La Melodia del Cuore

di Miss Demy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dolci, tristi ricordi ***
Capitolo 2: *** Sentirsi viva ***
Capitolo 3: *** Momenti di felicità ***
Capitolo 4: *** Perdonami Usako ***
Capitolo 5: *** Forse... non più ***
Capitolo 6: *** Setsuna ***
Capitolo 7: *** Le cose andranno meglio? ***
Capitolo 8: *** Devo dirti una cosa... ***
Capitolo 9: *** La Melodia del Cuore ***
Capitolo 10: *** Parla con me... ***



Capitolo 1
*** Dolci, tristi ricordi ***


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PARTE PRIMA
Cap 1: Dolci, tristi ricordi


Il ticchettio dell'orologio appeso alla parete della cucina la rendeva nervosa, agitata.
Camminava avanti e indietro per il corridoio sentendo l'ansia crescere. Ogni tanto sospirava, strofinandole mani sulle braccia coperte dalla vestaglia di raso bianca, e ritornava a guardare l'orologio.La casa era al buio, soltanto le luci dei lampioni lungo il vialetto all'esterno della villetta rischiarivano il salotto dove finalmente Usagi si era fermata ad osservare, da dietro le vetrate, la quiete del quartiere.Poggiò la testa al vetro, lasciandosi andare a un senso di malinconia che, inevitabilmente, ogni sei mesi la assaliva.

La canzone 'Rolling in the deep', utilizzata come suoneria del suo cellulare, la fece destare da quel momento di nostalgia, riportandola alla realtà.
Corse verso il mobile dove aveva lasciato il telefono, cercando di farlo smettere di squillare il prima possibile.
Guardò il display prima di rispondere, ma solo per una maggior certezza. Aspettava ormai da qualche ora quella telefonata.
"Pronto" rispose con un filo di voce, cercando di non far scorgere dal suo tono la sua estrema felicità.

 "Sono appena atterrato, Usagi, il tempo di ritirare i bagagli."
Usagi lasciò uscire un sospiro liberatorio, adesso si sentiva sollevata.
"La piccola? Dorme già?"
Usagi si avviò lungo il corridoio fino a quando si ritrovò davanti la porta color noce socchiusa.
Aprendola cautamente e scorgendo all'interno, sorrise:
"Si è addormentata. Ha provato a resistere ma era stanca."
Richiuse la porta con delicatezza, ritornando verso il salotto e sedendosi sul divano con le gambe toniche scoperte rannicchiate al petto.
"Peccato, ci tenevo a darle un bacio" disse con dispiacere l'interlocutore dall'altro lato del telefono.
Usagi dovette trovare tutto il coraggio possibile ma poi, chiudendo gli occhi e facendosi forza, osò:
"Senti, sarai stanco dopo tutte le ore passate in volo... potresti passare lo stesso per darle il bacio e restare qui."
L'interlocutore sorrise: "Speravo me lo chiedessi"
e Usagi sentì che il suono di quelle parole piene di gioia le aveva procurato uno strano e piacevole calore nel cuore.
"Ti aspetto Mamoru" disse con dolcezza sentendo il suo cuore battere forte. Forse troppo per quello che in realtà avrebbe dovuto.
Riattaccò la telefonata, portando il cellulare al cuore e lasciandosi cadere su un fianco fino a sdraiarsi con l'altro braccio dietro la testa.
Il sorriso sul suo candido viso sparì di nuovo; i suoi occhi, azzurri e limpidi come il cielo di una giornata di primavera, tornarono spenti e leggermente lucidi.
Rannicchiandosi su se stessa un pensiero frequente le tornò in mente. Un pensiero triste che l'aveva lasciata sveglia tante, troppe volte, negli ultimi quattro anni, spesso togliendole la voglia di alzarsi al mattino o la forza per affrontare le giornate. Ma poi le era sempre bastato guardare il visino paffuto, incorniciato dai capelli rosa, le era stato sufficiente udire le risa divertite di quel piccolo tesoro che giocava in giardino con gli occhi nocciola pieni di sfumature rosse, che brillavano pieni d'entusiasmo, per trovare le energie e quella grinta necessaria per andare avanti. Era lei, la sua piccola Chibiusa a farle capire quale fosse la sua ragione di vita, la fonte della sua felicità, il motivo per cui - nonostante fosse sempre stata sola ad affrontare tutte le grosse responsabilità e a prendersi cura della bambina - avrebbe rifatto tutto, senza rimpianti né ripensamenti, senza cambiare nulla, senza pensare che forse, senza quella bambina, anche la sua vita sarebbe potuta essere come quella delle sue amiche.

 

E così, per un paio di minuti, la mente la riportò a sei anni prima...

30 Giugno - Tokyo


 

Quel giorno, per il suo sedicesimo compleanno, le sue amiche avevano organizzato una fesa a sorpresa.

In fondo Usagi era il loro punto di riferimento. Era lei che era riuscita a formare un gruppo molto affiatato mettendo assieme le quattro ragazze dai caratteri molto diversi in apparenza.
Ami era la studiosa del gruppo, dolce e sensibile; Rei, la sacerdotessa del tempio scintoista, era la più disciplinata e spesso era questo uno dei motivi di battibecchi con Usagi, da sempre la più svogliata e pigra. Makoto era famosa per la sua forza e per i suoi dolci. E poi c'era Minako, bella, apparentemente un po’ snob ma in realtà tenera e sognatrice ad occhi aperti. E Usagi, con la sua allegria e la sua vitalità era riuscita a legare le quattro ragazze accomunate dal sincero sentimento chiamato Amicizia.

Avevano organizzato la festa al tempio di Rea, invitando molti compagni di classe e d'istituto.
Ovviamente l'invito era stato esteso anche a Motoki, il gestore della sala giochi Crown, nonché amico delle ragazze.
In realtà Minako e Makoto speravano che, durante la festa, una di loro potesse riuscire ad essere invitata a ballare dal bel biondo e, perché no, che dall'amicizia potesse passarsi a qualcosa di più.
Le ragazze avevano pensato di invitare anche lui, Mamoru Chiba, considerato il più bello e intelligente di Tokyo da molte studentesse. Era un universitario e tutte le ragazze speravano di poter ottenere un appuntamento magari iniziando dalla scusa di un aiuto con lo studio.
Mamoru però era molto riservato, sempre sulle sue. Era rimasto orfano a causa di un incidente stradale, cresciuto solo e costretto a farsi coraggio e ad affrontare la vita con le sue sofferenze senza affetto, senza conforto. Tutte le situazioni che gli erano capitate lo avevano portato a crearsi una corazza per difendersi dal mondo crudele.
Lui e Usagi si incontravano spesso al Crown, spesso si punzecchiavano; a lui divertiva chiamarla 'Odango Atama' a causa dei lunghi codini che lei soleva portare e lei ricambiava le provocazioni del bel ragazzo moro dagli occhi blu oceano soprannominandolo 'baka'.
In realtà non c'era cattiveria nei loro punzecchiamenti. A Usagi in fondo piaceva sapere che lui le prestava attenzioni, anche se quel nomignolo proprio non lo reggeva, sapeva che tante ragazze avrebbero fatto di tutto per attirare le attenzioni del ragazzo che lei riusciva ad avere senza volerlo.
Pian piano quel nomignolo le era persino diventato simpatico, familiare ed era uno dei motivi per cui non cambiava pettinatura. Credeva e temeva che, se lo avesse fatto, lui non avrebbe più potuto prenderla in giro e avrebbe rivolto le sue attenzioni altrove.

Motoki e Mamoru arrivarono al tempio con un pacchetto regalo ciascuno.
Quando Usagi aprì le porte scorrevoli del tempio, credendo che le sue amiche l'aspettassero per studiare, rimase senza parole, commossa, felice.
Per fortuna quella sera aveva indossato un vestitino leggero rosa con le bretelline fucsia; le scarpe rosa con un fiocco bianco al centro la facevano sembrare più alta di qualche centimetro.

Anche se avrebbero dovuto solo studiare, quel giorno voleva sentirsi più grande, più bella. Anche soltanto per se stessa.

Una volta entrata, le sue amiche si catapultarono su di lei augurandole buon compleanno.
Quando le fu possibile riprendere fiato dopo che le quattro ragazze si allontanarono, Motoki e Mamoru le si avvicinarono.
Usagi sentì una strana sensazione quando Mamoru le augurò buon compleanno baciandole la guancia.
Il cuore iniziò a batterle forte e temeva che Mamoru potesse notare le sue gote che all'improvviso sentiva calde.
I suoi occhi brillarono quando le diede il suo pacchetto regalo e, quando incrociò gli occhi del ragazzo, poté affermare che qualcosa nel suo sguardo era diverso, nuovo.
Ne ebbe la conferma quando lui le chiese di ballare, dopo che Minako aveva acceso lo stereo inserendo un cd molto romantico sperando in un invito di Motoki.
Durante il ballo si lasciò trasportare dalle braccia muscolose di Mamoru, emozionandosi al solo contatto delle mani di lui sui suoi fianchi.
Lei gli poggiava le mani sulle spalle coperte da una camicia di lino bianco e si perdeva nel suo sguardo, sperando che il tempo si fermasse in quel momento.
Da quell’istante in poi non le sarebbe importato più del nomignolo stupido; da quel momento in poi lui avrebbe potuto chiamarla in qualunque modo preferisse. Non le sarebbe più dispiaciuto, non le avrebbe più dato fastidio, perché quella sera, durante il ballo, lui le aveva fatto il regalo più bello che lei avesse mai potuto desiderare.
Le aveva detto: "Stasera sei molto carina Odango Atama", e lei era diventata dello stesso colore delle bretelline del suo vestito, abbassando lo sguardo, imbarazzata, e provocando in un lui un sorriso.
Da quel giorno i loro litigi erano diminuiti e i momenti passati assieme aumentati.
Lui l'aveva invitata alcune volte al parco, approfittando della sua golosità, per prendere un gelato e quando la riaccompagnava a casa si limitava a chinare il capo in senso di saluto rispettoso.
Poi, un giorno, durante una passeggiata Usagi, distratta dal chiosco dei gelati, stava per inciampare ma lui tempestivamente l'aveva sorretta e lei si era d'istinto aggrappata a lui cingendogli la schiena.
Era stato un attimo, un secondo che però aveva dato finalmente ad entrambi la possibilità di farsi coraggio.
Lui non la lasciò uscire dal suo abbraccio neanche quando lei aveva ritrovato l'equilibrio e Usagi, con le gote rosse e il respiro sempre più corto, era rimasta ad osservare i suoi occhi scorgendovi una nuova luce.
Lui aveva sorriso e poi staccato una mano dalla schiena di Usagi. Per un attimo lei si era sentita un'illusa, capendo che forse si era fatta troppi 'film' in testa e che lui non avrebbe mai provato nulla per una ragazzina buffa cinque anni più piccola di lui dato che poteva avere tutte quelle che desiderava.
Ma quella riflessione durò fin quando lui posò la mano sotto il mento di lei, facendole alzare lo sguardo.
I loro occhi rimasero attratti e Usagi sentì il suo cuore esplodere, un’adrenalina percorrerla per tutto il corpo e la felicità estrema farla sentire la ragazza più fortunata dell’intero Universo. Chiuse gli occhi piano e dopo qualche attimo riuscì ad assaporare le labbra carnose e umide di Mamoru sulle sue. Fu un bacio dolce, tenero, casto.
Casto fin quando lei gli cinse il collo con le braccia, stringendosi di più a lui come a fargli capire che non voleva che quel momento finisse.
Fu allora che Mamoru, prendendo il suo viso fra le mani, dischiuse le labbra, accarezzando la lingua di Usagi con la propria. A Usagi non dispiacque, anzi, ricambiò quel bacio come se per lei fosse tutto naturale, spontaneo, iniziando a sciogliersi e a rilassarsi sempre di più.

Trascorsero l’estate assieme. Usagi sentiva di provare per Mamoru un sentimento che cresceva ogni giorno di più. Era arrivata alla conclusione di amarlo, di essere perdutamente e follemente innamorata di lui. La sera ascoltava la melodia del carillon a forma di stella che lui le aveva donato per il suo sedicesimo compleanno e, pensando a Mamoru, si diceva che avrebbe fatto di tutto. Per lui, per loro; sperando e immaginando il giorno che lui le avrebbe detto ‘Ti amo’. Lei lo amava ma non sapeva se lui, nonostante stesse bene con lei, ricambiava il sentimento. Non capiva se il fatto che non glielo avesse detto dopo due mesi di coppia fissa, dipendesse dal fatto che Mamoru fosse troppo chiuso per manifestare i propri sentimenti più profondi o se, semplicemente, non li provasse e basta.

Un giorno, i primi di Settembre, lui le chiese di raggiungerlo nella sua piccola villetta dicendole che doveva parlarle e lei si precipitò di fretta e furia sperando che volesse manifestarle il suo sentimento più puro dicendole che la amava. Sognò la scena ad occhi aperti mentre correva per le vie di Tokyo.
Lui l’avrebbe abbracciata, le avrebbe dato un bacio e le avrebbe detto che la amava e che non voleva vivere senza di lei. E lei gli avrebbe dimostrato che sarebbe stata sua e soltanto sua per sempre, donandosi a lui non soltanto con i baci e le carezze o le parole affettuose. No. Gli avrebbe donato la sua ingenuità, la sua purezza. Era da un po’ che avrebbe voluto sentirsi sua fino in fondo, concedendosi al ragazzo che amava. Voleva la sua prima volta con Mamoru. E non solo la prima. Voleva che fosse lui il primo e l’ultimo ragazzo della sua vita. L’unico a cui avrebbe concesso di guardarla senza veli, di toccarla in alcune parti del suo corpo. Voleva tutto ciò ma avrebbe aspettato fin quando non avesse avuto la prova che anche lui l’amava.

Arrivò nella piccola villetta circondata da un bel giardino con piccoli arbusti di rose rosse, affannata.
Dopo averle offerto del the freddo le parlò:
“Ho vinto una borsa di studio a New York. Il mio professore dice che è un’opportunità unica per fare carriera dopo la laurea in medicina. Finirò lì i miei studi e inizierò il tirocinio.”
Il cuore di Usagi si era frantumato già al suono della parola ‘New York’ e il suo mondo, in cui esistevano solo lei e Mamoru era crollato dopo il termine ‘finirò’.
Inizialmente incredula, speranzosa che si trattasse di un incubo, si era poi ritrovata gli occhi lucidi prima, e con le guance rigate dalle amare lacrime un attimo dopo.
Aveva cercato di asciugarle più in fretta possibile affinché lui non le notasse, ma invano.
Lui le si era avvicinato, l’aveva fatta alzare dal divano e l’aveva abbracciata forte e Usagi in quel momento, non curandosi della figura che avrebbe fatto, iniziò a piangere senza tregua.
Lui le aveva accarezzato i capelli e poi le aveva detto, con un sussurro all’orecchio:
“Ti porterò sempre nel cuore, mia piccola Usako.”
Non aveva detto “Ti amo” e sapeva che forse, una volta partito per gli USA, non lo avrebbe più rivisto.
Ma Usagi lo amava, dal profondo del cuore, dalla parte più nascosta e intima della sua anima.
Era stato il termine Usako a riscaldarla dalla gelida sensazione provata a seguito di quella maledetta notizia.
Non le importava se lui non glielo avrebbe mai detto, lei non poteva vivere col rimpianto per colpa del suo orgoglio:
“Non ti dimenticherò mai, mio amato Mamo-chan.”
Al suono di quelle dolcissime parole malinconiche Mamoru sorrise, dispiaciuto:
“Mi dispiace che debba andare così. Non avrei mai voluto farti soffrire ma per me è davvero troppo importante questa opportunità.”
Usagi scosse la testa, avrebbe tanto voluto sentirgli dire che non l’avrebbe lasciata, che avrebbe rinunciato alla borsa di studio e a tutte le strade spianate per lei. Ma sapeva che non lo avrebbe fatto e lei, se egoisticamente avrebbe voluto implorarlo di non lasciarla da sola, capì che amore significava rendere felici l’altra persona. E lei voleva che Mamoru fosse felice di vivere la propria vita senza rimpianti, di scegliere la propria strada senza condizionamenti. Lei lo amava tanto, troppo.
Non rispose, lo strinse forte a sé, cercando di memorizzare quel contatto, quella sensazione, quell’odore di lui che già sapeva le sarebbe mancato. L’unica cosa che poteva fare era imprimere tutto nella sua memoria, per i giorni in cui i ricordi sarebbero stati l’unica cosa che l’avrebbero legata al suo Mamo-chan.
Lui iniziò a baciarla, pieno di passione, accarezzandole i fianchi e la schiena. Lei si sentì strana, triste ma allo stesso tempo felice. Erano soltanto loro due, come aveva sempre sperato e desiderato. E questo era tutto ciò che in quel momento contava.

Le carezze di Mamoru divennero sempre più insistenti, più bramose di quel corpicino magro, tonico con le forme appena accentuate. Usagi aveva un bel corpo per essere una sedicenne. E quel giorno, la gonnellina turchese plissettata e il top bianco sagomato sui fianchi e leggermente scollato, misero Mamoru davanti al fatto che Usagi era bella, piccola ma bella e sentì un senso di gelosia al solo pensiero che presto, quando lui sarebbe stato lontano, qualcuno l’avrebbe avuta per come voleva averla lui.
Iniziò a baciarle le guance, facendole inclinare indietro la testa per poterle baciarle il collo e il petto.
Usagi lo strinse forte a sé, felice che anche lui volesse sentirla, volesse viverla e farla sentire viva.
La guardò negli occhi, pieno di desiderio, col respiro spezzato:
“Ti voglio Usako.”
E Usagi sorrise felice, lasciando scivolare una lacrima sulla guancia che Mamoru raccolse in un bacio dolce ma sensuale.
La sollevò da terra e lei cinse le sue gambe sul busto di Mamoru fin quando non si ritrovò adagiata sul suo letto.
Sapeva bene che sarebbe stata la prima, forse non l’unica volta, ma che poi presto quel ricordo l’avrebbe fatta soffrire quando la mancanza di lui sarebbe diventata sempre più difficile da sopportare.
Non le importava, non si sarebbe mai pentita. Lei lo amava. Voleva che fosse lui il primo. Se non poteva donarsi a lui non lo avrebbe voluto fare con nessun altro.
Quella sera fecero l’amore. L’imbarazzo e il dolore iniziale lasciarono presto spazio solo alla curiosità e alla voglia di crescere, di sapere che una parte di lui sarebbe stata per sempre con lei.
Magari solo nella sua memoria, come un ricordo, ma di certo sarebbe stato il ricordo più dolce che avrebbe portato per sempre nel suo cuore.
Per Usagi fu la prima volta che aveva sempre sperato, specialmente perché era accaduta con il ragazzo che amava e che avrebbe sempre amato.


A metà Settembre Mamoru partì, la sofferenza provata da Usagi fu tremenda. Il distacco atroce. Non riuscì più a mangiare, né aveva voglia di svegliarsi al mattino, neppure quando le amiche la chiamavano per andare al Crown.

Tutto le ricordava Mamo-chan. Voleva dormire fin quando lui sarebbe tornato. Ma sapeva che ciò non sarebbe accaduto. Lui non aveva genitori o parenti da venire a trovare nelle feste. Si sarebbe creato una nuova vita nella City, probabilmente avrebbe trovato anche una ragazza. E questo pensiero la uccideva.
Ogni tanto, quando era sola a casa gli telefonava.
Lui le raccontava in breve ciò che faceva e il suono della sua voce la rasserenava fin quando chiudeva la telefonata e ricadeva nel baratro del dispiacere.

I primi di Ottobre durante l’ora di educazione fisica, Usagi ebbe un primo svenimento, pensò che era dovuto al fatto che mangiasse poco in quel periodo ma iniziò ad allarmarsi quando il ciclo che attendeva ad Ottobre non giunse.
Ami la portò dalla madre, un medico e lì, sul lettino dello studio della dottoressa Mizuno, con Ami che le teneva la mano, scoprì di aspettare un bambino.

I suoi non la presero bene. Suo padre si infuriò e sua madre, sempre comprensiva, quella volta non l’appoggiò.
Lei aveva una vita davanti, era giovane e il padre del bambino neppure sapeva al riguardo. Non volevano che buttasse all’aria tutte le opportunità che la vita le avrebbe riservato. Per i figli ci sarebbe stato tempo.
La costrinsero ad abortire ma Usagi non volle sentire ragioni, neanche quando suo padre le disse:
“Se non abortisci te ne andrai via di casa, così capirai che significa voler giocare a fare i grandi e quanto sia difficile il mondo fuori dalle quattro mura domestiche.”
Usagi era sconfortata, spaventata, piena di dubbi.
Prima Mamoru che se ne andava, poi i suoi che la ricattavano a modo loro per il suo bene.
L’unica cosa che sapeva è che non avrebbe mai tolto la vita al frutto dell’amore che provava per Mamoru.
Quella piccola creatura era parte di lei, di lui. Insieme.
Magari non ci sarebbe mai stato nessun mondo soltanto per lei e Mamoru. Ma c’era quella giovane vita dentro di lei a ricordarle che Mamoru, in un modo o nell’altro, sarebbe sempre stato parte di lei.

E così, con le valigie in mano e i suoi genitori affranti dal dolore sull’uscio di casa, andò via.
Inizialmente Rei le offrì ospitalità e Motoki la assunse al Crown.
Un giorno fu proprio Motoki a suggerirle di dirlo a Mamoru. Era giusto che lui sapesse e, se lei inizialmente aveva pensato di non rivelargli della gravidanza per timore che ciò potesse rovinare la vita e la carriera che tanto Mamoru desiderava da sempre, capì che non poteva nascondergli una cosa del genere. Lei lo amava, avrebbe fatto di tutto per lui, per renderlo felice e temeva che quella notizia la avrebbe fatta risultare agli occhi del suo Mamo-chan una ragazzina guastafeste. Lui non era come lei. Se a Usagi la scuola non era mai sembrata così importante come i grandi o le stesse amiche le dicevano e se il suo sogno era quello di diventare una buona moglie e madre; il sogno di Mamo-chan era diventare un bravo medico. E lei non glielo avrebbe rovinato.

Aveva preparato il discorso mille volte, lo aveva scritto su un foglio per timore di dimenticarlo non appena udita la sua voce.
Quando riuscì a dargli quella notizia, non udì risposta, inizialmente. Si sentì una stupida e temette che quel rapporto di amicizia che era rimasto con lui si fosse improvvisamente concluso.
Poi lui aveva iniziato a parlare dopo aver realizzato bene il significato di quella notizia dicendo:
“Non posso lasciare New York. Sappi che mi prenderò tutte le responsabilità di padre, verrò a vedere il bambino tutte le volte che potrò, starete nella mia villetta che per fortuna non sono ancora riuscito a vendere. Ma non posso lasciare New York. Non per il momento, almeno.”
Delle frasi dette così, tutte d’un fiato, forse per timore che lei potesse interromperlo o che la linea telefonica potesse cadere prima che lui avesse terminato di parlare.
Fatto sta che Usagi da una parte si sentì rincuorata del fatto che Mamoru non la odiasse – chissà perché poi avrebbe dovuto – e che si sarebbe assunto le sue responsabilità riconoscendo il bambino. Il loro bambino.
Però odiava New York, detestava gli USA sempre di più.
Voleva essere lei l’unica Usa per lui. Perché era così difficile per Mamo-chan capirlo?

E così, passarono i mesi e arrivò il suo diciassettesimo compleanno. E se il regalo più bello del compleanno precedente era stato il complimento di Mamoru, quello di quel compleanno fu la bambina, frutto dell’amore per Mamoru, che diede alla luce.
Quel giorno era stato il più bello di tutta la sua vita.
Si era da qualche settimana trasferita nella villetta di Mamoru.
Non che Rei non fosse stata ospitale o che non l’avesse trattata come una sorella, semplicemente era stato Mamoru che, tornato in vista del parto, le aveva detto che desiderava tanto che si trasferisse da lui.
Era il suo modo per fare capire a Usagi che voleva davvero essere un padre responsabile e, per quanto possibile, presente.
Usagi aveva rifiutato ma lui insistito:
“Voglio che viviate da me, ti prego Usako, è importante per me” le aveva detto prendendo le sue mani, ormai gonfie, tra le proprie.
Mamoru desiderava tantissimo diventare un buon medico ma voleva anche essere un buon padre.
Alla fine Usagi aveva accettato e lui aveva detto: “Ogni volta che potrò verrò a vedere la bambina e, se quando verrò non avrai un ragazzo magari potrò restare a dormire, altrimenti andrò in hotel.”
Quando nacque la bambina, la chiamarono Usagi.
Lo aveva scelto Mamoru quando si era ritrovato quella piccola bimba fra le braccia. Il nome gli era venuto spontaneo non appena aveva notato, con molta sottigliezza, la somiglianza con la sua Usako. Sarebbe stata la loro Chibiusa. Loro. Soltanto loro.

Ogni sei mesi, in vista delle feste, riusciva ad ottenere dei permessi. Tornava in Giappone e cercava di recuperare il tempo perduto con la bambina.
Usagi aveva ormai realizzato che tra lei e Mamoru non ci sarebbe mai stato nulla. E forse era meglio così. Ogni volta che ripartiva per NYC si sentiva svuotata dentro. Per i giorni successivi, prima di trovare il coraggio di lavare le lenzuola su cui aveva dormito Mamoru, passava lunghi momenti a sentire il suo odore impregnato nel cotone, accarezzando il lenzuolo e immaginando che Mamoru fosse lì. Ma lui era già partito. Inevitabilmente soffriva ma poi, capiva che doveva andare avanti e farsi forza.

Il rumore del taxi che si accostava davanti alla villetta la fece svegliare da quei dolci e tristi ricordi.
Quando sentì lo sportello dell’auto chiudersi, si alzò di scatto dal divano avvicinandosi alla vetrata.
Sorrise d’istinto, sentendo un lieve e piacevole calore al cuore.
Aprì la porta d’ingresso prima che lui potesse suonare, sapeva non lo avrebbe fatto per non svegliare la bambina.
Quando lui ebbe pagato il tassista, con la valigia in mano, si avvicinò sempre di più a lei, fin quando non se la ritrovò ad un passo da sé.
Usagi lo guardava con occhi luminosi e colmi di gioia, cercando di nascondere tutto il suo entusiasmo.
Poteva vedere davanti a sé non più un ragazzo, ma un uomo.
Il viso era sempre quello ma i lineamenti, ogni volta che rivedeva Mamoru, più maturi; la barba rasa due giorni prima lo rendevano più grande, agli occhi di Usagi più affascinante e dannatamente irresistibile.
E lei cercò di resistere anche quando lui, sorridendo con occhi stanchi ma felici, lasciò il manico della valigia per stringerla a sé e sussurrarle all’orecchio:
“E' bello poterti riabbracciare, Usako.”



Il punto dell’autrice

Cari lettori, spero che questo primo capitolo vi abbia incuriosito.
Come avrete notato è la prima volta che uso i nomi originali. Diciamo che mi ci sto affezionando grazie al manga! E poi mi serviva Usa per il gioco di parole con gli USA ;)
So che molti magari non approveranno la scelta di Marzio di restare in America, ma se ciò non avvenisse, la storia finirebbe prima di cominciare!
Questo primo cap. serviva per far capire cos’è accaduto in passato in modo da rendere chiare le vicende che saranno narrate nei cap. seguenti!
Fatemi sapere cosa ne pensate, ve ne sarei grata!
Un grazie sincero lo devo alla bravissima CharlieWeasley per aver realizzato il logo per 'La melodia del cuore' con tanta pazienza e molto piacere! Grazie mille!!
Un bacio e a presto!

Demy

 

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Capitolo 2
*** Sentirsi viva ***


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Cap 2: Sentirsi viva

Usagi avrebbe dovuto resistere, se lo era imposta  per tutto il giorno, o meglio, dal giorno in cui lui - una settimana prima - le aveva telefonato sia per parlare con Chibiusa che per dirle che sarebbe tornato per due settimane.
 

Quel giorno per lei era sembrato non terminare mai.
E l’agonia era continuata quando lui le aveva telefonato avvertendola che l’aereo avrebbe ritardato a decollare.
Erano sette mesi che non lo vedeva e quell’ora d'attesa in più le sembrava non passasse mai.
Se lo era ripromessa; sarebbe rimasta calma senza rendergli visibile il suo entusiasmo, senza fargli capire che, nonostante fossero trascorsi ormai cinque anni, lei non aveva mai smesso di amarlo, anzi, forse lo amava più di prima e quel piccolo tesoro di nome Chibiusa avrebbe sempre fatto sì che lei – pur volendo – non riuscisse a dimenticarlo.
 
Ma lui era rimasto lì, sull’uscio, a guardarla con occhi felici, come se avesse appena visto la cosa più bella in assoluto, di quelle che neanche la City avrebbe mai potuto offrire.
Aveva lasciato la valigia e, posandole una mano sul fianco, l’aveva spinta a sé con dolcezza per stringerla forte e sentirla. Sentirla di nuovo.
 “È bello poterti riabbracciare, Usako” aveva detto con un sospiro che sembrava una calda carezza sul suo collo.
Usagi non ce l’aveva fatta, era stata debole e fragile, come sempre d’altronde. Come ogni sei mesi.
Approfittò della scusa che lui la stesse salutando per far finta di voler solo ricambiare l’abbraccio.
Gli portò le braccia sulla schiena, stringendo fra le mani la giacca verde militare del ragazzo, alzandosi sulle punte e poggiando il viso nell’incavo della sua spalla.
“Ben tornato, Mamo-chan.”  
E lì, nella penombra dell’uscio di quell’abitazione che odorava di casa per entrambi, lei poté finalmente sentire quell’odore che le era mancato davvero tanto negli ultimi sette mesi ma che era sempre rimasto impresso nella sua memoria.
 
La piccola Chibiusa, per l’entusiasmo di poter finalmente rivedere il suo papà, si era svegliata più volte da quando Usagi le aveva rimboccato le coperte e, dalla porta semi chiusa riuscì a percepire la luce che proveniva dall’esterno.
Si era alzata dal letto e, stropicciandosi gli occhi con le mani, si era fermata sulla soglia della porta della sua stanza, vedendo che alla fine del corridoio, il papà era appena arrivato e stringeva fra le braccia la sua bellissima mamma avvolta solo da una vestaglia di seta bianca.
Quanto le piaceva osservare quella scena. Le sapeva di unione, di famiglia. Una di quelle che spesso invidiava ai suoi compagni d’asilo.
Un sorriso le si allargò sul visino e, istintivamente, corse verso il ragazzo, felice:
“Papà, papà!”
I due ragazzi rallentarono l’abbraccio, per poi scioglierlo del tutto.
Usagi tornò sulle piante dei piedi, scalzi, e Mamoru si chinò per abbracciare la piccola e prenderla in braccio.
Chibiusa strinse le braccine attorno al collo del padre e questi le spettinò di proposito i capelli, lunghi fino alle spalle, potendone sentire la morbidezza.
“Mi sei mancata Chibi-chan” disse commosso dandole un bacio sulla guancia.
“Finalmente sei tornato, papà! Mi sei mancato tanto, tanto!”
 
Per Usagi quella era una scena disarmante; vedere il suo amato Mamo-chan stringere la loro bambina, di Mamoru e sua, le riempiva il cuore di gioia infinita.
Ogni volta che lui abbracciava, accarezzava, baciava dolcemente loro figlia, Usagi poteva sentire una parte di quell’affetto rivolto a lei. E anche se desiderava tanto, con tutta se stessa, che le cose andassero diversamente tra lei e il suo Mamo-chan, quell’affetto che sarebbe stato per sempre rivolto a lei, solo a lei, le bastava.
Almeno, si auto convinceva che le sarebbe bastato.
 
Mamoru entrò in casa con Chibiusa in braccio, che non accennava a voler lasciare il suo papà, e la valigia nell’altra mano.
Usagi richiuse la porta e solo quando sentì lo scatto, mettendo il chiavistello, come faceva tutte le sere, poté affermare di sentirsi finalmente felice. Dopo sette mesi era di nuovo felice.
 
“Mamma, per favore domani posso non andare all’asilo?”
La piccola lo aveva chiesto con sguardo da cucciolo supplichevole, in braccio al padre.
Usagi sorrise, avvicinandosi alla sedia sulla quale era seduto Mamoru, e chinandosi a dare un bacio sulla fronte della figlia:
“Vediamo cosa ne pensa papà.”
Usagi sapeva di essere l’educatrice della piccola e capiva che Chibiusa considerava lei l’unica a cui chiedere il permesso per tutte le cose che credeva lo richiedessero.
Ma a Usagi piaceva, durante le settimane che Mamoru era con loro, che Chibiusa riconoscesse anche lui come padre a tutti gli effetti.
Non solo un padre che portava regali da NYC o che giocava facendola divertire, ma un educatore a cui chiedere permessi e da ascoltare durante i rimproveri.
E Mamoru lo apprezzava tanto. Lui stimava la sua Usako davvero tanto.
Chibiusa si voltò di scatto verso il padre che la guardò con  tenerezza.
“Solo se ora torni a dormire, sono le 00.30.”
La bambina annuì contenta. L’indomani avrebbe potuto passare l’intera giornata con entrambi i suoi genitori.
Mamoru si alzò e, tenendola in braccio, la portò nella sua cameretta, rimboccandole le coperte e dandole un bacio sulla fronte.
Usagi era rimasta con la testa poggiata sullo stipite della porta, le mani sulle braccia incrociate al petto e un sorriso pieno di dolcezza sulle rosee labbra.
Quando Mamoru si alzò dal letto della bambina, indietreggiò per permettergli di socchiudere la porta.
“’Notte Chibi-chan” le disse prima che Mamoru potesse spegnere la luce dall’interruttore posto accanto alla porta.
“’Notte mammina.”
Solo quando la porta fu socchiusa, allontanandosi verso la cucina, Mamoru chiese:
“Ti và di parlare un po’ o sei stanca?”
Usagi scosse  la testa, con occhi luminosi, felice di restare a parlare un po’ col suo Mamo-chan:
“No, non sono stanca, vieni, preparo qualcosa da bere” disse avviandosi in cucina.
 
Mamoru prese posto sulla sedia dove poco prima era stato seduto con la figlia in braccio.
“Preparo un the o preferisci qualcos’altro?”
“Preferirei una birra se ce ne sono” rispose lui alzandosi e aprendo il frigo.
Ne tirò fuori una e Usagi gli porse l’apribottiglie.
Lei era rimasta poggiata sul bancone, osservandolo e notando che Mamoru era davvero diventato un uomo. Il suo viso più marcato, la sua voce più dura, il suo corpo più muscoloso…
Tutto faceva di Mamoru l’uomo che lei amava e a cui non voleva dover resistere. L’uomo a cui non avrebbe mai voluto dover rinunciare.
Mamoru bevve un sorso e si avvicinò a Usagi, prendendo una ciocca di capelli che le scendeva sul seno.
“Ormai li porti così?” chiese lui e solo allora lei si ricordò di avere i capelli ancora raccolti in una pinza per capelli.
Li sciolse immediatamente, scombinandoli per cercare di dar loro volume, credendoli ormai appiattiti e orrendi agli occhi di Mamoru.
Lui bevve un altro sorso e, sfiorando con le dita della mano libera una ciocca dei biondi e lunghissimi capelli:
“Sei diventata davvero bellissima, Usako.”
Ma Usagi abbassò lo sguardo, arrossendo e sentendo dentro si sé una stretta al cuore.
Lui sorrise, vedendo come un suo complimento, a distanza di anni, riuscisse ancora ad imbarazzarla.
Approfittò degli occhi bassi della ragazza per far scendere lo sguardo su tutto il corpo di lei e realizzare che Usagi, la sua Odango Atama, era diventata una donna.
Non erano solo le responsabilità di cui si era sempre dovuta fare carico negli ultimi quattro anni.
Era il suo corpo che, come giusto che fosse, era cambiato.
Le appena pronunciate forme di cinque anni addietro erano diventate forme prosperose da far invidia a tante ragazze; la vita asciutta e le gambe toniche scoperte per metà da quella vestaglia di raso bianco, avevano fatto notare a Mamoru una Usagi ancora più bella di come la ricordava.
 Ogni volta che tornava, la trovava più bella, più matura.
 
Posò la birra sul bancone poggiando la mano sul bordo, accanto al fianco di Usagi, e portò l’altra mano sotto il mento della ragazza, facendole alzare lo sguardo:
“Che c’è? Ti vergogni?” le sussurrò prima di avvicinare il viso a quello di lei e darle un bacio sulle labbra. Un bacio dolce, tenero, durato qualche attimo ma sufficiente a Usagi per inebriarsi di quel sapore di birra unito all’odore di Mamoru.
Non aveva avuto neanche il tempo di realizzare l’accaduto che lui aveva già allontanato le sue labbra carnose  e umide dalle proprie.
Accadeva, ogni tanto, che lui le si avvicinasse per darle uno di quei baci dolci che riservava alla madre di sua figlia.
E Usagi non era per lui solo la madre di sua figlia; Usagi era la ragazzina di cui si era innamorato quando aveva ventuno anni.
 
Glielo avrebbe voluto dichiarare ma poi era arrivata quella lettera dagli USA e aveva deciso di non dirle nulla, seppur lei gli avesse mostrato e dimostrato i suoi sentimenti.
Ma per Mamoru amare significava cercare di non farla soffrire e se glielo avesse detto, poi per lei sarebbe stato più difficile dimenticarlo. Così come lui voleva realizzare i sui sogni, anche Usagi meritava la felicità.
Ma allora perché prenderle la sua purezza? Non lo sapeva in quel momento, sapeva solo che lei era lì in casa sua e lo amava.
E lui amava lei. E inoltre la desiderava, voleva saperla sua, sua e di nessun altro, e ricordare quel momento ogni volta che avrebbe avvertito la sua mancanza. E così fu.
L’ipotesi ‘Chibiusa’ non era stata considerata durante quel momento di amore e di passione ma, non appena ne ebbe notizia, nonostante tutto ciò che avrebbe comportato, ne fu contento.
Anche se Usagi lo avesse dimenticato e si fosse fidanzata con un altro ragazzo, una parte di lei sarebbe stata sua per sempre.
  
Dopo quel bacio, Usagi non rispose alla domanda. Cosa avrebbe potuto dire d’altronde? Che lo amava e il solo saperlo nella sua stessa stanza, ad un passo da lei, la rendeva tremendamente agitata? Che sapere che l’uomo per lei più irresistibile al mondo e di cui era follemente innamorata la considerasse bella la faceva sciogliere come neve al sole? Che quei baci dolci che lui le dava di tanto in tanto le facevano esplodere il cuore per poi farglielo fermare non appena lui ritirava le labbra dalle proprie? No, non poteva dirgli tutti i suoi pensieri e le emozioni che lui, soltanto lui, era capace di farle provare.
 
Mamoru tornò a sedersi dopo aver ripreso la bottiglia in mano.
Notò l’effetto che, nonostante lei cercasse di nascondergli, provocava in Usagi e cercò di rallentare la tensione:
“Allora, che mi racconti di nuovo?”
Usagi alzò le spalle, portando le mani ai bordi del bancone:
“Il mese scorso finalmente ho preso il diploma. Devo ancora andare a ritirarlo, a proposito.”
“Lo sai che ti stimo davvero tanto, vero Usa?”
Un sorriso malinconico le uscì spontaneo, annuii:
“Hai visto? Anche se ho dovuto abbandonare per un po’ la scuola, alla fine ce l’ho fatta…”
Mamoru sorrise, fiero.
Bevve un sorso di birra e, battendo piano un pugno sul tavolo chiese:
“Per il resto? Che si dice al Crown?”
Usagi sapeva che il pugno sul tavolo significa che Mamoru era nervoso. Era il suo modo di lasciar uscire la tensione. Ormai lei lo conosceva bene il suo Mamo-chan, anche se poteva vederlo solo due volte l’anno, massimo tre quando Mamoru riusciva ad ottenere un permesso speciale.  
“Va tutto come sempre… dopo aver lasciato Chibiusa all’asilo vado a dare una mano a Motoki fino al pomeriggio quando torno a riprendere la piccola. Le sai già queste cose.”
Una piccola esitazione, poi:
“Tu piuttosto, che mi racconti di te? Come procede il tirocinio?”
Mamoru portò le mani al viso, sfregandole per scacciare la stanchezza che iniziava a sentire sempre di più:
“Mi hanno firmato un contratto la settimana scorsa. Da Settembre sarò uno specializzando, Usako.”
Usagi notò tanto entusiasmo in quell’ultima frase che, nonostante le risultasse difficile, sorrise:
“Sono contenta per te, Mamo-chan. Riparti sempre tra due settimane?”
Mamoru scosse la testa e, portando le mani al collo per distendere i muscoli che sentiva tesi:
“Posso fermarmi un mese stavolta, Chibi sarà contenta.”
Usagi, meravigliata e incredula non riuscì a trattenersi:
“Perché non me lo hai detto al telefono?” Sembrava persino arrabbiata.
“Volevo vedere la tua reazione quando te lo avrei detto” rispose quasi divertito, notando che era riuscito a farle brillare gli occhi al suono di quella notizia.
Usagi si voltò, imbarazzata per quella prova a tradimento:
“Che stupido che sei!”
Ma nella sua voce c’erano solo dolcezza e immensa felicità che a stento non le si spezzò un respiro.
 Finendo la sua birra, Mamoru picchiettò la mano chiusa a pugno sul tavolo:
“Al tuo fidanzato non spiace se resto qui per un mese, vero?”
Usagi si rivoltò verso di lui, seria:
“Non c’è nessun fidanzato, lo sai bene.”
 
A lei non piaceva scherzare su quell’argomento. Magari Mamoru non lo faceva per male, ma solo lei sapeva quanto avesse sofferto, e quanto soffrisse, per lui. Lui non sapeva di tutte le volte in cui lei era rimasta stesa sul suo letto a perdersi nell’odore lasciato da lui sulle lenzuola; non sapeva la sensazione di vuoto che provava tutte le volte che lui ripartiva, Mamoru non poteva sapere di tutte le lacrime versate la notte quando la sua mancanza diventava soffocante.
No. Lui non sapeva tutto questo, non poteva neppure immaginarlo. Magari se avesse conosciuto le sue emozioni non si sarebbe più permesso di scherzare. Ma lei non gliele avrebbe mai confidate, solo avrebbe fatto sì che non scherzasse su certi argomenti delicati per lei.
 
“Ogni volta mi dici la stessa cosa, Usako. Vuoi che ti creda?”
Usagi si innervosì leggermente: “Perché dovrei mentirti? Sai che non lo farei mai.”
Mamoru si alzò per gettare la bottiglia nel portarifiuti e, intrappolando Usagi tra il bancone e il suo corpo, ne seguì le curve coi polpastrelli, solo sfiorandole.
“Guarda quanto sei bella, Usako. Come fai a dire, ogni volta, che non c’è nessuno che ti vuole?” La sua voce era simile ad un sussurro pieno di consapevolezza.
“Non ho detto questo” rispose lei abbassando lo sguardo, imbarazzata, avvertendo gli occhi blu oceano di lui sul suo corpo.
“Ho detto che per me esiste solo mia figlia.” Sbatté le palpebre, come a volersi correggere: “Nostra figlia.”
 
Avrebbe voluto dirgli che oltre a loro figlia per lei esisteva solo lui, da sempre, e che nessun altro avrebbe mai potuto colmare il vuoto che lasciava lui ogni volta che ripartiva. Sapeva che la vita era una sola e che magari avrebbe trovato l’uomo che l’avrebbe resa felice come meritava, ma per lei era meglio vivere di attimi, di ricordi, di piccoli baci dolci ogni tanto ogni sei mesi che una vita intera fatta solo di ripieghi e di seconde scelte.
 
Al pensiero che nessun uomo fosse riuscito a toccare e ad avere la sua Usako, all’immagine di lei – bellissima e sensuale – un po’ triste e malinconica di fronte a sé; un turbine di emozioni che aveva cercato di tenere a freno si impossessò di lui.
Portò il braccio sulla schiena di Usagi, stringendola a sé e inebriandosi del suo respiro sul suo collo unito a quell’odore unico che era solo suo, solo della sua Usako. Per un attimo la sentì tesa dentro il suo abbraccio ma poi, pian piano, la avvertì rilassarsi.
 
Usagi si lasciò andare a quell’abbraccio. Era il suo ossigeno e doveva farne riserva per i mesi successivi. Per quel momento Mamo-chan era suo, soltanto suo. E ciò le bastava.
Gli cinse il busto con le braccia, posando la guancia sulla sua spalla.
Si sentì morire quando avvertì la mano di Mamoru sul suo ginocchio e il cuore sembrò uscirle dal petto quando la mano salì fino a sotto la vestaglia fermandosi sul bacino.
“Da quant’è che nessun uomo ti tocca così…” chiese lui, con voce piena di desiderio, facendo sempre più pesanti le sue carezze sulla coscia di Usagi.
 
Ma Usagi non rispose, cercava di regolarizzare il suo respiro che, inevitabilmente sentiva soffocare.
Portò d’istinto la mano su quella di Mamoru, che con insistenza e passione accarezzava i suoi glutei, per bloccarla:
“Mamoru, ti prego…” supplicava col cuore che le esplodeva nel petto.
 
Ma Mamoru non le diede retta, lasciò la schiena di Usagi per prenderle la nuca e avvicinare il suo viso fino a baciarle le labbra.
 
Quel bacio era per Usagi necessario più dell’ossigeno, sapeva che avrebbe complicato tutto, che le avrebbe reso tutto più difficile al momento della partenza, ma lo aveva desiderato tanto che in quel momento poco importava se fosse rimasto solo un bacio unito a delle carezze nuove, che non sentiva sulla sua pelle da ormai cinque anni.
Si lasciò andare, assaporando le labbra di Mamoru sulle sue e si stupì quando lui le dischiuse per accarezzargliele con la lingua. Istintivamente, come se fosse per lei naturale donargli ogni singola parte di sé, intrisa del suo amore per lui, gli cinse il collo con le braccia, intrecciando le dita fra i capelli neri, e gli catturò le  labbra in un bacio nuovo, più passionale. Come cinque anni prima ma con una maturità maggiore.
Lui lasciò le sue morbide labbra per un solo istante, giusto il tempo di dire:
“Ti voglio, Usako. Stanotte.”  

 
E Usagi, ammirando quegli occhi pieni di passione, per un attimo sentì il suo cuore fermarsi.
Sapeva che se avesse fatto l’amore con lui, se gli avesse concesso tutta se stessa, tra un mese ne sarebbe morta.
Rifletté qualche istante ma, come al solito, non riuscì a resistergli.
Magari sarebbe morta proprio su quel letto, ricordando quei momenti di passione e perdendosi come sempre nell’odore di Mamoru impregnato nel cotone.
Ma quella notte non le interessava.
Quella notte, voleva soltanto sentirsi viva.

 
Il punto dell’autrice
 

Questo capitolo mi è venuto spontaneo, istintivo.
Ci sono ancora tante cose su cui far luce ma piano piano inizierete a conoscere questi personaggi.
Spero il cap.  vi sia piaciuto.
Fatemi sapere cosa ne pensate, una vostra recensione è sempre molto gradita!
Un bacio e a presto!
Demy


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Capitolo 3
*** Momenti di felicità ***


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Cap 3: Momenti di felicità

Usagi si era persa in quello sguardo seducente e magnetico, realizzando quanto desiderio l’uomo che amava provasse per lei.
In quel momento per il suo Mamo-chan esisteva soltanto lei.
Senza rispondere a quella che in realtà non era neppure stata una domanda, ma un desiderio espresso, Usagi fece soltanto parlare i suoi occhi azzurri e luminosi.
 
E Mamoru, nella sincerità delle sue iridi, colse il desiderio reciproco, la voglia della sua Usako di abbandonarsi a lui.
Le prese una mano e ne baciò il dorso per poi intrecciare le sue dita fra quelle di lei e condurla nella sua vecchia stanza da letto che ormai da cinque anni era diventata di Usagi.
 
E lì, in quella camera in cui cinque anni prima si erano amati per la prima volta, Mamoru, prendendo il viso candido di Usagi fra le mani, iniziò a baciarla sulle labbra con dolcezza prima, per poi morderle e incontrare la sua lingua in un bacio pieno di passione. Slegò il nastro bianco della vestaglia, aprendola e facendola scivolare per terra.
Iniziò ad accarezzare la sua Usako dappertutto, a memorizzare ogni centimetro di quella pelle liscia e vellutata attraverso i suoi baci pieni di dolcezza ma allo stesso tempo di desiderio.
Dopo averle tolto la biancheria intima ed essersi spogliato, la sollevò da terra per adagiarla sul letto.
 
E lì, sulle candide lenzuola di cotone, Usagi si lasciò andare; si fece trasportare dalle emozioni così forti,  dettate dall’amore incondizionato e sincero che provava per il suo Mamo-chan, abbandonandosi a lui, perdendo i sensi e ritrovando il piacere.
Lo stringeva forte, sentendolo suo, dimostrandogli la sua completa devozione, baciando quelle labbra così dolci, carnose e affamate di lei.
Solo per un attimo lui le allontanò dalle sue, sollevandosi da lei e posando una mano all’altezza del suo cuore:
“Il tuo cuore batte forte, Usako” con tono quasi pentito di ciò che in fondo desiderava con tutto se stesso.
 
Forse non era giusto fare ciò a Usagi, forse non doveva entrarle dentro e bruciarle l’anima per poi ripartire e, magari, farla soffrire di nuovo.
Forse non doveva essere per la seconda volta egoista con la persona che lui amava e che meritava la felicità.
 
Ma Usagi portò la mano su quella di lui, rassicurandolo con un tenero e ingenuo sorriso, dopo aver notato la sua esitazione e un quasi senso di colpa.
“Sembra una melodia, Mamo-chan. Ascoltala insieme a me, stanotte.”
Con la mano libera accarezzò la guancia di Mamoru, avvicinando il suo viso fino a premergli labbra in un dolce bacio.
E lì, tra sguardi complici e i loro cuori che battevano all’unisono suonando una melodia fatta d’amore e di passione,
fecero l’amore, donandosi e completandosi reciprocamente.
 
Quella notte, dopo aver trovato la pace dei sensi, dopo aver sentito incendiare la propria anima, Usagi si sentì felice, viva e felice, quando lui la strinse a sé facendole poggiare la testa sul suo petto e, accarezzandole la schiena e i lunghi capelli, le sussurrò:
“Mi sei mancata, Usako.”
Usagi sorrise, stringendosi ancora di più nel suo abbraccio fin quando Mamoru, portando una mano sotto il suo mento per sollevarle il viso, le chiese serio:
“Da quant’è che non facevi entrare un uomo in questo letto, Usako?”
Per un attimo Usagi si sentì ferita da quella domanda. Gli aveva detto che non c’era mai stato nessun fidanzato e quella domanda significava che Mamoru la considerava una come tante altre; una di quelle che si concedevano per puro divertimento.
Il suo viso sereno e rilassato lasciò posto ad un’espressione delusa:
“Mamoru, non faccio entrare gli uomini nel mio letto.”
Si voltò sul fianco opposto, dandogli la schiena e coprendosi con il lenzuolo. Perché? Perché doveva rovinarle quel momento per lei magico che aveva sognato per così tanto tempo?
 “Vuoi dire che è da cinque anni che…”
 
Usagi si sentì perfino mortificata. Com’era possibile che ne dubitasse? In quel momento capì che a lui non sarebbe interessato se lei avesse avuto altri ragazzi, se si fosse concessa ad altri.
Ed ebbe la risposta alle tante domande che si era posta ma che temeva di fare a lui. Realizzò che Mamoru, al contrario di lei, aveva avuto altre donne e, al solo pensiero, si sentì morire.
 
Annuì solamente, sentendo gli occhi lucidi e un vuoto all’anima.
 
Mamoru aveva finalmente osato domandare ciò che per tutti quegli anni si era chiesto ma che aveva sempre avuto paura di sapere.
Il pensiero della sua Usako tra le braccia di altri, sotto il corpo eccitato di uomini bramosi di lei lo rendevano pazzo di gelosia.
Ma cosa poteva fare lui? Non poteva evitare ciò, non aveva nessun diritto. Lui era partito dopo averla vista piangere, dopo aver capito che lei lo amava, non solo a parole ma con dimostrazioni, donandogli se stessa. Ogni volta che tornava a New York la pensava, non solo come la madre di sua figlia, ma come donna. Una donna, ogni volta, sempre più bella e desiderabile; e quando la gelosia lo assaliva e l’istinto di uomo si faceva sentire, con donne di cui non gli importava nulla, immaginava di essere con la sua Usako, solo con la sua dolce e piccola Usako.
 
Peccato che Usagi era voltata di spalle quando lui, vedendola annuire, aveva lasciato andare un sorriso fatto di gioia, felicità, incredulità e realizzazione di quanto, per qualsiasi cosa, sotto ogni aspetto, Usagi fosse una ragazza unica e speciale. Se Lei avesse potuto vedere i suoi occhi in quel momento, vi avrebbe letto tanto amore. Un amore unico, sincero, eterno.
 
Stringendola forte da dietro, le baciò la guancia e il collo:
“Scusami Usako, non volevo mancarti di rispetto.” Iniziò ad accarezzarle il braccio che lei aveva portato all’altezza del seno:
“Sono onorato sapendo di essere l’unico ad averti avuta. Ti prego, non avercela con me.”
 
Usagi non voleva che si sentisse onorato, lei desiderava con tutta l’anima che lui fosse innamorato di lei. Perché non lo era? Cosa c’era di sbagliato in lei? Per quanto volesse capirlo e rimediare, non ci riusciva. E quando capì che la sua mente la stava riportando ai tanti interrogativi che si poneva da ormai cinque anni, si rese conto che si stava esponendo troppo.
Ed esporsi troppo avrebbe significato la fine per lei tra un mese.
 
Si voltò di nuovo verso Mamoru, tenendo il lenzuolo all’altezza del petto e, con voce piena di dolcezza:
“Non ce l’ho con te, Mamo-chan.”
 
E lui, davanti quegli occhi così belli e luminosi, a quel viso tenero simile alla porcellana, a quello sguardo fatto di dolcezza e malinconia allo stesso tempo; non poté fare altro che abbracciarla forte a sé:
“Dormiamo così, Usako. Ti và?”
Usagi annuì, stringendosi a lui ancora di più, avvertendo un calore al cuore. In fondo, era da cinque anni che sognava quel momento e non avrebbe permesso a niente e a nessuno di rovinarlo.
 
Quando Mamoru si addormentò, lei rimase sveglia per un po’, approfittando del fatto che lui non potesse notare i suoi occhi, pieni d’amore e di fedeltà osservarlo rapiti da quell’espressione beata che lui aveva in viso.
Ogni tanto lasciava qualche bacio sul suo petto, accarezzando coi polpastrelli il suo braccio e giocando con le sue dita.
Non voleva dormire Usagi, voleva vivere quegli attimi per il maggior tempo possibile.
Quando sentì che Morfeo la chiamava, uscì dal letto per rivestirsi e sbloccare la porta che Mamoru, per sicurezza, aveva chiuso a chiave. Lui non era abituato a certe cose e quindi non ci faceva caso, ma Usagi oltre ad essere una donna era anche una mamma e se la sua bambina di notte si fosse svegliata e l’avesse cercata, avrebbe dovuto trovare la mamma vestita. E se si fosse posta delle domande trovandoli abbracciati, lei le avrebbe risposto che il papà e la mamma avevano dormito assieme come due persone che si volevano bene. E Chibiusa, sapendo ciò, ne sarebbe stata felice.
 
 
Quella mattina di metà Giugno, il tiepido sole che penetrava dalla finestra, riscaldò la pelle candida di Usagi, coperta solo da una leggera camicia da notte senza maniche.
 
A riscaldare il cuore di Mamoru, invece, fu la vista della sua Usako che dormiva serena fra le sue braccia. Rimase ad ammirarla per qualche minuto, perdendosi in quello sguardo così ingenuo che lo riportò indietro nel tempo. A cinque anni prima e all’immagine della sua Odango Atama mentre gli faceva la linguaccia indispettita per quel soprannome, a detta di lei, insopportabile.
Usagi era cresciuta, era diventata una donna bellissima e matura e una madre fantastica. Ma Usagi, quando rideva, quando dormiva, quando era serena nel suo mondo in cui vivevano le persone che lei amava, era la ragazzina di cui si era innamorato anni addietro. E di cui, in quel momento come per tutti gli anni a venire, sarebbe stato innamorato.
 
Uscì dal letto per indossare i boxer e sbloccare la porta e, un sorriso pieno di ammirazione uscì spontaneo dalle sue labbra quando capì che Usagi era davvero la madre migliore che sua figlia potesse avere.
Tornò a letto non appena si accorse che Usagi stava riaprendo pian piano gli occhi; lui voleva essere lì a darle il buongiorno; lei, soltanto con la sua dolce e innocente espressione, lo aveva già dato a lui.
 
“Buongiorno Usako.”
Usagi pensò per un attimo che fossero le parole di uno dei suoi tanti sogni, ma quella mattina fu il bacio sulla fronte che le labbra di Mamo-chan lasciarono a farle capire che era tutto vero.
“Buongiorno, Mamo-chan.” Era bello poterlo dire guardando i suoi occhi blu.
“Dormito bene?”
Usagi annuì con un sorriso, dirgli che era stata la notte più bella e incredibile non era il caso, lui non avrebbe potuto capire, forse non ci avrebbe creduto neppure.
 
Chibiusa bussò alla porta per poi aprirla e poter verificare dalla fessura se la mamma fosse già sveglia. Lo faceva sempre quando si svegliava presto e non voleva più restare da sola; andava nella stanza della mamma e, se ancora dormiva, le si sdraiava accanto accarezzandole la guancia per svegliarla con delicatezza.
Quando i due ragazzi sentirono la porta aprirsi, si voltarono d’istinto e quando videro la piccola, immobile con l’espressione di chi non capiva, Usagi sorridendo la incoraggiò:
“Chibi-chan, vieni sul letto con mamma e papà!”
Non c’era imbarazzo fra i due o nelle loro espressioni, era tutto così naturale, spontaneo ed estremamente familiare.
Chibiusa sorrise, felice di poter stare finalmente con entrambi i suoi genitori sul lettone.
Corse verso di loro e Mamoru, prendendola in braccio, la adagiò al centro iniziando a farle il solletico.
Fu proprio in quel momento, in cui il suono delle risate felici della sua piccola si era unito al sorriso di Mamoru, che Usagi capì che quello era il buongiorno più bello di tutti. Molto più bello di quelli che aveva sempre sognato.
 
“Cosa vuoi fare oggi, Chibiusa?”  domandò Mamoru dopo aver baciato la manina morbida della sua piccola.
“Prima di tutto vorrei mangiare le frittelle! Poi… non so.” Ci pensò un attimo, portando l’indice della piccola mano alle labbra, poi decise: “Magari andiamo al parco!”
Davanti a tutto l’entusiasmo con cui Chibiusa aveva pronunciato quelle frasi, Mamoru lasciò uscire un sorriso pieno di consapevolezza:
“Mi ricordi tanto tua madre, Chibi-chan.” Si voltò verso Usagi notando in lei uno sguardo di chi sapeva che in fondo lui avesse ragione.
“Vado a preparare la colazione” disse quando gli occhi di Mamoru persi nei suoi le fecero battere il cuore ancora più forte.
 
Preparò le frittelle che alla sua bambina piacevano tanto; in realtà piacevano tanto anche a lei e poi quello era un giorno importante, finalmente dopo sette mesi poteva far colazione con la sua famiglia. In fondo, anche se lui non l’avesse mai amata, anche se il suo fosse rimasto solo il suo sogno più grande, per lei sarebbero stati sempre una famiglia.
 
Mamoru si stupì nel vedere il modo impeccabile in cui Chibiusa, dritta sulla schiena, faceva colazione. Guardava Usagi notando lo stesso modo aggraziato della figlia. Usagi era cambiata anche sotto quell’aspetto. In passato avrebbe divorato le frittelle in pochi minuti.
Ogni tanto, mentre masticava, Chibiusa lo guardava e sorrideva, dondolando le gambe sotto al tavolo. E Mamoru, in quell’espressione di pura tenerezza si scioglieva.
 
Quando la piccola finì di mangiare, assicurandosi che anche i piatti dei suoi genitori fossero vuoti, domandò:
“Mammina, posso andare in giardino a giocare?”
Ricordò subito e, prima che Usagi potesse risponderle, voltandosi verso Mamoru:
“Posso, papà?”
Mamoru annuì: “Certo che puoi.”
Chibiusa, contenta, scivolò dalla sedia, diede un bacio ad entrambi e corse fuori dalla vetrata aperta del soggiorno accanto al tavolo.
 
Mamoru la seguì con gli occhi, mantenendo sul viso un’espressione  piena di consapevolezza e malinconia:
“La stai educando in maniera impeccabile, Usako. Non esiste madre migliore di te”, constatò poggiando il gomito sulla spalliera della sedia, continuando a guardare la bambina che spazzolava i capelli della sua nuova bambola.
Usagi, intenta a sparecchiare, si fermò un attimo, osservando lo sguardo di Mamoru. E sorrise, fiera e felice per quelle parole.
“Mi sto perdendo tante cose” ammise con voce amareggiata, picchiettando il pugno sul tavolo.
Usagi non sapeva cosa rispondere. Mamoru aveva ragione, per quanto ci fosse la web cam e nonostante gli raccontasse sempre tutto ciò che riguardava la loro piccola Chibi-chan, sapeva che non era la stessa cosa.
Avrebbe voluto dirgli tante volte di tornare in Giappone ma poi lui avrebbe considerato sia lei che probabilmente la figlia come un ostacolo. E Usagi non voleva ciò. Se fosse tornato per sempre, sarebbe dovuta essere solo e soltanto una scelta di Mamoru.
 
Rimase in silenzio anche se la voglia di stringerlo a sé era enorme.
 
“È sempre più identica a te, Usako. Ogni volta che la osservo la noto sempre più uguale a te.”
Usagi ne era consapevole. Nonostante il colore degli occhi e dei capelli, i lineamenti, le espressioni, il viso stesso, erano molto somiglianti.
Mamoru si alzò per aiutarla a sparecchiare ma Usagi, notando in lui una tristezza che lei non voleva provasse, gli si avvicinò e, prendendogli una mano tra le proprie:
“Ma ha tanto anche di te.” Lui la guardò, curioso.
Sorridendo con estrema dolcezza, Usagi proseguì:
“È istintiva, è volenterosa, le piace fare tante domande per capire le cose. Quando le leggo le favole dice che ha tanta voglia di imparare a leggere e scrivere. Cerca sempre di fare del suo meglio.”
E con tutta quella consapevolezza, Usagi si tradì:
“È perfetta, Mamo-chan.”
Abbassò lo sguardo quando si rese conto di essersi esposta troppo ma lei era così, quando parlava della loro Chibiusa, non poteva non notare tutte quelle qualità che amava di Mamoru.
 
Mamoru, al suono di quelle parole, sentì una forte sensazione di calore al cuore.
Prese il viso di Usagi fra le mani e, quando lei lo guardò con occhi luminosi, avvicinò il suo viso: “Oh, Usako…”
Voleva ringraziarla per quelle parole con le quali aveva cercato di scacciare la tristezza e i sensi di colpa in lui.
Chiudendo gli occhi, le diede un dolce e tenero bacio sulle labbra.
Usagi visse quel momento, cingendogli il busto con le braccia.
 
E Chibiusa, voltandosi e notando i suoi genitori baciarsi, si sentì pervadere da una strana, nuova, sensazione di benessere.
Non li aveva mai visti prima in tale atteggiamento, a volte li aveva osservati abbracciarsi, ma mai scambiarsi dei baci. Sorrise, godendo di quella dolce e familiare scena.
Chissà, magari le cose sarebbero cambiate quella volta, magari anche lei avrebbe potuto avere entrambi i genitori tutti i giorni, proprio come i suoi compagni.
In fondo, lo aveva desiderato così tanto, lo aveva espresso durante il soffio delle candeline di tutti i compleanni, persino durante le preghiere al tempio della zia Rei.
Magari, dopo tanta attesa, il suo desiderio si stava realizzando.
 
Il punto dell’autrice
 

Carissimi lettori, spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
In ogni caso, ringrazio tutti coloro che mi seguono e che mi danno la spinta per continuare a scrivere anche quando credo sarebbe meglio lasciar perdere.
Un forte abbraccio e a presto :)
Se vi và, lasciatemi un vostro parere sul capitolo, ne sarei felice!
Demy

                 
 
 

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Capitolo 4
*** Perdonami Usako ***


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Cap 4: Perdonami Usako

Un bacio; un apostrofo rosa che sapeva di marmellata alla fragola sulle labbra carnose e morbide di Usagi in quella mattina di metà Giugno.
Dolce, tenero, casto. Speciale. Ecco com’era quell’unione delle loro labbra per Mamoru.
 
Il sole penetrava dalla portafinestra lasciata aperta riscaldando il salone e il viso della ragazza, illuminandole i riflessi dorati dei lunghi capelli raccolti dal fermaglio in una mezza coda.
Rilasciava calore anche sulla schiena di Mamoru; a dare tepore al suo cuore ci pensava la sensazione provata a contatto con Usagi e quello delle sue mani sui capelli corvini.
 
Voleva ringraziarla per le parole piene di conforto che aveva pronunciato per placare i sensi di colpa in lui, voleva tenerla vicina. Aveva bisogno di sentirla ancora sua.
Quella mattina non avevano avuto modo di parlare della notte appena trascorsa; cosa aveva significato per la sua Usako? Non lo sapeva, l’unica cosa certa era che per lui era stato… tutto.
Tutto ciò che aveva sempre desiderato in quei cinque anni, ogni volta che la aveva pensata, che la aveva guardata; lui la desiderava come non aveva mai desiderato nessun’altra.
Solo lei, solo la sua Usako; ecco di cosa aveva bisogno.
Aveva un bisogno irrefrenabile di saperla sua. Di amarla e sentirsi amato da lei. Di assaporare qui baci dolci e unici che solo lei sapeva lasciare sulla sua pelle, di godere dei suoi sorrisi spesso pieni di timidezza che le uscivano spontanei quando lui la guardava in quegli occhi così luminosi pieni di tenerezza.
Era stata la notte più bella degli ultimi cinque anni.
Il giorno più bello, invece, fu quello in cui tenne in braccio per la prima volta una piccolina di tre kilogrammi dai pochi capelli rosa e dai pianti striduli.
 
Si era commosso Mamoru, per la prima volta forse.
L’aveva guardata come si guarda qualcosa di così inaspettatamente meraviglioso, come qualcosa che – sebbene vista per la prima volta – si sa che è appena diventata la cosa più importante della propria vita; le piccole mani chiuse a pugno, gli occhi semichiusi e le piccole labbra decise solo a lasciar uscire un pianto irrefrenabile lo avevano lasciato senza fiato, senza parole ma con le lacrime agli occhi. Si era voltato verso Usagi ancora affannata e con la frangia bagnata dal sudore.
Era stravolta, esausta. Ma felice.
I loro sguardi si erano incrociati per un attimo e quando lei aveva notato gli occhi blu come l’oceano di lui lucidi aveva iniziato a far scivolare sulle guance, ancora accaldate, lacrime di gioia immensa. Lacrime che avevano il sapore di novità.
Mamoru aveva poggiato, adagio, la bimba sul ventre della ragazza che l’aveva subito stretta a sé come si usa con un tesoro prezioso.
Era il 30 Giugno. E quella bambina era stata il regalo di compleanno più bello che Usagi avesse mai potuto ricevere. E anche di Mamoru; magari non di compleanno ma di certo il più bello che avesse mai potuto desiderare.
Era per questo che aveva scelto Usagi come nome. La somiglianza estetica era evidente ma il motivo principale era che sperava con tutto il cuore che quella bambina prendesse le stesse qualità della sua Usagi, la stessa Usako che avrebbe sempre portato nel cuore.
 
Usagi dopo brevi momenti di trasporto, di dolci sensazioni che solo con lui riusciva a provare, si tirò indietro separando così le sue labbra a quelle di lui.
Era stato difficile, aveva avuto bisogno di un’enorme forza di volontà ma alla fine si era ritrovata un passo indietro con le mani, che fino a poco prima accarezzavano i capelli del ragazzo, chiuse a pugno all’altezza del petto. Era il suo modo per tranquillizzarsi quando credeva che il cuore le sarebbe esploso.
 
Mamoru riaprì gli occhi, specchiandosi in quelli sinceri di lei e notandovi paura, rammarico, dispiacere. Per cosa? Non lo capiva, l’unica cosa evidente era che Usagi era turbata. E come al solito, quando qualcosa la preoccupava si voltava di spalle sperando che lo specchio della sua anima non la tradisse.
 
“Vado a vestirmi” disse imbarazzata con voce timida mentre si dirigeva verso la sua camera da letto.
Mamoru la seguì con gli occhi notando il suo sguardo basso fin quando la porta fu chiusa e Usagi scomparve dalla sua visuale.
 Era perplesso. Cos’era accaduto? Non era di certo la prima volta che la baciava e a lei quei casti baci erano sempre piaciuti, senza complicare le cose. Erano piccoli baci, dimostrazioni d’affetto. Almeno era quello che voleva farle credere. Per lui invece quei baci erano fondamentali, più dell’aria, più dell’acqua per i pesci.
Il suo unico errore era non capire che il contatto delle loro labbra così breve ma così desiderato, sperato, era anche per Usako  fonte di vita.
 Rimase immobile, con le mani nelle tasche dei jeans blu notte per alcuni secondi poi, voltandosi alla sua destra, notò Chibiusa guardarlo come se non capisse, con la piccola mano ancora ferma sui capelli della bambola nuova proveniente direttamente dalla City.
Si rese conto che la bambina aveva visto tutto; aveva osservato il suo modo dolce di prendere il viso di Usagi e baciarla con tenerezza, aveva notato la madre tirarsi indietro col dispiacere negli occhi e aveva capito che nel padre qualcosa non andava. Era triste anche lui e la piccola, di conseguenza, era malinconica per tutti e tre.
“Chibi-chan, vai a vestirti anche tu, andiamo al parco” disse, facendo cenno con il capo alla bambina e iniziando a portare in cucina i piatti sporchi, ma la sua voce era rammaricata, preoccupata per qualcosa non nota alla piccola.
 
Chibiusa si limitò a posare sul tavolino di plastica del giardino la sua bambola e rientrò in casa dirigendosi verso la sua cameretta.
 
Fu solo allora che Mamoru sospirò, uscendo fuori in giardino e sedendosi sul dondolo alle spalle della vetrata.
Chiuse gli occhi per un attimo, alzando il viso verso il cielo e lasciandosi accarezzare dai raggi del sole. Pochi istanti in cui si fece trasportare dal dondolio rilassante e dal silenzio del quartiere.
Pensava a lei, a Usako, riflettendo sul fatto che quella notte era stata la notte in cui la sua bellissima amata si era donata a lui.
E se in cinque anni non l’aveva mai fatto con nessun altro, significava che lei, nonostante facesse sempre finta di niente, era ancora innamorata di lui. Si chinò in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia e sostenendo la fronte con le mani.
‘Perdonami Usako’ si disse pieno di rimorsi e di sensi di colpa.
Si era lasciato prendere dal desiderio irrefrenabile di lei, così dannatamente bella e incredibilmente dolce e sensuale, da non riflettere su cosa potesse provare lei. A cosa sarebbe andata incontro lei. La notte precedente aveva voluto soltanto vivere in un mondo tutto loro. E dato che il momento tanto sognato era finito e che presto sarebbe dovuto tornare inderogabilmente in America, aveva realizzato che non voleva più farla soffrire, farle del male.
Non avrebbe fatto più l’amore con lei, non l’avrebbe più baciata dolcemente sulle labbra. Lui sarebbe morto per quella decisione ma Usako meritava di essere felice e non di essere illusa da uno che non avrebbe mai potuto donarle tale felicità.
 
“Siamo pronte”, lo interruppe dalle sue silenziose riflessioni Usagi.
Lui si voltò di lato verso la ragazza notando la sua bellezza, accentuata dal leggero vestitino azzurro di cotone, e osservandola mentre metteva giù la bambina sistemandole la gonna a pieghe rosa e la magliettina bianca.
La piccola attese che la madre le sistemasse per l’ultima volta gli odango e poi corse verso il cancello d’ingresso.
Mamoru, guardandola trotterellare impaziente di giungere al parco, non poté fare a meno di sorridere pieno di tenerezza.
Solo quando si voltò di nuovo verso la sua Usako, intenta a chiudere la vetrata a chiave, la trovò leggermente imbarazzata; avrebbe voluto ravviarle le ciocche che le cadevano davanti agli occhi, lasciandole in disordine i lunghi capelli sciolti e perfettamente lisci, ma non poteva.
Aspettò che la ragazza estrasse le chiavi dalla toppa e sistemò i capelli con un gesto rapido ma a suo avviso sensuale prima di raggiungere Chibiusa e prenderla cavalcioni sulle sue spalle.
 
Chibiusa era davvero felice, e non per la bella giornata di sole che le riscaldava le soffici guance e le gambe che la gonna lasciava scoperte; neanche per il fatto che quella mattina non sarebbe andata all’asilo, evitando quindi di litigare con i compagni più prepotenti e cattivi con lei. No, quella mattina Chibiusa era felice perché avrebbe trascorso l’intera giornata con i suoi genitori. Tutti e due, come una vera famiglia.
 
Una volta giunti al parco, gli altissimi cipressi riparavano dal cocente sole le panchine poste ai bordi del prato, rendendo l’aria più fresca e più pura. Alcuni bambini che avevano già terminato la scuola elementare giocavano sull’erba, altri davano da mangiare alle anatre del laghetto. Si respirava serenità.
Mamoru mise a terra la bambina, sistemandole la gonna e chiedendole:
“Vuoi un gelato?”
La piccola, con aria furba sorrise, stropicciando le labbra in una smorfia di chi facesse finta di pensare:
“Mmm… sì, sì, il gelato!”
“Chibi-chan, ma hai appena finito di mangiare le frittelle” notò Usagi, “Dopo non avrai fame per pranzo” continuò, ma la piccola scosse la testa: “No, no, voglio il gelato!”
Mamoru si alzò e guardando Usagi con sguardo complice: “Dai, per oggi facciamo un’eccezione” propose facendole l’occhiolino.
Usagi vide il suo sguardo pieno di desiderio di rendere la bambina felice; in fondo, a lui era mancata la loro Chibiusa e aveva bisogno di farla contenta e di viziarla un pochino. Guardò anche la bambina che continuava ad annuire in attesa del consenso della mamma.
Rassegnata e sorridendo, approvò:
“Dai, come lo vuoi il gelato?”
“Cioccolato con la panna sopra!”
Mamoru non poté non ridere a tanto entusiasmo:
“Usako, è proprio tua figlia!”
 
Usagi e Mamoru si sedettero su una panchina all’ombra, una di quelle su cui cinque anni prima si erano scambiati dolcissimi baci e sulle quali erano rimasti a guardare il tramonto stretti in un caldo abbraccio.
Quel giorno invece non c’erano baci pieni d’amore né coccole colme di tenerezza, c’era il loro sguardo volto verso il frutto del loro amore che, con il gelato in mano, osservava le anatre del laghetto poco distante da loro.
“Sei tornato solo ieri e già la vizi!” Usagi cercò di rompere il ghiaccio che si era formato quella mattina, a seguito del bacio che lui le aveva dato facendole incendiare il cuore.
Mamoru sorrise, poggiandosi allo schienale e continuando a tenere sott’occhio la piccola:
“Devo recuperare!” rispose sorridendo, poi tornando serio: “A parte gli scherzi, mi piace vederla felice, anche solo per un gelato.”
“Lo so” rispose lei, consapevole, portando i capelli su una spalla per liberare il collo e la schiena dal calore che essi le provocavano.
Lui si voltò verso di lei, guardandola mentre continuava ad intrecciare le dita affusolate tra i capelli e a pettinarli con movimenti veloci, come a voler scaricare la tensione. A lui piaceva il modo di Usagi di giocare, o meglio, di torturare i suoi capelli però quel giorno era evidente che quello fosse un modo per tenere a freno l’imbarazzo che di certo lei provava.
“Usagi, forse dovremmo parlare di ieri notte.”
E lì, in quell’istante, il cuore di Usagi si ritrovò sommerso da mille emozioni e grosse speranze. Desiderò con tutta l’anima che quella notte per lui avesse rappresentato così tanto da fargli decidere di tornare da lei e dalla loro bambina, e che il bacio datole per la prima volta davanti alla piccola confermasse la sua speranza.
Si voltò verso di lui, trovandolo a fissarla, serio, e bloccò le mani sui capelli. Non disse nulla, si perse nel suo sguardo e sperò.
“Stamattina dopo quel bacio sei andata via in modo strano. Credo che c’entri la notte scorsa.”
Cercò conferma negli occhi sempre sinceri di lei ma Usagi abbassò il viso, riprendendo a far scorrere nervosamente le dita tra i capelli.
Era un assenso.
“Ti chiedo scusa. Non voglio che quello che è successo ieri notte possa compromettere il bel rapporto che siamo riusciti a creare in questi anni.”
Usagi strinse forte le dita fra le ciocche, sentendo il cuore sprofondarle nella delusione più totale, provando un vuoto dentro e avvertendo gli occhi pizzicarle. Si sentì una stupida ragazzina illusa. O forse lo era davvero nonostante in quegli anni avesse fatto del suo meglio per diventare più matura. Per Chibiusa, per se stessa. E per Mamoru.
Evidentemente non c’era riuscita.
Scosse la testa, evitando di guardarlo in faccia per paura che, se lo avesse fatto, se avesse incontrato i suoi occhi blu e profondi, avrebbe sicuramente lasciato uscire le lacrime:
“No, stai tranquillo Mamo-chan. È tutto come sempre. Non è cambiato nulla fra noi.” Era questo il problema per lei.
“Guardami Usagi.” Usagi… era di nuovo Usagi, non più Usako per lui e ciò le fece uscire spontaneamente una lacrima che le rigò la guancia.
Non avrebbe voluto guardarlo ma ne fu costretta quando lui le mise una mano sotto il mento spostandole lo sguardo verso di sé.
Fu così che lui notò i suoi occhi lucidi simili a quelli di una bambina indifesa e allo stesso tempo di una donna delusa; non le disse nulla sulla lacrima che era ancora lì, a prova del fatto che qualcosa era cambiata tra loro.
 
Da quel momento in poi non ci sarebbero stati più momenti di tenerezza sul divano con lei appoggiata alla sua spalla mentre Chibiusa cantava una delle sue canzoncine imparate in vista del ritorno di papà, non ci sarebbero state più lunghe chiacchierate sul dondolo sorseggiando una birra dopo aver messo a letto la piccola, non ci sarebbe stato più nulla che li rendesse complici, protagonisti di un rapporto che era così unico e speciale da risultare quasi impossibile agli occhi estranei. E la colpa di tutto ciò era sua e del suo stupido istinto di uomo innamorato e desideroso della donna amata.
 
Tolse la mano dal suo viso, lasciando uscire un’espressione dispiaciuta; non avrebbe mai voluto farla soffrire.
 
Con la scusa di scostare i capelli dalla spalla, Usagi passò il palmo della mano sulla guancia asciugandola. Perché doveva fare così male? Perché quelle parole avevano il potere di farla sentire inerme e fragile? Perché non riusciva a diventare più forte e più distaccata? Non lo sapeva Usagi, era il suo carattere, erano i suoi sentimenti puri e sinceri che, si sa, quando si provano non possono essere controllati; corrono veloci come cavalli senza briglie, come uccellini che tenuti in gabbia per cinque anni volano veloci verso i cieli più limpidi.
‘Devi cambiare carattere, Usagi’, le dicevano sempre le sue amiche, ma non poteva, era nella sua natura, era il suo essere Usagi. Usagi che amava, che piangeva per amore, che soffriva alla partenza del suo uomo, che sperava fantasticando il giorno in cui sarebbero stati davvero una famiglia. E non se ne pentiva. Anche se spesso faceva male, tanto male.
L’unica cosa che sapeva era che non voleva perderlo,  e se l’unico modo per averlo era quello di essergli amica – sempre se dopo una figlia di amicizia si poteva parlare – allora le sarebbe andato bene ugualmente. Almeno, se lo sarebbe fatto andare bene.
 
Distese il viso in un’espressione rilassata e tranquilla, sperando che lui la notasse e si rasserenasse:
“Credimi Mamoru, non è cambiato niente, io ti voglio bene proprio come prima.”
“E allora perché mi chiami Mamoru?” rispose lui rammaricato.
Usagi si stupì: “Tu mi hai chiamata Usagi” ricordò ancora incredula.
Mamoru aggrottò la fronte e sbatté le palpebre cercando di riflettere:
“Non… non l’ho fatto per qualche motivo preciso. È uscito spontaneo, Usako.”
E lei sorrise, sincera, felice.
Sorrise anche lui poggiando la schiena alla spalliera di ferro e portando un braccio sulla spalla di Usagi, spingendola così a sé:
“Tu sei Usako per me.”
Lei posò la testa sulla sua spalla sentendo le labbra di Mamoru lasciare un bacio sulla sua fronte prima di sussurrarle: “Ti voglio bene anche io.”
 
Bene… era un bene talmente forte e profondo da sfociare nell’Amore per entrambi il sentimento sincero e inviolabile che li legava ma che dovevano tenere a freno.
 
Usagi chiuse gli occhi per qualche attimo; il contatto con il suo Mamo-chan era l’unica cosa che riusciva a renderla serena, il suo respiro sul suo viso era caldo e il leggero venticello che soffiava accarezzandole le gambe e scompigliandole alcune ciocche, rendeva quel momento degno di essere vissuto e assaporato fino in fondo.
Rimasero in silenzio per un po’, accompagnati solo dalle voci divertite e giocose dei bambini, fin quando Mamoru chiese:
“Come vanno le cose con i tuoi? Novità?”
Lei scosse la testa, rimanendo in quella posizione:
“No, al solito; l’ultima volta che hanno chiamato è stata per gli auguri di Natale, ricordi? Volevano conoscere la bambina ma a me non va.”
“Usagi guardami” e lei - a malincuore – si sedette dritta sulla schiena e gli ubbidì.
“Sono i suoi nonni, è giusto che la conoscano. Devi perdonarli. È la tua famiglia.”
Decisa: “No. Chibiusa è la mia famiglia, le mie amiche che mi son state accanto in questi anni, quando loro mi hanno sbattuta fuori di casa, sono la mia famiglia”, con voce tremante riprese:
“Tu sei la mia famiglia.”
“Lo so Usa, ma non credi sia giusto perdonarli? Sono passati cinque anni.”
Usagi prese il viso del ragazzo e lo voltò verso la bambina che correva da una parte all’altra del laghetto seguendo le anatre:
“Mamo-chan, guardala. Guarda quanto è bella, guarda com’è piccola e indifesa.” Sbatté le palpebre e due lacrime scesero sul viso:
“Se fosse stato per loro lei oggi non sarebbe qui a ridere e a riempire il mio cuore di gioia attimo dopo attimo” ricordò con voce piena di amarezza, pensando alle minacce dei suoi non curanti di quanto fosse spaventata a soli sedici anni al pensiero di un figlio da crescere da sola.
Lasciò il viso di lui per asciugarsi le lacrime:
“Rei mi è stata accanto, sia nei nove mesi in cui ero piena di dubbi e di paure che in tutti questi anni. È stata una sorella per me”,
portò indietro la testa, frenando altre lacrime che a causa della sua emotività nascevano spontanee dai suoi occhi:
“Ami mi è stata accanto durante il corso pre – parto. Lei mi ha rassicurata su tutto ciò che mi rendeva ansiosa, telefonandomi persino dalla Germania quasi tutte le settimane dopo l’Università per sapere come stessimo io e Chibi-chan.”
“Usagi…” cercò di tranquillizzarla lui notando lo sconforto dalla sua voce e dal suo viso umido.
“Makoto e Minako mi son state sempre vicine; ogni giorno, soprattutto all’inizio, aiutandomi a cambiarle i pannolini e a scaldare le pappette. Riempiendo la mia bambina di coccole e attenzioni.”
Si voltò verso di lui e, scuotendo il capo:
“Non mia madre. Non mio padre. Non Shingo. Non li voglio vedere.”
“Va bene” comprese lui realizzando quanto fosse stato difficile per lei prendersi cura di una bambina da sola, soprattutto dato che anche Usagi era una bambina in fondo. Stimava le quattro ragazze davvero tanto; erano delle vere amiche e le apprezzava  per l’appoggio che offrivano alla sua Usako e per l’affetto sincero che donavano alla piccola come delle vere zie, forse meglio delle vere zie.
“Dai, cambiamo discorso, Mina quando torna?” continuò cercando di farla smettere di piangere per quei ricordi.
“Il 29. Mi ha detto che le riprese del film Sailor V finiranno la prossima settimana e verrà per il compleanno di Chibi-chan.”
“Lo sai che è anche il tuo compleanno…” precisò sfiorandole con l’indice la guancia ancora umida.
Lei annuì con un timido sorriso rimanendo ipnotizzata dagli occhi pieni di dolcezza e dallo sguardo pronto a rassicurarla su ogni cosa che soltanto lui riusciva ad avere.
“Voglio organizzare una festa in giardino per il vostro compleanno, ti va?”
“Certo che mi va” acconsentì col cuore pieno gioia al pensiero che il suo Mamo-chan organizzasse qualcosa pensando anche a lei.
E altre lacrime vennero giù automaticamente.
“Usa, cosa c’è? Perché piangi?” Mamoru confuso cercava di capire come mai gocce di tristezza uscissero dagli occhi tanto belli e luminosi della sua Usako.
Lei le asciugò con rapidità, sperando che la sua bambina non si voltasse indietro notandola in quello stato:
“Scusami, è solo che se ripenso all’idea di aver ubbidito ai miei e aver ucciso la mia bambina…” le parole le morirono in bocca insieme ad un singhiozzo.
Mamoru rimase scosso al solo pensiero, provando una fitta al cuore  osservando il viso della ragazza affranto dal dolore al solo pensiero di quell’eventualità.
Sebbene se lo fosse ripromesso, la voglia di rasserenarla fu talmente grande che, spingendola a sé, la avvolse in un caldo abbraccio:
“Basta Usako, non piangere più” le sussurrò con un leggero bacio sulla testa, “Non voglio vederti piangere, neanche Chibi lo vorrebbe.”
Usagi, ancora con la testa e le mani poggiate sul suo petto, annuì:
“Lo so, dovrei essere diversa, dovrei essere più forte ma a volte non ci riesco.”
Lui sorrise al suono di quella voce rammaricata: “Sei perfetta così come sei.”
E in quel momento, il suono di quelle parole pronunciate con tanta sincerità e stima le provocò un calore al cuore facendole accelerare i battiti.
Alzò lo sguardo verso di lui, ancora incredula del fatto che il suo Mamo-chan la considerasse perfetta, trovandolo pronto ad offrirle un dolce sorriso pieno di tenerezza.
Lui sciolse l’abbraccio e Usagi, leggermente a disagio, si voltò verso il laghetto sentendo le vene congelarsi:
“Chibiusa, Chibiusa”, urlò spaventata non riuscendo più a vedere la bambina, “Mamo-chan, Chibiusa…” continuava a ripetere in preda al panico alzandosi di scatto e dirigendosi verso il laghetto.
Dov’era la sua bambina? Fino a pochi attimi prima era lì, davanti a lei. Cosa le era successo? Se si fosse allontanata troppo? Se qualcuno la avesse rapita? In un solo istante una miriade di pensieri le passarono per la testa. In un solo attimo temette di non rivedere più la sua piccolina. Tremava e piangeva, incapace di dire altro se non il nome di sua figlia.
“Stai calma, la troviamo” cercava invano di rassicurarla Mamoru ma si capiva dalla sua voce che era spaventato pure lui.
Si separarono, prendendo due direzioni diverse intenti a trovarla il prima possibile. Più secondi passavano, più il cuore di Usagi assomigliava ad un tamburo e le sue gambe tremavano.
“Chibiusa…” continuava a ripetere piangendo, destando la curiosità delle persone sedute sulle panchine e dei bambini che giocavano.
“Mamma…”
Si voltò verso quella voce inconfondibile e spaventata.
Era lei, la sua Chibiusa, che con il faccino triste per averla vista piangere e disperarsi, le corse incontro.
Usagi lasciò uscire un sospiro liberatorio, seguito da altre lacrime, inginocchiandosi e stringendo così forte la piccola quasi da farle male:
“Chibiusa” lasciò uscire mentre la teneva fra le braccia, “Non ti allontanare più. Mi hai fatto prendere uno spavento”, cercò di dire tra un singhiozzo e l’altro.
La piccola iniziò a piangere, in colpa per come aveva fatto preoccupare la mamma, affondando le piccole mani tra i capelli di Usagi e giustificandosi:
“Stavo giocando a nascondino con gli altri bambini.”
Nel frattempo Mamoru le raggiunse, accorgendosi di quell’abbraccio fatto di paura propria di ogni madre e di dispiacere di far soffrire la propria mamma di ogni bimba.
Sospirò, ringraziando il Cielo e, quando Usagi si rialzò tenendo in braccio Chibiusa, si unì in quell’abbraccio:
“Usako, su, non piangere, la nostra Chibi-chan sta bene”, tentò di calmarla e, accarezzando la guancia paffuta e umida della bambina, riprese:
“E tu piccola birbante non ti allontanare più senza avvisarci.”
Chibiusa annuì, scusandosi e baciando la sua mamma sulla guancia:
“Mi perdoni mammina?” domandò con voce timida.
Usagi distese le labbra in un sorriso sincero, pieno di stupore per come la sua piccola Chibiusa riuscisse ad emozionarla semplicemente con delle parole piene di ingenua dolcezza:
“Certo che ti perdono, amore mio. Abbracciami.”
Poi guardò Mamoru e lui, senza bisogno di parlare ma soltanto perdendosi negli occhi azzurri e lucidi della sua Usako, capì che quei momenti di quotidianità, così veri e spontanei come la paura di una mamma, i pianti di una bimba, un abbraccio unico e pieno di amore, erano qualcosa che aveva perso tante volte, forse troppe, ma a cui non avrebbe voluto rinunciare.
Lottò con se stesso prima di decidere che non avrebbe mai rivelato alla ragazza amata qualcosa che la avrebbe spaventata; un qualcosa per cui neanche l’abbraccio più rassicurante sarebbe mai stato in grado di placare la sua paura.
 
Il punto dell’autrice

Carissimi lettori, innanzitutto credo sia doveroso ringraziare di cuore i miei recensori.
La melodia del cuore, in soli 3 capitoli, con ben 68 recensioni positive, è giunta al primo posto delle storie più popolari di sempre si EFP. Grazie, grazie, grazie!
Sono tornata ad aggiornare questa storia perché dopo il dramma e l’esaurimento nervoso di Marzio di Moonlight avevo voglia di dedicare altri momenti di tenerezza alla mia coppia del cuore.
Diciamo che questa ff sarà fatta di momenti di normalità e di riflessioni da parte di un uomo che si trova costretto a rinunciare alle persone che più ama al mondo… tranquilli che il dramma lo metto anche qui ;)
Spero continuerete a seguirmi e, se vi va, sarei felice se lasciaste un commento su cosa avete apprezzato, o meno, di questo capitolo!


Grazie a:

- birillo - brenda the best  - china91 - cri88  - EllieMarsRose  - miss moonlight  - Moon 91 - nikke - prato85  - princesss  - sailor crystal  - sailorlu - sailorm - SailorMercury84 - selenemoon - SERENATA  - SerenityEndimion - Silvia86a - stefania881  - sveva85  - xoxobunny
Per aver inserito La melodia del cuore tra le preferite.

Grazie a:

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per averla inserita fra le seguite.

Un bacio e a presto!
Demy


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Capitolo 5
*** Forse... non più ***


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Cap.5: Forse… non più

Il senso di vuoto nell’anima di Usagi, la sua angoscia e la paura iniziale lasciarono posto alla voglia di dimenticare quello spiacevole episodio e di ritornare alla tranquillità. Presto anche i battiti del cuore di Mamoru ripresero un ritmo lento e costante facendo soltanto crescere il desiderio di rasserenare le sue Usagi.
“Vuoi andare da Motoki a giocare ai videogame?” Con voce rassicurante il ragazzo cercò di far ritornare il buon umore alla bambina, prendendola in braccio e staccandola così dal corpo di Usagi. Solo quando la piccola lasciò la madre, cingendogli il collo, annuì ancora triste mentre i due ragazzi iniziarono ad incamminarsi verso l’uscita del parco.

Arrivati all’ingresso del Crown, nuove locandine su Sailor V erano state apposte sulle porte scorrevoli che si aprirono permettendo loro l’accesso. Quel giorno il locale era quasi vuoto, le sedie e i divanetti erano liberi e i tavoli puliti; la prima cosa che i ragazzi notarono entrando furono tre ragazzine che gustavano i loro gelati tra una risata e l’altra. Soltanto quando scorsero oltre, due sorrisi pieni di sorpresa uscirono dalle labbra di Usagi e Mamoru. Si avvicinarono al tavolo e Usagi cercò di far voltare anche la piccola ancora stretta al padre con il mento sulla sua spalla.
“Guarda chi c’è, Chibi-chan” disse accarezzando la schiena della figlia. La piccola si voltò incuriosita, distendendo le labbra in un debole sorriso.
“Che bella sorpresa! Bentornato Mamoru!”, Ami si alzò per andare ad abbracciare i suoi amici, seguita da Rei.
“Grazie ragazze, è bello rivedervi”, continuò Mamoru mentre abbracciava le amiche. In quel momento un pizzico di gelosia fu visibile negli occhi e nello sguardo di Usagi. Sapeva che era assurdo essere gelosa delle sue amiche ma il semplice guardare il ragazzo che amava sorridere o abbracciare qualche altra ragazza all’infuori di lei le dava il sangue al cervello.
“Ma guarda chi è tornato!” Una voce la distrasse, facendola voltare alla sua destra; notò così Motoki che, col suo grembiule bianco e il solito sorriso dolce e rassicurante, stava andando loro incontro. Mamoru, col braccio libero, lo strinse forte, come se fosse un fratello:
“Motoki, non sai che piacere poterti riabbracciare.”

Era strano ma allo stesso tempo bello; il tempo sembrava essere trascorso in fretta eppure ogni volta che si rivedevano i due amici ritrovavano quella complicità che li aveva uniti fino a qualche anno prima.
Motoki era davvero un ottimo amico, l’unico di cui Mamoru si fidava e sapere che Usagi lavorava lì con lui lo rasserenava.

Si era sempre comportato in maniera rispettosa e degna di fiducia.
Il ragazzo dai capelli corvini ricordava che, quando Motoki aveva saputo della gravidanza e della decisione dei genitori di Usagi, non aveva esitato un solo istante,
‘Tranquilla Usagi, al Crown c’è sempre lavoro, una mano in più mi farebbe molto comodo. E poi tu sei un’esperta di videogame, sei la persona giusta!’, aveva detto togliendola dall’imbarazzo e mettendola a suo agio, offrendo un lavoro alla ragazza che considerava come una sorella minore.

“Allora Chibiusa, oggi con mamma e papà?” Il ragazzo biondo con una carezza sulla testa cercò di strapparle un sorriso, notando che la piccola non intendeva staccarsi dal padre; Chibiusa si limitò ad annuire e poi, voltando la testa e guardandolo negli occhi nocciola, con voce mortificata: “La mamma si è spaventata e ha pianto.”
Si girarono tutti curiosi verso la ragazza che si giustificò:
“Si era allontanata al parco e non la vedevo più, così mi sono spaventata”, scostò una ciocca dalla fronte della bambina e, con un dolce sorriso rivolto soltanto a lei: “Ma ora è tutto passato.”
“Sei troppo apprensiva Usagi” la riprese Rei scuotendo la testa ma Usagi guardandola negli occhi non perse tempo a difendersi: “Sono una mamma, non puoi capirmi!”, portando le braccia incrociate al petto e lasciando fuoriuscire un’espressione infastidita per come Rei non perdesse occasione di criticarla.
Mamoru sorrise, ancora una volta gli sembrò di essere tornato indietro nel tempo. Diede un bacio sulla guancia della sua piccola e si diresse verso alcuni videogame per bambini.

Le tre ragazze si sedettero al tavolo dove erano ancora poggiati due bicchieri di vetro con il the freddo.
“Allora Usagi, come vanno le cose con Mamoru?” chiese Ami iniziando a far girare la cannuccia nel bicchiere.
La biondina alzò le spalle, continuando a fissare col sorriso sulle labbra il suo Mamo-chan divertito e la sua piccola intenta a schiacciare i pulsanti del videogame, poi il sorriso scomparve e con aria seria: “Credo che non cambierà mai nulla tra noi”, rispose demoralizzata.
Le due ragazze si guardarono, dispiaciute ma non sorprese dal fatto che per l’ennesima volta si parlasse di quell’argomento; Rei, scostando dalla spalla una ciocca dei lunghi capelli neri e cercando di fare coraggio a quella che considerava una sorella prese la parola:
“Usagi, sai come la penso; devi cercare di farti forza e dimenticarlo”, ma vedendo l’amica con gli occhi ancora rivolti verso il ragazzo, continuò: “Lui farà sempre parte della tua vita ma devi andare avanti, l’ultima volta che è partito non hai mangiato per due settimane.”
“Sì Usa-chan, Rei ha ragione, non puoi stare male per lui, non è giusto. Devi andare avanti con la tua vita” la appoggiò la ragazza dai capelli blu.
Usagi non amava parlare di certe cose intime ma aveva bisogno di confidarsi e non tenere tutto ciò che la rendeva agitata per sé: “Mi sa che ho complicato tutto” confessò con tono afflitto, incrociando le braccia sul tavolo e poggiandovi il mento.
“Che vuoi dire?” Rea già presagiva odore di guai, conoscendo l’amica.
Un sospiro, poi Usagi parlò: “Ieri notte abbiamo fatto l’amore”, mantenendo una voce e un’espressione triste.
“Cosa!” incredule le due ragazze, alzarono la voce sgranando gli occhi.
Le tre ragazzine si voltarono verso quelle voci e persino Mamoru, l’unica indifferente sembrava Chibiusa, concentrata soltanto a far raccogliere i pasticcini all’omino del videogame.
Usagi si portò dritta sulla schiena: “Ma siete pazze? Abbassate la voce!” ammonì le ragazze, guardandole negli occhi, sentendosi in imbarazzo.
“Ma allora forse le cose stanno cambiando?” Amy era quella ottimista, con sguardo dolce e le gote leggermente arrossate, guardò l’amica negli occhi azzurri, cercando di trasmetterle la sua positività.
Ma Usagi scosse la testa, sicura: “No. Stamattina mi ha detto che non vuole che quello che è accaduto ieri notte possa rovinare il nostro rapporto”, tornando malinconica e poggiando la schiena alla spalliera del sedile.
“Non avresti dovuto Usagi.” Stavolta fu la mora che, seria e delusa ammonì la ragazza: “Si è comportato da stronzo”, continuò guardando nella direzione del ragazzo e fulminandolo con lo sguardo anche se lui era voltato verso lo schermo del videogame.
Ami notò Usagi in difficoltà, leggendo il suo imbarazzo e capendo che si sentisse incompresa; cercò di dire qualcosa ma la diretta interessata la precedette:
“Non è uno stronzo” iniziò, consapevole che Rei la avrebbe sgridata di nuovo per il suo modo di difenderlo sempre, “È Mamoru… e ieri notte quando ha iniziato a baciarmi…” continuò rendendo dalla sua voce percepibile l’amore che provava per il ragazzo; sospirò: “Non ce l’ho fatta a resistere.”
Usagi era sempre più certa che le sue amiche non avrebbero potuto capirla; tante volte la avevano vista piangere, troppe volte avevano notato i suoi occhi simili a pezzi di vetro opaco quando alla partenza di Mamoru non voleva e non riusciva neppure ad alzarsi dal letto non toccando cibo per giorni. Ed ogni volta Rei, Ami e Makoto cercavano di farle capire che il suo atteggiamento era sbagliato, che la vita andava avanti e che sicuramente fuori da quella stanza buia dove Usagi versava lacrime amare c’era qualcuno pronto a farle battere il cuore e renderla felice per come meritava.

Rei era sicuramente quella che appariva più insensibile ma in realtà era colei che conosceva Usagi più delle altre; era lei che la aveva accolta in casa sua nei nove mesi di gravidanza assistendo ai suoi continui malumori e ai grandi e incessanti momenti di sconforto, era lei che la aveva vista piangere notte dopo notte stretta al cuscino, nel letto accanto al suo, soffocando tra i singhiozzi senza riuscire a smettere ma continuando a ripetere - in preda alla disperazione - quel nome che tanto amava; era una sorella per lei e le voleva un bene dell’anima, e se sua sorella soffriva, il suo compito non era asciugarle le lacrime ma far sì che non piangesse più.

Ami invece era la più sensibile, quella che cercava sempre di trasmettere fiducia e positività ad Usagi. Forse perché studiava psichiatra e quindi riusciva meglio a capire i pensieri delle persone e sapeva rapportarsi con loro senza urtare la loro sensibilità, o forse perché era semplicemente nella sua natura essere dolce e rassicurante; fatto sta che era l’unica con cui Usagi riusciva a confidarsi senza temere di essere rimproverata; l’unica con cui riusciva a parlare di tutto senza temere giudizi ma sapendo che avrebbe trovato sempre il sorriso pieno d’affetto e di comprensione di un’amica vera.

“L’importante è che tu sappia che tra due settimane lui ripartirà”,
Ami cercò di essere delicata, “Non vogliamo continuare a vederti soffrire, è questo che cerca di dirti Rei”, continuò.
“Stavolta resta per un mese” sorrise Usagi con gli occhi luminosi, “Guardate com’è bello il mio Mamo-chan” fece notare con aria sognante.
“Devo ammettere che Mamoru è diventato davvero un bell’uomo” osservò Rei portando la cannuccia alle labbra.
Usagi si voltò di scatto verso di lei, aggrottando la fronte e lasciando visibile un’espressione di pura gelosia, infastidita da quel commento.
“Ma smettila! Piuttosto, pensi continuerai a farti tentare da lui o riuscirai ad essere più riflessiva la prossima volta?”
Usagi sospirò, piena di sconforto: “No. Non credo ci sarà una prossima volta stando al discorso di stamane.”
“Usa, noi vogliamo vederti felice. So che al cuore non si comanda ma non puoi farti del male attendendo un suo minimo interesse a te.” Ami posò una mano sulla spalla della ragazza, donandole uno sguardo colmo di conforto.
“Lo so… lo so.”

E lo sapeva sul serio Usagi che i sorrisi fatti di complicità che Mamoru le donava guardandola negli occhi, i dolci baci coi quali premeva le labbra sulle sue facendole battere il cuore forte, le dita che faceva scivolare sulle sue guance con carezze che le provocavano un brivido lungo la schiena, non erano giusti; capiva che rendevano tutto più difficile. Era come entrare nella migliore pasticceria senza poter assaggiare uno dei tanti dolci esposti sul bancone.
Ma Usagi non riusciva a farne a meno, non avrebbe mai potuto resistere, forse perché semplicemente non voleva resistere. Era consapevole del fatto che, razionalmente, le sue amiche avessero ragione; lei stessa nei mesi in cui si ritrovava lontana da lui se lo ripeteva ma poi, quando lui era lì con lei, preferiva vivere di attimi, di dolci momenti di complicità. Magari sarebbero rimasti per sempre soltanto instanti ma valevano la pena di essere vissuti fino in fondo.

La discussione fu interrotta dalla piccola dai codini rosa che, correndo verso le ragazze con un sorriso sulle labbra, attirò l’attenzione:
“Ho vinto! Ho finito tutti i livelli!” disse poggiando la testa sulle gambe della madre. Era così ingenua e le sue espressioni di dolcezza e di entusiasmo infantile coinvolsero le tre ragazze in una sana risata.
“Beh, allora non hai preso da tua mamma; lei era una schiappa ai videogame”, Rei a modo suo voleva distrarre Usagi da quei pensieri che lei in fondo conosceva anche quando l’amica taceva.
Ma Usagi stavolta non reagì, anzi: “Hai ragione, Chibi-chan ha preso dal papà; vero Chibi-chan?” confermò prendendola in braccio e facendola sedere sulle sue gambe.
E in quel momento, dalla voce piena di consapevolezza di Usagi, dal suo sguardo pieno di malinconia che cercava di celare alla figlia tramite un sorriso amorevole, dal modo di accarezzare le rosee ciocche, Rei capì che, per quanto ne avessero potuto parlare, per quanto avesse cercato di far ragionare Usagi per non vederla soffrire, Usagi non avrebbe mai dimenticato Mamoru perché – anche se avesse voluto – lui sarebbe rimasto lì con lei giorno dopo giorno, nel suo cuore, tramite gli occhi e lo sguardo di quella bambina che Usagi amava più di se stessa.

Una volta che Chibiusa era corsa dalla mamma a comunicarle quella che per lei era stata una grande vittoria, Mamoru continuando a guardarla si avvicinò al bancone che Motoki stava pulendo. Si sedette su uno sgabello senza riuscire a distogliere lo sguardo da Usagi che, con la bambina sulle gambe, le accarezzava i capelli mentre parlava con le amiche.
“Che mi racconti Mamoru, come vanno le cose a NY?” chiese il ragazzo continuando a passare il panno umido sulla superficie d’acciaio, notando l’aria assente dell’amico.
Mamoru annuì un paio di volte prima di voltarsi verso il proprietario del locale: “Bene, a Settembre comincio il tirocinio”, si girò di nuovo verso le ragazze udendo la bambina ridere a qualche battuta di Rei, “Stavolta resto qui un mese” informò.
La sua espressione era amareggiata e dispiaciuta e Motoki sapeva il perché:
“Come stai, Mamoru?” domandò con aria preoccupata, ma il moro forzò un sorriso: “Sto bene”, un sospiro e: “Sto bene.”
“Hai parlato con Usagi?” Motoki seguì la traiettoria degli occhi dell’amico che, inevitabilmente lo portarono alla ragazza bionda che faceva galoppare la bambina sulle sue gambe.
“No.”
“Dovresti invece”, cercò di convincerlo, guardandolo negli occhi con espressione eloquente, ma Mamoru scosse la testa deciso:
“No, è fuori discussione” e ne era sempre più convinto sentendola ridere e vedendo la figlia divertita.
“Lo verrà a sapere e si arrabbierà da morire.” Motoki sapeva che sia l’amico che Usagi erano molto testardi, sapeva che parlare con entrambi era un’impresa ardua, se non impossibile, ma provò ugualmente: “Mamo, devi tornare qui e stare con loro.” Lasciò il panno sul bancone e si sedette su uno sgabello accanto all’amico: “Tu hai bisogno di loro e loro hanno bisogno di te” affermò serio.
Mamoru chiuse gli occhi per un istante, immaginando quanto sarebbe stato bello poter passare il resto della sua vita al fianco di Usagi, tenendo tra le sue forti braccia la loro bambina.
La scena fu chiara e nitida nella sua mente:

Usagi che pian piano apriva gli occhi mentre un raggio di sole le riscaldava le gote e i lunghi capelli dorati sparsi sul materasso;
che si voltava verso di lui, perdendosi nel suo sguardo intenso pieno d’amore avvolta da un leggero lenzuolo che le fasciava quel corpo favoloso a cui non sapeva resistere;
che gli sorrideva sfiorandogli una guancia mentre lui le si avvicinava baciandole le labbra e accogliendola nel suo caldo abbraccio come a non volerla lasciare andare più…
… e poi la loro bambina che correva verso di loro, arrampicandosi sul letto e unendosi in quell’abbraccio che profumava d’amore sincero e di famiglia.


Pensò a tutto ciò in quei brevi momenti e poi, ancora più sicuro di sé: “No. Farò in modo che non lo venga a sapere.”
Motoki avrebbe scommesso su quella risposta e, sospirando come se non sapesse più cosa fare per farlo ragionare, chiese:
“Perché?”
“Perché le amo troppo. Tutte e due.” La sua voce tremava al pensiero di doverle lasciare di nuovo non appena le quattro settimane sarebbero trascorse, il ricordo della notte precedente e la scena appena immaginata con loro tre uniti come una famiglia vera lo resero ancora più triste e demoralizzato. Lottò contro se stesso per reprimere la sua naturale gelosia prima di dar voce alla ragione e all’amore per Usagi e Chibiusa:
“Tu saresti un buon padre per Chibiusa”, uno sforzo maggiore e: “E un buon marito per Usako.” Le sue emozioni però vinsero ancora una volta, facendo tremare la sua voce e rendendo cupi i suoi occhi blu mentre pronunciava quelle parole quasi per auto convincersene.
“Ma non dire assurdità”, Motoki era shockato da quelle affermazioni e le sue guance si erano colorate leggermente per l’imbarazzo, “Lo sai benissimo che Usagi è da cinque anni che non esce con qualcuno in attesa che tu ti decida di tornare.”
Mamoru sgranò gli occhi, incredulo ma egoisticamente contento:
“Te lo ha detto lei che aspetta me?”
Il ragazzo dagli occhi nocciola per un attimo temette di aver parlato troppo ma poi, credendo che forse avrebbe trovato un modo per farlo ragionare, scosse il capo: “La osservo tutti i giorni, le parlo tutti i giorni e noto il suo cambiamento di umore prima del tuo arrivo e dopo la tua partenza.”
Mamoru rimase immobile; possibile che lui non avesse mai pensato ad un’eventualità del genere? D’altronde, come poteva?

Inizialmente, quando decise di accettare la borsa di studio per concretizzare il suo grande sogno, credeva che quella di Usagi per lui sarebbe stata una cotta adolescenziale, una di quelle per cui si crede di provare Amore ma che poi, coi mesi, svanisce lasciando solo delusioni e ceneri di sogni andati in fumo. E, sebbene lui la amasse davvero, non avrebbe voluto raccogliere le ceneri di quell’ambizione bruciata per vivere un amore da ragazzini, un amore a cui la stessa Usagi avrebbe scritto la parola fine.
E così, atterrò a NYC, intraprendendo una nuova strada verso la realizzazione di ciò in cui aveva sempre creduto dalla morte dei suoi, portando la sua Usako e i momenti unici e indimenticabili trascorsi con lei nel cuore ma cercando di dimenticarla per non farsi più del male. I mesi passarono e il pensiero era sempre a Tokyo e alla ragazza dai codini biondi;
‘Chissà cosa faceva, chissà se c’era qualcun altro con lei’, erano queste le sue domande frequenti la notte prima di addormentarsi in quella stanza del college che divideva con altri due ragazzi. E così, anche dopo la nascita della loro bambina, l’idea che lei avrebbe continuato – giustamente – la sua vita senza di lui lo fece andare avanti per quattro anni, fin quando alla fine dell’Università decise di tornare in Giappone e iniziare lì il tirocinio. Avrebbe potuto finalmente vedere la sua Chibi-chan tutti i giorni, essere presente nella sua vita fatta di piccole cose ma di grandi momenti. Non se ne sarebbe più perso neanche uno; avrebbe riso ai suoi ingenui sorrisi e avrebbe sofferto vedendola piangere. E poi c’era Usako; la sua amata Usako, e anche con lei probabilmente avrebbe potuto iniziare un rapporto vero, maturo, fatto di complicità e basato sull’amore che da sempre provava per lei. Forse Usagi lo avrebbe perdonato per averla lasciata da sola in quegli anni, forse avrebbe voluto iniziare- riprendere la loro storia d’amore. Forse non tutto era perduto. Forse… forse… forse…
Poi però la collega Setsuna gli aveva dato quella notizia così inaspettata e così tanto temuta che il suo cuore mancò un battito.
E quelle parole che maledisse con tutto se stesso e che avrebbe voluto non dover mai sentire, sfociarono nell’accettazione della dura realtà e nella consapevolezza che per la seconda volta nella sua vita non poteva comportarsi da egoista.
Sarebbe rimasto a NYC, permettendo a Usagi di trovare qualcuno che le volesse bene e a sua figlia di avere la possibilità di avere un padre ‘vero’, che si prendesse cura di lei giorno dopo giorno, che proteggesse entrambe e le rendesse felici per come meritavano.


“Mamoru, mi ascolti?” Motoki agitò una mano ben aperta davanti gli occhi persi nel vuoto del ragazzo moro.
Fu così che Mamoru, alla vista di quelle dita che si muovevano velocemente davanti a lui, scosse la testa, tornando alla realtà:
“Sì, ti ascolto”, guardò alla sua sinistra la bambina, vedendola scivolare dalle gambe della madre e battere le mani su quelle della ragazza come se stesse facendo un gioco divertente.
“Mamoru, solo tu puoi renderla felice” rivelò quello che da sempre riusciva a leggere i sentimenti dei suoi due più cari amici.
Mamoru sorrise d’istinto alla vista di Chibiusa sempre più divertita da quel gioco fatto con la madre, poggiò le braccia incrociate al bancone e, scuotendo la testa pieno di rimpianti e di amarezza affermò:
“Non più.”



Il punto dell’autrice

Carissimi lettori, eccomi di nuovo ad aggiornare questa fan fiction!
Se inizialmente non ero certa di come si sarebbe evoluta la trama, adesso so per certo cos’accadrà e come si svilupperanno gli eventi.
Sinceramente questo non è uno dei miei capitoli preferiti perché, come avrete notato, i miei cari Usagi e Mamoru son stati separati tutto il tempo. Mi serviva questo capitolo per introdurre i personaggi di Ami, Rei e Motoki che avranno dei ruoli in questa ff e perché Motoki è l’unico a sapere cosa trattiene Mamoru a NYC.
Il nome Setsuna emerge anche in questa ff (evviva la fantasia!) semplicemente perché era quella più adatta al ruolo che ho in mente per lei. Vi prego non allarmatevi, non siamo al Moonlight! ;)
Spero che, al contrario di me, questo capitolo non vi abbia deluso e che in qualche modo vi sia piaciuto.
Come al solito ringrazio tutti coloro che mi seguono e che spendono due minuti in più per recensire.
Spero continuerete a seguirmi, nel prossimo capitolo si ritornerà alla ‘coppia’ Usako e Mamo-chan ;)
Nell’attesa fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo, anche se negativa una vostra recensione fa sempre piacere!
Un bacio e a presto :)


Demy


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Capitolo 6
*** Setsuna ***


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Cap. 6: Setsuna


Erano le 12.45 e Rei e Ami lasciarono il Crown; Ami aveva ancora parecchio da studiare per il prossimo esame, per lei studiare non era mai abbastanza, era sempre possibile fare di più e fare di meglio. Lei teneva molto a diventare una brava psichiatra e dopo un intero anno passato in una delle Università più prestigiose della Germania, grazie ad una borsa di studio, era tornata a casa per continuare lì il suo percorso universitario. Il mese successivo avrebbe dovuto sostenere l’esame di anatomia e, sebbene avesse già terminato di studiare l’intero volume, per lei non era ancora sufficiente.
Rei, invece, da quando il nonno era diventato sempre più debole a causa della vecchiaia, si era dovuta occupare da sola del Tempio; aveva dunque deciso di assumere un aiutante e, verso le 13.00, avrebbe iniziato gli incontri con i candidati.
 
Una volta andate via le sue amiche, Usagi tenendo per mano Chibiusa si avvicinò ai due ragazzi. Mamoru si chinò e prese in braccio la piccola e, rivolgendosi a Motoki con un sorriso disse:
“Sarà meglio che andiamo anche noi, si è fatto tardi.” Guardò la bambina e con dolcezza riprese: “La mia Chibi-chan avrà fame.”
In quel momento, mentre Mamoru e Chibiusa si guardavano con un’espressione piena di amore e affetto come solo quella che lega un padre alla sua adorata bambina può essere; Motoki posò il suo sguardo non sull’amico né su quell’adorabile birbante contenta di avere le attenzioni del papà bensì su Usagi e un senso di tenerezza lo assalì. Vide la ragazza perdersi nell’immagine delle due persone più importanti della sua vita con gli occhi luminosi quasi lucidi che esprimevano vita, e con le labbra che accennavano un sorriso malinconico, dispiaciuto ma allo stesso tempo un po’ commosso.
Avrebbe voluto fare di più, avrebbe potuto essere d’aiuto affinché i suoi più cari amici avessero avuto la felicità che meritavano.
“Usagi, ascolta” iniziò attirando l’attenzione non solo della ragazza, che si voltò curiosa, ma anche di Mamoru.
“Come vedi oramai qui non c’è molta gente; le persone con questo tempo preferiscono andare al mare.” Usagi lo guardava aggrottando la fronte e lui riprese: “Credo che me la caverò da solo questa settimana, ti do la settimana di ferie che mi avevi chiesto qualche tempo fa ma che non potevo concederti dato che c’era sempre confusione qui” facendole l’occhiolino in segno di complicità che ormai li legava da cinque anni.
Usagi rimase per un attimo in silenzio, stupita per quel gesto; lei sapeva che non c’era mai stata nessuna sua richiesta di ferie, capiva che Motoki cercava di farle passare più tempo possibile con il suo Mamo-chan.
Gli donò un sorriso pieno di stima e di riconoscenza. “Grazie” si limitò a dire come un sussurro, guardandolo con occhi che esprimevano tante parole piene d’affetto che probabilmente a voce non avrebbero sortito lo stesso effetto.
 
Lasciarono il Crown dirigendosi verso casa e, mentre Chibiusa teneva per mano i suoi genitori, contenta per quella sensazione di completezza che le procurava un forte calore al cuore, Usagi osservava Mamoru con la coda dell’occhio, notandolo serio, assorto nei suoi pensieri: pensieri che lei non conosceva ma che evidentemente dovevano essere molto importanti dato che continuava a guardare davanti a sé senza dire neppure una parola.
 
Una volta rientrati a casa, Mamoru si diresse nella sua camera tirando fuori dalla valigia ancora da disfare una busta bianca di plastica.
“Guardate cosa ho portato!” disse una volta raggiunte in cucina Usagi e Chibiusa; esse si avvicinarono, aspettando che il ragazzo estrasse il contenuto, sempre più curiose.
Aggrottarono la fronte fin quando lui, sorridendo divertito per quelle espressioni impazienti, spiegò:
“Sono le posate occidentali! Questa si chiama forchetta, questo cucchiaio e questo coltello”, prendendo dallo scatolo rettangolare tre oggetti di ferro.
“Come si usano, papà?” domandò Chibiusa incantata da quegli oggetti che aveva spesso visto nei film americani.
Mamoru allontanò il coltello dalla bambina che cercava di prenderlo per guardarlo meglio.
“Le usiamo a pranzo, così ti spiego, vedrai, è divertente” rispose riposandole nella confezione.
 
Il pranzo fu per Chibiusa un vero e proprio divertimento; sia lei che la madre non riuscivano a tenere gli spaghetti tra i denti della forchetta, facendoli scivolare di nuovo sui loro piatti se non addirittura sulla tovaglia.
Mamoru ogni tanto  lasciava uscire una fragorosa risata, soprattutto quando entrambe stropicciavano le labbra in smorfie di pura irritazione per non essere brave a usare correttamente quegli aggeggi e di conseguenza per non poter mangiare.
All’ennesimo tentativo, Chibiusa esclamò: “Urrà, ce l’ho fatta!” soddisfatta di sé prima di portare gli spaghetti ben attorcigliati alla bocca.
Usagi invece continuava a non esserne in grado.
“Basta ci rinuncio, prendo le bacchette” disse alzandosi per andare verso il bancone della cucina; Mamoru allungò un braccio fermandola dolcemente per un polso.
“Aspetta, vieni, proviamo insieme” suggerì con tono paziente in cui Usagi scorse tutta la tenerezza che da sempre riservava a lei e alla loro bambina; la stessa tenerezza che ogni volta le incendiava il cuore complicando tutto, la stessa tenerezza a cui - ciò nonostante - non avrebbe mai voluto rinunciare.
Disarmata da quegli occhi luminosi e profondi, ritornò a sedere; lui avvicinò la sua sedia a quella di lei e, quando Usagi impugnò la forchetta, poggiò con delicatezza la sua mano sulla sua aiutandola ad avvolgere la pasta.
Quel contatto così ingenuo e innocente le procurò un brivido alla schiena; non era la prima volta che le loro mani si sfioravano, si prendevano; tra loro due c’erano già stati tanti momenti con contatti fisici più intensi, maliziosi, pieni di desiderio, eppure per lei ciascuno di essi era unico, speciale; lo viveva, lo assaporava in tutte le sue forme come se ogni volta fosse stato l’ultimo.
Si lasciò aiutare, seguendo quel movimento rotatorio cercando di non distrarsi troppo a causa del profumo così intenso e irresistibile di Mamoru troppo vicino a lei.
Un sorriso le uscì dalle labbra quando vide che finalmente anche lei era riuscita a mangiare all’occidentale; guardò Mamoru e, ancora una volta, per quello sguardo magnetico e naturale, il suo cuore mancò un battito. 
 
Mamoru osservava tutto come uno spettatore esterno e invisibile; tutti i più piccoli movimenti, le più piccole espressioni di Usagi e Chibiusa; voleva fotografare tutte le immagini possibili nella sua testa, memorizzare tutti i momenti passati con la sua famiglia.
L’allegria e i sorrisi di Chibi-chan che rivolgeva alla mamma, felice per quel pasto sempre più simile a un gioco nuovo; le smorfie di Usako che, nonostante l’impegno, ogni tanto ritrovava qualche spaghetto sulla tovaglia, a cui seguivano ulteriori risate della bambina.
Per lui l’unione dei suoni provocati dalle voci, dalle risa delle sue ragazze, erano una melodia; una melodia che avrebbe sempre scaldato il suo cuore. Si commosse per la scena disarmante davanti ai suoi occhi: Chibiusa aveva ancora tra le labbra degli spaghetti e aspirandoli cercò di metterli tutti in bocca; parte del sugo però finì sulla sua maglietta bianca oltre che sulle sue guance e Usagi, prendendo con una mano il viso della bambina: “Guarda come ti sei sporcata” disse sorridendo e passandole un tovagliolo pulendola prima di schioccarle un bacio sulla guancia affondando così in quel visino paffuto.
 
Mamoru cercò di trattenere le lacrime; le sue Usagi erano bellissime assieme, ispiravano tenerezza da ogni loro singolo gesto e lui avrebbe tanto voluto essere lì con loro tutti i giorni della sua vita per assistere a quei momenti unici che scaldavano il cuore; sarebbe voluto essere lì sempre, per partecipare a quella loro complicità e per proteggerle da tutto e da tutti.
Si sentì un idiota per aver preferito rimanere a New York dopo aver saputo della gravidanza; quello era stato l’errore più grave di tutta la sua vita che lui aveva capito solo quando la realtà gli aveva messo di fronte determinate situazioni imprevedibili e inimmaginabili ma che gli avevano cambiato la vita facendolo riflettere sulle scelte sbagliate. Solo che ormai era troppo tardi per rimediare; per lui non c’era più nulla da fare, non poteva recuperare tutti i momenti fatti di piccole cose che mettono in moto il cuore facendogli suonare la melodia più dolce che potesse esistere; non poteva più tornare per sempre dopo aver parlato con Setsuna.
Le aveva perse per sempre; non poteva continuare ad essere egoista, loro meritavano la felicità e una protezione che lui non poteva assicurare loro.
 
Finirono di pranzare e Chibiusa iniziò ad attorcigliare una ciocca dei suoi rosei capelli tra le dita, ogni tanto abbassava lentamente le palpebre, fin quando Usagi, prendendola in braccio disse:
“Andiamo Chibi-chan, facciamo il riposino”; si avvicinò a Mamoru e riprese: “Dai un bacio a papà”. Chibiusa, continuando a giocare coi suoi capelli, premette le labbra sulla guancia del padre, poi si appoggiò alla spalla della ragazza che si avviò verso la cameretta.
Si sdraiò come sempre nel letto della piccola tenendola tra le sue braccia e accarezzandole i capelli; sapeva che quel gesto la rilassava e conciliava il suo sonno. Chiuse gli occhi anche lei mentre percepiva dai movimenti sempre più lenti di Chibiusa che la bimba si stava abbandonando al mondo dei sogni.
Avvolta dal silenzio, ancora una volta ripensò alla notte precedente; ricordò le mani di Mamo-chan accarezzare le sue gambe con avidità e desiderio, esplorare ogni centimetro della sua pelle, riuscì a sentire ancora quelle labbra umide - che tanto amava - scivolare sul suo corpo e il respiro dell’uomo che adorava diventare sempre più affannato sul suo collo e sul suo viso mentre si dondolava su di lei facendole perdere i sensi; facendole sperare che ciò avesse portato a una svolta; la svolta che sognava e pregava da quasi sei anni. Ripensò pure al bacio innocente di quella mattina dopo colazione; le sue mani sul suo viso e le labbra carnose che avevano il gusto dolce di marmellata sulle sue ma che le lasciavano un sapore amaro dopo, quando capiva e realizzava che quella era l’unica svolta che avrebbe avuto. E poi c’erano i pensieri di lui; pensieri che da quando aveva parlato con Motoki erano diventati sempre più insistenti facendolo apparire sempre più taciturno e serio. Scosse la testa per mandar via tutte quelle considerazioni che avevano reso già tutto più difficile e che in alcuni momenti le avevano dato l’impressione di trovarsi in una camera a gas, una camera in cui però era entrata di sua spontanea volontà. Sollevò la testa, quel poco per accorgersi che la bambina si era addormentata con la guancia a contatto col suo petto. Lentamente si scostò da lei sistemandola con il capo sul cuscino e facendole aderire la schiena al materasso; le rimboccò il lenzuolo e uscì della stanza dopo aver lasciato un ultimo sguardo pieno di amore verso quella piccola creatura che in ogni momento le ricordava quale fosse la sua ragione di vita.
 
Di fronte alla stanza di Chibiusa era situata quella di Mamoru; la porta era aperta e Usagi non poté non rimanere ipnotizzata da quell’immagine davanti a sé: Mamoru si era addormentato; nonostante i lineamenti marcati di uomo e la barba appena accentuata, il suo viso era simile a quello di un bambino sereno; sembrava stesse sorridendo al custode del regno dei sogni. Quell’aria così ingenua e indifesa non l’aveva mai vista prima in lui o forse quella sua nuova visione del suo Mamo-chan era dovuta al fatto che lei era una donna innamorata di lui, ogni volta di più, arrendevole ormai persino ad un suo respiro. Mamoru aveva tolto i jeans e indossato i pantaloni di cotone che utilizzava per stare in casa; la canottiera verde aderente metteva in risalto il suo corpo tonico e ben definito. Usagi lo guardò per qualche secondo poggiata allo stipite della porta prima di avvicinarsi istintivamente senza far rumore. Una volta accanto al letto, si abbassò pian piano prendendo il lembo del lenzuolo fresco e profumato di lavanda e coprendo cautamente il ragazzo in modo che il contatto della pelle scoperta col cotone leggero non lo destasse da quel beato riposo. Rimase qualche istante lì, immobile, ad ammirare il suo viso sempre più rilassato e il suo corpo muoversi seguendo il suo respiro regolare e costante. Anche se di solito non era lei la prima a trovare il coraggio, anche se di solito aspettava e sperava che fosse lui a baciare le sue labbra, in quel preciso istante sentì il bisogno estremo di sentirlo vivo, di sentire il suo caldo respiro sul suo viso  e così, lentamente, avvicinò le sue labbra a quelle di Mamoru premendole con la delicatezza e dolcezza che da sempre riservava solo a lui e assaporando quel contatto col quale capiva che lui era lì, lì con lei.
Pian piano lui alzò le palpebre donandole un sorriso; Usagi allontanò subito le labbra da quelle di lui, senza vergogna però per essere stata colta in flagrante, sorrise di rimando con occhi luminosi e pieni d’amore aumentando la distanza dei loro visi e scostandogli alcune ciocche corvine dalla fronte.
“Torna a riposare, Mamo-chan, vado a stendermi anche io” sussurrò perdendosi nelle profondità delle sue iridi blu come l’oceano di notte.
 
Chiedimi di restare, ti prego chiedimi di restare qui con te…” continuava però a ripetere dentro la sua testa, come se, guardandolo, potesse suggerirgli ciò che avrebbe voluto sentirsi domandare.
 
Lui annuì mantenendo un sorriso sul viso e richiudendo gli occhi. Quel gesto fu per Usagi peggio di una pugnalata al cuore; sentì un vuoto dentro e avvertì gli occhi pizzicare; non poteva più rimanere lì con lui e rischiare che notasse i suoi occhi lucidi che – come un fiume in piena – non riuscivano più a trattenere le lacrime e, anche se avesse potuto, lui non la voleva lì con lui; non c’era nessun motivo per rimanere in quella camera. Si voltò chiudendo la porta e dirigendosi nella sua stanza che considerava troppo grande senza il suo Mamo-chan accanto lasciandosi cadere sul letto; affondò la testa sotto al cuscino e iniziò a piangere sfogandosi e continuando a ripetersi “Stupida Usagi, Stupida – illusa  Usagi!” fin quando le lacrime e i singhiozzi pieni di amarezza e continue illusioni la lasciarono stremata; chiuse gli occhi e, per qualche ora, trovò pace nei sogni.
 
 
Passarono un paio di giorni; Usagi diventava sempre più irrequieta; più osservava Mamoru assorto nei suoi pensieri sempre più frequenti, più lo notava serio ed estraniato dalla realtà e più la sua perplessità cresceva.
Sotto un cielo fatto di stelle in una serata di metà Giugno, con la leggera brezza che accarezzava le sue braccia e le sue gambe lasciate scoperte da un vestito di leggero cotone rosa, seduta sul dondolo, Usagi guardando Mamoru spingere Chibiusa sull’altalena in giardino rifletté.
Lui era sempre affettuoso con la loro Chibiusa, non le faceva mancare le coccole, le attenzioni, le lunghe passeggiate seguite da un gelato al cioccolato con tanta panna sopra; era sempre protettivo e attento con la piccola però quando si trattava di lei Mamo-chan era assente e ciò diventava insostenibile da sopportare. Non era mai stato così, anzi, le volte precedenti era sempre stato molto affettuoso, donandole dolci sorrisi, tenere carezze e unici baci a fior di labbra che le avevano sempre dato la voglia di continuare a sperare, di credere in un futuro assieme. Avevano instaurato un rapporto pieno di complicità, unico nel suo genere; a loro bastava guardarsi negli occhi per capirsi, bastava una sola parola per capire l’intero senso del discorso; ma in quei giorni Usagi si domandò cosa fosse successo per cancellare tutto ciò che aveva costruito con l’anima, con le lacrime e con la rinuncia al suo Mamo-chan.
Si destò da quei pensieri che ormai la stavano logorando quando vide il ragazzo prendere in braccio la bambina e avvicinarsi a lei.
“Se non ti spiace la porto io a letto stasera” disse con occhi desiderosi di recuperare tutto ciò che aveva perduto tante, troppe volte.
“Certo” rispose lei sorridendo piena di comprensione. Si alzò e riprese: “Sogni d’oro, amore mio” con il visino della bambina tra le mani prima di schioccarle un bacio sulla fronte.
 
Quando lui entrò in casa, si risedette sul dondolo con la testa sulla morbida spalliera facendosi cullare da quel movimento rilassante; nel silenzio del quartiere, chiuse gli occhi  inspirando profondamente e inebriandosi del fresco profumo di prato e di rose del suo giardino. Era una bella sensazione di pace e tranquillità quella che provò. Dopo qualche minuto però quella sensazione di serenità finì; sentì il cellulare di Mamoru squillare e, vedendo lampeggiare il display  sul tavolino di plastica accanto all’altalena, si alzò per prenderlo e portarlo al ragazzo. Il suo cuore mancò un battito, le gambe divennero troppo deboli per sorreggere il suo peso quando lesse il nome Setsuna.
Chi era Setsuna? Cosa voleva da Mamo-chan?
Ad un tratto, ancora immobile e persa in molteplici ipotesi con lo sguardo fisso sul display che continuava ad illuminarsi, si ritrovò il ragazzo davanti che prese il telefono in mano; solo dopo aver letto il nome lui guardò per un istante Usagi, notando i suoi occhi lucidi e il suo sguardo pieno di sconforto, prima di allontanarsi per rispondere.
Usagi aveva bisogno di sedersi, le avevano fatto troppo male quegli occhi blu in cui aveva letto sensi di colpa; in cui aveva scorto agitazione per essere stato scoperto. Quello sguardo le aveva dato la conferma a tutti i suoi dubbi; una conferma che non avrebbe mai voluto avere; per una volta nella sua vita di ragazzina stupida e illusa avrebbe tanto voluto continuare a sbagliarsi.
Tornò a sedere poggiando un gomito sulla spalliera e tenendo ferma la  fronte con la mano; oramai anche il dondolio – da sempre rilassante – non era in grado di calmarla.
Alle spalle della vetrata, all’interno del salone, Mamoru parlò per qualche minuto; Usagi maledisse ancora una volta il suo essere stata svogliata a scuola e non aver imparato l’inglese; se lo avesse capito, in quel momento avrebbe potuto comprendere ciò che il ragazzo diceva. E invece no, non le era chiara neppure una sola parola, l’unica cosa certa era che il tono di Mamoru era molto serio.
Non sapeva cosa pensare, cosa credere; se solo Minako fosse stata lì…
Lei era un’attrice di Hollywood ormai e conosceva l’inglese benissimo nonostante a scuola erano state compagne di banco e di insufficienze; le avrebbe tradotto tutto alla perfezione senza farla sprofondare nell’incertezza e nella curiosità che le divoravano l’anima.
Quando scorse un’ombra per terra, accanto a lei, alzò lo sguardo accorgendosi di Mamoru che la fissava con aria dispiaciuta.
“Prendo una birra, ne bevi una con me?” le chiese forzando un sorriso dopo aver notato i suoi occhi lucidi.
Lei scosse la testa ricacciando indietro le lacrime che la voce piena di dolcezza di lui inevitabilmente le procuravano.
Si rannicchiò su se stessa, con le gambe al petto, come a volersi confortare da sola. Lui tornò poco dopo e si sedette accanto a lei; bevve un sorso della sua bevanda preferita e portò indietro la testa, poggiandola sull’imbottitura della spalliera.
“Si sta bene qui” disse osservando le stelle e distendendo un braccio sullo schienale, dietro la testa di Usagi.
Lei annuì, constatando quanto fosse bello il cielo blu, quella sera, impreziosito da un’infinità di puntini luminosi che sembravano brillare solo per loro due.
 “Mamo-chan, scusami, non volevo essere impicciona; volevo solo portartelo prima che smettesse di squillare” confessò.
Lui bevve altri due sorsi prima di rispondere: “Non hai nulla di cui scusarti Usako” come un sussurro in cui lei avvertì dispiacere.
Rimanendo stretta a se stessa, poggiò dolcemente la testa sulla spalla del ragazzo. Lei aveva bisogno di quel contatto perché se era vero che era stato lui a farle provare una stretta al cuore con quello sguardo rammaricato, era sempre lui che tramite un solo abbraccio era in grado di farla ritornare serena alleviando tutti i suoi dolori e i suoi sconforti.
Lui rimase immobile per qualche istante e, finendo di bere quella bevanda amara e ghiacciata, iniziò ad accarezzare i lunghi capelli della ragazza, soffici e lisci sotto le sue dita.
Usagi sorrise, in quel momento sì che si stava bene.
“Va tutto bene, Mamo-chan? Cos’è che ti preoccupa? Confidati con me” osò domandare.
Lui abbassò lo sguardo per incontrare i suoi occhi.
“Cosa?” chiese stupito da quella domanda.
Usagi portò una mano all’altezza del suo cuore: “Ormai è da qualche giorno che sei sempre pensieroso, confidati con me” spiegò distendendo le labbra in un sorriso rassicurante.
Lui prese la mano che era ancora lì, sul suo petto, e premette le labbra sul dorso tenendo gli occhi chiusi.
Si sentì accarezzare il viso e, sollevando le palpebre, vide Usagi con gli occhi lucidi fissarlo con un’espressione piena di fedeltà.
“Lo sai che di me puoi fidarti, Mamo-chan. Dimmi cosa ti turba” insisteva con voce simile a un soffio d’amore.
“Usako…” riuscì solo a dire con voce spezzata mentre le sue labbra sfioravano quelle della ragazza.
Si guardarono per un istante; i loro occhi erano attratti sempre di più, i loro cuori battevano forte, bisognosi di un contatto più intenso, pieno di conforto e di rassicurazione reciproca.
Poi lui chiuse gli occhi ritraendosi: “Devi farmi una promessa.”
Lei annuì, piena di speranza: “Tutto quello che vuoi, Mamo-chan.”
E per lui quella voce angelica rese tutto più complicato; abbassò lo sguardo verso l’ombra del dondolo che si rifletteva sul pavimento e, deglutendo a fatica, disse:
“Promettimi che sarai felice.”
Lei rimase in silenzio, non capendo – per la prima volta – cosa significassero quelle parole.
“Promettimi che troverai un uomo che ti renda felice e che sia un buon padre per Chibiusa” riprese con voce tremante mentre i battiti del suo cuore iniziavano ad essere sempre più accelerati.
 
Per quanto Usagi avesse potuto provare ad evitarlo, un sorriso amaro seguito da un sospiro pieno di amarezza uscì istintivo dalla sua bocca; i suoi occhi non riuscirono più a trattenere le lacrime che aveva sempre cercato di non mostrare a lui.
“Chibiusa ha già un padre” rispose con voce delusa alzandosi di scatto e guardandolo piena di rabbia coi pugni all’altezza dei fianchi.
“E tu, Usagi, hai un uomo che ti ama, che ti protegge, che si prende cura di te?”
Quanto male gli facevano quelle parole; non avrebbe mai voluto pronunciarle, soprattutto notando le rosee guance della sua Usako rigate da lacrime amare.
 
Usagi scosse la testa lentamente, stropicciando le labbra in una smorfia di dolore.
“Non sono affari tuoi! Anzi, se proprio vuoi saperlo, no! Non ho nessuno che mi ama e non lo avrò mai perché sono solo una stupida, sciocca, ragazzina illusa.” Lo confessò tutto d’un fiato prima di potersene pentire mentre il suo respiro diventava sempre più affannato.
Perché doveva trattarla così? Perché doveva farla soffrire sempre di più? Lei non avrebbe mai neppure lontanamente immaginato di fargli del male, perché lui invece sembrava godesse facendola dispiacere?
Corse via, non curante se dal suo atteggiamento troppo impulsivo e sincero lui avesse capito i suoi sentimenti. Non le importava più, anzi, era sempre più convinta che dal suo modo di fare, Mamoru era troppo preso da sé e dalla sua vita a NYC per accorgersi di lei e dei suoi sentimenti visibili anche a un cieco.
Si buttò sul letto, tremando come una foglia, con i muscoli del viso che ormai facevano male per tutti i  pianti che lui le aveva procurato.
Ormai era evidente: i pensieri di Mamoru, i suoi comportamenti scostanti e freddi, le sue parole piene di cattiveria con cui non si accorgeva del suo amore avevano un nome: Setsuna.
Guardò la cassettiera di fronte a sé; la foto che la ritraeva felice e sorridente assieme alle sue quattro amiche attirò la sua attenzione.
“Hai ragione Rei, e anche tu Ami-chan; da domani Mamo-r-u farà parte del passato” disse tra un singhiozzo e l’altro come se stesse davvero parlando con le sue amiche più care. Dal giorno dopo avrebbe iniziato un nuovo modo di affrontare la vita, si sarebbe rassegnata dopo sei anni ad un futuro senza Mamoru; il primo passo da fare era chiudere gli occhi e immergersi nei sogni. Con le palpebre abbassate e il respiro che iniziava a regolarizzarsi, l'incubo reale stava già iniziando a diventare sempre più lontano.
 
Il punto dell’autrice
 

Sono tornata! Dopo quasi un mese eccomi di nuovo!
Scusate il ritardo ma in questo periodo come molti di voi sapranno, ho avuto un contratto da far firmare nelle città che non dorme mai ;)
Inoltre in questo periodo ho avuto un po’ di problemi che non hanno conciliato la mia ispirazione.
Spero d’ora in poi di aggiornare più frequentemente e di non deludere le vostre aspettative.
Questo capitolo, di transito, non mi convinceva molto ecco perché non l’ho pubblicato prima, dato che continua a non convincermi, ho deciso di pubblicarlo lo stesso anche se possibilmente lo sistemerò in futuro.
Dal prossimo capitolo ci saranno nuovi arrivi e nuove sorprese per Usagi, spero continuerete a seguirmi :D
Nel frattempo spero di ricevere un vostro commento per sapere cosa ne pensate di questo capitolo; anche se negativa, una vostra recensione fa sempre molto piacere!  
Vi auguro una
Buona Pasqua, ringraziandovi come sempre del vostro affetto e sostegno!
Bacioni e a presto!

Demy

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Capitolo 7
*** Le cose andranno meglio? ***


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  Cap.7: Le cose andranno meglio?


I raggi di sole che filtravano dalle tende color pesca riscaldarono lievemente le gote di Chibiusa, baciarono le sue piccole e morbide labbra tenute leggermente dischiuse, e accarezzarono i suoi morbidi capelli ravvivandone i riflessi ramati; il cinguettio degli uccellini la interruppe dalla sua cavalcata su un unicorno alato nel mondo dei sogni meravigliosi riportandola alla realtà. Lentamente sollevò le palpebre notando la sveglia a forma di coniglietto rosa, sopra al comodino, che segnava le 9.30.

Era tardi! Nonostante la mamma le avesse detto che non sarebbe andata all’asilo dato che c’era papà con cui recuperare tutti i mesi di sofferta lontananza, quel giorno la sua più cara amica compiva sette anni e Chibiusa non vedeva l’ora di arrivare alla festa di compleanno per poter giocare assieme a lei e assistere allo spettacolo delle scimmie che il papà di Hotaru aveva assicurato.
Si voltò più volte nel letto ma poi, smaniosa, scese giù dirigendosi in camera della mamma.

Abbassò la maniglia lentamente, senza far il minimo rumore; dalla fessura notò ancora una volta che la mamma dormiva rannicchiata stringendo uno dei due cuscini, proprio come lei. Si avvicinò al letto e, poggiata con il pancino al materasso, iniziò a far scivolare la mano sulla guancia della ragazza.
 
Lentamente Usagi aprì gli occhi avvertendo quel tocco così delicato, unico, che avrebbe riconosciuto tra miliardi di carezze. La prima cosa che vide fu quella che tacitamente riuscì ad assicurarle il buongiorno: il sorriso ingenuo di Chibi-chan che evidenziava le sue guance paffute, e i suoi occhi castani e  luminosi che sembravano brillare solo per lei come due stelle del firmamento.
Le sorrise con tutto l’amore puro e incondizionato che aveva nel cuore stendendo un braccio e accarezzando la schiena della sua bambina.

“Ben svegliata, mammina” le disse con voce allegra abbassandosi e baciandola. “Oggi io e Hotaru vedremo le scimmiette!” continuò carica di entusiasmo iniziando a saltellare.
 
Per un attimo Usagi ripensò alla sera precedente, alle parole di Mamoru e alla delusione che aveva provato nel cuore dopo cinque anni di inutili speranze; nonostante la promessa che aveva fatto a se stessa e alle sue amiche, anche se avrebbe cercato di riprendere in mano la sua vita, quella vita che per troppo tempo aveva vissuto nell’illusione di un futuro con Mamoru; la ferita era ancora troppo fresca, le parole dell’uomo che amava rimbombavano ancora nella sua testa lacerando il suo cuore.
 
“Mammina mi ascolti?” Chibiusa voleva attirare l’attenzione della mamma, che sembrava assorta nei suoi pensieri, picchiettando i polpastrelli sulla spalla della ragazza. “Alzati, mamma, o farò tardi!”
Usagi lasciò uscire un’ingenua risata alla vista di quel faccino impaziente, allungando le braccia e facendo salire sul letto la bambina prima di stringerla forte a sé.
“Prima dai un bacio alla mamma, coniglietto mio!” disse iniziando a schioccare tanti baci sul collo della bambina provocandole il solletico e facendola agitare e sbattere i piedi sul materasso.
In fondo perché struggersi per un uomo quando aveva per sé il tesoro più bello e prezioso che avesse mai potuto desiderare? Un tesoro che la amava e la faceva sentire in ogni istante la madre più fortunata del mondo.
Era ciò che si ripeteva da sempre; ogni volta che Mamoru andava via, lei si auto convinceva che l’amore di sua figlia le bastava, che non aveva bisogno di un uomo; la realtà però era diversa: passando i giorni, le settimane, i mesi, la mancanza di un uomo accanto che la facesse sentire protetta, al sicuro, amata, che la facesse sentire una donna oltre che una mamma, si avvertiva davvero tanto.
 
Dalla cucina Mamoru, già sveglio, udì quelle risa provando una stretta al cuore; la sua Usako rideva divertita grazie a Chibiusa e alla sua ingenuità; la sua Usako sembrava rasserenata da quella melodia scandita dai baci e dai rumori della bambina che si agitava sul materasso. Era lei, Usako, la stessa Usako che lui aveva trattato con freddezza e distacco la sera precedente e per cui ancora si sentiva un verme. Scosse la testa, cercando di scacciare via l’immagine della ragazza che, illuminata dai raggi di luna, piangeva delusa per le speranze andate in fumo.
 
La visione di Usagi con la bambina in braccio che avanzava verso la cucina mise fine ai suoi pensieri.
“Buongiorno” si affrettò a dire con voce piena di imbarazzo e di dispiacere quando incontrò i suoi occhi azzurri.
“Buongiorno” rispose lei con freddezza abbassando lo sguardo e sedendo la bambina su una delle quattro sedie.
Lui rimase a guardarla, notando come la camicia da notte, di cotone bianco, lunga fino alle ginocchia, le desse l’aspetto di una soffice nuvola; rimase incantato alla vista dei suoi lunghi capelli, morbidi e lucenti, che le incorniciavano il viso etereo scivolando sulla schiena e sulle spalle, come una cascata di fili d’oro.
 
“Papà, preparati!” esclamò la piccola addentando un biscotto a forma di orsetto e dondolando le gambe sotto al tavolo.
“Chibiusa, non c’è fretta, sono soltanto le 10.00; mancano ancora due ore.” Usagi parlava continuando a preparare la colazione alla figlia; attese che la piccola bevesse il latte sedendole accanto ma senza voltarsi mai verso il ragazzo, nonostante avvertisse i suoi occhi blu e profondi addosso. Non mangiò nulla; la presenza di Mamoru era difficile da reggere; lei avrebbe cercato di andare avanti senza di lui, si sarebbe impegnata per riuscirci però mettere in atto il suo distacco era troppo doloroso; avrebbe avuto bisogno di tempo per farcela seriamente; in quel momento era ancora troppo recente e fresca la delusione subita. Faceva ancora male.
 
Lui abbassò lo sguardo verso il suo volume di neurologia rimanendo seduto sul divanetto; i sensi di colpa crescevano in lui; forse avrebbe dovuto ascoltare Motoki e parlare a Usagi, forse in tal modo lei avrebbe capito. Però se solo lontanamente immaginava il dolore che le avrebbe procurato, si rendeva conto che era meglio non dirle nulla; magari lei lo avrebbe odiato non capendo il suo atteggiamento però un giorno sarebbe stata felice. E ciò era l’unica cosa che contava. Continuò a sfogliare le pagine del suo libro dando un’occhiata ogni tanto alle sue Usagi e notando l’euforia della piccola dal modo di agitare le gambe e lo sguardo serio della ragazza che attendeva impaziente che Chibiusa terminasse di mangiare.
 
 
Chibiusa si guardava allo specchio contenta; la mamma le aveva fatto indossare il vestito bianco lungo fino al ginocchio, con le maniche a palloncino velate e il nastro rosa legato dietro; era il suo preferito; a lei piacevano quei due colori perché risaltavano il ramato dei suoi capelli e il castano dei suoi occhi.
Osservava dal riflesso dello specchio la mamma pettinarle con cura i capelli, facendo scivolare la spazzola tra le lunghezze, e raccoglierli in due codini legati da due nastrini bianchi. Sorrise.
Una volta pronta, corse da Mamoru; lui non poté fare a meno di ammirarla estasiato; la sua Chibi-chan stava crescendo, di volta in volta era sempre più grande.
 
Sembravano passati soltanto pochi mesi da quando la aveva tenuta in braccio per la prima volta sentendola piangere, da quando era tornato a casa trovando la piccolina - che avrebbe compiuto, a giorni, un anno - chiamarlo per la prima volta “papà” facendolo inevitabilmente commuovere; ricordava ancora quando la aveva vista compiere i suoi primi passi tenuta da dietro, per le mani, da Usako fiera della loro bimba; ripensò pure a quando – correndo dietro a una colomba bianca – era inciampata escoriandosi un ginocchio scoperto dalla gonnellina e iniziando a piangere ininterrottamente. Lui e Usako, seduti su una panchina del parco giochi, erano corsi da lei e Mamoru, prendendola in braccio la aveva rassicurata facendola calmare e promettendole una mega coppa di gelato alla fragola.
 
La consapevolezza che si sarebbe perso il momento in cui sarebbe tornata a casa confidandosi con la madre della sua prima cotta, del suo primo bacio, della prima delusione d’amore e di tutti i momenti che avrebbero segnato la crescita di sua figlia, gli rese gli occhi lucidi.  
 
“La mia principessa è bellissima” le disse prendendola in braccio e facendola volteggiare nell’aria prima di baciarle una guancia e stringerla così forte da potersi inebriare di quel profumo di borotalco e colonia che le dava un odore ingenuo e che lui avrebbe ricordato in ogni momento della sua vita ripensando alla sua bambina.
 
“Andiamo?” Usagi sull’uscio, con il pacco regalo in mano, guardava Mamoru abbracciare la figlia e non riusciva a darsi una spiegazione per il comportamento della sera precedente; come aveva potuto chiederle di trovare un padre a Chibiusa? Come poteva aver fatto una richiesta del genere se era evidente dal suo sguardo, dalle sue attenzioni, dalle sue parole, che lui adorava sua figlia?
 
La villa di Hotaru era immersa nel verde; palloncini colorati, che il leggero vento faceva ondeggiare nell’aria, erano appesi lungo il vialetto di cemento che conduceva all’ingresso del giardino; i tavolini erano già stati apparecchiati con delle tovaglie lilla.
La bambina dal caschetto corvino andò incontro all’amichetta dopo aver sentito suonare il campanello.
“Tanti auguri Hotaru-chan!” esclamò Chibiusa porgendole il pacco rettangolare dalla carta argentata con un fiocco fucsia fissato sopra.
“Grazie Chibiusa, vieni, lo metto insieme agli altri!”
Usagi si abbassò dando un bacio sulla fronte alla piccola: “Divertiti, ci vediamo dopo!”
La bambina annuì sorridendo; si avvicinò al padre baciando sulla guancia anche lui prima di correre in giardino insieme alla festeggiata.
 
 
Il silenzio che si era creato nel tragitto verso casa era diventato imbarazzante e, approfittando che fossero soli, Mamoru trovò coraggio di dar voce ai suoi pensieri.
“Usako, ho pensato a ieri sera” iniziò con un filo di voce guardandola in viso. “Ti prego, parliamo, mi fa stare male la tua indifferenza” insisté notando che lei rimaneva a guardare davanti a sé.
Nonostante sentisse il cuore batterle forte nel petto, nonostante avesse voluto dirgli che la aveva ferita dicendole di essere felice senza di lui, nonostante desiderasse rivelargli i suoi sentimenti in modo da poter dopo archiviare quei cinque anni passati nell’illusione; preferì rispondere:
“No, tranquillo, non c’è nulla da dire” mantenendo gli occhi bassi sul marciapiede. “Ci siamo detti tutto ieri sera. Va bene così” aggiunse con voce rassegnata.
“Usa, ti prego, perdonami se sono stato brusco” continuò con tono agitato cercando di incontrare i suoi occhi. “Hai ragione, non sono affari miei.”
Usagi scosse la testa  abbassando per un istante le palpebre.
“No, scusami tu se mi sono rivolta a te con tono sgarbato” controbatté con voce tremante sperando che lui non notasse il senso di angoscia che la divorava. “Tu sei gentile a preoccuparti per noi.”
 
Mamoru rimase spiazzato, in realtà non sapeva neppure lui cosa aspettarsi come risposta. Conosceva Usagi, in cinque anni non aveva mai ribadito nulla, persino quando le aveva rivelato che sarebbe andato negli USA; lei non aveva mai fatto, o detto, nulla per fargli cambiare idea; non lo aveva mai contraddetto e, anche in quel momento, capì che lei non avrebbe mai iniziato una discussione o una polemica. Non era da Usagi. E non perché non le importava nulla o perchè le piaceva apparire simile a una vittima degli eventi, ma semplicemente perché lei amava lasciare libere le persone, amava rispettare le scelte altrui e amava saper cogliere il lato positivo delle discussioni anche se ciò comportava soffrire in silenzio. Usagi  amava amare nel vero senso della parola.
 
“Ti chiedo un solo favore, Mamoru” disse lei con un filo di voce spezzata.
“Tutto quello che vuoi” si affrettò ad annuire speranzoso che forse lei lo stava perdonando.
“Non chiedermi mai più di trovare un padre per Chibiusa.” Si voltò a guardarlo con aria seria e decisa. “Lei ti adora.” Un sorriso le nacque sulle rosee labbra rivedendo le immagini della sua bambina vivide nella sua mente. “Quando non ci sei non fa altro che contare i giorni sul calendario.” Deglutì a fatica, cercando di trattenere le lacrime dato che anche lei aveva sempre vissuto con l’attesa che Mamo-chan tornasse. “Il giorno prima del tuo ritorno non fa altro che guardare l’orologio.” Un altro sorriso nervoso. “Ha imparato così a leggere l’orario.”
 
Quelle parole risuonavano nella mente di Mamoru facendogli provare una morsa al cuore, sentiva gli occhi pizzicare al solo pensiero di Chibiusa che per sei mesi lo aspettava con tanto desiderio di poterlo riabbracciare. Si sentì ancora di più in colpa per averla lasciata sola per rincorrere il suo sogno ambizioso.
Istintivamente si fermò e prese la mano della ragazza che continuava a camminare accanto a lui con lo sguardo fisso davanti a sé.
“Io amo mia figlia, la amo più della mia stessa vita” spiegò costringendola a fermarsi e a guardarlo negli occhi; occhi così profondi e lucidi in cui Usagi scorse sincerità e dispiacere e dai quali rimase sorpresa.
“Lo so” sussurrò convinta notando che la sua mano era ancora stretta in quella del ragazzo.
“Per favore Usa, facciamo finta che ieri sera non ci sia stata nessuna discussione” pregò continuando a fissarla, accarezzandole col pollice il dorso della mano. “Ho detto un pugno di stronzate. Per favore... ” Aspettò qualche secondo, poi, per fermare il silenzio, continuò: “Abbiamo un mese, non roviniamolo. Ti prego”, con occhi supplichevoli.
 
Un mese… ecco cosa avrebbe avuto da Mamoru: un mese, e poi tutto sarebbe tornato come sempre; di nuovo angoscia, tristezza, mancanza di volontà di alzarsi dal letto e affrontare le giornate senza di lui, senza i suoi sorrisi, i suoi occhi che illuminavano il suo cuore, la sua voce calda e vellutata che azionava la melodia del suo cuore. Per un istante provò delle fitte all’addome sentendo un nodo alla gola.
Annuì soltanto ritraendo il braccio; lui lasciò scivolare via la sua mano liberandola dalla sua presa e riprendendo a camminare.
 
Arrivarono al bivio tra l’inizio del quartiere di periferia, dove era situata la loro villetta, e la strada che conduceva all’antichissimo Tempio scintoista.
Usagi continuava ad avanzare in silenzio; gli aveva detto che quel mese lo avrebbero trascorso sereni, come sempre, però non riusciva più a trattenere le lacrime, non riusciva a passare una spugna invisibile e cancellare tutti i suoi sentimenti e il suo amore per colui che non sarebbe mai stato suo.
“Mamoru, ti spiace se ci vediamo dopo, a casa?” domandò fermandosi all’incrocio e guardandolo con le braccia basse e le mani unite. “Vorrei andare a trovare Rei” continuò alzando le spalle. “È dall’altro giorno al Crown che non la vedo.”
Mamoru accennò un sorriso triste, non sarebbe voluto rimanere senza di lei però notava il suo sguardo e capiva che era ancora delusa e amareggiata per la sera precedente; parlare con un’amica le avrebbe fatto bene.
“Certo, va’ pure, rimani tutto il tempo che vuoi” rispose con voce rassicurante. “Andrò io a riprendere Chibiusa.”
Usagi sorrise di rimando abbassando le palpebre; quando le rialzò i suoi occhi apparvero a Mamoru più luminosi, come se il cielo avesse voluto donarle tutte le tonalità dell’azzurro e racchiuderle nelle sue iridi rendendole magnetiche.
Per quello sguardo, un brivido gli percorse la schiena. “A dopo Usako, salutami Rei” riuscì a dire prima di incamminarsi verso quella casa che, senza l’euforia di Chibiusa e l’amore che Usako metteva in tutto quello che faceva, era triste e vuota, proprio come la sua vita.
 
 
La salita verso il Tempio contava sessanta scalini; Usagi aveva il fiato corto e il cuore che tamburellava dentro al suo petto, sentiva i polpacci e le gambe bruciare una volta terminata la scalinata. Rimase per un paio di minuti a far regolarizzare il respiro, piegata in avanti con le mani sulle ginocchia e lo sguardo basso, prima di avviarsi verso quel luogo sacro di preghiera.
“Desidera acquistare un talismano, signorina?”
Un giovane con un Chihaya bianco e  azzurro le si avvicinò mostrandole un sorriso gentile; Usagi alzò lo sguardo notando i suoi capelli castani leggermente spettinati dal vento, lunghi fino alle spalle, e dalla frangia che copriva i suoi occhi marroni e ingenui.
Scosse la testa sentendo ancora la gola secca per la salita e, deglutendo, rispose:
“Sono Usagi, un’amica di Rei” sorridendo di rimando al ragazzo dall’aria bonacciona che evidentemente doveva essere il  nuovo aiutante.
Lui abbassò la testa in senso di saluto prima di allontanarsi e permettere alla ragazza di avviarsi all’interno della stanza della sacerdotessa.
 
All’apertura delle porte scorrevoli Rei alzò sollevò la testa dall’articolo del quotidiano. “Usagi, che ci fai qui?” chiese sorpresa.
“Disturbo?” Usagi abbassò gli occhi rimanendo poggiata alla porta richiusa.
“No, certo che no” rispose la sacerdotessa ripiegando il giornale e posandolo sul letto accanto a sé. “Come mai non sei con Chibiusa?”
“È al compleanno di Hotaru” spiegò tenendo le mani sulla schiena a contatto con la porta di legno.
“Ah già, le scimmiette!” ricordò pensando a qualche giorno prima quando la piccola le aveva telefonato entusiasta al pensiero che presto avrebbe visto lo spettacolo.
Ricordò pure Usagi, lasciando uscire un sorriso malinconico.
“E Mamoru? Perché non sei con lui?” Rei tornò seria; il suo sguardo era curioso e il tono della sua voce dispiaciuto per l’amica dagli occhi tristi persi nel vuoto.
Usagi alzò le spalle: “Avevo bisogno di parlare con un’amica” confessò con un filo di voce mantenendo gli occhi sulla moquette grigia. “E non con Ami-chan che mi capisce sempre e neanche con Mako-chan che mi ha sempre difesa dai prepotenti.” Alzò lo sguardo verso le iridi color indaco dell’amica e aggiunse: “Ma con te che mi hai sempre rimproverata per tutti i miei difetti.”
Rei rimase spiazzata; era la prima volta che Usagi ammetteva una cosa del genere; di solito si difendeva affermando di non avere difetti così gravi per come li descriveva lei. Non sapeva cosa dire o cosa pensare notando gli occhi - sempre allegri - di Usagi lucidi; c’era una sola persona che aveva il potere di coprire quegli occhi così azzurri e cristallini con un velo di tristezza: Mamoru.
Seduta sul bordo del letto con le mani sulle gambe aspettò che la ragazza continuasse.
 
“Dimmi Rei-chan, cosa c’è che non va in me?” domandò con la dolcezza che la contraddistingueva sempre, ovunque, mentre una lacrima le scendeva fino a morirle sulle labbra.
Rei non rispose, ferita per quell’immagine di estrema tenerezza che Usagi  fu in grado di suscitarle.
“Da quando è nata Chibiusa, anche se la notte avevo sonno, mi alzavo immediatamente al suono della sveglia che mi ricordava che dovevo allattarla” iniziò dondolando il busto con le mani sulla schiena. “Quando si svegliava piangendo, io scendevo subito dal letto andando a cullarla” continuò ripensando a quei momenti. Un sorriso consapevole le uscì istintivamente. “Quando lei non era ancora nata, invece, dormivo fino a mezzogiorno la domenica mattina.”
“Usa-chan” intervenne Rei notando le guance dell’amica bagnate da irrefrenabili lacrime.
“Quando lei non c’era divoravo biscotti, frittelle e tutte le golosità che adoravo fregandomene dei tuoi rimproveri.” Un singhiozzo. “Adesso mangio lentamente per insegnare a mia figlia le buone maniere.”
Si avvicinò all’amica e, inginocchiandosi di fronte a lei, con le mani sulle sue gambe, domandò:
“Ti prego Rei, dimmi cosa c’è di sbagliato in me” prima di affondare la testa sul cotone rosso che copriva le gambe della sacerdotessa.
Rei la osservava sempre più sconvolta; tante volte avevano parlato di Mamoru, dell’amore che Usa provava per lui e, tutte le volte, la ragazza dai lunghi capelli biondi aveva sempre difeso le sue ragioni. La situazione doveva essere davvero grave. E lei, sempre pronta a sgridarla per renderla più matura, più saggia, più forte per affrontare la vita che per lei non era stata facile negli ultimi cinque anni, in quel momento non riuscì a dire nulla; si limitò a far scivolare una mano sulla folta chioma dorata cercando di tranquillizzare la sua più cara amica.
 
“Io sono cambiata, sono cresciuta, sono diventata responsabile” riprese cercando di non affogare nei suoi stessi singhiozzi. “L’ho fatto per mia figlia ma l’ho fatto anche per lui, affinché si accorgesse di me.”
“Usa, calmati” sussurrò Rei con tono protettivo continuando a far scivolare la mano sui suoi capelli lisci e morbidi.
Usagi alzò gli occhi per poter incontrare quelli inermi dell’amica.
“Ha un’altra, Rei” rivelò con voce amareggiata prima di riprendere a piangere.
“Ne sei certa? Te lo ha detto lui?” La ragazza dai capelli corvini, sconvolta,  provò un tuffo al cuore immaginando la sofferenza di Usagi.
Usagi scosse la testa prima di affondarla nuovamente sulle gambe dell’amica. “Si chiama Setsuna, ne sono sicura” confidò con voce ormai affannata. “Ieri sera gli ha telefonato anche se io non ho capito nulla di ciò che si son detti.”
“Magari era solo un’amica” la rassicurò. “Dai, Usa, non essere affrettata nelle valutazioni.”
Usagi strinse le mani sui fianchi della ragazza, come se avesse bisogno di quel contatto confortante. “Allora perché dopo mi ha detto di trovarmi un uomo che mi amasse e facesse da padre a Chibiusa?” E pianse ancora.
Rei sgranò gli occhi; se avesse potuto, avrebbe invocato Marte – dio della guerra – per ripagare Mamoru con la stessa crudeltà e sofferenza che aveva usato lui facendo stare male Usagi. E fu certa che anche in quel caso non sarebbe stato paragonabile al dolore al cuore che la ragazza sempre allegra e vivace stava provando.
Ancora una volta si sentì inadatta per elargire consigli; cosa avrebbe potuto dire? Tutto sarebbe risultato banale, inopportuno; le sue parole  sarebbero risuonate nella stanza come semplici frasi di circostanza dettate dalla ragione ma insensate per il cuore. Ci aveva provato  per quattro lunghi anni ma non ci era mai riuscita. Qualcosa però doveva fare; quella era Usagi, l’esuberante, vivace, sempre allegra e gioiosa Usagi.

Era…

Prima che Mamoru partisse per NYC, prima che la lasciasse da sola dopo averle fatto battere il cuore per la prima e unica volta. Sull’aereo diretto negli USA, insieme a lui, erano saliti pure l’entusiasmo e la felicità di Usagi seguiti dal suo cuore puro, lasciando il suo corpo molte volte privo di emozioni e rendendo due pezzi di cielo limpido, che lei aveva al posto degli occhi, due vetri cupi privi di luce.

“Basta piangere!” ordinò con tono alto e deciso.
Quella voce imperante invece di farla smettere, riuscì a farle uscire ulteriori irrefrenabili lacrime. Per lei quello era l’ennesimo rimprovero e quella volta non era in grado di affrontare anche le ramanzine di Rei.
Si portò dritta sulla schiena premendo i palmi aperti sul viso in modo da nascondere il suo sfogo a colei che, ancora una volta, non sembrava comprenderla ed era capace solo di rimproverarla.
 
“Usagi, i tuoi occhi diventeranno rossi e gonfi” riprese con tono dolce e protettivo, “vuoi che tua figlia ti veda in queste condizioni?”
Usagi abbassò le mani, oramai bagnate dalle lacrime, strofinandole sulla gonna beige e scuotendo la testa.
“Io… non ci riesco, mi spiace” confessò tra un singhiozzo e l’altro, “quando sto male, quando sono nervosa, quando non so come affrontare le situazioni, piangere mi viene istintivo.” Asciugò il contorno occhi, ancora umido, coi polpastrelli e aggiunse: “Quando sono a casa cerco di trattenermi perché non voglio che Chibiusa mi veda piangere ma poi, accumulo, accumulo e…” e riprese a sfogarsi tenendo la fronte con una mano e stringendo il lembo della gonna con l’altra fino a stropicciarla.
“Io lo amo, lo amo da morire” confidò mentre le lacrime bagnavano le sue labbra, “e lui neanche mi considera; cosa c’è che non va in me?” Era disperata.
 
Una lacrima scivolò lungo la guancia rosata della sacerdotessa che però ricacciò subito indietro le altre alzando gli occhi al soffitto senza farsi accorgere dall’amica. Lei non poteva piangere, doveva essere forte e determinata. Per Usagi, per dare forza a colei che avrebbe voluto proteggere come una guerriera proteggerebbe la propria principessa.
 
“Lo sai, quando ti osservo assieme a Chibiusa…” Rei si alzò dal letto e si piegò sulle ginocchia per poter guardare meglio l’amica negli occhi. “Quando ti vedo abbracciarla, baciarla” continuò scostando alcune ciocche spettinate dal volto della ragazza, “quando la segui con gli occhi in modo apprensivo e pieno d’amore…”
“Mi dici che sono troppo apprensiva” suggerì Usagi con voce timida.
Rei scosse la testa lasciando uscire un sorriso colmo di tenerezza e malinconia. “No” disse guardandola negli occhi, “penso che mi sarebbe piaciuto avere una madre come te.”
Il sorriso si distese ancora di più sul suo viso sempre pronto a mostrare sicurezza e disciplina; i suoi occhi dalle sfumature indaco brillarono, rivelando quell’emotività che era sempre stata insita dentro di sé ma che aveva sempre cercato di tenere dentro e non mostrare agli altri.
 
Usagi chiuse le palpebre cercando di trattenersi dal piangere, quando le rialzò, sorrise di rimando con sguardo eloquente di chi sarebbe stata sempre grata all’amica per quel profondo legame di amicizia che si rafforzava ogni giorno di più tra loro due.
“Dovrei cercare di dimenticarlo però è così difficile…” spiegò con gli occhi fissi sulla moquette.
“Datti tempo; finora non ci hai mai provato, hai sempre vissuto con la speranza di un suo ritorno.”
 
Usagi annuì. “Speravo potessimo essere felici come una vera famiglia.”
“Ricorda queste parole Usa-chan” le suggerì Rei, “le cose a volte non vanno come si vorrebbe; vanno molto meglio.”
Usagi alzò gli occhi verso la ragazza sporgendosi in avanti e abbracciandola forte. “Ti voglio bene Rei- chan.”
Sulla spalla dell’amica, Rei sorrise ancora una volta.
 “Ti voglio bene anche io, piagnucolona” ricambiò accennando un’ingenua risata, “adesso va’ a casa; tua figlia vorrà raccontarti delle scimmiette quando tornerà.”
Usagi si alzò in piedi avvertendo i muscoli delle gambe leggermente addormentati, stirò con le mani la gonna, ormai stropicciata, e annui:
“Hai ragione, torno a casa e da oggi cercherò di far andare le cose molto meglio” cercando di auto convincersene.
 
Uscì da quella stanza richiudendo la porta; ispirò profondamente, lasciando entrare una boccata d’aria pura nei suoi polmoni e avviandosi col cuore più leggero verso la scalinata. Vi erano sessanta gradini; quella volta li avrebbe percorsi in discesa. La strada sembrava più semplice; per una volta più facile anche per lei. Senza affaticarsi, senza sentire il respiro affannato, senza avvertire i polpacci bruciare e la gola farsi sempre più secca, li scese uno a uno ritrovandosi presto sulla via verso casa.
 
Ma si sa, dopo ogni discesa, c’è sempre una salita.
E per quei sessanta gradini da scendere, per Usagi vi sarebbero stati sessanta giorni in salita ripida lungo la scala chiamata vita.

 
Il punto dell’autrice

Carissimi lettori e amici, tranquilli, non mi sono confusa; sessanta giorni corrispondono a due mesi… e Mamoru rimane in Giappone solo per un mese… ;)
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto; vi avevo accennato a delle novità e new entries ma mi rendo conto che era necessario dividere il capitolo per non appesantirlo. Ci tenevo a dire una cosa: ormai sono sei mesi che scrivo su questo splendido sito e pian piano ho iniziato a vedere dei progressi in ciò che pubblico. Ci metto il cuore come sempre e pian piano sempre più impegno.
Lo faccio per me stessa ma anche per voi, per non deludere mai le vostre aspettative e ripagarvi dell’immenso sostegno e supporto che mi date. Questa fan fiction in pochissimo tempo è entrata nei cuori di molti, inaspettatamente. Inizialmente non volevo neppure pubblicare per non deludere i fans di Moonlight. E invece le soddisfazioni sono state enormi. Per questo non posso non dirvi col cuore in mano: Grazie!
Spero di continuare a ricevere il vostro affetto!
Come al solito vi lascio dicendo che dopo tanto impegno e passione per scrivere anche questo capitolo, sarei felice di ricevere una vostra recensione per farmi sapere cosa vi è piaciuto e cosa no.
Con immensa riconoscenza,
un bacione!


Demy

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Capitolo 8
*** Devo dirti una cosa... ***


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Cap. 8: Devo dirti una cosa...

Usagi percorse le vie di Tokyo con una nuova consapevolezza: Mamoru non sarebbe mai stato il suo uomo, non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti, non sarebbe tornato in Giappone abbandonando gli States e la sua carriera ambiziosa che aveva costruito con sacrifici ma allo stesso tempo con passione e amore. Doveva rassegnarsi seriamente, e non come tutte le altre volte in cui – nonostante ci avesse provato – era sempre annegata nel maremoto che lo sguardo di Mamoru era in grado di scatenare. Doveva farlo sul serio; pensare al futuro, alla possibilità di essere felice, e ciò era possibile solo mettendosi l’anima in pace. E quando la malinconia e il bisogno di lui l’avrebbero assalita, avrebbe ripensato alle sue parole crude e fredde con le quali le aveva chiesto di essere felice senza di lui. Tutto sarebbe risultato più semplice. Doloroso ma più semplice.

La suoneria del cellulare la avvisò di un messaggio in arrivo. Era di Mamoru.

Non ti chiamo per non disturbarti.
Non mi andava di tornare a casa da solo, sono da Motoki.
Per Chibi-chan sta’ tranquilla, vado io a prenderla dopo.
A più tardi.
 
Istintivamente sorrise; i suoi messaggini avevano sempre un effetto piacevole su di lei; anche se non contenevano frasi d’amore o di affetto, leggerli le faceva provare una sensazione di benessere, come se lui fosse lì con lei, tra le righe di quel testo virtuale. Scosse la testa; non poteva più permettersi di sorridere, non doveva se voleva essere felice. Ripose il cellulare all’interno della borsa, riprendendo a camminare per quelle vie deserte a causa del caldo afoso che rendeva l’aria soffocante.
 

Verso le 15.00 Mamoru arrivò davanti al cancello nero della villa Tomoe. La madre della festeggiata andò ad aprire con aria gentile e sorridente.
“Sono il padre di Usagi” si presentò alla giovane donna dai capelli castani e gli occhi dalle sfumature violacee.
La donna rimase, per un attimo, sorpresa, continuando a fissarlo, prima di accentuare il suo sorriso e rispondere:
“Signor Chiba, sono contenta di fare la sua conoscenza” aprendo il cancello e permettendogli di entrare, “prego, mi segua.”
Mamoru camminò dietro di lei lungo il vialetto che conduceva al giardino; alcuni bambini erano già andati via; cercò con gli occhi la sua bambina fin quando la notò, pensierosa, poggiata al tronco di un albero mentre osservava le compagne giocare a palla. La signora Tomoe la chiamò a voce alta attirando la sua attenzione. La bambina si voltò, accorgendosi del padre che la guardava con un sorriso sulle labbra. Salutò le sue amichette agitando la piccola mano e si avvicinò all’uomo. “Dov’è la mamma?” chiese con un filo di voce a testa bassa.
“La mamma è andata da zia Rei stamane ma sicuramente sarà a casa adesso” rispose notandola triste, “tutto bene, Chibiusa?”
La piccola annuì, mantenendo lo sguardo fisso a terra e avvertendo la mano del padre prendere la propria.
Camminarono in silenzio fino a un tratto di strada. Chibiusa voltava il viso a destra e a sinistra osservando le vetrine dei negozi ancora chiusi senza mai incontrare gli occhi blu di Mamoru e sperando di giungere presto a casa. Il ragazzo la osservava senza capire; forse era soltanto stanca, pensò.
“Com’è andata la festa? Ti sei divertita?” Voleva capire cosa avesse la sua bambina che, fino a qualche ora prima, era entusiasta di andare a casa della sua più cara amica.
Lei si limitò ad annuire, però, mantenendo lo sguardo dritto davanti a sé.
Per un attimo, in quei lineamenti, in quelle espressioni tristi, lui rivide Usako e il suo atteggiamento di quella stessa mattina. Chissà se stava bene, se si fosse ripresa dopo aver parlato con Rei, pensò, e più che altro si domandò se il problema della piccola riguardasse il fatto che Usagi non era andata a prenderla alla festa assieme a lui.
 
 
Quando Mamoru aprì la porta d’ingresso, Usagi in soggiorno, piegava i panni asciutti appena ritirati; la ragazza si voltò d’istinto notando Chibiusa che, appena la vide, lasciò con forza la mano del padre correndole incontro in silenzio.
Il ragazzo sgranò gli occhi avvertendo freddezza dal gesto della piccola; era come se non vedesse l’ora di poter far scivolare con forza la piccola mano dalla sua. Perché voleva liberarsi da lui? Perché quel gesto gli aveva dato l’impressione che non volesse stare assieme a lui?
 
Chibiusa cinse le gambe della madre poggiando la testa sul suo basso ventre; dall’espressione malinconica, Usagi capì subito che qualcosa non andava: non era stata la semplice mancanza della mamma a farla correre in quel modo verso di sé; lei conosceva bene la sua piccolina. Guardò Mamoru in cerca di una risposta ma lui alzò le spalle posando gli occhi sulla figlia, stretta a Usako, diventando sempre più incredulo e curioso.
Usagi si piegò sulle ginocchia mentre la bambina iniziava a sciogliere la presa, potendosi specchiare negli occhi pieni d’amore della sua mamma.
“Cosa è successo alla mia Chibi-chan?” domandò come un dolce sussurro prendendo il viso paffuto e soffice della piccola tra le mani.
Chibiusa però non rispose; con le labbra serrate in un’espressione imbronciata, incrociò le braccia al petto e iniziò a respirare sempre più profondamente, come se cercasse di trattenere le lacrime.
Mamoru osservandola in quell’atteggiamento pieno di sconforto, le si avvicinò, carezzandole la testa. “Amore di papà, cos’è successo?” chiese con tono rassicurante; la piccola però, a quelle parole, a quel contatto, cinse il collo della madre affondando le mani tra i folti capelli dorati e iniziando a piangere insistentemente.
Il cuore di Usagi mancò un battito; ogni volta che sua figlia piangeva, c’era qualcosa dentro di lei che si spezzava, era una sensazione strana; Chibiusa di certo stava bene, non aveva nulla di grave, però vederla soffrire, notare le lacrime che uscivano spontanee da quegli occhi sempre vispi e allegri le faceva mancare il respiro.
Capì che il problema per la bambina era Mamoru.
Anche lui lo capì. “Chibiusa, perché fai così?” Il tono alto e sorpreso di lui era simile a un rimprovero.
Chibiusa invece di rispondere, però, si indispettì ancora di più. “Vattene via, non ti voglio, sei cattivo!” riuscì a dire con voce stridula iniziando a singhiozzare.
I due ragazzi si guardarono con occhi sconvolti da tale affermazione; Mamoru voleva allungare di nuovo un braccio per accarezzarla e farsi spiegare il motivo delle sue parole ma Usagi scosse la testa bloccandolo.
Lui ritrasse la mano e sentì una morsa allo stomaco; non si era sbagliato, sua figlia ce l’aveva con lui per qualcosa che lui non riusciva a capire.
 
Schioccandole un bacio sulla spalla, Usagi la sollevò da terra prendendola in braccio e avvertendo una maggior pressione mentre la bambina si stringeva ancora più forte a lei, come se avesse bisogno di un conforto che sapeva di poter trovare solo con la sua mamma.
La condusse nella sua cameretta e, dopo aver chiuso la porta, sedendosi sul lettino, la mise cavalcioni sulle sue gambe.
Mamoru aspettò che la porta fosse chiusa prima di avvicinarsi e poggiare la spalla allo stipite, cercando di origliare e capire quale fosse il motivo di quelle parole che per lui erano state peggio di una pugnalata al cuore.
 
“Shh… non piangere più, amore mio” diceva Usagi come una cantilena, mentre teneva stretta la sua bambina, cullandola con il mento sui rosei capelli.
“Cos’è successo?” domandò mantenendo un tono pieno di dolcezza mentre le accarezzava la schiena per farla calmare, “Dillo alla tua mamma, Chibi-chan.”
Chibiusa si strinse ancora più forte irrigidendo i muscoli delle piccole braccia. “Papà non mi vuole bene” riuscì a dire tra un singhiozzo e l’altro mantenendo la guancia sul petto della ragazza.
Usagi sussultò silenziosamente, deglutendo a fatica. “Che dici piccola? Per tuo padre sei la persona più importante e preziosa” affermò sorridendo e cercando di trasmetterle serenità.
Lei però scosse la testa. “No! Non è vero!” ribatté insistentemente.
“Ma perché pensi una cosa del genere?” Usagi non capiva; lei amava suo padre, lo adorava, perché era arrivata a una simile considerazione?
 
“E allora perché non vive qui con noi?” spiegò sollevando la testa e guardando la madre con occhi arrossati e con le guance umide. “Papà va via perché non ci vuole bene, mammina.” E pianse ancora, più forte, facendo uscire tutto il suo dolore per quella cattiva realtà a cui non aveva mai prestato attenzione. Era come se il suo piccolo mondo pieno di giochi, sorrisi, coccole e attenzioni fosse improvvisamente crollato mettendola di fronte a una nuova considerazione della vita. Una vita in cui aveva finalmente capito perché lei non aveva una famiglia unita come gli altri compagni: il suo papà non le voleva bene e quindi non viveva con lei, non gli importava se, quando usciva dall’asilo o era in giro con la mamma e zia Rei, soffriva nel vedere gli altri bimbi con entrambi i genitori; non gli importava se provava una stretta al cuore quando, per la festa del papà, tutte le sue amichette abbracciavano il loro papà donandogli il regalino fatto all’asilo mentre lei, invece, doveva conservarlo e darglielo dopo tre mesi. Lui non le voleva bene. In quel momento capì; la delusione fu talmente forte che le lacrime uscirono da sole, senza controllo.
 
“Chi ti ha detto quest’enorme stupidaggine?” Usagi era addolorata; lei sapeva che, nonostante lui non l’amasse, amava sua figlia più della sua stessa vita. Glielo aveva detto quella mattina e, anche se non lo avesse fatto, le bastava guardarlo negli occhi per accorgersi di quanto amore provasse per la loro bambina.
 
Chibiusa passò il palmo della mano sotto agli occhi, per asciugarli, poi confidò: “Alcuni compagni di classe che erano alla festa, quando ho detto che papà era qui con noi, mi hanno detto che tanto lui non mi vuole bene altrimenti vivrebbe con noi.” Le lacrime uscirono di nuovo dai suoi occhi amareggiati e delusi.
 
Il cuore di Usagi sembrava si stesse frantumando come non mai; a lei mancava il respiro per l’assenza del suo uomo, del padre di sua figlia, ma sapere che anche Chibiusa soffrisse così tanto la lontananza dal padre era per lei un dolore troppo forte da sopportare. Chibiusa era ancora troppo piccola per capire e il mondo troppo cattivo con chi viveva determinate situazioni. Anche se aveva voglia di sfogarsi piangendo, capì che doveva far coraggio a colei che rappresentava il tesoro più prezioso, quello da proteggere con le unghie e con i denti da tutto e da tutti.
 
“Ascolta, piccola mia,” iniziò accarezzandole un codino, “il fatto che papà non viva in questa città non significa che non ti voglia bene.”
“E allora se mi vuole bene perché non vive qui con noi?” la interruppe subito la bambina cercando di capire.
Usagi prese un respiro, poi aggiunse: “Papà ha un lavoro in America, cura tante persone che non stanno bene” mantenendo un tono rassicurante mentre guardava la figlia negli occhi castani bisognosi di sapere.
“Sì, lo so, ma non può farlo qui?” Chibiusa, nella sua ingenuità, cercava di trovare una soluzione.
La ragazza sorrise leggermente; era ciò che si era domandata pure lei per cinque lunghi anni.
“Chiediamoglielo mammina, forse torna” insisteva poggiando le mani sulle braccia della madre ed esortandola.
Usagi però scosse la testa e accarezzando il visino paffuto spiegò:
“Chibiusa, tu ami papà?”
La piccola annuì ripetutamente e Usagi continuò.
“C’è una cosa che vorrei tu capissi.”
“Cosa?”
“Quando ami una persona, se la ami veramente, devi rispettare le sue scelte.” Chibiusa però aggrottò la fronte, non capendo.

“Se tu ami il tuo papà, devi essere felice sapendo che lui in America è felice” sorrise Usagi anche se quel sorriso faceva male, “se lui torna solo perché glielo chiediamo, non sapremo mai se qui con noi sarà felice. Capisci?”
La bambina si sforzava ma non riusciva a dare un senso a quelle parole.
“Ti faccio un esempio” chiarì la ragazza, “quando papà torna con un regalo, sei contenta perché sai che non glielo hai chiesto tu ma lui ti ha pensata, giusto?”
“Hm mh” annuì.
“Saresti felice allo stesso modo sapendo che papà ti ha fatto un regalo solo perché glielo hai chiesto tu?”
Chibiusa stropicciò le labbra cercando di riflettere, poi scosse la testa.
“Ecco, è un po’ la stessa cosa; devi essere felice per le scelte di papà, qualunque esse siano. È questo l’amore. Altrimenti sarebbe solo egoismo.”
“Mamma, anche tu ami papà, vero?” domandò con consapevolezza giocando con una ciocca di capelli dorati.
“Sì, amo tanto il tuo papà” rispose sinceramente come un sussurro prima di schioccarle un bacio sulla guancia.
La bambina distese le piccole labbra in un sorriso pieno di felicità.
“E anche lui ti ama?”
 
Avrebbe tanto voluto risponderle di sì, avrebbe fatto di tutto affinché lui la amasse, invece sapeva che i suoi sentimenti non erano ricambiati; ovviamente non poteva dirlo apertamente a una bambina di cinque anni, non avrebbe capito. Era già difficile pure per lei capire.   
 
“Il tuo papà mi vuole molto bene, però ricorda” le spiegò guardandola negli occhi, “ovunque lui sarà, tu sarai sempre nel suo cuoricino perché per lui sei la persona più importante della sua vita; non dubitarne mai più, okay?”
Chibiusa sorrise piena di gioia, la sua mamma era l’unica persona di cui si fidava e se glielo diceva lei le avrebbe creduto.
La strinse forte, rincuorata. “Ti voglio bene mammina” sussurrò con la testa sul suo petto.
“Ti voglio tanto bene pure io, cuoricino mio” ricambiò mentre sentiva pizzicare gli occhi.
“Adesso andiamo di là, credo che papà sia dispiaciuto per le tue parole; che ne dici di chiedere scusa?”
Chibiusa sollevò la testa e, con sguardo rammaricato, annuì.
 
Fuori dalla stanza, con la fronte poggiata alla porta di legno, Mamoru aveva ascoltato tutto; aveva realizzato quanta sofferenza ci fosse nel cuore della sua bambina e quanto amore incondizionato e puro ci fosse nella sua Usako, solo per lui.
Era un idiota; aveva lasciato la perla più preziosa in fondo al mare per inseguire e realizzare dei sogni che avrebbe, in ogni caso, potuto concretizzare anche in Giappone. Avrebbe dovuto custodire quella perla e ringraziare il Cielo per avergliela messa tra le mani.
Non lo aveva fatto, però, e i sensi di colpa, dopo quelle confidenze tra madre e figlia, erano aumentati sempre di più, proprio come le lacrime che spontanee avevano rigato le sue guance sbarbate.
Sentendo il cigolio della rete del letto, si allontanò subito, tornando in salotto e asciugando, rapidamente coi palmi, le guance umide.
La porta si aprì subito dopo e, udendo alle sue spalle i passi di Chibiusa e Usagi farsi sempre più vicini, cercò di togliersi dal viso l’espressione amareggiata e colma di rimorsi che gli mangiavano l’anima.
 
“Mamo-chan…”
Si voltò non appena udì la voce della ragazza simile a un sussurro dal quale era evidente che cercava di non mostrargli il suo dolore.
Lei era lì, di fronte a lui; poggiò la mano sulla spalla della bambina e la incoraggiò. “Su, vai da papà.”
Chibiusa fece qualche passo in avanti, titubante, e guardandolo negli occhi, con le mani giunte dietro la schiena, si scusò: “Mi dispiace papà per quello che ti ho detto. Non lo faccio più.” Si voltò indietro verso la mamma e dopo che lei annuì, riprendendo a guardare il giovane, continuò: “Ti voglio bene papà, mi perdoni?” con voce dispiaciuta.
Mamoru deglutì a fatica; quelle parole, quelle espressioni rammaricate nel volto dolce e innocente di, chi in fondo, non aveva tutti i torti, gli provocarono una stretta al cuore; le lacrime appannarono i suoi occhi e, con un sorriso sincero, si piegò sulle ginocchia aprendo le braccia e avvolgendo la bambina in un abbraccio pieno di tutto l’amore che potesse provare mai in vita sua.
“Non hai nulla di cui farti perdonare, amore di papà” sussurrò con la voce spezzata prima di baciarle la guancia ancora fresca per via delle lacrime.
La sollevò da terra prendendola in braccio. “Sei tutta la mia vita, Chibi-chan, ti voglio un mondo di bene.”
La piccola sorrise, schioccando un bacio sulla guancia del padre e cingendogli il collo energicamente mentre posava la testa sull’incavo della sua spalla; lui si avvicinò a Usagi e distese le labbra: “Grazie” pronunciò sottovoce, solamente con movimenti della bocca. Avrebbe voluto farla unire in quell’abbraccio e trasmettere pure a lei il suo amore, che cresceva sempre di più solo per lei. Capì però che le avrebbe fatto solo del male, sarebbe stato egoista; lei lo amava, ormai ne era certo, e ogni contatto sarebbe stato una sofferenza. Non era giusto.
Usagi non disse nulla, annuì soltanto, superandolo e tornando a piegare i panni posati sul cesto accanto al divano.
 
Per un solo istante lui pensò di rivelarle tutto, di farle sapere che la amava più della sua stessa vita e che voleva vivere lì con lei, con loro; loro che erano il suo mondo. Desiderò di svuotare la sua anima da quel segreto facendo sì che la sua donna, la madre di sua figlia non credesse che lui fosse felice negli USA.
Lui era felice solo con loro due, non voleva più apparire come un insensibile che se ne fregava della sofferenza delle sue ragazze; lui soffriva anche per loro. Più di loro.
Ci pensò un attimo, un altro, un altro ancora, poi però non ci riuscì. Se solo immaginava Usagi e una sua possibile reazione, sentiva il cuore scalpitargli dentro.
 
Andò a sedere sul divano dicendo alla bambina, sulle sue gambe: “Allora Chibi-chan, raccontami dello spettacolo delle scimmiette!”
Chibiusa allungò un braccio: “Anche la mamma, qui!”
Usagi sorrise lievemente, lasciando sul cesto una maglietta mezza piegata e sedendosi accanto a Mamoru. “Dai su, racconta a mamma e papà della festa!” prendendo una manina tra le sue.
“C’erano due scimmiette…” iniziò la piccola, “una era senza cappellino e cercava di togliere il cappellino rosso all’altra scimmietta…”
 
Dopo aver raccontato tutto ciò che aveva visto e fatto alla festa di compleanno, Chibiusa appoggiò la testa sul torace del padre sentendo le palpebre pesanti; lui la portò nella sua cameretta adagiandola tra le lenzuola di rosa cotone e, premendo le labbra sulla fronte della bambina, sussurrò: “Fa’ la ninna, piccolina mia.”

Di nuovo in salotto, di nuovo Usagi di fronte a lui seduta con le gambe al petto, di nuovo la voglia irrefrenabile di confessarle tutto sentendo il cuore esplodere.
Avanzò verso di lei; i loro occhi non si lasciavano un attimo, neanche uno, c’erano tante di quelle cose che volevano rivelarsi, confidarsi; c’era una miriade di sentimenti che nasceva dal profondo del cuore e si manifestava attraverso il cielo d’estate, che lei aveva negli occhi, e attraverso l’oceano di inverno, che lui aveva nei suoi.
Le sedette accanto, continuando a fissarla; poi, abbassando la testa e sorreggendola con le mani, affermò:
“Mi dispiace per averla fatta piangere, Usako” coprendo il viso per non mostrare quella fragilità che pian piano si faceva spazio dentro di lui.
E lei capì che era arrivato il momento per mettere in atto il distacco che si era imposta per il suo stesso bene; e ciò era possibile  solo in un modo: con il contatto. Solo in quel modo avrebbe potuto fortificarsi dentro creando uno scudo che l’avrebbe protetta dalle sensazioni che avrebbe provato quando le loro mani, le loro pelli, si sarebbero incontrate.
“Sta’ tranquillo Mamo-chan” lo rincuorò  poggiandogli una mano sulla spalla, “il fatto è che sta crescendo, non sentirti in colpa, sa che le vuoi bene.”
La sua voce era dolce e rassicurante, sarebbe riuscita ad ammaliare qualsiasi creatura esistente con quel suono simile a una melodia.
Lui si voltò verso la ragazza con sguardo malinconico ma allo stesso tempo meravigliato da tutta quella maturità che Usako aveva acquisito con gli anni.
Lei sorrise, facendo scivolare le dita sulla guancia bagnata di Mamoru. “Asciugati le lacrime, sembri un bimbo pure tu” ridacchiò ingenuamente seguendo con gli occhi le sue dita.
Il cuore di Mamoru sembrò sciogliersi a quella risata, a quelle carezze, a quell’estrema ingenuità; prese la mano di Usagi, ancora sul suo viso, intrappolandola nella sua.
Usagi lo fissò negli occhi e lui parlò: “Devo dirti una cosa” con tono serio, come se stesse togliendo un macigno da dentro di sé.
Non ebbe il tempo di dire o fare nulla Usagi perché il campanello suonò e lei si affrettò ad aprire per evitare nuovamente quel suono che avrebbe svegliato Chibiusa.
Mamoru sospirò profondamente, pieno di ansia; forse era meglio così, pensò.
 
Una volta aperta la porta d’ingresso, un sorriso colmo di estrema felicità le si palesò sul viso; sporgendosi in avanti, cinse le braccia attorno al collo della ragazza che aveva di fronte, esclamando: “Mina-chan! Che ci fai qui?”
La giovane dai lunghi capelli biondi legati in una mezza coda, accarezzò la nuca dell’amica e con la risata cristallina che la caratterizzava da sempre, rispose: “Sono tornata ieri notte; il jet leg è stato micidiale!”
“Vieni, entra, devi raccontarmi tante cose, Mina-chan!”
Entrando, Minako vide Mamoru, andandogli incontro e abbracciandolo affettuosamente.
Usagi li raggiunse, invitandola a sedersi accanto a sé.
“E la mia coniglietta dov’è?” chiese l’attrice di Hollywood guardandosi attorno.
“Dorme; è stata alla festa di Hotaru ed era stanca” spiegò Usagi, “tu, invece, sono vere le voci che girano sulle riviste di gossip?”

Mamoru notava la complicità e l’affetto che da sempre legava le due ragazze; erano così piene di vita e di spensieratezza quando erano assieme che per un attimo gli sembrò di essere  tornato indietro nel tempo, a cinque anni prima, quando al Crown si lamentavano per le insufficienze; lamenti, però, che venivano sostituiti in fretta da una partita ai videogame.

Minako arrossì, fremendo, prendendo Usagi per le spalle e confessando:
“Sì, è tutto vero; stiamo assieme oramai da un po’” cercando di non parlare a voce troppo alta, “ho parlato con le altre, stasera ve li faccio conoscere!”
“Cosa?!” esclamò, incredula, l’amica fissandola negli occhi blu pieni di luce.
Minako annuì e prendendo le mani di Usagi tra le proprie, riprese:
“Sono qui a Tokyo per un concerto che si terrà tra due giorni; stasera usciamo assieme a loro!”
“Ma… ma come faccio con Chibiusa?” notò immediatamente.
“Tranquilla, Usako, ci sono io; va’ pure.”
Si voltarono entrambe verso il ragazzo alla loro destra seduto sulla poltrona, potendo notare il suo sorriso rassicurante.
“Davvero? Non ti spiace se vado?” domandò Usako sentendosi – senza motivo – in colpa.
“Certo che no; e poi la piccola starà già dormendo quando voi uscirete.”
Le due amiche sorrisero, rasserenate.

Usagi pensò che le avrebbe fatto bene uscire un po’ con le sue amiche e vivere per qualche ora quell’età alla quale aveva dovuto rinunciare da quando era nata la sua bambina.
Le avrebbe fatto bene distrarsi un po’; avrebbe riso, scherzato, con quelle che considerava delle sorelle e che le facevano riprovare cosa significasse avere vent'anni. Minako, inoltre, doveva raccontarle tutto ciò che era accaduto sul set di Sailor V. E poi, come se ciò non fosse bastato, avrebbe conosciuto i famosissimi Three Lights!

FINE PARTE PRIMA

 
Il punto dell’autrice
 
Per cortesia non mi uccidete!
Piccole precisazioni: nonostante questa storia nasca come insieme di momenti di vita familiare, la trama ormai è ben definita.
Vi accenno già da ora che alcune parti, che verranno inserite d’ora in poi, alle fans della mia coppia del cuore (lo specifico per farvi capire che io li amo assieme, se non si fosse ancora capito) potrebbero non piacere molto.
Io ovviamente scriverò in base a come ho deciso io la trama e spero che, se continuerete a seguirmi, potrete apprezzare questa fan fiction pure voi.
Chi mi seguirà fino in fondo, sono certa, non ne resterà deluso (parlo di trama, delle mie qualità di autrice ho ancora tutto in dubbio.)
Le sensazioni di Mamoru all’idea che Usagi uscirà e conoscerà quelli che per l’opinione pubblica sono tre fusti irresistibili, le rimando al capitolo successivo.
Come avete potuto notare, si chiude con questo ottavo capitolo la PARTE PRIMA; ho voluto dividere questa storia (che si prospetta molto lunga) in PARTI, in modo da poter definire meglio le varie fasi. Fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo, cosa vi è piaciuto e anche no. Ve ne sarei, come sempre, grata!
Un bacione e a presto!


Demy

         

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Capitolo 9
*** La Melodia del Cuore ***


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Cap. 9: La Melodia del Cuore

Davanti all’armadio, la scelta fu critica: erano passati dieci minuti da quando aveva aperto le ante per decidere cosa indossare quella sera. Il problema per Usagi era quello di aver acquistato, nell’ultimo periodo, solo abiti pratici, giornalieri, da brava mammina, e non da uscite notturne per i locali della città.  Sospirò più volte, tirando fuori alcuni vestiti per poi gettarli sul letto e continuare a far scorrere le grucce all’interno dell’armadio.
Alcuni passi sempre più vicini la costrinsero a voltarsi di scatto; Mamoru era davanti alla porta, con le mani nelle tasche dei jeans e un sorriso divertito per quella scena simile a quella di un film per teen ager.
“Hai intenzioni di tirarli fuori tutti?” ridacchiò entrando e sedendo sul letto.
“Lo trovi divertente?” Usagi si innervosì un poco, continuando a guardare gli abiti all’interno del mobile e quelli sparsi sul letto.
“Voi donne siete proprio complicate, chissà se anche Chibi-chan diventerà così” osservò con tono sempre più malinconico.
Alzandosi sulle punte per cercare qualcos’altro sulle mensole alte, la ragazza rispose con tono distratto: “Tra dieci anni lo potrai scoprire tu stesso.”
Il cuore di Mamoru per un attimo smise di battere, si sentì pervadere da tanta paura che gli si palesò sul viso prima di renderlo triste e serio.
“Questo è carino” le fece notare, mentre la mano scivolava su e giù accarezzando un vestito di cotone nero con le spalline velate, e immaginando di poter dedicare quelle stesse carezze alla sua Usako.
Usagi si voltò curiosa, avvicinandosi al letto e prendendo il vestito in mano; lo fece aderire al corpo e guardandosi allo specchio sorrise. “Grazie Mamo-chan, mi hai salvata!”
Lui rise di gusto scacciando via la malinconia: “Prego, adesso esco così ti puoi vestire.”
 
Non fece in tempo a rispondere che, quando si girò indietro verso di lui, il ragazzo aveva già richiuso la porta alle sue spalle.
Lo voleva davvero? Era veramente necessaria quella formalità? In fondo lui conosceva bene ogni centimetro del suo corpo, l’aveva spogliata lui stesso, accarezzata dappertutto, baciato la sua pelle nuda e bisognosa di lui.
Sentì il petto bruciare; non le facevano bene quei pensieri.
Sospirò profondamente e iniziò a prepararsi per la serata tra amiche.
 
Usagi aveva raccomandato a Minako di non suonare il campanello e di non premere il clacson per avvisarla del loro arrivo; se Chibiusa si fosse svegliata, non l’avrebbe lasciata uscire.
Uno squillo al suo telefono cellulare le fece capire che le sue amiche erano fuori ad aspettarla. Prese la sua borsetta nera e uscì di casa.
Mamoru era seduto sul dondolo con una bottiglia di birra ghiacciata in mano, osservando la Mercedes CLK grigia della Star e le quattro teste che sporgevano dall’auto decapottabile.
Udendo il suono dei tacchi farsi sempre più vicino, si voltò; in quel momento una morsa strinse il suo cuore come mai prima.
Lei era lì, davanti a lui, in un tubino aderente, scollato e corto sopra al ginocchio, che sembrava essere stato realizzato solo per lei, avvolta dalla seta lucente dei suoi biondi capelli lisci che le rivestivano le braccia e la schiena.
Avrebbe voluto alzarsi, intrappolarla tra le sue braccia possenti e toglierle con un’infinità di baci, pieni di dolcissima e tremenda passione, quel lucidalabbra che rendeva la sua bocca ancora più carnosa e appetitosa del solito.
Inspirò solamente, inebriandosi di quel profumo intenso, nuovo, che la rendeva più donna, che nascondeva l’odore di borotalco che spesso le restava addosso dopo il bagno fatto alla bambina.
“Mi raccomando, se Chibi-chan si sveglia e mi cerca, chiamami subito, non lasciarla piangere.”
Mamoru non rispose subito, era ancora ammaliato da quella visione di donna bella e sensuale, dagli occhi luminosi e cristallini, valorizzati da un ombretto perlato, fissi nei suoi, e da quella voce simile a un sussurro pieno di amore.
Forzò un sorriso solamente, sollevando la schiena dalla spalliera, e con gli avambracci sulle gambe e la testa alzata verso di lei: “Stai tranquilla, ci sono io con lei.”
“Buonanotte Mamo-chan” sussurrò a malincuore; qualcosa dentro di sé le suggeriva di sedersi su quel dondolo, come tante sere precedenti, e stringersi a lui per tutta la notte.
Doveva tenere a freno quella vocina insistente che albergava nel suo cuore.
“Divertiti Usako” fu la risposta di lui, anche se il desiderio di dirle di restare lì con lui, tra le sue braccia, era troppo forte.
Lei annuì e si voltò verso il cancello d’ingresso; dopo qualche passo in avanti, istintivamente lui la bloccò:
“Usako…”
Lei si girò curiosa: “Hm?”
Deglutendo, lui riprese: “Sta’ attenta” colmo di apprensione.
Un sorriso felice le si palesò sul viso, in quel momento fu più forte di lei, era come se le sue gambe si muovessero da sole, automaticamente; tornò indietro e, poggiando le mani sulle gambe di lui, si piegò in avanti premendo le labbra sulla guancia poco ruvida di Mamoru.
“Sì, papà!” lo rassicurò imitando la vocina di Chibiusa prima di allontanarsi da lui ridacchiando.
Lui arrossì leggermente, percependo che quel contatto ingenuo, ma avvolto da un odore sensuale, aveva messo in subbuglio il suo corpo, facendo bollire il sangue nelle sue vene ed eccitandolo parecchio.
Rimase incurvato in avanti, incapace di sfiorarla per evitare di sentire il corpo fremere ancora di più al suo contatto ed essere costretto, dopo, a non poterla tenere con sé.
Non poté fare altro che osservarla mentre, sinuosamente, si allontanava sempre di più fino a salire in auto e scomparire dopo poco dalla sua visuale.
 
Sopirò profondamente, sdraiandosi con una mano sotto la nuca, e ammirando il cielo nero addensato da nuvole grigie. Non c’erano stelle, nemmeno una e, se ci fossero state, non sarebbero state mai luminose come Lei.
Già gli mancava, già era in ansia per lei; si spaventava che qualcuno avesse potuto importunarla, era certo che troppi occhi l’avrebbero mangiata, che troppe mani avrebbero voluto toccarla.
Era una sensazione atroce, accompagnata da numerose fitte allo stomaco, era un’emozione nuova, diversa da quella che provava a NYC al pensiero di lei in compagnia di qualche uomo.
Quando era nella City, poteva solo immaginare determinate cose, poteva starci male, però non era straziante, non era da mozzare il respiro, come vedere coi suo stessi occhi la sua donna farsi bella e seducente, e uscire da casa lasciandolo solo a respirare la scia di profumo che arieggiava al suo passaggio.
“Te lo sei cercato tu, idiota” si disse maledicendo se stesso.
Ne era consapevole, sapeva che l’errore era stato suo, cinque anni addietro. E in quel momento? In quei mesi in cui aveva capito che l’unica cosa che voleva era tornare a casa? Dalla sua famiglia?
Troppo tardi. Non poteva più. Usagi era troppo giovane, troppo bella, troppo in gamba per vedere rovinata la propria vita a causa sua.
E Chibiusa? Troppo piccola, troppo bisognosa di protezione, di qualcuno che potesse prendersi cura di lei giorno dopo giorno. Sempre.
Era giusto così; lui le amava troppo e, così come aveva sentito dire a lei stessa, quel pomeriggio, capì che l’amore era vero e sincero quando si desiderava solamente la felicità delle persone amate, qualunque scelta e qualunque circostanza essa richiedesse. E la felicità di Usagi richiedeva di dover stare lontana da lui.
 
Il rombo prolungato di un tuono lo fece destare da quelle osservazioni; si affrettò a entrare in casa udendo la bambina piangere.
“Mamma, mamma!” urlava, rannicchiata su se stessa, stringendo il suo gattino blu di peluche.
“Shh, c’è papà qui con te, piccolina” la confortò il giovane accendendo la luce e sedendo sul lettino.
“La mamma, voglio la mamma” ripeteva tra un singhiozzo e l’altro.
Mamoru le accarezzò il viso asciugando le lacrime, poi disse, con voce rassicurante: “La mamma è uscita con zia Minako, ci sono io qui, amore di papà, non aver paura.”
Chibiusa si sorprese. “Ma… ma come? Quando torna? Io voglio la mamma!”
Rimboccandole il lenzuolo, Mamoru le sorrise. “Tra qualche ora la mamma sarà qui, domani mattina quando ti sveglierai la troverai a casa.”
Un altro tuono, più prolungato, la fece sussultare; le lacrime colme di paura le rigarono il viso paffuto.
“Mamma, mamma…!” ripeteva soltanto, portandosi seduta e stringendosi a Mamoru pronto ad avvolgerla nel suo abbraccio pieno d’amore.
“Facciamo così” propose il ragazzo, “adesso fai la ninna sul lettone della mamma, così quando torna ti abbraccia forte e dormite assieme, okay?”
A Chibiusa sembrò un ottimo compromesso. Annuì più volte mantenendo un’espressione spaventata; cinse il collo del padre con le mani facendosi prendere in braccio e portare nella stanza della ragazza.
 
 Mamoru la adagiò tra le lenzuola color panna che profumavano di Usako; era un odore caldo e avvolgente che riscaldava il suo cuore. Diede un bacio sulla fronte alla bambina e scostandole alcuni ciuffi dal viso le chiese: “Va meglio Chibi-chan?” con un sorriso dolce sulle labbra.
La piccola però non riusciva a prendere sonno, non voleva restare da sola, si sentiva inquieta.
“Papà, posso ascoltare La Melodia del Cuore?” domandò con occhi lucidi e un’espressione supplichevole.
Mamoru aggrottò la fronte. “Hm?”
Chibiusa accennò un sorriso fiducioso: suo padre non sapeva cosa fosse, aveva una possibilità, quindi.
“Sì, La Melodia del Cuore, è lì” spiegò distendendo il braccio per indicare, sul comò, il portagioie d’argento, a forma di bauletto, che conteneva gli oggetti d’oro e più preziosi di Usagi.
“Amore, ma lì ci son le cose della mamma!”
“Sì… sì, però ti prego, fammela prendere!” insisteva, accennando di nuovo un pianto, mentre fremeva sul letto.
Mamoru si alzò, prendendo l’oggetto rettangolare, dal coperchio bombato, e portandolo alla bambina per evitare che riprendesse a volere la madre.
Lei fu soddisfatta e felice di essere riuscita nel suo intento; aprì cautamente l’oggetto ed estrasse un piccolo carillon a forma di stella gialla dal coperchio bombato dalle rifiniture argentee.
Un sorriso le si allargò sul volto. Mamoru sgranò gli occhi sentendo il cuore sprofondare. “Vediamo, dammelo un attimo” ordinò prendendolo in mano e osservandolo meglio, ancora incredulo.
“No, no ridammelo” ripeteva innervosita, cercando di riprendere la stella che il ragazzo rigirava tra le mani, dopo essersi voltato per poter sfuggire alla presa della figlia, “la mamma non vuole che qualcuno lo tocchi.”
Lui sorrise, porgendolo, poco dopo, alla bambina che si calmò subito e sollevò il coperchio azionando così la melodia, mentre una luna rossa, all’interno, roteava accompagnando il suono.
“Dimmi Chibiusa, è questa La Melodia del Cuore?” cercò conferma ascoltando il motivetto triste e rilassante.
Lei si sdraiò, annuendo e portando il carillon al cuore.
“E perché la chiamate così?”
La piccola alzò le spalle, pensierosa, poi confidò: “Sono io che lo chiamo così; la mamma l’ascolta sempre quando è triste; lo porta al cuore e poi sorride.”
 Chiuse un attimo gli occhi, accennando il motivetto, poi riprese: “Quando sono triste me lo fa tenere, perché dice che a lei i ricordi provocati da questa melodia scaldano il cuore e la fanno stare meglio, però poi lo riposa perché dice che se si rompe lei ne soffrirebbe.”
Mamoru ascoltava in silenzio, ancora stupito per quella rivelazione; quello era il carillon che aveva regalato alla sua Usako per il suo sedicesimo compleanno.
 
Lo aveva comprato dopo aver saputo della festa a sorpresa; voleva farle un regalo carino ma non sapeva i gusti di Usagi, lui non la conosceva, in fondo; sapeva che a scuola non era brava e che amava i dolci. Non aveva in mente nulla che le sarebbe potuto piacere. Aveva visto il carillon in una vetrina del centro e ne era rimasto colpito; tutto sommato alle ragazzine piacevano i carillon e poi la forma a stella gli era piaciuta subito.
 
Non credeva, però, che lo avesse conservato per tutto quel tempo e ne avesse fatto il tesoro più prezioso. Capì che, però, per Usagi non era l’oggetto in sé ad essere prezioso; per Usako era il valore affettivo, il valore dato dai ricordi felici assieme a lui, sulla base di quella malinconica melodia, a rendere il carillon la cosa a cui Usagi teneva così tanto da custodirla come un oggetto di inestimabile valore.
Sentì gli occhi pizzicare; guardò Chibi-chan che, con occhi chiusi e il carillon tenuto al petto, sembrava più serena. Le accarezzò la fronte e i morbidi capelli. Sembrava Usako in miniatura. “Buona notte, principessina mia” sussurrò prima di lasciare un bacio sulla sua testa.
La piccola spalancò gli occhi. “No, no aspetta; resti con me per un po’? La mamma lo fa sempre quando ci sono i tuoni.”
Non poté non accontentare quella richiesta; sorrise alla dolce ingenuità, che gli occhi castani indifesi – ancora lucidi – e le labbra umide chiuse in un’espressione speranzosa erano in grado di provocargli; sdraiandosi accanto a lei, l’avvolse tra le braccia mentre La Melodia del Cuore continuava a suonare, rischiarendo con la sua luce gialla l’oscurità della camera, coprendo il rumore della pioggia sempre più fitta, e conciliando il sonno della bambina. Anche lui, con la testa sul morbido cuscino intriso dell’odore di Usako, chiuse per un attimo gli occhi, lasciandosi trasportare dal motivetto rilassante.
 
 
Illusion, situato al centro della città, era uno dei locali più In di Tokyo, il luogo in cui i giovani si riunivano la sera per sorseggiare ottimi drink e ascoltare sia musica dal vivo che quella scelta direttamente dagli ultimi successi discografici.
Sedute su divanetti in comoda pelle nera, le cinque ragazze ordinarono cinque Cosmopolitan.
“Sembriamo le ragazze di Sex and the City*” esclamò, entusiasta, Minako quando il giovane cameriere si allontanò con il notes delle ordinazioni.
“Ti prego, non nominarmi quella città maledetta!” Usagi appoggiò un gomito sul bracciolo sostenendo col palmo la guancia.
“Però com’eravate carini prima!” Con aria sognante, Minako sbatté le ciglia allargando un sorriso.
“Quando?” domandò la ragazza.
“Prima, quando gli hai dato il bacio sulla guancia, vi ho visti dallo specchietto retrovisore, ti ha seguito con lo sguardo per tutto il tempo.”
Usagi arrossì, sorridendo a quella rivelazione.
“Allora, parlaci del film, come procedono le riprese?” Rei, seduta accanto a Usagi, al centro del divanetto a tre posti, intervenne; Minako non sapeva dello sfogo di Usa, del suo bisogno di lasciarsi Mamoru alle spalle: quei discorsi non facevano bene alla ragazza dal cuore a pezzi.
Il cameriere adagiò sul tavolino basso di vetro i cinque bicchieri cercando di non farne fuoriuscire il liquido rosso.
Prendendo un bicchiere in mano, l’attrice annuì: “Bene, bene, la regista, Naoko Takeuchi, ha avuto dei problemi e le riprese proseguiranno il mese prossimo”, bevve un sorso del cocktail e riprese “ecco perché sono tornata prima!”
Dopo un altro sorso, accavallando le gambe scoperte da un mini abito arancione, Minako sorrise maliziosamente: “A proposito Rei, non mi hai ancora detto chi era quel ragazzo tanto gentile che ha risposto ieri al telefono!”
“Già Rei-chan, non ci hai ancora detto nulla del nuovo aiutante!” Usagi, con la complicità di sempre, si unì alla domanda dell’amica, guardando la sacerdotessa con una smorfia divertita e tenendo in mano il suo bicchiere.
“Si chiama Yuichiru” svelò, “è un bravissimo ragazzo e poi mi aiuta moltissimo alleggerendomi tanti lavori.”
“Solo coi lavori?” Makoto, con un occhiolino, sorrise divertita, poggiando il suo bicchiere semi vuoto sul tavolino.
“Dai, ragazze, lo conosco da poco, anche se devo ammettere che è molto carino e dolce” rispose la ragazza dai lunghi capelli corvini legati in una coda bassa da un foulard di raso rosso vermiglio che faceva risaltare i suoi occhi color indaco.
“Beh, potresti portarlo alla festa di Chibi-chan” propose Usagi cercando negli occhi delle altre un appoggio.
“Ah, è vero, la nostra piccolina compie cinque anni fra due settimane!” Ami, presa dai suoi esami di fine sessione, l’aveva quasi dimenticato.
“Vedremo Usagi” sorrise la sacerdotessa con sguardo complice.
“Sì, e mi raccomando Makoto, per la torta voglio la pasticciera più brava di tutta Tokyo!” Riprendendo il discorso introdotto da Ami, Usagi sperò che la ragazza dalla coda di cavallo castana accettasse di preparare una torta; per Usagi le torte di Makoto erano le migliori e la sua bravura era nota a tutta la città, infatti, la sua pasticceria Lightning  era sempre affollata e le prenotazioni erano all’ordine del giorno.
“E poi ci sarà anche Motoki a cui farla assaggiare” riprese divertita mentre l’amica arrossiva.
“Ma insomma Usa, come devo dirtelo che è evidente che non gli interesso” spiegò incrociando le braccia al petto, “è da cinque anni che glielo faccio capire ma credo che non gli interessi.”
Rimasero in silenzio, senza sapere cosa rispondere a quella che era l’evidenza; Usagi in cinque anni aveva fatto di tutto per avvicinare la sua amica al ragazzo dai capelli biondo miele, compreso invitarla parecchie volte al Crown durante il lavoro per dar loro modo di vedersi spesso e conoscersi meglio, ma per Motoki lei restava sempre l’amica di Usagi.
Ami interruppe il silenzio imbarazzante domandando:
“Allora Minako, come vi siete conosciuti tu e Yaten?”
La ragazza dai lunghi capelli legati in una mezza coda bevve l’ultimo sorso del suo drink, poi rispose:
“Naoko ha dato ai Three Lights una parte nel film e, così, alcune riprese le abbiamo girate assieme!”
“Dicci, Mina-chan, come sono dal vivo?” chiese Ami con le gote leggermente rosse, “sono simpatici? O sono i classici Idoli montati?”
“Ma no, anzi, sono molto affabili” chiarì la bionda attorcigliando una ciocca di capelli tra le dita, “figurati che Yaten, il giorno dopo avermi conosciuta, mi ha mandato un mazzo di rose rosse in albergo invitandomi a cena! Di solito gli Idol non fanno mai il primo passo!”
“Wow!” Usagi aveva sempre amato i corteggiamenti come quelli dei film e quello di Minako sembrava ancora più bello di tutti quelli che aveva visto in televisione.
“Credi sia per sempre, stavolta?” domandò Makoto, ricordando le infinite infatuazioni di Minako.

L’attrice sorrise divertita. “Credo durerà finché durerà…” rispose con tono serio.
Le amiche aggrottarono la fronte: “Ma che risposta è?” esclamò Rei.
Risero tutte, di gusto, mentre Minako estrasse dalla piccola borsetta dorata uno specchietto per dare un’occhiata al rossetto leggermente sbiadito per via del cocktail.
“Dico solo che a Hollywood è tutto diverso da qui; i flirt nati sul set durano il tempo delle riprese e poi chissà…” Conservò l’oggetto a forma di cuore nella borsa e  aggiunse: “L’America è così diversa… è divina; è difficile voler tornare dopo essere stati negli USA.”

Nonostante la musica assordante che rivestiva di allegria il locale, le tenebre oscure del silenzio colpirono le cinque ragazze. Usagi posò il bicchiere ancora pieno per metà sul tavolino, con mani tremanti, sentendo lo stomaco ribellarsi a quell’affermazione e il cuore battere a ritmo di musica. Deglutì a fatica, abbassando lo sguardo e tirando giù, con le mani, il vestito leggermente salito un poco.
“Mi dispiace Usa-chan, scusami, non volevo, non ci ho fatto caso…” Minako si scusò con la ragazza visibilmente triste, dallo sguardo imbarazzato e gli occhi spenti fissi sulle proprie gambe, “sono una stupida, perdonami.”
Usagi forzò un sorriso, voltandosi a destra verso la sua ingenua Mina-chan e rassicurandola: “Non importa, sta’ tranquilla; Mamo-chan farà sempre parte della mia vita, ma ormai è una storia che ho messo da parte” fece una pausa e, con molta convinzione aggiunse: “sono felice per lui. È giusto così, veramente.” Era sincera.
La leggera tensione che si avvertiva tra le amiche durò solo qualche minuto; improvvisamente un sorriso nacque sulle labbra di Minako, si alzò di scatto agitando una mano. Le quattro ragazze si voltarono verso l’ingresso del locale per poter scorgere tre ragazzi: Tre Ragazzi per cui migliaia di ragazzine avrebbero dato l’anima per averli al tavolo con loro.
Una volta accortisi della bionda, e del suo mini abito arancio, che di certo non passava inosservato, si avvicinarono sempre di più con aria serena.
Erano tre ragazzi normalissimi.
Yaten, il ragazzo dai lunghi capelli color dell’argento, cinse con un braccio la vita esile della Star, intrappolandole audacemente le labbra nelle proprie davanti agli occhi delle altre ragazze che, inevitabilmente arrossirono. Taiki e Seiya, invece, non prestarono attenzione alla scena in cui la lingua del fratello carezzava quella della ragazza; per loro quella era una scena abitudinaria.
Un colpo di tosse di Makoto mise fine al saluto tra i due fidanzati.
Dopo essere passati alle presentazioni, Yaten si accomodò sul divanetto a due posti accanto alla sua Sailor V, mentre Ami invitò audacemente il ragazzo dai capelli castani a sedere accanto a sé e a Makoto; la ragazza dal caschetto blu aveva un debole per quel cantante così serio, dallo sguardo enigmatico ma che, dalle interviste sui giornali, aveva sempre considerato molto simile a lei; le era sembrato un sogno avverato il messaggio di Minako che la informava della serata in cui glieli avrebbe fatti conoscere.
Seiya, l’ultimo dei tre fratelli, rimase in piedi, notando un ultimo posto libero accanto alla ragazza dai capelli corvini e lo sguardo molto serio: non gli piaceva affatto; guardando, subito dopo, alla sinistra della giovane, rimase folgorato dalla bellezza semplice, che lo incuriosiva, della fanciulla dai capelli color del grano maturato al sole che le rivestivano le braccia e il seno come una cascata di fili d’oro. Improvvisamente sentì il suo corpo fremere, il sangue ardere nelle sue vene, l’eccitazione farsi sempre più forte alla vista delle sue gambe toniche e candide scoperte e accavallate. Non riusciva a resistere, far finta di nulla, si sentiva attratto sempre di più da quella ragazza e dalle sue labbra rosse come due ciliegie; immaginava già le sue mani scivolarle lungo il corpo e impazziva al solo pensiero del suono dei suoi gemiti. Doveva averla!
Si avvicinò alle ragazze. Usagi prese immediatamente la sua borsetta, posta al centro del divanetto, adagiandola sulle sue gambe; lo stesso fece Rei riuscendo a notare, dal modo in cui Seiya osservava Usagi, la sua attrazione per l’amica. Seiya si sedette al centro fra le due giovani, accennando un sorriso ad entrambe.
 
La serata continuò in allegria; dopo aver ordinato una bottiglia di Champagne per festeggiare l’incontro con le cinque ragazze, Yaten e i suoi fratelli raccontarono dei loro impegni lavorativi. Spiegarono di persona che la loro carriera di cantautori era iniziata un anno addietro e il loro successo era arrivato subito grazie alla loro canzone ‘Search for your love’, che era entrata nei cuori delle ragazzine, facendoli arrivare in vetta a tutte le classifiche giapponesi e americane. Naoko Takeuchi li aveva voluti per una parte nel film dell’anno Sailor V, tre mesi addietro, convinta che avrebbe attirato fans, non solo del videogame che spopolava tra i giovani amanti della paladina della giustizia, ma anche dei Three Lights.
Parlarono anche delle tournee e dei vari concerti che avrebbero tenuto in Giappone, loro Paese, in quei due mesi a venire, prima di ritornare negli States per iniziare a incidere il loro secondo album.
 
Quella sera, Usagi era serena; si lasciò trasportare dal divertimento provocato dalle battute esilaranti dei tre fratelli e cantanti, ridendo come non mai negli ultimi cinque anni. Non c’era Mamoru lì con  lei, e neppure Chibiusa; per la prima volta dopo ormai tanti anni era soltanto lei, Usagi, la ragazza di quasi ventuno anni ch trascorreva una serata allegra come tutte le giovani della sua età.
Taiki era molto serio in televisione o sui giornali di gossip, pensò, però in compagnia di Ami-chan era più sciolto, più estroverso; entrambi erano molto dediti allo studio e alla cultura e durante la serata non mancarono le occasioni i cui parlarono dei loro libri preferiti o delle materie che studiavano con più piacere. L’intervento scherzoso di Seiya che cercava di far apparire Taiki come un ragazzo che in realtà non aveva voglia di studiare ma che appariva come il colto fra i tre per attirare anche le studentesse modello, fece arrossire Ami e ridere di gusto le altre.
Negli occhi vispi e allegri di Seiya, quel giovane carino dai capelli corvini legati in un codino basso, in quei modi di fare così simili ai suoi, sempre pieni di vita e di voglia di far divertire chi gli stava intorno, Usagi rivide la se stessa di cinque anni prima; il carisma, le parole che, innocentemente uscivano dalla bocca di lui, simili a ingenui complimenti dedicati a lei, sciolsero la morsa al cuore che provava tutte le volte che guardava negli occhi Mamo-chan, tutte le volte che lui la sfiorava e ogni volta che ripensava ai bei momenti trascorsi assieme. Senza quella morsa al cuore, la vita sembrava più semplice, meno complicata. Senza quel dolore straziante al petto, Usagi si sentì bene. Dopo cinque anni, forse, Mamoru era davvero uscito dal centro del suo cuore, lasciandola respirare senza sentire il petto bruciare, entrando in quell’angolino di quell’organo vitale dove sarebbe sempre rimasto senza, però, farle del male.   
 
“Dobbiamo assolutamente rivederci, Principessa del cielo blu” disse Seiya, a fine serata, prendendo la mano di Usagi e baciandone il dorso dolcemente.
Lei arrossì, lusingata per essere stata chiamata come la destinataria della canzone che li aveva resi famosi.
“Ma certo, dopo il loro concerto faremo un’altra uscita!” Minako si intromise, prendendo sottobraccio Yaten, garantendo che quella bellissima serata non sarebbe rimasta un incontro isolato.
Le ragazze entrarono nella Mercedes parcheggiata di fronte al locale, sotto lo sguardo dei tre fratelli che attesero che Minako mettesse in moto l’auto e si allontanasse sempre più dalla loro visuale.
A Usagi non sfuggì l’occhiolino di Seiya prima che Minako svoltasse l’angolo.
Non sapeva cos’era quella sensazione però sapere di essere apprezzata e di avere le attenzioni di un ragazzo molto carino, simpatico e pieno di vita come Seiya la faceva stare bene. La morsa al cuore era sempre più simile a un lontano ricordo.
 
 
La casa era completamente avvolta dal nero totale; Usagi tolse i tacchi per evitare che il rumore al contatto col pavimento potesse destare dal sonno Mamoru e Chibiusa. Era stata una serata bellissima pensò mentre teneva in mano il cellulare per far luce verso la camera da letto. Una volta sulla soglia della stanza, il petto iniziò a bruciare di nuovo. Era un bruciore che avvolgeva il suo cuore e che le regalò un sorriso spontaneo; di quelli che non necessitavano di battute o frasi esilaranti.
Deglutì a fatica sentendo il cuore battere sempre più forte, come se volesse manifestare con una danza la sua felicità.
Voltato verso di lei, Mamoru dormiva con un’espressione serena e rilassata sul volto, alcuni ciuffi spettinati sulla fronte gli donavano un’aria ancora più ingenua; avvolgeva, da dietro, Chibiusa tra le braccia.
La piccola, con le labbra socchiuse, era  tranquilla, come se stesse facendo un sogno meraviglioso. In una mano, tenuta sul materasso, la presa della Melodia del Cuore si era allentata. Usagi rimase incantata da quella visione che poteva definire con una sola parola: Amore.
Non resistette; con il suo cellulare scattò una foto a quelle due persone che ingenuamente e involontariamente le avevano scaldato il cuore. Doveva rendere eterno quel momento.
Entrò subito dopo e, voltata verso l’armadio – di fronte al letto -, abbassò la cerniera facendo scivolare il vestito a terra prima di indossare una camicia da notte blu, come l’intimo che aveva addosso. Quando si girò indietro, notò che Mamoru pian piano sbatteva le palpebre.
“Scusami, mi sono addormentato qui con la bambina” sussurrò con la voce ancora impastata dal sonno, quando si rese conto che La Melodia del Cuore lo aveva condotto nel regno dei sogni.
Cercò di sollevarsi dal cuscino senza svegliare la piccola ma Usagi, posandogli una mano sul braccio, rispose con un soffio pieno di dolcezza:
“No, resta. Dormi, Mamo-chan.”
Lui sorrise, non c’era melodia più bella e soave della voce delicata di Usako, per lui.

Usagi scorse il carillon a forma di stella sul materasso; pensò che sicuramente Mamoru lo aveva riconosciuto; non le importò, per la prima volta, quale era stata sua reazione alla vista, dopo sei anni, di quell’oggetto; lo prese in mano e lo appoggiò con cura sul comodino, cercando di non fare movimenti bruschi.
Si sdraiò coprendosi con il lenzuolo e voltandosi verso la bambina e il ragazzo che aveva richiuso gli occhi.
Sorrise alla vista di quella piccola creatura che le aveva cambiato completamente la vita, impedendole di vivere una vita spensierata, da adolescente, ma che le aveva fatto il dono più bello a cui non avrebbe mai voluto rinunciare, di cui non si sarebbe mai pentita; se fosse tornata indietro avrebbe rifatto tutto, senza esitazione, senza rimpianti.
Non avrebbe mai voluto una vita senza la sua Chibiusa. Non riusciva neppure a immaginarla.

Le scostò alcune ciocche dal viso, premendo le labbra sulla sua fronte.
“Notte angelo mio” sussurrò carezzandole la guancia, come se fosse sicura che, nonostante dormisse, la sua voce l’avrebbe raggiunta nel regno dei sogni.
Chiuse gli occhi pure lei; quella notte, i suoi battiti avrebbero seguito spontaneamente il suono della Melodia del Cuore, nonostante il coperchio del carillon fosse rimasto chiuso.
 
 
Il punto dell’autrice
 

 

Chiedo perdono perché mi rendo conto che attendevate questo capitolo e avrei dovuto fare di meglio, invece mi rendo conto che non ho dato il massimo.
Probabilmente lo revisionerò in seguito.
È arrivato Seiya, ammetto che la parte dedicata a loro tre non è volutamente approfondita, lo farò nel prossimo capitolo.
Avete notato la special guest? Mi sembrava giusto citare Naoko Takeuchi, autrice di Sailor Moon e Sailor V. in qualche modo, dato che non l’ho fatto con Moonlight (che aggiornerò presto!), volevo farlo qui.
Aspetto i vostri commenti, se saranno negativi – come presumo - spero di trovare suggerimenti per migliorare il capitolo.
Grazie a tutti coloro che mi seguono e mi dimostrano giorno dopo giorno il loro affetto!
Un bacio e a presto
!

Demy
 

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Capitolo 10
*** Parla con me... ***


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Cap.10: Parla con me...

Da quando ne aveva memoria, la piccola Usagi Chiba non aveva mai provato la gioia di addormentarsi sul lettone insieme a entrambi i suoi genitori, non le era stata data mai la possibilità di sentire il cuore riscaldarsi alla vista del suo papà e della sua mamma che pian piano aprivano gli occhi al mattino iniziando a coccolarla, tra piccole risate e sguardi complici, facendole capire che non c’era niente di più bello al Mondo che una bambina potesse desiderare se non l’amore della propria famiglia.
Non era mai capitato, mai successo prima…
Prima di quella mattina del diciotto Giugno.
 
Chibiusa alzò molto lentamente le palpebre percependo una lenta presa che la avvolgeva in un dolce, tenero abbraccio, donandole un senso di protezione al quale non si sarebbe mai abituata, del quale non avrebbe mai potuto fare a meno. La percezione di quel contatto era solo una delle componenti che le avevano appena augurato il miglior Buongiorno di tutta la sua giovanissima vita.
Davanti a sé, infatti, con gli occhi ancora chiusi e le labbra leggermente aperte, la sua mamma dormiva beata mentre una cascata di fili d’oro le incorniciava il viso rivestendo gran parte del cuscino e del materasso. Quanto amava i capelli della madre, quanto adorava poterci giocare arricciandoli tra le dita e sentendoli scivolare poco dopo in maniera morbida.
Si voltò indietro, quel poco per notare il padre e accorgersi che pure lui non era ancora pronto per lasciare da solo il Custode del regno dei Sogni.
Il profumo che aleggiava nella camera, quel giorno, era speciale, unico; il respiro del padre sul proprio collo, il suo odore di dopobarba appena percettibile, misto a quello speziato, intenso della madre, e al proprio, fatto di borotalco e colonia che Usagi soleva metterle sempre dopo il bagno, inebriava le sue narici scaldandole l’anima, facendole capire – finalmente – che profumo avesse la felicità.
 
Lentamente, con le mani, spostò quelle di Mamoru che le cingevano la pancia e si portò in avanti, poggiando la testa sul petto di Usagi, mentre una piccola mano scivolava sulla guancia della ragazza, come tutte le altre mattine.
Pian piano lei alzò le palpebre, sentendo quel dolcissimo peso addosso, quel tocco così delicato misto al profumo di ingenuità e borotalco che avrebbe riconosciuto sempre, ovunque, a occhi chiusi. Un sorriso nacque spontaneo sulle sue labbra notando le ciocche rosee sul proprio braccio e gli occhi nocciola che – come incantati, immobili – aspettavano di potersi finalmente specchiare nei suoi. Con entrambe le braccia, la avvolse in un caldo abbraccio posando un bacio sulla sua fronte.
Fu una sensazione strana, nuova, che faceva scalpitare il suo cuore, che a tratti la lasciava senza respiro, quella che provò notando Mamo-chan dormire sereno, col volto verso di lei. Era un’emozione che la rendeva viva ma paradossalmente la faceva morire lentamente, di una morte dolce, quella che la presenza di lui, accanto a lei, le provocava. Perché non poteva avvicinarsi e accarezzarlo con delicatezza? Perché non poteva stargli talmente vicino da respirare il suo stesso respiro? Perché non poteva abbracciarlo e sentirsi protetta, serena, tra quelle braccia forti? Basta! Non doveva più pensarci, se lo era ripromesso, peccato che a dirsi era stato molto più semplice.
Strinse più forte la piccola tra le sue braccia prima di sussurrarle: “Già sveglia, piccolina?”
La sveglia sul comodino segnava le 8.15; era presto considerando che non doveva andare al lavoro né accompagnare Chibiusa all’asilo.
Chibiusa annuì, alzando il viso per incontrare gli occhi azzurri e ancora assonnati di Usagi. “Ero scomoda, non riuscivo a muovermi con papà” confessò sistemandosi ancora meglio.
La ragazza lasciò uscire una piccola risata istintiva, sperando di non  aver svegliato Mamo-chan. Speranza inutile dato che pian piano il ragazzo strofinò la guancia sul cuscino, muovendosi appena e aprendo gli occhi.
La visione della ragazza stretta alla bambina, mentre fili d’oro e rosei si mischiavano sulle lenzuola illuminò i suoi occhi e dipinse sul suo viso un sorriso. Se avesse potuto tornare indietro, se fosse rinato in altre cento vite, quello era e sarebbe stato l’unico risveglio che avrebbe desiderato avere. Sempre.
“Buongiorno, già sveglie?” domandò guardando Usagi e accarezzando la schiena della piccola.
“Buongiorno Mamo-chan” ricambiò la ragazza “sì, la signorina stamattina si è svegliata presto, vero Chibi-chan?”
La risposta della figlia consistette in un semplice sorriso che sfociò in un’allegra risata; si voltò indietro e stringendosi a lui gli donò un bacio sulla guancia. “Non riuscivo a muovermi, Mamo-chan.”
Al suono, innocente e scherzoso, di quell’appellativo mai usato prima dalla figlia, entrambi i ragazzi si lasciarono andare ad una risata fatta di stupore alla quale si aggiunse pure la bambina, felice per quell’aria di serenità e complicità che si respirava quel giorno.
“Come mi hai chiamato, birbante?” La domanda di Mamoru non ebbe rapida risposta dal momento che le si avvicinò, sollevando il busto dal materasso, prendendola per i fianchi, e iniziando a solleticarla, provocando in lei piccole urla istintive, accompagnate dall’agitarsi  e dallo sbattere dei piedi sul letto.
“Basta! Basta!” implorava con le lacrime agli occhi per il troppo ridere.
Usagi sorrise a quella scena in cui Mamoru, pieno di gioia ed euforia, regalava alla loro bambina momenti che a Chibiusa mancavano spesso, sempre. Lui cercava di colmare, con tutte le attenzioni possibili e le premure esistenti, la mancanza dalla figlia e lei stessa capiva che non era mai abbastanza, mai sufficiente. Né per Chibiusa né per Mamoru. E ciò riportava a un interrogativo che martellava costantemente dentro di sé, quasi a trapanarle il cervello: perché non  tornava da lei? Da Chibiusa? Perché se era consapevole di perdersi tante cose – come aveva detto lui stesso – non chiedeva all’ospedale Newyorkese il trasferimento a Tokyo per il tirocinio? Automaticamente i suoi pensieri, le sue mille domande senza nessuna risposta, le stesero un velo di malinconia sul viso rendendo i suoi occhi cupi; la sua realtà si era appena ovattata, riusciva a stento a udire le risate della piccola e le parole confuse pronunciate dal ragazzo. Voltando indietro, verso il comodino accanto a sé, il volto, lo vide: il carillon.
Fu proprio quell’oggetto dal valore inestimabile che le provocò un senso di curiosità e di disappunto spontaneo, riportandola in sé; si voltò di nuovo verso le due persone più importanti della sua vita e allungando un braccio verso Chibiusa che, a mezz’aria, sorretta da Mamo, rideva divertita, domandò:
“Tu, piccola birbante, ieri sera ti sei divertita a frugare tra le mie cose, non è vero?” con tono sereno, giocoso.
Chibiusa si concentrava per non ridere e, col fiato corto, rispose:
“Non sono stata io, è stato papà!” creando stupore in lei, persino in lui che si sentì tradito, “aiutami mamma!” rideva senza più fiato, cercando di liberarsi dalla presa del padre che la teneva sospesa per aria.

“Ah, è così?!” intervenne lei, avvicinandosi a Mamoru e allungando entrambe le braccia per prendere la bambina, “non ti preoccupare principessina, ti difendo io!” tra un misto fra risata e incredulità.
Prese in braccio la bambina stringendola a sé, fra le sue braccia, mentre la piccola regolarizzava il respiro con il viso poggiato sul petto della madre.
 
“Ma è stata lei a dirmi di prenderlo, io non mi sarei mai permesso” si discolpò lui voltandosi sul fianco per poterla guardare negli occhi, mentre il suo tono passava da ironico a serio, persino mortificato.
Usagi lo capì, accennò un sorriso, e con tono rassicurante lo tranquillizzò: “Non importa Mamo-chan, hai fatto bene, scommetto che la piccola peste ha fatto i capricci!” mentre affondava il viso nei folti capelli rosei e aumentava la stretta.

“Mamma, pensavo che te ne eri andata pure tu e non tornavi più” confessò ingenuamente, “e poi c’erano i tuoni…”
 
A quelle parole, dolorose per tutti e tre, ma sincere, esternate da un cuore puro, sia Usagi che Mamoru sentirono il gelo ghiacciare il sangue nelle vene.
 
“No, piccolina, che dici!” la ragazza cercò di tranquillizzarla con un bacio sui soffici capelli, “la mamma non ti lascia, è soltanto uscita con le zie, sai che è tornata zia Minako?” tentò di cambiare discorso.
 
Certi argomenti, così assidui, così presenti, talvolta inevitabili, riuscivano a distanza di anni, a ferirla dritta al cuore, a lasciarla inerme, sanguinante davanti all’evidenza dei fatti. E quando era Chibiusa a farle capire quanto dolore ci fosse in lei per la mancanza del padre, faceva ancora più male, la ferita non riusciva mai a rimarginarsi.
Forse stava sbagliando tutto! Forse avrebbe dovuto parlare con Mamoru e spiegargli quanto Chibiusa soffrisse. Non erano più soltanto lui e lei, non lo erano più da ormai quasi cinque anni. A volte credeva di essere egoista e degna di quel nome che portava e che a volte le calzava a pennello. Scappava dalla realtà, dall’evidenza, soffriva e rimuginava sulle scelte di lui e sui suoi mille dubbi, pur di non affrontare il problema. Per paura di soffrire di più a seguito di una sua risposta? Per paura di risultare la classica ragazza che limitava i desideri e le ambizioni per egoismo? In quel momento capì che egoista lo era stata ugualmente. Non verso di lui ma verso la bambina che stringeva al seno in un falso abbraccio. Avrebbe dovuto dimostrarle tutto l’amore che aveva per lei prendendo di petto suo padre e parlandogli da persone adulte, da genitori responsabili. Chibiusa meritava amore sincero, meritava gioia, serenità. Lei gliel’avrebbe assicurata da quel momento in poi. Avrebbe parlato con Mamoru, lo avrebbe affrontato. Lo doveva. A se stessa e, soprattutto, a Chibiusa.
 
Mamoru si trovò spiazzato da quelle parole pronunciate con tono malinconico dalla bambina che aveva cambiato la sua vita, la sua considerazione delle cose, che gli aveva mostrato la vita da un punto di vista diverso, migliore, che lui stesso per troppo tempo non era riuscito a notare perché forse troppo immaturo, insicuro, preso da quella vita Newyorkese fatta di ambizioni che gli avevano annebbiato la vista, facendogli perdere la percezione di quelle sensazioni che riscaldano il cuore, che lo fanno battere più forte e fanno capire quali siano le cose – seppur piccole – che rendono felici.
Le parole gli morirono in gola, l’euforia – anche quella volta – si tramutò in sensi di colpa ai quali – testardamente  - non voleva rimediare.
Deglutì a fatica trovando la forza di proferir parola, domandando: “A proposito, cos’è andata la serata?” con sguardo fisso sulla schiena della bambina, avvolta tra le braccia di Usagi, “ti sei divertita?”
La ragazza lasciò uscire un sorriso forzato. “Sì, è stata una bella serata, siamo stati all’Illusion” spiegò, “e credo che tutte le ragazze del locale ci avrebbero voluto morte quando i TreeLights si sono seduti al tavolo con noi.”
 
A quelle parole, Chibiusa spalancò la bocca in un’espressione di sorpresa, alzando il viso verso quello candido della madre e sospirando innervosita.
“Uffa, uffa, non è giusto!” mentre si sedeva sul letto e sbatteva i pugni sul materasso lamentandosi, “anche io volevo conoscere Seiya!”
Mamoru alzò un sopracciglio, guardando la figlia che, con un’espressione adirata, era rivolta verso la ragazza.
“Ah, e così preferivi incontrare Seiya piuttosto che stare qui con me?” cercò di farla calmare spettinandole i capelli.
“Ma io volevo ascoltare Principessa del cielo blu” iniziò a canticchiare quella canzone che ascoltava spesso alla radio o sui canali musicali dedicati ai grandi successi discografici.
“Ascolta, ti prometto che prima che partono te li faccio conoscere, okay?” Usagi le sfiorò il naso con l’indice, cercando, con tono rassicurante, di rendere possibile quel suo piccolo desiderio.
“Davvero?” Chibiusa sgranò gli occhi mentre un sorriso colmo di incredulità e felicità metteva in risalto le sue guance paffute.
“Hm mh” rispose la ragazza annuendo con gli occhi rivolti verso quelli luminosi della figlia, “zia Minako ha detto che organizzerà un’altra uscita prima che partano, parlerò a Seiya e te li presenterò, va bene?”
“Sì!!” L’urlo di gioia della piccola fu accompagnato da un abbraccio rivolto verso la madre e un bacio posato sulla sua guancia.
 
L’unico a non avere curiosità o voglia di conoscere gli Idols del momento era Mamoru che osservava la scena dell’abbraccio tra madre e figlia come uno spettatore esterno. Le parole di Usako, i suoi occhi luminosi mentre pronunciava il nome Seiya, il suo entusiasmo mentre assicurava alla bambina un incontro con i tre cantanti, provocarono in lui un senso di amarezza e di sconforto che, d’istinto, intrappolarono il suo cuore dentro a una morsa invisibile. Non c’era nulla di male, nulla di compromettente, e allora perché sapere che la sua famiglia era contenta all’idea di passare del tempo con dei personaggi famosi, per i quali migliaia di ragazze urlavano fino a piangere dall’emozione suscitata dal vederli, lo intristiva? Sospirò, passando nervosamente una mano tra i capelli.
Il suono del telefono che squillava lo destò da quella considerazione malinconica; “Chi sarà a quest’ora?” domandò, aggrottando la fronte, rivolto verso Usagi; lei alzò le spalle e rispose:
“Forse Minako o qualcuna delle ragazze, non lo so” con espressione curiosa. Chibiusa lasciò la madre per scivolare giù dal letto. “Vado io!”
“Non correre!” esclamò preoccupato Mamoru ma lei era già diretta verso il salone per poter rispondere al telefono.
 
L’atmosfera serena e giocosa che si respirava in camera da letto venne coperta da un velo di imbarazzo; Mamoru, voltato sul fianco, guardava Usagi, cercava di incontrare i suoi occhi e quando ciò accadde, aveva così tante domande, tanta curiosità sulla serata precedente che, deglutendo a fatica, preferì rimanere in silenzio lasciando che il suo sguardo intenso e profondo potesse farle capire che avrebbe tanto voluto che le cose fossero andate diversamente; chiederle di trovare un uomo era stato un sacrificio enorme ma quella mattina il solo pensiero lo aveva fatto impazzire, egoisticamente.
Usagi abbassò lo sguardo dopo che gli occhi blu e intensi di lui le provocarono un brivido lungo la schiena; si sedette sul letto prima di voltarsi verso il comodino per prendere il carillon e rimetterlo nel portagioie.
E fu proprio quando la sua mano racchiuse la stella che Mamoru lasciò uscire un sorriso fatto di malinconia e gioia allo stesso tempo; non diede alla ragazza il tempo di alzarsi che strinse la sua mano libera, obbligandola a voltarsi, con sguardo sorpreso per quel contatto caldo ma che impediva al suo cuore di battere regolarmente.
“Non sapevo che lo tenessi ancora” confessò guardandola e donandole un dolce sorriso mentre la sua mano continuava a tenere quella di lei, sul materasso, “che lo ascoltassi sempre e che lo facessi ascoltare pure a Chibiusa.”
Usagi  lasciò uscire un sorriso amaro, continuando a riflettere i suoi occhi su quelli di lui.
“Ci sono tante cose di me che non sai, Mamo-chan” sussurrò con sguardo malinconico prima di abbassare lo sguardo verso le loro mani ancora unite.
 
Anche Mamoru voleva poter rispondere che c’erano tante cose, tante situazioni che lei non sapeva perché lui non gliele avrebbe mai confidate; in quel momento il suo cuore mancò un battito, il desiderio di aprirsi con lei si faceva strada dentro di sé. D’istinto lasciò la sua mano per posarla sulla nuca della ragazza, sui suoi setosi capelli; lentamente la avvicinò a sé incontrandola a metà strada prima di sorriderle e, chiudendo gli occhi, premere le labbra su quelle calde e morbide di lei.
Il cuore di Usagi si sciolse come neve al sole, ancora una volta, abbassò le palpebre per assaporare quel contatto che la faceva ardere.
Era sbagliato, razionalmente lo sapeva, ma se non se lo fosse concesso, sarebbe stato ancora più sbagliato: una vera crudeltà per il suo cuore.
Con la mano libera, gli accarezzò la guancia poco ruvida, tenendolo fermo lì, sul suo volto, sulle sue labbra e ricambiando quei dolci baci ai quali nessuno dei due riusciva più a mettere fine.
Mamoru non riuscì a resistere: con entrambe le braccia le cinse la schiena facendola sdraiare mentre schiudeva le labbra cercando di accarezzare quelle di lei con la lingua. Fu un attimo, però, prima che Usagi voltò il viso di lato. “No!” mugolò piano mentre, in preda allo sconforto per quelle emozioni che non riusciva a controllare, che solo lui era in grado di suscitarle, una lacrima le rigò la guancia, “c’è la bambina e poi noi dobbiamo parlare!”
Lo aveva detto, era riuscita a trovare il coraggio, e ciò in parte riuscì a renderla più leggera, come se si fosse appena liberata da un peso che aveva sopportato per troppo tempo.
Mamoru, ad occhi chiusi, accarezzò il volto della ragazza col proprio, sfiorandolo col naso e con le labbra fino a poter respirare il suo stesso respiro. “Non piangere, piccola” sussurrò con tono pieno di tristezza poggiando la fronte su quella di lei, “ti prego, perdonami.”

Lei sussultò appena, incrociando i suoi occhi e posando le mani sulle spalle di lui, ancora col busto sopra di sé.
“Mamoru, io non voglio perdonarti, io voglio parlare con te” rispose con tono sofferente mentre udiva ancora la bambina parlare al telefono nell’altra stanza, “io devo parlare con te, non ce la faccio più a tenere tutto dentro, ti prego.”
 
Mamoru sentì il gelo scorrere nelle vene, il suo cuore mancò un battito e un altro ancora. Era come se le parole di Usako avessero sortito l’effetto di una doccia gelata che lo aveva riportato alla realtà, che gli aveva fatto capire che la magia data dai suoi dolci occhi, dalle sue espressioni gentili e a volte innocenti, dai ricordi scanditi dal suono de La melodia del cuore, era svanita. Era di nuovo di fronte alla cruda realtà in cui Usagi pretendeva chiarimenti, spiegazioni.
Non era preparato a ciò, non se lo aspettava. Deglutì a fatica, sedendosi sul letto e passando una mano nervosamente sui capelli.
“Va bene, parliamo” rispose con un filo di voce dandole le spalle, come a voler fuggire da quegli occhi ai quali non voleva mentire, “stasera, quando la bambina dorme, okay?”
Avrebbe davvero parlato con lei? Avrebbe davvero dato a lei le risposte e le spiegazioni che probabilmente lei cercava, soprattutto a seguito di quei suoi atteggiamenti ambigui coi quali le faceva capire, percepire, quanto desiderio di lei ci fosse in lui?
Doveva riflettere, inventare qualcosa da dire quella sera quando avrebbe parlato con lei e, mentre cercava di uscire da quella situazione da cui, inevitabilmente, sapeva che prima o poi si sarebbe trovato a fare i conti, vide Usagi alzarsi dal letto e dirigersi fuori dalla stanza.
Non prima, però, di aver riposto, con cura, La melodia del cuore, nel suo scrigno dei Tesori.

 
Il punto dell’autrice
 
L’autrice si mette in ginocchio e abbassa la testa in senso di vergogna!
Mi scuso profondamente con i miei lettori per questa lunghissima assenza da La melodia del cuore.
Come saprete ho iniziato Listen to your Heart e Introspective Sailor Moon e quindi dall’ultimo aggiornamento è passato un po’ di tempo.
Vi garantisco che sto già scrivendo il cap. 11 che ho spezzato da questo perché riguarda una parte diversa che non volevo mischiare a questa.
Devo ammettere che questo capitolo è stato scritto a ‘puntate’, come si suol dire e non lo considero per nulla convincente; spero di ricevere i vostri commenti di fine lettura, più che altro per sapere la vostra al riguardo.
Un bacio e a prestissimo!

Demy

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