Red Spot

di Occhi Cielo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.Grigio ***
Capitolo 2: *** 2. Nero ***
Capitolo 3: *** 3. Giallo ***
Capitolo 4: *** 4.Bianco ***
Capitolo 5: *** 5.Verde ***
Capitolo 6: *** 6. Azzurro ***
Capitolo 7: *** 7.Arancione ***
Capitolo 8: *** 8.Rosa ***
Capitolo 9: *** 9.Viola ***
Capitolo 10: *** 10.Marrone ***
Capitolo 11: *** 11. Nessun Colore ***
Capitolo 12: *** 12.Rosso ***
Capitolo 13: *** 13. Blu ***
Capitolo 14: *** 14.Un Nero diverso ***
Capitolo 15: *** 15. Arancione che brucia ***
Capitolo 16: *** 16. Oro ***
Capitolo 17: *** 17. Bianco speranza ***
Capitolo 18: *** 18. Il futuro doveva essere Verde ***
Capitolo 19: *** 19. Buio ***
Capitolo 20: *** 20. Red Spot ***
Capitolo 21: *** 21.Il ricordo del Verde ***
Capitolo 22: *** 22. Rainbow ***



Capitolo 1
*** 1.Grigio ***





Il capitolo è stato MODIFICATO! Il giorno 4 Novembre 2011.

Questa è la mia prima Fan Fiction fatta da più capitoli,  spero che vi piaccia.  Racconterò alcuni degli episodi all'interno della Wammy's House dal momento in cui Mello vide la prima volta Matt,  fino alla sua morte.  Questo è il primo capitolo.
 
 
1.Grigio
 

 
Pioveva.
Un po' come sempre d'altronde.
Le gocce violente si abbattevano sui vetri della mia finestra.  
Fuori era grigio.  Tutto era avvolto da quest'alone di colore.  
Grigio.
Grigio come gli alberi,  come l'asfalto,  come l'erba.
Come i muri alti e antichi che mi corcondavano, che raccontavano storie e risate lontane. Che parlavano di vite strappate e altre cresciute.
Grigio come la ghiaia scintillante, che appariva come milioni di gemme perdute, nel cortile deserto.
Brillavano tristi sotto la musica dell'acqua.
Grigio.
Sembrava di vivere in un vecchio film in bianco e nero,  come quelli che ogni tanto Roger ci obbligava a guardare nella sala comune, in una giornata come quella.
Ma  per l'ennesima volta, come già era capitato in passato, mi opposi.
Per me era quasi impossibile rimanere per ore lì, appollaiato su una sedia, a fissare quello schermo troppo piccolo e vuoto, incapace di catturare la mia attenzione.  
Un film che non mi trasmetteva niente, se non la straziante voglia di urlare, per poi correre via.
Un pazzo.
Ma per quanta voglia avessi di sembrare fuori di testa e sfogarmi, decisi di rintanarmi in camera.
Sarebbe stato molto meglio.
Almeno, non avrei dovuto rendere conto a nessuno del mio depresso sguardo grigio.

Vivevo solo nella mia stanza alla Wammy's.  
Veramente,  un po' tutti vivevamo soli.  
Condividevamo le stanze solo con le nostre incertezze e  i nostri fantasmi del passato.
Ogni tanto questi, circolavano qui e là tra i corridoi,  nella mensa, nelle notti tempestose.. quando molti di noi tremavano e avevano paura.
Ci venivano a bussare alle porte per la gioia di sentire la nostra angoscia aumentare, e godere degl'occhi tormentati.
Fantasmi che amavano il sapore delle lacrime versate su un cuscino, così  da spremere le nostre menti e i nostri cuori randagi.
Ormai, esuli, non appartenevano a nessuno.
Vivevamo con la coscienza di essere soli,  e che lo saremmo sempre stati.
Eppure era assurdo pensarlo.
In più, a torturare il nostri corpi oltre che al nostro spirito, venne il gelo.
Faceva freddo,  nonostante non fosse ancora inverno.
Il mio respiro leggero si condensava nell'aria, creando soffici nuvolette.. che in poco svanivano nella stanza. 
Poi c'era silenzio.  Un silenzio tale da potermi bucare i timpani.
Mi sentivo come fossi l'unico in tutto l'istituto.
Se non l'unico in tutto il mondo.

In fondo però, la cosa mi piaceva. 
Soffiando sul vetro creai uno strato opaco.  Lo feci più volte con il dito sospeso a mezz'aria. 
Lo rifeci.  Stavolta convinto di cosa avrei scritto.
"M...Me..ll...o" dissi seguendo la linea curva che univa una lettera all'altra.
Mello.
L'unica certezza che avevo.  Il mio nome.
Ma piano piano anche quello scomparve inghiottito dal freddo.
Sembrava che qualcuno lassù volesse prendersi gioco di me.  Come a dirmi che io non avevo certezze e non avrei mai potuto averle.
Sospirai rassegnato davanti a quel destino che sembrava non volermi dare pace.
Probabilmente era giusto così.  Sarebbe stato sciocco accanirsi contro qualcosa , che nonostante tutti gli sforzi, sarebbe stato impossibile da cambiare.
Così mi lasciai andare. La schiena appoggiata sul muro, e io lì sul davanzale, a ripassare quelle lettere storte.

Mentre il mio nome si dissolveva in una strana M mozzata..
in una O che si modellava in una C..io notai qualcosa.
Qualcosa che stonava con il resto.  Che stonava con la mia vita in bianco e nero.
Fuori, da qualche parte, in qualche punto..qualcosa si muoveva.
Una macchia di colore.
Un fuoco.
Spiccava così tanto, a confronto con il resto così monocromatico...che parve irreale.
Strizzai gli occhi più volte, pensando si trattasse di un'allucinazione, o chissà cos'altro.
Ma il fuoco era lì. E bruciava.
Vedevo le lingue sfocate danzare fuori dal vetro opaco.
Sentivo il calore che potevano emanare.
Sentivo che il mio sguardo, a contatto con quel rosso acceso, ardeva.
Come se si fosse infiammato.

 
Cercai di pulire più in fretta il vetro,  ma le gocce non mi permettevano di vedere niente.
Intanto il fuoco si muoveva,  si fermava,  si girava.  
Non si spegneva sotto quell'acquazzone?
Lo fissai ancora.  Poi scomparve sotto una macchia scura.  Nera.

"Si è spento davvero?" pensai angosciato.
Non volevo sul serio che sparisse.

Mi agitai cercando di ritrovare il contatto visivo, sperando di ritrovare quel colore in mezzo a tutto quel grigio.  Ma niente.  Non lo vedevo.
Così aprii la finestra.
La spalancai quel poco che bastava per poter infilare la testa fuori e scrutare in mezzo al temporale.
Le gocce violente si abbattevano sul mio viso asciutto.
Ogni lacrima gelata del cielo, era un ustione sulla pelle. Un solco profondo sulla mia guancia pallida.
Ma con forza, mi costrinzi a resistere.
Fu in quel momento che lo notai. Un uomo alto, nascosto in un impermeabile nero e lungo fino alle ginocchia.
Indossava un cappello stile anni 60, di quelli che si vedono nei film di spionaggio.  Tra le mani aveva un ombrello, ma non proteggeva lui.
Proteggeva qualcos'altro.  Qualcun'altro.
 Di fatti, proprio al suo fianco, una piccola macchia rossa apparve.
Era minuta.
Appariva come il manto soffice di una volpe...una piccola fiammella accesa in quell'oceano grigio.
Si passava una mano tra i capelli, come per asciugarsi dall'eccessiva acqua che poco prima l'aveva investito. 

 
La stessa acqua che ormai,  era come diventata parte di me.  Mi era penetrata fino al midollo,  se non anche nel cervello.  Ma non mi importava. 
I capelli zuppi pendevano fuori dalla finestra,  gocciolando come dei fili d'erba a prima mattina.
Rugiada fresca.
E li osservavo.
Loro al centro del cortile,  immobili.  Come statue di marmo.
Vedevo le labbra del vecchio muoversi,  ma non capivo cosa dicesse.  La pioggia inghiottiva ogni rumore.  Stavano lì, fermi e non so quanto tempo passò prima che si muovessero di nuovo.
Il ragazzino lo guardò più volte,  con aria malinconica.  Stava per entrare alla Wammy's,  chi sarebbe entrato con un sorriso sulle labbra?
Anche io, ricordando a malapena gli anni prima, avevo avuto quello sguardo.
Quando, affaccinadomi tra le sbarre di ferro del cancello, feci una smorfia all'uomo che mi era accanto.
Ma non c'era altro posto. Non c'era altro modo.
E col tempo, iniziai a considerare quella, come la mia unica e vera casa.
Avrebbe imparato anche lui. Prima o poi.

Accennarono qualche passo verso l'ingresso.
A quel punto fui quasi certo che il rosso guardò in direzione della mia finestra.
Gli occhi spenti, di un colore strano. Insolito.
Rientrai istantaneamente dentro, accucciandomi sotto di essa.  
Cavolo.  Uno nuovo.
Mi alzai in piedi di scatto dando una botta allo stipite della finestra.
Il respiro era accelerato.
Ricaddi a terra trascinandomi veloce verso la porta, ignorando il dolore, il bernoccolo, che da lì a poco sarebbe uscito. Ignorando il freddo che provavo essendo bagnato. Ignorai gli sguardi dei ragazzi nel corridoio.  
Mi catapultai  sulle scale, ignorando tutto ciò, scendendo i tre piani della Wammy's più velocemente possibile.
Non tenni conto del mio pigiama zuppo dell'acqua che inevitabilmente era entrata nella mia stanza.
Così finii le rampe di scale. Il fiatone mi gonfiava i polmoni con respiri irregolari.
Scivolai all'ultimo gradino ritrovandomi praticamente nel bel mezzo della Hall.
Il legno liscio del parquet riluceva al flebile bagliore che arrivava dalla porta spalancata.
Due ombre lentamente, si avvicinavano.. lunghe e deformi.
Mi portai una mano sulla testa ormai dolorante per le ripetute botte prese.
Mi sedetti incrociando le gambe.
Spostando lo sguardo in basso, la i miei piedi nudi e la mano.. notai un paio di piccoli anfibi sporchi di fango.
Alzai gli occhi, incrociandoli con un'altra macchia di colore.  Un verde intenso.

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Capitolo 2
*** 2. Nero ***


 

Il capitolo è stato MODIFICATO! Il giorno 2 Novembre 2011




2.Nero 




Il suo nome era Matt.  
Aveva 5 anni.
A me non sembrava.  Ne dimostrava qualcuno in più,  ma forse era a causa dell'abbigliamento.  Lo faceva sembrare grande.
 
Io l'osservavo seduto sul mio letto, mentre si impegnava a disfare le poche cose che la sua piccola sacca conteneva. 
Era arrivato solo con quello e un cappotto.  Nient'altro.
Era accucciato accanto all'armadio e con cura riponeva le sue magliette nello scomparto a lui assegnato.  Vidi che ne tirò fuori 3,  quasi tutte simili,  semplici, senza nessun disegno particolare e di diversi colori.  
Poi mise a posto i suoi due paia di pantaloni. Notai che erano un paio di Jeans azzurri e uno kaki.
Li aveva piegati amorevolmente accarezzandone il tessuto, prima di riporli nel cassetto. Lo sguardo lanconico.
Sospirò, strofinandosi con la manica il naso lucido e arrossato.
Poi si mise in piedi e chiuse l'armadio. Poggiò la sacca vuota per terra, al centro della mia stanza, sul tappeto bordoux.
Lo guardai finchè non mi diede le spalle con indifferenza.
Con tutta sincerità,  la cosa mi infastidiva.  
Non il suo comportamento privo di educazione ma... la sfacciatagine con cui aveva invaso il mio territorio.
Quella era la MIA camera,  il MIO spazio,  il MIO rifugio dove scappare dal mondo.. e lui senza dire una parola, nemmeno una scusa o un ringraziamento, si era appropriato di una metà. Una grande metà!
Non mi andava giù la cosa.  E poi era silenzioso.
L'entusiasmo di poco prima si era dissolto non appena Roger mi disse che avrei condiviso la camera con lui.  Lui, che guardandomi con i suoi occhioni verdi, nemmeno mi diede una mano a rialzarmi dopo la caduta.  E io che avevo fatto tutte quelle scale solo per capire chi era... 
 
Mi ero portato le ginocchia al petto e avevo appoggiato la testa al muro guardandolo con sufficienza.  Se non avesse parlato,  non l'avrei fatto nemmeno io.  
E lui non parlava.
Se ne andava su e giù per la stanza mettendo a posto le sue cose  senza mai guardarmi, senza mai lanciarmi anche solo una piccola occhiata.
"Cavolo,  il sosia colorato di Near"  Pensai.
Solo l'idea mi chiudeva lo stomaco.  
Io non avrei condiviso tutto questo con lui.  
Lui chi era? Un estraneo! Appena arrivato e già si voleva impadronire di ciò che non gli apparteneva?
Non glie l'avrei permesso.
Continuai ad osservarlo aspettando sempre che mi rivolgesse la parola.  Ma niente.
Sbuffai rumorosamente e abbandonai la testa all'indietro chiudendo gli occhi.
Tutta quella novità mi innervosiva terribilmente. Ero abituato alla monotonia scura della Wammy's, alle sue giornate lente, allo scorrere pesante delle ore.
Alle solite facce, le solite voci.
Lui era sbagliato. Distruggeva tutto.
Così mi abbandonai a me stesso, per distrarmi, ascoltando i rumori.
Ascoltai i passi leggeri del rosso sul pavimento,  i lamenti dei ragazzi che avevano finito di vedere il film, la pioggia, che ancora scendeva veloce e sbatteva sulle tegole con insistenza.. a ritmo costante.  Il vento,  i tuoni che sembravano come tamburi tanto, troppo vicini.
 
Il silenzio di poco prima si era dissolto come per magia.  Matt aveva rotto quell'incantesimo e ora io al posto di provare noia,  provavo irritazione.  Incominciava a darmi i nervi la sua presenza.  E dire che nemmeno lo conoscevo o ci avevo mai parlato.
Era solo.. LUI!
Ed era strana come cosa perchè non c'era bambino al mondo che mi irritasse più di Near.
 
Socchiusi un occhio per scrutare i suoi movimenti.  Feci vagare lo sguardo per la stanza,  ma per quanto fosse piccola,  lui non c'era.
Aprii bene entrambi gli occhi.  
Possibile che fosse sparito? 
Da una parte il fatto mi rallegrava,  ma tenni in considerazione la probabilità che fosse uscito per andare in bagno o che fosse andato a salutare l'uomo dall'impermeabile nero.
Quell'uomo mi ricordava vagamente qualcosa,  ma in quel momento non mi andava di pensarci troppo su.
Mi alzai di scatto tirando un sospiro.  Non avevo sentito la porta aprirsi ne i passi allontanarsi.  Forse con tutto questo fracasso del temporale non li avevo notati, ma per sicurezza controllai sotto al letto e nei cassetti del comò.
Ma di Matt niente.  Alzai anche il tappeto.
Sbuffai esasperato. 
Di uscire in pigiama non se ne parlava,  anche perchè ero ancora tutto bagnato e non avevo alcuna voglia di gironzolare per l'istituto sembrando interessato al nuovo arrivato.  No signore,  sarei rimasto lì ad aspettare che rientrasse.
Se fosse tornato bene, saremmo andati alla mensa insieme,  sennò io sarei sceso a cena anche senza di lui.
 
Il temporale si era avvicinato ancora di più. I fulmini cadevano luminosi nei dintorni della Wammy's,  e i tuoni risuonavano potenti sopra le nostre teste.  
Quello spettacolo mi affascinava.  Mi erano sempre piaciuti i lampi,  il rumore dell'acqua che scendeva forte giù per le grondaie per poi infrangersi sull'asfalto.
I fulmini. 
Decisi di scendere in cortile. 
Sapevo benissimo che non dovevo farlo, che era contro le regole, che era pericoloso e che Roger mi avrebbe messo in punizione a vita.  Ma della cosa me ne infischiavo completamente.  Mi legai i capelli con un elastico e cercai il giaccone che in teoria doveva essere appeso all'appendiabiti dietro alla porta. Ma non c'era.  Per un attimo sospettai che me l'avesse preso il Rosso.  Ma poi pensai che non era corretto incolparlo ingiustamente, così aprii l'armadio per vedere se l'avevo per sbaglio messo a posto. 
 
 
Se per la prima volta non avessi rimesso il giaccone nell'armadio,  se l'avessi messo dietro la porta dove lo mettevo di solito, o sotto il letto,  probabilmente non mi sarei mai accorto di lui.  Ne avrei mai pensato che si potesse nascondere lì.
Matt era in un angolo in fondo all'armadio,  rannicchiato con le ginocchia strette in petto e la testa sopra di esse.
Lo notai solo grazie alla sua folta chioma rosso fuoco. Lì da solo,  in quell'armadio.  Che stava facendo?
In quel momento un fulmine si abbatté nel cortile della Wammy's.  Sobbalzai per un secondo emettendo una specie di singhiozzo, voltandomi verso la finestra che si era spalancata a causa del forte vento.
Quando mi girai lo vidi ancora più stretto alle sue gambe che tremava come una foglia in balia di una tempesta.  Lo guardai curioso.
Lui alzò di poco la testa,  quel giusto per notare che piangeva. Inclinai la testa di lato avvicinandomi a lui.  Misi un piede nell'armadio,  poi l'altro,  fino a ritrovarmi completamente dentro.  Chiusi l'anta lentamente e mi misi seduto nel lato opposto al suo. 
Era buio.  Non si vedeva niente.  Lui non vedeva me e io non vedevo lui.  Si udivano solo i nostri respiri.  Uno più affannato rispetto all'altro.
Rimanemmo così per non so quanto. Anche quando vennero a bussare alla nostra porta per dirci che era l'ora di cena noi non ci muovemmo.  Rimanemmo in silenzio,  lui immobile,  io che cambiavo ogni volta posizione non riuscendo a rimanere fermo.
Forse passarono le ore prima che io mi decisi a parlare.  Ragionai che ero stato io a infilarmi nell'armadio,  magari lui voleva restare solo.. ed era giusto che se dovevamo parlare,  fossi io a farlo per primo.
 
« Non lo dico a nessuno » dissi a bassa voce cercando di distinguere la sua sagoma nel nero dell'armadio.
« Mhm mhm »
Lo sentii mugugnare dopo qualche minuto in risposta alla mia affermazione.
« Se ci pensi bene,  i tuoni non possono farti niente.  Sono solo i tamburi del cielo, e non possono farti del male... i fulmini, bhe.. quelli fanno un po' più paura »
Da dove veniva tutta quella voglia di conversare? Forse dal bisogno di rassicurarlo? Non lo so. 
Aspettai che rispondesse,  ma dall'altro lato non arrivò niente.  Sospirai frustrato,  mi chiedevo perchè lo facessi se dall'altra parte non ricevevo nient'altro che silenzio o qualche verso.
« Sai, tutti hanno paura di qualcosa.  Pensa che io ho paura di  Roger e delle sue punizioni.  L'hai conosciuto Roger?» feci una pausa « No,  forse non l'hai conosciuto.  Ma fidati,  lui fa più paura di un temporale.  Almeno il temporale passa.  Lui non passa mai,  è sempre qui. » Conclusi con un sorriso, anche se sapevo bene che non poteva vederlo.
Ma sempre,  non ricevetti nessuna risposta.

Il nero ci avvolgeva
Fuori e dentro la stanza era nero.  
Il grigio di prima stava facendo posto a questo colore più scuro,  più pesante, più triste.  L'interno buio dell'armadio era come un'ombra che incombeva intorno a noi e ci faceva sentire vicini.  Quasi da poterci toccare.  Sentivo il suo respiro  tornare regolare,  distinguevo appena la sua schiena alzarsi e abbassarsi in quel nero così opprimente.  Il vento fuori urlava, la pioggia applaudeva.
Tutto era un circolo ti puntini luminosi, come quando chiudi gli occhi e guardi attreverso le palbebre. 
Un nero che brillava. Come lucciole che si univano.
Il tessuto scuro che ci legava l'un l'altro era spesso. Lo avvertivo sulle spalle. Sentivo il sapore dell'alito caldo di Matt sulle mani.
Eravamo lontani.. ma abbastanza vicini.

Sospirai.

Ci avevo provato, non funzionava.  Che andasse al diavolo con i suoi pianti allora.
Scrollai il capo sbuffando e mi spostai per aprire l'anta dell'armadio... quando una mano, prima che mettessi il piede fuori,  mi afferrò.
Si asciugò le lacrime con il dorso della manica e mi guardò con i suoi intensi occhi verdi.  Io ricambiai lo sguardo e mi voltai verso di lui.
Matt sorrise e mi tirò per farmi sedere sul bordo dell'armadio. Prese una boccata d'aria e io rimasi in attesa.
« Scusami. Non ti starò facendo di certo una bella impressione.  E' solo che,  i tuoni mi mettono davvero paura e..e..» balbettò incerto « Mi dispiace.  Scusa...» concluse abbassando gli occhi. Io rimasi in silenzio a guardarlo.
«Tu ti chiami Mello vero? Tu sai già il mio nome immagino » Continuai a non rispondergli.  Lo fissavo.
«Bhe piacere Mello. Spero di non darti troppo fastidio questa notte.  Se vuoi posso dormire per terra... posso dormirci fino a quando non mi danno un lett..»
« Non c'è problema » lo interruppi svelto con la voce ferma e indifferente. 
« Possiamo dormire insieme,  non mi darai fastidio - dissi sempre con aria fredda- al massimo ti butterò giù dal letto se occuperai troppo spazio» Sorrisi distruggendo un po' l'immagine da duro che mi ero creata in quegli ultimi pochi minuti. In fondo che me ne importava? Avrebbe imparato a conoscermi per quello che ero realmente.
Riuscii comunque a strappargli un sorriso. 
E per la prima volta lo sentii ridere.
Aveva una risata cristallina e squillante.  Non ne avevo mai sentite di così belle e sincere.  Mi piacque da subito la sua risata.  Era vera e mi trasmetteva allegria, tanto che spuntò un sorriso anche sulle mie labbra. 
«Tranquillo, non sono molto ingombrante.  Mi adatto facilmente» Disse.
« Mhm, bene, meglio così » dissi scrollando le spalle tornando a fare l'indifferente.
 
Ormai era passata l'ora di cena ed era tardi per scendere a mensa anche solo per sgranocchiare le poche cose che erano avanzate nel frigo. 
Il mio stomaco non se ne capacitava.  Avevo fame, ma facevo di tutto per nasconderlo.
Matt dal letto mi guardava con lo sguardo interessato e ad ogni brontolio scoppiava in una risata soffocata.
Io gli lanciavo occhiataccie e lui puntualmente si zittiva.  Poi si alzò e andò a prendere la sua sacca che era rimasta al centro della stanza. 
Frugò al suo interno alla ricerca di qualcosa,  il suo sorriso si illuminò quando finalmente riuscì a trovarla.  Tra le sue mani riuscii ad intravedere due rettangoli argentati.
Lui si avvicinò a me.  Ero seduto a gambe incrociate sul muro al lato opposto del letto.  Lui si sedette accanto a me e mi porse un rettangolo.
« Ecco.  Questo l'avrei dovuto mangiare durante il viaggio.  Ma non avevo fame.  Così l'ho conservato.  Prendilo è tuo..me l'ha regalato Watari. » 
Io guardai prima il rettangolo e poi i suoi occhi verdi, che sembravano sempre più innaturali. Allungai insicuro la mano e l'afferrai. Scartai la carta metallica molto lentamente,  fino a scoprire un qualcosa di marrone scuro. La guardai incuriosito.. anche un po' disgustato. Che mi stava rifilando il rosso? Non volevo pensarci. Lo guardai con aria schifata.
« Mai assaggiato il cioccolato? » 
Alzai un sopracciglio.  Il cosa? Non era mai circolato del cibo di quel colore alla Wammy's,  a parte nei bagni..ma quella non si mangiava.  Mi veniva da vomitare al solo pensiero. Guardando quel cioccolato,  mi veniva in mente solo quello.
« Assaggia.  Non poi dire che non ti piace se non lo assaggi prima»
Forse si era accorto della mia espressione perplessa.  Il Rosso mi guardava speranzoso.  Che si aspettava che l'assaggiasi davvero? A quanto pareva si.  Ma io non assaggiavo mai niente che non mi ispirasse la voglia di mangiarlo.  Lo portai al naso e l'annusai.  Non aveva un cattivo odore.  Almeno non puzzava.  Guardai ancora una volta Matt e incrociai i suoi occhi sorridenti. 
Quasi a farlo a posta, il mio stomaco protestò.  Sospirai.  Storsi la bocca e fissai quella roba marrone.  
Poi ne assaggiai un pezzo.

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Capitolo 3
*** 3. Giallo ***






3. Giallo



Le lezioni della Wammy's erano terribilmente noiose.
La scuola in generale era noiosa.
Non che io sia mai stato in qualche altra scuola durante la mia breve vita da bambino di 5 anni, ma questa particolarmente, rispetto alle altre che non avevo mai visto, la ritenevo la peggiore.
Consideravo tutto troppo facile. 
Solitamente ogni settimana ci davano dei casi da risolvere, oltre che i soliti compiti di cultura generale. Ogni bambino aveva un diverso foglio con gli indizi, delle videocassette, e diversi nomi.
Da quanto avevo capito, ci davano dei casi già stati risolti in molte parti del mondo. Casi risolti da L.
 
Non avendo a disposizione però mezzi di comunicazione, eccetto un computer che si trovava nello studio di Roger e un telefono nella segreteria, eravamo impossibilitati a ricevere informazioni utili a risolverli. Nemmeno il televisore funzionava bene.
Ma comunque io non ne ho mai avuto bisogno. 
Ci davano una settimana di tempo, dal lunedì alla domenica, per risolverli. Capitava sempre che fossi uno dei primi a consegnare lo scritto completo prima del tempo.
Solo Near mi teneva testa.
Detestavo che arrivasse primo. 
Quando accadeva mi arrabbiavo con Roger, urlavo e sbattevo le sedie per terra o scaraventavo una raffica di cazzotti al muro.
Quasi tutti i muri della Wammy's erano ammaccati. Soffrivano ed erano pieni di doloranti lividi che io puntualmente gli procuravo.
Ma me ne importava poco, in fondo i muri non parlavano, quindi non avrebbero potuto lamentarsi.
Ovviamente queste mie scenate non rimanevano impunite. Di fatti Roger, per ogni danno da me causato, mi dava una punizione.
E io odiavo le punizioni.
Non perchè mi facesse lavorare, o perchè in qualche modo mi faceva ripulire l'istituto da cima a fondo come una piccola domestica. No! Le odiavo perchè mi ridicolizzavano e andavano contro i miei principi morali.
In pratica, mi faceva vergognare. Mi faceva sottomettere ai suoi ordini. E non c'era cosa peggiore per me se non questa. 
Da come ho potuto constatare durante gli anni, Roger lo sapeva benissimo, e faceva di tutto pur di abbassarmi l'autostima, cercando di farmi diventare una sottospecie di bravo bambino che egeuiva gli ordini. Tutto questo, credendo che un giorno io avrei imparato la lezione.
Fatica sprecata.
Senza successo.
Più provava a farmi calmare, più mi ribellavo.
Credo che dopo molto capì e rinunciò.. ma questa fu una battaglia che vinsi all'ultimo. In tutti quegli anni dovetti armarmi fino ai denti per non crollare al suo volere.
 
 
La cerbottana.
Quella la ritenevo uno spasso quando si stava in classe.
Masticavo diversi pezzetti di carta di varie dimensioni (ovviamente quelli più grandi erano destinati a Near), sfilavo l'inchiostro dalla mia Biro e con una mira impeccabile, riuscivo a centrare sempre il mio obbiettivo.
Quest'ultimo poteva urlare e arrabbiarsi quanto gli pareva ma se solo avesse provato a raccontarlo a Roger, sapeva quello che gli sarebbe accaduto.
Una volta qualcuno lo spifferò, e io lo scoprii. 
Dopo aver scontato la mia punizione mi divertii un mondo a buttargli tutti i vestiti nel cortile, pieno di fango e bagnato dal temporale della sera prima.
Nessuno più osò dire niente. Come sempre però, c'era chi si arrabbiava, ma io mi divertivo proprio per quello.
 
Ma quella mattina, nemmeno la cerbottana alleggeriva la pesantezza di quella lezione.
In più mi ero perso nei miei pensieri. Cercavo disperatamente un modo per vendicarmi.
 
 
 
La sera prima, una volta divorata a grandi morsi la mia barretta di cioccolato, che avevo scoperto essere il cibo più delizioso che io abbia mai potuto assaggiare, decisi che forse, era ora di andare a dormire. Dopo tutto era stata una giornata faticosa per Matt e io ero abbastanza stanco. Mi infilai a letto mettendomi dalla parte del muro e feci mettere il rosso accanto a me..
«Sai bene che ti aspetta se hai intenzione di occupare spazio» dissi con con voce tagliente.
Lui mi guardò con il sorriso stampato sulle labbra.
«Oh si si, certo, mi butti per terra. Ho capito. Ci starò attento allora.»
A quanto pare non ero stato abbastanza convincente, ma la cosa per il momento non mi importava. Volevo solo dormire. Mi voltai dalla parte del muro dandogli le spalle.
Lo sentii rotolarsi da un lato, e poi ancora muoversi..
«Comunque sei sporco sulle labbra. Proprio qui..di cioccolata» disse strafottente toccandomi un'angolo della bocca con un dito.
Io sgranai gli occhi e lo guardai. Scansai la sua mano e mi pulii.
«Contento adesso?» 
« Mhm..si» rispose allegro, poi cercò di nuovo un po' di contegno e tornò serio. Indifferente mi diede la buonanotte.
 
Avevo caldo. Ed era strano.
Quelle notti erano fredde, gelide direi. Ma io avevo caldo.
Anche nei miei sogni lo avevo, e sudavo.
Ricordo che stavo sotto un sole grande e infuocato. Giallo come non l'avevo mai visto prima. L'orizzonte era giallo, i fili d'erba intorno a me erano gialli. Tutto era troppo luminoso, e tutto.. anche l'aria stessa emanava calore ed era gialla.
Mi svegliai di botto tutto sudato, sgranando gli occhi per capire dov'ero. Intorno a me era buio, ma io ero ancora accecato da quel sole lucente e vedevo tutto a chiazze. Fuori il temporale si era calmato, ma i tuoni rimbombavano su uno sfondo tornato grigio.
Credevo che di li a poco, all'alba, sarebbe apparso un sole più bello del solito.
 
Mi voltai per capire quella fonte di calore da dove provenisse e quando mi voltai per vedere Matt dov'era finito, mi resi conto che era completamente abbracciato a me, con i piedi intorno alla mia gamba destra e le braccia ce mi cingevano la vita. Lo fissai perplesso.
Possibile che durante la notte non mi fossi accorto di niente, se non del calore che emanava?
Notai che il mio braccio si trovava intorno alle sue spalle.. così mi sbrigai a levarlo, convinto dell'incoscienza di quel gesto.
Lentamente slegai l'abbraccio,  e cercai di divincolare le gambe dalla sua presa.
Lo osservai mentre dormiva.
Aveva qualche lentiggine leggera sul naso e sulle guance, così impercettibili che se non gli fossi stato a meno di 10 centimetri dal viso non l'avrei mai notate. Il rosso dei suoi capelli spiccava anche nel buio della stanza poco illuminata. I suoi riflessi splendevano anche con quel filo di luce che filtrava debole dalla finestra.
Era..bello?! Pensai.
Uno strano pensiero.
Comunque, questo non toglieva il fatto che mi aveva fregato lo spazio...
così lo spinsi per terra.
 
 
Quella mattina, ancora ce l'aveva con me.
Aveva dormito per terra nelle poche ore che precedevano il risveglio.. e quando fu ora di alzarsi, invece di chiamarni e di svegliarmi con un po' di delicatezza, mi strattonò e mi fece rotolare sul pavimento.
Pensai che volesse scherzare, e invece, il suo sguardo diceva tutt'altro. Dentro di me pensai che in fondo..il l'avevo avvertito.
A colazione finì tutti i cereali della nostra fila. Me li sfilò dalle mani prima ancora che io potessi versarli nel mio latte. Dopo aver gentilmente servito gli altri, presentandosi come Matt, versò nella sua tazza una quantità di cereali pari a due volte quella che solitamente mettevo io nella mia, finendoli inevitabilmente. Non potendo prendere i cereali di un'altra fila mi dovetti accontentare dei biscotti rinsecchiti ai chicchi d'avena.
 
Si stava per aprire una guerra tra di noi. Questa non l'avrebbe passata liscia.
Quando non mangiavo a colazione diventavo piuttosto irritabile.. anche se a dire la verità avevo una gran voglia di mangiare di nuovo quel cioccolato che il rosso mi aveva offerto ieri sera.
Per un attimo pensai che sarei potuto salire in camera e che per vendetta mi sarei potuto finire le sue barrette. Ma ci ripensai. Se fosse riuscito a procurarsene altre, tirandogli un tiro mancino del genere avrebbe potuto anche evitare di spartirle con me. Così evitai e pensai a qualcosa di più divertente e spassoso.
 
Purtroppo arrivai alla terza ora di lezione senza concludere niente. Non mi aveva nemmeno rivolto la parola.
In più mi stavo annoiando a morte. Non riuscivo proprio a trovare nessuna idea per la vendetta contro Matt.
 
Ero al banco in fondo, come sempre. Lui era due banchi davanti a me, sulla destra. Ogni tanto lo vedevo voltarsi con aria di sfida. 
La voglia di tirargli l'astuccio in testa era irrefrenabile, ma preferii stare fermo e attendere il momento giusto.
Nel frattempo il cielo si era aperto, e all'interno delle ampie vetrate filtrava una luce calda e luminosa.
Avevo ragione riguardo al sole, sarebbe stato molto più bello degli altri giorni. Dopo tutto dopo la pioggia..viene il sereno. E quel sole era giallo e caldo.
Rimasi un po' a crogiolarmi nel suo tepore. 
Quando riaprii gli occhi, Matt mi guardava. 
Appena si accorse che stavo ricambiando il suo sguardo si voltò indifferente.  
Che scemo, credeva davvero che non l'avessi notato?
D'un tratto mi venne improvvisamente voglia di tirargli dei cartoccetti con la mia cerbottana casareccia.
La preparai e iniziai a masticare.
Prendendo perfettamente la mira, raccolsi un po' di fiato e sganciai il primo. Perfettamente sulla sua spalla.
Poi continuai, sulla testa, sulla mano..
lui però rimaneva immobile e continuava a scrivere, credo.  Non mi considerava. Come sempre la cosa mi fece infuriare.
Erricciai il naso e continuai a preparare i pezzetti di carta.

 
Dopo un po' mi stufai di non ricevere reazioni da parte sua, così ricostruii la Biro e la rimisi nell'astuccio.
Lo guardai con disprezzo nonostante non mi vedesse.
Poi si voltò verso di me, e sorrise con un ghigno befferdo.
Cos'era quella specie di sorriso? 
Alzai un sopracciglio, perplesso.
 
Una raffica di cartoccetti, veloci come sparati da una mitragliatrice, si abbattevano su di me, colpendomi in ogni punto sulla faccia. Cercai di ripararmi con le braccia ma inutilmente.
Matt continuava a lanciarne uno dietro l'altro come se ne avesse avuti centinaia nella bocca.
Non c'era mai stato nessuno migliore di me nel gioco della cerbottana e adesso il rosso mi stava sommergendo con i suoi cartoccetti!
 
Scoppiò in una risata, che penso, venisse direttamente dal cuore. Divertito, con un sorriso splendente sulle labbra, gettò la testa indietro portandosi le mani sulla pancia.
Roger lo guardò stupito e così tutti gli altri ragazzi della classe. Tutti tranne Near, che continuava ad arricciarsi un ciuffo ribelle che era sfuggito alla spazzola.
Io lo guardai per un attimo confuso.
Svelto svitai la mia penna e  masticai cinque pezzetti di carta che mi sbrigai a staccare dal quaderno.
 
Fu come in una battaglia. Sparavo cartoccetti a tutta velocità verso Matt e lui faceva altrettando, senza risparmiare nessuno ci intracciasse la traiettoria.
Sparavamo veloci, non curandoci di niente, ne tanto meno dello sguardo sbalordito del vecchio Roger.
Lui rideva, io ridevo.
E non lo facevo da tanto.
Il sole splendeva tra i suoi capelli, caldo e intenso. Tutta la stanza brillava di riflessi rossi, e le risate risuonavano come un eco nelle nostre orecchie.
Ci eravamo ritagliati un piccolo angolo di felicità, che di li a poco si sarebbe frantumato.
 
 
Come d'altronde mi dovevo aspettare, entrambi finimmo nello studio di Roger.

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Capitolo 4
*** 4.Bianco ***





4.Bianco



Per qualche strana ragione,  il cielo limpido di quella mattina, era improvvisamente tornato ad essere grigio.
Si ricreò quell'atmosfera monocromatica da film in bianco e nero,  e guardando fuori dalla finestra,  la poca voglia che avevo di rispettare il volere di Roger,  piano piano si affievoliva,  come il sole che stava sparendo dietro la coltre di nuvole.
Solo io mi ero beccato la punizione.
Matt no.
Riger diceva che l'avrei potuto influenzare con le mie cattive maniere e avrei potuto farlo diventare una peste.
Un po' come me.
Non venne punito perchè era nuovo,  e perchè.. la colpa ricadde tutta ed esclusivamente su di me.
Non dissi una parola,  a differenza delle altre volte in cui davanti ad un'ingiustizia simile,  avrei potuto rivoltare l'istituto come un guanto.
Guardavo di sbieco il rosso che era al mio fianco.
Mi aspettavo una qualche parola,  qualcosa che potesse giustificarmi.  E invece no.  Rimase in silenzio al mio fianco,  con gli occhi bassi e le mani dietro la schiena. Immobile.
Quando gli fu detto di uscire,  esitò  per bqualche minuto prima di voltarsi e andarsene senza emettere suono.
Così mi tocco scontare la punizione da solo.  Come sempre.
 
Quel giorno, il mio compito era di ripulire la classe dove poco prima si era scatenato il pandemonio.
Entrai con una scopa e una paletta.
Mi fermai davanti alla porta ad osservare l'aula.  Nonostante il grigiore esterno era ancora molto luminosa e si affacciava direttamente sul cortile.  Guardai i banchi,  cercando di individuare quello di Matt.  A denti stretti mi ci avvicinai. 
Osservai quel banco di legno levigato con disprezzo,  poi lo afferrai da entrambi i lati e lo rovesciai sbattendolo a terra.
La scopa e la e la paletta caddero facendo risuonare un debole eco nella stanza e giù... fino al corridoio.
Stringevo i pugni con rabbia,  pensando a quanta ne avevo accumulata nei pochi istanti nello studio.
Non ero mai riuscito a trattenerla tanto a lungo.
 
Mi chinai a raccogliere ciò che mi era caduto e iniziai a pulire l'intera stanza,  da cima a fondo.
Dal cortile si udivano le voci dei miei compagni che si divertivano a rincorrersi e a giocare,  sentivo le conte per il nascondino,  sentivo chi urlava perchè veniva rincorso...
Ascoltavo il rumore del pallone che rimbalzava e le esultanze per un goal.
La ricreazione era il momento della giornata che preferivo.  L'aria fresca,  i giochi,  la totale noncuranza delle regole e il divertimento,  che non era mai abbastanza.
Il rosso mi aveva privato dell'unica cosa che realmente mi interessava. Questo non faceva che aumentare l'astio nei suoi confronti.
Eppure sembrava che fosse tutto passato, che con quella piccola battaglia,  invece di dichiararci guerra,  si fosse formata una sottospecie di alleanza e di complicità. 
Ma mi sbagliavo.
Era stato codardo e vigliacco.  E non l'avrei perdonato.
 
Mi avvicinai ad una delle grandi vetrate per osservare sotto.
I miei occhi cercarono qualcosa che in teoria doveva essere presente.. eppure non c'era.  Non mi capacitavo di cosa realmente cercassi fino a quando non mi resi conto che mancava qualcosa, un dettaglio particolare che avrebbe dovuto attirare subito la mia attenzione.
Non riconobbi nessun colore acceso, nessuna macchia rossa.
Non so perchè mi ritrovai a pensare a lui, e la cosa mi infastidiva.
E poi dov'era? Alla fine se l'era presa anche lui la punizione?
Mi allontanai dalla finestra per andare verso la lavagna quando qualcosa accanto alla porta si mosse.
Spostai il mio sguardo verso un paio di occhi verdi intenso che mi fissavano curiosi.
 
Matt entrò lento nell'aula. Teneva un braccio sorretto dall'altro e lo sguardo leggermente basso. I suoi capelli in quella posizione,  sembravano più folti di quanto non lo fossero già.
Lo guardai stupito.  Cosa faceva lì.. imbambolato come un ebete? Non andava con gli altri a godersi la sua libertà?
Alzò lo gli occhi perforando i miei con un occhiata.  Improvvisamente tutte le mie buone intenzioni di ignorarlo o di prenderlo a pugni andarono a farsi fottere.
Rimasi immobile,  inchiodato dal suo sguardo.
Matt si avvicinò e raccolse da per terra un cartoccetto che era sfuggito alla mia pulizia.  Me lo mostrò,  poi mi prese la mano e lo lasciò cadere sul mio palmo.
Ero sbalordito.  Non capivo cosa volesse fare.  Ma poi mi sorrise.
«Scusa Mello,  forse avrei dovuto dire che è stata anche colpa mia, che in fondo ad iniziare ero stato io a colazione...ma ho preferito rimanere zitto.» disse tutto 
d'un fiato come se avesse avuto paura di dimenticarsi un discorso molto importante.
« Non dovevi prendertela solo tu la punizione, per questo sono qui.  Per aiutarti»
Lo guardai incuriosito con un sopracciglio scettico alzato.
Poi mi diressi verso la sacchetta dei gessi, accanto alla lavagna. Sempre senza dire una parola. La aprii e ne infilai una mano all'interno. 
Trovai al primo colpo ciò che cercavo e così,  sempre con una mano immersa nella sacca tornai vicino al rosso che mi guardava incuriosito.  Si leggeva nei suoi occhi verdi limpidi che in fondo già sapeva cosa sarebbe accaduto pochi secondi più tardi.
 
 
Bianco.  Il bianco puro e leggero.  Il bianco di una nuvola,  di un lenzuolo lavato.  Il bianco della neve che d'inverno sommergeva la Wammy's,  il bianco delle nuvole.
Bianco. Bianco come la nebbia che si era creata nella classe, e bianco,  come ogni parete,  ogni pavimento,  ogni foglio.
Il cancellino volava da una cattedra ad un banco sul fondo,  il banco di Matt, caduto e usato a mo di trincea.  I gessetti si spezzavano,  cadevano,  rotolavano a terra.  La mia maglietta nera era pezzata, la maglietta di Matt era di un Pois bianco sullo sfondo verde militare.
Io avevo la sacchetta e appena potevo reimmergevo il cancellino al suo interno per riempirlo nuovamente di gesso.
Colpii il rosso svariate volte,  appena lui tirava fuori la sua testolina ramata da dietro il banco. Lui,  altrettanto,  mi colpì in pieno viso,  facendo esplodere una leggerissima polvere bianca che mi immerse fino al collo.
 
Era impossibile tenergli il muso o far finta di essere ancora arrabbiati con lui, perchè...perchè lui ti metteva allegria, ti faceva sorridere.  Per lo meno,  questo era accaduto a me in questo primo giorno.
Mi sembrava di essere amici di giochi da sempre. 
Perchè Matt, era uguale a me.  Forse un po'meno coraggioso,  magari con meno sfacciataggine.  Ma io sapevo che nel profondo,  quell'incontro non era stato casuale.  Che la sua vita e la mia erano destinate ad incontrarsi.  Che dovevamo condividere la stessa stanza a causa dei nostri nomi.
Mello e Matt.  M e M.  Che quella sera prima durante il temporale,  non dovevamo andare a cena,  ma rimanere nell'armadio.  Era destino che mi regalasse la cioccolata e destino che accadesse questa tempesta di gesso.
 
Non non avrei mai potuto immaginare che questa serie di eventi,  insieme ad altri tantissimi,  erano un intreccio che sarebbe durato fino alla fine.  Fino ad ora.
 
Io ridevo.  Lo faceva anche lui. 
Ancora un sottile strato di nebbiolina bianca volteggiava intorno a noi che ci eravamo stesi a terra con la faccia rivolta verso il soffitto.
« Pe...perdonato? » Disse con il fiatone.
« Facciamo... finta di si» risposi ugualmente affannato
« Ora dobbiamo ripulire tutto lo sai?»
« Si lo so. Dovremmo! Ma non lo faremo»
Matt si appoggiò su un gomito per osservarmi meglio. Forse già ci era arrivato senza che io glie lo dicessi, ma probabilmente attendeva conferma.
« Non guardarmi così.  Semplice,  adesso scendiamo in cortile visto che gli altri sono rientrati, se ce ne freghiamo altamente di ripulire tutto! Che ne pensi? »
« Penso che Roger sarà furioso e che ci darà il doppio della punizione e..- fece una lunga pausa riflettendoci- ma chi se ne importa! Andiamo!»
Sorrisi entusiasta del fatto che io e il rosso ci capissimo facilmente. Così lasciammo quel disastro nell'aula e corremmo in cortile così com'eravamo. Sporchi, eccitati e soprattutto..bianchi.
 
Il cortile era deserto. Erano tutti rientrati per paura che arrivasse un nuovo acquazzone..così io e Matt ci ritrovammo da soli.
Lo guardai di sottecchi aspettandomi che partisse da un momento all'altro verso il tubo dell'acqua che stava a pochi metri da noi.  Ma notai che guardava altrove..verso..
Credo verso il rettangolo di sabbia.  Sgranai gli occhi e lui mi sorrise beffardo.
«Non credo lo farai» Minacciai serio.
«Come credi»
Scrollò le spalle e mi saltò addosso facendomi rotolare per terra, tra l'asfalto e il fango che non si era ancora asciugato dalla sera prima.
Sentivo la sua risata vicina, che ci seguiva mentre rotolavamo, e i suoi capelli mi sfioravano leggeri il viso facendomi il solletico.
Io mi divincolai levandomelo di dosso e con uno scatto arrivai al tubo dell'acqua.
 
Matt mi guardava da vari ciuffi rossi gocciolanti con uno sguardo minaccioso.  Se ne stava in mezzo al cortile con le braccia allargate e la maglietta che grondava.
Sembrava uno spaventapasseri.
Ovviamente non riuscii a trattenermi.
Scoppiai a ridere sguaiatamente come non l'avevo mai fatto prima. Lo guardavo e lui, invece di essere arrabbiato.. scoppiò a ridere insieme a me.
La sua risata squillante e cristallina, che ormai avevo imparato a riconoscere.
 
Davo per scontato il fatto che si sarebbe vendicato prima o poi.  Ma quel giorno non lo fece.  Mi risparmiò.  Forse perchè in fondo si era divertito anche lui...
 
Per salire ai dormitori utilizzammo la carrucola dei panni sporchi. Era piccola e angusta, ma ci entravamo perfettamente in due.  E poi era un ottimo modo per non farci vedere da qualcuno che avrebbe potuto fare la spia. Se non essere visti direttamente da Roger.
Così feci salire per primo lui e poi, dopo essere rimasto per svariati minuti a guardarla esitante, mi infilai io. Ressi forte la corda, ma mi resi conto che era troppo pesante solo quando ormai ero salito anche io.  Mi stava scivolando dalle mani.  Bruciava per lo sforzo.. ma a poco a poco, mi resi conto che il dolore si affievoliva, e che il peso si faceva sempre più leggero.
Guardai Matt accanto a me che reggeva la corda.  Aveva gli occhi concentrati e tirava con tutte le sue forze.  Nonostante fosse bagnato non mi stava lasciando solo.
La cosa mi faceva venir voglia di sorridere, ma non lo feci.
A quel punto ingoiai il sorriso che voleva apparire sulle mie labbra e continuai ad aiutarlo.
Un tiro dopo l'altro, un tiro dopo l'altro,  e un altro e un altro...
La cassetta sembrava tanto stretta con lui accanto.  Lo sentivo vicino.  Il suo respiro affaticato e le gocce che battevano sul legno vecchio e stanco.

Avevo avuto sempre paura della carrucola.
 
Sgattaiolati in camera, Matt corse a cambiarsi la maglietta e i pantaloni. Camminando lasciava numerose impronte sul pavimento.. e le sue scarpe facevano uno strano rumore, come se avesse avuto delle rane all'interno.
Sogghignai vedendolo avanzare a gambe larghe e le braccia come un appendi abiti.
Mi guardò con le sopracciglia aggrottate e lo sguardo furioso.  O così voleva farlo sembrare.
Si chinò a prendere il cambio nel cassetto, quando, tirando fuori una maglietta rossa, si accorse che era bucata esattamente al centro. 
Notai una smorfia sul suo volto mentre gli passavo accanto per andarmi a stendere sul letto.
Anche io ero completamente sporco.  Mi era quasi venuta voglia di farmi un bagno, ma ci ripensai pensando che dopo mi sarei dovuto asciugare i capelli.
Così mi abbandonai al materasso, appoggiando la testa sul muro per osservare il rosso.
Tirò fuori una seconda maglietta.. e anche questa, era tutta scucita su un lato, aprendogli un enorme buco sul fianco.
Sbuffò e appoggiò la maglietta di nuovo nel cassetto. 
Si sedette a terra con la testa china.
Che dovevo fare? Aveva finito le magliette..ne aveva solo tre, e sarebbe dovuto rimanere con la maglietta bagnata fino a sera.
Sbuffai rumorosamente.
Mi alzai dal letto e aprii l'armadio dove ancora erano rimasti i segni del nostro passaggio la sera prima.  Lui mi guardò.
«Cos'hai da guardare?»
«Ehm..niente»
«Bene, infatti non guardare..»
Andai a prendere la mia sciarpa bianca e glie la arrotolai intorno agli occhi
«Ma..ma che fai! Vedo tutto bianco»
«Chiudi il becco Matt!»
 
 
Credo che da quel momento, diventò la sua maglietta preferita.
Anche quando crescemmo, in valigia ce la scarrozzavamo sempre dietro. Provavo spesso a dirgli di buttarla o di regalarla a qualche poveraccio. Ma niente.
Matt, nonostante non gli entrasse più, quella maglietta non l'ha mai voluta abbandonare. Era stata cucita nel suo cuore e nessuno avrebbe potuto scucirgliela da lì dentro. Niente buchi,  niente toppe.
 
Con l'andare del tempo ne comprò di simili,  ma lui aveva sempre amato quella. Quella che quel giorno così speciale gli regalai.  La mia maglietta.  La maglietta che non indossavo mai, che non mi era mai piaciuta, ma che addosso a lui sembrava tutt'altro che brutta.
Quella con le strisce nere...
e le strisce bianche.

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Capitolo 5
*** 5.Verde ***


Vorrei scusaremi per l'attesa e per la semplicità di questo capitolo.  Ho voluto fare una sottospecie di piccola introduzione al capitolo successivo. In questa parte non accadranno eventi molto particolari,  ma... sta a voi decidere.  Sappiate solo che è da qui che inizia più o meno la vera storia ^^ Buona lettura!




5.Verde




Quel ragazzo davanti a me sembrava non essere mai cambiato.
Lo avevo visto così sempre..
I segni del tempo,  la crescita,  il cambiamento.. sembravano non averlo nemmeno sfiorato.
Aveva lo sguardo fisso su di me.  Uno sguardo freddo,  gelido,  perforante..che difficilmente una persona avrebbe potuto dimenticare.  E anche se uno avesse voluto cancellarlo dalla memoria,  non ce l'avrebbe fatta. Uno sguardo deciso, puro.. come il colore dei suoi occhi. I capelli martoriati da uno strano taglio,  opera di un ragazzino al quanto privo di precisione.  Biondi, c he rilucevano a contatto con il sole e splendevano morbidi.  Li aveva sempre portati un po' lunghi.
Le solite le labbra fini.. e da quanto posso ricordare,  sempre con una barretta di cioccolato tra i denti.
Gli abiti poi! Quelli saranno stati gli stessi di anni prima..solo di qualche taglia più grande.
 
Ricambiavo il suo sguardo,  fisso,  attraverso uno specchio che non poteva far altro che riflettere la verità,  facendomi rendere conto che alla fine,  ero cambiato, pur sembrando sempre lo stesso.  Pur rimanendo Mello.
Quello specchio aveva più anni di quanti ne avessi io. Era lì da quando entrai la prima volta alla Wammy's.
Ricordo che  non ero alto nemmeno un suo quarto... mentre ora,  superavo di gran lunga la metà.
Mi chiedevo spesso quanti altri bambini aveva visto crescere.  Quanti di loro si erano specchiati notando i loro cambiamenti.  Quanti bambini aveva visto piangere e quanti ridere.
Quanti,  lavarsi in quei bagni immensi e pieni di lavandini.
Aveva visto bambini che poi in futuro sarebbero diventati geni della matematica,  della logica.. e bambini invece che semplicemente sono cresciuti,  diventati persone normali,  ricordando i momenti nella loro dolce casa,  come quelli più belli della loro vita.
 
Ora quello specchio guardava me.
Cosa sarei diventato io? Anche io avrei fatto strada diventando il detective migliore del mondo? Sarei stato il successore di L? O semplicemente sarei uscito di lì e avrei trovato lavoro in qualsiasi campo?
Non lo sapevo.  Davanti a me non vedevo nulla. Nessuna via.  Nessun'uscita.
Possibile che non avrei potuto avere un futuro?
 
Eppure,  se chiudevo gli occhi,  mi immaginavo in un qualche modo vivo,  immerso nel verde.
Un verde strano.  Non era come un prato, come le foglie degl'alberi,  o come il pesto che mangiavamo alla mensa durante il venerdì.  Era brillante,  capace di accecarti se fissato per troppo tempo. Un verde intenso che mi accerchiava e mi entrava nella pelle.  Mi colorava rendendo il mio mondo e ciò che mi era attorno, di questo colore così innaturale.. questo verde.  I miei occhi si perdevano in quell'immensità, tanto profonda da non trovare mai la via d'uscita.  Ma era questo il bello.  Io non volevo trovarla.
Sarei voluto vagare per sempre in quella marea che mi trasportava e mi sbatteva contro la vita,  che mi faceva venire i lividi al cuore e mi terrorizzava allo stesso tempo.  Una marea verde, che mi trasportava...in balia del suo magnetismo.
Ma poi riaprivo gli occhi,  e intorno a me non c'era niente.
 
 
 
Quel giorno avremmo avuto il primo test attitudinale dell'anno.  Non mi ero preparato,  come sempre.  I libri nella mia stanza avevano ancora il cellophane che li avvolgeva e non avevo alcuna intenzione di toglierglielo proprio in questa occasione. Dopotutto avevo sempre superato tutti i test senza aprire pagina. E credo che ormai quei libri si fossero affezionati alla polvere e a quello strato di plastica che li proteggeva.
Mi dirigevo in classe a passo lento, ormai sapevo la strada a memoria, tanto che mi capitava spesso di farla ad occhi chiusi per assaporare meglio il gusto dolce del cioccolato. Non ero mai inciampato, ne andato a sbattere..perchè della Wammy's conoscevo ogni crepa, ogni fessura, ogni parete...ed avevo imparato a riconoscere le stanze semplicemente sentendone l'odore o toccandone la porta.
Perchè ognuno di noi aveva un odore diverso e mi piaceva saperli riconoscere.
Camminando per quel corridoio, ad ogni stanza che si apriva, un profumo mi colpiva in pieno viso e mi faceva rivivere i momenti più belli di quegl'anni passati insieme.
Li riconoscevo tutti... uno in particolare.
Quando aprii gli occhi vidi la tempesta verde abbattersi su di me,  impetuosa e innaturale come ogni volta.  Mi bloccai all'istante.  Ormai sapevo frenare l'istinto di indietreggiare e di colpirlo sul naso ogni volta che mi si piazzava così vicino.
«Che ti guardi idiota?!»
«Guardo quanto riesci ad essere bambino sporcandoti tutta la faccia con quel dannato cioccolato.  Giuro che non te ne procuro più!»
«Cos'è che non farai cane?!» Afferrai Matt per il collo della maglietta e lo avvicinai al mio viso.  Ormai,  mi aveva superato in altezza.  Era slanciato,  alto...ma per quanto non sembrasse, non era asciutto.  Aveva le braccia forti e ogni tanto,  quando si sforzava,  riuscivo a vedergli dei grossi muscoli spuntare da esse. Nonostante non facessimo esercizio fisico come materia a scuola, a parte qualche ora di corsa durante la settimana,  io e il rosso,  uscivamo spesso di nascosto per andare al campetto da calcio la sera. Le porte erano un ottimo strumento per fare gli addominali.
Lui mi guardò con un ghigno beffardo sul volto come se volesse prendersi gioco di me.  Imitai la sua espressione stringendo la presa.
« Allora?! Mi rispondi?!» 
Matt alzò un braccio e con la mano afferrò il mio mento.  Rimasi immobile con lo sguardo fisso nei suoi occhi troppo profondi.  Non sapevo cosa volesse fare.  Per un attimo pensai al peggio.
 
In quel secondo, quando quel pensiero passò per caso nella mia mente...il mio cuore accelerò di un battito.
Che cazzo mi prendeva? Non mi era mai capitato di pensare cose del genere, ne tanto meno che il mio corpo reagisse in questo modo ad esse. Cercai di rilassarmi respirando lentamente senza farmi notare.
Sentivo la sua mano tremare leggermente...non capivo se era per il fatto che stava in punta di piedi, se si stava sforzando, o chissà cos'altro.
Spostò il pollice esitante verso le mie labbra e con un movimento lento i miei occhi lo seguirono.  Lo appoggiò, e infine lo strusciò dalle labbra alla mascella, velocemente, come se avesse fretta di compiere l'azione.
«Te la prendo la cioccolata rompi palle,  basta che non ti sporchi!»
 
E poi rise. Quella risata che, come il suo profumo, ero capace di riconoscere su milione di altre. Quella che in mezzo ad una folla, avrei potuto dire che a ridere era quell'imbecille del mio compagno di stanza.  La sua odiosa risata squillante,  che a poco a poco,  si faceva sempre più roca.
Il tempo non stava risparmiando Matt.
 
Me lo scrollai di dosso spingendolo via con la mano.  Con il dorso dell'altra tentai di pulirmi la bocca dal cioccolato.
«Vuoi che ti pulisco io tesoro?» Mi schernì Matt.
Si stava prendendo gioco di me quel cane?
« Vai al diavolo Matt! Hai intenzione di morire oggi o ci tieni alla tua pelle? Sai che lo faccio!» Lo minacciai fingendo indifferenza, mentre ripresi il mio cammino verso l'aula dove di li a poco si sarebbe svolto il test.
« Mello, questi trucchi puoi usarli con quel bamboccio di Near,  non con me.. sai che non ho paura » 
Disse roteando appena il busto nella mia direzione.
A quel punto che avrei dovuto fare? Il mio dovere sarebbe stato andare in classe,  sedermi su quella stramaledetta sedia e consegnare quel dannato test.  Ma in fondo.. avevo mai fatto il mio dovere?
Mi voltai, quasi simultaneamente a lui.  Lasciai cadere la cioccolata a terra,  e con un salto,  gli piombai addosso.
 
Gli bloccavo le braccia con una presa ferrea. 
Nel corridoio ancora risuonava l'eco del nostro schianto sul pavimento.
Io cercai di catturare il suo sguardo spostandomi in base a dove i suoi occhi provavano a guardare. Mi mettevo davanti alla sua visuale,  in modo che non potesse vedere altro che me.
« Allora Matt, chiedi scusa?! O preferisci morire?»
Chiesi avvicinando il mio viso al suo.
In quel momento Matt mi guardò. 
Non doveva farlo così di scatto...perchè io mi perdevo.
Quel verde, quello così accecante, mi distraeva e mi faceva perdere in un labirinto troppo arduo, che nemmeno io sarei riuscito a trovarne la scappatoia.
 
Mi fissava con lo sguardo deciso e il solito ghigno, troppo uguale al mio.
«Mai»
«Idiota»
Non ci pensai due volte a caricare il pugno che stavo per sferrare direttamente sul suo faccino innocente.
Lui non si mosse fino all'ultimo.
Mi spinse via con un calcio e si allontanò correndo per il corridoio.
 
La campanella squillò l'inizio dell'esame e io non ero presente.
Mi voltai a guardare la strada che poco prima stavo percorrendo e mi resi conto che era quella giusta.
Volevo davvero essere..giusto?!
Poi ricordai lo specchio, l'immagine riflessa. Quel ragazzino di 13 anni vestito di nero, con le labbra sporche di cioccolato,  i capelli tagliati storti da quel cretino di Matt,  gli occhi azzurri e freddi.  Ricordai le punizioni che ancora ricevevo ripetutamente,  gli allenamenti di nascosto in giardino,  le fughe da Roger,  le risate,  le arrabbiature...
Mi chiedevo se tutto questo mi avrebbe portato ad avere un futuro poi.  Se quel verde contava qualcosa nella mia vita.
 
 
 
A quel tempo, nel tempo in cui ero ancora piccolo e ingenuo, non avevo idea di quanto la vita mi riservasse. Di quante erano le piccole cose a cui non davo peso. Di quanto ero arrabbiato con il mondo.. non mi rendevo conto di niente. Vivevo di istinto  e sensazioni. La cosa giusta per me, non doveva essere per forza quella che tutti nella logica morale avrebbero dovuto seguire. Quella giusta avrebbe potuto significare anche fare a botte, litigare o fuggire... E molto spesso,  mi piaceva seguire questo mio modo di pensare.
Quando però mi rendevo conto di quale fosse la cosa più giusta per me,  in qualsiasi caso.. facevo l'opposto.
Non accettavo di fare la cosa più corretta per gli altri, oltre che per me stesso. Non accettavo il fatto di aver torto.
Così feci quello che era più sbagliato e più giusto allo stesso tempo.
Mi alzai e seguii la macchia rossa che poco prima sparì in fondo al corridoio.
Solo più tardi mi resi conto che quella decisione, avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
Che se solo per la prima volta avessi accettato la realtà, se fossi andato in classe e mi fossi messo d'impegno per superare l'esame.. probabilmente ora, non avrei il futuro che desideravo.
 
Mi alzai velocemente da terra, e ad occhi chiusi, seguii quel profumo di cioccolato che tanto mi piaceva.

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Capitolo 6
*** 6. Azzurro ***





Ancora una volta un capitolo sui pensieri personali di Mello, piccole vicende raccontate e la vicenda principale che avrà per forza un continuo.. ma ne prissimo capitolo! :) Spero che queste piccole pause di riflessione abbiano successo, ho pensato di farne una per il verde di Matt e l'azzurro di Mello :D
Buona lettura





6. Azzurro




Una volta Roger mi disse che non dovevo dare il cattivo esempio a Matt.
Che non dovevo coinvolgerlo nelle mie malefatte, che non dovevo insegnargli qual'era il modo più facile per entrare in mensa la notte e che non dovevo farlo collaborare con me quando escogitavo degli scherzi da fare agl'altri compagni.
Tutto questo all'età di 5 anni.
In quel periodo, nei primi tempi in cui il rosso arrivò alla Wammy's, ancora non avevo ben capito com'era fatto.
Sembrava tosto e risoluto, ma allo stesso tempo fragile e insicuro.
Molte vicende mi fecero continuamente cambiare idea sul suo conto. Anche se a dire il vero, si poteva benissimo dire che lo avevo sempre detestato. 
Ogni piccola cosa era un pretesto per discutere e fare a botte,  o semplicemente insultarci o farci dispetti di ogni tipo.  Ma era diverso da quello che provavo per l'albino.  Con Near era una guerra che non si sarebbe mai conclusa.  E se mai fosse finita,  il vincitore sarei stato io. 
In fondo,  invece,  io e Matt,  nonostante i contrasti, facevamo sempre pace.  Non in modo diretto,  s'intende.  Ma bastava poco per dire che la litigata era finita. Conclusa.  Messa nel dimenticatoio.
Solitamente io non facevo mai il primo passo.  Molto probabilmente,  il rosso,  aveva intuito il mio modo di fare,  e si era preparato.  Non che fosse difficile capirmi,  ma credo che Matt,  mi abbia capito più di chiunque altro.
Io,  non sarei mai andato da lui.
 
 
Il corridoio era lungo e ampio. I  teoria nelle stanze non doveva esserci nessuno.
Erano tutti impegnati nel test di quel giorno.  Un test che avremmo dovuto fare anche io e lui.
Ma ovviamente il rosso aveva deciso di fare quello che gli pareva,  e io come sempre,  l'avevo seguito.
Ora.. chi stava dando il cattivo esempio a chi?
Non che io avessi ancora qualcosa da imparare,  non mi servivano buoni o cattivi esempi.  Ormai ero stato etichettato come la tempesta bionda della Wammy's, l'uragano distruttore... e nulla avrebbe potuto levarmi quel nome.
Tutti sapevano chi ero.  Perfino i bambini nuovi, che arrivavano per la prima volta, non facevano in tempo ad entrare che subito gli dicevano di stare attenti "al bambino con il caschetto biondo".
 
Ma questo accadeva una volta, quando Matt ancora si dimostrava un angelo davanti agl'altri e si rivelava per il diavolo che era solo in mia presenza.
Spesso succedeva invece, da quando il rosso aveva capito da che parte voleva stare.. dalla mia o da quella di Roger, che diventavamo una cosa unica.
Mello e Matt.
Qualsiasi cosa accadeva, venivamo identificati unicamente.  Non ero più solo io la minaccia.  Lo eravamo entrambi.
E devo dire, rinunciando a molto del mio orgoglio, che l'allievo poteva benissimo essere bravo quanto il maestro.
Forse,  io avevo una marcia in più per il fatto che Matt, non era mai riuscito a sottomettermi,  in qualche maniera.
Ma la cosa che più mi inorgogliva... era che Roger,  ancora una volta aveva perso.  E il rosso,  per quante volte comunque avessimo discusso, non mi avrebbe mai voltato le spalle.
 
Era sparito da qualche parte.  Non saprei dire se si fosse infilato in qualche stanza, o se fosse corso fino alle scale che portavano alla mensa.
Ormai conosceva tutti i trucchetti per sfuggirmi. 
Matt ne sapeva una in più del diavolo e io una in più di Matt.
Mi fermai al centro del corridoio mettendomi le mani sui fianchi.  
Guardai a destra e a sinistra.
Poi chiusi gli occhi.
L'odore del cioccolato sembrava disperdersi su tutti e due i lati.  Nella porta di destra e di sinistra.
" Che bastardo" Pensai continuando a camminare lentamente verso la parete lontana di fronte a me.
Guardavo furtivamente in tutte le direzioni,  in punta di piedi.  Volevo coglierlo di sorpresa,  anche se sarebbe stata un'impresa ardua. 
"Dove ci saremmo nascosti se solo fosse stato Roger a cercarci?" Mi domandai cercando di trovare una risposta.
 
Poi mi venne in mente.
 
Feci una corsa fino alla fine del lungo corridoio, scartai a destra e arrivai alle scale.
« Più indietro! »
dissi a denti stretti.
Frenai e mi voltai.
 
La porticina della carrucola era socchiusa.
Probabilmente mi stava spiando.
 
Da quando avevamo 9 anni,  io e Matt smettemmo di usare la carrucola.
Eravamo troppo cresciuti per entrarci entrambi, così rinunciammo al nostro nascondiglio preferito.
Ma il rosso continuava ad approfittarsene quando era solo, poichè era perfetta per lui...
Stava lì le ore a pensare e molto spesso non lo si vedeva fino all'ora di cena, quando lo andavo a cercare.
 
Una volta, si era addormentato.
Dovevamo scendere a magiare, e lui se ne stava rannicchiato nella sua nicchia personale. 
L'istinto era di dargli un calcio per svegliarlo. Ma contrariamente alle mie intenzioni non lo feci e lo lasciai lì, in attesa che si svegliasse.
Rimasi anche io con lui. Per terra, accanto alla carrucola, con la testa appoggiata al muro.
Mi chiedevo spesso a cosa pensasse quando se ne stava lì da solo. Erano dei momenti in cui non bisognava disturbarlo..
« No Mello, non puoi venire..» disse un giorno,  prima che io scoprissi il suo nascondiglio.
Ovviamente,  non lo ascoltai, e lo seguii di nascosto.
 
Dopo qualche minuto di spionaggio davanti alla porticina della carrucola,  senza udire alcun rumore,  me ne ritornai in camera sperando di trovare della cioccolata nel suo zaino. Non si sarebbe lamentato se avesse trovato qualche barretta in meno. Dopo tutto,  non le mangiava...Ma ne profumava terribilmente, come se fosse stato giorni immerso in una tinozza di fumante cioccolato al latte. 
 

Mi avvicinai cauto fino alla fessura. 
Osservai il suo interno senza toccare la porta.
Con quel poco di luce che il corridoio offriva,  intravidi la sagoma rannicchiata del rosso,  che si stringeva le gambe al petto, in quel nero che mi ricordava così tante cose. Così tanti rumori.  Così tanta pioggia.
Sorrisi beffardo e bussai.
« Tana!»
Matt alzò rapido lo sguardo.
Quell'onda mi trapassò  lasciando il suo solito deserto dietro di se. Il respiro ricominciò veloce dopo essersi perso in una lunga pausa.
« Come hai fatt..?!»
« Segreto » risposi poggiando una mano sul muro e l'altra sulla maniglia. Non gli avrei lasciato via d'uscita.
Aprii di poco l'anta in modo tale che potesse vedermi meglio.
Lo vidi stiracchiarsi ed allungarsi, cercando si avvicinarsi a me.
«Levati, devo uscire» ordinò guardandomi fisso negl'occhi.
Lo fulminai.
I miei occhi avevano sempre avuto uno strano effetto su Matt.
Quell'azzurro, così freddo, così deciso, l'aveva sempre affascinato.
Diceva che quando mi guardava gli sembrava di nuotare in una piscina fresca, dove sarebbe rimasto a mollo a vita.  Ma spesso, se poteva, evitava di guardarmi. Non ho mai capito bene il perchè.
Effettivamente non potevo che biasimarlo.  Non mi erano mai piaciuti i miei occhi.  Non che avessero un brutto colore..ma mi avevano reso quello che ero fin da piccolo. Il mio sguardo, gelava la gente, la faceva rendere conto che potevo tiragli qualche giochetto dei miei da un momento all'altro..
Quel azzurro, tanto affascinante quanto terrificante per molti versi, mi aveva caratterizzato da sempre.
« Ghiaccio, e un brivido lungo la schiena..»
Mi spiegò una volta il rosso, lamentandosi del fatto che spesso lo guardavo male.
Fortunatamente per me è stata una scusa più che valida, e sfruttata in mille occasioni.
Io non lo guardavo male,  semplicemente lo fissavo.
 
« Non credo che andrai da qualche parte oggi Matt.. Allora.. mi procuri il cioccolato si o no? Mi devi anche chiedere scusa sai?!»
Ribadii infilando la testa nella nicchia.
Cercavo di inchiodarlo proprio come lui faceva con me. Uno sguardo fermo, severo, azzurro.
« Per quanto mi riguarda potremmo rimanere qui anche tutto il giorno. Non ho problemi» mi rispose strafottente accogliendo la sfida.
« D'accordo. Se perderai Matt, dovrai darmi 2 barrette in più...già lo sai»
Questi erano gli accordi.  Lo erano sempre stati da quando assaggiai la prima volta una barretta di cioccolato.
Qualsiasi sfida, qualsiasi scommessa avesse perso, mi avrebbe dovuto dare 2 barrette in più rispetto alla solita giornaliera.
In caso contrario, la sera, avrei dormito a terra. Nonostante avessimo due letti.

Matt aveva il vizio di muoversi durante il sonno, e accadeva spesso di ritrovarlo con la testa penzolante da un lato, in bilico.
Così, capitava che volesse attaccare i letti, in modo tale che avesse più spazio, e io mi ritrovassi con il culo sul pavimento nel pieno della notte.  Ma questo capitava di rado.  Era più probabile che io mangiassi qualche tavoletta in più.
 
Non era una sfida che comportava qualche prova fisica, o di coraggio.
Ma probabilmente questa era una delle più difficili.
Non avevo idea di quanto Matt riuscisse a reggere il peso del mio sguardo...ma ero consapevole del fatto, che per me sarebbe stato arduo.
 
Lui guardava la mia anima, come io guardavo la sua. O almeno ci provavo. 
Avevo provato varie volte a guardarlo fisso, cercando un barlume, una scintilla, che mi facesse capire cosa gli passava per la testa, cosa desiderasse...che mi facesse capire com'era la sua anima.
Ma non trovai mai la fine nel tunnel dei suoi profondi occhi verdi.
Invece per lui era più semplice. I miei occhi facevano trasparire ogni cosa se non ci stavo attento. Qualsiasi emozione, sensazione, paura...
L'avrebbero tutti potuto vedere attraverso quello spesso strato di ghiaccio, di un azzurro intenso, come il cielo che non avevo mai potuto vedereTroppo coperto da una nuvola bianca, o dal verde che mi si parava davanti ogni volta che provavo a pensare ad altro.
 
Era una sfida,  che partendo perdente,  non avrei comunque rinunciato a vincere.
 
Occhi negl'occhi. Verde nell'azzurro. Azzurro nel verde.
Matt troppo vicino. 
Matt tremava.
 
Non so quanto tempo passò. Non ricordavo se la campanella avesse suonato. Non sapevo quanto il mio orgoglio mi avesse fatto resistere.. e non sapevo quanto ancora avrei dovuto sforzarmi.
Che quell'azzurro avesse delimitato il cielo? Che quel verde avesse delimitato la terra?
 
Stringevo i denti.  Non avrei trapelato nessuna emozione.
 Freddezza. "... e brivido lungo la schiena"

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Capitolo 7
*** 7.Arancione ***


Volevo scusarmi per l'attesa ma non avevo molta ispirazione. Poi mi è venuta improvvisamente mentre stavo sull'autobus diretto a Roma. C'erano due bambini qualche sedile più avanti che si stuzzicavano dandosi delle pacche.. e non ho potuto fare altro che pensare a Mello e Matt. Il prossimo capitolo è già in fase di lavorazione. Uscirà presto. Scusate ancora :) Spero che questo vi piaccia!



7.Arancione



« Dopo quello che mi hai fatto passare dovresti darmi almeno 4 barrette... Te non hai idea di quanto Roger fosse alterato. Si stava trattenendo. Ma dovevi vederlo! Era diventato quasi viola!»
Lui sbuffò.
 
Aveva perso. Ovvio.
Non potevo certo perdere io.
Il sapore della vittoria era così...dolce?! 
Avevo anche messo in conto il fatto che il Vecchio si sarebbe arrabbiato come poche volte aveva fatto. Eravamo capaci di far perdere la pazienza anche ad una persona calma come lui. Ma nonostante tutto questa mia vincita aveva il sapore unico della cioccolata. Quella più dolce, che solo Matt riusciva a procurarmi.
 
 
La stanza era chiusa. Fuori il cielo, applaudiva come sempre, con la sua pioggia incessante. L'inverno era tornato, triste nei suoi colori spenti.
Il letto erano sfatto, odorava di una notte fredda e di sogni irraggiungibili, le calze erano a terra, i vestiti erano un groviglio di colori appoggiati su una sedia... 
Matt, dal canto suo, faceva parte di quel piccolo quadro e lo completava con le sue strane pose, mentre dormiva.
Il suo respiro era l'unico rumore che si udiva, sovrastato solo dall'acqua, che discreta cadeva come lacrime al suolo.
Eravamo soli nell'istituto. 
Era una specie di punizione.  Gli altri erano andati a fare una sorta di pellegrinaggio ad un santuario a qualche ora da lì.  Erano partiti presto, quando era ancora buio. 
La doppia mandata avrebbe fatto si che ne io ne il rosso potessimo uscire e causare altri danni.
Prima di uscire, Roger ci aveva lasciato sul comodino i fogli del Test che avevamo saltato... Ma erano rimasti là. Non gli avevo dato nemmeno uno sguardo. E ci sarebbero restati fino ad impolverarsi tanto, da non riuscire più a distinguerli dal resto della stanza, che mano a mano, ero convinto diventasse qualcosa simile ad una discarica a cielo aperto.
 
 
Avevo aperto la finestra. Non mi importava tanto se avessi bagnato la stanza, ne tanto meno se mi fossi bagnato io... volevo odorare la pioggia. Sentire il suo sapore sulle labbra. Volevo bagnarmi e percepirne il freddo sulla pelle.
Quindi me ne stavo lì, una gamba dentro e una fuori, appoggiato allo stipite, guardando quel paesaggio che troppe volte avevo contemplato e che ormai conoscevo a memoria.
La pioggia odorava di sale e di erba fresca, come quella del nostro giardino.
Cadeva e bagnava ovunque, qualsiasi cosa, qualsiasi persona e niente gli sarebbe sfuggito.
La ghiaia sembrava brillare, come tanti diamanti, sotto quel cielo grigio che tanto mi dava a pensare.
Ero troppo impegnato ad udire quel ritmo continuo di gocce dopo gocce, per accorgermi che Matt si era svegliato.
 
« Ma sei cretino?! Che ti passa per la mente idiota? Se fossi caduto non l'avresti certo passata liscia!...Stupido»
Urlai contro quel diavolo rosso. 
A volte faceva cose del genere, come spaventarmi. Non che io gli dessi molta soddisfazione, anzi, per la maggior parte delle volte lo ignoravo. Le altre, compresa questa, gli sbraitavo contro, facendo sfociare questo scherzo idiota in una ressa. Lui però, continuamente ci provava. Non sapevo esattamente quale gusto ci trovasse se io facevo finta di non aver avuto paura...ma probabilmente vedermi arrabbiato lo divertiva.
« Sei un piagnone Mello! Ti sembro così scemo da farti cadere di sotto?!» Disse lui in tono scettico, alzando un sopracciglio. Aveva gli occhi ancora socchiusi e i capelli arruffati, come un cespuglio, o un fuoco che crepitava.
« Si, ne saresti capace!» Ringhiai io voltandomi e risalendo  sulla finestra.
"Per poco non mi faceva precipitare in cortile, quel demente!" Pensai.
Lui rise. La sua solita risata...forse un po' più roca a causa del fatto che si era appena svegliato, ma sempre la sua, inconfondibile e squillante risata. Sembrava proprio non essere cambiata da tanti anni a questa parte.
« Cosa ridi scemo?! Non c'è niente da ridere! Siamo qui, soli, senza poter uscire da questa maledetta stanza... te dormi in continuazione, io invece mi annoio! Quindi vestiti e trova qualcosa da fare!» 
Lo guardai in quel suo pigiama verde militare mentre si passava una mano tra i capelli arruffati e si strofinava gli occhi per svegliarsi. Mi guardò per un secondo. Io lo fissai come se mi aspettassi che facesse quello che gli avevo appena detto. 
Il rosso sbadigliò, si stirò le braccia e arrivò fino all'armadio, trascinandosi lentamente, con una camminata che dava a intendere che non aveva alcuna voglia di sbrigarsi.
Tirò fuori una delle sue magliette a righe, che si era fatto comprare da Roger dicendo che le altre erano state tutte bucate dalle termiti. Ormai era diventata una fissa con quelle cazzo di righe! Vedevo righe ovunque a causa sua! Stavo impazzendo...
Prese un paio di pantaloni e le scarpe. 
Smisi di osservarlo e mi rimisi a guardare la pioggia. 
Stava diventando sempre di più una debole nebbiolina, fitta e impenetrabile. Io ero bagnato. Tutto bagnato.
I miei capelli gocciavano sulle guance pallide. Dal collo le gocce scivolavano giù, sul petto, fredde e inebrianti. Gelavo, ma poco mi importava. Era così bello avere l'odore della pioggia addosso.
 
« Che ci devo fare con questo?! Non ho fredd...»
«  Sta zitto e mettiti quel giaccone! Anzi, prima spogliati e mettiti qualcosa di asciutto. Muoviti!» Mi interruppe Matt che continuava a frugare tra i cassetti, lanciando fuori i vestiti che gli erano d'intralcio.
Io guardai il giaccone che avevo tra le mani, cercando di capire cosa dovevo farci. Non volevo mettermelo, il rosso mi aveva dato una specie di ordine.. e per principio l'avrei ignorato. Lo buttai per terra accanto a me e continuai ad osservare Matt che scavava tra pile di vestiti accartocciati.
« Ma dove cavolo..?! Ah! Eccola. Come ci sia arrivata fino lì... L'avevo messa al cassetto di sotto »
L'anta aperta non mi permetteva di vederlo in volto, ne di vedere cosa aveva finalmente trovato. Comunque sia, doveva essere impazzito.
Lo guardai curioso, chiedendomi che cosa aveva in mente. Poi lui uscì dall'armadio mostrando solo la testa. Vide il giaccone a terra e alzando un sopracciglio mi squadrò.
« Mello..vestiti! Sei zuppo, ti prenderà un malanno e addio progetto! » 
Non attese nemmeno la mia risposta che si immerse di nuovo in un mucchio di panni, riemergendo con un Jeans azzurro chiaro e una maglietta nera. 
Si avvicinò a me scavalcando le montagne di abiti che aveva creato, sventolandomi la maglietta sotto il naso, con il sorriso sulle labbra.
Rimasi per un po' a fissarlo senza muovere un passo. Tutto intorno a noi, la pioggia creava un sottofondo che accompagnava i nostri sguardi. Immobili. 
Lui con il suo calore, io con la mia freddezza. 
E tutto ciò mi ricordava vagamente qualcosa...
 
Passò qualche minuto. Matt sbuffò rumorosamente e abbassò le braccia facendole ciondolare sui fianchi.
«Sei insopportabile! Hai detto tu che volevi fare qualcosa e a me è venuta un'idea! Ma tu?! Tu devi fare per forza come ti pare» gridò avvicinandosi di più a me. Io immobile, sguardo strafottente. 
Era troppo vicino. 
Riuscivo a percepirne il respiro caldo su una guancia. 
I suoi occhi mi inchiodarono, come sempre accadeva... ma fu più una scelta rimanere al mio posto. Istinto, chiamiamolo così.
« Sai che ti dico?! Vai al diavolo! Col cavolo che...ah lasciamo perdere!» Si voltò dall'altra parte bofonchiando.
Mi lasciai sfuggire un leggero sospiro di sollievo che non arrivò alle sue orecchie.
Intanto lui raccoglieva i mucchi dal pavimento , tutti insieme,  così com'erano e  li rimetteva nell'armadio con noncuranza. Le sopracciglia aggrottate e i denti stretti erano il segno che si era offeso. O faceva finta.
 
Sospirai scendendo dalla finestra. Il pigiama aderiva perfettamente al mio corpo tanto era bagnato. Appiccicoso e infreddolito lo avvicinai fermandomi dietro di lui. Matt si voltò appena per lanciarmi un'occhiata, poi indifferente, si girò nuovamente verso l'armadio che sembrava tanto un accampamento.
Mi stava ignorando?! Bene!
Mi levai la maglietta velocemente, e arrotolandola glie la strizzai addosso. Ovviamente non poteva mancare il mio solito fare strafottente.
Ma la risata sgusciò comunque fuori dalle mie labbra.
Una risata di quelle che facevo spesso quando stavo con Matt. E che uscivano spontanee solo con lui.
 
 
 
Quelli erano i momenti in cui non mi facevo domande. Momenti in cui, per me, tutto aveva colore. Tutto intorno a me sembrava più acceso, più bello.
Non mi ero mai chiesto il perchè... e forse, non lo volevo nemmeno sapere. Volevo ridere e basta. Essere felice. Non chiedevo molto.
 
 
Mi vestii al volo con la roba che il rosso aveva tirato fuori. Mi resi conto le la maglietta era un po' larga, ma non mi importava. Strizzai i capelli sul pavimento e mi infilai gli anfibi.
Il pigiama giaceva in un angolo della stanza, ancora un po' umido, nonostante l'avessi strizzato.
Matt si asciugò i capelli strofinandoseli con un asciugamano, poi afferrò il suo cappotto e lo indossò. Mi guardò curioso. Scrollò le spalle e mi rivolse un sorriso esasperato.
« La prossima volta te li taglio più corti quei capelli. Ogni volta fai un casino per strizzarli. E poi il taglio precedente è venuto maluccio eh?»
Se era una presa in giro, non mi piaceva. L'ultima volta che il rosso aveva impugnato un paio di forbici per accorciarmi il taglio, aveva combinato un casino. Per quanto fossi menefreghista un po' su tutto.. i capelli erano l'unica cosa a cui tenevo davvero, escludendo la cioccolata.
Li aveva martoriati con un taglio orrendo. Erano storti e scalati...
Quel giorno, ricordo, non avevo esitato a prenderlo a pugni.
Non gli parlai per una settimana.
Fortunatamente avevo una ricrescita abbastanza veloce.
 
Sgranai gli occhi e aggrottai le sopracciglia. Non avrebbe più sfiorato un solo mio capello!
« Matt spero tu stia scherzando. Non so se ti siano bastate le botte che...»
« Si si, scherzavo scherzavo! Mamma mia!» mi bloccò veloce soffocando una risata. Si divertiva a sfottermi.
Prese una corda da terra e la legò intorno all'armadio facendo più di un nodo. Io l'osservavo con le gambe incrociate da sopra il letto ancora sfatto.
Tirò più volte per essere sicuro che reggesse, poi calò la corda dalla finestra.
Io gli rivolsi uno sguardo a dir poco interrogativo.
« Vuoi uscire da lì?  Finirà che ci ammazziamo»
Dissi scendendo dal materasso. Lo raggiunsi e attesi una sua risposta che ovviamente, come avevo previsto, non arrivò.
«  Cazzo Matt quante volte già l'hai fatto?! Non dirmi che...- feci una pausa riflettendo. Il mio sguardo vagò per la stanza posandosi sulle sue lenzuola perennemente umide e sui suoi scarponi incrostati di fango- Merda non dirmi che lo fai tutte le sere! Sei un testone! Rischi di cadere se non è fissata bene quella corda! Almeno svegliami quando lo fai!» sbraitai sperando che mi ascoltasse.  Solitamente le mie lamentele non lo scalfivano. Dopotutto, chi gli aveva insegnato a trasgredire le regole?
« Certo, con il rischio che se ti sveglio tu come minimo mi mangi vivo! No grazie, preferisco cento volte cadere di sotto..» Rise.
Sbuffai ormai senza speranze e l'aiutai a scavalcare la finestra. Ressi la fune per precauzione, e si calò fino a toccare la ghiaia.
Lo guardai da sopra. 
Una macchia rossa in mezzo a tutto quel grigio.
Per un attimo tornai con la mente in un passato lontano... in quel mondo così scuro, così triste, e mi resi conto di quanto quel tocco di colore aveva cambiato la mia vita e l'aveva resa migliore.
 
In lontananza, dietro quella coltre di nubi, una striscia arancione faceva breccia.
L'alba. Quanti significati aveva? 
Quell'arancione segnava l'inizio di una nuova giornata o di una nuova vita. Di un fiore che sboccia, di un bambino che nasce, di una tempesta che passa. Un arancione che da speranza di poter ricominciare.. o di cominciare. L'arancione dei riflessi di Matt, mischiati al rosso, di un fuoco che non si sarebbe mai spento.
Sorrisi.
Avrei fatto per la prima volta come diceva.
 
Era presto. Non so che ora fosse.  Ma era l'alba. 
Calavo da una finestra del dormitorio della Wammy's diretto verso l'ignoto. Non l'avevo mai fatto, eppure non avevo paura. Invece, mi sentivo strano, come se avessi avuto più energia del solito.
Guardai la corda e l'afferrai. Matt era lì che mi urlava di scendere. Io strinsi i denti e mi calai.
Sotto mi aspettavano solo momenti di felicità.

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Capitolo 8
*** 8.Rosa ***





8. Rosa
 


Buttai gli occhi al cielo osservando le gocce lente che cadevano come un pianto. 
Delle lacrime tristi che volevano lavarmi via il sorriso dalle labbra.
Silenziose e compagne di sempre, che mi avevano cullato nelle notti insonni.  Che mi avevano fatto pensare e viaggiare per le strade di una cittadina dimenticata.
Le stesse gocce fredde di anni prima. 
 
Attraversammo di corsa il cortile diretti al cancello.
Era un portone molto alto e tutt'intorno correva un muro altrettanto immenso.  Davvero non capivo come avremmo fatto a scavalcali.  Mi aspettavo un passaggio segreto o qualcosa del genere... e invece non c'era niente.  Niente che permettesse a noi di uscire, come a qualcuno di entrare.. se non dall'ingresso.
 
Sfortunatamente per noi,  il cancello poteva essere aperto solo dall'interno e chiuso con una chiave che Roger, ovviamente,  si portava sempre dietro.
Ci buttammo dietro un piccolo cespuglio accanto al muro.  Nonostante non ci fosse stato alcuno all'interno dell'istituto, io pensai che forse,  era meglio prevenire, nel caso qualche addetto fosse rimasto.  Così ci rannicchiammo uno accanto all'altro, tra le foglie di un verde salvia che profumavano di umido e un muro di un marmo bianco,  rovinato dal tempo.
 
L'unico rumore era quello dei nostri respiri, sovrastato dal ticchettio irregolare della pioggia.  Le nuvolette che uscivano dalle nostre bocche, formavano strane figure che si intrecciavano trasportate dal leggero vento che spirava, tanto eravamo vicini.
Guardai Matt esasperato.  Scettico e convinto che lui non sarebbe stato capace di farci uscire, gli rivolsi l'occhiata più minacciosa che avessi tenuto in serbo per occasioni come queste. Un suo fallimento.
« Sono proprio curioso di sapere come farai caro il mio Scemo! Hai dimenticato che Roger ha le chiavi con se?!»
Il rosso girò appena lo sguardo, voltando gli occhi al cielo.  Non voleva voltarsi dalla mia parte.. probabilmente perchè i nostri nasi si sarebbero sfiorati. 
Ovviamente io desideravo che se ne stesse fermo nella sua posizione senza fare movimenti bruschi, lasciandomi lo spazio per respirare.
Ma nonostante ciò continuavo comunque a sperare, che almeno mi guardasse. Non solo di sfuggita.
« E va bene e va bene, non fare quella faccia Matt.  Se sai come fare, cerca di darti una mossa imbecille! Mi sto inzuppando! Manco fossi un cane abbandonato!»
Brontolai, sperando che almeno le mie lamentele lo smuovessero.  Anche se.. dopotutto,  mi piaceva l'idea di starmene lì,  rannicchiato sotto la pioggia.  Non faceva molto freddo.  Alla mia destra,  percepivo un calore familiare che mi faceva stare bene. Un tepore che faceva rilassare e mi rincuorava. Quasi mi venne voglia di addormentarmi, ma con tutte le forze che avevo a disposizione, mi imposi di rimanere sveglio e attendere che arrivasse il lampo di genio dal mio compagno.
Matt trattenne una risata soffocata chiudendo gli occhi.  Poi si alzò sospirando, poggiando una mano sulla mia spalla.  Io lo guardavo stando seduto ai suoi piedi, e in quella posizione, sembrava ancora più alto di quanto non lo fosse già.  Da lassù,  abbassò lo sguardo sorridendo.
Alzai un sopracciglio cercando di capire cosa significasse quell'espressione tanto..felice?!
Schioccai la lingua sul palato e lo imitai, alzandomi al suo fianco.
« Credo che si possa andare, la via mi sembra libera. Vieni.. » Sussurrò il rosso. Mi superò facendosi strada tra le foglie,  facendomi attaccare alla parete per permettergli il passaggio.  
Percorse il muro alla mia sinistra, verso le finestre dei dormitori...le gocce battevano sul suo cappuccio con un suono sordo mentre camminava nella ghiaia.
I passi riecheggiavano nel cortile ribadendo che fosse deserto, mentre in lontananza l'arancione si disperdeva nel grigio piombo delle nuvole troppo fitte e soffocanti.  Rimasi immobile per un po' osservandolo allontanarsi stretto nel suo giaccone.  Misi le mani in tasca alla ricerca di una barretta di cioccolato, ma afferrai il vuoto.  Strinsi i denti irritato.  Mi doveva quelle stramaledette barrette! Quando me le avrebbe portate?
« Mello...Mello...Mello! Sei cretino o cosa? Allora ti muovi?»
Matt mi distolse dai miei pensieri con i suoi soliti modi di fare.  Scrollai le spalle tirando un sospiro e lo raggiunsi. Si era fermato sotto un albero, che se non ricordo male, non  era mai stato spoglio. Li sotto la pioggia arrivava a stenti, così afferrai il cappuccio e lo tolsi,  lasciando liberi i capelli.  Scossi la testa per non sentirli appiccicati alla faccia.. una cosa che avevo sempre odiato,  e potrei giurarci, ancora oggi, che vidi Matt irrigidirsi nel vedermi fare quelle mosse.  Mi guardò per un secondo, ma poi voltò lo sguardo altrove, cercando qualcosa da fissare. Qualcosa che non fossi io.
Io intercettai la sua occhiata prima che la rivolgesse ad altro e ne rimasi perplesso. Che voleva significare?
Forse niente.  Forse tutto.  Forse mi ero solo immaginato qualcosa che avrei voluto accadesse?
"Ma no! Che cazzo vado a pensare. Che idiota"
In quel momento mi sarei voluto sfogare su una barretta di cioccolato fondente.
 
Il rosso tornò a guardarmi mostrando la sua faccia strafottente.  Mi chiedevo cosa avesse in mente, ma non avrei sprecato altre parole per chiederglielo. Dopotutto, da quanto avevo capito, faceva spesso questo genere di cose.
Mi passò di fianco dirigendosi verso il tronco dell'enorme albero che ci sovrastava, sfoggiando per un ultima volta il suo sorriso compiaciuto.
"Copione" Pensai con le mani  in tasca.
 
 
 
« Mello cavolo sei lento! Quanto ti ci vuole per spostare quel culo da lì e scavalcare? Non è difficile! Si vede che sei proprio una femminuccia!»
Lo sentii sghignazzare dietro il muro.
Non l'avrebbe passata  liscia nemmeno stavolta! 
Saltai afferrando il ramo sopra la mia testa.  Con il peso, milioni di goccioline che stagnavano tra le foglie,  ricaddero sul mio viso,  bagnandomi nuovamente i capelli.  Sbuffai, e con un po' di forza sugli addominali mi dondolai fino a toccare con il piede sinistro il marmo del muretto.  Lì caricai  e mi lanciai verso il tronco, dandomi nuovamente la spinta con il destro. Tanta, da riuscire a salire sul ramo a quattro zampe, accucciato come una scimmia. 
Da sotto Matt, poteva solo vedere le foglie muoversi e udire il loro frusciare, senza rendersi conto che io  in realtà,  ero proprio sopra la sua testa.
 « Avanti! Devo tornare dentro per darti una mano?! Certo,  non ti facevo così fiacco signor "Sono il boss di quest'istitut..."»
Non avrei potuto lasciarlo finire.  Si meritava di rimanere in silenzio.  Io.. una femminuccia?! Fiacco?! Glie l'avrei fatta pagare.
Mi lasciai cadere dal ramo, tuffandomi sopra di lui, bloccando a metà le sue parole. Fu un volo breve, eppure mi parve così lungo.
Saltando dal ramo,  le gocce di pioggia accolsero il mio viso bagnandomi ulteriormente. Gli occhi di Matt si alzarono e io mi incatenai a quello sguardo che mai avrei pensato avrebbe potuto farmi venire i brividi.  O forse era il freddo.. o l'eccitazione, o la sorpresa...
I nostri occhi non si sganciavano. Uno legato all'altro ci avvicinavamo. Lui con lo stupore scritto in viso, io.. con il mio sorriso beffardo e strafottente che non avevo mai perso.
A braccia aperte mi fiondai su di lui,  poi con una grande forza,  le richiusi su le sue spalle, buttandolo a terra.
 
 
Avevo sempre giocato con il pericolo fin da piccolo. Non mi ero mai predisposto un limite da non varcare.  Continuavo a divertirmi con il proibito, con il pericoloso e l'illegale.. senza mai farmi problemi.  Senza mai tenere conto di quello che diceva la gente.
Poi, quando arrivò Matt molti anni prima, tutto divenne più divertente.  I limiti non erano nemmeno più presenti dalla mia morale, ne nella sua. Tutto voleva dire essere liberi di fare quello che più ci faceva stare bene,  ma credo che non c'era cosa che ci facesse sorridere di più se non quella di essere l'uno l'amico dell'altro .  Fare casini, combinare guai,  scontare punizioni...Io non avrei fatto niente senza lui, e lui senza me.  Quel legame che ci unì fin da piccoli, fu qualcosa di speciale, che ancora oggi, all'età di 21anni,  non riesco a spiegare.  Qualcosa basato sull'intensità di colore.  Colore, che ognuno di noi riusciva a regalarsi a vicenda nelle rispettive vite. E la mia vita la vedevo così Grigia, triste.  Fu Matt a dipingerci sopra.  Credo che lui nemmeno lo sappia, probabilmente non se n'è mai reso conto.. ma lui piombò alla Wammy's, nel silenzio di un pomeriggio di pioggia, dipingendo un singolo puntino sul mio quadro in bianco e nero. Un puntino rosso.
A quel tempo, già sapevo che sarebbe stato capace di cambiare la mia vita...
 
In quel momento però, mi resi conto di quanto quella situazione fosse rischiosa. Tutto quel colore in una sola volta.  Così pericoloso, così.. senza un limite che dividesse i nostri occhi, che li separasse, per non cercare l'uno l'anima dell'altro.  Il rosso dei suoi capelli che come fiamme gli circondavano il volto, e il rosa del suo viso chiaro che lentamente prendeva sfumature sempre più scure.
Un rosa delicato, che riportava all'infanzia. Un rosa dolce, che ricordava i pesco in primavera. Il rosa alburno delle mattine estive...un rosa, che in quel momento, scoloriva i capelli e ne prendeva il colore.
Il mio sorriso non voleva spegnersi. Rimaneva l'impronta di due labbra che ne abbozzavano la forma, e che si sforzavano di chiudersi. 
Lui sotto di me, si bagnava sull'asfalto, con il cielo che ci piangeva addosso più insistente di prima.  Mi guardava ancora con l'espressione sorpresa, senza battere ciglio, immerso nell'azzurro dei miei occhi.  Dal canto mio però, non potevo far altro che osservarlo a mia volta.. notando le sue minuscole lentiggini che con il tempo andavano a schiarirsi, notando le sue labbra fini e chiare e percependo il suo calore che si faceva sempre più intenso.
 
L'acqua scorreva per la strada come un fiume in piena, nascondendosi nei tombini, e correndo via, verso chissà dove. Il tempo invece, sembrava essere immobile. Come se tutto intorno a noi camminasse, mentre noi, fossimo rimasti indietro. Fermi in un istante preciso, senza poter andare avanti.
Ma come dicevo, quello fu un volo breve... e quelli erano momenti pericolosi.
Sbattei le palpebre e lo guardai aggrottando le sopracciglia.
« Che cazzo hai detto cane?!» Esordii sfondando il silenzio e stringendogli le mani sulle spalle, che fino a quel momento non si erano mosse.
« Prova a ripeterlo!»
Matt sembrò svegliarsi.
Scosse la testa e rivolse lo sguardo al cielo.
Le gocce che gli arrivavano direttamente sul viso gli facevano arricciare il naso e le labbra. 
Mi stava ignorando.
Contrassi la mascella con un sonoro sfregamento dei denti.
Lo presi per i capelli, non ricevendo la sua attenzione e gli avvicinai il viso al mio.
Un campanello di allarme risuonò nel mio cervello, tanto acuto e insopportabile che si faceva quasi fatica a farlo tacere. Ma io lo presi quasi a martellate, fino a distruggerlo. Così che in me regnasse la pace.
« Dillo di nuovo e giuro che da domani dormirai sul cornicione!» sibilai vicino al suo orecchio.
La pioggia continuava a cadere,  senza risparmiarci.  Il viso di Matt era bagnato,  le gocce che scorrevano lungo le sue guance apparivano come lacrime... Il suo giaccone era sporco di terra e tanto zuppo quanto il mio. Ci guardammo un'ultima volta prima che io presi l'iniziativa di spegnere il fuoco, e di non giocarci più.
 
Mi alzai in piedi lasciando la sua ciocca di capelli, e mi incamminai per la strada.
 Gli rivolsi uno sguardo veloce,  il tempo per vederlo stordito, con un sorriso ebete sulle labbra.  Mi voltai nuovamente, sorridendo a mia volta.
Aprii una mano, e dentro, splendente come un filo d'oro.. un capello di Matt mi era rimasto incastrato tra le dita.
Sperai che non notasse quei gesti ma silenziosamente,  infilando una mano nel giaccone, lo chiusi  in una tasca interna, adiacente al cuore.


 

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Capitolo 9
*** 9.Viola ***




Questo è un capitolo molto particolare. Collega due fatti che più avanti, leggendo i prossimi capitoli riuscirete benissimo a trovarne un filo logico. Mi scuso come sempre per il ritardo ma sono senza ispirazione.
Spero vi piaccia.. non è molto lungo ma lo ritengo molto pieno di significato.



9.Viola


" Quando portò le sue mani su di me, queste bruciavano.
Ardevano come il ferro in fiamme e mi ustionavano, lasciando dietro di loro l'arido segno del passaggio.
Percorrevano il mio profilo in lungo e in largo, bruciando tutto, distruggendo la mia volontà, il mio pudore, il mio ego. 
Mi sfioravano lentamente, graffiando ciò che rimaneva di vivo.
La mia carne, sentiva i morsi del dolore che correvano lungo le vene e ne consumavano il sangue, facendolo bollire.
Forse sperava che quelle sue mani, come coltelli lasciavano dei segni tali da far sì che non potessi mai dimenticarmi di lui?
Forse, voleva odiarmi con tutto se stesso, e non riuscendoci,tanto mi amava, voleva farmi del male?!
No.
Lui voleva solo trovare la mia anima, e scavava fosse intorno ad essa pur di percepirla, anche solo per un secondo. A costo di penetrarmi fin dentro le ossa con il suo tocco.. non avrebbe rinunciato a qualsiasi metodo pur di scavare quel suo tunnel per arrivare al mio cuore.
Le sue mani scorrevano e ardevano... 
il calore che percepivo al suo tocco si espandeva e scivolava su tutto il corpo, appiccando un fuoco dentro che bruciava...ma che non avrei mai spento. 
Qualcosa nel mio petto tentò di esplodere, ma speravo che lui, così era vicino, non notasse quel tuono cupo che tanto mi faceva vergognare.
Ma che voleva da me?! Cos'altro voleva togliermi ? Mi aveva denudato di tutto. Del mio orgoglio, della mia ostinazione, dei miei sentimenti, dei miei vestiti...
Cos'altro potevo dargli a quel brutto idiota? Che altro voleva?!
Voleva il mio amore? 
Io.. non glie l'avevo mai negato. O forse..forse sono stato tanto stupido da imbrigliarlo e chiuderlo nell'angolo della mia anima che nessuno sarebbe mai riuscito ad aprire, e lui l'aveva capito. Sapeva dove tenevo nascoste le emozioni e sarebbe riuscito a portarmele via se non avessi resistito.
 
Ma le sue mani, i suoi capelli, e le sue labbra.. non mi permettevano di respingerlo. La mia forza di volontà, come il resto... fu spazzato via e dimenticato, nel momento in cui, le sue braccia mi avvolsero e mi strinsero tanto forte, da morire in un rogo, con la pelle in fiamme.
 
E il suo cuore, che fino a quel momento pareva muto, ora colpiva la parte vuota del mio petto e lo distruggeva, forzandolo e piegandolo, sotto il suo peso. Sotto il suo amore.
E per quanto il mio orgoglio mi dicesse di scappare, di farmi forza e urlare.. io non lo ascoltai, perchè forse, per una volta nella vita, volevo lasciarmi andare, e far finta di morire.
 
In quel freddo di un pavimento gelato, le sue labbra viola sussurravano parole.
Viola come i lividi che mi lasciavano le sue mani. Viola, come il gelo che lo rabbrividiva fino a dentro.. viola, come il mondo che vedevo tappando gli occhi. Viola, come un ematoma nel mio cuore che non sarebbe mai sparito.
Ma mi chiedevo come potesse tremare tanto, quando io, in quel freddo, bruciavo.
Non capivo.
 
A terra, le sue labbra, trovarono la mia anima, facendola ustionare da un fuoco che non avrebbe mai smesso di crepitare "
 
 
 
 
Lo guardai storto. 
« Allora che intendi fare?! Quale sarebbe questa maledetta meta? Sono stufo di stare sotto l'acqua» Borbottai dando un calcio al marciapiede. Lui mi osservò dall'alto appoggiandosi al palo della fermata dell'auto. La solita espressione saccente e arrogante, di chi sapeva il fatto suo. 
Io sbuffai e salii vicino a lui, imbronciato e con le braccia strette in petto.
Ero gelato e zuppo, bagnato fino al midollo.. pensavo che le mie ossa sarebbero diventate di gomma. Matt invece dal canto suo, rimaneva in silenzio e guarda la strada. Aspettava qualcosa.. che fino al momento in cui la vidi non capii cosa.
Un enorme autobus rosso si fermò davanti a noi.
Lui senza pensarci scese dal marciapiede e salì il primo gradino. 
Io invece dietro, non sapevo cosa fare. Con lo sguardo vacuo riuscivo solo a notare la grandissima somiglianza tra i suoi capelli e la tinta di quel bus.

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Capitolo 10
*** 10.Marrone ***





10. Marrone



Il sedile non era dei più comodi.
Di quelli in plastica neri lucidi, su cui ti incolli se appena dei umido.
Faceva freddo. Ed era deserto.
Qualche testa più il là forse.. un cappellino di una signora anziana e la sciarpa rossa di un ragazzo.
Un ombrello ciondolava da un lato. Forse dimenticato da qualcuno che andava troppo di fretta.
Ogni buca era un impercettibile sobbalzo.. mentre fuori, il paesaggio sfrecciava veloce al mio fianco, correndo con l'acqua, che si infrangeva sul finestrino appannato.
L'istituto sembrava così piccolo a vederlo.. così lontano e nascosto in una leggera foschia mattutina. Sembrava appartenesse ad un sogno remoto, a qualcosa di vecchio che stavo abbandonando.
Un po' mi faceva paura. Quella era casa mia.
Ma guardando avanti, tra file di piccoli neri sedili e pali argentati, al di la di un vetro bagnato..vedevo una strada lunga e silenziosa, non ancora pronta al risveglio.
Le case facevano parte di un quadro malinconico, i panni scordati su uno stendino, sventolavano come bandiere in balia del vento.
Le finestre chiuse. Alcune sbattevano.
Sul marciapiede, un cane correva al riparo di un portone.
E tutto taceva, in un silenzio piacevole e suggestivo. L'unico rumore, che ormai quasi ignoravo.. era quello della pioggia, che non smetteva mai di cadere.
 
Al mio fianco, Matt era in piedi, stretto del suo giubbotto.
I suoi capelli gocciavano, luminosi e splendenti, sotto la luce fioca di un sole codardo, che non faceva altro che nascondersi . 
Temevo che si potesse prendere qualcosa. Che so..un raffreddore o la febbre! Ma dopo tutto.. erano cavoli suoi. Era così testardo che non ci avrei nemmeno perso tempo.
 
 

"Fiamme.."
 
 
 
L'auto era alto e ampio. Aveva anche un piano superiore scoperto... dove la pioggia si infrangeva senza pietà entrando anche al suo interno, bagnando le scale.
Guardai Matt che era appoggiato ad un palo dall'aria gelida.
Avevo la testa appoggiata al finestrino, per sentire i sobbalzi e il freddo del vetro.
I capelli erano bagnati e odoravano così tanto di pioggia... che non potei fare a meno di odorarli per quasi tutto il tragitto.
Tenevo i piedi appoggiati sull'altro sedile, visto che il rosso era ostinato a rimanere in piedi.
Aggrottai le sopracciglia portando le braccia al petto.
« Voglio sapere dove stiamo andando »
Chiesi. Ancora.
Lui mi guardò alzando gli occhi al cielo.
Il suo sospiro generò una nuvoletta bianca...
 
 
 
"Ti prego non fermarti"
 
 
 
« Non ce la fai proprio ad aspettare?! Vedrai che mi ringrazierai»
Spostò il suo sguardo avanti con un sorriso sulle labbra indecifrabile.
Mi morsi un labbro intento a trattenere l'ennesima domanda che stava per sfuggirmi.
Il rosso si portò una mano tra i capelli, scrollandoli come fosse un cane.
Ovviamente non potei non pretestare.. ma lui si girò verso di me indifferente, con una faccia curiosa e un dubbio che gli balenava negl'occhi.
«Cavolo Mello! Che giorno è oggi?!»
Chiese allarmato tutto d'un tratto.
«Che vuoi che ne sappia?! Credo giovedì.. perchè?»
«Ah meno male. Giusto in tempo»
Ritornò il suo sorriso indecifrabile che per quanto mi potesse urtare..non avrei potuto fare a meno di osservarlo. Forse lo facevo per capire cosa mi nascondesse...
 
 
 
"Le sue mani tra i capelli"
 
 
 
« Mello è questa la fermata. Alzati. Dobbiamo sbrigarci.»
Matt mi diede uno scossone per farmi tornare a quel mondo e abbandonare le mie fantasie.
Eravamo arrivati. Non sapevo dove. Ne' quanto lontano.
Aveva smesso di piovere nonostante il cielo continuasse ad essere grigio piombo e più pesante che mai.
Lo seguii giù per le scalette guardandomi a torno.
Eravamo in un paesino...
Credevo fosse il nostro, ma mi resi conto che non ci somigliava molto. 
Questo era più colorato.
Le porte, i tetti, le finestre...erano tutte di diversi colori, in base alla via o forse in base a qualche criterio a me sconosciuto.
Ma sta di fatto che mi piaceva.
Ogni balcone aveva dei fiori.  Ogni giardino aveva dei fiori.  Ogni finestra, ogni aiuola, ogni vaso disponibile aveva..fiori!
E tutto profumava di aromi nuovi e pioggia.
Profumi inebrianti, erba tagliata e rose, lillà, gelsomini..
Dove mi aveva portato Matt?
Dov'eravamo?
Perchè un posto così bello mi era stato tenuto nascosto?
 
 
 
"Il suo profumo..scotta"
 
 
 
« Non perdiamo tempo. Andiamo.. prima che se ne vadano»
La sua mano mi afferrò il polso trascinandomi via per una di quelle vie strette e infinite.
Spaesato, mi guardavo intorno affascinato da ogni cosa, anche la più stupida. Mentre Matt sfrecciava dritto verso la sua meta, ignorando la bellezza di quel posto che mai e poi mai avrei creduto potesse esistere.
I nostri passi erano gli unici rumori esistenti. 
Camminavamo sull'asfalto bagnato diretti da qualche parte. In qualche luogo che solo il rosso conosceva.
 
 
 
"Quelle mani lungo la schiena. 
Non poteva farne a meno. E scavavano solchi profondi. 
Mani che urlavano: Sei Mio! Sei Mio! "
 
 

Era giovedì mattina.
Quel giorno i camion scaricavano.. e Matt lo sapeva.
Si chiamava "The Chocolate's world".
Il mondo della cioccolata.
 
 
Mi ero sempre chiesto come il rosso riuscisse a procurarsi la cioccolata.. e quando la risposta mi si parò davanti agl'occhi, stentai a crederci.
Se gli chiedevo delle barrette il mercoledì.. lui automaticamente il giovedì mattina me le faceva trovare sul comodino. Così come i lunedì.
E quando le vedevo, il mio sguardo non poteva fare altro che  spostarsi sul letto di Matt, con lui ancora aggrovigliato tra le lenzuola che faticava a svegliarsi.
Io ovviamente, orgoglioso com'ero.. lo svegliavo prendendolo a cuscinate o urlandogli nelle orecchie.
Non gli avevo mai detto grazie.
 
Non mi sarebbe mai venuto in mente che lui uscisse la mattina presto per me. 
Per me.
Per farmi trovare come promesso le mie adorate barrette.
Mai avrei pensato che questo fosse il suo modo di procurarsele.. e se l'avessi saputo prima non sarei stato tanto insistente quando non riusciva a portarmene la quantità che avevo richiesto. O quanto mento..l'avrei ringraziato.
 
Ingrato. Egoista. Era giusto che mi sentissi in colpa!
 
 
 
"I suoi morsi tanto dolci"
 
 
 
Matt sorrideva mentre osservava la mia espressione stupita.
Eravamo accovacciati dietro delle scatole di legno marce di pioggia mentre davanti a noi, un grosso camion bianco scaricava cioccolata a non finire.
Vedevo barrette dalla carta marrone, come il dolce cioccolato al loro interno.
Marrone così caldo. Marrone dolce. Marrone come i pezzetti di vaniglia. Marrone come le mie mani sporche di cioccolata.
Marrone, come le mani di Matt il giovedì mattina quando si svegliava.
Marrone Marrone Marrone...ovunque. Vedevo cioccolata e Marrone. Ma più di tutti, vedevo Matt al mio fianco, con il sorriso sulle labbra entusiasta, che non mostrava il minimo rancore. Che non aveva mai mostrato risentimento. Che mi aveva sempre accontentato.
Vedevo Lui, la sua espressione mutare...vedevo che mi osservava.
«Pensavo ti facesse piacere...»
 
 
 
"Dove finivo io iniziava lui"
 
 

Che potevo dire?!
Quanto mi sentissi infame e terribilmente in colpa?
Poker Face. Ma non avrebbe funzionato.
« No è che...»
sospirai
« Perchè non me l'hai detto? Ti avrei ringraziato»
« Se l'avessi fatto non saresti stato il vero Mello»
Sgranai gli occhi mentre il sorriso ricomparve sulle labbra del rosso.
Lui guardò oltre le scatole, attento che i facchini entrassero nel negozio prima di precipitarsi, veloce come una volpe, su una scatola che aveva l'aspetto di essere la più carica.
Lo vidi frugare rapido al suo interno e quando tornò indietro, senza fermasi, mi afferrò la mano, trascinandomi via.
Girandomi indietro la scritta "The world's Chocolate" si faceva sempre più piccola.
 
 
 
"Questo amore troppo grande per un letto troppo piccolo"
 
 
 
La sua mano.
La sua mano mi stringeva.
Avrebbe sentito il mio cuore battere da lì?
Speravo di no...
Ma forse, non era come pensavo. Forse era la fatica.
Si. Sicuramente la fatica.
E allora perchè questo vuoto nel petto? Il senso di colpa.
E questo tremare impercettibile? Il freddo.
E quest'euforia? La novità.
 
Matt correva, io al suo seguito.
Sentivo la sua risata squillante rimbombare tra le case inondando le mie orecchie come un mare in tempesta. Riempiendo i miei pensieri.
E allora spiegami questa gioia! Matt. Sicuramente lui. 

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Capitolo 11
*** 11. Nessun Colore ***





Per quanto sia corto, credo sia un capitolo fondamentale per la mia storia. Spero che possa piacervi nonostante non abbia scritto molto, ma davvero.. questo capitolo non aveva bisogno di essere lungo. Bastano queste poche righe affinchè voi capiate il mio messaggio :)




11. Nessun colore




Fu improvviso.
Doloroso.
Immediato.
Un tempo che sembrò così lungo... da farmi morire dentro.
Il mio cuore. Pensavo non potesse più riprendersi.
Le fiamme, feroci e ustionanti, mi bruciavano ovunque le sue mani passassero. 
Come onde si infrangevano contro il mio petto e giù..sullo stomaco, fino alle ossa.
Non avevo mai desiderato così tanto piangere. Ma non avrei permesso alle lacrime di fuggire, perchè se così fosse stato, sarei crollato... rimanendo con lui.
 

Mi chiesi più volte cosa accadde quel giorno. Cosa realmente l'avesse spinto a farlo; e forse, solo adesso saprei darmi una risposta.
Ma nonostante ciò..non potrò mai dimenticarmi di quegl'attimi. Quell'immagine tanto vivida nella mia testa che ancora oggi mi tormenta.
Come un fantasma vagava nei miei incubi peggiori, nelle notti di pioggia.
E in qualsiasi altra notte.
Era sempre presente a lacerarmi la mente, infilzandomi con la vista del suo volto.
Ed è strano..
Quando sono da solo, mi capita spesso di versare una lacrima per lui.
 

Nonostante quello squarcio enorme nel mio petto, tanto grande da farmi cadere a pezzi... chiusi la porta della stanza, lasciandolo lì. 
Al centro.
Con lo sguardo vacuo e le mani ancora tese verso di me.
 


" Vai via. Vai via..."
La pistola contro la tempia non mi aiutava a cancellare quella scena che si ripeteva in successione, veloce e dolorosa.. facendo riecheggiare le sue parole
 
 
 
"Mello...ti prego"
 
 
 
Ma il dolore più grande, quello che più mi dava motivo di uccidermi, era il fatto, che forse... non l'avrei mai più rivisto.



Non c'era più colore..ne' grigio, ne' nero..ne' rosso.
Fu un vuoto. Un totale nulla, che così come mi aspettavo... avvolse la mia esistenza.

 

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Capitolo 12
*** 12.Rosso ***





12. Rosso


Erano poche le cose a questo mondo capaci di farmi stare male.
In grado di corrodermi fino al midollo.
Capaci di scavare una fossa tanto profonda da non riuscire a trovarne la fine...
capaci di farmi morire nonostante io fossi vivo.
Nonostante il mio cuore battesse.


Non ho mai considerato davvero di morire.
Ho sempre creduto che tutto si potesse concludere alla fine, quando ormai le rughe solcavano il mio viso e io fossi in una casa accogliente, con un gatto nero e un camino acceso. Credevo, di poter godere dei miei anni, giorno dopo giorno. Credevo di poter esaudire i miei desideri per poi addormentarmi una notte senza fine.

Ma ho scoperto che non è così.

Non si muore alla fine, né si muore mentre percorriamo la strada della nostra vita.
A volte si muore anche quando il nostro corpo è ancora vivo. Quando si pronuncia una parola, o si abbandona, o si piange.
Non si muore con un coltello, né con un pezzo di piombo.
Si muore mentalmente con un sospiro, una carezza che brucia più del sole.
A volte basta uno sguardo per ritrovarsi nel buio più totale, e allarmati ci si chiede: "Dov'è la luce?".
Si muore con un emozione troppo potente, quando il cuore vorrebbe scappare dal nostro petto.
Quando ci sfugge un sorriso amaro dalle labbra, o sputiamo dolore per una perdita.
Si muore semplicemente quando non si ha più voglia di vivere... ne' di sopravvivere.
Si muore quando non si ha più ragioni.
Quando, il nostra cuore non sa più per cosa battere.
Si muore senza accorgersene realmente.


Per questo posso dire di essere morto già da tempo.
Io muoio ogni volta che lo rivivo.
Ogni volta che quei fantasmi tanto insistenti non vogliono abbandonare i miei pensieri.
Quando il mio petto lacerato dal suo sguardo, torna a bruciare. Come se tornassi indietro... in un tempo tanto remoto da sembrare irreale.
Come se fosse lì, in una sofferenza che solo lui poteva capire. Conservato nella giovinezza dei miei ricordi. Ancora felice, ancora sorridente.
Io muoio sempre.
Io sono morto.

Morto dal momento in cui chiusi la porta, lasciandolo lì,
con lo sguardo vacuo..
Perso in chissà quale pensiero,  rimanendo immobile al centro della mia vita.



La rabbia giocava con me.
Lasciai che questo odio mi trascinasse impetuoso nelle sue decisioni, e io come una bambola di pezza,  mi lasciassi strattonare sperando sempre di non finire strappato.
Lasciai che il mio orgoglio facesse da padrone, manovrandomi come una marionetta nel suo teatro, lasciando che tutto venisse da se.  Che le scelte prese portassero ad eventuali conseguenze.
Ma non avevo calcolato che nel bel mezzo del mio piano,  incappasse una figura tanto influente, capace di crearmi dubbi e incertezze.
Lui non poteva essere calcolato.
Piombato nella mia vita solo per sconvolgerla, non si poteva sapere ciò di cui era capace.
L'imprevedibile tornado rosso, in grado di avvolgermi e penetrarmi fino all'angolo più remoto dell'anima,  era possibile tenerlo tra le righe dritte di una vita fatta solo di progetti e scelte già fatte?
Non credo lo fosse , poiché lui era come me.



"Continua. Ora non è tempo di fermarsi..."



Così, al centro della stanza,  sembrava non volesse ammetterlo.
Come se le mie parole fossero state un eco insistente di un sogno che ci sembrava di aver vissuto.
Come le voci dei ricordi distanti che tentiamo di riportare alla luce.. che ci sembrano così opache, così prive di senso.
Mi guardava, come se già fossi un puntino lontano sull'orizzonte.



"Non doveva levare le sue mani"



I miei occhi carichi d'ira lo trapassarono senza degnarlo della più sincera attenzione, ferendolo come una spada trafigge la carne, lacerandola  fino allo strazio.
Eppure non volevo.
Non avevo mai voluto fargli del male.
Far del male a Matt era come infliggermi lo stesso dolore...
Ma non lo facevo per questione di egoismo, lo facevo poiché lo sentivo troppo parte di me stesso.
Come se a ferirmi fossi stato io.
E quel sangue, non avrei mai voluto farlo sgorgare a lui, che tanto sapeva volermi bene.
Mio fratello.



"Solo lui sa come uccidermi"



Ma quella volta, bastò un mio silenzio. Uno sguardo che sapeva bruciare più del ghiaccio sulla pelle. La scelta di lasciarsi vivere, trasportato da un orgoglio che sempre era stato capace di fottermi.

Matt sospirò rumorosamente, come rassegnato a quell'idea che tanto lo tormentava. Mi guardò un ultima volta.
I suoi occhi verdi mi inchiodarono sulla porta.
Erano profondi.. ma stavolta, come mai era capitato, erano chiari e leggibili.
Vedevo uno strazio mai provato.
Un'agonia che non pensavo potesse esistere.
Leggevo, scorrendo le frastagliate sfumature delle sue iridi, la paura di un abbandono imminente, e la malinconia della solitudine.
Mi stava mostrando una vita di colori spenti, morti, senza una luce che li accendesse e li rendesse vivi.
Quel suo sguardo, fu l'immagine che ancora oggi,  fatico a cancellare dalle retini.  Che mi perseguita come un demonio nei miei incubi peggiori.



"Mi diceva che ero troppo grande per questo, mentre le sue carezze affondavano sul mio viso..."



«Mello..ti prego»
La voce fredda.  Impassibile.  Come mai l'avevo udita.
Carica di speranza.  Quella che io potessi lasciar perdere le mie scelte, crollare,  rimanere in quelle quattro mura che ormai vedevo come una prigione.
La casa che tanto amavo, l'odio la stava rendendo il mio inferno personale.
«Non posso.  Non deve vincere lui.  Mi dispiace Matt...»
Dissi con un vuoto incolmabile nel petto.
Solo dire quelle frasi, distruggeva ogni mia convinzione e la mia stessa volontà.
Stavo abbandonando il mio migliore amico...potevo davvero farlo?
Ne ero realmente capace?
Si.
L'orgoglio sarebbe stato in grado di smuovere qualsiasi montagna che non si era inchinata nemmeno al vento.

Lui si girò, avvolto da qualche coperta, con il viso scaldato da un leggero rossore.
La febbre si era alzata parecchio. Negl'occhi lucidi si intravedeva un barlume di stanchezza, sovrastato da qualcosa di molto più intenso.
Una patina opaca, come un velo impercettibile di emozioni che si erano sovrapposte l'una all'altra.


"I nostri cuori battevano come in un unico corpo"



Il freddo, la pioggia, il sudore di una corsa...non fecero che farlo stare male. Questo solo per vedermi felice.

Di cosa era capace Matt?
Quanto potevo aver sottovalutato quel ragazzo?
Quanto era in grado di sopportare sulle sue spalle?


Sospirò nuovamente lasciando cadere un braccio al suo fianco. La testa china e lo sguardo rivolto a terra.
Lo osservai per un ultima volta, accennando un sorriso amaro sulle mie labbra che avevano ben poca voglia di mentire.
Così raccolsi la borsa da terra e poggiai la mano sulla maniglia, pronto per lasciarmi alle spalle il passato.

                     "Fu improvviso.
                       Doloroso.
                       Immediato.
                       Un tempo che sembrò così lungo... da farmi morire dentro.
                       Il mio cuore. Pensavo non potesse più riprendersi.
                       Le fiamme, feroci e ustionanti, mi bruciavano ovunque le sue mani si posassero.
                       Come onde si infrangevano contro il mio petto e giù..sullo stomaco, fino alle ossa.
                       Non avevo mai desiderato così tanto piangere. Ma non avrei permesso alle lacrime di fuggire, perché se così fosse stato,
                       sarei crollato... rimanendo con lui."


Le mie labbra tremarono.
Troppo fredde a contatto con le sue, rimasero mezze socchiuse, fotografate in un misto di stupore e gioia.
Bloccato tra le sue braccia sentii la vampata di un fuoco sconosciuto e ustionante arrivarmi alla testa.
Tutto intorno a me iniziò a ruotare, chiudendomi  lo stomaco,  sigillandolo come un pugno sferrato all'improvviso.
La sua rabbia sembrava trasmettersi dalla sua bocca.
Una rabbia piena di rancore, amarezza, malinconia infinita.  Un dolore tanto forte da avvelenarmi le labbra.



"Volevo che quell'immagine di noi restasse marchiata sul mio cuore"



Le fiamme erano rosse. Bruciavano nel loro colore, come il sole che scottava in una calda mattina d'estate.
Rosse come il sangue che mi procurò quel bacio. Rosso come il cuore, come l'amore. Rosso come l'odio, come la rabbia.
Rosso come i capelli.
Quelli di Matt, che mai come in quel momento, sembravano rappresentare il fuoco che mi ustionava fino alle ossa.

Lui bruciava con me, in quell'attimo che sembrò eterno. Tra le lacrime pronte a sfuggirmi come l'acqua trabocca da una diga distrutta.
Il mio muro era distrutto. La mia volontà. La mia voglia di essere il Mello di sempre.
Con rabbia mi spinse contro la porta. I miei polsi bloccati nella sua morsa feroce chiedevano di essere liberati, mentre il corpo inerme, non sapeva ancora cosa stesse accadendo.
Premeva le sue labbra come a trasmettermi qualcosa, un segreto nascosto da troppo o urlo  soffocato.
Le premeva come a parlarmi. Come a dire : "Resta. Sono qui per te."
Mi baciava come a volermi amare, come a rendermi partecipe del suo dolore.
Perché Matt? Perché lui?
Cosa gli era preso? Non si era mai comportato in quel modo.



"Non dovevo farmi domande, ne lui doveva porsele. Eravamo insieme, questo contava..."



Chiusi gli occhi per un attimo, rendendomi davvero conto di quello che stava accadendo.
Riacquistai carica.  Ricomposi la diga.  Ricreai il muro.  E per quanto sbagliassi a farlo, con tutta la forza lo spinsi via, convinto che quella fosse la scelta più giusta.
Non dovevo restare. Non era la mia strada.
Lui mi guardò, l'aria affranta e sul punto di crollare...
Io ricambiai quell'occhiata che parlava da se. Che raccontava di quanto rimpianto portassi nel cuore, di quale parte di me io lasciassi il ricordo. Che raccontava di noi, di un errore, il suo errore e non il mio.  L'errore di puntare a qualsiasi mezzo pur di non vedere la propria vita nella più totale assenza di colori.
Si era spinto a troppo.
Matt aveva sbagliato.

                     "Nonostante quello squarcio enorme nel mio petto, tanto grande da farmi cadere a pezzi... chiusi la porta della stanza, lasciandolo lì.
                       Al centro.
                      Con lo sguardo vacuo e le mani ancora tese verso di me."




"Vai via.  Levati dalla testa! Ti odio diamine! Ti odio! Perché mi perseguiti?"
La pistola era fredda. Poggiata sulla mia tempia non aveva alcun effetto.
Conoscevo un solo modo per far tacere quelle voci...
Aprii il primo cassetto e accesi il fornello a gas. Poi posai la punta del coltello sulla fiamma e la scaldai finché il metallo non diventò incandescente.
Sfilai la vecchia fasciatura dal braccio bianco come il gesso.
Quando premetti la lama sulla pelle nuda, tra vari segni di bruciature,  si sentì uno sfrigolio. Poi, come in un nastro riavvolto al contrario,  vidi le scene udendo la sua voce..
"Mello.. ti prego"
Di nuovo la punta del coltello sulla fiamma, questa volta con la mano che tremava : volevo bruciarmi fino a sprofondare nel nero.
Mi accasciai sul pavimento premendo le mani sulla testa senza riuscire a trovare il silenzio,  senza cancellare dalle retini quelle immagini tanto vivide che mi tormentavano.
Era questa forse la fine?

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Capitolo 13
*** 13. Blu ***







Piccolo avviso: Il capitolo è stato MODIFICATO!! 
Vorrei scusarmi per l'enorme ritardo. Purtroppo come ho spesso detto, sono a corto di ispirazione. Spero comunque che questo capitolo possa piacere! Volevo ripetervi che è scritto in tre tempi di narrazione diverse, quindi per chi volesse ulteriori dettagli, se non avesse capito può chiedere. Sono a vostra disposizione :D
Vorrei ringraziare anche le mie Critiche che sono sempre presenti e scrivono delle recensioni stupende. Senza di voi non so se avrei continuato a scrivere! :) Quindi grazie.
Buona Lettura!




13.Blu



Mi alzai da terra osservando ancora per un minuto buono le bruciature indelebili sul mio braccio bianco.
Le vedevo ammucchiarsi sempre di più. 
Sovrapposte e sempre maggiori, mi davano l'idea di un fallimento bello e buono.
 
Non facevo che fare le stesse cose da molto ormai, senza nessun cambiamento, come se le ustioni, non facessero altro che ricordarmi maggiormente per cosa me le sia procurate.
Cosa stavo cercando di dimenticare.
 
Non sarei mai riuscito a cancellare l'immagine di quegl'occhi che mi fissavano muti. Mai, se avessi continuato a farmi del male inutilmente, nonostante niente ormai ne fosse più capace.
Mi sentivo immune.
Come se qualsiasi cosa mi fosse accaduta, io sarei stato in grado di liquidarla.. così, come se niente fosse stato.
E mi sentivo forte, talmente tanto da sopportare ogni male.
Ma forse invece, ero più debole di ciò che pensassi. 
Senza rendermene conto.
Era un fallimento la sola idea di averlo ancora tra i pensieri, come un moscerino fastidioso che ti ronza intorno senza riuscire mai a prenderlo.
Pensieri che si affollavano su un solo nome, facendolo apparire ovunque il mio occhio si posasse. 
Pensieri che mi tormentavano riaffiorandone il volto gentile, che ne parlavano a gran voce nella mia mente.
Pensieri che lo componevano, creandone il fantasma delle mie notti insonni.
Non ero proprio capace di vincere a questo gioco.
 
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"Sembrava un miraggio.."

 
 
 
Guardai la strada di fronte a me. 
Si allungava immensa fino alle fine di quel vicolo buio e stretto.
Le luci dei lampioni, sembravano la promessa di una salvezza. 
Brillavano distanti, tra i palazzi che svettavano sulla mia testa.
Si slanciavano in tutta la loro grandezza nel buio di una  notte senza stelle che ne incorniciava le snelle figure.
Una fila infinita di muri ammuffiti percorreva tutto
il vicolo..incastonato in quel telo nero come la tessera di un puzzle. Silenzioso e suggestivo.
Quell'angolo di città dimenticato da Dio, covo di ratti altrettanti schifosi barboni, era il luogo ideale.

Los Angeles era fatto così.  C'erano luoghi luminosi e splendidi.. 
Casinò, locali, alberghi lussuosi  e belle donne.
C'erano macchine di lusso, moto rombanti e musica.  Di quelle che riempiono la testa fino a scoppiare.
C'erano strade dai mille lampioni, persone che passeggiavano mezze nude, altre con un certo ritegno ed eleganza. C'erano ricchi e c'erano poveri...
ma come in ogni città, per quanto bella possa apparire, ci sono sempre dei luoghi dove la luce non sarebbe mai arrivata.
Luoghi in cui le ombre gettate sui muri ritraggono un lucubre scenario di vita buttata.
Dove gli uomini vivono come bestie, dove la malavita si organizza e dove,  i predatori come me adescano le loro prede, per poi farle fuori.
Non era male dopo tutto. Bisognava solo essere preparati. Avere un buon piano in mente. Essere pronti a superare qualsiasi ostacolo ci si parasse davanti.
Avere mano ferma e sangue freddo.
Essere in grado...
E io ero più che capace.  Lo ero sempre stato.

Il buio, in quella notte intrisa di un blu acceso, rendeva tutto diverso.
Non amavo uccidere. Lo facevo quando mi si chiedeva.
Quando, il compito di fare fuori qualcuno, faceva sfumare il mio lato umano, lasciando posto a quel felino ingabbiato da troppo tempo.

Il vicolo m
i rendeva un po' nervoso...era troppo stretto e angusto, intriso si umori umani e l'acre fetore della muffa. 
Ben diverso dell'odore umido e ben più piacevole della pioggia.
 
C'eravamo solo noi.
 
Lui sapeva di me. Aveva paura.
Riuscivo a percepire il sentore che si levava dal suo corpo.
Puzza di debolezza, come un vecchio cervo lasciato ai margini del branco. La vittima perfetta di ogni predatore.
Un profumo di buona marca e dopobarba... nonostante in quel momento somigliasse molto più ad un clandestino sbarcato appena che ad un riccone dall'ultimo modello di Mercedes.
Se ne stava lì, arrancando verso le luci della via principale, respirando affannosamente.
Tentava di sfuggirmi. Povero illuso.
Credeva davvero che mi fossi arreso così facilmente?
La macchia nera gli dava la caccia e lui non sarebbe riuscito a nascondersi.
Io l'avrei preso.
 
 
 
"Era così bello"
 
 
 
Gli lasciai il vantaggio necessario affinchè lui potesse credere di avere una speranza. 
Così da rendere tutto più divertente.
Mentre lui si aggrappava ai luridi muri, zoppicando come un animale ferito, io lo osservavo da lontano, attendendo il momento giusto.
L'eccitazione scorreva rapida nelle vene pompandomi il sangue al cervello. 
La paura, che sentivo nell'aria a piccole zaffate, fece accelerare il battito del mio cuore...
 
Davvero si era messo a correre?
Così non mi sarei potuto fermare...
Potevo reprimere la maggior parte dei miei istinti. 
La maggior parte dei miei vizi..
Potevo pedinarlo nell'ombra degli edifici senza avere l'istinto irrefrenabile di bucargli le tempie con un proiettile.
Potevo seguirlo per interi isolati attendendo il momento giusto.
Potevo anche guardarlo mentre estraeva la pistola dalla fondina senza ucciderlo. 
Tuttavia, mettendosi a correre non fui in grado di controllarmi.
Era una tentazione a cui non riuscivo a resistere.
Se correva, dovevo dargli la caccia. 
E se così fosse stato..se così, preso dall'istinto mi fossi catapultato su di lui, le cose sarebbero state due: O io avrei ucciso lui, o cosa alquanto improbabile, lui avrebbe ucciso me.
Ero un predatore. Forse, il più feroce in circolazione. Avevo scelto la mia preda. La mia vittima. 
E quella non aveva fatto altro che accorciarsi ancora di più la sua vita. Più di quanto già non fosse.
Correndo, scatenò la mia indole più aggressiva e selvaggia. Quella che non gli avrebbe lasciato alcuna via di scampo.
Sarebbe morto.
Quella notte.
In quel momento.
 
 
 
 
"Ho vissuto a lungo al buio di una stanza. Ma lui era la mia luce, la porta che non ho mai avuto il coraggio di aprire.."


 
 
La sua testa ebbe un sussulto.
Sapeva che ero lì, a pochi passi da lui.
Che quella distanza tanto lunga ormai, si era trasformata in una manciata di metri.
La sua corsa divenne un vano tentativo di trascinarsi sull'asfalto. La gamba destra strusciava a terra come un peso morto, mentre arrancava verso il primo svincolo.
Sapeva che non sarebbe arrivato mai alla fine del vicolo, così optò per avere ancora qualche secondo in più di vita svoltando alla prima a sinistra.
 
I passi degl'anfibi risuonavano come insistenti ticchettii di un orologio tra le mura strette. 
Un eco crudele che segnava quel poco che gli restava da respirare.
Un passo sempre più vicino. Un altro. Un altro. Un altro.
E più con il sorriso sulle labbra accorciavo le distanze, più lui, con la fatica e il terrore legate al collo tentava inutilmente di correre, fin quando...
Un muro non si parò di fronte a lui.
Ogni speranza venne cancellata. 
Ogni secondo recuperato, ogni minimo sospiro, ogni battito del cuore... si dispersero in quell'attimo in cui il muro si parò davanti ai suoi occhi. Spazzando via ogni certezza. Lasciandolo così, con l'unica sicurezza che lo rendeva succube di un'idea che non voleva accettare.
L'avrei ucciso.
 


 
" Con un rantolo di piacere abbandonai la mia mente e il mio cuore a lui..."
 


 
I miei passi si avvicinavano. 
Lui lo sentiva. Lo percepivo tal terrore che sgusciava fuori dai pori della sua pelle e si disperdeva nell'aria, fino ad arrivare a me. Inspirai profondamente, inalando la sua paura che mi rendeva terribilmente eccitato, e con gli occhi felini di un predatore vittorioso, sorrisi maligno alla fioca luce del vicolo così che lui si rendesse conto cosa l'attendeva.
Si sarebbe voltato a guardare?
Avrebbe avuto il coraggio di affrontare qualcosa che di li a poco gli avrebbe tolto la vita? Qualcosa che poco prima non vedeva, ma di cui avvertiva chiaramente la presenza alle sue spalle? Qualcosa che ora era reale, visibile e terrificante?
Fece scivolare la mano verso l'arma, ma non si voltò.
Il sudore scendeva lento sul suo viso pallido, sporco di terra e sangue. 
Lo vedevo tremare...
Osservava la mia ombra chiara, quasi impercettibile, proiettata sul muro alla sua sinistra. Si era reso conto che era finita.
Game over.
Addentai un pezzo di cioccolato. La barretta schioccò con un suono secco, irrigidendolo all'istante. 
Il tremolio divenne sempre più accentuato. Sembrava sul punto di crollare a terra preso dagli spasmi.
Ma nonostante tutto non si girò.
Aveva paura di vedere la morte in faccia? 
Ridicolo!

« Allora...abbiamo finito di giocare a nascondino eh? Quello che ci hai preso prima non ti è bastato vero? Ne vuoi ancora? O preferisci qualcosa di più rapido?»
Un gemito cupo gli sfuggì dalle labbra.
Avrebbe finito di ammazzare. Avrebbe concluso la sua vita assassinato come un cane.. così come aveva sempre fatto lui.
Freddato aspramente da un proiettile... o magari, ferito gravemente o poi lasciato morire di un'agonia lenta e dolorosa, in un giaciglio di melma e ratti.
La fine che si meritava.
Quel lurido verme capace solo di truffare, rubare soldi alla povera gente, ammazzare chi non poteva permettersi di pagare.  Sarebbe finita la sua vita con un solo rumore. Quello della mia pistola e della mia risata che non sarei riuscito a trattenere per nulla al mondo.
Dopotutto, ero contento di farlo fuori.  Oltre un compito che dovevo svolgere era una giustizia finalmente fatta.

Nonostante non amassi molto questo tipo di pensiero, in quel momento l'unica cosa che mi galleggiasse per la mente erano le decide di persone morte a causa sua.
Quell'uomo doveva morire.
Dovevo farlo per me. Per il caso Kira.. e per la gente.
Booom.

«  Non ti preoccupare. Verrai smaltito. Sarai cibo perfetto per le cornacchie o per i topi. Dopotutto...chi sentirà mai la tua mancanza? Posso lasciarti benissimo qui a farti soffrire non trovi?»
La mia voce suonò tagliente. Squarciò il silenzio e il terrore che si era instaurato.
Lui sussultò portandosi una mano svelto verso la fondina.
Non sapeva che ero praticamente alle sue spalle.
Quando si voltò con la pistola in pugno mi vide.
Riconobbe la morte, i suoi occhi gelidi. La freddezza con cui questa l'avrebbe portato via.
Rimase immobile, con la mia pistola puntata sulla sua fronte.
Morsi un'altro pezzo di cioccolata e sorrisi.
« Ti piace l'idea? Adesso morirai»
Sghignazzai macabro caricando l'arma.
Ero un predatore e avevo catturato la mia preda.


 
 
"Le sue mani tra i capelli mi avvicinarono alla porta dell'anima"
 


 
L'eco dello sparo galoppò nel vicolo, fino alla strada principale.
La gente si fermò per un attimo, allarmata da quel tono cupo che si riversò tra i palazzi fino ai loro cuori. 
Rimase in silenzio, in attesa di chissà cosa.. Forse un altro sparo. Forse, l'arrivo di qualcuno che schiarisse i loro dubbi. Forse niente... 
Ma poi ripresero a camminare come se nulla fosse accaduto. Come se fosse stato normale. Una cosa da tutti i giorni.
Ma la verità è che le persone sono menefreghiste. 
Hanno paura e non affrontano la realtà. 
Temono di poter fare una brutta fine, morire nella maniera più brutale. Pestate, malmenate, prese a calci, stuprate e in fine uccise. 
Ma in fondo li posso comprendere. Nessuno vorrebbe morire prima dello scadere del tempo. Nessuno.
Ma nonostante questo lasciamo morire gli altri, che magari con un nostro aiuto avrebbero potuto continuare a vivere. O almeno avrebbero avuto una speranza in più
 
Il mondo fa schifo.
Faceva schifo prima e fa schifo ora, nonostante ci sia un qualche pazzo psicopatico che crede di poter essere un Dio e giudicare le persone uccidendole.
Non è così che deve girare la terra. 
Non è così che si giusto che sia!
Guardai il corpo morto dell'uomo. Impressa sul suo volto, la maschera di terrore degl'attimi precedenti la sua fine.
Gli occhi sgranati erano intrisi della paura che i miei, azzurri e ghiacciati, gli avevano scaturito. Dei brividi che in quei pochi istanti in cui mi vide, gli percorsero la schiena.
Quindi avevo vinto.
La preda su uccisa dal cacciatore.
 
Lo osservai soddisfatto. Il sangue intrideva l'asfalto umido, inasprendo l'aria.
Creava enormi pozze dal color rugine, in cui al loro interno, si rifletteva l'immagine di un ragazzo biondo, con gli occhi ignettati di odio.
Lo osservai per un attimo. Un sorriso beffardo dipinto sul volto. 
Si, ero proprio io...
Mi allontanai dal cadavere, che disegnava a terra una strana posizione.

 
Quell'odore di ferro mi dava alla testa.

Mi voltai per uscire dal vicolo soddisfatto per aver compiuto la mia missione.
Sarei entrato a far parte della mafia di Los Angeles. Sarei riuscito a prendere Kira. Avrei vendicato L e superato Near! Qualsiasi prezzo sarebbe stato troppo basso in confronto a quale sarebbe stato il premio.
Un risata soffocata mi si bloccò in gola. Sogghignai voltando gli occhi al cielo.
Il numero uno.
Io.
Lo sarei diventato...
 


 
"Sarebbe sparito di nuovo dalla mia vita?"


 
 
Perchè, quell'immenso  mi fece perdere il sorriso?
Perchè tutto d'un tratto, quella gioia, quell'orgoglio scomparvero lasciando il vuoto nel mio petto?
Perchè?
 
 
Era passato un anno.. forse anche più.
Dov'era? Cosa stava facendo in quel momento?...
Gli mancavo? O meglio.. pensava a me?
Troppe domande mi affollavano la mente. Troppe senza risposta e troppe mi provocavano dolori terribili allo stomaco. Come pugni sferrati veloci, e senza alcuna pietà.
Lasciai cadere la cioccolata a terra e con lei, mi abbandonai anch'io all'asfalto freddo.
Caddi come privo di forze.
Mi sdraiai su un fianco, per respirare, e mi raggomitolai tra l'umidità e una pozzanghera.
Mi stavo mostrando debole, senza spina dorsale.. eppure non  mi importava.
Lui non c'era.
Cosa più importava in fondo?
Buttai di nuovo gli occhi al cielo, cercando conforto o una scusa per non piangere.
Quant'ero piccolo? Quanto in realtà avevo ancora da imparare? 
Di notte era sempre così buio. 
Ancora di più quella sera. Quella sera il cielo era totalmente blu. Forse non c'era neanche la luna.
Blu scuro. Un blu impenetrabile.
Non c'erano stelle.. ne' niente.
Un blu pesante, doloroso.. che non mi permetteva di sperare. Che mi uccideva.
Non avrei potuto correre tra le costellazioni per raggiungerlo. Non lo avrei mai più rivisto.
 
Mi portai le ginocchia al petto e sospirai più volte.
Cercai di riprendermi, ma inutilmente.
Dovevo alzarmi. 
Dovevo...dovevo...
ma i miei occhi si chiusero suggellati da una piccola e innocente lacrima che scese silenziosa sul mio viso pallido, macchiato di un omicidio e del sangue di un uomo.




"Quanto dolore eravamo capaci di causarci l'un l'altro? Sarebbe mai finito?...
Lui si avvicinò al mio orecchio. Non so se parlò, non saprei dirlo.. so solo che chiusi gli occhi. Era un sogno? Non ne ho idea. Ma se anche fosse stato.. era qualcosa da cui non mi sarei mai voluto svegliare"
 

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Capitolo 14
*** 14.Un Nero diverso ***





14.Un Nero diverso



Un odore.
Fu quello a svegliarmi.
Qualcosa di forte, aspro, che mi dava il volta stomaco.
Un odore rancido.. che mi fece sobbalzare, mettendomi in piedi.
Mi guardai attorno allarmato.
Della sera prima, nella mia mente rimanevano solo delle immagini sfocate, appannate come quelle che potevano apparire ad un ubriaco.
Ma io ero sobrio. Ero sveglio.
E quello che non riuscivo a capire, era il perchè mi trovavo in quel vicolo, sdraiato a terra, con la faccia incrostata .. e un odore putrido  mi soffocava e inquinava l'aria tutt'intorno.
Dov'ero esattamente? Perchè non riuscivo a ripescare immagini nitide dal mucchio appannato dei ricordi?
 
Allungai esitante la mano contro il muro per sorreggermi, mentre delicatamente con l'altra asciugai la fronte umida. 
I capelli stranamente sudati ciondolavano davanti i miei occhi pesanti, che tendevano a chiudersi. 
Un colpo secco di tosse fece vibrare il mio petto.
La gola bruciava ad ogni boccata che prendevo. L'aria rugginosa che inspiravo mi lasciava in bocca un sapore aspro.
Se avessi avuto lo stomaco pieno probabilmente avrei vomitato.

Rovesciai gli occhi al cielo come a chiedere aiuto. Ma come sempre dall'alto non arrivò niente. 
Dopotutto me l'aspettavo.
Sospirai rassegnato e lentamente inclinai la testa da un lato per scrocchiarla. Lo feci più volte prima di ritornare alla posizione originale.
Poggiai le spalle al muro, strusciando la schiena contro la parete ruvida e muffosa.
Sbuffai.
 
 
 
"Mi chiedevo se avesse compreso..."
 
 
 
Posando lo sguardo a terra, i miei occhi vennero catturati da uno strano scintillio. 
Una lama di luce tagliò l'aria, accecandomi come uno specchio che rifletteva la luce solare.
Era un oggetto scuro, dalla forma allungata e tozza. Non somigliava ad una pietra, ma ne aveva le dimensioni. 
Chiusi più volte le palpebre per togliere la sensazione fastidiosa di avere una pellicola opaca sulle iridi delicate, e osservai con più attenzione.
Immersa in una strana pozza vischiosa e dal colore sanguigno, una Colt 1911 giaceva abbandonata sotto le chiari luci dell'alba.
Sospirai portandomi una mano tra i capelli.
Che ci faceva lì un cimelio di tale portata? Chi era lo stolto che l'aveva gettata in quell'immondezaio?
Mi trascinai fino all'arma mentre il mondo attorno a me girava vorticosamente, facendomi più volte perdere l'equilibrio.
Ero conciato male.
A stento riuscii a posare i piedi l'uno davanti all'altro.
Mi chinai lentamente per raccogliere la pistola macchiata da quel liquido vischioso. 
La presi con delicatezza come se si fosse potuta rompere al minimo tocco. 
La pulii contro il gilet nero senza preoccuparmi di sporcarlo, e la rigirai più volte ammirandone la bellezza.
Istantaneamente mi riportò alla luce vaghi ricordi, smorzati da pause buie in cui tutto tornò nell'oblio.
 
 
 
"Ma forse non voleva spiegazioni..."
 
 
 
Quella pistola era la mia.
Mia.
Me l'avevano consegnata una sera, in una sala appartata di un bar del centro di Los Angeles.
Ricordavo l'atmosfera viziata di fumo e alcolici. Uno strano olezzo di profumi mischiati. Varie marche pregiate.
Il frusciare delle carte da gioco e il bordò acceso delle poltrone.
Il tavolo pezzato di verde davanti a me faceva da poggiapiedi ad un uomo rasato dalle spalle larghe.
Robusto e alto, incombeva come una montagna su di me nonostante fosse seduto.
Ricordo che mi porse quell'oggetto tra le mani con un ghigno beffardo.
Credeva fossi un pivellino...
Io feci un cenno con il capo e veloce, scattai fuori da una pesante porta socchiusa.
Infine sprofondai nel buio.
 
Un sorriso sornione apparve sul mio viso.
Quindi era così? Mia. Una bellezza del genere.
Ma a cosa poteva servirmi?
Avvicinai la Colt alle labbra e successivamente al naso.
Odorava di piombo e ferro caldo, come se fosse appena stata utilizzata. Di notti intense, di muffa, di omicidi compiuti e di proiettili sparati a vuoto. Odorava di silenzi e sguardi angosciati, di passi ovattati, di strade senza uscita. Di urli, di suppliche, di sangue sparso e altro risparmiato.
Aveva l'odore agro della fermezza, quella che ti permette di tenere gli occhi aperti mentre giustizi qualcuno. L'odore del pentimento, delle anime disperse in chissà quale limbo... e più degl'altri si distingueva un odore di ruggine e acciaio. Acido e aspro che il solo respirarlo mi dava alla testa.
Scansai l'arma disgustato da quella zaffata che mi colpì in pieno volto, e mi voltai alla mia sinistra per prendere una boccata d'aria.
Quando aprii la bocca però, di nuovo quel sapore putrido mi mandò in fiamme la gola, costringendomi a tossire più volte.
Da dove veniva?! 
 
 
 
"Lo afferrai per un braccio, esitante, mentre qualcosa nel mio petto voleva scoppiare.."
 
 
 
Quando i miei occhi, nonostante lacrimassero per l'insopportabile puzza, si riaprirono.. vennero inondati dalla verità che mi colpì come uno schiaffo inaspettato su una guancia.
Non ero pronto. 
E il perchè mi dimenticai tutto ciò ancora adesso mi è estraneo..ma quando ormai tutto si ricostruì, come un castello di carte crollato e poi ricostruito riavvolgendo il nastro delle immagini al contrario, i ricordi si fecero nitidi, terrificanti, senza spazi bui.
Era un puzzle dalle tessere perfettamente unite, e ora combaciavano a creare un quadro d'orrore e furia.
Quello della notte passata. Quello che mi raffigurava per quello che ero.
Il felino da troppo tempo ingabbiato e finalmente libero, che uccise senza pietà un uomo la cui morte sarebbe servita per puntare in alto. 
Per entrare a far parte di una delle più grandi organizzazioni mafiose di Los Angeles.. e poi arrivare ad essere il numero uno. Io.


 
Qualcosa squarciò l'aria.
Un grido acuto, perforante. Un urlo agghiacciante che riecheggiò come milioni di voce nel viale stretto.
Una voce insistente che non la finiva di disperarsi, cacciando fuori da quel grido tutta l'anima più marcia.
Solo dopo aver ricominciato regolarmente a respirare, mi accorsi di essere stato io.
Avevo inconsciamente portato le braccia allo stomaco lasciando cadere la pistola a terra.
Questa cadde nella pozza rossa ai miei piedi, schizzando l'aspro sangue nell'aria.
Caddi in avanti, in ginocchio. Le mani strette in segno di chiusura, le braccia attorno alla vita la cingevano come catene. Spingevo fuori l'ossigeno, come se avessi voluto vomitare tutto l'orrore che c'era stato in quelle ore. Come se avessi voluto cacciare il senso di colpa dal mio corpo e sentirmi leggero.
O forse... il ricordo di qualcos'altro, una sensazione di vuoto, la paura dell' infinito.
Poi chiusi la bocca. La sigillai tra le labbra secche e in silenzio, mi tirai su, raccogliendo nuovamente l'arma.
Tirai un sospiro, e  mi voltai verso l'interno più scuro. Nell'intreccio di viali che si estendeva a disperdersi tra gli anfratti di Los Angeles.
 
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"Volevo parlare, dire che eravamo noi.."
 
 
 
Chiuso.
Ovviamente a quell'ora non potevo pretendere che un locale unicamente notturno potesse essere aperto. Eppure la cosa mi infastidiva, tanto che iniziai a bussare bruscamente contro il legno rivestito di uno strano tessuto ovattato lucido.
Come avevo già previsto nessuno venne ad aprirmi, ne tanto meno mi rispose.
Sbuffai spazientito percorrendo il profilo del palazzo circolae, fino a ritrovarmi davanti ad un altro ingresso. Questa volta più diroccato, in un angolo buio della strada difficile da notare per chi non ne conosceva l'esistenza.
A quel punto salii i tre gradini prima di arrivare alla porta.  Bussai tre volte.
Niente.
Alzai gli occhi al cielo esasperato.
« Brutti idioti! Volete aprire questa dannata porta?! Chi credete possa essere a quest'ora? Uno sbirro? Muovetevi!»
Sbattei ancora diverse volte il pugno sul legno ruvido mentre inveivo contro di loro, maledicendo il giorno in cui li incontrai per la prima volta.
Esattamente due giorni prima.
In quell'istante, prima che mi decidessi a sferrare un calcio sulla maniglia per sfondarla, Jack si presentò aprendo la porta.
Era un tizio alto dalla carnagione chiara e i capelli lunghi biondi che gli sfioravano le spalle. 
Scarno e  al quanto debole. Portava gli occhiali,  e quasi appariva come un intellettuale. 
Un cretino in pratica. 
Ma mi sarebbe stato utile. 
Lo sguardo ostile e curioso mi fece alzare il sopracciglio, scettico.
« Che hai da guardare?» chiesi facendo roteare la pistola sporca di sangue.
« Credi che mi farai entrare?» 
La mia domanda lo infastidì.
Mi guardo dall'alto verso il basso con fare superiore, quasi fossi stato un insetto da eliminare.
«L'hai ucciso?» 
pronunciò quelle parole con incredulità, quasi fosse qualcosa di impossibile.
« Tu che dici?! sarei tornato secondo te se non l'avessi ammazzato?»
La mia risposta acida lo fece raddrizzare sulla schiena. Era un dibattito aperto. Lui non credeva alle mie parole, glie lo si leggeva sulla faccia increspata che si ritrovava. Mi osservava in silenzio arricciando ogni tanto le labbra.
« Senti ragazzino io non credo che..»
« Vuoi che uccida anche te?!» 
In un secondo lo misi a tacere. Lo afferrai per il colletto della camicia e con la pistola puntata alla sua tempia, lo guardavo fisso negl'occhi.
Taceva eh?! Non aveva il fegato di ribattere?
Premetti la canna più forte sulla sua pelle, rendendo il contatto un autentico tormento. Vedevo il suo viso sbiancare a poco a poco mentre con un ghigno sulle labbra mi gustavo quel momento di vittoria.
 
 
 
"Lui mi osservava, così rosea la sua pelle.."
 
 
 
Rodd Los era seduto sulla stessa poltrona dove l'avevo lasciato la sera prima. I vestiti firmati freschi di lavanderia, gli davano un aria molto più imponente.
Lo guardai da lontano, sull'uscio.
Lui incrociò il mio sguardo.
Non fece niente di particolare.. semplicemente allargò le braccia. 
Il sorriso beffardo riapparse sul suo viso rotondo e così, fiero, con il pugno serrato sulla mia Colt, entrai nella stanza che odorava di tabacco. 
 
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  Prologo
 

Non attraversai mai quella soglia.
Mai, da quando sparì.
Cosa poteva esserci di tanto inutile e doloroso, se non ripercorrere la strada dei ricordi, senza lui al mio fianco?
Un groppo in gola mi assalì.
Mai. Fino a quel momento.
Mai. 
Eppure dovevo averne il coraggio, farmi forza e lasciare il passato dov'era giusto che stesse. Nel passato.
 
Volsi lo sguardo alla ghiaia bagnata. Dietro di me, il cancello d'acciaio era chiuso.
Non c'era modo di tornare indietro e questo non fece che abbattermi più di quanto la pioggia riuscisse a fare.
 
Le campane suonarono...mi stavano salutando.
 
Rimasi in ascolto di quel suono tanto familiare.
Le avrei rievocate nei giorni più duri, insieme al rumore della pioggia, del vento...all'odore delle lenzuola fresche, del cioccolato.
Lo stomaco si chiuse.
D'un tratto fu come se un telo nero mi avvolse. Un telo nero che racchiudeva tutto quel tempo di assenza, di amaro dolore che mi sgorgava tra le labbra come un veleno. Un telo di un nero che bruciava, e mi corrodeva... 
Non somigliava al nero dell'armadio. Di quell'atmosfera calda e di respiri profondi. Di calore sognate, paure sfocate.
Un telo nero che mi soffocava, facendomi mancare il respiro.
Ma poi lo vidi. Lo spiraglio di luce. Il barlume di speranza.
Questa era la mia missione. L'avrei trovato.
 
Allungai il piede davanti a me.. non era difficile.
La strada grigia si allungava dinnanzi al mi viso. 
Misi lo zaino in spalla e nel silenzio...tra le nebbie mattutine di quell'inverno gelato mi resi conto di non voler vivere nel passato.
Speravo solo mi stesse aspettando.

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Capitolo 15
*** 15. Arancione che brucia ***




Chiedo umilmente perdono per questo ritardo stratosferico. Sono davvero senza ispirazione. Mi sento quasi male D:
In più si sono aggiunte le verifiche per i pagellini e sono a pezzi. Quindi vi prego davvero di scusarmi.. 
Questo capitolo spero si capisca da chi è parlato. E spero possa ricompensare la vostra attesa. :)





15. Arancione che brucia


 
Sbuffai.
La strada sembrava troppo lunga.. e io avevo fretta.
Così come il treno, sembrava troppo vuoto, nonostante fosse l'ora di punta.
Privo di vita.
La gente saliva e scendeva, si ammucchiavano come bestie in quello spazio piccolo e stretto, dove a poco a poco, l'aria sembrava mancare.
Ognuno con i suoi problemi.
Ognuno con i suoi pensieri.
 
"Una nuova giornata di lavoro eh? Siete così...così spenti diamine!"
 
La luce andava e veniva, interrotta dal galoppare veloce del treno. Lo sferragliare continuo della sua corsa, verso una meta indistinguibile. Troppo distante.
Sospirai rassegnato, volgendo lo sguardo indietro, al rettangolo grigio che trasmetteva tristezza. Più di quanta riuscissi a sopportare.
Fuori era buio.
Eppure era giorno.
 


 
"Lo guardai mentre tentava di trattenermi. Mi chiesi quanto si poteva amare una persona, a tal punto da rinunciare a tutto, pur di renderla felice..."
 
 

 
Pioveva. 
Sul finestrino picchiavano le gocce violente. Come degli schiaffi sul vetro spesso, schiantandosi silenziose, affogando il loro suono nel vento.
Un sottofondo ai miei ricordi fumosi, che odoravano di giornate umide.  Sorrisi aspri.  E colori.
Mi parve così distante.
Sfiorai le immagini delicate. Il suo volto;
ingoiai il sapore velenoso dei suoi occhi freddi. Per me così chiari, così facili da capire...
Un brivido saettò lungo la schiena curva.
Le palpebre si chiusero in uno spasmo involontario, strizzate tanto da farmi uscire le lacrime.
Indesiderate, laceranti, salate...


 
 
"Mi voltai a guardarlo. E ancora, come la prima volta.. il battito si fermò."


 
 
Il treno ebbe un sobbalzo.
Il mio cuore sussultò.
Aprii gli occhi di scatto guardandomi attorno. Spaesato.
Almeno avevo interrotto il flusso di ricordi.  
Meledetti.  Mi tormentavano  come fantasmi in pre da una foga assassina. Affamati del mio dolore, dei miei pianti.
Per questo non volevo cercarli. Non ora.
Faceva troppo male.
 
Un signore mi guardò con aria torva, io ricambiai lo sguardo annoiato. 
Era tutto così pieno, ma nonostante le apparenze...vuoto.
Perchè riuscivo a vedere il mondo da quella prospettiva?
Non notavo nient'altro se non l'assenza pesante di..qualcosa?
Mi passai una mano tra i capelli umidi respirando profondamente.
Guardai nuovamente il signore intento a fissarmi, ma lo liquidai con un occhiata risentita.
Forse..non dovevo avere un bell'aspetto.
 
"Idiota. Guarda che sto facendo per te. Lurido imbranato!"
Digrignai i denti, allargando le labbra in un sorriso isterico.
Già...che stavo facendo per lui?
Probabilmente somigliavo ad un barbone, o ad uno zingaro.
O magari.. non avevo semplicemente il migliore degli odori.
Erano giorni che camminavo senza sosta, senza fermarmi mai in un hotel, senza riposare...
Camminavo.
Camminavo, camminavo, camminavo...
Non sapevo bene per dove. Vagavo.
La speranza mi faceva da torcia nelle notti buie e insonni.
La speranza di scorgerlo, tra la folla, tra un marciapiede e una strada. Nella metro o in un taxi che scappava veloce, sfrecciando nel traffico soffocante della città.
Speravo di incrociare il suo sguardo.
Speravo.. di rivederlo.
 
 

"Gli accarezzai una guancia rovinata. Tutto questo dolore.."
 
 

Non fu sempre così.
C'era stato un periodo della mia vita in cui questo non accadeva.
Tutto era perfetto..e sembra assurdo dirlo.
Eppure...non c'era niente che mi preoccupasse se non renderlo felice.
Niente che potesse farmi piangere, soffrire, o causare dolore...se non lui.
Niente.
Ma io avevo sempre cercato di essere attento. Avevo sempre custodito quei momenti come in un'ampolla di vetro. Fragile e delicata, che al minimo sbaglio si sarebbe potuta rompere.
Erano secondi che si sarebbero potuti frantumare, mille pezzi di volti e sguardi andati persi. Mille battiti di un cuore giovane. Mille pensieri.
Li custodivo cari nel mio cuore. Nessuno l'avrebbe profanati.
Solo lui ne era capace.
Solo lui li avrebbe rotti.
 
 
Ma mai pensai che accadesse davvero.
Un giorno.
 
 
Il treno si fermò. L'ennesima stazione. Forse proprio quella  dove sarei dovuto scendere.
Guardai le porte aprirsi lentamente con un sibilo, mentre una voce rauca gracchiava il nome della fermata.
Non gli badai molto. 
Osservavo curioso le centinaia di scarpe che si affrettavano a varcare l'uscita. Tutte diverse. Tutte.. che portavano in chissà quale luogo, in chissà quanto tempo.
Osservai le mie. Erano lacerate da un lato.. consumate tanto da rimanerne quasi senza suola. Sotto avevano appiccicati residui di gomma da masticare e terra.
Ruotai il piede sul pavimento, formando un cerchio. Sul verde bagnato, si tracciarono delle linee marroni circolari. Lunghe e sfaldate, come un codice morse.
Si aggrovigliavano in due punti distanti.. mentre per il resto, correvano parallele. Tanto vicine.. che allo tempo parevano lontane.
Erano così le nostre vite?
Si sarebbero mai più intrecciate in qualche punto della nostra esistenza?
Avrei avuto modo di dare un senso a tutto questo?
Il treno si mosse. Lo scossone che diede mi fece perdere l'equilibrio, così precipitai ai piedi del signore che fino a quel momento sembrava interessato al mio aspetto.


 
 
"Se solo quelle lacrime non gli avessero lacerato il volto, io forse..avrei potuto .."


 
 
Alzai la testa. Lo sguardo perso ancora nella nebbia dei ricordi. Appannati, vitrei.
Osservai l'uomo che innalzava di fronte a me.
Lui abbassò lo sguardo. Mi esaminò attentamente con un sopracciglio alzato, poi.. inspiegabilmente mi sorrise.
Mi affrettai a tirarmi in piedi reggendomi sul palo freddo al mio fianco. Con gli occhi bassi mi ripresi il posto, afferrando lo zaino appoggiato terra. Lo strinsi tra le braccia senza un motivo specifico. 
Lo strinsi forte, penetrando il tessuto con le unghie.
La testa rannicchiata su di esso, nascosta tra le braccia.
Pesava. Pesavano i pensieri, pesavano gli sguardi.
O forse, pesavano le lacrime.. che silenziose e discrete, così com'erano sempre state, si fecero largo tra le guance.


Già..probabilmente erano loro a pesare. 
 
 
Passarono minuti, forse ore.
Lo sferragliare del treno cessò lentamente, soffocato dallo stridio dei freni sul metallo bagnato. 
Fuori non aveva smesso di piovere.
Lo sentivo dalle gocce che picchiavano sul tetto. Leggere e ripetitive...
Ma questa pioggia era diversa.
Questa.. non somigliava alla pioggia della Wammy's. Non ne aveva nemmeno l'odore. Non ne aveva il sapore, il suono, la costante..
Queste gocce erano diverse. O semplicemente ero io a volere che lo fossero.
Sentii dei passi soffocati allontanarsi.
Un tocco caldo interruppe le mie riflessioni.
Di scatto alzai la testa, poco conscio di quello che stesse accadendo al di fuori del mio mondo.
Alzai gli occhi, andando ad incrociare quelli dell'uomo.
Mi resi conto solo in quell'attimo del suo abbigliamento.
 
 

"Mi tirò a se. Così vicino.. così vicino."

 
 
Il controllore.
Cazzo.
Ero nella merda, ma poco mi importava. Non gli avrei dato mai il mio vero nome, ne avrei potuto dargli un documento. Tanto meno i soldi.
Il suo sguardo si accese non appena percepì la scintilla di panico nel mio.
Si avvicinò cauto con un sorriso sornione sulle labbra.
Io mi appoggiai allo schienale attendendo le sue tanto aspettate parole, già con la risata che mi graffiava la gola.
Si fermò a pochi centimetri dal mio ginocchio facendomi un sorriso.
« Ragazzo..»
Sbuffai prendendo lo zaino e alzandomi di scatto.
Il controllore indietreggiò di qualche centimetro facendomi spazio.
Mi guardai attorno, spaesato e confuso. Sul mio viso, ero quasi certo si leggesse la mia confusione.  
In quel momento notai che il vagone era vuoto. Ma davvero vuoto.
C'eravamo solo io e lui.
Balbettai incerto.
«  Ok va bene me ne vado!» 
Alzai le mani in segno di resa con un ghigno sul viso.  Il suo ghigno.

Il controllore mi guardò curioso increspando la fronte.
Io ormai ero davanti alle porte che si erano appena aperte. Un'ondata d'aria fresca mi travolse. Mi penetrò nella pelle,  facendomi rabbrividire fino a dentro.
Sospirai.
« Bhe, ormai siamo arrivati. Ripartiamo tra mezz'ora. Hai.. hai bisogno di qualcosa?»
La sua voce incerta alle mie spalle mi bloccò con il passo nel vuoto.
Mi voltai incredulo.
« Lo..Los Angeles?» farfugliai
Le guance ancora solcate dalla scia salata delle lacrime. Le sentivo tirare, incrostate, graffiate.. come tagli perenni. 
« Si, direi di si » Rise.
« Oh...»
 Mi si affiancò.
Il mio sgardo vagò tra le gocce che precipitavano veloci.
Ero arrivato.
Los Angeles.

 


"Il mio cuore accelerò di un battito. E un altro ancora.."

 
 
La stazione era piena di vita.
La gente correva tra una banchina e l'altra, senza curarsi del prossimo.
Si spingevano e accalcavano, senza badare alla strada, ne alle persone.
Vedevo miscugli di colori, e odoravo intensi profumi artificiali.
Era tutto un'arcobaleno di infelicità e monotonia. 
Che c'era di bello?
I tabelloni frusciavano con il loro cambiare intermittente di destinazioni e arrivi. L'interfono gracchiava, la gente parlava.
Camminava. Si affrettava.
I taxi arrivavano veloci, e con altrettanto tempismo sparivano nell'orizzonte grigio. Così come i treni, così come le persone.
Lo sfrigolio della sigaretta attirò la mia attenzione. Era un suono caldo. Pacato.. che mi rilassava.
Il suo arancione bruciava il bianco pallido della carta.
Un arancione caldo, che mi rincuorava. Quell'arancione acceso delle mattine di sole... lo stesso solo che si spense, quando sparì la luce. La Mia luce.
Un arancione ustionante, che mi dava piacere.
Lo guardavo inebetito, come fosse stato chissà quale oggetto fantascientifico.
Lo guardavo curioso, attratto.
L'odore acre e tossico della sigaretta mi riempì i polmoni. Lo respirai a fondo facendolo penetrare in ogni mia cellula.  Lo ingurgitai nella gola, lo feci depositare  nei miei polmoni.
Mi piaceva.
« Vuoi ragazzo?»
Il controllore dall'aria bizzarra mi porse il suo pacchetto. Lo osservai indeciso, la mano a mezz'aria.
« Dai, una sola non fa mica male» Tossì.
Lo guardai di sottecchi, al quanto contrario.
Ma pensai che magari.. si poteva provare in fondo.
Sfilai il cilindro lungo e stretto dal pacchetto, rigirandomelo tra le dita.
Lo osservai.
"Lucky Stike" Pensai.
"Me lo devo ricordare"...

 
 
Appoggiati ad un pilastro della stazione,  udivo il consumarsi della carta...
era un dolce suono di fibre bruciate e sapori amari. 
Mi piaceva.
Mi piaceva davvero.

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Capitolo 16
*** 16. Oro ***




16. Oro


Poi divenne un vizio.
Come l'assuefazione ad un determinato profumo. 
Non puoi fare a meno di annusarlo e annusarlo, finchè non si consuma e ne rimane la scia impercettibile del ricordo.
Uno di quei profumi che ti rimangono impressi nella mente, come una cicatrice, e fai di tutto per averne ancora, sempre di più. Per riempire i tuoi polmoni di quella fragranza che ti circola nelle vene e su.. fino al cervello. Lì, dove entra per poi non essere più in grado di uscirne.
Dai di matto.
Così è un vizio. O meglio.. una droga. Una dipendenza
Eppure in vita mia, non avevo mai provato sostanze stupefacenti. 
Niente di quel genere. Non rientravano certamente nelle cose che più mi interessavano.
Ma posso dire, oggi come oggi, di essere sempre stato un po'  drogato.
Drogato di un colore, di un profumo. Drogato delle emozioni e dei sorrisi..i suoi, tanto rari e preziosi da essere collezionati come gemme nella mia mente.
Ero drogato e stavo bene.
Stavolta però era diverso, nonostante somigliasse molto alla droga di cui ora sentivo palpabile la sensazione dell'astinenza.
 

 
"E l'ansimante respiro si faceva breccia nella pelle per lasciare la sua impronta indelebile"

 
 
Le sigarette si consumavano veloci tra le mie dita. 
Si bruciavano come i giorni che correvano davanti ai miei occhi.
Senza darmi il tempo di prendere coscienza. 
Senza darmi il tempo di contarli.
Le sigarette bruciavano.
Ardevano calde, scemando in un fumo grigiastro nella notte più lucida di Los Angeles.
Si disperdevano nella mia bocca con il sapore più amaro.Ma piacevole...che ormai, faceva parte di me.
 
La piccola finestrella dal vetro opaco, si affacciava disperata su un vicolo buio. 
Forse, tentativo dei costruttori di rendere quell'orrendo buco più simile ad un appartamento, dotandolo di quel rettangolo dalle forme incerte.
Ma nonostante ciò, probabilmente una topaia avrebbe fatto più bella figura.
Le mura biancastre, dalla svariate composizioni di muffe nere, si stringevano in un quadrato claustrofobico.Al suo interno, solo me, un letto e un cucinino.
Le pareti erano spoglie, il pavimento, una desolante landa sciapa. Sapeva di polvere e abbandono. C'era un specchio però, abbastanza grande e lungo proprio accanto alla finestra. Da quando ero li avevo fatto di tutto pur di non vedermi riflesso.
Il bagno, fortunatamente per me era in comune.
Fuori dalla stanza.
Unico in tutta la palazzina.
La cosa non mi disturbava. Anzi, era meglio così.
Avere un bagno, in quella stanza fuori norma di 20 metri quadri, sarebbe stato...scomodo?! Visto che a malapena avevo lo spazio per girarmi.
Ma non potevo lamentarmi dopotutto, con lo stipendio da schifo che prendevo, era davvero un miracolo che io avessi almeno un tetto sotto cui ripararmi.
Eppure,nonostante ciò, mi sentivo a casa.

 
 
"La piacevole sensazione della condensa sul mio petto"
 

 
 
Non che fossi abituato all'angustia sensazione di trovarmi nella tana di un coniglio, che sicuramente sarebbe stata più confortevole,ma più che questo, mi ricordava molto la mia nicchia.
Quel piccolo rifugio costruito tra i pensieri e le speranze. Il mio covo, il mio posto sicuro.
La carrucola era una di quelle cose che più mi mancava, e l'aria che si respirava in quella stanza, era ciò che più me la faceva tornare a mente.
Da solo con me stesso, con i miei pensieri e lo scricchiolio del legno. L'odore di chiuso, di muffa, di sospiri. L'olezzo dei sogni e dei desideri.
Il flebile profumo acre dei detersivi al mughetto che arrivavano dalla lavanderia, e il sapore sfumato di una minestra di cipolle.
A volte, l'opprimente umido della pioggia che si infiltrava tra le fessure legnose e il cartongesso. O la leggerezza del profumo del cioccolato.
Mi sembrava di sentire tutto.
Qualche volta, anche deboli respiri dietro la mia nuca..come se al di fuori di quelle sottili pareti, dove la mia testa si appoggiava al muro, qualcuno attendesse.
 
Spesso però, aprendo la porta, non vedevo altro che il corridoio deserto, inghiottito dal silenzio.
 

 
"Le sue mani mi esploravano, delicate come se fossi la cosa più preziosa"
 

 
Ai piedi del letto riuscivo a vedere fuori, in quel cunicolo di melma e muffa.
Era un vicolo stretto e isolato.
Nemmeno una luce per illuminare i sonni dei barboni, o la strada per le anime perdute.
Un posto cupo e scuro anche di giorno. Perennemente coperto dalla coltre di ombre dei palazzi.
Qua e la, la luce del sole sfiorava le pozze d'acqua, rilucendo appena sui muri sudici.
Per il resto, tutto galleggiava nel buio.
 
La finestra era appena socchiusa.
L'aria viziata di smog circolava mischiandosi al fumo, tra acre e soffocante umidità che si appiccicava ai polmoni.
Il sole filtrava attraverso il vetro sporco disperdendosi in polvere.
Granelli, come farfalle, che danzavano leggiadri fino al pavimento, per poi ammucchiarsi in grigi strati sul legno.
Piccoli, che in controluce parevano milioni.
Alzai una mano nel bel mezzo del fascio, interrompendone il percorso.
Proiettata, grande e deforme, la mia ombra si muoveva.
Roteava, afferrava, seguiva i granelli tentando inutilmente di farli suoi.
La vedevo contorcersi, imitando il volo di un uccello o il profilo di un cane.
La vedevo prendere forma: il gabbiano che sorvolava il mare, il cervo nella sua foresta. La farfalla.
E risi di quei sogni ad occhi aperti, come un pazzo che beffeggiava le sue stesse fantasie.
Ed era stupido, quanto terribilmente giusto; sprofondare nella consapevolezza che fossero sciocchi giochi,  e scappare, almeno due secondi, dalla realtà, rifugiandosi nella "carrucola".
L'amarezza della mia risata, parve l'eco più triste della mia coscienza.
Quanto ancora potevo resistere prima di impazzire?
Quanto ero in grado di sopportare?
Il mio lavoro inutile non mi dava nemmeno quel minimo di soddisfazione. Come volantinaio ero poco convincente.
E così la mia vita, la mia "casa" momentanea.
Era tutto sbagliato e io non sarei dovuto essere lì.
Com'ero arrivato a quello?

Una volta ricordo, quando ancora un sorriso infantile era dipinto sul mio volto, che un bambino capriccioso mi urlò contro.
La sua voce era squillante e decisa. Difficle da dimenticare.
"Sei insopportabile! Riesci sempre a essere così forte! O Fai finta o non hai un cuore"
Eppure, nonostante in quel momento credetti alle sue parole, ora mi rendo conto di quanto si sbagliasse.
Dell'inganno in cui,quella voce, riuscì a portarmi.
Io un cuore, l'avevo. O lo avevo avuto, un tempo.
E ancora adesso, da qualche parte nel mio petto vuoto, ero certo ne fosse rimasto un pezzetto. Un frammento che giaceva nella solitudine della mia anima spenta.

Tirai un sospiro.
Già. Solo un frammento.
 

 
"E mi venne in mente Giulietta e Romeo. Che strano.
« E voi labbra, voi che siete la porta del respiro, suggellate con un leale bacio, un contratto con la morte che tutto rapisce. » Lo sussurrai e tu sorridesti."
 
 
 
La mano cadde pesante al mio fianco. Forse offesa dalle mie risate. Forse stanca. Non saprei dirlo.
Buttai la cicca a terra, pensando che alla fine comunque avrei dovuto pulire.
Il piede si alzò per schiacciarla. 
A mezz'aria, sospeso nell'intento violento di calpestarla però, si bloccò.
Attirato da quel lamento agghiacciante, lasciai che il tempo si fermasse per un attimo, e riavvolsi il nastro della mia vita.
Riavvolsi, riavvolsi, riavvolsi, riavvolsi, riavvolsi, riavvolsi, riavvolsi, riavvolsi... 
Sembrò un flashback. La stessa voce. Più rauca, adulta.
Disperata.
 
Il cuore senza preavviso iniziò a sbattere con insistenza contro il torace. Il calore mi invase istantaneo, dai piedi fino alla punta delle dita.
Le orecchie pulsavano al ritmo impazzito del mio sangue in circolo.
Le gambe cedettero, nonostante la brama di scappare fuori dall'edificio.
Il respiro accelerò in una corsa sfrenata.
Affannoso e carico di speranza.
Le gocce fredde di sudore solcarono la mia fronte increspata.  Incredula.
Tremai in un brivido.
Possibile?
 
Mi obbligai ad inginocchiarmi, portando le mani sul vetro.
Strofinai finchè non mi resi conto che lo strato opaco era forse più vecchio di quanto lo fossi io.
Non voleva pulirsi. Non voleva mostrarmi con chiarezza l'esterno.
E più tentavo, più sembrava che lo sporco aumentasse.
Ma intravedevo un ombra. Saettava sul muro slanciata, dai lineamenti snelli .
La vedevo che si muoveva lenta. E insieme a lei, il rumore dei passi pesanti sull'asfalto umido.
Rimbombavano sordi, tra i palazzi che si inclinavano sul vicolo.

L'ombra si ingrandì, a poco a poco, sul muro muffoso.
Si avvicinava.
E vidi oro. Come le goccie di miele sulla lingua asciutta. Benevole ti arrivano a consolarti.
Oro come il sole che quella mattina sembrava sorridermi.
Oro come la luce, come le rose della gelosia. Come i capelli. Come i riflessi. 
 
 
Quel tonfo. Quel battito nel mio petto cessò. E pensai di morire.

Era forse giusto che ora finisse tutto?

 
Mello.
"Mello sei tu?"

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Capitolo 17
*** 17. Bianco speranza ***




17. Bianco speranza


L'impercettibile spostamento di un battito d'ali. 
Frenetico.  Invisibile.
Un suono muto che provocata venti intensi.
Soffiavano pigri e freddi ogni colpo sferrato.
Intorno a me il buio. Ma sentivo questo battito colmarmi il petto, lo sentivo forte, che risuonava nella mia testa. Più e più volte.
Un cuore che batteva,che batteva senza avere un petto...eppure era troppo delicato per poterlo essere. Troppo lontano, ma terribilmente vicino.
Mi incuriosii.
Quando decisi di aprire gli occhi, una luce debole mi accolse.
Nonostante fosse fioca e artificiale, faticai a guardarla e a rendermi conto di dove fossi.
Alla fine, il coltello aveva fatto effetto.
Mi guardai il braccio...odorava di carne bruciata e dolori incessanti
Il mondo era una macchia.
Ovunque. Ogni angolo, ogni spazio.. 
una macchia indistinta che si mescolava allo sfondo scuro della stanza.
La luce artificiale scagliava frecce aranciate sui muri stretti, la fiamma sul fuoco danzava nell'azzurro della sua combustione.
Il coltello giaceva a terra, accanto a me.
Lo fissavo con occhi speranzosi, come se guardarlo mi avesse potuto concedere il beneficio dell'oscurità totale, dove potermi perdere ancora una volta. Ancora per un po'.
Invece, non accadeva niente. E io vedevo solo macchie.
Come una pellicola opaca e fastidiosa, rovinata dal tempo e dalle intemperie.. sui miei occhi stanchi e pesanti.
Le bruciature fresche pulsavano sulla pelle chiara. Battevano sul braccio ravvivando il dolore. 
Credevo che ormai, tutto quello non mi avrebbe causato più alcun male.
Ma i marchi a fuoco restano, e le ustioni permangono...anche se non erano quelle a causarmi maggiore sofferenza.
Una volta che ti abitui diventa qualcosa di naturale.
 
Vagai con lo sguardo attrevarso quelle macchie di colore indistinte e scure.
Cercavo quel cuore che batteva. Lo sentivo rimbombare nelle mie orecchie, entrare nel cervello come una specie di tamburo vodooh capace di incantarmi.
Mi voltai più volte perdendo l'equilibrio ad ogni scatto troppo brusco. Il muro era sempre pronto ad accogliermi, e io sorreggendomi, continuavo a seguire il rumore ritmico del battito.
Le macchie di facevano più chiare, alla luce le iridi bruciavano, mentre le palpebre sbattevano per fare chiarezza.
La frenetica ricerca divenne come un'ossessione, il respiro affannato, il sudore che a gocce lente mi imperlava la fronte. Ad aggiungersi, il mio sangue galoppava attraverso le mie vene.
Era come se fossi stato colpito da un'ondata di ansia che fino a poco prima, mi era sconosciuta.
Volevo trovare la fonte di quel bussare, del rumore tanto perforante.. Che cresceva e si allontanava. Per poi sparire.
Dov'era andato? Perchè il cuore si era spento? Perchè anche quello, oltre al mio, era morto, portandosi dietro il ricordo eccitante del suo scalpitare?
Venni preso dalla paura, un' angoscia tale da fermarmi per un attimo con il piede a mezz'aria. Non sentivo più niente, se non le sguaiate risate al di la del muro, in una stanza sconosciuta. 
Sospirai, buttando fuori l'aria imprigionata nei miei polmoni. Dopotutto, era uno stupido gioco.
Ma voltandomi, posando lo sguardo sulla sciarpa rossa poggiata sul letto, la notai.
Non c'erano finestre. Non c'erano fessure dove lei sarebbe potuta entrare. Eppure era la, con le sue ali bianche, candide come un petalo di margherita. Angeliche e pure, che ad ogni colpo una polverina sottile si innalzava da queste per disperdersi nelle quattro mura. 
Mi dava una strana sensazione di calore, nonostante mi ricordasse un fiocco di neve, o la polvere di gesso
Era piccola, innocente, e il solo guardarla mi dava l'idea di "delicato", come se al minimo soffio di vento sarebbe stata capace di volare via in balia della corrente, o di spezzarsi.
Il battito riprese non appena si lasciò alle spalle la lana rossa della sciarpa. Zigzagando, in una grazia che solo lei era capace di avere, e tagliando l'aria come una spada, arrivò da me.
La guardai, affascinato.
« Sei tu il mio cuore ? » Chiesi, sentendomi stupido.
Non avevo mai parlato ad un animale. Mai. Ne' avevo mai fatto delle domande tanto insensate e futili. 
Non mi avrebbe risposto e in fondo era logico che non fosse il mio cuore. Io ne avevo già uno nel mio petto, e anche se non funzionava bene, comunque stava lì e mi faceva vivere, per quella che si potrebbe definire vita.
Ma io la osservai comunque, speranzoso di ricevere un'altro dei suoi preziosi battiti.
Lei, essendo il mio cuore, volò via. E come il tamburo che era, si lasciò alle spalle i suoi rumori, abbandonandomi alle mie amarezze. Eppure non potevo far altro che sentirimi felice.
Quella farfalla, quella che per un attimo sostituì il mio organo morto, l'aveva mandata Matt. A lui piacevano le farfalle, le disegnava a volte come uno scarabbocchio sui suoi libri. 
Era bravo con la matita, e amava le ali. Quelle morbite e sostenitrici di pesi enormi. 
La farfalla sparì nell'attimo di un respiro. La porta era chiusa.
Non mi chiesi dove fosse finita, ero certo si trattasse di un miraggio.. ma ciò che si lasciò dietro, la sensazione di speranza che mi portò, mi fece pensare che forse, potevo ancora permettermi di sognare.
 
 
 
 
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Decisi di farmi vivo.  Il tempo della autocommiserazione era scaduto da un bel po', e credevo fosse ora di darsi una svegliata, una volta per tutte.
Avevo dato i comandi, se li avessero svolti ancora non lo sapevo.
Mi ero rinchiuso in quello stanzino da troppo, perdendo minuti preziosi da dedicare a quello stramaledetto caso. Se non fossi riuscito a battere Near in quel modo, non credo sarei stato in grado di farlo in altre maniere.
Quelle erano le mie ultime carte. 
Me le sarei giocate puntando in alto, all'ambito trofeo che sia io che l'albino bramavamo.
E stavolta avrei vinto. Perchè mi seguivano e si fidavano. E soprattutto, perchè io avevo qualcosa che quello stupido non aveva. 
Il quaderno.
Ah, quanto mi sentivo soddisfatto ad avere tra le mani un'arma tanto potente, capace di non lasciare indizi dietro di se.
Eppure, sapevo benissimo che se il piano si fosse svolto a dovere, Near avrebbe capito subito di chi fosse stata la colpa se d'un tratto, si fosse trovato solo.
Esattamente. Solo. Finalmente.
L'avrebbero uccisi tutti, ma non lui. No. Perchè lui doveva vedermi trionfare. Doveva volgere lo sguardo al monte e capire che ormai era tardi, e la bandiera l'avevo piantata io!
Un ringhio soffocato mi percorse la gola, mentre con lentezza, percorrevo le rampe di scale di quell'edificio abbandonato.
Si voltarono a guardarmi. Otto paia di occhi fissi su di me, come fossi un fantasma.  Sembravano spaventati.  Per un attimo ebbi il dubbio che dietro di me potesse nascondersi alla cecità dei miei occhi l'ennesimo Shinigami. Ma mi dissi che era impossibile, e forse, avevano solo paura dei miei occhi. In quel momento stretti come fessure, lo sguardo di un gatto selvatico che correva attraverso la stanza alla ricerca dell'oggetto dei desideri.
Rodd Los lo aveva in pugno, l'unico che mi fissasse con aria soddisfatta. La ragazza al suo fianco, di cui non ricordo il nome per il mio scarso interesse, invece, mi osservava disgustata. Aveva i suoi piccoli occhi nocciola puntati sulle bruciature del mio braccio sinistro, che continuavano ad ammucchiarsi, diventando dempre più visibili.
Le scoccai un'occhiata gelida.
« Che cazzo avete da guardare?! Avete fatto quello che vi ho chiesto?»
Jack, gli occhi infossati e la pelle sudata, attendeva che lo interpellassi. Aspettava il momento giusto per parlare, ma era bloccato, come se un nodo gli avesse chiuso la lingua.
Sbuffai scocciato non ricevendo alcuna risposta.
« Jack, allora?!» Chiesi furioso.
Lui balbettò incerto, poi annuì con uno scatto secco della testa.
«Bene...» Mi lasciai cadere sul divano privo di forze. Mi sentivo debole, ma non l'avrei dato a vedere.
Rodd scoppiò in una fragorosa e irritante risata. Risuonò tra le pareti della stanza come se a ridere fossero stati in centinaia. La testa stava per scoppiarmi. Il battito della farfalla ancora non mi aveva abbandonato e continuava a pulsare dentro di me.
Imprecai a bassa voce.                                
«Qualcosa di divertente?» Il mio tono tagliente non scompose il grande uomo sdraiato dall'altra parte del divano, che con una mano afferrava non curante il cocktail sul tavolino.
Attesi impaziente che soddisfasse la mia curiosità. 
« Bhe, ti sei rinchiuso per due giorni là dentro, era logico che svolgessimo gli ordini. E poi...non avevamo il coraggio di venirti a chiamare, vero Jack?» E scoppiò in una nuova risata.
Per un secondo i miei pensieri si fermarono. Il groviglio di idee venne sciolto...
Due giorni. Due giorni passati a pensarlo. Pensare ad una persona che probabilmente nemmeno si ricordava della mia esistenza. Che si era creata una vita, che era diventato qualcuno. Che aveva uno scopo, un sogno da raggiungere.. non come me. Lui, mi aveva davvero dimenticato?
La farfalla di pochi istanti prima poteva davvero farmi credere che lo avrei ritrovato prima o poi?
Il mio sguardo vitreo si perse dietro le figure invisibili dei miei compagni. Fisso su un punto inesistente, faceva scorrere a rallentatore per l'ennesima volta, le immagini di un giovane ragazzino dai capelli rossi. Probabilmente, sarei morto prima di riavere indietro il suo sorriso. Probabilmente ora, donava le sue risate a qualcun'altro, riempiendo le sue orecchie di miele.
"Matt, a volte penso..penso...che mi manchi"
Un sospiro uscì flebile dalle mie labbra. Le immagini si affievolirono...e davanti a me, una macchia bianca danzava leggera tra i bicchieri e le bottiglie colorate.
« Che cazz..? Come ci è arrivata?»
Le parole di qualcuno alle mie spalle mi riportarono alla realtà, bruciando il filmino dei ricordi.
Davanti a me, delicata nella sua fragilità, la farfalla girava su se stessa, poggiandosi in fine sul mio ginocchio.
Stavolta, non era l'immaginazione. Lei c'era, era lì, presente, e mi portava un messaggio. Tre le sue zampette esili come fili di seta, era incastrato un pelo rosso. Forse un filo della mia sciarpa.
Il rosso di Matt.
Davvero forse, non era il momento di smettere di sognare?
Davvero...potevo sperare.

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Capitolo 18
*** 18. Il futuro doveva essere Verde ***





18.Il futuro doveva essere Verde


Ero pronto alla morte.
Alla fine, l’avevo affrontata così tante volte che vederla di nuovo non mi causava nessun effetto.
Ero preparato, sapevo che prima poi sarebbe venuta a chiedere il conto e io a testa bassa, avrei dovuto pagare. E’ ovvio che chi sopravvive più volte ad essa, alla fine deve soccombere. Ed è quello che feci.
La mia anima ormai era una sostanza grumosa all’interno del mio corpo. Non valeva niente, poiché ormai lei si era già arresa alla morte da tempo. Quando quest’ultima venne a bussare alla mia porta, non voleva la mia inutile anima, sempre che questa fosse mai esistita. Voleva il mio corpo. L’unico mezzo che mi permetteva di essere ancora in vita.
Voleva quello, e non avrebbe rinunciato tanto facilmente.
Così, mi feci trovare pronto. Avevo immaginato come doveva essere.
Sarebbe stato agonizzante, doloroso, un vortice che ti risucchiava sul fondo e ti bruciava dentro, come fossi su un rogo. E sentivi le urla dannate di chi come te si è macchiato di sangue, di chi come me…ne ha provato gusto, e infine terrore.
Avrei sentito la pelle squagliarsi, le ossa consumarsi, gli occhi chiudersi.
Eppure, quel giorno morire fu dolce.
La morte sapeva di camino e cenere, non era ustionante come il fuoco del rogo ma come una stufa in una notte d’inverno, non c’erano urla ma solo una leggera voce sullo sfondo..rassicurante, calma.  Sarà stato qualche angelo che mi avrebbe accompagnato chissà dove.
Forse, non ero destinato all’inferno.
Il purgatorio sarebbe andato bene.
L’aria aveva un retrogusto di cioccolato…lo sentivo sulla punta della lingua.
La morte non era come l’aspettavo, era tutt’altro. Perciò quando impetuosa mi trascinò nell’oblio, io non aprii gli occhi. Temevo che quell’angolo di incoscienza, potesse trasformarsi nel mio incubo peggiore.
Morire era dolce.


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Il presidente era morto. Lo sapevo. Nonostante non l’avessi ucciso io.
In più, Shido aveva fatto la sua parte e l’irruzione da parte di L, o l’SPK, chiunque sia stato quel bastardo a mandare il corpo militare nel mio covo, era andata a farsi fottere.
La soddisfazione era tale da superare qualsiasi altro sentimento. Poteva giusto innervosirmi il fatto che l’unico sopravvissuto all’attacco, si fosse suicidato con una capsula di veleno.
Quale coraggio aveva avuto quell’uomo. Morire pur di non rivelarmi il mettente dell’irruzione. Idiota.
Mi chiedevo comunque come avessero fatto a scoprirmi.
Ero stato cauto.


“Meno 20”


Però in fondo poco importava. Ci stavamo trasferendo in un’altra base. Anonima e sconosciuta, come sempre.
Ne avevamo cambiate tante da quando entrai… era una precauzione in più per non essere scoperti. Le sceglievamo con cura, istallavamo le apparecchiature, ci mettevamo comodi.. e poi, quando i miei pensieri iniziavano ad affollarsi dentro la mia stanza, troppo piccola per contenerli tutti, decidevo che era ora di cambiare. Non davo spiegazioni, forse perché nessuno aveva abbastanza fegato di chiederle. Noi ce ne andavamo e basta.
Quel nuovo covo però, non era molto diverso da tutti gli altri. Assomigliava molto di più ad una casa, ma l’ambiente interno rimaneva sempre umido e soffocante. Le pareti erano percorse da una fitta rete di crepe, mentre i soffitti avevano l’intonaco precario.
In qualsiasi momento sarebbe stato capace di venire giù.
Le camere erano ampie, tanto che avevamo avuto la possibilità di impiantare in una di esse una sala computer. Nelle rimanenti ci dormivamo, per chi ci riusciva.
Io avevo fatto bene a non farlo.
Era il 10 Novembre, ore 23 e 59.
La morte venne a bussare.


“Meno 19”


Non mi aspettavo sarebbero arrivati a tanto. Mi avevano colto impreparato.
Era stato più facile pensare alla Fine, in confronto a ciò che in quei pochi minuti accadde.
Quando le urla agonizzanti dei miei compagni si spensero sotto un soffocato colpo al cuore, rimasi di sasso. Si accasciarono al suolo come alberi sradicati dal vento. Pesanti caddero sul pavimento con tonfi cupi, e la forza del loro corpo, a contatto con il legno, risuonò come un’eco insistente tra le mura ampie. Il mio sguardo, ormai perso in quella scena d’orrore, rimase immobile. Non si spostava tra quegl’uomini a terra, ma rimaneva vagamente incantato…
Che stava accadendo? Possibile che Kira si fosse alleato con…la polizia?
La mia mente rifiutava l’idea. Era impossibile..eppure.
Shido sembrava paralizzato, si muoveva a stento dal monitor che proiettava le immagini esterne. I superstiti lanciavano grida di terrore,  e io, nella mia marmorea posa, speravo..
Il cuore era un treno in corsa, il respiro erano gelidi soffi di vento. Sarei potuto scappare, dove, come?
Avevo un piano e il sangue pompava. Si, forse ce l’avrei fatta. Era attuabile solo una volta e ciò mi permise di pensare, di chiamare la morte e dirgli che presto o tardi, mi avrebbe dovuto accompagnare negl’inferi.
Da quel momento io iniziai a morire. Di nuovo, e quella volta, per sempre.
Balzai in piedi e con uno scatto salii per le scale. Scricchiolavano ad ogni pressione.
Le mie gambe non avevano mai corso tanto velocemente. Si sforzavano, sentivo i muscoli tirare, l’affannato gonfiarsi dei polmoni, mentre le acide gocce di sudore colavano vischiose sul mio viso. La mie gambe, mi portavano verso la salvezza.
E corsi, corsi gridando di prendere il quaderno e poi lì, lì dove la stanza buia mi avrebbe protetto.
La guerriglia lontana, gli spari, un botto…  li sentivo distanti, in un mondo a parte. Nella stanza ero solo.
Il silenzio, come una coperta, mi avvolse, abbandonandomi alla cecità totale.
« Merda, dov’è quel dannato interruttore? Mi chiedo quanto ci metteranno ad arrivare…»
I miei pensieri vagano liberi, li lasciavo uscire dalle mie labbra e non me ne’ facevo un problema.
Mi avrebbero trovato prima o poi, quindi era inutile attendere altro tempo prima che questi fossero riusciti a raggiungermi.
Ormai era questione di secondi e io dovevo segnarli in qualche modo. Dovevo calcolare quanto tempo mi rimaneva per ricordarmi di Lui, quanti istanti della mia vita dovevo ripercorrere per l’ennesima volta. Quanti colori, profumi, momenti dovevo estrarre dalla mia mente, quanti sorrisi dovevo gustarmi come ultimo nettare. Volevo rivedere il suo verde, per l’ennesima volta. Come quando davanti allo specchio chiudevo gli occhi, una mattina di molti anni fa, e mi chiedevo come fosse il futuro. Io lo vedevo verde,  ero immerso in un mare di quel colore solo. Mi vedevo annegare senza soffrire, vedevo lui.
Ma a quel tempo non capivo. Anche quando il capo della polizia mi minacciava con il quaderno..io, non capivo.
Non l’amavo, questo era certo. Non potevo amare mio fratello. Ma..mi mancava, lo desideravo e questo faceva di me un bugiardo.
Ero consapevole di esserlo sempre stato. Consapevole che mentire mi riusciva meglio che essere me stesso. E questo Matt l’aveva scoperto, fatto suo,  e infine me l’aveva rinfacciato. Come se così facendo, mi avesse reso partecipe delle sue capacità.
Era facile per lui.



“Meno 18”



I secondi passavano, e mentre lo stupore, la paura, e il terrore facevano breccia nel mio cuore…mi ritrovai a chiedermi “Perché?”.
Perché Matt? Perché tutto questo?  Perché doveva finire?
E così, la risposta parve logica.
Dovevo pagare.
La morte non attende nessuno, e quella, più di chiunque altro sa farti ragionare.
Il vuoto mi prese, mi trascinò giù in un angolo scuro della mia incoscienza.
Forse, già a quel punto ero morto.. quando vari spari squarciarono l’aria, quando le grida, gli urli, le voci, il vento, il crollo, l’esplosione…si udivano lontane.
Avevo preso la decisione. Ero convinto di arrivare alla porta. Ma le gambe a volte cedono, il corpo a volte non reagisce.
E capita di sentirsi perso, di non avere scampo. Quella volta non sarei sfuggito alla morte, e la vedevo già con un sorriso malvagio a sformargli il volto, felice, che finalmente il più terrificante tra gli angeli fosse suo.
Vedevo quegl’uomini sfumare sul fondo dei miei occhi spenti, ne avvertivo le presenze, i respiri mozzati.
Quella volta, quando era finita, quando sperare non serviva a nulla, quando ormai anche la bianca farfalla aveva finito le sue 24 ore.. lo dissi.
Perché mentire, anche a me stesso, ormai era inutile.
E l’avevo fatto per anni fino a quel momento.. e mi domandai perché era occorsa la morte per rendermi conto di amarlo.
Nonostante i secondi passati li sprecai per pensare il contrario, l’attimo prima del buio lo sussurrai. A chi, a cosa non so. Ma volevo liberarmi. <
Il peso nel mio petto, doveva essere l’ultimo fardello da lasciare in quel mondo..
« Ti amo…Ok stronzo? Sei… contento?» La mia voce era soffocata, stanca.
Non mi aspettavo niente. Finalmente potevo andarmene in pace, essendo me stesso, esprimendo per la prima volta qualcosa che ancora stentavo a considerare vera.
Così, lo ripetei, e lentamente, mentre le fiamme dell’inferno mi corrodevano fino alle ossa…sprofondai nel più totale buio.


“Meno 17”


Morire era dolce.
Dolce come il nome che vagava nitido tra i miei pensieri.
Matt, Matt, Matt, Matt…
Poi ricordai. La morte porta con se tanti dettagli a cui non diamo peso.
Il giorno in cui cambiammo covo, dallo specchietto retrovisore vidi un miraggio. Fu buffo, uno scherzo del sole…
Ma ne rimasi incantato, come quando per la prima volta vidi la farfalla.
Il verde, quello che mi circondava anche nella fine, apparve, in un barlume di pazzia e speranza.


La morte era dolce. Mi faceva ricordare  quanto tempo avevo perso ad amarlo…senza ammetterlo. Già, che stupido.
Nemmeno l’orgoglio poteva farci niente. E intanto lo chiamavo..

« Matt…Matt…Matt»



"Meno 16"



« Sono qui »

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Capitolo 19
*** 19. Buio ***




19. Buio


Dicono che quando muori, davanti a te passi la tua intera vita.
Si dice che questa corra, fotogramma dopo fotogramma, ricordandoti ogni dettaglio, ogni parola, ogni volto, senza darti il tempo di pensarci sopra.  E quella è tanto rapida da farti credere di aver vissuto solo un attimo.
Poi, in teoria, alla fine.. dovrebbe apparire la luce.
Come quando sei in un cinema, appaiono i titoli di coda, la colonna sonora e infine accendono la sala, ad intendere che è ora che tu lasci il posto.
E' così anche qui, una volta finito il film della tua vita, ti mostrano l'uscita.
La indicano con una di quelle luci accecanti, bianche da farti impallidire. Tanto chiare e trasparenti da farti sentire una specie di miraggio. Le luci bianche di milioni di neon, come uno spiraglio in fondo ad un corridoio scuro e intriso nel buio.
Tu la raggiungi senza alcuno sforzo, e lei ti risucchia in alto strappandoti al tuo corpo. Senti la pelle tirare, ti senti strano.. come se qualcuno ti stia strappando via qualcosa. Di scatto ti guardi le mani per vedere se le hai ancora attaccate. Ci sono, come sempre. Poi capisci che ciò che senti, viene da dentro. Come se tutto ciò che il tuo petto e la tua mente racchiude, venisse trascinato fuori da te...
Senti come se tutti i tuoi ricordi escano dai pori della pelle a disperdersi nel vuoto.
Vorresti urlare ma il fiato di manca in gola. Chiudi gli occhi.
Hai paura.

Hai provato a scappare dalla quella ma era sempre più vicina! E ora ti porta via tutto. Tutto portato via da qualcosa che non sai nemmeno cosa sia. Senti scivolarti la vita addosso e ti chiedi
"Dove andrà?"
E sopratutto
"Dove andrò io?"
Cominci ad ansimare. Ogni respiro è un battito nel petto che accelera. Stringi forte gli occhi come se non volessi riaprirli più, come se volessi lasciarti tutto alle spalle e ripartire da zero.
Non provi dolore, non c’è niente...
Il petto pulsa veloce, batte a voler sfondare la pelle, le ossa.
Ancora più veloce, veloce, veloce, veloce..

e poi..
Pace.
Il martellare non si sente più. Il respiro debole va via. E poi, Luce.
E' così che si va in paradiso.
 
 
“ Meno 15”
 

 
C'è un punto di non ritorno sulla strada. E' un cartello grande con su scritto: Benvenuto. A noi appare così da lontano, quando ancora sta passando l'ultima immagine della nostra vita, quella in cui gli occhi si chiudono, per poi non riaprirsi più.
Puoi essere morto in qualsiasi modo, quando ormai vaghi inconscio attraverso quel passaggio, vedrai tutto questo anche tu.
E più ti avvicini e più ti accorgi che in realtà te lo sei immaginato, e che al posto del cartello ci sono le persone che più ti hanno amato. Sono solo ologrammi, riproduzioni in scala naturale delle loro anime ancora vive. Ti salutano e ti augurano buona permanenza, sperando di raggiungerti presto.
E poi...
Poi cosa?
Perchè non accade niente?
Mi sono spesso chiesto se tutto ciò fosse stato un sogno ma… non trovai mai una risposta.
Era stata la mia immaginazione a giocarmi brutti scherzi.
Io non vedevo niente. Niente di tutto ciò.
Probabilmente ero finito all’inferno ma anche questo, non era come credevo.
In quei pochi attimi tutte le mie convinzioni crollarono... così come era accaduto nei confronti della morte.
L'inferno non era la massa di fuoco che tutti volevano farci credere. Era solo buio e infinito silenzio.
Non c'era la Luce, ne il suo debole riverbero.. forse ero capitato nel girone dei lussuriosi? 
Ero stato sempre devoto a Dio e mai avevo amato nessuno più di lui.
Si.. ma Lui chi?
La testa faceva male. Era possibile che all'inferno potessi ancora provare dolori fisici?
Mi chiesi se  avrei potuto muovermi.
Provai a spostare una gamba  in avanti ma un dolore lancinante me lo impedì. Trattenni un gemito soffocato e la ritrassi. Ora sapevo che avrei potuto spostarmi, ma farlo era quasi un suicidio. Probabilmente la pena era questa. Restare immobile per il resto dell’eternità in quell’ombra ostile, in cui al minimo spostamento le fiamme dell’inferno mi avrebbero corroso dall’interno.
Che fine triste.
Mi sforzai di aprire gli occhi, ma mi resi conto che anche quelli, bruciavano come ustionati dal fuoco.
Ansimai. Odiavo essere ceco. Vedere mi permetteva di orientarmi, di captare un eventuale nemico, di essere preparato al peggio. Il nero invece mi chiudeva le strade, mi tappava le vie di fuga e mi impediva di reagire. Mi sentivo inerme. Era possibile che questo dovesse essere il destino che mi era stato assegnato?
Non volevo dare retta ai miei ragionamenti, così provai a spostare la testa.
 
 
“Meno 14”


Il mio urlo agonizzante squarciò l’aria. Come una spada affilata tagliò il silenzio che mi circondava. Sembrava infinito, eppure la voce rimbalzò più volte, tornando a me.
Il grido somigliava a quello dei miei compagni colpiti dalla sventura. Mi apparvero i loro volti dagl’occhi rovesciati. Rievocavo le loro voci stroncate dall’ultimo battito del loro cuore…
Era questa la  fine dell’essere umano, il cui nome era stato scritto sul quaderno della morte.
Ma certo! Il quaderno della morte! Che fine aveva fatto? Non riuscivo a ricordare quasi niente, a parte gli attimi precedenti a...cosa?
La mia voce si affievolì in piccoli gemiti. Almeno ora sapevo che potevo parlare, nonostante mi costasse un certo sforzo.
Strinsi i denti indolenziti e provai ad emettere qualche suono. Le labbra screpolate sanguinavano lentamente. Sentivo il sapore rugginoso del sangue colarmi sulla lingua.
Dalla bocca non ne usciva più niente…la cosa mi fece infuriare.
Chiusi il pugno destro senza molti sacrifici e esitando, tentai di alzare il braccio.
La mossa fu semplice, avvertivo giusto un leggero pizzicore sull’avambraccio, ma non fu quello ad incuriosirmi.
Mi accorsi che intorno a me c’era come una pellicola. Nel buio non la notavo, ma ero certo di esserne avvolto.
Toccai con le dita la sua superficie liscia. In alcuni punti era calda, quando si avvicinava al mio corpo.. era fredda invece, quando era distante. Era flessibile e morbida, e non era tesa come credevo. Si appoggiava al mio corpo delicatamente prendendone le forme e modellandosi in torno ad esso. Mi ricopriva ovunque ma a differenza del resto, sul viso non ne avvertivo la presenza.
Mi domandai come fosse possibile.
Provai di nuovo ad alzare il braccio. Era come essere infilati in una gelatina, cercando di muoverti le tue braccia sprofondavano della sostanza, facendone fuoriuscire la forma. Credevo che dall’esterno, si potesse vedere solo la protuberanza del mio arto sbucare fuori come uno spillo.
Sospirai senza arrendermi. Se non c’era un modo per fuggire, per lo meno avevo intenzione di capire.


“Meno 13”
 
 
Non so quanto tempo passò. Impiegai molto però prima di capire che ciò che mi avvolgeva non era una pellicola, ma un telo. Ne avvertivo le fibre sui polpastrelli e il frusciare sibilante ad ogni spostamento. Mi ricopriva fino alla gola e non andava più in alto. In più avevo compreso che non ero solo. O almeno, che c’era qualcosa a fare rumore. Qualcosa di distante, ma allo stesso tempo abbastanza vicino da capirne la provenienza. Veniva da sotto di me.
La cosa non quadrava. Era probabile che fossi sospeso nel vuoto, poichè i miei piedi non avvertivano il suolo sotto di loro.
Venni preso da un conato di vomito.
Mi trattenni, pregando che passasse in fretta e mi concentrai sul rumore. Erano note musicali.
Note elettroniche, come se uscissero fuori da un televisore rotto o sintonizzato male. Le sentivo gracidare e cambiare tonalità ogni attimo. Udivo piccoli suoni insistenti, come tanti “bip” e altri invece, soffocati e muti.
“Che cazzo?...” Domandai a me stesso.
Ero così confuso che non avevo nemmeno la forza di terminare il concetto. Volevo andarmene di lì, l’inferno non mi piaceva! Non volevo rimanere lì per l’eternità! Avrei preferito qualcosa di più tormentoso, come sguazzare nel sangue bollente delle mie vittime nel girone degli assassini o avrei preferito non esistere più, nemmeno come anima.
Provai a dimenarmi ancora ma l’unico effetto che ebbi, furono dolori smisurati in ogni parte del corpo. La pelle si stappava, faceva fuoriuscire un liquido denso… e più mi dibattevo più si lacerava.
Le grida fecero cessare quella musica fastidiosa interrompendo ogni sorta di rumore. Il fruscio del telo che mi avvolgeva divenne debole a confronto con la mia voce. Per un secondo credetti di poter far crollare il buio, rendendomi possibile la fuga. Ma poi…capii che era inutile, che quella era la morte, che non potevo tornare indietro, che ormai era finito tutto.


“Meno 12”


Avevo rinunciato, cosa che solitamente non mi sarei mai concesso di fare. Eppure quella volta lo feci. Me ne restai immobile respirando lentamente, lasciando che il sangue colasse dalle labbra, che i dolori mi bruciassero come carne sul fuoco. Lasciai che l’eternità facesse il suo corso e mi abbandonai completamente ad essa.
I suoni ricominciarono, stavolta più deboli. Mi muovevo poco e a stento, riducendo la sofferenza.
Con l’andare del tempo, di cui non avevo ancora inteso lo scorrere, mi accorsi di essere disteso sulla schiena, su una superficie morbida e allo stesso tempo resistente.
Non mi misi a fare dei test come per il telo, lasciai che quella mi reggesse e non mi chiesi il motivo per cui si trovasse lì. Mi accorsi poi che il bruciore lentamente si affievoliva, che i dolori si riducevano a deboli pizzicori in ogni parte del corpo. La schiena riprese sensibilità, così come le gambe.. e muoverle divenne sempre meno fastidioso. Nonostante non avessi più la voglia di fuggire e mi fossi arreso, provai comunque sollievo nel rendermi conto di potermi muovere con maggiore libertà. Le dite dei piedi, le braccia, le mani, le spalle.. divenne quasi naturale. Stavo mutando, mi rendevo conto che le catene invisibili che mi tenevano fermo si stavano sciogliendo. L’unica cosa che rimaneva identica dal mio arrivo, era il buio incessante che continuava a coprire il mio orizzonte.
Sbuffai frustrato da quella situazione.
D’un tratto poi, la musica cessò di colpo. Avevo imparato a farci l’abitudine ma sentirla finalmente terminare, mi fece andare nel panico. Non capivo cosa stesse accadendo. Forse tutto quello che mi era successo era solo un intermedio prima dell’inferno?! Forse ancora non ero sceso negl’inferi e il demonio stava per venire a prendermi?
Inizia a respirare velocemente, il battito del cuore accelerò ancora prima di fiondarsi in una corsa sfrenata. Sentivo il sudore imperlarmi la fronte, il corpo irrigidirsi, i tendini tirare. Sentivo che si stava avvicinando qualcosa, non da sotto di me ma davanti a me!
Iniziai a gemere nel tentativo di sforzarmi a scappare, ma rimasi immobile colpito nuovamente dai dolori. Il respiro si fece sempre più pesante, rischiavo l’iperventilazione, e intanto sentivo dei passi farsi sempre più vicini, sempre più nitidi.
Se prima non era l’inferno, ora era giunto il momento di entrarci.
Strinsi gli occhi.



“Meno 11”




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Capitolo 20
*** 20. Red Spot ***




20. Red Spot


Era vicino a me. Ne sentivo il respiro sulla pelle.
Il calore emanato dai suoi sospiri, le fiamme che ardevano sul mio viso come un fuoco appena appiccato. Ne avvertivo la presenza a pochi centimetri dalla mia mano, sentivo i suoi occhi puntati su di me, pronto ad assalirmi al minimo spostamento.
Io rimasi immobile, i denti stretti e la mascella contratta. Per quanto mi sforzassi di rimanere calmo, iniziai a sudare freddo. Le gocce gelate scendevano lente sulla mia fronte, come se avessero voluto richiamare l’attenzione della figura al mio fianco. Le immaginavo brillare nel buio, nonostante non ci fosse stata luce per renderne possibile la lucentezza. Credevo che quell’essere di cui non conoscevo ne’ forma ne’ volto, le avrebbe notate comunque e avrebbe riso di me. Chissà quanto si divertiva. Chissà quanto godeva nel vedermi così paralizzato nella mia paura, nel sentimento che meno avevo provato in vita mia.
Cercai di regolare il respiro, inspirando e espirando con assoluta calma. Provai a rendere meno visibile il rigonfiare del mio petto e a ridurre al minimo il tremore delle gambe. I brividi che mi percorrevano in lungo e in largo, mi causavano spasmi involontari che mi obbligavano a soffocati gemiti.
Non capivo come fosse possibile, mi sentivo caldo, come se il mio corpo fosse stato all’interno di un rogo e fatto bruciare fino alla stregua… eppure, nonostante questo calore, avevo freddo e tremavo come una foglia in balia delle correnti autunnali.
Mi morsi le labbra, ancora impregnate del mio sangue. Sentivo il suo sapore sulla punta della lingua e mi accorsi che non era del suo solito aspro, ma era dolce e mielato. Era.. piacevole.
Ne gustai ancora qualche goccia sorpreso da quella rivelazione. Sfregavo le labbra nel tentativo di comprendere a pieno di cosa si trattasse, se, ancora una volta, ero riuscito a farmi soggiogare dalle fantasie e stavo impazzendo.
Ma più ne consumavo e più quello iniziò a scendere a fiotti nella mia bocca, riempiendone la gola. Quella al passaggio dello strano liquido dolce, bruciava come mi fosse stato conficcato un ferro bollente nella trachea. Ogni tentativo di deglutire si sfociava in un urlo agghiacciante. Iniziai a preoccuparmi pensando che probabilmente era tutta opera di quel demone. Mandarmi a fuoco da dentro con i suoi veleni per vedermi agonizzare.

“Bastardo! Bastardo, bastardo!!”

A quel punto mi resi conto di essermi mosso troppo. Il telo che mi avvolgeva d’un tratto sparì, lasciando passare una corrente fredda che mi colpì in pieno petto, facendomi rabbrividire.
Ero nudo, nel buio intenso. Senza più il telo d’ombra a scaldarmi e ripararmi.
Sentivo il panico, che lento, si impossessava di me.
Iniziai a dimenarmi liquidando i dolori con gemiti e strilli acuti. L’ansia mi assaliva, e accresceva dentro me con la più potente delle paure. Non avevo mai provato niente del genere.
la calma di poco prima si ruppe, il respiro accelerò nuovamente. Il mio corpo era ingovernabile, preso dagli spasmi era come se non ne avessi più il controllo.
Era giunta la fine.


“Meno 10”


Era umido, qualcosa di bagnato e freddo. Lo sentivo sulla fronte, tra i capelli incrostati dal sudore.
Mi colse così di sorpresa che per un secondo il mio cuore cessò di battere.

“Cos..? Che sta succedendo?”

Le domande si susseguirono rapide.

“Perché? Non mi porterà negl’inferi? Che sta accadendo? Cos’è?...”

Ma poi, qualcosa le interruppe bruscamente. Un sospiro. Uno di quelli pieni di angoscia, terribilmente malinconici e tristi. Fu come uno schiaffo sul volto.
Una botta forte, che mi stordì talmente tanto, da rievocare una voce dal miscuglio di ricordi che credevo scomparso. Una voce squillante, una volta gentile e innocente, ora chissà quanto cambiata.

« 
Mello.. ti prego. Non andare di nuovo.»

Le parole si rincorrevano, come una cantilena incessante nelle mie orecchie. Somigliava ad una preghiera, di quelle fatte dagli speranzosi, coloro che non accettavo il destino, che sono disposti a tutto pur che quelle vengano ascoltate.
Non era una preghiera qualunque. Quella voce non chiedeva aiuto a Dio. Non invocava nessuno affinché fosse ascoltata.
No.

Quella voce chiamava me. Mi parlava come se capisse che potevo udirla. Come se mi conoscesse, e nel profondo del suo cuore, sapesse che io ero vivo, o almeno, che ero presente, da qualche parte in quel buio. La sentivo forte, ad un passo dal mio viso. Le sue parole ripetute più e più volte. Sempre le stesse. Mi supplicava, mi chiedeva di restare. Ma di restare dove? In quel nero intenso e opprimente? E dopo tutto, dove sarei potuto andare? Non vedevo vie di uscita. C’eravamo solo noi e il vuoto. Nient’altro.
Noi… chi era?
Sentivo premere sulla fronte quel qualcosa di umido. Ogni tanto spariva, non ne avvertivo più il fresco sulla pelle, poi tornava, ancora più bagnato di prima.
Non riuscivo a capire. Avevo la testa in fiamme, i dolori erano ritornati incessanti a torturarmi come se la cosa li divertisse. La musica era cessata, tutto era muto, se non per il sottofondo melodico di quella voce.
In teoria, mi avrebbe dovuto calmare. Il suono di quella preghiera, in altri tempi, sarebbe stata la ninna nanna più dolce mai sentita. Eppure, in quel momento, più la udivo e più dentro di me accresceva la voglia di spalancare gli occhi, di trovare le labbra che pronunciavano quelle parole. Il volere sfrenato di capire, di tranquillizzare quell’anima in pena e sussurrargli che ero qui, accanto a lei, che non sarei andato da nessuna parte. Che non c’erano posti in quell’inferno in cui avrei potuto nascondermi, che le sue preghiere sarebbero state esaudite.
E più quella voce parlava,  più dentro di me l’adrenalina, l’ansia, il panico e il desiderio accrescevano. Chi era? Conosceva il mio nome… eppure non era il demonio, ne un suo messaggero.
In più altre domande iniziarono nuovamente ad ammucchiarsi nella mia mente.
Cos’era quel liquido, veleno? La roba umida?
E più non trovavo risposte più avrei voluto aprire gli occhi, trovare uno spiraglio di luce per poterla raggiungere. Fuggire da lì e capire cosa stesse accadendo.
Il dolore era forte.
Ma non sto parlando di quello fisico.



“Meno 9”


Il tempo era qualcosa che mi sarebbe piaciuto calcolare. Avrei voluto sapere da quanto vagavo in quello stato. Capire se erano passati minuti, ore.. se non anni. Dopotutto quando si è morti, come si può calcolare l’eternità?
Provai a rilassarmi una volta che la voce si affievolì e ritornò ad essere solo un respiro. A volte sobbalzavo, quando quest’ultimo tornava ad essere preghiera. Capitava quando rimanevo immobile per troppo tempo, quando evitavo il più possibile di fare forzi. Lei ricominciava a cantilenare sempre le stesse parole, le stesse incessanti suppliche…poi tornava ad essere un sospiro.
Andò avanti così per chissà quanto, finché d’un tratto qualcosa cambiò.
La voce si fece più insistente. Il suo tono si alzò perforandomi il timpano.
Fu così inaspettato, che per poco il cuore non fuoriuscì dal petto.
Iniziò a gridare, ad insultarmi. Mi sentii afferrare dalle spalle. Un tocco che bruciava più del sole. Sembrava che l’incavo del mio collo fosse stato creato a posta affinchè quei pollici vi si appoggiassero. E tutto ardeva in una fiamma bollente. Le ossa, la pelle, la testa.. tutto ardeva e andava a fuoco.
Avrei dovuto aver paura, ma quel pianto, quelle urla che nascondevano delle lacrime aspre, mi commossero fino a toccare il fondo del mio cuore, che ormai credevo morto con me.

« Sei un fottuto stronzo!! Mi stai di nuovo abbandonando eh?! Che cazzo credi ?! Che ho fatto tutto questo per vederti crepare tra le mie braccia? Merda, merda, merda!!! Sei solo un bastardo! Un fottuto bastardo!» 

Ma io non volevo. Non volevo che le lacrime che in quel momento sentivo rigare le mie guance, solcassero il mio viso. Non volevo piangere. Non volevo mostrare quanto strazio quella voce mi portasse nell’anima.
Erano lacrime che non avevo mai versato, lacrime che mi portarono in un passato remoto a privo di ogni colore.
Quella voce, sebbene in quel momento fosse roca e smorzata da numerosi singhiozzi, mi riportò a mente un pomeriggio di pioggia, noioso, come un vecchio film in bianco e nero.
Fu un ricordo così nitido. Lo ripercorsi lentamente…
 
« Mello… Mello ma tu..? O Dio, che ti succede? Perché stai..? Merda, che cazzo ti sta accadendo?! Ti prego» 

Poi la vidi. La macchia rossa.
E fu un attimo.
Tutta la forza nel corpo, quella che era rimasta sepolta sotto il dolore e le ustioni, quella che sapevo ancora viva dentro di me, venne fuori. La sprigionai con una potenza tale, che ogni strazio venne scavalcato dal ricordo di quella macchia. Quel desiderio irrefrenabile che fino a poco prima trovavo sconosciuto, ma che in quel momento ricordavo.
Forzai le palpebre ad aprirsi, sentivo le mani schiudersi dai pugni.. il respiro mozzato di chi mi stava accanto. Il sudore imperlò nuovamente la mia fronte, le braccia e  il petto. La schiena si inarcò sotto una pressione immane. Avvertivo le ossa riprendere vigore, scrocchiare, costrette da quella potenza che mai credevo di riuscire a sprigionare.
E poi…


Fu fuoco.
Come il tramonto. Come il riverbero della sua luce sulla cresta di un’onda. Rosso come il sangue che spicca su una rosa bianca. Come il cuore, come un fiore di campo o un papavero appena sbocciato. Rosso come le ciliege a primavera o il fuoco che crepita nei camini d’inverno. Era rosso, come le foglie che lentamente si abbandonano all’autunno, e non fanno niente per ribellarsi. Era, come la luna in quelle giornate particolari, come il profumo della brace o il sapore del proibito. Rosso come l’odio e l’amore, o il sapore ingenuo di una carezza o quello dolce di un bacio.
Rosso come le labbra, i capelli, le lentiggini. Come il rogo, come il Fuoco.

Fu una macchia rossa in quella strana luce smorzata. L’unico punto di colore nell’intero buio, nel grigio. In una vita terminata, in un monocromatico ricordo di tristezza.
Fu una macchia rossa, sfocata sullo sfondo dei miei occhi di un azzurro ormai spento. La mia ancora di salvezza, il porto sicuro.
Fu quella. Fu lei a bruciare come il fuoco. A far sparire ogni dolore, incertezza. Ogni triste lacrima. A far evaporare i ricordi più brutti, rimpiazzandoli con il calore e il suo ardere incessante.
Fu lei ad accogliermi dopo le tenebre.


E poi vidi altro..
Oltre lo shock, l’improvviso caldo, l’incendio appiccato nel mio cuore…Incrociai lo sguardo con qualcosa.
Due occhi. Due occhi di un verde intenso che mi fissavano e riportarono la mia anima alla vita.


"Meno 8"



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Capitolo 21
*** 21.Il ricordo del Verde ***




Chiedo umilmente perdono per questa attesa così prolungata, ma finalmente mi hanno ristabilito la linea internet!! Sono giorni che sto senza e finalmente ho potuto pubblicare il capitolo che era pronto già due giorni dopo la pubblicazione del capitolo "Red Spot". Purtroppo non ho potuto fare altro che attendere. Spero mi possiate perdonare :)


21.Il ricordo del Verde



Non avevo mai creduto ai fantasmi, né  avevo mai avuto paura di loro. Li avevo sempre considerati frutto delle fantasie più inquiete o dei segreti più incerti, ma a volte  mi capitava di vederli, e nonostante tutto continuavo a negare la loro esistenza.
Quando ero piccolo,  inizialmente, quelli venivano a bussare alla mia porta, nelle notti di pioggia, di sereno, di  quieto silenzio…e io gli aprivo, come avevo sempre fatto fin da quando posso ricordare.
Gli davo il benvenuto, li facevo accomodare nell’angolo più confortevole del mio cuore, li servivo con i miei sentimenti più profondi, e loro se ne cibavano riempiendosi la pancia, ingordi come ogni volta che si presentavano.
Sempre affamati di lacrime, di dispiaceri e di sensi di colpa…e poi, così come erano apparsi, dal nulla più totale della mia mente, sparivano, lasciando il deserto nella mia anima. Razziavano e depredavano tutto ciò che potevano, anche i ricordi felici, quelli pieni di gioia e amore.. loro non facevano distinzioni, e li strappavano via, lasciandomi vuoto. Capitava che tornassero più giorni di seguito, e non trovando niente mi ferivano scagliandomi addosso le immagini più tristi del mio passato, mi tagliavano ricordando le parole, i gesti e tutto ciò che avrebbe potuto anche solo scalfirmi, o graffiarmi. 
Ma nonostante tutto, nonostante ormai fossi preparato al loro arrivo impetuoso, continuavo ad aprire la porta, a cibarli… solo perché ero convinto che non mi avrebbero fatto del male. Che prima o poi avrebbero cessato di tormentarmi. Che il dolore che provavo al petto dopo la loro comparsa era normale, che sentirsi così spento a soli 5 anni,  succedeva a tutti.
 
Quando si ha quell’età, non si capisce quali siano le cose belle, o le cose brutte. Si vede tutto con semplicità e occhi ingenui. Ciò che ti piace lo ritieni bello e buono, ciò che odi invece, brutto e cattivo. Ma non si ha una vera idea di cosa lo sia e cosa no.. e io a 5 anni, anche se la mia intelligenza era qualcosa di già sviluppato e prodigioso, avevo mantenuto quell’infantile modo di ragionare e di credere che tutto fosse semplice. I fantasmi erano semplici.. per quanto mi riguardava non esistevano ed erano frutto dell’immaginazione. Per questo li lasciavo fare e non li temevo.
Ciò che davvero mi terrorizzava, invece, era il senso di colpa che più volte quest’ultimi mi lasciavano. Quando sparivano, dentro di me,  c’era solo un grande spazio vuoto. Mi ricordava l’assenza, la perdita di qualcosa. Di un volto, di due occhi, di una voce…
Lei era bella, ho ancora in memoria la sua ninna nanna. La canticchiavo quando faticavo ad addormentarmi.
Ma quella volta era lei che dormiva, profondamente, in un sonno beato e privo di qualsiasi incubo.  Era a terra però, e intorno a lei c’era… del sangue credo.
La palla era dall’altra parte della strada, sul marciapiede. Era rimbalzata fino a lì e si era fermata. I bambini al campo dietro di me urlavano, imitavano le loro mamme incredule.
Io non capivo. Fissavo mia madre nell’attesa che si svegliasse.
Tutto ciò che era accaduto non contava. Sarebbe tornata da me. Non avevo nessuna esperienza reale della morte, conoscevo solo la rappresentazione che ne davano i cartoni animati la domenica mattina: il gatto che continuava a morire e resuscitare giusto in tempo per attuare i suoi piani contro il topo, prima che iniziassero a scorrere i titoli di coda. Era così che funzionava. La morte era provvisoria. Durava il tempo di una risata, quella dei bambini che attendevano la scena finale davanti alla televisioni, concentrati sul loro latte e cereali.
Avevo constatato che ciò valeva anche per gli uomini.
 Ricordo che una volta, mia madre mi portò ad uno spettacolo di magia. Tagliarono una donna in due all’interno di una cassa, e poi, come se nulla fosse accaduto, questa ne era saltata fuori intera e sorridente, tra gli applausi del pubblico. Quindi anche mia madre si sarebbe rialzata intera e sorridente.
Era solo uno scherzo. Di quelli spaventosi e orribili.  E dovevo solo attendere che tutto finisse.
Mentre la guardavo, mi scappò una risata soffocata. Il guidatore dell’auto accanto a me mi guardò con gli occhi sbarrati. Accusatori. Chissà cosa pensava.. ma in fondo che ne sapeva lui degli scherzi? Lei non mi avrebbe mai lasciato solo, mi avrebbe tenuto con lei per sempre.
Ma non fu così.
I fantasmi non mi incutevano timore… era l’abbandono a farmi soffrire.
 

“Meno 7”
 


Di tutti gli spettri della mia vita, di quelli che avevano cessato di infastidirmi, a quelli che ancora oggi mi perseguitano, lui era quello che più amavo.Lo credevo la fantasia più bella, il ricordo più flebile e incantatore, quello che più era riuscito a farmi credere alla sua esistenza. Durante il mio esilio volontario, mi era apparso tante volte. Tra la folla, nella mia stanza dalle pareti strette, in un taxi che correva svelto verso l’ignoto. Sempre. E come ogni volta ci cascavo, credevo davvero che potesse essere lui. E una volta che lo raggiungevo, mi accorgevo che era solo fumo o un passante che a mala pena gli somigliava.
Quello faceva più male di qualsiasi altra immaginazione, qualsiasi senso di colpa.
Perché invece di lasciarmi vuoto e privo di ricordi, lui riempiva il mio petto dei momenti più belli, i più dolci.. e questo non faceva altro che corrodermi, farmi crollare dentro.
Lui era uno di quei fantasmi da cui non puoi fuggire, uno di quelli che non ti danno tregua. Che ti sfiniscono bombardandoti di ricordi, che il solo pensarli ti rende la vita più difficile di quanto già non fosse. Lui era un fantasma di quelli a cui devi credere per forza, perché era così presente da non poterti far pensare diversamente. Era come se non se ne fosse mai andato, come se fosse rimasto sempre lì accanto a me, a sfottermi, a prendermi in giro.. a consolarmi quando mi rendevo conto che in realtà lui era tutto qui dentro. Nella mia mente. Era sempre lì pronto a darmi una dritta, lì a consigliarmi e dirmi quale fosse la cosa più giusta da fare. Lo sentivo nelle notti di solitudine accanto a me. Lo avvertivo come un respiro flebile sulla spalla, un abbraccio che mi avvolgeva e mi scaldava il cuore. Lui era lì e non se n’era mai andato. Le sue mani mi sfioravano e quando provavo ad afferrarle, si dissolvevano. Già. Come nebbia e  polvere.
Lui era uno di quei fantasmi che sapeva scacciare gli altri.
Si. Perché da quando c’era, da quando si era presentato… tutto il resto sembrava uno sfondo sfocato di una foto. Qualcosa di poco conto a cui io non dovevo badare. Come se le mie colpe fossero state minori rispetto a quelle che lo trattenevano nella mia vita. E forse.. non posso negare che non sia stato davvero così.
Dopotutto, a 4 anni non si è molto consapevoli delle proprie azioni.. a 15 invece, le cose cambiano.
Per questo non se ne andava.
Ed ero ormai così abituato ad averlo al mio fianco, che rivederlo per l’ennesima volta attraverso i miei occhi non mi stupiva. O sarebbe meglio dire.. non mi avrebbe stupito, se non fosse stato per la sua bellezza fin troppo reale, per quegli occhi troppo profondi e verdi per essere l’ologramma dei miei ricordi.
Matt, era così come l’avevo lasciato. Sempre troppo irreale e perfetto, sempre troppo luminoso e colorato da far contrasto con la vita stessa. Era rimasto come tempo a dietro, con le sue flebili lentiggini a pitturargli il volto, i suoi occhi grandi, i capelli rossi e arruffati quasi come un cespuglio di rose. Ma qualcosa nel suo viso stonava, come se non facesse parte di quel quadro.

Una lacrima gli rigava il volto. Solcava la sua guancia lasciandogli un segno indelebile sulla pelle.
La goccia brillava sotto la fioca luce di una lampada. Io la guardavo sperando che evaporasse, ma quella rimaneva lì.. sospesa nel bel messo della sua faccia, in un angolo lontano dalle labbra.
I suoi occhi cercarono i miei, e quasi ci riuscirono a catturarli…ma quella lacrima, quella… non faceva distogliere il mio sguardo. Ne ero come incantato.
Non lo avevo mai visto piangere, e nel profondo, speravo che non accadesse mai.
Forse perché ormai ero convinto che non lo avrei più rivisto e che non sarei stato capace di ciò, ma in quel momento, quando la scena davanti a me era diventata un insopportabile fardello, non potei fare altro che lasciarmi andare.
Nemmeno io, avevo mai pianto.


“Meno 6”


« 
Mell…Mello»
Fu un sospiro. Le sue parole uscirono come un sollievo da una pena infernale. Non stava soffrendo? Non stava soffrendo con me?
« 
Mello….Mello…Mello» Non la smetteva di ripetere il mio nome soffocando una risatina isterica.
Perché rideva?
I miei occhi sbarrati iniziarono ad appannarsi, sempre di più. Incominciai a non distinguere più la sua faccia.  I suoi lineamenti scomparvero a poco a poco in una macchia di colore.Il pizzicore accresceva all’angolo delle palpebre. Mi sforzai di trattenermi, ma credo fu inutile.
La lacrime scesero come un fiume in piena, una diga sfondata che non vedeva l’ora di poter far fluire l’acqua sulle mie gote. Le sentivo calde affondarmi nelle increspature delle mie labbra deformate in una smorfia di dolore.
Lui non era un fantasma, lui era reale! Lui era lì in quel momento e non c’era niente che potesse cambiarlo. Dopo tutto il tempo che avevo passato a sperare in suo ritorno, a sperare di scorgerlo almeno per una volta.. l’ultima volta.. era questo il modo in cui mi si era presentato? Con l’agonia stampata sulla sua faccia che avevo sempre ricordato sorridente e solare?
Dov’era in quel momento il sole che mi aveva scaldato per ben 10 anni? Si era forse spento? Era giunto anche per lui il momento di cedere il posto a qualcun altro?...
No.
Non me lo spiegavo.

Dei singhiozzi ruppero il silenzio. Non capii subito che provenivano da me.
Qualcosa di caldo mi sfiorò una guancia, delicato e leggero, come un alito di vento. Sentivo un calore familiare premere sulla mia pelle e un profumo che non ero mai riuscito a dimenticare. Mi sentii in paradiso.
Spostai lo sguardo al mio lato, verso la fonte di tutto quel benessere.
Verde. Credevo di essere abituato oramai a quel colore, ma non fu così. Il mio petto sussultò in un battito di troppo. Rividi il mio passato scorrermi veloce davanti alla faccia mentre quell’ondata di smeraldo si abbatteva su di me.
Tra smeraldo e oceano. Come un tempo.
Terra e Cielo.
Si contrastavano e si concludevano l’un l’ altro.
Inizio e fine.
Il suo verde era come un prato sconfinato che mi si apriva d’innanzi, la possibilità di trovare l’orizzonte e il futuro che avevo sempre sperato. Era come le foglie degl'alberi in estate,  o come una pietra preziosa incastonata in un anello.  Era brillante, luminoso, che riusciva a spiazzarmi.
 Mi ipnotizzava.

Un verde intenso che mi accerchiava e mi entrava nella pelle.  Mi colorava rendendo il mio mondo e ciò che mi era attorno, di questo colore così innaturale.. questo verde.
Sarei voluto vagare per sempre in quella marea che mi trasportava e mi sbatteva contro la vita,  che mi faceva venire i lividi al cuore e mi terrorizzava allo stesso tempo.  Una marea che mi trasportava...in balia del suo magnetismo.

Ma poi riaprivo gli occhi,  e intorno…

I  pensieri di un passato lontano, riaffiorarono  nell’attimo esatto in cui mi resi conto di essere ormai suo.  Quando ormai.. riaprendo gli occhi, mi resi conto che non era vero che intorno a me regnava il nulla.
No.
Intorno a me c’era Matt. C’era lui e nessun’altro.
Avrei dovuto accorgermi di questo da tempo, rendermi conto che non c’era stata persona che desiderassi più del mio Matt
. Nessuna.
Le sue labbra erano ancora premute sulla mia guancia, nell’intendo di baciare una delle tante lacrime che continuavano a solcarmi il viso.
Mi sentii avvampare.
Cercai di mettermi a sedere poggiando i gomiti sul materasso. I capelli mi ricaddero davanti nascondendomi il volto.
Speravo non lo notasse prima che io aprissi bocca.. ma un sorriso era apparso a deformarmi le labbra.
Lui era lì. Con me.



“Meno 5”

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Capitolo 22
*** 22. Rainbow ***




 Avete tutto il diritto di farmi fuori dopo avervi fatto attendere tanto a lungo. Stavolta devo ammettere che ero proprio priva di ispirazione. Non ne avevo nemmeno un briciolo.. ma poi, oggi ho partorito questo capitolo. Spero vi soddisfi.
Vi ringrazio tutti, per avermi seguito fino ad ora e per aver atteso tanto.
Siete magnifici.




22. Rainbow



«
Perché te ne sei andato?»

Le sue parole ruppero il silenzio. Era una magia la cui esistenza mi divenne nota solo quando non la si avvertiva più, solo quando lui ebbe il coraggio di emettere quel poco fiato.
Era molto che andava avanti così? Che le nostre voci non si facevano sentire? Quanto tempo era passato dal momento in cui aprii gli occhi?
Non riuscivo a ricordare niente, la mia mente era ancora abbagliata dal quel verde così intenso, che anche la vista mi si annebbiò impedendomi di ammirarlo. Continuavo a chiedermi se stavo sognando, nonostante avessi la piena consapevolezza che non era così, che Matt, per chissà quale motivo, era lì accanto a me.  Sembrava che il tempo non l’avesse sfiorato, che fosse passato oltre, proprio per evitare di rovinare la sua bellezza.  La pelle era chiara, la bocca morbida incurvata in un strano sorriso aspro, le lentiggini, come piccoli spruzzi di colore, sparse qua e la sulle sue guance. Gli occhi grandi, le iridi troppo profonde, i capelli come fronde di alberi in autunno. Pensai che non era cambiato affatto dopo tutti quegl’anni, che in fondo, il ragazzino dal sorriso ingenuo che avevo lasciato, si era fatto ritrovare così, come nei ricordi cristallizzati nella mia mente. Che l’avesse fatto di proposito o no, quello non lo seppi mai, ma il solo vederlo così, come un immortale, il cui tempo per lui rappresentava solo lo scorrere lento dei giorni, fece cessare i miei tormenti.  Sembrava come se non ci fossimo mai separati, come se tutto il dolore sofferto, fosse scomparso dal momento in cui i nostri sguardi si ritrovarono. Come la prima volta. E fu bellissimo.
Il mio cuore non era mai stato così presente. Non lo avvertivo in quel modo da troppo ormai, e sentirlo battere, scalpitare come un puledro impazzito, mi fece rendere conto che non ero morto. Io ero vivo. Ero vivo e il mio cuore batteva tanto forte che di lì a poco avrebbe potuto anche sfondare il mio torace.  Ero vivo, e lo sentivo in ogni cellula del mio corpo, sentivo l’adrenalina scorrermi lungo le vene e arrivarmi su, fino alla testa. Sentivo i muscoli rinvigoriti, ogni nervo teso e ogni spostamento, anche il minimo, lo vedevo come migliaia di immagini incollate l’una all’altra, notando il particolare, il filo strappato, la mosca che ronzava, lo scintillare di una luce.
Era tutto più nitido. Le cose avevano preso forma.  Ma ciò che più non comprendevo, era perché… una parte si me, tirava e bruciava ancora, come se la brace su cui si scaldava non si fosse spenta.
La mia bocca formava una strana smorfia, una curva verso l’esterno che la faceva sembrare più larga. Sentivo la palpebra sinistra pesante e incollata, la fronte calda, e come se avessi avuto del miele sulla pelle, e avevo la sensazione che qualcosa colasse.
Era l’unico dettaglio che mi impediva di dedicare la mia più totale attenzione al ragazzo che avevo davanti. In quel momento, ogni solco sulla sua fronte era una piccola increspatura di preoccupazione, e le lacrime, che fino a quel momento avevano percorso il suo viso, erano improvvisamente cessate lasciando posto ad uno sguardo pieno di curiosità. Aveva compreso che qualcosa non andava?
Alzai un sopracciglio, scettico.  Il sinistro.
Una fitta di dolore percorse metà del mio volto. Trattenni le urla soffocandole in un gemito, annegandole in qualche sibilo, per liquidare il fatto che mi sentissi come se mi fosse stato portato via una buona parte di viso. 
Fu istintivo portarmi le mani sulla guancia, poiché quella bruciava come carboni ardenti. Ma qualcosa, una morsa tanto ferrea da fermarmi il sangue al polso, mi trattenne, vanificando il mio tentativo di capire cosa in realtà era accaduto al mio volto. Cosa avevo sulla faccia? Matt non voleva che  mi toccassi ma non ne capivo il motivo.
Alzai lo sguardo dalla sua mano ai suoi occhi, che in quel momento mi fissavano impedendomi di parlare o di fare qualsiasi altra cosa. Forse, non aveva mai smesso di osservarmi, di esplorarmi in lungo in largo come aveva sempre fatto. Probabilmente aveva passato notti intere al mio fianco, dimenticandosi del mondo e  forse guardandomi aveva trovato pace e angoscia, studiando il mio profilo, le spalle, la schiena. Magari, aveva ricucito le mie ferite,  e si era preso cura delle ustioni. O semplicemente mi stavo  illudendo, credendo che lui fosse lì per me e non per qualche fortuito caso.
Incatenai i miei occhi ai suoi, servendomi della mia espressione più ostile. Non volevo più far trapelare alcuna emozione, ne’ sorpresa, ne’ gioia, ne’ tristezza. Ricostruii la maschera che avevo utilizzato per così tanto tempo, quella che ormai era difficile rimettere insieme, perché mi ero esposto troppo e questi sono i rischi di chi vuole osare, di chi come me, ha preferito farsi portare via dalle correnti piuttosto che opporre resistenza.
Il mio sguardo gelido lo impietrì. Non era cambiato nemmeno da questo punto di vista. Il miei occhi su di lui, avevano avuto sempre lo stesso effetto, gli stessi brividi.



“Meno 4”
 


«
Non..Non toccarti» Fece una pausa stringendo il mio polso ancora di più. Poi sospirò, incerto su quello che avrebbe voluto dire.
«
Perché te ne sei andato?» Ripeté la stessa domanda di poco prima. La sua voce si ruppe sulla parola “andato”, come se pronunciarla gli costasse una fatica immane.
Cercai di liberarmi dalla sua morsa, ma più mi divincolavo, più lui saldava la stretta. Così cessai di dibattermi e sopirai esausto.
«
Non fare domande idiote. Lo sai benissimo il perché. Stupido.»
Le parole uscirono spontaneamente, senza che ci pensassi sopra. Non c’era disprezzo in queste, ma un pizzico di amarezza che probabilmente, anche lui aveva notato.
«
No, non sono io lo stupido! Tu lo sei! Tu mi hai lasciato il quello schifo di posto a condividere una stanza da solo, con il tuo ricordo che vagava in ogni dannato oggetto! Ogni cosa mi faceva pensare a te e al vuoto incolmabile che hai lasciato! Sei solo un egoista! Un fottuto egoista che crede di poter essere il migliore mentre in realtà non è nient’altro che…che… Cazzo guardami negl’occhi!»
Ma non ci riuscivo.
La maschera si era già rotta, per l'ennesima volta.
Le sue mani avevano afferrato le mie spalle e mi percuotevano con insistenza. Sentivo le sue dita stringersi, i pollici poggiarsi nell’incavo del mio collo. La pressione della sua stretta fece affondare i suoi palmi nella pelle e i suoi occhi, che li sentivo perforarmi la testa, tentavano inutilmente di incrociare i miei.
Ma non ci riuscivo.
Non ci riuscivo.
I capelli ricaddero davanti come una cascata. Notai le punte bruciate di un biondo spento, ormai irriconoscibile, e ne avvertivo l’odore. Sentivo il fumo che ne era rimasto incastrato, la cenere e il sapore del fuoco che andava a disperdersi. Li osservai attentamente cercando di non distrarmi, poichè se l’avessi fatto avrei ceduto alle parole di Matt. Sarei crollato dimostrandogli che aveva ragione, che lo stupido ero io, che ero solo un’ egoista il cui scopo era solo fine a se stesso! Mi sentii terribilmente in colpa, come se ogni lettera da lui pronunciata scavasse una voragine incolmabile nel mio petto.
Non avevo coraggio di alzare lo sguardo, non avrei mai più potuto guardarlo negl’occhi tanta era la mia vergogna.
Per la prima volta era arrabbiato, e questo, non fece che aumentare l’affilatezza delle sue parole. Il modo in cui le pronunciava, mi feriva, più di quanto la sua stretta mi causasse dolore. Più di quanto la mia faccia bruciasse.
«
Mello dannazione vuoi guardarmi?!»
Lui insisteva. Gridava con tutta l’aria nei polmoni. Le sue frasi rimbalzavano sulle pareti strette della stanza, ritornando indietro. Un eco insopportabile direi. Come se non fosse bastato sentirle pronunciare direttamente da lui.
Il suo respiro era irregolare, vedevo da sotto le ciocche il suo petto gonfiarsi troppo velocemente. Non l’avevo mai visto in quello stato. Chissà quanto ci era stato male…
“Un momento..” pensai “è solo colpa sua se stiamo così adesso!!”
Di scatto alzai la testa. Lo vidi indietreggiare di poco, mollando per un attimo la presa. Poi tornò ad afferrarmi, questa volta più delicatamente.
Lo guardai in cagnesco prima di togliere con uno strattone le sue mani dalle mie spalle. Non doveva toccarmi.


“Meno 3”


«
 Io Matt?» Pronunciare il suo nome ad alta voce mi procurò una fitta allo stomaco, togliendomi il fiato. Attesi qualche secondo prima di continuare. Nel frattempo lui mi guardò intontito, lasciando posto ad un espressione confusa, incapace di capire cosa stesse accadendo.
«
E’ colpa tua! Solo tua!! Se ci sei stato così male di certo io non posso farci niente! Se tu non mi avessi…se tu non avessi fatto quella cosa prima che io me ne andassi, forse non avresti sofferto tanto!» Il mio discorso faceva acqua da tutte le parti, in qualunque modo lo si rigirasse, rimaneva qualcosa di insensato. Ma continuai.
«
Idiota! Credi davvero che aver perso tempo in questo modo possa aver risolto i tuoi problemi? Non sono io lo stupido Matt, tu lo sei! E non credo che tu abbia pensato poi così tanto a me come dici.»  
Le dissi tutto d’un fiato. Le parole erano un fiume in piena.. e completamente senza senso. Volevo addossargli la colpa perché mi sentivo ferito, umiliato, messo a nudo. Il mio ego ebbe la meglio, come sempre, tirando fuori il mio orgoglio. Ma la realtà era.. che credevo non avesse pensato a me quanto io avessi pensato a lui. Quanto il suo volto mi tormentasse nelle notti più silenzione, nelle giornate di sole, di pioggia. Quanto la sua voce, il suo fantasma, vagasse per le stanze in cui vivevo. Quanto, il mio cuore si sentisse morto già un secondo dopo averlo lasciato dietro la porta della Wammy's.

Matt mi guardò per un attimo, rimanendo confuso da ciò che avevo appena urlato, e poi, rilassando il suo volto dalle increspature sulla fronte, facendo sorgere un sorriso sulle sue labbra morbide, facendo battere il mio cuore quasi fino a farlo esplodere, afferrò le mie mani dolcemente. Come fossero state gli oggetti più preziosi, come se stesse custodendo qualcosa di fragile e delicato, che da un momento all’altro sarebbe potuto andare in mille pezzi. Come se quel contatto, avesse reso indissolubile il legame che ci univa e che apparentemente sembrava dissolto.
Matt le strinse, non con foga o rabbia, come aveva fatto prima afferrandomi. No. Lui le strinse amorevolmente, per calmarmi, per confortarmi e dirmi che a lui non sarei più riuscito a mentire, e che forse in realtà, non ci ero mi riuscito.
Osservai le nostre mani strette l’un l’altra sperando che non riuscisse a percepire il sangue che pompava così velocemente nelle mie vene. Tanto forte da crearmi dolore.
Ogni battito del mio petto era un pugno al torace per sfondarlo. Ne sentivo il rumore nelle orecchie, come se avessi avuto mille cuori, così potente, da sovrastare qualsiasi altro suono.
La testa iniziò a girare, anche quella pulsava insistentemente come un martello. Il respiro faceva a gara con il sangue. Una corsa sfrenata a chi andava più veloce.
Matt iniziò a disegnare con i pollici dei cerchi sui miei palmi. Il suo tocco bruciava più del sole e con quello, scavava dei solchi arrivandomi fino alle ossa, corrodendomi la pelle, raggiungendo la carne viva.
Alzai lentamente gli occhi sul suo viso concentrato, che imitandomi, osservava  le nostre mani allacciate.
Non so bene cosa accadde dopo, so solo che tutta la mia rabbia si sciolse, evaporando dai pori della pelle. Che il mio orgoglio andò a farsi fottere da qualche parte, lasciando la mia anima libera. Che ogni voglia di combattere si frantumò come un sottile strato di vetro.
Perché? Bhe.. è semplice…lui alzò lo sguardo.
I nostri occhi si riunirono, ricostruendo i confini. Il cielo e la terra, l’oceano e la flora.
Ogni cosa a suo posto, ogni dettaglio ricostruito, ogni ricordo riportato in vita. Non temevo più di pensarci, perché era passato.. e lui invece era proprio lì con me.
«
Sei peggiorato, una volta mentivi meglio. Ma forse non hai pienamente torto.. in fondo sono stato io il più stupido dei due. E sono ancora il più stupido.» Fece una pausa per tirare un sospiro, mentre le sue dita continuavano a disegnare i piccoli cerchi
«
Guarda.. ti sto perdonando senza che tu mi chieda scusa. »
Rimasi in silenzio. Non avevo la forza di parlare.
Davanti a me avevo solo un arcobaleno di colori. Delle emozioni che schizzavano come lucciole impazzite per la stanza. Colori che ricordavo mi appartenessero, che avevano segnato la mia intera vita dal momento in cui Matt ci piombò dentro. Il suo rosso, il verde, il mio giallo, il rosa della sua pelle, l’azzurro dei miei occhi. Tutto ad offuscarmi la vista, una patina che mi avvolgeva il cuore e i polmoni. Che mi faceva mancare il respiro in gola, così come la voce.
Fu terribilmente strano rendersi conto, di quanto tutto nella mia esistenza prese colore grazie a lui. Quanto, i miei occhi abituati al grigiore della monotonia, si accesero di luce a contatto con Matt.
L’arcobaleno che mi apparve davanti, fu lo spettacolo di emozioni che più lasciò un segno indelebile nella mia anima, perché si ripeté più volte da allora, in diversi momenti e in diverse occasioni.
Non mi scordai mai di quelle sensazioni. Mai.
Lo guardai un ultima volta, incapace di fare qualsiasi cosa.
Matt sorrise, illuminando la stanza. Poi lasciò le mie mani, poggiando delicatamente i suoi palmi sul  mio viso. Esitò per qualche istante prima di sfiorare la guancia sinistra, ma poi, spostando la sua mano dietro la mia nuca, intrecciandola tra i capelli odorosi di fumo e fuoco, li strinse, avvicinandosi lentamente.
La distanza diminuiva.
Il mio cuore stava per esplodere.
Il battito accelerava ad ogni millimetro che faceva in più.
I suoi occhi magnetici mi catturarono tanto da perdermi al loro interno, ancora convinto che tanto prima o poi avrei trovato la sua anima, e che forse quella volta, sarei riuscito a toccarla e a vedere quanto questa fosse pura e brillante.
Sentivo il suo respiro sulla pelle. Un respiro caldo e dolce, che sciolse ogni tensione.


«
Già, in fondo sono io lo stupido»



“Meno 2”


“Meno 1...”

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