Rileggo volentieri questa tua ff, ritrovata oggi nel fandom. Volentieri, davvero, perché l’argomento che tratta, l’immediato post-Reichenbach, è quello, secondo me, più ricco di potenzialità narrative, in cui affondano, saldamente, le radici della Johnlock, la mia magnifica ossessione. Sullo scenario che si va delineando intorno e “dentro” John, dopo il “volo” di Sh dal tetto del Bart’s, sono state spese fiumi di parole, per cercare di interpretare, nel modo più verosimile, le modalità con cui la disperazione di Watson si è declinata nei due anni in cui ha davvero creduto morto il consulting.
Oltretutto, dopo la seconda, magnifica Stagione, la BBC non si è soffermata a farci vedere in che modo John abbia affrontato quei primi, terribili mesi in cui l’elaborazione di un lutto, così improvviso e devastante, è un percorso al buio e tutto appare inutile, soprattutto se non si è detto quello che si voleva dire e non si è fatto ciò che avrebbe avuto ragione di succedere (“…Perché ho agito in questo modo?”..).
Quindi, voi Autori avete tentato di dare un volto preciso al dolore di John e tu ci sei riuscita, regalandoci una versione credibile e verosimile delle lunghe ore trascorse da lui a macerarsi nei ricordi e a cercare di difendersi dagli attacchi di panico e dall’assedio degli incubi.
In questa tua ff non ho trovato né banalità né noiose ripetizioni di un qualcosa già letto. Non voglio dimenticare di lasciarti, perché te lo meriti, un’osservazione sul tuo stile, particolare e originale, arricchito dalle speculari riflessioni, che tu evidenzi scrivendole in corsivo, che John rivolge a se stesso (“…Anche che vorrei farti stare zitta?...”), in cui rendi concreta la sua amara ironia, espressione dello sconforto e dell’angoscia.
In un susseguirsi angoscioso di frasi brevi e lapidarie nel loro energico realismo (un esempio: “…e vomitare quel poco che…”), hai costruito un testo dal taglio quasi giornalistico, crudo ed efficace, in cui gestisci il POV di John con sicurezza ed ottimi risultati, in quanto ci permetti di sentirci partecipi del suo immenso dolore.
Hai citato la scena di THOB che preferisco: me la vado a rivedere quando i postumi della S4 si fanno risentire, per gustarmi ancora una volta la versione più intrigante di quell’ “elefante nella stanza” che spinge Sh a chiedere scusa a John, in quel vecchio cimitero di cui Watson, nella tua storia, sente ancora il profumo dell’erba.
E gli risuona, assordante nella mente, quella frase (“…Io non ho amici…”) che, tolta dal contesto, sembrerebbe banale ma che lì, in quel momento, secondo me, rappresenta, forse, l’unica, vera dichiarazione che Sh rivolge a John, nella sua incapacità caratteriale di riconoscere ed esprimere i sentimenti.
È davvero efficace la rappresentazione che fai di Watson, ostinatamente chiuso nel suo lutto, assediato dal vuoto lasciato da Sh, tormentato dai sensi di colpa per non aver saputo capire e riuscire così ad evitare la morte del suo “coinquilino”. Lo scrivo tra parentesi perché sappiamo tutti che, in realtà, Holmes, per John, non è solo chi condivide il 221b, ma rappresenta la possibilità di una nuova vita, ed è l’uomo di cui è innamorato perdutamente. Inoltre il non misurare il suo dramma con chi lo circonda, permette a Watson di considerarlo meno vero, non effettivamente avvenuto perché non vede la sua disperazione riflessa negli sguardi e nei gesti di chi cerca di consolarlo.
Hai veramente saputo esprimere, attraverso le tue parole, senza sbavature melodrammatiche, il dramma di chi si accorge di aver perso l’occasione di amare e sentirsi amato da qualcuno di speciale.
Concludo con la convinzione che questa storia merita di essere seguita, sia per il modo con cui ti sei inoltrata in zone difficili da esplorare del cuore umano, come quelle relative al lutto improvviso, e per il tuo stile, originale e coinvolgente. Arrivederci e brava. |