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Autore: rosie__posie    29/03/2012    7 recensioni
Le parole di Sherlock stavano uscendo dalle sue labbra con lo stesso entusiasmo con cui le note scivolavano fuori dal suo violino quando ne accarezzava le corde, sotto gli occhi di un John stranito che se ne stava lì a osservarlo sentendosi in quel momento esattamente come Scully in quella notte in cui Mulder, ai piedi del suo letto, le aveva raccontato per la prima volta del rapimento di sua sorella.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mille grazie a Nacchan e a melian_eresseie per avermi fatto da beta! <3
 

Da quando è entrato a far parte della sua vita, Sherlock ha sempre avuto la capacità di farlo sentire, di tanto in tanto, un idiota.
 
Generalmente, però, la cosa riguarda la sua incapacità, peraltro normale dal punto di vista del dottore, di intuire il passato da marinaio di carriera osservando un uomo di mezza età semplicemente mentre attraversa la strada.
 
Nella norma, la cosa non riguarda però azioni svolte in totale autonomia come entrare di spontanea volontà in un negozio di articoli di puericultura e muoversi nei reparti mimando una finta disinvoltura. Ma è a causa di Sherlock che John si trova lì, quindi trova naturale incolparlo inconsciamente anche di questo.
 
-Posso aiutarla, signore?
 
Una commessa bassa e grassa si avvicina a John, cosa che, anziché rincuorarlo, lo fa sentire ancora più in panico.
 
-Sto cercando… sì ecco, un proiettore di stelle…
 
La donna lo osserva un po’ sbigottita.
 
-Una di quelle lampade che si accendono di notte se non riesci a dormire da solo e che proiettano tutti quei disegni sul muro.
 
-Una lampada notturna!
 
-Ecco, sì…
 
John muove nervosamente le braccia avanti e indietro, sentendosi sempre più a disagio.
 
-Ne ho diverse in magazzino. Se mi vuole seguire nell’altro reparto…
 
Il dottore inizia a trotterellare ubbidiente dietro la donna, con gli occhi fissi sulle sue scarpe.
 
-Maschio o femmina?
 
 
-Prego?
 
La commessa desidera ovviamente fare un po’ di conversazione.
 
-Il suo bambino! Maschio o femmina? Perché ogni modello di lampada è disponibile in rosa o azzurro...
 
Si volta.
 
-Signore?
 
Ma John è già fuori dal negozio intento a cercare un taxi e maledicendo il suo coinquilino per quello che lo ha spinto a fare.
 

§§§

 
Flashback
 
Quella notte era già a letto da un’ora buona quando Sherlock era apparso nella sua camera. Non aveva bussato, non l’aveva sentito entrare, né sedersi in fondo al suo letto. Però aveva sentito quando l’aveva scosso chiamandolo per nome.
 
-John… John? Sei sveglio?
 
Un attimo per abbandonare il piacevole sogno che stava facendo e tornare alla realtà.
 
-Mhm… ora non più…
 
Si girò a pancia in su e, con gli occhi semichiusi, iniziò a guardarsi intorno, quasi non ricordandosi dove fosse la sveglia.
 
-Ma che ero sono?
 
-Non è rilevante! Piuttosto, c’è una cosa in cielo… Oh, la devi  vedere! Così rossa!
 
Sherlock sembrava eccitato come un ragazzino, quasi come quando aveva per le mani uno dei suoi casi bizzarri.
 
-La luna, Sherlock?
 
Con la sua domanda apparentemente sarcastica, sembrava avesse costretto l’amico a fare una doccia fredda.
 
John si mise seduto nel letto e si fece serio.
 
-Non starai parlando davvero… voglio dire, c’è sempre stata…
 
Il dottore sapeva bene che, per quanto riguardava lezione di astronomia, il suo amico aveva ancora diversi esami da ripetere (anche se con la storia della supernova se l’era cavata davvero bene), ma scoprire solo allora dell’esistenza del satellite del loro pianeta sembrava troppo persino per lui.
 
-È ovvio che c’è sempre stata!-, ribatté Sherlock con occhi che sembravano dire Non darmi dello stupido perché in qualsiasi momento posso sempre provarti di avere una mente superiore alla tua. Si alzò dal bordo del materasso e si accovacciò per terra, con la schiena appoggiata al comodino e il braccio destro schiacciato contro il letto.
 
-Solo che stasera è così grande. Così rossa… così bella… E mi sembrava un peccato non svegliarti per fartela vedere, perché a te piacciono queste cose.
 
Le parole di Sherlock stavano uscendo dalle sue labbra con lo stesso entusiasmo con cui le note scivolavano fuori dal suo violino quando ne accarezzava le corde, sotto gli occhi di un John stranito che se ne stava lì a osservarlo sentendosi in quel momento esattamente come Scully in quella notte in cui Mulder, ai piedi del suo letto, le aveva raccontato per la prima volta del rapimento di sua sorella.
 
-Sai, quand’ero piccolo, avevo paura del buio-, Sherlock aveva ripreso a parlare ma teneva lo sguardo fisso davanti a sé, la voce più profonda e calda del solito. –Così mamma mi aveva comprato una di quelle lampade notturne per tenermi compagnia.
 
John appoggiò il mento a una mano e richiamò a sé tutta la sua attenzione: Sherlock che raccontava qualcosa di se stesso, qualcosa di privato, del suo passato, era una vera e propria rarità. Per un attimo, si sentì davvero importante, realmente parte del suo mondo, perché sapeva che non si trattava di qualcosa che avrebbe facilmente condiviso con altri. I battiti del suo cuore iniziarono ad aumentare e non poté fare a meno di sentirsi un po’ stupido. Ma la verità nuda e cruda era che, in quei momenti in cui Sherlock per un attimo, anche solo per un attimo, cessava di essere “tutto cervello”, John si sentiva felice.
 
-Proiettava la luna e le stelle sulla parete, in un movimento rotatorio. Se volevi, potevi anche premere un tasto per ascoltare le ninne nanne di Brahms.
 
La voce di Sherlock stava continuando a raccontare con entusiasmo, gli occhi persi nel vuoto di fronte a sé.
 
-Doveva essere bellissima…-, commentò John, che, con la bocca impastata e la gola arida, non aveva trovato nulla di meglio da dire.
 
-Già, lo era…
 
Le parole di Sherlock sfumarono via in poco più di un sussurro.
 
-Beh, suppongo lo fosse… Mycroft non me la lasciò mai usare perché sosteneva disturbasse il suo sonno.
 
La rivelazione spiazzò per un attimo John, che si trovò senza parole, quasi come se avesse voluto aiutare il bambino di allora, ma non sapeva come fare perché ormai quel bambino se n’era andato.
 
-Comunque…-, Sherlock si scosse dai suoi pensieri. -Che fai? Non vuoi vederla?-, lo invitò, indicando con la testa la finestra dietro di sé.
 

§§§

 
-Ci vediamo tre volte l’anno. Non pensavo che aumentare i nostri incontri a quattro fosse chiedere troppo.
 
C’è un motivo valido, dopotutto, se sono tre anche le volte in cui John telefona a Harry in dodici mesi.
 
La voce della sorella è stridula come al solito mentre rimbomba nel suo orecchio e John allontana il cellulare con una smorfia, seccato dal fatto che quella conversazione lo distrae dal compito importantissimo che si è prefissato per quella mattina: trovare una lampada notturna che proietti tutto il firmamento sul soffitto da un comodo rivenditore online, in modo da evitare altre spiacevoli situazioni imbarazzanti di persona.
 
-Domenica è il compleanno di Sherlock-, la informa distrattamente con voce piatta, sperando che sia sufficiente a chiudere lì la conversazione.
 
-Potreste venire tutti e due.
 
 Harry continua a parlare, mentre John ordina i risultati della ricerca in base al prezzo.
 
 -Invitare una domenica a pranzo mio fratello e il suo ragazzo mi sembra una richiesta ragionevole.
 
 Silenzio.
 
I proiettori di stelle non sono d’improvviso più interessanti.
 
-Sherlock Non È Il Mio Ragazzo-, puntualizza John, scandendo bene ogni parola.
 
-Gradisci l’arrosto con le patate? Oppure lo stufato e il pudding? Basta che mi fai sapere il giorno prima cosa preferisci e io te lo preparo.
 
Harry continua imperterrita nel suo monologo, come se il fratello non avesse aperto bocca.
 
-A meno che il tuo ragazzo non sia intollerante a qualcosa…
 
A John viene in mente tutta una sfilza di cose a cui il suo coinquilino è intollerante, ma nessuna di queste è commestibile. Avvicina ancor di più il cellulare alla bocca, quasi nella speranza che così le sue parole possano essere meglio recepite da Harry.
 
-Ma mi ascolti quando parlo? Sherlock non è il mio ragazzo, purtroppo.
 
Silenzio. Pesante silenzio. Chi non sta ascoltando chi, adesso? John di sicuro non sta ascoltando se stesso.
 
-Ovviamente, volevo dire ovviamente-, biascica. -E purtroppo non possiamo venire.
 
Riattacca, dimenticandosi di salutare la sorella. È arrabbiato, sente le vene della testa pulsare. È arrabbiato, ma non con Harry. Così, in un impeto d’ira, chiude la finestra del browser e spegne il computer. Ha abbandonato il carrello senza completare l’acquisto. Niente pranzo di compleanno con Harry, niente regalo per Sherlock.
 

§§§

 
Flashback
 
Sherlock era già rimasto senza regalo. A Natale, il loro primo Natale insieme.
 
(Nel senso, il primo Natale che entrambi hanno trascorso in Baker Street, come John teneva a puntualizzare, onde evitare ogni possibile fraintendimento. Lo aveva ripetuto a tutti ancora e ancora, quasi più per convincere sé stesso che gli altri.)
 
Comunque, a parte degli alluci mutilati, un rene asportato, l’ultimo modello dello spettrofotometro di massa della Shimadzu o un trattato sui comportamenti degli omicida seriali, non avrebbe saputo proprio cosa regalargli. In più, dubitava seriamente che Sherlock si preoccupasse di acquistare un regalo per lui. In alcuni momenti aveva persino dubitato che fosse a conoscenza delle usanze natalizie. Quindi, per evitare di fare una figura da idiota, aveva deciso di soprassedere, sapendo che se ne sarebbe potuto sempre uscire con una scusa dell’ultimo minuto del tipo “Ho ordinato il tuo regalo su Internet, ma il corriere è in ritardo con la consegna per via della neve”.
 
E gli eventi avevano finito per dargli ragione. Gli eventi non li avevano portati a scambiarsi i regali sistemati con cura sotto l’albero. Non li avevano portati a scartare allegramente i loro pacchetti mangiucchiando biscotti allo zenzero e indossando allegre corone colorate di carta. Nessun regalo per John. Nessun regalo per Sherlock.
 
Ma John non ci era rimasto poi così male. Non l’aveva presa come un’offesa personale, bensì come un’ennesima conferma dell’incapacità dell’amico di relazionarsi con la società e le persone che la compongono. Se glielo avesse chiesto, probabilmente come scusa Sherlock avrebbe addotto che “già solo la sua presenza doveva essere considerata di per sé un regalo”. Cosa che, per altro, nel cuore del dottore, corrispondeva al vero.
 

§§§

 
Questa volta l’ha fatta grossa, l’ha fatta davvero grossa. Prima di oggi, John ha sempre ritenuto che il massimo del peggio Sherlock lo abbiadato facendo il saputello a Natale, urtando i sentimenti di Molly e Lestrade in un colpo solo. E anche un po’ i suoi, ma a questo ormai ci è quasi abituato, sapendo di essere lì apposta per fare da “valvola di sfogo” ai bizzarri umori Sherlock.
 
Ma quella povera donna no, non ci è di certo abituata. E così capita che un bel giorno scopra in un colpo solo la falsa identità di suo marito, la sua condizione di ricercato da Scotland Yard e, per finire, la sua bigamia (anzi, doppia bigamia, per essere precisi). Il tutto dalle candide labbra di Sherlock, rimasto imperturbabile ai singhiozzi e ai fiumi di lacrime da ella versati davanti a loro due e Lestrade.
 
-Non capisco dove sia il problema-, borbotta Sherlock, gli occhi fissi sul monocolo del microscopio.
 
-Non… non capisci dove sia il problema?-, ripete John, perdendosi a metà strada tra lo sgomento e la rabbia. È in piedi vicino a lui, accanto al tavolo della cucina e si impone di rimanere calmo. –Quella poveretta si è vista crollare il mondo davanti agli occhi. Grazie a te.
 
-Grazie a suo marito, vorrai dire-, puntualizza Sherlock, senza muovere il capo di un solo millimetro.
 
Una pausa.
 
-Delle scuse sarebbero state come minimo gradite-, ribatte John, incrociando le braccia al petto.
 
-Non sono io quello che si deve scusare…
 
Un’altra pausa.
 
-Vedi, è proprio questo il problema. Tu non pensi mai di essere tu quello che deve delle scuse.
 
John gesticola con la mano.
 
-Una volta l’ho fatto. Ma se te lo sei dimenticato, è un altro problema non mio…
 
Il detective scruta l’amico con la coda dell’occhio, ma il dottore non lo nota. Sta guardando il muro, per cercare di trovare la calma.
 
-Non ce la fai proprio, vero? Non ce la fai proprio a capire che al mondo esiste anche qualcun altro oltre a Sherlock Holmes?
 
-È quello che si chiama essere sociopatici, John-, puntualizza Sherlock, concentrando di nuovo tutta la sua attenzione sul microscopio. Sa che l'amico sta scuotendo la testa e lo sente muovere un paio di passi verso il salotto.
 
-Sei arrabbiato per quello che è successo quella notte, non è vero?
 
Quelle parole, come piovute dal nulla, hanno il potere di bloccare John lì dov'è.
 
-La notte della luna.
 
Sherlock di nuovo non si muove di un millimetro mentre parla, persino ogni capello è statico. Le parole scivolano fuori dalle sue labbra quasi senza apparente importanza, ma hanno altresì l'effetto di colpire John nel punto giusto.
 
-Sei arrabbiato. Probabilmente più con te stesso che con me. Perché fai la predica a me, ma tu sei il primo che non accetta di perdere il controllo. Perché sostieni che sia io quello che non conosce il significato dei sentimenti, quando sei tu che fuggi da essi.
 
Può sentire lo sguardo del dottore su di sé. È carico di confusione e smarrimento. Di desiderio di chiedere e di non sapere. Di voglia di scappare e di non trovarsi in nessun altro posto al mondo che in quella cucina. Di gridare e di piangere. Di ribellarsi e di arrendersi.
 
-Io vorrei solo che anche il resto del mondo non ti giudicasse solamente per quel sociopatico che sei e si rendesse conto che sei anche capace di essere una splendida persona... A volte.
 
John riesce solo a dire questo. E non sa nemmeno se sia una negazione o una conferma. Sa solo che per un attimo avrebbe voluto ferire Sherlock, ma non ci riesce. Non può. Non vuole. Perché Sherlock è maledettamente bravo a capire le persone e, pur sembrando un controsenso, questa è una delle cose che più ama di lui.
 
Così, esce dalla cucina, prende la giacca dalla poltrona, se la butta con noncuranza sulle spalle ed esce. Fuori dal salotto, giù per le scale, fuori dal 221B. Senza voltarsi indietro, senza sapere di aver lasciato dietro di sé uno Sherlock che, per la prima volta, inizia a provare il timore di non vederlo tornare indietro.
 
 
 
Sta calando la sera, accompagnata da una nebbia che tende a farsi sempre più fitta, mentre John cammina, senza meta, senza incrociare lo sguardo dei passanti che affollano indaffarati le strade di Londra dopo le 5 di pomeriggio alla chiusura degli uffici nella City. Ha le mani in tasca e lo sguardo basso. Cammina fino al Parlamento e poi scende gli scalini che conducono alla County Hall. Si siede su una panchina vicino al Mc Donald's e, per la prima volta da quando è uscito di casa, inizia a guardarsi intorno, posando gli occhi sulla gente ancora in coda a quell'ora per un giro sul London Eye. La prima stella della sera fa capolino nel cielo, con il profilo del primo quarto di luna appena visibile.
 
 
 
La notte della luna…
 
 
 
§§§§

 
 Flashback
 
John aveva scostato la tenda, lasciando che il chiarore della luna che faceva capolino dai vetri li avvolgesse entrambi.
 
Sherlock non aveva ancora smesso di parlare.
 
-Bella, vero?
 
John annuì, non trovando parole adatte da dire, ammirando la luna tonda e piena color rame che troneggiava bassa dietro i profili delle case.Sentì Sherlock abbandonare la compagnia del comodino per sistemarsi accanto a lui, con un ginocchio appoggiato sul materasso e la schiena leggermente china per meglio guardare anche lui fuori dalla finestra.
 
-Ho letto su Internet che la colorazione rossiccia potrebbe essere dovuta all'inquinamento-, commentò Sherlock allo spettacolo.
 
John scosse la testa e si mise a ridere, voltandosi verso l'amico. -È più forte di te! Non riesci proprio a far finta di essere romantico per più di cinque minuti, vero?
 
Sherlock si voltò verso di lui, diventando improvvisamente serio. –È così che mi vorresti?
 
John non riuscì a non tremare quando, di colpo, la distanza tra loro si annullò, ritrovandosi con la sua bocca premuta contro quella dell'altro. Le labbra serrate per non far uscire nemmeno un accenno di respiro, quasi in un bacio da educanda, eppur così capace di dar sfogo a un tumulto di emozioni. I riccioli scuri di Sherlock gli solleticavano una guancia, mentre John veniva avvolto dal profumo fresco del suo shampoo. Poteva sentire il tepore del suo corpo avvolgere il proprio, i battiti dei loro cuori così vicini, tanto da non riuscire più a distinguere quelli di Sherlock dai suoi, mentre la paura e lo sgomento iniziavano a farsi strada dentro di lui.
 
Che cosa sto facendo?
 
La testa si era fatta d’improvviso pesante, la pelle calda e pulsante. Una parte di sé voleva staccarsi da quelle labbra morbide, ma la sua bocca indugiava su ogni sapore che sentiva. Caffè e… tabacco? Sherlock era riuscito a trovare la riserva di sigarette di emergenza? Chiuse gli occhi, stringendo le palpebre il più possibile come volendo impedire a tutto il mondo che li circondava di intromettersi tra loro. Si strinse di più al suo corpo, sollevando una mano per sfiorare appena i capelli scuri, scoprendoli piacevolmente lisci al tatto, più della seta.
 
Sono io questo?
 
Poteva sentire il sangue defluire rapidamente verso il cervello e l’eccitazione crescere, mentre i suoi polpastrelli sfioravano la guancia destra dell’amico. Sorprendentemente, il contatto con la sua barba appena accennata fu come una scossa che servì a riscuoterlo da quella dimensione fatta di odori e sensazioni fino ad allora sconosciute.
 
Non posso essere io…
 
Balzò indietro verso la parete contro cui era appoggiato il lato destro del letto, prendendo un energico respiro come se fosse rimasto sott’acqua troppo a lungo. Sentiva il cuore martellargli nella gola, iniziando a rendersi conto solo allora di ciò che aveva appena fatto. Rimase lì un attimo in silenzio a guardare Sherlock, ansimando. L’adrenalina e l’eccitazione che fino a quel momento avevano fatto man bassa del suo corpo stavano pian piano scemando, lasciando spazio a sensazioni meno piacevoli, come il turbamento e la vergogna.
 
Si sentiva colpevole come un ladro. Guardava l’amico con aria colpevole e supplicante, nella speranza di una sua parola o un suo cenno di perdono. Voleva sentirsi dire che andava tutto bene, che la loro amicizia non era stata violata e che la considerazione che Sherlock nutriva nei suoi confronti era ancora la stessa. Ma il detective si limitò a tenere gli occhi fissi nei suoi, con l’impassibilità di sempre, quasi come in attesa di una sua mossa. O forse piacevolmente e segretamente divertito da tutte le emozioni che stavano colpendo John da ogni dove e che riusciva a leggere palesemente attraverso il suo corpo.
 
-Scusami, non so che cosa mi abbia preso…-, farfugliò il dottore, passandosi una mano tra i capelli color cenere e premendo ancor di più la schiena contro la parete, quasi nel tentativo di mimetizzarsi con la carta da parati.
 
Sherlock ancora taceva e lo osservava, mettendo John ancor più a disagio, perché sentiva i suoi occhi che si muovevano rapidi su ogni centimetro del suo corpo, studiandolo e analizzandolo come soleva fare. Avrebbe preferito che aprisse la bocca per dirgli qualcosa, qualsiasi cosa. Persino un insulto sarebbe stato preferibile a quel silenzio critico.
 
-Ti posso garantire che non accadrà più.
 
Sherlock rimase in silenzio ancora qualche secondo, prima di pronunciarsi.
 
-Tutto qui?
 
-Prego?
 
-Non hai nient’altro da aggiungere?
 
John sbatté le palpebre un paio di volte, non riuscendo a capire cosa intendesse davvero Sherlock. Voleva forse che si inginocchiasse davanti a lui per scusarsi nuovamente?
 
-Mi dispiace, ti chiedo scusa per quello che è accaduto, non volevo che succedesse e ti assicuro che non si ripeterà più-, disse John, scandendo bene le parole.
 
-Come vuoi.
 
Sherlock si allontanò da lui e uscì dalla sua camera, senza voltarsi, senza pronunciare una parola di più, lasciando John ancora appiccicato alla fredda parete, stranito e confuso in un bizzarro mix di rabbia e rimpianto. Per ciò che era stato, per ciò che avrebbe voluto che fosse.
 
 
 
§§§§


E così capita che, per i tre giorni successivi, le conversazioni tra i due coinquilini si limitino a freddi Buongiorno e Buonanotte pronunciati distrattamente, senza quasi guardarsi negli occhi.
 
 
 
E così capita che, per i tre giorni successivi, John se ne stia quasi sempre in casa, davanti allo schermo del suo portatile, da solo, mentre Sherlock esce presto al mattino e torna tardi la sera.
 
 
 
E così capita che, per i tre giorni successivi, il dottore inizia a capire come ci si senta a essere realmente esclusi dalla vita di qualcuno e a provare il timore di non vederlo tornare indietro ogni volta che esce di casa.
 
Finché arriva la domenica, il giorno del compleanno di Sherlock, e John si ritrova, tutto sommato, a sentirsi pentito per aver rifiutato l’invito a pranzo di Harry. Perché ha paura di trovarsi a dover dire a Sherlock più delle solite quattro parole giornaliere e non sapere bene cosa dire perché vorrebbe parlare di tutto. Perché ha paura di mettersi a sua completa disposizione per quel giorno di festa e capire che la sua presenza non sia poi così desiderata da Sherlock. Perché una parte di se stesso ha ancora paura di ascoltare ciò che l’altra ha da dire. Perché mentire e nascondersi è semplicemente più facile.
 
Sente un cerchio alla testa, gli occhi che bruciano, le tempie che pulsano. Il suo cervello protesta sotto tutta quella frenesia di pensieri che si accavallano dentro la sua testa, mentre apparecchia la tavola per il pranzo. Lui e Sherlock non si sono ancora incrociati, quella mattina. Non sa nemmeno se rincaserà per pranzo, e, se lo farà, se avrà voglia di mangiare, ma vuole apparecchiare lo stesso. Una tavola imbandita è sinonimo di normalità, di casa, e sente di aver bisogno di questo.
 
Due calici di buon vino rosso, la tovaglia rossa di organza, i tovaglioli bianchi. Tutto così fuori luogo, oppure tutto così perfetto. John vorrebbe non pensare così tanto al passato, ma teme il futuro ancora di più.
 
Si siede per un attimo, poi si rialza. Appoggia le mani allo schienale della sua sedia e inizia a farla dondolare nervosamente. L'ansietà è una tavola imbandita a cui l'onesto non siede. E John non crede di essere stato completamente onesto con se stesso, finora.
 
Se ne sta lì con gli occhi fissi sui calici di vino, andando con la mente alle stelle e alla luna, con la sola compagnia del ticchettio dell'orologio. Pensa a quanto sia stato stupido, a quanto abbia solo voglia di correre fuori per andare a cercare Sherlock e a gridargli in faccia quanto abbia ragione, Dio solo sa quanto.
 
-Sembra che il cinese in fondo alla strada non sia stata la mia scelta migliore…
 
Sherlock si materializza sulla porta che collega la cucina al vestibolo sulle scale, lo sguardo rivolto alla tavola apparecchiata. John è così assorto nel suo mondo di ansietà e timori da non averlo sentito entrare. Lo osserva confuso, cercando di capire se si tratta davvero del suo coinquilino e non di una proiezione della sua mente.
 
-Ravioli di gamberi e riso alla Cantonese-, dice il detective, alzando una mano per mostrare a John due buste di carta. Accenna a un piccolo sorriso quasi imbarazzato.
 
-Va benissimo, va benissimo-, commenta John, che quasi si sente come uno scolaretto al primo appuntamento. Una bella sensazione, dopotutto.
 
Sherlock fa un paio di passi dentro la cucina.
 
-E biscotti della fortuna…
 
-Non avrai di che divertirti: tu indovini sempre quello che c'è dentro.
 
Sherlock piega leggermente le labbra, il massimo che la lingua Holmes preveda per porgere le proprie scuse.
 
-Ho mentito. Non sempre indovino.
 
John non può fare a meno di lasciarsi andare anche lui a un mezzo sorriso. –Cibo cinese andrà benissimo-, ribatte, quasi come fosse lui il festeggiato.
 
Sherlock tira fuori i contenitori di alluminio dalle buste, mentre John cerca le loro scorte di bacchette di legno nel cassetto delle posate.
 
-Pensavo… pensavo non venissi a mangiare qui, oggi-, inizia, dandogli le spalle e fingendo di metterci più del necessario per cercare le bacchette.
 
-Oggi avevo voglia di stare a casa.
 
Non aggiunge altro, mentre distribuisce equamente i ravioli nei due piatti.
 
-Dunque hai risolto il tuo caso…-, conviene John, sottolineando quel tuo con un pizzico di risentimento, nella speranza che l’amico riesca ad andare oltre le parole e a intuire la sua delusione dovuta all’essere stato escluso.
 
-Non sto lavorando a nessun caso.
 
Il dottore si volta di colpo e pone gli occhi stupiti sull’amico, che si è già seduto a tavola.
 
-Capisco… Pensavo stessi lavorando a qualcosa, visto che non sei mai stato in casa in questi giorni.
 
John pensa sia giunto il momento di far saltare fuori le bacchette. Ne mette quattro in tavola e si siede. Ne prendono un paio ciascuno e iniziano a mangiare, in silenzio, John con gli occhi fissi sul cibo, Sherlock con gli occhi fissi su John.
 
-Sono stato al Bart’s.
 
John annuisce, mangiando imperterrito i suoi ravioli.
 
-Capisco-, ripete. Provette, cadaveri ed esperimenti, pensa.
 
-No, non credo tu capisca.
 
Sherlock continua a tenere lo sguardo incollato su John, il quale è sempre preso dai ravioli.
 
-Sono stato in biblioteca.
 
Una pausa.
 
-Con i bambini…
 
Ecco che finalmente l’attenzione del dottore è stata catturata, il quale alza gli occhi dal suo piatto e li fissa nelle iridi azzurrissime dell’uomo seduto di fronte a sé, pregando inconsciamente Dio affinché il suo amico non stia conducendo esperimenti con l’acetone o quant’altro su quei poveri innocenti.
 
-I bambini di pediatria. Di cardiologia, di neurologia pediatrica. I bambini, insomma, che non sanno se e quando torneranno a casa.
 
John ripone le bacchette sul piatto e appoggia i gomiti sulla tavola, chinando leggermente il capo in avanti. Sbatte le palpebre un paio di volte e si concentra per cercare di capire bene ciò che l'amico gli sta comunicando.
 
Sherlock continua a mangiare mentre parla, non volendo attribuire troppa importanza alle parole che escono dalle sue labbra. Si sforza di mantenere nell'intonazione della voce un accenno di noncuranza, come se stesse parlando di ciò che Mrs. Hudson ha cucinato quella mattina.
 
-Andiamo nella biblioteca dell'ospedale e leggo ai bambini delle storie. A me piace leggere e a loro ascoltare. Hanno una biblioteca ben fornita, giù al Bart's, come saprai.
 
Il detective smette di guardare l'amico in faccia e si concentra sul suo piatto, quasi come a sottolineare che non ha altro da aggiungere. Ma in realtà è in attesa, in attesa di conoscere ciò che passa per la mente del dottore in quel momento. In attesa della sua approvazione, o del suo biasimo.
 
John ha mille domande che corrono su e giù nella sua testa come colonne di formichine assai indaffarate in una afosa giornata estiva. Per un attimo, pensa addirittura che il suo amico lo stia prendendo in giro, ma i suoi occhi di ghiaccio sono seri e tradiscono addirittura una leggera ansia. Non un’ansia carica d’angoscia come quella che lo ha attanagliato poc’anzi mentre preparava la tavola, ma di certo non meno palpabile.
 
-Mi stai dicendo… mi stai dicendo che hai trascorso questi giorni in ospedale in compagnia di bambini?
 
Sherlock annuisce, mangiucchiando distrattamente un po’ di riso, pur non avendo visibilmente molta fame.
 
-Leggendo loro dei libri?
 
Annuisce di nuovo.
 
John scuote la testa e allarga le braccia.
 
-Sherlock Holmes che passa le sue giornate raccontando favole a dei bambini in ospedale?
 
-Dei bambini ammalati. E non solo favole-, puntualizza, sottolineando il concetto indicando l’amico con una bacchetta.
 
-Perché?
 
Sherlock fa spallucce.
 
-Molly mi ha detto che il gruppo di animazione era a corto di volontari.
 
-Lo sai che non intendo questo.
 
Il detective spezzetta grossolanamente il suo ultimo raviolo, schiacciando i pezzetti con la bacchetta, evitando di guardare John in faccia.
 
-Lo sai bene, perché.
 
-No che non lo so.
 
-Vuoi proprio che lo dica ad alta voce?
 
Sherlock alza lo sguardo e i suoi occhi di ghiaccio incontrano quelli blu più scuri del dottore, che ha un piccolo sussulto al cuore quando riesce a leggerci qualcosa di strano, simile a tenerezza.
 
-Sarebbe utile, sì.
 
Gli angoli delle labbra di John si piegano in un lieve accenno di sorriso e chiede al suo cuore di rallentare la sua corsa, ma con scarso successo.
 
-Hai detto che sono un sociopatico…
 
-È vero che lo sei. E lo dici sempre anche tu!
 
-Vuoi continuare a interrompermi?-, sbuffa Sherlock.
 
John allarga le braccia e si appoggia allo schienale della sedia.
 
-Prego, continua.
 
-Grazie.
 
Sherlock continua a giocherellare con il cibo, sentendosi terribilmente a disagio in quella situazione che ha ben poco dell’ordinario.
 
-So bene cosa sono io. E so bene cosa sei tu.
 
-Cosa sono io?
 
-Tu sei la mia coscienza. Tu sei il mio grillo parlante.
 
Grillo parlante, questa deve averla trovata in uno di quei libri, pensa John. Cerca di immaginare se stesso travestito da Grillo parlante nella speranza che un po’ di umorismo possa aiutarlo a smorzare tutta quella agitazione che sta provando, ma il tentativo va di nuovo a vuoto.
 
-Tu sei il mio cuore…
 
Sherlock fissa i suoi occhi in quelli del dottore e li tiene lì, per diversi secondi, senza spostarli di un solo millimetro, mentre i battiti di John, anziché rallentare al pensiero del Grillo parlante o di qualsivoglia altra immagine retorica, aumentano sempre di più, come se avessero deciso di allenarsi proprio oggi per la prossima maratona cittadina, mentre il respiro diventa più intenso e la sua pelle si scalda e pulsa.
 
John riesce a capire quanto tutto questo stia costando a Sherlock, come ci stia mettendo l’anima per comunicare con lui al suo stesso livello.
 
-Ho pensato di averti deluso e ho cercato di fare qualcosa che ti potesse far sentire orgoglioso di me.
 
Sherlock ha finito. Riprende a mangiare, saltellando con gli occhi dal cibo al dottore.
 
-Ma io… io…-, balbetta John, che fa fatica a trovare le parole giuste per commentare tutta quella situazione paradossale in cui si sta ritrovando. –Io sono sempre stato orgoglioso di te e di quello che fai.
 
-Ottimo, allora appena hai finito, possiamo mangiare il dolce e scartare i regali.
 
Che tradotto dalla lingua Holmes significa “Ho detto tutto quello che c'era da dire in proposito e non aggiungerò altro”.
 
John se ne sta lì sempre più confuso e smarrito; apre e chiude la bocca un paio di volte senza emettere alcun suono. Tra i due, lui è sempre stato senza dubbio quello più portato ai rapporti interpersonali, ma questa volta potrebbe davvero far concorrenza all'amico.
 
-Chi ti dice che ci siano regali da scartare?-, chiede di rimando, sorridendo con più decisione di prima. La tensione accumulata sta iniziando a scemare e le spalle iniziano a essere meno pesanti, i muscoli più rilassati.
 
Sherlock allunga una mano sulla busta di carta contenente i biscotti della fortuna.
 
-Perché oggi è il mio compleanno. Fatto. Perché a Natale ti sei autoesentato dal piacere... no, anzi, dal dovere di comprarmi un regalo. Altro fatto. Perché io e te stiamo insieme. Fatto innegabile. Perché ti senti in colpa di tutto quanto sopra esposto. Fatto decisamente innegabile. Unica conclusione logica: mi hai comprato un regalo. Un bel regalo.
 
Il detective beve un sorso di vino dal suo calice, con aria compiaciuta, che, sempre tradotto dalla lingua Holmes, significa “Ho detto tutto quello che c'era da dire anche su questo argomento e non aggiungerò altro”, mentre il dottore ha smesso di seguire il filo logico della spiegazione dell'amico alla parola insieme, esattamente nel momento in cui il suo cuore decide di lasciare di nuovo qualche battito per strada.
 
-Insieme nel senso di…
 
L’indice sinistro di John passa nervosamente dall’uno all’altro di loro.
 
-Nel senso di due persone che condividono una relazione sentimentale.
 
Sherlock fa spallucce, come se il loro stato fosse la cosa più ovvia da notare.
 
John annuisce, come se prendere atto del loro stato fosse la cosa più semplice da accettare.
 
-Okay, okay. Così noi stiamo… in-sie-me da…
 
-Da quando mi hai baciato, ovvio.
 
-Da quando ti ho baciato, ovvio…
 
Il dottore allunga la mano verso il suo calice. Lo svuota in un sol sorso, si versa ancora del vino e si scola anche quello tutto di un fiato.
 
Fino a quel momento, si è sempre chiesto chi avesse baciato chi. Oltre ovviamente a cercare di dimenticare l’accaduto, o meglio, rifiutarlo del tutto. Rifiutare di ricordare che aveva desiderato baciarlo fin da quando Sherlock gli aveva chiesto di accompagnarlo a Lauriston Gardens, fin da quando dalle sue labbra era uscito quel Oh Dio, sì, voglio stare al tuo fianco. Lasciami stare al tuo fianco, fin quando a Dio piacerà, fino a quando tu lo vorrai.
 
Fino a quel momento, ha sempre cercato di non ricordare che era stato lui ad aver posato per primo le sue labbra sottili su quelle a forma di cuore dell’altro. Per scoprire, con un piacere che al tempo stesso faceva anche paura, di non essere respinto. Ma ora inizia a prendere coscienza della realtà, scoprendo inaspettatamente quanto tutto questo lo renda felice. Quanto Sherlock lo renda completo.
 
-Sempre che tu non abbia nulla in contrario.
 
La voce di Sherlock, che tradisce inaspettatamente una nota di incertezza, lo scuote dai suoi pensieri.
 
-Niente in contrario. Mi va benissimo.
 
John si stupisce di se stesso sentendo quanto suoni così decisa la sua voce. I battiti non sono ancora tornati normali e la pelle è ancora calda e pulsante, ma al dottore sta bene così.
 
-Ottimo. Forse allora, a questo punto, potrei non aver più bisogno del mio teschio-, conviene Sherlock.
 
-Vuoi dire che io sostituisco il teschio?
 
-La cosa potrebbe essere d’ostacolo alla nostra relazione?
 
Sherlock prende un biscotto della fortuna, lo apre e legge distrattamente il bigliettino.
 
-Mi auguro di no.
 
-Dunque, se abbiamo chiarito ogni cosa circa la nostra relazione, posso avere il mio regalo, ora? Penso di essermelo meritato, no?
 
A John piace come suona la parola relazione pronunciata dalle labbra di Sherlock, piace davvero molto. Si alza e sparisce per un attimo di sopra, in camera sua, continuando a sorridere a se stesso. Poi torna con una pesante scatola avvolta in una bella carta blu e impreziosita da un importante nastro argento. Quando John lo appoggia, il tavolo oscilla leggermente.
 
-Wow, non ti sei di certo risparmiato…
 
John si siede accanto a lui e sorride. Pensa che forse dovrebbe tirare fuori il suo telefonino e immortalare quell’attimo, ma non vuole correre il rischio di perdersi qualcosa per andare a cercarlo di là in salotto.
 
-E noto che Mrs Hudson ti ha dato una mano a confezionarlo.
 
Sherlock appoggia le mani sulla scatola e la palpa, quasi come volesse provare a indovinarne il contenuto.
 
-Aprilo, su. È tutto tuo-, lo esorta John, indicando il regalo con il mento.
 
Il detective rimuove delicatamente i pezzi di nastro adesivo che fissano la carta da pacchi, con meticolosità quasi da chirurgo. È la prima volta che vede Sherlock scartare un pacco, un regalo, e John pensa alla solennità di quel momento apparentemente banale. Un attimo dopo, nastro e carta (ancora completamente intatta) finiscono per terra accanto alla sedia di Sherlock, il quale rimane a fissare per un attimo la scritta Star Theatre Planetarium sulla scatola di cartone.
 
-Mi hai comprato… una lampada?
 
-Oh, è molto più di una lampada-. John è compiaciuto con se stesso, perché è riuscito a sorprendere Sherlock in qualche modo. –È un vero e proprio proiettore-, spiega, mentre aiuta l’altro ad aprire la confezione di cartone. –Un planetario ad alta definizione. Guarda: Ha movimento rotatorio che riproduce l’aspetto della volta celeste nel corso dell’anno, angolo di proiezione e messa a fuoco regolabili e persino una funzione Stelle cadenti.
 
Mentre parla, John osserva Sherlock, che estrae il suo regalo dalla scatola e lo guarda con occhi scintillanti, eccitato quasi come un bambino il giorno di Natale. Quasi come quando si sta avvicinando alla risoluzione di uno di quei casi che non lo fanno dormire per giorni. E, secondo John, nella “lingua Holmes” questa rappresenta la migliore forma di apprezzamento.
 
-Puoi osservare ben diecimila stelle proiettate sul soffitto della tua camera.
 
-La nostra camera, John.
 
Il cuore del dottore perde un altro colpo e John inizia a pensare che le emozioni di quella giornata, prima o poi, avranno qualche ripercussione seria nel prossimo futuro.
 
-Sempre che tu non abbia niente in contrario nemmeno su questo punto. Io di sopra non ci salgo.
 
Sherlock prende il mano il proiettore e inizia a esaminarlo da ogni lato.
 
-No, no, no, no. Niente in contrario.
 
A parte, ovviamente, spostare le sue cose; anche se il pensiero di un piccolo trasloco non è mai stato tanto interessante come in questo momento. Escludendo, ovviamente, la possibilità di litigare per accordarsi in merito a quale lato del letto prendere.
 
-Io dormo a destra.
 
Per un attimo, John si era dimenticato come sia vivere con qualcuno che sa leggerti nel pensiero. Allunga una mano nel sacchetto dei biscotti della fortuna e li mescola un po’, prima di sceglierne uno. Si sente rilassato e a suo completo agio, come non lo è stato da tempo.
 
-Cosa c’era scritto nel tuo biscotto?
 
Sherlock ripone il proiettore sul tavolo e fissa nuovamente i suoi occhi in quelli del compagno.
 
-“Scopri il mondo della persona amata, due mondi sono più ricchi di uno solo”.
 
   
 
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