Gli sembra di avere un palo, su per il culo.
Una frase del genere avrà fatto storcere il naso a qualcuno, lo so, ché un linguaggio basso è la scelta dell’incolto. E se io sono, in una certa misura, d’accordo, sono altresì convinta che alcune cose vadano chiamate col proprio nome e che non ci sia una precisione, un’aderenza, una puntualità di concetti come quella che il linguaggio un po’ sboccato garantisce. Perché qui non stiamo parlando di una penna che indulge nelle parolacce; le quali, come cantava Ivan Graziani, [non] servono a condire il tuo discorso d’autore. Servono ad immettersi in una tradizione, quella della letteratura noir e pulp. Le avventure di Sam Spade e soci sono crude, realistiche, sanno di pioggia e asfalto bagnato e giornali spiegazzati. E piombo. E nafta. E medicinali. Come l’atmosfera che si respira a Gotham City, ma tu guarda un po’…
Con una sola, singola frase ci hai messi in riga. Bonariamente, s’intende. Ma ci hai fatto capire a) che genere di storia ci saremmo dovuti aspettare e b) come si sente il povero Dick (ché se lo chiamo ‘povero’ è solo colpa tua, accidenti a te!). In meno di quanto, dieci parole? Hai messo le cose in chiaro e noi, ed io, ci siamo accodati. E ti abbiamo seguita lungo tutto questo maelstrom emozionale che ha come centro Dick, le sue ossa rotte, il suo orgoglio fatto a pezzi, i suoi rimorsi che bruciano come sale gettato sulle ferite aperte, i suoi rimpianti – tutti dalla chioma rosso fuoco; i suoi ricordi di quando non esisteva altro che un trapezio, la pista di sabbia battuta del circo e le luci del palcoscenico. Quando Richard sapeva che anche lui sarebbe un giorno salito lassù e avrebbe tenuto il pubblico col fiato sospeso mentre lui, equilibrista squilibrato, si sarebbe divertito un mondo a saltare da un trapezio all’altro. O sul filo della fune tesa. Rigorosamente senza rete.
Ma la vita non va mai come ci siamo aspettati, come ci hanno detto. Diventerai grande, ti sposerai, avrai dei figli. L’unica cosa che si avvera è solo quel diventare grande, perché, qualunque sia la vita che vivremo – qualunque sia la vita che ci sarà dato di vivere, semmai – l’unica costante sarà l’incontro con la morte, l’arrivo al capolinea. Quindi sì, si diventa grandi. Per forza. In maniera dolorosa. Per un colpo di pistola sparato nel buio, ed un riflesso di sangue sulle perle che rotolano a terra. O quando qualcuno massacra i tuoi genitori, sparando a tuo padre nel bel mezzo dello spettacolo.
Io Grayson non l’ho mai digerito. Troppo perfettino, troppo Batman in seconda, troppo capobanda, se mi passi il termine. Io preferisco i personaggi meno seriosi e più scanzonati, i pazzi esplosivi à la Roy Harper Jr. Perché quando Dick è Robin, è un ragazzino ingessato in un completo tre pezzi e cravatta al collo e scarpe lucide e capelli pettinati. Ma quando diventa Nightwing, Dick cresce e non cresce. Nel senso che si comporta nei confronti di Bruce come un figlio ribelle, l’eterno adolescente che si presenta al pranzo della domenica con la nonna e le zie indossando i jeans sfrangiati, le scarpe da ginnastica piene di scritte (o sfondate in più punti) e l’immancabile giacca di pelle. Un ribelle sfrontato, ma che, sotto sotto, è innocuo come una colomba sul davanzale (a patto di non trovarci in un noto film di Hitchcock). È un modo che Dick ha di porsi nei confronti di Bruce che sa di reale quanto una moneta di cioccolato. Perché poi la sua vera natura sale a galla. Ché un frutto non cade lontano dall’albero che lo ha generato. E anche se Dick non è uscito dai lombi di Bruce, è suo figlio in tutto e per tutto. Lui, Bruce, l’ha plasmato. Lui, Bruce, lo ha reso la sua arma numero due (l’arma numero uno di Batman è la mente).
È non sono cose che si dimenticano, non sono cose che si rimuovono. Nemmeno sotto ipnosi. Perché Batman è il terreno fertile della psicanalisi, Batman nasce mettendo in scena tutte le sfaccettature dell’animo umano, e proponendo la tesi, nemmeno poi tanto sottile, che per avere a che fare coi matti (il vario delinquentame che affligge una città troppo simile a NYC) occorre slegare un altro matto. Ché all’interno della Bat-family l’unico che si può definire normale è – forse – Alfie. Forse. Ché a metterci la mano sul fuoco c’è il rischio di restarci scottate.
Ma il bello di questa storia, il suo personalissimo giro di vite, è l’entrata in scena di Batman. Di Bruce. Di tutti e due. E senza remore – ché oramai siamo nel bel mezzo del giro sulla giostra, ché vogliamo fermarci o tirare il freno a mano?! – ci tuffi nei suoi pensieri. Perché Dick sta messo male. Dick c’è quasi morto. Dick non è Demian – che invece c’è morto davvero e che era per davvero suo figlio, carne della sua carne e sangue del suo sangue – Dick è Dick. L’unico, il solo. L’inimitabile. L’insostituibile. Non per una questione di spiccata preferenza – non solo almeno. Si dice che i primogeniti rappresentino un nodo cruciale nella vita di una persona. Perché il primo figlio – sia che lo generi, sia che lo adotti – ti spalanca le porte di una dimensione nuova e sconosciuta, dove devi lasciarti alle spalle l’io e pensare al dopo, al futuro. Non più il tuo, non soltanto; ma quello di tuo figlio. Certo, i genitori ti dicono che amano tutti i figli allo stesso modo, e sono sinceri quando lo affermano. Ma il primo figlio che hai – e ribadisco, sia che lo adotti, sia che lo generi – è speciale, non foss’altro per il ruolo che gioca nella tua vita. È un’esperienza nuova, come il primo bacio, la prima sigaretta, la prima volta. È una pietra miliare nella tua vita. E per quanto tu abbia cercato, provato, tentato di amare gli altri tuoi figlioli allo stesso modo, il legame che c’è col tuo primogenito è diverso. È speciale. Per te, certo. Perché Dick si è ritrovato a fare il fratello maggiore di una masnada di ragazzini problematici (e Jay, e Tim, e Stephanie, e Demian…) e non si è posto il problema. Non è diventato padre, lui. Per questo posso affermare che quanto è successo a Richard è accaduto anche a Bruce. Che non si sentirà di avere un palo, su per il culo come accade al suo pupillo prediletto; ma qualcosa, dentro di lui, gli sussurra che il suo orgoglio di padre ci si trova molto, molto vicino.
Spesso si usa definire Bat-family il carrozzone che gravita attorno a Batman. Ed è vero. Funzionano esattamente come una famiglia, con tanto di pecora nera e fidanzata di papà un po’ troppo esuberante (la fidanzata, non il papà). Ma c’è. Si attiva quando serve. Io mi spingerei oltre e definirei un po’ tutta la Lega come una famiglia. Tu li hai citati tutti, santo cielo, foss’anche en passant. Non per fare numero, non per snocciolare nomi pesanti, non per spavalderia. L’hai fatto perché Dick,. Perché Batman, perché tutti questi personaggi si muovono all’interno di una ragnatela (quella di Spiderman, per caso?) e sono tutti uniti – legati – l’uno all’altro. È come quando hai a che fare con un gruppo di persone, e non di figurine incollate sull’album. Ognuno ha il suo ruolo, ognuno ha il suo scopo, ognuno rappresenta un aspetto della vita che gli è proprio (l’attaccamento alla vita di Babs e la sua determinazione; la sfrontatezza di Roy; la libertà assoluta e pura di Kori; la rabbia di Jay; le capacità di J’onn J’onnz; Clark, Queen e famiglia…), ognuno garantisce tridimensionalità al mondo che ci stai raccontando. Ma proprio perché ognuno di loro è una persona e non un nome digitato su un foglio Word, ognuno di loro rappresenta anche una pedina. Cade uno, cadono tutti. Ecco perché Batman propone a Dick una scappatoia, una via di fuga, un modo per salvare capra e cavoli. Perdonami, ma una parte di me, quella carogna, ha pensato che Batman si sia scervellato non tanto sul come poter salvare capra e cavoli, ma sul come poter usare lo spauracchio dell’effetto domino a proprio uso e consumo. Come poterlo plasmare per farlo aderire al piano che già aveva in mente, ossia mandare Dick sotto copertura. E forse ha ragione il mio lato carogna, ché quando si parla di Dick, Bruce sragiona. So che questo mio dubbio non verrà mai chiarito, è forse non ce n’è bisogno. Il trucco è nascondere le cose in bella vista, vero?
Ho amato questa storia.
Ammetto che ho dovuto temporeggiare per scriverti questa recensione a causa di un po’ di problemucci che hanno funestato lo scorso anno, ché sì, sono stati una dozzina di mesi simili all’avere un palo nel culo, e bello grosso pure. E sì, ammetto che la presenza di Grayson ha fatto il resto. Ma quando mi sono lasciata prendere per stanchezza, mi hai fregata. E alla grande proprio. Perché stavolta non mi hai preso per la manina, piano piano, come sai fare tu, nossignore. Mi hai assestato un poderoso calcio nel culo e mi hai sbalzato dentro ad un vagoncino male in arnese delle montagne russe, quelle con la triplice curva della morte, hai presente?
Così mi sono sentita, con la differenza che non ho né urlato né mi è venuto un infarto, ma mi sono goduta il viaggio, ho riconosciuto i nomi, le facce, i ruoli (e far scontrare Dick contro Owlman – il doppio di Bruce – non so se sia stata un’idea tua, della run in quanto tale o un magnifico coup de théâtre, ma ti sei meritata una standing ovation. Anche se a momenti ci lasciavo la testa, ma vabbé. Sono dettagli). E sei riuscita nell’impresa mitica di non farmelo poi stare così sulle bolas, quest’insopportabile bravo ragazzo con i capelli scarmigliati e la giacca di pelle sdrucita che, adesso, giocherà a fare James Bond.
Posso dirlo?
Accidentaccio, doppio accidentaccio, triplo accidentaccio!
Ma chapeau. Di tutto cuore.
P.S.: ti chiedi se non sia eccessivo dare del bastardo a Bruce, da parte di Dick. Io dico di no. Dico di no perché se da un lato è vero che Batman gode della devozione dei suoi sottoposti (dei suoi figli), è anche vero che i figli, a volte, si ribellano ai propri genitori. E che quando si diventa grandi, si diventa adulti, ci si lascia a volte scappare qualche parola un po' forte. Una parolaccia. Un "Ma che cazzo dici?!" o un "Ma che sei scemo?!" che nella mente di un bambino risuonano come una bestemmia, e in quella di un adolescente assomigliano ad un desiderio che resta nella mente ma non si ha il coraggio di trasferire sulle labbra. |