Salve a tutti! ^^
Non mi
dilungherò e dirò giusto un paio di cose
fondamentali.
La
storia si svolge in un momento non ben definito; l’unica cosa
certa qui è che
Tsuna ha rinunciato alla sua carica di Decimo boss dei Vongola e, per
questo,
Yamamoto si trasferisce a Tokyo per iniziare a giocare
semi-professionalmente a
Baseball, seguendo così il suo sogno. Lo dico solo
perché temo di aver
scritto un mucchio di cose senza senso, ecco! X°° E poi
mi sa che non l’ho mai
specificato veramente.
Il mio timore più
grande, però, è quello di essere andata OOC soprattutto nel finale
(terribile finale!
>.<), nonostante l’attenzione che ho dedicato
alla caratterizzazione. E
poi ho paura di essere stata troppo sdolcinata..! Oltre che affrettata.
O.O
Beh, lasciamo perdere.
Vi lascio alla lettura. ^^
<< Oi, Gokudera! >>
L’interessato riconobbe immediatamente la voce che lo chiamava; d’altronde, come non avrebbe potuto? Il tono così gioviale e allegro poteva appartenere solo a una persona, proprio quella che aveva meno voglia di vedere, soprattutto quel giorno.
Strinse i denti, venendo attraversato da un fastidioso fremito, mentre continuava a camminare imperterrito per le strade silenziose di Namimori, ignorando la presenza alle sue spalle - almeno per il momento.
<<
Stai andando alla
stazione, vero? >> la voce si faceva più
vicina, constatò Gokudera
sbuffando del fumo da bocca e narici, scocciato; all’altezza
di un incrocio il
suo proprietario lo affiancò, passandogli un braccio attorno
le spalle.
<< Camminiamo insieme. >> propose,
sorridendo stupidamente, senza
badare all’espressione stizzita e vagamente orripilata che
aveva assunto
l’altro.
Con una scrollata di spalle si liberò da quell’arto invadente, allontanandosi poi di qualche passo da Yamamoto mentre borbottava quello che sicuramente era un insulto; nascose il viso dietro ciuffi argentati per non mostrare il tormento che attraversava i suoi occhi.
Yamamoto, all’oscuro di ciò, si sistemò sulle spalle un borsone ingombrante dall’aria pesante. Gokudera, seguendo il movimento con la coda dell’occhio, si sentì sommerso da sentimenti contrastanti che lo fecero impazzire; provò l’impulso di urlargli addosso che stava facendo una cazzata, che non doveva, non poteva andarsene, non poteva lasciare tutti indietro, non poteva lasciare il Decimo, non poteva lasciare lui.
Non poteva
lasciarlo; non dopo avergli
promesso che gli sarebbe sempre stato accanto, in quella sera
d’estate davanti ai
fuochi d’artificio, mentre sorrideva abbagliante sussurrandogli
nell’orecchio quando
tutti gli altri erano distratti. Gokudera, nonostante fosse rimasto in
silenzio
a guardare il cielo stellato, come se non avesse sentito quelle parole
che
somigliavano quasi a una confessione, gli aveva creduto; o, almeno, gli
piaceva
l’idea che fosse sincero,
che la
natura ingenua e splendente di Yamamoto fosse reale
e, quindi, non potesse ingannare o tradire nessuno.
Ormai
l’estate stava finendo e con essa il divertimento e la
felicità di quei giorni
trascorsi a ridere, a prendersi in giro, a stare semplicemente insieme;
ma
soprattutto stava finendo la felicità di quei giorni
trascorsi da soli, a toccarsi,
baciarsi,
conoscersi meglio col corpo; perché per Yamamoto e Gokudera
non c’era bisogno
di troppe parole, anzi, quelle non erano in grado di esprimere
pienamente ciò
che provavano l’uno per l’altro. Solamente
sfiorandosi, invece, o unendo le
labbra in modo spasmodico, trasmettevano il proprio stato
d’animo e riuscivano
a comprendersi e completarsi, in un
modo che Gokudera non avrebbe mai creduto possibile. Gli sembrava
ancora
assurdo quello che avevano passato, che avevano fatto.
Tutto era successo in quell’estate, ritrovandosi
sempre più spesso in quella
che Yamamoto, col suo solito essere scemo, aveva ribattezzato come la
loro base segreta, ma che altro non
era se
non la casa di Gokudera, piccola e vuota; fino a che non era arrivata
quella
presenza rumorosa e fin troppo espansiva che aveva devastato ogni cosa:
il suo
letto, la sua cucina, il suo cuore.
Nonostante Gokudera lo rimproverasse e rimbeccasse in
continuazione,
intimandogli di non presentarsi all’improvviso davanti alla
sua porta o di non
seguirlo dopo scuola fino a casa, non appena Yamamoto incollava i suoi
occhi
magnetici in quelli verdi dell’altro nulla aveva
più senso: Hayato mandava al
diavolo tutti i buoni propositi e si lasciava trascinare in quel
vortice che lo
risucchiava senza via di scampo, stringendosi quasi morbosamente a
Yamamoto su
quel letto troppo stretto per due, ma che loro si facevano bastare,
presi da
tutt’altro per pensare a una tale quisquilia.
Era
bello ripensare alla dolcezza di Yamamoto, alle sue carezze premurose,
al suo
preoccuparsi di non fare mai male ad Hayato. Era bello anche quando era
aggressivo, quando le dita stringevano forte i suoi fianchi, tanto da
lasciargli lividi; e lui, per ricambiare, gli graffiava la schiena
senza pietà,
ringhiando sommessamente di piacere e dolore. Era bello quando Yamamoto
lo
prendeva senza pensarci due volte, come guidato da un istinto
primordiale che
cancellava ogni altro pensiero dalla sua mente; era bello
perché dopo quel
rapporto animalesco particolarmente intenso, Yamamoto sembrava sentirsi
in
colpa e si scusava con Gokudera per la sua irruenza, esibendo uno dei
suoi
sorrisi innocenti.
Yamamoto
aveva deciso di uccidere tutto questo. Aveva deciso di intraprendere
una strada
differente, aveva deciso di partire verso una città che gli
avrebbe offerto la
possibilità di realizzare il suo sogno e diventare un
campione.
Stupido
maniaco del Baseball.
Il vento fresco che soffiava sul suo volto lo fece riemergere da quei pensieri, come risvegliandolo; si accorse che erano ormai vicinissimi alla stazione, vicinissimi agli altri ex Guardiani venuti a salutare Yamamoto, vicinissimi all’addio. Quella consapevolezza fece stringere i pugni a Gokudera, mentre una morsa nel petto opprimeva senza riguardi il suo cuore, martoriandolo.
Stupido
Yamamoto, pensava,
strascicando i piedi
sull’asfalto, cercando in ogni modo di trattenersi dal
prendere a pugni il
ragazzo al suo fianco, che camminava allegramente col volto disteso e
le
braccia dietro la testa.
Poi,
Gokudera si fermò improvvisamente, non appena scorse, sul
fondo della strada,
l’edificio della stazione di Namimori.
Non
poteva farcela. Non riusciva ancora a restare zitto, a trattenersi
dall’urlare
e dallo sputargli addosso la promessa che gli aveva fatto, ad accusarlo
di
essere un bugiardo.
Non fece
nulla di tutto ciò; o meglio, non ci riuscì:
Yamamoto, non appena si era
accorto dell’immobilità dell’altro, gli
si era fatto vicino, spegnendo il
sorriso rilassato e assumendo un’espressione seria, davvero
rara da vedere sul
suo viso. Prima che Gokudera potesse aprire bocca o girare i tacchi per
andarsene, Yamamoto lasciò cadere il suo borsone in mezzo
alla strada, coprì la
distanza che ancora li separava e poggiò entrambe le mani
sulle sue spalle,
spingendolo all’indietro fino a farlo sbattere con la schiena
contro il muro di
un palazzo, fissandolo per un attimo dritto negli occhi, determinato;
poi si
abbassò e unì le loro labbra senza ulteriori
indugi, fregandosene di ogni cosa:
della gente che avrebbe potuto vederli - improbabile visto che il sole
stava
finendo di sorgere proprio in quel momento -, del treno che avrebbe
dovuto
prendere a breve, del fatto che magari Gokudera non fosse consenziente.
Il suo corpo si
appiccicò a quello di Gokudera, aderendo a esso con
bramosia; nel mentre, non
trovando rifiuti da parte dell’altro, ma solo fredda
rigidità, si permise di
approfondire il contatto, sospirando prima di leccare il labbro
inferiore per
avvertirlo della sua imminente intrusione. Gokudera, rimasto attonito e
compresso contro la parete fino a quel momento, finalmente parve
riprendersi e
tutta l’irritazione, la frustrazione, la delusione che
provava la trasmise a
Yamamoto in quel bacio. Si aggrappò al colletto della sua
camicia con furia,
attaccando la sua bocca senza remore, mordendogli un labbro con il solo
scopo
di fargli male. Yamamoto si lasciò prendere da quella foga e
violò la cavità orale
di Gokudera senza ritegno, cercando con la lingua quella
dell’altro, premendosi
ancora di più contro il suo corpo, schiacciandolo
letteralmente contro il muro,
senza preoccuparsi di potergli fare male; una delle sue gambe si
aprì uno
spazio fra quelle di Gokudera proprio mentre lui gli succhiava
febbrilmente la
lingua, conscio che quel gesto lo eccitava all’inverosimile;
infatti, sfregò
con urgenza la sua erezione sul ventre dell’altro, sentendo
una piacevole
scossa di piacere attraversarlo dalla testa ai piedi.
Non gli bastava,
Yamamoto
voleva di più ed era certo che anche Gokudera lo
desiderasse: lo sentiva da
come si stringeva a lui, da come cercasse sollievo strusciandosi contro
la sua
gamba, da come rabbrividiva sotto le sue dita che si erano andate a
intrufolare
sotto la maglietta, carezzando la pelle liscia. Gokudera
infilò allora le mani
tra i capelli di Yamamoto, portandoselo, se possibile, ancora
più vicino,
approfondendo maggiormente quel bacio intenso e passionale, che voleva
dire
tante cose, che voleva essere tante cose, ma che più di
tutto era un addio, ne
era certo.
Come
schiaffeggiato da quella consapevolezza, Gokudera si lasciò
guidare dalla
rabbia cieca che aveva sovrastato ogni altra emozione e ogni sua azione
assunse
un tono aggressivo: spezzò quel bacio interminabile
ottenendo un suono di
protesta da parte dell’altro e, senza prestargli attenzione,
si avventò sul suo
collo, mordendolo senza pietà, graffiando coi denti la gola
e leccando la
clavicola che sporgeva dalla stoffa della camicia, facendolo gemere per
la sorpresa
e il dolore, ma anche per l’eccitazione.
Hayato era sempre in
grado di
sorprenderlo e quel suo lato imprevedibile eccitava da morire Yamamoto
che,
senza perdere tempo, fece scivolare una mano da sotto la sua maglietta
fino al cavallo
dei pantaloni; Gokudera, allibito, non riuscì a far altro se
non mordere ancora
l’incavo tra collo e spalla e tirare forte i capelli di
Yamamoto, come a
volerglieli strappare.
Tutto quello non era destinato a durare ancora
molto:
proprio nel mezzo di un nuovo e selvaggio bacio lo squillo acuto di un
cellulare li fece sobbalzare e staccare l’uno
dall’altro come se fossero stati
beccati da qualcuno in carne ed ossa a fare quelle cose.
Ma la via era deserta
quando Yamamoto, tirato fuori il telefonino dalla tasca, ruppe il
silenzio
esclamando: << Yo, Tsuna! >> al suo
interlocutore. Gokudera rimase
zitto ad ascoltare la breve conversazione, intuendo che il Decimo si
fosse
preoccupato non vedendo arrivare Yamamoto alla stazione nonostante
mancassero
poco più che dieci minuti alla partenza del suo treno. Si
sistemò i capelli
scompigliati e la maglietta mezza sollevata, evitando in ogni modo di
posare
anche solo casualmente lo sguardo sull’altro. Non appena
chiuse la
conversazione, però, Yamamoto cercò i suoi occhi
e lui non poté far altro se
non assecondarlo, infilzandosi i palmi delle mani con le unghie
all’affermazione che seguì: << Devo
andare. Il treno non aspetta.
>> Il tono era deciso, senza inclinazioni particolari, se
non si contavano il sentore di amarezza che si poteva cogliere a un attento
ascolto e le
iridi calde che lo facevano rabbrividire per la loro
intensità.
Con uno sforzo immane che
cercò di non far trapelare, parlò con il tono
più seccato che poteva riuscirgli
in quel momento: << Allora vattene, stupido invasato del
Baseball.
>>
Perché gli veniva da piangere, da strillare
come uno psicopatico, da
pronunciare parole assolutamente contrastanti con quelle che aveva
appena
usato?
Era
tutta colpa del suo viso, pensò, era colpa della faccia di
quell’idiota, che lo
stava fissando con tristezza, come ferito. Perché mai
dovrebbe essere Yamamoto
quello ferito, poi?! Come poteva Yamamoto non capire che era lui quello che stava peggio tra loro
due?
Stupido,
stupido Yamamoto,
accusò nuovamente la sua mente,
sfinita da tutta quella sofferenza interiore.
<<
Smettila di fissarmi in quel modo! >> sbottò
alla fine Gokudera, alzando
gli occhi iracondi, suscitando nell’altro una reazione del
tutto prevedibile; infatti,
Yamamoto piegò le labbra in un sorriso incerto, decisamente
confuso.
<<
Perché, come ti sto guardando? >>
l’atmosfera struggente che vigeva fino
a un attimo prima era scomparsa con la velocità di una bolla
di sapone, fragile
e leggera; sembrava che fra i due fosse tornata la solita
rivalità scherzosa
che caratterizzava il loro rapporto.
<<
Come un fesso, ecco come mi stai guardando! >>
berciò Gokudera alla vista
di quell’espressione, senza rimuginare sul fatto che quelli
erano gli ultimi
secondi che potevano passare insieme, da
soli, prima dell’addio; e loro li stavano sprecando
per battibeccare.
Se ne accorse quando Yamamoto
guardò l’ora e disse, di nuovo: <<
Devo andare. >>
Gokudera era
sicuro che il suo cuore si fosse fermato mentre Yamamoto pronunciava
quelle
parole, lo sapeva, lo sentiva; un dolore acuto si stava propagando per
tutto il
petto, come se uno spillo avesse bucato quell’organo di
vitale importanza e, a
causa dell’esplosione che ne era derivata, i pezzi si fossero
sparpagliati
ovunque e stessero già marcendo, consumandosi lentamente,
prolungando
quell’agonia.
Stavolta, però, il
tono con cui aveva parlato era diverso: era calmo, di una calma tale
che riuscì
in parte a sedare le fitte di Gokudera; era la calma della pioggia che,
purificatrice, scendeva a risanare le ferite: era la pioggia di
Yamamoto.
Di
fronte a quella verità Gokudera non riuscì a far
altro se non celare il volto
dietro una tenda di capelli, sperando di non mostrare il suo reale
stato d’animo,
proprio come prima che Yamamoto lo attaccasse senza preavviso,
baciandolo,
precludendogli ogni possibilità di ribellione.
Il sole
era sorto ormai, bagnando la città dei raggi caldi di fine
estate, raggiungendo
con la sua luce i due ragazzi, infondendo il coraggio necessario a
Yamamoto:
<< Gokudera… >>
allungò una mano come a voler carezzare la sua
guancia, ma l’interpellato fece un passo indietro, scansando
malamente il
braccio con uno schiaffo deciso; Yamamoto, senza mostrare lo sconforto
derivato
da quell’atto, si limitò a sorridere mesto,
continuando la frase: << Non
posso farci niente. E’ l’unico modo per realizzare
il mio sogno… >>
sospirò, sentendosi veramente uno stupido nel fare quel
discorso, sentendo di
star dicendo cose senza senso << Mi dispiace per quello
è successo…
Voglio dire, per il fatto di Tsuna e dei Vongola. So che per te era
davvero
importante e che la rinuncia di Tsuna a decimo boss ti ha distrutto; so
che ti
sembrerà egoista la mia partenza; so che dovrei starti
vicino più di tutti
visto quello che abbiamo passato insieme. Ma è davvero
importante per me,
nonostante mi senta malissimo sapendo quello che sto lasciando qui: mio
padre,
degli amici incredibili, te. Io ti chiamerò, ti
scriverò, verrò a trovarti,
perciò… Perciò…
>>
Non dimenticarmi,
avrebbe voluto dire; ma quelle parole rimasero bloccate in gola,
soffocandolo,
premendo per uscire fuori e dare un senso alle sconclusionatezze che
ancora
aleggiavano nell’aria; e lo stava per fare, quelle poche
sillabe stavano per
lasciare la sua bocca, aveva trovato il coraggio per dire la cosa
più
importante, quella che avrebbe spiegato tutto; ma Gokudera, increspando
le
labbra e battendo un pugno contro lo stesso muro che aveva ancora
addosso
l’odore della loro attrazione, gridò:
<< Stai zitto! >> ansimando
come se avesse corso, come se i polmoni stessero per esplodere, alla
pari del
suo cuore ormai a pezzi. Yamamoto sgranò gli occhi
incontrando, finalmente,
quelli dell’altro, ma ciò che vide non gli
piacque: erano un miscuglio di
emozioni velenose; erano collera, tristezza, delusione, rimorso,
sdegno; era
per lui, quel veleno era riservato a lui e solo a lui.
<<
Stai zitto… >> ripeté con meno
veemenza, appassendo davanti ai suoi occhi
sconvolti << Tu non sai quello che provo, tu non puoi
saperlo… Perciò
vedi di smetterla di fare il figo e di credere di conoscere tutto di
me. Tu non
sai quanto fosse importante per me essere parte della Famiglia. Non
puoi
saperlo, perché non hai mai capito un emerito cazzo! Non
riesci a distinguere
la differenza tra un gioco e la realtà, come potresti
comprendere qualcosa di
così complicato come il mio dolore? >> le
parole sgorgavano come un fiume
in piena, taglienti e inarrestabili, travolgendo Yamamoto con la loro
impetuosità << Perciò…
Stai zitto. Non voglio sentire niente da te, non
voglio niente da te! Risparmia le tue energie per quello stupido sport
e non
per telefonarmi. Tanto non ti risponderò. Non ho nulla da
dirti adesso,
figuriamoci se ne avrò in futuro. >>
A quel punto diede le spalle a Yamamoto, non potendo davvero
più
sostenere i suoi occhi afflitti. Si sentiva l’animo lacerato,
ma preferiva che
andasse a finire in quel modo, altrimenti non sapeva come avrebbe
reagito;
continuando ad ascoltare le frasi a tratti sconnesse di Yamamoto si era
reso
conto di quanto quelle lo facevano stare bene e male contemporaneamente
e
ringraziava il cielo che l’idiota avesse incespicato nel
finale… Perché aveva
avuto l’adrenalinica sensazione che se avesse terminato il
discorso lui sarebbe
caduto ai suoi piedi, assecondandolo, rispondendogli che, sebbene si
sarebbe
sentito solo, nonostante la tristezza, lo avrebbe aspettato.
Sì, avrebbe atteso
il suo ritorno come una ragazzina innamorata, lo avrebbe incoraggiato
in
segreto, avrebbe tifato per lui e avrebbe risposto alle sue chiamate
con finta
indifferenza, per mantenere la sua facciata da duro.
Ma non
era andata così e, per quanto una piccola parte di lui si
corrodesse per
questo, la maggior parte del suo cuore superstite era sollevato: non si
sentiva
pronto ad accogliere la potenza di quei sentimenti, non si sentiva
all’altezza
di uno come Yamamoto; era meglio finire la loro storia così,
era meglio mettere
bene in chiaro le cose, era meglio far stare male entrambi, almeno
avrebbero
finito col dimenticare quell’estate al più presto.
E poi, chi era lui per impedire a Yamamoto di seguire i
suoi sogni? Era
più che rinomata oramai la sua fissazione per il Baseball,
la sua voglia di
migliorarsi, il sentimento che metteva in gioco quando scendeva in
campo.
Yamamoto
aveva grandi speranze per il futuro. Chi era lui per sopprimerle?
Nessuno. Nessuno d’importante. Per questo
Yamamoto, almeno lui, doveva
realizzare il suo desiderio. E Hayato doveva
farsi da parte perché si avverasse.
Probabilmente
non si era accorto di stare tremando impercettibilmente, ma Yamamoto lo
notò e
una luce particolare attraversò i suoi occhi, una luce che
Gokudera non avrebbe
mai visto, almeno non per molto, molto
tempo. Forse Yamamoto aveva compreso - in parte - i pensieri che
stavano
attraversando il suo compagno o, forse, aveva deciso di non volerlo
lasciare in
quel modo.
Allungò le
braccia fino a che non si trovarono nella posizione perfetta per
stringere
Gokudera e portarselo vicino, schiena contro petto; affondò
il viso fra i
capelli argentati, inspirando quasi inconsciamente, memorizzando ogni
sfumatura
del suo odore, anche quella fastidiosa della nicotina. Gokudera lo
lasciò fare,
gli occhi allargati e increduli, un calore devastante a riempire il
cuore
freddo e le guance pallide.
<<
Grazie. >> pronunciò Yamamoto, senza un reale
motivo. Forse era un “grazie
per esserti lasciato abbracciare”, o “grazie per
aver capito i miei sogni”, o
magari…
A
malincuore Yamamoto sciolse la presa e recuperò il borsone
che giaceva
sull’asfalto a un paio di metri di distanza; Gokudera,
determinato, si girò,
rifilandogli uno dei suoi sguardi peggiori, trovando però a
scontrarsi con un
sorriso. Era quel maledetto sorriso radioso che l’idiota
donava a chiunque,
quel sorriso che lui non riusciva proprio a digerire, quel sorriso che
lo
faceva passare per un allocco.
Gokudera non era un
allocco e, vedendolo alzare la mano, agitandola come fanno solo i
mocciosi
delle elementari per salutare, comprese cosa voleva dire con quel
“grazie”. Non
poteva averne la conferma, ma qualcosa
gli diceva che era così.
<<
Ci vediamo, Gokudera! >> esclamò, iniziando ad
indietreggiare per
avvicinarsi alla stazione, in modo da non dover interrompere il
contatto visivo
<< Chissà, magari ad Agosto tra dieci
anni… Ma ci rincontreremo! >>
buttò con tono scherzoso, inchiodandolo però con
uno sguardo serio che diede
vita a una scossa di piacere lungo la sua spina dorsale. Yamamoto
continuò a
indietreggiare e agitare la mano, mantenendo
quell’espressione serena fino alla
fine.
<< Tsk! >> fu la sola risposta che giunse
alle sue orecchie.
Gokudera
non si era mai sentito tanto triste come in quel momento, guardando
l’altro
allontanarsi mentre avvertiva ancora addosso il suo odore, il suo calore,
il suo
sapore.
Sapeva che, anche se stava sorridendo, Yamamoto in realtà si
sentiva uno
schifo. Non aveva voluto rovinare il loro ultimo incontro, aveva voluto
conservare dentro di sé un’immagine differente, al
contrario di Gokudera che
aveva tentato di tagliare bruscamente i ponti.
Si
accese quasi meccanicamente una sigaretta, aspirando una generosa dose
di
nicotina senza neanche percepirla arrivare nei polmoni, mentre le gambe
instabili provavano a fare qualche passo indeciso. Lui non sarebbe
andato alla
stazione, non avrebbe accompagnato Yamamoto fino al binario; a quello
ci
avrebbero pensato il Decimo e tutti gli altri che erano andati a
salutarlo. Lui
non poteva, dopo tutto quello che era appena successo, arrivare fino a
quel
punto.
Non ci
sarebbero stati pianti fra loro, ma era comunque triste
quell’addio, fatto di
sguardi e di parole non dette, di sospiri portati via dal vento e di un
sorriso
ingenuo.
Così si diedero le spalle, con la morte dentro.
Grazie per i
ricordi, Gokudera. Non
dimenticherò nulla.
*************
Alla
fine dieci anni erano passati davvero.
Gokudera
non aveva più visto né sentito Yamamoto,
destreggiandosi nei lavori più vari
per riuscire ad andare avanti con la sua vita, per sopravvivere
nonostante
tutto: nonostante la partenza di Yamamoto, nonostante il frantumarsi
del suo
sogno più grande.
All’inizio Yamamoto aveva perfino provato a
chiamarlo, ma lui, tenendo
fede alle sue parole, non gli aveva risposto. Era andato a Tokyo per
entrare a
far parte di una squadra semi-professionale di Baseball, doveva restare
concentrato sul suo obbiettivo, senza futili distrazioni.
Almeno lui doveva
realizzare il suo sogno, questo aveva pensato Gokudera guardando il
cielo
stellato dell’ultimo giorno dell’estate, ripensando
agli ultimi minuti che
avevano passato assieme, al sorriso di Yamamoto, al loro addio.
Adesso erano trascorsi dieci anni e Gokudera sapeva che Yamamoto era un giocatore professionista piuttosto acclamato; lo aveva letto negli articoli che il padre, Tsuyoshi Yamamoto, incorniciava nel suo ristorante; lo aveva sentito dal Decimo durante una delle sue tante chiacchierate al telefono con Takeshi; lo aveva percepito, come un brivido di vittoria che lo aveva trapassato da parte a parte.
Almeno uno di
loro due era felice.
Però,
quel giorno, Gokudera era irrequieto: aveva come la sensazione che
qualcosa
stava per accadere, era l’istinto a suggerirglielo.
Forse
perché era Agosto, erano passati dieci anni e
l’estate era in procinto di
finire; forse anche per quello stralcio di conversazione udito per caso
tra il
Decimo e il vecchio Yamamoto.
L’istinto voleva assolutamente
guidarlo verso la stazione di Namimori, senza un’apparente
motivazione.
Lui non
aveva alcuna intenzione di ascoltare il suo istinto. Non questa volta.
Era
seduto su una delle panche del binario tre, quello dove si sarebbe
fermato il
treno proveniente da Tokyo. Sapeva che era una follia, che anche se
quel treno
fosse arrivato lui non sarebbe
sceso
o, magari, non l’avrebbe neanche riconosciuto.
Perché avrebbe dovuto? Erano
passati dieci anni e non si erano più sentiti da allora.
Perché dunque si
trovava lì, ad accendere l’ennesima sigaretta
mentre con occhi quasi spauriti
fissava il treno rallentare e poi arrestarsi di fronte a lui?
Perché,
nonostante avesse venticinque anni oramai, abbassava lo sguardo verso
le sue
scarpe, quasi terrorizzato da ciò che potesse vedere?
Il
brusio concitato delle persone che scendevano dal mezzo occupava il suo
cervello mentre, con aria esternamente indifferente, fumava la sua
sigaretta,
aspettando con ansia.
Poi le
vide, come un miraggio nel mezzo del deserto: un paio di All Star nere
si
fermarono nella sua visuale e non ebbe bisogno controllare per
comprendere di
chi si trattasse; il suo cuore aveva già preso a
singhiozzare furiosamente,
come riconoscendolo.
Lo
sentì
sedersi al suo fianco dopo secondi di incertezza; Gokudera non
sollevò mai gli
occhi, preferendo dedicare tutta la sua attenzione alla sigaretta fra
le sue
dita.
<<
Sono tornato. >> sentì pronunciare da una
voce, la sua voce, solo con un
timbro più profondo << Te l’avevo
detto. >> disse, ma somigliava più a un Te l’avevo promesso.
Gokudera
non trovò nulla da dire per un minuto buono ed evidentemente
neanche il nuovo
venuto, dato che fra loro si instaurò un silenzio pesante.
Finché Gokudera,
mandando al diavolo ogni buon senso, propense per l’istinto, di nuovo: << Ce ne hai
messo di
tempo, stupido idiota del Baseball. >> sputò
vagamente acido e stizzito,
alzando finalmente il volto e mostrando un mezzo sorriso derisorio
dietro il
quale si celava rimprovero, paura, felicità pura.
<<
Hehehe, hai ragione! …Scusa. >>
mormorò Yamamoto,
piegando le labbra in un sorriso che invece era triste, pieno di
sottintesi e
di rammarico. Era davvero dispiaciuto.
Gokudera
aspirò un’ultima volta e poi gettò in
terra il mozzicone, schiacciandolo con la
suola della scarpa, l'aria pensierosa. Yamamoto lo osservava vigile,
pronto a ribattere qualcos'altro per spezzare il nuovo
silenzio che si era
creato tra loro; ma Gokudera in quel momento si alzò in
piedi, sovrastandolo
momentaneamente.
Parve
indugiare ancora un istante, prima di sollevare gli occhi determinati e
puntarli
in quelli di Yamamoto, allungando una mano verso di lui.
<<
Bentornato a casa. >>
Yamamoto
rimase interdetto un paio di secondi, il cuore che sobbalzava
impazzito; poi
sorrise, sorrise come mai prima d’allora, sorrise come non
sorrideva da dieci
anni; era talmente luminoso che Gokudera rimase abbagliato da quella
luce per
un istante, prima che la mano dell’altro stringesse la sua
accettando
l’offerta. Yamamoto si alzò, passandogli un
braccio attorno le spalle, in un
modo confidenziale e, in qualche modo, anche familiare.
Il sole di fine Agosto iniziava a calare alle loro
spalle, ma non importava: finalmente erano di nuovo insieme, dopo anni
passati
fra rimpianti e rimorsi, a cercare di dimenticare, a cercare conforto
nei
sogni, a vivere di ricordi.
Avevano
tanto di cui parlare, avevano tanto da chiarire e non vedevano
l’ora di restare soli e colmare quel vuoto, toccarsi per
vedere se tutto era
come prima o se qualcosa era cambiato.
E la
fine dell’estate, ne erano certi, non li avrebbe
più resi tristi, perché ora li
aveva riuniti, come era giusto che fosse.
Bene, e anche questa è andata! x)
Vi avviso che, mooolto lentamente - lo so, sono imperdonabile! -, sto ultimando il nuovo capitolo di Infected. Spero sappiate pazientare ancora un po'. ^^"
Purtroppo è un periodo allucinante per me, assurdamente e costantemente pieno d'impegni. D:
Vi ringrazio per seguirmi, per leggermi e anche commentare le mie storie. =) Ringrazio anche chi ha commentato la mia flashfic 'Pioggia nera, desiderio impuro'. Grazie mille per le vostre parole, sono davvero contenta di essere riuscita a emozionarvi e spero possiate apprezzare anche questa one-shot. =)
Un bacio a tutti! Vi lascio al bellissimo banner! *O*