La memoria del cigno

di blackjessamine
(/viewuser.php?uid=898410)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


La memoria del cigno
 
 
Parte prima
 
 
 
 
Doveva essere soltanto un gioco, e s'era rivelato un continuo azzardo.
Come corteggiare costantemente il disastro, come avere tendenze autodistruttive nascoste dietro ogni sorriso smagliante.
Qualcuno, se avesse saputo, avrebbe potuto ipotizzare un distacco sempre più grande fra il personaggio pubblico e ciò che Gilderoy aveva sempre tenuto nascosto, e accanto alla dissociazione, il desiderio latente di infrangere ogni barriera, grattar via i cocci con un gesto della mano insanguinata e lasciare emergere la sola figura con cui Gilderoy si fosse sempre sentito a suo agio.
 
Era stato un azzardo, entrare una sera al White Swann[1] e giocare con le probabilità.
La sua immagine cominciava a riempire le pagine centrali di rotocalchi e riviste per signore. Il suo primo libro ammiccava dagli angoli meno illuminati delle vetrine delle librerie e il suo nome era stato storpiato soltanto una volta, durante le interviste pubblicate per riempire la colonna fra le ricette di cucina e la pubblicità di Madama McClan.
Erano poche le probabilità che qualcuno degli avventori di quel locale in Vere Street leggessero riviste per signore, ma Gilderoy sapeva di non poterle sfidare – eppure lì, avvolto nel suo mantello migliore e consapevole di avere i ricci scomposti, si era sentito felice. Si era sentito libero, anche se ogni sguardo che gli scivolava addosso lo accendeva di lusinghe e timori, perché se fosse stato riconosciuto, tutto sarebbe crollato come si spegne qualsiasi fiamma effimera – i finocchi non vendono, Gilderoy, il suo editore era stato chiarissimo[2]. E Gilderoy voleva vendere. Gilderoy doveva vendere, perché vendere era tutto ciò che avrebbe potuto dare un senso agli sforzi che aveva fatto per arrivare fino a lì.
Certo, uno scandalo avrebbe acceso come un fuoco d’artificio il ronzare di parole che sciamava attorno al suo nome: Gilderoy poteva chiudere gli occhi e immaginare con una precisione sconcertante il tenore dei titoli che avrebbero fatto scoppiare come una bolla di sapone il sogno di tutte le casalinghe del mondo magico. E Gilderoy non poteva permettersi fuochi d’artificio: lui aveva bisogno di incendi lunghi, dei flash delle macchine fotografiche e della luce accecante di una conferenza stampa dove continuare a brillare e gettare luce sul domani, e sul giorno dopo, e su quello dopo ancora.
 
Chiunque, nella sua condizione, avrebbe evitato il White Swann come se fosse un ritrovo di malati di vaiolo di drago. Quasi che certe inclinazioni potessero trasmettersi come una malattia contagiosa – e ci aveva sperato, Gilderoy, ci aveva sperato fino a consumare ogni grammo di speranza, da ragazzino, quando i brividi che gli scuotevano il corpo di notte erano tutti sbagliati. Perché da una  malattia si può guarire, ma la natura di un uomo non può cambiare.
E invece Gilderoy non lo aveva evitato: ci era entrato per la prima volta la sera in cui aveva firmato il contratto per pubblicare il suo primo libro, quasi volesse mettere subito alla prova la solidità di quella conquista.
Ci era entrato quando ormai aveva imparato che i suoi non erano brividi sbagliati: erano sbagliati solo per il mestiere che si era scelto, e quindi andavano nascosti all’occhio del pubblico, ma non soffocati ed estirpati.
 
Gilderoy non poteva considerarsi un cliente abituale: non poteva permettersi l’abitudine, non poteva permettersi di avere un ruolo e di farsi un nome, non in quel locale dalle luci basse e dalla musica troppo alta che invitava a chiacchierare con il capo fin troppo vicino.
Ci andava di rado, facendo attenzione a non scegliere mai lo stesso giorno della settimana e lo stesso orario, e non restava mai troppo a lungo. Restava per il tempo che bastava a fissare gli occhi su un uomo abbastanza gradevole, e poi a cominciare a sperimentare l’estensione del proprio potere di seduzione.
Saggiava i confini del proprio fascino, lanciando parole coperte di miele e ammiccando nel modo giusto, ogni sera una tattica nuova per conquistare sempre il medesimo risultato: una bocca che gli sfiorava l’orecchio proponendo di appartarsi in un posto un po’ più tranquillo.
Quel posto un po’ più tranquillo non era mai casa sua. Troppo rischioso, troppo riconoscibile: vicini pronti a vendere uno scoop al primo pennivendolo, giornalisti che conoscevano il suo indirizzo, no, non poteva attraversare il vialetto stringendo la mano di uno sconosciuto.
Non era nemmeno la casa degli sconosciuti, nonostante questi lo proponessero spesso: Gilderoy non era uno sprovveduto, nonostante qualche volta giocasse a impersonare quel ruolo. Quello che impugnava la bacchetta era lui, era sempre lui, e non avrebbe mai corso il rischio di ritrovarsi dal lato sbagliato di un incantesimo, ed entrare nella casa di uno sconosciuto per mettersi in una posizione vulnerabile era il modo migliore per inciampare nel lato sbagliato di un incantesimo.
Il posto tranquillo era una stanza qualsiasi di uno dei motel babbani che circondavano la zona. Posti squallidi che offendevano a ogni divanetto in finta pelle e ogni carta da parati scrostata il senso estetico di Gilderoy, ma era il prezzo da pagare per non essere riconosciuto e non essere ricordato.
 
Erano incontri che servivano a spegnere un prurito, quelli.
Un male che si rendeva necessario quando la pressione diventava troppa – troppi sorrisi, troppi fiori, troppe streghe che si aspettavano da lui qualcosa che lui poteva soltanto fingere.
La paura di trascorrere troppo tempo in un posto pieno di sconosciuti che avrebbero potuto riconoscerlo lo rendeva impaziente: non si concedeva mai abbastanza tempo per studiare la situazione. Il tempo non bastava mai per arrivare a conoscersi davvero. Non bastava nemmeno per provare a capire se l’interesse fosse giustificato, e Gilderoy aveva ormai perso il conto degli incontri che si erano rivelati una delusione annunciata.
C’erano anche le eccezioni – serate memorabili, incontri che lo lasciavano senza fiato e lo facevano sentire al posto giusto – ma il più delle volte tornava a casa con la voglia di cancellarsi dalla memoria quegli incontri fatti di sesso mediocre e troppo imbarazzo.
Ma, naturalmente, era Gilderoy a impugnare la bacchetta. E Gilderoy forse correva dei rischi, scivolando in quel locale, ma non era uno sprovveduto e sapeva prendere le giuste precauzioni. Gilderoy non era forse il mago straordinario che impersonava nei suoi libri, ma aveva un innato talento, un talento che forse nessuno gli avrebbe mai riconosciuto: i suoi incantesimi di memoria erano abiti cuciti su misura, capaci di sondare le pieghe complesse della mente umana e di lasciare solo nebbia. Non una nebbia bianca e totalizzante, no, quello no: sarebbe stato infinitamente più facile attendere che il suo accompagnatore cedesse al sonno per poi evocare un incanto potente e pulito, capace di cancellare ogni traccia di quella serata. Ma una nebbia bianca così fitta da non fare emergere alcun dettaglio avrebbe destato dei sospetti, e l’ultima cosa che Gilderoy voleva era lasciarsi alle spalle una scia di uomini preoccupati per una improvvisa perdita di memoria dopo un incontro al White Swann. Perché forse qualcuno non avrebbe potuto permettersi di chiedere aiuto, consapevole di non poter dire a nessuno di aver frequentato un posto simile – non chi a casa aveva una moglie ad aspettarlo o una carriera da difendere con le unghie con l’umiliazione di sé –, ma qualcun altro avrebbe potuto insospettirsi. Avrebbe potuto parlare, trovare altre storie simili e cominciare a smuovere le acque. Gilderoy aveva bisogno di nascondersi in acque torbide, e così si era specializzato nella leggerezza. I suoi incantesimi di memoria erano solo sfumature, istanti capaci di scivolare l’uno sull’altro senza lasciare impressioni coscienti. Restavano i contorni, ma erano contorni fuori fuoco, incapaci di essere afferrati con una presa salda. Le persone con cui passava la serata avrebbero ricordato confusamente di aver trascorso del tempo in una stanza d’albergo con qualcuno conosciuto al White Swann, ma non sarebbero più stati capaci di richiamare alla memoria la sequenza completa di eventi che li avevano portati fin lì, e di certo non avrebbero mai ricordato i lineamenti dell’uomo con cui erano stati.
Succede, quando si beve troppo.
E Gilderoy faceva sempre attenzione a scegliere soltanto uomini disposti a non fermarsi al primo bicchiere.
Non era poi tanto diverso dal sedere in una bettola in un remoto villaggio a pagare una birra dopo l’altra perché qualche sciocco lo mettesse a parte delle proprie avventure con creature pericolose: questi sciocchi, l’indomani, non avrebbero ricordato l’affascinante inglese che li aveva ascoltati con tanta sollecitudine, perché non avrebbero ricordato nemmeno di aver mai avuto una storia da raccontare.
Con i portieri di notte babbani era tutto più facile. La loro memoria sembrava fatta apposta per lasciar scivolare nel vortice del sonno e della noia quei due clienti dai vestiti buffi. Gilderoy sospettava che con loro non avrebbe nemmeno avuto bisogno di nascondere la bacchetta nella manica della giacca: probabilmente gli sarebbe bastato sussurrare un oblivion mentre pagava il conto – era bravo, con i soldi babbani[3] – e la sua immagine sarebbe svanita dalla loro mente, persa nel turbinare di notti faticose e tutte uguali.
 
***
 
Le eccezioni, per Gilderoy, erano macchie.
Elementi capaci di infastidirlo oltre ogni misura, come errori nel tessuto perfetto delle giornate che andava costruendosi.
Aveva imparato a diffidare delle eccezioni, perché un’eccezione non è mai solo un’eccezione: un’eccezione è la porta aperta su un fiume capace di travolgere con una piena distruttiva tutto ciò per cui aveva sempre lavorato.
Eppure, esistevano eccezioni da cui era impossibile prendere le distanze. Perché di una cosa Gilderoy era sempre stato sicuro: era lui quello a impugnare la bacchetta. Era lui a condurre le regole del gioco, lui a porre paletti e spingere gli altri a fare ciò che in fondo era lui a decidere.
Ma, soprattutto, Gilderoy era sempre stato sicuro della propria infallibilità: non c’erano obiettivi che non potesse raggiungere, non c’erano vette di successo che non potesse conquistare, e non c’erano persone – streghe o maghi, quando si trattava di un esercizio di forza non gli importava nemmeno più – capaci di resistere al suo fascino.
Era una certezza confortante, un antidoto contro le ombre che ogni tanto sentiva agli angoli del cuore. E come ogni certezza confortante, non poteva svanire da un giorno all’altro senza creare scompiglio.
 
La prima volta che un’eccezione aveva cercato di allungare le sue ombre nei collaudati esercizi di potere di Gilderoy, l’estate era appena finita.
Gilderoy era arrivato al White Swann più tardi di quanto avrebbe voluto: aveva trascorso l’intero finesettimana a firmare autografi e a spargere sorrisi, a presenziare a  eventi benefici – l’unico beneficio in cui sperava lui era un aumento delle vendite dei suoi libri, ma niente commuove di più una strega che vedere un uomo affascinante fare carezze sulla testolina di un marmocchio ricoverato al San Mungo – prendere Passaporte e rilasciare interviste dimostrandosi affascinante il giusto. Al White Swann non ci voleva nemmeno venire, ma una casa vuota qualche volta serve solo ad amplificare le solitudini, e Gilderoy era troppo stanco per fare i conti con il silenzio con cui conviveva ogni volta che le girandole pubbliche terminavano e lui restava solo – solo per davvero.
 
Non era nemmeno certo di  aver voglia di seguire tutti i passi del suo copione: forse avrebbe potuto limitarsi a sprecare un po’ di tempo, quanto bastava ad esaurire ogni energia per poter tornare a casa e crollare addormentato.
In ogni caso era arrivato, si era seduto al bancone e si era fatto servire un’Acquaviola – niente alcool, per lui, perché non poteva permettersi di perdere la lucidità, mai – e aveva aggiustato la propria posizione sull’alto sgabello privo di schienale: gambe mollemente accavallate a simulare perfetta padronanza della situazione e busto leggermente voltato verso il centro del locale, così da poter osservare gli altri avventori e farsi osservare senza rendere troppo esplicite le proprie intenzioni.
Aveva guardato, aveva regalato qualche sorriso, aveva indossato una maschera di ghiaccio davanti a individui con cui non avrebbe mai potuto condividere niente, ma più di ogni altra cosa, si era annoiato. La musica quella sera non gli piaceva – non gli piaceva quasi mai, lì, ma quella sera sembrava che la band sul palcoscenico fosse stata pescata da qualche dormitorio di Hogwarts.
Aveva intravisto qualche volto interessante, ma erano volti che avrebbe potuto conquistare solo con una discreta dose di impegno, e quella sera Gilderoy non era proprio in vena di impegnarsi.
Faceva ondeggiare un piede, beveva piccoli sorsi di quella bevanda che in fondo nemmeno gli piaceva così tanto ma era del colore perfetto per far risaltare il turchese dei suoi occhi, sorrideva, si annoiava.
I minuti sembravano scorrere lentissimi, la stanchezza di quei giorni impegnativi gli pesava sulle spalle con una determinazione fastidiosa – non era comunque un buon motivo per rilassarsi e inarcare la schiena: il portamento era fondamentale, Gilderoy lo sapeva: quanto più era stanco, tanto più si preoccupava di tenere la schiena perfettamente diritta – e Gilderoy cominciava  a pensare che quella follia fosse durata abbastanza: ora avrebbe impilato le sue monete accanto al bicchiere, si sarebbe alzato, avrebbe raggiunto la porta e sarebbe tornato a casa, ai suoi sali alla lavanda da sciogliere in un bagno caldo e poi alle lenzuola fresche che lo aspettavano nel suo letto. Avrebbe dormito a lungo, si sarebbe svegliato senza nemmeno un’ombra ad appesantirgli lo sguardo, e avrebbe dimenticato quel piccolo cedimento della sera precedente.
 
Con un gesto più svogliato e incerto di quanto avrebbe voluto mostrare, Gilderoy si alzò in piedi, pronto a dirigersi verso il guardaroba a cui aveva affidato il proprio mantello. Le luci morbide delle candele che brillavano in ogni angolo del locale rendevano l’ambiente un pacato scivolare di ombre, un continuo sovrapporsi di movimenti confusi e volti che affioravano appena dalla massa informe di avventori. E così, fu questione di un attimo: Gilderoy inciampò in uno sguardo serio, occhi scurissimi su un viso dalla fronte appena corrugata. Un viso bello, lineamenti marcati a sottolineare la concentrazione che animava quell’uomo che poi forse era solo un ragazzo, Gilderoy non avrebbe saputo dirlo, un viso che per un attimo sembrò a sua volta inciampare nello sguardo di Gilderoy.
E Gilderoy conobbe l’eccezione.
Perché invece di sorridere affabile e mostrarsi assolutamente padrone della situazione spingendo con qualche sguardo lo sconosciuto ad avvicinarsi e fare la propria mossa, Gilderoy si ritrovò ad accennare un movimento sgraziato. Un movimento mancato, arrestando di colpo il passo che voleva portarlo verso il guardaroba e facendolo vacillare appena: non sapeva come comportarsi. E Gilderoy sapeva sempre come comportarsi.
Ma davanti a quello sguardo che lo fissava, serissimo, che lo fissava intensamente ma senza lasciare spazio al sorriso, Gilderoy era titubante. Sorridere davanti a uno sguardo del genere sarebbe stato sciocco, una reazione superficiale e incapace di reggere l’intensità del confronto. Fare un cenno, cercare di instaurare un qualche tipo di comunicazione sarebbe stato imbarazzante, e Gilderoy l’imbarazzo non lo conosceva neppure. Sapeva solo che restare immobile senza fare nulla era fuori discussione: quello sguardo lo inchiodava lì, in quella posizione scomoda che sembrava dichiarare a tutti quanto inadeguato fosse il suo movimento. Gilderoy si sentiva nudo, esposto, come se quello sconosciuto avesse potuto leggere nel suo movimento fermato a metà ogni cosa, ogni implicazione.
E poi fu troppo tardi. Lo sconosciuto aveva fatto quello che a Gilderoy era sembrato un sospiro dispiaciuto, aveva mosso impercettibilmente il capo in un cenno che avrebbe potuto sembrare un diniego e, con un gesto dolorosissimo, aveva distolto lo sguardo.
Lo aveva distolto e non si era più voltato, gettando su Gilderoy un gelo che lui non aveva mai creduto sarebbe stato in grado di provare.
Un gelo che lo aveva spinto a sentirsi invisibile, minuscolo, incapace di lasciare qualsiasi segno – lo aveva fatto sentire tutto ciò che un giovane uomo di bell’aspetto e con una brillante carriera bene avviata non avrebbe mai dovuto sentirsi.
Un gelo che lo aveva spinto a fuggire – non allontanarsi fingendo dignità, non avvicinarsi con fare annoiato al guardaroba per poi uscire di scena come se quella fosse una sua scelta precisa, ma proprio fuggire, senza guardare negli occhi l’anziano addetto che gli aveva porto il mantello e inciampando maldestramente nel basso gradino dell’ingresso.
Un gelo che lo aveva spinto a promettere a sé stesso, con una nota di dramma forse leggermente esasperata, ma sincera nelle intenzioni, che in quello stupido posto non ci avrebbe messo piede mai più.
 
 

Note:
La storia, concettualmente, è nata come OS, ma la sua lunghezza mi è un po' sfuggita di mano. Ho quindi deciso di accentuare il cambio di scena e il salto temporale qui accennato e dividere la storia in due: la seconda parte è già pronta e verrà pubblicata nel giro di qualche giorno.
 

[1] Il nome del locale non è scelto a caso: se non la conoscete, vi consiglio di cercare la storia di questo luogo, che è secondo me interessantissima.
[2] Ora, penso (e spero) sia inutile specificarlo, ma visti i trascorsi su questi lidi, meglio essere espliciti fino alla nausea: chiaramente questa è una considerazione frutto di un sentire completamente distante dal mio, che non condivido in nessuna sua parte. So bene che la Rowling ha affermato che il mondo magico, sotto questo aspetto, è molto più aperto e meno giudicante rispetto al nostro, ma per quanto mi riguarda un’affermazione del genere è del tutto inutile e perfettamente trascurabile, se in sette libri non si è parlato di omosessualità nemmeno per sbaglio (e anzi, l’orientamento dell’unico personaggio canonicamente omosessuale è stato nascosto sotto il tappeto sia nei libri che soprattutto nei film a lui esplicitamente dedicati). Quindi, sì, nel mio universo narrativo i maghi si beccano lo stesso schifo che tocca a noi babbani.
 
 
[3] Secondo uno degli articoli di approfondimento della Rowling, Gilderoy è figlio di una strega e di un babbano, dunque suppongo abbia una discreta dimestichezza con i mezzi babbani.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte seconda ***


 
Parte seconda
 
 
 
 
La seconda volta che l’eccezione si insinuò a giocare con le crepe della sicurezza di Gilderoy, Londra era coperta da un compatto strato di neve sporca di grigio e le luci di Natale[1] continuavano a brillare a ogni angolo di strada, desolanti nel loro essere ormai fuori luogo.
Gilderoy odiava il Natale: amava il picco di vendite dei suoi libri nel periodo delle feste, amava la girandola di eventi a cui era invitato durante il mese di dicembre, ma detestava la solitudine che gli stringeva la base dello stomaco quando la mondanità cedeva il passo alle feste da trascorrere in famiglia. C’era sempre un momento, dopo gli ultimi brindisi la sera della vigilia, in cui ci si guardava e ci si sorrideva, si annuiva, si concordava che fosse il momento di tornare a casa e di dedicare finalmente del tempo alla propria famiglia. Ci si diceva che era qualcosa di meritato da chiunque, anche da un giovane scrittore di successo, e poco importava che Gilderoy a casa avesse solo un’immensa pila di regali provenienti da mittenti sconosciuti e nemmeno un sorriso a cui tornare[2].
Doveva fingere, doveva annuire e mostrarsi grato per quell’occasione di dedicarsi alla famiglia, perché questa era l’immagine che il suo pubblico voleva vedere di lui. E di solito era piuttosto bravo a indossarla, questa immagine. Ma Natale è Natale per tutti, e anche una persona come Gilderoy, in occasioni del genere, sentiva il peso delle proprie stanze piene solo di oggetti e lettere impersonali gravargli sulle spalle.
E se c’era qualcosa che lo intristiva più di una giornata di Natale trascorsa a mangiare un ottimo tacchino preparato dalla miglior rosticceria del quartiere senza mai sentire il bisogno di pronunciare anche solo una parola, quel qualcosa erano i giorni che seguivano al Natale. Quando la vita sembrava riprendere, ma non del tutto. Quando gli addobbi continuavano a riempire case e strade, ma erano ormai qualcosa di passato, il ricordo sbiadito e un po’ imbarazzante di un momento che si cercava di far durare il più possibile, con espedienti che Gilderoy non poteva fare a meno di considerare patetici.
E patetico era cercare di fuggire al silenzio delle proprie stanze rifugiandosi in un luogo come il White Swann, che in quel periodo dell’anno sembrava svuotarsi per lasciare posto solamente agli individui più soli e disperati.
 
Gilderoy non si considerava solo e disperato. Solo forse sì, ma disperato proprio no, motivo per cui si era sempre rifiutato di raggiungere il White Swann nelle settimane comprese fra il ventiquattro dicembre e il tre di gennaio.
Eppure, quell’anno la solitudine aveva scavato fosse più profonde, combinandosi con una buona dose di tedio e insofferenza che lo aveva travolto davanti all'ennesimo albero di Natale ormai inutile, eppure così sfacciato nel suo carico di addobbi e luci colorate.
Era entrato al White Swann per cercare di sconfiggere la noia: non aveva davvero intenzione di trovare qualcuno con cui concludere la serata, ma sperava semplicemente di vedere qualche volto nuovo, di farsi offrire da bere e giocare a essere irresistibile e sfuggente, un balsamo per il suo ego coperto di lividi dal silenzio di quei giorni di festa.
 
Non si sarebbe mai aspettato di ritrovarsi a inciampare di nuovo nello sguardo attento e penetrante dello sconosciuto che mesi prima gli aveva voltato le spalle.
Non si sarebbe aspettato di avere solo gesti maldestri e di rovesciare il bicchiere di Burrobirra di quell'uomo – che poi era poco più di un ragazzo, perché non poteva avere che qualche manciata di anni più di Gilderoy – o di arrossire nello scusarsi. E di arrossire ancora di più sentendo la voce profonda e rassicurante dell'uomo sminuire la macchia umida che si stava allargando sui suoi pantaloni: perché quella era una voce capace di vibrare nel petto di Gilderoy con la profondità di un terremoto, e perché quella macchia era talmente impudica e ammiccante da suscitare solo pensieri inadatti a essere condivisi con uno sconosciuto.
 
"Davvero, perdonami, di solito non sono così maldestro. Basta un Gratta-E-Netta, e…"
Lo sconosciuto rise, e fermò con un gesto delicato la mano di Gilderoy che stava correndo alla bacchetta.
Grazie a Merlino e alla sua lozione LisciaBarba.
Gilderoy non lo avrebbe mai ammesso, ma gli incantesimi di pulizia non erano esattamente il suo cavallo di battaglia, e la posizione di quella macchia era decisamente troppo delicata per rischiare di sbagliare mira e intensità dell'incantesimo.
E poi quella mano dalle dita lunghe e nodose, calde, dalla presa sicura ma gentile erano una carezza a cui Gilderoy non avrebbe mai voluto rinunciare.
"Non è necessario, davvero. Ci penserò domani".
Quella voce era una carezza di velluto approfondita da una vena appena arrochita, come se un sentore di tabacco si fosse trasformato in vibrazione uditiva.
Gilderoy, con un sorriso soddisfatto, notò che lo sconosciuto non aveva scostato la mano, continuando a tenerla posata attorno al suo polso.
"Ma mi dispiace, spero di non averti rovinato i pantaloni".
L'uomo sorrise, accennando una risata appena trattenuta.
"Peccato solo per la posizione scomoda della macchia. Forse è meglio coprirla col mantello… ti va di fare due passi con me?"
Una domanda decisa: niente giri di parole, niente gioco di seduzione. Solo una domanda accompagnata da uno sguardo capace di far sentire Gilderoy completamente trasparente, trapassato da parte a parte da quegli occhi che sembravano voler dire dimmi di sì e mi farai molto contento, ma se mi dirai di no, non importerà, non te lo chiederò una seconda volta. Perché almeno di questo Gilderoy si sentiva sicuro: quell'uomo non si sarebbe piegato ai giochi di seduzione in cui Gilderoy era solito eccellere. Non avrebbe mai accettato una ritrosia che voleva solo chiedere attenzioni, non avrebbe cercato il nascosto nel no.
E Gilderoy, che di norma non avrebbe mai ceduto a una domanda tanto diretta senza prima ottenere un po' di corteggiamento capace di coccolare il proprio ego, decise di abbandonarsi a quella nuova eccezione.
"Mi piacerebbe moltissimo fare due passi con te".
 
***
 
Kingsley.
Lo sconosciuto si chiamava Kingsley, parlava pochissimo ma viveva di sguardi capaci di abbattere ogni barriera, e le sue poche parole erano dirette e aperte, sincere, capaci di spogliare Gilderoy di ogni ritrosia.
 
"Perché non mi hai parlato, l'altra volta?"
"Non ero da solo".
"E adesso lo sei?"
"Ovviamente, o non ti avrei invitato a farmi compagnia".
"Che tipo di compagnia vuoi?"
"Quella che sei disposto a darmi".
 
Stavano per Materializzarsi a casa di Kingsley.
Gilderoy, sempre così attento alla propria sicurezza e alla segretezza, si era accontentato di passeggiare accanto a quell'uomo sconosciuto senza scambiarci più di qualche frase senza troppo significato prima di acconsentire a seguirlo a casa sua. Lo aveva fatto senza timori: Kingsley dallo sguardo acuto, Kingsley dalla voce profonda e rassicurante non poteva essere un pericolo. Gilderoy non voleva vivere in un mondo in cui una voce tanto rassicurante fosse solo un'esca, e così sì, aveva annuito alla sua proposta, lo aveva seguito in un vicolo appartato e lontano da indiscreti sguardi babbani e si era preparato a sentire di nuovo le dita di Kingsley attorno al polso, pronto a farsi trascinare in quello spazio angusto e soffocante che è la Materializzazione.
Ma Kingsley non lo aveva afferrato imperiosamente per un polso. Gli si era avvicinato, sovrastandolo di tutta la testa e tuttavia riuscendo a non farlo sentire minimamente intimidito, e gli aveva circondato la schiena con un braccio, attirandolo piano a sé. Anche attraverso il mantello invernale il palmo aperto di Kingsley che gli premeva sulla sua schiena appena sopra le reni era rovente: un tizzone ardente che lasciava un'impronta che sembrava in grado di superare stoffa e pelle e sangue per andare a carezzare il centro stesso di Gilderoy, la sua propria essenza, di qualsiasi cosa si trattasse.
E Gilderoy, completamente dimentico della situazione, dimentico del suo ruolo e del suo proposito di mantenere sempre il manico della bacchetta, dimentico del distacco e delle recite che davano senso a quei suoi incontri al White Swann scivolò in avanti, pronto a perdere un pochino la presa di quella mano meravigliosa sulle sue reni pur di incontrare il calore avvolgente del petto di Kingsley. Si abbandonò contro quel corpo saldo con un sospiro che non riuscì a trattenere, e non gli importò nemmeno di farsi udire. Si abbandonò a quel mantello che anche in pieno inverno riusciva a conservare un calore fuori dal comune, si abbandonò a muscoli ampi e respiri lenti, a quell'odore che non era un profumo costoso, ma qualcosa di legnoso e sobrio più avvolgente e appagante di qualsiasi eau de toilette Gilderoy avesse mai annusato.
Kingsley si limitò a muovere anche il braccio sinistro, portandolo sulla schiena di Gilderoy per stringerlo in un abbraccio che sembrava volersi prendere tutto il tempo del mondo.
Penserà che sono ubriaco, si ritrovò a riflettere Gilderoy. E in effetti non si era mai sentito meno lucido in vita sua, nonostante come di consueto non avesse toccato nemmeno una goccia di alcol. Ma non importava: le braccia di Kingsley erano un bel posto per perdere la lucidità.
"Quando sei pronto…"
Il mormorio di Kingsley si comunicò dal petto dell'uomo a quello di Gilderoy con un basso vibrare a cui Gilderoy, inevitabilmente, rispose con un brivido. Non gli importava nemmeno che quel brivido, di rimando, si trasmettesse al corpo di Kingsley, perché sentiva che lui non lo avrebbe giudicato e non ne avrebbe riso.
"Sono prontissimo".
Un lieve annuire, che Gilderoy avvertì, più che vedere, e poi la stretta di Kingsley si fece appena più salda.
 
E poi fu buio e fu impossibile respirare, e quando i loro polmoni tornarono a poter incamerare aria ci fu solo l'odore fresco e pungente della neve pulita in mezzo a una pineta.
Ci fu Kingsley che si scusava per il piccolo tratto a piedi, ma è sempre meglio schermare una casa dalla Materializzazione[3].
Ci fu un sentiero lastricato di ciottoli bianchi, come in una fiaba, e poi uno spiazzo erboso dove la neve non era caduta – sicuramente merito di qualche incantesimo che Gilderoy non si era mai preso la briga di imparare, perché la sola idea di vivere in un posto dove fosse necessario schermare la propria abitazione dalle intemperie gli dava i brividi – e la soglia di una casetta piccola e accogliente.
Una casa fatta di camini dalle fiamme vivaci e tappeti colorati, mobili scuri pieni di tomi di ogni genere e oggetti che sembravano provenire da tutto il mondo. Era una casa disordinata, ma era un disordine che accoglieva con lo stesso tranquillo calore dell'abbraccio del suo proprietario.
 
Gilderoy si aspettava di essere infine gettato su quel divano pieno di cuscini colorati e coperte dai disegni geometrici. In fondo, sapevano entrambi fin troppo bene per quale motivo avevano lasciato la calma del locale per andare a rifugiarsi a casa di uno dei due.
E invece Kingsley si tolse il mantello e fece cenno a Gilderoy di fare altrettanto, da perfetto padrone di casa, invitandolo ad accomodarsi.
Ma Gilderoy non si accomodò. Rimase in piedi, osservando l'uomo muoversi nel piccolo appartamento con gesti rapidi e silenziosi, osservandolo alla luce calda e avvolgente del fuoco e pensando che ciò che vedeva non gli dispiaceva affatto, ma che voleva di più. E che se voleva di più, doveva essere lui a fare una mossa esplicita, perché Kingsley si era già esposto abbastanza chiedendogli di seguirlo a casa sua.
"Allora, che cosa hai intenzione di fare per quei pantaloni?"
Lo sguardo di entrambi gli uomini andò alla macchia ormai quasi invisibile sui pantaloni di Kingsley. Una macchia di cui a nessuno dei due era mai importato davvero qualcosa, ma che si trovava nella posizione perfetta per suggerire un cambio di scenario per le atmosfere di quella notte.
"Secondo te cosa dovrei farci?"
C'era malizia nella voce di Kingsley, ma era malizia esplicita, usata come vessillo comico e per dare a Gilderoy il pretesto perfetto per spostare definitivamente l'argomento di conversazione.
"Dovresti toglierteli. Non sta bene che un uomo come te se ne vada in giro con dei pantaloni sporchi".
Kingsley annuì piano, aprendosi in un sorriso divertito.
"E dopo che li ho tolti?"
"Dopo che li hai tolti andiamo in camera tua e il mio occhio estetico deciderà se e con cosa sostituirli".
Non ci fu più bisogno di dire altro. Kingsley fece strada lungo uno stretto corridoio per arrivare a una camera arredata con lo stesso caldo disordine del salotto: altri libri, altri strumenti di cui Gilderoy non conosceva la funzione disseminati su tavolini e librerie, altri tappeti colorati e coperte e cuscini a riempire un letto ampio e invitante al centro della stanza.
 
Non ci fu più bisogno di parlare, non quando Gilderoy si ritrovò a perdere la pazienza, ad alzarsi in punta di piedi e attirare a sé Kingsley in un bacio che lui avrebbe voluto cercare di rendere più profondo, più aggressivo, seguendo quello che era stato il copione di tutti i suoi incontri che servivano solo a scacciare pruriti. Ma Kingsley fu solo lento, lentissimo, baci controllati e movimenti appena accennati.
Fu un incontro fatto di desiderio bruciante, ma consumato lentamente, come se avessero tutto il tempo del mondo. Come se fosse solo un preludio, l’assaggio di qualcosa di immenso che sarebbe durato per sempre.
Il sesso con Kingsley fu qualcosa di completamente diverso a ciò cui Gilderoy si era abituato: lui conosceva solo rapporti consumati in fretta per sfuggire allo squallore di incontri tenuti nascosti, per sfuggire all’imbarazzo di essere due sconosciuti fermamente intenzionati a non rivedersi mai più, per sfuggire alla consapevolezza di non voler davvero essere lì, non sempre.
Kingsley non disse una parola, ma ogni suo movimento era mitigato dai suoi occhi attenti e pronti a cogliere ogni cambiamento in Gilderoy. Ogni suo movimento era una domanda, una richiesta, un permesso ricevuto e donato con limpidezza. Il sesso con lui era offrirsi completamente, mostrarsi, e in cambio ricevere solo la voglia di conoscersi, di rispettare i tempi l’uno dell’altro, trovarsi, imparare a camminare insieme.
Era commovente, e soverchiante, e bello in un modo che non aveva niente a che fare con il talento o con la voglia di dimostrare qualcosa.
Era sconvolgente, perché in quella stanza sconosciuta, fra le braccia di quell’uomo di cui conosceva il nome e nulla più Gilderoy si sentiva presente, vivo, sentiva di essere osservato e considerato e coperto di attenzioni che nulla avevano a che vedere con la fama, con la folla che chiamava il suo nome adorando solo un’immagine vuota e priva di ogni sostanza.
 
Gilderoy sapeva che quelle che gli carezzavano le guance erano lacrime – di sollievo, di gioia, e anche di perdita, sì, la perdita di tutto ciò che Kingsley gli aveva mostrato e che lui non aveva mai avuto.
E non gli importava.
Non gli importava niente di aver pianto mentre faceva sesso con uno sconosciuto, non gli importava che questo sconosciuto avesse visto le sue lacrime, e le avesse carezzate con dita leggere come neve, tenendolo stretto con una compassione che niente aveva a che vedere con la pena.
Non gli importava che di solito, dopo un incontro di quel tipo, tutto ciò che Gilderoy desiderava era sentire il respiro del proprio compagno farsi pesante e regolare per permettergli di allontanarsi il prima possibile, di chiudersi in bagno e lavare via ogni traccia di quell’incontro che già aveva voglia di dimenticare. E invece questa volta rimase immobile, il viso abbandonato sul cuscino di Kingsley, i segni inequivocabili del loro rapporto ancora sparsi su di lui – dentro di lui, un pensiero confortante e nient’affatto disgustoso.
“Hai da fare, domani?”
La voce di Kingsley continuava ad essere un basso vibrare, un suono confortante in cui Gilderoy avrebbe voluto annegare.
“Da fare?”
“Se non hai impegni, mi piacerebbe uscire con te. Uscirci per bene, andare a cena da qualche parte e parlare, conoscerti…”
Per un attimo, Gilderoy si ritrovò a credere a queste immagini.
A figurarsi con indosso il suo completo migliore, a passeggiare accanto a quell’uomo che aveva rappresentato tante eccezioni, a parlare di sé come non si concedeva di fare nemmeno durante le interviste… un sogno. Un bellissimo, spaventoso sogno.
Perché Gilderoy non poteva permetterselo. Non si poteva permettere di offrire ai giornalisti a caccia di gossip le fotografie delle loro mani intrecciate. Non poteva dar fuoco in modo così insensato a quella costruzione perfetta che era stata la sua carriera sino a questo momento. E non poteva permettersi di mostrarsi a Kingsley per quello che era: non puoi uscire a cena con un uomo, e poi uscirci di nuovo, e di nuovo, e dormire nel suo letto, e farlo dormire nel tuo letto, e sperare in un Natale trascorso finalmente in compagnia e sperare comunque di girare il mondo per rubare il talento di persone sciocche e sprovvedute. Perché Kingsley dallo sguardo limpido, Kingsley che prestava attenzione anche a come variava il suo respiro al variare d’intensità di una carezza non sarebbe stato capace di distogliere lo sguardo dalle ombre e dai vuoti che Gilderoy seminava al proprio passaggio. E di Kingsley lui non sapeva niente, ma sapeva che non avrebbe mai accettato di restare accanto a quelle ombre.
Fu con uno sforzo doloroso che Gilderoy si strappò di dosso quel sogno bellisismo e terribile.
Si raddrizzò, fissando il soffitto e ascoltando il respiro calmo e sereno di Kingsley.
“Mi piacerebbe. Mi piacerebbe davvero. Adesso dormiamo, però”.
 
***
 
Gilderoy non dormì.
Rimase immobile ad ascoltare il respiro di Kingsley farsi sempre più calmo e profondo, aspettando il momento giusto per rialzarsi senza rischiare di svegliarlo.
Si rivestì con mani tremanti, ripercorrendo quei gesti che aveva già compiuto tante volte sentendo il cuore farsi più pesante a ogni battito. Impiegò più tempo del necessario nell’indossare ogni capo di vestiario, sperando forse che Kingsley si svegliasse, che lo udisse e lo inchiodasse al suo posto col suo sguardo limpido, costringendolo a rispettare la promessa che aveva appena fatto.
Sperando che Kingsley si svegliasse, impedendogli di portare a termine il suo proposito.
Ma Kingsley continuò a dormire, immobile sotto lo sguardo pieno di rimpianti di Gilderoy. Gilderoy che ormai sentiva sotto le dita il legno liscio della propria bacchetta e sulle labbra la formula dell’incantesimo che avrebbe cancellato dalla mente di Kingsley tutto ciò che avevano fatto quella sera.
Un’esitazione.
Un’altra.
E poi, con uno strappo, l’oblivion scese ad ammorbidire ancora di più i lineamenti dell’uomo addormentato.
Fu come se l’incantesimo avesse strappato qualcosa anche a Gilderoy, che si sentì improvvisamente vuoto e mancante di qualcosa di fondamentale.
Poi l’eccezione emerse da quel vuoto che gli stava contraendo lo stomaco, quasi a voler cercare di riempire il silenzio. Quasi a voler lanciare una scommessa, una minuscola possibilità di cambiare le cose, di sconvolgere tutto e far crollare ogni certezza.
Gilderoy si chinò in avanti, le labbra a sfiorare l’orecchio di Kingsley, e mormorò:
“Il mio nome è Gilderoy Allock. Ricordati di me, domattina, anche se ora stai perdendo la memoria”.
Kingsley si mosse appena, cambiando posizione e sospirando nel sonno, ma i suoi occhi rimasero serrati.
Gilderoy si voltò, sentendo ancora le guance bagnate di nuove lacrime.
Kingsley non avrebbe ricordato, ma Gilderoy sì.
Gilderoy avrebbe ricordato tutto[4], avrebbe ricordato per entrambi, e questo sarebbe bastato.
 
 
 
 
 

Note:
Per la genesi di questa storia devo ringraziare LadyPalma, che nell’ambito dell’iniziativa A corde di Acquaviola organizzata dal gruppo facebook L’angolo di Madama Rosmerta mi ha lasciato il seguente prompt:
“Wake up, it’s time, little girl, wake up
Just remember who I am in the morning
You’re losing your memory now”
Loosing your memory – Ryan Star
Ecco, io mi rendo conto che il prompt si è un po’ perso nel corso della stesura, ma ho cercato di recuperarlo almeno sul finale.
Mi rendo anche conto che questa storia è, come mi accade sempre ultimamente, molto poco omogenea, ma ultimamente riesco a scrivere cose lunghe solo frammentando la stesura in tantissimi piccoli momenti molto lontani nel tempo, e l’effetto non riesce mai a essere particolarmente organico.
Ci ho provato, insomma.
 
 

[1] Perché proprio Natale? Perché la primissima storia che io abbia scritto su di loro ("Ma ci conosciamo, noi?") si sviluppava proprio a partire da una festa di Natale, e mi faceva piacere mantenere questo parallelismo, qui.
[2] Ora, nella biografia pubblicata dalla Rowling si parla di una famiglia di Gilderoy: padre babbano e madre strega che ha contribuito a montargli la testa non facendo altro che ribadire il suo essere speciale. Tuttavia, per la concezione che ho io del personaggio adulto mi risulta molto difficile immaginarlo alle prese con un contesto familiare. Buona parte delle mie riflessioni su di lui partono dal presupposto che sia essenzialmente un personaggio terribilmente solo (e lui ha una parte enorme nella propria solitudine, questo non lo metto in dubbio. Insomma, non mi sono mai soffermata a trovare una spiegazione per la sparizione dalla sua vita della sua famiglia, ma resta il fatto che io lo immagino solo anche da questo punto di vista. Magari prima o poi troverò l’occasione di scrivere qualcosa a questo proposito, ma non è questo il giorno, ahimé.
[3] Kingsley è pur sempre un giovane Auror: non ho voluto parlare di guerra e Mangiamorte, perché immagino questa storia ambientata durante l'infanzia di Harry, ma suppongo che un Auror anche in tempo di pace preferisca comunque mantenere salda qualche basilare norma di sicurezza.
[4] Arriverà mai il momento in cui mi stancherò di giocare con la memoria di Gilderoy? Probabilmente no.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3999571