cosa è difficile smuoverlo! Grazie al cielo che non è come te... ricordi ancora come è andata a finire la storia della nostra televisione, vero?»

«Touché

Noboru si grattò la nuca, lasciando trasparire il suo imbarazzo. Gli tornò alla mente il momento in cui, anni addietro, aveva aiutato il fratello con la sistemazione della casa: Hideki si era sposato da poche settimane e sua moglie era incinta del loro primogenito, per questo gli aveva chiesto una mano; lui aveva accettato ma, ad un certo punto, i due fratelli avevano iniziato a discutere sulla sistemazione della televisione in salotto, mentre Izumi era in camera da letto a riposarsi.

«Ma insomma! Se metti la TV sopra quel mobile, come fai a vedere le partite della J.League? I giocatori si vedranno con il binocolo!»

«Per la cinquantesima volta, Noboru: no! A parte che sotto quel mobiletto faremo fatica a vedere proprio tutto perché dovremmo sdraiarci a terra... il bambino potrebbe distruggerla quando inizierà a camminare!»

«E chi se ne frega, Hideki! Leva quel mobiletto storto, allora!»

Allora il salotto della casa di suo fratello aveva una diversa sistemazione, prima di una ristrutturazione avvenuta in seguito a piccoli interventi sugli impianti idraulici. Vi era un mobile che i novelli sposi avevano iniziato ad utilizzare come libreria, dono dei genitori di Izumi e che ora si trovava dalla parte opposta della stanza: aveva la particolarità di correre da una parete all’altra come se fosse un serpente, con un percorso a zig-zag che lasciava pochi spazi per aggiungere quadri o altri oggetti. Hideki ci teneva molto a quella libreria: l’aveva scelta personalmente il padre di Izumi e, anche se a lui non piaceva molto, voleva evitare di fare una pessima figura con sua moglie e, in particolare, proprio con i suoi suoceri; doveva trovare il modo migliore per collocarla all’interno di quella stanza, a qualsiasi costo, e per questo motivo la sua rabbia nei confronti di Noboru era cresciuta ancora di più non appena gli aveva detto di toglierla di mezzo. Suo fratello aveva ragione... ma non poteva far sparire quel mobile nel nulla: come avrebbe giustificato la sua assenza di fronte a sua moglie e a suo padre?

Da quel momento, tra i due fratelli si era scatenata una discussione ancora più accesa di quella che era nata pochi secondi prima.

«Te lo sogni: è un regalo dei miei suoceri, e sta bene dove sta!»

«Allora metti la televisione là, sotto il condizionatore! Il vostro divano è a ferro di cavallo, basta solo che vi sedete all'angolo!»

«Ma sei scemo? Là passano le tubature dell'acqua che portano al bagno: così le bucheremo!»

«Allora mettila là, sopra il divano!»

«Ma non ci penso nemmeno! Vuoi farci venire il torcicollo?»

«Senti un po’: se non ti va bene sotto il mobiletto, prendo subito la scala e te la monto proprio sopra di te, lassù!»

«Idiota, chi ha una televisione sulla testa?!»

Tanto a lungo era durato il loro discutere, al punto che era giunta anche Izumi per mettere la parola fine a quel chiassoso vociare. Con un gesto secco e fiero, la donna aveva indicato il posto dove collocare la loro televisione: in un angolo della stanza, proprio in uno spazio vuoto accanto a quel mobile che era stata la causa di quella discussione. «Là va bene: così chi vuole può guardare la J.League, le soap opera, i reality, i documentari, e tutti gli altri programmi di questo mondo. Se per voi va bene, smettetela di litigare e montate questa benedetta televisione. In silenzio.»

Izumi aveva pronunciato quelle ultime due parole con un tono che all’apparenza sembrava piuttosto infastidito, prima di voltare loro le spalle e andare via. Noboru aveva fatto in tempo ad udire una risata soffocata provenire dalle labbra della cognata, e fu a quel punto che aveva capito che quella donna, in fondo, si stava divertendo nel sentirli discutere.

Ad ogni modo, da quel giorno Izumi aveva iniziato a prendere bonariamente in giro suo cognato per la sua testardaggine. E come si poteva darle torto: tra i due fratelli, era proprio lui quello più cocciuto!

 

Il flusso dei pensieri di Noboru, che si era ricordato della storia di quel mobile per lui sgangherato, venne interrotto dal piccolo Ken'ichi che lo aveva preso per il braccio e stava cercando di trascinarlo dalla madre.

«Zietto, dobbiamo preparare la festa per Yuzo...» disse il piccolo sottovoce.

Noboru serrò gli occhi. Suo nipote aveva ragione, era il motivo per il quale anche lui si trovava in quel luogo, al di là della solita uscita per vedere la sua famiglia: insieme a Izumi e ai suoi figli, tutti insieme dovevano allestire il salotto della casa con decorazioni e leccornie mentre qualcuno doveva distrarre il piccolo festeggiato.

Ma chi tra loro avrebbe avuto questo difficile compito? Tenere a bada un bambino di appena tre anni per alcune ore nella sua cameretta non era un'impresa facile... e di certo Yuzo non costituiva un’eccezione. Tra i tre fratelli, infatti, l’ultimo arrivato di casa Morisaki sembrava essere quello più scatenato: aveva un’energia pazzesca dentro di sé, senza smettere di giocare dalle prime ore dell'alba fino alla sera prima di andare a dormire; in assenza di Ken'ichi e Takaji, spesso anche la mamma faceva fatica a stargli dietro, soprattutto quando lei doveva preparare il pranzo e il piccolo non sembrava essere affatto stanco, continuando a correre da un lato all’altro della cucina, simulando di essere un calciatore che doveva fare un grande tiro in porta. L’unico momento della giornata in cui Yuzo si fermava era subito dopo il pranzo... e anche in quel caso riuscire a farlo addormentare non era affatto semplice.

Insomma, quel giorno lo sforzo era doppio: bisognava non solo assicurare che continuasse a dormire, ma anche cercare di trattenerlo il più possibile nella sua cameretta; il che non era facile, considerato il fatto che a differenza dei suoi fratelli al piccolo piaceva molto giocare all'aria aperta, nel cortile della loro casa.

Ricordandosi di tutto ciò, Noboru mise Ken'ichi sulle sue spalle e si avvicinò a Izumi e Takaji: chinò le ginocchia per simulare un inchino, facendo ben attenzione a suo nipote che nel frattempo si stava divertendo da quell’altezza. «Ragazzi, sono a vostra disposizione. Dobbiamo preparare una super festa, anche se non abbiamo molto tempo!»

 

 

Mentre Izumi si trattenne nel salotto con i suoi due figli, Noboru salì al primo piano dell’abitazione e di soppiatto aprì una delle stanze, dando una rapida sbirciata. Accertatosi che la situazione in quella stanza era tranquilla, scese le scale e raggiunse gli altri. «Credo che Yuzo si sia addormentato,» commentò. «Sta buono buono, con gli occhi chiusi e le braccia spalancate... mi sa che ne avrà ancora per molto.»

«Non sottovalutarlo,» rispose Izumi. «Non sembra, ma è molto furbo: basta che sente un minimo rumore e si sveglia di colpo. È vero che con tuo cugino si è appisolato, ma–»

«Allora, bambini: chi di voi vuole stare con il fratellino?»

La donna spalancò gli occhi per la sorpresa. Noboru aveva palesemente ignorato il suo avvertimento, e di certo non era la prima volta che lo faceva: quando era con i suoi adorati nipotini, quell’uomo era in grado di dimenticare tutto ciò che lo stava circondando. «Noboru, ma ti sembra il caso di...»

Takaji rispose subito alla proposta dello zio: alzò la mano, con un sorriso scherzoso. «Io, io!»

Noboru si sfregò il mento e sorrise soddisfatto. «Beh... va bene! Non vedo perché no!»

«Scusa, non sarebbe meglio se andassi tu?» chiese Izumi. «Non preoccuparti per me, qui posso cavarmela da sola!»

«Non ci pensare!» rispose lui con un sorriso. «Ho promesso a Hideki che ti avrei dato una mano con i preparativi, e così sarà!»

«Guarda che nel pacchetto è incluso anche il badare a un certo bambino che oggi compie tre anni, sai?»

«Quello è un extra che faccio ben volentieri quando si sveglia!» aggiunse Noboru, prendendo la mano di Takaji e accompagnandolo verso le scale. «Piccoletto, sei pronto? Se fai il bravo e riesci a convincere Yuzo a restare nella sua cameretta, la prossima volta lo zio vi porta tutti al Kakegawa Kachouen, va bene? Ma non dire ancora niente a Yu–»

«Evviva!»

Takaji esultò per la felicità. Per lui che amava la natura e che voleva sempre stare a contatto con gli animali, il Kakegawa Kachouen era uno dei suoi posti preferiti: l’aveva visto per la prima volta in televisione e da allora, ogni volta che ne vedeva qualche immagine, sognava di poterci andare un giorno: il poter toccare con mano pappagalli e pinguini - gli animali che sin da quando era piccolo aveva visto nei libri sulla natura che gli avevano regalato i suoi genitori - lo entusiasmava.

L’offerta dello zio sembrava allettante, di più di qualsiasi cosa che gli avevano promesso nella sua breve vita: senza pensarci due volte, Takaji lasciò la mano dello zio che provò - invano - ad afferrarlo, e corse sulle scale.

«A... aspetta! Fai piano, così svegli tuo fratello!»

Izumi soffocò una risata nel vedere Noboru in difficoltà, che quasi stava cadendo a terra quando aveva tentato di fermare suo nipote; si portò le mani sui fianchi con sguardo colmo di allegria. «Guarda, guarda! Ora chi è quello che non ascolta?»

Il cognato alzò le mani in un gesto di resa e con un sorriso rassegnato abbassò leggermente la testa. «Mi arrendo, capo: hai ragione tu!»

 

 

A dispetto della sua giovane età, da quel momento Takaji cercò di fare tutto il possibile per soffocare qualsiasi azione che gli sarebbe venuta in mente e che, di certo, avrebbe svegliato il suo fratellino. A cominciare dalla prima: aprire la porta della cameretta di Yuzo, senza far rumore.

Takaji era solito entrare nelle varie stanze con euforia, spalancando le porte e urlando i nomi delle persone che cercava, che fosse la mamma o i suoi fratelli; tuttavia, se voleva andare al Kakegawa Kachouen, quel giorno non poteva permettersi di comportarsi come sempre.

La casa era molto grande, per cui i genitori dei tre fratelli avevano pensato fin da subito di creare per ciascuno di loro una cameretta, dove i bambini avrebbero potuto ritagliarsi uno spazio tutto per loro fin dai primi anni anche se, essendo ancora molto piccoli, trascorrevano sempre insieme buona parte della giornata. La cameretta di Yuzo si trovava in fondo al corridoio abbastanza spazioso del primo piano, a fianco di quella del piccolo Takaji che, contrariamente al modo in cui aveva salito le scale, si stava avvicinando alla stanza del fratello di soppiatto.

Giunto a destinazione, Takaji afferrò la maniglia. Come dice la mamma? Piano... piano...

Lentamente la abbassò e aprì la porta; entrò in punta di piedi, per poi richiudere la porta dietro di sé, avendo cura di non sbatterla.

Il piccolo si trovò in una stanza simile alla sua, leggermente più piccola ma che sembrava spaziosa per la disposizione del mobilio presente al suo interno. Di fronte a lui si apriva un’ampia finestra dalle doppie ante, nella quale vi era una semplice tapparella che in quel momento era socchiusa e lasciava filtrare poca luce dai suoi spazi; a sinistra vi era un piccolo armadio scorrevole e, poco distante, una scrivania con una libreria che la faceva da cornice; sulla destra, il lettino futon sul quale stava riposando Yuzo, che in quel momento stava rivolgendo le spalle all’ingresso.

Takaji camminò piano verso il lettino, rivolgendo lo sguardo verso il pavimento con grande attenzione: se per caso suo fratello avesse lasciato qualche giochino per terra, lui doveva essere attento a non calpestarlo per evitare di fare rumore o, peggio, di scivolare e cadere sul pavimento. Il mezzano tirò un sospiro di sollievo quando arrivò vicino a Yuzo: il piccolo stava ancora dormendo, con uno sguardo molto sereno, e sembrava che non si fosse ancora accorto di nulla.

Takaji lo osservò per molto tempo, restando il più immobile che poteva; d’un tratto, stufo di stare lì senza far nulla, si voltò e camminò fino alla piccola scrivania, dove si sedette. «Vediamo un po’...» mormorò sottovoce. «A cosa posso giocare?»

Aprì un libro che si trovava sul piano della scrivania. Vi erano degli animali sulla copertina e, sfogliandolo, notò che vi erano diverse figure bianche, solo contornate da una spessa linea nera: era un album di quelli da colorare, e il piccolo sorrise soddisfatto quando trovò una pagina già scarabocchiata.

Eheheh... Yuzo è ancora piccolo, non se ne accorgerà mai! E poi la maestra dice sempre che sono bravo a colorare!

Così Takaji iniziò a prendere una ad una le matite colorate che si trovavano vicino al libro, in un portapenne fatto a incastri di blocchetti di legno come un puzzle, dono dello zio Noboru ai tre bambini di un viaggio che aveva fatto nel nord del Giappone: ne aveva regalato uno ciascuno, per cui quel portapenne non era mai stato oggetto delle loro contese.

Man mano che usava le matite, il mezzano non ebbe cura di riporle al loro posto e ben presto si ritrovò con i colori sparsi per tutta la scrivania. Quando, infine, afferrò l’ultimo, involontariamente urtò il gomito contro tutti gli altri colori che erano vicini ed essi finirono a terra, facendo un gran rumore.

Oh no!

Subito Takaji si voltò verso il fratellino, che in quel momento iniziò a muoversi.

Che guaio!

In men che non si dica il bambino chiuse il libro e lo ripose al suo posto; poi si precipitò a terra e afferrò le matite che erano cadute, per poi rimetterle nel portapenne.

Nel frattempo Yuzo aprì lentamente gli occhi, svegliato da quel baccano: come aveva ben profetizzato sua madre era bastato poco per ridestarlo dal suo sonno. Il piccolo si stropicciò gli occhi e diede un profondo sbadiglio; poi si voltò attorno e, non appena capì di non avere più la mamma accanto a sé, iniziò a frignare: sembrava non essersi accorto nemmeno della presenza del fratello, proprio a pochi passi dal suo letto.

A quella vista Takaji si allarmò: se sua madre e lo zio avessero sentito il fratellino piangere, lui poteva dire addio al Kakegawa Kachouen! Così tornò da Yuzo e cercò di calmarlo: non sapeva come, ma ci avrebbe provato in tutti i modi, pur di non vederlo in lacrime. «No... fratellino... ti prego, non piangere: giochiamo insieme... ma smettila di piangere, ti prego...»

L’altro sembrò calmarsi, al punto che Takaji fu sul punto di rassenerarsi. Ma suo fratello, dopo averlo guardato negli occhi per qualche secondo, tornò a frignare.

«Uaaah! Voglio la mamma!»

«Su... dai... smettila...»

«Mamma!»

Niente da fare: qualsiasi cosa Takaji gli stesse dicendo, non aveva alcun effetto su Yuzo. Il mezzano stette quasi per rassegnarsi... finché, ad un tratto, ebbe in mente un’idea: tirò un profondo sospiro e urlò a squarciagola, come se si fosse fatto molto male.

Yuzo si fermò, incuriosito da ciò che stava accadendo: anche se stava ancora singhiozzando, guardò il fratello maggiore con grande sbigottimento. «Ti... ti sei fatto male?» gli chiese.

«Eheheh!»

Takaji sorrise di gusto: era riuscito ad attirare l’attenzione del fratellino con grande successo. Si sedette sulle coperte e sussurrò nell’orecchio di Yuzo: «Stammi bene a sentire! Stiamo tutti facendo un gioco, e adesso arriverà la mamma: rimettiti subito a letto e dormi, ok?»

Il piccolo continuò a singhiozzare. «Ma io non ho sonno...»

«E allora fai finta di dormire! Devi farti trovare a letto fermo fermo e con gli occhi chiusi chiusi, se vuoi vincere il primo premio!»

«Quale premio?»

«Te lo dico dopo, ora rimettiti a letto!»

«E tu? Non giochi?»

Takaji tirò un sospiro, inventandosi su due piedi l’ennesima bugia di tutta quella storia. «Io ho perso subito...» mormorò con uno sguardo molto triste. Poi arruffò i capelli del fratellino e con determinazione continuò: «Ma a te non succederà! Ti aiuterò a vincere il gioco: dai, ora chiudi gli occhi e fai finta di dormire!»

Contento di aver trovato in Takaji un valido alleato per quell’improvviso gioco di cui non aveva capito molto, Yuzo fece come gli aveva detto, mentre il mezzano tornò velocemente presso la scrivania.

Proprio in quel momento si aprì la porta della cameretta. Nel vedere Yuzo che apparentemente stava ancora dormendo e Takaji che era seduto e lo stava osservando con lo stesso atteggiamento di un falco verso la sua preda, la loro mamma ne fu sorpresa: giurò che l’urlo che aveva appena udito proveniva proprio da quella stanza, ed era del suo secondogenito. Anzi... la donna poté anche giurare di aver sentito l’altro figlioletto piangere disperato; però la scena che stava vedendo era completamente diversa dalle sue aspettative.

«Takaji, ma... mi hai chiamato?» chiese Izumi sottovoce.

L’altro scosse la testa senza dire una parola.

«Non fare il bugiardo: ti ho sentito urlare... Cos’è successo qui?»

«Uuuuh, mamma...»

Takaji si alzò e raggiunse la madre; poi le fece cenno di chinarsi su di lui e mormorò: «Volevo prendere uno dei libri sulla scrivania... e mi è caduto sul piedino... però non mi sono fatto male, guarda!»

Il mezzano allungò la gamba verso di lei, agitandola senza problemi, e aggiunse: «Hai visto, mamma? Ho urlato, ma il fratellino non si è svegliato!»

Izumi alzò lo sguardo verso il lettino: il figlio era girato di spalle, e sembrava stesse ancora dormendo profondamente. Tornò a guardare Takaji, ora con l’animo rassicurato. «Va bene,» disse, arruffando i capelli del piccolino. «Io torno giù. Per qualsiasi cosa chiamami, ok?»

«Sì, mamma.»

La porta si richiuse, e Takaji poté tirare un altro sospiro di sollievo. La gita al Kakegawa Kachouen era ancora salva, per sua fortuna!

 

«Fratellone... ho vinto?»

Non appena sentì il rumore della porta che si era appena chiusa, Yuzo si girò sull’altro fianco mentre suo fratello tornò da lui. Entrambi si sedettero sul lettino, e Takaji sorrise.

«Non ancora,» rispose l’altro sottovoce. «Ora inizia il bello del gioco! Da adesso, qualsiasi cosa mi dici... dovrai dirla zitto zitto come sto facendo io, così la mamma non tornerà qui prima della fine del gioco!»

«Davvero?» chiese Yuzo, cercando di parlare con tono sempre più basso.

«Certo! E sai cosa si vince?»

«Cosa?»

«Una gita al Kakegawa Kachouen

«Ka... kake... che cos’è, fratellone?»

«È un luogo dove ci sono tanti uccelli colorati, e un sacco di fiori!»

«Tanti tanti?»

«Sì!»

Al più piccolo brillarono gli occhi e subito esplose di gioia. Esattamente come il fratello mezzano anche Yuzo amava molto la natura, con i suoi ampi e verdi spazi che ospitavano gli abitanti dalle mille forme e colori: il correre libero e indisturbato degli animali che la popolavano lo affascinava, e tra i tanti sogni che aveva nella sua mente c’era quello di voler camminare fianco a fianco con loro, parlare con loro e forse - chissà - anche dormire insieme a loro, se ci fosse stato un modo per farlo. «Che bello! Voglio andarci, voglio andarci!» esclamò con le mani verso l’alto, incurante del fatto che avesse improvvisamente alzato la voce.

Takaji gli sorrise e subito lo intimò di parlare in silenzio, con un semplice gesto, avvicinando l’indice alle labbra. «Sì, ma solo se farai il bravo... d’accordo?»

«Va bene!»

Yuzo scese dal letto e, di soppiatto, si avvicinò ai giochi che erano sparsi sul pavimento. Prese due peluche, una giraffa e una tigre, e diede quest’ultima al fratello. «Giochiamo a calcio!»

«Eh?»

«Sì!» esclamò il piccolo, afferrando anche una piccola palla di stoffa che la loro mamma gli aveva cucito. «Dai, giochiamo!»

Yuzo tornò sul lettino e, muovendo la giraffa, lanciò la palla verso suo fratello che la respinse con la tigre che aveva in mano. Dopo qualche passaggio, senza volerlo Yuzo lanciò la palla verso il portapenne che si smontò con l’impatto al suolo.

Il piccolo si avvicinò all’oggetto e cercò di rimettere insieme i pezzi, ma non ci riuscì. Li lasciò cadere a terra e piagnucolò: «Si è rotto...»

«Non si è rotto, fratellino! Lascia fare a me!»

Takaji scese dal letto, prese tutti i pezzi e aiutò il fratellino a rimontare il portapenne; quando ebbero finito lo rimise sulla scrivania, e mostrò uno sguardo pieno d’orgoglio.

«Visto? Come nuovo!»

Yuzo guardò con ammirazione il portapenne che ora era di nuovo al suo posto, sulla scrivania.

«Grazie, fratellone!» disse a Takaji, prendendolo per mano e trascinandolo verso il lettino. «Ora torniamo a giocare!»

«Sì!» rispose il mezzano con allegria. «E se dovesse rompersi qualcosa, io ti aiuterò ad aggiustarlo!»

Yuzo annuì, e rise di gioia. «Va bene!»

 

In quel momento la porta della cameretta si aprì leggermente. Izumi, che nel frattempo era rimasta nelle vicinanze, diede una fugace occhiata ai due bambini che erano tornati a giocare.

Con un sorriso richiuse la porta, avendo cura di non fare rumore per evitare di attirare l'attenzione dei suoi figli, e si allontanò scuotendo la testa con fare sereno.

Allora non mi ero sbagliata. Avevo ragione io: che piccoli furbetti!

 

 

 

Qualche ora dopo, la famiglia Morisaki si era radunata nel soggiorno. All’appello mancavano i genitori di Hideki, i quali - come ogni anno - non potevano lasciare incustodito il jinja di famiglia, e quelli di Izumi che quell’anno erano fuori dal Giappone per una crociera. Gli assenti, però, avevano avuto premura di consegnare a Izumi i regali per il loro nipotino che, non appena li aveva visti, non ci aveva pensato due volte a scartarli e a lacerare la carta regalo come un avvoltoio.

Per questo motivo Hideki, che era appena rientrato dal lavoro, si rifugiò nella cucina dopo aver salutato suo fratello Noboru e i suoi figli che giocavano con lui e si divertivano rincorrendosi a vicenda; giunto là, si tolse di spalle il borsone che aveva con sé sin dal mattino, lo aprì e prese un pacco che teneva ben nascosto, posandolo in un angolo della stanza e facendo ben attenzione a non essere visto dai bambini, soprattutto da Yuzo.

Izumi era invece intenta con gli ultimi preparativi del tavolo dei festeggiamenti: tovaglioli, piatti e bicchieri adornavano un piccolo tavolo in legno che avevano preso dal ripostiglio, che utilizzavano solo in occasione dei compleanni dei piccoli; l’intera stanza era un miscuglio di colori tra lunghe decorazioni in carta che penzolavano dagli angoli dei mobili e ghirlande di origami sparsi qua e là lungo le pareti.

Non appena terminò l’allestimento Izumi si diresse in cucina, prese la torta che aveva preparato e, tornando nel soggiorno, richiamò l’attenzione dei presenti. «Venite tutti qui, vicino al tavolo!»

Yuzo fu il primo a raggiungere la postazione. Noboru, che in quel momento aveva due dei suoi tre nipotini avvinghiati alle sue gambe, iniziò a muoversi a fatica verso il tavolo: doveva stare attento sia a non cadere, a non fare del male a quelle scimmiette che non si decidevano a lasciarlo libero.

«Dai, bambini...» sussurrò lo zio, cercando di essere il più gentile possibile con loro, «... potreste mollare la presa per un secondo? Così non arriveremo mai al tavolo!»

«No!» esclamò Takaji, stringendosi ancora di più alla gamba sinistra.

«Tutti insieme, vicini vicini!» affermò Ken'ichi, tenendosi ben stretto alla gamba destra.

«Ahahah, che lumache!» disse Yuzo, ridendo di gusto. «Io sono già qui, io sono già qui!»

«Dai, zietto: più veloce, più veloce!»

«Ha ragione il fratellino, sei lento!»

Noboru diede un profondo sbuffo, ma era felice di poter giocare ancora una volta con i suoi nipotini... nonostante la situazione di grande svantaggio nella quale si trovava. Con quei piccoletti finiva sempre in quel modo: quando tutti e tre erano d’accordo, era impossibile riuscire ad imporre la propria volontà. «Datemi tregua...» commentò lo zio con un sorriso, mentre a stento riuscì a raggiungere il tavolo.

A quel punto Hideki, che si trovava vicino alla porta d’ingresso, spense l’interruttore delle luci del soggiorno, lasciando che le candele accese della torta illuminassero la stanza. Tutti iniziarono a intonare la canzone di buon compleanno, mentre Izumi posò la torta di fronte a Yuzo.

«Tanti auguri a te, tanti auguri a te...»

Il piccolo festeggiato si divertiva ad essere al centro dell'attenzione, con gli occhi puntati solo su di lui: ogni volta che accadeva, quel momento diventava magico perché intorno a lui c’erano le persone che gli volevano bene, e questo sentimento era reciproco. Ebbe la tentazione di correre da ognuno di loro e abbracciarlo, ma sentiva che doveva restare fermo e non interrompere quel momento, solo un altro po’.

«Tanti auguri a Yuzo...»

Ci fu una breve pausa come da tradizione, e Takaji fu subito il primo ad intonare «Tanti auguri a te!» seguito dal resto del gruppo.

«Dai, Yuzo: soffia, soffia!» proseguì il mezzano, incoraggiando il fratellino a soffiare le candeline.

«Così dopo mangiamo la torta!» aggiunse Ken'ichi.

«E invece no: me la pappo tutta io!»

«Papà!»

I tre bambini urlarono in coro, con un’espressione di sbigottimento calata improvvisamente sui loro volti.

Hideki scoppiò in una fragorosa risata e si scusò con loro. «Tranquilli, stavo scherzando! Ma prima Yuzo deve aprire i regali, altrimenti niente torta davvero!»

«Uffa...»

Ken'ichi e Takaji misero su un broncio che fu di breve durata, mentre a Yuzo brillarono gli occhi per quella bella notizia che le sue piccole orecchie avevano appena udito: altri regali era per lui un sinonimo di altri giocattoli con i quali divertirsi, e non vedeva l’ora di scoprire cosa avessero preparato i suoi genitori e fratelli.

Hideki corse in cucina per prendere il regalo che aveva nascosto e lo portò nel soggiorno. «Ta-da! Questo è per te, Yuzo!»

Al piccolo si illuminarono gli occhi e tese le braccia per cercare di afferrarlo; ma per fortuna Noboru sollevò Yuzo prima che finisse sulla torta con risultati disastrosi.

«Ma prima devi esprimere un desiderio e soffiare le candeline!» disse Noboru, tenendolo ancora sospeso per aria.

Yuzo annuì: era, sì, più interessato al regalo, però decise di accontentare lo zio. Prese fiato e spense le candeline con tutta la forza che aveva.

«Bravo!» disse Noboru tra gli applausi di tutti i presenti, e subito prese dietro di sé una busta colorata a forma di sacchetto, per darla a suo nipote. «E questo è il tuo, tanti auguri!»

«Aspetta, fratellino!» disse Ken'ichi, correndo dall'altra parte della stanza e prendendo una piccola confezione di cartone che lui e Takaji avevano nascosto dietro il divano. «Anche questo è tuo: è il mio e di Takaji!» esclamò, porgendo l’oggetto a Yuzo.

Il festeggiato fu contento di tutti quei regali e, mentre la mamma tolse la torta dal tavolo per affettarla, si rivolse a Noboru mostrandogli il suo regalo ancora chiuso. «Zietto, apro questo?»

«Certo! Afferra e distruggi: là dentro non c'è nulla che si possa rompere!»

Senza pensarci due volte, Yuzo strappò la carta regalo che lo avvolgeva: al suo interno trovò un peluche di un coniglio giallo dagli occhi azzurri, dalle orecchie che assomigliavano a due piccole ali, e indosso una divisa color arancione. Non appena lo vide, il bambino aprì ancora di più i suoi occhi: infatti non aveva tra le mani un coniglio qualsiasi, ma era...

«Pulchan!»

Yuzo l’aveva visto qualche volta in televisione: era la mascotte della Shimizu S-Pulse, ma il bambino non sapeva bene cosa ci facesse un gigantesco coniglio su un campo da calcio; ciò che l'aveva colpito fin da subito era, piuttosto, il fatto di essere un coniglio e indossare una divisa da calciatore di colore arancione, e gli era simpatico già dal modo in cui si muoveva sul campo con le sue danze. Da allora il piccolo aveva tormentato il padre per giorni ad avere un Pulchan a casa sua; per fortuna del genitore, lo zio lavorava proprio in un negozio dove vendevano qualsiasi cosa a tema “Pulchan”, per cui Hideki aveva suggerito a Noboru di regalare a suo nipote un peluche, così che poteva giocarci insieme.

Yuzo si voltò e si gettò addosso allo zio, così da abbracciarlo per la gioia. «Grazie, zietto! È bello!»

«Ora apri il nostro!» Ken'ichi e Takaji presero i bordi della maglietta che indossava il loro fratellino, cercando di richiamare subito la sua attenzione. «Dai, dai: aprilo!» continuarono in coro.

Yuzo prese la scatola e, con sveltezza, tolse il nastro che l'avvolgeva. L’aprì e trovò al suo interno altri due peluche: due orsetti, che fino a quel giorno erano dei due fratelli, che avevano addosso due magliette arancioni - opera della loro mamma - con le iniziali “KE” e “TA”.

«Allora...» iniziò Ken'ichi indicando il suo orsetto, «la mamma dice che su questi orsetti ci sono le nostre iniziali...»

«Così penserai a noi anche quando non ci siamo!» aggiunse Takaji.

Yuzo guardò i due peluche con gli occhi colmi di felicità, e strinse Ken'ichi e Takaji in un grande abbraccio. «Sono belli, grazie!»

«E ora...» interruppe Hideki, appoggiando l'ultimo regalo sul tavolo. «Ti manca solo questo!»

Il padre diede una fugace occhiata alla moglie, che nel frattempo si era affacciata dalla cucina. «E sono certo che ti piacerà tanto!»

Subito Yuzo strappò la carta colorata che avvolgeva il regalo e aprì la scatola, trovando al suo interno un’altra scatola. Il piccolo rise per quell'insolita sorpresa, prendendola come un gioco; così aprì anche quella scatola: ne trovò un’altra, e un’altra ancora... fino ad arrivare all'ultima.

«Ok, ci siamo!» esclamò Izumi. «Tutti pronti a fare “Ooooooh...”»

«Ooooooh...» ripeterono i presenti in coro.

Yuzo sollevò il coperchio della scatola, e guardò con sorpresa il contenuto. Non riusciva a crederci: dentro quella scatola, proprio lì, davanti ai suoi occhi... vi era un piccolo pallone da calcio. Lo prese in mano, e i suoi occhi iniziarono a essere sempre più lucidi per la gioia. «Un pallone... un vero pallone! Ed è così grande!»

Hideki e Izumi si avvicinarono a lui, e gli dissero: «Siamo felici che ti piaccia!»

«Sì! Tanto tanto! Grazie!»

Il bambino scese subito dalla sedia e corse verso i genitori per abbracciarli. La coppia aveva sempre cercato di accontentare i desideri dei loro figli con i vari regali di compleanno: a Ken'ichi avevano regalato tutto a tema marino, dai peluche ai libri, soprattutto con i suoi amati squali; a Takaji che, crescendo, sembrava essere più affezionato al mondo della foresta - in particolare agli uccelli e al lupo - nei suoi regali predominavano gli elementi della natura. Ora toccava al piccolo Yuzo che, nonostante fosse ancora piccolo, sembrava già avesse una predilezione per il calcio: il terzogenito quasi si incantava a vedere le partite che si svolgevano nel campetto del parco della città, quando con la mamma o con il papà usciva per una passeggiata. Anche se ancora non capiva molto delle dinamiche di quel gioco, quel mondo sembrava affascinarlo: amava il modo in cui quei ragazzini calciavano la palla, e come sembravano essere felici quando riuscivano a metterla in rete.

Hideki e Izumi erano contenti di vedere il loro figlioletto così pieno di entusiasmo con il suo nuovo gioco: erano riusciti, ancora una volta, nel loro obiettivo.

Stringendo il pallone tra le mani, Yuzo si precipitò verso la porta del soggiorno con il chiaro intento di uscire fuori di casa: era molto emozionato e sempre più impaziente di provare il nuovo gioco che aveva tra le mani. «Vado fuori a giocare, ciao!»

Ma Noboru riuscì a prenderlo in tempo, prima che si dileguasse. «Dove credi di scappare, monellino?» gli disse bonariamente. «Ricordi cosa dobbiamo fare adesso? Dobbiamo...»

«Ah, sì!» esclamò il piccolo, tornando da Takaji. «Lo so, lo so! Fratellone, chi ha vinto il gioco?»

«Quale gioco?» Hideki si avvicinò al fratello, sinceramente incuriosito da quella domanda, e gli sussurrò compiaciuto: «Hai messo in palio qualche bel premio per i miei figli? Che bravo zietto che sei!»

«Beh, veramente...» L’unica cosa che Noboru riuscì a ricordarsi era la promessa che aveva fatto a Takaji. Ma egli non ne aveva ancora parlato con Yuzo, perciò...

In un attimo, come un improvviso lampo nel cuore della notte, gli venne un’illuminazione. Vuoi vedere che quel furbetto...

«Sì!» esclamò Takaji, salendo in piedi sulla sedia dove prima si trovava Yuzo. «Il vincitore è... sei tu, fratellino!»

«Evviva!» urlò il festeggiato e alzò le braccia per esultare, lasciando così che il pallone cadesse a terra. «Ho vinto, ho vinto! Andrò dagli uccelli colorati! Al Ka... Ka... Come si chiama, fratellone? Non ricordo!»

«Kakegawa Kachouen!» esclamò candidamente il secondogenito, voltandosi verso lo zio e dicendogli: «Ce l'hai promesso! Ho fatto il bravo, e anche Yuzo: ci porti al Kakegawa Kachouen

«Al Kakegawa Kachouen?» chiese Ken'ichi. Anche lui aveva subito capito a cosa si stesse riferendo Takaji, sebbene fu sorpreso di udire che si fosse svolto un gioco al quale lui non aveva assolutamente partecipato. «Sì, zietto!» aggiunse, unendosi all’euforica richiesta degli altri due fratelli. «Ti prego, ti prego: andiamo là!»

I tre bambini si avvicinarono al loro zio e iniziarono a tirarlo per la maglietta, continuando a rivolgergli quell’incessante richiesta. Sotto lo sguardo divertito dei genitori, Noboru si rassegnò all’evidenza e annuì, e i tre piccoli lo celebrarono subito con un tripudio di gioia.

Ora che si era diffusa la notizia, egli doveva accompagnare non solo Takaji... ma tutti e tre i suoi nipoti, offrendo loro il biglietto di ingresso: lo avrebbe fatto ben volentieri, però in quel momento venne mortificato dal pensiero che quei tre piccoletti sapessero già dove li avrebbe portati nella successiva uscita di famiglia. Tranne per Takaji e i suoi genitori, per gli altri due nipotini doveva essere una bella sorpresa!

Lo sapevo! - pensò, prendendo in braccio Yuzo che iniziò a giocherellare allegro con i suoi capelli lunghi fino al collo. Quella piccola peste di Takaji... volevo essere io a dirlo a Yuzo: ha rovinato la sorpresa finale!

 

 

Note dell'autore:

[1] L’ukiyo-e è una tipica forma d’arte giapponese del periodo Edo caratterizzata da xilografie incise su blocchi di legno dipinti e utilizzati per le stampe su carta di numerose copie; in genere rappresenta sempre paesaggi, natura, quartieri o soggetti teatrali. Maggiori informazioni qui e qui.

[2] Il sakaki (nome scientifico: Cleyera japonica) è un albero sempreverde che nella religione shintoista è considerato sacro; infatti non è raro che i santuari siano circondati da alberi di sakaki. Nel corso delle varie cerimonie che si svolgono presso i santuari, è d’uso decorare i rami di questi alberi con fettucce di carta per creare i tamagushi, che vengono poi presentati alle divinità.

[3] Gli abiti dei sacerdoti shintoisti (shōzoku) sono tanti e variano in base al ruolo svolto; tra essi c’è il kariginu, il vestito quotidiano dei sacerdoti (e che vedremo a breve), il saifuku e la hakama come nel caso di Hotaka, una toga con tipica gonna a pieghe giapponese che è lunga fino alle caviglie. Maggiori informazioni anche qui.

[4] Il kannushi è la più alta carica sacerdotale che opera in un santuario, incaricato della custodia di un jinja e dell’organizzazione delle cerimonie. In origine il kannushi era una figura carica anche di un profondo significato spirituale poiché tramite tra le divinità e l’uomo, per cui era considerata molto sacra. I kannushi possono avere una famiglia e, come avveniva un tempo, i loro figli possono succedere nel loro ruolo.

[5] Esiste un esame di abilitazione per diventare dei sacerdoti shintoisti (o shinshoku), oppure frequentare anche una scuola approvata dall’Associazione dei santuari shintoisti. Il gon-negi è il ruolo al quale può aspirare Hotaka in questo punto della storia poiché novizio, mentre il più alto rango viene definito gūji.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Rieccoci qui: dopo la pausa del Writober, siamo tornati con il terzo capitolo di quest'opera (che di parte in parte inizia ad essere più lunga!) Posso già anticiparvi che da questo punto in poi gli aggiornamenti saranno più regolari - anche se ho iniziato il NaNoWriMo, ma per fortuna non devo pubblicare nulla nell'immediato a parte queste parti che ho già preparato prima dell'inizio di questo evento. Per cui nessun problema: continuerò a tenervi compagnia con questa storia! ;)

Qui iniziamo ad entrare nel vivo della storia di Yuzo: tutti i capitoli, sia quelli su Yuzo che gli altri su Shingo, avranno una differenza tra loro di tre anni per cui si procederà così: tre, sei, nove, dodici... per cui questo e il capitolo successivo riguarderanno i due compleanni dei tre anni di questi pargoletti che adoro. In particolare da qui i due protagonisti sono cresciuti un po', per cui inizieranno ad interagire con la loro famiglia e con il mondo che li circonda...

Come avete visto, in questo caso le note sono state abbondanti perché legate ad un ambiente religioso dell'Oriente, e qui è mio dovere raccontare brevemente di ciò che ha fatto nascere la parte sul santuario dei Morisaki, perché era totalmente assente nella prima stesura dell'intera opera: principalmente la volontà di dare dei nonni a Yuzo, scaturito in seguito ad una conversazione a ruota libera con Melanto. Pensando e ripensando al come inserirli nella storia, mentre stavo scrivendo l'undicesima parte di quest'opera (per cui molto, molto avanti...) e ragionando sul cognome di Yuzo (con quei due kanji di "foresta" e "promontorio" che sono ben in evidenza) mi è venuta in mente l'idea di un santuario posto sulla famosa collinetta del belvedere dal quale Tsubasa lancia il pallone a Genzo.

La storia di quel belvedere è molto complessa e cambia di volta in volta, dal manga all'anime - una volta è la cima del colle stesso, una volta vedi qualcosa che c'è alle spalle... - e per questo non sono stata ad indagare più di tanto ma già da un primo sguardo ho notato qualche differenza. Anche se nel primo capitolo del manga è evidente che il belvedere si trova sulla cima della collina (e lo è ancora di più nel capitolo 44 del World Youth), nella prima puntata dell'anime del 2018 si vede un sentiero non asfaltato che porta ancora più su, verso dove non si sa; tra l'altro, nella prima puntata dell'anime del 1983 si vede la presenza di un edificio che ricorda il classico tempio giapponese (confermato anche da Genzo che lo definisce proprio "jinja" nell'audio originale), elemento ripreso anche nella terza puntata dell'anime J con tanto di scalinata che lo precede... Riassumendo: se nel manga la cosa non è confermata perché su quel colle sembra non esserci nulla di più - o il tempio shintoista è nascosto bene tra gli alberi che si vedono alle spalle - nell'anime sembra che ci sia un accenno alla presenza di un'area sacra dedicata agli dei; il punto è che nell'anime viene rappresentato nelle immediate vicinanze, e in un certo senso ciò contrasta con la filosofia di questi luoghi dove, essendo luoghi di pace, di norma non si può correre o fare molto rumore (per cui è impensabile che per esempio Tsubasa e Taro si divertino a passarsi il pallone davanti al tempio, LOL)

Dunque, quale è stata la soluzione che ho voluto dare a quel luogo? Molto semplice: riprendere lo scenario dell'anime del 2018 e piazzare il jinja (cioè il santuario shintoista giapponese) sulla cima di quel colle che in questo caso diventa più alto, trasformandosi in una montagna quando in origine si tratta di una semplice collina. Anche per questo la mia storia è una What if, no? ;D

Prima di proseguire con il discorso del santuario e del relativo collegamento con i Morisaki, di seguito vi riporto la seconda "appendice" dei nuovi personaggi comparsi qui e direttamente collegati al jinja - non in ordine di apparizione:

 

- Shigeru 「茂」 è il padre di Hideki, e fratello di Sadao. Rigoroso e austero, ma con un lato dolce e affettuoso che mostra raramente e solo nei confronti dei membri della sua famiglia, è uno dei sacerdoti che ogni giorno si prende cura del santuario degli yama-no-kami del territorio di Nankatsu, e guidato da membri della famiglia Morisaki sin dalla sua fondazione. Essendo il primogenito, in principio era destinato a diventare il kannushi del santuario, ma in seguito aveva deciso di lasciare questo importante ruolo a suo fratello, vedendo in lui un legame con gli dei molto più forte del suo. Il suo nome significa "fiorente/lussureggiante" (essendo il primo di famiglia, doveva pur sempre avere un nome beneaugurante... ;D)

- Ayaka 「彩華」 è la moglie di Shigeru. Dolce e sensibile, è una delle due donne che insieme ai fratelli Morisaki gestiscono il santuario di famiglia. Il suo nome significa "petali colorati".

- Sadao 「貞雄」 è il padre di Hotaka, nonché kannushi del santuario della famiglia Morisaki. A differenza del fratello è gioioso ed estremamente scherzoso, e non ama molto le formalità nonostante sia un personaggio profondamente rispettato da tutta la città di Nankatsu. (A questo punto è ovvio che Noboru, che è suo nipote, ha preso da lui e non da suo padre... XD) Il suo nome significa "uomo forte come un fusto d'albero".

- Michi 「道」 è la moglie di Sadao. Insieme ad Ayaka si prende cura del santuario, svolgendo diverse mansioni. Il suo nome significa "sentiero".

- Hotaka 「穂高」 è l’unico figlio di Sadao e Michi. Fin da piccolo ha amato restare accanto ai genitori nella cura del santuario di famiglia, e in questo capitolo sta studiando per diventare un sacerdote shintoista (e futuro kannushi dato che, a quanto pare, è l'unico della discendenza a trovarsi in quel luogo). Il suo nome significa "Passo dopo passo": piccolo fun fact, è lo stesso nome del monte più alto delle Alpi Giapponesi. :3

 

Detto questo, perché proprio i Morisaki? Sia chiaro: non è perché è la famiglia del mio personaggio preferito, ma la storia del santuario di famiglia è scaturita proprio da quel cognome. "Morisaki" 「森崎」 è composto da due kanji, il primo è quello di foresta 「森」 mentre il secondo quello di promontorio 「崎」; letteralmente questa combinazione di kanji si potrebbe interpretare come "la foresta sul promontorio" dunque che si trova su un punto molto elevato - il promontorio è una sporgenza montuosa della costa che si protende nel mare, con sponde ripide, e a volte uno stesso punto di riferimento per i navigatori data la presenza di fari o rocche su di esso. In quella zona di Nankatsu non c'è la presenza di promontori (anche se il mare è vicino) ma quella collinetta alla quale vi ho fatto accenno poco prima potrebbe richiamare qualcosa del genere; così, combinando questo elemento con gli altri dei quali prima vi ho scritto, mi sono inventata la storia della fondazione del santuario ad opera dell'antenato che sale sulla cima di quella montagna e scongiura tale catastrofe. Per cui, ecco qui il santuario della famiglia Morisaki che di generazione in generazione continua a prendersi cura di quel luogo...

Strettamente collegato ad esso vi è la complessa questione degli yama-no-kami, le divinità della montagna. Nella mitologia giapponese queste divinità sono davvero tante e dai tanti nomi che qui non vi elenco, ma sappiate che ogni santuario è intitolato ad una specifica divinità: ad esempio Konohanasakuya-hime (o comunemente conosciuta come Sakuya-hime) è la figlia del dio della montagna Ohoyamatsumi ed è proprio la divinità del monte Fuji, per cui i santuari che si trovano in quel luogo sono dedicati a lei. In generale gli yama-no-kami sono divisi in due gruppi: vi sono gli dei della montagna venerati da cacciatori, boscaioli e carbonai, e gli dei dell'agricoltura che arrivano dalla montagna e venerati dagli agricoltori.

Nel caso di Nankatsu non ho (ancora) inserito uno specifico nome, perché davvero per me è un intero e vasto mondo ancora tutto da scoprire... per cui alla fine ho lasciato le cose in modo generico. Magari chi è più esperto di me può suggerire un nome di una divinità del gruppo degli yama-no-kami con il perché dell'associazione con Nankatsu, cosa ne dite? ;)

Chiusa questa ampissima nota, passiamo alle altre precisazioni che non ho inserito nelle note del lettore:

 

- Il santuario shintoista giapponese (detto anche jinja) è composto da diverse parti che potete visualizzare in questo schema. Il jinja è preceduto da un sentiero spesso non asfaltato e quasi impervio - anche per questo motivo ho preso come riferimento l'immagine del belvedere di Nankatsu dell'anime del 2018 - che giunge al primo e imponente ingresso denominato torii; dal torii solitamente si accede all'area templare attraverso una scalinata in pietra che porta al sandō, la via che a sua volta porta all'haiden, la sala di culto aperta a tutti; dietro all'haiden esiste l'equivalente del nostro Sancta Sanctorum, denominato honden, più piccolo e privo di decorazioni. Nel 1946 è stata fondata l'Associazione dei santuari shintoisti (Jinja Honcho) con lo scopo di amministrare in modo uniforme i santuari shintoisti del Giappone; è la stessa Associazione che si occupa anche dei citati esami di abilitazione per diventare shinshoku, cioè un sacerdote che può operare all'interno del santuario.

- I versi degli animali nella lingua giapponese sono un po' diversi dai nostri, tanto è vero che il nostro "miao" tipico dei gatti diventa "nya" in Giappone. Per il gioco che Noboru fa con i suoi nipotini mi sono ispirata a questa guida sulle onomatopee dei versi degli animali in giapponese, dove "hihiin" è il verso del cavallo - solo che Noboru lo fa talmente male che sembra più la sirena della polizia... XD

- Per chi ancora non lo sapesse, la J.League è il campionato giapponese di calcio professionistico, con tre divisioni (J1 League, J2 League e J3 League) al pari delle nostre Serie A, B e C. Se volete avere maggiori dettagli e masticate un po' di inglese, potete dare un'occhiata al sito ufficiale con tutte le informazioni sulla durata, sui club che partecipano e sul come funziona il tutto. Chi è già avanti con la lettura del manga intuisce anche il perché ogni tanto esce fuori questo argomento, non solo - ovviamente - per offrire uno spaccato di vita quotidiana in stile giapponese (la discussione sulla televisione ne è l'esempio più lampante, come se qui in Italia la frase sarebbe stata "Come fai a vedere la Serie A se metti la TV in quel modo?"). Per cui, forse i più attenti di voi avranno già notato anche il dettaglio del colore delle magliette dei peluche dei due fratelli... ebbene sì, l'ho fatto apposta. ;D

- A proposito dei peluche, una doppia nota. La prima riguarda le iniziali "KE" e "TA", che sarebbero le iniziali dei nomi di Ken'ichi e Takaji; immaginatele scritte in hiragana, per cui su quelle magliette è riportata rispettivamente una cosa del genere: 「け」 e 「た」 (certo: Izumi avrebbe potuto scriverli anche in katakana, ma Yuzo deve ancora imparare tutto il complesso sistema dell'alfabeto giapponese per cui questo diventa anche un'occasione di apprendimento...) La seconda nota riguarda il colore delle magliette. Al di là della questione alla quale vi ho fatto accenno prima, togliendo tutto il contesto di CT dallo sfondo: pensando a Yuzo ho sempre immaginato che il suo colore preferito fosse proprio l'arancione; pensate che nella prima stesura di questa parte, infatti, avevo specificato che le decorazioni del tavolo e del soggiorno fossero proprio di tale colore, perché piaceva molto al bambino. Non chiedetemi il perché di questa scelta (fatta proprio a pelle) ma, giusto per una piccola curiosità, sappiate che uno dei significati del colore arancione è proprio la comprensione e la vitalità - doti che si trovano in Yuzo, in effetti...

- Ho immaginato così l'effettiva lunghezza della libreria dei Morisaki, che occupa quasi tutta la parete. Ora, riguardo la casa dei Morisaki in sé non abbiamo molti dettagli, se non due: uno proveniente dal manga (capitolo 15) e l'altro proveniente dall'anime del 2018 (episodio 13) nei quali si vede Yuzo che guarda la televisione, in quella che sembra essere più la sua stanza che un soggiorno; dunque al momento non abbiamo dettagli delle altre zone della casa dei Morisaki. Detto ciò, la libreria che ho immaginato è così lunga ma del tipo "zigzagata" per cui non c'è molto spazio per collocare una televisione sulla stessa parete se non al fianco di essa (che in questo momento non c'è perché la lunghezza è quella che vi ho segnalato). A meno che, come ha indicato Izumi, non si metta all'estremo angolo... Il mobile è il dono dei genitori di Izumi, cioè i nonni materni di Yuzo e dei suoi fratelli; anche loro hanno un nome, ma dovrete attendere un po' per scoprirlo. ;)

- A proposito della cameretta di Yuzo: in questo caso ogni fratello ha una stanza a sé - come di solito vediamo negli anime e nei manga - situata al primo piano della loro casa. Per questo piccolo terzogenito della famiglia ho immaginato un lettino futon rigorosamente posto a terra, per cui Yuzo non ha problemi a salire e a scendere dal letto (d'altronde, ha già tre anni...)

- Il Kakegawa Kachouen è un parco a tema floreale, dove si trovano anche un sacco di uccelli tra i quali proprio i pinguini (amori miei! **) In giro trovate un sacco di articoli informativi di questo parco, tra i quali il sito turistico della città di Hamamatsu nella prefettura di Shizuoka.

- "Ci fu una breve pausa come da tradizione." Questa frase non è stata scritta a caso perché in Giappone la classica canzone del compleanno è identica alla nostra in tutto e per tutto, tranne per un piccolo particolare: si fa una pausa più prolungata quando pronunciano il nome del festeggiato, come avviene in questo caso (dal minuto 7:38); inoltre solitamente viene cantata in lingua inglese e non in giapponese, anche se qui ho lasciato direttamente in italiano per semplificare il tutto.

- Pulchan è la mascotte della Shimizu S-Pulse, una delle squadre di calcio della J.League, del territorio di Shizuoka. (E qui ammetto di non averla citata a caso, LOL!) Lavorando proprio in un negozio che tra le tante cose vende anche gadget a tema sportivo, per Noboru non è stato difficile reperire un peluche di questa carinissima mascotte dalle orecchie che assomigliano a due piccole ali. Ora, al di là della squadra per la quale simpatizzano i Morisaki (per cui, mettendo il caso che tifano tutti per la S-Pa si potrebbe pensare che anche i genitori di Yuzo abbiano influenzato i loro figli - un po' come avviene anche da noi con intere famiglie che tifano Juventus, Milan, Inter e così via), immaginate negli occhi del piccolo Yuzo l'effetto che fa il vedere un gigantesco coniglio di colore arancione su un campo da calcio: per un bambino della sua età ho immaginato che fosse normale desiderare un peluche a forma di quella mascotte - tra l'altro, trovandosi Nankatsu nel territorio di Shizuoka, è anche normale che una mascotte come Pulchan abbia un impatto maggiore rispetto alle altre... ;D

Il nome può essere scritto in diversi modi: sul web a volte si trova la dicitura "Pal-chan" (come nel caso del sito della J.League) per richiamare la pronuncia del nome che è all'inglese, essendo "Pulse" un richiamo al battito del cuore (e a sua volta un termine della lingua inglese), oppure come "pal" (altro termine inglese) che significa "amico"; a volte il nome della mascotte può essere scritto tutto attaccato, come ho fatto io, oppure con un trattino per separare i termini "Pul" e "chan", quest'ultimo tipico suffisso onorifico giapponese. Qui e qui potete trovare la spiegazione a questa storia di "Pul" e "Pal". In più, questa mascotte è spesso accompagnata da Pical-chan, una coniglietta dal suo stesso colore e stesse orecchie alate.

(Riguardo tutto questo argomento, qui può illuminarci la massima esperta di Yuzo e della S-Pa - indovinate chi? :D - qualora dovesse esserci qualche imprecisione in ciò che ho appena scritto...)

Se volete vedere Pulchan "in azione", qui e qui potete trovare due dei brevi video che circolano sul web. :)

- Infine, ultima nota ma non meno importante: c'è un motivo per il quale il piccolo Yuzo potrebbe sembrare un po' OOC in questa parte. Della serie: "cos'è successo al piccolo Yuzo così tranquillo che vediamo all'inizio della serie di CT? Perché qui è così scatenato; non dovrebbe essere più calmo?" Beh: non dimentichiamoci che a quell'età è del tutto normale essere bambini vivaci e casinisti, ed è altrettanto normale che il comportamento sia quello in presenza di altre due piccole "tempeste"...

...

... circa. Tranquilli che ho previsto anche questo e aggiusterò il tiro nel corso di questa storia: presto vedrete lo Yuzo al quale siete abituati dai primi capitoli di CT. :3

 

Per oggi penso di aver detto abbastanza (forse anche troppo, LOL!), per cui ci vediamo direttamente al prossimo aggiornamento, con un altro piccolo "tornado" pronto ad accogliervi!

A presto!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 4
*** Legami fraterni - Tre anni | Aoi's side ***


Fanfiction
gD2oHls

Legami fraterni.

{Tre anni | Aoi's side}

 

 

BGM: N U A G E S - Distant

 

 

 

[12 Marzo, un anno dopo. Nakahara, prefettura di Gifu.]

 

La giornata era iniziata male per la piccola Yukiko.

Si era svegliata con un grande mal di stomaco, seguito da un forte senso di nausea; la piccola non era riuscita a fare colazione e subito si era rimessa sotto le coperte. Il termometro con il quale sua mamma Yumi le aveva misurato la febbre segnava trentasette e mezzo: una temperatura non molto alta, ma che aveva portato il genitore alla ferrea decisione di non farla andare a scuola. Nel vederla così spossata, per sua madre Yumi il riposo e un’ottima tisana rigeneratrice sarebbero state la soluzione migliore per rimetterla presto in forze.

Dal suo lettino, ogni tanto la piccola rivolgeva lo sguardo verso la finestra e dava un’occhiata stanca al panorama che circondava il borgo. A Nakahara sembrava una giornata splendida, come tutte le altre di un inizio di primavera eccezionalmente caldo: i raggi del sole facevano brillare ancora di più le cime delle montagne ricoperte di neve, mentre gli uccellini cinguettavano come se fossero stati in festa.

A Yukiko vennero le lacrime agli occhi: quel giorno avrebbe preferito uscire di casa a giocare con i suoi amichetti o andare in giro per il paese con la sua adorata nonna; invece si era ritrovata a casa con l’influenza. Come tutti i bambini della sua età era molto triste per il fatto di non riuscire nemmeno ad alzarsi dal letto: avrebbe voluto passeggiare sotto i cedri rossi che decoravano il centro cittadino, o correre presso il ruscello che attraversava il paese e sentire la brezza primaverile che dolcemente sfiorava le sue guance. Purtroppo per quanto la sua ostinazione la stesse spingendo a sforzarsi almeno a rizzare la sua schiena, Yukiko dovette accontentarsi: l’influenza aveva prosciugato tutte le sue forze, facendo in modo che tutto ciò che aveva appena immaginato per quel giorno sarebbe rimasto solo un piacevole sogno.

Con questi mogi pensieri la bambina chiuse lentamente gli occhi, e si addormentò.

 

Chi, invece, sembrava avere molte più energie del solito era il piccolo Shingo. Quello che stava per iniziare era un giorno speciale per lui: quello del suo terzo compleanno; un giorno molto bello, ricco di felicità, che avrebbe trascorso giocando con i suoi genitori, la nonna e la sua amata sorellina quando sarebbe tornata da scuola.

Almeno, questo era ciò che lui pensava di fare. Quando aveva aperto gli occhi nella stanza che condivideva con Yukiko, era ancora completamente ignaro del fatto che in realtà i suoi programmi non sarebbero andati proprio come aveva immaginato nei giorni precedenti.

In quella cucina dove stava per finire la sua colazione Shingo era seduto su una piccola sedia, accanto ad un basso tavolino che suo padre aveva costruito quando era nata Yukiko e adatto proprio per i bambini come lui; davanti a sé vi era un piattino con ciò che rimaneva del kabocha[1] e una piccola borraccia in legno con il beccuccio ancora pieno d’acqua. Il bambino pigiava mesto nel piatto le bacchette che aveva appena imparato ad utilizzare, ma in quel momento sembrava che anche a lui si fosse chiuso lo stomaco.

Sua madre gli aveva appena detto che Yukiko sarebbe rimasta a casa per tutto il giorno, e all’inizio Shingo aveva fatto i salti di gioia: il piccolo voleva a tutti i costi tornare dalla sorellina e giocare con lei, ovviamente dopo aver finito di fare colazione. Tuttavia il suo stato di euforia si era attenuato non appena la mamma gli aveva rivelato il motivo per il quale Yukiko non sarebbe andata a scuola: con molta probabilità aveva preso l’influenza e doveva restare a riposo. Anche per il suo compleanno il piccolo, infatti, pensava di poter giocare con la sua adorata sorellina insieme all’orsacchiotto Riku, riabbracciare sua nonna Atsuko e il suo papà, impegnati nel loro lavoro per buona parte della giornata ma che alla fine di essa gli avrebbero portato dei doni stupendi.

Shingo aveva immaginato così la sua lunga festa, tra regali e giochi divertenti da fare insieme, soprattutto con Yukiko che, però, si era ammalata proprio quel giorno. Nonostante quella notizia che l’aveva portato ad un iniziale momento di smarrimento, Shingo non si era perso d’animo: era vero che la sorellina non poteva uscire dalla sua cameretta, ma per un po’ avrebbe potuto essere lui a farle compagnia con il gioco.

Sempre dopo la colazione, come gli avrebbe detto sua madre.

Shingo spostò il piccolo tavolo in avanti e si alzò; raggiunse la mamma e le afferrò il grembiule per tirarlo a sé. «Mamma, non ho più fame. Voglio andare dalla sorellina!»

Yumi rivolse lo sguardo verso il piatto che aveva lasciato suo figlio: aveva quasi finito tutta la colazione ma non sapeva se lui avesse svuotato tutta la piccola borraccia. Difatti in quel momento la donna era indaffarata tra i fornelli: stava preparando una calda tisana di camomilla e malva per alleviare il senso di nausea e il mal di stomaco che aveva avuto sua figlia e, anche se di tanto in tanto lanciava un’occhiata verso il secondogenito, il suo sguardo era sempre ben concentrato sul piano cottura.

«Hai bevuto l’acqua?» gli chiese Yumi con dolcezza.

Il piccolo non le mentì. «No, mamma.»

«Allora prima finisci l’acqua e poi torna qui.»

Shingo fece come la sua mamma gli aveva chiesto. Sebbene fosse un bambino vivace, dava sempre retta a sua madre quando erano da soli ma in realtà, in quel momento, il vero motivo che lo aveva spinto a bere era il fatto che aveva iniziato ad avere sete: quel kabocha che aveva mangiato era molto dolce, e presto sentì il bisogno di bere acqua. Molta acqua, al punto da svuotare il contenuto della borraccia tutto d’un colpo.

«Ah!» disse Shingo, asciugandosi sorridente la bocca con il dorso della mano. Subito tornò da sua madre e tirò nuovamente il suo grembiule. «Bevuta tutta!» esclamò entusiasta, per poi aggiungere: «Andiamo dalla sorellina?»

«Aspetta,» rispose Yumi con molta pazienza, mentre spense il bollitore e afferrò il manico per versarne il contenuto in una piccola tazza di legno. «Finisco di preparare questa buona medicina per lei, e ci andiamo subito...»

Shingo mise il broncio e strattonò il grembiule. «Dai, ora!»

«Solo un attimo: prima devo finire qui, altrimenti tua sorella non guarirà mai...»

«No-o! Ora!»

Yumi posò il bollitore sul piano cottura, guardando il suo riflesso nella tisana che ora era nella tazza di Yukiko. Diede un profondo sospiro, perfettamente consapevole che era difficile smuovere suo figlio quando si intestardiva su una cosa che voleva fare a tutti i costi. Lo guardò e, chinatasi su di lui, gli diede un delicato buffetto sulla guancia. «Torna a sederti: ti prometto che farò in un baleno!»

Seppur con tristezza, Shingo annuì. Si sedette, girando leggermente la sediolina nella direzione di sua madre, fece un respiro profondo e aspettò... o, meglio, cercò di aspettare il più possibile: per quanto si sforzasse, il piccolo non riusciva proprio a stare fermo. Iniziò a dondolare le gambe, sempre più velocemente, fino a quando non diede qualche colpo al piede del piccolo tavolo che era ancora al suo fianco.

«Shingo, smettila,» lo rimproverò Yumi con dolcezza, mentre continuò a filtrare la tisana che aveva preparato nella tazza. «Così ti fai male.»

«Uffa.» Il piccolo incrociò le braccia, mettendo il broncio. «Mi annoio! Voglio andare dalla sorellina...»

«Ed io ti dico che devi avere pazienza,» rispose la donna, avvicinandosi a lui. Gli accarezzò le guance, lo guardò negli occhi e aggiunse: «So che oggi è il tuo compleanno e sei felice per questo, però dobbiamo cercare di risolvere il problema di Yukiko. Deve guarire, altrimenti non potrà giocare con te... capisci?»

«Ma oggi guarirà?»

La mamma alzò gli occhi verso il soffitto, portandosi un indice sotto il mento. Era certa che l’influenza di sua figlia non sarebbe passata in un giorno, ma voleva essere ottimista: Shingo e Yukiko avrebbero trascorso insieme quel giorno, uniti più che mai. Anche lei, come il suo secondogenito, voleva che quel giorno fosse il più possibile perfetto, senza anche solo un piccolo accenno di negatività che potesse sconvolgere i preparativi. «Ce la metteremo tutta... però tu devi stare buono buono qui, ancora per un po’. Se ti fai male e la sorellina guarisce, come farete a giocare insieme?»

Shingo annuì, ma era ancora triste. In fondo sua madre aveva ragione: lui non poteva permettersi di farsi male, così come sua sorella Yukiko non poteva permettersi di restare a letto per tutto il giorno. Sua madre tornò ai fornelli per finire di preparare la tisana, mentre il piccolo cercò di resistere a quella adrenalinica tentazione che stava animando il suo cuore - per quel poco che poteva, perché dopo qualche secondo tornò a mostrare segni di movimento, iniziando a dondolare la testa e canticchiando una canzone con parole inventate.

Trascorsero altri minuti che a Shingo sembravano infiniti, mentre Yumi iniziò a mescolare gli ingredienti nella tazza: su quelle che per lei erano piacevoli note che provenivano dalla bocca di suo figlio, la donna aggiunse un bicchierino di alloro che aveva preparato prima di bollire la tisana, svuotandolo del tutto. Posò la tazza su un piccolo vassoio di legno che aveva preso dalla credenza e la portò da suo figlio, che nel frattempo stava continuando a cantare.

«Su, vieni. Portiamo la medicina a Yukiko.»

L’umore di Shingo cambiò d’un tratto. Le sue piccole orecchie avevano appena sentito la frase che avevano sbloccato la sua vivacità da quelle “catene” che la tenevano prigioniera: si alzò di colpo in piedi, rischiando di urtare il vassoio che sua madre stava reggendo in mano - e che sarebbe certamente finito a terra se non fosse stato per la destrezza di Yumi - e non esitò a mostrare subito la sua gioia.

«Sì!» Il piccolo si avvicinò alla mamma, e lanciò un’occhiata al vassoio con la tazza ancora fumante. Allungò le braccia verso di esso: ci teneva molto a portare lui quel vassoio. «Posso tenere la medicina, mamma?»

«Ora no, Shingo. La tazza scotta molto: se la tisana cade sulle tue mani rischi di farti la bua.»

«Uuuuh...»

«Ma non preoccuparti: il tempo di salire le scale e la portiamo insieme. Ora andiamo: Yukiko ci sta aspettando.»

Shingo annuì e, in silenzio, seguì la mamma. Insieme salirono le scale che portavano al primo piano, dove c’erano le stanze dei vari inquilini: sulla sinistra, quella dei genitori e il bagno; sulla destra, dopo un lungo corridoio nel quale si aprivano alcune piccole finestre, lo studio dove Susumu lavorava quando non era al lavoro e, di fronte ad esso, quattro scalini in legno portavano ad un piano rialzato, dove era collocata la cameretta dei due piccoli. La stanza che Yukiko e Shingo condividevano ogni giorno era stata ricavata dalla mansarda: chi aveva progettato quella casa per Yumi e Susumu - il padre di quest’ultimo - l’aveva immaginata come piacevole rifugio dal resto del mondo, e quando si erano sposati la coppia aveva pensato di collocare proprio lì la cameretta del loro futuro bambino, riservando per loro una delle stanze del primo piano. Per come era stata progettata, era quella più bella del primo piano: vi era una grande finestra che sovrastava il tetto, mostrando ogni minuto la volta celeste in tutto il suo splendore, in tutte le stagioni, mentre di fronte alla porta d’ingresso vi era una finestra a balcone, posta vicino al letto della piccola Yukiko.

Era proprio lì che si stava dirigendo Yumi che stava reggendo il vassoio dai manici, mentre Shingo la stava aiutando a portarlo con una salda presa su uno dei due lati lunghi, dando le spalle a sua madre. Non appena quest’ultima aprì la porta della cameretta dei figli, Shingo non ci pensò due volte a mollare il vassoio e precipitarsi come un lampo verso il letto dove Yukiko stava riposando.

«Sorellina, sorellina!» esclamò il piccolo, scuotendo le lenzuola. «Bevi subito la medicina, e poi giochiamo!»

«Aspetta,» disse Yumi, avvicinandosi anche lei al letto e appoggiando il vassoio sul comodino che era di fianco. «Devi dare il tempo alla medicina di fare effetto, ma di solito ci impiega molto tempo... ora tua sorella non può giocare: vedi come non sta bene?»

«Sì, ma perché? Non può giocare dal letto?»

«Deve prima riposarsi, altrimenti la medicina non fa effetto.»

«E perché?»

«Perché la medicina funziona proprio con il riposo. Se Yukiko si riposa, può tornare a giocare presto. Forse anche oggi...»

«Oggi?»

«Però non subito, bisogna sempre aspettare,» sussurrò la donna, mentre accarezzò la fronte di sua figlia. Scottava ancora di più, così Yumi prese la pezzuola che la copriva e, immergendola in un catino accanto al letto con l’acqua ancora fredda, la rimise sulla fronte. «E, per come scotta la sua fronte... ha la febbre. Per ora ha bisogno di stare a letto.»

«Uffa...»

Shingo sbuffò di nuovo, spazientito. Aveva atteso fin troppo, per la poca pazienza di bambino che aveva. La giornata era iniziata da poco, ma era certo di una cosa: aveva appena aggiunto un acerrimo nemico nella lista dei cattivi da sconfiggere, e in qualsiasi modo ci sarebbe riuscito. Quel nemico aveva un nome ben preciso: si chiamava “febbre”.

«Febbre cattiva!» esclamò Shingo, stringendo sempre più i suoi piccoli pugni e sbattendo i piedi come segno di protesta. «Lascia la sorellina, hai capito? Se no ti faccio la bua!»

Sua madre trattenne le risate e, avvicinando il suo volto a quello di sua figlia, le sussurrò dolcemente: «Yukiko, la medicina è pronta...»

Al suono di quella voce la bambina aprì a stento gli occhietti stanchi e, con l’aiuto della mamma, si sforzò di bere la tisana che le aveva dato. Aveva ancora mal di stomaco ma, nonostante ciò, riuscì a finire l’infuso senza rigettarlo.

«Brava,» le disse sua madre, accarezzandole prima la guancia e poi la testa. «Ora riposati, presto ti sentirai meglio.»

«Sì, mamma...» Yukiko rivolse lo sguardo verso il fratello che le era accanto, e sussurrò con un triste sorriso: «Scusami, fratellino... oggi non posso giocare con te...»

Shingo iniziò a frignare: quella frase era stata l’ennesima conferma che non poteva divertirsi subito con sua sorella, per tutto il giorno. «Ma uffa! Io voglio giocare con te! Perché non dici alla febbre di andare via?»

La mamma si inginocchiò verso di lui e lo prese per mano. «Io ho un’idea migliore: vieni con me...»

Yumi si alzò in piedi e condusse il figlio verso la scrivania di Yukiko. Al di sopra di essa correvano alcune piccole mensole da parete, progettate da Susumu a mò di libreria; da una di esse la donna prese un libro e si accomodò vicino al letto della piccola, facendo sedere Shingo sulle sue ginocchia. «Vedi?» disse, aprendo il libro che aveva in mano. «Anche questo è un gioco che possiamo fare con lei... le raccontiamo una favola, così sarà felice.»

Shingo continuò ad avere gli occhi lucidi per la tristezza, ma accolse di buon grado la sua richiesta: avrebbe fatto volentieri qualunque cosa pur di rallegrare Yukiko. «Sì...» mormorò, e come la sorella rivolse lo sguardo verso sua madre, pronto ad ascoltarla.

Sulla copertina del libro che Yumi aveva preso vi era un'illustrazione di una fitta foresta che si affacciava su un ruscello dove, in primo piano, vi era una pianta dai piccoli fiori rosa. La donna aprì il libro e iniziò a raccontare, mentre Shingo la seguiva osservando le varie immagini che c'erano all'interno.

«C’era una volta un ragazzino molto vivace. Correva per tutto il giorno su e giù per il villaggio dove abitava insieme alla sua famiglia, senza fermarsi mai...»

«Mamma, sono io!» urlò il piccolo, indicando la figura del fanciullo che vi era ritratto proprio mentre correva per una strada che portava ad un gruppo di case di paglia e legno.

Quel piccolo villaggio era molto simile al quartiere dove Shingo abitava con la sua famiglia... in altre parole, sembrava rievocare la stessa Nakahara. Il fanciullo protagonista della storia, invece, assomigliava proprio a Shingo: stessa corporatura, capelli neri e arruffati, occhi grandi e profondi come la notte; per questo motivo il piccino stava seguendo la storia di quel minuto protagonista con grande attenzione perché si immedesimava perfettamente in lui, e di quel racconto non voleva perdersi nemmeno un singolo dettaglio.

Sua madre sorrise, prima di proseguire: «Un bel giorno cadde una tremenda maledizione su tutto il villaggio e le persone che lo abitavano. Vi era un giovane stregone che abitava in cima ad una montagna così alta, che perforava le nuvole bianche con la sua punta: pensa che era talmente alta che dal villaggio nessuno riusciva a vedere la cima, e nessuno era mai riuscito a scalarla tutta...»

«Cos’è una maledizione, mamma?»

«È una magia molto brutta che fa stare male le persone. Un po’ come sta facendo la febbre con la sorellina...»

Shingo rivolse lo sguardo verso Yukiko, che in quel momento aveva gli occhi socchiusi. «Se è come la febbre... non mi piace! Ma perché lo stregone ha fatto questa magia?»

«Perché odiava alcune persone che abitavano proprio in quel villaggio.»

«E perché? Hanno fatto i cattivi con lui?»

«È nato sulla cima di quella montagna, e fin da bambino non gli era permesso di uscire dalla casa per scendere al villaggio e giocare con gli altri. Sai perché? Perché era diverso dagli altri: dalla vita in giù aveva il fisico di un cavallo, con delle zampe e una coda che uscivano fuori dai pantaloncini che indossava sempre. Guarda: proprio come qui!»

Yumi indicò sul libro la figura dello stregone, ritratta da bambino; poi indicò subito quella della pagina accanto, che mostrava quel bambino davvero singolare in mezzo ad un gruppo di ragazzini. «Un giorno il suo papà, che viveva con lui, si era allontanato da quella casa, e così il futuro stregone ne aveva approfittato per scendere al villaggio. Prima di arrivare, però, aveva incontrato questi ragazzini... e lui voleva tanto fare amicizia con loro, ma essi lo avevano subito preso in giro per la sua diversità e addirittura gli avevano tirato delle pietre per allontanarlo. Lui tornò a casa piangendo, e da quel giorno il suo papà gli insegnò tutto ciò che sapeva, dicendogli che un giorno avrebbe potuto usare i suoi poteri contro quei ragazzini. Il bambino faceva spesso dei pasticci, ma non vedeva l’ora di riuscire a usare i suoi poteri contro chi gli aveva fatto del male. Trascorsero tanti e tanti anni... e lo stregone, rimasto senza il suo papà, si sentiva pronto per la sua vendetta: attraverso una potente sfera di cristallo cercò quei ragazzini che l’avevano preso in giro e li trovò cresciuti, che abitavano proprio in quel vicino villaggio. Così non ci pensò due volte prima di scagliare la sua potente maledizione, che finì per colpire non solo loro ma anche gli altri abitanti: tutti caddero in un profondo sonno dal quale non si risvegliarono mai più.»

«Ma... ma poverini! Gli altri non erano cattivi!»

«È vero: lo stregone è stato molto maldestro... anche questa volta!»

Shingo alzò lo sguardo verso la mamma, molto dubbioso e un po’ indignato. Di tutta quella storia aveva capito che c’era un villaggio, uno stregone che era stato preso in giro e una maledizione che per sbaglio aveva colpito anche persone innocenti... ma che fine aveva fatto quel bambino che gli assomigliava così tanto e di cui a malapena era stato fatto un accenno all’inizio della storia?

«E... ed io?»

«“Io” cosa?»

«Sì: io! Questo bimbo!» e il piccino mostrò la pagina che c’era prima della scena dello stregone, indicando il fanciullo che correva nel villaggio.

Yumi sorrise e rispose: «Non ci siamo dimenticati di lui, tranquillo. Infatti...» e voltò nuovamente la pagina del libro, «quando lo stregone aveva lanciato la maledizione, quel ragazzino non si trovava al villaggio. Era in una foresta, che giocava spensierato con gli uccellini che, ad un tratto, fuggirono via spaventati: il ragazzino non riusciva a spiegarsi perché fossero andati via, così decise di tornare al villaggio. Giunto là, il poveretto fece quell’incredibile scoperta: erano tutti a terra, che dormivano placidamente e non si svegliavano in alcun modo, né se li scuotevi, né se buttavi addosso a loro dell’acqua fredda. Arrivato a casa, scoprì che anche i suoi genitori erano stati colpiti dalla maledizione, ed egli scoppiò a piangere perché non sapeva come fare per risvegliarli da quel sonno profondo. Si sentiva solo, molto solo...»

Shingo tornò a guardare la sorella, che nel frattempo sembrava essersi addormentata. Scese dalle ginocchia della mamma e si avvicinò al letto, iniziando a singhiozzare nel vederla così assente, senza nemmeno le forze per riuscire a restare sveglia e giocare con lui. «E se... e se anche la sorellina è stata colpita dall’incantesimo dello stregone... cosa facciamo, mamma?»

Yumi gli tornò accanto e con le dita gli asciugò le lacrime. «Lo sai: la favola non è finita... vuoi sapere cosa ha fatto questo ragazzino?»

Il piccino annuì, anche se non smetteva di singhiozzare. «Voglio... voglio saperlo, mamma... la sorellina deve guarire!»

Yumi lo prese in braccio e, cullandolo, proseguì con la storia. La conosceva a memoria, perché era la stessa favola che più volte aveva raccontato a sua figlia quando era molto piccola: Yukiko amava molto quella storia, e quando aveva l’età di suo fratello non aveva mai esitato a chiedere alla mamma se poteva raccontargliela.

«Sai che anche lo stregone era molto triste?»

«Anche se è stato cattivo?»

«Già. Quando ha visto che la maledizione aveva colpito tutti, aveva provato a rimettere a posto perché non voleva fare del male anche agli altri... ma non ci era riuscito, e per questo anche lui aveva iniziato a piangere. Aveva provato di tutto, anche a leggere i libri che il suo papà aveva lasciato a casa, ma niente da fare: qualunque cosa provasse, non riusciva ad invertire l’incantesimo. Ma, ad un certo punto...»

«Ad un certo punto?»

«Ad un certo punto, lo stregone aveva trovato un piccolo libro sul quale vi era riportata una pozione molto speciale. Questa pozione aveva il potere di riportare tutto com’era prima, e funzionava su qualunque cosa: era fatta con una pianta molto particolare, dai piccoli fiori rosa... ma c’era un problema: questa pianta cresceva in un luogo dove lo stregone non poteva andare.»

«E dove?»

«Il villaggio si trovava nei pressi di un lago, dove nell’altra sponda vi era una terra ricca di fiori e di animali che non esistevano da nessun’altra parte: vi era una barriera a proteggerla, e gli unici che potevano oltrepassarla erano persone dal cuore puro, che non avevano mai fatto del male a nessuno. Così lo stregone non poteva andarci, e con l’intero villaggio sotto l’effetto della maledizione non sapeva a chi chiedere aiuto.

«Nel frattempo il ragazzino si era allontanato dalla sua dimora ed era uscito dal villaggio. Ancora con le lacrime agli occhi aveva iniziato a correre, correre e correre ancora, senza accorgersi che aveva iniziato a percorrere la montagna dello stregone: il freddo sempre più crescente e il vento non l’avevano fermato, ma quando aveva sbattuto contro un’invisibile muro che lo stregone stesso aveva creato aveva iniziato ad accorgersi che si trovava in un luogo che non conosceva. Non appena aveva alzato la testa, egli aveva visto da lontano una grande dimora avvolta da nubi molto grigie, mentre intorno a lui la terra era aspra: le piante erano spoglie di foglie e fiori, e solo i corvi stavano dominando quel territorio così silenzioso e freddo. Il ragazzino, incuriosito, non si scoraggiò e provò più volte ad oltrepassare la barriera... ma niente da fare: per quante volte ci provasse, non ci riusciva.»

Intanto Shingo era rimasto in silenzio. Caso strano, quella storia gli stava facendo lo stesso effetto di una ninna nanna: lo aveva tranquillizzato. In più, il piccolo era curioso di sapere se il protagonista di quella storia aveva incontrato lo stregone e, soprattutto, in che modo era riuscito a salvare i suoi genitori e gli altri abitanti del villaggio dal malefico sortilegio.

Se Shingo avesse trovato una soluzione simile a quella indicata dalla storia, Yukiko sarebbe tornata presto ad essere la bambina gioiosa e allegra di sempre... e lui non vedeva l’ora che finalmente giungesse quel momento.

 

 

 

Qualche minuto dopo, madre e figlio erano tornati al piano terra. Mentre Yumi stava raccontando la favola a Shingo, Yukiko si era nuovamente addormentata; per questo motivo la donna aveva convinto Shingo a seguirla di nuovo, per lasciare che la sorella riposasse tranquilla e fare in modo che recuperasse al più presto le energie perse con la febbre. Il piccolo non era molto d’accordo, ma era riuscito a convincersi quando sua madre gli aveva detto che solo così sarebbe tornata presto a giocare con lui.

Mentre Yumi era intenta a preparare il pranzo nella cucina, Shingo si trovava nel vicino soggiorno e giocava con un colorato trenino di legno, dono della nonna per il suo secondo compleanno. Era stata lei la creatrice di quel piccolo gioco e a Shingo era piaciuto fin da subito, al punto che ci giocava per ore senza mai stancarsi e senza pensare ad altro.

«Ciuf ciuf! E ora...» esclamò il piccolo, facendo salire il trenino su una piccola pista che aveva creato con le costruzioni, «tenetevi forte, si parte!»

Il bambino fece sobbalzare il trenino sulle costruzioni, per poi rimetterlo a terra dall’altra parte nei pressi di una piccola casetta in legno. «Arrivati!» disse, e subito tirò un grande sospiro di soddisfazione. Poi si alzò, lasciando i giochi riversi sul pavimento, e si avvicinò alla porta del balcone che dava sul giardino curato dai suoi genitori: l’altalena con la quale i piccoli Aoi erano soliti giocare oscillava al movimento del lieve vento che spirava nell’area, così come le rigogliose piante che decoravano quell’angolo della casa.

Shingo iniziò a pensare e ripensare a quella favola che la mamma gli aveva raccontato poco prima, e si lasciò subito trasportare dall’immaginazione man mano che il suo sguardo si addentrava in quel piccolo angolo verde: di fronte ai suoi occhi, lentamente quello che sembrava essere solo un giardino con un orticello si trasformò nel cortile dove il ragazzino protagonista della storia giocava allegro e spensierato, così come il panorama che circondava la sua casa divenne il villaggio dove lo stregone aveva lanciato la maledizione. Shingo non ci pensò due volte ad avvicinarsi alla porta d’ingresso e ad afferrare la maniglia, che si abbassò con un cigolio; a quel suono sua madre si affacciò dalla cucina, e lo vide mentre stava mettendo piede sulla soglia d’ingresso.

«Dove stai andando?»

«A giocare!» rispose il piccolo con la sua solita allegria.

Yumi lo lasciò fare, perché il suo bambino era solito uscire dal soggiorno per recarsi in quel giardino, sotto i suoi occhi vigili dalla finestra della cucina che dava dall’altra parte; tuttavia, allo stesso tempo la donna era incurante del fatto che, in realtà, al suo Shingo stava frullando per la mente un’idea che lo avrebbe messo nei guai... probabilmente.

Devo trovare quella pianta, così la sorellina guarirà in fretta!

Questo era ciò che Shingo stava pensando in quel momento: non appena entrambi i suoi piedi appoggiarono sull’erba del giardino, il bambino iniziò a cercare tra le piante dell’orto, con gli occhi ben attenti a scrutare una certa pianta dai fiori rosa che avrebbe potuto guarire Yukiko dalla febbre. Shingo sapeva bene che quell’orto conteneva anche delle erbe medicinali perché più volte aveva visto sua madre recarsi in quell’angolo per prendere alcune foglie che usava per le sue tisane e, anche se era ancora molto piccolo per capire quali fossero quelle che servivano per le sue speciali bevande, pensò di trovare qualcosa già in quel punto della casa.

Ma all’inizio la ricerca sembrò andare a vuoto. Le piante erano diverse tra loro, distinguendosi per le forme e i colori, ma nessuna di esse aveva quei fiori rosa del libro della favola, anzi: nessuna di esse aveva proprio dei fiori rosa. «Uffa,» borbottò Shingo, mentre voltò le spalle all’orticello e iniziò a fare il giro della casa, sempre più desideroso di trovare quella pianta miracolosa.

Dalla finestra della cucina Yumi lo seguì con lo sguardo, finché suo figlio non scomparve dal suo raggio visivo. Chissà cosa sta cercando... pensò la donna con curiosità e, spenti i fornelli, stette per uscire dalla cucina per raggiungere il piccolo e capire il perché di quel suo atteggiamento così insolitamente silenzioso e assorto, quando ad un tratto squillò il telefono che si trovava all’angolo della porta che confinava con il soggiorno.

«Pronto?»

Da quel punto Yumi non poteva più controllare suo figlio, perché le due aperture di luce - la finestra della cucina e il balcone del soggiorno - erano così distanti da lei al punto da non riuscire a vedere il giardino nella sua interezza: a causa della sua statura, Shingo arrivava a malapena alla cima della porzione delle mura che passavano al di sotto della finestra e del balcone, per cui Yumi non riusciva a vederlo a meno che non fosse stata nelle immediate vicinanze di quelle due aperture verso il loro giardino. Sarebbe stato un guaio, soprattutto perché dall’altra parte della cornetta c’era una sua amica di vecchia data che si era trasferita a Yokohama, con la quale Yumi non si vedeva da molto tempo.

La donna provò a sorridere e ad iniziare un’allegra conversazione con quell’amica, ma non voleva essere scortese con lei interrompendola in continuazione per dare un’occhiata a suo figlio che stava gironzolando per l’esterno della casa. Per fortuna l’abitazione e il giardino erano circondati da muretti abbastanza alti per i suoi figli e un cancello che Shingo non era ancora in grado di aprire; tuttavia la sua preoccupazione cresceva di minuto in minuto. Yumi arrivò anche al punto di fare capolino dalla porta per aguzzare lo sguardo verso il balcone del soggiorno o verso la finestra della cucina, ma il filo che collegava la cornetta all’apparecchio era molto corto, e con esso non riusciva ad allontanarsi da quel punto.

Questo telefono non sta più bene qui! - aveva pensato con un po’ di nervosismo, mentre intrecciava il dito lungo il filo. Dobbiamo spostarlo, decisamente!

 

Intanto Shingo continuò la sua esplorazione lungo il giardino della sua casa. Fiancheggiò i muretti che circondavano l’abitazione, passando nella zona dell’altalena che si trovava nei pressi dell’orticello, fino ad arrivare ad un albero di olivo ancora piccolo ma dal tronco già robusto: lo avevano piantato i suoi genitori prima ancora che lui nascesse, e con le fronde stava sfiorando la parte alta del muro. A Shingo piaceva molto perché ogni volta che lo vedeva il desiderio di arrampicarsi per arrivare in alto era sempre più forte, ma essendo ancora piccolo non riusciva nemmeno a scalare il tronco senza cadere a terra.

Nonostante il tronco fosse pieno di piccoli fiori bianchi, non vi era traccia di quella misteriosa pianta nemmeno su quell’albero... ma uno dei suoi rami che oltrepassava la cima del muretto era proteso verso il cielo, e con il suo essere così solitario e distaccato dagli altri suoi simili quasi sembrava indicare al bambino la strada da seguire. In quel momento Shingo si ricordò che anche nella favola il protagonista aveva seguito un ramo di un albero secolare per giungere al lago dove, nell’altra sponda, vi era quel magico luogo dove avrebbe trovato ciò che stava cercando.

 

«E lo stregone gli disse, indicando un punto del paesaggio che stava osservando: “Vedi laggiù? Dall’altra parte di quel lago vi è un luogo molto magico, con animali e piante che nessuno ha mai visto... un luogo fantastico!”

Il ragazzino aguzzò la vista e subito capì cosa lo stregone gli stesse indicando: era una zona del lago che non si vedeva dal villaggio, perché era molto lontana e ricoperta da una rigogliosa vegetazione, ma che si distingueva dagli altri per il suo essere colma di piccole fulgenti luci che si radunavano nella zona centrale; nessuno gli aveva mai parlato di quel luogo, né qualcuno dei suoi amici lo conosceva.

“Dici quello?” gli chiese, indicando anche lui quel luogo a lui misterioso.

“Sì,” rispose lo stregone. “Laggiù c’è una pianta miracolosa dai piccoli fiori rosa che ha il potere di annullare qualsiasi maledizione. Tuttavia... sai perché nessuno del villaggio si è mai spinto fin laggiù per prenderla?”

Il ragazzino spalancò gli occhi. Sembrava che quello stregone fosse al corrente di tutto ciò che accadeva nel suo villaggio, al contrario di lui che quasi non sapeva nulla, nonostante fosse sempre curioso e attento a qualsiasi novità. Scosse la testa e stette ben attento alle parole dello stregone, che nel notare la sua inconsapevolezza proseguì: “Perché quel luogo è protetto da una barriera magica, come quella dove prima ti sei scontrato e che protegge la mia dimora... ma si dice che solo i puri di cuore possono attraversarla e così essere ospiti di quel territorio.”

“Cos’è un puro di cuore?” chiese il ragazzino.

“Un puro di cuore è una persona che non ha ancora fatto nulla di male. Per esempio, io non sono un puro di cuore perché ho lanciato una maledizione che ha colpito anche persone innocenti... ma tu sì, lo sento. Sento che puoi farcela e recuperare quella pianta miracolosa.”

Lo stregone gli mise una mano sulla spalla e gli disse: “Se dovessi perderti, un grande albero ti indicherà la via con il suo ramo solitario. Ora vai, verso quel luogo!”

Il ragazzino annuì e iniziò a correre verso la valle, inoltrandosi nuovamente nella foresta che separava la dimora dello stregone dal suo villaggio. Arrivato sulle sponde del lago notò una barca a remi che avrebbe potuto utilizzare per il suo viaggio, ma da lì non aveva idea della direzione che doveva seguire: il lago era grande, e l’altra sponda che era così lontana era ricca di alberi rigogliosi che gli impedivano di distinguere il luogo magico dagli altri. Si guardò intorno e ad un tratto vide un albero dal robusto tronco con uno dei rami che si distaccava dagli altri, l’unico a protendersi sullo specchio del lago. Il ragazzino si ricordò delle parole dello stregone e, salito sulla barca, iniziò a remare nella direzione indicata da quel ramo solitario...»

 

«Io sono un puro di cuore!» esclamò il piccolo, continuando ad osservare quel ramo penzolante sulla cima del muretto. «Io sono bravo... e troverò quella pianta!»

Shingo stette per uscire dal cancello principale, pensando di riuscire ad aprirlo ma, com’era prevedibile, quel cancello era rigorosamente chiuso. «Uffa...» mormorò il piccolo dopo aver preso le sbarre per scuoterle più volte. «E ora cosa faccio?»

Tornò verso l’abitazione dove udì la voce di sua madre che stava parlando con qualcuno e, affacciatosi alla finestra della cucina, la vide di spalle con la cornetta all’orecchio che ogni tanto ripeteva la parola “Akiko”. Il piccolo inclinò leggermente la testa e più volte provò a chiamare la mamma, che alla fine si voltò e gli sorrise: lei portò l’indice alle labbra, indicandogli di restare il più possibile in silenzio.

«Non ti sei fatto male?» gli chiese, allontanando velocemente la cornetta dal volto.

«No, mamma...»

Poi lei gli voltò nuovamente le spalle e continuò la conversazione; a quel punto Shingo decise di proseguire il suo cammino, cercando un modo per uscire dal perimetro del suo giardino. Sebbene avesse solo tre anni, sapeva già che sua madre non gli avrebbe mai permesso di uscire di casa per andare in giro da solo per Nakahara e i suoi dintorni: qualche giorno prima aveva provato a scavalcare il muretto che circondava l’abitazione, ma era stato subito visto e rimproverato proprio da sua madre.

«Per fortuna che sei ancora così piccolo e non ce la fai... ma te lo dico già da adesso: non mettere piede fuori di casa senza di me o papà, d’accordo?»

«Io non sono piccolo,» borbottò Shingo di fronte a quel ricordo, tornando a gironzolare intorno ai muretti che recintavano il giardino. Ad un tratto vide un piccolo cancello in legno, che con il suo colore quasi si mimetizzava proprio con il muro che lo costeggiava: quello era un accesso che suo nonno Haruo, il padre di suo padre, aveva messo proprio in quel punto per connettere il giardino ad un’area che lui aveva pensato per gli animali, ma che di fatto gli Aoi non avevano mai utilizzato.

Incuriosito, il piccolo appoggiò la mano sullo steccato e provò a spingerlo verso l’esterno: con sua grande sorpresa il cancello si mosse. Shingo si voltò intorno prima di proseguire, per vedere se sua madre lo avesse raggiunto oppure no; accertatosi che non fosse così, spinse completamente il cancello per entrare in quell’area della casa che ancora non conosceva. Cercando di non fare rumore chiuse il cancello dietro di sé, e iniziò a percorrere i muretti che circondavano la sua casa, questa volta dall’altra parte. Ad un certo punto Shingo si accorse di essere arrivato nei pressi dell’ingresso principale, non appena i suoi occhi videro il grande viale che passava davanti all’abitazione.

Si strofinò più volte gli occhi, che iniziarono a brillare per la gioia: era riuscito ad uscire di casa, da solo!

Il primo grande ostacolo era stato superato. Ora bisognava pensare al resto: continuare la ricerca di quella pianta miracolosa che avrebbe guarito Yukiko dalla febbre, seguendo la direzione indicata dal ramo d’ulivo che era ben visibile anche dal punto dove il piccolo si trovava.

Così Shingo riprese subito il suo cammino. Per fortuna conosceva bene il quartiere dove abitava, grazie a sua nonna che spesso portava lui e Yukiko in lunghe passeggiate, per cui pensava che non si sarebbe mai perso; passo dopo passo il bambino percorse la strada che portava ad un ruscello poco distante da casa sua, dove trascorreva interi pomeriggi con la nonna ad ammirare i pesci che guizzavano nelle acque cristalline e di tanto in tanto facevano capolino verso di lui con improvvisi salti dal fondale rivestito da piccole pietre tonde e squadrate.

Giunto in quella zona il piccolo si voltò intorno, concentrandosi su qualsiasi dettaglio che la zona offriva. Come nelle altre volte, anche quel giorno non vi erano persone o bambini oltre a lui: in quel momento Shingo era completamente solo, tra gli alberi secolari che erano cresciuti lungo il corso d’acqua e che facevano ombra con i loro rami ricoperti di foglie che ondeggiavano per il lieve vento, su quel terreno erboso dove stavano poggiando i suoi piedi e che aveva una piccola pendenza verso gli immediati pressi del ruscello.

«Stai cercando qualcosa, piccolino?»

Quella voce improvvisa lo fece sobbalzare. Shingo si voltò e vide di fronte a sé un anziano signore: costui era vestito con una divisa completamente nera, che si reggeva ad un bastone di legno, dalle rughe profonde che avevano iniziato a segnare il suo pallido viso.

Il bambino aprì la bocca per la sorpresa, perché quella persona che lo stava accogliendo con un sorriso... sembrava proprio lo stregone della storia che gli aveva appena raccontato sua madre!

 

«Il ragazzino, incuriosito, non si scoraggiò e provò più volte ad oltrepassare la barriera... ma niente da fare: per quante volte ci provasse, non ci riusciva. “Dannazione!” urlò con grande rabbia. “Perché non riesco a passare di qui? Scommetto che è opera dello stregone malvagio che si trova in cima a questa montagna... e penso che sia anche colpa sua se mamma e papà non si svegliano più!”

In tutti i modi provò a sfondare quella barriera: con le sue spalle, lanciando sassi e tronchi di albero contro di essa, ma non riuscì nemmeno a scalfirla. Si sedette, incrociò le braccia e, chinato il capo, tornò a piangere perché voleva dare una bella lezione a quello stregone... ma, ad un tratto, una voce profonda come il buio della notte richiamò la sua attenzione.

“Ehi, tu: che cosa vorresti fare alla mia barriera? Lo sai che non si distruggono le cose degli altri?”

Il ragazzino alzò la testa... e vide che c’era un’altra persona di fronte a lui: aveva le vesti dello stesso nero dei corvi che si trovavano sui rami degli alberi di quel territorio, e teneva in mano un bastone di colore marrone, ricavato dal tronco di un albero. Era lo stregone, lo stesso che aveva lanciato la maledizione sull’intero villaggio...

Capendo subito chi gli stesse rivolgendo la parola, il ragazzino scattò verso di lui con molta rabbia, ma lo stregone riuscì a bloccarlo battendo una sola volta la punta del bastone al suolo.

“Perché vuoi farmi del male?” gli chiese l’uomo dalle vesti corvine. “Non ti conosco, né ti ho fatto nulla di male... perché mi tratti così?”»

 

Shingo lanciò un urlo di stupore e cadde con il sedere a terra, indicando l’anziano che gli era dinanzi. «T-Tu... s-sei lo stregone!» balbettò il piccolo.

L’altro gli si avvicinò ridendo e gli tese una mano per aiutarlo a rialzarsi. «Magari fossi uno stregone! Mi servirebbero dei poteri per tornare a camminare come si deve; invece eccomi qui, che zoppico come non mai!»

Lo sguardo fraterno di quell’uomo rasserenò l’animo di Shingo, che dopo un attimo di esitazione si decise ad afferrare quella mano che gli era stata offerta. Il piccino si rialzò in piedi e, dopo aver scosso la polvere dai pantaloncini che stava indossando, gli chiese: «Allora chi sei?»

«Sono il guardiano della riserva naturale di Nakahara, piccolino,» gli rispose l’anziano che, non appena lo guardò meglio, aggiunse: «Tu, invece... non sarai per caso il figlio di Aoi Susumu? Assomigli un sacco al tuo papà quando era un bambino come te!»

Shingo spalancò gli occhi, perché mai avrebbe immaginato di incontrare qualcuno che conoscesse suo padre nell’avventura della ricerca della pianta miracolosa. Recuperò il suo solito sorriso a trentadue denti e chinò leggermente la schiena per presentarsi, come gli aveva insegnato la mamma. «Io sono Aoi Shingo, ojiisan![2] Il mio papà si chiama Susumu!»

In risposta a quell’affermazione l’anziano gli arruffò i capelli. «Certo, piccolino: si vede che sei proprio suo figlio! Ma, dimmi: cosa ci fai qui tutto solo? Ti sei perso?»

Shingo scosse la testa. «No, sto cercando una pianta rosa: puoi aiutarmi, ojiisan

«Una pianta... rosa...»

L’uomo si portò un dito sul mento, ricordandosi se avesse mai visto una pianta simile a quella che il bambino stava cercando. L’unica cosa che in quel momento gli sembrava molto simile era l’albero di ciliegio, che però si trovava in un punto molto lontano da quello nel quale i due si trovavano: la porta d’ingresso del tempio shintoista di Gifu, che nel periodo primaverile era ricoperto dai rami in fiore dei ciliegi lì presenti. Poi si ricordò anche dei spettacolari ciliegi bianchi del lungofiume di Shinsakai, nella vicina città di Kakamigahara, ma anche quelli erano molto distanti...

Ad un tratto al guardiano tornò alla memoria un fiore dai petali rosa che si trovava nella riserva naturale e subito pensò che, forse, anche quella sarebbe potuta andare bene per il piccolo, che non era ancora esperto di piante e non aveva specificato quale gli servisse per la sua ricerca. Prese per mano Shingo e gli disse: «Vieni con me: conosco un posto dove puoi trovare ciò che stai cercando.»

 

«Il bambino giunse così dall’altra parte del lago, e scese dalla barca che l’aveva portato fin laggiù. Provò ad inoltrarsi nella foresta che lo stava accogliendo, ma subito capì che lo stregone aveva ragione: anche lì c’era una barriera impenetrabile che gli impediva di entrare, sorvegliata da un possente cavaliere dall'armatura color rosso come lo stop dei semafori. Ma il ragazzino non si arrese: era “un puro di cuore”, e sapeva che proprio i puri di cuore come lui ce l’avrebbero fatta...»

Quando arrivò all’ingresso della riserva naturale insieme all’anziano guardiano, Shingo si ricordò di quella parte della storia. L’ampio cancello che ogni giorno accoglieva i visitatori era chiuso a chiave, allo stesso modo in cui lo era quello della piccola casa del bambino, e quest’ultimo capì subito che non sarebbe mai riuscito a entrare da solo.

Shingo si aggrappò alle sbarre ed esclamò: «Per favore, aprite! È un’emergenza!»

Il guardiano trattenne le risate di fronte a quella scena. Quel bambino era pieno d’energie, e sembrava così testardo nel voler cercare una pianta rosa: egli non conosceva ancora il motivo di tanta ostinazione, ma da quel poco che stava vedendo sentiva che il piccolo ci teneva molto a trovare proprio quella.

«Se aspetti un attimo...» disse serenamente l’anziano, frugando nella tasca interna del giubbotto che stava indossando per poi estrarre una chiave scintillante, «ti aiuto anche ad aprire questa bella porta!»

Alla vista della chiave Shingo spalancò gli occhi e dopo qualche secondo di silenzio, mentre osservava il guardiano infilare e ruotare la chiave nella serratura, alzò la mano destra. «Lo so, lo so! La risposta è “gli occhi”, giusto?»

«Gli occhi?»

«Sì! Le due finestre che di giorno sono aperte e di notte chiuse... sono gli occhi!»

Il guardiano lo guardò piuttosto sorpreso, ma decise di stare al suo gioco e annuì con un sincero sorriso. Il piccolo infatti si era ricordato di quella parte della storia dove il ragazzino, per oltrepassare la magica barriera invisibile, doveva prima rispondere correttamente ad un indovinello. Era vero: il protagonista era un puro di cuore e ciò gli avrebbe permesso di superare quell’ostacolo, ma il cavaliere dall’armatura cremisi che sorvegliava l’accesso aveva deciso di rivolgergli un indovinello all'apparenza difficile da risolvere, per vedere se lui fosse stato realmente degno di accedere a quel luogo misterioso.

Non appena l’anziano guardiano aprì il cancello, Shingo si fiondò all’interno della riserva naturale. A nulla erano valsi i richiami dell’uomo che, nonostante provò ad inseguirlo e ad arrestare la sua corsa, in un attimo vide svanire il bambino tra i mille alberi che popolavano quella zona: se fosse stato al massimo delle sue forze lo avrebbe fermato con facilità, ma quel giorno le sue gambe non volevano sapere di collaborare.

«E ora dove si sarà cacciato?» pensò il guardiano, grattandosi la fronte.

 

«Il cavaliere sovrastava il ragazzino con la sua statura: sembrava essere alto come un albero secolare, ed era robusto come una grande roccia. Non appena vide il ragazzino si chinò verso di lui e disse: “Tu chi sei? Lo sai che qui non può entrare nessuno?”

“Sì,” rispose il ragazzino, che non si lasciò intimorire dalla stazza di quella figura imponente. “Ti prego, lasciami entrare: il mio villaggio è sotto l'effetto di una potente maledizione... e solo qui posso trovare la medicina per salvare tutti!”

Il cavaliere scrutò attentamente il ragazzino senza proferir parola. Poi si tolse l’elmo, sorrise e disse: “D’accordo: si vede che sei sincero e non sei qui per farci del male. Puoi passare, ma ad una condizione.”

“Quale?”

“Prima rispondi a questa domanda: cosa sono quelle due finestre che di giorno sono aperte e di notte sono chiuse? Se sai rispondere bene, ti lascio proseguire.”

Il ragazzino esitò a rispondere, e più volte ragionò sulla risposta da dare al cavaliere. Ad un tratto spalancò gli occhi ed esclamò: “Lo so, lo so! Sono gli occhi, giusto?”

“Gli occhi? Sei sicuro?”

“Sì! Sono due e di giorno sono aperti perché siamo svegli, mentre di notte no perché dormiamo!”

Il possente cavaliere annuì, e si fece da parte per far passare il ragazzino. Anche se quest’ultimo non poteva accorgersene, l’invisibile barriera che proteggeva il magico luogo svanì nel nulla, e a quel punto il cavaliere disse: “La risposta è corretta, ora puoi andare. Benvenuto nel nostro mondo, sono certo che troverai ciò che stai cercando.”

Il ragazzino lo ringraziò di cuore e si addentrò in quel misterioso territorio. Non appena alzò gli occhi per guardarsi intorno, si accorse che quel luogo era davvero bello: ricco di alberi e piante di qualunque forma e altezza, dai fiori dai mille colori e dagli animali fantastici, mai visti da nessun’altra parte. Per il ragazzino sembrava di essere stato catapultato in un vero e proprio paradiso, e più volte si strofinò gli occhi prima di capire che tutto ciò che stava vedendo era reale. Egli tornò a camminare, guardando attentamente ogni angolo di quella zona per trovare la pianta che stava cercando...»

... proprio come stava facendo il piccolo Shingo in quel momento. Nel caso del bambino, però, la ricerca sembrava essere più semplice di quella del protagonista della storia: mentre quest’ultimo era circondato da piante dai mille colori, quindi per lui non era facile individuare quella giusta in quell’arcobaleno della natura, invece il territorio nel quale si trovava Shingo era predominato dal colore verde, e poche erano le piante sulle quali iniziavano a schiudersi dei fiori colorati. Ma, a dispetto della grande semplicità di quella ricerca, sembrava non esserci traccia proprio della pianta miracolosa dai fiorellini rosa.

Shingo camminava ed esplorava senza mai fermarsi, ma non riusciva a trovare ciò che stava cercando, e dopo tanto girovagare si sedette ormai stanco su una piccola roccia, sospirando e tirando su il naso. Non riusciva a credere che la sua ricerca si stesse concludendo con un nulla di fatto, mentre per il protagonista era andata a finire bene, nonostante la sua grande difficoltà. Eppure il guardiano lo aveva assicurato: da qualche parte in quella riserva c’era questa pianta miracolosa, per cui doveva esistere... giusto?

Quel simpatico uomo non gli aveva mentito... giusto?

Egli sembrava sincero quando gli aveva assicurato che avrebbe trovato quella pianta, per cui non avrebbe mai detto una bugia solo per prenderlo in giro... giusto?

«Ojiisan...»

Lacrime copiose iniziarono a scendere dagli occhi neri di Shingo, mentre il bambino tornò a voltarsi intorno, alla ricerca di quella figura a lui familiare che aveva lasciato all’ingresso di quella zona senza nemmeno salutarlo, così entusiasta di trovare finalmente la pianta miracolosa. Shingo afferrò un sasso che si trovava a terra e lo scagliò contro il tronco di un albero che gli era dinanzi, urlando «Non è giusto!» con un tale impeto da far fuggire qualche uccellino che stava facendo la sua consueta passeggiata alla ricerca di cibo, tra l’erba e i rametti che ricoprivano il terreno della riserva naturale.

Il sasso rimbalzò contro il tronco per poi toccare il suolo, mentre il piccino nascose la testa tra le ginocchia e continuò a singhiozzare. In quel momento le orecchie di Shingo udirono un rumore di lenti passi alle sue spalle, che di tanto in tanto spezzavano i piccoli rami che si trovavano a terra; quando alzò la testa vide un grande fiore rosa che penzolava davanti ai suoi occhi.

Shingo non sapeva se fosse un miraggio, ma fugò ogni dubbio quando si voltò e alle sue spalle vide l’anziano guardiano che reggeva proprio quel fiore in mano: era molto simile a quelli che il piccolo aveva visto sulla copertina del libro della storia... ma rispetto ad essi era molto più grande. Solo allora i suoi occhi si illuminarono di gioia, e Shingo pensò che da quel fiore avrebbe potuto ricavarci non una, ma cento pozioni che avrebbero potuto salvare chiunque dalla febbre che stava affliggendo la sua amata sorellina!

«Perché sei andato via? Ti sei perso l’angolo delle camelie!» disse il guardiano, sfiorando la guancia del piccolo con il fiore che aveva in mano. Glielo diede e, indicandolo, gli chiese: «Ti piace? Si chiama “camelia”, e la chiamano “la rosa del Giappone”...»

«Ca... camelia?»

«Hai visto? È un fiore bellissimo... uno dei più belli che esistono nel mondo. E ora ti mostro il giardino delle camelie... sempre se non vorresti scappare di nuovo! Sei davvero un gran furbetto, sai?»

Shingo annuì in silenzio e, mano nella mano, seguì il guardiano. Ogni tanto annusò il fiore che aveva in mano: non sembrava emettere alcun profumo, e gli sembrò strano perché tutte le piante e i fiori che si trovavano nel suo giardino avevano un odore ben distinto. Il dolce odore del tiglio, quello più concentrato della menta... persino quello forte dell’erba bagnata dalla pioggia: ogni pianta del giardino della sua abitazione aveva un odore ben preciso, per cui Shingo pensava che non potessero esistere piante che non emanassero particolari profumi; non era così per quella camelia, che si differenziava dalle altre proprio per il suo essere meravigliosa ma dal profumo sconosciuto. Forse, era proprio per questa sua caratteristica che la camelia avrebbe aiutato sua sorella a guarire dalla febbre.

Il piccolo sorrise, tenendo ben stretto il fiore che aveva in mano, e spalancò gli occhi dallo stupore non appena mise piede in una zona di quella riserva che non aveva ancora attraversato con le sue gambe.

«Siamo arrivati!» esclamò il guardiano.

Di fronte a loro vi era un giardino ricco di camelie, che dai suoi occhi di bambino a Shingo sembrò immenso: in ogni angolo vi erano fiori dai molti colori, da quelli bianchi a quelli rosa, fino ad arrivare a quelli picchiettati da lunghe o brevi fasce rosacee.

Shingo lasciò la mano del guardiano e, sempre più incredulo, camminò lungo il roseto, sfiorando con le dita i fiori che sporgevano verso di lui: gli sembrava di essere capitato proprio in quel magico mondo della storia, che come il ragazzino stava incantando anche lui.

Incredulo per ciò che stava vedendo, il bambino saltò di felicità quando fu certo che non stesse vivendo un miraggio. Era stato davvero fortunato: aveva trovato il luogo magico nel quale solo i puri di cuore potevano entrare, e proprio lì aveva trovato la pianta miracolosa che stava cercando.

Non era un sogno: ce l’aveva fatta per davvero! Ora non gli restava altro se non tornare a casa e preparare la magica pozione che avrebbe risvegliato sua sorella nel torpore che la teneva prigioniera.

«Evviva! La mia sorellina guarirà!»

 

 

 

Il guardiano suonò al campanello dell’abitazione degli Aoi, mentre Shingo tenne la testa bassa. Il piccino, infatti, stava già immaginando la reazione della madre che - nella sua immaginazione - lo avrebbe sgridato per il fatto che lui fosse uscito di casa senza nemmeno avvisarla; allo stesso tempo, tuttavia, era certo che sua madre lo avrebbe accolto con un sorriso perché lui aveva tra le mani la medicina per guarire la sorellina.

A differenza della storia, il guardiano non aveva gli stessi poteri dello stregone che aveva aiutato il ragazzino a creare la pozione per rompere l’incantesimo del villaggio. Prima di tornare a casa Shingo gli aveva chiesto se potesse preparare per Yukiko la pozione dagli incredibili effetti magici, ma lui con gentilezza e una punta di imbarazzo gli aveva risposto che non ne era in grado, e che solo la sua mamma avrebbe potuto aiutare la sorellina. La stanchezza si fece sentire sul corpo di Shingo, che diede un profondo sbadiglio prima di vedere sua madre precipitarsi verso di lui.

Proprio Yumi, intanto, si chiedeva con incredulità il perché suo figlio fosse dietro le sbarre di quel cancello e non nel loro giardino: come aveva fatto ad arrivare in quel punto senza farsi male? Non può aver scavalcato il muretto... è impossibile!

Non appena la donna notò che al suo fianco ci fosse il guardiano della riserva naturale, il primo pensiero che le passò per la mente fu quello che suo figlio, dopo essere uscito di casa, avesse combinato un gran pasticcio. Yumi aprì il cancello con un sorriso, e subito le venne da dire a suo figlio: «Ma... ma come ci sei finito qui, Shingo?»

Il bambino non rispose, e abbracciò la mamma tra le lacrime: essendo ancora così piccolo, Shingo aveva sentito la sua mancanza nonostante fino a quel momento fosse stato in piacevole compagnia: non vedeva l’ora di tornare a casa, di dire la verità a sua madre e di aiutarla a preparare la medicina grazie alla quale Yukiko si sarebbe ripresa.

Yumi lo prese in braccio e gli disse: «Stai tranquillo, c'è la mamma qui con te: ora si torna a casa...» Poi si rivolse al guardiano, lo ringraziò per aver riportato il suo secondogenito a casa e con grande curiosità gli sussurrò: «Perdonami... mio figlio era fuori casa? Giocava nel giardino, e poi non l’ho più visto... non riuscivo più a capire dove fosse finito, e stavo iniziando a preoccuparmi...»

«Sono uscito da quel cancelletto, mamma!» rispose candidamente Shingo, e indicò verso la loro casa in direzione del piccolo cancello in legno che da quel punto era nascosto dalla struttura dell’abitazione, trovandosi di spalle ad essa. «Sono andato al ruscello per cercare la pianta per la sorellina, e lì ho incontrato ojiisan che poi mi ha portato nel luogo magico dove ci sono un sacco di fiori belli... come questo!»

E subito il piccolo le mostrò la splendida camelia che il guardiano gli aveva regalato.

«Ah.» Yumi rimase con la bocca aperta per lo stupore. Prima di tutto, la convinzione che il piccolo cancello in legno posto sul retro della casa fosse rigorosamente chiuso si era sciolta come neve al sole: probabilmente si era rotto, oppure in qualche modo suo figlio era riuscito ad aprirlo.

Quanto torna Susumu mi sentirà. Gli ho detto minimo quaranta volte di controllare quel cancello... «Sì, tesoro: tutto a posto!» Tutto a posto un cavolo, accidenti!

Come secondo pensiero, Yumi si sorprese nel vedere quel bellissimo fiore che Shingo le stava offrendo. Ma, ancora di più, la donna fu colpita dal fatto che suo figlio, di soli tre anni, era uscito di casa per cercare quella pianta che avrebbe aiutato sua sorella a guarire dalla febbre - e che, in realtà, non esisteva, ma suo figlio era riuscito a trovarne una che la ricordasse anche vagamente.

Yumi pensò che, forse, sarebbe stato meglio non raccontare più nulla al suo Shingo... almeno non più storie del genere quando qualche membro della loro famiglia non stesse bene. Mia mamma non aveva tutti i torti: mio figlio è davvero imprevedibile!

Il guardiano sorrise e annuì, accarezzando la testa di Shingo. «Ha ragione questo piccoletto: era tutto solo al ruscello, ed era così intento nella sua ricerca che ho voluto aiutarlo... l’ho portato con me, e così gli ho fatto vedere un po’ della nostra riserva naturale! Si è divertito molto, soprattutto nel giardino delle camelie: dovevi vederlo mentre osservava con curiosità tutti quei fiori colorati!»

Di fronte a quella rivelazione Yumi assunse un’espressione preoccupata verso il guardiano e iniziò a frugare nelle tasche del grembiule che indossava. «Caspiterina... quanto ti devo? Ti pago subito l’ingresso per mio figlio: dammi solo il tempo di prendere i soldi, e–»

«Non mi devi assolutamente niente. Stai tranquilla: è stato mio ospite, e il fatto di averlo visto così felice vale ben più di un biglietto. Magari tutti i visitatori si lasciassero sorprendere dalle bellezze del nostro territorio come ha fatto questo piccoletto...»

Il vegliardo lasciò il bastone vicino alle sbarre del cancello e prese in braccio Shingo. «Ma, in cambio... tu non devi più far stare in pensiero la mamma, d’accordo? È stata molto preoccupata per te, perciò non uscire più di casa senza il suo permesso. Yubikiri genman?[3]»

Protese il mignolo verso il bambino, che subito lo intrecciò e annuì. «Yubikiri genman...»

«... uso tsuitara...»

«... hari senbon nomasu.»

«Yubi kitta!» esclamarono insieme i due, separando i loro mignoli; dopodiché il guardiano posò a terra il piccolino e disse: «Ora che hai giurato, mi raccomando: ascolta sempre la mamma perché ti vuole tanto bene.»

«Sì, ojiisan

«Che bravo bambino!» disse, e rivolse lo sguardo verso Yumi dopo aver arruffato i capelli a Shingo. «E tu non perderlo più di vista... d’accordo? Questo piccino è molto sveglio e, se ha preso dal padre anche nel carattere, ti assicuro che non hai ancora visto niente!»

«Stai dicendo che Susumu era così terribile? Devo preoccuparmi?»

L’anziano prese il bastone che aveva lasciato e scoppiò a ridere. «Certo che no! Ma in tutti questi anni ho visto crescere lui e tanti altri bambini... e ti assicuro che quelli come tuo marito hanno sempre la capacità di sorprenderti. Vedrai, tuo figlio promette bene: proprio come tuo marito, farà grandi cose quando sarà un uomo!»

I due adulti si salutarono con un inchino e, mentre Yumi prese per mano suo figlio e osservò l’anziano guardiano della riserva allontanarsi sempre più da loro, uno schietto pensiero le passò per la mente. Ma se Shingo ha solo tre anni e l’unica cosa che ha fatto con lui è stato vedere dei fiori... mah, staremo a vedere! Per ora voglio seguirlo passo passo...

Lei non poteva ancora prevedere o anche solo immaginare quale sarebbe stato il destino di quel bambino che teneva per mano, ma se proprio in quel momento lo avesse saputo forse non ci avrebbe nemmeno creduto più di tanto.

 

Yumi spostò lo sguardo verso il cancello aperto, allungò la mano libera e lo chiuse dietro di sé; non appena voltò le spalle, un assordante rumore metallico giunse alle sue orecchie. Vide sua madre dall’altra parte del cancello che, per annunciarsi, aveva raccolto un sasso e lo teneva ben stretto, facendolo scorrere lungo le sbarre.

«Guarda un po’!» disse Atsuko, con un sorriso provocatorio. «Da quando in qua si chiudono i cancelli in faccia alle persone?»

«Scusa, mamma: non ti avevo vista!» esclamò Yumi, aprendo di nuovo il cancello e facendo entrare sua madre, che reggeva tra le mani un grande sacchetto di carta ben chiuso con un fiocco.

Shingo notò quel misterioso oggetto e, senza pensarci due volte, protese le mani verso la nonna: pensò che si trattasse del regalo che lei gli aveva portato e voleva scartarlo subito, proprio in quel momento. «È mio, è mio!» esclamò con gioia. «Ti prego, dammelo!»

L’anziana rivolse un dolce sorriso al piccolo, e disse: «Non vuoi aprirlo quando siamo tutti a tavola? Scommetto che anche Yukiko e Riku moriranno dalla voglia di sapere cos’è...»

A quelle parole l’espressione di Shingo cambiò: il piccolo si nascose dietro la gamba della mamma e tornò a singhiozzare.

Inizialmente Atsuko non riuscì a comprendere il perché dell’improvvisa tristezza di suo nipote e, avvicinandosi a lui, cercò di consolarlo in qualche modo. «Cosa è successo, piccolino?»

Yumi lo prese in braccio e lo cullò. Shingo posò il volto nell’incavo del collo della mamma, e continuò a frignare. «Vedi...» rispose la donna, «mio figlio è triste perché Yukiko ha preso l’influenza: proprio oggi che è il suo compleanno!»

«Che bel guaio... non ci voleva!»

Non appena Atsuko si avvicinò ulteriormente a suo nipote, notò che in mano aveva una graziosa camelia dai petali rosa. «Oh, cos'è questo?» chiese, sfiorando con dolcezza il fiore. «Posso vederlo?»

Shingo lo allontanò bruscamente e strinse ancora di più la presa. «Questa è la medicina per la sorellina, e solo la mamma può toccarla!»

«La... la medicina?» domandò l’anziana.

Con un sorriso Yumi voltò le spalle e le fece cenno di seguirla. «È la pianta miracolosa...» sussurrò, mentre entrava in casa. Porse il figlioletto a sua madre, si fece dare quel fiore e arruffò i capelli di suo figlio. «Grazie, piccolo mio. Con questa spezzeremo la maledizione della febbre!»

Atsuko inarcò le sopracciglia, non capendo molto di quella storia: quella che aveva in mano sua figlia sembrava essere una normalissima camelia... ma volle avere fiducia nelle loro parole. Sapeva che, in ogni caso, a Yukiko avrebbe fatto piacere vedere quel grazioso fiore sulla sua piccola scrivania, e che sua nipote si sarebbe sentita meglio solo a guardarlo.

 

 

Shingo e Atsuko erano saliti al primo piano per dare un’occhiata a Yukiko e vedere se nel frattempo si fosse svegliata, mentre Yumi si stava dedicando alla preparazione di un’altra tisana per sua figlia. La giovane madre appoggiò il fiore sul davanzale della finestra della cucina, dopodiché prese gli ingredienti necessari per la medicina di sua figlia, anche se nel frattempo iniziò a pensare cosa avrebbe dovuto fare con quel fiore. Non poteva ricavarci una tisana miracolosa perché la camelia che aveva portato suo figlio non era adatta per essere messa in infuso e bevuta, però poteva pur sempre utilizzarla come decorazione per la scrivania della piccola Yukiko.

Con delicatezza ne staccò un petalo e lo tenne in mano, mentre con un sommesso rumore il bollitore l’aveva appena avvisata che stava per mettersi al lavoro con il contenuto della tisana. Yumi pensò che avrebbe detto a suo figlio una piccola bugia, ma che avrebbe posato quel petalo dal brillante colore rosa sulla bevanda che avrebbe versato nella tazza, come segno della fiducia che aveva in lui.

 

«Bentornato, Shingo!»

«Riku!»

Shingo corse verso l'orsacchiotto di Yukiko e provò ad afferrarlo: lo aveva lasciato che “dormiva”, in cima alla cesta chiusa dove lui e sua sorella riponevano i loro giocattoli, e non vedeva l’ora che anche lui si svegliasse per trascorrere del tempo insieme.

Se Yukiko ormai aveva scoperto da molto tempo l’affascinante meccanismo che permetteva a Riku di prendere vita, diversamente era per Shingo che da bambino ingenuo qual era - e complice la bravura di sua nonna - credeva ancora che Riku riuscisse a parlare da solo. Tuttavia, essendo un bambino molto sveglio e dalle mille domande, aveva iniziato a nutrire dell’interesse mista a curiosità sul perché di certi atteggiamenti che l’orsacchiotto aveva: ad esempio a volte Riku non parlava per interi giorni, guarda caso proprio quando la nonna non era in casa; a volte invece sentiva che balbettava qualche parola anche in assenza della nonna, ma sembrava avere una voce diversa dal solito, meno acuta e più profonda. Shingo non poteva ancora sapere che in quei momenti era la mamma che sostituiva la nonna nell’arte del ventriloquo, e che stava cercando di imitare il più possibile il tono di voce e l’espressione che la vegliarda dava a quel peluche.

La nonna gli aveva sempre detto che «gli orsacchiotti come Riku hanno poteri speciali, e chi ha poteri speciali si riposa di più rispetto a noi!» Nonostante ciò, quella strana situazione incuriosiva sempre più il piccino, che aveva iniziato a chiedere alla nonna molte cose su Riku.

«Perché quando non ci sei tu non parla?»

«Perché quando non ci sei tu ha una voce diversa?»

«Perché non muove la bocca quando parla?»

«Perché quando dorme ha gli occhi aperti?»

Per il piccolo Shingo era iniziata la stagione dei “perché” che arrivava a mettere in discussione tutto ciò che fino a qualche tempo fa era certo per lui, compreso il suo adorato Riku; tuttavia sul suo volto la curiosità lasciava spazio ad una grande felicità ogni volta che l’orsacchiotto tornava a parlare, proprio come stava accadendo in quel momento. Shingo adorava Riku, e gli piaceva trascorrere del tempo con lui giocando e divertendosi insieme.

Dopo alcuni tentativi - tra i quali quello di scuotere la cesta - l’orsacchiotto cadde verso Shingo, e quest’ultimo riuscì ad afferrarlo prima che cadesse a terra: essendo un semplice e morbido peluche Riku non era molto grande né particolarmente pesante, per cui la presa da parte del piccolo non era stata particolarmente difficoltosa. Shingo gli diede una dolce carezza sulla testa, e Riku gli disse: «Sei triste per Yukiko, non è così?»

Il piccolo annuì.

«Non preoccuparti, la sorellina starà meglio! Adesso che hai dato alla mamma la pianta miracolosa, lei si riprenderà in fretta!»

Piuttosto sorpreso dall’affermazione dell’orsacchiotto, Shingo lo guardò sbalordito. «Come... come sai che ho dato la pianta miracolosa alla mamma?»

«Non posso muovermi... ma vi ho sentiti quando siete tornati a casa! Sei stato bravo, presto giocheremo tutti insieme!»

«Wow... le tue orecchie sentono tutto!»

«È normale: sono un orso, e gli orsi sentono qualunque cosa!»

Con Riku tra le sue braccia, Shingo andò da Yukiko che era ancora a letto; nel vederla che stava ancora dormendo, tornò dalla nonna piuttosto deluso. «Quando arriva mamma con la medicina? La sorellina deve guarire!»

Atsuko stava per rispondergli, e sua figlia entrò proprio mentre lei stava per schiudere le labbra.

Yumi portava con sé un vassoio con due oggetti adagiati sulla superficie: una tazza fumante e un piccolo vaso pieno di terriccio, dal quale faceva capolino la camelia che Shingo aveva portato. La giovane madre posò il fiore sul comodino posto accanto al letto di Yukiko, insieme alla tazza fumante. «Ecco qua: la pozione che spezzerà la maledizione della febbre cattiva!»

Shingo si avvicinò a sua madre e diede un’occhiata agli oggetti che ora si trovavano sul comodino. Subito notò che sulla superficie cristallina della tisana vi era un petalo di quel fiore che il guardiano gli aveva regalato, e chiese: «Questa è la pozione magica?»

«Sì,» rispose la madre, «e quest’altro è un vaso che ho preparato per Yukiko, che le farà compagnia quando sarà sola!»

«Che bello, così la sorellina guarirà presto!»

«Ma adesso dobbiamo andare...»

«Perché?»

«Perché la medicina deve fare effetto, e per fare effetto la sorellina ha bisogno di stare da sola. Anzi... non sarà del tutto sola: ci sarà Riku a farle compagnia!»

«E non la aiuti a bere la medicina?»

A Yumi sfuggì un sorriso divertito, che il piccolo notò subito e commentò così, spalancando gli occhi: «Sta già meglio?»

Sua madre annuì e portò l’indice sulle sue labbra, intimandogli di restare in silenzio. Shingo si portò una mano sulla bocca e mugolò di felicità, mentre sua madre lo prese per l’altra mano e insieme andarono verso la porta d’ingresso della cameretta.

«Secondo me Yukiko potrà già giocare oggi con te,» sussurrò la donna, abbassando con dolcezza la maniglia. «Vedrai che starà già meglio quando torneremo dopo pranzo.»

Shingo si tolse la mano dalla bocca e sorrise. «Sì! Sono molto, molto felice!»

 

 

Le cose, però, andarono in modo leggermente diverso da ciò che il piccolo Shingo aveva immaginato. Nonostante il sonno che avanzava su di lui, il bambino aveva in programma di restare sveglio anche nel dopo pranzo, così da andare a trovare Yukiko e vedere se lei si fosse ripresa oppure no; tuttavia, proprio perché non era riuscito a riposare prima, finì per addormentarsi nel bel mezzo del pranzo.

Atsuko lo prese in braccio e lo pose sul piccolo divanetto che era nel soggiorno; gli mise addosso una coperta e, in silenzio, tornò nella cucina dove intanto sua figlia aveva iniziato a sparecchiare la tavola. «Allora,» disse a Yumi sottovoce, «come procedono i preparativi?»

La donna si portò una mano sulla fronte. Anche su di lei la stanchezza iniziava a farsi sentire e sapeva che doveva riposare un po’, ma si chiedeva quando avrebbe avuto tale possibilità. «Con Yukiko a letto, oggi non è stato facile. È vero: c’è un bambino in meno che gironzola per la casa, però la fatica è stata doppia. Non sono riuscita nemmeno a preparare la torta…»

Atsuko si avvicinò a sua figlia e disse: «Tranquilla, ora ci sono io. Adesso vai a riposarti un po': mi occuperò io del resto... anche della torta! Non pensare che non ce la faccio solo perché inizio a perdere qualche colpo: queste mani sanno ancora preparare dei gustosi manicaretti, eh!»

«Non pensarci nemmeno, mamma. Non conta la tua età: anzi, so molto bene che sei una roccia... ma oggi sei un'ospite, e per questo non devi assolutamente occuparti di niente. Dai solo un’occhiata a Shingo e a Yukiko; per il resto me la vedo io...»

Sua madre le accarezzò dolcemente la guancia. Era un gesto tipico della loro famiglia: proprio come, poche ore prima, Yumi lo aveva fatto nei confronti di Yukiko, così quello di Atsuko era un modo così semplice quanto espressivo per dare conforto a sua figlia. «Ed io ti ho già detto che devi stare tranquilla. Non ti distruggerò la cucina, se questo è ciò che ti preoccupa.»

«Certo che no, ma non voglio lo stesso che ti sforzi per aiutarmi: vedrai, ce la farò anche da sola, anche se sono molto stanca... vorrà dire che stasera dormirò di più!»

Mentre stava per voltare le spalle alla madre Yumi iniziò a barcollare, rischiando di perdere l'equilibrio; per fortuna che Atsuko la afferrò, e la aiutò a sorreggersi.

«Vedi?» disse l'anziana, rivolgendo a sua figlia un caldo sorriso. «Lo capisco. Non è facile stare dietro ai tuoi figli, soprattutto a quel piccolo uragano di mio nipote... hai una forza inimmaginabile! Ma ora hai bisogno di riposo: dai, mettiti anche tu sul divano con Shingo...»

«Mamma, però io...»

«Niente “però”. Devi essere in forma alla festa di compleanno di tuo figlio: lui vuole vederti felice e, soprattutto, piena di energie... e anche Yukiko, lei più di tutti!»

Yumi fissò Atsuko con sguardo pregno di tristezza. Aveva ragione sua madre: lei voleva essere sempre forte per i suoi figli e, forse, il restare in piedi per tutta la giornata sarebbe stata a lungo andare una soluzione controproducente. «Forse... forse non hai tutti i torti. D’accordo: mi riposerò, ma solo per un po’...»

«Vuoi che ti accompagno?»

«No, grazie: riesco ancora a reggermi in piedi. Prometto che cercherò di non cadere finché non raggiungerò mio figlio... però, ti prego: tra qualche minuto sali in camera di Yukiko, portale il cibo che le ho preparato e assicurati che abbia bevuto tutta la tisana. Poi, quando hai fatto, mi svegli tra un’oretta se vedi che mi sono già appisolata, d’accordo? Non di più, altrimenti non riuscirò a finire tutto in tempo...»

Yumi lasciò la presa dell'anziana madre e si allontanò verso il soggiorno, accomodandosi dove già era il piccino; si sdraiò al suo fianco, strinse a sé suo figlio e anche lei si lasciò andare nel mondo dei sogni.

Nel vedere quella scena, il cuore di Atsuko si riempì di serenità.

Che tipi... ma non preoccupatevi: da qui in poi ci penso io!

 

 

 

Il piccolo Shingo si svegliò quando era già tardo pomeriggio. La prima immagine che vide fu il viso sereno di sua madre che stava dormendo al suo fianco, ma in quel momento si ricordò subito di dover andare da Yukiko e controllare che stesse bene; provò così a liberarsi dalla stretta di sua madre, che lo teneva vicino a lei con il braccio ma, non riuscendoci, cercò di svegliarla scuotendola per le spalle.

«Mamma, mamma!»

A quel richiamo Yumi aprì lentamente gli occhi e focalizzò suo figlio che la stava chiamando. Con un profondo sbadiglio gli sussurrò: «Ah, che bella dormita... cosa c’è, Shingo?»

«Dobbiamo vedere se la medicina ha funzionato, mamma: dobbiamo andare dalla sorellina!»

A quell'ultima risposta di suo figlio, Yumi si alzò di colpo. Rivolse lo sguardo verso il balcone del soggiorno e, nel vedere il cielo ormai al tramonto, iniziò a preoccuparsi: sua madre non l’aveva svegliata, e lei aveva ancora molto da fare prima dell’arrivo di suo marito.

«Oh, no! Per quanto tempo ho dormito?!» Senza pensarci due volte Yumi prese suo figlio in braccio e si precipitò nella cucina, pensando di trovare sua madre ai fornelli; invece di lei nessuna traccia, anche se il forno era stato spento da poco a giudicare dal calore che si poteva percepire per l’intera stanza. Così la giovane madre corse al primo piano, e aprì gli occhi per il grande stupore non appena spalancò la porta della cameretta dei piccoli.

«Sorpresa! Buon compleanno, Shingo!»

La stanza dei suoi figli era stata adornata con tante decorazioni colorate e nell’angolo era stato allestito un tavolino con la torta che sua madre aveva appena sfornato e finito di decorare; Riku, invece, era seduto accanto a Yukiko che, sebbene ancora a letto e con la coperta addosso, era decisamente sveglia a giudicare dalla gioia che stava riempiendo il suo volto. Con la bambina vi erano sua madre Atsuko e anche suo marito Susumu, seduti rispettivamente su una sedia e il piccolo pouf e dai quali si alzarono per accogliere lei e Shingo.

Devo aver dormito davvero parecchio, se anche mio marito è qui... pensò Yumi mentre suo figlio, non appena notò che Yukiko si era finalmente ripresa, si divincolò da lei e con un balzo corse in direzione del letto.

«Sorellina!» urlò, e l’abbracciò più forte che poteva. «Sei guarita!»

«Ancora no... però sto meglio!» rispose Yukiko con un filo di voce, ma dal tono più allegro che mai. «La nonna mi ha raccontato tutto: grazie per la pianta miracolosa, fratellino!»

«Che bello! Così possiamo giocare insieme!»

Il bambino saltellò felice, perché stava avvenendo proprio come nella storia che sua madre gli aveva raccontato: grazie alla pozione magica sua sorella era stata liberata dall’incantesimo e ora poteva giocare con lui... proprio nel giorno del suo compleanno!

 

«Il ragazzino corse per tutta la montagna dello stregone, senza fermarsi mai. Aveva tra le mani la pianta miracolosa, e già quando era alle pendici aveva iniziato ad urlare: “Ce l’ho fatta: ho la pianta, ora puoi spezzare l’incantesimo!”

Nell’udire quella voce colma di allegria, lo stregone capì subito di chi si trattava e decise di raggiungerlo senza esitazione. I due si incontrarono a metà strada, e lo stregone chiese al ragazzino se potesse accompagnarlo nella piazza del villaggio, dove vi era un pozzo profondo, coperto da un cerchio di legno molto spesso e pesante per impedire che i bambini lo spostassero inavvertitamente e ci finissero dentro.

Sopra quel coperchio lo stregone appoggiò una ciotola che aveva portato con sé, all’interno della quale mise le foglie della pianta miracolosa, e mentre mescolava il tutto con una palettina di legno iniziò a mormorare: “Magia delle magie... riporta tutto come prima!”

E, come un fulmine a ciel sereno, un forte bagliore partì da quella ciotola e illuminò tutto il villaggio. A poco a poco gli abitanti si risvegliarono dal lungo sonno e, rivolgendo gli occhi verso quella brillante luce, videro lo stregone che stava sorridendo, felice anche lui di vedere che tutti stavano per essere liberati dalla maledizione che egli stesso aveva lanciato senza volerlo; non appena iniziarono a capire che lo stregone li stava aiutando, si radunarono nella piazza increduli per ciò che stava accadendo. Anche quei giovani uomini che anni prima lo avevano preso in giro si recarono in quel punto, e non compresero bene perché lo stregone avesse salvato anche loro dalla maledizione; non appena egli terminò la magia, furono i primi a scusarsi con lui per il modo in cui lo avevano trattato, e furono anche i primi a ringraziarlo per ciò che aveva appena fatto!

Nella piazza arrivarono anche i genitori del ragazzino che, non appena lo videro, si ricongiunsero a lui. Tutti gli abitanti del villaggio erano felici di essere svegli, e pronti per un’altra giornata che decisero di dedicarla al divertimento... tutto grazie a quella pianta miracolosa ma, soprattutto, allo stregone che da quel giorno divenne un loro compaesano, e grazie ai suoi poteri potè dedicarsi alla cura di chi si trovava in difficoltà, diventando il medico del villaggio. Da quel giorno nessuno lo prese più in giro per la sua diversità, e lui fu contento di essere riuscito a realizzare il desiderio di avere degli amici e delle persone sulle quali poter sempre contare... tra esse vi era proprio il ragazzino che lo aveva aiutato a trovare la pianta miracolosa, e che presto divenne il suo più fidato apprendista!»

 

Intanto Yumi era rimasta ancora vicino all’ingresso e con molta incredulità continuava a guardarsi intorno. Atsuko prese in braccio Riku, si avvicinò a lei e le disse attraverso l’orsacchiotto: «Piaciuta la sorpresa? È tutto merito mio!»

«In effetti, mi stavo giusto chiedendo chi avesse rivoluzionato la cameretta in un baleno,» rispose Yumi con ironia; ma subito dopo sorrise e diede un buffetto all’orsacchiotto.

«Sai che proprio un genio, caro Riku? Organizzare la festa di compleanno di Shingo qui... ora ti devo un favore!»

«Eheheh!»

Poi la donna abbracciò sua madre, e le sussurrò con commozione: «Grazie, mamma. Immagino che per te deve essere stato molto faticoso, e mi dispiace tanto di non averti dato una mano...»

Atsuko le accarezzò la testa, e le disse: «Su, non pensarci più! L’importante è che i miei nipotini si divertano: se loro sono felici... anche noi lo siamo!»

La giovane madre si asciugò le lacrime che iniziavano a scivolare dagli occhi, e annuì. Rivolse lo sguardo verso il letto, dove Shingo aveva iniziato a giocare con Yukiko: lui stava agitando nell’aria un peluche a forma di stella marina, mentre sua sorella aveva tra le mani un cavalluccio. Al loro fianco ora vi era anche suo marito Susumu, che stava provando - invano - a convincere il piccolo ad andare verso il tavolo per la torta e l’apertura dei regali; tuttavia sembrava che Shingo non ne volesse sapere né del gustoso dolce né tantomeno di ciò che gli avevano regalato.

Di fronte a quella scena, Atsuko rise di felicità. «A quanto pare, oggi il mio nipotino pensa solo a giocare con Yukiko... e dire che oggi dovrebbe essere la sua festa! Dallo sguardo che ore fa aveva verso il mio regalo, già lo immaginavo pronto ad afferrare quel sacchetto, scartarlo in due secondi e mostrare ciò che aveva trovato alla nostra Yukiko, e invece...»

Yumi sorrise. «Sai, mamma? Forse lui ha già avuto il suo regalo.»

«Davvero?»

«Sì. Secondo me... oggi è felice di poter giocare con la sorellina, e non pensa a nient’altro!»

E forse quella non è solo una favola, pensò. Le piante miracolose esistono per davvero: quella camelia ci ha dato una grande mano, tenendoci uniti più che mai!

 

 

Note dell'autore:

[1] Il kabocha è un tipo di zucca invernale, solitamente utilizzato come ingrediente nella tempura, presente per la maggior parte in Giappone, Corea e Thailandia.

[2] Ojiisan = nonno. Contrariamente a quanto si possa pensare, in Giappone è buona abitudine chiamare un anziano “ojiisan” in segno di rispetto. L’equivalente del nostro “nonno” si può tradurre in questo caso come “signore”, senza alcuna connotazione dispregiativa ;)

[3] “Yubikiri genman” è l’equivalente del nostro “Giurin giurello”; per ulteriori informazioni si rimanda all'angolo che segue dopo le note.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Quarto appuntamento di The feathers on the wings of time! Stiamo per addentrarci nel passato di questi due pargoletti, e oggi è la volta dei tre anni di Shingo! **

Prima di proseguire, come sempre vi presento la quarta "appendice" dei nomi. Oggi è molto corta perché riguarda solo un personaggio, il nonno paterno del protagonista che è stato citato due volte in questo capitolo riguardo la struttura della casa dove abita la sua famiglia:

 

- Haruo 「春男」 è il capofamiglia degli Aoi, il padre di Susumu. Come forse qualcuno di voi potrebbe aver intuito, non c’è più da un bel pezzo insieme a sua moglie... È lui ad aver progettato e costruito la casa degli Aoi, con tutte quelle particolarità che ho descritto: il misterioso angolo sul retro (mai utilizzato da Susumu e lasciato come spazio aperto che immette direttamente sulla strada) separato dal giardino dal piccolo cancello in legno, e la cameretta ricavata dalla mansarda con quelle due aperture di luce forse un po’ strane, ma che io ho trovato originali (la finestra sul tetto e l’ingegnosa finestra a balcone). Anche lui, come la maggior parte degli abitanti di Nakahara, è un artigiano: ha dedicato tutta la sua vita a fare il carpentiere, affiancandolo al lavoro della bottega che poi Susumu ha ereditato - e del quale parlerò in modo approfondito in futuro. Il suo nome significa "uomo della primavera".

 

Anche su questa parte, come sempre qualche precisazione che non ho inserito nelle note dell'autore.

- Riguardo la colazione di Shingo, ho provato a cercare sul web una classica colazione per i bambini giapponesi... così mi sono imbattuta in questo interessante link riguardo le diverse colazioni nel mondo. Qui, nelle rispettive foto numero 10 e 11, troviamo il nattō, alimento tradizionale giapponese dal sapore molto forte prodotto attraverso la fermentazione dei fagioli di soia, riso bianco, zuppa di miso, il kabocha già citato nel testo, cetrioli, frittata di uova e salmone grigliato. La bambina ritratta nella foto ha un anno in meno del piccolo Aoi, per cui ne ho dedotto che fosse del tutto normale per un bambino dell'età di Shingo avere quel genere di colazione... Riguardo l'acqua, siccome anche nella mia storia Shingo è scatenatissimo, ho pensato più ad una classica borraccia adatta proprio per i bambini della sua età piuttosto che un bicchiere vero e proprio, altrimenti l'acqua sarebbe volata ovunque... ;D

- A proposito della casa degli Aoi, in realtà nel capitolo 5 del World Youth (in fondo a pagina 6 delle scan) si intravede parte della facciata della dimora. Quindi, diciamo la verità: la mansarda è mia pura invenzione, LOL! Perciò potete immaginare che il balcone che si vede in quella pagina sia della camera dei genitori, mentre il resto si trova alle spalle... ad ogni modo, per la finestra a balcone citata nella cameretta dei piccoli ho consultato qualche link come questo per avere un'idea del funzionamento. E, a proposito della cameretta, riguardo le mensole a parete progettate da Susumu a mo' di libreria, le ho immaginate così! (Giusto un esempio per darvi un'idea ;))

- Almeno nel caso del piccolo Shingo, mi piaceva inserire l'uso di "ojiisan" nel mondo giapponese. Spesso i bambini usano termini che noi traduciamo come "nonno" e "zio" anche per rivolgersi a persone con le quali non si condivide alcun legame di sangue, in segno di rispetto - come in questo caso - senza alcuna connotazione dispregiativa. Da qui, la storia dell'inizio dell'amicizia tra Shingo e il guardiano della riserva naturale di Nakahara che, a quanto pare, in realtà conosce molto bene il suo papà...

- ... e, a proposito di ciò, è stato mentre ho trovato l'equivalente del nostro "Giurin giurello" (con tanto di mignoli intrecciati) che mi sono imbattuta nella filastrocca del "Yubikiri genman", molto popolare tra i bambini, che si recita mentre si fa il giuramento e che termina con la “yubi kitta!”. Volete sapere di cosa parla tale filastrocca? Beh... "se manchi alla promessa ti faccio inghiottire mille aghi". Insomma, in questo modo viene sottolineata l'importanza di un giuramento, che non è una cosa da poco! :3

- La porta d'ingresso del tempio shintoista di Gifu e il lungofiume di Shinsakai della città di Kakamigahara sono luoghi realmente esistenti, soprattutto il secondo è famoso proprio per lo spettacolo dei ciliegi in fiore in Giappone. È vero che anche Nakahara si trova nello stesso territorio di Gifu - come ricordato nel precedente capitolo sulla storia degli Aoi - ma ho immaginato essere un po' distante dall'immaginario ruscello dove si trovano il guardiano e il piccolo Shingo, cosicché non possono raggiungerli a piedi (il guardiano non ha un’automobile perché abita nella zona e Shingo è appiedato come lui XD)

- Sulle camelie, esiste proprio una specie tipicamente giapponese. La camelia giapponese (o camellia japonica) ha una fioritura precoce rispetto alle sue simili, che va dal mese di gennaio a quello di marzo, perciò con i tempi ci siamo; per chi fosse interessato, qui potete leggere un interessante articolo sulla storia della camelia giapponese e come ha conquistato il resto del mondo. In generale la camelia è nota per essere un fiore dal profumo quasi impercettibile, inoltre non ho trovato in giro molte ricette di tisane o tè con la camelia: a quanto pare solo determinati tipi di camelia possono essere utilizzati per infusi, come questa dalla Cina. Perciò, nel dubbio, non ho fatto preparare a Yumi una tisana al gusto di camelia, ma è interessante ricordare come la camelia è conosciuta come il fiore che annuncia la primavera, e considerata simbolo di longevità, legame d’amore, matrimonio felice, fortuna, vittoria e felicità (per cui, è ben augurante per la piccola Yukiko! **)

- Infine, gli orsi sono tra gli animali che hanno un udito e olfatto ben sviluppati, per cui Riku è orgoglioso di pronunciare quella frase (che furbetta la nostra Atsuko! XD)

 

A questo punto, da parte vostra potrebbe sorgere spontanea una domanda: come mai Shingo, a differenza di Yuzo, non ha così tanti parenti sparsi nei vari capitoli? Avrete notato che nella storia dei Morisaki abbiamo molti personaggi, ciascuno con una caratteristica ben precisa mentre, gira e rigira, gli Aoi sono sempre "quattro gatti" (il che non è propriamente vero, considerato il fatto che presto ne conoscerete altri)... però in questo punto della storia potreste aver sentito una "mancanza" di personaggi nella parte di Shingo.

Ebbene, il motivo principale è il seguente: come ben sapete per i Morisaki sono partita praticamente da zero nella costruzione della loro famiglia, mentre per gli Aoi esistevano già tre figure comparse nella storia di CT. Shingo e Yuzo, nonostante siano nati lo stesso giorno (ma in due anni diversi), hanno due caratteri quasi opposti tra loro e due percorsi calcistici completamente diversi: è inevitabile che - almeno nel mio immaginario - abbiano avuto storie di vita diverse tra loro e forse quasi antitetiche, a cominciare dai piccoli dettagli come la presenza o meno di parenti e altri personaggi. E, proprio a proposito di quest'ultimo elemento, per Yuzo mi è venuto più facile immaginare un mondo familiare costellato da più fratelli e zii rispetto a Shingo con il quale sono partita con un'idea di famiglia molto "intima", costituita dai genitori, dalla nonna e dalla sorella... attenzione, però: questo non vuol dire che le storie di Shingo saranno quelle meno corpose e significative, eh! D'altronde, se così non fosse stato, ad esempio non sarebbe nato questo lungo, lunghissimo capitolo... LOL; inoltre presto conoscerete altri personaggi, che non saranno parenti stretti di Shingo ma persone che incontrerà lungo il suo cammino. Vedrete cosa ho in serbo per lui! :3

È ancora presto per tirare le somme: siamo ancora agli inizi, però spero che ai vostri occhi sto trattando bene i piccoli protagonisti di questa storia. Nel progettare queste prime parti, mi sono sentita un po' come se fossi stata la loro "mamma", tenendoli per mano per poi aiutarli a prendere confidenza con il mondo che li circonda... ed è proprio così, Yuzo e Shingo devono ancora fare esperienza e imparare molto dalla vita. (E, considerando il come sono cresciuti, direi che le loro esperienze sono servite a renderli più forti e coraggiosi! ;3)

A conclusione, come sempre ringrazio tutti coloro che stanno seguendo questa storia, sia silenziosamente che con le loro recensioni, e ci vediamo al prossimo aggiornamento con la parte su Yuzo! Il finale è ancora lontano... ma non siete curiosi del "dove andrò a parare"? ;)

--- Moriko

 

 

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Capitolo 5
*** Germogli - Sei anni | Morisaki's side ***


Fanfiction
Ht3QVT8

Germogli.

{Sei anni | Morisaki's side}

 

 

BGM: Hazy - Cosmos

 

 

 

[12 Marzo. Nankatsu, prefettura di Shizuoka.]

 

La luce del mattino filtrava attraverso le tapparelle della cameretta dove Yuzo riposava. Il piccolo era immerso nelle coperte del suo lettino futon e stava ancora dormendo profondamente.

Una piccola sveglia a forma di luna, posta su un basso comodino al fianco di Yuzo, stava per segnare l’ora in cui il bambino si sarebbe svegliato. Infatti, proprio in quel momento la porta della cameretta si aprì piano e la madre del piccolo entrò furtiva, si avvicinò a passi silenti al lettino e si chinò, dando una dolce carezza sul braccio del figlio.

«Buongiorno...» gli sussurrò. «Buon compleanno.»

Izumi gli diede un bacio sulla guancia, poi si avvicinò alla finestra e lentamente alzò le tapparelle: non era il tipo da svegliare di soprassalto i suoi cari, attraverso urla e forti rumori che di certo avrebbero rovinato l’inizio della loro giornata.

Quei dolci movimenti fecero uscire dalle coperte Yuzo, che si sedette e si strofinò gli occhi ancora assonnati. Sebbene non riuscisse ad aprirli del tutto per il sonno e così a focalizzare ciò che stava accadendo intorno a lui, il piccino sapeva che quella piacevole sveglia era ad opera della sua mamma, che anche in quei semplici gesti dimostrava l’immenso amore che nutriva per lui così come per i suoi fratelli. «Ciao, mamma...» mormorò, sbattendo le palpebre.

Con un tenero sorriso Izumi tornò da lui e si inginocchiò al suo fianco. «La colazione è pronta: ti stiamo aspettando in cucina. I fratelloni sono già impazienti di iniziare la grande sfida: mi chiedo chi la spunterà oggi... e chissà se riuscirai a fare il furbetto come sempre!»

Yuzo trattenne una risata e annuì, restituendole il caloroso sorriso che aveva ricevuto. «Va bene: arrivo subito, mamma!»

Izumi si alzò, sorrise un’ultima volta a Yuzo e uscì dalla stanza.

Solo allora il bambino si alzò dal letto e si affacciò alla finestra. Guardò davanti a sé, nella direzione di un’altra abitazione che si trovava al fianco della sua casa, e fissò l’unica finestra del primo piano che si affacciava proprio di fronte alla sua cameretta. Per uno strano caso del destino, colui che aveva progettato quelle due abitazioni le aveva immaginate come gemelle: Yuzo non poteva sapere ciò, ma le due famiglie - la sua e quella dei vicini - che abitavano in quelle due villette erano molto legate tra loro, e il simbolo della loro profonda amicizia risiedeva proprio nella sua stanza e quella che gli stava dinanzi.

Il piccolo alzò la mano e, con un sorriso che sembrava essere più colmo di tristezza che di felicità, iniziò a muoverla da un lato all’altro, nell’atto di salutare qualcuno che, però, in quel momento non c’era.

E non ci sarebbe mai stato.

Quella era un’abitudine che Yuzo aveva preso da qualche mese e che non aveva mai dimenticato, pur sapendo che da quella finestra non si sarebbe affacciato nessuno: seppur fosse perfettamente consapevole di ciò, il piccolo si era ripromesso di continuare imperterrito in quella forma di saluto che solo all’apparenza sembrava essere a vuoto, ma che in realtà aveva un significato ben più profondo. Lo faceva sempre ogni volta che si svegliava, salutando un suo simile che gli aveva fatto compagnia per quasi un anno e che, proprio come lui, aveva reso quella stanza il suo piccolo regno, nel quale si svegliava con il pensiero verso quel sogno che entrambi condividevano.

Era trascorso solo qualche mese dal giorno in cui quel bambino di cinque anni non si era più affacciato a quella finestra, ma Yuzo continuava a rivolgere il suo saluto in quella direzione, perché sapeva che in realtà colui che era stato il suo più grande amico non aveva mai lasciato la sua cara cameretta. Proprio come il fumo acceso dell’incenso che si elevava sempre più in alto, fino a diventare del tutto invisibile ma che continuava a impregnare l’aria con il suo gradevole profumo, anche quel bambino non era mai andato via dalla vita di Yuzo.

Era solo... scomparso.

Senza smettere di mostrare quel malinconico sorriso, il piccolo diede un sospiro, voltò le spalle e si avvicinò all’armadio scorrevole che si trovava di fronte al futon, continuando ad avere lo sguardo fisso sulla finestra.

«Ciao, Hikaru. Io vado all'asilo... e te lo prometto: oggi mi divertirò anche per te!»

 

 

 

La colazione, la prima parte della giornata per tutte le famiglie, per i Morisaki era uno dei più chiassosi e movimentati. Era uno dei pochi momenti che i tre piccoli di casa riuscivano a condividere tra loro, rallegrando la gioiosa atmosfera che già si respirava nella stanza: al fianco del ripiano bar che costeggiava l’angolo cucina, tutti i membri della famiglia si radunavano intorno al piccolo tavolo di sei posti per iniziare insieme le loro diverse giornate, ed erano proprio i figli di Izumi e Hideki a rendere anche quel luogo un grande regno di gioco... specialmente dal giorno in cui su quel tavolo, imbandito con piatti tradizionali giapponesi, era stato introdotto un cibo del tutto nuovo per i bambini.

«Vi ricordo che nonno Akihiko non ha portato un’intera fabbrica di croissant dal suo ultimo viaggio... proprio perché sapeva che sarebbe finita così tra voi due!»

Ormai piccoli studenti delle elementari, Ken'ichi e Takaji facevano a gara a chi finisse per primo di mangiare, per poi arrivare a fissarsi negli occhi come due cowboy pronti a spararsi nel bel mezzo del far west. Questo tutti i giorni da quando il padre di Izumi, Akihiko, aveva regalato ai suoi nipotini una grande confezione di croissant: insieme a sua moglie Chiharu amava viaggiare da un punto all’altro del mondo, quando i loro rispettivi lavori lo permettevano, e spesso dai luoghi che visitavano egli portava ai suoi cari le cose più tipiche e strane. I primi a ricevere in dono qualcosa da Akihiko erano stati proprio sua figlia Izumi e Hideki: la strana libreria a zig-zag del soggiorno, un tempo oggetto di discussione tra i fratelli Morisaki prima della nascita di Ken'ichi, era un oggetto di cui Akihiko si era follemente innamorato quando aveva visitato New York e, per quante volte sua moglie gli avesse detto «Ma sei davvero sicuro? Potrebbe non piacere a tua figlia...», lui aveva comunque deciso di donare ai novelli sposi proprio quella libreria.

Da quel momento in poi Akihiko non aveva mai perso l’occasione per portare qualsiasi genere di oggetto dai viaggi che faceva; azione che si era intensificata man mano che i suoi nipotini nascevano e crescevano. A loro aveva sempre pensato di regalare del gustoso cibo che i bambini avrebbero potuto gustare, incurante del fatto che sua figlia Izumi gli ricordasse sempre di non viziare i suoi nipotini con dolci introvabili o comunque non minimamente paragonabili alle imitazioni presenti sul territorio giapponese.

Quei croissant, che si trovavano su un piattino posto al centro tavola, erano l’ultima conquista dei bambini di casa Morisaki per la loro colazione: il nonno li aveva spediti direttamente da una pasticceria viennese dopo il suo ultimo viaggio in Austria, e grande era stata la curiosità dei piccoli - poi seguita dall’enorme gioia - quando era arrivato quel pacco carico di soffici dolci dalle mille sfoglie.

Ogni mattina Ken'ichi e Takaji erano i primi a sedersi a quel tavolo, e escogitavano nuovi metodi per rubarsi a vicenda l'ultimo croissant che la mamma aveva riscaldato per loro: seduti l’uno accanto all’altro, in quel momento si stavano scrutando come leoni che avevano avvistato una preda non facile, attenti alla mossa che avrebbe fatto il loro vicino di posto. Ma, puntualmente, ogni mattina sembravano non tenere conto di un terzo incomodo che avrebbe potuto approfittare della loro situazione con astuzia e scaltrezza.

Yuzo, che invece era l’ultimo dei bambini a iniziare la colazione, era seduto proprio di fronte a loro e ogni volta che finiva di mangiare, nel vedere che i suoi fratelli maggiori erano più interessati a guardarsi tra loro piuttosto che il croissant che campeggiava solitario sul piatto bianco, con grande velocità allungava la sua piccola mano per prendere quel cibo tanto desiderato da tutti. E, ogni volta che accadeva ciò, un forte urlo di stupore riempiva la stanza dove tutti si trovavano.

«Fratellino!»

Anche quella mattina Yuzo sorrise di gusto: felice per l’impresa riuscita, addentò il croissant sotto lo sguardo incredulo di Ken'ichi e Takaji che a quel punto non poterono fare a meno di lamentarsi.

«Non è giusto, mamma!» piagnucolarono i due in coro. «Oggi era il mio!»

Izumi sorrise e si mise dietro ai suoi figli, con le mani sulle loro spalle. «Su, bambini... lo sapete che è il compleanno di Yuzo: oggi quel croissant è meritato!»

I due fratelli maggiori si scambiarono un’occhiata incerta, per poi puntarla verso il piccolo. Entrambi non sapevano cosa rispondere: la loro mamma aveva ragione, ma la tentazione di quell’ultimo croissant era talmente grande al punto che stavano iniziando a provare invidia nei confronti del loro fratellino.

Yuzo spezzò in tre parti il gustoso dolce che aveva in mano e, all’improvviso, porse ai suoi fratelli due di quei pezzi. «Ecco!» esclamò con un sorriso. «Così possiamo mangiarlo insieme!»

Ken'ichi e Takaji esitarono prima di afferrare le parti del croissant che il loro fratellino aveva offerto. Quel gesto così gentile li aveva colti di sorpresa: mai si sarebbero aspettati che Yuzo avrebbe condiviso con loro quel piccolo dolce che deliziava il loro palato. «G... grazie...» mormorarono, con un timido sorriso che fece rallegrare l’animo del minore della famiglia.

Intanto, seduto a capotavola, Hideki stava finendo di bere il caffè mentre guardava il notiziario e le previsioni meteo della giornata nella piccola televisione della cucina; invece Izumi approfittò del tempo in cui i suoi tre figli stavano mangiando quell’ultimo croissant per finire di bere il tè che aveva lasciato sul ripiano bar. Dato l’ultimo sorso la donna, ancora con la tazza vicino al suo volto, vide con la coda dell’occhio i suoi due figli maggiori ringraziare per il cibo ricevuto[1], alzarsi da tavola e seguire il loro papà verso il bagno.

«Dai, bambini: a lavare i denti prima di andare a scuola!» disse Hideki, tenendo per mano Ken'ichi e Takaji che salutarono il loro fratellino prima di scomparire tra le scale che li avrebbero portati al piano superiore.

«Ciao, Yuzo: ci vediamo!»

«Grazie ancora per il dolce!»

Da lì, nel bagno situato sul primo piano, ogni giorno iniziava un’altra sfida per Ken'ichi e Takaji dopo quella dei croissant: una corsa, una vera e propria gara di velocità che avrebbe decretato come vincitore il più rapido a lavarsi i denti per bene; tutto questo prima di tornare dal papà e recuperare gli zainetti dalle loro rispettive stanze, per poi tornare al piano terra e augurare buona giornata al resto della famiglia.

La scuola privata dei due bambini, la Shutetsu, non era molto distante dalla loro casa: come i loro coetanei, Ken'ichi e Takaji erano abituati ad andare da soli ma qualche volta - come stava accadendo quel giorno - il loro padre li accompagnava in auto, per poi recarsi al lavoro a Shizuoka.

Hideki era uno stimato professore e ricercatore del Dipartimento di Educazione all’università della vicina città: partiva al mattino presto con l’automobile per poi rincasare la sera, il più delle volte riuscendo a tornare in tempo per la cena. Nonostante Shizuoka e Nankatsu non fossero molto distanti tra loro, il traffico che c’era sulla superstrada che le collegava era intenso proprio nell’ora in cui tutti si recavano al lavoro - compreso lui, che così cercava di partire da casa il prima possibile per essere puntuale sul luogo di lavoro. Ma Hideki era sempre felice di poter dare uno strappo ai propri figli, e lo faceva quando l’orario di lavoro lo consentiva: capitava che alcune volte doveva iniziare più tardi del solito, e approfittava di quel poco lasso di tempo che la sorte gli aveva regalato per trascorrere dei brevi momenti in più con Ken'ichi e Takaji. Poiché rincasava sempre di sera, erano davvero pochi quegli attimi di serenità familiare che condivideva con gli altri membri della famiglia e che riusciva a godersi, dimenticando tutte le difficoltà e la fatica che il suo lavoro di docente universitario comportava.

Hideki si sentiva sempre in paradiso con i suoi figli e sua moglie, ovunque si trovassero.

 

Izumi e Yuzo erano gli ultimi a uscire di casa. Il piccolo era al suo ultimo anno di asilo, e rispetto ai due fratelli aveva un po’ di tempo in più per finire la colazione, ringraziare e lavarsi i denti, sotto la vigile guida di sua madre che lo raggiungeva dopo aver sparecchiato.

La donna, dopo essere tornata in soggiorno e aver dato un’occhiata al baby monitor, si recava poi nella camera matrimoniale per preparare l’ultima arrivata all’uscita quotidiana. Izumi aveva lasciato la piccola Hanako, di soli tre mesi, che dormiva ancora nella sua culla posta al fianco del letto: cercò di cambiarla senza svegliarla e tornò nuovamente nel soggiorno, dove ad attenderla c’era il suo terzogenito con lo zainetto sulle spalle. Siccome Yuzo andava ancora all’asilo, lei stessa si occupava di preparargli l’occorrente la sera prima, in modo tale che fosse già pronto per la sua quotidianità fatta di giochi e apprendimento.

Dopo aver posto la piccola nel passeggino Izumi uscì di casa e, quando oltrepassarono il cancello, prese per mano Yuzo. Non si sorprese del fatto che, per tutto il tragitto, il piccolo fosse rimasto stranamente in silenzio: gli ultimi mesi erano stati forieri di molti cambiamenti nella loro famiglia ed era come se, in virtù di tutti quegli eventi che erano accaduti, Yuzo si fosse calmato; sebbene fosse un bambino pieno di risorse, il suo terzogenito era meno scatenato e vivace rispetto all’anno precedente. Così come già avveniva all’asilo, anche a casa Yuzo era diventato molto educato e più silenzioso del solito: non correva più da un lato all’altro della cucina quando era con lei, e ora era più attento ad ascoltarla e ad aiutarla quando gli chiedeva una piccola mano.

Un’improvvisa dipartita e un lieto evento avevano influenzato il carattere del piccolo. E se da un lato era rimasto il bambino di sempre, che si divertiva nel cortile quando aveva in mano il suo adorato pallone, dall’altro era diventato più responsabile e meno dispettoso.

Anche quel giorno Izumi gli gettò un fugace sguardo mentre spingeva il passeggino, e ancora una volta ebbe lo stesso pensiero. Era vero: proprio come i suoi fratelli Ken'ichi e Takaji, anche Yuzo stava crescendo, anzi... forse anche più di loro.

 

Dopo aver lasciato all’asilo suo figlio, Izumi riprese a camminare nel quartiere con la piccola Hanako che dormiva nel passeggino. La donna amava ogni aspetto della sua passeggiata quotidiana, una salutare abitudine che aveva fin da quando era ragazza: le piaceva soffermarsi su ogni particolare che attirava la sua attenzione, dai dolci profumi degli alberi, come quelli di ciliegio in fiore nel periodo primaverile, ai più piccoli dettagli visivi che capitavano sotto i suoi occhi, come i sottili steli d’erba che facevano capolino dalle risaie che si trovavano ai limiti del quartiere o i piccoli sentieri che si districavano proprio tra quelle coltivazioni. Quella passeggiata la rasserenava, e le donava una grande serenità che avrebbe poi trasmesso ai suoi cari quando sarebbe tornata a casa.

Izumi giunse presso il parco cittadino dove da lontano notò il campo da calcio, immerso tra i piccoli alberi che decoravano quella vasta area verde; alle spalle il monte Fuji si ergeva nella sua imponenza, e da quella posizione sembrava un silenzioso guardiano che stava vegliando non solo sulla vallata della città e le zone circostanti, ma soprattutto sul campetto che in quel momento era vuoto. Era del tutto normale, essendo un giorno lavorativo: solitamente quella zona era piena di bambini e ragazzi che quasi facevano a gara per disputare anche una sola partita di calcio, lo sport più popolare di Nankatsu e del quale l’intera prefettura di Shizuoka andava fiera.

Izumi si avvicinò, si soffermò accanto alla rete che circondava il campo e sorrise quando i suoi occhi puntarono a una delle due porte. Se Yuzo fosse qui, si precipiterebbe verso quei pali con il suo pallone... senza pensarci troppo!

In quel momento il suo cellulare, che si trovava nella borsa del passeggino, diede un breve trillo. La donna aprì la zip e lo estrasse: la notifica che stava lampeggiando sullo schermo la stava avvertendo dell’arrivo di un messaggio da parte di Hideki.

 

[È fatta. Mi hanno appena telefonato, e oggi dopo il lavoro ritirerò gli ultimi documenti... ora possiamo dirlo: missione compiuta. Hanno accettato anche Yuzo! Non che avessimo avuto qualche dubbio... ma sono molto felice!]

 

Izumi sorrise compiaciuta e tornò a guardare il campetto da calcio.

Sia lei che suo marito avrebbero fatto qualunque cosa per coltivare le passioni che i loro figli stavano iniziando ad avere: con Yuzo in particolare si era concretizzato quel pensiero che Hideki aveva avuto mesi addietro, e anche lei aveva provato a scommettere su quella che negli ultimi mesi era diventata più una proposta che una scelta. Entrambi sapevano in partenza che solo il tempo avrebbe dato loro ragione o torto, ma erano certi che quell’idea avrebbe dato buoni frutti per il futuro del loro terzogenito... in qualunque modo sarebbe andata a finire.

 

 

 

Hideki uscì dal lavoro con il sorriso sulle labbra.

La telefonata che aveva ricevuto poco prima, subito dopo la fine dell’ultima lezione che aveva tenuto, era capitata proprio in una splendida giornata: Hideki aveva ultimato i preparativi per l’inizio del nuovo anno accademico con i suoi colleghi e, nel frattempo, tutti i suoi tesisti avevano consegnato gli ultimi appunti per i loro lavori finali; inoltre era riuscito finalmente a mettere in ordine la sua scrivania, solitamente piena zeppa di vari documenti e libri, e anche il caffè del distributore automatico sembrava essere più buono del solito.

Tutti questi piccoli dettagli avevano impreziosito quella che sembrava essere una solita giornata di lavoro: Hideki quel giorno era uscito prima dall’università con un grande buonumore, giusto in tempo per tornare a Nankatsu e recarsi a quell’appuntamento, altro motivo della sua felicità. In più, alla lista di tutte le cose belle che gli erano capitate doveva aggiungere che era il compleanno del suo terzogenito: sicuramente egli sarebbe tornato a casa all’orario di sempre se non col rischio di fare tardi per la cena, proprio per via di quell’appuntamento che era stato fissato nel tardo pomeriggio... ma ne sarebbe stato comunque felice, perché era consapevole del fatto che tutti i sacrifici quotidiani - i suoi e quelli di sua moglie - stavano iniziando a dare frutti, per il bene dei loro figli. Fischiettando un allegro motivetto, Hideki salì in auto e si guardò nello specchietto retrovisore prima di mettere in moto: il sorriso che aveva in quel momento era la perfetta sintesi di quella giornata, e lui era certo che niente e nessuno avrebbe rovinato il suo buonumore.

Hideki accese la radio e partì, alla volta degli uffici della scuola privata Shutetsu della sua città. Quel complesso studentesco era il più rinomato per l’alto livello di insegnamento e la molteplicità delle attività offerte agli studenti, dalle elementari fino alle superiori: era una delle scuole più antiche di Nankatsu, la stessa che aveva frequentato sua moglie Izumi e prima ancora i genitori di lei, una scuola che affondava le sue radici lontano nel tempo, quando nell’epoca Meiji i Wakabayashi avevano gettato le basi del loro fulgido impero economico basato sul commercio, diventando una delle famiglie più ricche della prefettura di Shizuoka. La Shutetsu era anche la scuola dove lavoravano i suoceri di Hideki, Akihiko e Chiharu, rispettivamente come insegnante delle superiori e membro del corpo amministrativo, ed era la stessa scuola che stavano frequentando Ken'ichi e Takaji; un ambiente, dunque, che ormai Hideki conosceva molto bene e che amava nonostante gli enormi costi che ogni anno doveva sostenere per i suoi figli; un ambiente che avrebbe garantito per loro un futuro più certo e sicuro, che avrebbe permesso di accedere con maggiore facilità alle università più prestigiose e di avere una splendida carriera in qualunque lavoro avrebbero scelto.

Certo: molto di quel brillante futuro che Hideki immaginava ogni giorno sarebbe dipeso proprio da loro, dal grande impegno che avrebbero messo e dai piccoli sacrifici che avrebbero dovuto fare, ma egli sapeva meglio di chiunque altro che i suoi figli non si sarebbero mai arresi di fronte a qualunque ostacolo che si sarebbe presentato lungo il loro percorso da studenti. La sua discendenza aveva dimostrato più volte il proprio coraggio ma soprattutto caparbietà, entrambi tratti peculiari che accomunavano tutti i membri della famiglia Morisaki - come anche lui, del resto.

Tenere duro, qualunque cosa accada. Era proprio questo l’insegnamento che Hideki aveva ricevuto dai suoi genitori, e trasmesso di generazione in generazione nella loro famiglia. Un insegnamento che valeva per qualunque cosa, dal lavoro alle piccole faccende quotidiane; in quel momento, mentre si era immesso sulla superstrada che l’avrebbe portato nella sua città natale, Hideki pensò che non ci fosse niente di più vero in quello che era il motto dei Morisaki, perché ciascuno di loro aveva vissuto e stava ancora vivendo per inseguire i propri sogni, per raggiungere i propri obiettivi... per realizzare se stessi.

Hideki lo sapeva già: anni difficili e dall’esito incerto attendevano lui e la sua famiglia... ma era ostinato, e la sua ostinazione si rifletteva anche nel volere il meglio per i suoi bambini. Non sapeva cosa sarebbe accaduto tra qualche anno, quando anche Hanako sarebbe cresciuta e avrebbe iniziato a muovere i primi passi in quel mondo sconfinato, però sapeva molto bene cosa lui e Izumi avrebbero voluto per tutti i figli: una vita felice e spensierata, lontano da quella dai mille labirinti apparentemente senza uscita degli adulti, la stessa che entrambi stavano vivendo.

Lui aveva piena fiducia in ciascuno di loro. A tempo debito, quelli che ora erano solo dei bambini innocenti li avrebbero ringraziati e ricambiati in qualche modo, quando sarebbero diventati adulti responsabili e consci dei problemi quotidiani che la vita aveva riservato per tutte le famiglie.

 

Hideki alzò lo sguardo verso i cartelloni verdi della superstrada, uno dei quali segnalava l’ingresso nella cittadina di Nankatsu. Si trovava quasi alle porte del centro abitato, segnalato dalla presenza delle piccole industrie che costeggiavano la strada sulla quale stava viaggiando, mentre a pochi metri si iniziavano ad intravedere i primi edifici e abitazioni dei quartieri periferici.

Stava per giungere nei pressi di un incrocio quando, all’improvviso, il suo cellulare iniziò a squillare; nello stesso istante lo schermo del navigatore dell’automobile lampeggiò e subito mostrò un nome di fronte al quale Hideki spalancò gli occhi, incredulo.

 

[Yamamoto Haru]

 

Nel fissare quello schermo come se avesse letto più un messaggio di allarme che il nome di una persona che conosceva, ci mancò poco che Hideki si fermasse di colpo sulle strisce pedonali con il semaforo giallo. L’uomo si affacciò dal finestrino e chiese umilmente scusa ad una povera signora che in quel momento aveva iniziato ad attraversare la strada, e che era sul punto di imprecargli contro - almeno, così si evinceva dal volto corrucciato dell’anziana che lo stava guardando di sbieco.

Dopo essersi scusato Hideki tornò dentro con la testa e riprese ad osservare il navigatore che continuava a segnalare l’arrivo della telefonata, mentre in sottofondo si sentiva il trillo del cellulare che stava squillando dal taschino della borsa da lavoro posta al suo fianco.

Yamamoto... Haru.

Hideki era decisamente sorpreso. Sebbene quel nome gli fosse familiare... era del tutto inusuale in quel periodo. Era da molto che egli non vedeva Haru, né l’aveva più sentito, in parte per il suo lavoro all’università che ogni giorno gli portava via un sacco di tempo per le relazioni sociali; in parte, però, perché il suo amico aveva deciso di chiudersi in se stesso dopo un tragico evento che aveva colpito tutta la sua famiglia mesi prima.

Un tragico evento del quale anche Hideki non riusciva ancora a capacitarsi, ma che aveva deciso di accettare nel rispetto del suo silenzio, senza permettersi di telefonarlo anche solo per un breve saluto. Sebbene abitassero nello stesso quartiere, l’ultima volta che aveva avuto un contatto con Haru era stato in occasione dell’inizio del nuovo anno: gli aveva inviato un semplice messaggio di auguri, sincero e senza troppi giri di parole, di fronte al quale aveva ricevuto un’altrettanta semplice risposta, senza proseguire oltre la conversazione che sarebbe potuta nascere tra loro. Anche in quel caso Hideki non aveva insistito, lasciando che il tempo continuasse a scorrere e che le loro vite proseguissero in silenzio, in attesa che un giorno - che lui sperava essere il meno lontano possibile - il suo amico fosse tornato da lui con la solarità che lo aveva sempre contraddistinto dagli altri.

Tuttavia, Hideki sapeva che non sarebbe stato facile. Quella ferita era ancora troppo fresca per essersi rimarginata del tutto; anzi... ferite del genere non si sarebbero mai risanate del tutto, dopo aver provocato delle spaccature così profonde nell’anima che nessuna medicina al mondo avrebbe potuto guarire. Suo fratello Noboru conosceva molto bene quel genere di dolore, e ogni volta che Hideki lo guardava negli occhi capiva che la sofferenza che provava era ancora molto grande, nonostante fossero trascorsi diversi anni e riusciva a dissimulare dietro ad un sorriso ciò che il suo cuore sentiva ancora; ogni volta si chiedeva come Noboru riuscisse a farlo, chi o cosa gli desse quella grande forza per andare avanti, cercando di adempiere a quella grande volontà che animava lo spirito della loro famiglia.

Nel caso di Haru forse quel dolore era stato centuplicato, e comprendendo la sua situazione Hideki non voleva augurare ad alcuno ciò che il suo amico stesse passando. Gli venivano i brividi solo a pensarci...

Per tale motivo, egli stava esitando a premere sul navigatore il bottone verde della chiamata vocale che gli stava arrivando. Avvicinò l’indice sullo schermo, che si fermò a pochi millimetri di distanza: sarebbe bastato davvero poco per rispondere a quella telefonata, un solo movimento del dito in avanti e il mondo intorno a lui si sarebbe fermato, pronto ad affrontare qualsiasi conseguenza che ne sarebbe derivata. Non sapeva bene cosa dire a Haru: stava rimuginando anche sullo stesso tono di voce che doveva utilizzare perché forse sarebbe potuto risultare offensivo e indelicato per il suo amico, anche se questa volta era proprio lui che lo stava contattando, dopo diversi mesi da quel tragico evento...

Hideki prese fiato prima di premere sullo schermo quel benedetto tasto verde, pensando ad una duplice possibilità. Forse, quella telefonata era un segnale che nella vita di Haru qualcosa stava lentamente cambiando, verso una nuova normalità che anelava ad essere il più possibile simile a quella precedente. O, forse, il suo amico aveva semplicemente sbagliato numero: era capitato a chiunque - anche a lui una volta - di incorrere nell’errore di contattare una persona al posto di un’altra, per la fretta di scorrere velocemente la rubrica e premere il tasto della telefonata senza nemmeno verificare chi si stesse realmente contattando.

Egli deglutì rumorosamente, prima di premere sullo schermo il tasto della risposta alla telefonata. «P... pronto?»

«Ciao, da quanto tempo!»

Hideki aveva sentito forte e chiaro: dall’altra parte il tono di voce del suo interlocutore sembrava essere più allegro rispetto agli ultimi tempi, al punto che egli iniziò ad avere i primi dubbi. No... forse Haru ha sbagliato davvero numero. Lo conosco molto bene: con me non si sarebbe mai sognato di nascondere le sue emozioni dietro ad una voce così felice...

«Haru...» disse, e riappoggiò con titubanza la mano sul volante. «Forse... forse hai sbagliato numero. Guarda che io sono Hi–»

«Macché: cercavo proprio te, Hideki!»

Il semaforo scattò verde, ma l’uomo fece fatica a schiacciare sull’acceleratore. Per come era iniziata, quella telefonata sembrava surreale ma in cuor suo era felice: se Haru aveva deciso di mettersi in contatto proprio con lui, e chiamarlo con un tono di voce che in quel momento lasciava presagire che stesse bene - o, perlomeno, che si stesse riprendendo -, di certo non poteva essere per un’altra tragica notizia.

Hideki sorrise e ripartì. Per sua fortuna dietro di lui non si era formata alcuna coda, così poté tornare a viaggiare senza che vi fosse qualcuno che avrebbe sbraitato contro di lui, col rischio di fare la seconda figuraccia di quella che doveva continuare ad essere una giornata splendida. «Haru... ascolta,» disse, con la serenità riconquistata dopo la sorpresa che gli aveva fatto il suo amico, «a me dispiace molto. Mi dispiace se non mi sono fatto vivo negli ultimi tre mesi, però...»

«Potrei dire lo stesso anche di me! Non preoccuparti, Hideki... ah, a proposito: auguri a tuo figlio Yuzo! Oggi è il suo compleanno, giusto?»

Hai ragione, e sono felice che ti sei ricordato! - pensò Hideki ma, per quanto si sforzasse, la voce fece fatica ad uscire dalle sue labbra. Ancora una volta, non sapeva come rispondergli: come avrebbe potuto, senza che quell’argomento venisse nuovamente a galla tra loro?

«Sì... ti ringrazio...»

«Aaaah, di niente! Fai gli auguri anche da parte mia, mi raccomando: stasera lavoro al ristorante del centro fino a tardi, per cui quando rientrerò a casa sicuramente Yuzo sarà già a letto!»

E, ancora una volta, Hideki si stava chiedendo il perché di quello che sembrava essere uno strano comportamento. Haru sembrava essere così allegro e solare, così come Noboru lo era sempre ogni volta che si incontravano: due uomini accomunati da una tragica perdita, da quell’acuto dolore che era penetrato nei loro corpi fino alle ossa e aveva infranto tutto ciò che incontrava lungo il suo cammino. All’apparenza Haru stava iniziando a comportarsi esattamente come suo fratello... come se non gli fosse successo nulla, come se quel giorno la sua vita e quella di sua moglie Kazue non fosse cambiata in modo drastico. Era come se entrambi avessero dimenticato ciò che avevano vissuto, quella catastrofe che li aveva portati sul bordo di un precipizio senza fine.

Eppure...

Hideki lo sapeva molto bene proprio per l’esperienza di suo fratello. In realtà nemmeno Haru aveva dimenticato ciò che gli era successo: come Noboru, anche lui stava imparando a convivere con quella forte sofferenza, affrontarla faccia a faccia con un grande sorriso, pur essendo perfettamente consapevole del fatto che non sarebbe mai andata via del tutto.

Il tono di voce del suo amico lo rincuorò.

«Tu... tu e Kazue come state?»

... accidenti a me!

Troppo tardi per riparare al danno: Hideki si colpì la fronte con il palmo della mano. Quella domanda gli era uscita senza pensarci: era ovvio che Haru e la sua famiglia non si erano ancora ripresi, perciò come gli avrebbe risposto? Che stesse bene, che la vita fosse tornata a sorridergli senza più alcun pensiero per il passato, soprattutto per un incubo che aveva sconvolto la sua esistenza?

Che idiota che sono: perché non penso mai prima di parlare?

«Perdonami!» si lasciò sfuggire dalle labbra. «Lo so: ti ho fatto una domanda stupida, e–»

«Hideki,» lo interruppe Haru. «Lo sai perché ti ho telefonato, e proprio oggi? È proprio di questo di cui voglio parlarti... sempre se hai qualche minuto, altrimenti ti richiamo più tardi.»

All’improvviso la voce del suo amico divenne più seriosa, al punto da riuscire a sorprendere Hideki - ancora una volta. Quest’ultimo aveva capito che Haru stava per dirgli qualcosa di importante, di così significativo, che forse valeva la pena accostare la macchina e fermarsi ad ascoltarlo.

«Dammi... dammi qualche secondo che controllo...»

Sullo schermo del navigatore l’uomo diede un’occhiata sia all’orario che al percorso che doveva ancora fare: mancava ancora mezz’ora all’appuntamento, e si trovava nelle vicinanze del luogo in cui doveva avvenire.

Ok: posso fermarmi per qualche minuto.

Non appena riuscì a trovare un’area adatta per la sosta, Hideki accostò la macchina e spense il motore. «Dimmi, Haru.»

Dall’altra parte della conversazione Hideki sentì un forte sospiro, accompagnato da frasi che sembravano essere colme di tristezza: il tono era decisamente cambiato, come se Haru stesse lentamente tornando alla persona che era qualche mese prima.

«Hideki. Prima di tutto, ti chiedo scusa se quel giorno ti ho detto che sarebbe stato meglio che non ci vedessimo per un po’...»

«Non devi scusarti per questo,» rispose Hideki, senza più esitazione. «È del tutto comprensibile: tu e Kazue avevate bisogno di restare da soli... è normale, anch’io al tuo posto avrei fatto lo stesso...»

«Però mi sento in dovere di chiederti perdono. Anche se non ci conosciamo da molto... noi siamo amici, giusto? E gli amici restano sempre insieme, nella gioia... ma soprattutto nel dolore...»

«Stai tranquillo. Sappi una cosa: per me non è cambiato niente in tutti questi mesi... sei stato un buon amico, e continuerai ad esserlo. È lo stesso anche per mia moglie... e anche per i nostri figli: non c’è un solo giorno che non pensiamo a voi...»

In quel momento Hideki sentì un sussulto. Si portò una mano sul petto che iniziò a fargli male, mentre gli tornarono alla mente tutti i dettagli di quel giorno maledetto che, sebbene fosse già lontano, a lui sembrava fosse accaduto da poco. Haru si trovava nel tempio con sua moglie e, poco distante, vi era lui con la sua famiglia: nessuno di loro era lì per un lieto evento o per una visita di ringraziamento alle divinità, ma per un funerale.

Hideki si ricordò di aver seguito tutta la cerimonia tenendo stretto a sé suo figlio Yuzo che continuava a singhiozzare, senza mai lasciarlo. Nell’osservare il suo amico Haru che cercava di trattenere le lacrime e, nel contempo, di essere forte per consolare sua moglie, per un attimo si era rivisto in lui.

E se... e se fosse capitato a noi? - si ripeteva in pensiero continuando ad abbracciare il suo bambino, e ogni volta che lo faceva gli veniva da piangere, perché non riusciva ancora a credere a ciò che era accaduto alla famiglia di Haru.
I Morisaki avevano conosciuto gli Yamamoto solo qualche mese addietro, quando si erano trasferiti nella casa accanto alla loro: una coppia splendida, di quelle amichevoli e disponibili nei momenti di difficoltà, con un unico figlio che amavano follemente. Né Hideki e né sua moglie avevano faticato a stringere subito amicizia con loro, così come Ken'ichi, Takaji e Yuzo; tra i tre fratelli il loro terzogenito era quello che si era più legato a Hikaru, l’unico figlio della coppia, con il quale condivideva la stessa passione per il calcio e la stessa età.

Nel giro di poco tempo i membri delle due famiglie erano diventati molto amici. Hideki e Haru, sebbene rispetto alle loro mogli non riuscissero ad incontrarsi tutti i giorni, si telefonavano o si scambiavano messaggi sulla tarda sera, con consigli e racconti di ciò che era accaduto ad entrambi nel corso della giornata appena trascorsa; invece Izumi e Kazue erano coloro che riuscivano a vedersi spesso nell’arco della giornata, portando i loro figli coetanei all’asilo o iniziando a fare il giro delle scuole per decidere in quale i due bambini avrebbero iniziato il percorso delle elementari.

Sembrava tutto procedere per il meglio, ma un evento inaspettato aveva stravolto quella nuova quotidianità che si era instaurata in entrambe le famiglie: la vita del piccolo Hikaru era stata spezzata da un’improvvisa malattia, che nel giro di pochi giorni aveva privato gli Yamamoto di ciò che amavano di più al mondo. Una tragedia inspiegabile e assurda che aveva finito per influenzare anche Hideki e la sua famiglia che, proprio in virtù del profondo legame di amicizia che li legava agli Yamamoto, si erano ritrovati presso il tempio della cittadina per dare l’ultimo saluto a quel bambino al quale anche loro erano molto affezionati.

Al termine della cerimonia Hideki aveva iniziato ad allontanarsi con la sua famiglia per lasciare che gli Yamamoto terminassero la cerimonia con le ultime prassi; ad attenderli sulla soglia del tempio vi era Haru che stava ringraziando ad uno ad uno tutti i partecipanti. Tenendo per mano suo figlio, Hideki era stato l’ultimo ad avvicinarsi a lui: entrambi si erano scambiati un inchino senza dirsi nulla, tranne il consueto «Grazie» uscito dalla bocca del suo amico; stava per proseguire il suo cammino quando, d’un tratto, alle sue spalle aveva udito una voce che lo aveva richiamato.

«Aspetta... per favore, Hideki.»

Nel voltarsi, aveva visto Haru di fronte a lui: le lacrime stavano ancora rigando il suo volto, ma cercava in tutti i modi di trovare la forza per parlare. Quando lo aveva guardato negli occhi, subito Hideki aveva compreso che l’altro stava cercando di dirgli qualcosa per lui molto importante; per questo aveva fatto cenno alla sua famiglia di proseguire il loro cammino, dopo aver affidato Yuzo a Izumi con la raccomandazione che li avrebbe presto raggiunti.

Hideki aveva capito che in quel momento lui e Haru dovevano restare da soli, lontani dalle loro rispettive famiglie. Non era più successo dal giorno in cui Haru era corso alla volta dell’ospedale con sua moglie e suo figlio: si erano incontrati di buon mattino di fronte al cancello della dimora degli Yamamoto, mentre lui stava andando a lavoro e il suo amico, dopo aver indicato l’automobile parcheggiata poco distante e dove Kazue stava sistemando Hikaru, gli aveva spiegato tutta la situazione con un sorriso raggiante.

 

«È solo per un controllo. Vedrai, cureranno mio figlio e presto torneremo tutti a casa... però mi raccomando: per ora non dire niente a nessuno, ok? Vi chiameremo stasera, quando tutto sarà sistemato!»

 

Da quel giorno, però, i due non avevano più avuto occasione di parlarsi faccia a faccia, come stavano per fare in quel momento, né al telefono né nel corso della veglia che si era succeduta a distanza di una settimana. Quella dopo la cerimonia funebre sarebbe stata per entrambi la prima volta nella quale riuscivano a scambiarsi qualche breve parola, prima che Haru tornasse al fianco di sua moglie e Hideki dalla sua famiglia.

Con la voce spezzata dal pianto, Haru aveva ripreso a parlare. «Ho pensato che... che forse è meglio se non ci vedessimo per un po’.»

Hideki aveva spalancato gli occhi, ma non se la sentiva di replicare al suo amico. Se fossero stati in un’altra situazione, nella loro vita quotidiana, avrebbe avuto il coraggio di chiedergli il perché, o di insistere per fargli cambiare idea; tuttavia, in quel momento drammatico... la sua risposta era stata un totale silenzio. Aveva compreso le ragioni di Haru, il motivo per il quale aveva detto quelle parole, ma in cuor suo sperava che forse, un giorno vicino o lontano, il suo amico sarebbe tornato ad essere quello di sempre.

Hideki gli aveva preso le mani e, con un altro silenzioso inchino, lo aveva salutato: a quel punto non era riuscito più a trattenere le lacrime, che erano iniziate a cadere dagli occhi e finire al suolo.

«Grazie di tutto,» aveva risposto Haru, stringendogli forte le mani in un atto di conforto mentre il suo pianto non cessò di esistere. «Spero che Yuzo continui ad essere appassionato al calcio... ma, qualunque cosa accada... mi auguro che non dimentichi il nostro Hikaru. Qualunque cosa decida di fare nella vita... deve andare avanti... anche per lui...»

Hideki aveva alzato la testa e annuito, asciugandosi gli occhi colmi di lacrime.

Non preoccuparti, Haru: non lo dimenticherà mai... hai la mia parola.

 

 

«Hideki... ehi, Hideki: ci sei?»

L’interpellato sobbalzò. Si era perso in quella nuvola di ricordi che gli erano venuti in mente, sovrapponendosi alla conversazione che stava avendo con Haru e lasciandosi coinvolgere da essa. In un primo momento aveva pensato di inventarsi una scusa, però aveva subito capito che non sarebbe stata un’ottima idea mentirgli. «Scusami, Haru... è che le tue parole mi hanno fatto ricordare alcune cose...»

L’altro si lasciò sfuggire dalle labbra un dolce riso. «Lo so, Hideki. Anch’io, prima di telefonarti, ci ho pensato molto... ma non potevo non dirtelo...»

«Dirmi cosa?»

«Vedi... la vita è imprevedibile. Io e Kazue abbiamo capito che l’amore è più forte di qualsiasi cosa, anche nei momenti di dolore e disperazione... Tu e Izumi avete avuto una splendida bambina... e il vostro grande amore ci ha fatto capire che, nonostante tutto, Hikaru sarà sempre presente con noi...»

Quelle ultime parole portarono Hideki sul punto di commuoversi. I suoi occhi si inumidirono di lacrime, ma riuscì a proseguire: «Certo, sarà proprio così... a proposito di Hikaru, ecco... dovrei dirti una cosa, ma...»

«Non farti problemi: se c’è qualcosa che vuoi dirmi... fallo e basta. Sei mio amico: non pensarci troppo!»

Hideki appoggiò le braccia sul volante, e alzò gli occhi per guardare fisso davanti a sé. Da lontano si vedeva il principale edificio di una delle cinque scuole cittadine, e pensò che forse quella vista l’avrebbe aiutato a dire ciò che avrebbe voluto confessare al suo amico. Quello che aveva di fronte, infatti, era proprio l’ingresso della Shutetsu, dove a breve Yuzo avrebbe iniziato le elementari.

«Solo se mi prometti che resti tra noi, ok?»

«Va bene.»

Hideki sospirò, prima di proseguire. «Quel giorno, quando siamo tornati a casa... è successa una cosa che non mi aspettavo... non in quel momento, intendo. Mio figlio... Yuzo mi ha detto che si sarebbe impegnato per diventare bravo a calcio... anche per Hikaru. Davvero non vedeva l’ora di tornare a giocare con lui, e continuare a mantenere quella promessa che si erano scambiati...»

Dall’altra parte della conversazione, Haru cercò di trattenere i singhiozzi. Le parole che aveva appena udito furono motivo di tristezza ma anche di un piccola consolazione per la sua grande perdita: a parte lui e sua moglie, ci sarebbe stato qualcun altro che avrebbe portato suo figlio nel proprio cuore. Respirò a fondo, e sussurrò: «Grazie... grazie. Avevo bisogno di sentire queste parole!»

Hideki rimise in moto l’auto e tornò a guidare verso la sua destinazione. «Sai,» disse con un commosso sorriso, asciugandosi le lacrime che nel frattempo erano scese anche a lui. «Sono felice che oggi ci siamo sentiti... e sarebbe bello se tornassimo a farlo... e incontrarci qualche volta... già, sarebbe davvero bello!»

«Come dicono... ah! “Il tempo non cancella le ferite, ma aiuta ad alleviarle”. Hideki, adesso ne sono certo: nessuno di noi si dimenticherà di Hikaru... ma da oggi abbiamo un motivo in più per non farlo.»

«Davvero?»

«C’è ancora una cosa che non ti ho ancora detto. Io... io e Kazue...»

Haru non disse più nulla, mentre Hideki era riuscito ad entrare nel parcheggio della scuola, doveva aveva sistemato la sua automobile e spento nuovamente il motore. Proprio in quel momento il suo amico tornò a parlare di nuovo, iniziando a ridere tra i sommessi singhiozzi che Hideki riuscì a percepire.

La notizia che Haru gli aveva appena dato lo riempì di grande gioia.

 

 

 

Nello stesso istante in cui Hideki era arrivato alla Shutetsu, Izumi era tornata all’asilo per prendere Yuzo che era appena uscito e che, non appena l’aveva vista con il passeggino, si era avvicinato.

«Ciao, sorellina! Andiamo a casa?»

Il bambino si affacciò sulla capottina, curioso di sapere cosa Hanako stesse facendo: la piccola era sveglia e si osservava intorno, stiracchiandosi le braccia e le gambe; non appena udì la voce del fratello che l’aveva salutata, si voltò verso di lui e lo guardò fisso, donandogli uno spontaneo sorriso accompagnato da un lungo versetto. «Mamma, guarda: mi ha salutato!» esclamò Yuzo, colmo di felicità.

Il terzogenito dei Morisaki amava sempre quando la piccola Hanako iniziava ad interagire con lui, e questo fin dalla sua nascita. Nonostante anche lui fosse ancora un bambino, tra quei pochi ricordi che aveva ben in mente vi era quello del giorno in cui sua mamma aveva radunato lui e i suoi fratelli sul divano del soggiorno per l'annuncio di quel lieto evento.

«Tra qualche mese arriverà un altro fratellino o sorellina. Mi raccomando, bambini: sarà ancora molto piccolo per cui non potrà giocare subito con voi... però questo non significa che non possiate volergli bene!»

Se Ken'ichi e Takaji fossero già pronti in un certo senso, avendo alle spalle la nascita del loro terzo fratello, per quest’ultimo la situazione era decisamente diversa. Yuzo non aveva mai interagito con bambini più piccoli, nemmeno all’asilo che frequentava: solo al parco della città aveva visto pargoletti più minuti rispetto a lui, nei passeggini o mano nella mano ai loro genitori mentre muovevano i primi passi; anche Hikaru, che si era trasferito da poco nel quartiere, era della sua stessa età, mentre di cugini nemmeno l'ombra dato che sia lo zio Noboru che lo zio Hotaka non avevano ancora dei figli.

Rispetto ai suoi fratelli maggiori, l’interagire con un piccolo frugoletto sarebbe stata una grande novità per Yuzo. Era molto curioso di vedere presto quel bambino, iniziando già a fantasticare sul suo aspetto fisico e anche sul suo carattere, se fosse stato tranquillo come i suoi genitori o più scatenato come Ken'ichi e Takaji; non appena aveva saputo che quel piccino si trovava nella pancia della sua mamma, in un primo momento aveva iniziato a farle un sacco di domande, a cominciare da quelle più ovvie: «Perché si trova nella tua pancia? E quando si decide a uscire?»

Ogni volta a Izumi sfuggiva una dolce risata per il modo spontaneo in cui il suo terzogenito le chiedeva di quel bambino e spesso erano gli altri due figli, Ken'ichi e Takaji, a rispondere al suo posto con supposizioni tipiche dei bambini come loro.

«Perché è così piccolino che ha paura dei mostri!»

«Non preoccuparti: uscirà quando sarà meno timido e non avrà più paura di giocare con noi!»

Tutti i giorni, i momenti di assenza degli altri suoi figli diventavano un’occasione per Izumi e il suo terzogenito per restare da soli e parlare del futuro che li attendeva, quando non si trovavano a casa dei vicini per trascorrere del tempo insieme a loro. Proprio perché Yuzo era solito trascorrere i pomeriggi con Hikaru, i momenti che madre e figlio condividevano erano pochi ma preziosi, quieti momenti nei quali si ritrovavano sul divano del soggiorno a sonnecchiare, con la testa di Yuzo appoggiata sulle gambe di Izumi, mentre quest’ultima vegliava con dolcezza su di lui. Insieme agli altri membri della famiglia, entrambi non vedevano l’ora che arrivasse l’attimo in cui avrebbero mostrato al mondo quel piccolo frugoletto che già avevano imparato ad amare.

Quei momenti di serenità, però, si erano bruscamente interrotti quando a casa Morisaki era arrivata quella tragica notizia. Quella mattina di inizio novembre era gelida non solo per le basse temperature ma anche per ciò che era appena accaduto: come sempre, Izumi e Yuzo si stavano preparando per andare all’asilo e, mentre il piccolo si trovava al bagno del primo piano, la donna aveva ricevuto un’improvvisa telefonata; l’aveva presa con gioia, perché in cuor suo sperava che si trattasse di una buona notizia, di un grande miracolo che era accaduto, tuttavia quelle piccole speranze che anche lei aveva iniziato a nutrire si erano infrante come uno specchio scaraventato a terra, non appena aveva udito nel suo orecchio una voce che ben conosceva spezzata dal pianto.

La voce di Kazue, della sua amata vicina.

 

«I... Izumi… mio... mio figlio...»

 

Quando aveva chiuso quella breve telefonata, Izumi si stava reggendo a fatica al lavello dell’angolo cucina: si sentiva mancare le ginocchia e le lacrime avevano iniziato a scendere dai suoi occhi; tuttavia, dopo qualche minuto aveva rizzato la schiena e aveva asciugato le guance, cercando di riprendere fiato. Aveva deciso di mostrarsi forte e mantenere il controllo il più possibile: doveva farlo per la sua amica che aveva appena subito un grave lutto, e soprattutto per la sua famiglia. Con dolcezza aveva sfiorato il ventre, ricacciando le lacrime che continuavano ad uscire dagli occhi lucidi e iniziando a pensare al come doveva comunicare quella notizia a suo figlio Yuzo. Sapeva che non l’avrebbe presa bene, ma non l’avrebbe mai lasciato: gli sarebbe stata vicino, tenendolo stretto a sé... in quel momento più che mai.

Da quel giorno madre e figlio erano stati sempre più uniti, arrivando a rinforzare anche il rapporto che si stava creando tra Yuzo e il bambino che Izumi portava in grembo. Spesso Izumi si affacciava dalla finestra della cucina, osservando suo figlio mentre giocava da solo. In quel piccolo cortile si sentiva solo il rimbalzo del pallone: nessuno scambio di parole, né forti o sommesse urla colme di allegria; la tristezza che le stava procurando quella vista era ogni volta insopportabile, tale da farla uscire di casa e sedersi sulle scale d’ingresso, invitando Yuzo a passarle il pallone per giocare con lui. Se prima Izumi e Yuzo non avevano molti momenti da condividere, ora erano arrivati a trascorrere intere ore insieme, cercando di colmare l’uno tra le braccia dell’altra un vuoto assurdo provocato da quella tragedia.
Verso la fine della gravidanza, Izumi aveva chiamato suo figlio nel corso di quello che sembrava essere uno dei soliti pomeriggi di gioco da parte del piccolo: lo fece sedere al suo fianco e gli prese la mano, portandola sul suo ventre ormai grande. «Tra qualche giorno arriverà la sorellina. Lo sai? Da come scalcia ogni volta che sei qui, secondo me non vede l’ora di conoscerti!»

Ciò che Izumi gli aveva detto si era poi avverato: il rapporto che Yuzo aveva con Hanako fin dal primo giorno in cui l’aveva vista per la prima volta tra le sue braccia era davvero speciale. Senza nulla togliere a Ken'ichi e Takaji che amavano quella piccolina tanto quanto il loro fratellino, ogni giorno Yuzo voleva restarle al suo fianco: forse anche complice il fatto che i fratelli maggiori andassero già a scuola e non tornassero a casa prima del pomeriggio, il tempo condiviso tra i due più piccoli di casa era pregno di divertimento e serenità. Yuzo era sempre ben disposto ad aiutare la mamma con Hanako, e le sue orecchie erano ben attente ad ascoltare ciò che diceva; d'altro canto Izumi era la prima ad essersi accorta che suo figlio stesse imparando il significato della parola responsabilità, anche se era ancora molto piccolo per rendersi pienamente conto del suo peso.

Yuzo voleva bene a sua sorella, e da fratello maggiore stava sviluppando verso di lei un senso di protezione - come prima di lui avevano fatto i suoi fratelli: per questo motivo era sempre molto felice di rivederla quando usciva dall’asilo, e non vedeva l’ora di tornare a giocare con lei.

Così anche quel giorno Izumi stava sorridendo, nel vedere i suoi due figli minori interagire tra loro. Sebbene fosse ancora molto piccola, Hanako sembrava aver già preso una forte simpatia per quel suo fratello maggiore che amava il calcio, al punto che ogni volta che lo vedeva sorrideva o rideva di gioia.

«Bambini...» disse la donna con tenerezza, e si chinò verso i due figli. «Ora torniamo a casa; tra un po’ arrivano anche Ken'ichi e Takaji, e oggi non hanno le chiavi di casa...»

«Sì!»

I tre uscirono dall’asilo e insieme fecero il tragitto di ritorno verso la loro abitazione. Con la mano appoggiata su uno dei lati del passeggino Yuzo restò sempre in silenzio, mentre di tanto in tanto Hanako cercava di dire qualcosa attraverso dei brevi versi sonori; a differenza del mattino, però, il piccolo lanciava qualche occhiata di buonumore verso sua sorella, che ogni tanto rivolgeva lo sguardo anche nella sua direzione.

Di fronte a quella scena, l'animo di Izumi si rallegrò: nel vedere i due figli così vicini a lei venne da immaginarli da ragazzi, con le mani intrecciate tra loro, mentre camminavano fianco a fianco senza mai allontanarsi l’uno dall’altra. Ne era certa: qualunque cosa fosse successa, tutti i suoi figli sarebbero rimasti uniti più che mai.

 

Una volta tornati a casa, Izumi raccomandò Yuzo di tenere d'occhio la sorellina nel soggiorno, mentre lei ripose i giubbotti al loro posto; non appena tornò, si spostò insieme ai suoi figli nella cucina per preparare le ultime cose per la cena, e anche per la piccola festa di compleanno del suo terzogenito che sarebbe succeduta.

La giovane madre aveva posto Hanako nell'ovetto[2], con Yuzo al suo fianco che avrebbe avuto il compito di vegliare sulla piccola quando lei non poteva dare loro retta. Si fidava molto di suo figlio: quella di certo non era la prima volta che lasciava da soli i due bambini, e fino a quel momento non era successo nulla di grave; sembrava che Yuzo non provasse alcuna forma di gelosia nei confronti di Hanako, né volesse giocare con lei allo stesso modo in cui lo faceva con Ken'ichi e Takaji. Nonostante la sua forza e vivacità, Yuzo riusciva sempre a trattare la sorellina in modo delicato e dolce, come lei gli aveva insegnato.

Ogni tanto Izumi lanciava una fugace occhiata ai due bambini, che aveva lasciato nell'angolo della stanza. Yuzo aveva afferrato le gambette della sorella e le stava alzando lentamente - come la loro madre gli aveva insegnato; Hanako era scoppiata a ridere e si stava divertendo di fronte al fratello, che stava giocando con lei in modo così semplice.

«Mamma, mamma! La sorellina ride!»

Izumi sorrise a sua volta e, dopo aver infornato la torta, tornò da loro. Arruffò i capelli di Yuzo, che sorrise timidamente, e gli disse: «Sei davvero bravo! E anche Hanako: ti vuole troppo bene... non è vero, piccolina?»

La donna sfiorò la punta del naso della bambina che, come se avesse voluto rispondere alla domanda di sua madre, socchiuse gli occhi e tornò a ridere dopo un attimo di silenzio. «Pensa che ti chiama anche quando non ci sei... le manchi molto!»

«Davvero, mamma?»

Izumi cinse le spalle di suo figlio con un braccio e lo tirò a sé, guardandolo negli occhi con un sentimento di fierezza. «Proprio così. Sei un bravissimo fratello maggiore... e non hai ancora visto niente! Scommetto che quando inizierà a muovere i primi passi correrà subito da te!»

Di fronte a quella notizia, gli occhi di Yuzo brillarono di gioia: il bambino sorrise e si strinse alla madre. «Sono felice che la sorellina mi vuole così bene, perché gliene voglio tanto anch’io!» disse, nascondendo timidamente il volto dentro le pieghe del grembiule che lei indossava.

Ad un tratto si spalancò la porta di casa: seguito da Ken'ichi e Takaji, Hideki entrò nel soggiorno. Tutti e tre corsero a salutare Izumi e Yuzo: Hideki con un affettuoso bacio sulla guancia e i due fratelli con un grande abbraccio prima alla loro mamma, poi al fratellino e infine con un piccolo bacio sulla guancia della sorellina che li stava guardando con aria sempre più felice.

«Ma come, oggi sei passato a prenderli?» chiese Izumi, non appena riuscì a liberarsi dalla stretta dei due figli maggiori.

Suo marito si portò una mano dietro la nuca, con una risata d’imbarazzo. «Ecco... in realtà volevo farlo, già che c’ero... ma questi piccoli furbetti erano già andati via. Li ho trovati qui, davanti casa, mentre si divertivano a osservare gli uccellini che volavano da un ramo all’altro del nostro albero di magnolia!»

«Uno stava anche cadendo a terra!» aggiunse Takaji, e scoppiò a ridere al ricordo di quel povero uccello che non era riuscito a reggersi in equilibrio su uno dei rami più sottili, ma era riuscito a spiccare il volo prima di toccare il suolo.

«Poveretto, lo avevi visto?» replicò Hideki. «Era piccino, forse qualche figlio che aveva appena imparato a volare...»

«Forse è ancora là, papà!»

Ken'ichi e Takaji corsero verso la finestra della cucina e da lì fecero capolino per dare un’occhiata curiosa all’albero di magnolia che si trovava nel giardino ed era poco distante dalla loro visuale. Izumi sorrise verso i due bambini, dopodiché si rivolse a suo marito che li stava osservando anche lui divertito, mentre Yuzo era tornato al fianco di Hanako per giocare con lei: caso strano, in quel momento sembrava essere più interessato alla sorella che alla storia del povero uccello al quale aveva appena fatto accenno suo fratello Takaji.

«Fatto tutto?» chiese la donna, appoggiando delicatamente l'indice sul petto di Hideki.

«Sì, tutto a posto!» rispose lui, avvicinandosi poi a Yuzo e Hanako. «E gli altri miei due figlioletti come stanno?»

«Bene!» disse Yuzo. Il bambino, che nel frattempo stava rivolgendo alla sorellina delle facce buffe, indicò l'ovetto. «Guarda, papà: anche Hanako sta bene! Sta ridendo!»

«Lo vedo, lo vedo...» aggiunse Hideki, prendendo in braccio la piccola; poi alzò lo sguardo verso Ken'ichi e Takaji e disse: «Bambini, andate a posare gli zainetti e poi a cambiarvi: oggi è un giorno speciale, e la cena di oggi è altrettanto speciale!»

«Va bene!»

Senza farselo ripetere due volte, Ken'ichi e Takaji lasciarono subito la finestra e seguirono ciò che il loro papà aveva appena detto a loro; poi tornarono nella cucina e invitarono Yuzo a giocare con loro, che subito li seguì dopo aver dato alla sorellina un piccolo bacio sulla manina, come gli aveva insegnato suo padre.

«Scommetto tutto il mondo che questa è opera tua,» sussurrò Izumi, lanciando un sorriso divertito verso suo marito.

Hideki scese dalle nuvole. «Opera mia? A cosa ti riferisci?»

«Di certo io non ho ancora insegnato il baciamano a Yuzo. Che bravo papà che sei: stai educando i tuoi figli ad essere dei piccoli lord! Se continua così, da grande Yuzo farà felice qualsiasi donna... proprio come il suo papà!»

Lo sguardo eloquente di Izumi fece arrossire Hideki, che si voltò verso la porta d'ingresso della cucina senza dire una parola. A Izumi sfuggì una tenue risata, e la donna tornò verso il piano cottura per verificare lo stato della torta nel forno. «Va bene, mio Romeo: torno all’opera...»

Intanto Hideki osservò i suoi tre figli dalla porta d'ingresso della cucina, continuando a tenere in braccio Hanako che si era incantata a guardare nella direzione dei tre fratelli, attirata dal suono delle loro voci; subito dopo la piccola appoggiò la testolina sulla spalla del suo papà e iniziò con un lungo «aaah» che terminò con un sommesso piagnucolio, socchiudendo gli occhi.

Hideki la cullò, e con un sorriso si rivolse a sua moglie: «Altro che “piccoli lord”: i nostri figli stanno crescendo in fretta! Sembrava ieri che Ken'ichi era piccolo come Hanako... e ora guardalo! Così come tutti gli altri... mi sa che non mi abituerò mai all’idea di vederli grandicelli!»

Dopo aver sfornato la torta, Izumi si avvicinò di nuovo a suo marito e prese Hanako in braccio. «Anche questa piccoletta crescerà... tra qualche mese inizierà a saltare e a correre, proprio come i suoi fratelli!»

Suo marito annuì e tornò a guardare i suoi figli nel soggiorno con un sorriso. Si sbottonò la giacca che aveva ancora addosso e sussurrò: «Sai che siamo proprio fortunati?»

«Fortunati?»

«Com’è che ha detto Haru... già: “L’amore è più forte di qualsiasi cosa”, e noi siamo fortunati ad avere quattro meravigliosi bambini come loro!»

«Haru? Intendi...»

Ma Hideki non aggiunse altro: corse dai suoi figli ridendo, pronto a divertirsi con loro. «È proprio una splendida giornata!» esclamò entusiasta, lanciando la giacca sul divano del soggiorno e sollevando in aria Takaji che, colto di sorpresa, iniziò a urlare per lo stupore.

Izumi guardò suo marito con sorpresa e, con Hanako in braccio, si recò nella camera matrimoniale per allattare la piccola e farla addormentare; prima di sedersi sul divanetto, spostò leggermente le tende del balcone per dare uno sguardo al cortile che correva intorno alla sua abitazione.

«Haru... eh?» sussurrò felice. Era dall'inizio dell'anno che Hideki non nominava il suo amico nelle conversazioni che la coppia aveva quando era a letto... e lei pensò che, per essere così contento, forse era successo qualcosa di bello anche con il suo amico. Ci sperava, anche per Kazue: lei e Haru meritavano tutta la felicità del mondo, dopo tutto ciò che avevano passato.

 

 

 

La festa di compleanno di Yuzo si era svolta come sempre. Così come era accaduto negli ultimi due anni, anche quella volta lo zio Noboru non era riuscito ad essere presente a causa del suo lavoro, tuttavia aveva telefonato a suo fratello e, grazie alla videochiamata, era riuscito a vedere tutta la famiglia. Nonostante la sua assenza Noboru non si era dimenticato di comprare il regalo al piccolo festeggiato, una mini porta da calcio da montare nel cortile, e così nei giorni precedenti si era incontrato con Hideki a Shizuoka in un momento di pausa per entrambi: quel regalo era stato talmente apprezzato da Yuzo al punto che, come era successo tre anni prima con il pallone, se fosse stato per lui avrebbe montato quella porta già pochi secondi dopo averla vista per giocarci fin da subito.

«Domani, Yuzo: domani papà te la monta quando torna da lavoro...» lo aveva rassicurato Hideki, prima di convincerlo a passare al successivo regalo.

Terminata la festa di compleanno i tre bambini, seguiti dal loro papà, si recarono prima al bagno per lavarsi i denti e, poi, ognuno nelle loro stanze per mettersi il pigiama e dormire.

Nel frattempo Izumi approfittò dell'assenza di tutti per riordinare il soggiorno e la cucina; subito dopo tornò nella camera matrimoniale e anche lei si preparò per la notte. Mentre si stava infilando il pigiama, la porta della stanza si aprì lentamente: da lì fece capolino Yuzo che, non appena vide Hanako nella culletta, si avvicinò alla piccola per darle un’occhiata. Il bambino restò in silenzio per qualche minuto, con la consapevolezza che quello non era l’orario per iniziare a giocare di nuovo con lei; poi, nel notare che la sorellina si era scoperta a metà, prese la copertina e lentamente la spostò all'altezza del petto.

«Fatto!» esclamò contento il piccolo. «Così non hai più freddo!»

Nel vedere la scena Izumi sorrise e subito si avvicinò a loro. «Sei stato bravo,» sussurrò, arruffando i capelli di Yuzo.

Yuzo annuì soddisfatto. «Così la sorellina è molto, molto felice e non piange più!»

In quel momento anche Hideki entrò nella stanza: l'uomo aveva il viso assonnato, e stava sbadigliando in continuazione. «Certo che Ken'ichi e Takaji proprio non vogliono andare a dormire, stasera...» disse, avvicinandosi a sua moglie e portandola vicino all’ingresso. «Izumi, vuoi provare a convincerli tu a uscire dal bagno? Si sono chiusi e...» continuò sottovoce all’orecchio di sua moglie per non farsi sentire da Yuzo che, nel frattempo, era tornato a guardare la sorella. «Hanno riempito la vasca e stanno giocando con le paperelle, e il bagno è mezzo allagato perché Takaji ha avuto la geniale idea di schizzare suo fratello con il soffione della doccia...»

«Cosa stanno facendo?!» domandò con incredulità la donna, ma cercando di non alzare la voce. «Hideki, insomma... ma anche tu...»

Prima che Izumi finì di replicare, suo marito le sorrise e le fece l’occhiolino.

«Ah... capisco,» sussurrò Izumi con un lieve sorriso: solo allora lei aveva capito cosa stesse cercando di dire Hideki con quella piccola bugia. «Hai detto che sono in bagno, vero? D’accordo: vado a dare un’occhiata...» proseguì, congedandosi da lui e uscendo dalla stanza.

Nello stesso tempo Hideki si sedette sul letto e con un tono dolce chiamò Yuzo. «Vieni qui, piccoletto!»

Il bambino si avvicinò al padre e, con un balzo sul letto, si sedette di fianco a lui. «Dimmi, papà!»

«Sai... tra qualche settimana inizierai ad andare a scuola... e volevo darti qualche consiglio. Non ci metterò molto, promesso, ma devi stare molto attento a ciò che ti dirò...»

Anche Yuzo iniziò a sbadigliare per il sonno, ma annuì contento. Suo padre riprese: «Prima di tutto, devi sapere che non cambia nulla rispetto all’asilo. A scuola conoscerai nuovi bambini, e funziona allo stesso modo: dovrai continuare a fare il bravo e ascoltare tutto ciò che ti diranno i maestri... come hai sempre fatto!»

«Sì, papà!»

«Inoltre da quest’anno dovrai iniziare ad andare a scuola da solo. Ogni tanto ci saranno delle eccezioni, come oggi... però dovrai fare come Ken'ichi e Takaji. Per fortuna non sarai da solo: ci saranno loro con te.»

Yuzo si rattristò e abbassò la testa. «Ma io volevo stare anche con la mamma... e la sorellina. Non possiamo fare tutti la stessa strada insieme?»

Hideki scosse la testa, anche lui con tristezza. «No, Yuzo. Devi fare come i tuoi fratelli... e anche Hanako dovrà fare lo stesso quando sarà più grande. Anch’io e la mamma, quando eravamo piccoli come voi, siamo andati a scuola da soli: all’inizio ti sembrerà strano, ma vedrai che sarà anche divertente! Comunque non ti lasciamo andare da solo anche il primo giorno di scuola, e in più non ti perderai mai perché al tuo fianco ci saranno sempre Ken'ichi e Takaji. Stai tranquillo, andrà tutto bene!»

Yuzo alzò la testa e tornò a guardare il padre. Le parole del genitore lo avevano rassicurato un po’ e, in fondo, l’idea che sarebbe andato a scuola con i suoi fratelli non gli dispiaceva. «Va bene, papà!»

«Poi... vediamo un po’...»

Hideki si portò l'indice sotto il mento. «Ah, giusto! Sai che la nostra città ha ben cinque scuole?»

«Cinque?!»

Yuzo spalancò gli occhi per lo stupore: nella sua immaginazione da bambino, il cinque sembrava essere un numero che indicava qualcosa di molto grande.

«Proprio così,» rispose suo padre, «e ognuna di esse ha una squadra di calcio!»

«Wow... tutte tutte?»

«Tutte! Ricordi quando siamo andati al Festival scolastico, per vedere la gara di nuoto di Ken'ichi? Anche lì c’era un grande campetto, dove si stava giocando una partita di calcio!»

Di fronte allo stupore sempre più crescente di Yuzo, Hideki rise con leggerezza. Si alzò e, avvicinandosi al divanetto dove ora si trovava la sua valigetta, la aprì e prese un piccolo dépliant mentre era immerso nei suoi pensieri: constatò che non sarebbe stato difficile dire a suo figlio che sarebbe andato nella stessa scuola di Ken'ichi e Takaji ma, dopo gli avvenimenti degli ultimi mesi, forse non sarebbe stato altrettanto facile rivelargli il vero motivo per il quale lo avrebbe mandato alla Shutetsu senza versare una lacrima di commozione.

Non era solo una questione di ottimi voti e di costruire una buona reputazione che avrebbe garantito a Yuzo un promettente futuro: Hideki lo stava facendo perché quella scuola aveva la squadra più forte della città, e solo lì suo figlio avrebbe coltivato la sua grande passione per questo sport confrontandosi con i suoi coetanei. Forse non sarebbe stato facile: Hideki non era un calciatore professionista e anche lo zio Noboru, nonostante nella loro famiglia fosse quello più ferrato sull’argomento e più adatto a dare qualche dritta a suo figlio, a causa del suo lavoro non era mai riuscito a spendere molto tempo con lui. Immaginava che non sarebbe stato facile per Yuzo perché la scuola era frequentata anche da piccoli campioni che avevano iniziato a seguire le orme dei loro genitori, calciatori già affermati e conosciuti nella zona o, nei casi più eclatanti, a livello nazionale. Nell’incontro che aveva avuto qualche ora prima, Hideki ne aveva approfittato per chiedere maggiori informazioni sulla struttura del rinomato club di calcio: l’uomo aveva capito che la Shutetsu dava a tutti la possibilità di imparare le basi di questo sport, ma al contempo solo la squadra più forte avrebbe partecipato ai campionati regionali e nazionali; solo nella Shutetsu vi erano ben cinque squadre ma, anche se di anno in anno tutte si sarebbero affrontate tra loro nei due gruppi nei quali erano inserite, il Team A sarebbe stata la squadra che avrebbe fatto più esperienza rispetto a tutte le altre, l’unica che si sarebbe scontrata con le squadre delle altre scuole della città e della prefettura, nonché di tutto il Giappone.

Da professore in ambito educativo, Hideki lo sapeva meglio di chiunque altro: per la formazione di un bambino in qualsiasi ambiente non contava solo la teoria, ma soprattutto la pratica e l’esperienza. Lo stesso valeva anche per il calcio: anche nel caso in cui suo figlio non sarebbe entrato nel Team A, la Shutetsu sarebbe stata l’unica scuola in grado di fornirgli quelle ottime basi di cui aveva bisogno per diventare un grande calciatore, se anche da ragazzo avesse deciso di continuare su questa strada.

«Ecco qui,» riprese Hideki, e subito porse il dépliant a Yuzo.

«Che cos’è?» chiese il bambino incuriosito, iniziando a sfogliarlo.

«È la tua nuova scuola: ti piacerà anche solo a vedere quelle belle immagini!»

«Papà?»

«Dimmi tutto, piccolo mio.»

«La nuova scuola... è piena di dolci?»

D-dolci?!

D’un tratto, quello che doveva essere un discorso serio si era trasformato in qualcosa ai limiti del comico: per sbaglio Hideki aveva preso dalla sua cartellina un dépliant dello stesso colore di quello della scuola, che riguardava l'inaugurazione di una succursale di una famosa pasticceria nella prefettura di Shizuoka; gli era stato dato da una ragazza vestita da cameriera all’uscita da lavoro, e lo aveva accuratamente conservato nella cartellina per fare una sorpresa a sua moglie, in un giorno non molto lontano.

Con grande allarme Hideki tolse il dépliant dalle mani del figlio, che lo guardò piuttosto sorpreso. «Ma certo che no!» esclamò con una risata di imbarazzo, e subito tornò accanto alla sua cartellina per nascondere l'oggetto che aveva appena recuperato. «Eheheh, l’hai scoperto! Volevo farvi una sorpresa... ma acqua in bocca, Yuzo! Non dire niente a nessuno: un giorno andremo tutti in quel bellissimo posto, e mangeremo quei gustosi dolci che hai visto. Hai visto che belli?»

«E quando? Quando andiamo?»

«Presto... sarà la sorpresa di compleanno della mamma! Per questo deve restare un segreto tra me e te, d’accordo?»

Il piccolo annuì contento, mentre suo padre estrasse un altro dépliant dalla cartellina: questa volta lo controllò, era quello giusto. Hideki tornò da suo figlio e si sedette accanto a lui, mostrandogli ciò che aveva in mano. «Questa scuola si chiama “Shutetsu”... e ha il più bel campo da calcio della città...»

«È la stessa scuola di Ken'ichi e Takaji?»

«Sì. E, vedi: questo campetto...»

«Evviva! Andremo tutti insieme a scuola!»

«Certo: è proprio per questo che prima ti ho detto che farai la stessa strada dei fratelloni! Ma tornando al campetto, devi sapere che nella Shutetsu ci sono ben–»

Con le sue urla di gioia Yuzo interruppe il discorso del padre; a nulla servirono i richiami del genitore che, più volte, lo invitò al silenzio per non disturbare il sonno della piccola Hanako. All’improvviso il bambino strappò il dépliant dalle mani del padre, e per un attimo restò in silenzio ad ammirare le immagini che c'erano su quel foglio piegato in tre: i suoi occhi iniziarono a brillare quando si soffermarono sulla fotografia che mostrava il prestigioso campo di calcio della scuola, un campo molto grande e ben curato.

Di fronte a quell’immagine, Yuzo sorrise di grande felicità. «Che bello: giocherò a calcio con una vera squadra! Grazie, grazie, papà!» Il piccolo salì sul letto e diede un bacio sulla guancia del padre; dopodiché, in un lampo, uscì dalla camera dei suoi genitori.

Hideki non ci pensò due volte a seguirlo, perché in un primo momento credeva che suo figlio avrebbe scatenato la sua felicità con un bel calcio al suo amato pallone nel cortile, ma si ricredette non appena lo vide entrare nella sua cameretta piuttosto che prendere le scale che lo avrebbero portato al piano terra; quando anche lui fu vicino alla porta, che era rimasta spalancata, rimase in silenzio sulla soglia d’ingresso in attesa di ciò che avrebbe fatto suo figlio.

Yuzo era vicino alla finestra, con i gomiti sul davanzale, e sembrava che il suo entusiasmo si fosse placato; sebbene il piccolo gli stesse dando le spalle, in quel momento Hideki capì cosa avesse intenzione di fare. Lo aveva già visto altre volte vicino a quella finestra da quando era successa quella tragedia, anzi: lo vedeva tutte le sere in quel punto, mentre parlava al suo amico scomparso di qualsiasi cosa gli fosse capitata nella sua giornata.

Hideki aveva avuto ragione, in quel lontano giorno del funerale: Yuzo non avrebbe mai dimenticato Hikaru, nonostante tutto. Il loro legame di amicizia non era stato reciso del tutto ma, anzi, era diventato ancora più forte: agli occhi di chiunque quello poteva sembrare un paradosso, ma ai suoi non lo era affatto. Una vera amicizia, come quella che suo figlio e quello del suo vicino avevano avuto, sarebbe durata per sempre.

«Hai visto, Hikaru?» sussurrò Yuzo, mentre continuava a guardare dalla finestra agitando il dépliant che aveva ancora in mano. «Giocherò ancora a calcio, come promesso... anche a scuola!»

Ancora una volta Hideki si commosse e, sorridendo, si asciugò gli occhi lucidi. Tra tutte le belle notizie che aveva ricevuto e la grande felicità di suo figlio, quel giorno era davvero da ricordare.

 

 

 

Izumi era tornata nel soggiorno per recuperare il cellulare che lì aveva lasciato ma, prima di farlo, aveva dato un rapido sguardo nelle camerette di Ken'ichi e Takaji per vedere se i loro figli stessero già dormendo oppure no. Una volta nel soggiorno la donna si lasciò cadere sul divano: in quel momento di quiete le tornarono alla mente le parole che suo marito aveva detto qualche ora prima, quando entrambi erano nella cucina.

Haru...

Era da tempo che non vedeva il marito di Kazue, a differenza di quest’ultima con la quale si salutavano tutti i giorni. Anche se, dopo la tragedia che aveva colpito quella famiglia, Hideki non le aveva mai detto del perché non fosse più in contatto con il suo amico Haru come prima, Izumi ne aveva subito compreso le ragioni; da parte sua, tuttavia, con Kazue non riuscì ad evitare di farle sentire la sua vicinanza.

A differenza di ciò che era accaduto con i rispettivi mariti, le due vicine continuavano a sentirsi per telefono e a vedersi dalle finestre o dai balconi delle loro case, scambiandosi qualche parola. Nonostante ciò che le era successo, Kazue si era recata a casa di Izumi per complimentarsi con lei per la nascita di Hanako e portarle un regalo: quella donna aveva dimostrato di avere una grande forza d’animo, nascondendo la sua grande sofferenza dietro a lacrime di commozione e un sincero sorriso.

Quella era stata l’unica volta, dopo quella tragedia, che Izumi e Kazue si erano ritrovate faccia a faccia. Da allora erano trascorsi tre mesi... e, all’improvviso, quel giorno Hideki aveva fatto accenno proprio del marito di Kazue, con una grande felicità che non era riuscito a celare.

Chissà cosa è accaduto tra loro... si chiese Izumi, mentre si alzò dal divano con animo sereno. Era davvero felice che tra suo marito e quello di Kazue i rapporti fossero stati ripresi: l’ultima cosa che avrebbe voluto era il vederli separati per sempre, perché sapeva che il legame d’amicizia che avevano intessuto tra loro non era una cosa da poco, proprio come era accaduto ai loro figli.

Nel momento in cui stava pensando a tutto ciò, il cellulare di Izumi squillò: il nome della vicina lampeggiava sullo schermo, e nel vederlo lei decise di risponderle. «Pronto?»

Nel frattempo Izumi si spostò nella cucina per riscaldare la tisana che aveva preparato prima di andare a dormire. Mentre il bollitore con la bevanda era ancora sul fornello, stava per afferrare la sua tazza in bambù quando, all'improvviso, le sfuggì di mano: dalle parole di Kazue capì perché, qualche ora prima, suo marito le aveva detto quella frase sull’amore, della quale fino a quel momento non riusciva a comprendere il significato se non che fosse strettamente collegato al rapporto che entrambi condividevano con i loro vicini.

Ma, proprio in quel momento, lo aveva capito. Ciò che Kazue le aveva appena confidato era un motivo in più per essere felici, e per augurare un futuro migliore per i loro vicini.

 

«Izumi, io e Haru... stiamo aspettando un altro bambino!»

 

 

Note dell'autore:

[1] In Giappone, oltre al classico "itadakimasu" che apre qualsiasi pasto, in conclusione si dice "gochisōsama deshita"; il primo viene tradotto con “Buon appetito” anche se il suo significato è più ampio, il secondo è un ringraziamento diretto alle persone che hanno preparato il cibo e che l'hanno servito.

[2] Come forse molti di voi sanno, l’ovetto è il seggiolino auto studiato per il trasporto in macchina dei neonati. È un po' strano vederlo all'interno di una casa... cioè, della casa dei Morisaki, perché si usa spesso quando le mamme sono fuori casa e non tanto quando sono nella loro casa; mi giustifico dicendo che mi serviva un espediente per fare in modo che Yuzo giocasse con la sorella a una altezza per lui comoda e vederla del tutto (curiosità: esistono passeggini con l'ovetto incorporato - i "passeggini duo", e Izumi sta usando proprio uno di questi con la sua Hanako :3)

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

... facciamo che prima che metà di voi mi tiri dietro qualche padella per un certo motivo che già sanno - o anche due, considerata anche la faccenda della scuola di Yuzo - passiamo subito alla quinta appendice dei nuovi personaggi comparsi o citati qui, vi va? (Per tutte le spiegazioni con tanto di scuse, ci vediamo dopo ^^")

 

- Akihiko 「明彦」 è il padre di Izumi. Viene da una famiglia di insegnanti, ed egli stesso è molto legato alle tradizioni: infatti spera che almeno uno dei suoi nipoti diventi un insegnante come sua madre, come lui (che insegna alle scuole superiori Shutetsu), i nonni, i bisnonni e così via; inoltre è il rappresentante del corpo insegnanti nelle riunioni della direzione della scuola. Ama le cose più strane e curiose, nonché viaggiare in tutto il mondo. Il suo nome significa "principe luminoso".

- Chiharu 「千春」 è la madre di Izumi. Sempre sorridente e allegra, lavora negli uffici della direzione della Shutetsu; in passato anche lei era un'insegnante, prima di entrare nel corpo amministrativo della scuola. Anche lei adora viaggiare, un po' meno la rigidità e i gusti stravaganti di suo marito. Il suo nome significa "mille primavere".

- Hanako 「花子」 è l'ultima arrivata di casa Morisaki. Qui è ancora un frugoletto ma, come nel caso degli altri fratelli, nel corso della storia si ritaglierà il suo piccolo spazio e la conoscerete di più, per cui mi fermo qui. Il suo nome significa "la bambina dei fiori".

- Yamamoto 「山本」 è un cognome molto diffuso in Giappone. Ho scelto questo per la famiglia dei vicini perché significa letteralmente "la base della montagna" - in assonanza con quello della famiglia Morisaki che invece ha a che fare con la foresta. Tutti i nomi della famiglia Yamamoto richiamano l'idea della luce e dell'armonia, come nel caso di Hikaru che alcuni di voi già conoscono.

- Haru 「陽」 è il marito di Kazue e il padre di Hikaru. Qui non è ben specificato, ma gestisce un ristorante nel centro di Nankatsu per cui, lavorando fino al tardo pomeriggio/sera, tende a rincasare sul tardi. Il suo nome significa "sole/luce del sole".

- Kazue 「一恵」 è la madre di Hikaru. (E basta, perché non ho pensato a un background più approfondito su di lei, chiedo scusa...) Il suo nome significa "prima benedizione/armoniosa".

- Hikaru 「光」, per chi non lo conosce, è l'unico figlio degli Yamamoto. Ha la stessa età di Yuzo e come lui è appassionato di calcio; insieme alla sua famiglia si trasferiscono dal centro di Nankatsu al quartiere periferico dove risiedono i Morisaki, e sul resto lo sapete già. Il suo nome significa "luce", uno dei nomi molto comuni in Giappone.

 

Proprio a proposito di Hikaru, chi sta seguendo queste storie dopo aver letto Everyday life e Brand new dawns... sì, questo Hikaru è sempre quel micro vicino di casa di Yuzo. E, sì: questa storia riprende (anche se solo in una piccola parte perché ci sono delle differenze) ciò che ho accennato in Everyday life per cui scusate per averlo fatto uscire di scena ancora una volta, qui ancor prima che si vedesse da qualche parte. Dispiace prima a me, anche se così sembra che stia godendo nel voler recargli sofferenza per poi far del male a Yuzo, date le sfighe che lo perseguitano...

Ad ogni modo, la storia di Hikaru non è stata messa a caso. Quando ho ripreso a seguire Captain Tsubasa con un occhio più attento rispetto a quando ero solo una bambina (con spezzoni di puntate che non ricordavo più e una mancata lettura dell'opera originale), nell'appassionarmi al personaggio di Yuzo è nato questo mio piccolo headcanon: ho sempre immaginato che Yuzo avesse avuto un compagno di giochi quando era ancora un bambino, che lo ha fatto avvicinare ancora di più al mondo del calcio e che allo stesso tempo diventasse il motivo per il quale non mollare nemmeno quando la situazione sembrava andare contro tutte le sue certezze e i suoi sogni, in virtù di quella promessa di diventare campioni che si erano scambiati vicendevolmente. È da questo punto che, circa nove mesi fa, si è formata l'idea del personaggio di Hikaru, di questo coetaneo di Yuzo che diventerà il suo più grande amico: un bambino solare e scatenato, un po' l'opposto di Yuzo che nella serie vediamo sempre dolce e tranquillo...

... appunto. Vi ricordate che, giusto un capitolo fa, vi avevo descritto uno Yuzo scatenato e molto vivace, forse un po' OOC rispetto al suo standard? Esatto: ciò che è successo a Hikaru ha cambiato un po' il suo carattere, avvicinandolo al personaggio che siamo abituati a vedere in azione. Si tratta di un evento non indifferente, che ha influenzato anche solo in una minima parte il suo modo di vedere il mondo che lo circonda: in generale immaginate per un bambino cosa significhi perdere all'improvviso un compagno di giochi al quale si è molto affezionato; già per noi è tragica, figuriamoci per un piccino di soli cinque anni... che dire, mi dispiace aver spezzato il vostro cuore - e anche quello del piccolo protagonista - anche a questo giro. ;____; (Ad ogni modo, non vi anticipo nulla ma questo argomento tornerà inevitabilmente più in là nella storia, perciò non è finita qui. Sì. ^^")

Chiusa questa parentesi un po' triste, passiamo alle altre precisazioni su argomenti presenti in questo capitolo:

 

- Per la cucina dei Morisaki ho immaginato qualcosa del genere, simile alla soluzione della seconda foto. In realtà non sono riuscita a trovare qualcosa che rispecchiasse il modo in cui l'ho immaginata; per ora potete dare un'occhiata al link giusto per avere un'idea di base...

- Riguardo la colazione, invece, a differenza della storia di Shingo non ho specificato molto altrimenti più o meno rischiavo di ripetermi; tuttavia mi faceva piacere mantenere quel tratto occidentale simboleggiato dal croissant che nonno Akihiko ha inviato ai piccoli di casa. Qualsiasi bambino nel mondo non resisterebbe alla tentazione di mangiare un gustoso dolcetto del genere... :P

- In questa parte abbiamo un approfondimento sul lavoro di Hideki. Ebbene sì: è un docente e ricercatore del dipartimento di Educazione presso l'università di Shizuoka. Ai fini della storia non ho approfondito molto la sua vita all'università, però posso dirvi che in Giappone l'università, così come la scuola, inizia nel mese di aprile e termina a marzo dell'anno successivo, ragion per cui in questa parte Hideki è impegnato con le ultime consegne della tesi dei suoi studenti, organizza gli ultimi dettagli dell’apertura del nuovo anno accademico e allo stesso tempo termina la documentazione per l'iscrizione di Yuzo alle elementari. Un uomo molto impegnato, insomma XD

- E, ricollegandomi al discorso del lavoro di Hideki, avete visto come quest'ultimo sia entusiasta dell'ammissione di Yuzo nella Shutetsu. Come ben sapete la Shutetsu è una scuola privata, e ciò comporta un costo maggiore in tutti gli anni di frequenza rispetto ad una scuola pubblica (così come nel resto del mondo, ma in Giappone ancora di più). Se siete curiosi di conoscere a grandi linee le differenze di prezzo tra una scuola privata e una pubblica, qui trovate una tabella esemplificativa.

Detto questo, proprio perché i prezzi sono così alti - e Hideki deve sostenere le spese per ben tre figli (per ora) alla Shutetsu - da parte sua è normale che inizi a riflettere sul peso che ciò comporta sulla sua famiglia, e sul futuro incerto che attende lui e i suoi cari. In questo discorso è importante sottolineare come in Giappone le scuole private siano le più ambite rispetto a quelle pubbliche perché garantiscono una migliore qualità dell'istruzione e sono un ottimo biglietto di presentazione per il futuro accesso alle università prestigiose (a tal proposito ci sono un sacco di link in giro per il web, per cui in questa sede non allego nulla), per cui è altrettanto normale che Hideki ci tenga a mandare tutti i suoi figli alla Shutetsu; se a questo poi si aggiunge che Yuzo ama il calcio... beh: dato che ormai è canonico il fatto che Yuzo facesse parte della Shutetsu prima di incontrare Tsubasa, allora quale migliore scuola che potrebbe formarlo se non proprio la Shutetsu, dove esiste una squadra di veri e propri prodigi del calcio? (Sappiamo tutti che in seguito le cose cambieranno, ma in questa parte siamo ancora in un momento B.T. - "before Tsubasa", si intende ;D) A dire il vero, in realtà è sottinteso che nel corso degli anni i coniugi Morisaki abbiano messo da parte i risparmi dei loro lavori, proprio per cercare di garantire un ambiente il più possibile proficuo per i loro figli, però il peso economico inizia a farsi sentire... ad ogni modo, per ora la coppia ha ancora tutto sotto controllo per cui non andranno sul lastrico. ;)

- Più volte nel corso di questa storia ho fatto accenno al termine superstrada. In questo caso si tratta dell'equivalente della nostra autostrada, cioè una strada ad alta velocità senza incroci né fermate intermedie; in Giappone si chiamano Kōsoku Jidōsha Kokudō (o comunemente Kōsoku Dōro), che si può tradurre letteralmente come "strada ad alta velocità". Ho immaginato che Shizuoka e Nankatsu possano essere collegate da una superstrada del genere anche se non sono troppo distanti tra loro, un po' come nel Piemonte abbiamo la A55 (conosciuta come "Tangenziale di Torino") o la A90 (Grande Raccordo Anulare) nel Lazio.

- Ispirata da questa scena tratta dalla prima puntata dell'anime del 2018 di CT, ho subito immaginato questa cosa: Izumi che passa da quelle parti, poste ai confini del suo quartiere, e che nel passeggiare a un certo punto si trova di fronte uno spettacolo del genere. Ringrazio la prima foto degli splendidi campi di riso di Senmaida che rendono meglio l'idea. **

- Nel primo Memories della storia di Genzo (che potete consultare a questo link con la traduzione in inglese) viene raccontato che i suoi antenati iniziarono a costruire il loro impero economico nell’epoca Meiji (di cui qui potete trovare alcune informazioni generali su ciò che accade in quel periodo). Chi ha già letto la sezione dei Memories sa già che la storia della famiglia di Genzo si intreccia con le vicende della Shutetsu, dato che viene rivelato che il preside della scuola è nientepopodimeno che suo padre - per cui la citazione non è stata casuale. ;3

- Qui e qui potete trovare un po' di informazioni in giapponese sul come sono strutturati i vari corpi di amministrazioni di una scuola. Per farvela breve: esistono la Direzione, il corpo amministrativo (del quale fa parte Chiharu, per il lavoro d'ufficio) e tecnico (i bidelli), e il corpo insegnanti (del quale fa parte Akihiko).

- Così come in "Everyday life", anche qui ho un po' indagato come funziona un classico funerale in Giappone. A proposito del tempio, non ho specificato se fosse il tempio dei Morisaki o un altro tempio presente nella zona. È vero che la religione shintoista e quella buddista convivono al punto che molte cerimonie sono in comune e si svolgono in qualsiasi tempio, ma nel caso dei funerali in quasi tutti i casi sono svolti con rito buddista. Dato che il tempio dei Morisaki è invece shintoista... in questa sede ho preferito non scendere troppo nei dettagli perché non avevo a disposizioni maggiori informazioni sull'argomento. Indagherò ^^"

 

Detto questo, ci vediamo al prossimo aggiornamento con la sezione dei sei anni dedicata a Shingo: posso garantirvi che non sarà tragica quanto questa parte, per cui potete già tirare un sospiro di sollievo. ;)

A presto!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 6
*** Germogli - Sei anni | Aoi's side ***


Fanfiction
A6QtaY4

Germogli.

{Sei anni | Aoi's side}

 

 

BGM: Yair Albeg Wein - Chasing Inspiration

 

 

 

[12 Marzo, un anno dopo. Nakahara, prefettura di Gifu.]

 

Il sole splendeva alto nel cielo di Nakahara, senza alcuna nuvola. Era una di quelle giornate ideali per le prime passeggiate verso i monti circostanti con le cime ancora ricoperte di neve, e lo era anche per i coltivatori di riso e di tè che avrebbero avuto a disposizione delle ore in più per dedicarsi alle loro amate terre. Alcuni abitanti di Nakahara, però, non erano contadini o allevatori di professione: non erano proprietari di aziende agricole ma semplici artigiani che nel tempo libero curavano quel piccolo appezzamento di terreno accanto alla loro casa, ricavando il necessario per la loro famiglia da quelle piante che avevano seminato nel corso dell’anno.

Anche Atsuko, che rientrava in quella categoria di persone, approfittò della splendida giornata per innaffiare le sue piantagioni di tè, poste nei pressi della sua dimora. L’anziana viveva in una tradizionale casetta di legno e paglia, piccola e modesta rispetto a quella della famiglia di sua figlia, che si trovava accanto al torrente che attraversava la periferia della cittadina. Da tempo ormai immemore al fianco della casa vi era un piccolo mulino ad acqua di legno, creato dal suo defunto marito Kunio e raggiungibile attraverso una scalinata con i gradini in pietra.

Quel mulino non era un caso isolato: la maggior parte degli abitanti di Nakahara erano abili artigiani, e la famiglia di Atsuko non faceva eccezione: se suo padre Katashi era stato un famoso intagliatore di legno e sua madre Shinju una rinomata ceramista, diversamente suo marito era stato un grande costruttore di tante strutture presenti nella cittadina e nelle sue vicinanze. Mulini ad acqua, masserie e stalle, strade e ponti, sacrari shintoisti: tutte portavano la firma di Kunio, richiamando lo stile vetusto del quale avevano lasciato traccia gli antenati degli abitanti dell'antico centro storico situato nel cuore della cittadina. Non a caso, anche la maggior parte delle case di quella zona di Nakahara era opera del marito di Atsuko e di altri costruttori che, mettendo in pratica gli insegnamenti dei loro antenati trasmessi di padre in figlio, avevano portato avanti le tradizioni nel creare variegate strutture che rappresentassero un tutt’uno con la natura: dalle montagne circostanti sembrava che Nakahara fosse immersa nelle foreste che la circondavano, e non era un’impressione errata. Dai rilievi dolci sui quali era adagiata la cittadina correva una fitta vegetazione, che si intrecciava alle prime abitazioni che si trovavano nelle immediate vicinanze, mentre l’adiacente riserva naturale con la sua forma a mezzaluna sembrava accoglierne altre in un indissolubile abbraccio; tutto ciò grazie alla sapiente opera manifatturiera dei costruttori di Nakahara, tra i quali anche Kunio aveva lasciato un grande contributo. Per anni, dunque, Atsuko aveva vissuto al suo fianco la grande stagione della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale che, anche se non aveva colpito direttamente il territorio di Gifu, gli effetti del tracollo economico dell’intero Giappone avevano avuto come conseguenza l’emigrazione verso le campagne circostanti, con la necessità di adattare nuovi luoghi alle esigenze di tutti i cittadini.

Ma Atsuko aveva sempre vissuto i molteplici volti dei quali era costituito il mondo dell'artigianato, e questo fin dalla sua nascita. Anche Riku, l’orsacchiotto dei suoi nipoti, era opera della sua famiglia, un dono che quando era piccola le aveva fatto sua madre: proprio lei aveva iniziato ad insegnarle l’arte del ventriloquo, raccomandandole di affidare quel giocattolo alla sua futura discendenza e di dargli, così, nuova vita. Sebbene sua madre fosse stata specializzata nel settore della ceramica che aveva iniziato a conoscere grazie a una sua amica di scuola, proveniente da una famiglia di rinomati ceramisti, ella aveva continuato a coltivare tale arte nel tempo libero, inseguendo la tradizione di costruttori di giocattoli che la madre le aveva lasciato. Alla sua morte, avvenuta prematuramente quando Atsuko aveva solo dieci anni, di fatto era stata Kohaku - la zia della piccola - ad ereditare la tradizione di famiglia, assumendosi con sua nipote il compito di riprendere da dove lei aveva lasciato, ed era stato grazie a lei che Atsuko aveva affinato sempre più quest’arte, arrivando ad essere la più brava della sua famiglia e riuscendo a far parlare Riku senza muovere minimamente le labbra, né alcun muscolo del viso.

Atsuko stessa, poi, con l’aiuto di suo marito e di quello di Yumi, Susumu, aveva costruito la casa dove ora abitava sua figlia, e lei in particolare si era occupata di scegliere le piantagioni e gli alberi adatti per il terreno destinato alla futura famiglia Aoi. Proprio lei, a distanza di un anno dalla morte di suo marito e subito dopo il matrimonio di sua figlia, aveva avuto l’idea di piantare il primo albero - quello di ulivo - inaugurando così una tradizione nella quale ogni membro della famiglia doveva piantarne uno e occuparsi dello stesso. Atsuko era stata la prima con quell’albero, seguita da Susumu che aveva scelto un piccolo albero di limone - scelta ardua, a causa delle fredde condizioni climatiche della zona - e Yumi, che invece aveva deciso di piantare un albero di mele. Per i suoi due nipotini, i neo genitori avevano deciso che sarebbero stati loro a piantarne uno alla loro nascita: per Yukiko un piccolo albero di susino, mentre per Shingo un castano.

La casa della famiglia Aoi era poco distante da quella di Atsuko, e per tale motivo non le era mai difficile riuscire ad incontrare i suoi adorati nipoti: le bastava percorrere la strada che era parallela al torrente e, dopo una piccola salita, arrivare a destinazione nel giro di pochi minuti. Come quelle due dimore, così anche la stessa vita di Atsuko era ormai legata alla famiglia Aoi: tutti i giorni pranzava e cenava nella casa di sua figlia, lasciando ciò che faceva per stare insieme a lei, Susumu, Yukiko e Shingo. Anche quel giorno, così speciale perché era il sesto compleanno del nipote più piccolo, Atsuko avrebbe trascorso parte del tempo nella dimora degli Aoi: diversamente da come avveniva negli altri giorni, l’anziana non avrebbe pranzato insieme a loro perché aveva un compito ben preciso che si era prefissata e che doveva portare a termine prima della cena.

Dopo aver finito di innaffiare le piantagioni, Atsuko si recò presso il mulino per prendere dell’acqua che le serviva per la casa. Con un secchiello di legno ritirò l’acqua e tornò nella sua abitazione dove, posato il secchiello, andò subito nel piccolo laboratorio per dedicarsi alla sua ultima creazione: infatti, da suo padre aveva ereditato una buona capacità di intagliare il legno, e nel tempo libero si divertiva a creare utensili e oggetti decorativi, ma anche giochi per i piccoli di casa.

Atsuko si sedette su uno sgabellino in legno posto di fronte al piano di lavoro - anche quello di sua creazione. Accesa la luce che illuminava il piano, l’anziana riprese quell’ultimo lavoro al quale si stava dedicando da settimane con calma e pazienza: Atsuko aveva avuto un’idea unica al mondo come regalo di compleanno per suo nipote, ed era certa che quell’oggetto che stava per essere completato dalle sue mani gli sarebbe piaciuto molto. In realtà le serviva ancora del tempo, però non si scoraggiò: era sicura che avrebbe completato la sua opera entro il tardo pomeriggio.

 

 

 

 

Quella splendida giornata stava accattivando non solo coloro che si dedicavano alle coltivazioni per professione o in ambito familiare, ma anche i bambini di Nakahara. Il periodo primaverile era noto in quella zona per essere abbastanza capriccioso: erano più i giorni di pioggia rispetto a quelli di sole, per cui i bambini approfittavano di quei momenti di sereno per uscire di casa quando non erano impegnati con i compiti o altre faccende.

Anche Shingo aveva avuto quello stesso pensiero nel primo pomeriggio di quella giornata del tutto speciale, e per questo non ci pensò due volte prima di uscire di casa; tuttavia, prima di abbassare la maniglia della porta d'ingresso, avvisò sua madre che avrebbe fatto un giro per la cittadina.

Yumi lo lasciò andare, memore di ciò che era capitato tre anni prima, proprio nel giorno del compleanno di suo figlio. Da quel momento, infatti, il piccolo Shingo aveva saputo mantenere la promessa che aveva fatto al guardiano della riserva naturale: non usciva più di casa a sua insaputa e, anzi, la informava sempre dei luoghi dove andava. All’inizio, essendo ancora molto piccolo, Yumi lo accompagnava ovunque lui volesse andare; ma sulla soglia dei sei anni la donna aveva iniziato a pensare che suo figlio fosse già pronto per esplorare il mondo da solo. Un pensiero del genere era del tutto normale per il territorio di Nakahara: una cittadina dove tutti si conoscevano, dove i bambini erano liberi di andare in giro senza timori di pericoli, lì ancora di più rispetto al resto del Giappone. Nakahara, inoltre, si trovava in una valle circondata da montagne, vicina ad una riserva naturale sorvegliata giorno e notte dai suoi guardiani: nonostante anche quell'angolo di verde fosse sicuro, i bambini non arrivavano mai a varcare da soli l’ingresso dagli alti cancelli in ferro battuto avvolti sui lati dai rami dei piccoli arbusti che crescevano ogni anno, perché i guardiani erano sempre attenti a non far entrare quei piccolini senza i loro genitori.

«Ci vediamo dopo, mamma!»

Uscito dal cancello Shingo iniziò a correre per le vie della periferia dove abitava: percorse la strada che costeggiava il ruscello e passò davanti alla casa di sua nonna, ma non si fermò e decise di proseguire, ripromettendosi di tornare quando avesse terminato il suo consueto giro, così da andare a casa insieme a lei. Così continuò a correre ancora, attraversando con piccoli balzi gli scalini che portavano al belvedere; poi tornò indietro, dirigendosi verso il centro del borgo dove vi erano le botteghe degli artigiani, e si fermò all’ingresso di un piccolo negozio che vendeva oggetti per la casa in ceramica, vetro e legno.

Situato nel cuore del centro storico della cittadina, l’ingresso del negozio era stato ricavato da una delle antiche abitazioni costruite interamente in legno, alle quali erano ispirate quelle delle zone periferiche: la porta a vetri era stata dipinta a mano con decorazioni floreali da colori accesi; al suo fianco, composta da diverse mattonelle colorate, vi era un'insegna con il nome di quel negozio di artigianato.

[Yume no niji.][1]

Il piccolo Shingo spinse la porta che in quel momento era chiusa; non appena lo fece, un leggero e dolce tintinnio si propagò nell’aria, dovuto al movimento di un grappolo di sonaglini appesi al di sopra della porta.

«Buongiorno!» salutò, come gli aveva insegnato la mamma... nonostante quel negozio fosse proprio del suo papà, e per questo avrebbe potuto prendersi la libertà di chiamarlo senza quella formalità; ma Shingo non lo fece, iniziando ad addentrarsi a lenti passi in quella realtà che lo incantava ogni volta. Nonostante quel luogo fosse così piccolo rispetto allo spazio ben più ampio e luminoso dell’intera Nakahara, al bambino piaceva proprio per il suo essere così ricco di oggetti che lo affascinavano sempre più, al punto che non vedeva l’ora di poter essere più grande per maneggiare gli stessi strumenti che avevano dato vita a quelle meraviglie.

Lo sguardo di Shingo si soffermò su tutti quei dettagli che il negozio della sua famiglia offriva agli occhi di qualsiasi visitatore. La vetrina espositiva sulla destra era piena di vasi, tazze e piatti di diverse forme e colori in vetro e ceramica, vicina al bancone che era disseminato di dépliant, segnalibri, matite, magneti e bracciali posti su piccoli espositori, al fianco di una targa pieghevole a ricordo di una delle tante vittorie all’annuale concorso di artigianato che si svolgeva nella cittadina e, poco più in là, un piccolo campanello in rame dipinto che serviva per annunciare l’arrivo di chi faceva l’ingresso nel negozio. Sulla sinistra erano appesi svariati oggetti in legno, intagliati nelle forme più peculiari: grandi mestoli dal manico dalla forma di animali, piccole cornici dalle forme floreali e orologi che rappresentavano il sole, la luna, le stelle e le nuvole del cielo. In basso vi erano una fila di cestini in legno adagiati contro il muro, mentre dietro al bancone erano appesi alcuni fischietti, scacciapensieri e portafortuna vari.

Tutto ciò era sapiente opera del padre di Shingo, che ogni giorno cercava di arricchire quell’angolo con tutto ciò che gli passava per la mente: non aveva uno schema fisso, e quotidianamente dava vita a oggetti che non si potevano trovare da alcun’altra parte nel territorio di Nakahara. Shingo era molto affezionato a quel luogo, e per questo non esitava a rimandare le sue uscite in giro per il paese ogni volta che sua madre gli chiedeva di farci un salto... come era successo anche quel giorno.

Dopotutto, non era lì solo per caso.

Shingo si guardò intorno e non vide nessuno. Si soffermò davanti al bancone del negozio, che con la sua lunghezza separava interamente la zona del laboratorio con quella riservata all’esposizione; sulla sinistra, poco più distante dal punto degli oggetti dalle diverse forme, vi era una porticina in legno che, formando un tutt’uno con il bancone, era l’unica via d'accesso al laboratorio che si trovava dopo un altro ingresso ben visibile. Di norma, per entrare serviva una chiave... ma Shingo conosceva un’alternativa: sapeva bene cosa fare per superare quell’ostacolo che lo separava dalla porta del laboratorio, nonostante non avesse quel piccolo strumento per aprire la serratura.

Il piccolo diede una veloce occhiata in tutti gli angoli del negozio, assicurandosi ancora una volta che non fosse entrato qualcun altro dopo di lui; poi si aggrappò alla porticina e, con un balzo, si ritrovò dall'altra parte. Afferrò la maniglia della porta sul retro e, con una leggera spinta sulla destra, la aprì per entrare nel laboratorio; dopodiché la richiuse con la stessa forza.

Il clima di quel luogo era decisamente diverso da quello del negozio che Shingo aveva appena lasciato alle spalle. Era di un freddo più pungente, poiché si trovava ad un livello inferiore rispetto al locale del negozio; attraverso una decina di scalini in pietra al fianco dei quali vi era un basso corrimano in ferro saldamente ancorato ad essi, si accedeva ad un luogo più ampio, dove Susumu stava lavorando chino sul suo piano di lavoro. Alle sue spalle, dalla parte opposta della stanza, vi erano un grande e largo scaffale metallico dove l’artigiano poneva gli oggetti in ceramica per il raffreddamento e al suo fianco un suo gemello con gli oggetti appena dipinti; un piccolo tornio per la modellazione di vasi, tazze e piatti si trovava a sinistra del piano di lavoro, mentre alla destra vi erano grandi scatole, sacchi e altri scaffali pieni di svariata materia prima come pezzi di legno, metallo e argille varie. Per il modo in cui era disposto quell’angolo, nessuno eccetto Susumu avrebbe saputo riconoscervi un preciso ordine: quel punto della stanza rappresentava la filosofia dell’artigiano che lì lavorava, un pensiero rivolto a quella creatività senza schemi fissi che solo altri artisti come lui avrebbero potuto avere.

In quel momento Susumu era alle prese con i manici di un pentolino in ceramica, che stava rifinendo; non appena lo vide intento in quell’accurato lavoro, Shingo corse da lui e diede un’occhiata all’oggetto che stava ultimando. Suo padre non sembrava essersi accorto di nulla, così intento su quei manici al punto di non aver visto il bambino al suo fianco: per questo, non appena alzò il capo per prendere il grosso pennello con il quale toglieva la polvere che ne aveva ricavato, fece un piccolo balzo sulla sedia.

«Ciao, papà!» lo salutò Shingo.

«Oh! Che bella sorpresa... sei stato in giro?»

«Sì!»

«Ti sei divertito?»

«Certo! Tanto tanto!»

Non appena guardò Shingo negli occhi, la spontaneità e la gioia che il volto del piccolo aveva in quel momento rasserenarono l’artigiano che, dopo qualche secondo, distolse lo sguardo da lui per rivolgerlo verso il soffitto del laboratorio. «Però sei sempre il solito: entrare qui, senza nemmeno bussare... potevi almeno suonare il campanello sul bancone. Sarei arrivato in un baleno!»

Shingo ridacchiò. «No! Volevo vedere cosa stavi facendo... ero molto, molto curioso!»

Suo padre diede un sospiro colmo di serenità, lo prese in braccio e gli disse, indicando l’oggetto che nel frattempo aveva lasciato sul tavolo: «Stavo lavorando questi manici: lo sai, non è mai facile modellarli come vorresti!»

«Wow! Sei bravissimo, papà!»

Gli occhi del piccolo brillarono di gioia nel vedere quei manici. Lo sguardo attento e severo di un esperto li avrebbe giudicati ancora rudimentali ma di fronte a quello spensierato di Shingo, che era solo un bambino di sei anni, quei manici sembravano già perfetti. «Sai, papà? Quando sarò grande voglio lavorare con te!»

Susumu fece una smorfia di gioia, soffocando una dolce risata. «Hai ragione, solo quando sarai grande! Ricordi cosa ha detto la mamma, vero?»

Il bambino annuì. Qualche mese prima si era recato a quel laboratorio con sua madre: per lui era la prima volta che lo vedeva e, soprattutto, che vedeva il padre lavorare e modellare i più semplici materiali per farli diventare oggetti dalle mille funzioni. Spinto dalla curiosità lasciò la mano della mamma e subito corse verso il tornio che in quel momento era in funzione: Yumi riuscì a bloccare il figlio in tempo, prima che le piccole mani che avevano afferrato il vaso che Susumu stava lavorando imbrattassero i loro vestiti e gli oggetti che avrebbero toccato. Da quel giorno, di comune accordo con sua moglie, l’artigiano decise di non far avvicinare il figlio nel laboratorio... tranne in un solo caso: quando la sua Yumi non sarebbe stata presente, assumendosi così tutte le responsabilità che ne sarebbero derivate.

Shingo, infatti, era molto curioso e attento, ma allo stesso tempo vivace. Susumu non riusciva ancora a fargli trovare un’attività che potesse svolgere da solo in quella bottega, ma ne era consapevole: suo figlio era ancora molto piccolo, e sarebbe riuscito a indirizzarlo sulla strada che gli sarebbe stata più congeniale solo grazie alla grande pazienza che avrebbe mostrato nei suoi confronti, dandogli i primi insegnamenti sul mestiere e seguendolo passo passo.

«Ormai ti conosco molto bene,» proseguì Susumu, e fece scendere suo figlio dalle ginocchia. «Non sei qui solo per vedermi all’opera... vero? Cosa c’è, questa volta?»

Il bambino sorrise a denti stretti e iniziò a frugare tra le tasche del pantalone che indossava: ne estrasse un fazzoletto di stoffa piegato in modo disordinato, e lo porse al padre. «La mamma ha detto di portarti questo!»

Susumu lo prese, aprì il fazzoletto e al suo interno trovò un frammento di legno. L’artigiano sapeva di cosa si trattava: prima di andare in bottega, Yumi gli aveva dato un coltello ormai malandato ma al quale ci teneva molto perché era un regalo di sua madre, con il compito di ripararlo il prima possibile. Al di là della lama da affilare, il manico si era scheggiato quando le era accidentalmente caduto sul pavimento e per ore aveva cercato il pezzo mancante senza riuscire a trovarlo; così aveva deciso di dare il coltello a suo marito che nel frattempo avrebbe lavorato la lama. Mentre stava giocando nel soggiorno, per caso Shingo aveva notato proprio il pezzo mancante di quel manico sotto il divano, e incuriosito lo aveva preso per poi mostrarlo a lei: il cuore di Yumi si era riempito di gioia per quel pezzo ritrovato, anche se era perfettamente consapevole che suo marito non avrebbe avuto problemi a sostituire il manico completo o ad aggiungere un pezzo completamente nuovo.

«Ah, sì!» aggiunse Susumu. Prese il frammento, lo esaminò sotto la lente di ingrandimento del suo piano di lavoro; poi, dopo aver dato un cenno affermativo con la testa, aprì il cassetto del mobiletto che si trovava di fianco alle sue gambe e da lì prese il coltello che Yumi gli aveva dato al mattino. «Tua mamma ne sarà contenta!» disse, indossando gli occhiali da lavoro che aveva alzato sulla testa e tornando all’opera sullo strumento che aveva in mano.

Il piccolo stette a guardare suo padre mentre stava maneggiando gli strumenti per riparare il manico, finché il genitore aggiunse: «Ti va di andare a casa e avvisare la mamma? Forse riuscirò a portarglielo già questa sera!»

Shingo si portò una mano sulla fronte come un piccolo soldato, e sorrise. «Va bene, papà!»

«Aspetta che ti accompagno...»

Susumu prese per mano suo figlio e tornò presso il bancone, dove prese la chiave e aprì la porta in vetro dell’ingresso. «Allora ci vediamo più tardi: quando hai finito puoi tornare qui, altrimenti ci vediamo a casa!»

«Ciao, papà! Buon lavoro!»

Shingo agitò la mano per salutare il padre e, uscito dal negozio, riprese a correre. Passò davanti alle altre botteghe per poi addentrarsi nel cuore del centro pullulato di residenti e turisti, tra i piccoli ristoranti con bancarelle take away, laboratori di vino e sakè, piccoli alberghi e le terme; da lì percorse la strada che lo avrebbe portato all’ingresso della riserva naturale che aveva visitato tre anni prima, proprio in occasione del suo compleanno.

Con il passare del tempo quella riserva si era ingrandita ed era diventata sempre più ricca di aree ben delineate: un grande parco naturale accoglieva i cervi della vicina foresta e si era affiancato alle zone dedicate alla flora, dove vi era anche l’angolo delle camelie che Shingo aveva ammirato a suo tempo; lepidotteri e coleotteri di diverse forme e colori popolavano queste zone, insieme agli uccelli che continuavano a nidificare sui rami degli alberi secolari che le sovrastavano.

Il piccolo si fermò davanti ai grandi cancelli in ferro battuto; quel giorno erano rigorosamente chiusi ma di fronte ad essi vi era seduto proprio quell’anziano guardiano che aveva incontrato tre anni prima. Da quel giorno ormai lontano i due si erano visti tutti i giorni ed erano diventati grandi amici, al punto che almeno una volta a settimana il vegliardo era ospite a casa degli Aoi e Shingo si recava spesso all’ingresso di quella riserva per salutarlo.

«Ciao, Shingo!» esclamò il guardiano con allegria, battendo più volte il bastone al suolo. «Come stai?»

«Buon pomeriggio, ojiisan!» Il piccolo gli rivolse un piccolo inchino, dopodiché drizzò la schiena e continuò a correre sul posto. «Bene, grazie! Sto facendo un giro, come sempre!»

«Fai bene: oggi è una splendida giornata! Oh, aspetta un attimo...»

Il guardiano lasciò il bastone vicino alle sbarre del cancello, poi dal taschino del marsupio che portava con sé prese una scatoletta, accuratamente chiusa, che diede al bambino. «Puoi portare questo al tuo papà?» gli chiese. «Questa mattina mi sono dimenticato che ho il turno per tutto il pomeriggio, e non riesco a passare per il suo negozio...»

«Che cos’è?»

«Ti piacerebbe saperlo, eh?»

Il vegliardo si sbottonò leggermente il collo della giacca e mostrò a Shingo una piccola chiave che portava appesa al collo; con essa aprì la scatola, che rivelò un fischietto che recava sul dorso un’incisione di una tigre.

«Che bello...» sussurrò il piccolo, che stette fermo ad ammirare l’oggetto che doveva portare al padre.

Il guardiano chiuse la scatolina e disse: «Tuo padre sa già cosa fare. Mi fai questo favore, allora?»

Il piccino rafforzò la presa e, senza pensarci due volte, riprese a correre nella direzione opposta. «Va bene, torno subito!»

Per Shingo non fu un problema rifare la strada che aveva appena percorso. A lui piaceva correre, sentire il vento che gli soffiava sulle guance, calpestare l’erba delle aree dove non avevano ricoperto le strade di cemento, salire e scendere gli scalini che si trovavano in vari punti della città, respirare quella sensazione di libertà che si districava tra il dedalo arboreo e le viuzze strette del centro.

Nel giro di poco tempo il bambino si ritrovò all’ingresso del negozio del suo papà, ma questa volta notò la presenza di alcune persone che stavano facendo la fila. Chiedendo un sommesso «Permesso...» Shingo fece capolino dalla porta in vetri per capire il motivo di quella fila: un gruppo di turisti incuriositi dall’esposizione stava chiedendo a suo padre qualche informazione dettagliata sugli oggetti che li avevano colpiti, così particolari quanto unici.

Il bambino voltò le spalle e fece qualche passo, fermandosi al centro della strada. Poi, ad un tratto, iniziò a correre sul posto.

Uffa, uffa, uffa, uffa, uffa...

Iniziò a muoversi intorno, facendo avanti e indietro nei pressi della porta d’ingresso: a lui non piaceva restare fermo per molto tempo in un luogo, per cui stava iniziando ad essere impaziente, incurante del fatto che le persone che stavano aspettando di poter entrare nella bottega lo stessero osservando tra stupore e curiosità. Continuando a muovere le gambe con sempre più crescente frenesia, Shingo incrociò le braccia e mise il broncio; ogni tanto lanciava uno sguardo verso l’interno della bottega, ma niente da fare: quel gruppo era ancora lì, e dall’allegra conversazione che era in atto tra loro sembrava non decidersi ad uscire... non nel giro di poco tempo, almeno.

«... argh! Sono stufo!»

Come un fulmine Shingo entrò dentro - ignorando il mormorio delle persone che si stavano lamentando per il suo comportamento scortese -, superò un paio di turisti che in quel momento stavano indicando la vetrinetta per chiedere informazioni a suo padre, e con grande rumore posò la scatoletta sul bancone.

«Scusa, papà: volevo solo dirti che questo è da parte del guardiano. Ciao, buon lavoro!»

E si dileguò, lasciando a bocca aperta i turisti e lo stesso Susumu che, piuttosto sorpreso, prese in mano l’oggetto che suo figlio gli aveva appena lasciato.

Uno dei giovani che era vicino al bancone iniziò a ridere e disse all’artigiano: «Certo che voi qui avete un’energia pazzesca! Avete visto quel piccoletto? È entrato, e puff! In un lampo è sparito! Ma... per caso è suo figlio? Vi ha appena chiamato “papà”!»

Susumu si portò una mano sulla fronte, cercando di nascondere il suo imbarazzo.

Mio figlio non finirà mai di stupirmi!

Se avesse potuto, in quel momento si sarebbe nascosto volentieri sotto il bancone, diventando piccolo come un insetto; non potendo farlo, cambiò espressione e rivolse un cordiale sorriso ai visitatori. «Può dirlo forte! Ma, intanto... dove eravamo rimasti?»

 

 

 

Shingo era giunto di nuovo alle porte della riserva naturale. Il guardiano si era seduto su una roccia, e stava osservando alcuni uccelli che stavano cinguettando sui rami degli alberi.

«Eccomi qui, sono arrivato!» urlò il piccolo, che subito si avvicinò al vegliardo che, nel sentire la sua voce, aveva alzato il capo ed era rimasto di sasso nel rivederlo di nuovo lì.

«Di già?» domandò lui, con grande stupore.

«Sì! C’erano delle persone, ma ho dato la scatoletta a papà!»

L’anziano guardiano si alzò in piedi, guardando Shingo dritto negli occhi. «Ne sei sicuro?»

«Sì!»

«L’hai dato proprio a lui... no?»

«Certo! C’erano anche delle persone che stavano parlando con lui, però l’ho dato!»

Il vegliardo inarcò un sopracciglio. Dalla riserva naturale alla bottega degli Aoi c’era, infatti, una lunga strada da percorrere: a piedi chiunque avrebbe impiegato un po’, anche a passo svelto; Shingo, invece, ci era riuscito nel minor tempo possibile... ed era proprio questo che aveva colto di sorpresa il guardiano, a tal punto che stava iniziando a pensare che, forse il piccolo gli stesse mentendo e non avesse portato il suo fischietto a Susumu. In fondo, quel fischietto era davvero bello: poteva far gola ad un bambino qualsiasi, proprio come lui...

Dopo aver scrutato il piccolo da cima a fondo, l’anziano guardiano prese in mano il cellulare che si trovava sempre nel marsupio e fece una telefonata. Qualche secondo dopo, udì dall’altra parte una voce d’uomo e in sottofondo un vociare di persone che stavano parlando tra loro.

«Pronto?»

«Ciao, senti un po’: tuo figlio è venuto da te?»

Il vegliardo infatti aveva contattato proprio Susumu, che nel frattempo era ancora impegnato con quel gruppo di turisti, ma era riuscito a rispondergli subito. Riconoscendo subito la voce del guardiano, l’artigiano gli rispose: «Sì, era qui fino a poco tempo fa... saranno trascorsi una decina di minuti... mi ha portato una piccola scatola con dentro il tuo fischietto e se n’è andato. È successo qualcosa?»

L’anziano fece cadere per terra il suo bastone ed esclamò: «Santi numi!»

A quell’affermazione Susumu si allarmò e, scusandosi con i suoi visitatori, si allontanò nella zona del laboratorio. Si chiuse la porta dietro e subito il pensiero volò a Shingo pensando che gli fosse capitato qualcosa, ma cercò di mantenere la calma per quel che poteva. «Ditemi... ecco... cosa è successo? Mio figlio sta bene?»

Il guardiano scoppiò a ridere. «Se è successo qualcosa, dici? Certo che sì: è stato molto bravo! Pensa che ora è qui con me...»

«Lì?»

«Esatto! Anch’io stento a crederci... ma è proprio qui, davanti ai miei occhi!»

Susumu restò di sasso di fronte a quella rivelazione, e iniziò a chiedersi come avesse fatto suo figlio a percorrere in poco tempo quel tragitto: non era del tutto impossibile, ma per un fanciullo di sei anni era piuttosto strano... non è che il guardiano ha scambiato qualche bambino per mio figlio? - pensò, cercando di rimettere in ordine la sua mente che difficilmente stava riuscendo a credere a quella notizia. «Perdonate il disturbo... può passarmelo un secondo?» chiese all’anziano, che subito portò il cellulare all’orecchio del bambino.

«C’è tuo padre al telefono...» sussurrò il guardiano al bambino, che subito mostrò un caloroso sorriso.

«Ciao, papà!» esclamò Shingo. «Cosa c’è?»

Ok... dalla voce sembra proprio lui! - pensò Susumu, ancora incredulo. «No... nulla,» mormorò, per poi aggiungere: «Hai fatto bene ad avvisare il guardiano che mi hai portato il fischietto... ora devo proprio andare, mi stanno aspettando; noi ci vediamo a casa, oggi il negozio è un po’ affollato e non potrò darti retta... però dì al guardiano che sarò io a portargli il suo fischietto non appena sarà pronto... o forse anche tu, chissà!»

«Va bene, ciao!»

Susumu riattaccò, mentre il piccolo restituì il telefono al vegliardo. «Papà ha detto che ti darà lui il fischietto!» disse Shingo con entusiasmo. «Per favore, ojiisan: posso sapere che ore sono?»

Il guardiano alzò lo sguardo verso il cielo e lo analizzò con estrema attenzione. «A giudicare dalla posizione del sole, saranno le quattro e mezza del pomeriggio...»

«Oh, no!» Shingo riprese a correre sul posto, con la schiena dritta e le mani strette a pugno. «Ha ragione papà: non posso tornare al negozio! Devo ancora andare da nonna... ci vediamo domani, ojiisan! Ciao ciao!»

Mentre il piccolo si allontanò sempre più da lui fino a diventare un puntino per poi sparire completamente dalla sua vista, il guardiano riprese il bastone che aveva accidentalmente fatto cadere a terra e si sedette di nuovo sulla roccia. Aveva ragione la moglie di Susumu, rifletté tra sé e sé, mentre i suoi occhi si alzarono di nuovo verso il cielo. Questo piccoletto promette bene: è davvero veloce!

 

 

 

Shingo tornò verso il suo quartiere, attraversando la valle che poi conduceva verso il torrente. Questa volta, come si era promesso, giunse presso la casa della nonna e si fermò: bussò alla porta ma non rispose nessuno. Non fu una novità per il piccolo, che sapeva che la nonna spesso si trovava nel suo piccolo laboratorio all’interno dell’abitazione, così Shingo decise di chiamarla a gran voce.

«Nonna, ci sei? Nonna!»

«Arrivo, arrivo!»

Il bambino sorrise: la voce che aveva udito da lontano era di sua nonna e, come aveva sospettato qualche secondo prima, sembrava provenire proprio dal suo laboratorio. Siccome aveva capito che ci sarebbe stato da attendere qualche minuto, il piccolo riprese a correre e fece il giro della casa; mentre stava per arrivare presso il vicino mulino, all’improvviso venne colpito sulla testa.

«Ahia!»

Shingo cadde seduto a terra: il punto colpito gli pulsava, quindi si mise una mano sulla testa per affievolire il dolore. Alzò lo sguardo verso l’alto per vedere cosa lo avesse appena colpito e, con la coda dell'occhio, notò che qualcosa stava rotolando verso il torrente. In quel breve attimo di tempo non si curò di quel particolare poiché la botta in testa lo aveva stordito un po’; tuttavia un improvviso urlo richiamò la sua attenzione, riportandolo alla realtà.

«Il pallone, il pallone!»

Pa... pallone?

Nello stesso istante, alle sue spalle arrivarono due ragazzini che stavano rincorrendo il pallone che loro stessi avevano calciato per sbaglio verso il torrente: si fermarono a pochi passi da quel bambino non appena si resero conto che non sarebbero più riusciti a prenderlo in tempo e iniziarono a piagnucolare, disperati per ciò che probabilmente stava per accadere.

«Oh, no!»

«Sta per finire nel mulino...»

«... ancora una volta!» esclamarono all’unisono.

Ripresosi, Shingo focalizzò l'oggetto che stava per cadere nel flusso d’acqua e si alzò in piedi. Con una corsa sfrenata si precipitò verso il pallone che stava per arrivare sulla riva e lo raggiunse in un attimo, fermandolo con il piede per rilanciarlo subito dopo a quei ragazzini; tuttavia nel farlo scivolò, si spalmò di schiena sui sassolini e finì con la testa nell’acqua.

Non appena il pallone arrivò verso i due ragazzini, uno di loro afferrò il pallone che gli era stato lanciato con il piede e lo osservò con attenzione, incredulo di avere tra le mani l’oggetto che ormai credeva di aver perso per sempre: se era ancora sano e salvo, lo doveva solo a quel bambino che con grande prontezza di riflessi era riuscito ad arrestare il suo cammino. Alzò lo sguardo, stupito per ciò che il piccolo Shingo aveva appena fatto, e insieme al suo amico stette per ringraziarlo; sennonché, non appena lo vide per terra sulla riva che sembrava non muoversi per nulla, si precipitò per soccorrerlo.

L’amico lo seguì e i due raggiunsero la riva in un baleno. «Stai... stai bene?!» chiese il ragazzino.

In quel momento Shingo si alzò di scatto e si massaggiò la testa, ancora dolorante per il colpo subìto. «Sì, grazie! E il pallone?»

L’altro gli sorrise, mostrandogli ciò che aveva in mano. «Ecco qui... grazie mille! Se non fosse stato per te, a quest’ora avremmo avuto un altro pallone in meno...»

«L’ennesimo,» puntualizzò il suo amico, rubandogli la palla e colpendogli la spalla con uno schiaffo amichevole. «Sei sempre il solito, Yuito! Quando ti deciderai a imparare a palleggiare? Sarà il terzo pallone che perdiamo tra le pale di quel mulino!»

L’altro ragazzino - di nome Yuito - lo guardò con un po’ di imbarazzo e scoppiò a ridere, dopodiché rivolse di nuovo lo sguardo a Shingo e disse: «E tu, invece... certo che sei proprio molto veloce!»

Il bambino rise soddisfatto. «Già già!»

«Quanti anni hai?»

«Oggi ne compio sei!» e mostrò una mano aperta e l’altra chiusa a pugno tranne il pollice, indicando il numero di anni che aveva.

«Solo sei anni? Sei bravissimo, fattelo dire! Ora dobbiamo andare; a presto e grazie ancora!»

I due ragazzini si allontanarono e Shingo restò fermo ad osservarli, mentre notava come si passavano il pallone a vicenda: quei ragazzini stavano usando solo i piedi, cercando di non prenderlo con le mani. Anche loro erano veloci e avevano i riflessi pronti: di certo non come lui ma agli occhi del bambino sembravano abbastanza bravi.

«Ancora loro due?!»

Shingo si voltò a quella voce familiare e riconobbe sua nonna, che aveva le braccia conserte e aveva appena tirato un profondo sospiro di disappunto.

«E poi si lamentano che il pallone finisce sempre tra le pale del mulino...» proseguì l’anziana donna, iniziando a fare qualche passo intorno a suo nipote. «Capisco che Nakahara non abbia ancora un campo da calcio come si deve, ma mettersi a giocare qui, con questo rischio... potrebbero andare altrove, come al parco: lì hanno tutto lo spazio che vogliono!»

«Calcio?»

Quella parola incuriosì il piccolo Shingo, che aveva già sentito parlare di calcio e sapeva cosa fosse a grandi linee, ma a differenza di altri bambini della sua età non sembrava essere molto interessato. Dopotutto, a lui piaceva svegliarsi all'alba e correre per tutta la cittadina, partendo dal luogo in cui viveva e arrivando dall'altra parte per poi tornare indietro, come aveva fatto anche quel giorno: non importava se fosse inverno o estate, lui era sempre pronto ad uscire di casa e correre, correre, correre. Instancabilmente, senza fermarsi mai... proprio come un’automobile in città, senza un semaforo rosso che frena la sua corsa.

Un po’ come il suo nome: Aoi Shingo.

«Già!» aggiunse il bambino, tornando a correre sul posto. «Qui è bello, ma così possono distruggere anche il mulino, nonna!»

Atsuko sorrise e prese per mano suo nipote. «Su... ora andiamo: hai tutti i capelli bagnati, hai proprio bisogno di asciugarli. Non vorrai mica tornare a casa zuppo d’acqua...»

«No!»

Il piccino cercò di divincolarsi, ma l’anziana fu decisa a non mollare la presa. «Non fare storie!» lo rimproverò. «Se continui a correre con i capelli bagnati, ti prenderai un bel raffreddore... e poi sì che non uscirai di casa per un bel pezzo!»

«Dai, nonna! Voglio stare qui, non voglio entrare a casa tua!»

«E chi ha detto che dobbiamo entrare per forza?»

La vegliarda soffocò una risata divertita: prese il grembiule che aveva addosso e, con quello, asciugò i capelli di suo nipote vorticosamente, finché non fu certa che non fossero più molto bagnati. «Ecco fatto!» esclamò soddisfatta. «Ora che sei bello asciutto, puoi tornare a casa...»

Shingo si calmò, ma non si trattenne dal farle quella domanda. «E tu non vieni, nonna?»

«Certo che vengo! Però oggi arrivo più tardi; qui ho ancora molto da fare...»

Nel vedere che suo nipote aveva messo su uno sguardo molto triste dopo la sua risposta, Atsuko si riallacciò il grembiule, lo prese in braccio e iniziò ad incamminarsi nella direzione della strada. «Ti prometto che verrò presto... e ti porterò un bellissimo regalo!»

«Davvero?»

«Certo! Però devi andare a casa, e vedrai: arriverò in un battibaleno!»

Posò Shingo, che subito tornò a sorridere e iniziò a correre nella direzione della sua dimora, agitando la manina per salutarla. «Va bene, nonna! Ci vediamo dopo!»

Atsuko lo osservò sparire nell’angolo della strada, per poi rientrare nel laboratorio per completare la sua opera. Ormai era quasi pronta: mancava solo un ultimo ritocco e l’anziana donna l’avrebbe portata a casa della sua Yumi.

«Dunque, vediamo un po’...»

 

 

 

 

Nel tardo pomeriggio Yukiko tornò da scuola con il papà, e trovò suo fratello nel loro giardino a giocare mentre saltellava dentro ad un sacco che la loro mamma gli aveva dato, cercando di non perdere mai l’equilibrio. Non appena vide sua sorella, Shingo corse da lei senza uscire dal sacco e quando le fu vicino le si gettò addosso.

«A-Attento!» esclamò Yukiko, ma era troppo tardi: entrambi caddero a terra, sollevando una piccola nuvola di polvere. Per fortuna nessuno di loro si era fatto male e avevano iniziato a ridere tra loro: Susumu era riuscito a prendere la bambina in tempo, che crollò insieme al fratello su di lui... ma non poté evitare di finire egli stesso di sedere a terra, e solo allora lasciare che i due bambini si sdraiassero di schiena sul terriccio, mentre continuarono a ridere a crepapelle.

«Ha ragione tua sorella, Shingo: stai più attento!» disse l’artigiano con bonarietà non appena riuscì a riprendersi; poi, dopo aver aiutato Yukiko a rialzarsi, prese suo figlio dal sacco e lo caricò sulle spalle. «Allora, hai avvisato la mamma come promesso?»

«Sì!» rispose il bambino con allegria. «La mamma è molto felice, e non vede l’ora che tu aggiusti il suo coltello!»

«Bene!»

I tre rientrarono nella loro dimora, dove ad attenderli vi era Yumi: la donna era intenta a cucinare perché era quasi ora di cena, Yukiko corse a salutarla mentre Susumu chiese a Shingo di seguirlo nel giardino. Il bambino gli chiese il perché, ma lui si portò l’indice sulle labbra e sorrise.

«Ora vedrai...» sussurrò Susumu. Lo prese per mano e insieme si allontanarono sul retro dell’abitazione.

Il piccolo Shingo non poteva saperlo, ma in realtà il fatto che suo padre lo stesse portando in quel punto della casa faceva parte del piccolo piano che la famiglia Aoi aveva architettato per il suo compleanno. L’intento era quello di distrarre il festeggiato il più possibile, coinvolgendolo in una attività che a lui piaceva molto: osservare il papà lavorare. Susumu, infatti, non aveva ancora riparato del tutto il manico del coltello di sua moglie; lo aveva fatto di proposito, avendo così qualcosa da fare anche a casa e che al contempo potesse tener impegnata l’attenzione di Shingo.

Intanto, non appena videro padre e figlio uscire di casa, Yumi e Yukiko si avvicinarono e iniziarono a bisbigliare tra loro.

«Papà ha chiamato la nonna?» chiese la mamma alla piccola.

«Sì...»

«Va bene. Vieni con me, però mi raccomando: cerca di non fare rumore... altrimenti lo sai come è fatto tuo fratello: non ci lascerebbe mai più!»

«Ok!»

Le due sgattaiolarono dalla casa e, di soppiatto, riuscirono a superare il cancello e ad incamminarsi verso la dimora di Atsuko. Giunte là, si recarono nel laboratorio dove l’anziana era ancora al lavoro con il regalo che stava preparando per suo nipote, ma per fortuna era quasi alla fine: stava per terminare la sua firma, incisa nel legno.

«Ciao, nonna!» Yukiko si avvicinò a lei e indicò l’oggetto, dopo averlo osservato con grande attenzione. «Wow, che bello! Ne vorrei una anch’io!»

Atsuko sorrise. «Ci ho impiegato giorni e non è stato facile nasconderla a Shingo, ma alla fine ci sono riuscita... e va bene, nipotina mia: sarò felice di costruirne una anche per te. Bene: con questo ho finito!» L’anziana prese un grosso pennello che portava nella tasca del grembiule e con quella pulì la superficie dove aveva appena inciso la sua firma. Poi si alzò e si allontanò, mostrando il suo regalo anche a Yumi.

La donna lo ammirò e disse: «Complimenti, è proprio bello!»

«Sicuramente è qualcosa che nessun altro ha qui!» esclamò Atsuko, orgogliosa. «O, meglio... sì, ce l’hanno tutti ma non così... e di sicuro non con la mia firma, eheheh!»

La vegliarda, dopo aver accarezzato la testolina di Yukiko che continuava ancora ad osservare la sua ultima creazione, tornò vicino a essa e vi posò una mano. «E ora come portiamo questo gioiellino della meccanica, senza che Shingo si accorga della sua presenza prima di cena? Se mi vede portarlo, vorrà sapere tutto!»

«Non preoccuparti, mamma!» sentenziò Yumi. «Mio marito sta cercando di distrarlo... e penso che ci vorranno un bel po’, conoscendo entrambi. E poi... ci siamo noi ad aiutarti. Dai, Yukiko: tu ci precedi e controlli se è tutto a posto, mentre io e la nonna portiamo questo bel regalo per tuo fratello, ok?»

«Va bene, mamma!»

Yumi prese un telo di juta e con quella avvolse accuratamente la creazione di sua madre, dopodiché lo prese dalla parte frontale e Atsuko da quella opposta. Tutti iniziarono ad uscire dal laboratorio e dalla dimora dell’anziana donna, iniziando ad incamminarsi verso la dimora degli Aoi: Yukiko ebbe cura di chiudere la porta d’ingresso, con le chiavi che sua nonna le aveva dato qualche minuto prima, e subito corse davanti alle due donne come le aveva detto la mamma. Nonostante il regalo fosse pesante per una sola persona, Atsuko e Yumi riuscirono a portarlo fino al cancello degli Aoi, fermandosi di tanto in tanto per dar modo all’anziana donna di riposarsi.

«Aaaah, non ho più l’età per certe cose!» disse Atsuko comicamente, e si appoggiò alle sbarre della dimora: sebbene non fosse granché sudata, fece finta di asciugarsi la fronte come se avesse appena scalato una montagna molto alta.

Yumi aprì il cancello pian piano e di soppiatto entrò con Atsuko dentro l’abitazione. Non appena sua figlia lo chiuse, si avvicinò a lei e sussurrò: «Yukiko, sicuramente ora tuo fratello ha sentito il cancello che si apriva. Corri da lui e se dovesse chiederti qualcosa dì che è appena arrivata la nonna... tu sei molto brava con le parole: cerca di tenerlo impegnato il più possibile, almeno finché io e la nonna sistemiamo il regalo in un angolo nascosto.»

Mentre lei e sua madre posarono l’oggetto che avevano portato in un angolo nascosto della cucina, Yukiko invece si recò subito nel retro dell’abitazione, dove ad attenderla vi erano suo fratello e suo padre. La prima cosa che notò - e che l’aveva lasciata di stucco - era che Shingo non si era mosso di un millimetro: stava attentamente osservando il loro papà intento a lavorare e rifinire il manico del coltello della loro mamma. Yukiko lo chiamò più volte, ma suo fratello era talmente concentrato che non si curò molto di lei.

Ad un certo punto Shingo si voltò verso di lei e la prese per mano, invitandola a sedersi al suo fianco. «Guarda, guarda!»

Yukiko e Shingo si avvicinarono ulteriormente al loro papà, ed entrambi osservavano il modo in cui stava lavorando quel pezzo di legno con il suo coltellino da viaggio, dandogli una forma sempre più ovoidale.

Intanto Atsuko era uscita dall’abitazione e tornò dai suoi nipotini; sorrise fieramente non appena li vide accanto all’artigiano, in silenzio come se all’improvviso avessero perso il dono della parola. «Dal modo in cui stanno osservando mi sa che hai già due piccoli discepoli, caro Susumu!» disse.

«Già,» rispose l'uomo con serenità, mentre continuava a lavorare. «Tra qualche anno inizierò ad insegnare a loro i segreti del mestiere... e, chissà: forse un giorno diventeranno molto più bravi di me!»

«Ne sono certa: promettono bene!»

Atsuko si ricordò di tutte le volte che i suoi nipotini si recavano a casa sua e la aiutavano con i suoi lavori: Shingo la aiutava a prendere tutto ciò che le serviva mentre Yukiko, essendo più grandicella, aveva già iniziato a utilizzare qualche strumento, dimostrando di essere una brava assistente per lei; inoltre la bambina aveva già provato ad intagliare qualche pupazzetto di legno, dimostrando così di avere del potenziale per diventare molto brava nel lavorare quel genere di materiale.

Nel vederli così presi e affascinati dal suo operato, l’anziana si convinse ancora una volta: ben presto i suoi nipoti avrebbero seguito le orme della loro famiglia.

 

 

 

«La cena è pronta!»

Yumi richiamò tutti i presenti attraverso la piccola finestra della cucina che affacciava sul giardino. Mentre nonna e nipoti erano ancora intenti ad osservare Susumu nel pieno della sua attività, sua moglie aveva imbandito la tavola come se fosse stata quella di un re: riso, pane, salsicce, formaggi vari, pollo e patate arrosto, frutta variegata e, al centro, dei piccoli dolci cremosi a forma di castagna e che brillavano per la presenza dello zucchero: i kurikinton.[2]

Così l’intera famiglia si radunò a tavola. Nel corso della cena, i bambini giocavano con Riku che era seduto di fronte e che, ogni tanto, scambiava due parole con loro - tutto questo quando Atsuko non era intenta a mangiare. L’orsacchiotto era curioso di conoscere tutti i dettagli della giornata dei due piccoli, dato che Yukiko era stata a scuola per tutto il giorno e Shingo fuori di casa per giocare nel giardino o fare una corsa lungo tutto il villaggio; intanto Yumi e Atsuko chiedevano a Susumu come fosse andato il suo lavoro, rivolgendogli domande sulle sue nuove creazioni e sulle quali il giovane artigiano non dava mai una risposta dettagliata poiché - a suo dire - doveva essere una sorpresa per tutti, anche per la sua famiglia.

Quando giunse la sera, Yumi sparecchiò e portò la torta a tavola; solo a quel punto Susumu iniziò ad intonare «Tanti auguri...» seguito dagli altri, mentre Atsuko si alzò e con scaltrezza coprì gli occhi del piccolo festeggiato.

«Ehi!» esclamò Shingo, portando le mani su quelle della nonna e cercando di toglierle per vedere cosa stava accadendo. «Lasciami, lasciami!» urlò divertito.

Atsuko fece l’occhiolino a Yumi che, insieme a Susumu e Yukiko, andarono a prendere i regali che avevano nascosto nella cucina.

«Allora, sei contento?» chiese l'anziana a suo nipote. «Ti è piaciuta questa festa?»

«Sì, nonna! Tanto tanto... però ora lasciami!»

«Invece no, perché c’è una bella sorpresa per te!»

«Allora voglio vedere la sorpresa!»

«Devi aspettare un po’, altrimenti che sorpresa è?»

«Eddai: lasciami! Voglio vedere, voglio vedere!»

Il festeggiato iniziò a divincolarsi, cercando di allargare le dita della nonna per vedere cosa stesse accadendo intorno a lui. Il piccolo udiva solo rumori e bisbigli: aveva capito che la sua famiglia stava combinando qualcosa, ed era sempre più curioso.

«Eddai, voglio vedere la sorpresa!» protestò, muovendo le gambe su e giù.

Sua nonna lo apostrofò con dolcezza: «Come dice la mamma? “Vorrei vedere la sorpresa...”»

«“... per favore!”»

«Bravo!»

Intanto Susumu, Yumi e Yukiko avevano finito di portare tutti i regali per Shingo, ponendoli sul tavolo ormai vuoto. A quel punto, l’artigiano fece cenno a sua suocera di togliere le mani dal volto di Shingo e, così, liberarlo; non appena Atsuko lo fece, subito il piccolo esultò di gioia. «I miei regali!»

Subito il piccolo allungò il braccio verso quello più vicino: una scatola avvolta in una carta ruvida dal colore rosso veneziano. «Questo è di papà: la carta è la sua! Ho indovinato?» chiese, mentre Susumu sorrise imbarazzato, portandosi una mano dietro la nuca.

«È mio e di papà,» lo corresse Yumi e poi si rivolse sottovoce a suo marito, dandogli un’affettuosa gomitata. «Guarda un po’: ormai riconosce la carta che usi a lavoro! È un furbetto... proprio come te!»

L’artigiano si limitò a ridacchiare, avvicinandosi di qualche passo a Shingo che nel frattempo stava togliendo la carta e aprendo il coperchio della scatola che aveva trovato. Il bambino spalancò gli occhi quando vide che all'interno vi erano un paio di scarpette color turchino: le aveva create proprio suo padre, vedendo che il figlio tendeva a consumare velocemente quelle che già aveva per le continue corse quotidiane per il villaggio.

«Grazie!» esclamò Shingo con grande entusiasmo, e corse dai suoi genitori per abbracciarli. «Grazie, mamma! E grazie a te, papà!»

«Queste sono speciali,» rispose Susumu, che subito lo prese in braccio. «Durano più delle altre scarpe... però, mi raccomando: ti devi fermare quando la mamma te lo dice, va bene?»

«Va bene, papà!»

Susumu lo posò per terra e, mentre Shingo corse verso il tavolo per aprire il regalo di Yukiko, sussurrò a sua moglie: «Nostro figlio dice sempre “va bene”, ma noi due già sappiamo come andrà a finire... giusto, cara?»

«Sarà un miracolo se quel paio durerà fino al prossimo compleanno!» rispose la donna con un sorriso. «E hai proprio ragione: ti stai già preparando a regalargliene un altro paio... o forse mi sbaglio?» Yumi gli fece un occhiolino di complicità, di fronte al quale Susumu rispose:

«Forse. A dire il vero ci sto ancora pensando... vogliamo scommettere invece che questo paio durerà fino all'anno prossimo?»

La donna annuì. «Ci sto!»

 

Mentre i due genitori stavano ancora chiacchierando, il piccolo festeggiato aveva preso in mano il regalo di sua sorella, avvolto in una busta di carta a fantasia floreale. Lo scartò, e vi trovò un giocattolo: una sella, con la testa di cavallo in stoffa e un palo in legno che portava alle estremità inferiori due ruote, con le quali far scorrere il giocattolo sul pavimento.

«Che bello, un cavallino!» disse Shingo, e si gettò tra le braccia di Yukiko. «Grazie, sorellina!»

Anche la bambina ne fu contenta, perché era stata proprio lei ad avere l'idea di costruire un piccolo cavallo di legno per il suo adorato fratello. Aveva chiesto aiuto alla nonna e grazie a lei, dopo tanti tentativi, era riuscita a creare qualcosa di bello ai suoi occhi: aveva impiegato mesi interi e molta fatica, ma la gioia di Shingo fu la soddisfazione più grande che lei potesse ricevere in quel momento.

«Sono felice che ti piaccia, fratellino!»

I loro genitori e la nonna li osservarono soddisfatti. Susumu fece qualche passo indietro per prendere l'ultimo regalo che ora era alle sue spalle: quello di Atsuko che, intanto, aveva preso Riku in braccio e si era avvicinata ai due bambini.

«Ora c’è il mio regalo, che bello!» esclamò l’orsacchiotto.

«Il nostro regalo, vorrai dire!» aggiunse Atsuko, guardando il peluche con fierezza. «Anzi, se proprio devo dirlo... tu non hai fatto granché!»

«Non è vero, ho aiutato la nonna!»

«E dimmi: come?» chiese Atsuko, appoggiando l'orsacchiotto sul tavolo e incrociando le braccia, fingendo di essere corrucciata. «Sentiamo un po’!»

«Ti ho suggerito l'idea!»

«E poi?»

Riku restò in silenzio, poi disse: «Ecco... ti ho suggerito anche come costruire la bi–»

L’anziana gli pose una mano sulla bocca prima che egli finisse di parlare, sotto lo sguardo divertito dei nipotini per quel piccolo siparietto. «Insomma, Riku! È ancora una sorpresa, non devi dire di cosa si tratta!»

Susumu e Yumi si avvicinarono con il regalo, e lo posarono accanto a Shingo. «E questo è l'ultimo!» disse il suo papà.

«Attento, però...» aggiunse la mamma. «Ti aiuto a togliere questa coperta... così sveliamo la sorpresa!»

Yumi e Shingo sollevarono il telo di juta, e così l’intera famiglia potè finalmente ammirare l’ultima creazione di Atsuko in tutto il suo splendore: una bicicletta dal telaio interamente in legno.

Il festeggiato la ammirò con occhi pieni di stupore misto a felicità. «Che bella!» disse il piccolo, per poi correre dalla nonna e, stringendola a sé, ringraziarla più volte per quello splendido regalo.

«Ti piace?» gli chiese Atsuko, commossa di fronte alla contentezza del suo nipotino.

«Sì! È bellissima!»

«Ora puoi andare per il villaggio senza più correre e basta, così ti stancherai di meno!»

«Invece no!»

Shingo si staccò dall'abbraccio, e corse in un angolo della stanza. Si voltò verso la sua famiglia e, dopo aver preso un profondo respiro, esclamò: «Anche con questa bicicletta non mi stancherò! Correrò e correrò... e non mi fermerò mai!»

 

 

Note dell'autore:

[1] 「夢の虹」, letteralmente "L’arcobaleno dei sogni".

[2] I kurikinton sono dei dolci tradizionali della prefettura di Gifu: piccoli panetti dolci fatti di castagne e zucchero; qui trovate la ricetta.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Eccoci giunti al sesto appuntamento di The feathers on the wings of time! Ormai siamo dentro le vite di questi due piccoli protagonisti che stanno crescendo sempre di più... oggi è la volta di Shingo, che fa sfoggio di una delle sue abilità: la velocità. Ho sempre immaginato che abbia sempre amato correre, fin da bambino, mentre riguardo il particolare della bicicletta... beh: ricordate la puntata 37 del J, dove vediamo Shingo pedalare per raggiungere lo stadio? Dovete sapere che invece io non ricordavo di questo particolare e prima di (ri)vedere quella puntata ho scritto la parte sul regalo della bicicletta della nonna così, senza pensare se ci fossero eventuali riferimenti nell'opera originale. Potete immaginare la mia sorpresa mista a gioia quando ho visto quella puntata: è stata una bella coincidenza! ;D

Come sempre, prima di proseguire vi presento la sesta "appendice" dei nomi, che riguardano i membri della famiglia di Atsuko (anche in questo caso non ci sono più da un bel pezzo, sigh) più il ragazzino che rischia di perdere il suo pallone:

 

- Kunio 「國男」 era il marito di Atsuko. È stato il creatore di molte case e altre strutture di Nakahara, dunque uno di quei personaggi che ha lasciato un grande segno per l'evoluzione architettonica dell’intera cittadina. Il suo nome significa "ragazzo delle campagne".

- Katashi 「堅」 era il padre di Atsuko. È stato un abile artigiano, specializzato nell'intagliare il legno. Il suo nome significa "fermezza".

- Shinju 「真珠」 era la madre di Atsuko. Una grande ceramista, proveniva da una famiglia di costruttori di giocattoli vari in legno e tessuto; si era appassionata alla ceramica grazie ad una sua amica di scuola, che invece proveniva da una famiglia di ceramisti. Tutti i membri della sua famiglia erano abili ventriloqui, ed è proprio grazie a loro che è nato l’orsacchiotto Riku che, come ormai sapete, è passato prima ad Atsuko e poi ai suoi nipoti. Il suo nome significa "perla" - in combinazione con quello della sorella.

- Kohaku 「琥珀」 era la sorella di Shinju e la zia di Atsuko. A differenza di sua sorella, Kohaku ha portato avanti la tradizione della sua famiglia, continuando a costruire giocattoli e ad insegnare l'arte del ventriloquo ai suoi figli e nipoti. Il suo nome significa "ambra".

- Yuito 「結翔」 è uno dei due ragazzini che incontra Shingo. Ama giocare a calcio ma è un po' imbranato con il palleggio, infatti insieme al suo amico spesso fa finire il pallone nel fiume... Il suo nome significa "saltare, volare".


 

E ora qualche precisazione che non ho inserito nelle note dell'autore.

- Come già accennato nelle note del primo capitolo su Shingo, Gifu e il suo territorio sono la patria dell'artigianato in Giappone. E qui si inserisce la storia degli Aoi, che sono - di fatto - degli artigiani! Ora vi chiederete come ho avuto l'idea che i genitori di Shingo fossero proprio artigiani: il primo motivo si ricollega a ciò che ho appena detto, cioè che il territorio di Gifu è rinomato per essere la culla di botteghe e attività artigianali che affondano le loro radici indietro nel tempo, e popolato da piccoli centri urbani che per la loro costituzione sembrano provenire direttamente dal passato. Il secondo motivo è un "input" che mi ha dato Takahashi attraverso dei piccoli spunti sulle abilità di Shingo: il fatto che sappia lucidare le scarpe e adori farlo (va bene che possono farlo tutti, ma che lo sappia fare un quindicenne è lodevole **) e che in seguito costruisca la "Shingo special number 1", un intero sistema di allenamento creato con pezzi di scarto per migliorare la sua prestazione fisica; per non parlare del pupazzo-Gentile che crea appositamente per sconfiggere il suo avversario... cioè! X'D Ad ogni modo sono partita da questi piccoli punti per iniziare a costruire un mondo intorno a lui che, come avete letto, è fatto interamente di artigianato...

- ... a tal proposito, in questa parte viene approfondita la storia della famiglia di Atsuko, dove ritroviamo altri abili artigiani. In questo caso nella sua famiglia - da parte della mamma - vi erano creatori di giocattoli per bambini, ma sua madre Shinju è diventata una ceramista nonostante i suoi genitori non lo fossero; così ad insegnarle l'arte del ventriloquo è stata soprattutto la zia, senza però dimenticare che Shinju stessa non abbia mai abbandonato la sua passione verso quell'affascinante arte. Sulla ventriloquia dovete sapere che al mondo esistono ventriloqui che riescono ad emettere suoni senza muovere le labbra o addirittura gli stessi muscoli del corpo (un'operazione molto, molto difficile), e Atsuko appartiene a questa categoria.

- Per descrivere i tipi di alberi che possono crescere in una zona come quella di Nakahara, situata in montagna, mi sono aiutata con questo link tratto da un forum sul giardinaggio... ops. ;D

- Riguardo la bottega/negozio di Susumu, "Yume no niji" (cioè "L'arcobaleno dei sogni"), il nome è nato per caso. Però l'ho amato fin da subito perché rispecchia proprio ciò che chiunque può trovare al suo interno: svariati prodotti di alto artigianato, dalle cose più utili... ai piccoli oggetti da collezionare!

- Se volete avere un'idea dei regali in legno che ha ricevuto il piccolo Shingo, Per avere un’idea del cavallino che Shingo ha ricevuto in dono da Yukiko, ecco un esempio: qui potete trovare un riferimento al cavallino di Yukiko, mentre qui la bicicletta della nonna, ovviamente su misura per lui. Sì, le biciclette con un telaio in legno esistono per davvero e sono molto belle :3

 

Detto questo, avete notato che nella mia storia c'è una sottile differenza tra Yuzo e Shingo sullo sviluppo delle loro rispettive passioni per il calcio? Yuzo è appassionato fin da piccino, mentre Shingo si sta avvicinando a poco a poco a questo mondo. In realtà questa differenza non è nata per caso: in questa storia Yuzo vive in un contesto dove il calcio è molto forte (la prefettura di Shizuoka, con lo zio che lavora al S-Pulse Dream Plaza e sa vita, morte e miracoli della J.League, i genitori che gli regalano ogni cosa a tema calcio e un amico d'infanzia appassionato come lui), mentre Shingo si muove in un contesto dove l'artigianato è l'elemento essenziale (piccola anticipazione per chi non ha ancora letto il World Youth: pensate che, anni dopo, i suoi stessi genitori non sanno ancora cosa significhi la parola "assist"... con un figlio calciatore! XDD) Perciò, riguardo la parte di Shingo, vedrete che da qui in poi le cose inizieranno lentamente a cambiare... e ben presto la parola "calcio" entrerà sempre più nella vita degli Aoi insieme a quella dell'artigianato: a poco a poco ci arriveremo. :3

Come sempre ringrazio tutti coloro che sono giunti fino a qui, ci vediamo al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 7
*** Contatto - Nove anni | Morisaki's side ***


Fanfiction
xaaVtLb

Contatto

{Nove anni | Morisaki's side}

 

 

BGM: Yiruma - 이루마 - Do you?

 

 

 

[12 Marzo. Nankatsu, prefettura di Shizuoka.]

 

Pioveva molto quel giorno. A Nankatsu la stagione delle piogge sembrava essere iniziata in largo anticipo: quell’anno, dall’inizio di marzo, erano più i giorni di pioggia che quelli di sereno, al punto che tutti ormai avevano iniziato a fare l’abitudine e si recavano da un punto all’altro della città portando un ombrello sempre con loro. Nonostante in quelle ultime settimane la pioggia battente stesse facendo da sottofondo alle loro attività scolastiche, per tutti i bambini erano gli ultimi giorni di lezione, e ogni volta che uscivano da scuola già sentivano nell’aria l'atmosfera frizzantina dell’imminente arrivo della pausa primaverile.

Anche quel giorno era così, uguale a tutti gli altri in quella cornice uggiosa. Ciononostante Yuzo era felice, così come lo erano i suoi compagni di scuola: non gli importava del fatto che quel pomeriggio non avrebbe giocato nel cortile di casa con il suo amato pallone a causa della pioggia, perché aveva già pronta un’alternativa con la quale ingannare l’attesa prima della cena. Non sarebbe stato facile contenere la sua eccitazione, perché era pur sempre il giorno del suo compleanno: sia con la pioggia che con il sole, ogni anno la sua famiglia riusciva a renderlo speciale, a cominciare dai suoi fratelli e dalla sua sorellina con i quali avrebbe giocato per molte ore, e i suoi genitori che gli stavano preparando una grande festa insieme allo zio Noboru. Se avesse smesso di piovere, quel giorno Yuzo avrebbe fatto un salto al tempio di famiglia dove ad attenderlo vi sarebbero stati i nonni paterni e lo zio Hotaka, e con i quali avrebbe festeggiato nella piccola abitazione che si trovava nei pressi della sacra dimora delle divinità; non sapeva ancora se ci sarebbe stata la possibilità di vedere anche i nonni materni oppure li avrebbe incontrati solo qualche giorno dopo a causa del loro lavoro, ma in qualche modo il piccolo avrebbe avuto modo di giocare e divertirsi con ciascun membro della sua famiglia.

Ma quel giorno pioveva molto e sembrava non accennare a smettere. Con quel tempaccio, di certo Yuzo non sarebbe mai riuscito ad allenarsi con il suo pallone nel cortile o andare al jinja di famiglia... ma avrebbe potuto giocare con i suoi fratelli nell'ampio soggiorno o leggere nella cameretta, e in questo modo passare il tempo. Così, con lo zainetto sulle spalle, Yuzo attraversò i lunghi corridoi della scuola elementare, diretto verso la biblioteca che era situato all’interno della struttura.

Dalle finestre era ben visibile il grande campetto di calcio della Shutetsu: quel giorno era chiuso a causa della pioggia incessante, che non avrebbe mai permesso alle varie squadre della scuola di allenarsi come si deve. Solitamente Yuzo si recava proprio lì quando finiva le attività scolastiche, per ammirare i bambini più grandi esercitarsi in vista delle varie partite che avrebbero svolto nel corso dell’anno scolastico. Anche se era ancora piccolo per poter entrare nel club di calcio e per questo doveva attendere ancora qualche mese, come tanti altri bambini era un grande tifoso delle cinque squadre della scuola, e non mancava occasione per sedersi sugli spalti e tifare per i suoi senpai che ce la mettevano tutta per mantenere alto l’onore della scuola.

Yuzo fermò il suo passo, prima di svoltare l’angolo del corridoio che stava percorrendo.

Si affacciò dalla finestra e, nonostante la pioggia fitta, restò fisso ad osservare il campetto mentre la pioggia continuava a battere contro i vetri. Nel giro di un paio d’anni, anche per lui sarebbe arrivato il momento tanto atteso: quello di poter dare un piccolo contributo per la forza della squadra della quale avrebbe fatto parte, per portare alto l’onore e il prestigio della scuola.

 

Mentre si stava dirigendo verso l'ingresso della biblioteca, Yuzo vide da lontano la presenza solitaria di un altro bambino, appoggiato con la schiena al muro e immerso nella lettura di un libro. Lo sguardo era assorto sulle pagine, e quel piccolo non sembrava minimamente essersi accorto di lui che gli si stava avvicinando.

Incuriosito, Yuzo si fermò. Era la prima volta che lo vedeva: la scuola era molto grande e, sebbene gli alunni delle stesse classi si mescolassero di anno in anno, non l’aveva ancora avuto come compagno di sezione. A giudicare dal suo aspetto, quel bambino sembrava avere la sua stessa età, ma Yuzo pensò che potesse essere anche più grande: non poteva saperlo con certezza... almeno finché non avrebbe scambiato qualche parola con lui.

Però, Yuzo era molto timido di carattere e difficilmente riusciva a prendere l’iniziativa quando si trattava di prime conoscenze. Se ci fosse stato il calcio di mezzo sarebbe stato più semplice iniziare una conversazione, ma quel bambino era talmente preso dalla lettura che chissà se anche un semplice saluto lo avesse infastidito.

E se... e se non vuole essere disturbato?

Yuzo riprese a camminare e quando gli fu più vicino mormorò un «B-Buon pomeriggio...» di fronte al quale non ricevette subito una risposta. Aveva ipotizzato bene: quel bambino era troppo assorto nella lettura.

Yuzo abbassò la testa e, in silenzio, stette per passargli avanti...

Proprio in quel momento l’altro chiuse il libro e, senza alzare il suo sguardo, si voltò nella direzione dalla quale stava provenendo Yuzo. Nel farlo si urtarono inavvertitamente spalla a spalla: per loro fortuna nessuno dei due stava correndo o camminando velocemente, così entrambi riuscirono a rimanere in piedi senza farsi male.

«Ti... ti chiedo scusa!» esclamò Yuzo, inchinandosi più volte in segno di scuse. «È colpa mia: non mi sono spostato!»

L’altro gli sorrise tranquillo, come se non fosse successo niente. Chinò leggermente il capo e disse: «Non importa... non ti sei fatto male, vero?»

«N-No...»

Yuzo alzò gli occhi e li puntò su di lui. Ora che lo stava osservando meglio, aveva avuto la conferma che non aveva mai visto prima quel bambino: aveva i capelli neri e gli occhi verdi, era alto proprio come lui, e stava indossando la sua stessa divisa.

Per qualche secondo tra i due calò il silenzio: tranquillo per quel bambino che stava continuando a sorridere; assordante per il povero Yuzo che non sapeva se fosse stato il caso di proseguire verso la biblioteca o meno. Più il piccolo Morisaki lo guardava, e più si sentiva in imbarazzo a causa della sua timidezza: gli sembrò che anche il suo semplice respiro fosse rumoroso come un urlo, in grado di propagarsi per l’intero corridoio.

«Hai bisogno di aiuto?» gli chiese quel bambino, senza battere ciglio.

«N-No, grazie. Ora devo andare, ciao!»

In un lampo Yuzo superò quel bambino e si allontanò a passo spedito, ma subito l’altro gli urlò: «Ehi, dove stai andando?»

Yuzo si fermò. Senza voltare le spalle, rispose: «Alla... alla biblioteca...»

«Anch’io! Possiamo andarci insieme, se vuoi!»

A quell’affermazione Yuzo sentì il suo cuore accelerare sempre più. Un bambino che non conosceva, di una sezione diversa dalla sua e forse anche di un anno diverso dal suo, gli stava chiedendo di percorrere lo stesso tragitto fianco a fianco, forse anche scambiando qualche parola in più per conoscersi meglio.

In entrambi i casi non ci sarebbe stato nulla di male ad andare in biblioteca con quel bambino che non conosceva... giusto?

«S... sì! Va bene!»

«Però la biblioteca non è di là... è dall’altra parte...»

Yuzo alzò lo sguardo, che fino a quel momento aveva continuato a tenere abbassato. Non appena rivolse gli occhi verso il fondo del corridoio, constatò che quel bambino aveva ragione: aveva preso la direzione sbagliata, verso l’uscita della scuola!

Con sguardo più sereno si incamminò verso l’altro e gli sorrise imbarazzato. «Eheheh... hai proprio ragione!»

 

I due bambini giunsero all’ingresso della biblioteca e Yuzo spinse la maniglia della porta, come faceva sempre per entrare in uno dei luoghi che amava di più al mondo, ma si sorprese del fatto che la porta non si aprì.

«Oh, no... è già chiusa!»

L'altro bambino, che fino a quel momento aveva seguito Yuzo in silenzio, era rimasto piuttosto sorpreso del fatto che la biblioteca avesse chiuso in anticipo. Sulle loro teste, un piccolo cartello bianco era affisso con l’annuncio dell’anticipata chiusura.

[A causa della riunione degli impiegati, la biblioteca resterà chiusa nel pomeriggio. Ci scusiamo per il disagio.]

«Accidenti...» mormorò quel bambino, stringendo i suoi pugni. «Questa non ci voleva... proprio oggi!»

«Già...»

Yuzo divenne triste di fronte a quell’improvvisa notizia. Giorni prima si era recato in quel luogo e aveva prenotato un libro che voleva leggere per la pausa primaverile; non vedeva l’ora di averlo già tra le mani, e per questo motivo non gli andava di attendere ancora per qualche giorno.

Gli venne da piangere. «Non è giusto... proprio oggi che è il mio compleanno, e fuori piove: non posso vedere gli allenamenti della squadra, né uscire nel mio cortile a giocare a pallone... e oggi non posso nemmeno leggere il libro che avevo chiesto in prestito!»

«Hai detto “pallone”

L'altro bambino si incuriosì. «Anche a me piace giocare a pallone... ma quale sport? Pallavolo, rugby...»

«Calcio! Sai... mi sto esercitando tanto per entrare in una delle squadre di calcio come portiere!»

La risposta di Yuzo fu talmente colma di candore che colpì il suo interlocutore: i suoi occhi brillavano di una gioia che non aveva mai visto nei suoi compagni di sezione, ma solo in alcuni senpai che già militavano nelle varie squadre. Ogni pomeriggio suo padre, il preside della scuola, lo accompagnava dopo le lezioni nei pressi delle panchine del campo e da lì il piccolo vedeva il modo in cui i giocatori si allenavano in vista delle partite che avrebbero dovuto affrontare. I suoi compagni di sezione non sembravano essere molto interessati al calcio e, anzi, dall'anno successivo volevano entrare a far parte di altri club dove il pallone non era il protagonista come il kendo[1] e il kyūdō[2]; per lui non sarebbe stato un grosso problema, dato che le classi si sarebbero di nuovo mescolate e lui avrebbe dedicato parte del pomeriggio a ciò che piaceva; l’incontro con quell'altro bambino al quale piaceva così tanto il calcio gli aveva portato sorpresa e gratificazione, perché si era imbattuto in qualcuno con il quale condividere la sua stessa passione, in tutto e per tutto.

Anche lui vuole essere un portiere...

Aveva iniziato a capire che non sarebbe finita lì per entrambi: la loro scuola era molto grande ma di sicuro si sarebbero incontrati di nuovo, forse proprio nel club di calcio. Chiuse gli occhi e sorrise. «Beh... sono felice. Anche a me piace molto il calcio, e non vedo l’ora di entrare a far parte della squadra!»

«Anche tu?!»

«Sì. Per questo motivo tutti i giorni, prima di tornare a casa e allenarmi, vengo qui, in biblioteca: non sai quanti libri e video di calcio ci sono qui dentro! Di tutto e di più... da restarci per giorni interi!»

«Davvero?!»

«Certo! Pensa che un giorno mi sono messo anche nei guai con i miei genitori proprio per questo fatto: hai presente la piccola televisione che c’è in biblioteca e che noi usiamo per guardare i video? Devi sapere che una volta mi sono messo a guardarla per ore e ore, senza più tornare a casa... al punto che mio padre è stato costretto a regalarmi l'intera edizione dei video del calcio mondiale pur di non restare in biblioteca per sempre! Non puoi immaginare la gioia quando ho visto quel grande pacco tra le braccia di papà: lo desideravo così tanto!»

Yuzo stava osservando quel bambino con sempre più crescente stupore e ammirazione. Aveva incontrato un suo simile che sembrava essere molto appassionato di calcio al punto da arrivare ad isolarsi dal resto del mondo... proprio come lui.

Chissà - pensò - se un giorno avrebbero avuto la fortuna di capitare nella stessa squadra. A lui avrebbe fatto molto piacere, con tali premesse...

Yuzo gli restituì un sorriso colmo di dolcezza, per poi dire: «Se ti va... domani pomeriggio possiamo incontrarci qui. Io devo tornare perché devo ritirare il libro che ho chiesto in prestito...»

«Ti piace leggere?»

«Sì, molto!» rispose Yuzo, con uno sguardo sempre più felice. «Mi piacciono molto le storie d’avventura, di magia... ma le mie preferite sono quelle sul calcio!»

«Anch’io!» esclamò quel fanciullo, e indicò il libro che portava in una mano. Amava tutti i libri sul calcio, che fossero volumi enciclopedici o semplici racconti di vita quotidiana, e al termine delle lezioni non perdeva occasione per immergersi nella biblioteca della scuola dopo aver chiesto informazioni sui libri da consultare all’impiegato che trovava all’ingresso: anche se a casa ne aveva molti sull’argomento, amava quella convivente atmosfera di serenità e di caos tipica della sua scuola. Inoltre a casa era l’unico che amava il calcio e, anche se nella biblioteca scolastica aveva incontrato qualcun altro con il quale poter condividere le proprie impressioni, nessuno in quel luogo sembrava essere interessato all’argomento come lo era lui.

«Vedi,» proseguì, «oggi ho finito di leggere questo libro: è molto bello, parla di un bambino che vuole diventare un grande campione di calcio! Solo che oggi dovevo riportarlo qui e non a casa... ieri mi è stato detto che l’avevano già prenotato, e lo credo: è un libro davvero bello!»

«Posso vederlo?»

«Certo! Devi leggerlo, sai? A me è piaciuto molto: un giorno spero tanto di essere come il protagonista!»

Yuzo prese in mano il libro che l'altro gli stava offrendo: la copertina raffigurava un bambino che stava saltando mentre calciava il suo pallone, e come sfondo i palazzi di una città. Il piccolo studente spalancò gli occhi per la grande sorpresa: nel leggere il titolo... quel libro era infatti proprio lo stesso che aveva prenotato in biblioteca.

“Il mio sogno.”

Nel vedere lo sguardo di Yuzo così fisso al libro che teneva tra le mani e senza dire una parola, gli domandò: «Ti piace?»

«È... è il mio libro!»

Il bambino fu colto di sorpresa per quell'affermazione. «Come?»

«È questo! È proprio quello che oggi dovevo ritirare in biblioteca!» rispose Yuzo, mostrandogli il libro con grande soddisfazione. «È proprio lui! Posso tenerlo, per favore? Ti prometto che domani diremo tutto al ragazzo all’ingresso... però sai: non vedo l'ora di leggerlo!»

L'altro annuì, ma ad un tratto gli strappò il libro dalle mani.

«Ehi!» esclamò Yuzo con disappunto e stette per replicare, ma subito si calmò quando udì da quel bambino una leggera risata.

«D'accordo... te lo darò, ma ad una condizione.»

«Cioè?»

«Il tuo nome. Come ti chiami?»

«Vuoi sapere il mio nome... e poi mi darai il libro?»

«Hai la mia parola: da questa sera il libro sarà tuo.»

Yuzo esitò prima di rispondere, ma poi ricacciò dentro tutta la sua timidezza. In fondo, anche lui era molto curioso di sapere come si chiamasse il bambino con il quale stava parlando. Chinò leggermente la schiena e mormorò: «Mo... Morisaki Yuzo. Sono della 3-C...»

«Morisaki?»

«Proprio così! Si scrive con i kanji di “foresta” e “promontorio”...»

Il bambino sgranò gli occhi, e lo fece per due motivi: il primo riguardava che quello Yuzo avesse la sua stessa età, anche se era capitato in una sezione diversa; il secondo, invece, era che quel cognome non gli fosse del tutto nuovo. Anzi, il fatto che Yuzo gli avesse detto come si scrivesse il suo cognome stava alimentando ancora di più ciò al quale stava pensando. «Per caso...» iniziò a chiedergli. «Per caso hai a che fare con i Morisaki del jinja della montagna?»

«Sì: sono il nipote del kannushi! Cioè... mio nonno è il fratello del kannushi, però sono sempre suo nipote!»

Quel bambino non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito. Quell’affermazione aveva fugato ogni dubbio: Yuzo era parente proprio di quei Morisaki! Ad essere più precisi era un loro diretto discendente, e in più amava il calcio come lui...

... che buffa coincidenza!

Il bambino chinò leggermente la schiena, come se volesse anche lui presentarsi. Poi mise le mani nelle tasche dei pantaloni e, dopo aver mostrato un sorriso compiaciuto, voltò le spalle a Yuzo. «Invece io sono della 3-A... e sono felice di averti incontrato. Allora ci vediamo domani qui, dopo la lezione... così diciamo al ragazzo all’ingresso che siamo riusciti a scambiarci il libro anche se la biblioteca era chiusa.»

Mentre stava per allontanarsi da lui, Yuzo lo chiamò. «Aspetta! Non mi hai detto come ti chiami... posso saperlo, per favore?»

Quel bambino arrestò il suo passo e si voltò di nuovo verso Yuzo, ancora sorridendogli. In realtà aveva fatto apposta a non presentarsi prima: voleva vedere se Yuzo fosse stato così interessato ad incontrarlo ancora, oppure se una volta avuto il libro che tanto desiderava lo avesse lasciato perdere. Ci aveva visto giusto, quando lo aveva guardato negli occhi: dopo l’iniziale momento di timidezza, Yuzo ci teneva molto a continuare quel legame di conoscenza che si era appena instaurato tra loro.

Tutto ciò aveva inaspettatamente rallegrato il suo animo. Yuzo gli sembrava un bambino interessante, e non vedeva l’ora di continuare a parlare con lui.

«Hai ragione. Io sono Wakabayashi Genzo, e la mia classe è la 3-A.»

«Wakabayashi?! Sei parente del preside della scuola?»

Ora era Yuzo ad essere stato colto di sorpresa, e il piccolo si aspettava che l’altro gli desse una risposta a quella domanda. Invece lo vide solo sorridere e riprendere il suo cammino, alzando la mano destra come se avesse voluto salutarlo silenziosamente.

Di fronte a quella scena Yuzo strinse a sé il libro e lo ringraziò con molto entusiasmo. «Grazie per il libro, Wakabayashi-san! Grazie mille! A domani, ciao!»

Mentre si stava allontanando sempre più da Yuzo, Genzo mise di nuovo la mano in tasca e si lasciò sfuggire un piccolo sbuffo divertito. Non sapeva ancora nulla di quel bambino che aveva appena incontrato ma, per un attimo, aveva percepito nel suo sguardo una luce diversa, tipica di chi non vuole arrendersi mai.

Proprio come lui.

 

 

Dopo aver posto accuratamente il libro nello zaino, Yuzo aprì l’ombrello e uscì da scuola. La pioggia era ancora intensa, ma al piccolo non importò: era felice perché era riuscito a recuperare il libro che gli interessava, e anche perché aveva conosciuto qualcuno che sembrava essere molto appassionato al calcio, con il quale poter trascorrere qualche pomeriggio in biblioteca... e, un giorno non molto lontano, entrare a far parte dello stesso club.

Nella classe di Yuzo vi erano alcuni bambini che avevano grande curiosità sul calcio, ma nessuno di loro era così patito come lui: Yuzo era l’unico a voler entrare nel club calcistico per essere un vero e proprio giocatore, mentre gli altri erano più interessati ad essere tifosi o, restando al fianco dell'allenatore, imparare le basi solo per divertirsi con la squadra della quale avrebbero fatto parte.

In una scuola grande come la Shutetsu, Yuzo aveva imparato a capire che non sarebbe stato l’unico ad essere così appassionato di calcio: nelle varie sezioni c’erano altri bambini che avrebbero aspirato a essere dei giocatori di calcio, e grazie all’incontro casuale con quel Wakabayashi aveva iniziato ad esserne più certo.

Yuzo non vedeva l’ora di potersi confrontare con loro quanto prima: mancavano ancora molti mesi per l’iscrizione al club, però la sua mente era già proiettata a quel momento... ed era così proiettata e talmente immersa che non si accorse subito del fatto che qualcuno gli avesse colpito la testa in modo delicato.

«Ciao, com’è andata oggi?»

Solo quando udì quella voce, Yuzo si voltò. Alle sue spalle Ken'ichi aveva arrotolato tra le mani il giornalino della scuola, con il quale aveva appena sfiorato la sua testa con sguardo fiero: il fratello maggiore indossava la sua stessa divisa scolastica con un cappellino alla pescatora che gli era stato dato proprio per le giornate di pioggia incessante.

Yuzo lo guardò contento prima di rispondergli. «Tutto bene! Ho anche incontrato un altro bambino che ama il calcio, tanto come me!» Poi si guardò intorno, prima di proseguire: «Ma... sei da solo? Dov’è l’altro fratellone, è già tornato a casa?»

Ken'ichi indicò davanti senza dire una parola. Lontano da loro, seduto su una panchina posta sotto una pensilina, Takaji stava dondolando le sue gambe mentre aveva gli occhi rivolti verso il marciapiede, con aria malinconica.

«Non ho capito cos’ha,» aggiunse Ken'ichi. «È da quando è uscito che si è seduto laggiù e non ha detto nulla. Gli ho chiesto cosa è successo ma non mi ha risposto: sembra essere molto triste per qualcosa...»

I due fratelli si avvicinarono a Takaji che continuava a tenere lo sguardo fisso per terra, senza nemmeno salutare il suo amato fratellino. Yuzo lo prese per mano e gli disse con la sua solita aria allegra: «Torniamo a casa?»

Il mezzano non proferì parola. Mugugnando qualcosa di incomprensibile di tanto in tanto, non staccò mai gli occhi dal marciapiede ed era così disinteressato all’affettuosa richiesta di Yuzo, al punto che anche quest’ultimo iniziò a preoccuparsi.

«Cosa c’è, fratellone?» chiese il più piccolo dei fratelli. «Perché sei così triste? Ti hanno preso in giro a scuola?»

Takaji smise di ciondolare le gambe e nascose il volto tra le mani, sembrando che stesse per piangere. Quando Yuzo si affiancò a lui, sedendosi accanto, quest’ultimo aprì di scatto le mani verso di lui e fece una smorfia divertente. «Buh! Scherzetto!»

Il gesto improvviso colse di sorpresa Yuzo che, nonostante il gran spavento, riprese subito il fiato che gli era stato mozzato. «Mi sono spaventato!» piagnucolò il minore dei fratelli, incrociando le braccia e corrugando la fronte. «Non è giusto!»

«Ahahah, ci sei cascato! Ci sei cascato!»

Takaji si alzò dalla panchina compiaciuto per lo scherzo e si avvicinò ulteriormente a Yuzo: stette per mettergli una mano sulla spalla per rincuorarlo, ma l’altro gli voltò le spalle con sguardo seccato.

«Eddai, fratellino: non fare così!» disse il mezzano. «Oggi è il tuo compleanno, non c’è bisogno di essere tristi!»

«Anche perché un certo Takaji ha altro per cui essere “triste”, vero?» Ken'ichi gli rivolse un sorriso beffardo e fece un risolino. «Guarda che mamma e papà non sono scemi, eh: ti devi impegnare di più a scuola!»

«Ma non mi piacciono tutte le materie!» rispose Takaji annoiato. «Adoro tantissimo il kendo... ma odio la matematica: i problemi sono così difficili!»

Sia Yuzo che Ken'ichi trattennero una risata. Il maggiore dei fratelli sorrise nel vedere quel guizzo di felicità tornare tra le labbra del suo fratello minore: aveva detto quelle parole non solo per prendere in giro Takaji, ma soprattutto per rendere felice Yuzo. Ken'ichi constatò che il mezzano aveva ragione: il suo amato fratellino non doveva aver motivo di essere triste, perché quello era il giorno del suo compleanno... ed egli, da sangue del suo sangue, amava quando le labbra di Yuzo formavano un dolce sorriso. La felicità del fratellino era così contagiosa sia per Ken'ichi che per Takaji che, se fosse stato per loro, avrebbero trascorso insieme a lui anche le ore di scuola.

Il maggiore dei fratelli iniziò ad incamminarsi verso casa, facendo cenno agli altri due di seguirlo. «Dai, andiamo!»

Ken'ichi sorrise nel vedere con la coda dell'occhio i suoi fratellini che, anche sotto la pioggia, amavano giocare e battibeccarsi amorevolmente tra loro. Quelli erano anche i suoi ultimi giorni di scuola, e per lui quel periodo stava avendo un significato diverso rispetto agli anni precedenti: a breve avrebbe intrapreso il percorso delle medie e ciò significava che, dal momento in cui sarebbe ricominciata la scuola, anche se le rispettive strutture delle elementari e medie erano adiacenti tra loro, molto probabilmente non avrebbe più condiviso quella passeggiata quotidiana con i suoi fratelli. Li avrebbe comunque rivisti a casa, ma non sarebbe stato più lo stesso: per questo motivo Ken'ichi non perdeva occasione per trascorrere quanto più tempo possibile con Takaji e Yuzo anche subito dopo la fine della giornata scolastica. Era molto affezionato a loro, e si chiedeva cosa avrebbero combinato da soli lungo la strada del ritorno a casa.

Gli venne da pensare che, di certo, a loro due la sua presenza sarebbe mancata molto.

 

 

 

Venuta la sera Yuzo si era ritirato nella sua stanza, preparandosi per andare a letto. La giornata si era conclusa in modo splendido per lui: anche se non era riuscito ad andare nel cortile per giocare con tutti i suoi fratelli, sua mamma aveva allestito il soggiorno in modo tale da creare una vera e propria area di gioco, spargendo sul divano i peluche dei piccoli e rivestendo il pavimento con un tappetino morbido e non scivoloso. Lì Yuzo si era divertito con loro finché, al rientro del suo papà, si era riunito con tutta la famiglia intorno al tavolo della cucina, al centro del quale vi era un gustoso cheesecake al cioccolato che aveva inviato sua nonna Chiharu nella mattina.

Dopo aver aperto i regali e lavato i denti Yuzo aveva salutato il papà e i fratelli, per poi tornare nella sua cameretta. Si infilò il pigiama e si coricò nel letto, rivolgendo lo sguardo verso la porta: aspettava infatti la mamma, che andava in ogni stanza dei suoi figli per augurare loro la buonanotte, e ormai conosceva molto bene il giro che faceva, perché era solita andare prima dai fratelli maggiori Ken'ichi e Takaji per poi arrivare da lui e sua sorella Hanako.

Infatti, come aveva ben previsto, dopo qualche secondo la porta si aprì: sua madre entrò nella sua cameretta e gli si avvicinò, sedendosi al suo fianco. «Allora, come è andata oggi?»

«Bene, mamma!» rispose lui felice. «E ho anche preso in prestito un libro dalla biblioteca!»

«Ah, che bravo!»

Gli occhi di Izumi brillarono d’orgoglio nei suoi confronti. Tra i tre figli, Ken'ichi e Yuzo erano quelli che amavano molto leggere e studiare, a differenza di Takaji che, invece, sembrava essere interessato ai libri solo quando avevano come argomento la natura. Ma in realtà, anche se non lo dava molto a vedere per timore di gelosie tra i fratelli, la donna era segretamente fiera del più piccolo poiché la sua passione per il calcio non stava intaccando la sua voglia di studiare, con brillanti risultati a scuola.

Con tali premesse Izumi pensò che, se un giorno suo figlio avesse deciso di non giocare a calcio, probabilmente avrebbe avuto comunque un futuro roseo in qualsiasi tipo di lavoro.

Se un giorno non vorrà essere un calciatore, sarebbe bello se diventasse un professore come il mio Hideki... ma non importa: qualunque cosa deciderà di fare, sarò sempre orgogliosa di lui... purché lo faccia bene!

Izumi arruffò i capelli a Yuzo e gli chiese: «Di che libro si tratta?»

«Il maestro ci ha detto di leggere una storia durante le vacanze primaverili,» rispose allegramente il fanciullo. «Così ho scelto la storia di un bambino che vuole diventare un grande calciatore... proprio come me!»

«Bene! Sono certa che lo finirai in un attimo, mio piccolo campione

Yuzo diede una leggera risata, di fronte alla quale sua madre non riuscì a trattenere un sorriso. «Buonanotte Yuzo,» disse lei, mentre si alzò dal letto di suo figlio. «Sogni d’oro.»

«Buonanotte, mamma.»

Subito il bambino si girò sul fianco. Dopo avergli accarezzato i capelli, Izumi gli diede un bacio sulla fronte e uscì dalla sua cameretta.

Tuttavia, quella sera Yuzo non aveva voglia di addormentarsi subito: ci teneva a terminare la lettura del libro che gli era stato dato a scuola così, cercando di non fare molto rumore, andò verso la scrivania e lo prese dal suo zaino; dopo aver preso un segnalibro al quale era attaccata una piccola luce che subito accese, si infilò nuovamente sotto le coperte. Aprì il libro che aveva in mano e iniziò a leggerlo, quasi divorando le pagine: il tempo sembrava essersi fermato, imbottigliato in quell'atmosfera silenziosa che la notte aveva portato nella casa.

Quando giunse a pagina venti, ad un certo punto Yuzo sentì aprire la porta della sua cameretta: nell’udire quel leggero rumore e nel vedere la porta che si stava lentamente muovendo, subito spense la lucina del segnalibro e nascose il libro sotto il cuscino, credendo che fosse tornata sua madre. Lei non l’avrebbe mai rimproverato di brutto per ciò che stava facendo ma, conoscendola, avrebbe iniziato a dirgli che non era l’orario adatto per leggere, che il riposo era importante se voleva crescere e diventare un grande campione, e altre cose del genere... pur di interrompere la lettura e vederlo immerso nel mondo dei sogni.

Invece, con grande stupore di Yuzo, colei che ora si trovava sulla soglia della porta non era sua madre, bensì sua sorella Hanako: non le era stato difficile arrivare alla maniglia e abbassarla, poiché era abbastanza alta per arrivarci, e per questo non era ciò che aveva colto di sorpresa il bambino, ma piuttosto il fatto che per il tardo orario la piccola fosse ancora sveglia e, per di più, che fosse riuscita a raggiungere la sua stanza da sola senza essere sorvegliata dai loro genitori.

Hanako si stava stropicciando gli occhi per il sonno e, portando con sé un peluche a forma di gatto, si avvicinò al letto del fratello.

«Cosa c’è, sorellina?» chiese Yuzo, mettendosi seduto.

Dopo aver dato un profondo sbadiglio, la piccola mormorò: «Non voglio dormire... voglio stare con te, fratellone...»

«Ma ora è tardi: la mamma vuole che andiamo tutti a nanna adesso...»

«Ti prego... posso stare con te?» domandò la piccola, quasi sul punto di singhiozzare. «Oggi è il tuo compleanno... e voglio giocare ancora con te; possiamo continuare a giocare? Ancora un po’, ti prego... poi farò la nanna, te lo prometto!»

Yuzo sorrise, scese dal letto e in punta di piedi corse a chiudere la porta che Hanako aveva lasciato aperta. Aveva capito cosa lei volesse intendere con la sua richiesta, e per questo il bambino non aveva alcuna intenzione di convincerla a tornare a letto, oppure chiamare la mamma se non ci fosse riuscito.

Sebbene i due riuscivano sempre a ritagliarsi un momento per giocare insieme quando Yuzo tornava da scuola, a lui non dispiaceva mai stare con sua sorella. Già qualche mese dopo la nascita di Hanako, Yuzo aveva subito iniziato ad andare a scuola così come i loro fratelli maggiori, restando in classe fino al pomeriggio; man mano che cresceva, lui tornava a casa per mettersi subito a studiare nella sua cameretta. Nel corso della settimana gli unici momenti che i due riuscivano a condividere erano quelli della cena e tutte le volte che Yuzo usciva nel cortile per giocare a pallone; lo stesso accadeva anche con gli altri due fratelli, in particolare con Ken'ichi che stava per concludere il percorso delle elementari. A differenza di Yuzo, Hanako stava vivendo i suoi primi tre anni di vita giocando solo con la mamma per la maggior parte della giornata: a volte la piccola sentiva la mancanza dei fratelli che le volevano così tanto bene che, se avessero potuto, avrebbero trascorso volentieri tutta la giornata anche con lei.

Per questo motivo i quattro fratelli Morisaki trovavano sempre un modo per stare insieme tra loro il più possibile, soprattutto nei giorni in cui non andavano a scuola o durante le vacanze. Spesso era Ken'ichi a fare da “capogruppo” perché stava per varcare la soglia dell’inizio dell’età adolescenziale, e i suoi genitori gli avevano dato il compito di vegliare sempre sugli altri piccoli di casa: egli aveva visto nascere tutti i suoi fratelli, perciò ormai conosceva qualsiasi cosa di loro; il ragazzino cercava così di accontentare le loro esigenze, nei limiti di ciò che potevano fare.

Ogni volta che si trovavano insieme, che fosse nel cortile della loro casa o per un’uscita fuori porta con i genitori, i fratelli Morisaki non perdevano l’occasione per fare qualsiasi cosa insieme: un giro sulle giostre, uno scherzo allo zio Noboru, una visita al tempio di famiglia o una piccola marachella di nascosto alla loro mamma e al loro papà. A volte Ken'ichi portava in giro sulle proprie spalle la piccola Hanako, scatenando l’apprensione di mamma Izumi che lo seguiva come un’ombra; a volte Takaji collaborava con il maggiore per afferrare di nascosto il piccolo airone in legno che nonno Akihiko aveva portato dal suo ultimo viaggio, e che si trovava sulla libreria a zig-zag del soggiorno. A volte si riunivano tutti insieme per aiutarsi tra loro con i compiti, mentre Hanako era impegnata a disegnare sui fogli della brutta copia che i fratelli le passavano, e sui quali ogni tanto anche lei fingeva di fare i compiti; a volte si intestardivano nel voler giocare a tutti i costi nel soggiorno anche dopo la cena, arrivando ad addormentarsi ormai stanchi sul divano.

Se dei quattro fratelli Ken'ichi e Takaji erano quelli più legati tra loro - complice anche il fatto di avere solo un anno di differenza - si poteva dire lo stesso di Yuzo e Hanako. I due cercavano sempre di trascorrere insieme quanto più tempo possibile e ogni tanto, sotto la supervisione della loro mamma, Yuzo giocava a passarsi la palla con Hanako. Sebbene fosse ancora piccola a lei piaceva molto calciare quel pallone, e si poteva dire che in un certo senso aiutasse il fratello con gli allenamenti, dato che lei tirava verso Yuzo e quest’ultimo parava anche se i calci della piccola non erano poi così potenti.

I compleanni dei fratelli Morisaki rientravano nei momenti molto speciali, nei quali i quattro giocavano e si divertivano tutti insieme. Erano attimi unici, quasi irripetibili, che spezzavano quella quotidianità fatta di doveri scolastici che stavano lentamente entrando nel pieno delle vite di Ken'ichi, Takaji e Yuzo, e che presto avrebbero occupato anche quella di Hanako.

Dunque, quella sera Yuzo aveva lasciato che Hanako potesse stare con lui nella sua cameretta, senza sbuffare né lamentarsi per quell’inaspettata sorpresa: in quel momento sua sorella era molto più importante di quel racconto nel quale il calcio era il protagonista.

Dopo essersi accertato di aver chiuso bene la porta, Yuzo tornò dalla piccola Hanako, la prese per mano e la portò vicino alla scrivania, dove si sedette; poi la prese in braccio e con dolcezza le chiese: «Allora, a cosa vogliamo giocare?»

La bambina indicò il portapenne che era sul piano della scrivania. «Voglio disegnare, fratellone!»

«Va bene, allora disegniamo...»

Yuzo accese la luce della scrivania, prese un foglio bianco dal cassetto e lo pose sul piano. «Cosa vuoi disegnare?» le sussurrò.

«Un albero con i fiori!»

«D’accordo. Prendi i colori, che ti aiuto!»

Hanako allungò il braccio per afferrare il portapenne; nel farlo notò, un poco più distante, una cornice di legno con una fotografia. L’oggetto si trovava nella parte più interna del piano, al di sotto della libreria che faceva parte della scrivania.

«Chi sono quei bimbi?» chiese la piccola, con grande curiosità.

Anche se la cornice era nell’ombra, in quell’immagine Hanako aveva riconosciuto proprio l’immagine di due bambini. Yuzo afferrò la fotografia e la avvicinò alla sorella, che ora riuscì a vederla in modo più nitido: si trattava di due bambini che sorridevano felici, dentro a quello che sembrava essere un parco a giudicare dagli alberi sullo sfondo.

«Fratellone, questo sei tu?» disse Hanako, indicando uno dei due bambini e riconoscendo in lui proprio Yuzo.

«Sì!» rispose l’altro. «Ero più piccolo, avevo due anni in più di te... ma sono proprio io!»

«E questo?»

Lo sguardo curioso della piccola si spostò sull’altra figura: un bambino alto come Yuzo, che orgoglioso reggeva sotto il braccio un pallone.

Yuzo sorrise. Continuò a reggere la cornice con la mano, sfiorando con le sua dita quella fotografia. «Questo è un mio amico…»

«E come si chiama?»

«Hikaru.»

«Non l’ho mai visto...» rispose candidamente Hanako, guardando suo fratello negli occhi. «Dove abita?»

Yuzo appoggiò di nuovo la cornice sulla scrivania, e posò la piccola sul pavimento. Poi prese per mano sua sorella e la portò vicino alla finestra, indicando l’abitazione che si stagliava di fronte alla loro. «Vedi quella casa?»

«Quella?»

«Sì! Hikaru abitava proprio lì...» continuò il bambino, inginocchiandosi al suo fianco e guardandola negli occhi, «ma poi è andato via, all’improvviso...»

«Dove?»

«Molto, molto lontano...»

«E non è più tornato?» chiese la piccola: la sua espressione era diventata triste, vedendo il fratello che, nel frattempo, aveva l’aria piuttosto pensierosa e malinconica. «Avete litigato?» domandò lei.

«No, no...» disse lui, tornando a sorridere e prendendola in braccio. «Certo che no! Non abbiamo mai litigato... perché siamo sempre stati grandi amici!»

Yuzo si sedette di nuovo, e mise sulle sue ginocchia la piccola Hanako. «Sai... un vero amico non si dimentica mai di te, anche se sei tanto lontano!»

«Davvero?»

«Sì!» le rispose; questa volta gli occhi di Yuzo brillavano di una luce più gioiosa, sebbene fosse ancora nostalgica. «Ci sono amici ai quali vuoi così tanto bene, che anche se sono lontano lontano... li senti sempre vicino a te!»

Hanako guardò suo fratello con un po’ di perplessità; poi, da quell’ultima frase, si ricordò di una favola che le aveva raccontato la loro mamma, attraverso uno dei libri che le avevano regalato. «Come quel mostriciattolo... ecco... ah! Come E.T.? Come E.T. e Elliot?»

«Esatto!» rispose Yuzo.

Il bambino non nascose la sua sorpresa di fronte al paragone della sorella, ma ne fu felice. Anche lui conosceva il film di E.T., ma fino a quel momento non aveva mai pensato ad un possibile collegamento tra l’amicizia dei protagonisti e quella che lui aveva avuto con quel fanciullo. Gli era quasi sembrato spontaneo pronunciare una frase del genere: “i veri amici sono sempre vicini a te, anche se sono fisicamente lontani”.

Yuzo aveva sempre ammirato Hikaru per ciò che era: un bambino con un carattere solare e che piangeva raramente, cercando sempre di trattenere le lacrime anche quando si faceva male o veniva sgridato da sua madre. Con lui aveva instaurato fin da subito un legame speciale: tra loro vi era solo un mese di differenza e i due erano come gemelli, condividendo la stessa passione per il calcio e trascorrendo il tempo libero sempre insieme, giocando nei cortili delle loro case o recandosi al parco con le loro mamme. Yuzo lo seguiva dappertutto come un’ombra, guardandolo con ammirazione quando il suo amico faceva rimbalzare il pallone sulle ginocchia o sulla testa, oppure quando gli diceva che un giorno sarebbero diventati dei grandi calciatori, promettendogli che sarebbero rimasti sempre insieme.

Per un bambino come Yuzo, era stato uno shock terribile perdere all’improvviso un compagno di giochi del genere, e da quel giorno il piccolo aveva sentito come se quella promessa che si erano fatti a vicenda avesse avuto un significato diverso rispetto all’inizio.

Diventare dei bravi giocatori di calcio.

In quel momento Yuzo aveva preso una decisione: anche se era rimasto da solo, almeno lui avrebbe continuato ad allenarsi con il suo pallone... come se il suo amico fosse ancora lì con lui, fianco a fianco. Mentre era nel suo cortile, gli capitava ancora di sentire la voce di Hikaru da qualche parte, come se il suo amico lo stesse spronando ad esercitarsi sempre più.

 

«Forza, Yuzo! Puoi farcela!»

 

Ma, ogni volta che Yuzo si voltava, alle sue spalle non vedeva nessuno oltre a lui. Soprattutto nei primi giorni, quel cortile gli sembrava essere uno spazio più ampio del solito: senza di Hikaru, giocare a pallone non era la stessa cosa.

Ogni tanto Yuzo si sedeva accanto al muretto che divideva le due abitazioni e alzava lo sguardo verso il cielo, inseguendo con gli occhi le nuvole bianche che attraversavano velocemente il cielo spinte da un forte vento. E, in quei momenti, la sua mente era pervasa da un solo “perché”.

Perché lui?

Non aveva mai trovato una risposta a quel “perché”, nemmeno ora che aveva compiuto nove anni... ma con la nascita di sua sorella Hanako le cose erano iniziate a cambiare. Man mano che cresceva, quella bambina dagli occhi grandi e profondi come la notte aveva conquistato lui e gli altri due fratelli: la sorellina era molto tranquilla, ma riusciva anche a saper essere imprevedibile e così a cogliere di sorpresa chiunque.

Yuzo si ricordava ancora quando, in un giorno di primavera, lei aveva tirato con grande entusiasmo il suo primo calcio al pallone, per poi finire proprio tra le mani del piccolo portiere. Fino ad allora Hanako non l’aveva mai fatto e, anzi, spesso si nascondeva tra le gambe della madre quando il pallone sembrava arrivare nella loro direzione... ma quel giorno non aveva indietreggiato. Con grande curiosità la piccola aveva osservato il pallone che si era fermato vicino ai suoi piedini, per poi restituirlo al fratello con grande entusiasmo; un attimo dopo era corsa da lui tendendogli le braccia, quasi implorandolo di continuare a giocare a pallone con lei.

Hanako aveva solo due anni, e da allora Yuzo aveva iniziato a non percepire più quella strana sensazione di immensità del piccolo cortile di casa sua dove, ogni tardo pomeriggio, giocava con il suo amato pallone.

Anche con lei, ogni tanto Yuzo sentiva ancora quella voce.

 

«Forza, Yuzo! Puoi farcela!»

 

Da quel momento Yuzo era tornato a sorridere, e aveva smesso di chiedersi quel perché inspiegabile: in cuor suo sapeva che il suo amico lo stava ancora incoraggiando, ovunque lui fosse. Perciò in quella notte di metà marzo, continuando a tenere in braccio la piccola Hanako, Yuzo non aveva pensato due volte a pronunciare quella frase sull’amicizia.

Aveva ragione la sua sorellina. Non importava quanto tempo fosse trascorso, e quanto ce ne sarebbe stato in futuro: il suo caro Hikaru era proprio come E.T., il grande amico di Elliot.

Era sempre lì, nel suo cuore... e mai se ne sarebbe andato.

 

 

Note dell'autore:

[1] Il kendo è un'arte marziale tradizionale giapponese simile alla nostra scherma; il termine significa "la via della spada". Curiosità: in Italia c'è il sito della Confederazione Italiana Kendo, dove si possono trovare maggiori informazioni su questa disciplina (e su altre affini) sul nostro territorio nazionale.

[2] Il kyūdō è un'altra arte marziale tradizionale giapponese affine al nostro tiro con l'arco; il termine significa "la via dell'arco". Anche in questo caso abbiamo l'Associazione Italiana per il Kyudo (A.I.K.), riconosciuta a livello internazionale.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

... io ve l'avevo detto che l'argomento di Hikaru sarebbe tornato. Ops, scusate per i feels. ^^"

Questa volta, per la prima volta dopo ben sei capitoli (di cui tre su Yuzo), niente appendice dei nomi! Per ora vi ho presentato quasi tutti i personaggi, per cui possiamo procedere tranquilli con il resto delle note. Quindi...

 

- In questo capitolo abbiamo qualche piccolo approfondimento sulla vita scolastica giapponese, che (penso?) sia cosa nota a tutti: ciascuno di noi avrà visto una scena di un manga o di un anime ambientata durante la scuola - e Captain Tsubasa non fa di certo eccezione!

Ve la riassumo: prima di tutto il ciclo scolastico è leggermente diverso dal nostro, seguendo il sistema 6+3+3 (sei anni di scuole elementari, tre di medie inferiori e tre di medie superiori); la scuola dell'obbligo è fino ai 15 anni (ragion per cui - forse non a caso - Shingo parte per l'Italia proprio alla fine delle medie inferiori) ma il 99% degli studenti preferiscono proseguire il loro percorso scolastico. A ogni passaggio da un grado all'altro c'è da sostenere un esame di ammissione (come quello che si vede nel manga di CT quasi alla fine delle medie), e il più famoso è quello dell'accesso all'università - ma su questo torneremo più in là nella storia. Inoltre, l'anno scolastico ha inizio ad aprile e termina a marzo dell'anno successivo.

Sin dalla prima elementare i bambini si recano a scuola da soli, e la loro vita scolastica è molto intensa e li tiene impegnati per quasi tutto il giorno: dalle 8.30 alle 15.30-16, e nel corso della giornata oltre alle lezioni ci sono altre attività come le pulizie e il riordino delle aule. A partire dalla quinta elementare - anche se in realtà ci sono delle eccezioni, e con CT si sono viste LOL - gli studenti entrano a far parte dei vari club presenti nella scuola (ed è il motivo per cui in questo capitolo sia Yuzo e Genzo non sono ancora entrati in quello di calcio) che li tengono impegnati per l'intero pomeriggio, mentre esiste anche il dopo scuola con dei corsi serali (juku) dove si insegnano materie presenti negli esami di ammissioni per licei o università. Inoltre nelle scuole giapponesi non esistono classi "fisse", ma classi dove gli studenti delle varie sezioni si mescolano tra loro di anno in anno, diversamente da come accade in Italia dove all'inizio di un ciclo si entra in una determinata sezione finché non termina quel ciclo - per esempio i membri della classe "A" delle elementari che restano gli stessi per tutti e cinque gli anni di scuola. (E qui ringrazio Melanto con la quale molti mesi fa abbiamo discusso di questo argomento ;D)

Questo è tutto ciò che ha toccato la mia storia. Ora, l'unico dubbio che ho ancora riguarda proprio l'anno nel quale si può entrare a far parte di un club: l'unica informazione che finora sono riuscita a trovare è questa, per cui ho dovuto per forza aggrapparmi a quest'unico punto per costruire il capitolo. Come sempre, se qualcuno ne sa più di me, mi faccia sapere! :)

Partendo dal presupposto che l'accesso ai club parte dalla quinta elementare, in CT abbiamo molte eccezioni, come lo stesso Genzo Wakabayashi, Takeshi Sawada... e infine, il fratello di Tsubasa (Daichi) che rappresenta l'eccezione sulle eccezioni, perché già dall'età di cinque anni entra a far parte della squadra della Nankatsu! A cinque anni, dunque quando è ancora alla scuola materna X'D

 

Questo (unico malloppone di informazioni, per questa volta) è quanto riguardo la scuola. Nel complesso questa parte è più corta rispetto alla media ma nella quale, come sempre, cerco di continuare la storia di crescita del protagonista. In particolare, qui sono presenti due elementi: l'incontro con un piccolo Genzo e il dialogo con Hanako.

Riguardo la prima, mi faceva piacere raccontare quale potrebbe essere stato il primo incontro tra Yuzo e Genzo. Frequentando la stessa scuola potrebbe essere avvenuto ovunque e in qualsiasi momento: al club di calcio, in classe... qui, invece, ho preferito optare per un incontro casuale, che però permette ai due di iniziare a conoscersi e così proseguire il loro nascente rapporto d'amicizia e rispetto. In questa parte siamo proprio agli inizi del loro legame, nato con un classico incontro nel corridoio della scuola e lo scambio di opinioni sulle cose che hanno in comune; tra l'altro noi lettori sappiamo come andrà a finire tra questi due futuri campioni... per cui mi sono fermata qui, per ora. :3

Sulla seconda, invece, ho fatto riferimento al celebre film di Steven Spielberg: "E.T." è la storia di un'amicizia senza confini e senza tempo... in un certo senso simile a quella tra Yuzo e Hikaru nel modo in cui i due bambini sono legati tra loro. (Solo che E.T. è vivo e vegeto, mentre Hikaru... sigh.) Al di là di tutte le teorie e il modo in cui le varie religioni spiegano la vita dopo la morte, nel finale di questa storia ci tenevo a sottolineare questo concetto: quando un'amicizia è molto forte, nemmeno la morte potrà mai spezzarla completamente. Io sono convinta che, proprio come ho scritto nel testo, gli amici più cari e con i quali abbiamo condiviso le stesse passioni "sono sempre vicini a te, anche se sono fisicamente lontani", nel nostro cuore.

 

(Al di là del fatto che E.T. come personaggio possa incutere paura o meno, la potenza emotiva della scena finale del film con quel "Io sarò sempre qui" è devastante. Qui il video.)

 

E anche oggi ho parlato troppo in queste note, per cui chiudo subito le comunicazioni. XD Come sempre grazie a tutti coloro che anche oggi sono giunti fino a qui, ci vediamo al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 8
*** Contatto - Nove anni | Aoi's side ***


Fanfiction
hE3xmzS

Contatto.

{Nove anni | Aoi's side}

 

 

BGM: Lindsey Stirling - Electric Daisy Violin

 

 

 

[Un anno dopo - 12 Marzo. Nakahara, prefettura di Gifu.]

 

Durante la pausa pranzo Shingo stava consumando il suo pasto in aula, vicino alla finestra, e di tanto in tanto rivolgeva lo sguardo verso l’esterno. Addentando il cibo che prendeva dalla sua bento box in legno, il bambino guardava il cielo che quel giorno era carico di nuvole minacciose di pioggia: nel corso del mattino l’intero territorio di Nakahara era stato devastato da una tempesta violenta che non era cessata nemmeno per un solo istante.

Di solito a Shingo piaceva arrivare a scuola anche sotto la pioggia. Il piccolo amava il tocco leggero che le gocce battevano sul suo viso mentre correva per le vie del borgo, ma quel giorno dovette fare a meno di godere di quella piacevole sensazione. Il tempo era tutt’altro che promettente: un forte vento aveva iniziato a sferzare in tutta la zona, e la fitta pioggia non permetteva a nessuno di muoversi da un punto all’altro senza arrivare completamente bagnati dalla testa ai piedi, così il padre di Shingo con l’automobile aveva accompagnato a scuola sia lui che sua sorella Yukiko prima di andare al lavoro.

Il bambino avrebbe voluto che la pioggia si placasse e che il vento diventasse sempre più lieve, come quello che gli scompigliava i capelli nelle belle giornate di sole. Per il suo nono compleanno Shingo avrebbe voluto come dono che almeno nel pomeriggio potesse tornare da solo a casa, passeggiando allegramente come sempre per le vie di Nakahara, sotto il canto degli uccelli sugli alberi e con la vista del panorama delle montagne, oppure uscire con gli amichetti da scuola, percorrere con loro un tratto di strada insieme e soffermarsi ad osservare i pesci rossi che nuotavano nel laghetto del parco, oppure giocare con i suoi amici ad acchiapparella o rimpiattino tra le vie della cittadina. Shingo avrebbe tanto voluto fare anche solo una di quelle cose, se solo quel ventaccio e quella violenta pioggia gli avessero dato tregua. Sospirò e lanciò un pensiero verso il cielo, come se avesse voluto rivolgere una preghiera alle divinità protettrici di Nakahara.

Ti prego... solo per oggi pomeriggio, perché è il mio compleanno. Da domani puoi fare tutto quello che vuoi, promesso!

E proprio in quel momento, come se dal cielo qualcuno avesse voluto esaudire il suo desiderio, tra quelle nuvole grigie fece capolino un timido raggio di sole.

 

 

All’uscita da scuola le condizioni meteorologiche erano decisamente migliorate: il vento si era placato e il sole splendeva tra le nuvole grigie che coprivano ancora il borgo. Shingo si fermò all'ingresso dell’istituto scolastico per ammirare lo spettacolo dei raggi che perforavano il cielo e diventavano sempre più numerosi, dopodiché si incamminò verso casa insieme ai suoi compagni di scuola.

Uno di loro iniziò a parlare con un tono acuto, sistemandosi gli occhiali dalle grandi lenti che gli stavano scivolando sul naso. «Che bello: la scuola è quasi finita!»

Un altro aggiunse più sommessamente: «Ancora qualche giorno e si va in vacanza!»

«Già!» intervenne il terzo. «E poi si ricomincia...»

«Vero! Però non vedo l’ora di uscire e giocare per tutto il giorno!»

«Anch’io! E voglio andare alle bancarelle del centro, per mangiare lo spiedino Hida[1]

«Io il Taiyaki

Shingo non disse nulla, limitandosi ad annuire e sorridere verso i suoi compagni. Anche lui non vedeva l’ora che arrivassero le vacanze di primavera e giocare con i suoi amici per tutto il giorno... ma non solo. Come per gli altri bambini, anche per lui le vacanze erano un’occasione per abbandonare finalmente i libri di scuola, passeggiare per le vie della cittadina e giocare con i membri della sua famiglia: con la mamma e sua sorella Yukiko, che aveva iniziato il percorso delle medie e con la quale non riusciva più a condividere tutto quel grande tempo libero che avevano a disposizione per giocare insieme, dato che lei era molto impegnata con lo studio e le attività del club di kyūdō; con il papà, che lavorava nella sua bottega e che poteva andare a trovarlo in occasione delle vacanze; con nonna Atsuko, alla quale voleva molto bene e che di certo con lui si sarebbe sentita meno sola nel silenzio della sua piccola dimora vicino al ruscello.

Anche con Riku era lo stesso. Nonostante ormai da anni avesse scoperto il segreto che c’era dietro al suo allegro chiacchierare, Shingo non aveva mai perso l’occasione di giocare con lui e confidargli tutto ciò che gli era accaduto nel corso della giornata: le lezioni, il pranzo e le uscite con i compagni di scuola... e persino qualche piccolo battibecco che aveva avuto con loro ma che poi si era subito risolto. Anche in assenza della nonna, della mamma e di Yukiko, che proprio sulle orme dell’anziana nonna stava apprendendo l’arte del ventriloquo, Shingo pensava che quell’orsacchiotto potesse ascoltarlo nel silenzio della sua cameretta, nonostante il fatto che non riuscisse a parlare da solo.

Tuttavia, al di là delle vacanze c’era ancora una cosa della scuola che iniziava ad incuriosire il piccolo, e che in quel momento stava emergendo proprio dal discorso allegro e spensierato dei suoi amichetti.

«Avete sentito cosa ha detto il maestro?»

«Già: quando torneremo a scuola dopo le vacanze, i senpai verranno nella nostra classe a parlare dei loro club.»

«Ma è così difficile scegliere!»

«Non preoccuparti, c’è ancora molto tempo! Ma io so già dove andare: al club di judo!»

«Io a quello di nuoto, perché lo adoro! Mi piace così tanto nuotare!»

«E tu, Shingo?»

L’interpellato guardò i suoi amici, piuttosto indeciso sul cosa rispondere. In realtà nemmeno lui aveva ancora le idee chiare: la scuola di Nakahara non aveva ancora molti club, anche se raccoglieva studenti dai piccoli paesi circostanti con la recente espansione della cittadina da quando il sindaco aveva promosso l’apertura di un’area industriale dedita alla produzione di materiale da costruzione e un centro commerciale incentrato sugli sport più popolari del Giappone. La maggior parte dei club che erano attivi riguardavano infatti le attività sportive, ma tra quelli non esisteva ancora uno che avesse attirato l’attenzione di Shingo: il bambino aveva iniziato a pensare che poteva provare ad entrare in quello di atletica leggera ma, nonostante amasse molto correre e saltare, sentiva di non essere pienamente soddisfatto al pensiero di fare della corsa che tanto amava la sua ragione di vita; questo perché, in realtà, Shingo voleva fare qualcosa insieme ai suoi compagni, non limitarsi a correre per qualche minuto attorno ad una pista.

Voleva essere il protagonista sì, ma allo stesso tempo sentirsi parte di un gruppo che gareggiava insieme a lui verso una meta vittoriosa. Gli piaceva l’idea della squadra, di un insieme di persone che condividevano l’idea di mettersi in gioco e raggiungere lo stesso obiettivo, con il talento e le capacità che ciascuno di loro aveva a disposizione.

Così, dopo aver dato uno sguardo al cielo, Shingo si rivolse ai suoi compagni sorridendo a trentadue denti. «Non lo so! Sarebbe bello far parte dello stesso club, ma ancora non c’è un gruppo del genere...»

Gli altri si intristirono. Anche loro avrebbero voluto entrare a far parte di un solo club, ma in tutta Nakahara non esisteva ancora qualcosa che potesse accontentare tutti i loro gusti e unirli in un team. Shingo aveva ragione: per quanto potessero trascorrere buona parte della giornata nella stessa classe, a partire dalla quinta elementare si sarebbero separati per frequentare club diversi tra loro; ciò significava che nel giro di un anno non avrebbero avuto più così tante occasioni per stare insieme. Con questo pensiero nei loro cuori, silenziosamente il gruppo di amici si incamminò verso la zona del parco del borgo.

Ad un tratto, i bambini da lontano scrutarono un viavai di operai e la presenza di alcuni mezzi meccanici in una zona poco distante. Piuttosto incuriosito, il gruppetto di amici non pensò due volte a chiedere informazioni a quei lavoratori che stavano giungendo nella loro direzione.

«Stiamo creando un centro sportivo,» rispose uno di loro, sistemandosi il casco giallo che proteggeva il suo capo.

«Un centro sportivo?» domandarono all’unisono i bambini.

«Sì! Il sindaco vuole costruire un’area gioco per voi ragazzi, proprio vicino al parco...»

Tutti ne furono entusiasti: quella sarebbe stata una grande occasione per trascorrere altro tempo insieme, nello stesso luogo. I bambini ringraziarono l’operaio e senza perdere tempo corsero verso la zona in costruzione dove all’ingresso, rigorosamente recintato per non permettere il passaggio di estranei, vi era un cartello informativo sui lavori.

«Centro sportivo di Nakahara...» lesse Shingo ad alta voce, e aggiunse: «Non posso crederci: un centro sportivo! Avremo un centro sportivo... qui, a Nakahara! Proprio come a Gifu!»

«Già!» esclamò uno dei suoi compagni di classe. «Chissà come sarà...»

Un altro continuò a leggere il cartello sottovoce, poi disse: «Qui c’è scritto che i lavori finiranno tra qualche mese. Perciò... perciò forse possiamo venire già per le vacanze estive!»

«Perché no?»

Felici e speranzosi, i bambini si incamminarono dalla parte opposta e tornarono in direzione del parco. Shingo si fermò e si voltò verso la zona ancora in costruzione, osservando il cantiere con sguardo sognante. Si divertì ad immaginare come potesse essere quel centro tra qualche mese: campi da tennis, piste di atletica...

Un centro sportivo...

«Ohi, Shingo: ti sei imbambolato?»

Il bambino sobbalzò. Alle spalle, i suoi compagni lo stavano richiamando; dopo aver rivolto un ultimo sorriso, il piccolo diede le spalle al cantiere e raggiunse i suoi compagni.

 

 

 

«Mamma, sono tornato!»

Shingo aprì la porta di casa e corse da sua madre che era nel soggiorno, intenta a ricucire lo strappo di un pantalone di suo marito. La abbracciò da dietro, posando il suo viso sulla spalla della mamma.

Yumi posò gli strumenti da cucito e il pantalone sul tavolino che aveva di fronte a sé, si alzò e sollevò il figlio da terra, guardandolo con occhi ridenti. Nonostante Shingo ormai stesse diventando un piccolo ometto, la donna riusciva ancora a tenerlo tra le braccia per qualche secondo: suo figlio aveva preso molto da lei, e anche il fatto che fosse minuto era una caratteristica della sua famiglia. In certi momenti gli ricordava molto il suo papà Kunio, scomparso quando lei aveva ancora dodici anni, ma nella memoria di Yumi era ancora viva l’immagine di quell’uomo minuto dal volto sempre allegro e solare, che non sembrava mai essere triste e cupo, nemmeno quando le sue sapienti mani di artigiano non riuscivano a trasmettere nelle sue creazioni ciò che invece aveva in testa.

Lei non aveva mai visto suo padre nello sconforto, esattamente come stava accadendo con suo figlio. Entrambi, nonno e nipote, riuscivano sempre a celare la loro tristezza, continuando a sorridere anche tra le lacrime, ed entrambi erano ugualmente cocciuti: quando si mettevano in testa di fare una cosa si impegnavano per portarla a termine, anche se l’impresa sembrava impossibile da compiere... e forse, non a caso, era proprio grazie a questo lato del carattere di suo padre che Nakahara poteva vantare tutte quelle magnifiche costruzioni che affascinavano sempre chi giungeva da ogni parte del Giappone.

«Sai, mamma?» disse Shingo, con un tono che lasciava intendere tutta la sua grande gioia per ciò che aveva scoperto quel giorno. «Stanno costruendo un centro sportivo vicino al parco!»

«Davvero?»

«Sì! Oggi abbiamo visto tutto sottosopra... e un operaio ci ha detto che sarà proprio un centro sportivo! Chissà cosa ci sarà di bello...»

Così come i suoi compagni, anche Shingo non aveva un’idea ben precisa sul cosa realmente fosse un centro sportivo. Ne aveva sentito parlare per la prima volta nei corridoi della sua scuola, quando i bambini più grandi parlavano del Gifu Memorial Center, situato nella capitale della loro prefettura, Gifu. Dalle loro parole Shingo aveva immaginato un’insieme di luoghi dove ognuno praticava lo sport che amava: basket, pallavolo, ping pong, judo, kendo e così via. Sembrava essere il paradiso degli sportivi, dove chiunque poteva aspirare a diventare un professionista confrontandosi con gli altri in gare sempre più accese e competitive.

Nakahara, così come le altre città e i paesi circostanti, faceva riferimento anche al complesso sportivo Hida-Takayama Big Arena della vicina Takayama, situata ad una decina di chilometri di distanza. Shingo l’aveva visto per la prima volta quando con la sua famiglia aveva accompagnato la sorella per una gara di kyūdō tra i club di Nakahara e Takayama, ma già dall’esterno non gli ispirava granché: non assomigliava nemmeno lontanamente al fantastico centro sportivo di Gifu che aveva sempre immaginato. «Sembrano i capannoni dei fiori!» aveva commentato con sarcasmo ai suoi genitori quando era giunto all’ingresso del Big Arena, indicando le gigantesche strutture che ricoprivano le aree da gioco. La facciata di quel centro gli aveva ricordato la serra che si trovava nei pressi del parco del suo borgo, che aveva proprio un ingresso dalla forma a capanna molto simile a quella del complesso sportivo.

Per questo motivo Shingo non vedeva l’ora che quello di Nakahara fosse terminato, perché già sperava che fosse più simile al centro di Gifu piuttosto che a quello di Takayama, anche se non ne conosceva ancora i dettagli.

Dopo aver comunicato alla mamma questa notizia, il piccolo le lasciò lo zainetto della scuola ed esclamò: «Vado a fare un giro con la bici, a dopo!»

Senza dare alla madre il tempo di replicare, in un attimo Shingo si ritrovò di nuovo fuori casa; prese la bicicletta che era parcheggiata nel loro giardino e con essa si allontanò per fare il suo solito giro pomeridiano.

Yumi si affacciò dalla finestra e lo osservò, tirando un sospiro divertito. È proprio vero: è tutto suo nonno!

 

Shingo pedalò fino a casa di sua nonna, posò la bicicletta vicino al mulino e bussò alla porta che subito si aprì. Atsuko lo accolse dentro casa, invitandolo a sedersi: l’anziana gli portò degli spiedini che stava preparando: i mitarashi dango[2], gnocchi di riso ricoperti da una dolce salsa di soia. Ma, prima di gustare quel manicaretto, Shingo raccontò anche a sua nonna del cantiere del futuro centro sportivo.

Atsuko fu molto contenta di quella notizia. «Finalmente!» esclamò. «Ci voleva proprio: i nostri ragazzi hanno bisogno di uno spazio tutto loro per giocare!»

«Già, nonna! Sono proprio felice!»

Addentando un dango, Shingo diede uno sguardo alla finestra che affacciava sulla stradina che aveva percorso. In quel momento gli tornò alla mente di quei due ragazzini che aveva incontrato tre anni prima, e che lo avevano ringraziato per il fortuito salvataggio del loro pallone: da quando il piccolo aveva iniziato ad andare a scuola erano poche le volte in cui riusciva ad andare da sua nonna, e anche per questo motivo non aveva più avuto occasione per incontrarli. D’altronde erano trascorsi tre anni e quei ragazzini, ormai adolescenti, probabilmente avevano iniziato ad allenarsi altrove.

Shingo si ricordò che sua nonna gli aveva menzionato che quei due amassero il calcio, ma che allo stesso tempo forse erano un po’ imbranati per il fatto che - almeno dalle parole della nonna - facevano sempre finire il loro pallone tra le pale del mulino. Tuttavia erano trascorsi diversi anni e, forse, quei due ragazzini erano riusciti a diventare più bravi e - chissà - avevano già iniziato a giocare come professionisti...

Che bello avere un campo da calcio nella mia città... così forse potrò incontrarli di nuovo!

Il piccolo sbarrò gli occhi.

Perché aveva avuto quel pensiero? Lui non si era mai appassionato al calcio e solo una volta aveva incontrato quei ragazzini, che alla fine non erano suoi amici né parenti, senza contare che con loro non aveva giocato nemmeno una partita, e solo allora si era ricordato di quell’episodio avvenuto tre anni prima e del pallone che proprio lui aveva salvato...

Il... il pallone...

Shingo si alzò, e dopo aver finito di mangiare il dango si avviò velocemente verso la porta d’ingresso. Sotto gli occhi confusi della nonna uscì di casa e restò fisso a guardare la riva del fiume: era lì che aveva incontrato quei due ragazzini, ed era sempre da lì che aveva visto entrambi che si allontanavano sempre più passandosi il pallone. Gli sembrava ancora di udire il rumore di un palleggio, così distante nel tempo e nello spazio...

O forse...

«Shingo, dove vai?»

Sua nonna lo chiamò più volte, ma fu tutto inutile: Shingo aveva iniziato a correre sempre più lontano da lei, senza salutarla e senza la sua adorata bicicletta che aveva lasciato vicino la porta. Il piccolo, incurante dei richiami della nonna che stava sentendo sempre più distante, aveva di nuovo imboccato la stradina dalla quale era venuto, ma prendendo la direzione opposta a quella di casa.

Deve essere da questa parte... e ne sono sicuro: è sempre più vicino, non può essere un sogno!

In un attimo giunse ad un vicino bivio con una doppia svolta: una a sinistra, che immetteva nel sentiero che portava alla zona incontaminata attraversata dal ruscello, e l’altra a destra, più ampia e spaziosa, che risaliva le pendici di una delle montagne che circondavano il borgo. Seguendo quel rumore che stava catturando la sua attenzione sempre più, Shingo risalì la strada a destra e, ritrovandosi ad un certo punto su un balconcino, vide davanti a sé un luogo dove non era mai stato prima: un’area molto vasta e ricoperta di cemento, suddivisa in due parti dove in una di esse vi erano tracciate delle delimitazioni per l’atterraggio dell’elisoccorso.

In un attimo, il bambino capì dove fosse giunto: nell’area di accoglienza della cittadina utilizzata solo in caso di gravi emergenze. Lui non c’era mai stato perché non si era mai trovato nel mezzo di un’emergenza grave come terremoti o frane da quando era nato, ma a scuola i maestri avevano sempre parlato del comportamento da tenere in quei gravi casi, ed era da lì che Shingo aveva visto per la prima volta l’immagine di un elisoccorso che atterrava in una vasta area come quella che ora stava vedendo.

Spostando lo sguardo sull’altra parte di quella zona delimitata, il piccolo vide alcuni adolescenti che stavano giocando a calcio, con indosso la stessa divisa ma suddivisi in due squadre, una delle quali portava una pettorina gialla sopra la divisa: in quel punto i ragazzi avevano improvvisato due porte con i loro borsoni, così da poter definire meglio il loro terreno di gioco. I calciatori erano fradici di sudore, le loro divise candide come la neve erano tappezzate di sporcizia che le aveva annerite.

Incuriosito, Shingo scese gli scalini che portavano all’ingresso di quell’area d’emergenza allestita in quattro e quattr’otto come campo da calcio. Si avvicinò al campo improvvisato e restò sul bordo, osservando con attenzione il modo in cui stavano giocando quei ragazzini. La maggior parte di loro stava correndo da un punto all’altro di quella zona: i vari giocatori dribblavano gli avversari e si passavano il pallone a vicenda per poi tirarlo verso le rispettive porte con un potente calcio o un colpo di testa. Le loro espressioni cambiavano di minuto in minuto, ma una cosa era certa: tutti si stavano divertendo, e lo stavano facendo insieme.

Shingo si incantò nel vedere i loro movimenti, quando ad un tratto uno di loro cadde a terra dopo un contrasto. Il ragazzino si massaggiò la caviglia dolorante, e subito la partita venne interrotta: i suoi compagni si avvicinarono e lo aiutarono a rialzarsi senza pensarci due volte.

«Vai a sederti laggiù,» disse uno di loro, offrendogli una spalla e indicando il luogo dove si trovava Shingo; nel farlo, però, si accorse della presenza del bambino e ne restò sorpreso.

«Tu...»

Il piccolo si spaventò, pensando di aver sbagliato a trattenersi lì. Non aveva chiesto il permesso a quei giocatori di assistere alla loro partita; forse, quei calciatori avevano deciso di allenarsi proprio in quel luogo per non essere visti da nessun altro del loro borgo.

Subito Shingo si alzò e, con un inchino, si scusò con il ragazzo che l’aveva indicato. «Mi... mi dispiace! Mi sono trovato qui per caso, non volevo disturbarvi!»

L’altro gli si avvicinò e, ancora incredulo, esclamò con entusiasmo: «Tu... sì, devi essere proprio tu! Sei quel bambino che ha salvato il mio pallone vicino al ruscello tre anni fa! Caspita, come sei cresciuto!»

Shingo alzò timidamente gli occhi per incrociare lo sguardo felice del ragazzo, e subito in lui riconobbe proprio uno di quei due ragazzini che aveva incontrato tre anni prima. «C-Ciao...» mormorò, discostandosi leggermente per fare spazio al giocatore infortunato che subito si sedette al suo posto; poi sorrise al ragazzo che aveva riconosciuto. «Sei altissimo!» esclamò con stupore, scrutando l’altro dalla testa ai piedi.

«E tu non sei cambiato per niente!» rispose il ragazzo, arruffandogli affettuosamente i capelli. «Cosa ti porta da queste parti?»

«Vengo dal ruscello!» esclamò candidamente Shingo. «Ho sentito il rumore di un pallone... ed eccomi qua!»

Quell’affermazione colse il ragazzo di sorpresa: il ruscello era il luogo dove lui e quel bambino si erano incontrati, per la prima e unica volta, e anche il giovane calciatore non immaginava di rivedere quel piccoletto nella stessa circostanza che li aveva portati a conoscerli.

Grazie ad un pallone.

Il ragazzo si voltò verso i compagni che nel frattempo lo avevano raggiunto. «Ti presento la squadra di calcio di Nakahara, l'unica presente qui e che abbiamo fondato da poco,» disse a Shingo con fierezza. «Quest’anno per la prima volta vogliamo partecipare al campionato nazionale delle scuole superiori; per questo ci stiamo allenando qui in attesa che anche a Nakahara verrà costruito un piccolo campo da calcio...»

Il piccolo sorrise. «Non preoccupatevi: tra poco sarà pronto!»

«Intendi il campo sportivo che stanno costruendo vicino al parco?»

«Sì, proprio quello! Oggi sono passato di là con i miei amici, e mi hanno detto che ci sarà un bellissimo centro sportivo: chissà se sarà molto bello come quello di Gifu...»

Il ragazzo scoppiò a ridere e rivolse lo sguardo verso l’orizzonte. «Già, sarebbe fantastico...»

Mentre i due stavano ancora chiacchierando, gli altri giocatori avevano iniziato a discutere sul come riprendere l’allenamento dato che ora avevano un compagno infortunato. Uno di loro disse: «Visto che Matsumoto non può giocare, qualcuno di noi con la pettorina deve restare in panchina per bilanciare l’altra squadra...»

«Già,» aggiunse un altro. «Siamo già molto stanchi, forse è meglio se un altro di noi si fermi con lui...»

Nel frattempo Shingo indietreggiò di qualche passo e urtò contro il pallone che era rimasto abbandonato. Il piccolo lo prese in mano e lo lanciò in alto, per poi farlo rimbalzare sul suo ginocchio: iniziò a palleggiare per imitare l’azione di alcuni calciatori che aveva visto qualche volta in televisione. Più volte il pallone finì a terra, ma lui non si arrese e tornò a farlo saltare in alto, cercando di non farlo cadere il più possibile.

A quel rumore i giocatori si voltarono verso il bambino, e lo videro così assorto nel suo tentativo al punto di restare in silenzio e non intervenire. Non appena il pallone cadde di nuovo a terra, a sorpresa uno di loro se ne impossessò con un contrasto, lasciando Shingo di stucco: si trattava proprio del ragazzo che lo aveva riconosciuto, e che ora aveva deciso di sfidarlo con una smorfia divertita accompagnata dal gesto della mano.

«Su, vieni a riprenderti il pallone!»

I suoi compagni di squadra osservarono la scena molto dubbiosi. Che cosa si era messo in testa il loro amico? Vuole davvero sfidare un moccioso delle elementari? - pensarono all’unisono.

«Ci sto!» urlò Shingo con un sorriso, e subito corse verso di lui. Non conosceva molto le regole del calcio, ma volle provare lo stesso a rubare a quel ragazzo il pallone: non sapeva il perché, ma quella sfida lo stava entusiasmando sempre più.

L’altro scattò in avanti, percorrendo l’area a gran velocità, ma dopo qualche secondo Shingo riuscì a raggiungerlo e a tentare una scivolata per prendere il pallone, allo stesso modo in cui lo aveva fatto tre anni prima. Tuttavia il giovane riuscì ad evitare il bambino con una finta, poi lanciò il pallone per aria e lo trattenne con il piede quando toccò nuovamente il suolo.

«Lo sapevo, non sei cambiato per niente!» sentenziò il ragazzo, che subito aiutò Shingo a rialzarsi. «Con il palleggio te la cavi, sai? Se penso che alla tua età ero talmente imbranato che lo facevo cadere da ogni parte... invece tu sei davvero bravo: se continui ad esercitarti, potresti diventare un grande campione di palleggi!»

Shingo si scrollò la polvere dal pantalone che indossava e disse: «In realtà è solo la prima volta... infatti prima ho fatto sempre cadere il pallone a terra: è così difficile, come si fa?»

«Te lo dimostro subito!»

Il ragazzo iniziò a palleggiare ma a differenza del piccolo, non appena fu certo di non riuscire più a mantenere l’equilibrio, fermò la palla sul dorso del piede e la rilanciò in aria con un movimento elegante, tornando a far rimbalzare il pallone senza problemi. Shingo restò fisso ad ammirarlo, i suoi occhi non smettevano mai di seguire le azioni del giocatore in tutti i suoi dettagli. Poi il ragazzo prese la palla tra le mani e disse: «Piaciuto il piccolo show

Il bambino strizzò gli occhi e annuì contento.

«Vedrai che un giorno anche tu riuscirai a palleggiare in questo modo,» proseguì l’altro. «È vero: non è affatto semplice. Ci vuole tanto impegno... ma vedrai: se ce l’ho fatta io che ero imbranato, tu ci riuscirai in men che non si dica!»

Poi con un cenno richiamò sul campo i suoi amici, e prima di riprendere la partita porse la mano a Shingo. «Tre anni fa non ci siamo presentati... ma rimedio subito! Piacere di conoscerti: il mio nome è Tanaka Yuito... e sono il capitano della squadra delle scuole superiori del Nakahara! Sarei molto felice se restassi ancora un po' con noi per guardare la nostra partita di allenamento!»

Il piccolo prese la mano del giovane e la strinse nella sua, rivolgendo un piccolo inchino verso di lui. «Io sono Aoi Shingo, piacere! Grazie per l’invito, Tanaka-senpai... resterò volentieri!»

Shingo tornò sul bordo del campo e da lì assistette al resto della partita. Mentre osservava di nuovo i calciatori nel pieno del gioco - in modo particolare quel Tanaka Yuito - il bambino portò le mani sulle guance e il suo volto iniziò a brillare di una gioia smisurata.

Ho deciso! Vorrei giocare a calcio, un giorno… se solo anche nella mia scuola esistesse un club del genere!

 

 

 

Venuta la sera, come da tradizione la famiglia Aoi si era radunata a casa di Shingo per festeggiare il suo nono compleanno. Ancora una volta si erano raccolti tutti intorno al tavolo della cucina, e tra varie chiacchierate e racconti della giornata tutti i componenti della famiglia trascorsero una piacevole serata.

Prima di portare la torta a tavola, Atsuko si recò da sua figlia Yumi per aiutarla a lavare i piatti, lasciando Shingo a giocare con Yukiko, Riku e il loro papà Susumu.

«Certo che tuo figlio è proprio una sagoma…» L’anziana donna si era rivolta sottovoce a Yumi, guardando i suoi nipotini con affetto. Ci teneva a dire a sua figlia ciò che era accaduto poche ore prima con il nipote, nel momento in cui all’improvviso il piccolo aveva lasciato tutto - anche la bicicletta dalla quale non si separava mai - per correre chissà dove; poi era tornato da lei, e con allegria aveva iniziato a raccontarle della situazione nella quale era capitato semplicemente dopo aver seguito il rumore di un palleggio.

«Una partita di calcio nell’area accoglienza di Nakahara!» esclamò Atsuko sbalordita. «Ecco perché negli ultimi anni quei ragazzini imbranati non giocavano più vicino al ruscello... e non è l’unica novità: Shingo ha detto di aver fatto amicizia con il capitano della squadra, e ora spera che nel centro sportivo ci sia anche un piccolo campo da calcio, così la squadra del suo amato capitano potrà giocare come si deve!»

Yumi sorrise, rivolgendo lo sguardo verso suo figlio. «È davvero un bravo bambino: così premuroso e gentile!»

«Certo,» disse Atsuko con sarcasmo. «Così premuroso dal dimenticarsi di dire a sua nonna dove stesse andando... e di certo non potevo rincorrerlo: lo sai che ora è più veloce di me!»

L'anziana asciugò un piatto che aveva in mano, e lo ripose a posto. Diede un profondo sospiro e, dopo aver acquistato uno sguardo più serio e tranquillo, mormorò: «I miei nipotini stanno crescendo in fretta, forse anche troppo. Cara Yumi, sembrava ieri che ti tenevo in braccio, e oggi guardati: sei una donna con due figli... e anche loro sono già così grandi! A volte vorrei tornare indietro nel tempo per rivivere tutti quei momenti che ho trascorso con tutti voi bambini...»

Yumi risciacquò un altro piatto e lo passò a sua madre, poi le sorrise. «Sai, mamma? Noi siamo così fortunate ad abitare vicine, e posso assicurarti che a Shingo e Yukiko manchi molto, nonostante riuscite a vedervi ogni tanto...»

Atsuko posò il piatto sul gocciolatoio, sospirando ancora una volta. «Lo so, figlia mia... però per me ogni momento trascorso con loro è prezioso... e spero che sia lo stesso anche per loro...»

«Ti assicuro che è proprio così: non c’è un solo giorno nel quale non chiedono di te quando non ti vedono da queste parti o non possono venire a trovarti!»

Yumi si asciugò le mani e prese la torta dal frigorifero, sistemò le candeline sulla glassa e le accese. Rivolse un sorriso rassicurato a sua madre e con il suo aiuto portò il dolce a tavola.

Non appena videro le due donne rientrare nella cucina, gli altri presenti cantarono “Tanti auguri” e Shingo si preparò a soffiare le candeline. Prima di farlo, però, suo padre lo raccomandò. «Alt: ricordati che prima devi esprimere il tuo desiderio!»

Il piccolo rise. «L’ho già fatto, papà!»

«Co... come?»

«Eheheh! Sai, papà: all’inizio ero molto indeciso... ma oggi pomeriggio ho trovato il desiderio giusto da esprimere ora!»

Shingo chiuse gli occhi, riempì i polmoni d’aria con un gran respiro e soffiò sulla torta con tutto il fiato che aveva accumulato, lasciando di stucco Susumu che poi lo prese sulle spalle, se lo portò in disparte e disse: «Che strano... tutti gli anni ci metti un sacco di tempo prima di soffiare le candeline, e quest’anno hai fatto molto in fretta, forse fin troppo. Dimmi, Shingo: cosa bolle nella tua pentola?»

«Lo sai, papà: non posso dirtelo, altrimenti il mio desiderio non si realizzerà mai... e io voglio che si realizza al più presto!»

Susumu lo posò a terra, e gli mise le mani sulle spalle. «Va bene... però dimmi solo questo: non è una cosa cattiva, vero?»

Il piccolo scosse la testa e con un grande sorriso si batté più volte il petto con il pugno chiuso. «Te lo giuro, papà: è una cosa molto bella... che farà felice me e i miei amichetti! Però posso dirti che riguarda il centro sportivo che stanno costruendo vicino al parco...»

Allontanandosi così da suo padre che lo osservò piuttosto sorpreso, Shingo corse dalla sorella che lo stava aspettando con Riku in braccio. Prima di riprendere il gioco con lei in attesa di mangiare la torta, pensò ancora una volta al desiderio che aveva appena espresso: era uno di quelli molto semplici, quasi dell’ultimo minuto ma con il quale, senza saperlo, la sua vita aveva appena iniziato a cambiare direzione.

 

Voglio giocare a calcio presto, con tutti i miei amici! Li convincerò a fondare un club di calcio nelle scuole elementari... proprio come ha fatto Tanaka-senpai con i suoi compagni!

 

 

Note dell'autore:

[1] Lo spiedino Hida è una specialità di Takayama, sempre nella prefettura di Gifu: è composto da carne bovina Hida (la carne del posto, come per il più famoso manzo Kobe), succosa e morbida, che quasi si scioglie in bocca!

[2] I mitarashi dango sono i tipici spiedini di gnocchi di riso ricoperti da salsa di soia; tradizionalmente sono composti da cinque pezzi a spiedino.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Rieccoci con la parte dedicata a Shingo! Ebbene sì: lo Yuito che è comparso qui è lo stesso che il nostro protagonista ha incontrato nella parte precedente (quella dedicata ai suoi sei anni)! Ve lo ricordate? Tre anni prima era un po' imbranato con il pallone... beh, un bel po', considerato che lo faceva finire tra le pale del mulino insieme al suo amico; qui invece lo vediamo nelle vesti di capitano della squadra delle scuole superiori. Un bel salto di qualità, forse un po' troppo veloce; tuttavia se c'è qualcosa che Captain Tsubasa ci ha insegnato - in positivo - è che tutti, con impegno e perseveranza, possono diventare dei bravi calciatori, e anche il nostro Yuito non fa eccezione. :)

Detto questo, ve lo presento:

 

- Tanaka Yuito 「田中結翔」 è l'attuale capitano della squadra di calcio delle scuole superiori di Nakahara. Sebbene fosse da sempre appassionato di calcio, all’inizio non era molto bravo - soprattutto con i palleggi - ma dopo essersi impegnato ha raggiunto un livello notevole e il suo sogno è quello di diventare un calciatore professionista. Il nome è assolutamente inventato su due piedi, dando uno sguardo ai nomi e cognomi più in uso in Giappone: il suo cognome significa "campo di riso" mentre il suo nome "saltare, librarsi", perché mi piaceva l'idea che partisse dalla terra per poi elevarsi in cielo... calcisticamente parlando (un po' simile a "Tsubasa", che significa "ali").

 

Vi anticipo che la storia di Tanaka Yuito non finisce qui, per cui presto riparleremo anche di lui. A parte questo, la sua storia inizia a intrecciarsi a quella di Shingo al punto che, come avete visto, il protagonista prende la decisione di giocare a calcio; tuttavia anche con lui sono stata una scrittrice un po' cattiva e, anche se nel suo caso non ho fatto "passare nessuno a miglior vita", ho immaginato che Nakahara non avesse delle storiche squadre di calcio, e se da un lato Yuito è riuscito a far partecipare la sua squadra al campionato nazionale, Shingo deve partire da zero perché alle elementari non esiste ancora un club dedicato al calcio, mentre alle medie e superiori c'è già: a Nakahara, storica culla dell'artiginato, inizia a esserci la "calcio-mania" e iniziano a nascere questi vari club di calcio, ma Shingo avrà il difficile compito di fondarne uno, dato che è incuriosito e allo stesso tempo attratto da questo sport.

Ce la farà il nostro protagonista? Troverete la risposta a questa domanda nella prossima parte... ma prima di concludere, qualche nota aggiuntiva (perché ormai mi diverto a scriverle, ahahah XD):

 

- Ho immaginato Takayama situata a una decina di chilometri di distanza da Nakahara. Mi serviva questo elemento per "giustificare" il motivo per il quale a Nakahara non esiste da molto tempo un club dedicato al calcio: essendo una cittadina caratterizzata dall'artigianato, questo sport non è quello principalmente praticato dai bambini/ragazzini della zona, preferendo attività come il kendo e il kyūdō (sport, quest'ultimo, che pratica proprio la sorella di Shingo!)

- Il Gifu Memorial Center è un complesso di impianti sportivi situato nella città di Gifu, con lo scopo di promuovere lo sport e altri eventi all'interno della prefettura. Dunque, potete immaginare come agli occhi di un bambino come Shingo sia una cosa meravigliosa, al punto che egli spera che anche a Nakahara possa esserci una cosa del genere - spoiler: non esattamente, ma sarà comunque una cosa carina.

- Il Hida-Takayama Big Arena (che qui ho abbreviato come "Big Arena") è un complesso sportivo con aree al coperto. Dalla fotografia dell'esterno, però, ho immaginato che un bambino come Shingo non sia rimasto propriamente entusiasta di questo centro... al punto che come struttura lo paragona alle serre e, dunque, preferisce mille volte quello di Gifu. (Chiedo scusa agli abitanti di Takayama, non lo penso davvero! ^^") Nel dettaglio, qui potete trovare l'elenco completo delle aree e gli sport che si svolgono al suo interno.

- Una nota molto importante. Per quanto abbia cercato delle informazioni - e per questo rinnovo l'invito a chi ne sa di più a illuminarmi - non sono riuscita a trovare il modo in cui è segnalato l'atterraggio degli elisoccorsi in Giappone; per esempio, In Italia abbiamo il classico cerchio giallo con la lettera "H", ma chissà come sarà in Giappone...

 

Chiudo ringraziandovi anche per la lettura di questo capitolo, e come sempre ci vediamo con la prossima parte dedicata a Yuzo! Senza contare l'epilogo siamo ufficialmente arrivati a metà storia, e i nostri protagonisti stanno crescendo... è ancora presto, però vi confesso che un po' mi mancheranno quando arriveremo al finale. :')

Al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 9
*** Sguardo sul mondo - Dodici anni | Morisaki's side ***


Fanfiction
gEHuoR1

Sguardo sul mondo

{Dodici anni | Morisaki's side}

 

 

BGM: Steve Jablonsky - Tessa

 

 

 

[12 Marzo. Nankatsu, prefettura di Shizuoka.]

 

Nel cielo di Nankatsu, in quella mattina di metà marzo, il sole splendeva alto nel cielo e riscaldava dolcemente tutto ciò che i suoi raggi incontravano lungo il loro cammino, preannunciando una giornata mite.

Mentre stava andando a scuola Yuzo pensò a tutto ciò che era capitato negli ultimi mesi. Le elementari stavano giungendo ormai al termine; un lungo cammino che si era districato nell’arco di sei anni, fatto di amicizie e vicende del tutto speciali; eppure... per lui tutto ciò sembrava essersi concentrato in quell’ultimo anno di scuola. Tanti ricordi gli tornavano alla memoria, soprattutto di quel campionato nazionale di calcio che si era svolto nell’estate precedente e dove aveva partecipato come portiere della squadra che rappresentava l’intera città, la Nankatsu SC, e che aveva portato con sé forti emozioni.

In quel campionato Yuzo aveva provato di tutto: il timore, per non essere all’altezza del compito che gli avevano affidato, di difendere la porta della squadra della città; la curiosità e la simpatia, per aver incontrato giocatori di altre scuole, con i quali aveva presto fatto amicizia - un rapporto duraturo che non era svanito con la fine del torneo; la disperazione, per aver pensato di aver deluso le aspettative dei suoi amici ogniqualvolta che non era riuscito a proteggere la porta; la fiducia, per la stima che aveva provato nei confronti dei suoi compagni di squadra, e che gli aveva sempre fatto sperare che insieme avrebbero superato qualunque ostacolo; il coraggio, per l’aver affrontato prove sempre più ardue che l’hanno messo a confronto con giocatori più forti di lui; infine l’orgoglio, per aver permesso alla sua squadra di raggiungere un ambito traguardo, quello di essere il campione di un’intera nazione.

Grazie a quel campionato, anche il rapporto con i suoi storici compagni di squadra della Shutetsu si era rafforzato sempre più. Se prima di quel torneo molti di loro lo trattavano con sufficienza perché lo consideravano un portiere irrilevante, che non aveva nulla di speciale e per questo motivo finiva sempre in panchina come riserva, dopo quelle ultime partite la situazione era iniziata a migliorare... e non solo con loro.

Improvvisamente, Yuzo era diventato piuttosto popolare nella sua scuola. Certo, di fronte al grande Genzo Wakabayashi passava sempre in secondo piano, ma non era più raro per il piccolo portiere voltarsi intorno e vedere sguardi di ammirazione da parte degli altri studenti quando camminava nei corridoi della sua scuola.

La cosa non gli dispiaceva, tutt’altro: era felice di sapere che ora, per qualcun altro, anche lui era diventato un punto di riferimento, quasi un modello da seguire. Tutto ciò era emerso sempre più durante gli allenamenti delle cinque squadre della scuola: i kōhai, gli studenti che erano appena entrati a far parte del club di calcio, spesso chiedevano assistenza e consigli a lui e agli altri componenti della squadra del Team A - la prima squadra della Shutetsu - che avevano partecipato al campionato; tra loro vi era anche chi voleva aspirare a diventare portiere della prima squadra, per cui Yuzo si mostrava sempre gentile e disponibile nei suoi confronti. Ci era passato anche lui, a suo tempo, ed era contento di vedere nei loro occhi una luce colma di felicità e sempre più crescente determinazione mentre, durante le pause degli allenamenti, raccontava a loro del percorso che aveva fatto per conquistare quell’ambito posto.

Tra i componenti della sua squadra, negli ultimi due anni Yuzo era riuscito a rafforzare sempre più il legame che aveva con i suoi amici, nonché suoi nuovi compagni di classe. Per il portiere non era stato facile relazionarsi con il famoso Quartetto della Shutetsu, fin dal giorno in cui egli era entrato a far parte del club di calcio: dei loro membri Yuzo aveva avuto fin da subito una buona impressione, ma all’inizio non aveva mai avuto occasione per trascorrere con loro molti momenti. Verso quel gruppo Yuzo aveva sempre provato curiosità e interesse: quattro persone così diverse tra loro dal punto di vista caratteriale e fisico, ma unite dalla comune passione per il calcio. Fin dal primo anno di scuola quei quattro erano sempre capitati nella stessa classe, e al di fuori dell’ambiente scolastico spesso il portiere li vedeva in giro per la città, incrociandoli nel parco cittadino o presso qualche bar a parlare allegramente tra loro.

Come lui, anche quel gruppetto era entrato a far parte del club di calcio con l’intento di migliorare sempre più nel gioco del calcio puntando poi all’ingresso nel Team A, e per Yuzo l’opportunità offerta da Genzo all’inizio del loro quinto anno di scuola - quella di allenarsi con lui nel suo campo da calcio - era diventato il caposaldo della loro amicizia, che era stata definitivamente rinsaldata proprio nel corso del primo campionato nazionale che avevano affrontato insieme. Da quel momento i cinque non perdevano occasione per ritrovarsi e stare insieme, e anche se per il Quartetto le abitudini non erano cambiate di molto, diversamente lo fu per Yuzo che ben presto si era ritrovato in una rete di amicizie che per lui erano state una vera e propria conquista. Il portiere si sentiva accettato per davvero, e in loro compagnia avvertiva sempre molta simpatia e amabilità nei suoi confronti.

Così, negli ultimi due anni di scuola, Yuzo aveva preso l’abitudine di incontrarsi con quel piccolo gruppo di amici anche all’ingresso dell’istituto e trascorrere il tempo libero insieme a loro, allenandosi con Genzo nell’ampio cortile della dimora dei Wakabayashi o presso il campetto della città - luogo dove spesso si vedevano anche con gli altri membri della Nankatsu SC - oppure passeggiando per le vie del centro e ritrovandosi a casa di uno di loro quando la pioggia incessante non permetteva di stare all’aperto anche solo per sgranocchiare qualche biscotto tra una chiacchiera e un’altra.

In particolare, negli ultimi mesi i sei della Shutetsu avevano iniziato a discutere dei progetti che avrebbero riguardato da vicino il loro futuro, dato che la fine delle elementari era ormai alle porte. Yuzo era certo di una cosa: stando al fianco dei suoi nuovi amici, il portiere si sarebbe sentito sempre più sicuro e deciso a varcare la soglia che presto lo avrebbe portato all’inizio di un nuovo percorso.

 

 

 

Nel tardo pomeriggio, il campo di calcio della Shutetsu si svuotò lentamente. I ragazzi che avevano appena finito l’allenamento si diressero verso gli spogliatoi per cambiarsi, mentre un altro gruppetto, che nel frattempo aveva approfittato dell’ultima ora per rimettere a posto l’aula adiacente dedicata alle attività del club, iniziò a radunare i palloni lasciati sul campo per pulirli e metterli nelle ceste, dopodiché anche loro si recarono negli spogliatoi.

Quella volta Yuzo si congedò subito dai suoi compagni e uscì da scuola. Non era da lui, considerato che tutti i giorni percorreva il tragitto che lo portava a casa proprio con i suoi amici, e a maggior ragione doveva essere così anche quel giorno; il portiere non si era dimenticato di loro, e ci teneva a festeggiare il suo compleanno anche con i suoi compagni di squadra... tuttavia, aveva una sorta di appuntamento al quale non poteva rinunciare, segnato su un foglio che sua madre gli aveva dato prima che andasse a scuola.

Con il borsone stretto in mano, a passo svelto Yuzo si diresse verso il vicino parco e, giunto là, si sedette su una delle panchine di legno. Guardò l’orologio che portava al polso e tirò un sospiro di sollievo.

Per fortuna ho fatto in tempo!

Così alzò gli occhi al cielo e li chiuse, cercando di inspirare profondamente per riprendere quanto più fiato possibile.

«... pa!»

Il cuore del portiere sobbalzò, e il ragazzino spalancò gli occhi per l’improvviso spavento. Aveva appena avvertito un peso che di colpo gli aveva avvolto entrambe le gambe e, non appena aveva abbassato lo sguardo, aveva visto due bambini che lo stavano osservando con grande gioia. I piccoli avevano la stessa altezza, d’aspetto erano due gocce d’acqua e si distinguevano per il modo in cui erano vestiti: il maschietto indossava un jeans e un giubbotto imbottito, la femminuccia lo stesso ma con colori differenti, e in più aveva i capelli raccolti da un cerchietto con un fiocco blu.

Quei due bambini non persero tempo a tendere le manine verso Yuzo, per farsi prendere in braccio dal ragazzino che li guardò con un dolce sorriso. «Naoki, Saki!» disse il ragazzino, arruffando i loro capelli. «E papà e mamma dove sono?»

«La mamma è andata un attimo al supermercato, lasciando queste due piccole pesti al papà... come sempre, del resto.»

Quella risposta era giunta alle spalle del portiere, che subito si voltò e vide suo zio Hotaka che lo stava salutando con la mano. «Buon compleanno, Yuzo» aggiunse, sedendosi al suo fianco. «Allora, bambini: non volete mostrare il regalo al cuginetto?»

Ma i piccoli ignorarono quella richiesta, e tesero ancora di più le mani verso il portiere. «Yu, Yu, Yu!» dissero in coro, implorandolo ancora di essere presi in braccio.

«Va bene» sussurrò Yuzo, e posò sulle sue ginocchia la femminuccia; poi si rivolse allo zio non appena vide che il maschietto mise il broncio, scontento del fatto che non fosse stato il primo a trovarsi tra le sue braccia. «Se reggi un secondo Saki, prendo anche Naoki; sai già come va a finire se non prendo anche lui in braccio...»

Hotaka scoppiò a ridere. «Tranquillo, ci penso io!»

Quando anche l’altro bambino fu sulle ginocchia del cugino, il piccino rise di gioia e iniziò a giocare con i bottoni del giubbotto che il portiere indossava. «Pa... pa...» disse, divertendosi a sbottonare il primo che si trovava vicino alla gola, mentre sua sorella - che il padre stava ancora reggendo tra le sue mani - afferrò il collo del giubbotto e iniziò a tirarlo verso di sé. L’intento divenne chiaro: entrambi i piccoli volevano che il cugino si togliesse quel giubbotto.

«Dai, smettetela...» disse Yuzo lasciandosi sfuggire qualche risata nel vedere quei due bambini divertirsi con così poco. «Qui non siamo a casa, fa molto freddo!»

Naoki e Saki, rispettivamente il maschietto e la femminuccia, erano i figli di Hotaka... ed erano gemelli in tutto e per tutto. Qualsiasi cosa facevano, la facevano insieme senza mai separarsi: se uno aveva deciso di dormire, l’altra lo avrebbe seguito subito dopo, così come se uno doveva mettersi a urlare come un forsennato, anche l’altra lo avrebbe fatto. E così stava avvenendo in quel momento: riuscivano sempre a intendersi a vicenda, quasi leggendosi nel pensiero quando dovevano fare qualsiasi cosa, soprattutto qualche marachella. I due gemelli avevano solo un anno e mezzo di vita, eppure il loro sguardo sempre sveglio e vispo e ciò che combinavano nonostante fossero ancora così piccoli avevano fatto capire alla loro famiglia che non erano due bambini da sottovalutare.

Non appena Saki riuscì a tirare anche la sciarpa leggera che indossava Yuzo, Hotaka la avvicinò a sé e le rivolse la parola. «Yuzo ha ragione: poveretto, così prenderà l’influenza!»

La piccola, dopo aver ascoltato attentamente le parole del suo papà, afferrò di colpo uno dei ciuffi che arrivavano sulle spalle e lo tirò in giù con sguardo soddisfatto.

«Ahiahiahiahiahi!» urlò Hotaka per il dolore. «Saki, i capelli, i capelli di papà! Di questo passo resterò pelato!»

Eccetto per il povero zio che non smetteva di lamentarsi, i due gemellini scoppiarono a ridere e così anche Yuzo, che riuscì a richiamare l’attenzione della bambina prendendola dolcemente per la mano. «Saki, papà ha appena detto che tu e il fratellino avete un regalo per me. Me lo mostri, per favore?»

A quella domanda, entrambi i bambini vollero scendere dalle ginocchia dei due giovani, per poi avvicinarsi al loro padre. «Papà, galo! Galo Yu!» esclamarono, e indicarono un sacchetto che Hotaka aveva posato accanto a sé quando si era seduto sulla panchina. I gemellini avevano riconosciuto il regalo, e vollero prenderlo.

Hotaka afferrò il sacchetto e aiutò i bambini a reggerlo, che così tornarono da Yuzo. «Questo è il regalo che Naoki e Saki hanno fatto per te... ovviamente con il mio aiuto e quello di zia Suzume» disse, mostrandolo al ragazzo.

«Mio, mio!» aggiunsero i due piccoli, indicandosi ripetutamente.

Yuzo prese il sacchetto e lo aprì. All’interno vi erano due fogli arrotolati, che erano scarabocchiati da cima a fondo col colore verde e che accompagnavano quello che alla fine era il vero regalo, contenuto in una spessa scatola e realizzato artigianalmente dai suoi zii: un piccolo fūrin, la campana del vento giapponese, dall’anima con decorazioni floreali, accompagnato da un omamori di colore verde.

«Grazie, zio Hotaka: è molto bello...» disse il ragazzino, riponendo l’oggetto al suo posto e abbracciando i due bambini. «E grazie anche a voi! I vostri disegni sono molto belli... anzi, sono i regali più belli!»

Yuzo indicò i due fogli scarabocchiati e i gemellini diedero un lungo verso di felicità, stringendosi di più al cugino senza mai lasciarlo. Poi si rivolse nuovamente allo zio: «Saranno due pesti, ma sono molto affettuosi.»

«Non lo metto in dubbio» replicò l’altro. «Mi ricordano te alla loro età: sai, io e tua madre eravamo un po’ preoccupati che da grande saresti diventato un teppista...»

«Ehi!»

Hotaka scoppiò a ridere. «Stavo scherzando, stavo scherzando! Però è vero che da piccolo era difficile starti dietro... proprio come loro due.» Posò le mani sulle spalle dei due bambini e proseguì: «Sappi che stai crescendo bene, Yuzo. Continua così, e vedrai che un giorno riuscirai a realizzare tutti i tuoi sogni...»

Il ragazzo sorrise. «Grazie, zio.»

 

«Tao tao!»

Dopo aver salutato il cugino, i due gemelli si allontanarono insieme a papà Hotaka e a mamma Suzume, una giovane donna dai capelli lunghi e neri - nonché moglie di Hotaka - che nel frattempo li aveva raggiunti trascinando un carrello portaspesa completamente pieno di cibo e altri oggetti.

Yuzo mise con cura il regalo nel borsone che aveva lasciato accanto alla panchina e stette per andarsene, quando un’altra improvvisa voce alle sue spalle richiamò la sua attenzione.

«Bang. Colpito e affondato.»

Il portiere si voltò con sguardo tranquillo, riconoscendo già dalla voce di chi si trattasse. Vi era un ragazzo che, dal suo aspetto, aveva circa la sua età: con un sorriso schietto aveva una mano protesa verso di lui, chiusa nel gesto della pistola, mentre con l’altra aveva alzato la tesa del suo cappello per scoprire di più il suo volto.

Genzo Wakabayashi.

«Mai abbassare la guardia, Morisaki» gli disse Genzo con tono scherzoso, e senza perdere il sorriso portò entrambe le mani sui fianchi. «Quindi, era questa l’urgenza? Ammetto di essermi un po’ preoccupato dato che ci hai lasciato con un frettoloso “Scusate, ora devo proprio scappare, ci vediamo più tardi!” senza darci una spiegazione, ma ora che ho visto quei due bimbetti... devo ammettere che potresti essere un ottimo babysitter!»

«Ti chiedo scusa» rispose Yuzo, portandosi una mano tra i capelli. «Hai ragione, avrei dovuto dirvi che–»

«Tranquillo, non devi giustificarti» lo interruppe Genzo, sedendosi sulla panchina, «è il tuo compleanno, non ti sei appartato per progettare la conquista del mondo... a meno che non hai intenzione di conquistarlo con un pallone da calcio; nel caso fammi sapere, perché sai già che posso darti una mano!»

Yuzo si affiancò a lui, e non riuscì a trattenere un sorriso ricordando quanto quel grande portiere gli avesse fatto solo del bene negli ultimi anni di scuola, in modo particolare durante i due campionati nazionali che avevano affrontato insieme: Genzo gli aveva sempre dato una mano e lo aveva sostenuto in tutte le occasioni, fin dal giorno in cui il minore dei due aveva fatto ingresso nel club di calcio della Shutetsu. Quel giorno Yuzo era meravigliato ma al contempo felice nel rivedere quel suo coetaneo, ormai cresciuto, che in via eccezionale era riuscito ad entrare nel club un anno prima di lui e che nel frattempo era diventato il portiere titolare nella prima squadra della scuola.

Nel vederlo in azione sul campo, da quel giorno Yuzo aveva deciso di inseguire le sue orme, allenandosi senza sosta per affinare le sue capacità e avvicinarsi a lui sempre di più.

Nel giro di poco tempo Genzo era diventato il suo punto di riferimento, quasi un modello da seguire per diventare un grande calciatore: era come una roccia che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire. Yuzo lo aveva seguito sempre in tutto ciò che faceva, ammirandone i gesti e i movimenti quando era sul campo da calcio, e fin dall’inizio non gli importava se quel suo coetaneo si fosse mostrato a volte un po’ “arrogante” nei suoi confronti e in quelli dei suoi compagni... o, per meglio dire, quasi dall’inizio.

Quando si erano ritrovati sul campo da calcio della scuola, nel profondo del suo cuore il piccolo portiere era rimasto un po’ male dall’atteggiamento spocchioso di colui che fino a quel momento si era sempre mostrato in modo gentile nei suoi confronti: dopo la faccenda della biblioteca i due si erano rivisti più volte nonostante avessero frequentato classi diverse, e Yuzo era stato molto felice per lui quando aveva saputo che Genzo era riuscito a entrare nel club di calcio un anno prima di lui e, soprattutto, diventare in poco tempo il portiere titolare della prima squadra della Shutetsu. Era come se quella precoce promozione avesse portato il suo compagno a montarsi la testa, al punto che la prima cosa che gli aveva detto quando lo aveva visto tra i pali del campo della scuola a esercitarsi era stato un secco: «Per me stai solo perdendo tempo su questo campetto. È inutile che continui ad allenarti in questo modo: non servirà a niente.»

Di fronte a quell’affermazione Yuzo aveva pensato che Genzo stesse dubitando delle sue capacità, e la prima cosa che il piccolo portiere aveva fatto era stato il rivolgergli uno sguardo colmo di tristezza. Non sapeva cosa avrebbe potuto rispondergli, anche perché da una parte il suo compagno aveva ragione: lui era davvero in gamba e, non a caso, era riuscito a diventare il portiere titolare. Tuttavia, non appena aveva visto Genzo affiancarsi a lui per poi sedersi a terra, Yuzo aveva iniziato a capire il vero perché di quell’atteggiamento apparentemente colmo di arroganza.

«Visto che siamo soli sarò sincero con te, Morisaki. Se vuoi essere un bravo portiere, devi essere anche aggressivo. Devi tirare fuori la grinta che è in te: solo così riuscirai davvero a essere come me... e so che puoi farcela!»

Da quel momento, Yuzo si era ricreduto sul suo compagno. L’apparente spocchiosità di Genzo in realtà nascondeva una grande premurosità - anche se non lo dava troppo a vedere - non solo nei suoi confronti ma anche in quelli degli altri membri della squadra: quei suoi atteggiamenti servivano proprio per essere da sprone per alcuni di loro, dei quali aveva riconosciuto le eccezionali abilità e sui quali il portiere titolare era certo di poter far affidamento per raggiungere un obiettivo comune a ciascuno di loro.

Trionfare nei campionati nazionali.

Per Yuzo, tutto ciò che contava per realizzare quel sogno era il continuare a restare al fianco di quel portiere fuori dal comune, un desiderio rinforzato attraverso una sorta di promessa che gli aveva fatto, di fronte al suo consiglio di cambiare scuola per diventare un portiere titolare.

«Di questo passo non importa quanto ti impegni, Morisaki: non potrai mai diventare un portiere titolare fino alla fine delle elementari, perché la squadra ha già me... e così rischi di diventare solo la mia ombra. Se vuoi essere titolare, dovresti cambiare scuola... per esempio alla Nankatsu: lì, per come sono messi, lo diventeresti in un battibaleno!»

Quello non era affatto un consiglio, tutt’altro: Genzo aveva messo alla prova anche lui, per vedere fino a che punto sarebbe stato così determinato e ostinato a continuare per la sua strada. Yuzo lo sapeva molto bene: solo nella sua scuola avrebbe avuto tutti gli strumenti per migliorare le sue capacità... perché era proprio là, dove si trovava, che aveva lo strumento più importante di tutti.

«No, Wakabayashi-san. Non lo farò mai... perché è proprio qui che ho il miglior esempio per imparare ad essere un bravo portiere.»

«Ah, sì?»

«È vero! Il mio obiettivo è diventare il secondo miglior portiere del Giappone... prendendo te come esempio!»

«Sei un ragazzo strano, sai?»

No. Yuzo sapeva di non essere strano... e lo sapeva bene anche Genzo, con il quale era riuscito a fare quel discorso a cuor leggero, senza mai trovare nell’altro un accenno di scherno o di sprezzo. Yuzo era solo perfettamente consapevole delle sue capacità: sapeva che l’unico modo per migliorare nel calcio era il continuare a confrontarsi con chi era più bravo di lui, e aveva visto giusto nel prendere Genzo come modello da seguire.

Solo restando al suo fianco, Yuzo era riuscito ancora di più a mettercela tutta sia negli allenamenti che nelle future partite, guadagnandosi così da parte dell’altro portiere una profonda e sincera stima nei suoi confronti. Una positiva opinione che aveva portato Genzo a fargli quella proposta, quando gli aveva parlato del suo trasferimento in Germania.

«Cosa pensi di fare? Ti va di trasferirti alla Nankatsu... insieme a tutti gli altri della Shutetsu?»

Una proposta che aveva fatto onore a Yuzo, nonostante l’inevitabile assenza che si sarebbe creata con la partenza di Genzo. Una proposta nella quale aveva letto una forte volontà, da parte di quel grande portiere, di affidare proprio a lui il futuro del loro gruppo che all'improvviso si era ritrovata smarrita, senza la sua guida di capitano... forse una responsabilità troppo grande da assumersi, ma che era necessaria per crescere e maturare sempre più.

Nella nuova squadra Yuzo non sarebbe diventato mai capitano - questo era certo - ma aveva il dovere di sopperire a quel posto vuoto lasciato da Genzo, se voleva davvero seguire le sue orme. Non sarebbe mai partito per terre lontane come il suo compagno di squadra, non in quel momento e non così giovane, con una famiglia alle sue spalle che forse non glielo avrebbe nemmeno permesso alla sua età; però in quel modo Yuzo sentiva di poter essere ancora vicino a lui, anche se non più fisicamente.

Nel frattempo il piccolo portiere, così come stava avvenendo con gli altri della Shutetsu, si era promesso di trascorrere il più possibile con Genzo tutto il tempo a disposizione prima della sua partenza, che sarebbe avvenuta solo alla fine del loro percorso scolastico.

 

«A proposito di conquista del mondo con il pallone...» proseguì Genzo con un sorriso, e gli diede un buffetto sulle spalle. «nulla contro i tuoi parenti, però ti confesso che ci sono rimasto male quando oggi sei uscito in fretta e furia dalla scuola...»

«Perché?»

«Perché è il tuo compleanno, l’ultimo che possiamo festeggiare insieme... almeno per ora. Un po’ vi invidio: dall’anno prossimo non potrò esserci!»

«Ma possiamo sentirci per telefono! Non sarà la stessa cosa, lo so... però non ci dimenticheremo del tuo compleanno: stai certo che ti bombarderemo di telefonate, così non ti sentirai solo!»

«Da quando sei diventato così schietto, Morisaki? Quando ci siamo conosciuti eri molto più riservato!»

I due risero di cuore, ma subito Genzo si fece serio. «Ascolta, Morisaki. La verità è che non sono qui solo per farti compagnia... ma perché ci tenevo a ringraziarti.»

Yuzo deglutì. Anche se aveva ormai compreso di essere entrato nelle simpatie di Genzo, non era ancora abituato a sentirsi dire certe parole da lui.

Si schiarì la voce e disse: «Davvero?»

«Certo. Sei migliorato molto in questi ultimi due anni di scuola, e ti sei fatto onore. Mi raccomando: in mia assenza, impegnati fino in fondo per diventare il miglior portiere del Giappone. Non puoi più permetterti di essere il secondo, proprio perché non ci sarò io per poter essere il primo!»

Gli occhi di Yuzo si illuminarono, un po’ per l’emozione, un po’ per l’entusiasmo. Con una determinazione rinnovata gli sorrise fieramente. «Sì! Lo farò!»

«Questo è lo spirito giusto, bravo!»

Le labbra di Genzo si unirono in un sorriso smaliziato. «Ah! Un’altra cosa... ma credo che lo sai già.»

Yuzo lo guardò con perplessità, aspettando che l’altro espresse ciò che voleva comunicargli.

«Se vuoi davvero essere come me... impegnati per diventare il portiere titolare della nuova squadra. Non penso ti sarà difficile conquistare il posto... però mi raccomando: voglio vederti giocare da portiere, con la maglia numero uno! E da capitano uscente della Shutetsu, ti ordino di inviarmi una foto quando succederà!»

Yuzo scoppiò a ridere divertito.

«Che c’è?» chiese Genzo. «Non avrai mica pensato di non riuscirci... spero

L’altro portiere si asciugò le lacrime che gli erano uscite dagli occhi. «Ahahah, scusa... è il modo in cui l’hai detto! “Ti ordino di inviarmi una foto!”» e imitò il tono e il modo in cui Genzo aveva pronunciato le ultime parole che gli aveva rivolto. «Comunque, d’accordo. Lo farò... e non mi arrenderò finché non ci sarò riuscito, capitano!»

Genzo lo guardò senza nascondere il suo stupore: Yuzo lo aveva appena chiamato capitano, per la prima e forse unica volta. Il vedere il suo compagno di squadra così estroverso rispetto ai primi tempi lo stava rendendo molto felice e sollevato, e in quel momento ne era ancora più certo: sapeva di aver fatto la cosa giusta consigliando a tutti i suoi compagni di squadra - nonché amici - di continuare a giocare insieme, trasferendosi in un’altra scuola.

Stare insieme a Tsubasa e ai suoi compagni ci ha fatto del bene, a quanto vedo...

Genzo chiuse gli occhi e sorrise, lasciando trapelare dal suo volto un sentimento di pura serenità. «Ripeto: sei un ragazzo strano... ma sono felice che sei riuscito ad aprirti un po’. So che non mi deluderai.»

Yuzo stava per rispondergli, ma la sua vista si offuscò di colpo.

«Indovina un po’ chi è arrivato?»

Da quella voce il portiere capì subito di chi si trattasse, e subito ci non pensò due volte: con grande divertimento afferrò le mani che erano sul suo volto e, non appena esse si sollevarono, vide di fronte a sé tre membri del Quartetto con un’aria interrogativa nei loro volti.

«Si può sapere perché oggi sei andato via prima?» chiese con un sorriso malizioso Teppei Kisugi, dai capelli ricciolini. «Dì la verità: ci stavi nascondendo qualcosa? Hai fatto il misterioso quando sono finiti gli allenamenti!»

«Guarda che non puoi sfuggire alla sorpresa di compleanno, eh!» aggiunse con un leggero ardore Shingo Takasugi, un ragazzo alto e robusto.

«Non abbiamo una torta... ma questo non vuol dire che non possiamo festeggiare come si deve!» Hajime Taki, il ragazzo che si era appena rivolto a Yuzo, si era avvicinato a lui con le mani chiuse a pugno sui fianchi. «Non ti molliamo finché non ti deciderai a stare con noi!» esclamò.

«Quindi da questo ne deduco che alle mie spalle... c’è Izawa: conoscendovi, non credo proprio che l’avete lasciato a scuola...»

«Esattamente!» A quella frase Mamoru Izawa lasciò le sue mani e si piazzò davanti a lui, per poi rivolgersi ai suoi compagni. «Dato che è l’ultimo compleanno che festeggiamo con il capitano, rendiamolo memorabile! Siete d’accordo con me?»

«Sì!»

Il gruppetto si radunò intorno alla panchina, iniziando a discutere sul da farsi. Ciascuno di loro propose un’idea, come andare al bar vicino o allenarsi ancora nell’ampio cortile di casa Wakabayashi, finché Yuzo non esclamò: «Perché non andiamo al Nankatsu Bowl? A quest’ora è aperto!»

«Al Nankatsu Bowl?» domandarono tutti.

«Izawa ha detto “un compleanno memorabile”» rispose il portiere, «e quale modo migliore per trascorrere un giorno indimenticabile se non in un luogo dove possiamo divertirci come vogliamo? Possiamo giocare a biliardo, a bowling, a ping pong...»

«Ci sto!» affermò Genzo. «Ricordo che l’ultima volta che ci siamo andati Takasugi stava per centrare il bersaglio delle freccette con la pallina da ping pong... voglio vedere questa volta dove va a finire!»

«Anch’io!» replicò il ragazzo possente. «L’ultima volta ho perso contro di te, ma sta a vedere che oggi ti batto!»

«Sempre se la pallina non distrugga qualche finestra...» aggiunse Taki.

«Volete finirla?» tuonò Takasugi, che subito si avviò in direzione del Nankatsu Bowl. «Su, andiamo, così vi dimostro di che pasta sono fatto!»

Il resto del gruppetto lo raggiunse e gli sorrise, proseguendo la loro allegra chiacchierata mentre alle spalle il sole stava tramontando.

 

 

 

Quando tornò a casa, Yuzo fu accolto gioiosamente dalla piccola Hanako nel loro cortile: stava ormai scendendo la sera ma la sorellina era ancora fuori a giocare con il pallone, divertendosi a calciarlo nella mini porta da calcio che lei utilizzava in assenza del fratello.

Poco distante da lei, sulle scale dell’ingresso Takaji era intento a leggere un libro, mentre di tanto in tanto apportava delle note. Era stato incaricato dalla madre di dare un occhio alla sorellina, dato che lei era impegnata nella cucina e Ken'ichi era ancora immerso nella sua stanza in preda allo studio per una difficile verifica del giorno dopo; il loro padre doveva ancora rincasare, e anche lo zio Noboru sarebbe stato lì a momenti, dato che era riuscito ad organizzarsi con il lavoro.

Non appena vide Yuzo e Hanako che si stavano avvicinando a lui, Takaji alzò lo sguardo. «Ciao fratellino...» disse con tono indifferente, e subito tornò a osservare il libro.

Il portiere ricambiò il saluto ma guardò suo fratello maggiore con stupore, dopodiché si inginocchiò e si rivolse sottovoce a sua sorella: «Ma... che gli è preso?»

«Non lo so, fratellone...» rispose lei. «Sta guardando quel libro come tu guardi il pallone: non lo ha mai lasciato!»

Yuzo ridusse ulteriormente le distanze da Takaji e si chinò per osservare la copertina del libro. Il titolo, Probabilità e statistica, gli fece subito capire che si trattava del libro di matematica, di fronte al quale il portiere diede le spalle e cercò di trattenere una risata: conosceva molto bene suo fratello, e sapeva che lui e la matematica erano due mondi totalmente opposti. Se Takaji aveva proprio quel libro tra le mani e non si decideva a lasciarlo nemmeno per respirare, con molta probabilità doveva affrontare qualche verifica nei giorni successivi, prima della fine dell’anno scolastico.

A differenza degli altri due fratelli, Takaji non era una cima a scuola. Come Ken'ichi e Yuzo anche lui cercava di dare il massimo negli studi, ma su alcune materie non riusciva ad essere così bravo come loro; così ben presto arrivò anche a provare un pizzico di gelosia nei loro confronti, perché su alcune materie egli riusciva ad arrivare a malapena alla sufficienza.

Essendo una scuola privata la Shutetsu era un istituto molto duro per Takaji, e il mezzano aveva iniziato a gettarsi a capofitto negli studi a partire dalle scuole medie, soprattutto in vista del prossimo shiken jigoku che avrebbe dovuto affrontare al termine del percorso scolastico per l’ammissione alle superiori: era nel guardare proprio i suoi fratelli che si era sforzato di impegnarsi sempre di più, anche se sembrava che molte cose non volessero entrare nella sua testa nemmeno sotto tortura. Nonostante fosse orgoglioso e all’inizio non voleva accettare l’aiuto di nessuno, nemmeno di Ken'ichi che era più grande di lui di un anno e a scuola aveva già affrontato molti degli argomenti che il mezzano stava studiando, alla fine era riuscito ad accettare quello di suo padre, che di sera entrava nella sua stanza per spronarlo e dargli qualche consiglio quando era in difficoltà.

Nonostante il rapporto con i fratelli fosse rimasto lo stesso, qualche mese prima il mezzano aveva iniziato a provare un leggero sentimento di freddezza nei confronti di Yuzo, più precisamente dal momento in cui il suo fratellino aveva deciso, quasi in modo inaspettato, di cambiare istituto con l’inizio delle medie.

Questo aveva provocato in Takaji una duplice reazione.

La prima, la gelosia. Yuzo stava per passare da una scuola privata ad una pubblica, con l’immediata conseguenza che il suo metodo di studio sarebbe cambiato. Nella Nankatsu avrebbe sicuramente studiato di meno rispetto alla Shutetsu, e se fosse diventato ancora più bravo a calcio non sarebbe stato “obbligato” ad andare all’università per seguire le sue passioni.

Che furbetto: beato lui, ha scelto la via più facile!

La seconda, la preoccupazione. Yuzo sarebbe stato il primo dei Morisaki a frequentare la scuola media Nankatsu, e ciò significava che dall’anno successivo non avrebbe più percorso la stessa strada che lui e Ken'ichi attraversavano ogni giorno. Ma ciò che preoccupava di più Takaji era il fatto che il fratello minore avrebbe cambiato completamente scuola: certo, sapeva che ci sarebbe andato con i suoi amici di sempre, e questo in parte lo aveva rassicurato; tuttavia un certo pensiero aveva iniziato a frullargli per la testa.

E se qualcuno dovesse fargli del male nella nuova scuola? Io... io non potrò più proteggerlo, e nemmeno il fratellone!

Ad un tratto questa sua ansia era saltata fuori, al punto di confidarla al diretto interessato. La prima cosa che Takaji aveva fatto era stato il preparare Yuzo a quella possibilità, trascinandolo nel cortile quando poteva e insegnandogli tutto ciò che sapeva sul suo amato kendo, ma si era arreso di fronte allo sguardo attonito e sorpreso del fratello minore, che all’inizio non riusciva ben a capire perché di punto in bianco Takaji si stesse comportando quasi da mamma chioccia con lui.

Alla fine il mezzano gli aveva dato un breve ma lampante consiglio, accompagnandolo con un sonoro sospiro. «Non farti mettere i piedi in testa, mai. Male che vada, usa il pallone per difenderti!»

A poco a poco il rapporto tra i due Morisaki era tornato a essere quello di sempre, e da allora Takaji era tornato a concentrarsi sul suo studio fatto per lo più di percorsi a ostacoli. Il sorriso colmo di determinazione che Yuzo gli aveva rivolto in risposta alle sue parole gli aveva dato la certezza che suo fratello se la sarebbe cavata di fronte a qualunque situazione che gli sarebbe capitata, anche senza di lui.

 

Nel frattempo, dopo aver compreso che Takaji non gli avrebbe dato retta nemmeno se avesse usato il megafono per parlargli, Yuzo prese la mano della piccola Hanako e si diressero verso la mini porta da calcio.

Fu allora che la bambina tornò a parlare, con una punta di tristezza nella sua voce. «Perché oggi hai fatto tardi? Io e Hoshi-chin ti stavamo aspettando: anche lei voleva farti gli auguri... e voleva tanto giocare con te!»

Hoshi-chin, il nomignolo che la minore dei Morisaki aveva dato a Hoshiko, era una sua coetanea e, complice il fatto che erano cresciute insieme, le due si consideravano le migliori amiche del mondo. Era la secondogenita degli Yamamoto, i vicini di casa dei Morisaki, nata a pochi mesi di distanza da Hanako, e proprio con lei aveva instaurato un legame speciale fin da subito: le due bambine non si erano mai perse di vista, arrivando a condividere quasi tutta la giornata insieme come se fossero state sorelle. Si recavano all’asilo insieme, e anche quando tornavano a casa si divertivano a giocare nel cortile delle loro abitazioni oppure, quando fuori il tempo non era sereno, a guardare in televisione Pen-Pal, il loro cartone animato preferito con protagonisti due orsacchiotti che vivevano in due parti distanti del mondo ma che riuscivano a incontrarsi di persona grazie al teletrasporto, mentre mangiavano i biscotti preparati dalle loro mamme. Spesso le due bambine si scambiavano i loro giocattoli, soprattutto i palloni da calcio con i quali si divertivano quando fuori c’era il sole.

La piccola Hoshiko, dai capelli castano chiari raccolti in due piccole code e grandi occhi marroni, aveva subito preso in simpatia non solo Hanako anche Yuzo, che spesso e volentieri trascorreva il suo tempo libero con lei e sua sorella. Anche lei, come Hanako, sembrava molto presa dal gioco del pallone, e proprio come lei vedeva in Yuzo una persona molto gentile e disponibile, sempre pronta a dare consigli senza alcuna pretesa.

D’altro canto a Yuzo faceva sempre piacere essere insieme a Hoshiko e Hanako, ma c’era anche dell’altro. Il suo cuore mancava un battito ogni volta che le vedeva insieme: il portiere avvertiva una sensazione dolceamara che partiva dal centro del suo petto e gli correva per tutto il corpo, che puntualmente gli aveva fatto ricordare la sua infanzia.

Era una dolce nostalgia.

Ogni volta che i suoi occhi si posavano sulle figure della sorellina e di quella graziosa bambina, Yuzo si rivedeva in loro, di quando era bambino proprio come loro e la sua unica preoccupazione era quella di poter giocare con il suo amico il più possibile. Hoshiko era molto diversa da suo fratello Hikaru - quel fratello che lei non aveva mai conosciuto - ma nei suoi gesti e nelle sue espressioni gli ricordava molto quel bambino un po’ vispo che era stato suo compagno di giochi solo per poco tempo.

Hikaru era il fratello di Hoshiko, dopotutto.

Forse, era inevitabile quella strana sensazione che Yuzo aveva provato in quei momenti. Nulla sarebbe tornato come prima, ma nel suo cuore aveva sempre augurato silenziosamente che Hanako sarebbe stata più fortunata di lui: l’ultima cosa che avrebbe voluto era il vedere anche sua sorella subire quella drammatica esperienza.

Il portiere sorrise, si inginocchiò e con dolcezza accarezzò la testa della piccola. «Scusami, sorellina... ti prometto che domani torno prima a casa, così giochiamo anche con Hoshiko... va bene?»

Hanako mise il broncio. «Non è giusto... oggi è il tuo compleanno, non dovevi fare tardi!»

«Mi dispiace... davvero...»

Yuzo posò il borsone a terra e strinse a sé la sorellina; quest'ultima tirò su il naso e iniziò a singhiozzare. «Mi fai un favore, da brava?» le disse, guardandola negli occhi, «Vai dalla mamma e dille che sono arrivato.»

«E tu non vieni, fratellone? Dai, vieni anche tu, dai!»

Yuzo avvicinò il suo volto all'orecchio di Hanako e le sussurrò: «Sai mantenere un segreto?»

La piccola annuì.

«Ti prometto che quando tornerai qui... vedrai il fratellone che correrà da un punto all’altro del nostro cortile.»

«Davvero?» Gli occhi di Hanako si spalancarono per lo stupore.

«Davvero. Ora, su: corri dalla mamma!»

Yuzo arruffò i capelli a Hanako che, senza pensarci due volte, entrò subito in casa.

Takaji, che si trovava seduto sullo scalino, vide con la coda dell'occhio la sorella che era rientrata in casa in fretta e furia e, piuttosto incuriosito, chiuse di scatto il libro. Il suo sguardo puntò prima la porta d'ingresso, poi suo fratello che lo stava osservando con le mani sui fianchi, soddisfatto: gli fu evidente che Yuzo stesse nascondendo qualcosa.

«Cosa le hai promesso, stavolta?» domandò con una punta di sospetto nel tono della sua voce.

Yuzo fece finta di cadere dalle nuvole. «Nulla... perché me lo chiedi?»

«Perché entrambi conosciamo la nostra cara sorellina...» replicò Takaji, «inoltre, è vero che sto studiando, ma non sono diventato sordo: in pochi secondi lei è passata dal voler stare con te a “Vabbè, sai che c'è? Ora torno dentro”. Non ti sembra strano, per una come lei che adora giocare qui senza mai stancarsi?»

Yuzo riprese in mano il borsone e se lo caricò nuovamente sulla spalla; poi, a passo svelto accorciò le distanze con suo fratello, gli si sedette di fronte e incrociò le braccia. Lo fissò con un sorriso beffardo, senza dire una parola... atteggiamento che non fece altro che insospettire sempre più Takaji.

«E ora cosa c'è?» chiese il mezzano.

«Senti un po’, fratellone: come va il tuo rapporto con la matematica?» sottolineò maliziosamente Yuzo, senza smettere di osservare suo fratello. «O forse dovrei dire... la tua futura ragazza? Rassegnati, la porterai almeno fino alla fine delle superiori!»

A Takaji mancò poco che perdesse l’equilibrio: il suo fratellino aveva ragione, lui non aveva un rapporto felice con quella famigerata materia. Un altro anno di studio stava giungendo al termine, e il mezzano non vedeva l’ora di concludere un ennesimo percorso di quella che ormai gli sembrava essere più una tortura che una materia scolastica.

Riaprì il libro e lo alzò, fino a coprire la figura di Yuzo nella sua visuale. «P-Pensa a te e alla tua mania per il pallone!» esclamò con l'imbarazzo che colorò le sue guance di un rosso acceso. «Lo sai che di questo passo finirai per sposarlo? Già ti immagino tra qualche anno: tu che dormi con il pallone, tu che fai il bagno insieme al pallone... te lo dico subito: al tuo futuro e assurdo matrimonio con una palla da calcio non verrò!»

Yuzo trattenne le risate, e cercò di non rispondere nulla. La reazione di suo fratello fu il segnale che il portiere stava cercando: a poco a poco, stava abbassando la guardia.

«Beato te...» mormorò Takaji, «almeno tu ami il pallone e la battuta del matrimonio dovresti prenderla come un complimento; invece io detesto la matematica... che poi: cosa c’entra la matematica con gli animali e la natura? Ah, non vedo l’ora di finire le superiori e lanciare questi libri in qualche falò!»

... ora!

Con un sorriso che non prometteva nulla di buono, Yuzo si alzò e con veemenza rubò il libro dalle mani di Takaji. Quest’ultimo cercò disperatamente di recuperarlo ma il portiere iniziò a scappare, ridendo a crepapelle nel vedere il fratello in difficoltà.

«Ehi!» tuonò il mezzano. «Devo ancora finire di studiare il capitolo! Già non ci ho capito granché, dai: fai il bravo!»

«E invece no! Oggi è il mio compleanno, non si accettano scuse! La mamma ha detto che la tua ultima verifica è solo tra qualche giorno, per cui per stasera basta con i libri!»

«Appunto: tra qualche giorno... mica tra settimane!»

Così i due fratelli si rincorsero senza mai fermarsi... ma in realtà Takaji non sembrava più essere infastidito. Iniziò anche lui a sorridere, cercando di mettercela tutta per recuperare quel libro che ora sembrava essere diventato un gioco.

Forse Yuzo ha ragione: è ora di staccare per un po’ dallo studio!

 

 

Quando Yuzo varcò la soglia d’ingresso con Takaji, l’allegro chiacchiericcio che i due avevano udito da lontano si era fermato di colpo. Incuriositi, dopo essersi tolti le scarpe nel genkan, di soppiatto il duo si recò in direzione della cucina: entrambi fecero capolino dalla porta, guardandosi poi negli occhi e scambiandosi un cenno di intesa.

Ohi ohi, pensò Takaji non appena vide seduti al tavolo i suoi nonni materni che si erano radunati in quel punto insieme a sua madre e sua sorella Hanako. Ora che c’è anche Yuzo, speriamo che nonno Akihiko resti in silenzio stampa... almeno oggi che è il suo compleanno!

«Buona fortuna, fratellino...» mormorò nell’orecchio a Yuzo, prima di dirigersi verso le scale che lo avrebbero portato nella sua stanza.

Rimasto solo vicino allo stipite, il portiere deglutì nervosamente e si decise ad uscire da quel nascondiglio dopo qualche secondo di esitazione; infatti, non appena lo fece, si trovò sua nonna Chiharu e Hanako che si erano gettati addosso a lui, facendolo barcollare.

«Buon compleanno, nipotino mio!» esclamò la donna vestita con un tailleur nero. «Io e tuo nonno non vedevamo l’ora che tornassi a casa!»

«In effetti sei in ritardo. Lo sai che è cattiva educazione far aspettare le persone?»

Seduto poco distante da moglie e nipoti, dopo aver pronunciato quella frase Akihiko prese un sorso dalla tazza che aveva di fronte. All’uomo, con indosso un completo elegante, l’arrivo del suo terzo nipote non sembrava aver fatto né caldo né freddo... anzi: non appena finì di bere il suo té, Akihiko si alzò da tavola e tornò sulla soglia d’ingresso, rimettendosi le scarpe. «Ora, se non vi dispiace, io e Yuzo dobbiamo scambiare due parole: già abbiamo perso troppo tempo, non possiamo perderne ancora. E poi... lui già sa di cosa si tratta.»

Un’altra volta?! pensò il portiere, portandosi una mano sul volto. Capisco che la questione gli stia così a cuore... ma non è giusto: anche oggi deve farmi il terzo grado?

«Ma caro!» esclamò Chiharu, staccandosi da suo nipote e avvicinandosi a suo marito. «Oggi è il suo compleanno, non potresti evitare di...»

«Appunto: è il suo compleanno. Quale miglior occasione per fare una bella chiacchierata tra nonno e nipote?»

Ancora di spalle, Akihiko aprì la porta. Si voltò verso il nipote e con la testa gli fece cenno di avvicinarsi a lui. «Yuzo, per favore rimettiti le scarpe e seguimi... entrambi non vogliamo che la cena si raffreddi, no? Lo sai, tua madre si è impegnata tanto per prepararla.»

Seppur titubante per ciò che era capitato con lui negli ultimi mesi, Yuzo fece come il nonno gli aveva detto: tornò nel genkan e indossò nuovamente le scarpe.

Di fronte a quel gesto, la piccola Hanako corse da lui e si aggrappò alla sua gamba, decisa a non lasciarlo. «Ti prego, voglio venire con te e il nonno!» disse con tono triste.

Yuzo si inginocchiò e rassicurò sua sorella con una carezza sulla guancia. «Tranquilla: io e il nonno facciamo solo un giro; torniamo a casa presto...»

«Non è giusto!» protestò la piccola. «Volevo giocare con te anche prima di cena; il nonno può giocare un’altra volta con te!»

«Hanako.»

Ora era Izumi ad aver richiamato l’attenzione della bambina. Si avvicinò a lei e proseguì con tono dolce, prendendola in braccio: «Il fratellone non uscirà di casa, tranquilla... vero, nonno? Ci promettete che resterete nel cortile anche se dovesse succedere il finimondo? Nel frattempo io e Hanako giocheremo un po’ con nonna Chiharu a fare le cuoche...»

La piccola esplose di gioia e, scesa dalle braccia della madre, raggiunse la nonna e la prese per mano. «Che bello: cuciniamo tutti insieme! Dai, nonna: prepariamo il dolce per il fratellone!»

Mentre Yuzo sorrise di fronte a quella scena, Akihiko tirò fuori un profondo sospiro: il suo piano per portare suo nipote il più lontano possibile era sparito come una bolla di sapone a contatto con il vento. Sua figlia Izumi era riuscita, ancora una volta, a imporre la sua autorità in quella casa: d’altronde lui e Chiharu erano solo ospiti nella casa dei Morisaki, e fare tante scenate non sarebbe servito a granché.

Da una parte, l’uomo fu orgoglioso di sua figlia: l’ho cresciuta davvero bene.

«E va bene,» mormorò Akihiko con un sorriso, varcando la soglia d’ingresso della dimora. «Adesso possiamo andare, Yuzo.»

In silenzio, il terzogenito dei Morisaki lo seguì, pregando in cuor suo che non accadesse davvero il finimondo profetizzato da sua madre.

 

Se doveva dirla tutta Akihiko non era solo fiero di sua figlia, della splendida donna e madre che era diventata, ma in cuor suo mostrava altrettanto orgoglio nei confronti di Hideki e dei quattro figli che Izumi aveva avuto da lui: ciascuno di loro stava crescendo e iniziando un percorso di vita che, grazie all’impegno e alla perseveranza, avrebbe permesso di raggiungere qualunque obiettivo.

Lo stesso poteva affermare ad occhi chiusi per Yuzo... tranne per un minuscolo dettaglio che aveva reso l’uomo un po’ dubbioso nei confronti di ciò che il ragazzino stava combinando: quell’improvviso passaggio dalla Shutetsu alla Nankatsu. Era una decisione che Akihiko non riusciva a spiegarsi nonostante la passione del ragazzo verso lo sport del calcio, uno degli emblemi della cittadina di Nankatsu che poteva vantare la presenza di diversi club in tutto il suo territorio tra i quali proprio quello della Shutetsu, che tra tutti era il migliore.

Se ci tiene così tanto a diventare un calciatore, perché passare in una che finora non è riuscita nemmeno ad approdare al campionato nazionale delle medie? E poi così, all’improvviso...

Ma non solo. In realtà, Akihiko era molto affezionato alla Shutetsu, perché per lui non era solo il prestigioso istituto dove sia lui che Chiharu lavoravano ma era molto di più: era il luogo dove tutta la sua famiglia aveva frequentato l’intero ciclo scolastico di dodici anni, dalle elementari alle superiori, dal momento in cui era stato fondato l’istituto ad opera dei Wakabayashi; era il luogo dove aveva stretto le più importanti e durature amicizie della sua vita, dove aveva incontrato i suoi amici d’infanzia che in seguito erano diventati i suoi migliori amici nonché fantastici colleghi di lavoro con i quali organizzare serie riunioni di lavoro nelle rigide aule dell’istituto o allegre cene in locali dove si beveva e mangiava a volontà. La Shutetsu era un luogo di persone non solo benestanti nel vero senso della parola, ma persone di buon cuore, sempre disponibili e pronte a dare una mano nel momento del bisogno.

Inoltre, la Shutetsu era il luogo dove i Kobayashi, la famiglia dalla quale Akihiko proveniva, avevano insegnato o avevano ricoperto differenti ruoli di direzione. Dopo di lui e sua moglie Chiharu, anche la loro unica figlia Izumi vi aveva fatto ingresso per tutti e dodici anni scolastici, e anche lei - a sua volta - aveva indirizzato Ken'ichi e Takaji in quell’istituto. L’uomo credeva che la stessa cosa sarebbe accaduta anche con Yuzo che si trovava già alle elementari Shutetsu, e avrebbe fatto di tutto per aiutare sua figlia e suo genero a mantenere i nipoti in caso di difficoltà economiche, conoscendo bene gli alti costi che i coniugi Morisaki dovevano sostenere ogni anno. Suo nipote non aveva mai avuto problemi e, anzi, era riuscito a stringere amicizia con eredi di persone facoltose tra i quali spiccava Genzo Wakabayashi, il figlio di Shuzo, il preside della scuola che Akihiko non solo conosceva bene per via del suo lavoro, ma era proprio tra quelle persone con le quali aveva stretto una solidale amicizia nel corso degli anni.

Tuttavia, qualche mese prima della fine dell’anno scolastico, era stata proprio sua figlia Izumi a comunicargli quella che per lui gli era sembrata fin da subito come un fulmine a ciel sereno.

«Papà, non so come dirtelo... ma dall’anno prossimo Yuzo frequenterà la Nankatsu.»

Non appena era venuto a conoscenza del perché, Akihiko aveva stentato a crederci. Per lui quella del calcio sembrava una motivazione davvero strana, ed era convinto che dietro alla decisione di suo nipote ci fosse stato dell’altro che lui non aveva voluto rivelare. Forse qualcosa di grave, dato che nemmeno Izumi sembrava saperne qualcosa... o, meglio, l’unica spiegazione che gli aveva dato in più era stata quella di “continuare a giocare al fianco di Tsubasa e dei suoi amici”.

Una semplice spiegazione che non aveva ancora convinto del tutto Akihiko che, da quel giorno, si era messo in testa di indagare per conto suo. Sfruttando la sua posizione di insegnante d’inglese delle superiori Shutetsu nonché le sue conoscenze in tutto l’istituto, Akihiko aveva iniziato a seguire di nascosto la vita scolastica del suo terzo nipote... ma, più che chiarirsi le idee, aveva finito per avere più dubbi di prima: infatti aveva scoperto che Yuzo non sarebbe stato l’unico a cambiare scuola, bensì anche il Quartetto - il cuore dei migliori giocatori della Shutetsu - lo avrebbe fatto insieme a lui.

O la partenza di Genzo ha dato di volta il cervello a tutti... oppure c’è un motivo che ancora non capisco!

Così aveva deciso di chiedere spiegazioni al diretto interessato, ovvero suo nipote, con l’intento di chiarire una volta per tutte la faccenda. Da nonno si sarebbe fatto in quattro per aiutarlo, forse più dei suoi genitori perché lui, più di tutti, avrebbe fatto qualunque cosa per permettere a Yuzo di inseguire i propri sogni: ogni volta che lo aveva visto sul campo, con il pallone tra le mani, a poco a poco anche lui aveva capito che il suo futuro sarebbe stato lì, su un campo da calcio.

Sarebbe fantastico se un giorno diventasse un allenatore, aveva pensato un giorno Akihiko, mentre aveva visto suo nipote giocare con la sorellina e insegnarle tutto ciò che lui stava imparando. Certo: sarebbe il primo dei Kobayashi a essere quel genere di insegnante... però sarebbe bello!

Proprio per questo, sapendo bene che la Shutetsu delle medie e superiori era la squadra migliore della città, anche perché era l’unica che era sempre riuscita ad accedere ai campionati nazionali, Akihiko aveva provato a convincere Yuzo a rinunciare a quel cambio di scuola; ad un tratto aveva provato a chiedergli tutte quelle spiegazioni in più che stava cercando, per capire se davvero c’era dell’altro dietro a quella decisione, ma suo nipote lo aveva sempre rassicurato con un’unica, sincera risposta.

«È lì che andrà Tsubasa... ed è lì che andremo anche noi. È stata un’idea di Wakabayashi-san, e noi abbiamo pensato che sarebbe stato il meglio per tutti noi. Se vogliamo davvero diventare dei bravi calciatori, non possiamo restare alla Shutetsu: dobbiamo andare avanti, insieme!»

Di fronte a quel nome, Akihiko aveva spalancato gli occhi. Era vero che il figlio di Shuzo Wakabayashi non proveniva da una famiglia di calciatori professionisti, ma era molto bravo e preparato riguardo proprio quello sport. Più volte l’aveva visto sul campo, e dalle parole dello stesso Shuzo, attraverso i racconti dei suoi allenamenti con Tatsuo Mikami, l’eccellente portiere della Nazionale giapponese che aveva vinto la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Città del Messico ‘68, sembrava davvero promettere bene come futuro calciatore professionista.

Per fortuna che Genzo non ha proposto a mio nipote di trasferirsi in Germania con lui, altrimenti sì che a Shuzo gliene avrei cantate quattro! Anzi... mi chiedo come faccia Shuzo a mandare suo figlio in Europa da solo: io al suo posto non sarei per niente tranquillo!

Anche se non aveva trovato le spiegazioni che stava cercando - e quelle che aveva trovato, sebbene gli fossero ancora assurde, in fondo non erano del tutto infondate - anche nel giorno del compleanno di suo nipote Akihiko aveva deciso di fare un ultimo tentativo, ma ormai i giochi erano fatti: Yuzo aveva consegnato tutte le pratiche per l’iscrizione alle scuole medie Nankatsu per cui, di fatto, cambiare scuola all’ultimo secondo sarebbe stato impossibile.

Nonostante fossero rimasti da soli nel cortile della dimora dei Morisaki, sia Akihiko che Yuzo non si erano rivolti la parola. Il primo rivolse lo sguardo verso il cielo ormai notturno, incrociò le braccia e disse, con la schiena ancora rivolta verso Yuzo: «Allora, è deciso.»

«Sì.»

Il ragazzino comprese subito a cosa si stesse riferendo suo nonno: proprio alla sua decisione irremovibile di andare alla Nankatsu a partire dalle medie. «E se mi hai portato qui per farmi cambiare idea...» proseguì, «la mia risposta sarà sempre la stessa: no, non tornerò alla Shutetsu. Perciò arrenditi, nonno: ormai la scuola sta finendo, non penso che avrai più tempo per convincermi...»

«Di questo ne sono consapevole, però te lo chiedo ancora una volta: ne sei davvero sicuro?»

«Sicuro. Non tornerò alla Shutetsu, è una promessa. Ti prego, nonno: smettila di illuderti che lo farò.»

«Sembri davvero convinto...»

Akihiko si voltò verso suo nipote e ridusse le distanze, guardandolo con occhi colmi di serenità nonostante fosse ancora ben visibile un guizzo di tristezza. «Sai che ti dico, nipote mio? Che hai vinto tu: mi arrendo

Yuzo spalancò gli occhi. Conosceva molto bene suo nonno e per questo sapeva che, se c’era un concetto che non faceva parte del suo vocabolario, questo era proprio “arrendersi”. Suo nonno Akihiko aveva una testardaggine che poteva fare a gara con i Morisaki - rinomati proprio per il loro comportamento fermo e risoluto - e per tale motivo lui era talmente testardo e orgoglioso di ciò che pensava o faceva, per cui la parola sconfitta non era minimamente contemplata nella sua vita.

In quel momento suo nonno sembrava tutto tranne quella persona risoluta che ben conosceva, e Yuzo aveva iniziato a capire il perché: lo stava facendo perché ci teneva molto a lui, e insieme ai suoi genitori voleva davvero che lui diventasse un bravo calciatore.

L’uomo posò le mani sulle spalle di Yuzo e proseguì, con un sorriso sempre più limpido: «Lo sai, ci tenevo così tanto che avessi continuato nella Shutetsu: è vero che voi avete vinto un campionato nazionale con una squadra composta dai giocatori più bravi di tutta la città, ma la squadra della Shutetsu resta sempre la migliore. Spero che anche nella Nankatsu farete grandi cose... però c’è un’altra cosa che devo dirti.»

«Quale?»

«I Kobayashi, la famiglia di tua madre... che sarebbe anche la mia famiglia, e in un certo senso anche la tua... è rinomata per aver generato stimati insegnanti in Giappone. Il mio desiderio è che tutti i miei nipoti continuino a seguire le loro orme: non so cosa ci riserverà il futuro... ma sarebbe bello se un giorno diventassi un insegnante di calcio. Nessun Kobayashi è mai stato un allenatore di una squadra di calcio, così come nessun Wakabayashi è stato un calciatore professionista; eppure, sia tu che Genzo vi state impegnando tanto per essere dei bravi giocatori. Nipote mio... sappi che non hai scelto una strada facile, anzi: in realtà nessuna strada lo è, perché non troverai tutto pronto e dovrai impegnarti sempre di più per raggiungere i tuoi sogni. Anche per questo, se davvero ci tieni a diventare un grande calciatore, devi tirare fuori molto coraggio e forza! Io ho fiducia in te, anzi: tutti noi abbiamo fiducia in te: la nonna, i tuoi genitori, i tuoi fratelli... per cui non deluderci: dimostra di che pasta sei fatto... e, soprattutto, ora che Genzo non c’è, dimostra di essere il portiere numero uno in Giappone! Non ti permetterò di essere un pappamolle, e per questo sappi che non avrò pietà della mia stessa discendenza se dovesse deludermi: nemmeno i demoni mi fermeranno!»

L’uomo rizzò la schiena, sorridendo soddisfatto. La sua affermazione colma di provocazione fece tornare la gioia nel volto di Yuzo, che annuì con rinnovata risolutezza.

«È una promessa, nonno. Sono un Morisaki... e i Morisaki non si arrendono mai!»

 

 

 

Le luci della dimora dei Morisaki iniziarono a spegnersi a poco a poco. Era quasi notte fonda, e l’unica della famiglia rimasta in piedi era Izumi: dopo aver sistemato il soggiorno, la donna si lavò e si mise il pigiama.

Quando rientrò nella sua stanza, per Izumi ci fu una sorpresa: stranamente, suo marito Hideki non era ancora a letto.

Forse sarà nel bagno di servizio? pensò la donna. Decise di attendere qualche minuto e si affacciò dalla finestra, che dava sul retro della casa: nell’abbassare lo sguardo, notò Hideki che stava gironzolando per il cortile con un’aria apparentemente nervosa.

Izumi inclinò leggermente la testa, cercando di capire il perché del comportamento di suo marito. Che cosa gli è preso?

Ma, non appena notò che ogni tanto stava stuzzicando con le dita il ciondolo che aveva in mano, la donna sorrise di cuore e si allontanò dalla finestra, mettendosi sotto le coperte.

Finalmente ti sei deciso... eh? Era ora!

 

Hideki stava ripensando agli avvenimenti di quegli ultimi mesi. Quell’improvvisa decisione di Yuzo aveva messo in allarme proprio lui, che con i figli aveva sempre cercato di instaurare un rapporto sincero e aperto, cercando di farsi dire da loro ogni cosa su ciò che accadeva al di fuori della loro casa.

Yuzo sarebbe stato il primo dei suoi figli ad andare alla scuola pubblica Nankatsu una volta terminato il percorso delle elementari ma, per con buona pace di Hideki, ciò non era avvenuto in seguito ad episodi di bullismo o per i piani di insegnamento troppo rigidi della Shutetsu, tutt’altro: suo figlio lo aveva fatto per continuare a giocare a calcio insieme ai suoi amici, perché era certo che al loro fianco avrebbe potuto realizzare il sogno di diventare un bravo giocatore.

Prima di decidere sul da farsi, Hideki e Izumi si erano consultati con i genitori di quel gruppetto che, all’improvviso, aveva espresso il desiderio di cambiare scuola per poter restare al fianco di quel Tsubasa Ozora e dei suoi compagni di squadra. I Morisaki avevano riscontrato in loro consensi favorevoli: nessuno era contrario a quella comune decisione dei loro figli, così i due erano tornati a casa rassicurati.

Nonostante ciò un dubbio aveva continuato ad arrovellare la mente di Hideki, che una sera si era trovato a non chiudere occhio. Per il suo terzogenito aveva fatto tanti sacrifici - così come in forza ancora maggiore avrebbe continuato a farlo anche per la piccola Hanako -, e in più Yuzo gli aveva dato grandi soddisfazioni a scuola al pari di Ken'ichi: da un lato, la sua decisione inaspettata gli era stato di grande sollievo, dato che le spese per la nuova scuola erano di gran lunga inferiori rispetto a quelle di provenienza, ma dall’altro lato stava continuando a pensare al futuro di suo figlio.

Perché rinunciare alla prestigiosa Shutetsu e continuare il suo percorso in una scuola pubblica?

Nella sua nazione si prediligeva molto la scuola privata rispetto a quella pubblica, al punto che ogni famiglia era disposta a fare grandi sacrifici pur di riuscire a iscrivere un figlio in un prestigioso istituto; le scuole pubbliche non offrivano la stessa preparazione di quelle private, che invece erano garanzia di una buona preparazione per il successivo accesso alle superiori, che a loro volta sarebbero servite per dare agli studenti delle ottime basi per gli esami di accesso alle più prestigiose università del Giappone e, così, garantirsi un ottimo posto di lavoro.

Anche nella sua città era così: la Shutetsu era rinomata per la sua ottima preparazione, e chiunque usciva da quell’istituto aveva un valido biglietto d’accesso per un brillante futuro. Per questo motivo Hideki era preoccupato per il futuro di suo figlio, anche se, conoscendolo, sapeva che si sarebbe impegnato molto anche nella nuova scuola.

Hideki continuò a giocherellare con il ciondolo che aveva in mano, lanciandolo più volte verso l'alto e tornando a pensare a quella notte di settembre dell’anno precedente.

 

 

 

«Qualcosa non va, caro?»

Hideki non riusciva a chiudere occhio. I suoi occhi erano spalancati, rivolti verso il bianco soffitto della camera matrimoniale, e ogni volta che invece il sonno sembrava avere la meglio era sempre colto dal pensiero del suo terzogenito che avrebbe cambiato istituto tra qualche mese. Non riusciva a pensare ad altro, girando i pollici come un forsennato.

Nel vederlo così agitato Izumi si era chinata su di lui e gli aveva preso le mani. «Caro. Se continui così, domani rischierai di sbagliare ufficio... oppure scuola!»

«Urm...»

Lui aveva dato un sonoro sospiro e si era messo a sedere. «È che questa è una bella gatta da pelare... da una parte Yuzo ci ha dato una mano indirettamente perché non gli abbiamo mai parlato dei costi che stiamo affrontando per la scuola, ma dall’altra...»

«Sei preoccupato per il suo futuro, vero?»

Hideki aveva annuito. «Come faccio a non esserlo? Una scuola pubblica non sarà mai al livello di una scuola privata... È vero che ultimamente ho fatto i salti mortali, accettando qualsiasi ruolo che mi avessero proposto a parte la cattedra di Educazione sociale, e dal prossimo anno dovrei diventare il direttore del Centro di formazione professionale. In quel caso... anche se non potrò più essere presente tutti i giorni, l’ho fatto per i ragazzi e anche per Yuzo, per permettergli un futuro migliore.»

«E di questo nostro figlio te ne sarà per sempre grato.»

Izumi gli aveva accarezzato la testa, dandogli un leggero bacio sulla fronte. «Caro... non pensarci più, ok? Ti fidi di lui?»

Hideki l’aveva fissata stralunato. «Co... come?»

«Ti fidi di lui?»

Di fronte a quella ripetizione, Hideki aveva abbassato leggermente lo sguardo. Avrebbe voluto risponderle di sì, ma di fronte alla donna che amava non riusciva mai a dissimulare ciò che provava.

«Izumi... Yuzo è ancora un ragazzino. Ha solo dodici anni, potrebbe anche cambiare idea in futuro; e se un giorno dovesse decidere di diventare... che so, ingegnere? Architetto? Insomma: fare qualcosa di diverso dal calcio?»

«Potrebbe pur sempre progettare uno stadio, se è questo il problema!»

«Non intendo questo.»

«E nemmeno io.»

Hideki aveva alzato di nuovo lo sguardo.

Izumi gli stava rivolgendo un sorriso luminoso, colmo di fiducia. «Hideki. È nostro figlio... io sono sua madre, e tu sei suo padre... lo conosciamo bene, ormai. Capisco la tua preoccupazione, perché è un po’ anche la mia: è vero che è ancora un ragazzino, e che noi dobbiamo ancora continuare a vegliare su di lui, ma non è più un bambino... Fidati di lui: sa quel che fa.»

«Forse viviamo in una società dove le regole sono più rigide di quel che sembrano. Perché la scelta di una scuola dovrebbe pregiudicare il tuo futuro? Anche oggi che sono un professore universitario, dopo aver studiato per anni su libri che avrebbero dovuto aiutarmi a dare delle risposte... continuo a non capirlo.»

Izumi lo aveva guardato con dolcezza: il bagliore dei suoi occhi lo stava toccando fino alle viscere della sua anima. Hideki posò la mano su quella di sua moglie e aveva iniziato ad accarezzarla, mentre socchiudeva gli occhi.

«D’accordo, Izumi: proviamo con la Nankatsu.»

 

 

 

Facendo schioccare le labbra Hideki afferrò al volo il ciondolo che aveva nuovamente lanciato e lo ripose al suo posto, nella tasca del suo pantalone.

Alzò gli occhi al cielo, pensando che nel giro di poche settimane la sua vita e quella del resto della sua famiglia sarebbero nuovamente cambiate. Lui avrebbe iniziato la sua nuova carriera nel Dipartimento di Educazione di Shizuoka, Ken'ichi avrebbe iniziato il percorso delle superiori, Yuzo avrebbe cambiato scuola per le medie, e Izumi...

Già. La sua Izumi.

Anche lei aveva preso la sua decisione in quell’ormai lontana sera di settembre. Di fronte alla sua scelta, Hideki si era mostrato titubante; tuttavia...

Il flusso dei suoi pensieri si interruppe non appena sentì il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva e una voce che canticchiava. Hideki fece il giro della casa e dall’angolo dell’abitazione vide il suo terzogenito seduto vicino la porta, che stava osservando il cielo stellato.

«Vedo che nemmeno qui si dorme» disse l’uomo con un sorriso. Si avvicinò a Yuzo e gli si sedette accanto, cingendo le spalle del ragazzino e tirandolo a sé. «C’è qualcosa che ti preoccupa?»

Gli occhi color nocciola di suo figlio lo stavano fissando. Gli ricordarono molto di quelli di sua moglie, così magnetici e sinceri, capaci di confortargli l’anima solo con uno sguardo.

«No, papà. È tutto a posto, mi piace guardare il cielo di notte...»

«Potresti pur sempre guardarlo dalla finestra, così non rischi di prenderti un malanno...»

«Ma non è la stessa cosa. Qui... sto bene. Questo cielo è bellissimo...»

«Già. Il cielo...»

Entrambi rivolsero nuovamente lo sguardo verso la volta celeste serena, brillante di stelle.

«Ti piace così tanto, Yuzo?»

«Sì, papà: molto!»

«Sai che, quando avevo la tua età, anch’io amavo guardare il cielo di notte?»

«Davvero?»

«Sì... e ancora oggi adoro farlo...»

Yuzo sbadigliò, seguito subito dal padre che gli disse: «Senti... non ti va proprio di tornare nella tua stanza e rimetterti a letto?»

«Solo se mi dici che anche tu lo facevi!»

«Certo che lo facevo.»

«Bugiardo: secondo me restavi in piedi tutta la notte... al punto di addormentarti fuori casa!»

«Credimi... con tuo nonno questo non è mai accaduto. Se avessi mai provato a dormire fuori, apriti cielo: si sarebbe arrabbiato come una iena. E ora capisco il perché: uscivo sempre in pigiama, col rischio di beccarmi una bella influenza!»

«E tu? Se io mi addormentassi qui... cosa faresti?»

«Beh... tanto per iniziare, tu hai avuto la premura di metterti un giubbotto. E poi ci sono io... perciò, per una volta si può fare.»

«Grazie, papà! Ma solo se anche tu dormi con me, ok?»

«E poi chi la sente la mamma? A quel punto ci caccerebbe fuori di casa, con tanto di valigie!»

I due scoppiarono a ridere immaginando la scena alla quale avevano appena pensato, anche se entrambi erano certi che Izumi non sarebbe mai arrivata a quel punto; al massimo si sarebbero guadagnati un sonoro rimprovero.

Padre e figlio si strinsero e continuarono a contemplare in silenzio il magico spettacolo delle stelle che la natura stava offrendo loro. Ad un tratto Hideki infilò la mano nella tasca del suo pantalone, dove prima aveva riposto il suo ciondolo che ora stava stringendo forte, senza tirarlo fuori.

«Yuzo, anch’io te lo chiedo: sei davvero sicuro della tua decisione? Vuoi davvero andare alla Nankatsu?»

«Sì, papà. Devo farlo, se voglio diventare un giocatore molto forte... e poi non sarò solo: al mio fianco ci saranno i miei amici!»

«E se un giorno... se un giorno dovessi cambiare idea? Se un giorno non ti piacerà più il calcio... cosa farai, da grande?»

Ecco: l’ho detto.

Hideki si decise a togliersi quel dannato sassolino dalla scarpa che ormai portava con sé da alcuni mesi. Si era fatto coraggio, e finalmente dopo tanto tergiversare aveva posto quella fatidica domanda a suo figlio che, in tutta risposta, gli mostrò un grande sorriso.

«Non succederà, te lo prometto! Ma se dovessi cambiare idea... non lo so, però sarebbe bello andare nello spazio! Oppure stare per tutto il giorno in un Osservatorio; quando siamo andati in gita a febbraio è stato bellissimo!»

Non vi era alcun tono di esitazione nella voce di Yuzo, e in quel brillante sorriso che gli stava mostrando nessuna ombra che lasciasse presagire qualche possibile menzogna ancora ben nascosta.

Certo di ciò che stava per fare, Hideki estrasse il ciondolo e lo porse a suo figlio. «Allora penso che sia giunto il momento di darti questo. È stato il mio portafortuna per molti anni... e spero che sarà così anche per te.»

Yuzo prese il ciondolo che gli era stato affidato, e lo osservò con grande stupore misto a meraviglia. Era della grandezza di una spilla e di forma circolare, con diverse intense e brillanti sfumature di blu, costellato da tanti piccoli puntini gialli che assomigliavano a stelle, e tanti cerchi che ruotavano intorno come se fossero stati parte di una galassia.

«È bellissimo, papà...» commentò il ragazzino, per poi guardare negli occhi il padre. «Ma come lo hai avuto? Non ho mai visto una cosa così bella in giro...»

Hideki gli arruffò la testa. «Tanti anni fa, quando dovevo prendere una decisione importante che avrebbe cambiato la mia vita, mi è stato dato questo ciondolo... e da quel giorno non l’ho più lasciato. Mi ha aiutato molto in tutti questi anni, e non l’ho mai mostrato a nessuno... fino ad oggi: ora voglio darlo a te. So che ne avrai molta cura... e sai una cosa? Puoi considerarlo come se fosse un dono del cielo.»

«Del cielo?»

Yuzo alzò la testa verso la volta stellata, per poi riguardare il ciondolo. «Hai ragione: sembra proprio un angolo di cielo!»

Hideki sorrise, e anche lui levò lo sguardo in alto. «Ascolta, figliolo. Sai perché noi uomini siamo così innamorati del cielo stellato?»

«Perché è bello?»

«Non solo. La verità è che noi siamo fatti della stessa sostanza delle stelle: questo mondo e tutto ciò che gli appartiene, noi compresi, hanno avuto origine dalle stelle. E non ti sto mentendo: basta guardare il cielo... e, vedi? L’hai studiato anche tu, il nostro universo è costituito da migliaia e migliaia di stelle... e chissà: un giorno riuscirai davvero a vederle da vicino!»

Hideki si alzò in piedi e aprì la porta di casa. Prima di rientrare, lanciò un’occhiata verso suo figlio che era ancora seduto, e dolcemente gli sussurrò: «Sono molto orgoglioso di te e lo sarò sempre, qualunque strada deciderai di intraprendere! Ancora buon compleanno, figlio mio.»

«Grazie, papà!»

Anche dopo essersi chiuso la porta alle spalle, Hideki sentì ancora aleggiare nella testa la frase che Yuzo gli aveva appena rivolto. Lo aveva ringraziato per gli auguri, sia per il regalo e per le sue parole di incoraggiamento, ma nel profondo del suo cuore Hideki sentì che in realtà doveva essere lui a ringraziare suo figlio e non il contrario.

Ogni volta che l’uomo si ritrovava da solo, quel ciondolo che portava con sé era sempre stato in grado di dargli sicurezza e conforto. Era un dono della sua amata Izumi che glielo aveva regalato quando erano ancora studenti dell’università di Shizuoka; era sempre con Izumi che, nel giorno del loro matrimonio, si erano ripromessi di dare quel ciondolo al loro futuro figlio... da lì la coppia era stata benedetta con ben quattro figli, per cui lo aveva ancora tenuto lui, fino a quella notte di metà marzo: alla fine, nel giorno del compleanno del suo terzogenito, Hideki aveva deciso di passarlo proprio a Yuzo.

In quel momento nella mente di Hideki si fece strada un pensiero che, nel quiete silenzio della notte, risuonò con una forza sempre più crescente.

 

Continua a guardare in alto, figliolo.

Non perdere mai di vista quella stella polare che ti sta guidando, qualunque essa sia.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

“There is a fundamental reason why we look at the sky with wonder and longing—for the same reason that we stand, hour after hour, gazing at the distant swell of the open ocean. There is something like an ancient wisdom, encoded and tucked away in our DNA, that knows its point of origin as surely as a salmon knows its creek. Intellectually, we may not want to return there, but the genes know, and long for their origins—their home in the salty depths. But if the seas are our immediate source, the penultimate source is certainly the heavens… The spectacular truth is—and this is something that your DNA has known all along—the very atoms of your body—the iron, calcium, phosphorus, carbon, nitrogen, oxygen, and on and on—were initially forged in long-dead stars. This is why, when you stand outside under a moonless, country sky, you feel some ineffable tugging at your innards. We are star stuff. Keep looking up.”

Perché vi ho riportato questa splendida citazione di Jerry Waxman, compianto professore di astronomia e scienze ambientali of astronomy and environmental science al SRJC (Santa Rosa Junior College, in California)? La ragione è che proprio questa citazione mi ha accompagnato nel costruire l'ultima parte di questo capitolo dedicato a Yuzo. Non chiedetemi il perché - forse perché adoro le stelle e Yuzo è il mio personaggio preferito della serie di CT? - ma se c'è un aspetto che riesco ad associare a questo personaggio con immediatezza sono proprio le stelle. Chi mi segue da un bel pezzo lo avrà già intuito: (forse) in qualsiasi storia che ho scritto su di lui, ho sempre finito per inserire il panorama di un cielo stellato - il finale di Everyday life, la prima storia di Seven pages... on the green field, e così via.

Se un giorno dovessero chiedermi "Cara Moriko, se Yuzo non fosse mai diventato un calciatore, secondo te cosa sarebbe potuto diventare?" la mia risposta sarebbe: "Un astronomo, o anche un astronauta". (L'astrologo no, anche se sarebbe stato divertente ;D) Insomma: qualcosa che abbia a che fare con il mondo delle stelle e dell'universo nel quale si trova il nostro piccolo pianeta Terra.

Così, da qualche parte ho deciso di inserire anche questo piccolo dettaglio, dell'amore che Yuzo ha nei confronti di tutto ciò che riguarda quell'immenso mondo ancora sconosciuto su certi aspetti che si trova sopra di noi, a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. **

Detto questo, passiamo all'angolo dei personaggi che qui compaiono per la prima volta! L'avevo detto che la famiglia di Yuzo è molto grande... e non è finita qui! All'appello mancano ancora delle persone... ma ci sono quasi tutti XDD

 

- Suzume 「雀」 è la moglie di Hotaka (ebbene sì, nel frattempo il solitario figlio di Sadao si è sposato! :3) e la madre dei gemelli Naoki e Saki. Come per le donne che vivono nel santuario della famiglia Morisaki, anche lei è una persona molto dolce e disponibile... ma nasconde un lato di sé vivace, soprattutto nell'affidare i figli a suo marito ogni volta che ne ha occasione. Il suo nome significa "passero", simbolo della libertà e della forza vitale.

- Naoki 「直樹」 e Saki 「咲」 sono i gemellini che compaiono in questo capitolo, figli di Hotaka e Suzume. Sono rispettivamente un maschietto e una femminuccia, e qui hanno ancora un anno e mezzo ma già hanno dimostrato di essere due piccoli "peperini". I loro nomi significano "albero tranquillo" (Naoki) e "fiore/figlia minore" (Saki).

Piccolo fun fact: se siete arrivati qui dopo aver letto le opere della Melanto, la storia di gemelli in casa Morisaki non vi sarà un argomento nuovo. Vi confesso che fin dall'inizio volevo inserire dei gemelli da qualche parte, in qualche mia fanfiction... a un certo punto ho pensato ai figli di Yuzo stesso (perché lo vedo troppo con dei marmocchi suoi, awww) però, quando ho iniziato a costruire questa storia, alla fine la scelta è caduta su Hotaka. Insieme a Noboru, era uno dei celibi in famiglia: insomma, a poco a poco stanno tutti convolando a nozze! (Ma tranquilli, fino alla fine qualcuno resterà scapolo... :3)

- Hoshiko 「星子」 è la secondogenita degli Yamamoto, i vicini di casa dei Morisaki. Anche se qui viene solo nominata, è una bambina un po' timida ma solare, nonché grande amica di Hanako. Il suo nome significa "la bambina delle stelle".

- Kobayashi 「明彦」 è uno dei cognomi più diffusi in Giappone. Significa "piccola foresta"... e vi ricorda qualcosa? Esatto, proprio il cognome "Morisaki": l'ho scelto proprio per questa somiglianza di significato. ;D A parte ciò, in questa storia i Kobayashi sono una famiglia di stimati insegnanti e professori originaria di Nankatsu che si è formata presso la Shutetsu, ragione per la quale inizialmente Akihiko si stupisce della decisione di Yuzo... augurandosi, però, che in qualche modo continui la tradizione di famiglia, un giorno. (Così come il resto dei suoi nipoti... però vedremo cosa riserverà il futuro ai piccoli di casa Morisaki! ;D)

 

E ora, come sempre, qualche precisazione e curiosità in più:

 

- Prima di tutto, in base a ciò che ho accennato nei precedenti capitoli riguardo proprio la suddivisione dei cicli scolastici, ho provato a fare due calcoli... e (sperando di non aver sbagliato, altrimenti sarà una tragedia!) alla fine del percorso delle elementari Yuzo dovrebbe aver appena compiuto dodici anni. Ammetto che il sistema scolastico giapponese mi ha mandato in tilt su certe parti, e questa è una di quelle; fortuna che questa storia è già segnalata come "What if", così nel caso potrei giocarmi quella carta e...

... a parte questi pensieri scemi, proprio a proposito della fine del percorso delle elementari, ho ritenuto opportuno inserire la partenza di Genzo per la Germania al termine del suo percorso scolastico. Questo per un motivo più personale che pratico, perché ho pensato che sarebbe stato bello se il portiere più forte del Giappone avesse terminato l'anno insieme ai suoi compagni. Poi, ormai lo sappiamo: per esempio in Italia l'anno scolastico inizia a settembre (così come in Germania, dove ho letto che inizia tra agosto e settembre - chi ne sa di più può tranquillamente informarmi) mentre in Giappone ad aprile. Ora capite perché a un certo punto sono andata in tilt? XD

Piccola curiosità che ho trovato qualche sera fa, mentre sistemavo le note: qui c'è una spiegazione dettagliata del come funziona il sistema scolastico in Germania, e così ho scoperto che le elementari durano ancora meno... solo quattro anni! A questo primo ciclo seguono due anni di orientamento - uguali per tutti - improntati a far decidere all'alunno quale scuola frequentare. Insomma: la situazione cambia di nazione in nazione...

- Normalmente i bambini così piccoli come Naoki e Saki non sanno disegnare da soli quindi, in questo caso, si sono fatti aiutare dai loro genitori. A un anno e mezzo d'età i disegni sono dei semplici scarabocchi, senza l'intento di rappresentare qualcosa di preciso... ma, comunque, resta il fatto che i genitori hanno detto a loro che quei due fogli sarebbero diventati il regalo per il loro cuginetto. A questo link, se siete interessati, trovate un approfondimento sul rapporto tra i bambini e il mondo del disegno.

- Il fūrin è il campanellino giapponese che, in modo particolare, si usa nel periodo estivo. Gli usi sono molteplici: quelli più famosi sono il rendere il caldo afoso dell'estate meno pesante ed opprimente, nonché un modo per tenere lontani gli spiriti maligni grazie al loro suono.

- A proposito della prima parte di questo capitolo, ho cercato di attenermi il più possibile a ciò che è stato rivelato nel primo Memories (qui potete trovare le traduzioni in lingua inglese), uscito circa un anno fa e con protagonista proprio Genzo. In quell'occasione abbiamo scoperto che Yuzo era uno dei portieri della squadra di calcio della Shutetsu, che all'interno della scuola vi sono ben cinque Team, e che all'inizio quasi nessuno aveva un'ottima opinione di Genzo - che, però, aveva degli ottimi motivi per comportarsi in un certo modo con alcuni di loro: giusto per farvi un esempio, la frase che Genzo rivolge a Yuzo riguardo un suo probabile trasferimento alla Shutetsu proviene proprio dal Memories... e non l'ha detto con cattiveria, tutt'altro! ;)

(Io, che sono di parte e voglio troppo bene a Yuzo - lo ammetto! - ho aggiunto che anche lui inizia a essere più preso in considerazione dopo il torneo che tutti ben conosciamo dalle pagine del manga di Captain Tsubasa. In fondo, nonostante tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare, non è uscito a testa bassa da quel torneo, e se a questo aggiungiamo - sempre dal Memories su Genzo - che è uno dei giocatori del Team A, la squadra più forte di tutta la Shutetsu, beh... ;D)

- Chi ha letto il manga di Captain Tsubasa sa che la reazione del quartetto della Shutetsu di fronte alla partenza di Genzo è molto forte. A pagina 26 del capitolo 50 si vede quanto restano sconvolti, e un po' smarriti perché credono che senza Genzo non riusciranno mai a battere Tsubasa... ma come ben sapete, Genzo farà loro una proposta davvero interessante...

- Per la scenetta della fotografia di Yuzo che indossa la maglia con il numero "1" come portiere, mi sono ispirata ad una simpatica fanart che circola sul web, dove il nostro caro Yuzo invia una foto a Genzo mostrandogli la maglia numero uno (e Genzo in versione "You’re doing amazing, sweetie", LOL!) L’immagine è questa, per chi fosse interessato.

- A proposito dell'esame di ammissione da un ciclo a un altro: se nel manga di CT abbiamo visto come Ishizaki e Urabe si siano impegnati molto per entrare nelle superiori Nankatsu (capitolo 112 e capitolo 114)... non oso immaginare quanto siano più rigide le ammissioni in una scuola privata come quella della Shutetsu. Ragion per cui il nostro Takaji si sta impegnando molto, ma proprio "molto" eh! ;P

- A proposito delle battute che Takaji rivolge a Yuzo sul suo rapporto con il pallone da calcio... vi sono familiari? In caso negativo, ci penso io: questa e quest'altra scena sono tratte dal primo episodio di Captain Tsubasa J (noto in Italia come "Che campioni Holly e Benji"); qui il protagonista non è Yuzo ma Tsubasa, e sono situazioni che Sanae pensa quando Tsubasa le confida che il pallone è il suo migliore amico. Lascio a voi ulteriori commenti. XD

- Il -chin è un suffisso non molto comune in Giappone (almeno, rispetto ai vari -chan e -kun che leggiamo e ascoltiamo nei manga e negli anime). Come avete visto, in questa storia ho sempre cercato di non inserire i suffissi giapponesi - un po' per mia pigrizia, lo ammetto, altrimenti sarebbero fioccati un sacco di "chan" e "kun" fin dal primo capitolo XD - però in questo caso non ho potuto evitare di farlo, così come per il "-san" affiancato al cognome di Genzo da parte di Yuzo. Questo perché il "chin" si usa solo tra bambini, e tra amiche molto strette... questo per sottolinare come Hanako vuole molto, ma molto, ma proprio molto bene alla piccola Hoshiko... :')

- Forse può sembrare un po' strano che Hideki, da giapponese, si faccia delle paranoie riguardo la decisione di Yuzo di passare da una scuola privata a una pubblica e che, ad un certo punto, arrivi a criticare il rigido sistema di istruzione della sua nazione. La questione è la seguente: da quel che ho capito leggendo informazioni relative a questo argomento, in Giappone le scuole private forniscono una più valida preparazione di base rispetto a quelle pubbliche, sia riguardo l'accesso alle superiori e sia per l'università - che, rispetto a quella italiana, è meno "dura" e più "pratica", proiettandoti già nel mondo del lavoro. Per questo motivo molti ambiscono alle scuole più importanti, tanto è vero che molti studenti frequentano anche corsi serali pur di diventare bravissimi nello studio, in modo tale da avere più possibilità di entrare nelle università più prestigiose. Vero che alla fine scopriremo che a Yuzo non servirà frequentare un'università per diventare un bravo calciatore degno di questo nome, però è normale (anche se per noi può essere strano) che Hideki sia preoccupato per il futuro del suo terzogenito perché passa da una scuola privata come la Shutetsu (con un'ottima preparazione) a quella pubblica come la Nankatsu (che è vero che è altrettanto dura ma, essendo pubblica, ho pensato che la preparazione per accedervi fosse minore rispetto a quella "rivale").

- E, a tal proposito... la questione economica. Nel capitolo sui sei anni di Yuzo (qui il link), vi ricordate la piccola precisazione che ho approfondito nelle note finali? Qui siamo tornati sull'argomento, perché se è vero che da un lato Hideki sia preoccupato per il futuro di Yuzo riguardo la preparazione scolastica, dall'altro lo "ringrazia" proprio per la sua scelta. Beh, l'avere quattro figli in una scuola privata non deve essere una cosa facile, soprattutto dal punto di vista economico...

- La facoltà di Educazione e il Centro di formazione professionale dell'università di Shizuoka esistono nella nostra realtà. Vi confesso che ho utilizzato il traduttore automatico per navigare nel mondo delle università di questa città perché - purtroppo - non esiste una versione in lingua inglese. (Ho scritto "purtroppo" perché per alcune facoltà dell'università esiste anche una versione in inglese, ma non per quella che serviva a me. Sigh.)

Per questo motivo, ho dedotto che presso la facoltà di Educazione di Shizuoka sia attivo anche l'insegnamento di Educazione sociale - che esiste davvero e si trova in molte facoltà del Giappone, tra le quali quella di Tokyo. Riguardo quest'ultimo punto, non ci sono molte informazioni sul quante ore possa tenere impegnato il direttore del Centro di formazione professionale... però, sì: ho immaginato essere una cosa piuttosto impegnativa, dato che Hideki è già un ricercatore e un insegnante. Per dirla con le parole di Bonolis: "Questo non rivede più i familiari"... (Stavo scherzando, stavo scherzando, vi assicuro che Hideki tornerà a casa dalla sua famiglia; non spesso, ma sarà sempre di ritorno. ;D)

- Infine, se siete curiosi sul ciondolo che Hideki regala a Yuzo, da questo link potete avere un'idea. Bello, vero? **

 

Con questo penso di aver scritto tutto, e come sempre ringrazio coloro che anche oggi sono giunti fino a qui dopo la lunga pausa dall'ultimo capitolo.

Al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 10
*** Sguardo sul mondo - Dodici anni | Aoi's side ***


Fanfiction
HTqFjvI

Sguardo sul mondo.

{Dodici anni | Aoi's side}

 

 

BGM: HAVASI - The Road

 

 

 

[Un anno dopo - 12 Marzo. Nakahara, prefettura di Gifu.]

 

Con gli occhi ancora chiusi, Shingo era seduto sulla piccola panca di legno situata nell’ampio piazzale antistante la scuola elementare. Il ragazzino accavallò le gambe e si stiracchiò, godendosi il leggero venticello di inizio primavera che proveniva dalle montagne circostanti. Stava attendendo l’arrivo degli altri compagni di squadra, con i quali si sarebbe allenato presso il campo da calcio del centro sportivo di Nakahara, ormai pienamente operativo da un paio d’anni.

Shingo aprì gli occhi, rasserenandosi: non sembrava essere lo stesso bambino di qualche anno prima, che si sarebbe subito alzato per correre intorno alla scuola per ingannare quella piccola attesa che sarebbe stata interminabile; ora riusciva a stare seduto per molto tempo, approfittando di quell’attimo di silenzio per ricomporre i suoi pensieri che subito corsero al penultimo torneo nazionale tra scuole elementari, avvenuto nel corso dell’anno scolastico precedente. Era stato il primo torneo al quale la squadra di Shingo era riuscita a partecipare sin dalla fondazione del club, avvenuta solo un anno prima; nonostante tutti gli sforzi, alla fine i ragazzini non erano riusciti a superare nemmeno la fase delle eliminatorie, anche se poterono vantare di essere arrivati a Yomiuri Land come migliore squadra della prefettura di Gifu. Da allora tutti i ragazzi del club avevano iniziato ad allenarsi più del solito, riuscendo poi a partecipare al successivo campionato e, quella volta, ad arrivare agli ottavi di finale. In quell’occasione, però, Shingo e i suoi compagni erano stati definitivamente sconfitti dalla Nankatsu che, anche se priva degli elementi migliori che avevano partecipato nel precedente torneo, ancora una volta si dimostrò essere una squadra molto forte.

Per quanto la Nakahara FC fosse sulla buona strada, evidentemente ciò non era ancora sufficiente per aspirare alla vittoria. In quei due tornei giovanili avevano partecipato squadre con veri talenti del calcio: tra portieri imbattibili e attaccanti prodigio, i giocatori di Nakahara sembravano non avere nulla di così speciale per riuscire a superarli in qualche modo. Il loro punto di forza era il lavoro di squadra, e in effetti si erano sempre allenati su questo particolare, puntando ad un gioco dove nessuno predominasse sull’altro, trascorrendo insieme il resto della giornata anche quando non erano impegnati con le attività del club.

Shingo era stato il primo ad avere l’idea della fondazione di un club di calcio presso la scuola elementare Nakahara, due anni prima. Dal giorno in cui aveva rivisto quel Tanaka Yuito, che lui aveva preso in forte simpatia, si era messo in testa di iniziare una raccolta firme tra i suoi compagni di scuola, partendo proprio dai suoi amici più stretti che aveva finito per coinvolgere nel diffondere e promuovere tale proposta anche nel resto della scuola. Ma non solo: Shingo si era spinto anche oltre, chiedendo ai suoi genitori e a sua nonna di aiutarlo a trovare supporto anche al di fuori dell’ambiente scolastico; ben presto, il ragazzino e i suoi amici si erano presentati dal preside con interi fogli pieni di firme, dai loro coetanei agli adulti e anziani dell’intera città di Nakahara - nonostante questi ultimi fossero più interessati al mondo dell’artigianato che a quello dello sport.

Così, la proposta era stata accolta di buon grado dal preside, vista la grande attenzione che si stava sviluppando intorno al neonato centro sportivo della cittadina da parte dei ragazzi e la loro spontanea adesione al futuro club. A partire da quell’anno, anche le elementari avevano avuto un proprio club di calcio, affiancandosi al nascente club delle scuole medie e a quello delle superiori che era stato fondato l’anno precedente da Tanaka Yuito e i suoi compagni.

I club delle tre scuole si alternavano con gli allenamenti presso il campo da calcio del centro sportivo, in orari e giorni specifici: infatti, a differenza della vicina Takayama e della più grande Gifu, le tre scuole di Nakahara non avevano ancora un’area da gioco riservata esclusivamente ai vari club di calcio.

Ogni volta che a Shingo tornava alla memoria l’incontro con quel ragazzo di nome Tanaka Yuito, avvenuto tre anni prima presso l’area di accoglienza della cittadina, pensava di essere stato fortunato. Il gruppetto del suo senpai si era dovuto allenare per anni in una zona non attrezzata che loro avevano allestito come potevano per immaginarlo un campo da calcio, a differenza di lui e i suoi amici che invece avevano avuto a disposizione un intero centro sportivo.

Con un balzo, Shingo tornò in piedi e iniziò a stiracchiarsi. Non vedeva l’ora di tornare al campo da calcio per allenarsi insieme ai suoi amici: già si immaginava in quel luogo, a correre verso la porta avversaria, con il suo amato pallone tra i piedi che, di tanto in tanto, lanciava ai suoi compagni per poi farselo restituire e così segnare un gol...

All’improvviso, il ragazzino sentì che qualcuno aveva appoggiato il mento sulla sua spalla destra, mentre l’altra venne colpita da una cartellina nera, la sua.

«Allora, campione di palleggi! Prima hai avuto una bella scusa per non seguire la lezione fino alla fine, eh?» Mamoru Kouki gli passò la cartellina, sistemandosi gli occhiali dalle grandi lenti che scendevano sul naso.

«Dai, ammettilo: era noiosa!» replicò Shingo, e con un sorriso si portò una mano dietro la testa, scuotendo i capelli. «Non vedevo l’ora di uscire!»

«Dopo un po’ la maestra aveva capito il tuo “piano”. Preparati: il prossimo ad essere interrogato sulla lezione di oggi sarai proprio tu, e lo sai che vorrà sapere vita, morte e miracoli sui vulcani!»

Shingo scoppiò a ridere imbarazzato, e anche Mamoru sorrise nel vederlo così allegro.

«Beato te che sei sempre così allegro, Shingo. Al tuo posto io mi sarei già disperato!»

 

Lungo la strada che portava al campetto, il gruppetto del club di calcio delle elementari Nakahara stava parlando del più e del meno. Shingo guidava il gruppo con fierezza, portando a mano la sua adorata bicicletta: nonostante il calcio avesse ormai occupato buona parte delle sue giornate, il piccolo Aoi non aveva mai lasciato quella bici e continuava ad utilizzarla spesso per recarsi a scuola o alla bottega di suo padre.

In quel gruppetto vi erano i suoi amici di sempre, che due anni prima lo avevano aiutato nella fondazione di quel club di cui ora facevano parte. Mamoru Kouki, il ragazzo dagli occhiali grandi che anni addietro voleva iscriversi al club di judo, gli stava camminando fianco a fianco seguito da Takeo Hasegawa, che alla fine aveva rinunciato all’idea di entrare nel club di nuoto per restare accanto a Shingo, e Ke Hara, il loro amico di infanzia: come al solito i tre stavano discutendo sui vari giri da fare a Nakahara durante le brevi vacanze primaverili. Dietro agli amici di sempre di Shingo vi erano gli altri componenti della squadra, la maggior parte dei quali erano i kōhai e che, nel giro di poche settimane, sarebbero stati loro a prendere in mano le redini del club delle elementari.

I ragazzi del sesto anno, infatti, con la fine dell’anno scolastico avrebbero concluso il ciclo delle elementari, e ciò significava solo una cosa: passaggio da un club all’altro. Shingo, Mamoru, Takeo e Ke erano estremamente curiosi del come fosse strutturato il club calcistico delle scuole medie Nakahara, e non vedevano l’ora di poter farne parte e, così, dare una mano alla sua crescita.

A differenza delle elementari, quel club - così come quello delle superiori - sembrava essere di gran lunga più forte: non aveva ancora partecipato ad alcun torneo, né all’interno della prefettura di Gifu né a quello nazionale perché quei ragazzini avevano preso lo sport del calcio più come un passatempo che come un possibile trampolino di lancio per il futuro; tuttavia, ogni volta che quella squadra giocava qualche amichevole, riusciva sempre ad uscirne a testa alta, battendo gli avversari o mettendoli in seria difficoltà. Il loro punto di forza consisteva in una solida difesa, capace di rubare il pallone in pochissimo tempo per impedire all’altra squadra di compiere delle azioni che potessero portare ad un gol sicuro.

Quel club era uno degli argomenti più chiacchierati negli ultimi tempi tra i ragazzi delle elementari, e anche quel giorno non faceva eccezione. Infatti, ad un tratto, il gruppo tornò a parlarne - per l’ennesima volta - mentre di fronte ai ragazzi la sagoma del centro sportivo iniziò ad intravedersi. Come al solito, le reazioni erano tra le più disparate: se i kōhai non entravano molto nell’argomento perché meno ferrati dei loro senpai, viceversa la discussione divenne più animata proprio tra i ragazzi del sesto anno, che a breve avrebbero avuto l’onore e forse anche il piacere di conoscerli meglio di persona. Ke e Mamoru, dall’alto dei loro rispettivi ruoli di portiere e difensore, erano quelli più agitati e temevano di finire tra le riserve della squadra delle medie perché non si sentivano all’altezza di poter competere con la difesa compatta di quel club; Takeo, che era centrocampista, si preoccupava più di studiare i segreti della forza della squadra, per poter essere ancora più certo di diventare titolare già dal primo anno delle medie, mentre Shingo stringeva il manubrio della bicicletta e sorrideva sicuro di sé.

«Non vedo l'ora di affrontarli! Sono bravissimi!»

Tutti lo guardarono sorpresi, non solo per ciò che avevano appena udito, ma anche perché in realtà era la prima volta che avevano sentito Shingo parlare in quel modo. Sembrava che il loro amico fosse l’unico del gruppo a non essere minimamente preoccupato, anzi: per lui, quella situazione sembrava essere invece molto promettente ed entusiasmante.

Subito tra i ragazzi calò il silenzio, che Shingo ruppe con il suo gioioso grido di battaglia. «Dai, ragazzi: facciamolo!»

Mamoru mise su un’espressione di sbigottimento. «Fare... cosa, scusa?»

«Ma dai, Mamoru! Non fare quella faccia: lo sai benissimo!»

Shingo salì in sella alla sua bicicletta e iniziò a pedalare verso il campo, suonando ripetutamente il campanello posto sul manubrio. «Seguitemi tutti e alleniamoci fino a stancarci! Sono i nostri ultimi giorni insieme: approfittiamone!»

«A-Aspetta, Shingo!»

Mamoru iniziò a correre, seguito dagli altri del gruppo. Ke e Takeo si guardarono fugacemente negli occhi e trattenero le risate, rendendosi conto che stare dietro ad un tipo come Shingo non era un'impresa facile.

Anzi... non lo era mai.

 

 

Mentre attendevano che terminasse la partita d’allenamento in corso al campo di calcio, i ragazzi del club delle elementari si accomodarono sugli spalti. Ciascuno di loro - in modo particolare Shingo, Mamoru, Takeo e Ke - osservò con grande attenzione i movimenti dei giocatori presenti nell’area di gioco. Quelli della squadra delle medie giocavano in un modo così diverso dal loro, con movimenti più sicuri, diretti e anche più fluidi: in altre parole più colmi di esperienza.

Mamoru fece crollare la testa, e sospirò con tristezza. «Abbiamo già perso in partenza... non farò mai parte dei titolari! Quei difensori sono troppo bravi, non basteranno nemmeno tre anni per arrivare al loro livello...»

Mentre gli altri del gruppo iniziarono a commentare tra loro l’evolversi della partita, le orecchie di Mamoru captarono un sommesso risolino, che sembrava giungere dal lato destro dove - e ne era abbastanza certo - al loro arrivo non c’era ancora nessuno. Si voltò, e in quel momento vide seduto un ragazzino molto basso per la sua età, dai piccoli occhi neri che puntavano un bloc-notes che era scarabocchiato con schemi e brevi note; di tanto in tanto lo sguardo di quel ragazzo si rivolgeva verso il campo, appuntando come un forsennato qualcosa che Mamoru non riusciva a comprendere da quella distanza che li separava.

«Bene bene... si prospetta un anno davvero interessante!» commentò il ragazzo, sotto gli occhi curiosi di Mamoru al quale non era sfuggito un altro dettaglio: quel giovane assomigliava molto a Shingo non solo per il suo aspetto fisico, mingherlino e con un taglio di capelli identico, ma anche per il fatto che avesse un sorriso molto simile a quello del suo amico, lo stesso di quando aveva di fronte a sé qualcosa di interessante.

Continuando a tenere fisso lo sguardo su quel ragazzo, Mamoru richiamò l’attenzione di Shingo posando la mano sinistra sul suo braccio. «Shingo... quello laggiù è un tuo parente?»

Alla parola “parente” Shingo subito smise di osservare la partita e, piuttosto curioso per la domanda del suo compagno, si voltò nella sua stessa direzione. Non appena anche il piccolo Aoi vide quel ragazzo, non tardò nemmeno per un istante a diminuire subito le distanze che lo separava da lui: gli si pose di fronte all’improvviso, restando in piedi e scrutandolo da cima a fondo.

«Ma... tu...»

L'altro ragazzo, che di colpo nella sua visuale si era ritrovato il busto di uno strano tizio che di fatto gli stava impedendo di vedere la partita, iniziò a ondeggiare la testa a destra e a sinistra, senza alzare lo sguardo per vedere con chi avesse a che fare: in quel momento era troppo impegnato a prendere appunti per quella partita per scambiare due parole con qualsiasi persona si fosse presentata al suo cospetto.

«Erm... scusami, potresti spostarti? Non riesco a vedere la partita…»

Ma Shingo non si curò della sua richiesta. Ancora piuttosto incredulo si inginocchiò, lo guardò dritto negli occhi e iniziò a indicare prima il ragazzo che aveva di fronte e poi lui.

«Tu... io...» balbettò. «Non ti ho mai visto a Nakahara... però mi assomigli un sacco!»

E solo quando i due si trovarono occhi negli occhi, il ragazzino spalancò la bocca e diede un piccolo urlo per lo stupore.

Questo mi assomiglia una cifra! - pensò, mentre il resto del gruppo della squadra delle elementari, udendo quell'urlo, si voltò e subito accorse verso i due ragazzi.

«Wow!» esclamò Ke, cercando di trattenere le risate. «Che buffo: Shingo ha un sosia!»

«E se fosse il fratello gemello malvagio?» puntualizzò Takeo con un mormorio per cercare di non farsi sentire dall'interessato.

«Ma va!» rispose Mamoru nel suo orecchio. «Però è piuttosto curioso: ci assomiglia molto!»

Ma tutto il gruppo era incuriosito da quel ragazzo che nessuno di loro conosceva. Ciascuno di loro lo stava osservando con grande curiosità mista a stupore, mentre Shingo e quel ragazzo continuarono a fissarsi negli occhi.

 

Sembra di essere in uno specchio... pensò il primo. Solo che lui ha gli occhi più piccoli dei miei...

 

Che occhi grandi che ha! - rifletté il secondo. Abbiamo anche lo stesso taglio di capelli, caspita!

 

I due lentamente si alzarono, senza dire una parola e senza mai smettere di togliersi gli occhi di dosso. Poi, Mamoru decise di rompere quel silenzio imbarazzante che stava coinvolgendo anche il resto del gruppo battendo le mani un paio di volte: entrambi sobbalzarono all'unisono e subito si voltarono verso di lui, che sembrava essere divertito dalla loro incredibile somiglianza.

«Non ci sto capendo nulla...» iniziò grattandosi la nuca, per poi avvicinarsi al ragazzo misterioso e rivolgersi proprio a lui, «però sono certo di non averti mai visto qui, a Nakahara. Sei un turista?»

L’altro cercò di sciogliere il suo imbarazzo con un timido sorriso. «No... cioè: sono arrivato solo ieri, mi sono appena trasferito da Gifu...»

A Shingo si illuminarono gli occhi non appena le sue orecchie udirono il nome della capitale della prefettura. Non perse tempo: con prontezza afferrò le mani del ragazzo e le agitò con molta allegria, iniziando a parlare a raffica. «Fantastico! E dimmi, cosa pensi di questo centro sportivo? È come quello della tua città, oppure manca qualcosa? E se sei qui... vuol dire che ti piace il calcio? A noi piace tanto tanto!»

«Shingo!»

In coro gli amici richiamarono la sua attenzione: nell’escalation del loro vivace compagno che era felice di aver trovato qualcun altro probabilmente interessato al calcio, avevano visto l’altro ragazzo totalmente impassibile, che lo stava osservando quasi con grande spavento, come se i suoi piccoli occhi avessero voluto urlare “Qualcuno mi aiuti, vi scongiuro!”

«Uffa, sei sempre il solito...» mormorò Mamoru, portandosi una mano sul volto. Takeo si frappose tra i due, separando Shingo dall'altro ragazzo.

«Cerca di calmarti» sussurrò il centravanti con un sorriso. «Lo so che sei euforico, ma se fai così la gente si spaventa e fugge via a gambe levate, sai?»

Poi si rivolse al ragazzo, e gli disse: «Scusalo, è solo felice di conoscerti: non è roba da tutti i giorni qualcuno che si trasferisce qui da Gifu...»

«Ehi, Takeo: dovrei dirlo io!» protestò Shingo, incrociando le braccia e mettendo il broncio.

Il ragazzino dagli occhi piccoli si lasciò sfuggire una candida risata. «Siete molto simpatici, sapete? Però... però mai avrei immaginato di trovare un sosia proprio da queste parti: è davvero divertente!»

Shingo lo guardò ancora una volta. Non sapeva spiegarsi il perché, ma in qualche modo aveva capito che quel ragazzo stava dicendo quelle parole con molta schiettezza. Si avvicinò di nuovo a lui e gli porse la mano con il suo solito sorriso raggiante. «Scusami per prima, forse ti ho messo in imbarazzo...»

«Nessun problema, anzi: sei molto simpatico!»

Il ragazzo afferrò la sua mano e la strinse forte. «Mi chiamo Ide Tamotsu, e sono davvero felice di conoscerti!»

Il viso di Shingo si illuminò. «Io sono Aoi Shingo, e questi sono i miei amici: facciamo tutti parte della squadra delle elementari! Anche se... ecco, qualcuno di noi andrà alle medie il prossimo mese...»

«Davvero?»

Tamotsu rivolse lo sguardo prima verso il gruppo e poi sul campo, dove era ancora in corso la partita d’allenamento della squadra delle medie. «Sapete perché sono venuto qui? Perché ho saputo che oggi toccava a loro allenarsi qui... ho intenzione di entrare a far parte del loro club di calcio: andrò alle medie dal prossimo mese!»

L’espressione di tutto il gruppo fu colma di felicità. Shingo tornò accanto a Tamotsu, ma questa volta cercò di trattenersi dal toccarlo, senza però nascondere la sua euforia: il suo volto divenne raggiante, gli occhi completamente spalancati e un grande sorriso tra le labbra. «Dici sul serio? Davvero? Davvero davvero?»

«Certo! È anche per questo che stavo raccogliendo dei dati su di loro...»

Tamotsu recuperò il bloc-notes che aveva lasciato sul posto a sedere prima dell’incontro con Shingo. «Adoro giocare a calcio... però mi piace un sacco vedere i giocatori e scrivere tutto ciò che so su di loro: dall’altezza al peso, fino ad arrivare alle tecniche di gioco...»

«Quindi sei una sorta... di giornale gossip del calcio o una cosa del genere?» domandò Mamoru, inclinando leggermente la testa. Apparentemente, non aveva capito molto ciò che gli sembrava più essere un passatempo che qualcosa di utile.

Tamotsu fece una smorfia di orgoglio e iniziò a sfogliare le pagine del taccuino, mostrando a tutti ciò che aveva riportato. «Più o meno: raccolgo dati per elaborare la strategia vincente! I punti di forza, quelli deboli... tutto ciò che può essere utile per costruire la squadra perfetta! Perciò... perciò spero di riuscire a dare anche solo un piccolo contributo anche nella squadra di questa città!»

E questo ragazzo dall’anno prossimo verrà con noi a scuola... pensarono tutti.

Shingo rimase in silenzio, con la bocca semiaperta. I suoi occhi, brillanti di gioia, stavano parlando chiaro: a lui non importava se quel Tamotsu sapesse giocare o meno a calcio: avevano di fronte una sorta di analista dei dati del calcio, un’enciclopedia aggiornata sui giovani calciatori e sulle squadre delle quali facevano parte. E, dato che in quel momento lo stava facendo proprio osservando la squadra delle medie... quelle informazioni potevano tornare utili proprio a loro che sarebbero dovuti entrare in quel team!

D’istinto Shingo prese le mani di Tamotsu e gli sorrise raggiante, per poi rivolgersi ai suoi compagni. «Ragazzi: abbiamo appena trovato il nostro uomo partita per il prossimo semestre!»

Tamotsu sobbalzò. «Ma se non mi avete visto nemmeno giocare, senza contare che dobbiamo ancora entrare nel club–»

«Shhh!»

Con aria divertita, Shingo posò un indice sulle sue labbra e, senza rendersene conto, si lasciò sfuggire un’idea che aveva appena illuminato la sua mente come un lampo. «Da oggi ti allenerai con noi... e non si accettano obiezioni!»

I suoi compagni lo guardarono piuttosto sorpresi, ma furono felici per la sua improvvisa proposta.

«In effetti... Shingo non ha tutti i torti!» esclamò Mamoru.

«Già!» aggiunse Ke. «Con uno come te in squadra, niente e nessuno potrà batterci!»

«E poi... non è detto che devi restare solo in panchina a prendere appunti: immagino che dopo un po’ sarà noioso stare seduto senza fare niente!» disse Takeo.

«Ma... veramente...» balbettò Tamotsu, che avrebbe voluto aggiungere un «Non è noioso: a me piace osservare i giocatori dalla panchina» ma non ebbe il tempo: dal gruppetto si levò un vociare sempre più crescente, e i ragazzi lo implorarono ad accettare la proposta del loro compagno di squadra.

D’altronde, ciascuno di loro avevano pensato che sarebbe stato utile vedere come quel ragazzo se la sarebbe cavata sul campo: se ci teneva a far parte del club di calcio, doveva dimostrare le sue qualità che lo rendevano unico e speciale. E, forse, un giorno anche lui avrebbe aspirato a diventare titolare come loro - nonché Shingo - che stavano per iniziare il nuovo percorso scolastico.

«Allora?» gli chiese Shingo, ancora con le mani ben strette nelle sue. «Ti piacerebbe essere dei nostri? Vedrai: ci divertiremo un sacco insieme! E non importa se non sei molto bravo a giocare a calcio: ci alleneremo insieme... perché siamo una squadra, e in una squadra ci aiutiamo a vicenda!»

L’altro sorrise commosso. Il suo primo giorno in quella cittadina era iniziato nel migliore dei modi: aveva incontrato alcuni suoi coetanei che gli sembravano essere simpatici, e con i quali sarebbe andato a scuola. Chissà: forse sarebbero potuti diventare anche grandi amici...

«Certo!»

 

 

Al ritorno dal campetto, Shingo si incamminò verso casa dopo aver salutato i suoi compagni; subito si accorse che a seguirlo c’era proprio quel Tamotsu Ide che aveva conosciuto tra gli spalti, e sul quale era molto entusiasta. Anche durante la partita di allenamento Tamotsu lo aveva impressionato: quel ragazzo sembrava essere bravo quanto lui, e nel gioco di squadra non era niente male.

A pelle, Shingo sentiva che con lui poteva fare grandi cose in un futuro non molto lontano.

«Ehi!» esclamò contento, voltandosi verso l’altro che nel frattempo lo aveva raggiunto con una piccola corsa. «Anche tu vieni da questa parte?»

«Sì, casa mia è più avanti! Se ti va, possiamo fare la strada insieme!»

Shingo annuì. «Perché no?»

I due tornarono ad incamminarsi verso le rispettive dimore, sorridendo allegramente. Durante il loro breve tragitto parlarono della loro comune passione per il calcio, e subito Shingo gli chiese tutti i dettagli sulle squadre delle quali Tamotsu aveva fatto parte: se rispetto a quella di Nakahara fossero più o meno forti, se c’era qualche giocatore che il ragazzino ammirava per le capacità che mostrava sul campo, e così via.

Man mano che il discorso tra i due stava andando avanti, Shingo arrivò a chiedergli come gli sembrasse la sua amata cittadina: Tamotsu si era trasferito solo da un giorno, però il piccolo calciatore voleva sapere se ci fosse stato qualcosa che avesse già attirato la sua attenzione.

La risposta fu molto chiara.

«Il club di calcio!» esclamò Tamotsu. «La squadra delle medie ha dei giocatori davvero bravi, mi chiedo perché non abbia mai partecipato a un torneo... è vero che è stato fondata da poco, però non l’ho mai vista nel torneo della prefettura. Tu sai perché?»

«Boh!» rispose Shingo, facendo spallucce. «Me lo chiedo anch’io, sai? Quei giocatori lo stanno prendendo come un passatempo, ma dall’anno prossimo sarà tutto diverso... perché ci saremo noi, e convinceremo tutti a partecipare a qualunque torneo organizzeranno, così anche il mister si ricrederà!»

«Hai ragione! E non solo parteciperemo... ma vinceremo!»

«Ben detto!»

Shingo osservò gli occhi di Tamotsu, che nel camminare stava stringendo saldamente i spallacci imbottiti del piccolo zaino che portava sulle spalle: quando il calcio era l’argomento principale quei piccoli occhi brillavano di gioia, proprio come i suoi.

Caspita... vuoi vedere che questo è il mio sosia per davvero? - pensò. Eppure mamma dice sempre che i sosia sono dall’altra parte del mondo: invece io l’ho trovato qui, vicino casa mia!

Nel guardarlo con grande curiosità, Shingo gli chiese: «Come mai vi siete trasferiti qui? Gifu non è molto lontana... non vi piaceva come città?»

Tamotsu si fermò di colpo, fissando il paesaggio all’orizzonte. Rimase in silenzio, assorto nel panorama che lo circondava: anche da Gifu vedeva quella valle circondata dall’imponente catena delle Alpi giapponesi, ma era così distante rispetto al fatto di esserci dentro, nel cuore della natura. Per lui, il trovarsi lì era tutta un’altra cosa: la valle era ancora più meravigliosa di quanto non lo sembrasse già, da lontano.

«Ide?» lo richiamò Shingo, chiedendosi in pensiero perché l’altro si fosse incantato nell’osservare quel panorama. Nel guardare i suoi occhi, si domandò se avesse detto qualcosa di inopportuno: quei piccoli occhi sembravano essere pregni di qualcosa che non riusciva bene a decifrare... forse nostalgia, oppure incertezza ma, di certo, la felicità che li dominava quando stavano parlando di calcio era svanita del tutto.

A quel punto Shingo si rese conto che, forse, era stato indiscreto a rivolgergli quella domanda. «Scusami... non volevo renderti triste...»

Ma l’altro sorrise, e rivolse lo sguardo verso di lui. «Non preoccuparti: non mi hai reso triste! Stavo pensando che è bello vivere qui, a due passi dalla natura! Sai, i miei genitori sono fotografi naturalisti, e lavorano per alcuni giornali. Fin da piccolo ho viaggiato insieme a loro, spostandomi qua e là per tutto il Giappone... e per ora ci siamo trasferiti qui perché scatteranno delle fotografie nel parco naturale e scriveranno qualche articolo, ma non so se resteremo oppure ripartiremo una volta che il loro lavoro sarà finito. Nakahara sembra essere una città molto bella, e voi siete molto simpatici: stavo già pensando che forse sarebbe bello abitare qui per sempre... ma non penso che sarà possibile... per ora vedremo come andrà!»

Shingo si intristì di fronte a quella notizia. La sua iniziale euforia di aver incontrato un altro appassionato di calcio si era attenuata di colpo. «Questo vorrà dire... che tu...»

Ma Tamotsu sorrise per rassicurarlo. «Non preoccuparti per il club di calcio: sicuramente resteremo a Nakahara per un anno intero. I miei andranno anche nei dintorni per altri lavori, per cui hanno deciso di prendere casa qui, così posso frequentare regolarmente il primo anno delle medie... poi si vedrà: non è detto che ce ne andremo via subito! Restare qui per sempre sarà forse impossibile, ma la nostra partenza potrebbe essere anche piuttosto lontana!»

Shingo puntò gli occhi sul manubrio della bicicletta che stava portando a mano, e mormorò: «Sarebbe un peccato se andassi via solo dopo un anno... proprio ora che abbiamo trovato uno come te che ci darà una mano con il club...»

«Lo pensi davvero?»

A quella frase, Shingo alzò nuovamente lo sguardo, incrociando quello di Tamotsu: ora il ragazzino lo stava guardando con ammirazione, e sembrava essere sparita di colpo quella malinconica luce che aveva prima negli occhi.

«Lo penso davvero, Ide» disse, appoggiandogli una mano sulla spalla. «Anzi... ti dispiace se ti chiamo Tamotsu? Non so perché, mi sei già molto simpatico!»

L’altro sussultò. Fino a quel momento nessuno gli aveva mai detto quelle parole: avendo cambiato spesso scuola per via del lavoro dei suoi genitori, quasi nessuno lo faceva giocare come titolare all’interno dei vari club di calcio ai quali aveva partecipato. Invece ora sembrava avvenire il contrario: nonostante avesse raccontato la verità, qualcuno lo stava considerando davvero per la persona che era.

Tamotsu annuì e sorrise di gioia. «Certo... Shingo!»

 

 

 

Quel giorno Yumi aveva deciso di dedicarsi alle pulizie della sua casa. Era da sola... o, meglio, in un certo senso lo era: la donna aveva deciso di adagiare l’orsacchiotto Riku sul divano del salotto, per avere l’impressione di essere “in compagnia”. Con suo marito al lavoro, Yukiko e Shingo a scuola e sua madre ancora a casa, Yumi era rimasta per diverse ore da sola; così la donna si era rimboccata le maniche e aveva iniziato dal piano terra per poi passare al piano superiore.

Giunta nella stanza di Yukiko e Shingo nel tardo pomeriggio Yumi rimise l’orsacchiotto al suo posto, sul seggiolone da pranzo in legno che un tempo aveva ospitato i suoi figli quando avevano solo pochi mesi.

«Ed eccoci qua!» esclamò contenta verso Riku. «Sei contento?»

«Aaah, finalmente un po’ di relax! Non ne potevo più di stare seduto su quella poltrona: mi veniva un sonno che non hai idea!»

Con un sorriso malinconico la donna fissò il peluche, con il quale aveva appena simulato quel breve dialogo che sembrava essere accaduto tra loro. Ogni tanto Yumi si esercitava ancora nell’arte del ventriloquo, quando si trovava da sola tra quelle quattro mura fatte di legno e mattoni; in quei momenti si sentiva meno sola, ma rispetto ai primi tempi, quando i suoi figli erano ancora dei fagottini che riusciva a tenere in braccio senza alcuna fatica, nel fare ciò la donna stava iniziando a sentirsi un po’ strana.

Il parlare con Riku, attraverso Riku, era decisamente diverso rispetto a tanti anni fa.

«Già. Senza Yukiko e Shingo non è la stessa cosa...» sussurrò con una carezza sulla testa dell’orsacchiotto.

I suoi due figli stavano crescendo, diventando grandi, pronti ad affrontare il mondo che li aveva sempre circondati in tutte le sue sfaccettature, verso una profonda maturità che li avrebbe portati a realizzare i loro obiettivi: Yukiko con il club di kyūdō, e Shingo con quello di calcio. Nonostante questa differenza entrambi amavano il mestiere del padre, e se avessero potuto avrebbero trascorso volentieri giornate intere al suo fianco, aiutandolo nella sua bottega dove tutte le loro fantasie diventavano realtà e si mettevano al servizio di chi aveva bisogno di qualcosa di utile e di carino. Entrambi amavano Riku, e da quando avevano scoperto il suo segreto facevano a gara a chi sapesse imitare il più possibile la sua voce senza muovere le labbra, sotto la guida vigile di nonna Atsuko.

Forse, se ci fosse stata la possibilità, entrambi avrebbero voluto fare tutto ciò che a loro piaceva: dedicarsi ai loro percorsi sportivi, alla bottega di famiglia, all’arte del ventriloquo... eppure Yumi sapeva molto bene che una cosa del genere sarebbe stata impossibile. Prima o poi i suoi figli si sarebbero trovati di fronte ad un bivio, e avrebbero dovuto scegliere.

Essere artigiani, oppure dedicarsi appieno allo sport.

Yumi sapeva che in entrambi i casi sia Yukiko che Shingo avrebbero continuato a dedicarsi anche alle loro altre passioni, seppure in misura minore rispetto a quello che avrebbero scelto come ragione di vita, ma da madre non voleva che nessuno dei due arrivasse a pentirsi delle loro decisioni. Voleva vederli felici, dedicandosi a ciò che amavano di più al mondo: a Yumi non importava se alla fine nessuno dei due si sarebbe dedicato all’artigianato, e per questo sia lei che suo marito Susumu non avevano mai imposto restrizioni sul loro futuro.

Ne era certa: qualsiasi cosa Yukiko e Shingo avessero deciso di fare, avrebbe avuto la sua benedizione.

«Bene, caro Riku!» disse la donna, portando i pugni chiusi sui fianchi. «Io ho finito, e ora vado giù per preparare la cena... tu aspettaci qui: vedrai che tra poco Yukiko e Shingo torneranno a casa. Ricordi? Oggi è il compleanno di Shingo, non devo farmi cogliere impreparata!»

Senza aggiungere altro o dare voce ai pensieri dell’orsacchiotto, Yumi si avvicinò alla porta d’ingresso e abbassò la maniglia. Diede un fugace sguardo verso il peluche che giaceva sul seggiolone, illuminato dai raggi del sole che stavano entrando dalla finestra a balcone posta alle sue spalle, e sorrise dolcemente prima di aprire la porta e incamminarsi verso le scale che l’avrebbero portata al piano terra.

«Sogni d’oro, Riku. A più tardi.»

 

 

Dei due figli di Yumi, Shingo fu il primo a rincasare. Come era solito fare, entrò spalancando di colpo la porta e si tolse le scarpe nel piccolo genkan prima di entrare in casa.

«Ciao, sono tornato!» esclamò con molto entusiasmo.

Il ragazzino posò la cartellina sul divanetto del soggiorno, correndo a salutare sua madre e aggiornandola su quanto accaduto, mentre lei preparava la cena. «Sai, mamma? Oggi abbiamo incontrato un ragazzino che si è appena trasferito da Gifu! I suoi genitori sono fotografi, ma lui è un grande appassionato di calcio!»

Yumi sorrise nell’ascoltare l’intero racconto di suo figlio: pur avendo gli occhi fissi sul piano cottura, le piaceva sentire in silenzio il suo resoconto della giornata, e se aveva qualche dubbio lo consigliava sul da farsi.

Ad un tratto la donna si ricordò di una cosa che invece era capitata proprio a lei, e che riguardava suo figlio. «A proposito, Shingo: oggi è arrivato un altro pacco per te! L’ho lasciato dietro al divanetto del soggiorno... e non crederai mai chi è il mittente!»

Subito il ragazzo non se lo fece ripetere due volte: corse verso il luogo che gli aveva indicato sua madre e prese il pacco. Lo scartò, e fu felice di trovare al suo interno un pallone da calcio personalizzato con una dedica: aveva il logo del Renofa Yamaguchi FC, una squadra che militava nella seconda divisione della J.League.

 

[Al mio fan numero uno, Aoi Shingo. Buon compleanno! - Tanaka Yuito]

 

«Che bello, mamma! Un altro pallone, da parte del senpai

Come si sedette sul pavimento, Shingo ammirò il suo regalo: lo alzò in alto, osservandone attentamente ogni dettaglio. Ogni volta che i suoi piccoli occhi si posavano nei dettagli calligrafici di quella dedica, si ricordò di quel giovane ragazzo che aveva sempre sognato di portare la squadra del Nakahara sulla vetta del Giappone.

Tanaka Yuito era il giovane che Shingo aveva incontrato molti anni prima, presso il ruscello quando era solo un bambino che stava per varcare la soglia dell’adolescenza, e poi da ragazzo ormai cresciuto durante la partita d’allenamento che stava disputando insieme ai suoi compagni in un campetto improvvisato nell’area emergenze della cittadina, quando non esisteva ancora il centro sportivo. Dopo il diploma delle scuole superiori era subito partito alla ricerca di fortuna, in direzione della capitale del Giappone nonché del calcio nazionale, Tokyo.

Shingo si ricordò dell’ultima volta che l’aveva visto, proprio al primo campionato nazionale delle elementari dove aveva partecipato con la sua squadra: in quell’occasione Shingo aveva provato a partecipare ad una gara di palleggio che era stata indetta per le squadre che non avevano superato le fasi delle eliminatorie - tra le quali la sua - ed era riuscito a vincerla.

Dopo la consegna del premio, tra la folla era uscito proprio Yuito che subito era corso ad abbracciare il piccolo calciatore e lo aveva sollevato in alto, fino a farlo sedere sulle proprie spalle. I due erano contenti di rivedersi dopo tanto tempo: Yuito era entrato a far parte del circuito dei professionisti, trasferendosi a Tokyo con due dei suoi compagni e iniziando così la sua carriera, ma non mancava mai di seguire l’evoluzione del calcio nella sua città di origine, Nakahara. Trovandosi a quel campionato nazionale, come i suoi concittadini era felice che Shingo avesse vinto quella sfida, su una tecnica nella quale egli stesso ne aveva fatto il suo cavallo di battaglia dopo tanti anni di ostinazione.

Anche se la squadra delle elementari di Nakahara non aveva superato la fase delle eliminatorie, Yuito aveva visto in campo i suoi piccoli giocatori in azione e aveva notato in loro delle qualità eccezionali, soprattutto in Shingo, ragion per cui aveva avanzato una bella proposta al ragazzino.

«Tra qualche anno, se deciderai di diventare un professionista come me, vieni a Tokyo: ti aspetto!»

Shingo era stato molto contento di ricevere una notizia del genere: di fatto Yuito aveva invitato a casa sua proprio lui, che non aveva ancora vinto niente tranne quella piccola coppa che stringeva orgoglioso tra le mani. Proprio lui era stato invitato da un professionista suo compaesano, e che ammirava molto; per questo Shingo era molto felice di aver trovato in Yuito qualcuno a cui poteva affidarsi in caso di difficoltà.

Tuttavia, anche di fronte a lui il bambino non era riuscito a nascondere il suo cruccio. Aveva vinto una sfida, ma in quel torneo l’intera squadra non ce l’aveva fatta ad arrivare nemmeno agli ottavi di finale. Non riusciva a sforzarsi di sorridere, nemmeno di fronte al suo senpai che, però, in quell’occasione lo aveva rassicurato.

«Non devi essere così triste! Vedi, Shingo: quando avevo la tua età non esisteva una squadra di calcio a Nakahara, e nemmeno un campetto fatto come si deve! Però hai visto dove sono arrivato... è vero: ho ancora molta strada da fare, ma giocare come professionista non è roba da poco. Vedrai che un giorno anche tu vincerai qualche partita: sei molto bravo, non abbatterti solo perché avete perso alle eliminatorie!»

Da quel giorno Shingo aveva deciso di seguire il consiglio del suo senpai: si era allenato tutti i giorni nel cortile di casa sua, dopo cena, con un pallone creato degli stracci avvolti come poteva, mentre di giorno cercava sempre di coinvolgere i suoi compagni di squadra che a stento facevano fatica a seguirlo durante le attività del club scolastico. Il piccolo Aoi voleva essere come Yuito e tutti quei campioni di calcio dei quali stava ancora imparando a conoscere attraverso i libri o i documentari che prendeva in prestito dalla piccola biblioteca scolastica e che vedeva insieme ai suoi amici quando non erano impegnati con gli allenamenti.

Con il suo senpai era spesso in contatto: il ragazzo gli aveva lasciato un numero di telefono personale, al quale Shingo di tanto in tanto chiedeva consigli o solo qualche parola di conforto nei momenti di difficoltà. Yuito si era sempre dimostrato gentile e disponibile nei suoi confronti, e Shingo si stava affezionando sempre più a lui, al punto di chiedere ai suoi genitori di accompagnarlo a vedere qualche partita della squadra nella quale giocava quando si svolgevano nella prefettura di Gifu; ogni volta che riusciva ad incontrarsi con lui dopo quelle partite, il cuore del piccolo iniziava a battere più velocemente per l’euforia di trovarsi di fronte a quello che, partita dopo partita, sembrava avere tutte le carte in regola per diventare un grande campione: grande velocità e destrezza nel muoversi sul campo, un tiro sempre eccezionale. E quel ragazzo era proprio di Nakahara, la sua stessa città!

Era con Yuito che Shingo si era allenato prima della sua partenza verso Tokyo; era con lui - oltre ai suoi amici - che aveva trascorso parte del suo tempo libero in quel nuovo campetto della cittadina che da qualche anno era in piena e completa funzione.

Ora, nel giorno del suo compleanno, era stato proprio Yuito a regalargli quel pallone che stava stringendo tra le mani. Dal giorno di quel campionato nazionale non si erano più rivisti, ma in una fredda sera di settembre dell’anno precedente, quando Shingo era tornato a casa dopo gli allenamenti del club, si era improvvisamente bloccato sull’uscio non appena stava per entrare nel piccolo soggiorno per salutare la sua famiglia.

Là si erano radunati tutti: papà Susumu, mamma Yumi e sua sorella Yukiko, intenti a fissare un enorme pacco che era arrivato da Tokyo. Il pacco, accuratamente sigillato, proveniva dall’area di Futako-Tamagawa, una zona nota per l’omonima stazione, la presenza di diversi edifici residenziali e, soprattutto, per la presenza di un grande centro commerciale.

«Shingo, sai qualcosa di questo pacco?» gli aveva chiesto la mamma, indicando l’indirizzo del destinatario scritto in una grafia molto chiara e leggibile: “Per Aoi Shingo - Nakahara, Prefettura di Gifu.”

Anche Shingo si era stupito per l’arrivo di quel pacco. Da quel che sapeva, nessuno di loro stava aspettando qualcosa che provenisse dalla capitale del Giappone, benché meno lui: non aveva mai provato ad ordinare qualcosa e, anche volendo, non sapeva nemmeno in che modo farlo dato che di solito se ne occupavano i genitori o sua sorella.

La famiglia Aoi aveva così deciso di aprire quel misterioso pacco, che subito aveva rivelato la presenza di un gigantesco peluche a forma di leone antropomorfo: il leoncino, interamente di colore arancione, indossava una maglietta con su scritto “Renofa Yamaguchi FC”.

«FC... “Football club”: è il nome di una squadra di calcio!» avevano esclamato in coro Shingo e suo padre.

Il piccolo aveva preso con sé il peluche e lo aveva stretto forte a sé, con gli occhi lucidi. Non aveva capito molto di ciò che stava succedendo, ma in quel momento era felice di avere tra le braccia quel morbido peluche che di certo avrebbe avuto un posto d’onore nella cameretta che condivideva con la sorella.

Chissà se Riku avrà paura di lui quando lo vedrà... di sicuro ne sarà sorpreso!

Nel frattempo Yukiko aveva notato sul pavimento la presenza di una busta bianca da lettere, probabilmente caduta quando avevano estratto il leoncino dalla scatola. L’aveva presa e, leggendo ciò che c’era scritto, subito aveva richiamato l’attenzione di Shingo.

«Fratellino, c’è posta per te!»

Shingo aveva aperto la lettera ed era rimasto senza parole di fronte al suo contenuto: in quelle righe il suo senpai aveva spiegato l’arcano che quel pacco aveva portato con sé.

 

 

Caro Shingo,

come stai? Ho saputo che anche quest’anno la vostra squadra ha partecipato al campionato nazionale giovanile di calcio! Purtroppo non sono riuscito a venire fino a Yomiuri Land, ma so che questa volta siete arrivati agli ottavi di finale. Sono davvero fiero di voi: siete stati bravi... e capisco che in questo momento siete un po’ tristi per questo risultato, ma non dovete abbattervi perché siete migliorati un sacco rispetto alla scorsa edizione!

Come lo so anche se non vi ho visti giocare, mi chiedi? Ecco... l’anno scorso non avete superato le eliminatorie ma questa volta sì, e ciò è un buon segno per la vostra generazione! In più ho sentito che la squadra contro la quale avete giocato l'ultima partita è stata la Nankatsu della prefettura di Shizuoka: vi avrà dato parecchio filo da torcere, scommetto...

Qui le cose vanno bene, ma volevo informarti che mi sono trasferito. Questo pacco ti arriverà da Tokyo, ma devi sapere che quando lo riceverai io sarò a Yamaguchi... un po' lontanuccio! Perciò mi dispiace, Shingo: non potrò mantenere la promessa di ospitarti a casa mia, però ci vedremo ancora: è una promessa!

Sai perché mi sono trasferito così lontano? Perché ho cambiato squadra: adesso gioco nella Renofa Yamaguchi, proprio qui a Yamaguchi! Qui il clima è un po’ più caldo di Nakahara e Tokyo, sembra di essere a primavera inoltrata... però cercherò di abituarmi!

A proposito: il peluche che troverai nel pacco si chiama Reno-maru. Spero che ti piaccia, non è stato facile trovare una cosa del genere a Tokyo... ma questa volta volevo stupirti!

Caro Shingo... concludo questa lettera con un consiglio che ti ho sempre dato. Se vuoi diventare un bravo calciatore, non mollare mai. Alla tua età non ero bravo come te, e non ho avuto i tuoi stessi strumenti, ma oggi gioco in un club di calcio di alto livello e lo devo grazie ai continui allenamenti che ho fatto in questi anni. Tu hai stoffa per diventare un grande campione, forse anche più di me: sei velocissimo e riesci sempre a cogliere di sorpresa il tuo avversario con contrasti improvvisi e quasi inaspettati, e anche con i passaggi non sei niente male.

Perciò continua così: allenati con i tuoi amici e vedrai che i risultati arriveranno quando meno te l’aspetti, prima del previsto. Avrai anche molti ostacoli... ma non fermarti mai.

Cerca di diventare un campione, so che puoi farcela. Ho fiducia in te! E mi raccomando, vienimi a trovare quando tornerò a Gifu: ti aspetto allo stadio!

A presto.

Tanaka Yuito

 

 

Quella sera Shingo aveva chiamato subito il suo senpai, ringraziandolo sia per il regalo che per le belle parole che gli aveva scritto nella lettera. E mesi dopo, nel giorno del suo compleanno, sempre da lui aveva ricevuto quel dono che sembrava così piccolo e semplice, ma che in realtà era così grande.

Shingo sollevò ancora una volta il pallone in alto, e la luce del sole al tramonto che illuminava la stanza sembrò renderlo più splendente ai suoi occhi. Poi lo posò accanto al divano, e guardò l’orologio a cucù che si trovava nel soggiorno: il pendolo oscillava senza mai fermarsi, mentre le lancette segnavano le ore diciotto e quarantacinque.

«Mamma, posso fare una telefonata al senpai? Dovrebbe essere a casa, così lo ringrazio per il regalo!»

Al cenno affermativo di sua madre, Shingo corse subito verso il telefono e alzò la cornetta. Ora aveva un altro buon motivo per proseguire il suo cammino nel mondo del calcio, e non vedeva l’ora di dirlo a Yuito.

 

Grazie mille, senpai. Mi impegnerò per diventare un grande calciatore... proprio come te!

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

E, come di consueto, siamo tornati a Shingo! Anche questo bimbetto sta crescendo... forse troppo: ha già dodici anni, LOL!

Prima di iniziare l'angolo delle note, vi presento tutti i personaggi che sono comparsi in questa parte della storia. Beh... a dire il vero li conoscete un po' tutti: Tamotsu è noto e stranoto per chi sta seguendo il manga, così come chi ha letto il World Youth conosce bene alcuni dei personaggi che sono comparsi qui. Mamoru, Ke e Takeo - insieme a Kazu (che non ho inserito perché nella prima stesura di questa parte non ero ancora arrivata alla lettura del capitolo 54 del manga) - fanno ufficialmente la loro comparsa come ex compagni di squadra di Shingo che lo supportano dagli spalti nell'ultima parte del World Youth. E che, tecnicamente, compaiono già all'inizio della storia del minuto calciatore... ma lì erano senza nomi, ragione per la quale si potrebbe pensare che Takahashi abbia scelto dei nomi a caso. In effetti nel capitolo 54 non sappiamo chi è chi, LOL!

Perciò, cosa ho fatto? Semplice: ho provato a fare un'associazione, scegliendo un volto per quei nomi e affiancando un cognome che - per ora - ci è ignoto. Dunque...

 

- Tamotsu Ide 「井出保」 è l'unico del gruppo del quale conosciamo nome, cognome, aspetto fisico, indirizzo di casa con tanto di codice di avviamento postale. Ok, su questi ultimi due punti stavo scherzando (chiedo perdono ;D) Però è vero che dal manga sappiamo (quasi) tutto di lui: un amico fraterno di Shingo, compagno di squadra nelle medie dove ha sempre svolto il ruolo che noi ben conosciamo, quello di essere un analista dei dati delle varie squadre e giocatori e che, nonostante si sia allenato più volte con Shingo, è sempre stato una riserva... anzi, dalle parole dello stesso Shingo, pare che non abbia mai disputato una partita. Sappiamo poi che, a distanza di qualche anno, si trova nel territorio di Akita (un po' lontanuccio da Gifu, dicono dalla regia XD), luogo dove incontrerà i fratelli Tachibana e con loro tornerà sul campo d'allenamento della Nazionale giovanile; da lì il suo ruolo di analista dei dati sarà sempre più crescente.

Questo è il lato canonico che emerge dal manga: alla luce di tutto ciò, ho aggiunto che Tamotsu fosse figlio di fotografi naturalisti, che di anno in anno girano il Giappone per i loro servizi e articoli, per cui gli ho dato questa caratteristica di una persona che cambia spesso città di residenza.

Piccolo fun fact: Tamotsu compare già nel capitolo 1 del manga del World Youth, con un taglio di capelli molto più corto rispetto al resto di quella parte della serie. Però guardatelo attentamente in quel capitolo: è proprio lui, con quegli occhi piccoli e la famosa cartellina in mano! Altro piccolo fun fact: il fatto che assomigli incredibilmente a Shingo con lo stesso taglio di capelli non è di mia invenzione... ma io ho rincarato la dose. Date un'occhiata al capitolo 29, per esempio: è il suo sosia, anche nelle espressioni! :3

Il suo nome e cognome, che sono composti dai kanji di "supportare", "comunità/città" e "emergere", in realtà insieme formano un gioco di parole: infatti "ii deta motsu" in giapponese vuol dire "raccogliere ottime informazioni" - e non a caso questo personaggio viene soprannominato "Data-motsu" per la sua capacità di raccogliere informazioni sugli altri giocatori/squadre e creare strategie vincenti per la squadra.

- Mamoru Kouki 「高木守」 (cioè lui) è uno dei tre amici di Shingo alle scuole, nonché suo compagno di squadra come difensore. Da piccolo indossa un paio di occhiali dalle grandi lenti; da più grandicello porterà le lenti a contatto, mentre di solito porterà un paio di occhiali dalla montatura più snella. Inizialmente interessato ad entrare nel club di judo ma, come i suoi amici, cambierà idea quando Shingo deciderà di fondare il club di calcio alle elementari.

Il suo nome significa "protettore" mentre il suo cognome "albero alto".

- Ke Hara 「原恵」(cioè lui) è il portiere della squadra del Nakahara. Del trio di amici è quello più timido ma allo stesso tempo con un forte carattere, e dall'aspetto fisico... indovinate un po' a chi assomiglia? ;D Per questo io l'ho soprannominato "Yuzo 2.0"! :3

Il suo nome significa "benedetto/fortunato" mentre il suo cognome "prato".

- Takeo Hasegawa 「長谷川剛雄」 (cioè lui) è il centrocampista della squadra del Nakahara. Adora il nuoto e se non fosse stato per Shingo sarebbe entrato nel rispettivo club. Molto sicuro di sé, è in grado di trovare i lati positivi in qualsiasi situazione, anche quella più difficile.

Il suo nome significa "uomo valoroso" mentre il suo cognome "lunga valle del fiume".

 

Nota aggiuntiva: il loro essere un trio era dovuto al fatto che ai tempi nei quali ho creato gli amici di Shingo non avevo ancora letto la parte finale del World Youth, per cui all'inizio avevo preso tre nomi tratti da uno dei videogiochi di Captain Tsubasa. Prima del cambio di nomi, infatti, Mamoru si chiamava Jin Toda, Ke Goro Kawakami e Takeo Shunta Harukawa. Mentre, riguardo l’associazione del nome Mamoru a uno di quei personaggi comparsi nel mega gruppo di supporto di Shingo, siccome nella mia storia Mamoru "Jin Toda" diventerà il capitano della Nakahara delle medie (piccolo spoiler, ops!) ho immaginato essere lui. Che dirvi: un armadio rispetto a Shingo, beato lui (ed ecco perché inconsciamente gli ho fatto ricoprire il ruolo di difensore, perché è il Shingo Takasugi della Nakahara! XD)

 

Chiusa questa lunga nota sui nomi, come sempre passiamo agli approfondimenti e alle curiosità riguardanti questo capitolo. Rispetto a quelli di Yuzo sono pochi, ma altrettanto utili:

 

- Penso che la storia della Nakahara come squadra di calcio sia nota a chi ha seguito le vicende di Shingo raccontate in tutto il World Youth, però la riassumo per chi non la conosce o vuole avere un quadro generale della situazione. Alle elementari (capitolo 1, pagine 17 e 21) la squadra di Shingo - che in quel momento frequentava la quinta - non aveva vinto una singola partita, ma Shingo riesce a vincere un trofeo proprio grazie alle sue abilità nel palleggio. (Da notare la reazione dei fratelli Tachibana, che restano sbalorditi XD). La cosa, però, sembra non rendere il piccolo calciatore molto felice...

Qui ho inventato che, grazie al duro impegno di Shingo e dei suoi amici, la Nakahara FC è riuscita ad arrivare agli ottavi di finale nell'anno successivo, ma verrà eliminata proprio dalla Nankatsu SC - sì, dai: rendiamola la vera antagonista di questa storia fin dalle origini, LOL.

Alle medie la situazione si complica, ma su questo ci torneremo successivamente; per ora vi basti sapere che la Nakahara non è mai riuscita a partecipare in un torneo nazionale, subirà una pesante sconfitta durante una partita amichevole con la Nankatsu (complice anche l'atteggiamento che molti avranno nei confronti degli avversari che ammirano), e Shingo diventerà il capitano durante il terzo anno. A tal proposito, quando ho visto l'immagine di Shingo con la fascia da capitano nel capitolo 2, mi sono commossa: possiamo essere orgogliosi di lui! :')

- La Renofa Yamaguchi FC è una squadra che milita nella seconda divisione della J.League. A dire il vero la scelta della squadra nella quale gioca il nostro Yuito è stata casuale, però ha una carinissima mascotte: Reno-maru, un leoncino! Qui e qui troverete alcune immagini.

- La città nella quale si è trasferito Yuito (Yamaguchi) ha un clima decisamente più mite rispetto a Gifu - e a Tokyo. (Qui qualche informazione in più.) Ovviamente non stiamo parlando delle spiagge di Okinawa... ma date il tempo a Yuito di abituarsi a un ambiente decisamente più caldo rispetto alla sua città natale ;)

- La zona di Futako-Tamagawa è nota per essere un'area residenziale situata a Setagaya, uno dei ventitré quartieri speciali di Tokyo. Nella zona c'è un centro commerciale, Tamagawa Takashimaya, che è stato il primo centro suburbano giapponese a essere inaugurato (1969) e ancora oggi funzionante.

 

Come sempre vi ringrazio per essere giunti fino a qui; dal prossimo capitolo la storia di Shingo si intreccerà con le vicende narrate nel manga... cosa accadrà?

Al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 11
*** Spiccare il volo - Quindici anni | Morisaki's side ***


Fanfiction
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Spiccare il volo

{Quindici anni | Morisaki's side}

 

 

BGM: Zack Hemsey - The Way (Instrumental)

 

 

 

[12 Marzo. Nankatsu, prefettura di Shizuoka.]

 

Attraverso le ampie vetrate panoramiche dell’ultimo piano della struttura, Hideki osservò il risveglio della vita in tutta l’area universitaria di Shizuoka.

L’immenso spazio dell’atrio alberato che precedeva l’ingresso dell’edificio dove l’uomo si trovava era attraversato da un continuo via vai di gente, tra studenti che andavano a lezione e docenti che, come lui, si preparavano per un’ennesima giornata di lavoro nelle aule o nei loro uffici. Poco distante, gli addetti alle pulizie si stavano recando presso le zone che non sarebbero state occupate dagli studenti nel corso della mattinata, come il vicino centro di tennis o il campetto da calcio universitario, mentre alcuni che lavoravano presso le aree di ristorazione stavano correndo verso i loro luoghi di lavoro come se non ci fosse stato un domani, per cercare di colmare il più possibile il ritardo che rischiavano di fare.

Con una mano che sorreggeva il bicchierino di caffè e l’altra penzolante lungo il corpo, Hideki si incamminò lungo il corridoio, delimitato su un fianco da quelle grandi vetrate che, seguendo la planimetria dell’edificio, davano un ampio sguardo della zona circostante fino ad arrivare all’inizio del laboratorio forestale della facoltà di Agricoltura, costituita da alberi sempreverdi e serre di vario genere. Lì, nonostante tutto il chiacchiericcio che proveniva dalla tromba delle vicine scale, Hideki si immaginò di udire il canto degli uccelli che avevano nidificato sui rami di quegli alberi secolari che scorgeva in lontananza, e che erano rimasti in piedi anche dopo la costruzione di tutto quel plesso di studi.

Ora che ci penso...

Hideki amava osservare gli alberi, soprattutto quelli antichi come querce e sequoie: con il loro aspetto maestoso torreggiavano sulle zone che ricoprivano con le chiome colme di foglie, resistendo fermamente a qualsiasi intemperia che si fosse abbattuta su di loro.

Quegli alberi, così robusti e silenziosi, gli ricordavano le sue origini. I molti rami che si diramavano dai tronchi e che spesso si intrecciavano tra loro ma altrettanto spesso dipartivano in direzioni diverse, assomigliavano così tanto ai componenti della sua famiglia. Come lui e Noburu si erano separati dai loro genitori per prendere strade diverse e costruire due vite l’uno distante dall’altro, in un tempo ormai lontano, così stavano per fare i suoi figli che, man mano che diventavano grandi, erano sempre più vicini alla soglia dell’indipendenza. Ancora qualche anno e lui e Izumi sarebbero rimasti di nuovo soli, dentro quella casa che avevano costruito con le loro forze e che gli sembrava sempre più grande man mano che passava il tempo.

Forse un giorno i loro sforzi sarebbero stati ripagati, o forse no; quel che era certo era che, a dispetto della lontananza, proprio come la quercia anche i membri della sua famiglia sarebbero stati indissolubilmente ancorati tra loro, come le robuste radici di quell’albero che tanto amava e che era simboleggiato nel suo cognome.

Dando un fugace sguardo al cielo colmo di nubi bianche, Hideki finì di bere il suo caffé. Lanciò il bicchiere verso il cestino che era poco distante da lui, centrandolo in pieno; dopodiché guardò le lancette dell’orologio che portava al polso.

Bene!

Aveva ancora qualche minuto prima che gli altri componenti del Centro di formazione professionale del suo Dipartimento lo avessero dato per disperso.

Con un sorriso Hideki prese il cellulare dalla tasca e, scorrendo tra i contatti della rubrica, chiamò uno dei numeri presenti. Quando, dall’altra parte, udì una voce di donna che sembrava quasi spezzata da un grande affanno, arrivò al punto di trattenere le risate.

«Tutto bene, laggiù?»

 

Nello stesso istante, a circa una trentina di chilometri di distanza da suo marito, Izumi stava velocemente salendo le scale che l’avrebbero portata al suo luogo di lavoro. Vestita di tutto punto, con un tailleur di un delicato color rosa, la donna si sistemò la spilletta che era sulla giacca mentre parlava al telefono con suo marito attraverso un auricolare.

«Che dire? Oggi non è proprio giornata!» esclamò, mentre prese una chiave elettronica dalla borsa. Con essa aprì la porta del bagno privato e, una volta dentro, posò la borsa sul lavandino e si ammirò allo specchio per vedere se fosse tutto a posto. Ovviamente no: quella dannata spilletta a forma di delfino, il simbolo del suo luogo di lavoro, non voleva sapere di andare nella giusta direzione.

«Lasciami indovinare... oggi ci saranno anche i genitori dei bambini, vero?» chiese Hideki, e l'immaginare sua moglie alle prese con qualcosa che la stava facendo innervosire lo fece bonariamente sorridere. Sapeva che solo una cosa al mondo avrebbe alterato la sua Izumi. «Scommetto che sei ancora in lotta con “quel maledetto delfino”, vero?»

«Esatto!» sbuffò Izumi, sbattendo le mani sui fianchi. «Mi spieghi a cosa serve mettersi in ghingheri in un asilo? Non siamo mica al gran galà dell’Imperatore: mi sembra un po’ esagerato!»

«Gli ordini sono ordini, cara Izumi.»

«Ma io non riuscirò mai ad abituarmi a questo concetto del “Siccome siamo in un asilo privato dobbiamo essere impeccabili di fronte ai genitori, perciò anche le educatrici dovranno vestirsi bene!” Avrei preferito di gran lunga la nostra cara casacca da lavoro... mi manca già.»

Izumi tornò a sistemarsi la spilla a forma di delfino, che alla fine riuscì a restare al suo posto, mentre suo marito riprese a parlare: «Stai tranquilla. Sono certa che lascerai una buona impressione: in fondo è l’ultimo giorno.»

«Già. L’ultimo giorno di asilo... e anche l’ultimo per i miei piccoli. Alla fine, anche quei pupetti sono cresciuti...»

Izumi appoggiò le mani sul lavandino e guardò dritto nel riflesso dello specchio. Erano trascorsi tre anni dal giorno in cui, di comune accordo con suo marito, aveva preso quella decisione che l’aveva riportata al lavoro che amava, lo stesso che - dopo il matrimonio - aveva lasciato senza costrizioni, per dedicarsi a tempo pieno ai figli che sarebbero arrivati.

In quel momento Izumi si ricordò del dialogo che aveva avuto con Hideki, prima della nascita di Ken'ichi.

 

«Non devi essere costretta a farlo... lo so meglio di chiunque altro: se ti piace questo lavoro, possiamo affidare nostro figlio ai miei o ai tuoi, se dovessi avere qualche difficoltà...»

«Non preoccuparti, Hideki: ho preso la mia decisione. Voglio provare... voglio vedere nostro figlio in tutte le prime fasi della vita, con i miei occhi. Voglio vedere il suo primo sorriso, i suoi primi passi... voglio essere lì quando dirà la sua prima parola. E poi non è detto che sarà per sempre: posso sempre tornare a lavoro, una volta che nostro figlio sarà grande...»

 

Da quel giorno di figli ne erano arrivati ben quattro e Izumi, forte di quella promessa che aveva fatto, aveva deciso di restare al loro fianco fino al giorno in cui sarebbero cresciuti. D’altronde, lei amava il suo lavoro ma al contempo stava iniziando ad abituarsi a quel tranquillo ambiente familiare che lei e suo marito stavano costruendo a poco a poco.

Per questo motivo, nemmeno con l’arrivo di Takaji aveva pensato nell’immediato di tornare al suo lavoro di maestra d'asilo. Un lavoro che le aveva insegnato molto, soprattutto nella prospettiva di crescere ed educare i suoi di bambini, che già sognava di avere quando era ancora una tirocinante e aveva iniziato a frequentare un giovane Hideki alle prese con il dottorato di Scienze psicologiche, antropologiche e dell'educazione.

Le cose erano iniziate a cambiare con l’arrivo degli ultimi due figli, Yuzo e Hanako. La coppia, che aveva vissuto in tranquillità con il lavoro di Hideki e i risparmi messi da parte fino a quel momento per cercare di mandare tutti alla scuola privata e così assicurare a ciascuno di loro un futuro più semplice da percorrere, iniziò a tornare sull’eventualità di riprendere il lavoro da parte di Izumi. Ma all’inizio lei aveva sempre rifiutato, perché voleva resistere il più possibile, escogitando sempre alternative per non far mancare nulla a ciascuno dei suoi figli e, allo stesso tempo, per permettere almeno a lei di continuare a restare a casa, al loro fianco. Tuttavia, per quanto Izumi e Hideki riuscivano sempre a venirne a capo, il problema delle spese stava diventando sempre più insormontabile e quasi insostenibile se non avessero corso subito ai ripari.

«Di questo passo, se non facciamo qualcosa, ci toccherà trasferire tutti i nostri figli alle scuole pubbliche...» rifletteva sempre Hideki, ogniqualvolta che l’argomento veniva a galla quando erano a letto. «E ora che anche Hanako inizierà a frequentare la scuola... come faremo? Non potremo mai mandarla alla Shutetsu, è impossibile...»

Ma, proprio quando la situazione sembrava diventare sempre più complicata, la provvidenza sembrò venire in loro soccorso offrendo tre aiuti, proprio in occasione del passaggio di Hanako dall’asilo alle elementari.

La prima riguardava l'affidamento a Hideki della direzione del Centro di formazione professionale del Dipartimento di Educazione di Shizuoka: un altro lavoro che avrebbe permesso a Hideki di portare a casa dei soldi in più, ma ciò avrebbe avuto come conseguenza il fatto di separarsi dalla sua famiglia per cinque giorni su sette, combinandolo con i suoi lavori di ricercatore e docente universitario. E questo... questo sarebbe giusto per i miei figli? Il non vedermi più per un bel pezzo? - aveva pensato Hideki.

La seconda riguardava, invece, l’improvvisa decisione del loro terzogenito di cambiare scuola con il passaggio dalle elementari alle medie. Una decisione che aveva colto la coppia di sorpresa, dato che a nessuno dei loro figli era stata fatta menzione della complicata situazione economica che la famiglia stava attraversando; infatti, Yuzo aveva chiesto loro di cambiare scuola non tanto per una questione di spese, ma per poter continuare a giocare a calcio con i suoi amici anche dopo l'ultimo campionato nazionale.

Tale notizia aveva reso orgogliosi Izumi e Hideki che così avrebbero potuto risolvere, sebbene solo in una piccola parte, anche la questione economica, dato che la scuola dove voleva andare il loro figlio era pubblica e non privata: una cosa sulla quale Hideki continuò ad avere qualche dubbio, ma sulla quale poi era riuscito a convincersi.

La terza, quella che forse avrebbe determinato una svolta decisiva anche nella vita della loro famiglia, riguardava proprio il lavoro di Izumi. Lei, tre anni prima di quel dialogo che ora stava avendo con Hideki, aveva ricevuto un’ennesima offerta di lavoro presso l’asilo privato della loro città, ma ci aveva seriamente riflettuto per giorni prima di parlarne con suo marito. A differenza delle altre volte i loro tre figli erano cresciuti: come i loro coetanei andavano a scuola, frequentavano i club dopo le lezioni ed erano abbastanza indipendenti per poter tornare a casa da soli o con i loro amici. L’unico problema restava l’ultima della loro famiglia, Hanako, che proprio in quell’anno doveva iniziare il percorso delle elementari: Izumi pensava che nei primi tempi sarebbe stata molto dura per la piccola, ed era per lei che stava tergiversando sulla decisione da prendere... ma alla fine era riuscita a trovare una soluzione. Dopotutto, quel suo lavoro non le avrebbe portato via tutto il tempo che avrebbe dedicato alla piccola: sarebbe stata via di casa fino al primo pomeriggio, ma per il resto della giornata avrebbe continuato a starle accanto.

Izumi desiderava da tempo di tornare al suo lavoro, a ciò che l’aveva appassionata e per il quale aveva studiato molto insieme a Hideki ai tempi dell’università, e per questo aveva deciso di non nascondere nulla agli occhi di suo marito. E, quando proprio lui le aveva confessato i suoi timori in quella fresca sera di settembre, la stessa nella quale Hideki aveva parlato a Yuzo del suo ciondolo portafortuna, lei aveva deciso che per entrambi era arrivato il momento di discutere della sua decisione, che di certo sarebbe stata proficua.

Con lei al lavoro, tutta la famiglia sarebbe tornata a vivere in modo sereno e senza più pensieri sui soldi che arrivavano a casa e quelli che spendevano per il futuro dei ragazzi, un futuro che da quel momento in avanti non sarebbe più stato in pericolo.

 

«E sai una cosa, caro? Mi è venuta un’idea per l’anno prossimo... Non c’è bisogno di fare tutti questi salti mortali per i nostri figli.»

«Che vuoi dire?»

«Che ho accettato un’offerta di lavoro... proprio qui, all’asilo privato della nostra città. Questa volta ho deciso: dall’anno prossimo tornerò a fare l’insegnante.»

«Ma... ma come farai con Hanako?»

«Se la caverà. La affiderò a Kazue nel pomeriggio, non preoccuparti. E poi... lei e Hoshiko sembrano essere molto amiche; l’anno prossimo non potranno ancora andare a scuola insieme, ma da quello successivo sì. Sarà bello per loro fare come hanno fatto i nostri Ken'ichi e Takaji!»

 

Izumi si ricordava del modo in cui il suo Hideki l’aveva guardata, quella sera. Lui, che quindici anni prima le aveva consigliato di continuare a lavorare, ad inseguire il sogno di essere una brava educatrice di bambini molto piccoli, la stava osservando con molto stupore.

In tutti quegli anni Hideki aveva imparato a rassegnarsi: all’inizio tanto era da parte di lei l’insistenza di restare a casa per crescere i loro figli... mentre in quel momento era stata proprio lei a dirgli che sarebbe tornata presto a lavoro. Izumi lo stava facendo non solo per i suoi figli, ma anche e soprattutto per non permettere a lui di uccidersi di lavoro.

«Fidati di me, amore mio. Se te la senti, accetta il posto da Direttore del Centro... ma non farlo se pensi che Hanako e gli altri si sentiranno soli con la mia assenza. Lo saranno... no, lo saremo ancora di più se non tornerai mai più a casa. Siamo tutti consapevoli dei grandi sacrifici che fai, ma noi siamo una famiglia e porteremo questo fardello tutti insieme: ricordati che qui troverai sempre un posto dove sentirti a casa... perciò, fidati di me: siamo tutti sulla stessa barca.»

Di fronte a quella affermazione Hideki l’aveva abbracciata, in lacrime. Per la prima volta da quando stavano parlando di quell’argomento, suo marito era crollato e i suoi timori più nascosti stavano riaffiorando come le onde del mare in tempesta. A Izumi sembrava quasi che potesse sentire i suoi pensieri, attraverso quei sommessi mormorii spezzati dai singhiozzi.

Non voglio che i nostri figli si sentano soli.

Non voglio che abbiano un futuro difficile solo per colpa nostra.

 

Eppure... è stata una nostra scelta avere quattro figli. - avevano pensato all’unisono. E nemmeno di questo ci siamo mai pentiti... perché ci amiamo!

 

Così, a distanza di tre anni, Izumi non si era pentita per quella scelta che aveva fatto. Aveva accettato quel posto di lavoro e lo stesso aveva fatto suo marito, ma con una differenza: Hideki si era liberato dal pensiero di essere odiato dai figli per la sua decisione, e aveva iniziato il suo nuovo percorso a cuor leggero; aveva imparato ad equilibrare i suoi impegni, continuando a svolgere anche il lavoro di docente e ricercatore, ma rifiutando altri incarichi temporanei che avrebbero portato via solo altro tempo prezioso, che invece poteva dedicare alla sua famiglia.

L’assenza di suo marito per qualche giorno aveva pesato un po’ sulla loro famiglia, ma tutti avevano riposto fiducia in lui e ogni volta che tornava a casa lo accoglievano con grande gioia.

Come un vincitore.

 

Lo specchio restituì l’immagine di un’Izumi sorridente, che riprese la borsa e si preparò ad uscire dal bagno. Prima di avvicinare la chiave elettronica alla porta, si tirò dietro la spalla un ciuffo dei suoi capelli con fare tranquillo.

«Quei pupetti sono cresciuti... e anche i nostri figli» sussurrò. «Tra qualche anno, potresti avere un collega a Shizuoka! Lo sai: si sta impegnando molto per il suo imminente percorso all’università...»

Nello stesso istante, alle spalle di Hideki si palesò una giovane dai lunghi capelli neri e con gli occhiali dalle lenti spesse, vestita in modo formale: recava in mano un fascicolo spesso ricco di post it che facevano capolino dalle pagine, con impresso il logo del Dipartimento di Educazione. Vedendo Hideki al telefono, fece cenno di seguirla: la prima riunione della giornata stava per avere inizio.

«Chissà...» sussurrò dolcemente lui, dando un ultimo sguardo alle vetrate panoramiche. «Sono certo che Ken'ichi farà una splendida carriera a Tokyo...»

 

 

 

«Han-chan, possiamo fare una pausa?»

Scuotendosi la polvere dal lungo pantalone grigio che indossava, Hoshiko cercò di recuperare fiato. Si tirò su, si portò una mano sul petto e diede un profondo respiro.

Davanti a lei vi era un muretto di mattoni, che circondava il cortile della sua casa a ferro di cavallo. Lei e Hanako avevano avuto la pensata di disegnare un rettangolo con il gessetto, per simulare la presenza di una porta di calcio quando giocavano in quel cortile ed evitando così di spostare ogni volta la mini-porta del fratello di Hanako, ancora in piedi e funzionante nonostante il passaggio del tempo.

«Che cosa significa fare una pausa?» Hanako stiracchiò le braccia in alto e iniziò a saltare sul posto. «Ti prego, Hoshi-chin: cerca di resistere ancora un po’! Solo qualche altro tiro, ok? Poi ci riposiamo, te lo prometto!»

«Ma io non ce la faccio più... scusami...»

Hoshiko si sdraiò a terra e spalancò le braccia. Fissò il cielo azzurro, dove qualche nuvola bianca stava facendo una dolce passeggiata accompagnata dal vento. «Aspettiamo che arrivi il senpai, così possiamo riposarci un po’... Non vedi com'è bello il cielo, oggi? Possiamo giocare a riconoscere le nuvole!»

Il tono in cui la sua amica aveva pronunciato quelle parole fece sorridere Hanako. Quest’ultima si sdraiò al suo fianco, portando una mano sotto la nuca mentre con l’altra indicò il cielo immenso.

«D’accordo, possiamo fare una pausa... wow, Hoshi-chin: quella nuvola lassù sembra una pecorella!»

«Dove?!»

«Là, sulla destra!»

Hoshiko spostò gli occhi a destra e a sinistra, per poi trovare la nuvola che l’amica le stava indicando. «La vedo, la vedo! E quell’altra che sta sopra sembra un cagnolino!»

«A me quello sembra più uno scoiattolo...»

«Guarda meglio, è un cane!»

«Hoshi-chin, scommetto ciò che vuoi che è uno scoiattolo!»

«Invece è un cane, Han-chan! Non vedi le orecchie lunghe e il naso rotondo? Vedi, lassù!»

La piccola Yamamoto prese la mano della sua amica e, facendo sporgere il suo indice, indicò con esso le forme che stava riconoscendo a poco a poco.

Hanako si rassegnò e sorrise. Quando l’amica lasciò la sua mano, subito la portò dietro la nuca e chiuse gli occhi. «Hai ragione, Hoshi-chin: è proprio un cane.»

 

Nonostante stessero frequentando classi diverse alle elementari, Hoshiko e Hanako non perdevano mai l’occasione di stare insieme. La loro giornata iniziava con l’andare a scuola da sole, parlando di come avevano trascorso la serata con le loro rispettive famiglie, dell’ultimo film di animazione che sarebbero andate a vedere al cinema, della comparsa del loro cantante preferito in qualche programma televisivo, dei loro compagni di classe che avrebbero incontrato a scuola... e terminava lì, su quel cortile dove ora erano sdraiate a pancia in su e con il sole che illuminava i loro volti. Proprio in quel cortile le due amiche giocavano tutti i giorni a calcio e si confidavano i loro più nascosti segreti; era proprio lì che a volte Hanako aiutava Hoshiko nello studio, quando la pioggia non irrompeva a rovinare quel momento di pace.

Nel giro di tre anni quel cortile era diventato il loro regno, dove si rendeva manifesto il legame speciale che le univa da diversi anni: un regno incontrastato, dove loro erano le regine e i loro familiari gli aiutanti, dove niente e nessuno avrebbe potuto recidere il loro vincolo di amicizia. Ed era lì che le due bambine stavano coltivando il loro piccolo sogno: un sogno forse impossibile da realizzare, ma che loro avrebbero continuato ad inseguire nonostante tutto, sulle orme di coloro che, in fondo, non erano poi così distanti da loro.

E tra quei giovani, grandi eroi che avevano portato alto la bandiera della loro città negli ultimi campionati nazionali, c’era anche colui che Hoshiko chiamava con l’appellativo di senpai. Era lo stesso ragazzo che, proprio in quel momento, con un gran sorriso aveva fatto capolino sulle due bambine che stavano osservando le nuvole.

«Sorpresa! Non mi aspettavate così presto, eh?»

 

«Ma come, oggi sei venuto a prendermi prima?» Hanako incrociò le braccia e si concesse un sorriso di sfida, rivolto al fratello che la stava sovrastando.

«È il mio compleanno, concedimelo. Non posso tornare prima a casa, per una volta?»

La voce di Yuzo era sommessa ma dolce: in essa non vi era alcun tono di rimprovero verso la sorella. Il ragazzo si tirò su e, appoggiando la cartella a terra, mise le braccia sui fianchi. «Ed è meglio così: anche questa sera ho molto da studiare... è vero: ho superato l’esame di ammissione per le superiori, ma l’ultima verifica delle medie è alle porte.»

«Eddai: oggi non potresti fare una pausa?» chiese Hanako, alzandosi in piedi e guardandolo negli occhi. «È il tuo compleanno, studia domani! Tanto sei bravo!»

«Lo sai che vorrei tanto farlo, ma non posso: i compiti sono tanti...»

«Ma non è che così ti stanchi troppo? Ti faranno male gli occhi!»

«Tranquilla, non succederà. Anche per questo ho bisogno di studiare tutti i giorni, perciò anche oggi...»

Nel frattempo che Yuzo e Hanako erano nel pieno della loro conversazione, Hoshiko iniziò a sgattaiolare via senza farsi notare da loro. Come previsto dalla bambina, i due erano talmente immersi in quello scambio verbale al punto di non accorgersi di nulla.

Di soppiatto Hoshiko andò sul retro della casa, dove prima di andare a scuola aveva lasciato una scatola di cartone. La aprì, prese il piccolo pallone che c’era dentro e tenendolo nascosto dietro la schiena tornò dagli altri due, che intanto stavano ancora parlando tra loro; lo posò a terra e indietreggiò di qualche passo e, dopo aver inspirato profondamente, corse verso di esso e lo calciò verso un punto ben preciso: il volto di Yuzo.

Tutto avvenne in un attimo. I due fratelli, accortisi del lancio di quell’oggetto sferico, si voltarono in sincronia; nello stesso istante il portiere della Nankatsu afferrò il pallone con una mano, evitando che gli arrivasse dritto in faccia.

Hoshiko ne fu entusiasta: spalancò la bocca e diede un urletto di gioia, poi la sua voce divenne un sussurro colmo di imbarazzo. «Com’era il tiro, senpai

«Ottimo,» le rispose Yuzo, posando il suo sguardo sereno su di lei.

Anche Hanako le sorrise, facendo al contempo spallucce. «E dire che fino a cinque minuti fa Hoshi-chin era fin troppo stanca per fare altri tiri... mah!»

«Han-chan!» protestò Hoshiko, per poi sorridere. «Non dovevi dirlo al senpai... ah! A proposito, senpai!»

La bambina si avvicinò a Yuzo e, alzandosi sulle punte, posò le mani sul pallone che gli aveva lanciato. «Questo è il mio regalo di compleanno per te!»

«Davvero?» domandò Yuzo con sguardo fraterno. «Posso tenerlo?»

«Sì, è tutto tuo! L’ho anche firmato!»

Con un sorriso Yuzo spostò la sua attenzione sull’oggetto che aveva in mano: era di un rosa tenue e su di esso vi era scritto “Buon compleanno, senpai! - Yamamoto Hoshiko” in una grafia ancora irregolare ma che cercava di imitare il più possibile un tratto elegante.

«Grazie mille, è molto carino!» rispose il portiere.

Hoshiko gli rivolse un inchino, e soddisfatta raggiunse Hanako. «Dai, ora facciamo vedere al senpai cosa abbiamo fatto oggi!»

«Ok!»

Le due amiche si diedero il cinque e tornarono a giocare a pallone.

«Guardaci, fratellone!» esclamò Hanako.

Yuzo annuì, riprese la cartellina e si sedette più indietro per lasciare spazio alle bambine che ora correvano nel cortile, provando a rubare il pallone a vicenda per poi tirare sul muretto.

Il muretto...

Il segno del gessetto che avevano tracciato le due piccole era ancora ben visibile. Yuzo sorrise malinconico e si ricordò della prima volta che Hanako e Hoshiko avevano tracciato quei segni, ricalcando quelli che già c’erano: allora le due amiche avevano solo cinque anni, e avevano iniziato a dedicarsi al gioco del calcio seguendo proprio i suoi consigli.

Era capitato tutto per caso: Hanako l’aveva sempre visto allenarsi nel suo cortile, e così anche Hoshiko quando si trovava là per giocare con la sua amichetta. Lo avevano sempre ammirato e fin da subito lo avevano preso come modello da seguire, soprattutto dopo i due campionati nazionali ai quali aveva partecipato con la sua squadra.

Dopo l’ultimo torneo delle scuole elementari, le due gli avevano chiesto di diventare il loro coach personale, confidandogli di voler diventare brave a giocare a calcio.

 

Cavoli... non sono proprio la persona giusta per loro!

 

Questo era stato il primo pensiero di Yuzo, che in tutta Nankatsu si sentiva il meno adatto a dare consigli di calcio, tanto meno allenare due bambine che stavano ancora imparando il significato della parola “calcio”.

Tuttavia, fu proprio il guardarle negli occhi che lo fece riflettere su quella decisione: quei piccoli occhi brillavano di pura ammirazione nei suoi confronti, come se egli fosse diventato il loro idolo. Le due bambine avevano scelto già prima di sentire la sua risposta, che non poteva essere un semplice e secco “no” per via delle sue paure e delle sue insicurezze: Yuzo non poteva farle trionfare di fronte a loro, che lo avevano visto allenarsi fin dal momento che avevano iniziato a muovere i primi passi e che provavano una sincera ammirazione nei suoi confronti. Con loro, i suoi timori si attenuavano ed egli si sentiva più fiducioso delle proprie capacità.

Quella risposta, quel “no”, non era ammesso di fronte a sua sorellina e alla sua migliore amica.

Da quel giorno Yuzo aveva preso entrambe sotto la sua ala, cercando di fare del suo meglio per dare loro delle buone basi di calcio. Le due piccole kōhai avevano la giusta determinazione per essere costanti nell’impegno, e sembravano essere molto brave: Yuzo le seguiva passo dopo passo, osservando la loro crescita e il diventare sempre più forti, e ne fu quasi orgoglioso di vederle così determinate.

Egli non ricordava di essere come sua sorella alla sua età: anche a lui piaceva giocare a calcio, ma rispetto a lei si era sempre sentito più insicuro. Per fortuna, su questo Hanako era molto diversa, più agguerrita e spericolata: sembrava essere nata per ricoprire un ruolo d’attacco, a differenza di Hoshiko che, sebbene risoluta come lei, preferiva più intercettare il pallone per poi rilanciarlo ai suoi compagni.

Yuzo era arrivato a pensare che entrambe le bambine avessero la stoffa per giocare a calcio; se ce l’aveva fatta lui nonostante i suoi timori e le sue insicurezze, di certo loro non sarebbero state da meno.

Forse, tutto ciò lo dovevano alla complicità che avevano condiviso da sempre; cosa che Yuzo aveva iniziato ad avere solo con l'ingresso al club di calcio delle elementari. Loro erano state molto fortunate ad essere vicine di casa e, così, a ritrovarsi.

Yuzo sapeva molto bene quale grande effetto sulle loro vite poteva portare un rapporto del genere. Lui, che l’aveva vissuto - anche se per breve tempo - ne era consapevole, e ogni volta che rivolgeva lo sguardo verso quel muretto, tra i tanti ricordi del passato che riaffioravano come il fumo di un bastoncino d'incenso acceso ne ricorreva sempre uno dove, nel cortile della sua casa, stava scambiando qualche parola con Hoshiko mentre attendevano l’arrivo della sorellina.

 

«Avrei tanto voluto avere un fratello come te... Han-chan è davvero fortunata!»

«Sai... anch’io lo penso. Mia sorella è davvero fortunata ad avere un’amica come te. E sia tu che lei siete fortunate a poter stare insieme.»

 

In quel momento Yuzo aveva notato negli occhi della piccola un fugace bagliore di curiosità per ciò che aveva appena detto, ma poi l'aveva vista sorridere e annuire.

«Una volta mamma mi ha detto che tu giocavi sempre con mio fratello! Era come me?»

Il giovane aveva sgranato gli occhi dallo stupore: per quanto cercasse di ricacciare l’argomento “Hikaru Yamamoto” nel profondo del suo cuore, serbandolo solo per sé nei momenti di solitudine, in qualche modo riaffiorava a galla proprio con Hoshiko e Hanako.

Dopo un attimo di silenzio, Yuzo le aveva messo una mano sulla sua testolina e le aveva accarezzato i capelli.

«Sì, molto. Hai il suo stesso sguardo quando giochi a pallone...»

Di fronte a Hoshiko il portiere avvertiva sempre un groviglio di strane sensazioni localizzate tra lo stomaco e il petto. La reazione che il suo corpo aveva ogni volta che la guardava era la diretta conseguenza di quel dolore che aveva subito in passato: una profonda cicatrice che era ancora lì, all’altezza del suo cuore. Quel dolore era ancora molto grande, forse ancora troppo per superarlo a cuor leggero e lasciarselo alle spalle con il peso di una piuma.

Ci voleva ancora del tempo e doveva essere paziente, però Yuzo ne era certo: prima o poi avrebbe superato quel dolore e il suo cuore non avrebbe più silenziosamente pianto alla vista di Hanako e Hoshiko. Un giorno ci sarebbe riuscito, continuando a percorrere quella strada che lo avrebbe portato a realizzare il suo sogno e così diventare un ottimo modello da seguire per le due bambine.

 

«Fratellone, ci sei?»

Yuzo sobbalzò. Alla vista di quel muretto si era totalmente immerso nei suoi ricordi, senza accorgersi del pallone che gli era finito accanto. Quando le due bambine erano corse per recuperarlo, lo avevano visto imbambolato che continuava a fissare il muretto, con un fermo sorriso sulle labbra.

Hanako entrò nel suo raggio visivo, frapponendosi tra lui e il muretto che subito indicò con un sorriso sornione. «Bello, vero? Lo abbiamo ripassato quando non c’eri. E visto che ti sei incantato...» continuò, prendendo all’improvviso suo fratello per il braccio, «vai alla porta, per favore!»

«Sì, Han-chan! Il senpai in porta!»

Con molta gioia Hoshiko iniziò a spingere Yuzo da dietro, aiutando la sua amica a trascinarlo verso la porta.

«A... aspettate un attimo!» replicò il ragazzo. «Un attimo, così mi fate cadere a terra!»

Ma in fondo al suo cuore Yuzo si stava divertendo. Amava quei momenti trascorsi insieme alla sorellina e alla sua amica, dove di certo non si sarebbe mai annoiato e avrebbe sentito da parte loro l’amore e la forza che lo avvolgeva come una calda e morbida coperta nelle fredde giornate d’inverno.

Loro avevano bisogno di lui... così come lui sentiva di aver bisogno di loro.

 

 

 

«A domani mattina, Han-chan! E grazie per l’aiuto, senpai!»

Hoshiko rientrò nella sua dimora dopo aver salutato Yuzo e Hanako, che accostarono il cancello e iniziarono ad incamminarsi verso casa.

Il cielo ormai era attraversato dai colori del tramonto, segno che stava giungendo la sera. Non appena vide le luci del piano terra accese, la piccola Morisaki si avvicinò al cancello di casa ed era sempre più entusiasta di entrare.

«La mamma è tornata!»

Yuzo prese le chiavi e aprì il cancello; subito Hanako corse verso la porta d’ingresso e suonò più volte il campanello. Nel frattempo il ragazzo alzò leggermente la testa e notò che le stanze del primo piano che davano sulla strada principale sembravano essere completamente spente.

Takaji non è ancora rientrato... deve essere ancora impegnato con il club di kendo...

Mentre Yuzo si avvicinò alla porta, vide sua madre che aveva aperto e stava salutando Hanako con un bacio affettuoso sulla testa; la donna lo accolse con un sorriso.

«Ciao» disse lei.

«Ciao, mamma. Come è andata la giornata? Oggi era l’ultimo giorno, vero?»

Izumi diede un sospiro divertito, fece entrare tutti e richiuse la porta di casa mentre lui e Hanako si stavano togliendo le scarpe nel genkan; si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, continuando a sorridere. «Non male. Le mie piccole pesti sono pronte per le elementari... però sentiranno la mia mancanza: oggi non volevano lasciarmi nemmeno per un istante!»

«Che bravi!»

«Che diavoletti, vorresti dire! Mi hanno fatto penare in questi tre anni, ma ne è valsa la pena. Mi mancheranno molto, e chissà se si ricorderanno di me...»

«Lo faranno, mamma. Se li hai voluti bene, si ricorderanno di te per sempre...»

Izumi rientrò in cucina e tornò a sfaccendare per la cena. «Invece a voi due... come è andata?»

«Bene!» esclamò Hanako, appoggiando lo zainetto sullo stipite della porta. «Oggi abbiamo fatto il compito di matematica, è stato facile facile!»

«Ma che brava!»

Yuzo appoggiò le mani sulle spalle della sorellina e si chinò. «Tra poco potresti dare lezioni al fratellone: lui e la matematica non riescono proprio a fare pace... a proposito, mamma: Takaji non è ancora tornato?»

Sua madre fece una scrollata di spalle e scosse la testa. «Ormai lo conosci: pur di evitare i libri preferisce ammazzarsi con il kendo. E poi si lamenta che ha sempre poco tempo per studiare! Mi chiedo cosa succederà l’anno prossimo...»

Fratello e sorella si guardarono negli occhi e ridacchiarono piano. «Stai tranquilla, mamma,» aggiunse Yuzo, per poi alzarsi in piedi e prendere una banana dalla fruttiera che si trovava sul ripiano bar, alle spalle di sua madre. Mentre sbucciava quel frutto, che nonno Akihiko aveva spedito dal suo ultimo viaggio in Malesia, il giovane le disse: «Comunque anche a me è andata tutto bene... anzi, il solito. Non ho molte novità... se non che ora mi conviene andare in camera a studiare un po’.»

«Di già, fratellone?»

Hanako aprì le braccia e si gettò sul petto di Yuzo, malinconica. «Ti prego, solo cinque minuti! Giochiamo ancora un po’!»

«Ora non posso, davvero.»

Yuzo appoggiò la banana su un piattino che era al fianco della fruttiera e strinse Hanako per confortarla. «Ti prometto che prima di andare a letto verrò nella tua cameretta e ti racconterò una storia, va bene?»

La piccola tirò su col naso, poi sorrise e con sguardo furbesco prese la banana che aveva appena lasciato suo fratello, allontanandosi da lui allegramente. «Va bene, fratellone!»

«Ehi, ladra di banane!»

Yuzo fece per allungare un braccio verso di lei, ma chinò la testa e si rassegnò a recuperare il frutto tanto ambito: con Hanako era difficile spuntarla senza avere in cambio un ricatto o una marachella. Voltò le spalle e iniziò ad uscire dalla stanza, recuperando la cartellina che aveva lasciato nel salotto.

«Allora vado, ci vediamo più tardi!»

Sua madre si allontanò dal piano cottura e gli si avvicinò. «Prima di metterti a studiare...» iniziò con voce sommessa, «c'è Ken'ichi che ti sta aspettando nella sua stanza. Vai da lui: penso che abbia da dirti qualcosa di importante...»

Qualcosa... di importante?

 

 

Nascondendo dietro la schiena l’okutopasu, un polipetto portafortuna di colore azzurro, con le nocche della sua mano libera Yuzo diede due colpi leggeri alla porta che aveva di fronte. Sapeva bene cosa stesse passando per la testa di Ken'ichi, che forse era già intento a preparare gli ultimi bagagli per la sua imminente partenza: suo fratello maggiore si era impegnato molto per entrare in quell’università prestigiosa di Tokyo e, da grande studioso qual era anche lui, Yuzo sapeva che un giorno anche lui avrebbe dovuto affrontare quella grande prova, una volta terminate le superiori.

Dall’interno di quella stanza non si sentiva alcun rumore: un profondo silenzio avvolgeva il corridoio del primo piano, spezzato solo dal vociare allegro di Hanako che stava ancora chiacchierando con la mamma nella cucina. Ad un tratto Yuzo riuscì ad udire una sedia che si spostava e dei lenti passi che diventavano sempre più vicini.

Il ragazzo attese con pazienza che la porta si aprisse, lateralmente sparendo verso destra e rivelando Ken'ichi. Quest’ultimo alzò una mano per salutare suo fratello, con un sorriso dolce sulle labbra.

«Ehi. Ti stavo aspettando, entra.»

Yuzo superò la porta d’ingresso, soffermandosi a osservare ogni dettaglio di quella stanza come era solito fare. Dalle pareti color blu alice, la stanza di Ken'ichi era lo specchio della sua vita e della sua anima: qualunque particolare di quell’ambiente era un chiaro richiamo all’oceano che tanto amava, dai colori ai singoli oggetti che erano presenti.

Sul lato sinistro, il letto dalle lenzuola blu con disegni di onde marine era incastonato all’interno di un mobile, al di sopra del quale correva una libreria: sui suoi ripiani vi erano volumi di diversa grandezza, la maggior parte dei quali trattava della flora e fauna delle distese d’acqua terrestri.

Sul lato destro vi era un armadio scorrevole, dal colore blu notte, al fianco del quale campeggiava un quadro composto da cinque tele, che insieme componevano l’immagine di uno splendido fondale marino popolato da alghe e coralli dai mille colori; sotto, un piccolo pouf quadrato di colore verdemare faceva da guardia al vicino zabuton che Ken'ichi utilizzava quando lo stress predominava sulla sua lucidità.

La stanza aveva un’ampia finestra che si affacciava sugli alberi di tiglio che popolavano la stradina alle spalle della casa: era lì che si trovava il ragazzo, seduto e col capo chino sul libro, al di sopra della bianca scrivania minimalista dalla quale sporgeva una semplice libreria sul fianco. Sulla scrivania era accesa la piccola lampada a forma di delfino che lo zio Noburu gli aveva regalato quando aveva tre anni, e che illuminava tenuamente il libro che era oggetto del suo studio.

Era da qualche giorno che Yuzo non aveva messo piede in quella stanza, anzi: nessuno dei suoi familiari, eccetto proprio suo fratello maggiore, lo aveva fatto. Ken'ichi, infatti, era stato il primo dei fratelli Morisaki ad affrontare lo shiken jigoku, “l’inferno degli esami” temuto da tutti gli studenti che stavano per concludere le scuole superiori e volevano accedere all'università. In confronto all’esame di ammissione che aveva sostenuto tre anni prima per le scuole superiori private Shutetsu, quello dell’università era stato difficile almeno il triplo, se non di più: questo perché Ken'ichi ci teneva ad accedere alla prestigiosa università di Scienze e Tecnologie Marine a Tokyo.

Suo fratello sapeva fin dall’inizio che lo shiken jigoku sarebbe stato l’ultimo ostacolo che lo separava dalle sue passioni e che non sarebbe stato semplice abbatterlo, ma egli aveva le idee molto chiare a tal proposito: studiare giorno e notte pur di riuscire ad entrare in quella università. Era stato disposto ad isolarsi completamente nelle ultime settimane dell’anno, pur di riuscire a memorizzare ogni cosa che gli avrebbe permesso un più facile accesso. Ogni singolo dettaglio che sarebbe entrato nella sua testa sarebbe stato un passo in più verso la realizzazione del sogno che aveva da bambino: vivere a pieno contatto con quel mondo marino che l’aveva affascinato con la sua natura incontaminata e il caleidoscopio della sua bellezza; se avesse superato quell’esame, quelle che ne sarebbero seguite sarebbero state le ultime settimane che avrebbe potuto condividere con i suoi cari, prima di partire alla volta della più grande megalopoli del Giappone.

Alla fine Ken'ichi ci era riuscito: era riuscito a superare quell’inferno maledetto, e dopo mesi di studio intenso l’uscire di casa e passeggiare per le vie di Nankatsu aveva avuto un sapore decisamente diverso. Quando gli era arrivata la notizia della sua ammissione, insieme al resto della famiglia Yuzo era stato testimone della sua grande felicità: suo fratello aveva corso all’impazzata, senza una meta precisa dove andare, per poi giungere al belvedere della città dal quale aveva urlato tutta la sua gioia, e la sua libertà riconquistata.

La porta della stanza di suo fratello, rigorosamente chiusa, era infatti diventata l’unica via d’accesso verso quella piccola frazione del mondo esterno che chiamavano famiglia. E, ora che Yuzo era riuscito a entrare nuovamente in quella camera, sentì che l’atmosfera tesa che l’aveva avvolta nel periodo degli esami era svanita del tutto.

Entrambi poterono tirare un sospiro di sollievo: tutto era tornato come prima... o quasi.

Yuzo si accomodò sul pouf vicino alla finestra, mentre Ken'ichi tornò alla scrivania; subito nascose il soffice peluche che aveva in mano in una delle tasche del gakuran nero che ancora indossava.

Ken'ichi vide la scena con la coda dell’occhio ma fece finta di niente: si limitò a sorridere mentre riordinò il piano con i libri che aveva preso per la lettura in attesa di suo fratello. Per un attimo, gli tornò alla mente quando, circa quindici anni prima, aveva insistito con il suo papà perché il nome di quel fratellino dovesse essere “Same”.

Che storia!

Dalle sue labbra gli sfuggì una candida risata, che l’altro subito notò con sorpresa.

«Tutto bene?»

Ken'ichi si sedette davanti a suo fratello sul zabuton che si trovava accanto al pouf, e i suoi occhi color nocciola si posarono con fermezza su quelli di Yuzo, di analogo colore.

Più lo guardava e più quel nomignolo che gli aveva dato quando erano dei bambini gli sembrava sempre più distante; eppure, se c’era una cosa nella quale suo fratello stava diventando affine a uno squalo era proprio il calcio. Fin da bambino lo aveva visto allenarsi duramente, dalla finestra della casa che si affacciava sul loro cortile o giocando insieme a lui, e sapeva quanto egli amasse quel mondo, al punto da non gettare mai la spugna nonostante tutte le difficoltà che aveva incontrato. Negli ultimi tempi la determinazione di Yuzo lo aveva reso sempre più tosto e difficile da sconfiggere, al punto da riuscire sempre a ottenere ciò che voleva senza mai mollare; tuttavia, allo stesso tempo, quel suo fratellino non era cambiato per nulla, così docile e gentile con chi lo trattava con tenerezza.

Ken'ichi aveva imparato che anche gli squali, noti come feroci predatori, avevano un punto debole: le Ampolle di Lorenzini, speciali organi di senso presenti sul loro muso e che, se accarezzati, permettevano a questi spietati animali di tranquillizzarsi. Di certo suo fratello Yuzo non era uno squalo - e non lo sarebbe mai stato -, ma ne era certo: se un giorno lo fosse diventato per uno strano caso del destino, lui sarebbe stato uno di coloro che sarebbero riusciti a renderlo più mansueto.

«Sai perché ti ho fatto venire qui, Same?» gli chiese divertito.

«Same?»

«Ho deciso che per oggi, e solo in questa stanza, il tuo nome sarà Same

«Perché?»

«Perché, per una volta, voglio vederti come uno squalo: pronto a mostrare i denti quando meno te l’aspetti.»

«Ma gli squali sono sempre pericolosi... e mi conosci bene: io non sono di certo uno squalo, se è per questo.»

«Non è vero. Solo alcuni sono pericolosi, e mostrano la loro aggressività solo quando sono minacciati. Per il resto, quando non ci scambiano per loro prede sono pressoché innocui... anche se devo ammettere che è un po’ raro trovare degli squali così tranquilli.»

«... non penso di essere venuto qui per ascoltare la tua prima lezione di “squalologia”, professor Morisaki

«Squalologia?»

Dopo un attimo di silenzio i due fratelli scoppiarono a ridere, e Ken'ichi pensò che quel quarto d’ora trascorso con Yuzo gli stesse giovando molto. Si stava rilassando in compagnia del fratello, come mai aveva fatto in quelle settimane che erano ancora vicine ma che gli sembravano ormai lontane, sempre chiuso in quella stanza e uscendo solo per mangiare o andare in bagno: lo shiken jigoku era piombato nella sua vita come un grosso macigno scagliato da una catapulta, sacrificando del tempo prezioso per le persone alle quali voleva bene e che vivevano sotto il suo stesso tetto. E anche in quel momento che si sentiva finalmente libero... Ken'ichi stava avvertendo una morsa al cuore.

Quante altre occasioni avrebbe avuto da poter passare con la sua famiglia, ridendo e scherzando come un tempo? La data della partenza alla volta di Tokyo era sempre più vicina: a breve avrebbe avuto solo il tempo di salutare tutti, ringraziando i genitori per tutto ciò che avevano fatto per lui, lanciare un’ultima battutaccia a Takaji perché l’anno successivo anche lui avrebbe dovuto affrontare quel grande muro che lo separava dal mondo dell’università - anche se su questo non ci avrebbe messo troppo la mano sul fuoco, conoscendo la sua indolenza nello studio di certe materie -, arruffare i capelli a Hanako e raccomandandole di mettercela tutta per entrare nel club di calcio della Shutetsu, e infine augurare a Yuzo di vincere i prossimi tre campionati nazionali che stavano attendendo lui e la sua squadra.

In quel momento Ken'ichi riuscì a dimenticare quella malinconica tristezza di non poter rivedere la sua famiglia per un bel pezzo.

«Grazie, fratellino...»

Quelle parole gli sfuggirono di bocca, e Yuzo non potè fare a meno di chiedergli il perché.

Ken'ichi si alzò, andò presso l’armadio e da esso prese una scatolina che aveva nascosto; gliela porse a suo fratello, sorridendo quando l’altro la prese in mano. «Perché sei mio fratello. Questo è per te: buon compleanno.»

All’interno di quella scatola vi era una piccola spilla in feltro che rappresentava uno squalo. Yuzo rimase a bocca aperta, e all’inizio non riuscì bene a capire perché stesse ricevendo in dono qualcosa che era molto caro a lui.

Nel vedere la reazione di suo fratello, Ken'ichi proseguì: «Era il mio portafortuna quando avevo iniziato le elementari. Me l’aveva regalato la mamma dicendomi che mi avrebbe portato fortuna... e aveva ragione.»

«Ma... ma allora perché me lo regali?» domandò Yuzo, alzando lo sguardo esitante verso il fratello. «Devi ancora affrontare l’università: ti servirà ancora!»

«Invece no: sono certo che servirà più a te che a me.»

Ken'ichi lo abbracciò di slancio, così forte senza più staccarsi. Pensò a tutti quei momenti che aveva trascorso insieme a lui: aveva visto quel fratello nascere, muovere i suoi primi passi, giocare e parlare con lui, chiedergli aiuto nei compiti e consigli quando aveva dubbi... proprio come era avvenuto con Takaji ma, a differenza dell’altro fratello, aveva visto in lui un’evoluzione straordinaria del suo carattere.

Da timido e schivo qual era Yuzo era diventato più forte, più coraggioso e sicuro di sé, e forse anche più testardo. Ma questo non importava: sapeva che qualsiasi strada avesse deciso di intraprendere alla fine di quel percorso di tre anni che lo stava attendendo, era certo che avrebbe avuto molta fortuna e che sarebbe rimasto legato a lui per sempre, nonostante la distanza che li avrebbe separati.

Poco lontano giaceva l’okutopasu che Yuzo voleva dargli; fuoriuscito accidentalmente dalla tasca del suo gakuran quando Ken'ichi l’aveva abbracciato, ora vegliava in silenzio su di loro mentre dietro le ampie finestre iniziò a scendere la sera.

L’anno più bello della loro vita stava per iniziare.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Questo è stato un capitolo ricco di importanti cambiamenti. Izumi che ha ripreso il suo lavoro (ora, non so fino a che punto possa essere attendibile il fatto che in Giappone una donna possa riprendere a lavorare dopo ben diciannove anni di pausa... ma ho voluto immaginarla così ^^"), Hideki che è super impegnato con i suoi vari lavori e Ken'ichi che sta per iniziare l'università a Tokyo.

Insomma: non sono cose di poco conto.

Ah, alla lista di sopra dimenticavo di aggiungere che Yuzo ha iniziato a fare da "coach" a Hanako e Hoshiko. E Takaji che antepone il kendo sopra ogni cosa... davvero, come ha detto Izumi, anch'io mi chiedo cosa potrebbe ancora accadere nel giro di qualche anno...

Questa volta niente personaggi nuovi (il quadro è quasi completo) ma le solite note di fondo invece sì. Dunque:

 

- Per la descrizione di tutta la zona universitaria di Shizuoka dove si trova il Centro mi sono basata su questa mappa. Analizzandola, ho notato che c’è un po’ di tutto, cioè ambienti che sono pertinenti ad altre Facoltà;

- A tal proposito, ammetto che una pecca di questo capitolo riguarda proprio i vari titoli e strutturazioni dei Dottorati di ricerca in Giappone. Purtroppo (scrivo "purtroppo" per un motivo che sto per illustrarvi) i siti sull'argomento sono tutti in lingua giapponese... e, dato che al momento conosco questa lingua a livello proprio basico, non sono riuscita a tradurre tutto. (Sì, ok: c'è Google Translate che può dare una mano, però capite che si tratta di siti dove il linguaggio è più tecnico... sarebbe meglio studiare direttamente da libri più specifici sull'argomento per avere un quadro più chiaro della situazione.) Perciò, riguardo la nomenclatura, mi sono basata su quelli che ci sono in Italia, in particolare quello dell'Università di Torino;

- Finora non vi ho mai parlato nel dettaglio di una particolarità che riguarda il sistema scolastico in Giappone, e che qui diventa ancora più chiaro. Siccome l'anno scolastico giapponese inizia nel mese di marzo, Hanako e Hoshiko frequentano classi diverse con un anno di differenza anche se sono nate a pochi mesi di distanza. Come narrato in questa storia, Hanako è nata a gennaio; invece Hoshiko, essendo nata qualche mese dopo (ho pensato tra giugno/luglio), per il percorso scolastico risulta essere di un anno in meno rispetto alla sua amica. Il concetto di primina in Giappone sembra non esistere, per cui Hoshiko non può frequentare la stessa classe di Hanako...

(Piccola curiosità esplicativa perché, in realtà, c'è un altro motivo ben preciso dietro alla scelta di far frequentare classi diverse a queste due piccoline. In origine, questa differenza sarebbe dovuta servire per una side story su Hanako e Hoshiko - che ho deciso di non scrivere più man mano che sono andata avanti con la stesura di questa storia; si trattava di un piccolo spin-off che cronologicamente si colloca tra il capitolo sui diciotto anni di Yuzo e il finale. È vero che non lo scriverò più... però non è detto che non farò qualche accenno a partire dalla prossima parte e nella storia futura (si spera non troppo lontana) "Intrecci"... :3

- Sempre a proposito della scuola, più si va avanti e più le attività del club terminano tardi, molto tardi. Qui e qui giusto qualche link per darvi un'idea.

- E, sempre a proposito dell'istruzione scolastica... ora un piccolo accenno sull'università che frequenterà Ken'ichi. Avevo due scelte: la Tokai University e la Kaiyodai University (entrambe a Tokyo, rispettivamente un'università privata e una pubblica); alla fine ho optato per la seconda, che ha questo portale - in lingua inglese - che ho consultato per conoscere meglio il mondo nel quale sta per entrare il maggiore dei Morisaki;

- Per la serie "Le curiosità (inutili) della Moriko", vi illustro qualche dettaglio della camera di Ken'ichi. Il blu alice esiste e potete trovarlo in questo elenco delle tonalità di blu: prende il nome dalla figlia di Theodore Roosevelt, Alice Roosevelt Longworth. Il quadro composto da cinque tele ha una struttura del genere, mentre la lampada da tavolo a forma di delfino è più o meno così. In generale, la stanza di Ken'ichi è strutturata in un modo simile alla terza foto che trovate nella slide di questo sito.

- Un'ultima curiosità su questa stanza riguarda lo zabuton, che è un cuscinetto di meditazione che si trova in molte camere del Giappone.

- L'okutopasu (sul quale potete trovare un sacco di siti che ne parlano con tante coloratissime immagini! **) è il famoso polipetto portafortuna dei giapponesi. Il nome ha origine dal termine inglese del polipo, octopus, che in lingua giapponese si pronuncia "okutopasu" - appunto - che si può dividere in oku-to-pasu che tradotto in italiano significa "Se lo appoggi, passi". Infatti questi polipetti si appoggiano sulla scrivania in prossimità di un esame.

Ora, è ovvio che Yuzo non lo sta regalando a suo fratello in vista dell'esame di ammissione all'università (ha già dato, LOL) ma in vista del primo esame che dovrà affrontare all'interno del suo corso di studi. (Anche se all'inizio - lo ammetto - avevo scritto questa scena riferendomi proprio allo shiken jigoku che Ken'ichi ha affrontato... si nota, vero? Ops ;P)

- Per concludere quest'ampia sezione delle note, una piccola curiosità sugli squali. Vi confesso che non sapevo della caratteristica delle Ampolle di Lorenzini, il "punto debole" di questi feroci animali, finché non mi sono imbattuta in questo testo che le ha nominate: sono speciali organi di senso che si trovano sul muso degli squali: oltre a servire da "bussola" per l'orientamento, se quella parte viene accarezzata gli squali possono diventare più mansueti. Da non crederci, vero? Qui potete trovare un video che illustra molto bene questo effetto; può sembrarci strano perché questi animali sono rinomati per essere terribili...

... e, sempre a proposito della fama degli squali, contrariamente a ciò che si pensa, non tutti gli squali attaccano l'uomo per la loro feroce indole ma solo quando si sentono minacciati o sono direttamente attaccati. Qui e qui qualche informazione in più.

Potete affermare meglio di me che paragonare Yuzo a uno squalo significa paragonarlo a una tigre, oppure a un qualsiasi predatore esistente sul nostro pianeta, però ora si comprende di più il significato del soprannome "Same" che Ken'ichi gli aveva dato quando era nato: un soprannome nato per gioco, ma che potrebbe rivelarsi veritiero in futuro... o forse no? Tutto è possibile!

 

E per oggi chiudo qui. Come sempre vi ringrazio per essere giunti fino a qui, e vi anticipo che nel prossimo capitolo dedicato a Yuzo rivedremo qualcuno che fisicamente manca da un bel pezzo... cioè: in realtà un sacco di personaggi mancano da un bel pezzo, gasp! XD

Al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 12
*** Spiccare il volo - Quindici anni | Aoi's side ***


Fanfiction
IOnSbMG

Spiccare il volo.

{Quindici anni | Aoi's side}

 

 

BGM: Ludovico Einaudi - Oltremare

 

 

 

[Un anno dopo - 12 Marzo. Nakahara, prefettura di Gifu.]

 

Se avesse voluto fare un resoconto della sua vita, Susumu lo avrebbe riassunto in una sola parola: lavoro.

Fin da piccolo quella parola e il suo rispettivo significato erano entrati a far parte della sua vita: tutti i membri della sua famiglia erano artigiani di Nakahara da generazioni, che si erano dedicati a grandi costruzioni quali abitazioni e ponti fino ad arrivare ad oggetti più piccoli ma non per questo più semplici da ideare e lavorare. Vasi, suppellettili, pentole e armi, anche cornici di quadri e piccole statuette votive: per tutta la vita Susumu aveva visto con i propri occhi i nonni, i genitori e gli zii creare o dare nuova vita ai vari oggetti che poi sarebbero serviti a loro o all’intera comunità di quel borgo.

Per lui quella era la quotidianità, vissuta tra le quattro mura del laboratorio di famiglia che egli aveva ereditato una volta adulto. Nel cuore di Nakahara, in quelle vie dove un tempo vi erano più botteghe che negozi di souvenir e ristoranti take away, Susumu aveva imparato i segreti del mestiere di artigiano, restando sempre accanto alla sua famiglia che aveva così tanto da insegnargli.

E ora, in quelle quattro mura così vetuste come il tempo, era rimasto solo lui. In quanto l’ultimo della sua stirpe di abili artigiani era rimasto sempre lì, imperterrito, chino sul suo tavolo da lavoro con le mani continuamente impegnate a creare e ricreare, a modellare e a scolpire, mentre i capelli bianchi iniziavano a spuntare sempre più numerosi e a diradarsi per tutta la testa come scie di luce.

Sistemandosi gli occhiali dalle grandi lenti, Susumu si chiedeva spesso come sarebbe stato il suo futuro. Gli era facile immaginarsi ancora nel suo laboratorio, da anziano, a dare vita a tanti altri oggetti che sarebbero stati utili a chi ne avrebbe avuto bisogno, continuando a sacrificare il suo tempo libero per ciò che amava fare. Meno facile era capire cosa avrebbero voluto fare i suoi unici due figli, i quali Susumu avrebbe voluto che seguissero le sue orme, per non far perdere nel nulla l’antica tradizione di famiglia. Quando non erano impegnati con lo studio o le attività scolastiche, Yukiko e Shingo gli davano volentieri una mano nella bottega, e nei loro occhi Susumu riusciva a vedere tutto l’entusiasmo e la dedizione che ci mettevano nelle opere che creavano: i due se la cavavano nella lavorazione di ogni materiale, e in particolare Yukiko era molto brava a modellare l’argilla, mentre Shingo lo era nell’intagliare il legno; le speranze di vedere anche solo uno di loro in quella bottega erano sempre più alte.

Nonostante ciò, ben presto Susumu aveva iniziato a capire che quella strada che aveva immaginato per loro stava diventando sempre meno concreta. Entrambi si erano interessati molto anche ad altre attività che, se avessero coltivato con altrettanta passione, li avrebbero presto portati lontano dal loro borgo: Yukiko con il kyūdō, Shingo con il calcio.

Era molto difficile prevedere cosa i due avrebbero voluto fare nel futuro, anche perché in entrambi i casi sia Yukiko che Shingo non avevano smesso di seguire la sua attività di artigiano: in particolare Yukiko, che ormai aveva terminato le superiori, aveva deciso di prendersi un anno di pausa per riflettere bene sulla scelta di entrare a far parte di una squadra agonistica di kyūdō, nel frattempo dedicandosi a tempo pieno ad aiutarlo nel laboratorio di famiglia; viceversa Shingo, andando ancora a scuola, aveva ancora abbastanza tempo per decidere se proseguire con il suo amato calcio oppure prendere in mano la sua eredità.

Almeno lui resterà qui a Nakahara, ancora per un po’...

Susumu posò il martello e lo scalpello sul tavolo e si stiracchiò le braccia. Si alzò e uscì dalla porta sul retro, affacciandosi su un piccolo cortile dove faceva qualche passeggiata nei momenti di pausa come quello.

Si portò le mani dietro la schiena e in silenzio si incamminò con l’erba che entrava nei suoi sandali, fresca per la pioggia della notte precedente.

 

 

«Arrivederci, torni presto a trovarci!»

Dopo aver salutato l’ultimo cliente che era entrato nel negozio, Yukiko si scrollò la polvere dal suo grembiule da lavoro. Aveva i capelli raccolti in un piccolo chignon, con qualche ciuffo che in quel momento penzolava sulle sue spalle; il come era vestita, prevalentemente con abiti dal colore castagno scuro, contrastava con il suo umore solitamente allegro e che riservava sempre a tutti coloro che entravano nella loro bottega.

Yukiko poggiò i gomiti sul bancone e si guardò attorno. Le vetrine del negozio l’avevano sempre affascinata: di ogni oggetto conosceva la storia perché seguiva l’attività di suo padre da così vicino e, col passare degli anni e imparando a creare proprio quegli oggetti che finivano nelle vetrine, anche lei - così come i suoi genitori - aveva iniziato a considerarli come suoi figli. Vi erano delle piccole teche dove erano esposti oggetti già pronti per la vendita come vasi e pentole, e prototipi di altri che erano dei veri e propri pezzi unici, frutto della fantasia artistica di suo padre; all’ingresso vi era uno scacciapensieri - sempre opera di suo padre - che suonava ogni volta che un cliente entrava nel loro negozio oppure con il movimento del vento quando la porta era aperta.

A quel suono dello scacciapensieri che si sentiva ancora nell’aria, Yukiko trasse un respiro profondo e chiuse gli occhi, appoggiando la testa sui palmi delle mani. Poté sentire il forte profumo del legno degli oggetti che si trovavano vicino a lei, in attesa di essere collocati nelle teche, e quello della pianta di lavanda sul bancone, che accoglieva i visitatori in modo silenzioso ma gradevole.

In quel momento le venne da pensare al suo imminente futuro, ancora una volta. Non aveva ancora deciso cosa fare a partire dal mese successivo: proseguire l’attività del padre e restare a Nakahara, o gettarsi in una nuova avventura con il kyūdō e partire alla volta di Tokyo?

Quell’ultimo anno che lei aveva preso come pausa di riflessione aveva solo contribuito a sconvolgere la sua mente ancora di più. Se avesse avuto la possibilità, avrebbe voluto fare entrambe le cose anche a costo di non dormire, ma la distanza tra Tokyo e Nakahara era davvero immensa: circa cinque ore di auto, nel caso migliore. Per lei sarebbe stato impossibile fare la pendolare, per cui restava solo una soluzione: presto o tardi avrebbe dovuto decidere se restare a Nakahara o trasferirsi a Tokyo.

Cosa... cosa devo fare?

Non sapeva proprio quale strada prendere, in più su questo sia sua nonna che i suoi genitori le avevano dato carta bianca; anche suo padre, al quale lei ben sapeva che avrebbe fatto piacere se avesse continuato a lavorare con lui, le aveva detto di fare ciò che le stava sussurrando il cuore, per cui non l’avrebbe mai ostacolata nella sua decisione finale.

Yukiko sospirò, drizzò la schiena e si portò le mani sui fianchi. Si diresse verso l’uscita per prendere un po’ d’aria ma, non appena stette per avvicinarsi alla porta, quest’ultima si aprì con un’irruenza tale che fece quasi vibrare i piatti di porcellana esposti sulla sua sinistra. La ragazza saltò all’indietro, evitando l’impatto con quel tornado umano che sembrava aver scosso la pace che regnava all’interno del negozio.

«Quante volte ti ho detto di non aprire la porta in questo modo, fratellino?» esclamò Yukiko, incrociando le mani sul petto. «Rischi di rompere i vetri: va bene che inizia a far caldo e piacerebbe anche a me tenere le finestre aperte... ma adesso non esageriamo!»

Shingo si grattò la nuca, imbarazzato. «Ops!»

Yukiko gli rivolse un dolce sorriso. Ormai era abituata alle azioni improvvise e irruenti del suo fratellino, e sapeva molto bene che non lo faceva apposta a comportarsi in quel modo spontaneo: era insito nella sua natura, essere così vivace come un vulcano in piena attività.

La cosa la faceva divertire, perché in realtà amava quando Shingo faceva così: qualsiasi sua azione era portatrice di gioia e allegria, nonostante i danni collaterali che avrebbe potuto arrecare al suo passaggio. E, ogni volta che lo vedeva così felice come lo era in quel momento, era certa che c'era qualcosa sotto che lo stava entusiasmando.

«Sentiamo...» disse Yukiko, tornando vicino al bancone, «ti è successo qualcosa di bello, vero?»

Shingo annuì, ma subito dopo la sua allegra espressione si trasformò di qualcosa di diverso dal solito. Sua sorella notò che non la stava guardando dritta negli occhi, segno che stava per dire una bella bugia o una scomoda verità: qualsiasi risposta fosse delle due, non era foriera di buone notizie per il ragazzino.

«Ti ricordi quando ti dicevo che volevo continuare a giocare a calcio?»

«Sì...» Certo che me lo ricordo: fino a ieri sera mi hai detto che volevi diventare un grande calciatore!

«Devo dirti una cosa...»

Yukiko spalancò gli occhi. Il primo pensiero che ebbe fu proprio all’attività di famiglia: che anche Shingo stesse iniziando a pensare seriamente a un eventuale futuro come artigiano? Se fosse stato così, da una parte la cosa la stava rincuorando: per un attimo, il vedere il futuro di suo padre non più da solo aveva risollevato il suo animo.

Dall'altra parte, però, la ragazza conosceva bene suo fratello e sapeva che in quegli ultimi quattro anni dedicati al calcio erano successe delle cose che lo avevano portato a fare un passo indietro, arrivando anche a pensare a rinunciare a giocare a calcio. Sapendo del suo carattere irrequieto, se fosse stato davvero così non gliela avrebbe fatta lasciare liscia, questa volta: quando Shingo era dietro ad un pallone, Yukiko vedeva gli occhi del fratello brillare di una felicità mai vista prima. Sapeva bene che negli ultimi mesi si era davvero appassionato e sperava che, forse, in realtà non fosse successo nulla del genere... ma se invece fosse stato il contrario? Se fosse successo qualcosa di grave a scuola al punto da fargli cambiare idea all’improvviso?

Yukiko andò da suo fratello e, mettendogli una mano sotto il mento, con dolcezza lo alzò fino al punto che i loro sguardi si incrociassero. «Ascolta, Shingo. Se è di nuovo successo qualcosa a scuola per cui stai pensando di rinunciare a giocare a calcio... te lo dico seriamente: fregatene, e vai avanti per la tua strada.»

Il fratello scoppiò a ridere, sotto la sempre più crescente sorpresa di lei.

«Io? Rinunciare? Ma che stai dicendo: io non mollo! Però...»

«Però... cosa?»

Shingo abbassò lo sguardo, guardando la punta delle sue scarpe. «Non ti ho mai detto una cosa, sorellina... prometti di non fare parola con nessuno fino a questa sera? Finalmente ho deciso: stasera vuoterò il sacco.»

Yukiko inarcò un sopracciglio e gli si accostò, sussurrandogli: «Papà è al laboratorio, potrebbe sentirci... perciò dimmi ciò che vuoi nel mio orecchio...»

Il ragazzo deglutì e si decise a rivelarle ciò che aveva pensato negli ultimi giorni il più possibile a bassa voce, scandendo bene ogni singola frase. Non appena Yukiko udì quelle parole, la prima cosa alla quale pensò fu un secco e deciso “È uno scherzo, vero?!”

La ragazza si trattenne dall’urlare quel suo pensiero, rischiando che la sentisse tutta Nakahara. Iniziò a camminare per tutto il negozio, con le braccia conserte; poi tornò dal fratello e mormorò: «In... in Italia? Ho capito bene?»

Shingo annuì senza aggiungere altro.

Yukiko, che era abituata alle stranezze di quel suo fratellino ingenuo, per la prima volta non sapeva come comportarsi nei suoi confronti. Si avvicinò ulteriormente a lui e gli sussurrò nell’orecchio: «Facciamo che io non so niente: te la vedi tu con mamma e papà... e soprattutto la nonna, ok? Però stasera, quando saremo soli, mi farai il favore di spiegarmi il perché... perché non lo capisco!»

Santo cielo... in Italia! - pensò la giovane, mentre si avvicinò alla porta di ingresso portandosi una mano sulla fronte. La pioggia incominciò a cadere silenziosa e rivestendo di una luce diversa il paesaggio all'esterno.

E chi vuole sentire mamma e papà, adesso?

 

Shingo era perfettamente consapevole che l’ostacolo più grande per quella decisione era rappresentato dalla sua famiglia. I suoi genitori, sua sorella e sua nonna, sebbene fossero sempre stati dolci e accondiscendenti con lui, forse non avrebbero preso di buon occhio quella che, di fatto, sarebbe stata una scelta che avrebbe cambiato non solo la sua vita ma anche quella dei suoi cari. Di tutto questo Shingo ne era consapevole: fin dall’inizio sapeva che ciascuno di loro sarebbe rimasto di stucco - allo stesso modo dei suoi compagni di scuola, così colti di sorpresa al punto da non riuscire a replicargli.

Quella che il giovane Aoi aveva in testa era un’idea che era nata qualche mese prima e maturata con il corso del tempo. Non era uno sciocco: aveva letto qualsiasi libro che lo aveva aiutato a capire di più ogni singolo aspetto di ciò che stava facendo. Le difficoltà e le conseguenze del vivere lontano dai suoi cari, amici e parenti, e lontano dal suo amato borgo, che lo aveva accolto nel suo grembo fin dalla sua nascita: Shingo conosceva rischi e pericoli, vantaggi e aspetti positivi - anche se questi ultimi sembravano ancora essere pochi rispetto ai primi.

In questo breve lasso di tempo aveva interpellato alcuni artigiani che, come suo padre, lavoravano nel centro di Nakahara: ad un certo punto della loro vita quelle persone avevano lasciato la loro terra natale per girare il mondo e avevano vissuto anni lontani dalle famiglie e dagli amici d'infanzia, a pieno contatto con culture e lingue diverse dalla loro. Probabilmente si erano sentite sole, così come Shingo stava pensando che potesse accadergli una volta partito. Ma se voleva realizzare il suo sogno, aveva capito che non poteva restare a Nakahara... e nemmeno in Giappone.

L'Italia sarebbe stata la terra perfetta per la sua rinascita.

Tutto aveva avuto inizio da un pensiero che Shingo aveva avuto durante il suo secondo anno delle medie tra i banchi di scuola, mentre osservava annoiato verso la finestra della sua aula che dava sul campetto da calcio.

 

Come posso fare per diventare un bravo calciatore come Tsubasa Ozora?

 

E quel pensiero si ricollegava a ciò che gli era accaduto qualche giorno prima, durante la partita amichevole che aveva disputato con la sua squadra contro la Nankatsu, vincitrice per due volte di seguito al campionato nazionale delle medie. In quell’occasione l’obiettivo era il riuscire a tener testa al gioco di squadra di quei giocatori fenomenali: per quanto i calciatori della Nakahara si fossero impegnati, anche solo sperare di battere la Nankatsu sarebbe stato impossibile fin dall’inizio. Però erano tutti fiduciosi: con Shingo in attacco e gli altri in difesa, sarebbe stato più semplice mettere in difficoltà quel grande team che aveva vinto per ben due campionati nazionali delle scuole medie di seguito, e che si stava preparando a trionfare anche nel terzo.

«Non preoccuparti, Shingo: quel portiere non mi sembra molto forte!»

«Quello grosso mi dà l’idea di uno “tutto fumo e niente arrosto”! Secondo me riuscirai a superarlo senza problemi!»

«L'unico problema sarà Tsubasa... ma ci pensiamo noi a marcarlo stretto! Mi raccomando, Shingo: tieniti pronto... stai sempre in attacco e corri a segnare non appena ti passiamo la palla!»

Shingo aveva sorriso: tutti i suoi compagni avevano grande fiducia in lui, e sapeva molto bene che non si stavano sbagliando. La sua non era vanagloria: nella sua squadra Shingo era davvero l’unico che avrebbe potuto segnare alla porta della Nankatsu, e se ci fosse riuscito sarebbe stato un gran risultato. I suoi amici avevano ragione: l'unico problema sarebbe stato Tsubasa... ma Shingo si fidava di loro. Li conosceva molto bene, poteva fidarsi di ciascuno di loro: di Mamoru che era diventato il capitano della squadra e Ke, che avrebbero garantito l'ottima difesa della loro squadra; di Takeo, che era la punta di diamante dei fenomenali centrocampisti composti per la maggior parte dai veterani della squadra e che ora, insieme a loro, si stava preparando a dare man forte alla difesa.

E infine c’era Tamotsu, il “Data-motsu” - come amavano definirlo. Non giocava mai se non durante le sessioni di allenamento, però era diventato molto bravo ad elaborare diverse strategie in base alle squadre da affrontare insieme al loro coach. Quel giorno, per fare bella figura, era rimasto sveglio tutta la notte, e lui era stato il primo ad avvisarli che le speranze di battere la Nankatsu erano vicine allo zero e ci sarebbe voluto più un miracolo che una buona strategia di gioco per ribaltare la situazione, ma avrebbero potuto fare un gol proprio grazie a Shingo. Per questo motivo, poche ore prima della partita, il suo amico gli aveva passato un foglio contenente tutti i dati relativi alla difesa della Nankatsu, e gli aveva consigliato sul da farsi con un unico ordine da seguire.

«Niente colpi di testa... ok, Shingo? Segui la strategia e vedrai che riuscirai a segnare!»

Shingo gli aveva sorriso, confermando che avrebbe volentieri seguito le indicazioni che le erano state date.

Tuttavia, la partita era iniziata in un modo inaspettato: nel primo tempo la sua squadra aveva subito ben cinque gol, e lui non aveva ancora avuto l'occasione di lanciarsi all’attacco e di segnare.

Nell’intervallo, Shingo aveva capito dove fosse il problema.

 

«Lo sapevo, la Nankatsu è troppo forte!»

«Io non so se voglio continuare... possiamo anche terminare qui la partita!»

«Aaaah, non vedo l'ora di finirla! Questi sono imbattibili, è inutile che ci impegniamo!»

«Chissà cosa ci sarà nel buffet... non vedo l'ora di mangiare qualcosa!»

 

Quel chiacchiericcio, partito proprio dai senpai della squadra, lo stava facendo alterare sempre più. In più sembravano essersi dimenticati della loro strategia: lui non aveva ancora preso un pallone, se l’erano già dimenticati?

Shingo tentò più volte di ricordare loro dell’obiettivo da raggiungere: segnare un gol alla Nankatsu passandogli il pallone. Ma era tutto inutile: la risposta che gli davano era sempre la stessa.

«La Nankatsu è troppo forte, e per noi è un onore poter giocare contro di loro!»

Rassegnato, Shingo era tornato da Tamotsu e gli aveva chiesto un ennesimo consiglio sulla tattica da seguire. Forse nel frattempo gli era venuta in mente qualche altra idea...

 

«Non abbiamo altra scelta: dobbiamo continuare così.»

«Come “dobbiamo continuare così”? Non lo hai visto? Stiamo perdendo cinque a zero! E i senpai sembrano essere più interessati a mangiare che a giocare questa partita!»

«Mi dispiace... ma non ci sono altre soluzioni. Cerca di stare calmo, Shingo... anzi: prega che non ci siano infortunati in questa partita, altrimenti sì che passeremo dalla padella alla brace!»

 

A quel punto Shingo era rientrato sul campo mortificato. I veterani che sembravano non vergognarsi di quel risultato, Tamotsu che non riusciva a risolvere il loro problema...

Nel vedere il suo compagno di squadra in quello stato, Mamoru gli si era avvicinato e aveva provato a consolarlo.

«Non preoccuparti, Shingo! Vedrai: ribalteremo la situazione nel secondo tempo!»

«Capitano...»

«Ehi, non è mica la fine del mondo. Tu sei bravo: riuscirai a fare cinque gol in un attimo.»

«Ma Tamotsu ha detto che–»

«E che vuoi che ti dica “Data-motsu”! Lui ha fiducia in te, così come noi. Fidati: ne ho già parlato con Takeo, e in qualche modo noi due riusciremo a passarti il pallone... però devi avere pazienza. Dobbiamo trovare solo un modo per strapparlo alla Nankatsu prima che ci facciano un altro gol...»

Il suo amico aveva ragione: doveva solo avere pazienza... ma fino a quando sarebbe stato possibile? Non per molto, perché anche nel secondo tempo la sua squadra era stata messa in grande difficoltà dalla Nankatsu. Anzi... si stava mettendo anche peggio, dato che sembrava che i veterani non avessero più voglia di impegnarsi fino in fondo.

Per un secondo Shingo si era voltato nella direzione della loro panchina. Il coach era rimasto irremovibile, ma Tamotsu era visibilmente agitato: tutta la sua strategia per la quale aveva lavorato per ore intere stava andando in fumo.

Anche Mamoru e Takeo che erano con lui sul campo si trovavano in grande difficoltà: nemmeno loro erano riusciti a toccare palla, e non sapevano proprio come aiutare il loro compagno di squadra. Gli unici che di tanto in tanto riuscivano ad impossessarsi del pallone erano i loro senpai che, per quel che sembrava, non erano più interessati a giocare quella partita.

Di fronte a tutto ciò, Shingo non ci aveva visto più. Dimenticandosi completamente della raccomandazione di Tamotsu ad inizio partita, si era lanciato da solo verso l’area di rigore della loro squadra ed era riuscito a strappare il pallone ad uno dei giocatori della Nankatsu che era pronto a segnare. Ke lo stava guardando con meraviglia, come se fosse appena accaduto il miracolo da lui tanto atteso: dalle sue labbra era uscito un sommesso e quasi commosso «Grazie...» che, per un attimo, aveva fatto tornare il sorriso a Shingo.

«Non preoccuparti, Ke. Da qui in poi ci penso io. Ti prometto che non segneranno più... anzi, ora sarò io a segnare!»

Così, Shingo si era lanciato a tutta velocità verso la porta avversaria, dribblando tutti i giocatori che provavano ad opporsi, invano. La sua grande agilità aveva colto tutti di sorpresa, tranne un giocatore... l’ultimo da superare prima di trovarsi a tu per tu con il portiere della Nankatsu.

Tsubasa Ozora.

La prima volta che Shingo l’aveva affrontato era stato proprio in quell'occasione: lo conosceva di fama, e sapeva bene che non sarebbe stato semplice metterlo in difficoltà, però voleva provarci. Se avesse superato lui, non ci sarebbero più stati problemi a segnare.

Il primo gol alla Nankatsu. Il suo gol.

Ma, alla fine, Shingo non era riuscito a farcela. Era stato proprio nell’affrontare quel grande calciatore che il giovane Aoi si era ritrovato improvvisamente a terra, e il pallone ormai lontano. Quel Tsubasa era riuscito ad anticiparlo, mettendolo fuori gioco per qualche secondo.

Però... però la partita non è ancora finita!

Shingo si era subito rialzato, ignorando le urla dei veterani che, più che incoraggiarlo, stavano protestando per ciò che aveva fatto, e senza curarsi di un accecante dolore alla gamba sinistra dovuto al contrasto con Tsubasa. Stava per riprendere a correre quando le sue orecchie avevano udito un suono ben distinto.

Un fischio.

E i suoi occhi si aprirono non appena vide, proprio dalla loro panchina, la tabella del cambio giocatori con un numero ben preciso.

Il suo.

Solo allora aveva iniziato a capire il significato delle profetiche parole di Tamotsu, e di ciò che gli aveva detto Mamoru subito dopo.

 

«Prega che non ci siano infortunati...»

«“Data-motsu” ha fiducia in te, così come noi...»

 

E, tra tutti, proprio lui si era infortunato... eppure sentiva che poteva ancora giocare; non sembrava esserci nulla di rotto, e riusciva ancora a muovere entrambe le gambe. Aveva provato a far desistere il coach, tuttavia a nulla stavano servendo le sue proteste: egli non lo stava sostituendo per la ferita alla gamba, ma solo perché...

«Non hai seguito le mie indicazioni. Ora riposati e rifletti su ciò che hai fatto!»

Questa era stata la spiegazione del suo coach, per lui inconcepibile e inaccettabile. Nonostante ciò, Shingo era costretto a seguire i suoi ordini: restare seduto in panchina, a guardare con i propri occhi la sua squadra che perdeva inesorabilmente. Ogni gol che prendevano sembrava come una freccia scagliata verso il suo petto: faceva male.

Se solo ci fossi stato ancora io... se solo...

Per il resto del secondo tempo Shingo non aveva rivolto la parola a nessuno, né al suo coach né agli altri giocatori; nemmeno loro l'avevano fatto, come un muro invisibile che fosse comparso all’improvviso tra loro. Nessuno che avesse provato a consolarlo, né a dirgli che aveva ragione... perché infatti quella partita, quella maledetta partita, stava dando ragione proprio a lui. A Shingo non importava che fosse solo un’amichevole: la sua squadra stava perdendo in modo vergognoso, e lui non poteva più farci niente.

Al fischio finale il piccolo Aoi aveva alzato gli occhi verso il tabellone dei punteggi, puntando la riga dei gol subiti dalla sua squadra nel corso dei due tempi di gioco.

Cinque... sei... undici!

E come sottofondo stava udendo delle urla di gioia, ma non dei giocatori della squadra vincitrice: proprio dai suoi senpai che, nonostante avessero perso in quel modo, erano felici di aver giocato contro i campioni nazionali.

Shingo era scattato in piedi con l’intenzione di lasciare il campo da gioco, ma non aveva fatto in tempo: in men che non si dica lo avevano raggiunto i suoi amici di sempre. Mamoru non aveva proferito parola, mentre Ke si era limitato ad un semplice «Scusa»; Takeo, invece, con una mano sulla spalla gli aveva rivolto un sorriso.

«Sei stato bravo! Con il tuo fuoriprogramma eravamo vicini al gol!»

“Fuoriprogramma”?! - aveva pensato Shingo. Come si era permesso il suo amico di giudicare il suo intervento in quel modo? Quello non era affatto un “fuoriprogramma”: aveva preso il pallone e stava per segnare... in fondo non era quella la loro strategia?

«Stai zitto!» gli aveva tuonato. «E tu ti sei fatto fregare per ben undici volte! Non me l'aspettavo da te, Takeo!»

L'altro rimase in silenzio, chinando il capo e mormorando un lapidario «Nemmeno io...»

Di fronte al suo atteggiamento, Shingo si era subito reso conto di aver esagerato con il suo rimprovero. In fondo non era colpa sua... non era solo colpa sua. La colpa era di ciascuno di loro, che aveva gettato la spugna prima ancora che la partita finisse.

Shingo aveva portato una mano sulla ferita e aveva iniziato così ad allontanarsi dai suoi compagni, zoppicando. «Scusate, ora voglio stare da solo. Fate i complimenti alla Nankatsu anche da parte mia...»

«Vengo con te! Ti accompagno in infermeria!»

Di fronte a lui si era parato Tamotsu, con le braccia aperte: il suo blocchetto degli appunti con i dati della partita era caduto a terra, ma lui sembrava non essersene accorto. Nonostante l’invito dell’amico, Shingo gli aveva rivolto un amaro sorriso e scosso la testa.

«No, Tamotsu. Lasciami in pace.»

Tutti erano rimasti in silenzio, guardandolo piuttosto sorpreso. Per la prima volta da quando sia Tamotsu che Shingo erano nel club di calcio, quest'ultimo voleva restare da solo... solo nel vero significato della parola, anche senza colui che in quei tre anni era diventato il suo migliore amico.

Shingo aveva sentito quegli sguardi increduli pesargli addosso. A lui sembravano essere sguardi di pietà e compassione, che iniziavano quasi a dargli fastidio. In silenzio superò Tamotsu e si allontanò lentamente mentre le sue orecchie avevano iniziato ad udire il rumore di veloci passi e un chiacchiericcio che da sommesso man mano stava diventando sempre più forte.

Quel mondo stava andando avanti, anche senza di lui.
E lui... lui non era più al centro di quel mondo. A nessuno più importava cosa egli stesse facendo, né tantomeno a cosa stesse pensando, e quando si voltò ne ebbe l’ennesima conferma: i giocatori e gli allenatori delle due squadre stavano allegramente conversando, come se non fosse successo nulla.

Pacche sulla spalla, strette di mano e anche qualche battuta.

Come se non fosse successo nulla.

Shingo era lì, ormai distante da quel mondo, mentre a pochi metri da lui gli altri giocatori della Nakahara, compresi i suoi amici, si stavano congratulando con i vincitori, come se non fosse successo nulla.

Tutti sembravano già essersi dimenticati di lui, anche lo stesso Tamotsu che, anzi, si era avvicinato all’allenatore della Nankatsu per chiedergli informazioni sulla sua strategia di gioco. Quelle belle parole che alcuni di loro gli avevano rivolto cinque minuti prima ormai sembravano essere svanite nell’aria come delle bolle di sapone.

E io che mi sono fidato... e io che credevo in loro!

Per un secondo, Shingo strinse i pugni e si morse le labbra. All’improvviso tutti i ricordi di calcio legati a quelli che fino a quel momento aveva considerato suoi amici erano andati in frantumi, lasciando spazio ad un grande vuoto che sembrava non avere senso: la fondazione del club delle elementari, i duri allenamenti, le partite che avevano affrontato fino alla settimana precedente, le uscite e i pranzi insieme... per lui era tutto finito, svanito nel nulla.

Stupidi... stupidi...

Con quale coraggio Shingo avrebbe affrontato il suo senpai, con una squadra del genere? Come avrebbe fatto a diventare come lui, se aveva dei compagni che lo stessero ignorando? Nessuno di loro aveva avuto premura di insistere, di seguirlo nonostante i suoi “no”...

... siete solo un branco di idioti! Dovreste solo vergognarvi: per voi questo significa giocare a calcio?!

Come avrebbe fatto Shingo a diventare come il suo amato senpai, se come compagni di squadra aveva al suo fianco ragazzi ai quali non importava del risultato? Avevano perso undici a zero... undici! Non due, non tre... undici!

Quella era una differenza troppo grande, sulla quale qualsiasi sorriso era del tutto inaccettabile. Per lui quell’atteggiamento che traspariva dai volti dei suoi compagni di squadra era solo ridicolo, anche contro una squadra potente come la Nankatsu.

In quel momento a Shingo non restò altro da fare se non un’ultima cosa, prima di tornare negli spogliatoi del suo team.

 

Ho deciso: lascio il club di calcio! Anzi... non giocherò mai più a calcio... mai più!

 

Si era ferito ad una gamba, si era messo in forte contrasto con il coach per non aver seguito le sue direttive, e i compagni lo stavano ignorando come se lui non avesse contato davvero nulla per tutti loro.

Pensò che sarebbe stato meglio chiudere lì la sua carriera...

... tanto a cosa serve continuare a giocare, a questo punto? Alla fine non conto nulla per nessuno... forse il calcio non fa per me. Forse... alla fine nemmeno io sono così bravo... non potrò mai essere come il senpai...

Ma proprio in quel momento un raggio di luce tornò ad illuminare la sua mente offuscata dalla disperazione e a dargli conforto, dicendogli che non valeva la pena gettare la spugna, sussurrandogli che era davvero bravo e aveva tutte le carte in regola per diventare un giocatore in gamba.

«Se ti piace il calcio, non arrenderti!»

Quelle non erano parole che provenivano dal suo coach, e nemmeno da qualcuno dei suoi compagni. Quelle parole, accompagnate da un sincero e dolce gesto, erano state pronunciate da uno dei suoi avversari.

Tsubasa Ozora.

Ancora lui, che gli aveva posto una mano sulla spalla - come aveva già fatto il suo amico Takeo qualche minuto prima... ma con un significato che gli sembrava diverso. Proprio lui, un giocatore prodigio, si stava congratulando con lui, e sempre quel calciatore non lo stava affatto rimproverando per come si era comportato sul campo qualche minuto prima.

Shingo l’aveva visto allontanarsi con un sorriso e unirsi ai suoi compagni di squadra. Probabilmente quel grande giocatore non si aspettava nemmeno di sentirsi dire “grazie” da lui: gli aveva solo detto quelle parole, senza aggiungere né sentire altro.

Tsubasa... aveva pensato Shingo, mentre con ammirazione lo guardava ormai sempre più distante da lui; poi il suo sguardo era caduto sul pallone che giaceva abbandonato sul campo, in quel momento vicino ai suoi piedi. Shingo aveva tirato su il naso e sorriso, per poi raggiungere la sua squadra che, sorprendentemente, lo stava aspettando ed era pronta ad accoglierlo a braccia aperte, come se non se ne fosse mai andato.

«Era ora, Shingo! Il buffet non può iniziare senza di te!»

«Prima corri in infermeria: la tua gamba continua a sanguinare!»

Shingo si asciugò le lacrime e annuì contento, scusandosi con loro che lo guardarono piuttosto sorpresi dal suo atteggiamento.

«Perché ti stai scusando? Non c’è nulla per cui devi chiedere scusa... anzi, dobbiamo essere noi a farlo!»

«Avevi ragione: abbiamo fatto una brutta figura... ma ora non pensiamoci più! Dai, andiamo!»

Però... però io mi sono comportato male: ho pensato male di voi, mentre in realtà eravate ancora preoccupati per me. Sono io l’idiota!

Il piccolo Aoi aveva ritrovato i suoi amici - che credeva di aver perso per sempre e che, invece, erano ancora al suo fianco - e, proprio grazie a quel Tsubasa che lo aveva sconfitto, sapeva cosa fare.

Ha ragione Tsubasa... non posso arrendermi proprio ora! Finché ci sarà un pallone con me, continuerò a giocare a calcio!

Da quel momento Shingo si era impegnato a portare avanti la sua squadra, allenandosi ancora di più del solito; a volte restava in piedi a giocare nel giardino o nei pressi della sua casa anche tutta la notte, facendo preoccupare i genitori perché non volevano che disturbasse i vicini con il suo baccano, finché non crollava stanco dove si trovava.

Ancora un altro po’... solo un po’...

Al terzo anno delle medie era riuscito a conquistare il ruolo di capitano e a portare avanti il gioco di squadra che aveva ideato insieme ai suoi coetanei. Ke, Mamoru, Takeo e anche lo stesso Tamotsu erano migliorati molto e, sebbene nemmeno al terzo anno fossero riusciti ad arrivare al campionato nazionale, come lui erano sempre più determinati a motivare la squadra e i loro kohai; inoltre il loro legame si era rafforzato molto, e ora avevano piena fiducia nelle capacità del loro nuovo capitano.

Quando Mamoru aveva deciso, di comune accordo con gli altri, di cedergli la fascia di capitano, Shingo aveva esitato a prenderla, ancora memore di ciò che era accaduto qualche mese prima; ma Mamoru aveva insistito, dicendogli che solo lui sarebbe stato in grado di portare avanti la squadra.

«Shingo, non sei come noi. A te piace troppo il calcio... e sei davvero in gamba! In questo momento solo tu puoi essere il nostro capitano. Non pensare più al passato: sei migliorato molto da allora!»

A dispetto di quelle parole, però, Shingo non aveva mai pensato di aver raggiunto il suo limite. Era diventato capitano della sua squadra, tutti lo stavano rispettando ed era diventato molto più forte di prima; eppure gli pesava ancora il fatto di non essere riuscito né ad approdare al campionato nazionale, né a farsi notare da qualcuno per entrare nella nazionale giovanile.

Shingo sapeva di poter fare di più. Doveva fare di più.

Sarebbe stato in grado di raggiungere il livello dei più bravi giocatori al mondo, se solo ci fosse stato un modo... e quel modo era arrivato nella maniera più inaspettata.

Qualche mese prima della fine delle medie, Ke aveva portato in aula un magazine di calcio che gli avevano regalato per il suo compleanno. Era interamente in lingua inglese, ma il ragazzo era entusiasta di mostrare ai suoi compagni il contenuto di quella rivista: notizie sui giocatori, loro interviste e tattiche di gioco di alcuni famosi club del mondo; tutto materiale che aveva interessato un sacco Tamotsu che, affamato di notizie sul calcio, gli aveva strappato il magazine dalle mani e lo stava contemplando come se fosse stato qualcosa di prezioso.

«Ke, ti prego: devi prestarmelo! Ci metterò un po’, ma qui ci sono notizie molto interessanti: ti prometto che te lo restituirò prima della fine dell’anno scolastico!»

Anche Shingo lo stava osservando, mentre Tamotsu stava sfogliando le pagine come un forsennato. Ad un certo punto i suoi occhi avevano notato un articolo dal titolo “Italia, tra leggenda e realtà”, e aveva subito invitato il suo amico a fermarsi per approfondire la lettura.

Con un po’ di fatica Shingo era riuscito a tradurre il contenuto di quell’articolo, che poteva riassumere con una sola frase: “L’Italia, la patria di molti calciatori fenomenali che hanno lasciato un segno nella storia del calcio.”

Il piccolo Aoi aveva chiesto a Ke se avesse potuto fare una fotocopia dell’articolo presso la biblioteca della loro scuola e, dopo averla ottenuta, aveva deciso di raccogliere quante più notizie possibili sulla squadra italiana e i suoi giocatori di punta. Ed era stato proprio in quel momento che Shingo aveva trovato la risposta a quella domanda che si era posto qualche tempo prima.

Come posso fare per diventare un bravo calciatore... come Tsubasa Ozora?

La risposta, per lui, era una sola.

Andare in Italia per continuare a giocare a calcio.

 

«Cosa vuoi come regalo di compleanno, Shingo?»

Quella domanda gli era stata rivolta da Tamotsu, mentre avevano fatto una pausa dagli allenamenti dopo la scuola. Quando erano a scuola Tamotsu si allenava insieme a Shingo e, anche se alla fine non aveva mai giocato in nessuna partita, con lui era riuscito a creare delle tattiche che avevano aiutato il suo amico a migliorare.

Quel giorno Shingo festeggiava il suo quindicesimo compleanno, e ciò stava a significare la fine di un altro anno scolastico: il gruppetto composto da Ke, Takeo, Mamoru, Tamotsu e Shingo calcolavano la durata dell’anno proprio in base al compleanno di quest’ultimo, che per tutti loro diventava una sorta di “capodanno”.

Shingo lo aveva guardato negli occhi. Alla fine Tamotsu era riuscito a restare per ben tre anni a Nakahara, ma i suoi genitori stavano già preparando le valigie per un’imminente partenza verso la prefettura di Aomori, per realizzare delle riprese fotografiche tra il parco nazionale Towada-Hachimantai e la capitale. La sua nuova città probabilmente sarebbe stata Aomori, e una volta terminate queste riprese i genitori sarebbero partiti alla volta della regione dell’Hokkaido, verso il parco nazionale Daisetsuzan. Con il grande lavoro che avrebbero avuto, Tamotsu sarebbe rimasto per un anno - e forse anche di più - lontano da Nakahara... e da tutti loro.

«Vorrei che tu restassi qui, ma è impossibile!»

E Tamotsu gli aveva sorriso amaramente. «Anch’io lo vorrei tanto... e mi dispiace che non possiamo farci niente. Mi mancherai tanto!»

«Beh, era inevitabile! Anche se tu fossi rimasto qui... io...»

Shingo aveva volontariamente troncato la frase. Non sapeva come dirlo al suo amico, confessargli che forse a breve anche lui sarebbe andato via dalla loro adorata Nakahara: se sua madre e suo padre avessero acconsentito alla sua folle richiesta, nel giro di due settimane sarebbero stati in due a lasciare il club di calcio.

Lui, e Tamotsu.

Quest’ultimo, conoscendolo bene, aveva capito che c’era dell’altro nell’ultima frase che aveva pronunciato.

«Shingo...» aveva chiesto con aria sospettosa, socchiudendo i suoi piccoli occhi. «C’è qualcosa che devo sapere? Non vorrai mica lasciare il calcio solo perché io mi trasferisco... spero.»

«No, no, no! È solo che io... ecco... quando finirò le medie...»

Proprio in quel momento Mamoru e Takeo stavano richiamando i due compagni di squadra che stavano conversando.

«Shingo, Tamotsu! Venite qui: si ricomincia!»

Shingo ne aveva così approfittato per alzarsi di colpo dalla panchina e dirigersi subito verso gli altri, lasciandosi sfuggire di bocca una frase detta così velocemente senza alcuna pausa tra una parola e un’altra.

«Partirò per l’Italia e diventerò un grande giocatore!»

Tamotsu aveva sgranato gli occhi. Di quel subbuglio di parole aveva solo capito “partirò” e “Italia”, ma nonostante ciò aveva capito cosa avesse in mente il suo amico: di recente si era fin troppo appassionato al panorama calcistico italiano, a tal punto da vederlo sempre con libri e fascicoli dall’argomento “Italia”: sul panorama, sul cibo, sulle persone e sul modo di vivere.

Tamotsu aveva spalancato la bocca, per poi urlare con sbigottimento la prima frase che gli era passata per la testa.

«Aspetta, cosa... Cosa fai tu?!»

 

 

 

«... Shingo, ci sei? Terra chiama Shingo, Terra chiama Shingo!»

Shingo sobbalzò. Quei ricordi erano improvvisamente sfumati, mostrando le pareti della bottega dove si trovava e, di fronte a lui, sua sorella che stava cercando di riportarlo alla realtà.

«Sono dieci minuti che ti dico che stiamo per chiudere il negozio; papà è uscito dal retro, perciò ti lasciamo dentro se non ti muovi!»

«Scu... scusami! Arrivo subito!»

Il ragazzo corse verso l’uscita e, quando arrivò sulla soglia della porta, si voltò verso il bancone della bottega. Quel luogo, che sapeva di un’antichità perduta nel resto del mondo ma che lì ritornava a vivere, lo stava silenziosamente invitando a rimanere ancora un po’. Un giorno lui e Yukiko avrebbero ereditato quel locale, e sarebbe stato a loro decidere se continuare l’attività di famiglia o lasciarlo per sempre: a lui piaceva molto l’idea di fare l’artigiano e poteva iniziare a lavorare accanto al suo papà come già stava facendo sua sorella, se solo l’avesse voluto.

Ma Shingo scosse la testa, mentre le sue labbra si curvarono in un commosso sorriso. Chiuse gli occhi e con un balzo si ritrovò fuori dal negozio, chiudendo con delicatezza la porta del negozio.

Mi dispiace, papà... ma ho deciso: voglio continuare a giocare a calcio.

 

 

 

«Eccoci, mamma!»

Shingo, Yukiko e Susumu erano appena entrati a casa: al rumore della porta d’ingresso che si apriva, accompagnata dall’allegro vociare dei tre familiari, Yumi aveva fatto capolino dalla cucina: con il mestolo in mano, si era sorpresa nel vederli tornare nella dimora prima del solito.

«Di già?» domandò la donna.

«Papà ha deciso di chiudere prima la bottega,» disse Yukiko, riponendo il giubbotto all’appendiabiti posto nell’ingresso. «Ha detto che per oggi si poteva fare un’eccezione, dato che è il compleanno di Shingo...»

«Caro, è vero?»

Yumi si avvicinò a suo marito, che nel frattempo si era seduto sul divano: «Caspita, che stanchezza... che stanchezza...» stava mormorando l’uomo, massaggiandosi la schiena dolorante. Non appena Yumi gli rivolse quella domanda, Susumu alzò gli occhi come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno.

«“Vero” cosa?»

«Uffa, non stavi a sentirmi?» esclamò Yumi, sedendosi accanto a lui. «Ti ho chiesto se è vero che hai chiuso la bottega prima per il compleanno di Shingo... oppure avevi voglia di fare una dormita?»

«Un po’ tutte e due le cose. Il tempo non prometteva nulla di buono, io non avevo altro lavoro da fare al laboratorio... e Yukiko ci ha messo lo zampino, dicendomi che Shingo non vedeva l’ora di darci una notizia importante.»

«Shingo deve dirci qualcosa?»

A quell’ultima affermazione, il ragazzo rizzò le orecchie: nel frattempo aveva iniziato con Yukiko a fare il gioco delle ombre cinesi con la piccola lampada da tavolo posta accanto al divano; non appena aveva udito la voce del padre che stava dicendo che lui doveva dirgli qualcosa, si era subito immobilizzato. Spostò lo sguardo verso i genitori, che lo stavano osservando incuriositi e, in un lampo, fece due più due.

«Sorellona...» mormorò, e mostrò a Yukiko uno sguardo di disappunto; incrociò le braccia e sbuffò con sarcasmo. «Grazie dell’aiuto, davvero...»

Yukiko scosse la testa con un sorriso. «Ormai ti conosco troppo bene, Shingo: sai... ho sempre dubitato che questa sera l’avresti davvero detto di tua spontanea volontà.»

«Ma se tu hai detto che dovevo vedermela io con mamma e papà...»

«Appunto. Per caso ricordi anche che ti ho detto che dovevo restare in silenzio e non darti una mano?» La ragazza gli rivolse un occhiolino, prima di appoggiare la mano sulla spalla del fratello e sussurrare: «Andrà tutto bene. In fondo... è o non è il tuo compleanno, oggi?»

Mentre Yukiko si recò in cucina per prendere un bicchiere d’acqua, Yumi e Susumu non avevano mai smesso di fissare il loro secondogenito, in attesa di ciò che egli avrebbe dovuto comunicare a loro; nel vederlo invece con lo sguardo basso, rivolto verso le punte degli indici che faceva combaciare in continuazione come se fosse stato imbarazzato, l’artigiano si alzò, ridusse le distanze con suo figlio e batté più volte la mano sulle spalle del ragazzo.

«Allora, campione? Ha ragione tua sorella: oggi è il tuo compleanno, non dovresti mostrarti così abbattuto!» sentenziò Susumu. «Dicci tutto, c’è qualcosa che non va?»

«Lo sai che per qualsiasi cosa noi saremo sempre al tuo fianco» aggiunse Yumi, che subito affiancò suo marito e afferrò le mani del secondogenito. «Perciò non avere paura, Shingo: qualunque cosa ti sia accaduta, puoi contare su di noi.»

Shingo deglutì rumorosamente. Notò un guizzo di serenità mista a preoccupazione negli occhi dei suoi genitori, e quello sguardo amorevole contribuì alla sua esitazione.

«Ecco...»

Nel vedere sua madre e suo padre sorridere per infondergli fiducia, pensò che sua sorella avesse ragione: doveva decidersi a dirlo, prima che fosse troppo tardi e non avesse più l’occasione di farlo.

«Io...»

Ma quei due sguardi lo stavano bloccando, ancora una volta: il giovane non sapeva se sarebbe riuscito a sostenerli ancora per molto prima di cedere.

«... io... io voglio...»

E Shingo lo sapeva meglio di chiunque altro. Sapeva che nessuno dei due gli avrebbe mai permesso di partire per una meta così lontana solo per diventare più bravo nel calcio, ma allo stesso tempo quel desiderio stava ardendo sempre più dentro di sé, rischiando di bruciare anche le sue stesse ossa se l’avesse trattenuto ancora per altro tempo.

Perché... perché è così difficile dirlo? Mamma... papà...

Quello sguardo dei suoi genitori, che l’avevano cresciuto con tanto affetto e che gli volevano molto bene, gli stava facendo sempre più male. Ogni secondo che passava stava diventando sempre più insopportabile, al punto che Shingo lasciò le mani della madre e crollò ginocchioni a terra, con la testa bassa.

«Figlio mio, cos’hai?»

«Non stai bene?»

Vi prego, fermatevi... non rendete tutto più difficile! - pensò il ragazzo, di fronte a suo padre e sua madre che si erano chinati su di lui per cercare di capire cosa gli fosse preso. Quanto avrebbe voluto che in quel momento al loro posto ci fosse stato Riku, due cartonati dei suoi genitori oppure anche solo un muro: in quel caso sarebbe stato più facile, molto più facile che il suo desiderio fosse emerso con la stessa forza di un fiume in piena.

Con la coda dell’occhio, Shingo notò a pochi passi da loro la punta delle calze che stava indossando Yukiko: anche sua sorella li aveva raggiunti, e probabilmente stava osservando in silenzio l’intera scena.

A quel punto il ragazzo non riuscì più a trattenere le lacrime, che stavano scorrendo finalmente libere lungo le sue guance, fino a cadere sul tatami del soggiorno. Eccetto sua nonna, tutte le persone alle quali voleva bene - e che a loro volta hanno voluto bene a lui - erano lì, in quella stanza. Shingo pensò di essere stato fortunato a nascere in quella famiglia che lui non aveva scelto: una famiglia di artigiani che gli avevano sempre insegnato i valori più semplici ma essenziali della vita come l’amore, l’onestà e il rispetto reciproco... e anche la verità, quella che lui stava facendo fatica a rivelare.

«Ascoltatemi, c’è una cosa che devo dirvi. Io...»

Nel soggiorno cadde un silenzio assordante, e tutti restarono in attesa di capire cosa stesse affliggendo l’animo di Shingo. Fu proprio in quel momento che il cuore del giovane iniziò a battere all’impazzata: di fronte a quegli sguardi così dolci e comprensivi non se la sentì più di trattenere quel suo desiderio che stava portando dentro da intere settimane.

Shingo ricacciò le lacrime e, alzando il capo, proseguì con un grande sorriso e rinnovata determinazione: «Io... io voglio partire per l’Italia. Se voglio diventare un grande calciatore, non ho altra scelta: devo andare là e impegnarmi al massimo!»

I suoi genitori spalancarono gli occhi, increduli per ciò che avevano sentito. Susumu fu il primo a prendere la parola, dopo essersi sistemato gli occhiali da vista che erano scesi sul naso. «Shingo... ti prego: dimmi che stai scherzando. Dimmelo perché mi sembra talmente assurda come idea che... o forse ho sentito male io: in effetti devo riconoscere che gli anni passano anche per me... perché è davvero assurdo che tu voglia andare in Italia solo per dare due calci ad un pallone.»

«Invece è così!» replicò suo figlio, ancora in ginocchio. «E non si tratta di “dare due calci ad un pallone”, ma di diventare un bravo calciatore!»

«Quel che è» rispose il padre, mantenendo una calma impeccabile. «Cerca di ragionare, Shingo: ti rendi conto di quanto è lontana l’Italia? Non è qui, a due passi dalla nostra casa... ma c’è un intero continente che ci separa. Secondo me puoi diventare un bravo calciatore anche se resti qui, in Giappone...»

«Se resto qui, papà?»

Shingo strinse i pugni con determinazione. Sul suo volto c’era solo uno sguardo serio: non avrebbe mai permesso che qualcuno infrangesse quel sogno che voleva raggiungere a tutti i costi. «Gioco a calcio da ben cinque anni, proprio come stai dicendo tu: restando qui... e quali sono stati i risultati? Niente di niente: non sono riuscito nemmeno a giocare un campionato nazionale fino alla fine. Con gli amici è divertente, ma io non voglio giocare a calcio solo per divertirmi, ma anche... anche per...»

... diventare un vero campione, anche a costo di lasciare il Giappone e la famiglia che tanto amo!

Il giovane smorzò la frase che stava per dire, perché sapeva che avrebbe fatto del male sia a lui che, soprattutto, a suo padre. Ciò che stava dicendo equivaleva all’abiura di quella che in teoria sarebbe dovuta essere la sua naturale vocazione: diventare un artigiano di Nakahara, seguendo le orme della sua famiglia. Ma, in realtà, col passare degli anni Shingo aveva scoperto che la sua vera vocazione era un’altra: essere un calciatore, dedicarsi appieno a questo sport, per diventare sempre più forte e un giorno portare il Giappone sulla vetta del mondo.

Per quanto a lui piacesse molto anche il mondo dell’artigianato, Shingo sapeva che non poteva ricoprire entrambi i ruoli perché erano in antitesi tra loro: in lui non potevano coesistere sia un lui artigiano che un lui calciatore. Una cosa del genere sarebbe stata impossibile per cui la sua era stata una scelta sofferta, che quasi gli spezzava il cuore ogni volta che ci pensava.

«Mi dispiace... papà...» mormorò il giovane, guardando il genitore dritto negli occhi. «Grazie per tutto quello che tu e la mamma avete fatto per me... ma ho deciso: andrò via da Nakahara, per cui... per cui mi dispiace ma non potrò più lavorare con te. Perciò, vi prego... mamma, papà: lasciatemi andare in Italia e non provate a fermarmi... perché non cambierò idea...»

«Shingo...»

Nel vedere suo figlio così determinato, ma allo stesso tempo dispiaciuto, gli occhi di Yumi si riempirono di lacrime. Si strinse al braccio del marito, sussurrando con stupore: «Figlio mio... ci tieni così tanto ad andare in Italia? A rischiare tutto, a vivere da solo... in un territorio così diverso dal nostro? Lo sai, noi... noi non possiamo accompagnarti: non abbiamo i soldi per affrontare tutti un viaggio così lungo... anzi: non possiamo pagare nemmeno il viaggio per te e la stanza in affitto che dovrai prendere...»

«Proprio così: sono pronto a tutto. Mamma, papà... io andrò in Italia, a qualunque costo!»

La risposta di Shingo tuonò per tutto il soggiorno, lasciando i presenti di stucco. I suoi genitori non sapevano bene cosa replicare a quel figlio così ostinato nell’inseguire quello che sembrava essere il suo più grande sogno, mentre Yukiko fece qualche passo in avanti verso di loro, decisa ad intervenire.

«Non dovete preoccuparvi per Shingo...» esclamò lei con serenità. «È sempre riuscito a cavarsela, anche nelle situazioni più difficile: vedrete che anche in Italia saprà come comportarsi per restarci il più a lungo possibile!»

«Yukiko...» dissero in coro i genitori.

«Shingo non è più un bambino, ormai sa quel che fa... e penso che dovreste permettergli di fare ciò che vuole. Sarà consapevole dei rischi che dovrà affrontare in un luogo così lontano... vero, caro fratellino?»

Il ragazzo guardò sua sorella con occhi pieni di gioia. Lei era stata sempre al suo fianco, anche nelle sue idee più assurde, e anche quel momento stava dimostrando che lei lo avrebbe sempre aiutato in qualsiasi situazione.

«Sorellona...» sussurrò, con la bocca spalancata per lo stupore.

«Però, Yukiko...» interruppe il padre, «Shingo non può andare in Italia.»

I due giovani Aoi esclamarono in coro: «Perché?!»

«È proprio come ha detto la mamma: non abbiamo soldi sufficienti per permettere di pagargli il viaggio di andata e le prime spese per restare in Italia. Entrambi siete molto grandi per capirlo: di certo i soldi non piovono dal cielo all’improvviso...»

Tutti abbassarono leggermente il capo, scambiandosi di tanto in tanto fugaci sguardi di tristezza. Nessuno di loro aveva la soluzione per risolvere il problema che si era creato con la folle richiesta di Shingo e, così, dopo qualche minuto Yukiko e suo fratello seguirono in silenzio la madre in cucina mentre Susumu si lasciò cadere sul divano.

«Certo che questa è una bella gatta da pelare...» disse l’artigiano, grattandosi la fronte.

 

Intanto Atsuko stava per bussare alla porta di ingresso di casa Aoi, ma si era bloccata non appena aveva udito l’inizio di quella discussione che era avvenuta tra Shingo e il resto della famiglia. L’anziana donna si era così avvicinata di soppiatto alla finestra del soggiorno e da quel punto, senza farsi notare dai presenti, era riuscita a sentire tutto.

Così Shingo vuole andare in Italia...

Quella notizia aveva sconvolto anche Atsuko, al punto che la donna si era accasciata lungo la parete dove si trovava, arrivando a sedersi sull’erba del giardino. Cercò di trattenere le lacrime sapendo molto bene che, se quel suo nipotino fosse riuscito a partire, non lo avrebbe rivisto per un bel pezzo.

Non appena riuscì a riprendersi, Atsuko si levò in piedi e tornò alla porta d’ingresso, ma anche questa volta esitò nel battere la porta con le nocche della mano.

Forse... forse non è il caso, ma...

Aveva sentito tutto: l’ostinazione di Shingo di partire alla volta dell’Italia con la speranza di diventare un grande calciatore, il forte sostegno di Yukiko pur essendo nel bel mezzo della sua decisione tra il kyūdō e l’attività di artigianato, e i tanti dubbi di Yumi e Susumu nel sostenere la scelta del loro secondogenito, a cominciare dall’ostacolo più grande rappresentato dal denaro.

Mille pensieri passarono per la mente di Atsuko che, per cercare di rimetterli a posto, diede un forte sospiro e voltò le spalle all’abitazione, iniziando ad allontanarsi sempre più da essa.

Forse è meglio così. Forse... dobbiamo lasciare liberi questi giovani di fare ciò che vogliono.

 

 

«Yukiko, controlla il forno mentre non ci sono! Accidenti: possibile che mia madre deve farmi preoccupare così tanto?»

Yumi si mise il giubbotto e si precipitò verso l’uscita della sua abitazione; corse all’impazzata per raggiungere la vicina casa dove viveva Atsuko, e bussò più volte alla porta senza nemmeno riprendere fiato.

Non udendo alcuna risposta ma vedendo le luci del piano terra ancora accese, Yumi subito prese dalla tasca una chiave con la quale riuscì ad entrare nell’abitazione: era un duplicato che sua madre le aveva affidato proprio in caso di emergenza... e quella che aveva di fronte, per la donna, era al pari di un’emergenza. Era quasi ora di cena e l’anziana non era ancora arrivata a casa degli Aoi per festeggiare il quindicesimo compleanno del suo adorato nipote: caso strano, dato che ogni anno non mancava mai l’appuntamento arrivando sempre in largo anticipo, oppure avvisando i suoi familiari in caso di ritardo.

Quella sera, invece, Atsuko non aveva fatto nulla di tutto questo, e sua figlia Yumi era sempre più preoccupata.

Speriamo che non si sia sentita male... che si sia solo appisolata da qualche parte!

Yumi chiamò più volte la madre, attraversando il soggiorno per finire nell’angolo cucina. Fu in quel luogo che l’attenzione della donna venne catturata da un foglietto di carta che si trovava sul piccolo tavolo, che subito afferrò e lesse con grande attenzione.

[Non aspettatemi per cena, arrivo presto per portare il regalo a Shingo! - Atsuko]

«Grazie mille, mamma...» mormorò Yumi, roteando gli occhi. «Se mi avessi avvisata prima... e avessi anche scritto dove sei andata, mi avresti fatto un grande favore!»

 

Pochi minuti dopo, la famiglia Aoi si era radunata di nuovo intorno al tavolo della cucina dove stavano consumando la cena. A differenza di ciò che solitamente avveniva in quell’angolo della casa, tutti erano rimasti in silenzio: Shingo e Yukiko si guardavano spesso negli occhi, mentre di tanto in tanto Yumi e Susumu provavano almeno a sorridere ma, per quanto si sforzassero, nessuno di loro riusciva a dire qualche parola che potesse rallegrare l’atmosfera che nel frattempo si era creata.

Tutti erano pensierosi, incapaci di trovare il filo di Arianna che li avrebbe portati fuori da quel labirinto che l’idea di Shingo aveva creato. Non riuscivano ancora a trovare quella che doveva essere la soluzione il più possibile ideale per tutti: la partenza di Shingo alla volta dell’Italia che non comportasse come conseguenza il tracollo economico della famiglia e, allo stesso tempo, che avrebbe permesso al ragazzo di restare il più possibile nel continente europeo.

Ad un tratto le orecchie dei presenti udirono un insistente bussare alla porta d’ingresso; Yumi si precipitò e la aprì, rivelando dall’altra parte l’allegra presenza di Atsuko.

«Era ora!» esclamò la donna. «Ma si può sapere dove sei stata, mamma? Con questo tempo nuvoloso, poi...»

«Non posso dirtelo, è un segreto!» rispose Atsuko, avvicinandosi a Shingo che salutò con un affettuoso abbraccio. «E tu, come stai?»

«Abbastanza bene, nonna!» Shingo rispose con altrettanta gioia, che però si spense subito quando il suo sguardo si posò su sua sorella, suo padre e sua madre. «Però... però ora abbiamo un problema, nonna.»

«Quale problema?» domandò l’anziana: fece finta di non saperne nulla, per vedere come le avrebbero raccontato di ciò che era accaduto qualche ora prima. Vedendo che tutti stavano esitando nel dirglielo, Atsuko pose il palmo della mano aperta in avanti come se avesse voluto intimare uno “stop”. «Aspettate, lasciatemi indovinare! Vediamo... allora... c’entra Tamotsu?»

«In parte...» rispose Shingo.

«Perché “in parte”?»

«Perché sono gli ultimi giorni di scuola, e se continua a piovere non riusciremo mai ad allenarci insieme... sai, nonna: lui sta per andare via da Nakahara, verso Aomori...»

L’anziana diede un’affettuosa pacca sulla schiena a suo nipote. «Aomori è molto, molto lontana da qui... e sei preoccupato per la vostra amicizia, non è così?»

Shingo abbassò la testa. «Ecco, un po’...»

«È normale, nipotino mio: in questi tre anni vi ho visti sempre insieme, e avete condiviso un sacco di cose... ma ricordati che la vera amicizia non svanirà nemmeno con una distanza così grande! Tamotsu ti vuole bene, no? Vedrai che non ti dimenticherà mai, anche se dovesse andare dall’altra parte del mondo!»

Il ragazzo annuì, e la guardò negli occhi. «Vedi, nonna...» disse, cercando di trattenere le lacrime, «lui non sarà l’unico ad andare via da Nakahara.»

«Ah, sì?»

«Nonna, io...»

Shingo alzò lo sguardo verso sua madre, che annuì silenziosamente come se avesse voluto sussurrargli: «Non preoccuparti, nonna Atsuko è forte: riuscirà a reggere il colpo come abbiamo fatto noi!»

Poi tornò a guardare la nonna e continuò: «Dall’altra parte del mondo... ci andrò io

Atsuko perse la presa della spalla di suo nipote, lasciandola cadere lungo il suo corpo; subito rivolse lo sguardo prima su Susumu e poi su Yumi, capendo che era arrivato quel momento.

«È così, eh... alla fine ti sei deciso a dirlo» mormorò, mentre a lenti passi raggiungeva i suoi genitori. «Lo so, lo so... ci tieni tanto ad andare in Italia, non è così? Faresti di tutto per poterci riuscire, no?»

Shingo restò sorpreso da quell’improvvisa domanda. Come stava facendo sua nonna a dirgli quelle parole senza nemmeno rimproverarlo? «No... no...» balbettò, iniziando ad agitare le sue mani e scuotendo la testa ripetutamente. «Non... non è così! Cioè... sì: voglio andare in Italia, ma...»

«Non c’è bisogno di nasconderlo, Shingo. Lo so che vuoi andare in Italia per diventare un bravo calciatore» mormorò la nonna, ancora con le spalle rivolte verso di lui. Guardò negli occhi Yumi e le disse: «Mi faresti un favore?»

Al cenno di assenso di sua figlia, Atsuko aggiunse: «Posso andare con Shingo nella sua cameretta? Ho bisogno di restare con lui per un po’... solo io e lui, capisci?»

«Va... va bene» rispose Yumi, con aria piuttosto pensierosa. «Non vedo cosa ci sia di strano... ma ti confesso che sto sospettando che tu abbia in mente qualcosa. Allora: cos’hai in mente, mamma?»

Con un dolce sorriso Atsuko prese per mano suo nipote e con lui si incamminò verso le scale che portavano al primo piano dell’abitazione; prima di mettere il piede sul primo gradino, si voltò verso sua figlia e fece un occhiolino.

«Te l’ho detto: è un segreto!»

 

Giunti nella stanza dei nipotini, Atsuko lasciò la mano di Shingo e si avvicinò alla finestra, iniziando a fissare il cielo ancora terso di nuvole; dopo un breve momento di silenzio, si voltò verso suo nipote e riprese a parlare. «Caro Shingo... lo sapevi che io ho un parente proprio in Italia?»

Shingo spalancò gli occhi per la sorpresa: non ne sapeva niente di quella storia, almeno fino a quel preciso momento. «Davvero?»

«Sì. È un mio lontano cugino: si chiama Shinnosuke, ed è italiano a tutti gli effetti. Nato e cresciuto a Milano, non si è mai voluto trasferire a Nakahara e non ho mai capito il perché... almeno fino a quando non sei arrivato tu e la tua passione per il calcio!»

«Io?»

«Sì. E ora capisco da chi hai preso, caro nipotino mio! Lo zio Shinnosuke è un grande appassionato di calcio: è stato il manager di diverse squadre, e così ha conosciuto da vicino diversi campioni di questo mondo... almeno, è così ciò che mi ripete ogni volta che parliamo al telefono. Pensa un po’: anche oggi l’ha fatto!»

A Shingo brillarono gli occhi per la felicità. Uno zio appassionato di calcio, proprio in Italia! Questo sì che è un bel colpo di fortuna! Se vuole, posso stare un po’ da lui finché non troverò una casa!

Di fronte al suo entusiasmo Atsuko si inginocchiò al suo fianco e gli rivolse un franco sorriso. «Però so molto bene che il trasferimento in Italia non è una cosa sulla quale si decide su due piedi, per cui credo che tu ci stia pensando già da un bel pezzo... perciò dimmi una cosa: perché ti sei deciso solo ora a dirci che volevi andare in Italia? Se l’avessi detto prima, sarebbero riusciti a trovare una soluzione...»

Shingo rivolse lo sguardo verso il pavimento della stanza. Conosceva benissimo il motivo, che egli stesso aveva visto con i propri occhi: di certo sua madre e suo padre gli avrebbero detto di no, sua nonna si sarebbe preoccupata ancora di più per lui... e per questo aveva sempre esitato a dirlo nonostante ci tenesse così tanto.

«È perché i tuoi genitori non sarebbero stati d’accordo, non è così? E anche perché hai pensato a me, a Yukiko... e a ciò che abbiamo potuto provare di fronte a questa tua idea?»

Il ragazzo annuì e alzò gli occhi verso la nonna, stringendo i pugni. «Però... però scusami, nonna... ma io ci tengo così tanto! Voglio andare in Italia, e ci voglio andare subito... a qualsiasi costo!»

«E dimmi una cosa: come farai senza soldi? Qualcuno dovrà pagarti il viaggio, e anche se volessi scappare di casa e riuscire a prendere un aereo come nei film, nascondendoti in qualche bagaglio... hai pensato a questa eventualità? E come farai con l’affitto? Non sai nemmeno dove abita questo zio Shinnosuke...»

«Con i soldi troverò una soluzione nei prossimi giorni... e su zio Shinnosuke ti riempirò di domande finché non mi darai tutte le informazioni che mi serviranno! Anzi, le darai a Riku!»

Shingo corse a prendere l’orsacchiotto, che si trovava in cima al cesto dove vi erano gli altri giocattoli, e simulando la sua voce disse: «Ti prego, nonna! Se non vuoi dirlo a Shingo, dillo a me: muoio dalla curiosità di sapere chi è questo zio e soprattutto dove abita perché... perché... così, ecco!»

Atsuko gli rivolse un sorriso divertito, soffocando qualche risata. Con quelle poche domande laconiche pensava che prima o poi suo nipote si sarebbe rassegnato, rinunciando al desiderio che teneva molto; invece Shingo non si era mai arreso e, anzi, perseverando sulla sua determinazione aveva iniziato anche a scherzarci su.

Sei davvero unico, nipote mio... e vedrai: la tua cocciutaggine ti premierà sempre!

«Allora dimmi un’altra cosa,» sentenziò l’anziana, e subito incrociò le braccia, «vediamo se riesci a rispondere anche a questo. Secondo te perché stasera non mi hai visto entrare in casa con un regalo enorme tra le mani?»

«Perché è ancora nel tuo laboratorio e non ce la fai a portarlo, nonna!»

«Non sottovalutarmi: guarda che ho ancora abbastanza forze per sollevare i massi di queste montagne!»

«Allora è così piccolo che ce l’hai in tasca! Anche se faccio fatica ad immaginare cos’è... ora sono molto curioso, nonna! Dai, dimmi: dov’è il mio regalo?»

Atsuko scoppiò a ridere di fronte all’affermazione di suo nipote. Gli voltò le spalle, fece qualche passo e, frugando al di sotto della felpa che stava indossando, si voltò nuovamente verso di lui e gli mostrò una busta voluminosa.

«Ta-da! Fresco fresco di giornata!» esclamò l’anziana donna. «Questo sarà il tuo regalo di compleanno, per quest’anno e forse per gli anni a seguire. All’interno c’è un biglietto solo andata per Milano, l’indirizzo di zio Shinnosuke con il suo numero di telefono e dei soldi che ti serviranno per i primi giorni di permanenza. Dopo ne parlerò anche con i tuoi genitori, ma credo che saranno d’accordo... purché non succedano casini. Mi raccomando, Shingo: se dovesse andare storta anche solo una cosa, tornerai immediatamente qui a Nakahara e non farai mai più ritorno in Italia. Siamo intesi?»

Atsuko pronunciò le ultime due frasi con un tono più severo, ma lo stava facendo con l’intento di spronare suo nipote a fare del proprio meglio in un luogo che era molto diverso da quello nel quale abitava; notò con immensa soddisfazione che Shingo stava ammirando il contenuto della busta che ora aveva tra le mani come se fosse stato rivestito di oro zecchino, senza mai perderlo di vista.

Il piccolo Aoi si lanciò verso di lei e la strinse più forte che poteva, ringraziandola tra le lacrime.

«Mi raccomando, nipotino mio: vai sempre dritto per la tua strada e non farti abbattere da nessuno...» sussurrò Atsuko, con qualche lacrima che stava iniziando a rigare anche le sue guance.

 

 

 

Dopo la cena, durante la quale Atsuko aveva svelato quel suo segreto a tutta la famiglia Aoi - seguito dal commento di Yumi che nel corso della serata più volte le aveva ripetuto che non doveva preoccuparsi così tanto per lei e per i suoi cari - il nucleo familiare si preparò per la notte. Atsuko lasciò la dimora, soddisfatta per il grande aiuto che aveva dato a suo nipote, mentre Yukiko fu la prima ad andare in bagno per cambiarsi.

Mentre era sotto la doccia, la giovane stava ripensando a tutto ciò che stava accadendo nella vita della loro famiglia, ma soprattutto della decisione di Shingo.

Mio fratello in Italia. In Italia... e così ci separeremo per tanto tempo...

Yukiko uscì dalla doccia, vestendo un largo pigiama in flanella che aveva lasciato sul piccolo lavatoio che in quel momento era chiuso e dove prima aveva riposto gli abiti da lavare il giorno dopo. L’unica cosa che portò con sé, allacciandoselo alla vita, fu il grembiule che aveva indossato per la cucina e che era ancora miracolosamente immacolato: c’era un motivo per il quale aveva deciso di indossarlo sopra il pigiama, col rischio di farsi prendere in giro da suo fratello.

Chissà se Shingo sarà tornato in camera. È passato molto tempo da quando l’ho lasciato nel soggiorno...

Yukiko uscì dal bagno e, salendo una manciata di scalini in legno, raggiunse l’unica stanza sopraelevata del primo piano. Notò che la porta era chiusa - segno per lei che qualcun altro stava occupando quella stanza - e decise di bussare.

«Posso entrare, fratellino?»

Alla voce entusiasta del fratello dall’altra parte della porta, la ragazza sospirò e si decise ad entrare.

 

Fin da piccoli Yukiko e Shingo avevano condiviso la stessa stanza. Fino al terzo anno di vita Shingo aveva dormito con i genitori; poi questi ultimi avevano deciso che il loro figlio minore dovesse iniziare ad abituarsi all’idea di un ambiente condiviso con sua sorella.

Fortunatamente per i loro genitori, Yukiko non si era lamentata per questo improvviso cambiamento, tutt’altro. Lei e Shingo erano sempre andati d’accordo: nei momenti di gioco e prima di andare a letto i due piccini si ritrovavano nel loro regno - la loro cameretta - per trascorrere del tempo insieme; nei momenti di studio, invece, fino al giorno in cui Shingo non aveva iniziato a frequentare le scuole elementari, Yukiko studiava da sola in quella stanza mentre suo fratello giocava nel piccolo soggiorno della casa o nel loro giardino.

Col tempo, gli spazi per Yukiko e Shingo erano stati divisi con armonia e cura nei dettagli, nonostante i vari oggetti fossero l’uno accanto all’altro: i letti e le due scrivanie - realizzate dal loro padre - erano state personalizzate con incisioni dai due ragazzi che, seguendo le orme di famiglia, si erano esercitati lasciando in esse delle tracce della loro proprietà. Crescendo, Shingo si era ritrovato fianco a fianco della sorella, imparando a condividere quell’ambiente con lei durante le loro ore di studio; a volte le chiedeva aiuto quando non riusciva proprio a risolvere un esercizio, e lei era sempre ben disposta a dargli una mano.

Tutto questo fino al terzo anno delle superiori di Yukiko, dopodiché la ragazza si era dedicata appieno all’attività di famiglia e al kyūdō, in attesa di prendere una decisione definitiva sulla strada da seguire: nel corso dell’anno era stata invitata a partecipare alle competizioni di kyūdō a livello agonistico, ma fino ad allora aveva rifiutato per aiutare il padre con la sua attività; ora la ragazza doveva decidere ciò che avrebbe voluto fare per il suo futuro, ma non aveva ancora le idee del tutto chiare. Se avesse avuto la possibilità, si sarebbe volentieri dedicata ad entrambe le cose, ma con gli allenamenti a Gifu e le competizioni a Tokyo lavorare nella bottega di famiglia non sarebbe stato più così semplice come prima.

Da una parte non le piaceva l’idea di lasciare suo padre da solo. “Solo” per modo di dire: era pur sempre vero che al suo fianco ci sarebbe stata anche la mamma e sua nonna, però a Yukiko piaceva molto fargli compagnia e lavorare con lui; d’altro canto, la ragazza amava molto l’arte del kyūdō, e sapeva che avrebbe fatto strada se avesse deciso di proseguire con questa disciplina.

Alla fine di quell’anno sabbatico, Yukiko si sentiva ancora smarrita e quella pazza decisione di suo fratello aveva solo contribuito a complicare le cose.

Shingo... in Italia?

Caspita! - pensava da quando l’aveva saputo, cioè da mezza giornata: stentava ancora a crederci. Anche per lei, se suo fratello avesse voluto diventare un campione di calcio, avrebbe potuto tranquillamente proseguire con il suo percorso alle superiori con la sua squadra e cercare di farsi notare da qualcuno di importante - come aveva fatto lei - per entrare nel circuito dei professionisti.

Più ci pensava, e più le veniva il mal di testa. Pensando alla grande fatica che il loro papà aveva sempre fatto per non far mai mancare a tutti loro il pane a tavola, un viaggio del genere - e senza la certezza del come sarebbe andata a finire per lui - non era affatto da prendere sottogamba. Inoltre, in questo modo suo fratello sarebbe finito lontano da tutti loro... quasi dall’altra parte del mondo!

A Yukiko non piaceva l’idea di saperlo così distante nel giro di qualche settimana, ma nel profondo del suo cuore di sorella sentiva di dovergli dire qualcosa. Era per questo che era lì, dando le spalle a quella porta che aveva sempre varcato per entrare nel suo regno, nel loro regno, per ricordargli ancora una volta quel profondo legame e unico che condividevano, un legame che né una distanza così grande né altre difficoltà sarebbero riusciti a spezzare.

Le luci della stanza erano spente e Shingo era sdraiato sul pavimento: lui aveva avuto l’accortezza di posare una coperta per non prendere troppo freddo, e lo aveva fatto per osservare il cielo illuminato dalla luce della luna attraverso quella finestra che si apriva nella parte superiore della mansarda. Era la prima volta che succedeva dopo tanto tempo: negli ultimi giorni lo aveva visto chino sulla scrivania, a consultare libri sul continente europeo, sull’Italia in particolare. Aveva pensato che fosse per qualche ricerca a scuola, e invece...

... ora capisco il perché.

Yukiko gli si avvicinò e si inginocchiò. «Posso... posso sedermi accanto a te?»

Shingo la guardò stranito prima di dare una risposta. «Come mai mi stai chiedendo il permesso, sorellina? Qui puoi fare quello che vuoi!»

«Anche accendere la luce?»

«Ti prego, no! Voglio stare ancora un po’ a guardare il cielo da qui. Non posso uscire fuori: oggi fa freddo...»

Yukiko sorrise e, prendendo un'altra coperta dall’armadio, lo stese accanto a quello del fratello e si sdraiò al suo fianco. La luce della luna stava illuminando delicatamente parte di quella mansarda, creando un’atmosfera rilassante e piacevole intorno ai due ragazzi; un’atmosfera dove si potevano dire qualunque cosa, dove nessun altro a parte loro avrebbe ascoltato i loro sussurri.

«Così hai deciso. Andrai davvero in Italia?»

«Già... e non vedo l’ora!»

«E come farai con la scuola? E gli amici?»

«Con la scuola mi arrangerò! Mentre gli amici... beh, gli amici saranno qui ad aspettarmi! Dovevi vedere Tamotsu quando oggi gliel’ho detto: si è messo a piangere e mi ha abbracciato forte! Mi ha anche detto “Stai attento, mi hanno detto che in Italia ti rubano i soldi! E se dovessi ammalarti, sarai da solo! Ti prego, telefonami tutti i giorni!” Sembrava quasi la mamma per come era preoccupato!»

«Ti credo: vai a Milano, non a Tokyo... e, conoscendo Tamotsu, anche se avessi deciso di trasferirti a Gifu ti avrebbe detto quelle parole.»

«Però alla fine era felice per me: sia lui che tutti gli altri mi hanno detto “Torna qui da vincitore!” Ed è quello che farò!»

Yukiko sorrise di fronte alla spontaneità del suo adorato fratellino. Concentrò l’attenzione sulla finestra della mansarda, e appoggiò le mani incrociate sul ventre. «Dimmi una cosa, Shingo. Sei... sei preoccupato all’idea di essere lontano da mamma e papà?»

Il breve silenzio che era sceso su di loro sembrò essere infinito, prima di poter udire la risposta del fratello, sommessa ma sincera:

«Un po’...»

E... e da me?

Yukiko stava per aggiungerlo, ma dalla sua bocca semiaperta non uscì un filo di voce.

Con un groppo in gola che si stava intensificando di secondo in secondo, a fatica la ragazza riuscì a replicargli. «Ma perché proprio l’Italia? Potevi restare qui e continuare ad allenarti come hai sempre fatto... perché stai insistendo ad andare in Italia?»

«Perché non voglio deludere nessuno. Mai più.»

Quando Yukiko si voltò verso suo fratello, nonostante la stanza fosse poco illuminata riuscì a vedere qualcosa che brillava sulla sua guancia.

Una lacrima.

«Non sono stupido: lo so benissimo. Andrò in un posto dove non sono mai stato, in una città dove parlano una lingua diversa dalla mia, e non avrò nessuno a parte zio. So che devo iniziare tutto daccapo, e non so nemmeno se alla fine riuscirò a farmi degli amici... anche se io ci spero tanto! Ed è per questo che continuerò a sorridere, come ho sempre fatto. Mi impegnerò così niente e nessuno riuscirà a strapparmi la felicità... e tornerò qui solo quando sarò un grande calciatore!»

Yukiko spalancò gli occhi, sbalordita. Stentava a crederci: davvero suo fratello aveva tutta questa grande forza di volontà nascosta dentro di sé, al punto da voler tentare una nuova strada dall’altra parte del mondo, lasciando anche i suoi affetti familiari? Per tutti quegli anni si era sempre chiesta cosa gli passasse per la testa e cosa avrebbe voluto fare nel futuro, ma mai avrebbe immaginato che suo fratello sarebbe arrivato a certe balzane decisioni.

Se lei fosse stata al suo posto, era certa che avrebbe continuato ad esitare proprio per il fatto di separarsi dalla sua famiglia, dai suoi amici e anche dalle sue abitudini di vita. Le era molto duro da affrontare già il pensiero di non poter vedere i propri cari per mesi o anche per anni interi, mangiare cibi completamente diversi e svegliarsi con un paesaggio singolare rispetto a quello al quale era abituata; figuriamoci se una cosa del genere fosse diventata reale!

Nonostante ciò, in quel momento non le passò per la testa l’idea che suo fratello fosse un pazzo. In quegli occhi neri Yukiko scorse la sua forte determinazione, il grande coraggio di affrontare quella che per chiunque sarebbe stata un’impresa quasi impossibile... per chiunque, tranne che per lui.

Yukiko si sforzò di sorridere a fatica, e gli sussurrò: «Shingo... è questo che vuoi? Ne sei proprio sicuro?»

«Sì!»

«E se non dovesse funzionare?»

«Andrà tutto bene, vedrai!»

Le labbra di Shingo si curvarono in un sorriso ampio e divertito, che illuminava tutto il suo volto. «Non preoccuparti, sorellona» concluse, prendendole la mano. «Ti prometto che se non dovessi stare bene sarai la prima a saperlo.»

Quel gesto e quel suo sorriso raggiante fece commuovere Yukiko fino alle lacrime. Le labbra della ragazza tremarono un po’ mentre lei rimase immobile a guardare suo fratello; poi si sedette e mise una mano nella tasca del suo grembiule da lavoro.

«Chiudi gli occhi, Shingo.»

«Perché?»

«Perché è il tuo compleanno. Chiudi gli occhi e esprimi un desiderio.»

Il ragazzino fece subito come gli aveva detto la sorella: chiuse gli occhi, poi iniziò a muovere la testa a destra e a sinistra mentre canticchiava una melodia. «Vorrei che mia sorella venisse con me in Italia... così mi sentirò meno solo...» sussurrò.

Nel vederlo Yukiko soffocò una risata divertita e commossa allo stesso tempo. Mi mancherà tutto questo... e mi mancherai davvero tanto, fratellino!

Prese la sua mano e, aprendo il palmo gli passò l’oggetto che nel frattempo aveva recuperato dalla tasca del suo grembiule. «Ora puoi aprire gli occhi» gli disse con dolcezza.

Subito Shingo osservò l'oggetto che si era ritrovato nella sua mano. Era un bracciale di cuoio intagliato, intessuto e dai nodi complicati, che al suo interno da un lato recava un nome: quello della sorella.

«L'hai... l'hai fatto tu?» domandò basito.

«Sì, fratellino... così puoi portarmi sempre con te, in qualsiasi luogo del mondo!»

Il ragazzo non perse più tempo: indossò il bracciale e lo ammirò entusiasta, girando più volte il polso per osservare ogni singolo particolare. Poi, con uno slancio gettò le braccia intorno al collo di Yukiko, facendo cadere entrambi a terra.

Tra le lacrime i due scoppiarono a ridere, felici che quella grande lontananza che li avrebbe separati per molto tempo non avrebbe mai distrutto il loro legame.

Sarebbero stati sempre insieme, qualsiasi cosa sarebbe accaduta da quel momento in poi.

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Prima di tutto, vi chiedo scusa per la frase che Tamotsu dice a Shingo verso la fine di questa parte: non era un tentativo di mettere in evidenza uno dei classici stereotipi di alcune zone dell'Italia, che sono note (ahinoi) per il furto. In questo momento penso a Napoli, una delle città più belle della nostra nazione, che - però - salta subito all'occhio dei più per tutto ciò che di negativo accade in quel territorio... e, davvero, non è una cosa piacevole: sarebbe bello se di ciascuna zona del nostro Bel Paese si mettessero più in risalto le cose belle e positive che ci sono (il buon cibo, il panorama...) piuttosto che le cose negative come la criminalità... :'(

Ad ogni modo, sapete tutti che una delle prime cose che capitano a Shingo è l'essere truffato. Di colpo, il nostro piccolo protagonista si ritrova senza soldi in una terra straniera... però sapete come finisce, per fortuna. :) Ma su questo ci torneremo prossimamente!

Con questo capitolo siamo giunti ai suoi quindici anni: ciò significa che Shingo è in procinto di partire alla volta dell'Italia, terra dove troverà la sua fortuna - ma non senza difficoltà. Questa parte, dunque, si riallaccia all'inizio del World Youth, dove vediamo Shingo già a Milano: parliamo pur sempre di un quindicenne improvvisamente catapultato in una nazione diversa dalla sua, con abitudini e tradizioni diverse dalle sue, dove (almeno ai veri inizi) nessuno lo accetta solo perché è straniero - tranne quelle poche persone alle quali si affezionerà...

... ok, ma come è arrivato a Milano? Dal manga abbiamo pochissime informazioni su questo: uno zio (Shinnosuke) che si trova già in quella città, una motivazione che lo ha spinto in quella direzione (Tsubasa, coff coff) e la sua testardaggine che è riuscita a vincerla sui genitori che (giustamente) erano un po' titubanti all'idea di far partire il figlio da solo a circa novemila e settecento chilometri di distanza. Io penso che anche in Giappone, per quanto i ragazzi abbiano più libertà di movimento rispetto ai nostri, normalmente i genitori non lasciano che i figli vadano da soli dall'altra parte del mondo... ma potrei sbagliarmi.

Shingo è un personaggio unico anche su questo aspetto, con una famiglia altrettanto unica che, alla fine, supporta i suoi sogni. Questo era ciò che volevo far trasparire da questa parte: d'altronde se di fronte alla richiesta di Shingo i suoi genitori avrebbero reagito con un "Va bene, puoi andare" sarebbe stato piuttosto strano, non trovate? (Una reazione, tra l'altro, confermata anche nel manga, dove nel capitolo 54 vediamo i genitori che si convincono - o possiamo immaginare che si siano convinti - solo dopo l'intervento della sorella... :3)

A parte questo pensiero, come sempre vi lascio qualche nota di approfondimento:

 

- A proposito di grandi distanze... la prima riguarda Gifu-Tokyo, la seconda Gifu-Aomori. È evidente che né Yukiko né Tamotsu (rispettivamente) non potranno mai tornare a Gifu nel giro di una sola giornata; da qui i dubbi di Yukiko e il futuro "arrivederci" non solo di Shingo ma anche di Tamotsu;

- Riguardo proprio la zona dove si trasferirà la famiglia di Tamotsu, tutte le zone citate si trovano in questa mappa, mentre il parco nazionale Daisetsuzan si trova qui. Chi ha letto il manga forse avrà già intuito perché ho fatto finire Tamotsu proprio in quelle zone, soprattutto nella prefettura di Aomori che - guarda caso! - si trova ai confini di quella di Akita...

- Inoltre, sempre chi ha letto il manga avrà sicuramente intuito che tutta la parte nella quale Shingo si ricorda della partita tra la Nankatsu e la Nakahara è una libera interpretazione di ciò che accade nel capitolo 1 del World Youth. Ci sono dei paragrafi che ricalcano la canonicità degli eventi, altri che rivelano dei momenti inediti, altri ancora che sono una rielaborazione...

... e, "purtroppo", qui non ho inserito un'altra scena che avverrà qualche tempo dopo quella partita e che è altrettanto importante per il personaggio: il famoso incontro all'aeroporto con Tsubasa, prima della partenza di quest'ultimo alla volta del Brasile. Ammetto che in fase di progettazione doveva esserci anche quella; tuttavia, in fase di scrittura, mi sono lasciata coinvolgere dal flusso degli eventi che, ad un tratto, hanno riguardato i compagni di squadra di Shingo - e non solo Shingo stesso e il suo (tormentato) rapporto con il calcio;

- A proposito della squadra, vi ricordate di quando vi dicevo che Shingo era diventato il capitano al suo terzo anno di medie? Ecco, anche in questo caso vi è una parte che è una libera interpretazione del ricordo che compare nel capitolo 2 del manga (e non solo quello, anche il fatto che Shingo consultasse libri sull'Italia e si allenava fino a tarda serata, LOL);

- Un'altra libera interpretazione riguarda lo zio di Shingo, Shinnosuke. Zio del quale sappiamo ben poco tranne le informazioni che ci fornisce il già citato capitolo 1, ma che di certo non è parente della mia Atsuko... magari lo fosse, ahahah!

- Per finire, avete notato che nei primi capitoli del World Youth Shingo indossa un bracciale al polso sinistro? A differenza delle tre monete che gli regalerà Tsubasa, di quel bracciale non sappiamo nulla di nulla, così ho immaginato che si trattasse di un dono di Yukiko, visto che lo accompagna da quando arriva in Italia fino a quasi metà di quella serie... :')

 

Detto questo, vi ringrazio per essere giunti fino a qui: avrete già intuito che nella parte successiva vedremo Shingo in Italia, a tre anni dal suo arrivo. Chissà cosa starà facendo il nostro eroe... ok, in realtà già lo sappiamo per cui niente sorpresa, o quasi! :3

Al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 13
*** Famiglia - Diciotto anni | Morisaki's side ***


Fanfiction
5NFdCLU

Famiglia

{Diciotto anni | Morisaki's side}

 

 

BGM: The Cinematic Orchestra - Arrival of the Birds & Transformation

 

 

 

[12 Marzo. Nankatsu, prefettura di Shizuoka.]

 

Rigirando il piccolo telecomando che aveva in mano senza mai fermarsi, Noboru vide aprire la porta basculante del suo garage. Era un’operazione che compiva tutti i giorni, a volte anche distrattamente, per recuperare il suo amato City SUV Volkswagen che riposava in quell’angolo semibuio racchiuso da quattro spesse mura quando non era in giro per Shizuoka e dintorni: ne aveva cambiati diversi nel corso di tutti quegli anni, scegliendo sempre quel modello che così, di generazione in generazione, continuava a essere al suo fianco. E quell'ultimo modello che ora giaceva nel suo garage, nonostante avesse già qualche anno, gli ricordava tutti i precedenti che aveva avuto da quando si era trasferito in quella città, in quella piccola casa dove aveva sempre vissuto.

Per lui i SUV che aveva avuto erano come figli: con quei mezzi aveva vissuto i momenti più importanti della sua vita, dal matrimonio di suo fratello alla nascita dei suoi nipotini, dalle feste tra amici ai vari lavori che aveva svolto fino a quel giorno.

Quando era al volante a volte arrivava a parlare anche da solo, affidando a quel mezzo tutte le emozioni che provava e confidandogli i profondi segreti che non rivelava nemmeno alla sua famiglia. Quel SUV era il suo compagno più fedele, in tutti quegli anni di onorato servizio... e, quel giorno, Noboru gli aveva affidato un compito importante.

L'uomo fece ingresso all’interno del garage, dirigendosi subito verso il piccolo locale che si trovava in fondo: una sorta di sgabuzzino, dove Noboru conservava gli oggetti che non utilizzava ormai da tempo immemore ma dei quali non si era mai liberato in via definitiva. Si guardò intorno e subito iniziò a spostare le scatole che si erano accumulate nel corso degli anni, e che sembravano essere una sorta di muro invalicabile che impedivano di accedere ai oggetti che considerava preziosi e insostituibili.

«Vediamo un po’ dove l'ho messo... ah, eccolo!»

In un angolo giaceva un’altra di quelle scatole, molto più grande delle sue affini: a differenza di queste ultime quella che aveva trovato Noboru era rigorosamente sigillata in modo tale da non essere aperta, e su un lato vi era affisso un adesivo bianco con un disegno di una coccinella in un angolo e una strana scritta in inglese: “Orchid - The stars are looking down”.

Un messaggio apparentemente enigmatico, ma non per Noboru al quale subito brillarono gli occhi. Prese un panno dal lavabo che si trovava nel locale del SUV e subito tolse la polvere che si era accumulata nel corso del tempo; poi rimosse delicatamente l’adesivo dalla scatola e si soffermò a guardarlo.

Per un attimo gli tornò alla mente la voce del primo proprietario dell'oggetto contenuto in quella scatola: la sua risata, così dolce quanto candida, sembrava ancora riecheggiare nell'aria nonostante fossero trascorsi molti anni dal giorno in cui Noboru lo aveva conservato nel suo garage con estrema cura.

Noboru sorrise, ripiegò l'adesivo e lo mise nella tasca del suo jeans. Poi aprì il cofano del suo SUV, prese la scatola e la posò nel mezzo, facendo attenzione a non farla cadere.

«Scusa se non ti ho chiesto il permesso...» sussurrò con sguardo fiero, con gli occhi puntati sulla scatola e le braccia conserte. «Però sei d'accordo con me... vero, Ran?»

 

 

 

Nonostante il sole stesse tramontando, Yuzo era l’unico che non aveva ancora abbandonato il campetto da calcio della città, e sembrava che non gli stesse passando per la testa l’idea di rincasare. Come un forsennato continuava ad esercitarsi con la macchina sparapalloni: pur sapendo che poteva farlo anche a casa con Hanako, l’allenamento con sua sorella non era proprio la stessa cosa. Ogni volta con lei si divertiva molto, ma era proprio in quell’ampio spazio che sentiva di poter migliorare, in compagnia dei suoi amici o da solo come stava facendo in quel momento.

«Non vuoi proprio saperne di fermarti, eh?»

La divertita voce di un anziano signore, seduto su una piccola sedia e reggendo tremante tra le mani un bastone, risuonò nell’area. Per la sua longeva esperienza il custode del campo cittadino conosceva ogni singola persona che là si allenava: aveva visto con i propri occhi intere generazioni crescere e diventare sempre più forti, e in questo Yuzo non faceva un’eccezione. Nonostante il giovane portiere fosse tornato da qualche giorno dal ritiro di allenamento per il campionato mondiale giovanile, non aveva mai smesso di esercitarsi, approfittando di buona parte della giornata per continuare con tutto ciò che aveva lasciato in quel ritiro. Il campionato era sempre più vicino, e lui ci teneva a mostrare il meglio di sé e a mettercela tutta, come aveva sempre fatto.

Non appena afferrò l’ultimo pallone sparato dalla macchina che aveva di fronte, Yuzo riprese fiato e si preparò a caricarla di nuovo: un paio di minuti di pausa e avrebbe ripreso i suoi allenamenti personali: da quando era tornato a Nankatsu era sempre così, fino a quando i muscoli del suo corpo non gli urlavano, con forti dolori, di fermarsi del tutto.

«Secondo me, potresti fare una pausa e goderti queste piccole vacanze,» disse il vegliardo, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi al ragazzo. «Non è mai un bene ammazzarsi con gli allenamenti, per quanto possano rafforzare il corpo e lo spirito: ci vuole anche riposo e distrazione... e se non ne approfitti, prima o poi rischi di impazzire.»

Yuzo gli rivolse un dolce sorriso. «Ho un compito molto importante...»

«... “devo proteggere la porta della mia squadra”» interruppe l’anziano custode. Gli batté più volte la mano sulla spalla, e proseguì: «Quante volte ti ho sentito dire questa frase, ragazzo mio! Sono molto felice che tu stia prendendo seriamente il ruolo che ti è stato affidato, ma sei sicuro che tutto ciò basterà per proteggere la tua amata porta?»

«Non lo so...»

Yuzo abbassò lo sguardo malinconico sull’ultimo pallone che stava reggendo in mano e che stava per riporre nella macchina. «Per quanto continui ad allenarmi... sento sempre che non è mai abbastanza...»

«Sbagliato!»

Il custode picchiettò rumorosamente il terreno di gioco con il suo bastone. «Non ho mai capito perché ti ostini a sottovalutare le tue capacità: sei molto bravo... e ricordati che un gol subìto è responsabilità dell’intera squadra, non solo la tua!»

Il giovane fece scivolare il pallone lungo il tubo della macchina e lentamente portò le braccia lungo i fianchi. «Mi... mi dispiace...»

L’altro gli rivolse un sorriso rincuorato e gli voltò le spalle. Con le mani dietro la schiena tornò a piccoli passi alla sua postazione. «Non devi scusarti con me, non hai detto niente di male. È normale essere preoccupati... ma cerca di non esagerare: un atteggiamento negativo non ha mai portato buoni risultati, nemmeno al più grande giocatore di questo mondo... ed io ne so qualcosa. Ora, su: torna ad allenarti, non vorrai mica restare qui fino a mezzanotte... spero!»

E scoppiò a ridere, felice dal fatto che quel giovanotto stesse impiegando tutte le sue energie per essere un calciatore degno di questo nome. L’ultima cosa che voleva vedere da lui era che crollasse a terra senza più riuscire a rialzarsi: doveva mettercela tutta sì, ma senza stancarsi troppo.

«Anche perché tra una decina di minuti devo chiudere!» esclamò allegro il custode, battendo ancora una volta il bastone al suolo. «Mi sei simpatico e per questo ho fatto uno strappo alla regola... ma se passa di qui il sindaco, come gli giustifico il fatto che sono ancora qui e c’è qualcuno che sta ancora usando il campo?»

«Puoi sempre rispondergli “Sono il custode, è il mio compito!”» disse Yuzo senza pensarci due volte. Corse verso i pali e osservò di nuovo la macchina, in attesa che tornasse a tirare i palloni che aveva caricato.

«Mentre io sono qui perché sono il custode di questa porta!» affermò il portiere con fermezza. «Non stiamo facendo nulla di male, no?»

L’anziano sorrise, facendo schioccare le labbra compiaciuto. «Touché, ragazzo mio!»

 

L’allenamento proseguì in silenzio, sotto gli occhi vigili del custode che stette ben attento ad osservare ogni singolo movimento di Yuzo. Lo colpiva sempre il modo in cui quel giovanotto fosse così dedito al calcio, e la sua ostinazione a non arrendersi nonostante tutte le difficoltà nelle quali era capitato. Lo aveva sempre visto in televisione - quando non era là, su quello stesso campo dove ora continuava ad esercitarsi, da solo o con i suoi compagni di squadra - e aveva capito fin da subito che quel giovanotto di strada ne avrebbe fatta tanta, contrariamente all'opinione che aveva di se stesso e che a volte percepiva inavvertitamente dai discorsi che facevano.

Yuzo gli era simpatico perché gli ricordava, dei tempi ormai lontani, dove anche lui era giovane e si esercitava molto per essere un buon giocatore di calcio. Ma, soprattutto, gli era simpatico perché era uno dei pochi che prendeva così seriamente il gioco del calcio... a volte fin troppo - doveva riconoscerlo nonostante rispetto a quel giovanotto avesse molta più esperienza. E riguardo persone del genere, che davvero amavano essere calciatori e che non erano solo alla ricerca di una gloria momentanea, l’anziano custode le capiva fin da subito: bastava uno sguardo, puntato verso quegli occhi pieni di grinta, per capire che il futuro del calcio giapponese fosse in ottime mani.

Per questo motivo, il custode era sempre ben disposto a dare una mano a Yuzo, mettendogli a disposizione il campo comunale se ne avesse avuto bisogno. D’altro canto il giovane portiere aveva sempre risposto al suo invito con un po’ di imbarazzo, ma al contempo con grande entusiasmo: non voleva dargli fastidio, ma di fronte al suo saggio volto segnato dal passaggio del tempo non riusciva mai a dirgli di no.

Anche quel pomeriggio Yuzo era là, su quel campo che sembrava così vasto con la sua solitaria presenza.

Solo lui, di fronte alla macchina sparapalloni che il vegliardo gli aveva gentilmente prestato.

Solo lui... e il pallone che tanto amava.

Con un sorriso fiero il custode si alzò dalla sedia e fece un cenno al portiere per allontanarsi in direzione dei bagni; Yuzo sembrò non accorgersene, ma l’anziano se ne andò via rassicurato. Conosceva quel giovane molto bene, e sapeva che poteva fidarsi di lui: di certo non avrebbe lasciato il campo e la macchina senza prima avvisarlo.

Nel momento in cui il custode sparì dall’area di gioco, la macchina riprese la sua attività con il primo tiro; ne seguirono gli altri a ritmo di dieci secondi di pausa tra una sessione e un’altra, tranne l'ultimo che inspiegabilmente non venne lanciato.

«Che strano...» mormorò Yuzo, portandosi le mani sui fianchi. «Deve essersi inceppata...»

Il portiere avanzò di qualche passo verso la macchina per vedere dove fosse il problema e così cercare di risolverlo, ma si bloccò all'improvviso non appena udì alle sue spalle un'altra voce, questa volta con un tono più acuto e sereno, che lo stava salutando.

«Morisaki-senpai!»

Dietro di lui era apparsa una ragazza dai capelli color nocciola raccolti in due codini, con la sua radiosa giovinezza che si irradiava nel suo volto allegro e solare, dall’uniforme scolastica femminile della Nankatsu - proprio la sua scuola.

«Su... Sugimoto...» iniziò a balbettare Yuzo, un po’ per l’imbarazzo - dato che il campo sul quale stava giocando era normalmente chiuso a quell’ora, ragion per cui doveva subito pensare a cosa rispondere alla ragazza se gli avesse rivolto qualche domanda in merito -, un po’ per la sorpresa di trovarla proprio lì, dietro la rete che delimitava l’area di gioco.

L’ultima volta che l’aveva vista era proprio nell’ampio ingresso della loro scuola mentre chiacchierava con le sue amiche, poco prima dell’inizio del ritiro della nazionale giovanile giapponese. Kumi Sugimoto, che rispetto a lui stava terminando il suo primo anno delle superiori, aveva proseguito imperterrita con il ruolo di manager della squadra di calcio della Nankatsu, e inizialmente ciò aveva colpito lo stesso Yuzo.

Quando si erano incontrati per la prima volta, nel suo ultimo anno delle medie, quella stessa ragazza non aveva nulla di particolare che l’avesse colpito: voleva entrare a far parte del club di calcio per imparare il come poter sostenere al meglio la loro squadra e, soprattutto, fare il tifo per il suo idolo, Tsubasa Ozora. Ma proprio nel corso di quell’anno le cose erano lentamente cambiate, facendo crescere in lei una vera e propria passione per questo sport, portandola alla decisione di proseguire la sua carriera di manager anche dopo la partenza di Tsubasa e il passaggio di molti di loro alle scuole superiori, tra le quali le altre due manager della squadra nonché sue amiche, Sanae e Yukari: nonostante la loro assenza - di tutti coloro che lei chiamava “senpai” - Kumi non si era persa d’animo e, anzi, era riuscita a portare avanti la squadra delle medie anche nel corso del suo rispettivo secondo e terzo anno di frequenza. L’assenza di quei compagni fenomenali e di coloro che le avevano insegnato i fondamenti dell’essere una brava manager aveva pesato molto sulla potenza e la qualità del team; tuttavia quella ragazza aveva dimostrato di sapersela cavare e di motivare la squadra con grande coraggio e spirito combattivo.

Yuzo l’aveva poi incontrata di nuovo a distanza di due anni, a varcare la soglia della stessa scuola che lui frequentava e - ovviamente - ad entrare nel club di calcio delle superiori come manager. Con lei si era ricostituito il vecchio team che tre anni prima aveva trionfato nel campionato nazionale delle scuole medie, ma non solo: Kumi non era più la stessa ragazza ingenua e schietta anche quando si parlava di calcio, e riusciva sempre a donare nuova linfa vitale alla squadra con la sua rinnovata esperienza. Il suo carattere così felice e spensierato non era cambiato, ma lo erano tutte le sue conoscenze in ambito calcistico e, anche se rispetto a Sanae e Yukari continuava ancora a commettere qualche errore, ormai aveva colmato tutte le sue lacune.

Un’altra sostanziale differenza aveva riguardato il suo modo di vedere gli altri. Nel corso di quell’anno trascorso insieme, Yuzo aveva notato che Kumi era riuscita ad avvicinarsi a ciascun membro della squadra e, dunque, anche a lui, rispetto alle medie dove la sua principale attenzione era rivolta al suo idolo. In un certo senso l’assenza di Tsubasa le aveva fatto del bene, l’aveva aiutata ad aprirsi di più agli altri membri del club e a divertirsi con tutti loro, senza fare distinzione tra chi fosse un genio del calcio e chi no.

In quell’anno Yuzo aveva imparato insieme agli altri a conoscerla di più, ad aiutarla quando era in difficoltà. In quell’ultimo anno delle superiori, la sua allegria e spontaneità aveva contagiato tutti, lui in modo particolare: il portiere si sentiva bene anche in sua compagnia, e il tifo di incoraggiamento che gli rivolgeva ogni volta era diventato la fonte della sua forza, insieme a quello di tutti gli altri che gli volevano bene e che credevano in lui.

Dopo l’iniziale imbarazzo sul volto di Yuzo si delineò presto un timido sorriso, il quale dava a vedere la sua felicità nell’averla rivista.

«Da quanto tempo!» le disse, ricambiando il saluto. «Come procedono gli ultimi giorni di scuola?»

«Abbastanza bene! Sono anche gli ultimi giorni del club... fortuna che le vacanze di primavera durano poco, perché non vedo l’ora di tornare a sostenere la squadra per il prossimo campionato della prefettura!»

Agitando la cartellina che aveva tra le mani Kumi fece ingresso nel campo e si fermò, in piedi accanto alla sedia ancora vuota del custode. Appoggiò la cartellina sulla sedia e posò lo sguardo sulla macchina sparapalloni che, nonostante fosse ancora accesa, non voleva sapere di lanciare l’ultimo pallone verso Yuzo.

«Anche tu non smetti mai di allenarti... eh, Morisaki-senpai?» gli disse con dolcezza.

«Mai. Ormai mi conosci: sai che sono molto ostinato! Un po’ come questa...» e Yuzo proseguì, avvicinandosi alla macchina e iniziando a dare un’occhiata ai comandi per farla ripartire. «Dai, su! Deciditi a funzionare, altrimenti il custode pensa che sono stato io a ridurti in questo stato!»

A Kumi sfuggì una risata, che subito il portiere notò e commentò con un altro sorriso: «Tu sei testimone: hai visto che questa bellezza funzionava prima che si inceppasse!»

La ragazza incrociò le braccia e gli ricambiò il sorriso, questa volta in modo beffardo. «E se non volessi farlo? Stavi usando tu quella macchina... e se stai cercando solo una scusa per giustificare qualcosa che hai fatto mentre ancora non c’ero?»

«Vorresti tradire un compagno di squadra? Non sei il tipo e non sei mai stata brava a mentire, credimi.»

«C’è sempre una prima volta per tutto, Morisaki-senpai

I due si guardarono dritto negli occhi e non dissero altro. In silenzio si scrutarono, cercando di trovare nell’altro qualcosa che potesse tradire la sua apparente imperturbabilità.

Poi, ad un tratto, scoppiarono a ridere all’unisono. Yuzo si portò una mano dietro la nuca e indietreggiò di qualche passo, in direzione della porta; raccolse uno dei palloni che era ancora a terra e disse: «Scusa, non sono mai stato bravo al gioco del silenzio…»

«Anch’io, sai? Con Nishimoto-senpai ho sempre perso: è impossibile batterla!»

«Difficile, ma non impossibile. L’unico che riesce a tenerle testa è Ishizaki!»

«E non poteva essere altrimenti: “chi si somiglia si piglia”!»

Yuzo le lanciò il pallone che aveva in mano e disse: «Ti andrebbe di aiutarmi a rimettere a posto? Tanto mi sa che ho finito per oggi: penso che quella macchina mi stia dicendo “Basta, non ne posso più! Lasciami in pace, ora voglio solo dormire!”»

Kumi rise di gusto, quasi con le lacrime agli occhi. Aveva immaginato cosa sarebbe successo se quella macchina sparapalloni avesse avuto la possibilità di parlare: conoscendo Yuzo, che arrivava ad allenarsi per più ore al giorno senza mai fermarsi, di sicuro avrebbe protestato, implorandolo di avere pietà di una giovane donzella come lei che come le sue colleghe aveva solo pochi anni di vita!

Le venne da pensare che doveva essere una costante di chi aveva avuto a che fare con un grande campione del calibro di Tsubasa: in fondo anche lei era diventata così, non si fermava mai nemmeno quando la stanchezza iniziava a farsi sentire.

«Poveretta: anche la sua pazienza avrà un limite!»

 

 

 

«Ma io dico: una bella assicurazione per i portieri contro le improvvise pallonate in faccia no, eh? Sarei milionario, a quest’ora!»

Sulla strada di ritorno, Yuzo reggeva sulla fronte una busta di ghiaccio istantaneo che Kumi aveva preso dal frigorifero posto nell’ufficio del custode del campetto comunale: mentre i due ragazzi erano distratti dal rimettere a posto l’area di gioco, all’improvviso la macchina aveva deciso di sparare l’ultimo pallone tanto atteso, colpendo in pieno volto Yuzo che in quel momento era proprio in porta a raccogliere uno di quelli che era riuscito a parare e che poi aveva lasciato accanto al palo. Kumi si era così precipitata a chiamare il custode per farsi dare le chiavi del suo piccolo ufficio, posto all’ingresso del campetto, per recuperare il kit di primo soccorso per così aiutare il suo uscente compagno di squadra a rimettersi in piedi: lo trovò dolorante seduto sull’erba del campo e con la schiena appoggiata sul palo, che con una mano si copriva il volto quasi grondo di lacrime che gli erano fuoriuscite dagli occhi per il male fisico.

«Prendi esempio da Ishizaki-senpai» disse candidamente la ragazza mentre percorreva insieme a lui la strada per tornare a casa. «Per tutti i palloni che ha incassato con il suo volto, saprà darti qualche consiglio per alleviare il dolore!»

«Sai, Sugimoto... vorrei smetterla di prendere pallonate in faccia» rispose Yuzo, passandosi il ghiaccio su una delle guance. «Sono un portiere, e non vorrei essere ricordato come quello che al posto di accogliere il pallone tra le mani lo para con il volto!»

Kumi lo fissò e gli sorrise dolcemente. Non sembrava uno dei suoi soliti sorrisi, solari e allegri: era molto più pacato, quasi pregno di una struggente malinconia che il suo cuore stava iniziando a provare.

Stava accadendo di nuovo, come tre anni prima: nonostante la sua abitudine ai cambiamenti, le era sempre triste il salutare molti dei suoi compagni di squadra, con i quali aveva condiviso un anno di eventi belli e spiacevoli. Sapeva che quello non sarebbe stato un “addio” ma solo un “arrivederci”, perché il suo tifo li avrebbe accompagnati ovunque sarebbero andati, anche dall’altra parte del mondo; ma essendo una ragazza che si affezionava facilmente, anche la parte di un semplice “arrivederci” le era sempre difficile.

Anche con Yuzo stava accadendo lo stesso. Le piaceva stare con lui, con ciascuno dei suoi compagni, e per questo sentiva che in fondo anche quel portiere un po’ testardo e sognatore le sarebbe mancato.

Kumi lo precedette con qualche veloce passo, poi si fermò davanti l’ingresso di una villetta che si trovava all’angolo di un incrocio tra due strade, con un piccolo giardino sul quale svettava un albero di tiglio, e rivolse un inchino al suo compagno recuperando al contempo la sua solita giovialità.

«Sono arrivata! Grazie per la compagnia, Morisaki-senpai

«Di niente... anzi, ti ringrazio per avermi soccorso al campetto: sei stata di grande aiuto!»

E spero che non accada più una cosa del genere, aggiunse Yuzo in pensiero. Che dolore...

«... ahia...» si lasciò sfuggire dalle labbra, mentre continuava a passarsi il ghiaccio lungo il volto.

«Ti fa ancora molto male? Fammi dare un’occhiata...»

La ragazza posò la cartellina accanto all’ingresso, gli si avvicinò e, senza dare all’altro il tempo di replicare o di opporsi, gli afferrò la mano che reggeva il ghiaccio. Poi la sollevò con delicatezza e stette ben ferma ad osservare con attenzione e quasi con scrupolosità i segni che quel violento pallone aveva lasciato su quel volto così delicato.

«Non sono un medico, ma sono certa che ti passerà presto. Sei una roccia, dopotutto!» concluse, lasciandogli la mano con un sorriso rassicurante. Tornò presso l’ingresso della sua dimora e, mentre aprì la sua cartellina, gli disse: «Potresti chiudere gli occhi per un momento, Morisaki-senpai

«Cosa?»

Yuzo si incuriosì. Non capiva il motivo per il quale doveva chiudere gli occhi… così, quasi all’improvviso. Nel vedere Kumi che stava frugando nella sua cartellina, alla ricerca di qualcosa che non riusciva ancora a capire, allungò lo sguardo interrogativo verso di lei.

Forse ha con sé qualche unguento...

Sentendosi osservata, la ragazza si immobilizzò. Ancora china sulla cartellina voltò solo la testa verso di lui, fissandolo dritto negli occhi: gli sorrise con un po’ di imbarazzo che iniziò a colorare le guance di un velato rossore. «Per favore... Morisaki-senpai. È una sorpresa! Chiudi gli occhi e non aprirli finché non te lo dico!»

«Va... va bene...»

Il portiere fece come aveva ordinato la sua compagna di team. Prese fiato e chiuse gli occhi, un po’ terrorizzato all’idea di ciò che avrebbe potuto fare quella Kumi. Se si trattava solo dell’unguento, poteva tranquillamente tenere gli occhi aperti... anzi: glielo avrebbe prestato e lo avrebbe utilizzato egli stesso.

Strizzò forte gli occhi, immaginando cosa sarebbe potuto accadergli nel giro di pochi secondi. Non era abituato alle sorprese da parte di una ragazza, anzi: era abituato più a quelle di sua sorella, che quando era distratto gli tirava il pallone o gli rubava qualcosa che aveva preso e che in quel momento gli serviva; invece a quelle di una ragazza come Kumi che con lui non aveva alcun legame di sangue no, non era decisamente abituato.

Yuzo era mediamente popolare tra le ragazze, un po’ meno di alcuni dei suoi compagni di squadra che nel giorno di San Valentino si trovavano il banco zeppo di cioccolatini accuratamente confezionati con biglietti a tema, soprattutto Mamoru e Taro. E, in effetti, non poteva nemmeno essere un pensiero di San Valentino in gran ritardo, dato che anche il White Day era alle porte...

Nel turbinio di tutti questi pensieri, all’improvviso Yuzo si sentì afferrare entrambe le mani. Ebbe la tentazione di aprire gli occhi, ma non ci riuscì: quel gesto lo tranquillizzò all’istante, placando la tempesta di quei mille dubbi che si era scatenata nel suo animo.

«Grazie di tutto... Morisaki-senpai

Il portiere sentì il fruscio dei capelli della ragazza sui dorsi delle sue mani, senza mai lasciarle, e capì che gli stava rivolgendo un altro inchino, questa volta non solo di formalità ma anche di sincero e profondo ringraziamento. Tuttavia...

... perché mi sta ringraziando? pensò. Non ho fatto nulla di speciale nei suoi confronti...

Kumi raddrizzò la schiena e proseguì con fermezza: «Ti prometto che continuerò ad essere la manager della Nankatsu, anche in vostra assenza, e darò il massimo... proprio come mi hai insegnato tu! E... già: ora puoi aprire gli occhi!»

Quando le mani della ragazza si sciolsero dalle sue, Yuzo sentì qualcosa che era lentamente caduto tra i palmi. Solo allora si decise ad aprire gli occhi, e notò la presenza di un sacchettino di stoffa di colore rosso veneziano con una scritta augurale: un omamori, come quelli che aveva visto esposti nel tempio al di sopra del belvedere della cittadina.

Alzò lo sguardo, incrociando così quello della ragazza che era di fronte a lui.

«L’ho regalato a ciascuno di voi...» disse Kumi con un dolce sorriso. «... e solo tu mancavi alla lista, Morisaki-senpai. Sono certa che diventerete dei grandi calciatori... ed io sarò sempre lì, a fare il tifo per voi!»

«Ed io sono certo che tu saprai portare avanti la squadra della Nankatsu anche in nostra assenza,» rispose Yuzo con rinnovata fermezza. «Con Nitta e gli altri non avrai molti problemi... ma sono sicuro che darai comunque il massimo. Grazie di tutto, Sugimoto!»

Yuzo non aggiunse nient’altro e le mise una mano sulla spalla, per infonderle coraggio. Quel gesto di sostegno rallegrò l'animo della ragazza: anche se il portiere non aveva più proferito parola era come se, da quel piccolo gesto che aveva compiuto, avesse percepito un grande incoraggiamento da parte sua che per lei stava valendo più di mille parole.

Dentro di lei stava iniziando ad albergare una sensazione piacevole, che la stava rassicurando per il futuro che l’attendeva. Non sapeva quando sarebbe stata la prossima volta che si sarebbero rivisti e avrebbero parlato faccia a faccia, ma era felice di essere riuscita a salutare Yuzo prima della sua ennesima partenza per il ritiro della nazionale giovanile, e di aver ricevuto proprio da lui parole e gesti di sostegno che le sarebbero servite per continuare la sua carriera da manager.

Per lei, quel grande portiere era stato uno degli ottimi esempi di tenacia e coraggio che aveva avuto in quell’anno, e difficilmente l’avrebbe dimenticato.

Dopo avergli rivolto un altro inchino Kumi lo salutò e, continuando a mantenere l’entusiasmo sul suo volto, corse verso il cancello della sua dimora. Yuzo la guardò allontanarsi senza richiamarla, alzando solo la mano che reggeva il ghiaccio con un sorriso, mentre con l’altra strinse forte l’omamori che la ragazza gli aveva dato.

Il giovane portiere avrebbe voluto dirle tante cose in quel momento, ma qualcosa lo aveva bloccato. Un solo pensiero riecheggiò nella sua mente, mentre ripose il portafortuna in una delle tasche del suo giubbotto che in quel momento stava indossando, nel punto esatto in cui si trovava l’apice del suo cuore.

 

Grazie di tutto... davvero. Sei stata una brava manager, e sono certo che continuerai ad esserlo!

 

 

 

«Zietto, dai: non lo so!»

Nel cortile della sua casa, Hanako sbuffò in continuazione mentre si accesero le luci dei lampioni sulla strada che correva di fronte all’abitazione. Suo zio Noboru era appena arrivato, e la prima cosa che aveva fatto era stata il rubarle il pallone senza preavviso: stava per cadere accidentalmente sul tettuccio del suo SUV, ma per fortuna era riuscito a prenderlo tra le sue mani mentre era già fuori dal mezzo. Da quel momento, però, aveva deciso di non restituirlo a sua nipote, a meno che non avrebbe risposto ad uno dei suoi indovinelli.

«Te lo ripeto ancora una volta, Hanako cara!» disse lo zio, agitando nell’aria l’indice mentre stringeva saldamente il pallone sotto il braccio. «Cosa fa un telefonino in mezzo ad un campo da calcio?»

«Che ne so, zio!» rispose la ragazzina, incrociando le braccia con disappunto. «Fa le foto ai giocatori sul campo?»

«Sbagliato!»

Hanako abbassò la testa e restò in silenzio a riflettere sulla risposta. Poi, con uno scatto, uscì di casa sotto gli occhi attoniti di suo zio Noboru che subito lasciò il pallone e decise di seguirla. La trovò al citofono della casa accanto, e senza pensarci due volte premette il tasto per suonare.

Noboru si grattò la cima della testa, un po’ sorpreso da quella reazione per lui strana: conoscendo sua nipote, sapeva che anche lei - come i suoi fratelli, del resto - non si arrendeva mai, e più di tutti riusciva sempre ad ottenere ciò che voleva.

«Insomma...» balbettò l’uomo, diminuendo le distanze con lei. «Ti sei arresa? Vuoi davvero che porti con me il tuo pallon–»

«Buonasera, scusate il disturbo: sono Hanako! Può affacciarsi Hoshiko al balcone? Solo un momento, vi prego!»

Lo zio continuava a non capire. Era evidente che sua nipote lo stesse ignorando, e continuava a non capire il motivo per il quale aveva deciso di chiamare la sua vicina, nonché la sua migliore amica... così, di punto in bianco. Alzò lo sguardo insieme a lei, ed entrambi videro la porta di una delle stanze del primo piano - proprio quella che si affacciava sulla strada e che ora era di fronte a loro - scorrere da un lato, rivelando una ragazza dai castani capelli corti fino alle spalle e tenuti indietro da un cerchietto che stava reggendo un cordless all’orecchio.

«Sì, sì, Aoki-san: è proprio Han-chan! Aspetta un attimo...»

Quella ragazza abbassò il cordless e puntò lo sguardo verso Hanako, per poi salutarla con la sua solita allegria.

«Ciao, Han-chan! Stavo giusto per chiamarti: Aoki-san mi sta dicendo che–»

Hoshiko smorzò la frase non appena vide la sua amica agitare le dita della mano per imitare il becco di un’oca che starnazzava.

«Sentiamo: ora cosa vuole mister bla-bla-bla?» rispose Hanako in modo beffardo. «Già che sei in linea con lui, potresti anche dirgli: qualsiasi cosa hai in mente, sai già che con Morisaki non c'è storia, tsk!»

Con un sorriso di sfida, Hanako strinse quella mano in un pugno e tirò giù il pollice, ricordandosi di quanto accaduto da quando era entrata nel club di calcio insieme alla sua amica. Il ragazzo che in quel momento era al telefono con Hoshiko, Isamu Aoki, come i suoi compagni non vedeva di buon occhio il loro ingresso nella squadra: Hanako e Hoshiko erano le prime due ragazze che avevano fatto richiesta di entrare nel club di calcio come giocatori e non come manager o tifose, in un luogo storico dove non esisteva ancora una squadra di calcio interamente femminile.  Quel giovane fu il primo a ricredersi quando le vide giocare in campo: le due amiche rivaleggiavano con i suoi compagni di squadra, e anche con lui che - da capitano - pensava di essere il più forte.

Nonostante alla fine si fossero chiariti, con Hanako era sempre un continuo battibeccarsi. Era nato in loro un sentimento di competizione, che ogni volta li portavano a scontrarsi sia a parole che sul campo; tuttavia alla fine, anche se non lo davano troppo a vedere, avevano iniziato a volersi bene e a rispettarsi, e questo lo sapeva molto bene proprio Hoshiko che in quella bizzarra relazione d’amicizia si era ritrovata ad essere una sorta di mediatore. Ed era proprio lei che in quel momento, di fronte al gesto dell’amica, si trattenne dal scoppiare a ridere, immaginando come l’avrebbe presa Isamu se avesse avuto la possibilità di vederla.

«Guarda che non può vederti, Han-chan...» sussurrò Hoshiko, cercando di non farsi sentire dal suo interlocutore.

«Non ci interessa: l’importante è che riceva il messaggio, forte e chiaro!»

Noboru iniziò a fare qualche passo indietro, cercando di sgattaiolare fuori da quella situazione nella quale era capitato suo malgrado. Forse sarà meglio tornare a casa di mio fratello - pensò, mentre stava già preparando le sue gambe ad un’eventuale fuga improvvisa - quando Hanako ha quell’espressione non si sa mai cosa potrebbe accadere...

«E tu? Dove credi di andare?»

Lo zio sobbalzò. Beccato: sua nipote gli aveva rivolto uno sguardo fulmineo, con le braccia conserte. «Non mi sono dimenticata del mio pallone...» sentenziò la ragazza, avvicinandosi a lui in un battibaleno, «se Hoshiko riesce ad indovinare le darai il mio pallone. Chiaro?»

Dal balcone Hoshiko spalancò gli occhi, non riuscendo a capire di che cosa stesse parlando la sua amica. «Il... il pallone?»

«Esatto!»

Hanako prese per il braccio lo zio e lo trascinò nuovamente fino al cancello, per poi esclamare: «Hoshi-chan, sai cosa fa un telefonino in mezzo ad un campo da calcio?»

Ed è venuta fin qui solo per questo?!

Noboru stette per perdere l’equilibrio per la grande sorpresa. Non era facile che gli altri rispondessero bene al suo indovinello... però Hanako lo stava prendendo seriamente, così seriamente al punto di aver coinvolto i suoi amici: da un simpatico gioco tra zio e nipote si stava trasformando quasi in una questione di vita o di morte per la ragazza.

Dopo aver riflettuto a lungo, alla ricerca della possibile risposta che sembrò non arrivare, Hoshiko si riportò il cordless all’orecchio e disse: «Hai... hai sentito, Aoki-san? Tu sai cosa fa un telefonino in mezzo ad un campo da calcio?»

Hanako urlò forte e chiaro, senza pensarci due volte: «Figurati se riuscirà ad indovinare, quello scemo!»

«Chi hai chiamato “scemo”, Morisaki?!»

Hoshiko allontanò di scatto il cordless, insordita dall’improvviso urlo del loro compagno di squadra, che subito proseguì: «Yamamoto-san, dille che la risposta è: “Non si fa i cavoli suoi”, proprio come lei!»

«Ha detto...» iniziò a balbettare la ragazza, cercando di scandire bene le parole che aveva sentito, «ha detto che non si fa i fatti suoi...»

«Ah?»

Hanako inarcò un sopracciglio. «Scommetto che ha detto anche ben altro... vero?» Poi tirò un profondo sospiro, cercando di mantenere la calma il più possibile. Lasciò il braccio dello zio, e gli chiese: «Allora? È la risposta giusta?»

Noboru scosse la testa con un sorriso sornione. «Ovviamente no. Ti darò un piccolo indizio: ha a che fare con tuo–»

«Ah-a! Dì a Aoki che ha sbagliato alla grande: zero pari, e palla al centro!»

Un’altra volta. Hanako aveva interrotto suo zio un’altra volta, soddisfatta per quella sorta di sfida che si era inavvertitamente creata tra lei e il suo rivale Isamu.

Noboru chiuse gli occhi, portandosi le mani nelle tasche. Se avessero continuato così, sarebbe stato probabile che avrebbero trascorso tutta la serata fuori casa, e avrebbero finito per festeggiare il compleanno di suo nipote più sotto le stelle che sotto il caldo tetto della casa di suo fratello... ma, in fondo, anche lui era felice. Era felice di vedere sua nipote così su di giri, che sotto sotto sembrava apprezzare il piccolo gioco che era iniziato solo con lui e con il quale era riuscita a coinvolgere alcuni dei suoi compagni di scuola, trasformandola in un’ennesima competizione tra loro.

Contenta lei... contenti tutti!

 

 

 

«“Cerca la rete?” E tu hai svegliato mezzo vicinato per aver scoperto una risposta così semplice?»

Yuzo non riusciva a credere a ciò che le sue orecchie avevano appena sentito. Era appena rientrato a casa, e la prima cosa che aveva visto era sua sorella Hanako che, con uno sguardo mogio, si era sdraiata sul divano e stava osservando la cornice della piccola plafoniera che illuminava il soggiorno.

«Quando lo zio Noboru me l’ha spiegato ci sono rimasta male...» sussurrò la ragazzina, continuando a fissare in alto. «E dire che sono brava in lingua inglese... la rete di calcio, “net” in inglese. Ma come gli vengono: è in gamba con gli indovinelli a tema...»

Il fratello le si sedette accanto, e le pose una mano sulla spalla mentre con l’altra continuava a reggere il ghiaccio, ormai mezzo sciolto. «Non era facile, lo ammetto. Quando avevo la tua età, anch’io ci sono cascato... gli indovinelli dello zio Noboru sono fatti apposta per farti impazzire!»

«E quel che è peggio è che ho pareggiato con Aoki... potevo vincere, questa volta!»

«Quel ragazzo ti sta proprio antipatico, eh?»

Hanako annuì. In quel momento le venne da pensare a tutto ciò che avevano vissuto insieme, e si ricordò che in realtà Isamu era - come lei - un grande fan della Generazione d’oro del Giappone, ragazzi dalle straordinarie capacità che stavano riuscendo a scrivere una pagina significativa nella storia del calcio giapponese: tra questi vi era anche suo fratello, e grande era stato lo stupore di Isamu quando aveva scoperto che lei era la sorella di... sì, proprio di quel Yuzo Morisaki.

Quel «Stai scherzando, vero? Non vi assomigliate affatto! Sei sicura che non ti abbiano scambiata per qualcun altro nella culla dell’ospedale?» riecheggiava ancora nella sua mente in maniera così prepotente e violenta da provocarle qualche piccolo brivido.

Per lei era scontato che quel ragazzo le stesse antipatico: una delle cose che Isamu le ripeteva spesso era che non era degna del cognome che portava... come faceva a starle simpatico se agli allenamenti si sentiva dire che solo con la sua presenza stesse infangando il buon nome di suo fratello?

«Già...» rispose la ragazza. «Ti rispetta molto e ti adora, così come tutta la tua squadra... ma quando si tratta di me non fa sconti. Ormai mi odia, è evidente!»

«Vuoi sapere come la penso? Forse ti vede come un modo per migliorare e diventare più forte.»

«Eh?»

La giovane sbarrò gli occhi, sorpresa. Quella spiegazione le sembrava piuttosto strana, ma decise di non replicare; suo fratello non aveva mai detto parole a casaccio, ciò che aveva detto doveva avere un senso.

«A volte una persona si arrabbia perché in realtà ti vuole bene, e ti dice delle parole crudeli solo per farti reagire e spronarti a fare del tuo meglio... e penso che sia lo stesso anche per voi due. Si vede lontano da un miglio che non vi odiate affatto: finché ci sarà fiducia tra voi e avrete lo stesso obiettivo da raggiungere, tutto il resto passa in secondo piano.»

«E tu come fai a dirlo?»

Hanako si alzò di scatto, si aggrappò alla giacca che Yuzo stava ancora indossando e si premette contro, mugugnando. Si chiedeva se una cosa del genere fosse successa anche a suo fratello - e se la risposta fosse stata davvero affermativa, pensò che sarebbe stato meglio chiedergli qualche consiglio sul come affrontare Isamu, che non fossero solo continui battibecchi e occhiatacce.

Yuzo appoggiò il ghiaccio sul comodino che si trovava al fianco del divano e accarezzò dolcemente la testa di Hanako. Sapeva che nel pubblico lei non era avvezza agli abbracci e alle carezze, anche con i membri della sua stessa famiglia, ma in privato si lasciava andare: nonostante il tempo che stava scorrendo inesorabilmente, Hanako sarebbe stata sempre la sua sorellina, e lui il suo fratellone.

«Molti dei miei compagni di squadra sono stati nostri acerrimi avversari... e alcuni di loro ci hanno davvero odiato, all’inizio. Per esempio, non potrò mai dimenticarmi della prima violenta pallonata in faccia... avevo proprio la tua età, sai?»

«A proposito di pallonata in faccia...»

La ragazza sollevò gli occhi e con l’indice gli punzecchiò il viso un po’ gonfio per il colpo incassato poco prima, mostrando un sorriso smaliziato. «Il lupo perde il pelo ma non il vizio, vero? Sei un portiere, dovresti iniziare a concentrarti sulle mani: la tua faccia non è il bersaglio delle freccette!»

«Tranquilla: è la stessa cosa che ho detto a Sugimoto...»

«Sugimoto?»

A quel cognome per lei ormai noto, Hanako drizzò le orecchie. Sapeva a chi si stesse riferendo suo fratello perché conosceva molto bene i membri della squadra di calcio delle superiori Nankatsu, e subito gli rivolse uno sguardo compiaciuto, pronto a provocarlo.

«Ah... hai capito il mio fratellone! “Vado al campetto per allenarmi, non aspettatemi per cena!” e poi... e poi ti diverti a fare strage di cuori. Chi l’avrebbe mai detto... e bravo il nostro dongiovanni!»

Yuzo diventò paonazzo in volto e subito si portò una mano sul petto nell’atto di giurare, senza accorgersi che l’aveva posata proprio dove c’era l’omamori che Kumi gli aveva regalato.

«Guarda che sono andato davvero al campetto! C’è il custode come testimone!»

«Sì... di matrimonio! Aspetta che lo dico a Hoshiko: io e lei ti organizzeremo un banchetto come si deve, roba che anche i Wakabayashi invidieranno!»

«Dai, non scherzare!»

«Infatti non sto affatto scherzando! Galeotto fu il pallone, e chi lo lanciò!»

«Certo: una macchina idiota che vorrei funzionasse di più» borbottò Yuzo, afferrando il ghiaccio che aveva lasciato e lanciandolo a Hanako. «Fammi un favore: metti questo nel frigorifero, torno subito.»

Il portiere si diresse verso le scale che portavano al primo piano, sorridendo di gusto. Hanako diede un sonoro sbuffo, sorridendo anche lei.

«Fratelli... tsk! Siete tutti uguali!»

 

Yuzo aprì la porta ed entrò nella sua stanza, chiudendola subito dopo a chiave. L’ultima cosa che avrebbe voluto era che sua sorella lo seguisse di soppiatto fin là, prendendolo alle spalle o facendo ogni genere di commento sull’ipotetico matrimonio tra lui e Kumi con il semplice scopo di prenderlo affettuosamente in giro.

La sua presenza non gli dava fastidio, ma per un attimo preferì restare da solo. Tirò un profondo sospiro e, lanciando il giubbotto sul letto, si avvicinò alla scrivania con un sorriso lieve ma colmo d’affetto, che perdurò anche quando notò sul piano la presenza di alcune lettere, quelle dei suoi due fratelli che, da un po’ di tempo, non abitavano più in quella casa.

Ogni volta che Yuzo non c’era, sua madre aveva la premura di lasciare su quella scrivania le lettere che arrivavano e che erano indirizzate a lui, senza aprirle e - soprattutto - senza permettere che fossero gli altri a farlo, soprattutto Hanako che ogni volta era divorata dalla curiosità di conoscere il contenuto.

Il giovane si sedette e cominciò ad aprire le lettere, iniziando da quelle di suo fratello Ken'ichi. Si era dedicato appieno agli studi presso l’università di Tokyo, e le fotografie dove lui era sempre più sorridente e rilassato avevano messo in luce il suo essersi ambientato in quella megalopoli molto lontana. Con lui, Yuzo e la sua famiglia si sentivano tutte le sere; nonostante ciò il maggiore dei fratelli si divertiva ad inviare lettere a tutti loro, raccontando nei dettagli la vita che trascorreva tra lo studio e il divertimento - parola, quest’ultima, che dopo lo shiken jigoku era finalmente tornata nel suo dizionario anche se con un impatto decisamente minore rispetto ai tempi delle medie e superiori.

Dopo avergli risposto Yuzo passò alle lettere del fratello mezzano. A differenza di ciò che accadeva con il maggiore, l’argomento “Takaji” non emergeva molto nei dialoghi con i genitori, sebbene di volta in volta anche lui inviasse delle lettere come Ken'ichi per tenere aggiornata la famiglia sulla situazione che stava vivendo. Per Takaji, la fine delle superiori aveva sancito anche la fine della sua carriera da studente: non aveva tentato lo shiken jigoku e, anzi, si era subito gettato nel mondo del lavoro, svolgendo dei lavoretti saltuari in tutta la città di Nankatsu; agli occhi di tutti sembrava non aver trovato la sua strada, accontentandosi solo di guadagnare soldi in qualsiasi modo.

Invece, Takaji sapeva molto bene quale sarebbe stato il suo futuro. Lo avevano intuito i suoi genitori, che lo imploravano di tentare quei famigerati esami per le ammissioni all’università; lo sapeva Ken'ichi, che gli consigliava di non fare cavolate ogni volta che si mettevano in contatto, e in un certo senso lo aveva capito anche Yuzo, sebbene in realtà non avesse ben capito che cosa avesse in mente suo fratello: aveva intuito che in realtà Takaji voleva attuare un piano ben preciso, e che per farlo serviva denaro, molto denaro.

Tuttavia, ogni volta che chiedeva qualcosa in merito attraverso giri di parole e brevi domande lanciate con nonchalance nei discorsi che facevano, Takaji riusciva sempre a cambiare argomento in modo da non poter contrattaccare; finché, circa un anno dopo il suo diploma, Yuzo aveva trovato sulla sua scrivania un biglietto da parte del mezzano.

“Alle due di notte in camera mia. Cerca di non mancare, altrimenti verrò a svegliarti con il verso del falco a tutto volume nelle orecchie! - Takaji”

Incuriosito da quella che sembrava essere una novità, dato che i due non si erano mai parlati in quell’insolito orario notturno, Yuzo aveva cercato di restare sveglio per presentarsi all’appuntamento con suo fratello. Era entrato in quella stanza di soppiatto, cercando di non svegliare gli altri membri della famiglia che stavano dormendo su quello stesso piano - i loro genitori e Hanako - e la prima cosa che aveva notato era la presenza dello zaino da montagna color oliva a terra e rigorosamente aperto, che Takaji utilizzava per le sue escursioni sul monte Fuji e le montagne circostanti, vicino alla libreria a parete di analogo colore; libri e volumi sui parchi naturali sparsi per la scrivania accanto alla libreria; le porte completamente aperte del suo armadio, che si trovava dalla parte opposta della stanza; alcuni dei suoi vestiti sparsi per tutto il letto centrale ad una piazza e mezzo dalle lenzuola verdi che richiamavano le pareti con il loro colore.

Le prime parole che a Yuzo erano uscite di bocca, anche se pronunciate sottovoce, avevano chiaramente espresso il suo grande stupore di fronte a quella scena bizzarra e inusuale.

«Che caspita stai facendo?»

E le parole con le quali Takaji aveva risposto non avevano fatto altro che accrescere in lui quei primi dubbi che si erano formati nella sua testa.

«Sto per partire, Yuzo.»

Inizialmente il fratello minore non riusciva a crederci, pensando che si trattasse di uno scherzo che il mezzano stava architettando per i loro genitori. Ma, quando i loro sguardi si erano incrociati, Yuzo si era accorto che gli occhi del fratello erano maledettamente sinceri.

Takaji stava davvero per andare via da quella casa.

Anche lui stava per andare via.

Anche lui...

Yuzo chiuse gli occhi e incassò il colpo senza esternare ciò che stava provando in quel momento. Tristezza, preoccupazione, anche la nostalgia: sentimenti che si mescolavano e si riavvolgevano tra loro come la lenza di un mulinello in funzione, in attesa di un futuro che non pensava che sarebbe arrivato così presto. Credeva, infatti, che lui sarebbe stato il primo dei due ad andare via da quella casa; nel corso di quell’anno trascorso insieme si era abituato alla presenza - inizialmente non prevista - di quel suo fratello che adorava molto la foresta e i parchi naturali.

Come se avesse percepito quel suo turbinio di sentimenti, il mezzano gli afferrò la mano con un largo sorriso. «Non dire niente a nessuno, mi raccomando. Partirò domani a notte fonda per andare in Canada... è un segreto che deve restare tra noi!» aveva detto, nel rivolgere lo sguardo verso la libreria dove, accanto a qualche volume, esponeva con orgoglio piccole riproduzioni di animali della foresta.

Yuzo si trattenne dall’urlare per l’improvvisa sorpresa: mai avrebbe immaginato che il piano del mezzano fosse quello di partire alla volta di una meta così lontana e quasi irraggiungibile. Era pur sempre vero che ormai era abituato all’assenza del loro fratello maggiore, che si trovava a Tokyo; tuttavia il cambiare continente di residenza da parte di Takaji era decisamente un’altra questione, che avrebbe sconvolto ancora di più l’equilibrio della loro solida famiglia.

«Hai pensato alle conseguenze?» gli aveva chiesto a bruciapelo, accomodandosi con lui sul pavimento con la schiena contro il letto. «Se non lo dici a mamma e papà... non penso che la prenderanno bene, sai?»

«No... credimi: è meglio così!»

Takaji aveva alzato lo sguardo verso il soffitto in legno, incantandosi ad osservare le visibili venature che correvano da parte a parte. Con un sorriso, felice per la nuova vita che stava per iniziare dall'altra parte del mondo, il mezzano aveva allungato la mano all’indietro e spostato alcuni dei vestiti che ricoprivano il letto, tirando fuori un piccolo libro; poi lo aveva dato a Yuzo e aveva aggiunto: «È il mio regalo anticipato di compleanno, fratellino. Inizia a sfogliarlo solo quando arriverà quel giorno: troverai una bella sorpresa!»

A distanza di due anni, quel libro era proprio lì, sulla scrivania di Yuzo, accanto a quelle lettere che stava leggendo. In mezzo a quelle pagine, da un angolo del volumetto stava sbucando una fotografia che Yuzo stava usando come segnalibro, la stessa che con grande sorpresa e commozione aveva trovato nel giorno del suo compleanno, quando aveva aperto quel libro come il fratello gli aveva ordinato di fare.

In quell'immagine, quasi sbiadita dal passaggio del tempo, vi erano lui e Takaji: due bambini in mezzo a quella che sembrava essere un parco naturale, accanto ad alcuni pappagalli dai svariati colori. Loro due al Kakegawa Kachouen, quindici anni prima…

Nell’alzare lo sguardo e rivolgerlo, ancora una volta, verso quel libro e in particolare a quella piccola fotografia, Yuzo sorrise e si ricordò della promessa che lui e suo fratello avevano fatto quel giorno, che entrambi avevano giurato di mantenere per sempre: una classica promessa da bambini, che normalmente il tempo avrebbe cancellato, ma che loro erano sempre riusciti a rinnovare man mano che diventavano sempre più grandi.

La promessa di stare insieme, e di volersi bene per sempre.

Sulla prima parte ci erano riusciti per ben sedici anni; poi Takaji aveva deciso di partire per andare lontano, sfidando la stessa sorte e tutto ciò che gli altri avrebbero detto o pensato di lui, in particolare i genitori.

Sulla seconda, però, nemmeno quella gigantesca lontananza era riuscita a spezzare quella loro promessa: nonostante tutto, continuavano a volersi bene come sempre e tutti i giorni entrambi avevano iniziato a benedire i progressi della tecnologia che permetteva loro di potersi vedere e mettersi in contatto per tutta la giornata.

Con la lettera tra le mani, Yuzo estrasse dalla busta che aveva in mano ciò che era rimasto all’interno: un’altra fotografia, questa volta più recente, che ritraeva Takaji con un paio di occhiali da sole, con un accenno di barba ispida sul volto, i capelli ormai cresciuti legati in una coda e vicino ad una Jeep immersa nel cuore di quella che sembrava una foresta quasi incontaminata. Sulla sua spalla c’era un falco solitario, dettaglio che fece tornare alla mente di Yuzo le parole di quella promessa che si erano scambiati, in quel giorno ormai lontano.

 

«Sai una cosa? Quando sarò grande voglio vivere proprio qui, tra gli uccelli! E noi saremo per sempre insieme, vero fratellino?»

«Sì, voglio stare con te... per sempre! Ti voglio tanto bene!»

 

E quando girò la fotografia, Yuzo lesse con attenzione e con una punta di orgoglio la dedica che il mezzano gli aveva scritto. Era felice per la notizia che aveva saputo dalla lettera e della quale quella fotografia ne era l’ennesima conferma: suo fratello aveva trovato un lavoro nel Algonquin Provincial Park del Canada, a diretto contatto con gli animali come aveva sempre sognato fin da piccolo.

“Dopo tanta fatica finalmente sono entrato nello staff del più grande parco dell’Ontario, hai visto? Ora vedi di impegnarti nel campionato giovanile e di diventare un calciatore di tutto rispetto, altrimenti ti mando subito questo falco... ha un bel caratterino, e l’ho addestrato apposta per farti passare le pene dell’inferno con il suo becco: dato che non potrò venire subito in Giappone per prenderti a calci nel sedere lo farà lui al posto mio, in men che non si dica! Metticela tutta, fratellino: farò sempre il tifo per te!”

Il giovane iniziò a ridere commosso, mentre alle sue spalle qualcuno bussò alla porta della stanza. Dalla voce Yuzo capì che, a quanto pare, le sorprese per il suo compleanno non erano ancora finite.

«Un momento, arrivo!»

Si asciugò le lacrime che involontariamente gli erano sfuggite dagli occhi, rimise a posto la scrivania e corse ad aprire la porta.

Lo farò... fratellone! Impegnati tanto anche tu, mi raccomando!

 

 

Nel corridoio del primo piano, Noboru deglutì e si passò una mano sullo stomaco in subbuglio.

Si era ritrovato di fronte alla porta d’ingresso della stanza del suo terzo nipote, deciso a consegnare quell’enorme scatola che aveva portato da casa sua: era riuscito a superare con successo la parte più difficile, quello di distrarre Hanako prima che lo tempestasse di domande sul contenuto del misterioso pacco. Per sua fortuna, dal cielo qualcuno aveva deciso di aiutarlo così, ad un tratto, la ragazzina aveva ricevuto una telefonata e da quel momento era stata impegnata - o, forse, sarebbe stato meglio dire pienamente coinvolta - in un’animata discussione con uno dei suoi compagni di squadra, un certo “Aoki” o qualcosa di simile; si era così rifugiata di corsa nella cucina, sotto gli occhi increduli della stessa Izumi che stava riordinando quel piccolo locale dopo la cena, rivolgendo a tutti le spalle e iniziando poi a gesticolare vicino alla finestra.

Noboru, dunque, aveva approfittato di quel momento per recuperare la scatola dal suo SUV e portarla al primo piano, posandola di fronte alla stanza di Yuzo.

Ti prego... apri subito questa porta! - aveva pensato con gli occhi chiusi e le mani giunte. Se arriva Hanako all’improvviso sarà la fine!

Non appena udì il rumore della porta che aveva di fronte e che si stava aprendo, subito afferrò la scatola e si intrufolò nella stanza senza dare il tempo di salutarlo a suo nipote, che nel frattempo era rimasto con la mano alzata e lo stava guardando piuttosto sorpreso.

«Erm... zio?» farfugliò Yuzo, guardandolo con occhi sbarrati mentre con l’altra mano teneva ben salda la maniglia della porta.

«Ti prego chiudi questa porta a chiave prima che tua sorella si accorga che sono qui e ti ho portato qualcosa che non ha visto e che per ora non deve vedere» sussurrò Noboru tutto d’un fiato.

«Giusto!»

Yuzo fece schioccare le dita e con un sorriso richiuse la porta a chiave. Con un gesto invitò lo zio a sedersi vicino alla scrivania, mentre lui si lanciò sul letto, accanto al giubbotto che non aveva ancora riposto nel suo armadio. «Hanako è sempre troppo curiosa su qualsiasi oggetto che arriva a casa... soprattutto se è grande come quella scatola lì!»

Il giovane indicò il pacco che lo zio aveva appena portato, e continuò: «Se l’hai portato qui, cercando di non farlo vedere a mia sorella... suppongo che hai avuto un’importante ragione. Non avrai per caso scoperto un tesoro e stai cercando di nasconderlo?»

Noboru rise, e ignorando l’invito del nipote si chinò sulla scatola, appoggiando le mani sulla superficie e guardando Yuzo dritto negli occhi.

«Questo è molto più di un semplice tesoro. Si chiama Ran... e da oggi è tuo.»

«Ran?»

«Proprio così: Ran. Sì, lo so: come nome può sembrarti strano, ma–»

«Ran... mi piace come nome! Di qualsiasi cosa si tratta, sono sicuro che sarà fantastico! Grazie mille!»

Yuzo interruppe ciò che stava dicendo lo zio e con un balzo si avvicinò al pacco: fin da subito era molto incuriosito dal contenuto e iniziò ad esaminarlo, sfiorando la superficie con estrema delicatezza. Poi lo afferrò, e notò subito come in realtà fosse difficile anche solo il sollevarlo da terra: dal grande peso, il contenuto non sembrava essere qualcosa di futile.

«Ti dispiace se lo apro ora, zio Noboru?»

«Certo che devi aprirlo ora!» rispose l’altro con un sorriso calmo, e con il palmo della mano aperta batté ripetutamente sulla superficie della scatola. «Questo gioiellino è in avanti con gli anni, proprio come me... però ricordati che ha un’anima anche se non può dire nemmeno una parola. Trattalo bene, e vedrai che saprà ricambiarti con altrettanto affetto!»

«Va bene!»

Yuzo prese il taglierino dal portapenne che aveva sulla scrivania, e con esso aprì la scatola misteriosa. Non appena sollevò il primo pezzo di polistirolo che circondava tutte le pareti interne del pacco, restò senza parole.

«No...»

In fretta e furia, ma cercando comunque di non rovinare nulla, indirizzò la lama del taglierino verso gli angoli esterni della scatola, cercando di rimuoverla il più possibile senza danneggiare nulla: l'ultima cosa che avrebbe voluto era il rompere il suo contenuto.

«... no!»

Poi crollò seduto sul pavimento, contemplando l'oggetto che aveva rivelato. Aveva ragione suo zio a dire che era molto più di un tesoro: non era solamente una cosa che gli sarebbe piaciuta e che di certo avrebbe trattato con molta cura, ma dal nome impresso nella seconda scatola che era uscita fuori - questa volta ricca di immagini e di scritte rispetto al cartone che la conteneva - era davvero un oggetto che costava quasi una fortuna.

«Un... un Takahashi...» balbettò, per poi strofinarsi gli occhi, incredulo per la sorpresa. «È proprio un telescopio Takahashi! Ma come hai fatto ad averlo: è introvabile!»

Gli venne quasi da piangere per quel regalo: per un astrofilo come lui, il ritrovarsi in casa uno strumento del genere era come possedere la manna caduta dal cielo. Con quel telescopio, da quella notte e per il resto della sua vita poteva divertirsi ad osservare da vicino la volta celeste, con le stelle e i pianeti che la popolavano; poteva farci diverse cose, da un semplice dare un'occhiata a vere e proprie fotografie del panorama stellare.

«Come ho fatto ad averlo, dici?» domandò Noboru. Si sedette accanto a suo nipote e gli cinse le spalle con un braccio, tirandolo a sé. In quel momento il suo mal di stomaco tornò a farsi sentire: era a causa di quel sentimento di nostalgia con il quale aveva iniziato la giornata quando aveva preso quel pacco, così pesante non solo per il contenuto fisico ma anche - e soprattutto - per il carico di ricordi che quel telescopio conteneva al suo interno.

«È una storia un po’ lunga...» iniziò, con un amaro sorriso sulle labbra, «ma se devo riassumerla in poche parole... beh: posso dirti che apparteneva ad una persona a me molto cara. Ci teneva in una maniera che non hai idea, ed era molto gelosa se qualcun altro avesse osato anche solo toccarlo! Però... però se avessi conosciuto questa persona, credimi: ti avrebbe affidato questo gioiellino ben volentieri!»

Yuzo restò in silenzio. La curiosità di saperne di più su quella persona che lo zio aveva appena tirato in ballo era molta: si chiedeva chi fosse, ma dallo sguardo malinconico che nel frattempo dominava il volto dello zio intuì che dietro a quell’oggetto c’era qualcosa di doloroso ed esitò a chiedere a Noboru ulteriori informazioni sulla sua identità.

Per parlarne così... forse il precedente proprietario non c’è più... o forse è ancora vivo ma hanno litigato di brutto...

Decise quindi di spostare il discorso su ben altro: «Se il telescopio apparteneva a questa persona... e questa persona ci teneva così tanto... allora perché l’hai regalato a me?»

«Perché lei era un’appassionata... proprio come te.»

Noboru si alzò in piedi, sfiorando con dolcezza la scatola che ora aveva di fronte. Si voltò verso suo nipote, mostrando un largo e sincero sorriso.

«E proprio come te... le piaceva molto il calcio anche se non è mai entrata in una squadra come giocatrice. Per questo, anche se quest’anno hai deciso di non iscriverti all'università per dare priorità al calcio, questo non vuol dire che non puoi essere un astrofilo come si deve! Però...»

Lo zio si inginocchiò e pose le mani sulle spalle di suo nipote, stringendole piano. «Devi promettermi che, se l’anno prossimo ti iscriverai all’università e supererai l’esame di ammissione, ti impegnerai molto anche nello studio. Sono certo che ci riuscirai, perché dietro ai tuoi occhi si nasconde una grande determinazione per realizzare i sogni che porti nel cuore...»

«Lo farò, zio.»

Yuzo lo abbracciò e lo strinse più forte che poteva. Di fronte ai suoi occhi vi era la confezione nella quale si trovava il telescopio e l’emozione che ne scaturiva ogni volta che lo guardava era sempre così forte da togliergli il fiato: con quello strumento poteva continuare ad ammirare e studiare la volta celeste in quell’anno di pausa che aveva deciso di prendere per dedicarsi appieno al calcio. In un anno tutto poteva accadere, ma in quel momento era certo che qualsiasi cosa sarebbe accaduta la sua crescente passione per l’astronomia non si sarebbe affievolita. Anche se alla fine avesse deciso di accantonare l’idea di iniziare un percorso di studi che lo avrebbe portato ad essere uno studioso dell’universo, era certo che con quel telescopio avrebbe sicuramente continuato ad essere un ottimo astrofilo.

In quel momento, Yuzo continuò a pensare alle parole dello zio. Come si era promesso qualche minuto prima, il giovane non voleva rovinare l’atmosfera di serenità che si era creata in quella stanza con altre domande volte a svelare l’identità del precedente proprietario del telescopio che lui possedeva: ne era curioso... ma la sua curiosità poteva attendere.

Ciò che, invece, non poteva più attendere era una silenziosa promessa che Yuzo stava per rivolgere verso colei che aveva amato quell’oggetto, proprio come lui avrebbe fatto da quella sera in poi.

 

Chiunque tu sia… prometto che me ne prenderò cura, come avresti fatto tu!

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Come promesso, qui abbiamo un grande ritorno: Noboru! Quanto era mancato, sigh! Lui aveva aperto questo ciclo di storie su Yuzo, così per me è stato giusto chiudere questo ciclo proprio con questo personaggio... proprio così: questa sarà l'ultima storia nella quale vedremo solo Yuzo e la sua famiglia. Però la storia di Yuzo non è conclusa, per cui restate sintonizzati! (Anche perché, da come avete capito, in questa parte ci sono ancora delle cose che non sono del tutto chiare: sappiate che l'ho fatto apposta. :3)

Prima di proseguire con le note di fine capitolo, un piccolo angolo delle note che riguarda un personaggio del tutto particolare... non solo perché litiga quattrocentosessantamila volte al giorno con la nostra Hanako:

 

- Isamu Aoki 「青木勇」 è il compagno di scuola di Hanako e Hoshiko, figlio di madre italiana e padre giapponese. Un tipo spocchioso e ribelle, ha incontrato le due amiche al club di calcio della Shutetsu, e come i suoi compagni all'inizio non riusciva a sopportare la loro presenza perché sono state le prime ragazze a voler entrare nel club come calciatori e non come tifose o supporters della squadra. Col passare del tempo, Isamu si affeziona molto alle due (e, sì: sotto sotto anche a Hanako, anche se non la sopporta nonostante - come avete letto - sia un grande fan di suo fratello e in generale dei giocatori della squadra giapponese ;P)

Il suo nome significa "coraggio", mentre il suo cognome "albero blu". Fun fact: i suoi genitori hanno scelto un nome che nel suono si avvicinasse molto a quello italiano; infatti, "Isamu" si avvicina molto a "Samu", cioè "Samuele". ;)

 

Detto questo, passiamo subito all'angolo delle note di fine capitolo:

 

- Tutta la prima parte rappresenta un gioco di parole con la parola "Ran" al centro di tutto. Sì: prima di tutto Ran è una persona realmente esistita nella vita di Noboru (ma su questo ci tornerò presto), e in giapponese il kanji di "orchidea" 「蘭」 si pronuncia proprio "Ran" - motivo per il quale sulla scatola del telescopio c'era scritto proprio il termine "orchid", cioè "orchidea" in inglese. Il perché l'adesivo sia in lingua inglese e non in giapponese non lo rivelo qui ma sempre prossimamente... per cui in realtà la questione "Ran" non si chiude qui;

- A proposito del telescopio, no: il nome Takahashi non è un omaggio all'autore di Captain Tsubasa, LOL! Esistono davvero dei telescopi di marca Takahashi, che sono telescopi rifrattori utilizzati per l'astronomia amatoriale. Nel nostro caso si tratta di questo modello che, nonostante sia datato, ha un alto costo perché ancora insuperabile nelle sue funzioni (e anche per questo è quasi introvabile).

Una piccola nota, forse inutile per molti di voi: siccome Yuzo sta terminando le superiori, ovviamente non è un astronomo perché non ha ancora iniziato il percorso che lo porterà a diventarlo... quindi, per ora è solo un astrofilo. Ormai sappiamo come andrà avanti la sua storia, però sarebbe bello se un giorno diventasse davvero un astronomo: un portiere astronomo... diciamocelo, quante probabilità ci sono che possa diventarlo? Quasi nulle, però noi ne siamo certi: Yuzo può tutto! XD

- Tornando alla realtà dei fatti, forse qualcuno di voi si ricorda di quella scena del capitolo 14 del World Youth dove molti membri della All Japan Youth ribadiscono la volontà di restare nella squadra ricordandosi di aver anteposto questa partecipazione ad altre cose, come le offerte da parte di squadre importanti... o come, nel caso di Yuzo, rimandare di un anno l'ingresso all'università. La domanda sorge spontanea: a quale università stava pensando di accedere il nostro portiere? Ebbene: ancora oggi non abbiamo una risposta, sigh. ;_____;

Per questo motivo, nel mio caso ho immaginato che avesse voluto intraprendere un percorso che avesse avuto a che vedere con lo studio dei pianeti, delle stelle e dell'universo in generale. Del perché di questa passione ve ne avevo già parlato nelle note del capitolo sui dodici anni, per cui mi fermo qui;

- E, a proposito della All Japan Youth... ok, ammetto che su questo mi sono consultata tempo fa con la Melanto. Prima di scrivere questa parte, il mio dubbio era: "Ma se il ritiro per il campionato mondiale giovanile inizia a febbraio e continua per qualche mese... se la scuola in Giappone termina a marzo e il campo d'allenamento si trova nei pressi di Nankatsu, molti di loro saranno tornati qualche volta a casa, no? In effetti... chissà dove Yuzo avrà festeggiato il compleanno, dato che cade proprio il 12 marzo - perciò nel bel mezzo del ritiro..." La Mela mi ha detto che è probabile che Yuzo possa aver fatto ritorno a Nankatsu nel giorno del suo compleanno, per cui ho deciso di ambientare anche questa parte proprio a Nankatsu, in una giornata del tutto tranquilla... anche se, come avete visto, lui continua ad allenarsi nonostante sia "in pausa", LOL;

- Riguardo la storia di Kumi Sugimoto, che molti di voi conoscono e della quale (soprattutto per chi non la conosce) in questa parte ho raccontato brevemente le vicende che questo personaggio ha vissuto nel manga: è vero che all'inizio era entrata nel club di calcio solo per stare il più possibile vicina a Tsubasa, ed essendo alle prime armi era la persona meno esperta di calcio... tuttavia, ho ragione di credere che nel corso degli anni sia maturata e abbia acquisito esperienza. A pagina 13 del capitolo 1 dello speciale Captain Tsubasa - The strongest opponent! Holland Youth, le manager della squadra delle scuole superiori Nankatsu (Sanae, Yukari e Kumi) sono state definite "le migliori del Giappone" dagli stessi giocatori della squadra: è vero, in realtà si tratta di un loro commento, ma questa resta la dimostrazione del fatto che Kumi sia migliorata molto nel corso del tempo e alla fine sia rimasta nel club anche per una vera passione verso questo sport. È una cosa meravigliosa, non trovate? :')

Per questo motivo nella mia storia volevo rappresentarla come una ragazza che, alla fine, si è affezionata a ciascun giocatore, perciò anche a Yuzo. E qui vi dirò: sono stata molto vaga nel testo... ma onestamente li trovo carini insieme, anche come coppia e non solo come grandi amici, sebbene nel canon non abbiano interagito per niente; inoltre, sempre nel capitolo sopracitato, pare che la nostra Kumi abbia occhi per "un certo capellone" - te la rubo volentieri, khrenek! (L'espressione di Yukari mentre la osserva è impagabile, come se avesse voluto dire "Ahia, ci risiamo", ahahah!)

- "Ogni mondo è paese"... e questo vale anche per i modi di dire! Non è un caso che nel testo ho lasciato intatta l'espressione "Chi si somiglia si piglia", perché in realtà anche in giapponese è molto simile: 「類は友を呼ぶ」 letteralmente vuol dire una cosa del tipo "Il simile chiama il suo amico" (che, curiosità nella curiosità, DeepL Translate traduce con "Gli uccelli di una piuma si affollano insieme": stranezza a parte, quella degli uccelli simili che si ritrovano è un'immagine molto bella, a mio parere!)

- Penso che molti di voi sanno come si festeggia San Valentino in Giappone... ma ve la riassumo! Mentre in Italia gli innamorati usano scambiarsi dei doni solo il 14 febbraio, in Giappone nel giorno di San Valentino sono solo le ragazze a consegnare dolcissimi doni (dove per "dolcissimi" intendo proprio "dolci": cioccolata, biscotti e altro, tutto fatto a mano!) Un mese dopo, nel White Day sono i ragazzi a ricambiare a loro volta i doni che hanno ricevuto. Insomma: questa è la ragione per la quale il nostro Yuzo pensa alla combinazione San Valentino/White Day di fronte a ciò che Kumi sta per regalargli (salvo poi essere smentito in pieno, LOL);

- L'omamori è un tipico portafortuna giapponese, che assicura protezione e fortuna a chi lo riceverà. Da quel che ho capito non costano moltissimo - ragion per cui Kumi può permettersi di regalarlo a tutti i membri della squadra - e ce ne sono di diversi tipi e colori, a seconda della fortuna che si vuole augurare al destinatario. Piccola curiosità: gli omamori non durano per sempre, infatti sono considerati efficaci solo per un anno se non si distruggono prima; per questo motivo bisogna sostituirlo ogni anno;

- Come in molte zone del mondo, anche in Giappone esiste il calcio femminile... di conseguenza anche una vera e propria Nazionale, la Nadeshiko Japan! Ci sono stati degli alti e bassi nel corso della storia del calcio femminile in Giappone, e in particolare qui ho fatto accenno alla storia delle squadre di calcio femminili nella città di Nankatsu... che (ancora) non esistono nella serie ufficiale. Pensate a una scuola di antiche radici come la Shutetsu, dove fino a quel momento ci sono state squadre completamente composte da ragazzi e non anche ragazze: l'ingresso di Hanako e Hoshiko è stata vista come una vera "rivoluzione", ed è normale che all'inizio non è stato considerato in modo positivo... ma, alla fine, tutto è bene quel che finisce bene, e le due sono state accettate proprio grazie alle loro capacità dimostrate sul campo;

- Sono certa che anche nella lingua giapponese esisterà qualche indovinello che riguarda il calcio; purtroppo finora non sono riuscita a trovare qualcosa di utile, per cui mi sono affidata alla lingua inglese - nonché quella italiana. Spezzo una lancia a favore di Hanako: è vero che ormai insegnano l'inglese anche in Giappone... però è normale che non ci sia arrivata subito! XD

- Una piccola e breve curiosità, qui potete avere un'idea della stanza del nostro Takaji. Si tratta della prima foto del gruppo "camere da letto con pareti verdi", salvo che il letto è più stretto;

- L'Algonquin Provincial Park è uno dei più grandi parchi del Canada, ed è il più antico - fondato nel 1893. Ha una ricchissima flora e fauna, e anche grazie alle attività che si sono sviluppate nel corso degli anni è diventato un punto molto frequentato da chi vuole entrare a contatto con la natura. Se volete saperne di più, al di là del sito ufficiale, qui trovate un articolo su questo parco provinciale.

 

Detto questo, anche oggi vi ringrazio per essere giunti fino a qui... e con Yuzo ci vedremo direttamente alla fine di questa storia, con tutti i cerchi che si chiuderanno - o quasi, perché sicuramente qualcuno resterà aperto, LOL!

Al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 14
*** Famiglia - Diciotto anni | Aoi's side ***


Fanfiction
o3zPLAZ

Famiglia.

{Diciotto anni | Aoi's side}

 

 

BGM: Ludovico Einaudi - Nuvole Bianche

 

 

 

[Un anno dopo - 12 Marzo. Nakahara, prefettura di Gifu.]

 

Quel giorno a Nakahara il sole splendeva alto nel cielo limpido: con i suoi raggi invitava chiunque a uscire dalle proprie abitazioni anche solo per qualche minuto, per godere della bellezza del panorama illuminato dal suo passaggio. Quei fasci di luce entravano dalle finestre, dalle piccole aperture poste nei soffitti delle varie abitazioni e luoghi di aggregazione della cittadina, anche in quello all’apparenza più buio e freddo.

Hibiki Nakamura amava le giornate di sole. Lo facevano sentire meno solo, immerso tra gli alti scaffali pieni di libri impolverati e larghe scrivanie zeppe di volumi antichi, memoria storica e immateriale dei suoi antenati e di quelli di tutta la popolazione di Nakahara: seduto su una delle sedie in legno con le spalle rivolte verso la finestra, si lasciava cullare dal calore dei raggi del primo sole primaverile mentre sfogliava con attenzione uno degli scritti che aveva catturato la sua attenzione. Giovane archivista della biblioteca civica della cittadina, Hibiki amava il silenzio che calava in quell’angolo della biblioteca quando era intento a leggere - un po’ meno quando iniziava ad annoiarsi o voleva fare una pausa; solo allora si alzava da quella sedia e nelle giornate di sereno usciva da lì per prendere una boccata d’aria, come un piccolo topo che faceva capolino dalla sua tana e con uno sottile squittio iniziava a correre veloce verso la tanto agognata libertà.

Ma quella giornata era troppo invitante per non cogliere l’occasione, e l’archivista non aveva più alcun impegno in programma. Dopo aver dato un rapido sguardo al suo orologio da polso, Hibiki uscì dalla zona dell’archivio e la chiuse a chiave, salutò gli altri impiegati della biblioteca, recuperò i suoi effetti personali che aveva lasciato all’ingresso per l’inizio della giornata lavorativa e, non appena varcò la soglia dell’edificio, si stiracchiò le braccia e prese lentamente ossigeno.

Che bella giornata... l’ideale per fare due passi!

Tenendo ben saldi gli spallacci del piccolo zaino che aveva sulle spalle, Hibiki si addentrò nelle vie del vicino centro. Passò per le bancarelle dei take-away e nel superarli il suo sguardo cadde sui vasi delle piante che con la loro esposizione segnalavano la presenza di piccolo negozio di fiori. Il giovane si incantò nel guardare i piccoli germogli che timidamente sbucavano da quelle piante; poi decise di entrare nel negozio, salutando cortesemente il fioraio.

«Chiedo scusa, avete una peonia bianca?» chiese Hibiki, e iniziò a massaggiarsi il collo. «È per una persona che a breve affronterà un esame di abilitazione... e volevo regalarle qualcosa di semplice ma significativo.»

 

 

 

Hibiki lo ricordava come se fosse stato il giorno prima. Si era appena laureato all’università della vicina Gifu con un preciso intento: diventare l’archivista di una biblioteca, anche di quella più piccola della zona.

Questo perché lui amava i libri, ne amava ogni dettaglio: le dimensioni, lo spessore della carta, persino l’odore diverso che emanavano quando iniziava a sfogliarlo; per questo motivo il suo scopo era quello di restare il più possibile a contatto con quel mondo che lo aveva sempre affascinato. Ciò che non aveva previsto era la sua rete di incontri dopo la sua laurea: esattamente due anni prima di quel dono floreale che stava per fare a quella persona che aveva incontrato quasi per caso, proprio in quelle vie strette e sempre piene di vita del centro di Nakahara.

Per Hibiki sembrava essere una giornata di primavera come tutte le altre: cielo sereno, un leggero venticello che portava con sé un freddo ancora pungente, e i raggi del sole che stavano tornando a riscaldare ogni cosa con la quale entravano in contatto. Il neolaureato in archivistica aveva le mani che sprofondavano nella tasca del suo lungo cappotto nero, e aveva iniziato a guardarsi intorno sulla strada di ritorno a casa; era arrivato da poco nella cittadina di Nakahara, e quello era il primo pomeriggio nel quale stava riuscendo a godere della bellezza di quel luogo nel quale tradizione e modernità continuavano a fondersi all’interno del suo centro. Quelle strade strette, che sapevano di tempi ormai lontani, ospitavano un sacco di negozi di artigianato segnalati dall’esterno da insegne lavorate e dipinte a mano e che da un primo e fugace sguardo all’ingresso già presentavano ogni genere di prodotti realizzate ad opera d’arte dai membri dell’ultima generazione di artigiani presenti sul territorio.

Ad un tratto lo sguardo di Hibiki era stato catturato dall’ingresso di uno di quei negozi, posto in fondo alla strada che stava attraversando: quell’entrata era molto semplice, con una porta a vetri con decorazioni floreali dipinte a mano, al fianco della quale vi era una piccola insegna realizzata dall’unione di alcune mattonelle colorate.

[Yume no niji.]

«Yume... no niji?» aveva letto il giovane ad alta voce; subito aveva rivolto lo sguardo verso il cielo, ricordandosi del fatto che la pioggia intensa della notte precedente aveva regalato al mattino un radioso arcobaleno che si stagliava nell’aurora.

Il nome di quel negozio sembrava essere un segno.

Così Hibiki aveva deciso di entrare, e di tutto ciò che era esposto la prima cosa che aveva attirato la sua attenzione era un orologio a cucù posto su una delle pareti laterali del locale. L’oscillazione del pendolo era così ipnotica al punto che il giovane non si era nemmeno accorto che il negoziante lo aveva accolto con un cortese saluto; se n’era reso conto solo quando ad un tratto i suoi occhi avevano incrociato il volto di una giovane donna che si era improvvisamente palesata di fronte a lui.

«Ha bisogno di qualcosa?» gli aveva detto con dolcezza. Hibiki l’aveva osservata: aveva i capelli neri raccolti in un codino che cadeva lungo il lato sinistro del suo viso, gli occhi grandi e profondi come la notte e uno sguardo delicato; a prima vista, se non fosse stato per il grembiule che stava indossando e le mani annerite, non avrebbe mai pensato che si trattasse della proprietaria del negozio, o per lo meno di una persona che lavorasse in quel luogo come artigiano.

«Ti piace questo orologio?» aveva aggiunto la ragazza, che nel frattempo aveva preso un fazzoletto di stoffa dalla tasca del suo grembiule per pulirsi le mani. «Mi dispiace, ma non è in vendita. Ho fatto una promessa quando l’ho costruito, e ancora oggi è il mio orgoglio.»

«Che genere di promessa?» le aveva domandato Hibiki, senza nemmeno pensarci troppo. Quelle parole gli erano sfuggite di bocca, mentre era tornato a osservare quello che per lui era uno splendido orologio. È bravissima, aveva detto tra sé e sé, contemplando quella sapiente opera di artigianato.

Intanto lei aveva fatto schioccare le dita, riportandolo nuovamente con i piedi per terra. «Domanda interessante. Diciamo che ho stretto un “patto” con questo oggetto: non si fermerà finché mio fratello non smetterà di essere un grande calciatore; è una sorta di portafortuna che lo accompagnerà, anche se ora lui è così lontano...»

«Tuo fratello? Un calciatore?» aveva chiesto Hibiki con grande curiosità. «Di chi si tratta?»

La prima risposta che ricevette da quella ragazza era stata, con sua grande sorpresa, una strana richiesta. «Guardami negli occhi.»

«Eh?»

«Esatto: guardami negli occhi, e dimmi a chi assomiglio.»

Mi sta prendendo in giro? - aveva pensato il giovane archivista; tuttavia, nel vederla con un sorriso a trentadue denti, capì subito che non stava scherzando. Dopo aver osservato il suo volto per qualche secondo, aveva abbassato leggermente lo sguardo e le aveva sussurrato: «Mi dispiace... non ne ho idea.»

La ragazza aveva arricciato il naso. «Un piccolo indizio: è proprio di questa città. Su: ora dovresti arrivarci, ormai è famosissimo!»

«L’avevo capito che era di questa città... però nemmeno così mi dice qualcosa. Perdonami...»

Un sonoro sbuffo. «Ma come, non conosci mio fratello? È stato uno dei protagonisti della vittoria del Giappone al World Youth! Devi vivere davvero fuori dal mondo, se non sai nemmeno che ora gioca in Italia!»

A quell’affermazione, Hibiki aveva sussultato. «Ah, ho capito! Si tratta di Hyuga Kojiro! Però... lui non era di Saitama? Da quando si è trasferito a Gifu? E dire che non l’ho mai incrociato da queste parti, che strano...»

L’archivista aveva fatto in tempo a vedere il volto della ragazza cambiare da un’espressione allegra e soddisfatta a una decisamente annoiata, prima di voltargli le spalle e darsi un colpo sulla fronte. «Io...» aveva mormorato quella giovane, «io credevo che solo i miei genitori fossero ad un tale livello di ignoranza... ma tu li hai battuti su larga scala. Non sei appassionato di calcio, vero?»

«Direi... di no? Ammetto che non sono un grande appassionato di calcio, e non seguo molto le vicende della Nazionale... in più mi sono trasferito da poco in questa città, per cui non ho idea di chi stai parlando...»

«Però sei di Gifu, vero? Prima hai detto che non hai incontrato Hyuga a Gifu, per cui ne deduco che sei arrivato da là...»

«Esatto.»

I due erano rimasti in silenzio, lei ancora di spalle a Hibiki. Poi, la ragazza si era voltata e aveva teso la mano verso il giovane archivista. «Aoi. Aoi Yukiko, piacere.»

«Nakamura Hibiki, il piacere è tutto mio» aveva risposto lui, stringendo quella mano con un sorriso. «Sei molto brava, e ti auguro che quell’orologio possa tenere fede alla promessa che vi siete scambiati...»

«Quindi... nemmeno il mio cognome ti dice niente?»

«In effetti... ora che ci penso, mi sembra di averlo già sentito da qualche parte... però mi dispiace: direi proprio di no. Sono un appassionato di libri antichi, non di attualità, né tantomeno di sport...»

«Allora ti dirò una cosa» aveva detto lei con un sorriso di sfida. «Scommettiamo che tra qualche anno troverai un libro con il nome e il volto di mio fratello ben visibile sulla copertina? Forse così te lo ricorderai di più, chissà!»

Hibiki aveva annuito: quella scommessa lo stava elettrizzando. «Ci sto! Anzi, facciamo così: qualora dovessi trovare in biblioteca un libro del genere... mi candido a sindaco di questa città alle prossime elezioni! Con i giornali è troppo facile: potrei incrociarlo subito! Comunque lo terrò a mente... Aoi, eh? Quasi quasi da domani al posto del quotidiano comprerò il giornale sulle notizie sportive, così inizio a essere più informato...»

Yukiko aveva sorriso di gusto. «Lasciatelo proprio dire: sei tutto matto!»

 

Da quel giorno in poi, il legame con quella giovane si era rafforzato. Ogni volta che terminava il suo turno di lavoro, Hibiki era solito passare per quella strada e, così, entrare in quel negozio così caratteristico; giorno dopo giorno, aveva capito di farlo non tanto per ammirare le meraviglie che c'erano al suo interno, ma per incontrare Yukiko e chiacchierare un po’ con lei.

D’altra parte, l’archivista aveva intuito che anche a quella ragazza faceva piacere scambiare qualche parola con lui. La sua compagnia le era molto gradita, finendo per parlare di svariati argomenti, dal mondo dell’artigianato a quello della biblioteca, dalle vite quotidiane... per arrivare a quello più importante: i loro sogni.

«Così, sei appassionata di kyūdō?» le aveva chiesto un giorno, dopo aver notato la presenza di un arco in legno sul bancone con la quale si stava esercitando prima del suo arrivo: quel giorno l’aveva vista con quell’arco tra le mani, e lei lo stava osservando con dolcezza mista a malinconia. Si era chiesto perché avesse quello sguardo, e in un primo momento aveva avuto uno strano pensiero. «Sei qui perché ti ci hanno costretto?»

Ma lei, in tutta risposta, gli aveva sorriso. «Nulla del genere. I nostri genitori ci hanno sempre permesso di fare ciò che vogliamo... e se oggi sono qui è perché sono io che ho deciso di farlo. Certo: non è facile coniugare questo lavoro con lo studio del kyūdō... però sono pronta a fare dei sacrifici pur di diventare un’insegnante di questo sport.»

«Un’insegnante? Sembra una cosa impossibile: ti distruggerà di lavoro! Io non reggerei un simile peso...»

Yukiko aveva chiuso gli occhi e gli aveva rivolto un sorriso raggiante. Quel sorriso, accompagnato dalle parole che la ragazza aveva pronunciato subito dopo, avevano fatto capire a Hibiki che lei ci teneva molto a entrambe le cose: sia l’artigianato che il kyūdō erano tutta la sua vita, e lei non le avrebbe abbandonate per nulla al mondo.

 

«È grazie a mio fratello se sono qui. È stato lui a insegnarmi che bisogna sempre inseguire i propri sogni... se non fosse stato per lui, a quest’ora sarei nel bel mezzo di una scelta della quale mi sarei pentita. Mi avresti trovata qui, a rimpiangere di non aver continuato con il mio amato kyūdō... oppure non sarei nemmeno qui ma a Tokyo, struggendomi per il fatto di non poter aiutare mio padre, perché questo negozio è per me come una seconda casa. Grazie a lui ho capito cosa volevo davvero fare. È vero: non si può fare tutto nella vita... ma sono riuscita a trovare una soluzione che mi piace molto. Ho capito che l’idea di diventare professionista mi spaventava molto, ho capito che la mia passione non era così grande al punto da voler scegliere di sacrificare completamente l'artigianato... ma ho capito che a me il kyūdō piace molto... e voglio trasmettere questa passione agli altri. Sarà dura, ma diventerò un’insegnante di kyūdō e resterò qui a portare avanti l'attività di famiglia, costi quel che costi!»

 

Quegli occhi colmi di determinazione avevano colpito Hibiki, e allo stesso tempo gli avevano ricordato di un’altra persona che non aveva mai incontrato, ma che aveva imparato a conoscere proprio attraverso lei, attraverso i suoi sguardi.

Aveva ragione... pensava il giovane ogni volta che si ricordava di quel particolare, che saltava fuori ogni volta che la vedeva sorridere in quel modo. Lei è proprio la sorella di Aoi Shingo!

Quel sorriso lo affascinava, e così l’archivista aveva promesso che avrebbe fatto di tutto pur di vederla sempre così, con quello sguardo magnetico che trasmetteva anche agli altri gioia e allegria.

A proposito...

Hibiki giunse all’ingresso dello Yume no niji, e attese qualche secondo prima di spingere la porta in vetro. Appoggiando la peonia sotto l’insegna in mattoni, prese una busta dallo zaino che stava portando sulle spalle e lo osservò attentamente.

Chissà quale sarà la sua reazione quando lo vedrà... pensò, prima di riprendere la piantina e aprire la porta che gli stava dinanzi.

 

 

 

Qualche ora dopo, dall’altra parte del mondo era l’alba di un nuovo giorno. Stirandosi tra le lenzuola Shingo si voltò dall'altra parte, aprendo leggermente gli occhi e cercando di focalizzare l’orario che era segnato sulla sveglia elettronica.

Le sei del mattino...

Decise di mettersi seduto, passandosi una mano sul viso ancora assonnato. Anche se era entusiasta all’idea di iniziare un nuovo giorno interamente dedicato al calcio, il sonno stava ancora incidendo sul suo metabolismo, impedendogli di scattare fuori dal letto come un’anguilla. Il ragazzo si levò in piedi, si recò in bagno e iniziò a sciacquarsi il volto con l’acqua gelida per cercare di svegliarsi il più in fretta possibile; poi si guardò allo specchio e sbadigliò. Chiuse gli occhi e più volte diede dei piccoli schiaffetti sulle guance, pensando che in questo modo il suo risveglio si sarebbe velocizzato.

Così va meglio!

Quando fu certo di essere tornato completamente in sé, Shingo rivolse un gioioso sorriso verso la sua immagine riflessa, che gli restituì quella spensieratezza e allegria che ogni giorno lo caratterizzava. Tornò nella sua stanza per vestirsi; sistemò il borsone che portava con sé agli allenamenti della sua squadra, fece il letto come meglio poteva e uscì dalla camera, saltellando a due a due le scale che lo avrebbero portato al piano terra.

«Aaaah, che bella giornata!» disse non appena uscì dal portone del palazzo dove abitava. La città antica si era svegliata sotto un sole acceso, e un forte vento che aveva spazzato via la nebbia che ogni mattina si formava, lasciando intravedere un cielo azzurro attraversato da molte nuvole dal bianco candido come la neve. Non a caso, Alba era famosa nella zona per essere “la città tra le nuvole”: una città immersa da intensi banchi di nebbia dove gli edifici più alti le bucavano con la loro sommità.

Shingo amava ogni cosa di quella città: il suo centro storico con le sue antiche chiese e palazzi, che spesso nascondevano dei veri e propri tesori dell’arte italiana; il panorama circostante, con le colline rigogliose di vigneti; la gastronomia, con i tradizionali piatti nei quali trionfavano il tartufo - che dal forte profumo gli ricordava un misto tra fieno e la castagna - e la carne cruda all’albese, tipica proprio di quei territori; infine le persone che vi risiedevano, che fin da subito si erano mostrate gentili e disponibili con lui nonostante l’evidente differenza somatica e culturale.

In quel territorio Shingo si era sempre sentito a casa, e grazie a ciò era riuscito ad attenuare un po’ la nostalgia della casa natia.

Fin dal giorno in cui aveva messo piede in Italia, ben tre anni prima, nonostante il suo grande coraggio da tigre che non esitava a emergere, il giovane aveva avuto sempre il timore di non essere ben accolto nella nuova comunità. Sebbene, per sua fortuna, non esistevano leggi che andavano contro chi non era nato in Italia, Shingo aveva sentito parlare di episodi di emarginazione proprio contro coloro che erano “diversi” dal resto delle persone, che non riuscivano ad adeguarsi alla “massa”: in quella nazione “essere diversi” non era un marchio che si conquistava con onore, in seguito a qualcosa di straordinario che si era compiuto; non era affatto il sinonimo di “essere speciali”, di avere quel qualcosa fuori dal comune che poteva essere d’aiuto alla società, ma era un marchio infame che gli altri ti imponevano fin da subito, e se già tra italiani c’erano episodi del genere, questi ultimi emergevano ancora di più nei confronti di coloro che definivano stranieri... proprio come lui.

Statura bassa, occhi estremamente sottili e carnagione molto chiara: Shingo era uno straniero a tutti gli effetti, e in quanto tale non era stato accettato fin da subito dagli italiani. Proprio per questo, all’inizio non era riuscito a ritagliarsi il suo posto nel mondo: nessuno che lo voleva nelle squadre professionistiche della città, nessuno che volesse assumerlo da qualche parte anche solo per svolgere il più semplice dei lavori... senza referenze era stato difficile. Al suo fianco doveva esserci quello zio Shinnosuke verso il quale sua nonna Atsuko lo aveva indirizzato: Shingo era certo che con lui sarebbe riuscito a farsi accettare da chiunque, proprio lui - quel parente che non aveva mai conosciuto di persona e con il quale aveva parlato qualche volta a telefono - che abitava a Milano fin dalla sua nascita, e che in qualche modo era amico di qualche allenatore e dirigente delle varie squadre presenti nella grande metropoli italiana.

Tuttavia, al suo arrivo a Milano lo zio Shinnosuke non c’era. Non c’era più: una frase che gli italiani dicevano per affermare la morte di una persona. Non appena Shingo aveva saputo di ciò, al termine del funerale si era precipitato dentro una cabina telefonica, inserendo all’interno di essa una carta internazionale per mettersi in contatto con i suoi genitori; non aveva ancora acquistato una scheda abilitata alle telefonate intercontinentali per il suo cellulare, per cui in quei primi due giorni di permanenza si era arrangiato in quel modo ormai inconsueto per la maggior parte delle persone.

E la risposta di sua madre era stata molto prevedibile.

 

«Come sarebbe a dire “Lo zio Shinnosuke è morto”?! Nonna non ci ha detto niente!»

 

«Forse nonna non lo sa ancora» le aveva detto con forte agitazione. «È vero, mamma: la prima cosa che ho fatto al mio arrivo è stato andare all’indirizzo che mi aveva lasciato lo zio Shinnosuke... ma quando sono arrivato al palazzo dove abitava, all’ingresso c’era un drappo nero dove c’era scritto che lo zio era morto e che stavano facendo i funerali in una chiesa vicina; quindi sono andato in quella chiesa e... e il funerale c’era davvero! Non è uno scherzo, mamma!»

«Oh, santi numi! Va bene, Shingo... cerca di stare calmo, ho un’idea. Hai ancora i soldi dell’affitto che nonna ti ha dato, vero?»

«Sì, mamma: ci sono ancora tutti!»

«Bene, allora puoi fare una sola cosa. Corri all’aeroporto... e prendi il primo aereo per il Giappone. Non puoi restare a Milano da solo: da chi andrai, se l’unico parente che avevamo a Milano ci ha lasciato? Pace all'anima sua...»

«Vuoi che torni in Giappone?! Ma...»

«Shingo, ascolta. So quanto ci tieni... però Milano non è Tokyo. Milano è un ambiente diverso da quello al quale sei abituato.»

«Ma non posso partire: sono appena arrivato! In qualche modo mi arrangerò, promesso...»

«Lo so... ma noi non conosciamo Milano, né tantomeno il resto d’Italia. Ti prego: torna qui, e non appena troveremo qualcun altro che può ospitarti puoi di nuovo partire per l’Italia... però non farmi preoccupare, per ora ritorna qui...»

«Mamma, io... non so: forse posso andare in un albergo...»

«Sei minorenne, non ti accetteranno mai senza un adulto al tuo fianco. Ascoltami, per ora ti conviene tornare qui... ok? Ti prometto che troveremo una soluzione, ma non restare a Milano da solo...»

In quel momento Shingo non sapeva cosa fare. La voce dolce e rassicurante di sua madre contrastava con i sentimenti di rabbia e disperazione che stavano crescendo sempre più in lui. Ne era fortemente convinto: voleva restare in quella città e iniziare la sua avventura - e aveva anche i soldi per poterlo fare; perché doveva gettare la spugna solo perché un suo parente era morto?

In realtà - ma Shingo lo avrebbe capito solo qualche tempo dopo - sua madre ci aveva visto lungo, nonostante rispetto a lui non conoscesse granché il mondo italiano. Da genitore lo aveva capito: in Italia, se non si era figlio di qualcuno di già noto... il rischio di essere discriminato era molto alto, e Shingo lo aveva sperimentato già quando, qualche giorno dopo, era riuscito a entrare in uno dei prestigiosi club di calcio della zona.

Era stato definito un giapponese, non solo perché proveniva da quel lontano territorio, ma perché - a detta dei suoi primi compagni di squadra - non sapeva giocare a calcio: un termine dispregiativo, quel “marchio infame” che lo distingueva dagli altri in modo non onorevole, ma deplorevole.

Però... se era vero che il calcio riusciva ad abbattere tutte le barriere che c’erano tra persone di diverse nazionalità, Shingo voleva dimostrarlo. E alla fine ci era riuscito, trasformando il termine giapponese nel suo totale opposto, che stava a significare una persona brava a calcio: lui era diventato il simbolo di quel termine e, a poco a poco, si era fatto accettare e amare da tutti, a cominciare dagli stessi compagni di squadra che lo avevano osteggiato.

Anche su questo non era rimasto da solo: per sua fortuna in Italia c’era stato anche chi, fin da subito, aveva creduto in lui e gli si era affezionato. La proprietaria della casa dove abitava lo zio Shinnosuke e che era diventata la sua dimora prima di lasciare Milano, il lustrascarpe di Piazza Fontana che gli aveva offerto un pezzo di pane quando non aveva niente da mangiare, il signor Calimero dello staff del settore giovanile dell’Inter con il quale nei primi giorni si era dedicato alla manutenzione degli scarpini dei giocatori, il portiere Gino Hernandez che era stato l’unico tra i suoi compagni di squadra a stargli accanto fin dal primo giorno nel quale si erano conosciuti. Da queste poche persone, a poco a poco Shingo aveva iniziato a costruire una fitta rete di amicizie, che aveva continuato a esistere anche dopo la sua partenza da Milano alla volta della cittadina dove ora si trovava.

Alba era il luogo dove Shingo aveva capito ancora di più che l’Italia era proprio come il Giappone: vi erano persone accoglienti e altrettante che non erano disposte ad accettare qualcuno di diverso da loro. In una mattina di nebbia fitta, Shingo aveva incontrato alle porte della città colui che sarebbe diventato un suo caro amico nonché compagno di squadra: il nigeriano Bobang, così allegro e solare, era stato il primo dei tanti che lo avevano accolto al suo arrivo; giunto in quella città, anche la nebbia aveva lasciato spazio al caloroso benvenuto dei suoi abitanti, che non appena lo avevano visto avevano iniziato a sventolare bandiere e striscioni con il logo della squadra e il suo nome.

Con ciascuno di loro Shingo aveva intrapreso un difficile cammino - ma non impossibile - con l’obiettivo di promuovere nella Serie B la loro squadra, l’Albese. Anche laggiù, a nessuno importava il luogo di nascita o la storia pregressa del piccolo calciatore: la comune passione per il calcio li aveva resi tra loro amici, e ogni giorno Shingo era sempre più grato alle divinità per aver incontrato lungo il suo cammino altre persone simpatiche e gentili, sulle quali poter contare nel momento del bisogno.

 

Il modesto appartamento dove Shingo abitava era in pieno centro cittadino, ma dalla parte opposta dove si trovava il campo d’allenamento della squadra. Ogni giorno il calciatore attraversava a piedi le antiche strade del centro storico, salutando cordialmente tutti coloro che incrociava: di ciascuno di essi ormai conosceva il nome e cosa faceva nella vita, come parte della grande famiglia della quale gli abitanti di Alba si sentivano parte, e della quale anche Shingo ormai faceva parte a pieno titolo; aveva conquistato fin da subito la fiducia e il rispetto degli albesi, grazie al suo carattere estroverso e alle sue abilità nel calcio, qualità - queste ultime - con le quali stava aiutando i suoi compagni a far vivere alla loro squadra una stagione ricca di successi e grandi soddisfazioni. L’Albese stava lottando, infatti, per la conquista del primo posto nella classifica del campionato, alla cui fine mancavano solo un paio di mesi: i componenti della squadra ce la stavano mettendo tutta per non deludere i loro tifosi, e in quell’anno l’arrivo di Shingo era stato fondamentale per ultimare la costruzione di un team molto forte che forse, un giorno non molto lontano, avrebbe potuto competere anche con la grandi squadre della Serie A.

Shingo aveva iniziato a correre, immettendosi in vie strette che puntualmente gli ricordavano le strade della sua cittadina natale. Svoltato un angolo, urtò contro una persona che stava venendo dalla direzione opposta; non perse tempo a scusarsi fermandosi e rivolgendole un inchino di rispetto ma, non appena alzò la testa, spalancò gli occhi e tra le sue labbra si delineò un largo sorriso.

«Ciao, non ti avevo vista!» salutò Shingo con la sua solita allegria. Di fronte a lui, una ragazza con i capelli castani, lunghi fino alle spalle, stava stringendo lo spallaccio del suo zaino a tracolla, mentre i suoi sottili occhi cerulei si erano fissati in quelli neri di Shingo; non appena anche lei si riprese dall’impatto, ricambiò il saluto con altrettanta gioia.

«Ehi! Stai andando agli allenamenti della squadra?»

«Proprio così!» rispose lui. «E scommetto che tu stavi andando all’università, giusto?»

«Come sempre: la strada è la stessa!»
La ragazza, leggermente più alta di Shingo, diede un sospiro e incrociò le braccia. «Non ne posso più: negli ultimi giorni sto perdendo più tempo con le pratiche da consegnare che quello che spendo quando sono ai vigneti! Non vedo l’ora di finire l’università, davvero... beato te che ti sei dedicato al calcio: almeno non hai bisogno di studiare sui libri per fare ciò che ti piace!»

«Però hai detto che il tirocinio ti sta piacendo...» puntualizzò il piccolo giocatore con un tono piuttosto sorpreso.

«Appunto: il tirocinio, non le maledette pratiche... con tutta l’università!»

La giovane alzò gli occhi verso il cielo ormai sempre più sgombro di nubi, poi tornò a guardare Shingo. «A proposito... stasera ci sei? Devo dirti una cosa importante...»

«Vediamo...»

Il calciatore posò il borsone a terra, aprì una delle tasche e da essa prese un taccuino, che subito consultò. Poi lo chiuse di scatto e rivolse nuovamente lo sguardo sulla ragazza che gli stava di fronte «Certo! Dopo le cinque del pomeriggio: il tempo che torno a casa, mi cambio e possiamo vederci!»

«Va bene, allora. Conto di liberarmi per le sei: ti mando un messaggio quando sono pronta, ok? Ora devo scappare, ciao!»

Shingo annuì e la ragazza, dopo avergli rivolto un sorriso, iniziò ad allontanarsi da lui a passo svelto. Il piccolo calciatore spalancò gli occhi all’improvviso, come se si fosse appena ricordato di una cosa urgente, e allungò il braccio nella direzione nella quale si stava dirigendo la ragazza, accompagnando quel gesto con un richiamo. «Aspetta, Aurora!»

La giovane interpellata arrestò la sua corsa. Si voltò nuovamente, in attesa che l’altro tornasse a parlare.

«Volevo dirti... buona giornata! Divertiti ai vigneti!»

Dalle labbra della ragazza sfuggì una risata. Agitando la sua mano, subito lei rispose: «Anche tu... ma sono certa che lo farai!»

 

Dopo aver visto quella giovane sparire dalla sua visuale, Shingo riprese il borsone e tornò a correre, in direzione del campo d’allenamento dell’Albese.

Durante il suo tragitto, più volte al minuto calciatore tornò in mente l’incontro che aveva avuto poco prima con quella ragazza. Così come era successo per molti abitanti della città, Shingo si era molto affezionato a lei, che aveva un nome che sembrava contrastare con il clima solitamente umido di quella località: Aurora.

Quando aveva imparato il termine che nella lingua italiana indicava l’apparizione della luce che appare nel cielo poco prima del sorgere del sole, e che lui amava molto quando abitava ancora a Nakahara, Shingo aveva alzato un sopracciglio, piuttosto incuriosito: si era ricordato che in Giappone si usavano i kanji per costruire un nome di una persona attorno a un significato ben preciso, così come era successo per il suo - Aoi Shingo - tuttavia non immaginava che anche in altre zone del mondo si usassero come nomi personali dei termini che, solitamente, si riferivano alle bellezze della natura. Aveva imparato che Gino, Salvatore, Matteo, solo per fare qualche esempio, erano tutti nomi che si riferivano a personaggi realmente esistiti - quelli che definivano i “santi” della religione cristiana - o in onore di qualche parente stretto come i nonni; Aurora era stato il primo nome che non era collegato ad alcun essere umano, ma proprio alla natura che lui tanto amava, e lo aveva scoperto proprio durante la sua permanenza nella cittadina di Alba. Così, Shingo aveva deciso di acquistare un libro sui nomi e, a poco a poco, un intero mondo si era svelato ai suoi occhi, scoprendo che Aurora non era l’unico nome con quella caratteristica. Alba, Bianca, Flora, Giacinto, e così via: vi erano un sacco di nomi con palesi riferimenti alla natura, proprio come avveniva in Giappone.

 

«Perché i tuoi genitori ti hanno chiamato così?»

 

Questa era la domanda che Shingo aveva rivolto ad Aurora, quando si erano conosciuti. I due ragazzi si erano incrociati per la prima volta durante la sua quotidiana corsa mattutina verso il campo d’allenamento: insieme a Bobang, il minuto calciatore era uno dei primi ad arrivare in quel luogo e di solito non c’era mai nessuno oltre a loro, a causa di quell’insolito orario.

Quel giorno, invece, Shingo aveva trovato quella ragazza all’ingresso: lei stava camminando verso la direzione opposta e, non appena lo aveva notato, si era fermata e lo aveva salutato; dopodiché, senza perdere tempo, lo aveva richiamato.

«Aspetta: tu sei Aoi Shingo?» gli aveva chiesto.

Anche lui si era fermato, sebbene aveva continuato a correre sul posto. «Certo! Sono proprio io!» aveva risposto.

«Lo sapevo, sei davvero riconoscibile! Il mio fratellino mi ha sempre parlato di te, e mi ha avvisato che saresti venuto qui, nella città di Alba!»

Shingo era stato felice di sapere di avere qualche altro fan in altre zone d’Italia e, per questo motivo, le aveva rivolto un caldo sorriso; tuttavia, subito dopo, il giovane aveva socchiuso la bocca e spalancato gli occhi

«Il tuo... fratellino?» aveva chiesto. Quei piccoli occhi cerulei gli avevano appena ricordato qualcuno che, in realtà, conosceva molto bene... ma non sapeva ancora che proprio quella persona avesse una sorella, che con quella gentilezza sembrava avere un carattere decisamente opposto.

 

Aurora era una studentessa del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino, e si trovava ad Alba per seguire i corsi previsti nella laurea triennale in Viticoltura ed Enologia. I suoi genitori erano proprietari di un vasto vigneto sulla Collina torinese, e per questo fin da bambina lei aveva deciso di dedicarsi alla cura di quell’angolo. La sua scelta dopo le superiori era stata molto chiara: continuare gli studi per diventare un enologo, per capire anche come prendersi cura al meglio di quei vigneti tra i quali aveva sempre corso, toccando con le sue mani i grappoli che pendevano dai tralci.

Questo era tutto ciò che Shingo aveva capito della vita di quella ragazza, prima che i due si incontrassero per la prima volta all’ingresso di quel campo d’allenamento. Quel giorno, la giovane aveva rinunciato ad andare in facoltà pur di assistere agli allenamenti della squadra: amava il calcio - era la cosa più vicina che gli ricordava suo fratello, tra l’altro - e quando riusciva a ritagliarsi un piccolo spazio nel suo tempo libero si incantava a osservare i giocatori che si allenavano e ce la mettevano tutta per dare il meglio verso la loro squadra. Anche l’Albese non costituiva un’eccezione, e dal giorno in cui era arrivata ogni tanto si soffermava sugli spalti e con lo sguardo seguiva attentamente i movimenti dei vari calciatori presenti sul campo.

Fin dal primo giorno Aurora aveva preso in grande simpatia Shingo, con il quale aveva trascorso del tempo a chiacchierare delle loro vite. Così, lei aveva scoperto che Shingo avrebbe voluto far ritorno all’Inter, un giorno non molto lontano, e che nel frattempo stava dando il massimo per portare l’Albese nella Serie B; constatò che la sua testardaggine le aveva ricordato il suo fratellino - lo stesso che, da quando era ad Alba, gli mancava ogni giorno.

Mentre, riguardo il suo nome...

«Sono nata nelle prime ore del mattino, mentre fuori c’era una splendida aurora. O, meglio, questo era ciò che mi hanno sempre raccontato i miei genitori.»

Aurora aveva visto gli occhi di Shingo brillare, intento a immaginarsi lo scenario che lei gli stava raccontando. Lo sguardo del minuto calciatore, però, lasciava presagire anche ben altro: lo stupore per aver sentito un nome del genere, così simile a quelli giapponesi che con i suoi kanji richiamavano la natura della quale era innamorato.

«Certo che anche tu non scherzi!» gli aveva detto, non appena aveva saputo del significato del suo nome. «Un gioco di parole con il semaforo verde? È stranissimo... però mi piace!»

Così, i due avevano finito per incontrarsi e parlare anche nei giorni successivi, al termine del suo tirocinio e degli allenamenti di Shingo. Lei era genuinamente interessata a ogni dettaglio della vita del calciatore, così come lui sembrava esserlo riguardo la sua: era come se il suo fratellino, che involontariamente stava facendo da ponte tra i due, avesse preso la sua mano destra e quella di Shingo e le avesse intrecciate tra loro.

... ah, se solo il suo adorato fratellino avesse saputo cosa lei aveva appena immaginato: sebbene il rapporto con quel minuto calciatore fosse leggermente sulla via del miglioramento, non sarebbe stato da lui mostrarsi così tenero in modo plateale!

 

 

 

«Sono qui!»

Quando Shingo era uscito dal campo d’allenamento dell’Albese, a grande sorpresa si era ritrovato Aurora all’ingresso, con il suo solito zainetto che portava con sé per le attività del tirocinio. Qualche minuto prima le aveva inviato un messaggio, per incontrarsi quando avrebbe rimesso piede a casa, e per questo non si aspettava di trovarla lì, ancor prima del loro incontro.

Che strano... Shingo la conosceva solo da qualche mese, ma la conosceva abbastanza per essere certo di una cosa: Aurora non era mai stata una ragazza che amava anticiparsi, anzi; rispettava gli orari stabiliti con gli altri, proprio perché non voleva dare fastidio. Il fatto che si trovasse lì, un sacco di minuti prima che si mettessero in contatto, gli era davvero strano.

Nonostante ciò Shingo la salutò come se niente fosse, poi disse: «Ma io devo ancora tornare a casa: non posso uscire, sono tutto sudato!»

Aurora sorrise e lo rassicurò. «Nessun problema, anzi: se ti va, possiamo sederci tra gli spalti... il campo non chiude subito, vero? Inoltre... oggi che non c’è nebbia possiamo goderci un po’ il tramonto, cosa ne dici?»

Shingo annuì. «D’accordo, tanto non vado di fretta! Solo che...» e si guardò la punta delle scarpe, il suo volto colmo di imbarazzo, «dovrei davvero tornare a casa e farmi una doccia. Non voglio che tu... insomma... pensi male di me solo perché sono sudato! Ti assicuro che mi lavo sempre, tutti i giorni e tutti i minuti quando posso!»

«Ah, capirai!» Con un sorriso la ragazza ridusse le distanze e posò una mano sulla spalla dell’altro. «Fossero solo questi i problemi del mondo! Ti assicuro che rispetto a certe compagne di stanza che ho avuto, tu sei la persona più ordinata e pulita dell’universo: di certo non sei una scimmia che non si fa il bagno dalla mattina alla sera...»

«Però, a proposito di scimmia... tuo fratello...»

«Lascia perdere il mio fratellino: lo sai che a volte parla senza pensarci! Eh, se dovessimo prendere sul serio tutto ciò che dice, il mondo sarebbe finito da un bel pezzo, credimi!»

Aurora batté più volte la mano sulle spalle di Shingo e aggiunse, con tono affettuoso: «E riguardo proprio lui... ti confesso che non mi dispiace vederti così. Me lo ricordi molto!»

 

Dopo aver superato l’ingresso del campo, i due ragazzi si accomodarono sulla prima gradinata degli spalti che cingevano l’area di gioco. Da quella posizione il panorama del cielo al tramonto era ben visibile, mentre la luce del sole man mano lasciava spazio alla luna e alle prime stelle che si iniziavano a intravedere da lontano.

Nell’osservare quel paesaggio ad Aurora tornò in mente di quando, qualche mese prima, Shingo le avesse chiesto informazioni più dettagliate sull’università che stava frequentando in quella città: i corsi, le attività che stava svolgendo... In quell’occasione il ragazzino aveva paragonato la sua situazione al viaggio che egli aveva intrapreso per venire in Italia: in entrambi i casi si trattava di studiare e impegnarsi nelle cose che i due giovani amavano, con la differenza che lui aveva pianificato di restarci il più a lungo possibile - anni interi se fosse stato necessario - mentre lei...

 

«Come? Andrai già via? Così presto?»

 

Gli occhi colmi di stupore che le aveva mostrato Shingo l’avevano colpita. Non stava pensando anche lui di fare lo stesso, con il calcio? Tornare un giorno a casa, in Giappone, dalla sua famiglia... o forse quel ragazzo non stava sentendo la mancanza di coloro che l’hanno cresciuto, dei suoi amici, di tutte quelle persone che stavano aspettando il suo ritorno?

Aurora si era limitata ad annuire e, a quel punto, con le braccia conserte Shingo aveva aggiunto: «Uffa, è davvero un peccato: dovevi restare di più!»

«Perché?» gli aveva chiesto. Era sinceramente curiosa di conoscere il motivo per il quale apparentemente lui sembrasse... così infastidito dalla certezza della sua partenza, che sarebbe avvenuta subito dopo la laurea, dunque non nell’immediato.

La risposta del calciatore, così semplice e innocente - degna del carattere di quel ragazzino - l’aveva colta di sorpresa. «Semplice: perché dovevi restare di più! Alba è una bella città, la tua non mi piace per niente: troppo smog e troppa gente sospetta! Inoltre qui hai anche degli amici, saranno dispiaciuti se andrai via...»

Lei aveva trattenuto le risate; poi, con un dolce sorriso, gli aveva detto: «Si vede che non sei mai stato nella zona dove abito. Ti prometto che un giorno ti porterò in collina... e ti dimostrerò che la mia città nasconde degli angoli davvero graziosi!»

«Nella... nella tua zona?»

«Tu hai visto solo il centro e la zona degli stadi... ma ti assicuro che dove vivo io è davvero un’altra cosa! Non a caso ci vive gente di tutto rispetto... come la nostra famiglia.»

«Urm...»

Aveva visto lo sguardo di Shingo diventare pensieroso di fronte alla sua proposta, dopodiché il calciatore era tornato a guardarla negli occhi e aveva così affermato: «Allora promettimi una cosa.»

«Dimmi.»

«Prometti... prometti che tuo fratello non mi caccerà a pedate quando mi vede! Anzi, non appena sai che sto arrivando, chiudilo a chiave da qualche parte... per esempio in cantina! Anzi no: legalo a una sedia o al letto, in effetti potrebbe pur sempre trovare un modo per scappare e darmi fastidio! Se mi dici che puoi farlo... allora verrò da te, così vedrò i vigneti dei quali tu mi hai parlato così tanto!»

«Sei davvero sicuro che devo legarlo da qualche parte? Ti assicuro che non morde quando è a casa, e poi ci sono io: in mia presenza non oserebbe mai torcere un capello, nemmeno al suo più acerrimo nemico!»

«Lo dici perché sei sua sorella... e io lo so perché anch’io ho una sorellona che mi vuole tanto bene.»

«Su questo puoi stare tranquillo. Sarai mio ospite... e tutti gli ospiti sono trattati con i guanti a casa Gentile. Se il mio fratellino osa anche solo torcerti un capello... sai nostra madre dove lo farebbe volare? A quel punto non gli basterebbe essere il miglior difensore della nazionale italiana: a nostra madre non importa se è un adulto ed è diventato un personaggio di tutto rispetto... mio fratello rischierebbe di rotolare verso valle se a nostra madre non le va a genio anche solo una parola fuori posto!»

 

«Qualcosa non va?»

La voce di Shingo la riportò alla realtà. Aurora si era persa in quel ricordo, nel quale avevano finito per parlare, ancora una volta, di ciò che a entrambi mancava molto: la famiglia.

Sia lei che il calciatore erano nati in due famiglie che, fin dal primo istante, avevano dato loro molto affetto e serenità. Entrambi avevano due genitori che li avevano cresciuti insegnando loro tutto ciò che loro sapevano, dai fondamenti della vita ai segreti dei loro lavori: l’artigianato nel caso di Shingo, l’agricoltura nel caso di Aurora.

Entrambi avevano due fratelli che amavano alla follia, e che erano appassionati ad altri mondi oltre a quello nel quale erano nati: Yukiko, una ragazza dolce e vivace che adorava il kyūdō, la celebre arte marziale giapponese nel quale si fa grande uso dell’arco; Salvatore, un giovane dal carattere un po’ arrogante ma affettuoso - quest’ultimo un lato che non mostrava quasi mai, se non nei confronti di chi voleva bene - e che si era appassionato al calcio fin da bambino.

Entrambi, ad un tratto del loro percorso, avevano dovuto prendere una decisione che avrebbe cambiato la loro vita ma, allo stesso tempo, influenzato le sorti delle loro rispettive famiglie: Shingo aveva deciso di proseguire con il calcio, per diventare un giocatore di tutto rispetto; Aurora, invece, aveva continuato a perseguire il sogno di essere un enologo e, così, far rinascere un vasto vigneto che negli ultimi anni i genitori stavano curando con molte difficoltà ma tanta fiducia nel futuro.

Entrambi avevano tante cose in comune, forse molto più di quello che credevano. Ogni giorno entrambi ce la mettevano tutta nell’inseguire i loro sogni, anche grazie al sostegno delle loro famiglie e dei loro amici, e ad entrambi piaceva il calcio, anche se Aurora non lo praticava. Entrambi amavano la natura alla follia, entrambi amavano la serenità di un luogo il più lontano possibile dal caos di una vita frenetica... ed entrambi amavano Alba, quel centro cittadino dove si trovavano e dove avevano iniziato non a gettare le basi, ma a rinforzarle per il loro futuro. Le avevano costruite altrove, in due città antiche con il tempo - Milano e Torino - per poi ritrovarsi quasi a metà del percorso che le separava, in una zona che aveva tutte quelle caratteristiche che entrambi amavano: la quiete della vita, la cordialità delle persone che lì abitavano...

«Stavo pensando che è bello essere qui...» sussurrò Aurora, appoggiando il mento sulle mani. «Non è meraviglioso?»

«Cosa?»

«Questo tramonto! Mi piace molto quando non c’è nebbia... proprio come a casa mia!»

«Sai, più dici così e più mi stai facendo venire voglia di prendere subito un treno per andare a Torino e non tornare più qui» affermò Shingo, stiracchiando le braccia verso l’alto. «Chissà come deve essere il tramonto visto da casa tua... ne parli come se fosse qualcosa di eccezionale!»

«Perché lo è! Dalle Colline del Po vediamo tutto, dalla città fino alle Alpi circostanti: ci sono dei punti panoramici davvero eccezionali!»

«“Nulla in confronto ad Alba”, vorresti dirmi?»

«Beh... giudicherai tu stesso quando sarai mio ospite! A tal proposito...»

Aurora aprì il suo zainetto e da essa ne estrasse un piccolo pacchetto, che subito porse a Shingo. «Credevi che non lo sapessi, eh? Buon compleanno!»

Gli occhi del minuto calciatore si spalancarono per la sorpresa. «A-Aspetta un momento: c-come hai fatto a–»

«Saperlo, dici?» lo interruppe la ragazza. «Semplice: ormai hai un sacco di fan in tutto il mondo, per cui è bastata una ricerca su Internet e voilà! Questo genere di informazioni si trovano con estrema facilità, mentre per la conferma... beh, diciamo me l’ha detto un uccellino...»

Shingo si mostrò sempre più sorpreso. «Come “un uccellino”? In Italia ci sono uccellini che parlano? È impossibile: gli uccelli possono solo cinguettare! Accidenti, da oggi devo stare più attento anche quando sono da solo!»

Aurora scoppiò a ridere e con dolcezza gli posò una mano sul ginocchio. «Ma no, scemotto! È un modo di dire: “Me lo ha detto un uccellino” significa che me l’ha detto qualcuno di cui non voglio svelare l’identità...»

«Comunque resta il fatto che dovrò stare più attento. Ok, da oggi in poi sarò muto come un pesce: non parlerò nemmeno sotto tortura!»

Sotto lo sguardo divertito di Aurora, il calciatore fece il gesto di chiudersi la bocca, come se avesse avuto una cerniera al posto delle labbra. Senza più dire una parola prese in mano il regalo e lo scartò, lanciando un gridolino di gioia quando aveva svelato il contenuto: una scatola trasparente dove all’interno vi erano intrecci di tralci che costituivano la forma di un pallone.

«L’hai... l’hai fatto tu?» aveva domandato Shingo con entusiasmo.

«Certo! Così ti ricorderai di me quando andrò via... anzi...»

Il volto della ragazza divenne all’improvviso malinconico, e un profondo sospiro riecheggiò nell’area dove si trovavano i due giovani. «C’è una cosa che devo dirti...»

Shingo restò in silenzio, attento ad ascoltare ciò che Aurora aveva da confidargli. I due restarono in silenzio per qualche secondo, guardandosi negli occhi; poi, la ragazza riprese la parola: «Domani sarà il mio ultimo giorno di tirocinio, per cui la mia partenza è praticamente confermata: tra qualche mese torno a casa, dopo la mia laurea.»

L'altro sgranò gli occhi. «Di già? Ma... ma così in fretta?»

«Purtroppo sì. Mi dispiace davvero tanto: non ho mai avuto il coraggio di dirtelo perché so quanto ti faccia piacere stare con me... però non partirò subito, eh! Resterò fino alla fine del campionato, così tu porterai l’Albese nella Serie B e io conseguirò la laurea. Due successi che festeggeremo insieme, ci pensi?»

La giovane distolse lo sguardo e tornò a osservare il cielo attraversato dai colori del tramonto. Con un sorriso intriso di tristezza aggiunse: «Sai, sarebbe bello se noi restassimo qui per sempre... ma non penso che sarà possibile. Al biennio mi trasferirò ad Asti, e con i corsi che mi aspettano inizierò a fare il giro di tutta Italia: sarà un viaggio molto bello e conoscerò un sacco di persone, facendo ciò che mi piace... però mi sarebbe piaciuto restare qui ancora per un po’… e continuare a vedere gli allenamenti della tua squadra...»

«Pensa positivo!» la interruppe Shingo. «Da una parte dispiace anche a me... però così tuo fratello sarà felicissimo di rivederti per qualche mese, e non si lamenterà più del fatto che tu tifi per una squadra rivale o qualcosa del genere. I tuoi timpani ringrazieranno!»

Aurora scoppiò a ridere. «Hai ragione: non mi sorbirò più tutte le sue lamentele! Però lo conosci, sai che non ammetterebbe mai che, in fondo, ti vuole bene. Sai, era davvero preoccupato per te all’inizio...»

A quell’affermazione, di colpo l'espressione sul volto di Shingo divenne seria. «Come “preoccupato”? Lui... preoccupato per me? Lui?!»

La ragazza si portò l’indice sulle labbra, poi disse: «Mi raccomando, che resti un segreto tra noi! Mio fratello non ha mai accettato che in questo momento stai giocando nella Serie C, mentre lui è nella Serie A... perciò, metticela tutta e porta l’Albese in promozione, ok? E vedrai i salti di gioia che farà nella sua stanza quando tornerai nella Serie A: so che non stai credendo alle mie parole, però lo filmerò di nascosto e ti invierò il video, promesso!»

Shingo arricciò le sopracciglia. «Bugiarda, lo stai dicendo solo per consolarmi. Lo sai meglio di me: tuo fratello mi odia dal primo giorno che mi ha visto!»

«Fidati, fidati: puoi dire tutto di lui, tranne che ti odia!»

«Non stiamo parlando della stessa persona, mi sa.»

«Invece sì, te l’assicuro.»

«Invece no.»

«Invece sì. Fidati di me, sono sua sorella.»

«Anche la mia sarebbe disposta a nascondere tutti i miei difetti. Chiedile di me, ti direbbe lo stesso!»

«Questo perché non lo conosci fino in fondo. È vero: all’inizio Salvo ti detestava, e a casa non faceva altro che lamentarsi “di quella scimmietta sul campo”... ma solo perché non ti riteneva un avversario degno di lui. Poi...»

«Lo so, lo so: ha riconosciuto le mie capacità. Ma questo non vuol dire che di punto in bianco mi vuole bene: se mi odia, mi odia! Potrei essere il più bravo calciatore al mondo, ma sono certo di essergli ancora un po’ antipatico fuori dal campo...»

«Non è vero, anche fuori dal campo ti vuole un bene che nemmeno immagini... quasi come se fossi il nostro fratellino!»

Aurora pronunciò quelle ultime parole con un tono di forte commozione. Era proprio il modo in cui considerava quel ragazzo: un fratellino, al pari del suo fratello di sangue. E, riguardo proprio quest’ultimo, dalle conversazioni che avevano avuto negli ultimi mesi la giovane studentessa sapeva che anche lui aveva i suoi stessi sentimenti nei confronti del minuto calciatore.

 

«Mi raccomando: dato che anche lui ora si trova ad Alba, tienilo d’occhio. Prima ritorna nella Serie A e meglio sarà per tutti... anche per lui!»

 

In quel momento, Aurora pensò che Shingo le sarebbe mancato molto. La sua permanenza ad Alba era stata piacevole anche grazie a lui, e anche per questa ragione le dispiaceva partire nel giro di qualche mese. Le sarebbe piaciuto continuare a vederlo allenarsi, assistere alle partite della sua squadra quando giocava in casa e ritrovarsi con lui ogni volta che entrambi erano liberi dai loro rispettivi impegni. Le era simpatico, una presenza che, insieme alle sue compagne di corso, rallegrava le sue monotone giornate immerse nella nebbia che avvolgeva la città.

«Grazie, Shingo...» gli sussurrò, e gli rivolse un sorriso leggero, colmo di felicità. «Ti prometto che dopo la laurea verrò ancora a trovarti... intanto metticela tutta con il calcio, e io farò lo stesso con gli studi!»

«Ah, a proposito!»

Shingo aprì il borsone e prese un piccolo sacchetto che porse alla ragazza. «Ho fatto un pensierino per te! In realtà dovevo ancora trovare una carta adatta con il quale avvolgerlo... ma visto che partirai presto, te lo darò adesso. Scusami davvero se è senza carta regalo...»

«Wow, non dovevi! Però, dai: in fondo non parto domani mattina, ahahah!»

Aurora afferrò con stupore quel sacchettino e lo aprì. All’interno vi era un bracciale in caucciù: era molto semplice, ma aveva sui lati qualche incisione che ritraeva foglie di viti e grappoli d’uva; incisioni piccole, ma che erano estremamente dettagliate.

«Dovrebbe essere un portafortuna... almeno, spero che ti porterà tanta fortuna!» continuò Shingo, indicando il bracciale. «L’ho fatto io, ti piace?»

«Tu? L’hai fatto tu, da solo?»

«Sì! Sicuramente ci sarà qualcosa che non va, perché non ho avuto molto tempo a causa degli allenamenti... però adoro fare queste cose, sono divertenti da realizzare!»

«Ed è molto bello... grazie mille!»

La ragazza indossò il bracciale e lo ammirò. Constatò che le stava bene al suo polso: il colore marrone chiaro non contrastava con la sua carnagione più chiara ma la risaltava, mentre le incisioni le ricordavano ciò che amava più di ogni altra cosa al mondo e al quale stava dedicando la sua vita.

«Sai cosa penso?» chiese lei, dopo aver rivolto nuovamente lo sguardo verso il calciatore. «Che un giorno ti chiederò di realizzare qualche regalo: sei davvero bravo! E sono certa che questo bracciale mi porterà tanta fortuna!»

 

 

 

Dall'altra parte del mondo, Yukiko non riusciva a chiudere occhio. Si girava e rigirava nel suo letto, ma il suo corpo non voleva sapere di cadere tra le braccia di Morfeo.

Era notte fonda, e dall’esterno non si udiva alcun suono. Si udiva solo lo strusciare delle lenzuola, che seguivano i movimenti della ragazza che continuava a muoversi senza trovare pace. Però Yukiko non era avvolta da sentimenti di forte preoccupazione, tutt’altro: la sua era una profonda felicità, per ciò che era accaduto nel tardo pomeriggio.

 

«Quando supererai l’esame di abilitazione di kyūdō, vorresti andare al Dosan festival con me?»

 

Il Dosan festival era uno degli appuntamenti più importanti e sentiti nell’area della prefettura di Gifu. Ogni anno, nel primo sabato del mese di aprile, la città di Gifu si animava di processioni che attraversavano la città insieme alle bande musicali che allietavano la permanenza delle migliaia di visitatori. A Yukiko piaceva molto l’angolo del mercatino delle pulci, dove riusciva a trovare tutto ciò che desiderava, anche del materiale che poteva riutilizzare per le sue future creazioni.

Per la prima volta, Yukiko sarebbe andata non con la sua famiglia ma con un ragazzo, di qualche anno più grande di lei, che si era trasferito da poco nella sua cittadina. Un ragazzo nei confronti del quale, a poco a poco, lei aveva iniziato a porre la sua fiducia; quasi al pari di un caro amico, di fronte al quale lei provava rispetto e profondo affetto.

Forse dovrei dirlo a Shingo. A essere sincera mi sarebbe piaciuto tenerlo nascosto ancora per un po’, almeno fino al suo ritorno... ma non ce la faccio più... pensò, mettendosi con la schiena contro il materasso. Devo dirglielo, non sto più nella pelle! A quest’ora sarà ancora sveglio, beato lui!

Nonostante la grande lontananza che li separava, i due fratelli Aoi riuscivano a sentirsi tutti i giorni e a condividere tutto ciò che accadeva nel corso della loro giornata. In generale si invitavano dei messaggi senza tenere conto della differenza di fuso orario, ma riuscivano sempre a realizzare una videochiamata di gruppo con il resto della famiglia quando in Italia era ora di pranzo, mentre in Giappone stavano cenando o avevano appena finito di farlo. Gli Aoi l’avevano fatto anche quel giorno, in occasione del compleanno di Shingo, e Yukiko in particolare aveva avvertito - più degli altri giorni - quel forte sentimento di assenza che provava da circa tre anni. Suo fratello le mancava, le mancava davvero tanto, e senza di lui tutto le sembrava più grande e quasi sconfinato: con lui, Yukiko era abituata a condividere tutto, a partire dalla stessa camera da letto fino alle attività nella bottega di famiglia.

Senza di lui, la giovane artigiana aveva compreso che la sua vita era cambiata. Non era successo sul piano lavorativo perché alla fine aveva deciso di proseguire nel mondo dell'artigianato ma, allo stesso tempo, continuare a coltivare la sua passione per il kyūdō - rinunciando a una promettente carriera nelle competizioni nazionali ma ambendo a diventare un'insegnante e trasmettere così la sua passione alle nuove generazioni - ma proprio sul piano affettivo: Shingo era una parte importante della sua vita, una parte di sé che avrebbe sempre sentito accanto anche se fisicamente era molto distante.

Il bracciale che portava al polso, dono che il suo fratellino le aveva fatto tre anni prima - subito dopo che lei gli aveva regalato il suo -, le ricordava ogni giorno del loro profondo legame che condivideva con lui fin dalla sua nascita, e che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire.

Yukiko si voltò verso il comodino che si trovava accanto al letto. Prese il cellulare e si preparò a scrivere a suo fratello un messaggio, ricordandosi di ciò che si erano detti qualche ora prima con la videochiamata che era iniziata nella cucina insieme ai genitori e alla nonna ed era terminata proprio lì, nella loro cameretta.

 

«Allora, sorellona: quando inviti il tuo amichetto a casa?»

«Quale amichetto?»

«Quel tizio simpatico... come hai detto che si chiama? Quello appassionato di libri antichi!»

«Il signor Nakamura, dici? Ecco... eheheh...»

«Perché stai ridendo, sorellona? Dai... dimmi perché stai ridendo, non ho detto niente di spiritoso!»

«Perché sono felice. Al tuo ritorno potresti avere una sorpresa...»

«Ma voglio avere qualche anticipazione! Su, dimmelo: qual è la sorpresa? È quella del mio compleanno, vero? E c’entra qualcosa il signor Nakamura, vero? Uffa, dimmi qualcosa: non restare in silenzio, sorellona!»

 

Yukiko soffocò le risate, e iniziò a comporre il messaggio. Suo fratello non era cambiato per niente, così come lei: gli anni sarebbero trascorsi, ma i loro caratteri sarebbero rimasti immutati. Per quanto avrebbero potuto avere dei cambiamenti fisici, la ragazza ne era certa: per Shingo lei sarebbe rimasta la vivace sorella maggiore nelle braccia della quale lui si rifugiava, mentre lui sarebbe rimasto quell’esuberante fratellino dalle energie inesauribili che non perdeva mai occasione per dimostrarle l’affetto che provava per lei.

Doveva dirglielo. Era certa che quella notizia lo avrebbe reso felice.

 

 

[Ciao, come promesso ti mostro la peonia che “il signor Nakamura” mi ha portato oggi: è davvero bella!

A proposito di lui... anche Hibiki ti fa tanti auguri di buon compleanno! Non vede l’ora di conoscerti di persona... e sai una cosa? Potresti davvero trovarlo qui la prossima volta che ci vediamo... anzi, per come stanno andando le cose, lo troverai di sicuro!

Ti voglio bene, fratellino! Ancora buon compleanno, un abbraccio. :)]

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Vi confesso che la parte che ho pubblicato oggi è stata scritta con non poche difficoltà. All'inizio avevo in mente una cosa, poi si è lentamente trasformata in altro... e il risultato è stato un testo molto diverso da quello che avevo pensato in origine. Dovevo inserire la telefonata tra Kojiro e Shingo avvenuta all'inizio del Kaigai Gekito Hen in Calcio (capitolo 1) e non l'ho fatto; dovevo inserire la telefonata di famiglia con Shingo, e non l'ho fatto; dovevo descrivere la partita di allenamento con Shingo e Bobang, e nemmeno quella...

... tutto questo "per colpa" di Hibiki: la sua presentazione e l'incontro con Yukiko ha cambiato un sacco di cose che inizialmente erano in programma, LOL!

Scherzi a parte, a mio parere questa è la parte meno riuscita di tutta la storia... o forse non ero dell'umore giusto mentre l'ho scritta, ed è per questo che la vedo molto piatta... ad ogni modo, l'importante è aver concluso anche questa; sulle eventuali modifiche posso tornare in un secondo momento. ;)

Come avete visto, la prima parte dei ricordi di Shingo è un riassunto di tutto ciò che è accaduto nel manga dopo il suo arrivo in Italia, e che tutti voi ben conoscete. In pratica è tutto ciò che è accaduto in questi ultimi tre anni che non ho trattato, dal suo arrivo a Milano fino al suo trasferimento all'Albese... per cui su questo punto non ho bisogno di aggiungere altro. :)

Invece, dato che qui sono comparsi altri due personaggi che non conoscete, di seguito ve li presento:

 

- Hibiki Nakamura 「中村響」 è un giovane archivista che lavora presso la biblioteca civica di Nakahara. Come avete già letto, si trasferisce nella cittadina di Yukiko e Shingo subito dopo la sua laurea conseguita presso l'università di Gifu. Adora i libri e - anche per questo - adora il suo lavoro di archivista.

Il suo nome significa "eco" mentre il suo cognome "nel villaggio".

- Aurora Gentile 「オーロラ ・ ジェンティーレ」 (qui l'uso del katakana è un po' inutile dato che lei è italiana come noi e suo fratello, LOL) è una giovane ragazza torinese, e studentessa del corso di studi in Viticoltura ed Enologia del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Ambientali dell'Università di Torino. In più, avete già capito che lei è la sorella maggiore di un certo Salvatore Gentile che tutti voi conoscete mooooooooolto più di me. :3 È prossima alla laurea che sta conseguendo per diventare enologo, in particolare per prendersi cura del vigneto di famiglia; come avete visto di carattere è più aperta e cordiale di suo fratello, che lei adora e comprende ciò che prova, sentimenti che di solito il calciatore non esterna nei confronti degli altri - non in modo plateale, almeno. (Sì, qui mi riferisco in particolare a un certo calciatore della prefettura di Gifu in Giappone, *coff coff* ;P)

Il suo nome si riferisce all'omonimo fenomeno dell'apparizione della luce poco prima del sorgere del sole, mentre il suo cognome... beh, a mio parere si presta a mille interpretazioni. Ho sempre pensato che la famiglia Gentile stesse molto bene economicamente - ragione per la quale, non a caso, ho collocato la loro dimora nella zona della Collina torinese, un quartiere residenziale della città di Torino rinomata per essere un luogo dove abitano persone dalla vita molto agiata (... e sì, avete immaginato bene: è una delle zone più costose di tutta la città, se non quella più costosa.) Perciò, "Gentile" nel senso di "nobile", ma allo stesso tempo "Gentile" anche per il carattere... anche se il nostro Salvo non è proprio gentilissimo da quel che ho capito però, sotto sotto, anche lui ha un minimo di gentilezza... :)

 

Come sempre, a questa parte si aggiungono le note finali (questa volta pochine ma la prima è molto corposa):

- A proposito del già citato Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Ambientali dell'Università di Torino, qui potete trovare una guida generale dell'offerta formativa dell'anno accademico 2020-2021. Sfogliando il file, troverete anche la presentazione del corso di studi in Viticoltura ed Enologia e Scienze Viticole ed Enologiche; in altre parole è la guida del "Come diventare enologo?" che la nostra Aurora sta seguendo... salvo che lei è già alla fine del suo percorso di studi triennale, per cui sta già preparando le valigie per andare via da Alba. Questo corso di studi è molto particolare perché, nonostante la sede principale sia a Torino, in base ai corsi da frequentare ci sono diverse sedi: il primo anno del triennio è a Grugliasco, gli altri due ad Alba (ed è per questo che Aurora si trova proprio ad Alba); stessa cosa per il biennio, dove si inizia ad Asti e si prosegue attraverso gli atenei sparsi in tutta Italia (Milano, Palermo, Sassari e Foggia).

Questo è ciò che ho capito consultando il sito dell'università, per cui se tra i lettori c'è qualcuno che sta facendo questo percorso mi farebbe piacere ascoltare anche la sua esperienza;

- Invece, a proposito di Alba, credo che l'espressione "la città tra le nuvole" sia molto adatta per una città dove la nebbia la fa da sovrana. Tempo fa avevo visto questo articolo nel quale Dubai, una delle città che letteralmente è immersa nelle nubi a causa della fitta nebbia, è stata definita "la città tra le nuvole". È chiaro che Alba non è Dubai... però come espressione è molto bella e suggestiva;

- Infine, il Dosan Festival è una delle più grandi manifestazioni della città di Gifu; si svolge il primo sabato e la domenica successiva di ogni aprile, e consiste in un insieme di eventi in onore delle conquiste ad opera di Saitō Dōsan, una delle figure più importanti dell'epoca Sengoku, che attraversano tutta la città: processioni di mikoshi (palanchini religiosi) e bande musicali, con un mercatino delle pulci. Qui maggiori dettagli sulla manifestazione.

 

E con questa parte siamo giunti alle porte del finale! Infatti la prossima sarà la conclusione di tutto, e finalmente si scoprirà la destinazione di questo lungo, lunghissimo viaggio negli anni di due personaggi molto amati dal fandom. Ma sarà davvero la conclusione, o questo finale lascerà presagire nuovi inizi e nuovi obiettivi all'orizzonte? Staremo a vedere...

Al prossimo aggiornamento!

--- Moriko

 

 

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Capitolo 15
*** Epilogo | Aoi and Morisaki's side ***


Fanfiction
Xib2yur

Epilogo.

{Alcuni anni dopo | Aoi and Morisaki's side}

 

 

BGM: Ludovico Einaudi - Experience

 

 

 

“Like frames in a time-lapse film...” (“Come fotogrammi di un filmato accelerato…”)

 

 

[12 Marzo - Algonquin Provincial Park, Canada.]

 

«... firmato... Eve Braidwood. Bene: questa è fatta!»

Sotto un maestoso albero di acero era seduta una donna dai capelli corti fino alle spalle, castano chiaro dai riflessi rossi, che aveva appena finito di scrivere su un foglio con la penna a china che portava sempre nel taschino della sua giacca. La fece volare in alto, per poi riprenderla e chiuderla con il tappo con un sonoro click.

Dopo aver arrotolato il foglio e inserito in un piccolo tubo che aveva preso dal suo marsupio, prese in mano il richiamo che portava al collo e lo avvicinò alle labbra, alzando il braccio dove indossava il guanto da falconiere. Un lungo fischio stridente si udì in tutta l’area e in un attimo, come una freccia scagliata da un arco, un enorme falco atterrò dolcemente sul suo guanto.

«Ma tu guarda questa: l’unica persona al mondo che continua ad inviare i messaggi come se fossimo nel medioevo europeo!» esclamò Takaji, con la schiena contro un altro albero di acero poco distante. Con i grandi occhiali da sole incastrati tra i lunghi capelli raccolti in alto, il giovane stava scorrendo il dito sullo schermo del suo cellulare e ogni tanto si lasciava sfuggire una risata, dando un’occhiata alle varie chat che stava controllando.

«Credi che Hermes sia qui solo per mangiare e andare a spasso?» chiese Eve, mentre con cura legava il tubicino alla zampa del falco. «Suvvia: facciamogli fare qualcosa, altrimenti si annoia!»

«Anche a me piace il vecchio stile... ma con questo gioiellino della tecnologia fai decisamente prima: un attimo, ed è tutto pronto!»

«Solo per le comunicazioni urgenti... e poi voglio vedere quando non c’è campo e sei nei guai: come farai con quel gioiellino della tecnologia, eh?»

Takaji alzò gli occhi e li puntò in quelli della donna colmi di una raggiante furbizia, mostrando un’espressione mista tra imbarazzo e terrore. Pensò a cosa sarebbe accaduto in caso di pericolo, se fosse stato da solo e senza il suo fidato cellulare: decisamente, per lui quello non sarebbe stato un bel scenario.

Chiuse gli occhi e per tre volte agitò l’indice nell’aria, come se avesse voluto controbattere; tuttavia non ci riuscì, e così tornò a osservare l’oggetto che aveva in mano.

«O... ok! Questa l’hai vinta tu!»

Eve accarezzò il maestoso falco, sussurrandogli qualche parola prima di alzare il braccio per dargli il segnale. «Mi raccomando, questo messaggio deve arrivare tutto intero. Al ritorno ti aspetterà un bel premio, va bene?»

Come se avesse voluto rispondere con lo stesso linguaggio della donna, Hermes alzò il capo e diede uno stridio acuto, per poi librarsi in volo. Le sue ali si allargarono, mentre man mano spariva tra i rami ancora spogli degli aceri di quella foresta.

La donna tornò da Takaji e con un dolce sorriso appoggiò la mano sul tronco dell’albero, e anche lei diede un’occhiata allo schermo del cellulare. Non appena l’altro si accorse di essere osservato, si portò il cellulare sul petto e indietreggiò d'un passo.

«Che... che c’è?» domandò con il rossore che gli era salito al volto per l’imbarazzo.

Eve ridusse le distanze, portando le mani chiuse a pugno sui fianchi con un sorriso beffardo.

«E tu... quando ti decidi a mollare questo “gioiellino della tecnologia”?» disse, e di colpo gli tolse il cellulare di mano. Subito lui cercò di riprenderselo, ma invano: la donna non voleva saperne di restituirglielo e ridacchiò, iniziando ad allontanarlo con scherno quando si avvicinava il suo proprietario.

«Ridammelo, brutta piccola...»

«Ah! Ho capito: ora sono “brutta piccola”; solo quando le cose ti stanno bene divento “la mia luce”, “la mia forza”... e potrei continuare all’infinito!»

«Ma quando mai?»

«Beh, non so se tu sei sonnambulo e non ricordi che fai di notte... ma io so bene che sei molto dolce a letto e dici delle cose molto belle, quasi come un poeta: in fondo, è da un bel pezzo che dormo al tuo fianco!»

Le guance di Takaji si colorarono di un rosso talmente acceso che - pensò lui - a confronto lo stop dei semafori sarebbero stati pallidi.

«Ti... ti prego...» balbettò, «non... non parliamo di cose private quando siamo all’aperto...»

«Ma se non c’è nessuno...»

«Ci sono gli animali: loro possono sentirci!»

Di scatto le voltò le spalle, mentre si sentì il volto in fiamme. Cercò di ricomporsi e, solo quando fu sicuro di continuare quel confronto senza farsi prendere dal panico, tornò da lei: la vide osservare sorridente lo schermo del cellulare che era ancora acceso, fermo all’ultima chat che lui stava leggendo.

«Non l’hai ancora detto a tuo fratello... vero?»

Takaji scosse la testa e continuò a restare in silenzio.

«Cosa ne dici di oggi?» chiese Eve, alzando lo sguardo. «Da come me ne hai sempre parlato, sarà una bella sorpresa per lui... dico bene?»

L’altro si portò una mano dietro la nuca, con un sorriso imbarazzato. «Ecco: ormai sa chi sei... ma non sa che io e te... insomma...»

«... siamo legati dal filo rosso del destino?» sussurrò la donna. Il suo volto fu sempre più vicino a quello di Takaji, al punto che lei non si lasciò sfuggire l’occasione per dargli un piccolo bacio sulle labbra.

«È così che si dice in Giappone, no?» concluse, e gli restituì il cellulare soddisfatta. «E dire che tutto è iniziato da quel giorno, quando mi hai salvato da quel grizzly...»

La ragazza si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e saltò a bordo della Jeep che era parcheggiata poco distante da loro. «Dai, andiamo: ci stanno aspettando al Mizzy Lake!» urlò tutta contenta.

«Finisco qui e arrivo subito!»

Takaji sorrise, dando un’ultima occhiata allo schermo del suo cellulare; poi anche lui tornò a bordo del mezzo, affiancandosi dal lato del passeggero e sistemandosi sul naso gli occhiali da sole dalle grandi lenti nere.

La Jeep partì a tutta velocità, sulle strade rocciose avvolte dalla foresta di aceri. Takaji montò con cura il cellulare sul supporto auto e premette nuovamente sullo schermo, avviando una registrazione come di solito faceva in occasione delle varie spedizioni alle quali aveva partecipato.

«Allora, Eve... parla un po’ di te! In qualche modo devo presentarti a mio fratello, no? E quale modo migliore se non con ciò che facciamo di solito, un bel video?»

La ragazza dai capelli castani lanciò un’occhiata verso lo schermo, incuriosita dalle parole del suo compagno di avventure. Come lui era abituata a fare video... ma quelli a sorpresa decisamente no. Non appena vide sullo schermo l’ultima chat che aveva visto ancora aperta e un video live appena avviato al suo interno, spalancò gli occhi con grande terrore.

«Ehi!» iniziò a protestare, premendo ancora di più sul pedale dell’acceleratore. «Non avevi parlato di un video, traditore!»

Con un perfido sorriso la donna sterzò di colpo, facendo pericolosamente inclinare il mezzo quasi fino a far rimbalzare il povero ragazzo fuori dalla Jeep.

«Che diavolo stai facendo?!» esclamò Takaji, cercando di tenersi ben stretto alla portiera. «Così mi ammazzi!»

«Andiamo! Non dirmi che dopo tutti questi anni non sei ancora abituato a queste cose: stento a crederci!»

Eve rise di gusto, nel vedere lo sguardo terrorizzato del suo compagno di avventure. Dopo aver dato una fugace occhiata allo schermo, sterzò ancora di colpo e continuò: «Perdonalo: di solito non è il fifone che si sta dimostrando oggi... o forse mi sto confondendo con un’altra persona. Sì, in effetti lui è proprio un fifone: non so cosa ti racconta, ma dovevi vederlo alle prese con l’incontro ravvicinato dell’altro giorno con un lupo... era sul punto di svenire per la paura!»

«Non sono un fifone!» replicò Takaji, con le lacrime che involontariamente stavano uscendo fuori dai suoi occhi. «E datti una regolata! Poi dici a me che non so guidare!»

«Infatti tu non sai guidare! Ti rinfresco la memoria: la prima volta stavamo per finire in un burrone, e per fortuna che sono riuscita a fermarti... proprio così!»

Con fierezza Eve bloccò la Jeep all’improvviso, quasi al punto da far avvicinare bruscamente i loro volti al parabrezza. L’altro si piegò in due e si tenne lo stomaco, appoggiando la testa dolorante sul portadocumenti che aveva di fronte a sé e iniziando a lamentarsi.

«Ma, d’altra parte, tuo fratello ha una resistenza senza limiti... degno della sua famiglia!» concluse la donna, per poi strofinare divertita la mano contro le spalle dell’altro. «Lui è l’unico che riesce a starmi dietro!»

Fece una pausa nella quale cercò di trattenere le risate, nel vedere Takaji che continuava lentamente a muoversi come un animale al quale avevano sparato dei tranquillanti per stordirlo.

«Scusa se te l’ho ridotto così...» mormorò Eve con serenità. Gli sfiorò i capelli con una fugace carezza, per poi spostare le dita verso quello schermo che ancora segnalava la registrazione in corso.

«... e quasi dimenticavo: buon compleanno! Non vedo l’ora di stringere la mano ad un grande campione come te!»

 

 

 

[12 Marzo - Tokyo, Giappone.]

 

«Buongiorno, mondo...»

Ken'ichi aprì leggermente gli occhi e li rivolse verso le persiane ancora semichiuse. Una tiepida luce stava filtrando dalle fessure, illuminando la stanza con un tenue chiarore bianco che rifletteva sulle pareti dal color azzurro chiaro.

Diede un’occhiata alla sveglia che si trovava sul comodino, e nel momento in cui lo fece un dolce trillo iniziò a rimbombare per tutto l’ambiente. Ken'ichi allungò un braccio verso la sveglia, spegnendola con il palmo della mano; poi si raggomitolò tra le lenzuola, col mento sulle ginocchia, e lentamente richiuse gli occhi. Voleva assaporare l’atmosfera piacevole che si stava creando nella stanza, rifugiandosi in quell’attimo di serenità prima di tuffarsi nel mondo dell’università, in un’agenda colma di intensi impegni.

«Ancora cinque minuti... tanto non c’è fretta...»

 

Ma come ho fatto a riaddormentarmi? Non mi è mai capitato!

Ken'ichi corse per le vie affollate di Tokyo, cercando di scansare quante più persone possibili per non incorrere in scontri involontari che avrebbero solo contribuito ad aumentare il suo ritardo di qualche secondo. Arrivò in facoltà con un pesante affanno e la testa a pezzi ma, nonostante ciò, con un balzo riuscì ad infilarsi all’interno di un piccolo ascensore le cui porte stavano per chiudersi.

Posò gli occhi sull’orologio: per sua fortuna, era ancora in tempo.

Meno male... pensò, appoggiando la schiena contro la parete dell’ascensore. Volse lo sguardo stravolto verso una ragazza dai capelli corti e ricci che gli era di fronte: aveva in mano un vassoio, con un coperchio trasparente che lasciava vedere il ricco e sostanzioso contenuto composto da tre caffè americani e un piattino con alcuni cornetti che alla vista sembravano appetitosi. Al povero ragazzo gli brontolò lo stomaco: per la fretta non era riuscito nemmeno a fare colazione.

Dovrei avere ancora qualche caramella nella mia cartellina... ma non so se farò in tempo a finirla prima che iniziamo... Non importa, cercherò di resistere!

Le porte si aprirono e la ragazza sparì tra la folla di studenti che stavano attraversando il corridoio; rimasto da solo, Ken'ichi premette il tasto dell’ascensore che lo avrebbe portato verso il piano dove era collocato il laboratorio nel quale stava svolgendo il percorso per diventare un ricercatore del Dipartimento di Scienze e Tecnologie marine. Mentre stava osservando silenzioso il panorama della città che si svelava dalla parete trasparente dell’ascensore posta di fronte alle porte, con un piccolo sorriso il giovane pensò che tutto sommato non era male trovarsi lì, nonostante quella quotidiana caoticità che ogni giorno doveva affrontare.

In fondo, era stato lui a sceglierlo. Aveva scelto lui di essere lì, a Tokyo, in quell’università, impegnato in quel percorso che lo aveva sempre affascinato. Quello era un pezzo importante della sua vita: anche se di tanto in tanto poteva permettersi qualche lamentela su corsi più complessi o sovrapposizioni di compiti e doveri da studente senza fare nemmeno una pausa, nel complesso la vita all’interno di quell’università gli piaceva.

Tutto sommato non era affatto male essere lì, lontano dalla sua famiglia.

A proposito... devo inviare un messaggio, altrimenti mi daranno per disperso!

Ken'ichi prese in mano il suo cellulare ma, non appena lo fece, le porte dell’ascensore si aprirono di nuovo.

... come non detto, pensò. Con un sospiro rassegnato il giovane mise a posto il cellulare e uscì da quel piccolo luogo, incamminandosi nel grande corridoio dove erano collocate aule di insegnamento e altre stanze dedicate alla ricerca. Dopo qualche passo si fermò davanti ad una porta, al fianco della quale vi era una piccola targa dove campeggiava la scritta, in doppia lingua giapponese e inglese: “Journal of the Tokyo University of Marine Science and Technology”.

Bussò, per poi abbassare la maniglia e entrare all’interno di quella stanza. La prima cosa che notò fu la presenza di alcuni dei suoi compagni di corso che, nonostante fossero riuniti intorno al tavolo disseminato di fogli sparsi, quaderni, volumi e computer portatili con appunti e saggi di ricerca sull’ecosistema dei fondali marini, stavano discutendo di una cosa che apparentemente non c’entrava granché con gli articoli che dovevano scrivere.

«Tre gol nell’ultima partita... e con questo ho vinto la scommessa: mi devi cinquecento yen!»

«E va bene... ma la prossima volta sarò io a vincere!»

Complice anche il fatto che parte della redazione era ancora assente, i suoi compagni avevano approfittato dell’attesa per discutere dell’andamento della J.League. Il tempo che trascorrevano assieme al di fuori dell’università era sempre meno, per cui spesso approfittavano dei momenti di pausa per chiacchierare del più e del meno, e tra gli argomenti che saltavano fuori vi era anche quello del calcio: negli ultimi anni la situazione in Giappone si era quasi capovolta, crescendo sempre più di importanza e passando anche alla ribalta internazionale, complice la presenza sul territorio di giocatori di alto livello che stavano scrivendo una nuova pagina gloriosa con le loro eccellenti prestazioni.

Non di rado, ovunque a Tokyo si sentiva spesso parlare di calcio, anche in luoghi impensabili come le boutique, i centri di informazione turistica... e anche nelle università, come stava accadendo nel caso di Ken'ichi.

Il giovane salutò le persone presenti nella stanza e si accomodò al loro fianco: tutti erano talmente presi dall’argomento che ricambiarono il saluto ma nemmeno con la sua presenza si decisero a mettersi al lavoro. Ken'ichi sorrise, approfittando di quel momento per rimettere silenziosamente a posto gli appunti mentre le sue orecchie erano ben attente ai discorsi che si stavano svolgendo: non era un grande tifoso - nonostante in famiglia avesse un calciatore in gamba - e per questo interveniva di rado in quelle chiacchierate spesso animate da un vivace scambio di battute, ma non si dispiaceva affatto ad ascoltare tutto ciò che i suoi compagni di studi dicevano... anche perché, in un certo senso, quei discorsi lo facevano sentire a casa, nella sua lontana cittadina di Nankatsu.

Quando la porta della sala si aprì, tra i presenti calò un profondo silenzio: tutti si alzarono in piedi di fronte ai redattori del Journal dell’università che erano appena arrivati, e subito l’atmosfera cambiò. Quella routine quotidiana che Ken'ichi amava e odiava allo stesso tempo stava per avere inizio.

 

Terminati i lavori nella redazione del Journal, tornati nel corridoio il gruppo di futuri ricercatori potè tirare un sospiro di sollievo e riprendere da dove avevano interrotto: l’andamento della J.League, appunto.

Anche per Ken'ichi quel momento di pausa fu una liberazione, soprattutto per il suo stomaco che venne subito accontentato da un caldo cappuccino servito da uno dei distributori automatici dell’università. Il giovane era famoso nel loro gruppo per la sua passione per il cappuccino, che più volte era al suo fianco nel corso della giornata: era un’abitudine che aveva preso da quando aveva iniziato il suo percorso di studi a Tokyo, un po’ per cercare di restare attivo il più possibile e un po’ perché, quando l’aveva provato per la prima volta in un bar della zona, quel dolce gusto di latte misto a caffè era stata una delizia che aveva conquistato il suo palato.

«Ed eccolo in azione, il nostro cappuccinomane!» disse divertito uno dei suoi compagni.

«Oggi mi sono dimenticato di fare colazione,» rispose prontamente Ken'ichi, mentre era intento a mescolare il contenuto nel bicchiere con la palettina. «In qualche modo ho bisogno di ricaricare le mie energie, dato che per ora non posso mangiare...»

«Guarda che nelle profondità del mare non hanno ancora scoperto un bar,» precisò l’altro. «Come farai se un giorno dovessimo vivere nei fondali marini?»

«Sopravvivrò.»

«Naaah, ci credo ben poco: andrai subito in crisi di astinenza, me lo sento!»

L’intero gruppo si lasciò sfuggire una sommessa risata, compreso lo stesso Ken'ichi che in fondo amava prendersi un po’ in giro anche se, senza darlo troppo a vedere, un po’ iniziò a tremare all’idea di vivere in un mondo senza cappuccino. Non aveva ancora trovato un’alternativa a quella gustosa bevanda: il caffè aveva un gusto troppo forte e il latte da solo era troppo dolce. Se un giorno anche solo uno di questi due elementi fosse davvero sparito dalla faccia della terra, il giovane non aveva la più pallida idea del cosa avrebbe fatto e già si immaginava con le palpitazioni a mille, sull’orlo della pazzia.

«Meglio non pensarci...» mormorò Ken'ichi e con un sorriso gettò la palettina nel cestino.

«Hai ragione: dato che non abbiamo molto tempo, prima del corso meglio tornare alla J.League...» sentenziò il suo interlocutore.

«... e a suo fratello!» aggiunse un altro compagno. «Cosa ne dite di un’altra scommessa?»

Ken'ichi spalancò gli occhi per la sorpresa, rischiando che il cappuccino che stava bevendo gli andasse di traverso.

«Sentite un po’, voi due...» disse, trasformando in un attimo il suo sguardo sereno in un’espressione curiosa e più attenta del solito. «Cosa avete in mente con mio fratello? Vi prego, non mettetelo in mezzo a scommesse ridicole...»

Conosceva molto bene i suoi compagni di corso, e in tutti quegli anni che aveva condiviso con loro aveva imparato a non fidarsi molto delle loro apparenti parole tranquille e allegre perché c’era sempre un inghippo o una trappola. Soprattutto quando erano su di giri, come in quel momento: erano capaci di tutto e non badavano a spese.

L’intero gruppo di studenti restò in silenzio. Tutti, tranne Ken'ichi che stava osservando la scena con sempre più crescente incredulità, si guardarono negli occhi e si scambiarono qualche cenno di intesa.
Ancora peggio! pensò allarmato il giovane. Questi sanno già cosa fare… tutti tranne me!

Il compagno di corso - lo stesso che poco prima si era rivolto a lui con l’appellativo “cappuccinomane” - gli si avvicinò e gli disse: «Visto che abbiamo ancora un po’ di tempo... prendi il cellulare, andiamo sulle scale d’emergenza e facciamo un video. Adesso

Ken'ichi corrucciò la fronte, piuttosto sorpreso. «Questa... questa non è una scommessa.»

«Appunto! Ma scommetto che tuo fratello si divertirà molto!»

Da quel breve scambio di battute il giovane capì subito una cosa: qualsiasi cosa avessero in mente i suoi compagni, la situazione stava degenerando. Poteva rifiutare e allontanarsi dal gruppo per un po’... ma era ben consapevole dell’inevitabile conseguenza del suo gesto: l’aveva sperimentato sulla sua pelle la prima volta, e non voleva più ripetere quella che - col senno di poi - era stata una divertente ma traumatica esperienza.

Sentendosi in trappola, prese in mano il cellulare e pregò tutti gli dei che ciò che stava per accadere non fosse una delle solite idiozie di quel gruppo. Tutti uscirono dal corridoio e, senza farsi notare dai sorveglianti e da altri studenti o docenti raggiunsero la scalinata di emergenza che correva in un lato dell’edificio, attraverso un accesso non sorvegliato e che loro, che da anni frequentavano quel plesso, conoscevano ormai alla perfezione.

Giunti in quel luogo si sedettero sulle scale, e dopo un comune cenno da parte dei suoi compagni Ken'ichi impostò la modalità “video” sul cellulare e lo alzò. Si sentiva un po’ a disagio, come se fosse stato ostaggio di un gruppo di criminali, ma restò calmo e lucido.

«Ciao, fratellino... come vedi sono all’università e–»

«Tanti auguri di buon compleanno!»

Il giovane sobbalzò e si voltò. Intorno a lui era un tripudio di gioia: sebbene stessero cercando di trattenere il più possibile la voce, i suoi compagni avevano iniziato a chiacchierare allegramente verso la telecamera del suo cellulare, rivolgendo parole di augurio e ammirazione: avevano persino tirato fuori - ma non capiva da dove - un colorato striscione e dei campanellini che fecero subito tintinnare.

Il volto di Ken'ichi sbiancò di colpo. In quel gruppo fu l’unico con i piedi per terra, ricordandosi che nessuno di loro si trovava nella curva di uno stadio ma, piuttosto, nel cuore di una prestigiosa università.

«Ma... ma ragazzi! Datevi una calmata: volete l’espulsione?»

 

 

 

[12 Marzo - Nankatsu, prefettura di Shizuoka, Giappone.]

 

«Quindi, la prossima partita sarà contro le superiori Shimizu...»

Passo dopo passo, le due amiche percorsero la lunga scalinata che costeggiava la montagna di fronte alla quale sorgeva la loro città, passandosi il pallone a vicenda. Giunsero al belvedere dove, dopo un ampio passaggio, Hoshiko prese in mano il pallone che le aveva lanciato Hanako.

«Che coincidenza: è proprio dove si è trasferita Akane!» esclamò Hoshiko, dando un’occhiata verso l’orizzonte.

«Evvai! Non vedo l’ora di affrontarla in una partita seria!»

Akane era una loro compagna di scuola, veterana nel club di calcio dai tempi delle medie. Era un’ottima attaccante, con uno stile aggressivo di gioco che riusciva a mettere in difficoltà anche i giocatori più bravi delle altre scuole: con lei e le sue amiche, Hanako e Hoshiko avevano costruito una valida squadra di calcio femminile all’interno del club della Shutetsu nel corso degli ultimi due anni delle medie, ed erano giunte ad ammirarla e stimarla molto. Ogni volta che Hanako pensava a come aveva avuto inizio il legame di amicizia e rivalità che insieme a Hoshiko aveva instaurato con quella ragazza, le veniva quasi da ridere. Lei e Akane ne avevano fatta di strada, sia dal punto di vista calcistico che in quello della loro maturità caratteriale, e quasi si era dispiaciuta nel vederla andare via per trasferirsi a Shizuoka; per questo motivo era euforica e felice di rivederla ancora una volta, in occasione di un'amichevole che avrebbero dovuto disputare tra la squadra di quella ragazza e la sua.

Chissà: forse ci vedremo anche nei campionati nazionali! - pensò, mentre rivolse lo sguardo verso la valle dove sorgeva la loro cittadina. È in gamba... e sono certa che un giorno anche lei punterà alla Nadeshiko League...

Hanako tirò un profondo sospiro colmo di grinta, per esternare ciò che stava provando in quel momento; poi voltò le spalle al panorama del belvedere e riprese il suo cammino.

«Tieni ben stretto il pallone, mi raccomando» disse a Hoshiko. «Da qui in poi, meno rumore facciamo e meglio è: mio nonno ci tiene moltissimo!»

L’altra annuì, tenendo ben salda la presa. Le due amiche salirono le scale che portarono sulla cima della montagna dove, immerso in quella foresta sempre più fitta, vi era il piccolo jinja della famiglia Morisaki. Dal luogo in cui sorgeva il santuario la vista dell’intera cittadina era ancora più suggestiva di quella del belvedere poco distante: la luce del sole al tramonto stava avvolgendo Nankatsu, che sembrava più piccola da quell'altezza.

Lo sguardo di Hoshiko si perse in quello spettacolo della natura, facendo arrestare il passo della ragazza prima del torii. A differenza di Hanako, lei non si era ancora accorta della presenza di un altro giovanotto alle sue spalle, che all'improvviso le coprì gli occhi con le mani.

«Alla fine sono arrivato prima io... sei sempre così lenta, Morisaki! Vedi: così rallenti anche i tuoi compagni di squadra!»

Isamu rivolse una linguaccia a Hanako, che cercò di ignorare la sua provocazione.

«Ringrazia che siamo nei pressi di un santuario» rispose la ragazza con un sorriso beffardo, «altrimenti ti avrei fatto rotolare per tutta la valle con un bel calcione.»

«E tu ringrazia che sei la migliore amica di Yamamoto-san: ti sto risparmiando solo per questo, sappilo.»

«Non dire idiozie: lo stai facendo anche perché sei un fan di mio fratello... che strano: hai colto il mio invito in fretta e sei anche in anticipo!»

«Touché! È vero: lo faccio anche per lui!»

Dopo averla guardata con un sorriso divertito, Isamu si parò di fronte a Hoshiko.

«A quanto pare, alla fine nessuno di noi è cambiato...» mormorò la giovane Yamamoto, guardandolo con occhi colmi di divertimento. «Voi due in particolare: non perdete mai l’occasione per discutere!»

«A me fa piacere» rispose Isamu con un sussurro nel suo orecchio, per cercare di non farsi sentire da Hanako. «Mi ricorda tanto quando eravamo alle elementari, che nostalgia...»

«Ehi, tu.»

Incuriosita da quel chiacchiericcio sommesso, Hanako ridusse le distanze con il suo compagno di scuola e gli puntò il petto con veemenza. «Ti conosco troppo bene: non osare riempirle la testa di idiozie!»

Isamu fece spallucce e allargò le braccia, con un sorriso sornione. «Le sto solo dicendo la verità: che non capisco come faccia a sopportarti dopo tutti questi anni!»

«A sopportare te, semmai!» rispose l’interpellata, allontanandosi e varcando la soglia del torii. Giunta sotto quell’ampio ingresso di color rosso Hanako si fermò, si voltò e mostrò loro uno sguardo compiaciuto, che al contempo nascondeva una punta di serena provocazione.

«Non vi capirò mai» continuò, prima di riprendere il cammino verso l’ultima scalinata che portava nella zona del santuario. «Siete davvero... particolari! Ora, su: andiamo, altrimenti non facciamo in tempo!»

La coppia la vide allontanarsi sempre più e sorrise dopo un fugace scambio di sguardi.

«Senti chi parla» disse Isamu, mettendo le mani nelle tasche dei pantaloni e raggiungendo insieme a Hoshiko la loro compagna. «Proprio la ragazza più particolare di questo pianeta!»

 

Ad attenderli alla fine di quella scalinata vi era Hotaka. L'uomo, vestito con un kariginu di color verde scuro, si stava prendendo cura di uno dei sakaki che decoravano l'area del santuario. Non appena udì il rumore distinto di passi in quel luogo normalmente silenzioso, si voltò verso i tre ragazzi e rivolse loro un cordiale sorriso.

«Guarda chi c’è: da quanto tempo, Hanako!»

«Zio Hotaka!»

La ragazza corse ad abbracciarlo, felice di rivederlo dopo tanto tempo. Era da molto che non varcava la soglia di quel santuario, e il suo primo pensiero andò a suo zio Sadao, il kannushi di quel luogo sacro: di solito era in giro per l’area con suo figlio, ma quel giorno sembrava essere assente, e lo stesso si poteva dire del resto della famiglia.

«Lo zio non c’è?»

«È impegnato in una cerimonia di purificazione, ma non ci metterà molto.»

Hanako diede un broncio di disappunto. Questa non ci voleva... tornò a pensare. Non possiamo aspettare molto: è già tardi!

«Speriamo che faccia presto» disse con un tono segnato dalla tristezza. «Mi serve anche zio Sadao per il video che dobbiamo realizzare... anzi, non solo lui: mi servono tutti!»

Hotaka scosse la testa. «Te l’ho già detto mille volte, Hanako: siamo in un luogo sacro, non puoi fare i video che pensi tu.»

«... per Yuzo, zio: oggi è il suo compleanno!»

«Ah.»

L’uomo alzò gli occhi al cielo e riprese il suo fare tranquillo. «Giusto...» mormorò, e prese tra le mani un ramo del sakaki che gli era al suo fianco e che lo stava sfiorando con la sua punta, «e dire che una volta nessuno di voi arrivava a questo ramo. Quanto tempo è trascorso da quel giorno...»

Come al solito, Hotaka si stava perdendo nei ricordi. Aveva lo sguardo fisso su quel ramo, rimembrando del giorno in cui suo cugino Hideki e Izumi avevano portato il loro terzogenito appena nato al santuario e di quello in cui, ai tre anni di quel piccolo, lo aveva visto giocare felice con i rami di quel sakaki.

Tutti i suoi nipoti erano cresciuti e, sebbene avessero preso direzioni diverse, avevano continuato a restare uniti, proprio come i rami degli arbusti del loro santuario, che in quel momento si stavano liberamente librando nell'aria al ritmo del dolce vento che soffiava in quella foresta.

«... zio Hotaka?» domandò Hanako con stupore. «Tutto bene?»

A quel richiamo l’uomo si destò da quel lontano ricordo ancora impresso nella sua mente, e sotto lo sguardo incuriosito della ragazza le voltò le spalle e, con un sorriso, si allontanò da lei con le mani infilate dentro le larghe maniche. Dopo qualche passo incrociò l’anziano Shigeru, che Hanako e i suoi amici videro ancora da lontano.

«Ho sentito tutto» disse il vegliardo, avvicinandosi ai tre ragazzi con le mani dietro la schiena, «e la risposta è no. Hanako, in questo luogo sacro non ti è concesso di fare video, nemmeno per una cosa personale come il compleanno di un membro della nostra famiglia.»

«Cosa?!»

La ragazza spalancò gli occhi. Ci teneva a radunare tutti i suoi parenti che dimoravano in quel santuario: l’idea del video era l’unica soluzione che aveva trovato per non far spostare nello stesso momento tutti i membri della famiglia Morisaki che da tempo immemore abitavano lì, sulla cima di quella montagna. Perché suo nonno doveva sempre agire con severità, solo perché era un sacerdote del santuario?

Hanako cercò in tutti i modi di convincerlo, sotto gli occhi sorpresi di Isamu e Hoshiko che non sapevano bene come intervenire. I due ragazzi, infatti, sapevano che violare le regole di un santuario era come violare le regole della divinità che lo governava, e non riuscivano a capire perché la loro Hanako continuasse ad insistere con quel discorso.

Ma la risposta da parte di suo nonno era sempre la stessa.

«Ti ho detto di no, nipote mia... e non insistere più.»

L'anziano sacerdote le voltò le spalle e non disse altro, lasciando che calasse il silenzio tra i presenti. Ad un tratto girò leggermente il capo verso Hanako, mostrando alla ragazza i suoi occhi che sembravano brillare di una luce diversa dal tono con il quale le si era rivolto fino a poco prima.

Con fare solenne, Shigeru aggiunse: «Lascia perdere: lo zio Sadao ha già in mente un piano.»

«Lo... lo zio Sadao?» chiese la ragazza, piuttosto sorpresa.

Sul volto del vegliardo comparve un piccolo sorriso. «Questa mattina ha avuto la tua stessa idea, e ti stava aspettando proprio per questo. Oggi sapeva che saresti venuta qui: lo fai sempre quando tuo fratello non è a Nankatsu...»

Shigeru portò nuovamente le mani dietro la schiena e, a lenti passi, si diresse verso l'haiden. «Vado a chiamare tutti, che sono ancora all’interno del tempio; voi intanto preparatevi... però non fate baccano nell’attesa, mi raccomando. Hanako, conto su di te.»

Dopo aver spalancato gli occhi per ciò che aveva appena udito da suo nonno, la ragazza si rallegrò e rivolse un inchino verso di lui. «Va bene!» esclamò; dopodiché prese per mano Isamu e Hoshiko, e sotto il loro sguardo sorpreso li trascinò verso il torii.

«Zio Hotaka, scusaci: noi torniamo indietro, così iniziamo e non disturbiamo nessuno!»

L’uomo diede un dolce sorriso a sua nipote che all’ombra del torii si sedette con i suoi amici e aveva iniziato a girare un video con il suo cellulare. Tornò ad osservare il sakaki, sfiorando con delicatezza le foglie verdi con i primi germogli dei fiori, e sussurrò: «Anche quest’albero è diventato meraviglioso… proprio come i miei nipoti…»

«E noi, papà?»

A Hotaka sfuggì una dolce risata. Alle sue spalle, i suoi due figli, Naoki e Sami, lo stavano osservando con le mani chiuse a pugno sui fianchi: con un sorriso, gli si affiancarono.

«Anche noi siamo come i sakaki?»

«Come lo zio Yuzo?»

L’uomo ricambiò il sorriso dei suoi figli, accarezzando dolcemente i loro capelli. «Tutti i Morisaki lo sono... quindi anche voi. Su, ora andate da zia Hanako: nell’euforia non si è ancora accorta della vostra presenza, e sarà felicissima di vedervi!»

«Va bene, papà!» esclamarono all'unisono i due bambini, poi corsero verso Hanako - che aveva ancora la schiena rivolta verso di loro - e la colsero di sorpresa con un grande abbraccio.

Il divertimento che ne seguì rallegrò ancora di più l'animo di Hotaka, che chiuse gli occhi e mormorò: «Ne sono certo, cari antenati... questa è una generazione che promette bene!»

 

 

 

[12 Marzo - Shimizu, prefettura di Shizuoka, Giappone.]

 

Dopo molti anni Noboru aveva fatto ritorno laggiù, dove tutto era iniziato.

Si era seduto tra gli spalti del Miho Ground, osservando il sole tramontare dietro gli alberi che circondavano quel campetto da calcio. Quell’atmosfera gli ricordava il suo passato, ciò che aveva vissuto sulla sua pelle e provato nelle profondità della sua anima, i legami che aveva instaurato e quelli che aveva lasciato a Nankatsu - ma che non si erano mai affievoliti, compreso quello con i suoi nipoti.

Noboru prese tra le dita il ciondolo che indossava al collo e lo strinse forte. Alzò gli occhi al cielo, rivolgendo un pensiero verso le nuvole che correvano veloci, spazzate dal forte vento che stava spirando.

Ce la sto mettendo tutta... ma secondo te sono sulla strada giusta?

Più volte rigirò il piccolo ciondolo e lo strinse forte, col rischio di lasciare dei segni evidenti tra le dita. Quel ciondolo era una dei pochi oggetti che conservava con estrema cura, il segno tangibile di una fugace presenza che aveva cambiato la sua vita, sia nel bene che nel male.

Lo sapeva bene la persona che si era appena seduta al suo fianco: il direttore del centro sportivo, ormai con le rughe che avevano segnato il suo volto e i capelli bianchi che popolavano folti la sua testa, appoggiò una mano sulla spalla di Noboru e osservò insieme a lui il tramonto.

«Sono felice che sei tornato qui...» mormorò il vegliardo. «Sapevo che l'avresti fatto...»

«Lo sai...» rispose l’altro, chiudendo gli occhi con un sorriso. «Una promessa è una promessa...»

«Ci hai impiegato un bel pezzo... però meglio tardi che mai, giusto?»

«Giusto...»

Noboru annuì, e fu proprio allora che l'anziano direttore notò qualcosa che brillava sulla sua guancia. Una lacrima, scesa dagli occhi di Noboru, stava rigando il suo volto velocemente, come una stella cadente; ciononostante l'uomo non sembrava essersene accorto, continuando a sorridere. Sembrava felice, nonostante quel guizzo di tristezza che era emersa sotto la forma di una piccola lacrima.

Il direttore allungò ulteriormente il braccio e gli cinse le spalle. Non era avvezzo a grandi manifestazioni d’affetto, tuttavia sapeva molto bene ciò che aveva affrontato quel giovanotto, ormai diventato uomo, e conosceva anche i pensieri che non riusciva ad esprimere a parole ma che il suo corpo non sapeva mascherare.

«Sai... sono certo che Ran sarà molto orgogliosa di te. Non è affatto facile anche solo provare a superare ciò che hai affrontato tu... e, proprio tu, sei riuscito in un'impresa quasi titanica.»

Noboru riaprì gli occhi e rivolse di nuovo lo sguardo al cielo. I suoi occhi avevano una luce malinconica, quasi di nostalgia, come se l'uomo avesse avuto l'intenzione di tornare indietro nel tempo e bloccare il suo flusso nei momenti più belli della sua vita, per non farli passare mai.

Sì: in quel momento lo stava pensando. Se solo potessi tornare indietro... io...

Ma Noboru non poteva farlo: non poteva fermare il tempo e, anche se ne avesse avuto la possibilità, il tempo avrebbe continuato a scorrere inesorabilmente facendogli rivivere anche i momenti più difficili della sua vita, quelli che ancora gli trucidavano l’anima sebbene fossero trascorsi parecchi anni dal loro accaduto.

Il dolce sorriso di Ran, di sua moglie, prima che andasse via dalla sua vita... per sempre.

L’uomo rivolse un sorriso amaro verso il direttore. «Mi chiedo solo se ha avuto senso tornare qui: lasciare lo Shimizu Soccer Shop per riprendere ciò che stavo facendo fino a quel momento...»

«Ha senso» puntualizzò l’anziano direttore. «Fidati: è quello che anche lei avrebbe voluto, fin dall'inizio. Solo che tu ci sei arrivato molto dopo...»

«E come fai ad esserne sicuro?»

«Perché quello di preparatore atletico è un lavoro che hai sempre amato... e non ho mai pensato che l’avresti gettato alle ortiche così, solo perché è accaduto ciò che è accaduto

Il vegliardo sollevò gli occhi, puntandoli verso le nuvole rosacee del cielo. «Che strano caso del destino: uno dei tuoi nipoti che si trova qui, a Shimizu. Quante probabilità al mondo ci sono che zio e nipote si ritrovano nella stessa prefettura, e nella stessa città a portare avanti l'onore della sua squadra?»

«Vicine allo zero» rispose prontamente Noboru, e subito alzò le mani con un sorriso sincero. «Nel caso in cui te lo stessi chiedendo... no, io non c’entro niente. L’ho sempre lasciato fare: Yuzo ha scoperto da solo di avere una passione per il calcio, e l’ha portata avanti senza influenze né costrizioni da qualcuno della sua famiglia, benché meno da me. Così come è stato lui ad accettare di venire qui: di certo non sono stato io a consigliarlo solo perché a questa squadra ci sono affezionato. D’altronde - e tu mi sei da testimone - io sono tornato qui solo da qualche giorno, mentre lui è qui da molto più tempo.»

«Ma tu sei stato in grado di nutrire la sua passione e di non spegnerla mai,» aggiunse l'anziano direttore, dandogli un fugace sguardo negli occhi prima di tornare ad osservare l'orizzonte. «Tutti i regali che gli hai dato sono serviti a qualcosa, no?»

«Ma non a convincerlo ad arrivare fino a questo punto, a diventare un bravissimo calciatore famoso in tutta la nazione. Lo sai meglio di me che i bambini possono sempre cambiare idea quando crescono...»

«... tranne i tuoi nipotini, a quanto pare. Tutti e quattro sono stati così testardi...»

«Tu cosa ne sai?»

«Primo, perché mi hai sempre raccontato di loro quando venivo a trovarti nello Shimizu Soccer Shop, per cui in un certo senso è come se fossero diventati anche miei nipoti; secondo, perché con uno zio testardo come te... come vuoi che escano i suoi nipoti? È ovvio che seguano le tue orme anche in fatto di cocciutaggine!»

Il vegliardo ridacchiò sommessamente, e di fronte a quella felice reazione anche il volto di Noboru si rasserenò.

«Hai ragione...» rispose l’uomo, chinando leggermente il capo con un cenno di imbarazzo. «Da una parte, sono felice che ciascuno di loro sia riuscito a trovare la propria strada in questo mondo... alla fine, ce l’hanno fatta.»

«Sai cosa ti dico? Che sono felice che tu abbia un giocatore così bravo come nipote. Dopotutto non potevo aspettarmi di meno, da un virgulto uscito dalla tua famiglia che non decide di arrendersi nemmeno di fronte al più grande ostacolo!»

«Un virgulto, eh?»

Noboru tornò ad osservare il cielo, socchiudendo gli occhi. “Virgulto” era proprio il termine adatto, per loro che si erano sempre considerati rami di uno stesso albero e, anche se suo nipote non era più un tenero virgulto, di certo era diventato uno splendido e robusto albero della quercia che la sua famiglia rappresentava.

«Sii fiero di tuo nipote. Sii sempre fiero...»

L'anziano direttore si alzò e lo lasciò solo, con i suoi pensieri.

Noboru sorrise. Quel fidato superiore aveva ragione: anche di fronte alle grandi difficoltà che la vita poneva dinanzi bisognava sempre trovare la forza di inseguire i propri sogni, e alla fine anche lui ci era riuscito.

Dopo tanti anni aveva trovato quella forza proprio dove meno se lo aspettava: dalla sua famiglia che lo aveva sempre amato, la stessa che gli aveva dato quattro nipoti, ciascuno di loro meraviglioso a modo suo. La famiglia, che ad un certo punto della sua vita credeva che fosse diventata un motivo di tristezza e rimpianto, in tutti quegli anni si era trasformata in fonte di gioia e di rinascita.

Noboru strinse per l’ultima volta il suo amato ciondolo, e prese in mano il suo cellulare. Scattò prima una foto e poi compose una mail, allegando l’immagine che aveva appena realizzato.

 

[Ehi, piccoletto: buon compleanno!

Ricordi quando ti dicevo che avresti avuto una sorpresa? Ti racconterò tutto quando tornerai a Shimizu; intanto ti invio questa fotografia. Scommetto che non indovinerai mai perché sono qui!]

 

 

 

[12 Marzo. Nakahara, prefettura di Gifu, Giappone.]

 

Yukiko faceva su e giù per il negozio di suo padre, nel cuore del centro di Nakahara. Stava aspettando quello scemo del sindaco che non si decideva a liberarsi dall'ennesimo impegno dell'ultimo minuto nel quale era stato coinvolto.

«Proprio oggi che è il compleanno di Shingo?» borbottò, fermandosi davanti all’ingresso e battendo ripetutamente la punta del piede sul pavimento. «E lo sa che se c'è una cosa che odio sono i ritardi! Ma questa volta non scappa, eccome se non scappa!»

Si avvicinò al bancone e afferrò la custodia dove aveva riposto il suo arco da kyūdō. Lo afferrò e puntò la freccia verso l’ingresso, con un orgoglioso sorriso.

«Così come dovresti sapere che ho una mira quasi perfetta» sussurrò. «Non a caso, ho sempre trionfato nei tornei nazionali quando andavo a scuola!»

Dopo qualche secondo di posa, Yukiko decise di rimettere l’arco e la freccia al loro posto. Quegli strumenti la rendevano felice anche solo a guardarli: la giovane - ora una splendida artigiana che instancabilmente si dedicava alla cura e alla gestione del negozio di suo padre - aveva raggiunto il suo obiettivo: conciliare il lavoro di famiglia con la sua passione per il kyūdō.

Era un po’ stancante essere un’insegnante di kyūdō e allo stesso tempo l’abile erede della sua famiglia di artigiani, ma era orgogliosa della strada che aveva scelto. E tutto ciò lo doveva a suo fratello: ispirata dalla sua grande determinazione, anche lei si era gettata anima e corpo in ciò che davvero amava.

Proprio in quel momento la porta della bottega si aprì: Hibiki entrò di fretta e furia, asciugandosi la fronte grondante di sudore con il fazzoletto di stoffa che aveva nel taschino della sua giacca.

«Scusa il ritardo: giuro–»

«“Che non l’ho fatto apposta”» proseguì Yukiko, raggiungendolo con le braccia conserte. «Poi, che altro c’è più? Ah, sì: “Mi ha fermato il vice sindaco, ho incontrato i bambini in piazza e già che c’ero ho inaugurato anche un nuovo ponte!” Lasciatelo dire: hai più impegni tu che sei il sindaco di una piccola cittadina che l'Imperatore in persona!»

«Ti ho già detto “scusa”?»

«E ti ho già detto che non dovevi fare tardi visto che è il compleanno di Shingo, oggi?» replicò la giovane artigiana con apparente severità, per poi rasserenarsi. «Tranquillo, accetto le tue scuse: mi sa che dovrò farci l’abitudine, almeno finché sarai il sindaco della nostra città...»

Hibiki sorrise a sua volta e le si avvicinò, iniziando a frugare dalla cartellina che portava sempre con sé e tirando un piccolo foglio che poi porse alla donna.

«Piuttosto... avevo in mente questo per Shingo. Purtroppo non abbiamo fatto in tempo e sarà pronto tra qualche giorno, ma pensi che sia troppo?»

Yukiko osservò il foglio e ridacchiò. «Per lui non è mai troppo, fidati. Appena lo vedrà, non resisterà alla voglia di farci una foto e condividerla in tutto il mondo!»

«Questo è poco ma sicuro. Secondo me potrebbe anche impazzire di gioia, al punto da tornare qui e restarci per sempre solo per questa cosa!»

Yukiko tornò presso il bancone e prese in mano il suo cellulare, con un sereno sguardo che stava celando un’intenzione molto simpatica. «Chissà... cosa ne dici: gli diamo qualche “scottante anticipazione”? Morirà dalla voglia di sapere di cosa si tratta!»

 

Intanto, dall’altra parte della cittadina, Atsuko stava spolverando il suo laboratorio.

Nonostante l’inesorabile avanzare dell'età, l'anziana aveva ancora le forze per continuare a lavorare alle sue creazioni, grandi o piccole che fossero.

Sorrise quando tra esse ritrovò un cavalluccio che aveva ricavato dal tronco di un albero per i suoi nipoti, Yukiko e Shingo. Si ricordò di quando erano piccoli e si divertivano con quel gioco, per poi conservarlo in quello spazio una volta diventati grandi.

«Chissà se i miei occhi vedranno questo giochino funzionare ancora...» sussurrò, sfiorando il cavalluccio di legno, «e chissà se riuscirò a vivere ancora un altro po’, per festeggiare i compleanni dei miei splendidi nipotini...»

Per lei, nonostante ormai fossero diventati adulti, Yukiko e Shingo erano ancora “i suoi adorati nipotini”. Li aveva visti nascere, crescere e infine diventare adulti e prendere ciascuno la loro strada, ma per lei erano sempre i piccoli di casa.

La porta del laboratorio si aprì: Yumi e suo marito Susumu entrarono con un sacco pieno di lana, e lo appoggiarono accanto al tavolo di lavoro.

«Un bel carico da Bishu, la patria della lana!» esclamò entusiasta Yumi, mentre Susumu si accomodò sulla sedia accanto al tavolo.

L’uomo si sistemò gli occhiali, guardandosi intorno compiaciuto. «Nonostante tutto il tempo trascorso, questo posto non è cambiato per niente... è come entrare per la prima volta!»

«È proprio così, figliolo. Solo che rispetto a prima è tornato ad essere tranquillo...»

Atsuko iniziò a camminare per il laboratorio, dandosi un'occhiata intorno. Le creazioni ultimate e i vari lavori ancora in corso erano lì, davanti ai suoi occhi; a volte le sembrava di sentire le voci dei suoi nipoti: ora bambini che scorrazzavano per la stanza toccando tutto ciò che trovavano, ora ragazzi che la aiutavano con grande dedizione e abilità.

La vegliarda sorrise, e guardò Susumu. «Non so come andrà a finire... ma penso che a Yukiko e a Shingo faccia piacere venire qui, di tanto in tanto. Devo farvi i complimenti: avete messo al mondo due bambini che non hanno mai abbandonato la passione per l'artigianato.»

Susumu la guardò piuttosto sorpreso e cercò di puntualizzare ciò che sapeva, che in apparenza contrastava con la versione che Atsuko aveva appena rivelato.

«Aspetta un momento» disse, alzandosi dalla sedia. «Su Yukiko hai ragione... ma Shingo? È sempre in giro con il pallone, ormai non si dedica più all’artigianato come prima...»

«Quel ragazzo fa, fa! Non avrà molto tempo e tutti gli strumenti a disposizione, ma non gli manca la grinta...» rispose l'anziana donna con un sorriso, indicando nella direzione del padre di famiglia. «Apri il cassetto di quel tavolo e vedrai cosa c'è dentro.»

Susumu fece come gli aveva ordinato sua suocera, e scoprì un piccolo tesoro. Centinaia di bracciali di cuoio riempivano il cassetto, variegati in qualsiasi colore e tema ma tutti con la stessa firma: quella di suo figlio.

L’uomo spalancò gli occhi commosso: mai avrebbe immaginato che suo figlio avesse continuato a coltivare la sua passione per l'artigianato, nonostante la sua vita ricca di impegni sportivi.

«Sono belli, non trovi?» domandò Atsuko, avvicinandosi a lui e prendendo uno di quei bracciali in mano. «Ha detto di non dirvi nulla per farvi una sorpresa... e sapete una cosa? È riuscito a crearne uno per ogni compagno di squadra, e ha spedito il resto qui dicendomi “Fai quello che vuoi: puoi anche regalarli! L’importante è non perdere mai il ritmo, altrimenti rischio di arrugginirmi!” Per ora li ho conservati qui... ma, chissà: un giorno Shingo tornerà in questo piccolo laboratorio e, aprendo questo cassetto, si ricorderà della sua adorata nonna!»

Che tipo! - penso Susumu con un sorriso soddisfatto. È proprio come noi: non si stanca mai di dedicarsi a ciò che ama...

L’uomo richiuse il cassetto e tornò da sua moglie. «Ora il nostro Shingo sarà impegnato... ma cosa ne dici se lo chiamassimo da qui?»

Yumi annuì, mostrando uno sguardo compiaciuto. «Sarebbe una bella sorpresa per lui! Sempre se ci risponda subito...»

 

 

 

[12 Marzo. Collina torinese, Italia.]

 

«Siccome in un certo senso abbiamo iniziato da zero, so che al giorno d’oggi è quasi un azzardo... però ho fiducia nel nostro futuro. Per me il riconoscimento al Decanter World Wine Awards dello scorso anno non è solo un traguardo, ma è soprattutto un inizio: il mio obiettivo è quello di valorizzare le nostre eccellenze locali, diventando così un esempio per chi vorrà intraprendere questo lavoro e si sente scoraggiato dalla concorrenza... e proprio a loro mi sento di dare un consiglio: noi non abbiamo niente di meno rispetto agli altri, anzi. Abbiamo la capacità di far emozionare, di raccontare il nostro territorio alle persone che vogliono conoscerci: non dobbiamo mai dimenticarci del forte legame che abbiamo con le nostre amate terre. Dobbiamo solo esserne fieri, e portare avanti le nostre tradizioni con l’orgoglio che i nostri antenati ci hanno trasmesso di generazione in generazione. Grazie mille.»

«Grazie mille a lei per averci concesso questa intervista. È sempre bello incontrare giovani così pieni di speranza e fiducia nel futuro; per questo le auguro davvero in bocca al lupo per la sua attività!»

Aurora annuì e sorrise; al cenno del giornalista si tolse il microfono che aveva indossato e glielo restituì. «Le chiedo scusa se a tratti potrei essere sembrata un pesce fuori dall’acqua: sa, non sono abituata alle telecamere...» disse, sistemandosi una ciocca dei capelli dietro l’orecchio.

«È andata benissimo, invece! Per essere la prima volta, sembrava già essere una professionista. Le faccio anche i complimenti per la sua dialettica: è raro trovare dei vignaioli così preparati ma anche con un italiano impeccabile, l’accento quasi non si sente!»

«La ringrazio molto.»

«A proposito: grazie ancora per i prodotti che ci ha offerto, sicuramente sarà tutto buono! A ogni modo, come le ho detto poc’anzi, nei prossimi giorni riceverà una mail con tutte le informazioni riguardo la trasmissione di quest’intervista, così da poter diffonderla e condividerla anche sui social.»

«Sarà fatto, grazie ancora!»

La giovane donna restò a guardare il giornalista con la sua piccola troupe sistemare le ultime cose nel furgoncino e partire; solo quando fu certa che fossero abbastanza lontani, tirò fuori un grande sospiro di sollievo. Si lasciò cadere a terra, sedendosi sul terriccio del vigneto dove si trovava. «Certo che ora inizio a capire perché mio fratello odia le interviste: quante domande mi hanno fatto oggi, quasi mi gira la testa!»

Alzò gli occhi al cielo e diede un altro sospiro, questa volta più leggero e quasi malinconico. Da quando aveva sistemato il vigneto di famiglia e con l’aiuto dei suoi genitori era riuscita a farsi strada nell’azienda di famiglia, arrivando anni dopo a conquistare il terzo premio del più grande e prestigioso concorso vinicolo al mondo, il Decanter World Wine Awards, le era sembrato che l’attenzione dell’intera Torino si fosse spostata da suo fratello a lei. Al DWWA aveva partecipato con un sentimento quasi di spensieratezza, spinta più dal consiglio che le era stato dato che da una volontà di concorrere, con la consapevolezza e la convinzione che non avrebbe mai ricevuto un premio; invece, con sua grande sorpresa, quando aveva ricevuto la comunicazione da Decanter di quel terzo premio, aveva capito fin da subito in che razza di guaio si era cacciata.

Anzi: in che razza di guaio mi ha fatto cacciare, proprio Shingo! Già: mi sono fatta coinvolgere dalla sua positività... ancora una volta! Ho seguito il suo consiglio, ed eccomi qua: in un luogo sommerso di giornalisti dalla mattina alla sera. Chi l’avrebbe mai detto?

Da quel momento il vigneto di famiglia, che da piccola era il suo regno di pace e silenzio, un luogo dove poter rifugiarsi quando aveva bisogno di restare da sola, era diventato un viavai di giornalisti, degustatori di vino, turisti o semplici curiosi al punto che all’inizio, quando anche suo fratello si trovava da quelle parti, puntualmente pensava che fossero arrivati per lui e non per lei.

Quanto vorrei tornare alla tranquillità della mia infanzia...

Aurora diede un altro sospiro. Un’altra giornata di intenso lavoro stava per avere inizio, e per questo motivo aveva concesso quell’intervista di mattino presto, per permettere così di concentrarsi sulle sue faccende quotidiane. Osservò l’orologio che aveva al polso, notando la piccola data che era riportata sul quadrante: 12/03.

Per la mente le balzò un improvviso pensiero, e con l’altra mano iniziò a contare. Nove, dieci, undici... diciassette. Devono essere le diciassette in Giappone: non so se lo disturbo... ma posso inviargli un messaggio prima di rimettermi a lavoro!

La giovane si alzò in piedi. Prese in mano il cellulare che aveva nella tasca del suo giubbotto, scattò una fotografia dei vigneti e si incamminò verso la villa che si iniziava a intravedere da lontano. Mentre era intenta a comporre il messaggio, all’improvviso si scontrò con un’altra persona.

«... ah!»

Alzò lo sguardo, incrociando quello di suo fratello. «Cosa ci fai qui?» gli domandò. Sapeva che Salvatore doveva alzarsi di buon’ora per recarsi agli allenamenti della sua squadra, e non riusciva a spiegarsi il perché, invece, si trovasse proprio da quelle parti.

«L’allenamento è stato posticipato a domani» le rispose, lanciando in alto il pallone che stava trascinando ai piedi per poi riprenderlo in mano. «L’ho saputo ieri sera, ma in realtà volevo farti una sorpresa; perciò ho approfittato di questo giorno di pausa per venire da queste parti e vedere da vicino cosa stessi facendo. Mi stavo giusto chiedendo quando quei giornalisti da strapazzo sarebbero andati via... guarda un po’: stanno rovinando i nostri vigneti!»

Aurora sorrise compiaciuta. «Guarda, guarda: da quando in qua ti preoccupi del vigneto di famiglia, ah? Credevo che il tuo unico interesse fosse quello verso il pallone da calcio, non verso - testuali parole - “due viticci intrecciati che ormai si stanno rinsecchendo!”»

Il giovane appoggiò delicatamente la schiena contro uno dei pali in legno che sporgevano dal terreno, con un sorriso divertito che gli arricciò le labbra. «Da quando sei tu a occupartene. A essere sincero a me non è mai fregato niente del destino di questo posto, ma sono felice che sia stata proprio tu a riportarlo in vita: se fossi venuto al mondo solo io, potevi essere certa del fatto che ci avrei costruito una bella piscina quando i nostri genitori avrebbero tirato le cuoia!»

«Sai molto bene che non è così... ma come al solito non vuoi ammetterlo.» Aurora non smise di sorridere a suo fratello: la sua sfacciataggine la divertì molto, e sapeva molto bene che dietro a quelle parole c’era ancora quel profondo risentimento verso i loro genitori per non aver accettato, almeno all’inizio, che lui diventasse un calciatore professionista. «Sotto sotto stai ringraziando il cielo che ci sia qualcuno che possa occuparsi di queste bellezze della natura... ti conosco bene: anche se lo negherai fino alla morte, so che anche tu ci tieni molto ai nostri vigneti. È una parte di noi, della nostra storia...»

Salvatore distolse lo sguardo e lo puntò verso il sole che stava sorgendo tra le colline circostanti. Dopo aver assunto un’espressione che sembrava essere corrucciata, sulle sue labbra si delineò un piccolo ma dolce sorriso, che subito dopo assunse il suo solito aspetto divertito. «Cambiando discorso, a chi stavi scrivendo di buon mattino? È raro che tu prenda in mano il cellulare, figuriamoci a essere così assorta al punto da non accorgerti della presenza “del tuo amato fratellino”!»

Aurora soffocò una risata. «Strano che tu non lo sappia... piuttosto strano! Andiamo: ti sei affezionato così tanto a lui, ma ti sei già dimenticato che oggi è il suo compleanno?»

«Ma chi, quella scimmietta? Se è per questo, sei in ritardo: io ho già dato quando mi sono svegliato, almeno mi sono tolto il pensiero e tanti saluti...» replicò lui, alzando le mani in segno di resa e voltandole le spalle; nel farlo si lasciò sfuggire un risolino che l’altra fece in tempo a notare.

«Miracolo, ti sei ricordato prima di me! Domani verrà giù un temporale inarrestabile!» La giovane spalancò le braccia e iniziò a canzonare suo fratello per quelle parole che aveva appena detto. «Comunque credevo che ti fossi tolto dalla testa quel nomignolo: da quanto tempo non lo chiamavi così? Un anno? Due?»

«Smettila...»

«E poi da dove è saltato fuori questo “scimmietta” in tono affettuoso? L’hai detto con un tono che sembrava più quello di un adulto verso un neonato, quando lo vede così carino al punto da fargli tante coccole!»

«Ti ho detto di smetterla...»

«Potrei iniziare a... come si dice tra i fan? Shippare? Sì: se continui così, potrei iniziare a shipparvi!»

«Insomma, Auro! Potrei dire lo stesso anche di te: quando eri ad Alba non perdevi occasione di stare con lui tutti i giorni!»

Aurora scoppiò in una risata fragorosa, nonostante il rossore che aveva colorato leggermente le sue guance per le ultime parole di suo fratello. Si mantenne lo stomaco e si portò davanti a lui; non appena vide anche il suo volto di un cremisi acceso, lo punzecchiò di nuovo. «Guardati: sei diventato rosso per l’imbarazzo!»

«Cosa dici: semmai tu lo sei! Invece io sono diventato rosso di rabbia» replicò Salvatore, lasciando il pallone per terra. «Sempre la solita sfacciata! Inizia a correre... anzi: ti darò cinque secondi di vantaggio, anche se sono convinto che ti prenderò lo stesso!»

«Ok, voglio proprio vedere se ci riesci!»

Aurora rivolse al fratello un sorriso di sfida e in un baleno si portò a debita distanza da lui; riprese in mano il cellulare e premette il tasto per inviare il messaggio che aveva scritto e che stava leggendo prima di scontrarsi con il fratello. Le sue gambe si mossero ritmicamente non appena udì un urlo che riecheggiò per le valli terrazzate di coltivazioni.

«Adesso ti prendo!»

Le risate dei due giovani riempirono l’aria, insieme ai raggi del sole che avevano iniziato a illuminare quel largo vigneto.

 

 

 

[12 Marzo. Campo di allenamento della Nazionale, Giappone.]

 

In fondo dovevo aspettarmelo: oggi è il mio compleanno…

Yuzo era appena rientrato negli spogliatoi, prima di tutti gli altri che aveva lasciato ancora sul campo da calcio, e la prima cosa che aveva fatto era accendere lo schermo del suo cellulare. Già dalla luce lampeggiante in alto aveva intuito che ci fossero dei messaggi che non aveva ancora letto, ma che addirittura ve ne fossero così tanti, ecco: non se lo aspettava.

Nel premere il tasto dell'accensione, sulla schermata campeggiavano i vari rettangoli di notifica. C’erano dei messaggi da parte dei suoi vecchi compagni dei vari club dei quali aveva fatto parte, qualcuno da parte della Shimizu S-Pulse, la squadra dove attualmente militava nella J.League, e altri da parte della sua famiglia - come era ovvio. Si divertì a guardare il video che Ken'ichi aveva realizzato con i suoi compagni di corso, pregando che non l’avessero espulso per quella piccola bricconata fatta all’insaputa del rettore dell’università e del direttore del loro dipartimento; si sorprese nel vedere quello realizzato da Takaji e fu quasi sul punto di ridere nel vederlo in grande difficoltà a bordo della sua Jeep; infine sorrise di cuore nel vedere i due realizzati da Hanako, prima con Hoshiko e Isamu, poi con i suoi nipotini Naoki e Saki e il resto della famiglia al jinja di famiglia.

«Oh, mamma: caspita quanti messaggi! E ci sono anche delle telefonate!»

Yuzo sobbalzò. Quella voce improvvisa, che sembrava provenisse dalle profondità della sua mente, in realtà era giunta alle sue spalle e da una persona che non fosse lui.

Aoi Shingo.

Si voltò, osservando quel giovane mentre era intento a controllare tutte le notifiche che erano arrivate sul suo cellulare. Decise di avvicinarsi a lui e gli rivolse uno sguardo sereno.

«A quanto pare tutti i nostri cellulari sono diventati dei centralini» affermò il portiere. «Avevano ragione: basta allontanarsi anche solo per cinque minuti per ricevere messaggi quando meno te lo aspetti!»

Shingo ripose il cellulare nella tasca del suo borsone e sorrise fieramente al suo compagno di squadra.

«Oggi è tutto concesso: è il mio compleanno!»

«Il tuo... cosa?»

Quella risposta inaspettata colse di sorpresa Yuzo, al punto che l’altro si accorse che il suo volto aveva assunto di colpo un’espressione di assoluta incredulità. Shingo non poteva comprendere il vero perché della reazione del suo compagno; dopotutto, non sapeva ancora che anche lui fosse nato il suo stesso giorno.

Credendo che Yuzo avesse messo su quell’espressione solo perché aveva appena scoperto del suo compleanno, Shingo si indicò compiaciuto ed esclamò: «Forse non lo sai, ma oggi è proprio il mio compleanno! È il primo anno che lo festeggio in un luogo come questo... ma non importa: tutte le persone alle quali voglio bene sono vicine a me, anche quelle che in questo momento sono lontane!»

Yuzo diede un piccolo risolino. Che buffa coincidenza: entrambi erano nati lo stesso giorno, in due anni e luoghi completamente diversi, con famiglie distanti l’una dall'altra; eppure, entrambi erano accomunati dalla loro grande passione per il calcio, ed era proprio per l’amore che nutrivano verso questo sport che si erano incontrati.

Inoltre, le parole di Shingo avevano espresso proprio ciò che stava accadendo a lui. Anche Yuzo, dopotutto, aveva ricevuto molte notifiche sul suo cellulare: segno di quel grande affetto che molti dei suoi amici e parenti stavano provando nei suoi confronti e che mai si sarebbe spento, nemmeno con la lontananza.

Il portiere si portò le mani sui fianchi e diede voce a ciò che voleva comunicare all’altro giocatore. «Ti capisco... che coincidenza: oggi è anche il mio, di compleanno.»

«... lo stai dicendo per prendermi in giro?»

Nonostante la calma e la sincerità delle parole di Yuzo, la reazione di Shingo fu spontanea: il giovane inarcò le sopracciglia, curioso di capire se l’altro gli avesse detto davvero la verità o meno. Ma un altro breve trillo seguito da altri, questa volta del cellulare di Yuzo, lo fece ricredere.

«Direi proprio di no: oggi anche il mio cellulare ha voglia di fare festa!»

Yuzo tornò al suo borsone per riprendere in mano il suo cellulare, questa volta ricco di un altro giro di notifiche da parte dei suoi kohai delle superiori. Allo stesso tempo anche quello di Shingo squillò ripetutamente e, nel caso del giovane, si trattava proprio di una telefonata.

Anzi... di una doppia telefonata: la prima era dal numero di suo padre; la seconda da quella di sua sorella Yukiko. Entrambe, nello stesso momento.

«Oh, caspiterina...» esclamò Shingo, mostrando un’espressione di grande sorpresa. «E ora cosa faccio? A chi rispondo?»

Nello stesso momento squillò anche il cellulare di Yuzo. Il giovane portiere, mentre stava scorrendo la pagina della mail personale, si vide arrivare una telefonata: cercò di mantenere la calma, spezzata dal fatto che a lui non piaceva essere interrotto all’improvviso.

Soprattutto mentre sto cercando di capire perché lo zio Noboru si trova al Miho Ground... - pensò. Cosa caspita ci fa, laggiù? Sta complottando qualcosa, me lo sento: lo sapeva che oggi non c’ero, e che soprattutto la mia squadra non era impegnata con gli allenamenti! Che cosa ci fa, lì, e da solo per giunta?!

Mentre i loro cellulari continuavano a squillare, ad entrambi i ragazzi venne in mente la stessa idea. Si voltarono, guardandosi negli occhi e con un cenno di intesa si scambiarono i cellulari.

«Facciamo una prova» disse Yuzo. «Vediamo come ce la caviamo: se davvero siamo nati lo stesso giorno...»

«... non sarà male, fidati!» aggiunse Shingo, con un sorriso a trentadue denti. «Sarà divertente, vedrai!»

 

 

 

«Senti, Morisaki... ma è normale che sullo schermo c’è uno strano tizio con i baffi che mi sta fissando senza dire una parola? È inquietante: sicuro che sia qualcuno della tua famiglia? Non è che hanno sbagliato numero?»

Shingo aveva allontanato il telefono e aveva pronunciato quelle parole il più possibile sottovoce, per evitare che il suo interlocutore non lo sentisse.

Troppo tardi.

«Guarda che non sono sordo!» esclamò l'uomo. «Izumi, mi sa che tuo figlio ha perso il telefono o gliel’hanno rubato: c'è un ragazzino con la faccia da scemo che ha risposto al posto suo...»

«Chiedo scusa, signore?» replicò Shingo, mostrando poi un sorriso colmo di fierezza. «Per sua informazione, è proprio questa “faccia da scemo” che adorano i miei fan! E i miei fan mi vogliono molto bene!»

«Aaaah, lasciamo perdere. Senti un po’: Yuzo non c’è?»

«Nossignore, è andato al bagno!»

Sullo schermo del cellulare, alle spalle dell’uomo fece capolino un'anziana signora che, non appena vide Shingo, diede un urlo di ammirazione. «Ma quello... quello è Aoi Shingo! Caro, possibile che tu non l’abbia riconosciuto? L’abbiamo visto giocare dal vivo lo scorso mese in Italia!»

«Come?»

L’uomo spalancò gli occhi, incredulo, mentre la donna rivolse a Shingo un raggiante sorriso. «Se hai il telefono di Yuzo... vuol dire che sei in Giappone! Sei tornato in Giappone, vero?»

«Corretto!» rispose Shingo, e mostrò alla telecamera del cellulare la mano chiusa a pugno con il pollice in su. «Resterò per qualche giorno, poi tornerò in Italia!»

«Sei bravissimo! Se fossi in Italia, di certo diventerei una grande tifosa dell'Inter... solo per te!»

«Non esageriamo, cara» aggiunse l'uomo, dando un leggero colpo di tosse. «Noi saremo sempre fedeli ai nostri Samurai dalle vesti blu...»

«Perché, lui non lo è?»

«Certo che lo è! Ma diventare tifosa dell’Inter, di una squadra italiana e non giapponese... mi sembra alquanto esagerato. Comunque...» e l'uomo si rivolse nuovamente a Shingo, «ti ripeto che non sono sordo. Sento la voce di mio nipote come sottofondo: non è al bagno… è lì, vero? Poi entrambi dovete dirmi perché tu hai risposto al posto suo: forse ora ha paura di parlare al telefono?»

Lo sguardo serio e magnetico - ma agli occhi di Shingo stranamente inquietante - di quell’uomo mise a forte disagio il minuto calciatore che, allontanando una seconda volta il telefono, si voltò verso il suo compagno di squadra con voce tremolante.

«M-M-Morisaki, ti prego: vieni subito qui! Non mi piace più questo scherzo: ma che razza di parenti hai?!»

Ma Yuzo non gli diede retta.

 

Dall’altra parte della stanza, infatti, il terzo portiere della Nazionale giapponese era molto coinvolto nella conversazione che stava avendo con la famiglia di Shingo. Tra i due calciatori presenti in quella stanza, Yuzo era quello di gran lunga pratico nella tecnologia, per cui era riuscito a inserire nella stessa conversazione le due telefonate che erano arrivate simultaneamente sul cellulare del suo compagno di squadra, trasformandola in una videochiamata di gruppo; in questo modo il portiere era riuscito a vedere sia i genitori e la nonna del suo compagno di squadra che Yukiko con Hibiki.

E, da quel poco che la giovane artigiana gli aveva accennato, il sindaco di Nakahara stava preparando un’originale sorpresa per Shingo.

«Sono d'accordo: gli piacerà un sacco!» esclamò Yuzo, indicando sullo schermo il bozzetto che gli stava mostrando il giovane sindaco. «La prossima volta che tornerà a Nakahara e lo vedrà pronto, se ne innamorerà e l’abbraccerà fino a non staccarsi mai. Già me lo immagino, sarebbe proprio da lui!»

«Di cosa state parlando?»

Yuzo sobbalzò, così come - sullo schermo - Yukiko che, all’improvvisa voce di suo fratello, fece cenno a Hibiki di togliere di mezzo il bozzetto prima che suo fratello lo avesse accidentalmente visto prima del tempo.

«Del tuo regalo di compleanno!» rispose candidamente il portiere, voltandosi verso Shingo. «Ho appena raccontato a loro che oggi è anche il mio compleanno, così mi hanno chiesto qualche consiglio sui regali da farti.»

«Davvero?» chiese Shingo.

«Davvero. Ti stanno preparando una bella sorpresa, però non posso dirti niente... altrimenti che sorpresa sarebbe?»

«Dai qua, per favore!»

Shingo gli rubò il telefono di mano, restituendogli il suo. Prima di voltarsi verso lo schermo del suo cellulare disse, con gli occhi puntati su quello di Yuzo: «Ora vi spiega lui tutto! È stato un piacere conoscervi, signori Morisaki... o chiunque voi siate!»

Il portiere osservò la scena con enorme incredulità. Dopo essersi affacciato alle spalle di Shingo e salutato la sua famiglia, si allontanò con il telefono tra le mani.

«Scusa, nonno Akihiko...» disse, con velato imbarazzo. «La verità è che volevo farvi una sorpresa: non sapevo che oggi fosse anche il compleanno di Shingo...»

«Come? Anche Aoi Shingo compie gli anni?» chiese sua nonna Chiharu con stupore. «Non lo sapevo, chiedigli scusa da parte mia e fagli tanti, cari auguri!»

«Sì, ma perché dargli il tuo cellulare?» aggiunse suo nonno, con un sopracciglio alzato. Accese una sigaretta e proseguì: «Potevi avvisarci prima, no?»

«Ecco, ho pensato che–»

Un altro urlo improvviso colse di sorpresa Yuzo, che subito si voltò nella direzione di quella voce. Con la bocca aperta e le lacrime agli occhi, Shingo stava ammirando ciò che in quel momento si vedeva sullo schermo del suo cellulare: un disegno che lo rappresentava, con appunti su misure e altezze.

Il progetto di una statua, dedicata a lui.

«Giuro che domani torno a Nakahara e ci faccio una foto!» esclamò Shingo con grande entusiasmo, dimenticandosi del fatto che quello che stava vedendo era ancora un progetto su un foglio di carta.

Yuzo sorrise, pensando a ciò che aveva saputo riguardo quel bozzetto. La sorella del minuto calciatore gli aveva confidato che il sindaco aveva avuto l’idea di costruire una statua a grandezza naturale di Shingo, per poi collocarla al centro del parco della cittadina.

«Dimmi un po’, Yuzo. Quel ragazzino è sempre così rumoroso?» domandò Akihiko, leggermente infastidito.

Il portiere soffocò una risata e rispose: «Sai, nonno... tutti noi gli vogliamo troppo bene. È davvero unico, è simpaticissimo… e lo ammetto: dopo un po' che stai insieme a lui, ti contagia con la sua allegria!»

 

 

 

[12 Marzo, qualche minuto dopo. Nankatsu, prefettura di Shizuoka, Giappone.]

 

«Certo che mai mi sarei aspettata una cosa del genere, da mio nipote...»

Akihiko fece un ultimo tiro dalla sigaretta, prima di spegnerla nel posacenere che era sul tavolo. Dietro di lui, sua moglie Chiharu e sua figlia Izumi stavano finendo di sparecchiare, rimettendo in ordine la cucina dove avevano cenato.

«Ha preso proprio dai suoi amici» continuò, portando le braccia conserte. «Che razza di scherzo era, non l’ho capito: rispondere al posto suo un ragazzino che più che un suo compagno di squadra mi sembrava uno scemo! E dire che questo “Aoi Shingo” non sembrava così stravagante sul campo…»

«“Ci ha fatto”, semmai» lo corresse Hideki, e subito diede un sorso al digestivo che suo suocero aveva portato per l’occasione. «Come hai detto che si chiama, questo?»

«Limoncello. Uno dei prodotti pregiati dell’Italia: possibile che tu non l’abbia mai assaggiato?»

«Si dia il caso che io non sia un viaggiatore come te... forse più mio fratello Noboru: se chiedi a lui, magari ti sa dire qualcosa.»

Akihiko si lasciò sfuggire una piccola risata sotto i baffi. «Quanto sei pigro! Dovresti fare come me: staccare un po' dal lavoro per iniziare a esplorare il mondo, e così ne approfitti per rilassarti. Ultimamente ti vedo molto stressato!»

«Dimmi quando riesco a trovare del tempo libero. Sono sommerso di impegni... come mi è venuto di dedicarmi a tante cose nella vita? Nella prossima vita voglio rinascere gatto, così penso solo a mangiare e dormire!»

«Non ti facevo così pigro, caro genero... ho deciso: alla prossima vacanza tu verrai con me, al posto di mia moglie. Anzi, io e te faremo il giro del mondo!»

Dall'ingresso della cucina Izumi osservò la scena, senza dire una parola. Dopo tanto tempo era la prima volta che lei e suo marito si erano ritrovati con i suoi genitori: solo loro quattro, senza i loro figli. Con i suoi figli in tre parti diverse del mondo e la sua Hanako a casa di Hoshiko per un pigiama party, le sembrava di essere tornata indietro nel tempo, quando lei e Hideki erano solo novelli sposini.

Come era all’inizio.

Il cellulare che Izumi aveva nella tasca del suo grembiule iniziò a vibrare. Dopo aver dato una veloce occhiata allo schermo, che si era illuminato con la notifica di un messaggio in arrivo, la donna si congedò dai presenti per qualche minuto. Si recò al primo piano, con un preciso obiettivo nella sua mente: dirigersi verso quella che un tempo era la camera da letto di Yuzo e che ora, per la maggior parte dell’anno, era solo uno scrigno di piacevoli ricordi.

Entrò nella stanza e si soffermò ad osservare ogni singolo dettaglio: il letto dove dormiva suo figlio, la scrivania dove studiava e infine la finestra, dalla quale spesso si affacciava e dove era riposto il telescopio Takahashi donatogli dallo zio Noboru. E lei si soffermò proprio in quel punto, sfiorando con delicatezza le ante e poi il davanzale. Sorrise dolcemente: ripensò a suo figlio e tutto ciò che aveva condiviso con lui, dalla sua nascita fino a quel momento.

Nonostante le frecciatine che ogni tanto suo padre Akihiko si divertiva a lanciare, i suoi quattro figli erano cresciuti senza prendere brutte strade, ognuno con un sogno che stavano realizzando. E, in particolare, di Yuzo ne andava molto orgogliosa: era entrato a far parte della Nazionale giapponese di calcio, e grazie alle sue grandi capacità man mano si stava facendo conoscere non solo in Giappone ma anche nel resto del mondo.

Se qualcuno mi avesse detto anni e anni fa che sarebbe arrivato a tali livelli... non ci avrei mai creduto!

Izumi si appoggiò al davanzale e prese in mano il cellulare con l’intento di fare una telefonata. Nell’osservare la finestra della casa che aveva di fronte a sé, d’un tratto vide qualcosa di inconsueto: le tende, solitamente chiuse, si spostarono e proprio da quella finestra si affacciò la sua vicina che, non appena la vide, agitò la sua mano per salutarla. Kazue aveva appena portato il cellulare all'orecchio, e infatti un sonoro beep si udì in quello di Izumi.

Sulle guance di Izumi scese qualche lacrima di commozione, e senza perdere tempo la donna comunicò per telefono all’amica ciò che stava pensando in quel momento, proprio in risposta al messaggio che proprio da lei era arrivato qualche minuto prima.

 

«Avevi ragione, Kazue. Anch’io penso che Hikaru sia fiero di mio figlio.»

 

 


 

[Angolo di una piccola pinguina nelle vesti di scrittrice.]

Con questa parte si conclude il nostro viaggio che ha accompagnato Yuzo e Shingo dalla nascita fino al termine dell'adolescenza! (Con tanti, cari auguri a loro dato che oggi è il loro compleanno per davvero, sì! :3)

A dire il vero avrei potuto raccontare anche di altri compleanni, continuando a seguire il salto temporale dei tre anni... ma alla fine ho deciso di non farlo perché mi è sembrato giusto così. D'altronde questa storia è nata per raccontare un po' il loro percorso di crescita, con episodi che finora non sono stati narrati nella serie ufficiale - ma chissà se qualche Memories futuro ci regalerà qualche scorcio del loro passato - per cui conoscete già tutto il resto!

A proposito di salti temporali, questa volta non ho specificato un periodo ben preciso, ma volevo dare comunque l'impressione che fossero trascorsi "alcuni anni" (appunto) dall'ultima volta che abbiamo visto i protagonisti: nel dettaglio immaginavo uno stacco temporale di cinque anni massimo.

Prima di passare agli ultimi approfondimenti e alla conclusione di questo angolo delle note, vi presento l'ultimo OC del quale, in realtà, è già stato fatto accenno nella parte dei diciotto anni del nostro Yuzo... ma del quale solo qui sappiamo qualcosa in più:

 

- Ran 「蘭」 era la moglie di Noboru, figlia di madre australiana e padre giapponese (e questo spiega la scritta in inglese sull'adesivo del telescopio... nulla è lasciato al caso! :3) Aveva conseguito l'abilitazione per essere preparatore atletico, e per il suo lavoro è giunta presso la Shimizu S-Pulse di Shizuoka, dove ha incontrato Noboru. Nel giro di pochi mesi si sono fidanzati e sposati, ma qualche tempo dopo il loro matrimonio lei è venuta a mancare a causa di una grave e improvvisa malattia.

Amava le coccinelle, motivo per il quale sul suddetto adesivo vi era l'immagine di una coccinella, e le stelle. Il telescopio Takahashi è, infatti, un dono che lo stesso Noboru le aveva dato, pochi mesi prima della sua scomparsa.

Il motivo per il quale Yuzo - così come i suoi fratelli - non è mai stato a conoscenza della sua esistenza è a causa del fatto che questa donna è scomparsa prima del matrimonio di Hideki e Izumi. Noboru non ha mai avuto il coraggio di parlare di questa donna ai suoi nipoti, troppo divorato dal dolore per quanto gli era accaduto...

 

E dopo quest'ennesima parentesi triste, passiamo subito alle note di approfondimento!

 

- Giusto per avere un'idea del ciclo delle stagioni sull'acero, qui potete trovare una fotografia riassuntiva. Essendo quasi all'inizio della primavera in Canada, gli alberi sono ancora spogli ma ricchi di piccoli germogli verdi;

- Il Mizzy Lake è uno dei luoghi del già citato Algonquin Provincial Park. In questo luogo coesistono tutte le specie di fauna presenti nel parco;

- Il fatto che Ken'ichi si preoccupa di finire la caramella prima dell'inizio delle lezioni è tratta dalla realtà. Leggendo questo articolo, ho scoperto che nelle università giapponesi è severamente vietato mangiare caramelle, masticare chewing-gum durante le lezioni (ed è giusto così), a volte anche bere... anche se, a quanto sembra, si può dormire durante le lezioni. Diciamo il contrario delle nostre università, LOL;

- Il Journal of the Tokyo University of Marine Science and Technology è la rivista che raccoglie tutte le pubblicazioni dei ricercatori della Tokyo University of Marine Science and Technology. Qui trovate tutte le pubblicazioni finora uscite;

- Il Miho Ground è il luogo in cui si allena la squadra... *rullo di tamburi*, esatto: la Shimizu S-Pulse, proprio la squadra nella quale entra a far parte il nostro Yuzo! Ora avete capito il perché di tutti quei riferimenti che c'erano all'inizio della parte sui tre anni del protagonista? In questa storia nulla è stato messo a caso...

- Il Decanter World Wine Awards è il più importante concorso vinicolo internazionale, nel quale i partecipanti premiati hanno la possibilità di promuovere la loro produzione di vino (solo quello che ha vinto, non tutti i prodotti dell'azienda) con il marchio del concorso. Avete già capito che arrivare sul podio del DWWA ha un certo peso: osservando la Hall of Fame del concorso ho scoperto che questo riconoscimento è stato vino solo da tre produttori italiani, tra i quali uno è proprio del Piemonte; qui, invece, potete trovare un elenco di tutti i premi vinti da produttori italiani (che non sono pochi!)

 

Un ultimissima nota riguarda un altro personaggio qui citato: Akane [茜], la compagna di Hanako e Hoshiko prima del suo trasferimento a Shimizu. Non l'ho inserita nell'elenco dei personaggi perché è un personaggio ancora in "work of progress". Tutte le informazioni certe che posso darvi sono tratte dallo stesso testo: è un'abile attaccante, che non ha avuto un inizio facile con Hanako a causa del loro carattere (Akane è un po' come Kojiro, un po' come Makoto... e con questo vi ho detto tutto :3) ma che, alla fine, proprio con lei è riuscita a costruire una squadra di calcio femminile nelle medie Shutetsu. Alle superiori si trasferisce a Shimizu, per cui in questo momento della storia lei si trova proprio in quella città. Il suo colore significa "rosso brillante" - e con questo ho davvero chiuso la parentesi dei miei personaggi originali, LOL!

 

Detto questo, oggi siamo giunti alla conclusione di un lungo viaggio durato molti mesi. Quando ho iniziato a pubblicare questa storia, il 24 settembre 2020, non mi aspettavo che sarebbe stata accolta con molta positività e attesa. Rileggendo i primi commenti mi sono resa conto di essere stata in grado di creare delle belle aspettative (e di questo sono molto felice **), aspettative che probabilmente ho deluso man mano che la storia è andata avanti... ma non ho mollato perché so che qualcuno ha sempre seguito la mia storia, anche solo per il gusto di sapere "Ma questa, dove vuole andare a parare?" ;D

Per cui, se sono riuscita a trasmettervi qualcosa, che sia un'emozione o se solo vi ha colpito qualche passaggio del testo (nel bene o nel male, ovviamente), ne sono davvero contenta. :)

È doveroso ringraziare khrenek che, impavido e in barba a tutti i "WTF" della storia, è stato il primo lettore a essere arrivato fino alla fine. Quindi... a te darò la medaglia virtuale del lettore virtuoso - e qui scusate il piccolo "scioglilingua" XD

Un altro ringraziamento - perché mi ha sopportato e supportato fin dai primordi di questo progetto - va alla solita stellaskia... ecco, sopportato sarebbe il termine più adatto, perché il periodo della pandemia non è stato facile per tutti (e non lo è ancora) e con la lettura in anteprima di questa storia forse le ho dato un peso non indifferente. Ti chiedo ancora scusa. :')

Il ringraziamento "Voce fuori campo" va alla mitica Melanto che si è interessata molto a questa storia, e ogni volta che abbiamo l'occasione di metterci in contatto si ripromette di proseguire con la lettura. Non preoccuparti: la storia è e resterà sempre qui... così come nel mio caso lo sarà il tuo ciclo del "Mori no kokoro" - quella storia mi perseguiterà nei miei sogni, me lo sento. Visto che capisco perfettamente ciò che provi? :3

Infine ringrazio tutti coloro che hanno letto e lasciato un commento, e anche quelli che hanno seguito la storia silenziosamente. Vi assicuro che le circa quattrocento letture del primo capitolo (che risultano per la data di oggi, 12 marzo 2021) sono del tutto normali, se considerassimo la curiosità che spinge una persona ad aprire una storia su due personaggi che non sono i protagonisti della serie... ma non lo sono le circa cento letture dei capitoli successivi. Ovviamente "cento" in media perché quelli più recenti hanno meno letture, ma ciò significa che finora ci sono state molte persone che si sono interessate alla mia storia, una storia che ha riguardato anche personaggi originali - su alcune parti erano soprattutto loro i veri protagonisti - ambientata nei giorni del compleanno di due bravi calciatori.

A proposito di compleanni: ancora tanti cari auguri a Yuzo e Shingo! Speriamo che anche oggi stiano festeggiando alla grande! :3

Per ora il viaggio si conclude qui, e colgo l'occasione per annunciarvi che prossimamente su questi schermi arriverà Intrecci, un insieme delle mille voci che sono nate da questa storia e che saranno da approfondimento per alcuni punti della fanfiction. Non so ancora quando di preciso perché devo ancora completarlo, ma prima o poi arriverà... :)

A presto!

--- Moriko

 

 

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