Avrei solo voluto (che t’innamorassi di me)

di Gaia Bessie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Lividi in mezzo alla neve ***
Capitolo 3: *** Il peccato di coraggio ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Avrei solo voluto (che t’innamorassi di me)
 
Prologo.
 
Era ottobre.
Le ragazze cominciavano a fare la muta, mettendo via le penne per poi riscoprirsi imbacuccate fin dentro le ossa, rivestite di pile e lana, che del loro viso si scorgeva solamente il naso arrossato e qualcosa degli occhi, il sorriso mai più. E poi si prendevano in giro a vicenda – tu hai la sciarpa fino agli occhi, pensa! E tu hai messo le calze in lana, e non è nemmeno metà mese! – finché, a ridere, non faceva male la pancia, anche quando da ridere c’era poco.
Poi, quando a fine mese qualcuna s’innamorava e finiva a farlo nel primo angolo buio disponibile, le altre non ridevano più: la guardavano con invidia e con malcelata ammirazione, perché ci voleva un coraggio superiore a quello dei Grifondoro per appartarsi in un’aula vuota o in un bagno, alla sera, sfidando il rischio d’incontrare professori o Caposcuola.
E, se qualcuna ci rimaneva, erano cazzi suoi. Non capitava quasi mai, erano tutte molto attente con l’incantesimo per la contraccezione, ma ogni tanto qualcuna sbagliava o se ne dimenticava e, allora, le altre voltavano la schiena e fingevano di non vedere: te la sei cercata, mormoravano, ti è stata bene, adesso imparerai a imparare l’unico incantesimo che ti servirà mai nella vita.
Si diceva che fosse successo alla Greengrass maggiore, Daphne, e che piuttosto di subire la vergogna di girare con il pancione per tutta Hogwarts, se lo fosse cavato via dal ventre con una pozione, finendo poi in infermeria per due settimane e mezzo. Nessuno aveva osato toglierle il saluto: ne avessero avuto il fegato, avrebbero fatto tutte quante così.
Daphne Greengrass non aveva sprecato una parola sulla propria degenza in infermeria, squadrando le proprie compagne di Casa con aria insopportabilmente altera e domandando: che ne sapete, voi, di cosa ho avuto? Una brutta influenza, per quanto ne sapete, sono stata uno straccio per giorni. Chiedete ad Astoria, se non ci credete.
La sorellina chinava il capo e pigolava sì – non la si era vista andare in infermeria a trovar Daphne nemmeno una volta e, si diceva, fosse perché la Greengrass maggiore covava qualcosa di contagioso o peggio.
Ma, il giorno in cui Astoria cominciò a sparire nelle ore buche e negli intervalli di tempo, bisognò cominciare a domandarsi se non sarebbe stata lei, la prossima a rimanerci – perché si trovava nei ritagli tra le lezioni e scarabocchiare su pergamena e a sospirare un nome che nessuno riusciva (o voleva) comprendere.
Così, quando il dodici ottobre compì finalmente quattordici anni, sua sorella le regalò una sciarpa in cachemire azzurro chiaro (così ti ci ripari il collo o, se finisci a far la fine della puttana, ti ci puoi impiccare) e un sorriso divertito. Pansy, che si era disputata prima i giochi e poi i ragazzi con sua sorella, la prese da parte e le fece vedere come eseguire l’incantesimo anticoncezionale: non si sa mai, le sussurrò con un sorriso un po’ mesto, spero che tu non debba usarlo troppo presto, Ria.
Astoria sognava in piccolo – conosco mia sorella, commentava Daphne quando le domandavano delle sparizioni della piccola Ria, quella sarebbe capace d’innamorarsi del primo disposto a guardarla due volte. No, no, non te Draco: la guardi davvero troppo e, se posso, inizia a diventare inquietante anche per me che non ci sono dentro.
Ed era sempre ottobre, il giorno in cui Astoria Greengrass saltò lezione di Incantesimi, adducendo il pretesto di un mal di testa e scomparendo fino a sera – Daphne non pose la domanda, temendo una risposta, né Astoria diede spiegazioni. Ma, dentro di sé, la maggiore delle Greengrass lo percepiva con un’ondata di disgusto così forte da toglierle il fiato.
Sua sorella si era innamorata.
Avendo ancor meno ragioni di voler sapere, s’era detta che le sarebbe passata: a quattordici anni, aveva detto a Pansy quando lei le aveva domandato, sei fatta d’aria e sogni – s’infrangono, se ne formano altri: Astoria è piccola, deve ancora crescere.
Ma, quando nel corso delle ultime due settimane del mese finì in Infermeria tre volte, Daphne cominciò a domandarsi cosa non andasse in sua sorella – e, per un momento che durò un’infinità di tempo, si dovette chiedere se Pansy non le avesse insegnato male l’incantesimo che tutte le ragazze conoscevano.
Poi, s’era fatta coraggio e aveva frugato nel baule della piccola Ria: ne aveva rinvenuto vestiti spiegazzati, ninnoli e collanine, chincaglierie inutili, rotoli di pergamena intonsi e pacchi su pacchi di Merendine Marinare.
Aveva riso – Daphne Greengrass, che aveva la fermezza d’un Auror e il cuore di ghiaccio, s’era messa a ridere seduta sul letto della sorella, così forte che una o due ragazze del terzo anno si erano avvicinate per chiederle cosa avesse.
Quand’aveva smesso, aveva rimesso tutto a posto ed era andata a cercare la sorella: l’aveva trovata in Infermeria, con Madama Chips che cercava di tamponarle una copiosa emorragia nasale, borbottando fra sé e sé.
Gliel’aveva domandato così. Senza gentilezza, senza comprensione – l’aveva guardata negli occhi e l’aveva domandato, che fosse giusto, ingiusto, dovuto o non dovuto: e lei non aveva riposto, non ne aveva avuto la forza.
«Un Weasley, Ria?» la voce di Daphne aveva infranto il silenzio e, agli occhi di Astoria, suonava di minacce e promesse allo stesso tempo. «Dici per davvero?».
Astoria aveva stretto le mani in dei pugni, senza riuscire a cavarsi di bocca una bugia o una mezza verità, di fronte allo sguardo inquisitorio di sua sorella.
«Non sono affari tuoi» aveva pigolato, infine. «Pensa alle tue cose, Daph».
Sua sorella aveva sospirato, un po’ teatralmente – almeno ti ricordi come si fa l’incantesimo?
Sì, me lo ricordo.
«Fai attenzione» l’aveva rimbrottata Daphne, scompigliandole il capo bruno con un sorriso. «Va bene?».
Non mi guarderà mai, aveva pensato Astoria, anche se mi metto lì sotto il suo naso per tutto il giorno. A sua sorella non l’aveva detto, ma aveva ricambiato il sorriso e mormorato un va bene a mezza bocca.
Io non sono te, avrebbe voluto dirle, io non farò mai la fine che hai fatto tu.

 


Avevo bisogno, in dieci anni che scrivo di questa coppia, di regalare loro una long-fic, seppure a frequenza boh (non so quando aggiornerò, seguitemi su IG e FB per avere notizie - rispettivamente bessie_efp e Bessie Efp) e quindi eccomi qui.
Se supportate questa coppia, vi chiedo di passare a votare qui, così dal farla proseguire insieme ad altre coppie.
Un bacio e a presto!
Gaia
P.S. Il titolo è preso dalla canzone "Avrei solo voluto" di Rea.

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Capitolo 2
*** Lividi in mezzo alla neve ***


 
Avrei solo voluto (che t'innamorassi di me)

1.
Lividi in mezzo alla neve
 
Non lo aveva detto a nessuno – Astoria se l’era cucito nel cuore, quel segreto, nascondendolo alle domande di sua sorella e Pansy, finché non aveva iniziato a farle male, male per davvero. Ma anche allora, quando Daphne le domandava perché piangesse in bagno, alla sera, e perché mangiasse sempre di meno, Astoria non aveva voluto (o saputo) rispondere.
E pensi di conoscermi, le aveva detto, solamente perché siamo sorelle: Daphne aveva stretto il labbro in una smorfia, ma non si era degnata di risponderle – che l’aveva tenuta per mano mentre muoveva i primi passi e le aveva prestato orecchio quando balbettava deboli accenni di parole: e adesso mi dici che non basta, voleva dire quella smorfia, e adesso mi dici che essere tua sorella non mi basta per poter dire di conoscerti?
Astoria aveva scosso il capo e inghiottito le parole.
Nemmeno nei giorni successivi si era fatta scucire mezzo suono su chi, controvoglia o meno, le avesse rapito il cuore – ma sua sorella non possedeva solamente la glacialità degli Auror, ne aveva assunto anche la capacità investigativa: così, quando finalmente si presentò al suo cospetto, brandendo uno dei suoi sguardi color erba piena di nevischio, Astoria rabbrividì.
«Fred o George?».
Una domanda – Astoria non nutriva alcun dubbio che, sebbene sua sorella le avesse concesso di poterle rispondere, sapesse già quale dei due nomi fosse quello corretto: ma non le riuscì di dire una parola, ritrovandosi così ad abbassare il capo con aria disorientata. Daphne si fece sciogliere in un sospiro, con aria drammatica: materna, lei, mai.
Astoria non aveva mai saputo una parola che fosse una sulla misteriosa malattia di sua sorella ma, e di ciò nutriva certezza assoluta e incontrovertibile, Daphne non avrebbe saputo esser madre: non se lo fosse cavato dal ventre, quell’ipotetico bambino, sicuramente l’avrebbe soffocato nel sonno o nella veglia. Daphne non possedeva dolcezza, pazienza, amore da dare – a nessuno.
E tutti, ad Hogwarts, si domandavano il perché: Astoria, che ne sapeva se possibile ancor meno degli altri, aveva sempre pensato che, alla fine di tutto quel gioco di ombre e specchi che era il cuore di Daphne, la colpa fosse di Blaise.
Sì, tu, Zabini – quando t’aggiri per il castello come se avessi qualcosa che non t’appartenesse e lo sai, certo che lo sai, che è il suo cuore: lo hai preso in prestito, restituito mai.
«Non fare domande» le ingiunse Astoria, scrollando le spalle. «Io non ti dico niente e tu smetterai di fare domande in giro: la gente parla, Daphne».
«Misteriosa» commentò la sorella. «Forse vuol dire che, da qualche parte in quella tua testolina piena di farfalle, ti rendi conto dell’enorme cazzata che stai architettando».
«Io non…».
«Più grande di te, Grifondoro, feccia» elencò Daphne, alzando un dito dopo ogni parola. «Magari ti convincerà che non c’è niente di male a farlo senza incantesimo? E poi cosa succederà, Astoria, ti prego spiegamelo perché io pecco di fantasia».
«Tu non lo conosci» sibilò la minore, con aria corrucciata. «Non sai niente di lui, come puoi…».
«Io conosco te» rispose a tono l’altra. «So che gli ronzerai sotto il naso con occhi da cucciolo spaurito, mettendoti sulla linea del suo sguardo appena potrai e, quando lui sarà saturo di vederti in ogni fottuto angolo di Hogwarts, tu sarai già innamorata persa e disposta a fare tutto quello che ti chiederà. Sei una ragazzina, Ria, non sei diversa da nessun’altra che lo è stata prima di te».
Astoria fece per replicare, ma l’espressione tronfia e sicura di sé di sua sorella le tolse, ancora una volta, le parole di bocca: Daphne le carezzò il capo, scompigliando i capelli così accuratamente pettinati, con un sorrisetto.
«Andiamo, Ria» sussurrò, con finta dolcezza. «Cos’altro potrebbe mai volere da te, Fred Weasley?».
Lei non le domandò come facesse a sapere con quel grado di certezza che fosse proprio Fred e non George – ma, se solamente si fosse permessa di domandarlo, sua sorella l’avrebbe squadrata con sufficienza e le avrebbe detto: io so sempre tutto, non dimenticartelo.
Ed era vero. Daphne teneva il conto dei segreti del castello come si fa con gli Zellini nel borsello e, quando gliene avanzava uno di troppo, lo gettava in pasto ai mendicanti: e qualcuno domandava perché la Greengrass maggiore si comportava come se non avesse niente da perdere, di rimando.
Astoria lo sapeva bene – che Daphne, alla fine dei giochi, non aveva per davvero assolutamente niente da perdere: perché s’era persa lei stessa, in una selva di endecasillabi sciolti delle poesie che le aveva scritto Blaise quand’avevano dieci anni e prendevano troppe lezioni private di letteratura, con gran soddisfazione delle loro madri. Ma, se la signora Greengrass avrebbe voluto quel matrimonio, Blaise Zabini e sua madre s’erano mostrati solamente sfuggenti: nessuna promessa, solamente un attimo squallido e insensato in cui lui s’era preso quello che più contava per Daphne e non gliel’aveva restituito indietro.
E, se sua sorella aveva perso il cuore come la verginità, Astoria non lo sapeva: Daphne era sempre stata parca di confessioni e, quando Blaise l’aveva scaricata per scoprire il mondo, non aveva detto una parola che fosse una. Nemmeno quando anche lei aveva cominciato a scoprirsi e, allora, era finita in infermeria per giorni con una brutta influenza.
Chissà se è inciampata sul suo cazzo ed è caduta dalla neve, commentavano a Serpeverde, parlando di Daphne e qualcuno più grande, senza volto, senza nome: ad Astoria non lo aveva detto mai. E sua sorella, che era segnata da lividi ghiacciati come se ci fosse caduta davvero, tra la neve, non si sarebbe confessata nemmeno se gliel’avesse domandato Salazar in persona.
«Che ne sai, tu, di cosa voglia o meno Fred Weasley» sibilò Astoria, coraggiosamente. «E se dovesse volere me…».
Per caso o per fortuna – Daphne si morse le labbra per non lasciarsi sfuggire quell’osservazione: per caso o per fortuna, il giorno in cui diranno che sei inciampata sul suo cazzo per cadere in mezzo al fuoco. Astoria non si sarebbe congelata mai – ustionata, ferita (perduta).
Daphne guarda sua sorella e ne presoffre la delusione: non lo dice mai, alla piccola Ria, ma le persone condividono comune sostanza – e quella di Fred Weasley, al pari di quella di Blaise Zabini, sa di rimpianto e lacrime amarissime.
«Cosa pensi che voglia?» domanda, calma. «Dimmi che pensi che sia amore e io non dirò più una parola – ti giudicherò irrecuperabile».
Ma Ria non sa che dire.

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Capitolo 3
*** Il peccato di coraggio ***


Avrei solo voluto (che t'innamorassi di me)

2.
Il peccato di coraggio
 
Il Cappello Parlante l’aveva smistata a Serpeverde non perché peccasse di fantasia, al pari di Daphne Greengrass, ma perché il vero peccato era quello della piccola Astoria ed era un peccato di coraggio: che era anche l’ultimo freno che la tratteneva dal comportarsi come la sorella, quando s’era resa conto d’essersi innamorata, e allora era divenuta tutta un sorriso affascinante, tutta un movimento unico dal bacino al capo, tutta inequivocabilmente sé stessa – poi non era stata più.
Eppure, si disse Daphne osservando sua sorella minore, quel peccato di coraggio era quel che la salvava dall’avventatezza del mondo: Ria Greengrass non se ne rendeva conto, che se ancora non s’era buttata tra le braccia di tutte le sue cotte, era per timidezza e mancanza di coraggio, che costituivano la sua rovina e al contempo quello che riusciva a preservarla intonsa.
Ma, il giorno in cui Astoria cominciò a sparire sempre più spesso, tutti quanti lo trovarono chiarissimo – ottobre aveva colpito di nuovo e anche la seconda delle Greengrass era caduta preda del ronzio delle foglie che si seccavano sotto la suola delle scarpe. Daphne non diceva una parola (mai), quando le chiedevano chi fosse  il misterioso ragazzo di cui Ria s’era presa una cotta, questa volta, non apriva bocca quando le domandavano se non fosse troppo piccola per sparire negli intervalli tra le lezioni, per fissare un punto imprecisato della Sala Grande a pranzo e a cena, se. Se non le si sarebbe spezzato il cuore, dato che il sangue Greengrass sembrava esser predisposto a ogni tipo di frattura.
La risposta di Daphne era stata lapidaria: una maledizione del sangue è una cosa orribile, se per tutta la vita hai pensato che era il sangue quel che ti avrebbe salvato, ma è anche l’unico brandello di libertà che possediamo – si fanno un sacco di cose che non faresti mai nella vita, quando respiri nella convinzione che morirai giovane.
Ma, se Astoria peccava di coraggio quando faceva un passo in avanti e poi se ne pentiva, Daphne possedeva il peccato contrario: l’intraprendenza, il giorno in cui decise di tornare a osservare Blaise Zabini come fosse la chiave di volta dei suoi sogni. Non lo era, Daphne lo sapeva, certo che non lo era. Ma, per quanto fosse stata smistata a Serpeverde, non si poteva dire che alla maggiore delle Greengrass non mancasse il coraggio, l’avventatezza – Ria lo sapeva, che sua sorella era ancora bruciata, con le ossa carbonizzate solamente per cancellare una firma con il suo nome, ma Blaise Zabini se ne rendeva conto troppo o non se ne rendeva conto affatto.
Astoria sospirò, rimestando il contenuto del proprio piatto, a cena, con le mani che tremavano nel dire a sua sorella che avrebbe voluto essere come lei (o esser lei): perché Daphne si morse il labbro e sillabò, senza alcuno strascico di dolcezza, che peccherebbe due volte. In coraggio e in coerenza e, allora, quella doppia c sarebbe stata marchio di fuoco sul petto, sul cuore, e avrebbe reso solamente difficoltosa la respirazione.
Astoria non comprese quelle parole. Nemmeno quando alzò lo sguardo, verso il tavolo di Grifondoro, per incontrare il sorriso un po’ scanzonato di Fred Weasley – avrà capito? – e, allora, le andò di traverso un pezzo di pane e pure la comprensione. Aveva sempre guardato da lontano, Ria, e adesso che era lei quella ad essere al centro di un gioco di sguardi, non capiva più.
«Ti guarda» commentò Daphne, con evidente malcontento. «Che si sia accorto che gli stai sotto al naso per almeno dodici ore al giorno? E solo perché non hai trovato il modo di infiltrarti nella Torre di Grifondoro».
La sorella minore non si diede pena di rispondere – la guardava, la vedeva per davvero? – cercando con lo sguardo quegli occhi azzurri che l’avevano tanto colpita, pochi mesi prima.
Fred Weasley la stava osservando con curiosità, forse, un pizzico di ironia che gli deformava il volto in un sorriso, facendola sospirare. Ria s’impose di non mostrare, nemmeno in una microespressione o nella pausa (troppo lunga) tra le parole d’essersene accorta. E d’esserne intimamente lusingata.
«Oh, smettila» sibilò Daphne, scrollando la chioma color sabbia o sole un po’ stanco. «Ci pensi mai, a dove ti sei persa la dignità?».
Fu in quel momento che la maggiore delle Greengrass si rese conto che era definitivamente terminata: che non c’era più spazio, nel corpicino minuto della sorella, per l’Astoria che aveva sempre (ri)conosciuto: perché Ria, la piccola e taciturna e timida Ria, la stava guardando negli occhi come se avesse il fuoco dei Grifondoro ad arderle nel petto. Lo disse così, secca, come uno sputo di veleno per un serpente.
«E tu?».
La fece ridere – Daphne, che non rideva mai, si sciolse in una risata disperata (sapeva anche di pianto), facendola trasalire.
«E io?» domandò, calma. «La mia dignità, dici? Chiedi a Zabini: penso che l’abbia ancora appiccicata sotto le scarpe».
Non era di certo un mistero, che Daphne avesse ereditato la schiettezza materna e l’insospettabile ironia di suo padre – un miscuglio pessimo che la portava a essere odiosamente sincera anche quando la dignità gliel’avrebbe dovuto impedire. Ma quella, che stava per davvero ancora appiccicata alle orme di Blaise Zabini, vacillava ed era fallibile come l’erano state le cotte della piccola Astoria.
Daphne era crollata, in seguito alla sua storia d’amore mai iniziata e comunque finita male. Ma, nel momento in cui Blaise avrebbe potuto ferirla nell’orgoglio più che nel cuore, Daphne si era ribellata facendo dell’ironia l’unica sua arma contro l’insensatezza di questo mondo (e degli altri possibili).
Astoria non riuscì a rispondere – persa nell’odiosa risposta di sua sorella, sì, nel pensiero di Fred Weasley che l’aveva guardata.
«Guardati» sibilò Daphne, alzandosi in piedi. «Brami la sua attenzione come un cucciolo orfano: non bramare, prendi e basta».
Astoria alzò un sopracciglio ma, prima di poter dire qualunque parola, sua sorella le voltò le spalle per uscire via dalla Sala Grande.
«Non dire mai che avresti solo voluto» sibilò, Daphne, sui propri passi. «Altrimenti non s’innamorerà mai di te».

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