Non mi è stato facile entrare in questa tua poesia.
E quando ci sono entrato, come ho cercato di fare io, sforzandomi, a furia di leggerla e rileggerla, cercando di cavare un ragno dal buco, mi sono accorto che potrei averlo fatto in maniera sbagliata. Che potrei aver compreso fischi per fiaschi.
Comunque, la prima impressione che ho avuto è stata scostante. Parlo dal punto di vista formale, anche se non dovrei dire niente.
I versi sono troppi spaziati, per i miei gusti.
E poi… È vero, ormai siamo abituati a definire tutto "poesia". Bastano versi, corti o lunghi, musicali o dissonanti.
Qui però non ho trovato nè ritmo nè aritmia. Forse è stata questa la mia difficoltà nell'approccio, il voler leggere con l'aspettativa di trovarci qualcosa - a livello formale - che non c'è. Non c'è passione istintiva, non c'è ricerca di eleganza.
Superata questa prima delusione, riesco finalmente a capire che parli di un percorso.
Vuoi cambiare.
È normale. Lo vuoi: "se come prima mai più".
Lo devi: "passiamo all'altra riva" (Mc 4, 35-41).
In tono dimesso però, senza particolari sbandieramenti, guardandoti allo specchio di sfuggita, quasi con timore.
Assicurandoti che esteriormente non si veda niente di diverso.
"Lo stesso guaio / per me e per gli altri": fermarsi al guscio appena visto con la coda dell'occhio?
Dentro però è tutto un terremoto "a profondità incredibili".
E termini con quel profondo disagio che provi nel capire di trovarti in uno stato di equilibrio precario, in cui spesso viene a mancare ogni base d'appoggio "per poter / infine / spiccare il volo."
È purtroppo questo lo stato a cui tutti siamo ormai abituati da mesi, da anni.
Che non abbiamo più neanche la voglia o l'onestà di ammettere.
Che ci fa attaccare, per non disperare, alle cose più assurde e più stupide che la vita moderna ci offre, sempre più abbondanti, sempre più allettanti.
Con la fragilità tatuata addosso - dici.
Con le contraddizioni che ci spremono all'osso - aggiungo. |