Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |       
Autore: blackjessamine    01/11/2021    7 recensioni
[Kingsley Shacklebolt/Gilderoy Allock]
"Le eccezioni, per Gilderoy, erano macchie.
Elementi capaci di infastidirlo oltre ogni misura, come errori nel tessuto perfetto delle giornate che andava costruendosi.
Aveva imparato a diffidare delle eccezioni, perché un’eccezione non è mai solo un’eccezione: un’eccezione è la porta aperta su un fiume capace di travolgere con una piena distruttiva tutto ciò per cui aveva sempre lavorato.
Eppure, esistevano eccezioni da cui era impossibile prendere le distanze".

O di quella volta in cui Gilderoy non seppe esitare abbastanza.
[Storia partecipante alliniziativa A corde di Acquaviola organizzata dal gruppo facebook L'angolo di madama Rosmerta]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Crack Pairing | Personaggi: Gilderoy Allock, Kingsley Shacklebolt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Kingeroy'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La memoria del cigno
 
 
Parte prima
 
 
 
 
Doveva essere soltanto un gioco, e s'era rivelato un continuo azzardo.
Come corteggiare costantemente il disastro, come avere tendenze autodistruttive nascoste dietro ogni sorriso smagliante.
Qualcuno, se avesse saputo, avrebbe potuto ipotizzare un distacco sempre più grande fra il personaggio pubblico e ciò che Gilderoy aveva sempre tenuto nascosto, e accanto alla dissociazione, il desiderio latente di infrangere ogni barriera, grattar via i cocci con un gesto della mano insanguinata e lasciare emergere la sola figura con cui Gilderoy si fosse sempre sentito a suo agio.
 
Era stato un azzardo, entrare una sera al White Swann[1] e giocare con le probabilità.
La sua immagine cominciava a riempire le pagine centrali di rotocalchi e riviste per signore. Il suo primo libro ammiccava dagli angoli meno illuminati delle vetrine delle librerie e il suo nome era stato storpiato soltanto una volta, durante le interviste pubblicate per riempire la colonna fra le ricette di cucina e la pubblicità di Madama McClan.
Erano poche le probabilità che qualcuno degli avventori di quel locale in Vere Street leggessero riviste per signore, ma Gilderoy sapeva di non poterle sfidare – eppure lì, avvolto nel suo mantello migliore e consapevole di avere i ricci scomposti, si era sentito felice. Si era sentito libero, anche se ogni sguardo che gli scivolava addosso lo accendeva di lusinghe e timori, perché se fosse stato riconosciuto, tutto sarebbe crollato come si spegne qualsiasi fiamma effimera – i finocchi non vendono, Gilderoy, il suo editore era stato chiarissimo[2]. E Gilderoy voleva vendere. Gilderoy doveva vendere, perché vendere era tutto ciò che avrebbe potuto dare un senso agli sforzi che aveva fatto per arrivare fino a lì.
Certo, uno scandalo avrebbe acceso come un fuoco d’artificio il ronzare di parole che sciamava attorno al suo nome: Gilderoy poteva chiudere gli occhi e immaginare con una precisione sconcertante il tenore dei titoli che avrebbero fatto scoppiare come una bolla di sapone il sogno di tutte le casalinghe del mondo magico. E Gilderoy non poteva permettersi fuochi d’artificio: lui aveva bisogno di incendi lunghi, dei flash delle macchine fotografiche e della luce accecante di una conferenza stampa dove continuare a brillare e gettare luce sul domani, e sul giorno dopo, e su quello dopo ancora.
 
Chiunque, nella sua condizione, avrebbe evitato il White Swann come se fosse un ritrovo di malati di vaiolo di drago. Quasi che certe inclinazioni potessero trasmettersi come una malattia contagiosa – e ci aveva sperato, Gilderoy, ci aveva sperato fino a consumare ogni grammo di speranza, da ragazzino, quando i brividi che gli scuotevano il corpo di notte erano tutti sbagliati. Perché da una  malattia si può guarire, ma la natura di un uomo non può cambiare.
E invece Gilderoy non lo aveva evitato: ci era entrato per la prima volta la sera in cui aveva firmato il contratto per pubblicare il suo primo libro, quasi volesse mettere subito alla prova la solidità di quella conquista.
Ci era entrato quando ormai aveva imparato che i suoi non erano brividi sbagliati: erano sbagliati solo per il mestiere che si era scelto, e quindi andavano nascosti all’occhio del pubblico, ma non soffocati ed estirpati.
 
Gilderoy non poteva considerarsi un cliente abituale: non poteva permettersi l’abitudine, non poteva permettersi di avere un ruolo e di farsi un nome, non in quel locale dalle luci basse e dalla musica troppo alta che invitava a chiacchierare con il capo fin troppo vicino.
Ci andava di rado, facendo attenzione a non scegliere mai lo stesso giorno della settimana e lo stesso orario, e non restava mai troppo a lungo. Restava per il tempo che bastava a fissare gli occhi su un uomo abbastanza gradevole, e poi a cominciare a sperimentare l’estensione del proprio potere di seduzione.
Saggiava i confini del proprio fascino, lanciando parole coperte di miele e ammiccando nel modo giusto, ogni sera una tattica nuova per conquistare sempre il medesimo risultato: una bocca che gli sfiorava l’orecchio proponendo di appartarsi in un posto un po’ più tranquillo.
Quel posto un po’ più tranquillo non era mai casa sua. Troppo rischioso, troppo riconoscibile: vicini pronti a vendere uno scoop al primo pennivendolo, giornalisti che conoscevano il suo indirizzo, no, non poteva attraversare il vialetto stringendo la mano di uno sconosciuto.
Non era nemmeno la casa degli sconosciuti, nonostante questi lo proponessero spesso: Gilderoy non era uno sprovveduto, nonostante qualche volta giocasse a impersonare quel ruolo. Quello che impugnava la bacchetta era lui, era sempre lui, e non avrebbe mai corso il rischio di ritrovarsi dal lato sbagliato di un incantesimo, ed entrare nella casa di uno sconosciuto per mettersi in una posizione vulnerabile era il modo migliore per inciampare nel lato sbagliato di un incantesimo.
Il posto tranquillo era una stanza qualsiasi di uno dei motel babbani che circondavano la zona. Posti squallidi che offendevano a ogni divanetto in finta pelle e ogni carta da parati scrostata il senso estetico di Gilderoy, ma era il prezzo da pagare per non essere riconosciuto e non essere ricordato.
 
Erano incontri che servivano a spegnere un prurito, quelli.
Un male che si rendeva necessario quando la pressione diventava troppa – troppi sorrisi, troppi fiori, troppe streghe che si aspettavano da lui qualcosa che lui poteva soltanto fingere.
La paura di trascorrere troppo tempo in un posto pieno di sconosciuti che avrebbero potuto riconoscerlo lo rendeva impaziente: non si concedeva mai abbastanza tempo per studiare la situazione. Il tempo non bastava mai per arrivare a conoscersi davvero. Non bastava nemmeno per provare a capire se l’interesse fosse giustificato, e Gilderoy aveva ormai perso il conto degli incontri che si erano rivelati una delusione annunciata.
C’erano anche le eccezioni – serate memorabili, incontri che lo lasciavano senza fiato e lo facevano sentire al posto giusto – ma il più delle volte tornava a casa con la voglia di cancellarsi dalla memoria quegli incontri fatti di sesso mediocre e troppo imbarazzo.
Ma, naturalmente, era Gilderoy a impugnare la bacchetta. E Gilderoy forse correva dei rischi, scivolando in quel locale, ma non era uno sprovveduto e sapeva prendere le giuste precauzioni. Gilderoy non era forse il mago straordinario che impersonava nei suoi libri, ma aveva un innato talento, un talento che forse nessuno gli avrebbe mai riconosciuto: i suoi incantesimi di memoria erano abiti cuciti su misura, capaci di sondare le pieghe complesse della mente umana e di lasciare solo nebbia. Non una nebbia bianca e totalizzante, no, quello no: sarebbe stato infinitamente più facile attendere che il suo accompagnatore cedesse al sonno per poi evocare un incanto potente e pulito, capace di cancellare ogni traccia di quella serata. Ma una nebbia bianca così fitta da non fare emergere alcun dettaglio avrebbe destato dei sospetti, e l’ultima cosa che Gilderoy voleva era lasciarsi alle spalle una scia di uomini preoccupati per una improvvisa perdita di memoria dopo un incontro al White Swann. Perché forse qualcuno non avrebbe potuto permettersi di chiedere aiuto, consapevole di non poter dire a nessuno di aver frequentato un posto simile – non chi a casa aveva una moglie ad aspettarlo o una carriera da difendere con le unghie con l’umiliazione di sé –, ma qualcun altro avrebbe potuto insospettirsi. Avrebbe potuto parlare, trovare altre storie simili e cominciare a smuovere le acque. Gilderoy aveva bisogno di nascondersi in acque torbide, e così si era specializzato nella leggerezza. I suoi incantesimi di memoria erano solo sfumature, istanti capaci di scivolare l’uno sull’altro senza lasciare impressioni coscienti. Restavano i contorni, ma erano contorni fuori fuoco, incapaci di essere afferrati con una presa salda. Le persone con cui passava la serata avrebbero ricordato confusamente di aver trascorso del tempo in una stanza d’albergo con qualcuno conosciuto al White Swann, ma non sarebbero più stati capaci di richiamare alla memoria la sequenza completa di eventi che li avevano portati fin lì, e di certo non avrebbero mai ricordato i lineamenti dell’uomo con cui erano stati.
Succede, quando si beve troppo.
E Gilderoy faceva sempre attenzione a scegliere soltanto uomini disposti a non fermarsi al primo bicchiere.
Non era poi tanto diverso dal sedere in una bettola in un remoto villaggio a pagare una birra dopo l’altra perché qualche sciocco lo mettesse a parte delle proprie avventure con creature pericolose: questi sciocchi, l’indomani, non avrebbero ricordato l’affascinante inglese che li aveva ascoltati con tanta sollecitudine, perché non avrebbero ricordato nemmeno di aver mai avuto una storia da raccontare.
Con i portieri di notte babbani era tutto più facile. La loro memoria sembrava fatta apposta per lasciar scivolare nel vortice del sonno e della noia quei due clienti dai vestiti buffi. Gilderoy sospettava che con loro non avrebbe nemmeno avuto bisogno di nascondere la bacchetta nella manica della giacca: probabilmente gli sarebbe bastato sussurrare un oblivion mentre pagava il conto – era bravo, con i soldi babbani[3] – e la sua immagine sarebbe svanita dalla loro mente, persa nel turbinare di notti faticose e tutte uguali.
 
***
 
Le eccezioni, per Gilderoy, erano macchie.
Elementi capaci di infastidirlo oltre ogni misura, come errori nel tessuto perfetto delle giornate che andava costruendosi.
Aveva imparato a diffidare delle eccezioni, perché un’eccezione non è mai solo un’eccezione: un’eccezione è la porta aperta su un fiume capace di travolgere con una piena distruttiva tutto ciò per cui aveva sempre lavorato.
Eppure, esistevano eccezioni da cui era impossibile prendere le distanze. Perché di una cosa Gilderoy era sempre stato sicuro: era lui quello a impugnare la bacchetta. Era lui a condurre le regole del gioco, lui a porre paletti e spingere gli altri a fare ciò che in fondo era lui a decidere.
Ma, soprattutto, Gilderoy era sempre stato sicuro della propria infallibilità: non c’erano obiettivi che non potesse raggiungere, non c’erano vette di successo che non potesse conquistare, e non c’erano persone – streghe o maghi, quando si trattava di un esercizio di forza non gli importava nemmeno più – capaci di resistere al suo fascino.
Era una certezza confortante, un antidoto contro le ombre che ogni tanto sentiva agli angoli del cuore. E come ogni certezza confortante, non poteva svanire da un giorno all’altro senza creare scompiglio.
 
La prima volta che un’eccezione aveva cercato di allungare le sue ombre nei collaudati esercizi di potere di Gilderoy, l’estate era appena finita.
Gilderoy era arrivato al White Swann più tardi di quanto avrebbe voluto: aveva trascorso l’intero finesettimana a firmare autografi e a spargere sorrisi, a presenziare a  eventi benefici – l’unico beneficio in cui sperava lui era un aumento delle vendite dei suoi libri, ma niente commuove di più una strega che vedere un uomo affascinante fare carezze sulla testolina di un marmocchio ricoverato al San Mungo – prendere Passaporte e rilasciare interviste dimostrandosi affascinante il giusto. Al White Swann non ci voleva nemmeno venire, ma una casa vuota qualche volta serve solo ad amplificare le solitudini, e Gilderoy era troppo stanco per fare i conti con il silenzio con cui conviveva ogni volta che le girandole pubbliche terminavano e lui restava solo – solo per davvero.
 
Non era nemmeno certo di  aver voglia di seguire tutti i passi del suo copione: forse avrebbe potuto limitarsi a sprecare un po’ di tempo, quanto bastava ad esaurire ogni energia per poter tornare a casa e crollare addormentato.
In ogni caso era arrivato, si era seduto al bancone e si era fatto servire un’Acquaviola – niente alcool, per lui, perché non poteva permettersi di perdere la lucidità, mai – e aveva aggiustato la propria posizione sull’alto sgabello privo di schienale: gambe mollemente accavallate a simulare perfetta padronanza della situazione e busto leggermente voltato verso il centro del locale, così da poter osservare gli altri avventori e farsi osservare senza rendere troppo esplicite le proprie intenzioni.
Aveva guardato, aveva regalato qualche sorriso, aveva indossato una maschera di ghiaccio davanti a individui con cui non avrebbe mai potuto condividere niente, ma più di ogni altra cosa, si era annoiato. La musica quella sera non gli piaceva – non gli piaceva quasi mai, lì, ma quella sera sembrava che la band sul palcoscenico fosse stata pescata da qualche dormitorio di Hogwarts.
Aveva intravisto qualche volto interessante, ma erano volti che avrebbe potuto conquistare solo con una discreta dose di impegno, e quella sera Gilderoy non era proprio in vena di impegnarsi.
Faceva ondeggiare un piede, beveva piccoli sorsi di quella bevanda che in fondo nemmeno gli piaceva così tanto ma era del colore perfetto per far risaltare il turchese dei suoi occhi, sorrideva, si annoiava.
I minuti sembravano scorrere lentissimi, la stanchezza di quei giorni impegnativi gli pesava sulle spalle con una determinazione fastidiosa – non era comunque un buon motivo per rilassarsi e inarcare la schiena: il portamento era fondamentale, Gilderoy lo sapeva: quanto più era stanco, tanto più si preoccupava di tenere la schiena perfettamente diritta – e Gilderoy cominciava  a pensare che quella follia fosse durata abbastanza: ora avrebbe impilato le sue monete accanto al bicchiere, si sarebbe alzato, avrebbe raggiunto la porta e sarebbe tornato a casa, ai suoi sali alla lavanda da sciogliere in un bagno caldo e poi alle lenzuola fresche che lo aspettavano nel suo letto. Avrebbe dormito a lungo, si sarebbe svegliato senza nemmeno un’ombra ad appesantirgli lo sguardo, e avrebbe dimenticato quel piccolo cedimento della sera precedente.
 
Con un gesto più svogliato e incerto di quanto avrebbe voluto mostrare, Gilderoy si alzò in piedi, pronto a dirigersi verso il guardaroba a cui aveva affidato il proprio mantello. Le luci morbide delle candele che brillavano in ogni angolo del locale rendevano l’ambiente un pacato scivolare di ombre, un continuo sovrapporsi di movimenti confusi e volti che affioravano appena dalla massa informe di avventori. E così, fu questione di un attimo: Gilderoy inciampò in uno sguardo serio, occhi scurissimi su un viso dalla fronte appena corrugata. Un viso bello, lineamenti marcati a sottolineare la concentrazione che animava quell’uomo che poi forse era solo un ragazzo, Gilderoy non avrebbe saputo dirlo, un viso che per un attimo sembrò a sua volta inciampare nello sguardo di Gilderoy.
E Gilderoy conobbe l’eccezione.
Perché invece di sorridere affabile e mostrarsi assolutamente padrone della situazione spingendo con qualche sguardo lo sconosciuto ad avvicinarsi e fare la propria mossa, Gilderoy si ritrovò ad accennare un movimento sgraziato. Un movimento mancato, arrestando di colpo il passo che voleva portarlo verso il guardaroba e facendolo vacillare appena: non sapeva come comportarsi. E Gilderoy sapeva sempre come comportarsi.
Ma davanti a quello sguardo che lo fissava, serissimo, che lo fissava intensamente ma senza lasciare spazio al sorriso, Gilderoy era titubante. Sorridere davanti a uno sguardo del genere sarebbe stato sciocco, una reazione superficiale e incapace di reggere l’intensità del confronto. Fare un cenno, cercare di instaurare un qualche tipo di comunicazione sarebbe stato imbarazzante, e Gilderoy l’imbarazzo non lo conosceva neppure. Sapeva solo che restare immobile senza fare nulla era fuori discussione: quello sguardo lo inchiodava lì, in quella posizione scomoda che sembrava dichiarare a tutti quanto inadeguato fosse il suo movimento. Gilderoy si sentiva nudo, esposto, come se quello sconosciuto avesse potuto leggere nel suo movimento fermato a metà ogni cosa, ogni implicazione.
E poi fu troppo tardi. Lo sconosciuto aveva fatto quello che a Gilderoy era sembrato un sospiro dispiaciuto, aveva mosso impercettibilmente il capo in un cenno che avrebbe potuto sembrare un diniego e, con un gesto dolorosissimo, aveva distolto lo sguardo.
Lo aveva distolto e non si era più voltato, gettando su Gilderoy un gelo che lui non aveva mai creduto sarebbe stato in grado di provare.
Un gelo che lo aveva spinto a sentirsi invisibile, minuscolo, incapace di lasciare qualsiasi segno – lo aveva fatto sentire tutto ciò che un giovane uomo di bell’aspetto e con una brillante carriera bene avviata non avrebbe mai dovuto sentirsi.
Un gelo che lo aveva spinto a fuggire – non allontanarsi fingendo dignità, non avvicinarsi con fare annoiato al guardaroba per poi uscire di scena come se quella fosse una sua scelta precisa, ma proprio fuggire, senza guardare negli occhi l’anziano addetto che gli aveva porto il mantello e inciampando maldestramente nel basso gradino dell’ingresso.
Un gelo che lo aveva spinto a promettere a sé stesso, con una nota di dramma forse leggermente esasperata, ma sincera nelle intenzioni, che in quello stupido posto non ci avrebbe messo piede mai più.
 
 

Note:
La storia, concettualmente, è nata come OS, ma la sua lunghezza mi è un po' sfuggita di mano. Ho quindi deciso di accentuare il cambio di scena e il salto temporale qui accennato e dividere la storia in due: la seconda parte è già pronta e verrà pubblicata nel giro di qualche giorno.
 

[1] Il nome del locale non è scelto a caso: se non la conoscete, vi consiglio di cercare la storia di questo luogo, che è secondo me interessantissima.
[2] Ora, penso (e spero) sia inutile specificarlo, ma visti i trascorsi su questi lidi, meglio essere espliciti fino alla nausea: chiaramente questa è una considerazione frutto di un sentire completamente distante dal mio, che non condivido in nessuna sua parte. So bene che la Rowling ha affermato che il mondo magico, sotto questo aspetto, è molto più aperto e meno giudicante rispetto al nostro, ma per quanto mi riguarda un’affermazione del genere è del tutto inutile e perfettamente trascurabile, se in sette libri non si è parlato di omosessualità nemmeno per sbaglio (e anzi, l’orientamento dell’unico personaggio canonicamente omosessuale è stato nascosto sotto il tappeto sia nei libri che soprattutto nei film a lui esplicitamente dedicati). Quindi, sì, nel mio universo narrativo i maghi si beccano lo stesso schifo che tocca a noi babbani.
 
 
[3] Secondo uno degli articoli di approfondimento della Rowling, Gilderoy è figlio di una strega e di un babbano, dunque suppongo abbia una discreta dimestichezza con i mezzi babbani.
   
 
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: blackjessamine