Questo è il racconto di uno dei momenti più dolorosi in assoluto. Ogni volta leggere qualcosa a riguardo è un colpo al cuore, e ti dirò, sinceramente non mi piacciono tutte le one-shot che ho letto a riguardo. Alcune sono troppo distaccate e frettolose, non riescono a comunicarmi quel dolore immenso che sta provando John. Per fortuna - la mia che leggo - non è questo il caso, anzi, mi hai portata quasi sull’orlo delle lacrime.
Nella serie non ci viene mostrato molto di John subito dopo il salto di Sherlock. Vado a memoria, ci deve essere probabilmente un’unica scena in cui il medico appare mesto, seduto sulla sua poltrona, con sguardo assente. Quindi il tuo racconto si colloca perfettamente a colmare questa lacuna.
Il POV di John ci concede di immedesimarci maggiormente nel suo dolore. Watson non accetta la morte del compagno. Dice di avergli sentito il polso, come se questa potesse essere la certezza della sua morte, d'altronde è un uomo di scienza, ma nonostante questo non si capacita di essere solo. Comincia così a sentire la mancanza anche e soprattutto delle cose più fastidiose di Sherlock, come a voler dire “accetterei di tutto pur di poterti avere con me”.
Questa bolla di immobilità nella quale il personaggio si chiude è un’immagine molto potente e realistica. Il pensiero che la bara di Sherlock possa essere vuota - noi sappiamo che in realtà lo è veramente - è l’ennesimo modo di autoconvincersi che sia tutto un bruttissimo incubo. L’unica nota stonata è il fatto che dici che John non va al funerale; certo, funziona benissimo per la storia che hai scritto, ma credo in realtà che nel telefilm lui vi prenda parte. Ora, non mi pare ci siano scene a riguardo, ma quando Sherlock ritorna due anni dopo, John incontra i genitori di quest’ultimo e dice che al funerale non c’erano, deducendone che questi sapessero che il figlio non era morto sul serio. Quindi John per sapere dell’assenza dei signori Holmes deve essere probabilmente andato all’esequie. A meno che non vogliamo giustificare la cosa con la tua frase “La signora Hudson mi disse del funerale” nel senso che poi gliene ha parlato e gli ha detto magari anche che i genitori del coinquilino non si sono presentati alla funzione.
Una frase che mi ha commosso particolarmente, all’interno di un racconto complessivamente struggente, è “E io restavo in questa casa, presidiando il nostro rifugio”. Rifugio è una parola assai complessa. Tra i tag non hai segnato la coppia, ma la prima cosa che mi fa pensare il vocabolo di cui sopra è un’alcova d’amore, qualcosa di molto intimo. Il fatto poi che John lo stia “presidiando” si ricollega al fatto che lui sia in attesa del ritorno del compagno, proprio perché non accetta la sua dipartita.
Alla fine l'uomo si decide ad uscire, lo fa spinto dal senso del dovere, dall’umanità. Si rende conto forse di non essere l’unico a soffrire di quest’assenza e non riesce a tirarsi indietro quando la padrona di casa gli chiede di accompagnarlo al cimitero. E sulla lapide che come dici “vacilla”, perché leggere il nome di Sherlock Holmes sulla pietra rende tutto un po’ più reale.
Sarà la vicinanza ipotetica col corpo morto di Sherlock, questa è la prima volta che sentiamo John parlare all'interno di questa ff. Si rivolge proprio all’amico chiedendogli il suo miracolo personale, una supplica: “puoi non essere morto?”. È straziante. Pronunciato con quell’innocenza incoerente tipica dei bambini. John mi appare nudo e indifeso, soffre, e sei stata bravissima a farci arrivare queste sensazioni in maniera così chiara.
Un passo breve ed intenso. Grazie.
A presto rileggerti,
K. |