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Autore: Tsuki Hoshizora    28/03/2012    2 recensioni
Feliciano Vargas è uno studente dell'"Accademia di Belle Arti" di Venezia, il quale ha appena conseguito la laurea magistrale in pittura (con competenze in restauro) e decide di fare un viaggio in Giappone, spinto dalla propria passione per l'arte orientale. Qua incontrerà per puro caso - o meglio fraintendimento - Kiku Honda, indaffarato mangaka di shojo sotto pseudonimo femminile, con cui condivide l'amore per il disegno.
I caratteri sostanzialmente opposti e le culture nettamente diverse non impediranno la nascita di un saldo legame tra i due, ma, anzi, li porteranno a maturare e a cambiarsi l'un l'altro.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Giappone/Kiku Honda, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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1. I segreti dentro al blocco da disegno

Ero stato colto totalmente di sorpresa da quella chiamata in pieno pomeriggio, visto che, nonostante avessi dato a Kiku il mio numero di cellulare quasi un mese fa, mai prima di allora se n'era servito. Il mio stupore era poi aumentato nel momento in cui mi aveva chiesto se potevo gentilmente raggiungerlo a casa sua, per dargli una mano. Dal tono della voce potevo intuire che fosse press'a poco disperato.
Quando chiesi di cosa si trattasse, per accertarmi di avere le competenze necessarie per poterlo aiutare, oltre che per assicurarmi che stesse bene, questi si limitò ad urlare che doveva tornare a disegnare, concludendo la chiamata con un perentorio "Muoviti!". In sottofondo potevo giurare di aver sentito dei mormorii fin troppo concitati, se non direttamente allarmati. Senza contare quella voce di donna che aveva chiaramente detto "Voglio morire..". Che diavolo stava succedendo?
Dovetti allontanare il ricevitore dall'orecchio, onde evitare di diventare sordo prematuramente. Riposi il telefono al suo posto, per poi correre seduta stante a vestirmi. Sul momento ero così preoccupato per il mio amico, che non mi passò neanche per l'anticamera del cervello la più logica delle conclusioni: ovvero che era un mangaka e di conseguenza aveva delle scadenze da rispettare per la consegna dei manoscritti agli editori; esistono perfino dei manga che mostrano quanto sia difficile la vita di uno scrittore di fumetti in Giappone. A quanto pare Bakuman non mi aveva insegnato proprio niente.
Fu così che, quando entrai nel suo studio in preda all'ansia, mi caddero immediatamente le spalle.
L'aria era pregna dell'odore pungente di chiuso, senza contare l'inquietante presenza di un'aura pessimistica che aleggiava sulle teste delle persone presenti nella stanza, il cui colore si alternava tra nero e viola scuro. Giuro che non era solo palpabile, ma anche ben visibile. O forse avevo solamente gli occhi ancora appannati per la maratona che mi ero appena fatto. Sta di fatto che definire quella visione un incubo sarebbe stato decisamente un eufemismo.
La ragazza che mi aveva aperto la porta, chiaramente un'assistente, si affrettò a riguadagnare la sua postazione accanto a tutti gli altri, i quali erano chini sul tavolo da lavoro. C'erano pagine, taglierini, china e pennini sparsi ovunque.
«Feliciano-kun, meno male che sei arrivato!» esclamò una voce familiare.
Lo cercai con lo sguardo e finalmente lo vidi, seduto 
alla scrivania posizionata nell'angolo più remoto di quel caos.
«Vee~ Kiku. Con cosa vuoi che ti aiuti?» chiesi cordialmente, seppur sul punto di scoppiare a ridere alla vista delle condizioni del povero giapponese.
Indossava una tuta da ginnastica rossa, con due striscie bianche sia ai lati dei pantaloni che della felpa. Legata in fronte aveva niente di meno che una fascia color panna con su scritto qualcosa tipo "Forza e coraggio!" nella sua lingua madre, mentre il naso era sormontato da un paio di occhiali rettangolari che non gli avevo mai visto.
In tutt'altro contesto sarebbe apparso molto buffo, ma mi trattenni per non passare da maleducato, data la gravità della situazione. La sua espressione, infatti, era serissima.
«Uno dei miei assistenti si è ammalato e non potevano mandarci nessun'altro, così ho pensato che saresti stata la persona più indicata per sostituirlo... Non ti avrei in alcun modo disturbato se le circostanze non fossero tanto gravi. La consegna è domani!» rispose in fretta e furia l'altro, la testa nuovamente china sulle proprie incombenze.
Notai che molti mi osservavano con una certa diffidenza, magari perché si chiedevano chi fossi e soprattutto quanto sapessi fare. Immagino stessero anche cercando di indovinare la mia nazionalità, poiché il mio amico mi parlava in inglese.
Fui fatto sedere nell'unica sedia libera e mi furono impartire poche, chiare e semplici regole. Dopo di ché, mi concentrai su quanto mi era stato assegnato, senza aprir minimamente bocca fino alle cinque del mattino, ora in cui il lavoro fu finalmente portato a termine. Più volte il mio sguardo s'incrociò casualmente con quello di Kiku, facendo sobbalzare e guardare subito altrove entrambi per l'imbarazzo.
Stavo praticamente ormai vegetando sulla mia parte del tavolo, quando una ragazza si avvicinò timidamente a me, offrendomi una tazza bollente di caffè. La ringraziai e le sorrisi entusiasta, sorseggiando la bevanda con grande soddisfazione.
A quel punto il ghiaccio parve rompersi del tutto, poiché fui raggiunto da altri, i quali mi posero le classiche domande da manuale: di dove fossi, cosa mi avesse spinto a venire qua, quanti anni avessi, etc. In pochi minuti la tensione scivolò via, lasciando il posto a spensieratezza e risate; ciò durò comunque poco, dato che l'intera equipe si affrettò a rincasare, lasciandoci da soli.
Durante tutta la conversazione avevo avuto come l'impressione che qualcuno mi fissasse piuttosto intensamente, ma ogni volta che mi giravo verso il mio amico, lo trovavo intento a leggere qualcosa, per quanto mi chiedessi quanto effettivamente vedesse con la rivista spalmata in faccia. Ora che non c'era più nessuno a cui render conto, mi concentrai definitivamente su quest'ultimo.

«Kiku, hai un'aspetto orribile..» dissi sospirando.
«Sto bene. Anzi, ti devo proprio ringraziare per la pazienza, sono stato davvero brusco con te al telefono» esclamò l'altro, un sorriso stanco in volto.
«Da quanto non dormi?» insistetti con decisione.
«Come?»chiese sovrappensiero il giovane, sistemandosi gli occhiali.
«Hai delle occhiaie e delle borse spaventose» ammisi mestamente.
«Oh.. Da circa due giorni, ma non preoccuparti, sto bene, davvero..» continuò testardamente, nonostante i suoi occhi fossero visibilmente in procinto di chiudersi.
«Fila a dormire!» lo intimai, inflessibile, puntando il dito in direzione della porta. Mai in vita mia sarei stato più serio di così.
A quel punto si arrese definitivamente e si alzò in piedi, stiracchiandosi con la stessa grazia di un gatto. Lo tenni d'occhio costantemente fino a ché non lo vidi raggiungere la sua stanza, temendo che perdesse i sensi da un momento all'altro o che inciapasse, considerato il modo in cui strascicava pesantemente le sue infradito sul pavimento in legno.
«Stavo pensando..»borbottai a quel punto, prima che avesse modo di chiudere la porta scorrevole alle sue spalle.
«Dimmi, Feliciano-kun» disse incalzante il giapponese, girandosi nuovamente verso di me.
«Vuoi che ti prepari qualcosa da mangiare per quando ti svegli? Voglio dire, sembri davvero a pezzi!» esclamai dunque più che in ansia per lui, unendo le mani e sfregandole concitatamente.
«Ti ringrazio per la premura, ma non devi sentirti obbligato, davvero. Hai già fatto fin troppo» rispose Kiku, alzando e scuotendo una mano aperta davanti a sé.
«Insisto!» aggiunsi con voce ferma e decisa, fissandolo dritto negli occhi. «Cioé, solo se non ti dà fastidio. Non voglio essere invadente..»
«Va bene, se ci tieni così tanto. Però poi torna a casa, devi riposarti pure tu» concluse semplicemente l'altro, quasi ridacchiando. «Ah, ancora una cosa Feliciano-kun! Grazie di tutto quanto..» 
Detto questo, lasciai che si preparasse per andare a dormire, dirigendomi immediatamente in cucina. Qua lanciai una rapida occhiata all'orologio, dove le lancette segnavano le cinque e mezza del mattino. Avevo il cuore colmo di quel bellissimo sorriso che mi aveva regalato giusto un attimo fa, cosa che riusciva a darmi una carica innaturale visto e considerato l'orario.
Probabilmente, se il mio amico fosse stato in perfetta forma fisica e mentale, si sarebbe premurato di spiegarmi quanto d'essenziale c'era da sapere prima che potessi mettere mano ai fornelli. Si sa, siamo tutti un po' preziosi quando si tratta delle nostre cose, anche delle più piccole e sciocche. Per fortuna non c'era alcun bisogno di preoccuparsi, se si trattava di Feliciano, poiché amava cucinare e non avrebbe mai rovinato neanche una singola pentola o forchetta.
In ogni caso, certo non potevo cucinare qualcosa d'italiano. Mi misi a cercare un libro di ricette, approfittandone per curiosare nei vari sportelli. C'era una gran quantità di spezie, alcune delle quali avevano nomi incomprensibili per le mie limitate conoscenze di giapponese. Il frigorifero, poi, era ricco di pesce e verdure. Trovavo tutto ciò particolarmente affascinante, abituato com'ero alla cucina italiana.
Conclusa la mia ricerca, feci in modo di preparare un'adeguata colazione.
A quel punto mi lasciai andare di peso su uno dei cuscini che si trovavano in sala, tanto ero stanco. Avevo infatti lasciato la mia tracolla marrone sul tatami, accanto al tavolino, certo che sarei ripassato da quella stanza prima di andarmene. Erano ormai le sei del mattino.
Sospirai, tornando a sedere con la schiena ben'eretta, dopo aver tirato fuori uno dei miei tanti blocchi da disegno e averlo aperto davanti a me. Lo richiusi quasi immediatamente, arrossendo colpevole di fronte al suo contenuto.
La stanchezza ebbe la meglio sulla scomodità della mia posizione, visto che di lì a poco caddi in un sonno profondo.
Fui svegliato circa un'ora più tardi da un rumore piuttosto delicato, qualcosa di simile ad un costante fruscio di fogli cartacei a qualche centimetro da me. Sbattei le palpebre più volte prima di essere in grado di aprire gli occhi, lasciandomi andare in un grosso sbadiglio, che non mi curai neanche di coprire la mano. Entrambe le braccia erano leggermente informicolate dopo che le avevo usate come cuscino.

«VeeBuongiorno, Kiku! Hai riposato bene?» proruppi entusiasta, non appena riconobbi la figura di Kiku seduta accanto a me.
Ahimé, non appena realizzai cosa stesse guardando, notando il rossore delle sue guance e la sorpresa che aleggiava nei suoi occhi, il mio sorriso si spense all'istante. Fissai con orrore per attimi che parvero interminabili il mio quaderno degli schizzi, che adesso giaceva tra le mani del giovane. Non era un oggetto qualunque, al suo interno avevo raccolto per mesi ogni suo dettaglio, di nascosto. 
Gli occhi a mandorla, quel taglio di capelli così netto e preciso, le dita sottili ma precise, le emozioni che riuscivo a scorgere così raramente sul suo viso: tutto, di lui, si era impresso involontariamente nella mia memoria, quasi gli avessi quotidianamente scattato una fotografia. Un battito di ciglia, uno scatto; poi la sera, matita alla mano, trasferivo su carta tutto quanto. Più volte mi ero ritrovato a baciare stupidamente quei fogli, gli occhi lucidi di lacrime che non volevano saperne di uscire.
Fortunatamente, prima che il panico mi tradisse completamente, la mia vile abitudine di sorridere in ogni circostanza, a prescindere dall'umore effettivo, accorse ancora una volta in mio aiuto.
«E' che..» cominciai, cercando le parole giuste.
Sei magnifico..
«..sei un bel soggetto da disegnare» conclusi, sperando di risultare comprensibile.
..credo di amarti.
«Non ti dispiace, vero?» chiesi poi, negli occhi qualcosa di simile ad una supplica.
Puoi perdonarmi? 
«Ti giuro che non li ho mostrati a nessuno!» aggiunsi infine, sicuro di mantenere quella promessa.
Questi sentimenti terrorizzano anche me!    
Le cose che effettivamente dissi e quello che avrei voluto dirgli in realtà si sovrapposero dolorosamente nella mia testa, ma celai con maestria il mio tumulto interiore, mentre con una mano mi scompigliavo distrattamente i capelli, le sopracciglia inarcate per il disagio e la vergogna.
Il giapponese, che nel frattempo si era cambiato ed aveva indossato il suo kimono blu pallido, era stato in silenzio durante tutto il mio monologo, lo sguardo abbassato e le mani strette attorno ai bordi del blocco, dandomi l'impressione di aver appena fatto nient'altro che uno squallido e misero soliloquio. Strinsi la mano che ancora mi giaceva in grembo a pugno per l'angoscia, sforzandomi comunque di mantenere viva quella dannatissima maschera. Doveva dire qualcosa. Qualsiasi cosa. Andava bene anche un pugno in faccia.

«E' solo un po' imbarazzante, ecco... Mi sento come se avessero appena scritto un libro con tutti i miei segreti, senza che io ne abbia fatto parola... Capisci cosa intendo, vero? Però, se non li vede nessuno, va bene» disse un po' incerto e balbettante l'altro, nascondendosi dietro alla manica destra del proprio indumento.
Riuscivo a scorgere solamente i suoi occhi, eppure tanto bastava per capire quel che provava: era imbarazzato, però stava chiaramente sorridendo. Appariva anche nervoso e ciò non poteva che farmi pensare a quanto fosse carino; quel che non mi piaceva era quel sentimento di repulsione che accompagnava tutti questi pensieri. Odiavo me stesso e la mentalità chiusa in cui ero nato, odiavo non essere in grado di sentirmi libero. Non avrei mai potuto ammettere che non volevo chiamarlo solamente amico.

«Sì, ti giuro sulla mia stessa vita che rimarranno top secret!» esultai felice, seppur con l'amaro nel cuore, posando entrambe mani sulle sue, con delicatezza.
Scoppiai a ridere nell'istante in cui lo vidi diventare rosso fin sopra le punte degli orecchi.
   
 
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