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Autore: _bucchan    28/03/2012    3 recensioni
Sulla sollevazione di Budapest del 1956; potrebbe far parte di una raccolta più ampia.
Polonia è probabilmente rimasto OOC, nonostante le mie correzioni. Me ne scuso in anticipo.
[accenni di Prungary; Prussia è considerato come Germania Est]
[presenza di Oc!Slovacchia, Oc!Georgia (solo accennati)]
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Polonia/Feliks Łukasiewicz, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Russia/Ivan Braginski, Un po' tutti, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Le bambine giocano alla guerra [La grande casa sovietica]



“Polonia, dov’è Ungheria?” chiese Gilbert una mattina non avendola trovata.
“Via.”
Via? Se n’è andata?”
“Pensiamo. Cioè, non lo so. Io e Litu e Slovacchia l’abbiamo cercata per tutta la casa, stamattina ancora presto, ma non c’era. Il suo letto era vuoto e tutta la sua roba sparita.”
“Ma… Russia! Russia dov’è?”
“E’ andato a cercarla, cioè, a riprenderla. Torna tipo entro stasera, penso.”
Gilbert scrutò Feliks con una smorfia che non sapeva nascondere il proprio disgusto.
“E te, tipo, non eri amico suo? Eh, polacco mangia paluszki?”
“Io ci ho già provato.” La faccia di Feliks era per metà fasciata; masticava piano e, quasi, con pena.1 “E’ finita… così. Ora manifesto il mio dissenso così, tipo comprando al mercato nero, Germania Est.”
“Vi ho detto cento volte di non chiamarmi Germania Est!” ruggì Gilbert, afferrando il polacco per la camicetta.
“Prendi un paluszki. Tipo se dopo volessi conosco la persona.”
Ne scartò uno dal cartoccio formato da vecchi fogli della Pravda, dove campeggiavano grandi foto di facce sorridenti in bianco e nero.
“Io non voglio passare guai. Prendi un paluszki. Adesso lui non c’è, ma loro ci controllano. Tipo, al suo ritorno saprà tutto. Mangia i paluszki, ti dico. Io non voglio guai.”
La risposta di Gilbert fu in tedesco e conteneva un pesante apprezzamento alla razza slava, definita “vile”2, non ricordandosi, forse, che chi aveva riempito quella casa di microfoni, finanche in bagno, o in camera da letto, non erano né polacchi, né russi, ma tedeschi, e lui era alle loro dipendenze, e faceva le stesse cose.

La mattina era trascorsa e il pomeriggio quasi del tutto, ed erano forse le quattro e mezza quando alle orecchie del Patto di Varsavia riunito in salotto, con la radio accesa, in attesa di notizie che non c’erano, giunse un forte clang-clang metallico, proveniente dall’esterno, dove solitamente veniva gettata la spazzatura. Quando Feliks e Gilbert corsero a vedere, in mezzo ai rifiuti, trovarono una padella, una di quelle della loro cucina, ma sfondata e accartocciata; sui bordi era butterata da molti fori, probabilmente di proiettili, come un cartoncino del tiro al bersaglio; e, ovunque, sangue nero e rappreso.
La porta si aprì di colpo e Ungheria fu gettata oltre la soglia; i capelli strappati, la carne a brandelli; e, dietro di lei, sciarpa e cappello, e stivali, apparve Russia.
“Lettonia!” chiamava a voce alta e roca “Lettonia!”
“Signor Russia!” esclamò sollecitamente il piccolo Stato baltico, tremando da capo a piedi.
“Prendimi della vodka.”
“Sì!..”
“Lituania, il cappotto.”
Toris si vide ricevere il pesante pastrano del russo, logoro e insanguinato.
“Sì, signor Russia, lo porto subito a far lavare, non si preoccupi…”
“Estonia, il samovar bolle?”
“Sì, signor Russia, come ai suoi ordini.”
“Voglio del tè, fammelo. Lettonia, la vodka!”
“Subito!” rispose il ragazzino da lontano.
Ivan riprese su il suo fardello. Ungheria non si reggeva (doveva ben averle rotto le ossa, trascinandola per tutta la strada da Budapest sino a qua), così ne accostò la debole figura alla parete. S’era tolto i guanti e con le dita fredde le prese il mento delicato, per ruotare il volto e vedere dove più le aveva fatto del male. La gota si era lacerata e la carne, viva e rossa, era striata delle righe nere e bianche della ghiaia e dell’asfalto, mentre la pelle, ormai, non era più che un rimpianto. Il calcio nero della repressione aveva frantumato l’osso poco sopra l’occhio, ridotto a una cieca fessura violacea e gonfia; e le mani, quelle povere mani sporche, erano perforate dai colpi di fucile sparati a bruciapelo, per sfregio, al momento della resa, e nere di polvere da sparo. La mano di Russia salì lentamente lungo quei lineamenti alterati, toccandone la carne ov’era più viva e le croste. Il corpo di Ungheria fremette invano, i suoi gemiti furono coperti dal ronzio della radio che nessuno si azzardava a spegnere. Le unghie dell’altro scostarono pian piano i pochi brandelli di pelle ancora rimasti, strappandoli via. Altro sangue sbocciò da quella nuova offesa, imbrattando rapidamente quelle dita, che intanto cercavano il modo di allargare le altre. Questa volta né l’orgoglio né il ronzio della radio bastarono più. Ivan sorrideva, tenero e affranto, e tale rimase anche quando quelle dita si strinsero a pugno per inchiodarla al muro e piegarla in due, e poi ancora, ancora e ancora, massacrando la carne, sbriciolando costole, tendini e muscoli, quelle braccia levate, assolutamente impotenti e indifese.
Gilbert arrivò correndo, buttando via il berretto dell’uniforme, e con un balzo si fece addosso a Russia, saltandogli sulla schiena. Ivan, colto alla sprovvista, poté solo lasciar andare Ungheria mentre Gilbert, ringhiando, tentava di bloccarne le braccia, nodose e spesse come antiche querce. Perché Russia era alto e forte, e Gilbert invece, sebbene più agile, smagrito, fiaccato e disfatto dalle privazioni, le inefficienze del suo farraginoso apparato economico, e le violenze reiterate; eppure era lui, Gilbert Beilschmidt, l’unico lì dentro in grado di fermarlo; l’unico a levarsi quando Russia tornava a casa il venerdì sera, dopo il giro dei locali, e batteva Lituania senza un perché al mondo; l’unico a non essersi lasciato sottomettere e che aveva potuto arrischiarsi a non farlo; quello a beccarsi in pieno volto una testata di Ivan, che gli crollò addosso, schiacciandolo sotto di sé, accanto a Elizaveta.
“Germania Est!” esclamò il russo tutto felice, vedendo che il suo favorito e protetto era arrivato; “che succede, Germania Est? È vero allora che te e Ungheria… ti piace l’amore libero che vige nel mondo comunista… sarà contento Austria, ah ah ah… Germania Est!..” Le tresche interne dei suoi sottoposti lo lasciavano completamente indifferente; le trovava cose un po’ tenere e un po’ schifose, come quando osservava i colombi amoreggiare in piazza sotto gli occhi di tutti, o gli altri adulti baciarsi in bocca fra di loro. Quello che era certo è che sapeva tutto. Conosceva ogni passo, ogni loro respiro. S’intrometteva nelle amicizie, istigava le rivalità, rideva (e aveva ragione) dei loro piccoli, miserabili intrighi; e questo sempre vigilando, amministrando, e disponendo, perché si spargesse zizzania; perché nessuno che fosse sotto di lui fosse mai troppo unito, o troppo tranquillo; e più scuotevano il giogo, per liberarsene, più facevano il suo gioco. Sapeva tutto. C’era Bulgaria3, suo succube, che ogni sera veniva nel suo studio e faceva rapporto fra una mossa di scacchi e l’altra. C’era Lettonia, il piccolo, meschino Lettonia, che non esitava a vendere i Baltici per un po’ di vodka, e che per un salvacondotto per strisciare al di là della cortina non esitava a vendere anche se stesso. C’era Bielorussia, suo occhio e sua mano, che tutto vedeva, e tutti temevano, e poi Ucraina, che non avrebbe mai saputo tradirlo, anche avesse commesso cento assassinii. E la notte in cui Gilbert si sarebbe portato a letto Elizaveta, lui sarebbe stato il primo a saperlo.
Dalla bocca di Gilbert era uscito di tutto, per non parlare delle mani e dei piedi, ma a quel punto Natalia era accorsa in aiuto del fratello adorato armata della bottiglia di vodka di Raivis, ed era finita lì. Russia, stancamente, si tolse quel corpo di dosso e si rialzò.
 “Natalia, hai sprecato mezzo litro di buona vodka. Mi dispiace. Prendine dell’altra, adesso.”
“Sì, fratello.”
Ivan ripiombò sul corpo piegato di Gilbert, pestandogli il fianco col pesante ginocchio. Gilbert urlò di dolore mentre il volto del russo si chinava su di lui.
“E così, sei intervenuto in suo aiuto… cos’è, Germania Est, vuoi ribellarti anche tu?”
Negli occhi rossi e atterriti di Gilbert ripassarono le immagini della rivolta del 1953 a Berlino Est, con il solito corollario di morti ammazzati e lo strazio di una capitale martoriata che pareva non finir più di penare. Dopo il 1989 il viale 17 Giugno sarebbe diventato una delle grandi arterie della capitale riunificata.
Il ginocchio di Russia affondò ancor di più dentro il suo corpo. Fu afferrato per l’uniforme e sbattuto a terra finché le sue urla si ridussero a rantoli, non oppose più resistenza e i suoi occhi non si spensero. I sussurri di Russia giunsero all’orecchio di Ungheria come attraverso una cortina di nebbia.
“E tu volevi fare la rivoluzione? Hai rubato una padella dalla cucina e sei andata contro i carri armati… speravi nell’aiuto dell’Occidente? Che l’Austria o la Prussia risorgessero dalle loro ceneri per venirti a salvare? Eppure se anche gli spettri di quegli antichi eserciti fossero risorti anche loro avrebbero avuto solo ridicole spade ricurve e cannoni ad avancarica. Noi invece abbiamo il kalashnikov, la bomba e il missile intercontinentale, il passato e la superstizione non ci intimoriscono più. Tu vorresti fare la guerra con le bambole quando io gioco con i soldatini… le mie bombe hanno devastato la tua casa in miniatura, i tuoi pupazzi non hanno più la testa, sono finiti impiccati.4
Georgia raccoglieva i cocci da terra e Natalia era tornata con una bottiglia nuova. Russia andò a ritirarsi, tracannava vodka senza nemmeno il bicchiere. “Sono stanco, tanto stanco” continuava a ripetere in una nenia sconsolata. Estonia portò il tè; poi, insieme a Bulgaria e agli altri Baltici, rimase a tenergli compagnia, commentando alcuni brani di Cechov.

Gilbert si ritrovò tutto dolorante, coricato su un letto non suo. Vicino, che gli leniva le ferite, il dolce volto di Ucraina; Elizaveta era nel letto vicino, tutta fasciata di bianco; una sposa pareva, e immersa nel sonno. Gilbert cacciò via Ucraina con un gesto brusco.
“Ehi! Ma perché? Sto solo cercando di aiutarti!”
“Levati di torno!”
“Non è stato mio fratello a pregarmi di curarti, bruto! ...perché tutti ve la prendete con me? Avresti preferito rimanere per terra a crepare?..”
“Va bene, se non ti ha ordinato il russo di venire allora resta pure.”
 “Chi ha chiesto a Germania Est di impicciarsi degli affari della Nazione ungherese?”
“Ah, non dormivi, allora, Elizaveta” sogghignò Gilbert.
“Io voglio la libertà, non cambiare padrone. Liberarmi dei russi per ritrovarmi sul groppone i tedeschi non è un cambio così vantaggioso.”
“Quindi? Dovevo lasciare che ti pestasse?”
“Tu hai solo preso al volo un’occasione per picchiare Russia.”
“Ovviamente. E che mi dici di Edelstein?”
“Cosa ne sai di lui?”
“Che non ha mosso un dito.”
“Meglio per lui, prussiano, meglio per lui. Avrei combattuto e cacciato anche lui.”
“Dici come Ungheria, vero?”
Lei lo colpì con un pezzo di compensato, suscitando la risata di Ucraina.


FINE

 



1 Nello stesso anno della sollevazione di Budapest (1956), in Polonia si era avuta una rivolta operaia.
2 Sia più che chiaro: IO NON HO NULLA CONTRO GLI SLAVI! Ma credo che Prussia invece nutra, storicamente, forti sentimenti pregiudiziali (penso ad esempio al razzismo di Otto von Bismarck.) Ha perso il suo territorio a vantaggio di Polonia e Russia. Credo che inoltre Polonia ricambi questi sentimenti d’antico odio verso russi e tedeschi, rinfocolati da responsabilità storiche recenti e molto gravi.
3 Il nome di Bulgaria non è casuale; a quanto pare, in questo periodo, era la Nazione satellite più asservita alla Russia in assoluto, almeno agli occhi dell’Occidente, essendo sempre usata dal Cremlino come copertura negli affari più sporchi. Quando parlava la Bulgaria, in realtà era la Russia sotto mentite spoglie.
I Paesi Baltici erano direttamente annessi all’Unione Sovietica.
4 Il principale capo della rivolta ungherese, Nagy, fu impiccato dai sovietici alcuni anni dopo.




Bene!, questa è la prima storia che abbia mai pubblicato in assoluto su Internet. E' la prima su Axis Powers Hetalia che abbia mai finito; un manga che conosco da poco e, purtroppo, ancora non in modo approfondito (e allora perché ti metti a scriverne fanfiction?) quanto dovrei e vorrei, ma che amo moltissimo.
Questa storia mi ossessionava e, nonostante i problemi etici e storici che mi assillavano (e che tuttora non ho risolto del tutto), l'ho scritta davvero.
Se avete qualunque domanda, se qualcosa non vi è chiaro, non preoccupatevi, sono a vostra completa disposizione.
Nessuno scrupolo nelle vostre critiche! Anzi, in realtà ne ho un bisogno disperato.
   
 
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