La duchessa - Atto III

di Shadow writer
(/viewuser.php?uid=733096)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Epilogo - II atto ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Il ritorno della duchessa ***
Capitolo 4: *** L'asta ***
Capitolo 5: *** Roman ***



Capitolo 1
*** Epilogo - II atto ***


ATTENZIONE - IMPORTANTE:

Questa storia è la terza parte di una serie di racconti iniziati con 
La Duchessa. Per capire meglio la trama e conoscere di più i personaggi, vi consiglio di iniziare dalla prima parte, che è composta da solo otto capitoli. Potrete poi proseguire con La duchessa - atto II e infine ritornare qui.
Grazie per l'attenzione :)

Potete trovarmi anche su
instagram e wattpad!





EPILOGO
 
Sei mesi dopo
 
Era quasi il tramonto. Il sole sfiorava appena l’orizzonte, rischiarando le spighe dorate che coprivano i campi a perdita d’occhio. Il cielo era di un blu intenso e l’aria era così calda che non si udiva nessun rumore nella campagna, ad eccezione delle cicale che frinivano instancabili. 
Il loro canto di gruppo era interrotto solamente dal rombo dell’auto che percorreva l’unica strada tra i campi, sollevando un gran nuvolone di polvere dal terreno non asfaltato. La berlina nera, che probabilmente era partita con una carrozzeria lucida come il petrolio, appariva in quel momento di un grigio spento tendente al giallognolo. L’autista imprecava mentalmente per le buche che mettevano a dura prova le sospensioni dell’auto, sballottandolo su e giù nell’abitacolo.
Ondeggiando a sua volta per la strada dissestata, Roman guardava la distesa bionda attraverso il vetro del finestrino oscurato. Si stava chiedendo se, viste le premesse, avesse portato degli abiti adeguati all’ambiente. Forse dei sandali sarebbero stati più adatti.
Finalmente la strada si fece più larga, fino a terminare davanti ad un grande casolare in pietra chiara. L’auto si fermò e l’autista si affrettò ad aprire la portiera al passeggero, per poi spostarsi ad estrarre il suo borsone dal baule.
Roman gli disse che non era necessario aiutarlo a portarlo dentro e lo congedò, accordandosi per farsi tornare a prendere due giorni più tardi.
L’uomo eseguì rapidamente e in un attimo aveva fatto retromarcia per imboccare di nuovo la stradina polverosa da cui erano venuti.
Roman osservò l’auto sparire tra il grano giallo e, quando tornò a guardare il casolare, notò che qualcosa era cambiato. Qualcuno era uscito dall’edificio e stava di fronte a lui, a guardarlo con una mano sulla fronte per fare ombra sugli occhi. Lui avanzò, trascinando il borsone e la figura si fece più chiara.
Si trattava di una donna con addosso un abito a fiori lungo fino al ginocchio. Intorno alla vita era stretto un grembiule chiaro che copriva la parte davanti del vestito. I piedi erano infilati in un paio di ciabatte color cuoio, mentre sul petto le ricadeva, scomposta, una lunga treccia morbida.
Quando Roman fu abbastanza vicino, lei lasciò ricadere la mano con un cui si faceva ombra e allargò le braccia.
Lui sorrise. «Quel grembiule è per farmi credere che cucini?»
Anche l’altra ricambiò il sorriso. «Tentar non nuoce».
Roman avanzò ancora e lei lo imitò, quasi correndo e poi si tuffò verso di lui, stringendolo in un abbraccio. Lui lasciò cadere a terra il borsone e la strinse a sua volta, affondando il capo nei suoi capelli. Odoravano di sole e fiori di prato.
«Mi sei mancato» disse la ragazza, scostandosi leggermente dall’abbraccio per poter scrutare il suo volto.
«Anche tu, Em».
Emily lo prese per una mano e lo condusse all’interno della casa. Passarono attraverso una porta sulla parete rivestita di pietre chiare e si trovarono in una stanza piccola e scura, rispetto alla luce dell’esterno. 
Guidato da una stanza all’altra, Roman si accorse che la maggior parte di esse si affacciavano su un ampio cortile interno, da cui proveniva gran parte della luce naturale mediante finestre che occupavano un’intera parete. Raggiunsero delle scale di legno strette e scricchiolanti e, una volta arrivati al piano superiore, Emily gli mostrò camera sua.
Era una stanza piccola e arredata con la semplice eleganza delle case di campagna. Il copriletto, sebbene vecchio stile, profumava di sapone e del vento che lo aveva fatto asciugare. L’unica finestra, piuttosto ampia, affacciava sull’esterno, restituendo la vista delle colline che si spandevano a vista d’occhio sempre più dorate sotto la luce del sole.
Roman lasciò il borsone su una robusta scrivania di legno e tornò con Emily al piano inferiore.
Questa volta, entrarono in quella che doveva essere la cucina. Una parete era occupata da una grande porta-finestra che conduceva al cortile interno e lasciava entrare una gran quantità di luce calda. Sebbene un poco antiquati, i mobili avevano un’aria fresca, forse grazie alla vernice bianca che aveva ricoperto l’originale color legno. Sui fornelli, c’erano due grosse pentole e una di queste emetteva vapore fischiando.
Emily imprecò e si lanciò verso di essa. Abbassò il fuoco e scostò il coperchio.
Quando si voltò a guardare Roman, lui le rivolse un sorriso beffardo.
Lei alzò gli occhi al cielo. «Hai ragione, di solito non cucino mai, ma questa volta ho fatto le prove e mi sono attenuta alle precise istruzioni che mi sono state date, quindi credo che sarà commestibile».
«Non saprei» ridacchiò lui, «non sei mai stata una che si attiene alle regole».
Emily sbuffò in modo troppo teatrale per non essere divertita. Si diresse verso la porta finestra e la aprì litigando qualche istante con essa, che pareva incastrata, poi fece cenno a Roman di seguirla.
Il cortile interno si componeva di diverse zone. Vicino alla cucina, sotto ad un pergolato, era sistemato un grande tavolo già apparecchiato. Su di una tovaglia a quadri rossi e bianchi, spiccavano i piatti di ceramica candida. Sopra ad esso, era appesa una striscia di lampadine ancora spente.
Davanti al tavolo, c’era un rettangolo d’erba e poco più in là, scavata nel terreno, una piccola piscina piena d’acqua. In un angolo, invece, era sistemata della legna per un falò e intorno ad esso c’erano diverse poltroncine dall’aspetto confortevole.
«Siediti pure qui» gli disse Emily tirando una sedia del tavolo. Lui ubbidì e la ragazza sparì nuovamente in cucina. La sentì armeggiare – e imprecare – ai fornelli. Ci fu poi un rumore di pentole che venivano mosse e sbattevano tra di loro e quando tutto tornò silenzioso, Emily ricomparve con una grossa zuppiera tra le mani. La posò maldestramente sul tavolo e tirò un sospiro di sollievo.
«Vedo che te la cavi bene anche senza aiutanti» commentò ironico Roman e lei lo fulminò con lo sguardo.
«Non credevo fosse possibile disabituarsi a vivere senza cuochi e camerieri» sbuffò e si lasciò cadere sulla sedia al fianco dell’ospite.
«Dobbiamo aspettare per cenare» gli disse poi e diresse lo sguardo verso un’apertura ad arco dall’altro lato del cortile. Il grosso portone in legno che normalmente avrebbe dovuto chiudere l’arco era spalancato, lasciando intravedere al di là i campi infuocati dal tramonto.
«Il nuovo passatempo è dipingere paesaggi» spiegò Emily tenendo sempre lo sguardo fisso sull’arco.
Presto, all’interno di esso, comparvero le sagome scure di due persone, illuminate da dietro dalla luce del sole.
Una era alta e dalle spalle larghe e portava sotto un braccio quello che sembrava un cavalletto e sotto l’altro due tele. La figura più piccola che trotterellava al suo fianco teneva tra le braccia una borsa di stoffa. Quando entrarono nel cortile e smisero di essere colpiti dalla luce rossa, le loro figure si fecero visibili.
Noah indossava una maglietta macchiata d’erba e dei pantaloncini corti, mentre ai piedi portava delle scarpe di tela sporche di terra. Al suo fianco, Alexander, pareva un divo anche con quella camicia di lino impolverata e i pantaloni di stoffa morbidi.
Lasciarono ciò che ingombrava loro le braccia in un armadietto di legno e si diressero verso il tavolo.
«Fermi dove siete!» gridò Emily scattando in piedi. «Andate almeno a lavarvi le mani».
Noah non riuscì a trattenersi e corse verso Roman per saltargli al collo, mentre Alexander, dopo aver salutato l’ospite, si diresse verso una fontana poco distante per lavarsi le mani e sciacquarsi il volto impolverato.
Dopo che si furono lavati, Emily concesse loro di sedersi a tavola e cominciò a servire il contenuto della zuppiera.
«Hai fatto un buon viaggio?» domandò Alexander a Roman. L’altro annuì. «Sì, anche se avete preso alla lettera l’idea di allontanarvi da Tridell».
«Be’, ne vale la pena per assaggiare la famosa zuppa di Em» fu la replica ironica di Alexander che rischiò di ricevere un mestolo in testa dalla giovane.
«In realtà, è il papà quello bravo a cucinare» mormorò Noah sottovoce a Roman, bisbigliando per eludere le minacce di Emily.
Quando tutti furono serviti, cominciarono a mangiare. 
Durante la cena parlarono della nuova vita di campagna iniziata sei mesi prima, con il loro trasferimento in quel casolare in mezzo ai campi. Alexander raccontò di quando aveva portato a casa due galline dal villaggio più vicino - «A dieci minuti di bicicletta» disse indicando vagamente con il braccio la direzione da prendere per raggiungerlo – ed Emily aveva minacciato di farlo dormire in cortile se non le avesse riportate indietro. Alla fine, le avevano tenute e anche lei si era affezionata a loro, soprattutto grazie alle uova che trovava ogni mattina.
Noah parlò in tono entusiasta dei bambini che aveva conosciuto, in particolare due fratelli che vivevano in una fattoria poco distante. Disse che aveva munto le mucche insieme a loro e poi avevano potuto bere il latte tutti insieme. Parlarono dei colori del paesaggio, l’oro del grano, il cielo turchino, la terra di un marrone caldo e il verde degli stagni. 
«Io e il papà li dipingiamo sempre!» concluse Noah, mostrando una macchia di tempera che gli era rimasta sul braccio.
«Dopo facciamo il bagnetto» si inserì subito Emily.
 
 

Alexander insistette per occuparsi lui di far fare il bagnetto a Noah e metterlo a dormire, così Emily e Roman si spostarono sulle poltroncine intorno al falò che era stato acceso. Le fiamme rosse del fuoco si perdevano nell’aria e gettavano un chiarore caldo intorno. Il sole era ormai tramontato da un pezzo e, nel cortile, l’unica fonte di illuminazione artificiale erano le lampadine appese sopra alla tavola.
Emily e Roman si erano sistemati uno di fianco all’altra, ciascuno con un calice di vino rosso da sorseggiare guardando la danza del fuoco. 
«Mi sembra che tu ti sia sistemata bene qui» commentò Roman guardandola di sottecchi. 
Lei sorrise. «Sì, è un luogo felice».
«Com’è stato tornare a. vivere con Alexander?»
Emily gli rivolse un’espressione maliziosa. «Sapevo che me lo avresti chiesto. All’inizio ero preoccupata. Tutti gli anni che abbiamo vissuto distanti, tutto ciò che ci siamo fatti a vicenda, avrebbero potuto pesare su di noi e sul nostro rapporto, ma la verità è che è bastato guardarci negli occhi per ricordarci quanto ci amavamo e quanto di quell’amore ancora ci fosse in noi».
Prese un sorso di vino, poi continuò: «Ovviamente non sono mancate le discussioni, ma sempre su faccende futili. La nostra voglia di far funzionare questo» le sue mani fecero un vago gesto nell’aria e, nel calice, il vino ondeggiò, «ci ha permesso di superare tutto».
Roman allungò una mano e la posò su quella di Emily. 
«Ti brillano gli occhi» le sussurrò e lei li roteò.
Bevve ancora del vino e le sue guance, forse per effetto delle fiamme, presero un colorito scarlatto. Si voltò verso di lui, appoggiando la schiena ad un bracciolo e il calice sull’altro. «E tu come stai?»
Roman si strinse nelle spalle. «Non c’è male. Il palazzo è un poco silenzioso senza di te, ma sempre magnifico».
Emily rise, ma presto il suo volto tornò serio e i suoi occhi si fecero penetranti. Si piegò in avanti, così che non ebbe necessità di alzare troppo la voce per chiedere: «Ora vuoi dirmi cosa provoca quella ruga tra i tuoi begli occhi bruni?»
Lui sbuffò. Credere di celare qualcosa a chi ha vissuto con lui per anni era un autoinganno, soprattutto se si trattava di Emily. Roman aveva sempre sospettato che quella ragazza avesse almeno dieci sensi.
«Come avevi previsto, dopo la tua partenza c’è stato un vuoto di potere che molti hanno cercato occupare».
Lei sollevò le sopracciglia, incentivandolo a continuare. Aveva già sentito questa parte per telefono. «Per questo eravamo preparati e la situazione è stata gestibile». Fece una pausa e prese un respiro profondo. La fiamma che si rifletteva nelle sue iridi scure ondeggiò mentre spostava gli occhi in quelli di Emily.
«È sorto un nuovo problema» annunciò.
Lei sfilò la mano da sotto la sua e gliela posò sopra in atteggiamento che voleva essere confortante.
«Ma tu sei il mio erede e sei sempre stato al mio fianco. Non dubiterei mai di te».
Roman scosse il capo e un guizzo nella mascella tradì il suo nervosismo.
«Ero la tua ombra, Emily, ma tu sei sempre stata il volto di quello che facevamo. Le nostre parole avevano potere solo quando uscivano dalla tua bocca, non mentre le decidevamo dietro le quinte».
Lei strinse gli occhi. «Cosa mi stai dicendo?»
«Che questo non lo posso fare da solo. Ho bisogno della duchessa».
Emily lo fissò per qualche istante in silenzio e l’unico rumore intorno a loro fu il crepitio dolce del fuoco e il frinire lontano e ormai stanco delle cicale. Poi gettò il capo indietro e rise di gusto. La sua risata riecheggiò per il cortile, coprendo gli altri suoni. Quando tornò a guardare Roman, c’era un che di ferino nelle sue iridi infuocate. Il suo volto era raggiante e le labbra a stento trattenevano un sorrisetto di soddisfazione.
«Insomma» cominciò, sporgendosi ancora verso di lui, «dopotutto non sono tagliata per la vita di campagna».
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Prologo ***


PROLOGO


L’alba aveva sfiorato i campi con la sua luce dorata e ora il sole si stava facendo via a via più azzurro sopra alla campagna. Emily osservava la distesa campestre in piedi davanti dalla finestra di camera sua, la più alta della casa.

Uno stormo si alzò in volo poco lontano e per qualche istante la sua attenzione fu attratta da quella massa mutevole e dinamica.

Sentì la porta della stanza aprirsi alle sue spalle e non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che si trattava di Alexander. Lo sentì ridacchiare. «Non hai ancora finito di fare la valigia?»

Emily si voltò e lanciò un’occhiata poco convinta alla grande valigia mezza vuota che se ne stava aperta sul loro letto.

«Mi sento demotivata».

Spostò gli occhi su Alex, che nel frattempo era entrato nella stanza e aveva socchiusa la porta alle sue spalle. L’uomo indossava un maglione color crema semplice ma elegante, abbinato a dei pantaloni scuri. La scelta dei suoi vestiti fece supporre alla giovane che lui fosse già pronto per partire. Non lo aveva mai visto così elegante da quando vivevano in campagna.

«Forza, questo non è un addio, Em. Possiamo tornarci quando vogliamo» cercò di convincerla avvicinandosi. Emily notò che una cosa che non aveva cambiato dalle sue abitudine campagnole era il fatto di non essersi raso il viso. Aveva accorciato e sistemato la barba chiara, ma non l’aveva eliminata. Quando lui le fu vicino, alzò una mano per accarezzarla.

«Mi piace questo posto» gli sussurrò.

Alex sorrise e la circondò con le sue braccia, stringendola in un caldo abbraccio. «Anche a me piace e vorrei rimanere. Prima andiamo a Tridell, prima sbrigherai le tue faccende e potremo ritornare qui».

Lei abbassò gli occhi, come se riflettesse tra sé e sé.

«Di cosa hai paura, Em?». Alexander le prese il mento tra le dita e la condusse gentilmente a rialzare lo sguardo verso il suo.

«Di non essere pronta a tornare. Forse il mio posto è qui, tra le galline e le capre».

L’uomo rise, di una risata che scoppiò fragorosa e riecheggiò nella stanza. Lei distolse lo sguardo, arrossendo.

«Ti conosco più di chiunque altro» le disse. «Ricordo quando vivevamo insieme, anni fa, in quello squallido monolocale. Eravamo persone semplici, certo, e conducevamo una vita banale, ma c’erano dei momenti in cui il tuo sguardo mi faceva paura».

Gli occhi di lei guizzarono sull’uomo.

«Eccolo!» Esclamò lui. «Questo sguardo. Trasudava un’ambizione non comune, ma solo di chi sa di avere la forza per arrivare in alto».

«Cosa vuoi dire?»

«Voglio dire» riprese lui con calma, «che non credo che tu abbia “costruito” la duchessa. Credo che, dentro, tu lo sia sempre stata e che sia uscita allo scoperto quando hai dovuto riprenderti Noah».

Lei si sentì arrossire, ma questa volta le sue labbra si tesero in un sorriso soddisfatto.

«Ero così agitata per il ritorno che quasi lo avevo dimenticato».

Alex sollevò le sopracciglia, perplesso. «Cosa?»
Un fuoco si accese nelle iridi di lei. «Questa volta non sono da sola. Mi riprenderò il mio posto con te al mio fianco».

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il ritorno della duchessa ***


Il ritorno della duchessa

 

Il suono elettronico della sveglia trafisse le tempie di Roman trascinandolo fuori dai suoi sogni. Maledì mentalmente lo strumento infernale e rimpianse di non essersi portato la sua da casa, che lo svegliava con i suoni della natura in un giorno di pioggia.

Percepì un movimento al suo fianco nel letto e, come conseguenza, il rumore fastidioso si interruppe. Si voltò dall’altro lato, stringendo a sé il piumone, ma non si riaddormentò. Rimase in attesa, di qualcosa che non arrivò.

«Devi andare al lavoro» commentò allora, rivolto al gomitolo di coperte che gli stava accanto. Gli rispose un mugugno contrariato: «Ancora cinque minuti».

La promessa fu mantenuta e, dopo cinque minuti, sentì una sequenza di sbuffi mentre il piumone veniva sollevato dall’altro lato e lui veniva lasciato da solo nel letto.

Si godette ancora per qualche istante il calduccio, poi decise di alzarsi a sua volta. Infilò le pantofole che lo attendevano davanti al comodino e prese la vestaglia dall’angolo di camera che gli era stato concesso di occupare con i suoi vestiti.

Quando entrò in cucina, ottenne uno sguardo storto dalla padrona di casa. La donna stava cuocendo delle uova e la faccia assonnata non le aveva impedito di guardarlo male.

«Perché ti sei alzato? Sai che puoi rimanere a dormire quanto vuoi».

Lui si appoggiò con una spalla alla parete e la guardò, scuotendo il capo. «No, oggi è il giorno

Lei sgranò gli occhi e per poco non bruciò le uova da tanto la rivelazione l’aveva sorpresa. Imprecò a denti stretti mentre travasava il contenuto dalla padella al piatto che aveva sistemato vicino ai fornelli.

«Non ricordavo fosse oggi» commentò poi, sistemandosi nervosamente i capelli scuri dietro alle orecchie. 

Roman prese un sospiro mesto. 

Sapeva che era stata una cazzata enorme tornare nel parco dove aveva incontrato Isabel Lopez la prima volta e che era stata una cazzata ancora più grande rivolgerle la parola. Si era dato dell’idiota quando l’aveva incontrata ancora e ancora e ancora, ma non aveva saputo dire di no quando un giorno, dopo averla riaccompagnata a casa, lei lo aveva afferrato per la camicia e lo aveva attirato a sé.

“Lontano dagli occhi, lontano dal cuore” era stato il suo mantra, se non fosse che gli occhi, in questo caso, erano quelli di Emily e il cuore era il suo, che la giovane gli avrebbe strappato dal petto se avesse saputo che aveva una relazione con la detective. E quegli occhi sarebbe presto tornati su di lui, visto l’imminente ritorno della duchessa.

«Quando arriva?» Isabel lo distolse dai suoi pensieri, mentre gli faceva cenno di sedersi con lei al tavolo.

Roman le rivolse un sorriso storto. «Lo sai che non cedo su queste cose. Avevamo detto niente dettagli».

Lei si strinse nelle spalle e tornò a dedicare la sua attenzione alle uova strapazzate. L’altro la imitò, in silenzio.

Quando ebbe finito di mangiare, Isabel pose il piatto nella piccola lavastoviglie e, prima di dirigersi verso la camera, si fermò di fronte a lui.

«Quando ci vedremo la prossima volta?»

Roman le rivolse uno sguardo serio. Ne avevano già parlato. «Farò il possibile, Isa, ma non posso prometterti nulla».

Lei annuì, pensierosa, poi gli si avvicinò e gli lasciò un bacio sulla guancia, accarezzandolo dolcemente. «So che lo farai».

 

***

 

Che fosse un grande giorno, lo si notava dalla frenesia che c’era nei corridoi. Tutti coloro che lavoravano nel palazzo sapevano ormai che ciò che avveniva al suo interno doveva rimanere segreto, eppure una certa tensione circolava nell’aria.

Mentre si dirigeva verso il giardino, Roman incrociò un paio di camerieri che correvano da un’ala all’altra come se le stanze stessero andando a fuoco. Tutto questo solo perché la padrona di casa era tornata, dopo un’assenza di quasi un anno.

Roman aveva fatto in tempo a lavarsi e cambiare gli abiti, quando Vincent, il maggiordomo che lavorava da loro da più tempo, aveva bussato per fargli sapere che Emily era arrivata.

«La signorina Emily è qui» gli aveva detto, attraverso la porta, e lui aveva provato una strana sensazione al non sentirla più chiamare “Cassandra”. Ormai, sarebbe stato un fronzolo inutile, dato che tutti sapevano il suo vero nome.

Superò una coppia di giardinieri che stavano rientrando e, finalmente, si immerse nella calda luce di mezzogiorno, che faceva risplendere il parco sul retro della villa.

Non aveva fatto cambiare nulla — sapeva che la padrona di casa non avrebbe apprezzato — così, dopo una prima distesa di erba corta ben curata, seguiva un’ordinata schiera di siepi intervallate da statue candide che davano un’aria signorile e rinascimentale all’ambiente.

Roman si schermò gli occhi con una mano, mentre le sue pupille si abituavano alla luce del sole, e la prima cosa che vide, in mezzo al prato, fu lei.

Emily indossava un abito lungo dalla stampa floreale e portava i capelli sciolti, che le scendevano morbidi sul petto. Alzò una mano e sorrise, salutandolo da lontano. 

Roman sorrise di risposta, poi accelerò il passo e la raggiunse. Emily si lanciò tra le sue braccia e si abbandonò a quella stretta familiare.

«Bentornata».

Lei si staccò quanto bastava per guardarlo negli occhi e sorridergli, poi lo prese per mano e lo condusse con sé verso le siepi.

Roman notò subito una figura alta che si aggirava tra le gli arbusti ben potati e parlava a gran voce.

«Se non vieni fuori, temo salterai il pranzo» stava dicendo in quel momento Alexander.

«Tanto non ho fame!» gli rispose qualcuno nascosto tra i cespugli.

«Allora mangerò io la tua fetta di torta» replicò l’uomo mettendo i pugni suoi fianchi con fare arrabbiato.

Roman allungò il collo e lo vide abbassarsi e scomparire al di là dei rami verdi per qualche secondo. Quando si risollevò, stringeva tra le braccia un Noah assolutamente contrariato da quella cattura. Il bimbo si dimenava e scalciava, cercando di liberarsi.

«Ci ha dedicato il trattamento del silenzio per tutto il viaggio» commentò Emily mentre Alexander si avvicinava con il figlio tra le braccia. «Non sai quanto ha fatto i capricci quando gli abbiamo detto che dovevamo lasciare la campagna. Lo ha consolato solo il pensiero di rivederti».

Come per confermare le sue parole, Noah aveva deciso di riposarsi per un attimo dalla lotta contro suo padre e aveva riconosciuto il nuovo venuto.

«Roman!» esclamò infatti e riprese a divincolarsi. Questa volta Alex lo lasciò a terra, così il bambino poté correre verso di Roman e saltargli letteralmente addosso. Lui rise e lo sollevò per poterlo abbracciare meglio.

«Mi sei mancato, ometto».

«Anche tu» gli rispose aggrappandosi al suo collo.

Dopo aver salutato in modo appropriato anche Alexander, Roman li condusse verso la sala da pranzo che aveva fatto apparecchiare.

 

 

 

 

Dopo pranzo, Roman si assentò per svolgere alcune incombenze e si diede appuntamento con Emily per ritrovarsi un’ora più tardi nello studio.

Dato che Noah insisteva per tornare in giardino, lei e Alexander lo accompagnarono e si sistemarono sul patio, sotto alla luce calda del sole, mentre lo guardavano correre sull’erba dalle loro poltroncine in vimini.

«Almeno saremo sicuri che dormirà durante il pisolino» commentò Alex, voltandosi verso di Emily.

Lei annuì, con un sorriso, ma sentì lo sguardo dell’altro indugiare ancora un po’ sul suo viso.

«Non voglio intromettermi tra te e Roman» aggiunse infatti poco dopo, «ma ricordati cosa abbiamo detto, Em. Niente più segreti, niente mosse alle spalle».

La giovane si voltò a guardarlo. «I segreti distruggono la vita delle persone. Sono stata io a dirtelo».

L’altro fece un cenno di assenso e sospirò. Emily si allungò verso di lui e posò la propria mano su quella dell’uomo, sul bracciolo della sua poltrona.

«Abbiamo deciso di tornare a Tridell come una famiglia» gli disse, «e intendo fare di tutto per rispettarlo».

Alexander annuì, ma i suoi occhi sfuggirono a quelli di lei in un modo che la ragazza non ignorò.

«Cosa ti turba?»

Lui scosse il capo. «Finché eravamo lontani, non gli ho dato peso, ma ora sono tornato ad interrogarmi. Di cosa ti occupi davvero, Em?»
Lei lo fissò per qualche istante, poi scoppiò a ridere. In effetti, da quando si erano allontanati da Tridell, avevano ignorato qualsiasi cosa li legasse alla loro vita passata piena di rancori. Le sue occupazioni erano tra queste cose perché Emily ricordava la reazione di Alexander durante l’incontro con Lowe e sapeva di non voler sollevare un argomento del genere mentre si trovavano nell’idilliaca campagna lontano da Tridell.

In quel momento, un fischio proveniente dal piano superiore attirò la loro attenzione. Sollevarono entrambi il capo per vedere Roman che faceva cenno ad Emily di raggiungerlo dalla finestra dello studio. Lei si alzò in piedi e si voltò nuovamente verso Alexander.

«Vieni con me» gli disse, suscitando uno sguardo interrogativo da parte dell’uomo. «Niente più segreti».

Gli tese la mano. Alexander la prese e si alzò in piedi, poi si lasciò condurre da lei verso lo studio.

Roman attendeva comodamente seduto sulla poltrona di velluto color carta da zucchero di fronte alla scrivania. Quando li vide comparire insieme, la sua espressione si fece perplessa.

«C’è un nuovo membro nella nostra squadra» fu il commento di Emily, che lasciò la mano di Alexander e andò a sedersi al di là della scrivania. L’uomo prese posto accanto a un Roman non ancora convinto dalla situazione.

«Possiamo fidarci di lui» sbuffò Emily di fronte a quella reazione.

Roman guardò Alexander di sottecchi. «Non lo sto mettendo in dubbio. Quello che mi chiedo è» si voltò verso l’altro per poterlo guardare bene in faccia, «vuoi davvero sapere tutto?»

Alexander rimase in silenzio per qualche secondo, poi annuì. «Ormai ci sono dentro fino al collo. Tanto vale sapere in cosa sguazzo, no?»

Gli altri due si scambiarono un’occhiata, ma prima che Roman potesse aggiungere ulteriori riserve, la ragazza lo esortò a parlare.

Lui si schiarì la voce e indicò alcuni dei fogli sulla scrivania davanti a sé. «Come ti avevo già detto, alcuni dei nostri camion sono stati fermati e la merce sequestrata».

«Camion?» 

Il commento di Alexander fece voltare il giovane verso di lui. L’altro si scusò con un cenno. «Okay, starò zitto. Sono solo curioso».

Emily rise lievemente. «Sì, camion. È di questo che ci occupiamo».

La fronte di Alexander si corrugò, così lei aggiunse: «Quando ho ricevuto l’enorme eredità di quel lontano parente, ho investito il denaro in trasporti. Ogni cosa che esiste in questo mondo ha bisogno di essere mossa e ho scoperto che più la merce è illegale, più è caro il trasporto».

Le sopracciglia dell’uomo rimasero sollevate in un’espressione scettica, ma non commentò e Roman poté proseguire: «Ovviamente mi sono subito occupato di ripagare la merce a chi ce l’aveva affidata, al doppio del prezzo, ma questo non è bastato. Ho cominciato a sentire voci di malumori e, poco alla volta, mi hanno tagliato fuori».

«Com’è possibile che la polizia non sia risalita a voi?» domandò Alexander. 

«I trasportatori sono lavoratori autonomi che “affittano” i mezzi dalla compagnia che possediamo» rispose Roman. «Ciò significa che, teoricamente, la compagnia non è a conoscenza delle merci che vengono mosse».

L’uomo non pareva convinto. «Perché i trasportatori dovrebbe accettare questo patto se poi la colpa ricade interamente su di loro?»

«Sono uomini abituati a lavori illegali. Lavorando per noi ottengono una copertura che non avrebbero autonomamente» rispose Roman.

Alexander strinse gli occhi, pensieroso. «Ciò significa che pagate per le loro spese giudiziarie?»

L’altro annuì. «Sì, oltre a offrire uno stipendio più alto di quanto otterrebbero da soli».

Emily non aveva parlato per tutto il tempo, ma aveva assunto una posa seria, con le braccia incrociate al petto e gli occhi fissi sul suo braccio destro. «Continua».

«Gli incarichi sono calati rapidamente. All’inizio pensavo si trattasse di cautela. Dopo un sequestro di quelle dimensioni, è comprensibile voler bloccare i traffici per un certo periodo. Ma la situazione è perdurata e i miei sospetti si sono confermati quando Bergman non ha segnalato la presenza di una pattuglia della polizia nel suo territorio».

Al di là della scrivania, l’espressione di Emily si irrigidì.

Roman sminuì in fretta le parole appena pronunciate: «Ero pulito e viaggiavo da solo, ma quella di Bergman non è stata una svista».

«Era intenzionale» acconsentì la ragazza.

Alexander fece saltare gli occhi dall’uno all’altra, cercando di capirci qualcosa. Emily intercettò il suo sguardo. «Si tratta di un affronto» spiegò.

«Verso di te?» chiese l’uomo.

Lei scosse il capo e cercò con un’occhiata Roman, che le fece un cenno di assenso per confermare i suoi dubbi ancora prima che lei li formulasse.

«Verso Roman» aggiunse per spiegare anche ad Alexander. «Una cosa del genere non era mai successa prima che me ne andassi».

«Perché dovrebbero mancargli di rispetto? Hanno sempre saputo che era il tuo braccio destro».

Fu il giovane a rispondere: «Il nostro era un lavoro di coppia, in cui Emily era l’elemento più forte. Senza di lei, gli altri non si fidano abbastanza».

Alexander si chiese se stesse facendo troppe domande, ma non riuscì a trattenersi dal chiedere: «Chi sono “gli altri”?»

Le labbra di Emily si tesero in un sorrisetto malizioso. «Gli altri che comandano Tridell. Boss, leader, chiamali come vuoi».

L’uomo accettò la spiegazione senza scomporsi. «Mio padre è tra di loro?»

Lei scosse il capo. «Robert Henderson è nel circolo alto. Gli piace stare più vicino alla legge che ai criminali».

Nessuno parlò per qualche secondo, fino a che Alexander commentò. «Cosa pensate di fare ora? Basta il ritorno di Emily per risolvere la situazione?»

Il tono scettico della seconda domanda trovò appoggio nello sguardo che si scambiarono gli altri due. 

«Il solo ritorno della duchessa non è sufficiente» rispose la diretta interessata.

«Cosa serve?»

«Un ritorno in grande stile» disse Roman e ad Alexander parve di cogliere un sorriso scaltro sulle labbra dei due.

«Una festa nel palazzo?» chiese e notò nuovamente l’occhiata che gli altri due si scambiarono. Parevano in grado di comprendersi perfettamente senza il bisogno di parlare.

Emily prese la parola: «Organizzare una festa qui ci espone a dei rischi, il primo fra tutti è che gli invitati non si presentino».

Alexander rise a quel commento. Non riusciva ad immaginare qualcuno che rifiutasse un invito nel palazzo della duchessa. La risata si spense sulle sue labbra quando vide lo sguardo serio della giovane. Intuì che l’assenza di quasi un anno poteva indebolire la posizione di chiunque, perfino una figura all’apparenza onnipotente.

«Qual è la soluzione, quindi?» chiese. Aveva ormai capito che in quello studio non si parlava per fare conversazione. Si parlava per confrontare ed elaborare piani che già erano stati vagliati mentalmente e ora richiedevano l’approvazione di una persona esterna.

«Imbucarsi ad una festa» disse, prima che gli altri due potessero parlare.

Emily gli rivolse uno sguardo soddisfatto per averla anticipata, poi spostò gli occhi su Roman. «Dobbiamo farlo prima che la voce del mio ritorno si diffonda e si ritorca contro di noi. Chissà quali dicerie è pronta a inventarsi la gente».

Roman prese un foglio da sotto una pila che stava sulla scrivania. Lo guardò in silenzio, poi sospirò. «Ho la soluzione, ma non sono sicuro che vi piacerà».

Le sopracciglia sottili della ragazza si sollevarono, in attesa. Lui tossicchiò e riportò gli occhi sul foglio che teneva tra le mani. «Tra due giorni ci sarà un’asta di beneficienza a cui è invitata tutta l’élite di Tridell…»

Esitò quanto bastava perché Alexander prevedesse ciò che stava per dire.

«Si tratta di lei, vero?»

Il volto di Emily si scaldò in fretta e lei sbuffò rumorosamente. «Stiamo parlando di Camille Lefebvre?»

Roman si grattò nervosamente il mento. «Tecnicamente, dovremmo parlare di Camille Henderson».

Alexander alzò gli occhi al cielo. «Quel divorzio è un tasto dolente per Em. Meglio evitare l’argomento se non la vuoi vedere esplodere».

La ragazza prese un respiro profondo ed espirò poco alla volta. «Sono calma» aggiunse, ma la credibilità delle sue parole venne infranta non appena il suo volto si fu arrossato di nuovo. «L’unica cosa che non capisco è perché quella si rifiuti di firmare il divorzio all’uomo che l’ha tradita».

«Stronza» tossicchiò Alexander, beccandosi uno sguardo inceneritore dall’altro lato della scrivania.

Emily chiuse gli occhi, come per recuperare la calma, e quando li riaprì, il suo furore pareva essersi stemperato. «E va bene. Camille è solo una pedina e nulla di cui avere paura. La sua festa è l’occasione perfetta».

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** L'asta ***



L'asta



L’asta si teneva in un palazzo del centro. Dall’esterno, l’edificio pareva una grande vetrata incorniciata da strutture in legno. Non era molto alto e rifuggiva linee troppo appuntite e spigolose. L’architetto voleva forse dare l’idea della fluidità mediante quelle strutture rivestite di legno ben levigato e arrotondato.

«Questo è nuovo» commentò Emily guardando del finestrino dell’auto che li stava accompagnando.

Al suo fianco, Alexander si piegò per guardare a sua volta all’esterno. «Ricordo il cantiere. Hanno fatto un bel lavoro».

L’auto superò la piccola folla che si era radunata davanti all’ingresso del palazzo e continuò a muoversi verso il retro. Dato che ormai era buio, le luci all’interno permettevano di scorgere gli invitati che si muovevano per le sale del palazzo fino a raggiungere quella in cui si sarebbe svolta l’asta, all’ultimo piano, già piuttosto gremita, benché l’evento non fosse ancora iniziato.

«Siamo arrivati» annunciò Roman, dal sedile del passeggero, ed Emily lanciò un’occhiata fuori.

Tanto era magnificente l’edificio da davanti, tanto appariva comune dalla via in cui si erano fermati. L’unico lampione, dalla luce flebile e tremolante, illuminava un cassonetto dell’immondizia, posizionato poco lontano dalla porta scura che conduceva all’interno.

Scesero tutti dall’auto e si diressero verso la porta.

«Siamo in anticipo?» chiese Emily, scoccando uno sguardo accigliato alla maniglia.

Roman controllò l’orologio e scosse il capo.

«Siamo rimasti chiusi fuori?» domandò Alexander. Anche se era stato coinvolto nelle ultime discussioni tra la duchessa e il suo aiutante, ciò non significava che fosse a conoscenza di ogni loro mossa, anzi. A volte pensava che fosse meglio non conoscerle per riuscire a dormire meglio la notte.

Inoltre, l’idea di rivedere Camille lo aveva turbato abbastanza da faticare a pensare ad altro. Aveva ripetuto nella sua mente il discorso che le avrebbe fatto decine di volte e ognuna gli sembrava insoddisfacente. Emily gli aveva proposto di ignorarla, ma sapeva lei stessa che quella proposta non sarebbe stata accolta. Alex si sentiva ancora troppo in colpa per il suo comportamento.

«Stiamo solo aspettando il nostro aiutante speciale» gli rispose la ragazza, alzando gli occhi per rivolgergli un sorriso. Gli posò il palmo sul petto, esercitando una leggera pressione, quasi volesse stringersi a lui. «Arriverà».

Come se l’avesse previsto, sentirono dei passi all’interno, seguiti dal rumore di qualcuno che armeggiava con la porta.

Alexander raddrizzò la schiena, improvvisamente all’erta. 

Quando la porta si aprì, sulla soglia comparve un giovane uomo alto, dai capelli scuri e gli occhi di un azzurro intenso. Indossava uno smoking nero che lo faceva apparire completamente diverso dal tipo di “aiutante” che Alexander si era immaginato. L’altro incrociò il suo sguardo e trasalì, ma spostò in fretta la propria attenzione su Emily e Roman. 

«Venite. Manca poco all’inizio ormai» disse loro e tenne la porta aperta per farli entrare. La sua voce aveva una cadenza che non sfuggì ad Alexander e, mentre camminavano per quello che pareva un magazzino, l’uomo fu colto da un’illuminazione.

Prese Emily per un braccio per farla avvicinare a sé e le bisbigliò: «Che cosa c’entra Tristan con voi?»

Lei roteò gli occhi, seccata di essere stata fermata. «Non ora, Alex».

Lui la fulminò. «Quello era il migliore amico di Camille… mi stai dicendo che…» la sua voce si interruppe, mentre scrutava il volto di lei in attesa di conferme.

«Non ora» gli ripeté a denti stretti e lo prese per mano per condurlo verso Roman e Tristan, che ormai avevano raggiunto la porta del magazzino e li stavano aspettando.

Si ritrovarono in un corridoio scuro, che terminava con delle scale che portano fino all’ultimo piano. Salirono solo una rampa, poi Tristan li guidò attraverso un altro corridoio, fino a fermarsi davanti a un ascensore dalle porte dorate.

«L’ascensore porta direttamente alla sala dove si tiene l’asta, ma quest’ala è stata chiusa per stasera, quindi nessuno si aspetterà di vederlo in funzione» disse loro.

C’era esitazione nella sua voce e il modo in cui guardava Emily e Roman tradiva una certa apprensione.

Lei gli fece un cenno di ringraziamento e si voltò verso Alexander. Gli occhi scuri della ragazza gli stavano facendo una domanda ben precisa e lui lo sapeva. 

Sei con me? Era questo che Emily voleva sapere. O meglio, era questo ciò di cui la duchessa aveva bisogno. Quella sera serviva per riconfermare il suo potere e nessuno poteva dimostrare incertezza nei suoi confronti. Quella sera tutti dovevano servirla senza fare domande.

Lui le rispose con un cenno di assenso e la ragazza pigiò il bottone di chiamata dell’ascensore. Subito si aprì davanti a loro e i due entrarono, prendendo posto.

«Ci vediamo di sopra» li salutò Roman e le porte dorate si chiusero sul suo sorriso ammiccante.

L’ascensore si mise in moto e un piccolo schermo si illuminò per indicare il piano in cui si trovavano.

«Da quanto Tristan lavora per te?» domandò Alexander fissando il proprio riflesso distorto sul metallo delle porte di fronte a lui. 

Emily gli rispose senza voltarsi: «Vuoi davvero parlarne ora?»
«Voglio solo che tu risponda alla domanda. Non rovinerò la tua serata, qualsiasi sia la risposta».

Lei sbuffò. «L’ho contattato più di un anno fa.»

Alexander sgranò gli occhi, ma non replicò. Quando aveva incontrato Tristan appena uscito dal carcere, lui già lavorava per Emily. Ricordava la sua partita di tennis contro Camille, a cui aveva assistito insieme a Gerald Lefebvre e poi di essere stato nel palazzo della duchessa proprio in sua compagnia. E non si era accorto di niente.

Un suono squillante fece capire che avevano raggiunto l’ultimo piano, così si preparò ad andare in scena prendendo la mano di Emily.

Le porte si aprirono, rivelando una sala ampia e affollata. Qualcuno si era voltato con curiosità verso l’ascensore per via del suo rumore, ma la maggior parte delle persone non aveva distolto l’attenzione da ciò che stava facendo. Alcuni stavano prendendo da mangiare o da bere dai lunghi tavoli sistemati in un lato della stanza, la maggior parte della gente stava chiacchierando con qualcuno, mentre altri si erano già sistemati sulle sedie disposte di fronte al piccolo palco destinato all’asta.

Guidato delicatamente dai movimenti di Emily, Alexander scese dall’ascensore e rimase qualche secondo immobile al suo fianco mentre le porte si richiudevano alle loro spalle. Quei pochi secondi furono sufficienti per moltiplicare gli occhi che si posavano su di loro.

In breve tempo, la sala fu percorsa da un brusio che portò l’attenzione di tutti a sposarsi sui nuovi venuti. Il vociferare si fece sempre più intenso, fino a che, di colpo, quando tutti li stavano guardando, calò il silenzio.

Alexander percorse rapidamente la sala con lo sguardo. Riconobbe alcuni volti familiari, che lo fissavano allibiti, curiosi, sospettosi e perfino emozionati. Gli occhi dell’uomo attraversarono la sala, fino a che la trovarono. Camille se ne stava in piedi poco lontano da loro. La sua altezza e l’abito azzurro ghiaccio che indossava la facevano risaltare tra la folla di smoking scuri. Lo stava fissando con uno sguardo che Alexander non seppe decifrare subito. La donna teneva in una mano un bicchiere di champagne, che ondeggiò pericolosamente tra le sue dita, prima di scivolare a terra e frantumarsi.

Lei sussultò, come se si riprendesse da un brutto sogno.

Il rumore del vetro che andava in pezzi aveva risvegliato anche la folla dall’ipnosi collettiva. L’attenzione di tutti continuò a essere su Emily e Alexander, ma in modo più discreto e dissimulato, e le conversazioni ripresero così come i movimenti delle persone nella sala, nascondendo Camille dalla vista di Alexander.

 

L’iniziale stupore della folla si sciolse rapidamente. Prima ancora dell’inizio dell’asta, donne strizzate in abiti eleganti e uomini che si atteggiavano da amici di lunga data, si erano contesi il posto per parlare con la duchessa.

«Emily!» la chiamavano, come se ormai fossero autorizzati a usare quel nome dopo la rivelazione in TV.

Alex era rimasto al suo fianco, ma presto si era accorto che la sua presenza sarebbe stata semplicemente accessoria, se non di impaccio. Emily aveva i propri contatti, ma anche lui non era da meno. Lasciò che fossero i suoi vecchi conoscenti a raggiungerlo, intavolando conversazioni con i pretesti più stupidi, solo per passare del tempo al suo fianco. 

I primi ad avvicinarsi erano stati quegli avvocati che lui sapeva corrotti, o comunque quelli meno portati per la moralità. Aveva ingoiato il proprio orgoglio e cercato di trattare tutti in modo cordiale. Sapeva di essere loro superiore, ma non per il suo maggiore senso etico - come avrebbe voluto - ma perché lui era entrato nella sala a fianco al vertice più alto di quel sistema di corruzione e minacce.

Il battitore aveva dovuto annunciare che l’asta era stata ritardata di qualche minuto, perché nessuno pareva disposto a prendere posto e iniziare.

Alexander scorse Roman infilarsi nella sala ad un certo punto e affiancare Emily. Quella novità parve emozionare ancora di più la folla, che non aveva mai capito quale relazione ci fosse tra i due e in quel momento pareva ancora più intrigata, considerata la presenza di ben due accompagnatori per la duchessa.

L’uomo si assicurò che nessuno lo stesse guardando – e fu difficile attendere il momento opportuno – prima di infilarsi al di là di una spessa tenda che copriva la terrazza adiacente alla sala.

Era uno spazio ampio, da cui si scorgevano gli edifici principali del quartiere abbozzati nella notte.

Era stata schermata dalla tenda, che doveva renderla inaccessibile durante l’asta, e c’era una sola persona oltre a lui. 

Nonostante l’aria fredda, Camille non aveva indossato nulla sopra al suo abito azzurro ghiaccio e se ne stava vicina al parapetto, con la gonna di chiffon che il vento agitava intorno alle sue gambe.

Quando lo sentì avvicinarsi, si voltò di scatto e la sua espressione si fece ostile.

«Che cosa vuoi?»

L’uomo fu colpito dalla sua voce. Non pareva arrabbiata, solo stanca.

«Vorrei parlarti» replicò, fermandosi a pochi passi di distanza.

Camille lo trafisse con lo sguardo. «Sei qualche anno in ritardo».

«Lo so. Il mio discorso consiste principalmente in scuse».

Lei riportò gli occhi stanchi sulla vista davanti a sé. «E hai pensato di portarmi le tue scuse rovinando la mia serata?»

Alex esitò, consapevole che lei aveva ragione.

«Quanto ancora vuoi rovinare la mia vita?» continuò la donna.

«Questa è l’ultima volta che ti disturberò, te lo prometto».

Lei fece una smorfia amara che lo colpì. Non l’aveva mai vista con il viso così contorto dal dolore. «Non fare promesse che non puoi mantenere» gli disse. «Basta che quella ragazzina ti dica di fare qualcosa e sarai pronto a eseguire, anche a costo di farmi del male».

Alexander prese un respiro profondo. Non voleva rispondere in modo affrettato. «Ti sbagli. E lei non è la persona che credi».

Camille fece una smorfia. «Oh, giusto. Non si sa mai cosa nascondano le persone».

«Mi dispiace per tutto il dolore che ti ho provocato. Vorrei averlo evitato. Pensavo di proteggerti tenendoti all’oscuro di tutto. Pensavo di poter costruire una vita con te. Mi sono sbagliato e ti ho fatto soffrire in modo che le mie parole non potranno mai giustificare».

La donna sospirò e si allontanò dal parapetto. «Ho letto le tue lettere, Alexander, non c’è nulla di nuovo che tu mi possa dire. Né nulla che io ti voglia dire».

Lui la seguì con lo sguardo mentre tornava verso la vetrata. 

«Devo rientrare, Tristan mi starà aspettando» gli disse, prima di dargli le spalle.

«Camille» la richiamò lui, facendo un passo verso di lei. La donna si voltò impercettibilmente.

L’uomo esitò un istante e i suoi occhi indugiarono sul volto perplesso e interrogativo di lei.

«Stai attenta» le disse. «Non si sa mai cosa nascondano le persone».

Lei gli rivolse un ultimo, esausto, sguardo, e scomparve al di là della tenda.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Roman ***




Roman


Sei anni prima

 

Il piccolo supermercato era quasi deserto a quell’ora del giorno. Era da poco passato l’orario di pranzo e l’unico uomo al bancone leggeva con indolenza un giornale. Di tanto in tanto, alzava gli occhi dalla carta e dava un’occhiata allo spazio davanti a sé, per assicurarsi che tutto fosse tranquillo.

Emily sudava, sotto la giacca pesante che portava. Era talmente lunga che la sentiva strusciare contro le ginocchia quando si muoveva. Inoltre, il peso che portava nelle tasche non contribuiva a rendere la sua situazione più piacevole. Finse interesse nei formaggi davanti a sé, poi si guardò alle spalle. Gli unici altri clienti del negozio erano una vecchia signora che portava un cestino sottobraccio e un ragazzo alto che si trovava poco distante da lei. E la stava fissando.

Emily sostenne il suo sguardo per qualche secondo, con aria di sfida, poi decise di muoversi.

Maledicendo la scomodità della giacca, si spostò nell’area destinata alla frutta e alla verdura. Prese una mela tra le mani si guardò attorno. Non vide nessuno alla sua sinistra, ma quando si voltò a destra, trovò il ragazzo a un palmo da lei.

Sobbalzò involontariamente.

«Se pensi di far sparire anche quella nella tua giacca» sussurrò il ragazzo, «devi stare attenta alla telecamera». 

Con il capo fece cenno in direzione della telecamera sopra di loro.

Emily strinse gli occhi e studiò il ragazzo. Era alto, dalla pelle ambrata, con i capelli e gli occhi scuri. Portava un orecchino pendente da un lato e un anello dall’altro e profumava come se avesse nuotato in una vasca di profumo.

«Non so di cosa tu stia parlando» replicò e rimise la mela al suo posto.

Il ragazzo sorrise. «Sto parlando del formaggio che hai fatto sparire nella tasca destra, del pane che hai nella sinistra e della confezione di noodles che è magicamente scivolata nella tua borsa». Le si avvicinò, avvolgendola nel suo profumo intenso. «In poche parole, credo che tu lo sappia perfettamente».

Emily strinse i denti, ma non indietreggiò. «Hai intenzione di dirlo al proprietario?»

Lui rise e scosse il capo. «Ti sto parlando perché fai pena come ladra. È la prima volta?»

La ragazza si strinse le braccia al petto, a disagio, e annuì.

«Devi essere davvero disperata per indossare quella giacca terribile».

Emily alzò gli occhi per fulminarlo, ma lui si era già spostato in un’altra area del supermercato. Lo seguì a ruota.

Raggiunsero una stanza più interna, dove stavano tutti i freezer. Il ragazzo indicò la telecamera in un angolo. «Quella non funziona».

Poi picchiettò su una delle superfici di vetro. «Cosa vuoi? Verdure miste?»
Lei si guardò attorno con aria circospetta. Nessuno li vedeva in quel punto del negozio. Tornò a guardare il ragazzo e annuì. Lui aprì il frigorifero, preso due piccoli pacchetti e se li infilò nelle tasche della giacca, sistemandoli perché non si vedessero dall’esterno, poi ne prese altri due e li ripose nel cestino che aveva con sé.

Quando ebbe finito, tornò a rivolgersi alla ragazza: «Cos’altro ti serve?»

Lei si strinse nelle spalle. «Frutta?»

Le fece cenno di seguirlo. «La frutta non si prende nei negozi, ma al mercato. È più facile. Forza, andiamo a pagare».

Emily lo seguì a pochi passi di distanza, guardandosi attorno. 

Il ragazzo raggiunse la cassa e posò su di essa il cestino con dentro i due surgelati e una pagnotta. Pagò, poi si rivolse a lei: «Tesoro, sei pronta ad andare?» 

Emily non se lo fece ripetere due volte e si diresse fuori dal negozio. Lui la seguì con calma e lo sentì ridacchiare alle proprie spalle. La raggiunse, la prese a braccetto e camminarono così per qualche decina di metri, allontanandosi dal supermercato.

«È importante apparire disinvolti» mormorò lui.

Continuarono a camminare per un po’, poi il ragazzo si fermò e si frugò nelle tasche della giacca. Ne estrasse due borse di stoffa e vi travasò la refurtiva, poi ne tese una alla ragazza.

«Oggi non c’è il mercato, ma lì è più semplice. Non ci sono telecamere, devi solo aspettare che la gente si distragga».

Emily prese la borsa con la propria parte. Lui le fece un cenno di saluto, augurandole buona fortuna, poi si allontanò correndo per saltare sull’autobus che stava passando in quel momento.

 

 

 

Emily si sistemò il cappotto e lanciò uno sguardo nervoso al proprio riflesso nella vetrina del negozio. Con quel capellino calato sulla fronte e una giacca troppo grande per lei non era sicuramente al massimo della forma.

La sua riflessione fu interrotta quando scorse la figura che stava aspettando nel riflesso. Il giovane che aveva incontrato qualche giorno prima nel negozio stava camminando per la strada con le mani cacciate nel suo cappotto color cammello. Aveva un’aria disinvolta e parve non fare caso a lei.

Emily si affrettò a seguirlo.

Il giovane svoltò in un’altra strada, si fermò ad ammirare una vetrina e poi riprese a camminare.

Continuò così per una decina di minuti, fino a che sostò un poco più a lungo di fronte ad un negozio di giocattoli.

«Hai intenzione di seguirmi ancora a lungo?» le chiese, voltandosi a guardarla.

Lei si sentì avvampare, ma non indietreggiò. Anzi, fece un passo verso di lui e alzò il mento per guardarlo negli occhi. «Devo parlarti».

«Potevi farlo senza pedinarmi» le fece notare e lei scrollò le spalle: «Semplice cautela».

Il ragazzo sollevò le sopracciglia, in attesa, così Emily si schiarì la voce. «Ho fatto un calcolo. Il cibo che abbiamo… preso in quel supermercato mi basterà per quattro giorni. Il tutto con, diciamo, mezz’ora di “lavoro”».

Il giovane strinse gli occhi, come se già avesse capito dove quella discussione sarebbe arrivata. 

«Se lo rendessimo un’attività retributiva?» 

Lui rise, scuotendo il capo. Gli orecchini dorati alle sue orecchie ondeggiarono tintinnando. «Al primo furto già vuoi diventare la regina del crimine? Tesoro, ti sei montata la testa».

Emily arrossì, ma riprese a parlare in tono deciso. «Ascoltami, ci ho pensato. Nel quartiere in cui vivo c’è molta gente disperata. Non sempre può permettersi di comprare quello che viene venduto regolarmente nei negozi. Se noi glielo fornissimo ad un prezzo più basso?»

L’espressione rimase scettica sul volto dell’altro. «Noi?» ripeté. «La ragazzina che chiaramente non conosce la propria taglia e uno sconosciuto? Potrei essere un molestatore per quello che ne sai».

Lei incrociò le braccia al petto. «Sei un molestatore?»

Il ragazzo sbuffò, scuotendo il capo. 

«Ecco, problema risolto» ribatté lei. «Mi hai aiutato l’altro giorno e ti devo un favore».

«Il tuo favore è coinvolgermi in questo tuo assurdo progetto?»

Lei annuì. «Esattamente. Se ti tiri indietro, lo farò da sola».

«Grazie, tesoro, ma sto bene così» rise lui. 

Emily scrollò le spalle e fece per andarsene, quando il ragazzo aggiunse: «E poi sono io che ti ho spiegato come fare. Cosa ci guadagnerei dal rubare insieme a te?»

La ragazza si voltò con un sorrisetto. «Io conosco le persone. So con chi parlare e come convincerli».

Lui la scrutò con i suoi occhi scuri poco convinto. Emily non distolse lo sguardo, ma anzi, gli rivolse un’espressione di sfida.

L’altro sbuffò. «E va bene. Ti concedo una settimana di prova».

«Oh, tesoro» replicò lei, «tu non mi stai concedendo nulla. Ti stai unendo a me e non te ne pentirai».

Gli tese la propria mano. «Sono Emily».

Lui parve esitare un istante prima di stringergliela. Quando lo fece, sul suo viso si aprì un sorriso. «Roman».

 

 

***

 

Presente

 

Quella sera c’erano tutti. Emily fece scorrere lo sguardo lungo l’ampio tavolo ovale che occupava il centro della sala. Si trovavano nell’ufficio di un magazzino, gentilmente concesso da Myers per la riunione. Il padrone di casa sedeva a capotavola, affiancato da un uomo alto e massiccio vestito di nero. Da quando qualcuno aveva attentato alla sua vita mentre cenava al ristorante in compagnia della sua quarta moglie, Myers non si muoveva mai senza la sua guardia del corpo. La sua specializzazione erano le armi, ma non disdegnava di trafficare qualche sostanza stupefacente se l’economia lo richiedeva. Alla sua destra sedeva Miss Ketty, la proprietaria del più famoso locale di burlesque in città. La donna era abituata ad accogliere clienti di tutti i tipi sotto le luci deformanti delle sue sale e, mentre bevevano e si lasciavano andare, così anche le parole fluivano dalle loro bocche senza filtri. Sotto alle luci flebili del magazzino, la parrucca rosa di Miss Ketty pareva zucchero filato.

Alla sinistra di Myers, impeccabile nel suo completo elegante, stava Arthur Lowe, che scrutava gli altri partecipanti con i suoi occhi rapaci. Tra lui ed Emily sedeva Cristiano Flores, appena tornato da una vacanza in qualche località tropicale, a giudicare dal colorito bruno della sua pelle. Emily sentiva il profumo intenso con cui si era cosparso e riusciva a vedere i lucenti stivali di coccodrillo che portava.

Di fronte a Flores, accanto a Ketty, fumava con aria annoiata l’ispettore Fisher. Era un uomo grasso e flaccido, con lo straordinario dono di trovare un posto in cui sedersi in ogni luogo. Non amava muoversi e non amava faticare; forse era stata la sua pigrizia a spingerlo verso l’illegalità fin dai primi anni del suo servizio in polizia. Grazie alla sua doppia vita poteva ottenere il doppio dei risultati con il minimo dello sforzo. Al suo fianco sedevano i fratelli Cruz, Hector alto e ben piazzato, Eddie basso e sottile. La loro specialità era far sparire chi voleva andarsene senza lasciare traccia, ma se la cavavano bene anche come falsari e molti si affidavano a loro per il riciclaggio di denaro. Il resto delle sedie della tavola erano vuote.

Al padrone di casa, toccò l’onore di aprire la riunione. Con la sua voce graffiata e rauca, Myers salutò tutti i presenti. «E diamo il bentornata alla nostra duchessa, che ci ha voluti qui stasera».

Si voltò verso di lei ed Emily lo ringraziò con un cenno del capo. «Grazie per essere venuti, non vi scomoderò più del dovuto. Credo che il problema sia chiaro: qualcuno dei vostri si è dimenticato di comunicare ai miei i nuovi ordini. Sono qui per comunicarvi che il mio trasporto è operativo come al solito».

Setacciò i presenti con gli occhi. Flores e i fratelli Cruz evitarono il suo sguardo, Ketty stringeva le labbra e Lowe tamburellava le dita sul tavolo. 

Fu l’ispettore Fisher a risponderle, sbuffando una nuvola di fumo intorno a sé. «Credo di parlare per tutti se dico che gli ordini non sono arrivati perché non siamo più sicuri di poterci fidare».

Lo sguardo della giovane si fece tagliente. Appoggiò le mani sul tavolo e alzò il mento. «Di me?»

«Non c’è bisogno di scaldarsi, Cassandra. O Emily o come diavolo ti chiami ora» Lowe si voltò verso di lei. «È chiaro che la tua scomparsa da Tridell ha creato preoccupazione».

«Permettimi di dissentire, Arthur. Prima di andarmene mi sono assicurata che i miei affari fossero in ottime mani».

Emily gli rivolse uno sguardo di sfida, come per provocarlo a dire qualcosa contro Roman. Doveva capire chi, lì dentro, avesse cercato di metterle i bastoni tra le ruote. 

Arthur spostò gli occhi verso Myers, che tossicchiò. 

«È vero, all’inizio siamo stati cauti» disse il padrone di casa, «ma poi abbiamo visto tutti cosa è successo a Bergman».

«Ha messo in pericolo il mio braccio destro non comunicando la presenza della pattuglia?» ribatté Emily in tono acceso. 

L’uomo scosse il capo e fu Ketty a rispondere. «Lui si riferisce a quello che è successo dopo».

La giovane fece scorrere gli occhi sui presenti, poi sollevò le sopracciglia. «Vogliamo giocare agli indovinelli o qualcuno me lo spiega?»

Hector Cruz sbatté una mano sul tavolo, facendolo vibrare. «Il tuo fottuto cagnolino è una spia!»

Suo fratello gli posò una mano sul braccio, per calmarlo, ma l’espressione che rivolse a Emily era algida. «Bergman gli ha fatto un torto e due giorni sono andati ad arrestarlo».

«E nessuno mi aveva avvisato» aggiunse Fisher. «Roman ha altri agganci».

Emily non rispose subito. Lasciò che il suo silenzio lasciasse trapelare la sua furia. Quando parlò, lo fece con voce salda. «State dicendo che lavora per la polizia?»

Non riuscì ad impedirsi di arricciare le labbra, sdegnata dalle accuse che stava sentendo. Avrebbe difeso Roman a spada tratta sempre, ma una cosa non le tornava: perché non le aveva detto dell’arresto di Bergman? Quando le aveva raccontato aveva sorvolato la cosa e non era da lui mancare di precisione.

«Ammetterai che le circostanze ci hanno portato a questa conclusione in modo ragionevole» replicò Lowe per tutti.

«Proviamo a riflettere in modo ragionevole tutti quanti» ribatté lei trafiggendoli uno a uno con lo sguardo. «La pattuglia era nel territorio di Bergman. Chi l’aveva informata del passaggio di Roman? Come hanno fatto a riconoscere l’auto? Chi ha causato il sequestro della merce in primo luogo? Qualcuno ha parlato con la polizia, forse Bergman stesso. Il che significa che abbiamo un traditore tra di noi, se non più di uno. E se c’è una cosa che posso promettervi, è che stanerò il traditore e gli farò pagare un prezzo molto caro per il suo volta faccia».

Tacque e guardò le persone intorno a lei. Studiò le loro reazioni, le microespressioni sui loro visi. Qualcuno era preoccupato, qualcuno scocciato, certe rughe manifestavano tensione, altre sfida. 

«Grazie per l’ascolto» concluse e lasciò la sala voltando le spalle a tutti.

 

 

Quando Emily rientrò nella sua camera da letto, Alexander l’attendeva sveglio. Stava scarabocchiando qualcosa seduto sul suo lato del letto, a torso nudo e illuminato da una lampada appesa sopra alla testiera di legno. Appena la vide entrare, ripose il foglio e la matita sul comodino e spostò il piumone per fare spazio a lei. 

«Bentornata».

Emily si spogliò e indossò la sua vestaglia, poi si lasciò cadere sul materasso a fianco dell’uomo.

«Com’è andata?» le chiese.

Lei sospirò e scivolò sul letto fino a che la sua testa fu sul cuscino. «Estenuante. Credono che Roman collabori con la polizia».

«Perché non si fidano di lui dopo tutti questi anni?»

Emily lo guardò. Alex le restituì uno sguardo serio e attento. I suoi capelli erano scompigliati e un ciuffo chiaro gli cadeva sulla fronte. 

«Bergman gli ha fatto un torto e qualche giorno dopo è stato arrestato. E i poliziotti corrotti non ne sanno nulla, il che significa che è stato un arresto in regola».

Alex sgranò gli occhi. Si voltò verso la porta della camera, come per assicurarsi che fosse chiusa, poi scivolò anche lui sul letto fino a stendersi. «Credi che Roman abbia collaborato con la polizia?» mormorò.

Emily strinse le labbra. «Loro lo credono».

«E tu?»

«Ne parlerò con lui». Abbassò gli occhi, pensierosa. Sapeva che Alex la stava guardando in attesa di risposte, ma non era pronta a cercarle neanche per se stessa.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3958117