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Autore: MrEvilside    31/03/2012    3 recensioni
14 dicembre 1898, rifletté.
Il giorno del suo compleanno, il giorno in cui un Contratto era stato infranto, il giorno in cui ne era nato un altro.

( II classificata al Dammi la coppia yaoi e ti rendo il terzo incomodo - Contest di BeaLovesOscarinobello )
( Undertaker/Ciel; slight: Ciel/Lizzie )
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Ciel Phantomhive, Tanaka, Undertaker
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Sporco e ipocrita
 


La stoffa scivolò come una carezza sulla sua pelle, una carezza dal sapore di tessuto nuovo e pulito. Cadeva alla perfezione sulle sue forme asciutte e le avvolgeva morbidamente – confortevole, oltre che esteticamente bello, proprio come aveva richiesto.
Il miglior lino d’Inghilterra, s’era vantata Nina quando gli aveva consegnato il pacco; lui l’aveva lasciata fare: poteva concederle qualche momento d’autoelogio, dal momento che aveva svolto così bene il suo lavoro, aveva considerato tra sé mentre scioglieva il fiocco elaborato che chiudeva la scatola.
«Che cosa ne pensa il mio signore?»
La voce garbata del maggiordomo squarciò la cappa di silenzio che gravava sulla stanza del guardaroba.
In piedi dinanzi allo specchio monumentale che troneggiava al centro della camera, in mezzo ai due armadi di legno chiaro, Ciel Phantomhive allargò le braccia, un muto ordine che ricevette immediatamente risposta quando il servitore lo aiutò a indossare la giacca di velluto blu dai riflessi d’ogni sfumatura del mare, anch’essa disegnata da Nina Hopkins.
«Penso che Elizabeth ne sarà soddisfatta» rispose il conte, allontanando le mani dell’uomo con un cenno cortese, e prese ad abbottonare l’indumento egli stesso. «E che soddisfa anche me. Come ti sembro?»
Era indubbio che, da quando aveva tredici anni, il capostipite dei Phantomhive era cresciuto e si era sviluppato.
Adesso aveva l’aspetto di un giovane di ventitré anni e ogni giorno somigliava di più a suo padre: la mascella quadrata, il mento ricoperto d’una spolverata di barba, tagliata con cura quotidianamente, la fossetta di Vincent che faceva la sua comparsa le poche volte in cui sorrideva. Molte delle giovani nobili londinesi in età da marito rimpiangevano di non essere la sua promessa sposa, ora che non era più il ragazzino basso e gracile d’un tempo.
Con indosso quel completo di velluto, abbellito da una tuba della medesima stoffa, dalla camicia candida, da stivaletti neri, non più con il tacco, e da un lungo bastone da passeggio in costoso legno d’ebano, appariva ancor più maturo e affascinante.
«Siete il degno figlio di vostro padre, mio signore». Tanaka sorrise e sul suo volto anziano s’incresparono mille rughe, come la superficie marina che, dapprima piatta, venga infranta dalla prua di una barca a vela. Quello non era il sorriso velato di crudeltà che l’aveva accompagnato per tre anni, ma l’espressione d’affetto paterno che era stata al suo fianco per dieci. «Il che significa, conte, che vi trovo decisamente bello. Lady Elizabeth è molto fortunata, quantomeno secondo l’opinione poco importante d’un servo come me».
Talvolta, tuttavia, per quanto rassicurante quel sorriso potesse essere, si ritrovava a preferire quello più falso e pericoloso, che non l’aveva mai fatto sentire così sporco e ipocrita.
Dieci anni prima, stava per spezzare il cuore di coloro che gli stavano intorno, lasciare la famiglia Phantomhive ad agonizzare, priva d’erede, e vendere la propria anima al diavolo in cambio di un effimero istante di soddisfazione per il compimento d’una vendetta.
Se non era accaduto, era stata mera questione di fortuna; Ciel sapeva che non avrebbe cambiato una sola delle decisioni che aveva preso allora ed era attanagliato dal senso di colpa per essere così amato e riverito.
Sporco e ipocrita.
«Cosa dici, Tanaka?» replicò e increspò gli angoli della bocca in un sorriso tirato, schiacciato per un istante dall’immensità del delitto che era stato sul punto di commettere. L’istante passò, e il suo sorriso divenne più vero prima di dissolversi. «Al contrario, la tua opinione conta molto per me e sono davvero felice di sentirti parlare così. Ma, dimmi, sono in ritardo?»
Il minimo che poteva fare per loro era dare fondo a tutta la gentilezza di cui era capace, per quanto poca essa potesse essere.
Tanaka controllò l’orologio da taschino e scosse il capo. «In perfetto orario. Il ricevimento avrà inizio tra mezz’ora e i primi ospiti dovrebbero arrivare a breve».
«Perfetto. Andiamo ad accoglierli».
Quel che era peggio era la sensazione, ancor più disgustosa, di essersi disonorato in ogni caso, poiché, anziché rispettare i termini del Contratto come Sebastian aveva fatto con lui, si era tirato indietro, aveva avuto paura.
Tutti gli esseri umani temono la morte, tuttavia Ciel Phantomhive se ne vergognava profondamente.
Il maggiordomo gli fece strada fuori dalle sue stanze, lungo il corridoio che conduceva alla scalinata in fondo alla quale si trovava l’ampio ingresso; il giovane conte lo seguiva senza fretta e il picchiettio del bastone sul pavimento dava un ritmo calmante ai suoi pensieri.
Decise di concentrarsi sull’immediato presente e non sui propri tormenti interiori.
Elizabeth non sarebbe arrivata per prima, come quando erano bambini e lei non vedeva l’ora di abbracciare il proprio fidanzato; adesso che era incinta, Paula era divenuta molto severa e deplorava l’idea che potesse stancarsi troppo, dunque non si sarebbe vista prima dell’orario che la sua cameriera avesse ritenuto più consono per la sua condizione di donna in gestazione.
La consapevolezza che sarebbe diventato padre nel giro di qualche mese lo riempiva d’un miscuglio di sentimenti alquanto insolito.
Gioia, prima e al di sopra di tutto, una gioia che non immaginava avrebbe più provato nella propria vita. Incredulità, ogni volta che si svegliava accanto a sua moglie e scopriva il suo ventre un po’ più rotondo e grande. Senso di colpa, che più di una volta l’aveva spinto ad accarezzare l’idea di andarsene e lasciare Elizabeth lontano dalle spire di tradimento che gli si avvinghiavano addosso.
Fino ad allora, però, era sempre rimasto al solo pensare che, se fosse scappato, suo figlio sarebbe cresciuto convinto che suo padre fosse un omuncolo indegno che aveva abbandonato una donna dopo essersi divertito con lei per rifuggire gli impegni della vita coniugale, nonché quelli tipici di un importante uomo d’affari.
Non l’avrebbe permesso. Suo figlio – o sua figlia – avrebbe dovuto essere orgoglioso dei suoi genitori e di essere nato in quella famiglia.
L’ingresso della magione era stato accuratamente preparato per la festa: dal soffitto pendeva un enorme candelabro di cristallo che gettava ovunque brandelli di luce dorata e argentea, illuminando a giorno la stanza, il pavimento era stato lucidato e la rampa di scale di marmo risplendeva del bianco più puro. A coronare tanto sfarzo, appeso alla parete del pianerottolo, di modo che saltasse per primo all’occhio di chi fosse entrato dal portone principale, v’era un quadro che raffigurava il padrone di casa, dipinto qualche mese prima da uno dei migliori pittori che Tanaka aveva trovato.
Ciel gli riservò un’occhiata veloce prima di dargli le spalle e scendere gli ultimi scalini.
Era stata Elizabeth a volerlo; lui l’aveva assecondata, tuttavia non amava guardarlo. In quel dipinto somigliava straordinariamente a suo padre e ciò gli faceva venire in mente un altro quadro, che molti anni prima aveva fatto bruciare.
Con una mano dietro la schiena e l’altra stretta sul pomo del bastone da passeggio, il giovane conte si fermò a lato del portone; Tanaka afferrò le maniglie di ambo i battenti e, non senza un considerevole sforzo, ma senza mostrarsi affaticato e bisognoso d’aiuto, come si conveniva a un servitore del casato Phantomhive, li spalancò in segno di benvenuto.
Poco dopo arrivarono le prime carrozze, trainate da robusti purosangue sbuffanti e sudati che stritolavano il morso tra i denti bianchi e forti.
Le vetture appartenevano a nobili d’ogni genere, ognuno dei quali vantava una quantità più o meno vasta di sangue reale nelle vene del proprio albero genealogico, tutti ansiosi di sfoggiare il loro nuovo abito all’ultima moda e di ricevere gli omaggi del distinto erede dei Phantomhive, così abile nel suo lavoro d’imprenditore come lo era in qualità di favorito della Regina.
Ciel, da parte sua, si assicurò che nessuno degli ospiti potesse offendersi perché il padrone di casa gli aveva prestato meno attenzione che agli altri: dispensò strette di mano agli uomini ed eleganti inchini alle donne, comunicò loro la propria gratitudine per essere venuti e sorrise, educato, delle frivole chiacchiere con cui loro lo intrattenevano.
Poche settimane prima i due Charles gli avevano fatto recapitare una lettera che recava il sigillo della famiglia reale: la Regina gli aveva fatto i suoi più sentiti auguri per il giorno del suo compleanno, che sarebbe stato di lì a un paio di settimane, e gli aveva chiesto il favore di celebrare una festa in onore di un ospite importante in quella stessa giornata. Elizabeth ne era stata dispiaciuta, avrebbe voluto festeggiare solo e unicamente la data di nascita del suo sposo, ma il conte sapeva che non si poteva rifiutare un favore alla Regina.
Naturalmente l’ospite era in ritardo e, dopo aver accolto tutti gli invitati e averli accompagnati nella sala da ballo, dove li attendevano un’orchestra e un generoso rinfresco, tornò nell’ingresso ad aspettarlo.
Era curioso, ma anche preoccupato e cauto: non aveva mai visto quell’ospite che la Regina sembrava tanto ansiosa di accontentare, né aveva compreso il motivo per cui sembrava così urgente organizzare il party proprio in quel giorno e proprio nella sua magione, dal momento che l’oscuro ospite non lo conosceva.
Rimasto solo – il suo maggiordomo e i domestici erano nella sala della festa a intrattenere gli ospiti – appoggiò entrambe le mani sul pomo del bastone e sospirò tra sé.
14 dicembre 1898, rifletté.
Il giorno del suo compleanno, il giorno in cui un Contratto era stato infranto, il giorno in cui ne era nato un altro.
Non sarebbe mai uscito da quel circuito pericoloso, tuttavia sperava di essere abbastanza forte da non trascinare nessun altro con sé. Non sua moglie, non suo figlio, neppure i suoi domestici: la sua famiglia non meritava di espiare le sue colpe.
Alla fine una carrozza nera sulla cui fiancata campeggiava l’emblema della Regina si fermò nel vialetto, attirando l’attenzione del conte. A tirarla erano due enormi cavalli neri, il cui manto si confondeva con il buio della notte, tuttavia risaltavano nell’oscurità a causa del baluginio bianco dei denti e delle cornee.
Non sembrava che vi fosse qualcuno a cassetta, notò Ciel senza sorpresa né timore.
In quel giorno di dieci anni prima aveva visto troppe cose per stupirsi ed era fin troppo consapevole della superiorità schiacciante del sovrannaturale sui mortali per potersi preoccupare di un simile dettaglio.
Così, attese.
La portiera della vettura si spalancò e la scaletta pieghevole scese fino a toccare terra; dalla voragine oscura che era l’interno della carrozza emerse una figura avvolta in un pastrano nero che sfiorava il suolo. La portiera si chiuse alle sue spalle e i cavalli sbuffarono e nitrirono, scuotendo il capo, innervositi dalla prossimità di quell’individuo; egli non prestò loro la minima attenzione e s’incamminò in direzione della villa.
Il giovane conte l’avrebbe riconosciuto ovunque.
Sebbene si sforzasse di reprimere quell’emozione, oltre al disgusto e al fastidio nel suo corpo si diffuse anche la paura, che, man mano che la figura si avvicinava, gli gelava il sangue nelle vene.
Non era il timore derivato da esperienze passate, bensì un terrore ancestrale che ogni preda associa d’istinto al suo predatore una volta avvistato, troppo vicino per sfuggirgli, troppo potente per resistergli.
Quando infine l’uomo fece il suo ingresso nell’edificio e si fermò a pochi passi di distanza da lui, Ciel non si mosse e non parlò, limitandosi a sostenere il suo sguardo.
«Non volete accogliermi, mio caro conte?»
Fu Undertaker a spezzare per primo il silenzio, accompagnandosi a un sorriso sardonico. Non indossava il suo particolare cappello nero e portava la frangia tirata indietro a scoprirgli il volto bianco segnato da cicatrici grigiastre e i due acuti occhi verdi screziati di giallo, che testimoniavano la sua appartenenza alla razza degli dei della morte.
Ma il becchino gli aveva assicurato di essersi ritirato da quella professione anni e anni prima.
«Dunque sei tu l’ospite di cui mi ha parlato Sua Maestà?» volle sapere il conte, del tutto incurante delle sue parole sarcastiche.
«Molto perspicace» si complimentò Undertaker, deliziato. «È proprio così».
«Com’è possibile?»
Non poteva darlo per certo, tuttavia Ciel era quasi sicuro che la Regina non fosse a conoscenza della vera identità del becchino. In quel caso, però, perché l’avrebbe mandato da lui? Se anche l’avesse davvero saputo, la domanda rimaneva la stessa. Perché? L’aveva servita bene negli ultimi dieci anni, non credeva di meritare un simile trattamento.
Negli occhi di Undertaker si accese una scintilla divertita. «Ho più potere di quello che voi volete attribuirmi» gli fece notare, sollevando un indice. «Sua Maestà non avrebbe avuto alcun interesse a organizzare una festa in onore di un umile becchino. Mi sono semplicemente preso la libertà di sfruttare la sua carta da lettere e la sua carrozza» aggiunse, con un gesto elaborato in direzione della vettura.
Il conte spalancò gli occhi. «Mi auguro che tu non abbia…»
«E» l’interruppe il becchino «mi considerate anche più sciocco di quanto non sia in realtà. Perché dovrei precipitare il Regno d’Inghilterra nel caos? Non ne ho motivo, per ora. Sua Maestà è perfettamente in salute».
«Com’è possibile, allora, che i signori Phipps e Grey…?»
Undertaker lo interruppe una seconda volta, sventagliando le lunghe dita dipinte di nero con noncuranza. «I signori Phipps e Grey erano convinti di star recapitando una lettera da parte della loro preziosa Regina, tutto qui».
Ciel tacque. Sapeva perfettamente per quale motivo il becchino gli aveva fatto visita e non aveva motivo di temporeggiare: faceva parte di un accordo che lui stesso aveva accettato.
«Allora, caro conte…» Con grande placidità, Undertaker allungò una mano e afferrò uno dei medaglioni che pendevano dalla catenella appesa alla sua veste, all’altezza del fianco: era d’argento, modesto, senza intarsi particolari. «Per prima cosa, buon compleanno! Ventitré anni, hm? Come passa il tempo, non trovate?» Lo separò dalla catena e lo sollevò, poi fece scattare il meccanismo di apertura e lo sportello argenteo si spalancò, rivelandone il contenuto. «A ogni modo, non sono qui solo per questo, lo sapete. Quando avete intenzione di pagare?»
Il conte non si mosse, ma le sue dita si serrarono convulsamente sul pomo del bastone.
Anziché la fotografia di un caro defunto, all’interno del medaglione vide, immerso nelle tenebre, un occhio rosso, socchiuso, che si aprì di scatto nell’incrociare il suo, blu. E c’era tanto odio, un odio sovrumano, in quell’occhiata, che Ciel non poté che tremare, senza darlo a vedere.
Un uomo davanti a un diavolo irato.
Per quanto coraggioso potesse essere, nessuno avrebbe potuto fronteggiare quell’occhio senza rabbrividire.
Tutti gli esseri umani temono l’Inferno, ma Ciel Phantomhive si vergognava della sua paura e non perché fosse stato lui stesso a prendere quella decisione, bensì perché, come ogni altro mortale sulla Terra, lui tremava. Lui, che aveva sfidato Lucifero, l’Inferno stesso e tutti gli uomini, era poi uguale a ognuno di loro.
Finalmente Undertaker richiuse il medaglione e lo ripose al suo posto; Ciel si rilassò, sollevato, raddrizzò le spalle e sollevò il capo con fierezza. «Avrei pagato non appena tu ti fossi fatto vedere».
Il becchino allargò le braccia, come a indicare un’ovvietà. «Ora sono qui».
Il conte non si aspettava che il suo interlocutore riscuotesse il pagamento così presto e in un luogo così esposto all’altrui udito. Prima d’allora Undertaker era sempre stato molto cauto e quella era la prima volta che non si incontravano nella sua bottega o che non s’infiltrava dalla finestra delle sue stanze da letto. Si strinse nelle spalle, ma le scrollò quasi immediatamente nel rendersi conto che era stato un segno di debolezza.
«Non è il momento adatto» obiettò con voce chiara e decisa per sopperire a quella piccola distrazione emotiva. «La festa è ancora in corso, non posso assentarmi così all’improvviso».
Il becchino increspò le labbra sottili in un sorriso languido. «Aspetterò».
Passò un momento di silenzio in cui entrambi non fecero altro che misurarsi a vicenda con lo sguardo. Alla fine Ciel prese cautamente la parola: «Hai intenzione di prendere parte ai festeggiamenti?»
Undertaker parve riflettere qualche secondo sulla proposta, ma poi, con grande sollievo del conte, la declinò con un gesto della mano. «Oh, no. Vi attenderò nelle vostre stanze. Non prendetevi il disturbo di accompagnarmi: conosco bene la strada».
V’era un sottofondo d’irridente sarcasmo nelle sue parole che fece irrigidire la mascella dell’ospite; egli, tuttavia, si sforzò d’ignorarlo e, impettitosi in una parvenza del consueto controllo che amava pensare di esercitare su ogni pedina della scacchiera, si congedò da lui con un’ultima frase: «A più tardi, dunque».
Da parte sua, il becchino stava già scivolando, con quel suo incedere lento e placido, alla volta delle scale.
Intento a scrutarlo, accigliato, sparire al piano superiore, Ciel non si accorse di un’altra presenza fino a quando uno scalpiccio a poca distanza da lui non attrasse la sua attenzione e lo costrinse a distogliere la mente dal pensiero di Undertaker per concentrarsi di nuovo sulla festa.
«Signore?» Tanaka lo studiava, vicino alla porta che dava sulla sala da ballo, con un’espressione che il giovane conte non gli aveva mai visto: corrucciata, quasi, con le sopracciglia inarcate e le labbra tese in una linea rigida. «Un ospite inaspettato?»
Il suo padrone rifletté un momento, incerto se dirgli o meno almeno una parte di verità. «La sua identità lo è. Scusami se ti ho messo in difficoltà, tardando a tornare in sala. Possiamo…»
«Voi sapete che io farei qualsiasi cosa in mio potere per voi, signore» venne interrotto in tono calmo ma fermo, deciso.
Ciel aggrottò la fronte: era la prima volta dacché era stato promosso a suo maggiordomo che Tanaka osava sovrapporre alla sua la propria voce.
«Ma non questo» riprese dopo un breve istante di silenzio in cui si sincerò che il conte non avesse intenzione di metterlo a tacere. «Non posso stare a guardare mentre voi tradite vostra moglie con un uomo».
Gelo. Un gelo senza nome e senza confini s’impadronì del giovane, scorrendo come un torrente in piena nelle sue vene paradossalmente brucianti, a mano a mano che le parole del maggiordomo si imprimevano a fuoco nella sua mente.
Gelo e sdegno.
Gelo e vergogna d’essere stato scoperto.
Gelo e incredulità.
«Tanaka» pronunciò il suo nome solo dopo quella che parve durare un’eternità, con voce vibrante di rabbia, un fremito furioso che nascondeva quanto fosse anche tremula. «Tu… Come osi… Come osi avanzare simili insinuazioni…?»
Non sapeva bene cosa dire, non si era assolutamente aspettato un commento simile e per una volta non era pronto a reagire e a tenere sotto controllo la situazione.
Tanaka troncò i suoi tartagliamenti con un’affermazione perfettamente controllata. La sua espressione e il suo tono non esprimevano altro che serenità, ma in sottofondo Ciel, che lo conosceva bene, poteva cogliere l’indignazione, il disgusto.
«Nessuna insinuazione, mio signore. Io sono vecchio, ma non sciocco. Una volta all’anno, voi incontrate l’impresario delle pompe funebri. Inizialmente pensai che foste ossessionato dalla scomparsa del signor Sebastian… Tuttavia era sempre lo stesso giorno, perciò ho fatto delle ricerche. Non conosco – non voglio conoscere – i motivi dietro la relazione tra voi e quell’uomo, vi chiedo solo di porle fine, per il bene di lady Elizabeth e del vostro primogenito ancora non nato».
Il conte non aveva mai immaginato che si sarebbe trovato, un giorno, a discutere quell’argomento proprio con Tanaka, il suo più vecchio mentore, l’uomo che aveva tentato di fargli da padre, più che da servitore, da quando aveva perso quello vero. L’uomo di cui si fidava di più al mondo e di cui aveva tradito la fiducia.
«Basta» disse, fermo e deciso, ben diversamente da prima. Irrigidì la mascella e colpì il terreno con l’estremità del bastone da passeggio per sottolineare il concetto. «Ti ordino di lasciar cadere immediatamente questo argomento. Non credo che sia affar tuo e non ti devo alcuna spiegazione».
Non posso, Tanaka, non posso.
La cosa peggiore era che capiva perfettamente i suoi sentimenti. Nella sua ignoranza di quanto stava accadendo, il maggiordomo era convinto che lui stesse infangando il nome di Elizabeth con un uomo – un vero e proprio abominio – e doveva provare delusione e rammarico per aver permesso che l’erede dei Phantomhive diventasse così.
Sporco e ipocrita.
D’un tratto gli venne da ridere. Sarebbe stata una risata amara ma anche liberatoria, patetica.
Se soltanto Tanaka avesse saputo che aveva venduto la propria anima al diavolo, ma poi, appena gli si era presentata l’occasione, l’aveva offerta a un dio della morte perché, in cambio, imprigionasse il demone che lo perseguitava in un medaglione e gli consentisse dunque di proseguire la sua vita fin quando Madame Morte non l’avesse reclamato, allora come avrebbe reagito? Con quale orrore l’avrebbe guardato?
Mentre passava oltre e si affrettava verso la porta della sala delle feste, intravvide l’espressione affranta del vecchio servitore con la coda dell’occhio.
Ancora quel gelo, così fastidioso, così pungente: il senso di colpa.
 
**
 
Preda del torpore successivo all’amplesso, Ciel giaceva supino sul letto, le lenzuola srotolate scompostamente attorno alle gambe, la pelle chiara resa rilucente dal chiarore della luna che penetrava dalla finestra.
Perché? Perché proprio questo?”, aveva domandato, incredulo e sdegnato, quando Undertaker gli aveva dato il proprio prezzo.
Possibile che non se ne rendesse conto?
Ciel Phantomhive era l’unico essere umano ancora respirante che il becchino avesse mai ritenuto bello. Spudoratamente, castamente bello: non aveva dubbi sul motivo per cui Sebastian vi avesse messo gli occhi.
Se però il demone aveva scelto di appropriarsi dell’anima del giovane conte con un ricatto, Undertaker era stato più sottile; prima che il suo spirito, aveva voluto il suo corpo.
Per il resto, sarebbe stato sufficiente avere pazienza.
«Come mai così giù, caro conte?» lo prese in giro, la voce beffarda in netto contrasto con l’espressione cupa dipinta sul volto del nobile. «Il vostro nuovo maggiordomo si è molto lamentato della poca attenzione di cui degnate vostra moglie?»
«Oh, no, non osare» sbottò Ciel in risposta. «Non osare pronunciare il nome di Elizabeth. E nemmeno di mettere in mezzo Tanaka».
«Infatti non ho “pronunciato il suo nome”, non tecnicamente, almeno» osservò il becchino, puntiglioso quanto consapevolmente irritante. Punzecchiarlo era uno dei suoi passatempi preferiti e non avrebbe perso nemmeno un’occasione per farlo. «Non siete stato attento alle mie parole, mio caro?»
Il conte era stanco, sia fisicamente che psicologicamente, e la sua risposta fu un lieve sospiro.
Undertaker era sul punto di tentare un’altra frecciatina, quando la porta della camera da letto si aprì di colpo e sulla soglia apparve Elizabeth, alquanto scossa, con la capigliatura spettinata e i vestiti in disordine per la fretta con cui era sopraggiunta.
Nel momento in cui i suoi grandi occhi verde smeraldo registrarono ciò che avevano dinanzi, si riempirono di lacrime e dalla sua bocca proruppe un gemito, mentre le mani salivano d’istinto a cingere la pancia arrotondata.
Il becchino la trovò penosa, come d’altra parte tutti gli esponenti del genere umano, meno uno.
Il quale si era drizzato di scatto a sedere sul letto e la fissava, sgomento.
«Elizabeth!» Riprendendo vita all’improvviso, si allungò in fretta verso la sua biancheria, l’afferrò e l’indossò quasi con un unico gesto. I suoi movimenti erano convulsi, febbrili, tuttavia la sua voce era controllata, come di consueto. Era un’altra delle caratteristiche che lo attiravano di lui – così algido, eppure così fragile. «Ascoltami, io devo spiegare…»
Lei si limitò a scuotere la testa e si morse un labbro, a sangue, probabilmente, prima di fuggire via anche più velocemente di com’era arrivata, se possibile.
Senza rivolgergli neppure un’occhiata, il conte la seguì dopo essersi coperto con i calzoni e la camicia; rimasto solo, Undertaker poté soltanto scrutare l’uscio vuoto con un sopracciglio leggermente inarcato fino a quando dalla porta spalancata emerse lo stesso vecchio che il becchino aveva visto discutere con Ciel poche ore prima.
«È il momento che voi ve ne andiate» disse solo, gentile, deferente, quasi.
Quell’uomo era stato capace di far esitare Ciel Phantomhive, l’orgoglioso e deciso Ciel Phantomhive, ma soltanto perché godeva del privilegio d’essere parte della sua famiglia. Undertaker non aveva alcun legame con lui e non provava nulla al di fuori dell’irritazione, perché la sua unica notte all’anno era stata irrimediabilmente rovinata a causa di quel maggiordomo.
«Oh no,» ribatté, un sogghigno sanguinario che affiorava alle sue labbra secche «credo proprio che rimarrò qui, invece».
Le mani scheletriche si chiusero sul manico della fedele falce, apparsa per esaudire i desideri del padrone.
Il becchino non era solito portare rancore, ma era stato provocato.
Gli era stato toccato ciò cui teneva di più: il divertimento.
Era giunto il momento di congelare per l’eternità il sangue nelle vene di quel vecchio seccatore.
Pessima scelta, signor maggiordomo.
  
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