Colgo l'occasione di una nuova rilettura di questa tua fiction per lasciarti i miei two cents.
È stato un piacere scoprirti come autrice: nelle tue storie ritrovo qualcosa che mi è caro, di celtico per suggestione e atmosfera; la cura che inserisci nel creare paesaggi e ambientazioni rarefatti, che lasciano addosso una sensazione misteriosa e raccolta sui personaggi, un approccio “intimo” fra luogo e indole interiore, che si compenetra e crea un effetto struggente. Per certi versi, nelle tue parole rivedo delle correnti pittoriche che danno grande attenzione alle pennellate, alle sfumature dell'insieme, mescolando la bozza del soggetto alle emozioni umane dello stesso.
La descrizione del freddo si addentra nella stagione, nel territorio tanto inospitale del Ferelden, che è pure un cuore pulsante di alleanze, di congiure e di genti dalle passioni sanguigne. Non c'è ricercatezza in questo popolo: in esso risiede un patriottismo primordiale, una rivendicazione dell'identità unitaria, che è però scalfita dalla pluralità degli intenti di tanti “attori” politici e delle loro diverse finalità. Eppure le immagini dell'inverno si allungano come la notte, l'ululato dei lupi, la coltre di neve in cui immergere le ginocchia per provare la fatica e la “resistenza” nel sapersi vivi e un po' più intorpiditi dal dolore e dallo sforzo. Il gelo affonda nel protagonista e non lascia indifferente neanche quella Rowan vestita di rosso, fulcro della carnalità e dell'affinità elettiva, come nella sera in cui Loghain l'aveva ammirata per la prima volta.
Loghain è un personaggio controverso, dotato di una sensibilità che lo dilania nel profondo, a dispetto di una scorza impavida e granitica. È un osservatore che più spesso si scontra con la risolutezza delle sue prese di posizione, rigide e impopolari e quasi sempre necessarie. Vede il fine e lo raggiunge con i mezzi che gli detta la propria natura; a farne le spese, è proprio lui in prima persona, in una maniera tragica quanto ruvida. Stoico, affilato e grezzo come può esserlo un cacciatore, un uomo che è a contatto con la terra e ne conosce benedizione e severità. Di fronte a Rowan, che dipinge come una creatura unica, intuendone le peculiarità, si spoglia della sua riservatezza e mette a nudo l'uomo.
Degno di nota è il parallelo con il liquore, il contrasto tra il fuoco che consuma e la gelida amarezza dell'addio, lo scontro fra ragionevolezza ed ebbrezza del sentire umano. Il calore di una bevuta, il piacere di tracannare è un lusso che si tramuta in un'esperienza straniante, quando sopraggiunge il carattere pungente dell'alcolico, unito al ritratto irraggiungibile dell'amata, alla consapevolezza di dividere il proprio cammino da un'immagine sempre presente, agognata. Il personaggio è di per sé icona del desiderio represso e irrealizzabile e, filosoficamente, quella brama che si agita non è dissimile da una fiamma aizzata dalla frustrazione, dall'impotenza del volere e non poter agire secondo mire egoistiche dell'animo. La decisione estrema della separazione non spegne il sentimento né lo insozza; ne acuisce le prospettive, ne drammatizza le implicazioni in un gioco di ombre e lingue di fuoco. Nel tuo racconto c'è un'emozione complessa, tratteggiata nella sottrazione, nell'assenza, nella parsimonia delle parole.
Non a caso Loghain proferisce appena una battuta di dialogo, identificandola con il nome della persona che lo ha conquistato. Lui che non ama sentirsi invaso nei suoi spazi vitali, è rapito da una “straniera” indomita, bella come un fiore incolto, che cresce nell'orgoglio e nella diversità. Rowan si staglia come presenza atipica, a tratti innaturale nel suo aspetto tanto particolare e cinereo, proveniente da un altro mondo rispetto a quello cui è abituato Loghain. La contemplazione è il primo passo verso un sentimento viscerale, che lo porta vicino all'ossessione, al bisogno di respirarla, di esserle accanto. È un amore che passa per il rispetto, per la parità e il riconoscimento del valore individuale, ma si affloscia nella convenzione, nel fine della causa collettiva e cede amaramente agli schemi della comunità, del benessere di un popolo che non saprà ripagarlo con uguale gratitudine.
Il rapporto fra i due vive lo squilibrio di una reciproca e affannosa ricerca, per poi focalizzarsi nello scambio distante degli sguardi, nella proibizione di toccarsi che non scaccia la tentazione. I personaggi appaiono febbricitanti, quasi malati l'uno di fronte all'altra, come se vivessero le ultime ore e comprendessero la desolante certezza di restare soli con se stessi, più nudi, a fianco scoperto. C'è una sfumatura animalesca che li rende solitari, abbandonati come belve senza un proprio habitat, spostati sul piano politico, che è distante dai loro voleri, dall'affermazione della loro coscienza. È in questo frangente che il luogo diventa un'ombra e da rifugio acquisisce i toni stranianti e poco famigliari di una prigione – tutta interiorizzata nell'aspetto psicologico delle vicende.
Ci sono fortissimi richiami all'opera originaria, inseriti con minuzia registica – chirurgica, oserei dire – all'interno del testo, che accentuano l'aspetto emotivo e l'inesorabilità del destino a cui vanno incontro sia Loghain sia Rowan; è un “nevermore” ineluttabile, che ha i contorni di quelli di Poe, in cui la presenza-assenza dell'amore mina l'equilibrio mentale e spossa il corpo, in un perenne ciclo che diventa gara di resistenza, lotta per la sopravvivenza. C'è inoltre l'implicazione al futuro che aspetta Rowan e che dà spessore ulteriore alla “rassegnazione” cui fa fronte Loghain. Egli non si arrende, ma accetta come con enorme responsabilità la propria dipartita. È un addio straziante, incomunicabile a parole e tagliente nelle riflessioni, che mette un punto a ciò che è stato condiviso, ma non è in grado di affrancarsi da una malattia tanto bella quanto pericolosa.
Complimenti per aver sviscerato con tanto amore e senso critico questo personaggio.
A presto!
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