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Autore: Dead Master    27/03/2012    5 recensioni
Prima che Gokudera potesse aprire bocca o girare i tacchi per andarsene, Yamamoto lasciò cadere il suo borsone in mezzo alla strada, coprì la distanza che ancora li separava e poggiò entrambe le mani sulle sue spalle, spingendolo all’indietro fino a farlo sbattere con la schiena contro il muro di un palazzo, fissandolo per un attimo dritto negli occhi, determinato; poi si abbassò e unì le loro labbra senza ulteriori indugi, fregandosene di ogni cosa.
Yamamoto/Gokudera, of course. Perché di loro due non ne ho mai abbastanza.
[Prima classificata al 'contest yaoi a riproduzione casuale' indetto da Violetbow.]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Hayato Gokudera, Takeshi Yamamoto
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti! ^^

Non mi dilungherò e dirò giusto un paio di cose fondamentali.
La storia si svolge in un momento non ben definito; l’unica cosa certa qui è che Tsuna ha rinunciato alla sua carica di Decimo boss dei Vongola e, per questo, Yamamoto si trasferisce a Tokyo per iniziare a giocare semi-professionalmente a Baseball, seguendo così il suo sogno. Lo dico solo perché temo di aver scritto un mucchio di cose senza senso, ecco! X°° E poi mi sa che non l’ho mai specificato veramente.
Il mio timore più grande, però, è quello di essere andata OOC soprattutto nel finale (terribile finale! >.<), nonostante l’attenzione che ho dedicato alla caratterizzazione. E poi ho paura di essere stata troppo sdolcinata..! Oltre che affrettata. O.O Beh, lasciamo perdere.
Vi lascio alla lettura. ^^





La fine dell'estate




<< Oi, Gokudera! >>

L’interessato riconobbe immediatamente la voce che lo chiamava; d’altronde, come non avrebbe potuto? Il tono così gioviale e allegro poteva appartenere solo a una persona, proprio quella che aveva meno voglia di vedere, soprattutto quel giorno.

Strinse i denti, venendo attraversato da un fastidioso fremito, mentre continuava a camminare imperterrito per le strade silenziose di Namimori, ignorando la presenza alle sue spalle - almeno per il momento. 

<< Stai andando alla stazione, vero? >> la voce si faceva più vicina, constatò Gokudera sbuffando del fumo da bocca e narici, scocciato; all’altezza di un incrocio il suo proprietario lo affiancò, passandogli un braccio attorno le spalle.
<< Camminiamo insieme. >> propose, sorridendo stupidamente, senza badare all’espressione stizzita e vagamente orripilata che aveva assunto l’altro.

Con una scrollata di spalle si liberò da quell’arto invadente, allontanandosi poi di qualche passo da Yamamoto mentre borbottava quello che sicuramente era un insulto; nascose il viso dietro ciuffi argentati per non mostrare il tormento che attraversava i suoi occhi.

Yamamoto, all’oscuro di ciò, si sistemò sulle spalle un borsone ingombrante dall’aria pesante. Gokudera, seguendo il movimento con la coda dell’occhio, si sentì sommerso da sentimenti contrastanti che lo fecero impazzire; provò l’impulso di urlargli addosso che stava facendo una cazzata, che non doveva, non poteva andarsene, non poteva lasciare tutti indietro, non poteva lasciare il Decimo, non poteva lasciare lui.

Non poteva lasciarlo; non dopo avergli promesso che gli sarebbe sempre stato accanto, in quella sera d’estate davanti ai fuochi d’artificio, mentre sorrideva abbagliante sussurrandogli nell’orecchio quando tutti gli altri erano distratti. Gokudera, nonostante fosse rimasto in silenzio a guardare il cielo stellato, come se non avesse sentito quelle parole che somigliavano quasi a una confessione, gli aveva creduto; o, almeno, gli piaceva l’idea che fosse sincero, che la natura ingenua e splendente di Yamamoto fosse reale e, quindi, non potesse ingannare o tradire nessuno.

Ormai l’estate stava finendo e con essa il divertimento e la felicità di quei giorni trascorsi a ridere, a prendersi in giro, a stare semplicemente insieme; ma soprattutto stava finendo la felicità di quei giorni trascorsi da soli, a toccarsi, baciarsi, conoscersi meglio col corpo; perché per Yamamoto e Gokudera non c’era bisogno di troppe parole, anzi, quelle non erano in grado di esprimere pienamente ciò che provavano l’uno per l’altro. Solamente sfiorandosi, invece, o unendo le labbra in modo spasmodico, trasmettevano il proprio stato d’animo e riuscivano a comprendersi e completarsi, in un modo che Gokudera non avrebbe mai creduto possibile. Gli sembrava ancora assurdo quello che avevano passato, che avevano fatto.

Tutto era successo in quell’estate, ritrovandosi sempre più spesso in quella che Yamamoto, col suo solito essere scemo, aveva ribattezzato come la loro base segreta, ma che altro non era se non la casa di Gokudera, piccola e vuota; fino a che non era arrivata quella presenza rumorosa e fin troppo espansiva che aveva devastato ogni cosa: il suo letto, la sua cucina, il suo cuore.
Nonostante Gokudera lo rimproverasse e rimbeccasse in continuazione, intimandogli di non presentarsi all’improvviso davanti alla sua porta o di non seguirlo dopo scuola fino a casa, non appena Yamamoto incollava i suoi occhi magnetici in quelli verdi dell’altro nulla aveva più senso: Hayato mandava al diavolo tutti i buoni propositi e si lasciava trascinare in quel vortice che lo risucchiava senza via di scampo, stringendosi quasi morbosamente a Yamamoto su quel letto troppo stretto per due, ma che loro si facevano bastare, presi da tutt’altro per pensare a una tale quisquilia.
Era bello ripensare alla dolcezza di Yamamoto, alle sue carezze premurose, al suo preoccuparsi di non fare mai male ad Hayato. Era bello anche quando era aggressivo, quando le dita stringevano forte i suoi fianchi, tanto da lasciargli lividi; e lui, per ricambiare, gli graffiava la schiena senza pietà, ringhiando sommessamente di piacere e dolore. Era bello quando Yamamoto lo prendeva senza pensarci due volte, come guidato da un istinto primordiale che cancellava ogni altro pensiero dalla sua mente; era bello perché dopo quel rapporto animalesco particolarmente intenso, Yamamoto sembrava sentirsi in colpa e si scusava con Gokudera per la sua irruenza, esibendo uno dei suoi sorrisi innocenti.

Yamamoto aveva deciso di uccidere tutto questo. Aveva deciso di intraprendere una strada differente, aveva deciso di partire verso una città che gli avrebbe offerto la possibilità di realizzare il suo sogno e diventare un campione.

Stupido maniaco del Baseball.

Il vento fresco che soffiava sul suo volto lo fece riemergere da quei pensieri, come risvegliandolo; si accorse che erano ormai vicinissimi alla stazione, vicinissimi agli altri ex Guardiani venuti a salutare Yamamoto, vicinissimi all’addio. Quella consapevolezza fece stringere i pugni a Gokudera, mentre una morsa nel petto opprimeva senza riguardi il suo cuore, martoriandolo. 

Stupido Yamamoto, pensava, strascicando i piedi sull’asfalto, cercando in ogni modo di trattenersi dal prendere a pugni il ragazzo al suo fianco, che camminava allegramente col volto disteso e le braccia dietro la testa.
Poi, Gokudera si fermò improvvisamente, non appena scorse, sul fondo della strada, l’edificio della stazione di Namimori.
Non poteva farcela. Non riusciva ancora a restare zitto, a trattenersi dall’urlare e dallo sputargli addosso la promessa che gli aveva fatto, ad accusarlo di essere un bugiardo.

Non fece nulla di tutto ciò; o meglio, non ci riuscì: Yamamoto, non appena si era accorto dell’immobilità dell’altro, gli si era fatto vicino, spegnendo il sorriso rilassato e assumendo un’espressione seria, davvero rara da vedere sul suo viso. Prima che Gokudera potesse aprire bocca o girare i tacchi per andarsene, Yamamoto lasciò cadere il suo borsone in mezzo alla strada, coprì la distanza che ancora li separava e poggiò entrambe le mani sulle sue spalle, spingendolo all’indietro fino a farlo sbattere con la schiena contro il muro di un palazzo, fissandolo per un attimo dritto negli occhi, determinato; poi si abbassò e unì le loro labbra senza ulteriori indugi, fregandosene di ogni cosa: della gente che avrebbe potuto vederli - improbabile visto che il sole stava finendo di sorgere proprio in quel momento -, del treno che avrebbe dovuto prendere a breve, del fatto che magari Gokudera non fosse consenziente.
Il suo corpo si appiccicò a quello di Gokudera, aderendo a esso con bramosia; nel mentre, non trovando rifiuti da parte dell’altro, ma solo fredda rigidità, si permise di approfondire il contatto, sospirando prima di leccare il labbro inferiore per avvertirlo della sua imminente intrusione. Gokudera, rimasto attonito e compresso contro la parete fino a quel momento, finalmente parve riprendersi e tutta l’irritazione, la frustrazione, la delusione che provava la trasmise a Yamamoto in quel bacio. Si aggrappò al colletto della sua camicia con furia, attaccando la sua bocca senza remore, mordendogli un labbro con il solo scopo di fargli male. Yamamoto si lasciò prendere da quella foga e violò la cavità orale di Gokudera senza ritegno, cercando con la lingua quella dell’altro, premendosi ancora di più contro il suo corpo, schiacciandolo letteralmente contro il muro, senza preoccuparsi di potergli fare male; una delle sue gambe si aprì uno spazio fra quelle di Gokudera proprio mentre lui gli succhiava febbrilmente la lingua, conscio che quel gesto lo eccitava all’inverosimile; infatti, sfregò con urgenza la sua erezione sul ventre dell’altro, sentendo una piacevole scossa di piacere attraversarlo dalla testa ai piedi.
Non gli bastava, Yamamoto voleva di più ed era certo che anche Gokudera lo desiderasse: lo sentiva da come si stringeva a lui, da come cercasse sollievo strusciandosi contro la sua gamba, da come rabbrividiva sotto le sue dita che si erano andate a intrufolare sotto la maglietta, carezzando la pelle liscia. Gokudera infilò allora le mani tra i capelli di Yamamoto, portandoselo, se possibile, ancora più vicino, approfondendo maggiormente quel bacio intenso e passionale, che voleva dire tante cose, che voleva essere tante cose, ma che più di tutto era un addio, ne era certo.
Come schiaffeggiato da quella consapevolezza, Gokudera si lasciò guidare dalla rabbia cieca che aveva sovrastato ogni altra emozione e ogni sua azione assunse un tono aggressivo: spezzò quel bacio interminabile ottenendo un suono di protesta da parte dell’altro e, senza prestargli attenzione, si avventò sul suo collo, mordendolo senza pietà, graffiando coi denti la gola e leccando la clavicola che sporgeva dalla stoffa della camicia, facendolo gemere per la sorpresa e il dolore, ma anche per l’eccitazione.
Hayato era sempre in grado di sorprenderlo e quel suo lato imprevedibile eccitava da morire Yamamoto che, senza perdere tempo, fece scivolare una mano da sotto la sua maglietta fino al cavallo dei pantaloni; Gokudera, allibito, non riuscì a far altro se non mordere ancora l’incavo tra collo e spalla e tirare forte i capelli di Yamamoto, come a volerglieli strappare.
Tutto quello non era destinato a durare ancora molto: proprio nel mezzo di un nuovo e selvaggio bacio lo squillo acuto di un cellulare li fece sobbalzare e staccare l’uno dall’altro come se fossero stati beccati da qualcuno in carne ed ossa a fare quelle cose.
Ma la via era deserta quando Yamamoto, tirato fuori il telefonino dalla tasca, ruppe il silenzio esclamando: << Yo, Tsuna! >> al suo interlocutore. Gokudera rimase zitto ad ascoltare la breve conversazione, intuendo che il Decimo si fosse preoccupato non vedendo arrivare Yamamoto alla stazione nonostante mancassero poco più che dieci minuti alla partenza del suo treno. Si sistemò i capelli scompigliati e la maglietta mezza sollevata, evitando in ogni modo di posare anche solo casualmente lo sguardo sull’altro. Non appena chiuse la conversazione, però, Yamamoto cercò i suoi occhi e lui non poté far altro se non assecondarlo, infilzandosi i palmi delle mani con le unghie all’affermazione che seguì: << Devo andare. Il treno non aspetta. >> Il tono era deciso, senza inclinazioni particolari, se non si contavano il sentore di amarezza che si poteva cogliere a un attento ascolto e le iridi calde che lo facevano rabbrividire per la loro intensità.
Con uno sforzo immane che cercò di non far trapelare, parlò con il tono più seccato che poteva riuscirgli in quel momento: << Allora vattene, stupido invasato del Baseball. >>
Perché gli veniva da piangere, da strillare come uno psicopatico, da pronunciare parole assolutamente contrastanti con quelle che aveva appena usato? 
Era tutta colpa del suo viso, pensò, era colpa della faccia di quell’idiota, che lo stava fissando con tristezza, come ferito. Perché mai dovrebbe essere Yamamoto quello ferito, poi?! Come poteva Yamamoto non capire che era lui quello che stava peggio tra loro due?

Stupido, stupido Yamamoto, accusò nuovamente la sua mente, sfinita da tutta quella sofferenza interiore.

<< Smettila di fissarmi in quel modo! >> sbottò alla fine Gokudera, alzando gli occhi iracondi, suscitando nell’altro una reazione del tutto prevedibile; infatti, Yamamoto piegò le labbra in un sorriso incerto, decisamente confuso.
<< Perché, come ti sto guardando? >> l’atmosfera struggente che vigeva fino a un attimo prima era scomparsa con la velocità di una bolla di sapone, fragile e leggera; sembrava che fra i due fosse tornata la solita rivalità scherzosa che caratterizzava il loro rapporto.

<< Come un fesso, ecco come mi stai guardando! >> berciò Gokudera alla vista di quell’espressione, senza rimuginare sul fatto che quelli erano gli ultimi secondi che potevano passare insieme, da soli, prima dell’addio; e loro li stavano sprecando per battibeccare.
Se ne accorse quando Yamamoto guardò l’ora e disse, di nuovo: << Devo andare. >>
Gokudera era sicuro che il suo cuore si fosse fermato mentre Yamamoto pronunciava quelle parole, lo sapeva, lo sentiva; un dolore acuto si stava propagando per tutto il petto, come se uno spillo avesse bucato quell’organo di vitale importanza e, a causa dell’esplosione che ne era derivata, i pezzi si fossero sparpagliati ovunque e stessero già marcendo, consumandosi lentamente, prolungando quell’agonia.
Stavolta, però, il tono con cui aveva parlato era diverso: era calmo, di una calma tale che riuscì in parte a sedare le fitte di Gokudera; era la calma della pioggia che, purificatrice, scendeva a risanare le ferite: era la pioggia di Yamamoto.
Di fronte a quella verità Gokudera non riuscì a far altro se non celare il volto dietro una tenda di capelli, sperando di non mostrare il suo reale stato d’animo, proprio come prima che Yamamoto lo attaccasse senza preavviso, baciandolo, precludendogli ogni possibilità di ribellione.

Il sole era sorto ormai, bagnando la città dei raggi caldi di fine estate, raggiungendo con la sua luce i due ragazzi, infondendo il coraggio necessario a Yamamoto:
<< Gokudera… >> allungò una mano come a voler carezzare la sua guancia, ma l’interpellato fece un passo indietro, scansando malamente il braccio con uno schiaffo deciso; Yamamoto, senza mostrare lo sconforto derivato da quell’atto, si limitò a sorridere mesto, continuando la frase: << Non posso farci niente. E’ l’unico modo per realizzare il mio sogno… >> sospirò, sentendosi veramente uno stupido nel fare quel discorso, sentendo di star dicendo cose senza senso << Mi dispiace per quello è successo… Voglio dire, per il fatto di Tsuna e dei Vongola. So che per te era davvero importante e che la rinuncia di Tsuna a decimo boss ti ha distrutto; so che ti sembrerà egoista la mia partenza; so che dovrei starti vicino più di tutti visto quello che abbiamo passato insieme. Ma è davvero importante per me, nonostante mi senta malissimo sapendo quello che sto lasciando qui: mio padre, degli amici incredibili, te. Io ti chiamerò, ti scriverò, verrò a trovarti, perciò… Perciò… >>
Non dimenticarmi, avrebbe voluto dire; ma quelle parole rimasero bloccate in gola, soffocandolo, premendo per uscire fuori e dare un senso alle sconclusionatezze che ancora aleggiavano nell’aria; e lo stava per fare, quelle poche sillabe stavano per lasciare la sua bocca, aveva trovato il coraggio per dire la cosa più importante, quella che avrebbe spiegato tutto; ma Gokudera, increspando le labbra e battendo un pugno contro lo stesso muro che aveva ancora addosso l’odore della loro attrazione, gridò: << Stai zitto! >> ansimando come se avesse corso, come se i polmoni stessero per esplodere, alla pari del suo cuore ormai a pezzi. Yamamoto sgranò gli occhi incontrando, finalmente, quelli dell’altro, ma ciò che vide non gli piacque: erano un miscuglio di emozioni velenose; erano collera, tristezza, delusione, rimorso, sdegno; era per lui, quel veleno era riservato a lui e solo a lui.

<< Stai zitto… >> ripeté con meno veemenza, appassendo davanti ai suoi occhi sconvolti << Tu non sai quello che provo, tu non puoi saperlo… Perciò vedi di smetterla di fare il figo e di credere di conoscere tutto di me. Tu non sai quanto fosse importante per me essere parte della Famiglia. Non puoi saperlo, perché non hai mai capito un emerito cazzo! Non riesci a distinguere la differenza tra un gioco e la realtà, come potresti comprendere qualcosa di così complicato come il mio dolore? >> le parole sgorgavano come un fiume in piena, taglienti e inarrestabili, travolgendo Yamamoto con la loro impetuosità << Perciò… Stai zitto. Non voglio sentire niente da te, non voglio niente da te! Risparmia le tue energie per quello stupido sport e non per telefonarmi. Tanto non ti risponderò. Non ho nulla da dirti adesso, figuriamoci se ne avrò in futuro. >>
A quel punto diede le spalle a Yamamoto, non potendo davvero più sostenere i suoi occhi afflitti. Si sentiva l’animo lacerato, ma preferiva che andasse a finire in quel modo, altrimenti non sapeva come avrebbe reagito; continuando ad ascoltare le frasi a tratti sconnesse di Yamamoto si era reso conto di quanto quelle lo facevano stare bene e male contemporaneamente e ringraziava il cielo che l’idiota avesse incespicato nel finale… Perché aveva avuto l’adrenalinica sensazione che se avesse terminato il discorso lui sarebbe caduto ai suoi piedi, assecondandolo, rispondendogli che, sebbene si sarebbe sentito solo, nonostante la tristezza, lo avrebbe aspettato. Sì, avrebbe atteso il suo ritorno come una ragazzina innamorata, lo avrebbe incoraggiato in segreto, avrebbe tifato per lui e avrebbe risposto alle sue chiamate con finta indifferenza, per mantenere la sua facciata da duro.

Ma non era andata così e, per quanto una piccola parte di lui si corrodesse per questo, la maggior parte del suo cuore superstite era sollevato: non si sentiva pronto ad accogliere la potenza di quei sentimenti, non si sentiva all’altezza di uno come Yamamoto; era meglio finire la loro storia così, era meglio mettere bene in chiaro le cose, era meglio far stare male entrambi, almeno avrebbero finito col dimenticare quell’estate al più presto.
E poi, chi era lui per impedire a Yamamoto di seguire i suoi sogni? Era più che rinomata oramai la sua fissazione per il Baseball, la sua voglia di migliorarsi, il sentimento che metteva in gioco quando scendeva in campo.
Yamamoto aveva grandi speranze per il futuro. Chi era lui per sopprimerle?
Nessuno. Nessuno d’importante. Per questo Yamamoto, almeno lui, doveva realizzare il suo desiderio. E Hayato doveva farsi da parte perché si avverasse.

Probabilmente non si era accorto di stare tremando impercettibilmente, ma Yamamoto lo notò e una luce particolare attraversò i suoi occhi, una luce che Gokudera non avrebbe mai visto, almeno non per molto, molto tempo. Forse Yamamoto aveva compreso - in parte - i pensieri che stavano attraversando il suo compagno o, forse, aveva deciso di non volerlo lasciare in quel modo.
Allungò le braccia fino a che non si trovarono nella posizione perfetta per stringere Gokudera e portarselo vicino, schiena contro petto; affondò il viso fra i capelli argentati, inspirando quasi inconsciamente, memorizzando ogni sfumatura del suo odore, anche quella fastidiosa della nicotina. Gokudera lo lasciò fare, gli occhi allargati e increduli, un calore devastante a riempire il cuore freddo e le guance pallide.

<< Grazie. >> pronunciò Yamamoto, senza un reale motivo. Forse era un “grazie per esserti lasciato abbracciare”, o “grazie per aver capito i miei sogni”, o magari…

A malincuore Yamamoto sciolse la presa e recuperò il borsone che giaceva sull’asfalto a un paio di metri di distanza; Gokudera, determinato, si girò, rifilandogli uno dei suoi sguardi peggiori, trovando però a scontrarsi con un sorriso. Era quel maledetto sorriso radioso che l’idiota donava a chiunque, quel sorriso che lui non riusciva proprio a digerire, quel sorriso che lo faceva passare per un allocco. 
Gokudera non era un allocco e, vedendolo alzare la mano, agitandola come fanno solo i mocciosi delle elementari per salutare, comprese cosa voleva dire con quel “grazie”. Non poteva averne la conferma, ma qualcosa gli diceva che era così.

<< Ci vediamo, Gokudera! >> esclamò, iniziando ad indietreggiare per avvicinarsi alla stazione, in modo da non dover interrompere il contatto visivo << Chissà, magari ad Agosto tra dieci anni… Ma ci rincontreremo! >> buttò con tono scherzoso, inchiodandolo però con uno sguardo serio che diede vita a una scossa di piacere lungo la sua spina dorsale. Yamamoto continuò a indietreggiare e agitare la mano, mantenendo quell’espressione serena fino alla fine. 
<< Tsk! >> fu la sola risposta che giunse alle sue orecchie.

Gokudera non si era mai sentito tanto triste come in quel momento, guardando l’altro allontanarsi mentre avvertiva ancora addosso il suo odore, il suo calore, il suo sapore. 
Sapeva che, anche se stava sorridendo, Yamamoto in realtà si sentiva uno schifo. Non aveva voluto rovinare il loro ultimo incontro, aveva voluto conservare dentro di sé un’immagine differente, al contrario di Gokudera che aveva tentato di tagliare bruscamente i ponti.

Si accese quasi meccanicamente una sigaretta, aspirando una generosa dose di nicotina senza neanche percepirla arrivare nei polmoni, mentre le gambe instabili provavano a fare qualche passo indeciso. Lui non sarebbe andato alla stazione, non avrebbe accompagnato Yamamoto fino al binario; a quello ci avrebbero pensato il Decimo e tutti gli altri che erano andati a salutarlo. Lui non poteva, dopo tutto quello che era appena successo, arrivare fino a quel punto.

Non ci sarebbero stati pianti fra loro, ma era comunque triste quell’addio, fatto di sguardi e di parole non dette, di sospiri portati via dal vento e di un sorriso ingenuo.
Così si diedero le spalle, con la morte dentro.

Grazie per i ricordi, Gokudera. Non dimenticherò nulla.




*************


Alla fine dieci anni erano passati davvero.

Gokudera non aveva più visto né sentito Yamamoto, destreggiandosi nei lavori più vari per riuscire ad andare avanti con la sua vita, per sopravvivere nonostante tutto: nonostante la partenza di Yamamoto, nonostante il frantumarsi del suo sogno più grande. 
All’inizio Yamamoto aveva perfino provato a chiamarlo, ma lui, tenendo fede alle sue parole, non gli aveva risposto. Era andato a Tokyo per entrare a far parte di una squadra semi-professionale di Baseball, doveva restare concentrato sul suo obbiettivo, senza futili distrazioni.
Almeno lui doveva realizzare il suo sogno, questo aveva pensato Gokudera guardando il cielo stellato dell’ultimo giorno dell’estate, ripensando agli ultimi minuti che avevano passato assieme, al sorriso di Yamamoto, al loro addio.

Adesso erano trascorsi dieci anni e Gokudera sapeva che Yamamoto era un giocatore professionista piuttosto acclamato; lo aveva letto negli articoli che il padre, Tsuyoshi Yamamoto, incorniciava nel suo ristorante; lo aveva sentito dal Decimo durante una delle sue tante chiacchierate al telefono con Takeshi; lo aveva percepito, come un brivido di vittoria che lo aveva trapassato da parte a parte. 

Almeno uno di loro due era felice.

Però, quel giorno, Gokudera era irrequieto: aveva come la sensazione che qualcosa stava per accadere, era l’istinto a suggerirglielo.

Forse perché era Agosto, erano passati dieci anni e l’estate era in procinto di finire; forse anche per quello stralcio di conversazione udito per caso tra il Decimo e il vecchio Yamamoto. 
L’istinto voleva assolutamente guidarlo verso la stazione di Namimori, senza un’apparente motivazione. 

Lui non aveva alcuna intenzione di ascoltare il suo istinto. Non questa volta.





Era seduto su una delle panche del binario tre, quello dove si sarebbe fermato il treno proveniente da Tokyo. Sapeva che era una follia, che anche se quel treno fosse arrivato lui non sarebbe sceso o, magari, non l’avrebbe neanche riconosciuto. Perché avrebbe dovuto? Erano passati dieci anni e non si erano più sentiti da allora. Perché dunque si trovava lì, ad accendere l’ennesima sigaretta mentre con occhi quasi spauriti fissava il treno rallentare e poi arrestarsi di fronte a lui? Perché, nonostante avesse venticinque anni oramai, abbassava lo sguardo verso le sue scarpe, quasi terrorizzato da ciò che potesse vedere?

Il brusio concitato delle persone che scendevano dal mezzo occupava il suo cervello mentre, con aria esternamente indifferente, fumava la sua sigaretta, aspettando con ansia.

Poi le vide, come un miraggio nel mezzo del deserto: un paio di All Star nere si fermarono nella sua visuale e non ebbe bisogno controllare per comprendere di chi si trattasse; il suo cuore aveva già preso a singhiozzare furiosamente, come riconoscendolo.

Lo sentì sedersi al suo fianco dopo secondi di incertezza; Gokudera non sollevò mai gli occhi, preferendo dedicare tutta la sua attenzione alla sigaretta fra le sue dita.

<< Sono tornato. >> sentì pronunciare da una voce, la sua voce, solo con un timbro più profondo << Te l’avevo detto. >> disse, ma somigliava più a un Te l’avevo promesso.

Gokudera non trovò nulla da dire per un minuto buono ed evidentemente neanche il nuovo venuto, dato che fra loro si instaurò un silenzio pesante. Finché Gokudera, mandando al diavolo ogni buon senso, propense per l’istinto, di nuovo: << Ce ne hai messo di tempo, stupido idiota del Baseball. >> sputò vagamente acido e stizzito, alzando finalmente il volto e mostrando un mezzo sorriso derisorio dietro il quale si celava rimprovero, paura, felicità pura.

<< Hehehe, hai ragione! …Scusa. >> mormorò Yamamoto, piegando le labbra in un sorriso che invece era triste, pieno di sottintesi e di rammarico. Era davvero dispiaciuto.

Gokudera aspirò un’ultima volta e poi gettò in terra il mozzicone, schiacciandolo con la suola della scarpa, l'aria pensierosa. Yamamoto lo osservava vigile, pronto a ribattere qualcos'altro per spezzare il nuovo silenzio che si era creato tra loro; ma Gokudera in quel momento si alzò in piedi, sovrastandolo momentaneamente.
Parve indugiare ancora un istante, prima di sollevare gli occhi determinati e puntarli in quelli di Yamamoto, allungando una mano verso di lui.

<< Bentornato a casa. >>

Yamamoto rimase interdetto un paio di secondi, il cuore che sobbalzava impazzito; poi sorrise, sorrise come mai prima d’allora, sorrise come non sorrideva da dieci anni; era talmente luminoso che Gokudera rimase abbagliato da quella luce per un istante, prima che la mano dell’altro stringesse la sua accettando l’offerta. Yamamoto si alzò, passandogli un braccio attorno le spalle, in un modo confidenziale e, in qualche modo, anche familiare.
Il sole di fine Agosto iniziava a calare alle loro spalle, ma non importava: finalmente erano di nuovo insieme, dopo anni passati fra rimpianti e rimorsi, a cercare di dimenticare, a cercare conforto nei sogni, a vivere di ricordi.
Avevano tanto di cui parlare, avevano tanto da chiarire e non vedevano l’ora di restare soli e colmare quel vuoto, toccarsi per vedere se tutto era come prima o se qualcosa era cambiato. 

E la fine dell’estate, ne erano certi, non li avrebbe più resi tristi, perché ora li aveva riuniti, come era giusto che fosse.














Bene, e anche questa è andata! x)
Vi avviso che, mooolto lentamente - lo so, sono imperdonabile! -, sto ultimando il nuovo capitolo di Infected. Spero sappiate pazientare ancora un po'. ^^"
Purtroppo è un periodo allucinante per me, assurdamente e costantemente pieno d'impegni. D:
Vi ringrazio per seguirmi, per leggermi e anche commentare le mie storie. =) Ringrazio anche chi ha commentato la mia flashfic 'Pioggia nera, desiderio impuro'. Grazie mille per le vostre parole, sono davvero contenta di essere riuscita a emozionarvi e spero possiate apprezzare anche questa one-shot. =)

Un bacio a tutti! Vi lascio al bellissimo banner! *O*




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